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Biblioteca Alma Mater Studiorum

Universitaria Università
di Bologna di Bologna

Ai confini della scienza


L’alchimia nei fondi della Biblioteca
Universitaria di Bologna

Atrio Aula Magna


13 febbraio – 3 maggio 2014

A cura della Biblioteca Universitaria di Bologna


Catalogo della mostra a cura di Biancastella Antonino, Rita De Tata, Patrizia
Moscatelli

Progetto, testi e schede: Rita De Tata (manoscritti), Patrizia Moscatelli (libri


a stampa)

Introduzione: Biancastella Antonino


Indici: Rita De Tata

Collaborazione all’allestimento: Flavio Giorgis e Giulio Merolla

© 2014 Biblioteca Universitaria di Bologna


Riproduzione vietata senza la preventiva autorizzazione della Biblioteca
AI CONFINI DELLA SCIENZA
L’alchimia nei fondi della Biblioteca Universitaria di Bologna

«Alchimia», termine che ancora oggi evoca misteriosi alambicchi


e pratiche esoteriche, è il tema che abbiamo scelto per questa Mostra
cui abbiamo attribuito come titolo principale «Ai confini della
scienza», in quanto ben sintetizza il concetto che l’alchimia, nota come
disciplina applicata alla ricerca del metodo per trasformare i metalli vili
in oro e argento e alla preparazione della pietra filosofale, rappresenta
quel terreno fertile, in quanto ricco di elementi teorici, da cui prese
avvio la conoscenza scientifica.
L’alchimia era presente, già nel III secolo d.C., nella cultura
taoista in Cina e nelle discipline occulte del tantrismo in India; in
Occidente la cultura ellenistica, egiziana ed infine araba contribuirono
al suo sviluppo, ma il suo massimo fiorire si ebbe in Europa dal XIII
secolo fino al Seicento e oltre. Fu il Naturalismo del Rinascimento, con
le sue prese di distanza dalla tradizione intesa in modo dogmatico, a
dare maggior spinta e rilievo alla libera indagine, sulla natura come
sull’ uomo. E’, dunque, nel Rinascimento e nei decenni che hanno
preparato la nascita della scienza moderna che anche l’alchimia ha
conosciuto il suo massimo sviluppo; non soltanto essa fu largamente
coltivata nell’ambito della cultura europea, ma la sua importanza fu
anche sottolineata dalla stampa di vastissime raccolte di testi alchemici
risalenti ai secoli precedenti. L’alchimia, intesa come concezione
pratico-cosmologica, ha cessato di esistere con l’avvento della chimica
scientifica, come suggerisce Mario Dal Pra nella sua intensa e colta
trattazione della voce «alchimia» nel primo volume dell’Enciclopedia
Einaudi, e come anche noi proponiamo, terminando la mostra con il
Cours de Chymie di Nicolas Lemery (nell’edizione del 1697), in quanto
simbolicamente rappresenta il tramonto di un’arte secolare e lo
schiudersi della cultura europea a nuovi orizzonti.
In realtà, tuttavia, considerare l’alchimia solo come la disciplina
che ha preceduto la chimica, intesa modernamente come scienza, è
fortemente riduttivo, così come considerare l’alchimia solo come un
insieme di «pratiche artigianali» alle quali dare una connotazione
negativa, in quanto legate a immaginifiche superstizioni, è un errore di

I
«ingenuo razionalismo». Il significato dell’alchimia nella storia
dell’uomo è ben più alto. Per dirla ancora con Dal Pra, essa ha fornito
«una visione dell’universo e del suo rapporto con la vicenda dell’uomo
che la scienza moderna, nella sua crescente specializzazione e nella sua
preoccupazione di aderire in modo sempre più compiuto alla varietà
dell’esperienza, ha abbandonato, e che oggi, in seguito al distacco
critico dalle pretese di assolutezza della scienza stessa, l’uomo
contemporaneo torna a proporsi».
Nell’alchimia intesa come chiave interpretativa della realtà è
fondamentale il rapporto fra materia e spirito, entità non contrapposte
né tantomeno isolate l’una dall’altro, ma profondamente connesse e
concatenate: le vicende umane e quelle naturali non possono essere
scisse, macrocosmo e microcosmo sono interdipendenti e nell’intero
«l’inferiore somiglia al superiore». Il mondo, oltre che avere una
struttura unitaria, risponde al criterio della circolarità; da qui la
concezione del ciclo degli elementi che è alla base della trasformazione
alchemica del singolo elemento che diviene successivamente liquido,
volatile e poi solido; da qui i quattro processi, sempre trattati negli
scritti alchimistici, che si ritroveranno descritti anche nelle didascalie
dei nostri manoscritti alchemici in mostra, e cioè la purificazione delle
sostanze, il loro dissolvimento, la coagulazione e la lega. Lo stesso
Newton, protagonista dopo Copernico e Galilei della rivoluzione
scientifica del XVII secolo, sentiva troppo rigide le categorie alla base
della filosofia meccanica del suo tempo ed insufficienti ad esprimere la
complessità della natura, mentre le teorie e gli scritti alchimistici, che
egli leggeva, trascriveva e commentava in migliaia di pagine, gli
sembravano più utili alle sue ipotesi ed ai suoi interrogativi, in una
parola al suo tentativo di una spiegazione unitaria o di una «scienza
unitaria» dell’universo.
Ebbene, il fatto che all’alchimia sia sopravvissuta la sua stessa
fama, il fatto che anche nel secolo dei lumi essa abbia continuato ad
influenzare filosoficamente le nuove teorie della scienza, pur con
evidenti segni di frattura, dovrebbe farci riflettere, ancora oggi, sul fatto
che si possa considerare la ricerca alchemica riducibile solo ad una pre-
chimica ovvero ad una pre-scienza. Significherebbe individuare solo
nel metodo l’ostacolo che non ha permesso agli alchimisti, come ai
maghi, di emanciparsi in scienziati. Pensare che sarebbe bastato
liberare le pratiche alchemiche da tutti gli elementi esoterici e mistici,

II
nei quali risiedeva invece il loro significato più profondo, per effettuare
il passaggio emblematico dalla credenza alla conoscenza e alla scienza,
sarebbe , come abbiamo già accennato, un’ingenuità. Ciò che rende
scientifico un metodo non è tanto il richiamo all’esperienza, quanto la
capacità di ricavare dall’esperienza teorie che possano essere alla base
di nuove scoperte e quindi fungere da strumento per «ordinare» ciò che
della natura si presenta all’uomo come caotico ed indecifrabile.
L’alchimia non può essere assimilata alla scienza né può costituirne
solo il suo prodromo, piuttosto essa si propone come metodo di
conoscenza, mirando, come suggerisce Dal Pra, «ad una comprensione
unitaria e totale, conoscenza e saggezza, intelletto e penetrazione
intuitiva». Conoscere, per l’alchimia, significa non appropriarsi di una
realtà data ed oggettiva, ma addentrarsi nella materia attraverso azioni
tese a purificare, a liberare dal caos materiale il semplice elemento
cercato. In questo senso e solo in questo senso, la moderna storiografia
della scienza, pur nelle posizioni più lontane e contraddittorie fra
l’alchimia e le odierne concezioni sull’universo, intravede un filo di
continuità e di integrazione; è questo il filo che ci deve far considerare
la vicenda dell’alchimia non solo come un metodo che precede quello
più propriamente scientifico o addirittura come un cumulo di formule
esoteriche ed erronee, ma come una disciplina ricca di un significato
ben più alto, sia pure epistemologicamente ai confini della scienza: essa
percorre insomma la via di una conoscenza, che non è quella
verificabile e astratta come la intendiamo dal Settecento in avanti, ma
quella che è anche salvezza e liberazione cioè gnosi.
Ciò che invece separa definitivamente l’alchimia dalla scienza è
il modo di comunicare e diffondere le teorie ed il sapere. Il linguaggio
dell’alchimia al pari di quello della magia e dell’astrologia deve
rimanere ambiguo e allusivo, una verità riposta o un segreto non
possono essere espressi con chiarezza e devono rimanere riservati ai
soli iniziati. «Tutti i cultori dell’Arte – scrive Bono da Ferrara – la cui
opera è presente anche in questa mostra, si intendono reciprocamente
come se parlassero una sola lingua che è incomprensibile a tutti gli altri
e che è nota solo a se stessi». La comunicazione diretta fra maestro e
discepolo diviene lo strumento privilegiato della stessa: «[…] Queste
cose – scrive Agrippa – non vengono affidate alle lettere, né scritte con
la penna, ma vengono infuse da spirito a spirito mediante parole sacre
[…]».

III
Ben diversamente accadrà per le prime accademie e società
scientifiche che si daranno come regola quella di poter criticare
liberamente le affermazioni dei propri membri, grazie alla nuova
concezione che si va affermando con la scienza moderna, secondo cui
la verità è legata esclusivamente all’evidenza degli esperimenti ed alla
forza delle dimostrazioni alle quali andrà associato un linguaggio
chiaro e una terminologia non più allusiva. Le teorie devono essere
integralmente comunicabili e gli esperimenti ripetibili.
Già nel corso del Seicento la frattura si era consumata. Dirà
Leibniz: « In queste tenebre della vita è necessario camminare insieme
perché il metodo della scienza è più importate della genialità degli
individui».

Biancastella Antonino
Direttrice della Biblioteca Universitaria di Bologna

IV
La Biblioteca Universitaria, nata all’interno dell’Istituto delle Scienze e arricchita successivamente coi
fondi di Ulisse Aldrovandi, di Jacopo Bartolomeo Beccari, di Ubaldo Zanetti, vanta una notevole ricchezza e
varietà di materiale di questo tipo; soprattutto importante, per quanto riguarda i manoscritti, è il cosiddetto
«fondo Caprara», raccolto da un ignoto collezionista francese del XVII secolo, appartenuto poi al conte
bolognese Carlo Attendoli Sforza Manzoli e donato alla Biblioteca dell’Istituto delle Scienze dalla sua erede,
Vittoria Caprara, intorno al 1727. Va tuttavia sottolineato che codici e stampe di opere alchemiche si trovano
in quasi tutte le raccolte che compongono il patrimonio di questo Istituto; la diffusione capillare che l’arte dei
‘figli di Ermete’ conobbe presso gli intellettuali italiani soprattutto tra il Quattrocento e il Settecento ha reso
estremamente varia la provenienza delle opere che oggi esponiamo: da Aldrovandi al conte Marsili, dalla
famiglia Bonfiglioli allo speziale Zanetti, tutti gli uomini di studio dei quali custodiamo le librerie
possedettero alcune opere di alchimia, a riprova del fatto che tale disciplina fece a lungo parte del bagaglio
culturale comune, a prescindere dagli interessi specifici di ciascuno; né mancano le provenienze conventuali,
nonostante la riprovazione più volte ufficialmente espressa dalla Chiesa per teorie che spesso sfioravano
l’eresia o v’incorrevano apertamente.
D’altro canto l’alchimia non fu diffusa soltanto in Italia: una delle caratteristiche più singolari di questa
disciplina è il suo fiorire a diverse latitudini, in contesti lontani sia da un punto di vista culturale che
geografico, e in differenti periodi storici.
La comune radice affonda verosimilmente nel sapere del quale erano depositari i primi fonditori che,
utilizzando il ferro contenuto nelle rocce meteoritiche, attinsero ad una conoscenza non solo tecnica, ma
anche magica e sacrale. Vere e proprie pratiche alchimistiche sembrano essere attestate in Cina già nel IV
secolo a. C., mentre in India e in Occidente si diffondono nei primi secoli dell’era cristiana.
Uno degli elementi che accomunano le differenti civiltà e che favoriscono lo sviluppo di analoghe teorie
in luoghi e tempi diversi, è la concezione della materia come entità suscettibile di evoluzione e fondata su
principi opposti e complementari, generalmente individuati nello zolfo e nel mercurio. Agendo
opportunamente sui metalli vili, l’alchimista può perfezionarli ottenendo, al termine di procedimenti lunghi e
complessi, quell’elemento purissimo, solitamente identificato con l’elixir o con la pietra filosofale, capace di
sublimare la materia conducendola al suo stato di perfezione, cioè trasformandola in oro.
Alla purificazione della materia l’alchimista affianca e sovrappone quella dello spirito: egli ricerca infatti
anche la propria crescita interiore e la stessa aspirazione all’immortalità, o almeno al prolungamento della
vita – altra meta comune ai cultori di quest’arte – è legata al desiderio di raggiungere, grazie a un’esistenza
sottratta ai naturali limiti temporali, una saggezza superiore.
Se questi sono, a grandi linee, gli elementi che accomunano i cultori dell’opus, vari sono gli indirizzi
teorici dei diversi autori, che di volta in volta privilegiano differenti aspetti dell’alchimia, ora
approfondendone il carattere sperimentale, ora accentuandone l’aspetto mistico: nei paesi europei, ad
esempio, si assiste sovente ad una commistione del pensiero alchemico e di principi teologici.
Si tratta evidentemente di una storia complessa, che intreccia elementi di tecnica scientifica (alla base
della moderna chimica), filosofia, religione, magia; una materia ardua e difficile da comprendere per la scelta
stessa di coloro che la teorizzarono e che vollero custodirne i segreti con l’uso di un linguaggio oscuro e
fortemente simbolico, che solo gli adepti potevano decifrare. Non abbiamo perciò la pretesa di dare un
quadro completo e teoricamente definito di tutti gli aspetti di questa disciplina; ci preme invece richiamare
l’attenzione su alcune tappe del percorso espositivo, nel quale abbiamo inteso sia valorizzare codici o stampe
particolarmente interessanti, sia mettere in rilievo alcuni snodi fondamentali della tradizione alchemica
occidentale.
La mostra prende avvio da alcuni manoscritti che tramandano testi molto antichi, talora attribuiti a
personaggi in bilico tra realtà storica e leggenda. E’ il caso del Liber Mariae sororis Moysis, uno dei primi
testi alchemici al quale venga assegnato un autore personale; l’autrice fu probabilmente, al di là della
fantasiosa identificazione con la Maria biblica, una donna vissuta agli inizi del III secolo d. C., di origine
siciliana o copta, la cui opera ci è pervenuta solo in forma frammentaria. Il codice che qui presentiamo è
importante, pur nella modestia del suo aspetto (caratteristica comune a molti manoscritti del fondo Caprara),
perché testimonia la tradizione del testo prima della sua pubblicazione nel VI volume del Theatrum
chemicum di Zetzner, edito nel 1661.
In alcune celebri opere alchemiche i seguaci dell’Arte sono detti “figli d’Ermete”, per l’influenza che la
filosofia ermetica esercitò sulle loro teorie; a tale nobile paternità abbiamo reso omaggio esponendo, come
prima opera a stampa di questa rassegna, il Pymander Mercurii Trismegisti, nel quale la salvezza dell’uomo
appare come l’esito di un percorso di conoscenza, con una identificazione tra redenzione e sapienza che
anche la tradizione alchemica annovera tra i propri principi fondativi. Comune alla filosofia ermetica e

V
all’alchimia è anche il richiamo all’origine divina del sapere: l’autorità del corpus hermeticum, composto in
realtà da opere tardo elleniche del secondo e terzo secolo dopo Cristo, è garantita dal riferimento all’autore
“tre volte saggio”, che la cultura antica identifica col dio egizio Thot e con il latino Mercurio; nei testi
alchemici l’illuminazione divina come fonte del sapere è largamente presente.
Di notevole importanza teorica nella storia del pensiero alchemico sono le opere dello Pseudo-Geber,
attribuite al persiano Jābir ibn Hayyān, vissuto nell'VIII secolo, ma in realtà composte da un autore
occidentale, attivo nel tardo Medioevo, comunemente designato come «Geber latino» e identificato con un
francescano italiano, un certo Paolo di Taranto, che si rifaceva alla tradizione alchemica islamica. Tale
importante tradizione è qui esemplificata dal ms. 457, Busta V, n. 6, che raccoglie diverse sue opere,
improntate ad uno spirito pratico-sperimentale. Nei testi dello pseudo-Geber troviamo infatti uno schema
operativo dettagliatamente scandito in sette procedure che diverranno lo schema canonico dell'opus, partendo
dalla sublimazione per arrivare alla finale fluidificazione. L’interesse per la tecnica è evidenziato anche
dall’edizione a stampa esposta, una raccolta di numerosi scritti tra i quali il breve trattato De fornacibus,
dotato di un ricco apparato illustrativo nel quale spiccano 12 incisioni raffiguranti altrettanti tipi di forno
alchemico.
Nel Medioevo va segnalata, per la sua profonda influenza sullo sviluppo dell’alchimia, l’opera del frate
catalano Raimondo Lullo; gli alchimisti fecero largo uso delle rotae da lui elaborate come strumento della
sua celebre ars combinatoria, che possiamo ammirare nella edizione maguntina realizzata tra il 1721 e il
1742, primo tentativo di pubblicare l’opera omnia di questo autore; in essa le rotae e le tabelle lulliane sono
nitidamente impresse in molti colori, con un risultato di grande efficacia sia da un punto di vista didattico che
estetico. Le opere alchemiche pseudo-lulliane sono molto presenti nella raccolta del fondo Caprara: abbiamo
scelto per l’esposizione due codici di epoca e origine diversa che contengono entrambi il Testamentum, opera
composta di una parte teorica e di una parte pratica, volta alla realizzazione dell’elixir.
Non strettamente alchemico, ma interessante per i collegamenti fra alchimia e sapere enciclopedico
medievale è il manoscritto contenente il poemetto di Cecco d’Ascoli L’acerba (ms. 3658), che abbiamo
scelto anche per la ricchezza dell’apparato iconografico. Per lo stesso motivo sono da segnalare anche la
raccolta di opere dell’alchimista francese Nicolas Flamel (ms. 457, busta XXIV, n. 4), uno dei codici più
belli del fondo Caprara, e i due erbari appartenuti allo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi, caratterizzati
da una raffigurazione magico-simbolica delle piante illustrate.
Una caratteristica da evidenziare nella tradizione, sia manoscritta che a stampa, dei testi alchemici, è la
formazione di un corpus molto eterogeneo di opere che veniva tramandato in miscellanee e raccolte; ne sono
un esempio, per quanto riguarda i codici esposti, il ms. 104, contenente 53 opere e confezionato nel Delfinato
francese, fra 1476 e 1477, ad opera del copista piemontese Giovanni di Bartolomeo de Lachellis, e il ms.
153, contenente anche opere di mascalcia e di falconeria e ornato da finissime miniature.
Per quanto riguarda invece le opere a stampa, con la grande fioritura cinquecentesca dell’arte tipografica
si afferma una tradizione editoriale di raccolte di testi di autori diversi, destinata a protrarsi fino a tutto il
XVIII secolo: dalla Pretiosa margarita nouella di Giano Lacinio, qui esposta nella bella edizione aldina del
1546, alla settecentesca Biblioteca chemica curiosa del ginevrino Manget.
In tali raccolte, che hanno il merito di diffondere largamente le opere alchemiche e che ancor oggi
costituiscono una valida fonte d’informazione per gli studiosi, ha grande rilievo l’apparato iconografico, che
autori ed editori non accostarono ai testi solo a fini estetici: la rappresentazione grafica dei processi
alchemici, attraverso invenzioni fortemente simboliche, è infatti tra le caratteristiche salienti dell’alchimia,
che genera una propria iconografia di grande varietà e fascino. Ne sono un esempio le 14 vignette
xilografiche della Margarita, in cui le fasi della trasmutazione alchemica sono adombrate nell’uccisione di
un re che, trafitto con la spada dal proprio figlio, risorge dopo essersi congiunto a lui nel sepolcro.
Di grande interesse è anche il ricco apparato iconografico della monumentale Bibliotheca chemica:
segnaliamo in particolare le tavole del Mutus liber, che costituiscono un’opera autonoma, tra le più note e
studiate delle molte tramandateci da questa fondamentale raccolta.
Va anche osservato che la veste tipografica dei testi alchemici in generale è particolarmente accattivante,
grazie all’importanza dell’iconografia come complemento del testo e chiave per la sua comprensione.
Il libro forse più famoso in assoluto per la bellezza dell’apparato illustrativo è probabilmente
l’Amphiteatrum sapientiae aeternae di Heinrich Kunrath, nel quale la complessità del testo trova una perfetta
corrispondenza nelle splendide tavole, uniche per la sorprendente ricchezza dei dettagli e per l’uso delle linee
di testo come elemento grafico.
Opere come l’Amphiteatrum segnano il trionfo dell’iconografia barocca e dell’esoterismo alchemico, in
un secolo che pure conosce una profonda evoluzione della cultura e che già mostra talvolta una decisa

VI
insofferenza per il pensiero magico-esoterico: si pensi, ad esempio, alla polemica che oppone il teologo e
matematico Marin Mersenne all’ «ermetico reazionario» 1 inglese Robert Fludd.
Nel Settecento gli adepti dell’ars sono ancora assai numerosi e uno scienziato come Marsili non esclude
l’alchimia dalle proprie letture, come si è accennato e come testimoniano libri a lui appartenuti; tuttavia i
progressi della tecnica e l’affermarsi di una nuova scienza, fondata sull’aderenza al dato sperimentale e sulla
chiarezza del linguaggio, finiscono per relegare in secondo piano gli alambicchi e la prosa oscura degli
alchimisti: quel mondo di «nascoste corrispondenze, di occulte simpatie» di cui parlava Garin2 si avvia verso
un inesorabile declino.

1
Cfr. scheda n. 32.
2
EUGENIO GARIN, Magia ed astrologia nella cultura del Rinascimento, «Belfagor», V (1950), pp. 657-667, p. 659: «un universo tutto vivo, tutto fatto
di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa,
ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli
astri accennano a noi e si accennano fra loro, e si guardano e ci guardano, e si ascoltano e ci ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso,
molteplice, vario colloquio, ora sommesso ed ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio scoperto: - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere
cangiante, che può dire ogni parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere ad ogni invocazione, invocare ogni dio.»

VII
BUB, ms. 457, b. XXIV, n. 4, c. 54r. Miscellanea alchemica.
►1 MARIA

Liber Mariae soror Moysis.


Ms., sec. XVII, cartaceo, cc. III, 132, 3, mm 210 x 170.
Collocazione: BUB, ms. 457, X, 3
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

Questo piccolo volume fa parte,


come molti dei codici che sono
esposti nella mostra, del
cosiddetto 'fondo Caprara', una
raccolta di testi alchemici
pervenuta alla Biblioteca del-
l'Istituto delle Scienze intorno
al 1727 in seguito alla
donazione di Vittoria Caprara. I
volumi appartenevano pro-
babilmente alla biblioteca di uno sconosciuto collezionista francese «tres scavant en chymie»
del XVII secolo, sulla cui identità si sono fatte diverse ipotesi, anche se nessuna di esse è
perfettamente convincente: un «monsieur Coberge» dottore della Sorbona attestato in un
manoscritto della Bibliothèque de l'Arsenal, oppure un certo Milliet de Bosnay, editore e
traduttore di testi di chimica negli anni 1610-1620 1. La raccolta passò poi al conte bolognese
Carlo Attendoli Sforza Manzoli, del quale la famiglia Caprara ereditò i beni.
Il codice esposto contiene uno dei testi fondanti dell'alchimia, il Liber Mariae sororis Moysis.
La figura mitica di Maria l'Ebrea è stata spesso identificata con la biblica Myriam, sorella di
Mosè ed Aronne; più probabilmente si tratta invece di una donna vissuta agli inizi del III
secolo d. C., forse di origine siciliana o copta, la cui opera ci è pervenuta solo per frammenti.
Secondo la testimonianza di Zosimo di Panopoli, alchimista greco vissuto nel VII secolo, «i
primi scrittori d'alchimia furono ebrei; fra questi Maria è, di fatto, la prima alchimista che
identifichiamo con un nome personale reale, non mitico» 2. Il suo nome è legato all'invenzione
di alcuni strumenti e procedure che saranno fondamentali per la pratica alchemica:
l'alambicco, il tribikos (un sistema per convogliare i vapori raccolti nell'alambicco in tre
contenitori di vetro resistenti al calore) e la cottura con un doppio recipiente, uno dei quali
contenente acqua bollente, procedimento noto col nome di bagnomaria. È singolare questa
presenza di una donna ai primordi della scienza alchemica, a testimoniare anche un probabile
legame fra le tecniche di cottura dei cibi (patrimonio tradizionale della cultura femminile) e i
procedimenti utilizzati per la trasformazione delle sostanze inorganiche. L'anonimo
collezionista francese possessore di questo testo aveva annotato, all'inizio del Liber Mariae:
«Tres bon livre et a relire et estudier ce No[vembr]e 1639».
Il volume contiene anche altri trattati alchemici, alcuni privi di una identificazione precisa;
alle cc. 37r-40v si legge un Liber centum versuum Merculini che rientra nella tradizione dei
testi alchemici attribuiti a Merlino, uno dei protagonisti dei medievali romanzi arturiani:
testimonianza di una lettura in chiave alchemica, presente soprattutto fra gli alchimisti inglesi,
delle vicende del Ciclo bretone. Qui il nome del mago ha subito una deformazione, forse
dovuta all'intrecciarsi di Merlino con Mercurio, dando origine ad un Merculinus cui il testo
viene attribuito anche in altri manoscritti. Seguono una serie di ricette in italiano scritte da

1
DIDIER KAHN, Le fonds Caprara de manuscrits alchimiques de la Bibliothèque Universitaire de
Bologne, «Scriptorium», XLVIII (1994), pp. 62-110, pp. 87-91.
2
MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza. L'alchimia dalle origini a Jung, Roma, Carocci, 2001, p. 49.

