Sei sulla pagina 1di 132

Andrés Torres Queiruga

OLTRE IL CRISTIANESIMO PREMODERNO

LE SFIDE ALLA FEDE DEL NUOVO ORIZZONTE CULTURALE.

Titolo originale:
Fin del cristianismo premoderno. Retos hacia un nuevo horizonte
Sal Terrae, Santander 2000

Traduzione:
Ferdinando Sudati
Revisione:
Giovanni Ferretti

1
INDICE

Introduzione 5

1. La Teologia nel cambiamento culturale 7


1. Delimitazione del problema 7
1.1. Il senso fondamentale della proposta 7
1.2. Un tentativo di schema chiarificatore 8
2. La Modernità come cambiamento radicale di paradigma 9
2.1. Autonomia e storicità 9
2.2. Un processo legittimo e irreversibile 10
2.3. Il tranello delle reazioni polarizzanti 11
2.4. La necessità di un nuovo equilibrio 11
3. La nuova oggettività religiosa 12
3.1. La scommessa decisiva: il rapporto immanenza-Trascendenza 12
3.2. Una Trascendenza che si realizza nella massima immanenza 14
3.2.1. Fine del “Dio separato dal mondo” 14
3.2.2. Il vero infinito: “panenteismo” e affermazione dell’umano 14
3.2.3. Ripensamento dell'idea di creazione: non-dualismo e non-interventismo 16
3.2.4. Il ribaltamento della teodicea: il male inevitabile e Dio come “Anti-male” 17
3.2.5. La nuova gratuità della preghiera 19
3.3. Una teologia affermativa a partire dal Dio creatore-salvatore 19
3.3.1. Ripensare la Cristologia 19
3.3.2. Salvezza del reale 20
4. La nuova soggettività religiosa 21
4.1. Autonomia della soggettività 22
4.2. La scommessa decisiva: una nuova concezione della rivelazione 22
4.3. Superamento del “positivismo della rivelazione” 24
5. La costruzione di un nuovo paradigma 25
5.1. Tra paradigmi: una situazione di passaggio 25
5.2. Costruzione “dal basso”: dalla realtà alla luce della rivelazione 27
5.3. Ripensare la teologia: “verifica verticale” di fronte a “teologie belle” 29
6. Prospettiva: “il fuoco sotto la cenere” 31

2. Il problema del linguaggio teologico 32


0. Impostazione 32
1. La difficoltà strutturale 33
1.1. La sfida di Flew 33
1.2. Il problema dell'oggettivazione del Divino 35
1.3. Le vie di soluzione 36
2. Il problema del cambiamento culturale 37
2.1. L’allarme della “demitizzazione” 38
2.2. Le conseguenze del cambiamento di paradigma 39
2.3. Le vie del cambiamento 40
3. La difficoltà pragmatica 42
3.1. La preghiera di petizione come “esperimento cruciale” 42
3.2. Le implicazioni “oggettivamente perverse” della petizione 43
3.3. Possibili obiezioni 44

2
3. Nuova religiosità ed esperienza cristiana di Dio 49
1. Diagnosi globale 49
1.1 L'insoddisfazione nei confronti del passato 49
1.2 La dialettica modernità-postmodernità 50
1.3 La presenza elusiva del sacro 51
2. La risposta cristiana 54
2.1 Dalla reazione apologetica alla creatività storica 54
2.2 Una risposta differenziata 55
3. Gli assi della nuova sintesi 56
3.1. L'asse della creazione: Dio come affermazione infinita 56
3.2. L'asse della salvezza: Dio contro il male 58
3.3. L'asse della rivelazione 59
4. Sintesi e prospettive 62

4. L’infallibilità tra servizio e inflazione 66


1. Chiarire il contesto 66
1.1. Pregiudizi e deformazioni 66
1.2. Impostazione del problema 68
2. Il significato primario e profondo: l’”indefettibilità” 68
2.1. L'incontro tra la Bibbia e la Chiesa 69
2.2. Il “magistero” come elemento costitutivo, comune alle Chiese 70
2.3. Il magistero come servizio “ultimo” alla comunione ecclesiale 71
2.4. Il magistero come funzione dell’”indefettibilità” 73
3. La concretizzazione cattolica: l'“infallibilità” 74
3.1. Il problema dell'infallibilità. a) il soggetto 74
3.2. Il problema dell'infallibilità. b) l'oggetto 76
4. La realizzazione storica 79
4.1. La dimensione semantica 80
4.2. Dimensione espressiva 83
4.3. Dimensione pragmatica 86
5. Conclusione: possibilità e necessità di un cambiamento 88

5. Il dialogo scienza-fede oggi 91


0. Posizione del problema 91
1. Il problema storiografico 92
2. Dallo scontro frontale alla differenziazione formale 93
2.1. L'inevitabilità dello scontro 93
2.2. Dallo scontro alla differenza 95
2.3. La differenza come progresso culturale 97
3. Dalla differenza all'integrazione 99
3.1. La necessità del dialogo 100
3.2. Il contributo della religione alla scienza 101
4. La teologia nel dialogo con la scienza 103
4.1. Il problema 103
4.2. Carattere umano e “verificabile” dell'esperienza religiosa 104
4.3. Il problema dell'esistenza di Dio 106
4.4. La nuova concezione dell'essere e dell'agire di Dio 108

Conclusione: Siamo “gli ultimi cristiani”... premoderni 111


1. Rigore intellettuale: ripensare la fede 111
2. Coraggio del cambiamento: rinnovare l'istituzione 113

3
3. Nonostante tutto, la speranza 114

La rivelazione 116
0. Inquadramento biografico della riflessione 116
1. La concezione comune della rivelazione 117
2. Ripensare il concetto di rivelazione 119
2.1 L'impossibile possibilità della rivelazione 119
2.2 La creazione come rivelazione 120
3. La rivelazione nella sua struttura intima 122
3.1 L'esperienza originaria: rivelazione come "rendersi conto" 122
3.2 L'appropriazione del rivelato: rivelazione come "maieutica storica" 124
4. Le conseguenze della nuova visione 127
4.1 La “chiusura della rivelazione” come pienezza e apertura 127
4.2 Il dialogo delle religioni 128

4
INTRODUZIONE

La religione dinanzi al terzo millennio. Sfide per la teologia nel ventunesimo secolo. Il
cambiamento verso un nuovo paradigma... Erano tutti possibili titoli e suggerimenti accettabili.
D'altra parte, il libro non pretendeva tanto. La prima intenzione non era nemmeno quella di un libro,
ma quella molto più modesta di un quaderno che si sarebbe ridotto a ciò che ora costituisce il primo
capitolo. La decisione del cambiamento si deve alla gentile insistenza degli editori (e con tale
sottolineatura non voglio incorrere nel facile luogo comune: gli editori, al di là di tutto, sono anche
amici). Essi hanno pensato che valeva la pena ampliare e, in qualche modo, “esemplificare” ciò che
in questo piccolo saggio veniva detto in maniera che spero non troppo oscura, però inevitabilmente
molto concentrata. La verità è che si tratta, in effetti, di una scommessa importante. La profondità
del cambiamento culturale e l'inaudita novità dell'orizzonte che questo cambiamento epocale apre
dinanzi all'umanità, esigono il ripensamento di una religione che conta la sua durata non più per
secoli ma per millenni.
La durata è senza dubbio una credenziale di serietà nella proposta e di ricchezza nei contenuti.
Che però non può ignorare un pericolo: il tempo indurisce le istituzioni, consuma le parole e può
deformare, svuotare o perfino pervertire il senso genuino dei concetti. Ovviare a questo pericolo,
tentando di recuperare il significato originario affinché la fede risulti intellettualmente significativa
e culturalmente vivibile e praticabile, definisce, chiaramente, uno degli assi decisivi su cui deve
articolarsi l'attuale preoccupazione teologica. Preoccupazione di amplissimo spettro, perché deve
tenere presenti molti fronti, tutti costellati di molteplici e complesse questioni.
Qui, chiaramente, se ne accostano solo alcune, in modo indicativo e in riferimento soprattutto al
fronte teorico. Non formano un complesso sistematico, benché nemmeno si rassegnino a essere un
insieme sconnesso. Possiedono quella peculiare unità conferita loro dall'essere nate dalla stessa
preoccupazione fondamentale. Ogni capitolo può essere letto in modo indipendente. Tutti però
vogliono porsi dinanzi allo stesso orizzonte e integrarsi consapevolmente come frammenti
dell’immagine globale che il comune sforzo cerca di costruire. Se il lettore osserva l'indice, potrà
forse scoprire la struttura fondamentale dell'esposizione. Benché non mi sia deciso a renderlo
espressamente visibili, essa consta di due parti principali.
La prima è costituita dai due capitoli iniziali e ha un carattere più formale. Solo “più” formale,
perché in questioni così vive, forma e contenuto non si possono separare del tutto.
Il primo capitolo costituisce in qualche modo il programma generale. In esso appaiono enunciati
tutti i problemi, in modo che gli altri finiscono per assumere una certa aria di esplicitazione o di
applicazione concreta. Esso cerca, infatti, di rendere palese la radicale novità dell'orizzonte in cui la
Modernità ha collocato la religione. Di conseguenza, insiste sulla necessità, davvero urgente, che la
teologia affronti con decisione il necessario cambiamento di paradigma, intraprendendo la
ricostituzione delle sue coordinate generali e ripensando tutti e ciascuno dei suoi grandi problemi
alla luce della nuova situazione.
Il secondo capitolo differisce rispetto al primo in quanto riprende e ripercorre lo stesso panorama
generale dal punto di vista del linguaggio religioso, sommosso dalla sfida radicale cui lo sottopone
la “svolta linguistica”, che segna tutto il pensiero contemporaneo.
La seconda parte è formata dai tre rimanenti capitoli, che affrontano problemi concreti.
Il terzo capitolo affronta il fenomeno insolitamente universale, variopinto e polifonico della nuova
religiosità, cercando di andare al fondo della sua struttura e di metterlo in dialogo costruttivo con
l'esperienza cristiana.

5
Il quarto capitolo si accosta al problema dell'infallibilità. Di suo, è forse il più eterogeneo e
potrebbe perfino sembrare un po’ anacronistico; sicché sono stato molto in dubbio se includerlo. Ma
vi è un preciso motivo che, in fondo, lo integra nell'unità: se non vogliamo rifuggire la scomoda
domanda che pone, è necessario cercare di vedere ciò che ancora oggi vuole e può dire questo
dogma tardivo, così conflittuale e di così difficile integrazione nella sensibilità attuale.
Il quinto capitolo non ha bisogno di esibire le credenziali della sua attualità. I rapporti conflittuali
tra la religione e la scienza sono infatti presenti a colori vivaci e continuamente rinnovati nella
coscienza pubblica. Ciò che qui si tenta è di uscire dall'aneddoto – benché l'aneddotica al riguardo
goda, o soffra, di un vecchio e ben nutrito “pedigree” – per cercare d’illuminare e rendere fruttuoso
il nucleo della questione.
Il breve epilogo chiude il tutto. Lo fa con un stile più disteso, che cerca di ricreare in maniera più
fresca e intuitiva il clima generale che il “lavoro del concetto” dei capitoli precedenti si era sforzato
d’illustrare e di elaborare a partire dalle sue specifiche angolazioni. Senza dubbio sarebbe diritto del
lettore o della lettrice decidere d’iniziare da qui la lettura. Forse la maggiore e più amabile
leggerezza di questo atrio potrebbe chiarire l'orientamento del tracciato generale. E potrebbe perfino
addolcire un po' gli animi e perdonare all'autore la durezza di altri passaggi più difficili e aspri.
Mi resta solo di ringraziare le persone amiche che hanno accompagnato e revisionato con me
l'ultima redazione di queste pagine: Engracia Vidal, María Pilar Wirtz, Xaime M. González Ortega
e Pedro Castelao. Ahora, con hondo agradecimiento, quiero añadir los nombres, entrañables y
generosos: el de Ferdinado Sudati, que, con su habitual competencia, ha hecho una traducción
excelente y el de Giovanni Ferretti, que ha aportado su amplia sabiduría filosófico-teológica en la
revisión final.

6
1. LA TEOLOGIA NEL CAMBIAMENTO CULTURALE

1. Delimitazione del problema

Ci sono temi sconfinati, ma arriva sempre il momento in cui risultano inevitabili. Chi può osare
diagnosticare le sfide che si rivolgono a qualcosa di così profondo, delicato e complesso come è la
teologia, dinanzi a un futuro aperto e in profondo cambiamento? E nel contempo, come potrebbero i
teologi rifiutare di fermarsi ogni tanto per cercare di fare bilanci e pronostici? Neanche il singolo
teologo può sfuggire a questa sfida. Viene il giorno in cui, per forza interna o – com’è adesso il caso
– per incarico esterno, deve affrontarla.
Chiaro che, mentre lo fa, è dolorosamente cosciente di quanto sia audace e parziale il suo
tentativo. Non può ignorare che quella che offre è solamente una prospettiva sull'immenso compito
comune, poiché porta inevitabilmente il marchio della propria biografia e delle proprie
preoccupazioni. Sa che la sua proposta è lecita unicamente nella misura in cui rimane aperta a
integrarsi nel dialogo e nella collaborazione con le altre. Gli rimane la speranza che, realizzata
dentro una stessa “comunità di ricerca”, finisca per riflettere in qualche modo anche le
preoccupazioni generali. In definitiva, le convinzioni individuali si vanno forgiando fecondate dal
dialogo e dalla reciproca lettura, affrontando le stesse sfide e in comunione con gli stessi ideali. Il
che ha, d'altra parte, un importante vantaggio: acuisce la coscienza della necessità
dell’interscambio, del vivere in permanente apertura alla complementarità degli altri.

1.1. Il senso fondamentale della proposta

Con questa disposizione, vale forse la pena presentare fin d’ora quello che mi sembra il punto
centrale di quanto intendo dire, poiché gli ulteriori sviluppi non saranno altro che lo sforzo di
esplicitarlo e chiarirlo.
In definitiva, si tratta di enunciare come compito fondamentale per la teologia cristiana nel
nostro tempo la necessità di dare una svolta radicale al suo modo di concepire il rapporto di Dio con
noi. Una concezione non sempre del tutto cosciente, ma profondamente insediata nell'immaginario
religioso. S’impone, in effetti, un'autentica con-versione, una Kehre radicale, che inverta tutto il
movimento dell’esperienza e, in qualche modo, rovesci il senso di molti e decisivi concetti
teologici. In realtà, si tratta di qualcosa che è essenziale proprio perché elementare: prendere sul
serio l'assoluto primato del Dio che ci ha creati e sta creandoci per amore; unicamente ed
esclusivamente per amore.
Non è vero che «Dio sta in cielo e tu sulla terra».1 Al contrario, Dio sta sempre qui tra di noi:
nell'uomo e nella donna, nella terra e nella storia. Sta come iniziativa assoluta, sempre in atto. Come
colui che sostiene e promuove, salva e perdona, chiama e supplica. E in Lui e a partire da Lui
l'uomo e la donna sono, innanzitutto, intima e radicale passività, in quanto da Lui suscitati e
convocati. Naturalmente anche attivi in quanto consegnati a se stessi; ma attivi solo in quanto
libertà finite, sempre in bilico tra la risposta e la passività, tra l'accoglienza e il rifiuto, tra il lasciarsi
amare e salvare oppure chiudersi nell'apatia e perdersi nell'egoismo. Di modo che il movimento
fondamentale, infallibile e che non sbaglia, è sempre quello che va da Dio all'uomo. Quello che

1
Come si sa, questo è stato un proclama che Karl Barth, non senza rimando a Kierkegaard, fece già nella prefazione
alla 2a edizione del suo commento alla Lettera ai Romani (cf. K. Barth, Der Römerbrief 1922, Teol. Verlag, Zürich
1989, p. XX). Era una reazione alla teologia unilaterale dei suoi professori liberali. Anche se la contrapposizione che
qui faccio segna una sicura distanza di carattere teologico, in questo momento essa non pretende di entrare nella
giustificazione soggettiva e perfino storica di tale proclama, tanto meno sottrarre una virgola a ciò che possa avere di
affermazione dell’assoluto primato divino.

7
sbaglia e può addormentarsi è l'altro movimento: quello che va dall'uomo a Dio, [chi ] il quale]
proprio per questo cerca continuamente di suscitarlo, sollecitarlo e sostenerlo.
Basta uno sguardo al mondo religioso reale per vedere che queste affermazioni non sono né
banali né esagerate, ma costituiscono un allarme urgente e un richiamo pressante. Perché
nell’esperienza comune e concreta, nel modo di predicare, pregare o celebrare la liturgia, e perfino
nel modo di fare teologia, tutto procede come se noi, gli umani, fossimo gli attivi e i preoccupati,
quelli che devono conquistare la salvezza. Conquistarla davanti a un Dio “nel cielo”, che
teoricamente ci ama, ma che nell’efficacia esperienziale è piuttosto passivo fino a che non
riusciamo a smuoverlo con le nostre suppliche, conquistarlo con le nostre opere e sacrifici, ottenere
il suo perdono con le nostre penitenze e addirittura blandirlo con l'aiuto dei nostri intercessori. Per
questo Egli anche comanda e proibisce, premia e castiga, riserva per sé uno spazio della nostra vita,
il “sacro”, e lascia a noi il resto, il “profano”.
Sono del tutto cosciente che enunciate così, in maniera scarna e tutte insieme, queste
affermazioni suonano esagerate e possono perfino produrre irritazione. Da una parte, difficilmente
si può negare che la descrizione concordi con la realtà e la pratica di ogni giorno. Dall’altra, però,
qualcosa ci dice che questa non è la vera intenzione di fondo né rappresenta il senso profondo della
fede. Ma, proprio per questo, perché si dà questa contraddizione, è necessario suonare l’allarme,
dato che tale situazione denuncia un profondo squilibrio tra l'intenzione e la realizzazione, tra il
senso genuino dell'esperienza fondante e i modi concreti, pratici e concettuali di esprimerla.
Con un certo squilibrio è certamente necessario fare i conti sempre e a priori, perché come ben
sapeva san Paolo, i «vasi di argilla» di cui disponiamo non saranno mai capaci di portare in modo
adeguato il nostro «tesoro». Quello che succede è che fino a qualche secolo fa lo squilibrio risultava
tollerabile, poiché, in fondo, queste forme non stonavano nella cultura dell’ambiente. Ma con
l’avvento della Modernità la tensione è diventata insopportabile e all’inizio del secolo XXI
comprendiamo che lo squilibrio può essere mortale.
La teologia deve pensare molto seriamente al fatto che la crisi da cui trae origine la Modernità è
consistita esattamente in questo: nel mettere in questione, dai suoi più profondi fondamenti, tutto il
quadro in cui l'esperienza cristiana si era modellata e configurata. Quando Cartesio si propose di
«dubitare di tutto» non ubbidiva a un capriccio, ma constatava il fatto che tutto un mondo culturale
era crollato e che era necessario ricostruirlo dalla base.2 La crisi del cristianesimo nel mondo
moderno si deve fondamentalmente allo sconvolgimento prodotto da questo crollo, e lo stesso
Vaticano II riconosce che i credenti hanno una «parte non piccola» di colpa niente meno che nella
nascita dell'ateismo, proprio per non avere adeguato la forma della fede alla nuova situazione.3
Si capisce però subito che enunciare una necessità non risponde all'enorme compito di
realizzarla. Questo deve essere – già lo sta essendo – il lavoro della teologia nel suo insieme. Ciò
che qui si può fare è cercare di mettere in luce alcune delle linee fondamentali che, a mio parere,
dovranno essere presenti nella nuova configurazione.4

1.2. Un tentativo di schema chiarificatore

2
Cf. R. Descartes, Discours de la méthode, in Oeuvres et lettres, ed. De la Pléiade, Paris 1953, pp. 128 e 131 [tr. it.,
Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, vol I, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 301 e 312]. M. García Morente,
Lecciones preliminares de filosofía, México 198511, lezione IX, pp. 104-113, mostra molto bene quanto è stata decisiva
la crisi generale di credibilità allora suscitata.
3
Cf. Gaudium et Spes, n. 19 ; cf. A. Torres Queiruga, Ateismo e imagine cristina di Dio: 4/ 2010, 54-67.
4
A partire da questo momento seguirò molto da vicino, solamente completando alcuni aspetti o modificando qualche
accentuazione, i miei lavori La razón teológica en diálogo con la cultura, in «Iglesia Viva», 192 (1997), pp. 93-118 e
Retos para la teología de cara al siglo XXI, in Actas del X Simposio de Teología Histórica (Valencia 2000), pp. 531-
566; terrò in conto anche El amor de Dios y la dignidad humana, in J. Bosch Navarro (ed.), Panorama de la teología
española, Estella 1999, pp. 557-576. In realtà, costituiscono variazioni sullo stesso tema.

8
Come guida orientatrice nella complessità del problema, prenderò una frase di Kierkegaard,
molto gradita anche a Wolfhart Pannenberg: «L’io è una relazione che si relaziona con sé stessa».5
Questa frase, in effetti, permette di raggruppare intorno a tre poli fondamentali i molteplici elementi
che configurano l'enorme cambiamento che la crisi culturale della Modernità esige dalla teologia.
In quanto relazione, la persona umana è sempre rimandata verso l’altro da sé, verso ciò che la
occupa e la preoccupa, perché solo uscendo da sé può andare incontro alla sua realizzazione. In
qualche modo, però, questo ce l’ha in comune con ogni altra realtà. Ciò che la specifica in quanto
umana è, propriamente, la costitutiva autoreferenza di questa relazione, la trasparenza con cui è
vissuta; in modo che, come Hegel non si è stancato di ripetere, il suo riferirsi all’altro – o ad altro –
è il suo modo di poter giungere a stare pienamente in se stessa.
Applicato al caso di cui ci occupiamo, vale a dire alla riflessione della fede nella nuova
situazione creata dall’avvento della Modernità o, che è la stessa cosa, al problema attuale della
teologia, ciò consente di vedere tre cose decisive:
1) è cambiato il nostro rapporto con l’“oggetto” della teologia;
2) è cambiata la nostra “coscienza” di questo rapporto;
3) di conseguenza, è necessario costruire un nuovo rapporto, elaborare consapevolmente la
teologia nell’ambito di un nuovo paradigma.
Prima, però, di esaminare le conseguenze di ognuno di questi punti, conviene chiarire con
qualche dettaglio il quadro generale e il relativo cambiamento di paradigma che presuppone.

2. La Modernità come cambiamento radicale di paradigma

2.1. Autonomia e storicità

Oggi esiste un consenso praticamente unanime sul fatto che il nucleo più determinante e forse il
dinamismo più irreversibile del processo moderno sia costituito dalla progressiva autonomizzazione
dei diversi strati o ambiti della realtà.
È iniziata dalla realtà fisica, mostrando con crescente chiarezza – e non senza effetti traumatici,
data la rottura con la cosmologia ereditata e la conseguente delegittimazione dell'autorità
tradizionale – la forza della sua conformità a leggi intrinseche*: gli astri non sono mossi da
intelligenze superiori né le malattie sono causate da demoni, ma le realtà mondane ubbidiscono alle
leggi della propria natura.
È seguita l'autonomizzazione della realtà sociale, economica e politica, che ha fatto vedere come
la struttura della società, la ripartizione della ricchezza e l'esercizio dell'autorità non sono il frutto di
disposizioni direttamente divine, bensì il risultato di decisioni umane molto concrete: se ci sono
poveri e ricchi non è perché così Dio l'ha disposto, ma perché noi distribuiamo in maniera disuguale
le ricchezze di tutti; e chi governa non è tale “per grazia di Dio” (così che solo a Lui debba rendere
conto), ma per la libera decisione dei cittadini.
È continuata con la psicologia, che ha mostrato che la vita e le scelte della persona non si
possono più intendere, in forma del tutto immediata, come risultato di mozioni divine o tentazioni
demoniache, ma come reazioni più o meno libere alle mozioni dell'inconscio e agli influssi sociali e
culturali.

5
S. Kierkegaard. La malattia mortale, in Opere, tr. it. a cura di C. Fabro, Santoni, Firenze 1972, p. 625.
*
«Legalità» (legalidad), nel senso che ha leggi proprie [n.d.t.].

9
La stessa morale mostra, con sempre più innegabile chiarezza, la sua autonomia, nel senso che
non riceve più dalla religione la determinazione dei suoi contenuti, ma la cerca in quelle regole di
condotta che più e meglio umanizzano la realtà umana, sia individuale sia sociale.6
Tutto ciò appare, inoltre, solidale con una seconda caratteristica fondamentale: la realtà non solo
si mostra dotata di una “leggi” intrinseche che garantiscono la sua autonomia, ma appare come
radicalmente storica ed evolutiva. Se qualcosa contrassegna il fondo radicale della coscienza
contemporanea è la scoperta del carattere evolutivo di tutto il reale. Incominciando dal cosmo, in
processi che stanno ottenebrando la nostra immaginazione e sorprendendo la nostra intelligenza;
continuando con la vita, nell’inesauribile varietà delle sue forme, sino ad arrivare alla specie Homo
sapiens; e culminando nella radicale storicità, che è il marchio specifico di tutto ciò che è
propriamente umano.

2.2. Un processo legittimo e irreversibile

A livello teorico questa situazione rappresenta qualcosa di praticamente acquisito (sebbene con
disuguale certezza: non tutti, per esempio, accettano – ancora? – il carattere autonomo della
morale). In ogni caso, questa nuova coscienza determina la base delle “credenze” che articolano il
nostro substrato culturale. E lo determina come acquisizione positiva e irreversibile, così che d'ora
in poi qualsiasi configurazione umana dovrà misurare su di essa la propria plausibilità e la propria
stessa verità.
È molto importante chiarire questo punto, poiché molte volte in affermazioni di questo genere si
vuole vedere una sorta di resa acritica alla Modernità o, in termini religiosi, una dismissione della
fede dinanzi allo spirito del tempo. Non si tratta di questo. La Modernità non è un blocco
monolitico, bensì un processo estremamente complesso in cui intervengono molti elementi. E,
ovviamente, non tutto ciò che in essa è accaduto o accade è vero o risulta accettabile. Ciò che
appare come irreversibile è il processo in quanto tale, come tappa nell'avanzamento storico della
realizzazione umana e, per ciò stesso, anche il compito globale che propone alla libertà.
La scommessa consiste propriamente nel trovare quella configurazione che in ciascun caso
corrisponda a una realizzazione autenticamente umana. Questo succede a tutti i livelli, non solo in
quello religioso. La critica della Modernità non è compito esclusivo della teologia, ma di ogni
pensiero vivo e liberante: si ricordi l'impatto di un'opera come la Dialettica dell'Illuminismo7 o, più
vicino ancora, il dibattito critico intorno alla postmodernità.
Si capisce che costituirebbe un’enorme cecità storica farsi scudo coi reali difetti o coi possibili
abusi per evitare il confronto della fede con la nuova situazione. Il danno peggiore è che questo
finirebbe per trasformarsi in una trappola suicida che mummificherebbe l’esperienza della fede e
renderebbe improbabile la sua comprensione. Un minimo di senso storico mostra che non esiste
altra possibilità di essere davvero critici col processo della Modernità che quella di riconoscere la
realtà della sua sfida, cercando di approfittare delle sue possibilità e di evitare i suoi pericoli.
In questo senso, non concepisco la teologia se non come decisamente postilluministica. Che non
è lo stesso (devo farlo notare, perché a volte sono stato interpretato in questa direzione) di
semplicemente “illuministica”. A ben osservare, semmai proprio il contrario! Perché essere post
significa che non si può tornare indietro dalle sfide, dalle domande e dalle prospettive aperte
dall'Illuminismo; ma, proprio per questo, è necessario andare avanti, essendo lucidamente critici
con le soluzioni iniziali, in gran parte premature e cariche di polemica unilateralità. Si tratta,

6
Un po’ più ampiamente e in rapporto al problema dell’ateismo, analizzo questo nel primo capitolo di Creo en Dios
Padre. El Dios de Jesús como afirmación plena del hombre, Santander 19865 [trad. it. Credo in Dio Padre. Il Dio di
Gesù pienezza dell’uomo, Piemme, Casale Monferrato 1994]. [bibl moral]
7
Th. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo (or. ted. 1947), tr. it. Einaudi, Torino 1966.

10
chiaramente, di una rivoluzione epocale o, come pure diremo, di un cambiamento di paradigma,8 le
cui conseguenze siamo ancora molto lontani dal poter calcolare, ma che dobbiamo, per lo meno
introdurre con piena consapevolezza nel tentativo di ri-pensare teologicamente la secolare
esperienza della fede.

2.3. Il tranello delle reazioni polarizzanti

Quando si produce un cambiamento di tale portata, la vertigine minaccia d’impadronirsi dello


spirito, e tendono a prodursi reazioni polarizzanti. È il tipico gioco del tutto o niente, che sta alla
base di atteggiamenti totalizzanti, che si consegnano acriticamente al nuovo o si aggrappano
dogmaticamente al vecchio. Con ciò, inoltre, si genera un effetto induttivo che, come nelle vecchie
bottiglie elettrostatiche, tende a rafforzare in maniera progressiva il carico di esclusivismo in
entrambe le posizioni.
Da un lato, l'entusiasmo della scoperta, rafforzato ordinariamente dalla sensazione d’essere stati
“ingannati”, riempie l'orizzonte mentale e tende alla negazione di ogni verità del passato. Dall’altra,
la coscienza della tradizione tende a vedere una minaccia in ogni cambiamento e una negazione
mortale in ogni critica. Quando si osserva il divenire dell’atteggiamento religioso all’interno della
Modernità, non risulta difficile percepire come questo fenomeno si sia andato producendo in
maniera sempre più chiara e con esclusioni sempre più decise. Conservatorismo ecclesiastico e
teologico, da un lato, e critica secolarista e atea, dall’altro, hanno polarizzato il cammino della
cultura, caricandola da entrambe le parti di aggressività e malintesi.
In questo modo, un settore importante della cultura ha ritenuto che non esistesse altra possibilità
di assicurare le nuove conquiste umane, soprattutto sul versante della loro autonomia, se non quella
di negare la realtà della Trascendenza religiosa. Questa, in effetti, appariva come qualcosa di
alienante, rappresentata da atteggiamenti che si opponevano (a volte, di fatto; altre, quantomeno, in
apparenza) allo sviluppo umano e all'esercizio della libertà. Dall’altro lato, una buona parte del
mondo religioso – soprattutto quello istituzionalmente più influente – non ha visto maniera migliore
di difendere l'esperienza della fede che quella di mantenerla prigioniera di modelli passati,
chiudendosi in un atteggiamento apologetico che si rifiutava di ammettere la legittimità di buona
parte delle nuove conquiste nel processo della realizzazione umana.

2.4. La necessità di un nuovo equilibrio

Per fortuna, lo stesso processo storico, tanto per la semplice distanza temporale quanto,
soprattutto, per l’evidenziarsi degli effetti reali delle diverse prese di posizione, è andato favorendo
la chiarezza e ha eliminato parecchi malintesi. In realtà, oggi disponiamo di una prospettiva
sufficiente per incominciare a porre le basi di un dialogo sereno e autentico che, soggettivamente,
aiuti a riconoscere la vera intenzione dell'altro e, oggettivamente, favorisca l'unione degli sforzi per
la realizzazione di mete comuni.
A questo mirano, senza dubbio, tutti gli sforzi critici che hanno messo allo scoperto i trabocchetti
della Modernità nei suoi diversi aspetti: dalle sue tendenze nichiliste (Nietzsche) e antiumaniste
(“morte dell'uomo” in certo strutturalismo), fino alla critica della “ragione strumentale”, con le sue
conseguenze oppressive per la convivenza umana (sfruttamento del lavoro, abisso Nord-Sud) e per
la stessa natura (minaccia atomica, crisi ecologica).
8
H. Küng ha prestato molta attenzione al concetto di paradigma, e struttura su di esso la sua visione del cristianesimo
(sembra dare per scontato che la «postmodernità» rappresenti un paradigma nuovo, cosa che qui non assumo): cf. H.
Küng, Cristianesimo. Essenza e storia, tr. it. Rizzoli, Milano 1997.

11
È quasi con pudore che si ripetono questi luoghi comuni, ma risultano illuminanti al momento di
trovare una visione panoramica che getti luce sul nostro problema. In questo senso, non risulta
artificioso interpretare come cambiamento significativo al riguardo la nuova sacralizzazione del
cosmo e della soggettività umana, che si manifesta in mille modi nei movimenti parareligiosi o in
quella religiosità diffusa che caratterizza il nostro tempo. Posizioni come quella di Gianni Vattimo,
che riconoscono ciò in modo esplicito a partire dal cuore stesso dell'evoluzione filosofica,
confermano la correttezza e la profondità della valutazione.9
Per un pensiero teologico responsabile, tutto questo dovrebbe significare, innanzitutto e
soprattutto, una cosa sola: l’ineludibile necessità di affrontare lucidamente la nuova situazione,
cercando un aggiornato equilibrio. Questo, in accordo con la diagnosi precedente e senza necessità
di ridurre ad essa tutto il problema, dovrà iniziare, a mio parere, in maniera molto decisa a partire
dal ripensamento della Trascendenza nelle nuove coordinate emerse con il processo storico.

3. La nuova oggettività religiosa

3.1. La scommessa decisiva: il rapporto immanenza-Trascendenza

Si annuncia qui la radicalità del nostro tema. Quando oggi si dà un'occhiata criticamente attenta
alla lettura teologica che si continua a fare della visione biblica circa la storia di Dio con l'umanità,
si resta sorpresi dalla profonda impronta mitologica che ancora la caratterizza. Tutti riconoscono il
carattere mitico dei primi capitoli della Genesi; il che significa che ciò che lì è narrato non ha un
significato storico nel senso di eventi empirici o avvenimenti fisici che cambino il corso delle leggi
naturali. Per questo si sono abbandonati – sfortunatamente, non sempre né da tutti – le speculazioni
a riguardo dei doni preternaturali di Adamo, e sono ormai pochissimi quelli che pensano che la
morte fisica o i disastri naturali siano entrati nel mondo a causa del suo peccato.
L'enunciato di questo sottotitolo caratterizza, a mia avviso, il compito più profondo e urgente per
un ripensamento della fede che davvero voglia aiutare la sua attuale comprensione ed esperienza.
La nuova autonomia del mondo costituisce, al suo livello, un dato irreversibile. Oggi, nemmeno
l'anima più pia e tranquilla può accettare che gli astri siano mossi da angeli; o (all’infuori di casi
estremi, prodotti dalla ristrettezza o dalla marginalità culturale) che le malattie siano causate da
demoni. Questo mina alla base ogni concezione interventista dell'attività divina. Vecchie abitudini,
ereditate da quando Dio “faceva piovere e tuonare”, ordinava il diluvio o inviava la peste, possono
ancora portare in certe occasioni o ambienti a fare “rogazioni” per la pioggia, o al tentativo di
placare con processioni e penitenze l'ira divina. Però, guidati forse da una malintesa “prudenza
pastorale”, non si vuole ammettere che tentare di giustificare tali pratiche popolari in linea di
principio e di unire a questi atteggiamenti la verità della fede significa – nella cultura attuale –
andare seminando ateismo.
Nessuno forse l'ha messo così vivamente in rilievo come Rudolf Bultmann, la cui proposta,
nell'intenzione di fondo che la muove, è di un'evidenza culturale irrefutabile. Con l'avvento della
Modernità, il mondo moderno ha abbandonato irreversibilmente la visione mitica di quel mondo
che già la Bibbia, con l'idea di creazione – come la filosofia greca, con l’introduzione del logos –
aveva messo in discussione in maniera radicale, senza però averla potuto abbandonare del tutto in
alcuni punti fondamentali. Né la divisione tripartita – con il cielo sopra, l'inferno sotto e la terra nel
mezzo, come campo di battaglia su cui discendono influssi benefici o verso il quale s’inerpicano
forze malefiche – né, forse soprattutto, la visione del divino come interveniente nel funzionamento
degli elementi mondani in continua interferenza con le sue leggi, ci risultano oggi – anche se lo
volessimo – comprensibili e “realizzabili”. Lo stesso Bultmann lo dice molto bene.

9
G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996.

12
Non si può usare la luce elettrica e l’apparecchio radio, o usare i moderni strumenti clinici e medici nel guarire le
malattie, e nello stesso tempo credere nel mondo di spiriti e miracoli del Nuovo Testamento.10

Per questo non conviene liquidare troppo facilmente la sua proposta11. È certo che, accentuando
esageratamente la sola fides e l’”interpretazione esistenziale”, Bultmann ridusse in eccesso, fino alla
“monotonia esasperante” che gli rimproverava Jaspers, i significati profondi che erano inscritti nella
visione mitica. Ma questo non può diventare un pretesto per evitare la necessità, da lui riconosciuta
e propugnata, d’interpretare quanto lì detto in modo che risulti significativo nel nuovo contesto
culturale. Per il nostro intento è sufficiente mantenere chiaro il significato primario ed evidente
della proposta “demitizzante”, che non nega l’”azione di Dio” ma la sua degradazione ad azione
mondana.

Il pensiero mitologico intende l'azione di Dio nella natura, nella storia, nel destino umano o nella vita interiore
dell'anima, come un'azione che interviene nel corso naturale, storico o psicologico degli avvenimenti: spezza questo
corso e, contemporaneamente, collega gli avvenimenti. La causalità divina s’inserisce come un anello nella catena degli
avvenimenti, che si succedono gli uni gli altri secondo un nesso causale [...].
L'idea dell'azione di Dio, in quanto azione non-mondana e trascendente, può cessare di essere equivoca solo se la
concepiamo come un'azione che ha luogo non fra le azioni e gli avvenimenti mondani ma all'interno di essi.12

Si noti, insistiamo, che questo è molto diverso dal negare il valore simbolico (Bultmann parlava
di “valore esistenziale”), delle intenzioni profonde veicolate dalle espressioni mitiche. Lui stesso
insiste su questo in maniera esplicita e reiterata, poiché il suo metodo «non si propone di eliminare
gli enunciati mitologici, ma d’interpretarli».13 Per dirlo con le mie parole, ricorrendo a un esempio
concreto: il racconto della creazione dell'uomo nel secondo capitolo della Genesi continua a
conservare tutto il suo valore simbolico ed esistenziale in una lettura corretta che tenti di vedervi il
rapporto unico, intimo e amorevole di Dio con l'uomo e la donna, a differenza di quello che
mantiene con le altre creature. Ma si trasforma in puro sproposito (è diventata, infatti, una terribile
fabbrica di ateismo) quando viene letto come spiegazione del reale funzionamento del processo
evolutivo della vita.14
Sono convinto che la percezione profonda di questa mutazione fondamentale è più presente
nell'ambito culturale generale, nella sensibilità religiosa ordinaria e anche nell’esperienza profonda
dei teologi come nelle elaborazioni esplicite della teologia (cf. ciò che si dirà in 5.1, circa
l’”assimilazione asimmetrica” dei nuovi dati). Non si può ignorare che prendere questo sul serio
implica un radicale rimodellamento – molte volte scomodo e persino doloroso – delle abitudini
mentali e degli schemi pietistici. Non ci si può nemmeno aspettare a breve o a medio termine
soluzioni più o meno unanimi e soddisfacenti. Il tentativo, però, bisogna farlo, cercando di porre in
rilievo le linee di forza che dovranno determinare la nuova configurazione teologica.
Le riflessioni che seguono sono dirette a segnalarne qualcuna. E si capisce che in esse il carattere
schematico e provvisorio della considerazione farà necessariamente sentire la sua inadeguatezza.
Sarebbe un’impresa impossibile pretendere di giustificare ognuna delle affermazioni. Queste

10
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia (or. ted. 1948), tr, it, Queriniana, Brescia 1970, p. 110; cf. Id., Sul
problema della demitizzazione, in R. Bultmann, Credere e comprendere. Raccolta di articoli, Queriniana, Brescia
19862, pp. 1003-1012; Id., Gesù Cristo e la mitologia, Ivi, pp. 1017-1061.
11
Cf. le esposizioni sfumate di I. U. Dalferth, Jenseits von Mythos und Logos. Die christologische Transformation der
Theologie, Herder 1993, pp. 132-164; C. Ozankom, Gott und Gegenstand, Paderborn 1994, pp. 121-170; e soprattutto
di K-J. Kuschel, Geboren vor aller Zeit? Der Streit um Christi Ursprung, Piper, München-Zürich 1990, pp. 154-222.
12
Bultmann, Gesù Cristo e la mitologia, cit., p. 1046.
13
«Questo metodo d’interpretazione del Nuovo Testamento, che cerca di riscoprire il suo significato più profondo,
nascosto tra le concezioni mitologiche, io lo chiamo demitizzazione - termine che non cessa di essere altamente
insoddisfacente. Non si propone di eliminare gli enunciati mitologici, ma d’interpretarli. È, dunque, un metodo
ermeneutico» (Ibidem, p. 1021, tr. mod.).
14
Cf. le pertinenti riflessioni di P. Ricoeur, Finitude et culpabilité. II La symbolique du mal, Paris 1960, pp. 13-30 ;
323-332 [tr. it., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 55-65; 497-500].

13
devono restare consegnate alla capacità di evocazione che portano in se stesse, aiutate dalla
sensibilità e dalle preoccupazioni di ogni lettore. Da parte mia, posso solo rimandare ad altre opere
dove tratto più ampiamente alcuni dei problemi enunciati, almeno come indicazione che le
affermazioni non sono fatte alla leggera e irresponsabilmente.15

3.2. Una Trascendenza che si realizza nella massima immanenza

3.2.1. Fine del “Dio separato dal mondo”

In una mentalità più o meno mitologica, la trascendenza divina, benché immaginata come alta e
lontana nel cielo, era compensata dalla totale permeabilità del mondo ai continui influssi
“soprannaturali”. Nella nuova mentalità, un Dio separato porta necessariamente al deismo puro e
semplice del “dio architetto od orologiaio”, che si disinteressa della sua creazione, oppure a una
specie di deismo interventista, vale a dire, all'immagine di un Dio che dimora nel cielo, dove non è
del tutto passivo, dato che interviene ogni tanto, ma a cui, per questo, bisogna tentare di avvicinarsi
mediante il rito, il ricordo o l'invocazione, e cercare di smuoverlo o convincerlo mediante la
petizione, l'offerta o il sacrificio. In ogni caso, la struttura radicale è tale che l’iniziativa e la
continua preoccupazione sono in noi, mentre da Lui sollecitiamo che intervenga di quando in
quando con il suo “aiuto”.
È evidente che s’impone un’inversione radicale. Dio non deve venire nel mondo, perché è già
sempre nella sua radice più profonda e originaria; non deve intervenire, perché la sua azione è
quella che già sostiene e promuove tutto; non accorre e interviene quando lo si chiama perché è Lui
che da sempre sta richiamando e sollecitando la nostra collaborazione. Karl Rahner – in un libro
destinato al grande pubblico – fece notare già molti anni fa la rilevanza enorme di questa
inversione, segnalando le gravi conseguenze che derivano dal fatto di non tenerne conto. Vale la
pena citarlo per esteso:

Bisogna riconoscere che, per quel che riguarda il rapporto di Dio con il mondo, si è prodotto e si sta ancora
producendo un cambiamento radicale, non solo nella mentalità non cristiana, ma persino dentro il cristianesimo e la sua
teologia: anche noi cristiani ci stiamo lentamente abituando a non scoprire alcun intervento puntuale e spazio-temporale
di Dio nel nostro mondo; per i cristiani attuali Dio non è un elemento particolare in più, inserito nella totalità della realtà
che “agisce” sugli altri, e il cui effetto e l’immediata provenienza da Dio possano essere constatati, ma costituisce un
presupposto capace di sopportare la pluralità del mondo unitamente alla mutua determinazione delle realtà concrete di
questo mondo, senza entrare in tale contesto come un momento particolare in più.
Pertanto, se così stanno le cose e se anticamente si credeva che Dio intervenisse, almeno in alcuni casi determinati,
in una maniera puntuale e spazio-temporale in momenti concreti del cammino dell'universo, allora veramente ha avuto
luogo una trasformazione enorme di mentalità nel passaggio da epoche precedenti alla nostra, una trasformazione che
certamente non è ancora arrivata a imporsi fino alle ultime conseguenze, sia nella pratica religiosa di tipo medio, sia
nella teologia cristiana, e precisamente per questo ci sta creando grandi difficoltà.16

Due intuizioni fondamentali permettono di articolare teologicamente questa nuova


comprensione: la nuova concezione dell'infinito e il ripensamento dell'idea di creazione.

3.2.2. Il vero infinito: “panenteismo” e affermazione dell’umano

C’è sempre stata la tendenza a definire l’infinito per la sua opposizione al finito; e Hegel non si è
stancato di ripetere che questo lo renderebbe irrimediabilmente limitato, come un estremo della
15
Invece di farlo adesso in modo generale, cercherò di dare l’indicazione per ogni caso concreto.
16
K. Rahner - K. Weger, Problemi di fede della nuova generazione, tr. it. Queriniana, Brescia 2000, pp. 74-77 (tr.
mod.).

14
contraddizione (al quale mancherebbe giustamente l'altro estremo, facendolo pertanto limitato e
finito). È necessaria una definizione positiva che rispetti il suo carattere di pienezza senza
restrizioni. L'autentico Infinito «include persino la sua stessa opposizione al finito»: così chiarisce
W. Pannenberg17 l'insistenza hegeliana per cui «il finito ha la sua verità nell’Infinito».18 Per altre
strade la filosofia e teologia del processo, a partire da Alfred North Whitehead, insistono oggi con
particolare energia ed eloquenza su questo punto.19
Può sembrare astratto, ma in realtà si tratta di qualcosa di molto concreto. Il cristianesimo –
Amor Ruibal aveva insistito su ciò con storica lucidità20 – ha superato la concezione greca,
prevalentemente negativa dell’infinito, e ha saputo vedere Dio come infinito positivo. Allora si
capisce che non può esistere niente che sia davvero “fuori” di Lui, dato che tutto ciò che non è Dio
ha in Lui non solo la sua origine ma la sua stessa consistenza. Tutto è in Dio, essendo in Lui e da
Lui. L’Induismo l’ha compreso già anticamente e san Paolo lo esprime, nel cristianesimo, con
riferimento esplicito alla stessa religiosità pagana: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”»
(At 17,28).
Perciò non sarebbe bene contrapporre questo alla genuina intenzione di Kierkegaard, cedendo
alla facile e quasi topica contrapposizione – fomentata a volte da lui stesso, bisogna pur dirlo –,
come se questa idea portasse all'annullamento dell'individuo. Tutto il contrario. Senza negare,
benché con attenta precauzione, certi eccessi di Hegel,21 è precisamente questa pienezza del
veramente Infinito quella che gli permette di affermare pienamente il finito. Per questo – come,
seguendo Schelling, indica lo stesso Kierkegaard – solo Dio può creare libertà senza conculcarle,
dato che non deve competere con esse, ma tanto più le afferma quanto più le crea.22

17
W. Pannenberg, Philosophie und Theologie. Ihr Verhältnis mi Lichte ihrer gemeisamen Geschichte, Göttingen 1996,
p. 125 [tr. it., Teologia e filosofia. Il loro rapporto alla luce della storia comune, Queriniana, Brescia 1999, p. 111]. Cf.,
ad esempio, l’esposizione sintetica dello stesso Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 95 (tr. it di
B. Croce, Laterza, Bari 1951, pp. 99-101).
18
Passim: cf., ad esempio, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 193.
19
Dell’immensa bibliografia, cf. la sintesi dello stesso A. N. Whitehead, Il divenire della religione (or. ingl. 1926), tr. it.
Paravia, Torino 1963; e il suo prolungamento in Ch. Hartshorne, Man’s Vision of God, Chicago 1941; Id., The Logic of
Perfection, La Salle (Illinois) 1962. Per una prima informazione su questo movimento, troppo poco conosciuto fra noi,
cf. H. Küng, Dio esiste?, tr. it. Mondadori, Milano 1978, pp. 203-208 (includendo anche Teilhard de Chardin). Cf.
anche l’introduzione di J. B. Cobb (Jr.) - D. R. Griffin, Prozess-Theologie. Eine einführende Darstellung, Göttingen
1977; A. Parmentier, La philososphie de Whitehead et le problème de Dieu, Paris 1968. Una vivace visione globale si
trova in D. A. Pailin, God and the Processes of Reality, London 1989.
20
A. M. J. Amor Ruibal, Los problemas fundamentales de la filosofía y del dogma, nuova ed., t. II, Madrid 1974, p.
275; t. III, Santiago 1993, pp. 38-40. Una documentata ed eccellente sintesi del proceso dell’idea d’infinito si può
vedere in M. Cabada Castro, El Dios que da que pensar, Madrid 1999, pp. 344-352 e, in generale, tutto il capitolo:
«L’intima relazione tra finitudine e infinitudine o tra coscienza umana e Divinità» (pp. 344-491).
21
Hegel protesta espressamente contro la «folle» e superficiale accusa di panteismo: «Come se tutte le cose nel loro
isolamento esistenziale fossero Dio [...] uno sproposito di tale dimensioni (eine solche Ungereimheit) non è saltato in
testa a nessun uomo, se non in quella di tali accusatori di panteismo» (G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Beweise
des Daseins Gottes, in Werke in zwanzig Bände, Suhrkamp, t. 17, Frankfurt a. M. 1969, p. 493; cf. pp. 490-494; tr. it.
Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, Laterza, Bari 1970, p. ; cf. pp. ). «Rappresentazione falsa, carente di pensiero
e di filosofía» (v. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it. Zanichelli, Bologna 1973, vol. I, pp. 234-
238; 287-290; vol. II, p. 344, fra i molti altri luoghi).
22
Direttamente parla di onnipotenza ma, per il nostro intento, c’è chiara equivalenza: «Ma se veramente si vuole
concepire l’onnipotenza, si vedrà che comporta giustamente la determinazione di poter riprendere se stessa nella sua
esteriorizzazione, di modo che giusto per questo il creato, grazie all’onnipotenza, possa essere indipendente. Per questo
un uomo non può rendere completamente libero un altro; chi detiene il potere è nello stesso tempo legato da esso e per
questa ragione avrà sempre una falsa relazione con colui che vuole rendere libero [...]. Solamente l’onnipotenza può
riprendere se stessa mentre si dà, e questa relazione costituisce esattamente l’indipendenza di colui che riceve» (S.
Kierkegaard, Diario, tr. it. a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1962, p. 272). Rispetto a Schelling, W. Kasper
riassume così il suo pensiero maturo: «Dio è così assoluto e così libero, che può porre l’altro senza nulla guadagnare per
questo; così libero, che Lui può essere tutto e, senz’altro, concedere spazio all’altro, senza assorbirlo [alla lettera: senza
esserlo lui stesso]. E proprio in questa assolutezza e libertà, determinabili solo dialetticamente, si mostra l’autentica

15
Non può meravigliare che, una volta (ri)scoperta, questa idea sia andata approfondendo i solchi
del suo cammino. È ciò che la moderna sensibilità filosofico-teologica cerca di sottolineare
parlando di “pan-en-teismo”.23 A questo parimenti tende in profondità tutta la critica heideggeriana
della “ontoteologia”. E lo stesso indica, sebbene con una pericolosa ambiguità, il successo che ha
ottenuto il rinnovamento da parte di Bonhöffer del vecchio principio etsi Deus non daretur.
Principio ambiguo, perché può avere una traduzione “deistico-illuministica”, come se Dio – dato
che “non interviene” – non facesse nulla; mentre è vero l'inverso: non ha bisogno di presentarsi con
interventi puntuali, giustamente perché, avendo la perenne ed “eterna” iniziativa, sta già facendo
tutto il possibile: da sempre sta già agendo, promovendo e sollecitando la nostra collaborazione.

3.2.3. Ripensamento dell'idea di creazione: non-dualismo e non-interventismo

In piena sintonia con quanto precede, la creazione si rivela nel suo carattere unico d’iniziativa
assoluta, con una “transitività”* infinita, che nasce dall'amore e che per ciò stesso è rivolta
all'affermazione della creatura in e per se stessa.24 Cioè, Dio crea senza cercare il proprio profitto
(neanche la propria “gloria”), né esigere niente in cambio, ma dedito alla realizzazione in pienezza
della creatura. Al limite, come l'aveva già espresso con audace vigorìa san Giovanni della Croce,25
seguendo le orme di Gesù di Nazaret – la grande “parabola di Dio” nel nostro mondo – dovremmo
dire che, paradossalmente, Dio ci crea non «per essere servito», ma per servirci (cf. Mt 20, 28).
Di qui scaturisce una conseguenza decisiva: la rottura di ogni dualismo naturale-soprannaturale,
e perfino sacro-profano. Dato che tutto viene da Dio, tutto può e dev’essere vissuto come
accoglienza e affermazione della sua azione creatrice. Tutto ciò che aiuta la vera realizzazione della
realtà creata, materiale o spirituale, scientifica, sociale, morale o religiosa… risponde al disegno
creatore e costituisce, identicamente, la gioia del Creatore per il bene delle sue creature e il bene di
queste come affermazione del loro proprio quale realizzazione del disegno divino. Lo esprime
splendidamente Bruno Forte a partire dall'idea cristiana della creazione: «essere destinazione
all'amore: tanto più si è, quanto più si ama».26
Si vede ugualmente come in questa prospettiva manchi di senso qualsiasi “interventismo”
divino: non per il difetto di un dio assente e deista, ma per il meraviglioso eccesso di un amore
sempre in atto, di un Padre che «agisce sempre» (Gv 5,17). Dio agisce creando e sostenendo,
«facendo sì che facciamo» o, meglio, rendendo possibile e incoraggiando il nostro agire. Perché non
ci toglie la responsabilità, dato che senza la nostra collaborazione niente può succedere nel regno
della libertà; né ci abbandona al gioco disperato, tra Sisifo e Prometeo, di una libertà solitaria

divinità di Dio» (W. Kasper, Das Absolute in der Geschichte, Mainz 1965, p. 237 [tr. it., L’assoluto nella storia.
Nell’ultima filosofia di Schelling, Jaka Book, Milano 1986, p. 295]).
23
Tanto la filosofia come la teologia del processo lo accentuano con particolare enfasi. D. Tracy, Il ritorno di Dio nella
teologia contemporanea, in «Concilium», n. 6/1994, pp. 60-73; alle pp. 65-67, benché faccia alcune riserve, considera
questo concetto la grande acquisizione del pensiero moderno.
*
«Transitività» vuole indicare tutto il positivo che da Dio passa nella creazione (n.d.t.).
24
È il leit-motiv del mio libro Recuperar la creación. Por una religión humanizadora, Santander 1997.
25
«Perché ancora a tanto giunge la tenerezza e la verità d’amore con la quale l’immenso Padre arricchisce e accresce
questa umile e amorosa anima – o cosa meravigliosa e degna di timore e ammirazione! – che si assoggetta a essa
davvero per accrescerla, come se Lui fosse il suo servo ed ella il suo Dio, ed è tanto sollecito nell’arricchirla, come se
Lui fosse uno schiavo ed ella fosse il suo Dio. Tanto profonda è l’umiltà e la dolcezza di Dio!» (Juan de la Cruz,
Cántico Espiritual, c. 27 n. 1; en Vida y Obras completas, Madrid 1964, p. 704 [tr. it., Cantico spirituale, in Opere,
Edizione Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1963 pagina non individuata!! Non corrisponde
l’indicazione del capitolo e del numero?]).
26
B. Forte, Trinità per atei, Cortina, Milano 1997, p. 31; anche: «l’essere è l’atto di lasciarsi amare, l’evento della
gratitudine, il ricevere che fa spazio alla donazione dell’altro» (p. 30); cf. pp. 21-33. Lo segnala ugualmente molto bene
Martín Gelabert: «Il divino si rivela sempre nell’umano, non in aggiunta all’umano o sopra l’umano. Nemmeno si rivela
come l’umano, e meno ancora a spese dell’umano. Si rivela nell’umano» (M. Gelabert, Cristianismo y sentido de la
vida humana, Valencia 1995, p. 78 n. 17; cita J. I. González Faus, La humanidad nueva, Santander, 1984, p. 465).

16
dinanzi a un compito mai finito. Ripetiamolo: chi opera sempre è Dio; coloro che possono essere
passivi o refrattari siamo noi. Lo straordinario è che il nostro sforzo è sempre preceduto e
accompagnato dalla sua presenza attiva e amorosa, inscritto nella sua azione più ampia e possente,
che c'invita senza obbligarci e ci muove senza forzarci.27 Fare è consentire, ma consentire è
veramente fare.

3.2.4. Il ribaltamento della teodicea: il male inevitabile e Dio come “Anti-male”28

Anche l'enorme problema del male resta collocato nella sua giusta prospettiva, e permette
d’infrangere luoghi comuni, per molto assodati che siano e per molto evidenti che appaiano.
Non ha senso pensare che il male possa venire – qualunque sia il modo – da un Dio che crea per
amore: può essere visto solo come qualcosa che si oppone al dinamismo amoroso della sua azione
creatrice. Si oppone, non per impotenza di Dio, ma per il limite della creatura che, essendo finita,
«non dà più di quello che è»; vale a dire, risulta necessariamente carente e, per ciò stesso,
manchevole e conflittuale. Una realtà finita non può allo stesso tempo essere tutto. Come non ha
senso pensare di sminuire Dio dicendo che “Dio non può” fare un cerchio quadrato, perché “questo”
è un puro inganno verbale, una contraddizione, una pura e semplice impossibilità; ugualmente, una
libertà finita, in quanto tale, non può disporre totalmente di se stessa, non può essere perfetta. Per
questo, o non c’è mondo e libertà o, poiché ci sono, è necessario mettere in conto che nel loro
realizzarsi produrranno anche – non solamente! – da una parte disfunzioni e conflitti (si pensi alle
malattie o alle sofferenze causate dalla “lotta per la vita”) e, dall’altra, egoismi e malvagità (si pensi
al terribile conflitto della colpa all’interno di se stessi o, esternamente, allo sfruttamento del povero
e alla stessa croce su cui venne ucciso Gesù).
Questo, sorprendentemente, permette di ricondurre il problema del male alla sua giusta
impostazione nel mondo secolare. Perché si presenta, innanzitutto, come ciò che è prioritariamente:
un problema umano – comune a credenti e non credenti – che pertanto dev’essere affrontato per sé
stesso. È ciò che personalmente ho chiamato ponerologia (dal greco poneròs = male). Solo dopo,
come tentativo di risposta a questo problema, viene la pistodicea, cioè, la visione globale della vita
o “fede” in senso ampio (pistis = fede; si pensi alla “fede filosofica” di Jaspers), quale
configurazione della propria esistenza a seconda della “soluzione” che si adotti. In questo senso,
una posizione atea è tanto pistodicea quanto una credente.
La “pistodicea ” credente è stata chiamata teodicea, proprio perché nella risposta conta su Dio
(theòs) come il miglior modo di affrontare il problema. Ed è facile vedere che quanto sopra detto
rappresenta un rovesciamento radicale nella sua impostazione. Ora – finalmente – essa è in grado di
superare due difficoltà, in apparenza invalicabili: 1) la contraddizione di un Dio che ama senza
misura l'umanità, ma che, essendogli possibile, non le risparmia gli orribili mali che l'affliggono; e
2) l'artificio logicamente inconsistente di un Dio che ama senza misura, fino ad arrivare alla
croce… per riscattare da un male che avrebbe potuto evitare.29 Perché, riconosciuta l'inevitabilità
27
A partire dalla prospettiva dell’amore, si è ben ben espresso F. Varillon: «È l’amore che è potente; ebbene,
precisamente il potere dell’amore è, alla lettera, una rinuncia al potere. Chi rinuncia al potere non comanda, prega. Dio
ci prega» (F. Varillon, Joie de croire, joie de vivre. Conférences sur les points majeurs de la foi chrétienne, Centurion
1980, p. 256 ; tr. it., Gioia di credere, gioia di vivere. Il mistero di Cristo rivelazione di Dio amore, proposta di vita
nuova, EDB, Bologna 1984, p 254).
28
Dopo la pubblicazione di parecchi lavori su questo problema cruciale, ho proposto un’ampia sintesi in Repensar o
mal. Da poneroloxía á teodicea, Galaxia, Vigo 2010 (trad. castigliana: Repensar el mal. De la ponerología a la
teodicea, Trotta, Madrid 2011).
29
Avendolo varie volte citato non esattamente e non conoscendo la sua origine, offro qui il testo e la referenza esatta di
un epigramma che esprime tutto ciò con crudele ironia: «Il signor Juan de Robres, / di carità senza uguali, / fece questo
santo ospedale / e fece anche i poveri». Appartiene a Juan de Iriarte, fra gli anni 1702-1771. Prima, nel secolo XVI,
Alexio Venegas, Agonía del tránsito de la muerte, aveva scritto: «Lì si vedrà [al momento della morte] la fabbrica degli
ospedali, se nacque dal soccorso ai poveri o dall’averli prima creati». Prendo i dati da J. M. Iribarren, El porqué de los
dichos, Pamplona 19946, pp. 251-252. Vale la pena ricordare queste cose, poiché mostrano bene come la normale

17
del male, 1) è tanto assurdo chiedersi perché Dio non abbia creato un mondo perfetto e senza male
quanto lamentarsi che non abbia fatto cerchi quadrati; e 2) il Dio che ci ha creati per amore e vuole
la nostra felicità, appare con piena coerenza come l'Anti-male, sempre al nostro fianco,
sostenendoci nella lotta, perché tutto il male, cioè tutto il danno che facciamo o che ci viene fatto,
va nel medesimo modo contro di Lui, opponendosi alla sua azione creatrice, e contro di noi,
contrastando la nostra realizzazione.30
Allo stesso tempo, l'ateismo, che eleva tante critiche alla fede, deve affrontare le proprie
difficoltà, cercando di superare l'inconsistenza di un'argomentazione che nega Dio a causa del
male…, non facendo altro con questo che lasciare intatto il problema in se stesso. Il male rende il
mondo problematico per tutti. Attaccare la posizione contraria – negare Dio – non risolve ancora la
propria. Il problema fondamentale rimane intatto lì di fronte: spiegare coerentemente come vivere in
maniera umana, solidale e con speranza per tutti – comprese le vittime – in un mondo tanto
duramente lacerato dal male.
Oggi forse incominciamo a riconsiderare, ad un nuovo livello, l'audace affermazione di san
Tommaso: si malum est, Deus est.31 In realtà, quando – con Horkheimer, nel «desiderio che il boia
non trionfi sulle sue vittime» – si presenta un possibile rinvio all’Assoluto, o quando – con la
teologia della liberazione – si vede garantita solo in Dio la vita dei non-uomini, o quando – con la
teologia critica – si vede in Lui l'unica possibilità di senso in una storia che gronda sangue per la
sofferenza irredenta delle vittime, si sta confermando questa intuizione. Perfino un Ionesco ha
potuto affermare: «… senza dubbio, credo in Dio nonostante tutto, perché credo nel male. Se c’è
male, c'è anche Dio».32
Per questo, infine, come insinuo all'inizio del paragrafo, credo che si dovrebbe avere più
prudenza con il luogo comune, per quanto avallato dal famoso opuscolo kantiano, del fallimento o
dell’«impossibilità di ogni teodicea»: il vero mistero del male continuerà sempre a stupirci, ma non
dobbiamo confonderlo con le contraddizioni introdotte da noi. Poiché è questo che succede,
quando, mescolando l’antico con il nuovo, vogliamo rispondere alle domande attuali di una cultura
secolarizzata senza rivedere il presupposto – ereditato dalla cultura precedente l'Illuminismo – che
sia possibile un mondo senza male.

coscienza capti le contraddizioni, per quanto si cerchi di dissimularle. E questo vale anche per il discorso teologico,
quando pretende di coprire con il «mistero» la contraddizione da esso creata.
30
Non aver tenuto conto del doppio livello del problema – ponerologia e pistodicea –, riducendo l’esposizione della mia
posizione al primo, il mio amico José Antonio Estrada è stato portato ad attribuirmi la strana affermazione –
contraddetta in tutti e ciascuno dei miei scritti al riguardo – che «la teodicea non abbia nulla a che vedere con Dio» o
che possa realizzarsi «senza riferimento necessario alla problematica religiosa» (J. A. Estrada, La imposible teodicea.
La crisis de la fe en Dios, Madrid 1997, p. 218). Tanto strano come affermare che la mia impostazione «rifiuta di
parlare della morte perché si muove sul terreno della speculazione astratta, allo stesso modo che rifugge dal parlare
della sofferenza concreta e preferisce la teorizzazione sul male». Tutto questo, e anche dell’altro, in una stessa pagina.
Nonostante l’estensione che dedica, e di cui gli sono grato, alla trattazione della mia posizione (pp. 212-224), sono
assolutamente incapace di vedermi rispecchiato in tale esposizione. È stata una pena questa occasione mancata di una
discussione seria circa un problema che tocca tutti. Il lettore interessato può vedere l’appassionata concretezza con cui
ho trattato la questione fin dal mio primo lavoro al riguardo: Recupera-la salvación, Por unha interpretación liberadora
da experiencia cristiá, Vigo 1977 (tr. sp.: Recuperar la salvación. Por una interpretación liberadora de la experiencia
cristiana, Santander 19982).
31
«...perché il Dio onnipotente – cosa che confessano anche gli infedeli: colui che ha potere supremo su tutto – essendo
sommamente buono, in nessun modo permetterebbe che esistesse qualcosa di male nelle sue opere, se non fosse così
onnipotente e così buono da ricavare il bene anche dal male» (...neque enim deus omnipotens - quod etiam infideles
fatentur: rerum cui summa potestas - cum summe bonus sit, ullo modo sineret mali esse aliquid in operibus suis nisi
usque adeo esset omnipotens et bonus ut bene faceret et de malo) (Enchiridion de fide, spe et caritate, cap. 3).
32
E. Ionesco, in ABC, 17-12-1993, p. 3; cit. da M. Gelabert, Cristianismo y sentido de la vida humana, Valencia 1995,
p. 8. Cabada, El Dios que da que pensar, cit., pp. 534-536, fa un eccellente studio della questione, con interessanti
riferimenti. [cita Repensar]

18
Naturalmente, se fosse possibile un mondo senza male, sarebbe contraddittorio conservare nello
stesso tempo l'onnipotenza e la bontà di Dio.33 Ma dare per scontata questa possibilità è frutto di
una teoria. In sé, ripeto, questa teoria è tanto legittima – ma, ugualmente, anche tanto discutibile –
come qualunque altra. Quello che succede è che, essendo una “credenza” assunta acriticamente
come evidente, si tende a darla talmente per certa da non vederla più nel suo vero carattere. È però
una teoria come tante altre. Ce ne sono, pertanto, altre che evitano questa contraddizione, come
quella della “ponerologia” qui suggerita: si potrà e si dovrà discuterla, però confutando le sue
ragioni. Ciò che non risulta legittimo è squalificarla in anticipo, partendo dogmaticamente proprio
dal presupposto teorico che essa, adducendo le sue ragioni, mette in discussione. L'affermazione,
infatti, della possibilità di un mondo senza male non è in alcun modo una verità di fede, ma una
teoria umana che, sia pure per eredità secolare, si presenta come “credenza” indiscussa ed è tanto
teorica come l'opposta e, pertanto, dev’essere sottoposta a discussione.

3.2.5. La nuova gratuità della preghiera34

Un'altra conseguenza importante ruota intorno alla preghiera. Un “dio” separato, che procede
per interventi puntuali, che concede grazie o favori a chi vuole e quando vuole, ha senso cercare di
muoverlo a compassione, convincerlo o guadagnare il suo favore. Dinanzi a Dio che «è amore»
(1Gv 4,8-16), che non ha altro interesse che la nostra realizzazione e che, essendo pura e assoluta
iniziativa, «agisce sempre» per noi, ciò che importa è accoglierlo e assecondarlo, lasciarsi
convincere e collaborare con Lui, coltivare la gratitudine e la fiducia nel suo aiuto e nella sua
presenza, nonostante le possibili parvenze contrarie imposte dalla nostra finitezza.
Dinanzi a Lui – solo dinanzi a Lui – la supplica e la petizione mancano di senso, non per
superbia o autosufficienza, ma proprio per il contrario: per il riconoscimento che l’errore o la
carenza, la mancanza di disposizione o di buona volontà – per evitare la catastrofe o porre fine alla
malattia, così come per respingere il male e decidersi per il bene – non sono mai dalla parte di Dio,
ma sempre dalla nostra. (Una giustificazione un po’ più dettagliata verrà offerta nel prossimo
capitolo, che tratta del rinnovamento del linguaggio religioso).

3.3. Una teologia affermativa a partire dal Dio creatore-salvatore

3.3.1. Ripensare la Cristologia35

L'idea sempre presente, soprattutto dalla tradizione patristica orientale, della continuità tra
creazione e salvezza risulta adesso ovvia. Questo significa due cose fondamentali: che la creazione
è salvezza; e che, benché sembri una banale tautologia, la salvezza è, unicamente ed

33
Lutero l’ha riconosciuto senza ambiguità: «Se ci atteniamo al giudizio della ragione umana, ci vediamo obbligati ad
affermare o che Dio non esiste o che è ingiusto. [...] Questa ingiustizia di Dio è basata su argomenti cui la ragione e la
luce naturale non possono resistere» (M. Lutero, Oeuvres, V, Labor et Fides, Genéve, 1957, p. 230). Prendo la citazione
da Gelabert, Cristianismo y sentido de la vida humana, cit., pp. 102-103, che la riporta più estesamente. Con il
letteralismo della sola scriptura e con la sua gnoseología nominalista Lutero poteva schivare la domanda sulla
contraddizione logica tra la ragione e il Vangelo; non credo che noi possiamo – né dobbiamo – fare lo stesso.
34
Questo tema riveste un’importanza spirituale della cui grandezza non prende ancora abbastanza nota la teologia. L’ho
trattato nei seguenti luoghi: Más allá de la oración de petición, in «Iglesia Viva», 152 (1991), pp. 157-193; A oración
de petición: de convencer a deixarse convencer, in «Encrucillada», 83/17 (1993), pp. 239-254; Recuperar la creación,
cit., pp. 247-294; La preghiera: oltre la petizione, in «Concilium», 1/2006, pp. 81-97]; Repensar el mal, cit., pp. 292-
298.
35
È il titolo di un libro nel quale raccolgo i miei saggi al riguardo: Repensar la Cristología. Ensayos hacia un nuevo
paradigma, Estella 19962.

