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CORSI DI LITURGIA
e
TEOLOGIA SACRAMENTARIA

INTRODUZIONE
TEOLOGICO - STORICA
ALLA LITURGIA

Dispense scolastiche a cura


del prof. MAGNOLI don CLAUDIO

Milano – FTIS / ISSR


2012
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PREMESSE
METODOLOGICHE

Ritengo opportuno iniziare con alcune premesse di carattere metodologico, che ci


aiutino a inquadrare il senso e lo scopo della disciplina «sacra liturgia», come viene de-
nominata nel piano di studi per gli studentati e le facoltà teologiche1.

1. Lo studio della liturgia nelle indicazioni del Magistero

Al Concilio di Trento, le indicazioni per la formazione dei futuri pastori riguardanti


la liturgia si limitano a chiedere una certa formazione pratica. Così la liturgia divenne
sostanzialmente una scientia rubricarum e, per lungo tempo, non ci si pose il problema
di un suo organico inserimento nel programma degli studi teologici.

1.1. La «Deus scientiarum Dominus»

Con la Costituzione Deus Scientiarum Dominus (1931) di papa Pio XI lo studio


della liturgia fu reso obbligatorio nel curricolo degli studi teologici, benché soltanto
come «disciplina ausiliare» accanto all’archeologia cristiana. Essa conservava la sua
qualifica di scienza delle rubriche, ma si sviluppava sempre di più come disciplina stori-
ca. Le diverse componenti della liturgia cristiana dovevano essere studiate nella loro
genesi e nel loro sviluppo storico, avvalendosi di tutti gli strumenti della scienza storica
e in particolare delle antiche fonti liturgiche, che erano state riscoperte e si andavano
pubblicando.

1.2. Sacrosanctum Concilium (= SC) 16

La riscoperta della liturgia come fatto primariamente teologico (“la sacra liturgia è
pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come capo della Chie-
sa, il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all’eterno
Padre”), promossa da papa Pio XII nell’enciclica Mediator Dei (1947) a seguito delle
riflessioni maturate nell’ambito del Movimento liturgico, apriva la strada anche al ri-
pensamento dello studio (e dell’insegnamento) della sacra liturgia e alla ridefinizione
della sua collocazione all’interno del complesso degli studi teologici.
La semina compiuta dal Movimento liturgico e da papa Pio XII giunse a matura-
zione nel Concilio Vaticano II (1962-1965). La costituzione sulla sacra liturgia2 trattò
esplicitamente dell’insegnamento della liturgia nei seminari, negli studentati e nelle fa-
coltà teologiche al n. 16, subito dopo aver indagato sulla «natura (teologica) della sacra
liturgia» e sulla sua «importanza per la vita della Chiesa». Tre i dati da rilevare: - un
giudizio di merito sulla disciplina liturgica; - un’indicazione generale sulla metodologia

1
Cf BONACCORSO GIORGIO, Introduzione allo studio della liturgia = Caro Salutis Cardo. Sussidi 1,
Messaggero, Padova 1990, pp. 40-43.
2
Per una prima introduzione: DONGHI ANTONIO, Costituzione conciliare sulla sacra liturgia «Sacro-
sanctum Concilium», Piemme, Casale Monferrato (AL) 1986, pp. 144.

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di insegnamento; - un’indicazione di raccordo tra la disciplina liturgica e le altre disci-


pline teologiche.

Giudizio di merito

“Nei seminari e negli studentati religiosi la sacra liturgia va computata tra le


materie necessarie e più importanti; nelle facoltà teologiche tra le materie
principali”.

Veniva superata la qualifica di disciplina ausiliare, anche se obbligatoria, in uso


dalla Deus Scientiarum Dominus (1931), per accedere alla nuova qualifica di «disciplina
necessaria» o «principale». Non era data la ragione precisa di questa «promozione» del-
la liturgia all’interno degli studi teologici, ma sicuramente essa conseguiva al recupero
della sua natura teologica, messa in evidenza dai numeri precedenti (SC, nn. 5-13).

Metodologia d’insegnamento

“La liturgia va insegnata sia sotto l’aspetto teologico e storico sia sotto
l’aspetto spirituale, pastorale, giuridico”.

L’affermazione era importante per diversi motivi. Veniva anzitutto riconosciuta la


caratteristica interdisciplinare dello studio liturgico. In secondo luogo viene proposto un
ribaltamento di prospettiva. L’aspetto giuridico - cerimoniale, che pure non può essere
disatteso nel complesso degli studi liturgici, era posposto a quello teologico - storico -
spirituale - pastorale, dichiarando così quasi un ordine di importanza e di precedenza.

Raccordo interdisciplinare

“I professori delle altre materie abbiano cura di mettere in rilievo, ciascuno


secondo le intrinseche esigenze della sua disciplina, il mistero di Cristo e la
storia della salvezza, così che risulti chiara la loro connessione con la liturgia
e l’unità fondamentale della formazione sacerdotale”.

Venivano menzionate esplicitamente la teologia dogmatica, la sacra scrittura, la


teologia spirituale e la teologia pastorale. Tutte queste discipline convergono sul mistero
di Cristo e sulla storia della salvezza, al centro della quale si colloca il mistero di Cristo.
La disciplina liturgica incontra tale mistero in quel momento fontale e culminante
dell’autorealizzarsi della Chiesa che è la celebrazione liturgico - sacramentale.
Si può ricostruire dalla mens conciliare un itinerario del tipo: il mistero di Cristo,
studiato nelle fonti rivelate (sacra scrittura) e nella dottrina cristiana dogmaticamente
formulato (teologia sistematica), è compreso nel suo attuarsi sacramentalmente (sacra li-
turgia - teologia sacramentaria) perché informi di sé la vita e l’azione della Chiesa (teo-
logia pastorale) e la vita e l’azione dei singoli christifideles (teologia spirituale).

1.3. La «Ratio fundamentalis» (1970)

La nuova impostazione del testo conciliare entrò nel Regolamento Fondamentale


per la formazione sacerdotale (normalmente citato come Ratio Fundamentalis), il do-

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cumento emanato dalla Congregazione per l’Istruzione Cattolica in data 6 gennaio 1970
per ripensare complessivamente la formazione dei futuri presbiteri dopo la grande assise
conciliare3. Nonostante la sua destinazione primaria alla formazione del clero, la sezio-
ne riguardante gli studi teologici è estensibile anche alla formazione teologica dei reli-
giosi e dei laici impegnati nelle Facoltà Teologiche e negli Istituti di Scienze Religiose.
Dopo aver dato conferma che la sacra liturgia “deve essere ora considerata una
delle materie principali” all’interno degli studi teologici, il n. 79 afferma:

“Perciò deve essere presentata non soltanto sotto l’aspetto giuridico, ma so-
prattutto sotto l’aspetto teologico, spirituale e pastorale, in connessione con le
altre discipline, in modo che gli alunni conoscano prima di tutto in qual modo
i misteri della salvezza siano presenti e operino nelle azioni liturgiche. Inoltre,
spiegati i testi sia dell’oriente che dell’occidente, la sacra liturgia sia illustra-
ta come un locus theologicus di particolare importanza, attraverso il quale si
esprime la fede della Chiesa e la sua vita spirituale. Infine devono essere
esposte agli alunni le norme riguardanti la riforma liturgica, affinché capi-
scano meglio gli adattamenti o i cambiamenti stabiliti dalla Chiesa; siano an-
che in grado di discernere le cose che possono essere legittimamente mutate;
e, in mezzo ai problemi più gravi e più difficili oggi spesso dibattuti, sappiano
distinguere la parte immutabile della liturgia, in quanto di istituzione divina,
dalle altre parti che possono andare soggette a mutamenti”.

Veniva presentata in termini molto chiari la priorità dell’approccio teologico - spi-


rituale - pastorale alla liturgia, rispetto all’approccio giuridico - cerimoniale, lasciando
implicito il riferimento all’approccio storico, data la sua regolare presenza nei documen-
ti precedenti e in quelli successivi.
Affermare la priorità dell’approccio teologico - spirituale - pastorale alla liturgia
non significava dare adito a una pratica dimenticanza dell’approccio giuridico, ma ope-
rare quest’ultimo, tutt’altro che secondario, sul fondamento di quello; problematizzare
eventualmente quest’ultimo e le sue concrete determinazioni alla luce di quello.
Entro l’approccio teologico - spirituale - pastorale la chiave di volta risultava essere
l’approfondimento della valenza misterico - sacramentale della liturgia: “In modo che
gli alunni conoscano in qual modo i misteri della salvezza siano presenti e operanti nel-
le azioni liturgiche”.
C’era poi una presa di posizione sull’importanza della liturgia (e in particolare dei
testi eucologico - liturgici) nell’ambito dei loci theologici. La teologia sistematica non
può e non deve dimenticare la liturgia (in particolare i «testi liturgici» dell’oriente e
dell’occidente) nell’elaborazione della sua sintesi, ma deve riferirsi a essa come a uno
degli ambiti privilegiati di espressione della fede e della vita spirituale della Chiesa. È
qui sottesa la volontà di promuovere una più fattiva collaborazione di studio tra la teo-
logia dogmatico - sistematica, in tutte le sue specifiche branchie, e la scienza liturgica.
L’ultimo capoverso sottolineava, infine, l’esito pratico-pastorale dell’insegnamento
della liturgia nei seminari, negli studentati religiosi e nelle facoltà teologiche. Esso ri-
guardava la conoscenza della riforma liturgica e delle sue motivazioni, compresa la ca-
pacità di discernimento tra l’essenziale o immutabile e il contingente o mutabile, in vi-
sta dell’educazione liturgica dei fedeli.

3
Il testo in Enchiridion Vaticanum 3. Documenti ufficiali della Santa Sede 1968-1970, Dehoniane,
Bologna 1976, nn. 1796-1947.

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1.4. La «Formazione liturgica nei Seminari» (1979)

L’ultimo documento che prendiamo in considerazione è l’Istruzione della Congre-


gazione per l’Educazione Cattolica su La formazione liturgica nei Seminari (3 giugno
1979)4, nel quale giungeva a maturazione il percorso intrapreso sulla spinta delle indi-
cazioni conciliari. Anche in questo caso, gli orientamenti riguardanti lo studio della li-
turgia non sono rimasti appannaggio esclusivo della formazione dei futuri presbiteri, ma
hanno indicato la strada ai religiosi e ai laici che studiano teologia nelle Facoltà Teolo-
giche e negli Istituti di Scienze Religiose.

Al n. 44, presentando l’oggetto proprio e il fine dell’insegnamento della liturgia nei


seminari, si diceva tra l’altro:

“La liturgia deve essere insegnata in modo che corrisponda pienamente alle
necessità odierne: in questo campo si deve tenere presente, innanzitutto,
l’aspetto teologico, pastorale ed ecumenico... Anche il dialogo ecumenico,
promosso dallo stesso Concilio Vaticano II, richiede un’accurata preparazio-
ne nella liturgia. Esso infatti suscita molte e difficili questioni circa la liturgia,
alla cui adeguata valutazione bisogna che gli alunni siano preparati”.

Era questo il primo invito ufficiale a occuparsi di «ecumenismo» nello studio della
liturgia. La Sede Apostolica voleva qui dare atto dell’importanza del momento liturgico
nel dialogo ecumenico, e, per questo, chiedeva una solida formazione liturgica, per la
quale i candidati al sacerdozio potessero discernere i tentativi liturgici promossi in cam-
po ecumenico.

Un secondo elemento di novità in questo testo era costituito dall’attenzione accor-


data ai risultati sicuri delle scienze umane:

“Per una più approfondita trattazione teologica della liturgia e per la soluzio-
ne di molte difficoltà, che si presentano ai pastori d’anime nell’organizzazione
e nella promozione della vita liturgica, devono essere giustamente stimati i ri-
sultati sicuri delle moderne scienze umane, quali l’antropologia, la sociologia,
la linguistica, la storia comparata delle religioni, ecc..., che in vari casi offro-
no non poca luce, sempre però nei limiti imposti dall’indole soprannaturale
della liturgia”.

Il documento riconosceva per la prima volta in modo ufficiale la pertinenza di un


approccio alla realtà liturgica che valorizzasse l’apporto dei risultati sicuri delle cosid-
dette «scienze umane», sia in ordine alla conoscenza dell’indole soprannaturale della li-
turgia (= teologia liturgica), sia in vista di una rinnovata comprensione della pastorale
liturgica. Esso dovrebbe risultare particolarmente utile nel lavoro di chiarificazione del-
la complessa questione del linguaggio rituale, implicato in tutto l’agire liturgico - sa-
cramentale cristiano.

4
Il testo in Enchiridion Vaticanum 6. Documenti ufficiali della Santa Sede 1977-1979, Dehoniane,
Bologna 1980, nn. 1550-1704.

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1.5. Rilievi conclusivi

- Da questa breve (e incompleta) rassegna di documenti magisteriali risulta definiti-


vamente acquisita alla coscienza ecclesiale contemporanea la collocazione degli studi li-
turgici nell’ambito generale delle discipline teologiche. Resta difficile, invece, la deter-
minazione precisa dello spazio formale che la scienza liturgica occupa nell’intero della
teologia. Da una parte, infatti, i documenti presi in esame sembrano riservare alla scien-
za liturgica uno spazio autonomo di sapere, adeguatamente distinto sia dalla dogmatica
sacramentaria, o sistematica dei sacramenti, sia dalla teologia pratico - pastorale.
Dall’altra, però, e siamo soprattutto all’interpretazione dei documenti più recenti, la
scienza liturgica pare ricondotta all’alveo più generale della teologia pratico - pastorale,
anche se come uno dei suoi filoni portanti e costitutivi.

- La complessità dell’oggetto proprio della scienza liturgica invoca di sua natura


l’apporto di molteplici approcci metodologici e disciplinari. Ne facciamo qui di seguito
una rapida rassegna.

· Prospettiva cerimoniale – rubricale: è lo studio delle rubriche (= le scritte in rosso del


libro liturgico) per determinare l’esatta esecuzione del cerimoniale in riferimento ai vari
momenti celebrativi e ai vari ministeri5.
· Prospettiva giuridico disciplinare: è lo studio delle norme che regolano il complesso
della vita liturgica in ordine alla validità e liceità dei suoi vari elementi (cf il Libro IV
del Codice di Diritto Canonico del 19836).
· Prospettiva storica: si sviluppa in due branchie che possiamo chiamare archeologico fi-
lologica ed ermeneutico valutativa. La prima si preoccupa di ricostruire i contesti origi-
nali di un dato rito o testo7; la seconda tenta un giudizio di valore in rapporto al senso
originario della liturgia cristiana e in rapporto alla rilevanza per l’oggi ecclesiale8.
· Prospettiva teologica: si sviluppa almeno in cinque direzioni, fondamentale, sacramen-
tale, pastorale, spirituale, ecumenica. Nell’ambito della teologia fondamentale si affron-

5
Un esempio: Dizionario pratico di liturgia romana, a cura di LESAGE ROBERT, Studium, Roma
1956, pp. 501.
6
Il testo in Enchiridion Vaticanum 8. Documenti ufficiali della Santa Sede 1982-1983. Il codice di
Diritto Canonico, Dehoniane, Bologna 41991, Cann. 834-1253.
7
Due esempi classici: RIGHETTI MARIO, Manuale di storia liturgica, 4 Voll., Ancora, Milano
1950ss., pp. 2950 [ristampa anastatica del 2005]; JUNGMANN JOSEF ANDREAS, Missarum sollemnia.
Origini liturgia storia e teologia della messa romana, 2 Voll. Marietti, Genova 1953-1954, pp. 396
+ 406.
8
Qualche esempio in questa direzione: NEUNHEUSER BURKHARDT, Storia della liturgia attraverso le
epoche culturali = Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia 11, CLV-Edizioni Liturgiche,
Roma 21983, pp. 158; CATTANEO ENRICO, Il culto cristiano in occidente. Note storiche
= Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia 13, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 21984, pp.
658; WEGMAN HERMAN, Christian Worship in East and West. A Study Guide to Liturgical History,
Liturgical, Collegeville (Minnesota) 1990, pp. 390; METZGER MARCEL, Storia della liturgia. Le
grandi tappe, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, pp. 224; BASURKO XABIER, Historia de la
liturgia = Biblioteca Líturgica 28, Centre de Pastoral Liturgica, Barcelona 2006, pp. 720;
BRADSHAW PAUL, Alle origini del culto cristiano. Fonti e metodi per lo studio della liturgia dei
primi secoli = Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 46, Libreria Editrice Vaticana, Roma - Città
del Vaticano 2007, pp. 268; PECKLERS KEITH F., Atlante storico della liturgia, Jaca Book, Milano
2012, pp. 260.

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ta la questione della rilevanza del rito cristiano per la fede9. Nell’ambito della teologia
sacramentaria si studia la connessione tra forma liturgica e sacramento cristiano, detto
in altro modo, la struttura sacramentale della liturgia. Nell’ambito della teologia pasto-
rale, si approfondisce la qualità celebrativa della liturgia (o celebrabilità del rito) in or-
dine alla sua efficacia pastorale. Nell’ambito della teologia spirituale si mette a tema la
dimensione liturgica della vita spirituale, superando l’idea che la spiritualità liturgica sia
una delle tante possibili ‘vie spirituali’10. Nell’ambito infine della teologia ecumenica si
approfondisce il versante liturgico del cammino verso l’unità della Chiesa, distinguendo
tra unità e uniformità11.
· Prospettiva antropologica. Di sviluppo più recente è oggi particolarmente coltivata a tre
livelli. Il livello religionista (studio comparato delle religioni), grazie al quale si posso-
no evidenziare similitudini e differenze rituali tra le diverse esperienze religiose12; il li-
vello linguistico comunicativo (studio della liturgia come atto eminentemente comuni-
cazionale), grazie al quale – con l’apporto delle cosiddette scienze umane (sociologia,
psicologia, linguistica, semiotica, ecc…) – si possono evidenziare le qualità e i difetti
comunicativi del rito celebrato13; il livello teologico pastorale, grazie al quale è possibi-
le enucleare le leggi di una buona qualità celebrativa che permette di accedere al miste-
ro celebrato. In questo ambito si sviluppa anche la ricerca sul tema dell’inculturazione
della liturgia nelle diverse realtà ecclesiali14.
· Prospettiva ludico estetica. È lo studio della liturgia come ambito di esperienza artistica
in cui la poesia, il canto e la musica, l’architettura, la scultura e la pittura hanno parte at-
tiva di grande rilevanza15.

- I documenti magisteriali recensiti appaiono concordi nel collocare al vertice del sa-
pere liturgico la comprensione propriamente teologica della liturgia o ‘teologia liturgi-
ca’, preceduta e sorretta da un’accurata indagine storico - critica, sia diacronica che sin-
cronica, sull’intera tradizione liturgica dell’oriente e dell’occidente (storia della litur-
gia). In tal modo l’una (teologia liturgica) e l’altra (storia della liturgia) non costituisco-
no il tutto della scienza liturgica, ma il momento centrale e il nucleo portante.

9
Cf GRILLO ANDREA, Teologia fondamentale e liturgia il rapporto tra immediatezza e mediazione
nella riflessione teologica = Caro Salutis Cardo. Studi 10, Messaggero, Padova 1995, pp. 285;
GRILLO ANDREA, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacra-
menti cristiani = Caro Salutis Cardo. Sussidi 3, Messaggero, Padova 1999, pp. 287.
10
Per le quattro dimensioni insieme (fondamentale, sacramentaria, pastorale, spirituale) si veda
l’ormai classico VAGAGGINI CIPRIANO, Senso teologico della liturgia. Saggio di liturgia teologica
generale, Paoline, Roma, 41965, pp. 930, testo che ha preparato il Concilio e lo ha reso pienamente
comprensibile.
11
Un esempio illuminante in ALLMEN JEAN-JACQUES VON, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi
del culto cristiano, Elle Di Ci, Leuman (Torino) 1986, pp. 223.
12
BOUYER LOUIS, Il rito e l’uomo. Sacralità naturale e liturgia, Morcelliana, Brescia 1964, pp. 275;
TERRIN ALDO NATALE, Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità = Le Scienze Umane,
Morcelliana, Brescia 1999, pp. 444; Enciclopedia delle religioni 2. Il rito. Oggetti, atti, cerimonie, a
cura di ELIADE MIRCEA, Jaca Book, Milano 1994, pp. 634.
13
Cf BONACCORSO GIORGIO, Il rito e l’altro. La liturgia come tempo, linguaggio e azione
= Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 13, Libreria Editrice Vaticana, Roma - Città del Vatica-
no 2001, pp. 400; BONACCORSO GIORGIO, La liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito
= Caro Salutis Cardo. Sussidi 8, Messaggero, Padova 2005, pp. 270.
14
Assemblea santa. Manuale di liturgia pastorale, a cura di GELINEAU JOSEPH, Dehoniane, Bologna
1991, pp. 620.
15
Cf CATTANEO ENRICO, Arte e liturgia. Dalle origini al Vaticano II, Vita e Pensiero, Milano 1982,
pp. 236; GATTI VINCENZO, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, Dehoniane, Bologna 2001,
pp. 236.

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- L’attenzione all’apporto delle scienze umane per lo studio della liturgia compare
solo negli ultimi documenti citati e sollecita un cammino di ricerca ancora piuttosto ini-
ziale. Pur muovendo da una più attenta considerazione della base antropologica e cultu-
rale della ritualità cristiana, essa persegue un incremente dello studio della sacra liturgia
dal punto di vista propriamente pastorale.

Ecco allora delineato il nostro itinerario di studio: un’introduzione teologica e sto-


rica alla liturgia aperta a una prospettiva anche antropologico-pastorale. Partiremo dalla
sintesi teologica sulla liturgia fatta al Concilio Vaticano II per ripercorrere le principali
tappe storiche che l’hanno preceduta. Tre saggi monografici, uno sull’anno liturgico
(cap. VII), uno sulla liturgia delle ore (cap. VIII) e uno sul Lezionario ambrosiano rin-
novato (cap. IX) concluderanno il nostro percorso di studio.

*****

INDICAZIONI PER L’ESAME

L’esame comporta lo studio delle dispense, più una lettura a scelta tra quelle qui indi-
cate:
GUARDINI ROMANO, Lo spirito della liturgia – I santi segni, Morcelliana, Brescia 1980
[l’originale tedesco Vom Geist del Liturgie è del 1919], capp. IV-VI, pp. 63-106;
BONACCORSO GIORGIO, La liturgia e la fede. La teologia e l’antropologia del rito
= Caro Salutis Cardo. Sussidi 8, Messaggero, Padova 2005, cap. VIII, pp. 189-233;
PECKLERS KEITH, Liturgia. La dimensione storica e teologica del culto cristiano e le
sfide del domani [l’originale inglese Worship è del 2003] = Giornale di Teologia 326,
Queriniana, Brescia 2007, cap. I, pp. 9-45;
TOMATIS PAOLO, La festa dei sensi. Riflessioni sulla festa cristiana = Spiritualità del
nostro tempo. Terza serie, Cittadella, Assisi 2010, capp. 3-6, pp. 37-75;
RATZINGER JOSEPH, Lo spirito della liturgia [l’originale tedesco Der Geist der Liturgie.
Eine Einführung è del 2000], in Teologia liturgica = Opera Omnia 11, Libreria Edi-
trice Vaticana, Roma 2010, cap. IV [la forma della liturgia], pp. 152-211.
BOSELLI GOFFREDO, Il senso spirituale della liturgia = Liturgia e Vita, Qiqajon, Comu-
nità di Bose. Magnano (BI) 2011, capp. IX-X, pp. 183-233.

PER ULTERIORI APPROFONDIMENTI

Dizionari
- Liturgia (San Paolo) 2001;
- Dizionario della Liturgia Ambrosiana (Ned) 1996.

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Grandi collane
- Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia (Roma, CLV – Edizioni Liturgi-
che);
- Caro Salutis Cardo. Contributi (Padova, Istituto di Pastorale Liturgica – Mes-
saggero);
- Caro Salutis Cardo. Studi (Padova, Istituto di Pastorale Liturgica – Messaggero);
- Caro Salutis Cardo. Sussidi (Padova, Istituto di Pastorale Liturgica – Messagge-
ro);
- Monumenta Studia Instrumenta Liturgica (Roma, Libreria Editrice Vaticana).

Manuali
- Anamnesis. Introduzione storico teologica alla liturgia, 8 Voll., Marietti, Casale
Monferrato (AL) 1974-1990;
- Assemblea santa. manuale di liturgia pastorale, a cura di JOSEPH GELINEAU,
Dehoniane, Bologna 1991, pp. 620;
- La celebrazione della Chiesa 3 Voll., a cura di DIONISIO BOROBIO, Elle Di Ci,
Leumann (Torino 1992-1994;
- La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia 4 Voll., a cura di AIMÉ-
GEORGES MARTIMORT, Queriniana, Brescia 1984-1987;
- Nelle vostre assemblee. Teologia pastorale delle celebrazioni liturgiche, 2 Voll.
Queriniana 1984-1986;
- Scientia Liturgica. Manuale di liturgia 3 Voll. Piemme, Casale Monferrato (AL)
1998.

Riviste in italiano, francese, inglese e spagnolo


- La vita in Cristo e nella Chiesa
- Liturgia (Centro Azione Liturgica)
- Rivista di Pastorale Liturgica
- Rivista Liturgica
- La Maison-Dieu
- Worship
- Phase

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CAPITOLO I

LA VISIONE TEOLOGICA DELLA LITURGIA


SECONDO IL CONCILIO VATICANO II

Il Concilio Ecumenico Vaticano II fu inaugurato l’11 ottobre del 1962 e lo schema


della Costituzione sulla Sacra Liturgia – Sacrosanctum Concilium dalle parole iniziali –
fu il primo a essere discusso e approvato. La data ufficiale della sua promulgazione fu il
4 dicembre 1963, a quattro secoli esatti dalla chiusura del Concilio di Trento1.
Con questa prima Costituzione conciliare veniva proposta una visione teologica,
spirituale e pastorale così profondamente rinnovata della liturgia che, attingendo
all’originaria impostazione biblica e patristica, dava il via alla più completa e organica
riforma liturgica del Rito Romano e del Rito Ambrosiano che la storia della Chiesa lati-
na abbia conosciuto.
Essa consta di un proemio (i nn. 1-4) e di sette capitoli (i nn. 5-130), di cui il primo
(nn. 5-46) può essere considerato a tutti gli effetti la magna charta per una comprensio-
ne propriamente teologica, pastorale e spirituale della liturgia.
I primi 9 numeri del capitolo I (nn. 5-13) riflettono sulla natura della liturgia cat-
tolica, e lo fanno non a partire da una definizione filosofica o religionista di «culto», ma
muovendo piuttosto dal dinamismo storico - salvifico della rivelazione cristiana, dina-
mismo che ha la sua continua attualità proprio nell’azione liturgico-sacramentale.
Partiamo dunque da questi numeri per tratteggiare le coordinate fondamentali della
visione teologica della liturgia che sta a fondamento di tutto il nostro percorso storico. È
questa l’introduzione teologica necessaria, perché tutte le tappe storiche che studieremo
vengano delineate in un costante confronto con il senso originale di ciò che la Chiesa
chiama Sacra Liturgia.

1. Il punto di partenza

Abbandonando il procedimento usato nella manualistica teologica, e ancora sog-


giacente allo schema di pensiero dell’enciclica Mediator Dei (1947), di parlare della li-
turgia partendo da schemi già precompresi (culto interno/culto esterno; culto priva-
to/culto pubblico), il discorso conciliare prende le mosse dalla dimensione storico - sal-
vifica della rivelazione cristiana, inserendo il fatto liturgico in un contesto fortemente
dinamico:
“Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza
della verità» (1Tm 2, 4), «dopo avere a più riprese e in più modi parlato un
tempo ai padri per il tramite dei profeti» (Ebr 1, 1), quando venne la pienezza
dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto di Spirito Santo, ad
annunziare la buona novella ai poveri, a risanare i cuori affranti, «medico
della carne e dello spirito», mediatore di Dio e degli uomini. Infatti la sua
umanità, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvez-

1
Il testo della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium lo si può leggere, tra l’altro, in Enchi-
ridion Vaticanum 1. Documenti ufficiali del Concilio Vaticano II (1962-1965), Dehoniane, Bologna
10
1976, pp. 14-95.

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za. Per cui in Cristo «avvenne il perfetto compimento della nostra riconcilia-
zione e ci fu data la pienezza del culto divino» (Sacramentario Veronese, n.
1265). Quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di
Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo
dell’Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per
mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione e gloriosa
ascensione, mistero con il quale «morendo ha distrutto la nostra morte e risor-
gendo ci ha ridonato la vita» (Messale Romano - Prefazio pasquale I). Infatti
dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento
della Chiesa" (SC, n. 5).
Dopo aver enunciato l’intenzione ultima del progetto divino nei confronti
dell’umanità (“Dio vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino alla conoscenza del-
la verità”), il testo conciliare ripercorre a grandi arcate le tappe storiche attraverso le
quali Dio ha dato attuazione al suo progetto, tappe storiche che, in quanto tempi di una
rivelazione divina, sono da intendersi come momenti di una storia di salvezza, ossia
come «misteri» della salvezza.
Il testo accenna appena al tempo della preparazione come tempo della comunica-
zione profetica e delle “gesta divine operate nel popolo dell’antico testamento”, per sof-
fermarsi invece in modo più ampio e articolato a considerare il tempo della pienezza dei
tempi, al vertice del quale sta come compimento ultimo e definitivo il mistero pasquale
“della sua beata passione, resurrezione dai morti e gloriosa ascensione”.
In questa ricapitolazione dei principali eventi della storia della salvezza, secondo
un procedimento che sarà confermato e approfondito sia nella Lumen Gentium che nella
Dei Verbum, emergono tre importanti sottolineature specifiche che faranno da raccordo
tematico tra il mistero di Cristo dispiegato nella storia e il mistero di Cristo celebrato
nella Chiesa.
a) La prima riguarda l’umanità di Cristo, ipostaticamente unita alla divinità del Verbo.
È questa umanità, nella sua visibilità e debolezza, a essere lo «strumento» o, in termini
più compiuti, il «sacramento» della nostra salvezza. Il concilio vuole in tal modo insi-
nuare l’idea che la logica della sacramentalità (la salvezza si attua per il tramite di realtà
sensibili), che presiede al mistero liturgico, è anticipata e fondata nel mistero
dell’incarnazione, cioè in quel singolarissimo connubio di umanità e divinità, che è la
vicenda umana di Gesù. È così istituita una profonda analogia tra la logica
dell’incarnazione e la logica della celebrazione liturgico-sacramentale.
b) La seconda sottolineatura specifica riguarda la duplice linea di comprensione
dell’efficacia salvifica dell’evento cristologico: Cristo, nella sua incarnazione, porta
contemporaneamente a compimento 1) la nostra riconciliazione (linea discendente) e 2)
la nostra capacità di rendere culto a Dio (linea ascendente); e, nella sua Pasqua, attua 1)
la piena redenzione dell’uomo (linea discendente) e 2) la perfetta glorificazione di Dio
(linea ascendente). La distinzione delle due linee non ha ovviamente alcun intento con-
trappositivo, dal momento che il culto perfetto in Cristo viene a coincidere con l’atto
salvifico per eccellenza, cioè l’offerta di sé sull’altare della croce. Essa è invece funzio-
nale a mostrare l’interazione dell’umano e del divino nell’opera della salvezza: nella li-
nea discendente Cristo opera soprattutto in forza della sua consustanzialità al Padre,
mentre nella linea ascendente egli opera soprattutto in forza della sua consustanzialità
con l’umano (il termine «consustanzialità» è usato nei due casi in maniera asimmetrica).
I numeri 7 e 10 riprenderanno il binomio «santificazione degli uomini - glorificazione di
Dio», originariamente applicato all’opera salvifica di Cristo, e lo estenderanno a ogni

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azione liturgica della Chiesa, in special modo alla celebrazione eucaristica, mostrando
ancora una volta la profonda connessione tra l’evento cristologico e l’evento liturgico -
sacramentale.
c) L’ultima sottolineatura specifica riguarda la rilettura in chiave sacramentale
dell’intera realtà ecclesiale (“Dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il
mirabile sacramento di tutta la Chiesa”), rilettura che sarà confermata
nell’affermazione iniziale della Lumen Gentium: “E siccome la Chiesa è in Cristo come
sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il
genere umano...” (LG, n. 1). Risulta del tutto evidente, nel passaggio finale di SC, n. 5,
l’intenzione conciliare di fondare gli atti liturgico-sacramentali, in quanto atti ecclesiali,
non primariamente ed esclusivamente sulla dimensione societaria ed esteriore della
compagine ecclesiale, bensì sulla sua dimensione «sacramentale», attraverso la quale è
possibile dare più facilmente ragione della continuità tra mistero di Cristo e il mistero
della Chiesa: “Per una non debole analogia, quindi (la Chiesa) è paragonata al mistero
del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta è al servizio del Verbo divino come
vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile
l’organismo sociale della Chiesa è al servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per
la crescita del corpo” (LG, n. 8).

2. La liturgia ultimo momento nella storia della salvezza

Istituendo questa continuità e compenetrazione tra l’evento cristologico e l’evento


ecclesiologico, per cui il tempo della Chiesa non è un tempo qualitativo ulteriore rispet-
to alla «pienezza dei tempi», ma la sua progressiva dilatazione, il concilio ha aperto la
strada a una comprensione rinnovata della liturgia, che pone in primo piano la sua va-
lenza misterico-sacramentale facendo del momento celebrativo un continuo «oggi» di
salvezza:

“Perciò, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apo-
stoli, ripieni di Spirito Santo, non solo perché, predicando il vangelo a tutti gli
uomini, annunciassero che il figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci
ha liberati dal potere di satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del
Padre, ma anche perché attuassero, per mezzo del sacrificio e dei sacramenti,
sui quali si impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annun-
ciavano” – SC, n. 6).

Con SC, n. 6 si passa decisamente dal piano del «mistero-evento» al piano dei «mi-
steri-celebrati»2. Le azioni liturgico - sacramentali vengono presentate come parte inte-
grante e costitutiva della missione della Chiesa, la quale appare a sua volta il prolunga-
mento «sacramentale» della missione del Cristo. In riferimento alla parte iniziale del
numero 6, sopra riportata, possiamo fare alcune significative annotazioni.
a) La prima riguarda la relazione che intercorre tra il momento dell’annuncio / predi-
cazione del vangelo della salvezza e gli atti liturgico - sacramentali. Il testo sopra citato

2
Riprendo qui una terminologia incontrata in RUFFINI ELISEO, Spirito Santo e realtà sacramentale.
Linee di ricerca storico-teologica, in Spirito Santo e liturgia. Atti della XII Settimana di studio
dell’Associazione Professori di Liturgia. Valdragone (San Martino): 22-26 agosto 1983 = Studi di
liturgia. Nuova Serie 12, Marietti, Casale Monferrato (AL), 1983, pp. 28-32.

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chiarisce che la missione affidata da Cristo alla Chiesa comprende, in modo del tutto
necessario, sia l’annuncio della Parola che la celebrazione dei Sacramenti, e ne studia i
rapporti. L’annuncio della salvezza (“il figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci
ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre”) ha
una sua precedenza logica e cronologica rispetto all’azione liturgico - sacramentale, ma
non è in sè completo e concluso. Esso tende di sua natura a compiersi nelle celebrazioni
liturgico - sacramentali della Chiesa, grazie alle quali giunge a effettiva attuazione la
salvezza annunciata.
b) Ne consegue, ed è la seconda e più importante notazione, che la celebrazione litur-
gica è pensata veramente come momento «della» e «nella» rivelazione cristiana (mo-
mento «della» e «nella» storia della salvezza), non nel senso di rappresentare un novum
salvifico qualitativamente diverso dal novum cristologico, ma nel senso di rendere oggi
disponibile a tutti, mediante la sua struttura sacramentale, la definitiva realtà salvifica di
Cristo. Nell’oggi della Chiesa la liturgia è dunque, in analogia con l’evento pasquale da
cui scaturisce e sul fondamento di quell’evento, un autentico avvenimento di salvezza.
L’abate Salvatore Marsili (1910-1983), uno dei liturgisti italiani più significativi del
Novecento, amava parlare della liturgia come di «momento-sintesi» e «momento ulti-
mo» della storia della salvezza, in quanto il suo compito è quello di ultimare gradual-
mente nei singoli e nell’intera umanità l’immagine piena del Cristo pasquale3.
c) Merita infine di essere raccolta la notazione sul «sacrificio» e sui «sacramenti»
come elementi “sui quali si impernia tutta la vita liturgica”. È dichiarata, seppure di pas-
saggio, la centralità delle celebrazioni sacramentali nel complesso degli atti che vanno
sotto il nome di liturgia, con l’invito, almeno implicito, a raccordare maggiormente, dal
punto di vista della comprensione teologica, il tema «sacramenti» con il tema «liturgia».
Anche se la «liturgia» ha uno spettro più ampio di manifestazioni rispetto al settenario
sacramentale (si pensi a tutta la struttura dell’anno liturgico, alla liturgia delle ore, ai riti
liturgici della dedicazione di una Chiesa, della professione religiosa, delle esequie,
ecc...), essa ha nelle azioni sacramentali il suo nucleo essenziale e irrinunciabile, dal
quale tutto scaturisce e a cui tutto tende.

3. La presenza personale di Cristo nella liturgia

Arrivati a questo punto era necessario procedere oltre e interrogarsi sulle ragioni
che fondano la possibilità che la liturgia sia realmente nella Chiesa l’attuazione
dell’opera di salvezza compiuta da Cristo nella sua Pasqua. SC, n. 7 s’incarica di formu-
lare una risposta plausibile a questa domanda attraverso la dottrina della «presenza di
Cristo nella liturgia».
Essa riprende e approfondisce un importante passaggio della Mediator Dei4, che
faceva tesoro, a sua volta, delle riflessioni maturate in seno al movimento liturgico gra-

3
Cf MARSILI SALVATORE, La liturgia, momento storico della salvezza, in Anàmnesis 1. La liturgia
momento nella storia della salvezza, Marietti, Torino 1974, pp. 91-92.
4
“In ogni azione liturgica, quindi, insieme con la Chiesa è presente il divino fondatore: Cristo è pre-
sente nell’augusto sacrificio dell’altare sia nella persona del suo ministro, sia massimamente, sotto
le specie eucaristiche; è presente nei sacramenti con la virtù che in essi trasfonde perché siano
strumenti efficaci di santità; è presente infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte, come sta
scritto: «Dove sono due o tre adunati nel mio nome, ivi io sono in mezzo a essi» (Mt 18, 20)” (En-
chiridion delle Encicliche 6. Pio XII 1939-1958, Dehoniane, Bologna 1995, n. 449).

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zie, soprattutto, al pensiero dei liturgisti benedettini Lambert Beauduin (1873-1960) e


Odo Casel (1886-1948):
“Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua
Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della
messa sia nella persona del ministro, «egli che, offertosi una volta sulla croce,
offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti» (Concilio di Trento), sia
soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacra-
menti, in modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza
(Sant’Agostino). È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando
nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa
prega e loda, egli che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio no-
me, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20)” (SC, n. 7)5.

Prendendo le mosse dalla lucida consapevolezza che il momento liturgico - sacra-


mentale è momento decisivo, anche se non esaustivo, dell’esistenza della Chiesa e del
suo ministero di salvezza, il testo conciliare dichiara dapprima la perenne e indefettibile
presenza di Cristo alla Chiesa, per poi affermare che una tale presenza si dà «in modo
del tutto speciale» nelle azioni liturgiche.
Alla tesi generale esso fa seguire un elenco «esemplificativo» di ambiti liturgici in
cui la presenza di Cristo si manifesta e si attua, un quadro, già ben delineato, ma ancora
provvisorio, delle «molteplici presenze di Cristo nella liturgia». Come si può notare la
dizione del testo conciliare si conserva piuttosto indeterminata ed evita accuratamente di
dare una qualifica più precisa alle diverse «presenze». La discussione in aula conciliare
non aveva infatti raggiunto una sufficiente chiarificazione teologica al riguardo. Qual-
cosa della mens conciliare traspare però sia dall’ordine con cui vengono elencate le di-
verse «presenze (sacrificio della messa, sacramenti, parola, assemblea liturgica) sia, so-
prattutto, dalla dichiarata preminenza della presenza «sotto le specie eucaristiche» ri-
spetto a ogni altro tipo di presenza, in particolare rispetto a quella del ministro ordinato.
Precedenza e primato dell’eucaristia stanno cioè a indicare che la tematica della «pre-
senza di Cristo nella liturgia» va compresa a partire dal mistero della «presenza eucari-
stica», che di ogni altra forma di presenza di Cristo alla sua Chiesa rappresenta il prin-
ceps analogatum.
La cosa è stata confermata da Paolo VI nell’enciclica Mysterium Fidei del 25 mag-
gio 19656, la quale, tornando con una certa ampiezza sull’argomento delle «presenze» di
Cristo alla Chiesa così si esprime:

“Queste varie maniere di presenza riempiono l’animo di stupore e offrono alla


contemplazione il mistero della Chiesa. Ma ben altro è il modo, veramente su-

5
Per un approfondimento personale del tema della «presenza di Cristo nella liturgia» si vedano le se-
guenti indicazioni: CUVA ARMANDO, La presenza di Cristo nella liturgia, Roma 1973; SARTORE
DOMENICO, La molteplice presenza di Cristo nella recente riflessione teologica, in Cristologia e li-
turgia. Atti dell’VIII settimana di studio dell’Associazione Professori di Liturgia. Costabissara (Vi-
cenza): 27-31 agosto 1979 = Studi di Liturgia 8, Dehoniane, Bologna 1980, pp. 231-258; GALOT
JEAN, La cristologia nella Sacrosanctum Concilium, in Costituzione conciliare Sacrosanctum Con-
cilium. Studi = Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia 38, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma
1986, pp. 163-170.
6
Il testo dell’enciclica in PAOLO VI, Mysterium fidei. Dottrina e culto della Santissima Eucaristia, in
Enchiridion delle Encicliche 7. Giovanni XXIII, Paolo VI (1958-1978) – edizione bilingue, a cura di
ERMINIO LORA – RITA SIMIONATI, Dehoniane, Bologna 1994, nn. 845-919.

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blime, con cui Cristo è presente alla sua Chiesa nel sacramento
dell’eucaristia, che perciò è tra gli altri sacramenti «più soave per la devozio-
ne, più bello per l’intelligenza, più santo per il contenuto» (Egidio Romano);
contiene infatti lo stesso Cristo ed è «quasi la perfezione della vita spirituale e
il fine di tutti i sacramenti» (san Tommaso d’Aquino). Tale presenza si dice
«reale» non per esclusione, quasi che le altre non siano «reali», ma per anto-
nomasia perché è anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo,
Uomo-Dio, tutto intero si fa presente” (n. 20).

L’affermazione conclusiva di Paolo VI è un utile complemento al testo conciliare.


Da una parte, egli estende il concetto di «presenza reale» alle molteplici presenze di cui
parla Sacrosanctum Concilium, denunciando l’insufficienza di un’interpretazione in
senso puramente simbolico o morale. Dall’altra egli puntualizza l’eccellenza della «pre-
senza reale» sotto le specie eucaristiche, richiamandosi al concetto del tutto peculiare di
presenza substantialis (o ad modum substantiae). In questo maniera egli introduce una
«analogia di proporzione» tra la presenza eucaristica e gli altri tipi di presenza, che si
gioca sulle diverse «modalità» di presenza e sulle diverse conseguenze che esse com-
portano nell’ambito della Chiesa e delle sue celebrazioni. La prima (presenza eucaristi-
ca) è «corporale» e «sostanziale» e dunque, finché permangono le specie cui inerisce,
stabile e permanente, le altre (presenza nel ministro dell’eucaristia e degli altri sacra-
menti, nella parola proclamata e nell’assemblea adunata) non si danno per mutamento di
sostanza della realtà cui la persona di Cristo inerisce (qualche autore parla di «presenze
funzionali») e sono perciò transeunti, cioè si danno solo nella celebrazione in atto.
Passando dalla teoria generale della presenza di Cristo nelle azioni liturgiche della
Chiesa alle determinazioni più specifiche contenute nel testo conciliare fermiamo la no-
stra attenzione sulla presenza nel ministro (dell’eucaristia e degli altri sacramenti), nella
parola proclamata e nell’assemblea adunata, rinviando al corso apposito di sacramenta-
ria per la trattazione della «presenza per antonomasia». Utilizzo in questa parte alcune
pagine del citato articolo di Jean Galot:

3.1. La presenza nella persona del ministro


“Prima di parlare di ciò che abitualmente viene chiamata la presenza eucari-
stica, ossia la presenza del Corpo e del Sangue di Cristo, il Concilio afferma
la presenza di Cristo nella persona del ministro. Logicamente questa deve es-
sere indicata in primo luogo, perché è essa che permette alle parole del prete
di produrre come effetto la presenza del Corpo e del Sangue del Signore. La
presenza prima trascina la seconda anche se questa è di molto differente. Per
comprendere la presenza di Cristo nel ministro, bisogna riportarsi partico-
larmente alle parole della consacrazione: «Questo è il mio corpo», «Questo è
il mio sangue». Queste parole hanno un significato solo in quanto il prete
rappresenta Cristo (in forza dello Spirito santo ricevuto nell’ordinazione e at-
tualmente operante nell’azione liturgica che si esercita – aggiunta mia): più
precisamente si deve dire che è Cristo che per bocca del suo ministro pronun-
cia le parole concernenti il suo Corpo e il suo Sangue, conferendo loro
l’efficacia. La «rappresentazione» di Cristo tramite il prete deve essere una
presenza, poiché solo Cristo stesso è padrone della realtà del suo Corpo e del
suo Sangue. Il ruolo del ministro non si definisce soltanto dalle parole della
consacrazione. Esso consiste nell’offerta del sacrificio che «perpetua» il sa-
crificio della croce (SC, n. 47): ugualmente da questo punto di vista la presen-

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za di Cristo è essenziale, come lo indica la citazione del concilio di Trento:


colui «che ora offre per il ministero dei sacerdoti, è il medesimo che allora of-
frì se stesso sulla croce». Trento aggiunge che la vittima è la stessa e che solo
il modo d’offerta è differente. Nell’eucaristia il modo è sacramentale, mentre
sulla croce si trattava di un’offerta fatta nel corso della storia terrena e una
volta per tutte. Se l’offerta del sacrificio della messa è identica a quella della
croce, ciò significa che Gesù deve essere presente nel ministro per compiere
lui steso l’offerta con la mediazione del prete. Questo genere di presenza si ri-
trova anche negli altri sacramenti, come si ricorda in seguito: «Egli è presen-
te con la sua potenza (in sua virtute: pneumatologia implicita, secondo l’uso
frequente di identificare lo Spirito Santo come dunamis-virtus-potentia - ag-
giunta mia) nei sacramenti, cosicché quando uno battezza è Cristo che battez-
za»”.

3.2. La presenza nella parola proclamata


“L’importanza della parola di Dio nella liturgia esige che venga ricordata la
presenza di Cristo nella proclamazione di questa parola. Su questo punto il
Concilio ha voluto completare quanto era stato già detto nell’enciclica Media-
tor Dei. Una redazione preparatoria aveva enunciato l’affermazione: «È lui
che parla allorché nella Chiesa vengono lette e spiegate le parole della sacra
Scrittura». Ma poi vi sono state molte obiezioni da parte dei Padri del concilio
che osservavano come il Cristo non parli nello stesso modo nella lettura e nel-
la spiegazione della Scrittura. Nella redazione definitiva il concilio si limita
ad affermare la presenza di Cristo nella lettura: «È presente nella sua parola,
giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura». Va
da sé che il concilio non ha voluto negare una certa presenza di Cristo nel mi-
nistro che spiega la Scrittura. Questa presenza è analoga a quella «funziona-
le» presente nei ministri dei sacramenti. Il Cristo parla in colui che proclama
o predica la sua parola; la sua presenza potrebbe essere chiamata, più speci-
ficamente una presenza «profetica». Ma vi è qualcosa di più nella lettura della
Scrittura: la parola letta è quella di Cristo, in modo tale che lui è più imme-
diatamente «presente nella sua parola». La parola è detta parola di Dio; nella
prospettiva del mistero trinitario essa è la parola del Padre che si esprime nel
suo Verbo per lo Spirito Santo. Il Cristo è la Parola fatta carne; egli è venuto
a rivelare, con la sua presenza in mezzo agli uomini e con il suo linguaggio
umano, quanto aveva rivelato prima mediante il linguaggio biblico. Questa
piena rivelazione è consegnata nel vangelo, nella testimonianza di coloro che
raccolsero la sua dottrina. Perciò Cristo parla nell’Antico come nel Nuovo
Testamento. Quando la Scrittura viene letta in Chiesa, egli è presente. La ca-
ratteristica essenziale della rivelazione ch’egli aveva dato agli uomini nel mi-
stero dell’Incarnazione era l’identità della parola di Dio con la sua persona.
Il Figlio di Dio si rivelava dando la sua presenza come verità fondamentale.
Nella Chiesa egli continua a esprimersi assicurando questa stessa presenza. È
una presenza di rivelazione che lo fa parlare nella lettura della Scrittura”.

3.3. La presenza nell’assemblea adunata in preghiera


“Se si vuole notare con più precisione ciò che ha di specifico questa presenza
«quando la Chiesa prega e canta», bisogna ricordare che Cristo stesso ha

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fondato con la sua preghiera e le sue relazioni filiali col Padre il nuovo culto
degli adoratori del Padre «in spirito e verità». Egli ha inaugurato il culto che
si è poi sviluppato nella Chiesa, e in questo sviluppo resta presente, con una
presenza che si può chiamare «cultuale». È una presenza che anima l’insieme
della liturgia. Questa presenza nella Chiesa significa che è sempre il Cristo il
primo agente della liturgia... Una spiegazione più dettagliata ci è stata fornita
dal concilio sul ruolo di Cristo nell’ufficio divino: «Gesù Cristo Sommo Sa-
cerdote del nuovo ed eterno Testamento, assumendo la natura umana portò in
questo esilio terreno quell’inno che forma il canto eterno del cielo. Egli unisce
a sè tutta intera la comunità umana e se l’associa nel canto divino di questa sua
lode. Cristo continua in questo modo la sua opera sacerdotale per mezzo della
Chiesa, la quale non solo nella celebrazione eucaristica, ma anche in altri modi
e soprattutto col divino ufficio loda senza interruzione il Signore e intercede
per la salute di tutto il mondo» (SC, n. 83). L’ufficio dunque (come ogni azione
liturgica) è opera sia della Sposa che dello Sposo: «Esso è veramente voce
personale della Sposa che parla allo Sposo, anzi è preghiera di Cristo che, uni-
to al suo Corpo, si rivolge al Padre» (SC, n. 84)”.

4. La definizione conciliare di liturgia

Alla luce della dottrina della molteplice presenza reale e personale di Cristo
nell’azione liturgica il concilio giunge finalmente a dare, nella seconda parte dello stes-
so numero 7, una specie di definizione sia della liturgia in genere (definizione 1), sia
della celebrazione liturgica in specie (definizione 2):
“Di fatto in quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria
perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa,
sua sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e per mezzo di lui rende
culto all’eterno Padre.
DEFINIZIONE 1: Giustamente perciò la liturgia è ritenuta quell’esercizio
dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo [Iesu Christi sacerdotalis muneris exer-
citatio] mediante il quale con segni sensibili [per signa sensibilia] viene signi-
ficata [significatur] e, in modo proprio a ciascuno, realizzata [efficitur] la san-
tificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè
dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale [integer cultus publi-
cus].
DEFINIZIONE 2: Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo
sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza [ac-
tio sacra praecellenter], e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia
l’efficacia [efficacitatem adaequat] allo stesso titolo e allo stesso grado”.
Da questo tentativo di doppia definizione, che ancora una volta riprende e appro-
fondisce il pensiero della Mediator Dei, annotiamo:
a) La liturgia è un esercizio, cioè un’azione continuamente reiterata nel tempo e un
continuo accadimento nel flusso dinamico della storia umana. Essa è dunque un perenne
e rinnovato «presente» (e dovremmo subito aggiungere «di salvezza») nel quale il pas-
sato si dà come memoria viva ed efficace e il futuro si schiude come anticipo e promes-
sa.

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b) Il soggetto integrale della liturgia è Gesù Cristo, in quanto sommo ed eterno sacer-
dote della nuova ed eterna alleanza tra Dio e l’umanità, che associa a sé la Chiesa nella
varietà delle sue membra e dei suoi ministeri. Detto in altro modo la liturgia è operata
grazie all’azione sacerdotale congiunta di Cristo, capo della Chiesa suo corpo, e delle
membra della Chiesa, nella diversità e complementarità della loro partecipazione al sa-
cerdozio di Cristo. Perciò ogni azione liturgica è detta teandrica, cioè umano-divina in
quanto azione congiunta di Dio Padre, che per mezzo di Gesù Cristo e nello Spirito San-
to è all’opera nella celebrazione della Chiesa come attore principale, e della Chiesa che,
nella visibilità dei suoi riti e dei suoi ministeri, rivela e attua l’opera divina di salvezza.
c) Lo specifico dell’azione liturgica è quello di esercitarsi per signa sensibilia (parole
che si odono, gesti che si vedono e avvengono in uno spazio e in un tempo, realtà co-
smico-naturali, persone visibili...) che, in forza della loro dipendenza originaria da Dio
(creaturalità) e prolungando nella Chiesa la logica del mistero dell’incarnazione, diven-
tano realtà significanti e agenti la salvezza, cioè realtà sacramentali7.
d) Lo scopo e il fine dell’azione liturgica è lo stesso della Pasqua storica di Gesù Cri-
sto: la santificazione dell’uomo, secondo le caratteristiche di ciascuno, e la glorificazio-
ne di Dio che, in continuità con la terminologia della tradizione, viene espressa con il
concetto di «culto pubblico integrale». Come ho già accennato commentando SC, n. 5,
la distinzione tra linea discendente e linea ascendente è solo un modo per aiutare a com-
prendere più adeguatamente l’unico mistero di salvezza. Se infatti in Cristo la perfetta
glorificazione di Dio coincide con la sua assoluta santità anche in coloro che, mediante
la liturgia, partecipano di Cristo, la glorificazione di Dio va di pari passo con l’opera
della loro santificazione. Resta vero che la Chiesa nel suo insieme, in quanto associata
al suo Signore e salvatore, può elevare un perfetto atto di culto alla gloria del Padre an-
che se non tutti i singoli suoi membri sono giunti alla perfezione della santità cristiana8.
e) La sacralità di ogni celebrazione liturgica va dunque ribadita con grande forza, non
in ragione di categorie «naturalistiche» o «filosofiche» di sacro – il tremendum e il fa-
scinans di cui parla Rudolf Otto9 –, ma in quanto in esse opera la santità personale di
Dio, che si è resa visibile in Gesù Cristo, ed è stata partecipata alla Chiesa, una, santa,
cattolica e apostolica: “Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sa-
cerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza”. È dunque ne-
cessario attivare sempre, nei confronti della liturgia uno sguardo di ammirazione, un at-
teggiamento di grande rispetto, stima e venerazione che alimenti la consapevolezza del

7
Si veda la ripresa fatta dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) ai nn. 1189-1190: “La cele-
brazione liturgica comporta segni e simboli relativi alla creazione (luce, acqua, fuoco), alla vita
umana (lavare, ungere, spezzare il pane) e alla storia della salvezza (i riti della Pasqua). Inseriti
nel mondo della fede e assunti dalla forza dello Spirito Santo, questi elementi cosmici, questi riti
umani, queste gesta memorabili di Dio diventano portatori dell’azione di salvezza e di santificazio-
ne compiuta da Cristo. La liturgia della parola è parte integrante della celebrazione. Il significato
della celebrazione viene espresso dalla parola di Dio che è annunciata e dall’impegno della fede
che a essa risponde”.
8
Si veda la ripresa fatta da Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (2005) al n. 218: “La
liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo e in particolare del suo Mistero Pasquale. In essa,
mediante l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, con segni si manifesta e si realizza la
santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal capo e dalle
membra, il culto pubblico dovuto a Dio”.
9
OTTO RUDOLF, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, a cura di
ERNESTO BUONAIUTI = Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 191ss.

19
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tesoro che essa racchiude, tesoro che la Chiesa, e ancora di più il singolo sacerdote, è
chiamata a custodire con la massima cura e diligenza.

5. La partecipazione dei fedeli all’azione liturgica

La santificazione dell’uomo e la glorificazione di Dio realizzati per mezzo delle


azioni liturgiche raggiungono la loro piena efficacia per la vita della Chiesa quando i fe-
deli, in risposta all’opera divina, attivano tutte le disposizioni personali e comunitarie
necessarie. Il testo conciliare, al n. 11, riassume il tema delle disposizioni personali e
comunitarie necessarie nel concetto di «partecipazione dei fedeli» all’azione liturgica,
una partecipazione che viene connotata da tre aggettivi: consapevole (conscia), attiva
(actuosa) e fruttuosa (fructuosa):

“Ad ottenere... questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sa-
cra liturgia con disposizioni d’animo retto, conformino la loro mente alle parole e
cooperino con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i sacri pastori de-
vono vigilare affinché nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la
valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente,
attivamente e fruttuosamente”.

Si può annotare che all’insistenza iniziale sulle disposizioni morali e spirituali dei
fedeli che si accostano alla sacra liturgia – le disposizioni d’animo retto, la conformità
della mente alle parole, secondo l’adagio benedettino mens concordet voci, la coopera-
zione con la grazia divina – segue subito il richiamo al dovere dei pastori di vigilare, ol-
tre che sull’osservanza delle leggi liturgiche, anche e soprattutto sulla partecipazione dei
fedeli, perché sia «consapevole, attiva e fruttuosa».
Questi tre aggettivi, benché ben ponderati non sono assoluti. Al n. 14 la partecipa-
zione diventa «piena, consapevole e attiva» e al n. 48 «consapevole, pia e attiva». Qual-
che anno dopo, nelle Premesse generali al Messale romano (1970) e ambrosiano (1976)
si parlerà di una partecipazione «consapevole, attiva e piena, esterna, interna, ardente di
fede, speranza, carità»10. Come si può vedere, a fronte della stabilità dei due aggettivi
«consapevole e attiva», c’è un fluttuare del terzo, di volta in volta «fruttuosa», «piena»
o «pia». La consapevolezza attiene alla sfera dell’intelligenza, l’attività riguarda la sfera
dei sensi corporei in movimento, la fruttuosità e la pietà appellano alla dimensione
dell’uomo interiore, all’esercizio delle virtù teologali e alla pratica delle virtù. La pie-
nezza della partecipazione è data dal complesso di tutto questo, interiorità ed esteriorità,
corpo e spirito, mente e cuore, insomma l’uomo tutto intero.
Il Concilio abbozza anche una risposta alla domanda circa il fondamento teologico
della partecipazione dei fedeli, cui «va dedicata una specialissima cura nella riforma e
nell’incremento della liturgia» (SC, n. 14). Ecco come si esprime il testo conciliare:

“La madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella
piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è ri-
chiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe
eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto» (1Pt 2, 9; cf 2, 4-5) ha
diritto e dovere in forza del battesimo” (SC, n. 14).

10
Sia il testo romano, sia il testo ambrosiano, riportano queste parole al n. 3.

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La partecipazione dei fedeli all’azione liturgica, che supera definitivamente il con-


cetto di «assistenza» anche devota, come estranei o muti spettatori, è richiesta dalla na-
tura stessa della liturgia, in quanto dialogo in atto tra Dio e il suo popolo, e ha come
fondamento la dignità di membro di un popolo sacerdotale (profetico e regale), che cia-
scun fedele ha acquisito in forza del battesimo e dell’unzione crismale. Partecipando
pienamente, consapevolmente e attivamente ai santi misteri ogni fedele battezzato e
confermato esercita, unito a Gesù Cristo e in forza del suo Spirito, un vero ministero sa-
cerdotale, seppure distinto dal sacerdozio ordinato.

6. Necessità - non esaustività della liturgia

L’esaltazione della grandezza e bellezza della liturgia, con cui si chiude il numero
7, non va intesa come un invito al pan-liturgismo, ossia alla riduzione di tutta la vita e la
missione della Chiesa a liturgia. SC, nn. 9-10 ritorna perciò sul rapporto liturgia - Chie-
sa, chiarendo contemporaneamente la «necessità» e l’«insufficienza» o «non esaustivi-
tà» della prima rispetto alla seconda:
“La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Infatti prima che
gli uomini possano accostarsi alla liturgia, è necessario che siano chiamati
alla fede e alla conversione: «Come invocheranno colui nel quale non hanno
creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come
ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceran-
no, se non sono stati inviati?» (Rm 10, 14-15a). Per questo la Chiesa annuncia
il messaggio della salvezza ai non credenti... Ai credenti poi essa deve sempre
predicare la fede e la penitenza, deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnare
loro a osservare tutto ciò che Cristo ha comandato, e incitarli a tutte le opere
di carità, di pietà e di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i
fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e
rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini” (SC, n. 9).
“Nondimeno la liturgia è il culmine (culmen) verso cui tende l’azione della
Chiesa e, insieme, la fonte (fons) da cui promana tutta la sua virtù... Dalla li-
turgia dunque, particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgen-
te, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli
uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a
loro fine, tutte le altre attività della Chiesa” (SC, n. 10).

Rifacendosi a Rm 10, 14-15 il testo conciliare colloca il momento liturgico - sa-


cramentale, qualsiasi momento liturgico - sacramentale, nell’ambito di un’azione pasto-
rale più vasta e complessiva, con la quale e per la quale la Chiesa esprime la piena fe-
deltà alla missione ricevuta. Annuncio - azione liturgico / sacramentale - carità sono
così profondamente legate l’una all’altra che la dimenticanza di una di esse mette in dif-
ficoltà anche le altre:
a) La liturgia senza un continuo e reiterato annuncio della parola, che provoca alla fe-
de e alla conversione, rischia di ridursi a ritualismo formale, del quale si è smarrito il
senso e la ragione. Ma anche la predicazione della parola senza il suo compimento litur-
gico - sacramentale rischia il razionalismo, perché rimane privata dell’attuale esperienza
salvifica di ciò che essa annuncia.

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b) La liturgia senza un costante esito vitale - esistenziale nella carità (preghiera - co-
munione - diaconia) rischia l’estetismo spirituale o lo spiritualismo misticizzante, per-
ché perde di vista la novità del culto cristiano «in spirito e verità». Ma anche la carità
che non è generata dalla celebrazione e non si rinnova nella celebrazione rischia
l’efficentismo, ossia la produzione di un’opera solo umana, non permeata da Dio, sor-
gente viva della carità, che a noi si comunica nei sacramenti della Chiesa.
L’affermazione della profondissima interdipendenza dell’annuncio, della liturgia e
della carità nella missione della Chiesa non impedisce al testo conciliare di riconoscere
che la liturgia è culmen et fons dell’azione della Chiesa, proprio perché solo in essa e
per mezzo di essa è data alla Chiesa la possibilità del tutto singolare di avere parte «og-
gi» al mistero del suo Signore, nella «memoria» di ciò che egli ha compiuto e nella
«epiclesi» del suo Spirito che dà la vita.

7. La reformabilità della liturgia

Grazie a questa visione teologica della liturgia il concilio ha preso la solenne deci-
sione di avviare la riforma dei riti e delle preghiere che compongono le diverse celebra-
zioni liturgiche, distinguendo tra la «parte immutabile» e le «parti suscettibili di cam-
biamenti».
È quanto ha così bene sintetizzato il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1205:
“Nella liturgia, e segnatamente in quella dei sacramenti, c’è una parte immutabile, per-
ché di istituzione divina, di cui la Chiesa è custode, e ci sono parti suscettibili di cam-
biamenti, che essa ha il potere, e talvolta anche il dovere, di adattare alle culture dei
popoli recentemente evangelizzati”.
La stessa visione teologica della liturgia ha ancora permesso di guardare con fidu-
cia all’esistenza di tradizioni liturgiche diverse nell’ambito della Chiesa Cattolica, come
il Rito Ambrosiano distinto dal Rito Romano (cf SC, n. 4).
È ancora il Catechismo della Chiesa Cattolica, ai nn. 1208-1209, a darne la sintesi
più matura: “Le diverse tradizioni liturgiche, o riti legittimamente riconosciuti, in quan-
to significano e comunicano lo stesso mistero di Cristo, manifestano la cattolicità della
Chiesa. Il criterio che assicura l’unità nella pluriformità delle tradizioni liturgiche è la
fedeltà alla Tradizione Apostolica, ossia: la comunione nella fede e nei sacramenti ri-
cevuti dagli Apostoli, comunione che è significata e garantita dalla successione aposto-
lica”.

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CAPITOLO II

LA LITURGIA DELLE ORIGINI CRISTIANE

L’itinerario storico - teologico che ci accingiamo a percorre prende le mosse dallo


studio del culto nel Nuovo Testamento (= NT). I documenti neotestamentari, corpo
scritturistico della pienezza della rivelazione divina, sono infatti la «prima fonte» da cui
attingere il «fatto» o i «fatti» della liturgia cristiana e la loro «comprensione» credente.
Dopo un’essenziale ricognizione dei «fatti rito-cultuali» del NT, dai quali si evin-
cerà una ricca strutturazione liturgica del cristianesimo delle origini, tenteremo di recu-
perare la «novità» del concetto neotestamentario di culto, operando due saggi di appro-
fondimento: 1) uno studio del modo con cui il NT utilizza il vocabolario cultuale gene-
rale (leiturgía - latreìa); 2) uno studio della rilettura neotestamentaria degli istituti rito-
cultuali universalmente conosciuti a livello religioso e specificamente codificati
nell’esperienza religiosa di Israele: sacrificio, altare, tempio, sacerdozio.

1. La prassi rito-cultuale nel Nuovo Testamento

Se il libro degli Atti degli Apostoli ci informa che i primi cristiani di Gerusalemme
continuavano ad avere una certa familiarità con la prassi cultuale giudaica, in particolare
con la frequentazione del Tempio (cf At 2, 46; 5, 42; cf. anche Lc 24, 53), con altrettan-
ta chiarezza ci mostra la nascita e lo sviluppo di una vita «liturgica» (rito-cultuale) sem-
pre più autonoma e svincolata dall’eredità giudaica1.

1.1. Gli atti rito-cultuali

Gli atti rito-cultuali che possiamo riconoscere nell’attestazione neotestamentaria


sono molteplici. Di alcuni abbiamo testimonianza diretta, di altri abbiamo indizi, messi
in evidenza da un’attenta ricerca esegetica, la quale lavora tenendo in conto l’ipotesi del
Sitz im Leben (contesto vitale) anche liturgico di molti scritti neotestamentari.
Rinviando alle pagine del Cullmann per una più analitica ricostruzione dei dati, ma
integrando alcune sue omissioni con il Grelot, possiamo qui limitarci a uno scarno elen-
co di atti rito-cultuali già attestati nella prassi apostolica:

a) Il rito del battesimo «in acqua e Spirito Santo» (cf Gv 3, 5), più volte strettamente
correlato a un gesto apostolico di imposizione delle mani, a suggello della fede che ac-
coglie la predicazione kerigmatica (si vedano almeno: Mc 16, 15-16; Mt 28, 19-20; At
2, 41; 8, 14-17; 8, 38; 10, 48; 19, 6).

b) Il rito della frazione del pane (klàsis toù àrtou: At 2, 42; 20, 7-11; 27, 35; 1Cor 10,
14-22) o del «mangiare la cena del Signore» (kuriakòn deîpnon fageîn: 1Cor 11, 20) in

1
Per l’approfondimento di questa parte: HAHN FERDINAND, Il servizio liturgico nel cristianesimo
primitivo = Studi biblici 20, Paideia, Brescia 1972, pp. 9-98; CULLMANN OSCAR, La fede e il culto
della Chiesa primitiva, Ave, Roma 1974, pp. 143-179; La liturgia nel Nuovo Testamento, a cura di
GRELOT PIERRE, Borla, Roma 1992, pp. 332.

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obbedienza a quanto gli apostoli hanno ricevuto dal Signore (1Cor 11, 23; Mt 26, 26-29;
Mc 14, 22-25; Lc 22, 14-20). Mediante questo rito conviviale e sacrificale insieme (cf
1Cor 10, 16-22), che trova la sua collocazione temporale originaria nel «primo giorno
dopo il sabato» (cf At 20, 7), le comunità cristiane fanno «memoria» di Cristo e della
sua Pasqua, comunicano alla realtà personale del Signore e rinnovano l’attesa del convi-
to messianico (1Cor 11, 26)2.

c) Il rito dell’unzione con olio (áleipsis elaíou) dei malati «nel nome del Signore»,
fatta dai «presbiteri della Chiesa» in contesto di fede e di preghiera (Gc 5, 14-15), per il
«sollievo» e la «salvezza» del malato3.

d) Il rito dell’imposizione delle mani (epíthesis tôn cheirôn) da parte degli apostoli (At
6, 6) o dei profeti e dei dottori (At 13, 3) o di un «collegio di presbiteri» (1Tm 4, 14) in
contesto di preghiera (At 6, 6), o di digiuno e di preghiera (At 13, 3), per il conferimen-
to di un particolare «dono spirituale» (1Tm 4, 14) in vista di uno speciale ministero in
favore della Chiesa nascente4.

e) La preghiera comune, mediante la proclamazione di «salmi, inni e cantici spiritua-


li» (Col 3, 16-17), sia dell’AT, ma reinterpretati in chiave cristologica, sia di nuova e
più libera composizione, come risulta dagli inni cristologici di Paolo o dal cantico di
Zaccaria, di Simeone e di Maria in Luca5.

