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Edward Said

Basi per la coesistenza


Basis for coexistence da "Arab libertarian forum" (Muntada al-Ahrar al-'Arab) - [1995 o 96]

Una delle più importanti differenze tra gli arabi nel mondo arabo e quelli che vivono nei
paesi occidentali è che questi ultimi sono costretti, quotidianamente, a confrontarsi con
l'esperienza ebraica dell'antisemitismo e del genocidio.
Anno dopo anno si accresce il volume di nuovi libri, film, articoli e raccolte fotografiche.
L'anno scorso è stata la volta di Schindler's list, il film di Steven Spielberg che ha posto gli
orrori dell'Olocausto - letteralmente - davanti agli occhi di centinaia di milioni di persone.
Ci sono state numerose discussioni sulle cause della catastrofe tedesca, su come sia potuto
accadere che una nazione eminentemente civilizzata, che aveva dato all'Europa i suoi più
grandi filosofi e musicisti e molti dei più brillanti scienziati, poeti e studiosi, potesse essere discesa non solo
alla follia del Nazismo, ma anche al più spaventoso programma di sterminio della storia.
Chiunque viva oggi negli Stati Uniti, in Francia o altrove in Europa non può evitare le immagini di Auschwitz e
Dachau, la memoria permanente del tormento e della sofferenza degli Ebrei, la visione di una disumanità di
massa diretta contro un popolo che, a dispetto dei suoi elevati traguardi e contributi alla cultura, fu trattato alla
stregua degli animali e distrutto nelle camere a gas e nei forni crematori.

Non solo gran parte di questa storia è circolata dovunque, nelle università, nelle scuole, nei musei e nella
pubblica discussione occidentale, ma fornisce ancora materia di controversia: si pensi, ad esempio, al caso del
recente libro di Daniel Goldhagen I volenterosi carnefici di Hitler. Goldhagen sostiene che tutti i Tedeschi, non
solo gli iscritti al Partito Nazista o gli psicopatici della cerchia di Hitler, erano disposti a prender parte a quel
genocidio che in effetti si verificò. La maggior parte degli storici non accetta questa visione estremistica, ma la
questione di una colpa di massa europea e cristiana continua a turbare l'Occidente.
Tra gli ebrei americani, alla cui comunità fu risparmiato l'orrore di ciò che accadde in Europa, l'Olocausto è
oggetto di un fervore di studi e memorie; è notevole, per esempio, che Washington sia la sede di un ricchissimo
Museo dell'Olocausto e non il luogo della commemorazione dello sterminio dei nativi americani o dei milioni
di schiavi africani.
In una certa misura, perciò, l'Olocausto è usato retrospettivamente per giustificare atteggiamenti politici attuali.
Di solito si collegano la storia della sofferenza degli Ebrei e i successi della attuale comunità ebraica
americana, l'Olocausto e lo Stato di Israele, in un rapporto di continuità e di riscatto. (È, però, anche vero che
una sufficiente documentazione storica dimostra che la linea principale del movimento sionista, all'epoca, era
meno interessata a salvare l'intero popolo ebraico dall'eliminazione che a metterne al sicuro una parte per
l'insediamento in Palestina; infatti, a tale scopo, alcuni sionisti di destra - per es. I. Shamir - durante il periodo
nazista presero contatti con le autorità germaniche per un aiuto).
Nonostante ciò, rimane comunque il fatto che la schiacciante enormità di quello che accadde tra il 1933 ed il
1945 supera la nostra capacità di descrizione e di comprensione. Più si studia quell'epoca di eccessi e più si
comprende che il massacro di tanti milioni di vite innocenti non può che pesare per generazioni su ogni essere
umano decente, ebreo o non ebreo che sia.
In qualunque misura possiamo concordare, per es. con Tom Segev, che nel suo libro Il settimo milione sostiene
che Israele ha utilizzato l'Olocausto per scopi politici, è fuor di dubbio che non si può minimizzare la memoria
di quella tragedia ed il gravame di paura che essa impone su tutti gli ebrei. È vero che ci sono stati nella storia
umana altri massacri collettivi (nativi americani, Armeni, Bosniaci, Curdi ecc.), ed è anche vero che alcuni di
essi non sono stati né riconosciuti a sufficienza né compensati in nessun modo adeguato, ma non c'è ragione per
non sottomettersi con timore ed orrore alla speciale tragedia che ha assalito il popolo ebraico.
In particolare, dal mio punto di vista di arabo, trovo che sia importante comprendere questa esperienza
collettiva in tutti i concreti e terribili dettagli di cui si può essere capaci; questo atto di comprensione è pegno
di umanità e porta a concludere che una catastrofe simile non deve essere dimenticata e non deve più accadere.
Una simile visione delle sofferenze degli Ebrei fu offerta ai commentatori arabi che seguirono il processo ad
Adolf Eichmann a Gerusalemme, all'inizio degli anni Sessanta, quando tale processo fu per Israele l'occasione
di mostrare in pieno gli orrori del genocidio. I commentatori della destra falangista libanese sostennero che
l'intero affare era propaganda infondata, ma altrove la stampa araba (in Egitto, e anche nella maggior parte dei
giornali libanesi) riferì sul caso Eichmann con la dovuta considerazione per gli orrendi eventi in questione.
Tuttavia - secondo uno studio su quel periodo svolto dal Dott. Osama Makdisi (un giovane storico libanese che
lavora presso la Rice University di Houston) - i resoconti arabi del processo concludevano che ciò che era stato
fatto agli Ebrei in Germania era senza dubbio un crimine contro l'umanità, ma in quella stessa categoria
rientrava anche l'operato di Israele nello spossessare ed espellere dalla sua terra un intero popolo. Makdisi
rileva, comunque, che non ci fu alcun tentativo di equiparare nelle dimensioni la catastrofe palestinese e
l'Olocausto e che si sostenne solamente che, adoperando gli stessi criteri, sia Israele che la Germania erano
colpevoli di odiosi crimini di enorme portata.
La mia impressione è che probabilmente il processo Eichmann fu utilizzato da parte araba, durante la battaglia
psicologica degli anni Sessanta, come un modo per evidenziare l'insensibilità di Israele nei confronti dei
Palestinesi, e non specificamente come un'occasione per rendere coscienti i lettori arabi dei dettagli
dell'esperienza ebraica.
Ricordo queste cose in un articolo sulla coesistenza, perché tutto ciò sottolinea il paradosso storico della
presente crisi, che forse soltanto arabi ed ebrei della diaspora sono capaci di apprezzare pienamente e, in un
certo senso, di trascendere.
Oggi non c'è una vera pace: solo i più testardi e ingenui tra gli osservatori possono non accorgersene. Come ho
già detto nel mio precedente articolo, il recente comportamento di Israele, incarnato nell'irregolare, ma
regolarmente immotivata violenza del governo Netanyahu, si radica in continuità con i primi tempi della storia
di questo Stato, dei quali furono presupposto e componente centrale il disprezzo, il dispiegamento della forza
bruta, il pesante maltrattamento dei Palestinesi.
Dall'altro lato, questa deplorevole politica israeliana non giustifica in alcun modo i tentativi retrospettivi, fatti
rispettivamente da Israeliani e Palestinesi, di usare l'Olocausto per giustificare la crudeltà di Israele, o di
accantonarlo come totalmente irrilevante o - peggio - implausibile. Il cinismo non serve a niente: come una
volta disse Oscar Wilde, il cinico sa il prezzo di ogni cosa, ma il valore di nessuna. Dobbiamo essere
altrettanto insofferenti sia della rigida posizione israeliana riguardo alla "sicurezza psicologica" che dei
tentativi da parte araba di ingaggiare gente come un degenerato Roger Garaudy allo scopo di gettare il dubbio
sui sei milioni di vittime. Nulla di tutto ciò fa avanzare la causa della pace e della convivenza tra due popoli
che sono legati inestricabilmente dal rispettivo bagaglio storico di sofferenze.