19
esclusivamente, salvezza. Vale a dire, tutta la teologia deve pensarsi e ripensarsi a partire dalla
convinzione radicale che quanto viene da Dio è interpretato legittimamente solo se riveste un senso
positivo e liberante per noi. Di modo che ogni interpretazione che faccia apparire la storia di Dio
con l'umanità come minaccia, peso o peggioramento del suo destino è, per ciò stesso, falsa.36
La continuità creazione-salvezza porta ad impostare meglio il modo di comprendere
l'incarnazione. Allo schema di “scendere dal cielo” si sostituisce quello di “nascere dalla terra”: a
questo mira il fatto che le cristologie attuali – anche quelle che teoricamente pretendono di negarlo
– vengano fatte, in maggiore o minore misura, dal basso. Il che, a sua volta, postula una visione
della divinità di Cristo come “unione nella differenza” con noi. Non per questo Cristo risulta
totalmente comprensibile, è ovvio, poiché qui risiede propriamente il suo mistero. Però almeno ne
distanzia la figura da un dualismo soprannaturalistico che lo disumanizza, e che rende
incomprensibile il modo in cui il Vangelo parla della sua vita fra di noi.37
Inoltre, salvezza divina abbandona così spontaneamente – a volte un po' inorridita – gli schemi
costruiti sul “sacrificio”, mediante il quale si “paga un prezzo” o si è “liberati da un castigo”. Essa
ricupera così la verità più radicale della redenzione, come iniziativa di Dio che nulla esige in
cambio, ma che, «mentre eravamo ancora peccatori» (Rm 5,8) «ci ha riconciliati con sé mediante
Cristo» (2Cor 5,18). A questo modo, Cristo appare, allo stesso tempo, come rivelazione e come
possibilità concreta per la nostra vita autentica, in quanto fondata e salvata in Dio; e questo non in
maniera isolata o esclusivista rispetto alle altre religioni, ma come culmine di un processo
universale con il quale Dio, «molte volte e in diversi modi» (Eb 1,1), ha cercato e continua a cercare
di fare la stessa cosa con ogni uomo e ogni donna che vengono in questo mondo.38

3.3.2. Salvezza del reale

A partire di qui si rimodella anche la trattazione teologica dei diversi ambiti del reale. L'idea di
salvezza da parte di un Dio che, come Creatore, consegna la creatura a se stessa e che, come
Infinito, la include in sé pur nella sua distinzione da sé, permette di riconoscere l'autonomia del
creato, senza per questo naufragare negli scogli del deistico abbandono e dell'interventismo
mitologico. Nell'infinita “transitività” della creazione per amore, quanto maggiore è la presenza
salvatrice di Dio, tanto più essa afferma – lungi quindi dal minacciare – la consistenza di ogni
essere in se stesso.
Questo vale rispetto alla natura, permettendo di comprendere molto bene, “dall’interno”, la
preoccupazione ecologica (e forse spiega certe connotazioni sacralizzanti della stessa). In generale,
rende possibile un rapporto positivo con la scienza che, allorché significa un progresso
umanizzante, chiede di essere accolta come prolungamento dell'azione creatrice. Sebbene per ciò
stesso, e allo stesso tempo, l'idea di creazione offra anche uno schema critico in riferimento al
modello di un’umanità “salvata”.
Anche il tema dei miracoli che – a ragione – si è fatto così problematico nella Modernità, chiede
di essere reimpostato dalla radice, poiché da questa nuova prospettiva rivela tutto il suo non-senso.
Non per le tipiche discussioni astratte se Dio, de potentia absoluta, potrebbe o meno modificare le
leggi del mondo (che, evidentemente, “potrebbe”); ma per motivi molto più profondi. In primo
luogo, perché, così come si concepiscono, i miracoli rappresenterebbero interventi empirici che non
solo spezzerebbero la giusta autonomia (concessa da Dio) del reale, ma abbasserebbero la sua
azione al livello delle cause intramondane, di modo che, con le parole di Walter Kasper, «non

36
È il principio che ho cercato di assodare in Recuperar la salvación. Por una interpretación liberadora de la
experiencia cristiana, Santander 19952.
37
J. Moingt, come già aveva fatto nella sua cristologia, L’homme qui venait de Dieu, Cerf, Paris 1993, finisce per
sottolinearlo energicamente in Humanitas Christi. La nuova questione cristologia, in «Concilium», 1/1999, pp. 44-56.
38
Cerco di chiarire meglio questa connessione in La fe en Dios creador y salvador, in «Didaskalia» (Lisboa), 30
(2000), pp. 69-89.

20
sarebbe più Dio, ma un idolo».39 In secondo luogo, e soprattutto, perché metterebbero in
discussione in maniera radicale l'amore di Dio (se gli era possibile curare, perché non ha
risparmiato prima tanta sofferenza?), lo farebbero taccagno (perché a così pochi?) e “discriminante”
(perché a questo malato e non agli altri?). Peraltro, ormai si vede l’intimo nesso fra questo
argomento dei miracoli e quello del male e della preghiera di petizione.
Rispetto alla società, le conseguenze della nuova impostazione si fanno ancora più forti. Il non-
interventismo divino nell'ambito della libertà mette in luce come l'azione salvatrice tenti di
realizzarsi a favore di tutti, attraverso la nostra libera accoglienza. La sua azione appare, pertanto,
come sollecitazione a essere accolta in una prassi sociale che collabori con Lui nella realizzazione
del suo disegno di salvezza, nell’avvento del suo Regno: «Ascoltate» il mio grido nel grido dei
poveri e «abbiate pietà» di loro. La teologia politica e quelle della liberazione, come la nuova
teologia femminista e, in generale, tutta la riflessione teologica sulle esclusioni,40 mostrano la
profonda penetrazione di questa idea nella coscienza teologica.
Il che, a sua volta – e di questo sono buona prova queste stesse teologie – permette di riconoscere
ogni progresso sociale come progresso salvifico, che coinvolge anche la Chiesa. Il tema, ad
esempio, dell'uguaglianza umana radicale e dei diritti umani al suo interno non può più essere
impostato a partire dalla mera ripetizione delle formule tramandate o dalla consuetudine storica,
bensì in base a quella creatività che sa scorgere il soffio dello Spirito in ogni autentico progresso.
Riguardo all'esercizio dell'autorità e a una autentica democratizzazione nella gestione della
Chiesa,41 le conseguenze sono gravi, persino clamorose e urgenti.
Anche i progressi della psicologia suppongono un’opportunità di rinnovamento nella morale e
nella spiritualità. Sono recenti, per cui non ci si deve meravigliare se il loro ingresso nella
riflessione teologica abbia suscitato intensi conflitti, come mostrano i casi di Jacques Pohier ed
Eugen Drewermann.42 Il problema della morale, d'altra parte, si aggrava perché la sua stretta
vicinanza con il più propriamente teologico rende delicato e persino conflittuale il riconoscimento
della sua autonomia. L'introduzione, però, del concetto di “teonomia” – «la ragione autonoma unita
alla propria profondità», secondo l’eccellente espressione di Tillich43 – fa vedere le grandi
possibilità che si aprono con la nuova impostazione teologica.

4. La nuova soggettività religiosa

La profonda mutazione nell’”oggetto” della teologia doveva ripercuotersi, per forza, sul modo
stesso di rapportarsi ad esso, cioè sulla “soggettività religiosa”. La “svolta antropocentrica” non è

39
W. Kasper, Gesù il Cristo, tr. it. Queriniana, Brescia 19968, p. 120; nonostante qualche oscillazione, questo
equilibrato capitolo merita di essere letto per intero (Ibid., pp. 115-131).
40
Cf. il panorama che offrono i saggi pubblicati in «Iglesia Viva», n. 188 (1997), e il libro di J. Sobrino, La fe en
Jesucristo. Ensayo desde las víctimas, Madrid 1999 [tr. it., La fede in Gesù Cristo. Saggio a partire dalle vittime,
Cittadella, Assisi 2001].
41
Mi permetto di rimandare al mio opuscolo La democracia en la Iglesia, SM, Madrid 1995 [tr. it., La Chiesa oltre la
democrazia, La Meridiana, Molfetta (BA) 2004], e all’articolo La democrazia nella chiesa, in «Mosaico di Pace» (Pax
Christi Italia), n. 50 (2005), pp. 24-26.
42
Cf. la diagnosi di fondo offerta da P. Ricoeur, De l'interprétation. Essai sur Sigmund Freud, Le Seuil, Paris 1965 [tr.
it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 20022] e C. Domínguez, El psicoanálisis freudiano de
la religión. Análisis textual y comentario crítico, Madrid 1991; Id., Creer después de Freud, Madrid 1992; J. I.
González Faus - C. Domínguez Morano - A. Torres Queiruga, «Clérigos» en debate, Madrid 1996.
43
P. Tillich, Teologia sistematica, I, tr. it. Claudiana, Torino 1996, p 103; cf. pp. 101-104 e 173-176. Tillich è stato il
teologo che negli anni venti ha portato in primo piano questo concetto capitale; il concetto però, in quanto tale,
proveniva dall’Illuminismo: cf. il denso e dettagliato studio di F.W. Graf, Theonomie: Fallstudien zum
Integrationsanspruch neuzeitlicher Theologie, Gütersloh 1987, pp. 11-76, in cui fa la storia della sua comparizione. Cf.
le mie riflessioni in Recuperar la creación, cit., cap. 4: Moral y religión: teonomía, pp. 163-200 e La théonomie,
médiatrice entre l’éthique et la religion, in M.M. Olivetti (ed.), Philosophie de la Religion entre éthique et ontologie,
Biblioteca dell’Archivio di Filosofia, CEDAM, Milano 1966, pp. 429-448.

21
un mero slogan, ma un'autentica rivoluzione, che non lascia nulla d’intatto. Del resto, è risaputo che
tutto ciò che riguarda il mondo della riflessione risulta particolarmente difficile, poiché la
riflessione, come ritorno della mente su se stessa, comporta sempre qualche torsione violenta. Di
conseguenza i problemi si fanno più acuti e la trasformazione più difficile. Lo evidenziano
chiaramente sia l'inesauribile tensione fideismo-razionalismo sia le crisi – in realtà, ancora non
risolte – del protestantesimo liberale e del modernismo cattolico.
Il lettore comprenderà che qui la schematicità dell'esposizione dovrà essere ancora più drastica
che nelle sezioni precedenti.44

4.1. Autonomia della soggettività

Anche a questo proposito l'autonomia costituisce un concetto chiave. La crisi dell'autorità e il


discredito della tradizione possono essere state reazioni eccessive – e per alcuni aspetti lo furono
senza dubbio, come H. G. Gadamer ha sottolineato45 – ma comportavano un giustificato allarme.
Non era possibile continuare con la concezione astorica del dogma né, soprattutto, con la lettura
letteralista della Bibbia. Né l'autoritarismo del «perché così è scritto» o del «così è definito», né il
semplice rimando a «la Chiesa ha i suoi dottori» possono soddisfare le esigenze della nuova
situazione culturale. Wolfhart Pannenberg ha segnalato con insistenza l'enorme importanza di
questo punto, poiché crede che mantenere l'antica posizione implichi, in definitiva, un
«soggettivismo irrazionalista» e una «concezione autoritaria della fede»;46 cosa che trasformerebbe
questa in «cieca ingenuità, credulità o perfino superstizione», minacciando di trasformare la
convinzione credente in un anacronistico «asylum ignorantiae».47
Da parte sua, la filosofia – a partire da Descartes e, principalmente, da Kant – ha fatto capire che
questo cambiamento non era altro che la conseguenza di una mutazione molto più radicale: la
scoperta che il soggetto entra sempre e necessariamente nella costituzione di ogni oggetto. Pertanto,
anche dell’”oggetto religioso”. Le estremizzazioni di certi soggettivismi relativistici del passato e
del presente non devono nascondere che qui compariva un'acquisizione irreversibile, con cui si deve
misurare ogni teologia che aspiri a rendere credibile e comprensibile la fede.
La sfida però è enorme. In realtà, la sua comparizione ha significato la crisi forse più grave del
cristianesimo nella sua storia, poiché in essa la critica biblica confluiva, spesso fino a coincidere,
con la nascita dell'ateismo.

4.2. La scommessa decisiva: una nuova concezione della rivelazione

44
Per maggiori dettagli rimando alla fondazione che cerco di dare in La constitución moderna de la razón religiosa.
Prolegómenos a una Filosofía de la Religión, Verbo Divino, Estella 1992; Repensar la revelación. La revelación divina
en la realización humana, 2ª edizione, rivista e ampliata, Trotta, Madrid 2008 [tr. it. dalla 1^ ed. La rivelazione di Dio
nella realizzazione dell’uomo, Borla, Roma 1991]; entrambe con abbondante bibliografia.
45
H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. Bompiani, Milano 1988, pp. 312-35; cf. la discussione in AA. VV.
Hermeneutik und Ideologiekritik, Frankfurt a. M. 1971 (soprattutto quella con Habermas, pp. 45-56 e 283-313 [tr. it. K.
O. Apel – H. G. Gadamer – J. Habermas, Ermeneutica e critica dell’ideologia, Queriniana, Brescia 1992, pp. ]. Se ne
può vedere un’ottima esposizione critica e sintetica in J. Grondin, Introducción a la hermenéutica filosófica, Barcelona
1999, pp. 185-192.
46
W. Pannenberg, Glaube und Wirklichkeit, München 1975, pp. 8-9.
47
W. Pannenberg, The Revelation of God in Jesus of Nazaret, in J.M. Robinson - J.B. Cobb jr. (edd.), Theology as
History, New York 1967, pp. 130-131, e Id., Einsicht und Glaube, in Grundfragen systematischer Theologie I,
Göttingen 19712, p. 235 [tr. it. Intellezione e fede, in Questioni fondamentali di teologia sistematica, Queriniana,
Brescia 1975, p. 264]. Maggiori dettagli nella mia opera La revelación de Dios en la realización del hombre, cit., pp.
344-347; nuova edizione: Repensar la revelación, cit., pp. 350-352; tr. it. La rivelazione, cit. pp. 349-353.

22
Si toccava, effettivamente, il nucleo del problema: quello della verità e credibilità della
rivelazione, vale a dire, del fondamento stesso della fede. La concezione tradizionale, con la sua
visione dell’evento della rivelazione come di un “dettato” divino, in definitiva di carattere
“miracoloso”, e soprattutto come qualcosa da accettare per pura “autorità” (devo credere che ciò
che è rivelato è verità perché il profeta mi dice che Dio glielo ha detto; ma io non ho modo alcuno
di verficarlo) non risultava plausibile nella nuova situazione postilluministica. Questa non
plausibilità della concezione tradizionale costituiva la legittima istanza del liberalismo e del
modernismo, e ha costituito la forza indiscutibile della Scuola di Pannenberg in reazione contro le
«teologie della parola»48; essa spiega anche la svolta radicale introdotta dalla Dei Verbum nel
Vaticano II.
Non era però nemmeno accettabile una soluzione puramente inmanentista, che riducesse la
rivelazione a mero prodotto della soggettività umana (così come s’interpretano ordinariamente le
proposte dell'idealismo filosofico e del liberalismo teologico, sebbene a loro proposito resti molto
da pensare). In tal caso il rinnovamento significherebbe liquidazione. Per fortuna questi estremi non
rappresentano una fatalità. Il nuovo paradigma, preso sul serio e in maniera conseguente, offre la
possibilità di una via d’uscita creativa. Due sono i dati decisivi al riguardo.
Il primo riguarda la nuova comprensione del rapporto immanenza-trascendenza, che permette di
comprendere che Dio non ha bisogno d’infrangere con interventi miracolosi la giusta autonomia del
soggetto per potersi annunciare nella sua immanenza. La ragione sta nel fatto che non deve “venire
da fuori”, con la sua ispirazione, verso un recettore separato e lontano. Si tratta, piuttosto, del
contrario, poiché Dio è già sempre dentro, sostenendo, promuovendo e illuminando la stessa
soggettività, che per questo lo cerca e può scoprirlo. In definitiva, la rivelazione consiste nel
“rendersi conto” che Dio, come origine fondante, è “già dentro”, abita il nostro essere e cerca di
manifestarsi a noi: noli foras ire: in interiore homine habitat veritas.49
In questo modo – contrariamente a quello che può sembrare a prima vista! – non solo rimane
eliminato alla radice ogni pericolo d’immanentismo soggettivista, ma, a rigore, scompare la sua
stessa possibilità. Perché, in questa prospettiva, nessuna conoscenza concreta e reale di Dio risulta
possibile per semplice iniziativa umana, dal momento che – sempre e per stretta necessità – può
solo darsi come risposta alla sua iniziativa: «Dio è conosciuto solo da Dio», dice una frase già
classica.50 E si noti che questa non è altro e niente meno che la definizione di rivelazione. Il che
vuol dire, in definitiva, che ogni autentica conoscenza di Dio è sempre in qualche modo una
conoscenza rivelata (il resto sono elaborazioni secondarie e astrazioni, che la presuppongono).
Si capisce allora che così si apre una prospettiva nuova e feconda per la comprensione della
rivelazione come presente in tutte le religioni e perfino in ogni conoscenza filosofica che scopra
realmente e vitalmente Dio. È chiaro che questo risulta comprensibile solo a partire dal nuovo
paradigma: dall'altro, con un Dio lontano che deve intervenire in ogni occasione, questo tipo di
affermazione si trasforma non già in “eresia”, ma in puro e semplice sproposito teologico.51
Per ciò stesso, la giusta comprensione di questo paradigma deve contare anche sul secondo dato:
quello di una ragione ampliata, capace di superare le ristrettezze della ragione illuministica,

48
Soprattutto con la pubblicazione del «manifesto» Offenbarung als Geschichte, Göttingen 19704 [tr. it., Rivelazione
come storia, EDB, Bologna 1969].
49
Agostino, De vera religione, c. XXX, 72.
50
Cf. la trattazione, estremamente ricca di riferimenti, che su questo fa Cabada, El Dios que da que pensar, cit., pp.
381-404.
51
Questo fa vedere del tutto chiaramente che risulta inutile ogni discussione che non parta dal dibattito previo su questo
cambiamento. Diversamente, tutto finirà col risolversi in malintesi e, ancor peggio, in accuse e condanne. Credo che
questo permetta di comprendere la maggior parte dei conflitti che attualmente dilacerano la teologia. Data la gravità di
ciò che qui si enuncia e la necessità di comprenderlo dalla sua giusta prospettiva (in un tema pieno d’insidie), mi
permetto rimandare a Repensar la revelación, cit., soprattutto i capp. 5-8, pp. 185-448; per il dibattuto tema del «Dio
dei filosofi», cf. ¿Todavía el Dios de los filósofos?, in «Razón y Fe», 242 (2000), pp. 165-178; Recuperar la creación,
cit.. pp. 33-54 e Más acá de Pascal: Apología del «Dios de los filósofos» (di prossima comparizione nel libro in
omaggio del prof. Manuel Fraijó). [bispos]

23
razionalistica e strumentale. Questo ampliamento non costituisce una risorsa artificiosa o escogitata
per il caso, ma rimanda al divenire più profondo della ragione nella Modernità. Una ragione che con
Descartes, nonostante i luoghi comuni, si scopre come fondata; con l'Idealismo, come storica e
aperta alla realtà positiva; con la Fenomenologia, come sensibile a tutte le dimensioni del reale; con
il Personalismo e la Teoria dell'azione comunicativa, come intersoggettiva; con Lévinas, come
essenzialmente etica…52

4.3. Superamento del “positivismo della rivelazione”

Tutto ciò suppone, evidentemente il superamento di quel “positivismo della rivelazione” –


Offenbarungspositivismus – che Bonhöffer rimproverava a Barth. Lungi dall’apparire come
qualcosa di strano, che arriva da fuori, la rivelazione si mostra come il disvelamento di ciò che
l'uomo è – per libera disposizione dell'Amore che lo sta creando e salvando – nella sua essenza più
radicale, come individuo e come comunità. Per questo, una volta scoperta dalla genialità religiosa di
coloro – profeti, fondatori, Gesù come vertice – che si sono “resi conto” di ciò che Dio sta cercando
di dire a tutti, la rivelazione è riconoscibile – e in questo senso verificabile – dai ricettori del suo
annuncio. Essi non credono più semplicemente «perché qualcuno dice loro che Dio l’ha detto».
Questo continua a essere vero; ora però, una volta che l’annuncio è stato espresso, possono
comprovare da se stessi che quanto “rivelato” risponde all'autentica realtà umana, alla loro come a
quella del profeta: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo
udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42).
Personalmente, in sintonia di fondo con proposte come quelle di Blondel, Rahner e Pannenberg,
ho tentato di chiarire ciò mediante la categoria di maieutica storica. “Maieutica”, perché, come in
Socrate, la parola è necessaria; ma non perché introduca da fuori la verità divina dentro la mente
umana, ma perché, come “levatrice”, aiuta questa affinché, facendosi cosciente di ciò che porta
dentro, lo “dia alla luce”. “Storica”, perché, al contrario che in Socrate, si produce non nel modo
della reminiscenza di ciò che è sempre stato, in un eterno ritorno, ma come annuncio di un Dio allo
stesso tempo sempre presente e sempre veniente, che, rivelandosi, ci trasforma, abilitandoci a un
nuovo avanzamento di rivelazione e di trasformazione, rimodellando il presente e suscitando futuro,
facendo di noi “nuove creature”.
È ovvio che questa visione può integrare i dati teologici fondamentali: da una parte, rimanda alla
parola rivelata nei libri e nelle tradizioni sacre come mediazione necessaria (fides ex auditu); e,
dall’altra, libera dalla schiavitù della lettera (littera enim occidit), poiché permette all'uditore di
verificare da se stesso ciò che è annunciato. Vale a dire, lo mette nella condizione di “darlo alla
luce” da se stesso, nel momento in cui lo riconosce come interpretazione autentica della presenza
divina nella sua vita individuale e nella sua realtà storica (per questo la parola interpella sempre
personalmente). In questo modo, la lettura della Bibbia non deve più rassegnarsi all'accettazione
passiva, letteralista ed estrinseca, di ciò che ha detto il rivelatore; ora può anche chiedersi come al
rivelatore è stato rivelato, perché solo così può veramente appropriarsi del significato vivo della
rivelazione.53

52
Si capisce subito che qui non si possono fondare tutte le affermazioni, del resto chiare di per se stesse: cf. la densa
esposizione di W. Pannenberg, Theologie und Philosophie cit. [tr. it., Teologia e filosofia, cit.] e la mia opera La
constitución moderna de la razón religiosa, cit., pp. 231-274.
53
Il racconto del sacrificio d’Isacco, splendido se letto correttamente, costituisce un tipico esempio, con conseguenze
che possono essere terribili, se viene preso alla lettera. A questa preoccupazione risponde il titolo del mio libro Del
Terror de Isaac al Abbá de Jesús. Hacia una nueva imagen de Dios, Verbo Divino, Estella 2000 e lì, in modo esplicito,
il cap. 2: «Dios y la historia bíblica: del “Terror de Isaac” al “Abbá” de Jesús» (pp. 63-96).

24
Juan Luis Segundo ha contrassegnato questo processo come un «imparare a imparare»,54 e lui
stesso segnala la totale coincidenza55 di questo concetto con quello di maieutica storica. E,
soprattutto, che esso si allaccia a un’esigenza irrinunciabile, messa in rilievo dalla fenomenologia
per ogni pensiero attuale: quella di “ridurre” il dato alla sua “esperienza originaria”, per ripetere da
se stessi la sua “costituzione”.56
Può sembrare una sottigliezza, ma risulta di vitale importanza per un’esperienza attuale della
fede. In realtà, la percezione che le cose stiano così è già ben presente alla nostra “età ermeneutica”,
dal momento che essa sa che solo appropriandosi – vale a dire, facendo proprio – di ciò che è detto
nel testo, risulta possibile la comprensione. Kierkegaard l'aveva espresso a suo modo, proclamando
la necessità della “ripetizione”, a sua volta affermata dalla teologia dell’”immanenza” (Blondel
parla perfino della necessaria coincidenza tra il fait extérieur della parola rivelata e il fait intérieur
della propria soggettività).57 La cristologia attuale non dice altra cosa, quando insiste sulla necessità
di «rifare il cammino di fede degli apostoli» per potere, in verità, riconoscere Gesù come il Cristo;58
e Gesù stesso c'invita a dire con lui e come lui: “Abbà”.
Percepire tutto ciò non significa ancora svilupparlo in piena conseguenza. Sono convinto che qui
– in una lettura non fondamentalista, ma davvero attualizzante e “maieutica” della Scrittura –
risiede propriamente la sfida più importante che dal punto di vista epistemologico deve affrontare la
teologia attuale.59

5. La costruzione di un nuovo paradigma

Il compito è immenso, poiché non per nulla si tratta di una ristrutturazione d’insieme che deve
estendersi a tutti gli ambiti. Tocca sia le questioni formali e di metodo sia quelle attinenti
l’esperienza e il contenuto. Possiamo qui farne solo una brevissima elencazione.

5.1. Tra paradigmi: una situazione di passaggio

Lo abbiamo già ripetutamente accennato, ma ora è bene che lo riprendiamo in maniera tematica:
la situazione di passaggio costituisce in se stessa un motivo fondamentale di riflessione. In varie
dimensioni.
La prima, riguarda il richiamo a non giudicare un paradigma a partire dall’altro, perché allora si
produce un’inevitabile perversione del significato. L’ho appena ricordato a proposito della
rivelazione: dal punto di vista del paradigma interventista (e il precedente lo è), affermare che tutte
le religioni sono rivelate o che, in definitiva, lo è anche ogni autentica conoscenza religiosa, risulta
per forza assolutamente inaccettabile (i cardinali romani, infatti, da una lettura letteralista del libro
di Giosuè, erano obbligati a condannare Galileo quando affermava che la terra ruotava attorno al

54
J. L. Segundo, El dogma que libera. Fe, revelación y magisterio dogmático, Santander 1989, pp. 134, 176, 210, 242,
347, 373, 375.
55
Ibidem, pp. 262, nota 12, e 344, nota 17.
56
Cf. maggiori dati e suggerimenti in La constitución moderna de la razón religiosa, cit., pp. 107-111. Di questo
problema si è occupato con particolare intensità H. Duméry: cf. soprattutto Critique et Religion. Problèmes de méthode
en philosophie de la religion, Paris 1957; sul suo pensiero, cf. H. van Luijk, Philosophie du fait chrétien. L'analyse
critique du Christianisme de Henry Duméry, Paris-Bruges 1964; J. Martín Velasco, Hacia una filosofía de la religión
cristiana. La obra de H. Duméry, Madrid 1970.
57
Queste idee appaiono soprattutto in «Annales de Philosophie Chrétienne», 1905-1907, sotto lo pseudonimo di Mallet.
Cf. R. Aubert, Le problème de l'acte de foi, Louvain 1964, pp. 277-294.
58
Schillebeeckx ha insistito sempre su questo punto, perfino nei riguardi della risurrezione: cf. E. Schillebeeckx, Gesù,
la storia di un vivente (or. olandese 1974), tr. it. Queriniana, Brescia 19803, p. 421.
59
Cf. l’esposizione di S. Freyne, Bibbia e teologia. Una tensione non risolta, in «Concilium», n. 1/1999, pp. 35-43.

25
sole). Lo stesso si dica di affermazioni quali «non è possibile» che Dio possa eliminare il male del
mondo, o del riconoscimento dell’incongruenza della preghiera cristiana di petizione. È ovvio che
tali questioni possono e devono essere discusse, ma devono esserlo nel loro genuino significato: dal
quadro di riferimento in cui si collocano; e, ovviamente, si può anche mettere in discussione questo
quadro. Quello che non si può fare è dare per sottinteso il quadro precedente, identificando con esso
ogni retta interpretazione della fede (che corre allora il rischio di farsi solidale col suo
anacronismo), e da esso giudicare le nuove proposte.
La seconda dimensione comporta il richiamo a non mescolare elementi di paradigmi diversi.
Cosa che esige una revisione profonda dell'eredità teologica. Troppe volte questa arriva alla nostra
epoca come un accumulo fattuale* di elementi creati da paradigmi diversi. Si pensi, per esempio, al
tema delicato del peccato originale. Una volta riconosciuto il carattere mitico-simbolico del
racconto della Genesi, non ha senso cercare un'azione storica come causa della situazione attuale,
attribuendole, per esempio, l’ingresso delle malattie o del male nel mondo.60
La terza dimensione, strettamente unita alla precedente, implica il richiamo alla coerenza del
discorso. Data la complessità e la grandezza della trasformazione, si produce ordinariamente
un’«assimilazione asimmetrica» dei nuovi dati. Spesso si accettano elementi del nuovo paradigma,
ma poi si negano le conseguenze. Un teologo può, per esempio, affermare che nel Nuovo
Testamento non si possono più criticamente ammettere miracoli diversi dai fenomeni di guarigione
o di «espulsione di demoni»,61 e nel capitolo seguente dedicarsi a discutere con tutta serietà – e
perfino a optare per la risposta affermativa – se la risurrezione di Lazzaro sia stata o meno un
avvenimento empirico. Come pure si può spiegare che concepire l'azione divina in base al modello
d’interventi puntuali nel funzionamento della realtà fisica equivarrebbe a negare la sua
trascendenza, trasformando idolatricamente Dio in un elemento in più – per quanto grande ed
eccelso si voglia – del funzionamento della realtà mondana, e subito dopo cercare di giustificare una
“rogazione” per chiedere la pioggia, una processione contro i terremoti o una novena per guarire
una malattia. (E tenga conto il lettore che forse anche a lui il caso della malattia non gli sembrerà
così ingiustificato come quello della pioggia o del terremoto, benché in entrambi i casi esista una
completa identità strutturale).62
La quarta dimensione implica cautela contro modificazioni in apparenza innovative e aperte, ma
che in fondo possono essere una claudicazione intellettuale invece di un vero ripensamento
all’interno del nuovo paradigma. In concreto, ci sono due tipi di risposta al problema del male, che
rendono ciò particolarmente percepibile. La prima è la teoria dello zimzum, sostenuta soprattutto da
Hans Jonas63 e in qualche modo resa popolare da J. Moltmann,64 il cui senso è che Dio limiterebbe
se stesso per far posto alla creatura. Una teoria che sembra bella e perfino accattivante nel suo
intento, ma che, in definitiva, è un aggiustamento superficiale, che né favorisce la creatura, poiché

*
«Fattuale», pertinente ai fatti, in opposizione a «teorico» [n.d.t.].
60
Scritto questo, mi sono rallegrato di trovare un’espressione quasi letterale della stessa idea in Freyne, Bibbia e
teologia cit., p 37: «Nel trattare le origini della razza umana, ad esempio, viene riconosciuta la natura
simbolica/allegorica dei racconti della Genesi, ma nello stesso tempo si afferma che il racconto della caduta di Gn 3
“espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all’inizio della storia dell’uomo” (Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 390, corsivo nell’originale). È come se più di un secolo di dibattito attorno alla natura mitologica di
questi capitoli non avesse mai avuto luogo». In nota rimanda a Gabriel Daly, OSA, Creation and Original Sin, in
(Walsh, ed.) Commentary [on the Cathechism of the Catholic Church], London 1994, pp. 82-111, specialmente le pp.
92-96. Analizza anche altri esempi.
61
Cf. il capitolo citato di W. Kasper.
62
Jossua l’ha espresso molto bene: «Adesso non si pregherà per la pioggia, ma per la pace» (J.-P. Jossua, Cuestión de
fe, Santander 1990, p. 116).
63
H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme, Frankfurt a. M. 1987 [tr. it. Il concetto di Dio
dopo Auschwitz. Una voce ebraica, il melangolo, Genova 1997]; cf. Th. Schieder, Weltabenteuer Gottes. Die
Gottesfrage bei Hans Jonas, Paderborn 1998, pp. 169 e 158-178.
64
Cf., ad esempio, J. Moltmann, Gott in der Schöpfung, München 1985, pp. 98-105 [tr. it., Dio nella creazione,
Queriniana, Brescia 19922, pp. 109-117], che rimanda, «prolungandola» (ed. it p. 109, nota 23), alla sua opera
precedente sulla Trinità.

26
un Dio limitato non potrebbe salvarla dal male65, né rispetta l'essere di Dio, che risulta così
contraddittorio.
La cosa è ancora più chiara nella seconda teoria: mi riferisco al fenomeno che, basato su storie
commoventi – ma non necessariamente ben focalizzate – finisce per rendere l'uomo migliore di Dio,
che viene «salvato» e anche «amato a dispetto di Lui stesso».66 Riconoscendo quanto di eroico e
perfino di ammirevole ci possa essere in questi atteggiamenti e anche concedendo a essi una certa
legittimità come linguaggio emotivo, ritengo che non possano essere una buona strada per la
riflessione teologica seria, che per questa via finirebbe perdendosi nella superficialità e nella
contraddizione.
Infine, con la quinta dimensione, si richiede il recupero critico del molto che è rimasto
impensato, irrisolto o soffocato nella tradizione. Come messo in luce dalle riflessioni heideggeriane
al riguardo, si tratta di un problema che – benché difficile – è ben conosciuto dal pensiero
filosofico. Esso vale sul versante teorico, come mostrano le innovative riprese di Heidegger del
pensiero presocratici. Vale, perfino con maggiore rilievo, sul versante pratico, come – soprattutto a
partire dalle vittime della storia – ha messo in chiaro la discussione attuale circa la “ragione
anamnetica”.67 Nella teologia il problema acquisisce una particolare virulenza a causa della difficile
storia dei suoi rapporti con la Modernità; una storia che ha visto molti e molto importanti valori
evangelici rimasti sepolti sotto la monotonia della ripetizione teorica o dell'immobilità istituzionale.
Basti pensare ai numerosi conflitti con la cultura secolare e alle gravi crisi interne che in alcuni casi,
come nel Modernismo, hanno toccato le fondamenta stesse della fede e della teologia.
L'eliminazione della crisi per via autoritaria ha lasciato senza soluzione molti problemi di fondo e
ha impedito di approfittare di molte intuizioni tanto valide quanto urgenti.

5.2. Costruzione “dal basso”: dalla realtà alla luce della rivelazione

65
Karl Rahner l’ha espresso in maniera quasi brutale – primitiva, dice lui – affermando che Dio non potrebbe liberarci
dalla spazzatura se anche Lui fosse immerso in essa. Si veda il durissimo testo tedesco: «Um – einmal primitiv gesagt –
aus meinem Dreck und Schlamassel und meiner Verzweiflung herauszukommen, nützt es mir doch nichts, wenn es Gott
– um es einmal grob zu sagen – genauso dreckig geht» (P. Imhof - H. Biallowons, K. Rahner im Gespräch I: 1964-
1977, München 1982, p. 246). Cf. maggiori dati in J. Splett, Denken vor Gott. Philosophie als Wahrheits-Liebe,
Frankfurt a. M. 1996, pp. 297-299, e le mie considerazioni in Replanteamiento actual de la teodicea: Secularización del
mal, «Ponerología», «Pisteodicea», in M. Fraijó - J. Masiá (edd.), Cristianismo e Ilustración, Madrid 1995, pp. 241-
292; Mal y omnipotencia: del fantasma abstracto al compromiso del amor, in «Razón y Fe», 236 (1997), pp. 399-421;
Repensar el mal, cit., pp. 178-183.
66
Mi riferisco a storie che quasi sono divenute una moda. Ne cito due: 1) Quella del rabbino Yossel Rakover, che
dando sempre per scontato che gli orrori del ghetto di Varsavia potevano essere evitati da Dio, termina dicendo che
«s’inchina dinanzi alla sua grandezza e lo ama sempre, anche se fosse a dispetto di Lui» (citata, fra gli altri, da J.-P.
Jossua, ¿Repensar a Dios después de Auschwitz?, in «Razón y Fe», n. 233 (1996), pp. 65-73; il lavoro era stato
pubblicato nel numero di gennaio 1996 dalla rivista «Études»; cf. le mie osservazioni in Mal y omnipotencia, art. cit. p.
2 [in it. cf. Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997]). Quella del rabbino che, fuggendo
dall’inquisizione e vedendo accumularsi le disgrazie finisce con l’esclamare: «Puoi colpirmi e togliermi il meglio e ciò
che di più prezioso posseggo al mondo; puoi torturarmi fino alla morte, ma io crederò sempre in te. Ti amerò sempre, a
dispetto di te stesso» (cit. da R. Baumann - H. Haug [edd.], Thema Gott. Frage von gestern und morgen, Evangelisches
und katolisches Bibelwerk, Stuttgart, 1970, pp. 133s; prendo la citazione da M. Fraijó, in M. Álvarez [ed.], Lenguajes
sobre Dios, Salamanca 1998, pp. 58-59). Un caso diverso è quello della giovane ebrea olandese Etty Hillesum, sebbene
possa conservare alcune ambiguità nell’espressione, come quando dinanzi alla tragedia conclude: «e se Dio non mi
aiuta più, allora sono io che devo aiutare Dio» (corsivo mio; lo riporta H. Jonas; cf. il testo più ampio in Th. Schieder,
cit., p. 249) [in italiano cf. l’eccellente esposizione di P. Lebeau, Etty Hillesum. Un itinerario spirituale. Amsterdam
1941-Auschwitz 1943, Paoline, Milano 2000].
67
Cf. la discussione esemplare di R. Mate, Memoria de Occidente. Actualidad de pensadores judíos olvidados,
Barcelona 1997. [Con «ragione anamnetica», s’intende la ragione che non prescinde dal passato, soprattutto dal passato
sofferente. Cfr. infra, cap. 3, nota 13 (n.d.t.)].

27
La rottura del dualismo sacro-profano legittima e accentua quella che oggi può essere
considerata una tendenza generale della teologia: il suo procedere dal basso, vale a dire, vedendo la
fede come risposta a partire dalla realtà alla luce della rivelazione. Con questo restano indicati i due
poli che determinano il suo stile.
A partire dalla realtà, in quanto la realtà stessa, sostenuta e illuminata dalla presenza creatrice,
ne rappresenta la manifestazione. La continuità creazione-salvezza permette di vedere il ruolo
positivo e rivelativo della cultura nella sua essenza più genuina: come “coltivazione” e
prolungamento della presenza divina. Come non si parla più di una fuga mundi, non si deve neanche
parlare di una fuga culturae. Le idee di “cristianesimo anonimo” o di “chiesa latente” (prese nel
loro senso fondamentale, senza la necessità di attribuirle ad uno specifico sistema teologico)
mostrano, in contrapposizione all'extra ecclesiam nulla salus, questo nuovo clima, che di certo si
allaccia al primigenio «venite, benedetti, perché ebbi fame...». Edward Schillebeeckx ha espresso
molto bene il cambiamento, dando ad uno slogan classico una svolta profondamente significativa:
«al di fuori del mondo non c'è salvezza».68
In connessione con queste idee, bisogna vedere il processo culturale come ciò che rende
possibile elaborare con maggiore ricchezza e precisione quello che potremmo chiamare il
“significante teologico”. Una migliore comprensione dei processi mondani, sociali e antropologici
favorisce, infatti, una più giusta e adeguata elaborazione delle categorie teologiche. Grandi tratti
della teologia attuale risulterebbero de tutto incomprensibili senza l'influsso di alcuni progressi
culturali.
Questo non equivale a una visione ingenuamente ottimista del processo culturale: tutto l’umano
– anche la religione – è sempre ambiguo. Solo però una visione semplicistica o demonizzatrice della
cultura può ignorare la sua capacità autocritica. Ciò che s’impone allora è un'alleanza critica con
quella parte della cultura che cerca il veramente umano (e, per ciò stesso, divino). Da qualche parte
ho parlato della necessità di stabilire una «dialettica del meglio con il meglio», invece di quella che
tante volte si è realizzata con l’unire «il peggio al peggio».69 Per vederlo in maniera intuitiva, basti
pensare ai rapporti della Chiesa con il problema sociale; a come per un verso essa si oppose al
progresso sociale e per altro verso al suo interno si elaborarono le diverse teologie della liberazione;
o, se preferiamo, basti guardare alla contrapposizione tra il Syllabus e la Gaudium et Spes. In realtà,
la storia recente mostra chiaramente quanto bene può venire all'umanità e, all’interno di essa alla
Chiesa, quando a guadagnare è la prima dialettica: si pensi alla tolleranza, alla libertà religiosa, alla
democrazia, alla giustizia sociale...
La Chiesa non rinuncia così alla propria identità, ma riconosce che non le compete il monopolio
di tutto, bensì, più semplicemente e modestamente, dare il suo contributo specifico. Essa non cessa
di essere «maestra di umanità» (Paolo VI), ma solo nel suo campo e riconoscendo che anche altri lo
sono nel loro. Nel nostro mondo irreversibilmente plurale, se la Chiesa vuole davvero
evangelizzare, deve, a sua volta, lasciarsi “evangelizzare” da quei valori che, insiti nella creazione,
sono oggi scoperti con altri mezzi: maestra in quanto anche discepola. A questo alludono la
categoria teologica di “profezia esterna” e il richiamo conciliare a scrutare i “segni dei tempi”.
Rimane, però, ugualmente l'altro polo: la teologia procede alla luce della rivelazione. Un certo
sfasamento culturale delle Chiese e un eccessivo accento sul dualismo sopranaturalista hanno
oscurato per molti l'enorme apporto delle tradizioni religiose. Giunge l'ora di recuperare queste
ricchezze mostrandole nel loro autentico carattere di “aiuto maieutico” che, lungi dall’alienare
l'umanità dalle sue giuste aspirazioni, l'aiuta a scoprirle nelle loro dimensioni ultime, là dove
velatamente si apre a tutti – almeno come possibilità – l'aspirazione alla Trascendenza. La religione,
nonostante i suoi errori, è ordinariamente più attenta all'esperienza viva e concreta, meno proclive

68
E. Schillebeeckx, Umanità, la storia di Dio, tr. it. Queriniana, Brescia 1992, pp. 19-31. La frase había sido ya
adelantada por H. Zahrnt, A vueltas con Dios. La teología protestante en el siglo XX, Zaragoza 1972, 146 [para los
traductores: Die Sache mit Gott, München 1966, 162]
69
Creo en Dios Padre, cit., pp. 56-58 [tr. it. Credo in Dio Padre, cit., pp. 60-62]

28
all'astrazione delle mode ideologiche. Può tendere al conservatorismo, ma è sempre garanzia di
continuità in ciò che è più decisivamente umano.
D'altra parte, tutti andiamo comprendendo l’impraticabilità di ogni rigido particolarismo. Ciò che
si deve far fruttificare è l'intera esperienza religiosa dell'umanità, a partire dalle diverse culture.
L'ecumenismo cristiano è in evidenza crescente, e deve estendersi sempre di più a tutte le religioni.
La teologia è diventata molto sensibile al primo aspetto e la filosofia della religione rende oggi
inevitabile il secondo.
Procedendo così, la religione sta dando un impagabile contributo alla cultura. Un'opera come
quella di Paul Tillich ha dimostrato quanto a fondo può arrivare questo influsso, almeno quando si
sa guardare oltre le mode del momento o le evidenze mediatiche. Superate le posizioni
assolutizzanti del primo urto con le nuove culture, siamo ogni volta in condizioni migliori per
stabilire una mutua dialettica di arricchimento e correzione. Se è vero che la Chiesa può essere
maestra solo in quanto anche discepola, è altrettanto vero che ha il diritto di essere discepola in
quanto anche maestra.

5.3. Ripensare la teologia: “verifica verticale” di fronte a “teologie belle”

Naturalmente, il compito appare tanto ovvio nella sua necessità quanto enorme nella sua
realizzazione. È certo – lo ripetiamo per concludere – che non servono rammendi parziali o
aggiustamenti momentanei. S’impone una rilettura globale della Bibbia e della Tradizione, proprio
per recuperare oggi l'enorme ricchezza della sua esperienza e della sua capacità di evocazione
maieutica. Niente si opporrebbe di più al recupero di questo spirito che la fedeltà alla lettera di un
mondo che non può più essere il nostro.
In questo senso, uno dei grandi pericoli che minacciano il pensiero teologico attuale è quello di
costruire “belle teologie”. Vale a dire, teologie che invece di ripensare tutto nei quadri di
riferimento che costituiscono attualmente la condizione di possibilità di ogni effettiva
significatività, si limitano ad aggiornare e a rinnovare il vocabolario o a cambiare il nome degli
adversarii, lasciando però intatti gli schemi di fondo. Alcune serie di nuovi manuali teologici non
sempre sfuggono a questo pericolo. Visti nella loro struttura determinante, non differiscono di
molto dai manuali preconciliari (che, in definitiva, rimandavano alla scolastica medievale).
La rivoluzione esegetica e il rinnovamento patristico hanno aperto grandi possibilità per la
rottura di questi schemi. Possono però trasformarsi in una trappola mortale quando la novità delle
loro formulazioni rispetto a quelle scolastiche diventa una scusa per non aggiornare i concetti e per
impedire che l'insieme della teologia si riformuli a partire dalle esigenze del nuovo paradigma. In
fondo (e temo che il Catechismo della Chiesa Cattolica non sia sempre riuscito a evitare questo
scoglio), finirebbero per sostituire schemi medievali con altri più antichi. Ne avevano compreso
meglio il significato i promotori della Nouvelle Théologie, quando cercarono di approfittare di
questi studi per liberare le “affermazioni” della fede dai “concetti” in cui erano riversate, in vista di
un rinnovamento globale. Come lo avevano compreso già prima, in maniera forse estrema, il
Protestantesimo liberale e il Modernismo cattolico e, con maggiore equilibrio, Newman e la Scuola
di Tubinga, Blondel e Amor Ruibal.70 Di quest’ultimo è un testo che meriterebbe di essere scolpito
sulla facciata di tutte le facoltà teologiche di oggi.

70
Sulla Nouvelle Théologie sono rappresentative le opere, allora proibite, di H. Bouillard, Conversion et grâce chez
saint Thomas d'Aquin, Paris 1944, principalmente la conclusione, pp. 219-220, e M. D.Chenu, Une école de théologie:
Le Saulchoir, Le Saulchoir-Etiolles 1937 (ried., Paris 1985); cf. Th. Tshibangu, Théologie positive et théologie
spéculative. Position traditionnelle et nouvelle problèmatique, Louvain-Paris 1965, pp. 267-301; E. Vilanova, Història
de la teologia cristiana III, Barcelona 1989, pp. 626-632. Sul problema generale qui enunciato (anche per ciò che
segue), cf. la mia opera Constitución y Evolución del Dogma. La teoría de Amor Ruibal y su aportación, Madrid 1977,
pp. 280-295.

29
Non reca disonore agli antichi maestri e al loro grande, per quanto allora possibile, lavoro, non solo che non si debba
ritornare al sincretismo incoerente e artificioso rispetto alle idee filosofiche incontrate, che già abbiamo ripetutamente
osservato, con la non meno artificiosa imprescindibile alternativa di Platone e Aristotele, ma che diventi necessaria una
trasformazione profonda nella teoria dell'essere e del conoscere, cominciando da quest’ultima; poiché la teoria
gnoseologica costituisce l'asse centrale di tutta l'elaborazione logica e ontologica umana e, per questo, la base del
sistema scientifico della teologia, che su concetti umani si regge e viene elaborato.71

Tutto considerato, l'unica vera soluzione passa dal riconoscere che è necessario ritradurre
l'insieme della teologia nel nuovo mondo creato dalla rottura della Modernità. Questa era già stata
l'intenzione di Kant, dei romantici e dei grandi idealisti. Cosa che le usuali denigrazioni tendono a
ignorare, accecate probabilmente dalle esagerazioni iniziali e dalla naturale insufficienza di molte
soluzioni.72 Gli errori particolari o perfino certi riduzionismi globali devono renderci cauti rispetto
alle soluzioni, ma non dovrebbero eclissare la legittimità dell’impostazione, poiché unicamente da
essa è oggi possibile affrontare il vero compito della teologia: mantenere viva e operante
l'esperienza della rivelazione.
Non c'è dubbio che le difficoltà sono grandi, dovuto al cambiamento enorme e rivoluzionario
prodottosi nella cultura. Ma forse è proprio la radicalità del cambiamento ad aprire un’autentica
possibilità di soluzione. Quando i tempi sono “pacifici”, perché la teologia, come ai tempi di
Agostino o di Tommaso, ha raggiunto una sintesi globale relativamente unitaria, ciò che basta e
s’impone è la continuità “orizzontale”, lo sviluppo deduttivo a partire dal dato. Ma quando si è
prodotta una rottura, è necessario “ritornare alle fonti” – di ressourcement si parlò molto verso la
metà del ventesimo secolo – dal momento che la crisi nasce giustamente perché gli stampi culturali
si sono rotti, diventando opachi nei confronti dell'esperienza originaria. Non si tratta d’ignorare la
tradizione – chi può fare teologia misconoscendola? – ma di vederla come una “configurazione”
dell'esperienza fondante nel quadro del proprio tempo, legittima e necessaria allora, ma passata per
noi. Per questo ormai non basta il prolungamento orizzontale della tradizione. Approfittando delle
ricchezze da essa scoperte e perfino prendendola come modello, adesso abbiamo bisogno di una
“verifica verticale”; vale a dire, abbiamo bisogno di cercare il contatto con l'esperienza fondante,
per calarla negli stampi culturali del nostro tempo; come hanno fatto i nostri antenati nel loro.73
Nonostante le apparenze, non si tratta di un espediente cervellotico o di una soluzione disperata.
Sta succedendo sotto i nostri occhi. Da una parte, come acutamente osserva Christian Duquoc, la
perdita di significato delle espressioni culturali della fede costituisce un'opportunità per spezzare
l'identificazione dell'esperienza cristiana con la cultura passata, allo scopo di aggiornarla in risposta
agli «interrogativi esistenziali per i quali non c'è risposta prefabbricata».74 Dall’altra, questo
corrisponde alla nuova visione della rivelazione come “maieutica”, dal momento che il compito
fondamentale della Bibbia – aiutata dalla tradizione – consiste precisamente nell’aiutarci a “dare
alla luce” una comprensione della realtà umana che qui e adesso viene sostenuta, vivificata e
gratificata dalla presenza di Dio nella nostra storia. E di sicuro non è casuale che oggi, perlomeno
quando si supera un mero fondamentalismo letteralista, ci risulti molto più facile essere in sintonia
con l'espressione della fede come si presenta nella Bibbia che con i concetti e le formulazioni della
teologia classica.

71
A. M. J. Amor Ruibal, Los problemas fundamentales de la filosofía y el dogma, t. VI, Santiago 1921, pp. 636-637 (si
noti la data!).
72
Come tante volte, ha visto meglio la cosa Nietzsche che ha parlato di «sangue teologico» nella filosofía, e l’ha ben
analizzata parecchi anni fa D. Marsch, Das Problem der Religion in der Philosophie des neuzeitlichen Christentums, in
Plädoyers in Sachen Religion, Gütersloh 1973, che distingue tra «realizzazioni» (Vervollkommnungen) e «demolizioni»
(Bestreitungen) della religione cristiana, citando Kant, Hegel e Schleiermacher fra i primi e Feuerbach, Marx e
Nietzsche fra i secondi. Cf., più in dettaglio e con maggiori riferimenti, il mio Repensar la revelación, cit., pp. 198-
115.; tr. it. La rivelazione cit., pp. 82-110.
73
Di questo mi sono ampiamente occupato in Constitución y Evolución del Dogma, cit., pp. 392-430.
74
Ch. Duquoc, Fede cristiana e amnesia culturale, in «Concilium», n. 1/1999, pp. 155-162.

30
6. Prospettiva: “il fuoco sotto la cenere”

Il compito è complesso, ma esaltante. Risulta evidente – lo stiamo vedendo – che non si potrà
portare a termine senza tensioni e conflitti. Non è sempre facile scoprire «il fuoco evangelico sotto
le ceneri della nostra crisi religiosa», né, meno ancora, trasferirlo senza perdite affinché si accenda
davvero, illuminando e riscaldando la casa della cultura attuale. Il contrasto nelle posizioni è
naturale e inevitabile. Per definizione, l'equilibrio è molto difficile in un periodo di transizione fra
paradigmi. Il nuovo paradigma inclina verso una certa iconoclastia per affermare la sua ragione, e in
molte occasioni può risultare ingiusto con l'altro, non vedendo in esso che le ceneri e non il fuoco
sottostante della sua vera intenzione. Il vecchio paradigma non si rassegna ad abbandonare gli
antichi schemi e ricorre facilmente alla squalifica, confondendo con troppa facilità le ceneri col
fuoco, vedendo nella messa in questione della teologia una minaccia per la fede.
Più di un lettore avrà sicuramente notato che la metafora del titolo di questo paragrafo fa
riferimento all'eccellente libro di Joan Chittister, Il fuoco sotto la cenere. Benché la suora americana
si riferisca direttamente alla vita religiosa, la sua riflessione è abbastanza profonda da toccare in
pieno il problema del rinnovamento della teologia e della Chiesa in generale. Vale la pena citare un
po' più per esteso quanto dice circa l'autentica fedeltà al Vangelo:

Si descrive la fedeltà in base al nostro grado di conformità con i dogmi di una Chiesa che deve anche occuparsi di
cercare nuove risposte alle nuove domande, invece di atrofizzarsi nel passato in nome della perfezione? È fedeltà quello
che diamo quando, pretendendo di essere fedeli, ci rifiutiamo di riflettere insieme al resto del mondo sulle questioni che
determineranno il futuro della vita su questo pianeta e l'autenticità della vita in questa Chiesa: l'aborto, l'eutanasia,
l'armamentario nucleare, il papato, la collegialità, il sessismo e una scienza sfrenata, come se Gesù non avesse pensato
da una prospettiva nuova ai lebbrosi e al peccato, alle donne e alla vita, ai sacerdoti e al popolo, a Dio e ai farisei?
Proprio il contrario. Ciò cui dobbiamo essere fedeli non è una istituzione, per elevati che siano i suoi intenti. La
fedeltà, puramente e semplicemente, cerca, passo dopo passo, luogo dopo luogo e progetto dopo progetto, unicamente la
volontà di Dio e l'appassionata presenza del Vangelo in un mondo che si sente più a suo agio con i credi che con la
religione, che è più in familiarità con la Chiesa che con Cristo, più impegnato con la carità che con la giustizia, più
coinvolto nell'oppressione che nell'uguaglianza, più dedito a mantenere la fede dei nostri padri proscrivendo i pronomi
femminili dai testi sacri che non lo sia all’impulso liberatore della Buona Novella. Dobbiamo davvero analizzare
accuratamente a che cosa siamo fedeli, perché non accada che la fedeltà sia la nostra rovina.75

In effetti, quella che ci viene chiesta è una teologia che, tanto sicura dei suoi fondamenti quanto
umile rispetto alla loro traduzione storica, assuma il coraggio del trial and error, dell'osare provare
e sbagliarsi, proprio di ogni compito umano. Una teologia, pertanto, che potrà realizzarsi solamente
nel dialogo e nella pazienza storica.
Sicuramente le risulteranno molto utili, se li saprà accogliere, due tipi di mediazione. La
mediazione di coloro che potremmo chiamare gli spirituali, vale a dire persone che, senza essere
professionisti della teologia, cercano una nuova comprensione e un nuovo linguaggio per la fede.
Essi sono infatti soliti captare ed esprimere meglio i semi del futuro (il citato libro di Joan Chittister
ne è una buona dimostrazione, e personalmente ho sempre sentito, ad esempio, una forte affinità
con le idee di Évely e di Légaut76). E poi la mediazione di coloro che coltivano la fenomenologia e
la filosofia della religione. Meno prigionieri del passato e, senz’altro, attenti al positivo –
fenomenologia – o più liberi nell’elaborazione concettuale del nuovo – filosofia – aprono possibilità

75
J. Chittister, Il fuoco sotto la cenere. Spiritualità della vita religiosa qui e adesso, tr. it. San Paolo, Milano 1998, pp.
98-99 (tr. mod.). La metafora era già stata utilizzata da L. Boff, Brasas bajo las cenizas. Historias anticotidianas del
mundo y de Dios, Madrid 1997.
76
Al riguardo, è sorprendente ma significativo che un uomo come F. Varillon, chiaramente su questa nuova strada, non
abbia potuto comprendere in tutta la sua profondità evangelica l’apporto di M. Légaut. Bisognerebbe analizzare la cosa
con più calma, ma oso affermare che la ragione principale sta nel fatto di non aver rivisto a fondo la sua teologia della
rivelazione. C. F. Varillon - M. Légaut, Debat sur la foi, Paris 1972; Deux chrétiens en chemin. Nouvelle rencontre du
Père Varillon et de Marcel Légaut au Centre Kierkegaard, Paris 1978.

31
che una teologia sensibile e aperta alla “profezia esterna” può valorizzare come stimolo al
rinnovamento.
Naturalmente, una teologia di questo genere deve rinunciare alla pretesa di sapere già tutto o di
disporre di soluzioni persino per i problemi inediti. Questo però non l'annulla né deve scoraggiarla.
Annunciare il Vangelo nel nostro mondo – se è necessario, «a tempo opportuno e non opportuno»
(2Tim 4,2) – costituisce il suo compito irrinunciabile. Ma la modestia di saper tacere, dubitare e
attendere quando le questioni restano oscure e quando a loro riguardo l'intellectus fidei non ha
ancora finito il suo percorso, può anche essere un modo eccellente di rendere credibile il Vangelo.
Quando i tempi non sono maturi – lo saranno mai una buona volta? (cf. Lc 18,8: «Ma il Figlio
dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?») – la vera fedeltà non consiste nell'inerzia
della ripetizione, ma nell'audacia del cambiamento e dell'attesa. E l'autentica fecondità non è
sempre quella del frutto, ma, in determinate stagioni, può esserlo molto di più quella del seme
nell'oscurità della germinazione. Come il grano di frumento nella terra. Come il Crocifisso nella
storia.

2. IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO TEOLOGICO

0. Impostazione

Dal Cratilo di Platone e dal Peri Hermeneias di Aristotele, il problema del linguaggio ha
occupato sempre il pensiero. Negli ultimi tempi, a partire da quella che Richard Rorty battezzò
come la “svolta linguistica”, esso è passato in primo piano. È diventato per noi evidente che il
linguaggio è il mezzo nativo, la mediazione indispensabile di ogni realizzazione spirituale. La
critica del linguaggio, nelle sue molteplici dimensioni, si è trasformata in passaggio obbligato per
assicurare il significato, garantire la comunicazione e fuggire il tranello degli pseudoproblemi.
Com’è ovvio, il serpente del sospetto è entrato anche nel paradiso del linguaggio religioso. E lo
ha fatto con inusitata virulenza, sia perché la religione è consegnata in maniera molto speciale alla
parola1, sia perché l'abissale trascendenza del suo referente primario fa saltare tutte le misure del
linguaggio ordinario. Non può sorprendere che sin dall’inizio, insieme all'etica, all'estetica e alla
metafisica – e, senza dubbio, con maggiore intensità di esse – la religione sia stato bersaglio
privilegiato di forti e devastanti attacchi. Di conseguenza, il problema del linguaggio religioso è
diventato estremamente difficile e complesso. Non è possibile, per ciò stesso, affrontarlo qui in tutta
la sua estensione.
Pensando al cambiamento globale della teologia, qui interessa portare in primo piano le questioni
più gravi e fondamentali, in qualche modo previe alle discussioni di dettaglio o più agitate dal
viavai della linguistica specializzata. In definitiva, queste finiscono sempre per dipendere dalla
soluzione che si dà alle prime. Anche così, ci s’impone di delimitare con cura ciò che si vuole. In
concreto, mi occuperò di tre questioni decisive che contrassegnano le difficoltà fondamentali che
deve affrontare ogni uso responsabile del linguaggio religioso.
La prima è di carattere strutturale, poiché rimanda al radicalissimo problema dell'oggettivazione,
vale a dire alla difficoltà costitutiva d’ogni linguaggio mondano ad esprimere la Trascendenza non
mondana.
1
«Il linguaggio della fede si riferisce, dunque, come tale a una realtà che non è data in altro modo che con questo stesso
linguaggio, che non prende figura se non in esso, e che non è rivelata da esso se non in quanto è esso stesso un atto per
il quale il credente accoglie ciò stesso di cui parla la sua parola» (J. Ladrière, L’articulation du sens. I: Discours
scientifique et parole de la foi, Paris 1970, pp. 238-239).

32
La seconda è di cambiamento di paradigma, nel senso che ha la sua origine nella rivoluzione
culturale prodotta dall'avvento della Modernità.
La terza è d’indole più esperienziale, in quanto allude soprattutto alle difficoltà e resistenze cui
va incontro un'espressione adeguata del vissuto religioso.
Tre problemi che non esauriscono, sia chiaro, l'enorme problema, ma che segnalano nodi cruciali
che possono favorire una maniera critica e responsabile di affrontarlo. Per maggiore chiarezza,
inizierò ogni punto con un esempio significativo preso dalla vita reale.

1. La difficoltà strutturale2

Due o tre anni fa, a motivo di una forte siccità che distruggeva il sud della Spagna, alcuni
vescovi promossero preghiere per la pioggia. Nel notiziario televisivo appariva un'inchiesta tra la
gente sull'efficacia di esse. L'ultima risposta era positiva: «Sì che pioverà, perché la Vergine ci ha
sempre aiutato e non ci abbandonerà nemmeno questa volta». Immediatamente dopo, con assoluta
naturalezza e innocenza, l'interlocutrice continuava: «Ma no, perché l'anticiclone delle Azzorre
continua a mantenere la sua alta pressione sulla Penisola... ».

1.1. La sfida di Flew

La signora parlava con la migliore buona volontà, e i vescovi avevano agito con evidente affetto
verso i loro fedeli. Tuttavia, in maniera più o meno cosciente, ma oggi culturalmente inevitabile, per
un telespettatore normale la scena costituiva un'autentica squalifica culturale della fede, che in
questo modo prendeva l’aspetto di qualcosa d’anacronistico e di totalmente superato.
Teologicamente si capisce bene che, in un primo momento, la “rogazione” può sembrare una cosa
pia, poiché rimanda alla misericordia di un “dio” che fa piovere per aiutare coloro che glielo
chiedono. Però, in radice, annulla la trascendenza divina, perché riduce la sua azione al rango di una
causa mondana. Una causa grande ed elevata fin che si vuole, ma che, in definitiva, agisce come
una variante nella pressione atmosferica o come una nuvola provocata artificialmente per mezzo di
un aeroplano. Senza volerlo, a causa di un cattivo uso linguistico, si trasforma Dio in un idolo, in un
non-dio.3
Questo poteva passare inosservato alla mentalità premoderna, che non aveva preso
esplicitamente coscienza dell'autonomia delle leggi che regolano il funzionamento del mondo, e per
la quale, di conseguenza, si poteva affermare con tutta naturalezza che Dio dal cielo “faceva
piovere”, che gli astri erano mossi da angeli e la peste causata da demoni (quando non obbediva a
una punizione divina). Oggi lo scontro risulta inevitabile. O si concepisce in maniera diversa
l'azione divina o la sua immagine va in frantumi sotto i colpi del piccone positivista.
L’enorme risonanza e gli effetti devastanti della “parabola del giardiniere invisibile”, proposta da
Anthony Flew, hanno giustamente la loro spiegazione nel mancato chiarimento di questo problema
basilare. Se si parte dall'azione di Dio come avente carattere ed effetti empirici, l'obiezione di Flew
è insuperabile: o si lascia verificare per loro tramite o è necessario confessare la sua inesistenza.
Come Flew dice del giardiniere, che non si lascia vedere dagli uomini né annusare dai cani né

2
Questo paragrafo sintetizza ciò che ho sviluppato più ampiamente in El problema de Dios en la modernidad, Estella
1998, pp. 233-260: «Da Flew a Kant: l’oggettivazione del divino».
3
Come già detto, sottolinea questo aspetto, a proposito dei miracoli, un autore molto ponderato come W. Kasper, Gesù
il Cristo, tr. it. Queriniana, Brescia 19968, pp. 120-126.

33
toccare da una scarica elettrica, così un dio «invisibile, intangibile, eternamente elusivo», non si
distingue in nulla da un dio «immaginario o perfino da nessuno [dio] in assoluto».4
Solo un linguaggio che rispetti con vigile attenzione la trascendenza divina può evitare il morso
di questa terribile obiezione. Le toppe, i rammendi e le scuse non fanno che rafforzarla. Flew lo sa,
e non smette d’insistere su ciò, ricorrendo all'esempio dell'amore divino. Dio – dicono i cristiani –
ama gli uomini come un padre i suoi figli; ma, se vediamo un bambino che muore di cancro,
osserviamo che il padre terreno si prodiga per lui, mentre non percepiamo niente da parte di quello
celeste. Le risposte dei credenti – «non è un amore come quello umano, è imperscrutabile... » –
conducono allo stesso risultato di prima: che cosa apporta questo amore inverificabile e in che cosa
differisce dal non-amore?5 E John Macquarrie gli dà ragione, dal punto di vista di una teologia
sensibile ai problemi del linguaggio. Ricorre anche lui a una specie di parabola che vale la pena di
riportare.

Un uomo attraversa la strada e un autobus lo sta per investire. Allora dice: «Dio mi ama, perché l'autobus non mi ha
investito». In un'altra occasione l'autobus lo urta e lo mutila. Questa volta dice: «Dio mi ama, perché l'autobus non mi
ha ammazzato». Finalmente l'autobus lo ammazza. Ma ora dicono i suoi amici: «Dio lo ama, poiché lo ha chiamato da
questo mondo infelice e peccatore».6

Chiunque conosca gli ambienti religiosi sa che spesso questo non è una caricatura. E non vale
solo per il linguaggio spontaneo, ma anche per gran parte di quello liturgico e per la riflessione
teologica stessa. Come diceva Wittgenstein, il linguaggio implica sempre molto più di quello che
dice espressamente: «C'è in ogni proposizione una quantità di cose che, senza essere dette, sono
aggiunte dal pensiero».7 Ogni volta che, per esempio, parliamo di Dio come se interferisse nella
causalità empirica, allo scopo di guarire una malattia o di far superare un esame, per quanto buona
sia la nostra intenzione soggettiva lo stiamo riducendo alla categoria di essere mondano. Tutto il

4
Si veda il testo completo: «C’erano una volta due esploratori che si trovarono in una radura nella giungla. Nella radura
crescevano molti fiori e molte erbacce. Un esploratore dice: “Ci dev’essere qualche giardiniere che bada a questo
terreno”. L'altro non è d’accordo: “Non c'è nessun giardiniere”. Cosicché montano le loro tende e fanno la guardia. Non
si vede mai nessun giardiniere. “Forse è un giardiniere invisibile”. Sicché erigono una barriera di filo spinato. La
elettrificano. Pattugliano con segugi (perché ricordano che l’”uomo invisibile” di H. G. Welles poteva essere annusato e
toccato, benché non potesse essere visto). Ma nessun grido suggerisce che qualche intruso abbia ricevuto una scarica.
Nessun movimento del filo denuncia mai un arrampicatore invisibile. I segugi non abbaiano mai. Tuttavia, il credente
non è ancora convinto. “C'è però un giardiniere, invisibile, intangibile, insensibile alle scariche elettriche; un giardiniere
che non ha odore e non fa rumore; un giardiniere che viene segretamente a curare il suo amato giardino”. Alla fine, lo
scettico si dispera: “Ma che cosa rimane della tua asserzione originale? Quello che tu chiami un giardiniere invisibile,
intangibile, eternamente elusivo, in che diavolo differisce da un giardiniere immaginario o perfino da nessun giardiniere
in assoluto?”» (Theology and Falsification, in A. Flew - A. McIntyre (edd.), New Essays in Philosophical Theology,
London 1955, p. 96 [tr. it. Teologia e falsificazione, in A. Flew - A. McIntyre (edd.), Nuovi saggi di teologia filosofica,
EDB, Bologna 1974, pp. 131ss.] Quasi tutta la parabola si può vedere anche in D. Antiseri, Filosofia analitica e
semantica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia 19914, pp 64-65, da cui prendiamo la citazione con alcune
modifiche. [Per un aggiornamento dei dati, è il caso di segnalare una svolta nel pensiero di Flew espressa nel libro,
scritto con Roy Abraham Varghese: Dio esiste. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, tr. it.
Alfa&Omega, Caltanissetta 2010 (n.d.t.)].
5
Si veda il testo: «Allora s’introduce qualche specificazione - l'amore di Dio “non è un semplice amore umano” o è
magari “un amore imperscrutabile” - e così pensiamo che tali sofferenze siano compatibili con la verità dell'asserzione
che Dio ci ama come un padre (però, sicuramente...!). Ci sentiamo di nuovo tranquillizzati. Forse, però, dopo ci
domandiamo: che valore ha questa sicurezza dell'amore di Dio (debitamente qualificato), contro che cosa è in realtà
garanzia questa apparente garanzia? Infine, cosa dovrebbe succedere, non per poter essere semplicemente tentati
(moralmente ed erroneamente), ma anche per sentirci in diritto (logicamente e correttamente) di dire: “Dio non ci ama”
o addirittura “Dio non esiste”?» (Theology and Falsification, cit., pp. 98-99; E. Romerales, Creencia y racionalidad,
cit., pp. 50-51; seguo la mia traduzione di questo passaggio per nulla facile).
6
God-talk. El análisis del lenguaje y la lógica de la teología, Salamanca 1976, p. 132. (a quale opera si riferisce? Sopra
non mi pare citata!)
7
L. Wittgenstein, Notebooks 1914-1916, Oxford 1961, p. 70 [tr. it. Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-
1916, Einaudi, Torino 1979, p. ]

34
linguaggio circa i miracoli e – come vedremo – gran parte delle nostre preghiere hanno bisogno, su
questo punto, di una drastica revisione.

1.2. Il problema dell'oggettivazione del Divino

Questo problema è stato sempre presente alla teologia, che non ha mai perso la sua
preoccupazione apofatica, vale a dire la sua resistenza a parlare di Dio perché Egli non è mai ciò
che le nostre parole dicono di Lui. Su questo, nella nostra epoca, ha insistito la critica heideggeriana
della ontoteologia – come pure, a suo modo, Karl Jaspers con la teoria delle cifre – con un vigore
che non può essere dimenticato da nessuna teologia responsabile. Il che non significa in alcun modo
che il compito risulti facile. Il problema è strutturale, perché si affida alla teologia la realizzazione
di un compito che sembra impossibile: parlare dell’essenzialmente e intrinsecamente non-mondano
con il linguaggio mondano – l'unico che abbiamo –; ovvero, parlare del Trascendente con un
linguaggio modellato sulle realtà empiriche. Jaspers diceva che per questo motivo, nonostante i
nostri sforzi, il linguaggio tende sempre a cadere, «come il gatto sulle sue quattro zampe», in forme
oggettivanti.
Lo stesso Kant, così critico e attento in tali questioni, cade nel tranello quando – con tutta
solennità e niente meno che in un punto centrale della Prima Critica – parla dell’”abisso della
ragione” e presenta Dio che domanda a se stesso: «Io esisto dall’eternità e per l’eternità, al di fuori
di me non esiste nulla, se non ciò che è qualcosa solo mediante la mia volontà, ma donde sono io
sorto allora?».8 Hegel dovette ricordargli, a ragione, che la domanda risulta di un'impertinenza
assoluta. Su questo punto «Kant non riuscì ad arrivare più in là del rapporto intellettivo»,
trasformando in mondano, con la sua domanda, «l'Assolutamente-Necessario, l'Incondizionato».9
Ma è significativo che questa domanda abbia continuato ad avere successo nella tradizione
empirista, da John Stuart Mill a Bertrand Russell, che la considerava tanto evidente da non volere
neanche «perdere tempo» con essa.10
La teologia non si sforzerà mai abbastanza nel tendere ad un linguaggio non oggettivante. In
realtà, il problema è dei più ardui che si trova ad affrontare oggi. Il deismo cercò di salvaguardare la
trascendenza divina, ma finì per trasformare Dio in una realtà passiva e lontana dal mondo. Hegel

8
Si veda il testo completo: «La necessità incondizionata, che noi richiediamo così urgentemente come sostegno ultimo
di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana. Persino l’eternità […] è ben lungi dal recare all’animo una simile
impressione di vertigine. L’eternità, infatti, misura soltanto la durata delle cose, ma non le sostiene. Non ci si può
trattenere dal pensare (ma tale pensiero è altresì intollerabile): che un ente, da noi rappresentato d’altronde come il
supremo fra tutti gli enti possibili, debba dire a se stesso: io esisto dall’eternità e per l’eternità, al di fuori di me non
esiste nulla, se non ciò che è qualcosa solo mediante la mia volontà, ma donde sono io sorto allora? A questo punto
tutto sprofonda sotto di noi, e tanto la massima perfezione qianto la minima ondeggiano senza appoggio, semplicemente
di fronte alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far scomparire senza il minimo ostacolo tanto l’una quanto
l’altra» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 613, B 641, ed. Suhrkamp, di W. Weischedel, Bd. IV, Frankfurt a.M.
19762, p. 543; tr. it. Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Einaudi, Torino 1957, pp. 634-635).
9
Si veda il passo: «Qui la difficoltà è solamente nella relazione davvero dialettica prima indicata, vale a dire, che la
condizione, o qualunque altra determinazione dell'esistenza contingente (das zufällige Dasein) o del finito, consiste
precisamente in questo: nell’elevarsi all’incondizionato, all’infinito (sich selbst zum Unbedingten, Unendlichen
aufzuheben), cioè, nell’eliminare (wegzuschaffen) la condizione nel condizionato, la mediazione nel mediato. Ma Kant
non riuscì ad arrivare più in là del rapporto intellettivo (Verständnisverhältnis) fino al concetto di questa infinita
negatività. [...] Ciò che innanzitutto deve far scomparire la ragione speculativa è mettere in bocca all'Assolutamente-
Necessario, all'Incondizionato, una domanda come quella “io da dove vengo?”. Come se Colui al di fuori del quale non
esiste niente che non sia per sua volontà, Colui che è semplicemente infinito, guardasse all’intorno verso qualcosa di
diverso da sé o s’interrogasse su un al di là di se stesso» (Hegel Kants Kritik des kosmologischen Beweises, in G. W. F.
Hegel, Vorlesungen über die Beweise vom Dasein Gottes, in Werke in zwanzig Bänden, t. 17, Suhrkamp, Frankfurt a.
M. 1969, pp. 433 [tr. it. Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, Laterza, Bari 1970, p. ].
10 «Se tutto deve avere una causa, allora Dio deve avere una causa. […] Pertanto, converrà forse che non perda più
tempo con l'argomento della Prima Causa» (B. Russel, Perché non sono cristiano, tr. it. TEA, Milano 1989, pp. 6-7).

