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Il “caso” Landolfi secondo Sanguineti 297

Paolo Zublena Il fatto che Landolfi costituisse un interesse non di secondo


piano per Sanguineti è testimoniato se non altro dalla presenza
La mistificazione virtuosa (o quasi). di tre saggi di oggetto landolfiano nelle due opere che ripercorro-
Il “caso” Landolfi secondo Sanguineti no nella parte finale della sua vita il confronto del critico con la
storia della letteratura italiana e con la cultura contemporanea, Il
chierico organico e Cultura e realtà. In primo luogo il profilo per
Nel perimetro di un interesse non episodico ma nemmeno prepon- la Letteratura italiana Marzorati del 1963, e poi, a chiusura del
derante per la narrativa novecentesca, più acuta tra l’altro – in cerchio, i due saggi su Nuove rivelazioni della psiche umana. L’uomo
modalità militante – nel primo periodo dell’attività di Sanguineti di Mannheim e sulla BIERE DU PECHEUR, entrambi datati 1989
critico, l’attenzione per Landolfi risulta, se non proprio centrale, (data oltre la quale non si registrano ulteriori testi dedicati a
tuttavia cospicua e tutt’altro che marginale. Tale insomma da far Landolfi).
pensare che Landolfi rappresentasse per Sanguineti non solo un Nel frattempo Sanguineti aveva dedicato due recensioni alla
autore di sicuro valore dal punto di vista della riuscita estetica, tarda raccolta A caso, e un’altra recensione al postumo e racco-
ma anche – e per certi versi in possibile tensione dialettica con lo gliticcio Gioco della torre.
stesso aspetto estetico – un caso di interesse sintomatico per dia-
gnosticare una tendenza rilevante della letteratura italiana nove- Ma l’esordio landolfiano di Sanguineti2 avviene in una data piut-
centesca (e magari non solo della letteratura, e non solo italiana). tosto alta (ottobre 1959), e in una sede di grande rilievo – e di
Ma, lo diciamo subito e a scanso di equivoci, a Sanguineti Landolfi indubbia alta temperatura militante – come il primo “verri”. Può
doveva comunque piacere – e lo dimostrano non rari asserti di stupire, quindi, che la scelta sia caduta su un’opera apparente-
contenuto valutativo che si trovano anche non di rado in mezzo mente marginale come il Landolfo VI di Benevento – opera non
alle zone di indagine meno consentanee. certo tra le più note e diffusi tra quelle di Landolfi – e la pregevo-
Sia il valore estetico, sia – ma in misura minore – l’importanza le e limitata stampa vallecchiana ne era già un primo segno.
diagnostica di Landolfi potrebbero porre un problema di fronte al D’altro canto dalla recensione risulta già una conoscenza sicura e
ben noto rifiuto di Sanguineti per tutto quel che nel Novecento diffusa dell’opera landolfiana, che poi verrà messa a frutto nel
non è assimilabile al campo delle avanguardie. Non si deve però profilo datato 1962 (e destinato a uscire nel 1963). Tuttavia ci si
naturalmente pensare a una inavvertita contraddizione del criti- può e ci si deve chiedere che cosa possa aver spinto Sanguineti a
co, bensì a una acuta e anche precoce lettura dell’ambiguità di recensire proprio il Landolfo. Certo, si diceva, un già vivo interes-
Landolfi stesso, ideologicamente – fin banale dirlo – lontanissimo se per Landolfi. Ma non anche una qualche armonica destata dal-
da Sanguineti e dalle avanguardie, ma dal punto di vista stilisti- l’evidente modello adelchiano del Landolfo, per altro ricordato
co, della strategia narrativa, delle inquietudini tematiche altret- Tommaso Landolfi, a cura di A. Cortellessa, Aragno, Milano 2009, e in particolare
tanto lontano dal mainstream della narrativa italiana novecente- l’Introduzione di Cortellessa (Per dar fine all’esilio, alle VII-XLII), a cui rimando una volta
per tutte.
sca – dalle sue corde più tradizionali, sia da quelle più piane sia 2 Questo l’elenco dei contributi di Sanguineti specificamente dedicati a Landolfi:
da quelle più espressionistiche. Proprio la lontananza da quell’al- rec. a a Tommaso Landolfi, Landolfo VI di Benevento, “il verri”, 3, 5 (ottobre 1959), 86-88
(leggibile ora in Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, cit., 47-49 – da
veo deve aver sollecitato e mantenuto vivo l’interesse di cui si cita, e qui 308-312); Tommaso Landolfi, in Letteratura Italiana I contemporanei,
Sanguineti: interesse che, per altro, risulta non certo maggiorita- Milano, Marzorati, 1963, vol. II, 1527-1539 (poi, con il titolo Landolfi e la mistificazione vir-
tuosa, in Novecento, Vol. X, a cura di Gianni Grana, Marzorati, Milano 1979, quindi in E.
rio nell’ambito del Gruppo 63, se è vero che forse il solo Giuliani Sanguineti, Cultura e realtà, a cura di E. Risso, Feltrinelli, Milano 2010, 151-162, da cui si
(per altro, non prestissimo), e in una sua maniera ambivalente e cita); Nomi e destini, “Paese sera libri”, 20 marzo 1975, poi in E. Sanguineti, Giornalino
1973-1975, Einaudi, Torino, 1975, 142-145; Ma poi, Landolfi, che cos’è un seno?, “Il
certo non slegata dall’angoscia dell’influenza, l’altro grande manie- Giorno”, 17 aprile 1975, poi – con il titolo Un seno a caso – in Sanguineti, Giornalino 1973-
rista della narrativa italiana novecentesca – e si intende ovviamen- 1975, cit., 154-157; rec. a Il gioco della torre (nella rubrica Scribilli), “Il Lavoro”, 28 feb-
braio 1987; Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, “Gradiva”, III, 4, 1989, 22-26 (numero
te Manganelli – hanno prestato un interesse critico caratterizzato monografico a cura di Luigi Fontanella: Landolfiana. Omaggio a Tommaso Landolfi), poi in
da pieno apprezzamento estetico per la scrittura landolfiana1. E. Sanguineti, Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Feltrinelli,
Milano 2000, 241-245 (da cui si cita); La bara dell’accidioso, pref. a Tommaso Landolfi, LA
1 Per tutto ciò si veda il prezioso volume Scuole segrete. Il Novecento italiano e BIERE DU PECHEUR, a cura di I. Landolfi, Rizzoli, Milano 1990, 5-16, poi in Sanguineti, Il
chierico organico, cit., 246-251 (da cui si cita).
