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Mercante di perle

La nuova nascita di un intellettuale

Ettore Panizon
Mercante di perle

Ettore Panizon

MERCANTE DI PERLE

La nuova nascita di un intellettuale

JAHWEH JIREH

1990

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Mercante di perle

Indice

UNO SCRIBA AMMAESTRATO PER IL REGNO DEI CIELI 4


L’IPOCRITA CHE VOLEVA TROVARE LA VERITÀ 12
CONDANNATO A MORTE 31
NELLA RETE DEL REGNO DEI CIELI 42
FUNGHI, DEMONI E LA PAROLA DI DIO 57
IMMERSO NEL NOME DI GESÙ 84
CITTADINO DEL CIELO 104
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI ALTRO NOME 119

2
Mercante di perle

Noi tutti eravamo smarriti come pecore,


ognuno di noi seguiva la propria via...
Isaia, 53:6

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Mercante di perle

PROLOGO e anticipazione:
UNO SCRIBA AMMAESTRATO
PER IL REGNO DEI CIELI

II Signore conosce i pensieri dei savi, e sa che sono vani.


I Corinzi, 3:20

Il succo di questo libro è che ho trovato un tesoro che non mi voglio


tenere solo per me. Chi trova un amico trova un tesoro, e io ho trovato un
tesoro immenso, perché Dio stesso è diventato mio amico.

Non avrei mai pensato di poter diventare amico di Dio. Mai da quando ho
cominciato a ragionare su queste cose. Da piccolo, come tutti i bambini,
vivevo anch’io nella ducia che le cose fossero state tutte fatte da Dio per
me, ma dopo gli undici o dodici anni ho cominciato a pensare che Dio, se
mai ne esisteva uno, se ne stesse ben lontano da me e dagli altri uomini e
non gli importasse più che tanto della mia persona, forse neanche della
sorte di un’umanità perduta nell’universo. E senz’altro ero effettivamente
perduto e privo della vita. Ora invece sono stato ritrovato e riportato in vita.

Parlo fuor di metafora, e anche fuori d’iperbole. Solo per quello che si può
vedere non sono ancora morto e risorto. La vita però è intessuta di cose
che non si possono vedere, come le nostre speranze, i nostri timori, i nostri
pensieri; cose che non si vedono, ma che ci modi cano continuamente.
Da questo interno invisibile escono le nostre scelte visibili (parole e azioni).
È nel mio interno invisibile che ero morto, perché dentro di me sapevo di
dover morire, e la vita mi sembrava assurda: “Siamo tutti dei morti in
licenza”, ha detto Lenin (citato da Godard). È per quello che ho creduto
dentro di me che sono nato di nuovo 1 e sono tornato a vivere con la
meraviglia di un bambino piccolo.

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Mercante di perle

Un amico, allora studente di sica, una sera che per la prima volta gli
parlavo della fede, mi ha raccontato un fatto che gli era capitato tempo
prima. Gli avevano rubato la macchina e lui, la notte, facendo forza sulla
sua stessa ragione che gli calcolava le bassissime probabilità di ritrovarla, è
montato su un’altra auto di casa ed è partito a cercarla. Ha cominciato a
scegliere sistematicamente la strada opposta a quella che gli indicava la
voce del dubbio, che lo voleva riportare a casa, ed ha trovato la macchina
senza tornare mai sui suoi passi, all’altro capo della città.

Penso che molte scoperte scienti che siano state il frutto di questo tipo
di fede. Ma con la fede non c’entrano solo le scoperte, scienti che e non
scienti che. La maggior parte delle cose che sappiamo, le sappiamo per
fede. Innanzitutto fede in quello che abbiamo imparato dalle nostre
esperienze, grazie alle quali, anche se ancora non si vedono, ci aspettiamo
certi eventi futuri. Abbiamo fede anche nelle esperienze degli altri uomini
e nelle parole che ce le raccontano: crediamo ai giornali, alla televisione,
agli scienziati, certe volte anche ai loso . Prestiamo fede anche ai loro
giudizi e alle loro impressioni. L’uomo crede nell’uomo, e dall’uomo trae
gloria, credito. In base alla fede che accordiamo a certe persone e che ci
viene accordata, rmiamo contratti, rilasciamo ed accettiamo assegni. In
fondo, il credito di cui godiamo presso gli altri uomini è la cosa che
umanamente ci importa di più, e che più ci serve nel mondo. Ma la fede
non è solo questo. Anzi la fede che ha cambiato la mia vita in un certo
senso è proprio tutto il contrario.

Ci sono delle volte in cui sentiamo con suf ciente chiarezza che tutte le
cose, immagini, parole sulle quali appoggiamo la nostra fede e che
carichiamo del nostro interesse sono in realtà vuote apparenze. A seconda
dei momenti chiamiamo questa sensazione: depressione, disperazione,
angoscia, illuminazione. II fatto resta sempre quello: ci accorgiamo di
essere sospesi nel vuoto. In questi momenti ci sentiamo come ciechi
guidati da altri ciechi. Smettiamo di appoggiarci con tutta la nostra fede
sugli uomini (compresi noi stessi), ma non sappiamo a cosa altro
appoggiarci. Tutto cede, tutto sembra inutile.

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Mercante di perle

La Bibbia ci dichiara che questa è effettivamente la verità per l’uomo.


“Ogni carne è come erba, e tutta la sua gloria come ore d’erba. L’erba si
secca, e il ore cade.” 2 Le cose più grandi per noi uomini sono in realtà un
nulla agli occhi di Dio. Credere alla parola di Dio signi ca accettare che
tutto ciò che si può toccare, vedere, possedere, tutto ciò per cui gli uomini
adulti di solito credono di vivere, tutto brucerà.

Ma quando ho riconosciuto di meritare la morte assieme a questo mondo


fatto di invidia e di superbia, ho anche saputo che quella convinzione mi
veniva per grazia di Dio, ed ho iniziato a credere e a sperare. Quando tutto
cede, non si cerca altro che qualcosa di saldo, e la parola di Dio è questa
roccia sperata, se uno ci si attacca. “L’erba si secca, il ore appassisce, ma la
parola del nostro Dio sussiste in eterno.”  3.

Fede è una parola che nell’uso ha nito per indicare un’entità astratta. È
diventato quasi un termine tecnico. In realtà la fede, la ducia non è altro
che l’ingrediente fondamentale dell’amicizia. Un amico è innanzitutto
qualcuno sul quale contiamo e qualcuno che conta su di noi, soprattutto
per quel che riguarda le cose del nostro cuore (le cose che non si vedono),
qualcuno a cui diamo ducia e che si da di noi. Avere fede in Dio
concretamente signi ca essere diventati suoi amici. “La fede è un dono”,
ho sentito dire spesso, a mo’ di scusa. Ma è un dono che Dio, in diversa
misura, ha fatto a tutti gli uomini. Tutti gli uomini sanno cos’è l’amicizia. Si
tratta di usare bene questo dono, rivolgendolo verso di lui, cercando la sua
amicizia, invece che rivolgerlo verso le cose più assurde, come facciamo (o
abbiamo fatto) tutti quanti, che cerchiamo (o abbiamo cercato) l’amicizia
di questo mondo.