35
comprese che questo non faceva che acutizzare il terribile problema della coscienza infelice (la
quale collocando Dio fuori, lontano e al di sopra dell’uomo, ne avverte il dominio opprimente).
Però corse il rischio della totale identità, che non poteva salvaguardare la differenza divina e,
pertanto, nemmeno l’individualità umana. Nella coscienza comune s’impose tacitamente una
soluzione intermedia, consistente in una specie di “deismo interventista”: Dio che è in cielo, ma
agisce di volta in volta in risposta a bisogni specifici; quindi, dev’essere raggiunto attraverso il rito,
la memoria o l'invocazione, e mosso o convinto attraverso la petizione, l'offerta o il sacrificio.

1.3. Le vie di soluzione

È ovvio che una soluzione soddisfacente potrà venire solo da un ripensamento radicale che, a
mio avviso, dovrà poggiare su due idee già analizzate nel primo capitolo, che sono fondamentali e
tra esse solidali: l'idea di creazione e l'idea d’infinito positivo.
La creazione – al contrario della “fabbricazione” teista – permette di vedere, o almeno di
percepire, che in Dio l'immanenza e la trascendenza non si oppongono, ma si rafforzano
mutuamente. La creazione, infatti, implica la massima differenza, poiché solo l’”Altro dal mondo”
può far esistere un mondo. Contemporaneamente, suppone la massima identità, poiché non c’è nulla
nella creatura che non stia provenendo dal suo Creatore. Nicola Cusano lo vide molto bene quando
affermò che Dio è altro in quanto non-altro (aliud in quanto non-aliud).11
Intimamente unita a questa idea c’è la concezione positiva dell'infinità divina. Essa, come si è
detto – e come Hegel ha ripetuto instancabilmente – non può essere definita dalla sua opposizione al
finito: ciò la farebbe irrimediabilmente limitata, riducendola a essere uno degli estremi della
contraddizione. L'autentico Infinito, come pienezza senza restrizioni, «include perfino la sua stessa
opposizione al finito»; in modo che «il finito ha la sua verità nell’Infinito».
La confluenza di entrambe le idee lascia salva la trascendenza divina, senza per questo indurre al
pensiero di un dio lontano. Al contrario: come Infinito, Dio non ha bisogno di venire nel mondo,
perché lo include già da sempre dentro di sé e lo abita nella sua radice più profonda e originaria.
Come Creatore, non ha bisogno di intervenivi puntualmente, perché la sua azione lo sta già
sostenendo e pro-movendo, facendolo essere e agire. Non interviene e aiuta quando lo si chiama,
perché è Lui che da sempre sta chiamando e sollecitando la collaborazione della creatura. Le reali
variazioni che costituiscono la storia non dipendono dall’andirivieni della sua attività, ma
dall'inevitabile intermittenza dell'accettazione da parte della creatura.
Di qui scaturisce una conseguenza decisiva: la rottura di ogni dualismo naturale-soprannaturale,
e perfino sacro-profano. Rimane la differenza, certamente; ma, dato che tutto viene da Dio ed è
compreso e sostenuto da Lui, tutto può e dev’essere vissuto come accoglienza e affermazione della
sua azione creatrice. Tutto ciò che aiuta la vera realizzazione della realtà creata, materiale o
spirituale, scientifica, sociale, morale o religiosa… risponde al disegno creatore e costituisce
11
«Aliud enim, quia aliud est ab aliquo, eo caret, a quo aliud. Non-aliud autem, quia a nullo aliud est, non caret aliquo,
nec extra ipsum quidam esse potest» («L’altro infatti, perché altro da qualcosa, manca di ciò da cui è altro. Però il non-
altro, poiché non è altro da nulla, non manca di niente, né fuori dello stesso può esserci qualcosa»), (De non aliud, 6; cf.
2 e 14; cf. Nikolaus von Kues, Philosophisch-Theologische Schriften. Lateinisch-deutsch. Studien-und Jubiläumsgabe
II, Wien 1982, p. 464). Cf. l'eccellente esposizione di questo tema in W. Beierwaltes, Identità e differenza, Vita e
Pensiero, Milano 1989, pp. 145-173. Già prima Meister Eckhart, con la sua acuta e anticipatrice dialettica, aveva parlato
di Dio come «negazione della negazione»: «Tutte le creature portano in sé una negazione; una nega di essere l'altra. Un
angelo nega di essere un altro [angelo]. In Dio, invece, c'è una negazione della negazione; è uno solo e nega tutto il
resto, perché non c'è nulla fuori di Dio. Tutte le creature esistono in Dio e sono la sua stessa divinità, e questo significa
pienezza […]. Negando che ci sia qualcosa in Dio - [per esempio] se nego che in Dio ci sia bontà, anche se, in realtà,
non posso negare nulla che non ci sia in Dio - negando [dunque] che ci sia qualcosa in Dio, colgo qualcosa che Egli non
è; giustamente questo si deve eliminare. Dio è uno solo, è una negazione della negazione» (Sermone 21: Unus Deus et
pater omnium, in Tratados y Sermones, Barcellona 1983, pp. 454-455; è il sermone 22 nell'ed. di J. Quint, Deutsche
Predigten und Traktate, Diogenes Verlag 1973, p. 252 [tr. it. Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985, p. ].

36
identicamente la realizzazione della sua azione per il bene delle sue creature e la realizzazione di
queste come affermazione del loro essere in quanto accoglienza dell'azione divina.
Portare questo a livello di linguaggio non può, chiaramente, risultare facile. Tenerlo, però,
almeno in conto segnala i limiti che non si devono oltrepassare e indica la direzione di ogni sforzo
espressivo che voglia essere autentico. Il che vale per i nostri tentativi di parlare sia dell'azione di
Dio, sia dell'abissale mistero del suo essere.
Riguardo all’azione di Dio, negativamente si dovrà evitare ogni espressione che implichi
l'immagine di un dio che, “stando fuori”, entra con la sua azione nel mondo e che, previamente
“passivo”, è mosso dai nostri riti o preghiere. Positivamente, il linguaggio dovrà sforzarsi di portare
in primo piano l'assoluta iniziativa divina, che trasforma in risposta ogni apparente iniziativa
umana. Dio è colui che ha già suscitato la preghiera quando questa esce dalle nostre labbra (cf. Rm
8,26); e ha già promosso la nostra azione, quando incominciamo a fare qualcosa (cf. Sal 127,1; Gv
15,5). Contro tutte le apparenze, non siamo noi che, portando il peso originario dell’azione,
facciamo sì che Dio, fino ad allora quieto, si decida ad aiutarci. È Lui che, amore eternamente in
atto, che «agisce sempre» dalla creazione del mondo (Gn 5,17), ci chiama – resistenti e passivi
anche nei nostri momenti migliori – affinché collaboriamo alla sua opera.
Se già il linguaggio dell'azione risulta difficile, lo sarà ancora di più quello dell'essere.
Dobbiamo parlare di Dio come distinto dal mondo, ma non separato; come unito, ma non identico; e
ciò supera le nostre risorse. In realtà, non potevamo aspettarci altro, dato che si tratta di un rapporto
unico, per il quale, per definizione, non c’è paragone possibile. Rimangono solo aperti la risorsa
simbolica, che – seguendo l'avvertimento di Eraclito – «vuole e non vuole” dire12, e il parlare
provvisorio, disposto a correggersi nello stesso momento in cui si pronuncia.
Di fatto, qui il linguaggio oscilla in maniera inevitabile: la percezione spontanea e superficiale
tende alla separazione: Dio è in alto, nel cielo; l'intuizione profonda, invece, cerca di esprimere
l'unità: «Dio e la sua opera è Dio», diceva san Giovanni della Croce.13 È necessario parlare, e sarà
inevitabile accentuare uno degli aspetti: l'identità o la differenza. Bisognerà però farlo senza perdere
mai di vista l'altro, in permanente oscillazione, correggendo per quanto possibile l’unilateralità
scorretta.
In ogni caso, il linguaggio religioso deve prestare oggi scrupolosa attenzione a questo profondo e
accidentato aspetto del problema. La nuova sensibilità verso il simbolico, una volta superati gli aridi
razionalismi dell'Illuminismo e del Positivismo, si mostra qui di grande aiuto per preservare la
specificità del religioso e, spesso, perfino per creare l'indispensabile spazio della sua intelligibilità14.
E, soprattutto, permette di approfittare del ricchissimo apporto delle tradizioni mistiche: quella
cristiana, naturalmente; ma anche quelle di altre tradizioni che, come le orientali, hanno dato su
questo punto contributi di speciale fecondità.
Del resto, questo sforzo d’attenzione all’aspetto strutturale si prolunga negli altri due aspetti che
passiamo ora ad analizzare.

2. Il problema del cambiamento culturale

12
Alludo al detto profondo di Eraclito: «L'Unico, il solo saggio, vuole e non vuole essere chiamato con il nome di
Zeus» (Fr. 32).
13
Juan de la Cruz, Dichos de luz y amor, n. 107, in Vidas y Obras completas, Madrid 19645, p. 966 [tr. it. Giovanni
della Croce, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010]. Era vivissima questa percezione nel santo: «E così non si deve
intendere che ciò che qui si dice l'anima senta sia come vedere le cose alla luce o le creature in Dio, ma che in quel
possesso sente che tutte le cose sono per lei Dio. [...] Queste montagne sono il mio Amato per me. [...] Queste valli sono
il mio Amato per me» (Cántico Espiritual, Cant. 14-15, pp. 664-665 nell’ed. sp. cit.).
14
Questa è stata una costante insistenza di J. Gómez Caffarena, che a ragione privilegia sempre il simbolo dell’amore:
cf. soprattutto Lenguaje sobre Dios, Madrid 1985, con altri referimenti.

37
Secondo aneddoto. Nella festa dell'Ascensione, un annunciatore religioso, tentando di avvicinare
il mistero ai suoi ascoltatori e cercando di “modernizzare” il suo linguaggio, ebbe la trovata geniale
di descrivere Cristo come “il divino astronauta”.

2.1. L’allarme della “demitizzazione”

Davanti a sortite come questa, non appena si supera una certa e irrimediabile sensazione di
ridicolo, sorge subito il sospetto di trovarsi dinanzi a un problema molto serio. L'esempio mostra, in
effetti, come la difficoltà precedente, di carattere strutturale, si prolunga e si collega con quella
generata dal cambiamento culturale, che con l’avvento della Modernità ha scosso le radici più
profonde del pensiero e del linguaggio dell'esperienza cristiana.
È infatti evidente che la descrizione neotestamentaria non si adatta alla nuova visione di un
mondo che non ha più un sopra e un sotto, non si divide in terreno (imperfetto, mutabile e corrotto)
opposto a sopralunare o celeste (incontaminato, circolare, perfetto e divino). Per questo, tentare,
come nell'aneddoto, di forzare il raccordo mediante una superficiale cosmesi linguistica, porta
all'assurdo. Peggio ancora, conferma l'accusa, tanto estesa, che la religione appartiene
irrimediabilmente a una mitologia superata.
Una volta allertati, basta una semplice occhiata per comprendere che non si tratta di un caso
isolato, dato che il problema tocca profondamente l’orizzonte stesso delle formulazioni in cui si
esprimono le grandi verità della nostra fede. Chi, alla vista dei dati forniti dalla storia umana e
dall'evoluzione biologica, è capace di pensare oggi l’inizio dell'umanità a partire da una coppia
perfetta, in un paradiso senza belve e senza fame, senza malattie e senza morte? Più grave ancora:
chi – incapace come si sente ogni persona normale di percuotere un bambino per punire un'offesa di
suo padre – può credere in un “dio” che da millenni starebbe punendo miliardi di uomini e di donne,
solo perché i loro “primi genitori” gli hanno disubbidito mangiando un frutto proibito?
Questo può sembrare una caricatura, ma tutti sappiamo che fantasmi uguali o simili abitano in
maniera molto efficace l'immaginario religioso della nostra cultura. E l'enumerazione può
continuare per questioni, se possibile, anche più gravi. Così, per esempio, si continua a parlare con
troppa facilità di un “dio” che punirebbe per tutta un'eternità e con infiniti tormenti, colpe di esseri
tanto piccoli e fragili come, in definitiva, siamo tutti noi umani. O che abbia voluto la morte di suo
Figlio per perdonare i nostri peccati. Grandi teologi, da Barth a Moltmann e Urs von Balthasar, non
si permettono forse ancora recentemente di affermare che sulla croce Dio stava scaricando su Gesù
l’”ira” che era riservata a noi?15
Sappiamo bene che sotto queste espressioni si cela una profonda esperienza religiosa, e perfino
che, con sforzo e buona volontà, si può arrivare a intenderle in maniera più o meno corretta.
Sarebbe però pastoralmente e teologicamente suicida non vedere come il messaggio che in realtà
arriva alla gente normale è quello suggerito dal significato diretto di queste espressioni, dato che le
parole hanno significato nel preciso contesto in cui sono pronunciate e ricevute. Diversamente,
s’incorre in quello che è stato giustamente chiamato un «tradimento semantico»,16 che finisce per
rendere inutile e perfino contraddittorio il ricorso a procedimenti ermeneutici, stratagemmi oratori o
raffinatezze teologiche per raggiungere una significatività attuale, pretendendo allo stesso tempo di
15
Si veda, per esempio, B. Forte, Gesù di Nazareth, storia di Dio, Dio della storia, San Paolo, Cinisello Balsamo 19896,
pp. 172-280, che apporta molti dati e che, per fortuna, nonostante un discorso in cui accetta in qualche modo questa
visione orribile, sa leggere nella croce l'incredibile amore di Dio. Quest’ultima è senza dubbio la cosa che tutti vogliono
dire – come sarebbero, altrimenti, teologi? –, ma la preoccupazione di conservare la lettera di certi passi della Scrittura
li porta a questo tipo di retorica teologica. Retorica che, di primo acchito, risulta molto efficace, ma che con il tempo
lascia vedere le rovine della sua incoerenza in un contesto secolarizzato, che interpretandoli nel loro normale significato
li trova insopportabili.
16
Cf. Pedro Fernández Castelao, El trasfondo de lo finito. La revelación en la teología de Paul Tillich, Desclée de
Brouwer, Bilbao 2000.

38
conservare parole ed espressioni che sono solidali con il contesto precedente. Come in quelle dighe
la cui struttura ha ceduto alla pressione della piena, i muri di contenimento e i rimedi provvisori
sono incapaci di trattenere l'emorragia di senso provocata dalle numerose e crescenti rotture del
contesto tradizionale. O si rinnova la struttura o il risultato può essere solo lo straripamento e la
catastrofe.
Come si è detto, sarebbe il colmo se, a motivo di qualche esagerazione da parte sua e di qualche
sottigliezza teologica da parte di molti critici, si trascurasse il grido di allarme lanciato da Rudolf
Bultmann con il suo programma di demitizzazione. Si consideri che, per quanto lo dica il libro di
Giosuè, nessuno di noi può credere che il sole si muova intorno alla terra; e se, accanto a noi,
qualcuno cade a terra per un attacco epilettico, non possiamo credere ne sia causa un demonio,
benché così si pensasse all’epoca di Gesù o, pure, lo desse per scontato lo stesso Gesù.
Affermare questo non implica in alcun modo negare il contenuto religioso né il valore simbolico
(Bultmann parlava di «significato esistenziale») di queste narrazioni. Ciò che si mette in discussione
non è il significato, ma l'attitudine di quelle espressioni a veicolarlo nel nuovo contesto17. In realtà,
sappiamo molto bene che, per quasi un secolo, in questo caso concreto, la fedeltà alla lettera si
trasformò in una terribile fabbrica di ateismo, rendendo vero l'avvertimento paolino che «la lettera
uccide, lo Spirito invece dà vita» (2Cor 3,6).

2.2. Le conseguenze del cambiamento di paradigma

Ridurre il problema alla demitizzazione sarebbe però minimizzarlo, perché questa s’inserisce nel
processo più ampio e profondo di un cambiamento di paradigma culturale che, toccando l'insieme
della cultura, modifica profondamente la funzione del linguaggio. Risulta ovvio che questo
comporta la necessità di un rimodellamento e di una ritraduzione dell'insieme dei concetti e delle
espressioni in cui culturalmente si è incarna la fede.
L'affermazione è grave e impegnativa. Non si può ignorare che prenderla sul serio implica per il
cristianesimo una riconfigurazione profonda – spesso scomoda e perfino dolorosa – delle abitudini
mentali, degli usi linguistici e dei modelli di pietà. Basti pensare a un dato tanto semplice ed
evidente come questo: la gran maggioranza dei concetti e buona parte delle espressioni in cui ci è
giunta verbalizzata la fede – nella pietà e nella liturgia, nella predicazione e nella teologia –
appartengono al contesto culturale precedente l'Illuminismo. Hanno, in effetti, le loro radici vitali
nel mondo biblico, sono stati configurati riflessivamente durante i primi cinque o sei secoli della
nostra era e hanno ricevuto la loro formulazione più stabile durante il Medioevo. Successivamente
ci sono stati, è naturale, aggiornamenti; ma – soprattutto nel cattolicesimo – hanno avuto in generale
una marcata impronta di restaurazione (neo-scolastica barocca e ottocentesca, neo-tomismo
postmodernista).
La situazione si fa ancor più grave per il fatto che il cambiamento non si è prodotto secondo un
avanzamento lineare, bensì nella forma di una transizione violenta. La caduta dell’antica visione del
cosmo ha prodotto la sensazione di essere stati ingannati e che era necessario ricostruire tutto di
nuovo. Le reazioni furono spesso indubbiamente eccessive, ma indicavano un compito ineludibile.
La cultura, e per ciò stesso la religione nella misura in cui era con essa solidale, non potevano
continuare a parlare con lo stesso linguaggio. Non era possibile continuare né con la lettura
letteralista della Bibbia né con una concezione astorica del dogma.
Per la teologia il compito appariva enorme, e non possono stupire le reazioni difensive e lo stile
principalmente restaurativo. Il risultato si è tradotto in un chiaro ritardo storico che aggrava la
situazione. Per fortuna il Vaticano II, proclamando l'urgenza dell'aggiornamento, ha riconosciuto la
necessità del rinnovamento e ha aperto ufficialmente le porte per intraprenderlo. Anche così, il peso
17
Si ricordino le giuste osservazioni di P. Ricoeur, Finitude et culpabilité. II: La symbolique du mal, Paris 1960, pp. 13-
30 e 323-332 [tr. it., Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 55-65; 497-500].

39
delle difficoltà si è fatto sentire, e la vertigine del nuovo ha frenato molte iniziative. La verità è che,
a breve o a medio termine, non ci si può ancora attendere soluzioni mediamente unanimi e
soddisfacenti.

2.3. Le vie del cambiamento

In ogni caso, sarebbe fuori luogo un atteggiamento rassegnato e pessimista. Quando si pensa con
una certa prospettiva ai profondi cambiamenti avvenuti, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano
II, e si è attenti ai processi di fondo nella vita ecclesiale, non risulta difficile percepire progressi
molto importanti. Rimane molto da fare, certamente, ma la percezione profonda di questo
mutamento fondamentale e la necessità di continuarla costituiscono ormai una presenza
significativa, tanto nella comune sensibilità religiosa come nell’interesse profondo dei teologi
(spesso perfino più di quanto lascino intravedere le elaborazioni esplicite della teologia).
Anche in questo caso avviene che «dove compare il pericolo, proprio lì si sviluppa la salvezza».
Per due ragioni fondamentali: perché la percezione dello sfasamento obbliga alla chiarezza, e
perché la nuova situazione porta con sé specifiche possibilità, percepibili solo a partire da essa.
L’importanza del cambiamento, in effetti, permette di vedere meglio la struttura del problema.
Proprio il mutamento culturale che c'impedisce di prendere alla lettera il racconto dell'Ascensione è
quello stesso che ci permette di liberare il suo significato permanente dalla schiavitù nei confronti
del significante storicamente condizionato. L'impossibilità di vedere il racconto come un'ascensione
materiale ci mette in grado di cercarne l’intenzione autenticamente religiosa.
Operazione non facile né semplice, certamente, dato che non si tratta di un rapporto estrinseco,
paragonabile a quello del corpo e del vestito. Il significato non esiste mai nudo, “allo stato puro”,
ma sempre tradotto in una forma concreta. Non leggere l'Ascensione come una salita nell'atmosfera,
significa necessariamente che la si sta già leggendo nel quadro di un'altra interpretazione. Con tutto
ciò, la distinzione risulta possibile, ed è molto importante comprenderlo e affermarlo, perché
unicamente da essa sorge la legittimità del cambiamento e la libertà d’intraprenderlo.
Vale la pena chiarirlo con un esempio, prendendo come referente l'acqua e la sua figura (non la
sua formula), invece del corpo e del vestito. Non esiste mai la possibilità di avere la figura
dell'acqua “allo stato puro”: avrà sempre la forma del recipiente – bicchiere o bottiglia, brocca o
bacinella – che la contenga. Se non ci piace una figura, possiamo cambiarla, ma solo a condizione
di sostituirla con un'altra: quella imposta dal nuovo recipiente. Tuttavia, distinguiamo molto bene
tra l'acqua e le sue figure; e capiamo che si può cambiare recipiente, senza che per questo si debba
cambiare l'identità dell'acqua. Naturalmente, in ogni travaso esiste sempre il pericolo di perdite e
spargimenti. Se non vogliamo, però, che l'acqua ristagni e marcisca, l'alternativa non è quella di
conservarla sempre nello stesso luogo, ma di curare che il travaso risulti integro, senza perdita del
contenuto.
Con i limiti di ogni esempio, qualcosa di simile succede con la fede e le sue espressioni. La fede
non esiste mai allo stato puro, ma sempre nell’alveo di una determinata interpretazione. Se però
deve vivere nella storia non può rimanere ferma a una determinata epoca, ma deve attraversarle
tutte, adattandosi alle loro necessità e approfittando delle loro possibilità. Questo implica, a sua
volta, libertà e modestia. Modestia, perché appare chiaro che nessuna epoca può pretendere che la
sua interpretazione sia unica o definitiva, e nemmeno la migliore: le nostre attualizzazioni sono
sempre provvisorie. Ma anche libertà, perché, proprio per questo, ogni epoca ha diritto alla sua
interpretazione. Proprio perché la fede vuole essere “acqua viva”, la maniera di conservarla non è
quella di confinarla in un serbatoio morto, ma quella di costruire – con affetto e rispetto, affinché
nulla vada perduto; ma anche con audacia e creatività, affinché non ristagni e si corrompa – canali
sempre nuovi dai quali fluisca in avanti, fecondando i tempi e le culture.

40
Ciò è tanto serio che spezza da solo la sacralizzazione di qualunque configurazione espressiva
della fede, compresa la prima, non parliamo di quella medievale. Neppure nella Scrittura c’è
l'esperienza cristiana allo stato puro, ma già tradotta negli schemi culturali del suo tempo e nelle
“teologie” dei diversi autori o comunità. Lo stesso Gesù parlava e pensava dentro il suo quadro
temporale, che non è né può essere il nostro (già non è stata una piccola trasformazione quella di far
passare le sue parole dell'aramaico al greco!). La rivoluzione esegetica – e, a suo modo, il
rinnovamento patristico – l'hanno messo allo scoperto in maniera irreversibile. Ed è certo che si
sono aperte grandi possibilità non solo per la rottura di schemi obsoleti ma anche per la ricerca di
nuove formule ed espressioni.
Non è stato né poteva risultare facile. In realtà, ha provocato una delle crisi più gravi della storia
del cristianesimo. Affrontarla, ha richiesto, nonostante resistenze, ostacoli e repressioni, un coraggio
di tale portata che Paul Tillich, seguendo Albert Schweitzer, arriva ad affermare che «forse durante
la storia umana nessun’altra religione ebbe la stessa audacia né assunse un tale rischio».18 Per
questo non saremo mai abbastanza grati per l'aria fresca che è entrata nella Chiesa grazie a tale
rivoluzione. E non c’è gratitudine migliore che continuare l'impresa, tentando di portarla alle sue
ultime conseguenze. Quello che, in definitiva, c’è chiesto, per stretta fedeltà al dinamismo della
fede, è lavorare alla ricerca di un'interpretazione e del suo corrispondente linguaggio per rendere
trasparente, rompendo stampi culturali che non sono ormai i nostri, il suo significato originario per
gli uomini e le donne di oggi.
Dicevamo però che la nuova situazione non si limita a fare luce sul problema, ma offre anche
nuove possibilità per affrontarlo. La stessa chiarezza dell’impostazione suppone già un enorme
aiuto, soprattutto tenendo conto che apre la porta all'utilizzo di tutte le risorse della moderna
ermeneutica. Non invano siamo nell’”età ermeneutica” della teologia;19 e non come soccorso
occasionale, ma per una profonda convergenza, dato che l'esperienza religiosa, precisamente per la
difficoltà rappresentata dalla trascendenza dei suoi referenti, chiede di approfondire al massimo
l'esercizio dell'interpretazione. Non è una casualità che Schleiermacher sia alla base della moderna
ermeneutica. Con più radicalità, Richard Schäffler ha indicato con ragione che per questo motivo la
religione costituisce storicamente la matrice e il modello di ogni critica.20
Ad ogni modo, l'apporto è soprattutto diretto, nel senso che la nuova cultura, aprendo campi
inediti alla comprensione umana, amplia lo spazio dell'intellectus fidei e aumenta le risorse per
esprimerlo e renderlo accessibile alla sensibilità attuale. Si pensi, per esempio, alla breccia che,
nell'incomprensione diffusa del fenomeno religioso, hanno aperto teologie come quelle della
speranza, della politica e della liberazione, grazie al fatto di aver usufruito dei mezzi offerti
dall'analisi sociale. E, per un altro verso, forse non è minore l'apporto che sta arrivando dalla
scienza psicologica. Che spesso, come nel caso di Pohier o di Drewermann, il suo ingresso in
teologia risulti conflittuale, non invalida la constatazione ma la conferma, poiché indica che viene a
toccare punti sensibili, ma reali.21
In generale, ogni autentico progresso culturale potrebbe in questo senso essere visto come un
arricchimento di ciò che nel primo capitolo ho chiamato il significante teologico. Di fatto, la storia
recente mostra chiaramente che un'alleanza critica con quella parte della cultura che cerca il
veramente umano (e, proprio per questo, divino) è stata sempre benefica per le Chiese: si pensi, per
esempio, alla tolleranza, alla democrazia o alla giustizia sociale.
In una parola, se dinanzi alla questione strutturale il linguaggio religioso deve cercare il
rinnovamento ricorrendo soprattutto alle profonde risorse della mistica, per quanto riguarda la sfida

18
P. Tillich, Teologia sistematica, II, cit. p. 122. A. Schweitzer afferma che questa impresa «rappresenta ciò che di più
poderoso abbia mai osato e realizzato la riflessione religiosa» (Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, München-
Hamburg 1976, p. 45 [tr. it., Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986, p. 72]).
19
Cf. J. Greisch, L'âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1985; C. Geffré, Le christianisme au risque de
l’interpretation, Cerf, Paris 1983.
20
R. Schäffler, Religion und kritisches Bewusstsein, Freiburg -München 1973, pp. 90-91, 95-99, 105, 109, 118 e 160.
21
Cf. J. I. González Faus - C. Domínguez Morano - A. Torres Queiruga, Clérigos en debate, Madrid 1996.

41
culturale sono principalmente le scienze umane che devono essere valorizzate. E non c'è dubbio che
una generosa apertura e un utilizzo al tempo stesso critico e coraggioso offrano ricche possibilità
per affrontare il difficile ma irrinunciabile compito della ritraduzione del cristianesimo, richiesta
dalla presente situazione culturale.

3. La difficoltà pragmatica

Terzo aneddoto. Un sacerdote inizia, come sempre, la preghiera dei fedeli. All'improvviso, però,
senza averlo pensato prima, sente la necessità di correggersi: «Perché Dio ponga fine alla fame in
Somalia... (cosa che Egli non farà), preghiamo il Signore».

3.1. La preghiera di petizione come “esperimento cruciale”22

C'è qualcosa di forte nell'episodio, che obbliga a meditarlo con attenzione. Che una preghiera,
detta con solennità da milioni di fedeli in tutto il mondo, possa far sorridere quando si richiama
l’attenzione sul suo contenuto, indica la realtà del cambiamento avvenuto nella sensibilità generale.
Che, nonostante tutto, si continui a pregare così, mostra quanto grande sia il compito che resta da
portare a termine. Da un lato, sintetizza le difficoltà e le proposte analizzate sin qui; e, dall’altro,
serve in certo qual modo a verificare la loro validità.
Indubbiamente, serve molto bene a completare quanto detto prima. Sino a questo momento, la
riflessione riguardava quasi esclusivamente gli aspetti più teorici e speculativi del problema e,
pertanto, il significato oggettivo del linguaggio religioso: la sua dimensione semantica. Adesso
conviene mettere in primo piano la dimensione pragmatica, che riguarda soprattutto la soggettività
degli interlocutori e le loro mutue interazioni, tanto nella dimensione illocutoria, vale a dire del
linguaggio in quanto esprime l’impegno di chi parla, come nella dimensione perlocutoria, in quanto
il fatto di parlare tende a produrre da sé qualche effetto.23
È ovvio che la preghiera – per le sue implicazioni teoriche e per i suoi effetti pratici – costituisca
un incrocio decisivo di tutte le dimensioni e possa servire come ottima mediazione in una duplice
direzione: per tradurre in esperienza effettiva i frutti della riflessione teologica e, nel contempo, per
assicurarli e promuoverli, orientando verso di essi la sensibilità credente. E, al suo interno, la
preghiera di petizione è un vero experimentum crucis24 per un linguaggio religioso che voglia
mostrarsi coerente, attuabile e credibile nella situazione attuale.
Se quanto detto nei paragrafi precedenti racchiude un minimo di verità, non si può continuare a
ripetere formule ed espressioni che, come mostra l'aneddoto, risultano oggi inassimilabili, per il
fatto di essere culturalmente solidali con una visione che non si può più dare come valida.
Conviene, tuttavia, chiarire bene il senso preciso di ciò che, in un tema così delicato, cerchiamo di
dire. Perché, dall’inizio stesso del cambiamento culturale, la preghiera di petizione, precisamente

22
Cf. supra i riferimenti a una trattazione dettagliata nel cap. 1, nota 34.
23
Come si sa, la terminologia è molto lontana dall’essere unitaria. Io adotto la proposta di J. L. Austin, How to Do
Things with Words, Oxford 1962 [tr. it., Come fare cose con le parole, Marietti 1820, Genova-Milano 1987]. Egli stesso
affronta il problema religioso in Religious Commitment and the Logical Status of Doctrines, in «Religious Studies», 9
(1973), pp. 39-48. Nonostante tutto, la dimensione pragmatica non ha potuto ricevere in questa trattazione tutta
l'attenzione che meriterebbe. Problemi e informazioni importanti al riguardo, fra l'immensa bibliografia, si possono
vedere in R. Schrödter, Analytische Religionsphilosophie. Haupstandpunkte und Grundprobleme, Freiburg-München
1979; L.U. Dalferth, Religiöse Rede von Gott, München 1981; R. Schäfler, Das Gebet und das Argument. Zwei Weisen
des Sprechens von Gott, Düsseldorf 1989; E. Romerales (ed.), Creencia y racionalidad. Lecturas de Filosofía de la
Religión, Barcelona 1992.
24
Alludo al titolo di un'opera significativa al riguardo: G. Greshake - G. Lohfink (Hrsg.), Bittgebet - Testfall des
Glaubens, Mainz 1978.

42
per la sua situazione di crocevia decisivo, si è trovata tra il fuoco incrociato di varie e acute critiche.
Per i deisti non aveva senso in un mondo orologio-perfetto lasciato a se stesso dal Grande
Architetto; per Kant fomentava l'irresponsabilità etica; per Feuerbach si riduceva a un dialogo
dell'anima con se stessa.25
Qualcosa bisognerà pure imparare da queste critiche. È ovvio però che non sono questi i motivi
della presente riflessione, che nasce della stretta considerazione teologica fatta sin qui. In modo che,
in generale, punta giustamente nella direzione opposta. Sia in senso positivo che negativo.
Positivamente, parte dal rispetto per l'iniziativa assoluta del Dio creatore, così come dal
riconoscimento del suo amore incondizionato e dalla sua bontà senza misura né discriminazione di
alcun genere. Un Dio padre-madre che da sempre non cerca altro che la nostra pienezza e salvezza,
è ovvio che non ha senso cercare d’informarlo, di convincerlo o di muoverlo a compassione; al
contrario, tutto il nostro sforzo deve concentrarsi nel lasciarci illuminare, guidare e convincere da
Lui. Lo si vede bene ricorrendo di nuovo all'aneddoto: se ci pensiamo bene, prescindendo dalle
intenzioni soggettive, non risulta oggettivamente offensivo voler ricordare a Dio che in Africa ci
sono suoi figli che soffrono la fame e supplicarlo di aver pietà di loro?26 Perché la situazione è
esattamente quella contraria: è Dio che, prima di qualsiasi altro e con maggiore compassione,
«ascolta i gemiti» di coloro che soffrono (Es 2,24); è Lui che suscita in noi la coscienza e il
desiderio di aiutarli (cf. Es 3,7-11); è Lui che – adesso sì – dice a ognuno di noi: «Ascolta e abbi
pietà» dei tuoi fratelli, che sono miei figli, e le cui grida sono le mie grida.
Questo non sarebbe grave se si trattasse soltanto di un gioco di parole, di un semplice modo di
dire. Ma vi è in questione qualcosa di molto più serio: i terribili effetti negativi che questo modo di
pregare ha sulla nostra immagine di Dio. Perché, indipendentemente dalle nostre intenzioni
esplicite, chiedere qualcosa a Dio equivale a capovolgere tutto il movimento, situando l'iniziativa
dal lato umano e la passività dal lato divino. Implica, infatti, lo stare dicendo che siamo noi i primi a
voler salvare il mondo, a provare compassione per la sofferenza, a interessarci per il progredire del
bene, e che per questo preghiamo affinché anche Dio s’impegni a collaborare.
Conviene, in ogni modo, insistere sul significato oggettivo di queste affermazioni. So bene, per
esperienza personale che, quando si sente per la prima volta, questo genere di considerazioni causa
normalmente sorpresa e perfino irritazione. Il che si capisce, perché quasi mai questa è l'intenzione
soggettiva dell'orante che fa la petizione. Sarebbe ingiusto non riconoscerlo o, peggio ancora,
rifiutarsi di vedere i frutti abbondanti di generosità, di umiltà e di fiducia che lungo i secoli si sono
andati accumulando – e continuano, nonostante tutto, ad accumularsi – con la preghiera di
petizione.

3.2. Le implicazioni “oggettivamente perverse” della petizione

Tuttavia, una volta riconosciuta l'intenzione, non sarebbe bene rifiutarsi di analizzare le
implicazioni oggettive della sua realizzazione, vale a dire quelle implicazioni che,
indipendentemente e perfino contro la coscienza esplicita dell'orante, s’impongono nel contesto
attuale per la forza stessa del linguaggio usato. Già Socrate insisteva sul fatto che il «il parlare
scorretto non solo è cosa in sé sconveniente, ma fa male anche alle anime».27 Oggi la “svolta
25
Cf., a parte le enciclopedie e i dizionari, F. Heiler, Das Gebet. Eine religionsgeschichtliche und
religionspsychologische Untersuchung, München-Basel 19695; C. Fabro, La preghiera nel pensiero moderno, Edizioni
di Storia e Letteratura, Roma 19832; G. Moretto (ed.), Preghiera e filosofia, Morcelliana, Brescia 1991.
26
Per fare un esempio, forse un po’ semplice: chi oserebbe dire a una madre che ha il figlio ammalato di ascoltare le
suppliche dei suoi vicini ad avere compassione di lui e accudirlo? Molto più ancora, se questa madre è già impegnata
corpo e anima al capezzale dell’infermo e non fa altro che cercare rimedi, medici e infermiere che lo aiutino. Non sta
Dio continuamente richiamandoci all'amore verso gli altri e insistendo con tutta la forza della sua grazia che ci
trasformiamo in buoni samaritani?: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37).
27
Platone, Fedone 115E [tr. it. in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 120].

43
linguistica” (linguistic turn) impedisce d’ignorarlo, mostrando che sarebbe suicida non tenere conto
del ruolo assolutamente decisivo che svolge il linguaggio nella configurazione del nostro modo di
percepire e vivere la realtà.28 Anche, e forse soprattutto, la realtà religiosa.
Data la delicatezza del tema, sarebbero opportune analisi molto dettagliate. Tenuto conto, però,
dello spazio limitato a disposizione, dobbiamo rassegnarci ad alcune brevissime indicazioni.
Chiedere, sebbene chi parla non lo pretenda, implica necessariamente: a) informare qualcuno
circa qualcosa, nel caso non lo sappia, non lo ricordi o non sia attento; b) cercare d’influire su di lui
o di lei, affinché si decida ad agire. È evidente che, nel caso di Dio, il primo aspetto è fuori luogo,
poiché Lui sa tutto «prima ancora che glielo chiediamo» (cf. Mt 6,8). Non è però meno evidente che
lo sia anche il secondo, e le conseguenze sono molto più gravi. Perché “informare” Dio andrebbe
contro la sua onniscienza; ma tentare di “muoverlo a compassione” nega il primato della sua opera
di salvezza e ferisce il cuore stesso della sua bontà.
Per concretizzare un po’ di più, si ricordi l'aneddoto iniziale. Prescindiamo pure da quanto
nocivo risulti per una lucida esperienza religiosa il fatto di stare chiedendo a Dio qualcosa di cui si
riconosce l’impossibilità (al punto che, verbalizzato, può trasformarsi in barzelletta atta a suscitare
il riso). Prescindiamo ugualmente da ciò che può implicare lo stare a “ricordare” a Dio che in Africa
c'è gente tormentata dalla fame, come se Lui, a somiglianza del Baal di cui si prendeva gioco Elia
(1Re 18,27), avesse bisogno delle nostre insistenze. Concentriamoci in ciò che è più grave,
nell'immagine di Dio che oggettivamente questo linguaggio sta alimentando, vale a dire: a) che Dio
potrebbe aiutare, ma – per qualche motivo – non vuole; b) che vuole, nell'ipotesi che la petizione sia
stata “efficace”, solo qualche volta, aiuta alcuni e altri no. Il risultato è funesto in entrambi i casi.
Nel primo, Dio non dev’essere molto buono poiché, qualunque sia il motivo, nessuna persona
onesta si rifiuterebbe, se fosse nelle sue possibilità, di mettere fine al cancro, alla fame o all'odio nel
mondo. Nel secondo, il suo amore appare, per un lato, appartato e poco generoso e, per l’altro,
intento a concedere privilegi o a soddisfare raccomandazioni, quando, al contrario, sappiamo molto
bene che «il suo amore è per sempre» (Sal 100,5) e che «Dio non fa preferenza di persone» (Rm
2,11).
Inoltre, ricordiamo la formula: «Signore, ascolta e abbi pietà». Quando la domenica seguente,
più e più volte, tanti bambini e bambine, uomini e donne dell'Africa continueranno a morire di
fame, nell'inconscio collettivo si andrà registrando l'immagine di un Dio che né “ascolta” le nostre
suppliche né “ha pietà” di tanta sofferenza. Senza che possano aiutare, in questo caso, nemmeno i
noti ricorsi al «forse non è opportuno» o al «non chiediamo come si conviene»; perché sappiamo
positivamente che Dio non vuole la morte dei suoi figli (dunque è opportuno) e che, oltretutto, si
tratta di una preghiera liturgica (dunque è ben fatta).
Ripeto che con riluttanza si dicono queste cose, perché potrebbe sembrare che si stanno
attribuendo agli oranti intenzioni che farebbero inorridire qualsiasi fedele. Si tratta, diciamolo
ancora una volta, di ciò che sociologicamente vengono chiamati “effetti perversi”, non cercati
dall’agente, ma indotti dalla dinamica stessa dell'azione. Ma proprio per questo, perché non è questa
l'intenzione, conviene – per l'onore di Dio e per il nostro bene – prendere molto sul serio la
necessità di evitare le espressioni che oggettivamente li implicano.

3.3. Possibili obiezioni

Esistono, è chiaro, difficoltà per un cambiamento davvero coerente. Bisognerebbe analizzarle


con attenzione. Tuttavia, ciò che è decisivo non sta tanto nella loro soluzione teorica quanto
nell'ottica – nel blik, direbbe Hare – in cui vengono esaminate. Dal nuovo paradigma tutto risulta
relativamente chiaro. Però fino a che non viene assunto, le difficoltà si moltiplicano, perché si
28
Cf. J. Poulain, Pragmatique et ontologie, in A. Jacob (dir.), Encyclopédie Philosophique Universelle. I: L'Univers
Philosophique, Paris 1989, pp. 512-520.

44
giudica la nuova situazione a partire dai presupposti di quella antica e allora, effettivamente, la
proposta risulta inaccettabile. A questo bisogna aggiungere anche la resistenza, così bene analizzata
da Th. S. Kuhn a proposito delle “rivoluzioni scientifiche” – per principio più neutre e oggettive! –
che ogni paradigma in declino presenta al momento di riconoscere le evidenze che obbligano ad
adottare il nuovo. Di fatto, quando si giudicano dalla nuova ottica, questa è l'impressione che
producono molte delle ragioni che vengono addotte per opporsi a un cambiamento in questo
terreno.
Ad ogni modo, non si può ignorare il carico di serietà che a tali obiezioni conferiscono sia il loro
radicamento nel mondo biblico sia i lunghi secoli di pratica tradizionale. Ad esse di solito se ne
aggiungono anche altre di carattere antropologico e linguistico. Proviamo ad accennarvi
brevissimamente.
Che nella Scrittura, compresi il Nuovo Testamento e lo stesso Gesù, si pratichi e si raccomandi
la preghiera di petizione, è un dato evidente. Negarlo sarebbe semplicemente disonesto. Però, come
sempre succede con la Bibbia e la Tradizione, una volta che si è superata una lettura letterale e
fondamentalista, la cosa decisiva non sta nella lettera, ma nello spirito. È certo che dietro di noi ci
sono secoli di preghiere in forma di petizione, ma è anche certo che sono gli stessi in cui è esistita
una lettura letteralista: fino a ieri si prendevano alla lettera la stella di Betlemme e i Magi, gli
angeli e i pastori; come si davano per accaduti tutti e i singoli miracoli, o si cercavano impossibili
concordismi tra le narrazioni e le teologie dei quattro evangelisti. Oggi, senz’altro, nessun biblista
serio dice che tutto questo è bugia; però proclama, con il Vaticano II, la necessità di superare la
lettera alla ricerca del suo significato profondo.
È certo, per esempio, che Gesù raccomanda la petizione. Ma non lo è di meno che, se si persiste
nel prenderlo alla lettera, bisognerebbe riconoscere che o si è ingannato oppure ha voluto
ingannarci. «Chiedete e riceverete»: già da parecchio tempo C. S. Lewis – difensore, per altro verso,
della petizione – ha fatto notare che l'esperienza è piuttosto, dolorosamente, quella contraria: la
fiducia risvegliata da queste parole si vede quasi sempre frustrata29. Per questo la tradizione – e
prima ancora gli stessi evangelisti: Luca, per esempio, dice che verrà dato «lo Spirito» (Lc 11,13) –
ha cercato “spiegazioni” e posto “condizioni”; ha, cioè, interpretato.
D'altra parte, quando si esaminano criticamente i testi, si scopre facilmente che non sono né tanti
né tanto chiari come sembrano a prima vista. Il nucleo più forte fa capo a un gruppo di parabole –
l’amico importuno, il giudice iniquo... – che J. Jeremias ha chiamato «parabole di contrasto»; vale a
dire, parabole la cui diretta e primaria intenzione non è quella di esortare alla «petizione
perseverante» (questa enfasi, secondaria, è introdotta da Luca), ma all’assoluta fiducia, basata
giustamente sul contrasto tra la nostra meschinità e l'inaudito “molto più” della bontà e dell'amore
di Dio. Se risulta inconcepibile che un amico manchi in questo modo all'ospitalità e se perfino un
giudice iniquo finisce per dare retta alla vedova, «quanto più Dio!».30
Forse è più significativo ancora contestualizzare questi passi, in cui si coglie una circospezione
così evidente nelle parole di Gesù, che quasi danno l'impressione di un avvertimento al di sopra dei
secoli affinché scaviamo di più nel pozzo della lettera fino a trovarvi il nucleo decisivo della
fiducia. Matteo avverte: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire

29
Cf. C. S. Lewis, Letters to Malcolm: Chiefly on Prayer, London 1964 (tr. it., Lettere a Malcom, Neri Pozza, Venezia
1997); Id., Christian Reflections, Glasgow 1981, pp. 180s. (tr. it., Riflessioni cristiane, Gribaudi, Milano 1997, pp. 192-
203).
30
J. Jeremias, Le parabole di Gesù, tr. it. Paideia, Brescia 1967, pp. 182-190. La sua interpretazione è accolta e
confermata da J.A. Fitzmyer nel suo ampio e documentato commento, El evangelio según san Lucas, III, Madrid 1987,
pp. 326-332 e 840-853: «L'enfasi della narrazione sta in questa certezza assoluta che la preghiera sarà ascoltata» (p.
327); «L'argomentazione procede per contrasto: da minore a maggiore, da assurdo a ragionevole» (p. 335); «L'indicibile
generosità del vostro Padre, che è nel cielo, non è neanche paragonabile alla paternità umana» (p. 336). Lo stesso fa G.
Lohfink, nonostante si tratti di un lavoro in difesa della preghiera di petizione: Die Grundstruktur dia biblischen
Bittgebets, in Greshake - Lohfink (Hrsg.) Bittgebet - Testfall des Glaubens, cit., pp. 24-26.

45
ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete
bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8).31
Marco, da parte sua, compie equilibrismi in un testo strano e suggestivo: «Per questo vi dico:
tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà» (Mc
11,24)32. Il testo ha causato sempre difficoltà, poiché «sembrò troppo audace»33; ci sono perfino
tentativi di “correggerlo”, sostituendo quel passato («averlo ottenuto») con il presente o il futuro
(lambánete = “ottenete” o lémpsesze = “otterrete”). Ma non per nulla si è conservato. E ciò che è
fuori dubbio è che in esso si esorta a «una fiducia senza limiti»,34 che appare, una volta di più, come
la cosa fondamentale nell'intenzione di Gesù.
Altre difficoltà provengono da ambiti diversi. La prima allude alla presunta necessità
antropologica della petizione. Si dice, infatti, che anche i figli chiedono ai loro genitori, pur
sapendo di essere amati; e che nella petizione si mostra tanto la nostra umiltà e dipendenza rispetto
a Dio quanto la nostra solidarietà con i fratelli.
Si tratta certamente di esperienze serie e di valori molto reali. Tuttavia, è necessario sfumare, e
non basterà tutta l'attenzione a mantenere con squisito rispetto il giusto equilibrio che lasci a Dio di
essere Dio, nella sua differenza unica, al di sopra dei nostri limiti e deficienze. Per quanto ami, un
padre umano non sa tutto né è capace di essere sempre attento né libero da resistenze ed egoismi. In
quanto ai valori accennati, essi sono reali ed è bene che si esprimano. Questo però nessuno lo nega.
Il problema sta nel modo di esprimerli, così che, da un lato, rimangano ben evidenti e, dall’altro,
riflettano con verità il rapporto interpersonale in cui si realizzano.
È evidente che questi valori restano meglio espressi quando siano nominati per se stessi, senza il
contorno della petizione, e che in questo modo possono essere più facilmente e profondamente
assimilati. Inoltre, devono essere espressi rispettando la verità del Dio a cui sono diretti. La
solidarietà con i fratelli, se si esprime in forma di petizione, in primo luogo rimane solamente
implicita e, in secondo luogo, si verbalizza in un linguaggio che, quanto meno, oscura il fatto
primordiale che l'amore di Dio era già lì e che è Lui che invita noi. Con la nostra umiltà o la nostra
dipendenza succede esattamente lo stesso: espresse in forma di petizione, danno l’impressione di
stare dinanzi a un Dio che ha bisogno di essere convinto, placato o scosso.
La difficoltà linguistica si collega a questo: l’importante nella preghiera di petizione non è il suo
valore semantico, ma la sua forza pragmatica. Anche qui è necessario incominciare col riconoscere
che, effettivamente, il nucleo della preghiera non è un'esposizione teorica o uno sforzo speculativo.
Questo però non significa che le due dimensioni si possano separare e ancor meno contraddirsi.
Nessuno esprime il suo affetto con un insulto, né loda qualcuno chiamandolo canaglia. Perfino in
quei casi in cui il valore semantico è chiaramente messo tra parentesi, conosciamo il danno che
possono causare espressioni inadeguate. Un amore può appassire quando il linguaggio inclina verso
la violenza, la grossolanità o la mancanza di rispetto; e, andando all'estremo, nessuno ignora il

31
C'è sicuramente una protesta contro il famoso fatigare deos («stancare gli dei») a forza di suppliche, per convincerli.
Cf. T. Livio, XXVII 50,5; cf. anche Orazio, Carm. I 2,26; Tacito, Hist. I 29; Seneca, Epist. 31,5; e nell'A.T. la storia di
Elia, accennata nel testo, che si prende gioco dei sacerdoti di Baal: «Gridate con voce più alta, perché egli è un dio!
Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà» (1Re 18,27).
32
Certo, non conviene aggrapparsi eccessivamente alla forma: nell'aoristo elábete («avete ottenuto»), sembra trattarsi
«di un perfetto semitico [con significato] profetico» (R. Pesch, Das Markusevangelium, II Teil, Freiburg 19802, p. 203
nota 6 [tr. it., Il vangelo di Marco, 2 vol., Paideia, Brescia 1999, p. 313]). J. Gnilka, Marco, tr. it. Cittadella, Assisi
1987, p. 620, riduce di più il significato: «l'aoristo può avere un certo significato sul futuro, quando si trova dopo una
condizione futura (Bl-Debr § 333,2)». Invece, V. Taylor, Il vangelo secondo Marco, tr. it. Cittadella, Assisi 1977, p.
546, insiste sul fatto che «si riferisce a qualcosa che è già avvenuto» e segnala che Matteo lo sostituisce con lémpsesze
(«otterrete»), «con cui si perde il vigore della versione di Marco».
33
«Il tempo aoristo, che rappresenta l'uso semitico del perfetto profetico (che esprime la certezza di un'azione futura),
sembrò troppo audace e fu cambiato...» (B.M. Metzger, A Testuale Commentary on the Greek New Testament, London-
New York 19752, pp. 109-110).
34
«Ein grenzenloses Vertrauen» (Lohfink, Die Grundstruktur dia biblischen Bittgebets, cit., p. 23), che aggiunge: «Il
detto di Gesù, Mc 11,24, è così fermamente radicato nella tradizione cristiana primitiva che ancora lo riprende il quarto
evangelista e lo trasforma nella preghiera post-pasquale “nel nome di Gesù...” (Gv 14,13s)».

46
danno che può fare l'abitudine di bestemmiare, anche in quelle persone che non mettono in ciò
alcuna malizia.
La petizione, chiaramente, è un'altra cosa e, in generale, si muove in un clima di profondo
rispetto. Proprio per questo, però, può essere molto pericolosa. Perché la buona intenzione, facendo
abbassare la guardia, introduce in maniera molto efficace i controvalori accennati, deformando la
nostra immagine di Dio. Di fatto, quando lasciamo le discussioni più sottili e guardiamo ai suoi
effetti nella prassi normale, ciò appare con ogni evidenza. Il do ut des, il mercanteggiare con Dio, il
tentare di guadagnare il suo favore in cambio di qualcosa, il cercare “intercessori”, registra una
massiccia presenza nella gran parte delle preghiere.
Mi sia consentito concretizzare. Oggi stesso, il giorno in cui scrivo queste righe, ho visto una
donna percorrere in ginocchio l'abside della cattedrale di Lugo (sicuramente, per chiedere un favore
o, in ogni caso, per “pagarlo”); e da Washington ho ricevuto una email da un amico che mi chiedeva
di accendere una candela nella nostra cattedrale di Santiago, perché aveva chiesto una borsa di
studio e voleva «assicurarla anche da questo versante... ».
Invece – per concludere ormai il nostro tema – si pensi agli effetti positivi che un corretto
linguaggio in proposito può avere per educare la coscienza cristiana a un'immagine autentica del
Dio che «è amore», che sta lavorando senza riserva né riposo per la nostra salvezza e che c’invita ad
accoglierlo e a collaborare con Lui. La Scrittura stessa, letta con questa sensibilità, offre esempi
molto eloquenti in tale direzione. A livello intimo, ci viene detto che Dio «sta alla porta e bussa»,
per vedere se gli apriamo e lasciamo che ci riempia con la sua presenza35. A livello comunitario,
non ci chiede altro, attraverso Gesù, che di aiutarlo amando i nostri fratelli: «Avevo fame e mi avete
dato da mangiare» (Mt 25,35). E, in generale, Paolo così ci esorta: «Vi supplichiamo in nome di
Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
In verità, preso seriamente, questo atteggiamento non nega nessuno dei registri psicologici
dell’espressione e del desiderio, dell’ansia di aiutare, accogliere, migliorare e collaborare. Non si
tratta di sopprimere i reali sentimenti per ridursi a un monotono lodare o ringraziare. Se la preghiera
vuole essere davvero umana, ogni sentimento può e deve essere manifestato dinanzi a Dio. Ci è
chiesto solamente di situarlo nella sua verità, sforzandoci di rispettare con squisita attenzione
l’amore e il primato di Dio e di collocare nel suo giusto punto il nostro atteggiamento di creature
amate e beneficate, cercando di credere nell’amore “incredibile” di Colui che precede ogni nostra
iniziativa ed è più grande e generoso dei desideri del «nostro stesso cuore» (cf. 1Gv 3,20). In una
occasione ho ricordato il detto di una persona amica: siamo abituati a “lamentarci chiedendo”,
mentre sarebbe più giusto “lamentarci lamentandoci”. Si noti che, se mi lamento “chiedendo”, in
fondo il mio inconscio sta facendo Dio responsabile, o almeno lo vede come non ancora interessato
ad aiutarmi. Viceversa, se mi lamento “lamentandomi”, resta libero lo spazio per vederlo come
colui che mi accompagna e sente la mia pena, come colui che sta cercando di aiutarmi: pertanto, il
mio lamento si converte in scuola di fede e di fiducia.
D'altra parte, la creatività linguistica trova qui una magnifica opportunità. Perché è ovvio che
non si tratta di rinunciare ai valori ottenuti in secoli di esperienza e generosità, ma di esprimerli
nella loro massima purezza e significatività. Non ne esiste uno solo che non possa essere espresso
nel nuovo modo, poiché non si smette di chiedere per superbia, sfiducia o autosufficienza, ma
esattamente per il contrario: perché si sa e si confessa che Dio è da sempre amore che si dona con
generosità infinita. Cosa tanto grande che, in realtà, non siamo mai capaci di crederla del tutto e per
questo abbiamo bisogno della massima attenzione nell’uso della parola e del rispettoso esercizio
dell'accoglienza.
Viene qui offerto uno dei compiti più delicati e fecondi per la sensibilità religiosa. Di fatto, non è
raro osservare come, in generale, nella misura in cui matura la vita spirituale di una persona, le
formule di petizione vadano diminuendo in maniera spontanea, per lasciare il posto ad altre più
positive, come l'adorazione, la lode, l'azione di grazie, l'espressione della fiducia, l'aprirsi all
35
«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con
me» (Ap 3,20).

47
desiderio e all'accoglienza... Ed è significativo constatare come succeda la stessa cosa nel contesto
comunitario: basti osservare, per esempio, come la maggioranza dei testi dei nuovi canti religiosi
siano in questo senso molto riusciti.
Se prima accennavamo alla necessità di avvalersi in primo luogo delle risorse della mistica e poi
di quelle delle scienze umane, ora dobbiamo insistere sulla necessità di far riferimento alle persone
più direttamente impegnate nella “vita spirituale”, le quali, sensibili al nuovo vento dello Spirito,
stanno creando nuove forme di preghiera, forse perché la loro minore preoccupazione “scientifica”
lascia più libera e spontanea la loro creatività36.

36
Com’è naturale, ognuno trova autori che gli risultano particolarmente suggestivi. Io sono, per esempio, aiutato da
autori come L. Evély, Tony de Mello e M. Regal Ledo. Del primo, si veda L. Evély, La oración del hombre moderno,
Salamanca 19828 e, in generale, le ultime opere – sfortunatamente, già postume – che stanno apparendo [cf. in it., L.
Evély, Preghiere intime, Piemme, Casale Monferrato 1999; Id., Ogni giorno è un’alba, Borla, Roma 1990; Id.,
Insegnaci a pregare, Cittadella, Assisi 1981]. Del secondo, l'editrice Sal Terrae ha pubblicato tutte le opere realmente
preparate da lui per la pubblicazione, e la generosa accoglienza del pubblico è già tutto un simbolo: Anthony de Mello,
Obras Completas, Sal Terrae, Santander 2004 [in italiano le singole opere sono pubblicate, in particolare, dalle Edizioni
Paoline, Torino]. Del terzo, si veda, in galiziano, M. Regal Ledo, Un caxato per o camiño, Vigo 1988; Id., Chorimas.
Pregarias de amore e soidade, Vigo 1991; i commenti ai cicli liturgici: Id., Co Evanxeo pola man (Ciclo A);
Benqueridos amigos (Ciclo B), e Id., Convocados á irmandade (Ciclo C), Vigo 1992-1994. Amico e compagno nella
riflessione, sta facendo un ammirevole lavoro creativo in questo campo. Últimamente, animado por mí, ha publicado Os
Salmos hoxe. Versión oracional á luz do Evanxeo, Vigo 2012. Siempre se ha comprendido que no todos los salmos se
pueden “rezar”, al menos, sin forzar arificialmente su interpretación; por eso el Oficio litúrgico ha recurrido a
supresiones, sea de salmos enteros sea de versos dentro de otros. Creo que, por primera vez en cuento me es conocido,
se presentan aqui todos los salmos, con todos sus versos, “acomodándolos evangélicamente”, de modo que puedan
orarse de modo directo y espontáneo.

48
3. NUOVA RELIGIOSITÀ ED ESPERIENZA CRISTIANA DI DIO

A prima vista il mondo attuale, considerato religiosamente, offre uno spettacolo paradossale. Da
un lato: crisi della religione, disincanto del mondo, secolarismo generalizzato, ateismo rampante...
Dall’altro: New Age, mondo di nuovo popolato di dèi, riscoperta della religiosità, rinnovata fioritura
della religiosità popolare... Il religioso sembra di nuovo ubiquitario nella sua presenza e rigoglioso
nelle sue forme. Orientarsi è difficile; sarebbe però negativo lasciarsi trascinare dalla confusione.
Abbiamo bisogno di un minimo di chiarezza, per comprendere gli altri e per situare o risituare
correttamente la nostra posizione.
Qui interessano alcune considerazioni fondamentali che possano collegarsi con quanto già detto
sino ad ora, sia a proposito del cambiamento globale che del linguaggio religioso. E anche adesso,
più che questioni puntuali o descrizioni dettagliate, interessano i problemi di fondo che le
condizionano e le determinano. La trattazione, oltre che inevitabilmente ripetitiva in alcuni punti,
sarà indubbiamente più difficile e complessa; ma forse ci offrirà un orientamento, in definitiva, più
chiaro e fecondo.

1. Diagnosi globale

1.1 L'insoddisfazione nei confronti del passato

La proliferazione di nuove forme di religione, con le loro corrispondenti spiritualità, rappresenta


un fatto così notorio, così influente e massiccio che ha suscitato e continua a suscitare numerosi
studi. Dato, però, lo stato di effervescenza creativa del fenomeno e la diversità degli approcci nel
suo studio, ne risulta un'eccessiva varietà di distinzioni, tipologie e classificazioni. Com’è ovvio, la
sua analisi concreta dev’essere lasciata soprattutto ai sociologi, ai fenomenologi e perfino agli
psicologi della religione.1 La nostra riflessione deve interessarsi anzitutto al significato d’insieme,
tentando di comprendere la situazione radicale che non solo dà origine a questa proliferazione, ma
che continua ad alimentarla.
Per cominciare, e fintanto che non si azzardano giudizi di valore, esiste un accordo quasi
unanime: il fenomeno risponde a un'insoddisfazione generalizzata, che cerca di riempire il vuoto
provocato dall'abbandono della religione ereditata, in alcuni casi, o per lo scontento nei riguardi
delle sue forme stabilite, in altri. Là dove l'ansia di trascendenza – che, in maniera più o meno

1
In spagnolo si possono vedere M. Guerra, Los nuevos movimientos religiosos. Sectas, Pamplona 1993; J. Martín
Velasco, El malestar religioso de nuestra cultura, Madrid 1993 (soprattutto, cap. 2, pp. 53-80); J. Bosch, Para conocer
las sectas. Panorámica de la nueva religiosidad marginal, Estella 1994; B. Frank, Diccionario de la Nueva Era, Estella
1994; J. C. Gil - J. A. Nistal, «New Age». Una religiosidad desconcertante, Barcelona 1994; J. M. Mardones, Las
nuevas formas de la religión, Estella 1994; R. Berzosa, Nueva Era y Cristianismo, Madrid 1995; J. L. Sánchez Nogales,
La nostalgia del Eterno. Sectas y religiosidad alternativa, Madrid 1997. In queste opere si può vedere la bibliografia
fondamentale. Conviene segnalare anche la traduzione di J. Sudbrack, La nueva religiosidad. Un desafío para los
cristianos, Madrid 1990. [Cf. in it., CESNUR (a cura di M. Introvigne, P. Zoccatelli, N. Ippolito Macrina, V. Roldàn),
Enciclopedia delle religioni in Italia, LDC, Torino, 2001, n.d.t.].

49
definita, caratterizza la persona umana2 – è, da un lato sentita e, dall’altro non trova una risposta
soddisfacente, compare il terreno fertile per rifugiarsi in una delle molteplici forme che offre oggi il
mercato religioso o para-religioso.
Ciò che davvero interessa per una considerazione teologica è analizzare le cause di questa
insoddisfazione nel suo riferimento specifico al cristianesimo. In questo senso, è evidente che non
importa tanto una mera constatazione storica e meno ancora un atteggiamento belligerante, quanto
uno studio attento e completo. In questo modo si favorisce il conseguimento di due obiettivi
fondamentali: a) vedere ciò che tali manifestazioni possono insegnare come sintomi di una possibile
insufficienza nella risposta cristiana; e b) captare ciò che in esse vi è di richiamo e sfida per un
necessario rinnovamento, vale a dire, per la ricerca di un cristianesimo che intenda vivere all'altezza
del proprio tempo.
Questo obbliga a superare qualsiasi considerazione di riferimento immediato, per concentrarsi
piuttosto sull'analisi dei condizionamenti profondi. Cosa che risulta possibile solo inquadrando il
fenomeno all’interno del processo della cultura occidentale, poiché è in essa che si fa sentire con
tutta la sua forza. Più concretamente ancora: è necessario situarlo nel preciso quadro della crisi
aperta dall'avvento della Modernità. È stato in essa, effettivamente, che è nato il cambiamento
radicale che determina la situazione attuale.

1.2 La dialettica modernità-postmodernità

In un processo di tale complessità, diventa indispensabile schematizzare al massimo, rinunciando


probabilmente a importanti sottolineature, alla ricerca delle linee di forza fondamentali. E anche qui
esiste, per cominciare, un consenso quasi unanime: il quadro generale si delinea nella dialettica
modernità-postmodernità.
Nonostante sia ormai un luogo comune, questa diagnosi non cessa di essere illuminante, perché
allude alla maturazione che il passare del tempo ha introdotto nella prospettiva: il venir meno
dell'ottimismo iniziale che caratterizzava la modernità, obbliga a prestare maggiore attenzione alla
varietà e complessità della realtà storica. Il che offre l'opportunità per una visione d’insieme che
faciliti un dialogo realistico, evitando la ristrettezza dogmatica che, da una parte e dall’altra, ha
caratterizzato il confronto tra modernità e cristianesimo. Cosa comprensibile storicamente, ma che è
necessario gradualmente superare mediante un atteggiamento più comprensivo e dialogante.
La modernità, almeno per una sua parte molto importante, è stata contrassegnata da una
insoddisfazione diretta e globale nei confronti dell'eredità cristiana. Insoddisfazione, come ho
ricordato nel primo capitolo, che iniziò col tentativo di rinnovarla a fondo, ma che andò
acutizzandosi fino a rifiutarla totalmente con l'ateismo. Per la sua inculturazione nei vecchi schemi
teorici che allora erano messi in discussione e, soprattutto, per la sua posizione di potere e di
predominio nella società, il cristianesimo appariva come nemico dei nuovi progressi e come
negatore del sogno di futuro che si apriva dinanzi alla cultura emergente. Sfortunatamente, questa
impressione si rinnovava ogni volta a causa dei conflitti che, in maniera quasi fatale, ogni progresso
scientifico, sociale o filosofico provocava; al punto che Walter Kasper ha potuto scrivere anni fa:
«Non c'è nessuna importante scoperta scientifica moderna che non sia stata condannata o sospettata
da una delle chiese».3
Per molti, Dio finì per apparire come nemico del progresso e della pienezza umana e, alla fine,
come motivo di annullamento dell’uomo. Come si ricorderà, Feuerbach l'ha espresso in forma
lapidaria: «Affinché Dio sia tutto, l'uomo dev’essere niente».4 Il risultato fu la sua proposta di una

2
Su questo punto insiste con energia J. L. Sánchez Nogales, cit., pp. 5-11, che offre numerosi riferimenti di autori
classici.
3
W. Kasper, Introduzione alla fede, tr. it. Queriniana, Brescia 1972, p. 20.
4
L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1960, p. 52.

50
radicale antropologizzazione, che in certo senso costituì qualcosa come l'inaugurazione ufficiale
dell'ateismo. Marx, liberandola dalle sue connotazioni individualiste, trasformò la proposta in una
«quasi-religione» (Tillich) che assolutizzava il processo sociale, a sua volta incluso in quello della
umanizzazione della natura. Freud completò la reazione, introducendovi la dimensione psicologica,
che sporgeva l’umano su profondità inedite, letteralmente abissali. Nel clima attuale non è facile
farsi interpreti dell'enorme capacità di entusiasmo e mobilitazione che la scoperta di queste
prospettive – autentici «nuovi continenti», come li chiamerebbe Althusser – suscitò nell'umanità5.
Fa quasi arrossire ricordare cose tanto note. Ma è necessario, perché costituiscono elementi
fondamentali nella strutturazione della coscienza moderna, compresa la nostra. Un cristianesimo
che pretenda di essere credibile non può rinchiudersi in una semplice reazione apologetica: avrà
diritto di criticare le esagerazioni, ma non di respingere ciò che tali scoperte comportano
d’irrinunciabile progresso.
Per fortuna il processo culturale stesso si è incaricato di smascherare gli eccessi, rompendo le
illusioni assolutizzanti, obbligando a una maggiore moderazione nelle aspettative e a una maggiore
prudenza nelle critiche. La “dialettica dell'Illuminismo”, messa a nudo nell'opera precorritrice di
Theodor W. Adorno e Max Horkheimer,6 si trasformò nel vessillo della presa di coscienza di ciò
che la profonda crisi dell’Occidente aveva già introdotto nell'ambiente culturale generale.
In questa nuova coscienza risiede il significato fondamentale della postmodernità. Il che spiega
le sue due principali valenze. La prima è di carattere negativo, per il fatto che, come reazione polare
all'ottimismo precedente, tende a suscitare la rinuncia non solo ad ogni utopia, ma perfino ad ogni
speranza di rinnovare il mondo e la società. I simboli che la confermano sono il fallimento del
“maggio ‘68” e, a suo modo, la caduta del muro di Berlino. Il carpe diem e il conformismo sociale
ne costituiscono forse i frutti meno sani e meno gradevoli.
Non è lì, tuttavia, il suo nucleo più vero. Esiste una seconda valenza, positiva, che si concentra
nel fatto di avere favorito la percezione di nuovi valori. Nell'ambito dell’individuale ha suscitato, o
almeno ravvivato, la rivalutazione del piccolo, la tolleranza verso il diverso, la de-assolutizzazione
dello stabilito, il nuova apprezzamento del corpo, la rivitalizzazione dell'esperienza... E, forse
soprattutto, nell’ambito del collettivo ha aperto la strada per la comprensione e l’esperienza di una
nuova universalità, che cerca la propria espressione attraverso una spiritualità fondata sull’armonia
con la natura, su una “nuova alleanza” con il cosmo e su una fraternità a misura d’uomo, senza
credo esclusivi e senza imperialismi culturali.

1.3 La presenza elusiva del sacro

Sarebbe eccessivo pensare che in tutto questo processo sia stato completamente assente il sacro,
almeno se lo prendiamo non nelle sue forme istituzionalizzate e confessionali, ma come
5
Il processo globale, come costruzione di una «filosofia dell’immanenza», è ben analizzato – con la unilateralità che
segnalerò nel testo – da Y. Yovel, Spinoza and Other Heretics. I: The Marrano of Reason; II: The Adventures of
Immanence, New Jersey 1989; in spagnolo è tradotto in un solo volume con il titolo Spinoza, el marrano de la razón,
Madrid 1995. La stessa idea era stata accentuata da K. Löwith, soprattutto in Gott, Mensch und Welt in der Metaphysik
von Descartes bis zu Nietzsche, Göttingen 1967 [tr. it. Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Morano, Napoli
1966] e prima in Id., Von Hegel zu Nietzsche. Der revolutionare Bruch im Denken des neunzehnten Jahrhunderts
(1941), Hamburg/Wamdsbeck 1969 [tr. it. Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1971]
6
Horkheimer - Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, tr. it. cit. Com’è risaputo, già Hegel, con il suo geniale senso
storico, aveva detto al riguardo cose fondamentali: Fenomenologia dello spirito, cap. VI, tr. it. La Nuova Italia, Firenze
1963, vol. II, pp. 42-135; e Glauben und Wissen, in Werke in zwanzig Bänden, t. 2, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969, pp.
287-433 [tr. it., Fede e sapere, in Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971, pp. 121-261]. Cf., tra molti altri, E. Jüngel,
Dio, mistero del mondo, tr. it. Queriniana, Brescia 1982, pp. 91-107; A. Léonard, La foi chez Hegel, Paris 1970, pp. 43-
67; R. Mate, La crítica hegeliana de la Ilustración, in R. Mate - F. Niewöhner (coord.), La Ilustración en España y
Alemania, Barcelona 1989, pp. 47-68; Id., Memoria de Occidente. Actualidad de pensadores judíos olvidados, Madrid
1977.