1.2. Il luogo dell’assemblea liturgica

Il luogo dell’assemblea cristiana riunita per i sui specifici atti rito-cultuali sembra
essere complessivamente al di fuori degli «spazi sacri» del giudaismo (tempio - sinago-
ga) e del paganesimo.

a) Per la preghiera comune, per l’istruzione degli apostoli e per la frazione del pane
sia At 12, 12 (“Pietro... si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove
molti erano riuniti e pregavano”), sia At 20, 8 (“C’era un buon numero di lampade nella
stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti”), sia Rm 16, 3a. 5. 23a (“Salutate Pri-
sca e Aquila... salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa... Vi saluta
Gaio, che ospita me e tutta la comunità”), sia 1Cor 16, 19b (“Vi salutano molto nel Si-
gnore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa”), come pure altre
allusioni più indirette (cf per es. 1Cor 11, 17ss) o più difficili da interpretare nel loro

2
Si veda anche l’ipotesi di Oscar Cullmann, secondo il quale nell’invocazione Maranatha (cf 1Cor
16, 22; Ap 22, 20) abbiamo un “elemento specificamente cristiano delle preghiere liturgiche primi-
tive” (p. 154).
3
CULLMANN passa sotto silenzio questa testimonianza. Cf, al contrario, GRELOT PIERRE, o. c. pp.
133-134.
4
Ho elencato di seguito i principali passi in cui compare il gesto rituale dell’imposizione delle mano
per un «ministero» senza entrare nella questione del valore specifico di ogni singola testimonianza.
Anche di questo CULLMANN non fa cenno. Cf, al contrario, GRELOT PIERRE, o. c., pp. 130-132.
5
Cullmann propone una lettura in chiave rito-cultuale anche delle numerose confessioni di fede, for-
mule di benedizione e dossologie contenute negli scritti soprattutto paolini (pp. 162-165). Su questo
anche GRELOT PIERRE, o. c., pp. 181-223.

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senso genuino (cf per es. At 2, 46; 5, 42), parlano della casa di un fratello, che per ca-
pienza e decoro avevano la possibilità di contenere un buon numero di persone.

b) Per il rito battesimale, che suggella l’accoglienza nella fede della predicazione apo-
stolica, il luogo della sua celebrazione è semplicemente quello in cui si ha a disposizio-
ne dell’ acqua corrente: o la casa stessa (At 10, 44-48; At 16, 32-34) o il corso di un tor-
rente (At 16, 11-15) o un luogo di raccolta d’acqua (At 8, 34-39).

c) Per la preghiera e l’unzione che salva, risolleva il malato e gli rimette i peccati (cf
Gc 5, 15), la lettera di Giacomo fa pensare ancora una volta all’ambiente domestico:
“Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa…” (Gc 5, 13).

1.3. Il tempo della celebrazione

Il tempo dell’assemblea liturgica propriamente cristiana esce progressivamente dal-


la tutela dei tempi liturgici ebraici, specialmente da quella del sabato. Scrive Oscar
Cullmann: “Gli Atti dicono che la Chiesa si riuniva ogni giorno (At 2, 46; cf Lc 24, 53).
E non è escluso che qua e là si sia osservato il sabato. Tuttavia notiamo un fenomeno
simile a quello che abbiamo appena visto riguardo al luogo di culto: fin dall’origine il
culto della Chiesa si crea una cornice specificamente cristiana; un giorno particolare
viene messo a disposizione per il culto: il giorno del Signore. Rompendo coscientemente
con il sabato giudaico, i primi cristiani scelsero il primo giorno della settimana, giorno
della risurrezione del Cristo, giorno della sua apparizione ai discepoli riuniti nel mo-
mento del loro pasto... Questa relazione tra il giorno del culto e la risurrezione del Cri-
sto ci fornisce... un’indicazione molto preziosa per ben comprendere il senso stesso di
ogni culto della Chiesa primitiva”6.
Di fronte a questa ricchezza di dati liturgici, che ci permette di concludere
all’affermazione di un cristianesimo che nasce già liturgicamente strutturato in forme
autonome rispetto alla grande tradizione giudaica di partenza e ancor più rispetto alle
forme religiose pagane, nasce spontanea la domanda circa la «novità» teologica e spiri-
tuale che giustifica il «nuovo» rito-cultuale testimoniato nelle comunità apostoliche.

2. Liturgia e culto «in Spirito e Verità»

Per rispondere a una tale domanda, la prima strada percorsa dagli studiosi è stata
quella di indagare puntualmente sul vocabolario liturgico dell’AT, nell’originale ebraico
e nella versione greca dei LXX, per rapportarlo successivamente alla sua ripresa e al suo
riutilizzo nel greco del NT. Di questa ricerca recuperiamo i risultati relativi ai termini li-
turgia – culto (in greco leiturgía – latreìa) e ai loro derivati verbali o aggettivali7.

6
CULMANN OSCAR, o. c., p. 157.
7
Per questa parte riprendiamo MARSILI SALVATORE, La liturgia, momento storico della salvezza in:
Anámnesis 1., Marietti, Torino1974, pp. 33-44; LYONNET STANISLAO, La nature du culte dans le
Nouveau Testament, in La liturgie aprés le Vatican II. Bilans, études, prospective, a cura di JOSSUA
J. P.-CONGAR YVES = Unam Sanctam 66, Paris 1967, pp. 356-384.

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2.1. «Leiturgía» dall’Antico al Nuovo Testamento

Etimologicamente il termine leiturgía significa azione / opera (urgia da érgon) per


il popolo (leit da léitos = che riguarda il popolo). Esso fu impiegato nel greco classico
per indicare quegli interventi di carattere pubblico (allestimento di navi per la guerra, al-
lestimento di giochi in occasioni di feste, ecc...), messi in atto da persone facoltose e in
vista presso il popolo, in favore del popolo stesso.
Il carico di queste opere, sempre molto rilevante in termini economici e sempre più
dovuto in termini di immagine, favorì un’espansione semantica del vocabolo, che di-
venne sinonimo di «servizio oneroso» e obbligante e, nella scia di questa prima espan-
sione, durante il periodo ellenistico (secc. IV-II a. C.) si sviluppò un impiego religioso-
cultuale del termine.
«Liturgia» divenne quel servizio oneroso di culto (in primo luogo l’offerta dei sa-
crifici) da rendere agli dei presso i rispettivi santuari per il tramite dei sacerdoti. L’abate
Marsili nota che quest’ulteriore espansione semantica, di carattere religioso-cultuale,
tende, in ambito ellenistico, a diventare esclusiva.
Quando i «Settanta» mettono mano alla traduzione greca dell’AT, siamo in piena
epoca ellenistica e il nostro vocabolo viene utilizzato, con applicazione agli istituti giu-
daici, nello stesso senso.
«Liturgia» diventa così il termine tecnico per designare il servizio di culto reso a
Jahvé (in primo luogo l’offerta dei sacrifici) nel tempio per il tramite dei sacerdoti e dei
leviti. Esso rimanda, cioè, al culto ufficiale ebraico, attuato nell’unico legittimo santua-
rio (il tempio di Gerusalemme), ben determinato nel suo ordinamento celebrativo e ri-
servato, per diritto divino, alla casta sacerdotale.
La preghiera quotidiana, individuale e familiare (il «sacrificio della lode» - per usa-
re la terminologia profetica), la cena settimanale o pasquale nelle case e il raduno sina-
gogale del sabato non rientrano, perciò, nella «liturgia» di Israele.
Tanto meno il termine «liturgia» è usato dai «Settanta» per indicare il culto reso
con la vita santa e giusta, culto al quale soprattutto la predicazione profetica aveva in-
stancabilmente richiamato, indicandolo come il vero e autentico sacrificio che Dio gra-
disce (Ger 7; Os 6, 6; 8, 11-13; Am 5, 21-25) e che invera le stesse offerte sacrificali del
tempio (si possono rileggere in proposito i cosiddetti «salmi di ascensione»: cf Sal 14;
Sal 23; Sal 94).
Così mentre l’originale ebraico usava lo stesso vocabolario (sherét - abohdáh), sia
per il culto dato a Jahvé mediante un’esistenza giusta e santa, sia per il culto ufficiale
del tempio, permettendo una migliore osmosi tra momento rituale del culto e sua di-
mensione etico-vitale, la scelta dei Settanta, se, da un lato, introduce una chiarificazione
di vocabolario, dall’altro, irrigidisce la separazione tra momento rituale e momento eti-
co-vitale del culto reso a Jahvé, dando adito a una considerazione più estrinseca e cosi-
ficante del momento propriamente rito-cultuale.
Mentre il testo ebraico, impiegando la stessa terminologia per le due realtà, permet-
teva una visione globale e unitaria del culto a Jahvé, tesa a integrare «rito» e «vita», la
chiarificazione terminologica dei «Settanta» rende più netta la distinzione tra gli atti li-
turgici e il comportamento morale, con il rischio che il «culto del tempio» possa funzio-
nare in modo autonomo a prescindere dal «culto della vita».
Su queste premesse possiamo ora verificare cosa avviene del termine leiturgía nel
NT. Esso compare solo 15 volte [2 volte negli scritti lucani (Lc 1, 23 e At 13, 2); 7 volte
negli scritti paolini (Rm 13, 6; 15, 16. 27; 2Cor 9, 12; Fil 2, 17. 25. 30) e 6 volte nella
lettera agli Ebrei (Ebr 1, 7. 14; 8, 2. 6; 9, 21; 10, 11)] e il suo impiego è differente a se-

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condo che il contesto del discorso faccia ancora riferimento al mondo giudaico o pre-
scinda ormai totalmente da esso.
Nel primo caso (vangelo di Luca e lettera agli Ebrei) c’è continuità con il linguag-
gio dei Settanta: «liturgia» continua a designare il servizio levitico-sacerdotale (Lc 1,
23; Ebr 8, 2. 6; 9, 21; 10, 118).
Nel secondo caso (corpus paulinum in senso stretto), dove il contesto pare prescin-
dere da ogni riferimento diretto al giudaismo (cf Rm 13, 6; 15, 16. 27; 2Cor 9, 12; Fil 2,
17. 25. 30), sia il verbo che il sostantivo sono normalmente usati in funzione non ritua-
le9.
A mo’ di esempio, prendiamo il caso di Fil 2, 25. Paolo parla di Epafrodìto come
«liturgo» delle sue necessità, il quale, a rischio della sua stessa vita, ha sostituito la co-
munità di Filippi nella «liturgia» presso Paolo. Il riferimento è ai donativi e alle elemo-
sine portate da Epafrodìto a Paolo da parte della comunità di Filippi.
A rigore si potrebbe qui supporre persino un uso dei termini «liturgo/liturgia» in
senso ancora classico (= servizio oneroso), ma la presenza dello stesso termine qualche
versetto prima (Fil 2, 17) a fianco di un vocabolario indiscutibilmente cultuale (spèndo
= versare in libagione; thusìa = offerta sacrificale) non dà adito a dubbi: Paolo applica
una trasposizione del vocabolario rituale greco dell’AT all’esistenza cristiana vissuta
nella forma della carità, dichiarando che ciò che Epafrodìto e la comunità di Filippi
hanno compiuto è autentica «liturgia della fede»: “Ma, anche se io devo essere versato
sul sacrificio e sull’offerta (in greco leiturgía) della vostra fede, sono contento e ne go-
do con tutti voi”.

NB: In contesto inequivocabilmente cristiano, c’è una sola eccezione all’uso cultuale,
ma non rituale, del termine «liturgia», vale a dire At 13, 2. Qui, infatti, «liturgia», pur
non designando un atto del sacerdozio levitico, sta ad indicare una vera e propria cele-
brazione cristiana della comunità di Antiochia (leiturgúnton autón tó Kurío), guidata o
presieduta dai profeti e dai dottori di questa comunità. Se è difficile stabilire con preci-
sione a quale atto celebrativo Luca faccia riferimento, nessun dubbio è serio sul referen-
te rituale dell’espressione10.

2.2. Culto (latreía) dall’Antico al Nuovo Testamento

Etimologicamente latreìa esprime il concetto di «servizio» (da látron = salario, ri-


compensa), ma non immediatamente in senso religioso e rito-cultuale. Nel greco dei
Settanta, invece, il termine è usato per esprimere sia il servizio religioso alle divinità
pagane, sia il servizio religioso a Jahvé da parte del popolo d’Israele nel suo complesso,

8
Il discorso andrebbe però maggiormente circostanziato almeno per Ebr 8, 2. 6. Se infatti il contesto
rimanda all’AT, il senso del discorso è quello di mostrare come il ministero sacerdotale di Cristo è
altra cosa da quello levitico (cf v. 4), ed è di molto superiore a quello che era solo «immagine e om-
bra delle realtà celesti» (v. 5). In tal modo la «liturgia» è sì quella levitica, ma anche, per parallelo,
l’azione sacerdotale di Cristo, la quale però è tutt’altra cosa.
9
Per approfondire: BALDANZA GIUSEPPE, Paolo e il culto. Esegesi e teologia = Bibliotheca Epheme-
rides Liturgicae. Subsidia 147, CLV. Edizioni Liturgiche, Roma 2009, pp. 151, specialmente i capp.
II e III.
10
Gli scritti lucani (Lc 1, 23 - At 13, 2), a differenza dell’epistolario paolino, usano sempre in senso
specificamente «rituale» il termine «liturgia», anche se nel primo caso si tratta ancora della ritualità
ebraica, mentre nel secondo della ritualità propriamente cristiana.

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e da parte del singolo israelita, a esclusione del «servizio» propriamente levitico-


sacerdotale, per il quale è stato riservato il termine «liturgia»11.
Il NT usa latreìa, in forma nominale o verbale, 26 volte. In riferimento al culto ido-
latrico pagano (Rm 1, 20), al culto del pio israelita (Lc 2, 37) e al culto reso dai santi
nella Gerusalemme celeste (Apc 7, 15; 22, 3) il modulo dei Settanta viene rispettato.
Nuovo sembra essere invece l’impiego del vocabolo nel contesto della vita cristiana,
dove verbo e sostantivo designano sempre o il ministero apostolico come «servizio reso
a Dio», o l’intera vita cristiana, come «culto spirituale».
Esempio del primo caso è l’inizio della lettera ai Romani, dove Paolo si presenta
come colui che rende culto (latréuo) a Dio nel suo spirito, “annunciando il Vangelo del
Figlio suo” (cf Rm 1, 9). Esempio del secondo caso è l’esortazione con cui Paolo inizia
la parte parenetica della lettera ai Romani: “Vi esorto dunque fratelli, per la misericordia
di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente (thusían zôsan) santo e gradito a
Dio; è questo il vostro culto spirituale (tén logichén latreían umôn)” (Rm 12, 1). Il
commento di Stanislao Lyonnet mette bene in evidenza la novità del testo paolino: “Il
senso è chiaro: il culto antico consisteva nell’offerta delle vittime immolate; il cristiano
deve offrire se stesso nella sua vita di ogni giorno, la quale è una partecipazione alla
vita stessa del Cristo, perché «non sono più io che vive, ma è il Cristo che vive in me»
(Gal 2, 20); una tale «vittima vivente» non può essere che «santa e gradita a Dio», infi-
nitamente di più degli animali offerti da Israele. Del resto, affinché non si equivochi sul
suo pensiero, Paolo aggiunge un’apposizione: «vostro culto spirituale», come per dire:
voi non ne avete un’altro e questo è spirituale; esso consiste nella vostra vita di tutti i
giorni, vita di carità totalmente disinteressata, come precisamente lo fu quella di Cri-
sto"12.
L’esortazione paolina di Rm 12, 1 è dunque in perfetta sintonia con il lòghion mar-
ciano, secondo il quale “amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta
la forza e amare il prossimo come se stesso vale di più di tutti gli olocausti e i sacrifici”
(Mc 12, 33), e con il lòghion giovanneo, secondo il quale “i veri adoratori adoreranno il
Padre in spirito e verità; così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano” (Gv
4, 23).
Volendo concludere quest’indagine, parziale, ma significativa, sul vocabolario cul-
tuale generale neotestamentario possiamo perciò affermare:

a) I termini «liturgia» e «latria», utilizzati dai Settanta, l’uno per il servizio rito-
cultuale del tempio, l’altro per il servizio extra-templare, sia rito-cultuale che esistenzia-
le, quando sono impiegati in contesto propriamente cristiano, a parte l’eccezione di At
13, 2, tendono a indicare il culto anzitutto reso con la vita (vita apostolica - servizio di
carità - preghiera di lode...);

b) Questo primato del «culto spirituale» rispetto al «culto rituale» o, detto in modo di-
verso, questo inveramento del «culto rituale» nel «culto spirituale» ha il suo fondamento
ultimo nella reinterpretazione in chiave cultuale dell’intera singolare vicenda storica di
Gesù Cristo e, in particolare, della sua morte redentrice.

11
Si veda per esempio, Gs 24, 1ss, dove il verbo «servire» è usato ripetutamente, sia in riferimento
agli idoli, sia in riferimento a Jahwé, ed esprime al contempo un atteggiamento esistenziale (osser-
vanza dei comandamenti) e un atteggiamento rito-cultuale.
12
LYONNET STANISLAO, o. c., p. 371.

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Se, infatti, in Gesù Cristo è l’obbedienza al Padre fino alla morte di croce a costi-
tuire la forma compiuta del culto reso a Dio, di cui i sacrifici del tempio sono solo «om-
bra» e «figura», la partecipazione a tale obbedienza, mediante un’esistenza vissuta nella
fede, speranza e carità, sarà la forma compiuta del culto cristiano e la ragione propria
della celebrazione liturgica cristiana.

c) Di conseguenza, i momenti propriamente rito-cultuali del nuovo popolo


dell’alleanza (il battesimo - la frazione del pane - l’unzione dei malati, ecc...), pur ap-
partenendo di diritto alla «liturgia - latria» cristiana, non sono designati esplicitamente
(cf però At 13, 2) con questi nomi.
La cosa non sembrerebbe casuale ma intenzionale; per impedire cioè una lettura
acritica e concordista del passaggio dagli istituti rito-cultuali dell’AT agli istituti rito-
cultuali del NT. I riti cristiani non sono una semplice sostituzione dei riti giudaici, ma
un loro radicale superamento. Essi rinviano, infatti, al compimento di ogni istituto cul-
tuale nella donazione pasquale di Gesù e da essa traggono la loro ragion d’essere.

3. Sacrificio altare tempio e sacerdozio nella rilettura del NT

Se già sul finire dell’epoca apostolica, ma soprattutto nei secc. II-III dell’era cri-
stiana, la Chiesa dovette difendersi dall’accusa di «ateismo» e di «empietà»13, mossale
sia da parte dei giudei che da parte dei pagani, la ragione più immediata sembra debba
essere rinvenuta nella difficoltà a ritrovare presso il culto cristiano i segni ordinari della
pietas religiosa tradizionale, vale a dire: i sacrifici animali [thusía], l’altare per l’offerta
dei sacrifici [thusiastèrion], il tempio [hieròn - naòs] e il sacerdozio [hierosúne].
Che cosa è avvenuto di queste realtà, ritenute decisive, sia nel mondo religioso pa-
gano che in quello ebraico, pur con le dovute differenze, per un’esperienza autentica-
mente religiosa? Sono state del tutto abolite in favore di un culto totalmente interiore e
spirituale o hanno subito una reinterpretazione teologica così nuova da introdurre nella
prassi rito - cultuale cristiana una radicale discontinuità con il mondo religioso circo-
stante, sia giudaico che pagano?
La risposta, alla luce delle affermazioni neotestamentarie e della successiva tradi-
zione liturgica della Chiesa, risulta piuttosto netta: sacrificio, altare, tempio e sacerdo-
zio, a partire dall’evento pasquale di Cristo, realizzano la loro propria identità a un livel-
lo così nuovo di realtà da far regredire a «figura» e «ombra», per quanto provvidenziale
esso sia stato, tutto ciò che precedentemente era insignito di questi stessi nomi14.

3.1. Il sacrificio

Così nel NT, soprattutto in quello straordinario, e non facile scritto che è la lettera
agli Ebrei15, il sacrificio non è più l’offerta della vittima animale, compiuta dai sacerdoti

13
Il rimando è agli scritti dei Padri apologeti greci, quali Aristide, Giustino, Taziano, e latini, quali
Tertulliano e Lattanzio.
14
Interessanti contributi per approfondire in: Tempio, culto e sacerdozio. Atti del XII Convegno di
Studi Neotestamentari e Anticotestamentari. Fara Sabina, 13-15 settembre 2007, a cura di ANTONIO
PITTA, Dehoniane, Bologna 2009, pp. 270.
15
Per questa parte rinvio al testo veramente magistrale di VANHOYE ALBERT, Sacerdoti antichi e nuo-
vo sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1985. Per la reinterpreta-
zione cristologico-cristiana del «sacrificio» pp. 137-185. Utile è anche la lettura di MANZI FRANCO,

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sull’altare del tempio come rito di espiazione per i propri peccati e per quelli di tutto il
popolo, ma la totale e intima obbedienza di Cristo al Padre per la remissione dei peccati
(cf Ef 5, 2; Ebr 9, 14; 10, 8-12), che si manifesta e si attua nell’immolazione cruenta
della croce.
Anche i cristiani, partecipando del sacrificio di Cristo che «offre il suo corpo» (cf
Ebr 10, 10) mediante i riti memoriali della sua Pasqua (battesimo - frazione del pane...),
«offrono nel loro corpo» se stessi come «sacrificio vivente e santo», cioè come autenti-
co «culto spirituale» a Dio gradito (cf Rm 12, 1; 1Pt 2, 5).
E come il sacrificio di Cristo si realizzò in un atto interiore di libertà (cf Ebr 10, 7.
10), che prese la forma di un «sacrificio di preghiera e di supplica» (cf Ebr 5, 7), così
anche il sacrificio della Chiesa, e di ogni singolo cristiano, si compie in un’adesione in-
teriore della volontà, che si esprime nell’offerta della «preghiera di lode» e nella «con-
fessione del nome santo di Dio» (cf Ebr 13, 15-16).
Anche la valenza sacrificale dell’eucaristia, proprio perché totalmente relativa e to-
talmente partecipe del sacrificio pasquale di Cristo, non potrà che esprimersi nella for-
ma rituale del «sacrificio della lode» della Chiesa16.

3.2. L’altare

Così l’altare, su cui si compie l’offerta del sacrificio, non è più la pietra posta all’
ingresso del tempio sulla quale i sacerdoti dell’AT offrivano i loro sacrifici cruenti, ma
è Gesù Cristo “per mezzo del quale offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode,
frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebr 13, 15).
Egli infatti è la «pietra angolare» (cf Ef 2, 20) sulla quale poggia l’edificio santo di
Dio, che è la Chiesa, e per la quale ogni autentico culto viene elevato alla gloria del Pa-
dre (cf Ebr 13, 10).

3.3. Il tempio

Così il tempio, luogo dove Dio va incontro all’uomo nella pienezza della sua rive-
lazione, non è più lo spazio fisico edificato nella città santa, ma è il corpo personale -
ecclesiale di Cristo17.

Lettera agli Ebrei = Nuovo Testamento. Commento esegetico-spirituale, Città Nuova, Roma 2001,
pp. 227.
16
È già della narrazione della cena del Signore nei sinottici e in Paolo la concentrazione sulla eulogía
- eucharistía, che prenderà la forma dell’anafora cristiana. In essa il «memoriale» del sacrificio del-
la croce, esso stesso sacrificio per identità sacramentale, si attua come «preghiera» della Chiesa.
Scriverà Tertulliano, in perfetta continuità con il NT: “Il sacrificio splendido e grande (opimam et
maiorem hostiam) è la preghiera che sorge da un corpo puro (orationem de carne pudica... profec-
tam), da un’anima senza colpa e dallo Spirito Santo" (TERTULLIANO, Apologeticum 30, 5).
17
Per il concetto neotestamentario di «tempio» vedi MARSILI SALVATORE, Dal tempio locale al tem-
pio spirituale, in Il tempio. Atti della 18a settimana liturgica nazionale. Monreale, 28 agosto - 1 set-
tembre 1967, Cal, Roma 1968, pp. 51-63. Più di recente: PAPA BENIGNO, Voi siete il tempio eletto,
in La dimora di Dio tra gli uomini: tempio e assemblea. Atti della 43a Settimana Liturgica
Nazionale. Bari, 24-28 agosto 1992 = Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae». Sectio Pastoralis 12,
CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 1993, pp. 45-61; MANZI FRANCO, Hic veri templi adumbratur
mysterium. L’adempimento neotestamentario del tempio alla luce di un recente documento della
Pontificia Commissione Biblica, «Ephemerides Liturgicae» 116 (2002) pp. 129-174.

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Già i sinottici (per esempio Mt 1, 23; Lc 1, 32-35) alludono a quello che l’abate
Marsili chiama il «segno del tempio», ma è in Giovanni che affiora una riflessione più
matura in proposito.
In Gv 1, 14 (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi ab-
biamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità”), il mistero dell’incarnazione viene presentato con un preciso
riferimento alla «tenda» (eskénosen), che aveva accompagnato Israele nel cammino
dell’esodo e nella presa di possesso della terra promessa, tenda mobile, in seguito tra-
sformata in tempio stabile nella Città santa.
Questa tenda - tempio, luogo dell’incontro tra Jahvé e il suo popolo, è stata sosti-
tuita nel tempo del compimento messianico – dice il prologo di Giovanni nel passo cita-
to – dalla «carne» assunta dal Verbo, luogo «personale» dell’incontro del divino con
l’umano. Ma mentre la tenda - tempio conservava una separazione, e un velo impediva
il contatto diretto con la gloria dell’Altissimo, nella «carne» assunta dal Verbo – dice
ancora Giovanni – «noi abbiamo contemplato la sua gloria».
In Gv 2, 14-21 il superamento in Cristo dell’antico ordinamento cultuale levitico -
templare appare ancora più evidente. Se di primo acchito sembrerebbe che Gesù voglia
semplicemente ripristinare il culto levitico - templare nella sua purezza originaria nella
linea della migliore profezia veterotestamentaria (cf v 16), nel gesto autoritario con cui
scaccia i cambiavalute dal tempio egli mostra un potere nuovo e inaudito sul tempio
stesso, che sconcerta i giudei e li spinge a chiedere un «segno» di credibilità (“quale se-
gno ci mostri per fare queste cose?”).
La risposta di Gesù, intesa nel senso dell’esplicitazione giovannea, non lascia alcun
ragionevole dubbio. Gesù nel suo corpo sacrificato, ma risorto e glorioso, è il nuovo e
definitivo tempio, nel quale e per il quale ogni uomo può esercitare il culto gradito al
Padre: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere... Ma egli parlava del
tempio del suo corpo” (vv. 19. 21).
In queste parole non abbiamo più a che fare con una semplice spiritualizzazione del
culto levitico - templare, nella linea della migliore profezia veterotestamentaria secondo
la quale culto e vita devono costantemente compenetrarsi. Gesù afferma, invece, un ra-
dicale superamento della localizzazione spaziale del culto. Il tempio di Gerusalemme è
ormai superato ed è sostituito dal riferimento diretto a Colui nel quale “abita corporal-
mente tutta la pienezza della divinità” (Col 2, 9)18.
La sua morte è dunque il «rito di dedicazione» del nuovo e imperituro tempio che è
il suo corpo glorioso, e la sua risurrezione manifesta a tutti gli uomini dove è dato di po-
ter esercitare il culto «in spirito e verità», diventando essi stessi, in quanto corpo eccle-
siale del Signore, «tempio di Dio».
La rilettura cristologica del tempio trascorre, senza soluzione di continuità, nella ri-
lettura ecclesiologica del tempio. A partire infatti dall’esperienza della Pasqua Paolo po-
trà scrivere ai cristiani di Corinto: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito
di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo
è il tempio di Dio, che siete voi” (1Cor 3, 16-17). E questo dopo aver spiegato che egli,
nella sua predicazione, ha posto prima il fondamento stabile, la pietra angolare del tem-
pio che è il Cristo Signore (cf 1Cor 3, 9-15; cf anche Ef 2, 12-22).

18
Nel medesimo senso va l’affermazione di Ebr 10, 19-21: “Abbiamo piena libertà di entrare nel san-
tuario per mezzo del sangue di Cristo, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso
il velo, cioè la sua carne”, egli che è “un sacerdote grande nella casa di Dio”. La morte di Cristo,
cioè il «sacrificio» della croce, è la fine di quel tempio che nascondeva e separava Dio dagli uomini
ed è la via di accesso al santuario celeste.

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E Pietro, sempre richiamandosi al Cristo morto e risorto, potrà dichiarare la Chiesa


il nuovo edificio santo nel quale viene offerto il vero e autentico sacrificio: “Avvicinan-
dovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali
pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e
per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1Pt 2, 4-5).

3.4. Il sacerdozio

Così, di conseguenza, la ridefinizione della realtà del sacrificio, dell’altare e del


tempio metteva sulla strada di una comprensione nuova e definitiva della realtà del sa-
cerdozio. Riporto alcuni stralci della sintesi proposta dal biblista Albert Vanhoye, dando
una mia distinzione in paragrafi:

cristologica sacerdotale

“Poiché Gesù aveva offerto se stesso in sacrificio perfetto - a Dio e agli uomini - biso-
gnava riconoscerlo come il sacerdote perfetto, mediatore della nuova alleanza. Fu
l’epistola agli Ebrei a sviluppare metodicamente questa scoperta dottrinale... Con la
sua estensione imponente la cristologia sacerdotale dell’epistola agli Ebrei mette for-
temente in evidenza il punto più importante della posizione cristiana in materia di sa-
cerdozio, cioè: non esiste che un unico sacerdote nel pieno senso della parola, e questo
sacerdote è Cristo. Solo Cristo è stato capace di adempiere effettivamente la funzione
essenziale del sacerdozio, che è di stabilire una mediazione tra Dio e gli uomini. Egli è
l’unico mediatore. Per arrivare a una relazione autentica con Dio si deve necessaria-
mente passare attraverso di lui e, più precisamente, attraverso il suo sacrificio. Nessun
uomo può fare a meno della mediazione di Cristo, e nessuno può prendere il posto di
Cristo per compiere questo ruolo in rapporto ad altre persone. Alla moltitudine degli
antichi sacerdoti succede quindi un solo nuovo sacerdote...”.

ecclesiologica sacerdotale

“Tuttavia resta ancora possibile e giustificabile parlare di «sacerdoti» al plurale, pur-


ché ciò non sia a scapito di questa posizione di base. L’Apocalisse (1, 6; 5, 10; 20, 6) lo
fa, appoggiandosi su una promessa dell’AT. Essa attribuisce il titolo di «sacerdoti» a
tutti i battezzati e lo promette in modo speciale ai cristiani che avranno spinto la loro
fedeltà fino al martirio, ma dichiara esplicitamente che questo sacerdozio dipende da
Cristo... La prima lettera di Pietro (1Pt 2, 5.9) usa una formulazione più sfumata, ed
elabora in modo più preciso la dottrina del sacerdozio comune, mostrando chiaramente
che esso è posseduto da tutti i cristiani insieme, grazie alla loro adesione a Cristo, e
non si esercita se non attraverso la mediazione di Cristo. Questa comunicazione del sa-
cerdozio all’insieme della Chiesa, «organismo sacerdotale», manifesta un aspetto ca-
ratteristico della mediazione di Cristo... Ciò che caratterizza la mediazione di Cristo è
che essa supera ciò che si intende ordinariamente per mediazione. Cristo infatti non è
un intermediario esteriore fra l’uomo e Dio, che si sforzerebbe con i suoi buoni uffici di
ristabilire il buon accordo fra le due parti. Egli è colui che ha attuato «nella propria
persona» l’unione completa fra l’uomo e Dio, a beneficio di tutti gli uomini. Perciò il
sacerdozio di Cristo è fondamentalmente aperto alla partecipazione. Chi aderisce a
Cristo è associato al suo sacerdozio, perché trova nel Cristo una relazione immediata
con Dio... A un sistema di santificazione per mezzo di separazioni rituali è succeduto un

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dinamismo di partecipazione e di comunione, messo in atto con l’offerta sacerdotale di


Cristo, e che fa sì che tutti, ormai, siano invitati ad avvicinarsi a Dio senza timore e a
offrire a lui tutta la loro esistenza, mettendola contemporaneamente al servizio della
comunione fra gli uomini”.

ministerialità sacerdotale

“In questo dinamismo sacerdotale di partecipazione e di comunione, qual è il posto di


coloro che sono stati chiamati al ministero apostolico e pastorale? Deve essere loro at-
tribuita o, al contrario, negata la qualifica sacerdotale? Da un primo punto di vista, è
chiarissimo che deve essere loro attribuita: come credenti, che aderiscono a Cristo e
accettano di essere coinvolti nel movimento della sua offerta, i ministri della Chiesa
fanno evidentemente parte dell’organismo sacerdotale formato dall’insieme dei cristia-
ni. Anch’essi, come tutti i loro fratelli nella fede, sono chiamati a «offrire sacrifici spiri-
tuali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2, 5), a «elevare incessantemente a Dio,
per mezzo di Cristo, un sacrificio di lode» (Ebr 13, 15) e «a non dimenticarsi della bene-
ficenza e di far parte dei beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace»
(Ebr 13, 16). Bisogna che «presentino se stessi a Dio in sacrificio vivente e santo che sia
a lui gradito» (Rm 12, 1) e compiano così il culto cristiano esistenziale, che consiste
nella trasformazione della vita intera per mezzo della carità di Dio. Ma la questione
che si pone è più esattamente la seguente: oltre questa qualifica sacerdotale comune a
tutti, bisogna riconoscere ai ministri della Chiesa una qualifica sacerdotale particola-
re? La risposta che scaturisce dai testi studiati è duplice: si è potuto costatare, da una
parte, che nessun testo del NT dà agli apostoli, né ad altri ministri della Chiesa, un
esplicito titolo sacerdotale, ma che, d’altra parte, lo sviluppo dottrinale riscontrabile
all’interno del NT mette chiaramente sulla via della comprensione sacerdotale del mi-
nistero. L’assenza di titolo sacerdotale manifesta sicuramente che in origine i ministeri
cristiani non sono stati compresi come una continuazione del sacerdozio antico. Il pri-
mo aspetto percepito è stato quello della differenza, e questo aspetto non deve mai esse-
re negato, né perduto di vista. D’altra parte non manca di significato il fatto che
l’interesse portato più tardi al compimento del sacerdozio non ha avuto come conse-
guenza immediata l’adozione di titoli sacerdotali per i ministeri, ma anzitutto lo svilup-
po di una cristologia sacerdotale [Ebr] e l’abbozzo di un’ecclesiologia sacerdotale
[1Pt]. Rivela un cambiamento profondo nel modo di intendere il culto e il sacerdozio:
invece di mettere in primo piano l’espressione rituale, ci si è fatti attenti, prima di tutto,
alle realizzazioni esistenziali. Il sacerdozio di Cristo non si è attuato in una cerimonia,
ma in un evento, l’offerta della sua stessa vita. Il sacerdozio della Chiesa non consiste
nel celebrare cerimonie, ma nel trasformare l’esistenza reale aprendola all’azione dello
Spirito Santo e agli impulsi della carità divina. Da questo punto di vista, specificamente
cristiano, i ministri ordinati sono al servizio del sacerdozio comune e non viceversa.
Ciò detto ci si deve ricordare di una distinzione, che compare nel NT, fra due aspetti
del sacerdozio di Cristo: l’aspetto di offerta esistenziale e l’aspetto di mediazione. Cri-
sto ha offerto se stesso, ha messo cioè tutta la sua esistenza di uomo a disposizione di
Dio per la salvezza dei suoi fratelli: aspetto di offerta. Attraverso questo sacrificio di se
stesso, ha realizzato nella sua persona la perfetta alleanza tra l’uomo e Dio, in modo
che per lui e in lui tutti gli esseri umani possano vivere in intima relazione con Dio:
aspetto di mediazione. L’ASPETTO DI OFFERTA si ritrova nel sacerdozio di tutti i cristiani,
che sono invitati ad avvicinarsi a Dio con piena sicurezza, e a offrire i loro sacrifici,
cioè, ripetiamolo, ad aprire all’azione trasformatrice di Dio la loro esistenza personale

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e sociale. L’ASPETTO DELLA MEDIAZIONE, nel senso forte che è stato appena indicato, ap-
partiene esclusivamente a Cristo: «Uno solo infatti è il mediatore fra Dio e gli uomini,
l’uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (Ebr 13, 7.17). La possibi-
lità per i cristiani di aprire la loro esistenza a Dio non esiste senza la mediazione sa-
cerdotale di Cristo, ma resta legata a questa mediazione. Se, tenendo presente questa
distinzione, si considerano i testi del NT che esprimono le caratteristiche del ministero
apostolico o pastorale cristiano, si costata che questi testi presentano i ministri della
Chiesa come strumenti viventi di Cristo mediatore e non come delegati del popolo sa-
cerdotale... Finché la dottrina del sacerdozio di Cristo non era stata elaborata... non si
poteva pensare di attribuire ai ministeri cristiani una qualifica sacerdotale, perché ciò
li avrebbe equiparati al sacerdozio antico, da cui essi differivano radicalmente. Ma una
volta effettuato questo sviluppo dottrinale, si manifesta il loro rapporto con il nuovo sa-
cerdozio, e anche in formule che non erano specificamente sacerdotali. Paolo, per
esempio, definisce il ministro apostolico come una capacità di origine divina e non
umana, che fa degli apostoli i «ministri della nuova alleanza» (2Co 3, 6). In se stessa,
questa formula non aveva nulla di sacerdotale, ma dopo che l’epistola agli Ebrei aveva
dimostrato che per Cristo il sacerdozio era consistito nel divenire, santificando se stes-
so, «mediatore di una nuova alleanza», la frase di Paolo prendeva necessariamente il
senso di una partecipazione al sacerdozio di Cristo... Questi testi e altri rivelano che il
ministero apostolico e pastorale cristiano ha per funzione specifica di manifestare (e
realizzare – aggiungo io) la presenza attiva del Cristo mediatore, in altre parole: di
Cristo sacerdote nella vita dei credenti, affinché questi possano accogliere esplicita-
mente tale mediazione e trasformare grazie a essa tutta la loro esistenza. Questo mini-
stero..., confrontato con il sacerdozio comune, può essere detto più specificamente sa-
cerdotale, perché la mediazione del Cristo si rende presente per mezzo suo, e perché
l’elemento più specifico del sacerdozio è l’esercizio della mediazione fra Dio e gli uo-
mini. Ma, d’altra parte, si può ritenere che sia meno realmente sacerdotale, perché non
realizza da se stesso la mediazione, mentre il sacerdozio comune è trasformazione reale
dell’esistenza. Non si tratta tuttavia del medesimo aspetto del sacerdozio nei due casi: il
sacerdozio comune è «offerta» personale, il ministero pastorale è manifestazione tangi-
bile della «mediazione» sacerdotale di Cristo..."19.

4. Rilievi conclusivi

La considerazione dei temi del sacrificio, dell’altare, del tempio e del sacerdozio
nell’ambito del NT conferma e approfondisce la tendenza già riscontrata nello studio del
vocabolario cultuale generale. Il culto nuovo, vero e autentico, quello che Dio gradisce,
è il «culto spirituale» (Rm 12, 1 - Gv 4, 23), ossia l’intera esistenza credente vissuta
nell’obbedienza alla sua volontà e nel canto della sua lode. Esso trova la sua forma per-
fetta e paradigmatica nella dedizione / consacrazione totale di Gesù Cristo all’opera per
la quale il Padre lo ha inviato fino al «sacrificio cruento della croce». Esso viene parte-
cipato alla Chiesa, popolo dell’alleanza nuova originato dalla Pasqua, grazie alla possi-
bilità istituita da Cristo stesso di «celebrare la memoria» di quella Pasqua, «finché egli
venga».
Le forme rito-cultuali propriamente cristiane (battesimo frazione del pane, unzione
degli infermi, domenica, ecc...) non sono dunque da contrapporre al «culto spirituale»,

19
VANHOYE ALBERT, o. c., pp. 240-243.

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quasi fossero ancora nella linea del culto levitico-templare, ma ne costituiscono la ga-
ranzia e il fondamento. Attuando nella Chiesa la memoria efficace della Pasqua del Si-
gnore, ciascuna di esse, secondo la propria specifica ragion d’essere, rende infatti possi-
bile una sempre più piena configurazione a Gesù Cristo e una sempre più perfetta parte-
cipazione al culto che egli eleva incessantemente nello Spirito Santo alla gloria del Pa-
dre. Per stare ai due esempi più macroscopici:
a) Il rito del battesimo si giustifica, negli scritti paolini (Rm 6, 3-7), come partecipa-
zione «sacramentale» [(én) omoiòmati v. 5] alla morte del Signore, per risorgere con lui
alla libertà dalla morte e dalla legge. Esso è dunque «memoriale» del sacrificio che ci ha
redento, mediante il quale avviene la rinascita dell’uomo alla figliolanza divina. Tale
azione rito-cultuale soppianta definitivamente la circoncisione del corpo, ma non più
con un sigillo esteriore e visibile, bensì con il sigillo tutto interiore dello Spirito Santo
(cf Gv 3, 5). Per questo la visibilità del gesto rituale (il bagno battesimale) prende a pre-
stito i suoi elementi dalle forme di culto più spiritualizzate del giudaismo, quali il rito
d’accoglienza dei proseliti, le pratiche lustrali degli Esseni o dei discepoli di Giovanni,
ricentrandole in chiave cristologica e trinitaria: battesimo «nel nome di Gesù» (At 2, 38;
10, 48); battesimo «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19);
battesimo «nello Spirito Santo» (1Cor 12, 13).
b) Il rito della frazione del pane si giustifica come «comunione» con il corpo e con il
sangue di Gesù (1Cor 10, 16), ossia come comunione con la realtà integrale e personale,
divina e umana, del Cristo morto e risorto, realtà che si rende disponibile alla Chiesa nel
«pane spezzato» e nel «calice benedetto» (questo è il mio corpo che è dato per voi -
questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue). Da questa comunione di tutti alla
realtà personale di Cristo scaturisce la realtà della comunione fraterna, che identifica i
discepoli del Signore come suo corpo ecclesiale. Tale azione rito-cultuale soppianta de-
finitivamente l’offerta di sacrifici cruenti di animali mediante il «sacrificio della lode»
(la preghiera di azione di grazie per la quale si compie il memoriale «sacramentale» del
sacrificio pasquale). Per questo la visibilità del gesto rituale (la cena) prende a prestito i
suoi elementi dal culto familiare giudaico (cena pasquale settimanale e annuale) e dal
culto sinagogale del sabato (liturgia della parola), ricentrandoli in chiave cristologica e
trinitaria20.

20
In questa linea è interessante confrontare le prime presunte formule liturgiche di rendimento di gra-
zie cristiano (Didaché, nn. 9-10) con le preghiere di benedizioni giudaiche durante e dopo i pasti.
Per un facile reperimento dei testi: DELLA TORRE LUIGI, Pregare l’eucaristia. Preghiere eucaristi-
che di ieri e di oggi per la catechesi e l’orazione, Queriniana, Brescia 1982, pp. 40-41. 47-49.

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CAPITOLO III

LA LITURGIA ALL’EPOCA DEI PADRI


(SECC. II-VII)

Distinguiamo il periodo che precede l’epoca costantiniana (Costantino è imperatore


dal 306 al 337 d. C.) da quello che la segue. Con il 313 (editto di tolleranza) e con il 321
(riconoscimento della domenica come giorno festivo per l’impero) cambiano i rapporti
tra la «nuova» religione cristiana, il potere politico imperiale e la società civile romana
con conseguenze di grande rilievo anche in campo liturgico.
Il primo periodo sarà trattato in modo piuttosto sommario; al secondo dedicheremo
invece maggiore attenzione, perché è il periodo in cui la liturgia ha elaborato i criteri
teorici e le scelte pratiche che le hanno dato una forma compiuta.
Quando nel secondo millennio la Chiesa latina periodicamente metterà mano a una
riforma della liturgia (sec. XI: papa Gregorio VII; sec. XVI: Concilio di Trento; sec.
XX: Concilio Vaticano II), sempre l’intento dichiarato sarà quello di tornare all’antica
norma dei santi Padri (pristina norma sanctorum patrum).

I. LA LITURGIA CRISTIANA AL TEMPO DELLE PERSECUZIONI (SECC. II-III)

Alcune fonti indirette di questi secoli (le Lettere di sant’Ignazio di Antiochia – la


Didachè degli apostoli – la Prima apologia di san Giustino – la Tradizione apostolica
di sant’Ippolito) ci testimoniano l’emergere di una prima volontà ordinatrice del culto
cristiano, incentrata sul concetto di traditio apostolica: “Ora, mossi da spirito di carità
verso tutti i santi, siamo giunti a esporre l’essenza della tradizione su cui la Chiesa de-
ve poggiare, affinché quanti saranno ben istruiti sulla tradizione finora conservata, se-
guendo la nostra esposizione, la mantengano in vita, siano resi più sicuri dalla sua co-
noscenza ed evitino l’errore in cui si è caduti di recente per ignoranza e per colpa degli
ignoranti”1.
Di fronte all’insorgere delle prime eresie, soprattutto di carattere gnostico, e ad al-
cuni atteggiamenti cultuali distorti si inizia a percepire l’ambito liturgico - cultuale co-
me un luogo ‘strategico’ per fare esperienza dell’autentica fede ecclesiale. Non si tratta
dunque di fissare in modo rigido un ordinamento liturgico o i testi della preghiera litur-
gica, ma di custodire nella celebrazione liturgica l’ortodossia della fede ivi implicata.

La data della Pasqua

Un segno di questa volontà ordinatrice è il dibattito sulla data della Pasqua tra i co-
siddetti «quartodecìmani» (prevalenti in Oriente) e i cosidetti «domenicali» (prevalenti
in Occidente e segnatamente a Roma).

1
La Tradition apostolique de saint Hippolyte. Essai de reconstitution, a cura di BOTTE BERNARD =
Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen 39, Aschendorff, Münster 41972, p. 3 (in italia-
no: La tradizione apostolica, a cura di RACHELE T ATEO = Letture Cristiane delle Origini 2, Paoline,
Roma 21979, pp. 57-58).

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La data della Pasqua cristiana - il 14 nisan, in continuità con il calendario ebraico,


o la domenica successiva il 14 nisan, secondo la cronologia evangelica della risurrezio-
ne - non era un mero dato calendariale, ma implicava la questione del senso teologico
della solennità, allora unica festa annuale cristiana accanto al ciclo ebdomadario della
domenica.
L’accordo fu raggiunto solo al Concilio di Nicea (325) e consacrò per tutta la Chie-
sa l’orientamento domenicale: la Pasqua doveva essere celebrata in tutto il mondo cri-
stiano la domenica successiva al plenilunio di primavera, ossia la prima domenica dopo
la luna piena successiva all’equinozio di primavera.
Ecco le parole dei 318 padri conciliari in una lettera alle Chiese d’Egitto: “Vi dia-
mo il lieto annuncio dell’unità che è stata ristabilita intorno alla festa di Pasqua. Tutti i
fratelli dell’oriente, che prima celebravano la pasqua con gli ebrei, d’ora in poi la ce-
lebreranno con i romani, con noi e con tutti gli altri che l’hanno sempre celebrata con
noi”2.

Ministeri e arte figurativa

Insieme a ragioni di carattere dottrinale lo sviluppo dell’ordinamento liturgico ap-


pare legato anche a ragioni di carattere pastorale, in particolare alla situazione di cre-
scente espansione delle comunità cristiane.
Si veda lo svilupparsi, accanto al ministero episcopale, presbiterale e diaconale di
altri ministeri quali il suddiaconato, l’accolitato, l’esorcistato, il lettorato e l’ostiariato.
Si veda anche lo sviluppo dell’arte figurativa come sussidio didattico al celebrare cri-
stiano, le cui prime testimonianze archeologicamente reperibili risalgono al sec. III3.

I luoghi di culto

Gli Atti degli Apostoli e gli scritti dei primi due secoli ci parlano di assemblee do-
mestiche nella casa di qualche cristiano più abbiente e dunque più capace di ospitare la
comunità.
La prima testimonianza, archeologicamente documentabile, di un luogo destinato
stabilmente al culto cristiano sembra essere quella di Dura Euròpos, antica città della Si-
ria sull’Eufrate (edificio risalente all’anno 232/233). Si tratta di una casa architettoni-
camente non dissimile dagli edifici civili, ma con locali adatti ad accogliere
un’assemblea riunita (aula eucaristica, spazio battesimale, ecc...). Gli studiosi tendono a
chiamare questa testimonianza, e altre successive, col nome di «casa di chiesa» (domus
ecclesiae), luogo domestico di celebrazione assembleare, dove la comunità cristiana, fa-
cendo la memoria eucaristica della Pasqua, si sperimenta Chiesa viva, tempio santo di
Dio, adunata dal suo capo e salvatore Gesù Cristo.
Non c’è traccia di altare fisso. Questo dato può essere interpretato come segno che
non è ancora maturata l’esigenza, che incontreremo successivamente, di dire struttural-

2
Lettera sinodale del Concilio di Nicea alle Chiese d’Egitto, in Conciliorum oecumenicorum decre-
ta, a cura di ALBERIGO GIUSEPPE, Dehoniane, Bologna 1991, p. 19. Per un’informazione più detta-
gliata al riguardo si veda: CANTALAMESSA RANIERO, La Pasqua nella Chiesa antica, Sei, Torino
1978. Più divulgativo: CANTALAMESSA RANIERO, Il mistero pasquale, Ancora, Milano 1985.
3
Un’eccellente approccio alla questione del sorgere dell’iconografia cristiana anche in rapporto alla
liturgia è il volume di GRABAR ANDRÉ, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e
Medioevo, Jaca Book, Milano 1983.

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mente e architettonicamente (cioè simbolicamente), l’affermazione teologica che la pie-


tra angolare e il fondamento solido della Chiesa, è Cristo, vero e unico altare del nuovo
sacrificio.
Tutto è ancora vissuto con un forte accento di carattere spirituale e gli elementi
esterni del culto sono – o almeno sembrano esserlo, dalle poche testimonianze a nostra
disposizione – piuttosto funzionali che simbolici.

La lingua liturgica

Quale lingua nella vita liturgica di questi secoli? La domanda lascia ampio spazio
a risposte più ipotetiche che realmente provate, in quanto la documentazione liturgica
diretta è molto scarsa. Possiamo soffermarci sul fenomeno più generale del passaggio
dalla koinè greca alla lingua latina, e che sicuramente ha investito anche il campo litur-
gico.
Il messaggio cristiano fu annunciato originariamente nella koinè greca. Paolo scri-
veva in greco anche a Roma, oltre che a Corinto. Il martire Giustino, attorno alla metà
del sec. II, scrive in greco all’imperatore romano. Ippolito di Roma (primi decenni del
sec. III) scrive in greco la sua Traditio Apostolica.
È però da rilevare che, sotto la spinta delle esigenze di comprensione delle classi
popolari che più di altre avevano aderito al cristianesimo, dalla metà del sec. II nelle
chiese d’Occidente si fa strada un uso sempre più ampio della lingua latina. In Africa,
per esempio, Tertulliano (155 - 220) plasma la lingua latina in funzione del messaggio
cristiano, divenendo così uno dei punti di riferimento fondamentali per il vocabolario la-
tino cristiano. A Roma con la metà del sec. III il latino risulta la lingua ufficiale della
Chiesa romana (cf le lettere dei papi e l’opera teologica di Novaziano del 250ca).
A quest’epoca la lingua latina era già anche lingua liturgica? Una risposta precisa
non è data con certezza dalla documentazione che noi possediamo. Senza fare afferma-
zioni troppo nette possiamo dire che dalla seconda metà del sec. III sino agli ultimi de-
cenni del sec. IV la situazione della lingua nella liturgia romana è probabilmente quella
di un bilinguismo latino - greco. Forse la prima parte della liturgia, il momento della
proclamazione / ascolto della parola, ha conosciuto un più rapido accesso al latino (cf le
testimonianze di traduzioni latine della Bibbia già dal sec. II, la cosiddetta vetus latina),
mentre la seconda parte, e soprattutto la preghiera eucaristica, fu conservata in greco
ancora fino agli ultimi decenni del sec. IV.

In sintesi

Dobbiamo riconoscere che il quadro complessivo della liturgia di questi primi se-
coli rimane alquanto mosso. Emerge un complesso di elementi (riti, preghiere, feste,
ministeri, luoghi di culto) che ci parlano di una ricca prassi liturgica, fedele alle origini
neotestamentarie, ma in fase di più organica strutturazione.
Oltre alla fractio panis, ormai universalmente denominata eucharistia, risultano
abbastanza ben delineate le celebrazioni dell’iniziazione cristiana, i riti di «ordinazione»
dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi, cui si aggiungono i riti che accompagnano le
istituzioni di altri ministeri di grado inferiore, e la celebrazione comunitaria della pre-
ghiera per santificare alcune ore della giornata.
Appare una riflessione teologica di grande rilevanza che percepisce il momento
cultuale come luogo per eccellenza in cui si manifesta il mistero della Chiesa una - santa
- cattolica - apostolica e come capitolo rilevante del suo cammino e della sua azione pa-

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storale. Anche le difficoltà di ordine esterno (situazioni di minoranza in rischio costante


di persecuzione) fanno dell’assemblea liturgica, presieduta dal vescovo, il momento che
dà coesione all’intera vita cristiana, vissuto quindi con un forte afflato partecipativo.
Nella strutturazione più propriamente celebrativa è possibile riscontrare un duplice
influsso: 1) Esterno - culturale, per cui l’ambiente / cultura in mezzo a cui la comunità
vive connota la forma della preghiera e della ritualità con tratti specifici da regione a re-
gione; 2) Interno - pastorale: l’approfondimento della fede - le controversie dottrinali -
le figure illuminate dei pastori generano accentuazioni liturgiche peculiari. La questione
della lingua riguarda ovviamente sia il rapporto con il mondo / ambiente circostante sia
la vita interna delle comunità4.

II. LA LITURGIA CRISTIANA NELLA GRANDE PATRISTICA (SECC. IV-VII)

Sotto il profilo della prassi liturgica e della sua comprensione credente questi seco-
li appaiono la fucina dell’intero complesso liturgico, sia orientale che occidentale, e la
recente riforma liturgica, pur operando alla luce delle acquisizione liturgiche dell’intera
tradizione cristiana, riserverà un’attenzione privilegiata proprio a quest’epoca5.
Per fissare orientativamente dei limiti cronologici ci riferiamo al periodo storico
che va dal 313 d. C. (editto di tolleranza degli imperatori Constantino e Licinio) al papa-
to di san Gregorio Magno (590-604).

1. L’incidenza della svolta costantiniana

Un primo elemento da considerare con attenzione è la nuova situazione socio-


religiosa venutasi a creare con l’editto di tolleranza del 313 e con i successivi interventi
imperiali in favore della religione cristiana. Essa influirà fortemente sull’intera organiz-
zazione cultuale cristiana.

1.1. Culto cristiano a dimensione pubblica

Ecco in sintesi le novità che caratterizzano la nuova legislazione statale romana in


materia religiosa voluta da Costantino:

1) Libertà di culto individuale pubblico, con il diritto, da parte di una comunità locale,
di possedere i luoghi a esso destinati. Ne consegue che le Chiese locali sono riconosciu-
te soggetti di diritto.

2) Riconoscimento anche civile dello stato clericale in vista di un migliore esercizio


del ministero sacerdotale: in concreto, il clero (vescovi - presbiteri - diaconi) viene eso-
nerato dagli oneri municipali e militari. Se questo agevola l’esercizio del compito sacer-

4
A titolo esemplificativo si può leggere SAXER VICTOIRE, Vie liturgique et quotidienne à Carthage
vers le milieu du III siècle, Libreria Editrice Vaticana, Roma-Città del Vaticano 1969.
5
Anche alcune storie della liturgia danno ampio sviluppo alla conoscenza di quest’epoca per poi pro-
cedere in modo più veloce sulle altre tappe storiche. Un esempio per tutti: METZGER MARCEL, Sto-
ria della liturgia. Le grandi tappe, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, pp. 224.

39
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dotale, rischia però di reintrodurre l’idea di una nuova casta sacerdotale, cristiana invece
che pagana.

3) Organizzazione del tempo secondo il ciclo ebdomadario scandito dalla domenica. Il


giorno festivo cristiano è imposto come giorno festivo per tutto l’impero romano; il ca-
lendario civile incomincia a saldarsi con quello religioso cristiano.

Queste nuove disposizioni imperiali, date nell’ottica di un raccordo tra la struttura


statale e quella ecclesiastica, e culminanti nel 380 con l’editto di Teodosio che impone-
va a tutti i sudditi dell’impero quale norma religiosa il «simbolo» di Nicea, portarono il
culto cristiano a doversi organizzare in modo pubblico.
Le celebrazioni cristiane (iniziazione cristiana - eucaristia - ordinazioni - preghiera
di lode - penitenza e riconciliazione pubblica, ecc. ..) non sono più soltanto un fatto in-
tra-ecclesiale, espressione di una comunità fortemente coesa al suo interno, ma diventa-
no pure un fatto esterno, sociale, istituzionale, che interagisce con la vita dell’impero.
In questa nuova espansione del culto cristiano a dimensione pubblica la Chiesa non
visse solo un’ineluttabile necessità storica, ma ne fece l’occasione per mostrare a tutti la
falsità delle accuse precedenti e la ricchezza e la superiorità del culto cristiano rispetto
al culto pagano.
Nel dare corpo a un culto cristiano a dimensione pubblica la Chiesa dei Padri si
trovò a doversi confrontare più direttamente con la cultura pagana e con le sue tradizio-
ni, sia civili che religiose, le quali continuavano a sussistere presso larghi strati della
popolazione e costituivano il retaggio culturale delle persone colte e delle masse che si
aprivano al cristianesimo.
Tale confronto avrà come esito la progressiva «cristianizzazione del mondo paga-
no» (abbandono dei templi pagani e dei riti pagani - sostituzione di feste pagane con un
calendario cristiano - celebrazione dei «santi cristiani» al posto degli eroi pagani, ecc...),
ma porterà pure a una significativa immissione di elementi provenienti dalla cultura e
dalle tradizioni pagane nel culto cristiano.
Seguendo l’interpretazione dello Jungmann6, possiamo riconoscere due principali
modi con cui il mondo pagano ha ‘influenzato’ il culto cristiano a dimensione pubblica.
Da un lato, la strutturazione rituale, che doveva manifestare la nuova societas cri-
stiana, ha assunto quelle istituzioni civili dell’impero, che erano più disponibili alla
reinterpretazione cristiana e meno compromesse dal punto di vista religioso. È il mondo
pagano civile, più che quello religioso a suggerire alcune soluzioni pratiche ai nuovi
problemi della liturgia in facie imperii (al cospetto dell’impero). A mo’ di esempio pos-
siamo ricordare: - La basilica, luogo per eccellenza del culto cristiano in epoca patristi-
ca, ha la sua origine nella basilica romana, luogo di scambi, centro della vita pubblica
della città7; - il cerimoniale (vesti - segni di venerazione - uso dell’incenso), che sta in-
torno al mistero celebrato e arricchisce il momento propriamente sacramentale e origi-
nario del culto cristiano, viene più dal rituale civile della corte imperiale, che dal rituale
del culto ufficiale pagano; - il cursus della preghiera litanica sarà assunto dallo stile del

6
JUNGMANN JOSEF, La liturgie des prémiers siècle jusqu’à l’èpoque de Grègoire le Grand = Lex
Orandi 33, Du Cerf, Paris 1962, pp. 191-269.
7
Per una puntualizzazione recente dei dati: DUVAL NÖEL, L’espace liturgique dans les églises
paléochrétiennes «La Maison-Dieu» n. 193 (1993) pp. 7-29. Per l’intera questione dell’ architettura
per la liturgia in quest’epoca e successivamente cf GATTI VINCENZO, Liturgia e arte. I luoghi della
celebrazione, Dehoniane, Bologna 2001, pp. 236 (basilica, pp. 72-78).

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latino dei retori e dei grammatici, piuttosto che dallo stile enigmatico delle formule cul-
tuali pagane (oracoli; pronostici degli aruspici; inni alle divinità; ecc...); - certe date del
calendario cristiano sono chiaramente in relazione con quelle del calendario pagano in
modo da risultare a esse sostitutive.
Dall’altro, la Chiesa, pur contrapponendosi con decisione ai «culti misterici» - i
cinque fondamentali sono: i misteri dionisiaci o bacchici, i misteri di Eleusi, i misteri di
Cibele o della Grande Madre, i misteri di Iside e i misteri di Mitra8 -, che riscossero
grande favore in tutto l’impero romano nei secc. I-IV della nostra era, adottò, per usare
l’espressione del Burkert, la «metafora misterica» (i concetti di «mistero», «disciplina
dell’arcano», «iniziazione - iniziato», «mistagogo-mistagogia», ecc...) per descrivere il
complesso processo d’introduzione alla vita cristiana, specialmente nella sua parte rela-
tiva alla dimensione liturgico - sacramentale9.
Un giudizio globale sul rapporto che si è venuto a creare tra mondo pagano e culto
cristiano dopo il 313 può essere formulato in due momenti: 1) Sul versante statale
l’ottica appare quella di sostituire un culto ufficiale a un altro, conservando
quell’intrinseca relazione del religioso al civile, che era l’eredità del culto ufficiale pa-
gano; 2) sul versante ecclesiale l’assunzione di modelli pagani nell’ambito del culto cri-
stiano avviene, normalmente, con un forte senso critico e con un attento vaglio dei dati
da accogliere o da rifiutare.
Presso i Padri della Chiesa di questi secoli si conserva una forte e chiara consape-
volezza dell’originalità del culto cristiano, già nei confronti del culto antico-
testamentario, ma ancor più nei confronti del sistema cultuale pagano. La preferenza ac-
cordata nel culto cristiano a elementi pagani di carattere civile (basilica - cerimoniale di
corte - lingua e stile della scuola - calendario civile) risulta in quest’ottica molto signifi-
cativa10.

1.2. Cambio di prospettiva dell’azione pastorale della Chiesa

Se il periodo precedente (secc. II- III) appare caratterizzato da una condizione di


Chiesa di minoranza, a forte coesione interna e fortemente motivata dal punto di vista
sia morale, sia liturgico, sia comunitario, l’epoca costantiniana dà il via a quel processo
che porterà la Chiesa ad agire in un regime di cristianità costituita e riconosciuta. È ov-
vio che in questo mutamento complessivo delle condizioni storiche anche l’azione pa-
storale della Chiesa subirà un significativo cambiamento. Da azione a forte contenuto
missionario essa tenderà a trasformarsi in azione a contenuto prevalentemente educativo
- pedagogico verso coloro che a diverso titolo (catecumeni - battezzati - penitenti) fanno
già parte, almeno in modo incipiente, della cristianità. Alcuni sviluppi liturgici di questi
secoli appaiono motivati proprio da queste nuove esigenze di carattere pastorale:
8
Per una prima informazione: BURKERT WALTER, Antichi culti misterici, Laterza, Bari 1989, pp. 193.
9
Cf JUNGMANN JOSEF, o. c., pp. 235-252. Si veda anche CASEL ODO, Il mistero del culto cristiano,
Borla, Roma 1966, pp. 90-107 [III. Misteri antichi e misteri cristiani] e RUFFINI ELISEO-LODI ENZO,
«Mysterion» e «Sacramentum». La sacramentalità negli scritti dei Padri e nei testi liturgici primiti-
vi, Dehoniane, Bologna 1987, pp. 318.
10
In quest’epoca «i rischi» più seri per la vitalità del culto cristiano sembrano venire dall’indulgenza
per un certo trionfalismo esteriore e da una certa enfatizzazione della ministerialità ordinata
all’interno del culto cristiano, che insinua nella dottrina e nella pratica liturgica cristiana l’idea pa-
gana o, se si vuole, veterotestamentaria, di un gruppo di persone (i sacerdotes) cui compete in modo
rappresentativo ed esclusivo il culto della Chiesa.

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- L’istituto degli scrutini quaresimali: si struttura in funzione di una più seria prepa-
razione alla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana per coloro che, iscritti
da tempo al catecumenato, non avevano ancora assunto con decisione gli impegni che
esso comportava e anzi tendevano a dilazionare la stessa recezione del battesimo.
- L’anno liturgico: si sviluppa come una «programmazione ecclesiale di mistago-
11
gia» , affinchè la successione ordinata e serrata dei tempi e delle feste potesse condurre
i cristiani adulti a una progressiva assimilazione di quel mistero di Cristo celebrato nelle
azioni sacramentali della Chiesa e, specialmente, nella celebrazione eucaristica.
Fino all’inizio del sec. IV è attestato solo il ciclo delle domeniche e la Pasqua an-
nuale, seguita da 50 giorni di gioia e di letizia (la «pentecoste»), celebrati in modo uni-
tario come un unico giorno. A partire dal sec. IV abbiamo invece testimoniato lo svi-
luppo di un ciclo natalizio - epifanico, lo strutturarsi della quaresima come itinerario
battesimale e penitenziale alla Pasqua, il determinarsi delle due feste dell’Ascensione e
della Pentecoste nel tempo dei 50 giorni di Pasqua; l’instaurarsi di un tempo di Avvento
che precede le solennità del Natale e dell’Epifania (nel corso dei secc. V-VI, e a partire
dalle regioni della Gallia e della Spagna); la prima festa mariana, la festa della Divina
Maternità di Maria (in greco festa della Theotòkos; in latino festa della Deìpara) a se-
guito della presa di posizione dogmatica del Concilio di Efeso del 43112; la solennizza-
zione delle feste dei martiri e degli apostoli.
- L’istituto penitenziale quaresimale: accompagnava i cristiani peccatori nell’ultimo
tratto dell’esercizio pubblico della penitenza, che si concludeva con il rito solenne della
riconciliazione il mercoledì o il giovedì santo mattina [cf la testimonianza del Sacra-
mentario Gelasiano (ms. del 750 ca. con materiale molto più antico) per la Chiesa di
Roma; e quella della Didascalia Apostolorum, raccolta siriaca di legislazione ecclesia-
stica della fine del sec. IV].
- L’organizzazione del lezionario annuale in relazione allo sviluppo dell’anni circu-
lus (circolo dell’anno) degli scrutini quaresimali e dell’istituto penitenziale: ogni cele-
brazione sacramentale (eucaristica in specie) prevedeva prima una parte didattica di let-
ture bibliche tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Al suo vertice stava la lectio
evangelica, seguita dall’omelia e dalla preghiera universale.
- La fissazione di tempi precisi (horae) nel corso della giornata: in esse la comunità
dei fedeli insieme ai monaci (e alle monache), ai diaconi, ai presbiteri, e presieduta dal
suo vescovo, si ritrovava per una preghiera soprattutto salmica.
- Il definitivo passaggio per l’occidente (liturgia romana e liturgie non romane) alla
lingua latina. La cosa si compie, probabilmente, sotto il pontificato di papa Damaso
(366-384). In oriente continua, invece, il pluralismo linguistico (liturgia in siriaco, in
armeno, in greco, in aramaico, ecc...).
- L’accoglienza delle diverse arti nella vita cultuale cristiana: 1) il canto vocale13:
toni per la preghiera salmica; inni (in Occidente si parlerà di «ambrosiani», in riferimen-

11
Riprendo qui la bella definizione di PINELL J., L’anno liturgico programmazione ecclesiale di mi-
stagogia, «Ho Theologos» 2 (1975) pp. 9-28.
12
“Perciò i santi Padri non dubitarono di chiamare Madre di Dio la santa Vergine, non certo perché
la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, perché nacque
da lei il santo corpo dotato di anima razionale, a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il
Verbo è nato secondo la carne” (DS, n. 251).
13
Si veda lo studio della CORBIN SOLANGE, La musica cristiana dalle origini al gregoriano, Jaca
Book, Milano 1987, pp. 246.

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to all’opera compositiva di s. Ambrogio, considerato padre dell’innodia latina); lo jubi-


lus o «alleluia»; la regola d’oro del canto liturgico, riassunta da s. Girolamo nell’effato:
“Così canti il servo di Cristo, che non la voce di chi canta, ma le parola cantate piac-
ciano”; 2) l’arte musiva nelle basiliche con funzione teologico - didascalica; 3) l’arte
scultorea sui sarcofaghi e ancora nelle basiliche; 4) l’architettura: basiliche - battisteri -
cappelle funerarie sul luogo del culto dei martiri; 5) gli arredi sacri, le vesti e le suppel-
lettili, che vengono ad arricchire il contesto celebrativo dei riti cristiani e ne accrescono
lo splendore.

2. Il dogma alla prova della liturgia

Nella storia della Chiesa i secc. IV-V non furono segnati soltanto dal trionfo del
cristianesimo e dall’afflusso delle masse pagane nella compagine ecclesiale, così da ri-
chiedere un’azione nuova di carattere pastorale e cultuale.
Un altro aspetto caratteristico di questi due secoli, che ebbe un forte impatto sulla
stessa liturgia, fu la celebrazione dei concili ecumenici che riaffermarono e chiarirono la
«regola della fede». La cristologia, la pneumatologia, la mariologia, l’antropologia (in
particolare la dottrina della grazia) si precisarono sotto l’urto delle controversie che
avevano scosso la Chiesa dalle fondamenta.
Ne fu interessata, di conseguenza, anche la liturgia nel suo complesso e la formula-
zione della preghiera liturgica in particolare: da un lato, e originariamente, ci si appellò
alla preghiera liturgica per comprovare le formulazioni dogmatiche, secondo l’effato ut
legem credendi lex statuat supplicandi (“affinché la legge della preghiera stabilisca la
legge della fede”); dall’altro, si diede sviluppo alla preghiera liturgica e alle feste litur-
giche perché la fede professata dalla Chiesa nelle formulazioni dogmatiche fosse cele-
brata coralmente da tutti i fedeli. È il caso, come esemplificheremo, della nuova dosso-
logia trinitaria, dell’introduzione nel calendario liturgico della prima festa mariana, della
festa dell’Epifania e del Natale.