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nella recensione – essendo per Sanguineti le morti di Adelchi, (Sanguineti sente il bisogno di aggiungere «letteraria») in una
Ermengarda e del Carmagnola l’indiscutibile vetta poetica della sublimazione «chiusa e pacificata»6. Di qui l’instancabile «giuoco
scrittura di Manzoni?3 L’attenzione per la morte di Landolfo è di specchi» tra parole e cose, la cui formulazione più icastica
massima nella breve recensione, in cui si parla senz’altro di «tra- Sanguineti coglie – come molti poi faranno – in un memorabile
gedia in versi nella linea dell’Adelchi». L’altro conseguimento cri- asserto della BIERE: «Sono anche stanco di questa mia scrittura,
tico verte sul riconoscimento di quello che per Sanguineti è il prin- giacché stile non si vuol chiamare, falsamente classicheggiante,
cipale movente della scrittura di Landolfi, la rappresentazione falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbando-
dell’inerzia e soprattutto dall’accidia come marchio morale dell’in- nata, e giù con tutte le altre falsità; possibile che io non sappia
tellettuale post-romantico e decadente. E importante è anche il arrivare a una onesta umiltà e che le frasi mi nascano già tronfie
rilievo sulla compresenza di maschera stilistica classicheggiante e dal cervello come Pallade armata dal... ecco che ci risiamo?»7.
reale urgenza della confessione: tanto che quest’opera ben più Sanguineti qui scorge benissimo un carattere fondamentale della
delle altre sarà saldata ai diari (a quello già venuto e al Rien va in scrittura di Landolfi: l’ambivalenza, e i suoi moventi psichici.
via di costruzione). In questa direzione, «Il Landolfo VI di Benevento Proprio in alcune dal critico opportunamente citate degnità della
è […] la ‘tragedia segreta’ […] di Landolfi e conserva (ed esaspera) BIERE «si vede l’ambivalenza di questo orfismo nevrotico (falsa-
l’ambiguità ludica caratteristica del suo autore, così come con- mente nevrotico) e irritato (falsamente irritato), che si corrode
serva quell’impronta di privato documento che è poi, a dispetto interiormente, criticamente, e nella nevrosi tenta l’ultima sua
di mille ghiribizzi, altrettanto particolare a Landolfi, a questo redenzione, per paradosso. Si capisce che non pochi critici lamen-
supremo (ed estremo) dell’involuzione ironico-letteraria del deca- tino che Landolfi sia uno scrittore che non si sa come prendere.
dentismo romantico». Chiaro latino e già didattica valutazione di La correzione è agevole: Landolfi è uno scrittore che non sa come
quel che in punta di recensione è fin da subito qualificato come farsi prendere»8. Si potrebbe avere a ridire sulla falsità della
«il ‘caso’ Landolfi». nevrosi (a meno che non si intenda – come probabilmente si
deve – che ogni nevrosi convertita nella scrittura letteraria è per
E il «caso» Landolfi sarà oggetto di una trattazione memorabile in forza di cose ficta, finta, fittizia), e sull’opportunità di convocare
quello che è certo il testo più importante di Sanguineti su la categoria dell’orfismo, quando bastava quella già spesa del
Landolfi – il profilo Marzorati –, ma anche – e non secondaria- romanticismo – di un romanticismo certo decadentisticamente
mente, per la sua datazione molto alta – uno dei vertici della avvitato su sé stesso: Landolfi, compagno di strada di tanti orfici
bibliografia critica su un autore la cui seconda «maniera» aveva e semi-orfici, è sempre troppo di secondo grado per essere dav-
appena iniziato a farsi intravedere – e Sanguineti lo nota subito vero orfico lui stesso. Ma basterà certo la perfetta individuazione
con sicurezza, come si vedrà tra poco. dell’ambivalenza, e del tentativo di rovesciare il tavolo della scrit-
Tra accenni di biografia, milieu culturale e modelli letterari, quel tura attraverso la carta o il colpo gobbo del paradosso.
che viene subito messo a fuoco è il rapporto tra stile e scaturigini Per quel che riguarda l’evoluzione della carriera landolfiana,
biografico-esistenziali dei temi. Non c’è dubbio che la «pura Sanguineti parla senz’altro di «inizio folgorante, stupendamente
ragione verbale» abbia un «primato» «sopra la impura ragione maturo» con il Dialogo dei massimi sistemi (1937), in cui si regi-
pratica»4. Il potere magico delle parole è sì provocato dall’«incon- stra «un’immagine morale e stilistica dell’autore perfettamente
tro del trauma con la novecentesca metafisica orfica, ormai da compiuta»9. E le «quattordici perfette pagine» di Maria Giuseppa
manuale»5, ma la feroce presenza a testo del trauma immedicato sono nientemeno che qualificate come «documento inequivoca-
fa sì che la letteratura non sistemi e irrigidisca la nevrosi bile che un nuovo narratore, e narratore vero, entrava con sicu-
3 Si veda almeno Esame di coscienza di un lettore del Manzoni (1985), in E. rezza e prepotenza nel nostro quadro letterario»10. E non sfugga,
Sanguineti, Il chierico organico, cit., 138-156. E si legga questo luogo saliente: «C’era una narratore – non scrittore –, se è vero che «quel narratore» «facen-
volta un poeta, poeta ossessivamente monomaniaco, di una sua morte inventata, che sta
tutto in pochissime pagine, anzi in pochissimi versi, ma di una qualità e di una intensità 6 Ibidem.
assolutamente mostruose» (ivi, 146). 7 Ibidem.