51
quell'orizzonte di riferimento ultimo cui si apre la trascendentalità umana. Benché in forme diverse
e in modo spesso “elusivo”,7 la sua presenza si fa sentire nei due momenti analizzati.
Nella modernità secolarizzata, mano a mano che essa è andata maturando storicamente, la
sollecitazione “dell’Altro” si è insinuata in varie maniere. Forse niente è più significativo del fatto
che lo stesso Nietzsche, il grande annunciatore della “morte di Dio”, abbia gridato sempre il suo
annuncio “contro” il cristianesimo – ed egli sapeva molto bene che «chi persegue, segue» – e a
favore del super-uomo; cioè, a favore non di un'assolutizzazione semplicemente dell’umano, ma di
qualcosa di più profondo e di più alto che, più in là del «dio morale», sta sicuramente delineando
una nuova figura della Trascendenza8. Così almeno, con molti altri, l'interpreta Heidegger.9 Del
resto, non è meno significativo che la grande “svolta” (Kehre) del pensiero heideggeriano consista
giustamente in una uscita dalla radicale finitezza del Dasein verso l'infinita trascendenza
dell’”Essere”.10 Si potrebbe accennare anche al curioso fenomeno del gran numero di filosofi che,
nell'ultima tappa del loro pensiero si aprono al problema della Trascendenza o accentuano la loro
apertura verso di essa: è ciò che, in fondo, si vuole dire quando si parla del “secondo” o “ultimo”
Fichte, Schelling, Husserl, Wittgenstein, Heidegger...11
In questi casi predomina la considerazione teorica. Questo tipo di presenza della Trascendenza
non è però diventato meno sensibile a partire dalla considerazione pratica. Questa si potrebbe
riassumere tanto nella discussione tra W. Benjamin e M. Horkheimer circa il senso di una storia
caricata dell’immenso peso di tante «vittime irredente» (la risposta può essere solo “teologica”, è la
conclusione cui giungono)12, quanto nella famosa frase del secondo: presenza della Trascendenza
almeno come «nostalgia che il boia non trionfi sulla sua vittima».13

7
Su questo carattere insiste G. Amengual, Presencia elusiva, Madrid 1977.
8
Cf., per esempio, le fini osservazioni di P. Valadier, Nietzsche e la critica radicale del Cristianesimo, tr. it.
Augustinus, Palermo 1991, pp. 513-532: da Nietzsche, nonostante i suoi eccessi, giunge un richiamo molto decisivo a
favore di un cristianesimo veramente aperto, positivo e creativo.
9
M. Heidegger, Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege, Pfullingen 19634, pp. 193-247 [tr. it. La sentenza di
Nietzsche „Dio è morto“, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 191-246]. Oltre che in qualche altro
lavoro, la visione principale si coglie nel suo Nietzsche, due volumi apparsi nel 1961. (Le lezioni originali – che
Heidegger ha qui rielaborato – risultano ora accessibili nei tomi 43 e 44 della Gesamtausgabe [tr. it. Nietzsche, Adelphi,
Milano 1994]).
10
Mi permetto di rimandare al mio lavoro Heidegger y el pensar actual sobre Dios, in «Revista Española de Teología»,
50 (1990), pp. 153-208; ora anche in El problema de Dios en la Modernidad, Estella 1997; ivi cerco d’interpretare la
sua posizione come un «teismo dalle mille qualifiche o qualificazioni?]» (in riferimento alla famosa parabola di A.
Flew).
11
Conviene, naturalmente, essere molto cauti in questo tipo di apprezzamenti che, nel mio caso, alludono soprattutto
all'apertura sul problema, non all'esistenza di una soluzione concreta. Non sembrano, però, accettabili posizioni così
chiaramente riduzioniste del religioso, come quelle accennate di Löwith o Yovel, che ricorrono perfino alla simulazione
psicologica (al «marranismo» nel caso di Yovel), per eliminare, quantomeno, la realtà di questa preoccupazione. Più
realiste ed equilibrate risultano, per esempio, le posizioni di W. Schulz, Der Gott der neuzeitlichen Metaphysik,
Pfullingen 1957 [tr.it. Il Dio della metafisica nell’età moderna, Lateran University Press, Città del Vaticano 2008] e W.
Weischedel, Der Gott der Philosophen. Grundlegung einer philosophischen Theologie im Zeitalter des Nihilismus, ed.
DTV, München, 1979 [tr. it. Il Dio dei filosofi: fondamenti di una teologia filosofica nell’età del nichilismo, il
Melangolo, Genova 1988] che, senza decidersi per un’opzione teista, riconoscono come fondamentale la presenza di
questo fenomeno. Da un punto di vista chiaramente affermativo, cf. C. Ciancio - G. Ferretti - A. M. Pastore - U. Perone,
In lotta con l'angelo. La filosofia degli ultimi due secoli di fronte al Cristianesimo, SEI, Torino 1989; Pannenberg,
Philosophie und Theologie cit; tr. it. Filosofia e teologia cit.
12
Cf. H. Peukert, Wissenchaftstheorie - Handlungstheorie - Fundamentale Theologie. Analysen und Status
theologischer Theoriebildung, Düsseldorf 1976, p. 279; qui, pp. 278-280, si possono vedere i testi del dialogo; cf. anche
J.J. Sánchez, La esperanza incumplida de las víctimas. Religión en la Teoría Crítica de la Escuela de Frankfurt, in M.
Fraijó (ed.), Filosofía de la religión. Estudios y textos, Madrid 1994, pp. 617-646.
13
M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, tr. it. Queriniana, Brescia 1972, pp. 74-75; J.B. Metz insiste con
instancabile energia su questo punto con la sua rivendicazione della «ragione anamnestica». Le ragioni che gli oppone J.
Habermas, anche nel caso fossero convincenti, non annullerebbero in alcun modo la forza della sua argomentazione (in
fondo, a nostro avviso, la confermerebbero). Cf. J. Habermas, ¿A quién pertenece la razón anamnética?, in «Isegoría»,
10 (1994) pp. 107-117; si tratta precisamente di una conferenza in omaggio a Metz. Lui stesso rimanda alle seguenti
opere di questi: J. B. Matz, Spirito dell'Europa - spirito del cristianesimo: Momenti della discussione, in G. Ferretti

52
Nella postmodernità le cose sono, da una parte, più complicate e, dall’altra, più esplicite. C'è, ad
esempio, l’incrinatura dell'ottimismo teorico che, attraverso le crepe di un'immanenza spezzata nella
sua assolutizzazione e disillusa dalle sue ottimistiche promesse, lascia di nuovo vedere, o almeno
presentire, lo splendore della Trascendenza. Il «credere di credere» di Gianni Vattimo14 rappresenta,
in questo senso, un chiaro sintomo: non solo per la netta affermazione di fondo, ma anche per la
decisa distanza rispetto alla configurazione istituzionale15. In generale, proprio perché nasce
dall’incrinatura dell'immanentismo assolutizzato e negatore, il religioso ora si fa sentire in maniera
molto più esplicita. Di fatto, in molti aspetti, coincide col nuovo re-incanto del mondo o vive in
stretta complicità con esso.
Nascendo, come abbiamo detto, da un malcontento o semplicemente da una mancanza di
collegamento con le offerte religiose tradizionali, la tendenza generale è quella o di rinnovare
quest’ultime (sia come reazioni interne nelle grandi religioni, sia come arricchimento nel dialogo
con le altre, sia come accelerato aggiornamento al contatto con la modernità)16, oppure di crearle
nuove di zecca, come frutti di una “nuova era” che, con un’espressione abbastanza generale, si
qualifica come «era dell’acquario».17
Cercando di andare al fondo di un panorama che si è trasformato in un autentico universo
religioso-culturale e, proprio per questo, ancora troppo complesso e confuso, si potrebbe forse
affermare che sono due i poli che in qualche modo strutturano il suo campo di forze e organizzano
la sua ricchissima polifonia.
Da un lato, la ricerca della fraternità universale e concreta insieme, che faccia sentire il calore
della vita nel piccolo gruppo, con “calde” relazioni di mutuo aiuto e di vicinanza emotiva, e
permetta d’avvertire l'intima e armoniosa comunione del reale, sia umano sia naturale e perfino
cosmico, in un impulso “olistico” di apertura alla totalità. Dall’altro, la forte ricerca di esperienza
dell’Assoluto e di comunione mistica con lui (o esso), in modo che tutte queste relazioni si vivano
come la sua manifestazione più o meno trasparente; di lì il ricorso alle tradizioni esoteriche,
comprese quelle dei grandi mistici e, soprattutto, il contatto con le religioni orientali18.
Guardando l'insieme, nel tentativo di una sintesi della sintesi, forse si potrebbe precisare quanto
detto nel modo seguente:
1) La Modernità “scopre” la nuova consistenza del mondo come compito umano esaltante. Lo
scontro inevitabile con i suoi limiti, ha fatto rinascere la nostalgia di una diversa Pienezza. Non la
riconosce, però, nel Dio della religione stabilita.

(ed.), Filosofia e teologia nel futuro dell'Europa (Facoltà di lettere e filosofia, Atti del V Colloquio su Filosofia e
Religione, Macerata, 24-27 ottobre 1990) Milano 1992, pp. 19-44; prima: Id., Unterbrechungen, Gütersloh 1981; Id.,
Jenseits bürgerlicher Religion, München 1980; Id., Anamnetische Vernunft, in A. Honneth et alii (eds.),
Zwischenbetrachtungen, Frankfurt a.M. 1989; Id., Die Rede von Gott angesichts der Leidengeschichte de Welt, in
«Stimmen der Zeit», 5 (1992); Id., Al cospetto degli Ebrei. La teologia critiana sopo Auschwitz, in «Concilium», 5
(1984), pp.50-65; Id., La teologia e la fine del moderno, in «Concilium», 1 (1984), pp. 38-47; Id., Im Aufbruch einer
kulturell polyzentrischen Weltkirche, in F.-X. Kaufmann – J. B. Metz, Zukunftsfähisgkeit, Freiburg 1987, pp. 93-115 [tr.
it. Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988]. [Si veda, ora, la più recente
sintesi che l’autore ha dato sul tema in Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista (or. ted.
2006), tr. it. Queriniana, Brescia 2009].
14
G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996; lo stesso Vattimo aveva anticipato queste idee in una sintesi
che, a mio parere, risulta più vigorosa e anche più convincente: Id., La traccia della traccia, in J. Derrida - G. Vattimo
(edd.), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 75-89. In Spagna, con un altro stile, E. Trías rappresenta qualcosa di
strutturalmente parallelo: cf. la sua ultima presentazione in E. Trías, Pensar la religión, Barcelona 1997.
15
«Confesso che il chiarirsi di queste idee [...] l’ho vissuto come un grande evento, come una sorta di ‘scoperta’
decisiva. [...] come se mi permettesse un ritorno a casa – anche se ciò non significava, e non significa neanche ora,
ritorno alla Chiesa cattolica, alla sua disciplina insieme minacciosa e rassicurante» (Vattimo, Credere di credere, cit., p.
32).
16
È una tipologia meramente indicativa: per maggiori dettagli cf. le opere indicate alla nota 1.
17
Emblematica resulta l’opera di M. Ferguson, La Cospirazione dell’Acquario, tr. it. Tropea, Milano 1999; anche F.
Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, tr. it. Feltrinelli, Milano 1996.
18
Anche in questo risulta emblematica l’opera di F. Capra, Il Tao della fisica, tr. it. Adelphi, Milano 2002.

53
2) La postmodernità “religiosa”, partendo da quest’apertura, si scompone in molteplici forme,
alla ricerca di un vissuto di fraternità che abbracci tutto il reale e porti a un'esperienza rinnovata
dell’Assoluto. Il suo maggiore pericolo consiste nell'evasione esoterica e disimpegnata, nella
spersonalizzazione che tende a ritornare entro i limiti della religione puramente cosmica e naturale.
In tal caso verrebbe a perdere il meglio della modernità, trasformandosi in un alibi che disattiva
l’irrinunciabile protesta contro l'ingiustizia19.
Capisco che questa drastica caratterizzazione risulta molto audace ed è sicuramente ingiusta. Ma
forse serve da schema basilare per dare concretezza a ciò che in tutto questo c'è di richiamo e di
sfida per la coscienza cristiana.

2. La risposta cristiana

2.1 Dalla reazione apologetica alla creatività storica

Proprio di questo si tratta, in definitiva. Ci troviamo dinanzi a una sfida di tale portata che, nelle
sue due forme fondamentali, tocca in maniera vitale e profonda gran parte del mondo attuale. La
reazione cristiana sarà credibile solo se riesce ad accogliere ciò che vi è di genuino in questi
richiami del nuovo e si mostra capace d’integrarlo, dinamizzarlo e arricchirlo a partire dal suo
specifico progetto. Condizione indispensabile per questo è lasciarsi onestamente mettere in
discussione e, rinnovando il contatto con le proprie radici, mostrarsi disposti al cambiamento e al
rinnovamento: alla “conversione”.
Per questo, sarebbe del tutto sbagliata la via della reazione apologetica a oltranza, sia nelle
forme dure dei fondamentalismi, sia in quelle più blande dell'irrigidimento istituzionale, cercando di
“serrare le file” attorno al “piccolo gregge”. Quest’ultima scelta mette il cristianesimo al coperto
dalle sfide del mondo, ma al prezzo di nascondere sotto il moggio la luce che dovrebbe brillare per
tutti sulla montagna della nuova cultura. Così non sarebbe neppure bene entrare nel gioco dei
risentimenti che, tra l’accusare e il difendersi dalle accuse, perde tempo prezioso, già di per sé
scarso per la vastità del compito comune (e Nietzsche, che tanto ha parlato del risentimento, qui non
è senza gran parte della colpa)20.
Ed è certo che, osservando sia la nascita storica sia l'originalità del messaggio, non ci sono
motivi per la paura o il rimpicciolimento della fede (la oligopistía) che, come Pietro di fronte alla
bufera (Mt 14,31), vedono nello sconvolgimento attuale solo il pericolo di naufragio e non le
possibilità di una nuova rotta. Nella sua stessa origine, il cristianesimo è una religione profetica e di
risposta alla crisi. Il suo Fondatore ha spezzato conformismi (sino al prezzo della vita), e ha
proiettato una luce sulla possibilità di esperienze radicalmente nuove e feconde in un mondo
angosciato, sul punto di partorire una nuova era21. E quanto al messaggio, ha dimostrato di essere
capace di creatività e di rinnovamento storico, smentendo sempre le profezie di una fine che tante
volte sembrava evidente.
È chiaro, però, che le dichiarazioni formali non bastano. È necessario cercare oggi quei vettori
che dal proprio intimo si mostrino capaci di affrontare creativamente la nuova sfida. Seguendo lo
schema precedente, cercheremo di dire qualcosa a riguardo della sfida globale nelle sue due tappe.
19
In questo senso, sono particolarmente lucide e profonde le osservazioni di Mardones, Las nuevas formas de la
religión, cit., pp. 172-174.
20
Con la sua abituale prudenza dialogante, lo ha sottolineato P. Ricoeur, Religion, Ahteism, and Faith, in A. MacIntyre
- P. Ricoeur, The Religious Significance of Atheism, Columbia University Press, New York 1969, pp. 57-98 [tr. it.
Religione, ateismo, fede, in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1972, pp. 445-481]. Prima, con
maggiore intransigenza, lo aveva fatto M. Scheler, Il risentimento nell'edificazione delle morali, tr. it. Vita e Pensiero,
Milano 1975.
21
Cf. E. R. Dodds, I greci e l’irrazionale, tr. it. Sansoni, Firenze 2003; Id. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia,
tr. it. Le Monnier, Firenze 1970.

54
2.2 Una risposta differenziata

1) Il primo momento, sin qui caratterizzato come modernità, offre un’immagine relativamente
chiara e ha dato tempo alla teologia di meglio elaborare la sua risposta. È stato un lungo e duro
cammino, ma almeno si è creata una situazione nuova.
Sul piano teorico non è possibile unanimità, dato l'enorme pluralismo che caratterizza la cultura
attuale. Si è abbandonata però la terribile chiusura nella fortezza scolastica, assumendo la critica
storica e riconoscendo la legittimità delle nuove filosofie, che hanno potuto così essere praticate –
dalle trascendentali alle ermeneutiche – nello sforzo di aprire strade verso la Trascendenza e di
attualizzare l'intelligibilità della fede. Sul piano pratico, passando per teologie parziali come quella
del lavoro o delle realtà terrene, e patendo l'austera cura della secolarizzazione, si è giunti – benché
con grande ritardo storico – alle visioni complessive che offrono le diverse teologie politiche e della
liberazione, compresa quella femminista.
In entrambi i piani il processo si è andato accompagnando alla gestazione di una nuova
spiritualità, chiaramente visibile negli sforzi di rinnovamento kerigmatico, liturgico e pastorale,
come pure nella rivitalizzazione della dogmatica che, da un lato, riconobbe il suo «deficit di
esperienza»22 e, dall’altro, con le parole di Urs von Balthasar, comprese la necessità di «mettersi in
ginocchio».23 E oggi stesso possiamo osservare con che profondità e vigore teologi della prassi
come G. Gutiérrez24 o J. B. Metz25 – per citare solamente due fondatori – stanno esplicitando
l'intensa spiritualità insita nell’impegno liberatore della fede.26
2) Il secondo momento, quello della postmodernità, essendo attualmente in piena ebollizione,
non permette risposte di profilo così nitido. Questo però non impedisce che le stia ricevendo, e forse
in modo più intenso e plurale di quanto si possa sospettare. In realtà, il fatto stesso che si stia
vivendo il cristianesimo in questa situazione significa che, in qualche modo, si stanno dando
risposte reali. Avere fede oggi è, alla fine dei conti, essere in qualche misura “cristiani
postmoderni”. Molte manifestazioni attuali, anche quelle che non ne sono il riflesso immediato, ne
portano, senz’ombra di dubbio, l’impronta. Cosa che appare chiaramente, per esempio, nei
movimenti carismatici di vario segno, in taluni aspetti delle stesse comunità di base e
nell'accentuarsi del fenomeno dei “cristiani senza chiesa”27.
Inoltre, come c’era da aspettarsi, è andata sorgendo una riflessione esplicita, che scopre profonde
affinità tra il cristianesimo e aspetti importanti del nuovo clima. Si è cercato l'aggancio con la
tradizionale “teologia negativa” e la sua de-assolutizzazione delle formule stabilite, la sua critica
degli idoli e la sua valorizzazione del piccolo e del marginale.28 E, positivamente, si è cercato di
scoprire quei punti in cui le nuove inquietudini risuonano nella coscienza cristiana come un

22
G. Ebeling, Die Klage über das Erfahrungsdefizit in der Theologie als Frage nach ihrer Sache, in Wort und Wahrheit
III, Tübingen 1975, pp. 3-28.
23
Continua a essere illuminante il suo lavoro: H. U. von Balthasar, Teologia e santità, tr. it. in Verbum Caro,
Morcelliana, Brescia 1980, pp. 200-229.
24
Tra le altre opere, cf. G. Gutierrez, Beber en su propio pozo, Salamanca 1983 [tr. it., Bere al proprio pozzo.
L’itinerario spirituale di un popolo, Queriniana, Brescia 19893].
25
Già in J. B. Metz, Tempo di religiosi? Mistica e politica della sequela, tr. it. Queriniana, Brescia 1978; cf. anche, tra
gli scritti più recenti, Id. Memoria passioni cit.
26
Come visione generale risultano molto suggestivi P. Casaldáliga - J. M. Vigil, Spiritualità della liberazione, tr. it.
Cittadella, Assisi 1995; J. Sobrino, Liberación del espíritu. Apuntes para una nueva espiritualidad, Santander 1985; Id.
Spiritualità e sequela di Gesù, in I. Ellecuría – J. Sobrio (edd.), Mysterium Liberationis, tr. it. Borla/Cittadella, Roma
1992, pp. 883-904.
27
Espressione resa popolare da L. Kolakowski, Chrétiens sans Église, Gallimard, Paris 1969; cf. anche L. Forsler
(Hersg.), Religiös ohne Kirche, Mainz 1977.
28
Cf., per esempio, E. Borgmann, Teologia negativa come discorso postmoderno su Dio, in «Concilium», n. 2 (1995),
pp. 148-160.

55
richiamo a ristabilire il contatto con le potenzialità e le latenze che germinano al suo interno. Così li
sintetizza, per esempio, J. M. Mardones, un valido studioso del problema: sete di esperienza di Dio,
bisogno di mistero, ricerca del contatto con “uomini spirituali”, espressione in forma nuova della
presenza dello Spirito, desiderio di nuovi segni e sacramenti, superamento del moralismo
tradizionale e zelota, esperienza comunitaria, festa come comunione, religione per l'uomo,
valorizzazione delle altre religioni29.
Non è poco ciò che è stato ottenuto. Sarebbe insufficiente, però, se la coscienza teologica, dopo
le risposte elaborate sul filo della sfida fattuale, non cogliesse l'occasione per intraprendere un
ripensamento più chiaramente di principio. Voglio dire questo: la sfida della modernità nel suo
insieme è stata di tale portata che, in generale, la teologia si è vista obbligata a dare risposte
immediate che, in molti casi, sono state elaborate più a base d’accomodamenti e aggiunte che di un
ripensamento davvero sistematico. Oggi la prospettiva acquisita col passare del tempo, unita alla
generale sensazione di essere al punto di arrivo di una tappa e all’inizio di un’altra – a questo
alludono, senza dubbio, sia il prefisso post (postmodernità, postcristianesimo) sia il qualificativo
nuovo (nuova era, nuove religioni, nuova spiritualità) – permette ed esige un passo ulteriore.
La riflessione, riconoscendo già con una certa chiarezza i profili della tappa passata e l'evidente
necessità del cambiamento, deve scendere nelle proprie radici per elaborare a partire da esse una
risposta d’insieme. In termini evangelici, diremmo che non è più l'ora del rattoppo con panno nuovo
su panno vecchio, ma quella di otri nuovi per il vino di un’epoca nuova. In terminologia più attuale,
possiamo dire che è finito il tempo dell'aggiustamento o della semplice riparazione e s’impone un
cambiamento di paradigma.
Risulta assai rischioso cercare d’indicare le idee fondamentali attorno alle quali si dovrà
articolare il nuovo paradigma, e qualsiasi proposta finirà per riflettere in qualche modo la sintesi che
si è andata decantando nell'esperienza spirituale e teologica di chi la propone. Deve, pertanto,
sapersi parziale e aperta alla rettifica o all’integrazione. Esporsi però apertamente è l'unica strada di
cui dispone ogni teologo per dare il proprio apporto.

3. Gli assi della nuova sintesi

In questo senso, e sintetizzando al massimo, sono incline a proporre la seguente ipotesi di lavoro:
l'intuizione basilare capace di contribuire oggi all'articolazione di un nuovo paradigma della
spiritualità umana è quella del Dio che crea per amore. Situata nel più intimo dell'esperienza
biblica, questa intuizione viene oggi sollecitata a dispiegare tutte le sue potenzialità. Seguendo lo
schema dei capitoli precedenti, si potrebbero segnalare tre assi fondamentali lungo i quali si
dispiegano la sua efficacia e le sue ricchezza interne. Essi richiedono il rinnovamento dei tre
concetti fondamentali attorno ai quali si è cristallizzata la riflessione teologica. Essendo già stati
sviluppati precedentemente, basteranno ora semplici accenni fatti da questa particolare prospettiva.

3.1. L'asse della creazione: Dio come affermazione infinita

Questo asse si ravviva – nel doppio significato di essere messo in discussione e, per ciò stesso, di
mostrarsi capace di risposta – dinanzi alla grande sfida della prima modernità. Insistendo sul fatto
che la creazione si realizza unicamente ed esclusivamente per amore verso le creature, esso
permette di vedere Dio come affermazione infinita dell'uomo e del suo mondo.

29
Mardones, Las nuevas formas de la religión, cit., p. 177; cf. anche J. M. Mardones, Postmodernidad y cristianismo.
El desafío del fragmento, Santander 1988. Per un inquadramento culturale d’ampio raggio è importante H. Küng,
Teologia in cammino. Un’autobiografia spirituale, tr. it. Mondadori, Milano 1987.

56
L'azione creatrice è infinitamente transitiva, perché, esattamente al contrario di ciò che proclamò
Feuerbach, tanto più è e si espande quanto più si realizza la creatura. La tradizione cristiana lo ha
sempre riconosciuto. Per san Paolo, infatti, la creazione culminerà quando «Dio sarà tutto in tutti»
(1Cor 15,28), cioè, quando la creatura, lungi dal rimanere annullata, raggiungerà la sua massima
pienezza. A sua volta, sant’Ignazio di Antiochia l'ha espresso splendidamente, affermando che,
arrivati là, «saremo davvero umani».30 Nel frattempo, accogliere Dio e la sua grazia non significa
alienarsi, farsi servi o sminuirsi, ma, al contrario, raggiungere lo statuto di «figlio» (Gal 4,1-7) e
continuare a crescere verso «la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
Perciò, la modernità nella sua grande aspirazione alla compiuta realizzazione umana e alla piena
trasformazione del mondo, in nessun modo trova di fronte a sé, come suo nemico, il Dio Creatore.
Creando a partire dall'amore, Dio non è il rivale della creatura, bensì il suo promotore, che si
rallegra di ogni autentico progresso della stessa. Creando a partire dalla trascendenza della sua
infinita pienezza, Egli non si sostituisce all’azione della creatura, ma «crea creatori».31 La critica
moderna e l'accusa marxiana hanno storicamente la loro ragion d’essere; però non toccanlo il
nucleo dell'esperienza cristiana, bensì smascherano la sua deformazione. Il che è confermato oggi
dalla critica di alcuni ecologisti che, esagerando nella direzione opposta, pretendono di vedere nel
mandato genesiaco la causa della moderna distruzione della natura.32
Il fatto, certamente, non cessa d’essere paradossale, poiché ciò che prima era accusa di fuga dal
mondo che induceva a trascurare la trasformazione della terra, si converte ora in accusa di super-
sfruttamento della stessa. La riflessione cristiana, però, non può accontentarsi di concludere che la
contraddizione tra le obiezioni conferma la verità della sua intuizione fondamentale. L’importante è
approfittare delle critiche per correggere gli abusi e ritrovare un equilibrio più profondo, che
soddisfi anche le giuste richieste della nuova sensibilità. Ed è certo che prendere in tutta la sua
serietà la creazione a partire dall'amore, come atto unitario e integrale, permette di superare le due
grandi deformazioni che si erano installate nella cultura occidentale: lo squilibrio uomo/cosmo e il
dualismo sacro/profano.
Come atto unitario, la creazione da parte dell'unico Dio fonda la solidarietà indissolubile fra
tutte le creature: da quella fondamentale di uomo e donna, che nella loro reciproca unità,
costituiscono l’”immagine” del Creatore,33 passando per quella sociale, che unisce tutti come fratelli
per mezzo dell'unica legge dell'amore, fino a quella cosmica, poiché il “dominio” umano sulla terra
(cf. Gn 1,28) è in parallelo con l'incarico di «coltivarla e custodirla» (cf. Gn 2,15). Non stiamo
dicendo che tanto la preoccupazione ecologica quanto il nascente sogno cosmico siano già descritti
nella Bibbia. Aleggia, però, in essa certamente lo spirito che permette di assumerli nella gloria della
libertà e nella modestia dell'integrazione solidale e fraterna.
Come atto integrale, la creazione rompe ogni divisione più o meno manichea tra realtà buone e
realtà cattive, poiché per tutte e ognuna vale la preziosa affermazione con cui la Genesi scandisce il
suo racconto: «Dio vide che era cosa buona». Più ancora, annulla, se non la distinzione, almeno il
dualismo tra il sacro e il profano, perché Dio crea la creatura per se stessa, nella sua integrità senza
divisioni. Come ho detto in qualche occasione, «Dio non ha creato uomini e donne “religiosi”, ma

30
Alla lettera: «Arrivato là, sarò davvero uomo», Ad Romanos VI, 2; I padri apostolici, tr. it. Città Nuova, Roma 1976,
p. 124.
31
Cf. l’analisi, ricca di referenze, di A. Gesché, L’homme créé créateur, in «Revue Théologique de Louvain», 22
(1991), pp. 153-184; ora nel suo libro Dio per pensare, 2, L’uomo, tr. it. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996, pp.
59-99.
32
Cf. L. White, Jr., The Historical Roots of Our Ecological crisis, in «Science», 155 (1967), pp. 1203-1207; le sue idee
saranno riprese con vigore da C. Amery, Das Ende der Vorsehung. Die gnadenlosen Folgen des Christentums,
Reinbeck 1972, e poi da molti altri.
33
A questo allude l’inesauribile simbolismo dell’affermazione genesiaca: «E creò Dio l’uomo a sua immagine: a
immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gn 1,27), dove «a immagine di Dio lo creò» è in stretto parallelo
con «maschio e femmina li creò». Idea su cui, com’è risaputo, ha insistito con speciale forza K. Barth.

57
solamente e semplicemente uomini e donne “umani”».34 Essere davvero umani è quindi il modo di
essere religiosi, e viceversa. Per questo la genuina esperienza biblica sta oltre l'alternativa
disincanto/reincanto, sfuggendo le sue unilateralità e contraddizioni. In definitiva, si può affermare
che tutto è sacro (perché esce dalle mani di Dio) e che niente è sacro (perché è consegnato a se
stesso); o, per la stessa ragione, che tutto è profano e niente è profano.

3.2. L'asse della salvezza: Dio contro il male

Si capisce allora che a partire da qui si può riposizionare molto bene l'asse della salvezza. Perché
la modernità non è solo affermazione positiva e ottimista; è anche crisi provocata dal duro scontro
con i limiti e le contraddizioni del progresso, soprattutto col terribile seguito di “vittime” che la
storia non potrà mai redimere. Più che mai il cristianesimo ha bisogno di esplicitare con cura la sua
risposta alla nobile e giusta «nostalgia del totalmente Altro».
In realtà, come religione della croce e della risurrezione, il suo modo di rispondere a questa
domanda contrassegna il cristianesimo, sino a differenziarlo tra tutte le religioni. Lo mostra molto
bene, per esempio, la comparazione con l'Islam, poiché in quest’ultimo la sovranità trionfante di
Allah non lascia posto alla croce e al fallimento della storia.35 Ma tutto ciò dev’essere ripensato alla
ricerca di una nuova coerenza. Perché, paradossalmente, la stessa forza dell'episodio della croce ha
oscurato l'evidenza del suo messaggio, creando un versione “vittimista” che oscura la risurrezione e
deforma la visione dei due grandi misteri che nel destino di Cristo trovano la loro luce definitiva:
quello del male della creatura e quello della sua salvezza in Dio.
È questa situazione che chiede a gran voce, come vengo insistendo, una reimpostazione energica
e autenticamente rinnovatrice del problema del male.
A partire dalla creazione, è evidente che il Dio che crea per amore lo fa unicamente cercando il
bene della creatura. Così che è letteralmente assurdo pensare che Dio mandi il male, o anche
soltanto lo permetta. A partire dalla salvezza per mezzo di Cristo risulta ancora più facile accedere
a questo abisso di bontà. Lo stesso libro di Giobbe, così meritorio per l’eliminazione della falsa
risposta circa una retribuzione immediata – essere buono implica ricchezza e felicità; la disgrazia è
punizione per qualche peccato – dev’essere esteso sino al Calvario, che ne amplia i ristretti confini,
e sino al mattino di Pasqua, che illumina ciò che in esso è ancora rassegnato silenzio e oscura
promessa.
La croce mostra, con tutta la forza intuitiva della logica religiosa, l'inevitabilità del male, che la
logica metafisica scopre per un'altra strada. Nemmeno il «Figlio prediletto», in quanto vivente nella
limitatezza storica, può liberarsi dall'inevitabile attacco del male, che raggiunge nella passione il
suo orrore ultimo, ferendo specularmente lui nella sua carne e il Padre nel suo amore.
La croce però non è l’ultima realtà, dato che sfocia nella risurrezione. Così che anche qui la
logica religiosa rende intuitiva la conclusione ragionata che se Dio crea, è perché, nonostante tutto,
ne vale la pena per il mondo. Spezzati con la morte i limiti della storia, Dio si mostra capace di
accogliere col potere del suo amore questa peculiare “finitezza infinita” della persona umana, in
qualche modo infinitizzandola con l’accoglierla nella comunione della sua vita eterna.
Sconfiggendo la morte, la risurrezione di Gesù, come «primogenito dei morti» (Ap 1,5), sazia
finalmente la nostalgia della giustizia definitiva e mostra che Dio è capace di riscattare tutte le

34
Recuperar la creación. Por una religión humanizadora, Santander 1997, p. 74; è in qualche modo la tesi centrale del
libro, che afferma pure con una certa ironia e cosciente aria di sfida: «Dio non è “religioso”» (Ibid., pp. 71-76).
35
Per questo nel Corano la morte di Gesù è solo apparente, e Maometto, come tutti i profeti, ne esce sempre trionfante.
Cf. le interessanti osservazioni nel dialogo tra J. van Ess e H. Küng, Islamismo e Cristianesimo, in H. Küng - J. van Ess
et Alii, Cristianesimo e religioni universali. Introduzione al dialogo con islamismo, induismo e buddhismo, tr. it
Mondadori, Milano 1986, pp. 11-161. Su questo insiste pure con particolare energia J. Jomier, Un cristiano lee el
Corán, Cuadernos Bíblicos 48, Estella 1985, pp. 41-43.

58
vittime. Per grave che sia stata la croce della sua sconfitta, molto più alta è la gloria del suo trionfo.
Grazie a Gesù e al suo destino, sappiamo che non esiste vita umana che vada irrimediabilmente
perduta, poiché tutti – perfino quelli e quelle che non siano giunti a saperlo – sono attesi da un
amore che è più potente della stessa morte36.
Tenendo conto di tutto questo, l'esperienza cristiana, nel momento che onestamente riconosce la
giustezza di molte critiche, può anche proclamare il diritto alla validità e fecondità della sua
risposta. Da un lato, la forza ottimista della spinta creativa, moderata dal duro realismo della croce,
può accogliere ciò che vi è di più autentico nella modernità, senza le terribili conseguenze che sono
state il prezzo delle sue illusioni. Dall’altro, la luce della risurrezione, impedisce di cadere nella
completa delusione di una postmodernità paralizzante. Cercherò di chiarire meglio questo pensiero
nel paragrafo seguente.

3.3. L'asse della rivelazione

La continuità fra creazione e salvezza si prolunga nella rivelazione, poiché l'atto creatore non è
un “fare” che distacca da sé il prodotto, bensì una creatio continua che lo suscita e sostiene sempre,
in ogni istante. Per questo Dio è presenza sempre attuale, che sostenta, promuove e abita la sua
creatura. Benché il nostro pensare oggettivante stia sempre alimentando il fantasma di un Dio
staccato dal mondo, niente è più lontano dalla genuina esperienza biblica, che parla di Dio sempre
in intima relazione con noi e che, come ha ben visto sant’Agostino, ci è «più intimo della nostra
stessa intimità».37
La denuncia della deformazione oggettivante, che Hegel intuì come massima urgenza all’inizio
della modernità, può aiutarci a ripensare la rivelazione, permettendoci di assimilare alcuni dei
valori fondamentali della sensibilità postmoderna; accogliendoli in ciò che hanno di più positivo,
senza per questo soccombere ai demoni che minacciano di perderne i vantaggi. Tenendo conto della
precedente esposizione, mi atterrò agli aspetti più immediatamente collegati con il tema presente,
affondandoli a partir dalle provocazioni postmoderne; e chiedo scusa al lettore per l'inevitabile
densità di queste pagine, che può renderne difficile la lettura.

1) Il primo aspetto si riferisce a ciò che si è tentato di caratterizzare con l’aggettivo di debole, in
quanto rinuncia alle grandi idee, ai grandi racconti e ai grandi soggetti, con la corrispondente
valorizzazione di ciò che è umile.
In effetti, la reazione attuale, compresa quella che non cade in una eccessiva retorica minimalista
e decostruttiva, ha ragione di considerare irrimediabilmente rotta l'illusione totalitaria38. Con tutto
ciò, la coscienza cristiana ci dice che non per questo dobbiamo rimanere prigionieri della pura
finitezza. Dato che Dio tutto abita, essendo «il Tutto nel frammento»,39 il concreto non rimane nella
tristezza del moncone isolato, ma può essere vissuto come elemento inserito in una realtà più ampia
e definitiva, come anticipazione in spe: «sigillo e caparra» (cf. 2Cor 1,22) della pienezza futura.40 Il

36
mal e inferno
37
«Interior intimo meo et summior summo meo» (più intimo della nostra massima intimità e più elevato della nostra
massima altezza), Confessioni III, 6, 11.
38
È ciò che P. Ricoeur ha magnificamente espresso dicendo che, dopo averlo ringraziato, è necessario «rinunciare a
Hegel» (Temps et récit. III: Le temps raconté, Paris 1985, pp. 280-299 [tr. it. Tempo e racconto, vol. 3, Il tempo
raccontato, Jaca Book, Milano 1988, pp. 297-316]).
39
H. U. Von Balthasar, Das Ganze im Fragment, Einsiedeln 1963 [tr. it. Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano
1970]. Sulla ricchezza di significati del concetto di frammento», cf. D. Tracy, Frammenti e forme: universalità e
particolarità oggi, in «Concilium», 3 (1997), pp. 172-183.
40
Questo aspetto è stato sottolineato soprattutto da W. Pannenberg, passim; cf. per esempio, Offenbarung als
Geschichte, Göttingen 19704, p. 106 [tr. it., Rivelazione come storia, EDB, Bologna 1969, p. 184-185], dove, a
proposito della rivelazione, dice che «si tratta del punto culminante della nuova concezione che stiamo approntando»;

59
piccolo, sia passero del cielo o giglio del campo, è abitato da una gloria infinita. E nella relazione
umana ogni uomo o donna – compreso il povero e il lebbroso, l’emarginato dal progresso,
l'immigrato e il clandestino – acquisiscono l'intima vicinanza di “prossimo”; così che vale la pena
qualunque impegno per loro, anche se fosse il limitato rimedio dell'olio e dell'aceto per le loro ferite
o la limpida e umile tenerezza di un bicchiere d’acqua per la sete.

2) C'è però un'altra istanza, forse più fondamentale: la rivelazione biblica sembra in grado di
mostrare il suo genuino nucleo esperienziale.
Curiosamente, qui i risultati della critica biblica occidentale s’incontrano con il richiamo
orientale all'esperienza dell'Assoluto. La prima, come già abbiamo visto, spezzando il
fondamentalismo della lettera, mostra che la rivelazione non è un “dettato” letterale, caduto dal
cielo come un meteorite già perfetto e finito, ma si realizza in e attraverso il lento, duro e tortuoso
lavoro della soggettività umana. Non è qualcosa che “viene da fuori”, ma “esce da dentro”: consiste
giustamente nel rendersi conto della Presenza che ci costituisce, ci abita e da sempre cerca di
manifestarsi a noi41.
Questo è ciò che vuole indicare la rivelazione come maieutica storica. Idea, del resto, per nulla
estranea alle concrete e reali modalità dell'esperienza biblica: «Certo, il Signore è in questo luogo e
io non lo sapevo» (Gn 28,16). «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora
io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri» (Ger 31,33-34).
«Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che
questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42).
Inaspettatamente, in quest’accentuazione dello specifico cristiano s’inserisce il richiamo
dell’Oriente. Perché il suo stimolo aiuta a riconoscere che il vissuto della rivelazione – benché
difficile, profondo e mai perfettamente oggettivabile – è esperienza reale e vera, poiché rimanda a
una presenza viva che chiede di essere riconosciuta e “verificata”. Di fatto, in questo senso il vivo
contatto con la religiosità orientale non risponde a una moda collettiva o al capriccio di qualche
pioniere in cerca di originalità a ogni costo. Si tratta piuttosto di un incontro “necessario”, di una
sintesi che la coscienza religiosa promuove nella sua marcia verso un'incarnazione più
integralmente umana. Sarebbe meschino cedere a un particolarismo provinciale e non vedere
l'enorme potenziale di profondità e ampiezza che qui ci viene offerto.
Lo mostra l'enorme importanza che sta riscuotendo il dialogo delle religioni, il quale dovrà
creare nuovi e inediti modi per l'incontro. Non si può più ormai pensare d’imporre agli altri la
propria verità. Mi si permetta d’imprimere al discorso un timbro personale su questo punto. In due
intensi incontri col gesuita indù Tony de Mello ebbi la fortuna di vedere un'incarnazione viva di
questa fusione tra Oriente e Occidente, come se contemplassi l'avanzamento stesso di una frontiera
nella storia religiosa. La grande diffusione dei suoi libri è una prova in più che tale fusione trova
una profonda sintonia nella nostra cultura, come se riempisse carenze ancestrali o saziasse una fame
generalizzata. Di certo, debbo riconoscere che il contatto con la sua esperienza ha influito
profondamente tanto sulla mia spiritualità quanto sulla mia teologia.
Prima ancora ricordo l'impatto – che forse sta alla radice della mia concezione della rivelazione
come “maieutica” – che mi aveva causato la lettura di un libro di S. Radhakrishnan, con la sua
insistenza, che egli riteneva radicalmente opposta al cristianesimo, sul carattere “autoaffermativo”
dell'esperienza religiosa indù.42

cf. al riguardo M. Fraijó, El sentido de la historia. Introducción al pensamiento de W. Pannenberg, Madrid 1986, pp.
127-132, 166-169 e 210-218.
41
La Dei verbum, nn. 2-3, nonostante certe reminiscenze estrinseche, esprime bene questa dinamica fondamentale.
42
«L'esperienza religiosa è di carattere autoaffermativo. È svatassiddha. Porta le proprie credenziali. [...] Sfortunata
eredità dell’andamento che la teologia cristiana ha seguito in Europa è il fatto che la fede sia venuta a indicare
un'adesione meccanica all'autorità. Se prendiamo la fede nel vero significato di fiducia o convinzione spirituale, la
religione si trasforma in fede o intuizione. [...] Le verità rivelate nei Veda sono adatte per essere ri-sperimentate in base
ad alcune determinate condizioni. Possiamo distinguere tra il genuino e lo spurio nell'esperienza religiosa, non solo per
mezzo della logica, ma anche attraverso la vita. Facendo esperienze con diverse concezioni religiose e mettendole in

60
Allo stesso tempo, devo anche dire che il dissenso con de Mello sorgeva – e si accentuò da un
incontro all'altro – su quegli aspetti in cui l'elemento induista tendeva in lui a cancellare, o almeno a
oscurare, qualcosa di ciò che a me sembra costituire il contributo specifico del cristianesimo, vale a
dire il carattere personale e storico del rapporto col Divino. Com’è ovvio, in una questione così
profonda e delicata non sono sicuro di averlo interpretato bene. E, soprattutto, sono cosciente che il
dissenso non può consistere in una opposizione escludente, come se la verità stesse solo da una
parte, bensì in una accentuazione che non possiamo tralasciare, sebbene nello stesso tempo
dobbiamo arricchire e magari correggere con l'accentuazione opposta. Chiarire questo punto –
sebbene brevissimamente – può aiutare la nostra riflessione e favorire il dialogo.
Rispetto al carattere storico, c'è qualcosa nell'accento orientale che non si deve perdere:
l'immediata presenza divina ad ogni situazione personale, spaziale o temporale che sia; così che non
si può parlare, a suo riguardo, di privilegi per alcuni né di progressi assoluti di nessun tipo. Siamo
perfino richiamati a prendere molto sul serio valenze evangeliche che gli ottimismi storici tendono a
trascurare, come quella di «beati i poveri» o «tutti saranno ammaestrati da Dio» (Gv 6,45).
Lo spirito biblico, però, mette in guardia, a sua volta, dal pericolo di perdere qualcosa di
ugualmente molto importante: la presenza divina non è neutra o passiva, ma cerca la trasformazione
effettiva della realtà finita, poiché, in quanto creata, qualsiasi suo progresso è un valore positivo. Il
problema non sta, quindi, nella presenza di Dio in noi, sempre piena e incondizionata (in questo ha
ragione l'accentuazione orientale); ma nella nostra capacità di accoglienza di alcune dimensioni
della sua efficacia (qui è nel giusto l'accentuazione occidentale). Che il povero sia “beato” indica
che Dio si china su di lui, ma non precisamente per lasciarlo come sta, bensì per lottare con lui
contro la povertà e aiutarlo già ora alla sua massima realizzazione possibile. Per questo, proprio
perché era dalla parte del popolo oppresso, Dio lo convoca tramite Mosè per spingerlo sulla strada
della liberazione43.
Il carattere personale è, se possibile, ancora più importante. Anche a suo riguardo il richiamo
orientale ha qualcosa da dirci, poiché Dio non può essere ridotto agli angusti limiti di ciò che
ordinariamente intendiamo per “persona”; in realtà, nello stesso Occidente una delle prime e più
importanti dispute attorno all'ateismo (l'Atheismusstreit) nacque dalla protesta di Fichte contro
questo pericolo di riduzione. Ma, proprio per questo, l'enfasi non deve andare verso il basso, verso
l’impersonale, bensì verso l'alto, verso il massimamente personale. Non si deve quindi sminuire in
alcun modo ciò che in noi cerca d’intensificare le valenze personali di parola, tenerezza, fiducia,
dedizione, accoglienza... nel rapporto con Dio. L'abissale e adorante rispetto di Gesù dinanzi alla
grandezza divina non è in concorrenza con la sua esperienza dell'Abbà, ma, al contrario, si alimenta
di essa. Ed è certo che l’esperienza religiosa dell'umanità sarebbe immensamente più povera senza
questo simbolo paterno44, benché – come ci ricordano, insieme all'avvertimento orientale, la
teologia femminista e la stessa psicologia sociale – sia necessaria un’acuta attenzione per non
chiuderlo negli angusti calchi della paternità umana (ancor meno se questa conserva accenti
patriarcali).

rapporto col resto della nostra vita, possiamo stabilire la differenza tra ciò che è fondato e ciò che è infondato» (S.
Radhakrishnan, La concepción hindú de la vida, Madrid 1969, pp. 16-18).
43
In realtà, ci troviamo dinanzi al problema del valore della storia. Mi si permetta anche qui un riferimento personale:
come tanti altri al mondo, ho imparato molto da Raimon Panikkar, che mi ha onorato della sua amicizia. Ma il dialogo
si faceva sempre acceso su questo punto. Credo certamente che Dio, da parte sua, sia ugualmente prossimo a qualunque
epoca o circostanza della vita e della storia; ma non ogni circostanza gli «permette» di esercitare ugualmente il suo
influsso salvatore. Una situazione di fame, ingiustizia o terrore sta ostacolando l'azione di Dio in coloro che la soffrono;
fortunatamente, non nel loro nucleo personale, però sì in aspetti importanti. E se tutto nella persona è espressione
dell'azione creatrice e costituisce una parte o un aspetto della sua realizzazione, ogni progresso è prezioso e tocca
pertanto l'efficacia della presenza divina per quanto concerne la sua accoglienza e i suoi effetti in noi. Non riesco a
capire altrimenti il «comandamento dell'amore».
44
Si ricordi l’insistenza di P. Ricoeur nel distinguere qui il «simbolo» liberatore dal «fantasma» oscuro e oppressivo; cf.
P. Ricoeur, La paternité: du phantasme au symbole, in Le conflit des interprétations, Paris 1969, pp. 458-486 [tr. it. La
paternità: dal fantasma al simbolo in Il conflitto delle interpretazioni, Jaka Book, Milano 1977, pp. 483-512]. Deus
persoa

61
Benché difficilmente si possa negare che si tratti di reali accentuazioni, insisto sul fatto che non
sono visioni escludenti: una volta chiarite le differenze, l’importante è cercare la loro
complementarietà45, alla ricerca di un’esperienza più completa che arricchisca tutti.

3) Procedendo con questo spirito non possessivo, ma di richiamo all'approfondimento e alla


conversione, si può gettare luce su un terzo aspetto, che posso solo introdurre brevemente. La
reazione postmoderna, nella sua insoddisfazione per le risposte istituzionalizzate, non ha solamente
generato questa spiritualità che, almeno attraverso l’Oriente, mantiene qualche forma esplicita di
riferimento religioso. Esiste infatti un'altra postmodernità più diffusa, che non solo si considera
«fuori dalle frontiere»46 di ogni credo e di ogni Chiesa, ma spesso viene vissuta come
semplicemente non religiosa.
Ebbene, a partire da questa visione della rivelazione, integrata nella dinamica stessa della
creazione, non dovrebbe risultare difficile scoprire anche in tale postmodernità una presenza reale
dello Spirito, accolto, pur senza pronunciarne il nome, nella effettiva realizzazione delle sue opere;
forse alla ricerca di vie nuove, più comprensibili e perfino più giuste rispetto alle intime aspirazioni
di un’epoca così duramente ferita da chiusi dogmatismi e da intolleranti esclusivismi.
Cercare di riconoscerlo non comporta indifferenza o relativismo. In primo luogo, perché si
collega ad istanze evangeliche molto specifiche che, di sicuro, risalgono a Gesù stesso: «Non
chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del
Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21); «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). In secondo luogo, perché riconoscere
lo Spirito in azione al di là delle barriere istituzionali, non equivale al relativismo del “è tutto
uguale”, bensì “relativizza” le nostre ristrettezze a partire dal rispetto e dall'apertura al Mistero che
tutti supera. Lungi dal significare indifferenza, implica l’umile riconoscimento delle nostre
insufficienze storiche; e per di più, invita alla conversione e accende la passione per la ricerca di
nuove risposte.
Solo chi “sa a memoria” il Mistero, perché l'ha imprigionato nella lettera morta delle formule,
può chiudersi alla libera manifestazione dello Spirito che «soffia dove vuole» (Gv 3,8). Chi invece
prende effettivamente la “lettera” come vera e propria “maieutica”, che chiama al vivo
riconoscimento e alla balbettante espressione delle profondità che solo lo Spirito conosce (cf. 1Cor
2,9-16), comprende che ogni parola, per lontana e strana che suoni, può far parte del «gemito della
creazione» alla ricerca della comune pienezza (cf. Rm 8,22).
Certamente, questo non vuol dire che tutto sia buono nelle “nuove spiritualità”, ma è chiaro che
le Chiese avranno diritto a pronunciare una parola critica solo se, prima di farlo, si lasceranno
onestamente interpellare da quelle “ricerche selvagge”, che spesso – come avrebbe detto il Vaticano
II a proposito dell'ateismo – sono frutto della nostra lacunosa presentazione. I punti da cui nasce
l'insoddisfazione, se ascoltati con umiltà e apertura, possono trasformarsi in un’eccellente diagnosi
delle “piaghe della Chiesa” e, proprio per questo, in una preziosa occasione per tentare di curarle.

4. Sintesi e prospettive

Arrivati alla fine della nostra riflessione conviene fare un po’ di bilancio. Naturalmente, è
necessario riconoscere il suo carattere astratto e alquanto ostico, lontano dalle solite descrizioni
45
Su questo punto risulta serio e istruttivo il dialogo tra F. Capra e D. Steindl-Rast, Belonging to the Universe.
Explorations on the Frontiers of Science and Spirituality A Sense of Belonging, San Francisco 1991 (uso la traduzione
tedesca: Wendezeit im Christentum. Perspektiven für eine aufgeklärte Theologie, Bern 1991). Cf. anche S. Painadth,
Awaken the Mystic in the Church, in «Vidyajyoti», 58 (1995) pp. 815-821; in questo stesso numero vi è anche un
articolo che studia la necessità di un atteggiamento «inter-spirituale» in questa nuova era, considerata come la «seconda
epoca assiale»: W. Teasdale, Entering the Interspiritual Age. The possibility of a Global Spirituality, in «Vidyajyoti»,
59 (1995), pp. 290-306.
46
Cf. M. Rondet, Spiritualités sans frontières, in «Études», 386 (1997), pp. 231-238.

62
delle infinite forme della nuova religiosità e dall’inventario delle opinioni su di esse. Il suo
vantaggio risiede – questa è la mia speranza – nel fatto che, situando il problema nel suo contesto
storico, questa riflessione permetta di scoprire la struttura di fondo della situazione e di ottenere,
magari, una visione più equilibrata.
In concreto, la situazione appare nel suo dinamismo fondamentale come un processo di
transizione, che Amor Ruibal chiamava una «fase di elaborazione».47 In essa – come Hegel aveva
segnalato nella sua prima tappa e Heidegger ha ripetuto nell'ultima – il vecchio non serve più e il
nuovo manca ancora di forma. Per questo è possibile riconoscere ciò che di positivo c’è nelle nuove
proposte, in quanto espressione del desiderio di pienezza e di realizzazione che caratterizza l'essere
umano e come ricerca a tastoni di nuove strade, una volta indebolitasi o finita l'efficacia o l'illusione
di quelle antiche. In fondo, si tratta di un nuovo tornante di quell'ansia umana irrinunciabile che già
si esprimeva nel mito paradisiaco o nei sogni moderni di un progresso utopico.
Allo stesso tempo, è possibile smascherare il pericolo della frequente propensione ad un ingenuo
idealismo che, rifiutando il vecchio, non ha ancora misurato la durezza della storia. Questa non
permette paradisi in terra. Come hanno visto fin dall'inizio i miti della “caduta”, si è fatto visibile
nel dramma della Croce, e ha constatato il brusco risveglio dal sonno dell'ottimismo moderno.
Si apre così la via al giusto approccio da parte della prospettiva cristiana. Non è consentito
sicuramente un ottimismo acritico che svenda la tradizione; ma nemmeno c’è posto per gli annunci
pessimistici che vedono nella situazione attuale il pericolo più grande della storia del cristianesimo,
una specie di «AIDS spirituale» dei secoli XX e XXI48. Sarebbe, quindi, del tutto ingiusto ignorare
che, in generale, coloro che davvero vivono il nuovo clima sono autentici «ricercatori spirituali».49
Per questo è importante ascoltare il loro richiamo e raccogliere la loro sfida, riconoscendo la
legittimità di tante aspirazioni e il fondamento di molte critiche (perfino quando sono ingiuste sotto
diversi aspetti)50. Solo così si riuscirà a vedere in che misura il cristianesimo è anche oggi capace di
una soddisfacente risposta. Il che implica disponibilità ad interrogarsi di nuovo sulla proposta
cristiana originaria, lasciandosi istruire dalle nuove esperienze, al fine di decidersi ad intraprendere
il necessario rinnovamento nei modi di pensare, nelle consuetudini della preghiera e nelle regole
dell'agire.
Che nella tradizione cristiana esistano risorse per questa “conversione” è precisamente ciò che,
con la loro stringatezza e rinuncia ai dettagli, hanno cercato di mostrare le presenti riflessioni. Forse
vale la pena sintetizzarne di nuovo le linee fondamentali.
Innanzitutto, l'idea biblica di una creazione fatta a partire dall'amore – con la continuità di
creazione e salvezza – permette di accogliere generosamente tutte le molteplici e varie forme di
esperienza attuale del sacro. Se tutto è espressione dell'Amore creatore, niente rimane fuori della
sua presenza, che si può scoprire in tutto: così l'ha percepito l'esperienza evangelica – «né su questo
monte, né a Gerusalemme» (Gv 21,4) – in sintonia col “risveglio” orientale e con la maturità
mistica di tutti i tempi. E lo si può scoprire come sempre attivo, in atto, che tutto spinge ad inserirsi
creativamente nel processo del mondo, corrispondendo all'intenzione originaria del Creatore.
Ciò vale direttamente nella versione positiva, sia nei momenti esaltanti della costruzione di un
futuro migliore (sogno moderno), sia in quelli più umili dell’offerta di un bicchiere d’acqua

47
È la terminologia che A. Amor Ruibal applicava alla sua periodizzazione dell’intero decorso della storia teologica: cf.
Los problemas fundamentales de la filosofía y el dogma, 10 voll., Santiago 1914ss, soprattutto V, pp. 257-326; VI, pp.
275-555; VII, pp. 333-344 (è in corso una nuova edizione di quest’opera capitale). Cf. A. Torres Queiruga, Constitución
y Evolución del Dogma. La teoría de Amor Ruibal y su aportación, Marova, Madrid 1977, pp. 103-111 e 393-408.
48
Così Carl Rashke dell’Università di Denver. Prendo la citazione da Berzosa, Nueva Era y Cristianismo, cit., p. 33,
che rimanda a C. V. Manzanares, Nueva Era, in Diccionario de sectas y ocultismo, Estella 1991, p. 169.
49
Espressione di J. Bosch, Actitudes pastorales ante los adeptos de las sectas y sus familiares, in «Lumieira», 12
(1997), p. 56.
50
Questo è particolarmente importante, perché l'inesattezza storica, per esempio in certi «utilizzi» della tradizione
mistica, non nasconde una ricerca reale e perfino una vera affinità. In questo senso, pur essendo giuste e anche
ponderate le osservazioni di Sudbrack (La nueva religiosidad, cit., cap. 3, pp. 63-80), potrebbero sottolineare di più il
positivo.

63
(modestia postmoderna). A partire dal Dio Anti-male, definitivamente rivelato nella croce, ciò vale
anche nella versione negativa, sia di “compassione” universale, perché «tutto è dolore» (Buddha) o
semplicemente «perché hanno sete» (Gesù), sia di preoccupazione per il senso delle «vittime
irredente» della storia (l’interrogativo del Gulag e della Shoà).
In secondo luogo la rivelazione, compresa come “maieutica storica”, permette di scoprire la
valenza esperienziale del cristianesimo, poiché la parola biblica, quale levatrice, aiuta a scoprire una
Presenza amorosa che tutti abita e a tutti vuole manifestarsi. Questa valenza esperienziale si mostra
in sintonia tanto col carattere autoverificativo della religiosità orientale, quanto con la
rivendicazione moderna dell'autonomia del soggetto e con la stessa ricerca postmoderna di
esperienze dirette e immediate.
L’esperienza biblica fornisce inoltre, come qualcosa di molto specifico, il carattere personale di
questa presenza: è il «Dio dei padri», è l’«Abbà» di Gesù. Beninteso, la coscienza dell’ineffabile
trascendenza divina, sempre gelosamente affermata – sia nella proibizione delle immagini
dell’Antico Testamento, sia nel rispetto adorante di Gesù dinanzi al «solo buono» (Mc 10,18) –
mette in guardia contro ogni possibile impoverimento. In questo modo il cristianesimo si mostra
capace di accogliere tanto l'apporto orientale quanto la critica ontoteologica occidentale, senza per
questo cadere in un vago impersonalismo che cancelli il corso della storia e minacci l'originalità
umana. Il Dio biblico è sempre amore personalizzante: se si vuole, transpersonale o sovrapersonale;
mai forza anonima o muta presenza apersonale o infrapersonale.
Il carattere sia creatore sia personale del Dio cristiano delegittima ogni tendenza dualista, e non è
male che il nuovo clima obblighi a prendere molto sul serio la sua affermatività senza restrizioni.
Dio non cerca solo il massimo potenziamento della persona in attesa della sua definitiva
eternizzazione, ma, grazie alla natura trascendente e non concorrente della sua azione, si manifesta
proprio nell'affermazione della libertà e dell'autonomia umane: come in modo paradigmatico si è
mostrato nella persona di Gesù. Contrariamente a ciò che affermava Feuerbach, quanto più presente
è Dio, tanto più risulta affermato l'uomo. L'applicazione di questo punto all'etica è una questione
aperta: il riconoscimento della sua autonomia non conduce al prometeismo ma a un’esperienza
“teonoma”, poiché, come già aveva intuito Kant, «la religione è (considerata soggettivamente) la
conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini»,51 poiché questi non fanno altro che
esprimere le leggi della «ragione autonoma unita alla sua stessa profondità», secondo l’eccellente
espressione di P. Tillich.52
Tutto avvolgendo, l'assoluta iniziativa divina, pensata e sperimentata in questo nuovo contesto,
porta all'atteggiamento che forse esprime al meglio il cambiamento di paradigma: vivere tutto a
partire “da Dio”. Questo significa rovesciare letteralmente tutte le nostre abitudini mentali ed
esperienziali, che, in maniera quasi irrimediabile, situano in noi l'iniziativa nel momento in cui
collocano Dio “lassù in alto”, da dove – magari a forza d’invocazioni e di sacrifici – può darci ogni
tanto una mano. È rendersi finalmente conto che Dio è sempre il primo e che a noi spetta
assecondarlo, lasciandoci essere e salvare da Lui; poiché il massimo e il meglio cui possiamo
aspirare, ciò che possiamo realizzare nei momenti migliori, è di collaborare con Lui.
La Bibbia, nel fluire più profondo delle sue vene, è piena di questa intuizione: Dio è colui che ci
chiama all'essere quando, per definizione, nemmeno esistevamo («chiama all'esistenza le cose che
non esistono»: Rm 4,17); che ci salva quando non eravamo ancora ritornati a Lui («mentre eravamo
ancora peccatori»: Rm 5,8); che ci sostiene e spinge con la sua grazia quando ancora non ne siamo
nemmeno coscienti («nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato»: Gv
6,44); che ci ha già trovati quando ancora credevamo di essere noi quelli che lo cercavano («non mi
cercheresti se non mi avessi trovato»53).
Sarebbe interessante mostrare come soltanto ad un'impressione superficiale quest’intuizione può
sembrare opposta all'esperienza profonda che la dialettica del processo culturale è andata suscitando

51
I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, tr. it. Laterza, Bari-Roma 1980, p. 168; cf. 118-119 e 122.
52
Tillich, Teologia sistematica, I, cit., p 103; cf. nota 43 del cap. 1.
53
B. Pascal, Pensées, Br. 553 (Lafuma 919).

64
come risposta religiosa alle sue domande più intime. Ma forse non c’è niente di meglio che finire
con un aneddoto che, proprio nella risonanza dell’immediata approvazione, mostra perfettamente il
cambiamento di clima che ha avuto luogo negli ultimi tempi. Tra l’altro, si riallaccia anche al
capitolo precedente, poiché rimanda ad un punto importante del cambiamento di linguaggio di cui si
cercava di suggerire la necessità. Si riferisce al dialogo con un bambino che compare in un'opera
dello scrittore brasiliano Pedro Bloch54:

– Preghi Dio, piccolo?


– Sì, ogni sera.
– E cosa gli chiedi?
– Niente. Gli domando se posso aiutarlo in qualcosa.

54
Lo riporta J. L. Martín Descalzo, Razones para vivir, Madrid 1990, p. 168.

65
4. L’INFALLIBILITÀ TRA SERVIZIO E INFLAZIONE

Vi sono problemi che, non appena si presentano, suscitano gli affetti e si caricano di emozioni,
rendendo in tal modo difficile una riflessione spassionata e oggettiva.
Quello dell’infallibilità nella Chiesa cattolica appartiene, senza dubbio, a questo genere. Ce ne
sono pochi così condizionati da forti interessi o così rivestiti di pregiudizi, reticenze e
fraintendimenti. Prendere coscienza di questo fatto diventa, quindi, la prima condizione per una
trattazione che non voglia allontanarsi dall'essenziale, ma cerchi di arrivare alla radice del suo
significato e di precisare il posto reale che spetta all’infallibilità nella vita della Chiesa.
Evidentemente, per una trattazione teologica cui preme la verità del Vangelo e la missione della
Chiesa nel mondo, questa è l’unica cosa che conta. Se in qualche misura la si ottiene, tutto il resto
verrà dato in sovrappiù.
In ogni caso, questa è l'intenzione che anima le presenti riflessioni e spiega lo sviluppo
dell'esposizione, che si articolerà in quattro passaggi fondamentali: 1) chiarimento del contesto; 2)
ricerca dell’autentico significato, vedendo l’”infallibilità” come una concretizzazione della
“indefettibilità”; 3) analisi della sua realizzazione storica; 4) sguardo al futuro.

1. Chiarire il contesto

Benché solo allo scopo d’introdurre un certo ordine nella selva dei pregiudizi che oscurano il
problema, conviene iniziare da quelli più comuni ed elementari, che non riguardano un’analisi
teologica seria, però inquinano l'ambiente e chiudono spesso la porta a una riflessione oggettiva e
spassionata.

1.1. Pregiudizi e deformazioni

Sopravvivono ancora, infatti, concezioni globalizzanti che, parlando senza ulteriori precisazioni
dell’infallibilità papale, danno per scontato che essa riguardi tutto ciò che dice, fa e anche pensa il
vescovo di Roma. Se si presentasse così, con tale crudezza, è probabile che nessuno si
riconoscerebbe in questa diagnosi. Però non accade la stessa cosa quando si scende al livello di
queste “credenze” incontrollate che in maniera spontanea condizionano il pensiero e fanno pendere
la bilancia delle opinioni.
Cosa che, del resto, funziona in una doppia direzione: per alcuni rafforza il senso di appartenenza
e di fedeltà alla Chiesa, o si veste perfino della cosiddetta “devozione al papa”; per altri rappresenta
un pretesto per non prendere nemmeno sul serio il significato dell’infallibilità e dispensarsi
dall'esigenza di un esame veramente critico di essa. Chi ripassi con orecchio attento le opinioni
dell'una o dell'altra direzione verificherà subito che questo pregiudizio, di spessore teorico così
misero, ha in pratica più forza di quanto a prima vista potrebbe sembrare.
È però chiaro che il problema principale si colloca a un livello più profondo e che – questo sì –
tocca direttamente la teologia. Si tratta di una specie di clima diffuso, che consiste nella tendenza
alla massimalizzazione. Tendenza che, in modo più o meno cosciente, dà per scontato che si è tanto
66
più ecclesiali e anche più “devoti” quanto più qualità, attributi e poteri si conferiscono al portatore
dell'infallibilità. In parte si tratta di qualcosa di strutturale e d’inevitabile, che accompagna come un
alone le sedi del potere: di fatto, l'ascesa della supremazia papale è storicamente molto unita alla
preminenza politica di Roma e alla situazione creata dalla conversione di Costantino.1 Soprattutto,
negli ultimi tempi rappresenta uno stile globale ereditato da una situazione storica molto concreta:
quella che si è originata, sulla difensiva, dalla messa in discussione del ruolo della Chiesa da parte
della cultura moderna e dalla spogliazione politica per la perdita degli Stati Pontifici.
Questo spiega idee, espressioni e anche teorie teologiche di un passato non tanto lontano, che
oggi ci risultano letteralmente incredibili; al punto che si è potuto affermare che nel secolo XIX
«fiorì un vero e formale culto del papa, che non poche volte superò la frontiera del cattivo gusto e
della bestemmia».2 Lo confermano abbondantemente affermazioni quali: «Quando il Papa medita, è
Dio che pensa in lui»; o titoli come quello di «vice-Dio dell'umanità»;3 o apprezzamenti come quelli
che parlano di «una presenza di Cristo sotto le specie pontificie, analoga a quella che si realizza
nelle specie eucaristiche».4 Un elenco che, come tutti sanno, si potrebbe facilmente ampliare.5
Naturalmente, s’incorrerebbe in una sorta di masochismo ecclesiale a insistere su questi dati, dal
momento che, fortunatamente, appartengono evidentemente al passato come pensiero esplicito. È
utile però richiamarli espressamente alla memoria, poiché potrebbe essere meno evidente che i loro
effetti – diciamo la loro Wirkungsgeschichte – continuano a pesare sull'inconscio teologico:
ricordarli costituisce il miglior rimedio affinché non continuino a condizionare la riflessione.
Converrebbe anche ripulire il vocabolario da titoli ed espressioni che non solo, come riconobbe nel
1970 la Commissione Teologica Internazionale6, sono suscettibili di essere mal interpretati, ma
anche, scontrandosi direttamente con la sensibilità attuale, disturbano una serena riflessione e
oscurano inutilmente l’impostazione.
Risulta, del resto, ovvio che il passare del tempo, con l'ascesa della coscienza democratica e di
uno spirito più egualitario nei rapporti con ogni tipo di autorità, vadano ad accentuare ogni volta di
più l’esigenza su questo punto. Pensiamo, per esempio, a come oggi non suonino bene nemmeno
queste parole di Giovanni XXIII, che costituivano un progresso anche solo pochi anni fa: «Ora la
sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità».7

1
Cf. J.-M. R. Tillard, Il vescovo di Roma, tr. it., Queriniana, Brescia 1985, pp. 75-134. Y. Congar, Titoli dati al papa, in
«Concilium», n. 8 (1975), pp. 75-88, mostra con numerosi esempi, spesso sorprendenti, il profondo radicamento storico
di questa tendenza.
2
H. Fries, Teologia fondamentale, tr. it. Queriniana, Brescia 1987, p. 632. La valutazione proviene già da C. Butler, uno
dei migliori storici della questione, che parla di espressioni che «rasentano a volte la bestemmia» («... sometimes
bordering ... on blasphemy», in C. Butler, The Vatican Council 1869-1870, based on Bishop Ullathorme’s letters,
London 1930, pp. 76-77). Egli cita affermazioni come questa, che attribuisce al papa versi applicabili, con un minimo di
rigore, solamente a Dio: Rerum PIUS tenax vigor, Immotus in te permanens... (Pio, forza tenace delle cose, Che rimani
immobile in te stesso); o queste altre, applicabili solamente a Cristo: Pontifex sanctus, innocens, impollutus, segregatus
a peccatoribus et excelsior coelis factus (Pontefice santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori e divenuto più
eccelso del cielo); e perfino l’inno seguente, che parla del Pontefice-Re come se fosse lo Spirito Santo: Pater pauperum,
dator munerum, lumen cordium, emitte coelitus lucis tuae radium (Padre dei poveri, datore dei doni, luce dei cuori,
manda dal cielo un raggio della tua luce). Prendo i dati e le citazioni da Tillard, Il vescovo di Roma, cit., p. 31.
3
Citate da Tillard, Il vescovo di Roma, cit., p. 31: della prima dice che ritorna frequentemente; la seconda appartiene a
E. Lafond, amico di L. Veuillot; cita anche «vicario di Dio»; cf. maggiori dati alle pp. 24-34. Per l’ambiente storico, cf.
R. Aubert, Le pontificat de Pie IX, Paris 1952.
4
Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, vol 1, Queriniana, Brescia 1981, p. 184.
5
Si veda con quanta prudenza Congar segnala la gravità del problema nel testo che completa la nota precedente: «In
questo paragrafo non prendiamo in considerazione le numerose espressioni di devozione eccessiva verso il Papa,
espressioni che rasentano talvolta l’idolatria, come quelle che parlano di una presenza del Cristo sotte le specie
pontificie, analoga a quella che si realizza sotto le specie eucaristiche. Su tutto ciò abbiamo una considerevole
documentazione. Questo capitolo, piuttosto triste, sembra, in effetti, appartenere al passato».
6
Invita ad abbandonare: «Caput Ecclesiae», «Vicarius Christi», «Summus Pontifex»; e consiglia: «Papa», «Sanctus
Pater», «Episcopus Romanus», «Successor Petri», «Supremus Ecclesiae Pastor» (cf. Congar, Titoli dati al papa, cit., p.
88).
7
Citate in un illuminante articolo di G. Alberigo, Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo
contemporaneo (1830-1980), in Cristianesimo nella Storia, 2 (1981), EDB, Bologna, pp. 487-521. Il «bastone» è preso

67
A ben osservare, persino espressioni così correnti come “Sua Santità” e perfino “Santo Padre”
suonano sempre più estranee all’orecchio contemporaneo.
Questione di vocabolario, certamente; si sa però con quale efficacia il modo di parlare configuri
lo spirito umano. L’estrema delicatezza su questo punto sarà ancora poca cosa nel trovare quella
posizione di giusto ed evangelico equilibrio, che passa tra la Scilla della mitizzazione del papa e la
Cariddi del «complesso antiromano».8

1.2. Impostazione del problema

A questo genere di deformazioni non è aliena l’impostazione stessa del problema. Avendolo
concentrato con insistenza eccessiva sul punto concreto dell'infallibilità, si è infatti ridotto il campo
visivo, conferendogli un risalto letteralmente “smisurato” e aumentando, di conseguenza, la sua
difficoltà. Difficoltà – non si può negare – che è già grande di per sé, in quanto pretendere
l'infallibilità per un'affermazione umana risulta difficilissimo da assimilare in un ambiente culturale
così provato dagli assolutismi, così cosciente della storicità di ogni proposizione e così trasformato
dall'eredità dei “maestri del sospetto”.
Conviene, perciò, fare speciale attenzione per non prendere di petto e in maniera isolata il
problema, ma tentare piuttosto d’inquadrarlo nel suo humus naturale, vedendolo per quello che è: un
aspetto molto limitato e concreto nell'insieme dell'attività ecclesiale e che, inoltre, riguarda atti
isolati di carattere eccezionale e sottoposti a controlli molto stretti. Basti pensare che non solo i papi
più recenti hanno rinunciato a esercitarlo, ma vi ha riununciato anche l'ultimo Concilio, nonostante
sia stato, indubbiamente, il più ecumenico di tutta la storia del cristianesimo.
Non conviene nemmeno ignorare la dimensione ecumenica della questione: una dimensione così
importante che Paolo VI giunse a riconoscere che il papa è «senza dubbio l'ostacolo più grave sul
cammino dell'ecumenismo».9 Niente di meglio, allora, per spianare la strada, di una riflessione
complessiva, che collocando l'infallibilità al suo esatto posto, permetta di scoprire l'ampio tratto di
strada comune che le Chiese possono percorrere unite prima di arrivare a tale questione.
Con l’ulteriore conseguenza che allora le differenze appaiono nella loro vera dimensione, vale a
dire molto più piccole di quanto una tradizione di polemica e di controversia ha fatto apparire e,
proprio per questo, non così insanabili come a prima vista possono sembrare. In questo senso, i
recenti passi del dialogo ecumenico risultano decisamente incoraggianti.

