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ottobre 2018 a Copia omaggio


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Il senso della vita (secondo me)

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ottobre 2018 a Copia omaggio
Jack London
1876-1916
Jack London

Il senso della vita


(secondo me)

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© Chiarelettere editore srl


Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale)
Sandro Parenzo
Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.)
Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano
ISBN 978-88-6190-895-6

Prima edizione digitale: ottobre 2016

Fotocomposizione: Compos 90 S.r.l. - Milano


www.compos90.it

In copertina: immagine di mas213

I saggi Il senso della vita (secondo me), Rivoluzione, Come sono diventato
socialista sono tradotti da Alessandro Gebbia; i racconti Il sogno di Debs
e A sud dello Slot sono tradotti da Paola Cabibbo.

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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ottobre 2018 a Copia omaggio
Sommario

Introduzione di Mario Maffi 


Jack London: vita e opere IX
Perché oggi XVII

IL SENSO DELLA VITA (SECONDO ME)

Prima parte
Il senso della vita (secondo me) 5
Rivoluzione21
Come sono diventato socialista 51

Seconda parte
Il sogno di Debs 61
A sud dello Slot 91
Introduzione
di Mario Maffi
Jack London: vita e opere

È davvero arduo condensare in poche pagine una vita


tanto breve quanto intensa come quella di Jack Lon-
don. Che nasce il 12 giugno 1876 a San Francisco:
il padre, un astrologo itinerante, si rifiuta di ricono-
scerlo e abbandona la famiglia, la madre si risposa
con John London, vedovo con due figlie. In ristret-
tezze economiche, i London si trasferiscono dall’altra
parte della Baia, a Oakland, e Jack comincia a lavo-
rare, appena dodicenne, in una fabbrica di scatola-
me. Quattro anni dopo, lo troviamo sul fronte del
porto, a capo di una banda di ladruncoli: è chiama-
to «Principe dei pirati di ostriche» ed è già assiduo
frequentatore del First and Last Chance Saloon. Poi,
dopo un’esperienza di qualche settimana nella poli-
zia marittima della Baia, s’imbarca come marinaio su
una goletta che tocca Giappone, Corea, Siberia. Pas-
sano sei mesi ed eccolo di nuovo a Oakland: prima
operaio semplice in una fabbrica di juta, quindi spa-
latore di carbone per tredici ore al giorno in una cen-
trale elettrica. Intanto, legge: famelicamente, disor-
dinatamente. E scrive: con un racconto su un tifone
al largo del Giappone vince un concorso indetto dal
«Morning Call» di San Francisco.
XII  Il senso della vita (secondo me)

A diciotto anni, mentre nel paese infuria una gra-


vissima crisi economica, Jack si unisce a un folto eser-
cito di disoccupati in marcia verso Washington per
chiedere un programma di lavori pubblici. Presto però
abbandona la compagnia e prosegue da solo o in pic-
coli gruppi, scendendo fiumi su imbarcazioni preca-
rie, saltando sui treni merci come un vero hobo, figura
ormai familiare negli Stati Uniti del tempo; a Buffa-
lo, Stato di New York, è arrestato per vagabondaggio
e trascorre un mese in carcere; dopo di che, sempre
clandestino sui treni merci, torna all’Ovest – esperien-
ze più tardi rievocate in uno dei suoi libri più belli,
La strada (1907). Quindi s’iscrive alla Oakland High
School, per un semestre segue i corsi dell’Universi-
tà di California a Berkeley e scopre Marx ed Engels,
Darwin e Spencer. Aderisce al Socialist Labor Par-
ty e ne diviene abile agitatore (sarà arrestato per un
comizio di strada). E continua a mantenersi con lavo-
ri occasionali: quello, particolarmente faticoso, pres-
so una grossa lavanderia ispirerà numerose pagine del
romanzo Martin Eden, uscito nel 1909.
Nel luglio del 1897, la svolta. A seguito della sco-
perta di alcuni filoni nel Klondike (Canada), scoppia
negli Stati Uniti la «febbre dell’oro», e Jack s’imbar-
ca sul piroscafo Umatilla diretto a Dawson, da dove
partono le carovane di speranzosi cercatori. Dopo
alcuni mesi, ammalatosi di scorbuto, fa ritorno a
Oakland: senza pepite, ma con un bagaglio prezio-
so di esperienze e, soprattutto, di storie. Intanto leg-
ge e scrive, tiene regolari conferenze per il Socialist
Labor Party (che lascerà nel 1901 per iscriversi al
neonato Socialist Party of America), e invia raccon-
Jack London: vita e opere  XIII

ti a giornali e riviste ricevendo continui rifiuti – fin-


ché, nel 1899, l’«Overland Monthly Magazine» gli
pubblica All’uomo sulla pista, ambientato fra le nevi
del Klondike. La strada è aperta: la prima raccolta
di «racconti del Grande Nord», Il figlio del lupo, esce
nel 1900, seguita l’anno dopo dalla seconda, Il dio
dei suoi padri. Entrambe hanno notevole successo.
Sono anni pieni, per Jack. Sposa Bessie Maddern,
nascono due figlie (Joan e Becky), si presenta can-
didato socialista alle elezioni di sindaco a Oakland
e a Berkeley, tiene comizi su temi politici ed econo-
mici: berretto floscio sulle ventitré, fazzoletto rosso
al collo, viso aperto e sorridente, corpo muscoloso,
è una figura carismatica nei quartieri proletari e sul
fronte del porto. È «Jack il ribelle». E cresce il pub-
blico dei lettori, aumentano le richieste da parte di
giornali e case editrici: il Klondike pare una minie-
ra inesauribile.
Il suo sguardo però non è rivolto solo indietro, a
quell’avventura. Nel 1902 è assunto come corrispon-
dente dell’American Press Association per seguire la
guerra angloboera in Sudafrica: ma, mentre fa tap-
pa a Londra, giunge notizia della firma d’un trattato
di pace e l’incarico è annullato. Jack decide di restare
nella metropoli, d’impiegare in altro modo il proprio
tempo: recupera abiti usati da un rigattiere e, trovata
una stanzuccia nell’East End proletario, vi trascorre
sei settimane raccogliendo materiali diversi, vivendo
fra portuali e prostitute, disoccupati e raccoglitori di
luppolo, leggendo indagini e resoconti giornalistici
su «come vive l’altra metà». Tornato negli Stati Uni-
ti, scrive Il popolo dell’abisso, straordinario reportage
XIV  Il senso della vita (secondo me)

di notevole attualità ancor oggi, accompagnandolo


con alcune intensissime fotografie.
Pubblica altre raccolte, alcuni sfortunati tentativi
di romanzo, si separa da Bessie, inizia una relazione
con Charmian Kittredge (sua compagna per il resto
della vita) e, nel 1903, dà alle stampe Il richiamo del-
la foresta, che consoliderà definitivamente la sua fama
negli Stati Uniti e all’estero. Ormai Jack London è
scrittore noto e popolare. Nel 1904, per la catena di
Hearst («l’imperatore della carta stampata»), è in Giap-
pone per la guerra russo-giapponese: arrestato e rila-
sciato, parte per la Corea su una piccola imbarcazio-
ne, s’avvia a piedi verso il fronte, è di nuovo fermato
dai giapponesi e rispedito in patria – cinque mesi di
peregrinazioni, altri reportage. È questo il più den-
so periodo di lavoro editoriale e giornalistico, oltre
che di attività per il Socialist Party. Con l’amico scrit-
tore Upton Sinclair, fonda l’Intercollegiate Sociali-
st Society per diffondere il socialismo nei college,
raccoglie in volume una serie di testi politici (Guer-
ra delle classi), scrive un romanzo sul pugilato, tiene
conferenze a Harvard e Yale, comizi a sostegno del-
la rivoluzione russa del 1905 – e, nel 1906, pubblica
Zanna bianca, per certi versi il seguito de Il richiamo
della foresta. Inoltre «scopre» la Valle della Luna, una
vasta regione non lontana da Glen Ellen e Sonoma,
in California, dove progetta di costruire un ranch
modello. Poi, il 18 aprile 1906, la terra trema a San
Francisco e dintorni: complice un disastroso incen-
dio, la città è semidistrutta. London è sul posto, tac-
cuino e macchina fotografica alla mano, e lascia una
drammatica testimonianza della catastrofe.
Jack London: vita e opere  XV

Ma adesso è il mare ad attrarlo sempre più. Nel­


l’apri­le del 1907 salpa con Charmian e una picco-
la ciurma alla volta dei Mari del Sud sullo Snark, lo
yacht che s’è costruito apposta (narrerà il viaggio in
La crociera dello Snark, uscito nel 1911). Un anno
e mezzo di navigazione, di scoperte e incontri, ma
anche di traversie e malanni fisici, durante il qua-
le scrive altri racconti del Klondike e soprattutto
Martin Eden, il romanzo parzialmente autobiogra-
fico che Jack intende come un attacco all’individua-
lismo, ma che non viene compreso dalla critica. Nel
frattempo escono la novella Prima di Adamo, la rac-
colta L’amore della vita, La strada e, nel 1908, l’altra
opera che, insieme a Martin Eden, resta la più forte
testimonianza del suo impegno politico, tanto inten-
so quanto, a volte, contraddittorio: Il tallone di fer-
ro, con la lucida percezione di dinamiche economi-
che, politiche e sociali che di lì a pochi anni prende-
ranno forma e piede nel mondo.
Tornato in California, inizia la costruzione del-
la Casa del Lupo, il ranch modello, un’impresa che,
di giorno in giorno, diviene sempre più imponente
e dispendiosa. La tenuta ormai supera i mille acri, è
una delle più estese della Valle della Luna, e Jack deve
sottoporsi ad autentici tour de force per far fronte
alle spese: scrive reportage sui principali incontri di
boxe del tempo, i romanzi Burning Daylight e Smoke
Bellew, altri saggi politici, il memoir autobiografico
John Barleycorn sulla lotta ormai più che decenna-
le con l’alcol, i primi «racconti dei Mari del Sud», il
romanzo La valle della luna, in cui celebra una sor-
ta di «ritorno alla terra»... Sono anni complicati: la
XVI  Il senso della vita (secondo me)

celebrità pesa, la salute vacilla (soffre di reumatismi e


gravi disturbi renali aggravati dall’alcolismo), le con-
traddizioni fra un esacerbato vitalismo e una profon-
da vena di pessimismo, fra un proclamato materiali-
smo e ricorrenti suggestioni nietzschiane, divengo-
no frequenti e intense, i progetti grandiosi vanno in
fumo (a volte letteralmente: costata ormai settanta-
mila dollari e appena costruita, la Casa del Lupo è
distrutta da un incendio), s’accumulano frustrazio-
ni e incomprensioni. Lo testimoniano due prese di
posizione: quando, nei primi anni Dieci, divampa
in Messico la rivoluzione di Villa e Zapata, dopo un
iniziale entusiasmo (che anima la splendida novel-
la Il messicano, del 1911), Jack scivola verso posizio-
ni scioviniste, a difesa degli interessi dei petrolieri
statunitensi nell’area; poco dopo, allo scoppio del-
la Prima guerra mondiale, si dissocerà dalla posizio-
ne «neutralista» e «pacifista» assunta da buona parte
dei socialisti statunitensi, appoggiando la causa degli
Alleati contro la Germania, da lui chiamata «Cane
pazzo d’Europa».
Tra il 1915 e il 1916, sulle orme di Gauguin e di
Stevenson, torna più volte nei Mari del Sud, attratto
dagli scenari e dalle popolazioni indigene, dalle leg-
gende e dai racconti che, memore di quanto era suc-
cesso nel Klondike, spera possano tornare a riempire
una sorgente minacciata d’inaridimento. Ma non ha
pace. Quegli ultimi anni sono segnati da altri malan-
ni fisici, da un’instabile condizione psicologica, da un
continuo ricorso all’alcol e ai medicinali: nelle foto
lo vediamo ingrassato, quasi gonfio, lo sguardo dol-
ce velato da un’oscura sofferenza. Al tempo stesso
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ottobre 2018 a Copia omaggio
Jack London: vita e opere  XVII

quel magma di idee e convinzioni che, per almeno


quindici anni, è stato alla base del suo essere autore
impegnato, sismografo sensibile di quanto avviene
nella società contemporanea, non cessa di ribollire. E
così, mentre infuria la guerra mondiale, da Honolu-
lu, il 7 marzo 1916, Jack invia una lettera di dimis-
sioni al Socialist Party, accusandolo d’aver perduto
lo spirito combattivo d’un tempo, d’essersi adagiato
nel compromesso e nella peaceableness, nell’amor di
pace. Ma, come scrive Philip S. Foner, uno dei più
intelligenti studiosi del London politico, «le Hawaii
non potevano più curare London».1 Che, malato e
in crisi, torna a casa.
La mattina del 22 novembre 1916 Jack viene tro-
vato al tavolo di lavoro, in coma: ogni tentativo di
rianimarlo fallirà. Si parlerà di una dose eccessiva di
morfina, di «una forma di uremia gastrointestinale»,
di suicidio: più probabilmente, le cause furono più
d’una, intrecciate insieme. Ma tanto bastò – e basta
ancora, ostinatamente – per inscrivere quella morte
nella lunga e tragica teoria di suicidi d’artisti, da Hart
Crane (la cui scomparsa nelle acque del Golfo del Mes-
sico nel 1932 riecheggia quella del Martin Eden lon-
doniano) a Ernest Hemingway e molti altri. Troppo
facile e sbrigativa costruzione ideologica.
In suo ricordo, la rivista «The Masses», una delle
più creative e agguerrite espressioni del movimento
socialista dell’epoca, scrisse: «Jack London portò per

1
Philip S. Foner, «Jack London: American Rebel», in Jack London.
American Rebel, ed. by Philip S. Foner, The Citadel Press, New
York 1967, p.128.
XVIII  Il senso della vita (secondo me)

la prima volta nella narrativa in inglese la vera scien-


za ed energia della rivoluzione». E così anche noi lo
vogliamo ricordare.2

2
Fra le molte biografie londoniane, mi piace ricordare, oltre a quel-
la della figlia Joan ( Jack London and His Times. An Unconventional
Biography, 1939, University of Washington Press, Seattle 1974),
quelle di Robert Barltrop, Jack London. L’uomo, lo scrittore, il ribel-
le, Mazzotta, Milano 1977, di Andrew Sinclair, Jack. A Biography
of Jack London, HarperCollins, New York 1977, di Irving Stone,
London. L’avventura di uno scrittore, Editori Riuniti, Roma 1979, e
di Russ Kingman, A Pictorial Life of Jack London, Crown Publishers,
Inc., New York 1979.
Perché oggi

«La vera scienza ed energia della rivoluzione.»


Lasciamo stare per il momento le sue contraddi-
zioni: che furono molte, ma che non appartenne-
ro solo all’individuo Jack London. Esse attraversa-
vano infatti il movimento socialista statunitense di
quegli anni, nato fragile sul piano teorico, abbrac-
ciante una varietà di tendenze anche contrastan-
ti (dal cooperativismo all’anarchismo, dal cristia-
nesimo sociale al riformismo di stampo europeo,
senza dimenticare indubbie pattuglie di militanti
combattivi forgiati al fuoco di numerose battaglie
cruente, ma nemmeno quelle sconcertanti venatu-
re di razzismo e sciovinismo destinate ad affiora-
re periodicamente) e suggestionato dagli stessi svi-
luppi economico-sociali contemporanei (i «baroni
predatori», i monopoli, l’imperialismo, l’interven-
tismo statale, i governi forti, il «grosso randello»
del presidente Theodore Roosevelt: non è difficile
cogliere in questi sviluppi la radice delle suggestioni
nietzschiane diffuse in non pochi settori del movi-
mento). In un «ricordo di Jack London», pubblicato
nel 1934 sulla rivista francese «Commune», l’amico
Edmondo Peluso (che in quel primo Novecento fre-
XX  Il senso della vita (secondo me)

quentava casa London e militava nella stessa sezio-


ne del Partito socialista di Oakland, per poi esse-
re, nel 1921, tra i fondatori del Partito comunista
d’Italia) delineava in maniera critica ma affettuosa
il contesto in cui lo scrittore visse e scrisse, il suo
percorso intellettuale ed esistenziale, cogliendo al
contempo le fratture e le incoerenze dell’individuo
e del mondo di cui faceva parte: «Era molto ospita-
le e per nulla complimentoso. Quasi ogni sera, alla
stessa ora, i suoi “invitati permanenti” sedevano a
tavola con lui per partecipare al frugale suo pasto.
Aveva effettuato una selezione tra le sue numero-
se conoscenze, creandosi una cerchia intima che
gli serviva da voce critica e da stimolante condivi-
so. Erano uomini e donne raccolti da ogni campo
dell’attività sociale, politica e intellettuale. Politi-
camente, non tutti la pensavano allo stesso modo:
ma a tutti poteva applicarsi l’etichetta di radicale,
che qualificava allora – negli Stati Uniti – chiunque
si levasse contro l’ordine costituito. Tra loro figu-
rava, ad esempio, il segretario della sezione sociali-
sta di Oakland, un operaio fortemente devoto alla
causa proletaria, eppure timido e bonario. Ma c’e-
rano anche giornalisti chiassosi, inquieti e ficcana-
so. Sarcastici critici d’arte. Occhiuti illustratori di
riviste. Musicisti sentimentali e social workers pie-
ni di buone intenzioni. In questa specie di comu-
ne letteraria, ciascuno portava alla discussione la
sua nota personale. Perché, malgrado tutti fossero
ospiti di Jack London, grazie al tatto e alla sensibi-
lità del padrone di casa ognuno di loro si sentiva a
proprio agio fin dal primo giorno come se fosse a
Perché oggi  XXI

casa propria».1 La politica rivoluzionaria, l’eco dei


principali avvenimenti nazionali e internazionali,
il senso di un impegno che non era vezzo (o vizio)
intellettuale: di questo era intessuto quel mondo di
relazioni. E non importa se, nel volgere degli anni,
le nubi si siano accumulate intorno a Jack, il mer-
cato editoriale l’abbia stritolato (o forse il matrimo-
nio con Charmian l’abbia soffocato?), le angosce si
siano annodate per non più lasciarlo; così come è
intrigante ma superfluo domandarsi come sarebbe-
ro andate le cose, per l’individuo Jack London, se
fosse sopravvissuto a quella mattina del novembre
1916 e avesse potuto ricever notizia di quanto sta-
va accadendo in Russia nella primavera e nell’au-
tunno del 1917 – lui che aveva accolto con tanto
trasporto la rivoluzione del 1905.
Lasciamo stare tutto ciò, e torniamo alle poche
parole di The Masses: perché lì sta il motivo per cui
Jack London e tanta parte dei suoi scritti continuaro-
no e continuano a emozionare generazioni di ribelli,
di «non riconciliati», di giovani e meno giovani con-
vinti che questo non sia «il migliore dei mondi pos-
sibili». E che dunque loro compito (nostro compito)
sia di dire a esso: «No! con voce di tuono», come già
scriveva Herman Melville a Nathaniel Hawthorne
in una lettera del 1851, proprio mentre sempre più si
diffondeva quell’ottimismo autocelebrativo che sarebbe
divenuto tipico di tanta parte della cultura americana.

1
Con il titolo Ricordi su Jack London, il testo di Peluso è stato
ripubblicato a puntate sull’inserto culturale domenicale de «Il Sole
24 Ore» del 26 luglio e del 2, 9, 23, 30 agosto 2015.

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XXII  Il senso della vita (secondo me)

In opere come La strada, Martin Eden, Il tallone di


ferro, in vari scritti più esplicitamente politici, London
seppe guardare controluce quel mondo, questo mon-
do: seppe cogliere e restituire con una prosa limpida
e trascinante la consapevolezza di una società divisa in
classi (nonostante la fragorosa retorica al contrario), l’a-
mara riflessione sul ruolo dell’artista (divenuto ormai
piccolo ingranaggio di un meccanismo stritolatore),
l’acuta e quasi istintiva comprensione degli sviluppi
sociali (già da tempo in atto in maniera più o meno
sotterranea). Non a caso la figlia Joan ricordò a ragio-
ne, nella biografia del padre citata più sopra, come sia
impossibile comprendere Jack senza far riferimento al
complesso, traumatico, vorticoso periodo in cui visse,
tra fine Ottocento e inizio Novecento. D’altra parte
anche i «racconti del Grande Nord» ruotano intorno
a un nodo di profonde convinzioni controcorrente:
su ciò che è diventato il mito della Frontiera (autenti-
ca Araba fenice sempre rinascente su suolo statuniten-
se), sulla piccolezza dell’individuo (schiacciato da forze
ben superiori), sulle leggi naturali che reggono quegli
scenari (e sulle leggi economiche che reggono la socie-
tà)… E soprattutto sulla necessità della lotta: Amore
della vita, del 1905, tanto amato da Lenin che anco-
ra sul letto di morte chiese alla compagna Krupskaja
di leggerglielo, si apre con questi versi non firmati: «Di
tutto, questo è rimasto:/ l’aver vissuto e l’aver lottato./
Questo sarà il guadagno del gioco,/ anche se sarà per-
so l’oro della posta».2

2
Su questi temi, cfr. il capitolo «Jack London e il “sogno americano”»,
nel mio La giungla e il grattacielo. Scrittori, lotte di classe, «sogno
Perché oggi  XXIII

Le sue esperienze esistenziali, gli stimoli e gli


influssi che gli venivano dal complesso e tormenta-
to momento storico attraversato dagli Stati Uniti, le
letture predilette di Balzac e di Gorky, di Maupas-
sant e di Stevenson, tutto ciò si tradusse in una scrit-
tura che non dimenticava mai il reale (se non, for-
se, nei pochi anni di declino psicofisico precedenti
la morte o in certe fables più direttamente stimola-
te da quanto andava leggendo e scoprendo in quella
fase, come Il lupo del mare o Il vagabondo delle stel-
le), ma che anzi sapeva restituirlo con tanta sempli-
cità e suggestiva intensità. «La vera scienza ed ener-
gia della rivoluzione» significavano allora, per il Lon-
don scrittore, la capacità di tradurre narrativamente
le questioni contemporanee senza mai disgiungerle
dall’ardore del militante, e anzi intessendole d’esso,
conferendovi una dimensione quasi «mitica», da tra-
smettere, proprio in quanto «mito» carico di energia
e suggestione, a generazioni future.3 I testi qui rac-
colti lo dimostrano con esemplare chiarezza.
Come sono diventato socialista, pubblicato nel 1903
sulla vivace rivista socialista «The Comrade», è mol-
to più che una sintetica biografia: coglie il momen-
to preciso in cui il velo cade dagli occhi del giovane
non ancora autore e gli mostra con violenta crudez-

americano», 1865-1920, Odoya, Bologna 2013, oltre a Dick North,


Il marinaio nella neve. Jack London e il Grande Nord, a cura di
Davide Sapienza, CDA&Vivalda Editori, Torino 2007 e, sempre
a cura di Davide Sapienza, Jack London, Rivoluzione, Mattioli
1885, Fidenza 2007.
3
Cfr. Jack London, La forza della letteratura. Articoli e interventi, a
cura di Cristiano Spila, Nova Delphi, Roma 2016.
XXIV  Il senso della vita (secondo me)

za la «legge della sopravvivenza» nella società capi-


talistica; Rivoluzione, pubblicato nel 1908 su «Con-
temporary Review», è il testo della famosa confe-
renza che London tenne a più riprese in giro per il
paese: una lucida analisi delle contraddizioni socia-
li (simile, per certi versi, a quanto aveva fatto pochi
anni prima ne Il popolo dell’abisso) e, al tempo stes-
so, a call to arms, una «chiamata alle armi» da parte
di un autore popolare e amato che certo non teme
di «sporcare» con essa la raggiunta notorietà; Che
cosa la vita significa per me, pubblicato nel 1906 su
«Cosmopolitan», è un’altra narrazione autobiografica:
il percorso di un giovane da inconsapevole sfruttato a
convinto ribelle che non dimentica mai, nei sentieri
della vita, la propria originaria appartenenza di clas-
se. E poi i due racconti: Il sogno di Debs, pubblica-
to nel 1909 sull’importante «International Socialist
Review», è la narrazione (dal punto di vista, non si
dimentichi, di un rampollo dell’aristocrazia del cen-
so: l’ironia attraversa così tutto il testo) di uno scio-
pero generale come ce ne furono tanti in quei con-
vulsi anni americani;4 A sud dello Slot, pubblicato
4
È utile qui ricordare che Eugene Debs fu una delle figure carismatiche
(e più coerenti) del movimento socialista americano di quegli anni:
ferroviere, sindacalista, militante di primo piano, tra i fondatori del
Socialist Party of America, nel 1918, settantatreenne, fu arrestato e
condannato a dieci anni di prigione per un comizio antimilitarista
(morirà nel 1926). Quanto all’Ilw che nel racconto guida lo sciopero
generale, è chiaramente modellata sull’Iww (Industrial Workers of the
World), il battagliero sindacato nato nel 1905 in reazione alle posizioni
compromissorie, corporative e razziste del sindacato maggioritario,
l’American Federation of Labor. Risuonano dunque anche in questo
testo le tematiche centrali al movimento operaio e socialista del tempo.
Perché oggi  XXV

nello stesso anno sul «Saturday Evening Post», oltre


a offrire un’ulteriore tranche de vie sociale e cultura-
le, fra quartieri alti e bassifondi, stanca intellighen-
zia accademica e vigorosa militanza proletaria (e a
riprendere il tema dell’«io diviso», tanto caro a Lon-
don come a numerosi autori di quei decenni), tor-
na a ragionare sul ruolo dell’intellettuale in paral-
lelo con Martin Eden (la data di pubblicazione è la
medesima) – con un esito però diverso: nel roman-
zo si mette in scena la sconfitta dell’individuo, nel
racconto il suo fondersi con la classe operaia. Il tut-
to è illuminato dalla capacità di London (storyteller
di prim’ordine) nel rielaborare con vigore e semplici-
tà – rivisitati, allegorizzati, per l’appunto tradotti in
fiction – i temi della scienza e della vita sociale, del-
la cultura contemporanea e in particolare della poli-
tica: o, meglio, della responsabilità politica dell’in-
dividuo, nel suo legame con la classe da cui provie-
ne o che è infine spinto ad abbracciare.
Temi sorpassati? Sembrerebbe di no. Gli svilup-
pi travolgenti e distruttivi dell’economia capitalisti-
ca, la cruda realtà del lavoro salariato e della mise-
ria crescente, l’acuirsi delle tensioni e dei conflit-
ti sociali e internazionali, il peso schiacciante degli
Stati-Moloch, la pervasività del militarismo, il con-
tinuo aggregarsi e disaggregarsi di individui e grup-
pi, le sofferenze e il bisogno di riscatto di milioni e
milioni di proletari e proletarie, sono già lì, in quelle
pagine. E, a fronte di tutto ciò, sta sempre quell’in-
sistente domandarsi «come narrare questi scenari,
questi personaggi, queste situazioni, questi aneliti?»
e, soprattutto, «da che parte sto?»: quel which side
XXVI  Il senso della vita (secondo me)

are you on? che, di lì a pochi anni, nel pieno della


tremenda Grande Depressione statunitense, torne-
rà a risuonare con intensa drammaticità in poesie e
canzoni, racconti e romanzi. La robusta produzio-
ne letteraria di John Steinbeck, James Agee, Erskine
Caldwell, Jack Conroy, Woody Guthrie, Josephine
Herbst, Tillie Olsen (fra le molte voci che si levarono
allora, negli anni Trenta del Novecento, per gridare
per l’appunto: «No! Con voce di tuono!») ha infat-
ti, pur nelle evidenti diversità e singolarità, qualche
cosa di Jack London: lo schierarsi istintivo, il pathos
nell’abbracciare la causa dei disinherited, la capaci-
tà di racchiudere nello sguardo ferito o nella parola
tagliente di un personaggio la sofferenza e il furore
di un’intera classe... Come lo avranno, nei decenni
successivi, altri scrittori che non si ritraggono dal-
lo scavare nelle pieghe e nelle piaghe della società
contemporanea, piuttosto che limitarsi a scrutare
le convoluzioni del proprio ombelico: autori come
Howard Fast e Harvey Swados, e anche – in tem-
pi recentissimi e con orientamenti, valenze e impo-
stazioni proprie – E.L. Doctorow o il più giovane
Philipp Meyer. Tutti, certo, più o meno lontani da
London, ma accomunati da quel suo approccio, sere-
namente grintoso, fors’anche romantico, ma sem-
pre positivo, alla realtà.
Pur nell’attorcigliarsi di tanti svolti della sua vita,
London non dimenticò dunque mai la collocazio-
ne sociale, le proprie origini, i molti anni trascor-
si sull’orlo di quell’abisso dalle pareti scivolose. Nel
1905, durante un comizio a Los Angeles, dopo aver
ricordato le parole di numerosi critici, le loro valu-
Perché oggi  XXVII

tazioni e classificazioni, dichiarò: «Prima che mi si


dessero tutti questi titoli, ho lavorato in una fabbri-
ca di conserve, in una di sottaceti, sono stato mari-
naio davanti all’albero maestro, e una volta ho tra-
scorso mesi e mesi fra le schiere di disoccupati a cer-
car lavoro; ed è questo lato proletario della mia vita
che io venero di più, e a cui voglio restare attacca-
to finché vivo».5
Così, non si possono leggere La strada, Martin
Eden, Il tallone di ferro e in particolare le pagine che
seguono senza essere spinti a guardare fuori della fine-
stra, a osservare quanto succede giù in strada, a inter-
rogarsi senza remore sulla realtà che ci sta intorno,
a sentirne e condividerne il pulsare continuo e vita-
le. E, in particolare, a far tutto ciò non con distac-
cata freddezza o – peggio – con cinica disillusione,
bensì con la passione che ha sempre guidato la pen-
na di Jack London. In un panorama editoriale che
sembra continuare a privilegiare il ripiegamento su
se stessi, il narcisismo e l’individualismo, le piccole
tempeste nella tazzina da tè, il rifiuto dell’impegno
e dello schierarsi, l’accettazione del «come è» e l’os-
sessiva ricerca in esso d’una piccola (e illusoria) nic-
chia personale, ben venga l’aria pura, piena d’ossi-
geno e di vita, che spira ormai da cent’anni da que-
sti testi, da queste parole.