4 E. Sanguineti, Landolfi e la mistificazione virtuosa, cit., 152. 8 Ivi, 154.
5 Ivi, 153. 9 Ibidem.
10 Ivi, 155.
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do la più raffinata delle ‘prose d’arte’, era intanto narratore di all’opera in modalità diverse anche nel Landolfi successivo e
razza»11. Il modo, o il prezzo, è quello del pastiche: soprattutto diaristico. Esemplare il giudizio su La donna nella
pozzanghera, in cui si riconosce che «lo sposarsi di un sublime
quel tale impasto di modi e di toni, quella bizzarra manieristico, un liberty tutto di testa, e di prepotente angoscia
maniera di fare sempre il verso a qualcuno e a qualcosa,
che non si sapeva poi bene che cosa esattamente fosse, onirica, raggiunge uno schematismo che, nella sua astrazione
e che sembravano essere tante persone e tante cose paradigmatica, riesce perfetto, e insieme insopportabile nell’o-
insieme, e troppe (e giù gli elenchi, allora, da Gogol al stentazione del calcolo»15. Il che, fatta semmai la tara di una
surrealismo), e che poi era soltanto l’uscire dal quadro firma critica sanguinetiana – la qualificazione di liberty –, è per il
dei generi riconosciuti, in un singolare processo di conta- resto giudizio ancora oggi da condividere pienamente.
minazione.12
Si citava anche un passo a proposito della compresenza di sfre-
È indubbio che qui Sanguineti stia riecheggiando una a dir poco nata invenzione e di piatta prosa della everyday life. Ecco che, in
ingegnosa formula di Giacomo Debenedetti, risalente a un saggio questo senso, La pietra lunare diventa testo paradigmatico:
del 1958, Il gioco di Ottavio, poi rifuso in un capitolo di Intermezzo, la tensione che si pone tra il titolo arcano e il piano sot-
in cui la scrittura di tutto Landolfi, pur partendo dall’Ottavio di totitolo (“Scene della vita di provincia”) dichiara simboli-
Saint-Vincent, viene ricondotta a «un pastiche superlativo di tutti camente come il narratore punti, in questo racconto
gli scrittori che via via Landolfi sfiora col movimento sinuoso e lungo, sopra quella mistura e alternanza di toni che era
veloce di un ciclista quando scansa il passante. Si dice pastiche, stata la sicura conquista del suo libro primo. E nel I capi-
tolo, la transizione repentina dall’interno familiare e
ma poi i nomi dei maestri, nella loro precisa identità, risultano dalle monotone conversazioni, al clima magico e inquie-
irreperibili. Il proprio di Landolfi, questa che in passato si sareb- tante del notturno lunare, sul ponte dell’intervento di
be chiamata la sua serietà, consiste nel fare il pastiche di un Gurù e della rivelazione della sua enigmatica natura, è
pastiche immaginario. Nello stabilire, tra sé e il proprio prodotto, tutto il segreto della maniera di Landolfi.16
il rapporto ironico di uno che riesce a spacciare la sua voce natu-
rale per un falsetto»13. E da Debenedetti vengono sia l’idea del Ambiguità condensata nel «capolavoro» di figura femminile lan-
pastiche di pastiche, sia quella della gestione ironica, mentre è dolfiana, e cioè appunto nella Gurù che già impone la sua inquie-
tutta di Sanguineti l’indicazione della bizzarria, del volgere al tante doppia natura fin dal primo capitolo del breve romanzo (o
ludico e al buffo: e del fatto che non sempre questa operazione, lungo racconto che dire si voglia):
anche per eccesso di assiepamento, sia destinata a riuscire. quella «logica continuazione» stabilita, in figura, tra l’a-
Nella prima produzione di racconti comunque Sanguineti ravvisa spetto umano e l’aspetto ferino della donna, quella man-
spesso la «potente poesia landolfiana del ribrezzo e dell’orrore canza di «soluzione» sono poi il frutto proiettivo, tutto in
fisiologici» (attivo anche, o in altre parole spesso trasferito, nelle re, della «logica continuazione» che lo scrittore pone tra
inquietanti presenze animali), e nel contempo «il perpetuo asso- i suoi toni discordi, della mancanza di «soluzione» da lui
perpetuamente stabilita tra i diversi registri, modesta-
ciarsi di fisico brivido e di intellettualismo maniaco, di astratta mente naturalistici o sfrenatamente fantastici, della sua
sensualità e di carnale evidenza, di sfrenata invenzione e di piat- arte inventiva.17
ta mediocrità quotidiana, con cui Landolfi esplora il deserto delle
idiosincrasie umane»14. Anche qui è da rilevare il pionieristico Gurù sintetizza, insomma, in figura di personaggio la dualità che
avvistamento già nel primo Landolfi di un viluppo tra disagio sta alla base della narrativa di Landolfi. Il quale, per altro, pare a
pressoché somatico e astrazione autoriflessiva, che si vedrà poi Sanguineti, come a molti altri, fondamentalmente scrittore di rac-
11 Ibidem.
conti – e il calo di tensione delle pagine seguenti al primo capito-
12 Ibidem. lo della Pietra lunare lo proverebbe. Il racconto che, invece,
13 G. Debenedetti, Il “rouge et noir” di Landolfi, in Intermezzo [1963], ora in
Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Mondadori, Milano 15 Ibidem.