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Mercante di perle

Recentemente mio padre e mia moglie parlavano del fascismo. Lei stava
leggendo Gli anni che scottano, un libro autobiogra co di Fidia Gambetti,
nostro amico e vicino di casa in campagna. Fidia, prima di nire volontario
in Russia, dove è diventato antifascista, è stato segretario di federazione e
poeta fascista. Quello che dicevano mia moglie e mio padre era che, come
si vedeva anche da questo libro che racconta il fascismo dal di dentro,
quella di molti intellettuali fascisti, non era proprio “buona fede”, perché
c’era sempre un lo di interesse che teneva legati al regime tutti, piccoli e
grandi, anche persone sincere e intelligenti. Mio papà ricordava se stesso
che ascoltava i discorsi del Duce rendendosi benissimo conto della loro
ridicolaggine, ma negandola dentro di sé. Non voleva vederla perché
voleva credere, voleva credere perché quello era il linguaggio dei suoi
amici.

Non solo durante il ventennio fascista, ma da sempre gli uomini, quando si


sono scelti il loro oggetto di fede, gli hanno anche rivolto un culto più o
meno esaltato, ma sempre idolatra. E in questo modo sono stati legati
all’apparenza e alla vanità. Chi in un modo chi in un altro, avendo dato
ascolto a questo mondo, siamo diventati tutti schiavi dei suoi peccati. Le
parole che ci ha sussurrato il mondo (come: “devi avere più ducia in te
stesso”, “fatti valere”, “diventa qualcuno”, “bisogna sapersi vendere”,
“aiutati che Dio ti aiuta”, ecc. ecc.; ne ha di corte e pubblicitarie e di lunghe
e argomentate, di generali e di “personalizzate”) sono diventate l’instabile
fondamento della nostra vita di adulti incamminati verso la morte. E poco
a poco queste parole hanno effettivamente prodotto in noi e attorno a noi
la devastazione che le giusti ca. Sono diventate parole “realistiche”.

La fede in Dio non è un’interessata volontà di credere. Per questo è un


dono. Non è fede nell’apparenza, ma fede nella realtà (“cos’è la realtà? cos’è
l'apparenza?” avrei protestato quand’ero un losofo; adesso so che la vita
può insegnare questa differenza). La fede in Dio è fede in una parola che ci
attesta che tutto ciò che adesso sembra “la realtà” un giorno sparirà come
un brutto sogno. Questa fede ci porta a vivere di già in questo giorno,
senza ascoltare altre voci e senza essere attirati da teorie (speciali o
generali) o da so sticate interpretazioni. Perché la Parola di Dio non è mai
smentita dai fatti, ma solo dalla poca fede, o peggio dalla mala fede di chi
preferisce credere all’uomo e alle sue opere.

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Mercante di perle

Così la fede non è solo un dono, ma anche un combattimento, e una


rinuncia a se stessi: alle proprie teorie, preoccupazioni, abitudini, credenze
e radicate superstizioni.

Nel Vangelo di Matteo è ricordata una frase di Gesù apparentemente


enigmatica. Aveva appena paragonato il regno dei cieli a un tesoro
nascosto in un campo (che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde, e, per
la gioia di averlo trovato, va e vende tutto quello che ha e compra quel
campo) e a un mercante che va in cerca di belle perle (e che, trovatane
una di grande valore, ha venduto tutto quello che aveva e l’ha comprata),
e a una rete che, gettata in mare, ha raccolto ogni sorta di pesci (gli angeli
alla ne di questa età - aveva aggiunto - faranno come i pescatori che
raccolgono dalla rete il buono e lo mettono nei vasi e buttano via quello
che non vale nulla), poi dice: “Avete intese tutte queste cose? Essi gli
risposero di sì. Allora disse loro: per questo ogni scriba ammaestrato per il
regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che tira fuori dal suo tesoro
cose nuove e cose vecchie.”  4.

Vendere è un’azione spirituale, difatti non trasforma le cose, ma il nostro


rapporto con le cose. Le cose che erano mie, e alle quali era legato il mio
cuore, ci sono ancora, non sono sparite, ma io non le considero più mie.
Prima le consideravo mie e di conseguenza anch’io appartenevo a loro.
Adesso che (o meglio: adesso, quando) non le considero più mie, anch’io
non appartengo più a loro: il mio cuore è libero e respira una nuova vita. E
anche le mie cose, perché da quando non le considero mie le tratto molto
meglio. Quando dico “le mie cose” parlo, senza mancar loro di alcun
rispetto, di tutti i beni che Dio mi ha dato su questa terra: il mio corpo, mia
moglie, i gli, la casa, i libri (letti e ancora da leggere), i posti (dove andavo,
dove vado, e dove posso andare), il mio lavoro (con quello che imparo e
che guadagno). Sono tutte cose che ho solo in amministrazione. Non mi
identi co più con loro, perché le ho per dare gloria a Dio che me le ha
date, e non per tenermele per me.

O, per meglio dire, così fa la nuova creatura che è nata in me. Perché la mia
carne (cervello compreso) continuerebbe con il vecchio modo di vivere,
riferendo tutto a se stessa. Delle volte, per esempio, mi scopro ancora a
fantasticare e a progettare la mia vita e la mia istruzione come facevo
prima di convertirmi. Ma, a differenza di un tempo, adesso so che quei
progetti sono soltanto rumore (un impedimento per il mio stesso lavoro) e
non ci faccio più caso.

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Mercante di perle

Vendere tutto non è stato un sacri cio, anzi lo faccio con sollievo e con
gioia perché in cambio sto trovando qualcosa di molto più grande e più
bello di tutto ciò che avrei mai potuto sperare dalle mie cose: un nuovo
rapporto con Dio. Un nuovo, vero tesoro.

Gli scribi e i farisei sono coloro che hanno tramato contro Gesù per
toglierlo di mezzo. Volevano essere loro i detentori della verità. Qualcosa
del genere avviene anche oggi nel mondo. Scriba nell’originale greco del
passo citato suona grammatéus, cioè, etimologicamente, “letterato”.
Potremmo dire intellettuale, perché non ci sono, sotto questo rispetto,
molte differenze tra scienze umane e scienze esatte o naturali: in tutti i
campi si tratta sempre soprattutto di conoscere roba scritta, letteratura (e
oggi forse hanno più bisogno di leggere e scrivere gli scienziati che gli
stessi scrittori). Gli intellettuali in genere, cattedratici e no, si sentono
anche loro, come gli scribi di un tempo, investiti di una autorità che nel
loro intimo temono di perdere. Temono perché il loro sapere è slegato
dalla loro vita, perché “dicono e non fanno”. Ma c’è un bisogno che gli
intellettuali sentono (lo so per esperienza diretta): il desiderio di diventare
un punto di riferimento, una guida, “un’autorità in materia”. Questo
bisogno è la fame che lavora per loro e che nel segreto dei loro cuori
spinge molti intellettuali a lavorare. (Un giorno ho sentito dire a uno
scienziato abbastanza famoso, a proposito di un suo lavoretto: “fatene
quello che volete, basta che dite che l’ho fatto io”). Ma non è per il
riconoscimento degli uomini che si diventa delle vere autorità. Anzi ho
visto che la vanità e la superbia sono la causa del fallimento personale e
scienti co della stragrande maggioranza degli intellettuali (compreso
me), che credendo di sacri carsi per la scienza niscono per con narsi in
un angusto e litigioso mondo di immagini (eppure le cose che premiano
sono la conoscenza e la pace).