2. Il significato primario e profondo: l’”indefettibilità”

Dopo quanto detto, si comprenderà come la trattazione tenda ad adottare una struttura simile a
quella di una matrioska, dove ogni aspetto scaturisce dall'interno del precedente, riducendosi ogni
volta di più l'ampiezza e l'importanza dei problemi che si presentano. Il che avrà, inoltre, due
apprezzabili vantaggi. Il primo: diventa evidente che l'importanza di questi problemi diminuisce in
proporzione inversa all'aumento delle differenze confessionali. Il secondo: in questo modo la
trattazione resta, per quanto possibile, preservata dalle sottigliezze giuridiche, per presentarsi
inquadrata nella logica gratuita del servizio e della comunione.

alla lettera dall’enciclica Mirari vos, di Gregorio XVI, in cui afferma che, dovuto ai rischi della «grande congiura dei
malvagi», deve abbandonare la «indulgentiam benignitatis» e, in base all’autorità divina ricevuta, «brandire il bastone»
(virga compescere). Anche il rimando a 1Cor 4,21 non elimina la ripugnanza che questo linguaggio produce sulla
sensibilità attuale. E si noti come nemmeno tutti i titoli sostitutivi citati nella nota precedente passano da essa senza
qualche attrito.
8
Alludo, è chiaro, al titolo di H. U. von Balthasar, Der antirömische Affekt, Freiburg i. Br. 1974 [tr. it., Il complesso
antiromano, Queriniana, Brescia 1974].
9
AAS 59 (1967), p. 497.

68
2.1. L'incontro tra la Bibbia e la Chiesa

La radice più profonda e il fondamento più solido dell'intera questione s’identificano, in realtà,
con l'essere stesso del cristianesimo, che dai suoi inizi ha compreso se stesso come testimone e, in
certo modo, come incarnazione storica della presenza definitiva della salvezza di Dio, all’interno di
quella tradizione che era culminata nel Vangelo di Gesù di Nazaret. Una grande missione e
un'enorme responsabilità per le quali si sentiva rimandato non alle proprie forze ma al sostegno
dell'aiuto divino. Cosa che si è espressa in frasi di profondo significato teologico, come quella che
Matteo mette sulle labbra di Gesù in riferimento alla Chiesa: «Le porte degli inferi non prevarranno
contro di essa» (Mt 16,18); o le altre del quarto Vangelo in cui si riferisce, come pastore, ai
credenti: «Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia
mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può tapparle dalla mano del
Padre» (Gv 10,28-29).
Solo testimone; ma responsabile, incaricato dell'annuncio. Testimone che, pertanto, ha bisogno
di prendere ferma coscienza della novità e dell’importanza di questo annuncio, e trovare i mezzi per
comprenderlo, esprimerlo e preservarlo da deviazioni, falsificazioni o corruzioni. Gli stessi scritti
del Nuovo Testamento sono una buona prova che questo presuppone un compito difficile e
complesso che non può essere portato avanti senza tentennamenti e conflitti. Cosa che succede
anche a riguardo delle questioni più gravi e fondamentali, come la continuità o meno
nell'osservanza della Legge mosaica, o l'ingresso dei gentili su un piede di parità; per non parlare
del pluralismo teologico riguardo alla grazia (si confronti la lettera ai Romani e quella di Giacomo)
o addirittura del mistero stesso di Cristo, come mostrato dalle profonde e a volte inconciliabili
differenze tra gli stessi evangelisti.
Fare chiarezza e prendere le decisioni giuste, scoprendo il senso autentico della Verità che porta
nel suo grembo è, soprattutto, compito della Chiesa intera come comunità viva e corpo organizzato.
Qui risiede precisamente il punto decisivo: la verità rivelata si trova nella Chiesa, cristallizzata in
forma scritta nella Bibbia e incarnata nelle diverse forme della tradizione. Il che implica che si trova
sempre “situata” in contesti concreti e “mediata” da densi strati di idee, usi e anche abusi culturali.
È necessario, quindi, portarla all'attualità di ogni generazione e di ogni epoca, così che libera da
false aderenze e dicendo le stesse cose, le dica in maniera diversa: potrà mantenere la fedeltà solo
affrontando i rischi del cambiamento. La critica biblica, il senso della storia e la filosofia
ermeneutica hanno mostrato fino alla sazietà quanto sottile, insicuro, laborioso e complesso risulti
sempre un impegno di questo genere.
Se, per motivi di chiarezza, semplifichiamo al massimo la questione, possiamo dire con Paul
Tillich che la struttura fondamentale e decisiva del processo consiste «in un incontro della Chiesa
con il messaggio biblico».10 Incontro che in realtà è un riconoscimento, perché attraverso di esso la
Chiesa riconosce nei testi biblici quella fede che la stessa Chiesa aveva oggettivato in essi nella
forte avventura della gestazione del Canone.11
Per la comprensione però del processo concreto non basta parlare della Chiesa in astratto. È vero
che in qualche modo dev'essere tutta presente; ma in ciascun caso l'incontro si realizza in quanto la
Chiesa agisce attraverso i suoi membri concreti. Com’è avvenuto, d’altra parte, con la stessa
oggettivazione nella Scrittura: la Chiesa si oggettivò, ma lo fece nel senso che andò scrivendo ogni

10
Tillich, Teologia sistematica, I, cit., p. 67. Per un’analisi più dettagliata di questo punto rimando agli sviluppi che
faccio in Constitución y Evolución de Dogma. La teoría de Amor Ruibal y su aportación, cit., pp. 273-280; Repensar la
revelación, cit., pp. 480-501.
11
Tema profondamente studiato da Karl Rahner, Sull’ispirazione della Sacra Scrittura, tr. it. Morcelliana, Brescia
1967]; Id., Corso fondamentale sulla fede, tr. it. Paoline, Roma 1977, pp. 470-480; Id. Die Heilige Schrift - Buch Gottes
und Buch der Menschen, in «Stimmen der Zeit», 202 (1984), pp. 35-44. Cf. anche le mie riflessioni in Repensar la
revelación, cit., 449-480.

69
libro attraverso una comunità e alcuni singoli e concreti agiografi. Per questo la capacità
d’interpretare, vale a dire di delucidare in concreto la verità della Bibbia, fu considerata già nel
Nuovo Testamento come un carisma a fianco dell'ispirazione e ad essa internamente collegato
(1Cor 12,11); sebbene, questo sì, non l’annulli né l’assoggetti, ma la serva.
Nella pratica di tutti i giorni e in circostanze normali, tutti i membri della Chiesa si trovano, in
una occasione o l’altra, implicati come soggetti: nella lettura credente della Bibbia, nell'ascolto della
liturgia, nella comunicazione orante del gruppo, nella lettura riflessiva del teologo,
nell'insegnamento del catechista, nella predicazione del sacerdote e del vescovo, nell'insegnamento
del papa… Questa lunga enumerazione è intenzionale, affinché appaia con chiarezza l'ampio,
plurale e ricco contesto in cui s’inserisce il problema dell'infallibilità. Ma prima di giungere ad esso
conviene percorrere ancora importanti passi intermedi.

2.2. Il “magistero” come elemento costitutivo, comune alle Chiese

Il lettore avrà intuito l'importanza di tutto questo per il nostro tema. Senza entrare ancora nelle
modalità concrete del suo esercizio, il magistero ecclesiale appare collocato nella struttura
essenziale della Chiesa e, quindi, in un terreno ancora comune alle confessioni. Di fatto, nessuna
potrebbe vivere senza qualche tipo di magistero.
Per questo è necessario evitare d’introdurre già a questo livello il tema dell'infallibilità, a costo
di viziare in anticipo la correttezza del dialogo. Ed è facile scivolare sul versante dei pregiudizi. Lo
si nota perfino in un teologo così ampio di vedute come Tillich. Sotto il titolo «carattere normativo
della storia della Chiesa» – che, per lo scopo, potremmo tradurre con “tradizione”, nella quale
includiamo il “magistero” – egli riconosce l'esistenza di questo livello, previo alla divisione
confessionale:

Dobbiamo trovare una posizione intermedia tra la pratica cattolico-romana, che converte le decisioni ecclesiastiche
non solo in una fonte, ma anche nella vera norma della teologia sistematica, e la pratica radicale protestante, che spoglia
la storia della Chiesa non solo del suo carattere normativo, ma anche della sua funzione come fonte.12

Tillich scopre forse il pericolo di alcuni atteggiamenti cattolici, e conviene ascoltarlo; però parte
da un falso presupposto, perché la sua interpretazione dell'“infallibilità papale” – alla quale,
secondo lui, bisogna opporsi con tutta “radicalità” – gli fa pensare che le decisioni della Chiesa
avrebbero un «carattere direttamente normativo» (ovviamente, nel senso di “per se stesse”).13 Non
avverte che il magistero, essendo “norma normata”, equivale – a questo livello – a ciò che lui stesso
cerca quando dice: «Il carattere normativo della storia della Chiesa è implicito nella fatto che la
norma, benché derivata dalla Bibbia, nasce da un incontro tra la Chiesa e il messaggio biblico».14
Lo afferma espressamente il Vaticano II:

Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato
trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce
e fedelmente espone quella parola.15

Vale a dire – ed è esattamente questo il senso autentico di “norma normata” – che è norma in
quanto lascia trasparire per la Chiesa la verità della Scrittura, la quale risulta così norma per essa
(norma normata). Il tema è talmente cruciale che, prima di entrare ulteriormente nel terreno della
discussione confessionale, vale la pena riprodurre un paragrafo nel quale Tillich riafferma ed
esplicita, a partire dalla teologia evangelica, ciò che è ancora struttura comune.

12
Tillich, Teologia sistematica, I, cit., p. 66.
13
Ibid., p. 66.
14
Ibid., p. 67.
15
Dei Verbum, n. 10.

70
Poiché la norma della teologia sistematica è il risultato di un incontro tra la Chiesa e il messaggio biblico, possiamo
considerarla come un prodotto dell'esperienza collettiva della Chiesa. Detta però così, questa asserzione risulta
pericolosamente ambigua. Si potrebbe intenderla come se l'esperienza collettiva producesse il contenuto della norma,
mentre tale contenuto è il messaggio biblico. Le esperienze sia collettive sia individuali sono i mezzi attraverso i quali il
messaggio è recepito, colorato e interpretato. La norma cresce nel seno dell'esperienza. Però è allo stesso tempo il
criterio di ogni esperienza. La norma giudica il contesto in cui cresce; giudica il carattere debole, frammentario,
deformato di ogni esperienza religiosa; sebbene, del resto, solo attraverso questo debole mezzo una norma può accedere
all'esistenza.16

Questo è molto importante, poiché su tale base comune risulta possibile e realistico stabilire il
dialogo delle differenze. L'incontro tra la Chiesa e la Bibbia per mezzo del servizio magisteriale
costituisce, infatti, l'elemento comune; la differenza nel modo nasce dalla concezione ecclesiologica
da cui si parte. Una concezione puramente interiore o individualista determinerà un significato
diverso da quello di una concezione visibile e sociale. E, all’interno di questa, il modo di concepire
la visibilità e la socialità sarà decisivo per il significato definitivo dell'incontro. In ogni modo, per la
nostra questione non interessa entrare nelle sottigliezze delle diverse scuole ecclesiologiche.
L'importante è fondarsi su ciò che è basilare ed elementare.

2.3. Il magistero come servizio “ultimo” alla comunione ecclesiale

Partendo, dunque, da questi presupposti, si può ancora percorrere un ampio spazio comune. La
svolta copernicana che il Vaticano II ha impresso all'ecclesiologia – con l’anteporre nella Lumen
Gentium il capitolo sul Popolo di Dio (cap. 2) a quello che tratta della costituzione gerarchica della
Chiesa (cap. 3) – permette di vedere che l'esistenza del magistero non nega, bensì, al contrario,
afferma la necessità che sia tutta la Chiesa a incontrarsi con la Bibbia. Questa verità ha potuto – e
può – rimanere a volte oscurata, però è oggi bene comune e indiscutibile della coscienza
ecclesiologica. La comunità di tutti i membri è strutturalmente previa a ogni distinzione o differenza
interna e costituisce il fondamento originario di qualsiasi attività particolare che, in definitiva, deve
sempre essere al suo servizio.
Questo riconoscimento, praticamente comune a tutte le Chiese, mostra la priorità della
communio fidelium nella sua totalità, e lascia aperta la questione di vedere come si realizzi più
concretamente l'incontro della Bibbia con la coscienza totale della Chiesa. Incontro che va
delineando, nello scorrere di ogni tappa storica e nel differente contesto di ogni situazione, la figura
concreta e unificata della rivelazione. Tutto ciò che è stato scritto in teologia circa l'importanza del
sensus fidelium – in cui, non si dimentichi, sono compresi “fedeli” e “pastori” – non è in alcun
modo chiacchiera romantica, ma solida realtà e viva esigenza.
Per questo si parla del tutto a rigore di una duplice infallibilità: in credendo e in docendo («nel
credere e nell'insegnare»). E Congar avverte che sarebbe falso interpretarle semplicemente come
“infallibilità passiva” e “infallibilità attiva”, dato che tutti, popolo e gerarchia, ciascuno a suo modo,
partecipano di entrambi gli aspetti.17 Del resto, lo stesso Concilio ne trae in maniera esplicita la
conseguenza:

16
Tillich, Teologia sistematica, I, cit., p. 67; corsivo mio.
17
Y. Congar, Infallibilità e indefettibilità. Sul concetto di “infallibilità”, in K. Rahner (a cura di), “Infallibile?”
Rahner-Congar-Sartori-Ratzinger-Schnackernburg e altri specialisti contro Hans Küng, Edizioni Paoline, Roma 1971,
p. 88; cf. G. Thils, L’infallibilité du peuple chrétien «in credendo». Notes de théologie post-tridentine, Paris-Louvain
1963.

71
L'universalità dei fedeli che tengono l'unzione del Santo (cf. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e
manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando «dai Vescovi fino
agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale.18

Più ancora, questa realtà fondamentale viene confermata quando si afferma espressamente che
«l'infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale».19 Affermazione identica a
quella che già nello stesso Vaticano I si fa riguardo al papa che, infatti, «gode di quella infallibilità
di cui il divino Redentore ha voluto dotare la Chiesa».20
Soltanto dopo avere ben stabilito questo passo – e senza cedere all’insidiosa e perenne tentazione
di dimenticarlo –, si deve fare il secondo. L'unità ecclesiale è una comunione organica, non quella
di una massa amorfa o uniforme. È, per costituzione, articolata nella plurale differenziazione di una
comunità viva. E, come tale, è dotata di organi e funzioni specificamente destinati all'integrazione
unitaria della sua coscienza. La funzione magisteriale s’inserisce, unicamente come istanza ultima,
in questo processo di unificazione.
La tendenza cattolica al rigore eccessivo e all'unilateralità nell'accentuazione del carattere
disciplinare della dottrina – troppo formalizzata nella correlazione autorità/obbligatorietà – può
oscurare tutto ciò. Ma, a livello teologico, la dottrina conciliare e la crescente valorizzazione di una
ecclesiologia di comunione e servizio tendono a ristabilire l'equilibrio.21 Le carenze della prassi
ecclesiastica non devono impedire alla riflessione teologica di muoversi in questo clima ecclesiale.
E, qualora lo facciano, non per questo devono offuscare il fatto che la Chiesa è una “comunità
strutturata”, con una funzione magisteriale specifica, e che questo è in piena coerenza con la visione
del Nuovo Testamento.
Si tratta unicamente d’indicare il modo concreto ed effettivo con cui la Chiesa, per il bene di
tutti, può unificare in ultima istanza la sua comprensione di ciò che è rivelato22. E non dovrebbe
sorprendere che l'unificazione funzioni così. Non è necessario cadere in un organicismo romantico
per comprendere che questa funzione della Chiesa, come unità vivente, sia in certo modo parallela a
quella che c’è in ogni sana società, e perfino a ciò che presuppone la coscienza personale
nell'individuo. Non è neppure necessario arrivare a parlare del papa come di una “personalità
corporativa”, come fa Tillard.23 Basta una prudente analogia per comprenderne il significato
fondamentale.24
In qualsiasi conoscenza e in qualsiasi decisione autenticamente personali è, in effetti, tutta la
persona che entra in gioco: la corporeità, che permette il contatto con il mondo; la vita vegetativa,
che apporta la base fisiologica di tutto il processo; quella sensitiva, in cui affonda le sue radici il
mondo affettivo, istintivo, sentimentale… Tutto questo però ha bisogno di essere unificato: diviene
veramente umano solo quando l'intuizione conoscitiva lo coordina in una unità viva o quando la
libera opzione lo costringe a prendere una decisione.

18
Lumen Gentium, n. 12.
19
Ibid., n. 25; corsivo mio.
20
Pastor aeternus, cap. 4 (Denz. 3074); corsivo mio.
21
Cf. A. Acerbi, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella «Lumen Gentium»,
EDB, Bologna 1975; e, più brevemente, J. A. Estrada, La Iglesia: identidad y cambio. El concepto de Iglesia del
Vaticano I a nuestros días, Madrid 1985, specialmente le pp. 17-34.
22
In questo senso, la «comunità gerarchizzata» funziona come un tutto vivo, in cui il polo «gerarchia» non annulla il
polo «comunità»; cf., oltre le opere appena citate, una profonda e chiara esposizione in J. Ratzinger, Das neue Volk
Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Düsseldorf 19702, pp. 147-170, specialmente le pp. 163-170 [tr. it., Il nuovo popolo
di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971, pp. 187- 254, specialmente pp. 241-254].
23
Tillard, Il vescovo di Roma, cit., pp. 179-182.
24
Tema complesso: si possono vedere le riflessioni, con molti riferimenti ad altri autori, di J. Mouroux, Il mistero del
tempo. Indagine teologica, tr. it. Morcelliana, Brescia 1965, pp. 222-224; cf. anche H.U. von Balthasar, Chi è la
chiesa?, in Sponsa Verbi. Saggi teologici II, tr. it. Morcelliana, Brescia 1985, pp. 139-187, in particolare p. 175; G.
Colombo, Il “popolo di Dio” e il “mistero” della Chiesa nell’ecclesiologia postconciliare, in «Teologia», 10 (1985),
pp. 97-169.

72
Analogia, ripeto, però indicativa di ciò che succede nel “corpo” ecclesiale. Ciascuno dei suoi
membri con i suoi particolari carismi, ciascuna comunità, ciascuno degli organismi e dei
collettivi…; in una parola, la vita totale dell’intera Chiesa rende possibile e nutre questa coscienza
della rivelazione. Più ancora, tutta questa varietà e questa ricchezza devono poter esistere sempre
come tali: con motivo Paolo si gloriava del fatto che nulla mancava nella Chiesa di Corinto (1Cor
1,7). Allo stesso tempo, però, bisogna riconoscere l'esistenza di momenti fondamentali, di punti
cruciali, di questioni stantis aut cadentis ecclesiae («di vita o di morte per la Chiesa»: Lutero), nei
quali il corpo ecclesiale ha bisogno di rendere conto di se stesso come di un tutto unitario. Si pensi,
per esempio, alla confessione battesimale, quando il neofito deve poter confessare l'essenza del
mistero ecclesiale di cui entra a far parte e che cambierà tutta la sua vita; o alle professioni di fede
dei martiri, che devono poter proclamare definitivamente la loro verità e respingere ciò che, se fosse
accettato, distruggerebbe la sua essenza.
Vista così, la funzione magisteriale appare come un servizio necessario, affinché la ricca e
multiforme esperienza che abita il corpo ecclesiale possa essere canalizzata e unificata senza
contaminazioni né deviazioni sostanziali. Tale è stata sempre la funzione del “simbolo”, che unifica
la confessione, e quella del “dogma”, la cui finalità decisiva è quella di fissare una pietra miliare nel
cammino, che preservi dalla corruzione.25 L'enorme ricchezza della vita ecclesiale può essere
liberata pienamente – mai in modo adeguato – solo con la lettura multiforme dell'intera comunità. E
quando arriva a un incrocio decisivo, dove da una determinata interpretazione – si pensi ai grandi
concili e ai grandi cambiamenti della storia – può dipendere il suo destino e, con esso, quello di
tutta questa ricchezza, la Chiesa ha bisogno di poter riconoscere la sua essenza e unificare la sua
decisione.

2.4. Il magistero come funzione dell’”indefettibilità”

Mantenuta nei suoi precisi confini, la riflessione si muove, quindi, sul terreno comune alle
diverse confessioni cristiane. È importante che possa avanzare ancora per un lungo tratto su di esso.
Visto da oggi, calmatesi le turbolenze iniziali e ristabiliti gli equilibri necessari, forse è stato questo
il miglior contributo del tanto conflittuale – a suo tempo - libro di Hans Küng sull'infallibilità.26
Infatti, tutte le Chiese cristiane riconoscono il carattere escatologico e, proprio per questo,
definitivo e irrevocabile della manifestazione di Dio in Cristo; e, a partire da Cristo, nella visibilità
storica della comunità ecclesiale. Rahner, che ha studiato con aperta e squisita sensibilità il
problema, mostra che non si tratta di una preoccupazione esclusiva dei cattolici:

Precisamente il protestante, che concepisce il cristianesimo come la potente azione di Dio nell'uomo, in fondo deve
ammettere che la Chiesa di Gesù Cristo non può disertare dalla verità e dalla grazia, dalla salvezza e dall'amore di
Dio.27

È ciò che è stato tematizzato con l’idea della indefettibilità della Chiesa nella sua proclamazione
della verità evangelica. Un concetto più ampio di quello di “infallibilità”, ma che ne costituisce la
base di sostegno e ne esprime il significato fondamentale:

25
Lo stesso E. Käsemann, così geloso della libertà della fede e della teologia, riconosce che «la fede si deve poter
davvero dire in maniera precisa quando si tratta di una questione di vita o di morte» (E. Käsemann, (ed.), Das Neue
Testament als Kanon. Dokumentation und kritische Analyse zur gegenwärtigen Diskussion, Göttingen 1970, p. 356;
citazione in P. Gisel, Vérité et histoire. La théologie dans la modernité, Paris 19832, nota 52, p. 174, con altri
riferimenti).
26
H. Küng, Unfehlbar? Eine Anfrage, Einsielden 1970 [tr. it., Infallibile? Una domanda, Anteo, Bologna 1970, poi
L’infallibilità, Mondadori, Milano 1977].
27
Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit. p. 483.

73
L'idea, infine, di indefettibilità. Se la si applica alla dottrina concernente la fede e i costumi – per se stessa è più
ampia: riguarda la costituzione della Chiesa, l'istituzione sacramentale, ecc. –,essa conviene alla vita storica del Popolo
di Dio preso nel suo insieme, al di là dei casi (che essa comprende) in cui gode della garanzia d’infallibilità in senso
stretto. Indefettibilità dice indistruttibilità della Fede sulla quale e dalla quale la Chiesa è costruita. Essa ammette un
avanzare esitante, persino a zig zag, come la storia ce ne rivela. Ammette degli oscuramenti, degli oblii parziali e
momentanei, persino degli errori parziali o momentanei. Conoscendo e riconoscendo meglio questi fatti oggi, non si
può più parlare di uno “sviluppo del dogma” nel senso di una crescita continua, in modo ottimista e ingenuo.28

Naturalmente questa permanenza nella verità può essere intesa in diverse maniere. Mai però tale
diversità dovrà offuscare il senso comune di fondo né, quindi, la comune intenzione, nonostante le
diverse scelte nel modo di intenderla.

Di conseguenza, la questione teologico-controversistica tra concezione evangelica e concezione cattolica della


chiesa propriamente non può vertere sul fatto se la chiesa di Gesù Cristo possa o no decadere dalla verità di Cristo,
bensì in fondo può vertere solo sul modo concreto in cui il Dio che comunica la verità ed è sempre vittorioso vince nella
chiesa.29

Di fatto, anche nel protestantesimo «c'è qualcosa di simile a un'autorità dottrinale», e anche in
esso «si danno processi dottrinali disciplinari»; perché in realtà «una chiesa non potrebbe essere
chiesa se non avesse mai e poi mai il coraggio di pronunciare un anatema, se le fosse possibile
tollerare in maniera pura e semplice ogni e qualsiasi cosa come giustificata opinione dei cristiani.
Quindi la differenza dal cristianesimo cattolico sta solo nel fatto che all’interno della chiesa
evangelica si respinge l’esistenza di una manifestazione vincolante in maniera definitiva del
magistero ecclesiastico».30
Perché, effettivanente, è qui che iniziano le divergenze. Non è però poca cosa aver compreso che
iniziano solo a partire da qui, poiché in questo modo le dimensioni vanno assumendo la loro giusta
misura e importanza. E resta anche delimitato con esattezza il campo in cui è sorta la discussione a
partire dal libro di Hans Küng.

3. La concretizzazione cattolica: l'“infallibilità”

Unicamente su tale base comune – e cercando di non perderla, sebbene l'ulteriore discussione
separi le posizioni – si deve impostare la questione dell'infallibilità, che rappresenta la
concretizzazione ultima dell’indefettibilità secondo i cattolici. In attesa di tempi migliori, che
sicuramente chiariranno da entrambe le parti aspetti oggi oscuri – e per questo forse non ancora
unificabili – la cosa più ragionevole è cercare di esporre il senso della concezione cattolica che, in
definitiva, consiste nel pensare che l'infallibilità costituisce il modo reale e storico del realizzarsi
dell'indefettibilità.
E anche qui conviene distinguere due aspetti molto importanti della discussione: quello che si
riferisce al soggetto degli atti infallibili e quello che si riferisce all'oggetto degli stessi.

3.1. Il problema dell'infallibilità. a) il soggetto

Il primo aspetto si riferisce alla determinazione dell'istanza o delle istanze che all’interno della
comunità ecclesiale realizzano in concreto questa “unificazione ultima” della sua coscienza; in tale

28
Congar, Infallibilità e indefettibilità, cit., pp. 99-100.
29
Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit. p. 483.
30
Ibid., pp. 485-86. Rahner potrebbe avere alluso, a questo proposito, all’accesa discussione teologica circa una
«confessione» vincolante, suscitata in Germania dalla divisione delle Chiese di fronte alla pressione di Hitler. Cf. E.
Bethge, Dietrich Bönhoeffer. Teologo cristiano contemporaneo. Una biografia, tr. it. Queriniana, Brescia 19912; H.
Vall, Iglesias e ideología nazi. El Sínodo de Barmen (1934), Salamanca 1976.

74
unificazione rientrano gli atti infallibili. Considerando con attenzione questa determinazione,
sembra che anche qui esista un importantissimo spazio comune, non più ora con la teologia della
Riforma, ma con quella dell'Ortodossia. Questa, infatti, collima con il Cattolicesimo nell'ammettere
la possibilità e l'esistenza di atti infallibili nella Chiesa; si differenzia unicamente per il fatto di
riconoscere come soggetto degli stessi solamente il concilio ecumenico.
Tale ammissione non dev’essere assolutamente considerata qualcosa di secondario, poiché in
realtà ammette ciò che è basilare e fondamentale e predispone una chiara piattaforma per il
progresso del dialogo. Con la sua posizione la teologia ortodossa evidenzia una preoccupazione
comune e costituisce un legittimo richiamo per la stessa teologia cattolica. La Chiesa riunita in
concilio rappresenta, infatti, la più chiara e completa visibilizzazione e realizzazione della comunità
ecclesiale nel suo sforzo per trovare, nell'ascolto della parola rivelata, quella comprensione e quella
formulazione della verità che, dinanzi a una questione cruciale, rifletta l'unità della fede.
In questo senso, il conciliarismo, come ha detto molto bene Hubert Jedin, non rappresenta «solo
un episodio»31 casuale e meramente estrinseco nella storia della Chiesa, ma il ricordo vivo di
un'istanza che non dev'essere né dimenticata né disattesa. Per questo il concilio di Costanza (1414-
1418), nelle durissime circostanze di una Chiesa divisa dalla rivalità di tre presunti papi, mise in
risalto l'importanza vitalmente primigenia della conciliarità. Riconoscendo che «ancora non esiste
una risposta pienamente soddisfacente, né dogmaticamente né storicamente»,32 si deve dare ragione
a Joseph Ratzinger quando afferma che «Costanza, proprio nella misura in cui se ne vedono
chiaramente i limiti, significa in un certo senso un’affermazione complementare alle definizioni del
Vaticano I».33
Ciò permette di suddividere in maniera molto più chiara il problema. In primo luogo, indica che
l'esercizio normale dell'infallibilità, per il fatto di essere l’espressione unificata della coscienza della
Chiesa, si manifesta nell'esercizio collegiale; vale a dire corrisponde al magistero ordinario e
universale, esercitato dai vescovi uniti col papa nella quotidiana vita ecclesiale. È lo stesso
Ratzinger ad esprimerlo con forza.

Non si pensi qui a manifestazioni straordinarie, ma alla vita normale della Chiesa, a ciò che senza particolari
iniziative viene predicato come dottrina universale nella vita quotidiana di questa chiesa. Questo magistero ordinario è
così la forma normale dell'infallibilità ecclesiastica, e si tenga conto che si tratta qui di una infallibilità collegiale (e non
monarchica). La normale infallibilità della Chiesa ha forma collegiale, l’altra è “straordinaria”.34

Se si vuole cercare di ottenere normazioni ancora più concrete, si dovrebbe dire anzitutto che la collegialità è già
garantita in radice come un princpio reale dell’aunnuncio della parola nella Chiesa per il fatto che il magistero
pontificio è appunto una via “straordinaria”, rappresentando per così dire la situazione del videant consules. La via
“ordinaria”, cioè solita e normale di preservare la parola è quella collegiale - anche e proprio secondo l’odierna
dogmatica cattolica. Il concilio è però più vicino a questa via ordinaria che non il pronunciamento pontifico ex
cathedra.35

Solo quando l'esercizio normale di tale collegialità si fa particolarmente difficile – sia per
l'urgenza del caso, sia per la gravità dell'argomento, che esige una chiarificazione più forte e
tempestiva – sorge la necessità dell'esercizio “straordinario”. E anche questo può assumere due
forme: quella conciliare e quella papale. Come conseguenza elementare, si vede subito che, delle
due, il “secondo grado” corrisponde normalmente alla forma conciliare, come esercizio più vivo,
pieno e adeguato della collegialità. Il Vaticano II l’ha espresso nel giusto ordine con la serena
limpidezza della sua logica ecclesiale.

31
H. Jedin, Bischöpfliches Konzil oder Kiechenparlament?, Basel 1963, p. 25 (citato da Ratzinger, Il nuovo popolo di
Dio, cit., p. 151, nota 33).
32
R. Bäumer, Konstanzer Dekrete, in Lexicon für Theologie und Kirche, 6 (1961), pp. 503-505, qui p. 505; cf. anche K.
A. Fik, Konstanz. 3 Konzil, in Ibid., pp. 501-502; H. Jedin, Konziliarismus, in Ibid., pp. 532-534.
33
Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, cit., p. 152.
34
Ibid., p. 180.
35
Ibid., p. 182.

75
Quantunque i singoli Vescovi non godano della prerogativa dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il
mondo, ma conservanti il vincolo della comunione tra di loro e col Successore di Pietro, nel loro insegnamento
autentico circa materie di fede e morale convengono su una sentenza da ritenersi come definitiva, enunziano
infallibilmente la dottrina di Cristo. Il che è ancora più manifesto quando, radunati in Concilio Ecumenico sono per tutta
la Chiesa dottori e giudici della fede e della morale, e alle loro definizioni si deve aderire con l’ossequio della fede.36

La suddivisione stessa del problema mostra come l'esercizio dell'infallibilità da parte del papa
appaia come la terza risorsa in questa graduatoria. Si accentua, pertanto, nella stessa misura il
carattere straordinario che le compete. Il che indica come il suo esercizio debba normalmente
costituire una risorsa di ultima istanza allorché, per impossibilità o per grave difficoltà pratica, non
risultino attuabili le precedenti. Di conseguenza, dovrà rispondere a condizioni molto concrete ed
eccezionali.
Di quanto sia viva tale concezione nell'attuale coscienza della Chiesa ne danno prova e
costituiscono un chiaro motivo di speranza le parole del Cardinal Etchegaray in un'occasione
solenne: «Se esiste un primato del papa, è grazie al fatto che esiste il primato della Chiesa al
servizio della carità, e che questo primato precede l'altro, lo condiziona e lo include».37
Non c’interessa qui entrare in maggiori dettagli sul rapporto tra il potere magisteriale del papa e
quello del collegio: se si tratti, ad esempio, di due istanze diverse o se – come insieme a K. Rahner
pensa oggi la maggioranza dei teologi – si tratti di un solo soggetto.

Nella Chiesa esiste un solo soggetto della potestà suprema, e tale soggetto è il collegio episcopale, che ha nel papa il
suo capo. Sono due però i modi di agire di questo collegio: con un atto propriamente collegiale e con un atto del papa
come capo del collegio.38

3.2. Il problema dell'infallibilità. b) l'oggetto

Quanto fin qui detto assicura, come si vede, un'ampia base interconfessionale comune. La
discussione suscitata dalla Riforma e ravvivata da Hans Küng si sviluppa ora al suo interno ed è, di
conseguenza, più limitata. Il che non annulla le particolari difficoltà che solleva, ma permette di
affrontarle, diciamo così, con maggior serenità. Indichiamo adesso in forma molto abbreviata le
possibili vie della loro comprensione.39
Da Küng dobbiamo accogliere l'avvertimento che nel cammino ordinario della Chiesa, per quei
problemi e quelle scelte in cui non è messo in discussione il suo essere come tale, si possono
effettivamente fare dei passi falsi, ci si può allontanare dal vero cammino (e la storia,
malauguratamente, è lì a dimostrarlo; come anche la stessa autocoscienza ecclesiale: ecclesia
36
Lumen Gentium, n. 25. La stessa cosa afferma J. Ratzinger. Il nuovo popolo di Dio, cit., p. 181: «Come si vede, il
concilio si colloca semplicemente nel prolungamento del magistero universale ordinario, che consiste nella predicazione
unanime del papa e dei vescovi; è la sua manifestazione solenne. Ma risulta ugualmente chiaro che l’infallibilità del
papa non esiste per sé, ma occupa un posto perfettamente determinato e limitato, e in nessun modo esclusivo, nel
quadro della presenza perenne della parola divina nel mondo».
37
R. Etchegaray, Unità dei cristiani e primato nel servizio della carità (conferenza per l’Incontro intercristiano Chiese
sorelle, Popoli fratelli, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, Genova 12-14 novembre 1999), in «Il Regno
documenti», 5/2000, anno 45, n. 854, pp. 197-200, a p. 198. Si veda anche il significativo testo con cui si chiude questo
lavoro.
38
K. Rahner, Zum Verhältnis zwischen Pabst und Primat, in Schriften zur Theologie VIII, Einsiedeln 1967, p. 279; cf
K. Rahner – J. Ratzinger, Episcopato e primato, tr. it. Morcelliana, Brescia 2007; Y. Congar, Ministeri e comunione
ecclesiale, tr. it. EDB, Bologna 1973; Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, cit., pp. 133-159.
39
Risulta fondamentale il dibattito contenuto in K. Ranhner (a cura di), “Infallibile?” Rahner-Congar-Sartori-
Ratzinger-Schnackernburg e altri specialisti contro Hans Küng, Edizioni Paoline, Roma 1971; cf anche J. J. Kirvan
(ed.), The Infallibility Debate, New York 1971. Rimando anche alla dettagliata discussione che io stesso ho realizzato in
Constitución y Evolución del Dogma, cit, pp. 340-348, e in Repensar la revelación, cit., pp. 480-492, che utilizzo qui
ampiamente.

76
peccatorum, ecclesia semper reformanda…). Il caso però si presenta molto diverso quando si tratta
di questioni fondamentali, da cui dipende che la Chiesa «cada o resti in piedi». In riferimento a tali
questioni non si vede come si possa sostenere la possibilità che la Chiesa prenda una strada
sbagliata, senza che ciò implichi una discontinuità nel suo stesso essere.
Semplificando, si potrebbe dire che, ammettendo tale possibilità, ci sarebbero momenti nella
storia nei quali in realtà non esisterebbe la vera Chiesa, nei quali la presenza salvatrice di Dio non
sarebbe rintracciabile nella sua integrità dall’uomo reale. Chiedere a qualcuno in tali circostanze un
sì o un no definitivi non sarebbe precisamente un salvaguardare la sua libertà, ma correre il pericolo
di assoggettarlo a un totalitarismo assolutista e arbitrario.40
È chiaro che ragionamenti di questo genere includono una grande complessità di presupposti
teorici e d’implicazioni pratiche. Mentre a partire da una tradizione possono risultare evidenti, da
un'altra possono venire spontaneamente rifiutati. Si tratta di una conclusione fondata e ragionevole,
non di una dimostrazione inoppugnabile; e qui il realismo impone reciproca comprensione e storica
pazienza. Non sarebbe però un guadagno da poco se per lo meno restassero chiari il senso e la
“ragionevolezza” interna dell’opzione, affinché sia questa – e non i pregiudizi intorno a essa –
l'oggetto del dialogo. I cattolici devono riconoscere i pericoli e gli abusi pratici che nascono da
questa opzione e ammettere come salutare correttivo la critica permanente che le viene dal
“principio protestante”. I protestanti dovranno forse considerare con occhi nuovi – quelli di una
fede cristiana messa globalmente in discussione, in un mondo che si unifica irreversibilmente – la
“sostanza cattolica”, vedendo in essa una possibile opportunità per la confessione di «un solo
Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5).41
Senza entrare in una discussione dettagliata dell'argomentazione di Hans Küng, ci sono due punti
che vale la pena chiarire brevemente.
Il primo è il sospetto di un certo circolo vizioso nel dogma dell'infallibilità: la Chiesa è infallibile
perché definisce infallibilmente di essere infallibile. Difficoltà certamente più forte in apparenza
che nella realtà effettiva. Come accadde con la definizione del canone da parte della Chiesa
primitiva, si tratta di un processo riflessivo, di circolarità non viziosa ma ermeneuticamente
produttiva. In esso la Chiesa porta a chiara espressione e a ferma decisione ciò che da sempre era in
lei intuizione inespressa (o non così espressa) e prassi di vita.42 Del resto, in processi così profondi,
la coscienza espressa non è quasi sempre un “rendersi conto” di ciò che, in qualche modo, già si
sapeva? Non è questo ciò che Blondel voleva indicare quando parlava del passaggio dall'“implicito
vissuto” all'“esplicito conosciuto”? Vale a dire che ci troviamo di fronte a una struttura
fondamentale della vita umana cosciente.

40
«Se non è questo il caso, il permanere della Chiesa nella verità perde la sua concreta serietà e si può sempre, se si
vuole, sfuggire, e non è mai necessario decidere qualcosa in concreto. In ultima analisi, il cristianesimo si trasforma
allora in un rito»: W. Kasper, in H. Küng (ed.), Fehlbar? Eine Bilanz, Zürich 1973, p. 82 [??tr. it., Un dibattito del
bilancio sull’infallibilità, in H. Küng, L’infallibilità, Mondadori, Milano 1977, cit., p. ]. Nello stesso senso si
esprimono J. Ratzinger, in K. Rahner (ed.), Zum Problem der Unfehlbarkeit. Antworten an die Anfrage von Hans Küng,
Freiburg 1971, p. 115; K. Lehmann, Ibid., pp. 353-354 [tr. it. “Infallibile?” Rahner-Congar-Sartori-Ratzinger-
Schnackernburg e altri specialisti contro Hans Küng, Edizioni Paoline, Roma 1971] e M. Löhrer, in Fehlbar? cit., p. 98
(oppure Rahner, Lehmann, Löhrer rispondono all’«Infallibile?» di Hans Küng, Edizioni Paoline, Roma 1971, pp. ].
(Vedi meglio!!! Ove si trova la tr. it di Fehlbar!!)
41
Uso qui l’eloquente terminologia di P. Tillich. Cf. i lavori raccolti nella sua opera Der Protestantismus als Kritik und
Gestaltung, München-Hamburg 1966; un buon riassunto si può vedere in J. Ambruster, El pensamiento de Paul Tillich,
Santander 1968, pp. 222-231.
42
Rahner, che sempre riconobbe la difficoltà, mostra bene la presenza fondamentale di questa verità nella storia della
Chiesa: «Non vi può essere alcun dubbio che la chiesa anteriore alla Riforma abbia ritenuto che la chiesa in quanto tale,
radunata in concilio, può parlare con un’autoritò ultima, irreversibile, normativa in maniera vincolante per la coscienza
del cristiano. [...] Di conseguenza, per quanto riguarda l’autorità magisteriale del papa, la questione si riduce a questo:
se tale autorità che, secondo l’intelligenza della fede anteriore alla Riforma, esiste nella chiesa, ora possa essere
attribuita anche al papa in quanto tale. [...]. Se vediamo le cose in questo modo, allora in fondo possiamo dire che un
vertice personale della rappresentanza sinodale e collegiale è anche la cosa umanamente più ragionavole e
convgeniente» (Rahner, Corso fondamentale sulla fede, cit. pp. 488-490).

77
Il secondo punto consiste nella difficoltà, molto accentuata da Küng, dovuta all'«impossibilità di
proposizioni infallibili a priori».43 Senza entrare in discussioni particolareggiate, bastino qui le
seguenti osservazioni:
1) Non si tratta di un vero apriorismo. Tenendo conto che tali proposizioni consistono nel ri-
conoscimento di una verità già presente nella Chiesa (altrimenti non potrebbe essere definita), con
uguale o a maggiore ragione si può dire che si tratta di verità a posteriori. Per questo non sono
infallibili tutte le proposizioni del magistero, ma solo poche e rigorosamente determinate. E per
questo, nella loro definizione, non si tratta di “ispirazione”, e neppure di un atto “miracoloso” che
aumenti la verità rivelata, ma di pura salvaguardia negativa dovuta alla presenza perenne del
Signore nella sua Chiesa.
2) La verità di tali proposizioni non è da considerarsi isolatamente, perché allora «le proposizioni
possono essere vere o false».44 Basti pensare alla faticosissima elaborazione di qualsiasi decisione
conciliare per comprendere che si tratta di proposizioni emesse in un contesto concreto e ben
determinato. Non si può negare allora che possano avere un significato sufficientemente univoco,
come, del resto, dimostra la prassi secolare. Affermare questo non equivale a negare la necessità di
una vigile attenzione per non restare ammaliati dalla lettera del dogma. Proprio il suo carattere
contestuale obbliga a comprendere che la sua intenzione profonda dev’essere ritradotta ad ogni
tappa storica o in ogni forma culturale, nella consapevolezza che «l'arrestarsi a modi tradizionai di
esprimersi, spesso conduce piuttosto all’eresia che all’ortodossia».45
Con tutto ciò, l'onesto riconoscimento dei possibili abusi non deve portare alla negazione di
principio della legittimità dell'uso. Cosa che, da parte sua, dovrebbe tenere in conto la critica,
poiché anch'essa, insieme ad avvertimenti salutari, può cedere a una certa allergia, cadendo in
apprezzamenti palesemente ingiusti. Succede, per esempio, quando Karl Barth, nel suo commento a
questo punto della Dei Verbum, afferma che «il Concilio patì un mancamento, starei per direi un
“infarto”».46 Tre pagine più avanti si spiega la radicale incomprensione che gli fa da base, cioè il
dare come ovvia un'interpretazione che nemmeno il più conservatore della minoranza conservatrice
in Concilio approverebbe mai: «Si ritiene quindi in diritto la Chiesa cattolica o qualsiasi cristiano
cattolico, in virtù del capitolo II della Costituzione, di dare la stessa adesione e convinzione, per
esempio, all'evangelista Matteo e a un Tommaso di Kempis o a un Ignazio di Loyola, come
interpreti del vangelo?».47
La verità è che, quando questa – certamente delicata – dottrina cattolica viene presa con le
dovute cautele, si può perfino arrivare alla conclusione, autenticamente paradossale, d’interpretare
l’infallibilità come la dimostrazione del massimo rispetto per la parola di Dio. Perché,
precisamente, se da una parte la Chiesa non può mai dominare questa parola e, dall’altra, vuole
assolutamente sottomettersi a essa, non può trovare la certezza necessaria nelle sole forze della
riflessione umana. Allora l’infallibilità, essendo un carisma, rappresenta il riconoscimento che la
certezza assoluta della fede può essere ricevuta solo come un dono, come il frutto oggettivo di una
funzione ecclesiale e non magari come la decisione soggettiva del teologo o del credente illuminato.

43
«Von vornherein unfehlbar Sätze»: la definizione più chiara di questa espressione compare in H. Küng, Unfehlbar?
Eine Anfrage, cit., p. 142 [tr. it. cit. p. 171]; «...proposizioni tali che, riguardo all’errore, restano garantite da criteri
formali, di modo che non hanno bisogno di alcun “riscontro aposteriori” nella Scrittura, nella tradizione o nella
situazione della fede della Chiesa» (Küng, Fehlbar? Eine Bilanz, cit. p. 78; tr. it. ??), riassume così l’interpretazione di
O. Semmerlroth (cf. Rahner (ed.), Zum Problem der Unfehlbarkeit, cit., pp. 204-206 [tr. it. cit. pp. 203-204]), che lo
stesso Küng (Fehlbar? cit. p. 352, nota 2) dà per giusta. Ed it.?
44
Questa frase è un po’ il leit-motiv dell’opera di Küng, una specie di «assioma fondamentale che abbraccia tutto»,
anche se non è chiaro il suo significato (K. Lehmann, in Zum Problem der Unfehlbarkeit cit., p. 355 [tr. it. cit., pp. 522-
523]). Küng stesso riconosce che qui ha acuito la frase, che già era presente nel suo lavoro ecclesiologico precedente
(Fehlbar?, p. 385). [es correcto este añadido]
45
K. Rahner - K. Lehmann, Kerigma e dogma, in Mysterium Salutis 2, tr. it. Queriniana, Brescia 1969, p. 230.
46
K. Barth, Conciliorum Tridentini et Vaticani inhaerens vestigiis?, in B. D. Dupuy (ed.), Vaticano II. La Revelación
Divina II, Madrid 1970, p. 234.
47
Ibid., p. 237.

78
In un’ermeneutica generosa e cordiale, non è questo l’aspetto più profondo dell’intenzione
conciliare? Lo stesso Barth si fa eco delle parole esplicite del Concilio:

Il quale Magistero però non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato
trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce
e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come
rivelato da Dio.48

In definitiva, tornando al nocciolo dell’obiezione, forse la cosa più chiara è quella più
elementare. Che una proposizione di fede non possa mai essere all’altezza del suo significato e che,
proprio per questo, niente possa esprimere tale significato in maniera adeguata, non vuol dire che,
nella modestia di un’affermazione consapevole dei propri limiti, essa non possa essere, nonostante
tutto, vera. Una concreta citazione di Karl Ranhner, sebbene piuttosto lunga, può forse fare
chiarezza più di molti discorsi astratti.

Io non so, per esempio, con molta precisione se le mie opinioni a riguardo della soluzione del problema razziale
siano giuste o sbagliate, nonostante la mia buona volontà. Il principio, però, che ogni individuo debba essere rispettato
nella sua dignità e amato come prossimo è una proposizione, e distinta dalla decisione fondamentale (che speriamo
esista) di praticare questo rispetto e questo amore; ed è una proposizione che certamente non potrei definire nel suo
significato con una chiarezza cartesiana, separandola nettamente da ogni ambiguità, così che per la mia coscienza e per
quella degli altri costituisca una garanzia contro false interpretazioni e, nello stesso tempo, non possa coesistere con
opinioni sulla soluzione del problema razziale incompatibili con questa decisione e questa proposizione fondamentale.
Sul tema di questa proposizione fondamentale spesso intavolo vivacissime discussioni con filosofi e altre persone, per
vedere se non si tratta soltanto di una ridicola ideologia con cui coprire nel profondo del mio cuore la brutalità della
lotta per l’esistenza e l’egoismo che smentisce se stesso. Nonostante questo, riconosco il dovere e la legittimità di un
assenso assoluto a questa proposizione e lo affermo in base al carattere assoluto della ragione pratica, come se fosse
infallibile. Posso farlo, come ho detto, anche se – storicamente – vado approfondendo sempre di più la comprensione di
questa proposizione e non posso mai realizzare adeguatamente nella mia coscienza la distinzione tra la proposizione
espressa in forma assoluta e le altre che io considero giuste; più ancora, le considero come una conseguenza necessaria
di questa proposizione fondamentale, ma che non operano con lo stesso assoluto impegno e che forse sono addirittura
sbagliate. Io devo agire secondo questa proposizione fondamentale, sebbene l’assolutizzazione di questa proposizione
non mi consenta di uscire dalla mia storicità e dalla sua, e la debba sempre attuare con questo intimo timore e tremore
che domina l’esistenza umana, e acquista perfino il suo carattere specifico solo quando si prende con esso una decisione
assoluta, ossia una decisione che è anche quella della carità e della verità.49

4. La realizzazione storica

Una volta chiarito in qualche modo il significato autentico dell’infallibilità, cercando di capire e
valorizzare ciò che essa presuppone di positivo, si sono create le condizioni minime per una
valutazione più giusta dei suoi limiti e delle possibilità che ne conseguono per una sua migliore
realizzazione nella storia. Si apre così per la riflessione teologica un campo di tentativi e di punti di
vista, di trasformazioni e di miglioramenti, che esigono ad un tempo prudente modestia e aperta
libertà evangelica. Ciò che qui verrà detto costituirà, dunque, un contributo minimo per un compito
complesso e pluridimensionale, che richiederà sicuramente ancora molti sforzi e aggiustamenti in
futuro.
Cercherò di articolare l’esposizione tenendo conto delle tre dimensioni fondamentali del
linguaggio: quella semantica, quella espressiva e quella pragmatica. Vale a dire, in riferimento ai
problemi che suscita: 1) ciò che dice il magistero infallibile; 2) il modo e lo stile con cui lo dice; 3) i
procedimenti e gli effetti che con esso s’intendono realizzare. Si capisce che né il rimando alla
problematica linguistica pretende di essere preciso né la distinzione tra i vari aspetti ambisce a
essere nitida. È sufficiente che ci aiutino ad articolare l’esposizione, rendendola più chiara.

48
Dei Verbum, n. 10.
49
K. Rahner, Crítica a Hans Küng, in K. Rahner (ed.), La infalibilidad de la Iglesia, cit., p. 32 (ed. it?)

79
4.1. La dimensione semantica

Nonostante la sua brevità, l’analisi del problema posto dalle proposizioni ha messo in chiaro che
esse hanno un carattere inevitabilmente inadeguato e carente. Se, in qualche misura, questo vale per
qualsiasi proposizione, la carenza si moltiplica per quelle che rimandano al mistero di Dio. San
Tommaso giunse a dire, parlando in generale, che «noi non possiamo cogliere di Dio ciò che Egli è,
ma solamente ciò che Egli non è, e come gli altri esseri siano in rapporto con lui».* Trattandosi di
definire concretamente qualche aspetto del suo mistero, si comprende il dovere che tutti abbiamo di
procedere con infinita modestia. Tanto più se si ha presente l’apertura escatologica di tutti i nostri
enunciati teologici, sempre suscettibili di perfezionamento, senza che mai questo processo possa
avere termine nella storia.50
Di fatto, soprattutto per certi dogmi che vennero formulati a partire da una visione del mondo o
da una situazione confessionale molto diversa dalla nostra, si avverte subito l’enorme difficoltà cui
va incontro la teologia allorché cerca di metterne a punto un’interpretazione veramente significativa
ed esistenzialmente realizzabile per la cultura e la sensibilità attuali. Cosa intendiamo dire
veramente quando parliamo del peccato originale, dell’assunzione di Maria al cielo o dell’inferno?51
La presente riflessione è essa stessa una prova delle difficoltà che presenta il dogma
dell’infallibilità.
A questo rimanda anche il fatto stesso dell’importanza che, con l’ingresso della coscienza storica
nell’epoca moderna, ha acquisito il problema dell’evoluzione del dogma. E non cessa d’essere
sintomatico – e perfino paradossale – che la coscienza teologica abbia osato misurarsi dapprima con
l’ermeneutica delle parole della Scrittura piuttosto che con quella delle formulazioni dogmatiche. Il
che, sicuramente, ha la sua spiegazione più immediata nella maggiore elaborazione riflessa di
queste ultime, che le fa apparire chiare e ben definite. Ma può anche far sospettare un’eccessiva
sacralizzazione della lettera dei dogmi, come se li si collocasse fuori del tempo e della mutabilità
storica; cosa che l’attuale coscienza ermeneutica ha dimostrato essere semplicemente impossibile.
L’importanza di queste considerazioni è che esse rendono palese, da un lato, la necessità di
essere attentamente coscienti dell’incompiutezza e inadeguatezza d’ogni formula, per accurata che
sia; e dall’altro, della grande flessibilità con cui si deve affrontare la loro interpretazione. Come nel
paragrafo precedente si sottolineava che l’inadeguatezza della formula non annullava la verità
dell’affermazione e della sua intenzione profonda, ora è necessario sottolineare, parallelamente, che
la verità dell’affermazione non deve nascondere l’inadeguatezza della formula.
Yves Congar riporta il detto di un teologo anglicano che, preso con la profonda saggezza del
vero umorismo e liberato da ogni possibile connotazione cinica, può racchiudere una grande verità:
«Rome cannot change, but she can explain» (Roma non può cambiare, ma può senz’altro
interpretare).52
Presa del tutto seriamente e applicata con benevolenza, questa intuizione potrebbe risparmiare
molti conflitti teologici. La ragione sta nel fatto che la profondità del cambiamento culturale
introdotto dalla modernità presenta due sfide simultanee e, in certo senso, antagoniste: è necessario
mantenere la continuità della fede, espressa anche nelle formulazioni dogmatiche, e nello stesso
tempo è necessario mantenere viva la defe nel cambiamento del contesto culturale. Il che implica un
*
«Non enim de Deo capere possumus quid est, sed quid non est, et qualiter alia se habeant ad ipsum» (Tommaso
d’Aquino, Summa contra gentiles, 1, 30; cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 43) [n. d .t.].
50
Su questo aspetto, valorizzando quanto di positivo c’è nella posizione di Küng, insistono soprattutto F. Ardusso - S.
Dianich, Indefettibilità della Chiesa, in Nuovo Dizionario di Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, pp. 647-661,
in particolare le pp. 658-660.
51
È quanto ho cercato di evocare fin dal titolo nel mio opuscolo ¿Qué queremos decir cuando decimos «infierno»?,
Santander 1995 [tr. it., L’inferno. Cosa intendiamo con questa parola?, ISG edizioni-Marna, Vicenza-Barzago (LC)
2002].
52
Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, vol. 3, Queriniana, Brescia 1983, p. 137.

80
esercizio permanente di umiltà per la teologia e, contemporaneamente, un richiamo al magistero
affinché riconosca la necessità del lavoro teologico e rispetti la libertà dei suoi metodi e dei suoi
apporti.
Tutto questo si collega in maniera molto diretta alla problematica ecumenica, poiché, in
definitiva, le diverse confessioni consistono in modi diversi d’interpretare il patrimonio comune.
Una maggiore apertura in questo campo potrebbe significare un grande progresso. Al limite,
potrebbe addirittura condurre a ciò che Heinrich Ott ha chiamato l’«unione mediante
l’interpretazione».53 Proposta che contiene un’evidente convergenza con quella di Rahner quando,
nella sua disputa con Küng, parla di cercare un «accordo operativo», vale a dire «un accordo che si
basi sul fatto che opinioni contrastanti nel contenuto o nei concetti, in teoria o in apparenza, hanno
in pratica gli stessi effetti dal punto di vista “operativo”».54
In tale contesto, la chiara proposta conciliare di una gerarchia delle verità riveste un enorme
significato; al punto che lo stesso concilio ne fa l’applicazione. «Nel mettere a confronto le dottrine
si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il
loro nesso col fondamento della fede cristiana».55 E nella dichiarazione Mysterium Ecclesiae si dice
in maniera esplicita che questo non si riferisce solo a verità secondarie, poiché esiste anche una
«gerarchia dei dogmi della Chiesa».56
Si tratta di un tema davvero germinale che, senza dubbio, dovrà crescere e svilupparsi,
fecondando la riflessione teologica. Innanzitutto, perché indica che non si deve confondere il grado
di certezza di una verità, che può essere grande, con quello della sua importanza, che può essere
minore. Cosa che vale sul piano oggettivo, per cui non è strano che nella teologia attuale sia
comparsa la categoria di «dogmi marginali» (Randdogmen).57 E vale ugualmente su quello
soggettivo, cioè riguardo all’effettiva esperienza sia degli individui sia dei gruppi e delle Chiese.58
Com’è noto, Karl Rahner rientra fra i teologi che hanno dato più attenzione a questo problema.
Per vedere più concretamente il significato di queste valutazioni, che potrebbero sembrare
raffinatezze teoriche o astratte distinzioni, vale la pena citare qualche sua parola, forse ancora più
eloquente dato il loro carattere colloquiale. Alla domanda dell’interlocutore «se questo si possa
esprimere un po’ più chiaramente», risponde:

53
H. Ott, Die Lehre des I Vatikanischen Konzils, Basel 1963; citato da Fries, Teologia fondamentale tr. it. cit., p. 650,
che lo qualifica come «il programma teologico di Ott», e di cui afferma che «merita la massima attenzione».
54
K. Rahner, Replica a Hans Küng, in K. Rahner (ed.), “Infallibile?”, cit., p. 410 [tr. it. mod.].
55
Unitatis Redintegratio, n. 11. Cf. soprattutto H. Mühlen, Die Lehre des Vatikanum II über die “hierarchia veritatum”
und ihre Bedeutung für den ökumenischen Dialog, in «Theologie und Glaube», 56 (1966), pp. 303-335; G. H. Tavard,
“Hierarchia veritatum”. A Preliminary Investigation, in «Theological Studies», 32 (1971), pp. 278-289. W. Kasper,
Introduzione alla fede, cit., pp. 111-115, offre un’esposizione sintetica.
56
Congregazione per la dottrina della fede, Mysterium Ecclesiae. Dichiarazione circa la dottrina cattolica sulla chiesa
per difenderla contro alcuni errori d’oggi, 1973, n. 4.
57
H. Mühlen, Die Bedeutung der Differenz zwischen Zentraldogmen und Randdogmen für den ökumenischen Dialog.
Zur Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzil von der “hierarchia veritatum”, in J. L. Leuba - H. Stirnimann (edd.),
Freiheit in der Begegnung. Zwischenbilanz des ökumenischen Dialog, Frankfurt a. M. - Stuttgart 1969, pp. 191-227.
58
Lo esprimono bene queste parole di G. B. Sala: «Esiste una gerarchia soggettiva delle verità, la quale è affatto
legittima, fondandosi ultimamente sulla natura stessa dell’atto di fededel tutto legittima e che si fonda ultimamente sulla
natura stessa dell’atto di fede. Nella fede infatti il principio dell’atto (lo Spirito Santo) e l’oggetto dell’atto
(l’autodonazione di Dio all’uomo) sono radicalmente identici. Solo per gradi questo movimento totale verso Dio si
assimila i diversi ‘oggetti’ della fede, articolandoli categorialmente in un processo storico che è comunitario e
individuale insieme. Dove però l’appropriazione esistenziale del singolo non coincide necessariamente con il cammino
percorso dalla fede dell’intera Chiesa. Il singolo cristiano vive della fede della Chiesa, dalla quale dipende e alla cui
totalità egli è aperto (un cattolico non può negare con dissenso positivo nessun dogma), qualunque sia il grado e la
modalità dell’articolazione oggettiva alla quale egli hic et nunc nella sua fede è arrivato. Questo diverso configurarsi
della fede non si verifica solamente nel singolo credente. Analoghe affermazioni circa una gerarchia soggettiva delle
verità valgono per i gruppi esistenti nella Chiesa, per le singole Chiese, per le diverse epoche nella storia della Chiesa.
Non è difficile rendersi conto dell’importanza che questo insegnamento conciliare ha in ordine a una esatta concezione
dell’ortodossia entro la Chiesa cattolica, come pure in ordine a valutare più adeguatamente ciò che unisce le diverse
denominazioni cristiane» (G. B. Sala, Ortodossia, in Nuovo Dizionario di Teologia, cit. p. 990).

81
Se viene da me un cristiano cattolico e mi dice che non capisce questo o quello, che non sa cosa fare, io gli direi: per
una persona ragionevole non è opportuno respingere qualcosa in anticipo e in maniera diretta, dal momento che nel
mondo e anche nell’ambito della verità ci sono cose cui uno non può accedere personalmente. Se tu però vuoi
conseguire come credente la verità fondamentale del cristianesimo, hai tutto il diritto di non preoccuparti per cose
secondarie nell’ambito della gerarchia delle verità e, in nome di Dio, a lasciarle in pace.59

Rahner fa anche due casi concreti, che nella situazione attuale possono essere di grande aiuto. Il
primo si riferisce ad un problema pedagogico, con cui spesso s’incontrano gli insegnanti di
religione (e si potrebbe dire: i parroci, i catechisti e anche gli stessi teologi). Rispondendo alla
domanda: «Per un professore di religione, questo significherebbe poter tacere su verità di fede di
secondo o terzo grado? », egli così si esprime:

Certamente, si possono fare sciocchezze con questo principio; e, con tutto ciò, ritengo che un professore di religione
abbia oggi il sacro dovere e l’obbligo di avvicinare le persone alle affermazioni ultime e centrali del cristianesimo. Se
allora gli sfuggono molte cose secondarie, non ha alcuna importanza.60

Il secondo caso fu esplicitato in un libro in collaborazione con Heinrich Fries, dove entrambi
ritengono che un atteggiamento di vera «tolleranza epistemologica» consentirebbe ormai l’unità
delle grandi confessioni. Basterebbe adempiere due condizioni fondamentali: 1) «non respingere
come contraria alla fede un’affermazione che un’altra Chiesa particolare professa come dogma
obbligatorio», benché al momento non la si possa accettare per se stessi; 2) non imporre «come
dogma obbligatorio a un’altra Chiesa particolare» ciò che è “confessione esplicita e positiva” della
propria; la si affidi, piuttosto, ad un più ampio consenso futuro».61
Si capisce che non si tratta ora di analizzare o discutere dettagliatamente questa proposta ma,
prima di tutto, di segnalare uno stile e di essere aperti a possibilità che non solo non si oppongono al
senso profondo delle formule dogmatiche, ma sembrano perfino richieste dall’indole stessa della
loro costituzione. E, ovviamente, queste considerazioni dovrebbero renderci tutti estremamente
cauti, ed anche impedire al magistero di prendere strade così scivolose come quella che negli ultimi
tempi, a proposito della ordinazione delle donne, lo ha portato a introdurre una nuova specie di
proposizioni magisteriali.62
Si tratta delle cosiddette proposizioni definitive che, senza essere dichiarate espressamente
“infallibili”, si presenterebbero come irreformabili in futuro, obbligatorie per tutti e sottratte alla
discussione teologica. Le reazioni negative di molti teologi risultano, alla luce di quanto detto, del
tutto giustificate, sia oggettivamente, per la mancanza di un vero fondamento per tale proposta, sia
pastoralmente, dal momento che i tempi ormai si muovono esattamente nella direzione opposta.63 Il
che c’introduce al punto seguente.

59
P. Imhof e H. Biallowons (edd.), Karl Rahner im Gespräch, Bd. 1: 1964-1977, München 1982, p. 186.
60
Ibid., pp. 186-187.
61
H. Fries - K. Rahner, Unione delle chiese possibilità reale, tr. it. Morcelliana, Brescia 1986, p. 17; la tesi più
importante è la seconda. Risulta molto interessante l’appendice che H. Fries pone alla nuova edizione: Approvazione e
critica. Un bilancio, Ivi, pp. 177-213.
62
Congregazione per la dottrina delle fede, Ordinatio sacerdotalis (1994); dottrina su cui ritorna la lettera apostolica Ad
tuendam fidem, AAS 90 (1-7-1998), pp. 457-462, e la Nota dottrinale chiarificatrice della formula conclusiva della
professione di fede (L’Osservatore Romano, 1-7-1998).
63
In merito si era pronunciato Ch. Duquoc, Aveu et humiliation. De l’économie de l’instruction romaine sur la vocation
écclesiale du théologien, in «Lumière et Vie», 39 (1990), pp. 91-95. Sulla questione cf. D. M. Ferrara, The Ordination
of Women: Tradition and Meanning, in «Theological Studies», 55 (1994), pp. 706-719; W. Beinert, Priestentum der
Frau. Der Vorgang zu die Frage Offen?, in «Stimmen der Zeit», 212 (1994), pp. 723-738; H. Waldenfels, “Infalible”.
Reflexiones sobre la obligatoriedad de las enseñanzas de la Iglesia, in “Unfehlbar”. Überlegungen zur Verbindlichkeit
christlicher Lehre, in «Stimmen der Zeit», 214 (1996), pp. 147-159; L. Örsy, Von der Autorität kirchlichen Dokumente
Eine Fallstudie zum Apostolischen Schreiben “Ad tuendam fidem”, in «Stimmen der Zeit», 216 (1998), pp. 735-740,
con la presa di posizione di J. Ratzinger, Stellungnahme, in «Stimmen der Zeit», 217 (1999), pp. 169-171, e la risposta
di L. Örsy, Antwort an Kardinal Ratzinger, in «Stimmen der Zeit», 216 (1998), pp. 305-316.

82
4.2. Dimensione espressiva

L’aspetto semantico, pur essendo molto importante, non esaurisce né l’essenza dell’infallibilità
né il suo problema. Si va sempre più riconoscendo, infatti, che la vera difficoltà non risiede nel
primato o nel magistero in se stessi. In quanto garanti dell’unità della Chiesa, di essi si ammette la
necessità. Ciò che fa problema è il modo dell’esercizio.

Il fatto di questa preminenza (Vorrangs) della comunità romana e del suo vescovo nella cristianità va accettato
spassionatamente (unbefangen). Controverso non è tanto il fatto in sé e per sé, quanto il modo in cui lo si descrive e il
problema dei diritti che da esso si derivano.64

In questo senso, e pur riconoscendo il maggior equilibrio che, rispetto al Vaticano I, ha


introdotto il Vaticano II col dare il primato alla comunità e chiarendo che il magistero è al servizio
della parola di Dio65, dispiace che non si sia avanzato di più su questa strada. Il modo di presentarlo
e, molte volte, di esercitarlo non rendono sempre evidente questo carattere di servizio, ma tendono
piuttosto a velarlo.
Un aspetto cui occorre accennare – strettamente correlato, del resto, agli altri due – è la tendenza
ad un suo uso eccessivo, che corre il pericolo di assorbire in sé le altre funzioni ecclesiali. A parte il
fatto che non conviene ridurre il “magistero” al magistero infallibile, si corre il rischio di oscurare
eccessivamente le altre forme del magistero, dalla catechesi e l’omelia fino all’insegnamento dei
vescovi. Molto concretamente, tenendo presente in particolare l’enorme difficoltà “semantica” delle
proposizioni di fede, conviene riequilibrare i rapporti fra magistero e teologia.
All’inizio essi procedevano uniti, poiché i pastori erano allo stesso tempo teologi; così che si è
potuto parlare di una specie di «pericoresi tra il magistero e la teologia». L’inevitabile
specializzazione portò in seguito a una più netta distinzione tra la dottrina della fede e la scienza
della fede, tra l’”annuncio” e l’”insegnamento”. Anche san Tommaso, tuttavia, parla di un doppio
magistero: quello della “cattedra pastorale” e quello della “cattedra magisteriale” (vale a dire dei
magistri, i teologi). E giunge perfino a qualificarli – parallelamente ai vescovi – come «architetti»
(artifices) della coscienza ecclesiale: ai vescovi compete «comandare e disporre» (imperare et
disponere) e ai teologi «investigare e insegnare». Il prestigio e l’ascendente dei dottori giunse
persino a introdursi in una dinamica di potere e d’influenza eccessiva. A partire però da Trento, in
parte come reazione contro Lutero, i vescovi e il papa tendono a concentrare in maniera esclusiva la
funzione magisteriale, assorbendo sempre di più il compito dei teologi.66
È evidente che in un mondo così specializzato come il nostro, dove ogni aspetto del reale – e
dunque anche della fede – richiede una intensa e specifica dedizione, sia necessario trovare un

64
W. Pannenberg, Systematische Theologie 3, Gottingen 1993, p. 458; cf. pp. 458-459 [tr. it. Teologia sistematica 3,
Queriniana, Brescia 1996, p. 446; cf. pp. 445-457]. cf. anche le serie riflessioni dal punto di vista cattolico che
nell’ambito della teologia fondamentale fa H. Verweyen, Gottes letztes Wort Grundrisse der Fundamentaltheologie,
Düsseldorf 1991, pp. 566-567 [tr. it. La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale, Queriniana,
Brescia 2001, pp. 521-526]. Cf. anche A. Carrasco Rouco, Notas a propósito de la recepción en el Vaticano II de la
enseñanza dogmática sobre el promado petrino, in L. Quintero Fiúza - A. Novo (edd.), En camino hacia la gloria.
Miscelánea en honor de Mons. Eugenio Romero Pose, in «Revista Compostellanum», Santiago 1999, pp. 445-446:
«Oggi, a differenza delle preoccupazioni di quell’epoca, la riflessione teologica è più incentrata sull’articolazione della
giurisdizione o sulle forme del suo esercizio nella Chiesa che sulla questione dell’infallibilità, di cui si accettano in
generale le prospettive di fondo, senza più il timore di una visione estremista. Si chiede di concepire teologicamente e
praticamente l’autorità in modo articolato con la realtà della Chiesa e dell’episcopato, lasciando indietro categorie come
quella di “sovranità assoluta”, che possono portare a isolare il Papa, come fonte del potere o della verità nella Chiesa,
nell’esercizio del suo ministero o a ridurre il rapporto con lui a una dinamica di superiore/inferiore».
65
Dei Verbum, n. 10; lo riconosce esplicitamente W. Pannneberg, Systematische Theologie 3, cit., p. 459 [tr. it.
Teologia sistematica 3, cit. 457].
66
Cf. soprattutto M. Seckler, Die schiefen Wände des Lehramts. Katholiziät als Herausforderung, Herder, Freiburg i.
Br 1988, pp. 105-155; B. Sesboüé - Ch. Theobald, Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, tr. it. Piemme, Casale
Monferrato 1998 (entrambi con abbondante bibliografia). He tratado el problema en Magistero e teologia: i princìpi
messi a confronto con i fatti: Concilium 2/2012, 67-84.