1999, 1218. 16 Ivi, 157
14 E. Sanguineti, Landolfi e la mistificazione virtuosa, cit., 156. 17 Ibidem.
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meglio realizza secondo Sanguineti la dialettica landolfiana tra potrà andare se non volgendo al falsetto o allo scherzo, oppure –
fantastico e disincanto è l’eponimo del Mar delle blatte e altre sto- e con maggior forza – alla strana forma di autobiografismo più o
rie, che si conclude con «quella dissoluzione caratteristica dell’in- meno travestito dei diari.
canto fantastico, che in certo modo è parallela all’‘Epilogo’ di La In questo senso Sanguineti coglie bene come Cancroregina (per
pietra lunare, ma con una sicurezza di movimenti e con una così eccesso di gogolismo), l’Ottavio di Saint-Vincent (parodia di conte
pertinente deduzione, che in tutta la produzione dello scrittore settecentesco) o – ma con diverso investimento – il Landolfo VI di
raramente potrà incontrarsi qualcosa di equivalente»18. E, prima Benevento volgano tutte verso la «cristallizzazione» di una manie-
del disincanto, forse non a caso si potrà ravvisare il punto di ra, mentre il carattere di «confessione incredibilmente ingenua»21
maggiore tangenza, magari quanto si vuole poligenetica e occa- che pure anima queste opere, viene ben altrimenti – e con la soli-
sionale, con quel connubio di onirismo ed erotismo che è caratte- ta ambiguità – espresso nel fondamentale diario, e vero testo di
ristico dell’avanguardia surrealista. Non fosse, appunto, per il svolta, che è la BIERE DU PECHEUR.
disincanto, per il ritorno alla realtà feriale, per la dissoluzione Di qui la denuncia – in punta di profilo – della «cristallizzazione
dell’incanto. allegorica» del Landolfi extradiaristico anni ’50, produttore ormai
Dopo il mirabile trittico iniziale (Dialogo dei massimi sistemi, La quasi seriale di racconti in cui è evidente «l’irrigidirsi esperto
pietra lunare, Il mar delle blatte e altre storie, con il volgere al ter- della sua maniera», e anche e ancor più la vigorosa difesa – nei
mine degli anni ’30, ormai, «Il pericolo di Landolfi […] è […] un diari, ma qui evidentemente soltanto nella BIERE – della «forza di
troppo di virtuosismo, una terribile sicurezza di plasticità stilisti- confessione con cui Landolfi affronta, fuori di ogni mediazione, il
ca, un gusto, già tutto autosufficiente, di mimesi verbale». I rac- vero suo motivo estremo, la fine di una letteratura come vita,
conti della Spada «sostituiscono, alla primitiva moralità del nar- rivelantesi, crudamente, una letteratura come morte»22. Landolfi
rato, alla rivelazione di un inquietante cosmo fantastico, il alla «letteratura come vita» non ci aveva mai creduto, nemmeno
divertimento parodico e un umorismo tutto di testa»19. E qui è negli anni supposti d’oro delle brigate fiorentine, ma ora la BIERE
difficile non convenire, anche se più avanti Sanguineti tornerà, può caricare su di sé il ruolo di «già discreto e già abbastanza
nel saggio di “Gradiva”, su questa «mimesi verbale» come opera- responsabile sintomo» di «un’intiera stagione della nostra civiltà
zione parodica con rasoio più acuminato. Ma di questo oltre. delle lettere» che «pare acquistare di sé […] una funebre consa-
Con Le due zittelle (1945) inizierebbe, per una certa presenza pevolezza»: quella della nobiltà decaduta, dell’aristocratico fatto
esplicita e ostentata della soggettività del narratore – e nonostan- inetto e mitologizzato come tale: «E qui, l’allegoria che Landolfi
te alcuni tratti in continuità con il passato, come polemica antian- non ha posto, inevitabilmente deve porla il critico»23. Allegoria
tropocentrica e la presenza, qui tragica, della radicale alterità ani- magari no, ma ambivalenza c’era anche in questa autorappresen-
male, con il riconoscimento della morte di Tombo come pagina di tazione di Landolfi, che – se non metterà mai in discussione la
suprema e a un tempo contenuta commozione –, un periodo di propria ideologia, letteraria e no – per via tematica, lo farà certo
evidente crisi. La quale crisi si manifesta con piena evidenza nel e sempre più attraverso l’attacco masochistico alla perfezione
Racconto d’autunno, di cui curiosamente Sanguineti non ritiene manieristica dello stile24. Ma qui siamo ancora nel 1962, e Rien
opportuno ricordare la vistosa matrice poeiana, ma genericamen- 21 Ivi, 161.
te segnala una allure decadente «di narrativa del mistero, tra il 22 Ivi, 162.
23 Ibidem. Quanto alla mitologia dell’inetto, si vorrà almeno ricordare l’intervento
poliziesco e il liberty»20. Anche qui di liberty però se ne vede – mi di Sanguineti al convegno genovese in occasione del centenario montaliano del 1996, inti-
pare – poco, e se la crisi c’è – o piuttosto un ispessirsi del livello tolato appunto Montale e la mitologia dell’ “inetto” (ora in Sanguineti, Il chierico organi-
co, cit., 227-240), da cui togliamo soltanto questo sintetico résumé: «Ogni ritratto dell’ar-
tragico della maschera manierista nella forma della parodia seria tista moderno sarà destinato a oscillare, senza tregua, e senza fine, tra sublimità regale e
– essa è appunto data da un approdo estremo e non ulteriormen- saltibanchesca vergogna, tra l’uomo di lusso e l’impotente a vivere, e anzi, infine, tra un
vivere inimitabile e la maledizione di esistere» (229). Con la complicazione che Landolfi,
te superabile dell’accoppiamento tra una modalità stilistica diversamente da Svevo o Montale, non nasce borghese: non si inventa una tradizione, ma
manieristica e una tematica decadente tragica. Più oltre non si vive nella nostalgia di un lignaggio, biografico e letterario, che coincide con un buco esi-
stenziale. C’è in lui come un terzo polo anacronisticamente aristocratico tra squallore