1
un'altra mano, probabilmente posteriore, e alcuni «notabili capitoli tradotti dal tedesco di
Lazaro Erchero», ossia Lazarus Ercker von Schreckenfels (1528-1594), autore di diversi
trattati di mineralogia e metallurgia. In questo caso si tratta della traduzione dei soli titoli dei
capitoli dell'opera di Ercher Beschreibungen Allerfurnemisten Mineralischen Ertzt unnd
Berkwerks arten, Frankfurt am Mein, Johan Feyerabendt, 1598.
RDT

►2 Iatrosophion.

Ms., sec. XV, cartaceo, cc. II, 476, II, mm 288 x 212, illustrato.
Collocazione: BUB, ms. 3632
Provenienza: Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730)

Il ms. 3632, a lungo conosciuto come Dioscoride greco, è in realtà una miscellanea di testi di
varia natura (medica, naturalistica, astrologica, magica, ma anche storico-geografica), raccolta
e copiata da un «Giovanni di Aron medico», vissuto nella prima metà del sec. XV; Giovanni
sottoscrive il codice in diversi punti e rende perfino testimonianza dell'assedio e della caduta
di Costantinopoli per mano dei Turchi alla fine di maggio del 1453.
Il codice ha un ricco apparato iconografico che lo colloca all'interno della tradizione dei
manoscritti bizantini di argomento medico-scientifico, volumi che spesso recano i segni di un
intenso uso e studio, testimoniato da annotazioni aggiunte da altre mani 3. La presenza di
discipline ai nostri occhi poco ortodosse all'interno della pratica terapeutica dell'epoca è
ampiamente documentata nel volume. Non stupisce perciò trovare rituali magici come la
catoptromanzia (divinazione ottenuta tramite l'uso di uno specchio magico), o l'evocazione di
uno spirito chiamato 'Bella delle montagne', raffigurato come una donna con coda di serpente,
accanto al più usuale e scientifico esame delle urine, esemplificato dalla raffigurazione di
campioni di varie colorazioni.
In questa molteplicità di saperi che non venivano avvertiti come in conflitto l'uno con l'altro,
bensì accolti con spirito sincretistico, non poteva mancare anche l'aggancio con l'alchimia,
rappresentata dalla presenza, alle cc. 101v-113v, di una parte del testo delle cosiddette
Ciranidi, un'opera di carattere medico-magico entrata a far parte del corpus ermetico,
tradizionalmente attribuito ad Ermete Trismegisto. Le Ciranidi, divise in 4 libri, erano una
sorta di enciclopedia delle virtù delle pietre e delle piante, degli uccelli, dei pesci e di altri
animali, una raccolta cui avrebbero abbondantemente attinto nei secoli successivi i bestiari
medievali. Nel primo libro, risultato dell'unione di due opere diverse, una compilata da
Kyranos, re di Persia, e l'altra da Arpocrazione di Alessandria, sono raggruppati sotto ogni
lettera dell'alfabeto greco un uccello, un pesce, una pianta e una pietra. I loro caratteri e le loro
virtù terapeutiche o meravigliose sono descritte e utilizzate per la fabbricazione di talismani
che uniscono parti di ogni elemento della natura preso in esame. Nel manoscritto manca
questo libro, che è quello più propriamente magico, mentre sono presenti i successivi,
contenenti la descrizione e la raffigurazione interlineare di quadrupedi (cc. 102r-107v), di
uccelli (cc. 108r-110v), di pesci (cc. 111r-113v); alla c. 108r è inserita una immagine che

3
Cfr. FRANCESCA MARCHETTI, Le illustrazioni di uno Iatrosophion bizantino del XV secolo, cod. 3632
della Biblioteca Universitaria di Bologna, Tesi di dottorato di ricerca in Bisanzio ed Eurasia, Bologna,
Università degli studi, 2011.

2
rappresenta Arpocrazione seduto su una panca insieme ad un altro personaggio designato
come Melas.
Un'altra importante presenza dell'alchimia all'interno del codice è riscontrabile alla c. 14v,
interamente occupata da una tavola di segni alchemici; al di sopra di ogni simbolo è annotata,
ad inchiostro rosso, l'interpretazione 4.
RDT

►3 HERMES TRISMEGISTUS

Pymander Mercurii Trismegisti cum commento fratris Hannibalis Rosseli Calabri…


Liber primus [-6] ... Cracouiae : in officina typographica Lazari, 1584-1590.
6 v. ; 2º.
Si espone il v. 1:
Pymander Mercurii Trismegisti ... Liber primus de SS. Trinitate ... . Cracouiae : in
officina typographica Lazari, 1585.
[8], 381, [19] p. ; 2º (308 x 198 mm).
Collocazione: A.M.GG.II.18/1.1
Provenienza: Ulisse Aldrovandi (1522-1605)

In una celebre opera alchemica, il Testamentum attribuito a Raimondo Lullo, e nel trattato De
vinis di Arnaldo da Villanova gli alchimisti sono detti “figli di Ermete”: l’uso di tale
appellativo sottolinea con immediatezza il rapporto tra questa disciplina e il corpus di opere
teologico-filosofiche, composte per lo più in epoca alessandrina, tradizionalmente attribuite a
Ermete Trismegisto 5.
La figura mitica del sapiente «tre volte grande» si identificò nella cultura antica con quelle del
dio egizio Thot, inventore della scrittura, e del greco Hermes – il latino Mercurio – che da
Thot acquisì, per estensione, gli attributi di saggezza e d’illimitata conoscenza.
A questa paternità divina, garante del valore sapienziale dei testi, furono ascritte le opere
tardo elleniche (II-III sec. d.C.) tradizionalmente note come corpus hermeticum; tra queste il
Poimandres, che l’Umanesimo riscoprì nella versione di Marsilio Ficino e che, fondendo
differenti apporti filosofici, descrive l’origine del mondo, la creazione dell’uomo e il suo
accedere alla salvezza mediante la conoscenza, secondo un percorso di redenzione che la
tradizione alchemica acquisisce tra i propri principi fondativi.

4
Catalogue des manuscrits alchimiques grecs. VIII: Alchemistica signa, digessit et explanavit C. O.
Zuretti, Bruxelles, Secrétariat administratif de l'U. A. I., 1932.
5
Cfr.: MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., p. 27.

3
L’opera è qui proposta nell’edizione polacca del tardo Cinquecento curata dal padre
cappuccino Annibale Rosselli (1525-1592), che insegnò teologia a Cracovia e contribuì a
diffondervi la conoscenza della filosofia ermetica.
Sul frontespizio compare un obelisco, motivo spesso ricorrente nelle opere pubblicate
all’epoca in questa città, dove Georg Joachim Rheticus, allievo di Copernico, costruì nel 1554
un obelisco alto più di 16 metri e coronato da una sfera dorata, poi riprodotto sul frontespizio
di un’opera di Johann Werner per la quale aveva curato la prefazione 6.
L’esemplare esposto appartenne al naturalista Ulisse Aldrovandi, come testimonia
l’annotazione non autografa sul margine superiore del frontespizio.
PM

►4 Miscellanea alchemica.

Ms., sec. XV, cartaceo e membranaceo, cc. II, 74, III, mm 195 x 142.
Collocazione: BUB, ms. 830
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

La complessità della tradizione alchemica manoscritta è ben


rappresentata da questo piccolo codice, che racchiude in sé 26
testi, integri o mutili, di svariati autori, non sempre
identificabili con certezza. Pur nella unitarietà della raccolta,
che risulta scritta da una sola mano, si ricontrano
rimaneggiamenti forse successivi alla confezione originaria: la
composizione dei fascicoli è irregolare, talvolta con
l'inserimento di carte in più, mentre altrove sono segnalate
mancanze di fogli; la disomogeneità è accentuata nell'aspetto
esteriore dalla presenza di alcune carte in pergamena
all'interno di un manoscritto prevalentemente cartaceo.
Anche la datazione è abbastanza incerta, in mancanza di indizi
interni significativi; generalmente il codice è datato al XV
secolo: il tipo di scrittura e l'esame delle filigrane avvalorano
questa ipotesi, collocando il volume in ambito francese, forse
bretone. Quest'ultimo dato potrebbe costituire un nesso con
l'ambiente culturale anglosassone, testimoniato dalla presenza
di alcune carte finali contenenti ricette alchemiche in inglese,
oltre che dalla trascrizione di varie opere del filosofo
francescano Roger Bacon.
La prima parte del manoscritto contiene testi ascrivibili alla
tradizione alchemica più antica, quella attribuita ad Ermete
Trismegisto ed alla successiva rielaborazione islamica, che comprendeva opere astrologiche,
alchemiche, filosofiche e teologiche e nelle quali la scienza era rivelata dal dio sotto forme
spesso sibilline, magari nel corso di un sogno. Troviamo così i Septem tractatus in operatione
solis et lunae (cc. 1r-3r), il Liber de lapide qui vocatur rebis (cc. 8r-9r), il Liber Solis et
Lunae per Hermetem in lapide Dabessi (cc. 9r-10v), il Liber administrationum di Al-Kindi
(Abū Yūsuf Yahqūb ibn Ishāq al-Kindī, 801 circa 866 o 873), il De aluminibus et salis di Razi

6
Cfr. gli Atti della Conferenza Internazionale «L’umanesimo latino in Polonia», Cracovia, Collegium
Maius, 20 Settembre 2003, disponibili on line sul sito della Fondazione Cassamarca,
<http://www.fondazionecassamarca.it/wps/wcm/connect/a6ac12804be222798653e7432adf1e42/Cracovia
+settembre+2003.pdf?MOD=AJPERES>; ultima consultazione: 22.1.2013.

4
(Muhammad ibn Zakariyā Rāzī, 865-925), il Liber triginta verborum di Geber (Jābir ibn
Hayyān al-Bariqi al-Azdi, 721 ca.-765?). L'argomento di tutti questi testi, e di altri di
attribuzione più incerta (compaiono un «Emericus de Monteforto» e un «Nicholaus») è
comunque la fabbricazione della pietra filosofale, o dell'elixir; in particolare il Liber rebis o
Liber dabessi, qui presente in varie versioni e commenti, è un testo ermetico che descrive la
preparazione di una pietra filosofale chiamata «pietra animale», perché ottenuta tramite la
separazione dei quattro elementi fondamentali (terra, aria, acqua, fuoco) da una sostanza
animale di partenza 7.
Il secondo nucleo del manoscritto, che si
configura così come un'antologia di testi in
ordine latamente cronologico, contiene alcune
opere del primo vero alchimista dell'Europa
medievale, Roger Bacon (1241-1294): lo
Speculum secretorum, l'Opus minus (mutilo
dell'inizio), il Liber de secretis naturae e il
Super Geberem. Concludono il volume alcune
carte dove una mano posteriore ha annotato
diverse ricette alchemiche in un inglese che
incorpora anche termini ed espressioni latine.
Il carattere eminentemente pratico della
raccolta, testimoniato sia dal piccolo formato
del volume che dalle tracce d'uso e dalla
presenza delle ricette aggiunte nelle ultime
carte, è però temperato da una certa ricerca di
accuratezza estetica, riscontrabile nelle iniziali
ad inchiostro rosso e nella regolarità della mano
del copista. Sono presenti un paio di disegni a
penna: alla c. 41r è raffigurata una fornace
(fornax), sopra la quale sono sovrapposti due
recipienti, uno contenente cenere (olla cum
cenere), uno contenente acqua (olla cum aqua) e un alambicco (alembicus); alla c. 51r uno
schizzo molto sommario potrebbe raffigurare l'atanor, cioè un fornello a riverbero e a fuoco
continuo, nel mezzo del quale, in un recipiente a forma di uovo, andava messa, ed
ermeticamente chiusa, la materia da cui si doveva trarre la pietra filosofale.
RDT

►5 ARTEPHIUS

Clavis sapientiae.
Ms., sec. XV-XVI, cartaceo, cc. V, 15, III, mm 235 x 150.
Collocazione: BUB, ms. 12, busta II, n. 10
Provenienza: Ulisse Aldrovandi (1522-1605)

Lo scienziato e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi era interessato, come molti suoi
contemporanei, a molteplici aspetti dell'indagine scientifica, fra i quali rientravano a pieno

7
ANDRÉE COLINET, Le livre d'Hermès intitulé «Liber Dabessi» ou «Liber rebis», «Studi medievali»,
serie terza, XXXVI (1995), pp. 1011-1052.

5
titolo discipline come l'astrologia e l'alchimia; non è quindi strano che il nome di Aldrovandi
compaia, come possessore, in più d'uno dei volumi presentati in questa mostra.
La Clavis sapientiae di Artephius è un testo che gli studiosi attribuiscono oggi al X secolo e
all'ambiente dei filosofi islamici ellenizzanti raccolti intorno ad al-Fārābī 8; la tradizione latina
ha talvolta erroneamente attribuito l'opera al re di Castiglia Alfonso X, detto il Savio (1221-
1284), figura notevole in ambito culturale in quanto aveva cercato di unificare tutto il sapere
della sua epoca promuovendo la traduzione in castigliano di antichi testi arabi ed ebraici.
Nelle prime righe del nostro manoscritto il nome di
Alfonso compare in effetti proprio in questa veste: egli
«De lingua Arabica per quendam suum scutiferum in
linguam propriam castillanam videlicet transferri fecit
diligenter».
Artefio, l'autore cui ormai generalmente l'opera viene
ricondotta assieme ad un altro opuscolo intitolato Liber
secretus, è tuttavia un personaggio piuttosto oscuro,
tanto che alla sua figura sono state attribuite
caratteristiche mitiche, come la possibilità di parlare il
linguaggio degli uccelli o una vita lunghissima, ottenuta
grazie alle sue conoscenze alchemiche. La Clavis
sapientiae è divisa in tre capitoli che formano una sorta di compendio della conoscenza
ermetica; l'universo è composto da una mescolanza dei quattro elementi fondamentali e,
tramite un incessante cambiamento delle loro proporzioni, hanno origine, muoiono e si
trasformano sia i minerali che le piante e gli animali. Il cosmo è scandito in livelli successivi,
interdipendenti l'uno dall'altro, e per raggiungerne la conoscenza è necessario indagare il
legame fra «anima, o principio sottile occulto, e corpus, o principio concreto manifesto» 9. La
struttura macrocosmica, divisa nella triade basso, medio e alto, si ripete nei tre regni del
mondo terrestre (minerale, vegetale e animale), a loro volta tripartiti in corpo, spirito e anima.
Ogni cosa può essere trasformata in un'altra agendo sui vari elementi attraverso tre processi
fondamentali: macerazione, putrefazione, distillazione. Il discorso di Artefio è intervallato da
schemi esemplificativi, che nell'originale arabo erano più numerosi rispetto ai tre presenti
nell'edizione a stampa latina pubblicata nel Theatrum chemicum 10; nel nostro manoscritto i
disegni sono cinque, testimonianza forse di una maggiore aderenza al testo arabo rispetto ai
manoscritti utilizzati dall'editore seicentesco.
Non sappiamo in che modo il manoscritto, che ci è pervenuto molto danneggiato, sia giunto
ad Aldrovandi; alcuni indizi però ci indicano un'origine veneziana del codice. In primo luogo
la filigrana, tuttora leggibile nonostante la velatura delle carte, che rappresenta una bilancia ed
è molto simile a modelli attestati a Venezia e Vicenza attorno alla metà del XV secolo; in
secondo luogo la presenza di alcuni frammenti cartacei rinvenuti all'interno della legatura nel
corso di un restauro eseguito nel 1980. Il volume infatti era rilegato con una pergamena di
riuso (parte di una bella Bibbia manoscritta in lettera carolina) rinforzata con ritagli di
documenti riferiti alla magistratura veneziana del Collegio delle biave; nel frammento più
grande sono leggibili date comprese fra il 1531 e il 1533.
RDT

8
MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza…, cit, p. 87.
9
Ibid., p. 88.
10
Theatrum chemicum, praecipuos selectorum auctorum tractatus de chemiae et lapidis ... , Strasbourg,
Ztezner, 1613-1622. L'osservazione sul numero dei disegni è in GIORGIO LEVI DELLA VIDA, Something
more about Artefius and his Clavis Sapientiae, «Speculum», XIII (1938), pp. 80-85.

6
►6 Clavis scientiae maioris in philosophorum opus numquam ante hac visum per
Arnaldum.

Ms., sec. XVI, cartaceo, cc. I, 15, I, mm 230 x 170, illustrato.


Collocazione: BUB, ms. 457, busta XIX, n. 3
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

Il testo anonimo contenuto in questo piccolo manoscritto è in realtà una rielaborazione e una
combinazione di alcune opere diverse: la pagina iniziale è estratta dal Rosarium
philosophorum attribuito ad Arnaldo da Villanova, medico catalano che aveva esercitato la
sua arte al servizio di Bonifacio VIII e della corte catalano-aragonese tra la fine del XIII e
l'inizio del XIV secolo. Il brano del Rosarium, tratto dal paragrafo intitolato Tabula scientiae
maioris, presenta notevoli varianti e lacune rispetto alla versione tràdita dalle edizioni a
stampa ed è seguito da una parte iconografica che però non rinvia al testo di Villanova
(generalmente accompagnato da 20 vignette allusive al processo dell'opus alchemicum), ma
ad un'altra opera, il Pretiosissimum donum Dei, attribuita a Georges Aurach d'Argentine e
datata intorno al 1475. Di questo alchimista strasburghese si conoscono anche un Rosarium e
un Hortus divitiarum, ma è soprattutto noto
per le dodici immagini collegate al Donum
Dei, le prime che sviluppino la sequenza
tematica dei vasi animati da figure riferiti
alle varie tappe della 'grande opera'. Alcune
vignette di questo tipo, isolate, erano già
comparse agli inizi dell'iconografia
alchemica, nei trattati del fiammingo
Gratheus e nell'Aurora consurgens, ma
solamente in questo ciclo accompagnano
ogni fase dell'operazione, dalla comparsa
iniziale del Re e della Regina (simboli
complessi del magistero alchemico e delle
sostanze che danno inizio alla tra-
sformazione degli elementi), alla loro
unione che genererà, attraverso vari pas-
saggi e colori – il nero della putrefazione, il
bianco della purificazione, il rosso della
ricomposizione della materia purificata – la
sostanza dotata delle virtù di risanare i corpi
e di trasformare i metalli più vili in oro
purissimo 11. Le vignette del Donum Dei saranno riprese anche in anni successivi, e si
ritroveranno soprattutto nello Splendor Solis attribuito a Salomon Trismosin, leggendario
maestro di Paracelso.
Nel manoscritto qui esposto alcune vignette sono rimaste incompiute e mostrano solo il
disegno a penna, senza la coloritura e le figure che avrebbero dovuto animare le ampolle,
mentre le didascalie e le scritte esplicative sembrano essere state aggiunte da una mano
posteriore, che interviene spesso anche ad integrare e correggere il testo. È interessante
rilevare, a conferma del carattere eterogeneo del codice, la presenza di alcuni versi in italiano
inseriti all'interno del testo latino del Donus. Si tratta di poche stanze della nota canzone

11
JACQUES VAN LENNEP, Alchimie, cit., pp. 86-89.

7
alchemica E' mi diletta di dir brievemente, che compare per la prima volta in un manoscritto
trecentesco conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia; il ms. marciano indica alla fine,
come autore del testo, un «Grammatice professor Daniele» 12.
RDT

►7 Auctores Alchimiae quamplurimi diversique Tractatus ... Viennae transcripti


Anno Domini 1476.

Ms., sec. XV, cartaceo, cc. IV, 330 (cartulate da 1 a 336), VII, mm 305 x 220.
Collocazione: BUB, ms. 104
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

Sono 52 i testi alchemici contenuti in questo


manoscritto, che rappresenta una delle più
interessanti e complete raccolte di opere riguardanti
la procedura per ottenere la pietra filosofale, o elixir
dei filosofi. Sottoscritto in vari punti dal copista, il
piemontese Giovanni di Bartolomeo de Lachellis di
Fontaneto, il codice fu confezionato a Vienne, nel
Delfinato francese, fra 1476 e 1477. Alcune parti
furono aggiunte successivamente, fra 1484 e 1489,
da un diverso copista attivo a Lione, mentre altre
due mani, una del XVI e una del XVII secolo,
intervennero in vari punti con aggiunte e commenti.
Si tratta dunque di un manoscritto largamente utilizzato e studiato, soprattutto dal seicentesco
possessore francese che collazionò i testi con altri manoscritti ed edizioni a stampa e compilò
l'accurato indice posto all'inizio del volume.
Sono qui presenti opere che spaziano lungo tutta la tradizione alchemica, da quella più antica
attribuita ad Ermete Trismegisto e ai filosofi greci (compaiono Platone con un Liber quartus
ed Aristotele con una lettera ad Alessandro Magno), a quella araba (Razi e Geber sono
testimoniati da tre e due testi rispettivamente), a quella latina medioevale (frate Elia da
Cortona, Alberto Magno, Arnaldo da Villanova, con ben otto opere, Raimondo Lullo). Su
queste fonti della tradizione si basano le trattazioni più moderne tramandate dal codice, fra le
quali spicca per importanza il Liber de lapide philosophorum et de auro potabilis, scritto fra
1440 e 1449 da Guglielmo Fabri, giudice e segretario di corte di papa Felice V e conosciuto
unicamente tramite questo manoscritto. L'opera si presenta come un dialogo fra il pontefice,
tormentato da una malattia che i medici giudicavano incurabile, e Fabri, esperto di un altro
tipo di scienza, più difficile ed occulta, in grado di fermare il processo di invecchiamento
grazie alla «medicina dei filosofi detta elixir» 13. Il legame fra alchimia e medicina, che
affondava le proprie radici nella sapienza ermetica, era stato sviluppato nella tradizione latina
dal francescano Ruggero Bacone, che metteva in evidenza il carattere sia teorico che pratico
di entrambe le discipline e propugnava l'utilità delle pratiche alchemiche di distillazione nella

12
Cfr. RAFFAELLA CASTAGNOLA, Alchimia fra scienza e gioco, in Passare il tempo. La letteratura del
gioco e dell'intrattenimento dal XII al XVI secolo. Atti del Convegno di Pienza 10-14 settembre 1991,
Roma, Salerno, 1993, pp. 511-527, che pubblica il testo presente nel ms. Pal. 1124 della Biblioteca
Nazionale di Firenze.
13
CHIARA CRISCIANI, Il papa e l'alchimia. Felice V, Guglielmo Fabri e l'elixir, Roma, Viella, 2002, p.
68.

8
fabbricazione dei farmaci. La realizzazione dell'oro dei filosofi, più puro e raffinato di quello
che si trova in natura, avrebbe poi condotto, attraverso distillazioni e soluzioni, al miracoloso
aurum potabile, in grado di rinnovare e ringiovanire il corpo umano, avvicinandolo
all'immortalità. Alla c. 310r del nostro manoscritto si trova un breve testo, attribuito ad un
medico ducale di Moncalieri, nel quale, oltre ad essere fornita la ricetta per la realizzazione
dell'oro potabile, è anche presente il disegno del forno necessario per operare le cinque
distillazioni richieste per l'ottenimento di un'acqua «perfectissima».
Un’altra opera interessante si trova alle cc. 262r-265r: si tratta del testo integrale della
Cantilena ascritta ad un Daniele di Capodistria, professore di grammatica, alcuni versi della
quale abbiamo già trovato interpolati all'interno del Donum Dei di Georges Aurach
d'Argentine nel ms. 457, XIX, 3. Fino ad oggi non era nota la presenza del cosiddetto Ritmo
di Daniele anche all'interno di questo pur studiatissimo codice della Biblioteca Universitaria
di Bologna: il manoscritto perciò andrà aggiunto d'ora in poi all'elenco dei testimoni di questo
diffuso componimento.
RDT

►8 GIANO LACINIO (sec. XVI)

Pretiosa margarita nouella de thesauro, ac pretiosissimo philosophorum lapide.