Scrivendo e leggendo spesso ci si illude di diventare autori delle cose che


si capiscono. II mondo fa di tutto per confermare questa illusione, e gli
intellettuali, nché sono legati al regno di questo mondo, non se ne
possono liberare. Lo scriba ammaestrato per il regno dei cieli, invece, non
si fa un tesoro su questa terra, ma “tira fuori dal suo tesoro”. II tesoro di
questo scriba sono le cose che ha ricevuto da Dio, e sulle quali non può
esercitare nessun diritto d’autore.

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Mercante di perle

Anch’io, prima, da losofo, mi comportavo come un ladro,


impossessandomi gelosamente delle verità che in un modo o nell’altro
riuscivo a carpire. II momento, invece, in cui ho preferito Gesù al possesso
di tutte le mie cose, automaticamente ho smesso di accumulare e, anche
se con una certa lentezza, ho cominciato a tirare fuori. È nita un’epoca e
ne è cominciata un’altra: prima e dopo Cristo. Perché con Gesù tutte le
cose sono cambiate, ed hanno preso un nuovo senso.

II cambiamento che è avvenuto nella mia vita (e a cui io stesso certe volte
stento a credere) è quello che oggi mi permette di raccontare la mia
storia, di riconoscere il corso del tempo, le cose nuove e le cose vecchie,
dando un senso nuovo alle cose vecchie. Difatti, “le cose vecchie sono
passate: ecco sono divenute nuove” 5. II mio racconto è il racconto della
mia vita vecchia, ma come la vedo oggi con occhi nuovi, e anche se quelle
cose sono successe allora, solo oggi possono essere raccontate nel modo
in cui desidero che lo siano: cioè non per mostrare le cose che ho fatto o
che potrei fare io, ma le cose che Gesù Cristo ha fatto per me; da cosa mi
ha liberato, e come.

Una storia la si può raccontare solo quando è nita. Posso raccontare la


mia vecchia vita di intellettuale solo perché la considero conclusa, e cioè
non me ne importa più, non è più viva.

Inoltre convertendomi, assieme a una nuova speranza, mi è stata data


anche una nuova memoria. Sono emersi ricordi di fatti che nella vita
vecchia hanno preparato e pre gurato la nuova. Perché accettando Gesù
come Salvatore e Signore non mi sono sottomesso a qualche dio
straniero, cioè a qualcuno estraneo alla mia vita precedente, anche se io
me lo ero effettivamente reso estraneo. In Gesù ho conosciuto l’Eterno
Iddio. II Dio che ha creato la terra e ha formato i cieli. II Dio che è benigno
verso gli ingrati e i malvagi, e che è stato benigno anche verso di me
quando non lo onoravo e anzi lo offendevo. Il Dio, anche, che mi ha fatto
studiare e viaggiare, cioè che, prima di mostrarmi la “perla di gran prezzo”,
ha lasciato che divenissi un mercante di perle. Ma lo scopo era che io
potessi comprendere il grande valore della sua perla.

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Mercante di perle

In questa luce voglio raccontare la mia storia. Non la storia della mia vita,
ma la storia della mia nuova nascita. Una storia che soltanto il Padre
conosce veramente e completamente, e che si svolge secondo i modi del
cielo. Per questo ho diviso il mio racconto in capitoli ordinati in senso non
rigorosamente cronologico, ma piuttosto nel senso del progressivo
approfondimento della rivelazione del Signore Gesù.

Un’ultima cosa. Da quando sono entrato a far parte del popolo dei
credenti, ho ascoltato e letto tantissime storie di conversioni: conversioni
di ma osi, di prostitute, di assassini, di tossicodipendenti, addirittura di
spiritisti e di servi di Satana, oltre che di gente comune, apparentemente
sana e soddisfatta; ma ne ho sentite poche di intellettuali e pochissime di
loso . Con questo non voglio dire che la mia storia sia speciale rispetto
alle altre. Le testimonianze di Dio sono tutte egualmente speciali, e anzi la
mia personale, tra quelle che ho potuto ascoltare è una delle
testimonianze della grazia di Dio in cui il graziato, per titubanza e
sospettosità, fa la peggior gura. Voglio soltanto dedicare queste pagine a
tutte le persone ri essive, introverse, studiose, un po’ nevrotiche e
ciclicamente depresse come ero io. A coloro che, come me un tempo,
cercano la verità nei libri scritti dagli uomini, anziché nella vita. E, senza
potersi veramente saziare, si sfamano di letteratura.

Nel mio racconto queste persone non troveranno il loro cibo abituale. La
storia che sta per cominciare è una storia con pochi dialoghi e pochi colpi
di scena, senza grandi passioni, senza trama, e senza meta sica, fatta del
solitario substrato mentale e materiale su cui si è prodotta. Se Gesù non
fosse venuto a cambiare la mia vita, non mi sarei mai sognato di
raccontarla per scritto. Ma proprio la mancanza di particolari qualità del
protagonista di questa storia è da parte del Signore, una promessa per
tutti i suoi lettori. Ed è una ulteriore prova di ciò che è attestato in vari
luoghi della Bibbia: “l’Eterno non guarda alla qualità delle persone”.

Anzi, “...Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; e
Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose sprezzate, anzi le cose
che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, af nché nessuna
carne si glori al cospetto di Dio.”  6.

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Mercante di perle

NOTE

1. La nuova nascita è il principio della vita cristiana. Si nasce di nuovo


quando, per rivelazione dello Spirito Santo, ci si accorge che la propria vita
si è irrimediabilmente allontanata dalla verità e dalla giustizia, e si accetta il
riscatto offerto dal Cristo per ricominciare veramente tutto da capo. A
qualsiasi età. Gesù ha detto a Nicodemo, un anziano dottore della Legge
che per non farsi riconoscere era andato a trovarlo di notte: “In verità, in
verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di
Dio. (...) Quel che è nato dalla carne è carne; e quel che è nato dallo Spirito
è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo.
Il vento sof a dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né donde viene
né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Giovanni, 3:5-8).

2. I Pietro, 1:24 e lsaia, 40:6-7.

3. Isaia, 40:8 e I Pietro, 1:25.

4. Matteo, 13: 51-52.

5. II Corinzi 5:17.

6. I Corinzi, 1:27-29.

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Mercante di perle

CAPITOLO I
L’IPOCRITA CHE VOLEVA TROVARE LA
VERITÀ

Pilato gli disse: che cos’è verità?


Giovanni, 18:38

Lunedì, 28 luglio 1975, Trieste. Alcuni giorni dopo la chiusura degli esami di
maturità. Dai sedici anni in poi mi ero votato allo studio, dopo una pubertà
passata nell’ozio, nei vizi, e in molto dolore. Avevo studiato con passione e
con diligenza, per piacere e anche per non dispiacere ai miei professori
che mi accordavano piena ducia. Ma non avevo studiato solo per piacere
a loro. Attraverso di loro, specialmente attraverso il professore di storia e
loso a, avevo scoperto il mondo scon nato ma percorribile della
letteratura. Mi ero accorto cioè che dietro ai libri di testo c’erano tanti altri
libri, libri di cui quelli di scuola erano solo un pallido ri esso, o, nel migliore
dei casi, una buona introduzione. Avevo imparato a frequentare la
Biblioteca Civica e a trascorrervi le estati. Lo studio, in pochi anni, era
diventato la mia vita. E la prova di maturità aveva fatto ampio onore a
questo impegno. Ero contento. Anche per i miei genitori ( n da piccolo, il
comandamento di onorare il padre e la madre aveva avuto per me
principalmente il senso di andare bene a scuola). Così, quando mi
telefonarono per chiedermi se volevo essere intervistato da un giornalista
de “Il Piccolo”, non riuscii a dire di no. Non che non avessi i miei
presentimenti. Lo studio e soprattutto certa letteratura esistenzialista mi
avevano instillato una profonda dif denza per i mezzi di comunicazione di
massa. Specialmente per la stampa, che vedevo come la Babilonia della
letteratura.