18 Ivi, 158. della vita borghese e sublime decadente.
19 Ibidem. 24 A tale proposito, rinvio al mio La lingua-pelle di Tommaso Landolfi, Le Lettere,
20 Ivi, 160. Firenze 2013: specie al capitolo secondo, su Rien va.
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va – forse il capolavoro diaristico, in cui esploderanno del tutto l’articolo per “Gradiva”, in cui si compie l’operazione di confronto
crisi autoriflessiva e sua rappresentazione stilistica, ambivalente intertestuale tra Nuove rivelazioni sulla psiche umana. L’uomo di
al quadrato – è ancora nei cassetti di Landolfi o al massimo sui Mannheim (un racconto da La spada) e il suo (esplicitato dall’au-
tavoli di Vallecchi. tore) ipotesto parodico, cioè le Nuove rivelazioni della psiche ani-
male di William Mackenzie (Formiggini, Genova, 1914). La sapida
E – direttamente – con quel Landolfi Sanguineti per un po’ non si ricognizione parola per parola offre il destro a importanti consi-
misurerà. Incontri occasionali, come la doppia recensione al volu- derazioni finali, che consentono di ritornare su quel paradigma di
me rizzoliano di racconti A caso, non cambiano di molto le carte pastiche di nessun testo in particolare affrontato nel profilo del
in tavola, salvo fornire il destro – quanto al pezzo intitolato in 1962:
ultima versione Un seno a caso – di una pertinente interpretazio-
ne freudiana di Un petto di donna, che per altro – a testimonian- Rimane il fatto […] che la scrittura di Landolfi si costitui-
sce non soltanto, come diceva Calvino, «fingendosi paro-
za di un interesse mai dismesso – si giova di allegazioni dai due dia d’un’altra scrittura», ma anche non fingendosi affat-
diari, Rien va e Des mois, che quindi mostrano di essere stati to, anzi realizzandosi frontalmente come tale. E per
adeguatamente scandagliati dal recensore. Landolfi, comunque, in principio è la parodia, uno «scher-
Forse più interessante, se non altro in quanto mai raccolta in volu- zo» in «parafrasi». Soltanto, è vero, non ogni volta Landolfi
me, è la recensione – riproposta in coda a questo contributo – alla si è assunto l’onere di risparmiare ai critici una preoccu-
pazione di questo genere, quale è quella della individua-
scialba silloge postuma di scritti ripresi dal “Corriere della Sera”, zione delle fonti, qui confessata, del resto, senza notabili
Il gioco della torre. L’oggetto è discutibile, e Sanguineti lo discu- effetti esegetici, per quanto mi risulta. […] Ma questo
te, eccome. La prima colonna, delle due ospitate dalla terza pagi- lavoro è indispensabile, se si vuole finalmente compren-
na dell’oggi defunto quotidiano genovese “Il Lavoro”, è una pun- dere che, a scrivere le opere di Landolfi, e in primo luogo
tigliosa rilevazione delle mende sul piano filologico dello sgangherato i suoi «piccoli trattati», non era impegnato soltanto
Tommasino, in prima persona, ma, con responsabilità
libretto anonimamente raffazzonato presso Rizzoli nel 1987. Ma sovente non minori, quel «genio» incognito, e ancora
da uno specimen oggettivamente non irresistibile della scrittura inesplorato, che fu Onisammot, questo ghostwriter di
landolfiana, Sanguineti trae un’altra definizione compendiosa «incontestabile valore», il crittogrammatico Iflodnal26.
che, se riprende tesi già espresse nel profilo di un quarto di seco-
lo prima, lascia un ulteriore felice segno di icasticità. La parola- Il che, se è forse troppo nello spingere a ritenere che esistano
chiave qui è «svogliamento», ennesima riproposizione dell’iner- troppi ipotesti reali dietro alle operazioni da pasticheur di Landolfi,
zia e dell’acedia, la cui descrizione in termini di breve enumerazione spinge senz’altro nella giusta direzione quanto alla necessità cri-
caotica «parifica il migliore kitsch e i miti supremi», sicché esso tica di individuare i suoi frequentissimi doppi fondi intertestuali,
svogliamento, «come indice di una perpetua insufficienza [altro le sue oneste mistificazioni che chiedono moltissimo all’enciclo-
lemma-chiave del vocabolario landolfiano], d’una inadeguatezza pedia del lettore, e senza l’intelligenza delle quali spesso la
radicale dell’esistere, dilaga come un’ossessiva nevrosi morale, piena comprensione del senso della scrittura landolfiana è
anzi, nei casi supremi di psicosi metafisica, protetta e sorvegliata impossibile, o almeno indebolita.
da un’ironia coatta, degradante e disperante»25. Segue una raffi-
nata – e inedita – analisi stilistica del lessico landolfiano e delle Scrivendo infine, nel 1989, della BIERE, Sanguineti si rinsalda
sue armoniche intertestuali, con la denuncia dell’iperletterarietà senz’altro ai suoi esordi di landolfista: saldando in particolare il
sempre più parossistica e dei suoi continui inciampi, in un «gioco tema dell’accidia – e puntuale arriva il ricordo del Landolfo – con
atroce» che non ha potenzialmente fine. un suo tema critico più recente, e cioè la già ricordata mitologia
dell’inetto. Ancor più di allora, e definitivamente, la BIERE viene
Di lì a poco Sanguineti tornerà sul primo e medio Landolfi, non qualificata come il vero punto di svolta tra un primo e un secon-
rinunciando alle ulteriori acquisizioni scovate per via. Intanto con do Landolfi, che rende «evidente quella sorta di iato, sino allora
25 Rec. a Il gioco della torre, cit.
26 E. Sanguineti, Le rivelazioni di Onisammot Iflodnal, cit., 245.
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latente, e poi immedicato e immedicabile, che veniva a porsi tra dare anche il lettore nella botola dell’inazione, dell’acedia:
un diarismo dominato dalla musa di una compiaciuta autodeni-
grazione e le compensazioni fantastiche, ancorché costantemen- E qui sarà possibile cogliere perfettamente […] la vera
malattia morale di un tipo umano che ha pure dominato
te coerenti tonalmente e psichicamente, del fabulatore di ‘rac- la nostra «moitié-du-siècle» borghese, sotto altro nome
conti surreali’»27. Ne riesce un’opera che – se non è allineata con sovente, e cioè sotto falso nome, ma implacabilmente
i risultati più avanzati del nouveau roman (e anzi – e forse reatti- comunque. Da questa, in ogni caso, il nostro secolo bor-
vamente – Landolfi avrà presto a cantarle contro Beckett e contro ghese, mentre pure già muore, non sembra essere guari-
Robbe-Grillet) – certamente risulta antiromanzesca e in implicita to ancora. Landolfi, ignavo dinanzi a qualsiasi terapia, ci
soccorre, almeno, a una diagnosi attendibile.29
polemica con il romanzo ben fatto.