5
Citato in Robert Barltrop, op. cit., p.191.
il senso della vita
(secondo me)
Prima parte
Il senso della vita (secondo me)*1

Io appartengo per nascita alla classe operaia. Molto


presto ho iniziato a scoprire l’entusiasmo, l’ambizione
e gli ideali e il soddisfarli è divenuto il problema del-
la mia vita di fanciullo. L’ambiente che mi circonda-
va era crudele, duro e meschino. Non potevo godere
di una visione in prospettiva ma solo dal basso ver-
so l’alto. Occupavo il fondo della scala sociale, dove
la vita non offriva altro che sordidezza e miseria del-
la carne e dello spirito; perché qui la carne e lo spi-
rito erano come affamate e tormentate.
Sopra di me torreggiava il colossale edificio della
società e ai miei occhi l’unica via d’uscita era in alto.
Così ben presto ho preso la decisione di dare la sca-
lata a questo edificio. Là, in alto, gli uomini indos-
savano completi scuri e camicie inamidate e le don-
ne abiti eleganti. Inoltre, là c’erano cose buone da
mangiare e in grande abbondanza. Ciò significava
molto per la carne. Poi c’erano le cose dello spirito.
Là, sopra di me, lo sapevo, esistevano la generosità
dello spirito, il libero e nobile pensiero, la brillante
vita intellettuale. Sapevo tutto questo perché legge-
*
What Life Means to Me, «Cosmopolitan», marzo 1906.
6 Il senso della vita (secondo me)

vo i romanzi della Seaside Library,1 nei quali, tranne


i cattivi e le avventuriere, tutti gli uomini e le don-
ne avevano nobili pensieri, parlavano un linguaggio
forbito e compivano azioni gloriose. In breve, così
come accettavo il sorgere del sole, ho accettato che
lassù sopra di me tutto fosse perfetto, nobile e raf-
finato; tutto assicurasse dignità e decoro alla vita, le
conferisse il valore di viverla e questo premiasse ognu-
no per le proprie miserie e travagli.
Ma non è particolarmente facile per uno innalzar-
si dalla classe operaia – soprattutto se è svantaggiato
dal possesso di ideali e illusioni. Vivevo in un ranch
in California ed era arduo trovare il sistema per far-
lo. Ben presto ho iniziato a studiare il tasso d’inte-
resse sugli investimenti e il mio cervello di fanciullo
si è spaventato nel comprendere le virtù e i pregi di
quella straordinaria invenzione dell’uomo, l’interesse
composto. Inoltre, mi sono documentato sulle paghe
correnti per i lavoratori di ogni età e sul costo della
vita. Dall’insieme di tutti questi dati sono giunto alla
conclusione che se avessi iniziato a lavorare imme-
diatamente e a mettere denaro da parte fino a che
non avessi avuto cinquanta anni, allora avrei potu-
to smettere di lavorare e cominciare a fruire di una
consistente porzione di piaceri e beni che mi avreb-
bero permesso di ascendere nella scala sociale. Natu-
1
The Seaside Library era una delle principali case editrici new-
yorkesi di romanzi popolari, per lo più in edizione pirata. Crea-
ta e diretta da George Munro, inizialmente in forma di rivista
pubblicata tre volte alla settimana, venne poi seguita dalla colla-
na economica Seaside Library Pocket Edition, molto diffusa tra
i ceti medi e inferiori [ndt].
Il senso della vita (secondo me) 7

ralmente, ero fermamente determinato a non sposar-


mi, mentre mi dimenticai quasi del tutto di prende-
re in considerazione quell’enorme iattura della clas-
se operaia: le malattie.
Ma la vita che era in me richiedeva più che una
magra esistenza di stenti e di economie. Intorno a
me c’era ancora la stessa sordidezza e miseria e lassù,
sopra di me, il paradiso stesso in attesa di essere con-
quistato; ma la via per salirvi era differente. Adesso
era rappresentata dagli affari. Perché risparmiare sui
miei guadagni e investire in Buoni del Tesoro, quan-
do comprando due giornali per cinque centesimi, con
una sola mossa del polso, li potevo rivendere a dieci
centesimi e raddoppiare così il mio capitale? La via
degli affari era la mia scala e già mi vedevo come un
principe dei mercanti ricco e di successo.
Ahimè le visioni! All’età di sedici anni mi ero già
guadagnato il titolo di «principe». Ma questo titolo
mi venne affibbiato da una banda di ladri e taglia-
gole, dai quali venivo chiamato «il Principe dei Pira-
ti d’Ostriche». E a quel tempo avevo salito la prima
rampa della scala degli affari. Ero un capitalista. Pos-
sedevo una barca e una attrezzatura completa per la
pesca di frodo delle ostriche. Avevo cominciato a
sfruttare i miei sottoposti. Avevo una ciurma com-
posta da un solo uomo. Come capitano e proprie-
tario della barca, prendevo i due terzi del bottino e
un terzo lo davo alla ciurma, sebbene questa lavo-
rasse sodo come me e con l’unico rischio della pro-
pria vita e della propria libertà.
Questo è stato il gradino più alto che ho rag-
giunto nella scala degli affari. Una notte uscimmo
8 Il senso della vita (secondo me)

per un raid contro i pescatori cinesi. Le cime e le


reti valevano dollari e centesimi, era un furto, ne
convengo, ma rappresentava esattamente lo spiri-
to del capitalismo. Il capitalista si impossessa dei
beni dei suoi sottoposti grazie alle trattenute sulle
paghe o al tradimento della fiducia o alla corruzio-
ne di senatori e giudici della Corte suprema. L’u-
nica differenza è che io ero più violento. Mi ser-
vivo delle armi.
Ma, quella notte, la mia ciurma era composta da
quegli incapaci contro i quali il capitalista è aduso a
esplodere, perché, in verità, questi incapaci aumenta-
no le spese e riducono i profitti. La mia ciurma fece
entrambe le cose. Per negligenza appiccò il fuoco
alla vela maestra che andò completamente distrut-
ta. Non ci furono profitti quella notte e i pescato-
ri cinesi divennero più ricchi per le reti e le cime
che noi non rubammo. Andai fallito, non essendo
neanche in grado di pagare i sessantacinque dolla-
ri per la vela nuova. Lasciai la mia barca alla fon-
da e mi imbarcai su un battello di pirati della baia
per un raid lungo il fiume Sacramento. Mentre ero
via per questo viaggio, un’altra banda di pirati della
baia fece una incursione sulla mia barca. Rubarono
ogni cosa, perfino le ancore; e in seguito, quando
recuperai lo scafo alla deriva, lo vendetti per ven-
ti dollari. Ero ruzzolato all’indietro per quell’uni-
ca rampa che avevo salito e mai più tentai la sca-
la degli affari.
Da allora in poi sono stato sfruttato senza pietà da
altri capitalisti. Io possedevo i muscoli, loro ne cava-
vano denaro mentre io a malapena ne cavavo il neces-
Il senso della vita (secondo me) 9

sario per vivere. Ho fatto il marinaio, lo scaricato-


re di porto, il manovale; ho lavorato in stabilimen-
ti di inscatolamento, in fabbriche e lavanderie; ho
tagliato l’erba dei prati, pulito tappeti e lavato fine-
stre. Ma mai ho ottenuto l’intero prodotto del mio
duro lavoro. Ho visto la figlia del proprietario dello
stabilimento di conserve a bordo della sua auto e ho
capito che, in parte, erano i miei muscoli che contri-
buivano a farla marciare sulle sue ruote di gomma.
Ho visto il figlio del padrone della fabbrica andare
all’università e ho capito che, in parte, erano i miei
muscoli che contribuivano a pagare il vino e la buo-
na compagnia che si godeva.
Ma non mi sono indignato per questo. Tutto face-
va parte del gioco. Loro erano la forza. Molto bene,
io ero forte. Avrei programmato la mia vita sino a
raggiungere un posto tra loro, per cavar denaro dai
muscoli di altri uomini. Non avevo paura di lavora-
re. Amavo il lavorare sodo. Mi ci sarei gettato a capo-
fitto e avrei lavorato come non mai e alla fine sarei
divenuto un pilastro della società.
Giusto allora, come per un segno della fortu-
na, trovai un datore di lavoro che era del mio stes-
so avviso. Stavo morendo dalla voglia di lavora-
re e lui, ancora più di me, che io lavorassi. Pensa-
vo di apprendere un mestiere. In realtà avevo preso
il posto di due uomini. Pensavo che stava facendo
di me un elettricista invece guadagnava con il mio
lavoro cinquanta dollari al mese. I due uomini di
cui avevo preso il posto prendevano ciascuno qua-
ranta dollari al mese. Io stavo facendo il lavoro di
entrambi per trenta dollari.
10 Il senso della vita (secondo me)

Questo padrone mi sfruttò fino all’osso. Un uomo


può amare le ostriche ma troppe ostriche gli faran-
no perdere la voglia di mangiarle. E così fu per me.
Il troppo lavoro mi nauseò. Non volevo neanche
più vedere lavorare. Abbandonai il lavoro. Diven-
ni un vagabondo, chiedendo l’elemosina di porta
in porta, girovagando per gli Stati Uniti, sputando
sangue nei ghetti e nelle prigioni. Appartenevo per
nascita alla classe operaia e ora, all’età di diciotto
anni, mi ritrovavo più in basso di dove ero partito.
Stavo giù nella cantina della società, giù nei reces-
si sotterranei della miseria, dei quali non è piace-
vole né giusto parlare. Ero nel pozzo, negli abissi,
nelle fogne umane, nelle rovine e negli ossari del-
la nostra civiltà. Questa è la parte dell’edificio del-
la società che essa ha deciso di ignorare. Mancanza
di spazio costringe anche me a ignorarlo in questa
sede e dirò soltanto che le cose che ho visto là mi
hanno sconvolto.
Ero terrorizzato all’idea di pensare. Ho visto la
nuda realtà della complicata civiltà nella quale vive-
vo. La vita era una questione di vitto e alloggio. Per
procurarseli gli uomini vendevano cose. Il mercan-
te vende scarpe, il politicante la propria umanità e il
rappresentante del popolo, fatte naturalmente alcu-
ne eccezioni, la propria fede; mentre quasi tutti ven-
devano il proprio onore. Anche le donne, vuoi nel-
le strade o nel sacro vincolo del matrimonio, erano
disposte a vendere il proprio corpo. Tutte le cose era-
no beni commerciabili, tutti compravano e vendeva-
no. L’unico bene che il lavoratore aveva da vendere
erano i muscoli. L’onore del lavoratore non era quo-
Il senso della vita (secondo me) 11

tato sul mercato. Il lavoratore aveva muscoli e sol-


tanto muscoli da vendere.
Ma c’era una differenza, una differenza fondamen-
tale. Le scarpe, la fede e l’onore avevano un modo di
rinnovarsi. Erano beni commerciabili non soggetti a
deterioramento. I muscoli, al contrario, non si rinno-
vavano. Quando il mercante di scarpe vendeva scar-
pe, egli continuava a rimpiazzare i propri articoli. Ma
non c’era maniera di rimpiazzare la capacità musco-
lare del lavoratore. Più forza dei propri muscoli ven-
deva, meno gliene restava. Questo era il suo unico
bene commerciabile e ogni giorno la quantità dimi-
nuiva. Alla fine, se non moriva prima, aveva vendu-
to tutto e chiudeva bottega. Era uno che aveva fat-
to bancarotta dei propri muscoli e non gli rimane-
va che sprofondare nella cantina della società e peri-
re miseramente.
In seguito ho imparato che anche l’intelligenza era
un bene parimenti commerciabile, anche se diverso
dai muscoli. Un mercante di ingegno cominciava l’at-
tività soltanto quando raggiungeva l’età di cinquanta
o sessant’anni e la sua paga toccava le più alte quota-
zioni. Ma all’età di quarantacinque o cinquant’anni
un lavoratore era spremuto o distrutto. Io sono sta-
to nella cantina della società e il posto, come abita-
zione, non mi è piaciuto. Le tubature e le fognatu-
re erano antigieniche, l’aria malsana da respirare. Se
non avessi potuto vivere al piano nobile della socie-
tà, avrei potuto, in ogni caso, fare un tentativo per
la soffitta. Magari il cibo là sarebbe stato scarso ma
l’aria almeno pura. Così decisi di non vendere più i
miei muscoli e divenire un «mercante di ingegno».
12 Il senso della vita (secondo me)

Allora è iniziata per me una frenetica brama di


conoscenza. Me ne sono tornato in California e ho
aperto i libri. Mentre mi preparavo a divenire un
mercante di ingegno, era inevitabile che comincias-
si a studiare a fondo la sociologia. Qui, in certi testi
formulati su basi scientifiche, ho ritrovato quei sem-
plici concetti sociologici che avevo già ricavato dalla
mia esperienza. Altre e più grandi menti, prima del-
la mia nascita, avevano elaborato tutto quello che io
avevo pensato e molto di più. Ho scoperto allora di
essere socialista.
I socialisti erano rivoluzionari per il fatto che lotta-
vano per rovesciare l’attuale società e costruire quella
del futuro. Anche io ero un socialista e un rivoluzio-
nario. Mi sono unito ai gruppi di lavoratori e intel-
lettuali rivoluzionari e per la prima volta ho vissuto
una vita intellettuale. Qui ho trovato lucidi intelletti
e spiriti brillanti: perché qui ho incontrato dei mem-
bri della classe operaia forti e svegli, oltre che con le
mani callose; predicatori laici con un concetto del-
la Cristianità troppo all’avanguardia per qualunque
congregazione di adoratori di Mammone; professori
torturati sulla ruota della sottomissione dell’univer-
sità alla classe dominante, a cui erano scampati gra-
zie a quella conoscenza che avevano tentato di appli-
care alle questioni del genere umano.
Inoltre, qui ho trovato l’appassionata fede nell’en-
tusiastico idealismo umano, le dolcezze della genero-
sità, la rinuncia all’essere rassegnati al martirio: tut-
ti gli splendidi, stimolanti frutti dello spirito. Qui la
vita era pulita, nobile e viva. Qui la vita riabilitava se
stessa, diveniva meravigliosa e gloriosa, e io ero con-
Il senso della vita (secondo me) 13

tento di essere vivo. Ero in contatto con grandi ani-


me che ponevano la carne e lo spirito al di sopra dei
dollari e dei centesimi e per le quali il flebile lamen-
to dell’affamato bambino dei bassifondi significava
più di tutti gli splendori e gli sforzi dell’espansione
commerciale e dell’impero del mondo. Ero circon-
dato dalla nobiltà degli intenti e dall’eroismo degli
sforzi e i miei giorni e le mie notti erano illumina-
ti dallo splendore del sole e dal brillare delle stelle,
tutto fuoco e brina, e davanti ai miei occhi, sem-
pre vivido e lucente, il Santo Graal, il calice di Cri-
sto, l’appassionato essere umano che era stato mal-
trattato e aveva sofferto a lungo per essere riscatta-
to e infine salvato.
E io, povero folle, ho considerato tutto questo un
semplice assaggio dei piaceri della vita che avrei tro-
vato lassù, in alto, nella società. Fin dal giorno in
cui avevo iniziato a leggere i romanzi della Seaside
Library, nel ranch in California, avevo perso molte
illusioni e molte delle altre che ancora coltivavo ero
destinato a perderle.
Come mercante di ingegno ho avuto successo. La
società mi ha aperto le sue porte. Sono entrato diret-
tamente al piano nobile e il mio processo di disillu-
sione è avanzato rapidamente. Sedevo a tavola con
i padroni della società e con le loro mogli e figlie.
Le donne, lo confesso, indossavano abiti splendi-
di; ma con ingenua sorpresa ho scoperto che era-
no fatte della stessa creta di tutte le altre donne che
avevo conosciuto giù nella cantina. «La moglie del
Colonnello e Judy O’Grady sotto le vesti e la pel-
le erano sorelle.»
14 Il senso della vita (secondo me)

Ma, comunque, non era tanto questo loro mate-


rialismo che mi sconvolgeva. È vero, queste belle
donne splendidamente abbigliate parlottavano dei
loro piccoli dolci ideali e dei loro piccoli cari prin-
cipi morali; ma, al contrario di quanto dicevano, la
chiave dominante della vita che conducevano era
materialistica. Ed erano così sentimentalmente egoi-
ste! Davano il loro contributo a ogni sorta di pic-
cola opera di carità e se ne vantavano, mentre, in
ogni momento, il cibo che mangiavano e gli splen-
didi abiti che indossavano erano il frutto dei divi-
dendi ricavati con il sangue del lavoro minorile, del-
lo sfruttamento e della stessa prostituzione.
Quando facevo menzione di questi fatti, aspet-
tandomi nella mia innocenza che queste sorelle di
Judy O’Grady si strappassero di dosso le sete e i gio-
ielli intrisi di sangue, reagivano piene di collera e
mi leggevano dei sermoni sulla mancanza di parsi-
monia, sul vizio del bere e sulla innata depravazio-
ne che era la causa di tutta la miseria esistente nel-
la cantina della società. Quando facevo notare che
non ero in grado di vedere quale fosse la mancan-
za di parsimonia, l’intemperanza e la depravazione
di un bambino semi-affamato di sei anni che veni-
va fatto lavorare dodici ore per notte in una mani-
fattura di cotone del Sud, queste sorelle di Judy
O’Grady attaccavano la mia vita privata e mi dava-
no dell’«agitatore» – detto ciò, ahimè, troncavano
la discussione.
Né andava meglio con gli stessi padroni. Mi ero
aspettato di trovare uomini onesti, nobili e vivi, i cui
ideali fossero onesti, nobili e vivi. Mi sono ritrovato
Il senso della vita (secondo me) 15

tra quegli uomini che sedevano nei posti più impor-


tanti: predicatori, politici, uomini d’affari, profes-
sori, proprietari di giornali e case editrici. Con loro
ho pranzato, bevuto vino, sono andato in automo-
bile e li ho studiati. È pur vero che ho scoperto che
molti di loro erano onesti e nobili; ma, tranne rare
eccezioni, essi non erano vivi. Credo fermamen-
te che avrei potuto contare le eccezioni sulla pun-
ta delle dita. Laddove non erano vivi per corruzio-
ne, adusi a una vita disonesta, essi erano semplice-
mente dei morti insepolti – onesti e nobili come
delle mummie ben conservate ma non vive. A pro-
posito di ciò posso menzionare in modo partico-
lare i professori che ho incontrato, gli uomini che
si nutrivano di quel decadente ideale d’università:
«l’acquisizione senza passione di una intelligenza
senza passione».
Ho conosciuto uomini che invocavano il nome del
Principe della Pace nelle loro diatribe contro la guerra
e che armavano gli uomini di Pinkerton2 per abbatte-
re gli scioperanti delle loro fabbriche. Ho conosciuto
degli uomini così incoerenti da indignarsi per la bru-
talità degli incontri di pugilato mentre erano com-

2
La Pinkerton National Detective Agency, tuttora operante, è
un’agenzia privata fondata nel 1850 negli Stati Uniti dallo scozze-
se Allan Pinkerton che divenne famoso per aver scoperto il com-
plotto per assassinare il candidato alla presidenza degli Stati Uniti
Abraham Lincoln. L’agenzia diventò in breve tempo la più impor-
tante società di sicurezza d’America e, oltre che nel campo investi-
gativo, si distinse nelle azioni antisciopero e a difesa delle fabbri-
che. Il logo constava di un occhio aperto e, sotto, la scritta «Non
dormiamo mai» [ndt].
16 Il senso della vita (secondo me)

plici dell’adulterazione del cibo che ogni anno ucci-


deva persino più bambini di quelli che aveva ucciso
la mano sanguinante di Erode.
Ho conversato con capitani d’industria in alber-
ghi, club e case private, in carrozze Pullman e battel-
li a vapore, meravigliandomi di quanto poco fossero
adusi a viaggiare nel regno dell’intelletto. Al contra-
rio, ho scoperto che il loro intelletto, in senso com-
merciale, era sviluppato in maniera abnorme. Così
come ho scoperto che il loro senso morale, per quan-
to concerneva gli affari, era inesistente.
Quel delicato gentiluomo dai tratti aristocratici
era un uomo di paglia e uno strumento delle com-
pagnie che derubavano vedove e orfani. Quel gen-
tiluomo che collezionava preziose edizioni ed era
un mecenate della letteratura sottostava ai ricatti di
un boss della macchina municipale, flaccido e dai
sopraccigli neri. Quel padrone di giornale che pub-
blicava annunci pubblicitari di medicinali brevettati,
e non osava stampare sul suo giornale la verità circa i
cosiddetti medicinali brevettati per paura di perdere
gli introiti della pubblicità, mi chiamava vile dema-
gogo perché gli dicevo che la sua politica economica
era antiquata e il suo concetto di biologia era rima-
sto fermo all’età di Plinio.
Quel senatore era lo strumento e lo schiavo, il
burattino di un volgare, rozzo padrone del vapore;
così pure quel governatore e quel giudice della Cor-
te suprema; e tutti e tre viaggiavano in treno gra-
zie alla tessera di libera circolazione. Quell’uomo,
che parlava in maniera sobria e determinata delle
bellezze dell’idealismo e della bontà di Dio, aveva
Il senso della vita (secondo me) 17

appena tradito i suoi soci in una trattativa d’affari.


Quell’altro, un pilastro della Chiesa e un generoso
benefattore delle missioni in terra straniera, face-
va lavorare le sue commesse dieci ore al giorno per
una paga da fame e per di più incoraggiava diret-
tamente la prostituzione. Quell’altro ancora, catte-
dratico nelle università, affermava il falso nelle cor-
ti di giustizia dietro il pagamento di dollari e cente-
simi. Infine, quel magnate delle ferrovie era venuto
meno alla sua parola di gentiluomo e di cristiano
quando aveva concesso un rimborso segreto a uno
dei due capitani d’industria bloccati in una lotta
all’ultimo sangue.
Ovunque era la stessa cosa: crimine e tradimen-
to, tradimento e crimine – uomini che erano vivi
ma non erano né onesti né nobili, uomini che era-
no onesti e nobili ma non erano vivi. Poi c’era una
grande massa senza speranza, né nobile né viva, ma
solamente onesta. Essa non peccava in maniera aper-
ta né deliberata piuttosto passivamente e senza saper-
lo, accettando l’immoralità corrente e approfittan-
dosi di essa. Se fosse stata onesta e nobile non sareb-
be stata ignorante e si sarebbe rifiutata di dividere i
profitti del tradimento e del crimine.
Ho scoperto che non mi piaceva vivere al piano
nobile della società. Intellettualmente ero annoiato,
moralmente e spiritualmente depresso. Ricordavo i
miei intellettuali e idealisti, i miei predicatori laici,
i professori torturati e i lavoratori con le idee chia-
re e una coscienza di classe. Mi sono ricordato dei
miei giorni e delle mie notti illuminati dallo splen-
dore del sole e dal brillare delle stelle, dove la vita
18 Il senso della vita (secondo me)

era tutta una dolce selvaggia meraviglia, un paradi-


so spirituale di generosa avventura e idealismo eti-
co. E ho visto dinanzi a me, sempre vivido e lucen-
te, il Santo Graal.
Così ho fatto ritorno alla classe operaia, nella qua-
le sono nato e a cui appartenevo. Non mi sono più
preoccupato della scalata sociale. L’imponente edi-
ficio della società che si erge sopra la mia testa non
contiene diletti per me. Sono le fondamenta dell’e-
dificio ciò che mi interessa. Lì sono contento di lavo-
rare, una leva di ferro in mano, spalla a spalla con
intellettuali, idealisti e lavoratori con una coscienza di
classe, a far forza ora e sempre per fare vacillare l’in-
tero edificio. Un giorno, quando avremo un po’ più
di mani e di leve al lavoro, lo faremo crollare insie-
me a tutta la sua vita corrotta e ai suoi morti inse-
polti, il suo mostruoso egoismo e sfrenato materia-
lismo. Allora noi ripuliremo la cantina e costruire-
mo una nuova abitazione per il genere umano, dove
non ci sarà alcun piano nobile, dove tutte le stanze
saranno ariose e piene di luce, e dove l’aria da respi-
rare sarà pulita, nobile e viva.
Questo è quanto mi auguro avvenga. Auspico un
tempo in cui l’uomo potrà progredire per qualcosa
di più prezioso ed elevato delle necessità dello sto-
maco, in cui, a spingere gli uomini all’azione, ci sarà
un incentivo più nobile di quello del bisogno quoti-
diano che è poi l’incentivo dello stomaco. Ripongo
tutta la mia fiducia nella nobiltà e nell’eccellenza del
genere umano. Credo che la mitezza dello spirito e la
generosità vinceranno la volgare ingordigia di oggi.
E, in ultima istanza, la mia fede è riposta nella clas-
Il senso della vita (secondo me) 19

se operaia. Come ha detto un francese: «La scala del


tempo risuona sempre del rumore del legno: la scar-
pa che sale, lo stivale lucidato che scende».