2.1. Ut legem credendi lex statuat supplicandi

Questo assioma, spesso citato semplicemente come lex orandi, lex credendi, pro-
viene dal cap. 8 dell’Indiculus de gratia Dei (o semplicemente Indiculus), un testo anti-
pelagiano (cioè a favore della teologia agostiniana della grazia contro Pelagio) della
prima metà del sec. V e oggi concordemente attribuito a s. Prospero d’Aquitania (+
455).
L’esplicito riferimento alle testimonianze autorevoli dei romani pontefici e ad al-
cuni concili africani successivamente sanzionati dalla Sede apostolica, ne fa un docu-
mento di notevole autorità teologica, espressione esatta del punto di vista della Sede
romana.
Ecco il passaggio chiave: “Oltre a queste decisioni inviolabili della beatissima e
apostolica sede, con le quali i piissi Padri, rigettando l’orgoglio della pestifera novità
(= pelagianesimo e semi-pelagianesimo – nota mia), ci insegnarono ad attribuire alla
grazia di Cristo sia gli inizi di una buona volontà, sia i progressi dovuti a lodevoli sfor-
zi, e inoltre la perseveranza in questi sino alla fine, consideriamo anche i sacramenti
delle suppliche sacerdotali, i quali, trasmessi dagli Apostoli sono celebrati uniforme-
mente in tutto il mondo e in tutta la Chiesa cattolica, affinché la legge della preghiera
stabilisca la legge della fede (ut legem credendi lex statuat supplicandi). Quando infatti

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coloro che presiedono alle sante assemblee svolgono la missione loro affidata, essi pre-
sentano alla divina clemenza la causa del genere umano e, mentre tutta quanta la Chie-
sa geme con essi, chiedono e supplicano: - perché la fede sia data agli infedeli; - perché
gli idolatri siano liberati dagli errori della loro empietà; - perché ai giudei, tolto il velo
che copre il cuore, appaia la luce della verità; - perché gli eretici si pentano attraverso
l’accogliemento della fede cattolica; - perché gli scismatici ricevano lo spirito di una
carità rinnovata; - perché a coloro che sono caduti siano concessi i rimedi della peni-
tenza; - infine, perché ai catecumeni, guidati ai sacramenti della rigenerazione, sia
aperta la dimora della misericordia celeste. Che queste cose siano chieste al Signore
non solo a parole né in maniera vana, lo dimostra il risultato delle cose: infatti Dio si
degna di ritrarre molti da ogni sorta di errore e strappandoli al potere delle tenebre, li
trasferisce nel regno del Figlio del suo amore (cf Col 1, 13) e da vasi di ira ne fa vasi di
misericordia (cf Rm 9, 22-23). Che tutto ciò appartenga all’opera divina, lo si avverte
a tal punto che sempre l’azione di grazie e la confessione di lode vengono offerte a Dio
che fa queste cose con l’illuminazione e la correzione di tali persone”14.
Dopo aver enunciato la tesi sulla necessità della grazia, Prospero invita a conside-
rarne la fondatezza anche sulla base dei «sacramenti delle suppliche sacerdotali», ossia
dei riti e delle preghiere liturgiche. Ai semipelagiani, che subordinavano e proporziona-
vano il conferimento della grazia divina ai meriti dell’uomo, Prospero risponde con un
argomento a fortiori, argomentando cioè in rapporto alla posizione estrema della tesi
che intende avvalorare.

2.1.1. La frase nel suo contesto

Egli prende infatti in considerazione i progressi spirituali che avvengono non tanto
in coloro che già camminano spediti verso la santità, ma soprattutto in quelli che ancora
devono iniziare tale itinerario e nei quali, ovviamente, non può essere presupposta alcu-
na disposizione di merito.
Come rappresentanti di questa seconda categoria vengono elencati gli infedeli, gli
idolatri, i giudei, gli eretici, gli scismatici, i lapsi (= gli apostati sotto la pressione delle
persecuzioni) e i catecumeni. Il loro elenco è stabilito a partire dalle suppliche sacerdo-
tali, ossia dalle intenzioni della preghiera dei fedeli.
Di tali intenzioni tuttavia Prospero non dà una formulazione completa, ma si limita
a selezionare e a estrapolare da un canovaccio comune quelle che fanno al suo scopo (le
intenzioni relative ai «cattivi»), disinteressandosi delle altre (ossia delle intenzioni rela-
tive ai «buoni»). Tale scelta apre la strada alla sua conclusione a fortiori. Infatti, se Dio
già interviene in rapporto ai «cattivi», e che sono quindi lontano da lui, dando loro la
grazia necessaria perché possano fare il primo passo, a maggior ragione interverrà in
rapporto ai «buoni», i quali di fatto già si trovano nella sua normale sfera di azione,
dando loro la grazia necessaria perché possano ulteriormente progredire verso la santità.
Pur esprimendosi in maniera discorsiva, il ragionamento di Prospero procede con
estremo rigore, enunciando la tesi, argomentando in suo favore e riprendendola in fine,
a modo di conclusione. Cosicché – se vogliamo – lo possiamo esplicitare con una sorta
di sillogismo modale come segue:
premessa maggiore: la norma del pregare determina la norma del credere;

14
La traduzione è condotta sul testo riportato in DS 246. Il commento che segue è preso da GIRAUDO
CESARE, Eucaristia per la Chiesa. Prospettive teologiche sull’eucaristia a partire dalla «lex oran-
di» = Aloisiana 22, Roma-Brescia, 1989, pp. 14-26.

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premessa minore: ora noi preghiamo perché Dio conceda ai «cattivi» la grazia ne-
cessaria alla conversione, e molti si convertano;
conclusione: dunque dobbiamo credere che, ai «cattivi» che si convertono, Dio
concede la grazia necessaria alla conversione.

Soffermiamoci a considerare la premessa maggiore. Prospero invita a procedere al-


la determinazione della lex credendi (sulla quale non c’è unanimità tra ortodossi e semi-
pelagiani) attraverso la considerazione della lex supplicandi (sulla quale invece c’è una-
nimità, poiché tutti pregano allo stesso modo).
Qui l’autore, pur intendendo immediatamente un’affermazione puntuale e, in certo
senso, ristretta in rapporto alla problematica specifica, non l’enuncia in maniera limitata,
ma secondo la sua massima ampiezza, dal momento che la normatività particolare sog-
giace a una normatività universale.
Ora, se teniamo presente, da una parte, che la formulazione sospesa è un puro fatto
di compagine del discorso e, dall’altra, che la portata della proposizione nella mente di
Prospero è universale, non avremo difficoltà a svincolarla dalla primitiva dipendenza
sintattica per riconoscerle il valore di una proposizione universale autonoma. Così fa-
ranno le successive generazioni che, attratte dall’ampiezza della formulazione, le rico-
nosceranno la dignità di un vero e proprio assioma teologico.

2.1.2. I criteri per la sua corretta applicazione

Sorge invitabile una domanda: se la norma del pregare stabilisce la norma del cre-
dere, quali saranno i criteri perché si possa riconoscere in un testo liturgico la norma del
pregare, ossia la lex orandi? Evidentemente, non sarà sufficiente che un formulario ven-
ga utilizzato una o più volte, che una festa venga celebrata da qualche parte, perché si
possa parlare di lex orandi.
Per rispondere al quesito posto bisognerà considerare più attentamente i criteri che
soggiacciono all’argomentazione di Prospero. Il cap. 8 dell’Indiculus parla di preghiere
sacerdotali che, “trasmesse dagli Apostoli, sono celebrate uniformemente in tutto il
mondo e in tutta la Chiesa cattolica”. Si afferma poi che tali preghiere non sono segrete,
ma pubbliche e ufficiali, poiché fatte dai “presuli delle sante assemblee allorché svol-
gono il mandato loro affidato”. Si ricorda infine che esse non sono individuali, ma co-
munitarie, perché “tutta quanta la Chiesa geme con essi”.
Se volessimo trovare una formula sintetica, dovremmo applicare alla lex orandi il
criterio dato da Vincenzo di Lerins15 per il riconoscimento della retta fede. Nel suo
Commonitorium (letteralmente, Ammonimento contro l’errore) Vincenzo così espone la
regola per discernere la verità della fede cattolica dalla falsità della perversa eresia:
“Nella stessa Chiesa cattolica dobbiamo preoccuparci soprattutto di mantenere ciò che
fu creduto dovunque, sempre e da tutti (quod ubique, quod semper, quod ab omnibus
creditum est). Infatti, è veramente e propriamente cattolico ciò che, in base alla forza
stessa del nome e alla sua etimologia, abbraccia pressoché universalmente ogni cosa.
Ma questo avverrà solo se seguiremo l’universalità, l’antichità, l’unanime consenso.
Seguiremo l’universalità, se affermeremo che è vera solo quella fede che la Chiesa inte-
ra professa in tutto il mondo; l’antichità, se in nessun modo recederemo da quei senti-

15
Morì verso il 450. La tradizione lo venera come santo. Pur essendo ammiratore della teologia ago-
stiniana sulla Trinità e l’incarnazione, si oppose a Agostino (che in sede critica evita però di nomi-
nare) quanto alla dottrina della grazia. Di qui la qualifica di semipelagiano.

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menti che manifestamente furono quelli dei nostri santi antenati e padri; (seguiremo)
parimenti l’unanime consenso, se in rapporto a questa stessa antichità ci atterremo alle
definizioni e alle sentenze di tutti, o perlomeno quasi tutti, i sacerdoti e i maestri”16.
Volendo adattare alla lex supplicandi (orandi) il triplice criterio che Vincenzo for-
mula nei confronti della lex credendi, potremmo dire che la lex orandi si riconosce in
ciò che dovunque, sempre e da tutti fu oggetto della preghiera nella liturgia. Un testo li-
turgico, un gesto liturgico, una festa liturgica, ecc… è lex orandi, e come tale norma per
la fede, quando risponde ai criteri dell’universalità, dell’antichità (o tradizione apostoli-
ca) e dell’unanime consenso. E questo con il vantaggio che anche i più semplici tra i fe-
deli possono capirlo, perché continuamente lo celebrano: “Quanto a coloro che, per len-
tezza di cuore e per debolezza, non sono ancora in grado di comprendere le Scritture o
i loro commentari, il mio augurio è che essi, dipendentemente o meno dalla compren-
sione delle nostre dispute riguardo a questa questione, prestino maggiore attenzione al-
le loro preghiere, a quelle preghiere che la Chiesa sempre ebbe e avrà, dai suoi inizi fi-
no alla fine di questo mondo”17.

2.2. Ut legem supplicandi lex statuat credendi

L’assioma prosperiano, in formulazione più o meno simile all’originale fu ripetuto


lungo i secoli fino ai documenti pontifici dei secc. XIX e XX, come la bolla Ineffabilis
Deus con cui Pio IX proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione (1854), l’enciclica
Mediator Dei (1947) sulla liturgia di Pio XII e la costituzione apostolica Munificentis-
simus Deus (1950), con cui sempre Pio XII definì il dogma dell’Assunzione.
In rapporto alla Mediator Dei è tuttavia da notare che, dopo la citazione tradiziona-
le, papa Pacelli, ne fece anche una rovesciata, affermando che nella vita della Chiesa
sempre è valso anche che “lex credendi legem statuit supplicandi”. È quanto, senza co-
dificarlo in un assioma specifico, avevano fatto i Padri della Chiesa a proposito della
dossologia trinitaria, della festa della Divina Maternità di Maria e di altre grandi feste
cristiane come il Natale, l’Epifania.

2.2.1. La dossologia trinitaria

La controversia «ariana», che agitò la vita della Chiesa per oltre un secolo, fu la più
rischiosa per l’unità della fede. Ario affermava decisamente l’inferiorità ontologica del
Figlio rispetto al Padre, la sua non esistenza in Dio dall’eternità e la sua creaturalità o
fattualità. Secondo il pensiero ariano il Verbo “non è uguale a Dio”, ma è solo la «pri-
ma creatura». “È «soggetto a mutamento», non procede dalla sostanza (ousìa) del Pa-
dre, ma «dal nulla», come tutte le cose create; e, benché sia generato «prima di tutti i
secoli», non è eterno; «ci fu un tempo in cui egli non era»”18.
Ario fu condannato a Nicea (325), ma la questione ariana divampò ancora a lungo
sia in oriente che in occidente e, com’era prevedibile, arrivò a coinvolgere la stessa for-
mulazione della preghiera liturgica: quale posizione deve essere accordata a Cristo nella
preghiera? Il Figlio può essere adorato esattamente come il Padre?

16
VINCENZO DI LERINS, Commonitorium 2 (= PL 50, col. 640).
17
AGOSTINO DI IPPONA, De dono perseverantiae 23, 63 (= PL 45, col. 1031). Si veda tutto il cap. 23 di
quest’opera, che in certo senso anticipa il cap. 8 dell’Indiculus di san Prospero.
18
SERENTHÀ MARIO, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di cristologia, Elle Di Ci, Leumann (To-
rino) 1982, p. 186.

46
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I luoghi privilegiati, in cui verificare la risposta a queste domande, erano le dosso-


logie. La tradizione dossologica più antica si presentava con una struttura trinitaria del
tipo: «Noi ti lodiamo Padre, per il Cristo nello Spirito Santo». Origene, per esempio,
raccomandava di concludere la preghiera sia personale che liturgica «lodando il Padre
dell’universo per Gesù Cristo nello Spirito Santo», mentre l’Eucologion di Serapione,
una raccolta di 30 preghiere liturgiche alessandrine della metà del sec. IV, proponeva
una dossologia più estesa, ma identica nella sostanza: “Il tuo unico Figlio, Gesù Cristo,
per il quale ti sono rese gloria e onore nello Spirito Santo per l’eternità”.
Gli ariani nelle loro argomentazioni prendevano a testimonio della loro tesi proprio
questa formulazione dossologica antica, interpretando il per Filium o il per Christum in
senso subordinazionista, e accusando i padri niceni di smentire nella preghiera liturgica,
forma della vera fede, quanto avevano stabilito a Nicea circa la consustanzialità del Fi-
glio al Padre.
In aiuto al popolo cristiano, confuso e disorientato, alcuni Padri, fedeli a Nicea,
cominciarono ad accompagnare l’antichissima formula dossologica Gloria ad Patrem
per Filium in Spiritu Sancto [dóxa tó Theó kaì Patrí dià toú Uioú ev tó Agío Pneúmati]
con la formulazione più diretta e immediata della consustanzialità Gloria Patri et (cum)
Filio et (cum) Spiritu(i) sancto [dóxa tó Theó kaì Patrí metà toú Uioú sùv tó Pneúmati
tó Agío]. Si voleva in questo modo superare ogni ambiguità interpretativa della più anti-
ca formulazione dossologica, accostandole una formulazione che ne desse l’ermeneutica
autentica. Lo scontro fu inevitabile.
A Cesarea di Cappadocia il vescovo san Basilio (330-379), detto poi Magno, si tro-
vò accusato di introdurre testi nuovi ed estranei alla tradizione liturgica della fede, e an-
zi in aperta contraddizione con essa: “Di recente, mentre pregavo con il popolo, termi-
navo la dossologia a Dio Padre in due modi diversi, talora dicendo «insieme al Figlio
con lo Spirito Santo», talora invece dicendo «per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo.
Alcuni dei presenti lo osservarono e ci accusarono di aver usato formule insolite e per
giunta fra loro contradditorie”19.
Nella sua replica, confluita nel trattato su Lo Spirito Santo, egli si impegna a dare
giustificazione sia dell’una, sia dell’altra formula dossologica, mostrando come ambe-
due siano in piena conformità con Nicea. L’abbandono della posizione ariana da parte
dell’imperatore Teodosio e il suo editto del 10 marzo 388 contro gli eretici provocò in
oriente la definitiva chiusura della questione ariana. La nuova dossologia entrò nel pa-
trimonio liturgico della Chiesa, soprattutto a conclusione della recitazione dei salmi
nell’ufficio divino.
In occidente, a causa dell’assunzione dell’arianesimo da parte dei nuovi popoli in-
vasori, provenienti dal Nord dell’Europa, la questione ariana, o semi-ariana, perdurò
almeno per altri due secoli e determinò, accanto all’assunzione della dossologia basilia-
na, anche una maggiore composizione eucologica anti-ariana, specialmente nel tempo
natalizio - epifanico20.

19
BASILE DE CÉSARÉE, Sur le Saint-Esprit, a cura di PRUCHE B. = Sources Chrétiennes 17bis, Du
Cerf, Paris 21968, pp. 256-259. La traduzione italiana in BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo =
Collana di Testi Patristici 106, Città Nuova, Roma 1993, p. 89.
20
Lo Jungmann avanza l’ipotesi che la controversia ariana influenzò anche la collocazione di alcune
delle date più significative dello stesso calendario delle feste liturgiche, in particolare quelle del Na-
tale e dell’Epifania, nate sia in Oriente che in Occidente nel corso del sec. IV. Non possiamo dire
con sicurezza se queste due feste non fossero già germinate prima della controversia cristologica
promossa da Ario. È del tutto probabile però che lo zelo dei difensori della divinità del Verbo e del-

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2.2.2. L’invocazione di Maria «Madre di Dio»

Un secondo episodio, attraverso il quale è possibile mostrare la relazione esistente


tra approfondimento teologico e momento liturgico, è legato alla controversia nestoria-
na. Nestorio, patriarca di Costantinopoli nel 428, riflettendo sul tema dell’unione in Ge-
sù Cristo della natura umana e della natura divina, tendeva a concepirla in termini pu-
ramente morali. Affermava cioè che la seconda persona della Santissima Trinità e Gesù
sono due persone distinte, due individualità, unite in una persona morale, chiamata Cri-
sto. La conseguenza più diretta sul piano della teologia e della preghiera liturgica era -
per Nestorio - l’impossibilità di usare il titolo di Theotòkos (Madre di Dio) in riferimen-
to alla Vergine Maria. La risposta dell’ortodossia, oltre al chiarimento teologico di Efe-
so (431) e, soprattutto, di Calcedonia (451), ebbe un carattere liturgico - pastorale. Si
cominciò a dedicare i luoghi di culto a Maria Theotòkos e si cominciò a celebrare solen-
nemente, prima in oriente e poi in occidente, la festa della Divina Maternità di Maria, la
quale divenne così la prima festa mariologica dell’anno liturgico21.

2.2.3. Le solennità dell’Epifania e del Natale

Epifania

La prima notizia di una festa celebrata in ambito cristiano il 6 gennaio ci viene da


Alessandria d’Egitto, all’inizio del sec. III. Clemente alessandrino (+ 215) ci parla di
una festa del battesimo di Gesù al Giordano, celebrata dalla setta gnostica dei seguaci di
Basilide22.
Per costoro il vero momento della nascita del Verbo era il Battesimo al Giordano,
in quanto soltanto a quel punto (qui stava tra l’altro la loro eresia) la divinità del Verbo
si era congiunta all’umanità di Cristo. Tale lettura del mistero di Cristo sviliva il valore
della nascita secondo la carne dalla Vergine Maria e rendeva molto ambiguo il senso
della festa dell’Epifania.
L’origine eterodossa può essere la ragione per cui non troviamo testimonianza di
questa festa presso le Chiese ortodosse prima della metà del sec. IV. L’ipotesi che sem-
bra avere maggiore credito è dunque quella di un’adozione dell’originaria festa gnosti-
ca, purificata dagli errori teologici e orientata a celebrare – almeno nella sua prima fase
– la memoria della nascita del Verbo nella vera carne assunta23.
Il carattere di memoria del Battesimo di Gesù al Giordano, messo inizialmente in
secondo piano, ritornò in evidenza – ormai integrato in una sintesi pienamente ortodossa
– versò la fine del sec. IV / inizio del sec. V, in concomitanza con l’arrivo anche in

la consustanzialità del Figlio al Padre ne facilitò la rapida propagazione, essendo esse incentrate sul
mistero dell’incarnazione del Verbo e della sua manifestazione al mondo.
21
Cf DI NAPOLI GIOVANNI, La solennità di Maria Madre di Dio al primo gennaio - estratto tesi,
Sant’Anselmo, Roma 1991, pp. 109.
22
CLEMENTE ALESSANDRINO, Gli stromati. Note di vera filosofia = Letture Cristiane del Primo Mil-
lennio 40, Paoline, Milano 2006, 1, 21,146 = p. 145.
23
Sant’EFREM (306-373ca.) attesta che la solennità dell’Epifania celebra nella Chiesa “la venuta del
Signore, ossia la sua nascita umana e la sua perfetta incarnazione”.

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oriente della solennità del Natale, che nel frattempo si era sviluppata nella Chiesa di
Roma.
Sulla scia della memoria del battesimo del Signore la festa dell’Epifania divenne in
oriente – e, per un certo tempo, in Spagna, in Gallia e nell’Italia del Nord – una delle
grandi date battesimali, dopo le solennità di Pasqua e di Pentecoste. Dall’oriente la festa
dell’Epifania passò presto in occidente, per il tramite delle Chiese della Spagna, della
Gallia e, forse dell’Italia del Nord.
Diversi concili della Spagna e della Gallia, a cominciare dal concilio di Saragozza
del 380, parlano della festa dell’Epifania e del tempo di preparazione che la precede,
mentre le prime omelie specifiche di questa festa in occidente sono sei sermoni di
sant’Agostino24.
A differenza dell’oriente, le Chiese occidentali festeggiano nella solennità
dell’Epifania non tanto il Battesimo di Gesù al Giordano e i miracoli di Cana e della
moltiplicazione dei pani, ma piuttosto la visita dei magi, primizia di tutti i popoli. Non
mancano però testimonianze di una permanenza, anche se più sfuocata, delle tematiche
orientali (Massimo di Torino; Ambrogio di Milano)25.

Natale

Per la ricostruzione delle origini della solennità del Natale abbiamo un dato storico
sicuro e alcune ipotesi interpretative.
Il fatto certo è l’attestazione romana della sua celebrazione nella data rimasta fino
ad oggi già nella prima metà del sec. IV. Ne fa fede il Cronografo filocaliano – il primo
Calendario romano, composto da Furio Dionisio Filocalo nel 354, ma riportante le date
della depositio martyrum e della depositio episcoporum in vigore almeno dal 336 – che,
proprio all’inizio dell’elenco delle memorie dei martiri, scrive: “VIII Kal. Ianu. natus
Christus in Bethleem Iudeae”26. Dunque, almeno dal 336, la Chiesa di Roma – seguita
nel volgere di qualche decennio da quasi tutte le Chiese d’occidente e d’oriente – cele-
brava la Natività di Cristo il 25 dicembre con uno specifico e solenne giorno liturgico.
Su fondamento di questo dato storico si è sviluppata la ricerca volta a scoprire il
motivo che raccorda questa data (25 dicembre) a questo evento storico – salvifico (la
nascita di Cristo).
Due sono state fino a epoca recente le ipotesi ermeneutiche formulate dagli studiosi
– quella ‘storico religiosa’ e quella ‘del computo’27 – con un crescendo di favore accor-
dato alla seconda rispetto alla prima28, perché meglio prospetta uno sviluppo autonomo
della festa del Natale, per germinazione interna alla fede cristiana.
24
AGOSTINO, Discorsi 199-204, in AGOSTINO, Discorsi 4,1. Su i tempi liturgici (184-229/v) = Sancti
Augustini Opera 32,1, Città Nuova, Roma 1984, pp. 102-135.
25
Testimonianze in questo senso sono, sicuramente, l’antico inno ambrosiano Illuminans Altissimus,
unanimemente considerato di sant’Ambrogio [Liturgia ambrosiana delle Ore, Vol I, p. 121 (origi-
nale latino) e p. 166 (traduzione italiana)] e il prefazio ambrosiano per la missa in die.
26
Il testo in Le Liber Pontificalis 1., a cura di LOUIS DUCHESNE, De Boccard, Paris 21955, pp. 10-12.
27
Cf BIERITZ KARL HEINRICH, Il tempo e la festa. L’anno liturgico cristiano (= Dabar. Saggi Teologi-
ci 25), Marietti 1820, Genova 1996, pp. 168-169.
28
“Le vecchie ipotesi, secondo cui il 25 dicembre era stato scelto a Roma in polemica con il culto mi-
traico o anche come risposta cristiana al culto del sole invitto, che era stato promosso dagli impe-
ratori romani nel corso del terzo secolo come tentativo di stabilire una nuova religione di stato, og-
gi non paiono più sostenibili” (RATZINGER JOSEPH, Introduzione allo spirito della liturgia, San Pao-
lo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, p. 104).

49
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A queste due se ne affianca oggi una terza che ripropone, con nuove argomentazio-
ni, la veridicità storica della datazione della nascita di Gesù al 25 dicembre.
La prima, chiamata ipotesi storico-religiosa o apologetica perché privilegia il ri-
ferimento ai processi di assimilazione / sostituzione / superamento / compimento della
religione civile romana da parte del cristianesimo, pone la nuova solennità cristiana del
Natale di Cristo in stretta connessione “con la festa dell’invitto dio Sole (natale solis in-
victi), che l’imperatore Aureliano aveva introdotto nel 274 fissandola il 25 dicembre,
nelle vicinanze del solstizio d’inverno”29.
La diffusione di questa festa, che avrebbe dovuto contribuire alla coesione e al con-
solidamento dell’impero romano in una delle sue ricorrenti crisi istituzionali, rappresen-
tava una minaccia e una seria sfida per la fede cristiana. La Chiesa di Roma, per immu-
nizzare i cristiani dall’attrattiva della nuova festa pagana, recuperandone al contempo il
valore propedeutico, gli avrebbe contrapposto, stabilendola nello stesso giorno, la me-
moria del Natale di Gesù Cristo, vero Sole di giustizia e vera Luce del mondo30.
Secondo questa linea interpretativa – alcuni autori usano l’espressione alquanto di-
scutibile di ‘cristianizzazione della festa pagana del sole’ – la festa del Natale, non per
il suo contenuto, schiettamente cristologico, ma per la sua datazione (25 dicembre), ri-
sulterebbe dipendente dalla festa pagana del dio sole.
La seconda, l’ipotesi ‘del computo’, prende le mosse dallo sforzo – riscontrabi-
le nel pensiero cristiano antico – di identificare il giorno preciso della nascita di Gesù,
appellando sia alla presunta corrispondenza temporale dei grandi eventi storico – salvi-
fici della rivelazione biblica (creazione, redenzione, concepimento verginale di Maria,
nascita di Cristo), sia alla plusvalenza simbolica attribuita ai ritmi cosmico - stagionali
(solstizi, equinozi, pleniluni, ecc…) che scandiscono la vita sociale e religiosa. Scrive
Karl Bieritz:
“Secondo alcune tradizioni il 25 marzo, era considerato il primo giorno della
creazione. Con questo giorno si mise in relazione sia la morte di Gesù, sia il
suo concepimento, oppure – secondo un’altra tradizione – la sua nascita (ini-
zio della nuova creazione del mondo!). Se Gesù era stato concepito il 25 mar-
zo, il giorno della sua nascita poteva essere fissato il 25 dicembre”31.
E Joseph Ratzinger, riprendendo questa ipotesi, ne approfondisce le implicazioni
teologico - liturgiche:
“Il punto di partenza per fissare il giorno della nascita di Cristo è dato, sor-
prendentemente dal 25 marzo… Decisivo fu lo stretto rapporto tra creazione e
croce, tra creazione e concepimento di Cristo, nella misura in cui a partire
dall’«ora di Gesù» queste date venivano a coinvolgere il cosmo, lo interpreta-
vano come pre-figurazione e preannuncio di Cristo, il primogenito della crea-
zione (Col 1, 15) di cui parla la creazione stessa, e attraverso il quale viene

29
BIERITZ KARL HEINRICH, o. c., pp. 168-169.
30
“Chi è più invitto del nostro Signore che trionfò sulla morte sconfitta? Sicuramente, ciò che hanno
consacrato come compleanno del sole è egli stesso, il Sole di giustizia, del quale Malachia disse:
«Per voi che temete il suo Nome si leverà il Sole di giustizia, e la guarigione sarà nelle sue ali» (Mal
4,2)” [Citazione dal De solstitiis et aequinoctiis (sec. IV), riportata in ROSSO STEFANO, Il segno del
tempo nella liturgia. Anno liturgico e liturgia delle ore, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2002, p. 302,
nota 19].
31
BIERITZ KARL HEINRICH, Il tempo e la festa. L’anno liturgico cristiano = Dabar. Saggi Teologici
25, Marietti 1820, Genova 1996, p. 168.

50
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decifrato il suo tacito messaggio. Dal primogenito della creazione, che ora è
entrato nella storia, il cosmo riceve il suo vero senso: a partire da Lui ora è
certo che l’avventura della creazione, dell’esistenza del mondo – libera e di-
versa da Dio – non si conclude nell’assurdo e nel tragico, ma resta positiva
attraverso tutti gli sconvolgimenti e le distruzioni. L’approvazione del settimo
giorno da parte di Dio è confermata in maniera autentica e definitiva… Tra
queste queste due date, del 25 marzo e del 25 dicembre, si inserisce poi la fe-
sta del precursore, Giovanni Battista, il 24 giugno, nel giorno del solstizio
d’estate (cf Lc 1, 26.36: “Nel sesto mese” / “E questo è il sesto mese” – ag-
giunta mia). La correlazione tra queste date appare ora come un’espressione
liturgica e cosmica delle parole del Battista: «Egli (Cristo) deve crescere, io
devo diminuire» (Gv 3,30). La festa del natale di Giovanni coincide con il
momento dell’anno in cui il giorno comincia a dimuire, così come la festa del
Natale di Cristo è l’inizio della nuova alba. L’intreccio di questa festa è pura-
mente cristiano, senza un richiamo diretto all’Antico testamento, ma si trova
comunque in continuità con la sintesi di cosmo e storia, di memoria e speran-
za, che era già caratteristico della festa anticotestamentaria e che viene ripre-
sa in modo nuovo nel calendario cristiano. L’intima compenetrazione di In-
carnazione e Risurrezione emerge così nella loro specifica e insieme comune
correlazione con il ritmo solare e il suo simbolismo”32.

Come spesso accade in questi casi, se ben comprese, le due ipotesi non sono così
radicalmente contrapposte da non potersi integrare. Il calcolo della data, con l’accento
posto sull’intima corrispondenza cosmica e temporale tra i principali misteri cristiani,
ha certamente promosso in modo originale l’istituzione della festa cristiana del Natale,
che ha ritrovato poi nella sostituzione della festa del dio Sole un potente rinforzo apolo-
getico.
Nuovo e affascinante è invece il recente tentativo di restituire al 25 dicembre una
solida base storica, partendo da alcuni dettagli lucani: l’appartenenza di Zaccaria alla
classe sacerdotale di Abia (cf Lc 1, 5) e l’apparizione dell’angelo del Signore “ritto alla
destra dell’altare dell’incenso” (Lc 1, 11), “mente Zaccaria svolgeva le sue funzioni sa-
cerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe” (Lc 1, 8)33.
Si sapeva che coloro che nell’antico Israele appartenevano alla casta sacerdotale
erano divisi in 24 classi le quali, avvicendandosi sempre nello stesso ordine, dovevano
prestare servizio liturgico al tempio per una settimana, due volte l’anno.
Si sapeva anche che la classe di Abia era l’ottava nell’elenco ufficiale. Ma nessuno
sapeva invece indicare quando i sacerdoti di questa classe prestassero il loro servizio sa-
cerdotale.
Un contributo decisivo è arrivato all’inizio del terzo millennio dal professor Tal-
mon, docente all’Università ebraica di Gerusalemme, il quale, lavorando sui testi rinve-
nuti nella biblioteca di Qumran – specialmente il Libro dei Giubilei –, è riuscito a stabi-
lire l’ordine cronologico con cui si susseguivano le 24 classi sacerdotali: secondo tale
sequenza uno dei due momenti annuali in cui la classe di Abia officiava nel tempio era-
no i giorni dal 23 al 30 settembre.

32
RATZINGER JOSEPH, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
2001, pp. 103-106.
33
Riprendo le informazioni che seguono dall’articolo di Vittorio Messori sul Corriere della Sera del 9
luglio 2003.

51
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Questa scoperta ha portato in ambito cristiano34 a riconsiderare la veridicità storica


dell’antichissima tradizione orientale che poneva l’annuncio a Zaccaria tra il 23 e il 25
settembre e di tutto Calendario liturgico a essa correlata: la nascita di Giovanni Battista
nove mesi dopo (24 giugno); l’annunciazione a Maria “al sesto mese” (Lc 1, 26) dal
concepimento di Giovanni Battista (25 marzo) e la nascita di Gesù, nove mesi dopo
l’annunciazione (25 dicembre).
Le diverse ragioni, che giustificherebbero il costituirsi della solennità del Natale il
25 dicembre, non sembrano però sufficienti a dare una spiegazione adeguata della sor-
prendente rapidità della sua diffusione sia in oriente che in occidente.
A spiegare questo dato ulteriore è il contesto teologico del sec. IV, scosso dalle
controversie di carattere cristologico-trinitario. La festa del Natale fu sentita come una
conveniente espressione liturgica della fede di Nicea (325) e, successivamente, di Efeso
(431) e di Calcedonia (451)35.
A Milano la festa del Natale è forse successiva all’introduzione della festa
dell’Epifania e la sua istituzione è probabile opera di sant’Ambrogio. Da Milano si dif-
fuse poi alle diverse Chiese del Nord Italia (Torino-Brescia-Verona-Ravenna) e della
Gallia.
Anche l’Oriente accolse presto la solennità del Natale. A partire dall’ultimo quarto
del sec. IV la solennità del 25 dicembre appare infatti estesa a quasi tutte le Chiese: san
Basilio Magno (330-379) ne testimonia l’esistenza per la Cappadocia36; san Gregorio
Nazianzeno (330-390), per la Chiesa di Costantinopoli (nella sua omelia per il Natale
egli fa riferimento non solo alla nascita del Signore, ma anche all’adorazione dei pastori
e dei magi); san Giovanni Crisostomo (350-407), per la Chiesa di Antiochia.
In poco meno di un secolo assistiamo a un vero e proprio interscambio delle due
festività. L’Oriente, che conosce l’Epifania il 6 gennaio, acquisisce la festa di Natale, il
25 dicembre, celebrando in essa non solo il mistero della natività del Signore, ma anche
la sua adorazione da parte dei Magi, e riservando all’Epifania la memoria del Battesimo
al Giordano, delle nozze di Cana e della prima moltiplicazione dei pani.
L’occidente, e in primo luogo Roma, celebra originariamente il Natale e acquisisce
successivamente la festa dell’Epifania, ma con una divisione tematica diversa. Al Natale
è riservato il mistero della nascita secondo la carne, mentre la festa dell’Epifania celebra
con la venuta dei Magi l’universalità della salvezza. Non dimenticata, ma poco in rilie-
vo – con l’eccezione della Chiesa di Milano, anche in questo più sensibile all’influsso
orientale – la memoria del battesimo al Giordano, del miracolo di Cana e del miracolo
dei pani, che diede lo spunto per un formulario di messa da collocarsi nella settimana
successiva all’Epifania.

34
Si vedano in proposito gli articoli divulgativi del prof. Michele Loconsole, presidente dell’ENEC
(Europe-Near East Centre).
35
La testimonianza più solida al riguardo sono le 13 omelie di sant’Agostino in natali Domini, dove il
vescovo di Ippona indica con chiarezza l’intenzione di commemorare il giorno anniversario della
nascita di Cristo e di richiamare i fedeli alla contemplazione del mistero dell’incarnazione, contro le
molteplici eresie del tempo, che stravolgono il dogma cristologico [AGOSTINO, Discorsi 184-196, in
AGOSTINO, Discorsi 4,1. Su i tempi liturgici (184-229/v) = Sancti Augustini Opera 32,1, Città Nuo-
va, Roma 1984, pp. 2-83].
36
Secondo il Lemarié [LEMARIÉ JOSEPH, La manifestazione del Signore. La liturgia di Natale e dell’
Epifania, Paoline, Milano 1960, pp. 32-33] san Basilio sarebbe il più antico testimone della solenni-
tà del 25 dicembre in oriente.

52
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3. Creazione e fissazione dei testi liturgici: alle sorgenti del patrimonio eucologi-
co cristiano

L’epoca classica dei Padri della Chiesa si presenta come un’epoca di forte creativi-
tà liturgico - eucologica. Lo sviluppo dell’ordinario della messa con l’inserzione di nuo-
vi momenti di preghiera presidenziale, la più complessa articolazione dell’anno liturgico
in feste del Signore, feste di Maria, feste dei santi, tempi e cicli e la nuova strutturazione
di alcuni itinerari sacramentali quali l’iniziazione cristiana, la penitenza e i riti di ordi-
nazione, richiedevano una più ampia disponibilità di testi liturgici.
Alla loro composizione si dedicarono in molti, ma non tutti con la stessa compe-
tenza teologica, spirituale, stilistica e pastorale e con lo stesso afflato religioso. Si passò
così progressivamente da una «formulazione libera» da parte del celebrante a una sem-
pre più ordinata e precisa «codificazione testuale» a uso celebrativo. Nacquero le prime
raccolte di testi liturgici per la celebrazione, alcune delle quali, giunte fino a noi, ci han-
no tramandato il genio compositivo dei Padri dei secc. IV-VI. Ripercorriamo le tappe
principali di questa vicenda.

3.1. Dire secondo le proprie capacità

La Traditio apostolica nella prima metà del sec. III, poteva dire con molta natura-
lezza: “Il vescovo renda grazie secondo la formula solita, ma senza ripetere per forza le
stesse parole che abbiamo detto... Ciascuno piuttosto preghi secondo le proprie capaci-
tà. Se riesce a pregare a lungo ed elevatamente bene, altrimenti faccia una preghiera
breve, purché corretta e conforme all’ortodossia”37.
Ippolito si riferisce qui alla preghiera per eccellenza della celebrazione eucaristica,
cioè all’anafora, e riconosce, quanto alla sua formulazione, una certa libertà di espres-
sione, secondo le capacità di colui che presiede. Libertà di espressione non significa
un’elaborazione assolutamente libera della preghiera liturgica. C’è una «formula solita»
che fa da schema strutturale o canovaccio, e che ciascuno di coloro che, vescovo o pre-
sbitero, è chiamato a presiedere l’assemblea può «riempire» o «rivestire» con parole ap-
propriate secondo le sue capacità. La lunghezza della preghiera e la solennità
dell’orazione appaiono secondarie rispetto al contenuto, che deve essere conforme alla
«sana ortodossia», criterio sostanziale della verità della preghiera liturgica.

3.2. Scrivere quanto si deve dire

Se Ippolito può essere considerato il testimone di una visione ancora aperta e pos-
sibilista circa la «libera» composizione dei testi liturgici, fatta salva l’ortodossia della
fede, diversi canoni dei sinodi africani dei secc. IV-V, giunti a noi attraverso la cosid-
detta collectio hispana, presentano una significativa evoluzione di mentalità:

“Che nessuno nelle preghiere liturgiche nomini il Padre per il Figlio o il Fi-
glio per il Padre; e quando si celebra all’altare la preghiera sia sempre diret-

37
La tradizione apostolica, a cura di RACHELE TATEO = Letture Cristiane delle Origini 2, Paoline,
Roma 21979, p. 71

53
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ta al Padre; e chiunque scrive preghiere liturgiche per sé o per altri, non po-
trà metterle in circolazione prima di aver conferito con i fratelli più istruiti”38
“È piaciuto anche (stabilire) che nelle celebrazioni si usino quelle orazioni
che hanno ricevuto l’approvazione conciliare, prefazi, monizioni o preghiere
d’imposizione delle mani. Non se ne preferiscano altre, del tutto contrarie alla
fede, ma si dicano quelle raccolte dagli uomini più prudenti”39.

I due concili citati non escludono la possibilità di comporre nuove preci liturgiche,
ma chiedono ormai una precisa verifica e una previa approvazione da parte del sinodo
episcopale o almeno dei fratelli più istruiti e più prudenti. Si parla poi di raccolte di
preghiere, fatte dai più dotti a cui attenersi nella celebrazione. Si parla anche, seppure
indirettamente, del criterio che giustifica questa normativa e cioè che nella celebrazione
non ci sia nulla contra fidem. Sembra di poter affermare un certo influsso di
sant’Agostino in questa normativa che sancisce, almeno per l’Africa, la fine di un pe-
riodo di più libera formulazione eucologica. Si veda, a mo’ di esempio quanto il vesco-
vo di Ippona scrive nel suo De Baptismo:

“Molti, dunque, incappano in orazioni composte non solo da gente illetterata,


ma anche da eretici e, per la loro ignoranza, pensandole buone, non le distin-
guono da quelle valide”40.

Le Chiese d’Africa risultano così le prime, sul finire del sec. IV, a esigere la messa
per iscritto e l’approvazione, da parte di persone competenti, di formulari per la celebra-
zione. Ciò sembra dovuto principalmente all’ignoranza del clero, chiamato a presiedere
le azioni liturgiche, ignoranza per la quale essi correvano il rischio di far uso di compo-
sizioni eretiche. I fratelli più istruiti, i più dotti e i più prudenti di cui parlano i concili e
lo stesso Agostino sono, molto probabilmente, i vescovi stessi.
Le Chiese della Spagna arrivarono a una normativa simile solo due secoli dopo, at-
torno alla prima metà del secolo VII, e la Gallia e la Bretagna forse ancora più tardi.
Più complesso risulta il discorso relativo alla creazione - fissazione eucologica per
quanto riguarda la Chiesa di Roma. Da una parte dobbiamo segnalare l’assenza di preci-
se prescrizioni canonistico - conciliari relative ai testi liturgici e alla loro codificazione
prima dei secc. VII/VIII. Dall’altra, fin dai primi decenni del sec. V, possiamo constata-
re l’insorgere di un giudizio di eccellenza sulla consuetudine liturgica romana, che spin-
gerà nella direzione di una più rapida sedimentazione testuale, in ragione anche della
sua esportazione ad altre Chiese.
Nel periodo che va dal sec. V al sec. VII possiamo documentare come la Chiesa di
Roma consiglia spesso le altre Chiese in materia liturgica e, all’occasione, si offre come
esempio, sia nel modo di strutturare i riti, sia, ed è l’aspetto che più ci interessa, nella
formulazione dei testi liturgici. Si può citare, a titolo esemplificativo, Papa Vigilio, il
quale nel 538 manda a Profuturo di Braga (Spagna) il testo del Canone romano e le pre-
38
Can. 23 del III Concilio di Cartagine (28.08.397) in Concilia Africae A. 345 - A. 525, a cura di
MUNIER CHARLES = Corpus Christianorum. Series Latina 149, Brepols, Turnhout 1974, p. 333.
39
Dalla Notitia de Concilio Carthaginensi (13.06.407), riportata negli Registri Ecclesiae Carthagi-
nensis excerpta (n. 103), in Concilia Africae o.c., p. 218.
40
“Multi quippe inruunt in preces non solum ab imperitis loquacibus sed etiam ab hereticis composi-
tas et, per ignorantiae simplicitatem non eas valentes discernere utuntur eis arbitrantes quod bonae
sunt” (AGOSTINO, De Baptismo VI,25,47 = CSEL 51,1 p. 323).

54
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ces paschalis diei in uso nella Chiesa di Roma, come «esempio» di testi liturgici adatti a
celebrare nei giorni di festa. Egli però non impone la consuetudo romana, espressa in
quei testi, e non dà norme tassative di composizione o di verifica dei testi liturgici.
L’accento è posto sul valore oggettivo ed esemplare dell’eucologia romana.
Sarà la stima e il prestigio di cui godeva Roma in tutto l’Occidente a favorire un
costante flusso circolatorio di testi liturgici romani al di fuori di Roma e dell’Italia. Essi
però, in tutta quest’epoca saranno assunti, modificati, completati con sufficiente libertà
da parte delle singole Chiese locali, le quali a loro volta influenzeranno la stessa euco-
logia romana. Con il papato di Gregorio Magno (590-604), secondo la critica storica più
accreditata, il periodo più creativo della liturgia romana appare concluso e l’eucologia
prodotta entra a costituire raccolte liturgiche sempre più organiche e organizzate.
Concludendo il suo accurato studio sulla vicenda del passaggio dalla libera formu-
lazione della preghiera liturgica alla fissazione scritta dei testi eucologici e al loro rico-
noscimento «ufficiale» da parte dell’autorità ecclesiastica, la Vos riassume così i dati da
lei acquisiti:

“L’impulso maggiore dell’evoluzione verso una codificazione più spinta del


formulario liturgico non è da cercare in un’esigenza immanente del culto cri-
stiano, ma in una doppia necessità ecclesiastica e civile. La necessità anzitutto
di far fronte all’ insufficiente formazione del clero e, dall’altra parte, la
preoccupazione dei poteri civili di coronare l’unità religiosa ritrovata dei loro
giovani principati (soprattutto Spagna, Gallia, Gran Bretagna) con una certa
uniformità liturgica. C’è in più la forza d’attrazione della Città degli Aposto-
li, in cui la liturgia ha potuto svilupparsi nel quadro prestigioso delle basili-
che costantiniane... Finalmente, non bisogna dimenticare che questa «tenden-
za alla standardizzazione della liturgia» si inserisce in una corrente più gene-
rale di codificazione (Codice Teodosiano del 439, Codice Giustinianeo del
527-565, le «Dionisiane» = l’insieme delle decisioni conciliari e delle decre-
tali papali dal 470 al 550)”41.

Venendo a documentare la creazione / fissazione eucologica di questi secoli, di-


stinguiamo il capitolo delle composizioni anaforiche42, da quello della «eucologia mino-
re».

3.2.1. Le anafore

In oriente il genio creativo dei Padri si applica a una forma unitaria di anafora dal
dialogo con cui inizia il prefazio alla dossologia finale. Manca l’intuizione occidentale

41
VOS M., A la recherche des normes pour les textes liturgiques de la Messe (V-VII siècle) in «Revue
d’histoire ecclesiastique» 69 (1974), pp. 5-37.
42
Fondamentale per il suo studio è la raccolta di testi Prex Eucharistica. Textus e variis liturgiis anti-
quoribus selecti, a cura di HÄNGGI ANTON - PAHL INGMAR = Spicilegium Friburgense 12, Fribourg
1968. A firma di RAES A. abbiamo la raccolta delle anaphorae orientales (pp.101-410), molte delle
quali ancora in uso nelle chiese d’Oriente sia «uniate» che scismatiche. A firma EIZENHÖFER L. -
PAHL INGMAR - PINELL JORDI abbiamo la raccolta dei testi delle liturgie occidentali: romana, am-
brosiana, gallicana e celtica, ispanica. In italiano, una buona raccolta di testi anforici si trova in: Se-
gno di unità. Le più antiche eucaristie delle Chiese, a cura dei MONACI E DELLE MONACHE DELLA
COMUNITÀ DI BOSE = Liturgia e Vita, Qiqajon, Bose 1996, pp. 407

55
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di un prefazio variabile, mentre non ci si sente vincolati a un’unica struttura di preghiera


eucaristica né tantomeno a un unico testo. La comparazione delle diverse composizioni
anaforiche orientali rivela comunque il rispetto per una certa «forma compositiva co-
mune» in cui alcuni elementi essenziali non sono mai mancanti (anamnesi - istituzione -
epiclesi - intercessioni) a fronte di una pluralità di composizioni anaforiche. In Occiden-
te al contrario troviamo un unico canon missae, diffusosi presto dalle Chiese di Roma e
di Milano all’intera chiesa latina43.
Il genio occidentale non si è dunque applicato a una pluralità di composizioni ana-
foriche, ma ha trovato la sua espressione più consona nella variabilità di alcuni elementi
all’ interno dell’unico canone: 1) I prefazi variabili, per ogni festa nel corso dell’anno e
per ogni particolare situazione celebrativa (messe rituali, votive...)44; 2) i post sanctus
della tradizione gallicana e ispanica45; 3) i post mysterium o post secreta o post pridie
della tradizione gallicana e ispanica.

3.2.2. Le orazioni

L’eucologia minore, o preghiera presidenziale minore, ci è stata tramandata


dall’antichità all’interno delle raccolte di formulari per la messa e per le altre celebra-
zioni sacramentali (sacramentari - messali). Tali raccolte ci testimoniano un’abbondante
creazione eucologica per la celebrazione eucaristica nel corso dell’anno, per la celebra-
zione dell’iniziazione cristiana, per la celebrazione della «riconciliazione», per i riti di
ordinazione e di consacrazione religiosa, per la benedizione degli sposi, per la benedi-
zione dell’olio e per tante altre situazioni liturgiche della vita delle comunità cristiane46.
A un livello introduttivo generale come il nostro diciamo qualcosa dei tre principali
sacramentari romani, il veronese, il gelasiano ed il gregoriano, e dei due più antichi sa-
cramentari ambrosiani, il bergomense e il biasca. Va ricordato che i manoscritti dei sa-
cramentari sono già medievali (secc. VII-XI), ma il materiale liturgico ivi raccolto è in
gran parte di composizione patristica (secc. V-VII). L’attribuzione dei singoli testi euco-
logici all’uno o all’altro Padre della Chiesa o autore ecclesiastico è una sfida intrapresa
dal moderno studio scientifico, ma le acquisizioni sicure non sono molte.

- Il sacramentario veronese47: il suo manoscritto fu scoperto nel 1735 e fu attribuito a


papa Leone Magno (440-464). Oggi gli studiosi sono d’accordo nel riconoscere la mano
di san Leone in alcuni suoi testi, ma negano a lui l’intera paternità della composizione.
Inoltre il termine «sacramentario» si addice a questa raccolta fino ad un certo punto. Più
giusto sarebbe parlare di raccolta di libelli missarum in cui il materiale liturgico è distri-
buito secondo i mesi dell’anno civile (mancano però gennaio - febbraio - marzo). Rac-

43
La prima testimonianza in assoluto di frammenti del «canone romano» è contenuta nel De Sacra-
mentis (4,14,21-22.26-27) di sant’Ambrogio. Con papa Gelasio (492-496) il testo è completo, quale
ancora oggi lo conosciamo come «preghiera eucaristica I».
44
Il ricco patrimonio prefaziale occidentale è stato raccolto in 5 volumi Corpus praefationum 5 Voll.,
a cura di MOELLER E., = Corpus Christianorum. Series Latina 161-161D, Brepols Turnhout 1980.
45
Cf gli esempi in Prex Eucharistica... o. c., pp. 467-513.
46
L’intera raccolta delle orazioni minori è stata pubblicata in 14 volumi in Corpus orationum, 14 Voll.
= Corpus Cristianorum. Series Latina 160A-M, Brepols, Turnhout 1992-2004.
47
Sacramentarium Veronese, a cura di MOHLBERG LEO CUNIBERT = Rerum Ecclesiasticarum Docu-
menta, Series Maior, Fontes 1, Roma 1978.

56
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coglie composizioni liturgiche dei secc. V-VI. Il problema dell’origine dei singoli for-
mulari si rivela complesso. Il metodo di investigazione possibile resta l’analisi letteraria
delle singole formule, il loro confronto con lo stile dell’uno o dell’altro degli autori ec-
clesiastici del tempo, il rapporto del loro contenuto teologico con le preoccupazioni
dell’epoca, rappresentate dal tale o dal tal altro Padre della Chiesa, con la storia con-
temporanea civile o religiosa, alla quale un certo formulario potrebbe alludere. Tra i ri-
sultati più attendibili abbiamo l’identificazione di 18 formulari di messe, composte da
papa Gelasio I (492-496) in riferimento alle feste pagane dei Lupercali48. In appendice
all’edizione del sacramentario veronese il Mohlberg ha editato le 40 orazioni contenute
nel cosiddetto Rotolo di Ravenna. Si tratta di una raccolta di preghiere per la prepara-
zione al Natale, testimone della liturgia ravennate del sec. V / VI. Vi si riscontra una
certa affinità teologico - liturgica tra i sermoni di san Pietro Crisologo, vescovo di Ra-
venna tra il 433 e il 450 (458) e le orazioni del Rotolo49.

- Il sacramentario gelasiano antico50: anche di esso si conserva un solo codice mano-


scritto, il reginensis latinus 316 della Biblioteca Vaticana, scritto verso il 750, proba-
bilmente nel monastero di Chelles, nei dintorni di Parigi. I testi eucologici sono in gene-
re molto più antichi (secc. V - VII), anche se permane la difficoltà di un’identificazione
più precisa della loro origine, della loro data di composizione e della loro paternità
compositiva. Diversi testi sono comuni con il veronese. Con il gelasiano siamo di fronte
ad un vero e proprio sacramentario. Esso è diviso in tre libri: il primo comprende il
«proprio» del tempo liturgico a partire dalla vigilia di Natale, più alcuni rituali [ordina-
zioni dei presbiteri e dei diaconi nella prima settimana di Quaresima; catecumenato e
sacramenti di iniziazione cristiana in Quaresima e nella veglia pasquale; rituale della
penitenza pubblica; preghiere per la dedicazione di una nuova Basilica; rituale degli or-
dini minori (ostiario - lettore - esorcista - suddiacono); consacrazione delle vergini,
ecc...]. Il secondo contiene dei formulari per le memorie dei santi nel loro giorno «nata-
lizio» (martiri e apostoli) e alcuni formulari per il tempo di Avvento. Forse questo te-
stimonia una fase ancora incerta della formazione del tempo di Avvento, come tempo li-
turgico ben preciso e strutturato. Il terzo riporta dei formulari per le messe domenicali
(le nostre domeniche per annum), per i giorni feriali, per le messe votive e per le messe
ad diversa. Nel libro terzo troviamo la prima testimonianza romana del canon missae,
chiamato canon actionis (nn. 1242 - 1255). Una delle maggiori caratteristiche dei for-
mulari del Gelasiano antico è la presenza di più orazioni prima della oratio super oblata
o secreta. La cosa viene spiegata in analogia con la oratio super syndonem ambrosiana,
precedente alla disposizione dei doni sull’altare. Essa sarebbe stata introdotta al posto
della preghiera universale. L’aspetto più oscuro del Gelasiano è la sua origine liturgica.
Lo Chavasse ha formulato l’ipotesi che a Roma ci fossero due diversi sacramentari,
l’uno per i presbiteri, che officiavano nelle Chiese titolari, l’altro per il vescovo, che of-
ficiava nella Basilica Lateranense e, in quaresima, nelle chiese stazionali. Il Gelasiano
sarebbe il sacramentario a uso dei presbiteri nei tituli, mentre il Gregoriano, di cui parle-

48
Cf POMARES G., Lettre contre les lupercales et dix-huit messes du sacramentaire léonien = Sources
Chrétiennes 65, Du Cerf, Paris 1959.
49
CF SOTTOCORNOLA FRANCO, L’anno liturgico nei sermoni di Pietro Crisologo = Studia Ravenaten-
sia 1, Cesena 1973, pp. 42-45.
50
Liber sacramentorum romanae aeclesiae ordinis anni circuli (Sacramentarium Gelasianum), a cura
di MOHLBERG LEO CUNIBERT = Rerum Ecclesiasticarum Documenta, Series Maior, Fontes 4, Roma
3
1981.

57
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remo fra poco, sarebbe il sacramentario a uso del vescovo nella basilica lateranense e
nelle chiese stazionali.

- Il sacramentario gregoriano51: mentre per il veronese e per il gelasiano abbiamo un


unico manoscritto, per il «gregoriano» abbiamo una pluralità di manoscritti di epoche e
aree geografiche diverse, con adattamenti, varianti e omissioni, che rendono estrema-
mente complesso il lavoro di ricostruzione dell’originale. Tutti i differenti tipi di Grego-
riano, arrivati in manoscritto fino a noi, hanno un titolo comune: Incipit liber sacramen-
torum de circulo anni expositus a sancto Gregorio papa romano editus. Questa attribu-
zione a Gregorio Magno (590-604) è più affettiva che reale, anche se non si può esclu-
dere la possibilità che alcune parti siano state codificate proprio da lui. Il testo più vici-
no all’originario gregoriano è, secondo la maggior parte degli studiosi, il cosiddetto
«gregoriano adrianeo» (manoscritto conservato alla biblioteca municipale di Cambrai).
Esso rispecchierebbe il sacramentario romano inviato da papa Adriano a Carlo Magno
nel 785 / 786, dopo ripetuta richiesta di quest’ultimo, al fine di unificare la liturgia dei
paesi franchi in riferimento al modello romano. Si tratta di un sacramentario ben ordina-
to e molto più semplice del gelasiano. Ogni formulario della messa ha un’orazione ini-
ziale, una preghiera sulle offerte e una preghiera dopo la comunione. Non tutti i formu-
lari hanno un prefazio proprio (inizia quel fenomeno di riduzione del numero dei prefazi
che giungerà al suo minimo nel «Messale di san Pio V»). Il proprio liturgico (dalla vigi-
lia di Natale) e il santorale procedono in perfetta fusione, mentre troviamo radunati in-
sieme, nell’ultima parte, i rituali dei sacramenti e dei sacramentali e i formulari comuni
per le memorie dei santi.

- Il sacramentario bergomense52: il manoscritto è conservato dal 1958 nel palazzo ve-


scovile di Bergamo, dopo essere stato per secoli presso la biblioteca della chiesa di
sant’Alessandro in Colonna, sempre a Bergamo. Stando al Paredi, che lo ha pubblicato
in edizione diplomatica, esso è databile alla metà del sec. IX, e rappresenterebbe il sa-
cramentario ambrosiano nella codificazione carolingia. Contiene, oltre ai testi eucologi-
ci, le epistole e i vangeli, configurandosi così come un messale plenario. Le messe dei
santi, sono inserite nell’anno liturgico in quattro momenti diversi: prima delle domeni-
che di avvento; tra il natale e l’epifania; dopo le domeniche dopo l’epifania; dopo le
domeniche dopo pentecoste. Il canone della messa è riportato dopo la I domenica dopo
pentecoste. La presenza in ogni formulario di messa dell’orazione Super Syndonem e
del prefazio proprio fa la differenza con i sacramentari romani, soprattutto con il sacra-
mentario gregoriano.

- Il sacramentario di Biasca53: il manoscritto è conservato nella biblioteca ambrosiana


dal 1776, dopo essere stato per secoli presso la chiesa di Biasca, ora diocesi di Lugano.
Stando allo Heiming, che lo ha pubblicato in edizione critica, esso è databile alla fine
sec. IX / inizio sec. X e, come il bergomense, rappresenterebbe il sacramentario ambro-

51
DESHUSSES JEAN, Le sacramentaire gregorien. Ses principales formes d’après les plus anciens
manuscrits = Spicilegium Friburgense 16, Fribourg 1979.
52
Sacramentarium Bergomense. Ms. del sec. IX della biblioteca di sant’Alessandro in Colonna in
Bergamo, a cura di PAREDI ANGELO = Monumenta Bergomensia 6, Bergamo 1962.
53
Corpus Ambrosianum - Liturgicum 2/1. Das ambrosianische Sakramentar von Biasca. Die Han-
dschrift Mailand Ambrosiana A 24 bis inf. Text, a cura di HEIMING Odilo = Liturgiewissenschaf-
tliche Quellen und Forschungen 51, Aschendorf, Münster 1969.

58
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siano nella codificazione carolingia. Il materiale liturgico è disposto in modo simile al


bergomense.

4. La liturgia tra teologia e pastorale

L’approccio ai documenti più significativi della produzione liturgico - eucologica


in ambito romano ci ha reso famigliari con i nomi di alcuni papi, che hanno avuto a che
fare in modo del tutto particolare con la questione liturgica. Concludiamo lo studio di
quest’epoca con un cenno alle figure di papa Leone Magno e di papa Gregorio Magno,
l’uno «teologo» della liturgia, l’altro «pastore» mediante la liturgia.

4.1. Leone Magno (440-461)

Lo studio di Leone Magno ha conosciuto nel nostro secolo un notevole incremento,


e si è rivelato fecondo per la «teologia della liturgia» in generale e per la «teologia
dell’anno liturgico» in particolare. Il Liber Pontificalis54, nelle brevi note a lui dedicate,
ricorda la sua attività legislativa in campo liturgico e l’impulso da lui dato ai nuovo luo-
ghi di culto romani (Battistero di san Giovanni in Laterano, santa Maria Maggiore,
ecc...). La corrispondenza con i vescovi della penisola e al di fuori di essa ce lo presenta
in atto di dare indicazioni e modelli anche di carattere liturgico.
L’attenzione dei liturgisti si è però concentrata sullo studio dei suoi sermoni auten-
tici (97), tenuti quasi tutti in occasione delle grandi feste liturgiche allora conosciute
(Natale: 10 sermoni; Epifania: 8 sermoni; Passione: 19 sermoni; Pasqua di Resurrezio-
ne: 2 sermoni; Ascensione: 2 sermoni; Pentecoste: 3 sermoni), dei periodi liturgici più
intensi (Quaresima: 12 sermoni; giorni di digiuno nelle quattro tempora: 22 sermoni) e
dei Santi più cari alla città di Roma (santi Pietro e Paolo: 3 sermoni; san Lorenzo: 1
sermone). È il primo corpus di omelie papali che sia giunto fino a noi55.
Leone Magno attesta nei suoi sermoni un uso ampio del termine sacramentum -
mysterium. Tale vocabolario serve per designare contemporaneamente gli eventi della
vita di Cristo, le azioni liturgico - sacramentali della Chiesa (eucaristia, battesimo, ordi-
nazioni, dedicazioni, ecc...) e, in un senso del tutto particolare, le grandi feste cristiane
lungo l’anno liturgico:
54
Cf. Le «Liber Pontificalis». Texte, introduction et commentaire 3 Voll., a cura di DUCHESNE LOUIS,
Paris, 1955-1957.
55
Edizioni: Sancti Leoni Magni romani pontifici tractatus septem et nonaginta, 2 Voll., a cura di
CHAVASSE ANTOINE = Corpus Christianorum. Series Latina 138 - 138A, Brepols, Turnhout 1973. In
italiano: LEO MAGNUS, I sermoni del ciclo natalizio [Sermones 1-19], a cura di ELIO MONTANARI -
MARCO PRATESI - MARIO NALDINI = Biblioteca Patristica 31, Dehoniane, Bologna 1998, pp. 449;
LEO MAGNUS, I sermoni quaresimali e sulle collette [Sermones 20-38], a cura di ELIO MONTANARI
- MARCO PRATESI - SILVANO PUCCINI = Biblioteca Patristica 33, Dehoniane, Bologna 1999, pp. 363;
Leo Magnus, I sermoni sul mistero pasquale [Sermones 39-59], a cura di ELIO MONTANARI - ELENA
CAVALCANTI = Biblioteca Patristica 38, Dehoniane, Bologna 2001, pp. 488.

Studi: DE SOOS M. B., Le Mystere liturgique d’apres saint Léon Le Grand = Liturgiewissenschaf-
tliche Quellen und Forschungen 34, Münster 1958; DEKKERS E. Autour de l’oeuvre liturgique de
saint Léon le Grand, «Sacris Erudiri» 10 (1958) pp. 363-398; MARSILI SALVATORE, Il mistero di
Cristo in prospettiva liturgica secondo san Leone Magno, in Mistero di Cristo e liturgia nello Spiri-
to, Lev, Roma 1986, pp. 119-160.

59
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“Nota quidem sunt vobis, dilectissimi, et frequenter audita, quae ad sacramen-


tum pertinent sollemnitatis hodiernae” (sermo III de Natale Domini = Tracta-
tus 23,1 = CCL 138, 102)56.

"Sed... nitamur, ut possumus, adiuvante Spiritu Dei, eo per intelligentiae semi-


tas pervenire, ut cognoscamus sacramentum praesentis festi ad omnium fide-
lium tempora pertinere..." (sermo VIII de Epiphania = Tractatus 38,1 = CCL
138, 205)57.

"Totum quidem, dilectissimi, paschale sacramentum evangelica nobis narratio


praesentavit, et ita per aurem carnis penetratus est mentis auditus... (sermo
XXI de Passione Domini = Tractatus 72,1 = CCL 138A, 441)58.

A partire da queste e da altre espressioni simili, ricorrenti con frequenza nei suoi
sermoni, gli studiosi si sono interrogati sul senso del sacramentum liturgico in papa
Leone, accreditando la sua riflessione come uno dei momenti più vivi della «teologia li-
turgica» in epoca patristica. Recuperiamo una traccia di questa riflessione, intendendo
valorizzarla, nel nostro studio storico, come un saggio di approfondimento
dell’autocoscienza che l’epoca patristica esprime nei confronti dell’agire liturgico della
Chiesa59.

1) Un primo dato da riportare è l’insistenza della predicazione leoniana sull’hodie li-


turgico - celebrativo: Salvator noster hodie natus est; Hodie auctor mundi editus est
utero virginali; Hodie Verbum Dei carne apparuit vestitum, ecc... La struttura sintattica
della frase (avverbio di tempo presente + verbo al passato) è piuttosto singolare, e apre
alla comprensione del pensiero leoniano. Si potrebbe anche interpretare queste espres-
sioni come un espediente retorico del tipo «oggi, sono quattrocentoquarantacinque anni,
il nostro Salvatore è nato, è stato generato da un grembo verginale, ecc...». In questo
modo, la festa liturgica cristiana sarebbe il puro ricordo anniversario di quel fatto ormai
passato. La comunità cristiana sarebbe equiparata a un gruppo sociale che si ritrova per
celebrare le gesta del suo fondatore. Leone Magno non vuole in alcun modo negare o
sottacere la puntualità storica dell’evento che sta al centro della festa cristiana, ma crede
con forza che nella celebrazione delle feste liturgiche cristiane la distanza temporale tra
noi e l’evento è come annullata, grazie alla sua riproposizione sacramentale. Nell’azione
rituale cristiana i fedeli hanno parte alla virtus salvifica, sgorgata da quell’evento, così
che in sacramento (o in mysterio) essi sono contemporanei all’evento stesso. La memo-
ria liturgica dell’avvenimento della vita di Cristo, attuata dalla Chiesa, rinnova nel pre-
sente l’efficacia salvifica di quello stesso avvenimento che, in quanto fatto storico, re-
sterebbe irrimediabilmente passato. Ecco in proposito alcuni testi natalizi:

56
“Sono a voi note, carissimi, e frequentemente ascoltate le cose pertinenti al sacramento / mistero
della solennità odierna”
57
“Ma... sforziamoci come possiamo, con l’aiuto dello Spirito di Dio, di giungere a tale perfetta intel-
ligenza da comprendere che il mistero della presente festa appartiene a ogni tempo e a tutti i fede-
li”.
58
“La narrazione evangelica ci ha presentato tutto il sacramento pasquale e così, penetrato per
l’orecchio della carne è ascoltato (per l’orecchio) della mente...”.
59
Seguo in queste pagine lo studio del De Soos precedentemente segnalato.

60
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“Carissimi, gioiamo: oggi è nato il nostro Salvatore. Non è infatti lecito che ci
sia tristezza là dove c’è il natale della vita, la quale, messo fine al timore della
morte, porta in noi la gioia della vicina eternità... Esulti il santo, perché si av-
vicina al premio sperato; gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono; si
animi il pagano, perché è chiamato alla vita” (Sermo I de Natale Domini =
Tractatus 21,1 = CCL 138, 85).

“Certamente l’infanzia, che la maestà del Figlio di Dio non ha ritenuto disdi-
cevole, si è normalmente sviluppata con il crescere degli anni fino alla perfet-
ta maturità e, una volta compiutosi il trionfo della passione e della resurrezio-
ne, tutte le azioni fatte nell’umiltà e per noi intraprese sono ormai passate.
Tuttavia la presente festività rinnova per noi il sacro Natale di Gesù (renovat
nobis hodierna festivitas nati Iesu sacra primordis) generato da Maria. E men-
tre adoriamo la nascita del nostro Salvatore, ci ritroviamo a generare la no-
stra stessa generazione. La generazione di Cristo è l’origine del popolo cri-
stiano. Il Natale del capo è anche il Natale del corpo” (Sermo VI de Natale
Domini = Tractatus 26,2 = CCL 138, 126)60

“Dilettissimi, esultiamo nel Signore e rallegriamoci con spirituale gaudio,


perché è spuntato per noi il giorno che significa la nuova redenzione, l’antica
preparazione, la felicità eterna. Il mistero della nostra salvezza, promesso
all’inizio del mondo e attuato nel tempo stabilito, per durare senza fine, si rin-
nova per noi nel ricorrente ciclo annuale” (Sermo II de Natale Domini = Trac-
tatus 22,1 = CCL 138, 90).

In questi testi, e in molti altri della predicazione leoniana, appare chiaro che egli
non considera mai gli avvenimenti della vita di Cristo come puro fatto storico. In questo
caso infatti nessun «rinnovamento» di essi sarebbe possibile. Leone considera sempre
gli avvenimenti della vita di Cristo come eventi storico - salvifici, nei quali e per i quali
la salvezza divina è donata e rivelata. Ogni fatto della vita del Cristo è già evento di sal-
vezza (sacramentum salutis), e dunque parte di quel mysterium salutis che si è rivelato
in pienezza nella sua pasqua.
Che cosa avviene allora nella celebrazione memoriale (sacramentale) dei misteri di
Cristo? La celebrazione della Chiesa, risponde san Leone, rinnova per l’oggi quegli
eventi, non nella loro fattualità, ma nella loro realtà salvifica. Se l’avvenimento storico
resta irrimediabilmente passato, la sua ripresentazione sacramentale (repraesentatio), at-
traverso la celebrazione liturgica, permette oggi alla Chiesa di comunicare realmente al-
la sua virtus salvifica. Il discorso deve allora concentrarsi sulla «mediazione liturgico -
sacramentale» che rende possibile l’oggi della salvezza.