Così, Sanguineti osserva come – a dispetto dei primi tentativi
Ove a Landolfi se non altro, nella sua qualità di schietto maestro
masochistici di autoriduzione stilistica – si realizzi una comples-
del finto, è riconosciuto l’onore delle armi di una mistificazione
sità sempre manieristica della lingua e anche della struttura nar-
onesta, se non addirittura virtuosa.
rativa quasi autofinzionale. Ma ben diversa era per Landolfi la
dialettica tra invenzione e realtà biografica, rispetto ai casi odier-
ni – essendo la confusione degli enti e degli eventi nel diario
sempre fondamentalmente una risorsa di opacità e mistificazione
manieristiche. Talché, insomma, a essere al centro è sempre l’a-
cedia, ripugnanza alla vita e alla realtà – che si incarna
in questo come in tanti altri testi, mediante quell’incubo
teriomorfico, a grandissima tensione simbolica, che nella
famosa idiosincrasia tematica verso la «carne ragnesca»
trova il chiaro culmine nevrotico. È l’«accidia» medesima
che metamorfosa infine lo scrittore in «questa specie di
ragno» in cui si riconosce, nella BIERE più scopertamente
che mai. «Giacché ragno mi sento sovente, e non starò a
dire con quanta ripugnanza». È accidia ragnesca, appun-
to, quella «bestia sconosciuta» che si ridesta nel perso-
naggio che dice io, nell’ora delle sue «smanie» e dei suoi
«languori», bestia non «furiosa», anzi «lenta e viscida»,
che gli impone il suo «attonimento», e la sua «imparteci-
pazione», e la sua «incomprensione della realtà circo-
stante», e vale come «letterale immagine» della sua
malattia28.

Insomma, e un ulteriore stiramento della citazione lo conferme-


rebbe a forza, si sta parlando di una nevrosi, o di uno stato
depressivo, ma comunque di una forma di esistenza in cui lo psi-
chico esita continuamente nel somatico. La diagnosi che ne trae
Sanguineti – e qui davvero l’ultimo pezzo si riallaccia ai primi, e
in particolare al finale del profilo Marzorati – è di ordine non
tanto individuale-esistenziale, ma politico-sociale, né da lui ci
aspetteremmo un diverso explicit, perché questo libro fa sprofon-
27 E. Sanguineti, La bara dell’accidioso, 247.
28 Ivi, 251.
29 Ibidem.
Il gioco della torre 309

Edoardo Sanguineti anno di prima stampa. Se no, meglio davvero il bianco risvol-
to cui eravamo già avvezzi, per rigorosa fedeltà testamentaria.
Il gioco della torre * Aggiungo, mentre sono in tema, che Se fossi tua moglie e La
svedese, apparsi congiunti il 22 giugno 1978, come racconto
unico, ma con il secondo distinto pure dal primo per mezzo
di un’interna intitolazione, sarà che io non intendo bene, ma
rimango convinto che siano due distinti racconti autonomi, e
che ormai, a infilarli nella silloge, era bene disgiungerli.
Indubbio è che la conclusiva serie Discorrendo a vuoto, per
contro, apparve nel 1977 in quattro puntate (e non in sei, 24
maggio, 14 giugno, 26 giugno, 3 luglio). Se non disponessi
Sopra il risvolto di copertina di questo postumo volume di degli elementi già indicati, non batterei ciglio, ma ormai, fatto
Tommaso Landolfi, Il gioco della torre, edito adesso presso diffidentissimo, stento a credere che, per scambiare l’ordine
Rizzoli, si rammenta giustamente che egli «non amava i risvolti tra la terza e la quarta, sia intervenuta una qualche scrupolosa
di copertina», e che molti suoi libri ne apparvero privi per sua motivazione filologica. Oso sospettare che si volesse cancellare
«espressa volontà». In ossequio, quasi, a questa, si fornisco- il segno della incompiutezza, rinforzando la cancellatura con
no minimi elementi informativi. Lo scrittore, è sicuro, ne un titolo dedotto dall’ultima battuta della non ultima sezione.
avrebbe fatto volentieri a meno, da vivo, ma non soltanto per Di certo la serie prese avvio con un Viaggio nel cosmo per
inveterata e avveduta civetteria. La sola informazione concre- non vedere, e così accade anche nel libro. Ma nel secondo
ta, infatti, che ci è fornita in quella sobria colonnina anonima frammento un occhiello soprattitolava: «Il viaggio nel cosmo
è nettamente imprecisa. Si avverte che i racconti qui raccolti di Landolfi». E nel terzo e nel quarto, altro occhiello segnala-
«sono apparsi negli anni Sessanta sul “Corriere della Sera”», va, ancora: «Tommaso Landolfi racconta un suo immaginario
ma in verità, se i più antichi appartengono alla zona estrema viaggio nel cosmo». E c’è di più e di peggio, se nel terzo capi-
di quel decennio, tra il ’68 e il ’69, una buona metà fu invece tolo, oggi quarto, non si hanno affatto tre puntate allineate alla
stampata sul quotidiano milanese nel decennio successivo, e pari, ma tre sottocapitoletti continui, separati appena da reda-
giungono, tanto innanzi si spingono, sino alla vigilia, per così zionali sottotitolini, che incontrovertibilmente furono dovuti a
dire, della sua morte, al ’77, al ’78 (Landolfi morì nel luglio esigenze giornalisticamente impaginative, e non a qualche sot-
del ’79). tile volontà distributiva dell’autore.