Eppure, fatta eccezione, qua e là, per pochi intellettuali - per esempio il rabbino americano Marc Ellis, o il prof.
Israel Shahak - la riflessione sulla desolata storia dell'antisemitismo e della solitudine ebraica, da parte dei
pensatori ebrei di oggi, è inadeguata. Perché rimane da riconoscere il legame tra ciò che accadde agli Ebrei
durante la Seconda Guerra Mondiale e la catastrofe del popolo palestinese; e questo non lo si può fare solo
all'interno di una retorica interessata, o nei termini di un argomentazione intesa a demolire o diminuire il vero
significato sia dell'Olocausto che dei fatti del 1948.
Sappiamo che i due fatti non sono uguali, ma anche che né l'uno né l'altro può essere preso a scusa dell'attuale
violenza, né può venire minimizzato. Sofferenza e ingiustizia ce n'è stata abbastanza per entrambe le parti. Ma
finché non si vedrà la connessione per la quale la tragedia ebraica porta direttamente alla catastrofe palestinese,
e voglio dire per necessità (piuttosto che per pura volontà), noi - come distinte comunità segnate da un separato
ed incomunicabile dolore - non potremo coesistere.
Gli accordi di Oslo hanno fallito nel pianificare la separazione, quasi un'operazione chirurgica nel dividere i
due popoli nei termini di due entità singole, eppure ineguali, piuttosto che sforzarsi di raggiungere l'unico modo
di sollevarsi dall'interminabile andirivieni della violenza e della disumanizzazione, che è l'ammissione
dell'universalità e dell'integrità dell'altrui esperienza, e l'avvio di un progetto di vita comune.
Non trovo possibile a) non riconoscere negli ebrei di Israele il risultato permanente dell'esperienza storica
dell'Olocausto, e b) non richiedere anche a loro il riconoscimento dei torti subiti, per causa loro, dai Palestinesi,
dal 1948 in poi. Questo significa che noi palestinesi esigiamo da parte loro considerazione e riparazione, senza
in alcun modo minimizzare la loro storia di dolore e di genocidio. Questo è il solo mutuo riconoscimento che
meriti di essere attuato, e il fatto che gli attuali governi e le loro dirigenze non siano capaci di tale gesto
testimonia la povertà di spirito e di immaginazione che ci affligge tutti. Questo è lo spazio nel quale ebrei e
palestinesi che vivono fuori dalla Palestina possono giocare un ruolo costruttivo che sarebbe difficile a coloro
che vivono sotto la pressione quotidiana dell'occupazione e della dialettica dello scontro. Il dialogo deve
collocarsi sul livello di cui stiamo ora parlando, e non su questioni infondate di strategia e di tattica politica.
Esaminando le maggiori correnti della filosofia ebraica, da Buber a Lévinas, e riconoscendo in esse una quasi
totale mancanza di riflessione sulla questione palestinese, ci si può accorgere di quanta strada c'è ancora da
fare. Ciò di cui abbiamo bisogno è una nozione di coesistenza che sia fedele alle differenze tra Ebrei e
Palestinesi, ma anche alla storia comune di differenti lotte e volontà di sopravvivenza che lega i due popoli.