2) Dobbiamo per questo richiamare una seconda espressione ricorrente nei sermoni
leoniani: memoriam celebrare. Ecco uno dei testi più tipici al riguardo:

60
L’accento va posto sul renovat nobis. Ciò che il Natale di Gesù fu realmente per coloro che erano
presenti alla sua nascita («l’apparire della grazia apportatrice di salvezza» per dirla con Tt 2, 11) lo
è, mediante la celebrazione memoriale della Chiesa, realmente per noi oggi.

61
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“Dilettissimi, voi ben sapete che la manifestazione del nostro Signore e Salva-
tore rende particolarmente importante l’odierna festività. Questo è il giorno
che portò i magi, preceduti dalla stella, a conoscere e ad adorare il Figlio di
Dio. Giustamente è gradito di celebrare con culto annuale la memoria di que-
sto fatto (cuius facti memoriam placuit honore animo celebrari), affinché, men-
tre il racconto evangelico è ripresentato incessantemente, il mistero della sal-
vezza, mediato da un insigne miracolo, sia sempre meditato da quelli che lo
comprendono” (Sermo V de Epiphania = Tractatus 35,1 = CCL 138, 188).

L’espressione placuit memoriam huius facti honore animo celebrari acquista nel
linguaggio di Leone un senso quasi tecnico. Si tratta della celebrazione annuale di una
festa cristiana, fatta da tutta la Chiesa mediante la celebrazione eucaristica. Non si dà
per Leone Magno memoria dei misteri cristiani senza eucaristia, considerata nel suo du-
plice momento di annuncio della Parola e di offerta della Vittima santa. Attraverso la
proclamazione della Parola, specialmente la narratio evangelica, avviene la memoria
specifica di un mistero. Leone ha una visione quasi sacramentale della lettura della Pa-
rola. Non un semplice riandare a episodi passati della storia della salvezza, ma un ascol-
to nella fede che ha il potere di trasformare l’audizione in «visione», e di farci assistere
in spirito agli avvenimenti che non abbiamo potuto vivere con il nostro corpo. Nel ser-
mone per la veglia pasquale leggiamo:

“Dilettissimi è stata letta, come è d’uso, la storia della passione del Signore,
secondo il racconto del Vangelo. Io credo che essa abbia penetrato così for-
temente il cuore di tutti che la lettura si è trasformata, per ognuno degli udito-
ri, in visione” (Sermo 19 de passione Domini = Tractatus 70,1 = CCL 138A,
426).

"Il racconto evangelico, dilettissimi, ci ha esposto (praesentavit) tutto il miste-


ro della Pasqua (totum paschale sacramentum) e così, attraverso le orecchie
del corpo, ha penetrato l’udito della mente, affinchè a nessuno di noi manchi
l’immagine (la visione) degli avvenimenti" (Sermo 21 de passione Domini =
Tractatus 72,1 = CCL 138A, 441).

Attraverso l’attuazione celebrativa del sacramentum paschale (celebrazione eucari-


stica) si rinnova per la Chiesa la pienezza del mistero della salvezza, in forza del quale
ogni avvenimento della vita del Signore è, a suo modo e per la sua parte, sacramentum
salutis, che rinnova nell’oggi l’opera della redenzione. In conclusione la celebrazione li-
turgica delle feste cristiane è, per Leone Magno, «sacramento» mediante il quale comu-
nichiamo oggi all’evento salvifico di Cristo, ed «esempio», mediante il quale la vita cri-
stiana si fa imitatio Christi:

“Queste opere di nostro Signore, che noi oggi celebriamo, sono a noi utili non
solo per il sacramento che contengono, ma pure per l’esempio che presentano
e che invita all’imitazione” (non solum sacramento nobis utilia sunt, sed etiam
imitationis exemplo - Sermo V de natale Domini = Tractatus 25,6 = CCL
138,123-124).

62
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4.2. Gregorio Magno (590-604)

Se Leone Magno ha approfondito l’aspetto misterico - sacramentale della liturgia,


elaborando nella sua predicazione e nelle sue composizioni liturgiche quella che con
terminologia attuale possiamo chiamare una vera e propria «teologia liturgica», Grego-
rio Magno (590-604) ha realizzato una profonda riorganizzazione liturgica per dotare la
liturgia romana e, attraverso di essa, l’intera liturgia occidentale, di strutture pastoral-
mente più efficaci a livello popolare. Pur potendo oggi riconoscere anche il limite
dell’azione di riforma promossa da papa Gregorio, dobbiamo riconoscere che, nelle dif-
ficili condizioni della sua epoca, Gregorio Magno ha trovato dei canali pastoralmente
efficaci, per far vivere e far gustare la liturgia al popolo. Mi soffermo a considerare le
tre grandi scelte liturgiche che hanno lasciato ampia traccia di sé fino alla recente rifrma
conciliare:

a) Tenendo conto della venerazione del popolo romano per le basiliche e le chiese
erette sopra le tombe dei martiri, papa Gregorio potenziò e completò l’iniziativa del cul-
to stazionale quaresimale avviata dai suoi predecessori. Ebbe così a disposizione
un’occasione straordinaria di predicazione al popolo, ben attestata dal suo corpus omile-
tico giunto fino a noi.

b) Prendendo atto del basso livello culturale di tanta parte dei fedeli che prendevano
parte all’assemblea liturgica festiva, Gregorio Magno riformò il lezionario, il sacramen-
tario e l’antifonario, per avere riti più «semplici», ma più efficaci dal punto di vista pa-
storale. Tra le «semplificazioni» gregoriane ricordiamo:

* la riduzione del numero delle letture domenicali da tre a due, con una scelta delle
pericopi evangeliche non solo in riferimento al mistero celebrato, ma anche alla «me-
moria» celebrata nella chiesa stazionale;

* la riduzione del numero dei prefazi da usarsi nella celebrazione;

* la soppressione della preghiera dei fedeli, forse in ragione della ormai pratica
scomparsa del gruppo dei catecumeni, che era una delle intenzioni specifiche di quella
preghiera.

c) Conoscendo poi la forza d’incidenza emotiva della melodia e del canto sul senti-
mento del popolo, papa Gregorio avviò un potenziamento del canto liturgico [si parlerà
appunto di «canto gregoriano], affidando alla schola una funzione rilevante nell’ambito
della liturgia romana. Essa venne situata tra il presbiterio e il popolo, quasi a fare da
medium tra i fedeli ed i sacerdoti. I cantori presero a eseguire il canto liturgico in modo
più solenne e dignitoso, provocando, da una parte, l’ascolto commosso e partecipe dei
fedeli, ma spingendo, dall’altra verso un minore coinvolgimento dell’intera assemblea.
La bellezza teologica, spirituale ed estetica del canto gregoriano eseguito dalla schola è
il patrimonio storico del canto liturgico della Chiesa e sarebbe imperdonabile superficia-
lità culturale, teologica, liturgica e spirituale la sua ignoranza.

63
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EXCURSUS I

UNICA LITURGIA - PLURALITÀ DI «RITI»

Se nei primi tre secoli era già possibile recensire sensibilità liturgiche diversificate
tra Chiesa e Chiesa all’interno di una stessa area geo-culturale, o tra Chiese di aree geo -
culturali nettamente distinte, non era però ancora giustificato parlare di «riti particolari»
o di «differenti famiglie liturgiche». È solo a partire dal sec. IV che abbiamo la possibi-
lità di documentare una più marcata differenziazione liturgica tra le Chiese e di parlare
di «tradizioni liturgiche» autonome. Esse fanno capo alle grandi Chiese metropolite
(Alessandria - Antiochia - Gerusalemme - Bisanzio, per l’Oriente; Roma - Milano - Ra-
venna..., per l’Occidente) e, in seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente
(476), alle diverse Chiese «nazionali» (Gallia, Spagna, Irlanda...) che accompagnano
l’insediamento dei nuovi popoli barbari e la loro conversione.
La loro peculiarità non nasce da spirito di contrapposizione e non comporta un giu-
dizio dubitativo o negativo nei confronti delle altre tradizioni liturgiche61. Essa dice
piuttosto la volontà e la capacità di sviluppare autonomamente, secondo la propria indo-
le ecclesiale e culturale, gli elementi comuni e irrinunciabili del culto cristiano.
Qual è il fondamento teologico ed ecclesiologico di questo pluralismo liturgico ef-
fettivo, conosciuto dalla Chiesa dei Padri? Senza disattendere le cause di carattere stori-
co - contingente, la ragione ultima può essere individuata in una più accentuata ecclesio-
logia di comunione tra le Chiese, che ha a cuore il comune riconoscimento della retta
fede, secondo la regola sancita dai grandi concili ecumenici (Nicea, Efeso, Calcedo-
nia...), mentre lascia più ampio spazio di manovra nell’ambito della disciplina liturgico -
rituale. Sono infatti i sinodi locali, presieduti dal Metropolita, a dare le direttive in cam-
po liturgico. Anche papi come Leone Magno e, ancor più, come Gregorio Magno, che
sentono la sollicitudo omnium ecclesiarum della sede romana e approfondiscono la dot-
trina della primazialità della sede di Pietro, non intervengono ancora, sul versante litur-
gico, con una disciplina da estendere all’intera Chiesa. Basti qui citare quanto scriveva
Gregorio Magno ad Agostino di Canterbury:

“Mentre la fede è una sola, diverse sono le consuetudini delle diverse Chiese;
altra è la consuetudine delle messe nella Chiesa romana, altra nelle Chiese
delle Gallie. Tu hai conosciuto la consuetudine della Chiesa di Roma, nella
quale ricordi di essere stato nutrito e che tu hai validamente amato. Ma a me
piace che se tu, nella romana o in quella delle Gallie o in qualunque altra
Chiesa, hai trovato qualcosa che possa piacere ancor di più a Dio onnipoten-
te, con sollecitudine tu possa trattenerla” (MANSI, X, coll. 415-416).

Il capitolo dei diversi riti sia d’oriente che d’occidente richiederebbe un corso ap-
posito. Per i riti orientali rimando a una prima indicazione bibliografica62. Per quelli oc-
cidentali dico qui di seguito una parola:

61
La storia si incarica di mostrarci piuttosto un continuo interscambio liturgico (testi, usi, feste, ordi-
namenti) tra le Chiese, che crea un’osmosi continua e un arricchimento reciproco: oriente - occiden-
te; Roma - Milano; Roma - Gallia; Milano - Oriente; Milano - Gallia; Spagna -Gallia, ecc...
62
DALMAIS I.H., Le liturgie Orientali= Parola e Liturgia 12, Paoline, Milano 1982, spec. pp. 39-71.

64
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1) Il rito gallicano, che non ha avuto il tempo di consolidarsi in una grande tradizione
compiuta, ebbe il suo periodo aureo lungo tutto il sec. VI e nella prima metà del sec.
VII.

2) Il rito celtico, o iro-celtico, che risulta di più evidente ispirazione monastica e, co-
me e più del rito gallicano, ci è testimoniato in maniera piuttosto lacunosa63.

3) Il rito ispano-visigotico, detto anche rito mozarabico, dal nome arabo con cui erano
chiamati i cristiani sottomessi al dominio arabo64. Esso si sviluppò in modo ben definito
a partire dal sec. VI e rimase in vigore fino all’epoca di papa Gregorio VII (1073 -
1085), che ne decretò la soppressione. Nel momento del suo massimo sviluppo, durante
il regno dei Visigoti (sec. VII) e sotto il genio organizzatore di Isidoro di Siviglia (560
ca. - 636), il rito ispano-visigotico era celebrato in tutta la penisola iberica, nella Gallia
Narbonese e nella zona dei Pirenei.

4) Il rito ambrosiano, l’unico rimasto vivo fino a oggi65. Il termine «ambrosiano», at-
tribuito al rito peculiare della chiesa di Milano, deve essere considerato come nel caso
dei sacramentari leoniano e gregoriano, un rimando più affettivo che reale.
Dopo accurate indagini condotte sugli scritti autentici di sant’Ambrogio gli studiosi
sono concordi nel riconoscere che è prematuro fissare all’epoca del suo episcopato la
fioritura di quello che indichiamo oggi con il nome di «rito ambrosiano». Ambrogio
rinnova sicuramente in qualche punto la liturgia romana, ma con il suo episcopato sia-
mo ancora al di qua di un vero e proprio rito peculiare con i suoi testi, la sua struttura li-
turgica annuale, il suo santorale, la sua tradizione musicale, le sue particolarità struttura-
li nella messa e nell’ufficio divino.
I primi documenti attestanti un rito ben organizzato nelle sue diverse parti e distinto
dalla liturgia romana sono purtroppo solo dei secc. IX-X. Se la datazioni delle fonti do-
cumentarie è bassa, alcuni studiosi si sono applicati a una datazione interna del materia-
le attestato. Si avanza così l’ipotesi, ormai abbastanza consolidata, di un primo sviluppo
del rito ambrosiano nel periodo precedente all’esilio genovese dei vescovi di Milano,
iniziato nel 569.
Si ipotizza poi un secondo sviluppo del rito ambrosiano a partire dalla metà del
sec.VII con il ritorno dall’esilio genovese e l’inizio del regno franco (643-774). In que-
sta epoca si sarebbe consolidato l’ordinamento generale della liturgia ambrosiana, men-
tre si sarebbe fatto sentire l’influsso di elementi orientali per il tramite della Chiesa di
Ravenna.
L’attestazione dei documenti a nostra disposizione (secc. IX-X) è perciò considera-
ta come la terza fase dello sviluppo del rito ambrosiano, fase in cui emerge una più ac-

63
Per farsene un’idea più precisa occorre rifarsi al modo con cui è avvenuta la cristianizzazione della
Gran Bretagna e dell’Irlanda.
64
Si veda FONTAINE J., L’arte mozarabica. Cristiani e musulmani nell’alto medioevo, Jaca Book, Mi-
lano 1983, pp. 31-40. A pagina 31 si legge: “La creazione artistica dei mozarabi sarebbe come una
forma priva di contenuto che le dà un significato se ci mettessimo ad analizzarla senza prima con-
siderare la liturgia che ne è il centro e la fonte vitale”.
65
Per un primo approccio BORELLA PIETRO, Il rito ambrosiano, Brescia, 1964, pp. 498; Dizionario di
Liturgia ambrosiana, a cura di NAVONI MARCO, Ned, Milano 1996, pp. 649; TRIACCA ACHILLE
MARIA, Ambrosiana liturgia, in Liturgia, a cura di SARTORE DOMENICO-TRIACCA ACHILLE MARIA-
CIBIEN CARLO, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, pp. 6-46.

65
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centuata romanizzazione, dovuta alla volontà carolingia di uniformare a Roma la litur-


gia di tutte le regioni facenti parte del sacro romano impero.
Diversi documenti medioevali (secc. X-XII) infatti attestano, tra lo storico e il leg-
gendario, che fu proprio il papa Adriano I a riconoscere e confermare alla Chiesa am-
brosiana il diritto di avere un proprio rito particolare di contro alle pretese di Carlo Ma-
gno, che ne reclamava la soppressione. Comunque debbano intendersi queste notizie è
un fatto che, pur subendo l’influenza romano - franco, il rito ambrosiano resistette alla
volontà di Carlo Magno di uniformare liturgicamente l’impero secondo la consuetudine
romana, a differenza del rito gallicano, che perse la sua battaglia per la sopravvivenza.
Dalla prima documentazione certa del rito ambrosiano possiamo ricavare gli ele-
menti che fanno di esso un rito distinto e specifico, pur rimanendo in stretto contatto
con Roma. Esso possiede: - un sistema originale di letture bibliche, almeno per alcuni
periodi dell’anno; - un ordinamento originale della messa e dell’ufficiatura; - elementi
peculiari nella struttura dell’anno liturgico e nel santorale; - un patrimonio eucologico,
specie prefaziale, di rilievo, con sottolineature tematiche caratteristiche66; - una peculia-
re tradizio- ne testuale e melodica nel canto liturgico.

66
Ecco quanto scrive il Triacca a proposito dell’eucologia ambrosiana: “La matrice profonda della li-
turgia ambrosiana, per le vicende sia ecclesiali che politiche che si trovò a vivere, è l’anti - ariane-
simo. Ciò le ha impresso una forte tonalità cristocentrica (riflessione particolarmente reiterata sul
mistero dell’incarnazione) e una più intensa sottolineatura mariana (cf. la festa di Maria sempre
vergine e madre di Dio)”.

66
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CAPITOLO IV

LA LITURGIA LUNGO IL MEDIOEVO


(SECC. VII-XV)

Di questo lunghissimo periodo, che va dal sec. VII al sec. XV, dalla morte di papa
Gregorio Magno (604) all’invenzione della stampa (1453ca) o alla scoperta delle Ame-
riche (1492), convenzionalmente chiamato Medioevo dobbiamo supporre noti, almeno a
grandi linee, gli avvenimenti storici. Per il nostro scopo è sufficiente una periodizzazio-
ne in tre tempi: l’alto Medioevo (secc. VII-XI), il Medioevo classico (secc. XI-XIII) e il
basso Medioevo (secc. XIV-XV).
Per le finalità del nostro studio tratteremo solo dei primi due tempi (alto e classico),
i più significativi sotto il profilo della storia della liturgia e i più studiati dagli storici,
tralasciando invece il terzo1. Il sec. XI è a tutti gli effetti il secolo cerniera tra l’alto Me-
dioevo e il Medioevo classico e in qualche modo appartiene a entrambi i periodo.

I. LA LITURGIA NELL’ALTO MEDIOEVO

Ricordiamo alcuni dati storici di quadro: l’instaurarsi del regno longobardo in Italia
e la sua fine a opera dei Carolingi; l’unificazione dell’Europa sotto Carlo Magno e la ri-
presa del titolo di imperatore del Sacro Romano Impero; la decadenza dell’impero caro-
lingio e lo spostamento dell’asse imperiale dalla Francia dalla Germania; la separazione
sempre più marcata dell’oriente dall’occidente fino allo scisma del 1054, in cui avvenne
la definitiva rottura della comunione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli; le
oscure vicende del papato nel corso del sec. X e la sua ripresa nel sec. XI.
Sul versante della prassi liturgica possiamo ormai procedere più sicuri, grazie
all’abbondante attestazione di fonti liturgiche dirette che affiancano le memorie storiche
e gli scritti occasionali. Tutti gli studiosi di storia della liturgia sono concordi nel rico-
noscere la grande importanza di questi secoli sul futuro della liturgia occidentale, della
quale ormai ci occuperemo in modo pressoché esclusivo.

1. L’ordinamento liturgico romano

Risalgono ai secc. VII - VIII i più antichi ordines romani (= ordinamenti liturgici
romani). Grazie a questi documenti veniamo a conoscenza della struttura celebrativa dei
diversi momenti sacramentali della liturgia romana (iniziazione cristiana, celebrazione
eucaristica, ordinazioni, ecc...) così com’erano, prima dell’influsso franco - germanico.
I due testi più caratteristici al riguardo sono l’ordo I (rituale della messa papale) e
l’ordo XI (rituale d’iniziazione cristiana per infanti)2. Lo studio di queste fonti dirette
permette di fare il punto circa il sentire liturgico della Chiesa di Roma al termine della

1
Per qualche notizia relativa ai secc. XIV-XV cf CATTANEO ENRICO, Il culto cristiano in occidente.
Note storiche = Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia 13, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma
2
1984, pp. 252-280.
2
La numerazione è quella dello studioso MICHEL ANDRIEU, che ne ha curato l’edizione critica in 5
volumi.

67
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grande epoca dei Padri e prima dei nuovi sviluppi provenienti dal mondo franco-
germanico:
a) L’azione liturgica è imponente e solenne, ben strutturata nelle sue diverse parti e
nei suoi ministeri (accoliti - suddiaconi - diaconi - presbiteri - vescovo), con un cerimo-
niale ben elaborato.
b) Si intravvede già uno stacco più accentuato tra clero e popolo, anche se la parteci-
pazione dell’assemblea all’azione liturgica appare ancora piuttosto attiva. Diversi stu-
diosi leggono come un ‘segno di involuzione’ a proposito della partecipazione dei fede-
li, anche il fatto che il canto è ora affidato prevalentemente a una schola, che sta in un
luogo apposito tra l’altare e il popolo. L’affermazione protrebbe, forse venire sfumata
da ulteriori verifiche storiche sui secoli precedenti (dalle quali si potrebbe forse mostra-
re come non sia mai esistito un puro e semplice canto assembleare) e da una più attenta
considerazione sia delle condizioni socio - culturali dell’epoca (vedi il basso grado di
istruzione del popolo) sia della competenza artistica richiesta per il canto liturgico.
c) Ripetutamente compare in questi ordines la sottolineatura della dignitas episcopale
e presbiterale, e in genere di ogni grado dello stato clericale. Si sviluppa l’attenzione per
gli abiti e le insegne da usarsi nella celebrazione, con una forte lettura mistico – simbo-
lica di ogni singolo indumento e insegna, e si moltiplicano i gesti di «onore» (inchini,
prostrazioni...) nei confronti di colui che presiede e di coloro che, a diverso titolo, lo at-
torniano. In tutto questo è possibile ravvisare un certo influsso del cerimoniale della
corte imperiale, ma anche un certo recupero della legislazione veterotestamentaria ri-
guardante il sacerdozio levitico e tutto l’apparato cerimoniale a esso strettamente con-
nesso, ora che non ci dovrebbe essere più alcuna possibilità di equivocare sulla singola-
re novità del culto cristiano3.

2. Il passaggio al mondo franco-germanico

Mentre a Roma si consolida l’ordinamento liturgico generale, nelle aree periferiche


(Gallia - Germania – Irlanda – Gran Bretagna - Nord Italia - Spagna) le diverse liturgie
particolari non riescono a darsi un’ordinamento altrettanto solido. Scrive lo storico En-
rico Cattaneo:
“La libertà liturgica, accentuata nel sec. VII con l’intento pratico di favorire
nelle singole regioni un culto rispondente nelle forme alle esigenze della civil-
tà locale, germina in misura troppo grande, da non assicurare a una provin-
cia ecclesiastica l’unità liturgica. Senza dare alla parola un contenuto ribelle,
ma solo descrittivo, si giunge alla prima metà del sec. VIII all’anarchia litur-
gica”4.

È evidente che il problema non stava nel fatto di avere liturgie particolari, ma nella
condizione generale di decadenza culturale, ecclesiale, sociale in cui quest’epoca versa-
va: un clero poco o nulla formato sia teologicamente, sia pastoralmente; una disciplina
ecclesiastica disgregata [un sintomo: le chiese locali non celebrano quasi più i loro si-

3
Si possono opportunamente leggere in proposito i testi liturgici per i riti di ordinazione del Sacra-
mentario veronese, o. c., nn. 942-954.
4
CATTANEO ENRICO, Il culto cristiano in occidente. Note storiche = Bibliotheca Ephemerides Litur-
gicae. Subsidia 13, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 21984, p. 159.

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nodi]; un’ instabilità politico e sociale, con immediate conseguenze intra-ecclesiali [si
veda ad esempio l’alternarsi di re ariani e di re cattolici nel regno longobardo con il con-
seguente disagio per l’intera vita ecclesiale]. Questa situazione, cui Roma stessa guar-
dava con crescente preoccupazione, si sbloccò definitivamente con l’ascesa della dina-
stia carolingia al trono di Francia. Essa mise mano, anche in vista di una maggiore stabi-
lità sociale e politica, al risanamento della vita religiosa e liturgica.
a) Crodegango, vescovo di Metz (+766), sostenuto dal re Pipino il Breve, si diede an-
zitutto all’opera di risanamento della vita clericale. Con la sua Regula canonicorum isti-
tuì per il clero la struttura di vita canonicale “tendente a raggruppare il clero in cura
d’anime nelle canoniche, dove la vita comunitaria era d’obbligo in funzione di
un’accurata vita liturgica”5. Il fulcro della vita comunitaria del clero riunito nelle cano-
niche venne individuato nella celebrazione corale dell’ufficiatura divina, in analogia con
la struttura di vita monastica. Il modello di tale ufficiatura, e qui sta una delle intuizioni-
chiave di Crodegango, doveva essere la consuetudo romana. Si avvia in tal modo, sotto
il regno di Pipino il Breve, il processo d’unificazione liturgica con Roma [per il momen-
to è in gioco la consuetudo romana dell’ufficiatura divina] dei territori soggetti
all’influsso carolingio.
b) Carlo Magno (768-814), succedendo al padre Pipino, volle continuare la riforma
del clero mediante il consolidamento dell’istituto canonicale e una valorizzazione anco-
ra più ampia della tradizione liturgica romana, che, oltre all’ufficiatura divina toccasse
la celebrazione della santa messa lungo l’anno liturgico e la celebrazione degli altri sa-
cramenti, specialmente del battesimo. Carlo Magno intuì, ancor più del suo predecesso-
re, l’importanza dell’unificazione di tutto l’impero sotto l’unica tradizione liturgica ro-
mana, sia per motivi strettamente politici [rafforzare l’alleanza con il papa e riassorbire
un elemento obiettivamente disgregante], sia per una sincera e personale ammirazione
di quella liturgia che egli aveva potuto gustare più volte di persona6.
Uno dei massimi artefici dell’opera liturgica intrapresa sotto Carlo Magno fu il
monaco Alcuino di York (735-804), che nel 786 fu chiamato a dirigere la schola palati-
na ad Aquisgrana e a occuparsi della riorganizzazione dell’insegnamento in Francia e in
tutto l’impero. Il giudizio espresso da Enrico Cattaneo sulla sua opera liturgica è gene-
ralmente condiviso dagli studiosi:
“Segnò una svolta tanto importante per la storia della liturgia occidentale che
appunto da essa nacque il Messale di Pio V”7.

Egli, e il continuatore della sua opera, il monaco Benedetto di Aniano (+ 821), ope-
rarono per dare un ordinamento più chiaro al materiale liturgico [lezionario, testi euco-
logici, struttura rituale], riferendosi costantemente alla consuetudo romana, ma contem-
perandola (consapevolmente) con la sensibilità e le esigenze del clero e del popolo fran-
co - germanico.
Per conoscere bene la tradizione romana Alcuino suggerì a Carlo Magno di chiede-
re a papa Adriano un sacramentario gregoriano puro, il libro liturgico in cui si pensava
fosse contenuta la liturgia romana secondo l’ordinamento e il genio di san Gregorio
Magno. Dopo qualche anno di attesa il sacramentario gregoriano giunse ad Aquisgrana

5
Ibidem, p. 162.
6
Nel 774, nel 781 e nel 787 procurò che i suoi incontri con il papa coincidessero con la Settimana
Santa, in modo da assistere alla grande liturgia pasquale officiata dal papa.
7
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 166.

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e fu copiato negli scriptoria palatini per le diverse Chiese dell’impero. Il cosiddetto sa-
cramentario gregoriano - adrianeo divenne così, per il tramite dell’opera di riforma ca-
rolingia, il primo vero momento di unificazione liturgica dell’occidente secondo la tra-
dizione romana. Non bisogna però assolutizzare quest’affermazione. Infatti il monaco
Alcuino non fu del tutto soddisfatto della liturgia romana testimoniata dal sacramentario
papale. Esso mancava di elementi importanti per le liturgie non papali ed appariva, nel-
la scelta dei formulari e nella formulazione della preghiera presidenziale, troppo sobrio,
quanto al sentimento religioso, e troppo essenziale, quanto a teologia. Nacque così il
Supplemento di Alcuino (e Benedetto d’Aniano) che riportava le parti mancanti al sa-
cramentario romano per le necessità dei vescovi, dei canonici e dei monaci celebranti: le
messe per i tempi per annum; una serie di messe quotidiane; una serie di messe per i vi-
vi, per il re, per i sacerdoti, per i monaci ecc...; una serie di messe per i defunti; messe
per le diverse necessità della vita, per il tempo di guerra, di siccità o di carestia; testi
per benedire cose o persone... e la composizione di una serie di messe votive per ogni
giorno della settimana (Domenica: de Trinitate; de gratia Spiritus Sancti postulanda.
Lunedì: pro peccatis; pro petitione lacrimarum. Martedì: ad postulanda angelica suf-
fragia; pro tentatione cogitationum. Mercoledì: de sancta sapientia; ad postulandam
humilitatem. Giovedì: de caritate; contra tentationes carnis. Venerdì: de sancta cruce;
de tribolatione et necessitate. Sabato: de sancta Maria).
Dall’ipotesi iniziale di un ritorno sic et simpliciter alla tradizione liturgica romana,
si passò senza soluzione di continuità a sviluppare una nuova tradizione liturgica in cui
la sensibilità dei popoli franco - germanici giocò un ruolo di rilievo. Gli studiosi parlano
di ibridismo liturgico o, più positivamente, di una sintesi nuova denominabile «liturgia
romano - germanica». Questa nuova tradizione liturgica, consolidatasi nei secc. IX - X,
avrà la sua codificazione più alta nel cosidetto «pontificale romano - germanico» (sec.
X)8. Redatto in uno scrittorio di Magonza, nel periodo di splendore della dinastia degli
Ottoni, si diffuse con enorme rapidità in tutto l’Occidente e venne accolto anche a Ro-
ma, dove il papato da decenni languiva in una delle fasi più oscure della sua storia. Il
patrimonio di tradizione liturgica, partito da Roma quasi due secoli prima su richiesta di
Carlo Magno per diventare elemento di unificazione religiosa e civile del Sacro Romano
Impero, ritornava a Roma arricchito, riplasmato e, in parte, mutato dal nuovo slancio
creativo dei popoli d’oltralpe.
Quali sono le caratteristiche di maggior novità della liturgia romano - germanica?
Non potendo scendere a un’analisi dettagliata della fervida creatività liturgica dei nuovi
popoli apparsi sulla scena della storia religiosa e civile dell’Europa, ci limitiamo ad al-
cune considerazioni di carattere generale.

2.1. Novità nella preghiera presidenziale

Si devono anzitutto rilevare alcuni cambiamenti nell’ambito della preghiera liturgi-


ca presidenziale:
a) Vanno moltiplicandosi nella celebrazione eucaristica le preghiere dette dal sacerdo-
te celebrante submissa voce (tutto il Canone, la preghiera del Padre Nostro...). Se a que-
sto aggiungiamo la nuova posizione assunta dal sacerdote celebrante nei confronti

8
VOGEL CYRILLE, Le pontifical romano-germanique du dixième siècle, 3 Voll = Spicilegium Fribur-
gense 226.227.229, Roma 1963-1972.

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dell’assemblea dei fedeli, che ora lo scorge di spalle per l’intero arco della celebrazione,
possiamo inferire un importante cambiamento di mentalità. L’azione liturgica tende a
diventare ‘azione del clero’ e la presenza dei fedeli tende a mutarsi in ‘assistenza’ devo-
ta. Si avvia quel lento processo di estraneazione del popolo dalla liturgia, che porterà al-
la perdita della partecipazione dei fedeli all’azione sacra, realtà finora riscontrabile nella
documentazione liturgica in nostro possesso.
b) Si afferma, nella spiritualità del clero, una forte sottolineatura dell’indegnità perso-
nale nell’atto di accostarsi ai sacri riti liturgici. Abbiamo così, dal sec. VIII al sec. XII,
una rigogliosa composizione di «apologie sacerdotali», orazioni introdotte nella cele-
brazione eucaristica allo scopo di rinnovare da parte del sacerdote celebrante la coscien-
za delle propria indegnità e per implorare da Dio, spesso nominato come deitas placabi-
lis, la propria personale purificazione dal peccato. Esse, contravvenendo alla caratteri-
stica di tutta la preghiera liturgica, formulata ad alta voce nel «noi» ecclesiale, sono re-
citate a voce sommessa e alla prima persona singolare, accentuando l’impressione di
estraneità dei fedeli all’azione liturgica in atto9.
c) Si moltiplicano, nelle azioni liturgiche, le eccezioni alla regula aurea della preghie-
ra liturgica, riassunta, all’inizio del sec. IV, nell’effato patristico “semper ad Patrem di-
rigatur oratio” (la preghiera sia sempre rivolta al Padre): da una parte, trova notevole
incremento la preghiera diretta a Gesù Cristo, che in nuce era già presente nel Nuovo
Testamento (Apc 5,13; 2Pt 3,18), e allo Spirito santo10; dall’altra, si sviluppa un reperto-
rio di nuove orazioni che hanno come interlocutore diretto la santissima Trinità ad mo-
dum unius o, come anche viene chiama la sancta deitas11.

9
Per farsene un’idea si legga l’esempio seguente, del sec. XII, riportato da NOCENT ADRIEN, Un Mis-
sel plénier de la Bibliothèque vallicelliana, in Mélanges liturgiques offerts au R. P. dom Bernard
Botte osb de l’Abbaye du Mont César a l’occasion du cinquantième anniversaire de son ordination
sacerdotale (4 juin 1972), Louvain 1972, pp. 421-422:
“Quando sale all’altare, il sacerdote dica in silenzio: «Confesso, altissimo Padre, davanti alla tua
clemenza, tutti i miei peccati, passati, presenti, futuri. Dio del cielo, sii propizio a me peccatore,
perché ho la presunzione di accedere al tuo altare e di invocarti. Tu solo sei quello che santifica
tutte le cose. Tu sei benedetto, tu che benedici ogni cosa. Abbi pietà di me tuo servo, non per i miei
peccati, ma per la tua misericordia, perché ho peccato in azioni, in pensieri e in parole. Molti sono
i miei peccati e non sono degno di essere tuo servo. Fa’ sorgere in me il pianto, rendi tenero il mio
cuore duro e impietrito, perché sono cenere morta...». Quando si canta il Gloria: «Dio, che non de-
sideri la morte ma la conversione dei peccatori, ti prego perché tu non allontani me misero pecca-
tore dalla tua pietà, né guardi ai miei peccati e alle mie infedeltà e ai miei cattivi pensieri, con i
quali tristemente mi allontano dalla tua volontà. Attirami verso la tua grande misericordia e alla
fede e alla devozione di quelli che chiedono la tua misericordia attraverso di me peccatore e, per
tua volontà, mediatore tra te e il tuo popolo. Rendimi capace, ti prego, di essere degno di implorare
la tua misericordia con il tuo aiuto tanto a mio favore quanto per il tuo popolo devoto...». Quando
si legge l’epistola e si canta il Graduale: «Signore Dio onnipotente, sii propizio a me peccatore,
perché tu sei immortale e senza peccato, unico Signore, Dio nostro. Sei benedetto tu che benedici
tutte le cose. Tu, che rendi giuste tutte le cose, sei giusto. Tu, che santifichi tutte le cose, sei santo.
Perdona, te ne prego, il tuo indegno servo, che è peccatore. Ho peccato al tuo cospetto e al cospetto
dei tuoi angeli. Dammi il perdono dei miei peccati e conferma nella fede ortodossa la tua santa
Chiesa e insegnami a fare la tua volontà, perché tu sei, Signore Dio nostro, benedetto nei secoli.
Amen»” [La traduzione dal latino è mia].
10
Tra gli esempi più alti le sequenza di Pasqua (Victimae paschali) e di Pentecoste (Veni sancte Spiri-
tus). Si sviluppa anche un’eucologia minore direttamente rivolta a Cristo.
11
Si veda nel trattato de Deo la corrispondenza di questa formulazione liturgica con la riflessione teo-
logica coeva.

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2.2. Una nuova temperie liturgico-spirituale

Si avverte poi, nell’ambito dell’esperienza religiosa di questi popoli, una nuova


temperie spirituale più attratta dalla dimensione devozionale che misterico sacramentale
della liturgia. Alcuni dati in questa direzione sono:
a) Una lettura più devozionale della santa messa. Intendo per «lettura devozionale»
l’accentuazione degli aspetti più rispondenti alla sensibilità soggettiva di coloro che vi
partecipano, normalmente più periferici rispetto al dato misterico - sacramentale della
celebrazione. È possibile leggere in questa direzione lo sviluppo delle «messe votive»
settimanali, cui ho fatto cenno sopra, come pure il moltiplicarsi delle missae ad diversa
(messe per diverse necessità).
L’elemento valido di questo sviluppo è l’attenzione da parte dell’uomo medievale a
ricondurre ogni situazione della vita e della fede al cuore dell’esperienza cultuale cri-
stiana, cioè all’eucaristia. Non ci si può però nascondere anche la parte di rischio di
questa operazione. Il progressivo offuscamento, presso gran parte dei pastori, della di-
mensione misterico - memoriale della celebrazione liturgica cristiana, e la conseguente
ipostatizzazione del suo valore oggettivo - sacramentale, porterà a una concezione «co-
sificata» e quasi «magica» delle azioni sacre della Chiesa.
I fedeli si orienteranno a «far dire la Messa» per le varie necessità spirituali e mate-
riali della vita, in particolare in riparazione dei propri peccati e in suffragio dei propri
defunti, con una tendenziale riduzione della celebrazione del sacrificio eucaristico a
mezzo sommamente efficace per ottenere da Dio le grazie necessarie. Che il problema
non è solo di carattere pastorale, ma in ultima analisi teologico, risulta con una certa
evidenza dalla lettura dei trattati sulla santa messa, che si moltiplicano a partire dal sec.
IX, e di cui il più celebre risulta quello di Amalario, vescovo di Metz [770 ca. - 850]12.
Essi offrono, sul fondamento pacifico del riconoscimento dell’aspetto sacrificale
dell’eucaristia, una lettura fortemente allegorizzante delle diverse sequenze rituali della
celebrazione, allo scopo di ritrovarvi «allegoricamente» i diversi momenti storici della
passione del Signore e della sua intera vita:

Introito = ingresso di Cristo nel mondo;


Kyrie = preparazione profetica al Cristo;
Gloria = natività di Cristo;
Epistola = predicazione del Battista;
....
Prefazio = inno di Cristo nell’ultima cena;
Inizi del canone = triplice orazione di Gesù nell’orto;
Unde et memores = Cristo innalzato in croce;
Supplices = Cristo, nell’atto di morire china il capo;
Nobis quoque = ultimo grido di Cristo che muore;
Padre nostro = Cristo scende nel sepolcro ...

Se questo tipo di lettura dell’ordinamento della messa aveva lo scopo di una cate-
chesi sulla messa ai fedeli, sempre più distanti da una comprensione del «mistero
dell’altare», essa ottenne l’effetto contrario. Ignorando il senso globale e unitario

12
Amalarii episcopi opera liturgica omnia I Introductio - opera minora, a cura di HANSSENS J.M. =
Studi e Testi 138, Roma, 1948, pp. 255-338.

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dell’azione liturgica nel suo movimento interno complessivo, e le ragioni primariamen-


te funzionali di alcuni momenti rituali specifici, applica artificialmente e dall’esterno ai
singoli particolari un significato che di per sè non ha nulla a che vedere con il gesto o
l’oggetto concreto in questione. Il rito fa riferimento a un «sacro» che sta altrove, ed è
rimando / segnale a qualcosa che l’abilità del teologo si sforza di individuare.
In connessione con una lettura prevalentemente devozionale della santa messa
dobbiamo anche segnalare lo sviluppo del «modo privato», cioè senza presenza di as-
semblea, di celebrare la santa messa. Finora la celebrazione eucaristica ci era ordinaria-
mente attestata in un contesto comunitario [chiesa locale o comunità monastica o cano-
nicale riunita attorno all’unica eucaristia]. Con i secc. VIII-IX si sviluppa l’uso della ce-
lebrazione privata, soprattutto nelle comunità monastiche e canonicali. Tale sviluppo è,
probabilmente, in relazione all’evoluzione della prassi penitenziale, che comincia a pre-
vedere la possibilità di commutare la penitenza imposta di carattere ascetico personale,
e piuttosto onerosa, in un certo numero di messe da far celebrare, con pagamento di
un’offerta. Il modo «privato» di celebrare, permetteva ai monaci e ai canonici di poter
rispondere alle numerose richieste dei fedeli, moltiplicando le celebrazioni nell’arco
della giornata. Esso favoriva inoltre la pietà personale del sacerdote nei confronti
dell’augusto «mistero dell’altare». Lo sviluppo della «messa privata» portò progressi-
vamente alla scomparsa della «messa concelebrata», anche nel caso di raduno del ve-
scovo con il suo presbiterio. Il collegamento tra «messa privata» e le offerte di intenzio-
ni fu anche, com’era prevedibile, causa di abusi. La norma canonica, che proibiva di ce-
lebrare più di una messa al giorno con stipendium, mise ordine al riguardo, ma fu anche
causa, certo involontaria, di invenzioni liturgiche «mostruose» (la cosiddetta missa sic-
ca e la missa plurifaciata), che provocarono a loro volta ripetuti interventi disciplinari
da parte della Gerarchia ecclesiastica13.
b) Un arricchimento, in chiave «drammatica», delle celebrazioni liturgiche lungo
l’anno. In connessione con le grandi solennità cristiane (Triduo pasquale, Ascensione,
Pentecoste, Natale, Epifania...), con l’avvio dei grandi cicli liturgici (quaresima, avven-
to...) e con le più importanti festività di Maria e dei santi (feste patronali) si sviluppano,
«nella» liturgia e «a partire» dalla liturgia, delle espressioni rituali più appariscenti e
teatrali, nelle quali l’evento liturgico celebrato viene riprodotto in forma drammatizzata.
Indice di una nuova sensibilità religiosa e culturale, poco attrezzata per una lettura pro-
priamente teologica dell’anno liturgico, ma affascinata dai grandi quadri narrativi in es-
so riproposti, l’orientamento più drammatico delle celebrazioni tende a riavvicinare il
popolo ai fondamentali misteri della vita di Cristo in un momento in cui si chiude defi-
nitivamente la possibilità di comprendere la lingua e l’azione liturgica ufficiale della
Chiesa. Siamo ai primordi del dramma sacro, dal quale – secondo una recente linea di
ricerca storica – sarebbe scaturito il teatro moderno14.

13
Si può trovare qualche breve indicazione riassuntiva in MARSILI SALVATORE, Anamnesis 1. La li-
turgia, momento nella storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1974, pp. 60-61.
14
Si vedano gli interessanti contributi contenuti negli atti di un convegno di studio, tenutosi a Viterbo
dal 31 maggio al 2 giugno 1976: Dimensioni drammatiche della liturgia medievale, Città di Castello
1977. Tra le ricerche analitiche più recenti è da segnalare BERNARDI CLAUDIO, La drammaturgia
della Settimana santa in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 554.

73
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II. DALLA RIFORMA GREGORIANA AI LIBRI LITURGICI DELLA CURIA ROMANA

Un primo capitolo da puntualizzare sarà la riforma della Chiesa promossa da Gre-


gorio VII, al secolo Ildebrando di Soana (papa dal 1073 al 1085) e la sua incidenza
nell’ambito liturgico. Il sec. XII vedrà l’avvio di quel movimento devozionale che viene
a colmare il vuoto di una liturgia celebrata solennemente, ma poco compresa e sempre
meno partecipata. Il sec. XIII si segnalerà per la pubblicazione dei libri liturgici della
Curia romana e la loro forte diffusione in tutta l’Europa grazie all’opera degli ordini
mendicanti (francescani e domenicani).

1. La riforma gregoriana in campo liturgico

Anche se ha importanti riflessi nel campo dei rapporti tra potere religioso e potere
politico, molti studiosi concordano nel ritenere la riforma gregoriana un fatto primaria-
mente intra-ecclesiale. Il Cattaneo parla di uno sforzo teso “anzitutto alla ricostruzione
della più santa disciplina ecclesiastica”, la quale “usò del fattore liturgico come punto
di convergenza di ogni regola disciplinare”15.
I vizi che travagliavano la vita ecclesiastica del sec. XI erano la simonia e il nico-
laismo. Per «simonia» si intende quell’atteggiamento mentale e pratico per cui ogni po-
sto di responsabilità ecclesiastica è percepito, anzitutto o esclusivamente, come «un be-
neficio» da comprare. Per «nicolaismo» si intende il pratico non rispetto dell’impegno
al celibato, per cui buona parte del clero viveva in stato di concubinato.
La riforma gregoriana mise mano con decisione a questa situazione, riproponendo
ancora una volta come prospettiva di soluzione il binomio liturgia - vita comune. I chie-
rici dovevano vivere insieme, rinunciando ad avere beni personali e mettendo in comu-
ne i frutti dei loro benefici. Solo così potevano attendere alla celebrazione diligente e
continua della liturgia per la loro personale santificazione e per quella del popolo loro
affidato.
Mediante la vita comune e la diligente e devota vita liturgica essi erano grandemen-
te aiutati a mantenere l’impegno di castità, richiesto dal loro stato clericale. I promotori
della riforma dei costumi del clero, per rendere ancora più incisiva la loro azione, invi-
tavano i fedeli a disertare i sacramenti celebrati dai sacerdoti dei quali non fosse certa la
castità.
Gregorio VII si preoccupò di sostenere questa vasta azione di riforma della vita ec-
clesiastica con una riorganizzazione liturgica che eliminasse in radice le cause dei mali
di cui soffriva, in questo campo, la vita della Chiesa: un notevole rilassamento ascetico
nella pratica liturgica e la persistente lontananza di molta parte della Chiesa latina dal
costume liturgico romano.
Quest’ultima situazione aveva provocato, a suo parere, la disgregazione dell’unità
liturgica occidentale, mettendo in forse la stessa integrità morale e dottrinale della litur-
gia. L’azione di riforma si sviluppò dunque in tre direzioni:
- Nella linea dell’affermazione dell’autorità papale anche in campo liturgico. Grego-
rio VII chiese per la prima volta a tutta la Chiesa latina di assumere la consuetudo litur-
gica romana. Il mondo tedesco aderì spontaneamente a Roma, avendo già intrapreso da
tempo questa direzione di marcia. In Spagna il rito ispano - visigotico venne abrogato
nel 1080 (Concilio di Burgos) e sostituito con il rito romano.

15
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 198.

74
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Solo Milano, pur risentendo di una più marcata romanizzazione, conservò proprio
rito particolare16. Va segnalato, in sede critica, che l’adesione di tutto l’occidente a un
preteso ordinamento liturgico romano è, di fatto, la consacrazione per tutta la Chiesa la-
tina della liturgia romano - germanica, codificata nel Sacramentario gregoriano con le
integrazioni del Supplemento di Alcuino (e di Benedetto d’Aniano) e nel Pontificale
romano - germanico del sec. X. Roma impose alle chiese occidentali una liturgia già
permeata della nuova cultura e del nuovo spirito religioso dei popoli subentrati alla dis-
soluzione dell’impero romano antico.
- Nella linea del ritorno all’antico, sia quanto alla recitazione del salterio
nell’ufficiatura divina, sia quanto all’esercizio del digiuno come preparazione ascetica
alle celebrazioni liturgiche.
- Nella linea della formazione e della disciplina dei fedeli. Qui la riforma liturgica
promossa da Gregorio VII mostrò i suoi limiti. L’intento era quello di ricondurre i fedeli
a una regolare pratica liturgica, perché essa fosse il segno di «una vita obbediente alla
legge divina», ma “i riformatori non giudicarono opportuno attaccare la situazione
precaria nella quale i fedeli si trovavano di fronte all’azione liturgica”17. La lettura di-
retta del Cattaneo (pp. 205-207) è qui particolarmente illuminante:

“I riformatori gregoriani non si proposero né di diminuire la prevalenza cleri-


cale anche in ordine alla loro concezione di una Chiesa prevalentemente ge-
rarchica, né di facilitare la comprensione della liturgia [la mancanza
d’istruzione catechistica, propedeutica alla celebrazione, e di predicazione bi-
blico - mistagogica, dentro la celebrazione, continuerà ancora per secoli - pa-
rentesi mia]. Le mete alle quali mirarono furono: 1. - Coltivare la stima per il
sacerdozio, mettendo a forti colori sia l’esigenza della santità in ordine alla
celebrazione liturgica, sia l’indegnità dei preti nicolaiti e simoniaci così da
dispensare i fedeli dall’assistenza ai riti sacri piuttosto che presenziare a tali
indegnità... 2. - Coltivare il senso del mistero di fronte all’azione liturgica.
Ciò risulta particolarmente da due fatti: a) distacco netto dei fedeli dai sacer-
doti celebranti mediante accorgimenti architettonici dei quali il più noto è il
lectorium o jubé ... b) La lettura della Bibbia è riservata al clero... Ciò... è det-
to con autorità da Gregorio VII nella lettera di risposta al duca dei Boemi, nel
1080, che gli aveva chiesto di poter far leggere le letture della messa nella
lingua slavonica... 3. - Coltivare le devozioni sia pure in veste liturgica (per
esempio «ricevere spesso la comunione» e «coltivare la fiducia nella Madon-
na»)”18.

2. Il secolo XII

Il sec. XII vede svilupparsi l’influenza liturgica diretta di Roma su tutto


l’Occidente, inaugurata da Gregorio VII, con una maggiore determinazione nella sua
codificazione giu- ridico - cerimoniale:

16
La ricerca storica non ha individuato con sicurezza le ragioni di un tale «privilegio».
17
CATTANEO ENRICO, o. c., pp. 203-204.
18
Ibidem, pp. 205-207 passim.

75
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1) Il Decretum Gratiani (1141 ca.), raccoglie, tra l’altro, per la prima volta in maniera
organica quello che diverrà la base di un diritto liturgico comune;
2) Il Pontificale secundum consuetudinem et usum romanae Curiae, composto tra la
fine del sec. XII e l’inizio del sec. XIII, rivela un procedimento nuovo di composizione,
anche se il materiale liturgico censito è, grosso modo, quanto già conosciuto nel Pontifi-
cale Romano - Germanico del sec. X. È ormai la Curia Romana, che è andata via via
acquisendo forza e prestigio in riferimento all’esplicazione del ministero petrino, a indi-
care la norma liturgica cui tutta la Chiesa latina è tenuta ad attenersi.
Le diverse esperienze di vita monastico - cenobitica, che hanno ridato vita al mo-
nachesimo benedettino, a partire dal sec. X, e che hanno preparato [soprattutto i clunia-
censi, i camaldolesi e i vallombrosiani] le nuove forme di vita canonicale semi - mona-
stica [i cosiddetti «canonici regolari» contrapposti ai «canonici secolari»: Agostiniani -
Premonstratensi], offrono nel corso del sec. XII ampia documentazione scritta delle loro
consue- tudines liturgiche. Esse, pur non distanziandosi in maniera sostanziale da quelle
romane, portano in sé “una revisione della liturgia per renderla più adatta a esprimere i
nuovi fermenti spirituali individuabili nelle riforme e nelle dispute degli ordini religiosi,
nei dibattiti spesso aspri fra monaci e canonici e in quei fedeli che si agitano contro
consuetudini ormai non più amate”19.
Perché dare peso a questi fatti? Gli studiosi sono concordi nel riconoscere nelle
consuetudines monastiche o semi - monastiche dei canonici regolari l’ultimo vero mo-
mento di tangenza tra liturgia e vita spirituale, l’ultima occasione in cui il rinnovamento
della vita ecclesiale e spirituale passa in maniera organica dall’attenzione all’elemento
«liturgia». Si dovrà poi attendere il sec. XIX, con la nascita del movimento liturgico
[ancora una volta dovuta alla riforma del monachesimo benedettino], per riprendere un
cammino di convergenza tra vita spirituale e vita liturgica o, più in generale, tra azione
pastorale della Chiesa e liturgia.
Sul versante della pratica del popolo cristiano nel sec. XII il fatto liturgico resta
centrale. I fedeli «assistono» alle celebrazioni; adempiono il precetto festivo settimanale
e la comunione pasquale, in un’osmosi molto forte tra ritmi della vita religiosa e ritmi
della vita sociale; celebrano i momenti salienti della vita umana mediante i sacramenti e
i sacramentali, ma con difficoltà ne penetrano il senso profondo e traggono da questi
momenti rito - cultuali l’alimento specifico della propria vita devota e della propria spi-
ritualità personale.
Lo schema in atto sembra piuttosto un altro. «In occasione» della liturgia il popolo
cristiano esprime la sua fede e il suo amore al Signore, valorizzando per la propria pie-
tas e per la propria devotio solo alcuni elementi di essa o, addirittura mettendo al centro
quanto, liturgicamente parlando, è più periferico.

- Nella celebrazione eucaristica prevale una netta concentrazione sul momento della
consacrazione sacramentale, sfuocando non poco l’esigenza e la necessità del momento
della comunione sacramentale. L’introduzione, tra la fine del sec. XI e la prima metà del
sec. XII, del «rito dell’elevazione» è sintomatica al riguardo. Alla comunione «per
manducazione» si tende a sostituire una comunione «per visione», alla quale vengono
riconosciuti, nella letteratura dell’epoca, effetti spirituali analoghi. Scrive il Cattaneo:
“Fu introdotta l’elevazione dell’ostia perché tutti potessero vederla e median-
te la vista comunicarsi, anche nella speranza di vedervi, qualche volta,

19
Ibidem, p. 211.

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l’immagine del Salvatore. Tutto ciò piaceva e soddisfaceva parecchio il popo-


lo perché era vivo, drammatico, senza fatica di pensiero, piacevole esercizio
di fantasia; sollievo dall’impegno di una comunione sacramentale per la qua-
le la confessione diveniva un ostacolo a causa delle forti penitenze imposte a
soddisfazione delle colpe commesse” 20.

A conforto della sua tesi, qualche pagina più avanti egli cita i consigli di vita devo-
ta dati da un maestro di scuola milanese, Bonvesin della Riva, a un suo discepolo. Sia-
mo ormai alla fine del ‘200, ma è solo la sintesi matura di quello che da tempo costitui-
va la sensibilità religiosa più viva dell’epoca:
“Quando ne hai tempo, vai spesso ad ascoltare le messe, per vedere Cristo na-
to dalla Vergine madre e, vedendolo, con piena fede adorarlo devoto e a lui
raccomandare te e la famiglia tua. Ricevi alla fine dalla mano del sacerdote la
benedizione. Quel giorno, credimi, te ne starai più sicuro»”.

Ai verbi della recezione sacramentale dell’eucaristia (mangiare, bere, cibarsi, disse-


tarsi) in vista di un’esperienza salvifica mediante il sacramento (fare comunione vera e
reale a Cristo e al suo sacrificio pasquale) si sostituiscono i verbi della devozione sensi-
bile (ascoltare, vedere) in vista di un atto interiore della fede (adorare). L’asse della vita
cristiana si è spostato dalla comunione sacramentale alla comunione spirituale.

- Nell’ordinamento dell’anno liturgico il culto dei santi si arricchisce in modo


straordinario, sia quanto al numero delle feste sia quanto alla loro solennizzazione, fi-
nendo in non pochi casi per sovrapporsi alla stessa celebrazione dei misteri della vita del
Signore e snaturando non poco il senso e il cammino dell’anno liturgico stesso. I santi,
di cui la liturgia fa memoria lungo l’anno liturgico, sono venerati dai fedeli “soprattutto
come soccorritori dei mali di ogni genere” e la loro festa è occasione di rinnovamento
spirituale (predicazione al popolo, confessione e comunione straordinaria). Emerge
preponderante la figura del santo «patrono» [di una città, di una chiesa, di una corpora-
zione di lavoro, di uno stato di vita], la quale è tanto più venerata dal popolo, quanto più
è «taumaturgica» e «dispensatrice di grazie».
Anche le letture agiografiche, introdotte in quest’epoca nell’ufficio divino, tendono
ad assumere un genere letterario «leggendario», ampliando la dimensione del miracolo-
so e dello straordinario. In generale si può affermare che l’impulso eccezionale dato al
culto dei santi dentro e fuori l’ordinamento liturgico è, in quest’epoca, uno degli stru-
menti più efficaci di sensibilizzazione e di educazione del popolo alla vita cristiana. Re-
sta però problematico il raccordo tra culto / devozione dei santi e azione liturgica com-
plessiva della Chiesa, la quale rimane sostanzialmente incompresa ed eccentrica, nel
senso etimologico del termine (discosta dal centro), rispetto all’oggetto di attenzione e
di interesse specifico dei fedeli.

3. Il secolo XIII

Il sec. XIII conferma e approfondisce quanto abbiamo messo in luce per il sec. XII.
Segnalo solo alcuni fatti, che avranno un peso specifico anche per i secoli successivi.

20
Ibidem, p. 220.

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Un primo dato da considerare è la situazione emergente dal Concilio Lateranense


IV (1215), espressione della volontà di riforma avviata da Innocenzo III (1198-1216),
buon teologo e liturgista21. Dai canoni conciliari appare un triste quadro di ignoranza del
clero e dei vescovi, di negligenza nelle celebrazioni, di assenza di predicazione. I canoni
relativi all’obbligo della confessione annuale (almeno una volta all’anno al proprio sa-
cerdote) e alla comunione pasquale (almeno a Pasqua)22 vengono commentati così dal
Cattaneo:
“Davvero qui - e si noti attraverso un concilio ecumenico - è indirettamente
denunciato l’indice più basso nella storia della chiesa relativo alla vita litur-
gica dei fedeli”23.

I rimedi pensati dal Concilio rivelano la volontà energica di Innocenzo III di far
fronte agli abusi e di provocare un’inversione di tendenza [ogni cattedrale e ogni colle-
giata è obbligata ad avere un maestro di teologia che insegni regolarmente ai chierici di
qualsiasi grado; i vescovi istruiscano personalmente o per mezzo di altri coloro che sono
stati promossi al sacerdozio circa i divini uffici e i sacramenti della chiesa, e in qual
modo debbano celebrarli secondo le regole prescritte; la predicazione venga affidata ai
religiosi, ecc...]. Manca però al Concilio una visione chiara della liturgia, tale da confi-
gurarla come luogo di una ripresa e di una riforma. Il problema è piuttosto disciplinare.
Il mondo spirituale dell’epoca è profondamente mutato e si esprime o «in occasione»
della liturgia ufficiale, se non, nei casi più radicali, «a prescindere» da essa.
Dal punto di vista della liturgia ufficiale l’epoca immediatamente seguente al con-
cilio Lateranense IV conosce la prima revisione un poco organica dei libri liturgici:
1) Il Pontificale della Curia romana, cui abbiamo già fatto cenno, riordina il materiale
liturgico riguardante le celebrazioni in cui presiede il vescovo;
2) Il Messale della Curia romana riordina il libro plenario per la celebrazione eucari-
stica lungo l’anno liturgico (esso sarà adottato dagli ordini mendicanti e, tramite loro,
diffuso in tutta la Chiesa latina);
3) Il Breviario della Curia romana, che rivede l’ufficio divino, adattandolo al genera-
lizzarsi della recitazione privata delle ore liturgiche e all’affermazione più chiara
dell’impegno giuridico, cui sottostanno le persone (i chierici) a ciò deputate. Rimaneg-
giato ulteriormente dai francescani, perché fosse più corrispondente alle esigenze del lo-
ro ministero itinerante, il Breviario della Curia romana sarà diffuso per tutto
l’Occidente.
Uno dei fenomeni più importanti del sec. XIII, che contribuì in modo rilevante al
rinnovamento generale della vita della Chiesa, fu sicuramente la nascita dei due nuovi
ordini mendicanti (domenicani e francescani) dediti alla predicazione al popolo in una
forma di vita itinerante.
Il loro influsso è rilevante anche in campo liturgico. Da una parte, come abbiamo
già segnalato, essi contribuirono a diffondere per tutta l’Europa la liturgia ufficiale della

21
Si possono leggere in italiano, di recente pubblicazione INNOCENZO III, Il sacrosancto sacramento
dell’altare, a cura di FIORAMONTI STANISLAO = Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 15, Libre-
ria Editrice Vaticana, Roma – Città del Vaticano 2001, pp. 431; INNOCENZO III, Sermoni, a cura di
FIORAMONTI STANISLAO = Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 44, Libreria Editrice Vaticana,
Roma – Città del Vaticano 2006, pp. 679.
22
Il testo completo in DS, n. 812.
23
Ibidem, p. 220.

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curia romana, ridando impulso, forse inconsapevolmente, al processo di unificazione li-


turgica intrapreso da Gregorio VII.
Dall’altra essi favorirono, magari contro le intenzioni dei loro fondatori24 un certo
«divorzio» tra liturgia e spiritualità. La liturgia non è più giudicata un canale «popolare»
di autentica vita cristiana. Di spettanza del clero, in un ordine oggettivo e pubblico di
gesti - riti - parole eseguiti in una lingua non capita, essa non si configura più come via
ordinaria per l’annuncio del vangelo e per l’esercizio della pietà cristiana. Scrive il Cat-
taneo:
“La stragrande maggioranza dei fedeli dal sec. XIII in poi segue in misura
preponderante le preghiere e le devozioni suggerite dalla spiritualità dei men-
dicanti, la cui attività durerà, in questo campo, fino al sec. XVIII”25.

Infine, gli ordini mendicanti, configurando il ministero come fondamentalmente


missionario e itinerante, mettono in crisi l’ordinamento monastico - canonicale che an-
cora nel sec. XII aveva proposto una sua sintesi tra vita cristiana e liturgia, e dichiarano
inadeguato alle loro nuove esigenze di vita apostolica lo schema liturgico soggiacente
alla vita canonicale. Gli obblighi fondamentali rimangono (messa e ufficiatura quotidia-
na), ma tutto ormai si compie in forma privata e con mentalità più giuridica che spiritua-
le.
Il passaggio dall’opus Dei in coro al breviarium recitato singolarmente ne è
l’elemento più appariscente. La revisione del breviario a opera di Aimone di Faversham,
considerato il secondo fondatore dell’ordine francescano (1243/44), “cambiò il corso
del culto pubblico in occidente” (Van Dijk), nel senso che l’ufficio divino, preghiera co-
rale per eccellenza, diviene ora ufficialmente preghiera liturgica individuale a forte rile-
vanza giuridica.
Resta infine da segnalare l’opera liturgica di Guglielmo Durando, nato verso il
1230 e morto a Roma nel 1296. Egli compose una grande opera in otto libri (il Rationa-
le divinorum officiorum), nel quale raccolse tutto lo scibile dell’epoca sulle cose liturgi-
che, dandone un’interpretazione allegorica. Ecco i temi dei singoli libri:
1. Le chiese e gli altri luoghi sacri;
2. I ministri, gli ordini ecclesiastici e le loro funzioni;
3. Gli abiti o ornamenti sacerdotali, pontificali e ministeriali in genere;
4. La messa e quanto accade durante la messa;
5. Gli uffici divini del giorno e della notte, in genere;
6. Gli uffici delle domeniche in particolare, quelle di alcune ferie e delle feste del
Signore e i digiuni quaresimali;
7. Le feste dei santi;
8. Computo dei giorni, calendario e tutto quanto vi si riferisce.
Il suo apporto principale però, quello per cui è meglio conosciuto è una nuova reda-
zione del Pontificale Romano, pensato non solo per la liturgia papale ma anche per
quella di ogni vescovo diocesano. Il testo da lui preparato, anche in ragione del suo

24
Anni fa è stata presentata all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano un’interessante tesi
su L’eucaristia negli scritti di san Francesco d’Assisi [autore: Angelo Elli], che rivela in san Fran-
cesco una grande «sensibilità liturgica» in rapporto al contesto dell’epoca.
25
CATTANEO ENRICO, Proposta di uno schema sui rapporti fra liturgia e pietà popolare nella chiesa
occidentale, in Liturgia e religiosità popolare. Proposte di analisi e orientamenti. Atti della VII set-
timana di studio dell’associazione professori di liturgia. Seiano di Vico Equense (Napoli): 4-8 set-
tembre 1978 = Studi di Liturgia 7, Dehoniane, Bologna 1979, p. 110.

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eclettismo liturgico, ebbe un enorme successo e la Chiesa di Roma finì con l’imporlo a
tutte le Chiese dell’occidente:
“Il Durando aveva posto nel suo libro tutto quanto l’azione quotidiana pasto-
rale gli suggeriva ed era molto, perché ormai il costume religioso voleva la
consacrazione di ogni momento e azione della vita individuale e sociale, reli-
giosa e laica; e così di ogni cosa materiale utile alla vita stessa. Era un
espandersi della devozione, l’affermarsi di un senso religioso che, meno nutri-
to di idee profonde, voleva il consenso divino a ogni particolare per garantirsi
benedizione e prosperità”26.

4. Rilievi conclusivi

Riassumiamo le note storiche relative ai secc. XI-XIII attorno a tre concetti chiave:
- Giunge a compimento in quest’epoca, il processo di lenta clericalizzazione della li-
turgia [cf il compimento del messale plenario; la distinzione netta dello spazio presbite-
rale dallo spazio assembleare; il «breviario», che fa della «lode di Dio», la preghiera di
colui che ha assunto lo stato clericale e ne ha un preciso obbligo giuridico];
- Si avvia una più precisa determinazione rubricale - cerimoniale della liturgia, che
favorirà il processo di unificazione liturgica di tutto l’occidente sotto il magistero della
Curia romana;
- Non si può più parlare di una vera e propria partecipazione dei fedeli alla liturgia se
non nel senso di un’«assistenza» o di un «ascolto» devoto. Il popolo esplica le sue de-
vozioni «in occasione» delle festività liturgiche e dei momenti sacramentali che ritmano
la sua esistenza. La pietà popolare si alimenta a fonti diverse dalla liturgia ufficiale della
Chiesa, pur non staccando mai il contatto da essa.

26
Ibidem, p. 241.

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CAPITOLO V

LA LITURGIA IN EPOCA TRIDENTINA


(SEC. XVI-XIX)

Il sec. XVI è l’epoca della riforma protestante, che rompe definitivamente l’unità
della Chiesa latina, cinque secoli dopo lo scisma d’oriente, e del Concilio di Trento
(1545-1563), che si oppone dottrinalmente alle tesi della riforma protestante (controri-
forma) e avvia una profonda riforma della Chiesa e del papato (riforma cattolica) che
segnerà i successivi tre secoli.
La dimensione liturgica della vita della Chiesa è profondamente implicata in tutto
questo, sia nella fase strettamente conciliare e postconciliare, sia nelle varie fasi dei se-
coli successivi.

I. LA RIFORMA LITURGICA TRIDENTINA

Mettiamo a tema la «dimensione liturgica» della riforma generale della Chiesa


promossa dal Concilio di Trento. Tale riforma, compresa la sua dimensione liturgica, è
voluta e orientata dall’assise conciliare ma, data la preoccupazione prevalentemente
dogmatica di quest’ultima, è pazientemente dipanata solo nei decenni successivi.

1. Prima del Concilio

Per capire il Concilio di Trento e la portata del suo influsso in campo liturgico, è
opportuno ricostruire, almeno per cenni molto sommari, i tratti fondamentali del periodo
immediatamente precedente.

1.1. Il «Libellus» del 1513

Un buon punto di partenza è il Libellus, presentato a papa Leone X attorno alla me-
tà del 1513 dal monaco camaldolese Paolo Giustiniani (1476-1528), per sollecitare la ri-
forma della Chiesa1. In esso viene denunciata, in tutta la sua drammaticità, l’ignoranza
dei preti sia riguardo alla lingua latina (“appena il due per cento – dice l’autore – o il
dieci per mille ha imparato la lingua latina così da poter pienamente capire i testi che
legge ogni giorno nelle chiese”), sia riguardo alla Sacra Scrittura e alla dottrina cristiana
[“è vergognoso – scrive ancora – e sconveniente che nella Chiesa di Dio molti religiosi
e molti sacerdoti non abbiano mai letto la sacra storia dell’evangelo”], con la conse-
guente povertà spirituale e devianza religiosa della pietà dei fedeli (“a causa
dell’ignoranza – sono sempre sue parole – sono caduti nella superstizione più sciocca e
1
Lo si può leggere in GIUSTINIANI PAOLO-QUIRINI PIETRO, Lettera al papa. Libellus ad Leonem X
[1513], a cura di BIANCHINI GEMINIANO, Artioli, Modena 1995, pp. 164. Nella recente edizione a
cura degli Eremiti Camaldolesi di Montecorona la paternità del Libellus è attribuita al solo Paolo
Giustiniani: GIUSTINIANI PAOLO, Un eremita al servizio della Chiesa (Il Libellus ad Leonem X e al-
tri opuscoli) = Scritti del Beato Paolo Giustiniani 3, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012, pp.
328: 17-222.

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nella credulità per la magia e ne danno larga prova molte orazioni, formule di benedi-
zione contro ogni male e ogni infermità, sovente accompagnate al culto dei santi ausi-
liatori, alle loro immagini recate spesso in processione per implorare collettivamente
speciali aiuti e protezioni”).
La denuncia è chiara: la prassi liturgica, non capìta e vissuta dal clero e quindi dai
fedeli nel suo autentico significato, non risultava strumento efficace per orientare corret-
tamente la pietà dei fedeli. Di fronte a queste condizioni di «degrado» religioso e spiri-
tuale in campo liturgico il Giustiniani tenta una serie di proposte di riforma. Chiede an-
zitutto un intervento pontificio che obblighi il clero alla conoscenza del latino prima di
assumere l’abito monastico o prima di accedere agli ordini sacri. Invoca, ancora, per tut-
to il clero l’obbligo della predicazione domenicale al popolo. Propone infine, per dare
un orientamento nuovo alla pietà dei fedeli, l’uso della lingua parlata nella proclama-
zione della Sacra Scrittura durante la liturgia eucaristica e nei canti della Messa (“se
pertanto, per tua iniziativa, ciò che è letto o cantato nelle chiese, dappertutto o almeno
in qualche regione, sarà letto o cantato nella lingua parlata, stimiamo che gioverà in
modo mirabile alla conoscenza dei precetti divini e alla correzione dei costumi”). Il
Giustiniani aggiunse poi due proposte di sostegno: - radunare in un solo volume le prin-
cipali leggi ecclesiastiche, specie quelle di carattere liturgico; - provvedere a un Messa-
le, un Breviario, un Cerimoniale e un Calendario uguali per tutte le chiese, affinché i
chierici, i monaci e i religiosi, dediti alle celebrazioni liturgiche, avessero un modello
unico cui attenersi2.
Le proposte di riforma del Giustiniani, cui corrisponderanno alcune prese di posi-
zioni disciplinari del Concilio Lateranense V (1512-1517), ebbero di fatto scarsa inci-
denza. È possibile parlare, a proposito dei decenni immediatamente precedenti il Conci-
lio di Trento di una mancata riforma della Chiesa e, in essa, di una mancata riforma li-
turgica, proprio mentre in Germania il monaco agostiniano Martin Lutero dava il via al-
la sua riforma, che avrebbe investito con forza anche la dimensione liturgico della vita
della Chiesa.