Si osserverà che queste sono minuzie pedantesche e profes- A questo punto, immagino ancora che si protesti, da parte di
sorali. Lo ammettiamo volentieri, purché ci si conceda, intan- un impaziente lettore, non essere in causa un classico vetu-
to, che gli ignoti curatori del volume avrebbero impiegato sto, superstiziosamente onorando, ma un affabile novecente-
esattamente la medesima energia, gettando uno sguardo ai sco da non molto defunto, e che molto meglio si legge di
fogli originali di quel giornale, nel comunicarci una cronolo- tanti viventi che, giovani e floridi, si aggirano per le vie del
gia esatta, come nel fornirci una datazione sbagliata. Oso mondo, onde siffatti scrupoli muffosi sono da rimuoversi e
persino pensare che, con un minimo sforzo supplementare, accantonarsi, a favore, se mai, di futuri laureandi e ricercato-
ci avrebbero persino potuto offrire una noticina scelta e pun- ri. Ora, sono abbastanza tormentato io, la mia parte, dalla
tigliosa, che ci comunicasse, pezzo per pezzo, giorno mese e ormai cronicamente crescente disoccupazione intellettuale
che scorgo in giro, ma non arrivo ancora a credere che la tra-
* Recensione a Il gioco della torre di Tommaso Landolfi , apparsa il 28 febbraio scuratezza editoriale sia accettabile incremento agli aguzza-
1987, a pagina 3 su “Il Lavoro” (rubrica Scribilli).
310 Edoardo Sanguineti Il gioco della torre 311

menti di ingegno degli italianisti futuri. Di aguzzamenti si fatto apposta, come si dice con splendida malizia, per indur-
hanno tante occasioni, volendo, che bastano e avanzano, re il lettore «a percepire come uno svogliamento da tutto
nella nostra bella e particolarmente impopolare letteratura, e quanto gli fu caro e in generale da ciò che fa la vita dell’uo-
non lasciano spazio per alibi da penuria di stimoli. E Landolfi, mo: Grande Cordigliera, splendori d’Oriente, amore, gloria
se non vetusto, classico è, per quel che vale questo vocabolo, eccetera». Dove quell’embrione compendioso di enumera-
e non sta bene approfittare del fatto che ci sia così prossimo, zione caotica, che parifica il migliore kitsch e i miti supremi,
per prendersi qualche confidenza di troppo, e ancora meno è un po’ la chiave dell’universo del nostro autore, e dove lo
della sua impossibilità a difendersi, ormai. «svogliamento», come indice di una perpetua insufficienza
Tuttavia, poiché si vede di peggio, e di molto peggio, in mate- del soggetto e delle cose, di un’inadeguatezza radicale dell’e-
ria, ogni giorno, ci affrettiamo a dichiararci solennemente pen- sistere, dilaga come un’ossessiva nevrosi morale, anzi, nei
titi, benché tardi, di avere infierito contro la maniera tenuta casi supremi, di psicosi metafisica, protetta e sorvegliata da
nell’apprestare questo tometto, e ci proclamiamo piuttosto un’ironia coatta, degradante e disperante.
grati, comunque, a chi ci ha reso, pur con manifeste imperfe- Tutto questo si manifesta, è fatale, in una scrittura sofisticata
zioni, agevolmente disponibili queste pregevoli pagine, esone- e artificiosa, caratterizzata da un costante «svogliamento» sti-
randoci da qualche gita in emeroteca, e dai relativi travagli. listico. È una scrittura in cui, se così è lecito dire, lo scrittore
E per dimostrare quanto sinceramente siamo impegnati a simula di inciampare continuamente, prendendo le distanze
batterci il petto, diremo che il titolo del libro, almeno, ci dall’insufficienza della parola, dall’inadeguatezza dell’espres-
pare azzeccato, poiché segnala subito al lettore uno dei sione. Dire significa sempre e comunque fare il verso a qual-
migliori, e qualcuno potrà ritenere uno dei migliori in asso- cosa e a qualcuno, e dunque conviene adibirsi a un inesauri-
luto, tra i racconti qui adunati. Nel quale si narra come una bile lavoro di correzione, di aggiustamento, in nevrotica
donna, sottoposta a quel noto «gioco atroce», scopra con parodia e autoparodia. Alla pari si può, si deve dunque scri-
orrore che persino alla scelta spietata tra il figlio e la figlia vere, da un lato: «In giardino, la notte illune era animata da
saprebbe infine dare una risposta, nel proprio cuore, incon- (oppure ‘ferveva di’) una vita segreta, da o di misteriosi fru-
fessabile a chiunque, ma ormai, nel torbido divertimento, scii… Così i romanzierii d’appendice»; ma anche, senza scar-
irrevocabilmente confessata a sé medesima. Che è quasi un to: «Venendo ora a noi, mi piacerebbe disporre d’una penna
modello problematico della vera tematica landolfiana, giac- tanto magistrale da rappresentare con efficacia al lettore certi
ché un racconto di questo scrittore, in qualche modo, si risol- stati dell’anima (e del corpo) cui imperfettamente si riferisce
ve sempre, quando riesce, in un «gioco atroce». il poeta là dove riscontra qualcosa di nuovo nel sole...». Alla
Anzi, poiché siamo in vena di ritrattazioni, può dirsi che pari, cioè, il «gioco atroce» dello stile investe, poniamo, Pascoli
Landolfi proceda per eccellenza «discorrendo a vuoto», a e il feuilleton.