Newton, Iowa, novembre 1905


Rivoluzione*1

Le anime comuni ne hanno abbastan-


za del presente. Coloro che, senza mai
guardare al futuro, sono in realtà mera
creta, siano pietrificati per sempre come
le impronte della loro epoca.

L’altro giorno ho ricevuto una lettera. Era di un


uomo dell’Arizona. Cominciava con «Caro Compa-
gno» e finiva con «Viva la Rivoluzione». Ho risposto
a quella lettera iniziandola con «Caro Compagno» e
terminandola con «Viva la Rivoluzione». Negli Sta-
ti Uniti ci sono quattrocentomila uomini, circa un
milione se consideriamo anche le donne, che comin-
ciano le loro lettere con «Caro Compagno» e le con-
cludono con «Viva la Rivoluzione». In Germania ci
sono tre milioni di uomini che cominciano e termi-
nano le loro lettere in siffatta maniera; in Francia un
milione; in Austria ottocentomila; in Belgio trecen-
tomila; in Italia duecentocinquantamila; in Inghil-
terra centomila; in Svizzera centomila; in Danimar-
ca cinquantacinquemila; in Svezia cinquantamila; in
Olanda quarantamila; in Spagna trentamila – tutti
compagni rivoluzionari.
Questi costituiscono una massa che al confron-
to fa apparire piccoli i grandi eserciti di Napoleo-
ne e di Serse. Ma non è una massa utilizzabile per la
conquista e il mantenimento dell’ordine costituito,
*
Revolution, «Contemporary Review», gennaio 1908.
22 Il senso della vita (secondo me)

bensì per il conseguimento della rivoluzione. Questi


uomini, quando vengono chiamati a raccolta, vanno
a formare un esercito di sette milioni di unità che, in
accordo alle condizioni attuali, stanno combatten-
do con tutte le forze per conquistare le risorse eco-
nomiche del mondo e per rovesciare completamen-
te la società esistente.
Nella storia del mondo non si è mai registrato
alcunché di simile a questa rivoluzione. Non vi è nul-
la di analogo fra questa e la Rivoluzione americana o
quella francese. È qualcosa di unico, di colossale. Le
altre rivoluzioni, paragonate a essa, sono come aste-
roidi rispetto al sole. È la sola del suo genere, la pri-
ma rivoluzione mondiale in un mondo la cui storia
è piena di rivoluzioni. E non soltanto per questo ma
anche perché ci troviamo dinanzi al primo movimen-
to organizzato che ha assunto dimensioni mondiali,
limitato solo dai confini del pianeta.
Questa rivoluzione è diversa sotto molti aspetti da
tutte le altre rivoluzioni. Non è un fenomeno spora-
dico, non è una fiammata di malcontento popolare
che nasce e muore in un giorno. È qualcosa che va al
di là dell’attuale generazione. Ha storia e tradizioni
e un elenco di martiri solo di poco inferiore a quel-
lo del Cristianesimo. Possiede inoltre una letteratu-
ra mille volte più convincente, scientifica e cultural-
mente valida di quella di ogni rivoluzione precedente.
Questi uomini si chiamano tra di loro «compagni»,
compagni della rivoluzione socialista. Né tale termi-
ne è vuoto e privo di senso, coniato da un sempli-
ce moto delle labbra. Esso affratella gli uomini, così
come gli uomini dovrebbero fare con chi sta spal-
Rivoluzione 23

la a spalla sotto la bandiera rossa della rivolta. Que-


sta bandiera rossa, in ogni caso, simbolizza la fratel-
lanza umana e non il sovversivismo, come di pri-
mo acchito l’atterrita mentalità borghese è portata a
credere. Per i rivoluzionari l’essere compagni è qual-
cosa di vivo e di passionale. Travalica i confini geo-
grafici, trascende i pregiudizi razziali, e si è perfino
dimostrato più potente del Quattro luglio,1 patriot-
tica professione d’americanismo dei nostri antenati.
I lavoratori socialisti francesi e tedeschi dimentica-
no il problema dell’Alsazia e della Lorena e, quando
una guerra si profila, approvano delle risoluzioni in
cui dichiarano che come lavoratori e compagni tra
di loro non esiste alcun argomento di disputa. Sol-
tanto pochi giorni fa, quando il Giappone e la Rus-
sia si sono presi per la gola a vicenda, i rivoluzionari
giapponesi hanno indirizzato ai loro compagni rus-
si il seguente messaggio: «Cari compagni, i nostri
governi sono entrati recentemente in guerra per rea-
lizzare le loro mire imperialistiche ma per noi socia-
listi non esistono confini, razze, paesi o nazionalità.
Noi siamo compagni, fratelli e sorelle, e non abbia-
mo alcuna ragione per combattere. Il vostro nemico
non è il popolo giapponese ma il nostro militarismo
e il cosiddetto patriottismo. Il patriottismo e il mili-
tarismo sono i nostri nemici comuni».
Nel gennaio del 1905, in tutti gli Stati Uniti, i
socialisti hanno convocato riunioni di massa per
esprimere solidarietà ai compagni in lotta, i rivolu-

1
Anniversario della proclamazione dell’Indipendenza degli Stati
Uniti d’America [ndt].
24 Il senso della vita (secondo me)

zionari russi, e, ancora di più, per raccogliere dena-


ro onde rifornirli dei mezzi necessari a proseguire la
guerra e farli avere ai loro leader.
Questo invito alla raccolta di denaro, la pronta
risposta e le stesse parole con cui questa sottoscri-
zione è stata lanciata rappresentano una dimostra-
zione convincente e pratica della solidarietà interna-
zionale di questa rivoluzione mondiale: «Qualunque
possano essere i risultati immediati dell’attuale rivol-
ta in Russia, la propaganda socialista in questo pae-
se ha ricevuto da essa un incitamento che non tro-
va confronti nella storia delle moderne lotte di clas-
se. L’eroica battaglia per la libertà che viene combat-
tuta quasi esclusivamente dalla classe operaia russa,
sotto la guida intellettuale dei socialisti, sta ancora
una volta a dimostrare che i lavoratori in possesso di
una coscienza di classe sono divenuti l’avanguardia di
tutti i movimenti di liberazione dei tempi moderni».
Ci sono sette milioni di compagni organizzati in
un movimento rivoluzionario internazionale di por-
tata mondiale. È una tremenda forza umana di cui
bisogna tenere conto. È potenza ma anche romanti-
cismo, un romanticismo così smisurato da sembrare
al di là della conoscenza dei comuni mortali. Que-
sti rivoluzionari sono mossi da una grande passione.
Hanno un sottile senso del diritto personale, grande
rispetto per l’umanità ma ben poco, se non affatto,
per le regole del passato. Rifiutano di farsi governa-
re da esse. Per il pensiero borghese, il loro non cre-
dere alle convenzioni dominanti dell’ordine costitui­
to rappresenta una fonte di allarme. Essi deridono i
dolci ideali e le amate morali della società borghese.
Rivoluzione 25

È loro intenzione distruggerla con la maggior parte


dei suoi dolci ideali e amate morali, e, soprattutto tra
queste, quelle che si raggruppano sotto tali titoli quali
la proprietà privata del capitale, la sopravvivenza del
più forte e il patriottismo, sì, persino il patriottismo.
Un siffatto esercito di rivoluzionari forte di sette
milioni di combattenti è qualcosa che può costrin-
gere i governanti e le classi dominanti alla riflessione.
Il grido di battaglia di questo esercito è: «Senza tre-
gua! Vogliamo tutto. Non ci accontenteremo di nul-
la di meno di tutto ciò che possedete. Vogliamo nelle
nostre mani le redini del potere e il destino del gene-
re umano. Ecco le nostre mani, esse sono forti. Stia-
mo per portarvi via i vostri governi, i vostri palazzi,
la vostra esistenza dorata e quel giorno lavorerete per
procurarvi il pane come fa il contadino nei campi o
l’affamato e macilento impiegato nelle vostre metro-
poli. Ecco le nostre mani, esse sono forti».
Possano, dunque, i governanti e le classi dominan-
ti fermarsi a riflettere. Questa è una rivoluzione. E,
inoltre, questi sette milioni non sono un esercito sul-
la carta. La forza di combattimento che mettono in
campo è di sette milioni di uomini. Oggi raccolgono
sette milioni di voti nei paesi civilizzati del mondo.
Ieri non erano così forti. Domani lo saranno ancora
di più. E sono dei combattenti. Amano la pace ma
non hanno paura della guerra. Non vogliono altro
che distruggere l’attuale società capitalista e impos-
sessarsi del mondo intero. Se la legge della terra lo
permette, lottano per questo fine in maniera pacifica
nei seggi elettorali. Se non lo permette e se sono sta-
ti cacciati a forza, allora devono fare ricorso alla vio-
26 Il senso della vita (secondo me)

lenza. Violenza chiama violenza. Le loro mani sono


forti ed essi non hanno paura. In Russia, per esem-
pio, non esiste diritto di voto. Il governo fucila i rivo-
luzionari e questi uccidono i funzionari governati-
vi. All’omicidio legale rispondono con l’assassinio.
Ora si profila una fase particolarmente significati-
va che sarebbe bene i governanti prendessero in con-
siderazione. Lasciatemela esporre in termini concre-
ti. Io sono un rivoluzionario. Eppure sono un indi-
viduo sano e normale. Parlo, e penso, di questi assas-
sini russi come di «miei compagni». Lo stesso fanno
tutti i compagni d’America e tutti i sette milioni di
compagni sparsi nel mondo. Quale sarebbe il valo-
re di un movimento rivoluzionario internazionale
organizzato se i nostri compagni non fossero soste-
nuti da tutto il mondo? Il valore è dimostrato dal
fatto che noi approviamo gli assassinii compiuti dai
nostri compagni in Russia. Essi non sono discepo-
li di Tolstoj e neppure noi. Noi siamo rivoluzionari.
I nostri compagni in Russia hanno creato quella
che loro chiamano l’«Organizzazione Combatten-
te». Questa ha accusato, processato, trovato colpe-
vole e condannato a morte un certo Sipiaguin, mini-
stro dell’Interno. Il 2 aprile è stato ucciso nel Palazzo
Mariinskij. Due anni dopo, l’Organizzazione Com-
battente ha condannato a morte e fucilato un altro
ministro dell’Interno, Von Pleve. Dopo averlo fat-
to, ha emesso un documento, datato 29 luglio 1904,
nel quale vengono fornite le prove delle accuse mos-
se a Von Pleve e della propria paternità dell’assassi-
nio. All’uopo, questo documento è stato divulga-
to tra i socialisti di tutto il mondo e da questi pub-
Rivoluzione 27

blicato ovunque su giornali e riviste. Il fine non era


quello di dimostrare che i socialisti di tutto il mondo
non avevano paura di fare una cosa simile, né che lo
si doveva considerare un gesto audace, ma bensì che
rientrava nella normalità pubblicare quello che può
essere chiamato un documento ufficiale del movi-
mento rivoluzionario internazionale.
Queste sono delle ampie delucidazioni sulla rivo-
luzione basate su fatti concreti, e vengono fornite ai
governanti e alle classi dominanti non per dare pro-
va di coraggio, né per spaventarli, ma per spingerli a
esaminare più a fondo lo spirito e la natura di questa
rivoluzione mondiale. È giunto il tempo per la rivo-
luzione di chiedere di essere presa in considerazione.
Essa si è radicata in ogni paese civilizzato del mon-
do. Con la stessa rapidità con cui un paese progredi-
sce, la rivoluzione vi si realizza. L’introduzione del-
la macchina in Giappone ha portato il socialismo. Il
socialismo è entrato nelle Filippine marciando spal-
la a spalla con i soldati americani. Si erano appena
spenti gli ultimi echi delle cannonate che già delle
sezioni socialiste si formavano a Cuba e Portorico.
Ancora di gran lunga più significativo è il fatto che di
tutti i paesi in cui la rivoluzione si è manifestata, nes-
suno ha avuto indebolita la propria capacità di lotta.
Al contrario, in ogni paese, questa si è rafforzata di
anno in anno. Nato oscuramente come movimento
attivo un po’ più di una generazione fa, nel 1867, il
suo potenziale elettorale nel mondo era di trentami-
la unità. Nel 1871 questi voti erano saliti a cento-
mila. Prima del 1884 avevano oltrepassato il mezzo
milione e, nel 1889, venne superato il milione. Da
28 Il senso della vita (secondo me)

questo momento il suo incremento è stato costante.


Nel 1892 i voti socialisti nel mondo erano 1.798.391;
nel 1893, 2.585.898; nel 1895, 3.033.718; nel 1898,
4.515.591; nel 1902, 5.253.054; nel 1903, 6.285.374
e nell’anno del Signore 1905 hanno passato il tetto
dei sette milioni.
Né questa fiamma rivoluzionaria ha risparmia-
to gli Stati Uniti. Nel 1888 c’erano solo 2680 voti
socialisti. Nel 1902 erano 127.713 e nel 1904 hanno
raggiunto il numero di 435.040. Cosa ha alimenta-
to questa fiamma? Non certo i tempi difficili. I pri-
mi quattro anni del Ventesimo secolo sono stati con-
siderati degli anni prosperi, eppure in quel periodo
più di trecentomila uomini sono andati a ingrossa-
re i ranghi dei rivoluzionari, attaccando con le loro
lotte la società borghese e prendendo posizione sotto
la bandiera rossa come il sangue. Nello Stato natale
di chi scrive, la California, un uomo su dodici è un
rivoluzionario dichiarato e militante.
Una cosa deve essere posta bene in chiaro. Que-
sto non è un moto spontaneo e non meglio identi-
ficato di scontenti e miserabili: una reazione cieca e
istintiva. Al contrario, la sua ideologia ha basi intel-
lettuali: il movimento si fonda su una necessità eco-
nomica ed è in linea con l’evoluzione sociale, men-
tre i miserabili non si sono ancora ribellati. Il rivo-
luzionario non è uno schiavo affamato e ammalato
che vive tra le miserie del fondo del pozzo sociale,
ma, in generale, è un lavoratore vigoroso e ben nutri-
to che vede che quelle miserie stanno aspettando lui
e i suoi figli e arretra per non essere inghiottito. La
gente più miserabile è troppo abbandonata a se stes-
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ottobre 2018 a Copia omaggio
Rivoluzione 29

sa per poter agire da sola. Ma ora si sta cominciando


ad aiutarla, e non è lontano il giorno in cui andrà a
ingrossare i ranghi dei rivoluzionari.
Un’altra cosa deve essere chiaramente capita.
Nonostante che appartenenti alle classi medie e
professionali siano coinvolti nel movimento, que-
sto è nondimeno una rivolta propria della classe
operaia. In tutto il mondo è una rivolta della classe
operaia. I lavoratori di tutto il mondo, intesi come
classe, stanno combattendo i capitalisti del mon-
do, a loro volta intesi come classe. La cosiddetta
grande classe media rappresenta una anomalia cre-
scente nella lotta sociale. È una classe destinata a
scomparire (anche se gli esperti in statistica si sfor-
zano di dimostrare il contrario), e la sua missione
storica di cuscinetto tra la classe capitalista e quel-
la operaia è pressoché giunta al termine. Ben poco
le rimane tranne che piangere sul fatto che sta pas-
sando nell’oblio, come già ha iniziato a fare in ter-
mini populisti e democratico-jeffersoniani. La lot-
ta è in atto. La rivoluzione ora è qui, e sono i lavo-
ratori del mondo a ribellarsi.
Sorge naturale la domanda: perché avviene ciò? Un
semplice capriccio dello spirito non può far nasce-
re una rivoluzione mondiale. Il capriccio non por-
ta alla unanimità. Deve esserci una causa profonda-
mente radicata per far credere sette milioni di uomi-
ni in una sola idea, per respingere la loro sudditan-
za agli dei borghesi e per far perdere la fede in un
sentimento così elevato come il patriottismo. Molte
sono le accuse che i rivoluzionari muovono alla clas-
se capitalista, ma per ora basta elencarne una sola,
30 Il senso della vita (secondo me)

una accusa alla quale il capitale non ha mai risposto


né risponderà mai.
La classe capitalista ha governato la società e ha
fallito. E non soltanto ha fallito, ma l’ha fatto nella
maniera più deplorevole, più ignobile, più orribile.
La classe capitalista ha avuto un’opportunità quale
nessuna altra classe dominante nella storia del mon-
do. Ha cancellato le regole della vecchia aristocrazia
feudale e costruito la società moderna. Ha padroneg-
giato la situazione, organizzato l’apparato della vita e
reso possibile un’era meravigliosa per il genere uma-
no dove nessuna creatura avrebbe dovuto lamentarsi
di non avere cibo a sufficienza, e dove ogni bambi-
no avrebbe dovuto avere l’opportunità di una istru-
zione per crescere intellettualmente e spiritualmente.
Padroneggiata la situazione e organizzato l’appara-
to della vita tutto ciò era possibile. Questa era la pos-
sibilità offerta da Dio e la classe capitalista ha fallito.
Si è comportata in maniera cieca e gretta. Ha vagheg-
giato i dolci ideali e le amate morali, non si è mai
stropicciata gli occhi, né ha perso una briciola della
sua grettezza, ed è crollata in un fallimento eccezio-
nale così come lo era l’opportunità che ha ignorato.
Ma per la mentalità borghese tutto ciò non signi-
fica un fico secco. Nella misura in cui è stata cieca in
passato, lo è ora e non può vedere né capire. Bene,
allora, formuliamo l’accusa in maniera più definita,
con termini appropriati che non inducano in errore.
In primo luogo, consideriamo l’uomo delle caverne.
Egli era una creatura molto semplice. La sua testa era
simile a quella di un orangotango, ma egli possede-
va una intelligenza maggiore. Viveva in un ambien-
Rivoluzione 31

te ostile, preda di tutti gli aspetti di una vita violen-


ta. Non possedeva né invenzioni né artifici. La sua
naturale efficienza per procurarsi il cibo era, dico,
quella del singolo. Egli non coltivava neppure la ter-
ra. Con la naturale efficienza del singolo, sconfigge-
va i suoi nemici carnivori e si procurava il cibo e un
tetto. Deve aver fatto tutto questo altrimenti non si
sarebbe moltiplicato e sparso sulla terra né avrebbe
spinto la sua progenie a diventare, generazione dopo
generazione, come voi e me.
L’uomo delle caverne, con la naturale efficienza
del singolo, era in grado, il più delle volte, di pro-
curarsi cibo a sufficienza e nessun uomo delle caver-
ne ha mai patito la fame cronica. Inoltre conduce-
va una sana vita all’aria aperta, oziava e si riposava
e aveva un mucchio di tempo per esercitare la pro-
pria immaginazione e inventare oggetti. Questo per
dire che egli non doveva lavorare tutto il tempo in
cui non dormiva per procurarsi il cibo necessario. I
suoi figli (e ciò vale per i bambini di tutti i popoli
selvaggi) avevano una infanzia e con questo intendia-
mo una infanzia fondata sul gioco e sullo sviluppo.
E ora come si comporta l’uomo moderno? Pren-
diamo ad esempio gli Stati Uniti, il più prospero e il
più illuminato paese del mondo. Negli Stati Uniti ci
sono dieci milioni di individui che vivono in pover-
tà. Per povertà si intende quella condizione di vita
in cui, a causa della mancanza di cibo e di una abi-
tazione adeguata, non può essere mantenuto il nor-
male livello di efficienza lavorativa. Negli Stati Uni-
ti ci sono dieci milioni di individui che non hanno
cibo a sufficienza. Negli Stati Uniti, per il fatto che
32 Il senso della vita (secondo me)

non hanno cibo a sufficienza, ci sono dieci milio-


ni di individui che non possono mantenere nei loro
corpi la normale quantità di forza. Ciò significa che
questi dieci milioni di individui stanno perendo,
stanno lentamente morendo, anima e corpo, perché
non hanno abbastanza da mangiare. In ogni parte di
questa grande, prospera, illuminata nazione, ci sono
uomini, donne e bambini che vivono in condizioni
miserabili. In tutte le grandi città, dove sono segre-
gati a centinaia di migliaia, a milioni, nei ghetti, la
loro miseria diviene bestialità. Mai nessun uomo
delle caverne ha patito la fame in maniera cronica
come loro, mai ha dormito in condizioni così igno-
bili come loro, mai ha marcito nel putridume e nel-
le malattie come loro né mai ha lavorato così dura-
mente e per tante ore come loro.
A Chicago c’è una donna che ha lavorato sessanta
ore la settimana. Era un’operaia del settore dell’abbi-
gliamento che cuciva bottoni agli abiti. Tra i lavora-
tori italiani dell’industria dell’abbigliamento di Chi-
cago, la paga media settimanale delle sarte è di novan-
ta centesimi, ma esse lavorano tutto l’anno. La paga
media di una aiuto pantalonaia è di 1,31 dollari e
il numero medio di settimane lavorative per anno
27,75. Il guadagno medio annuo delle sarte è di 47
dollari, quello delle aiuto pantalonaie di 37. Simi-
li paghe significano nessuna infanzia per i bambini,
condizioni bestiali di vita e, soprattutto, fame.
A differenza di quello delle caverne, l’uomo moder-
no non può procacciarsi il cibo e un tetto dove e
quando vuole. Egli deve prima procurarsi un lavoro
e in questo spesso non ha successo. Allora la mise-
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Rivoluzione 33

ria diviene estrema. Questa estrema miseria è quoti-


dianamente riportata dai giornali. Lasciatemi citare
numerosi esempi di poco conto.
A New York viveva una donna, Mary Mead, che
aveva tre figli: Mary di un anno, Johanna di due e Ali-
ce di quattro. Suo marito non riusciva a trovare lavo-
ro. Erano ridotti alla fame. Furono sfrattati dalla loro
casa al 160 di Steuben Street. Mary Mead ha strango-
lato le sue figlie Mary di un anno e Alice di quattro; ha
tentato di soffocare Johanna di due e quindi si è avve-
lenata. Ha dichiarato il marito alla Polizia: «La peren-
ne povertà ha fatto impazzire mia moglie. Noi viveva-
mo al 160 di Steuben Street quando siamo stati sfrat-
tati. Non riuscivo a trovare un lavoro. Non riuscivo
a mettere insieme neanche quanto bastava a metterci
in bocca un po’ di cibo. I bambini crescevano gracili
e malati. Mia moglie non faceva altro che piangere».

Il dipartimento della Pubblica assistenza è invaso da


decine di migliaia di domande di disoccupati tanto che
si trova nell’impossibilità di far fronte alla situazione.
«New York Commercial», 11 gennaio 1905

In un quotidiano, un uomo che non riesce a trovare


lavoro per procurarsi qualcosa da mangiare ha pub-
blicato il seguente annuncio:

Giovane, di buona cultura, incapace di trovare un


impiego, vende per scopi sperimentali a medici e bat-
teriologi tutti i diritti sul proprio corpo. Rispondere
indicando l’offerta a Casella Postale 3466.
«Examiner»
34 Il senso della vita (secondo me)

Frank A. Mallin si è recato mercoledì notte alla Cen-


trale di Polizia e ha chiesto di essere arrestato per il
reato di vagabondaggio. Ha detto di aver cercato inva-
no un lavoro per un così lungo tempo da considerarsi
un vagabondo. In ogni caso, era così affamato che si
dovette provvedere a rifocillarlo. Il pretore Graham lo
ha condannato a novanta giorni di detenzione.
«San Francisco Examiner»

A San Francisco, in una stanza della Soto House, al


32 della Quarta Strada, è stato rinvenuto il corpo
di W.G. Robbin. Si era suicidato con il gas. È sta-
to trovato anche il suo diario, dal quale sono estrat-
ti i seguenti passi.

3 marzo: Nessuna possibilità di trovare qualcosa qui.


Che farò?
7 marzo: Non ho ancora trovato niente.
8 marzo: Sto vivendo di ciambelle con cinque cen-
tesimi al giorno.
9 marzo: Ultimo quarto di dollaro andato per l’af-
fitto della stanza.
10 marzo: Dio mi aiuti. Mi sono rimasti solo cinque
centesimi.
Non riesco a trovare niente da fare. Che
accadrà? La fame o… Stanotte speso il mio
ultimo nichelino. Che farò? Dovrò rubare,
mendicare o morire? Non ho mai rubato,
mendicato o patito la fame in tutti i miei
cinquanta anni di vita, ma ora sono sull’or-
lo della rovina – la morte mi sembra l’uni-
ca soluzione.
11 marzo: Stato male tutto il giorno – febbrone que-
sto pomeriggio. Non ho mangiato nulla
Rivoluzione 35

fin da ieri a mezzogiorno. La testa, la testa.


Addio.

Come si comportano i figli dell’uomo moderno in


questa che è la più prospera delle terre? A New York
cinquantamila bambini vanno a scuola affamati ogni
mattina. Dalla stessa città, in data 12 gennaio, un
dispaccio di agenzia è stato diffuso in tutto il paese a
proposito di un caso riportato dal dottor A.E. Daniel
del New York Infirmary for Women and Children. Si
trattava di un bambino di diciotto mesi che guada-
gnava cinquanta centesimi la settimana in un labo-
ratorio clandestino.

Questa mattina, al 513 di Myrtle Avenue, Brooklyn,


l’agente McConnon, della stazione di polizia di Flushing
Avenue, ha rinvenuto in una stanza gelida e priva di sup-
pellettili Mrs Mary Gallin. Morta di stenti, era distesa
su di una pila di stracci con al seno un bambino ema-
ciato di quattro mesi che frignava. In un altro angolo
della stanza, stretti l’un l’altro per riscaldarsi, c’erano
il padre James Gallin e tre figli, dai due agli otto anni
d’età, che fissavano il poliziotto come neanche degli
animali famelici avrebbero fatto. Erano affamati e non
c’era ombra di cibo in quella squallida stanza.