1.2. Martin Lutero (1483-1546)

Per comprendere in modo corretto l’opera di Lutero in campo liturgico occorre


precisare che il suo punto di partenza non fu anti - liturgico per principio. Egli prese le
mosse, come del resto altri in quel tempo, dagli abusi diffusi nella prassi liturgica del
tempo, da un uso quasi magico, spesso superstizioso, devozionale o semplicemente giu-
ridico del culto cristiano e dalla constatazione di una diffusa incapacità di capire e di
partecipare la liturgia (lo stacco fra il clero e il popolo; la lingua usata nella liturgia,
ecc...).
Solo progressivamente a partire dal 1520, a causa della sua opposizione sempre più
dura alla disciplina romana, ma soprattutto in ragione di una riflessione teologica sem-
pre più anti - sacramentale, la sua opposizione alla liturgia cattolica si fece più radicale

2
In evidente sintonia con quest’ultima proposta possiamo segnalare i diversi tentativi, negli anni im-
mediatamente precedenti il Concilio di Trento, di fornire nuove edizioni dei libri liturgici ufficiali,
tentativi resi possibili anche dalla recente invenzione della stampa: il «Pontificale romano» del Ca-
stellani (1520); il «Sacerdotale», sempre del Castellani (1523); il «Breviario» del card. Quiñonez
(1535). Ma l’esito di queste revisioni dei libri liturgici, pur favorite e sostenute di volta in volta dai
pontefici regnanti, non raggiunse l’effetto sperato.

82
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ed ideologica, anche se sul piano pratico - rituale lo stacco non avvenne senza tenten-
namenti. Illuminante al riguardo il giudizio del CATTANEO:

“In Lutero non è visibile un piano logico di soppressione della liturgia cattoli-
ca, nonostante fosse a lui possibile in conseguenza della nuova base teologica.
Si nota in lui piuttosto una reazione progressiva al culto cattolico, sempre pri-
va di serenità, con palesi incertezze, pronta a indulgere a compromessi nel ti-
more di una reazione popolare”3.

Per una puntuale segnalazione delle singole determinazioni del nuovo «culto evan-
gelico» in Lutero e negli altri riformatori, in campo liturgico decisamente più radicali e
conseguenti rimando al Cattaneo4 e alle interessanti indicazioni del benedettino Neun-
heuser5.
In sintesi possiamo ricordare: sul versante propriamente dogmatico, ma con precise
conseguenze di carattere liturgico, la riforma giunse progressivamente a rifiutare la qua-
lità sacramentale della cresima, dell’ordine sacro, del matrimonio e dell’estrema unzio-
ne, il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica (con la conseguente abolizione
dei riti offertoriali e dell’intero canone, lasciando sussistere solo la parte corrispondente
alle parole di Gesù) e la dottrina della transustanziazione come modalità corretta per
comprendere la dottrina della presenza reale (con l’abolizione, titubante ma progressiva,
del rito dell’elevazione e delle forme di culto eucaristico extra missam: esposizione -
adorazione - benedizione eucaristica - processione eucaristica - solennità del Corpus
Domini). Sul versante direttamente liturgico, ma in stretta connessione con la sua impo-
stazione teologica, Lutero abolisce la messa privata, sopprime la confessione auricolare
e riduce drasticamente ogni forma di culto alla Vergine e ai santi.
Il tutto del nuovo culto evangelico è l’annuncio della Parola, mediante la lettura
delle Scritture e la predicazione o «sermone», sia nella santa Cena6, celebrata solo alcu-
ne volte nel corso dell’anno, sia nel ‘servizio liturgico della predica” (Predigtgot-
tesdienst) domeni- cale. Ristabilì per tutti la comunione al calice, abolì l’uso del latino
in favore della lingua parlata e curò la partecipazione al canto di tutta l’assemblea nella
lingua materna. Se alcune scelte di carattere pastorale [il volgare nella liturgia, la parte-
cipazione del popolo al canto, ecc...] rispondevano a una reale esigenza di rinnovamen-
to, percepita anche dai cattolici particolarmente illuminati, l’opera liturgica complessiva
di Lutero, e in genere della riforma, rimane estremamente problematica, e di questo se
ne vanno accorgendo oggi anche i liturgisti riformati più attivi in campo ecumenico.
A Lutero, e in genere alla riforma, sfugge il senso proprio della liturgia, che è la
sua realtà misterico - sacramentale, proprio nel momento in cui vuole riportare le cele-
brazioni cristiane alla loro purezza originaria. Manca inoltre a Lutero, e in genere ai ri-
formati, una sufficiente conoscenza storica della liturgia, che non gli permette di saper
distinguere tra le «incrostazioni deteriori» e le «dimensioni costitutive».

3
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 292.
4
CATTANEO ENRICO, o. c., pp. 292-298.
5
NEUNHEUSER BURKHARDT, Il movimento liturgico protestante. Origini e aspetti fondamentali, «Sa-
lesianum 36 (1974) pp. 33-67: 37-47.
6
Per una conoscenza più precisa della liturgia riformata nei secoli 16^/17^ si veda il recente Coena
Domini 1. Die Abendmahlsliturgie der Reformationskirchen im 16/17. Jahrhundert, a cura di PAHL
INGMAR = Spicilegium Friburgense 29, Fribourg (Suisse) 1983, pp. XVIII + 611. È in preparazione,
nella stessa collana, un secondo volume [Coena Domini II] per i secc. 18°/19° ed un terzo volume
[Sacrum Convivium per i testi più recenti].

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Così il suo progetto pastorale di rinnovamento liturgico difetta del criterio fonda-
mentale di verifica che è la sua corrispondenza con ciò che la liturgia è e deve essere.
Gioca invece surrettiziamente un ruolo decisivo la sensibilità spirituale dell’epoca, che
corrisponde a quella realtà complessiva chiamata devotio moderna. Lutero e gli altri ri-
formatori tendono a codificare nella liturgia il sentire della devotio moderna, per la qua-
le ciò che conta è l’incontro personale e interiore con la sola Scriptura, dimenticando (o
non accorgendosi) che essa era precisamente il frutto del divorzio tra liturgia e spiritua-
lità. Scrive il Neunheuser:

“La riforma della liturgia progettata da Lutero non è dunque riuscita, come
oggi ammettono perfino molti dotti di parte evangelica. Egli ha cercato, ma
non ha trovato, il contatto con la genuina tradizione del servizio divino; è ri-
masto infine un «cumulo incoerente di macerie». Per conseguenza la storia
della liturgia protestante dei secoli successivi, fino all’illuminismo compreso,
è una storia di dissolvimento delle antiche forme del culto divino nelle chiese
evangeliche della Germania”.

2. Al Concilio (1545-1563)

Era necessario richiamare questi dati per la comprensione di ciò che fu nel suo
complesso la riforma liturgica tridentina e postridentina. Essa nasce da un’urgenza, già
avvertita da tempo in ambito cattolico, di porre rimedio ai molti abusi in campo liturgi-
co, di riportare i riti a una maggiore semplicità e comprensibilità, di uniformare le diver-
se tradizioni liturgiche secondo una via maestra che fosse punto di riferimento per tutti.
Accanto a quest’esigenza di riforma interna si fece sempre più forte il contesto po-
lemico nei confronti della riforma protestante. Questo contesto polemico, vissuto anzi-
tutto a livello dogmatico, costringerà spesso il Concilio a una difesa apologetica della
prassi rituale cattolica, difesa che non favorirà un affrontamento sereno di problemi li-
turgici realmente esistenti.
Da ultimo è necessario segnalare come neppure Trento, come già dicevamo per la
Riforma, parte da un’adeguata comprensione storica e teologica della liturgia. Anche
questo fatto non permetterà di affrontare i singoli problemi di pastorale liturgica in un
quadro di riferimento più vasto e più decantato. È risaputo come a livello storico i padri
conciliari, e gli attuatori della riforma dei libri liturgici, riterranno di potersi rifare alla
liturgia dell’epoca di Gregorio VII, per ritrovare l’antica norma dei santi padri (pristina
norma sanctorum patrum).
Sul versante propositivo le indicazioni conciliari riguardanti la liturgia e la sua ri-
forma si trovano soprattutto nella terza e ultima fase dei lavori (1562-1563):
* La questione della lingua liturgica non viene affrontata direttamente, ma solo si
condanna l’asserzione protestante dell’assoluta necessità di usare il volgare nella litur-
gia.
* La questione del fine didattico delle celebrazioni. Il Concilio riconosce che le di-
verse celebrazioni liturgico-sacramentali della Chiesa hanno anche un fine didattico -
educativo e prescrive che i fedeli vengano avviati il più possibile alla comprensione di
quanto la Chiesa celebra:
“Affinché i fedeli si accostino ai sacramenti con devozione e riverenza, il santo
Concilio comanda a tutti i vescovi che non solo espongano al popolo

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l’efficacia e l’uso dei sacramenti, quando li amministreranno, ma anche curi-


no che da parte di tutti i parroci si compia l’osservanza pia e prudente delle
stesse cerimonie, servendosi, se ce ne sarà bisogno e si potrà fare con comodi-
tà della lingua volgare, secondo la forma prescritta dal Concilio per
l’esposizione di ciascun sacramento nel catechi- smo, forma che i vescovi cu-
reranno di far tradurre fedelmente in lingua volgare e di far spiegare al popo-
lo da tutti i parroci. Nel corso della solennità della messa e durante la cele-
brazione degli uffici divini nei giorni festivi o solenni, spieghino in lingua vol-
gare i sacri testi e suggeriscano pensieri salutari che si sforzeranno di far pe-
netrare nei cuori evitando tutte le questioni inutili per meglio istruire i fedeli
nella legge del Signore”7.
* La questione della revisione / riforma dei libri liturgici. Il Concilio la rinvia alla vo-
lontà del papa, sottolineando la necessità e l’urgenza di quest’opera, per dare in mano ai
sacerdoti che sarebbero stati formati nei seminari i testi e gli ordinamenti per
un’ordinata e devota celebrazione.
* La questione della musica vocale. Viene accennata, ma non approfondita.

Questo elenco di indicazioni pratiche per il rinnovamento della vita liturgica della
Chiesa, anche se incompleto, rivela lo stato di frammentarietà delle proposte avanzate
da Trento in campo propriamente liturgico. Anche l’elaborazione dei criteri guida per
una nuova edizione di tutti i libri liturgici romani, che avessero finalmente valore uni-
versale all’ interno della Chiesa cattolica di rito latino, fu demandata al dopo Concilio.
Anzi, a rigore, Trento non ha neppure pensato a un vero e proprio centralismo e a
una rigida uniformità in campo liturgico. Una differenziazione era di per sé contempla-
ta. Sarà solo il progressivo crescere di un clima di opposizione compatta al pericolo pro-
testante a irrigidire l’unicità della forma liturgica romana nel senso di un rigoroso uni-
formismo.

3. L’immediato dopo-Concilio (1563-1614)

Per il periodo immediatamente successivo alla conclusione del Concilio raccoglia-


mo una serie di dati documentari, del massimo interesse per la storia liturgica:
- Il Catechismo ai parroci (1566) aveva lo scopo di fornire ai parroci e a quanti eser-
citavano la cura animarum la conoscenza di tutte quelle verità adatte all’intelligenza dei
fedeli8. Secondo il Cattaneo esso rivela però “una minore preparazione circa
l’argomento liturgico e forse una minore sensibilità per i problemi pastorali della litur-
gia”9.
- Dal 1568 al 1614, in poco meno di 50 anni furono pubblicati tutti i libri liturgici,
emendati secondo l’antica tradizione romana10. La storiografia liturgica attuale ha defi-

7
Sessione XXIV. Decretum de reformatione, canone 7, in Conciliorum oecumenicorum decreta, a cu-
ra di ALBERIGO GIUSEPPE, Dehoniane, Bologna 1991, p. 764.
8
Una bella edizione in lingua italiana di questo catechismo è stata curata da ANDRIANOPOLI LUIGI, Il
catechismo romano commentato = Classici della Catechesi 4, Ares, Milano 1990, pp. 481.
9
Cf CATTANEO ENRICO, o. c., pp. 315-316.
10
La Libreria Editrice Vaticana ha di recente ripubblicato in edizione anastatica tutti i libri liturgici
della riforma tridentina nella collana Monumenta Liturgica Concilii Tridentini.

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nitivamente mostrato che “con i mezzi allora a disposizione la riforma non ha fatto al-
tro che purgare e restaurare il rito romano medievale, più o meno secondo la forma di
Gregorio VII”11.
I libri liturgici romani ormai stampati in editio typica, furono imposti a tutto
l’occidente cattolico, fatto salvo per quei riti, come il rito ambrosiano, che potevano
vantare almeno duecento anni di tradizione autonoma.
Si cominciò dal Breviarium Romanum (1568) per dare ai sacerdoti un solido stru-
mento di pietà personale, con cui adempiere fedelmente all’obbligo giuridico
dell’ufficiatura.
Si passò al Missale Romanum (1570), detto, dal nome del papa che lo promulgò,
«Messale di Pio V» e si chiuse una prima tappa dei lavori con il Martyrologium Roma-
num (1583), secondo il nuovo calendario liturgico.
Con questi primi tre libri liturgici furono eliminate molte feste di santi “che prima
riempivano ogni giorno dell’anno, ridando vigore ai grandi cicli dell’Avvento e della
Quaresima e alla celebrazione domenicale”.
Tutto rimane però in un’ottica clericale: il breviario è la preghiera liturgica dei sa-
cerdoti e il messale è il libro plenario, che il sacerdote deve adempiere in tutte le sue
parti, rileggendo per conto suo anche ciò che spetta ad altri ministeri liturgici.
La seconda fase dei lavori di riforma dei libri liturgici portò al Pontificale Roma-
num (1596), libro necessario per l’azione liturgico - sacramentale dei vescovi e del pa-
pa, al Cerimoniale Episcoporum (1600), con tutte le indicazioni per l’esatta esecuzione
delle cerimonie episcopali e al Rituale Romanum (1614) per l’azione liturgico - sacra-
mentale dei preti in cura d’anime.
- Nel 1588 nacque la Sacra Congregazione dei Riti con lo scopo di stabilire con pre-
cisione lo svolgimento delle cerimonie liturgiche, di vigilare sull’esatta applicazione
della riforma dei libri liturgici e di dirimere eventuali controversie sull’interpretazione
delle norme contenute negli stessi. Fu dato così un notevole impulso alla scientia rubri-
carum, che diverrà in poco tempo, e per lungo tempo, la parte principale dell’approccio
scientifico alla liturgia.
La nascita della Congregazione, incaricata di vigilare su tutte le questioni di carat-
tere liturgico, da una parte fu uno strumento efficace per combattere gli abusi e per dare
un indirizzo unitario alla riforma, ma dall’altra favorì in campo liturgico un fissismo e
un immobilismo mai prima d’allora conosciuti.
- Sul versante di una maggiore comprensione dei riti da parte dei fedeli in vista di
una loro più autentica partecipazione, di cui al Concilio si era fatto parola, ben presto si
fece retromarcia. Il Cattaneo annota:
“Alcuni vescovi, tornati alle loro sedi, dapprima tennero conto degli inviti
conciliari per un’azione liturgica a vantaggio dei fedeli. Poi, dinnanzi ai con-
tinui attacchi dei protestanti, ritennero maggiormente prudente tacere dei riti
e delle cerimonie, non proporre la lettura diretta in volgare delle epistole e
dei vangeli... nel timore di interpretazioni individuali, continuare la presenta-
zione della messa come un seguito di episodi della passione di Gesù Cristo
[secondo il metodo inaugurato da Amalario - nota mia], propugnare la comu-
nione spirituale alla messa più che l’eucaristia. Anzi fu ritenuto opportuno
appoggiare le vecchie devozioni non inficiate da superstizione (furono così ri-

11
NEUNHEUSER BURKHARDT, Storia della liturgia attraverso le epoche culturali = Bibliotheca Ephe-
merides Liturgicae Subsidia 11, Edizioni Liturgiche, Roma 1977, p. 114.

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stabilite feste della Madonna e dei Santi già soppresse); affidare l’istruzione
dei fedeli unicamente alle scuole di catechismo, che ebbero tutta la cura dei
pastori d’anime, ma durante le quali non vi era cenno né alla liturgia della
messa, né a quella dei sacramenti, né all’anno liturgico, le cui feste principali
risultavano tali per l’invito pressante ai buoni di partecipare al banchetto eu-
caristico... Basta sfogliare i libri devozionali, le spiegazioni della messa, i ca-
noni sinodali e provinciali, le prediche di quell’era per avvertire come nel
ventennio seguito al concilio si dimenticò quel poco che esso aveva suggerito
per la pastorale liturgica”12.
Possiamo chiudere questi appunti sul Concilio di Trento, e sulla riforma liturgica
da esso scaturita, con l’equilibrato giudizio del Neunheuser:

“L’opera riformatrice di Trento e dei papi è degna di altissima lode. Essa ha


salvato la liturgia dalla crisi del cinquecento. È però anche un’opera limitata.
Mentre ha fissato la liturgia, per vincere la situazione caotica di quell’epoca,
ha rimosso la liturgia dalla vita vissuta, l’ha resa quasi una forma congelata,
costringendo così la pietà dei fedeli ad allontanarsene volgendosi a forme di
pietà popolare e devozionale, dando così origine, senza volerlo, alla cultura
religiosa del Barocco”13.

II. IL SEICENTO E IL SETTECENTO LITURGICI

In questo seconda parte del capitolo, necessariamente molto sintetica, ci occupere-


mo dell’epoca che va dalla fine del ‘500 alla prima metà dell’800, quando la rinascita
del monachesimo benedettino in Francia, in Germania e in Inghilterra riporterà al centro
dell’attenzione della vita della Chiesa il fatto liturgico, costituendo la necessaria pre-
messa alla nascita di un vero e proprio «Movimento Liturgico».
Nell’arco di poco più di due secoli dovremo occuparci: - della prassi liturgica in
epoca barocca e dello iato venutosi a creare tra culto pubblico esterno e ufficiale della
Chiesa e pietà personale e vita devota dei fedeli; - della prassi liturgica nell’epoca dei
Lumi e della nascita di quella che può essere chiamata una vera e propria «scienza pa-
storale liturgica».

1. La prassi liturgica in epoca barocca

L’interpretazione della prassi liturgica in epoca barocca [il tardo ‘500 e l’intero
‘600] deve fare i conti con l’interpretazione complessiva di quest’epoca definita dal
Neunheuser l’ultima grande epoca dell’Europa cristiana, dove per l’ultima volta tutto, in
ogni settore, è determinato dal fattore religioso, il quale vuole esprimersi in una «furia
eroica», quasi incarnando il sovrumano e il sovrannaturale nella realtà sensibile.
Lo JEDIN, storico del Concilio di Trento e della sua attuazione postridentina, ha
formulato la domanda ermeneutica circa l’epoca barocca attorno ai concetti di «riforma
della Chiesa» e di «controriforma»: siamo di fronte a una riforma che matura nella
Chiesa come volontà rinnovatrice, magari assumendo come stimolo alcune provocazio-

12
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 319.
13
NEUNHEUSER BURKHARDT, o. c., pp. 114-115.

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ni provenienti dalla riforma protestante, o si tratta di una semplice riorganizzazione,


fondata sostanzialmente su una difesa apologetica della propria tradizione, in un muro a
muro con la riforma protestante che impedisce di cogliere eventuali provocazioni posi-
tive, nell’intima convinzione di salvare in questo modo la fede e la Chiesa?
Il CATTANEO, riprendendo questo binomio e applicandolo alla liturgia, affida una
valenza più riformista all’azione della Chiesa cattolica di Francia e una valenza più con-
troriformista all’azione della Chiesa Cattolica di Spagna, Italia, Germania e Austria:

“Ritornando ad una distinzione più volte fatta, si può dire che mentre in Italia
dominò la controriforma, in Francia si fece strada, nonostante le opposizioni
romane, una riforma, anche se inficiata in qualche misura da propositi gianseni-
sti. Per questo non sorprende di trovare nel ‘600 francese alcune testimonianze
della volontà di far partecipare i fedeli alla liturgia” 14.

1.1. Orientamenti controriformisti in campo liturgico

Fatta questa doverosa precisazione, globalmente si può dire che in campo liturgico
il peso della Controriforma, guidata da Roma, fu preponderante. Se ne possono elencare
gli elementi più vistosi:
- Un PRIMO grande orientamento, raggiunto con l’imposizione dei libri liturgici ro-
mani a tutta la Chiesa cattolica, fu l’unificazione definitiva della prassi liturgica secondo
la tradizione romana. La diffusione dell’ordinamento parrocchiale fin nel più sperduto
villaggio codifica definitivamente per l’intera Chiesa cattolica la liturgia romana sia nel-
la forma celebrativa dei sacramenti (si veda l’influsso del decreto Tametsi anche sul
versante della forma celebrativa del sacramento del matrimonio)15, sia nella struttura-
zione dell’anno liturgico e del santorale, sia nell’organizzazione della preghiera oraria
del clero.
Ciò che non era riuscito a Carlo Magno e neppure a Gregorio VII, viene finalmente
raggiunto con l’ordinamento liturgico centralizzato postridentino. Anche le Chiese, co-
me quella ambrosiana, che avevano ottenuto il permesso di conservare il proprio rito
particolare, mostrano nella revisione dei loro testi una certa tendenza a «romanizzare».
Non si può dimenticare che in quest’epoca la Chiesa conosce la sua prima grande
azione missionaria al di fuori dell’area mediterranea [le Americhe; l’Estremo Oriente],
al seguito delle grandi scoperte e conquiste coloniali. Dal punto di vista rito-cultuale al-
le nuove popolazioni evangelizzate viene trasmesso lo stesso ordinamento liturgico ro-
mano, lingua latina compresa.
Sarà nell’ambito della Compagnia di Gesù che farà capolino l’interrogativo circa la
possibilità di assumere nel culto cattolico qualche elemento rituale della tradizione dei
nuovi popoli giunti alla fede, dopo averne verificato la compatibilità con la fede cristia-
na. Il caso più serio sarà quello dei «riti cinesi», che darà origine a una celebre contro-
versia, iniziatasi nella prima metà del sec. XVII, alla morte di padre Matteo Ricci

14
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 348.
15
Sessione XXIV. Canones super reformatione circa matrimonium: decretum Tametsi, in DS, nn.
1813-1816.

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(1610), e conclusasi solo con la pubblicazione della bolla pontificia Ex quo singulari del
174216. Scrive il benedettino OSCAR CHUPUNGCO:

“I principali aspetti della controversia furono l’uso di parole cinesi da parte


dei missionari gesuiti per esprimere concetti cristiani, e il permesso dato ai
convertiti di svolgere, con certe restrizioni, i riti in onore di Confucio e degli
antenati”17.
Questi tentativi di assumere alcune strutture linguistiche e rituali della tradizione
cinese, benché purificate degli elementi chiaramente incompatibili con la nuova fede,
provocarono accuse violente da parte di altri missionari, soprattutto domenicani, e tutto
fu bloccato.
Resta però interessante la lettura di un documento di Propaganda fide del 1659 nel
quale, almeno in linea di principio, si fa strada la possibilità di distinguere tra annuncio
e celebrazione della fede da una parte e forma culturale europea (romana) dall’altra:
“Che cosa c’è di più assurdo che il portare la Francia, la Spagna, l’Italia o
qualunque altra parte dell’Europa in Cina? Non importate queste cose, ma la
fede, la quale non respinge o danneggia i riti e le consuetudini di alcun popo-
lo, purché non siano sconvenienti, ma anzi vuole che siano conservati”18.
- Un SECONDO grande orientamento della prassi liturgica di quest’epoca è la tenden-
ziale riduzione cerimoniale della liturgia. L’unificazione liturgica del mondo cattolico,
attuata sulla base dei nuovi libri liturgici romani e sotto l’occhio vigile della nuova
Congregazione dei Riti, puntò tutte le sue carte sull’esatta e decorosa esecuzione delle
cerimonie da parte del clero e dei ministri ad esso subordinati.
Questa cura della cerimonia, regolata dalla scienza delle rubriche, divenne
l’antidoto alla negazione liturgica protestante e lo strumento attraverso il quale i fedeli
avrebbero dovuto percepire la dimensione misteriosa, sacra e intangibile della liturgia
cristiana, pur senza comprendere il senso dei testi e dei riti. A favorire questa tendenzia-
le riduzione della liturgia a cerimonia, da eseguire con il massimo rispetto di tutte le ru-
briche, contribuisce in larga misura l’orientamento complessivo della riflessione teolo-
gica sulla Chiesa e sui sacramenti ed in particolare:
1) La tendenziale riduzione della liturgia ad azione clericale e la difficoltà ad articola-
re un discorso più positivo sulla partecipazione di tutti i fedeli al sacerdozio di Cristo sul
fondamento dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, senza contraddire la ministerialità
propria e specifica del sacerdozio ordinato;
2) La tendenziale sovrapposizione dell’affermazione dogmatica circa l’efficacia og-
gettiva dei sacramenti con il senso proprio della prassi liturgica. Una sottolineatura uni-
laterale dell’ex opere operatum (efficace in forza dell’opera) porta infatti a ritenere che

16
Si può consultare al riguardo BONTINCK F., La lutte autour de la liturgie chinoise aux XVIIe et
XVIIIe siècles = Pubblications de l’Université Lovanium de Léopoldville 11, Louvain-Paris 1962,
XXXVI+548.
17
CHUPUNGCO ANSGAR, L’adattamento della liturgia tra culture e teologia, Casale Monferrato (AL),
Piemme 1985, p. 44.
18
"Quid enim absurdius quam Galliam, Hispaniam, Italiam aut ullam Europae partem in Synas inve-
here? Non haec sed fidem importate quae nullius gentis ritus aut consuetudines, quae modo prava
non sint, aut respuit aut laedit, immo vero sarta tecta esse vult" [Instructio Vicariorum Apostolico-
rum ad Regna Synarum Tonchini et Cocinnae Proficiscentium in: Collectanea Sacrae Congregatio-
nis de Propaganda Fide I, Roma, 1907].

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l’azione liturgica «funziona per se stessa», a prescindere dal coinvolgimento soggettivo


di coloro che compongono l’assemblea, con una loro partecipazione attiva e consapevo-
le. Basta così che il ministro ordinato abbia eseguito con scrupolo la forma del rito, che
la Chiesa ha stabilito come coerente all’istituzione di Cristo, intendendo fare ciò che in-
tende la Chiesa, perché l’atto liturgico abbia raggiunto il suo scopo;
3) La presentazione della liturgia come «culto pubblico esterno» di una Chiesa, pensa-
ta quasi esclusivamente in termini di società giuridicamente perfetta nel suo ordine
(quello spirituale). A partire da questa visione di Chiesa, carente del suo aspetto pro-
priamente misterico di corpo mistico di Cristo animato dalla potente azione dello Spiri-
to, era inevitabile porre l’accento sull’apparato esteriore delle cerimonie liturgiche che,
impressionando per la loro bellezza e il loro decoro, dicono la perfezione di quella «so-
cietà» che le pone in atto.

- Un TERZO orientamento. L’iniziale preoccupazione, emersa a Trento, di una qual-


che partecipazione dei fedeli alla liturgia perse presto ogni slancio. Emerse piuttosto la
volontà positiva che i fedeli, assistendo alle azioni liturgiche, percepissero attraverso ce-
rimonie sempre decorose e possibilmente solenni un senso di mistero arcano e sublime.
Il Cattaneo annota: “La Messa doveva apparire ai fedeli un mistero, particolarmente
nella sua parte centrale", dove il termine mistero ha insieme la valenza di «qualcosa
che l’uomo non può mai completamente afferrare» e di «qualcosa di cui non si com-
prende nulla».
Anche la chiusura all’uso del «volgare» nella liturgia si irrigidì progressivamente
fino alla messa all’indice dei libretti per i fedeli che traducevano l’ordinamento della
messa e in particolare il testo del canone, considerato «testo sacro» per eccellenza. Si
possono leggere al riguardo le parole del cappuccino Angelo Conti nella Misteriosa
consideratione intorno a’ riti della sacrosanta Messa, scritto nel 1625:
“Per tal rispetto dunque, non si esporranno qui le precise e formate parole del
sacro canone, ma solo la misteriosa significazione de’ riti, atti e gesti in esso
contenuti”.
La presenza alla messa da parte dei fedeli è descritta dalla letteratura spirituale del
tempo come «assistenza devota». Le varie scuole di spiritualità del tempo si preoccupe-
ranno di indicare il modo con cui «assistere devotamente alla messa». Si tratta normal-
mente di un esercizio di preghiera mentale o di un esercizio di meditazione dei misteri
della vita del Signore. San Francesco di Sales scriverà tra i propositi del novembre
1602: “Nei giorni festivi reciterò il rosario durante la messa solenne”.
La comunione eucaristica, raccomandata come fondamentale atto di devozione,
tende a rimanere un rito a se stante, collocato spesso nella pratica pastorale prima o do-
po la celebrazione eucaristica. Non il vertice della partecipazione dei fedeli all’atto ce-
lebrativo, in stretta connessione con la consacrazione del pane e del vino, ma un rito au-
tonomo che risponde al bisogno dei fedeli più devoti, anche se ovviamente relativo alla
celebrazione dell’eucaristia in quanto il pane consacrato di cui i devoti si cibano è con-
sacrato nel sacrificio della messa.
Anche la predicazione al popolo, molto raccomandata da Trento ai sacerdoti in cura
d’anime, stenta a trovare il suo posto più naturale all’interno della celebrazione. Darà
piuttosto i suoi frutti in riferimento ad altre realtà della vita religiosa di quest’epoca: le
santissime quarantore, i tridui e le novene in occasione delle feste patronali e delle prin-
cipali solennità mariane, i quaresimali, particolari momenti di calamità sociali o natura-

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li. In questo modo resterà a lungo priva di un riferimento biblico preciso e non avrà
molta attenzione a introdurre i fedeli alla vita liturgica.

1.2. Lo iato tra liturgia ufficiale e pietà popolare

In stretta relazione con le ultime affermazioni possiamo parlare di uno iato sempre
più evidente tra liturgia ufficiale, atto del clero, cui il precetto, per altro molto esteso,
impone un’assistenza che nei casi migliori può diventare devota, e le forme notevolis-
sime di pietà cristiana, nelle quali si costata un’autentica espressione del sentimento re-
ligioso popolare.
Il Cattaneo riporta in proposito un severo giudizio dello Jungmann, secondo il qua-
le “la vita liturgica del Barocco entra in una fase di dissoluzione storica... quale nessun
altro periodo della liturgia ha conosciuto”, ma aggiunge di suo, con molta perspicacia,
la constatazione che “all’uniformità rubricistica e statica (della liturgia)... per impulso
della cultura, messa in sollecito movimento dalle idee rinascimentali, si contrappone
una vigorosa espansione delle forme espressive della pietà devozionale e dell’arte” 19.
Le linee portanti della «pietà» dell’epoca barocca si possono raccogliere in quattro
orientamenti:
a) Il culto eucaristico extra missam, radicato nella verità dogmatica della Presenza
Reale per transustanziazione, che a Trento era stata ribadita con forza. I fenomeni più
vistosi al riguardo sono: - il grandissimo impulso dato alle confraternite del Santissimo
Sacramento; - la ristrutturazione del presbiterio per porre in più grande evidenza il ta-
bernacolo, al centro, sontuosamente decorato, sormontato da un tempietto con il luogo
dell’esposizione; - le trionfali processioni eucaristiche [dalla festa del Corpus Domini
alla processione eucaristica mensile], durante le quali venivano rievocati, anche dram-
maticamente, episodi dell’Antico Testamento e della vita del Signore; - la composizione
di messe de venerabili in onore del Santissimo Sacramento; - le solenni ostensioni del
Santissimo Sacramento per l’adorazione dei fedeli e le solenni benedizioni eucaristiche,
anche durante la messa. La presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata, percepita an-
che come presenza protettrice e miracolosa, avvince l’animo religioso dell’epoca baroc-
ca e dà luogo ad uno sviluppo artistico, architettonico, scultoreo, pittorico e musicale di
notevole intensità e valore20.
b) Il culto alla Vergine Santissima. Conosciuto e inserito nella liturgia fin dall’epoca
patristica, come correlativo alla centralità del mistero di Cristo (solennità di Maria Ma-
dre di Dio; festa dell’Annunciazione... ), cresciuto durante tutto il Medioevo in forme
più libere e rispondenti alla pietà religiosa del popolo, esso continua il suo rigoglioso
sviluppo in epoca barocca per linee più marcatamente devozionali. Alla base del grande
impulso dato in quest’epoca alla devozione alla Vergine stanno i nuovi santuari mariani,
normalmente legati a fatti miracolosi o ad avvenimenti straordinari, in cui l’azione pro-
tettrice di Maria [«Santa Maria delle Grazie» è uno dei titoli più usato] si è manifestata
con particolare evidenza e la predicazione al popolo, fortemente incentrata in senso ma-
riano. È di quest’epoca l’immissione nel calendario liturgico della festa della Madonna
del Rosario, a ricordo della battaglia di Lepanto (1571) e in ringraziamento per la vitto-

19
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 329.
20
Per una conoscenza più diretta del contesto ambrosiano dell’epoca si legga l’interessante CATTANEO
ENRICO, Contributo alla storia eucaristica di Milano, in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana
11. Storia eucaristica di Milano = Archivio ambrosiano 45, Ned, Milano 1982, pp. 90-99.

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ria ottenuta, e la festa del Nome di Maria a ricordo della battaglia di Vienna (1683) e
della cacciata definitiva dei Turchi dall’Europa. Si diffonde grandemente la pratica del
Rosario, addirittura suggerita da qualche maestro spirituale come il miglior mezzo devo-
to per assistere alla messa. Il sabato, già da secoli giorno votivo mariano, riceve nuovo
impulso nella prassi pastorale, mentre si va diffondendo nelle parrocchie la funzione se-
rale con il canto solenne della Salve Regina, seguito dalla benedizione eucaristica, dove
si saldano insieme culto eucaristico e culto mariano. Tra le pratiche di pietà più racco-
mandate c’è infine, per il clero e per i laici, la recita quotidiana dell’ufficio della beata
vergine Maria21.
c) Il culto dei santi, ridimensionato un poco dalla riforma dei libri liturgici postriden-
tini, perché tendeva a soffocare la centralità dei misteri della vita del Signore, celebrati
nell’arco dell’anno liturgico, “a poco a poco riprese gran parte dei giorni dell’anno”.
La struttura architettonica stessa delle chiese barocche o barocchizzate ne è testimo-
nianza statuaria. L’orientamento del luogo di culto all’altare centrale viene come smarri-
to nella selva di altari laterali o di vere e proprie cappelle dedicate all’uno o all’altro
santo, per permettere le diverse devozioni dei fedeli e per incentivare le donazioni da
parte delle famiglie nobili o abbienti.
d) La devozione al crocifisso e alle sue santissime piaghe. Il CATTANEO la presenta
così:

"Coltivata già nel Medioevo - basti ricordare san Francesco d’Assisi - ora ri-
ceve un ulteriore e più affettuoso impulso dalla riforma luterana che negava
alla messa il carattere sacrificale e affermava che la giustificazione consisteva
soltanto nella non imputazione delle colpe coperte dal sacrificio di Cristo sul-
la croce. Tali affermazioni procuravano una reazione psicologica: perché se
la passione di Cristo non toglieva, ma copriva i peccati, i meriti di essi appa-
rivano minori di quelli predicati dalla dottrina tradizionale che, cioè, il san-
gue di Cristo lavava ogni peccato a chi rinnovava il suo amore a Dio”22.

In questa direzione si può leggere la spiritualità di san Carlo Borromeo (1538-


1584), raffigurato normalmente in preghiera davanti al Crocifisso, la spiritualità carme-
litana e quella di san Francesco di Sales (1567-1622), confluita nella Filotea (1607),
opera spirituale per tutte le anime desiderose di perfezione ristampata fino a oggi.
La devozione alla Passione di Cristo avrà il suo approdo più vistoso nell’ordine dei
Chierici scalzi della Santissima Croce e Passione di Nostro Signore Gesù Cristo (i Pas-
sionisti), fondato da san Paolo della Croce (1694-1775) nel 1720. Accanto ai tre voti
classici coloro che entrano nel nuovo ordine ne emettono un quarto che consiste nel
promuovere la devozione alla Passione di Cristo tra i fedeli. Con loro si diffonderà
enormemente la pia pratica della via crucis.

21
Per una conoscenza più approfondita del culto / devozione a Maria a Milano si veda ancora
CATTANEO ENRICO, Maria santissima nella storia della spiritualità milanese = Archivio Ambrosia-
no 8, Milano 1955).
22
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 325.

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1.3. Canto e musica

Non si può parlare della prassi liturgica in epoca barocca senza accennare al gran-
dioso sviluppo delle forme musicali, sia del canto vocale che della musica strumentale.
Il canto polifonico riceve un’investitura ufficiale da parte della gerarchia della Chiesa e
“abbassa sempre più l’interesse per il vecchio monodico e diatonico canto gregoriano”
(Cattaneo, p. 343).
Geni musicali come Pierluigi da Palestrina (1525-1594), Orlando di Lasso (1532-
1594) e Tommaso Ludovico da Victoria (1548-1611), operanti a Roma nella seconda
metà del ‘500, conferirono definitiva dignità liturgica a questo nuovo modo di intendere
il canto. La musica polifonica è messa al servizio dei testi dell’ordinario della messa
(Kyrie; Gloria; Sanctus - Benedictus; Credo; Agnus Dei) e dei testi del proprio dei tem-
pi liturgici e delle feste.
Ben presto però l’equilibrio raggiunto da questi compositori fu infranto da altri più
preoccupati di meravigliare con la loro musica che di servire la preghiera liturgica.
Comprendiamo i ripetuti interventi della Congregazione dei Riti, uno in particolare del
1643, nei quali viene denunciato l’abuso di messe solenni, in cui sono introdotte esecu-
zioni musicali non attinenti all’atto liturgico, ma solo preoccupate di «piacere» e «attira-
re».
Accanto all’ingresso trionfale della polifonia nelle celebrazioni liturgiche, il ‘600
conosce anche l’investitura ufficiale della musica organistica. L’organo, giunto a una
notevole perfezione tecnica, diviene lo strumento ecclesiastico per eccellenza, dalle più
imponenti cattedrali all’umile chiesa di campagna. La polifonia e la musica organistica
di quest’epoca hanno prodotto un patrimonio artistico di inestimabile valore religioso e
culturale. Ciò che emerge come interrogativo critico sul versante della liturgia è la capa-
cità di questi nuovi sviluppi artistico - musicali di compiere un reale «servizio liturgi-
co». La domanda non verte, di principio, sulle forme vocali e musicali in quanto tali, ma
sul loro esito pratico complessivo. Una seria ricerca musicologica attuale, che tenti di ri-
formulare il rapporto tra arte vocale e musicale e liturgia, dovrebbe dedicare grande at-
tenzione alla «musica sacra» di quest’epoca.

2. La prassi liturgica nei secoli dei lumi

Molte delle notazioni fatte per l’epoca barocca circa la prassi liturgica ufficiale e la
sua distanza dalla pietà devozionale dei fedeli, conservano piena validità anche nel cor-
so del ‘700 e oltre.
Ciò che appare nuovo e meritevole di attenzione durante il secolo dei lumi è da una
parte la nascita di un interesse storico erudito nei confronti della liturgia e delle sue fonti
antiche e dall’altra l’emergenza di una certa istanza di riforma, motivata, sia dal deside-
rio, schiettamente illuministico, di una pratica religiosa (la liturgia è parte integrante
della pratica religiosa) scevra dall’esuberanza e dall’esteriorità dell’epoca barocca e
guidata dalla luce dell’intelligenza e della cultura (si tratta di un movimento tutto som-
mato elitario), sia da una lettura in chiave pastorale della liturgia stessa (la liturgia come
luogo in cui l’azione pastorale di un vescovo può esprimersi con efficacia). Il Cattaneo
prende spunto proprio da questo secondo orientamento per caratterizzare il ‘700 come il
secolo in cui comincia a farsi strada una «scienza pastorale liturgica».

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2.1. L’interesse storico - erudito

La nascita di un interesse storico - erudito nei confronti della liturgia e delle sue an-
tiche fonti è dovuta principalmente alla volontà apologetica di fornire prove solide della
tradizionalità del culto cattolico, di fronte alla persistente contestazione di parte prote-
stante. Essa risente però anche di quel rinnovato fervore di ricerche nel campo delle an-
tiche fonti cristiane e non, che percorre tutto il ‘700 e che sfocierà, dal punto di vista
delle diverse espressioni artistiche, nello stesso stile neo-classico.
Tra i molti nomi di eruditi di fonti liturgiche vanno ricordati almeno il maurino
Jean Mabillon (1632-1707), il benedettino Edmond Marténe (1654-1739), che tra il
1700 e il 1702 pubblicò una documentazione ancora oggi fondamentale circa gli antichi
riti e le antiche consuetudini liturgiche della chiesa dal titolo De antiquis ecclesiae riti-
bus; il card. Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1649-1713) e il prete secolare Lodovico
Antonio Muratori (1672-1750), che nel 1748 pubblicò le fonti della «Liturgia romana
antica» (il sacramentario veronese - gelasiano - gregoriano). A prescindere dalla moti-
vazione prevalentemente apologetica, l’edizione (per altro - a giudicare con gli strumen-
ti oggi a disposizione - poco critica) delle antiche fonti liturgiche metterà in circolazione
la conoscenza dei tesori liturgici della chiesa antica. Questo sarà la premessa per uno
studio più scientifico della prassi liturgica, per lo sviluppo di una riflessione teologica
sulla liturgia e costituirà la base per una sua efficace riforma.

2.2. L’esigenza di riforma

Più complesso risulta ripercorrere l’esigenza di riforma del ‘700 in campo liturgico
e i tentativi effettivamente messi in atto. Con un procedimento a flash dobbiamo almeno
richiamare:
- Il lavoro di riforma dei libri liturgici, in particolare il Breviario e il Messale, messo
in atto in molte diocesi della Francia e conosciuto anche come fenomeno delle «liturgie
neo-gallicane»23. Si tratta di una riforma dei testi liturgici (canti e orazioni) secondo il
criterio dell’arricchimento sia biblico (sostituzione di testi non biblici con testi biblici)
che liturgico (recupero di nuovi testi dell’eucologia dai sacramentari antichi da poco
editi). L’opera di riforma non ebbe un carattere organico per tutta la Francia, ma fu in-
trapresa per iniziativa di singole diocesi, cui aderirono altre diocesi, entusiaste del lavo-
ro fatto da queste.
Roma non guardò mai con favore a questi tentativi, che rimettevano in discussione
l’unità liturgica della riforma postridentina, e nell’ottocento l’abate della rinata abazia
benedettina di Solesmes, Prospero Guéranger, sarà il deciso e tenace fautore di un ritor-
no della Chiesa francese ai libri liturgici romani, impegnandosi a diffondere un giudizio
fortemente negativo dell’intera intrapresa neo-gallicana.
- La produzione liturgica del Muratori, molta sotto pseudonimo (Lamidio Pritannio),
riguardante i problemi di pastorale liturgica. Tra di essi emerge per importanza l’opera
del 1747 Della regolata devozione dei cristiani24, dove l’accento (tipicamente illumini-

23
Il Brovelli ne ha fatto uno studio accurato in «Ephemerides Liturgicae» 96 (1982) pp. 279-406; 97
(1983) pp. 482-549.
24
Una recente riedizione in MURATORI LODOVICO ANTONIO, Della regolata devozione dei cristiani =
Storia della Chiesa. Fonti, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, pp. 278.

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stico) va posto su quell’aggettivo «regolata», che sottintende l’intervento della «ragio-


ne» e della «cultura» illuminata.
La categoria della devotio racchiude in sé il complesso della pratica religiosa dei
cristiani senza una precisa distinzione tra ciò che noi oggi chiamiamo «liturgia» in senso
stretto e i «pii esercizi»25. Tra i temi più vivacemente affrontati dal Muratori, e che pro-
vocarono dibattiti e contrasti anche duri, emerge quello dell’uso del volgare nella litur-
gia (il Muratori si fa promotore di esso almeno per la lettura del vangelo); quello della
riduzione delle festività di precetto, esageratamente numerose, con risvolti negativi an-
che di carattere sociale (la gente si ubriacava - nascevano risse - i costumi sessuali si al-
lentavano - eccetera...); i suffragi in favore dei defunti; le varie forme del culto eucari-
stico, del culto alla Vergine e del culto ai santi.
Pur non muovendo decisamente da un ripensamento teologico della natura del culto
cristiano il Muratori dà l’impressione di una grande sapienza e di un grande equilibrio,
volto a combattere ogni rischio di superstizione e ogni forma di abuso, ma anche a valo-
rizzare la genuina tradizione della Chiesa. È in qualche modo un antesignano del rinno-
vamento liturgico.
- Meritano pure attenzione le riforme ecclesiastiche austriache, molte delle quali di-
rettamente attinenti alla prassi liturgica e devozionale dei fedeli. La valutazione com-
plessiva di quest’azione di riformismo ecclesiastico liturgico promosso dall’Austria, ri-
chiede di tenere presente sullo sfondo la questione delle nomine ecclesiastiche di parte
regia (senza preavviso e senza previa approvazione della Sede Pontificia) e dunque lo
stato già precario dei rapporti tra la Chiesa e lo stato dentro e fuori l’impero austro-
ungarico.
Il Cattaneo documenta con dovizia di particolari la ricca legislazione austriaca in
materia liturgica e valuta l’impatto che essa ha avuto sulla vita delle Chiese direttamente
interessate. Rimandando a una lettura diretta dei dati documentari, raccogliamo il suo
giudizio globale, sostanzialmente critico prima che sui contenuti delle riforme attuate
sulla modalità con cui esse furono perseguite:
“Esse furono imposte e dovevano essere accettate solo in forza dell’autorità
imperante e furono stabilite senza alcuna preoccupazione pastorale, ossia non
tenendo conto dello stato d’animo religioso delle popolazioni, alle quali si
chiedeva solo obbedienza senza accorgersi del suo stato d’animo generale,
ormai lontano dalla sudditanza propria dell’età medievale”26.
Dobbiamo comunque costatare che tali riforme ebbero una certa efficacia pratica,
soprattutto nella regolazione di tutti quei punti in cui venivano a incrociarsi l’ambito ci-
vile e l’ambito religioso: 1) I giorni delle festività di precetto; 2) Le feste patronali e il
loro rapporto con gli obblighi lavorativi; 3) Le liturgie funebri; 4) Le pubbliche manife-
stazioni di culto nelle chiese e fuori (orari - frequenza - processioni - tridui - novene).
Nel Veneto e in Lombardia la legislazione austriaca su alcuni di questi punti giunse fino
al Vaticano II.
- Il quarto e ultimo episodio di questo ‘700 riformista in campo liturgico è il Sinodo
di Pistoia (1786), più direttamente operante sotto l’influsso delle idee gianseniste, di-
vulgate in Italia da alcuni professori dell’università di Pavia. Esso è un fatto di Chiesa
locale (la diocesi di Pistoia e di Prato sotto la guida del vescovo Scipione de’ Ricci), ma
con l’esplicita pretesa di coinvolgere l’intera chiesa italiana. Scrive il Cattaneo: “Come
25
Questa distinzione è adottata da Sacrosanctum Concilium, n. 13.
26
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 417.

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tutta la vicenda insegna con tale sinodo si volle iniziare localmente una riforma per
estenderla a tutta la Toscana, con la speranza di influenzare tutta l’Italia, non esclusa
Roma”27. I fatti sono presto detti: Leopoldo II, granduca di Toscana, con il pieno ap-
poggio del vescovo de’ Ricci, convoca un sinodo a Pistoia dal 18 al 28 settembre 1786,
inviando ai vescovi suoi sudditi un’elenco di 57 punti (più della metà su problemi litur-
gici e devozionali), sui quali essi sono chiamati a esprimere una loro valutazione. Il Cat-
taneo annota: “In sostanza l’elenco corrisponde a molte delle riforme austriache. La
novità è nel continuo riferimento a idee gianseniste, le quali, riversate nei decreti sino-
dali, permisero una loro condanna esplicita da parte della Sede Apostolica”28. Il Sino-
do si svolse sotto la presidenza del de’ Ricci e la sovrintendenza teologica del Tamburi-
ni, e promulgò una serie di decreti di riforma.
Leopoldo II di Toscana e il de’ Ricci tentarono di far approvare i decreti sinodali
dall’assemblea dei vescovi toscani, riunita nel maggio del 1787 in vista della convoca-
zione di un più ampio concilio nazionale, ma la cosa non riuscì e la maggioranza dei ve-
scovi si schierò decisamente contro. La Sede Apostolica condannò il sinodo 8 anni dopo
con la bolla Auctorem Fidei (1794), nella quale vengono riprese e censurate 85 proposi-
zioni sinodali. Alcune affermazioni sono bollate come «eretiche» per gli errori dogmati-
ci in esse contenuti, mentre altre sono definite «false o ambigue». Il CATTANEO com-
menta:
“Si ha la chiara sensazione che con la condanna «parziale» di tali proposizio-
ni si sia voluto soprattutto colpire i loro autori, poi riaffermare il principio
che solo alla Sede Apostolica spetta la riforma o la revisione, la condanna o
l’approvazione di tutto ciò che riguarda il culto e avvertire che si deve ritene-
re «temerario» (è l’aggettivo più ricorrente) fare in tale materia cosa anche
semplicemente pietati fidelium ingiuriosa (ingiuriosa alla pietà dei fedeli) o
piarum aurium offensiva (offensiva delle orecchie pie) o favens haereticorum
conviciis (favorevole alle sette ereticali)”29.
In conclusione, la volontà di riforma liturgica del ‘700 si arena contro due scogli:
1) Un’insufficiente o addirittura fuorviante quadro teologico di riferimento, per una
comprensione del fatto liturgico nella vita della Chiesa; 2) Un’intromissione pesante del
potere civile in un ambito tipicamente ecclesiastico, che suscita immediatamente la dif-
fidenza e l’opposizione romana.
Se a questo si aggiunge la dimensione troppo elitaria di un sentire illuministico del-
la «devozione cristiana», non compresa e non condivisa dal clero in cura d’anime e dal
popolo con lui, si può capire come una stagione pur così vivace non ha prodotto alcun
reale riavvicinamento tra culto ufficiale della Chiesa e pietà dei fedeli.

27
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 435.
28
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 438.
29
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 325.

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CAPITOLO VI

OTTOCENTO - NOVECENTO LITURGICI

Dispongo lo studio di questo capitolo della storia della liturgia, e


dell’autocoscienza teologica della Chiesa nei riguardi della liturgia che essa celebra in
tre momenti: - I prodromi del movimento liturgico nel corso del sec. XIX; - Lo sviluppo
del movimento liturgico nella prima metà del sec. XX e la sintesi offerta dall’enciclica
Mediator Dei (1947); - L’approdo conciliare e il cammino della riforma nel dopo conci-
lio.

1. I prodromi del Movimento Liturgico

Per comprendere meglio l’avvio di una rinnovata coscienza della centralità della li-
turgia per la vita della Chiesa (prodromi del movimento liturgico) occorre fare prima il
punto della situazione di partenza.

1.1. La situazione di partenza

Sul versante del magistero liturgico il sec. XIX si rivela decisamente statico e poco
incline a rimettere in discussione la situazione liturgica codificata dalla riforma postri-
dentina. L’unico elemento dinamico è una costante immissione di santi nel calendario
liturgico, specialmente durante il papato di Pio IX (1846-1878) e di Leone XIII (1878-
1903), e l’aggiunta di una nuova serie di feste a carattere devozionale (Sacro Cuore di
Gesù; Preziosissimo Sangue; Beata Vergine Addolorata, ecc...).
Le istanze di riforma del ‘700, emblematicamente riassunte nel Sinodo di Pistoia
(1786), non solo furono avversate dalla sede romana per gli equivoci di carattere dog-
matico e per gli elementi di perturbazione sociale in esse ravvisate, ma non riuscirono
neppure a stimolare una verifica e un ripensamento della prassi liturgica vigente. Non
ebbero miglior sorte le più pacate riflessioni di Antonio Rosmini (1797-1855), attento
osservatore della vita della Chiesa del suo tempo e dei mali che l’affliggevano.
Nello scritto Delle cinque piaghe della santa Chiesa (terminato nel 1832, ma pub-
blicato solo nel 1848)1 egli denunciava come prima causa della crisi in cui si trovava
immersa la vita cristiana e la stessa Chiesa «la separazione del clero dal popolo nel cul-
to» e prospettava un serio recupero della «parte del popolo» nella liturgia, come pure
una seria istruzione liturgica del popolo.
L’aspetto liturgico non è il solo interesse del roveretano, ma quando ne parla egli
rivela una maturità del tutto eccezionale. Il libro fu messo all’Indice nel 1849 (l’anno
dopo la sua pubblicazione) e fu troncato in questo modo sul nascere il dibattito salutare
che ne sarebbe potuto scaturire2.

1
ROSMINI ANTONIO, Delle cinque piaghe della santa Chiesa. Trattato dedicato al clero cattolico
(con aggiunte e chiarificazioni inedite), Morcelliana, Brescia 61979, pp. 436.
2
Per un approfondimento del pensiero liturgico di Rosmini, decisamente eccezionale per il suo tem-
po, si vedano, oltre a CATTANEO ENRICO, o. c., pp. 469-475, i testi segnalati alla nota 45 del Catta-
neo stesso.

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Il Rosmini più che un riformatore della liturgia può essere detto un «precursore
della rinascita liturgica», avendo egli intravisto il nesso profondo che intercorre tra ec-
clesiologia e liturgia, tra vita ecclesiale e vita liturgica. Per Rosmini non si tratta anzitut-
to di riformare la liturgia, ma di rendere la liturgia che c’è, nella forma assunta dopo
Trento, luogo vivo e vitale per un’autentica esperienza religiosa da parte di tutti i fedeli.
In Francia la rivoluzione francese, con il suo tentativo di abolire ogni forma di cul-
to cristiano, insieme alla soppressione degli ordini religiosi e alla drastica limitazione di
ogni attività pastorale, aveva tarpato le ali ai tentativi di riforma neo - gallicani. La ri-
presa della vita religiosa, dopo la tempesta rivoluzionaria, avvenne sul versante liturgico
con un completo ritorno alla liturgia romana. Di questo ritorno fu instancabile propu-
gnatore il monaco benedettino Prospero Guéranger, cui abbiamo già accennato e sul
quale dovremo tornare tra poco.
Infine nei paesi sottoposti al dominio austriaco la legislazione liturgica riformista
trovò pratica e generale applicazione ma, per il suo carattere antipopolare e autoritario, e
per la carenza di un pensiero teologico di sostegno, non favorì un vero ripensamento di
tutto il tema liturgico. Al contrario presso il clero, che viveva in stretto contatto con il
popolo, si sviluppò un sordo rancore verso le novità introdotte, che ingenerò un attac-
camento ancora più forte alla tradizione liturgica e devozionale del passato.

1.2. L’avvio di un cammino

Mentre la situazione liturgica generale rimane fortemente statica sul versante della
prassi celebrativa e decisamente povera sul versante delle prese di posizioni magisteria-
li, dobbiamo segnalare, accanto al già accennato pensiero di Rosmini – che non ha avuto
modo di approfondirsi - altri fatti che ormai unanimemente sono segnalati dagli storici
come «prodromi» di una rinascita di interesse per la liturgia e come «premesse» alla na-
scita di un vero e proprio Movimento Liturgico.
Si tratta anzitutto del «risveglio teologico» del sec. XIX sul versante
dell’ecclesiologia. Tra gli autori più significativi si possono citare il vescovo di Regen-
sburg Johann Michael Sailer (1751-1832), il teologo moralista Johann Baptist von Hir-
scher (1788-1865), Markus Adam Nickel (1800-1869) e soprattutto Adam Johann
Möhler (1796-1838) con le due opere L’unità nella Chiesa (1825) e Simbolica o esposi-
zione delle antitesi dogmatiche tra cattolici e protestanti secondo i loro scritti confes-
sionali pubblici (1832).
Questi teologi, salvo forse il Nickel3, non sono direttamente interessati alla liturgia
e non le dedicano grande spazio nei loro scritti. Essi però, recuperando la ricchezza del-
la tradizione biblico - patristica, tentano di superare una visione solo giuridica e istitu-
zionale della Chiesa per attingere alla sua dimensione teologica più profonda, quella di
essere un organismo vivo e sacramentale. La loro riflessione, che avvia un rinnovamen-
to ecclesiologico che giungerà a maturazione solo al concilio Vaticano II, risulterà così
preziosa anche sul versante liturgico. Essi aprono infatti la strada per ricollocare il culto
cristiano al cuore stesso della vita della Chiesa e per superare le categorie puramente
giuridiche ed esteriori con cui la scienza teologica del tempo definiva il fatto liturgico-
cultuale.

3
Cf GÜNTER DUFFRER, Auf dem Weg zu liturgischer Frömmigkeit. Das Werk des Markus Adam Nic-
kel (1800-1869) als Höhepunkt pastoralliturgischer Bestrebungen im Mainz des 19. Jahrhunderts =
Quellen und Abhandlungen 6, Mainz 1962, pp. 156.

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Ma il movimento liturgico del nostro secolo troverà la sua preparazione prossima


nel rinnovamento del monachesimo benedettino, che partito dalla Francia, passerà pre-
sto in Germania, nel Belgio, in Austria, in Cecoslovacchia, in Inghilterra e infine anche
in Italia.
È d’obbligo considerare qui la figura di Prospero Guéranger (1805-1875), che di ta-
le rinnovamento è la sorgente e l’anima4. La sua azione si colloca nell’ambito della ri-
nascita della vita religiosa francese, dopo lo sconvolgimento della rivoluzione,
dell’epoca del terrore e del sogno napoleonico. Tale rinascita si muove sotto il segno
della restaurazione o del ritorno alla tradizione dei Padri e nella fedeltà assoluta al magi-
stero ordinario della Chiesa di Roma. Il primo passo compiuto dal Guéranger fu la “re-
staurazione dell’ordine benedettino, nel quale egli vedeva la manifestazione più viva
della spiritualità tradizionale della Chiesa”5.
Nel 1833 fu riaperta alla vita monastica l’abazia di Solesmes, che divenne il centro
ispiratore del rinnovamento benedettino. Dal momento che la vita benedettina aveva tra
i suoi cardini l’opus Dei, dom Guéranger si prodigò con ogni mezzo perché i suoi mo-
naci riscoprissero la liturgia come momento centrale e plasmatore della loro esperienza
monastica e indicò nella liturgia romana, codificata nella riforma postridentina, la forma
liturgica cui attenersi evitando ogni infiltrazione neo - gallicana.
Per introdurre i suoi monaci e i fedeli più sensibili ai tesori della liturgia romana
diede vita a un ampio programma di pubblicazioni: i tre volumi delle Institutions litur-
giques (pubblicati tra il 1840 e il 1851); i nove volumi de L’année liturgique (pubblicati
dal 1841 al 1875)6.
Le Istituzioni liturgiche si rivolgono a un pubblico colto, ben al di là dell’ambiente
monastico cui sono del resto primariamente dirette, e hanno uno scopo dichiaratamente
scientifico:
“Abbiamo inteso dare in questo libro - scrive nell’introduzione - un insegna-
mento generale di tutte le materie relative alla scienza liturgica e prima di tut-
to ci siamo accinti al compito difficile e non mai tentato prima di noi di fare
una storia generale della liturgia”.
Appare nel Guéranger una coscienza nuova dell’importanza e della centralità della
liturgia per la vita della Chiesa e per la spiritualità di ogni battezzato, a cominciare dai
monaci e dai sacerdoti. C’è inoltre il gusto e la sensibilità tipica dello storicismo otto-
centesco per la ricostruzione erudita e puntuale degli avvenimenti (nel caso, delle istitu-
zioni liturgiche), anche se retta da una tesi in buona misura preordinata, e cioè la prece-
denza e la superiorità della liturgia romana rispetto a tutte le altre tradizioni liturgiche.
Più importante ancora è l’opera sull’anno liturgico (termine usato per la prima vol-
ta proprio dal Guéranger), tradotta in varie lingue e con un eccezionale successo edito-
riale7. Il Guéranger pensò a “un lavoro destinato a mettere i fedeli in condizione di av-
vantaggiarsi degli immensi aiuti che vengono offerti alla pietà cristiana dalla compren-
sione dei misteri della liturgia”.

4
Per un’introduzione generale DELATTE PAUL, Dom Guéranger, maestro di liturgia e di vita mona-
stica = Spiritualità 81, Queriniana, Brescia 1999, pp. 285.
5
CATTANEO ENRICO, o. c., p. 460.
6
Egli arriva a presentare i testi e le celebrazioni dell’anno liturgico fino a Pentecoste. Un suo disce-
polo (l’abate Fromage) completerà l’opera.
7
In italiano fu pubblicata in cinque volume negli anni ‘50 dalle Paoline. Per un primo approccio si
veda BROVELLI FRANCO, Per uno studio de l’Année liturgique di Prospero Gueranger. Contributo
alla storia del Movimento Liturgico, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 1981, pp. 81.

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Già l’impostazione dell’opera risulta nuova. Prima di lui diversi autori avevano
scritto intorno all’«anno cristiano» o «anno ecclesiastico», ma il loro intento era preva-
lentemente di carattere devozionale e pietistico. In occasione cioè delle feste cristiane,
che ritmavano il cammino dell’anno venivano suggeriti gli atteggiamenti devoti da as-
sumere e gli atti di pietà da praticare.
Ora invece il Guéranger parte dai testi, dai riti e dalle feste liturgiche e ne fa
l’oggetto proprio della sua attenzione, ritrovando in loro la sorgente più viva e il terreno
più fecondo cui attingere l’autentica spiritualità della Chiesa. L’intuizione di fondo del
Guéranger, che diverrà una delle strade maestre del Movimento Liturgico, è che la litur-
gia non è solo complesso esterno e ben regolato di cerimonie ma è principalmente la
preghiera di tutta la Chiesa (clero - monaci - fedeli), il modello esemplare della preghie-
ra cristiana, al di là e al di sopra di tutte le scuole di spiritualità, di tutti i metodi e le tec-
niche di orazione. Attraverso lo studio assiduo e rigoroso del suo patrimonio liturgico
tradizionale la Chiesa è chiamata a riscoprire le ricchezze insospettate della sua liturgia.
Se i pregi dell’opera dell’abate di Solesmes furono molti, specie in relazione
all’epoca in cui egli visse, occorre accostare la sua opera con senso critico per rilevare
anche qualche suo limite. Ne segnaliamo almeno due. In primo luogo appare nella sua
opera una certa forzatura interpretativa, allorché egli legge la storia liturgica
dell’Occidente con un naturale, anche se millenario, processo di unificazione verso la li-
turgia della Chiesa romana. Troppi elementi vengono sacrificati in questa ricostruzione.
In secondo luogo nel suo pensiero si avverte la carenza di una riflessione ecclesio-
logica rinnovata, capace di portare a maturazione all’interno dell’atto celebrativo stesso
l’intuizione (feconda sul versante della spiritualità) che la liturgia è preghiera di tutta la
Chiesa. Di conseguenza il Guéranger non arriva a intuire la necessità di una riforma li-
turgica, né riesce ad accogliere l’istanza di una più ampia introduzione della lingua viva
nelle celebrazioni liturgiche.
Come il Rosmini, anche se con ben altra ampiezza, il Guéranger vede nella rinasci-
ta liturgica la via per la rinascita della Chiesa, ma non giunge ancora a prospettare alcun
cammino di riforma. Egli accetta come «tradizione liturgica» tout court la forma postri-
dentina, senza problematizzarla nei suoi aspetti più bisognosi di revisione8.
A prescindere dai limiti suesposti, l’opera del Guéranger ha avuto il grande merito
di ridare alla spiritualità benedettina il suo centro naturale, cioè la liturgia, e di aprire
così la strada alla riscoperta viva della liturgia all’interno dell’intera compagine eccle-
siale. L’orientamento spirituale di Solesmes si irradiò in Germania (Beuron), in Ceco-
slovacchia (Emmaus), in Belgio (Maredsous e Mont César) e in Inghilterra (Farnbo-
rough), centri di vita benedettina che nei primi decenni del secolo XX diedero vita ad un
movimento liturgico consapevole della centralità della questione liturgica e preparato
dal punto di vista storico, teologico, spirituale e pastorale a giocare la carta di
un’organica e generale riforma liturgica.

2. Il movimento liturgico nel sec. XX e l’enciclica «Mediator Dei»

Da questo punto in avanti, più che ai fatti storici, presteremo attenzione alla matu-
razione delle idee con le quali leggere il fatto liturgico o, per usare la terminologia già
introdotta nelle nostre premesse metodologiche, tenteremo di seguire l’emergere di una

8
Per quest’ultima nota critica si veda BOUYER LOUIS, La vie de la liturgie = Lex Orandi 20, Paris
1956, p. 80.

100
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«liturgia teologica» (Vagaggini) o «teologia liturgica» (Marsili), grazie alla quale fu


possibile intraprendere una riforma liturgica ponderata e consapevole.
Il movimento liturgico del nostro secolo ha infatti ridato alla Chiesa una più lucida
autocoscienza teologica del suo celebrare, autocoscienza che era venuta a mancare pro-
gressivamente dalla fine dell’epoca patristica, e una più acuta sensibilità spirituale e pa-
storale nei confronti del fatto liturgico9.

2.1. Lambert Beauduin (1873-1953)

La storiografia del movimento liturgico è oggi concorde nel rintracciare nella figu-
ra di Lambert Beauduin, monaco benedettino a Mont Cèsar in Belgio, l’iniziatore del
movimento liturgico propriamente detto, e colloca nel suo intervento al Congresso di
Malines (23 settembre 1909) il fatto emblematico del suo avvio.
Dom Beauduin ha alle spalle la scuola di dogmatica e l’assidua frequentazione di
dom Columba Marmion, la cui dottrina - scrive OLIVIER ROUSSEAU – “non era che una
manifestazione della sua vita liturgica, vissuta in profondità e spiegata teologicamen-
te”10. Mentre però il Marmion si muove nell’ambito della riflessione dogmatico - spiri-
tuale, il Beauduin scende decisamente sul terreno della liturgia.
Fondamentale per la comprensione del suo pensiero è lo scritto del 1914 La pietà
della Chiesa. Egli articola la sua riflessione attorno alla definizione di liturgia come
«culto della chiesa». In questa definizione egli coglie anzitutto la relatività della liturgia
al soggetto ecclesiale e intuisce la fecondità di una riflessione che applichi alla liturgia
le caratteristiche della Chiesa. In parole semplici, per Beauduin la «liturgia» sono tutti e
solo quegli atti che la Chiesa riconosce come propri e per via di questa dipendenza egli
riscopre il profondo legame che intercorre tra la natura della Chiesa e la natura della li-
turgia. Se la natura della Chiesa è sociale, gerarchica, universale, in continuità con
l’opera di Cristo, santificatrice e composta di uomini, tale sarà anche la natura della li-
turgia. Se poi il principio di animazione della Chiesa è il Cristo glorioso, che dona con-
tinuamente ed efficacemente lo Spirito Santo, anche il soggetto unico ed universale del
culto della Chiesa sarà il Cristo risuscitato e glorioso. “È lui - scrive il Beauduin - che
esercita il nostro culto... unico mediatore tra Dio e l’umanità, pontefice eterno della
nuova alleanza, pontefice unico, che compie qui sulla terra tutta la nostra liturgia”. Re-
cuperato per questa via la funzione sacerdotale con la quale Cristo esplica la sua azione
cultuale nella Chiesa e mediante la Chiesa, il Beauduin ne precisa il significato in tre di-
rezioni:
- È un sacerdozio personale, e Cristo lo esercita personalmente per mezzo di coloro
che sono suoi ministri in forza del sacramento dell’ordine;
- È un sacerdozio collettivo, noi diremmo comunitario, perché Cristo lo esercita «a
nome» e «a vantaggio» dell’intera umanità redenta, la quale viene così intimamente uni-
ta a Lui e per mezzo di Lui al Padre;
- È un sacerdozio gerarchico, e dunque visibile, e Cristo lo esercita attraverso i mini-
stri ordinati, i quali agiscono in suo nome ed in suo potere.

9
Per questa parte cf MARSILI SALVATORE, Anamnesis 1., o. c., pp. 75-84.
10
ROUSSEAU OLIVIER, Storia del movimento liturgico. Lineamenti storici dagli inizi del sec. XIX fino
a oggi, Paoline, Roma 1961, p. 251.

101
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Nella riflessione sull’azione sacerdotale di Cristo che si attua nella liturgia attra-
verso l’azione sacerdotale della Chiesa, è presente ancora una tendenziale riduzione del
soggetto «Chiesa» in riferimento ai ministri ordinati. Beauduin sfugge ancora alla con-
clusione che invece sembra imporsi a partire dalle sue stesse premesse, che cioè tutti i
battezzati, in quanto partecipi dell’organismo ecclesiale, agiscono «sacerdotalmente» in
Cristo, gli uni secondo la misura del sacerdozio comune dei fedeli, gli altri secondo la
misura, ontologicamente distinta, del sacerdozio ordinato o gerarchico.
Anche la riflessione sul sacerdozio collettivo esercitato da Cristo nell’azione liturgica
della Chiesa opera in Beauduin solo sul versante dell’esito salvifico «a vantaggio di tut-
ti», mentre non si sviluppa sul versante della realtà sacerdotale di Cristo, partecipata ad
ogni battezzato e capace di rifondare il tema della partecipazione dei fedeli alla liturgia.
Pur tenendo presente i limiti della riflessione del Beauduin, la riscoperta della litur-
gia come luogo in cui si esercita «oggi» il sacerdozio di Cristo, tramite la Chiesa e a
vantaggio della Chiesa, e l’incipiente intuizione della liturgia come continua riattualiz-
zazione sacramentale dell’opera della salvezza rappresentano un notevole passo in avan-
ti sul cammino della riscoperta della natura teologica della liturgia.
La lezione del Beauduin viene raccolta e sviluppata in una serie di nuove definizio-
ni della liturgia che ruotano, più o meno direttamente, attorno all’idea della liturgia co-
me «culto della Chiesa». Tutte però mostrano i limiti di un’ecclesiologia «vecchia»,
troppo satura di giuridismo ed esclusivamente attenta all’elemento gerarchico - istitu-
zionale (magistero ordinario), cui compete il compito di ordinare e regolare il culto cri-
stiano.