83
nuovo equilibrio. Già per la sola disponibilità di tempo, si vede che non compete ai pastori chiarire
per quali vie debba attualizzarsi e ritradursi la comprensione scientifica della fede nel presente.
Come Giovanni Paolo II ha proclamato in varie occasioni, questo è il compito dei teologi. E
renderebbe un cattivo servizio alla Chiesa e allo stesso Magistero una «teologia asservita»,67 pura
trasmettitrice delle consegne o delle direttive ufficiali. Probabilmente le tensioni e perfino i conflitti
sono inevitabili, ma l’unica teologia che veramente può servire oggi è quella che, come diceva Karl
Adam, si muove attraverso un’«obbedienza che lotta e protesta»68. Essa non può fare tutto, ma
senza il suo contributo libero e responsabile è impossibile conservare la significatività della fede
all’interno dell’enorme cambiamento culturale prodotto dalla modernità.69
Forse, però, il punto dove con maggiore intensità e in forma più sintomatica si è manifestato lo
squilibrio è stato nella stessa formulazione del Vaticano I, con l’introduzione, nonostante prudenti e
assai giuste resistenze, dell’affermazione che le proposizioni infallibili sono irreformabili «per sé e
non per il consenso della Chiesa» (ex sese non autem ex consensu ecclesiae).70 Anche evitando i
fraintendimenti che potrebbero portare ad interpretare il «non per il consenso della Chiesa» nel
senso di un «senza il consenso», come se il papa potesse dettare formule di fede a suo arbitrio; e
anche tenendo conto, come ha segnalato K. Rahner, che questo ex sese si riferisce alla verità delle
formule in se stesse e non direttamente all’atto del papa;71 perfino riconoscendo, alla fine, che
questa espressione debba essere vista come un rifiuto del gallicanesimo, e che può essere accettata
anche da un teologo protestante quale garanzia dell’autonomia del magistero di fronte a possibili
abusi,72 non si può occultare la sua logica legalistica. Questa «non dovrebbe sovrastare il senso
teologico, che è, di gran lunga, il più rappresentato nella tradizione».73
Il fatto stesso che siano necessarie tante spiegazioni, talvolta davvero sottili, sta a indicare che in
questo caso non si è trovata la forma appropriata e che, proprio per questo, le diffidenze non
mancano di fondamento. È evidente che l’appianamento delle difficoltà non verrà dall’insistenza –
indispensabile – sulle dichiarazioni teoriche, ma da uno stile e da un modo di fare che, rifuggendo
dallo spirito legalista, pratichino una logica autenticamente comunitaria. Il che si ricollega al
palpitante problema della recezione, di cui si dirà qualcosa nel paragrafo seguente.
Qui conviene insistere sul fatto che, essendo anzitutto il modo, e non la sostanza
dell’unificazione magisteriale della verità, ciò che risulta problematico, lo stile non è una questione
secondaria. Anzi, nella prassi vitale delle Chiese può diventare il fattore decisivo per appianare le
strade dell’unione. L’abbiamo visto, non molti anni or sono, con il mutamento di clima e con le
speranze suscitate dall’atteggiamento semplice, fraterno, fiducioso e aperto del papa Giovanni
XXIII.
Tanti secoli prima, in tempi di molto maggior autoritarismo sociale e politico, un altro papa, san
Gregorio Magno, seppe mostrare come, contro le apparenze superficiali, fosse questo il modo
migliore di sottolineare e addirittura di assicurare la funzione del primato. Le sue parole in una

67
Seckler, Die schiefen Wände, cit., pp. 150-151.
68
Ibid., p. 243 nota 13. H. Waldenfels, Kontextuelle Fundamentaltheologie, F. Schöningh, Paderborn 1985, pp. 443-
448: a fronte del modello di “delega”, auspica quello di “cooperazione” [cf. tr. it. Teologia fondamentale nel contesto
del mondo contemporaneo, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, pp. 634-643].
69
Cf. Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990); Duquoc, Aveu
et humiliation, cit.; R. Murray, The Teaching Church and the Thinking Church, in «The Month», 23 (1990), pp. 310-
318; R. Blázquez, Magisterio eclesial y catequesis, in Nuevo Diccionario de Catequética II, Madrid 1999, pp. 1398-
1407.
70
Cf., per il complesso retroterra teologico e storico, l’ottima sintesi di B. Sesboüé - Ch. Theobald, Storia dei dogmi,
IV, La parola della salvezza, cit., pp. 203-229.
71
Commento di Rahner in Lexikon für Theologie und Kirche I, p. 239.
72
Lo segnala K. Lehmann, citando Pannenberg, in L’onere della prova per le “proposizioni infallibili”, in K. Rahner
(ed.), “Infallibile?”, tr. it. cit. p. 504.
73
H. Legrand, La comunión entre las Iglesias, in B. Lauret - F. Refoulé (edd.), Iniciación a la práctica de la teología 3,
Madrid 1985, p. 288, che fa una buona sintesi; cf. anche Fries, Teologia fondamentale, tr. it. cit. pp. 653-658;
Waldenfels, Kontextuelle Fundamentaltheologie, cit., pp. 479-480 [ tr. it. Teologia fondamentale, cit. pp. 631-632, con
importante bibliografia]; Congar, Infallibilità e indefettibilità, cit., pp. 89-90; 95.

84
lettera al patriarca di Alessandria, che lo salutava con il titolo di «vescovo universale», ne sono la
prova più eloquente:

Vostra beatitudine [...] mi scrive dicendo: «come hai ordinato». Vi prego di non adoperare questo termine, perché so
chi sono io e chi siete voi. Infatti per la posizione mi siete fratello, per la condotta padre. Non ho quindi dato un ordine,
ma ho creduto di indicare ciò che mi sembra utile. Vedo tuttavia che vostra beatitudine non ha voluto tenere pienamente
a mente quello che volevo imprimervi. Dissi infatti che né voi a me né chiunque ad altri doveva scrivere in tal modo. Ed
ecco che nella premessa della lettera da voi indirizzata a me, che l’avevo proibito, mi avete voluto chiamare col titolo
“superbo” di papa universale. Prego la dilettissima santità vostra di non farlo ulteriormente, perché così si sottrae a voi
ciò che oltre ragione si attribuisce ad altri. Non ricerco infatti la mia grandezza con le parole, ma con la mia condotta. E
non considero un onore quello in cui so che si lede l’onore dei miei fratelli. Il mio onore infatti è l’onore della Chiesa
universale. Il mio onore è il saldo vigore dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato, quando ad ognuno è
attribuito il dovuto onore. Ma se la santità vostra mi chiama papa universale, ricusa per sé quello in cui mi riconosce
universale. Non si verifichi questo. Scompaiano le parole che gonfiano la vanità e feriscono la carità.74

Per convincersi su quanto detto basta confrontare questa lettera, cristianissima, con ciò che più
tardi scriverà il suo omonimo Gregorio VII nel famoso Dictatus papae, in cui figurano affermazioni
di questo genere:

Del solo papa tutti i principi baciano i piedi.


Il suo nome è unico nel mondo.
Ha la facoltà di deporre gli imperatori.
Non esiste alcuna norma di legge né libro canonico senza la sua autorità.
La sua sentenza non può essere riformata da alcuno ed egli solo può riformare quelle di tutti.75

E si possono anche confrontare le parole di Gregorio Magno con la forte rivendicazione


autoritaria – nello stile delle monarchie assolute – fatta da Bonifacio VIII nell’Unam Sanctam:

Bisogna riconoscere che il potere spirituale supera ogni potere terreno in nobiltà e dignità, nella stessa misura in cui
le cose spirituali superano quelle temporali [...] Testimonia, infatti, la verità che spetta al potere spirituale istituire il
potere temporale e giudicarne la bontà [...]
Se il potere temporale erra, dev’essere giudicato dal potere spirituale; se un potere spirituale minore erra, sarà
giudicato da un potere maggiore; ma se è il supremo potere spirituale che cade in errore, non può essere giudicato che
da Dio.76

Ovviamente, non dobbiamo accantonare il senso storico quando giudichiamo questo genere di
affermazioni, nate in un preciso contesto e non prive di effetti positivi. Ma cercare di
“comprenderle” nel loro momento storico non può dispensare dal valutarle oggi con spirito

74
Epist. VIII, 29; PL 77,933 c. Prendo la citazione da Tillard, Il vescovo di Roma, cit., p. 62, che offre anche il testo
latino [ed. it., Opere di Gregorio Magno, Lettere (VIII-X), vol. V/3, ad Eulogium Alexandrinum, a cura di V. Recchia,
Città Nuova Editrice, Roma 1998, p. 83].
75
Si può vedere il testo completo in Tillard, Il vescovo di Roma, cit., pp. 63-64.
76
E. Friedberg (ed.), Corpus Iuris Canonici II, Leipzig 1880-1881, coll. 1245-1246 [cf. Denz. 873]. Prendo la citazione
da B. Tierney, Modelli storici del papato, in «Concilium», 1975, n. 8, pp. 89-100, cit. a p. 98. Si osservi che l’ultima
frase è la definizione dell’assolutismo. Meritano di essere riportate le riflessioni al riguardo di H. Legrand, La comunión
entre las Iglesias, cit., pp. 292-293: «Il papa è soggetto solo a Dio? Nel contesto di Lumen Gentium 22, il papa Paolo VI
aveva suggerito l’inserimento di una formula secondo la quale il papa chiamerebbe i vescovi a un’azione collegiale “uni
Domino devi(n)ctus” (dovendo rendere conto solo al Signore). Ma la commissione teologica respinse questo
emendamento, “perché la formula è troppo semplificata”; infatti, il Romano Pontefice deve tener conto anche della
rivelazione stessa, della struttura fondamentale della Chiesa, dei sacramenti, delle definizioni dei concili precedenti, ecc.
Non si può fare un elenco completo. Le formule di questo genere, quando utilizzano la parola “unicamente” o
“solamente”, devono essere usate con la massima circospezione; altrimenti suscitano innumerevoli difficoltà. Per
questo, affinché non si debbano fornire lunghe e complesse spiegazioni della formula in questione, è preferibile evitarla.
C’è anche una ragione psicologica per questo: bisogna evitare che, tranquillizzando qualcuno, si crei nuova ansia in
altri, soprattutto nei rapporti con gli orientali, come testimonia la storia di un’altra formula: ex sese et non ex consensu
ecclesiae». È chiaro che, in teologia cattolica, il papa non è soggetto solo a Dio: il primato non va compreso a partire
dal modello della monarchia assoluta, anche se alcuni teologi sembrano volerlo dare a intendere.

85
evangelico, per fare in modo che l’esercizio dell’autorità magisteriale risponda meglio alla
raccomandazione del vero Maestro:

Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi esercitano su di esse il potere. Tra voi non
deve essere così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà
vostro schiavo; come il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto
per molti (Mt 20,25-28; cf. Mc 10,41-45; Lc 22,25-27).

È chiaro che tale raccomandazione, messa in pratica, è diretta a riconfigurare profondamente


l’esercizio del magistero.

4.3. Dimensione pragmatica

Lasciando in disparte la questione se sia conveniente o meno parlare di “democrazia” nella


Chiesa,77 – e, pertanto, anche nell’esercizio magisteriale – ciò che risulta chiaro, qualunque sia la
denominazione, è che l’esercizio effettivo dell’autorità non dev’essere mai inferiore nello stile
partecipativo e nell’eguaglianza della comunione a quello di una democrazia civile. E non si dovrà
ricorrere con leggerezza all’argomento che la verità, poiché è dono libero e gratuito di Dio, non
nasce dal consenso umano. Perché non si tratta di creare la verità, ma – proprio perché è dono – di
utilizzare tutti i mezzi per scoprirla, interpretarla ed esprimerla con la maggiore fedeltà possibile.
Non c’è dubbio che per questo sia necessaria, pur non essendo mai sufficiente, la collaborazione di
tutta la comunità ecclesiale, apportando ogni persona e ogni gruppo o funzione all’interno di essa, il
proprio peculiare contributo.
Questo implica che l’ex sese magisteriale, al di là di ogni distinguo legalista, in stretta logica
ecclesiale si debba esercitare contando sempre su questa collaborazione. La infallibilitas in
credendo, presa in tutta l’ampiezza e ricchezza del corpo ecclesiale, dev’essere l’humus nutritivo di
cui si alimentano le definizioni del magistero, che hanno precisamente la funzione di unificarlo.
Distinguendo bene fra ciò che è il minimo giuridico e l’ottimo morale, si è espresso bene in
proposito un teologo così moderato come Joseph Ratzinger.

... l’unità della Chiesa esige, secondo la concezione cattolica, una sottomissione all’interpretazione definitoria della
fede da parte del papa. Su questo punto non si può e non si deve esitare dopo il Vaticano I. Si può e si deve però porre il
problema di come si realizzano in senso ottimale tali decisioni definitorie. È forse utile riflettere a mo’ di confronto,
sulla forma in cui i concili ecumenici arrivano a definizioni. La premessa è notoriamente la morale unanimità. Il
concilio non va ai voti sulla verità – cosa che è impossibile –, ma constata l’unanimità della fede: l’unità è per esso il
segno che si è qui di fronte all’unica fede. Le definizioni non possono creare nulla di nuovo nella Chiesa, ma sono solo
il riflesso dell’unità, che esse difendono e chiarifucano contro possibili offuscamenti. In questa luce appare quindi
normale, necessariamente, che ogni asserzione definitoria del papa sia preceduta da un prestare ascolto alla chiesa
universale, qualunque ne sia la forma.78

Oggi va considerato anche il fatto dell’aumento esponenziale dei mezzi di comunicazione che,
facilitando e velocizzando, in una maniera sino a poco fa nemmeno immaginabile, la capacità di
consultazione, correzione, perfezionamento e accordo, rendono più evidente la necessità morale di
cercare attivamente la massima unanimità possibile. Diversamente, si corre il rischio, se non
dell’errore, quanto meno della inopportunità, come, a parere di molti, è avvenuto con i dogmi
mariani. Così, ad esempio, si esprimeva K. Rahner: «Se Pio XII nel 1950 mi avesse chiesto se
77
Dell’abbondante bibliografia, cf. G. Piétri, El catolicismo desafiado por la democracia, Santander 1999, soprattutto il
cap. 2, pp. 23-40 e il cap. 10, pp. 177-202; anche A. Torres Queiruga, La democracia en la Iglesia, cit. [tr. it. La Chiesa
oltre la democrazia, cit., con bibliografia].
78
Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, cit., pp. 156-157 [tr. it. mod.]. Egli stesso rimanda a Y. Congar, Die Konzilien im
Leben der Kirche, in «Una Sancta», 14 (1959), pp. 156-171, soprattutto pp. 161s e a H. Küng, Strukturen der Kirche,
Freiburg 1962, pp. 39-46 [tr. it. Strutture della Chiesa, Borla, Torino 1965, pp. 47-55].

86
doveva definire il dogma dell’assunzione corporea al cielo, gli avrei risposto: no, non è sensato, non
definisca questo dogma».79
Oltre all’inopportunità, vi è il pericolo che la verità non diventi effettiva nell’accettazione viva
ed efficace della Chiesa. Tocchiamo qui un problema molto attuale: quello della recezione delle
verità ufficialmente proclamate.80 Un problema complesso, a motivo soprattutto di un processo
storico che ha accentuato enormemente l’aspetto giuridico. Senza entrare nell’intera problematica,
ci interessa segnalare, nel contesto del nostro discorso, un grave problema messo in rilievo da W.
Pannenberg, che vede in esso una delle maggiori difficoltà per l’accettazione dell’infallibilità nella
forma cattolica. Con una specie di argomento ad hominem, egli evidenzia come dalla stessa essenza
del magistero nasca la necessità della recezione, al punto che esso verrebbe messo in discussione se
questa venisse a mancare.

Se però è vero che agli enunciati normativi del magistero universale della chiesa “non può mai fare difetto l’assenso
di quest’ultima” (LG 25: assensus Ecclesiae nunquam deesse potest) – e così dev’essere, se questo magistero si esprime
in nome della chiesa universale che esso rappresenta, e quindi pretende anche per i suoi pronunciamenti l’infallibilità
promessa all’intera chiesa – non sarà vero allora pure il contrario, che cioè il difetto dell’assensus Ecclesiae
significherebbe di per se stesso che ciò che si proclama non è una decisione infallibile?81

Non è facile soppesare fino a che punto è valida la conclusione; ciò di cui non si può dubitare è
che essa «dà da pensare». È ovvio che qui una teologia che, da un lato, voglia rispondere a una vera
ecclesiologia di comunione e, dall’altro, pretenda di attualizzare la parola nel tempo, abbia ancora
molto lavoro dinanzi. Con il suo tipico senso di equilibrio e precisione, ma con evidente energia, si
esprimeva su questo tema anche Joseph Ratzinger, dal punto di vista cattolico.

La fede si norma sui dati oggettivi della Scrittura e del dogma, che in tempi oscuri possono anche spaventosamente
scomparire dalla coscienza della (statisticamente) maggior parte della cristianità, senza perdere peraltro in nulla il loro
carattere impegnante e vincolante. In questo caso la parola del papa può e deve senz’altro porsi contro la statistica e
contro la potenza di un’opinione, che pretende fortemente di essere la sola valida; e ciò dovrà avvenire con tanta più
decisione, quanto più chiara sarà (come nel caso ipotizzato) la testimonianza della tradizione. Al contrario, sarà
possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca ad essi la copertura nella Scrittura
e nel Credo, nella fede della chiesa universale. Dove non esiste né l’unanimità della chiesa universale né una chiara
testimonianza delle fonti, là non è possibile una decisione impegnante e vincolante; se essa avvenisse formalmente, le
mancherebbero le condizioni indispensabili e si dovrebbe perciò sollevare il problema circa la sua legittimità.82

Non sarebbe poco, certamente, far procedere in questa direzione la prassi ecclesiale, recuperando
magari ritardi che le circostanze in cui si è trovata la Chiesa nell’epoca moderna spiegano in
qualche misura, ma di cui non annullano gli effetti negativi. Con tutto ciò, neanche questo
basterebbe nell’attuale situazione del mondo e della fede. Lo spirito ecumenico, spezzando
l’esclusivismo polemico delle barriere confessionali, mostra che questo consenso non dev’essere
più cercato unicamente dentro i confini della Chiesa cattolica, ma, allargando il più possibile il

79
P. Imhof e H. Biallowons (edd.), Karl Rahner im Gespräch, cit., pp. 185-186.
80
Sulla recezione, che ha un’abbondante bibliografia, cf. soprattutto Y.-M. Congar, La “réception” comme réalité
ecclésiologique», in RSTP, 56 (1972), pp. 369-403; Id., Quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet, in
«Rev. Hist. Du Droit Français et Étranger», 36 (1958), pp. 210-259; Id., La “reception” comme réalité ecclésiologique,
in Église et Papauté. Regards historiques, Paris 1994. Ma anche: P. Fransen, L’autorité des conciles, in AA. VV.,
Problèmes de l’autorité, Paris 1962, pp. 59-100; G. Thils, L’infallibilité du peuple chrétien «in credendo». Notes de
théologie post-tridentine, Paris-Louvain 1963; A. Grillmeier, Konzil und Rezepzion, in Id., Mit ihm und in ihm,
Christologische Forschungen und Perspektiven, Freiburg im Breisgau - Basel - Wien 1975, pp. 303-344; W. Beinert
(hrsg.), Glaube als Zustimmung. Zur Interpretation kirchlicher Rezeptionsvorgänge, Freiburg im Breisgau - Basel -
Wien 1991; G. Alberigo - J.-P. Jossua (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985; G. Raouter, La réception
d’un concile, Paris 1993.
81
Pannenberg, Systematische Theologie 3, cit., p. 464 [tr. it. Teologia sistematica 3, cit. p. 452]. cf. anche Tillard, Il
vescovo di Roma, cit., pp. 190-194.
82
Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, cit., pp. 157-158, corsivo mio. Egli rimanda anche al suo studio nel Lexicon für
Theologie und Kirche 1, pp. 356s. Cf. anche Tillard, Il vescovo di Roma, cit., pp. 190-194.

87
dialogo, deve estendersi a tutte le Chiese cristiane. Non solo, pertanto, il sensus fidelium in
riferimento ai fedeli cattolici, ma anche il sensus ecclesiarum, includendovi i credenti di tutte le
confessioni cristiane.
Su questo punto insiste, per esempio, W. Pannenberg, dal momento che il servizio dell’unità si
riferisce alla Chiesa nel suo insieme (Gesamtkirche) e, pertanto, «non si tratta solamente
dell’insieme dei fedeli uniti a Roma in un determinato momento, ma dell’insieme della
cristianità».83 Con più chiarezza ancora invita a questa apertura il documento congiunto anglicano-
cattolico del 12 maggio 1999, dedicato al dono dell’autorità nella Chiesa. Esso si mostra infatti
molto consapevole del fatto che «la reciproca interdipendenza di tutte le Chiese è parte integrante
della realtà della Chiesa come Dio vuole che sia».84
Vista la complessa e pluralista situazione della cultura attuale, si fa inoltre sempre più chiaro che
l’humanum non può più essere abbracciato da una sola istanza. Qualsiasi istanza che veramente
voglia contribuire al suo progresso deve tenere conto delle altre, perfino nell’esercizio della sua
specifica funzione. Ciò deve spingere forse la teologia a pensare già a un terzo passo. È quello che,
per esempio, già fa Hans Waldenfels quando, riferendosi all’importanza dell’opinione pubblica e al
fatto che i credenti si sentono sempre più cittadini del mondo, chiede anche un’attenzione al sensus
mundi.85
Sensus fidelium, sensus ecclesiarum, sensus mundi si presentano così come il nuovo campo in
cui deve esercitarsi e alimentarsi oggi il servizio del magistero, se vuole essere fermento attuale e
promotore di futuro. Ciascuno di questi punti meriterebbe un commento particolare.
Accontentiamoci di tre semplici indicazioni, rimandando semplicemente al loro potere evocativo.
Riguardo al sensus fidelium, Newman, che tanto lo analizzò e cercò di promuoverlo, diceva che
«senza i laici la Chiesa apparirebbe sciocca».86
Riguardo al sensus ecclesiarum, basti pensare a dove si troverebbe oggi l’esegesi cattolica senza
il continuo stimolo di quella protestante.
E infine, riguardo al sensus mundi, l’evocazione di problemi come quello della tolleranza, della
libertà religiosa, della democrazia, della giustizia sociale o dell’eguaglianza della donna fanno
vedere quanti e quanto efficaci impulsi e perfino correzioni “evangeliche” può ricevere una Chiesa
modesta e fraternamente attenta ai suoi richiami.

5. Conclusione: possibilità e necessità di un cambiamento

Quanto detto racchiude, indubbiamente, seri problemi e, pur con la migliore buona volontà, non
sarà tanto facile tradurlo nella pratica, ricreando uno stile più partecipativo e un modo di fare più in
sintonia con la situazione attuale. Non si tratta però di proposte utopistiche, ma di esigenze del tutto
necessarie e, pertanto, autenticamente realiste. A mo’ di conclusione, possono risultare
chiarificatrici alcune osservazioni che corrispondono – e questo vogliono indicare le citazioni – ad
una situazione di consapevolezza molto generalizzata nella Chiesa.
L’ultimo concilio ha già dato inizio al cammino verso un nuovo equilibrio, controbilanciando in
parte le unilateralità lasciate in sospeso da quello precedente. Non avendo però potuto portare a
termine i suoi propositi, la sua eredità diventa un richiamo e anche un’esigenza.

83
Pannenberg, Systematische Theologie 3, cit., p. 466 [tr. it. Teologia sistematica 3, cit. p. 454].
84
Anglican-Roman Catholic International Commission, The Gift of Authority in the Church III, n. 37, Church Pub Inc,
1999; cf. pp. 26-31: uso la tr. it., Il dono dell’autorità, in Il Regno documenti 11/1999, pp. 370-381: La cattolicità:
l’“Amen” della chiesa intera.
85
Unfehlbar? cit., (p. 137 del condensato in spagnolo). In cambio, non nomina il sensus ecclesiarum. (?Waldenfels in
H. Kueng, Unfehlbar? Controllare!).
86
Citato da M. Trevor, John H. Newman. Crónica de un amor a la verdad, Salamanca 1989, p. 205.

88
L’ultimo Concilio non ci ha dato una sintesi soddisfacente né offerto una soluzione pratica; più che conclusione di
uno sviluppo, lo dovremmo considerare punto di partenza per una nuova configurazione epocale del ministero petrino
nel terzo millennio.87

Non c’è nulla che attenti al mistero della Chiesa in questo desiderio di riforma e di
rinnovamento. Al contrario, nel tempo storico questa è l’unica forma di vera fedeltà, che è sempre
mescolanza di continuità e di cambiamento, di rispetto per il passato e di coraggio per il futuro, al
punto che la commissione anglicano-cattolica già citata, si è sentita nella necessità di inventare una
nuova categoria, quella della ri-recezione, vale a dire, una specie di “cambiamento nel
cambiamento”, nello sforzo di una fedeltà sempre più ricca e adeguata.

Il rinnovato ricorso alla Tradizione in una situazione nuova è il mezzo col quale la rivelazione di Dio in Cristo è
richiamata alla memoria. In questo sono di grande aiuto le riflessioni dei biblisti e dei teologi e la saggezza dei santi.
Quindi, ci possono essere una riscoperta di elementi che erano stati trascurati e una rinnovata memoria delle promesse
di Dio, che determinano il rinnovarsi dell’”Amen” della chiesa. Ci può anche essere un attento esame critico di ciò che
è stato ricevuto perché alcune delle formulazioni della Tradizione sono considerate inadeguate o persino fuorvianti in
un contesto nuovo. Questo intero processo può essere definito ri-recezione.88

Non è necessario giungere ad affermazioni così drastiche come quella che dice «sono i papi che
fanno il papato»,89 per comprendere, con Giuseppe Alberigo, che «l’orizzonte della variabilità del
papato è molto più vasto di quanto abitualmente non si creda».90 Questa variabilità viene
determinata da due fattori che, in questa prospettiva, definiscono in maniera molto decisiva la
situazione religiosa attuale.
Il primo, più generale, segnala l’ascesa – irreversibile, almeno come ideale – della coscienza
democratica nel mondo. Ascesa che costituisce un esigente richiamo per la Chiesa affinché riscopra
«la sua nativa parentela con la democrazia» come modo di attualizzare e rendere credibile la sua
«immagine storica».91 Osservando il cambiamento storico che si è prodotto dopo il Vaticano I, W.
Kasper esprime molto bene il senso e la necessità di questo mutamento.

Gli uomini che realizzarono la definizione del primato papale credettero con esso di avere innalzato un baluardo
contro il liberalismo sfrenato e contro le manifestazioni disgregative della società umana. Le idee liberali su cui si
fondano gli stati orientati verso l’ovest si sono trasformate, nel frattempo, nello spazio in cui la Chiesa può compiere la
sua missione. La sua battaglia si presenta oggi piuttosto contro l’altro estremo, lo stato unitario totalitario. Non
dovrebbe essere data oggi, per la prima volta, l’adeguata risposta ecclesiale corrispondente? Pluralità senza unità è
anarchia; unità senza pluralità è tirannia (Pascal). Il dogma Vaticano ci conduce dalle sue intime viscere, e non da uno
sforzo esterno di equilibrio, a un’autentica dialettica che porta al di là di se stesso. Proprio per questo si mostra come
verità “cattolica”.92

La valutazione fu fatta prima della caduta del Muro di Berlino, nella quale gli sforzi del
penultimo papa ebbero un influsso molto importante. La sua validità è stata confermata, e forse
quanto è accaduto “fuori” può essere una metafora di ciò che gli sforzi in questa direzione possono
significare per l’interno.
Cosa che appare, se possibile, più chiara riguardo al secondo fattore: la situazione attuale delle
Chiese cristiane. Dalla teologia controversistica si è passati al dialogo ecumenico; dalla concorrenza
proselitista alla collaborazione evangelizzatrice. Come abbiamo visto, Karl Rahner e Heinrich Fries
hanno sostenuto la possibilità già attuale di un’unione effettiva tra le Chiese, in riferimento
87
W. Kasper, Ciò che permane e ciò che muta nel ministero petrino, in «Concilium», 1975, n. 8, pp. 43-58, cit. a p. 45.
88
Commissione internazionale anglicana - cattolica romana, Il dono dell’autorità, cit., n. 25, in «Il Regno documenti»,
11/1999, p. 375.
89
B. Tiernet, Modelli storici del papato, in «Concilium», 1975, n. 8, pp. 89-100, cit. a p. 95.
90
G. Alberigo, Per un papato rinnovato a servizio della chiesa, in «Concilium», 1975, n. 8, pp. 15-40, cit. p. 26.
91
Piétri, El catolicismo desafiado por la democracia, cit., p. 202.
92
W. Kasper, Glaube und Geschichte, Matthias-Grünewald, Mainz 1970, p. 441: è la frase finale del libro. (non
presente nella tr. it.!! W. Kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1993. Come mai? Controllare originale ted.) [en
alemán está así, exactamente]

89
soprattutto alle grandi confessioni protestanti. In maniera più esplicita l’aveva detto anche Joseph
Ratzinger, riferendosi sia a quelle orientali sia a quelle protestanti. Ecco come si esprimeva riguardo
alle prime.

Il diritto ecclesiastico unitario, la liturgia unitaria, l’unitaria assegnazione delle sedi episcopali da parte dela centrale
romana – sono tutte cose che non risultano necessariamente dal primato come tale, ma derivano da questa stretta
congiunzione di due uffici. Si dovrebbe quindi considerare come compito per il futuro di distinguere di nuovo
chiaramente l’ufficio autentico del successore di Pietro e l’ufficio patriarcale, e, dove necessario, creare nuovi
patriarcati senza considerarli incorporati nella chiesa latina. Accettare l’unità con il papa non significherebbe allora più
aggragarsi ad una amministrazione unitaria, ma semplicemente inserirsi nell’unità della fede e della comunione,
riconoscendo al papa il potere di un’interpretazione vincolante della rivelazione portata da Cristo e sottomettendosi
quindi a questa interpretazione, dove avvenga in forma definitiva. Ciò significa che una unione con la cristianità
orientale non dovrebbe mutare assolutamente nulla nella sua concreta vita ecclesiale. L’unità con Roma, nella struttura
e nell’attuazione concreta nella vita delle comunità, potrebbe essere altrettanto “impalpabile” quanto nella chiesa
antica.93

Forse risulta più significativo ancora ciò che dice delle altre Chiese, non solo di quelle che
provengono dalla tradizione orientale, ma anche di quelle che emergono nella nuova situazione
delle grandi culture africane e asiatiche.

Del pari, si potrebbe senza dubbio pensare anche ad una forma speciale della cristianità riformata nell’unità
dell’unica chiesa; infine, si dovrà riflettere fra non molto su come dare alla chiese dell’Asia e dell’Africa, così come a
quelle d’Oriente, una loro forma propria come “patriarcati” o “grandi chiese” autonome , o comunque si chiameranno
tali ecclesiae nella ecclesia del futuro. 94

Naturalmente, con questo non si sta enunciando un compito facile. È sicuro che troverà molti
ostacoli, qualche volta reali e altre volte trascinati da vecchie sacralizzazioni, che cercheranno di
abbordarlo con interessi troppo umani. Ma abbiamo diritto alla speranza, poiché non è difficile
percepire, nonostante tutto, la presenza germinale di un nuovo clima e la spinta di un nuovo stile.
Preferisco dirlo con parole più autorevoli delle mie, quelle del cardinale Etchegaray, a conclusione
dell’intervento a un congresso.

È tempo che io mi fermi. Non prima però di porre l’ultima domanda: qual è l’avvenire del papato, e in quale Chiesa?
Penso che il ministero petrino si trovi agli albori di una nuova era della sua storia. Chi lo afferma è un teologo
protestante, Jean-Jacques von Almen: «Roma non dovrebbe rinunciare alla sua aspirazione primaziale per favorire
l’unità della Chiesa. Il papato non dovrebbe suicidarsi. Se prende la sua pretesa primaziale seriamente, e se tale
questione è in sé necessaria, Roma deve difendere se stessa come si difende una vocazione» (La primauté de l’Eglise de
Pierre et de Paul, Paris 1977, p. 98). Se, forse, il mio discorso ha assunto i toni di una difesa di parte, pro domo mea, è
perché la mia “casa” non è in prima istanza Roma, ma la Chiesa, o meglio Roma nella Chiesa. E io lotto per una Chiesa
in cui dobbiamo impegnarci mutuamente in uno degli esercizi più difficili e più faticosi del ministero episcopale: dare
piena vita a una comunione di Chiese che non si riduca al livello gerarchico, ma che assuma realmente la responsabilità
ecclesiale del laos, di tutto il popolo di Dio.95

93
Ratzinger, Il Nuovo popolo di Dio, cit., pp. 155-156.
94
Ibid., p. 156.

J.-J. Von Almen, Il primato della Chiesa di Pietro e di Paolo, tr. it. Morcelliana, Brescia 1982 [n.d.t.].
95
Etchegarey, Unità dei cristiani e primato nel servizio della carità, cit., p. 200.

90
5. IL DIALOGO SCIENZA-FEDE OGGI

0. Posizione del problema

Sarebbe, da parte mia, contraddire il senso di queste riflessioni se dicessi che il tema non è
importante. Ma non sarei onesto con la mia coscienza se cercassi di collocarlo tra quelli
assolutamente prioritari. Oserei dire che a livello formale e tenendo conto delle posizioni
sufficientemente coscienti in entrambi i campi, ciò che è fondamentale è risolto: i veri scienziati
non pretendono oggi di legiferare intellettualmente in tutti i campi, e «la teologia si è resa conto che
la dignità del genere umano non dipendeva né dal fatto di abitare al centro dell'universo [allusione a
Galileo] né dal fatto che l’Homo sapiens [allusione a Darwin] fosse una specie creata in maniera
separata e istantanea».1
Le questioni, però, normalmente non si affrontano nella loro astratta formalità, prescindendo
dalla loro configurazione storica. Ora, dal punto di vista storico, l'importanza risulta evidente, tanto
per la viva curiosità che risvegliano i possibili punti di contatto tra scienza e religione quanto,
soprattutto, per i decisivi effetti che le risposte e i conflitti hanno avuto di fatto sull'ubicazione del
cristianesimo nella cultura occidentale. Una considerazione minimamente critica non può ignorare
che le vicissitudini del loro accidentato e spesso tortuoso incontro obbligano sia la scienza sia la
fede a rivedere i propri metodi, i propri intenti e perfino, su determinati punti, i propri contenuti.
Visto così, il problema merita oggi tutta la nostra attenzione.
In ogni caso, questo è il preciso orizzonte verso il quale cerca di muoversi questo capitolo, in
quanto s’interessa innanzitutto delle questioni di principio. Intuisco che questo possa alquanto
deludere certe aspettative, poiché in tal modo l'accento non cade prioritariamente sull'analisi
particolareggiata dei conflitti storici e nemmeno sul dettaglio dei malintesi e delle contraddizioni
pratiche che continuano attualmente a proliferare. L'interesse si concentrerà, più che altro, nel
delineare il livello da cui una riflessione davvero responsabile, sia da parte della scienza sia da parte
della teologia, sia in grado di vedere oggi il problema.
Quindi, da una parte, il discorso cercherà di andare all’elementare (che, solitamente, è anche il
fondamentale). Dall’altra, più che attardarsi nei conflitti della storia, cercherà d’imparare da essi. E
imparare non tanto per impartire una lezione ad altri, ma, innanzitutto e soprattutto, per applicarla in
casa propria. Detto in modo più semplice e diretto: il nostro principale intento non è di dare
insegnamenti alla scienza per premunirla contro l'insidiosa pretesa assolutista, che spesso la tenta ad
invadere il campo altrui e ad elevare le proprie norme e i propri metodi a criterio unico ed esclusivo
di validità per tutte le altre discipline. Il pericolo è molto reale, ma ricavarne questa lezione spetta
prima di tutto agli scienziati stessi.
L'interesse prioritario della nostra riflessione sarà, dunque, quello di analizzare le conseguenze
che derivano dall'incontro con la scienza, per una comprensione davvero attuale della fede; più in
concreto, della fede cristiana. Parecchie delle cose che qui si dicono, risultano altrettanto valide per
la filosofia, soprattutto nelle sue modalità di etica ed estetica. Fermarsi però a fare distinzioni ed a
elaborare mediazioni complicherebbe eccessivamente un discorso già di per sé non troppo semplice,
e bisognerà quindi rassegnarsi a pochi e occasionali accenni.

1
J. Polkinghorne, Ciencia y teología. Una introducción, Santander 2000, p. 21. Si tratta di una buona introduzione ai
diversi problemi, con una valorizzazione della bibliografia fondamentale (una teologia più aggiornata rafforzerebbe
ancora di più le sensate proposte dell’autore).

91
1. Il problema storiografico

Se guardiamo alla storia, parlare dei rapporti scienza-fede evoca, in maniera quasi automatica, la
vicenda di un lungo conflitto. Vengono spontaneamente alla memoria Galileo e Darwin. Se non
bastasse, una lunga tradizione positivista, ancora non del tutto spenta, tende a dare come evidente
che esiste, effettivamente, tra scienza e fede una opposizione inconciliabile. Dallo scontro, come
nella battaglia tra romani e cartaginesi, sembra che possa sortire un solo risultato: delenda est
Carthago. Quale delle due “carthago”, la scienza o la fede, debba essere distrutta, dipenderà poi,
com’è logico, dalla parte in cui si annoveri colui che fa la diagnosi.
Non può stupire, quindi, che i primi storici del problema propendessero per un linguaggio di
marcato segno bellico. In Spagna è ben conosciuta, per lo meno di nome, la Storia dei conflitti tra
la religione e la scienza di John William Draper, del 1874. La sua traduzione nel 1885, con una
prefazione niente meno che di Nicolás Salmerón, ebbe un'eco enorme, dando perfino origine
all'appassionata polemica sulla «scienza spagnola».2 Un'altra opera meno conosciuta e non tradotta
in spagnolo, ma forse d’influsso più profondo, per il prestigio della sua maggiore documentazione,
fu quella di Andrew Dickson White. Questi non si accontenta del termine “conflitto” e parla
espressamente di “guerra”: Storia della guerra della scienza con la teologia nel cristianesimo è il
titolo esatto.3
Queste esposizioni avevano avuto già dal secolo XVIII la loro contropartita ortodossa nella
passione apologetica di certe “fisico-teologie”, giustamente screditate da Kant, che pretendevano di
dimostrare l'esistenza di Dio sulla base della struttura degli insetti o perfino della dimensione delle
mele... che si adatta così bene a quella della mano umana.4 Un’opinione così esagerata, che è
paragonabile forse solo alla dogmatica affermazione, di segno contrario, che non esiste nessun tipo
di finalità nella natura. Ma questo è un problema di tale grossolano spessore che qui deve restare
come puro cenno.5 Soprattutto negli Stati Uniti, questa polarizzazione fece sì che «il linguaggio
militarista dominasse le discussioni attorno alla scienza e la religione fino a secolo XX inoltrato,
specialmente durante gli anni venti, quando i fondamentalisti delle frasi bibliche cercarono di
mettere fuori legge l'insegnamento dell'evoluzione nelle scuole pubbliche”.6 Ciò che è triste è che
tale discussione sia potuta durare fino a oggi.
Per fortuna, e nonostante la resistenza di coloro che sono determinati a vedere tutto il processo
nell’ottica del conflitto, il carattere astratto e unilaterale di questo tipo di esposizione è caduto oggi
in discredito, almeno tra gli storici seri.
Si può vedere un significativo punto di svolta nel diverso atteggiamento di Alfred North
Whitehead e di Bertrand Russell davanti al problema. Dopo avere scritto insieme nel 1910-1913 i
tre tomi monumentali dei Principia mathematica, Russell continuò sino alla fine con un stile
bellicoso, che pretendeva di vedere incompatibilità assoluta e di principio tra la religione e la
scienza.7 Whitehead, invece, abbandonò il positivismo e si impegnò a denunciare la «fallacia della

2
J. W. Draper, History of the Conflict between Religion and Science, New York 1874; nuova ed. spagnola Historia de
los conflictos entre la religión y la ciencia, Barcelona 1987, con una «Presentazione» di D. Nuñez, che vale la pena
leggere [tr. it. La storia del conflitto fra la religione e la scienza, F.lli Dumolard, Milano 1876].
3
A. D. White, A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, New York1986) [tr. it. Storia della
Lotta della scienza con la teologia nella Cristianità, Utet, Torino 1902].
4
Si può vedere una prima presentazione di questo tema in J. Ferrater Mora, Físico-teología, in Diccionario de Filosofía
2, Barcedlona 1979, pp. 1263-1264; Id., Teleología, in Ibid., 4, pp. 3205-3209.
5
Cf., per esempio, R. Spaemann - R. Löw, Die Frage wozu? Geschichte und Wiederentdecken des teleologischen
Denkens, München-Zürich 19852; M. Midgley, Science as Salvation. A Modern Myth and its Meaning, London-New
York 1992, pp. 9-15.
6
D. G. Lindberg - R. I. Numbers (edd.), God and Nature. Historical Essays on the Encounter between Christianity and
Science, University of California Press 1986, p. 3 [tr. it., Dio e natura. Saggi storici sul rapporto fra cristianesimo e
scienza, La Nuova Italia, Firenze 1994]; è ottima, per il suo equilibrio, l’introduzione a quest’opera collettiva (pp. 1-18).
7
«In ciò che segue non ci occuperemo della scienza in generale, e nemmeno della religione in generale, bensì di quei
punti che entrarono in conflitto in passato o continuano a entrarvi nei tempi presenti» (B. Russel, Religión y ciencia,

92
falsa concretezza» di quella scienza che pretende d’identificare la sua visione settoriale con il tutto
della realtà.8 Pubblicò nel 1925 l’opera La scienza e il mondo moderno, nella quale, lontano dal
vedervi incompatibilità, afferma che il cristianesimo, in virtù della fede cristiana medievale nel
comportamento regolare e ordinato della natura, ha costituito la condizione di possibilità della
stessa scienza moderna.9
Idea, quest’ultima, che è stata ampliata e approfondita più tardi, con enorme erudizione, da
Stanley L. Jaki, che insiste, per contrasto – magari non senza qualche esagerazione –
sull'irrimediabile fallimento della scienza nelle grandi culture dell'antichità.10 Si potrebbero
egualmente segnalare i successivi studi intorno alla secolarizzazione. Secondo autori come Max
Weber, Friedrich Gogarten o Harvey Cox, la dissacrazione della natura e della storia, operata dalla
religione biblica, sarebbe ultimamente alla radice della scienza moderna.11 Con tutto questo, ci sono
altri autori, come Hans Blumenberg, che senza negare del tutto questo dato, sostengono piuttosto la
tesi contraria, affermando che la modernità dovette imporsi precisamente contro la resistenza e
l'opposizione del cristianesimo.12 Sicuramente, data l'immensa complessità del processo, che non
ammette spiegazioni monocausali, entrambe le posizioni hanno la loro ragione a livelli diversi. Tale
è la tesi di Peter L. Berger, che considera la secolarizzazione come un “effetto ironico” del
cristianesimo, poiché questo, nella sua dinamica profonda, asseconderebbe i fattori che hanno
portato alla dissoluzione di molte delle sue forme ecclesiastiche.13
Lasciamo però questa disputa agli storici. Qui interessa innanzitutto prenderla come indice di
un'evidenza: quella di essere dinanzi a un problema molto complesso e di grande profondità. Non si
dovrebbe, quindi, cadere nella tentazione di distribuire attestati di bontà o cattiveria. Quello che
davvero conviene è imparare dalla storia, per andare al fondo della questione, nel tentativo di
renderne palese la struttura interna e scoprire le vie di un corretto rapporto.

2. Dallo scontro frontale alla differenziazione formale

2.1. L'inevitabilità dello scontro

México 1951, p. 10). «Storicamente non si sa nulla di Cristo, e si arriva anche a dubitare della sua esistenza» (Russel,
Perché non sono cristiano, cit., p. 12). Affermazioni come quest’ultima, in pieno secolo XX, risultano comprensibili
solo per il deciso pregiudizio dell'autore su questo terreno, da lui chiaramente espresso: «Una cosa è chiedersi se una
religione è vera, altra se è utile. Io sono fermamente convinto che le religioni, come sono dannose, così sono false»
(Ibid., p. 1).
8
«Fallacy of misplaced concretedness»: cf. una eccellente presentazione per il nostro scopo in I. G. Barbour, Religion
in an Age of Science, San Francisco 1990, pp. 218-242 (l’accenno è a p. 229).
9
A. N. Whitehead, Science and the Modern World, New York 1925 (tr. it. La scienza e il mondo moderno, Boringhieri,
Torino 1979; cf. soprattutto le pp. 29-30).
10
Stanley L. Jaki, Science and Creation: From Eternal Cycles to an Oscillating Universe, New York 19862; lui stesso
offre una breve sintesi in Ciencia, fe, cultura, Madrid 1990, pp. 128-135 (interessante l’introduzione a quest’opera di M.
Artigas, p. 25).
11
F. Gogarten, Der Mensch zwischen Gott und Welt, Stuttgart 1960 [tr. it., L’uomo tra Dio e il mondo. Legge ed
Evangelo, EDB, Bologna 1971]; Id., Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit, München-Hamburg 1966 [tr. it., Destino e
speranza dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1972]. Si potrebbe parlare ancora di altri aspetti: cf. l’esposizione
sintetica di I. G. Barbour, Problemas sobre religión y ciencia, Santander 1971, pp. 61-67.
12
Cf. H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt a. M. 1966 [tr. it., La legittimità dell’età moderna,
Marietti, Genova, 1992]; Id., Säkularisierung und Selbstbehauptung, Frankfurt a. M. 1974; H. Cox, The secular City,
New York 1965 [tr. it., La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968].
13
P. L. Berger, La sacra volta. Elementi per una teoria sociologica della religione, tr. it. SugarCo, Milano 1969:
«Siamo dell’avviso che qui stia la grande ironia storica del rapporto fra religione e secolarizzazione, ironia che può
essere plasticamente espressa dicendo che, storicamente parlando, il cristianesimo si è scavato la propria fossa» (p.
142).

93
In realtà, oggi disponiamo di una sufficiente prospettiva storica sia per evitare semplicismi
interpretativi sia, soprattutto, per cercare una comprensione intima del processo. Non risulta
difficile vedere, infatti, che inizialmente lo scontro era inevitabile. L'irruzione della scienza
moderna costituiva il fronte di scontro dell'enorme cambiamento di paradigma culturale implicato
dall’avvento della modernità. Da Thomas S. Kuhn sappiamo che nemmeno nel mondo della
scienza, in apparenza asettico, si possono produrre questi cambiamenti senza dure e prolungate
resistenze.14 Era tutto un mondo di idee, pratiche e valori che veniva messo in discussione dalle
nuove proposte.
Di fatto, l'opposizione alle nuove scoperte non era esclusiva della religione, ma arrivava da ogni
parte; non ultimamente dagli stessi scienziati e, ovviamente, anche dai filosofi. Amor Ruibal
ricorda, per esempio, come gli attacchi al movimento di rivoluzione della Terra venissero in primo
luogo dai filosofi aristotelici, poiché – dicevano – un corpo naturale, avendo una sola forma, non
può avere due movimenti sostanziali; egli stesso segnala che Galileo li confutava «con l'esempio
scherzoso, ma risolutivo, di un gatto che cade da una torre girando su se stesso, nonostante la sua
simultanea corsa in discesa».15
Con tutto ciò, la resistenza doveva essere, per forza, molto maggiore nel mondo religioso, che
mobilita emozioni di risonanza vitale decisiva e che, oltretutto, era rappresentato da una poderosa
istituzione, che vedeva messi in discussione il suo influsso, la sua verità e la sua stessa legittimità.
(Il caso Galileo, di Berthold Brecht, può essere alquanto esagerato, ma evidenzia bene la questione
di fondo). Intanto, la nuova scienza, consapevole dell'intima ragione del suo storico contributo, non
poteva evitare una naturale tendenza imperialista, mostrando in modo sempre più prepotente la sua
pretesa di trasformarsi in criterio esclusivo di sapere teorico e di dominio pratico. Con il tipico e
ingenuo ottimismo degli inizi, la ragione moderna, con i suoi “lumi”, si presentava in fondo come la
nuova “rivelazione”, e con i suoi risultati empirici prometteva di diventare un rimedio per tutti i
mali, vale a dire in nuova alternativa di “salvezza”.16
Questo era lo sfondo pratico ed emotivo – di sicuro non sempre cosciente – sul quale si libravano
i conflitti teorici, e che conferiva ad essi quell'intensità che oggi può stupire per la sua forza e
perfino per la sua violenza, rendendo così difficile la mutua tolleranza, la serena discussione e la
chiarificazione teorica. Il che spiega, similmente, che là dove tale sfondo non è sufficientemente
chiarito, permangono ancora oggi gli stessi atteggiamenti polemici: da un lato, un'apologetica
chiusa alle ragioni di ogni progresso scientifico e, dall’altro, uno scientismo riduzionista, cieco di
fronte alla ricchezza delle dimensioni del reale. Il fondamentalismo biblico, che continua a leggere
nella Genesi la negazione dell'evoluzionismo, e il fisicismo, che persiste nel ridurre la mente a un
computer o a identificare Dio col big-bang, ne sono un tipico esempio.17
Solo conoscendo questo retroscena e distinguendo accuratamente i piani, sarà possibile evitare la
confusione e vedere il problema nella sua vera struttura. Cosa che allora era molto difficile, ma che
oggi, grazie alla nostra prospettiva storica, risulta fattibile.

14
T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (or. ingl. 1962 e 1970), tr. it. Einaudi, Torino 1969 e 1978. Sui
precedenti della sua posizione e successive correzioni, cf. la documentatissima esposizione di Ph. Clayton, Rationalität
und Religion. Erklärung in Naturwissenschaft und Theologie, Paderborn-München-Wien-Zürich 1992, specialmente le
pp. 41-58.
15
Amor Ruibal, Los problemas fundamentales de la filosofía y el dogma, cit., pp. 579-580; cf. la sua eccellente
esposizione alle pp. 574-580.
16
L'idea sopravvive ancora nell'inconscio collettivo: «La scienza moderna sembra sulla strada di realizzare il sogno
cartesiano di trasformare l'uomo in “padrone e signore della natura”. Diventa così la depositaria di tutte le speranze
dell'umanità, che spera da essa ciò che la filosofia non è riuscita a offrirle, vale a dire, la felicità o, piuttosto, il suo
benessere materiale» (A. Boutut, Sciences - Science et philosophie, in Encyclopaedia Universalis 20, p. 725).
17
Il lettore interessato a maggiori dettagli, può vedere una buona panoramica in Polkinghorne, Ciencia y teología, cit.

94
2.2. Dallo scontro alla differenza

Sebbene con l’evidente pericolo dire cose ormai ovvie, vale la pena riandare al caso Galileo, per
apprezzare in concreto il vero nucleo della questione. La verità è che in questo primo episodio, se lo
si esamina con una certa attenzione, ci sono già in nuce tutti gli elementi del dramma, con le ragioni
che rendevano inevitabile il conflitto e le possibilità che avrebbero favorito la sua soluzione.
Galileo, in prima linea nel processo di cambiamento che era in gestazione, arriva a una
convinzione scientifica: la terra si muove intorno al sole. Galileo era credente, ma questa scoperta
sembrava cozzare frontalmente con un'idea religiosa della sua stessa tradizione. In diversi passi
della Bibbia e soprattutto nel libro di Giosuè, si dice chiaramente che è il sole a muoversi intorno
alla terra. In un primo momento il conflitto era quindi inevitabile, e i cardinali romani, se volevano
adempiere il loro dovere di salvaguardare la fede così come s’interpretava sino a quel momento,
avevano lo stretto obbligo di respingere la nuova idea. Se la Bibbia è “parola di Dio” e se questo
significa che tutto ciò che in essa si afferma è “dettato” alla lettera da Lui, Galileo non poteva avere
ragione. In definitiva, c’era la sua parola contro quella di Dio.
Messo così, è evidente che il dilemma non ha soluzione e s’impone la scelta tra i due corni del
dilemma: o la Bibbia non è parola di Dio e può sbagliarsi o si sbaglia Galileo. Ovviamente, c’è solo
un’uscita: che l'alternativa sia malposta e non esista tale dilemma. Dopo più di due secoli di critica
biblica, è facile per noi vedere che è proprio questo il caso, poiché comprendiamo che non esiste
esatta parità tra le due ipotesi teologiche che allora sembravano identiche: che la Bibbia sia per il
credente “parola di Dio”, non significa che sia un dettato divino da prendersi alla lettera in tutte le
sue affermazioni. “Parola di Dio” è, in questo caso, un'espressione analogica e non descrittiva.
Significa unicamente che dal punto di vista religioso la Bibbia ha raggiunto un'interpretazione
corretta della realtà (che risponde a ciò che Dio vuole manifestarci in questo campo). Non pretende,
quindi, d’insegnare verità che appartengono a prospettive o a punti di vista diversi; per cui
l'astronomia – come la geologia, la geografia, la biologia, la medicina e perfino la storia in quanto
tale – non è materia di sua competenza. Di conseguenza, quanto negli scritti biblici è detto al
riguardo non è né giusto né sbagliato; è semplicemente irrilevante se preso nella sua letteralità.
Dunque, per ciò che concerne l'autentico significato della Bibbia, le affermazioni di Galileo non
sono né vere né false: stanno semplicemente parlando di un’altra cosa.
Contrariamente a quanto può sembrare, non si tratta di una soluzione artificiosa o di un semplice
espediente per uscire dal problema, bensì di una distinzione ovvia, una volta che si prenda sul serio
il carattere religioso della Bibbia. Ed è curioso che già Galileo abbia difeso in maniera esplicita
questa soluzione, con la famosa affermazione che il libro sacro non dice «come va il cielo, ma come
si va in cielo». Più curioso ancora risulta però il fatto che l’affermazione, secondo quanto lui stesso
esplicitamente indica, non è di sua invenzione, ma appartiene niente meno che a un alto e famoso
cardinale della chiesa, Cesare Baronio.18 Più ancora, come segnala lo stesso Galileo, il cardinale
non inventava, ma ripeteva dottrine chiaramente espresse molto prima da sant’Agostino.

18
Vale la pena leggere per esteso il prezioso testo: «Dalle quali cose descendendo più al nostro particolare, ne séguita
per necessaria conseguenza, che non avendo voluto lo Spirito Santo insegnarci se il cielo si muova o stia fermo, né la
sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa in piano, né se la Terra sia contenuta nel centro di esso o da una
banda, non avrà manco avuto intenzione di renderci certi di altre conclusioni dell'istesso genere, e collegate in maniera
con le pur ora nominate, che senza la determinazion di esse non se ne può asserire questa o quella parte; quali sono il
determinar del moto e della quiete di essa Terra e del Sole. E se l'istesso Spirito Santo a bello studio ha pretermesso
d'insegnarci simili proposizioni, come nulla attenenti alla sua intenzione, ciò è alla nostra salute, come si potrà adesso
affermare, che il tener di esse questa parte, e non quella, sia tanto necessario che l'una sia de Fide, e l'altra erronea?
Potrà, dunque essere un'opinione eretica, e nulla concernente alla salute dell'anime? o potrà dirsi, aver lo Spirito Santo
voluto non insegnarci cosa concernente alla salute? Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita
in eminentissimo grado [il card. Baronio], ciò è l'intenzione delle Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al
cielo, e non come vadia il cielo» (G. Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana [1615], in Opere,
Edizione Nazionale a cura di Antonio Favaro, Giunti-Barbera, Firenze 1968, vol. V, pp. 309-348 [ in Opere, a cura di F.
Flora, Ricciardi, Milano – Napoli 1953, pp. 1018-1019].

95
Di suo, sul piano dei princìpi, la distinzione non offre difficoltà. Soprattutto quando, passata la
rigidità del razionalismo illuministico e ottocentesco, si è fatta evidente la dimensione simbolica del
linguaggio e ci siamo abituati a leggere, oltre la lettera, il profondo senso esistenziale dei miti.
Nessuno storico delle religioni concluderebbe oggi la ricchissima opera di sir James Frazer circa i
fenomeni religiosi, parlando, come lui, di una «triste istoria degli errori e delle follie umane».19
Nessun antropologo, dopo l'opera di Lévi-Strauss, parlerà con disprezzo della “mentalità primitiva”
o del “pensiero selvaggio”. E nessun astronauta ripeterà con Gagarin la semplicioneria che non
esiste Dio perché non l'ha visto nello spazio. Come nessun medico si fa domande di carattere
fisiologico a proposito di un lupo capace d’inghiottire vivi Cappuccetto rosso e la nonna. Nessuna
persona sensata si scandalizza a sentire che gli animali nelle favole parlano. E, infine, nessun
cristiano mediamente colto si domanda com’è stato possibile che Giona sia vissuto tre giorni nel
ventre di una balena.
Succede però che, nell'applicazione pratica, il sacro prestigio della Bibbia, rafforzato da lunghi
secoli d’interpretazione letterale, imponga spontanee restrizioni e istintivi limiti. Lo stesso Galileo,
che così bene imposta il principio, invece di prendere il racconto di Giosuè come puro simbolo, si
mette poi a dimostrare che il fenomeno del prolungamento del giorno sul campo di battaglia di
Gabaon si spiega meglio col sistema copernicano che con quello tolemaico...20 E anche ai nostri
giorni, tempestiva come la dichiarazione dei redditi, arriva puntuale la sfilata di coloro che a ogni
Natale ci parlano di una strana cometa, e a ogni Venerdì santo di un'eclissi o di un terremoto sino a
oggi ignorati, senza avere ancora imparato che la stella di Betlemme fa parte della simbologia della
nascita dell'eroe, come le tenebre e il terremoto della Passione appartengono all'immaginario
apocalittico. Più grave è stato il fatto che quando Darwin parlò di evoluzione, il magistero ufficiale,
non discreditato abbastanza dal caso Galileo, si sia impegnato a crearne uno nuovo, continuando a
leggere in modo letterale il mito della creazione. Un mito prezioso nel suo autentico significato, ma
letteralmente insulso quando lo si prende alla lettera o si pretende di sottoporlo a una lettura
“scientifica”.21
In ogni caso, si può riconoscere che, nonostante l'evidenza teorica, il problema non era facile, per
l’imponenza del suo carico emozionale. Di fatto, tra gli storici è sempre più unanime la convinzione
che lo scontro più forte non è stato quello che si produsse tra la fede e le scienze naturali, ma quello
avvenuto tra le scienze storiche e la lettura della Bibbia.22 Si capisce che rimane ancora molto da
fare e che la ricerca di una lettura meno fondamentalista del testo biblico continua a essere oggi uno
dei problemi principali della teologia. Ma, nel nostro caso, si può affermare che ciò che conta è
stato raggiunto. Un teologo aperto come Albert Schweitzer, seguito in ciò da Paul Tillich, ha
segnalato che, nonostante gli sbagli, il cristianesimo ha avuto il coraggio di sottomettere alla critica
storica e razionale i propri testi sacri. Cosa che, secondo lui, «rappresenta quanto di più poderoso
non aveva mai osato e realizzato la riflessione religiosa».23

19
J. Frazer, Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione (or. ingl. ridotto dall’autore, 1922), tr. it. Boringhieri,
Torino 1973, vol. 2, p. 1093.
20
Inoltre, com’è risaputo, mescolava nella sua argomentazione ragioni che risultarono sbagliate, come la sua falsa
spiegazione delle maree; d'altra parte, si mostrò troppo poco sensibile alla proposta – insufficiente, però intelligente e
dialogante – di Bellarmino di limitare la portata delle sue affermazioni a quanto bastava per «salvare i fenomeni».
21
Cf. le profonde riflessioni di P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, II. La symbolique du mal, Paris 1960, pp. 13-30 e
323-332 [tr. it. Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970, pp. 247-270 e 623-634]. Ed è significativo che già allora ci
furono credenti e teologi che assunsero e difesero la scoperta di Darwin, come, per esempio, Frederick Temple (più
tardi arcivescovo di Canterbury), Charles Kingsley e Harvard Asa Gray (cf. Polkinghorne, Ciencia y teología, cit., pp.
20-21).
22
«Ma la sfida più radicale all’autorità biblica non venne dalla storia della scienza ma dalla scienza della storia» (But
the most radical challenge to biblical authority came not from the history of science but from the science of history) (J.
H. Brooke, Science and Religion. Some Historical Perspectives, Cambridge 1991; cf. pp. 263-270; segnala poi che,
oltretutto, la critica storica e quella scientifica convergono (pp. 270-274).
23
A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, München-Hamburg 1976, p. 45 [tr. it., Storia della ricerca
sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986, pp. 72]; P. Tillich dice: «Forse durante la storia umana nessun’altra religione

96
Il risultato è che attualmente, per lo meno in linea di principio, la distinzione dei campi può
considerarsi come acquisita. Così che gli scontri diretti tra la scienza e la fede, sia per attaccare sia
per difendersi, appartengono al passato o rappresentano atteggiamenti, in definitiva, obsoleti.
Muovendosi a livelli diversi, i discorsi non devono ritenersi opposti. E non si devono neppure
incoraggiare gli incontri diretti e senza mediazione. Come tale, la scienza non può né dimostrare
l'esistenza di Dio né convincere della sua non-esistenza. Non ha ragione né Robert Jastrow quando
pensa che i fallimenti delle spiegazioni scientifiche obblighino gli scienziati a riconoscere la verità
della creazione, che i teologi conoscevano “da secoli”;24 né ce l'ha Bertrand Russell, quando
afferma, per negarli, che «Dio e immortalità, dogmi basilari della religione cristiana, non hanno
alcun fondamento scientifico».25

2.3. La differenza come progresso culturale

Arrivati a questo punto, è importante notare come il risultato cui siamo giunti non è un caso
isolato, cioè qualcosa di peculiare ed esclusivo dell'esperienza religiosa. In realtà, rimanda a un
fenomeno di grande profondità, che tocca tutti gli strati della cultura. Fa parte della progressiva
differenziazione che va segnando il progresso dell'umanità, nella misura in cui questa scopre nuovi
campi e apre nuove prospettive. Ciò che prima sembrava fuso in un’unità onnicomprensiva, si
differenzia successivamente in settori e livelli diversi, come soluzione di nuovi bisogni e risposta a
nuovi interrogativi. Così si è prodotta la divisione sociale del lavoro, così si sono differenziate
religione e filosofia, e così sono venute comparendo le diverse scienze. Come abbiamo visto, il
processo non si produce senza scontri e resistenze, né senza pretese di dominio, quando una delle
frazioni pretende di assorbire l'insieme.
In Occidente, la spinta del pensiero scientifico e le sue spettacolari conquiste hanno portato a un
chiaro imperialismo tanto dei suoi metodi quanto della pretesa di costituirsi in criterio unico di
qualsiasi vera conoscenza. La religione non è stata l'unica a essere toccata: con essa vennero
ugualmente messe in discussione l'etica, l'estetica e la filosofia. In generale, hanno patito l'attacco
tutte le discipline “umanistiche”, che si sono viste squalificate a pure reazioni emotive o a semplici
combinazioni di parole senza un reale valore cognitivo. È stato l'impero della razionalità
strumentale e della mentalità positivista.
Per fortuna, vari fattori decisivi hanno contribuito a mettere fine a questo imperialismo. In primo
luogo la fenomenologia, che col suo «principio di tutti i principi» ha rotto l’interdetto scientista,
rivendicando il diritto paritetico di ogni esperienza originaria, senza privilegi né esclusioni.26 E sono
ben conosciute le analisi di Edmund Husserl in La crisi delle scienze europee,27 dove cerca
precisamente di mostrare come la matematizzazione della natura, a partire da Galileo, ha

ebbe la stessa audacia né assunse un simile rischio» (Tillich, Teologia sistematica, II, tr. it. Claudiana, Torino 2001, p.
122).
24
Si veda la citazione: «Per lo scienziato che ha vissuto secondo la sua fede dinanzi al potere della ragione, la storia
finisce come un cattivo sogno. Ha scalato la montagna dell'ignoranza; è sul punto di conquistare la cima più alta; e
quando supera la roccia finale è ricevuto da un gruppo di teologi che erano seduti lì da secoli» (R. Jastrow, God and the
Astronomers, New York 1978, pp. 14 e 116; citato da A. Fernández Rañada, Los científicos y Dios, Oviedo, 1994, p.
143 e anche da Barbour, Religion in an Age of Science, cit., p. 128).
25
Russel, Perché non sono cristiano, cit., p. 37.
26
«Nessuna immaginabile teoria può coglierci in errore nel principio di tutti i principi: cioè che ogni visione
originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione
(per così dire, in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (E. Husserl,
Ideen 1, § 24, Husserliana III, p. 74 [tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro
primo, Einaudi, Torino 1976, pp. 50-51].
27
E. Husserl, La crisi delle scienze europee, tr. it. Il Saggiatore, Milano 2008. Come si sa, l’origine del libro è in una
serie di conferenze pronunciate da Husserl a Praga nel 1935; il materiale, arricchito e rielaborato, fu pubblicado come
libro da Walter Biemel nel 1954.

97
comportato un enorme impoverimento nella nostra percezione ed esperienza della realtà, poiché in
tal modo il “mondo della vita” risulta colonizzato e ridotto a quello della scienza e della tecnica.
Da una prospettiva diversa e con maggiore peso critico-sociologico, vanno nella stessa direzione
le analisi della Scuola di Francoforte, che mettono allo scoperto i terribili effetti della “ragione
strumentale”, vale a dire della ragione scientifica che, abbandonata a se stessa, oltre a dominare la
natura, finisce per cavalcare e giustificare lo sfruttamento dell'uomo.28 Jürgen Habermas, tra gli
altri, amplia criticamente la diagnosi, evidenziando il carattere ideologico della mentalità
esclusivamente scientifica e tecnologica.29
L'analisi linguistica, partendo da preoccupazioni molto diverse, ha confermato e rafforzato la
validità teorica di queste analisi, poiché, soprattutto a partire dal secondo Wittgenstein e in chiara
convergenza con la fenomenologia,30 ha reclamato la validità specifica di tutti i “giochi di
linguaggio”, come descrizioni per principio ugualmente valide del mondo, senza che per la loro
validità debbano essere sottoposte alla dittatura di un unico modello.31
Limitando alla religione un'analisi che, del resto, potrebbe essere ugualmente fatta per l'etica,
l'estetica o la filosofia in generale, si può rendere intuitiva con qualche esempio la ragione della
nuova posizione. Facciamo il caso della nascita o della morte dell’essere umano e chiediamoci se
attorno a questo ne sappiamo oggi di più dei greci o dei romani.
La risposta è ovvia a un primo livello: basta pensare alla sala di ostetricia o all'unità di cure
palliative di un qualunque grande ospedale, per affermare che, senza dubbio, ne sappiamo
immensamente di più. Facciamo però un passo ulteriore e, in un secondo momento, cambiamo il
livello della domanda, interrogandoci ora sul fatto stesso di nascere o di morire. Cioè, su questo
mistero di “essere nati” e di trovarci nel mondo senza che nessuno abbia potuto consultarci, e di
esserlo in questo tempo, in questa cultura o in questa famiglia. Oppure interroghiamoci sul nostro
“essere di fronte alla morte”, su questo mistero dell'inevitabile dover cessare di essere nel mondo e
sulla realtà o meno di un aldilà dall'altro lato dell'oscura e inevitabile barriera.
Allora le cose cambiano. A questo secondo livello non risulta senz’altro evidente che il nostro
sapere sia superiore a quello di Platone o di Seneca, nemmeno a quello dell'uomo di Neanderthal o
di Cromagnon. Hermann Lübbe ha analizzato bene questo aspetto, considerandolo giustamente
quale caratteristica della «religione dopo l'Illuminismo», come recita uno dei titoli dei suoi libri.32 E
Karl Jaspers ha collocato in questo tipo di «situazioni limite» (Grenzsituationen) il posto della
filosofia e dell'apertura alla trascendenza.33 Si tratta di ambiti non dominabili dalla scienza né

28
Continua a essere fondamentale Horkheimer - Adorno, Dialettica dell’Illuminismo (or. ted. 1947), tr. it. cit.; M.
Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (or. ingl. 1947), tr. it. Einaudi, Torino 1969.
29
Cf. la sintesi che egli stesso offre in Tecnica e scienza come “ideologia”, in J. Habermas, Teoria e prassi nella
società tecnologica, tr. it. Laterza, Bari 1974, pp. 195-234.
30
A. Torres Queiruga, La constitución moderna de la razón religiosa. Prolegómenos a una Filosofía de la Religión,
Estella 1992, pp. 103-106 e 232-233.
31
«Con l'emergere di concezioni più pragmatiche della verità […], è risultato molto più facile insistere sulla mutua
irrilevanza dei discorsi scientifici e religiosi, riflettendo ciascuno pratiche e preoccupazioni diverse. Gli studiosi che
hanno seguito Wittgenstein nell'analisi delle funzioni del linguaggio hanno riconosciuto vari livelli nei quali esso può
operare: il mondo può essere descritto in molti modi diversi, senza che l’uno debba essere ridotto all’altro. In tale
visione è possibile, di principio, che la scienza e la religione coesistano senza mutua interferenza» (Brooke, Science and
Religion cit., p. 322; cf. la stessa idea in Barbour, Religion in an Age of Science, cit., pp. 13-16 e, più ampiamente,
nell’opera di Id., Problemas sobre religión y ciencia, cit., cap. 9, pp. 283-319).
32
H. Lübbe, Religion nach der Aufklärung, Graz-Wien-Köln 1986 [cf. in it. Religione e politica dopo l'Illuminismo, in
AA. VV., Metodologia delle scienze sociali - Quaderni interdisciplinari 2, Pellegrini Editore, Cosenza 2000].
33
Dell’immensa opera di K. Jaspers, cf. specialmente La fede filosofica di fronte alla rivelazione, tr. it. Longanesi,
Milano 1970 e, in forma più semplice, La filosofia dell'esistenza, tr. it. Laterza, Bari 1995?? [remite al original:
Einführung in die Philosophie, Artemis Verlag, Zürich 1949] ; cf. A. Torres Queiruga, Karl Jaspers: La fe filosófica
frente a la ciencia y a la religión, in M. Fraijó (ed.), Filosofía de la Religión. Estudios y textos, Trotta, Madrid 1994, pp.
457-490.

98
manipolabili dalla tecnica; al punto che spesso i bambini, i primitivi e i matti – i matti geniali –
sono quelli che si aprono con più acutezza al mistero della loro profondità.34
Gli esempi mostrano chiaramente che si tratta di modi diversi di conoscenza, di differenti
modalità di apertura consapevole al reale. Ambedue i modi sono legittimi ed entrambe le modalità
risultano necessarie; ma per ciò stesso devono rispettarsi nelle loro specificità, senza invasioni del
campo altrui. Il che, nella sua apparente semplicità, suppone un risultato molto importante per il
problema che ci riguarda. Perché impone ai diversi campi del sapere una forte cura di snellimento,
delimitando i confini della loro rispettiva competenza e smascherando come invasione imperialista
ogni indebita incursione nel terreno dell'altro.
La religione deve imparare la dura lezione dal fatto che campi enormi, che per lungo tempo
sembravano cadere sotto la sua competenza, sono definitivamente passati ad altre mani. Questo è il
significato profondo della “secolarizzazione”, che le è risultata dolorosa nell'ambito materiale dei
possedimenti ecclesiastici, ma che non lo è di meno nell'ambito della cultura, dove a partire
dall'Illuminismo ha dovuto riconoscere l'autonomia delle scienze fisiche e storiche, come
dell'economia, della sociologia e della politica. Di fatto, sta imparando anche oggi, non senza gravi
conflitti, l'autonomia dell'etica e della morale. Del resto, la storia recente mostra che ogni volta che
la religione non rispetta i suoi limiti finisce irrimediabilmente a malpartito.
La scienza, da parte sua, deve rinunciare a ogni pretesa di totalità. Utile e indispensabile per tante
cose relative alle necessità più o meno tecniche della vita umana, risulta assolutamente inadeguata
per quelle che trascendono questo livello. Oggi la cosa appare già del tutto chiara nel mondo
dell'etica, dove la possibilità di risoluzione tecnica dei problemi porta continuamente a questioni
che superano in maniera radicale la razionalità scientifica. Gérard Fourez lo mostra chiaramente a
partire da alcune domande, quali: «Ci possono dire le scienze quando, nel processo di crescita di un
embrione, ci troviamo dinanzi a una persona? Ci possono dire le scienze che politica bisogna
seguire nella questione della corsa agli armamenti? Bisogna o no costruire più centrali nucleari?».35
Quando poi passiamo alle questioni propriamente religiose, che si riferiscono al senso o alla
fondazione ultima, l'inadeguatezza risulta ancora più radicale. Cosa che, superato il primo stupore
dinanzi alla spettacolarità delle scoperte scientifiche, s’impone con evidenza innegabile. Non è
casuale che siano spesso i grandi fisici, perfino non credenti, quelli che, arrivati ai limiti della loro
conoscenza, sentono la presenza del mistero. Magari esagerava un po', ma non era fuori strada
Albert Einstein quando affermava: «Giustamente un contemporaneo ha osservato che nella nostra
epoca, votata in genere al materialismo, i soli uomini profondamente religiosi sono gli scienziati»36.
Affermazione che ricorda quell'altra più tradizionale, dovuta a Francesco Bacone: «La poca scienza
allontana da Dio, la molta avvicina a Lui»; forse ancora meglio espressa da alcuni versi classici:
«Che se il poco sapere ci mette a prova / il molto, se raggiunto, a Dio ci porta».37

3. Dalla differenza all'integrazione

34
Cf. K. Jaspers, La filosofía desde el punto de vista de la existen.cia, cit., pp. 8-11. [remite al original: Einführung
in die Philosophie, Artemis Verlag, Zürich 1949] (indicare Titolo tedesco dell’opera citata? Non sembra
corrispondere alla tr. it. citata!)
35
G. Fourez, La construcción del conocimiento científico. Filosofía y ética de la ciencia, Madrid 1994, p. 179.
36
Fernández Rañada, Los científicos y Dios cit., p. 203. Il testo, pubblicato originariamente sul New York Times del 9-
11-1930, è riprodotto in A. Einstein, Idee e opinioni, Schwarz Editore, Torino 1965, p. 50. Nel volume si trova anche
questa affermazione: «Voi troverete difficilmente uno spirito profondamente devoto alla scienza che non abbia un suo
proprio sentimento religioso. Si tratta però di una religiosità diversa da quella dell’uomo semplice. Per quest’ultimo,
Dio è un essere di cui si cerca la bontà e si teme il castigo […]. Al contrario, lo scienziato è penetrato dal senso della
causalità universale» (Ivi).
37
Prendo la citazione da J. B. Blecua, Historia de las Religiones I, Madrid 1964, p. 20, che l’attribuisce, senz’altro
riferimento, «al migliore dei nostri lirici del XVI secolo». Pertenece a la poesía de Fray Luis del León “Al salir de la
cárcel” (de la Inquisicón).