13
Mercante di perle

Mi fu dato secondo quello che credevo. Trovai un giornalista ironico e un


po’ svogliato e mi chiusi in una specie di mutismo, rotto solo alla ne
dell’intervista collettiva (erano stati convocati tutti i quattro o cinque
“sessanta” del liceo) da qualche goffa e scontrosa risposta a qualche non
interessata domanda che ora non ricordo più. Quello che ricordo è il titolo,
o il sottotitolo dell’articolo che risultò da quell’intervista: “Marisa e
Sebastiano... (bla, bla, bla), Gabriella crede negli alti valori della poesia,
Ettore vuole trovare la verità”.

Quel titolo e quell’articolo mi fecero l’effetto di uno schiaffo in pubblico.


Tutto l’onore e la gloria dei miei sessanta sessantesimi erano niti in
niente, avrei quasi preferito un voto più basso.

Ma perché mi vergognavo tanto di voler trovare la verità? Non era forse


vero? Quella vergogna mi avrebbe dovuto far ri ettere sulla vera natura
della mia ricerca. Invece quello che feci fu di scappare all’estero.
Letteralmente, anche se per il momento solo in Iugoslavia.

Non era ancora il tempo per una ri essione di quel tipo. In quegli anni, più
che la verità in sé, mi importava la verità per gli altri, e soprattutto la verità
su ciò che gli altri pensavano e dicevano di me. Sapevo che era così: un
giorno ero riuscito anche a dirlo. Mi ricordo che era stato qualche anno
prima, sugli scogli di una baia di Arbe, un’isola della Dalmazia. Parlando con
mio padre gli confessavo di essere interessato al mio prossimo solo per
quello che poteva rivelarmi di me. Di fronte a tanta desolazione ricordo di
avere anche pianto. Ma non di sincero pentimento, piuttosto di
autocommiserazione.

Dopo la maturità, con qualche incertezza, mi sono iscritto a loso a. Era la


materia nella quale mi muovevo con maggiore disinvoltura, l’unica
materia in cui mi sentissi già autorizzato a parlare in prima persona.

L’esperienza che sta alla base del pensiero loso co è l’esperienza di un


interrogativo globale circa le basi del mondo intorno a noi, ed io avevo
iniziato a dubitare che le cose intorno a me stessero davvero come mi si
raccontava n da quando avevo dieci, undici anni. Questi dubbi erano
cominciati dopo una visita dallo psicologo, uno psicologo di Treviso che mi
sembrò molto simpatico, tanto che ricordo di essermi sforzato di piacergli.

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Mercante di perle

Forse però mi sforzavo anche per paura. Difatti i miei genitori avevano
deciso di sottopormi a quella visita perché a scuola non rendevo come
avrebbero desiderato. Se non sbaglio mi ero appena trasferito da Pavia a
Padova e si preoccupavano di sapere (soprattutto mia madre) se non
andavo bene perché avevo dei problemi di ambientamento o un ritardo
intellettivo. Io dei problemi psicologici non mi curavo molto, quello che mi
premeva era di non risultare scemo. Ma i miei non sapevano di queste
preoccupazioni e dopo la visita mi raccontarono che avevo fatto un’ottima
impressione a quello psicologo, che aveva detto che sarei migliorato
sempre più con il passare degli anni e che avevo un Quoziente Intellettivo
molto alto. A1 momento mi rincuorai, ma poi lentamente cominciai a
domandarmi come mai, se ero tanto intelligente, mi avevano voluto
misurare il Quoziente Intellettivo; non mi avevano forse mentito sul
risultato dell’esame?

Da quei giorni ho cominciato a conoscere la sofferenza interiore, perché


quel dubbio minava dalla base tutta la mia rappresentazione del mondo; o
meglio, da quel momento il mondo ha cominciato ad apparirmi come una
possibile rappresentazione: una messa in scena per tenermi all’oscuro di
qualche terribile realtà.

La prima volta che ho incontrato fuori di me questo mio atteggiamento


mentale è stato all’età di tredici anni, durante una vacanza in Sardegna
passata a letto a causa di una grave infezione da streptococchi. Leggevo
un racconto di fantascienza di Philip Dick intitolato L’uomo dei giochi a
premio. Questo racconto parla di un uomo che ogni tanto aveva
l’impressione, accompagnata da un certo sfavillamento, di vivere in una
realtà nta. Alla ne scopre che effettivamente gli facevano credere di
essere un tranquillo signore di periferia che periodicamente spediva le
soluzioni di un quiz che usciva sul giornale locale, mentre in realtà le
soluzioni di questo gioco a premi erano fondamentali risultati di non
ricordo più che calcoli di interesse mondiale. Anche se quello che
sospettavo io non era di essere un genio tenuto all’oscuro della sua
supernormalità, ma al contrario un subnormale a cui pietosamente si
voleva far credere di essere una specie di genio, formalmente il problema
era lo stesso.

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Mercante di perle

Poi, dopo una gravissima crisi negli anni della pubertà, quando al timore di
essere de ciente si era aggiunta la certezza di essere un imbranato,
riprendendo a leggere e a studiare all’età di sedici anni ho presto ritrovato
questi pensieri e iperbolici dubbi. Alla sorpresa di ritrovare i miei timori in
un racconto si mescolava anche un certo compiacimento per la bellezza
della forma con cui venivano espressi i “miei” pensieri. Prima ancora che
nel programma di storia della loso a ho ritrovato difatti le mie
angosciose fantasticherie espresse in forma poetica un giorno che, in un
fresco riparo scavato dal mare dentro una roccia di granito di una spiaggia
dell’Asinara, ho iniziato e quasi nito il mio primo libro di Jorge Luis Borges,
L’aleph. I brevi racconti contenuti in quel libretto mi sembrarono scritti da
un amico di lunga data, qualcuno al quale fosse apparsa allo stesso modo
che a me la fragilità e l’insussistenza di tutto ciò che sappiamo delle cose.
Era il periodo che cominciavo a passare del tempo davanti allo specchio
con un forte senso di estraneità per la mia faccia, senso di estraneità che
poi si estendeva spesso anche al mio nome e cognome, e nivo col
domandarmi se tutta la mia vita non appartenesse per caso a uno strano
sogno. In quel libro, come in tutti i suoi altri, Borges prospettava la
vertiginosa possibilità (teoricamente inconfutabile) che tutta la storia e
tutte le storie, compresi tutti i libri (sottinteso anche i libri di Borges) non
siano state inventate che un attimo fa. A dire il vero mi accorgevo che
Borges scriveva con così tanto divertimento e acutezza da farmi
sospettare che, nonostante questi cosmici dubbi, qualche sicurezza, alla
ne, l’avesse trovata. O forse era proprio la possibilità di esprimere
l’incertezza che ne alleviava il dolore, trasformandolo anzi in sottile piacere.