2.2. Odo Casel (1886-1948)

Delle molteplici linee di riflessione, contenute nel pensiero del Beauduin, nessuno
si era preoccupato di approfondire un’idea che lo stesso autore aveva presentato con una
certa ampiezza, anche se poi non vi aveva insistito, e cioè che nella liturgia della Chiesa
è sempre presente e sempre si rinnova la realtà soprannaturale dell’opera di salvezza
compiuta da Cristo.
Senza un diretto riferimento al pensiero del Beauduin, e procedendo per vie del tut-
to proprie, sarà questo l’aspetto centrale della riflessione del benedettino tedesco di Ma-
ria Laach, Odo Casel. Volendo partire ancora dalla definizione della liturgia come «cul-
to della Chiesa» potremmo dire che Casel è interessato piuttosto alla prima parte. Che
cosa intendere per «culto» in contesto cristiano? Qual è la struttura cristiana della «me-
diazione sacramentale»? Come per Beauduin, anche per Casel esiste un testo sintetico in
cui sono raccolte le linee maestre del suo pensiero. Esso porta il titolo emblematico Il
mistero del culto cristiano11.
Partendo da una rigorosa formazione filologica sulla classicità greca e latina Casel
fu condotto a interessarsi delle antiche fonti liturgico - patristiche. Così egli scoprì che
in questi testi l’azione liturgico - sacramentale della Chiesa era normalmente designata
con i termine mysterion (alla greca) o sacramentum (alla latina). Persuaso che il lin-

11
L’originale tedesco è del 1932. La prima traduzione italiana, con una interessante prefazione
dell’abate Marsili è del 1966: CASEL ODO, Il mistero del culto cristiano = Le idee e la vita 28, Bor-
la, Torino 1966, pp. 227. Per un approccio generale al pensiero di Casel, il recente e ottimo lavoro
di BOZZOLO ANDREA, Mistero, simbolo e rito in Odo casel. L’effettività sacramentale della fede
= Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 30, Libreria Editrice Vaticana, Roma - Città del Vatica-
no 2003, pp. 417.

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guaggio delle antiche fonti liturgico - patristiche non potesse essere interpretato al di
fuori della cultura e dell’ambiente in cui era stato forgiato, egli si rivolse a uno studio
attento di quelle forme cultuali del mondo ellenistico conosciute con il nome appunto di
«culti misterici». Tale studio, attuato come premessa a una miglior comprensione
dell’impiego del termine «mistero / sacramento» in ambito cristiano, provocò al Casel
molte incomprensioni ed opposizioni. Oggi possiamo valutare con più equilibrio la par-
te che questo riferimento culturale ha giocato nell’elaborazione della sua «teoria miste-
rica», affermando che le sue intuizioni più feconde vengono più dalla sua conoscenza
dei Padri che dall’analisi del mondo cultuale dei misteri, cui pure si è dedicato con inte-
resse.
Raccogliendo molto sinteticamente la sua intuizione fondamentale, possiamo af-
fermare che - per Casel - tre sono le dimensioni che concorrono a determinare essen-
zialmente la realtà misterica: 1) il riferimento a un evento primordiale di salvezza (miti-
co o storico) che precede; 2) la sua ripresentazione in forma rituale; 3) il rinnovarsi della
sua efficacia salvifica, mediante la forma rituale della sua ripresentazione. Risulta evi-
dente che il culto cristiano, realizzandosi nella forma del mistero, non è tanto un’azione
dell’uomo che cerca il contatto con Dio (concetto naturale di religione), quanto un mo-
mento dell’azione salvifica di Dio sull’uomo (concetto rivelato di religione).
Casel definisce perciò la liturgia “l’azione rituale dell’opera salvifica di Cristo, la
presenza, sotto il velo dei simboli, dell’opera divina della redenzione”. La liturgia non è
dunque solo una «istituzione» voluta da Cristo, che la Chiesa conserva con fedeltà, ma
la continuazione rituale del mistero di Cristo nei gesti e nelle parole messe in atto dalla
Chiesa. Nella liturgia l’avvenimento stesso della salvezza viene reso presente e attivo
per gli uomini di ogni luogo e tempo per cui la liturgia può dire con verità «oggi Cristo
è nato - oggi Cristo è risorto».
Di conseguenza ogni azione liturgica è momento della e nella storia della salvezza.
Inserendo il «mistero» del culto cristiano nel «mistero» di Cristo, che costituisce il pun-
to d’arrivo e la realtà stesso dell’intera rivelazione, il Casel fa della liturgia un momento
sempre attualizzatore della medesima rivelazione e conferisce alla liturgia un posto cen-
trale nella teologia.

2.3. La sintesi della «Mediator Dei» (1947)

Accanto a questa maturazione teologica, per la quale la liturgia torna ad essere


compresa come il «mistero cultuale di Cristo e della Chiesa» - espressione di Casel - il
Movimento Liturgico andava lentamente maturando una serie di indicazioni sul versante
della spiritualità sacerdotale e laicale e sul versante dell’azione catechetico - pastorale,
atte a suscitare una più attiva e consapevole partecipazione alla liturgia, e cominciava a
prospettare l’esigenza di una vera e propria riforma degli ordinamenti liturgici e delle
celebrazioni rituali all’insegna della «semplificazione» e dell’«aggiornamento» (non ul-
timo in ordine di importanza appariva ormai il cambiamento della lingua nella liturgia).
Tutti questi fermenti erano seguiti con attenzione, e qualche volta con preoccupa-
zione dalla Santa Sede, in ragione anche di alcune intemperanze o estremismi. Il perio-
do della guerra sembrò congelare un poco il cammino del movimento liturgico, ma nel
1947, in modo abbastanza inatteso, Pio XII emanò l’enciclica Mediator Dei, la prima
dal concilio di Trento il cui oggetto specifico fosse la liturgia, illustrata nella sua origi-

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ne, nel suo significato e nella sua importanza per la vita della Chiesa e per la sua azione
pastorale12.
Essa si muove su due registri complementari: da una parte il tentativo di dare una
sintesi dottrinale del problema liturgico sia sul piano della teologia, sia sul piano
dell’ecclesiologia; dall’altra la preoccupazione di mettere in guardia da posizioni dottri-
nali e pratiche insostenibili, perché - cito testualmente – “contaminate da errori che toc-
cano la fede e la dottrina ascetica”. Tra le posizioni dottrinali o pratiche in questione
possiamo almeno mezionare:
- L’affermazione che «i fedeli godano di poteri sacerdotali» (l’enciclica non userà
mai l’espressione «sacerdozio comune o universale dei fedeli» e neppure userà mai il
concetto di «assemblea celebrante»);
- La riprovazione delle messe che si celebrano in privato e senza l’assistenza del po-
polo (l’enciclica contrappone a una istanza liturgico - pastorale che vedeva nella messa
con il popolo la forma tipica e più espressiva della celebrazione eucaristica una visione
dogmatico - essenzialistica per cui “non è in nessun modo richiesto per la validità e la
funzione pubblica e sociale della celebrazione, che il popolo ratifichi ciò che fa il sacro
ministro”);
- Il rifiuto di celebrare l’Eucaristia se il popolo cristiano non si accosta alla mensa
divina e l’affermazione che la santa comunione, compiuta dal sacerdote e dal popolo,
sia quasi il culmine di tutta la celebrazione (anche qui l’enciclica oppone una visione
dogmatico - essenzialista: “La santa comunione appartiene all’integrità del sacramento
e alla partecipazione ad esso, ma è assolutamente necessaria solo al ministro sacrifica-
tore, mentre ai fedeli è soltanto da raccomandarsi vivamente”);
- Le nuove teorie sulla pietà oggettiva, le quali vorrebbero trascurare o attenuare la
pietà soggettiva o personale, cioè le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche
(l’enciclica riconosce come ottimi i principi che vengono esposti per recuperare la pietà
oggettiva, vale a dire una spiritualità liturgicamente centrata, ma dichiara del tutto “fal-
se, insidiose e dannosissime” le proposte di ridurre certe pratiche di pietà personali.
L’enciclica tenta qui un equilibrio difficile: da una parte, mantenere intatto e anzi rialza-
re il valore della liturgia, ma, dall’altra, riaffermare la validità di tutte le altre forme di
pietà soggetiva o personale. Parlo di «equilibrio difficile», perché, dal punto di vista sto-
rico, abbiamo dovuto costatare come molte spinte a una vita devota più soggettiva e
personale sono state di fatto un tentativo di supplire presso i fedeli al vuoto lasciato da
una liturgia non compresa e dunque inefficiente sul piano propriamente spirituale);
- Il temerario ardimento di coloro che introducono nuove consuetudini liturgiche o
fanno rivivere riti già caduti in disuso (tutto questo non è dichiarato male in linea di
principio, ma piuttosto in linea pratica, per la ragione cioè che in campo liturgico nulla è
lecito fare senza il giudizio e l’approvazione della sede apostolica. Con questa stessa
motivazione vengono riprovati coloro che tentano di usare il volgare nella celebrazione
eucaristica. Non si esclude in assoluto la possibilità dell’utilizzo del volgare nella litur-
gia, ma si rimette la decisione alla sede apostolica).
Pur tenendo conto di questo sfondo polemico - apologetico dell’enciclica, innegabi-
li sono gli aspetti positivi, che sanciscono un vero progresso nella conoscenza della li-
turgia, imponendo all’attenzione generale, e in modo autorevole, certi elementi che la ri-

12
Il testo in Enchiridion delle encicliche 6. Pio XII (1939-1958), Dehoniane, Bologna 1995, pp. 442-
577.

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flessione teologico - liturgica andava acquisendo in ambienti sempre più vasti. Va


ascritto a merito di questa enciclica la scelta di guardare alla liturgia su un piano diret-
tamente teologico.
In tal modo Pio XII può subito rigettare come «non vera e non esatta nozione di li-
turgia» tanto quella che la riduce a “parte solo esterna e sensibile del culto divino o a
cerimoniale decorativo di esso”, quanto quella secondo cui la liturgia è “una mera
somma di leggi e precetti con cui l’autorità gerarchica della Chiesa regola il compi-
mento dei riti”. La presa di posizione della Mediator Dei è estremamente netta. Una
considerazione solo esterno - estetica o giuridico - rubricale della liturgia non rende ra-
gione della sua «vera» natura. Se si pensa che le due concezioni considerate insufficienti
erano le uniche rappresentate dalla scienza ecclesiastica del tempo, si può valutare ap-
pieno la portata dell’affermazione dell’enciclica.
Denunciate queste letture insufficienti, la Mediator Dei propone una lettura della li-
turgia che si avvicina al pensiero del Beauduin: la liturgia come il mezzo principale dato
alla Chiesa per continuare l’esercizio sacerdotale di Cristo, anzi l’esercizio in atto del
suo stesso sacerdozio. Cristo infatti fin dal momento della sua incarnazione “si rivelò al
mondo nella sua qualità di sacerdote”, offrendo se stesso al Padre fino al sacrificio
cruento della croce e volle che il culto da lui presentato e istituito nella sua vita terrena
non venisse mai a mancare in mezzo agli uomini. Per questo volle lasciare alla sua
Chiesa non solo il potere di insegnare e di governare, ma anche quello di santificare, af-
finchè la Chiesa “diventasse ogni giorno di più un tempio santo, nel quale la Maestà di-
vina ricevesse un culto gradito e legittimo”. Da qui la definizione di liturgia data dalla
Mediator Dei:
“Essa è il culto pubblico che il nostro Redentore, capo della Chiesa, presta al
Padre celeste e che la comunità dei fedeli presta al suo fondatore e per mezzo
di lui al Padre... La liturgia è il culto pubblico totale del corpo mistico di Cri-
sto: capo e membra”.
Questa linea di riflessione porta l’enciclica a riconoscere come valida la dottrina di
Beauduin e di Casel circa la presenza personale di Cristo in ogni atto liturgico: “Insieme
con la Chiesa, in ogni azione liturgica è presente Cristo, divino fondatore di essa", an-
che se si rifiuta “il modo incerto e nebuloso con cui alcuni autori recenti ne parlano”
(sembra qui rifiutata la spiegazione misterica della presenza di Cristo nella liturgia,
avanzata da Casel).
La nota più interessante della Mediator Dei resta comunque il fatto che la «presen-
za di Cristo» nella liturgia viene posta in stretta relazione con la «presenza della Chiesa»
nella liturgia, in modo che la liturgia risulta essere veramente l’azione cultuale unitaria
del capo e del corpo in una simbiosi - osmosi totale: la Chiesa in e per mezzo di Cristo e
Cristo nella e per mezzo della Chiesa. Naturalmente anche nella liturgia vige la dipen-
denza della Chiesa dal suo Signore per cui la liturgia è primariamente culto di Cristo in
forza dello Spirito santo al Padre e «per partecipazione» e «in fase esecutiva» culto della
Chiesa: essa è il culto stesso di Cristo partecipato e trasmesso alla Chiesa.
Una conseguenza che la Mediator Dei non considerò, ma che avrebbe potuto con-
siderare con il supporto di una riflessione ecclesiologica più matura, è che la liturgia è
culto della Chiesa non in quanto essa è società giuridicamente perfetta [(e dunque dotata
di strutture rituali che la visibilizzano), ma in quanto è corpo mistico di Cristo. La pre-
senza di Cristo è sacerdotalmente attiva nella Chiesa non in forza della dimensione pub-
blica - esterna della Chiesa, ma in forza della sua ontologia misterica. Si possono così

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mettere in evidenza, nell’analisi della Mediator Dei, anche alcuni elementi di irresolu-
tezza:
- La presentazione, fatta dalla Mediator Dei, della liturgia come «culto pubblico»
non riesce a liberarsi appieno dai limiti di uno schema concettuale, utilizzato per secoli,
ma culturalmente datato. Nella società antica il popolo riferiva la sua origine e la sua
esistenza a una determinata divinità. Da qui la religione pubblica degli antichi, nella
quale il calendario religioso condizionava totalmente la vita civile. L’identificazione tra
Chiesa e società, avvenuta dalla tarda epoca patristica in poi, portò alla lettura della li-
turgia come religione pubblica di quella particolare società che è la societas cristiana,
tout court identificata con la Chiesa. Ora è chiaro che, se si vuole continuare a parlare
della liturgia come «culto pubblico», non ci si può più fondare su categorie concettuali
che, volenti o nolenti, rispecchiano una data figura storica del rapporto Chiesa - società,
ma occorre prendere le mosse dalla riscoperta natura misterico - sacramentale della
Chiesa.
- Il nesso che intercorre tra liturgia e storia della salvezza, già intravisto dal Beau-
duin e più ampiamente assunto nella riflessione caseliana, non trova ancora adeguata
comprensione. L’enciclica parla di una presenza degli atti salvifici di Cristo [i misteri di
Cristo] nella liturgia, e dunque di un nesso tra storia della salvezza e liturgia, ma sembra
non andare al di là di una loro presenza ‘a modo di esempio’ [spiegazione psicologica:
essi si imprimono nelle facoltà interiori dell’uomo credente come avviene in una medi-
tazione] e ‘secondo l’effetto prodotto’ [spiegazione morale: la grazia scaturita in
quell’evento giunge a noi in occasione delle celebrazioni cristiane per i meriti di Gesù
Cristo]. Il discorso viene ovviamente affrontato nella trattazione dei principi che regola-
no la retta comprensione dell’anno liturgico:
“L’anno liturgico non è una fredda e inerte rappresentazione di cose del tem-
po passato, nè un semplice e nudo ricordo di cose d’altri tempi, ma è al con-
trario Cristo stesso, che perdura nella sua Chiesa, continuando il cammino
della sua immensa misericordia... affinchè gli uomini possano venire a contat-
to dei suoi misteri e così, in certo modo, vivere per mezzo di essi”.
Se in queste parole sembra legittimo ritrovare l’eco della lettura dell’anno liturgico,
proposta da Odo Casel, il prosieguo del testo tende a smorzare la forza delle afferma-
zioni precedenti:
“Questi misteri sono continuamente presenti e operanti non in quella maniera
incerta e oscura di cui parlano alcuni moderni, ma perchè... sono esempi illu-
stri di perfezione cristiana e fonte di grazia divina per i meriti e l’intercessione
del Redentore”.
La spiegazione del «modo di presenza dei misteri di Cristo nella liturgia» offerta
dall’enciclica, non riesce in tal modo a dare piena ragione della valenza misterico - sa-
cramentale dell’intero anno liturgico e di ogni suo segmento.
- La sostanziale diffida della teologia del sacerdozio comune e universale dei fedeli,
sempre più indicata nella riflessione del Movimento Liturgico come la ragione teologica
capace di sopportare un pieno recupero della partecipazione attiva, consapevole e quindi
fruttuosa da parte dei fedeli all’azione liturgica. Dopo aver definito la liturgia come «il
culto pubblico totale del Corpo mistico di Cristo, capo e membra», l’enciclica prosegue
affermando che la Chiesa «postula una gerarchia» la quale soltanto ha un vero potere
sacerdotale.

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Se ne deduce che la liturgia viene esercitata principalmente dai sacerdoti in nome


della Chiesa e dunque si proibisce l’uso del termine «concelebrazione» per indicare la
partecipazione del popolo alla liturgia. La liturgia appartiene alla Chiesa - corpo dei fe-
deli solo in quanto in nome di essa viene esercitata dai sacerdoti e dagli altri ministri
della Chiesa. Si fa l’esempio dell’offerta che i fedeli fanno di se stessi in unione al sacri-
ficio di Cristo offerto all’altare, durante la messa e si afferma:
“È necessario spiegare chiaramente al vostro gregge, venerati fratelli, come il
fatto che essi prendano parte al sacramento eucaristico non significhi tuttavia
che essi godano di poteri sacerdotali”.

3. L’approdo conciliare e il cammino della riforma dopo il concilio

La Mediator Dei non fu, come poteva sembrare dal tono delle sue argomentazioni,
l’epilogo della vicenda del Movimento Liturgico, bensì il prologo di una nuova stagione
liturgica. Tra il 1951 e il 1961, anno d’indizione del concilio ecumenico Vaticano II, as-
sistiamo infatti a una serie di interventi del magistero pontificio nell’ambito della litur-
gia che, anziché chiudere la questione, accelerarono i tempi di un suo ripensamento
complessivo 13:
- Nel 1951 la veglia pasquale, per secoli celebrata con scarso rilievo rituale ed eccle-
siale il sabato santo mattino, fu ricollocata nel suo giusto contesto temporale e, nel
1955, fu promulgato il nuovo rito generale della Settimana santa. Tutto era ancora in
lingua latina, ma i giorni del triduo pasquale tornavano a essere il cuore pulsante di tutto
l’anno liturgico;
- Nel 1958 fu emanata un’istruzione vaticana sulla Musica sacra e la sacra liturgia,
nella quale si tentava di affrontare in termini nuovi il tema della partecipazione attiva
dei fedeli al canto durante le solenni azioni liturgiche, e nel 1960 vide la luce il nuovo
«codice delle rubriche», con con una serie di semplificazioni rubricali, seguito da nuove
edizioni tipiche del Breviario (1961) e del Messale (1962).
Qualunque sia stato l’intento di questo nuovo codice delle rubriche, esso non impe-
dì che la questione liturgica fosse totalmente ripensata nell’ambito del concilio ecume-
nico Vaticano II.
In vista dell’assise conciliare erano state infatti istituite, il 5 gennaio 1960, alcune
commissioni preparatorie, tra le quali la commissione per la liturgia, con il compito di
approntare un primo schema di costituzione sulla sacra liturgia da sottoporre alla di-
scussione dei padri sinodali. Tale schema, trasmesso alla segreteria del concilio
all’inizio di febbraio del 1962, fu approvato nel luglio 1962 da papa Giovanni XXIII e
inviato a tutti i padri sinodali insieme agli altri schemi di costituzioni e di decreti dei
quali si sarebbe discusso nelle future sessioni conciliari.
Il concilio fu inaugurato l’11 ottobre del 1962 e la costituzione conciliare sulla sa-
cra liturgia (Sacrosanctum Concilium) fu solennemente promulgata il 4 dicembre 1963
dopo essere stata votata a larghissima maggioranza. Lo schema proposto in partenza era
stato in più parti ampiamente superato, sia sotto il profilo dei principi teologico - pasto-
rali posti a fondamento della riforma liturgica, sia per ciò che concerne l’ampiezza e i

13
BRAGA CARLO, La riforma liturgica di Pio XII. Documenti 1. La «Memoria sulla riforma liturgica»
= Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia 128, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2003, pp.
800.

107
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modi della stessa riforma liturgica prospettata. È stratetico l’ascolto in proposito del n.
21:
“Affinché più sicuramente il popolo cristiano possa avere l’abbondanza di
grazie nella sacra liturgia, la santa madre Chiesa desidera fare un’accurata
riforma generale della liturgia stessa. Infatti la liturgia consta di una parte
immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento,
che nel corso dei tempi possono o anche devono variare, qualora in esse si
fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della stessa li-
turgia, o si fossero resi meno opportuni. In tale riforma, occorre ordinare i te-
sti e i riti in modo che esprimano più chiaramente le sante realtà che signifi-
cano, e il popolo cristiano, per quanto possibile, possa capirle facilmente e
parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria. Perciò il sacro
concilio ha stabilito le seguenti norme di carattere generale”.

3.1. La struttura della Sacrosanctum Concilium

Come ho già accennato all’inizio del nostro percorso di studio, Sacrosanctum Con-
cilium si apre con un proemio, cui seguono sette capitoli. Il numero dei capitoli e la loro
disposizione in sequenza sono già un messaggio importante. Al primo posto stanno i
principi direttivi generali, sia per una comprensione teologica della liturgia, sia per una
ordinata riforma della stessa. Vengono poi presentati i diversi segmenti della liturgia
cattolica con particolare attenzione agli elementi da riformare.
L’insieme di questi segmenti ci permette di fare il punto su ciò che nell’odierna co-
scienza della Chiesa rientra sotto il nome complessivo di liturgia: eucaristia, sacramenti
e sacramentali, liturgia delle ore, anno liturgico. Non si può capire la presente vita litur-
gica delle nostre comunità senza conoscere almeno per sommi capi l’articolazione in-
terna di questa prima costituzione conciliare.

Il proemio

Sacrosanctum Concilium si apre con un proemio (nn. 1-4), nel quale i padri conci-
liari dichiarano in modo esplicito l’intento primariamente pastorale della loro riflessione
riguardante la liturgia e la totale relatività della riforma liturgica al bene pastorale e spi-
rituale dei fedeli:
“Il sacro concilio si propone di far crescere ogni giorno di più la vita cristia-
na tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istitu-
zioni che sono soggette a mutamento; di favorire ciò che può contribuire
all’unione di tutti i fedeli in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare
tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi interessare in modo spe-
ciale della riforma e dell’incremento della liturgia” (SC, n. 1).
Parlare di intento primariamente pastorale significa anzitutto riconoscere che in
questa costituzione il termine liturgia non è una nozione previa e astratta, applicata a
priori alle diverse azioni rituali della Chiesa, ma è sinonimo di celebrazione liturgica,
vale a dire di quel concreto e singolare insieme di riti, preghiere e ministeri, attraverso i
quali si attua sacramentalmente l’opera della nostra redenzione.

108
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Ne consegue che il momento propriamente teologico di questa costituzione, più che


sviluppare una generica teologia liturgica, come spesso si usa dire, offre una meglio
circostanziata teologia della celebrazione liturgica:
“La liturgia infatti, mediante la quale, specialmente nel divino sacrificio
dell’eucaristia, «si compie l’opera della nostra redenzione», contribuisce in
sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il
mistero di Cristo e la genuina natura della Chiesa, che ha la caratteristica di
essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibi-
li, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e,
tuttavia, pellegrina... In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli
che sono nella Chiesa in tempio santo del Signore, in abitazione di Dio nello
Spirito, fino a raggiungere la pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo
mirabile irrobustisce le loro forze perché possano predicare il Cristo...” (SC,
n. 2).
Con queste parole è definitivamente chiusa l’epoca di una considerazione ridotta
della liturgia (aspetto rubricale - cerimoniale del culto cristiano) per collocare la cele-
brazione liturgica nella sua intima connessione con il mistero di Cristo e della Chiesa.
Questo non significa disattenzione o disimpegno nei confronti del «linguaggio» della ri-
tualità e delle «norme» (ordinamenti liturgici) che lo regolano, ma ripensamento
dell’uno e delle altre in relazione alla natura cristologica ed ecclesiologica della celebra-
zione cristiana.
Il proemio è ancora importante per la volontà ivi espressa di lasciare aperta la porta
alla sopravvivenza e anzi al rinnovamento e all’incremento delle tradizioni liturgiche
diverse dal rito romano, come – ad esempio – il rito ambrosiano. Trova infatti qui fon-
damento la decisione presa dalla Chiesa di Milano nella seconda metà degli anni ‘60 di
custodire il proprio rito peculiare (rito ambrosiano), rinnovandolo alla luce dei dettami
conciliari:
“Infine il sacrosanto concilio, in fedele ossequio alla tradizione, dichiara che
la santa madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legitti-
mamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni
modo incrementati, e desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemen-
te riveduti in modo integrale nello spirito della sana tradizione e venga dato
loro nuovo vigore secondo le circostanze e le necessità del nostro tempo” (SC,
n. 4).

Il capitolo I (nn. 5-46)

Il primo capitolo costituisce il fondamento teologico, liturgico e pastorale dei sei


successivi, dettando i «principi generali» alla luce dei quali riformare e incrementare la
sacra liturgia della Chiesa. Il procedimento interno di questo capitolo è piuttosto lineare:

a) Identificazione previa della natura della liturgia (SC, nn. 5-13), non a partire da
una definizione filosofica o religionista di «culto», ma muovendo piuttosto dal dinami-
smo storico-salvifico della rivelazione cristiana, dinamismo che ha la sua continua at-
tualità proprio nell’azione liturgico-sacramentale. In riferimento a questi numeri, benché
non abbiano la pretesa di essere una trattazione organica ed esauriente del mistero del

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culto cristiano, la riflessione liturgica successiva ha tracciato le linee maestre di una ve-
ra e propria «teologia liturgica»14.

b) Messa a tema della necessità teologica, pastorale e spirituale della partecipazione


di tutti i fedeli e urgente richiesta di un’opera di educazione liturgica dei fedeli, perché
tale partecipazione venga realmente incrementata (SC, nn. 14-20). Decisivo è l’ascolto
del n. 14:
“La madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a
quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche,
che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristia-
no, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto” (1Pt 2,
9; cf. 2, 4-5), ha diritto e dovere la forza del battesimo. A tale piena e attiva
partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nella ri-
forma e nell’incremento della liturgia: essa infatti è la prima e per di più ne-
cessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente
cristiano; e perciò i pastori d’anime, in tutta la loro attività pastorale, devono
cercarla assiduamente attraverso un’adeguata formazione. Ma poiché non si
può sperare la realizzazione di ciò, se gli stessi pastori d’anime non sono pe-
netrati per primi dello spirito e della forza della liturgia, e non ne diventano
maestri, è perciò assolutamente necessario dare il primo posto alla formazio-
ne liturgica del clero”.
Sono importanti gli aggettivi usati per identificare il tipo di partecipazione delle ce-
lebrazioni liturgiche cui i fedeli sono chiamati: piena, cioè integrale, comprendente tutte
le dimensioni e le facoltà (spirituali, psichiche e fisiche) della vita del singolo credente e
del credente inserito nel concerto della comunità; consapevole, cioè aperta alla com-
prensione sempre più profonda di quanto avviene nel rito celebrato e ancor più nel mi-
stero di cui il rito liturgico è grembo fecondo; attiva, cioè capace di intervenire in tutte
quelle parti che sono proprie dei fedeli laici, in dialogo con l’esercizio ministeriale della
presidenza sacerdotale. E tutto questo non per qualche tipo di concessione, ma perché
richiesto “dalla natura stessa della liturgia” come diritto / dovere dei fedeli “in forza
del battesimo”.
Viene dall’urgenza di ridare spazio alla partecipazione dei fedeli la decisione di ri-
forma dei testi e dei riti. Si pone al servizio della partecipazione dei fedeli la sollecita
preoccupazione per la formazione liturgica dei fedeli e dei pastori, anzi del clero perché
sia poi il tramite della formazione liturgica dei laici. La centralità del tema della parteci-
pazione verrà ribadita in modo specifico quando, nel capitolo II, si passerà a trattare del-
la riforma dell’ ordinamento liturgico della messa:
“Perciò la Chiesa volge attente premure affinché i fedeli non assistano come
estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene
per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevol-
mente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano
alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia im-
macolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, impari-
no a offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore sia-
no perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro (cf Cirillo Alessandrino), di
modo che Dio sia finalmente tutto in tutti. Perciò, affinché il sacrificio della

14
Il rinvio è ovviamente al capitolo I del nostro corso, pp. 10ss.

110
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messa raggiunga la piena efficacia pastorale anche nella forma dei riti, il sa-
crosanto concilio, in vista delle messe celebrate con partecipazione di popolo,
specialmente la domenica e le feste di precetto, stabilisce quanto segue” (SC,
nn. 48-49).
Il nuovo avverbio piamente approfondisce il concetto di partecipazione piena, po-
nendo in risalto la necessaria qualità spirituale della pietà o devozione, che in buona so-
stanza è costituita dall’attivazione delle tre virtù teologali della fede, della speranza e
della carità15.

c) Alla luce della natura teologica della liturgia e della conseguente necessità di in-
crementare una piena partecipazione liturgica dei fedeli i nn. 21-40 introducono le
norme (generali e particolari) per un’accurata riforma generale della liturgia. Si
affrontano i temi dei «soggetti» cui compete regolare la sacra liturgia (n. 22) e della
«metodologia» da seguire nel lavoro di riforma (nn. 23-25). Vengono poi indicate le
norme derivanti - dalla natura «gerarchica» e comunitaria della liturgia (nn. 26-32); -
dalla natura «didattica» e pastorale della liturgia (nn. 33-36); - dalla natura «culturale»
(relazione all’indole e alle tradizioni dei popoli) della liturgia (nn. 37-40).
Ribadito con forza che “regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità
della Chiesa (sede apostolica e vescovo)” (cf SC, n. 22), due sono i criteri metodologici
messi particolarmente in evidenza.
In primo luogo è necessario “che le nuove forme scaturiscano in maniera in qual-
che modo organica da quelle già esistenti” (SC., n. 24). La riforma liturgica non parte
da zero e non cancella il passato. Piuttosto lo valorizza a tal punto da far cogliere che
nulla di ciò che è autentica tradizione della fede celebrata viene abbandonato e il nuovo
risulta essere lo sviluppo e il perfezionamento organico dell’antico.
In secondo luogo è necessario che “venga promossa quella soave e viva conoscen-
za della Sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali
che occidentali” (SC, n. 25). La riforma liturgica riporta in primo piano il circolo vir-
tuoso che da sempre intercorre tra la bibbia e la liturgia (vedi l’attestazione concorde
delle tradizioni liturgiche d’oriente e d’occidente) e lo rilancia in forme più incisive per
promuovere nei fedeli una più diretta e profonda conoscenza delle Sacre Scritture. Sarà
ancora il capitolo II a declinare in modo più preciso questo progetto per quanto riguarda
l’eucaristia celebrata nel corso dell’anno liturgico:
“Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore
abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della bibbia, di modo che,
in un determinato numero di anni, si legga al popolo la parte migliore della
sacra scrittura” (SC, n. 51).
Una prima serie di criteri di riforma vengono fatti derivare dalla natura gerarchica e
comunitaria della liturgia (SC, nn. 25-32). Poiché mai le azioni liturgiche sono azioni
private, ma sempre “appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo
implicano”, le celebrazioni comunitarie con la presenza e la partecipazione dei fedeli
sono sempre da preferirsi alle celebrazioni individuali (cf SC, n. 27).

15
L’Ordinamento generale del Messale Romano (2004) recita al n. 18: “Si potrà ottenere davvero
questo risultato (la fruttuosità della celebrazione eucaristica – nota mia), se, tenuto conto della natu-
ra e delle altre caratteristiche di ogni assemblea liturgica, tutta la celebrazione verrà ordinata in
modo tale da portare i fedeli a una partecipazione consapevole, attiva e piena, esteriore e interiore,
ardente di fede, speranza e carità”.

111
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Ne consegue che i nuovi libri liturgici dovranno curare che le rubriche prevedano
in modo chiaro ed esplicito le parti dei fedeli (cf SC, n. 31); ne consegue ancora che,
tranne gli onori dovuti alle autorità civili, le assemblee liturgiche dovranno evitare qual-
siasi preferenza di persone private o di classi sociali (cf SC, n. 32). La portata pratica di
queste due indicazioni era incalcolabile. I fedeli laici tornavano a essere parte viva e at-
tiva dell’azione liturgica e veniva ridisegnato in senso comunionale e fraterno il volto
delle assemblee liturgiche.
Una seconda serie di criteri di riforma vengono fatti derivare dalla natura didattica
e pastorale della liturgia, cioè dal fatto che “benché sia principalmente il culto della
maestà divina, la sacra liturgia contiene anche una ricca istruzione per il popolo fede-
le” (SC, n. 33).
Ne consegue un criterio di revisione dei riti liturgici dove spiccano i concetti di
‘nobile semplicità’, ‘brevità’ in vista della chiarezza e ‘inutili ripetizioni’. Ne consegue
anche – e qui abbiamo uno dei temi più spinosi – una prima apertura alla lingua volgare.
È il famoso n. 36, ai § 1 e 2, che merita di essere ascoltato nella sua formulazione lette-
rale:
“L’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti
latini. Dato però che, sia nella messa sia nell’amministrazione dei sacramenti,
sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua volgare può riu-
scire assai utile per il popolo, si possa concedere a essa una parte più ampia,
e specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, se-
condo le norme che vengono fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”.
Come si può vedere la mens conciliare non era quella di un uso indiscriminato del
volgare, ma di una salvaguardia del latino e di una prudente apertura a qualche parte in
lingua volgare. Sarà solo un’interpretazione larga di questa seconda parte a segnare di
fatto nella prima attuazione della riforma una svolta complessivamente pro volgare. Re-
sterà però importante il fatto che l’edizione ufficiale di tutti i libri liturgici romani (tec-
nicamente editio typica) continuerà a essere in latino e che le edizioni nelle varie lingue
dei popoli devono esemplarsi su quella ufficiale latina16.
Un’ultima serie di criteri di riforma vengono fatti derivare dalla natura culturale
della liturgia (il suo legame con l’indole e le tradizioni dei popoli). È il capitolo della ri-
forma riguardante, sia le legittime diversità e i legittimi adattamenti rituali ai vari grup-
pi, regioni, popoli soprattutto nelle missioni, “salva la sostanziale unità del rito roma-
no” (cf SC, n. 38), sia il più profondo adattamento della liturgia all’indole e alle tradi-
zione dei popoli che prevede un vero e proprio processo di inculturazione (= ammissio-
ne nel culto divino cattolico di elementi culturali non direttamente cristiani)17.

d) I nn. 41-42 sottolineano con molta forza il legame privilegiato che intercorre tra
Chiesa locale (diocesi-parrocchia) e liturgia.

16
Nel 2001 la Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti ha dedicato la Quinta
Istruzione applicativa di Sacrosanctum Concilium (Liturgiam Authenticam) al tema L’uso delle lin-
gue vernacole nelle edizioni dei libri della Liturgia romana. Il testo in Enchiridion Vaticanum 20.
Documenti ufficiali della Santa Sede 2001, Dehoniane, Bologna 2004, nn. 363-533.
17
Nel 1994 la Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti ha dedicato la Quarta
Istruzione applicativa di Sacrosanctum Concilium (Varietates Legitimae) al tema La liturgia roma-
na e l’inculturazione. Il testo in Enchiridion Vaticanum 14. Documenit ufficiali della Santa Sede
1994-1995, Dehoniane, Bologna 1997, nn. 66-157.

112
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e) I nn. 43-46 presentano infine una serie di nuovi organismi ecclesiastici da promuo-
vere a livello nazionale o diocesano per avviare, sviluppare e coordinare una più effica-
ce pastorale liturgica.

Il capitolo II (nn. 47-58)

Con il capitolo secondo hanno inizio le trattazioni «monografiche», ossia le indica-


zioni di riforma per i singoli segmenti dell’azione liturgico - sacramentale della Chiesa,
spesso precedute da un’essenziale, quanto preziosa, chiarificazione teologica. Si parte
dal «mistero eucaristico», sacrificio della messa e culto eucaristico extra missam, che è
l’azione liturgica per antonomasia. Viene anzitutto affermata la priorità della celebra-
zione eucaristica con concorso di popolo e si danno una serie di direttive per la riforma
dell’ordo missae, per la concelebrazione e per la recezione dell’eucaristia sotto le due
specie. Ancora esitante è l’apertura all’introduzione della lingua viva.

Il capitolo III (nn. 59-82)

Il capitolo terzo riguarda le indicazioni di riforma degli «altri sacramenti e sacra-


mentali», in primo luogo i sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, conferma-
zione), quindi il rito della penitenza, dell’estrema unzione che torna a essere denominata
“anche e meglio” «unzione degli infermi» (cf SC, n 73), i riti di ordinazione, il rito del
matrimonio, le benedizioni, il rito della consacrazione delle vergini, il rito della profes-
sione religiosa e i riti esequiali.

Il capitolo IV (nn. 83-101)

Il capitolo quarto è dedicato alla revisione e alla riforma della preghiera oraria della
Chiesa (liturgia delle ore) o ufficio divino. La pertinenza originaria di questa preghiera
di lode e di supplica all’intera Chiesa locale (vescovo, presbiteri, diaconi, laici), il ritor-
no alla verità dei tempi per la celebrazione delle varie ore e lo stretto legame tra ufficio
divino e azione pastorale presiedono alle indicazioni di revisione generale del «brevia-
rio».

Il capitolo V (nn. 102-111)

Il capitolo quinto dà le indicazioni essenziali per una revisione globale dell’anno li-
turgico e del calendario, riportando in piena luce la centralità della celebrazione pasqua-
le settimanale (la domenica) e annuale e riequilibrando la celebrazione delle feste di
Maria e delle memorie dei santi lungo l’anno. Una parola specifica riguarda il tempo
forte della quaresima, recuperato non solo sotto l’aspetto penitenziale ma anche batte-
simale.

Il capitolo VI (nn. 112-121)

Il capitolo sesto affronta la questione della musica sacra e del canto nella liturgia.
Viene riservato un posto di grande rilevanza all’espressione vocale-musicale
nell’ambito della celebrazione liturgica solenne (“il canto sacro, unito alle parole, è
parte necessaria e integrante della liturgia solenne” – SC, n. 112). In tal modo non solo
è bandita una lettura puramente «ornamentale» ed «esteriore» della musica sacra, ma è

113
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riportata consapevolmente in primo piano la sua dimensione «diaconale» e «ministeria-


le» (“perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita
all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera, sia arricchendo di
maggiore solennità i sacri riti” – SC, n. 112).
La posizione conciliare circa i soggetti musicali e il repertorio dei canti è molto
equilibrata. Per i soggetti, da un lato, si danno indicazioni perché “in ogni azione sacra
celebrata in canto tutta l’assemblea dei fedeli possa dare la sua partecipazione attiva”;
dall’altro, si chiede che “si conservi e si incrementi con somma cura il patrimonio della
musica sacra, promovendo con impegno con impegno le scholae cantorum specialmente
presso le cattedrali” (SC, n. 114). La mens conciliare non è massimalista (tutto e solo
l’assemblea / tutto e solo la schola). Al contrario, il canto liturgico è chiamato a com-
porre insieme la semplicità del canto monodico di tutta l’assemblea e l’arte del canto
polifonico della schola.
Assemblea e schola (più i vari soggetti operanti: solisti, animatori, organisti e
strumentisti, ecc…) svolgono insieme una ministerialità liturgica a servizio della lode di
Dio e della santificazione dei fedeli. La schola, quando non esegue il suo repertorio spe-
cifico, dovrà sostenere il canto dell’assemblea e l’intera assemblea parteciperà al canto
della schola con un intenso silenzio di ascolto e di interiorizzazione.
Per il repertorio, da un lato, si incentiva il canto religioso popolare “in modo che
nei pii e sacri esercizi, e nelle stesse azioni liturgiche… possano risuonare le voci dei
fedeli” (SC, n. 118); dall’altro, si ribadisce “che la Chiesa riconosce il canto gregoriano
come proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizio-
ni, gli si riservi il posto principale”, aggiungendo che “gli altri generi di musica sacra,
e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dai divini uffici, purché rispondano
allo spirito dell’azione liturgica” (SC, n. 116).

Il capitolo VII (nn. 122-130)

Il capitolo settimo è infine attento alla questione dell’arte sacra e della sacra sup-
pellettile, dal momento che l’azione liturgica ha la caratteristica di attirare a sé
l’espressione artistica dell’ingegno umano e di orientarla in senso contemporaneamente
dossologico e didascalico. La nuova visione della liturgia propugnata dal concilio e gli
orientamenti di riforma da essa scaturiti impongono una revisione dei criteri costruttivi
degli edifici di culto e un intervento di adattamento di quelli già esistenti: “Nella costru-
zione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente che siano idonei a consentire
lo svolgimento delle azioni liturgiche e la partecipazione attiva dei fedeli” (SC, n. 124).
Origina qui la nuova normativa per gli edifici di culto cattolico che ha cambiato il
volto delle nostre chiese nell’ultimo trentennio 18. Tale normativa, unita alla ricerca arti-
stica in campo architettonico e iconografico, intende favorire una ripresa della cura de-
gli edifici di culto che unisca funzionalità liturgica, elaborazione simbolica e qualità
estetica all’altezza della tradizione bimillenaria della Chiesa.

18
Per la Chiesa italiana CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La progettazione di nuove Chiese. Nota
pastorale (1993), in Enchiridion Cei 5. 1991-1995, Dehoniane, Bologna 1996, nn. 1329-1463;
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica. No-
ta pastorale (1996), in Enchiridion Cei 6. 1996-2000, Dehoniane, Bologna 2002, nn. 187-310.

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3.2. La riforma postconciliare

A più di quarant’anni dalla chiusura del concilio la storia della riforma liturgica a
norma dei decreti del concilio Vaticano II esigerebbe di essere ripercorsa sotto diversi
profili: - la promulgazione dei nuovi libri liturgici; - l’impatto del rinnovamento liturgi-
co nella vita delle comunità e nella percezione esterna alle comunità secondo i diversi
ambiti toccati: formazione e partecipazione dei fedeli, formazione dei pastori ed eserci-
zio della presidenza, formazione ed esercizio della ministerialità laicale, impiego della
musica e canto, progettualità architettonica e artistica, ecc…; - lo scarto tra il progetto e
la realizzazione ancora in fieri.
Rinviando per il secondo e terzo punto a qualche lettura dei bilanci tracciati in oc-
casione dei vari anniversari della costituzione conciliare19, sviluppiamo qui in esplicito
solo il primo punto.

La promulgazione dei nuovi libri liturgici

All’indomani della solenne approvazione della Sacrosanctum Concilium si mise in


movimento il lavoro di revisione dei libri liturgici per arrivare alle nuove editiones typi-
cae a norma dei decreti del concilio Vaticano II. Nella prima fase (dal 1964 al 1970)
Paolo VI incaricò per questo il Consilium ad exequendam Constitutionem de sacra Li-
turgia. Dal 1970 in poi il lavoro ritornò direttamente nelle mani della Congregazione
del Culto Divino.
Dall’elenco che segue, nel quale si segnalano solo le cose principali e più impor-
tanti, si può facilmente constatare che il grosso del lavoro della riforma dei libri liturgici
romani occupa gli anni che vanno dalla fine del concilio (1965) all’inizio del pontificato
di Giovanni Paolo II (1978). A partire da quella data si nota un rallentamento nella pro-
duzione dei libri liturgici ancora mancanti e un certo incremento delle seconde edizioni
tipiche, ordinate alla correzione, al rifacimento o allo sviluppo delle prime. La terza edi-
zione tipica del Messale Romano (2002) apre forse una terza fase, più attenta a precisare
la forma celebrativa e la disciplina liturgica cui attenersi.
Le edizioni italiane nella prima fase hanno seguito in tempi brevi la pubblicazione
tipica latina, operando una semplice traduzione del testo originale. Con l’edizione del
Benedizionale del 1992 si è potuto notare un maggior lavoro di adattamento al contesto
italiano. In parallelo la Chiesa di Milano ha curato l’edizione dei principali libri liturgici
ambrosiani direttamente in italiano, adottando – per quelli mancanti – i libri liturgici
romani.

19
Nel 25o anniversario (1988) papa Giovanni Paolo II ha offerto a tutta la Chiesa un bilancio in certo
modo ufficiale con le indicazione per il futuro cammino nella Lettera Apostolica Vicesimus Quintus
Annus. Il testo in Enchiridion Vaticanum 11. Documenti ufficiali della Santa Sede, Dehoniane, Bo-
logna 1991, nn. 1567-1597. In occasione del 30o anniversario: NOCENT ADRIEN, Liturgia semper
reformanda. Rilettura della riforma liturgica = Liturgia e Vita 4, Qiqajon, Comunità di Bose.
Magnano (BI) 1993, pp. 162. In occasione del 40o anniversario: Liturgia, fonte e culmine. A 40 anni
dalla Costituzione sulla Sacra Liturgia. Atti della 54a Settimana Liturgica Nazionale. Acireale, 25-
29 agosto 2003, a cura di CENTRO AZIONE LITURGICA = Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae».
Sectio Pastoralis 24, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2004, pp. 203; Spiritus et sponsa. Atti della
Giornata commemorativa del XL della Sacrosanctum Concilium. Roma, 4 dicembre 2003, a cura
della CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Libreria Editrice Vaticana, Roma-Città del Vaticano
2004, pp. 389; FALSINI RINALDO ET ALII, 40 anni. Sacrosanctum concilium. Attese, resistenze,
delusioni, prospettive, Queriniana, Brescia 2003, pp. 56; VALENZIANO, CRISPINO, La riforma
liturgica del Concilio. Cronaca, teologia, arte = Studi e ricerche di Liturgia, Dehoniane, Bologna
2004, pp. 170.

115
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- per la santa messa

* Preceduta nella seconda metà degli anni ‘60 da una fase sperimentale del nuovo ordo mis-
sae, nel 1970 – a quattro secoli esatti dalla prima edizione postridentina – fu promulgata
l’edizione tipica latina del Messale Romano. Nel 1975 ci fu la seconda edizione con ritocchi e
aggiunte e nel 2002 la terza edizione. Per la Chiesa italiana la sequenza fu: 1973 (prima edizio-
ne);1983 (seconda edizione); in fase di preparazione la terza edizione. Per la Chiesa ambrosiana
il Messale Ambrosiano ha conosciuto una prima edizione nel 1976 e un’edizione aggiornata
nel 1990.
* Nel 1970, al Messale Romano si accompagnò il Lezionario Romano in 6 volumi (festivo,
feriale I, feriale II, santi, messe rituali, messe per varie necessità e votive), che conobbe una se-
conda edizione nel 1981. Per la Chiesa italiana la sequenza è stata 1972 (prima edizione); 1982
(seconda edizione); 2008-2010 (terza edizione, con la nuova versione italiana del testo biblico).
Per la Chiesa ambrosiana ci fu inizialmente l’adozione del Lezionario Romano, salvo che per i
tempi forti (Il Lezionario Ambrosiano sperimentale per i tempi forti fu edito nel 1976). Nel
2008 è stato promulgato (ed è entrato in vigore) il Lezionario Ambrosiano per l’anno liturgi-
co (7 volumi) e nel 2010 è stato promulgato (ed è entrato in vigore) il Lezionario Ambrosiano
per la celebrazione dei santi (2 volumi)20.
* Per il caso specifico della messa con i fanciulli fu pubblicato nel 1973 un direttorio genera-
le, cui si ispirarono le varie Conferenze Episcopali per la pubblicazione di un Ordinario e di un
Lezionario della messa con i fanciulli. Per la Chiesa italiana tale doppia pubblicazione risale al
1976.
* In occasione dell’anno mariano straordinario (1986/1987) sono stati pubblicati la raccolta
delle Messe della beata Vergine Maria e il rispettivo Lezionario, che vanno a costituire un
complemento del Messale e del Lezionario Romano e Ambrosiano. La traduzione italiana è
uscita praticamente in simultanea con l’edizione tipica latina.
* Nel 1975 esce la seconda edizione tipica del Graduale simplex per il canto gregoriano nel-
la liturgia eucaristica a norma dei decreti del concilio Vaticano II. Nel 1979, per le edizioni di
Solesmes, esce il Graduale triplex. Nel 2001 la Chiesa di Milano edita l’Antiphonale Missarum
simplex, seguito nel 2005 dall’Antiphonale missarum (complex) per l’esecuzione del canto am-
brosiano nella celebrazione eucaristica postconciliare.

- libri liturgici per celebrare i sacramenti e i sacramentali a uso dei PRESBITERI (Rituale)
* Nel 1969 esce l’edizione tipica latina del Rito del battesimo dei bambini. L’ edizione ita-
liana è dell’anno successivo. Nel 1972 esce l’edizione tipica latina del Rito dell’iniziazione cri-
stiana degli adulti. L’edizione italiana è del 1978.
* Nel dicembre del 1973 esce l’edizione tipica latina del Rito della Penitenza. L’ edizione
italiana è dell’anno successivo.
* Nel dicembre del 1972 esce l’edizione tipica latina del Rito dell’unzione e della cura pa-
storale degli infermi. L’edizione italiana è del 1974. Nel 1993 La Chiesa di Milano ha pubbli-
cato il sussidio liturgico-pastorale I sacramenti per gli infermi che riprende l’edizione romana
con l’integrazione di alcuni elementi ambrosiani.
* Nel 1969 esce la prima edizione tipica latina del Rito del Matrimonio. La seconda sarà
nel 1990. L’edizione italiana della prima tipica è del 1975; per l’edizione italiana della seconda
tipica bisognerà aspettare il 2004 e, con la nuova versione italiana della Bibbia, il 2008. La
Chiesa di Milano ha accompagnato quest’ultima edizione italiana con un Direttorio per l’uso

20
Se ne veda la presentazione al Cap. IX.

116
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del Rito del Matrimonio nella liturgia ambrosiana (2006). Nel 2010 è stato pubblicato il Sussi-
dio liturgico-pastorale per le comunità di Rito Ambrosiano, che integra nel testo CEI, le indica-
zioni date con il Direttorio.
* Nel 1973 esce l’edizione tipica latina del Rito della Comunione fuori della Messa e Cul-
to eucaristico. L’edizione italiana è del 1979. La Chiesa di Milano ha pubblicato il medesimo
libro liturgico secondo il rito ambrosiano nel 1984.
* Nel 1969 esce l’edizione tipica latina del Rito delle Esequie. L’edizione italiana è del
1974. La Chiesa di Milano ha pubblicato il medesimo libro liturgico secondo il rito ambrosiano
nel 1977 e ne ha curato una ristampa aggiornata (soprattutto sulla questione delle esequie prece-
dute o seguite dalla cremazione) nel 2002.
* Nel 1984 esce l’edizione tipica latina del Benedizionale (la raccolta di tutti i riti di benedi-
zione). L’edizione italiana è del 1992.
* Nel 1999 esce l’edizione tipica latina del Rito degli esorcismi. L’edizione italiane è del
2001.
* Nel 2001 esce la prima edizione tipica latina del Martirologio romano, seguita nel 2004
dalla seconda edizione. L’edizione italiana è del 2004.

- libri liturgici per celebrare i sacramenti e i sacramentali a uso dei VESCOVI (Pontificale)
* Nel 1971 esce l’edizione tipica latina del Rito della Confermazione. L’edizione italiana è
del 1972.
* Nel 1968 esce la prima edizione tipica latina dei Riti di ordinazione del Vescovo, dei
Presbiteri e dei Diaconi. La seconda sarà nel 1989. L’edizione italiana della prima tipica è del
1979; l’edizione italiana della seconda tipica è del 1992.
* Tra il 1970 e il 1972 esce l’edizione tipica latina dell’Istituzione dei ministeri, della Con-
sacrazione delle Vergini e della Benedizione abbaziale. L’edizione italiana è del 1980.
* Nel 1970 esce l’edizione tipica latina del Rito della Professione religiosa. L’edizione ita-
liana è del 1975.
* Tra il 1970 e il 1977 esce l’edizione tipica latina della Benedizione degli oli e della Dedi-
cazione della chiesa e dell’altare. L’edizione italiana è del 1980.
* Nel 1984 esce l’edizione tipica latina del Cerimoniale dei Vescovi, che finora non ha avu-
to l’edizione italiana.

- libri liturgici per celebrare l’ufficio divino


* Nel 1971 esce la prima edizione tipica latina della Liturgia delle Ore in 4 volumi. Segue
nel 1985 la seconda edizione. L’edizione italiana, sempre in 4 volumi, è del 1976. La Chiesa di
Milano ha pubblicato il medesimo libro liturgico secondo il rito ambrosiano, in 5 volumi negli
anni 1983-1984.

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APPENDICE

IL «MOTU PROPRIO» SUMMORUM PONTIFICUM


DI BENEDETTO XVI

Il 7 luglio 2007 Benedetto XVI ha firmato la Lettera Apostolica, “motu proprio da-
ta”, Summorum Pontificum sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettua-
ta nel 1970, fissandone al successivo 14 settembre l’entrata in vigore.
Il documento pontificio è stato accompagnato da una Lettera di presentazione ai
Vescovi di tutto il mondo dello stesso Santo Padre; un’interpretazione autorevole della
Lettera Apostolica per dissipare i due timori che “a questo documento si opponevano
più direttamente”: - Che venga intaccata l’Autorità del Concilio Vaticano II, mettendo
in dubbio una delle sue decisioni essenziali, vale a dire la riforma liturgica; - Che si in-
generino disordini o addirittura spaccature nelle comunità parrocchiali.
Tale Lettera indica infine un tempo e un metodo di verifica degli effetti del Motu
Proprio: “Vi invito, cari Confratelli, a scrivere alla Santa Sede un resoconto sulle vo-
stre esperienze, tre anni dopo l’entrata in vigore di questo Motu Proprio”.
La Summorum Pontificum, con la Lettera esplicativa del Santo Padre, enuncia al-
cuni criteri di carattere generale, ai quali consegue una normativa per disciplinare la
prassi ecclesiale.

Qualche criterio generale

Il Missale Romanum promulgato da Paolo VI nel 1970, e di recente (2002) ripub-


blicato in terza edizione da Giovanni Paolo II, va inteso come l’espressione ordinaria,
ma non unica, della “lex orandi (legge della preghiera) della Chiesa cattolica di rito la-
tino”.
La prima parte dell’affermazione (espressione ordinaria) rappresenta una solenne
conferma da parte del Santo Padre della piena autenticità e legittimità della riforma li-
turgica attuata a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II, sia nelle sue li-
nee teologiche portanti, sia nel dettaglio dei testi, dei riti e delle preghiere che la com-
pongono.
La seconda parte (non unica), apre lo spazio a quella che il Motu Proprio chiama
una espressione extraordinaria della stessa lex orandi della Chiesa cattolica di rito la-
tino, e cioè il Missale Romanum promulgato da san Pio V nel 1570 e assunto secondo
l’edizione voluta dal beato Giovanni XXIII nel 1962, nella quale avvenivano alcune
semplificazioni rubricali.
Merita di essere annotato che l’uno e l’altro sono messali romani in lingua latina
per l’uso liturgico, con la differenza che quello promulgato da Paolo VI ha conosciuto
tante versioni ufficiali nelle lingue parlate quanto sono state le Conferenze Episcopali
che ne hanno fatto richiesta alla Santa Sede, mentre quello promulgato da san Pio V non
ha conosciuto versioni ufficiali in altre lingue e perciò, nella vulgata giornalistica, è di-
ventato tout court il messale latino.
Anche la dicitura di “rito latino” usata dal Motu Proprio, che di per sé potrebbe
rinviare a diverse tradizioni liturgiche latine, è ricondotta subito dopo dalla Summorum
Pontificum al suo alveo specifico: “Queste due espressioni della lex orandi della Chie-
sa… sono infatti due usi dell’unico Rito romano”.

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Tenendo conto che il Missale Romanum promulgato da Paolo VI ha accolto in sé


gran parte del Missale Romanum promulgato da san Pio V (nell’edizione del beato Gio-
vanni XXIII), integrandolo con elementi liturgici, sia provenienti dalla tradizione litur-
gica del primo millennio, sia esemplati su quella, ci si può ragionevolmente domandare
il senso preciso dell’uso del Missale Romanum del 1962 come forma extraordinaria del-
la Liturgia della Messa.
La risposta data dal Santo Padre nella Lettera di presentazione è duplice: aiutare
un’ermeneutica conciliare della continuità della tradizione, superando quella – spesso
propagandata dai media e da qualche teologo – della rottura; venire incontro a coloro
che, senza negare il carattere vincolante del Concilio Vaticano II, restano fortemente le-
gati a questo uso del Rito romano e aprire contemporaneamente ogni spazio disponibile
alla riconciliazione all’interna alla Chiesa (vedi in specifico auspicato ritorno degli ap-
partenenti alla Fraternità di San Pio X alla piena unità con il Successore di Pietro).
Detto in altro modo: la possibilità di celebrare la messa secondo l’ordinamento, i
testi e il cerimoniale del Missale Romanum del 1962 va guardata come un positivo con-
tributo per tutti i fedeli alla comprensione secundum traditionem del Missale Romanum
promulgato da Paolo VI e come un positivo contributo al superamento delle difficoltà
che si frappongono alla piena unità con il Successore di Pietro da parte del movimento
lefevriano.

Una normativa pratica

Dalle premesse finora considerate consegue la liceità di celebrare la santa Messa


secondo il Missale Romanum promulgato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, regolata
da una normativa pratica nuova che supera e ingloba le regole dell’Indulto del 1984 e
della Lettera Apostolica, “motu proprio data”, Ecclesia Dei del 1988.
Il primo caso contemplato è quello riguardante le Messe celebrate senza il popolo.
È data discrezione al singolo sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare che religioso,
di scegliere con quale dei due messali romani celebrare, senza dover richiedere alcun
permesso e non si può impedire ai fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà di
assistere a tali celebrazioni.
Il secondo caso è quello delle Messe conventuali o “comunitarie” delle comunità
degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica. Anche in questo caso la
scelta è discrezionale delle stesse comunità e solo per una celebrazione abituale o per-
manente con il Missale Romanum del 1962 occorre che la decisione sia presa dai Supe-
riori maggiori.
Più articolata è la normativa riguardante la richiesta da parte dei fedeli di celebra-
re con il Missale Romanum del 1962. Nelle parrocchie il referente è il parroco, mentre
nelle chiese non parrocchiali né conventuali, il referente è il Rettore della Chiesa.
La fattispecie più importante è quella di parrocchie “in cui esiste stabilmente (con-
tinenter) un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica”. Tutte queste
condizioni insieme (gruppo, stabilità, parrocchialità e legame alla tradizione liturgica
preconciliare) rendono possibile l’accoglienza della richiesta da parte del parroco.
A queste condizioni si aggiunge la sapiente osservazione fatta dal Santo Padre nella
Lettera di presentazione: “L’uso del Messale antico presuppone una certa misura di
formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano
tanto di frequente. Già da questi presupposti concreti si vede chiaramente che il nuovo
Messale rimarrà, certamente, la forma ordinaria del Rito romano, non soltanto a causa

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della normativa giuridica, ma anche della reale situazione in cui si trovano le comunità
di fedeli”.
A corollario di quanto disciplinato circa la liceità di celebrare con il Missale Roma-
num del 1962 viene introdotta: - la facoltà data al parroco di “concedere la licenza di
usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Ma-
trimonio, della Penitenza e dell’Unzione, se questo lo consiglia il bene delle anime”; -
la facoltà data agli Ordinari “di celebrare il sacramento della Confermazione usando il
precedente antico Pontificale Romano”; - e la liceità data ai chierici “di usare il Brevia-
rio Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962”.
Rimane sottinteso che anche in questi casi, per analogia con il caso del Missale
Romanum, si ammette, insieme alla forma ordinaria del Rituale, del Pontificale e del
Breviario Romani, quella extraordinaria della liturgia romana precedente la riforma
conciliare.
Quali infine le istanze d’appello? La Summorum Pontificum introduce a questo
punto la figura del Vescovo diocesano come istanza d’appello per un gruppo di fedeli
laici che “non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco” e af-
fida alla Commissione Pontifica Ecclesia Dei, eretta da Giovanni Paolo II nel 1988,
l’esercizio dell’autorità della Santa Sede in ordine alla vigilanza “sull’osservanza e
l’applicazione di queste disposizioni”.

Orientamenti diocesani

La diocesi di Milano è da sempre di Rito ambrosiano, pur contemplando al suo in-


terno alcune parrocchie di Rito romano. Operando nella piena comunione della fede cat-
tolica e nella piena unità con il Successore di Pietro, il Rito ambrosiano da oltre un mil-
lennio custodisce la sua specifica tradizione attraverso l’edizione dei propri libri liturgi-
ci, che - nella prassi a noi più vicina - è curata dalla Congregazione del Rito Ambrosia-
no, è approvata dal Cardinale Arcivescovo quale Capo Rito ed è riconosciuta ufficial-
mente dalla Sede Apostolica.
Così avvenne con i Vescovi Carlo Borromeo e Gaspare Visconti dopo il Concilio
di Trento, così hanno fatto i Vescovi Giovanni Colombo e Carlo Maria Martini dopo il
Concilio Vaticano II; nell’uno e nell’altro caso operando sempre con l’esplicito consen-
so della Sede Apostolica e in dialogo fecondo con la concomitante riforma dei libri li-
turgici romani.
Questa relazione profonda tra Rito romano e Rito ambrosiano, pur nella distinzione
delle due tradizioni liturgiche, fa sì che gli interventi della Sede Apostolica riguardanti il
Rito romano vengano sempre attentamente considerati anche nella Chiesa di Rito am-
brosiano per verificarne le eventuali ricadute.
Così è avvenuto nel 1984 per lo speciale Indulto Quattuor abhinc annos, emesso
dalla Congregazione per il Culto Divino; così avviene ora per il Motu Proprio Summo-
rum Pontificum.
Nel primo caso ci fu una Lettera della Congregazione del Rito Ambrosiano al Vi-
cario Episcopale della Città di Milano in data 31 luglio 1985. Essa, dopo aver affermato
in partenza di non ritenere opportuna “l’emanazione di un indulto particolare riguar-
dante la celebrazione della Messa con l’uso dell’antico nostro Messale”, suggeriva che
“nel caso di richiesta di gruppi di fedeli,… si potessero fare concessioni ad experimen-
tum, in analogia con quanto stabilito nell’Indulto di Sua Santità Giovanni Paolo II re-
lativamente all’uso del Messale Romano del 1962”. Fu indentificata una chiesa in Mila-

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no (San Rocco al Gentilino) dove “con frequenza al massimo settimanale” era data fa-
coltà di celebrare “in lingua latina usando il Messale Ambrosiano plenario del 1954”.
A seguito della Summorum Pontificum e prima della sua entrata in vigore, in data
24 agosto 2007, il Vicario Episcopale per l’Evangelizzazione e i Sacramenti e Pro Pre-
sidente della Congregazione del Rito Ambrosiano ha inviato un Comunicato a tutti i sa-
cerdoti della Diocesi per offrire un primo orientamento pratico.
Il testo di tale Comunicato è distinto in due parti, l’una dedicata alle parrocchie e
comunità di Rito romano presenti in Diocesi, l’altra dedicata alle parrocchie e comunità
di Rito ambrosiano. La distinzione risulta doverosa e necessaria per la diversa implica-
zione delle due condizioni rituali.
Per le parrocchie e comunità di Rito romano il Motu Proprio pontificio entra in
vigore secondo le modalità ivi stabilite. Il Comunicato si permette solo di ricordare che,
rispetto ad altri contesti ecclesiali, la porzione romana della Diocesi non ha evidenziato
dal 1984 (anno dell’Indulto) a oggi situazioni di particolare tensione o rischi di rottura
dell’unità ecclesiale a causa della riforma liturgica. Le celebrazioni con il Messale Ro-
mano promulgato da Paolo VI sono state accolte con favore dai fedeli e hanno alimenta-
to la loro normale vita di fede e la loro preghiera.
In altre parole, l’uso del Missale Romanum promulgato da Paolo VI è stato finora
veicolo di profonda comunione ecclesiale e di crescita spirituale. La controprova è data
dall’assenza di gruppi stabili di fedeli “aderenti alla precedente tradizione liturgica”.
Nessuna preclusione a tali gruppi, ma anche la dovuta constatazione della loro assenza.
Per le parrocchie e comunità di Rito ambrosiano vengono invece confermate “le
indicazioni date ad experimentum al Vicario Episcopale per la Città di Milano il 31 lu-
glio 1985. Viene confermata la prudente concessione di uno spazio per la celebrazione
secondo il Missale Ambrosianum anteriore alla riforma liturgica, verso il quale convo-
gliare le eventuali richieste di fedeli in questo senso21.

21
Dall’avvento 2008 tre sono le chiese in cui si celebra la messa secondo il rito extra-ordinario ambr-
siano: la chiesa di San Rocco al Giambellino in Milano; la chiesa di Sant’Ambrogio in Legnano e la
chiesa di San Giuseppe a Induno Olona (VA).

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CAPITOLO VII
L’ANNO LITURGICO: NOTE INTRODUTTIVE

Il termine «anno liturgico», oggi universalmente utilizzato nel linguaggio


ecclesiastico occidentale, entrò a poco a poco nel linguaggio comune della Chiesa
grazie all’opera di Prospero Guéranger (1805-1875)1. Con questa nomenclatura
l’accento è posto decisa- mente sul momento liturgico - celebrativo (testi e riti) dei
tempi e delle feste cristiani, per il cui tramite la Chiesa è ricondotta ai misteri della vita
del Signore e ne attinge tutta l’efficacia salvifica.
L’anno liturgico è perciò, anzitutto, «l’anno del Signore» o «l’anno della salvezza»
nel senso che la Chiesa, nel ciclo annuale delle sue feste, rivive liturgicamente, in modo
quasi-sacramentale, i principali misteri della vita del Signore, di Maria e dei Santi,
attingendo dalla loro celebrazione la realtà viva della propria santificazione.

1. La definizione conciliare di anno liturgico

Il Concilio Vaticano II (1962-1965), e la successiva riforma del Calendario romano


e ambrosiano (1969 / 1976), consacreranno definitivamente l’uso di questa terminologia
come - almeno per ora - la più adeguata a esprimere l’essenza e il senso della realtà in
gioco. Una sorta di primo abbozzo di definizione è perciò rintracciabile in SC 102, là
dove si afferma che
“La santa madre Chiesa considera suo dovere celebrare con sacra memoria, in
determinati giorni nel corso dell’anno, l’opera salvifica del suo sposo divino.
Ogni settimana, nel giorno a cui ha dato il nome di «domenica», fa la
memoria della resurrezione del Signore, che una volta all’anno, unitamente
alla sua beata passione, celebra a pasqua, la più grande delle solennità. Nel
ciclo annuale poi presenta tutto il mistero di Cristo, dall’incarnazione e
natività fino all’ascensione, al giorno di pentecoste e all’attesa della beata
speranza e del ritorno del Signore. Ricordando in tal modo i misteri della
redenzione, essa apre ai fedeli i tesori di potenza e di meriti del suo Signore,
così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli
possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza”.
L’accento della definizione conciliare va sulle espressioni celebrare con sacra
memoria, fare memoria, ricordare, presentare il mistero. È così che, in analogia con il
funzionamento sacramentale (parola, eucaristia, preghiera ecclesiale), e proprio grazie
ad esso, viene rimessa in primo piano la qualità ‘memoriale’ del tempo liturgico e la sua
straordinaria efficacia in ordine all’incontro dei fedeli con la grazia della salvezza.
Ancora un poco incerta resta invece la modalità specifica con cui tutto ciò avviene:
da un lato, sembra che il tempo liturgico, nella sua scansione annuale, i tesori di potenza
e di meriti di Cristo, racchiusi nei misteri della redenzione che, come tali rimangono
passati; dall’altra, sembra che il tempo liturgico, in qualche modo fa presenti a noi gli
stessi misteri della redenzione con il loro carico di grazia e di salvezza.
Nell’uno come nell’altro caso la qualità memoriale dell’anno liturgico cristiano
appa- re in forte continuità con la qualità memoriale dell’anno liturgico ebraico, che

1
GUÉRANGER PROSPERO, L’année liturgique 15 Voll., Paris 61902-1907.

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viene così a costituire il presupposto necessario, anche se non sufficiente (manca infatti
della singo- larità di Cristo e della sua Pasqua), della sua comprensione. È quanto
intende esprimere l’ abate Salvatore Marsili, commentanto il testo conciliare:
“L’anno liturgico cristiano si presenta organizzato come un ciclo annuale dei
misteri di Cristo e delle feste di Maria e dei Santi, che degli stessi misteri di
Cristo sono la concreta realizzazione nella Chiesa... In certo senso dunque
l’anno liturgico cristiano dipende essenzialmente da Cristo, dal quale non può
essere in alcun modo distaccato. Ma se si considera la sua organizzazione
almeno a livello di struttura essenziale, si deve riconoscere che l’anno
liturgico cristiano si inserisce profondamente in quello ebraico. Come infatti il
cristianesimo si è sviluppato dal terreno di fede dell’ebraismo, così molte
delle sue strutture liturgiche essenziali altro non sono che uno sviluppo di
quelle preesistenti nell’Antico Testamento, di modo però che il culto cristiano
diventa di esse il compimento - adempimento, nel senso che il loro contenuto
soteriologico, solo adombrato e figurato nell’Antico Testamento, è divenuto
realtà e verità”2.