Artis huius diuinae typus, & methodus: collectanea ex Arnaldo, Rhaymundo, Rhasi,
Alberto, & Michaele Scoto; per Ianum Lacininium Calabrum nunc primum, cum
lucupletissimo indice, in lucem edita. [Venezia : eredi di Aldo Manuzio il vecchio],
1546 (Venetiis : apud Aldi filios, 1546).
[20], 202, [16] c. : ill. ; 8º (152 x 105 mm).
Collocazione: A.V.D.V.13
Provenienza: antico fondo

9
La Pretiosa margarita nouella,
una delle più note opere di
alchimia pubblicate nel Cin-
quecento, è una raccolta di testi
anteriori al XV secolo, curata dal
frate francescano Giano Lacinio,
di Cirò.
Il trattato dal quale prende il titolo
si deve a un autore di rilievo nella
storia dell’alchimia occidentale,
del quale ci sono giunte poche
notizie biografiche: il ferrarese
Pietro Bono, «fisico» – cioè
medico – secondo l’explicit di
uno dei codici che ne tramandano
l’opera, che scrisse la sua ampia
disamina dell’alchimia a Pola, in
Istria, nel 1330 14.
Pietro Bono enuncia in queste
pagine gli argomenti tradi-
zionalmente portati pro e contro l’ars, che indaga a fondo sia nel suo sviluppo storico che
come teoria filosofica e prassi tecnico-scientifica, e la cui legittimità gli appare garantita da un
fondamento religioso: egli è infatti persuaso che il percorso alchemico conduca alla
comprensione dei misteri cristiani, da quello della resurrezione dei corpi ai misteri altissimi
dell’incarnazione di Cristo e della Trinità. Bono istituisce dunque un forte legame tra alchimia
e religione, destinato a perpetuarsi come elemento fondamentale della speculazione alchemica
del Rinascimento. La trattazione ampia ed esauriente garantì alla sua Margarita una notevole
diffusione e un successo duraturo, grazie anche all’edizione a stampa.
La Pretiosa margarita curata da Lacinio fu pubblicata per la prima volta nel 1546 dai figli di
Aldo Manuzio, in un
elegante piccolo for-
mato di grande chia-
rezza tipografica, il-
lustrato da 22 xilo-
grafie, 14 delle quali
traducono in imma-
gini simboliche il
contenuto di un trat-
tatello di poche
pagine premesso al
testo di Bono. L’o-
peretta, anonima e di
difficile interpre-
tazione, è conservata

14
Cfr. la voce di CESARE VASOLI in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, vol. XII, 1970, pp. 287-289.

10
in un codice di Leida realizzato tra il 1522 e il 1526, dove è illustrata da immagini simili a
queste, ma fu probabilmente composta in epoca molto anteriore 15.
Le 14 vignette xilografiche, intervallate da un breve testo che le descrive, raccontano
l’uccisione di un re, trafitto con la spada dal proprio figlio, e la sua resurrezione dopo che si è
congiunto, nel sepolcro, al figlio stesso. Questo breve ciclo figurativo adombra le tappe della
trasmutazione alchemica della materia: il re allude all’oro, che viene disciolto dal mercurio (il
figlio) tramite il fuoco (la spada); dalla congiunzione dell’oro con il mercurio, attraverso le
varie fasi del procedimento alchemico, nasce una sostanza nuova, l’elixir o pietra filosofale,
che può trasformare in oro qualunque metallo; il sepolcro è appunto simbolo del forno nel
quale avviene la congiunzione dell’oro al mercurio e la progressiva realizzazione dell’opus
alchemicum.
La fonte iconografica della Pretiosa Margarita è da ricercarsi probabilmente nelle miniature
del citato codice di Leida: sulle vignette dell’edizione aldina appaiono infatti alcune sigle o
scritte, che sembrano riferirsi ai colori che le medesime figure hanno in quel manoscritto.
PM

►9 PSEUDO-GEBER

Opere.
Ms., sec. XVI-XVII, cartaceo,
cc. 20, mm 285 x 195.
Collocazione: BUB, ms. 457,
busta V, n. 6
Provenienza: Vittoria Caprara
(sec. XVIII)

Questo piccolo fascicolo


manoscritto contiene alcuni testi
attribuiti all'alchimista persiano
Jābir ibn Hayyān, vissuto nell'VIII
secolo, al quale viene ascritto un
corpus di circa 3000 trattati; le sue
opere erano spesso di difficile
interpretazione, in quanto volutamente scritte in modo oscuro, talvolta facendo uso di codici
steganografici, noti solamente agli iniziati. Sotto il nome di Geber però si nasconde anche un
autore occidentale, vissuto nel tardo Medioevo, comunemente designato come «Geber latino»
ed identificato con un francescano italiano, un certo Paolo di Taranto 16. A questo scrittore,
che comunque si rifaceva alla tradizione alchemica islamica, devono essere ricondotti i testi
contenuti nel manoscritto; si tratta, nell'ordine, del primo libro del De investigatione veritatis,
del Testamentum e del Liber fornacum. Il fascicolo si conclude con alcune ricette anonime,
relative ai metalli (sempre designati tramite il nome dei pianeti corrispondenti) e ai vari
procedimenti per la loro lavorazione e trasmutazione. Il De investigatione perfectionis è una
rielaborazione del Liber secretorum de voce Bubacaris di Muhammad ibn Zakariyā Rāzī
(noto in occidente come Razi), altro alchimista persiano vissuto fra IX e X secolo. Razi aveva

15
Per questa notizia e per l’interpretazione dell’apparato figurativo della Pretiosa margarita nouella cfr.
MINO GABRIELE, Alchimia e iconologia, Udine, Forum, 1997, pp. 97-105.
16
MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit. p. 137.

11
dato ai suoi studi un carattere sperimentale e analitico che sembrava prefigurare la moderna
chimica, classificando sistematicamente i procedimenti utilizzati nelle operazioni alchemiche,
studiando accuratamente e cercando di migliorare gli strumenti necessari, raggruppando i
minerali in sei classi in base alle loro caratteristiche. A questo spirito pratico e sperimentale
voleva rifarsi lo Pseudo-Geber, che infatti espone uno schema operativo dettagliatamente
tecnico, scandito in sette procedure che diverranno lo schema canonico dell'opus:
sublimazione, distillazione, calcinazione, soluzione, coagulazione, fissazione, fluidificazione.
I dettagli operativi e l'accuratezza della nomenclatura delle sostanze forniscono informazioni
preziose sul laboratorio alchemico alla fine del '200, informazioni che vengono ulteriormente
precisate nel trattato sui forni. L'ultimo testo presenta un titolo che ricorre spesso nella
tradizione alchemica (da Morieno ad Arnaldo da Villanova allo pseudo-Lullo): con il termine
di testamentum non si intendono riportare in questo caso le ultime volontà dell'autore, come
nell'accezione più comune della parola, ma si vuol caratterizzare un testo di importanza
basilare, quasi una summa delle conoscenze relative alla disciplina.
RDT

►10-11 Auriferae artis, quam Chemiam vocant, antiquissimi authores, siue Turba
philosophorum. Basileae : apud Petrum Pernam, 1572.
2 v. : ill. ; 8º.

Volume II:
MORIENUS ROMANUS
Auriferae artis, quam chemiam vocant, volumen secundum. Quod continet Morieni
Romani scripta de re metallica atque de occultae summaque antiquorum medicina,
cum aliis authoribus, quos versa pagina indicat. Basileae : apud Petrum Pernam,
1572.
468 (i.e. 568), [32] p. : ill. ; 8° (156 x 95 mm).
Collocazione: A.IV.G.IX.11/1-2
Provenienza: Iacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766)

Nel Cinquecento l’alchimia suscita un notevole interesse negli uomini di cultura: le opinioni
sull’ars sono discordi, ma i testi che ne espongono le fondamenta dottrinali e gli aspetti
tecnici, celati dal velo di un linguaggio immaginifico di ardua comprensione, circolano
numerosi, grazie anche al crescente sviluppo dell’editoria. A Basilea Pietro Perna, tipografo
ed editore di origine lucchese, pubblica nel 1572 una raccolta di antichi scritti alchemici,
curata, come ci avverte nella prefazione, dal medico di Bergamo Guglielmo Grattaroli, che
aveva dovuto lasciare l’Italia nel 1550, essendo stato giudicato «heretico pertinace et relapso
et schandaloso et infame» 17. Perna è un ex domenicano 18, uomo colto e attento alle proprie
scelte editoriali, e si dimostra consapevole delle voci che spesso si levano contro gli

17
Cfr. la voce di ALESSANDRO PASTORE in Dizionario biografico degli italiani cit., v. LVIII, 2002, pp.
731-735.
18
Cfr. LEANDRO PERINI, La vita e i tempi di Pietro Perna, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2002, p.
12 sgg.

12
alchimisti, tra i quali non mancano gli imbroglioni «patibulo dignis 19»; egli tuttavia offre al
lettore solo testi autorevoli: «… viros doctos et vere philosophos tibi, amice Lector, nūc
proponimus huius artis praecipuos authores»; suo esplicito intento è infatti quello di
mantenersi nel solco di una tradizione che annovera nomi illustri come quelli, da lui citati, di
Geber, Avicenna, Rasis, Arnaldo da Villanova e Lullo.
Tra le 22 opere proposte nel primo volume della raccolta, la più nota è forse la Turba
philosophorum, che lunghi
studi novecenteschi attri-
buiscono a un autore arabo,
che scrive intorno al 900 ed
espone i principi dell’al-
chimia intrecciandoli a quelli
della cosmologia greca.
Egli intende dimostrare tre
tesi: che Allah è il creatore
dell’universo, che questo è di
natura uniforme e che tutte le
creature sono composte dai 4
principi fondamentali. Tali
teorie emergono dalla
discussione di un gruppo di
filosofi presocratici, la turba
che dà il titolo all’opera, e
sono seguite dalla esposizione di principi alchemici.
Dalle avvertenze che Perna indirizza al lettore trapela la varietà delle fonti che hanno
tramandato l’opera, di grande rilievo per il nesso tra l’ars e la cosmologia greca, già
rintracciabile in un’opera dell’alchimista Olimpiodoro, vissuto nel 400 d.C.
Dei numerosi testi raccolti nel secondo volume, il frontespizio mette in risalto il Liber de
compositione alchimiae, o Testamentum, del monaco bizantino Morienus, che qui inizia ai
segreti dell’ars re Calid, da identificarsi con il principe arabo Ḫālid ibn Yazīd, che fu il primo
mussulmano studioso di alchimia, secondo quanto afferma il biografo Ibn an-Nadìm, vissuto
nella seconda metà del X secolo.
L’opera di Morieno, che fu tradotta in latino nel 1144 da Roberto di Chester, è tra i capisaldi
della filosofia alchemica occidentale; vi si insegna il percorso che conduce dalla materia
prima all’elixir e che si fonda su alcune importanti premesse, quali la segretezza dell’ars, che
deve essere tramandata dal maestro al discepolo degno di accoglierla, e la necessità di
accostarsi ad essa con la pazienza e la fatica indispensabili al conseguimento dell’opus: «Haec
enim res… per vim aut iram non accipitur, nec perpetratur. Accipitur enim per patientiam, &
humilitatem, & amorem certum, ac perfectissimum» 20. Essa è un dono di Dio: «Confert enim
Deus hanc diuinam, & puram scientiam suis fidelibus & seruis» 21.
Nel Liber di Morienus ricorre anche l’analogia, perpetuatasi in tutta la tradizione alchemica,
tra il perseguimento dell’opus e la sessualità umana, dal matrimonio alla generazione di una
nuova creatura, una analogia che allude a due importanti concetti alla base dell’ars: la
creazione dell’elixir come elemento nuovo e la necessità che, per realizzarlo, la mente umana
penetri i segreti della natura e a questa si congiunga in una fertile unione 22.

19
Cito dalla Praefatio dell’edizione esposta, carta segnata )(4r-v.
20
Cfr. Auriferae artis…, v. II, p. 23 dell’edizione esposta.
21
Ibidem.
22
Cfr. MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., pp. 116-118.

13
Questa raccolta di antichi
autori è interessante anche
sotto il profilo iconografico:
nel secondo volume il
Rosarium Philosophorum,
attribuito ad Arnaldo da
Villanova e verosimilmente da
ricondurre all’ambito della
scuola di Medicina di
Montpellier 23, è accompa-
gnato da 20 vignette
xilografiche che rappresentano
allegoricamente le fasi del-
l’opus e costituiscono uno dei
più importanti cicli d’ico-
nografia alchemica diffusi
attraverso le edizioni a
stampa.
L’esistenza di un repertorio
alchemico assai vasto e vario e
la frequenza con la quale le
illustrazioni ricorrono sia nei
manoscritti che nelle edizioni
a stampa è spiegato da Mino Gabriele con la precisa volontà di «tramandare la memoria
dell’insegnamento ermetico tramite la composizione immaginativa» per aiutare il lettore nella
comprensione del testo: «Infatti l’immagine che accompagna l’argomentazione letteraria ne
permette, grazie alla peculiare sintesi visiva dell’illustrazione, una recezione mnemonica
immediata che può, colpendo la fantasia dialogica, guidare il lettore nei significati meno
evidenti dell’articolato discorrere, facilitandogli poi la comprensione dei contenuti che nel
complesso vengono dichiarati.» 24
E’ da notare che manoscritti e opere a stampa ripropongono le medesime illustrazioni spesso
con differenze minime: si vedano, ad esempio, le vignette del Rosarium pubblicato da Perna e
le analoghe miniature che lo accompagnano nel ms. 394 della Vadianischen Bibliothek di San
Gallo, in Svizzera.
PM

►12 PSEUDO GEBER

In hoc volumine De alchemia continentur haec. Gebri arabis, … De inuestigatione


perfectionis metallorum. Liber I. Summae perfectionis metallorum, siue perfecti
magisterij. Libri II. Quae sequuntur, omnia nunc primum excusa sunt. Eiusdem De
inuentione ueritatis seu perfectionis metallorum. Liber I. De fornacibus
construendis. Libri I. Item. Speculum alchemiae, doctissimi uiri Rogerij Bachonis ...

23
Ibid., p.152.
24
Cfr. MINO GABRIELE, Alchimia, cit., p. 33; dal libro di Gabriele traggo anche le osservazioni
sull’iconografia del Rosarium.

14
Norimbergae : apud Ioh. Petreium, 1541 (Norimbergae : per Ioh. Petreium, 1541
mense Augusto).
[20], 373, [5]p. : ill. ; 4° (200 x 150 mm).
Collocazione: A.IV.G.VII.32
Provenienza: Antonio e Bartolomeo Bonfiglioli (sec. XVIII)

Di vasta e duratura fama godettero le opere dello «Geber latino 25», oggi identificato con Paolo
di Taranto, un frate francescano che sembra essere stato lettore presso il convento di Assisi e
che fu uno dei più importanti autori alchemici del tardo Medioevo.
L’edizione esposta raccoglie numerosi scritti, tra i quali spicca la Summae perfectionis
metallorum, siue perfecti magisteri; qui lo pseudo Geber, dopo aver affrontato le obiezioni
ricorrenti sulla verità dell’alchimia, descrive le proprietà dei metalli, che designa con il nome
dei pianeti loro corrispondenti, ed espone la teoria della trasmutazione, realizzabile attraverso
«medicine», ossia principi attivi, di crescente efficacia.
Alla base delle dottrine
alchemiche esposte nella
Summa sta la teoria dei
minima naturalia, secondo
la quale la materia è
composta da particelle la
cui maggiore o minore
coesione spiega la diversa
natura dei metalli e il loro
comportamento fisico-
chimico e rende possibile
il processo di trasmu-
tazione. Questa teoria
esercitò una grande
influenza sulla spe-
culazione filosofica e
sull’evoluzione del pen-
siero scientifico nei secoli
successivi: basti ricordare
l’interesse che suscitò in
Newton.
Oltre che per l’importanza
della Summa geberiana, l’edizione esposta si segnala per la presenza del breve trattato De
fornacibus, attribuito allo stesso autore. Strumento principe dell’opus alchemico, il forno o
atanor 26 suscita un costante interesse negli adepti dell’ars ed è spesso raffigurato nei loro

25
Il nome di Geber divenne molto noto agli alchimisti europei grazie a un gruppo di cinque scritti (di cui
il maggiore s'intitola Summa perfectionis magisterii), comparsi verso il 1300, che si ritennero tradotti
dall’arabo, mentre fu successivamente dimostrato che si trattava di testi composti direttamente in latino,
donde l’attuale attribuzione allo pseudo-Geber o «Geber latino».
Lo pseudo-Geber non deve essere confuso con Jābir ibn Hayyān, nato intorno al 721, sotto il cui nome ci
è pervenuta la più importante raccolta di opere arabe, dovute in realtà a diversi autori della medesima
scuola e composte tra il IX e i X secolo d.C. Cfr. MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., pp. .96-100,
137-139.
26
«Termine alchemico ed ermetico, designante un fornello a riverbero e a fuoco continuo, nel mezzo del
quale, in un recipiente a forma di uovo, andava messa, ed ermeticamente chiusa, la materia da cui si
doveva trarre la Pietra dei Filosofi. L'espressione è usata per la prima volta da Raimondo Lullo (1234-

15
testi, sia manoscritti che a stampa; in questa edizione, dotata di un ricco apparato illustrativo,
ne sono raffigurati diversi tipi in 12 eleganti xilografie.
Alle opere pubblicate sotto il nome di Geber seguono nell’edizione esposta quelli di altri
illustri alchimisti, come Ruggero Bacone, e una breve opera anonima di grandissimo rilievo
nella storia dell’alchimia, la Tabula smaragdina 27, raccolta di aforismi che esprimono alcuni
concetti fondamentali della cosmologia ermetica e il loro rapporto con l’alchimia.
Segnaliamo infine che sull’esemplare figurano numerose postille e lunghe annotazioni di
mani diverse, a riprova dell’interesse che l’opera dovette suscitare tra gli studiosi.
PM

1315) e precisamente nell'Elucidatio Testamenti R. Lulli, c. III, ove, con derivazione dal gr. άθάνατος, è
interpretata come un'allusione alla conquista iniziatica dell'immortalità». La citazione è tratta dal sito
della Enciclopedia italiana online, <http://www.treccani.it/enciclopedia/atanor_(Enciclopedia-Italiana)/ >;
ultima consultazione: 6.2.2013.
27
Così detta perché, secondo la leggenda, Ermete l’avrebbe scritta incidendone il testo su una tavola di
smeraldo.

16
►13 Miscellanea alchemica.

Ms., sec. XVII (1627), cartaceo, cc. I, 63, mm 250 x 193, illustrato.
Collocazione: BUB, ms. 457, busta XXIV, n. 4
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

La caratteristica di questo volume, uno dei


più belli della collezione alchemica donata
all'Istituto delle Scienze dalla contessa
Caprara, è la ricchezza iconografica, che si
esplica in diverse serie di illustrazioni
allegoriche dell'opera alchemica.
La prima parte, corredata da dieci disegni a
piena pagina, riprende l'iconografia del
Donum Dei di Georges d'Aurach già
presente, in una versione più rozza e
incompleta, nel ms. 457, XIX, 3. La parte
successiva, dedicata all'alchimista francese
Nicolas Flamel, si apre con la bellissima
riproduzione (un'incisione colorata a mano,
con tocchi di oro) dell'affresco fatto porre da
Flamel e dalla moglie Perrenelle nella quarta
arca del cimitero degli Innocenti di Parigi. Il
significato dei simboli presenti nel
complesso dipinto è spiegato sia nel trattato
attribuito allo stesso Flamel ed esposto in mostra nella versione a stampa del 1612, sia nella
Lettre de monsieur Dupuits sur l'explication de la figure de Flamel presente in questo
manoscritto e rimasta inedita fino al 1987 28. Non abbiamo notizie sull'identità dell'autore, che
afferma di scrivere su preghiera di un «monsieur Brunel» suo intimo amico; dalla lettera si
desume che non abitava a Parigi (e non aveva mai visto l'affresco di Flamel) e che aveva
studiato l'alchimia per 23 anni, rimpiangendo di non avere i mezzi che gli permettessero di
dare un'applicazione pratica a quanto appreso in un così lungo studio: «Mon malheur a été
jusqu'ici que je n'ai eu quelque homme
qui me peut assister de commodités et
moi je l'eusse peu assister de savoir».
Dupuits conosce l'edizione a stampa delle
Figures hierogliphiques, che definisce
«fidèlement fait sur l'original» e si
propone di darne una spiegazione meno
ermetica, collegando ogni figura
dell'affresco ad una fase dell'opus
alchemico. Alla lettera seguono le sette
figure a piena pagina che dovrebbero
riprodurre una parte di quelle presenti nel
mitico libro di 'Abraham ebreo' acquistato
da Flamel e che sarebbero alla base del

28
SYLVAIN MATTON, «Lettre de Monsieur Dupuits sur l’explication de la figure de Flamel»,
«Chrysopoeia», I (1987), pp. 21-30.

17
successo ottenuto dall'alchimista francese nella sua opera. Si tratta forse della prima versione
conosciuta di tali immagini, che compaiono anche in un codice della Bibliothèque de
l'Arsenal di Parigi (ms. 3047), risalente però al secondo quarto del sec. XVII 29.
Un altro ciclo iconografico presente nel volume è quello delle figure geroglifiche attribuite al
filosofo Solidonius: una serie di 18 immagini forse risalente alla metà del XVI secolo, ma che
compare, con varianti, in diversi manoscritti di datazione molto più tarda (XVIII sec.). A
testimonianza del perdurare della suggestione di queste immagini anche nell'immaginario
moderno, il critico d'arte svedese Ulf Linde ha suggerito che un'opera dell'artista francese
Marcel Duchamp, La Mariée mise à nu par ses célibataires, sia ispirata ad una figura del
ciclo di Solidonius, raffigurante una vergine liberata delle sue vesti da due figure maschili.
Nella simbologia alchemica la vergine rappresenta la pietra filosofale che, al termine
dell'opus, si spoglia di tutti i suoi colori rimanendo nella sua integrale purezza e trasparenza.
RDT

►14 ARTEPHIUS (fl. 1130)

Trois traitez de la philosophie naturelle non encore imprimez. Scauoir le secret liure
du tres-ancien philosophe Artephius, traitant de l'art occulte & transmutation
metallique, latin francois. Plus les figures hierogliphiques de Nicolas Flamel ...
Ensemble le vray liure du docte Synesius ... A Paris : chez Guillaume Marette, 1612.
103, [1] p., [1] c. di tav. ripieg. : ill. ; 4° (212 x 150 mm).
Collocazione: A.V.Caps.144.5
Provenienza: Antonio e Bartolomeo Bonfiglioli (sec. XVIII)

29
DIDIER KAHN, Le fonds Caprara…, cit., p. 96 e n. 153.

18
Ben poco sappiamo di due dei tre autori che figurano in questa raccolta, Artefio e Sinesio; al
primo sono tradizionalmente attribuite diverse opere di probabile derivazione araba, tra le
quali una nota Clavis sapientiae e il Liber secretus qui pubblicato; il secondo appartiene alla
folta schiera degli antichi alchimisti dei quali abbiamo notizia grazie all’opera degli eruditi
bizantini, che tramandano testi e frammenti dell’età ellenistica. Argomento di entrambi i brevi
trattati è la realizzazione della pietra filosofale.
Più noto e storicamente identificato è il terzo autore, il francese Nicolas Flamel (Pontoise
1330 circa-Parigi 1418), scrivano, libraio e alchimista, intorno al quale fiorì «forse la più
celebre ed emblematica leggenda del Medioevo europeo» 30.
L’avventurosa storia dei suoi pellegrinaggi alla ricerca della verità celata nelle immagini di un
libro misterioso 31 e la penetrazione del segreto che gli permette infine di realizzare l’opus, è
riportata, sotto forma di narrazione autobiografica, nel trattato Les figures hierogliphifiques a
lui attribuito. Ne emerge il ritratto dell’alchimista quale dovette raffigurarselo la società
dell’epoca: un uomo colto, dedito a una ricerca instancabile che deve compiersi in solitudine,
pellegrinaggio non solo metaforico per ottenere quell’oro alchemico che è, al tempo stesso,
anche perfezione interiore e verità rivelata. Ne Les figures hierogliphiques Flamel narra di
aver infine raggiunto la meta, realizzando la trasmutazione alchemica della materia «ad
album» – cioè ottenendo argento – il 17 gennaio 1382 e quella «ad rubeum» – l’oro – il 25
aprile; la leggenda vuole poi che egli distribuisse in beneficenza la propria ricchezza e
vivesse, grazie al potere dell’elixir, una vita lunghissima, plurisecolare secondo alcuni o mai
finita secondo altri.
L’opera è quasi certamente un falso costruito nel Seicento, forse una speculazione editoriale
che rispose alla curiosità del pubblico avido di misteri. Le figure geroglifiche alle quali si
riferisce il titolo sono elementi di un affresco, oggi perduto, fatto dipingere da Flamel in
un’arcata del Cimitero degli Innocenti a Parigi 32; si tratta d’immagini religiose alle quali egli
attribuisce un significato allegorico relativo all’ars.
Il sovrapporsi del repertorio illustrativo dell’arte sacra a quello tradizionale dell’alchimia
caratterizza la grande fioritura iconografica del Seicento e raggiunge esiti di suggestiva
bellezza, anche se spesso difficili da decifrare. Segnaliamo in particolare l’incisione del
capitolo VI, raffigurante Cristo risorto, come esempio pregnante del simbolismo alchemico
veicolato tramite l’iconografia religiosa; così Flamel spiega che il Re risorto è simbolo
dell’elixir bianco: «Leure maintenant les yeux en haut, & voy venir nostre Roy couronné &
resuscité, qui à vaincū la mort, les obscuritez, & humiditez, le voila en la forme que viendra le
Sauueur…Voicy nostre Elixir blanc qui d’oresnauant vnira à soy inseparablement toute nature
pure metallique, la transmuant en sa nature argentee, & tres-fine…» 33
Sulla scorta di libri come i Trois Traitez non è difficile comprendere l’attrazione esercitata per
secoli dall’alchimia: non solo essa addita ai suoi adepti un traguardo d’irresistibile fascino, ma

30
Crf. MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., p. 177.
31
Flamel racconta: «… il me tomba entre mains pour la somme de deux florins, vn liure doré, fort vieux,
& becoup large, il n’estoit point en papier ou parchemin, comme sont les autres, mais seulement il estoit
faict de deliée escorces, (comme il me sembloit) de tendres arbrisseaux. Sa couverture estoit de cuyure
bien delié, toute grauéè de lettres ou figures estranges, & quant à moy, ie croy qu’elles pouvoient bien
estre des caracteres Grecs, ou d’autre semblable langue ancienne…» Cfr. Trois traitez de la philosophie
naturelle…, p. 50 dell’edizione esposta.
32
Cfr. Trois traitez de la philosophie naturelle…, p. 58: «…ie me resolus de faire pendre en la quatriesme
arche du Cymetiere des Innocens entrant par la grande porte de la rue S. Denys, & prenant la main droicte
le plus vrayes & essentielles marques de l’art, souz neantmoins des voiles & couvertures Hieroglifiques à
l’imitation de celles du liure doré du Iuif Abraham…»
33
Cfr. Trois traitez de la philosophie naturelle…, p. 85.