Negli Stati Uniti ottantamila bambini stanno con-


sumando le loro vite nella sola industria tessile. Nel
Sud fanno turni di dodici ore. Essi non vedono mai
la luce del giorno. Quelli dei turni di notte dormo-
no quando il sole sparge vita e calore sul mondo,
mentre quelli del turno diurno sono alle macchi-
ne prima dell’alba e fanno ritorno ai loro miserabi-
36 Il senso della vita (secondo me)

li tuguri, chiamati «case», quando è già buio. Mol-


ti guadagnano non più di dieci centesimi al giorno.
Ci sono dei bambini che lavorano per cinque o sei
centesimi al giorno. Quelli dei turni di notte vengo-
no spesso tenuti svegli con getti di acqua fredda sul-
la faccia. Ci sono bambini di sei anni che hanno già
sulle spalle undici mesi di lavoro notturno. Quando
si ammalano e non sono in grado di levarsi dal let-
to per andare a lavorare, ci sono uomini pagati per
andare a cavallo di casa in casa a scuoterli e a mal-
trattarli per costringerli ad alzarsi e a recarsi al lavo-
ro. Il dieci per cento di loro soffre di consunzione
cronica. Sono tutti gracili, deformi, poco sviluppa-
ti, nella mente e nel corpo.
Elbert Hubbard dice a proposito dei bambini lavo-
ratori nei cotonifici del Sud:

Ho pensato di prendere su uno dei piccoli lavorato-


ri per accertarmi del suo peso. Attraverso i sedici chili
di pelle e ossa correva un brivido di febbre ed egli lot-
tava per annodare un filo rotto. Attirai la sua atten-
zione con un tocco della mano e gli offrii una moneta
d’argento da dieci centesimi. Mi guardò attonito con
un viso che avrebbe potuto appartenere a un uomo di
sessanta anni, talmente era rugoso, provato e stravol-
to dal dolore. Non cercò di prendere il denaro – non
sapeva che cosa fosse. Ce ne erano a dozzine di que-
sti bambini in quel particolare cotonificio. Un medi-
co che era con me dichiarò che sarebbero probabil-
mente tutti morti nel giro di due anni e rimpiazzati
da altri – ce ne erano in quantità. La polmonite ne
uccideva la maggior parte. I loro corpi sono predispo-
sti alle malattie, e quando queste si manifestano non
Rivoluzione 37

vi è rimedio alcuno. Le medicine semplicemente non


hanno effetto: la natura è frustrata, sconfitta, scorag-
giata, e i bambini annegano nello stupore e muoiono.

Così si comportano l’uomo moderno e i suoi figli


negli Stati Uniti, il più prosperoso e il più illumina-
to di tutti i paesi del mondo. Bisogna ricordare che
gli esempi finora offerti sono solo degli esempi e che
essi possono essere moltiplicati all’infinito. Bisogna
anche ricordare che ciò che vale per gli Stati Uniti
vale per tutto il mondo civilizzato. Una tale miseria
non esisteva per l’uomo delle caverne. Allora che cosa
è accaduto? L’ambiente ostile del tempo dell’uomo
delle caverne è divenuto ancora più ostile per i suoi
discendenti? La naturale efficienza del singolo per
procacciarsi cibo e un tetto è diminuita della metà o
di tre quarti nell’uomo moderno?
Al contrario, l’ambiente ostile in cui viveva l’uo-
mo delle caverne è stato distrutto. Non esiste più
per l’uomo moderno. Tutti i nemici carnivori, la
minaccia quotidiana del mondo primitivo, sono sta-
ti annientati. Molte delle specie di animali da pre-
da si sono estinte. Qui e là, in recondite parti del
mondo, sopravvivono ancora alcuni esemplari dei
più feroci nemici dell’uomo. Ma essi non costitui-
scono più una minaccia per il genere umano. L’uo-
mo moderno, quando va in cerca di divertimento
o di qualcosa di nuovo, si reca in questi luoghi per
cacciare. Inoltre, nei momenti di ozio, egli si lamen-
ta per il progressivo impoverimento del «grande gio-
co» che, come sa, in un futuro non lontano scom-
parirà dalla terra.
38 Il senso della vita (secondo me)

Né dai tempi dell’uomo delle caverne l’efficienza


dell’uomo per procurarsi il cibo e un tetto è diminuita,
anzi è aumentata di un migliaio di volte. Dai tempi
dell’uomo delle caverne la materia è stata padroneg-
giata. I suoi segreti sono stati scoperti e le sue leggi
formulate. Dei meravigliosi artifici e delle straordina-
rie invenzioni sono stati realizzati, tutti allo scopo di
aumentare al massimo la naturale efficienza del sin-
golo in tutte quelle attività che si prefiggono il pro-
curarsi il cibo e un tetto: in agricoltura, nelle miniere,
nelle fabbriche, nei trasporti e nelle comunicazioni.
Dall’uomo delle caverne agli operai di tre gene-
razioni fa, l’aumento dell’efficienza nel procurarsi il
cibo e un tetto è stato rilevante. Al momento attuale,
con l’adozione delle macchine, si è registrato un ulte-
riore miglioramento rispetto all’efficienza degli ope-
rai di tre generazioni fa. Se prima occorrevano due-
cento ore di lavoro umano per caricare cento ton-
nellate di minerale su di un carro merci, oggi, con
l’ausilio delle macchine, ne bastano due. Il ministero
del Lavoro degli Stati Uniti ha elaborato la seguente
tabella che mostra, in maniera comparata, il recen-
te aumento dell’efficienza dell’uomo nel procurarsi
il cibo e un tetto.
Stando alla stessa fonte, nelle migliori condizio-
ni di organizzazione del lavoro agricolo, questo può
produrre venti staie di grano al costo di 66 centesi-
mi di dollaro o una staia a 3,1/3 centesimi di dolla-
ro. Ciò si è verificato in una prospera fattoria di die-
cimila acri in California e rappresenta il costo medio
dell’intero prodotto della stessa. Carrol W. Wright
afferma che oggi 4.500.000 uomini, con l’ausilio di
Rivoluzione 39

mezzi meccanici, producono quanto avrebbe richie-


sto il lavoro manuale di quaranta milioni di uomi-
ni. Il professor Herzog, austriaco, afferma che cin-
que milioni di uomini con gli attuali mezzi mecca-
nici, impiegati in un lavoro socialmente utile, sareb-
bero in grado, lavorando un’ora e mezza al giorno,
di fornire a una popolazione di venti milioni di per-
sone tutti i beni primari e secondari.

ORE IMPIEGATE
Con mezzi A mano
meccanici
Malto (100 staie)  9 211
Granturco (50 staie: raccolta, essicca- 34 228
tura, spigolatura e trasformazione del-
le spighe in foraggio)
Avena (160 staie) 28 265
Frumento (50 staie) 7 160
Carico di minerale (100 tonn. di ferro 2 200
su carri merci
Scarico di carbone (trasferimento di 20 240
200 tonn. da chiatte a depositi situati
a una distanza di 120 metri
Forconi (50 forconi con denti di 30 cm) 12 200
Aratri (un aratro a mano in legno di 3 118
quercia)

Essendo questa la situazione, padroneggiando la


materia, essendo l’efficienza dell’uomo per procurar-
si il cibo e un tetto aumentata di mille volte rispetto
a quella dell’uomo delle caverne, come mai ci sono
milioni di uomini moderni che vivono più misera-
mente dell’uomo delle caverne? Questa è la doman-
da che il rivoluzionario si pone e pone alla classe diri-
40 Il senso della vita (secondo me)

gente, la classe capitalista. Ma questa non risponde.


Non può fornire una risposta.
Se l’efficienza dell’uomo per procurarsi il cibo e
un tetto è mille volte superiore di quella dell’uomo
delle caverne perché, allora, oggi, negli Stati Uniti,
ci sono dieci milioni di uomini che non sono pro-
priamente alloggiati e nutriti? Se i figli dell’uomo
delle caverne non dovevano lavorare, perché, allo-
ra, oggi, negli Stati Uniti, ci sono ottantamila bam-
bini che consumano le loro vite solo nell’industria
tessile? Se i figli dell’uomo delle caverne non dove-
vano lavorare perché, allora, oggi, negli Stati Uniti,
ci sono 1.752.187 bambini che lavorano?
Questo è un vero capo d’accusa. La classe capi-
talista ha mal governato e sta mal governando oggi.
A New York cinquantamila bambini vanno a scuo-
la affamati, quando nella stessa città ci sono 1320
milionari. Il punto, comunque, non sta nel fatto che
la massa del genere umano è in condizioni miserabi-
li perché la classe capitalista si è impossessata della
ricchezza. Mai sia. La realtà è che la massa del gene-
re umano si trova in condizioni miserabili non per
la mancanza del benessere di cui si è impossessata
la classe capitalista, ma per la mancanza del benesse-
re che non è mai stato creato. Questo benessere pur-
troppo non è mai stato creato perché la classe capi-
talista ha governato in maniera troppo dispersiva e
irrazionale. La classe capitalista, cieca e avida, affer-
rando a man bassa, non ha realizzato il miglior gover-
no bensì il peggiore. È stato un governo straordina-
riamente dispersivo e ciò non può non essere enfa-
tizzato a dovere.
Rivoluzione 41

A dispetto dell’evidenza dei fatti che l’uomo moder-


no vive in condizioni più disagiate dell’uomo delle
caverne e che la sua efficienza per procurarsi il cibo
e un tetto è mille volte più grande di quella dell’uo-
mo delle caverne, non esiste altra soluzione possibi-
le di quella di ritenere il governo straordinariamen-
te dispersivo. Con le risorse naturali del mondo, le
macchine inventate, una organizzazione raziona-
le della produzione e della distribuzione e una pari-
menti razionale eliminazione dello spreco, i lavora-
tori sani di corpo non dovrebbero lavorare più di
due o tre ore al giorno per nutrirsi, vestirsi, pagarsi
un alloggio, istruirsi e concedersi una giusta quanti-
tà di beni secondari. Non dovrebbero esistere più il
bisogno materiale e le condizioni disagiate, né bam-
bini sfruttati, né uomini, donne e bambini che vivo-
no e muoiono come bestie. Non dovrebbe essere solo
la materia a essere padroneggiata, ma anche la mac-
china. In una tale epoca, l’incentivo dovrebbe esse-
re più elevato e nobile di quello odierno che è l’in-
centivo dello stomaco. Nessun uomo, donna o bam-
bino dovrebbe essere costretto ad agire da uno sto-
maco vuoto. Al contrario, dovrebbero esser costret-
ti ad agire come fa un bambino in una gara di com-
pitazione, i ragazzi e le ragazze nei giochi, gli scien-
ziati nel formulare leggi, gli inventori nell’applicarle,
gli artisti e gli scrittori nel dipingere tele e modellare
creta, i poeti e gli statisti nel servire l’umanità poe-
tando ed esercitando l’arte del governo. La crescita
spirituale, intellettuale e artistica conseguente a una
siffatta condizione della società sarebbe eccezionale.
Tutto il mondo si ergerebbe come un’onda possente.
42 Il senso della vita (secondo me)

Questa era la grande opportunità della classe capi-


talista. Sarebbero bastati solo una minore cecità, una
minore cupidigia e un governo razionale. Un’epoca
meravigliosa era alla portata della razza umana. Ma la
classe capitalista ha fallito. Ha prodotto il fango del-
la civiltà. Né può proclamarsi innocente. Era consa-
pevole dell’opportunità offertale. I suoi saggi e così
pure i suoi studiosi e i suoi scienziati hanno parlato
di questa opportunità. Tutto quello che hanno detto
sta oggi nei libri così come la dannata evidenza con-
tro di essa. Non avrebbe ascoltato. Era troppo avida.
Si è levata (e si leva oggi), senza vergogna, a dichia-
rare nei nostri consessi legislativi che non si poteva-
no ottenere profitti senza il lavoro dei bambini e dei
fanciulli. Ha cullato la propria coscienza per addor-
mentarsi con la stupida illusione dei dolci ideali e del-
le amate morali e ha permesso che le sofferenze e la
miseria del genere umano continuassero ad aumen-
tare. In breve, la classe capitalista ha fallito nel trar-
re vantaggio da questa opportunità.
Ma l’opportunità sta ancora qui. La classe capita-
lista è stata messa alla prova e trovata manchevole.
Rimane da vedere che cosa la classe operaia può fare
con questa opportunità. «Ma la classe operaia è inca-
pace» dice quella capitalista «Che ne sai?» risponde
l’altra. «Se voi avete fallito non c’è ragione che fallia-
mo anche noi. Inoltre, in ogni caso, noi stiamo cer-
cando di provarci. Sette milioni di noi dicono que-
sto. E voi che cosa avete da dire in proposito?»
E che cosa può dire la classe capitalista? Afferma-
re l’incapacità della classe operaia. Affermare che le
accuse e le ragioni dei rivoluzionari sono tutte sba-
Rivoluzione 43

gliate. I sette milioni di rivoluzionari rimangono. La


loro esistenza è un dato di fatto, come anche è un
dato di fatto il credere nelle loro capacità, nelle loro
accuse e nei loro argomenti. Questa crescita costante
è un dato di fatto. La loro intenzione di distruggere
l’attuale società è un dato di fatto, così come quel-
la di impossessarsi del mondo con tutte le sue ric-
chezze, macchinari e governi. E ancora di più è un
dato di fatto che la classe operaia è di gran lunga più
numerosa di quella capitalista.
La rivoluzione è una rivoluzione della classe ope-
raia. Come può la classe capitalista, nella sua con-
dizione di minoranza, fermare questa ondata rivo-
luzionaria? Che cosa ha da offrire? Che cosa offre?
Associazioni dei padroni, ingiunzioni, cause legali
per impossessarsi dei fondi dei sindacati, proteste e
accordi sottobanco contro trattative aperte, opposi-
zione accanita e senza vergogna alla giornata lavora-
tiva di otto ore, grandi sforzi per bocciare ogni rifor-
ma delle leggi sul lavoro infantile, illeciti in ogni con-
siglio municipale, forti gruppi di pressione e corru-
zione in ogni legislatura per far passare le leggi capi-
taliste, baionette, mitragliatrici, manganelli, profes-
sionisti antisciopero e agenti armati della Pinker-
ton – queste sono le cose che la classe capitalista sta
ponendo di fronte alla marea della rivoluzione allo
scopo, pensa, di respingerla senza ombra di dubbio.
La classe capitalista oggi è talmente cieca di fron-
te alla minaccia della rivoluzione come lo fu in pas-
sato di fronte all’opportunità offertale da Dio. Non
si rende conto di quanto sia precaria la sua situa-
zione, né comprende la forza e la portata della rivo-
44 Il senso della vita (secondo me)

luzione. Continua il suo placido cammino, imbe-


vendosi dei dolci ideali e delle amate morali e dan-
dosi sordidamente da fare per dei benefici materia-
li. Nessun governante o classe rovesciati in passa-
to hanno mai considerato la rivoluzione che li ha
rovesciati e lo stesso vale oggi per la classe capita-
lista. Invece di scendere a compromessi, invece di
allungare la propria esistenza con la conciliazione e
la rimozione di alcune delle più pesanti oppressioni
operate sulla classe operaia, essa si pone come sua
antagonista, la spinge alla rivoluzione. Ogni scio-
pero spezzato in anni recenti, ogni appropriazione
legale dei fondi del sindacato, ogni accordo sotto-
banco trasformato in un contratto generale hanno
spinto centinaia di migliaia di membri della classe
operaia a sposare la causa del socialismo. Fate vede-
re a un lavoratore che il suo sindacato non è effica-
ce ed egli diverrà un rivoluzionario. Rompete uno
sciopero con una ingiunzione o fate fallire un sin-
dacato con una causa legale e, come conseguenza, i
lavoratori saranno attratti dal canto della sirena del
socialismo e saranno per sempre perduti per i par-
titi politici capitalisti.
L’antagonismo non ha mai sopito la rivoluzione e
l’antagonismo è, più o meno, tutto quello che la clas-
se capitalista ha da offrire. È pure vero che essa offre
alcune antiquate nozioni che si sono rivelate effica-
ci ma che ora non lo sono più. La libertà del Quat-
tro di luglio, intesa nei termini della Dichiarazio-
ne di Indipendenza e degli Enciclopedisti francesi,
non ha più lo stesso valore. Non fa presa sul lavora-
tore che ha avuto la testa fracassata dal manganello
Rivoluzione 45

di un poliziotto, i fondi del suo sindacato confisca-


ti da una decisione del tribunale o il proprio lavoro
sostituito da una macchina. Né la Costituzione degli
Stati Uniti appare così gloriosa e giusta al lavoratore
che ha sperimentato la galera o è stato deportato in
maniera anticostituzionale dal Colorado. Né i senti-
menti feriti di questo particolare lavoratore possono
venire leniti dal leggere sui giornali che la galera e la
deportazione sono fondamentalmente giusti, legali
e costituzionali. «All’inferno allora la Costituzione!»
dice e un altro rivoluzionario è nato, generato dal
capitalismo. In breve, la classe capitalista è così cieca
che non fa nulla per prolungare la propria esistenza,
mentre fa di tutto per abbreviarla. Non offre alcun-
ché di pulito, di nobile e di vivo. I rivoluzionari offro-
no tutto ciò che è pulito, nobile e vivo. Offrono aiu-
to, generosità, sacrificio e martirio: le cose, cioè, che
tengono viva l’immaginazione della gente, toccano i
cuori con il fervore che si sprigiona dall’impulso al
bene che, nella sua natura, è essenzialmente religioso.
Ma i rivoluzionari tentennano. Offrono fatti e
statistiche, argomenti economici e scientifici. Se
il lavoratore è fondamentalmente egoista, i rivolu-
zionari gli dimostrano in maniera matematica che
la sua condizione sarà migliorata dalla rivoluzione.
Se invece il lavoratore possiede le più alte qualità, è
mosso da impulsi verso la giusta condotta, se possie-
de un’anima e uno spirito, i rivoluzionari gli offro-
no i prodotti dell’anima e dello spirito, quei bellis-
simi prodotti che non possono essere misurati in
dollari e centesimi né conservati grazie ai dollari e
ai centesimi. Il rivoluzionario lancia il suo grido di
46 Il senso della vita (secondo me)

protesta contro ciò che è sbagliato e ingiusto e pre-


dica la virtù e la giustizia. E, cosa più potente di
tutte, canta la canzone eterna della libertà umana:
una canzone che è la stessa in ogni luogo, in ogni
lingua e in ogni tempo.
Solo pochi membri della classe capitalista vedono
la rivoluzione. La maggior parte di loro sono igno-
ranti e molti troppo impauriti per farlo. È la solita
vecchia storia di ogni classe dominante che sta scom-
parendo dalla scena del mondo. Ingrassata dal potere
e dal possesso, ubriaca di successo e rammollita dagli
eccessi e dalla desuetudine alla lotta, essa è come i
fuchi ammassati intorno alle cellette del miele quan-
do le api operaie si lanciano contro di essi per porre
fine alla loro grassa esistenza.
Il presidente Roosevelt riesce a vedere la rivoluzio-
ne solo in modo vago, ne è impaurito e fa di tutto
per non vederla. Dice in proposito: «Abbiamo soprat-
tutto bisogno di ricordare che ogni tipo di animo-
sità di classe nel mondo politico è, per quanto pos-
sibile, persino più immorale, persino più distruttiva
per il benessere della Nazione di quella corporativa,
razziale o religiosa».
L’animosità di classe nel mondo politico, come
sostiene il presidente Roosevelt, è immorale. Ma è
proprio questo che i rivoluzionari predicano. «Con-
tinuiamo la guerra di classe nel mondo industriale
– dicono –, estendiamola a quello politico.» Come
afferma il loro leader Eugene V. Debs: «Per quan-
to riguarda la lotta di classe, non esiste un capitali-
sta buono o un lavoratore cattivo. Ogni capitalista
è vostro nemico e ogni lavoratore è vostro amico».
Licenza edgt-9-NZAV7ExwBMwgu2rt-t3caHRHceyfeStMj rilasciata il 16
ottobre 2018 a Copia omaggio
Rivoluzione 47

Questa è l’animosità di classe nel mondo politico


nella piena accezione del termine e questa è la rivo-
luzione. Nel 1888, negli Stati Uniti, c’erano solo
duemila rivoluzionari di questo tipo, nel 1900 era-
no 127.000 e nel 1904 ben 435.000. Evidentemente
l’immoralità predicata dal presidente Roosevelt fio-
risce e aumenta negli Stati Uniti o meglio è la rivo-
luzione che fiorisce e aumenta.
Di tanto in tanto un membro della classe capita-
lista coglie un barlume della rivoluzione e lancia un
grido di allarme. Ma la sua classe non gli presta ascol-
to. Il presidente di Harvard, Eliot, ha lanciato un tale
grido: «Sono costretto a credere che esista in Ameri-
ca attualmente un pericolo socialista così imminen-
te e minaccioso perché mai prima d’ora si è presen-
tato così bene organizzato e così vicino alla realizza-
zione. Il pericolo consiste nella conquista del control-
lo dei sindacati da parte dei socialisti». E i padroni
capitalisti, invece di prestare ascolto a questi ammo-
nimenti, stanno perfezionando la loro organizzazione
antisciopero e le trattative sottobanco per un assalto
generale a quella che è considerata la cosa più cara
ai sindacati: l’assunzione esclusivamente di operai
iscritti. Nella misura in cui questo assalto avrà suc-
cesso, di tanto la classe capitalista abbrevierà la pro-
pria vita. È, ancora e sempre, la stessa vecchia sto-
ria. I fuchi ubriachi si ammassano ancora con avidi-
tà intorno alle cellette del miele. Forse uno dei più
divertenti spettacoli odierni è rappresentato dall’at-
teggiamento della stampa americana nei confronti
della rivoluzione. Ma è anche uno spettacolo pate-
tico. Costringe lo spettatore a rendersi conto che la
48 Il senso della vita (secondo me)

sua specie sta perdendo sempre più il proprio orgo-


glio. Le espressioni dogmatiche pronunciate dalla
bocca dell’ignoranza possono produrre grasse risa-
te, ma in realtà dovrebbero far piangere gli uomi-
ni. E i direttori di giornali americani (in generale)
sono cosi persuasivi sull’argomento! Vecchie espres-
sioni quali «suddivisione», «gli uomini non sono nati
liberi e uguali» vengono pronunciate con un’intona-
zione grave e saggia, come delle cose incandescenti e
nuove appena uscite dalla fucina della saggezza uma-
na. Le loro deboli argomentazioni mostrano niente
di più che una comprensione elementare e scolasti-
ca della natura della rivoluzione. Parassiti loro stes-
si della classe capitalista, che servono forgiando l’o-
pinione pubblica, anche loro si ammassano inebria-
ti davanti alle cellette del miele.
Naturalmente questo è vero solo per la maggior
parte dei direttori di giornali americani. Cioè voglio
dire che è vero per tutti quelli che abusano troppo
nell’influenzare il genere umano. Mentre sarebbe fal-
so quando, di tanto in tanto, un isolato direttore rie-
sce ad avere una visione chiara ma, guidato dall’in-
centivo dello stomaco, ha paura di dire ciò che pen-
sa. Allo stato attuale in cui si trovano la scienza e la
sociologia della rivoluzione, il direttore medio è di
una generazione o giù di lì indietro rispetto ai fatti.
È intellettualmente pigro, accetta i fatti solo quando
sono accettati dalla maggioranza e si vanta del pro-
prio conservatorismo. È un ottimista istintivo, pro-
penso a credere che ciò che deve essere è. Il rivoluzio-
nario, da parte sua, ha abbandonato da tempo que-
sto modo di pensare e crede non a ciò che dovrebbe
Licenza edgt-9-NZAV7ExwBMwgu2rt-t3caHRHceyfeStMj rilasciata il 16
ottobre 2018 a Copia omaggio
Rivoluzione 49

essere, ma a ciò che è, e ciò che è non può mai esse-


re ciò che dovrebbe essere.
Ogni tanto, stropicciandosi vigorosamente gli
occhi, un direttore di giornale riesce a cogliere un
improvviso bagliore della rivoluzione e a mostrare
un’ingenua loquacità come, per esempio, quello che
ha scritto quanto segue sul «Chicago Chronicle»:
«I socialisti americani sono rivoluzionari e sanno di
esserlo. I tempi sono maturi perché la gente cominci
ad apprezzare il fatto». Una scoperta incandescen-
te, completamente nuova ed egli continua a grida-
re ai quattro venti che noi, senza ombra di dub-
bio, siamo rivoluzionari. Perché non è quello che
noi abbiamo fatto per tutti questi anni? Gridare ai
quattro venti che siamo dei rivoluzionari e ci fer-
mi chi può.
Dovrebbe avere fatto il suo tempo il vecchio punto
di vista: «La rivoluzione è atroce. La rivoluzione non
esiste». Parimenti, dovrebbe avere fatto il suo tempo
quell’altro luogo comune: «Il socialismo è schiavitù.
Non si realizzerà mai». Non è più una questione di
dialettica, di teoria e di sogno. Non esistono dubbi
in proposito. La rivoluzione è una realtà. È qui ora.
Sette milioni di rivoluzionari, organizzati, lavoran-
do giorno e notte, stanno predicando la rivoluzio-
ne: l’appassionato vangelo, la Fratellanza dell’Uomo.
Non è soltanto una fredda e ragionata propaganda
economica ma è essenzialmente una propaganda reli-
giosa con un fervore pari a quello di Paolo e Cristo.
La classe capitalista deve essere posta sul banco degli
imputati. Ha fallito nel suo modo di governare e il
governo deve esserle tolto di mano. Sette milioni di
50 Il senso della vita (secondo me)

lavoratori dicono che stanno cominciando a muo-


versi per far sì che il resto della classe operaia si uni-
sca a loro per prendere il potere. La rivoluzione è qui,
ora. La fermi chi può.