Quell’estate lessi, mi pare, anche L’uomo senza qualità di Musil e altri libri,
specialmente di Mann e di Kafka. Immerso in queste opere cominciai a
pensare seriamente che la letteratura potesse essere la soluzione per
tutta la vita: leggere e scrivere libri poteva forse essere il modo per
assorbire fruttuosamente tutti i miei pensieri, trasformando la sofferenza
in qualcosa di utile, qualcosa che poteva essere comunicato e apprezzato
da altri.

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Mercante di perle

Di questa possibilità d’altronde facevo esperienza diretta, perché anch’io,


come stavo dicendo, dai dubbi che mi avevano avvelenato gli ultimi anni
della fanciullezza, negli anni del liceo ho tratto la mia principale forza:
nessuno in classe capiva meglio di me gli astrusi pensieri dei loso
moderni che, almeno da Cartesio in poi, hanno cominciato a considerare
normale, anzi doveroso dubitare di tutto, addirittura di esistere; ed io ero
quello che faceva le domande più pertinenti e quello a cui i miei
compagni si rivolgevano per avere spiegate le cose più dif cili.

Insomma mi iscrissi al corso di laurea in loso a. All’Università di Bologna.


Scelsi Bologna perché era una sede vicina a Parma, dove abitava la mia
ragazza. Ma anche perché avevo letto molti libri di Umberto Eco e mi
attirava la prospettiva di studiare con lui. Oltre alla pulizia del suo stile di
scrittura, di Eco avevo apprezzato anche il gusto loso co.

Quando lo conobbi, nell’aula grande della vecchia sede del DAMS, un


palazzo del centro di Bologna pieno di affreschi settecenteschi, oltre alla
strana impressione di rispetto misto a familiarità che danno in genere le
persone famose, si confermò il mio positivo giudizio, per la chiarezza con
cui Eco era in grado di presentare antichi problemi e dottrine (si leggeva il
Cratilo, un dialogo in cui Platone fa esporre il problema delle origini del
linguaggio a personaggi che fanno da portavoce alle principali scuole
loso che del tempo). Una chiarezza addirittura eccessiva, tanto che, n
dalle prime lezioni, non potei trattenermi dall’intervenire per segnalare
con domande dal posto le inevitabili omissioni e sempli cazioni. Eco
sembrava gradire le mie domande, colpito dalla mia oramai rara cultura
classica, ed io ero contento di poter intervenire, anzi come ho detto, non
potevo farne a meno (se non parlavo scoppiavo).

17
Mercante di perle

Non mi succedeva solo a lezione di Eco, ma ovunque si parlasse delle cose


sulle quali passavo il tempo a pensare. Se non avevo niente da dire a
lezione, lasciavo stare di seguire il corso. Ma trovavo sempre qualcosa da
dire. Facendomi notare con tutti i miei interventi, comunque, oltre a un
sacco di silenziosi nemici (molti studenti e alcuni assistenti che ho
stancato con i miei contorti pensieri), mi sono fatto anche alcuni amici. II
primo, già dai primi mesi di università, è stato Renato. Ci siamo trovati tutti
e due a polemizzare dal posto a lezione con Massimo Bonfantini, allora
assistente di Eco, un “materialista dialettico”, autore di un libro intitolato
L’esistenza delle realtà. Renato e io avevamo quasi lo stesso modo di
vedere e di giudicare un losofo, o una teoria. Tra le nostre menti,
nonostante profondissime differenze di carattere, temperamento e
cultura, c’era uno straordinario accordo, per cui abbiamo presto iniziato a
lavorare assieme, per prima cosa a una tesina per l’esame di semiotica.
Una tesina che ci divertimmo moltissimo a preparare, e che piacque
molto anche a Eco.

I primi anni di studio universitario, nonostante sentissi la mancanza di un


rapporto quotidiano come quello che avevo avuto con i miei professori e i
miei compagni di classe del liceo, furono anni abbastanza intensi e ricchi
di scoperte. La loso a del linguaggio e la scienza dei segni (o semiotica)
mi sembravano promettenti discipline per l’esercizio del pensiero
loso co. Mi compiacevo venendo a sapere che ci si era resi conto che il
linguaggio e la cultura di una società non sono soltanto un modo di
etichettare le cose, ma anche un modo di vivere e di processare la realtà.
Non esistono - leggevo ed assentivo - verità esterne a una cultura, ma
soltanto possibili confronti tra segni (tra testi) dentro una certa area, in un
certo periodo e in un certo tempo determinato. Studiando in particolare il
funzionamento di testi scritti, mi convincevo sempre più della autonomia
del mondo della cultura, che mi appariva svincolato dalle leggi di una
realtà naturale ormai da me messa completamente tra parentesi.

La semiotica del testo mi interessava più della linguistica, perché non c’era
da studiare, ma solo da ri ettere, e si faceva meno fatica a fare belle gure.
Il lavoro che avevamo iniziato consisteva nel tentare di esplicitare le regole
implicite che usiamo quando parliamo, ascoltiamo, leggiamo, scriviamo.
Lavoro almeno all’inizio assai affascinante, soprattutto perché lavoravamo
in classe (era un seminario con scadenza settimanale) e su un breve testo
ci soffermavamo per molti mesi.

18
Mercante di perle

Intorno a questo gioco collettivo, con cui combinava anche lo studio per
altri corsi, la vita si svolgeva abbastanza allegramente, in una città che mi
appariva molto più colorata, ricca e ridente della sgarbata, metallica, dura
Trieste. Mi sembrava di aver fatto un ottimo affare.

Negli ultimi anni di università le mie idee erano un po’ cambiate. Era
cambiata anche la mia situazione sociale: prima stavo con una spensierata
ragazza che aveva alcuni anni meno di me, poi, dopo un breve periodo di
vacanza, stavo con una ragazza di alcuni anni più vecchia di me e con
molti problemi. Inoltre avevamo formato attorno a Eco e ad altri professori
dello stesso istituto un gruppo abbastanza assiduo, una specie di piccola
classe, come ai tempi del liceo, con la differenza che questa era una classe
tutta di primi della classe. Io però, che non ero lo stesso del tempo del
liceo, perché alle normali dif coltà della vita del fuori sede si erano
aggiunti molti altri disagi esteriori e interiori, non vivevo più la vita di classe
con la dovuta leggerezza, ma anzi con molta fatica. Per miracolo riuscivo
ancora a leggere e a studiare, ma cominciavo ad avvertire un sempre più
forte calo di interesse. L’entusiasmo per le mie scoperte durava poco.
Dopo un po’ restavo con uno strano senso di irrealtà nella testa, simile a
quello che avevo provato n da bambino ripetendo molte volte una
stessa parola. Le nuove idee duravano nuove relativamente poco, ma
invecchiando non se ne andavano via, si intrecciavano invece come i li di
una tela di ragno. Oppure si depositavano come una sabbia ne, che
andava a indurire il mio cuore.

Non credevo più alla fattibilità di una scienza generale dei segni, anche se
continuavo a lavorare nel gruppo di Eco. In realtà quel gruppo non era
esattamente un gruppo di lavoro. Intanto perché più ci si vedeva al
ristorante o dopo cena con i professori e in particolare con Eco, meno ci si
riusciva a concentrare sul lavoro in classe (e se non era in classe non si
poteva parlare di semiotica, ma solo di futilità). Poi perché la semiotica,
come stavo imparando a conoscerla, mi si presentava come un insieme di
teorie abbastanza indipendenti le une dalle altre, e vedevo i semiologi più
che a ri ettere concretamente sulle regole che governano la
comprensione di un certo testo, soprattutto intenti a pensare a come
confutare o comprovare le loro o le altrui teorie. Mancandomi le basi per
un vero lavoro scienti co, mi trovavo ad inseguire idee, ed è molto dif cile
inseguire idee in gruppo. Tanto peggio se le idee, come accadeva
certamente a me, le si inseguiva principalmente allo scopo più o meno
segreto di mostrare quanto brillasse il proprio intelletto.