19
lo descrive con un linguaggio ricco di simboli misteriosi e d’immagini che si traducono in una
iconografia di forte impatto emotivo; non a caso nel Novecento l’arte dei figli di Ermete è
lungamente studiata da Jung, che ritrova in essa gli archetipi dell’inconscio collettivo e mette
in luce la corrispondenza tra l’opus alchemicum e il principio di individuazione, cioè
l’acquisizione della consapevolezza di sé attraverso la liberazione dai propri conflitti interiori.
PM

►15 RAMÓN LULL (1233/35 ca.-1315)

Arbor scientiarum.
Ms., sec. XV (1415), cartaceo, cc. II, 173, I, mm 440 x 290.
Collocazione: BUB, ms. 929
Provenienza: Iacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766)

Le vicende del catalano Ramón Lull, nato a Palma di Maiorca intorno al 1233, hanno qualche
somiglianza con quelle di S. Francesco d'Assisi, del quale peraltro Lull fu molto devoto: dopo
una prima giovinezza trascorsa nella spensieratezza anch'egli sperimentò una repentina
conversione, che lo portò a vendere i suoi beni, a lasciare moglie e figli e a ritirarsi dalla vita
mondana per dedicarsi all'evangelizzazione, attivamente svolta dopo aver condotto
approfonditi studi teologici ed aver imparato l'arabo. Autore di moltissime opere, che
spaziano in campi diversissimi (filosofia, teologia, mistica, pedagogia, medicina, scienze

20
naturali, letteratura) la sua speculazione fu volta a dimostrare che i misteri della fede possono
essere compresi con la ragione. Questa visione razionalista doveva essere applicata a tutti i
campi della conoscenza umana: più che all'osservazione della realtà, Lull si affidava ad una
sorta di matematizzazione del mondo, per cui tutte le cose potevano essere scomposte in
elementi semplici che, combinati fra di loro, generavano la complessità del creato. Nasceva
così la cosiddetta ars combinatoria, presupposti della quale sono l'individuazione degli
elementi semplici e la regola secondo cui essi si legano. In questa visione l'Arbor scientiarum,
scritto fra il 1295 e il 1296, rappresenta un tentativo enciclopedico di costruire una gerarchia
del sapere, simboleggiato da un albero le cui radici sono costituite da nove principi
trascendenti o dignità divine e da nove principi relativi dell'arte. Queste radici confluiscono
nel caos primigenio del tronco, da cui si dipartono sedici rami, considerabili come alberi a sé
stanti e divisi a loro volta in sette parti (radici, tronco, branche, rami, foglie, fiori e frutti).
Lull non scrisse opere alchemiche, anzi, si espresse negativamente riguardo a questa
disciplina; tuttavia la sua
speculazione filosofica fu con-
tinuata dai suoi successori
lungo due tendenze, una ra-
zionalistica e l'altra magico-
cabalistica. A questa corrente
si deve la diffusione di un
corpus pseudo-lulliano di ar-
gomento alchemico, incentrato
soprattutto sulla ricerca del-
l'elixir 34.
Come si legge nella sotto-
scrizione alla fine del volume,
questo manoscritto contenente
il testo dell'Arbor scientiarum
fu copiato a Padova nel 1415
ad opera di un «Johannem de
Mysna theotonicum», forse un
tedesco di Meissen che compì
i suoi studi universitari a
Praga 35. Il codice, di grande
formato, presenta un'elegante
impaginazione a due colonne,
con iniziali filigranate in inchiostro rosso e blu e, alla prima carta, una grande iniziale ornata a
motivi fitomorfi. Al centro del margine inferiore figura, all'interno di un blasone, l'immagine
della croce vuota e insanguinata, con il cartiglio «INRI» e la corona di spine, forse indizio
dell'antica appartenenza del manoscritto a qualche congregazione religiosa.
RDT

34
LYNN THORNDIKE, A History of magic and experimental science during the first thirteen centuries of
our era, New York, Columbia University Press, 1923, vol. II, pp. 862-873.
35
Il suo nome è attestato nel periodo 1379-1386 presso l'ateneo praghese: cfr. RAG, Repertorium
Academicum Germanicum., <http: //www.rag-online.org/gelehrter/id/965492953>, ultima consultazione:
15.3.2013.

21
►16 PSEUDO LULL

Testament, Praticque, Codicille, Livre des mercures, La tierce distinction de la


quinte essence.
Ms., sec. XV, cartaceo, cc. XIV, 246, III, mm 280 x 207.
Collocazione: BUB, ms. 930
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

Nelle sue opere Ramón Lull non si era espresso a favore della scienza alchemica: nelle
Quaestiones per artem demonstrativam seu inventivam solubiles, per esempio, aveva addotto
varie ragioni contrarie alla teoria della trasmutazione dei metalli 36. È dunque certo che il
Testamentum e le numerosissime opere alchemiche attribuitegli non siano in realtà ascrivibili
al filosofo francescano, anche se in esse sono spesso presenti puntuali riferimenti all'ars
combinatoria, evidenti nell'utilizzo di schemi e figure tipiche della speculazione lulliana;
questo ha fatto ipotizzare l'esistenza di una scuola di alchimisti di area catalano-occitanica
discepoli di Lullo o che comunque a lui facevano riferimento. La grande opera conosciuta con
il titolo di Testamentum, tramandata in questo codice in una versione francese, è divisa in due
parti, una teorica e una pratica, dedicata alla produzione dell'elixir e ai suoi vari campi di
applicazione medico-alchemici. Come nel Rosarium villanoviano, anche nel Testamentum si
teorizza che la materia prima dell'opus sia il mercurio «non volgare», ottenuto tramite la
putrefazione di altri elementi; la sostanza finale che risulterebbe dal lavoro dell'alchimista
avrebbe sia virtù trasmutatorie sui metalli, sia poteri farmacologici nella guarigione delle
malattie e addirittura nella reintegrazione dell'«umore vitale», passaggio fondamentale per
avvicinarsi all'immortalità.
Nel Codicillus, altra opera
pseudolulliana presente in questo
codice in traduzione francese, la
filosofia alchemica del Te-
stamentum è esposta in modo più
sintetico, «sulla falsariga di un
commento alla Tabula smaragdina,
ed è uno dei primi testi in cui le fasi
dell'opus sono raggruppate secondo
lo schema dei quattro colori
(nigredo, viriditas o cauda pavonis,
albedo, rubedo)» 37.
Il fondo Caprara, di cui questo
codice faceva parte, è caratterizzato
dal numero cospicuo di trattati
pseudo-lulliani presenti, mentre
molto poco rappresentata è
l'alchimia di tipo paracelsiano; il carattere erudito e lo spirito critico dell'ignoto collezionista
cui la raccolta apparteneva prima del suo arrivo a Bologna sono ben evidenziati dalle postille
(spesso datate) che sono state apposte all'inizio dei testi del manoscritto. Per esempio, nel
margine superiore della c. 171r, dove inizia «La tierce distinction du livre de la quinte
essence», si può leggere: «Ce 5 avril 1627 comparé cette troisieme distinction a celle qui est

36
LYNN THORNDIKE, A History of magic, cit., vol. II, p. 867.
37
MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., p. 155.

22
latine imprimée a Cologne avec les deux aultres distinctions l'an 1567 par Birkman». Il
possessore del codice aveva dunque confrontato questo testo con l'edizione latina del De
secretis naturae, seu de quinta essentia liber vnus, in tres distinctiones diuisus ... stampata a
Colonia nel 1567 da Johannes Birkmann. Talvolta le annotazioni contengono anche i nomi di
altri collezionisti, possessori di testi utilizzati per la collazione delle opere: alla c. 1r compare
un «monsieur de Champigny» nella cui biblioteca si trovavano alcune edizioni del
Testamentum lulliano, probabilmente un Bochart de Champigny riconducibile all'ambiente
'libertino erudito' del primo Seicento francese 38.
RDT

►17 RAMÓN LULL (1233/35ca.-1315)

Beati Raymundi Lulli doctoris illuminati et martyris operum tomus I [-10].


Moguntiae : ex officina Typographica Mayeriana per Joannem Georgium Haffner,
1721-1742.
10 v. ; 2°.
Collocazione: A.M.S.IV.6/1-8
Provenienza: antico fondo
Si espone il v. 1.

L’alchimia non trova spazio nella speculazione di Lullo, che s’incentra soprattutto sulla
formulazione della nota ars combinatoria; tuttavia al filosofo francescano fu ben presto
attribuito un consistente
corpus di opere di questo
argomento, composte tra il
XIV e il XVI secolo, nelle
quali sono evidenti gli
elementi a lui ricon-
ducibili. Ad esempio nel
Liber de secretis naturae,
uno dei più noti testi
pseudo-lulliani, l’autore
rielabora il De consi-
derazione quintae es-
sentiae di Giovanni da
Rupescissa e a questo ag-
giunge le celebri tavole
combinatorie, che trovano
nell’alchimia un fertile
campo di applicazione;
grande diffusione ebbe an-
che il Testamentum, che di
Lullo accoglie l’idea di un
principio unitario che
pervade tutto il creato.

38
DIDIER KAHN, Le fonds Caprara, cit, pp. 62-110, pp. 87-91, p. 84.

23
E’ interessante notare che, parallelamente
alla diffusione dei testi pseudo-lulliani,
prendono piede varie leggende, intese a
conciliare tali attribuzioni con le
affermazioni contrarie all’alchimia
disseminate nelle opere del filosofo.
L’influenza che il pensiero di Lullo
esercita sugli alchimisti dei secoli
successivi è tale da legare indis-
solubilmente il suo nome a quello di
coloro che perseguono l’opus.
Qui proponiamo i suoi scritti nella bella
edizione maguntina che costituisce il
primo tentativo di opera omnia, voluta
dallo studioso ed editore austriaco Ivo
Salzinger, che cura i primi tre volumi,
aggiungendo al primo e al terzo due suoi
importanti studi introduttivi.
Alla morte di Salzinger, per volontà
dell’Elettore arcivescovo di Magonza
Lotario Francesco, l’ambiziosa impresa
editoriale viene proseguita da due
religiosi, Franz Philipp Wolff e Johann
Melchior Kurhummel, che, pur non
portandola a compimento, realizzano
comunque un’opera tuttora importante per
gli studiosi di Lullo. Gli otto volumi
pubblicati raccolgono 48 opere in latino,
36 delle quale edite per la prima volta; non
vengono invece pubblicate le 77 opere
alchemiche previste dal progetto iniziale 39.
Oltre ad essere un punto di riferimento per la tradizione testuale, l’edizione maguntina è assai
pregevole da un punto di vista tipografico: alla eleganza e alla chiarezza del testo si aggiunge
la ricchezza dell’apparato illustrativo, costituito da numerosissime tavole nelle quali le tabelle
dell’ars combinatoria e le celebri rotae lulliane sono impresse in molti colori, per
evidenziarne il contenuto e facilitarne la fruizione, con un risultato assai valido anche
esteticamente.
Segnaliamo infine, nel volume esposto, le due belle incisioni con i ritratti di Lullo e del conte
palatino Carlo Filippo, disegnati dal pittore e incisore veneziano Domenico Rossetti (Venezia,
1650-Verona, 1736); la natività che orna il frontespizio reca invece la firma dell’incisore
Johann Heinrich Storchlin (1687-1737).
PM

39
I volumi dal I al VI sono numerati regolarmente, mentre gli ultimi due sono indicati come volume IX e
X. I volumi VII e VIII non furono mai pubblicati.

24
►18 PSEUDO LULL

Theorica Testamenti.
Ms., sec. XV (ultimo quarto)-XVI (primo quarto), cartaceo, cc. I, 95, mm 285 x 215.
Collocazione: BUB, ms. 457,
busta V, n. 8
Provenienza: Vittoria Caprara
(sec. XVIII)

A riprova di quanto già osservato


sulla presenza all'interno della
collezione Caprara di molti testi
appartenenti alla tradizione
alchemica pseudo lulliana, ritro-
viamo in questo manoscritto una
parte del Testamentum (solamente
il primo libro, riguardante la
theorica) già contenuto nel codice
precedente nella versione francese.
È interessante notare le diverse
caratteristiche dei due volumi.
Il primo è il prodotto di un copista
francofono, scritto in una grafia
che, per quanto quattrocentesca,
conserva ancora i caratteri della
gotica, con una impaginazione che
rende difficile l'individuazione
dell'inizio e della fine dei singoli
testi; questo manoscritto, invece,
che può essere datato fra la fine del
XV secolo e l'inizio del successivo,
mostra già la transizione verso l'edizione a stampa. Confezionato sicuramente in Italia
(tipicamente italiane sono anche le filigrane della carta) è scritto in una elegante umanistica
corsiva, con titoli in rosso e annotazioni marginali in inchiostro azzurro; l'impaginazione è
ariosa, con accurati disegni e schemi realizzati a penna con inchiostro rosso e azzurro.
L'effetto complessivo, dal punto di vista estetico, è di estrema pulizia e precisione geometrica;
non altrettanto curata però doveva essere l'edizione del testo, che è sottoposta a numerose
correzioni ed integrazioni di altre mani, una probabilmente contemporanea o di poco
posteriore, un'altra seicentesca. Quest'ultima dovrebbe essere quella del collezionista francese
ignoto di cui si è già parlato riguardo all'origine del fondo Caprara. Una sua postilla di lettura
si trova infatti all'inizio di questo codice, esaminato e collazionato nel 1626 (cioè circa nello
stesso periodo in cui era stato studiato anche il manoscritto 930), confrontandolo con edizioni
a stampa possedute da quel «monsieur de Champigny» già trovato come possessore di alcune
edizioni del Testamentum lulliano. Nelle annotazioni ai margini sono presenti anche
riferimenti ad altri autori alchemici, nonché ad alcuni capitoli della seconda parte del
Testamentum, riguardante la practica (non presente nel manoscritto): alla c. 11v, per esempio,
vengono citati Hermes e Geber, nominato anche più avanti, alle cc. 41r, 58r e v.
Le carte di guardia del codice presentano una filigrana molto particolare (tre tulipani cerchiati
e sormontati da una stella), che i repertori datano alla metà del XVI secolo: questo sta

25
probabilmente ad indicare che l'attuale legatura in pergamena floscia fu realizzata qualche
decennio più tardi rispetto alla trascrizione del testo; sulla sguardia del piatto posteriore si
trovano poi annotazioni della solita mano francese seicentesca, con osservazioni che rinviano
ad alcuni capitoli del Testamentum.
RDT

►19 CHRISTOPHLE PARISIEN (sec. XV)

Oeuvres.
Ms., sec. XVI (1591), cartaceo, cc. I, 62, I, mm 355 x 225.
Collocazione: BUB, ms. 457, busta VII, n. 4
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

«Les oeuvres de Christophle Parisien tres excellent philosophe corrigées de toute superfluité
traduites d'itallien en françois au mois de janvier 1584 doublées à Paris par Monsieur de la
Bonaventure 1585 et coppiées par moy Guillaume Meslam sur son double l'an 1591 estant
lors a Vendosme»: così si legge all'inizio di questo manoscritto contenente diverse opere di un
alchimista del XV secolo conosciuto come Christophle Parisien. La stessa premessa, con
parole quasi identiche, si ritrova in altri due codici contenenti una raccolta delle sue opere: il
ms. Fr. 19071 della Bibliothèque nationale de France, dove però il nome del traduttore è
sostituito dalla sigla «E.A.D.M.», e il ms. 192 della Wellcome Library di Londra, che omette
ogni indicazione onomastica.
Molto scarse sono le notizie su
Christophle Parisien, seguace della
scuola pseudo-lulliana le cui opere
furono in parte stampate in Germania
nel XVIII secolo. Nel suo
Elucidarius egli propone, come
proprie figure di riferimento al-
l'interno della tradizione alchemica,
Hortulanus, che ha spiegato gli
oscuri insegnamenti ermetici,
Arnaldo da Villanova, che ha
lasciato il suo Rosarium, Rámon
Lull, autore di moltissimi trattati,
Alberto Magno e S. Tommaso d'A-
quino; il loro insegnamento non può
essere divulgato in forma com-
prensibile a tutti, ma deve essere esposto in modo che «res ignorantibus maneat obscura,
sapientibus vero fiat manifesta». Nello stesso Elucidarius, inoltre, Christophle racconta di un
suo soggiorno a Roma, durante il quale avrebbe rinvenuto uno scrigno di piombo contenente
un vaso di vetro colmo di un liquido profumato rimasto sepolto per ben 848 anni; il liquido
avrebbe conservato il proprio profumo, nonostante l'antichità, grazie alle virtù della quinta
essenza.
L'episodio, collocandosi in Italia, potrebbe anche spiegare la stranezza di quanto affermato
nell'annotazione iniziale del nostro manoscritto, cioè che l'opera di Christophle sia stata
tradotta dall'italiano in francese; italiani sono anche i nomi di alcuni corrispondenti

26
dell'alchimista che compaiono in altre sue opere: il nobile veneziano Andrea Ognibene e
Cristoforo da Recaneto, professore di filosofia e medicina a Padova fra 1460 e 1480 40.
Il codice esposto contiene varie opere di Christophle Parisien, alcune in versione abbreviata;
troviamo nell'ordine la Medulla artis, la Sommette (con omissione dei primi sette capitoli,
giudicati «non beaucoup interessans»), la Viollette (che inizia dal capitolo terzo della seconda
parte), il Lucidaire (che presenta alcuni capitoli in forma di estratto), l'Alphabet apertorial.
RDT

►20 Miscellanea di mascalcia, falconeria ed alchimia.

Ms., sec. XIV, membranaceo (in parte palinsesto), cc. I, 161, II, mm 260 x 180.
Collocazione: BUB, ms. 153
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

Questo codice sembra il risultato dell'unione di due


miscellanee: la prima (cc. 3-58) formata da diversi
testi di mascalcia e di falconeria, con l'aggiunta in
fine di un trattato matematico di Giovanni da
Sacrobosco, la seconda (cc. 59-fine) comprendente
numerosi trattati di alchimia. Entrambe le parti sono
di grande interesse, sia per la decorazione che per i
testi contenuti.
Nella prima sezione è presente una ornamentazione
calligrafica con eleganti cornici filigranate ad
inchiostro rosso e blu, talvolta con uso di oro in
foglia per le iniziali, anch'esse decorate a penna con
estrema raffinatezza. Si susseguono un testo di
medicina dei cavalli composto da Lorenzo Rusio,
maniscalco del cardinale Napoleone Orsini che fu
legato a Bologna nel 1306, un trattato di caccia
attribuito al falconiere arabo del IX secolo Moamyn,
un altro breve trattato di falconeria scritto in una
lingua mista di italiano e catalano da un «Peire de
l'astor» forse legato alla corte di Federico II 41, e il Tractatus algorismi di Giovanni da
Sacrobosco, con diagrammi illustrativi e tabelle per la spiegazione delle diverse operazioni
matematiche.
Nella seconda sezione, scritta con una grafia dal modulo più grande e maggiormente spaziato,
l'ornamentazione è completamente diversa; troviamo infatti iniziali in foglia d'oro con
campiture di riempimento in vari colori e motivi fitomorfi che si intrecciano sia all'interno
delle lettere che fuori dai loro margini. In questa parte del codice, inoltre, si notano diversi
fogli palinsesti; in alcune delle pergamene riutilizzate sono rimaste tracce della scrittura
precedente che consentono di riconoscere una frase tratta dal sesto libro delle Decretali,
emanato da Bonifacio VIII nel 1298. In altri fogli è invece presente la traccia di un documento

40
LYNN THORNDIKE, A History of magic, cit., vol. IV, pp. 349-350. Secondo MICHELA PEREIRA, Arcana
sapienza, cit., p. 194, Cristoforo da Parigi sarebbe un alchimista italiano e non francese.
41
ANTONIO RESTORI, Peire de l'astor. Recettes de fauconnerie, «Revue des langues romanes», IX (1896),
pp. 289-301; GIANFRANCO CONTINI, Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica
(1932-1989), Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2007, p. 934.

27
cancelleresco relativo forse ad un ambito ecclesiastico spagnolo (si riesce a leggere il nome
della chiesa di «Sancta Maria de Villalva»). Per quanto riguarda i testi alchemici, si conferma
in questo manoscritto la tendenza già riscontrata in altre miscellanee provenienti dal fondo
Caprara, e cioè la predilezione per trattati che riguardano la ricerca e la realizzazione della
pietra filosofale, nella sua duplice funzione di medicina dal potere universale e di agente
capace di operare la trasmutazione dei metalli. Ritroviamo così i testi di Arnaldo da
Villanova, dello pseudo-Lull, di Geber latino, di Razi, accanto ai quali però figurano brevi
trattati che sembrano tramandati solo da
questo codice, come gli anonimi Opus
peregrini e Liber angelicus contenuti
rispettivamente alle cc. 80r-82v e 124v-
125v.
Anche in questo volume si notano, a
partire dalla c. 67v, le postille apposte
dalla mano seicentesca dello sconosciuto
raccoglitore francese; come al solito sono
annotati confronti con altri testimoni dei
testi, sia a stampa che manoscritti, ma si
trovano anche corpose integrazioni in
margine ad alcune opere, in particolare nel Liber de compositione lapidum preciosorum dello
pseudo-Lull.
RDT

►21 GIOVANNI AGOSTINO PANTEO (sec. XVI, prima metà)

Voarchadumia contra alchi'miam: ars distincta ab archimi'a, & sophia: cum


additionibus: proportionibus: numeris: & figuris opportunis …. Venetiis, diebus
Aprilis 1530.
69, [1] c. : ill. ; 4º (210 x 150 mm).
Collocazione: A.V.B.IX.1
Provenienza: Convento di San Giacomo Maggiore, Bologna

Quest’opera dal titolo singolare si deve a un prete veneziano attivo nella prima metà del
Cinquecento, che s’inserisce nelle dispute sull’alchimia all’epoca assai diffuse: molti sono
infatti coloro che considerano gli alchimisti una schiera d’illusi o, più spesso, di millantatori e
imbroglioni.
Panteo distingue l’alchimia dall’archimia: mentre la prima è l’ingannevole fabbricazione di
oggetti dorati, la seconda è l’antica e venerabile sapienza di Tubal-Cain e di Ermete,
tramandata dagli alchimisti medievali che ricercarono l’elixir; ma la vera scienza della
trasmutazione dei metalli è quella per la quale conia il termine voarchadumia, dal caldaico
«voarch», oro e dall’ebraico «mea à adumót», «dei due rossi»: «l’oro dei due rossi», o «di due
cementificazioni perfette», secondo una etimologia complessa che rimanda al processo di
trasmutazione alchemica 42.

42
«Sed iam ad uerbum ipsum Voarchadumia deuenientes, dicimus ipsum deriuari, ac denominari, ab
Auro ex duabus rubeis: quod Chaldaeo idiomate componitur ab Voarch (Auro) particula Indica primitiua:
& Mea à adumót Hevraice (ex duabus rubeis) quod Latine significat Aurum duarum rubearū: hoc est
duarum caementationum perfectarum»: cfr. Voarchadumia, p. 10 dell’edizione esposta.

28
Forse alle bizzarrie linguistiche di Panteo non è estranea la condanna dell’alchimia
pronunciata nel 1488 dal Consiglio dei Dieci, frutto della preoccupazione per i falsari
largamente diffusa tra i governanti italiani ed europei nei secoli in cui tanti cercano di
fabbricare l’oro. Il religioso veneziano
non trova comunque ostacoli nelle
autorità: la prima edizione dell’Ars
transmutationis metallicae, pubblicata a
Venezia nel 1518, reca il placet di Leone
X e del Consiglio dei Dieci; la stessa
Voarchadumia non potrà essere
pubblicata e commercializzata senza il
consenso dell’autore o dei suoi eredi,
secondo la concessio impressionis del
legato apostolico premessa al testo.
Al di là delle distinzioni e delle
invenzioni verbali, l’importanza di Panteo
sta nell’aver accostato per la prima volta
l’alchimia alla tradizione cabalistica,
introducendo l’uso dei caratteri ebraici e
del Tetragrammaton 43 e dando vita a una
«cabala dei metalli» 44 destinata a
esercitare notevole influenza sugli autori
successivi 45.
La Voarchadumia è un’opera insieme
teorica e pratica: alle riflessioni sulla falsa
e la vera arte trasmutatoria seguono infatti indicazioni relative ai metalli e agli strumenti di
laboratorio necessari all’opus, raffigurati in belle tavole incise, che possono essere annoverate
tra le illustrazioni «scientifiche» legate all’alchimia.
Il frontespizio architettonico, invece, ci riporta all’iconografia alchemica di carattere
simbolico: Panteo è seduto in cattedra tra Tubal-Cain ed Ermete, mentre i cartigli sulle
colonne e tra le mani dei putti ricordano i nomi di grandi alchimisti del passato. Da questo
tipo di illustrazione traspare il bisogno di sottolineare l’antichità dell’ars, che fu
particolarmente forte in epoca umanistica, quando dovette essere avvertita con disagio la
mancanza di radici classiche dell’alchimia: una lacuna alla quale si sopperisce con il richiamo
alla prisca philosophia e a Ermete 46.
La Voarchadumia e l’Ars trasmutationis vengono riproposte entrambe in una edizione
parigina del 1550 e ancora nel Settecento, nella grande Bibliotheca Chemica di Mangetus, a
riprova del loro durevole successo presso i «figli di Ermete».
La provenienza dell’esemplare dal convento bolognese di san Giacomo ci porta infine a
riflettere sulla diffusione dell’interesse per l’alchimia tra gli uomini di cultura, a prescindere
dal loro specifico campo di studi: tanto che tra i possessori dei libri esposti i nomi degli

43
Le quattro lettere che indicano il nome di Dio nella religione ebraica.
44
«metallorum Cabala»: la definizione si legge a p. 11 della Voarchadumia.
45
Nell’opera di Panteo si trovano anche caratteri che sembrano precorrere l’alfabeto enochiano, un
alfabeto che permetterebbe all’uomo di comunicare con entità angeliche, usato per la prima volta
dall’alchimista inglese John Dee (1527 – 1609); una copia della Voarchadumia con postille autografe di
Dee è tuttora conservata al British Museum. Traggo queste e altre notizie dal commento all’Ars et theoria
transmutationis metallicae, on line sul sito della Libreria ASEQ di Roma, <http://www.aseq.it/ars-et-
theoria-transmutationis-metallicae.html>, ultima consultazione: 2.2.2013.
46
Cfr. MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., pp. 202-203.