Fiume Sacramento, marzo 1905


Come sono diventato socialista*1

È piuttosto facile dire che sono diventato socialista


in una maniera per certi versi simile a quella con cui
i pagani teutonici sono divenuti cristiani – l’idea mi
fu inculcata a viva forza. Non soltanto al tempo della
mia conversione non avevo alcuna propensione per il
socialismo, ma lo stavo combattendo. Ero assai gio-
vane e inesperto, non sapevo niente di niente e, seb-
bene non avessi mai udito di una scuola chiamata
«individualismo», cantavo con tutto il mio cuore il
peana dell’uomo forte.
Questo perché ero io stesso un uomo forte. Per
forte intendo dire che avevo una salute di ferro e
muscoli robusti, qualità entrambe facilmente dimo-
strabili. Avevo trascorso la fanciullezza in un ranch
della California, la pubertà vendendo giornali nelle
strade di una prosperosa città della Costa occiden-
tale e la giovinezza sulle salubri acque della Baia di
San Francisco e dell’Oceano Pacifico. Amavo la vita
all’aria aperta e all’aria aperta mi impegnai duramen-
te nei lavori più faticosi. Senza imparare un mestiere,
ma passando di lavoro in lavoro, ebbi modo di osser-
*
How I Became a Socialist, «The Comrade», marzo 1903.
52 Il senso della vita (secondo me)

vare il mondo e di ritenerlo buono, in ogni sua pic-


cola parte. Lasciatemelo ripetere, questo ottimismo
era determinato dal fatto che ero in buona salute e
forte, non afflitto da alcun dolore o debolezza, mai
respinto da un padrone perché non all’altezza, sem-
pre capace di procurarmi un lavoro in una minie-
ra di carbone, a bordo di una nave o in qualsivoglia
attività bracciantile.
E in virtù di tutto questo, gioendo della mia gio-
vane vita, capace di farmi valere sul lavoro o in un
combattimento, io ero un esasperato individualista.
Ciò era molto naturale. Ero un vincitore. Per que-
sta ragione chiamavo la competizione, come la vede-
vo o pensavo di vederla praticata, un vero e proprio
gioco per uomini. Essere un uomo era scrivere que-
sta parola a grandi lettere maiuscole sul mio cuore.
Rischiare come un uomo e combattere come un uomo
e fare il lavoro di un uomo (anche per una paga da
ragazzo) erano le cose che mi colpivano e mi avvin-
cevano più di ogni altra. E guardavo avanti a me in
lunghe visioni di un confuso e interminabile futuro,
nel quale, giocando quello che consideravo il gioco
dell’uomo, avrei continuato a viaggiare con una salu-
te inattaccabile, senza incidenti e con muscoli sempre
vigorosi. Come ho detto, questo futuro era intermi-
nabile. Potevo soltanto vedere farmi largo con furia
attraverso una vita senza fine come una delle «bestie
bionde» di Nietzsche, vagando senza posa e conqui-
stando per pura superiorità e forza.
Devo confessare che non mi curavo degli sfortu-
nati, dei malati, dei vecchi e degli invalidi, se non
che avvertivo vagamente che, senza gli incidenti, essi
Come sono diventato socialista 53

avrebbero potuto dare il meglio di loro e lavorare di


conseguenza. Incidenti? Bene, essi erano il prodotto
del FATO, anche questo scritto a lettere maiuscole, e
non c’era nulla da fare contro il FATO.
Napoleone aveva avuto un incidente a Waterloo,
ma ciò non diminuiva il mio desiderio di essere un
altro Napoleone. Inoltre l’ottimismo prodotto da
uno stomaco che poteva digerire pezzi di ferro e un
corpo che fioriva nelle asperità non mi permetteva-
no di non prendere neanche lontanamente in consi-
derazione che gli incidenti potessero avere a che fare
con la mia splendida personalità.
Spero di avere mostrato in modo chiaro che ero
orgoglioso di essere uno dei forti nobili della Natu-
ra. La dignità del lavoro rappresentava per me la cosa
più importante del mondo. Senza avere letto Carlyle
o Kipling formulai un vangelo del lavoro che mise
in ombra i loro. Il lavoro era tutto. Era santificazio-
ne e salvazione. L’orgoglio che ricavavo da una dura
giornata di lavoro ben fatto vi apparirebbe inconce-
pibile, e lo era quasi anche per me quando ci ripen-
savo. Ero uno dei più fedeli schiavi della paga che
mai capitalista avesse sfruttato. Mostrarmi sfaticato
all’uomo che pagava il mio salario era un peccato,
in primo luogo contro di me e in secondo contro di
lui. Lo consideravo un crimine inferiore solo al tra-
dimento e altrettanto atroce.
In breve, il mio straordinario individualismo ven-
ne dominato dall’ortodossa etica borghese. Leggevo
i giornali borghesi, ascoltavo i predicatori borghesi
e plaudivo ai risonanti luoghi comuni dei politicanti
borghesi. E non dubito che, se altri eventi non aves-
54 Il senso della vita (secondo me)

sero cambiato la mia carriera, mi sarei trasformato


in un agente antisciopero – uno degli eroi america-
ni del presidente Eliot – e la mia testa e il mio pote-
re di guadagnare sarebbero stati spazzati via da un
bastone nelle mani di qualche sindacalista militante.
Fu allora che, compiuti da poco diciotto anni e
di ritorno da un viaggio per mare di sette mesi, pre-
se corpo in me l’idea di mettermi a viaggiare senza
meta. Sulle aste dei treni merci o nello spazio tra un
bagagliaio e l’altro, mi diressi dall’aperto West, dove
gli uomini lottavano duro e il lavoro dava la cac-
cia all’uomo, verso i congestionati centri industriali
dell’Est, dove gli uomini erano delle nullità e davano
la caccia al lavoro con tutte le loro risorse. E durante
questa nuova avventura da «bionda bestia», mi trovai
a vedere la vita da una prospettiva totalmente nuova
e differente. Ero caduto dal proletariato in ciò che
i sociologi amano chiamare il «decimo sommerso»1
e iniziai con meraviglia a scoprire la maniera in cui
esso veniva reclutato.
Vi trovai ogni sorta di uomini, molti dei quali una
volta erano stati simili a me e alle «bionde bestie»;
soldati, operai, tutti distrutti, sconvolti e deformati
dallo sfruttamento, dalle dure condizioni di lavoro
e dagli infortuni, buttati via dai loro padroni come
delle scarpe vecchie. Con loro andai in giro a men-
dicare facendomi sbattere la porta in faccia o bat-

1
Con il termine, che potremmo tradurre con sottoproletariato, si
intendeva quella parte della popolazione, un decimo appunto, che
non riusciva mai a sollevarsi dalla propria condizione di miseria,
di fame e di disoccupazione [ndt].
Come sono diventato socialista 55

tei i denti per il freddo sui carri merci o nei parchi,


ascoltando nel frattempo la storia di vite che erano
cominciate sotto auspici promettenti come i miei,
con capacità digestive e corpi uguali se non miglio-
ri dei miei e che erano finite lì dinanzi ai miei occhi
nelle miserie sul fondo del Pozzo Sociale.
Mentre ascoltavo, il mio cervello incominciò a
lavorare. La donna di strada e l’uomo delle fogne mi
divennero familiari. L’immagine del Pozzo Sociale mi
apparve così vivida come se fosse una cosa vera e li
vidi sul fondo del Pozzo, io stesso sopra di loro, non
lontano, abbarbicato con tutte le mie forze al muro
viscido. Confesso che il terrore si impossessò di me.
Cosa sarebbe accaduto quando le mie forze sarebbero
venute meno? Quando sarei stato incapace di lavora-
re spalla a spalla con uomini forti che erano ancora
come dei bambini non nati? E fu allora che formulai
un solenne giuramento. Qualcosa del genere: «Dopo
tutti i giorni che ho lavorato duro con il mio corpo
e in base al loro numero, mi ritrovo vicino al fon-
do del Pozzo. Io uscirò fuori del Pozzo ma non gra-
zie ai muscoli del mio corpo. Non farò più un lavo-
ro duro e possa Dio incenerirmi se sfiancherò il mio
corpo più di quello che è assolutamente necessario».
E da allora ho rifuggito il lavoro duro.
Incidentalmente, mentre stavo viaggiando per circa
diecimila miglia attraverso gli Stati Uniti e il Canada,
mi trovai a vagabondare dalle parti di Niagara Falls
e fui beccato da un poliziotto in borghese e, priva-
to del diritto di dichiararmi colpevole o non colpe-
vole, fui condannato su due piedi a trenta giorni di
prigione per non avere una fissa dimora e adeguati
56 Il senso della vita (secondo me)

mezzi di sostentamento, ammanettato e incatenato a


un branco di uomini che si trovavano nelle mie stes-
se condizioni, trasportato giù a Buffalo e rinchiuso
nel penitenziario della contea di Erie; mi rasarono la
testa e la stessa sorte toccò ai miei baffi fluenti, indos-
sai la divisa a strisce dei carcerati e venni costretto
a farmi vaccinare da uno studente in Medicina che
faceva il suo tirocinio su gente come noi, poi a mar-
ciare incatenato e a lavorare sotto gli occhi di guar-
die armate con fucili Winchester – il tutto per amo-
re dell’avventura alla maniera delle «bestie bionde».
Riguardo a ulteriori dettagli chi vi scrive non ha
nulla da aggiungere se non che egli poté percepire
che una parte del suo pletorico patriottismo si era
placata e aveva abbandonato il fondo della sua ani-
ma – almeno da questa esperienza egli ne ricavò che
gli importavano più gli uomini, le donne e i bambi-
ni che non le immaginarie rotte geografiche.
Per tornare alla mia conversione. Penso che sia
chiaro che l’esasperato individualismo era stato defi-
nitivamente scacciato dalla mia anima e qualcos’altro
ne aveva preso il posto. Ma, così come ero stato un
individualista senza saperlo, alla stessa maniera sono
ora un socialista, per di più del tipo non scientifico.
Ero stato rigenerato ma non avevo cambiato nome
e stavo girando per capire che specie di cosa fossi.
Feci ritorno in fretta in California e aprii i libri. Non
ricordo quale aprii per primo. In ogni caso non è un
dettaglio importante. Ero già questo, qualunque cosa
esso fosse, e con l’aiuto dei libri scoprii che «questo»
era essere socialista. Da quel giorno ho aperto molti
libri, ma nessun argomento di carattere economico,
Come sono diventato socialista 57

nessuna lucida dimostrazione della logica e dell’ine-


vitabilità del socialismo mi ha colpito in maniera così
profonda e convincente come quel giorno in cui per
la prima volta vidi le mura del Pozzo Sociale circon-
darmi e mi sentii scivolare giù, sempre più giù, nel-
le miserie sul fondo del Pozzo Sociale.
Seconda parte
Il sogno di Debs*1

Mi svegliai una buona ora prima del solito. Que-


sto era già di per sé un avvenimento eccezionale, e
rimasi a meditarvi su, completamente sveglio. C’era
qualcosa di inconsueto, di sbagliato, ma non capi-
vo cosa. Ero oppresso da un presentimento: qualco-
sa di terribile era accaduto o stava per accadere. Ma
cosa? Cercai di orientarmi. Mi ricordai che al tempo
del Grande Terremoto del 1906 molta gente disse
di essersi svegliata alcuni attimi prima che iniziasse-
ro le scosse e di aver provato in quel breve intervallo
strane sensazioni di terrore. Forse che un altro ter-
remoto stava per colpire San Francisco?
Rimasi immobile per un intero minuto, in torpida
attesa, ma nessuna parete vibrò, nessun muro crol-
lò in pezzi. Regnava la quiete. Ecco cos’era! Il silen-
zio! Non c’era da meravigliarsi che ne fossi turbato. Il
vivace brusio della grande città era stranamente assen-
te. A quell’ora del giorno passavano nella mia strada
una vettura tranviaria ogni tre minuti; invece nei die-
ci minuti successivi non ne passò nessuna. Forse c’era
uno sciopero dei tram, pensai; o forse c’era stato un
*
The Dream of Debs, «International Socialist Review», 1909.
62 Il senso della vita (secondo me)

incidente e avevano tolto la corrente. Ma no, il silen-


zio era troppo profondo. Non udivo neppure lo stri-
dio, il fracasso delle ruote dei carri né il risuonare degli
zoccoli ferrati dei cavalli sulle ripide salite pietrose.
Pigiai il pulsante vicino al letto, sforzandomi di
udire il suono del campanello, pur sapendo che era
impossibile sentirlo dal terzo piano, sempre ammes-
so che funzionasse. E invece suonò, perché qualche
minuto dopo Brown entrò col vassoio e il giorna-
le del mattino. Nonostante i suoi tratti apparissero
come sempre impassibili, notai un lampo di appren-
sione nei suoi occhi. Notai altresì che mancava la
crema per il caffè.
«Il lattaio non ha fatto le consegne stamane – spie-
gò – e neanche il fornaio.»
Lanciai un’altra occhiata al vassoio. Mancavano i
panini freschi; c’erano solo fette stantie di pane inte-
grale, la qualità che trovo più detestabile.
«Non hanno portato a domicilio nulla stamane,
signore» cominciò a spiegare Brown con tono apo-
logetico; ma lo interruppi.
«Il giornale?»
«Sì, signore, lo hanno portato, ma è stata l’unica
cosa, e per l’ultima volta. Non ci saranno giornali
domani. Così c’è scritto. Vuole che le mandi a com-
prare del latte condensato?»
Feci cenno di no con la testa, presi il caffè nero e
aprii il giornale. I titoli spiegavano tutto, troppo in
realtà, perché gli abissi di pessimismo in cui si lan-
ciava il giornale erano ridicoli. Uno sciopero gene-
rale, diceva, era stato proclamato in tutti gli Stati
Uniti, e si esprimevano le più vive preoccupazioni
Il sogno di Debs 63

per quanto riguardava l’approvvigionamento del-


le grandi città.
Lessi in fretta, saltando, e ricordando intanto vari
altri episodi analoghi di disordini sindacali del pas-
sato. Per un’intera generazione lo sciopero genera-
le era stato il sogno delle organizzazioni dei lavora-
tori, sogno che era stato concepito originariamente
nella mente di Debs, uno dei maggiori sindacalisti
di trent’anni prima. Mi venne in mente che agli ini-
zi della mia vita universitaria avevo anche scritto per
qualche giornale un articolo sull’argomento, intito-
lato «Il sogno di Debs». E devo confessare che avevo
trattato l’idea in modo molto semplicistico e acca-
demico, definendola un mero sogno. Il tempo e il
mondo erano andati avanti; Gompers era sparito, la
Federazione americana del lavoro era sparita, e spa-
rito era Debs con tutte le sue idee selvaggiamente
rivoluzionarie: ma il sogno era sopravvissuto, ed ecco
che si realizzava. Eppure mi facevano ridere, men-
tre leggevo, le fosche previsioni del giornale. Sapevo
bene come stavano le cose. Avevo visto le organiz-
zazioni dei lavoratori avere la peggio in troppi con-
flitti. Sarebbero bastati pochi giorni a risistemare le
cose. Si trattava di uno sciopero su scala nazionale,
e il governo non ci avrebbe messo molto a spezzarlo.
Posai il giornale e cominciai a vestirmi. Sarebbe
stato interessante andare in giro per le strade di San
Francisco, mentre non una ruota girava, a vedere lo
spettacolo della città in riposo forzato.
«Chiedo scusa, signore – disse Brown, porgendo-
mi la scatola di sigari – ma Mr. Harmmed vorrebbe
vederla prima che esca.»
64 Il senso della vita (secondo me)

«Lo faccia venire subito» risposi.


Harmmed era il maggiordomo. Non appena fu
entrato mi accorsi che era in stato di grande agita-
zione, seppure controllata. Venne subito al punto.
«Cosa faccio, signore? Ci sarà bisogno di provviste,
e tutti gli addetti alle consegne sono in sciopero. E
l’elettricità è stata tagliata, devono essere in sciope-
ro anche loro.»
«I negozi sono aperti?» chiesi.
«Solo i piccoli, signore. I commessi sono in scio-
pero, e i grossi negozi non possono aprire; ma i pro-
prietari e le loro famiglie fanno funzionare diretta-
mente quelli più piccoli.»
«Allora prenda la macchina – dissi – e vada a far
spese. Compri in abbondanza tutto ciò che serve o
potrà servire in futuro. Compri anche una scatola di
candele; anzi, una mezza dozzina. E quando ha fini-
to, dica a Harrison di portarmi la macchina al club,
non oltre le undici.»
Harmmed scosse la testa con aria seria.
«Mr. Harrison è entrato in sciopero col sindacato
degli autisti, e io non so guidare.»
«Ah, davvero?» dissi. «Va bene, quando il signor
Harrison si ripresenterà, gli dica pure di cercarsi un
altro posto.»
«Bene, signore.»
«Appartiene per caso anche lei a un sindacato di
maggiordomi, Harmmed?»
«No, signore» fu la risposta. «E anche se lo fossi,
non abbandonerei il mio padrone in un momento di
crisi come questo. No, signore, piuttosto...»
Il sogno di Debs 65

«Va bene, grazie» dissi. «Ora si prepari ad accom-


pagnarmi. Guiderò io stesso la macchina. Mettere-
mo da parte tante provviste da affrontare un assedio.»
Era il primo maggio, una magnifica giornata, anche
per il mese di maggio. Il cielo era assolutamente lim-
pido, non c’era vento, e l’aria tiepida, quasi profu-
mata. Circolavano molte macchine, guidate perso-
nalmente dai proprietari. Le strade erano affollate
ma tranquille. La classe lavoratrice, vestita a festa,
era fuori a prendere aria e a osservare gli effetti del-
lo sciopero. Era tutto così fuori dell’ordinario e nel-
lo stesso tempo così quieto che provai un senso di
godimento, seppur venato di leggero nervosismo.
Era come vivere un’avventura, ma senza rischi. Supe-
rai Miss Chickering, alla guida della sua piccola due
posti. Lei sterzò bruscamente e mi seguì, raggiun-
gendomi all’angolo.
«Oh, Mr. Corf!» esclamò. «Non sa dirmi dove potrei
trovare delle candele? Sono stata in una dozzina di nego-
zi e le hanno tutte esaurite. È spaventoso, non trova?»
Ma gli occhi le brillavano, smentendo le sue parole.
Anche lei, come tutti noi, si stava divertendo immen-
samente. Ma fu davvero un’avventura trovare quel-
le candele. Soltanto quando, attraversata tutta la cit-
tà, arrivammo nel quartiere operaio a sud di Market
Street, riuscimmo a trovare delle drogherie che non
avevano esaurito tutta la merce. Miss Chickering
stava per prendere una scatola sola, ma la convinsi a
prenderne quattro. La mia automobile era spaziosa,
e ve ne ficcai dentro una dozzina. Non era possibi-
le prevedere che tipo di difficoltà potevano presen-
tarsi prima che lo sciopero finisse, e quindi riempii
66 Il senso della vita (secondo me)

la macchina di sacchi di farina, di lievito in polvere,


di scatolame vario e di tutto quello che era necessa-
rio secondo Harmmed, il quale si dava un gran da
fare e starnazzava intorno agli scaffali come una vec-
chia gallina agitata.
La cosa strana di quel primo giorno di sciopero fu
che nessuno lo prese molto sul serio, e la gente rise
leggendo sui giornali del mattino l’annuncio delle
organizzazioni sindacali che minacciavano che lo scio-
pero poteva durare anche tre mesi. Eppure avremmo
potuto capire le loro intenzioni fin dal primo gior-
no, vedendo che i lavoratori erano stati praticamente
assenti nell’affannosa corsa agli approvvigionamen-
ti. Era naturale: da settimane e mesi, nella massima
segretezza, l’intera classe operaia si era andata astu-
tamente rifornendo di provviste. Ecco come mai ci
permetteva di andare a fare man bassa nei negozi dei
suoi quartieri.
Fu soltanto quando arrivai al club nel pomeriggio
che ebbi una prima sensazione di allarme. Regna-
va una totale confusione. Non c’erano olive per i
cocktail, e il servizio era caotico. Molti dei presen-
ti erano su tutte le furie, e tutti apparivano preoc-
cupati. Una babele di voci salutò il mio ingresso. Il
generale Folsom, cullando il suo ventre capace in
una poltrona nel vano della finestra della sala dei
fumatori, cercava di difendersi da una mezza doz-
zina di signori eccitati che pretendevano che faces-
se qualcosa.
«Cosa posso fare più di quello che ho fatto?» dice-
va. «Non ci sono ordini da Washington. Se lorsignori
riescono a ripristinare i collegamenti telegrafici, farò
Il sogno di Debs 67

qualunque cosa mi ordinano. Ma non vedo cosa,


attualmente. Stamane, appena saputo dello sciopero,
ho immediatamente fatto venire in città delle trup-
pe dal Presidio. Sono tremila uomini, che ora sor-
vegliano le banche, la zecca, l’ufficio postale e tutti
gli edifici pubblici. Non ci sono disordini di nessun
tipo. Gli scioperanti mantengono la calma più asso-
luta. Non potete pretendere che dia l’ordine di spa-
rare su della gente che passeggia vestita a festa per la
strada con moglie e figli.»
«Mi piacerebbe sapere cosa sta succedendo a Wall
Street» sentii dire passando da Jimmy Wombold. Pote-
vo ben immaginare la sua preoccupazione, sapendo
che era dentro fino al collo nella grossa operazione
delle Consolidated-Western.
«Di’, Corf – mi interpellò Atkinson –, funziona la
tua macchina?»
«Sì – risposi –, qualcosa non va con la tua?»
«Guasta, e le officine sono tutte chiuse. E mia moglie
è bloccata dalle parti di Truckee, o giù di lì, non pos-
so telegrafarle nemmeno a peso d’oro. Avrebbe dovu-
to arrivare stasera. Potrebbe darsi che stia senza man-
giare. Prestami la macchina.»
«Non si può attraversare la baia» interloquì Halstead.
«I traghetti non vanno. Ma senti cosa puoi fare.
C’è qui Rollinson: Rollinson, vieni qua un attimo.
Atkinson vorrebbe arrivare dall’altra parte della baia
in macchina. Sua moglie è bloccata a Truckee. Non
potresti far venire la Lurlette da Tiburon e caricarvi
sopra la macchina?»
La Lurlette era uno yacht da duecento tonnellate.
Rollinson scosse la testa.
68 Il senso della vita (secondo me)

«Impossibile trovare un uomo a terra per caricare la


macchina, anche ammesso che potessi mettere in mare la
Lurlette, cosa che non posso perché l’equipaggio fa parte
del Sindacato dei marinai costieri e quindi è in sciopero.»
«Ma mia moglie potrebbe non avere da mangia-
re» sentii gemere Atkinson mentre mi allontanavo.
Dall’altro capo della sala fumatori mi imbattei in
un gruppo di signori dall’aria arrabbiata che faceva-
no capannello intorno a Bertie Messener. E Bertie,
freddo e cinico come al solito, li stuzzicava. Bertie se
ne infischiava dello sciopero. Se ne infischiava qua-
si di tutto. Era un blasé, almeno per quanto riguar-
dava le cose pulite della vita: le cose sgradevoli non
lo attiravano. Aveva un patrimonio di venti milioni
di dollari, tutto in investimenti sicuri, e non aveva
mai fatto un briciolo di lavoro produttivo in tutta
la sua vita: aveva ereditato tutto dal padre e da due
zii. Era stato ovunque, aveva visto tutto e fatto tut-
to eccetto che sposarsi, e ciò a dispetto dei feroci e
decisi attacchi di alcune centinaia di mamme ambi-
ziose. Per anni era stato la preda più ambita, ma era
riuscito a sfuggire alla cattura. Rappresentava, sfor-
tunatamente per lui, il partito ideale. Ricco, giova-
ne, bello e, come dicevo prima, moralmente pulito.
Era un grande atleta, un giovane dio biondo, capace
di fare qualsiasi cosa in modo perfetto, con un’unica
eccezione, sposarsi. Non aveva preoccupazioni di nes-
sun tipo, non aveva ambizioni, né passioni, né desi-
derio di fare le cose in cui eccelleva su tutti gli altri.
«Questa è una sedizione!» gridava uno del gruppo.
Un altro la chiamò rivolta e rivoluzione, un altro
ancora anarchia.
Il sogno di Debs 69