19
Mercante di perle

La vita di gruppo, quella del giovedì-venerdì-sabato mattina (i giorni di


presenza dei nostri professori) era di gran lunga la più faticosa. Nelle ore di
lezione mi divertivo abbastanza partecipando anche troppo in prima la,
invece quello che realmente mi stancava erano le relazioni tra di noi.
Sebbene uno a uno fossimo anche buoni amici, tutti assieme eravamo
molto tesi e io più di tutti. Poi, come dicevo, non si parlava mai di cose
serie. Percepivo la regola tacita, che credo viga in generale negli ambienti
mondani, di soltanto s orare temi come il proprio lavoro, il proprio
impegno, le proprie necessità, semmai alludendo velatamente a queste
cose (considerate un po’ oscene) solo qualora fosse proprio indispensabile.
Era abbastanza naturale: anche se ci stavamo simpatici e ci volevamo
bene, non eravamo lì per aiutarci, né per trovare la verità tutti assieme.

Così mi sentivo solo. Mi vedevo con Renato, che riusciva a divertirsi molto
meglio di me e aveva sempre qualche nuova idea da sottopormi, ma non
era sempre facile trovarlo (anche se in teoria dormivamo nella stessa casa).
Anche Renato mi vedeva volentieri perché lavoravamo bene insieme: io
ero rigoroso no alla pignoleria (anche nel delirio meta sico), lui invece era
informato e produttivo. Io mi perdevo nei miei pensieri, riemergendo a
tratti, ma restando in una condizione di permanente ambiguità tra la
vaghezza dell’oggetto di studio e la confusione derivante dalla mia
personale mancanza di un metodo. Renato invece, più metodico e
distaccato, riusciva molto meglio ad individuare e a nominare i problemi.

20
Mercante di perle

Non è facile e non è utile ricostruire tutto il groviglio delle nostre ri essioni
di allora. Eravamo partiti dalle letture delle principali opere loso che di
Ludwig Wittgenstein. Nei libri di Wittgenstein avevamo trovato impostati
e irrisolti i problemi fondamentali della loso a del linguaggio. Ma mentre
io naufragavo dolcemente nell’inestricabilità di questi problemi, Renato
trovava moltissimi collegamenti con altri libri che man mano mi passava,
testi di altri loso , ma anche di economisti, di autori di polizieschi e
fantascienza, e addirittura di cineasti. Con una certa invidia ma anche con
molta ammirazione, vedevo le mie perplessità e i miei travagli prendere
progressivamente forma di brillanti idee. Per esempio, un problema
teorico nel quale mi ero dibattuto n dai primi mesi di ri essione
semiotica e che era stato sollevato nelle opere del secondo periodo
dell’attività loso ca di Wittgenstein, era quello di comprendere non solo
quali fossero le regole implicite nella nostra pratica della lingua, ma anche
quando, come e perché queste regole venissero usate. Nella mia mente
questo problema teorico si mescolava con la mia effettiva incapacità di
parlare a proposito in società, con le mie incertezze e i miei continui sbagli.
Credo che a me importasse sbandierarlo quasi come una giusti cazione.
Invece per Renato, che in società apparentemente non aveva problemi,
questo insieme di discorsi loso ci esprimevano semplicemente il
concentrarsi dell’attenzione, in un certo momento storico, “sull’aspetto
dell’applicazione delle regole” (piuttosto che su quello della produzione).
Con questa e molte altre simili chiare e distinte formulazioni, Renato
marciava rapidamente verso la stesura de nitiva della tesi di laurea,
mentre io ero ancora in alto mare.

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Mercante di perle

Anche Eco preferiva il gioco agli argomenti troppo seri, e produceva,


produceva, produceva. Con Renato si capivano bene, mentre con me non
riusciva a parlare, né io con lui, nonostante la reciproca stima e simpatia. Il
fatto è che fantasticavo troppe conversazioni, e con le persone con cui
fantasticavo di parlare (Eco, per la rarità dei momenti in cui ci si trovava a
tu per tu, era ovviamente il principale interlocutore fantastico) poi, nella
realtà, la conversazione si inceppava quasi subito. Così passavo il mio
tempo ad aspettare il momento giusto per scambiare delle idee con
qualche professore o a volte anche con lo stesso Renato, ma quando
arrivava il momento di parlare, le cose avevano perso per me il loro
interesse intrinseco, diventandomi troppo chiaro che in realtà quelle che
mi interessavano non erano tanto le cose da dire quanto le persone a cui
volevo dirle. Così chiaro che, come stavo appunto dicendo, soprattutto
con Eco spesso calava un penoso silenzio. C’erano anche dei cari amici che
mi volevano semplicemente bene e con cui potevo distendermi, ma io
ero maggiormente attratto verso i luoghi e le persone più "importanti",
anche se mi facevano soffrire di più.

In quegli anni e in quelli successivi mi sono molto lamentato di questo


andazzo. Sentivo la mancanza di un maestro, di un professore che mi
seguisse sul serio, e accusavo Eco di non volerlo essere (a lui non l’ho mai
detto). Eco era sempre molto disponibile e affettuoso, ma lo vedevo
troppo preso dalla scrittura delle sue cose per poter porgere un ascolto
reale alle mie. Così lo trattavo con un certo involontario risentimento. (Solo
ora vedo nel suo sincero disinteresse per le mie speculazioni una vera
benedizione del Signore). Mi lamentavo ma non ero capace di staccarmi
da quella realtà e da quell’ambiente, perché mi sembrava il mio tesoro, e
un tesoro non si lascia se non per un tesoro più grande.

Quello che sentivo, però, era un crescente disgusto. E in realtà, dopo


essermi nalmente laureato (con una tesi che sembrava fatta apposta per
contravvenire in tutto e per tutto al libro di Eco, mio relatore, Come si fa
una tesi di laurea), mi si offrivano ben poche possibilità: o il lavoro
volontario non pagato in qualche istituto universitario, o il lavoro precario
mal pagato come supplente nella scuola media, o il lavoro da libero
professionista per qualche giornale o qualche casa editrice, ma in tutti e
tre i casi il lavoro innanzitutto me lo sarei dovuto andare a cercare.

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Mercante di perle

Coerentemente con la mia vocazione di libero pensatore scelsi di non


lavorare affatto, a quelle condizioni. Inoltre non ne potevo più di stare a
Bologna (per la seconda volta ero anche di nuovo “singolo” io dicevo “s-
coppiato”). E a tornare a Trieste non ci pensavo neanche.

Considerai invece una specie di invito che avevo ricevuto da parte di


Roberto Briceno, il giovane direttore dell’Istituto di loso a dell’Università
di Morelia, una cittadina della provincia messicana. L’avevo incontrato a
casa di Esther Cohen, un’amica e compagna di corso, pure lei messicana
(di nascita). Roberto mi aveva detto che laggiù avevano fondi per ricerche
che non sapevano come usare, e che sarebbe stato ben contento di
potere lavorare con me. Ero tanto stufo di Bologna che quella specie di
promessa mi bastò per decidermi a partire.