2. La formazione e la struttura globale dell’anno liturgico

L’anno liturgico appare dunque a prima vista come una complessa organizzazione
di feste, ossia di giorni caratterizzati da una celebrazione liturgica di determinati
avvenimenti della vita di Cristo, con l’aggiunta, tra l’uno e l’altro, del ricordo festivo di
Maria e dei Santi.
L’insieme di queste celebrazioni è disposto secondo il succedersi dei giorni nei
mesi dell’anno, ma in realtà i giorni del mese, come tali, legano prevalentemente con la
commemorazione dei santi (il «proprio dei santi» o «santorale»), mentre gli
avvenimenti della vita di Cristo (i «misteri» del Signore) legano piuttosto con il ritmo
dei tempi stagio- nali (il «proprio del tempo»): - il ciclo inverno - primavera (pars
hiemalis); - il ciclo estate - autunno (pars aestiva). Di queste due parti, la prima è
assegnata principalmente al «mistero di Cristo per la Chiesa», la seconda al «mistero
della Chiesa in Cristo».
La celebrazione del «mistero di Cristo per la Chiesa» racchiude in inverno il tempo
dell’avvento-attesa (6 o 4 settimane prima di Natale) e dell’avvento-manifestazione
(Na-ale, Epifania, Battesimo di Cristo), e nella primavera il tempo della preparazione
alla Pasqua (Quaresima) e quello della Pasqua-Pentecoste (Triduo pasquale-Tempo
pasquale).
La celebrazione del «mistero della Chiesa in Cristo» occupa invece tutta l’estate e
buona parte dell’autunno ed è il tempo in cui la Chiesa, frutto del Mistero di Cristo,
attende alla propria maturazione (tempo per annum; per gli ambrosiani, tempo dopo
Pentecoste) e loda Dio per quei suoi membri eccelsi, santa Maria e tutti Santi, nei quali
la maturazione spirituale si è compiuta in modo eminente e definitivo.
Tutto questo complesso, abbastanza armoniosamente organizzato, non è tuttavia il
frutto di un’idea o di un progetto preliminare. Esso è piuttosto l’esito, per altro ancora
aperto, di un lento processo di maturazione e di sviluppo che, prendendo le mosse dalle
parole eucaristico-istitutive di Cristo fate questo in memoria di me, giunge a una precisa
e articolata forma storica, qual è quella dell’attuale calendario liturgico, diversificato

2
MARSILI SALVATORE, Teologia liturgica: anno liturgico, [pro manuscripto], Roma 1977, p. 20.

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secondo le diverse tradizioni liturgiche d’oriente e d’occidente, ma convergente sui


nuclei fondamentali.
Poiché non possiamo studiare analiticamente le singole sezioni dell’anno liturgico,
diamo qui uno sguardo sintetico sulla «formazione» dell’anno liturgico cristiano, dal
suo nucleo germinale (la celebrazione della Pasqua) alle sue successive espansioni.

eredità ebraica

- Nella strutturazione del calendario festivo ebraico i ritmi stagionali e la loro


relazione al lavoro umano (agricoltura e pastorizia) giocavano un ruolo determinante.
Pasqua / Azzimi, Pentecoste, Tende, anche nella più profonda rilettura teologica della
corrente deuteronomista (feste di alleanza), rimasero saldamente ancorate al loro
sostrato cosmico - naturalistico.
Anche nella strutturazione del calendario festivo cristiano continua a essere in
primo piano la valorizzazione dei ritmi stagionali, sia in continuità con le principali
feste ebraiche (Pasqua e Pentecoste), sia in una più libera creatività liturgica, e sotto
l’influsso di diverse interferenze culturali (per es. la collocazione del natale del Signore
dopo il solstizio d’inverno [25 dicembre] e del natale del Battista, dopo il solstizio
d’estate[24 giugno]).
Va notato che, proprio questa dipendenza dalla strutturazione stagionale, conserve-
rà alle grandi solennità della Pasqua e della Pentecoste, e ai tempi e alle feste loro
connessi (quaresima e tempo pasquale; Ascensione, Santissima Trinità, Corpus
Domini, ecc…), la caratteristica della «mobilità».
- In Israele il ritorno ebdomadario del sabato, che chiudeva e «compiva» la
settimana, era la struttura portante dell’anno religioso, liturgico e sociale insieme. Ogni
otto giorni la festa del sabato interrompeva il ritmo delle attività produttive e poneva al
centro della vita del popolo d’Israele l’opera buona della creazione e l’opera ancora più
eccellente della liberazione dalla schiavitù.
Anche se la domenica cristiana non è immediatamente giustificabile come
sostituzio- ne della pratica giudaica del sabato3, di tale pratica, e della sua scansione
temporale, essa vive come di un’eredità indelebile.
- Infine, il computo del giorno ebraico «da sera a sera» e il duplice sacrificio
quotidiano che scandiva il culto ufficiale quotidiano, non fu estraneo alla scansione
della preghiera cristiana lungo le ore della giornata, con inizio dai primi vespri al
tramonto del sole.

accenti neotestamentari

- Esiste nell’ambito del Nuovo Testamento un tendenziale processo di


relativizzazione delle feste del calendario giudaico, senza per altro accedere mai ad una
precisa volontà di soppressione. Tale processo, radicato nella coscienza dell’assoluta
novità della fede in Cristo morto e risorto e del culto che a essa consegue, trova le sue
espressioni più chiare nella controversia di Gesù con gli scribi e i farisei a proposito del
sabato [cf Mt 12, 8; Mc 2, 27; Gv 5, 16.18] e in alcuni passaggi degli scritti paolini,

3
Presso molte chiese (ad esempio, la chiesa milanese), in epoca patristica, il sabato rimane giorno
particolare di festa, accanto alla domenica, che comunque è la festa per eccellenza.

124
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dove l’Apostolo mette in guardia dal rischio di tornare a confidare, per la propria
salvezza, nell’osservanza delle istituzioni della legge antica:
“Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a
feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma
la realtà invece è Cristo” (Col 2, 16);
“Voi infatti osservate scrupolosamente giorni speciali, mesi, stagioni e anni.
Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo” (Gal 4, 10-11);
- Il rilievo dato al processo di relativizzazione del calendario giudaico in ambito neo-
testamentario si accompagna alla constatazione di un influsso, più o meno accentuato,
del calendario giudaico sulla composizione dei Vangeli e, prima ancora, sulla catechesi
di cui i Vangeli sono lo specchio fedele. Marco organizzerebbe la sua narrazione da
autunno ad autunno, riportando poi in modo autonomo la narrazione della Passione e
della Risurrezione in riferimento alla Pasqua giudaica (primavera). Anche Luca farebbe
altrettanto, ma con una diversa disposizione di alcuni episodi. Giovanni invece,
assumendo lo schema della lettura triennale della Legge in uso nella sinagoga, strutture-
rebbe tutto il suo vangelo da Nisan a Nisan (febbraio / marzo), passando per tre volte
dalla festa di Pasqua.
Queste diversità farebbero supporre che ogni narrazione evangelica rispecchi un
particolare piano di predicazione, distribuito in un ciclo liturgico annuale (Marco -
Luca) o triennale (Giovanni), ancora gravitante sul calendario giudaico, anche se di
alcune feste (Pasqua, Pentecoste) è già in atto una loro rilettura cristologica.
L’uso di distribuire le grandi pagine della Legge e dei Profeti nelle solennità
liturgiche ebraiche sarebbe ripreso in chiave cristiana e darebbe ragione della
dipendenza dei vangeli dal calendario giudaico4.
- È presente infine nel Nuovo Testamento una linea di rinnovamento dell’anno
liturgico giudaico nella direzione della singolarità cristologica: le antiche feste
giudaiche di Pasqua e di Pentecoste racchiudono una realtà storico – salvifica nuova;
vengono creati momenti festivi nuovi, in primo luogo la domenica, per «dire» e «fare»
nella Chiesa il senso dell’assoluta novità dell’evento di Cristo.

quadro sintetico dell’evoluzione storica

Nella linea, contemporaneamente, della «relativizzazione» delle feste giudaiche e


del loro «rinnovamento» in senso originalmente cristiano non meraviglia che nel suo
momento germinale l’anno liturgico cristiano appaia sostanzialmente come un semplice
susseguirsi di domeniche, cui si aggiunge ben presto la celebrazione annuale della
Pasqua.
- La domenica, giorno della memoria del Signore risorto, giorno dell’assemblea e
dell’Eucaristia, risulta essere, nel suo ritmo ebdomadario, il nucleo sorgivo e
incandescen- te di tutto il complesso organismo festivo cristiano e gode della diretta
testimonianza biblica. Celebrata fin da epoca apostolica come giorno dell’incontro
sacramentale con il Signore risorto, nel sec. IV si arricchì della valenza festiva del
riposo, recuperando almento in parte la teologia del riposo sabbatico.

4
Cf ulteriori dati a comprova di quest’ipotesi in TALLEY THOMAS, Le origini dell’anno liturgico,
Queriniana, Brescia 1991.

125
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- La Pasqua annuale, «giorno» memoriale e anniversario dell’intera vicenda


pasquale di Cristo (Passione - morte - risurrezione - ascensione - effusione dello
Spirito), forse già allusa in 1Cor 5,7-8, è sicuramente testimoniata dal sec. II. Nata come
veglia nella notte, che con una singolare ricchezza teologico - liturgica ricapitolava
l’intera opera salvifica di Dio culminante nella Pasqua del Figlio suo, essa si sviluppò,
da una parte, nella cinquan- tina pasquale, da celebrarsi come un solo giorno di festa e
culminante nella duplice festa dell’Ascensione (il 40o giorno) e della Pentecoste (il 50o
giorno), e dall’altra – soprat- tutto per influsso della prassi gerosolimitana, nel Triduo
Pasquale, cioè nella celebra- zione analitica e storicizzante degli eventi della passione,
morte e risurrezione di Gesù.
- Alla Pasqua annuale già nel sec. IV troviamo premesso un intenso periodo di
preparazione, la Quaresima, strutturato sulla logica degli antichi istituti catecumenale
(normal- mente i catecumeni competenti ricevevano i sacramenti dell’iniziazione
durante la veglia pasquale) e penitenziale (i penitenti venivano riammessi alla
comunione sacramentale ed ecclesiale il mercoledì o il giovedi santo).
- In relazione diretta con questo grandioso ciclo pasquale che insieme al ciclo delle
domeniche costituisce in senso sia storico che teologico, la parte originaria e
imprescindi- bile dell’anno liturgico cristiano, sta il capitolo del culto dei martiri, di
coloro cioè che più di altri sono stati intimamente associati alla Pasqua dolorosa e
gloriosa del Maestro.
Esso sorge già durante l’epoca apostolica (Giovanni il Battista, Stefano
protomartire, ecc…), si sviluppa durante la lunga epoca delle persecuzioni (secc. II-III)
e costituisce, insieme con il culto degli apostoli e degli evangelisti e dei confessori della
fede, il nucleo originale di tutto il santorale.
- Con la prima metà del sec. IV l’anno liturgico cristiano subisce una seconda
decisiva espansione in quello che possiamo chiamare, dalle due principali solennità, il
ciclo natalizio-epifanico o ciclo dell’incarnazione, includente la solennità dell’ottava
(il primo gennaio) e le diverse manifestazioni (Battesimo al Giordano, Cana di Galilea,
la moltiplicazione dei pani).
- Più tardi, a partire dal sec. V, si svilupperà – in analogia con la Quaresima – anche
un tempo di preparazione al Natale, il tempo di Avvento, che a Roma si strutturerà su
quattro settimane, mentre a Milano continuerà a distribuirsi su sei settimane. Senza
perdere di vista il cuore della redenzione (mistero pasquale) questo ciclo mette in primo
piano il mistero dell’incarnazione, secondo gli eventi narrati dai vangeli dell’infanzia e
dal prologo giovanneo.
- È nell’alveo di questo secondo grande ciclo liturgico che emerge una sempre più
ampia attenzione liturgica a Maria santissima, colei che ha partecipato in modo mirabile
e unico al compiersi dell’incarnazione del Verbo. Dalla festa della Divina Maternità di
Maria, la prima festa mariana (metà del sec. V) del calendario – collocata a Roma il 1o
gennaio e a Milano nella VI domenica di Avvento – precedesi strutturerà un vero e
proprio ciclo di feste di Maria5. Tra le feste del primo millennio, patrimonio comune
dell’oriente e dell’occidente, si possono ricordare: Annunciazione del Signore (25
marzo); Assunzione (o Dormizione) di Maria (15 agosto); Presentazione di Gesù al

5
Cf SARTOR DANILO, Le feste della Madonna. Note storiche e liturgiche per una celebrazione
partecipata = Liturgia e Vita, Dehoniane, Bologna 1987, pp. 176; BEINERT WOLFGANG, Il culto di
Maria oggi. Teologia - Liturgia - Pastorale = Parola e Liturgia 13, Paoline, Roma 1985, pp. 353.

126
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tempio e la purificazione di Maria (2 febbraio); Natività di Maria (8 settembre). Tra le


feste del secondo millennio, prevalentemente occidentali, si possono ricordare: Immaco-
lata concezione di Maria (8 dicembre); Visitazione della beata vergine Maria (31
maggio); Presentazione della beata vergine Maria (21 novembre); Maria vergine del
Rosario (7 ottobre).

3. Un approfondimento specifico: la domenica

Sacrosanctum Concilium ha un articolo specifico dedicato alla festa cristiana per


eccellenza che è la domenica, Pasqua di ogni settimana. Non avendo la possibilità di
sviluppare tutti i capitoli dell’anno liturgico, facciamo un breve approfondimento
proprio sulla domenica.
“Secondo la tradizione apostolica, che trae origine dal giorno stesso della
resurre- zione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto
giorni, in quello che si chiama giustamente giorno del Signore o domenica.
In questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea perché,
ascoltando la Parola di Dio e parteci- pando all’eucaristia, facciano memoria
della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù, e rendano
grazie a Dio che li ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della
risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Per questo la domenica è il giorno di
festa primordiale che deve essere proposto e inculcato alla pietà dei fedeli, in
modo che divenga anche giorno di gioia e di astensione dal lavoro.
Non vengano anteposte a essa altre solennità che non siano di grandissima
import- anza, perché la domenica è il fondamento e il nucleo di tutto l’anno
liturgico” (SC 106).

a) La prima parte argomenta dell’esistenza della domenica e del suo radicamento


apostolico secondo un procedimento di stampo fenomenologico. Si parte dal rileva-
mento del fatto per risalire alle sue ragioni di verità storica e teologica.
* L’istituto domenicale esiste dalla prima epoca apostolica come fatto ecclesiale a
scadenza ebdomadaria (la Chiesa celebra... ogni otto giorni). Sono questi i tratti più
visibili ed esterni: la tradizione ininterrotta dalla prima epoca apostolica; l’implicazione
determinante del soggetto ecclesiale; l’assunzione della scansione settimanale del
tempo.
* Esso trova la sua ragione teologica nel mistero pasquale, di cui è celebrazione
memoriale. Viene qui precisata la singolarità della domenica cristiana, sia quanto al suo
fondamento (essa ha origine dalla Pasqua del Signore), sia quanto al suo esito (essa
genera l’incontro dei credenti con la Pasqua del Signore e fa di questo incontro la
ragione della festa). Viene inoltre dichiarata la necessità costitutiva del momento
liturgico-sacramentale, che permette alla domenica di essere «memoriale» in senso
forte.
* Esso trova la sua norma nella tradizione degli apostoli, la quale trae origine dal
giorno stesso della resurrezione di Cristo. Senza riportare alcuna citazione6, il testo

6
Tre sono le citazioni neotestamentarie dirette: At 20, 7 (“Il primo giorno della settimana ci eravamo
riuniti a spezzare il pane”); 1Cor 16, 2 (“Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte

127
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conciliare riconosce nella prassi della Chiesa apostolica la presenza dell’istituto dome-
nicale e in essa ritrova la norma perenne della Chiesa. Già gli apostoli, cioè, hanno
celebrato la domenica e a essi risale il comando di continuare a celebrarla ogni otto
giorni7.
Tale prassi della Chiesa apostolica viene poi correlata al «giorno stesso della
resurre- zione del Signore», facendone la ragione istitutiva ultima e insuperabile8. Il
testo sottolinea perciò la congruenza di chiamare questo giorno ‘giorno del Signore’ (cf
Apc 1, 10), in quanto esso affonda le sue radici proprio nel giorno in cui Gesù è apparso
come il Signore risorto.

b) La seconda parte si concentra sulle dimensioni costitutive della celebrazione della


domenica e sulle sue finalità.
* Celebrare la domenica significa anzitutto riunirsi in assemblea liturgica per
ascoltare la parola e partecipare all’eucaristia, attuando e manifestando l’unità della
Chiesa attorno al suo Signore. A fronte di una pratica del «precetto festivo» come
assistenza individuale alla messa, la forte e primaria sottolineatura della dimensione
ecclesiale-comunitaria appare del tutto intenzionale. La domenica – sembra dire il testo
conciliare – va adeguatamente recuperata come il giorno della comunità cristiana che si
edifica e si manifesta come Chiesa del Signore nell’ascolto della parola e nella frazione
del pane.
Anche l’esplicitazione così chiara dei due poli della celebrazione (parola – pane) è
dovuta, forse, alla necessità di richiamare l’integralità della partecipazione alla santa
messa a fronte di una tendenziale svalutazione (propria di tutta l’epoca postridentina)
della sua prima parte. La verità teologica della Chiesa convocata dalla parola a celebrare
il sacramento pasquale deve tradursi, nella mens conciliare, in modalità nuove di
celebra- zione.
Esplicitando, infine, le finalità dell’assemblea eucaristica domenicale (perché
facciano memoria della passione, della resurrezione e della gloria del Signore Gesù, e
rendano grazie a Dio che li ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della
risurrezione di Gesù Cristo dai morti), il testo conciliare ribadisce con forza la necessità
assoluta della celebrazione liturgico-sacramentale per dare senso compiuto al giorno del
Signore.
* L’assemblea dei fedeli per ascoltare la parola e celebrare la memoria viva della
Pasqua è considerata «ragione sufficiente» per fare della domenica un «giorno di festa»,
anzi per fare di essa «il giorno di festa primordiale» (“Per questo la domenica è il
giorno di festa primordiale che deve essere proposto e inculcato alla pietà dei fedeli”).
La caratteristica festiva della domenica non ha dunque ragioni primariamente

ciò che gli è riuscito di risparmiare”); Ap 1, 10 (Io, Giovanni... rapito in estasi, nel giorno del
Signore, udii dietro di me una voce potente”).
7
Nell’apparizione giovannea del Risorto ai suoi discepoli otto giorni dopo è rintracciabile una quasi -
istituzione della domenica come ritmo festivo cristiano ebdomadario da parte del Signore stesso (Gv
20, 26: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso.
Venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi»”). Per il quarto
evangelista, più esplicitamente che per gli altri, il primo giorno della settimana non è solo il giorno
della risurrezione e delle prime apparizioni, ma è anche il giorno del ripetersi regolare della
presenza del Risorto in mezzo ai suoi.
8
Il rimando è ai vari racconti pasquali di resurrezione / apparizione del Risorto che, in modo costante
è concorde nei quattro Vangeli, danno come riferimento temporale ‘il primo giorno dopo il sabato’:
Cf Mc 16, 9ss; Mt 28, 1ss - Mc 16, 1ss - Lc 24, 1ss - Gv 20, 1ss.

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antropologi- che (il bisogno della festa) o sociologiche (il bisogno del riposo sociale),
ma teologiche: la memoria della pasqua, l’incontro salvifico con il Signore risorto, il
riconoscimento ecclesiale.
Essa potrà e dovrà opportunamente essere vissuta come «giorno di gioia» e «giorno
di astensione dal lavoro», sia perché la gioia e il riposo dischiudono la via a una più
autentica esperienza del Risorto, sia perché l’esperienza del Risorto riqualifica e porta a
maturazione il senso immediato, religioso e civile della festa. Scrive in proposito il
liturgista Armando Cuva:
“L’astensione dal lavoro non fu collegata originariamente con la celebrazione
della domenica, ma fu introdotta da una legge emanata da Costantino nel 321
(d. C.) e successivamente fatta propria dalla Chiesa. È un elemento
‘secondario’ della cele- brazione domenicale; ciononostante, ha una grande
importanza: tale astensione, infatti, animata dal sentimento di gioia proprio
della domenica, oltre che facilitare ai fedeli una serena partecipazione alle
azioni liturgiche, permette loro di attendere a qualche attività apostolica e di
concedersi una sana distensione nell’ambito della famiglia o di più ampie
comunità ecclesiali”9.
La riflessione del Cuva è ripresa e sviluppata più in profondità dal teologo Adriano
Caprioli, ora vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, e dall’allora teologo Joseph
Ratzinger, ora papa Benedetto XVI. Ascoltiamo l’uno e l’altro:
“Si profila così un secondo aspetto della figura della festa, specificamente
antropologico, oltre quello sacramentale. La festa domenicale, già sotto il
profilo antropologico, ha un significato particolare. La festa non è solo un
giorno dopo l’altro, il giorno dopo il sabato, ma è un «altro» giorno, un
giorno «diverso». La diversità del giorno di festa - scrive Guardini - è già
avvertita dalla psicologia umana che sente il bisogno di un ulteriore equilibrio
alla tensione accumulata nei giorni della settimana, tensione che il riposo al
termine di ogni giorno non basta a placare. Rimane un residuo che giorno per
giorno cresce e richiede un più profon- do equilibrio10. Ma il giorno di festa
non è solo il bisogno di riposo insito nella serie dei giorni e nell’operare
umano, ma più radicalmente il simbolo concreto della mèta, dell’orizzonte
entro il quale è iscritta l’esistenza umana. Il giorno di festa ha una dignità
propria e una ragion d’essere oltre il giorno usuale e l’operare umano, e non
in dipendenza da quest’ultimo, come nel caso della festa intesa come riposo
settimanale. La festa per natura è espressione di gratuità. Il riposo invece è
dovuto. Il senso della festa, già sotto il profilo antropologico, è quello di
richiamare tutto ciò che non è dovuto, ma è gratuito. «Tutta la nostra vita –
scrive Heschel – deve essere come un pellegrinaggio verso il settimo giorno; il
pensiero e l’apprezzamento di ciò che questo giorno può apportarci dovrebbe
essere sempre presente alla nostra mente»11. Dare del tempo alla festa senza

9
CUVA ARMANDO, La celebrazione del mistero pasquale: domenica e pasqua, in Liturgia opera
divina e umana. Studi sulla riforma liturgica offerti a sua eccellenza mons. Annibale Bugnini in
occasione del suo 70o compleanno, a cura di JOUNEL PIERRE-KACZYNSKI REINER-PASQUALETTI
GOTTARDO = Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia 26, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma
1982, pp. 657-658.
10
GUARDINI ROMANO, La domenica: ieri, oggi e sempre, in Ansia per l’uomo, Morcelliana, Brescia,
1970, pp. 202-241: 204
11
HESCHEL ABRAHAM, Il sabato, Rusconi, Milano 1972, p. 131.

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considerarlo in qualche modo sottratto o comunque funzionale all’operare


umano è già per se stesso un segno di libertà. Tale segno, addirittura, dato il
carattere di ripetitività e di relativa stabilità delle feste, acquista il significato
di «istituzione di libertà». In questo senso l’istituzione della festa
potenzialmente esercita un ruolo critico nei confronti della necessità del
progresso tecnico. Scrive testualmente Guardini: «Il problema della domenica
è connesso con un problema che interessa le radici della nostra esistenza.
Nasce dalla realtà di fatto che l’uomo moderno ha pagato le enormi
realizzazioni scientifiche degli ultimi secoli con perdite della cui portata ci
rendiamo sempre più drasticamente conto; egli è diventato un attivista. Si è a
lungo considerato questo attivismo come un passo in avanti verso i valori
superiori e verso più serie responsabilità morali. Ma ad un numero sempre più
crescente di persone ormai risulta chiaro quanto c’è di falso in una simile
opinione. Senza dubbio molto di grande è stato conquistato, ma anche molto di
importante è andato perduto: tutto ciò che va precisamente sotto il nome di
valori contemplativi, le forze del silenzio e del raccoglimento, del sapere
profondo che affiora dal fondo dell’anima, del sentimento capace di cogliere
indicazioni e moniti che salgono da zone ben più interiori della pura ragione o
della pura utilità» (GUARDINI ROMANO, o. c., pp. 235-236)”12.
"È valso in tutte le culture il principio che la festa presuppone
un’autorizzazione che i partecipanti alla festa non possono darsi da se stessi.
Non si può decidere di celebrare una festa, essa ha invece bisogno di un
fondamento e per di più oggettivo, che è anteriore ai propri desideri. In altri
termini: io posso rappresentare la libertà quando io sono effettivamente libero
(la gioia è la rappresentazione della libertà – nota mia); altrimenti la
rappresentazione della libertà diventa una tragica auto-illusione. Io posso
rappresentare la gioia solo quando il mondo e l’umanità danno veramente
motivo di rallegrarsi... La festa presuppone l’autorizzazione alla gioia;
quest’autorizzazione è valida solo se è in grado di far fronte alla domanda
sulla morte. Proprio per questo la festa ha sempre avuto carattere cosmico e
universale nella storia delle religioni: cercava di rispondere alla domanda
sulla morte riferendosi all’universale potenza vitale del cosmo.
Ma ora si potrà obiettare che nel nostro caso si tratta proprio di ricercare lo
spe- cifico cristiano e che non è affatto possibile sviluppare l’essenza della
liturgia cri- stiana dalla storia delle religioni. Ciò è perfettamente giusto per
quel che concerne l’affermazione positiva e la struttura della festa cristiana;
ma contemporaneamente va da sé che l’inderivabile novità del cristianesimo è
la risposta alla domanda comune di tutti gli uomini e quindi deve essere
riferita a un fondamentale contesto antropologico senza il quale proprio
questa verità resterà incompresa.
Questa novità consiste poi nel fatto che la risurrezione di Cristo dà
l’autorizzazione alla gioia ricercata da tutta la storia e che nessuno era in
grado di fornire. Perciò la liturgia - eucaristia è per sua natura festa della

12
CAPRIOLI ADRIANO, Ancora sulla festa, una teologia da fare, «La Scuola Cattolica» 110 (1982) pp.
182-205: 199-200

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resurrezione, mysterium paschae. In quanto tale essa porta in sé il mistero


della croce, che è poi l’intima premessa della resurrezione”13.

13
RATZINGER JOSEPH, La struttura della celebrazione liturgica, «Communio» 41 (1978) pp. 24-34.
Ripreso in RATZINGER JOSEPH, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca Book, Milano
1984, pp. 67-81. Il brano citato è stralciato dalle pp. 69-72.

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CAPITOLO VIII
LA LITURGIA DELLE ORE: NOTE INTRODUTTIVE

La liturgia delle ore è una prassi liturgica propriamente cristiana (orazione della
comunità dei credenti in Gesù Cristo) e come tale affonda le sue radici nella tradizione
apostolica, la quale rimanda a sua volta all’esemplarità personale di Cristo e al comando
di pregare senza stancarsi, dato ai suoi discepoli.
Nelle note seguenti svilupperemo tre piste di ricerca: - i nomi della preghiera
liturgica oraria, con particolare attenzione al nuovo nome imposto dal concilio; – feno-
menologia ed ermeneutica delle ore liturgiche; - teologia e spiritualità della liturgia
delle ore1.

1. I nomi della preghiera liturgica oraria

Ciò che oggi chiamiamo Liturgia delle ore conosce anche altre denominazioni, tra
le quali ufficio divino e breviario. Dal momento che il vocabolario è sempre, in certa
misura, strumento di conoscenza e di interpretazione del reale, iniziamo il nostro studio,
mettendo a punto il senso della terminologia tradizionale e il senso e la pretesa della
«nuova» terminologia2.

1.1. Ufficio divino

È il termine che è servito a designare più comunemente nel corso dei secoli fino ad
oggi la celebrazione della preghiera ecclesiale coordinata con le ore del giorno. Nell’
antichità cristiana il termine officium, da opus facere, era applicato in modo generico a
tutti gli atti di culto (i sacramenti, i sacramentali e la preghiera oraria) che oggi siamo
soliti indicare con la parola «liturgia», e ne sottolineava anche la sfumatura giuridica di
obbligo, dovere, cosa da farsi.
È probabile che la sua accezione selettiva, nel senso cioè di preghiera liturgica
delle ore, abbia prevalso per influsso dell’esperienza monastica benedettina, dove la
preghiera in coro veniva definita opus Dei (= opera che termina alla gloria di Dio; ma
anche, e più radicalmente, opera che viene da Dio e che prolunga nel tempo quotidiano
l’azione salvifica (opus salutiferum) di Cristo.
Così, dalla fine del sec. VI, officium divinum e opus Dei diventano il linguaggio
ecclesiastico più usuale per esprimere la preghiera oraria della Chiesa, sia in ambito
secolare (ufficio basilicale - ufficio canonicale - ufficio individuale), sia in ambito
monasti- co.

1
Per un approccio globale alla liturgia delle ore romana: PATERNOSTER MAURO, Erano assidui nella
preghiera. Riflessione sulla liturgia delle ore = Liturgia. Studi e Sussidi 4, Paoline, Roma 1990, pp.
292; per la liturgia delle ore ambrosiana: NAVONI MARCO, La liturgia delle ore. Storia e
spiritualità, Centro Ambrosiano, Milano 2003, pp. 94.
2
Riprendo con libertà da PINELL JORDI, Anàmnesis 5. Liturgia delle ore, Marietti, Genova 1990, pp.
11-13.

132
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1.2. Breviario

Con l’inizio del sec. XII, accanto al termine ufficio divino, troviamo anche il
termine breviario. Funzionale a indicare il libro liturgico nel quale è riportato,
«abbreviato» per l’uso personale, il complesso dell’ufficiatura divina corale, esso
manifesta un preciso passaggio di mentalità nella Chiesa: dalla celebrazione in coro,
quale forma propria e ordinaria dell’ufficio divino, alla recitazione individuale, cui ogni
chierico, religioso o secolare, è giuridicamente obbligato in forza della sua professione
religiosa o della sua ordinazione. Per molti secoli «dire il breviario» sarà la modalità più
comune di celebrare l’ufficio divino.

1.3. Liturgia delle ore

Il concilio Vaticano II mette la sordina al termine breviario, continua a valorizzare


il sintagma ufficio divino, ma inventa un nuovo lessico che la riforma liturgica imporrà
nel linguaggio ecclesiastico: liturgia delle ore. Questa nuova terminologia: – accentua il
legame organico della preghiera oraria della Chiesa con il complesso degli atti liturgico
- sacramentali (liturgia in senso ampio), in specie con la celebrazione eucaristica; –
fissa nell’orarietà (= preghiera di santificazione delle ore del giorno e della notte)
l’elemento caratteristico e peculiare di questa porzione dell’agire liturgico della Chiesa.

preghiera liturgica della Chiesa

- Spetta in modo particolare alla Liturgia delle ore la funzione di condurre i cristiani
a una partecipazione progressiva al mistero di Cristo mediante l’orazione. Sottolineiamo
fin dal principio che la celebrazione dell’ufficio divino è essenzialmente orazione: una
ora- zione, programmata dalla Chiesa, ma che deve essere realizzata ogni volta con
l’apporto del dono di orazione, che ognuno di coloro che prendono parte alla
celebrazione pos- siede in forza del battesimo 3.
La Chiesa ha istituito, e ha successivamente elaborato, gli schemi e i repertori litur-
gici dell’ufficio divino, con l’intenzione di obbedire all’esortazione del Signore:
“Occorre pregare sempre, senza stancarsi” (cf Lc 18, 1); parola del kerygma
evangelico, che uno degli inni della primitiva comunità cristiana (cf 1Ts 5, 15-22)
trasformò in un quasi - comandamento istitutivo: “Pregate senza interruzione” (1Ts 5,
17).
Come nota Origene di Alessandria (185-254ca), l’unico modo possibile di
compiere questo precetto è procurare che la vita del cristiano diventi essa stessa
un’unica orazione. I tempi espressamente dedicati alla preghiera – le ore appunto –
diventano necessarie alla Chiesa per fomentare, consolidare e arricchire l’habitus di
un’orazione costante.
- Nella composizione dell’ufficio divino rientrano formulari di vario genere: testi
biblici (salmi, cantici, letture); canti biblici elaborati (antifone, responsori); testi poetici
(inni); testi eucologici (orazioni - intercessioni - acclamazioni). In ogni tempo si è
cercato di dare un’ armonico ordinamento ai formulari per la celebrazione delle ore,

3
Cf la regola data da san Benedetto ai suoi monaci: salmodiare in modo che mens concordet voci (la
mente concordi con la voce).

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sfruttando la varietà dei generi letterari della liturgia per suscitare una preghiera più
efficace mediante una più grande ricchezza di toni e di contenuti. Così nella
celebrazione dell’ufficio divino dovrebbe attuarsi in modo equilibrato la riflessione, la
confessione-proclamazione, la lode, la sup- plica e l’intercessione.
- Benché l’ufficio divino sia, per la sua stessa istituzione, una celebrazione di
carattere ecclesiale, sin dagli inizi del monachesimo fu assorbito dai movimenti ascetici
dell’ antichità come un mezzo importante per realizzare l’ideale della vita religiosa. In
tutti i riti, orientali ed occidentali, l’influsso dell’ambiente monastico e degli usi
monastici nell’ ufficio cattedrale è stato considerevole.
Siccome l’ufficio divino è la parte della liturgia che ogni Chiesa locale si è
elaborata con la più grande autonomia, il contributo del monachesimo alla formazione
della liturgia delle ore dovrebbe essere visto caso per caso con molte sfumature.
In ogni modo si deve affermare, come indicazione generale, che il monachesimo ha
influito nella celebrazione della lode ecclesiale, incrementando sempre la dimensione
contemplativa, che l’ufficio divino possiede già per sua natura.
- In quanto mezzo indispensabile per fomentare la vita dello Spirito nel cristiano,
creando in lui pazientemente l’habitus di un’orazione costante, la liturgia delle ore fu
stimata sin dall’inizio come continuità dentro la Chiesa di una tradizione apostolica, che
risaliva all’esemplarità personale di Gesù Cristo.
Da Gesù, maestro supremo della preghiera, la comunità cristiana deve imparare il
modo di rivolgersi a Dio. Per questo, ogni cristiano deve penetrare nel tesoro
insondabile dell’amore di Dio, che si è manifestato al mondo quando Gesù ha donato la
sua vita per salvare e redimere l’umanità. La liturgia delle ore è stata concepita e
ordinata come un mezzo per realizzare continuamente questa ricerca. Da Gesù il
cristiano deve imparare a pregare, esaminando i ricchissimi contenuti del Padre Nostro,
l’orazione che egli insegnò ai suoi discepoli.
Alcuni autori mettono in stretto rapporto il Padre Nostro con le ore di preghiera
della tradizione cristiana. Essi intendono mostrare, al di là del valore storico - critico
dell’ ipotesi, che tutto ciò che va scoperto, sul concetto di orazione, con l’analisi e la
meditazione del Padre Nostro, deve essere realizzato in modo esistenziale con la prassi
dei momenti tradizionali della preghiera liturgica.

orarietà e rappresentatività

- La Liturgia delle ore, come celebrazione della preghiera comune della Chiesa, che
attua il comando di Cristo alla preghiera, ha come primo vantaggio quello di fondarsi su
un orario stabilito dalla Chiesa. Costituisce ogni volta una chiamata del Signore per
mezzo della voce della Chiesa, una pausa nel ritmo della vita, pausa che ci permette di
passare dallo stretto momento in cui viviamo alla vasta panoramica della storia della
salvezza.
- Un secondo vantaggio viene dal fatto di essere per sua natura preghiera rappresen-
tativa. La comunità orante, grande o piccola, è segno e rappresentanza dell’intero
popolo di Dio e attua la potenza d’intercessione che Dio ha concesso collettivamente
alla sua Chiesa. È questo uno degli aspetti fondamentali della preghiera oraria della
Chiesa, che scaturisce dal cosiddetto sacerdozio universale o comune, cui ogni fedele
partecipa in forza del suo battesimo. Per questo la recitazione dell’ufficio divino è
stabilita anche come delega della Chiesa a quei cristiani che, per vocazione, assumono

134
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uno speciale impegno nello sviluppo del regno di Dio (monaci – religiosi – chierici –
laici consacrati).
In ogni caso, l’obbedienza al precetto di pregare senza interruzione non va incontro
soltanto alla necessità personale del cristiano (= vita di pietà personale), ma costituisce
allo stesso tempo il compimento di una missione per il bene della collettività ecclesiale.

2. Le ore liturgiche: i tempi, le motivazioni e i modi della loro celebrazione

Nel riordino postconciliare la Chiesa ha rinnovato più o meno profondamente i


tempi, le motivazioni e i modi della celebrazione delle ore dell’ufficio divino. Aiutati da
Principi e Norme per la liturgia delle ore romana (in sigla IR) e ambrosiana (in sigla
IA)4, trattiamo in modo distinto le tre questioni.

2.1. I tempi

Con l’ultima riforma del breviario, la Chiesa latina santifica il giorno e la notte con
un ritmo settenario di celebrazioni, che si impernia sui due cardini della preghiera
vespertina e mattutina5:

- I vespri, preghiera liturgica al calare del giorno. Nel rito ambrosiano possono
essere I o II. I primi Vespri sono d’obbligo, quando si celebra una memoria,
una festa o una solennità.
- L’ufficio delle letture, preghiera liturgica raccomandata per santificare le ore
notturne, ma “adattato in modo che possa essere recitato in qualsiasi ora del
giorno” (IR, n. 57; IA, n. 59);
- Le lodi, preghiera liturgica allo spuntare del giorno, possibilmente (ma non
obbligatoriamente) a ufficio delle letture già celebrato;
- L’ora di terza, preghiera liturgica da attuarsi verso le nove del mattino;
- L’ora di sesta, preghiera liturgica da attuarsi verso mezzogiorno;
- L’ora di nona, preghiera liturgica da attuarsi verso le tre del pomeriggio 6;
- La compieta, preghiera liturgica posta a sigillo dell’intera giornata lavorativa,
anche dopo la mezzanotte (IR, n. 84; IA, n. 85).

2.2. Le motivazioni

Grazie al secondo capitolo della IA (nn. 35-100), in buona parte coincidente con il
secondo capitolo della IR, è possibile evidenziale la specifica ragione liturgico –
spirituale di ogni singola ora.

4
Il testo è riportato nel primo volume della Liturgia delle Ore, sia romana che ambrosiana.
5
Cf IR, n. 37; Cf IA, n. 35. La institutio è il testo che disciplina globalmente la celebrazione della
liturgia delle ore e.
6
Le tre ore distinte di terza, sesta e nona sono obbligatorie nella recitazione corale, ma sono riducibili
a un’unica ora durante la giornata (la cosiddetta ora media), al di fuori di essa.

135
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vespri
“I vespri si celebrano quando «si fa sera e il giorno ormai declina» (Lc 24,
29), «per rendere grazie di ciò che nel medesimo giorno ci è stato donato o con
rettitudine abbiamo compiuto»” (BASILIO MAGNO, Regole trattate
diffusamente).
“Con l’orazione che innalziamo «come incenso davanti al Signore» e
«sacrificio della sera» (Sal 140, 2) ricordiamo anche la nostra redenzione. E
questo «si può intendere, con un significato più spirituale, dell’autentico
sacrificio vespertino: sia di quello che il Signore e Salvatore affidò nell’ora
serale, agli apostoli durante la cena, quando inaugurò i santi misteri della
Chiesa, sia di quello stesso del giorno dopo, quando con l’elevazione delle sue
mani in croce, offrì al Padre per la salvezza del mondo intero se stesso, quale
sacrificio della sera, cioè come sacrificio della fine dei secoli» (CASSIANO,
Istituzioni cenobitiche)”.

La prima ragione liturgico - spirituale, offerta a giustificazione della lode


vespertina, è tratta dalle Regole monastiche di san Basilio nella loro trattazione più
asmpia e collega quest’ora della preghiera liturgica alla giornata appena trascorsa: con
la celebrazione della sera la Chiesa rende grazie a Dio per i doni ricevuti dalla sua bontà
nell’arco dell’intera giornata, e per il bene da lei compiuto in ciascuno dei suoi membri.
Più in profondità, l’intera preghiera dei vespri è memoria orante (“con l’orazione
che innalziamo ... ricordiamo”) della pasqua di Cristo, nella sua qualità di sacrificio
unico e definitivo della nostra redenzione, istituito sacramentalmente nell’ultima cena e
attuato in modo cruento il giorno successivo sull’altare della croce.
Nei vespri ambrosiani, la memoria del pasqua, quale vero e definitivo sacrificio
della nostra redenzione, conosce due sviluppi spirituale e rituali specifici: la tonalità
escato- logica del rito della luce7 e la tonalità sacramentale della commemorazione del
battesi- mo 8.
- C’è nel rito lucernale, costantemente utilizzato nei vespri ambrosiani, un forte
gioco di contrasto nell’uso dei simboli (sole che tramonta - lucerna che risplende),
attraverso il quale il rimando cosmico all’evento drammatico della croce (tramonto =
morte) viene integrato nel rimando liturgico alla piena e definitiva vittoria di Cristo
(luce della fiamma = vita e salvezza). Il sacrificio, che ci ha redento, ci ha introdotto nel
giorno senza tramonto e la luce di Cristo, che vince nell’uomo le tenebre del peccato, è
accesa per sempre.
- La tonalità battesimale, ripresa con forza nell’attuale riforma dei vespri ambrosiani,
permette alla comunità cristiana, e a ogni singolo credente, di estendere la memoria
quotidiana della redenzione, non solo a quel vertice sacramentale, che è l’eucaristia, ma
anche a quella grazia originale, che è il lavacro della rigenerazione.

7
BIFFI INOS, Commento alla Diurna Laus ambrosiana 1. I lucernari, «Ambrosius» 57 (1981) pp.
318-343.
8
BIFFI INOS, Commento alla Diurna Laus ambrosiana 2. Le commemorazioni battesimali dei Vespri,
«Ambrosius 57» (1981) pp. 398-444.

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ufficio delle letture

“L’ufficio delle letture, a norma della Costituzione Sacrosanctum Concilium,


«pur conservando nel coro il carattere di preghiera notturna, deve essere
adattato in modo che possa essere recitato in qualsiasi ora del giorno»” (IA, n.
59).
La scelta di connotare l’ufficio delle letture come preghiera notturna o come
preghi- era nella giornata, ha portato la IA a formulare, per il significato proprio di
quest’ora, una ragione liturgico - spirituale generale, valida in ogni caso, e una ragione
liturgico - spirituale specifica, adatta cioè al caso in cui essa venga celebrata come
preghiera nottur- na.

a) Ragione generale

“L’ufficio delle letture ha lo scopo di proporre al popolo di Dio, e


specialmente a quelli che sono consacrati al Signore in modo particolare, una
meditazione più sostanziosa della Sacra Scrittura e le migliori pagine degli
autori spirituali. Seb- bene, infatti, la messa quotidiana offra un ciclo di
letture della Sacra Scrittura più abbondante, quel tesoro della rivelazione e
della tradizione contenuto nell’ ufficio delle letture sarà di grande profitto per
lo spirito” (IA, n. 57).
L’ufficio delle letture è qui proposto come una celebrazione di lode, incentrata
sulla meditazione della Sacra Scrittura e degli scritti dei Padri della Chiesa, o di altri
significativi autori ecclesiastici, al fine di sostenere, vivificare e promuovere la vita
spirituale di quanti, in modo speciale (ministri ordinati, religiosi e religiose) o in modo
ordinario (semplici bat- tezzati), sono consacrati al Signore. La caratterizzazione in
senso meditativo dell’ufficio delle letture chiederà, specialmente nella celebrazione
(recitazione) individuale, una più forte valorizzazione del silenzio liturgico (cf IA, nn.
198-200).

b) Ragione specifica

“Coloro, pertanto, che in forza del loro diritto particolare devono conservare
a questo ufficio il carattere di lode notturna, come pure coloro che
lodevolmente lo desiderano, sia che lo recitino di notte, sia che lo recitino di
buon mattino e prima delle lodi mattutine, scelgano l’inno da quella serie
destinata a questo scopo” (IA, n. 60).
“I Padri e gli autori spirituali spessissimo hanno esortato i fedeli,
specialmente coloro che fanno vita contemplativa, alla preghiera notturna,
con la quale si esprime e si incita all’attesa del Signore che ritornerà: «A
mezzanotte si levò un grido: ecco lo sposo, andategli incontro!» (Mt 25, 6);
«Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se
alla sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino, perché non giunga
all’improvviso, trovandovi addormentati» (Mc 13, 35-36). E sant’Ambrogio ci
ha ammoniti perché preveniamo il sole del mattino: «Previeni - dice - il sole
che vedi; sorgi tu che dormi; levati dai morti affinché risplenda per te Cristo.
Se tu previeni questo sole prima che esso sorga, potrai vedere Cristo che ti
illumina. Egli risplende prima nel segreto del tuo cuore. Per te, che dici: dalla

137
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notte veglia verso di te il mio spirito, farà brillare la luce del mattino nel cuore
della notte, se mediterai la Parola di Dio. Quando poi il giorno ti avrà trovato
nella meditazione della Parola di Dio e una così gradevole occupazione di
pregare e di cantare i salmi avrà dilettato la tua mente, dirai di nuovo al
Signore Gesù: tu ricolmi di gioia le porte del mattino e della sera (AMBROGIO,
Commento al Salmo 118, sermone 19, n. 30)». Sono, dunque, degni di lode
tutti coloro che conservano all’ufficio delle letture il suo carattere notturno”
(IA, n. 73).

La ragione liturgico-spirituale dell’ufficio delle letture, in quanto preghiera


notturna, è quella dell’attesa vigilante dello Sposo - Cristo. La meditazione della Parola
e degli scritti ecclesiastici, presente in ogni celebrazione dell’ufficio delle letture, nella
sua figura notturna si configura in senso escatologico - nuziale: chi medita la Parola è
vigilante e attende con amore la venuta dello Sposo - Cristo.

lodi
“Quest’ora, che si celebra allo spuntare della nuova luce, ricorda la
resurrezione del Signore Gesù, luce vera che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) e
sole di giustizia (Mt 4, 2), che sorge dall’alto (Lc 1, 78). Perciò ben si
comprende la raccomandazione di Cipriano: bisogna pregare il mattino per
celebrare con la preghiera mattutina la resurrezione del Signore” (IA, n. 50).
Anche le lodi, al pari dei vespri sono preghiera memoriale della nostra redenzione
(ricorda ...), ma in riferimento a un diverso momento del giorno (il mattino) esse fanno
memoria del versante glorioso della redenzione, la resurrezione di Cristo. Cristo è
risorto il mattino di pasqua e la luce che ritorna a rischiarare il giorno dopo le tenebre
della notte è rinvio simbolico a quell’evento.
Le lodi ambrosiane accentuano questo riferimento storico - salvifico, quale loro
propria ragione liturgico - spirituale, attraverso tre elementi strutturali:
- Il benedictus, che, posto all’inizio, assume una tonalità decisamente pasquale in
quanto “celebra Cristo, che viene per illuminare quelli che stanno nelle tenebre e
nell’ombra della morte e procurare la Redenzione del suo popolo” (IA, n. 52);
- Le acclamazioni a Cristo, che, accompagnate dal Kyrie eleison (12 volte), si pre-
sentano come un quotidiano canto di lode a Colui che, fattosi obbediente fino alla morte
di croce, è stato insignito del nome che è al di sopra di ogni altro nome (cf Fil 2, 6-11)9;
- L’antifona ad crucem nelle domeniche e nelle grandi festività10.

ora media
“L’uso liturgico, tanto dell’oriente che dell’occidente, ha conservato terza,
sesta e nona, specialmente perché a queste ore si collegava il ricordo degli
eventi della passione del Signore e della prima propagazione del Vangelo”
(IA, n. 76).

9
BIFFI INOS, Commento alla Diurna Laus ambrosiana 2. Le acclamazioni a Cristo Signore nelle lodi,
«Ambrosius 58 (1982) pp. 75-81.
10
NAVONI MARCO, Le antifone ad crucem: appunti per una storia dell’ufficiatura mattutina
ambrosiana, «La Scuola Cattolica» 112 (1984) pp. 449-462.

138
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Anche in questo caso la ragione liturgico spirituale delle tre ore lungo la giornata
viene declinata in chiave memoriale: memoria della Passione del Signore e memoria
degli eventi che segnano il cammino della Chiesa apostolica. Sono soprattutto gli inni e
le orazioni a sottolineare di volta in volta l’elemento memoriale specifico:
- A terza si fa memoria, soprattutto, della pentecoste (cf l’inno Nunc, Sancte nobis
Spiritus) e si invoca il dono dello Spirito santo;
- A sesta si fa memoria della crocifissione del Signore, ma si rammenta anche
l’esperienza di Pietro a Giaffa e la prima intuizione dell’universalità della missione
della Chiesa (At 10,9-35);
- A nona si fa memoria, soprattutto, della morte redentrice di Cristo.

compieta
“Compieta è l’ultima preghiera del giorno, da recitarsi prima del riposo
notturno, eventualmente anche dopo la mezzanotte” (IA, n. 85).
Due indicazioni di qualche rilievo: il valore di conclusione della giornata e il tono
fiduciale dei salmi scelti (cf IA, n. 88). La comunità o, più spesso, il singolo fedele, al
momento di abbandonarsi al riposo del sonno formula un’ultima preghiera, rinnovando
la sua fiducia in Dio e invocandolo perché lo accompagni attraverso le incognite e le
insidie della notte. C’è forse un’allusione al sepolcro di Gesù, ma con la certezza che
Dio non lascerà giacere il suo Servo nella tomba, ma lo rialzerà, innalzandolo alla
gloria.

2.3. I modi

Insieme all’eucaristia e agli altri atti liturgico - sacramentali la liturgia delle ore
edifica il corpo di Cristo, realizzando nella sua modalità specifica la santità dei suoi
membri, e ne manifesta l’intima natura: un popolo santo, radunato dalla pasqua del
Signore nella potenza dello Spirito santo, per dare gloria al Padre, in Cristo, con Cristo e
per Cristo.
La modalità concreta, visibile e storica della sua celebrazione deve, perciò,
garantire che la preghiera liturgica delle Ore ci sia e che essa esprima nella sua concreta
modalità celebrativa, quanto più possibile, il mistero della Chiesa.
Con l’esplicita intenzione di salvaguardare l’una e l’altra esigenza, l’ultima parte
del primo capitolo della IA (nn. 20-34) sviluppa il discorso relativo ai soggetti della
celebrazione della liturgia delle ore.
Viene, dapprima, individuata la modalità che esprime più compiutamente il
compito storico della liturgia delle ore di edificare e rivelare la Chiesa, cioè, la
celebrazione corale o comunitaria. In un secondo tempo viene affrontato il tema del
particolare affidamento della liturgia delle ore ai ministri sacri (vescovi, presbiteri,
diaconi), anche nella modalità della celebrazione (recitazione) individuale.

celebrazione corale
“La celebrazione in comune manifesta più chiaramente la natura ecclesiale
della Liturgia delle Ore e favorisce la partecipazione attiva di tutti secondo la
condizione di ciascuno ... Perciò, tutte le volte che si rende possibile la
celebrazione comune con la frequenza e la partecipazione attiva dei fedeli è
da preferirsi alla celebrazione individuale e quasi privata” (IA, n. 34).

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Come si vede la IA non contrappone le due modalità celebrative, né contesta la


legittimità teologica e liturgica della celebrazione (recitazione) individuale. Il discorso è
posto, invece, sul versante della dimensione segnico-espressiva. Se la ricchezza
teologica e spirituale, racchiusa nei misteri liturgici, giunge all’uomo sempre mediata da
una concreta e specifica «forma» rituale, questa può risultare più o meno espressiva
della realtà di cui è portatrice e, di conseguenza, più o meno capace di far cogliere ai
fedeli il dono divino celebrato.
Inquadrato così il problema, non ci possono essere dubbi sul fatto che la
celebrazione corale - comunitaria della liturgia delle ore è da considerarsi la modalità
normale o tipica della celebrazione dell’ufficio divino, e questo in ragione del segno
ecclesiale, che essa meglio esprime. Infatti, nell’assemblea dei fedeli, riuniti a celebrare
sotto la presidenza del Vescovo con il suo presbiterio (= comunità diocesana), nell’
assemblea liturgica parrocchiale e nelle assemblee liturgiche particolari (= comunità
religiosa, gruppi, associazioni, movimenti, ecc ...), anche se in misura progressivamente
decrescente, la portata ecclesiale della preghiera delle ore appare immediatamente
riconoscibile e, quindi, sperimentabile. Non solo, ma nella celebrazione corale /
comuni- taria della liturgia delle ore ogni fedele riscopre più facilmente la dignità del
proprio battesimo, che lo abilita a esercitare lo stesso sacerdozio con il quale Cristo
eleva la sua lode incessante al Padre.

celebrazione (recitazione) individuale

Resta da capire il senso e la ragione di un affidamento speciale della liturgia delle


ore ai ministri sacri con “l’obbligo personale di celebrarla, anche se assente il popolo”,
che legittima la modalità liturgica della celebrazione (recitazione) individuale: la
deputazione ai ministri sacri, con l’obbligo della celebrazione anche individuale, non è
presentata dalla IA in alternativa o in sostituzione dell’affidamento primario della
preghiera liturgica delle ore a tutta la Chiesa e alle singole comunità locali, con modalità
celebrativa corale, ma garan- tisce che
“il compito di tutta la comunità sia adempiuto in modo sicuro e costante
almeno per mezzo loro, e la preghiera di Cristo continui incessantemente
nella Chiesa” (IA, n. 29).
I ministri ordinati, mantenendo fede all’impegno assunto11,
“compiono il ministero del Buon Pastore, che prega per i suoi, perché
abbiano la vita e siano perfetti nell’unità” (IA, n. 29).
L’obbligo della celebrazione integrale dell’ufficio divino nel corso della giornata,
anche in forma individuale, rientra, così, tra i compiti propriamente ministeriali e
pastorali di coloro che mediante il sacramento dell’ordine sono stati configurati a Cristo
capo, a vantaggio del suo corpo ecclesiale. Perciò, la modalità individuale della
celebrazione (recitazione) dell’ufficio divino, pur carente sul versante della ratio signi
(= la ragione espressiva del segno liturgico) e, dunque, da superare appena è possibile,
rimane radicalmente preghiera della Chiesa, fatta cioè a nome e a vantaggio di tutta la
Chiesa.

11
Dal rito di ordinazione diaconale: “Volete, conformemente al vostro nuovo stato di vita, custodire e
alimentare lo spirito di preghiera e in quello spirito secondo la vostra condizione di sacri ministri
adempiere ogni giorno al fedele servizio della liturgia delle Ore per la Chiesa e per il mondo?” (n.
178). Cf CJC, cann. 276, 2 e 1174, 1.

140
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3. Teologia e spiritualità della liturgia delle ore

Mi rifaccio al primo capitolo della IA dove si parla dell’«importanza della liturgia


delle ore nella vita della Chiesa» (nn. 1-34). Ne emerge una riflessione in due tempi12: -
la prima riguarda la liturgicità dell’ufficio Divino e risponde alla domanda: “A quali
condizioni l’ufficio divino è «preghiera liturgica» e partecipa della liturgia della
Chiesa?”; -la seconda si interroga sullo specifico della liturgia delle ore: “Qual è
l’elemento distintivo della liturgia delle ore, specialmente in relazione alla celebrazione
eucaristica?”.

3.1. L’ufficio divino è preghiera liturgica

In riferimento alla natura liturgica della liturgia delle ore raccolgo, anzitutto, la
«definizione» di IA, n. 2:
"Essa... è principalmente preghiera di lode e di supplica, e precisamente
preghiera della Chiesa con Cristo e a Cristo".
Ci troviamo di fronte a una definizione non precisiva della liturgia delle ore, bensì
ampia e generale, ma, proprio per questo, particolarmente adatta a suscitare il riconosci-
mento della pertinenza dell’ufficio divino alla liturgia della Chiesa. Di ogni azione
liturgica, infatti, possiamo affermare che essa è “principalmente preghiera di lode e di
supplica ... preghiera della Chiesa con Cristo e a Cristo”, e questo alla luce
dell’insegnamento conciliare, dove si afferma che ogni azione liturgica è opera nella
quale “Cristo associa a sé la Chiesa, sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e
per mezzo di Lui rende culto all’eterno Padre” (SC, n. 7). Esordendo con la definizione
sopra riportata, risulta evidente che la IA è preoccupata, anzitutto, di rinnovare la
coscienza della vera natura liturgica della liturgia delle ore.
Svolgendo la definizione sintetica sopra citata, il discorso si deve sdoppiare,
sottolineando ora il versante cristologico, ora il versante ecclesiologico:
- dapprima, si fa parola della «preghiera di Cristo» al Padre, preghiera da sempre in
atto nella perfetta lode del Verbo, divenuta storia nella carne di Gesù, e perennemente
rinnovata dalla voce della Chiesa; oltre che essere «preghiera di Cristo», essa è anche
«preghiera a Cristo», perché nella dossologia, negli inni, nei responsori, nelle
acclamazioni e in non pochi salmi Cristo non è solo il mediatore della preghiera
cristiana, ma il termine stesso di tale preghiera.
- successivamente, si passa alla «preghiera della Chiesa», resa possibile dallo Spirito
santo, per il quale essa continua e manifesta nel tempo e nello spazio umano la
preghiera di Cristo. È un procedimento storico e teologico insieme, che permette alla IA
di evidenziare con più accuratezza il rapporto che intercorre tra la preghiera di Cristo e
preghiera della Chiesa in forza dello Spirito.

12
Per questa parte riprendo con libertà MAGNOLI CLAUDIO, Un direttorio non solo per la celebrazione
ma anche per la meditazione. Confronto tra la institutio ambrosiana delle ore e quella romana, «La
Scuola Cattolica» 114 (1986) pp. 325-351: 329-336.

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Il principio cristico (-pneumatico)

- La preghiera di Cristo è presentata, in primo luogo, come testimonianza, modello


ed esempio per la preghiera della Chiesa, anzi, come sua norma e comandamento. Gesù
Cristo ha pregato incessantemente il Padre, distribuendo la sua lode e supplica nelle
varie ore del giorno e della notte e ha insistito presso i suoi discepoli perché pregassero
in ogni tempo senza mai stancarsi (Lc 18, 1). Così, il modo con cui egli ha pregato
(parole, atteggiamenti interiori ed esteriori, orari) e ha insegnato a pregare è divenuto
per la Chiesa di ogni tempo e di ogni latitudine la norma insuperabile della sua
preghiera.
Senza affermarlo esplicitamente, ma in analogia con quanto la Chiesa fa per tutti i
suoi atti liturgico - sacramentali, la IA pare ricercare già nel NT, nell’esempio e nell’
insegnamento di Gesù Cristo, il momento propriamente istitutivo e fondante della
liturgia delle ore. Se ne ricava l’impressione finale che anch’essa, secondo la sua
modalità specifica, è attuazione del comando propriamente eucaristico «fate questo in
memoria di me».
- Senza nulla togliere al valore della dimensione esemplare e normativa della
preghiera di Cristo, la relazione tra la preghiera di Cristo e la preghiera della Chiesa
messa in evidenza dalla IA è ancora più profonda: la preghiera della Chiesa, cioè, come
vedremo, la preghiera propriamente liturgica, è perenne attuazione misterico sacramen-
tale della preghiera di Cristo; o, girando la frase, la preghiera della Chiesa è la visibilità
in mysterio della preghiera che Cristo eleva incessantemente al Padre.
Ne consegue che la preghiera della Chiesa è autentica solo nella misura in cui è
preghiera «di» Cristo e «con» Cristo e «a Cristo». In Cristo, infatti, unico ed eterno
sacerdote della nuova alleanza, la preghiera è sempre vero e perfetto atto liturgico. Nella
sua preghiera si raccoglie la lode e la supplica della Chiesa, dell’intera umanità e dell’
intero cosmo.
La preghiera della Chiesa è, dunque, preghiera liturgica, cioè preghiera pubblica e
comune dell’intero popolo di Dio, se e in quanto partecipa della preghiera di Cristo, se e
in quanto è volta costantemente a Cristo. Di conseguenza anche la liturgia delle ore, in
quanto partecipa della lode e della supplica che Cristo eleva al Padre nello Spirito santo
a nome della Chiesa, con la Chiesa e a vantaggio della Chiesa, è a pieno titolo preghiera
liturgica.
- Ciò che fa della Liturgia delle Ore una oratio cum Christo e ad Christum o una
oratio per Christum ad Patrem è l’azione potente dello Spirito santo. Dice IA, n. 8:
“L’unità della Chiesa orante è opera dello Spirito santo, che è lo stesso in
Cristo, in tutta la Chiesa e nei singoli battezzati. Lo stesso «Spirito viene in
aiuto alla nostra debolezza e intercede con insistenza per noi, con gemiti
inesprimibili» (Rm 8, 26); egli stesso, in quanto Spirito del Figlio, infonde in
noi «lo spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!»
(Rm 8, 15; cf Gal 4, 6; 1Cor 12, 3; Ef 5, 18; Gd 20). Non vi può essere dunque
nessuna preghiera cristiana senza l’azione dello Spirito santo che, unificando
tutta la Chiesa, per mezzo del Figlio la conduce al Padre”.
Lo spazio dedicato ex professo al principio pneumatico come chiave di volta del
principio cristico sopra enunciato, è indice di una più matura consapevolezza
pneumatologica, ma rivela, al contempo, lo stato ancora provvisorio o precario della
riflessione in proposito.

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Formulando il pensiero che nella IA rimane ancora implicito, potremmo dire che,
teologicamente parlando, è lo Spirito santo che fa della voce della Chiesa la voce del
Cristo totale, e è ancora lo Spirito santo che permette alla Chiesa di superare la falsa
dicotomia tra preghiera personale e preghiera liturgica, inserendo la voce del singolo
fedele nella grande voce della Chiesa e, per converso, facendo della preghiera della
Chiesa la preghiera del singolo fedele rivolta a Cristo e per Cristo al Padre in un solo
Spirito.

Il principio ecclesiale

Individuato il fondamento cristico - pneumatico della preghiera liturgica della


Chiesa e, quindi, della stessa liturgia delle ore, l’IA si preoccupa, ulteriormente, di
mettere a fuoco il principio ecclesiale della preghiera sacerdotale di Cristo.
Ogni preghiera cristiana (preghiera liturgica, pratica dei pii esercizi, orazione
mentale, ecc ...) è autenticamente cristiana, quando è orazione cum Christo e ad
Christum. Ciò che, invece, specifica in senso liturgico la preghiera cristiana è l’innesto,
sul principio cristico - pneumatico, del principio dell’ecclesialità: orazione della Chiesa
con Cristo e a Cristo:
“Un vincolo speciale e strettissimo intercorre tra Cristo e quegli uomini che
egli, per mezzo del sacramento della rigenerazione unisce a sé come membra
del suo corpo, che è la Chiesa... Anche il sacerdozio di Cristo è condiviso da
tutto il corpo della Chiesa, così che i battezzati, mediante la rigenerazione e
l’unzione dello Spirito santo, vengono consacrati in edificio spirituale e
sacerdozio santo e sono abilitati ad esercitare il culto del Nuovo Testamento”
(IA, n. 7).
La Chiesa di cui si parla è l’insieme di coloro che sono stati rigenerati da acqua e
Spirito santo, e di conseguenza la liturgia delle ore è preghiera liturgica in quanto è la
preghiera dell’intero corpo ecclesiale, che condivide, in forza dei sacramenti dell’
iniziazione cristiana, il sacerdozio di Cristo. Non è, perciò, la deputazione a coloro che
nella Chiesa garantiscono l’attuazione effettiva e completa dell’ufficio divino a
giustificare la liturgicità di quest’ultimo. Piuttosto, ogni deputazione, proprio per essere
tale, dovrà sempre esibire la capacità di manifestare l’esercizio sacerdotale dell’intero
popolo dei battezzati (preghiera a nome della Chiesa).
Per questo, nella riforma conciliare, la liturgia delle ore, sia romana che
ambrosiana, è riconsegnata all’intera comunità cristiana e, in modo più determinato, alle
singole chiese locali affidate al Vescovo. In linea di principio, la conformazione a Cristo
operata nei sacramenti dell’iniziazione cristiana dallo Spirito santo fa del popolo dei
battezzati il soggetto adeguato alla celebrazione della liturgia delle ore, e fa della
liturgia delle ore, unitamente alle celebrazioni sacramentali, uno dei momenti cardine
della preghiera pub- blica e comune del popolo di Dio.
Così, sul piano propriamente pastorale e spirituale, la liturgia delle ore non potrà
più essere considerata uno strumento di perfezione per alcune categorie particolari di
persone, ma potrà e dovrà diventare sempre più parte integrante di una robusta spiri-
tualità battesimale.
Si comprende, infine, in questa direzione la preoccupazione della IA di ridare
dignità e preminenza alla celebrazione corale o comunitaria della liturgia delle ore: la
presenza di tutte le componenti del popolo di Dio, ciascuno secondo il proprio dono e

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compito, manifesta più chiaramente “l’intima essenza della Chiesa medesima” (IA, n.
9).
In conclusione, la IA ci dice che la liturgia delle ore è preghiera liturgica, se e in
quanto è preghiera della Chiesa con Cristo e a Cristo in forza dello Spirito, che opera la
presenza di Cristo alla sua Chiesa, l’adunanza dei battezzati in corpo del risorto e la
partecipazione di ogni battezzato al sacerdozio di Cristo, abilitandolo a esercitare il vero
culto al Padre.