«Non me ne sono accorto» disse Bertie. «Sono stato


in giro per le strade tutta la mattina. Regna l’ordine
più perfetto. Non ho mai visto gente più rispettosa
della legge. È stupido prenderla per quello che non
è: è quello che pretende di essere, uno sciopero gene-
rale, e tocca a voi adesso giocare, signori.»
«E giocheremo, certo che giocheremo!» gridò Gar-
field, un milionario dei trasporti. «Mostreremo a quel-
la feccia qual è il suo posto... porci! Aspettate che il
governo abbia in pugno la situazione.»
«Ma dov’è il governo?» lo interruppe Bertie. «Potreb-
be essere in fondo al mare per quel che se ne sa. Non
sappiamo cosa sta succedendo a Washington. Non
sappiamo neanche se abbiamo o no un governo.»
«Non ti preoccupare di questo» sbottò Garfield.
«Ti assicuro che non sono affatto preoccupato» sor-
rise languidamente Bertie. «Ma mi sembra che lo sia
tu. Guardati nello specchio, Garfield.»
Garfield non guardò, ma se lo avesse fatto avrebbe
visto un signore sovreccitato, i capelli grigi arruffati,
la faccia paonazza, una bocca vendicativa, gli occhi
selvaggiamente scintillanti.
«Non è giusto, vi dico» disse il piccolo Hanover, e
dal tono capii che doveva aver pronunciato queste
parole già varie volte.
«Be’, non esageriamo, Hanover» ribatté Bertie.
«Amici miei, mi avete seccato. Avete tutti assunto
alle vostre dipendenze manodopera al di fuori delle
organizzazioni sindacali. Mi avete rotto i timpani a
furia di blaterare in favore dell’assunzione di mano-
dopera senza discriminazioni, e del diritto al lavo-
ro che ha ogni uomo. Per anni e anni avete sbandie-
70 Il senso della vita (secondo me)

rato questi principi. Le forze del lavoro non fanno


niente di male proclamando questo sciopero genera-
le, che non viola nessuna legge, né umana né divina.
Sta’ zitto, Hanover. Troppo a lungo avete insistito
sul diritto divino che gli uomini hanno a lavorare...
o a non lavorare: non potete sfuggire al corollario. È
un piccolo, sporco, sordido litigio, ecco cos’è questa
faccenda. Avete sempre sopraffatto e imbrogliato le
organizzazioni dei lavoratori, e adesso loro vi sopraf-
fanno e vi imbrogliano, e voi strepitate.»
Tutti gli interlocutori protestarono indignati, gri-
dando di non aver mai imbrogliato le organizzazio-
ni sindacali.
«Nossignore!» urlava Garfield. «Abbiamo fatto del
nostro meglio verso i sindacati. Altro che imbrogliar-
li, gli abbiamo dato la possibilità di vivere. Abbia-
mo dato ai lavoratori la possibilità di lavorare; che
ne sarebbe di loro se non ci fossimo noi?»
«Starebbero molto meglio» disse Bertie in tono bef-
fardo. «Avete oppresso e truffato le forze del lavoro
ogni volta che ve ne è capitata l’occasione, e se non
capitava ve la siete andata a cercare.»
«No, no!» protestavano i presenti.
«C’è stato lo sciopero dei vetturini, proprio qui,
a San Francisco» proseguì Bertie senza scompor-
si. «L’Associazione degli industriali ha fatto di tutto
perché la situazione precipitasse. Lo sapete benissi-
mo. E sapete anche che io lo so, perché ero seduto
proprio in queste stanze, ed ero al corrente di tutti
i retroscena dei fatti e delle informazioni sull’anda-
mento della lotta. Per prima cosa avete scatenato lo
sciopero, poi vi siete comprati il sindacato e il capo
Licenza edgt-9-NZAV7ExwBMwgu2rt-t3caHRHceyfeStMj rilasciata il 16
ottobre 2018 a Copia omaggio
Il sogno di Debs 71

di polizia e così avete spezzato lo sciopero. Un bel-


lo spettacolo è stato, vedere voi filantropi calpestare
allegramente i diritti dei vetturini.»
«Aspettate, non ho finito. Non più tardi dell’an-
no scorso la lista dei lavoratori del Colorado ha elet-
to un governatore. Non si è potuto insediare. E voi
sapete perché. Sapete come hanno manovrato le cose
i vostri fratelli, i filantropi e i capitalisti del Colora-
do. Si trattava anche lì di avere la meglio, a qualsiasi
prezzo, sulle organizzazioni dei lavoratori. Avete tenu-
to il presidente del sindacato minatori della South-
Western Amalgamated in prigione per tre anni, sotto
la falsa accusa di omicidio, con il che l’associazione
si è sfasciata. Ammetterete che è un caso di frode.
La terza volta che la tassa sul reddito graduale è sta-
ta dichiarata incostituzionale, è stata una frode. Allo
stesso modo di quando avete fatto naufragare nell’ul-
timo Congresso la proposta di legge per la giornata
lavorativa di otto ore.
«Ma il limite delle vostre sporche manovre lo avete
toccato distruggendo il principio per cui si potevano
assumere soltanto lavoratori appartenenti ai sindaca-
ti. Sapete bene la tattica che è stata usata. Corrompe-
ste Farburg, ultimo presidente della vecchia Federa-
zione americana del lavoro. Era una vostra creatura,
ovvero la creatura di tutte le associazioni dei mono-
poli e dei datori di lavoro, il che è lo stesso. Faceste
scoppiare lo sciopero per i diritti dei sindacati, che
Farburg tradì. Voi vinceste, e la vecchia Federazio-
ne americana del lavoro si sgretolò. Siete stati voi a
distruggerla, ma così vi siete scavati la fossa con le
vostre mani, giacché subito dopo è sorta la Ilw, la
72 Il senso della vita (secondo me)

più grossa e solida organizzazione sindacale che gli


Stati Uniti abbiano mai visto, e voi siete responsa-
bili della sua esistenza e dell’attuale sciopero gene-
rale. Avete schiacciato tutte le vecchie federazioni e
spinto i lavoratori dell’Ilw, e l’Ilw ha proclamato lo
sciopero generale che mira, al solito, all’assunzione
della sola manodopera inquadrata nei sindacati. Poi
avete la faccia tosta di venirmi a dire che non avete
mai sfruttato e ingannato le forze lavoratrici. Bah!»
Stavolta nessuno osò smentirlo. Garfield esplo-
se, in tono di autodifesa: «Non abbiamo fatto altro
che quello che ci hanno costretto a fare, se voleva-
mo vincere».
«Non sto parlando di questo» rispose Bertie. «Tro-
vo strani i vostri lamenti ora che state un po’ pro-
vando il sapere delle vostre stesse medicine. Quanti
scioperi avete fatto fallire riducendo i lavoratori alla
fame? E adesso sono i lavoratori che hanno organiz-
zato le cose in modo da ridurre voi alla fame, se non
vi piegate. Vogliono che le assunzioni siano limitate
agli iscritti ai sindacati e, se possono ottenere ciò affa-
mandovi, non c’è dubbio che sarete ridotti alla fame.»
«Se non sbaglio anche tu hai approfittato in passato
di queste frodi a danno dei lavoratori, a cui accenna-
vi» insinuò Brentwood, uno dei più scaltri avvocati
del nostro gruppo. «Il ricettatore è colpevole quanto
il ladro – sorrise ironico –; se non sei personalmente
implicato nelle frodi, ne hai tratto i tuoi vantaggi.»
«Questo non c’entra, Brentwood» replicò stan-
camente Bertie. «Ragioni come Hanover, se tiri in
ballo la morale. Io non ho parlato di giusto o sba-
gliato. È un marciume generale, lo so; la sola cosa
Il sogno di Debs 73

che mi diverte è di vedervi protestare, ora che siete


voi la parte lesa. Anch’io, è naturale, ho profitta-
to dei vostri imbrogli, e grazie a voi, signori, senza
dovermi sporcare personalmente le mani. Lo ave-
te fatto voi per me e, credetemi, non perché io sia
più virtuoso di voi, ma solo perché quel brav’uo-
mo di mio padre e suoi fratelli vi hanno lasciato
un sacco di soldi con cui pagare chi si sporcasse le
mani per me.»
«Se vuoi insinuare...» cominciò in tono acceso Brent-
wood.
«Taci, non agitarti» lo interruppe Bertie con inso-
lenza. «È inutile giocare agli ipocriti in questo covo
di ladri. Lasciamo la retorica e i nobili sentimenti ai
giornali, ai circoli giovanili, alle scuole domenicali:
fanno parte del loro gioco. Per amor di Dio, non reci-
tiamo tra di noi. Voi sapete, e sapete che anch’io lo
so, quale speculazione è stata fatta durante lo sciopero
dei sindacati degli edili l’autunno scorso, chi investì
il denaro, chi fece il lavoro e a chi toccarono i pro-
fitti (Brentwood arrossì fino alla cima dei capelli).
Ma siamo tutti nella stessa barca e quindi è meglio
per noi non tirare in ballo la morale. Torno a ripe-
tervi, fate il vostro gioco, giocate fino in fondo, ma
per carità, non lamentatevi quando siete colpiti.»
Lasciai il gruppetto mentre Bertie si imbarcava in
una nuova discussione e tormentava gli interlocuto-
ri presentando loro gli aspetti più seri della situazio-
ne, come la carenza di viveri, che già si faceva sen-
tire, e chiedeva come pensavano di farvi fronte. Un
po’ più tardi lo incontrai nell’ingresso e gli diedi un
passaggio in macchina a casa.
74 Il senso della vita (secondo me)

«È un bel colpo, questo sciopero generale» disse


mentre scivolavamo per le strade affollate ma tranquil-
le. «È uno stupendo colpo basso. Le forze del lavoro
ci hanno sorpresi nel sonno e colpito nel punto più
debole, lo stomaco. Sto per andarmene da San Fran-
cisco, Corf. Senti il mio consiglio e vattene anche tu,
in un posto qualsiasi, ma in campagna starai meglio.
Comprati una riserva di viveri e accampati in qual-
che posto. Ben presto la gente come noi sarà ridot-
ta alla fame in questa città.
Non potevo immaginare quanto fossero esatte le
previsioni di Bertie, che lì per lì presi per un allar-
mista. Preferivo restarmene a guardare lo spettaco-
lo. Dopo averlo accompagnato, invece di tornare
direttamente a casa, andai a caccia di altre provviste.
Con mia grande sorpresa vidi che tutti i negozian-
ti dove avevo fatto spese la mattina avevano esauri-
to le merci. Estesi le ricerche fino a Portero e ebbi
la fortuna di trovare un’altra scatola di candele, due
sacchi di farina di grano, cinque chili di farina inte-
grale (ottima per la servitù), una cassa di granturco
in scatola e due casse di pelati. Sembrava effettiva-
mente probabile che ci sarebbe stata, almeno tempo-
raneamente, carenza di viveri e mi congratulai con
me stesso per la quantità di provviste che ero riusci-
to a metter da parte.
La mattina dopo presi il caffè a letto come al solito
e, più che della crema, sentii la mancanza del gior-
nale. La cosa più ardua da sopportare era, credevo,
non sapere cosa stava succedendo nel resto del mon-
do. Giù al club non c’erano molte novità. Rider ave-
va attraversato la baia da Oakland con la sua lancia
Il sogno di Debs 75

e Halstead era andato e tornato da San José in mac-


china. La situazione era ovunque analoga a quella di
San Francisco. Tutto era fermo per lo sciopero. Tutti
i negozi di alimentari erano stati svuotati dalle clas-
si abbienti. E regnava l’ordine più perfetto. Ma cosa
stava succedendo nel resto del paese? A Chicago? A
New York? A Washington? Quasi certamente le stesse
cose che succedevano da noi, pensavamo; ma il fatto
di non saperlo con certezza matematica era seccante.
Il generale Folsom aveva qualche notizia. Avevano
fatto il tentativo di mandare telegrafisti dell’esercito
negli uffici telegrafici, ma i fili erano stati tagliati in
ogni direzione. Questa era stata finora l’unica azione
illegale compiuta dalle forze del lavoro e il generale
non aveva dubbi che ovunque era così. Aveva comu-
nicato con il telegrafo senza fili con il posto milita-
re di Benicia, le linee telegrafiche erano pattuglia-
te anche allora da soldati lungo tutta la strada fino
a Sacramento. Per un attimo era riuscito a captare
una chiamata di Sacramento, poi i fili, da qualche
parte, erano stati di nuovo tagliati. Il generale Fol-
som era sicuro che le autorità stavano facendo ana-
loghi tentativi per entrare in contatto col resto del
paese, ma non si pronunciò in merito al loro succes-
so. Si mostrò preoccupato per il sabotaggio dei fili
che era, secondo lui, parte cruciale della cospirazio-
ne dei lavoratori. Rimpiangeva altresì che il gover-
no non avesse portato a termine il progetto, vagheg-
giato da tanto tempo, della catena di stazioni per il
telegrafo senza fili.
Il tempo passava e per un po’ la vita trascorse
monotona. Non accadde nulla. L’eccitazione ini-
76 Il senso della vita (secondo me)

ziale si andava spegnendo, le strade non erano più


tanto affollate, gli scioperanti non venivano più
nei nostri quartieri a vedere come ce la cavavamo.
E non c’erano più in giro tante macchine. Offici-
ne e garage erano chiusi e al primo guasto le auto-
mobili venivano messe fuori uso. Alla mia si gua-
stò la frizione e non ci fu verso di ripararla: presi ad
andare a piedi come gli altri. San Francisco sembra-
va una città morta e non sapevamo cosa stava suc-
cedendo nel resto del paese. Ma dal fatto stesso di
non saperne niente, potevamo dedurre soltanto che
il resto del paese era morto al pari di San Francisco.
Di tanto in tanto le mura della città venivano tap-
pezzate di proclami delle organizzazioni sindacali
stampati mesi prima (il che dimostrava con quanta
oculata cura l’Ilw avesse organizzato lo sciopero in
ogni dettaglio). Non si erano ancora verificati epi-
sodi di violenza, se si eccettua la fucilazione da par-
te dei soldati di alcuni sabotatori di fili, ma la gente
degli slums, ridotta alla fame, cominciava a diven-
tare pericolosamente inquieta.
I capitani d’azienda, i milionari e i professionisti
tenevano riunioni e prendevano decisioni che non
era possibile rendere pubbliche né far stampare. Al
seguito di una di queste si decise che il generale Fol-
som occupasse militarmente tutti i grandi magazzi-
ni e i depositi di farina di cereali e di viveri. Era tem-
po ormai, perché nelle case dei ricchi si cominciava
a soffrire la fame sul serio. Fu necessario inoltre isti-
tuire la fila per il pane. Mi ero accorto che la servi-
tù cominciava ad avere la faccia lunga, nonostante
attingesse senza pudore alla mia dispensa: come ven-
Il sogno di Debs 77

ni a sapere in seguito, ciascun servitore si era fatto a


mie spese una sua provvista personale.
Con l’istituzione delle code per il pane cominciaro-
no i disordini. Non vi erano grandi riserve alimentari
a San Francisco ed era chiaro che non potevano dura-
re a lungo. Le forze del lavoro, era noto, avevano già
da parte le provviste, ma ciononostante l’intera clas-
se lavoratrice partecipava alle code, col risultato che
i rifornimenti ottenuti con l’intervento del generale
Folsom diminuivano a ritmo pauroso. Come faceva-
no i soldati a distinguere tra un borghese dimesso, un
membro dell’Ilw o un poveraccio qualsiasi? Il primo
e l’ultimo avevano diritto alla razione, ma i soldati
non conoscevano tutti gli appartenenti all’Ilw della
città, né tanto meno le rispettive mogli e i figli. Con
l’aiuto dei datori di lavoro alcuni dei più noti sin-
dacalisti furono espulsi dalle file, ma questo tipo di
azione era del tutto irrilevante nel contesto globale.
A peggiorare le cose, i rimorchiatori governativi, che
avevano trasportato i rifornimenti dai depositi mili-
tari di Mare Island a Angel Island, tornarono vuo-
ti. I soldati ora ricevevano le razioni dai rifornimen-
ti confiscati, e le ricevevano per primi.
L’inizio della fine era ormai prossimo. La violenza
scoprì il suo volto. L’ordine e la legalità stavano spa-
rendo, e sparendo, devo ammettere, nel sottoprole-
tariato e nelle classi abbienti. Le organizzazioni dei
lavoratori continuavano a mantenere un ordine per-
fetto. Se lo potevano permettere, del resto: avevano
da mangiare in abbondanza. Ricordo quel pome-
riggio al club, in cui sorpresi Halstead e Brentwood
che bisbigliavano in un angolo. Mi fecero parteci-
78 Il senso della vita (secondo me)

pare all’impresa: la macchina di Brentwood essen-


do ancora in buone condizioni, avevano deciso di
andare per mucche. Halstead aveva un lungo coltel-
lo da macellaio e una mannaia. Ci dirigemmo verso
la periferia della città. Le mucche pascolavano tran-
quille, ma sempre sorvegliate dai proprietari. Con-
tinuammo la ricerca, costeggiando il lato est della
città, e sulle colline nei pressi di Hunter’s Point ci
imbattemmo in una mucca custodita da una bambi-
na. Accanto alla mucca c’era anche un vitello. Non
sprecammo tempo in preliminari. La bambina cor-
se via urlando e noi macellammo la mucca. Trala-
scio i dettagli, che non sono piacevoli, dal momen-
to che non eravamo degli esperti e ci arrangiammo
alla meno peggio.
Ma nel bel mezzo della faccenda, mentre lavora-
vamo con la fretta della paura, udimmo delle urla e
scorgemmo un gruppo di uomini precipitarsi verso
di noi: abbandonate le spoglie ce la demmo a gam-
be. Con nostra sorpresa, non ci inseguirono. Ci vol-
tammo e vedemmo che stavano affrettandosi a fare
a pezzi l’animale: avevano avuto la nostra stessa idea.
Pensando che ce n’era in abbondanza per tutti, tor-
nammo indietro di corsa. La scena che seguì è inde-
scrivibile. Lottammo per la spartizione come selvag-
gi. Brentwood si comportò come un perfetto bruto,
ringhiando, azzannando e minacciando di compie-
re una strage se non ci davano quello che ci spettava.
Stavamo spartendoci il bottino, quando avven-
ne una nuova irruzione. Questa volta erano i temu-
ti agenti dell’Ilw, chiamati dalla bambina, armati di
fruste e bastoni, una ventina in tutto. La bambina
Il sogno di Debs 79

si scalmanava in preda alla collera, la faccia piena di


lacrime, urlando: «Dategliele! Dategliele! Quello lì
cogli occhiali... è stato lui! Spaccategli la faccia! Spac-
categli la faccia!»
Il tipo cogli occhiali ero io, e mi spaccarono la fac-
cia, ma fortunatamente ebbi la presenza di spirito di
togliermeli prima. Che spavento! Avemmo una bel-
la lezione, mentre ci sparpagliavamo in tutte le dire-
zioni. Noi tre corremmo verso la macchina. Brent-
wood perdeva sangue dal naso e Halstead aveva la
guancia sfregiata dalla striscia rossa di una frusta di
pelle di serpente.
E, incredibile ma vero, cessato l’inseguimento e
tornati alla macchina, cosa trovammo nascosto al
riparo di essa? Il vitello spaventato. Brentwood ci
fece segno di non muoverci e gli balzò addosso come
un lupo o una tigre. Non avevamo più né coltello
né mannaia, ma Brentwood aveva ancora le mani, e
rotolò più e più volte sul terreno insieme alla povera
bestia, mentre la strangolava. Gettammo in macchi-
na l’animale morto, coprendolo con una giacca, e ci
dirigemmo verso casa. Ma le nostre disgrazie erano
solo all’inizio. Scoppiò uno pneumatico. Non c’e-
ra modo di cambiarlo, ed eravamo sul far della sera.
Abbandonammo la macchina. Brentwood sbuffa-
va barcollando dinanzi a noi, col vitello sulle spal-
le, coperto dalla giacca. Ce lo caricammo a turno,
ammazzandoci di stanchezza. Poi sbagliammo stra-
da. E dopo ore di vagabondaggio e di fatica, incon-
trammo una banda di teppisti, che non appartene-
vano all’Ilw e dovevano essere altrettanto affamati
di noi. Come che sia, loro si presero il vitello, noi
80 Il senso della vita (secondo me)

le batoste. Lungo tutta la via del ritorno Brentwood


diede in escandescenze come un pazzo, e tale in
effetti sembrava, coi vestiti a brandelli, il naso gon-
fio e gli occhi pesti.
Non ci furono più furti di bestiame, dopo di que-
sto. Il generale Folsom mandò i soldati a confiscare
tutte le mucche, e le truppe, coadiuvate dalla Guar-
dia nazionale si mangiarono tutta la carne. Non fu
colpa del generale Folsom: era suo dovere garantire
l’ordine ed egli lo manteneva per mezzo dei solda-
ti, e pertanto essi avevano la precedenza per quanto
riguardava le vettovaglie.
Fu all’incirca in questo periodo che ebbe inizio l’e-
sodo in massa. I ricchi cominciarono a fuggire, seguiti
a ruota dagli abitanti degli slums che si precipitarono
fuori dalla città. Il generale Folsom era soddisfatto:
circa duecentomila persone dovevano aver lasciato
San Francisco, con il che il problema del vitto era
risolto. Me lo ricordo bene quel giorno. Al mattino
avevo mangiato una crosta di pane, metà del pome-
riggio l’avevo trascorso a fare la coda davanti al for-
naio e la sera ero tornato a casa, stanco e depresso
con un paio di chili di riso e una fetta di pancet-
ta. Brown mi venne incontro alla porta, e con un’e-
spressione depressa e atterrita mi annunciò che tutta
la servitù se ne era andata, tranne lui. Fui commos-
so della sua fedeltà e, quando appresi che non ave-
va mangiato nulla tutto il giorno, divisi il mio pasto
con lui. Ci cucinammo la metà del riso e della pan-
cetta, dividendocela in parti eguali, e conservammo
il resto per il giorno dopo. Andai a letto affamato e
passai una notte agitata. Al mattino trovai non solo
Il sogno di Debs 81

che Brown se ne era fuggito, ma, quel che è peggio,


si era portato via gli avanzi.
Ci ritrovammo in pochi, tristi e abbattuti, quella
mattina al club. Erano spariti tutti i camerieri, dal
primo all’ultimo. Notai che era sparita anche l’argen-
teria, e mi dissero dove era finita. Non se n’era impa-
dronita la servitù per la semplice ragione, credo, che
i soci l’avevano preceduta usandola per un’operazio-
ne molto semplice: a sud di Market Street, nel quar-
tiere dell’Ilw, le massaie servivano un pasto completo
in cambio di argento. Tornai a casa: la mia argen-
teria era sparita tutta con l’eccezione di un vassoio
d’argento massiccio. Lo incartai e me lo portai a sud
di Market Street.
Mi sentii meglio dopo il pasto e feci ritorno al club
per sentire se ci fossero novità. Hanover, Collins e
Dakon se ne stavano andando. Non c’era più nessu-
no, mi dissero, e mi invitarono a unirmi a loro. Erano
in procinto di lasciare la città, sui cavalli di Dakon:
ce ne sarebbe stato uno anche per me. Dakon posse-
deva quattro magnifici cavalli da tiro che voleva met-
tere in salvo dal momento che il generale Folsom gli
aveva fatto sapere che il giorno dopo avrebbe confi-
scato e fatto macellare tutti i cavalli della città. Non
ce ne erano più molti, in verità, perché erano stati
mandati liberi, a decine di migliaia, per le campagne,
quando s’erano esauriti biada e fieno all’inizio dello
sciopero. Ricordo che Birdall, che aveva grossi inte-
ressi in questo settore, aveva lasciato liberi trecento
cavalli da tiro, il che significa, assumendo che il loro
valore medio fosse di cinquecento dollari, un capi-
tale di centocinquantamila dollari. Sperava, all’ini-
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ottobre 2018 a Copia omaggio
82 Il senso della vita (secondo me)

zio, di recuperare la maggior parte delle bestie alla


fine dello sciopero, ma non ne ritrovò neppure una:
erano state tutte mangiate dalla gente fuggita da San
Francisco. Esauriti i cavalli di privati, era poi inizia-
ta la macellazione dei muli e dei cavalli dell’esercito.
Fortunatamente per lui, Dakon aveva abbondanti
riserve di fieno e di biada. Riuscimmo a procurarci
quattro selle, e trovammo gli animali in ottime con-
dizioni, anche se non erano abituati a essere montati.
Mentre cavalcavamo per le strade silenziose, ricordai lo
spettacolo di San Francisco ai tempi del grande terre-
moto, ma la San Francisco di adesso offriva un aspet-
to di gran lunga più demoralizzante. Non un catacli-
sma naturale l’aveva ridotta così, ma la tirannia delle
organizzazioni sindacali. Oltrepassammo Union Squa-
re, e i quartieri dei teatri, degli alberghi e dei nego-
zi. Le strade erano assolutamente deserte. Qua e là
era parcheggiata un’automobile, ovviamente abban-
donata nel punto in cui era caduta in panne o si era
esaurita la benzina. Non vi era segno di vita, con l’ec-
cezione di qualche sporadico poliziotto o dei soldati
di guardia davanti alle banche e agli edifici pubblici.
A un certo punto vedemmo un membro dell’Ilw che
stava attaccando l’ultimo proclama: ci fermammo a
leggerlo. «Abbiamo mantenuto uno sciopero discipli-
nato – diceva il manifesto – e manterremo l’ordine
fino alla fine. La fine verrà quando le nostre richieste
saranno accolte e quando avremo costretto i datori di
lavoro alla resa per fame, come noi, in passato, siamo
stati spesso costretti alla resa per fame.»
«Esattamente le parole di Messener» osservò Col-
lins. «Io, per me, sono pronto ad arrendermi, solo
Il sogno di Debs 83

che non me ne daranno la possibilità. Sono secoli


che non faccio un pasto decente Chissà che sapore
ha la carne di cavallo.»
Ci fermammo a leggere un’altra dichiarazione: «Solo
quando saremo convinti che i padroni sono pronti
alla resa rimetteremo in funzione i telegrafi e met-
teremo in comunicazione le associazioni imprendi-
toriali degli Stati Uniti. Ma saranno trasmessi solo
messaggi relativi alle condizioni di pace».
Procedemmo attraverso Market Street e poco dopo
ci trovammo nei quartieri operai. Le strade qui erano
tutt’altro che deserte. Appoggiati ai cancelli o raccol-
ti in capannelli c’erano gli uomini dell’Ilw. Bambini
dall’aria felice e ben nutrita giocavano sui marciapie-
di e davanti alle porte sedevano le madri di famiglia,
a chiacchierare. Qualcuno ci guardava con aria diver-
tita. I bambini ci correvano dietro gridando: «Ehi,
signore, ha fame?». E una donna, intenta ad allatta-
re, disse rivolta a Dakon: «Senti, ciccione, ti andreb-
be un pasto in cambio del tuo ronzino? Prosciutto e
patate, gelatina di ribes, pane bianco, burro in sca-
tola e due tazze di caffè».
«Avete notato – osservò Hanover – che in questi ulti-
mi giorni non si sono visti cani randagi per le strade?»
Lo avevo notato, ma non ci avevo ragionato su pri-
ma. Era tempo di andarcene dalla disgraziata città.
Riuscimmo a immetterci sulla San Bruno Road e
puntammo verso sud, diretti verso una casa che pos-
sedevo a Menlo. Ma ben presto ci accorgemmo che
la campagna era di gran lunga più pericolosa della
città, in cui almeno soldati e uomini dell’Ilw mante-
nevano l’ordine: la campagna era in piena anarchia.
84 Il senso della vita (secondo me)

Duecentomila persone erano fuggite da San Franci-


sco e, a giudicare dalle apparenze, la loro fuga non
era stata diversa da quella di un esercito di locuste.
Avevano fatto piazza pulita di tutto. C’erano trac-
ce di saccheggi e di combattimenti. La strada era dis-
seminata di cadaveri e costeggiata da casolari semin-
cendiati. Gli steccati erano stati abbattuti e le messi
calpestate da milioni di piedi. Le fameliche orde ave-
vano sradicato dagli orti tutta la verdura, ucciso tut-
to il pollame e gli animali domestici. Lo spettacolo
era il medesimo lungo tutta l’arteria principale che
portava fuori città. Ogni tanto, lontano dalle stra-
de, qualche contadino era riuscito a difendere i suoi
beni con fucili da caccia e pistole. Ci ammoniro-
no di girare al largo e si rifiutarono di parlamenta-
re con noi. Distruzione e violenza erano tutte opera
del sottoproletariato e delle classi abbienti: gli uomi-
ni dell’Ilw, a stomaco pieno, se ne stavano tranquilli
a casa loro, in città.
Non dovemmo procedere molto per avere una pro-
va concreta di quanto fosse disperata la situazione.
Udimmo, alla nostra destra, urla e colpi di fucile; del-
le pallottole ci sfiorarono. Ci fu uno scricchiolio nel-
la boscaglia, poi un magnifico morello irruppe sul-
la strada di fronte a noi e in un baleno scomparve.
Avemmo appena il tempo di notare che sanguinava
ed era azzoppato. Tre soldati lo seguivano. La cac-
cia continuò in mezzo agli alberi sulla sinistra. Sen-
tivamo i soldati chiamarsi. Un quarto avanzò zoppi-
cando da destra, si sedette su una pietra e si asciugò
il sudore dal volto.
«La Guardia nazionale» sussurrò Dakon. «Disertori.»
Il sogno di Debs 85