99
Nonostante certe battaglie di retroguardia, questa evidenza di principio è diventata così ovvia che
esiste perfino una tendenza a incorrere nell'estremo opposto. Per qualcuno non solo non c'è conflitto
tra la fede e la religione, ma non esisterebbe nemmeno alcun punto di contatto tra di esse. Posizione
comoda e tentatrice per entrambe le parti. Per la scienza, perché in questo modo elimina l’ostacolo
più decisivo contro la sua tendenza all'assolutizzazione; per la religione, o meglio, per i teologi,
perché così creano un spazio di dominio esclusivo, così sopra-naturale che risulta immune da ogni
critica, ed essi non bisognano rendere conto a nessuno né delle loro ragioni né dei loro presupposti.
Per poco però che si pensi, si capisce che questa totale separazione non è possibile né sarebbe
utile per nessuno. Fatta la distinzione, s’impone un’integrazione che, senza annullare la differenza,
raggiunga l'unità a un nuovo livello: «distinguere per unire», come nel noto titolo della famosa
opera di Jacques Maritain.

3.1. La necessità del dialogo

L'impossibilità di una totale separazione appare già dal fatto stesso che la religione e la scienza
nascono dallo stesso soggetto umano e, in definitiva, tentano di rispondere a specifiche necessità del
medesimo. Essendo tentativi d’interpretare la stessa realtà che tutti ci riguarda, le diverse risposte
della religione e della scienza sono chiamate a dialogare, sia pure nel consenso o nel dissenso, nella
lotta o nella collaborazione. Solo un imperialismo unilaterale che pretenda addirittura di eliminare
l'altro, può negare questa necessità. D'altra parte, se non si nega a priori la legittimità dell'altro, è
necessario chiarire le zone di contatto, pena il finire in un atteggiamento schizofrenico, soprattutto
su quei punti in cui le due visioni possono entrare in conflitto. Come abbiamo visto, la storia mostra
a sazietà che tali punti esistono.
In questo dialogo, in partenza non ci sono privilegi. L’unica cosa che si può esigere è l'onestà
intellettuale e l'interesse umano comune. Potrebbe essere alquanto esagerata, ma merita attenzione
l'avvertenza di Whitehead secondo cui:

Quando noi consideriamo che cosa significhi la religione per l’umanità e che cosa significhi la scienza non è
esagerato dire che il corso futuro della storia dipende dalla decisione della nostra generazione riguardo ai loro rapporti.38

Per questo, non ci si può accontentare unicamente di un discorso formale; interessa molto la
realizzazione concreta del dialogo. Da esso, se lo si imposta bene, ne guadagneranno sia la scienza
sia la fede.
Ne guadagnerà la fede, perché in un mondo profondamente segnato dalla mentalità scientifica e
modellato dai suoi progressi, la sua credibilità non può durare se le sue rappresentazioni entrano in
conflitto frontale con i dati della scienza. Detto plasticamente, anche la persona più pia di fronte al
dilemma: mantenere la fede affermando che il sole gira intorno alla terra, oppure aderire al sistema
copernicano che dice il contrario, si vedrebbe obbligata ad abbandonare la fede, anche se
volontaristicamente pretendesse non farlo. Senza arrivare a questi estremi, Philip Clayton descrive
bene la situazione quando, dopo avere riconosciuto la difficoltà dicendo che nel suo libro «cerca di
collegare due temi completamente divergenti, il cui punto d’incontro rimane spesso nell'oscurità»,39
afferma:

In realtà, c’è motivo di supporre che un numero crescente di persone religiose in Europa e in America – e, a quanto
sembra, non soltanto lì – trovano convincenti gli sforzi chiarificatori delle loro religioni unicamente se sono coerenti
con le rappresentazioni delle scienze naturali e sociali (o almeno soddisfano i loro standard). In questo senso, molti di
noi sono credenti secolari: agiamo come ebrei o crediamo come cristiani, ma abbiamo difficoltà ad ammettere che siano
significative quelle dottrine religiose che collidono coi risultati della scienza.40

38
Whitehead, La scienza e il mondo moderno, cit. p. 208.
39
Clayton, Rationalität und Religion, cit., p. 13.
40
Ibid., p. 225.

100
E ne guadagnerà la scienza stessa, poiché anche ad essa conviene trarre lezioni dal dialogo con la
religione. Passati gli ingenui entusiasmi del “secolo dei lumi”, la scienza si è vista obbligata a
riconoscere che c'è in essa una logica che, lasciata a se stessa, può colonizzare a tal punto il “mondo
della vita” da portare non solo al suo impoverimento, ma addirittura alla sua stessa distruzione.
Com’è ovvio, non compete solo alla religione correggere tali deviazioni. Ma è innegabile che
l'esperienza religiosa possiede virtualità difficilmente sostituibili da qualunque altra istanza. Lo
riconosce lo stesso Jürgen Habermas, che sembra mostrarsi ogni volta più sensibile a questo aspetto.
E bisogna tenere presente che egli non si riferisce solo alla ragione scientifica, ma anche a quella
più “umana”, la ragione comunicativa, che già suppone un indispensabile correttivo critico.41

3.2. Il contributo della religione alla scienza

Dato che la nostra riflessione si concentrerà principalmente su ciò che può e deve imparare la
religione, vale la pena insistere adesso un po’ di più sul contributo della religione alla scienza.
La reiterata messa in guardia della filosofia contemporanea, soprattutto a partire da Heidegger,
contro i pericoli che una “tecnica” autonomizzata comporta per l'umanità, apre una prospettiva
importante. Questo perché la religione, con la sua insistenza sul trascendente, si mostra
particolarmente adatta a contrastare la ricorrente tentazione di assolutismo da parte della scienza.
Questa farà bene a permettere che le vengano criticati i limiti dell’empirico, in quanto questi
tendono a serrarla in un tutto chiuso con tendenza al monopolio; si lascerà così attraversare e aprire
dagli interrogativi profondi e non manipolabili che le giungono dalla memoria religiosa. Cosa che
vale sia dal punto di vista soggettivo o degli atteggiamenti, sia da quello oggettivo o delle
conoscenze.
Rispetto al primo, risulta indispensabile non confondere le competenze: essere esperto e perfino
premio Nobel in un campo – in questo caso, lo scientifico – non conferisce senz’altro autorità negli
altri campi, quali il filosofico o il teologico (come nemmeno il filosofo o il teologo, per illustri che
siano, devono arrogarsi competenza nel campo formalmente scientifico). Per questo è necessario
tenere molto in conto l'importante osservazione di Owen Chadwick, che distingue «tra la scienza
quando è stata contro le [o a favore delle] religioni e gli scienziati quando sono stati contro la
religione».42 Ciò che è davvero importante non è l'opinione personale del tale o tal altro scienziato,
ma ciò che lo stato attuale della scienza permette o non permette di concludere rispetto alle
questioni religiose. Su questo versante personale non si deve nemmeno dimenticare che, non poche
volte, dietro un'apparente asepsi intellettuale si può nascondere per entrambe le posizioni– la
religiosa e la scientifica – una dura lotta per il prestigio e il potere.43
Con tutto ciò, è più importante l'aspetto oggettivo. E qui la lezione religiosa può risultare tanto
più utile quanto più ha dovuto essere prima imparata dalla religione a sue spese. Una storia dolorosa
41
Cf. il chiaro e dettagliato studio di J. M. Mardones, El discurso religioso de la modernidad. Habermas y la religión,
Barcelona 1998 [In italiano cf. ora G. Cunico, Lettura di Habermas. Filosofia e religione nella società post-secolare,
Queriniana, Brescia 2009].
42
O. Chadwick, The Victorian Church, London 19792, pp. 12-13 e Id., The Secularization of the European Mind in the
Nineteenth Century, Cambridge 1975, pp. 161-188 [tr. it., Società e pensiero laico. Le radici della secolarizzazione
nella mentalità europea dell'Ottocento, SEI, Torino 1989, pp. 183-211]; citato in Lindberg - Numbers (edd.), God and
Nature, cit., p. 7. Interessanti riferimenti sugli atteggiamenti degli scienziati dinanzi alla religione si possono vedere in
Fernández Rañada, Los científicos y Dios, cit., pp. 161-239; e più ampiamente in N. Mott (ed.), Can Scientists Believe?
Some Examples of the Attitude of Scientists to Religion, London 1991, e in H. P. Dürr, Physik und Traszendenz,
München 1988. Molto noto è K. Wilber, Cuestiones cuánticas. Escritos místicos de los físicos más famosos del mundo,
Barcelona 1987.
43
Aspetto su cui insiste F. M. Turner a proposito dell’epoca vittoriana, ma estensibile a qualsiasi tempo: cf. F. M.
Turner, The Victorian Conflict between Science and Religion, in «Isis», 69 (1978), pp. 356-376; citato anche in
Lindberg - Numbers, God and Nature, cit., pp. 8-9.

101
le ha insegnato, infatti, quanto pericoloso risulti globalizzare le proprie conoscenze, confondendo
ciò che è solamente una prospettiva specifica con il tutto della realtà. L'avere conferito valore
assoluto ad affermazioni che pretendevano solamente dischiudere il significato religioso di
determinati fatti o avvenimenti, è stato la principale causa dei suoi più gravi problemi. Si ricordi che
l'avere conferito portata astronomica al libro di Giosuè o significato biologico alla narrazione della
Genesi è stato precisamente il detonatore per conflitti che hanno segnato e anche avvelenato la
presenza della fede nella cultura moderna.
Ebbene, se la scienza consiste propriamente in «strategie metodiche di semplificazione», che
rendono possibile la sua efficacia per comprendere e per manipolare aspetti del mondo,44 essa
dev’essere consapevole che le sue proposizioni non equivalgono senz’altro ad affermazioni circa la
realtà in se stessa. Quando, senza sensibilità ermeneutica, i risultati a volte sorprendenti della fisica
attuale si traducono, senza le indispensabili mediazioni, nel linguaggio ordinario, si generano
equivoci che provocano profondi disorientamenti. Avallate dal prestigio che circonda lo
“scienziato”, tali volgarizzazioni “scientifiche” tendono a essere proposte e – ciò che è più grave –
accettate come indiscutibili, provocando un imperialismo epistemologico di gravi conseguenze
tanto in filosofia quanto in teologia. Paul Tillich arriva ad affermare che «l'imperialismo
metodologico è pericoloso quanto quello politico».45
Esempio tipico è il famoso paradosso del gatto di Schrödinger, che in un determinato momento
non sarebbe né vivo né morto o sarebbe vivo e morto contemporaneamente. Lo si veda con le parole
dello stesso autore.

Risulta perfino possibile prendere in considerazione qualche caso divertente. Un gatto è messo all'interno di una
camera di acciaio vicino al seguente diabolico congegno: in un contatore Geiger c'è una piccola quantità di una sostanza
radioattiva, così che forse nell'intervallo di un'ora uno degli atomi si disintegrerà; ma anche, con eguale probabilità,
nessuno soffrirà tale processo. Se questo succede, il contatore genera una scarica e attraverso un relè libera un martello
che rompe un piccolo recipiente di vetro che contiene acido prussico. Se l’intero sistema è rimasto isolato per un'ora, si
può dire che il gatto è ancora vivo nel caso che nell'intervallo nessun atomo abbia sofferto un processo di
disintegrazione. La prima disintegrazione lo avrebbe avvelenato. La funzione d’onda di tutto il sistema esprimerà questo
tramite la combinazione di due termini che si riferiscono al gatto vivo e al gatto morto (perdonatemi l'espressione), due
situazioni mescolate o indefinite in parti uguali.46

In linea di principio, nessuno può negare legittimità a queste espressioni nel “gioco linguistico”
della scienza, poiché, secondo il principio d’indeterminazione, ai fini del calcolo scientifico, così è
o così può essere. Tradotte, però, in altri “giochi linguistici” come ”ordinario” o “filosofico”,
trasgrediscono tutti i limiti di legittimità e portano troppe volte, secondo l’espressione di un buon

44
Cf. le eccellenti analisi che al riguardo fa I. U. Dalferth, Das Eine und das Viele. Theologie und Wissenschaften, in
Id., Gedeutete Gegenwart. Zur Wahrnehmung Gottes in der Erfahrung der Zeit, Tübingen 1997, pp. 193-198,
specialmente le pp. 192-208.
45
Vale la pena citare l’intero passo: «Il metodo e il sistema si determinano reciprocamente. Ne deriva che nessun
metodo può pretendere di essere adeguato per tutti gli argomenti. L'imperialismo metodologico è pericoloso quanto
quello politico e, come quest’ultimo, crolla quando gli elementi indipendenti della realtà gli si rivoltano contro. Un
metodo non è una “rete indifferente” in cui catturare la realtà, ma è un elemento della realtà stessa. Almeno in un senso,
la descrizione di un metodo è la descrizione di un aspetto decisivo dell'oggetto cui lo si applica. La stessa relazione
conoscitiva, in se stessa, indipendentemente da ogni atto particolare di conoscenza, rivela qualcosa dell'oggetto come
pure del soggetto, nella relazione. Nel campo della fisica, la relazione conoscitiva rivela il carattere matematico degli
oggetti nello spazio (e nel tempo). Nella biologia, la relazione conoscitiva rivela la struttura (Gestalt) e il carattere
spontaneo degli oggetti nello spazio e nel tempo. Nella storiografia, la relazione conoscitiva rivela il carattere -
individuale e riferito al valore - degli oggetti nel tempo (e nello spazio). In teologia, la relazione conoscitiva rivela il
carattere esistenziale e trascendente in atto del fondamento degli oggetti nel tempo e nello spazio. Nessun metodo può
quindi essere sviluppato senza una conoscenza previa dell'oggetto al quale si applica» (Tillich, Teologia sistematica, I,
cit. pp. 75-76).
46
Prendo il testo da Gian Carlo Ghirardi, Un’occhiata alle carte di Dio. Gli interrogativi che la scienza moderna pone
all’uomo, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 331; cf. le pp. 330-372, che offrono un’ampia e seria spiegazione (oltretutto,
simpaticamente illustrata). Polkinghorne, Ciencia y teología, cit., pp. 50-53, offre una breve e chiara esposizione delle
diverse interpretazioni dell’esperimento.

102
conoscitore, a un [?] «orribile disinteresse per la realtà».47 Per dirlo chiaramente: che l'osservazione
e il calcolo fisici non possano determinare né usare per i propri scopi scientifici il dato del famoso
“gatto”, se sia vivo o morto nella capsula del loro immaginoso esperimento, non significa che nella
realtà ontica succeda la stessa cosa. Per questa il principio di contraddizione ci assicura che, in un
dato momento, è intrinsecamente impossibile che lo stesso gatto – che è cosa diversa dalla nostra
conoscenza scientifica di lui – sia vivo e morto. Pensare il contrario significa incorrere in una crassa
metábasis eis allo génos*, confondendo l'incertezza epistemologica con l'indeterminazione ontica o,
che è lo stesso, dando senz’altro come indeterminazione della realtà in se stessa ciò che
metodicamente si può solo affermare della realtà in quanto conoscibile o manipolabile
scientificamente.
Per questo gli scienziati procedono legittimamente quando, nel campo della loro competenza,
discutono questioni come questa, che attorno agli anni venti misero a confronto Albert Einstein con
Max Planck e la scuola di Copenaghen, provocando, a detta di Ortega y Gasset, una formidabile
«sgridata nella fisica» (bronca en la física)48. Ciò che non è corretto è procedere con eccessiva
leggerezza, traendone conseguenze nel campo della filosofia o della teologia49. Libri come quello di
Stephen Hawking,* nonostante il prestigio del loro autore e della formidabile eco pubblicitaria che li
accompagna, risultano davvero penosi da questo punto di vista. Per la stessa ragione, non risulta
corretto l'uso apologetico di concezioni fisiche in senso contrario, come quando si cerca di vedere
nell’”indeterminazione” fisica la possibilità della libertà umana o la possibilità di azioni divine nel
mondo.50

4. La teologia nel dialogo con la scienza

4.1. Il problema

Come già detto, queste riflessioni si pongono preferenzialmente dal punto di vista della teologia.
La loro intenzione prioritaria è quella di segnalare alcune rifessioni che, a partire dalla sfida della
scienza, sono chiamate a mostrare (o stanno già mostrando) la loro efficacia nella teologia attuale.
Accennerò a due temi principali: il problema dell'esistenza di Dio e il modo d’interpretare la sua
presenza in un mondo profondamente trasformato dalla visione scientifica.
Fin dall’inizio vale la pena di ricordare ancora una volta, che, accettata la distinzione di campi e
prospettive, non ci si può aspettare passaggi diretti: la scienza né prova né confuta alcunché in
ambito teologico. Semplicemente, con i suoi progressi essa presenta in maniera nuova quella realtà
che – da un'altra prospettiva, con altri metodi e altre preoccupazioni – la teologia pretende
interpretare religiosamente. Di conseguenza questa nuova presentazione della realtà da parte della
scienza risulterà sempre ambigua, in quanto lascerà sempre aperta la doppia possibilità di una
interpretazione religiosa o di una non-religiosa e perfino anti-religiosa. Ogni cambiamento
47
S. L. Jaki, La Física y el Universo: de los sumerios a fines del siglo XX, in S. L. Jaki et al., Física y Religión en
perspectiva, Madrid 1991, p. 37.
*
Usata da Aristotele in Analytica posteriora (L. 1, cap. 7, 75a 38) e nel De caelo (L. 1, cap. 1, 268b 1ss), l’espressione
ha assunto il significato di spostamento da un tipo di ragionamento a un altro, di salto logico e dottrinale, di confusione
dei saperi o di mescolanza di statuti eterogenei in una riflessione [n.d.t.].
48
J. Ortega y Gasset, Bronca en la física (1937), in Obras Completas, V, pp. 271-287.
49
So bene che molti teorici, perfino filosofi, parlano consapevolmente ed espressamente d’indeterminazione ontica.
Credo, con tutto ciò, che questo sia possibile solo per una trasgressione che, basandosi sul «prestigio della scienza»,
invade sconsideratamente il campo del linguaggio ordinario e degli altri linguaggi. Esattamente ciò che succedeva alla
teologia quando, a partire dalla Bibbia, pretendeva di dettare legge in astronomia, biologia e (oggi) in morale.
*
S. Hawking, Dal big bang ai buchi neri: Breve storia del tempo (1988), BUR Rizzoli, Milano 2011 [n.d.t.].
50
Cf. A. Pérez Laborda, Ciencia y fe. Historia y análisis de una relación encontrada, Madrid 1980, pp. 58-80; Barbour,
Religion in an Age of Science, cit., pp. 101-104; cf. cap. 4, pp. 95-124: Physics and Metaphysics; alle pp. 117-118 offre
l’esempio di un tentativo d’interpretare partendo da tale concezione fisica l’azione di Dio.

103
scientifico apporta simultaneamente nuove difficoltà e nuove possibilità. In ultima istanza, sono
convinto che per un'accettazione o rifiuto dell'esistenza di Dio – non in quanto pura teoria, ma in
quanto impegno vivo e reale – non esistano oggi difficoltà troppo diverse da quelle di qualunque
altra epoca della storia. Ciò che il credente è chiamato a fare è esaminare in che misura le nostre
conoscenze attuali offrano un legittimo appoggio all'interpretazione religiosa.
In questo senso, la distanza storica che ci separa dall’inizio della modernità permette una
migliore regolazione della prospettiva. I conflitti che hanno fatto più rumore al loro tempo – quelli
di Galileo e Darwin – poichè nascevano da una lettura acritica e fondamentalista del testo biblico,
attualmente superata, non sono più questioni oggi veramente rilevanti. Il problema si è spostato
verso questioni più sottili, che obbligano ad una riflessione più profonda. Così che oggi si apre da
questo lato un campo enorme d’indagine.
Per maggiore chiarezza, si possono distinguere in esso due poli fondamentali. Il primo implica
considerazioni di carattere formale, cioè relative allo statuto stesso della conoscenza teologico-
religiosa. Il secondo tocca prioritariamente problemi di contenuto, in quanto la nuova situazione
impone d’intendere in modo diverso le verità tradizionali. Si tratta, con tutta evidenza, di un
compito che richiederà ancora molto tempo e molto sforzo.
A titolo indicativo, mi concentrerò qui su tre questioni fondamentali: 1) il carattere radicalmente
umano e, proprio per questo, “verificabile” dell'esperienza religiosa (che rimanda al primo polo); le
altre due rimandano al secondo, e trattano: 2) del nuovo modo d’impostare il problema
dell’esistenza di Dio e 3) del modo di comprendere la sua azione nel mondo.

4.2. Carattere umano e “verificabile” dell'esperienza religiosa

Siamo talmente abituati a una visione soprannaturalista della religione che spontaneamente
tendiamo a considerarla come qualcosa di letteralmente “caduto dal cielo”. Tendenza favorita dalla
propensione di ciò che è religioso a diventare un mondo a parte, distinto dalla vita ordinaria e
sempre tentato di perdere ogni contatto con essa. Tuttavia, per poco che si osservi, si noterà che le
religioni non cadono dal cielo, ma nascono dalla terra. Nella loro realtà storica sono prodotti
strettamente culturali: come la poesia, la filosofia e la scienza.
Tutto ciò che è autenticamente religioso è sempre una risposta a domande molto concrete.
Risposta specifica, caratterizzata dal suo rapportarsi a Dio; ma risposta davvero umana, ottenuta
dallo sforzo di uomini e donne per dare senso a domande che toccano realmente e profondamente la
loro vita, e che, per questo, preoccupano o possono preoccupare tutti. Per verificarlo, basta prendere
in mano la Bibbia o qualsiasi altro testo religioso. Appaiono come libri con tutti i segni della nostra
più normale umanità, al punto che molti – tutti i non credenti – non vedono differenza alcuna e
pensano che, per questo aspetto, non si differenzino dagli altri libri.
In definitiva, un testo religioso è un’interpretazione umana della realtà: della comune realtà,
l'unica che esiste e nella quale tutti e tutte viviamo. Ciò che caratterizza questa interpretazione non è
un’origine miracolosa, strana o aliena ai procedimenti “naturali”, ma la convinzione che la
dimensione empirica e immediatamente mondana non esaurisce il tutto della realtà. Essa non crede
possibile una comprensione adeguata della stessa, se non includendovi un'altra realtà diversa, quella
Divina, che la sostiene e la trascende. Ad essa l’interpretazione religiosa mira a motivo di
determinate caratteristiche della realtà mondana, quali possono essere la contingenza dell'universo o
la protesta umana contro la morte, l'ingiustizia o il non-senso. Dio diventa così la chiave per
raggiungere una comprensione “ultima” della realtà. Da intendersi bene però: osservando la
struttura interna e la genesi intima di questa convinzione religiosa, non è che si veda così la realtà
perché si crede in Dio, ma al contrario, perché si vede così la realtà, nasce la fede in Dio.
Si tratta, quindi, di un’interpretazione che si fonda sulla (convinzione della) scoperta di una
Presenza non visibile in se stessa ma implicata in quello che si vede. Questa scoperta iniziale, per la

104
densità e importanza delle sue implicazioni, libera i diversi processi religiosi che cercano di
stabilire, approfondire e purificare il rapporto con il Divino presente in tal modo. Si tratta di un
processo vivo in cui ogni passo favorisce nuovi progressi, arricchendosi di sempre nuovi aspetti.
Nascono e si sviluppano così le tradizioni religiose, che di solito si cristallizzano in libri sacri: in
scritture che vengono considerate “rivelate” o “ispirate”.
Questo carattere “ispirato” o “rivelato” non è però un dato a priori, ma una constatazione a
posteriori. Risulta al termine di una riflessione, fatta generalmente dalle generazioni successive, che
conduce a riconoscere come questo sforzo religioso d’interpretazione, che ha scoperto la presenza
di Dio nella realtà, è stato possibile perché era Dio stesso che in essa si stava manifestando e
cercava di farsi conoscere.
Capisco che, dette in maniera così inevitabilmente scarna e telegrafica, queste affermazioni
possano, all’inizio, risultare strane e perfino scioccanti. In fondo – benché il modo sia più oscuro,
profondo e complesso – non si tratta di un processo essenzialmente diverso da quelli che
normalmente si danno nella vita ordinaria, nella quale la comprensione degli altri procede, di solito,
per gradi che si vanno chiarendo e approfondendo nel loro stesso concatenamento. E quando
davvero arriviamo a comprendere qualcosa di profondo che una persona stava cercando di
manifestarci o di farci capire, diciamo che lo abbiamo compreso grazie a lei, grazie al fatto che ce
lo stava manifestando. Per questo “crediamo” a una persona e siamo consapevoli che, se
conosciamo la sua intimità, è perché essa ce l'ha voluta “rivelare”.
Spero che, nonostante la loro cruda brevità, queste riflessioni bastino a indicare ciò che è
fondamentale,51 vale a dire che la religione non è un meteorite caduto da un cielo, estraneo e
incontrollabile, ma obbedisce a un processo veramente e autenticamente umano e, come tale,
accessibile in linea di principio a chiunque. Chiaramente, non nel senso che debba convincere tutti,
ma nel senso che la sua interpretazione della realtà, essendo discutibile come ogni interpretazione,
non procede in maniera arbitraria. Coloro che la sostengono si fondano su ragioni che non possono
imporre, ma che possono offrire e che, pertanto, possono essere discusse.
Considerata, cioè, nella sua genesi intenzionale e nella sua struttura intima, la religione può
soddisfare una delle legittime esigenze dello spirito scientifico: quella di non accettare le cose per
sentito dire, ma perché risultano verificabili o, eventualmente, falsificabili. Verificabili o
falsificabili, chiaramente, secondo il suo specifico modo di essere e di affrontare la realtà. Non
chiediamo alla religione di dare prova di sé come il teorema di Pitagora o la legge della gravitazione
universale, come non penseremmo mai di verificare il progresso di un bambino nello studio
misurandolo con il metro, o di verificare se una persona è innamorata mettendola sulla bilancia per
vedere se è aumentata di peso.52
A questo proposito, dunque, l'atteggiamento scientifico ha il diritto di chiedere che nulla venga
accettato senza un’adeguata verifica; e la teologia non solo deve ammettere tale verifica, ma essere
nelle condizioni di offrirla. Si produce una situazione discutibile e illegittima solamente quando,
andando troppo oltre, si cerca d’imporre un unico modo per realizzarla, esigendo, per esempio,
prove empiriche o fisicamente controllabili per realtà che, per definizione, trascendono il fisico e
l’empirico. Cosa che, del resto, la scienza è oggi meglio in condizione di comprendere da se stessa,
vedendo che neppure in essa risulta possibile la totale asepsi oggettiva, poiché anche i suoi limpidi
teoremi sono carichi di presupposti e intrinsecamente segnati dalla soggettività umana.53 D'altra
parte, la fenomenologia mette bene sull’avviso a questo riguardo il pensiero attuale.

51
A parte le indicazioni del cap. I, mi permetto di rimandare il lettore interessato ad approfondire agli ampi e dettagliati
sviluppi che faccio in Repensar la revelación, cit. [e al capitolo aggiunto in appendice?] [si finalmente se añade ese
capítulo, sí]
52
Del complesso problema delle difficoltà, della possibilità e della struttura dell’esperienza religiosa mi occupo con
qualche dettaglio in La experiencia de Dios: posibilidad, estructura, verificabilidad, in «Pensamiento», 55 (1999), pp.
35-69.
53
I. G. Barbour, nelle opere citate alle note precedenti, tratta molto bene questo problema, stabilendo in tal senso
dettagliati paralleli tra la conoscenza scientifica e quella religiosa.

105
Tenendo conto di questo, si può comprendere ciò che è decisivo: la religione rappresenta una
interpretazione della realtà ed è pertanto, come abbiamo detto, una risposta umana a questioni
umane reali. Risposta che, per il livello in cui si situa, non cade sotto la competenza dei metodi
scientifici, ma si offre all'esame e alla “verifica” di chiunque la voglia esaminare al suo giusto
livello. Convincerà o non convincerà; però, quando si procede in modo serio e responsabile,
l'accettazione o il rifiuto non devono obbedire a un capriccio né a un'imposizione, bensì al maggiore
o minore peso che si riconosca alle ragioni su cui si basa l'interpretazione religiosa.
Come indicato, e contrariamente a ciò che di solito si pensa, conviene mettere bene in chiaro
quanto segue: al di là degli influssi, delle esperienze o realizzazioni individuali e concrete, nella
struttura intima del processo, diciamo nella sua genuina “genesi intenzionale”, non s’interpreta il
mondo in una maniera determinata perché si è credenti o atei, ma si è credenti o atei perché la fede
o la non credenza appaiono ai rispettivi soggetti come la migliore maniera d’interpretare il mondo
comune.
Nonostante la loro aura speculativa, queste considerazioni non fanno che tradurre ciò che
succede nella prassi effettiva di ogni giorno. Perché, in realtà, arrivare alla fede significa verificare
che l’”ipotesi religiosa” è quella che meglio chiarisce le esperienze radicali nelle quali la persona si
confronta con la propria contingenza e con quella del mondo, con gli interrogativi ultimi sulla vita e
la morte, sull'angoscia e la speranza, sulla felicità e la disgrazia, sull’impegno etico e il senso della
storia. Così come respingere la fede obbedisce al fatto che la risposta religiosa non convince; o
perché si opina che non è possibile decidersi, come pensa l'agnostico, o perché, come pensa l'ateo,
si ritiene che pesino di più le ragioni contrarie.

4.3. Il problema dell'esistenza di Dio

Le due questioni che si riferiscono più direttamente al polo oggettivo prendono la loro attuale
rilevanza a partire dal profondo cambiamento che la scienza moderna ha indotto nella nostra visione
del mondo. Prescindendo da dettagli e teorie discutibili, ciò che è fondamentale per il presente
scopo – poiché, secondo tutti gli indizi, costituisce un'acquisizione irreversibile – si può forse
sintetizzare in tre punti decisivi: 1) l'omogeneità di tutti gli elementi dell'universo; 2) il modo aperto
ed evolutivo della sua costituzione; 3) il carattere sistemico e autonomo delle sue leggi intrinseche.
Ho l'impressione che è alla confluenza di questi tre punti che oggi si devono collocare i problemi
più scottanti – o almeno alcuni di essi – nel rapporto scienza-fede.
Tenendo conto di questo, il presente paragrafo si occuperà del problema dell'esistenza di Dio,
cercando di vedere come esso oggi si presenta se lo affrontiamo a partire dalla convergenza delle
due prime caratteristiche (l'omogeneità e l'evoluzione).
L'importanza della omogeneità si comprende bene quando si ricorda che – a causa dell'autorità
indiscutibile di Aristotele e Tommaso d’Aquino – fino al tempo di Copernico, Keplero e Galileo il
mondo era diviso in due sezioni completamente eterogenee: la sottolunare o terrena, soggetta al
cambiamento e alla corruzione, e la sopralunare o celeste, perfetta, immutabile e senza possibile
macchia. (Forse impressiona ancora di più pensare che Schelling, pur non prendendo la cosa alla
lettera, potesse parlare con una certa libertà degli astri come di «divinità beate»,54 e che Hegel, tanto
prevenuto e reticente nei riguardi della natura, considerasse il mondo delle stelle radicalmente
eterogeneo rispetto al sistema solare).55 Oggi, allorché gli esseri umani sono andati nello spazio e

54
F. W. J. Schelling, Bruno, in F.W.J. Schellings Werke 3, ed. M. Schroter, p. 158; tr. it. Bruno o del principio divino e
naturale delle cose. Un dialogo, a cura di E. Guglielminetti, Esi, Napoli 1994, p. 128.
55
Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 268-270 (si vedano le note degli alunni: in Werke in zwanzig Bände,
Suhrkamp, t. 9, Frankfurt a. M. 1970, pp. 80-106; peccato che R. Valls Plana abbia scelto di non tradurle nella sua
eccellente edizione, Madrid 1997) e Id., Filosofía real, México 1984, p. 22 (con l’illuminante nota del traduttore, J. M.

106
hanno messo piede sulla luna, ci risulta quasi incomprensibile che allora facesse scandalo, molto più
del movimento orbitale della terra, il fatto che Galileo, col suo rudimentale telescopio, facesse
vedere montagne e valli sulla superficie lunare, vale a dire irregolarità che la rendevano omogenea
al nostro pianeta. Si racconta di un cardinale che si rifiutò di guardare, perché già “sapeva” che
questo era impossibile.
Da parte sua, l'importanza del carattere evolutivo del mondo non ha bisogno di essere rimarcata:
la sua evidenza ha cambiato in maniera radicale il nostro modo di osservarlo. Come ha ben
sottolineato Mircea Eliade, non solo la storia umana, ma anche l’intero complesso della realtà
cosmica ha abbandonato definitivamente la concezione della circolarità eternamente ripetitiva,
sempre la stessa, ereditata dalla filosofia greca e dalla religiosità mitica. Nonostante le folgorazioni
filosofiche di Nietzsche e di certi tentativi di concepire in base alla fisica un universo stazionario,
eternamente e periodicamente pulsante, non pare che si possa tornare all'idea di un eterno ritorno
dell’uguale. L'evoluzione mostra che la freccia del tempo scandisce la marcia dell'universo, come
segna la crescita della nostra vita e il cammino della nostra storia.
La confluenza di queste due evidenze riveste un'importanza decisiva. Un greco poteva pensare
ancora all’”eternità” del mondo (o almeno della “materia” primordiale). Per il pensiero attuale non
sembra possibile. La cosmologia attuale mostra che, in senso stretto e per una considerazione
filosofica seria, l'esistenza del cosmo, nonostante gli immensi cicli del suo sviluppo, è datata quanto
la vita di un bambino... e ci mette dinanzi alla stessa domanda radicale: perché è comparso il
mondo? Perché esiste, potendo non esistere?
Come si vede, la perenne domanda – perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla? – così
sottolineata da Schelling, da Leibniz e ultimamente da Heidegger, assume un nuovo aspetto che, in
qualche modo, aumenta la sua radicalità. Rispetto all'esistenza di Dio, Hegel ha affermato che
esistono molte prove e ne esiste una sola.56 Perché, in definitiva, tutte prendono il loro avvio dalla
contingenza della realtà empirica, dalla sua non autoconsistenza ultima. È infatti questo carattere
contingente e «vacillante» (zufällig) del cosmo che da sempre ha condotto il pensiero a intuire o a
postulare la presenza di un assoluto che lo sostiene o, detto con le sue stesse parole, a comprendere
che «la verità del finito è nell’infinito».57
Com’è noto, il tratto decisivo della filosofia moderna consiste nell’emergere in primo piano della
soggettività. Di conseguenza, se prima le prove dell'esistenza di Dio avevano un carattere
essenzialmente “cosmologico”, a partire da Kant hanno subito una decisa svolta “antropologica”.
Vale a dire, se prima la contingenza si scopriva innanzitutto nell'osservazione del cosmo, oggi la si
scopre prioritariamente nella realtà umana: nel contrasto tra la sua esistenza di fatto e la sua estrema
fragilità, nella contraddizione tra l’incondizionato del dovere o l’infinito dell'aspirazione e
l'inevitabile precarietà di qualsiasi effettiva realizzazione.
Si poteva un tempo pensare che questa contingenza fosse puro frutto della nostra fragilità o
perfino della piccolezza del pianeta terra, ma che l'immensità dell'universo fosse capace di
sostenerla e di spiegarla. Oggi non sembra più (tanto) possibile. La nuova visione mostra che
l'immensità del cosmo è fatta della stessa fragile materia che costituisce il nostro corpo e che, in
ultima istanza, le sue milionarie tappe cosmogoniche si contano, in definitiva, con un tempo simile
a quello dei brevi anni della nostra vita. Sicché l’intero universo sembra oggi toccato dall’identico
interrogativo che assedia la nostra fragile e precaria umanità: perché esiste, potendo non esistere? O,
detto con altre parole, se prima la grande domanda metafisica era: «perché esiste qualcosa e non

Ripalda, a p. 264; Ripalda toma el texto de la Rheinisch-Westfalische Akademie der Wissenschaften, Gesammelte
Werke, Bd. 8). (citare, se possibie, l’edizione tedesca!)
56
G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Beweise vom Dasein Gottes, in Werke in zwanzig Bänden, t. 17, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1969, pp. 399-407 [tr. it. Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, Laterza, Bari 1970, pp. ]
57
Passim. Cf., per esempio, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §193, tr. it. di B. Croce, Laterza, Bari
1951, pp. 167-170 (trad. R. Valls Plana, pp. 269-272, 278-279 e 438, da cui prendo il suggerimento di tradurre zufällig
con «caedizo=vacillante»).

107
piuttosto il nulla?», ora essa si può formulare (con scientifica provvisorietà) così: «perché si è
prodotto il big-bang e non perdurò piuttosto l'eterno vuoto del nulla?».
Questa nuova formulazione non ha assolutamente niente a che fare con il tentativo di convertire
la teoria fisica del big-bang in una prova filosofica o teologica dell'esistenza di Dio.58 Essa non
significa niente di più, ma anche niente di meno, che questa teoria non solo non annulla la perenne
esperienza della contingenza, ma permette di contemplarla da una nuova prospettiva, forse più viva
e profonda. Continua a essere possibile, e si dà di fatto, un'interpretazione atea del big-bang; altri
pensano – e noi con loro– che esistano motivi per una sua interpretazione teistica e che siano più
convincenti. Non si tratta, quindi, di sostenere una colonizzazione religiosa della scienza, alla
ricerca di una deduzione immediata, che estrapolerebbe illegittimamente da un'ipotesi scientifica
delle valenze teologiche. Ma ciò non esclude che oggi sia possibile vedere nella nuova situazione
della scienza fisica un indice che, nella sua profondità, rafforza – o può rafforzare – l'esperienza
radicale del carattere contingente del mondo: la stessa esperienza in base alla quale l'umanità ha
scoperto dagli inizi della sua storia l'esistenza di Dio.
Terminando questo punto, ci permettiamo questa osservazione curiosa. A ben vedere è come se
nel processo storico, in quei corsi e ricorsi o «allontanamenti e avvicinamenti» che Ortega scopriva
a proposito del problema di Dio,59 si ristabilisse un nuovo equilibrio. Per gli antichi il carattere
“divino” del mondo rappresentava una difficoltà nel momento in cui se ne coglieva la contingenza;
difficoltà però compensata dalla presenza generale e indiscussa del religioso, che rendeva il
carattere divino socialmente e culturalmente evidente. Oggi la difficoltà è costituita dal contesto
ambientale secolarizzato che ha perso l’ovvietà del divino; la scienza, in cambio, mostra meglio il
carattere contingente del mondo.

4.4. La nuova concezione dell'essere e dell'agire di Dio

4.4.1. Con tutto ciò, non mi sembra che si abbia qui il punto di contatto più incisivo tra scienza e
fede. Credo che si realizzi piuttosto nel terzo dei punti enunciati: il carattere sistemico e autonomo
delle leggi che governano il funzionamento del mondo. Nei capitoli precedenti è stato segnalato
come il teologo tedesco Rudolf Bultmann, con la sua teoria della “demitizzazione», abbia insistito
con particolare forza – sino a scandalizzare – sull'importanza di questo punto. Per la cultura antica,
e all'interno di essa per il Nuovo Testamento e per la teologia classica, il nostro mondo era una
specie di scenario continuamente attraversato da interventi extra-mondani: benigni, i celesti, e
maligni, quelli infernali.
Questo schema ha dominato per secoli l'immaginario teologico, condizionando in maniera
decisiva l'interpretazione delle verità religiose fondamentali. Ricordiamo ancora una volta le parole
dello stesso Bultmann: «Non si può usare la luce elettrica e l’apparecchio radio, o usare i moderni
strumenti clinici e medici nel guarire le malattie, e nello stesso tempo credere nel mondo di spiriti e
miracoli del Nuovo Testamento».60 Oggi nemmeno i normali credenti pensano spontaneamente di
attribuire a Dio il fulmine o al demonio le malattie. Questo però rende molto seria la difficoltà di
concepire la possibilità di un'azione reale di Dio nel mondo, e non può stupire che un autore così

58
Infatti, come esiste una certa tendenza all’uso immediato di questa teoria per attaccare la religione, si dà anche una
tendenza simmetrica all’uso apologetico: «Questa teoria fu la benvenuta per le autorità religiose, perché alcuni la
interpretano come la scoperta del fiat divino. Già nel 1951 il papa Pio XII, in un discorso dinanzi all'Accademia
Pontificia delle Scienze, esprime la sua fiducia che si trattasse di una conferma del racconto della Genesi. Anche
Giovanni Paolo II si riferì a essa in termini simili in varie occasioni. Alcuni scienziati credenti l’accolsero con gioia,
come illustrato da un retorico commento dell'astrofisico nordamericano Robert Jastrow» (Fernández Rañada, Los
científicos y Dios, cit., p. 143).
59
J. Ortega y Gasset, Dios a la vista (1926), in Obras Completas, II, Madrid 19615.
60
R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, tr. it, cit. p. 110; cf. Id., Sul problema della demitizzazione, cit. pp.
1003-1012; Id., Gesù Cristo e la mitologia, cit. pp. 1017-1061.

108
moderato come John Polkinghorne affermi che «durante gli ultimi anni, nessun altro problema ha
destato tanto interesse come questo negli scritti della comunità degli studiosi dei rapporti tra scienza
e religione».61
Il difficile non è tanto riconoscere la nuova visione scientifica del mondo quanto portare a
termine la corrispondente reinterpretazione teologica. Un primo tentativo è stato il deismo: Dio è
stato pensato come il grande orologiaio o il geniale architetto che, in illo tempore, creò il mondo
come una macchina perfetta, che ora va avanti da se stessa, mentre lui rimane lassù in cielo senza
nessun tipo di presenza attiva. Una mentalità che abita ancora certi strati della coscienza collettiva,
ma che in nessun modo poteva soddisfare la coscienza religiosa di un Dio vivo e operante (questo il
senso vero della protesta di Pascal contro il “Dio dei filosofi”).
Tuttavia, l'insoddisfazione non ha portato con piena coerenza a una trasformazione radicale. C'è
stato cambiamento, ma si è fermato a metà strada, dando origine a ciò che in qualche occasione ho
chiamato deismo interventista: Dio se ne sta nel cielo, attento al mondo, ma piuttosto passivo e
agisce solo con interventi puntuali, di carattere più o meno miracoloso, mosso solitamente dalle
petizioni e dai sacrifici dei suoi fedeli o dalla raccomandazione dei santi e degli intercessori.
Solidale con tale visione è un tipo di pietà enormemente esteso, che impregna gran parte delle
devozioni e della stessa liturgia, e contamina profondamente anche la teologia.
Al contrario del deismo puro, questa visione conserva grandi valori. La teologia dovrebbe però
riconoscere con più decisione e chiarezza che tale visione risulta oggi insostenibile, dato che
converte l'azione divina in interventi di tipo puntuale, che abbassano Dio, riducendolo a un anello in
più nella lunga catena delle cause mondane. Lo mostra bene la reazione attuale contro il “dio
tappabuchi”, tanto acutamente denunciato da Dietrich Bonhoeffer nelle sue lettere dal carcere,
prima di essere impiccato dai nazisti. Ma in pratica si continuano a fare rogazioni per chiedere la
pioggia, a implorare miracoli per curare le malattie o per canonizzare i santi e, in generale, si
pretende continuamente di muovere Dio con petizioni e offerte affinché intervenga puntualmente
allo scopo di aiutare i poveri, mettere fine alla fame nel mondo o, cosa più difficile, rendere onesti e
generosi i governanti.
Tutto questo non può continuare in modo sensato, ma non è facile trovare una via d’uscita che
eviti alla teologia il dilemma di dover scegliere tra il “dio passivo” del deismo o il “dio
interventista” della pietà tradizionale.

4.4.2. Alcuni tentano una via d’uscita appoggiandosi a un'altra novità scientifica, quella
promossa dalla fisica quantica e dal suo principio d’indeterminazione. Sono fin troppo cosciente di
calpestare un terreno molto conflittuale e scivoloso; qualunque sia però la discussione scientifica al
riguardo, mi sembra un percorso completamente sbagliato cercare ivi una via da utilizzarsi
direttamente per la teologia. Usare l'indeterminismo per aprire, diciamo, luoghi neutrali in cui
situare l'azione di Dio, significherebbe, in definitiva, ritornare a una nuova versione del “dio
tappabuchi”.62
Per la stessa ragione, non mi sembra questo il miglior modo di assicurare un posto alla libertà
umana, poiché questa non è precisamente una proprietà di qualcosa di infimo ed elementare, ma
una laboriosa conquista di qualcosa di alto e complesso nel millenario processo dell'evoluzione. Né,
meno ancora, credo, con Jean Guitton e il suo “metarealismo”, che ivi si tocchi, quasi con mano,
l'evidenza del Divino.63 Ciò non impedisce, è chiaro, di constatare con soddisfazione il salutare

61
Polkinghorne, Ciencia y teología, cit., p. 12.
62
Cf. R. J. Russell - N. Murphy - A. R. Peacocke (edd.), Chaos and Complexity: Scientific Perspectives on Divine
Action, California 1995, che riflette il dialogo teologico-scientifico organizzato dal The Center for Theology and
Natural Science de Berkeley e dall’Osservatorio Vaticano. Se ne può vedere un breve riassunto in M. García Doncel,
Caos, complejidad y acción divina, in «Saber Leer», 103 (1997), pp. 10-11, che commenta: «Questo rifiuto
dell’intervento di Dio nel caos determinista domina fra gli autori del libro» (p. 10).
63
A questo equivoco punta con equilibrio ed esito il lavoro fatto insieme, a partire dalla teologia e dalla scienza, di V.
Pérez Prieto e J. M. González Ortega, Deus e a ciencia: un debate sempre actual, in «Encrucillada», 88/18 (1994), pp.

109
impatto che l'indeterminazione ha comportato nella omogeneità della natura, scongiurando il
“demone di Laplace”.64 Si è così rimosso il chiuso determinismo di certa mentalità scientifica e si è
favorita una «nuova alleanza»65, più aperta, flessibile e ricettiva per tutto ciò che è elevato e
personale; anche per la dimensione religiosa.
Nutro però la convinzione che la vera via di soluzione passi da un cambiamento più radicale: la
riscoperta del vero senso della contingenza e della creazione.66 Proprio perché il mondo mostra oggi
più che mai la sua autonomia e consistenza, esso fa vedere che la creazione non è un “fare” che si
limiti a trasformare qualcosa che già esiste. La creatio ex nihilo appare ora in tutta la sua radicalità
come qualcosa di assolutamente diverso e di altro ordine. Dio, precisamente perché “fa essere” il
mondo, non è qualcosa di mondano; e la sua azione non si riduce a un mero impulso iniziale che
cessa una volta attuato e che, tutt’al più, riappare in interventi puntuali. Al contrario, la sua azione
opera come creatio continua, come attività perenne che sostenta incessantemente la creatura e
continuamente la promuove.
In questa direzione si orientano la Filosofia e la Teologia del Processo, iniziate da Whitehead e
di grande vitalità nell'attuale pensiero anglosassone. Si tratta di una visione panenteista (dal greco
pan en theò: tutto in Dio), nella quale la trascendenza divina non consiste in una separazione dal
mondo, ma in una presenza intima, fondante e sempre attiva, che include tutto il mondo in se stessa
senza assorbirlo né lasciarsi da esso assorbire. Una presenza non concomitante e concorrente né
situata allo stesso livello, ma “ortogonale” alla realtà empirica, per usare un’espressione di Xavier
Zubiri;67 essa non l’annulla né la sostituisce, ma la fa essere e la promuove, rispettando le leggi
proprie di ogni creatura. Nel mondo fisico sostiene i suoi processi; in quello umano, suscita e
appoggia la libertà. In questo senso, rispetto al primo (quello fisico), Whitehead poté bellamente
dire che Dio è «il poeta del mondo»;68 e, rispetto al secondo, che è «il grande compagno, colui che
soffre con noi e ci comprende».69
Visione, nonostante tutto, più tradizionale di quanto sembri e che, per esempio, appare
magnificamente espressa in un passo tanto classico ed efficace come la «contemplazione per
ottenere amore» di Ignazio di Loyola:

Il secondo [punto di meditazione]. Osservare come Dio abita nelle creature; negli elementi dando essere, nelle piante
facendo vegetare, negli animali fornendoli di sensi, negli uomini dando l’intendere; e così in me dandomi essere, vita,
sensi, e facendomi intendere.70

Ciò che manca è rendere tale contemplazione significativa, valida ed efficace nel nuovo contesto.
Non si può, evidentemente, tentare di farlo qui, ma forse conviene osservare che così si capisce
meglio l'insistenza dei capitoli precedenti sulla necessità di ripensare e riformulare a fondo temi

217-241. Colgo l’occasione per ringraziare i due autori amici per i dati e la bibliografia che mi hanno fornito, come per
le loro intelligenti osservazioni.
64
Così spiega lui stesso la figura di questo “demone calcolatore”: «...dobbiamo considerare lo stato attuale dell'universo
come l'effetto del suo stato precedente e come la causa di quello che lo seguirà. Una intelligenza che in un momento
determinato conoscesse tutte le forze che animano la natura, come la rispettiva situazione degli esseri che la
compongono, se inoltre fosse sufficientemente vasta da sottoporre ad analisi tali dati, potrebbe includere in una sola
formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli dell'atomo più leggero; niente le risulterebbe incerto, e
tanto il futuro quanto il passato sarebbero presenti ai suoi occhi» (P. S. Laplace, Essai philosophique sur les
probabilités, Paris 1921, p. 3 [tr. it., Saggio filosofico sulle probabilità, in Opere, UTET, Torino 1967, p. 243].
65
Cf. I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza, in I. Prigogine (ed.), La nuova allenaza. Uomo e natura in una
scienza unificata, tr. it. Longanesi, Milano 1979, pp. 251-290.
66
Un tentativo di questo genere è nella mia opera Recuperar la creación, cit.
67
X. Zubiri, Trascendencia y Física, in Gran Enciclopedia del Mundo (Durvan), 19 (1964), pp. 419-424, a p. 422. Si vedano
anche le sue considerazioni in El problema teologal del hombre: Cristianismo, Madrid 1997, pp. 149-231.
68
A. N. Whitehead, Proceso y realidad, Buenos Aires 1956, pp. 464-465. [si se quiere dar la trad. italiana, estas
citas están al final del libro]
69
Ibid., p. 471.
70
Obras Completas de san Ignacio de Loyola, Madrid 1963, p. 244 [tr. it., Ignazio di Loyola, Gli scritti, ed. Apostolato
della Preghiera, Roma 2007, p. 273].

110
tanto delicati come quello dei miracoli o della preghiera di petizione. So che portare a termine
questo compito va ben oltre ciò che può direttamente suggerire il pensiero scientifico. Una teologia,
però, sensibile al suo tempo e consapevole delle nuove sfide, può far sì che nell’humus fecondo
dell'esperienza religiosa, pensata con rigore e coerenza, possano fruttificare in questa direzione le
sollecitazioni della scienza attuale.

CONCLUSIONE: SIAMO “GLI ULTIMI CRISTIANI”... PREMODERNI

Saremo realmente gli ultimi cristiani? Che ci si ponga questa domanda non dovrebbe, in linea di
principio, spaventare. In verità si tratta di una domanda perenne: in un modo o nell'altro, sempre
l'umanità, combattuta tra l’ansia/presentimento di piena felicità e la concreta situazione più o meno
sfortunata, si è posta interrogativi simili. Per questo tutte le religioni parlano dello stato di “caduta”
o affermano che viviamo nell'ultima fase discendente della storia, come quella del Kali Yuga indù o
quella dei sette soli mesoamericani...
Ciò che ci deve maggiormante preoccupare non è che ci si ponga tale domanda in senso
generale, ma che essa riguardi in particolare il cristianesimo e che, in qualche modo, sia viva nella
coscienza diffusa. Questo può indicare – e credo che indichi – una situazione grave, un problema
urgente. Per questo è necessario affrontare la domanda con somma attenzione. Cosa, naturalmente,
molto più facile da enunciare che da realizzare. Lo mostra l’impostazione stessa della rivista che la
pone1, la quale, modestamente, chiede solo impressioni globali, intuizioni germinali. Unicamente a
ciò aspirano queste righe.
Il presupposto di fondo che le sorregge è lo stesso che anima tutte le pagine di questo libro: la
coscienza che la crisi nasce dal cambiamento radicale prodotto dall’avvento della Modernità. Solo
prendendolo sul serio e, pertanto, trasformando quanto sia necessario trasformare, risulta possibile
affrontarla. La trasformazione deve realizzarsi necessariamente su due fronti: quello del pensiero e
quello dell'istituzione, quello della teologia e quello del governo ecclesiale. Non sono tutto, poiché
al di sotto, alla radice, ci sono l'esperienza e la vita; ma è chiaro che esse sono trasformazioni
indispensabili.

1. Rigore intellettuale: ripensare la fede

Infranto con l'avvento della Modernità l'antico paradigma culturale – oggettivista, astorico,
presecolare2 – con cui erano inevitabilmente solidali sia l'espressione sia l'istituzionalizzazione della
fede, il cristianesimo ha bisogno di ritradursi nel nuovo quadro. Ritradursi non è “vendersi” alla
moda né “abdicare” al proprio essere; tutto il contrario: significa esercitare il diritto primario e il
dovere fondamentale di ogni vita che è quello di conservarsi mediante la trasformazione nel tempo
e, nel caso della vita umana, mediante la creazione di nuova storia. L’altro atteggiamento –
aggrapparsi alle forme del passato – sembra indicare continuità, ma significa mummificazione;
sembra assicurare la vita, ma equivale a vendersi alla morte. Siamo stati messi sull’avviso fin


Per Mesoamerica s’intende una regione di culture indigene precolombiane molto avanzate, che si estende dalla
capitale del Messico sino all’America Centrale di Honduras e Nicaragua [n.d.t.].
1
Queste riflessioni rispondono, in effetti, a una domanda della rivista «Qüestions de Vida Cristiana», n. 190 (1998). Lì
(pp. 22-28), insieme ad altre risposte, si può vedere, in catalano, il testo base di queste riflessioni.
2
Tra le innumerevoli descrizioni e diagnosi, si veda quella eccellente di M. Corbí, Los rasgos de una religiosidad
viable en la nuevas condiciones culturales de las sociedades industriales, nell’opera collettiva Religiones de la tierra y
sacralidad del pobre. Aportación al diálogo interreligioso, Santander 1998, pp. 65-100.

111
dall’inizio: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa
mia, la troverà» (Mt 16,25).
Per questo bisogna fare molta attenzione con le vecchie abitudini, che si celano come
presupposti inconsci e come credenze incontrollate. Nel bel mezzo dello sforzo rinnovatore, esse
trascinano dietro a sé costellazioni di idee, ipotesi e intenzioni che lo inficiano alla radice. Niente di
meglio, per spiegarmi, che un esempio, tratto dall'articolo di J.-M. R. Tillard, che gli editori della
rivista hanno dato come riferimento.
L’articolo si apre con una citazione di Yossel Rakover che, rivolgendosi a Dio nei duri tempi del
nazismo, gli dice tra l’altro: «Hai fatto di tutto perché non credessi più in te! Ma muoio esattamente
come sono vissuto: in una fede incrollabile in te»; «è il tempo in cui l'Onnipotente distoglie lo
sguardo da coloro che lo implorano». Tillard non solo ripete la citazione nel testo, ma la fa propria a
chiusura della sua, peraltro, lucida ed eccellente riflessione: «Io crederò sempre in te, anche
malgrado te».3
Ebbene, no!
Rispettiamo i sentimenti che soggiacciono all'espressione, ammiriamo il coraggio soggettivo di
questa fede, ma riteniamo con franchezza che teo-logicamente è uno sproposito e che
religiosamente sfiora la bestemmia. Se fosse così, una persona sensata e dignitosa non potrebbe
credere. Un dio che “distolga lo sguardo” e non abbia compassione, quando tutto il mondo trema
per l'orrore, non merita di essere creduto; un dio che “faccia” tanto male (si ricordi: «Hai fatto di
tutto perché non credessi più in te») o che non lo eviti – se, come si suppone, ciò fosse possibile –
non merita di essere adorato.
Non c’è nulla di più pericoloso – Hegel lo disse energicamente nel proemio alla sua
Fenomenologia – di un discorso edificante fuori luogo. Si risparmia il lavoro del concetto per
rifugiarsi nel sentimento o nella retorica. Si ripetono frasi teologiche che sembrano belle, che
ebbero senso o almeno risultavano tollerabili in un altro contesto, e che possono perfino trovare
appoggio in una lettura fondamentalista della Scrittura, ma che oggi, per una coscienza uscita
irreversibilmente dall'ambiente di cristianità, sono espedienti suicidi e costituiscono semina
d’inevitabile ateismo.
Ho accennato a un problema molto concreto, quello del male. Un problema che si è acutizzato
all'estremo nel contesto moderno, fino a diventare per molti la “roccia dell'ateismo”, come ha detto
G. Büchner. Nonostante questo, invece di trasformare radicalmente il modo di affrontarlo, si
continua a interpretarlo con le categorie di una visione del mondo sacrale e “mitologica”, in cui il
divino avvolgeva e permeava tutto, interferendo continuamente nelle leggi del cosmo e nelle
dinamiche della libertà. Allora era inevitabile pensare così; ma potevano assorbire lo scandalo di
questo dio che mandava o permetteva il male perché la cultura non metteva in discussione la realtà
del Divino né aveva collocato al suo centro l'affermazione dell'autonomia del creato e delle sue
leggi. Ricorrere oggi al “mistero” per coprire la contraddizione di un “dio” che, avendone la
possibilità, non vuole né può eliminare il male, è mettere la testa nella sabbia e dare in anticipo
ragione alla tesi ateistica.
Non si è ancora capito – ripetiamolo per l’ennesima e, in questo libro, ultima volta – che solo
mediante una trasformazione delle categorie teologiche, che prenda sul serio la nuova e – su questo
punto – irreversibile visione secolare del mondo, si può affrontare con successo il problema. Un Dio
che guarda con infinito rispetto l'autonomia delle sue creature e la cui azione consiste nel
confermarle con amore incondizionato, «non distoglie il suo sguardo» dinanzi al dolore, né cade
nella mostruosità d’inviarlo, «facendo di tutto perché non crediamo». Tutto il contrario: lotta al
nostro fianco contro di esso e ci sostiene con la speranza che, infranti i limiti della storia, Egli finirà

3
J.-M. R. Tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del duemila, Queriniana, Brescia 1999, p. 35. Si ricordi
che anche J. P. Jossua ricorrerà a questo stesso esempio: cf. supra, cap. I, nota 66. Contra lo que muchos suponían al
inicio, Yossel Rakover es un personaje de novela, no un rabino real: Zvi Kolitz, Yossel Rakover Speaks to God:
Holocaust Challenges to Religious Faith”, Ktav Pub Inc 1995).

112
per vincerlo, riscattando tutte le vittime. Cosa che, del resto, emerge con forza da una lettura
aggiornata e non fondamentalista della croce e della risurrezione di Gesù.
Questo però è solo un esempio simbolico delle tante questioni che ricalcano lo stesso schema.
Non solo questioni laterali o secondarie, ma fondamentali, che toccano la rivelazione, la cristologia,
i novissimi e la preghiera, il peccato e i rapporti tra religione e morale... Basti pensare alla
rivelazione come un “dettato” fatto solo a pochi; o all'inferno come “punizione” eterna; o alla
preghiera come petizione continua a qualcuno che risulta non “ascoltare” né “avere pietà” ecc.
O le verità profonde che sono latenti in tali concezoni si ripensano e si riesprimono in modo da
risultare intelligibili e sperimentabili nella nuova situazione culturale, oppure esse andranno
inevitabilmente a finire nel baule dei ricordi, buoni solo per la nostalgia dei nonni e per le burle dei
nipoti. Dall’esterno del cristianesimo, molti già pensano in questo modo, confondendo la forma
espressiva con la sostanza della cosa. Dall’interno, sovrabbondano coloro che s’impegnano a
confermare i primi nel loro parere. Che un clima dottrinale di taglio restaurativo e anche molta
teologia, disposta solamente ad aggiornarsi a metà, continuino a resistere a questo ri-pensamento,
risulta difficilmente comprensibile.

2. Coraggio del cambiamento: rinnovare l'istituzione

Non si tratta, naturalmente, solo di idee. La religione comprende la vita intera e si cristallizza
necessariamente in istituzioni che, anch’esse, si configurano con le risorse che offre la cultura di
ogni epoca. Il cristianesimo, con la sua storia bimillenaria, si presenta rivestito dei pesanti panni di
una rigida istituzionalizzazione. Eredità religiosa ebraica, mentalità politica romano-ellenistica, stile
feudale del medioevo e anche influsso assolutista dell'Ancien Régime: tutto ha lasciato la sua
impronta. Il che era in qualche modo inevitabile; ed in ogni caso è comprensibile. Proprio per
questo, però, ha bisogno di revisione.
In realtà, si tratta della stessa struttura di fondo del paragrafo precedente, applicata però ora alla
secolarizzazione del potere. La frase di san Paolo, «non c'è autorità se non da Dio» (Rm 13,1) –
riferita direttamente alle autorità civili! – riuscì a “secolarizzarsi” per quanto concerne il potere
politico, innescando il processo di democratizzazione: esso viene da Dio, ma attraverso il popolo.
Suárez, il grande e dimenticato Suárez, seppe farlo energicamente valere di fronte alle pretese di
Enrico VIII d'Inghilterra.
Non si ebbe però la stessa cosa in ambito religioso, nonostante che a tal fine il cristianesimo
contasse sull'avvertimento esplicito del Fondatore: «Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare
grande tra voi sarà vostro servitore» (Mc 10,43; cf. Mc 10,42-45; Mt 20,25-28; Lc 22,25-27). È
chiaro che, anche qui, niente si oppone a sostenere che l'autorità nella Chiesa viene sì da Dio, ma
attraverso la comunità. In fondo, il cambiamento di prospettiva è già implicito nella concezione
ecclesiologica del Vaticano II, che pone la comunità – colmata di grazia da Dio – alla base di tutto,
e le altre istanze come funzioni al suo interno.
Se questo cambiamento non si realizza, la Chiesa risulta un’istituzione anacronistica, non
assimilabile da parte (del meglio) della nuova sensibilità democratica, così lentamente e duramente
conquistata. E non solo diventa “incredibile” dal di fuori, ma si trova con gravissimi problemi
all’interno. Primo, perché in un mondo in cambiamento, intimamente lavorato da una cultura
dell'innovazione, una Chiesa non democratizzata risulta incapace di rinnovarsi a fondo e, pertanto,
di rendere attuale un’esperienza e un messaggio che non sono nulla se non appaiono come
manifestazione del Dio vivo. «Una chiesa che non serve, non serve a nulla», è stata opportunamente
intitolata la traduzione spagnola di un coraggioso libro scritto da un vescovo.4 Secondo, perché la
mancanza di democratizzazione ostacola la normale espansione della vita ecclesiale. Segnalo due
punti.

4
J. Gaillot, Una iglesia que no sirve, no sirve para nada, Santander 1990.

113
In primo luogo, la “demonizzazione della critica”. In un sistema teocraticamente autoritario, il
necessario elemento profetico – e pertanto critico – di ogni religione che voglia rimanere viva,
appare necessariamente come disubbidienza o aggressione. Il genuino impegno, che non è mai stato
né ripetizione morta del passato né pura sottomissione alle istituzioni – si pensi a Gesù di Nazaret: il
Grande Inquisitore di Dostoevskij l’ha compreso molto bene – viene interpretato come ribellione e
minaccia. Con un risultato che aggrava la situazione. La critica messa a tacere all’interno, dove era
forza trasformatrice mossa da amore realistico, emigra all’esterno, dove si trasforma in attacco iroso
e discredito per la fede. Sovrabbondano gli esempi dolorosi in questi difficili tempi di crisi.
In secondo luogo, l’impoverimento e la monotonia della vita della Chiesa, sottoposta a
un’”ipoteca gerarchica” che assorbe in sé tutte le sue funzioni. Nel secolo XIX, Newman – il
sensibile, il fine, il censurato Newman – disse che «una Chiesa senza laici apparirebbe sciocca».5
Ma lo apparirà ancora di più se si manterrà come Chiesa senza donne pienamente riconosciute e
senza teologi che si esprimano liberamente ed esercitino con efficacia il loro specifico e
insostituibile lavoro di far avanzare l'intellectus fidei, cioè la comprensione aperta e aggiornata
dell'esperienza credente.
Se a questo si aggiunge che le cariche gerarchiche sono vitalizie e non elettive, risulta molto
difficile sottrarsi all'impressione che la barca di Pietro si sia trasformata in una pesante chiatta,
incapace di muoversi nel fiume della storia. E, naturalmente, solo così si capisce lo stile di certe
manifestazioni ufficiali che sconcertano i propri fedeli e gli estranei. Vengono da luoghi che hanno
perso il contatto effettivo e immediato con la vita reale. È questa forse l’impressione che per lo più
produce un’istituzione che sta mancando il proprio futuro.
Le espressioni che uso sono dure, ma sono nate dall’interno: dalla scomoda responsabilità di chi
non vuole reprimere ciò che ritiene sia il suo necessario – e forse anche sbagliato; così fosse! –
contributo alla comune missione. E, naturalmente, non pretendono in alcun modo – con che diritto,
del resto? – di trasformarsi in un giudizio sulle intenzioni soggettive, né, ancor meno, di avallare
l’idea che tutto nel governo ecclesiale funzioni così. Si tratta di dinamismi “oggettivi”, che
funzionano in modo strutturale e finiscono per imporre uno stile.

3. Nonostante tutto, la speranza

Per fortuna, e “grazie a Dio”, questo non è tutto. La situazione è molto dura, certamente, e
mostra il fallimento della reazione che, nel complesso, ha prevalso dinanzi alla crisi: volgersi al
passato e chiudersi all’interno, coltivando il “piccolo gregge”. La Chiesa però è molto di più, e c'è
in essa un ricco pluralismo di vita e d’iniziative. La crisi stessa, con le sue manchevolezze, ha anche
effetti positivi. Uno soprattutto: va imponendo alla coscienza generale la vera differenza teologica.
Solo Dio è Dio; tutto il resto, Chiesa compresa, è unicamente segno – “sacramento” – che rimanda a
Lui, solamente ed esclusivamente a Lui. Né la Chiesa è il Regno né la gerarchia è la Chiesa,
sebbene tutto abbia la sua irrinunciabile funzione.
Non possono esserci speranze astratte, di facile soprannaturalismo, come allorché si dice che Dio
sistemerà le cose, che Egli non può permettere che la Chiesa fallisca. In questo il Nuovo
Testamento è stato più audace e realista. Luca ha osato la domanda radicale: «Ma il Figlio
dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Tuttavia, è certamente possibile la
speranza concreta, l'attesa attiva e fiduciosa, e perfino il realismo storico.
Perché, storicamente, non siamo dinanzi ad un caso unico. Risulta difficile calcolare se nel
passato c’è stata qualche crisi oggettivamente più grave. Ciò di cui non si può dubitare è che una
sensazione simile si è prodotta molte volte. Inoltre, non sono mancate previsioni di una fine
“imminente” del cristianesimo, che fortunatamente non è mai arrivata. Il Vaticano II, il cui
“ammortizzamento” ha causato negli ultimi tempi grave delusione in non pochi, costituisce

5
M. Trevor, John H. Newman. Crónica de un amor a la verdad, Salamanca 1989, p. 205.

114
comunque un segno positivo. Mostra, infatti, come la Chiesa conservi la sua capacità di reagire
perfino in situazioni che, anche viste dal presente, avrebbero fatto sembrare improbabile, se non
impossibile, tale reazione.
Soprattutto, continuano e continueranno sempre ad esserci le due radici da cui germoglia
perennemente – “benché nella notte” – la fonte dell'esperienza religiosa. Antropologicamente, come
dice bene Tillard, «ci saranno sempre cuori umani alla ricerca di senso», aperti alla grande domanda
kantiana: «Che cosa mi è lecito sperare?». E, soprattutto, teologicamente “sappiamo” che Dio è
sempre lì, gridando – secondo la magnifica espressione di san Giovanni della Croce – «con le mille
voci» del suo amore, facendosi sentire nel profondo e attirando sempre verso di sé il cuore
dell'umanità.
Nella misura in cui la nostra esperienza religiosa è riuscita a scoprire che questa Presenza è la
realtà che ci sostiene e promuove, abbiamo il diritto di nutrire la convinzione che, in un modo o
nell'altro, essa continuerà a manifestarsi nella storia, suscitando nuove forme di religione o
promuovendo il rinnovamento e il dialogo tra quelle esistenti. E nella misura in cui la nostra
esperienza cristiana sperimenta che in Gesù di Nazaret ci è stata manifestata un’articolazione di tale
Presenza che colma le nostre aspettative, al punto di essere disposti a vendere tutto per viverla,
coltivarla e comunicarla, potremo essere sicuri che essa continuerà a germogliare nella comunità,
rompendo abitudini, promovendo novità, aprendo verso un universalismo sempre rinnovato.
È accaduto all'inizio e non c’è motivo che non accada ora. Una speranza realistica non prenderà
queste convinzioni come un cuscino su cui posare pigramente la testa. Ma certamente essa è
pienamente legittimata ad appoggiarsi su di esse e a confidare nel futuro. Un futuro che ha imparato
l’umiltà dalla propria storia e che, naturalmente, non potrà più essere esclusivista, ma si sentirà
incluso nel dialogo con le altre ricerche – con le altre religioni e anche con gli altri sforzi culturali –
sapendo che accogliere i loro contributi, le loro critiche e le loro sfide non allontana dalla propria
essenza, ma l'arricchisce, nello stesso tempo che essa arricchisce gli altri.
Dall'umile esperienza della propria fede e dall'onesto riconoscimento degli errori della propria
Chiesa, anche un cristiano d’oggi può dire fiducioso: «Crederò sempre in Te». Ma senza mai cadere
nella pericolosa retorica del «nonostante Te». Al contrario, proclamando di nuovo l'umanissima e
realistica sicurezza: «Grazie a Te, spero di credere sempre in Te».

115
LA RIVELAZIONE6

Dopo la tesi in teologia, il libro sulla rivelazione è stato senza dubbio il lavoro cui ho
dedicato più tempo e più sforzo7. È anche quello che mi ha arrecato più critiche e dispiaceri.
Nonostante ciò lo considero il mio migliore e più creativo contributo speculativo al rinnovamento di
una teologia davvero attualizzata. Due fattori sono confluiti nel mio interesse per il tema: una
iniziale preoccupazione teorica e, sempre di più, una profonda preoccupazione religiosa.