Non ci può essere un più alto imperativo morale di quello di discutere e dialogare su queste cose. Noi dobbiamo
accettare l'esperienza ebraica in tutto ciò che comporta di orrore e paura, ma dobbiamo anche richiedere che
alla nostra esperienza sia data non minore attenzione, e forse un altro livello di attualità storica. Chi mai
vorrebbe equiparare moralmente lo sterminio di massa con lo spossessamento di massa? Sarebbe perfino
sciocco provarci. Ma essi sono collegati nella lotta attorno alla Palestina, che è stata così intransigente e così
inconciliabile.
So che in un momento nel quale la terra palestinese viene ancora confiscata, le nostre case demolite, la nostra
esistenza quotidiana è ancora soggetta alle umiliazioni ed alla cattività impostaci da Israele e dai suoi molti
sostenitori europei e specialmente americani, parlare delle trascorse angosce del popolo ebraico può sembrare
fuori luogo.
Non accetto l'idea che portandoci via la nostra terra il Sionismo abbia riscattato la storia degli Ebrei, e nessuno
mi porterà mai ad accettare alcun "bisogno" di scacciare dalla sua terra l'intero popolo palestinese. Ma posso
ammettere che le distorsioni dell'Olocausto abbiano creato distorsioni nelle sue vittime, che sono replicate oggi
nei Palestinesi, vittime a loro volta del Sionismo. Capire che cosa accadde agli Ebrei in Europa sotto il nazismo
significa capire ciò che è universale nell'esperienza umana nella condizione della sventura. Significa
compassione, simpatia umana, e totale rifiuto dell'idea dell'uccisione per motivi etnici, religiosi o nazionalistici.
Non metto condizioni a tale comprensione e compassione, sono cose che si vivono in proprio, non per calcolo
politico. Ma un vantaggio di consapevolezza da parte araba dovrebbe incontrare un'uguale volontà di
comprensione e compassione da parte degli Israeliani, e dei sostenitori di Israele che si sono impegnati in ogni
sorta di negazionismo e di espressioni difensive di non-responsabilità quando si è trattato del ruolo centrale che
Israele ha avuto nel nostro storico esproprio in quanto popolo. Quest'ultimo atteggiamento è vergognoso, ed è
anche inaccettabile dire semplicemente - come fanno molti sionisti liberali - che dovremmo dimenticare il
passato e procedere verso la creazione di due stati separati. Ciò è un insulto anche per la memoria ebraica
dell'Olocausto, e lo è nei confronti dei Palestinesi, che continuano ad essere dispossessati per mano di Israele.
Il fatto semplice è che le esperienze ebraica e palestinese sono storicamente - o meglio: organicamente -
connesse; staccarle una dall'altra è falsificare quanto in esse è autentico. Noi dobbiamo pensare assieme le
nostre storie, per quanto difficile possa essere, perché ci sia un futuro comune. E questo futuro deve includere
Arabi ed Ebrei assieme, liberi da quegli schemi dell'esclusione e della negazione che servono solo per la
chiusura reciproca fra le due parti, sia sul piano teorico che su quello politico. Questa è la vera sfida. Il resto è
molto più facile.

trad. it. S. Murgia

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