L’uomo ci sorrise e ci chiese un fiammifero. In rispo-


sta al «Che sta succedendo?» di Dakon ci informò che
i soldati cominciavano a disertare: «Stomaco vuoto»
spiegò. «Si preoccupano solo dell’esercito».
Ci disse anche che avevano messo fuori i prigionieri
militari di Alcatraz perché non riuscivano a sfamarli.
Non dimenticherò mai lo spettacolo che si pre-
sentò subito dopo, immediatamente dietro la cur-
va della strada. In alto gli alberi formavano una vol-
ta fronzuta, attraverso i cui rami filtrava il sole. Le
farfalle svolazzavano intorno e dai campi si udiva
il canto delle allodole. E all’improvviso ci si parò
davanti una potente vettura da turismo. All’inter-
no e intorno, cadaveri. La scena parlava da sola.
Gli occupanti, in fuga dalla città, erano stati attac-
cati e abbattuti da una banda di miserabili teppisti.
Doveva essere accaduto circa ventiquattr’ore prima.
Scatole di carne aperte da poco e barattoli di frut-
ta spiegavano la ragione dell’attacco. Dakon osser-
vò da vicino i corpi.
«Lo sapevo» disse. «Ci sono stato su quella macchi-
na. Erano i Perriton... tutta la famiglia. Dobbiamo
stare attenti, da adesso in poi.»
«Ma noi non abbiamo provviste» obbiettai.
Dakon mi indicò il cavallo che montavo, e capii.
Al mattino presto, il cavallo di Dakon perse un fer-
ro. Lo zoccolo delicato si era incrinato e a mezzo-
giorno l’animale aveva preso a zoppicare. Dakon si
rifiutò di cavalcarlo, ma anche di abbandonarlo. Ci
esortò tuttavia a proseguire; lui ci avrebbe raggiunto
a piedi, con comodo: fu l’ultima volta che lo vedem-
mo, poi non sapemmo più niente di lui.
86 Il senso della vita (secondo me)

All’una arrivammo a Menlo o, meglio, a quel che


ne restava. Era in rovina, disseminata di cadaveri.
Sia il centro commerciale che una parte del quartie-
re residenziale erano stati divorati dal fuoco. Qua e
là c’era ancora una casa, in piedi; ma se ci si avvici-
nava troppo si correva il rischio di essere impallina-
ti. Incontrammo una donna che stava frugando tra
le rovine fumanti della sua casetta. I primi a essere
attaccati, ci disse, erano stati i negozi, e mentre par-
lava ci sembrava di vedere le torme di gente rabbio-
sa, urlante, affamata che si scagliava su quei pochi
cittadini. Milionari e pezzenti avevano lottato fian-
co a fianco per il cibo, e poi gli uni contro gli altri
dopo esserselo procurato. Ci dissero che sorte ana-
loga avevano avuto la città di Palo Alto e l’Universi-
tà di Stanford. Davanti a noi si estendeva una terra
deserta e desolata: decidemmo di dirigerci diretta-
mente alla mia fattoria, che si trovava quattro chilo-
metri a ovest, seminascosta contro i primi contraf-
forti delle colline.
Proseguendo il cammino ci accorgemmo che i sac-
cheggi non si erano limitati alle strade principali.
L’avanguardia devastatrice aveva seguito la via mae-
stra, depredando le cittadine che man mano incon-
trava; le orde successive si erano invece sparpagliate
spazzando l’intera campagna come un’immensa sco-
pa. La mia casa era in muratura, e perciò non aveva-
no potuto bruciarla, ma era stata svuotata da cima a
fondo. Trovammo il corpo del giardiniere nel vici-
no mulino, contornato da bossoli vuoti di fucili da
caccia. Aveva lottato strenuamente. Ma non tro-
vammo traccia dei due lavoratori italiani, del guar-
Il sogno di Debs 87

diano e della moglie. Non c’era anima viva. Vitelli e


puledri, pollame pregiato e bestiame di razza, tutto
era sparito. La cucina e i focolari, dove la folla ave-
va cucinato, erano ridotti in un caos indescrivibile;
fuori, le tracce di bivacchi testimoniavano che molti
erano stati coloro che avevano mangiato e dormito
lì la notte. Quello che non erano riusciti a mangiare
se lo erano portato via. Non avanzava una briciola.
Passammo la notte nella vana attesa di Dakon e al
mattino allontanammo a revolverate una mezza doz-
zina di saccheggiatori. Poi uccidemmo uno dei caval-
li di Dakon, conservando per tempi peggiori la car-
ne che non consumammo lì per lì. Nel pomeriggio
Collins andò a fare quattro passi, ma non fece ritor-
no. Per Hanover fu questa la goccia che fece traboc-
care il vaso. Avrebbe voluto fuggirsene all’istante e
stentai molto a convincerlo ad aspettare la luce del
giorno. Io, dal canto mio, ero convinto che la fine
dello sciopero generale fosse imminente ed ero deci-
so a tornare a San Francisco. Così la mattina seguen-
te ci separammo; Hanover, con una ventina di chili
di carne legati alla sella, si diresse a sud, io, con un
carico analogo, puntai a nord. Il piccolo Hanover
se la cavò attraverso tutte le difficoltà, e per tutta la
vita continuerà, ne sono certo, ad annoiare il pros-
simo coi racconti delle avventure che gli capitarono
in quell’occasione.
Ero arrivato a Belmont, lungo la via principale,
quando tre uomini della Guardia nazionale s’impa-
dronirono delle mie provviste di carne. La situazio-
ne rimaneva immutata, mi dissero, con l’unica diffe-
renza che le cose andavano di male in peggio. L’Ilw
88 Il senso della vita (secondo me)

aveva grosse scorte di viveri e poteva permettersi di


continuare lo sciopero per mesi. Riuscii ad arrivare
a Baden, dove una decina di uomini mi derubarono
del cavallo. Due di essi erano poliziotti di San Fran-
cisco, il resto soldati dell’esercito. Questo era un pes-
simo segno: la situazione doveva essere tragica se i
soldati cominciavano a disertare. Mentre riprende-
vo il cammino, avevano già preparato il fuoco e l’ul-
timo cavallo di Dakon giaceva abbattuto al suolo.
Con la fortuna che avevo, mi slogai una caviglia e
non riuscii a proseguire oltre il quartiere più meri-
dionale di San Francisco. Dovetti fermarmi la not-
te in una rimessa contemporaneamente tremando di
freddo e bruciando di febbre. Ci rimasi due giorni,
troppo malato per muovermi, e il terzo, in stato di
semincoscienza, appoggiandomi a una stampella di
fortuna, mi avviai barcollando verso San Francisco.
Oltretutto ero anche debolissimo, perché da ben tre
giorni non mangiavo. Fu una giornata di incubi tor-
mentosi: come in sogno, incrociai centinaia di sol-
dati, che si muovevano in direzione opposta, e mol-
ti poliziotti, con le rispettive famiglie, organizzati in
grossi gruppi per proteggersi reciprocamente.
Entrando in città, mi ricordai della casa dell’ope-
raio dove avevo barattato il vaso d’argento, e la fame
mi guidò in quella direzione. Arrivai che il sole sta-
va calando. Imboccai il viottolo che portava al retro
della casa e feci appena in tempo a salire i gradini
che crollai. Riuscii in qualche modo con la gruc-
cia a bussare alla porta. Poi devo essere svenuto per-
ché rinvenni in una cucina. Avevo la faccia bagna-
ta e qualcuno mi stava versando in gola del whisky.
Il sogno di Debs 89

Gorgogliai, cercai di emettere dei suoni, di parlare.


Cominciai col dire qualcosa a proposito del fatto che
non avevo più vasi d’argento, ma che li avrei certa-
mente ricompensati se mi avessero dato qualcosa da
mangiare. Ma la donna mi interruppe.
«Ma come, buon uomo, non sai la novità? Lo scio-
pero è stato revocato questo pomeriggio. Le prepa-
ro subito qualcosa da mangiare.»
Si mise all’opera, aprì una scatola di pancetta e si
accinse a metterla in padella.
«Me la dia così, la prego» implorai, e mangiai la pan-
cetta cruda su una fetta di pane, mentre il marito mi
spiegava che le richieste dell’Ilw erano state accolte. I
telegrafi erano stati riaperti nel pomeriggio e ovun-
que le associazioni dei datori di lavoro avevano cedu-
to alle pressioni sindacali. A San Francisco non era
rimasto un solo imprenditore, ma il generale Folsom
aveva parlato a nome loro. Treni e battelli avrebbero
cominciato a funzionare il mattino seguente e tutto
avrebbe ben presto ripreso il ritmo normale.
E così finì lo sciopero generale. Spero che sia l’ul-
timo che mi capiterà di vedere: è stato peggio di una
guerra. Uno sciopero generale è crudele e immorale,
e la mente umana dovrebbe essere in grado di diri-
gere l’economia in modo più razionale. Harrison è
di nuovo il mio autista. Una clausola delle condi-
zioni dell’Ilw era che tutti i suoi membri dovevano
essere riassunti ai loro vecchi posti. Brown non si è
mai più fatto vivo, ma il resto della servitù è torna-
to. Non ebbi il coraggio di licenziarli, quando torna-
rono, poveri diavoli, anche loro se l’erano vista brut-
ta quando se ne erano andati portandosi via viveri
90 Il senso della vita (secondo me)

e argento. E adesso non posso più licenziarli: sono


stati tutti inquadrati nei sindacati dell’Ilw. La tiran-
nia delle organizzazioni sindacali sta oltrepassando i
limiti. Bisogna fare qualcosa.
A sud dello Slot*1

La vecchia San Francisco, cioè la San Francisco di


prima del Terremoto, era divisa a metà dallo Slot. Lo
Slot era una fenditura di ferro che correva al centro
di Market Street, e dallo Slot proveniva l’incessante
ronzio del cavo a cui erano attaccati i tram che esso
trascinava ininterrottamente su e giù. A essere pre-
cisi, le fenditure erano due, ma nello sbrigativo lin-
guaggio dell’Ovest esse e tutto ciò che rappresenta-
vano venivano chiamate semplicemente «lo Slot». A
nord dello Slot c’erano i teatri, gli alberghi, i nego-
zi di lusso, le banche e gli uffici delle grandi compa-
gnie. A sud dello Slot c’erano le fabbriche, gli slums,
le lavanderie, le officine e le abitazioni delle clas-
si lavoratrici.
Lo Slot rappresentava metaforicamente la spac-
catura in classi della società, e nessuno seppe attra-
versare questa metafora con maggior disinvoltura di
Freddie Drummond. Egli prese l’abitudine di vivere
al di qua e al di là di essa, cavandosela egregiamente
in entrambi i mondi. Freddie Drummond era pro-
fessore nel dipartimento di Sociologia all’Universi-
*
South of the Slot, «Saturday Evening Post», 1909.
92 Il senso della vita (secondo me)

tà di California, e in veste di professore di Sociolo-


gia attraversò per la prima volta lo Slot, visse per sei
mesi nel grosso ghetto operaio e scrisse Il lavoratore
non specializzato, libro salutato ovunque come vali-
do contributo alla letteratura inneggiante al progres-
so, nonché come eccellente risposta alla letteratura
di protesta. Dal punto di vista politico ed economi-
co l’opera restava nell’ambito della più rigida orto-
dossia. I presidenti di importanti reti ferroviarie ne
comprarono intere edizioni da regalare ai dipen-
denti. La Manufacture’s Association ne distribuì,
da sola, cinquantamila copie. In un certo senso era
quasi altrettanto immorale del notissimo e famige-
rato Messaggio a García, mentre veniva subito dopo
Mrs. Wiggs of the Cabbage Patch quanto a pernicio-
sa esaltazione del vangelo capitalistico «risparmia-
e-accontentati».
All’inizio Freddie Drummond incontrò mostruo-
se difficoltà nei rapporti coi compagni di lavoro.
Non era abituato al loro modo di fare, né essi al
suo. Loro erano sospettosi, lui non aveva preceden-
ti di lavoro da raccontare. Le sue mani delicate e la
sua straordinaria gentilezza non facevano presagire
nulla di buono. Aveva dapprima pensato di presen-
tarsi nel ruolo dell’americano libero e indipendente,
che aveva scelto di intraprendere un lavoro manua-
le, senza dare ulteriori spiegazioni. Ma non tardò ad
accorgersi che il gioco non funzionava. I primi tem-
pi lo accettarono, in via del tutto provvisoria, come
uno stravagante. Poi, man mano che cominciava ad
ambientarsi, insensibilmente scivolò nel ruolo giu-
sto: divenne uno che aveva visto giorni migliori, ma
A sud dello Slot 93

che attualmente, e chiaramente per breve tempo, era


in pessime acque.
Imparò molte cose, trasse conclusioni molto gene-
rali e spesso erronee dalla sua esperienza, che si ritro-
vano tutte nel Lavoratore non specializzato. Si salvò da
possibili accuse, con la prudenza propria del mondo
accademico, presentando molte delle sue conclusioni
come «possibili». Una delle prime esperienze la fece
nella grande Wilmax Cannery, dove montava a cot-
timo cassette da imballaggio, i cui pezzi erano forni-
ti da una fabbrica di scatole: tutto quello che Freddie
Drummond doveva fare era mettere assieme le assi e
inchiodarle con un martello leggero.
Non era un lavoro specializzato, ma era a cottimo.
I lavoratori della fabbrica guadagnavano in media
un dollaro e mezzo al giorno. Freddie Drummond
si accorse che quelli che facevano il suo stesso lavoro
se la prendevano comoda e guadagnavano un dol-
laro e settantacinque cent al giorno. Il terzo giorno
anche lui guadagnava altrettanto. Ma era ambizio-
so. Non amava trastullarsi, e, essendo molto bravo,
il quarto giorno intascò due dollari.
L’indomani, sottoponendosi a un ritmo infernale,
arrivò a due dollari e mezzo. I suoi compagni lo gra-
tificarono di sguardi malevoli e di commenti sala-
ci che gli risultarono incomprensibili circa quel suo
ridursi a servo dei padroni e quel darsi da fare per
aumentare il ritmo di produzione. Sbalordito del-
la loro lentezza sul cottimo, fece tristi considerazio-
ni sulla congenita pigrizia dei lavoratori non specia-
lizzati, così il giorno successivo procedette a battere
chiodi per tre dollari.
94 Il senso della vita (secondo me)

Quella sera, all’uscita della fabbrica, venne affron-


tato dai compagni, che erano inferociti e urlavano
in slang frasi incoerenti. Non riusciva a capire per-
ché ce l’avessero con lui. Quando si rifiutò di rallen-
tare il ritmo di produzione e cominciò a blaterare
di libero contratto, dell’americanismo indipenden-
te e della dignità del lavoro, essi passarono all’azio-
ne, distruggendo la sua possibilità di stabilire il rit-
mo. Fu un’aspra battaglia perché Drummond era un
pezzo d’uomo e un atleta, ma alla fine la folla gli sal-
tò sulle costole, lo prese a calci in faccia, gli pestò le
dita: soltanto in capo a una settimana fu in grado di
alzarsi dal letto e cercarsi un altro lavoro. Tutto ciò
è raccontato nei particolari in quel suo primo libro,
nel capitolo intitolato La tirannia dei lavoratori.
Qualche tempo dopo, in un altro reparto della
Wilmax Cannery, dove lavorava come distributore
di frutta tra le donne, provò a caricarsi due casset-
te per volta e fu prontamente redarguito dagli altri
facchini. Era chiaramente un pretesto per lavorare
di meno ma, visto che lui si trovava lì non per cam-
biare le cose ma semplicemente nelle vesti di osser-
vatore, si limitò a portare una cassetta dopo l’altra;
divenne così esperto nell’arte di prendersela como-
da che dedicò un intero capitolo a questo argomen-
to, terminandolo con parecchi paragrafi di possibi-
li conclusioni.
Durante quei sei mesi lavorò in vari posti, e riu-
scì a somigliare abbastanza a un membro della clas-
se operaia. Dotato di un notevole senso della lingua,
continuò a prendere appunti, conducendo uno stu-
dio scientifico sullo slang dei lavoratori: alla fine fu
Licenza edgt-9-NZAV7ExwBMwgu2rt-t3caHRHceyfeStMj rilasciata il 16
ottobre 2018 a Copia omaggio
A sud dello Slot 95

in grado di parlare in maniera decisamente intelli-


gibile. La padronanza del linguaggio gli permise di
seguire più da vicino i processi mentali dei compagni
e quindi di raccogliere numerosi dati per un eventua-
le capitolo di un futuro libro che pensava di intitola-
re Sintesi di psicologia della classe operaia.
Prima di riaffiorare alla superficie dopo questo pri-
mo tuffo nel mondo proletario scoprì di essere un
bravo attore e di possedere una natura facilmente
plasmabile. Fu il primo a meravigliarsi della propria
disinvoltura. Superata la barriera del linguaggio e
certe sue istintive ripugnanze, scoprì di essere capa-
ce di insinuarsi in ogni angolo della vita degli ope-
rai e di sistemarvisi così comodamente da sentirsi a
casa sua. Come scrisse nella prefazione al suo secon-
do libro, Il lavoratore, si era sforzato di conoscere a
fondo gli operai, e l’unico modo possibile per riuscir-
ci era di lavorare con loro, mangiare quello che man-
giavano loro, dormire nei loro letti, divertirsi come
loro si divertivano, pensare i loro pensieri e provare
le loro sensazioni.
Non era un pensatore profondo. Non aveva nessuna
fiducia nelle nuove teorie e agiva e giudicava secon-
do criteri tradizionali. La sua tesi sulla Rivoluzione
francese rimase celebre negli annali dell’Università
non soltanto per l’accuratezza e la vastità della ricer-
ca, ma per il fatto di essere la cosa più arida, pesante,
formale e ortodossa mai scritta sull’argomento. Era
un uomo estremamente riservato, ma la sua natura
inibita lo rendeva per certi aspetti inflessibile come
l’acciaio. Freddo e poco espansivo, aveva pochi ami-
ci. Era privo di vizi, e non gli si conoscevano tenta-
96 Il senso della vita (secondo me)

zioni. Detestava il tabacco, aborriva la birra e nessu-


no lo aveva mai visto bere niente di più forte di un
occasionale bicchiere di vino durante i pasti.
Quand’era matricola era stato soprannominato
«Ghiacciaia» dai suoi compagni di sangue più cal-
do. Tra i colleghi era noto come «Iceberg». Una
sola cosa non gli andava giù, ed era il diminutivo di
Freddie che gli avevano appioppato quando giocava
nella squadra di calcio dell’Università e che non era
riuscito a togliersi di dosso. Sarebbe rimasto Fred-
die per sempre, eccetto che ufficialmente, e in visioni
di incubo, si figurava un futuro in cui il suo mondo
avrebbe parlato di lui come del «vecchio Freddie».
In effetti era molto giovane per avere un dottora-
to in Sociologia: aveva soltanto ventisette anni e ne
dimostrava meno. Era alto e robusto, chiaramente
appartenente all’ambiente accademico, dal viso ben
rasato e i modi affabili, pulito, semplice e tutto d’un
pezzo. Aveva fama di essere un ottimo atleta, di pos-
sedere una vasta cultura del tipo accademico-inibi-
to. Non parlava mai di lavoro se non in classe o fra
colleghi; soltanto in seguito, quando i suoi libri gli
procurarono lo spiacevole interessamento del grande
pubblico, dovette piegarsi a tenere conferenze pres-
so certi circoli letterari o economici.
Faceva tutto bene, troppo bene. Si vestiva e si com-
portava in modo sempre perfettamente corretto. Non
che fosse un damerino, tutt’altro. Sia nell’abbiglia-
mento che nel modo di fare era simile ai tanti gio-
vani professori che gli istituti di istruzione superiore
sfornano oggigiorno in gran quantità. La sua stret-
ta di mano era forte in giusta misura. I suoi occhi
A sud dello Slot 97

azzurri erano freddamente azzurri e persuasivamen-


te sinceri; la voce, ferma e virile, chiara e limpida,
piacevole da ascoltare. L’unico lato negativo di Fred-
die Drummond era la sua inibizione. Non perdeva
mai il controllo di sé. Ai tempi in cui giocava a pal-
lone, più aumentava la tensione del gioco, più lui
diventava imperturbabile. Era abbastanza apprezzato
come pugile, ma veniva considerato un automa, per
la precisione disumana con cui calcolava la distan-
za e colpiva a tempo debito, si metteva in guardia,
parava e frenava l’irruenza dell’avversario. Raramente
prendeva batoste, raramente ne infliggeva. Era trop-
po bravo e troppo controllato per mettere in pugno
una frazione di peso in più di quanto non intendes-
se. Il pugilato era per lui una questione di esercizio.
Lo teneva in forma.
Col passar del tempo Freddie Drummond si accor-
se di attraversare lo Slot con maggior frequenza e di
sperdersi con piacere nel mondo a sud di Market
Street. Ci passava le vacanze estive e invernali, e,
che ci stesse per una settimana o per un weekend,
trovava utile e piacevole il tempo trascorso lì. E c’e-
ra tanto materiale da raccogliere. Il suo terzo studio,
Masse e padroni, fu adottato come libro di testo nel-
le università americane e, quasi prima di renderse-
ne conto, si trovò alle prese con un quarto, L’erro-
re dell’inefficiente.
In questo suo gusto per il travestimento c’era qual-
cosa di strano. Forse rappresentava un’evasione dal
suo ambiente e dal suo lavoro, o dall’influsso dei
suoi antenati che erano stati per generazioni uomi-
ni di lettere: fatto sta che provava un grande piace-
98 Il senso della vita (secondo me)

re a stare laggiù coi lavoratori. Nel suo mondo era


l’«Iceberg», ma laggiù era «Big» Bill Totts, un tipo che
beveva e fumava, parlava in slang e faceva a pugni, ed
era ovunque accolto con gioia. Tutti volevano bene
a Bill, e molte ragazze fecero l’amore con lui. All’i-
nizio era stato soltanto un bravo attore, ma col pas-
sar del tempo simulare divenne una seconda natura.
Non recitava più una parte, e amava davvero i wür-
stel, würstel e pancetta, che, come cibo, era quanto di
più disprezzato vi fosse nel mondo da cui proveniva.
Dal fare questo per dovere, arrivò a farlo per piace-
re. Si accorse di veder arrivare con tristezza il momen-
to di tornare alle sue lezioni e alla sua inibizione. E si
accorse spesso di aspettare con impazienza il magico
momento in cui avrebbe traversato lo Slot e sarebbe
stato libero di scatenarsi nelle sue diavolerie. Non era
malvagio, ma come «Big» Bill Totts faceva milioni
di cose che a Freddie Drummond non sarebbero sta-
te permesse. Non solo, ma Freddie Drummond non
avrebbe neanche desiderato farle: questo era l’aspet-
to più strano della scoperta. Freddie Drummond e
Bill Totts erano due creature completamente diver-
se e contrastanti per desideri, gusti e impulsi. Bill
Totts poteva sottrarsi a un lavoro con la coscienza a
posto, mentre per Freddie Drummond questo era un
atto immorale, criminoso, indegno di un america-
no, tanto è vero che dedicava interi capitoli a deplo-
rare questo vizio. Freddie Drummond non amava
ballare, mentre Bill Totts non si perdeva una serata
ai vari dancing, il Magnolia, la Stella dell’Occiden-
te e l’Élite. Aveva perfino vinto una coppa d’argento
massiccio alta novanta centimetri come personaggio
A sud dello Slot 99

più riuscito al grandioso ballo mascherato annuale


dei Lavoratori delle macellerie e delle carni. E a Bill
Totts piacevano le ragazze e lui a loro, mentre Fred-
die Drummond amava in questo campo recitare la
parte dell’asceta, era contrario al suffragio universale
e cinicamente amaro nel deplorare in segreto l’am-
missione delle donne all’università.
Con la massima naturalezza Freddie Drummond
mutava atteggiamento col mutare dell’abbigliamen-
to. Quando entrava nella scura stanzetta che usava
per trasformarsi, era leggermente troppo rigido; sta-
va troppo dritto, teneva le spalle un paio di centi-
metri troppo indietro, aveva una faccia seria, quasi
dura, e praticamente priva di espressione. Ma quan-
do ne usciva vestito da Bill Totts era un altro. Non
che Bill Totts stesse curvo, ma la sua figura sembra-
va come più sciolta, e si muoveva con grazia. Perfi-
no il suono della voce cambiava, la risata gli diveniva
forte e cordiale, e frasi audaci e bestemmie sembra-
vano naturali sulle sue labbra. Inoltre Bill Totts era
abbastanza propenso a fare le ore piccole e a ingaggia-
re accesissime discussioni amichevoli cogli altri ope-
rai nei bar. Durante i picnic domenicali o al ritor-
no da uno spettacolo il suo braccio tradiva una usata
familiarità nel cingere la vita delle fanciulle, lui stes-
so dava prova di arguzia nei chiacchierii amorosi che
ci si aspettava da un tipo come lui.
Bill Totts riusciva a mimetizzarsi così perfettamente
in un autentico abitante dello Slot da avere la stessa
coscienza di classe dei suoi compagni, e nel suo odio
per i crumiri superava perfino buona parte dei compa-
gni iscritti al sindacato. Durante lo sciopero dei por-
100 Il senso della vita (secondo me)

tuali, Freddie Drummond riuscì in qualche modo a


restare al di fuori della mischia e a osservare, fredda-
mente critico, Bill Totts avventarsi con entusiasmo
contro gli scaricatori crumiri. Infatti Bill Totts era
iscritto al sindacato degli scaricatori e aveva il dirit-
to di prendersela con chi gli rubava il lavoro. «Big»
Bill Totts era così grande e grosso, e così bravo, che
era sempre il primo a essere chiamato quando tirava
aria di tumulti. Dal simulare la dignità offesa, Fred-
die Drummond, nei panni del suo alter ego, si trovò
a provare davvero la sensazione cocente dell’offesa;
soltanto al ritorno nella austera atmosfera dell’univer-
sità fu in grado di trarre deduzioni sagge e prudenti
sulle sue esperienze del mondo proletario e a trascri-
verle sulla carta da bravo sociologo. Che a Bill Totts
mancasse la prospettiva necessaria a fargli superare
una visione meramente classista, Freddie Drummond
se ne rendeva conto perfettamente. Ma Bill Totts no.
Vedere un crumiro prendergli il posto e vedere rosso
era tutt’uno, e non vedeva nient’altro. Era Freddie
Drummond che, irreprensibilmente vestito e com-
posto, seduto nel suo studio o davanti ai suoi stu-
denti del corso di Sociologia, vedeva Bill Totts e tut-
to quello che ruotava intorno a Bill Totts, e quello
che c’era al fondo del problema crumiri-sindacato, e
la sua relazione col benessere economico degli Stati
Uniti in lotta per la conquista dei mercati mondia-
li. Bill Totts non vedeva al di là del pasto successivo
e dell’incontro di boxe la sera dopo al Gaiety Club.
Fu mentre stava raccogliendo il materiale per Don-
ne e lavoro che Freddie ebbe una prima avvisaglia del
pericolo che correva. Era riuscito benissimo, troppo
A sud dello Slot 101

bene, a vivere in entrambi i mondi. Questo strano


dualismo che aveva realizzato era tutto sommato mol-
to instabile e, mentre meditava seduto nel suo stu-
dio, capì che non poteva durare. Coll’andar del tem-
po avrebbe dovuto inevitabilmente rinunciare a uno
dei due mondi: non poteva continuare in entrambi.
E guardando la fila di libri che facevano bella mostra
di sé sullo scaffale superiore della libreria girevole, i
libri scritti da lui, a cominciare dalla tesi fino a Donne
e lavoro, decise che quello era il mondo a cui avreb-
be appartenuto. Bill Totts aveva svolto la sua fun-
zione, ma era diventato un complice troppo perico-
loso. Bill Totts doveva cessare di esistere.
A spaventare Freddie Drummond era stata Mary
Condon, presidente del Sindacato internazionale delle
guantaie n. 974. L’aveva vista per la prima volta dal-
la galleria degli spettatori, al congresso annuale della
Federazione nordoccidentale del sindacato, e l’ave-
va vista attraverso gli occhi di Bill Totts, il quale ne
era rimasto molto favorevolmente colpito. Non era
assolutamente il tipo di Freddie Drummond. Cosa
importava che avesse un corpo stupendo, aggraziato
e sinuoso come quello di una pantera, occhi incredi-
bilmente neri capaci di riempirsi di fuoco, o di amo-
re o di allegria a seconda dell’umore? Egli odiava le
donne con una vitalità troppo esuberante e priva
di... be’, di inibizioni. Freddie Drummond accetta-
va la dottrina dell’evoluzionismo perché era univer-
salmente accettata dai suoi colleghi, e credeva cieca-
mente che l’uomo si fosse innalzato nella sala della
vita emergendo dall’informe, disgustoso liquame di
organismi inferiori e mostruosi. Ma questa genealo-
102 Il senso della vita (secondo me)

gia lo metteva leggermente a disagio e preferiva non


pensarci. Da qui probabilmente derivava la sua fer-
rea inibizione e la preferenza per le donne del suo
stesso tipo che sapessero scrollarsi di dosso quell’e-
redità bestiale e deplorevole e accentuare mediante
un disciplinato controllo la distanza che le separava
dai loro remoti antenati.
Bill Totts non aveva preconcetti del genere. Gli era
piaciuta Mary Condon dalla prima volta che l’aveva
vista nella hall del congresso, e si era subito ripromesso
di scoprire chi fosse. La seconda volta l’aveva incon-
trata per caso, mentre lavorava per Pat Morrissey. Si
trovava in una pensione a Mission Street, dove era
stato chiamato per ritirare un baule da portare in
deposito. La figlia della padrona di casa lo aveva fat-
to entrare nella piccola stanza da letto, la cui affit-
tuaria, una guantaia, era stata appena portata all’o-
spedale. Ma Bill non lo sapeva. Si chinò e caricatosi
il grosso baule sulle spalle si avviò all’indietro verso
la porta. In quel momento udì una voce di donna.
«Sei del sindacato?» si sentì chiedere.
«E che te ne frega?» rispose. «Levati dai piedi, e di
corsa. Devo girare.»
Non aveva finito di parlare che, grande com’era, fu
fatto ruotare di mezzo giro e spedito vacillante all’in-
dietro: il baule gli fece perdere l’equilibrio ed egli
andò a sbattere violentemente contro il muro. Stava
per imprecare, ma in quell’istante si trovò a fissare
gli occhi fiammeggianti e furenti di Mary Condon.
«Certo che appartengo al sindacato – disse –, sta-
vo solo scherzando.»
«Dov’è la tessera?» chiese lei in tono secco.
A sud dello Slot 103

«In tasca. Ma non la posso tirare fuori adesso.