3.2. Il «proprio» della liturgia delle ore

Dopo aver mostrato la piena appartenenza dell’Ufficio Divino alla liturgia della
Chiesa, passo ad approfondire le caratteristiche peculiari e le finalità specifiche della
Liturgia delle Ore, percorrendo ancora una volta il tragitto metodologico proposto dalla
IA, vale a dire, la messa a punto del rapporto che intercorre tra il vertice della liturgia
della Chiesa, la liturgia eucaristica, e la liturgia delle ore. Si legge in IA, n. 12:
"La liturgia delle ore estende alle diverse ore del giorno le prerogative del
mistero eucaristico, centro e culmine di tutta la vita della comunità cristiana:
la lode, il rendimento di grazie, la memoria dei misteri di salvezza, le
suppliche e le pregustazioni della gloria celeste. La celebrazione
dell’eucaristia viene anche preparata ottimamente mediante la liturgia delle
ore, in quanto per suo mezzo vengono suscitate e accresciute le disposizioni
necessarie alla fruttuosa celebrazione dell’eucaristia, quali sono la fede, la
speranza, la carità, la devozione e il desiderio dell’abnegazione di sé".
Viene, anzitutto, richiamata la centralità del mistero pasquale di Cristo, di cui
l’eucaristia è, con la sua dimensione celebrativo - rituale, il sacramento memoriale. La
liturgia delle ore, atto liturgico interamente votato alla memoria di Gesù e della pasqua
nella forma dell’orazione biblica, principalmente salmica, non può che risultare struttu-
ralmente relativa alla celebrazione eucaristica: da un lato, estende alle diverse ore del
giorno e della notte le prerogative della celebrazione eucaristica (la lode, il rendimento
di grazie, la memoria dei misteri di salvezza, le suppliche e le pregustazioni della gloria
celeste), consegnando alla logica della grazia dell’eucaristia tutto il tempo dell’uomo;
dall’altro, prepara nella comunità e nei singoli “le disposizioni necessarie alla fruttuosa
celebrazione dell’Eucaristia, quali sono la fede, la speranza, la carità, la devozione e il
desiderio dell’abnegazione di sé”. Scriveva in proposito il benedettino Odo Casel:
“L’ufficio divino è l’anello d’oro che tiene incastonata la pietra brillante del
Sacrificio. I pensieri possenti e grandiosi che l’azione sacrificale cela
silenziosa- mente in sé, e che il canone della messa cerca di esprimere, si
riflettono nell’ufficio che, per esprimerci con un’immagine, li suddivide nelle
loro componenti, così come il prisma decompone nei suoi raggi la luce bianca
che l’attraversa. Molti elementi, che nella messa sono solo accennati, ora si
mostrano sotto molteplici aspetti e possono essere meditati con amore anche
nei particolari. Il cammino verso la salvezza, proprio dell’Antico Testamento,
la preparazione alla venuta del redento- re, la figura umano - divina di Cristo,
il suo insegnamento, la passione, la morte, la risurrezione, la sua forma
mistica di vita nella Chiesa, le sofferenze e i trionfi dei martiri e dei santi,
l’applicazione dell’opera redentrice nella vita della Chiesa e delle singole
anime, insomma i misteri della grazia e del piano salvifico di Dio, tro- vano

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tutti quanti la loro amorosa rappresentazione e commemorazione nella


preghiera quotidiana della liturgia. E la liturgia trova il suo compimento e
corona- mento, senza il quale resterebbe monca, nel mistero sacramentale
della celebra- zione sacrificale, nel quale convergono le ricche molteplici
linee del quadro e si ricompongono in una raggiante, candida unità i colori
del prisma”13.
Se la liturgia delle ore ha, anzitutto, lo scopo di favorire, liturgicamente, la piena
fruttuosità della celebrazione eucaristica (domenicale - quotidiana), solo a partire da
questa sua radicale dipendenza dal sacramento dell’altare, e facendo costante
riferimento a essa, è possibile sviluppare una riflessione seria sulle sue ragioni peculiari.
Il «proprio» della Liturgia delle Ore viene formulato dalla IA come “santificazione
del corso del giorno e della notte” (n. 10) o “santificazione del giorno e dell’intera
attività umana” (n. 11). Non si tratta di una sacralizzazione del tempo, che sottragga
certi tempi della giornata al ritmo delle attività profane, ma di un’immersione del tempo
e delle attività umane nel tempo qualificato che è Cristo nei suoi misteri di salvezza:
“Cristo compie l’opera della redenzione e della perfetta glorificazione di Dio
nello Spirito santo per mezzo della Chiesa non soltanto quando si celebra
l’eucaristia, ma anche, a preferenza di altri modi, quando si celebra la
liturgia delle Ore” (IA, n. 13).
Se l’anno liturgico estende l’opera della redenzione, che si rinnova sacramental-
mente nell’eucaristia e negli altri sacramenti, nel ritmo delle stagioni, delle settimane e
dei giorni, la liturgia delle ore prosegue quest’opera di riconduzione di ogni realtà
temporale a Cristo nel ritmo stesso delle ore della giornata.
Che cosa significa quest’opera di santificazione del tempo quotidiano? Il fatto che
la IA usa lo stesso termine sanctificatio per il tempo, per le attività umane e per l’uomo
ci pone sulla strada di una risposta convincente. Interesse ultimo della liturgia delle ore
non è il tempo in quanto tale, né le attività umane in se stesse, ma, attraverso il tempo e
le attività dell’uomo, l’uomo stesso, unica realtà capace di accogliere il dono dello
Spirito che santifica: “Nella Liturgia delle Ore si compie la santificazione dell’uomo"
(IA, n. 14).
Siamo, così, ricondotti al primo dei due fini essenziali di ogni azione liturgica, che
la liturgia delle ore raggiunge mediante il suo apporto specifico, che è l’orarietà, cioè la
preghiera ritmata dalle ore nel corso del giorno e della notte. Ma, poiché solo l’uomo
santo nel corpo e nello spirito dà gloria a Dio, nella liturgia delle ore si realizza,
indisgiun- gibilmente anche il secondo fine di ogni azione liturgica:
"Nella Liturgia delle ore si esercita il culto divino in modo da realizzare in
essa quasi quello scambio o dialogo tra Dio e gli uomini nel quale «Dio parla
al suo popolo... il popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la
preghiera»” (IA, n. 14).
È pienamente comprensibile, a questo punto, come la riflessione sulla liturgia delle
ore, mentre, da un lato, ribadisce il primato dei suoi valori oggettivi, si faccia attenta,
dall’altro, ai suoi risvolti soggettivi: “Le letture e le preghiere della Liturgia delle Ore
costituiscono una genuina fonte di vita cristiana”. Come a dire che, nel rispetto del
compito teologico per cui è stata istituita per la Chiesa, si possono e si devono
sottolineare i frutti spirituali, di fede e di pietà, che essa alimenta e matura nei singoli e

13
CASEL ODO, Il mistero del culto cristiano, Borla, Torino, 1966, pp. 123-124.

145
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delle comunità. Così, mediante la liturgia delle Ore cresce e matura quella vita secondo
lo Spirito, che è dono di Dio e compito e meta di ogni battezzato. Ma anche, e in misura
ancora più grande, mediante la Liturgia delle Ore, i ministri ordinati (e tutti i fedeli,
ciascuno secondo il proprio stato di vita) trovano “quell’abbondanza di contemplazione
da cui attingere alimento e stimolo per l’azione pastorale e missionaria a conforto di
tutta la Chiesa di Dio” (IA, n. 29).

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CAPITOLO IX

IL LEZIONARIO AMBROSIANO
A NORMA DEI DECRETI DEL CONCILIO VATICANO II
Note di presentazione

* Si tratta del testo della relazione tenuta al Convegno dei Professori di Liturgia, il 2 settembre 2010, ora
pubblicata in L’omelia. Atti della XXXVIII Settimana di Studio dell’APL, Capaccio, 30 agosto – 3 settembre
2010, a cura di Pierangelo Chiaramello = BELS 160, pp. 243-265.

“Il sacro Concilio, in fedele ossequio alla tradizione, dichiara che la santa madre
Chiesa considera su una stessa base di diritto e di onore tutti i riti legittimamente
riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati, e
desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemente e integralmente riveduti nello
spirito della sana tradizione, e venga loro dato nuovo vigore come richiedono le
circostanze e le necessità del nostro tempo”1. Con queste parole i padri conciliari, senza
esplicitarne il nome, ribadivano il diritto all’esistenza anche del rito ambrosiano,
rinnovavano la stima della Chiesa universale nei suoi confronti e si mostravano favorevoli
a una sua riforma generale, in analogia con quanto sarebbe avvenuto per il rito romano:
conservazione del patrimonio tradizionale; revisione e incremento dello stesso secondo “le
circostanze e le necessità del nostro tempo”.
Con il sostegno dell’intera assisi conciliare, e con il personale incoraggiamento di
papa Paolo VI, che aveva conosciuto il rito ambrosiano negli anni del suo episcopato
milanese, la Chiesa di Milano mise mano alla riforma dei libri liturgici ambrosiani a norma
dei decreti del concilio Vaticano II, impresa che con la recente promulgazione del
Lezionario ambrosiano ha conosciuto un ulteriore passo verso la sua piena realizzazione.
In questa relazione intendo dare conto del “nuovo” Lezionario ambrosiano, nelle due
sezioni per i tempi liturgici (de tempore)2 e per le celebrazioni dei santi (de sanctis),
ricostruendo prima le tappe della loro formazione e indentificando poi i principali criteri
della loro composizione. Un cenno finale riguarderà la scelta delle immagini che corredano
l’una e l’altra sezione.

1. Cronistoria ragionata di una riforma in atto

Per una buona ermeneutica di un libro liturgico è importante conoscere, almeno nei
suoi tratti essenziali, l’itinerario della sua preparazione. Prendendo le mosse dalla prima
tappa della riforma liturgica ambrosiana (anni ’70 e ’80 del sec. XX), ricostruiamo il
cammino che ha portato alla recente promulgazione del Lezionario ambrosiano de tempore
(2008)3 e de sanctis (2010).

1
CONCILIO VATICANO II, Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, Sacrosanctum Concilium, n. 4.
2
Per una presentazione più completa di questa sezione del Lezionario ambrosiano si vedano: C. MAGNOLI,
Piccola guida al nuovo Lezionario ambrosiano, Ancora, Milano 2008; N. VALLI, Il Lezionario Ambrosiano.
Guida introduttiva, Seminario Arcivescovile di Milano, Venegono Inferiore (VA) 2008; C. MAGNOLI ET ALII,
Il Lezionario secondo il rito della santa Chiesa di Milano, «Ambrosius» 85 (2009), fasc. 1 (speciale).
3
Per questa parte si veda anche L. MANGANINI, La Congregazione del rito ambrosiano e l’iter della
promulgazione, in «Ambrosius» 85 (2009) fasc. 1 (speciale), 69-78.

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1.1. La riforma liturgica ambrosiana degli anni ’70 e ’80, prima grande tappa di
un itinerario da completare

Dal 1976 al 1984, sempre in accordo con la Sede Apostolica, prima il card.
Giovanni Colombo e poi il card. Carlo Maria Martini, in quanto arcivescovi di Milano e
Capi rito, promulgarono, direttamente in lingua italiana, alcuni libri liturgici ambrosiani a
norma dei decreti del Concilio Vaticano II: il Messale nel 19764; il Rito delle esequie nel
19775; la Liturgia delle ore nel 1983/846 e il rituale de La comunione e il culto eucaristico
fuori della messa nel 1984.
Al Messale si accompagnava – ad experimentum – il Lezionario nella forma di un
‘supplemento ambrosiano’ ai volumi del Lezionario romano7. Esso conteneva le letture per
i tempi di avvento, di natale e di quaresima, per la settimana santa, per il triduo pasquale e
l’ottava di pasqua, per il proprio di alcuni santi e per alcune specifiche messe ad diversa.
Per le restanti parti dell’anno liturgico (il tempo pasquale e tutto il tempo ordinario) e per
le altre esigenze celebrative (santi, messe votive e ad diversa, messe rituali) rimaneva in
uso anche per le comunità di rito ambrosiano il Lezionario romano.
La connotazione sperimentale del Lezionario ambrosiano pubblicato nel 1976,
significata anche dalla mancanza di un decreto ufficiale di conferma della Sede Apostolica,
rivelava in partenza la sua precarietà e provvisorietà. Se, da un lato, questo Lezionario
permetteva alla Chiesa di Milano di mantenere viva nella sua liturgia una parte del tesoro
biblico ereditato dal passato, dall’altro, poneva le basi per un ripensamento completo e
organico dell’ordinamento delle letture, capace di tenere insieme, su tutto l’arco dell’anno,
il patrimonio di una tradizione e le esigenze di una riforma adatta al tempo presente.

1.2. Il Sinodo diocesano milanese XLVII (1995): la verifica e il rilancio di una


prospettiva riformatrice

A richiedere con forza il compimento della riforma della liturgia ambrosiana e la


revisione dei libri liturgici già promulgati, tra i quali “il Lezionario... ancora ad
experimentum”, fu, nel 1995, la Costituzione n. 87 del Sinodo diocesano milanese XLVII8.
Essa non entrava nei dettagli del progetto, ma segnalava una questione aperta, cui
occorreva dare una risposta operativa. Così, nel febbraio del 1996 il card. Carlo Maria
Martini inviava una lettera alla Congregazione del rito ambrosiano nella quale istituiva due
distinte commissioni al suo interno – una per la revisione del già fatto; l’altra per il
compimento del da farsi – allo scopo di dare concreta attuazione alla richiesta sinodale. La
questione del Lezionario da completare, che di per sé era elencata insieme alle altre, alla
fine prevalse su tutte e diventò quella da cui partire.

4
L’edizione latina seguì nel 1981. L’ultima ristampa aggiornata è del 1990. Le addende per la celebrazione
dei santi e dei beati immessi nel Calendario dopo il 1990 sono del 2007.
5
L’ultima ristampa aggiornata è del 2002.
6
L’ultima ritstampa aggiornata è del 1988. Le addende per la celebrazione dei santi e dei beati immessi nel
Calendario dopo il 1984 sono del 2007.
7
Cfr. E. GALBIATI, Presentazione, in Lezionario ambrosiano edito per ordine del sig. cardinale Giovanni
Colombo, arcivescovo di Milano, Milano 1976, p. VII.
8
Diocesi di Milano. Sinodo 47°, Milano 1995, Cost. 87, § 1.

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1.3. I lavori della Congregazione del rito ambrosiano dal 1998 al 2006: la
costruzione del Lezionario ambrosiano de tempore e la rettifica delle Norme
generali per l’ordinamento dell’Anno liturgico e del Calendario.

La Congregazione del rito ambrosiano accolse il compito affidatole dal Sinodo a


proposito del Lezionario e lo intese nel suo senso più ampio: esplorare la possibilità di un
Lezionario ambrosiano de tempore festivo e feriale e di un Lezionario de sanctis, completi
per l’intero arco dell’anno liturgico. Non più un semplice ‘supplemento ambrosiano’ ai
volumi del Lezionario romano, ma un organico e originale sistema di letture bibliche
ambrosiano per i tempi liturgici e per le celebrazioni dei santi esteso a tutto l’anno
liturgico.
Si iniziò dal Lezionario de tempore. La sua preparazione, durata all’incirca dal
1998 al 2006, ha consapevolmente incrociato il criterio della salvaguardia e della
valorizzazione dell’intero patrimonio lezionale ambrosiano con quello, altrettanto
importante, della promozione, in quantità e qualità, dell’ascolto della parola di Dio, “di
modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la parte migliore della
sacra Scrittura”9.
Per l’accurata ricostruzione della tradizione del Lezionario de tempore della Chiesa
di Milano si è rivelata di straordinaria importanza l’ampia ricerca sulle fonti promossa dal
prof. Cesare Alzati, esperto studioso del rito ambrosiano e membro della Congregazione
del medesimo rito10. A questa ricerca si deve l’impianto generale del Lezionario de
tempore, con alcune significative ricadute sulla struttura dell’Anno liturgico e del
Calendario, la distribuzione dei diversi libri biblici nei tempi liturgici, i metodi di raccordo
tra le letture nell’ambito di un singolo formulario e la diretta e positiva selezione di non
poche pericopi.
Per la promozione, quantitativa e qualitativa, dell’ascolto della parola di Dio è
risultata preziosa la riproposizione, pur con modalità talvolta originali, di alcune scelte
metodologiche che le comunità ambrosiane avevano imparato ad apprezzare nella pratica
provvisoria, ma più che trentennale, del Lezionario romano. Si veda, ad esempio: la
distinzione tra il lezionario festivo e quello feriale; l’uso di diversi cicli annuali di letture
(anno A, B e C per il festivo; anno I e II, per il feriale); l’applicazione di diversi sistemi
quotidiani di letture (a letture multiple per le grandi vigilie; a tre letture per i giorni festivi,
i sabati e alcuni tipi di ferie; a due letture per le altre ferie); il genere letterario del salmo
responsoriale, ecc...
Poiché la proposta del Lezionario de tempore si appoggiava su alcune rilevanti
novità di struttura, vuoi interne alla liturgia della parola, vuoi relative all’ordinamento
dell’Anno liturgico e del Calendario, nella sua preparazione entrò anche la stesura delle
Premesse al Lezionario (sul modello di quelle romane)11 e la rettifica del testo delle Norme
generali per l’ordinamento dell’Annno liturgico e del Calendario12. Le novità più rilevanti
delle une e delle altre sono state la ricomprensione di tutto l’anno liturgico nei tre misteri

9
CONCILIO VATICANO II, Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, Sacrosanctum Concilium, n. 51.
10
Il frutto di questa ricerca è oggi disponibile nel volume C. ALZATI, Il Lezionario della Chiesa ambrosiana.
La tradizione liturgica e il rinnovato «ordo lectionum» = Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 50, Città
del Vaticano – Milano 2009.
11
Oltre che nel primo volume festivo del Lezionario (pp. XIII-LVI), il testo delle Premesse è riportato in
Promulgazione del Lezionario Ambrosiano. Supplemento alla «Rivista Diocesana Milanese» 99 (2008) fasc.
3, pp. 19-74 e I Praenotanda dei libri liturgici (romani e ambrosiani), a cura di L. F. CONTI – C. MONZIO
COMPAGNONI, Àncora, Milano 2009, pp. 358-412.
12
Il testo delle Norme generali... è riportato in Promulgazione del Lezionario Ambrosiano... o. c., pp. 75-88 e
in I Praenotanda dei libri liturgici... o. c., pp. 516-529.

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dell’Incarnazione del Signore (avvento, natale, tempo dopo l’epifania), della Pasqua del
Signore (quaresima e tempo pasquale) e della pentecoste e il ripristino del tempo dopo
l’epifania e del tempo dopo pentecoste, quest’ultimo ulteriormente scandito in settimane
dopo pentecoste, settimane dopo il martirio di san Giovanni il precursore e settimane dopo
la dedicazione (III domenica di ottobre), che prendono il posto di quelle che erano state le
due sezioni del tempo ordinario.
Il progetto definitivo del Lezionario de tempore, approvato dalla Congregazione del
rito ambrosiano nell’aprile del 2006 e confermato dal card. Dionigi Tettamanzi nella sua
qualità di arcivescovo di Milano e Capo rito, venne presentato alla Congregazione del culto
divino e della disciplina dei sacramenti nel novembre 2006 per la ‘ricognizione’ della Sede
Apostolica.

1.4. Promulgazione ed entrata in vigore del Lezionario ambrosiano de tempore

Ci fu un intenso scambio tra le due Congregazioni, che portò ad alcune integrazioni


e ad alcuni cambiamenti. La conferma definitiva del Lezionario de tempore da parte della
Sede Apostolica fu data il 16 marzo 2008, preceduta dal decreto di conferma delle
variazioni alle Norme generali per l’ordinamento dell’Anno liturgico e del Calendario (22
febbraio 2008)13.
Il 20 marzo 2008, davanti al clero diocesano radunato per la messa crismale, il card.
Dionigi Tettamanzi promulgava il Lezionario ambrosiano de tempore, chiudendo la fase
sperimentale in atto dal 197614, e fissava la sua entrata in vigore per tutte le comunità di
rito ambrosiano, interne ed esterne alla diocesi di Milano15, a partire dal 16 novembre 2008
(I domenica di Avvento) con inizio dal ciclo B festivo e dal ciclo I feriale. Il Lezionario
ambrosiano de tempore, che risultò alla fine di complessivi sette volumi (tre festivi, uno
per ogni mistero e quattro feriali, il terzo mistero si sdoppia), fu editato tra il mese di
ottobre del 2008 e il mese di maggio del 200916 e ha innescato un processo di
riassestamento liturgico ambrosiano che si concluderà solo con la riedizione del Messale
ambrosiano e della Liturgia ambrosiana delle Ore.
Il Lezionario ambrosiano de tempore, lungi dall’essere un ripristino archeologico
del passato, è un libro liturgico voluto per il rinnovamento liturgico, spirituale e pastorale
delle comunità di rito ambrosiano, perché – come annotava il card. Dionigi Tettamanzi nel
discorso programmatico alla Congregazione del rito ambrosiano del 4 febbraio 2005 –
“mediante l’organizzazione della proclamazione liturgica delle sacre Scritture si modula
una peculiare proposta catechetica e mistagogica e si veicola una specifica sensibilità
teologica e spirituale”17.

13
I due decreti romani si possono leggere in Promulgazione del Lezionario Ambrosiano... o. c., pp. 9-10.
13.14. Il terzo decreto, relativo al Calendario dei santi, è poi di fatto decaduto all’atto dell’approvazione della
revisione del Calendario ambrosiano dei santi avvenuta due anni dopo.
14
Cfr. Promulgazione del Lezionario Ambrosiano... o. c., pp. 15-18.
15
Fuori della Diocesi di Milano il rito ambrosiano è in uso nella diocesi di Bergamo (37 parrocchie), nella
diocesi di Lugano (55 parrocchie) e nella diocesi di Novara (13 parrocchie).
16
Una presentazione analitica dei sette volumi in C. MAGNOLI, Il Lezionario ambrosiano per i tempi
liturgici, «Rivista Liturgica» 96 (2009) pp. 487-507.
17
«Rivista Diocesana Milanese» 96 (2005) p. 181.

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1.5. I lavori della Congregazione del rito ambrosiano dal 2006 al 2010: la
costruzione del Lezionario ambrosiano de sanctis e la rettifica del Calendario
ambrosiano.

Nel settembre 2006 la Congregazione del rito ambrosiano, in attesa dell’esito della
‘ricognizione’ romana sul Lezionario per i tempi, iniziava a lavorare al Lezionario per le
celebrazioni dei santi, mettendo mano anzitutto alla revisione del Calendario ambrosiano
dei santi.
In partenza, l’esigenza era quella di un semplice aggiornamento del Calendario
ambrosiano per inserirvi i santi e i beati subentrati nel culto liturgico a livello di Chiesa
universale e a livello di Chiesa locale dopo il 1990, anno dell’ultima edizione del Messale
Ambrosiano. A quest’esigenza si affiancò ben presto la proposta di una distinzione più
chiara tra il Calendario ambrosiano comune e il Calendario proprio delle varie diocesi
implicate dal rito ambrosiano (Milano, Bergamo, Novara, Lugano), così da dare migliore
visibilità al fatto che il rito ambrosiano non coincide semplicemente con la diocesi di
Milano, ma comprende una geografia ecclesiale più ampia e articolata. Da ultimo, maturò
anche l’idea di avere un Calendario dei santi specifico (urbano) della città di Milano o
Sede metropolitana, nel quale raccogliere i santi – in specie i santi vescovi milanesi del
primo millennio – la cui memoria, con o senza la presenza di reliquie, è stata custodita nei
secoli dalle più insigni basiliche e chiese della Città (Duomo o Chiesa metropolitana, S.
Ambrogio, S. Vittore al Corpo, SS. Apostoli e Nazàro Maggiore, S. Stefano, S.
Simpliciano, S. Lorenzo Maggiore, ecc…).
Stabilito dunque il Calendario nella sua triplice articolazione di comune, proprio e
urbano, si passò a elaborare il Lezionario ambrosiano de sanctis partendo dall’ordinamento
delle letture del Comune dei santi per passare all’ordinamento delle letture del Proprio dei
santi. Vennero recuperati alcuni criteri specifici della tradizione ambrosiana – tre letture
(lettura, epistola e vangelo), qualunque sia il grado celebrativo; letture specifiche,
intrecciate a letture dal Comune; la possibile sostituzione della lettura biblica con la lettura
agiografica nelle celebrazioni patronali – da comporre con altri criteri derivanti dalla
riforma del Lezionario romano dei santi e in uso da più di trent’anni anche nel rito
ambrosiano quali: l’obbligatorietà delle letture proprie per le solennità e le feste, a fronte
del loro uso facoltativo per le memorie; il salmo responsoriale dopo la lettura che nella
normalità dei casi prende il posto del salmello; l’intercambiabilità dei testi all’interno di
una tipologia agiologica del Comune, ecc...
Il progetto definitivo del Lezionario ambrosiano de sanctis e, previamente, del
Calendario ambrosiano dei santi, approvato dalla Congregazione del rito ambrosiano e
confermato dal card. Dionigi Tettamanzi, fu presentato alla Congregazione del culto divino
e della disciplina dei sacramenti nell’aprile del 2009 per la ‘ricognizione’ della Sede
Apostolica.

1.6. La promulgazione del Lezionario ambrosiano de sanctis e la sua entrata in


vigore.

La conferma da parte della Sede Apostolica è giunta il 19 marzo 2010 ed è stata


preceduta da due distinti decreti relativi al Calendario: l’uno, concernente le variazioni al
Calendario ambrosiano comune; l’altro, relativo al Calendario ambrosiano proprio di
Milano (cui si aggiungeranno presto i Calendari ambrosiani propri di Bergamo, Novara e

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Lugano) e, come a un suo corollario, al Calendario ambrosiano urbano della Sede


metropolitana.
Il 1° aprile 2010 il card. Dionigi Tettamanzi ha promulgato il Lezionario
ambrosiano de sanctis relativo al Calendario comune, al Calendario proprio di Milano e al
Calendario urbano, chiudendo anche in questo caso la fase sperimentale in atto dal 1976.
La sua entrata in vigore, prevista per l’avvento del 2010, supera il precedente ibridismo
romano ambrosiano e consegna alle comunità ambrosiane un Lezionario ambrosiano de
sanctis completo. Esso, in funzione del suo utilizzo pratico, consta di due volumi (il primo,
con i santi dall’11 novembre al 30 giugno; il secondo, con i santi dall’1 luglio al 10
novembre) e avvia un processo di riassestamento nell’ambito delle celebrazioni dei santi
che si concluderà solo con la riedizione del Messale ambrosiano e della Liturgia
ambrosiana delle Ore.

2. Criteri strutturanti l’ordo lectionum ambrosiano de tempore

Passando dalla cronistoria di una riforma in atto alla presentazione dell’ordo


lectionum codificato nel Lezionario ambrosiano de tempore, mi pare possibile ricorrere a
un concetto quasi ossimorico come quello di “fedeltà creativa”, applicato simultaneamente
alla tradizione liturgica ambrosiana e al progetto conciliare. Fedeltà creativa dice custodia
di un’eredità ricevuta e uso rinnovato della stessa, salvaguardia della radice e nuova
fioritura. In certo modo questo è stato il procedimento adottato: fedeltà alla tradizione
ambrosiana senza bloccarsi in una pura riproposizione archeologica della stessa, ma
aprendola significativamente a nuovi sviluppi coerenti; fedeltà al progetto conciliare di
aprire più ampiamente ai fedeli i tesori della sacra Scrittura, senza riprodurre tale e quale il
modello romano, ma arricchendolo di nuove forme congruenti.

2.1. Fedeltà creativa alla tradizione liturgica ambrosiana

Per articolare un discorso sensato sulla fedeltà creativa alla tradizione liturgica
ambrosiana è opportuno distinguere accuratamente le annotazioni relative all’ordinamento
festivo-domenicale da quelle relative all’ordinamento sabbatico-feriale. Se però immediato
appare l’uso del binomio festivo-domenicale per dire insieme le domeniche e le grandi
feste del Signore a data fissa, una parola va spesa sull’uso del binomio sabbatico-feriale,
comodo per tenere insieme i giorni della settimana che non sono la domenica, poco adatto
a salvaguardare l’originalità del sabato ambrosiano che, in consonanza con l’antica
disciplina delle Chiese orientali, mantiene un singolare carattere festivo.

2.1.1. Annotazioni all’ordo lectionum festivo-domenicale

Tra le molte possibili annotazioni sull’ordinamento delle letture festivo-domenicale


tre mi sembrano particolarmente capaci di raccontarne i tratti più caratteristici.

a) La dimensione «vigiliare» della Parola proclamata e la sua singolare valenza


dossologica

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Il Lezionario ambrosiano de tempore dà un forte impulso alla liturgia vigiliare


vespertina nelle grandi solennità del Signore e in tutte le domeniche dell’anno, aiutando
così a riscoprire la dimensione «vigiliare» della Parola proclamata e la sua singolare
valenza dossologica. Sul presupposto che “la celebrazione della domenica, delle solennità,
delle feste e delle memorie, secondo l’antica e costante tradizione ambrosiana, comincia
dai vespri del giorno precedente”18, il Lezionario ambrosiano de tempore rende ora più
facilmente praticabili e, almeno in parte, obbligatorie in ogni comunità le celebrazioni di
tipo vigiliare unite alla messa.
- Il prototipo è la veglia pasquale, “composta di letture vigiliari veterotestamentarie,
con i loro rispettivi salmelli e orazioni”19, che si saldano senza soluzione di continuità con
la celebrazione eucaristica. La messa della veglia è anche l’unica eucaristia celebrata
nell’arco dell’intera giornata del sabato santo e, con la sua collocazione serale e/o notturna,
costituisce la solenne apertura della domenica di pasqua. Il Lezionario ambrosiano riporta
le sei letture veterotestamentarie, con i loro rispettivi salmelli o cantici, e l’ordinamento
della liturgia della parola della messa di veglia, cioè la lettura neotestamentaria, il salmo,
l’epistola, il canto al vangelo e il vangelo.
- Sul modello della veglia pasquale, anche se “adattato a una celebrazione vesperale
non notturna”20, sono ordinate le tre grandi vigilie del natale, dell’epifania e della
pentecoste, che la Chiesa di Milano, in sintonia con la Chiesa di Costantinopoli, celebra da
antichissima data. Il Lezionario ambrosiano riporta i testi delle quattro letture vigiliari
veterotestamentarie, con i loro rispettivi salmelli, e l’epistola, il canto al vangelo e il
vangelo della liturgia della parola della messa di vigilia. Se, per serie ragioni pastorali, non
si può celebrare la solenne liturgia vigiliare con le quattro letture, resta d’obbligo la
celebrazione della messa di vigilia, che attinge la lettura da una delle quattro letture
vigiliare, prosegue con il salmello corrispettivo (o con un salmo responsoriale sostitutivo),
l’epistola, il canto al vangelo e il vangelo.
- Sviluppando una non debole analogia con la veglia pasquale e con le tre grandi
vigilie, anche la messa del sabato sera – ovviamente non liturgia prefestiva, ma “solenne
apertura del giorno del Signore”21 – si configura nel Lezionario ambrosiano de tempore
come una celebrazione vigiliare vespertina (o speciale messa tra i vespri), arricchita di una
speciale proclamazione evangelica che pone al centro dell’attenzione l’annuncio pasquale
della risurrezione di Cristo o – nel tempo quaresimale – di una sua diretta prefigurazione
(tre racconti di trasfigurazione; il segno di Giona - Mt 12, 38-40; il segno del tempio - Gv
2, 13-22).
In tal modo, se la messa tra i vespri non è cosa nuova nelle consuetudini liturgiche
ambrosiane, l’inserzione – dopo il rito della luce, l’inno e il responsorio – di un “vangelo
della risurrezione” (o, in quaresima, di una “lettura vigiliare”), diventa una scelta originale
e di grande impatto liturgico e spirituale, che è destinata a riqualificare in modo profondo
la comprensione della domenica cristiana e il suo avvio nel vespro in cui già splendono le
luci del giorno del Signore.
Dal punto di vista storico, l’introduzione del vangelo della risurrezione nella
celebrazione vigiliare vespertina che apre la domenica rielabora, con viva sensibilità
ecumenica e in profonda sintonia con l’antica tradizione vigiliare ambrosiana, un
patrimonio liturgico che affonda le sue radici nell’antica veglia matutinale della Chiesa di
18
Norme generali per l’ordinamento dell’Anno liturgico e del Calendario, n. 2.
19
Premesse, n. 71.
20
Ibid., n. 72.
21
Ibid., n. 73.

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Gerusalemme e rivive ancora oggi in alcune liturgie domenicali d’oriente (l’orthròs greco)
e d’occidente (la vigilia notturna latina nella basilica del Santo Sepolcro; la vigilia notturna
nella monastica e anglicana “comunità della risurrezione”; la vigilia notturna nella
monastica ed ecumenica comunità di Taizé).
L’idea soggiacente è che la prima liturgia eucaristica domenicale, celebrata tra i
vespri, smetta di essere pensata come una delle tante messe domenicali, ma torni ad essere
nella mente e nel cuore dei fedeli la liturgia che introduce in forma solenne al giorno che il
Signore nostro Gesù Cristo, risorgendo da morte, ha fatto per noi: un giorno diverso e
nuovo da ogni altro, perché ci autorizza alla gioia della festa, ci consente di sperimentare la
comunione con Dio e tra noi e ci ridona viva la speranza.
Il vangelo della risurrezione, di cui è stata prevista una serie di dodici esemplari,
non è un brano biblico in più, ma un annuncio festoso, un canto di lode e un grido di
esultanza – da qui la sua singolare valenza dossologica – per il prodigio antico e sempre
nuovo della risurrezione del Signore. Proprio per questo esso viene proclamato solo dal
sacerdote celebrante e, come avviene per l’annuncio del Signore risorto nella veglia
pasquale, non dall’ambone, ma dall’altare.
L’omelia lo potrà anche utilizzare per una riflessione sul senso cristiano della
domenica, ma esso non è stato inserito nell’ordinamento domenicale con questa principale
finalità. Il suo scopo primario è quello di dare parola biblica al canto di lode della Chiesa
che ogni domenica rivive, quale sposa fedele, l’esperienza pasquale della presenza del
Risorto, il suo amatissimo Sposo.

b) Lo schema ternario (lettura, epistola, vangelo) e l’unità «misterico-tematica» delle


letture per un’omiletica «catechetico-mistagogica»

Per quanto la pratica festiva sia diminuita in termini percentuali, la partecipazione


alla messa domenicale e alle grandi feste è rimasta il luogo primo e insostituibile
dell’espressione della fede e della formazione biblica, liturgica, spirituale e morale del
popolo di Dio. L’ordinamento festivo delle letture – grazie al quale è dato ai fedeli di
“ascoltare la parte più importante della parola di Dio”22 – costituisce allora il principale
strumento ecclesiale per la conoscenza della parola di Dio come principio guida della vita
cristiana e, ancor più, come esperienza di incontro con Cristo, che illumina i suoi amici con
la luce della sua parola e li introduce alla pienezza della comunione sacramentale.
In termini quantitativi – e qui la consonanza con il Lezionario romano è del tutto
evidente – la parte più importante della parola di Dio entra nel Lezionario ambrosiano
festivo de tempore su tre letture (più il salmo responsoriale), moltiplicate per tre cicli
annuali, denominati A, B e C. Il lessico che designa le tre letture riprende il linguaggio
della tradizione e lo ripropone nel suo senso specifico: la lettura (così è designata la prima
lettura) è normalmente una pericope veterotestamentaria, ma – nel tempo pasquale e in altri
contesti celebrativi – può essere anche una pericope neotestamentaria non evangelica e non
paolina tratta dagli Atti, dalle Lettere cattoliche o dall’Apocalisse; l’epistola (così è
designata la seconda lettura) è una pericope tratta esclusivamente dagli scritti di san Paolo,
lettera agli Ebrei compresa; il vangelo è una pericope presa dai quattro vangeli canonici.
Lo stesso modo di introdurre la proclamazione delle tre letture riprende il linguaggio della
tradizione: non “dal libro (del profeta, ecc...) – dalla lettera (di san Paolo, ecc...) – dal
vangelo (secondo...)”, ma “lettura (del profeta, ecc...) – lettera (di san Paolo, ecc...) –

22
Ibid., n. 78.

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lettura del vangelo (secondo...)”. In primo piano è l’intero libro biblico di cui la pericope è
parte.
In termini qualitativi il Lezionario ambrosiano festivo de tempore estende a tutte le
domeniche e le feste dell’anno il criterio metodologico, ben rintracciabile nella sua lunga
tradizione, della convergenza tematica delle tre letture bibliche proclamate. Il tema su cui
convergono le letture è anzitutto il mistero celebrato in quella domenica, solennità o festa.
Questo avviene, ovviamente, per le festività del Signore e per le domeniche dei tempi di
avvento, natale, quaresima e pasqua, che tematizzano di volta in volta un aspetto del
mistero del tempo. Va qui sottolineato il fatto che, pur con scelte testuali anche molto
differenti, questo modo di procedere risulta comune anche al Lezionario romano.
Il Lezionario ambrosiano de tempore però, estende tale criterio anche alle
domeniche dei tempi dopo l’epifania e dopo pentecoste che, come già accennato, vanno a
ricoprire il ruolo finora attribuito alle due sezioni del tempo ordinario. Nel primo caso
(tempo dopo l’epifania), il mistero celebrato è dato, sulla scia della solennità dell’epifania,
da un segno epifanico, cioè da uno dei segni manifestativi della pienezza della gloria
divina che abita la santa umanità di Gesù: il battesimo al Giordano; le nozze di Cana; la
moltiplicazione dei pani; la tempesta sedata e il cammino sulle acque; i miracoli di
guarigione che manifestano la signoria del Cristo sulla vita; i miracoli di guarigione che
manifestano la filantropia del Cristo verso l’umanità dolente; i segni della vittoria del
Cristo sul demonio.
Nel secondo caso, il mistero celebrato è dato da una tappa della storia della
salvezza con cui Dio ha educato il popolo d’Israele, predisponendolo a ricevere la
rivelazione del suo amore trinitario nella pienezza dei tempi. Nell’un caso e nell’altro viene
meno la scelta – di stampo monastico – della lectio continua o semi-continua del vangelo
(in riferimento al quale è scelta la prima lettura) e della seconda lettura. La perdità del
cosiddetto vangelo dell’anno (Matteo, per l’anno A; Marco, per l’anno B; Luca, per l’anno
C), di cui si è molto parlato all’indomani della promulgazione del Lezionario ambrosiano
de tempore, è la ricaduta più originale o, a secondo della valutazione, la più problematica
dell’intera impresa, quella che più chiede all’omileta, oltre che alla comunità, una modifica
delle abitudini mentali e liturgico-spirituali. Egli è infatti chiamato a prendersi carico in
toto delle tre letture bibliche – s. Ambrogio usava l’espressione “raffrontare insieme le
Scritture” (scriptorum conlatione – Premesse n. 10) – a ricercarne il filo rosso che le
collega, tenendo conto che, se è imprescindibile il fatto che tutta la Scrittura, antico e
nuovo testamento, annuncia Cristo e la sua Chiesa, a lui intimamente congiunta, diversi
sono i moduli con cui questo avviene: dal vangelo alla lettura, passando dall’epistola; dalla
lettura al vangelo, sempre passando dall’epistola; dall’epistola, passando vuoi dalla
lettura, vuoi dal vangelo. Il tutto vissuto nella consapevolezza che il compito dell’omelia è
inscindibilmente catechetico-mistagogico: deve istruire nella fede e nella vita morale e
spirituale, ma soprattutto deve introdurre all’incontro con il mistero di Cristo, che si dà
inscindibilmente nella parola proclamata e nel sacramento. Una circolarità virtuosa deve
cioè instaurarsi tra ascolto / comprensione del testo e incontro nella Chiesa, per il tramite
della parola e del sacramento, con colui che il testo ci fa riconoscere come Signore. Di
conseguenza, nel Lezionario ambrosiano de tempore i tre anni del ciclo festivo non si
distinguono più in ragione del vangelo dell’anno, ma in forza della diversa prospettiva di
lettura del medesimo mistero celebrato. Può così capitare che nello stesso anno – ad
esempio, l’anno A – il vangelo della III domenica dopo l’epifania sia preso da Luca, quello
della IV domenica da Matteo e quello della V domenica da Giovanni, in ragione dell’unità
misterico-tematica di quelle domeniche.

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Non sempre il tema su cui le tre letture festive convergono avrà l’evidenza di un
mistero cristiano celebrato. A volte potrà essere percepito piuttosto come una categoria
della fede o un argomento cristiano maggiore. Per fare qualche esempio, possiamo citare:
la divina clemenza e il perdono (penultima e ultima domenica dopo l’epifania); il precetto
dell’amore (quinta domenica dopo il martirio di san Giovanni il precursore); il mandato
missionario e l’universale vocazione dei popoli alla salvezza (I e II domenica dopo la
dedicazione). Anche in questi casi vale quanto detto sopra: non sarà più il vangelo
dell’anno a comandare l’ordinamento delle letture di una domenica, ma il tema
domenicale, che viene specificato di volta in volta entro la complessiva articolazione di un
tempo liturgico.

c) La disposizione di itinerari biblici organicamente connessi alla scansione liturgica


del tempo (saggio esemplificativo sull’ordo lectionum del tempo dopo pentecoste)

Un caso specifico è dato dall’ordinamento delle letture nelle domeniche che


intercorrono tra la solennità di pentecoste e la festa del martirio di san Giovanni il
precursore, che a secondo degli anni, possono andare da un massimo di 15 a un minimo di
11.
Tolta la domenica della ss. Trinità, che segue immediatamente la domenica di
pentecoste, dalla seconda domenica dopo pentecoste alla domenica che precede il martirio
di san Giovanni il precursore, il Lezionario ambrosiano de tempore propone l’ascolto del
disegno d’amore di Dio per l’uomo nella storia, che, a partire dal mistero della creazione,
giunge alle soglie del mistero dell’incarnazione. È un esempio particolarmente qualificato
di quello che mi piace definire la disposizione di itinerari biblici organicamente connessi
alla scansione liturgica del tempo.
Da pentecoste al martirio del Battista, la comprensione del mistero della Chiesa,
corpo vivo del Signore, avviene attraverso un ordo lectionum incentrato su alcuni
significativi passaggi della storia della salvezza in Israele, da rileggere, alla luce
dell’epistola e del vangelo, come storia di salvezza che appartiene a tutte le genti chiamate
a costituire il popolo della nuova alleanza. Semplificando al massimo, la lettura, nel ciclo
dei tre anni, propone questo itinerario, che l’apostolo Paolo e l’annuncio evangelico
permettono di cogliere come itinerario della fede cristiana: La creazione e il suo splendore
(domenica II); La creazione dell’uomo e la sua originaria relazione con Dio (domenica III);
Il peccato d’origine e la presenza del male nella storia (domenica IV); La vocazione e la
fede di Abramo (domenica V); Il ministero di Mosè (domenica VI); Il servizio di Giosuè
(domenica VII); Samuele e i Giudici in Israele (domenica VIII); La figura regale di Davide
(domenica IX); La figura regale di Salomone (domenica X); La figura profetica di Elia
(domenica XI); Il dramma di Geremia e la caduta di Gerusalemme (domenica XII); Il
ritorno dall’esilio (domenica XIII); Esdra e Neemia e la nuova vita religiosa di Israele
(domenica XIV); La testimonianza dei Maccabei (domenica che precede il 29 agosto, da
celebrarsi obbligatoriamente). Nella sequenze di queste domeniche la dimensione
catechetica della parola di Dio proclamata – la conoscenza della storia della salvezza – si
salda, senza soluzione di continuità, con la sua dimensione mistagogica – il riconoscimento
dei misteri di Cristo in figura –.

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2.1.2. Annotazioni all’ordo lectionum sabbatico e feriale

Come già preannunciato, distinguo tra il sabato e i giorni feriali, anche se, a livello
di pubblicazione, l’uno e gli altri sono editati insieme.

a) La configurazione «festiva» del sabato e il suo speciale ordinamento biblico


All’origine di questa scelta sta l’obbedienza della Chiesa ambrosiana al magistero
di sant’Ambrogio che, in consonanza con l’antica disciplina delle chiese orientali, aveva
riaffermato il carattere festivo assegnato da Dio al sabato, proibendo l’estensione del
digiuno quaresimale a tale giorno23. In altri termini, si potrebbe affermare che il santo
vescovo di Milano, recependo l’antica disciplina ecumenica, si faceva paladino nella
Chiesa di Milano di un fine settimana della fede da vivere, prima (il sabato), nella gioia
riposante della meditazione della Legge e, poi (la domenica), nella sobria ebbrezza della
comunione sponsale con il Signore risorto.
Un riflesso di quest’antica e persistente fedeltà alla qualità festiva del sabato,
attestato nel tufo più profondo della tradizione ambrosiana e ripreso già con il
‘supplemento’ ambrosiano del 1976, è quello dello speciale ordinamento festivo delle
letture dei sabati quaresimali, a forte tonalità battesimale. Sullo spunto di questo
tradizionale paradigma quaresimale, il nuovo Lezionario ambrosiano de tempore ha esteso
ai sabati di tutto l’anno la struttura festiva delle letture (lettura, epistola, vangelo): Geremia
o Ezechiele, Ebrei, Matteo nei sabati di avvento; Atti, Paolo e Giovanni nei sabati del
tempo di pasqua. La novità di questa scelta appare soprattutto nei tempi dopo l’epifania e
dopo pentecoste. La lettura è sempre tratta dai libri del Pentateuco (ad esclusione del libro
della Genesi già utilizzato per le ferie quaresimali), “sulla scia della proclamazione
sabbatica della Legge, che ha alimentato l’esperienza religiosa dei primi discepoli e li ha
preparati a riconoscere in Gesù il Cristo di Dio”24. Alle pagine del Pentateuco corrisponde
di volta in volta un salmo responsoriale assunto dalla sezione del salterio che va dal salmo
94 (95) al salmo 98 (99). Questo dato è stato presentato giornalisticamente come un
elemento di incontro con la tradizione ebraica. La cosa ha una sua parte di verità, purché
non si dimetichi che l’ascolto della Legge (lettura) è sempre accompagnata da un’epistola
paolina e da un vangelo, che si incaricano di darne una piena comprensione nella luce di
Cristo.

b) La varietà degli schemi di lettura feriali: dallo schema base binario (lettura,
vangelo) allo speciale schema ternario a base veterotestamentaria (lettura, lettura,
vangelo)

Rispetto alla semplicità del Lezionario feriale romano dobbiamo parlare per il
Lezionario ambrosiano feriale de tempore di una certa maggiore complessità. Lo schema
base si attiene alla struttura binaria lettura (dall’Antico o dal Nuovo Testamento - ad es. le
ferie dopo il martirio di san Giovanni il precursore) e vangelo. Esso è praticato nei tempi di
pasqua, dopo l’epifania e dopo pentecoste. A questo schema base si accompagna una
speciale struttura ternaria (due letture veterotestamentarie e il vangelo) prevista dalla
celebrazione eucaristica delle ferie quaresimali fino al mercoledì della settimana autentica
e, per analogia, dalla celebrazione eucaristica delle ferie di avvento, ferie prenatalizie

23
“In quaresima si digiuna tutti i giorni, eccetto il sabato e la domenica” (AMBROGIO, De Helia et ieiunio
10, 34).
24
Premesse, n. 127.

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dell’Accolto (de Exceptato) comprese. Si rapportano a questo peculiare modello anche la


celebrazione della passione del Signore del venerdì santo e la celebrazione vespertina nella
deposizione del Signore di quello stesso giorno.

2.2. Fedeltà creativa al progetto conciliare di aprire più ampiamente ai fedeli i


tesori della sacra Scrittura

Volendo recuperare gli elementi di una fedeltà creativa al progetto conciliare di


aprire più ampiamente ai fedeli i tesori della sacra Scrittura, ci dobbiamo spostare su
quattro criteri di natura metodologica.

2.2.1. I tre cicli festivi e i due cicli feriali: abbondanza testuale, ricchezza
dell’annuncio, impegnatività ermeneutica

Il primo è la conferma per il Lezionario ambosiano de tempore dei tre cicli festivi
(A B C) e dei due cicli feriali (I II) parziali (doppio ciclo di lettura, unico ciclo di vangelo).
L’applicazione può prevedere modalità attuative differenti (si consideri, ad es. il caso delle
domeniche di quaresima dove la ciclicità triennale vale per la lettura e l’epistola, ma non
per il vangelo, che resta a ciclo unico), ma la logica è la stessa: garantire un ampio ascolto
delle sacre Scritture in modo da attivare un processo virtuoso di conoscenza delle stesse,
attesa la parola di san Girolamo: “L’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo”25. Si
parte dunque da un’abbondanza testuale (circa un 20% in più rispetto all’uso precedente) al
servizio della ricchezza dell’annuncio in vista di abbondanti frutti di vita secondo lo
Spirito.
Tutto questo comporta un grande impegno ermeneutico da parte dei destinatari del
Lezionario (dai pastori ai fedeli), fatto di competenza biblica e liturgica, l’una e l’altra
messe al servizio del cammino spirituale delle comunità nel corso degli anni. Come si
legge nelle Premesse, il Lezionario ambrosiano de tempore “posto primariamente al
servizio della celebrazione dei misteri, può considerarsi a buon diritto anche uno strumento
pedagogico e catechetico di straordinaria efficacia per incrementare la formazione cristiana
dei fedeli. L’ordinamento delle letture della messa, mettendo a disposizione dei fedeli le
ricchezze della sacra Scrittura, li rende familiari con i grandi temi e i grandi eventi della
storia della salvezza che hanno la loro piena attuazione nel mistero pasquale, di cui la
celebrazione eucaristica è la continua ripresentazione sacramentale”26. La parola ora passa
dal Lezionario ai sussidi necessari per la sua recezione e il suo migliore utilizzo27.

2.2.2. Il salmo responsoriale: il salterio per la celebrazione eucaristica

Il secondo criterio è la conferma del salmo responsoriale come modalità ordinaria


di utilizzo del salterio all’interno della celebrazione eucaristica. Il salmello, che era la

25
Citato in CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum, n. 25.
26
Premesse, n. 63.
27
Tra questi si segnalano: il commento alle letture del Lezionario ambrosiano festivo, previsto in nove
volumi, del biblista F. MANZI, per i tipi della casa editrice Àncora; le meditazioni sulle letture del Lezionario
ambrosiano feriale, previsto in quattro volumi, del prevosto di Lecco, F. CECCHIN, in uscita presso la stessa
casa editrice.

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forma ambrosiana di utilizzo del salterio prima della riforma liturgica, è stata mantenuto
solo nel caso delle letture vigiliari, mentre il salmo responsoriale è diventato il modo
consueto di rispondere alla lettura biblica con una preghiera altrettanto biblica. Grazie
all’articolazione festiva feriale del Lezionario, i fedeli possono familiarizzare con la
preghiera d’Israele, che la Chiesa, fin dall’inizio, sull’esempio di Gesù e degli apostoli, ha
fatto propria.

2.2.3. Il criterio della «lectio continua» modulata sui tempi liturgici

Il terzo criterio è l’uso della lectio continua o semi-continua nell’ordinamento del


Lezionario ambrosiano feriale de tempore. I fedeli che partecipano regolarmente alla messa
feriale – ovviamente molti di meno rispetto ai partecipanti alla messa festiva – hanno così
l’opportunità di frequentare in modo più assiduo e metodico le sacre Scritture. In una
tabella si può avere il quadro riassuntivo delle principali scelte operate:

TEMPO LITURGICO LETTURA LETTURA VANGELO

tempo di avvento I: Geremia I-II: Profeti I-II: Mt 4-23


II: Ez ‘minori’
tempo dopo l’epifania I-II: Libri sapienziali ------ I-II: Mt 1-13
(Sir; Sap; Qo)
tempo di quaresima I-II: Gen I-II: Pr I-II: Mt 5-7
tempo di pasqua I-II: At ------ I-II: Gv 1-14
settimane dopo I-II: Libri storici ------ I-II: Lc 4-15
pentecoste (Es; Lv; Nm; Dt;
Gs; Gdc; 1Sam;
2Sam; 1Cr; 2Cr;
1Re; 2Re; Esd; Ne;
Gdt; 1Mac; 2Mac)
settimane dopo il I-II: Lettere ------ I-II: Lc 15-24
martirio apostoliche
di san Giovanni il (1Gv; 1Pt; 3Gv; Gc;
precursore 2Pt; Gd; Fm; 1Tm;
2Tm)
settimane dopo la I-II: Ap ------ I-II: Vari
dedicazione evangelisti

Un esempio di applicazione della lectio continua (o semi-continua) nel Lezionario


feriale de tempore è quello della distribuzione dei vangeli in rapporto ai vari tempi
liturgici. Il vangelo di Matteo (capp. 4-23) è letto in lettura semi-continua nelle ferie di
avvento, fino alle ferie prenatalizie dell’Accolto escluse, con l’omissione dei capitoli 5-7,
letti in lettura continua nelle ferie delle prime quattro settimane di quaresima. Il vangelo di
Marco (capp. 1-13) è letto in lettura semi-continua nelle ferie del tempo dopo l’epifania; il
vangelo di Giovanni (capp. 1-14) è letto in lettura semi-continua nelle ferie del tempo
pasquale (dato in comune con il Lezionario romano); il vangelo di Luca (capp. 4-24),
l’unico di cui abbiamo un commento di s. Ambrogio, è letto in lettura semi-continua nelle

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ferie delle settimane dopo pentecoste e dopo il martirio, da pentecoste alla III domenica di
ottobre (domenica della dedicazione).

2.2.4. La parola di Dio proclamata nella lingua viva dei fedeli

L’ultimo criterio, il più scontato alle nostre orecchie, ma tutt’altro che da trascurare,
è quello della proclamazione della parola di Dio nella lingua viva dei fedeli, che per il rito
ambrosiano significa la lingua italiana. A proposito della versione italiana della bibbia
adottata nel Lezionario ambrosiano de tempore le Premesse si esprimono in modo
lapidario: “Il testo italiano concorda con la nuova versione CEI (2007), approvata
ufficialmente per l’uso liturgico”28. Ciò significa che con la prima domenica di avvento
2008, insieme al nuovo ordinamento ambrosiano delle letture, è entrato in vigore anche per
le comunità di rito ambrosiano la nuova versione italiana della bibbia, approvata dalla
Conferenza Episcopale Italiana e confermata dalla Sede Apostolica per l’uso liturgico.
Grazie al Lezionario ambrosiano de tempore anche i fedeli ambrosiani hanno cominciato a
familiarizzare con la nuova versione italiana, rendendosi conto di quanto la “memoria
biblica” venga plasmata domenica dopo domenica, giorno dopo giorno, dalla semplice
proclamazione liturgica delle sacre Scritture.

3. Criteri strutturanti l’ordo lectionum ambrosiano de sanctis

Dei tre Calendari (comune, proprio di Milano, urbano della Sede metropolitana),
che fanno da base al Lezionario ambrosiano de sanctis ho già fatto cenno nella prima parte.
Espongo qui, in forma necessariamente sintetica alcuni dei criteri adottati per la
composizione dell’ordo lectionum ambrosiano de sanctis.

3.1. La generalizzazione dello schema festivo ternario Lettura Epistola Vangelo e


l’uso alternativo della lettura agiografica nelle celebrazioni dei santi patroni

Secondo l’uso ambrosiano i formulari di letture sono tutti a schema festivo ternario
lettura, epistola (paolina), vangelo, a prescindere dal grado della celebrazione. In questa
ripresa di un dato caratteristico della tradizione ambrosiana si evidenziano almeno due
significati complementari: offrire la possibilità di tratteggiare la figura spirituale del santo
in modo più ricco; onorare la santità di questi figli della Chiesa come un riflesso luminoso
della santità di Dio rivelata nelle Sacre Scritture.
Le tre letture sono da usarsi obbligatoriamente nelle solennità e feste, mentre
restano una possibilità nelle memorie, sia obbligatorie che facoltative. Qualora però, per
buone ragioni pastorali, si decidesse di valorizzarle, anche nel caso di una semplice
memoria facoltativa non si possono ridurre arbitrariamente. Alla lettura, tratta dall’antico
testamento o dagli scritti apostolici non paolini, segue ordinariamente il salmo
responsoriale. Ecco perché nei testi alternativi del Comune si trova sempre insieme la
lettura con il suo salmo. Fanno eccezione le quattro celebrazioni vigiliari delle solennità di
s. Ambrogio (7 dicembre), della natività di s. Giovanni Battista (24 giugno), dei ss. Pietro e
Paolo (29 giugno), dell’assunzione della beata Vergine Maria (15 agosto), che, dopo la

28
Premesse, n. 226.

160
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lettura vigiliare, recuperano il salmello e l’orazione. La presenza nel Lezionario


ambrosiano de sanctis di queste quattro celebrazioni vigiliari conferma la sensibilità
vigiliare del rito ambrosiano, già fortemente sottolineata nel Lezionario ambrosiano de
tempore.
Peculiarità ambrosiana è anche la possibile sostituzione, nella celebrazione dei santi
patroni, della lettura biblica con una lettura agiografica. L’intento appare chiaro: dare
modo a tutti i fedeli di conoscere meglio la vita e l’opera di un santo patrono, perché ne
venga imitato l’esempio. La vita del santo patrono diventa essa stessa, in certo modo,
parola di Dio, e la storia della Chiesa, a livello locale, nazionale o europeo, nei santi
Patroni si mostra come una «storia di salvezza». Nel Lezionario sono riportate otto letture
agiografiche: per i patroni della diocesi, Ambrogio e Carlo; per i patroni d’Italia, Caterina
da Siena e Francesco d’Assisi; per i patroni d’Europa Cirillo e Metodio, Benedetto,
Brigida, Teresa Benedetta della Croce. La nona è il racconto della traslazione delle reliquie
di san Nazàro martire, tratto dalla Vita di s. Ambrogio di Paolino, per la solennità del 10
maggio, a Milano, nella basilica dei Santi Apostoli e Nazàro Maggiore. La lettura
agiografica termina con l’acclamazione Onore e gloria al Signore Nostro Gesù Cristo, che
regna nei secoli dei secoli, cui corrisponde l’Amen dell’intera ssemblea.

3.2. L’arricchimento del Lezionario comune per una migliore caratterizzazione


delle tipologie santorali

Una cura particolare è stata posta nell’elaborazione del Lezionario comune dei
santi, dove si raccolgono i formulari biblici relativi alle diverse tipologie di santità. Le
grandi tipologie della santità – i martiri, i pastori, i dottori della Chiesa, le vergini, i santi
e le sante che non rientrano nelle categorie precedenti, cui si aggiunge il comune della
dedicazione – non sono mutate. Più ricca e articolata appare invece la suddivisione interna
ad ogni tipologia, che presenta, tra l’altro, alcune significative novità.
La prima riguarda la presenza nel formulario per un martire e una martire di testi
alternativi per santi innocenti, uomini e donne che, pur non essendo stati uccisi
direttamente in odio alla fede (ragione specifica del martirio), sono venerati dalla Chiesa
come martiri. Si pensi, ad es., ai santi Giovanni Fischer e Tommaso More (22 giugno),
Massimiliano Kolbe (17 agosto), Giosafat (12 novembre), Tommaso Becket (29
dicembre). La loro vita fu offerta in sacrificio in unione all’Agnello immolato, anche se i
carnefici furono purtroppo dei fratelli nella fede.
La seconda è quella di uno specifico formulario di letture per un santo Vescovo
della Chiesa milanese, a sottolineare che la santità episcopale acquista tratti distintivi entro
una specifica tradizione ecclesiale come la nostra. Queste letture sono soprattutto
valorizzate per celebrare i santi vescovi milanesi del Calendario urbano della Sede
Metropolitana (s. Protaso e s. Benigno – 26 novembre; s. Castriziano – 1 dicembre; s.
Mirocle – 2 dicembre; s. Martiniano – 3 gennaio; s. Dazio – 14 gennaio; s. Giovanni Bono
– 15 gennaio, ecc…).
La terza è quella di peculiari indicazioni di letture per santi sposi all’interno della
grande e un po’ generica tipologia dei santi e delle sante. Con questa scelta si è voluto dare
un giusto rilievo al fatto che alcuni dei santi celebrati hanno maturato il loro cammino di
santità nella vocazione sponsale, anche nel caso in cui la loro esistenza sia poi sfociata in
una vera e propria consacrazione al Signore nella vita religiosa. Per fare qualche esempio:
s. Margherita di Scozia (16 novembre); s. Elisabetta di Ungheria (17 novembre); s. Enrico

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(13 luglio); s. Luigi (IX di Francia – 25 agosto), traggono anche da specifiche letture per
santi sposi il loro ordo lectionum.

3.3. La connotazione esclusiva delle feste della beata Vergine Maria e degli apostoli

Nell’elencare le grandi tipologie agiologiche che compongono il Comune dei santi


non ho parlato del comune della beata Vergine Maria e del comune degli apostoli. Tale
silenzio è dovuto al fatto che nel Proprio dei santi ogni celebrazione mariana ha il suo
specifico lezionario, obbligatorio nel caso di una solennità o festa, ad libitum nel caso di
una memoria obbligatoria o facoltativa, mentre ogni festa di apostolo ha il suo lezionario
obbligatorio. Ma, dal momento che le messe mariane sono frequenti anche al di fuori delle
feste liturgiche in calendario, sia in occasione di pellegrinaggi ai santuari, sia per
specifiche ragioni votive, il Lezionario ambrosiano de sanctis anticipa in appendice i
formulari di letture per le messe votive della beata Vergine Maria distribuiti secondo i
misteri e i tempi dell’anno liturgico.

3.4. Un sistema articolato di letture proprie e di rinvii al comune nell’ordo


lectionum delle memorie

In ciascuno dei due volumi del Lezionario ambrosiano de sanctis è previsto il


Proprio e il Comune dei santi, cioè dapprima l’ordinamento delle letture riguardante i santi
e i beati nella loro data di celebrazione (Proprio) e successivamente l’ordinamento delle
letture relativo alle grandi tipologie santorali dei martiri, dei pastori, dei dottori della
Chiesa, delle vergini, dei santi e sante (Comune) o meglio ancora alle diverse categorie
che compongono ciascuna delle cinque tipologie generali (ad es. nella tipologia dei martiri:
per un martire o una martire, per un vescovo martire, per un missionario martire, per una
vergine martire, per più martiri).
L’intreccio tra le due sezioni si attiva per le «memorie» (obbligatorie e facoltative)
dei santi qualora si valutasse pastoralmente utile abbandonare le letture del giorno corrente
per accedere al Lezionario ambrosiano de sanctis: il Proprio dei santi in molti casi rinvia al
Comune, per singoli testi o per interi formulari; il Comune dispone più formulari, quelli
base e quelli alternativi, usabili in tutto o in parte con un ampio margine di scelte opzionali.
Uso questo modo di esprimermi perché le letture per le memorie sono sempre introdotte da
una rubrica del tipo: Letture del giorno corrente oppure dal comune (se tutte le letture sono
tratte dal Comune dei santi); Letture del giorno corrente oppure le seguenti (se le letture
sono in tutto o in parte specifiche e quindi assenti dal Comune dei santi). Questo avviene in
ragione del fatto che “il sacerdote che celebra con la partecipazione del popolo avrà la
massima cura nel favorire la proclamazione delle letture assegnate per i singoli giorni dal
Lezionario feriale, evitando di ometterle troppo spesso e senza una vera utilità pastorale”29.

4. Il corredo iconografico

Non posso concludere questa presentazione senza accennare al corredo


iconografico del Lezionario ambrosiano de tempore e de sanctis, fortemente voluto dal

29
Ibid., n. 89.

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Capo rito e dalla Congregazione del rito ambrosiano in collaborazione con l’Ufficio beni
culturali della diocesi di Milano30 affinché anche attraverso l’immagine artistica risultasse
potenziata la forza comunicativa della Parola.
Per non procedere a caso nella scelta delle immagini da inserire nei volumi festivi
del Lezionario ambrosiano de tempore e nei volumi del Lezionario ambrosiano de sanctis
la Commissione preposta ha individuato i seguenti criteri generali: la territorialità
ambrosiana; la diacronia e multiespressività; l’apertura all’arte contemporanea.
In primo luogo, tutte le immagini riportate sono state prese dall’ambito territoriale
ambrosiano, comprensivo non solo della diocesi di Milano, ma anche della val Canobina
nel novarese, delle Tre Valli svizzere del Canton Ticino, della vicaria di Calolziocorte e
dell’Alta val Brembana nella bergamasca. In questa scelta si è voluto evidenziare il
rapporto fecondo tra rito e arte, tra rito e cultura, senza però dimenticare che il territorio
ambrosiano è stato nei secoli luogo di interscambio culturale che lo ha reso spazio aperto e
permeabile alle grandi avventure della comunicazione artistica europea e mondiale.
Nasce da quest’ultima considerazione l’ulteriore criterio di non escludere alcun
periodo storico (la diacronia), né linguaggio particolare o tecnica specifica (la
multiespressività). Come scrive Domenico Sguaitamatti, coordinatore del progetto, “la
ricerca iconografica ha spaziato davvero ad ampio raggio, scontrandosi ovviamente con la
ricchezza quantitativa, la straordinaria bellezza qualitativa e la profonda pregnanza
tematica e di contenuto che caratterizza la nostra arte sacra”31.
La scelta di non escludere alcuna stagione o tecnica artistica non poteva che sortire
un’ultima decisione, quella di fare spazio al linguaggio dell’arte moderna e
contemporanea, purché “religiosamente corretta” e “fedele espressione artistica del nostro
tempo”32. Ciò è avvenuto collocando le immagini di arte moderna e contemporanea ad
apertura delle parti strutturalmente più ampie dei volumi, allo scopo “di porre l’uomo
contemporaneo di fronte al Mistero Eterno che a lui si rivela, nella sua molteplice verità,
lungo l’anno liturgico”33.

30
Cfr. D. SGUAITAMATTI, Il persorso iconografico. Criteri, scelte, lettura pastorale di alcune immagini poste
a servizio della Parola, in «Ambrosius» 85 (2009) fasc. 1 (speciale), 225-235.
31
Ibid., p. 228.
32
Ibid., p. 228.
33
Ibid., p. 229.

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INDICE GENERALE
PREMESSE METODOLOGICHE 2
1. Lo studio della liturgia nelle indicazioni del Magistero 2
1.1. La «Deus Scientiarum Dominus»
2
1.2. Sacrosanctum Concilium 16
2
1.3. La «Ratio fundamentalis» (1970)
3
1.4. La «Formazione liturgica nei Seminari» (1979)
4
1.5. Rilievi conclusivi 5
Per l’esame 8
Per ulteriori approfondimenti 8

Capitolo I LA VISIONE TEOLOGICA DELLA LITURGIA SECONDO IL VATICANO II 9


1. Il punto di partenza 9
2. La liturgia ultimo momento nella storia della salvezza 11
3. La presenza personale di Cristo nella liturgia 12
3.1. La presenza nella persona del ministro 14
3.2. La presenza nella Parola proclamata
14
3.3. La presenza nell’assemblea adunata in preghiera 15
4. La definizione conciliare di liturgia 15
5. Necessità – non esaustività della liturgia 17
6. La reformabilità della liturgia 18

Capitolo II LA LITURGIA DELLE ORIGINI CRISTIANE 19


1. La prassi rito cultuale del Nuovo Testamento 19
1.1. Gli atti rito cultuali
19
1.2. Il luogo dell’assemblea liturgica 20
1.3. Il tempo della celebrazione 21
2. Liturgia e culto «in Spirito e Verità» 21
2.1. «Leiturgía» dall’Antico al Nuovo Testamento 21
2.2. Culto (latreía) dall’Antico al Nuovo Testamento
23
3. Sacrificio altare tempio e sacerdozio nella rilettura del NT 25
3.1. Il sacrificio 25
3.2. L'altare 25
3.3. Il tempio 25
3.4. Il sacerdozio 27
4. Rilievi conclusivi 30

Capitolo III LA LITURGIA ALL’EPOCA DEI PADRI (SECC. II-VII) 32


I. LA LITURGIA CRISTIANA AL TEMPO DELLE PERSECUZIONI (SECC. II-III) 32
II. LA LITURGIA CRISTIANA NELLA GRANDE PATRISTICA (SECC. IV-VII) 35
1. L’incidenza della svolta costantiniana
35
1.1. Culto cristiano a dimensione pubblica
35
1.2. Cambio di prospettiva dell’azione pastorale della Chiesa
37
2. Il dogma alla prova della liturgia
38

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2.1. Ut legem credendi lex statuat supplicandi


39
2.1.1. La frase nel suo contesto 40
2.1.2. I criteri per la sua corretta applicazione 40
2.2. Ut legem supplicandi lex statuat credendi
41
2.2.1. La dossologia trinitaria
42
2.2.2. L’invocazione di Maria madre di Dio 43
2.2.3. Le solennità dell’Epifania e del Natale
44
3. Creazione e fissazione dei testi liturgici: alle sorgenti del patrimonio eucologico cristiano
48
3.1. Dire secondo le proprie capacità
48
3.2. Scrivere quanto si deve dire
49
3.2.1. Le anafore 51
3.2.2. Le orazioni 51
4. La liturgia tra teologia e pastorale 54
4.1. Leone Magno (440-461) 54
4.2. Gregorio Magno (590-604) 57
EXCURSUS I: UNICA LITURGIA – PLURALITÀ DI RITI 59

Capitolo IV LA LITURGIA LUNGO IL MEDIOEVO (SECC. VII-XV) 62


I. LA LITURGIA NELL’ALTO MEDIOEVO 62
1. L’ordinamento liturgico romano 62
2. Il passaggio al mondo franco germanico 63
2.1. Novità nella preghiera presidenziale 65
2.2. Una nuova temperie liturgico spirituale 66
Ii. DALLA RIFORMA GREGORIANA AI LIBRI LITURGICI DELLA CURIA ROMANA 68
1. La riforma gregoriana in campo liturgico 68
2. Il secolo XII 70
3. Il secolo XIII 72
4. Rilievi conclusivi 74

Capitolo V LA LITURGIA IN EPOCA TRIDENTINA (SECC. XVI-XIX) 75


I. LA RIFORMA LITURGICA TRIDENTINA 75
1. Prima del concilio 75
1.1. Il «Libellus» del 1513 75
1.2. Martin Lutero (1483-1546) 76
2. Al concilio (1545-1563) 78
3. L’immediato dopo concilio 79
II. IL SEICENTO E IL SETTECENTO LITURGICI 80
1. La prassi liturgica in epoca barocca 81
1.1. Orientamenti controriformisti in campo liturgico 81
1.2. Lo iato tra liturgia ufficiale e pietà popolare 84
1.3. Canto e musica 85
2. La prassi liturgica nei secoli dei lumi 86
2.1. L’interesse storico - erudito 86
2.2. L’esigenza di riforma 87

Capitolo VI OTTOCENTO – NOVECENTO LITURGICI 90


1. I prodromi del Movimento Liturgico 90
1.1. La situazione di partenza 90
1.2. L’avvio di un cammino 91
2. Il Movimento Liturgico nel sec. XX e l’enciclia «Mediator Dei» 93

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2.1. Lambert Beauduin (1873-1953) 93


2.2. Odo Casel (1886-1948) 95
2.3. La sintesi della «Mediator Dei» (1947)
96
3. L’approdo conciliare e il cammino della riforma dopo il concilio 99
3.1. La struttura della «Sacrosanctum Concilium» 100
3.2. La riforma postconciliare 106
Appendice: Il «Motu Proprio» Summorum Pontificum di Benedetto XVI
109

Capitolo VII L’ANNO LITURGICO: NOTE INTRODUTTIVE 113


1. La definizione conciliare di anno liturgico 113
2. La formazione e la struttura globale dell’anno liturgico 114
3. Un approfondimento specifico: la domenica 117

Capitolo VIII LA LITURGIA DELLE ORE: NOTE INTRODUTTIVE 122


1. I nomi della preghiera liturgica oraria
122
1.1. Ufficio divino 122
1.2. Breviario 123
1.3. Liturgia delle ore 123
2. Le ore liturgiche: i tempi, le motivazioni e i modi della loro celebrazione 125
2.1. I tempi 125
2.2. Le motivazioni 125
2.3. I modi 128
3. Teologia e spiritualità della liturgia delle ore 130
3.1. L’ufficio divino è preghiera liturgica 130
3.2. Il «proprio» della liturgia delle ore
133

Capitolo IX Il Lezionario ambrosiano a norma dei decreti del Concilio Vaticano II 135
1. Cronistoria ragionata di una riforma 135
2. Criteri strutturanti l’ordo lectionum ambrosiano de tempore 140
3. Criteri strutturanti l’ordo lectionum ambrosiano de sanctis 147
4. Il corredo iconografico 150

INDICE GENERALE 151

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