29
scienziati Aldrovandi e Marsili sono affiancati da quelli di un istituto religioso: gli intellettuali
sono tutti parimenti affascinati dai segreti dell’ars.
PM

►22 Miscellanea alchemica.

Ms., sec. XV (1471), cartaceo e membranaceo, cc. III, 211, III, mm 195 x 135.
Collocazione: BUB, ms. 180
Provenienza: Vittoria Caprara (sec. XVIII)

Numerosi punti di contatto possono essere trovati fra


questo piccolo codice e un'altra miscellanea alchemica
esposta, quella contenuta nel ms. 830. Simili sono alcuni
aspetti esterni dei due codici: il formato, pressoché
identico, l'alternanza di alcuni fogli membranacei
all'interno di volumi prevalentemente cartacei, la
presenza di alcuni disegni a penna. Anche dal punto di
vista del contenuto i due volumi sono accomunati
dall'argomento predominante nei numerosi testi raccolti:
si tratta di opere di epoche ed autori diversi, ma tutte
incentrate sul metodo per ottenere la pietra filosofale,
nella sua duplice veste di elemento per la trasmutazione
dei metalli e di medicina perfetta capace di guarire ogni
malattia, prolungando indefinitamente la vita umana.
Anche l'epoca in cui le due miscellanee sono state
confezionate è la stessa; in questo caso però la datazione può essere molto più precisa, in
quanto alla c. 137r si trova la sottoscrizione del copista, che indica l'anno e il mese in cui ha
compiuto il suo lavoro: «Scriptum per me subsignatum ... anno Domini millesimo iiiio
septuagesimo primo et de mense novembri per me Ste[phanum?] de Ge[via?]». Il nome del
copista è purtroppo di difficile lettura; Michela Pereira attribuisce il manoscritto ad uno
«Stephanus de Genua», collocando così il manoscritto in ambito italiano 47.
L'aspetto di questo codice è però maggiormente curato dal punto di vista estetico rispetto al
ms. 830, rivelando a chi lo sfoglia, oltre alle iniziali filigranate ed ornate geometricamente in
vari colori, qualche finissimo
disegno a penna, raffigurante
soprattutto volti umani variamente
atteggiati, talvolta nascosti
all'interno delle lettere iniziali, altre
volte apposti nei margini dei fogli.
Anche le maniculae che segnalano i
passi di maggiore interesse sono
particolarmente curate, col tratteggio
di parte delle maniche, in fogge
variate e con tocchi di colore giallo;
addirittura in un caso (c. 23r)

47
MICHELA PEREIRA, The alchemical corpus attributed to Raymond Lull, London, The Warburg Institute,
1989, p. 30 n. 43. Potremmo suggerire come lettura alternativa, al posto di Genova, «Ginevra»,
appoggiando l'ipotesi all'esame delle filigrane del manoscritto, che sembrano essere in gran parte di
origine svizzera.

30
sull'indice rivolto verso il testo da evidenziare è appollaiata una colomba coronata da
un'aureola.
Dal punto di vista del contenuto troviamo oltre trenta testi diversi, alcuni molto brevi e di
difficile attribuzione, per la maggior parte in latino; fanno eccezione due brani posti alla fine
del volume, apparentemente aggiunti da una mano posteriore: una «Epistre de Alphidius
envoiee au roi Nephes laquelle contient toute l'oeuvre du grand magistere», in francese, e
alcuni brevi Versus sybillini, in greco, che propongono una sorta di indovinello basato sui
numeri e le sillabe di una parola misteriosa; i versi, molto conosciuti in ambito alchimistico,
sono contenuti nel primo dei Libri sibillini 48 e risalgono probabilmente al II secolo, anche se
in un codice greco del XV secolo vengono attribuiti addirittura ad Ermete e Agatodemone.
L'enigma fu variamente interpretato e risolto nel corso dei secoli e interessò sia il Cardano che
il matematico Gottfried Leibnitz, che ne curò una traduzione in versi latini: «Literulis noscor
quadrisyllabus ipse novenis / syllaba habet binas, nisi quod tenet ultima ternas. / Vocales
quatuor, quinis non propria vox est. / Bis septem vicibus numerum centuria totum / ingreditur,
decadesque novem, cum bis tria. Si me / noveris, hinc aditus ad sacra nostra patent». La
parola nascosta, secondo i complicati calcoli degli studiosi, poteva corrispondere al nome
ebraico di Dio, Jehovah; altre interpretazioni invece conducevano al nome di alcune sostanze
utilizzate nell'operazione alchemica: secondo alcuni il fosforo, secondo altri (fra cui lo stesso
Leibnitz) l'arsenico 49.
RDT

►23 HIERONYMUS BRUNSCHWIG (1450 ca-1512 ca.)

Liber de arte distillandi de compositis. Das buch der waren kunst zu distillieren die
Composita und simplicia und daz Buch thesaurus pauperum: ein Schatz der armen
genannt Micarium die brösamlin gefallen von den büchern der Artzny und durch
experiment …. (Strassburg: [Grüninger], 1507).
CCCXLIIII c. : ill. ; 2° (280 x 190 mm).
Collocazione: A.IV.C.I.26
Provenienza: antico fondo

Già nel Duecento il filosofo e alchimista Ruggero Bacone insiste sullo straordinario potere
che l’oro, trasformato in elemento purissimo, può esercitare sul corpo umano, donandogli
l’equilibrio perfetto perduto con il peccato originale; dalle sue teorie prende avvio la ricerca
dell’elixir di lunga vita e si consolida una tradizione alchemica che ha evidenti punti di
contatto con la medicina e la farmacologia e nella quale la tecnica della distillazione, a lungo
perfezionata, ricopre un ruolo essenziale. A tale tradizione si riconosce debitore il medico
tedesco Brunschwig per il suo Liber de arte distillandi, importante trattato sulla preparazione

48
I Libri sibillini erano una raccolta di responsi oracolari scritti in lingua greca e conservati nel tempio di
Giove Capitolino a Roma.
49
EPHRAIM CHAMBERS, Dizionario universale delle arti e scienze ... , in Genova, presso Bernardo Tarigo,
1770-1775, vol. VII, p. 446; MINO GABRIELE, Enigmi e liriche d'alchimia tratti da antichi codici,
«Conoscenza religiosa», III (1980), pp. 37-77, alle pp. 40-41.

31
di medicamenti derivati dalle piante e dagli animali mediante questo procedimento. L’opera,
pubblicata per la prima volta a Strasburgo nel 1500, riscuote un notevole successo,
testimoniato dalle edizioni che si susseguono a distanza ravvicinata, nel 1507, nel ’12 e nel
’19 e dalle traduzioni in latino e in inglese, e diventa un manuale chimico-farmaceutico di
largo impiego per tutto il Cinquecento.
Il testo è accompagnato da numerose
incisioni, in buona parte dedicate
alla descrizione fedele degli
strumenti tecnici; spesso però,
accanto a forni e alambicchi, sono
ritratti gli alchimisti, ora intenti
all’opera, ora impegnati in
discussioni filosofiche: ne nasce una
iconografia varia e assai gradevole,
lontana dal simbolismo che
caratterizza le immagini alchemiche
soprattutto nei decenni successivi,
ma non meno suggestiva. Notevoli
sono anche le xilografie che
raffigurano scene quotidiane: i
medici al capezzale dell’infermo o
assorti in un colloquio, l’interno
della bottega dello speziale, il
maestro e gli allievi riuniti in un’aula
dalla cui finestra a bifora s’intravede
un paesaggio collinare.
Particolarmente bello è il fron-
tespizio della prima edizione, che
ritrae gli alchimisti dediti alle loro
pratiche non nel chiuso di un
laboratorio, ma all’aria aperta, in una
campagna amena dove i cervi
brucano l’erba e la natura appare
serena e rigogliosa; nel frontespizio
della edizione del 1507, qui esposta, gli strumenti per la distillazione diventano invece il tema
dominante e del paesaggio non resta che qualche ciuffo d’erba.
Anche il testo subisce una modifica: nell’editio princeps non figura il Thesaurus pauperum
che, aggiunto a questa edizione e successivamente riproposto, sarà in seguito un modello per
le farmacopee destinate ai meno abbienti 50.
E’ interessante notare che le incisioni che raffigurano strumenti di laboratorio nei trattati sulla
distillazione del primo Cinquecento vengono riproposte in molti libri alchemici, dove
acquistano spesso un valore emblematico: anche attraverso l’iconografia, dunque, si verifica
un costante e fruttuoso scambio tra l’ars e le altre scienze.

PM

50
Traggo questa e altre notizie dalla voce Brunschwig on line sul sito Encyclopedia.com-Free online
Encyclopedia, <http://www.encyclopedia.com/doc/1G2-2830900683.html>, ultima consultazione:
6.2.2013.

32
►24 Miscellanea di testi in volgare.

Ms., sec. XIV ex.-XV in., cartaceo, cc. I, 165, I, mm 290 x 185.
Collocazione: BUB, ms. 3658
Provenienza: antico fondo

Questo volume, probabilmente scritto a Bologna alla fine del XIV secolo, contiene diverse
opere in volgare, sia a carattere religioso che profano, in prosa e in poesia. Inizia con alcuni
estratti dal volgarizzamento del Tesoretto di Brunetto Latini, prosegue con L'Acerba, poema
enciclopedico di Cecco d'Ascoli, un anonimo Breviloquio
d'alquanti ammaestramenti buoni ed utili, due sonetti tratti
dai Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, una frottola di
Antonio Beccari, un Fiore di virtù, e alcune orazioni
attribuite a diversi pontefici, fra i quali il più vicino
cronologicamente all'età del codice è Clemente VI, morto nel
1352.
Oltre la metà del manoscritto è comunque occupata dal testo
dell'Acerba, un'opera che, anche se non può essere
considerata propriamente di contenuto alchemico, per il suo
carattere di compendio enciclopedico-naturalistico e per la
condanna che ricevette da parte dell'Inquisizione (che lo volle arso sul rogo insieme al suo
autore) rappresenta bene l'intersecarsi di saperi più e meno ortodossi nel pensiero scientifico
medievale. Francesco Stabili (1269-1327),
astrologo, fu il primo professore di questa
materia all'università di Bologna negli anni dal
1322 al 1324; tale insegnamento gli valse una
prima condanna per eresia che lo costrinse ad
abbandonare la città e a trasferirsi a Firenze,
dove sarebbe stato giustiziato solo tre anni
dopo. La condanna a morte, che gli venne
comminata per motivi di eterodossia religiosa,
contribuì a creare intorno alla figura di Cecco
anche una sorta di leggenda magica: gli furono
così attribuite capacità profetiche e interessi
magico-alchemici. Non a caso in un
incunabolo stampato a Roma da Eucharius
Silber contenente l'opera di Geber compaiono
in appendice alcune poesie alchemiche ascritte
proprio allo Stabili 51. L'Acerba, rimasta
incompiuta a causa della morte dell'autore, è
stata definita da Gianfranco Contini «l'anti-
Commedia», a causa della polemica presente
contro il poema dell'Alighieri. In essa Cecco
d'Ascoli espone e discute il pensiero
filosofico-scientifico della sua epoca, parlando
dell'ordine dei cieli, della terra, delle eclissi, della natura dei fenomeni atmosferici, delle virtù
o dei vizi (alla lussuria sono associati i Bolognesi, alla superbia i Romani, alla gola i

51
GEBER, Summa perfectionis magisteri... , [Rome: Eucharius Silber, 1486-90].

33
Lombardi), delle scienze occulte, degli animali, dei metalli. Di significato spesso oscuro, i
versi dell'Acerba sono stati oggetto di vari tentativi di interpretazione, resi ancor più difficili
dallo stato della tradizione manoscritta: la condanna che pesava sul testo, infatti, non è riuscita
a farne perdere la memoria, ma ha determinato una diffusione di copie molto difformi l'una
dall'altra, spesso scorrette o incomplete, come nel caso di questo codice. La particolarità del
nostro testo è costituita dal corredo iconografico che
accompagna il poema e che diventerà consueto nella
tradizione a stampa cinquecentesca, a partire
dall'edizione veneziana di Giovan Battista Sessa del
1501 52: ogni diverso argomento è accompagnato da
piccoli disegni esplicativi tratteggiati a penna e
talvolta colorati, riconducibili forse a due diverse
mani, una più esperta e raffinata ed una molto più
ingenua e rozza, che tratteggia anche piccole cornici
floreali lungo i margini delle pagine. Il nome del
copista (e forse anche autore dei disegni meno curati)
si trova nella sottoscrizione della c. 112r: «Christo
signore / a chi questo libro fecie / doni e presti gratia
prospera e felice / Bonifatio»; non è possibile
determinare l'identità di questo Bonifacio, che
compare anche ritratto in una buffa faccina inscritta
nell'iniziale «Q» del primo testo del manoscritto; più
interessante è invece un'iscrizione apposta nel verso
della carta finale, dove si legge: «Johannes
Martorellus pictor». È infatti noto un Giovanni
Martorelli pittore bresciano, attivo a Bologna fra 1390
e 1447, autore di un Crocifisso conservato presso la
Pinacoteca Nazionale 53; la qualità dei disegni del
manoscritto non è tale da farli attribuire a questo artista, ma si può comunque dire che il
volume gli è passato fra le mani, e forse faceva parte della sua personale biblioteca.
RDT

►25 Erbario alchemico.

Ms., sec. XV (prima metà), cartaceo, cc. I, 50, I, mm 205/282 x 140/200.


Collocazione: BUB, ms. Aldrovandi 153
Provenienza: Ulisse Aldrovandi (1522-1605)

Fra la metà del XIV secolo e la prima metà del XVI secolo si diffonde in Italia (soprattutto in
ambito centro-settentrionale) un particolare tipo di erbario, caratterizzato da alcuni elementi
che lo differenziano dai normali erbari e che si ritrovano con relativa uniformità in tutti gli
esemplari della tradizione. Si tratta di una sequenza di 98 piante, raffigurate con estrema

52
ARMANDO ANTONELLI, Nuovi sondaggi d'archivio su Cecco d'Ascoli a Bologna, in Cecco d'Ascoli.
Cultura scienza e politica nell'Italia del Trecento, a cura di Antonio Rigon, Roma, Istituto storico italiano
per il Medio Evo, 2007, pp. 241-276.
53
La Pinacoteca nazionale di Bologna. Catalogo generale delle opere esposte, a cura di Carla Bernardini
... [et al.], Bologna, Nuova Alfa, [1987], pp. 48-51.

34
vivacità ma dalle caratteristiche abbastanza fantasiose (tanto che la loro identificazione nella
realtà rimane spesso dubbia), accompagnate da una didascalia che ne illustra le capacità
curative o le virtù magico-alchemiche. Il testo, originariamente in latino (esistono 8 testimoni
conosciuti di questa versione), è stato in seguito volgarizzato: se ne conoscono 14 esemplari
in italiano e una traduzione in ebraico
conservata alla Bibliothèque nationale di
Parigi 54.
L'erbario qui esposto, appartenuto ad Ulisse
Aldrovandi (insieme ad altri tre codici dello
stesso genere), conserva la raffigurazione di
54 piante, dipinte singolarmente in ogni
pagina, tranne in alcuni casi in cui altre
immagini sembrano essere state aggiunte in
un secondo momento; si arriva così ad
avere talvolta due o tre piante illustrate sul
medesimo foglio. L'ordine in cui si
susseguono le illustrazioni non è quello
canonico, ma non sappiamo se attribuire
questo presunto disordine ad un originario
discostarsi del manoscritto dalla
successione tradizionale, oppure alle
particolari vicende del codice, che potrebbe
essere giunto ad Aldrovandi già mutilo e
slegato. Questa seconda ipotesi potrebbe
essere avvalorata dalla presenza, del tutto
inusuale, di una carta iniziale contenente le
prime dieci stanze del Ninfale Fiesolano di
Giovanni Boccaccio; la copia del poemetto
si interrompe al primo verso della undicesima stanza, cosa che farebbe pensare ad una
originaria presenza di un testo più lungo, poi andato perso; più difficile pensare al riutilizzo
per la legatura dell'erbario di una carta appartenente ad un altro codice, data l'omogeneità
della scrittura e della filigrana col resto del manoscritto.
I legami di questo particolare tipo di erbario con l'ambito delle conoscenze magico-
alchemiche sono molteplici e sono evidenziati sia dall'iconografia sia dal testo delle
didascalie. La raffigurazione delle erbe infatti privilegia gli aspetti simbolici, mettendo in
rilievo somiglianze antropomorfe o zoomorfe nelle radici di alcune di esse (tipico il caso della
mandragora), o caratteri formali che rinviano alle proprietà taumaturgiche, sulla scia
dell'antica teoria della 'segnatura': così l'«herba sancta maria», consigliata per stimolare la
produzione del latte nelle donne, presenta sulle foglie numerose macchie bianche a forma di
goccia, mentre l'«herba terfolio» (c. 15r), usata per curare le macchie oculari, presenta un
piccolo cerchio bianco su ogni foglia. Nelle didascalie, inoltre, si trovano regole particolari
relative al modo di raccogliere le erbe per poterne sfruttare al massimo le virtù: per esempio,
l'«herba stanucia» (c. 9r) doveva essere raccolta «de zugno a dì iiii de la luna e quando tu la
coie fa che sije nudo de ogni toa vestimenta e confesso de tutj gli toy peccatj». All'erbario
alchemico (databile alla prima metà del '400) sono stati uniti in tempi diversi due fascicoletti
di formato più piccolo: uno, probabilmente proveniente da qualche corrispondente di

54
Cfr. Il giardino magico degli alchimisti. Un erbario illustrato trecentesco della Biblioteca
Universitaria di Pavia e la sua tradizione, introduzione, edizione critica e commento di Vera Segre Rutz,
Milano, Il Polifilo, 2000.

35
Aldrovandi, che contiene disegni di piante copiati «dal libro di Catervo [?] Moscetta spetiale
da Tolentino», l'altro aggiunto posteriormente alla morte del naturalista bolognese e
contenente alcune immagini della serie del Donum Dei, a conferma del legame fra l'erbario e
l'operazione alchemica.
RDT

►26 Erbario alchemico.

Ms., sec. XVI, cartaceo, cc. 28, mm 425


x 285.
Collocazione: BUB, ms. Aldrovandi
152
Provenienza: Ulisse Aldrovandi (1522-
1605)

L'interesse di Aldrovandi per i cosiddetti


erbari alchemici è testimoniata dalla
presenza fra i suoi manoscritti di 3
esemplari antichi, tutti databili al XV secolo
(attualmente segnati con i numeri 151I-II e 153 del fondo aldrovandiano) e di questa copia
cinquecentesca, che originariamente doveva essere inserita nel vol. VI delle tavole di piante
acquerellate. Vari elementi portano a formulare questa ipotesi. In primo luogo una nota
manoscritta nel verso del piatto anteriore della legatura («suite des fig. d’Aldrovande») e la
cartulazione antica da 143 a 168, che colma proprio una lacuna corrispondente nel sesto
volume delle tavole di piante; l’ipotesi è avvalorata dal formato delle carte, identico a quello
del volume, e dalla somiglianza della mano che ha tracciato le didascalie, scritte a penna in
inchiostro nero con iniziali dorate. Inoltre, nel ms. Aldrovandi 111 (Index omnium plantarum
depictarum tam in parvis quam in magnis thomis Ecc. mi D. Ulyss. Aldrovandi Philosophi ac
Medici Bonon.), tutte le piante contenute in questo fascicolo vengono elencate nella
descrizione del tomo IV (corrispondente all’attuale VI) delle piante, con i relativi numeri di
carte.
L'erbario contiene le immagini, prive delle didascalie esplicative, di 54 piante evidentemente
copiate dal codice precedente, anche se in un ordine diverso e con la mancanza della «herba
sugelo de Sancta Maria», forse saltata inavvertitamente dal disegnatore incaricato del lavoro.
Più che per la loro valenza alchemica, questi erbari erano probabilmente ricercati da
Aldrovandi per le proprietà terapeutiche attribuite alle diverse erbe; in una lettera indirizzata
dal naturalista bolognese al nipote del cardinal Cibo nell'agosto del 1576 si trovano infatti le
seguenti parole relative ad un analogo erbario posseduto dal suo corrispondente: «Quanto alle
piante, descritte in quel libro portato di Piamonte, ho letto quella variettà di nomi barbari, et
anchora che sia difficile à far giuditio di questi nomi stravaganti per esser nomi a beneplacito
dati e imposti in gli lochi dove si ritrovano, et per potere meglio chiarire V. S. Illustre, se la si
degnasse mandarmi il libro con le pitture, ch'io li potessi dar un occhiada, li potria dire
facilissimamente il mio parere, et mi farebbe favor singolare, perché spesse volte in simili
libri si trovano secretti rari, de quali da intelligenti se ne può dare notitia piena alli studiosi à

36
beneficio universale 55». Da queste considerazioni emerge un preciso giudizio su un testo che,
come evidenzia anche la Segre Rutz nel suo studio, non era destinato ad un pubblico di
professori o medici con formazione universitaria, ma era piuttosto «un prontuario ad uso di
apotecari e speziali, i quali spesso grazie alle loro conoscenze di erboristeria, assumevano il
ruolo di praticanti medici» 56: nonostante le imprecisioni lessicali e la varietà di «nomi
barbari», Aldrovandi non respinge del tutto le eventuali informazioni pratiche che è possibile
trarre da una sapienza basata in molti casi sull'osservazione diretta della natura.
RDT

►27 GIOVANNI BATTISTA NAZARI (sec. XVI, seconda metà)

Della tramutatione metallica sogni tre ... nel primo d’i quali si tratta della falsa
tramutatione sofistica: nel secondo della utile tramutatione detta reale usuale: nel
terzo della diuina tramutatione detta reale filosofica. Con un copioso indice per
ciascun sogno degl’auttori, & opre ch’hanno sopra ciò trattato. In Brescia : appresso
Francesco, et Piet. Maria Marchetti fratelli, 1572 (In Brescia : appresso Francesco, et
Piet. Maria Marchetti fratelli, 1572).

55
BUB, ms. Aldrovandi 97, c. 376v (copia di lettera di Ulisse Aldrovandi al «nipote del card. Cibo»,
Bologna, 22 agosto 1576).
56
Il giardino magico, cit., p. LXVII.

37
[8], 167, [9] p. : ill. ; 4° (198 x 145 mm).
Collocazione: A. V. Tab.I.N.I.198/2
Provenienza: Ulisse Aldrovandi (1522-1605)

Poche notizie ci sono giunte di Giovanni Battista Nazari, bresciano, autore noto per questa
sola opera, che ebbe ai suoi tempi notevole diffusione ed ancor oggi spesso citata dagli storici
e dagli appassionati di esoterismo.
I Sogni del Nazari possono forse ricondursi a una tradizione medievale che usa la visione
onirica in senso metaforico, secondo una modalità ripresa con grande successo in età
umanistica dalla Hypnerotomachia Pholiphili. Di certo questa formula letteraria risponde
appieno al bisogno, sempre vivo negli autori di testi alchemici, di ricorrere a un linguaggio
simbolico di non facile comprensione, per preservare la divina arte di Ermete da coloro che
non sono pronti a riceverla.
Già nel 1564 Nazari aveva pubblicato a Brescia Il metamorfosi metallico et humano, del quale
La tramutatione è una versione successiva e più nota. Qui l’autore narra tre sogni, nei quali
descrive le diverse trasmutazioni annunciate nel frontespizio; la prima è la «sofistica», ossia la
falsa trasmutazione di coloro
che perdono tempo e denaro
in esperimenti vani, così
introdotta dal piacevole
«argomento» in versi:
«Frenetiche pazzie vane
chimere / Sogno d’un ebbro,
pensier falsi, e tristi / Ladre
inuention, lontane dal douere
/ Son speranze falaci d’Al-
chimisti: / gettar il proprio,
per douer hauere, / Con dis-
segno di far de ricchi ac-
quisti, / Fa ch’i meschini in-
sieme tutti vniti, / son dimo-
strati per pazzi falliti. »
La seconda trasmutazione
«detta reale usuale» è quella
che la natura insegna, «acciò
ch’à tempo, à loco / L’huom
di tanta bontà goda, e contenti»: è una trasmutazione che si realizza, ma senza raggiungere il
fine ultimo, quel supremo opus alchemicum al quale gli alchimisti alludono con termini
diversi, chiamandolo ora pietra filosofale ora elixir, e che è oggetto del terzo sogno, dedicato
alla tramutazione «reale filosofica 57.»
Particolarmente interessanti sono le incisioni che traducono i sogni in immagini; assai nota è
quella raffigurante un grande asino seduto e intento a suonare uno strumento simile a una
piccola tromba, circondato da scimmie danzanti: una invenzione che lo stesso autore
riconduce ad Apuleio e che ben raffigura la lusinga della falsa trasmutazione.

57
Ecco i versi premessi al terzo sogno: «Qui di Bacco non son, di Gioue ò Marte / Ne d’altri Heroi, i lor
preggiati vanti, / Ma dell’alta, soblime, e stupend’arte / Del vero Lapis de Filosofanti. / Vedrà chi legge in
queste nostre carte / Cose non mai impresse per auanti. / E come per virtù tant’alto sale / Vn’huomo, che
diuien quasi immortale.» Cfr. G.B. NAZARI, Della tramutatione..., p. 103 dell’edizione esposta.