Quest’accidenti di baule è troppo pesante. Vieni
giù dal camion e te la faccio vedere.»
«Metti giù il baule» fu l’ordine.
«Perché diavolo? Ce l’ho la tessera, te l’ho detto.»
«Poche storie e metti giù il baule. Nessun crumiro
deve toccare quel baule. Dovresti vergognarti, pezzo
di vigliacco, a sfruttare le persone oneste. Perché non
entri nel sindacato e diventi un uomo?»
Mary Condon era sbiancata in viso, ed era ovvia-
mente furibonda.
«Un pezzo d’uomo come te che tradisce la sua clas-
se. Immagino che muori dalla voglia di arruolarti nel-
la milizia padronale per poter sparare sui camionisti
dei sindacati al prossimo sciopero. Magari ci sei già
dentro. Sei il tipo...»
«Piantala, non esageriamo.» Bill lasciò cadere con
un tonfo il baule, si tirò su e infilò la mano nella tasca
interna del cappotto. «Te l’ho detto che facevo per
scherzo. To’, guarda qua»: era la tessera del sindaca-
to, non c’era niente da dire.
«Va bene, riprenditela» disse Mary Condon. «E la
prossima volta, niente scherzi.»
La sua faccia si distese osservando la sicurezza con
cui Bill si ricaricò il pesante baule sulla spalla, e gli
occhi le si illuminarono alla vista della robusta sciol-
tezza dell’uomo. Ma Bill non se ne accorse, era trop-
po preso dal baule.
Rivide Mary Condon durante lo sciopero delle
lavanderie. I dipendenti delle lavanderie, unitisi da
poco in sindacato, non sapevano bene come cavar-
sela e avevano chiesto a Mary Condon di organizza-
Licenza edgt-9-NZAV7ExwBMwgu2rt-t3caHRHceyfeStMj rilasciata il 16
ottobre 2018 a Copia omaggio
104 Il senso della vita (secondo me)

re lo sciopero. Freddie Drummond, avuto sentore


di quello che si stava preparando, aveva manda-
to Bill Totts a iscriversi al sindacato per guardar-
si intorno. Bill lavorava nella stanza del lavaggio;
gli uomini erano stati mandati di buon’ora quella
mattina per dare coraggio alle ragazze e Bill si tro-
vava per caso vicino alla porta della stireria quan-
do comparve Mary Condon. Il sovrintendente, un
tizio corpulento dall’aria risoluta, le sbarrò il passo.
Non avrebbe permesso, disse, che si facessero usci-
re le lavoranti e le avrebbe insegnato a impicciarsi
degli affari suoi. Quando Mary cercò di farsi avan-
ti ugualmente, egli la respinse con una manata sulle
spalle. Mary si guardò intorno e vide Bill.
«Ehi, Totts – gridò –, dammi una mano. Voglio
entrare.»
Bill ebbe un sussulto di gioia e di sorpresa. Si ricor-
dava il suo nome dalla tessera. Un attimo dopo il
sovrintendente farneticante di diritto e di legisla-
zione era stato spinto fuori dalla porta, e le ragazze
cominciarono ad abbandonare le macchine. Duran-
te il resto di quel breve e fortunato sciopero, Bill si
trasformò in guardia del corpo e messaggero di Mary
Condon, dopodiché tornò all’università a essere di
nuovo Freddie Drummond e a domandarsi cosa Bill
Totts potesse trovarci in una donna come quella.
Freddie Drummond era al sicuro, ma Bill si era inna-
morato. Non c’erano dubbi, e fu questo a mettere in
allarme Freddie Drummond. Bene, aveva fatto quello
che doveva fare, le sue scorribande sarebbero finite.
Non aveva più bisogno di traversare ancora lo Slot.
Mancavano solo tre capitoli alla fine del suo ultimo
A sud dello Slot 105

libro Tattiche e strategie sindacali, e aveva pronto tut-


to il materiale necessario a completarlo.
Un’altra determinazione cui arrivò fu che, per raf-
forzare la posizione di Freddie Drummond, doveva
stringere maggiori legami col suo ambiente. Era tem-
po ormai di sposarsi, ed egli ben sapeva che se non
si sposava Freddie Drummond si sarebbe senz’altro
sposato Bill Totts, con complicazioni troppo spaven-
tose da immaginare. Ed è a questo punto che com-
pare Catherine van Vorst, una fanciulla dell’am-
biente accademico, figlia dell’unico professore ricco
della facoltà, nonché capo del dipartimento di Filo-
sofia. Sarebbe stato un ottimo matrimonio da ogni
punto di vista, Freddie Drummond rifletté quan-
do fu annunziato il fidanzamento. Di aspetto fred-
do e riservato, aristocratica e conservatrice convinta,
Catherine van Vorst, sebbene non priva a suo modo
di calore umano, era inibita al pari di Drummond.
Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi,
ma Freddie Drummond non riusciva a liberarsi del
tutto dal richiamo del mondo proletario, dall’attra-
zione per la libera, aperta, disinvolta e spontanea vita
che aveva conosciuto a sud dello Slot. Con l’avvici-
narsi del matrimonio si rese conto di quanto la gra-
migna delle sue fughe avesse attecchito e fu tentato
di essere per un’ultima volta il buon compagno spen-
sierato, prima di dedicarsi definitivamente alle aule
grigie e alla sobria vita matrimoniale. E, a tentarlo
ulteriormente, gli restava da scrivere proprio l’ulti-
mo capitolo di Tattiche e strategie sindacali, perché
mancava ancora qualche ultimo dato essenziale che
non si era curato di raccogliere.
106 Il senso della vita (secondo me)

E fu così che Freddie Drummond attraversò lo Slot


per l’ultima volta come Bill Totts, ottenne i dati che
gli servivano e, purtroppo, incontrò Mary Condon.
Non fu piacevole una volta installato nel suo studio,
ritornare con la memoria su quest’ultima esperienza.
Doveva raddoppiare le precauzioni. Bill Totts si era
comportato orrendamente. Non solo aveva incontra-
to Mary Condon al Consiglio centrale del sindacato,
ma al ritorno si erano fermati assieme a un ristorante
e le aveva offerto una cena a base di ostriche. E pri-
ma di lasciarla davanti casa, le sue braccia l’avevano
cinta, e l’aveva baciata sulle labbra, e ancora baciata,
più volte. E le ultime parole di lei nel suo orecchio,
parole bisbigliate dolcemente, con un lieve singhioz-
zo strozzato che era né più né meno di un gemito
d’amore, erano state: «Bill... mio caro, caro Bill».
Freddie Drummond rabbrividì al ricordo. Vide
l’abisso che gli si spalancava davanti. Non era per
natura poligamo, e guardò con sgomento ai possibi-
li sviluppi della situazione. Doveva risolverla, e non
c’erano che due modi: diventare in tutto e per tutto
Bill Totts e sposare Mary Condon, o restare defini-
tivamente Freddie Drummond e sposare Catherine
van Vorst. Altrimenti avrebbe finito col comportar-
si in modo disgustoso.
Passarono diversi mesi, durante i quali San Fran-
cisco fu dilaniata dai disordini. Sindacati e confede-
razioni padronali erano entrati in conflitto e sem-
bravano decisi a non mollare ma a portare avanti la
lotta fino a una conclusione che sistemasse la questio-
ne una volta per tutte. Ma Freddie Drummond cor-
reggeva bozze, faceva le sue lezioni e non si muove-
A sud dello Slot 107

va. Si dedicava a Catherine van Vorst, e ogni giorno


che passava scopriva in lei nuove qualità da rispettare
e da ammirare, che dico, da amare. Lo sciopero dei
tram lo aveva tentato, ma meno di quanto si sarebbe
aspettato. Sopraggiunse il grande sciopero della car-
ne, che lo lasciò freddo. Il fantasma di Bill Totts era
stato messo a tacere e Freddie Drummond con rin-
novata energia si buttò su un lavoro che progettava
da tempo sul problema dei «rendimenti decrescenti».
Mancavano due settimane al matrimonio quan-
do, un pomeriggio, Catherine van Vorst lo trascinò
a San Francisco a vedere un circolo di ragazzi recen-
temente istituito da una organizzazione di assistenza
sociale di cui lei s’interessava. Erano soli con l’autista,
nell’automobile del fratello di Catherine. All’incro-
cio con Kearney Street, Market e Geary Street con-
fluiscono, formando un angolo acuto a guisa di V.
L’auto con la coppia veniva giù da Market Street, con
l’intenzione di svoltare l’angolo acuto alla base del-
la V per imboccare Geary. Ma non immaginavano
i due fidanzati cosa stava nel frattempo calando già
da Geary, cosa il destino gli avrebbe fatto incontra-
re a quell’angolo. Pur sapendo dai giornali che era in
corso lo sciopero della carne, uno sciopero di eccezio-
nale durezza, Freddie Drummond in quel momen-
to non ci pensava neanche lontanamente. Non era
seduto vicino a Catherine? E inoltre le stava spie-
gando, con dovizia di particolari, le sue teorie circa
l’assistenza sociale, teorie concepite anche sulla base
delle avventure di Bill Totts.
Scendevano lungo Geary Street sei vagoni di car-
ne. Accanto a ogni conducente crumiro sedeva un
108 Il senso della vita (secondo me)

poliziotto. Un centinaio di poliziotti scortavano il


convoglio da ogni lato. Seguiva la processione, a
rispettosa distanza, un corteo di gente ordinata ma
vociante, lungo svariati isolati, che riempiva la stra-
da da un marciapiedi all’altro. L’associazione dei
Macellai stava tentando di rifornire gli alberghi e,
incidentalmente, di cominciare a spezzare lo sciope-
ro. L’Hotel St. Francis aveva ottenuto la sua razio-
ne di carne, al prezzo di molti vetri e teste rotte, e
la spedizione stava ora procedendo al rifornimento
del Palace Hotel.
Lontano mille miglia da tutto ciò, Drummond,
seduto accanto a Catherine, seguitava a discetta-
re di assistenza sociale, mentre la macchina, apren-
dosi lentamente a suon di clacson un varco in mez-
zo al traffico, si spostava verso il centro della strada
per affrontare la curva e svoltare l’angolo. Un grande
carro, carico di carbone in pezzi e trainato da quat-
tro grossi cavalli, appena sbucato da Kearney Street
e diretto verso Market Street, sbarrò loro la strada.
Il conducente del carro sembrava esitante, e l’autista,
procedendo lentamente ma ignorando un avvertimen-
to lanciato dal poliziotto di ronda all’incrocio, prese
la curva nettamente sulla sinistra, violando i regola-
menti, in modo da oltrepassare il carro.
In quel momento Freddie Drummond si interrup-
pe. Né riprese la conversazione, perché la situazio-
ne precipitò con la rapidità di un gioco di prestigio.
Udì da dietro il rumoreggiare della folla, e gli bale-
narono davanti agli occhi gli elmetti della polizia e
gli ondeggianti vagoni della carne. Nello stesso istan-
te, afferrata la frusta con l’aria decisa di chi sa quel
A sud dello Slot 109

che fa, il tizio del carbone spinse cavalli e carro pro-


prio di fronte alla processione in arrivo, tirò energi-
camente le redini ai cavalli e mise in azione il grosso
freno. Poi legò strettamente le redini all’impugnatu-
ra del freno e si sedette con l’aria di chi non ha più
intenzione di muoversi. Anche la macchina era sta-
ta costretta a fermarsi, dai grossi cavalli che le pre-
mevano contro ansimando.
Prima che l’autista potesse uscire dall’ingorgo a mar-
cia indietro, un vecchio irlandese, alla guida di uno
sgangherato carretto, aveva spinto al galoppo il caval-
lo, facendo incastrare le ruote con quelle dell’auto.
Drummond riconobbe sia il carretto che il cavallo
perché li aveva guidati più volte lui stesso: l’irlande-
se era Pat Morrissey. Dall’altra parte della strada un
carro della birra si era piazzato accanto a quello del
carbone e un tram diretto verso Kearney, suonando
la campana a tutto spiano, avanzava con decisione a
completare il blocco, mentre il guidatore sbraitava
contro il poliziotto che tentava di regolare il traffi-
co. E sopraggiungevano carri su carri che ostruendo
ogni possibile via d’uscita moltiplicavano la confu-
sione. I vagoni della carne si fermarono. La polizia
era in trappola. Il boato della folla andava aumen-
tando, man mano che i dimostranti si preparavano
all’attacco, mentre i poliziotti che in prima linea pre-
cedevano il carico della carne cominciarono a carica-
re i vagoni che ostruivano il traffico.
«Ci siamo» osservò Drummond freddamente a
Catherine.
«Sì» annuì lei, con pari freddezza. «Che selvag-
gi sono.»
110 Il senso della vita (secondo me)

La sua ammirazione per lei raddoppiò. Era pro-


prio il tipo che faceva per lui. L’avrebbe apprezzata
lo stesso anche se si fosse aggrappata a lui piangen-
do, ma questo modo di reagire era magnifico. Sta-
va seduta al centro dell’uragano, con la stessa calma
che avrebbe avuto all’opera, di fronte a un inceppar-
si dei meccanismi sulla scena.
La polizia lottava per aprirsi un varco. Il condu-
cente del carro di carbone, un omone in maniche di
camicia, si accese la pipa e cominciò a fumare. Lan-
ciò uno sguardo soddisfatto a un capitano di poli-
zia che gli urlava improperi, e come unica reazio-
ne scrollò le spalle. Da dietro si cominciò a udire il
bang bang di bastoni picchiati sulle teste e un pan-
demonio di bestemmie urla e strepiti. Un ulteriore,
violento clamore segnalò che i dimostranti avevano
rotto i cordoni e stavano tirando giù un crumiro da
un vagone. Il capitano di polizia venne in rinforzo
dell’avanguardia, e la folla fu respinta. Nel frattem-
po, si andavano aprendo una dopo l’altra le finestre
degli alti palazzi di uffici sulla destra, e gli impiega-
ti, con magnifica coscienza di classe, cominciarono
a lanciare una pioggia di oggetti sulla testa di crumi-
ri e poliziotti: cestini delle carte, bottiglie d’inchio-
stro, fermacarte, macchine da scrivere, tutto quel-
lo che era a portata di mano fu catapultato di sotto.
Un poliziotto, su ordine del capitano, cominciò
ad arrampicarsi verso il sedile del vagone di carbo-
ne per arrestare il conducente. E il conducente, cal-
mo e lento, si alzò come per andargli incontro, poi
improvvisamente lo afferrò come un fuscello e lo
lanciò sulla testa del capitano. Quando il carrettie-
Licenza edgt-9-NZAV7ExwBMwgu2rt-t3caHRHceyfeStMj rilasciata il 16
ottobre 2018 a Copia omaggio
A sud dello Slot 111

re, un giovane gigante, si arrampicò sul suo carico e


afferrò a due mani un pezzo di carbone, incerto su
dove tirarlo, un poliziotto, che stava dando la scala-
ta al carro da un fianco, ci rinunciò e si lasciò cade-
re a terra. Il capitano ordinò a una mezza dozzina
di uomini di impadronirsi del fortino. Il carrettiere,
agitandosi da una parte all’altra del carico, li respin-
se con un fitto bombardamento di pezzi di carbone.
La folla sul marciapiedi e gli altri carrettieri esila-
rati lanciavano urla di incoraggiamento. Il tranvie-
re, che aveva preso a sfasciare gli elmetti con la bar-
ra di guida, fu colpito alla testa e trascinato svenuto
giù dalla piattaforma. Il capitano di polizia, fuori di
sé dopo che i suoi uomini erano stati respinti, con-
dusse il successivo assalto al carro di carbone. Una
ventina di poliziotti aggredirono l’alta fortezza. Ma
il carrettiere si moltiplicava: a volte sei o otto poli-
ziotti rotolarono contemporaneamente sul selcia-
to e sotto il carro. Mentre era intento a respingere
un attacco sul retro della sua fortezza, il carrettiere
si girò e vide il capitano, salito davanti, nell’atto di
occupare il sedile. Stava ancora a mezz’aria, in equi-
librio estremamente precario, quando il carrettiere
gli lanciò contro un pezzo di carbone di una quin-
dicina di chili. Colpito in pieno stomaco il capita-
no cadde all’indietro, rimbalzò sul dorso di uno dei
cavalli e rotolò al suolo incastrandosi contro la ruo-
ta posteriore dell’automobile.
Catherine credeva che fosse morto, ma egli si rialzò
e tornò alla carica. Con la mano inguantata la ragazza
accarezzò il fianco del cavallo tremante e innervosi-
to. Ma Drummond non vide questo gesto. Non ave-
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ottobre 2018 a Copia omaggio
112 Il senso della vita (secondo me)

va occhi che per la battaglia del carbone, mentre in


un angolo della sua complicata psiche un certo Bill
Totts cominciava a premere e a tendersi nello sfor-
zo di venire alla luce. Drummond credeva nell’ordi-
ne, nella legge e nel mantenimento dello status quo,
ma il ribelle selvaggio all’interno di lui non ne voleva
sapere. Mai come in quel momento Freddie Drum-
mond fece appello alla sua ferrea inibizione per sal-
varsi. Ma è scritto che una casa sede di discordia è
destinata a crollare. E Freddie Drummond scoprì di
avere diviso la sua volontà e la sua forza con Bill Totts,
e sentì che la loro simbiosi si apprestava a scindersi.
Freddie Drummond stava seduto in macchina,
con aria tranquilla, vicino a Catherine van Vorst,
ma a guardare attraverso gli occhi di Freddie Drum-
mond era Bill Totts, e dietro quegli occhi lottava-
no per il possesso del loro rispettivo corpo Freddie
Drummond, l’equilibrato sociologo conservatore e
Bill Totts, il lavoratore sindacalista classista e belli-
coso. Fu Bill Totts che, guardando da quegli occhi,
capì come sarebbe finita inevitabilmente la battaglia.
Vide un poliziotto guadagnare il mucchio di carbo-
ne, poi un secondo e un terzo. Si reggevano a mala-
pena in equilibrio sulla base incerta, ma già roteava-
no i lunghi manganelli. Uno colpì il carrettiere sulla
testa: questi evitò un secondo che gli piombò sulla
spalla, ma ormai era chiaro che non c’era più nulla
da fare. Fece un balzo improvviso, afferrò due poli-
ziotti per le braccia e si gettò prigioniero sul selcia-
to, senza mollare la presa.
Catherine van Vorst cominciava a sentirsi male
alla vista del sangue e della brutalità dello scontro,
A sud dello Slot 113

ma tornò prontamente in sé di fronte all’avveni-


mento sensazionale e assolutamente inaspettato che
seguì. L’uomo che sedeva accanto a lei cacciò un gri-
do incongruo e selvaggio e si alzò in piedi. Lo vide
superare di slancio il sedile davanti, balzare agilmen-
te sull’ampia groppa del cavallo di testa e raggiunge-
re il carro. Il suo attacco aveva avuto la rapidità di un
turbine. Prima che lo stupefatto poliziotto sul carro
riuscisse a capire la manovra di questo signore vesti-
to di tutto punto ma dall’aria eccitata, aveva ricevuto
un pugno che lo spedì piegato all’indietro, sull’asfal-
to. Un calcio nella faccia di un poliziotto che tenta-
va di arrampicarsi lo portò a seguire il suo esempio.
Un gruppetto formato da altri tre raggiunse la cima
e ingaggiò con Bill Totts un corpo a corpo gigante-
sco, durante il quale una manganellata gli aprì uno
squarcio all’attaccatura dei capelli e gli furono strap-
pati di dosso cappotto, giacca e mezza camicia ina-
midata. Ma i tre poliziotti furono spazzati via e Bill
Totts restò padrone della fortezza, da cui prese a lan-
ciare pezzi di carbone.
Il capitano tornò coraggiosamente all’attacco, ma fu
messo fuori combattimento da un pezzo di carbone
che lo colpì alla testa, in una sorta di battesimo nero.
L’obiettivo della polizia era di rompere il blocco pri-
ma che i dimostranti avessero la meglio sulla retro-
guardia, e l’obiettivo di Bill Totts era di resistere sul
carro finché i dimostranti non ce l’avessero fatta. E
quindi la battaglia del carbone continuò.
La folla aveva riconosciuto il suo campione. «Big»
Bill, come al solito, stava in prima linea, e Catherine
van Vorst restò sbalordita alle urla di «Bill! Dài Bill»
114 Il senso della vita (secondo me)

che si levavano da ogni parte. Pat Morrissey salta-


va sul sedile del suo carro gridando come in esta-
si: «Mangiali, Bill! Falli fuori; mangiateli vivi!».
Dal marciapiedi udì urlare da una voce femminile:
«Attento Bill! Guarda avanti!». Bill, messo sull’av-
viso, con un tiro ben calcolato, si sbarazzò degli
assalitori sul davanti. Catherine van Vorst si girò e
vide sul bordo del marciapiedi una donna dai colori
vivaci e gli occhi neri fissare con tutta l’anima l’uo-
mo che fino a pochi minuti prima era stato Fred-
die Drummond.
Le finestre degli uffici rumoreggiarono di applausi.
Raddoppiò il bombardamento di sedie e schedari. I
dimostranti erano penetrati da un fianco della linea
dei carri e ciascun poliziotto si trovò isolato al cen-
tro di un gruppo in lotta. I crumiri vennero buttati
giù dai sedili, i finimenti dei cavalli furono tagliati e
gli animali sgomenti fuggirono via. Molti poliziotti
si rifugiarono strisciando sotto il carro del carbone
mentre i cavalli sciolti, alcuni con un poliziotto in
groppa, altri inutilmente trattenuti per la testa, mon-
tarono impazziti sul marciapiedi opposto al blocco e
invasero Market Street.
Catherine van Vorst udì la voce della donna lan-
ciare l’avvertimento. Era di nuovo sul marciapiedi e
gridava: «Dàgli Bill! Tocca a te ora! Scappa!».
La polizia era stata per il momento messa in fuga.
Bill Totts saltò a terra e si diresse verso la donna.
Catherine van Vorst la vide buttargli le braccia al col-
lo e baciarlo sulla bocca. Osservò con curiosità l’uo-
mo avviarsi lungo il marciapiedi, un braccio intor-
no alla donna, chiacchierando e ridendo, con una
A sud dello Slot 115

disinvoltura e un abbandono che non avrebbe mai


creduto possibili.
La polizia tornò alla carica cercando di mettere ordi-
ne nel caos in attesa di rinforzi, di nuovi conducenti
e di nuovi cavalli. I dimostranti avevano esaurito il
loro compito e andavano disperdendosi, e Catherine
van Vorst era ancora lì che guardava l’uomo che ave-
va conosciuto come Freddie Drummond. Superava
la folla di tutta la testa. Cingeva ancora la donna col
braccio. E lei, seduta nella macchina, vide la cop-
pia attraversare Market Street, oltrepassare lo Slot e
scomparire lungo la Terza Strada nel ghetto operaio.
Negli anni che seguirono non furono più tenu-
te lezioni all’Università di California da un certo
Freddie Drummond, né apparvero più libri di eco-
nomia o di argomento sindacale firmati da un cer-
to Frederick A. Drummond. D’altro canto sorse un
nuovo leader sindacalista, chiamato William Totts.
Fu lui che sposò Mary Condon, presidente del Sin-
dacato internazionale delle guantaie n. 974. E fu lui
a indire il famoso sciopero dei Cuochi e Camerieri
che, prima di concludersi col pieno successo, si tra-
scinò appresso decine di altri sindacati delle catego-
rie più disparate, dai Lavoratori dei pollai agli Addet-
ti alle pompe funebri.
www.illibraio.it
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ottobre 2018 a Copia omaggio
Il senso della vita (secondo me)
Jack London
EAN: 9788861908956
Copia data in licenza a
Copia omaggio
Questa pubblicazione è stata
acquistata il 16 ottobre 2018
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Codice transazione:
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