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Leopardi e le arti figurative

Arturo Graf, che concesse uno spazio minimo all'indagine sull'educazione


artistica del poeta e liquidò il problema con una formula destinata a
irrigidirsi in un luogo comune: “Leopardi più che il senso interno (delle
arti figurative) fece difetto l’esterno”, con accenno perfino alla fisiologica
miopia del poeta, che avrebbe determinato il modo in cui egli percepiva
fisicamente le immagini, lontananti e sfocate; nonchè il modo in cui le
avrebbe poeticamente restituite, quasi una trasposizione linguistica di ciò
che effettivamente vedeva, con i suoi occhi malati.
“La vista di Roma non operò alcuna crisi nella sua esistenza. Aveva il
gusto poco educato alla scultura e alla pittura. Un chiaro di luna tra le
frondi gli faceva più effetto che non una Venere Capitolina. (...) Avrebbe
dato tutte le meraviglie di Roma per un riso di fanciulla''

“L'espressione del dolore antico, p. e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe,


nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere p. necessità differente da
quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina come ne ha
il nostro, non sopravvenivano le sventure agli antichi come necessaria-
mente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera
vita, ma come impedimenti e contrasti a quella felicità che agli antichi non
pareva un sogno, come a noi pare (...). Perciò la vendetta del cielo, le
ingiustizie degli uomini, i danni, le calamità, le malattie, le ingiurie della
fortuna, pareano mali tutti propri di quello a cui sopravvenivano (...).
Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in natura, e come ora
nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto della sensibilità ,
senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da loro, conosciute
inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore, nè l'affanno di una
madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescolato di nessuna amara e
dolce tenerezza di se stesso ec. ma interamente disperato. Somma
differenza tra il dolore antico e il moderno”.
E’ una pagina bellissima, benchè non sia di stretta lettura figurativa e
formale dell'opera; l'opera, anzi, viene usata come punto di partenza per
altro genere di riflessioni, per contrapporre due forme di dolore. Quello
antico, che può essere totalmente disperato perchè attribuito a circostanze
avverse che occorrono agli uomini, a casi accidentali, inattesi,
imprevedibili; e quello moderno, che può avvalersi persino della dolcezza
del dolore stesso, la ”tenerezza di se stesso”, in quanto riconosciuto
strutturale all'esistenza umana e, pertanto, non evitabile.
Un modo, certo molto personale, di comprensione del portato espressivo di
quelle opere, del loro significato emotivo e concettuale; se ci fosse stato
l'indispensabile aggancio con il linguaggio formale specifico, avremmo
avuto una oggettiva lettura storico-artistica, il che certamente non è.
Tuttavia, forse è troppo concludere che il poeta fosse insensibile ai valori
figurativi delle opere d'arte e si può piuttosto provare a capire cosa
effettivamente suscitasse l'interesse di Leopardi e cosa il suo distacco.

In fatto di arte a lui contemporanea, è diverso il caso dello scultore Pietro


Tenerani, su cui Leopardi espresse un giudizio apertamente positivo,
scrivendo da Roma, il 29 ottobre 1831, a Carlotta Medici Lenzoni:``Ho
veduto il bravo ed amabile Tenerani (...). Non so se Ella conosca un'altra
Psiche ch'egli sta lavorando, e che mi è parsa bellissima, come anche un
bassorilievo per la sepoltura di una giovane, pieno di dolore e di costanza
sublime''
E’ Antonio Giuliano che, nel già citato studio del 1966, indaga e chiarisce
cosa Leopardi abbia visto. Una Psiche del Tenerani, scolpita nel 1817, era
stata acquistata dalla Lenzoni nel 1819 e si trovava nella sua casa: doveva
essere ben nota al Leopardi, frequentatore di quella casa, essendo collocata
nel corridoio di accesso alla sala di rappresentanza; si tratta della stessa
opera che Pietro Giordani pubblica nell' ``Antologia del Viesseux''; l'altra
Psiche, cui il poeta si riferisce nella lettera del 1831, va identificata con
quella nota come Psiche svenuta, del 1822, oggi nella Galleria Nazionale
di Arte Antica di Roma.

Resta da dire del Canova, che Leopardi non potè incontrare, perchè lo
scultore morì a Venezia nel 1822 ,mentreLeopardi era a Roma: ma il poeta
potè assistere alla solenne commemorazione funebre romana. Per nulla
impressionato dall'autorevolezza del Canova e piuttosto infastidito dalla
trasformazione di quei funerali in vuota occasione mondana, Leopardi
scrive al padre: ”Domani abbiamo i famosi funerali di Canova a' SS.
Apostoli, e l'ingresso a questa funzione è molto ricercato, come sono qui
tutte le minchionerie''

Così sembrano stare le cose, dunque: le antichità classiche, il contesto


contemporaneo, gli stessi Tenerani e Canova entrano nella storia
leopardiana in modo sostanzialmente marginale, mai per una esplicita
considerazione di tipo storico- artistico, sempre come punti di partenza per
estensioni poetiche o filosofiche o concettuali che li includono nel proprio
sistema di pensiero come pretesti iniziali, non come oggetti specifici di
riflessione. Pertanto, il materiale artistico figurativo è, in qualche modo,
negato nelle sue componenti intrinseche, disconosciuto nella sua autono
mia oggettiva, nella sua differenza tecnica, formale, espressiva rispetto alla
poesia, alla letteratura, alle considerazioni filosofiche: non stupisce,
dunque, che il libro della Fedi, giunga a negare ogni rapporto con la storia
dell'arte neoclassica, con le antichità classiche specificamente intese, con il
contesto artistico marchigiano e rintracci, con convincente analisi, un
retroterra esclusivamente letterario anche per quelle immagini che
potrebbero sembrare ispirate da fonti figurative.

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