0. Inquadramento biografico della riflessione

Studente di teologia, mi avevano impressionato alcune parole di Servapali Radhakrishnan


circa il contrasto – che egli pensava insuperabile – tra il carattere "autoaffermativo" della religiosità
indù, basato sull'esperienza, e il carattere esteriore della credenza cristiana, basato sull’«adesione
meccanica all'autorità»8. Uscendo allora dai miei fervori filosofici e non essendo ancora entrato
nella peculiare e intima razionalità della teologia, sentii questo come una sfida che, se fosse stata
"reale", non poteva essere "vera": anche la fede cristiana doveva poter dare ragione di sé stessa.
L'idea della rivelazione come "maieutica" mi venne in aiuto. Mi mise in guardia, durante
l'elaborazione della tesi a Roma, l'accenno di Auguste Sabatier, un teologo protestante francese,
all'episodio della Samaritana: «siamo venuti perché tu ci hai chiamato, ma ora siamo noi ad
ascoltarlo»; e influì sicuramente lo studio di Karl Rahner, con il suo rapporto tra la rivelazione
trascendentale e quella categoriale. Più tardi, elaborata già la categoria, mi confermarono di essere
sulla buona strada alcune parole critiche di un noto e acuto teologo (che per questo finì per
respingere la fede nella rivelazione): «io non posso credere solo perché Isaia mi dice che Dio glielo
ha detto, però a me non dice niente». Come chiarirò, la "maieutica" permette di abbinare ciò che
sembrava inconciliabile: la parola di Isaia è necessaria, ma Dio la dice anche a me.
Il libro sulla rivelazione nacque dal proposito di dare fondamento a questa intuizione. Ma a
redazione avviata c’è stata la confluenza del secondo fattore: la preoccupazione religiosa, che allora
avevo già abbozzato in Ricuperare la salvezza9. In realtà, come allora scrissi nell'Introduzione, la
scoperta di Dio come salvezza – solo come salvezza – finì per prendere la supremazia: la difficoltà,
le dolorose oscurità e gli ingiusti, in apparenza, limiti della rivelazione divina nella storia non

6
Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo in appendice questo testo sulla rivelazione, proposto come
conferenza a Torino il 7 maggio 2012 al “Circolo dei lettori”, su invito del Centro culturale San Lorenzo. Il testo, che
costituisce il capitolo di un libro che l’autore va approntando, è finora inedito. Pur riprendendo alcune considerazioni
già presenti nei capitoli precedenti, esso ci offre una presentazione sintetica, organica e aggiornata della sua concezione
della rivelazione, che costituisce effettivamente il nucleo e il fulcro originario della sua proposta teologica complessiva.
7
Si tratta dell’opera, più volte sopra citata: A revelación de Dios na realización do home, Vigo 1985 (edizione originale
galiziana); tr. castigliana La revelación de Dios en la realización del hombre, Madrid 1987 [tr. it. dall’or. galiziano, La
rivelazione di Dio nella realizzazione dell’uomo, Borla, Roma 1993]. Seconda edizione rivista e ampliata, Repensar la
revelación. La revelación divina en la realización humana, Trotta, Madrid 2008 [n. d. t.].
8
«L'esperienza religiosa è di carattere autoaffermativo. È svatassiddha. Porta le sue proprie credenziali. [...] Sfortunata
eredità del corso che la teologia cristiana ha seguito in Europa è il fatto che la fede sia venuta a indicare un'adesione
meccanica all'autorità. Se prendiamo la fede nel vero significato di fiducia o convinzione spirituale, la religione si
trasforma in fede o intuizione. [...] Le verità rivelate nei veda sono adatte a essere reesperimentate secondo alcune
determinate condizioni. Possiamo distinguere tra il genuino e lo spurio nell'esperienza religiosa, non solo per mezzo
della logica, ma anche attraverso la vita. Facendo esperienze con diverse concezioni religiose e rapportandole col resto
della nostra vita, possiamo differenziare il fondato dall’infondato» (S. Radhakrishnan, La concepción hindú de la vida,
Madrid 1969, pp. 16-18). Ed it.??
9
Cfr. il già sopra citato Recuperar la salvación. Por una interpretación liberadora de la experiencia cristiana,
Santander 19952 [n. d. t.].

116
potevano essere dovute a un Dio che non pensa altro che a manifestarci il suo amore e a
comunicarci la sua salvezza.
Così nacque quella specie di principio della "massima rivelazione possibile" che –
all’interno della fede e facendo attenzione a Dio – mi sembra tanto evidente come un assioma: «[la]
convinzione che Dio si rivela sempre, quanto è “possibile”, ovunque, a tutte le persone e in tutte le
culture, nella generosità illimitata di un amore sempre in atto che si vuole dare pienamente. Così
che i limiti della rivelazione effettiva nascono solamente dalla incapacità e dal peccato umani che
frenano, deformano o impediscono di riconoscere la manifestazione divina. È l'accoglienza umana
quella che fa tanto oscura e drammatica la storia della rivelazione, sia nelle religioni dell'umanità
sia nel peculiare cammino della Bibbia»10.
Non, dunque, "silenzio di Dio", né, ancora meno, taccagneria; bensì "lotta amorosa" della
sua decisione salvifica contro le nostre incapacità e resistenze. Il libro Ricuperare la creazione mi
aiutò più tardi a dare fondamento con più energia al realismo e all'oggettività di questa concezione
che cerco di esporre brevemente.

1. La concezione comune della rivelazione

La parola rivelazione rinvia a “scoprire”, togliere un velo per manifestare qualcosa di


nascosto o "rivelare" un segreto. Nel mondo culturale dove si andò profilando il concetto, era
normale interpretare la rivelazione divina come un influsso miracoloso, una "ispirazione" sopra-
naturale che Dio faceva a determinate persone. In realtà, la Bibbia è piena di racconti circa visioni e
audizioni straordinarie, dove, per esempio, il profeta riferisce della "parola" o messaggio che gli
arriva in modo straordinario, a volte con violenza irresistibile: «Ruggisce il leone: chi non tremerà?
Il Signore Dio ha parlato: chi non profeterà?» (Am 3,8). La sintesi più chiara e ripetuta è: «Così
dice il Signore» o «Parola del Signore».
Le formulazioni teologiche della Patristica, influenzate anche dall’"entusiasmo" (essere
posseduti dal dio) platonico, raccolgono la visione biblica e parlano di Dio che ispira la Scrittura
come chi parla direttamente in essa e, in definitiva, la "detta". Il profeta e lo scrittore sacro sono
così "strumenti" – plettro o lira, bocca o mano – di Dio quale "autore della Scrittura”. Rahner,
esagerando un po', arriva a dire che questa visione «è interpretata nel volgere del tempo in modo
sempre di più chiaro, come se Dio fosse il vero e proprio autore letterario, 'autore' di una 'lettera'
scritta agli uomini dal cielo»11. Lo stesso concilio di Trento parlerà in maniera esplicita di Dio come
«autore di entrambi i testamenti»; e delle tradizioni come «dettate dallo Spirito Santo» (DS 1501).
Di conseguenza, era evidente che in un libro dettato da Dio – «che non può ingannarsi né
ingannare» – non poteva esserci il minimo difetto e che in esso, di qualsiasi cosa parlasse, tutto era
verità incontrovertibile. Si capisce allora che non erano un capriccio le prime reazioni di scandalo e
protesta, quando Galileo – contro ciò che espressamente dicevano il libro di Giosuè e alcuni Salmi –
affermò pubblicamente che non era il sole a muoversi attorno alla terra, bensì il contrario. La
reazione era obbligata e sincera, poiché tra le affermazioni di Galileo e la "parola di Dio" sarebbe
stato letteralmente blasfemo optare per le prime. Ma qui sta il punto: lo sarebbe stato, se – e
solamente se – era corretta la maniera d’interpretare la rivelazione nella Bibbia.
Galileo aveva già intuito che quella interpretazione non lo era: «La Bibbia non dice come va
il cielo, bensì come si va al cielo». Egli argomentava citando il cardinale Baronio che a sua volta si
appoggiava a sant’Agostino. E il cardinale Bellarmino, sempre acuto, scriveva a un amico: se
esistesse una prova di ciò che afferma Galileo, «allora dovremmo procedere con grande

10
Prendo la citazione dalla nuova edizione della traduzione castigliana: Repensar la revelación. La revelación divina
en la realización humana, Madrid 2008, p. 21 [tr. it. cit., p. 14].
11
K. Rahner, Inspiración, in Conceptos Fundamentales de la Teología II, Madrid 21979, 781-790. Ed it.?? [Se trata de
un diccionario en 4 tomos editado por H. Fries: no sé si lo hay en italiano; supongo que sí]

117
circospezione nello spiegare passi delle Scritture che sembrano esprimere il contrario, e ammettere
che non li capiamo [corsivo mio], prima di dichiarare che è falsa un'opinione che è stata provata»12.
Sagge parole che, se fossero state prese sul serio, avrebbero risparmiato molti dispiaceri... e
molti discrediti. Conservano ancora piena attualità. Perché è vero che si è progredito molto: nessuno
– all’infuori di eccezioni residuali, benché a volte rumorose – si scandalizza della Bibbia che parla
del mondo creato in sette giorni o di Mosè che non può essere l'autore del Pentateuco (che narra la
sua morte). Il Vaticano II avvertì solennemente della necessità di una interpretazione critica che
tenga conto dei generi letterari e di ciò che realmente volevano dire gli autori. E non finisce d’essere
ammirevole la fioritura di un'esegesi che ha osato mettere in discussione la lettera dei testi sacri
della propria religione, cosa che, secondo Albert Schweitzer, «rappresenta ciò che di più poderoso
abbia mai osato e realizzato la riflessione religiosa»13. Tuttavia, pur essendo tutto questo vero, il
problema è lontano dall’essere risolto.
Risolte le prime difficoltà, ad esempio riconoscendo che la Bibbia non "parla" di scienza o
che, secondo un uso antico, molti libri, compresi gli stessi Vangeli, non furono scritti dagli autori
che portano il loro nome, ne rimangono altre molto più profonde e sottili.
Una volta allertata la coscienza critica, risulta evidente che non possono considerarsi come
"dettati" da Dio ordini come questo: «Il Signore disse a Mosè: “Prendi tutti i capi del popolo e fa’
appendere al palo costoro, davanti al Signore, in faccia al sole, e si allontanerà l'ira ardente del
Signore da Israele”» (Nm 25,4); per non parlare del herem o mandato di sterminio totale delle città
vinte. Ci sono poi i problemi delle numerose "copiature" di testi di altre religioni, come il racconto
del diluvio, in gran parte coincidente col poema di Gilgamesh (forse migliaia di anni anteriore alla
Bibbia), diversi inni e salmi (tra essi il magnifico Sal 104, parallelo all’Inno al sole, di Akenaton),
buona parte della Sapienza…, al punto che molti studiosi del secolo XIX persero la fede dinanzi
alla scoperta delle somiglianze o coincidenze con la grande letteratura religiosa del Medio Oriente
appena scoperta. Qualcosa forse di ancora più grave sono le numerose contraddizioni nella lettera di
molti testi (si pensi anche solo che secondo Luca il ritorno da Betlemme a Nazaret di Gesù bambino
con i suoi genitori sarebbe stato ritardato di circa un mese, fino a dopo la purificazione nel Tempio
(Lc 2,22); ma secondo Matteo poterono passare addirittura anni, fino alla morte di Erode (Mt 2,19-
23). Andando ancora più a fondo, ricordiamo l'esistenza di teologie diverse all’interno della Bibbia,
perfino in temi così centrali come il modo d’interpretare da parte dei Vangeli aspetti decisivi del
mistero di Cristo.
Mettendo insieme queste ragioni, affiora la domanda fondamentale: se la rivelazione fosse
come un dettato miracoloso, tutto risulta incomprensibile. Perché la logica del miracolo non ha
limiti: ciò che Dio rivela a Isaia, potrebbe rivelarlo egualmente a chiunque dei suoi vicini, o a tutti i
vicini, e a tutta la nazione…, e a tutta l’umanità. Se lo rivela nel secolo VIII prima di Cristo,
avrebbe potuto rivelarlo nel secolo X, e nel XV…, e nel Paleolitico Inferiore. Se tutto questo fosse
possibile, trattandosi come si tratta di verità fondamentali per il senso della vita e per la salvezza
umana, invece che nel Dio che «è amore» (1Gv 4,8.16) e vuole che «tutti gli uomini [“persone”,
preferisce l’autore] siano salvati» (1Tim 2,4), staremmo credendo in un essere meschino, favoritista
e, in definitiva, crudele e inaccettabile. Più ancora: come mai nemmeno ora si rivela a tutti e con
piena chiarezza, risparmiando la dura oscurità che porta oggi tanti milioni di persone all'ateismo?
Nessun padre o madre normali agirebbero così con i loro figli.
Detto con questa crudezza, nessuna persona credente accetterebbe una simile conseguenza.
Ma sono molte quelle che – dicendolo o no in maniera esplicita – continuano a mantenere il
12
Testo originale completo: «Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la
terra nel 3° cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisognerà andar con molta
consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso
quello che si dimostra» (Lettera al rev.do P. Paolo A. Foscarini, 12 aprile 1615, in Galileo Galilei, Opere, a cura di A.
Favaro, Giunti-Barbera, Firenze 1968, vol. XII, pp. 171-172). [la lettera completa si può vedere in
http://www.disf.org/Documentazione/155.asp]. Cf. il commento di J. I. González Faus, La autoridad de la verdad.
Momentos oscuros del magisterio eclesiástico, Santander 20062, p. 123; cf. pp. 116-124).
13
A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, cit., p. 45 Ed it.??

118
principio: Dio, se volesse, potrebbe rivelare tutto, a tutte le persone, in tutti i tempi e in tutti i
luoghi. Come tante volte succede, dinanzi a questa evidenza occorrerebbe una rivoluzione, e invece
si tende ad un accomodamento. Come abbiamo visto, è ciò che succedeva anche per il tema del
male, del resto in intima relazione con questo. E ovviamente succede nelle concezioni correnti della
rivelazione che – come mostrerebbe qualunque sondaggio fatto per strada – continuano ad essere
impregnate dall'idea della “dettatura” divina. Succede perfino nella pratica teologica che,
nonostante l’abbia superata a livello di teoria esplicita, nella pratica continua a essere molto
influenzata da tale concezione.
Nella teologia, infatti, prevale in generale il riconoscimento che la "parola di Dio" può
accadere soltanto in quanto incarnata nella "parola umana", e pertanto, in e attraverso la nostra
esperienza e riflessione; vale a dire realizzandosi secondo le leggi intrinseche delle parole umane,
senza rompere la loro legittima autonomia. Ma al momento delle applicazioni, tanto nella
concezione generale quanto nel significato di determinate frasi o concezioni, continua a esercitare
innegabile influsso una concezione troppo "oracolare" della rivelazione, vista come "parola divina"
che irrompe verticalmente, già fatta e formulata, nella coscienza umana. Il ricorso al "mistero" e alla
"libertà" di Dio, pur essendo legittimo e necessario, funge troppe volte come una scusa per non
prendere con tutta serietà la necessaria e costitutiva mediazione della soggettività umana, situata in
tempi, culture e spazi concreti. La teologia può cadere così nella tentazione di creare uno spazio
immune alla critica e di sottrarsi alla necessità di una specifica ma reale "verifica"; cioè, alla
necessità di mostrare che il rivelato è verità non solo perché lo dice Isaia, ma anche perché
possiamo comprovarlo.

2. Ripensare il concetto di rivelazione

La riflessione diventa complessa, ma così lo richiede la decisiva importanza del tema,


trasversale a ogni comprensione che voglia obbedire oggi al mandato antico di essere «pronti
sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

2.1 L'impossibile possibilità della rivelazione

Dobbiamo ringraziare la concezione tradizionale per avere mantenuto viva nella storia l'idea
che Dio si rivela, che in qualche modo ci "parla". Idea in sé giusta, che dobbiamo salvare. Ma
proprio per questo è necessario liberarla del modo in cui ci è offerta la sua spiegazione, poiché
altrimenti, come abbiamo appena visto, risulterebbe annullata sia per le conseguenze assurde alle
quali oggi porterebbe, sia per quanto riguarda la sua stessa struttura conoscitiva, che la renderebbe
incredibile di fronte alla coscienza critica.
In realtà, la concezione comune risulta in apparenza ovvia perché "oggettiva" la rivelazione,
riducendola ai parametri della comunicazione intramondana. Essa infatti vede Dio come una realtà
tra le altre, solamente più grande e potente. L'immaginazione si trova a suo agio tra questi
parametri. Ma è sufficiente riflettere un poco, per notare l'impossibilità di tale visione. Dio è
infinito, noi finiti; Dio è spirito, noi esseri corporei; Dio è eterno, noi immersi nel tempo. La
differenza risulta così abissale, così letteralmente infinita, che non abbiamo organi per captare
direttamente né la sua presenza né le sue possibili manifestazioni.
Ripetiamolo un'altra volta: il problema non sta in Dio, ma in noi; non è che Egli “non
possa”, ma che "noi non possiamo". Non possiamo perché è impossibile, dovuto alla nostra
piccolezza e incapacità. Per rendere evidente questo, sono ricorso più di una volta a un paragone
piuttosto grossolano ma efficace: «Sono sicuro che molti di voi che mi state ascoltando avete un
cagnolino al quale volete bene; quando arrivate a casa, spiegategli questa conferenza...». È ovvio
che voi "potete", chi non può è il cagnolino: gli risulta impossibile perché lui non ha capacità per
questo tipo di comunicazione. Quando si considera quanto sia immensa la "differenza divina" in

119
riferimento alla limitatezza umana, ciò che stupisce non è che la rivelazione sia tanto difficile, tanto
oscura e tanto precaria, ma semplicemente che sia possibile. Karl Barth arrivò a dire che in teologia,
a fronte di questo problema, «tutto il resto non è che un gioco di bambini»14.
Nonostante tutto, l'umanità intera, dai suoi inizi e in tutte le culture, ha contato su questa
possibilità, e l'esperienza religiosa – a dispetto di tante difficoltà, critiche e sospetti – continua a fare
affidamento su questa stessa "impossibile possibilità", cioè sulla realtà di una vera e autentica
comunicazione tra Dio e noi, sulla verità della rivelazione. Non deve, dunque, trattarsi
necessariamente di una semplice consuetudine tradizionale o di una volgare illusione. Come ad altro
proposito diceva Wittgenstein: «Per essere un errore, questo è troppo grande»15. E di fatti, abbiamo
un serio fondamento sia per una affermazione criticamente avvertita sia per una motivata fiducia.
L'abbiamo in quel principio radicale che in qualche modo guida tutto il nostro discorso: la creazione
per amore.
La creazione, lo ripeto, non nega la differenza tra Dio e noi, poiché non è un "fare" che
trasforma, ma, un far essere "dal nulla", che implica un potere infinito, radicalmente lontano dalla
portata delle nostre capacità. Paradossalmente però, proprio per questo, ad altro livello e sotto altri
aspetti, essa indica anche la massima unità, poiché tutto ciò che la creatura ha e tutto ciò che essa è
le viene da Dio. La creatura è ed è così perché propriamente e precisamente così lo vuole Dio. Lo
vuole liberamente e per amore. Quindi, in qualche modo non evidente ma intimissimo, Dio si
esprime – “si rivela” – nella creazione. E questo significa che, nella misura in cui riusciamo a
interpretare il vero senso degli esseri creati e la vera direzione dei loro dinamismi, stiamo captando
– ci si sta rivelando – ciò che Dio vuole per essi; e proprio in questo veniamo anche a scoprire come
deve essere Lui, che così ci crea e così ci vuole. Il problema sta solo – ma quanto è serio! – nella
precaria misura della nostra capacità di "leggere" e interpretare quella manifestazione che Dio,
creandoci per amore, sta tentando di farci arrivare.
Forse questo può sembrare astratto. Tutto considerato, però, ritengo che offra la migliore
chiave per interpretare non solo la possibilità della rivelazione, ma anche il modo della sua
realizzazione nella storia umana, tanto nelle sue folgoranti scoperte quanto nei suoi tentennamenti e
perfino nelle sue terribili cadute; e, infine, nel suo culminare in Cristo grazie all'amore infaticabile
di Dio: alla sua "lotta amorosa" con i nostri limiti, i nostri errori e le nostre resistenze.

2.2 La creazione come rivelazione

Per comprendere questo processo nella sua struttura fondamentale, vale la pena ricorrere a
un esempio che si basa su qualcosa che, benché molto da lontano, è forse ciò che più gli assomiglia:
ciò che chiamiamo la capacità umana di "creazione".
Immaginiamo che, per uno strano incidente della storia, quella che oggi conosciamo come la
Pietà di Michelangelo Buonarroti appaia improvvisamente in un scavo, senza che sia preceduta da
alcuna notizia circa la sua paternità e la sua origine. Supponiamo che venga presentata
all'interpretazione pubblica dinanzi a un folla eterogenea per età, origine e cultura. Le domande
andrebbero sicuramente in due direzioni fondamentali: chi è stato il suo autore e che cosa ha voluto
"dire" con essa.
Sicuramente, sarebbe unanime la "scoperta" che l'autore dovette essere un grande artista e
che tentava di esprimere il dolore di una donna dinanzi a un uomo morto. Quasi sicuramente
qualcuno scommetterebbe anche che la donna era una madre con il cadavere del figlio in grembo.
Una persona mediamente colta, vedendo l'equilibrio dell'immagine e stando a Roma, potrebbe

14
K. Barth, Das Wort Gottes und die Theologie, in Gesammelte Aufsätze, München 1924, 158.
15
L. Wittgestein, Lecciones y conversaciones sobre estética, psicología y creencia religiosa, Barcelona Buenos Aires
México 1992, p. 139; cf. pp. 39-56, nella Introduzione di I. Reguera; original: “For a blunder, that’s too big” (Lectures
and Conversations on Aesthetics, Psychology and Religiousbelief, Berkeley and Los Angeles, 967, p. 62). [tr. it. Lezioni
e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1967 pp. it.??]

120
commentare che si trattava di una scultura greca sorprendentemente ben conservata. Facilmente
un'altra persona, indicando le ferite del figlio, correggerebbe dicendo di no, perché era evidente che
si trattava di un'opera cristiana, e riconoscerebbe Maria e Gesù di Nazareth. Non mancherebbe forse
tra i presenti chi, considerandola autentica, la collocasse nel Rinascimento. E non sarebbe strano
che qualcuno, più cauto o più scettico, pensasse trattarsi di una pura e semplice falsificazione, una
copia oggi possibile con i progressi dell'informatica. Respinta questa ipotesi, le opinioni potrebbero
dividersi: per la sua serenità, sarebbe attribuibile a Raffaello o a Leonardo; al che qualcuno
risponderebbe di no: erano molto buoni come pittori, ma la scultura non poteva appartenere a loro;
allora probabilmente qualcuno punterebbe a Donatello. Un professore d’arte, silenzioso fino a
quello momento, dichiarerebbe la sua opinione: è di Michelangelo. Sebbene, quasi sicuramente, non
mancherebbe chi discordasse con forza: impossibile, troppo dolce e tranquilla per il genio
tormentato del Buonarroti...
Inframmezzate a queste considerazioni, e in continua interazione con esse, potrebbero
venirne fuori altre circa il messaggio che l'autore voleva trasmettere o "rivelare": se il viso della
madre "parlava" di rassegnazione, disperazione o speranza, se invitava al perdono o alla rivolta, se
l'insieme inseguiva la pura bellezza formale o rispondeva a una profonda esperienza religiosa...
Spero che mi venga perdonata l’artificiosità dell'esempio a favore della sua espressività.
Perché realmente credo che permetta di avvicinarsi a una visione realistica del processo della
rivelazione, così come possiamo osservarlo nel caso concreto della rivelazione nella storia. In
concreto, il senso storico aiutato dalla critica esegetica permette oggi di comprendere, per lo meno
nei suoi tratti fondamentali, la strada – laboriosa, multiforme, con alti e bassi, progressi e
arretramenti – della rivelazione biblica, così come ci è giunta in quell'ampia biblioteca – Bibbia, in
greco significa "libri" – che si andò formando lungo circa mille anni. Una strada in cui conversero –
purificate, arricchite e ampliate – tradizioni più antiche, che ricevette influssi dalle culture e
religioni del suo ambiente e, soprattutto, che contò sull’esperienza di persone e gruppi di
eccezionale sensibilità religiosa. Tutto ciò, impastato di riflessione orante, di profonde crisi intime,
d’intuizioni folgoranti, di sensibilità dinanzi alla sofferenza, di ribellione di fronte all'ingiustizia, di
«sete di Dio» e di «ricerca del volto del Signore»... sfociò come un fiume lungo, sinuoso e fecondo
in quel monumento religioso, in quel "classico" dello spirito, in quel "grande codice" di umanità che
abbiamo ricevuto come la rivelazione biblica.
Quando s’impara a vedere così la Bibbia, non è necessario chiudere gli occhi dinanzi al
realismo della sua gestazione, a volte molto crudele e molto carica di ombre e d’interpretazioni
errate. Non poteva essere altrimenti, se già la comunicazione umana, fatta a nostra misura, risulta
tanto difficile e tanto assediata da errori, incomprensioni e malintesi. Una rivelazione divina che
apparisse in un libro immacolato, senza tratti d’ombra, errori o deviazioni, non apparterrebbe alla
storia umana; e quanto più perfetta apparisse, più farebbe pensare a una falsificazione di monaci
medievali o a manipolazioni ecclesiastiche.
Le ferite della Bibbia sono il marchio inevitabile del suo cammino nella storia. Ciò che
interessa, perché lì risiede la sua verità, è il risultato del percorso, la meraviglia del prodotto finale:
la rivelazione di un Dio che, con instancabile pazienza e infinita dedizione, è riuscito a far sì che
l'umanità si rendesse conto di essere originata, avvolta, difesa e dinamizzata dal suo amore senza
limiti e dal suo perdono incondizionato; con la conseguenza di sapersi sempre accompagnata da una
presenza salvatrice che la invita senza sosta all'amore, alla giustizia e alla fraternità, sostenendola
nella lotta contro il male e illuminandola con la speranza della pienezza finale.
Per questo i libri biblici, come del resto insegna l'ermeneutica più elementare – benché
sfortunatamente non sempre praticata – devono essere letti a ritroso, interpretando ognuna delle
tappe dalla gloria luminosa della meta ottenuta grazie a esse16. Lontano da qualunque

16
Todavía hoy una estgructura tan evidente puede suscitar reacciones vivas, pensando que significa una devaluación o
incluso descalificación del Antiguo Testamento: véanse mis Aclaraciones a las críticas de René Buchholz y Manfred
Görg: Concilium 335 (2010) 161-166 [no tengo la versión italiana, que debe de estar en el n. 1/2010], que habían

121
semplificazione storica che cerca solo i difetti per andare all’attacco o che li dissimula per
difendersi, è necessaria un'ermeneutica realistica che riconosca o perfino si rammarichi delle ferite,
ma che in definitiva sia grata per esse, poiché grazie a esse è stato possibile il risultato. Anche per la
Bibbia vale ciò che essa stessa applica al Servo di Yahvè: le sue ferite ci hanno salvati.

3. La rivelazione nella sua struttura intima

Da questa prospettiva e senza perdere di vista l'esempio risulta più facile comprendere la
struttura intima del processo, nei due aspetti fondamentali della rivelazione: la sua nascita
nell'esperienza originaria e la sua appropriazione da parte di coloro che l'accolgono.

3.1 L'esperienza originaria: rivelazione come "rendersi conto"

Conviene insistere sulla prospettiva, perché, fino a quando persiste l'idea che Dio rivela
"dall’esterno" e mediante un "intervento miracoloso", il processo della rivelazione che abbiamo
descritto può sembrare troppo irreale e soggettivo, fino a essere interpretato addirittura come una
negazione della rivelazione. Ma se si prende sul serio il gesto infinitamente generoso della
creazione, in cui Dio esteriorizza la sua azione ed esprime il suo amore, ne appare il profondo
realismo. Perché allora l'intera realtà costituisce un gesto attivo e volontario di Dio che attraverso
di essa si manifesta e rivela. Lo esprime magnificamente l'intuizione poetica: «Scandisci l’alba
come una parola; / Pronunci il mare come una sentenza», dice un inno delle Lodi del Breviario
castigliano»17.
Quando gli occhi si aprono in questa direzione, tutta la realtà sta mostrando continuamente
quello che Dio è e vuole essere per noi: essa è il "corpo" in cui Egli si esprime, il "volto" su cui
possiamo leggere la sua rivelazione salvifica. Quanto mostrano tanti salmi, la pietà normale lo
scopre spontaneamente nei suoi momenti migliori: «I cieli cantano la gloria del Signore». I mistici
lo scoprono in intuizioni folgoranti e, soprattutto nelle loro tappe finali, dopo una lunga fedeltà,
arrivano a vedere tutto alla sua luce. Lo vivono nella natura: «Queste montagne sono il mio Amato
per me», «Queste valli sono il mio Amato per me», dice san Giovanni della Croce18; e lo vivono
principalmente nella realtà umana, entrando tanto più nel mistero di Dio quanto più intimamente e
profondamente penetrano negli ultimi fondamenti dell'umano: scintilla animae, anima dell'anima, il
più profondo centro... A partire da una squisita sintonia con la cultura attuale, Teilhard de Chardin –
insistendo sulla necessità di "educare gli occhi" – parla della "diafania" del reale, cioè, della
trasparenza di ogni realtà per la presenza e l’azione divine19.
Non si tratta di speculazioni artificiose o di accomodamenti modernizzanti. La critica
esegetica dimostra che questo è ciò che succede nella Bibbia, quando, come insegna il Vaticano II,
si fa attenzione ai generi letterari e si è in sintonia con la vera intenzione degli autori. Della stessa
esperienza profetica, tante volte narrata come frutto di interventi straordinari, dice Alonso Schökel:
«Il profeta deve elaborare gli oracoli col sudore della sua fronte, come coscienzioso artigiano della
parola profetica»20. L'esperienza rivelativa si accende sempre dentro la realtà; realtà che il profeta –

reaccionado contra mi artículo Monoteismo e violenza versus monoteismo e fraternità universale: Concilium 4/332
(2009) 82-96.
17
L’autore è J. L. Blanco Vega. Si può vedere anche nel suo libro Y tengo amor a lo visible, Santander 1997, p. 143.
18
Juan de la Cruz, Cántico Espiritual, en Obras Completas, Madrid 19645, Cant. 14-15, pp. 664-665; vale la pena
leggere il sublime commento alle strofe 14 e 15: “Mi Amado, la montañas...” (Ivi, pp. 663-673). [tr. it. Giovanni della
Croce, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010]???
19
Studio ampiamente questo affascinante tema in Repensar la revelación, cit., pp. 236-240: “La realidad cómo
manifestación de Dios” [tr. it. cit. pp. 217-221: “La realtà come manifestazione di Dio”].
20
L. Alonso Schökel - J. L. Sicre, Profetas I, Madrid 1980, p. 20 [tr. it. I profeti, Borla, Roma 1996, p.??]
* Si tratta di una forma di “illuminazione” o “estasi personale”, così denominata dallo psicologo Abraham Maslow a
partire dall’opera Religions, Values, and Peak Experiences, New York 1964 [n. d. t.].

122
grazie alla riflessione, alla fedeltà, diciamo anche alla genialità religiosa – sa leggere nella sua
verità ultima; cioè, come fondata, abitata e promossa da Dio. Il profeta riesce così a interpretare
correttamente la verità che Dio sta sempre tentando di manifestare attraversala realtà. Lo stile, le
occasioni, i procedimenti sono diversi; ma tutto accade sempre nel centro vivo dell'esperienza
umana. Un esempio permette di meglio valutarlo.
Mi risulta sempre illuminante il caso di Osea. Sposato con una prostituta (sicuramente
"sacra", una hieròdula), vede come ripetutamente ella scappa e ritorna alla prostituzione.
Nonostante ciò, Osea nota come dal profondo del proprio cuore rinascano sempre di nuovo l'amore
e il perdono. Allora gli si accende una luce: questo è il caso del Signore con Israele. Anche il
popolo torna più volte alla "prostituzione" del peccato e dell'idolatria; ma il Signore continua ad
amare e a perdonare. Fu un momento-culmine, una peak-experience*, di rivelazione. Per la prima
volta nella Bibbia un profeta annuncia – rivela – il perdono incondizionato di Dio: un'affermazione
la cui audacia, con le parole di Gerhard von Rad, «non ha l’eguale in tutt gli scritti profetici»21:
«Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? [...] Il mio cuore si
commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia
ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te»
(Os 11, 8-9).
Vale la pena notare che Osea non fa una deduzione edificante né, tantomeno, ovvia. «Perché
sono Dio e non uomo»: la tendenza normale, la tendenza "troppo umana" – sfortunatamente non
poche volte praticata nella predicazione – sarebbe quella di sottolineare la gravità dell'offesa e
misurare la severità della punizione dalla grandezza dell'offeso. La sortita geniale, il progresso nella
rivelazione, va esattamente nella direzione contraria: scoprire la "logica di Dio", quella logica
paradossale e controfattuale, di gratuità infinita; gratuità letteralmente "incredibile" per la logica
normale, la stessa che tante volte "scandalizza" ancora oggi nelle parabole di Gesù nel Vangelo.
Si potrebbero evocare altri esempi. Quello di Mosè, che scopre nella sua ribellione contro
l'oppressione ingiusta la volontà di Yahvè che chiama e incoraggia alla liberazione; esempio che
piacque a Juan Luis Segundo22 e che ancora oggi è fonte d’ispirazione nella “Teologia della
liberazione”. Quello dell'autore del libro di Giobbe che, vedendo la sofferenza colpire anche gli
innocenti, si ribella contro la teologia ufficiale, che interpretava il fatto come punizione divina; ciò
costituiva allora una rivelazione tanto forte che il libro dovette uscire anonimo. Lo stesso che
succederà più tardi col libro di Giona, che protesta contro l'accaparramento esclusivista del Dio
unico - monoteismo scoperto (“rivelato”) nell'Esilio - ma la cui salvezza l'ideologia teologica voleva
restringere a Israele, condannando tutti gli altri popoli. Interessante anche —y de hondo significado
revelador23— la scoperta esplicita della risurrezione in Daniele e nei Maccabei, quando la terribile
esperienza del martirio fece da catalizzatore alla rivelazione che il «Dio dei vivi e non dei morti»
non poteva lasciar cadere nel nulla “nullificante” coloro che morivano proprio per la fede nel suo
amore e nella sua fedeltà.
Conviene chiarire ancora tre aspetti che il vocabolario, sempre carente, potrebbe occultare.
Il primo, che parlare di "scoperta" o di "rendersi conto", non pretende in alcun modo
suggerire una specie di primato dell'iniziativa umana, come se Dio si stesse nascondendo e noi,
come nel gioco infantile, lo sorprendessimo nel suo nascondiglio. Niente di più opposto alla verità:
tutto, assolutamente tutto, è qui libera iniziativa divina, così che la scoperta umana è sempre
"risposta". Non solo perché, soggettivamente, la capacità umana e la stessa esistenza sono dono
gratuito di Dio; bensì perché oggettivamente è Dio che si sta volendo rivelare, tentando di vincere
con amore attivo e instancabile la nostra cecità e rompere le nostre resistenze. Di lì il carattere di

21 Con formato: Color de


G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, vol II, tr. it. Paideia, Brescia 1972, p. 173. fuente: Rojo, Español (España
22
J. L. Segundo El dogma que libera. Fe, revelación y magisterio dogmático, Santander 1989, pp. 343-345. - alfab. tradicional)
23
Cf. A. Torres Queiruga, Repensar la resurrección. La diferencia cristiana en la continuidad de las religiones y la Con formato: Color de
cultura, Madrid 2003, 158-161 (rtrad. itl. Ripensare la risurrezione. La differenza cristina nella continuità tra religioni fuente: Rojo, Español (España
e cultura, EDB, Bologna 2007, 156-158). - alfab. tradicional)

123
sorpresa e ammirazione quando la "scoperta" si produce: «Certo, il Signore è in questo luogo e io
non lo sapevo»! (Gn 28,16).
Meno ancora – insisto, perché dal non averlo capito mi sono venute accuse tanto sfocate
quanto ingiuste – s’incoraggia un’idea "puramente soggettiva" della rivelazione. È vero esattamente
il contrario: la sua oggettività, lontano dall’essere messa in pericolo, viene affermata al massimo.
"Rendersi conto" è possibile solo ontologicamente e ha senso solo epistemologicamente quando, da
una parte, la realtà finita si fa trasparente alla presenza – infinitamente reale – di Dio e, dall’altra,
l'interprete riesce a scoprirla. Altrimenti non c'è né può esserci rivelazione. Appare ben chiaro nel
difficile e delicato problema della "falsa profezia", quando, invece di "leggere" la presenza reale di
Dio, i falsi profeti annunciavano «le fantasie del loro cuore» (Ger 23,26) o «vedevano una visione
di pace, mentre non vi era pace» (Ez 13,16).
C’è infine la realtà dell'ispirazione. Non è negata, ma radicalmente fondata e riaffermata;
però non appare più come un'irruzione "particolarista" e "dall’esterno", bensì come una presenza
viva, universale e "dall’interno". La singolarità del profeta esiste, perché egli è il primo a scoprire, a
rendersi conto. Ciò non implica però esclusivismo, perché scopre ciò che in realtà era lì per tutti.
Non si tratta di un funzionamento strano, poiché così succede in tutti gli ambiti del reale, soprattutto
in questioni difficili e profonde. C’è sempre qualcuno che per primo o per prima fa la scoperta: le
mele cadevano ai piedi di tutti, ma solo Isaac Newton vi seppe intravedere la legge della
gravitazione universale. Anche nella Bibbia: la presenza di Dio era in Babilonia come a
Gerusalemme, ma furono Ezechiele e il Secondo Isaia a rendersi conto che ciò supponeva la chiara
coscienza del monoteismo; e, come abbiamo visto, nel fondo più autentico di ogni cuore umano c’è
il presentimento che l'amore e il perdono sono migliori dell'odio e della vendetta, ma fu Osea il
primo a formularlo.
Osservazioni che, minimamente ponderate, mostrano bene che questa visione non solo non
minaccia l'oggettività della rivelazione e non sminuisce l'assoluta iniziativa divina, ma le sottolinea
al massimo, senza per questo cadere in interventismi particolaristi. Il profeta, per lunga che sia stata
la sua riflessione e per dura che sia risultata la sua ricerca, non attribuirà mai a sé stesso la scoperta:
dirà sempre che è «parola del Signore»; in questo senso, si arrivò del tutto a ragione a parlare del
profeta come «bocca di Dio» (cf. Ger 15,19). E nel caso che il serpente della superbia riesca a
introdursi in qualcuno, facendogli attribuire la scoperta all'eccellenza della sua persona o del suo
popolo, c’è pronto l'avvertimento di Gesù: non sempre sono «i saggi e i prudenti», bensì i «piccoli»
coloro che il più delle volte fanno la scoperta (Mt 11,25).

3.2 L'appropriazione del rivelato: rivelazione come "maieutica storica"

È vero: Newton fu il primo a scoprire la legge gravitazionale. Ma i fisici l'ammettono non


perché lo dica Newton, ma perché grazie a lui ora anch’essi la vedono; e la vedono perché il dato
c’era ed era lì che si offriva a tutti. Il letteralismo biblico e la persistenza della rivelazione come
"dettato" miracoloso di verità impedirono di vedere che questo è anche ciò che succede nella
rivelazione biblica. La profondità del rivelato e la sorpresa delle scoperte tesero a occultare il suo
radicale e costitutivo radicamento nell'esperienza umana.
Quando però Osea, attraverso la sua esperienza, annunciò per la prima volta il perdono
divino incondizionato, non enunciava una verità estranea o strana che Dio tentava di manifestare
solo a lui, bensì qualcosa che Dio, attraverso la verità più autentica dei nostri cuori, stava cercando,
e cerca, di dire a tutti e da sempre. Per questo motivo, quando ancora oggi ascoltiamo Osea, le sue
parole possono essere quelle che ci svegliano e illuminano; però, se veramente crediamo a questo
perdono è perché ci riconosciamo in ciò che esse dicono: crediamo grazie a esse – fides ex auditu,
«la fede viene dall'ascolto» (Rm 10,17) –; ma ora lo vediamo – lo "verifichiamo" – noi stessi.
Ricordiamo: è ciò che nel Quarto Vangelo i samaritani dicono alla loro compaesana: «Non è più per
i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è

124
veramente il salvatore del mondo» (Gn 4,42). O, forse più intimamente, nel Vangelo di Luca: «Non
ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava
le Scritture?» (Lc 24,32).
Si tratta, come si vede, di un processo profondamente e universalmente umano, che succede
in tutti gli ambiti e pratichiamo ogni giorno: una parola fa cristallizzare una situazione, facendoci
comprendere infine qualcosa che stavamo presentendo o intuendo; vibriamo davanti a una grande
poesia perché esprime ciò che noi già in fondo "sapevamo", ma che non sapevamo esprimere.
Proprio questo sono i "classici": pionieri che "scoprono" precisamente ciò in cui tutte e tutti ci
riconosciamo; e che, proprio per questa ragione, parlano e parleranno sempre all'umanità. Questo è
anche la Bibbia. Franz Rosenzweig lo disse magnificamente: «La Bibbia e il cuore dicono la stessa
cosa. Per questo (e solo per questo), la Bibbia è ‘rivelazione’»24.
La constatazione è tanto realistica e vera che una volta allertati è facile riconoscere la sua
ubiquitaria presenza tanto nella Bibbia quanto nella tradizione. Geremia, in un testo del quale si farà
eco il Quarto Vangelo (Gn 6,45), lo esprime con eloquenza: «Porrò la mia legge dentro di loro, la
scriverò sul loro cuore. [...] Non dovranno più istruirsi l'un l'altro [...] perché tutti mi conosceranno,
dal più piccolo al più grande» (Ger 31,33-34). I Padri della Chiesa dicevano: «Ha bisogno della
stessa grazia chi ascolta la profezia e chi l’ha proclamata per la prima volta»25. Ed è ben conosciuta
la dottrina di sant’Agostino circa il "maestro interiore" che fonda e insegna dentro ciò che il
"maestro esteriore” predica fuori.
Una ricerca attenta trova innumerevoli citazioni di autori, sia di teologia sia di devozione e
perfino di filosofia, che parlano in concreto dell'esperienza viva26. Concretamente, la categoria di
"testimonianza" – tanto citata e così importante – mira proprio a questo per il suo carattere
personale. Karl Rahner, però, avvertì che non la si può intendere come semplice testimonianza
"forense", che dovrebbe esclusivamente suscitare la fiducia nel testimone, senza nessun contatto
diretto, da parte di chi vi crede, con il fatto o la verità testimoniata.
Data l'enorme importanza del tema, per evitare equivoci, favorire il rigore e mostrare la
fecondità di questo processo, credo che – debitamente contestualizzata – risulti molto più
appropriata la categoria socratica di maieutica. Come si sa, Socrate, figlio di una levatrice – maia,
in greco –, diceva di praticare lo stesso mestiere di sua madre: la maieutica, (maieutikè techne). Ella
non metteva da fuori le creature nel seno delle madri, ma aiutava queste a darle alla luce. Lo stesso
faceva lui: non pretendeva di mettere la verità nei suoi uditori, ma, con la sua parola, li aiutava a
scoprirla essi stessi al loro interno (è famoso l'esempio del Menone, ove Socrate fa scoprire allo
schiavo le verità della geometria)27. Louis Évely non usa la categoria, ma chiarisce ottimamente il
contenuto:
«Leggiamo la Scrittura alla luce della nostra esperienza, e interpretiamo la nostra esperienza
alla luce della Scrittura. Se io non avessi che la sua testimonianza mi sentirei completamente
estraneo a quel mondo di duemila anni fa. Se non avessi che la mia esperienza, dubiterei di credere
che essa m’introduce in una realtà universale. Ma le due concordano e mi fanno avanzare
nell'intelligenza dell'una in rapporto con l'altra»28.

24
“Brief an B. Jacob”, 27 maggio 1921, en F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk I. Briefe und Tagebücher 2, Den
Haag 1984, 708-709. Anche E. Schillebeeckx ricorre a questa citazione: “The Bible and man’s heart say the same
thing”, nella sua opera God is New Each Moment, Edinburg, 1983, 55-60.
25
Prendo la citazione da L. Évely, Les chemins de ma foi, Paris 1990, 104 (c’è la trad. castigliana); no ho potuto
verificarla; però la cito per la sua chiarezza e, soprattutto, perché Évely è forse l’autore, non sistematico, che con
maggiore e più chiara energia ha saputo vedere e proclamare questa struttura; cf., per es., in questa stessa opera le pp.
16-17. 73-74. 101-104. 142. Ed it.?? Todavía con inusitada profundidad humanista e incansable insistencia a lo largo de
toda su obra lo hace Marcel Légaut; cf. especialmente Reflexión sobre el pasado y el porvenir del cristianismo,
Valencia 1999, pp. 117-146.
26
Cf. l’esposizione che faccio al cap. IV di Repensar la revelación.
27
Cfr. Platone, Menone 82b -86.
28
Évely, Les chemins de ma foi, cit., p. 102.

125
Con tutto ciò, conviene notare che, intenzionalmente, parlo sempre di "maieutica storica".
Perché non si tratta, come in Platone, della ripresa delle "idee eterne", ricordate (mediante
l'anàmnesis) così come erano state contemplate – chiare e perfette – dalle anime prima di cadere nei
corpi. Ciò che la rivelazione scopre è la nostra realtà essenzialmente storica, così come va
realizzandosi, crescendo e trasformandosi nella misura in cui va scopre e accoglie la presenza
vivificatrice e creatrice di Dio. Per questo la rivelazione non è ricordo ma annuncio, non è tornare
indietro, ma promessa e nascita in avanti, fino ad arrivare «all'uomo perfetto, fino a raggiungere la
misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13). Questo è ciò che vuole indicare il (sotto)titolo del mio
libro sul tema: La rivelazione divina nella realizzazione umana.
È importante insistere su questo punto, perché mette in evidenza la storicità intrinseca della
rivelazione. Ovviamente, la presenza del Dio che “ci sta creando per amore” è in sé stessa piena,
universale e illimitata. La rivelazione però diventa reale solo quando questa presenza è ricevuta e
accolta nella soggettività umana. Orbene, questa è sempre situata in tempi e luoghi concreti,
inevitabilmente sottoposta ai tornanti dello sviluppo culturale, ai condizionamenti sociali e alle
diverse sensibilità religiose. Il che spiega le caratteristiche storiche della rivelazione. Nell'incontro
con Dio, benché da parte sua la rivelazione sia offerta da sempre a ogni uomo e donna, nella
comprensione umana – solo in essa può esistere e può "incarnarsi" la rivelazione – sono venute alla
luce nuove dimensioni e si sono aperte profondità insospettate, non deducibili a priori.
L’importante è che a partire da questa struttura maieutica, che unisce scoperta e
appropriazione, parola ricevuta ed esperienza personale, risulti possibile chiarire malintesi e
comprendere aspetti che permettano di avvicinarsi al mistero della rivelazione senza rinunciare alle
legittime esigenze della nostra cultura. Prima di occuparci di questo tema, vale la pena rendere
intuitiva la struttura mediante uno schema grafico che – forse con una schematizzazione alquanto
imprecisa – aiuti a comprendere la differenza con quella precedente29.

Schema tradizionale. Primo quadro: Dio rivela solo al profeta, mediante un intervento
"categoriale", palpabile, di carattere miracoloso. Secondo quadro: il profeta fa l’annuncio agli altri.
I risultati sono diversi: non arriva a tutti (quinta figurina) e alcuni cui arriva non accettano (quarta
figurina). In coloro che lo accettano si produce la rivelazione, ma solo in modo indiretto, attraverso
la testimonianza del profeta.

29
Mi venne in mente la prima volta a Porto Alegre (settembre 2011), in alcune conversazioni nella Escola Superior de
Teologia e Espiritualidade Franciscana, diretta dai PP. Cappuccini. Approfitto della circostanza per mostrare loro la mia
gratitudine, e con loro a tante amiche e amici del Brasile, che come in nessun altro luogo hanno accolto e accolgono la
mia opera e la mia persona.

126
Schema nuovo: Primo quadro: Dio influisce su tutti con la sua presenza viva ma
trascendente, senza esclusioni né favoritismi. Secondo quadro: il profeta è il primo a "rendersi
conto" e avviene in lui la rivelazione (prima figurina). Terzo quadro: come nello schema
tradizionale, egli fa l’annuncio agli altri. I risultati sono ancora diversi, ma ora in coloro che
ricevono e accolgono l'annuncio la rivelazione avviene direttamente: alcuni (i primi tre) scoprono in
e per se stessi la presenza rivelatrice; alcuni ricevono ma non lo accolgono (quarta figurina); ad altri
(quinta figurina) non arriva l'annuncio (parleremo del loro caso a proposito del dialogo delle
religioni).

4. Le conseguenze della nuova visione

A metà del secolo scorso entrò in profonda crisi la concezione tradizionale, soprattutto come
reazione al soprannaturalismo di Karl Barth. Esagerando l'esteriorità della rivelazione, egli la faceva
cadere verticalmente, trasformandola in "negazione dialettica" di ogni partecipazione umana, senza
nessun "punto di aggancio" (Anknüpfungspunkt), al punto che era la "Parola" stessa quella che
doveva portare con sé l'organo della sua possibile comprensione. Wolfhart Pannenberg e il suo
gruppo reagirono, sostenendo a ragione che quella teologia trasformerebbe la rivelazione in un
asylum ignorantiae o in un cieco fideismo. Dietrich Bonhöffer, da parte sua, parlò di "positivismo"
della rivelazione (Offenbarungspositivismus), che situerebbe la persona dinanzi all'offerta
rivelatrice come fa il padrone con l'uccello in gabbia: «Mangia, uccello, o muori».
Avevano ragione e anche la teologia cattolica – non senza il loro influsso – si inoltrò per
nuove strade che confluirono nella grande manifestazione rinnovatrice nel Vaticano II. Occorre
adesso continuare il discorso iniziato, esplicitando la sua coerenza e traendone le conseguenze.

4.1 La “chiusura della rivelazione” come pienezza e apertura

Dire che con quanto avvenuto in Cristo è giunta la "chiusura" della rivelazione provoca una
certa e piuttosto generalizzata allergia, non solo nella mentalità corrente, ma perfino nella teologia,
senza reale distinzione tra conservatori e progressisti30. Tale “allergia” ben si comprende in
relazione alla concezione precedente della rivelazione, intesa come una serie di verità ricevute per
autorità e costituenti un "deposito" che era necessario conoscere e trasmettere intatto. Sarebbe
infatti come se Dio, una volta che avesse parlato in illo tempore ai "rivelatori" e questi l'avessero
comunicato agli altri, rimanesse ora silenzioso e a noi “non dicesse niente”. Così ci rimarrebbe solo
d’imparare a memoria ciò che altri ci hanno annunciato.
Pur riconoscendo che la parola "chiusura" non risulta molto felice, ciò che essa vuole
indicare è vero, poiché, ben intesa, non annuncia "fine" o cessazione, bensì culmine e pienezza.
Significa che, infine, con ciò che è stato rivelato in Gesù il Cristo, Dio riuscì a portare a capo la
decisione salvatrice di rivelarci tutto; naturalmente, tutto ciò che è fondamentale, e nella misura in
cui è possibile nella storia. Allora, grazie alla struttura maieutica, si comprende che questa scoperta
che accadde per la prima volta nel passato continua ad accadere anche al presente, poiché
l'annuncio – risvegliandoci – ci fa vedere che Dio sta parlando anche a noi con l’identico amore e la
stessa presente attualità.
Allora, curiosamente e paradossalmente, tutto cambia. Perché ora comprendiamo che ciò
che la "chiusura" vuole dire non è che la rivelazione sia finita, ma che è più attuale e piena che mai.
Perché, grazie alla Parola – fides ex auditu – tanto lentamente e duramente acquisita nella storia, noi
raccogliamo tutto il risultato; vale a dire che ora – dentro lo storicamente possibile – abbiamo la

30
Si può vederne un vero elenco in Repensar la revelación, cit., 300 (trad. it., 288).

127
fortuna di poter accogliere e vivere nella sua definitiva pienezza ciò che fino a quel culmine i nostri
antenati vivevano in maniera parziale e in cammino.
È come arrivare in cima alla montagna dopo una faticosa salita: non si perde la gloria della
scoperta né il godimento del paesaggio; ora però si possono godere in pienezza. O come la vita che,
raggiunto dopo lunga evoluzione il culmine umano, lontano dal paralizzarsi, raccoglie tutto il
precedente – la persona come "microcosmo" – e lo apre alle immense possibilità della storia e della
cultura. Oppure, infine, è come un amore che, dopo il primo incontro e il progredire nella
conoscenza e nella comunione, decide il passo della consegna totale in una vita comune e per
sempre.
Esempi forse poveri e, come tutto l’umano, pieni di limiti e perfino esposti all’insuccesso.
Ma ciò che vogliono indicare esprime bene il risultato raggiunto dall'esperienza cristiana. Questa è
stata, in realtà, l’esperienza vissuta di Gesù: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17,21). E, a
partire da lui, è stata anche quella della prima comunità: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei
tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a
noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose» (Eb 1,1-2). San Giovanni della
Croce lo dirà più tardi con parole indimenticabili: «... perché nel darci, come ci ha dato, suo figlio
che è la sua parola – e non ne ha altra –, ci ha detto tutto insieme e in una sola volta in questa sola
parola, e non deve più parlare»31.
Perciò, la "chiusura" non paralizza, ma apre: non è solo pienezza, ma anche apertura. Perché
la rivelazione di ciò che è fondamentale e definitivo non offre un organigramma, ma un programma;
non ricette o soluzioni concrete, ma le chiavi per andarle a scoprire nella storia. Succede in ogni
culmine umano: fatta una scoperta, viene il lavoro delle conseguenze e delle applicazioni. Succede
nelle stesse scienze "esatte" e succede molto di più in quelle umanistiche: scoperta l'indegnità della
schiavitù, si presenta il compito incessante di trarne le conseguenze, scoprendo schiavitù occulte e
rimodellando secondo una giusta coerenza i rapporti nella società.
Nella religione, che si apre sul mistero inesauribile, ciò succede con maggiore evidenza.
Scoperta – rivelata – la paterno/maternità divina, incomincia il compito enorme e interminabile di
costruire la fratellanza reale. Scoperta la libertà dei figli e figlie di Dio, si annuncia la necessità di
rimodellare sempre di nuovo il governo ecclesiale. Conclamata la totale uguaglianza in Cristo, sia di
nazione, sia di stato o di genere (Gal 3,28), s’impongono l'analisi critica e la decisione di attuare la
conversione e la riforma effettiva. Non per nulla la teologia attuale ha scoperto l'importanza della
"riserva escatologica", quella costitutiva apertura che, dinanzi alla pienezza del Regno annunciato e
promesso, mette puntini di sospensione dopo ogni realizzazione umana, impedendo qualsiasi
autocompiacimento, negando ogni totalitarismo e richiamando sempre al servizio incessante, perché
«i poveri li avete sempre con voi» (Mt 26,11).
E tuttavia, non sarebbe bene trasformare la "riserva" in negatività o pessimismo. Perché la
pienezza implica anche la certezza del definitivo e dell’irreversibile. Il culmine è garanzia
dell'irreversibilità, assicurazione della speranza. Niente di ciò che può accadere – e può accadere di
tutto – ha potere di annullare la sicurezza della promessa: niente – né l'altezza dei poteri sociali, né
la profondità dei condizionamenti intimi, né i retaggi del passato, né le minacce del futuro potranno
«mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,39; cf. 8,35-39)32.

4.2 Il dialogo delle religioni33

31
La subida al Monte Carmelo, 1. 2, c. 22, n. 3, in Vida y obras de sano Juan de la Cruz, Madrid 19604, p. 522 [tr. it.,
Opere, Edizione Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1963. Ed it. Pp.??]
32
Cf. il prezioso commento di P. Tillich, Principalities and Powers, nella sua opera The New Being, London 1963, 50-
59 [tr. it. Principati e potestà, in Il nuovo essere, Ubaldini, Roma 1967, pp. 46-63].
33
Cf. A. Torres Queiruga, Diálogo de las religiones y autocomprensión cristiana, Santander 2005 (originale galiziano,
Vigo 2005) [tr. it., Dialogo delle religioni e autocomprensione cristiana, EDB, Bologna 2007].

128
Il riferimento a Cristo invita a introdurre un tema fondamentale, oggi di attualissima
urgenza. Fino a qui il discorso, per motivi di chiarezza e perché di fatto è ciò che cerco direttamente
di chiarire, si è concentrato sulla rivelazione biblica. Ha potuto così dare l'impressione di
esclusivismo e di accaparramento, come se Dio si rivelasse solo nella Bibbia, escludendo tutte le
altre religioni. Sfortunatamente così si pensò per molto tempo. In realtà, non poteva essere
altrimenti a partire dal concetto della rivelazione come "dettato miracoloso" (è ciò che appariva
chiaro nel primo schema grafico).

1. Ma il discorso, anche se incentrato sullo studio della rivelazione biblica, presupponeva in


ogni momento il contrario: Dio nel suo amore illimitato, ho ripetuto, si sta da sempre rivelando a
tutti. Da parte sua la manifestazione è illimitata; il limite è solo da parte nostra, poiché per noi può
diventare reale solo prendendo forma nei diversi modi in cui è percepita e accettata. Donde le
differenze, presenti già nella storia di ogni religione (nella stessa Bibbia, si pensi alla distanza
abissale tra lo Yahvè guerriero e particolarista del libro dei Giudici e il Dio salvatore universale del
Secondo e del Terzo Isaia, per non parlare dell'Abbà dei Vangeli); e divenute evidenti soprattutto tra
le diverse religioni. Però, qualunque siano le differenze, di fatto ogni religione consiste in un modo
specifico di accogliere e configurare la rivelazione all’interno di una comunità umana. Con il
risultato – in questo senso, e nella giusta misura in cui quella configurazione è corretta – che tutte le
religioni sono rivelate.
In un primo momento, permanendo la nostra immaginazione configurata dalla lunga
presenza della concezione precedente, questa affermazione può sembrare strana. Osservando bene,
però, sarebbe enormemente strano il contrario: un Dio che crea per amore, ma che si rivelasse solo
ad alcuni pochi – pochissimi, e molto tardivamente – risulterebbe non solo crudele ma assurdo.
Sarebbe come se dei genitori che hanno molti figli si preoccupassero unicamente di uno e
abbandonassero gli altri alla loro sorte. Un pensiero che denoterebbe, come qualcuno ha detto
abbastanza tempo fa, «un cuore come quello di Giona e poca conoscenza della storia delle
religioni»34.
Rendersi conto di questo era inevitabile in un mondo dove le religioni hanno smesso di
essere lontana notizia per trasformarsi in quotidiana convivenza. Per fortuna, benché non senza le
inevitabili diffidenze e perfino confusioni, al riguardo si è prodotto un fecondo rinnovamento
teologico. Il Vaticano II – per la prima volta nella storia dei concili – iniziò ad acquisire
ufficialmente e a parlare ripetutamente del tema, riconoscendo quanto “di vero e santo" c’è in tutte
le religioni; sottolineando in concreto i valori dell’ebraismo, dell'islam, dell’induismo e del
buddismo35. Da parte sua, le teologie del "pluralismo religioso" hanno portato il rinnovamento fino
al limite, affermando non solo che tutte le religioni sono vere, ma che sono vere allo stesso modo.
In ogni caso, conviene essere precisi.
Il Concilio non osò ancora parlare direttamente di "rivelazione" per le altre religioni. Mentre
alcuni rappresentanti di questo pluralismo equipararono ormai tutto, riducendo le differenze nella
rivelazione a semplici variazioni della configurazione culturale; così che il cristianesimo sarebbe
solo la variante corrispondente alla cultura in cui si è sviluppato. Credo che la nuova visione
permetta di accogliere e far crescere il frutto del seme conciliare, parlando di vera rivelazione in
tutte le religioni, senza per questo cadere nella Scilla dell'esclusivismo tradizionale – solo il
cristianesimo è rivelato – e nemmeno nella Cariddi di un pluralismo livellatore. È ciò che ho voluto
esprimere parlando di "pienezza", benché ora siano necessari alcuni chiarimenti, tanto riguardo alla
"intenzione" soggettiva quanto alla fondazione oggettiva.

2. In quanto alla intenzione, risulta – o dovrebbe risultare – ovvio che tutta la concezione si
muove nella "logica della gratuità": essendo dono dello stesso Dio, e dono destinato a tutti, qualsiasi

34
A. H. J. Gunneweg, Religion oder Offenbarung. Zum hermeneutischen Problem des A.T, in «Zeitschrift für Theologie
und Kirche», 74 (1977), pp. 151-178 (v. p. 175).
35
Soprattutto nella Dichiarazione Nostra aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.

129
scoperta in un punto è intrinsecamente destinata a essere comunicata e condivisa con gli altri. Se
qualcuno si rende conto che Dio è perdono incondizionato, non lo scopre solo come perdono per sé
o per quelli della sua religione, ma come perdono per ogni persona di qualunque tempo o luogo. Per
questo, in se stessa, ogni autentica esperienza di rivelazione tende a comunicarsi, offrendosi
"maieuticamente" – e quindi come offerta libera – al mondo intero. La tendenza umana
all'egocentrismo può comparire; ma se compare, annulla l'essenza del rivelato: la tesi del libro di
Giona, già accennata, e la conquista neotestamentaria dell'universalismo sono esempi... e
avvertimenti.
Per quanto riguarda la fondazione, un primo passo sembra ovvio: si capisce che l'esistenza di
differenze nell'accoglienza non solo è logica a priori, ma risulta ampiamente constatabile a
posteriori: basta aprire qualsiasi libro di storia delle religioni. E un minimo di realismo dimostra la
stessa cosa rispetto alla graduazione – altrettanto inevitabile – in quanto a purezza e profondità.
Graduazione che può andare dall’ammettere sacrifici umani (probabilmente perfino in qualche
strato antico della stessa tradizione biblica, e di questo potrebbe essere un residuo, già in vista di
superamento, il racconto del sacrificio di Isacco)36 fino a promuovere l'amore per i nemici.
Un problema diverso lo presenta la domanda se è possibile una pienezza insuperabile
all’interno della storia. Sono molti coloro che restano paralizzati dinanzi a tale questione,
certamente grave e perfino inquietante. Con tutto ciò, debitamente posta e facendo attenzione alle
sottolineature già fatte, tale possibilità non risulta tanto strana. Lo mostrano determinate esperienze
della cultura umana. Come già accennato, non è vero che la scoperta dell'indegnità della schiavitù
suppone un punto di arrivo storicamente insuperabile? O, per portare un esempio di più recente
attualità, non succede la stessa cosa con la scoperta dell'uguaglianza radicale della donna? Che ci
sia ancora chi direttamente o indirettamente si oppone a riconoscerla, prova che non tutto è sempre
chiaro per tutti. Però, qualsivoglia siano gli argomenti teorici o l'evocazione di possibili
cambiamenti sociali che si possano addurre in contrario, non annulleranno la sicurezza di chi ha
davvero fatto quelle scoperte.
Il problema veramente ultimo sorge piuttosto alla domanda se è possibile decidere in
maniera critica e con un'argomentazione comunicabile l’esistenza di una religione che nel suo
insieme acquisisca una pienezza non ottenuta da nessun’altra. Domanda formidabile che, con ogni
evidenza, impone modestia e cautela; ma che non è facilmente evitabile. In realtà, in maniera più o
meno chiara e con spirito più o meno aperto, vi risponde praticamente e a modo suo ogni persona
che opti responsabilmente per professare una religione concreta. E in teoria, lo stesso Raimon
Panikkar riconosce che, con maggiore o minore chiarezza, «[q]uesta pretesa è comune
praticamente a tutte le religioni»37. Anche così la domanda rimane: si può decidere e giustificare
tale risposta?

3. Dando per scontato che in una questione così profonda e complessa non si può pretendere
l'unanimità, sembra però possibile e legittima una scelta che, senza l'ardire di essere
incontrovertibile, può essere fatta in maniera responsabile. Senza nascondere che questo è ciò che io
penso del cristianesimo: per questo mi confesso cristiano, indico sommariamente le ragioni e il
modo di questa scelta.
In primo luogo, senza ignorare il condizionamento che suppone l’essere stato educato in
ambiente cristiano, oggi questa scelta non è una premessa ma una conclusione. Detto altrimenti: è –
e dev’essere, affinché sia responsabile – una scelta a posteriori, frutto di un dialogo e di una
comparazione critica tra le proposte fatte dalle diverse religioni. In questo senso, penso e credo che
la visione che offre il cristianesimo – compendiata in Dio come Abbà di amore infinito e perdono

36
Su questa narrazione, sublime come simbolo convenientemente situato e spaventosa in una falsa interpretazione
letterale, cf. il capitolo 2 del mio libro Del Terror de Isaac al Abbá de Jesús, Vigo 1999 (originale galiziano: Vigo
1999).
37
Jesús en el diálogo interreligioso, in J. J. Tamayo (dir.), 10 palabras clave sobre Jesús de Nazaret, Estella 1999, p.
461.

130
incondizionato, annunciata e realizzata in maniera esemplare in Cristo – sia il massimo che si è
ottenuto e che si possa ottenere dentro la storia. È chiaro che, come già ho detto, questo si riferisce
all'intuizione fondamentale, non allo sviluppo di tutte le sue conseguenze né, tantomeno, al modo
storico in cui vengono realizzate dai cristiani. Per tale compito, infatti, rimane un campo sterminato
per concretizzazioni e scoperte di dettaglio, e in questo le altre religioni possono aiutare, insegnare e
correggere; in realtà, l'hanno fatto e lo fanno lungo la storia.
In secondo luogo, mi si fa ogni volta più chiara e feconda la convinzione che il valore
decisivo e diretto di questa affermazione di fede cristiana vale innanzitutto e soprattutto come
affermazione della validità di quanto scoperto nel cristianesimo, non come giudizio su ciò che gli
altri scoprono nella loro religione. Chiarisco: ho una conoscenza, sempre precaria ma
sufficientemente ragionevole e fondata, di ciò che io "vedo" nella mia religione; ma sono molto
cauto quanto alla mia comprensione di ciò che in realtà l’altro "vede" nella sua. Per questo cerco di
essere aperto – e parlo del molto che ho imparato e continuo a imparare, per esempio, dalle religioni
orientali – a tutti gli aiuti che esse possono darmi, come critica correttiva o come apporto positivo.
Il limite reale che metto è solo nella sottile frontiera in cui nella loro offerta possa prodursi – per me
e nella misura in cui io comprendo quello che mi dicono – la negazione di qualcosa che considero
fondamentale nella rivelazione cristiana.
Faccio un esempio concreto, oggi di speciale importanza. Posso imparare, e di fatto ho
imparato, dalle insistenze di alcune filosofie o teologie orientali sul carattere non-personale di Dio –
e occorre sottolineare che non è così per tutte, come troppe volte si suppone – a purificare la mia
visione di Dio quale essere personale, nella misura in cui mi aiutano ad evitare antropomorfismi più
o meno grossolani. Di fatto, in questa direzione vanno, per un lato, i miei lavori dedicati a fondare
teoricamente l'affermazione di Dio come persona38 e, per l’altro, la mia preoccupazione di evitare
ogni interventismo nella sua azione e ogni particolarismo nella sua rivelazione; così come
l'attenzione al modo di pregare, evitando di cadere nella "petizione" che cerca d’informare,
convincere o commuovere Dio. Sono però incapace di comprendere e mi rifiuto di accettare che sia
valida una visione impersonalistica del suo mistero. Comprendo e rispetto l’intenzione delle
proposte che vanno in tale direzione, oggi molto vive e diffuse; penso però che accettarle non solo
sminuirebbe qualcosa di fondamentale nella visione cristiana, ma farebbe un cattivo servizio al
dialogo con le religioni orientali e, in definitiva, all'esperienza religiosa dell'umanità.

4. Questo non pretende in alcun modo di sottrarre un bit all’importanza del dialogo in corso
con l'Oriente: perfino a un grande teologo come Paul Tillich, per sua stessa ammissione, dopo i
contatti col Giappone sarebbe piaciuto rivedere tutta la propria teologia. E, chiaramente, il problema
sta chiedendo un rinnovamento tanto forte che di sicuro non disponiamo ancora delle categorie
adeguate. Personalmente, mi sembra che il nuovo modo di pensare la rivelazione risulti molto
decisivo per aprire nuove strade. In forma quindi schematica queste sono le tre categorie che mi
risultano particolarmente significative: pluralismo asimmetrico, inreligionazione e teocentrismo
gesuanico.
Quella di pluralismo asimmetrico è già stata espressamente accennata e fondamentalmente
chiarita: senza negare quanto c’è di verità in tutte le religioni, e che storicamente questa verità
risponda a una rivelazione diretta di Dio, come cristiano penso di poter confessare con fondamento
ragionevole che nella rivelazione di Cristo si è raggiunta una pienezza definitiva e insuperabile.
Pienezza che, ovviamente, in ciò che ha di originale non è destinata a essere possesso proprio ed

38
Dieu comme ‘personne’ d’après la dialectique notion-concept chez Amor Ruibal, in: M. M. Olivetti (ed.),
Intersubjectivité et théologie philosophique (Biblioteca dell’Archivio di Filosofia), Padova 2001, pp. 699-712; Religión
y persona: lo personal en Dios, in I. Murillo (ed.), Religión y persona, Ediciones Diálogo Filosófico. Colección
Jornadas 5, Salamanca 2006, pp. 67-88; God’s Journey in religious consciousness: from ‘He’ to ‘I’, in «Archivio di
Filosofia», 74 (2006), nn. 1-3, pp. 203-214. Tabajos ahora recogidos, junto con otros, en A. Torres Queiruga, Alguén
así é o Deus en quen eu creo, Galaxia, Vigo 2012.

131
esclusivo, ma è scoperta rivelatrice di aspetti che – in sé e con identico diritto – sono destinati a
tutti, a disposizione di chi, a partire dalla propria religione, li consideri come un aiuto, una
correzione o un progresso.
La categoria di inreligionazione vuole, appunto, raccogliere questa conseguenza. In primo
luogo, nel senso di prendere con radicale serietà il carattere di vera rivelazione anche in riferimento
alle religioni non cristiane. Perché così rimane delegittimato qualunque tentativo di semplice
sostituzione o eliminazione di qualsiasi altra religione, che equivarrebbe alla negazione in esse di
una presenza reale di Dio. Ciò che è possibile, in maniera legittima e fraterna, è l’"offerta
maieutica" di aspetti che, secondo noi, risultano manchevoli o possono essere migliorati; beninteso
lasciandoli alla loro libera decisione, nella misura in cui giudichino opportuna la loro
incorporazione. Il che, in elementare logica di gratuità fraterna, implica che chi offre è a sua volta
disposto ad assumere gli elementi di progresso che l'altra religione può offrire; qualcosa che, del
resto, fa parte dell'esperienza di ogni vero missionario o missionaria. La parola "in-religionazione"
– in verità poco elegante – è costruita sul modello della "in-culturazione". Pur riconoscendo il
grande progresso che questa ha significato nella comprensione della missione cristiana, vuole
liberarla dal pericolo di rimanere ristretta nella sola dimensione culturale: rispettare la cultura, ma
ignorare o sopprimere la religione altrui.
Infine, il teocentrismo gesuanico va nella direzione indicata: Gesù è il culmine che non nega
niente dell'autenticamente acquisito dalle altre religioni. Ciò che confesso è che in Cristo la
rivelazione ha trovato le chiavi fondamentali di quello che Dio in maniera piena e con sicurezza
irreversibile vuole essere e vuole manifestare nella storia umana. Qualcosa che, proprio per questo,
non è patrimonio esclusivo, ma scoperta costitutivamente aperta sia verso la sua realizzazione
concreta sia verso la sua destinazione universale. Per questo ha senso solo come offerta senza
riserve: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19); e contemporaneamente, come
disposizione ad accogliere ogni contributo o progresso: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è
buono» (1Ts 5,21).

132

Potrebbero piacerti anche