Dall’atlante e da qualche enciclopedia avevo imparato che Morelia era una


cittadina delle dimensioni di Trieste, a duemila metri di altezza sul Grande
Altipiano Centrale, in una zona secca ma non desertica. Di Morelia non
avevo mai sentito parlare prima, ma forse in qualche lm western avevo
sentito nominare il suo antico nome, Valladolid. E certamente le mie
fantasticherie su quello che avrei trovato in Messico venivano in gran
parte dall’immaginario cinematogra co che mi ero formato in quattro
anni di pellicole d’essai quasi quotidiane (e il mio regista preferito era Sam
Peckimpah). Ma la realtà superò di gran lunga ogni speranza e ogni
immaginazione.

Fu un vero viaggio. Entrai in un mondo totalmente nuovo rispetto a


Bologna, un mondo in cui le cose, a cominciare dalle nuvole, si muovevano
molto di più.

23
Mercante di perle

Mi sentivo un po’ sulle orme dei miei parenti da parte materna, mio nonno
e un mio prozio, che erano emigrati in America all’inizio del secolo. Era
effettivamente un mondo nuovo. Il cielo, la lingua, i tratti orientali dei miei
nuovi amici e della gente mi facevano sentire in una specie di lungo
sogno. Dal quale però, anche se con una certa impressione, potevo
comunicare con l’esterno. Scrivevo molte lettere ai miei amici e
soprattutto ai miei genitori, nelle quali mi sforzavo di far trasparire un po’
della luce da cui mi sentivo bagnato. Ma quello che comunicavo
probabilmente era solo il fatto che stavo bene: non potevo certo far star
bene anche loro. Anzi, li facevo un po’ preoccupare, e non a torto, perché a
un certo punto decisi di lasciar scadere il mio biglietto di ritorno valido per
tre mesi.

Ciò che più mi dava la sensazione di reciproca appartenenza a quella terra


era l’interesse (anzi l’amore disinteressato, direi quasi lo stupore) per la vita
che trovavo nella gente. Questo fatto mi consolava intimamente perché
comprendevo che non era vero ciò di cui mi ero convinto nei primi anni di
liceo, all’inizio della mia carriera di intellettuale, e che mi aveva portato a
soffrire tanto all’università. Mi ero messo a studiare perché mi sembrava
che la lettura (e la letteratura) fosse l’unica via per entrare in contatto con
persone intelligenti e capaci di guidarmi nella mia ricerca interiore. In
Messico, invece, potevo avere incontri per strada con sconosciuti anche
analfabeti che mi insegnavano più sapienza di quanta se ne poteva
trovare nella maggior parte dei miei libri di loso a.

Ciò nonostante, anche in Messico viaggiavo sempre con una borsa carica
di libri. Evidentemente l’idea che lo studio fosse la principale via per
comunicare con gli altri era troppo radicata in me. Stranamente, però,
amavo i libri più dif cili, quelli che non si possono raccontare. Forse perché
mi interessavano (e mi interessano tutt’ora) le cose semplici, di cui l’uomo
non riesce a parlare. Per dare un’idea delle mie velleità di lettura in quel
periodo, posso elencare i libri che mi ero portato dall’Italia: I fondamenti
della teoria del linguaggio di Hjelmslev, Mille Plateaux di Deleuze &
Guattari, Stabilità strutturale e morfogenesi di Thom, gli Esercizi di
topologia Schaum, oltre a una vecchia copia de L’Orlando furioso. Libri che
poi, tra l’altro, a parte i primi due, ho soltanto iniziato.

24
Mercante di perle

Per il gusto di esplorare, specialmente nei primi mesi di soggiorno, ero


assiduo frequentatore della biblioteca della Città Universitaria e della
biblioteca comunale di Morelia, entrambe a scaffale aperto, come piaceva
a me. Leggevo un po’ di tutto. Ma ciò che mi dava più gioia dentro, credo,
non erano tanto le cose che leggevo, quanto piuttosto la diversità in sé
del panorama editoriale. Tanti nomi considerati imprescindibili dalla
cultura europea (o dalla moda) non erano quasi conosciuti, mentre altri,
semisconosciuti da noi, lì erano dei classici.

Fin dai sedici anni, da quando avevo cominciato a leggere, la lettura per
me era stata una specie di esercizio, anzi un lavoro. Interminabile. Leggevo
con accanimento, ma per dovere: con la reverenza dovuta a quella che mi
appariva come la vera realtà. Poi a Bologna, all’Università, questa “realtà”
era diventata sempre più opprimente. Di solito di un libro più che leggerlo
mi interessava averlo letto, o anche solo averlo visto o comprato (spesso
senza pagare). In giro per librerie passavo lunghe nevrotiche ore, con la
tensione del cacciatore, ma senza il fresco della boscaglia e in più con la
coscienza sporca del ladro (anche quando pagavo). Certo ogni tanto
facevo delle scoperte, capivo delle cose, ma prevaleva sempre lo spirito del
collezionista (lo spirito, non l’anima, perché non ho mai avuto la suf ciente
costanza per iniziare una collezione, neanche di libri): quello che più mi
importava era di mostrare agli altri queste cose capite o trovate. Per
questo avevo bisogno di essere informato.

A Morelia, invece, specialmente nei primi mesi, mi sentivo


completamente libero, da questo punto di vista. Certamente non lo ero, e
non solo perché non avevo dimenticato i discorsi che si erano fatti con
amici e professori. Ma, ugualmente, sentivo molto meno il peso del
giudizio altrui su quello che pensavo, leggevo, scrivevo (informi appunti e
molte lettere). La mia ricerca si faceva più leggera e solitaria.

25
Mercante di perle

Anche all’Escuela de Filosofía c’erano dei seminari, cioè delle riunioni in cui
a turno i partecipanti (tutti docenti tranne me) presentavano e
discutevano le loro ricerche assieme ai colleghi. Erano discussioni
abbastanza vivaci, che toccavano spesso temi di mio interesse e a cui, in
uno spagnolo sempre più disinvolto, prendevo anche parte. Ma un po’
perché poco ascoltato, un po’ perché lontano dai miei interessi personali, il
ricordo di quei discorsi non mi perseguitava e non guidava le mie letture e
le mie ricerche in biblioteca come mi accadeva a Bologna con le
chiacchiere tra amici e professori.

La sensazione - gioiosa - era di avere un sacco di tempo per me, un sacco


di tempo per ri ettere e capire. “Il tempo è dei loso ”, dice una vecchia
canzonetta popolare.

Ri ettevo sulle cose, anzi sugli eventi, i rapporti e gli incontri tra le cose
(cause ed effetti, variazioni continue e discontinue), viaggiando oltre che
con il corpo (mi piaceva girare in città in autobus o a piedi, oppure partire
per giri di qualche settimana in corriera e in treno) anche e soprattutto
con la mente, distinguendo e tipologizzando. Avevo anche dei veri amici,
con mia grande meraviglia, perché a Bologna la mia miseria interiore era
giunta al punto che credevo che gli amici fossero solo quelli che avevo già,
mentre tutto il resto del mondo mi appariva assolutamente estraneo.
Invece lì, nonostante fossi uno straniero sprovvisto di titoli (a parte la
laurea e una lettera di Eco) e specialmente di savoir faire, la maggior parte
delle persone che incontravo si dimostrava interessata a conoscere la mia
vita e a farmi conoscere la loro.