38
Il medesimo apparato iconografico illustra anche l’edizione successiva dell’opera, pubblicata a
Brescia nel 1599, con il testo ampliato dall’aggiunta della Concordantia de filosofi, breve
trattato che Nazari chiama anche Rosario «perché è vna cosa fatta breue, tolta da libri de
Filosofi 58»; si tratterebbe dunque di una compilazione attinta a varie fonti, a conferma della
sua fama di instancabile studioso della tradizione alchemica 59.

PM

►28 PARACELSUS (1493-1541)

Opera omnia medico-chemico-chirurgica, tribus voluminibus comprehensa. Editio


nouissima et emendatissima, ad Germanica & Latina exemplaria accuratissimè
collata ... indicibusque exactissimis instructa. Volumen primum [- tertium] opera
medica complectens. Genevae : sumptibus Ioan. Antonij, & Samuelis de Tournes,
1658.
3 v. ; 2°.
Collocazione: A.IV.C.III.28/1-2
Provenienza: Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730)
Si espone il v. I.

58
G.B. NAZARI, Della tramutazione metallica sogni tre…, In Brescia, Appresso Pietro Maria Marchetti,
1599, p. 169.
59
Cfr. JACQUES VAN LENNEP, Alchimie, cit., p. 162.

39
Il riferimento dotto nello pseudonimo scelto da Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim
esprime la consapevolezza che egli ebbe del proprio valore 60, non certo l’ossequio alla
tradizione, alla quale si dimostrò sempre polemicamente avverso, pronto a ribadire in ogni
occasione la necessità di sostituire l’osservazione diretta all’insegnamento dogmatico di
Avicenna e Galeno; la sua opera appare tra le più innovative del Rinascimento di area
germanica, sia da un punto di vista strettamente medico, che sul piano filosofico 61.
Per Paracelso la medicina non può prescindere dall’alchimia, i cui procedimenti permettono di
realizzare i farmaci capaci di restituire all’organismo il giusto equilibrio dei tre componenti
fondamentali, il mercurio, lo zolfo e il sale. La sostituzione di questi principi ai quattro
elementi della tradizione aristotelica e
galenica è una delle novità più importanti
introdotte dallo studioso svizzero e ha una
conseguenza di grande rilievo sul piano
farmacologico: ai medicamenti di
derivazione organica, soprattutto vege-
tale, si affiancano ora preparati a base di
minerali e si affaccia l’idea che nel corpo
umano si verifichino reazioni chimiche.
La nuova teoria, che ricorre alla chimica
per interpretare i processi fisiologici e per
cercare i rimedi alle malattie, è detta
iatrochimica o chemiatria e costituisce
una tappa assai importante nella storia
della medicina; quest’ultima si fonda per
Paracelso su quattro pilastri, individuati
in Das Buch Paragranum nel-
l’astronomia, nell’alchimia, nella filosofia
e nella virtù del medico; l’alchimia è una
scientia separationis o ars spagyrica, che,
attraverso procedimenti di distillazione e
altre tecniche, produce non oro o argento,
ma «arcana», ossia rimedi terapeutici 62.
La diffusione del pensiero di Paracelso
influenza notevolmente gli sviluppi
dell’ars nel XVI e XVII secolo: d’ora in
poi i “figli di Ermete” si schiereranno a
favore del medico svizzero o contro di lui, ma difficilmente potranno ignorarne
l’insegnamento.

60
Von Hohenheim volle chiamarsi Paracelso forse per incarnare l'ideale del medico perfetto già nel nome,
che rimanda ad Aulo Cornelio Celso, uno dei fondatori della medicina classica vissuto nel I secolo dopo
Cristo.
61
La medicina paracelsiana si fonda, com'è noto, sul presupposto che l'uomo sia un microcosmo, legato
all'universo-macrocosmo da una fitta rete di corrispondenze analogiche; su questa teoria s'innesta una
prassi che tiene in gran conto lo studio dei sintomi, valutati in stretta relazione allo stato generale del
paziente, e la descrizione analitica della malattia. Per un approfondimento cfr. PIRMIN MEIER, Paracelso
medico e profeta. Avvicinamenti a Theophrast von Hohenheim, edizione italiana a cura di Maria Paola
Scialdone, Roma, Salerno Editrice, 2000.
62
Cfr. WOLF-DIETER MÜLLER-JAHNCKE, Paracelso e la ricezione delle sue dottrine, in: Storia della
scienza, v. IV, Medioevo-Rinascimento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, pp. 920-922.

40
Delle numerose opere di Paracelso poche furono pubblicate finché fu in vita: tra le più
importanti vide la luce il trattato Große Wundarznei, strettamente legato alla sua attività
professionale, mentre molti dei testi più originali restarono lontani dai torchi, per il difficile
rapporto di questo pensatore anticonformista con la cultura ufficiale; solo vent’anni dopo la
sua morte un rinato interesse portò alle prime edizioni, che culminarono nella raccolta in dieci
volumi curata dal medico Johannes Huser e pubblicata a Basilea tra il 1589 e il 1591.
Qui si espone l’edizione complessiva in tre tomi, stampata anch’essa a Basilea, a cura di
Fridericus Bitiskius, più di un secolo dopo la morte dell’autore; gli indici dei ponderosi infolio
elencano molti titoli, tra i quali il Paramirum e il Paragranum, le due principali opere
mediche, gli Archidoxa, importanti per le brillanti intuizioni in campo chimico, i due trattati di
chirurgia, e riflessioni filosofiche come il Liber de Nymphis, sugli spiriti elementari che
abitano la natura: opera che può oggi apparire bizzarra, ma che uno studioso ha recentemente
definito «un testo di carattere antropologico, cosmologico, sociologico e politico», e che
suscitò anche l’interesse di C. Gustav Jung 63.
Va segnalato il bel ritratto dell’autore nell’antiporta del primo volume, disegnato dal
Tintoretto e inciso dal parigino François Chauveau (1613-1676); nella parte superiore si legge
il motto «Alterius non sit qui suus esse potest», che ben si addice al temperamento ribelle e
polemico di questo medico che sfidò, rinnovandola, una dottrina secolare.
Interessanti anche le diverse marche tipografiche sui frontespizi dei due volumi, caratterizzate
entrambe dal serpente uroboro e dal motto «Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris» inscritto
nel cerchio; la marca apposta sul primo volume è incisa da Jérôme David (1605–1670),
parigino attivo anche a Roma, dove morì; il disegnatore si firma con le sole iniziali F.C. ed è
probabilmente lo stesso François Chauveau che incide il ritratto dell’autore; la marca sul
frontespizio del secondo volume non è firmata.
PM

►29 GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA (1535-1615)

Della magia naturale …. libri XX. Tradotti dal latino in volgare, e dall'istesso
autore accresciuti … In questa nuova editione migliorata in molti luoghi ...
accresciuta d'un indice copiosissimo, e del trattato della Chirofisonomia non ancora
stampato, tradotto da un manoscritto latino dal signor Pompeo Sarnelli … In Napoli
: appresso Antonio Bulifon, 1677.
[16], 602, [22] p. : ill. ; 4º (mm 216 x
165).
Collocazione: A.M.A-B.IV.42
Provenienza: Antonio e Bartolomeo
Bonfiglioli (sec. XVIII)

La formazione intellettuale di Della Porta


avviene nell’ambiente aperto e vivace

63
«Secondo la psicologia junghiana l’intera mitologia degli spiriti elementari, così come ci viene
tramandata da Hoenheim, rappresenta una miniera di archetipi, preziose metafore e figure psicologiche.»
Cfr. PIRMIN MEIER, Paracelso medico, cit., p. 292.

41
della nobiltà napoletana, in una città ricca di fermenti di rinnovamento sia sul piano culturale
che in campo religioso e politico. Anche in famiglia non mancano al giovane gli stimoli
intellettuali: il fratello Giovan Vincenzo è uomo dotto, che eccelle nell’alchimia e in altre
scienze; non sorprende quindi che a soli 23 anni Giovan Battista scriva la prima stesura in
quattro libri della Magia naturalis, nella quale espone, più che teorie originali, ciò che ha
appreso nei fruttuosi studi condotti lontano dal conservatorismo delle Istituzioni
accademiche 64.
L’opera spazia dall’alchimia all’ottica al magnetismo, con un gusto enciclopedico non nuovo
nel nostro Rinascimento. La sua diffusione è vastissima: se ne contano 58 edizioni, tra quelle
in latino e le traduzioni in italiano, francese, olandese e tedesco 65. Un libro della Magia è
dedicato all’alchimia, ma, nonostante il grande successo dell’opera, non lo si trova citato nei
trattati contemporanei: probabilmente perché a Della Porta non interessa l’alchimia
speculativa, che ha largo seguito nell’Italia cinquecentesca, ma la pratica dell’arte, dalla quale
si possono trarre realizzazioni concrete e benefiche. Emerge qui l’attenzione dell’autore al
dato sperimentale, che caratterizza fin dall’inizio la sua attività e che, più volte affermata sul
piano teorico, trova effettivo riscontro nei suoi metodi d’indagine.
La Magia naturalis conosce una seconda e più ampia stesura in 20 libri nel 1589, della quale
si hanno 35 edizioni 66, in latino e in altre lingue; questa versione s’impone nell’uso degli
uomini di cultura, mentre l’altra, più agile, è preferita da un pubblico meno esigente.
L’edizione qui esposta propone la traduzione
italiana della versione in 20 libri, in un
elegante in quarto che reca nell’antiporta il
ritratto dell’autore a 64 anni; Della Porta
appare circondato dai simboli del suo vasto e
vario sapere: gli alambicchi dell’alchimista,
gli strumenti dell’ottico, le figure geometriche
che evocano il matematico interessato alla
quadratura del cerchio, le armi allusive agli
studi di arte militare, la cornucopia che
richiama il trattato Villae sull’agricoltura,
mentre il raffronto tra teste d’uomini e
d’animali, in alto a sinistra, rinvia alla
Phytognomonica.
Interessante la breve opera Della
chirofisonomia, che figura in appendice a
questa edizione della Magia; qui Della Porta
applica allo studio della mano la teoria delle
somiglianze che è alla base dei suoi studi di
fisiognomica e, ricorrendo a paragoni con il
mondo animale, trae dai raffronti indicazioni
sulle diverse personalità. La traduzione
italiana del testo si deve al letterato Pompeo
Sarnelli, che fu vescovo di Bisceglie dal 1692 al 1724.
PM

64
Cfr. LAURA BALBIANI, La "Magia naturalis" di Giovanni Battista Della Porta. Lingua, cultura e
scienza in Europa all'inizio dell'età moderna, Berna [et al.], Peter Lang, 2001, in particolare p. 42 e segg.
65
Cfr. PAOLO PICCARI, Giovanni Battista Della Porta: il filosofo, il retore, lo scienziato, Milano, Franco
Angeli, 2007, p. 51.
66
Ibidem.

42
►30 GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA (1535-1615)

Phytognomonica … octo libris contenta. In quibus noua, facillimaque affertur


methodus, qua plantarum, animalium, metallorum, rerum denique omnium ex prima
extimae faciei inspectione quiuis abditas vires assequatur … Neapoli : apud
Horatium Saluianum, 1588 (Neapoli : apud Horatium Saluianum, 1588).
320, [24] p. : ill., 1 ritr. ; 2º (324 x 220 mm).
Collocazione: A.IV.H.I.15
Provenienza: Ulisse Aldrovandi (1522-1605)

Spirito curioso, affascinato dalla «meraviglia» che i fenomeni naturali suscitano nell’animo
umano, Della Porta si dedica anche alla fisiognomica e alla «phytognomonica»: arti non
direttamente connesse all’alchimia, ma che ne condividono molti presupposti filosofici e che,
come questa, si collocano ai margini della cultura ufficiale, che le guarda con diffidenza e le
sospetta d’eresia.
La fisiognomica è già nota agli autori
classici: se ne trova traccia in Aristotele,
nei rètori latini Cicerone e Quintiliano, in
Plinio, Seneca e Galeno; Origene ne
attribuisce l’invenzione a Pitagora. Essa si
lega strettamente alle arti divinatorie
perché è intesa non solo come possibilità
di dedurre le caratteristiche psicologiche
dell’individuo dai tratti somatici, ma
anche di indovinarne dall’aspetto le
vicende future: donde appunto l’ostilità
delle gerarchie ecclesiastiche.
Nel 1586 Della Porta pubblica il trattato
De humana physiognomonia e nel 1588 la
Phytognomonica; quest’ultima è basata
sul tema, assai caro all’autore, dei signa
esteriori dai quali si possono dedurre le
intime proprietà degli esseri viventi, che
sono tutti collegati da una segreta rete di
corrispondenze, affinità e contrasti. Da questi sottili intrecci discende una conseguenza
importante sul piano pratico: le parti delle piante e gli organi animali che presentano affinità
con un organo umano, potranno curarne tutte le affezioni. I sette libri della Phytognomonica
compongono dunque il quadro di una natura in cui nessun essere è isolato e ciascuno può
influire sul proprio simile: così «foecundae plantarum radices foecunditati subministrant» (p.
245) e «foecunda, et multipara animalia ad foecunditatem, & conceptum valere» (p. 246).
Conclude l’opera un libro dedicato al rapporto tra le piante e gli astri: vi troviamo, ad
esempio, «flores solis formam effigiantes» e «stirpes, quae lunae quandam formam referunt»
(pp. 316-317).
Questo tipo di riflessione si ricollega con grande evidenza al pensiero alchemico, nel quale
corrispondenze e simboli assumono un valore determinante per la realizzazione dell’opus, e
alla teoria del rapporto tra microcosmo e macrocosmo sottesa alla speculazione paracelsiana.
L’apparato illustrativo della Phytognomonica accentua il fascino del testo, permettendoci di
visualizzare le somiglianze evidenziate dall’autore, in una serie d’incisioni al tempo stesso

43
realistiche nella riproduzione di alcuni dettagli naturali e fantastiche nell’accentuazione di
quelli che si vogliono porre in risalto.
La copia esposta appartenne a Ulisse Aldrovandi, il cui attento studio è testimoniato dalle
brevi sottolineature a penna e dalle postille autografe apposte ai margini del testo.
PM

►31 VANNOCCIO BIRINGUCCIO (1480-1539 ca.)

De la pirotechnia. Libri X. Doue ampiamente si tratta non solo di ogni sorte &
diuersità di miniere, ma anchora quanto si ricerca intorno à la prattica di quelle
cose di quel che si appartiene a l'arte de la fusione ouer gitto de metalli ... [Venezia
: per Curtio Navò & fratelli al segno del Lion] (Stampata in Venetia : per Venturino
Roffinello, ad instantia di Curtio Nauo, & fratelli, 1540).
[8], 168 c. : ill. ; 4º (212 x 150 mm).
Collocazione: A.IV.H.VIII.6
Provenienza: Antonio e Bartolomeo Bonfiglioli (sec. XVIII)

Tra gli autori contrari all’alchimia è particolarmente interessante il senese Biringuccio, che
affronta l’argomento non da filosofo, ma da tecnico: è infatti un grande esperto di miniere, un
abilissimo fonditore che lavora per la potente famiglia Petrucci e riceve incarichi importanti
anche al di fuori della sua città, a Firenze e soprattutto a Roma, dove dirige la fonderia
apostolica e la fabbrica di artiglieria.
Biringuccio riversa le proprie conoscenze nella Pirotechnia, dove affronta una gran varietà di
temi, dalla descrizione dei minerali a quella delle fusioni di campane e artiglierie e di piccoli
oggetti artistici o di uso comune, così che il suo trattato può essere definito «la prima opera
organica relativa a tutto un gruppo di scienze applicate che sia stata pubblicata nel
Rinascimento» 67, oltre a porsi come punto di riferimento per i successivi studi sulla
metallurgia 68.
Questo autore portato a realizzare obiettivi concreti nutre una naturale avversione per
l’alchimia, il suo linguaggio misterioso e gli scarsi risultati pratici, e la esprime senza mezzi
termini, talvolta con ironia, accomunando in una condanna senza appello «li vitiosi et pratici
de la fraude», che consapevolmente ingannano il prossimo praticando l’alchimia «sophistica»,
e quelli che, confidando nell’insegnamento dei «philosophi», si ritengono «imitatori &
coadiutori della natura, anzi operanti & veri medici de corpi minerali» e che invano «correno
giorno & notte a briglia rotta, in vno camino circulare senza hauere mai posa» 69.
Biringuccio confuta anche i presupposti teorici dell’ars, ma, non avendo interessi filosofici,
trova gli accenti più persuasivi quando insiste sui palesi insuccessi pratici dei due grandi filoni
della ricerca alchemica, la trasmutazione dei metalli vili in oro e il ritrovamento di cure
mirabili per il corpo. Egli ribadisce insistentemente che alla produzione dell’oro alchemico

67
Cfr. Vannoccio Biringuccio, in Gli scienziati italiani dall'inizio del medio evo ai nostri giorni.
Repertorio biobiliografico ... diretto da Aldo Mieli, Roma, Nardecchia, 1921-1923, v. I, pt. I, pp. 20-24,
in particolare p. 22.
68
Alla Pirotechnia attinse anche Georg Bauer, più noto come Agricola, per l'importante trattato De re
metallica, pubblicato nel 1556.
69
Cfr. VANNOCCIO BIRINGUCCI, De la pirotechnia…, c. 123r dell'edizione esposta.

44
non sono bastati gli sforzi di «tanti filosofi dottissimi & delle cose naturali intelligenti e
pratici» né le ambizioni di «tanti gran principi che con le pecunie & con le autorità loro hanno
hauto forza d’operare» 70; e quanto al rimedio d’ogni male, che si voglia chiamarlo
quintessenza, lapis o oro potabile, «que padri de l'arte & che ne furo inventori & che con tante
lodi la esaltoro son tutti morti, & … non so che sieno anchor resuscitati» 71. Meglio dunque
affidarsi al faticoso lavoro che garantisce un risultato apprezzabile: «Et però vi dico &
consiglio come credo che miglior partito sia voltarsi all'oro & al argento naturale tratto dele
minere, più che a l'al-
chimico… Perché non è
cosa che se ne sappi i
principii … & chi de le
cose non sa li principii
mancho può intendere li
fini» 72.
La Pirotechnia è pro-
babilmente composta dopo
il 1530 e pubblicata
postuma, con il testo
corretto da un curatore
inesperto della materia,
che talvolta ne travisa non
solo lo stile, ma anche il
significato e che, secondo
la prefazione alla terza
edizione, fu Mario Caboga, arcidiacono di Ragusa.
L’opera conosce numerose edizioni e traduzioni ed è largamente diffusa per decenni, per poi
essere dimenticata e riscoperta solo nel Novecento.
Segnaliamo infine l’interessante apparato illustrativo, costituito da un gran numero d’incisioni
di piccolo formato il cui disegno è riconducibile allo stesso Biringuccio 73.

PM

►32 ROBERT FLUDD (1574-1637)

Philosophia sacra & vere christiana seu Meteorologia cosmica. Francofurti : prostat
in Officina Bryana, 1626.
[8], 303, [1] p., [1] c. di tav. ripieg. : ill. in parte calcogr., 1 ritr. ; 2º (326 x 200 mm).
Collocazione: A.IV.R.I.4
Provenienza: antico fondo
Fa parte di:
Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica, physica atque technica
historia in duo volumina secundum cosmi differentiam diuisa authore Roberto Flud

70
Ibidem, c. 5r.
71
Ibidem, c. 6v.
72
Ibidem, c. 7v.
73
Per questa e altre notizie relative all'edizione, cfr. Vannoccio Biringuccio, in Gli scienziati italiani, cit.,
v. I, pt. I, pp. 20-24.

45
aliàs de Fluctibus, ... Tomus primus [secundum] ... Oppenhemii : aere Johan-
Theodori de Bry : typis Hieronymi Galleri, 1617-26.
2 t. : ill. ; 2º.

Nel pensiero del medico e alchimista inglese Robert Fludd si fondono elementi di diverse
tradizioni filosofiche: il neoplatonismo umanistico di Pico della Mirandola e di Marsilio
Ficino, l’ermetismo, al quale la traduzione ficiniana del Pimander ha conferito nuovo vigore e
diffusione, e la cabala: a questi elementi si sovrappone una interpretazione letterale della
Genesi, in una sorta di sincretismo neoplatonico, ermetico e cristiano sul quale si fonda la sua
concezione dell’universo.
Nella Utriusque cosmi historia, della
quale fa parte anche il volume della
Meteorologia cosmica qui esposto, Fludd
costruisce una cosmologia complessa e
dettagliata, nella quale distingue il mondo
archetipo della divinità, il macrocosmo
dell’universo fisico e il microcosmo
umano, legati da innumerevoli cor-
rispondenze e consonanze e unificati
dallo «spirito» o pneuma, elemento,
quest’ultimo, comune alla filosofia neo-
platonica e all’alchimia 74.
Le dottrine alchimistiche hanno un ruolo
determinante nella filosofia fluddiana e si
fondono con una marcata ispirazione
religiosa; esse servono da chiave in-
terpretativa della Redenzione stessa: la
morte e la resurrezione di Cristo
appaiono a Fludd come il compimento
della trasmutazione, mentre vede adom-
brata la sapienza divina nell’oro ottenuto
grazie alla pietra filosofale.
Fludd è un intellettuale controverso, in
forte polemica con contemporanei illustri
come il teologo e matematico Marin
Mersenne (1588-1648) e il filosofo,
matematico e astronomo Pierre Gassendi
(1592-1655) 75; nell’ambito della cultura
seicentesca intesa come momento di crisi,
cioè di profonda trasformazione dalla

74
Per una spiegazione dettagliata della complicata cosmologia di Fludd crf.: LUCA CAFIERO, Robert
Fludd e la polemica con Gassendi, estratto dalla «Rivista Critica di Storia della Filosofia», I (1965), in
particolare pp. 1-16.
75
Cattolico animato da vivaci interessi scientifici, amico di Cartesio e Gassendi, Mersenne rifiuta il
naturalismo rinascimentale e tutte le forme di sapere magico e occulto a questo collegate; le sue
Quaestiones in Genesim, pubblicate nel 1623, sferrano un violento attacco al neoplatonismo ermetico di
Fludd, che replica con veemenza nel suo Sophiae cum moria certamen; quando Mersenne abbandona il
dibattito, le sue posizioni vengono riprese dall’amico Pierre Gassendi. Cfr. LUCA CAFIERO, Robert Fludd,
cit. e FRANCES AMELIA YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Roma, Laterza, 2000, capitolo
XXII, Ermete Trismegisto e le controversie fluddiane, pp. 465-490.

46
quale emergerà nel Settecento il nuovo pensiero scientifico, egli rappresenta la persistenza di
tradizioni culturali destinate a un lento declino. Nei primi decenni del secolo, infatti, magia
naturale, neoplatonismo ed ermetismo di stampo rinascimentale sono ancora inestricabilmente
intrecciati a nuovi fermenti: l’influenza della tradizione paracelsiana non è completamente
estranea a un grande innovatore come Francis Bacon o all’avversario di Fludd, Gassendi,
mentre sullo scorcio del Cinquecento l’alchimista John Dee (1527-1608), interessato non solo
alla magia naturale ma anche a quella angelica e demonica, è al tempo stesso un matematico
attratto dalle arti meccaniche e dai più recenti ritrovati della tecnica 76. I contemporanei più
sensibili alla trasformazione in atto mostrano insofferenza per alcuni aspetti del sapere
tradizionale: il linguaggio oscuro dell’alchimia, l’indimostrabilità dei risultati, quella
segretezza della conoscenza postulata dall’intera tradizione alchemica, che Fludd considera
irrinunciabile, sono respinti dai nuovi intellettuali che stanno maturando una concezione più
aperta del sapere, come patrimonio da diffondere e condividere. Mersenne propone di istituire
un’accademia nella quale gli alchimisti svolgano senza misteri le proprie ricerche e Robert
Boyle (1627 –1691) progetta laboratori dove più alchimisti possano collaborare ai medesimi
esperimenti 77. Per Fludd, che resta saldamente ancorato alla tradizione della prisca thelogia
nonostante il filologo Isaac Casaubon (1559-1614) ne abbia già minato le basi correggendo la
datazione del corpus ermetico 78, la studiosa Frances Yates ha coniato l’etichetta di «ermetico
reazionario» 79; va tuttavia evidenziato che la tradizione culturale che egli esprime è destinata
a sopravvivere ancora a lungo e, che, seppure progressivamente respinta e sopraffatta
dall’imporsi della nuova scienza, l’alchimia eserciterà il proprio fascino anche nel secolo dei
lumi, quando Isaac Newton non disdegnerà di occuparsene, pur non rendendo pubblici i
propri studi. Non possiamo infine non richiamare l’attenzione sull’iconografia, che è parte
essenziale dei volumi della Utriusque cosmi historia: le numerose incisioni, probabilmente
realizzate su disegni approntati dall’autore, ne traducono la concezione cosmologica in
diagrammi e immagini simboliche, che trovano nel testo la loro spiegazione. Assai
significativo è il ritratto dell’autore premesso alla dedicatoria della Meteorologia: Fludd, che
si ritiene portatore di una sapienza di origine divina, grazie alla quale è possibile comprendere
sia la struttura dell’universo che il suo fine ultimo, vi appare simbolicamente illuminato dai
raggi del sole 80.
PM

76
Cfr. CESARE VASOLI, Le filosofie del Rinascimento, a cura di Paolo Costantino Pissavino, Milano,
Bruno Mondadori, 2002, pp. 393-397.
77
Cfr. La magia naturale nel Rinascimento. Testi di Agrippa, Cardano, Fludd, Torino, Utet, 1989,
l’Introduzione di Paolo Rossi, pp. 7-44, in particolare pp. 17-28.
78
Nelle De Rebus sacris et ecclesiasticis exercitationes XVI Casaubon dimostra che i libri ermetici
risalgono ai primi secoli dell’era cristiana e dunque non sono il frutto di un antichissimo sapere egizio;
egli pubblica la propria opera nel 1614; il primo volume della Utriusque cosmi…historia appare tre anni
più tardi, nel 1617.
79
Cfr. FRANCES A. YATES, Giordano Bruno, cit., p. 434.
80
Cfr. LUCA CAFIERO, Robert Fludd, cit., pp. 6-7.