prima vista: cioè camminando, ecco, sopra un vuoto, con A una paralizzante, ma insieme scatenante iperletterarietà e
movenze frivolmente isteroidi, fino a spalancarcelo dinanzi, metaletterarietà rettoriche, corrisponde e sorge da identiche
quel vuoto, a rivelazione di un rien, di un niente, di un «rien motivazioni ideologiche e linguistiche, una sorta di ipersensi-
va». Tutto questo per un disvelamento, proprio alla Landolfi, bilità e metasensibilità nei confronti dei livelli espressivi, in
di «cosa non c’è», nell’uomo e nel mondo, nella vita e nel generale. A farci un personaggio, basterà rilevare come egli
cosmo. Tra queste pagine si viaggia «per non vedere», e dun- usi, irriflessivamente, locuzioni come «soluzione concreta»,
que «in pura perdita», proprio come nell’esistenza reale, «momento della verità» e, con «quella sorta d’interiezione»,
trattandosi infatti di vedere assenze e carenze, così di valore «Aria!», un qualunque «Aria, ti ci vuole!». Il narratore com-
come di senso. Vanità delle vanità, il mondo landolfiano è menta: «altrettante cose da me aborrite come concetti non
312 Edoardo Sanguineti

meno che come espressioni o cifre verbali...». Ma la tragedia, Tommaso Ottonieri


concettuale e verbale, è che concetti non aborribili, cifre ver-
bali non ripugnanti, alla fine, non esistono, forse in rerum natu-
Magister Hypertrophiae. Una piccola memoria
ra, certamente in rerum historia. Così, ecco i «nobiluomini di
mezza età (ma non, facciamo di tre quarti)» che apostrofano
con «bella signorina», «bella fanciulla», «gentile amica», «cara
Un primo incontro con Edoardo Sanguineti è avvenuto in un modo
la mia vezzosa piccina». Ecco un’immagine appena sostenuta,
fatalmente accidentale: prendendo lo stesso ascensore, a Firenze
non soltanto segnalata e straniata («inventi il poeta ancor più in Palazzo Strozzi, in un novembre lontanissimo, credo del ’76, io
acconce immagini»), ma liquidata in fretta, e tradotta «in lin- ragazzino, su o giù per il Viesseux. Era al tempo di un monumen-
guaggio quotidiano». Ecco, sfogliando a caso, dinanzi a una tale convegno palazzeschiano, inaugurato da Montale che pure e
torcia elettrica, ricorrendo vocabolaristicamente a un pronun- assai fuggevolmente conobbi in quella occasione; un convegno
ciato arcaismo, dedotto dal Cavalca: «noi, come quell’antico, su cui peraltro relazionai (secondo ottiche che di lì a pochissimi
‘occhibagliammo’», per deplorare, tre pagine dopo, facendo il anni avrei giudicato discutibili) per una benemerita pagina di set-
verso a Carducci, che una «nuova Lidia» non possa più dare la timanale diretta ancor oggi splendidamente dalla cara Mariapia
«tessera» al «secco taglio della guardia», benché le luci della Bonanate; erano gli stessi giorni in cui improvvisamente Tommaso,
stazione effettivamente riescano «sbadiglianti». Così, se al l’avo da cui traggo il nome (e che portava il mio cognome, l’orto-
Boccaccio si ruba una «voce da Scarabone Buttafuoco», ci si è nimo), doveva spegnersi, chiamandomi senza che io facessi a
tutelati, alle spalle, osservando che impresentabile è un’espres- tempo, a percepire quel richiamo. Mentre che si avvolgeva la car-
rucola, sull'ascensore di Palazzo Strozzi. Qualcosa di slittante e
sione da virgolettarsi, poiché è «in uno tra i borghesi che
di cruciale, stava lì consumandosi intorno alle parole dell’uomo
hanno rispetto di sé medesimi». E un «salutista» è inseparabile di fumo: tutto a convergere e divergere, destini e identità, la car-
da un parentetico «come si diceva una volta», e una situazione rucola d’un passaggio ascensionale, verso l’incognito d’una dimen-
si sblocca poiché a questo modo «oggi con somma eleganza sione posta su un diverso piano, e a meno di due anni da allora
dicono» (con un supplemento di allusione leopardiana). non sarei stato più lo stesso e anche il mio nome (o meglio il mio
Ma non si finirebbe mai. Indicheremo soltanto, allora, quel cognome) sarebbe stato un altro; e che avrei ricevuto, questo,
luogo in cui si affaccia una nostalgia di oralità ingenua e pri- proprio dalla persona di quell’ineffabile incontro in palazzeschia-
mitiva, nativa e candida, in cui pure si discopre una «consu- no ascensore, in incendiaria ascensione.
mata arte narrativa», che rende debitamente «il progresso Ma andiamo per ordine. Vivevo a Napoli, ho vissuto lì fino ai miei
delle perplessità», dell’agitazione, della smania, del delirio» 25, io napoletano ancorché non risultante dai miei dati anagrafici
tanto da lasciare «col fiato sospeso». Ormai, «la penna di noi (io nato accidentalmente, o per fortunata fatalità, nella spianata
scrittori aborre le fasi preparatorie e tira piuttosto alle crisi elettromagnetizzata di quel Fùcino), e già da tempo scrivevo
incertametne cose, è una cosa che saliva controcorrente dal mio
finali». Che è poi l’utopia di un’uscita dal letterario, ma
stesso sangue, suppongo era credo nel mio codice genetico così
debitamente virgolettata, anche questa, come una maniera come nel mio soffice caotizzato edipo. Ero a Napoli, dunque, e da
tra le tante. Immaginiamoci, con tanti inciampi, quel «fiato quello stesso ’76-’77, mio ultimo anno di liceo, avrei iniziato a
sospeso». Del resto, «critico letterario» è sinonimo di «scioc- frequentare la casa di Mario Persico: grande e pensante Maestro,
co», va ricordato. Più esattamente – e sia pure («colle debite già esponente forse il più visionario e materico della pittura nuclea-
eccezioni»), per inciso – indica «l’infimo gradino sociale re, nonché (ciò che allora non sapevo) fraterno amico di Edoardo
della repubblica letteraria». Per Landolfi, ipermetaletteratis- specie ai tempi salernitani di lui (dico, il nostro gran Sangui). A
simo, è come dire del mondo, per forza. dire il vero frequentavo soprattutto Jvana, sua figlia e mio primo
e tanto fusionale amore, ma di fatto avevo l’agio di aggirarmi e
rigirarmi nell’ombelico di quella casa aperta, e di riceverne i suc-

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