47
►33 Johann Rudolph Glauber (1604-1668)
Furni novi philosophici, sive descriptio artis destillatoriae novae... Amsterodami :
prostant apud Joannem Janssonium, 1651.
6 pt. in 1 v. : ill. ; 8º (150 x 95 mm).
Collocazione: A.IV.G.IX.18
Provenienza: Eraclito Manfredi (1682-1759)

Un notevole contributo allo sviluppo della chimica seicentesca viene dal bavarese Glauber, un
alchimista autodidatta attivo in Germania e in Olanda, che si applica inizialmente alla
fabbricazione di specchi e poi avvia, ad Amsterdam, una impresa per la produzione di
medicinali, dimostrandosi particolarmente interessato a trarre dai propri studi risultati
concreti. A lui si devono scoperte importanti, soprattutto in relazione ai sali, ai quali dedica la
massima parte delle sue ricerche: ancor oggi il solfato di sodio è talvolta citato come sale di
Glauber. Tra i suoi molti
trattati spicca quello dedicato
ai Furni novi, sulla co-
struzione di nuovi tipi di
forni che consentono di
sottoporre al processo di
distillazione un gran numero
di sostanze; l’opera appare ad
Amsterdam nel 1648 in
lingua tedesca e riscuote
grande successo, diffon-
dendosi rapidamente grazie
anche alle traduzioni in
latino, francese e inglese.
L’autore vi descrive, tra
l’altro, la preparazione del-
l’acido cloridrico, nitrico e
solforico e dei sali concentrati che da questi derivano.
Mentre i risultati che ottiene in laboratorio sono innovativi, sotto il profilo teorico Glauber
accoglie l’insegnamento di Paracelso, crede nei rapporti analogici tra macrocosmo e micro-
cosmo e considera i metalli come esseri viventi suscettibili di trasmutazione; sale e fuoco
sono gli agenti che permettono di realizzare l’opus e i principi dai quali ha origine tutto ciò
che esiste; dalla formazione paracelsiana Glauber deriva anche il concetto di alchimia come
chiave interpretativa dei fenomeni naturali.
Nella sua opera s’intrecciano dunque elementi di una cultura che si avvia al tramonto e nuove
scoperte; da lui e da altri «filosofi chimici», che muovono dal sapere alchemico ma si
dedicano agli esperimenti di laboratorio con acuto spirito di osservazione e alla ricerca di
risultati di comune utilità, nascono le premesse della chimica, che progressivamente assume la
propria autonomia scientifica, differenziandosi dalla medicina e dalla farmacia alle quali era
rimasta strettamente legata per tutto il XVI secolo 81.
Tra le posizioni più progressiste di Glauber va ricordata anche la convinzione che le ricchezze
minerarie della Germania possano e debbano essere sfruttate a vantaggio dell’economia del
Paese: quest’idea pionieristica, in netto anticipo sui tempi, trova espressione nel trattato

81
ANTONIO CLERICUZIO, La macchina del mondo. Teorie e pratiche scientifiche dal Rinascimento a
Newton, Roma, Carocci, 2005, p. 236 e segg.

48
Teutschlands Wolfahrt, pubblicato ad Amsterdam nel 1656, e lo pone tra i fondatori della
ingegneria chimica.
PM

►34 Athanasius Kircher (1602-1680)

Magnes siue De arte magnetica opus tripartitum quo praeterquam quod vniuersa
magnetis natura, eiusque in omnibus artibus & scientijs vsus noua methodo
explicetur … . Romae : sumptibus Hermanni Scheus sub signo Reginae : ex
Typographia Ludouici Grignani, 1641.
[48], 916 [i.e. 918], [18] p., [32] c. di tav. : ill. ; 4° (222 x 165 mm).
Collocazione: A.V.O.XI.17
Provenienza: Santa Maria Lacrimosa degli Alemanni, Bologna 82

Il gesuita Athanasius Kircher suscita l’ammirazione dei contemporanei con la vastità


dell’erudizione e la molteplicità degli interessi, che
spaziano dall’ottica alla musicologia, dalla medicina
alla storia naturale; egli tenta per primo di decifrare i
geroglifici, ai quali non attribuisce un valore
semantico, ma simbolico, e nei quali vede la
rivelazione della sapienza divina. Benché dai suoi
studi non siano scaturiti risultati scientificamente
apprezzabili, la sua vasta produzione è stata
riscoperta e studiata, nel Novecento, per l’importanza
che riveste come espressione dell’enciclopedismo
barocco: Kircher aspira infatti alla costruzione di una
scienza universale, che rifletta in sé l’unità del
cosmo, nel quale, sulla scorta di una formazione
neoplatonica ed ermetica, egli scorge l’intima
connessione di tutti gli elementi; l’intero mondo naturale, l’uomo e le sue realizzazioni
possiedono anche un infinito numero di significati simbolici, attraverso i quali esprimono
l’ordine e la razionalità del creato 83.
Nel Mundus subterraneus, ampia opera di carattere geologico, Kircher dedica il libro XI
all’alchimia, alla sua storia, ai fondamenti teorici e alle varie fasi tecniche, in un discorso
assai ampio ma non privo di ambiguità e contraddizioni, dal quale il giudizio sull’ars stenta
ad emergere con chiarezza; egli approda comunque alla distinzione tra una pseudo-alchimia,
che confonde l’oro alchemico con quello materiale, e l’alchimia vera, che attribuisce all’opus
un senso spirituale e accenna a esperimenti compiuti personalmente 84.

82
Si tratta di una provenienza insolita rispetto a quelle che abitualmente si registrano per i libri antichi
della BUB; è attestata da una nota manoscritta a penna sul verso del foglio di guardia anteriore:
«Bibliothecae S.tae M.ae Lachrimosae Bononiae»; per accogliere una Madonna piangente fu costruita nel
secolo XVI sulla via Emilia la chiesa di Santa Maria Lacrimosa degli Alemanni.
83
Cfr. Athanasius Kircher e l'idea di scienza universale, a cura di Federico Vercellone, Alessandro
Bertinetto, Milano, Mimesis, 2007.
84
Cfr. ANNA MARIA PARTINI, Athanasius Kircher e l'alchimia. Testi scelti e commentati, trad. dal latino
di Pasquale Faccia, Roma, Edizioni mediterranee, 2004, in particolare pp. 31-54. Si veda anche UMBERTO
ECO, Perché Kircher? in La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Bompiani, 2011, pp.
81-88.

49
La concezione del cosmo che sta alla base dell’alchimia è la stessa sottesa agli studi sul
magnetismo, concepito come forza di attrazione che pervade la natura e la unifica; a questa
materia Kircher dedica tre opere: l’Ars magnesia, pubblicata nel 1631, il Magnes, che vede la
luce dieci anni dopo, e il Regnum naturae magneticum, stampato a Roma nel 1667.
La scelta di esporre il Magnes è motivata soprattutto dalla sua iconografia, che esprime con
grande evidenza il forte valore didascalico attribuito da Kircher all’immagine: il frontespizio
generale e quello interno premesso al terzo libro condensano la filosofia dell’autore in una
invenzione alle-
gorica fortemente
espressiva 85.
Elemento chiave di
entrambi è la cate-
na, che rappresenta
l’universale legame
tra tutte le cose; nel
frontespizio gene-
rale essa scende
dall’alto collegan-
do simboli del
potere della Chiesa
e dello Stato, la
mitria e l’aquila
bicipite, al di sopra
dei quali splendono
i raggi del sole-
occhio di Dio; nel
frontespizio del ter-
zo libro la catena lega i 14 medaglioni con gli emblemi delle arti e delle scienze ai tre che
rappresentano il macrocosmo sidereo, quello sublunare o terrestre e il microcosmo umano; al
centro sta il medaglione con l’occhio divino, sopra il quale si snoda un cartiglio con la scritta
«omnia nodis arcanis connexa quiescunt».
L’invenzione è complessa, ma la realizzazione grafica è elegante e leggera, grazie anche al
paesaggio aperto e verdeggiante che fa da sfondo alla simbolica collana. L’uso dell’immagine
per trasmettere il sapere con un linguaggio sintetico, accessibile e facile da memorizzare è un
elemento importante della cultura dei Gesuiti, che nel Seicento creano un vastissimo
repertorio di emblemi dei quali fanno un uso largo e vario e Kircher si avvale di questo
strumento didascalico in molte opere, con esiti di notevole suggestione.
PM

► 35 MICHAEL MAIER (1569-1622)

Tripus aureus, hoc est, tres tractatus chymici selectissimi, nempe I. Basilii Valentini.
Practica una cum 12 clavibus …. Thomae Nortoni … Ordinale … nunc ex Anglicano
manuscriptum in Latinum translatum … III. Cremeri cuiusdam Abbatis
Westmonasteriensis Angli Testamentum … nunc in diversarum nationum gratiam

85
Per l’analisi di questi e altri frontespizi kircheriani cfr. ANGELA DEUTSCH, Iconographia Kircheriana,
in Athanasius Kircher. Il museo del mondo, a cura di Eugenio Lo Sardo, Roma, De Luca, 2001, pp. 355-
363; e A. M. PARTINI, Athanasius Kircher, cit., pp. 31-35.

50
editi, & figuris cupro affabre incisis ornati opera
& studio. Francofurti : Ex Chalcographia Pauli
Iacobi, impensis Lucae Iennis, 1618.
196 p. : ill. ; 4° (196 x 150 mm).
Collocazione: A.IV.G.VII.31
Provenienza: Antonio e Bartolomeo Bonfiglioli
(sec. XVIII)

Il medico tedesco Michael Maier si appassiona ben


presto all’alchimia e abbandona la città di Rostog,
nell’Holstein, dove ha svolto inizialmente la propria
attività, per approfondire i segreti dell’opus e cercare
un protettore influente; accolto in varie corti tedesche e
a Praga, dove l’imperatore Rodolfo II è vivamente
interessato all’ars, dal 1611 al 1615 soggiorna in
Inghilterra, stringendo rapporti amichevoli con Robert
Fludd, come lui sostenitore dell’ordine dei Rosacroce,
i cui manifesti, la Fama fraternitatis Rosae Crucis e la
Confessio Fraternitatis, si stanno diffondendo in
quegli anni.
L’opera di Maier ancor oggi più nota è l’Atalanta fugiens, pubblicata nel 1617, una raccolta di
emblemi nella quale la rivisitazione alchemica dei miti classici trova forse una delle sue
espressioni più suggestive. L’anno successivo è dato alle stampe il Tripus aureus, dove Maier
propone opere di autori diversi, secondo una consuetudine che abbiamo visto affermarsi già
nella seconda metà del Cinquecento, quando raccolte a stampa come i due volumi
dell’Auriferae artis pubblicati da Perna contribuiscono notevolmente alla diffusione dei testi
alchemici.
Il primo trattato del Tripus è la Practica una cum 12 clavibus attribuita a Basilio Valentino,
un monaco benedettino vissuto in Sassonia tra il XIV e il XV secolo: si tratta di una identità
fittizia sotto la quale si cela il paracelsiano tedesco Johann Tölde 86, attivo nella seconda metà
del Cinquecento, i cui scritti furono volutamente retrodatati per accrescerne l’autorevolezza.
Le dodici chiavi della filosofia, opera di stampo ermetico sulla pietra filosofale, contenente
anche alcune precise indicazioni di chimica pratica 87, sembrano essere apparse per la prima
volta in tedesco nel 1599 88; Maier ne pubblica la traduzione latina e a ciascuna clavis accosta
una piccola incisione, il cui significato simbolico è, come sempre, strettamente legato al
contenuto del testo. Ad esempio la prima clavis, che descrive l’inizio del processo di
trasmutazione, è illustrata da una immagine nella quale campeggia una coppia regale, che rap-
presenta i due principi fondamentali dell’opus: quello maschile, lo zolfo, e quello femminile,
il mercurio; analogamente lo scheletro nell’incisione della quarta clavis simboleggia la
«morte» della materia, o fase della putrefazione, e, nell’immagine associata alla dodicesima

86
Cfr. MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza, cit., pp. 230-231.
87
Nell’Europa seicentesca la ricerca degli alchimisti, che spesso si svolge all’ombra di mecenati potenti,
si sta progressivamente indirizzando verso risultati concreti: i sovrani non sono interessati solo all’oro o ai
ritrovati medicinali, ma anche alle scoperte che possono incrementare le attività produttive,
dall’agricoltura alla fabbricazione del vetro o della porcellana. Cfr. MICHELA PEREIRA, Arcana sapienza,
cit., pp. 235-239.
88
A Eisleben, con il titolo Ein kurtz summarischer Tractat, von dem grossen Stein der Uralten. Cfr.
ADAM MCLEAN, The Alchemy web site, <http://www.levity.com/alchemy/twelvkey.html>, ultima
consultazione: 25.2.2013.

51
chiave, il laboratorio dove l’opus si sta compiendo sotto il vigile sguardo dell’alchimista è
gremito di simboli
della trasformazione
alchemica.
Come spesso accade
nelle opere sull’ars,
l’apparato iconogra-
fico non è solo un
ornamento, ma divie-
ne parte integrante del
messaggio testuale.
La seconda opera del
Tripus si deve a un
alchimista inglese
della seconda metà
del Quattrocento,
Thomas Norton (ca.
1433-ca. 1513), che,
seguendo l’esempio
del maestro George
Ripley, adotta l’uso
del verso per il suo Ordinal of Alchemy, nel quale le fasi dell’opus sono scandite come un
cerimoniale liturgico, che il titolo richiama allusivamente; la versione latina del poema e la
sua pubblicazione nel Tripus resero largamente nota questa opera ricon-ducibile al filone di
testi nei quali la ricerca alchemica acquisisce il linguaggio dell’esperienza religiosa.
All’ambito delle opere pseudo-lulliane ci riporta invece il Testamentum di Cremer,
leggendario abate di Westminster che avrebbe persuaso Raimondo Lullo a recarsi in
Inghilterra e a produrre oro per il re Edoardo III; l’interesse di queste pagine risiede
soprattutto nel brano iniziale, che narra l’incontro di Cremer con Lullo e le vicende di
quest’ultimo alla corte inglese: un passo importante, perché leggende come questa
sovrappongono alla figura storica del filosofo maiorchino l’immagine del grande alchimista e
giustificano l’attribuzione lulliana di un gran numero di testi, la cui autenticità non viene
messa in discussione per secoli 89.
PM

►36 HEINRICH KHUNRATH (1560-1605)

Amphitheatrum sapientiae aeternae, solius verae, christiano-


kabalisticum, diuino-magicum, nec non physico-chymicum,
tertriunum, catholicon… Hanouiae : excudebat Guilielmus
Antonius, 1609.

89
Per una approfondita analisi della formazione del corpus pseudo-lulliano cfr. MICHELA PEREIRA, Un
innesto sull’arbor scientiae. Il problema dell’alchimia negli studi lulliani, in «Studia Lulliana», v. 36
(1996), pp. 79-97; consultabile anche on line sul sito Studia Lulliana,
<http://ibdigital.uib.cat/greenstone/collect/studiaLulliana/index/assoc/Studia_L/ulliana_/Vol_036_/p079.d
ir/Studia_Lulliana_Vol_036_p079.pdf>; ultima consultazione: 26.2.2013.

52
[4], 60, 222, [6] p. ; [18] c. di tav. doppie, [2] c. di tav. singole : ill. calcogr., 1 ritr. ;
2° (mm 310 x 190).
Collocazione: A.M.Q.V.19
Provenienza: antico fondo

Della vita di Khunrath abbiamo poche notizie certe: nato a Lipsia, studia medicina
all’Università di Basilea, dove discute le sue 28 tesi di dottorato il 24 Agosto 1588, quindi
pratica la professione ad Amburgo e a Dresda. Nella incisione di Diricks van Campen per
l’Amphitheatrum il suo ritratto a mezzobusto è racchiuso in una cornice ovale che lo descrive
«theosophiae amatoris fidelis, et medicinae vtriusque doctoris», individuando i cardini della
sua opera: la medicina teorica e pratica di stampo paracelsiano e la speculazione filosofica
nella quale convergono alchimia, magia naturale, cabala e pensiero cristiano. Benché
Khunrath riconosca il valore dell’esperienza, la sua concezione dell’ars è sostanzialmente
intrisa di spiritualismo; l’alchimia è intesa come percorso di conoscenza dei misteri della
natura, che il filosofo potrà penetrare solo se la sua opera sarà resa efficace dall’illuminazione
divina. L’alchimista è infatti colto in preghiera nella nota incisione dell’Amphitheatrum che
ne raffigura il laboratorio 90.
Una versione ridotta dell’Amphitheatrum, con solo 25 pagine di testo e 4 tavole incise, è
pubblicata, forse ad Amburgo, nel 1595, ma la sapienza cristiano-cabalistica di Khunrath
desta non pochi sospetti d’eresia e probabilmente anche per questo la redazione definitiva
vede la luce solo dopo la morte dell’autore, nel 1609 91, con un corredo iconografico che è tra i
più meritatamente noti nell’ambito della letteratura alchemica. Esso è costituito dalle quattro
tavole a doppia pagina con incisioni
rotonde già apparse nel 1595 92, cinque
nuove tavole doppie con incisioni
rettangolari, il citato ritratto dell’autore
e una civetta che indossa gli occhiali e
tiene due torce tra gli artigli, affiancata
da due candelieri accesi. All’oscurità
del testo fa riscontro la difficoltà
d’interpretare la maggior parte delle
incisioni, che Umberto Eco definisce
«complesse costruzioni verbo-visive,
dove cartigli, didascalie, composizioni
a rebus si fondono con rappresentazioni
simboliche»; in alcune di esse la
ricchezza dei dettagli e le linee di testo
che s’intrecciano agli elementi figu-
rativi costruiscono un labirinto nel

90
Si tratta della raffigurazione oggi forse più spesso riprodotta del laboratorio alchemico: una grande sala
divisa in due zone distinte, con a destra l’occorrente per la pratica, a sinistra una sorta di altare sul quale
troneggiano libri aperti, sovrastati dal monito «Ne loquaris de deo absq. Lumine»; al centro dell’oratorio-
laboratorio sta un tavolo sul quale poggiano strumenti musicali che alludono all’armonia cosmica.
91
Sulla data della prima edizione e la consistenza dell’apparato iconografico i pareri sono discordi: cfr.
UMBERTO ECO, La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Rovello, 2007; consultato on
line, <http://books.google.it/books?id=ewgVKsPw6gYC&pg\\=PT97&lpg=PT97&dq=amphitheatrum>;
ultima consultazione: 27.2.2013.
92
Nella edizione del 1595, della quale oggi sono noti soltanto due esemplari, le incisioni circolari sono
circondate da linee di testo non presenti nelle tavole della edizione seicentesca, che è in formato più
piccolo. Cfr. U. ECO, La memoria vegetale, cit., pp. 93-127.

53
quale l’occhio si smarrisce e comunicano anche a livello emotivo la complessità del discorso
alchemico.
L’opera di Khunrath suscita una violenta reazione negli ambienti cattolici: l’Amphitheatrum è
condannato dalla Sorbona nel 1625 come libro «perniciosum, blasphemum, impium & in
fidem pericolosum»; pochi anni dopo il Marin Mersenne (1588-1648), in una lettera a Nicolas
de Baugy giudica l’autore un uomo «mali et illeciti artis deditissimum, contumeliosum in
naturam, injuriam in omine et in Deum blasphemum.» 93 Questo libro tacciato d’empietà
suscita ancor oggi l’interesse degli appassionati di scienze occulte ed è ricercato dai bibliofili
per la sua singolare bellezza.
PM

►37 JEAN JACQUES MANGET (1652-1742)


Bibliotheca chemica curiosa, seu rerum ad alchemiam pertinentium thesaurus
instructissimus: quo non tantùm artis auriferæ, ... verùm etiam tractatus omnes
virorum ... ad quorum omnium illustrationem additæ sunt quamplurimæ figuræ

93
Cfr. PETER FORSHAW, Curious knowledge and wonder-working wisdom in the occult works of Heinrich
Khunrath, in Curiosity and Wonder from the Renaissance to the Enlightenment, a cura di Robert John
Weston Evans e Alexander Marr, Aldershot, Ashgate, 2006, pp. 107-129; in particolare per questa
citazione pp. 110-11.

54
æneæ. Tomus primus [-secundus]. Genevæ : sumpt. Chouet, G. De Tournes,
Cramer, Perachon, Ritter, & S. De Tournes, 1702.
2 v. : ill. ; 2° (354 x 210 mm).
Collocazione: A.IV.D.III.5/1-2
Provenienza: Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730)
Si espone il v. 2.

Una delle principali fonti per la storia dell’alchimia è certamente la Bibliotheca Chemica
curiosa del ginevrino Manget, decano della facoltà di medicina all’Università di Valenza e
medico personale di Federico III di Brandeburgo, re di Prussia col nome di Federico I.
La memoria delle sue opere di medicina, una Bibliotheca medico-practica e un trattato sulla
peste, è stata quasi completamente eclissata dalla fama di questa imponente raccolta, che offre
al lettore 140 trattati di autori diversi: ai numerosi classici dell’ars medievale, da Ruggero
Bacone e Arnaldo di Villanova a Lullo, sono affiancati gli umanisti Pico Della Mirandola e
Marsilio Ficino, e scrittori contemporanei come Michael Sendivogius e Athanasius Kircher.
La Bibliotheca offre dunque un
panorama assai ampio della
letteratura alchemica, nel solco della
lunga tradizione editoriale iniziata
nel Cinquecento, soprattutto in area
tedesca, grazie all’attività dei
tipografi Heinrich Petrus e Pietro
Perna, e proseguita nel secolo
successivo con Lazarus Zetzner e il
suo Theatrum chemicum.
I due ponderosi in folio della
Bibliotheca Chemica si presentano
come una sorta di enciclopedia
ordinata in nove sottosezioni; mentre
le tavole del secondo volume si
riferiscono a diverse opere, il cui
testo è inframmezzato dagli opportuni rinvii, quelle che concludono il primo volume
costituiscono un’opera autonoma, delle più note e ancor oggi più studiate tra le molte
tramandateci da Manget: il Mutus liber, che deve il proprio titolo alla quasi totale assenza di
testo.
L’autore, che si nasconde dietro lo pseudonimo Altus, affida il proprio messaggio a 14
immagini, limitando l’uso della parola al frontespizio 94, a una breve dedica Au lecteur e a due
motti che accompagnano le ultime tavole: «Ora, Lege, Lege, Lege, Relege, Labora et
Invenies» e «Oculatus Abis.» L’opera sintetizza la filosofia ermetica e il percorso alchemico
in «figuris hieroglyphicis», destinate esclusivamente ai «filiis artis»; sulla vera identità di
Altus si sono fatte ipotesi diverse, la più accreditata delle quali attribuisce il Mutus al medico
protestante Isaac Baulot.
La prima edizione è pubblicata a La Rochelle nel 1677, con un privilegio concesso a Jacob
Saulat Signore di Marez, citato nel Settecento tra i possibili autori dell’opera 95; la seconda

94
Mutus liber, in quo tamen tota Philosophia hermetica, figuris hieroglyphicis depingitur, ter optimo
maximo Deo misericordi consecratus, solisque filiis artis dedicatus, authore cuius nomen est Altus.
95
Saulat è citato come possibile autore del Mutus liber da Louis Étienne Arcère, nella Histoire de la ville
de La Rochelle et du pays d’Aulnis, pubblicata nel 1754: il nome è l’anagramma di Altus; Arcère stesso
preferisce tuttavia attribuire l’opera a un certo Tollé, medico e farmacista di La Rochelle.

55
edizione appare nella Bibliotheca, ed è
realizzata con nuove matrici che
modificano alcuni dettagli iconografici;
la variazione più evidente si rileva nel
frontespizio, dove due angeli musicanti
scendono dal cielo a risvegliare un
uomo addormentato accanto a una
roccia: mentre nella prima edizione il
paesaggio sullo sfondo è collinare, nella
seconda s’intravedono in lontananza le
acque di un lago.
Il grande fascino che il Mutus liber
esercita ormai da due secoli e mezzo si
deve probabilmente alla semplicità
delle immagini associata alla complessa
valenza simbolica che ne permette
diversi livelli di lettura: se il loro più
profondo significato è comprensibile
solo ai figli dell’ars per i quali Altus le
ha ideate, anche il semplice bibliofilo
può coglierne la suggestione im-
mediata.
Nelle tavole che concludono il secondo
volume della Bibliotheca, ritroviamo,
tra le altre, dodici incisioni simili a
quelle che già nel Tripus aureus di Maier, pubblicato nel 1618, illustrano il Liber duodecim
clavium (vedi scheda n° 35): nelle vignette della Bibliotheca il disegno appare più grossolano,
ma i soggetti sono riproposti fedelmente, a testimonianza della consolidata tradizione
iconografica alla quale autori ed editori attingono come a un irrinunciabile strumento di
integrazione dei testi. Interessanti anche le 12 piccole incisioni raccolte nella seconda tavola,
che sintetizzano i concetti espressi nell’Aurelia occulta philosophorum, generalmente
attribuita a Basilio Valentino 96 e qui ascritta all’arabo Zadith; ad esempio la seconda
incisione, che racchiude in un cerchio numerosi simboli alchemici, riassume la concezione
ermetica del cosmo come organismo unitario, dove arcane corrispondenze collegano «ciò che
è in alto» e «ciò che è in basso» e rendono possibile l’opus: «Verum hoc est… quodque
inferius est, simile est ejus quod est superius, per hoc acquiruntur & perficiuntur mirabilia
operis unius rei…»; e ancora: «Pater ejus Sol est, mater Luna, vētus in utero gestavit… 97» La

L’identificazione di Altus con Isaac Baulot è stata proposta nel 1976 da Jean Fleuret, dopo il
ritrovamento, nella biblioteca Marsh di Dublino, dei libri appartenuti a Elie Bouherau, medico a La
Rochelle negli anni in cui il Mutus liber fu pubblicato e successivamente emigrato in Irlanda; il catalogo
della biblioteca di Bouhreau indica appunto in Isaac Baulot l’autore del Mutus liber. Baulot fu, secondo
Fleuret, un medico e intellettuale protestante, nato a La Rochelle nel1619. Si osservi che Isaac Baulot è a
sua volta l’anagramma di Jacob Saulat. Queste notizie sono reperibili on line: Cfr. ADAM MCLEAN,
Research notes : Author of Mutus liber, sul sito di Adam McLean, The Alchemy web site, cit. nella nota
88; cfr. anche Altus (Isaac Baulot) - Mutus Liber (1677), on line sul sito: MASSIMO MARRA, Massimo
Marra Web Archive, <http://www.massimomarra.net/1089/Altus-Isaac-Baulot-Mutus-Liber-1677-Con-
una-nota-biobibliografica-introduttiva-di-Massimo-Marra>; ultima consultazione 1.3.2013.
96
Per la vera identità di Basilio Valentino cfr. scheda 35.
97
Bibliotheca chemyca curiosa, v. II, p. 213 dell’edizione esposta.

56
vignetta, traducendo in simboli l’esposizione teorica, ne permette la memorizzazione visiva e
ne favorisce una più profonda assimilazione.
PM

►38 Poesie alchemiche.

Ms., sec. XVIII (1721), cartaceo, cc. 18, mm 210 x 143.


Collocazione: BUB, ms. 3935, II
Provenienza: Ubaldo Zanetti (1698-1769)

«Mosso da fraternale amore verso li veri studiosi


dell'arte vera filosofica ho risoluto voler mostrare una
delle più brevi abbreviationi che si trovano nella gran
vastità di tutto il gran Magistero filosofico»: così il
compilatore di questo fascicoletto, un tale Antonio
Francesco Afferri del quale niente si sa, conclude la
sua raccolta di 25 poesie di argomento alchemico. I
componimenti, fra i quali si trovano anche alcune
ottave tratte dalla Trasmutatione di Giovanni Battista
Nazari, vertono tutti sul compimento dell'opera
filosofica, illustrata in versi spesso oscuri e sibillini. In
particolare il sonetto n. 16, intitolato Enigma sopra
tutta l'opera filosofica, riprende nell'incipit
l'andamento di un famosissimo epitaffio latino
bolognese, conosciuto come Aelia Lelia Crispis e del
quale si conoscono almeno una cinquantina di
interpretazioni diverse; il susseguirsi di negazioni
contenenti informazioni inconciliabili fra loro alla base
del testo dell'Aelia Laelia («Nec vir nec mulier nec
androgyna nec puella nec iuvenis ... ») si ritrova sotto
forma di affermazioni altrettanto paradossali nel nostro sonetto: «Son di me figlio, e frate, e
padre, ed avo / Son vergine, son balia, e madre, e moglie / Son vile, e cerca ogn'un trarmi a
sue voglie / Son drago orrendo, aquila, rege e schiavo.»98 Sul primo foglio della raccolta
compaiono il nome dell'autore, la data e il nome – Savorini – di un probabile destinatario, il
tutto però scritto al contrario, da destra verso sinistra, in modo da rendere leggibili i caratteri
solo con l'uso di uno specchio. Altre date compaiono all'interno, nei titoli delle poesie: alla c.
11r troviamo una Visio a 18 Xbre 1702, a c. 12v un Capriccio sopra il Mercurio filosofico
datato 1713; oltre a Giovanni Battista Nazari viene fatto riferimento ad un altro alchimista del
passato, un Giovanni Pontano forse vissuto nel XVI secolo, autore di una Lettera sul fuoco
filosofico tramandata da un manoscritto conservato alla Bibliothèque nationale di Parigi.
Il manoscritto è testimonianza della persistenza, ancora nei primi decenni del XVIII secolo, di
una tradizione simbolico-magica che stava per essere cancellata dalla moderna scienza
chimica; è significativo che il fascicolo facesse parte della biblioteca di Ubaldo Zanetti,
singolare figura di speziale e collezionista bolognese che nella sua biblioteca conservava,
proprio in virtù della sua professione di farmacista, un ricco materiale sia manoscritto che a
stampa di Secreti e ricette mediche. Accanto a questi testi che tramandavano spesso una serie

98
FRANCO BACCHELLI, Un enigma bolognese. Le molte vite di Aelia Laelia Crispis, Bologna, Costa,
2000; MINO GABRIELE, Enigmi e liriche, cit., pp. 37-77.

57
di precetti legati alla tradizione empirica, si trovano peraltro diverse opere ferocemente
critiche nei confronti dell'alchimia, come La vera dichiaratione di tutte le metafore,
similitudini, & enimmi de gl'antichi filosofi alchimisti, ... Oue con vn breue discorso della
generatione de i metalli, & quasi di tutte l'opere di natura, secondo i principij della filosofia,
si mostra l'errore, & ignoranza (per non dir l’inganno) di tutti gl'alchimisti moderni, di
Evangelista Quattrami, Contra l'alchimia, e gli alchimisti ... di Angelo Ingegneri, o la Sferza
degli alchimisti di Gaudenzio Brunacci. 99 L'attenzione per i moderni sviluppi della scienza è
d'altra parte testimoniata dalla presenza di ben tre edizioni del Corso di chimica del Lemery,
una latina (Ginevra 1681) e due italiane (Venezia 1717 e 1720).
RDT

►39 JOHANN CONRAD BARCHUSEN (1666-1723)

Elementa chemiae, quibus subjuncta est confectura lapidis philosophici imaginibus


repraesentata. Lugduni Batavorum : apud Theodorum Haak, 1718.
[12], 532 [i.e.540], [20] p., [24] c. di tav. : ill. ; 8º (200 x 155 mm).
Collocazione: A.IV.G.VII.24
Provenienza: Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730)

Le notizie che abbiamo sull’attività


di Barchusen si riferiscono
soprattutto agli anni successivi al
1694, quando si trasferisce a Utrecht
dopo aver studiato farmacia in
diverse città e aver molto viaggiato,
anche come medico al seguito di
Francesco Morosini, durante la
spedizione veneziana nel
Peloponneso 100. Nella città olandese
Barchusen acquista larga fama
grazie all’insegnamento: ottiene
dapprima il permesso di tenere corsi
agli studenti universitari, poi la
nomina a lettore di chimica nel 1698
e la cattedra nel 1703. E’
probabilmente la prima volta che il
ruolo di professore viene ricoperto
da uno studioso senza precedenti
accademici; l’insegnamento della chimica è stato finora subordinato a quello della medicina e

99
EVANGELISTA QUATTRAMI, La vera dichiaratione di tutte le metafore, similitudini, & enimmi de
gl'antichi filosofi alchimisti ... , In Roma, appresso Vincentio Accolti, in Bergamo nouo, 1587; ANGELO
INGEGNERI, Contra l'alchimia, e gli alchimisti palinodia dell'Argonautica di Angelo Ingegneri ... , In
Napoli, appresso Gio. Giacomo Carlino, 1606; GAUDENZIO BRUNACCI, La sferza de gl'alchimisti, diuisa
in quatro capitoli. Nel primo si dimostra l'origine, & cause, che produssero tal falsa chimica. Nel
secondo gli occulti inganni, ... , Lion, 1665.
100
Tra il 1685 e il 1687 Francesco Morosini conquistò per Venezia il Peloponneso, il cui possesso fu
riconosciuto alla Serenissima dal trattato di Carlowitz (1699); la regione ricadde nelle mani dei Turchi
trent’anni dopo.

58
della farmacologia e solo nei primi decenni del Settecento viene affermandosi come disciplina
autonoma, pur tra le molte difficoltà dovute ai problemi economici che affliggono le
Università.
Le riflessioni di Barchusen sulla chimica sono raccolte in tre opere: la Pyrosophia, pubblicata
nel 1698, poi rivista e riedita come Elementa chemiae, l’Acroamata, con i testi delle letture
all’Università, e il Compendium ratiocinii chemici, del 1712, dove i principi della chimica
sono esposti facendo ricorso alla geometria, con l’aiuto di teoremi e postulati.
Degli Elementa c’interessa soprattutto la parte finale, dedicata alla metallurgia e all’alchimia,
dove l’autore spiega la possibilità della trasmutazione con lo spostamento delle particelle che
compongono i metalli durante le reazioni ottenute in laboratorio. Nonostante il tentativo di
interpretare ogni modificazione della materia in termini di reazioni chimico-fisiche,
Barchusen utilizza anche 19 belle immagini simboliche, che racconta di aver copiato da un
manoscritto trovato in un monastero in Svevia, e che raffigurano le tappe dell’opus ricorrendo
al tradizionale repertorio dell’immaginario alchemico 101. Notiamo in particolare la seconda
vignetta della prima tavola, dove l’alchimista, circondato dai libri e dagli alambicchi, è
inginocchiato in preghiera e riceve la benedizione di Dio: l’opus, dunque, resta frutto
dell’illuminazione divina.
Forse più nota è la bella tavola ripiegata che riproduce la «Facies interior officinae Chemicae
Ultraiectinae» e ci mostra lo scienziato all’opera nel grande laboratorio universitario di
Utrecht; mai come nell’iconografia di questo libro la filosofia alchemica, che affonda le
proprie radici in un
remoto passato,
convive anche visi-
vamente con i ger-
mogli della nuova
scienza, e non solo
nelle due incisioni
indicate; è infatti
molto evidente il
contrasto tra le
tavole allegoriche e
quelle che descri-
vono con puntua-
lità e ricchezza di
dettagli gli stru-
menti necessari
allo studio della
chimica, che per
Barchusen è in buona misura iatrochimica, quindi ricerca e preparazione di farmaci più
incisivi dei rimedi galenici 102. Le applicazioni pratiche degli studi chimici stanno acquistando
un rilievo crescente e sfoceranno, a metà del Settecento, nella fondazione della chimica
pratica.

PM

101
Ho tratto le notizie dal sito Massimo Marra web archive, cit. nella nota 95.
102
Cfr. ROBERT COLLIS, The Petrine Instauration: Religion, Esotericism and Science at the Court of of
Peter the Great, 1689-1725, Leiden, Brill, 2012, pp. 139-141. Disponibile anche on line: Google Libri, <
http://books.google.it/books?id=3nKoFMo3ECoC&pg=PA139&lpg=PA139&dq=the+petrine+instauratio
n+barchusen&source>; data dell’ultima consultazione: 5.03.2013.

59
►40 NICOLAS LEMERY (1645-1715)

Cours de chymie. Contenant la manière de faire les opérations qui sont en usage
dans la médécine, par une methode facile ... Neufième Edition. Reveuë, corrigée &
augmentée par l'Auteur. A Paris : Chez Estienne Michallet, ruë saint Jacques, à
l’Image du Saint Paul, 1697.
[16], 792 p., [7] c. di tav., [1] c. di tav. ripieg. : ill. ; 8° (185 x 115 mm).
Collocazione: A.IV.G.VIII.13
Provenienza: Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730)

Fin da giovanissimo Lemery si appassiona agli studi di farmacia, che compie nella natìa
Rouen, a Parigi, presso il Jardin du Roy, e all’Università Montpellier; è Parigi a decretargli il
successo, con un incarico a corte, la proprietà di una farmacia e i corsi privati di chimica,
rivolti alla formazione professionale dei futuri farmacisti ma molto amati anche dalla buona
società, che apprezza la chiarezza e l’accessibilità delle sue lezioni. Dopo un periodo di
difficoltà causatagli dalla revoca dell’editto di Nantes, che lo priva di ogni diritto per le sue
origini protestanti, riacquista una posizione di prestigio, che culmina con l’ammissione, nel
1699, alla rinnovata Accademia delle Scienze.
La duratura fama di Lemery è dovuta soprattutto al suo Cours de chymie, pubblicato per la
prima volta nel 1675 e accolto con tanto favore da essere tradotto in latino, tedesco, olandese,
italiano, spagnolo e inglese e da essere più volte ristampato fino alla metà del Settecento. La
ragione di un simile successo, e della considerazione che il Cours gode ancora presso gli
storici della scienza, sta soprattutto nell’approccio di Lemery all’alchimia, dalla quale prende
le distanze fin dal’inizio della prefazione, ripudiandone l’oscurità di linguaggio: «La pluspart
des Auteurs qui ont parlé de la Chymie, en ont écrit avec tant d’obscurité, qu’ils semblent
avoir fait leur possible pour n’estre pas entendus 103»; egli userà invece la massima chiarezza e
terrà ben distinta la chimica, che è in primo luogo una scienza utile e che insegna a
comprendere la composizione dei corpi, dalle vane e menzognere operazioni alchimistiche
intese a tramutare i metalli vili in oro; di quest’arte egli riporta una definizione, che è una
condanna inappellabile: «Ars fine arte, cujus principim mentiri, medium laborare et finis
mendicare. 104» Lemery non ricorre alla tradizionale distinzione tra impostori e veri alchimisti:
mirando al consenso accademico, vuole ridefinire alchimia e chimica come due distinte
discipline, fondando la seconda sulla chiarezza del linguaggio e dei simboli e negandole ogni
rapporto con le fumisterie alchemiche; in questo e nel continuo ricorso al metodo
sperimentale egli soddisfa l’esigenza di rinnovamento fortemente avvertita dalla cultura
contemporanea. E’ vero che il suo contributo teorico è modesto, poiché egli unisce una
concezione meccanicista della materia a teorie della iatrochimica tradizionale, senza
approdare a un pensiero originale; tuttavia il linguaggio e il metodo lo rendono un precursore
della nuova scienza chimica 105.
Per questo si è scelto il Cours de chymie come ultima tappa del nostro percorso: ci sembra che
possa rappresentare simbolicamente il tramonto di un’arte secolare e lo schiudersi della
cultura europea a nuovi orizzonti.
PM

103
Cfr. Cours de Chymie, Preface, p. [5] dell’edizione esposta.
104
Ibidem, p. 67.
105
Cfr. BRUCE T. MORAN, Distilling knowledge. Alchemy, chemistry, and the scientific revolution,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 2005; in particolare pp.119-121.

60
Indice dei nomi

Bertinetto, Alessandro 49
A Biringuccio, Vannozzo 44, 45
Birkmann, Johannes 23
Abraham ebreo 17 Bitiskius, Friedrich 41
Abū ‛Alī al-Ḥusayn ibn ‛Abd Allāh ibn Boccaccio, Giovanni 35
Sīnā 13, 40 Bochart de Champigny 23, 25
Afferri, Antonio Francesco 57 Bombast von Hohenheim, Philipp
Agatodemone 31 Theophrast vedi Paracelsus
Agricola, Georgius vedi Bauer, Georg Bonaventure, monsieur de la 26
Agrippa di Nettesheim, Heinrich Bonfiglioli, Antonio 15, 18, 42, 44, 51
Cornelius 47 Bonfiglioli, Bartolomeo 15, 18, 42, 44,
Albertus Magnus santo.,8, 9, 26 51
Aldrovandi, Ulisse 3, 4, 5, 6, 30, 34, 35, Bonifacio VIII, papa 7, 27
36, 37, 38, 43, 45 Bono, Pietro 10
Alessandro Magno 8 Bouherau, Elie 55
Alfonso X, re di Castiglia e Léon 6 Boyle, Robert 47
Alighieri, Dante 33 Bry, Theodor de Erben 45, 46
al-Kindī, Abū Yūsuf Yahqūb ibn Ishāq 5 Brunacci, Gaudenzio 58
Alphidius 31 Brunel 17
Antonelli, Armando 34 Bruno, Giordano 47
Antonius, Wilhelm 52 Brunschwig, Hieronymus 31
Apuleius 39 Bulifon, Antonio 41
Arcère, Louis Étienne 55
Aristoteles 8, 43 C
Arnaldo de Vilanova 3, 7, 8, 9, 12, 13,
14, 26, 28, 55 Caboga, Mario 45
Aronne 1 Cafiero, Luca 46, 47
Artephius 6, 7, 19, 20 Campen, Diricks van 53
Attendoli Sforza Manzoli, Carlo 1 Caprara, Vittoria 1, 4, 7, 8, 11, 17, 22,
Aurach d'Argentine, Georges 7, 9, 17 25, 26, 27, 30
Avicenna vedi Abū ‛Alī al-Ḥusayn ibn Cardano, Gerolamo 31, 47
‛Abd Allāh ibn Sīnā Cartesio, Renato vedi Descartes, René
Casaubon, Isaac 47
B Castagnola, Raffaella 8
Cecco d'Ascoli, vedi Stabili, Francesco
Bacchelli, Franco 57 Chambers, Ephraim 31
Bacon, Francis 47 Chauveau, François 41
Bacon, Roger 4, 5, 9, 16, 31, 55 Chouet, Jean Antoine 54
Balbiani, Laura 42 Christophle Parisien 26, 27
Barchusen, Johann Conrad 58, 59 Cibo, Innocenzo 36, 37
Basilio Valentino 51, 56 Cicero, Marcus Tullius 43
Bauer, Georg 44 Clemente VI, papa 33
Baugy, Nicolas de 53 Clericuzio, Antonio 48
Baulot, Isaac 55, 56 Coberge 1
Beccari, Antonio 33 Colinet, Andrée 5
Beccari, Iacopo Bartolomeo 12, 20 Collis, Robert 59
Benedetto XIV, papa 30 Contini, Gianfranco 27, 33
Bernardini, Carla 34 Copernico, Niccolò 4

61
Cramer, Jean Antoine 54 Grattaroli, Guglielmo 12
Cremer, John 50, 52 Grüninger, Johann 31
Crisciani, Chiara 8
Cristoforo da Recaneto 27 H

D Haak, Theodor 58
Ḫālid ibn Yazīd 13
Daniele di Capodistria 8, 9 Haffner, Johannes Georg 23
David, Jérôme 41 Harpocration grammatico 2, 3
Decartes, René 46 Hermes Trismegistus 2, 3, 4, 5, 8, 16, 20,
Dee, John 29, 47 28, 29, 31, 38, 41, 47
Della Porta, Giovan Battista 41, 42, 43 Holywood, John vedi Sacrobosco,
Della Porta, Giovan Vincenzo 42 Johannes de
Deutsch, Angela 50 Hortulanus 26
Dioscorides, Pedanius 2 Huser, Johannes 41
Duchamp, Marcel 18
Dupuits 17 I

E Ibn an-Nadìm 13
Ingegneri, Angelo 58
Eco, Umberto 53
Edoardo III, re d'Inghilterra 52 J
Elia da Cortona, frate 8
Emericus de Monteforto 5 Jābir ibn Hayyān al-Bariqi al-Azdi 5, 8,
Ercker von Schreckenfels, Lazarus 2 11, 15, 25
Jacob, Paul 50
F Janson, Jan 47
Jennis, Lucas 50
Fabri, Guglielmo 8 Johannes de Mysna 21
Faccia, Pasquale 49 Jung, Carl Gustav 1, 20, 41
Fārābī, Abu Nasr Muhammad 6
Federico I, re di Prussia 55 K
Federico II, imperatore 27
Felice V, papa 8 Kahn, Didier 1, 18, 23
Ficino, Marsilio 3, 46, 55 Khunrath, Heinrich 52, 53, 54
Flamel, Nicolas 17, 18, 19 Kircher, Athanasius 49, 50, 55
Fleuret, Jean 55 Kurhummel, Johann Melchior 24
Fludd, Robert 45, 46, 47, 51 Kyranos, re di Persia 2
Forshaw, Peter 54
Francesco d'Assisi, santo 20 L
Lachellis, Giovanni di Bartolomeo de 8
G Lacinio, Giano 9, 10
Gabriele, Mino 11, 14, 31, 57 Latini, Brunetto 33
Galenus, Claudius 40, 43 Lazari, officina 3
Gassendi, Pierre 46, 47 Leibnitz, Gottfried 31
Geber vedi Jābir ibn Hayyān al-Bariqi al- Lemery, Nicolas 58, 60
Azdi Levi Della Vida, Giorgio 6
Giovanni di Aron 2 Linde, Ulf 18
Glauber, Johann Rudolph 48 49 Lull, Ramón 3, 16, 20, 21, 22, 23, 24, 30
Gratheus 7 Lo Sardo, Eugenio 50

62
M P
McLean, Adam 51, 55 Panteo, Giovanni Agostino 28, 29
Maier, Michael 50, 51, 56 Paolo di Taranto 11, 12, 14, 15, 16, 28,
Manfredi, Eraclito 48 33
Manget, Jean Jacques 29, 54, 55 Paracelsus 7, 40, 41, 48
Manuzio, Aldo il vecchio 9, 10 Partini, Anna Maria 49, 50
Manuzio, Aldo eredi 9 Pastore, Alessandro 12
Marchetti, Francesca 2 Peire de l'astor 27
Marchetti, Francesco 38 Perachon, Philibert 54
Marchetti, Pietro Maria 38, 39 Pereira, Michela 1, 3, 6, 11, 13, 15, 19,
Marette, Guillaume 18 22, 27, 29, 30, 51, 52
Maria ebrea 1 Perini, Leandro 12
Marr, Alexander 58 Perna, Pietro 12, 13, 14, 51, 55
Marra, Massimo 56, 59 Peterlein, Hans 15
Marsili, Luigi Ferdinando 2, 30, 54, 58, Petrarca, Francesco 33
60 Petrus, Heinrich 55
Martorelli, Giovanni 34 Piccari, Paolo 42
Matton, Sylvain 17 Pico della Mirandola, Giovanni 46 55
Meier, Pirmin 40, 41 Plato, 8
Mercurio 1, 3 Plinius, Gaius Secundus 43
Merlino 1 Pontano, Giovanni 57
Mersenne, Marin 46, 47, 53 Pseudo Geber vedi Paolo di Taranto
Meslam, Guillaume 26 Pseudo Lull 8, 12, 13, 22, 23, 24, 25, 26,
Michallet, Estienne 60 28, 52, 55
Mieli, Aldo 44 Pythagoras 43
Milliet de Bosnay 1
Moamyn 27
Moran, Bruce T. 60 Q
Morienus, Romanus 12, 13
Morosini, Francesco 58 Quattrami, Evangelista 58
Moscetta, Catervo 36 Quintilianus, Marcus Fabius 43
Mosè 1
Müller-Jahncke, Wolf-Dieter 40 R
Rāzī, Muhammad ibn Zakariyā 5, 8, 11,
N 28
Navò, Curzio Troiano 44 Restori, Antonio 27
Nazari, Giovanni Battista 37, 38, 39, 57 Rheticus, Georg Joachim 4
Newton, Isaac 15, 47, 48 Ripley, George 52
Nicholaus 5 Ritter, David 54
Norton, Thomas 50, 52 Roberto di Chester vedi Robertus
Castrensis
Robertus Castrensis 13
O
Rocatalhada, Joan de vedi Rupescissa,
Ognibene, Andrea 27 Johannes de
Olympiodorus Thebanus 13 Rodolfo II, imperatore 51
Origenes 43 Rosselli, Annibale 4
Orsini, Napoleone 27 Rossetti, Domenico 24
Rossi, Paolo 47
Ruffinelli, Venturino 44

63
Rupescissa, Johannes de 23 Tölde, Johann vedi Basilio Valentino
Rusio, Lorenzo 27 Tollé 55
Tommaso d'Aquino, santo 26
S Tournes, Gabriel de 54
Tournes, Jean Antoine de 39
Sacrobosco, Johannes de 27 Tournes, Samuel de 39, 54
Salviani, Orazio 43 Trismosin, Salomon 7
Salzinger, Ivo 24 Tubal-Cain 28, 29
Sarnelli, Pompeo 41, 43
Saulat, Jacob 55
V
Savorini 57
Scheus, Hermann 49 Van Lennep, Jacques 7, 39
Schönborn, Franz Lothar von arcivescovo Vasoli, Cesare 10, 47
di Magonza 24 Vercellone, Federico 49
Scialdone, Maria Paola 40 Villanova, Arnaldo vedi Arnaldo de
Scot, Michael 9 Vilanova
Scoto, Michele vedi Scot, Michael
Sędziwój Michał 55 W
Segre Rutz, Vera 35, 37
Sendivogius, Michael vedi Sędziwój Weston Evans, Robert John 54
Michał Wittelsbach-Neuburg, Carl Philipp III,
Seneca, Lucius Annaeus 43 conte palatino 24
Sessa, Giovan Battista 34 Wolff, Franz Philipp 24
Silber, Eucharius 33
Solidonius 18 Y
Stabili, Francesco 33, 34
Yates, Frances Amelia 47
Storchlin, Johann Heinrich 24
Synesius Cyrenensis 19
Z
T Zadith ben Hamuel 56
Zanetti, Ubaldo 57
Thorndike, Lynn 21, 22, 27
Zetzner, Lazarus 55
Thot 3
Zosimus 1
Zuretti, Carlo Oreste 3

64
Stampato nel gennaio 2014 presso:
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