Mi sentivo molto bene, forte e sano di mente. In realtà ero tutto matto. Se
riprendo in mano un quaderno di appunti di quel periodo non ci capisco
più niente. Di cosa stavo parlando?

26
Mercante di perle

Lo studio più serio e sistematico che avevo fatto n dai primi mesi del mio
soggiorno messicano era stato I fondamenti della teoria del linguaggio di
Louis Hjelmslev. I fondamenti è un libro di linguistica intessuto di
de nizioni molto tecniche e astratte. Meditando su questo dif cile libro
mi era venuta un’idea che mi sembrava geniale. Hjelmslev aveva chiarito
che la semiologia studia relazioni reciproche, come quella tra le cose da
dire e le parole per dirle (la reciprocità essendo data dal fatto che
cambiando la cosa bisogna cambiare le parole per esprimerla, e
cambiando le parole cambia anche la cosa, il contenuto, di quello che si
dice). L’idea che mi era venuta era che si potessero considerare allo stesso
modo governati da relazioni reciproche anche molti fenomeni naturali
come, per fare un esempio che mi sembrava molto calzante, la caccia,
dove i movimenti del predatore in uenzano quelli della preda e viceversa
ne sono anche in uenzati.

Mi sembrava un’idea profonda e forse, nell’ambito della loso a del


linguaggio anche lo era. Ma con questi discorsi che svolgevo abbreviati
dentro di me, e con i quali mi sembrava di cogliere l’essenza stessa della
vita, in realtà mi chiudevo in un mondo lontanissimo dall’esperienza mia e
degli altri. Comunque in Messico la gente aveva più tempo e capacità di
ascolto che non a Bologna, e così avevo trovato degli amici in grado di
seguirmi nei miei ragionamenti, desiderosi forse di vedere, come me, dove
sarei andato a parare.

Mi sembrava che con una semiotica allargata in quel modo si potesse fare
anche dell’antropologia, e in particolare descrivere le differenze tra città e
campagna (con il differente grado di autonomia di cui godono le cose). Mi
interessava soprattutto studiare l’artigianato, come modo di vivere e di
signi care. Il titolo del mio progetto di ricerca era “La festa e il sapere
artigianale”.

Ma a chi avrebbe giovato tutta questa descrizione? Ogni tanto me lo


domandavo, con un certo fastidio. Oppure, senza fastidio e con altri amici,
ri ettevo sul ruolo e sulla posizione dell’antropologo nei confronti delle
persone e del mondo che vuole descrivere. Un ruolo abbastanza falso, se
ci si limitava a lmare le feste, o a registrare gli usi e i racconti: la posizione
del voyeur. Oppure un ruolo inutilmente pericoloso, quando ci si faceva
coinvolgere personalmente in problemi superiori alle proprie forze: i miei
amici antropologi avevano contatti con alcune comunità indie, ed erano
lunghe storie di soprusi, di molti omicidi e anche di stregoneria.

27
Mercante di perle

Tutte queste cose e questi problemi mi interessavano, ma sentivo anche


che la ricerca scienti ca non sarebbe stato il mio mestiere. Avevo sempre
nel fondo del mio cuore il sospetto che il mio vero scopo non fosse quello
di trovare la verità, ma piuttosto di dimostrare agli altri e a me stesso che
non ero uno stupido, ma che anzi, nella sostanza, avevo capito quasi tutto.
Le mie idee e il mio lavoro era sempre impedito da un continuo, fastidioso
gon arsi del mio orgoglio. Fastidioso soprattutto perché, come avevo
ormai imparato a mie spese, l’orgoglio precede sempre la confusione. I
momenti di chiarezza duravano un attimo soltanto.

Difatti i soldi per il mio progetto di ricerca sul sapere artigianale non
arrivavano mai. Anzi proprio in quei mesi è arrivata la crisi economica che
non ha ancora lasciato il Messico, e i cui primi effetti, dal nostro punto di
vista, sono stati i tagli alla ricerca, e soprattutto agli stranieri.

Da Morelia comunque, nonostante la crisi economica, non sarei mai


tornato in Italia, perché avevo trovato una situazione quasi ideale, un
posto in cui lo studio e la vita, almeno in confronto con le strazianti
condizioni in cui versavo a Bologna, sembravano intrecciarsi
armoniosamente. Pur di poter rimanere ancora in Messico avrei accettato
di fare anche altri lavori. Ma, come racconterò più avanti, fui costretto mio
malgrado a ripartire.

In Italia, dopo due anni e mezzo di assenza non avevo molte speranze. Ho
partecipato ad un po’ di concorsi per dottorato (scrivendo dei temi in cui
riuscivo sempre a parlare delle mie invenzioni hjelmsleviane, ma con
scarso successo, perché non sono mai arrivato agli orali). Vivevo a Roma a
casa della mia nuova compagna, con sua madre e con nostro glio
Emiliano (nato a Morelia sei mesi prima di partire). Lei, dopo un po’, ha
trovato lavoro in una impresa di animazione al computer, e io, su richiesta
del loro art director, mi occupavo, dal punto di vista della teoria semiotica,
di questo nuovo modo di produrre segni, persistendo
l’autocompiacimento per le cose che capivo e che scrivevo (e che
oltretutto sono rimaste inedite).

28
Mercante di perle

A Roma, oltre che di computer graphics, mi occupavo anche dello Spirito


Santo. Come losofo le cose di Dio mi avevano sempre interessato.
Attorno ai diciassette diciotto anni avevo letto con grande interesse le
Confessioni di Agostino e i Pensieri di Pascal, avevo studiato e
approfondito il dibattito teologico degli anni della Riforma protestante,
avevo letto e meditato molti libri di Kierkegaard, ma le cose di Dio non
erano cose sulle quali si potesse lavorare, e perciò diventarono presto
ricordi del liceo. In Messico, invece, la solitudine ma soprattutto degli
strani incontri mi avevano riportato verso quei pensieri, e quando un
amico mi chiese di collaborare con lui alla stesura di un testo per una
trasmissione radiofonica sul movimento pentecostale, accettai molto
volentieri.

Quando RAI Tre ci diede il via cominciai a leggere i libri che mi dava il mio
amico e a scrivere il testo del programma. Anche se questa volta c’era
anche simpatia e un certo interesse per la fede delle persone di cui stavo
leggendo, il detentore della verità e della retta interpretazione restavo
sempre io, e non mi lasciava quel senso di voler far quadrare tutto,
caratteristico dell’attività loso ca. Mi sforzavo di comprendere le cose di
Dio con la mia intelligenza (e come, se no?) e con gli strumenti scienti ci
che avevo a disposizione. I concetti della semiotica, soprattutto quelli dei
recenti sviluppi della pragmatica (la branca della semiotica che si occupa
dell’uso dei segni), mi sembravano suf cienti al mio scopo che era quello
di dare statuto di segni alle parole “in altre lingue”  1,  l’enigma semiologico
per il quale ero stato consultato. Mi compiacevo nel pensare che lo Spirito
potesse essere colui che dirigeva nella libertà ma n nei dettagli
l’applicazione delle regole (linguistiche e non linguistiche), costituendo
una misteriosa risposta al problema delle ricerche bolognesi. Ma non
potevo credere che Dio potesse guidare anche la mia vita e la mia ricerca.

29
Mercante di perle

Alla ne, come con le feste messicane e con la gra ca al computer, anche
nel testo per la trasmissione sul movimento pentecostale, oltre a un po’ di
lavoro storico sulle origini e sulle persecuzioni subite dai primi
pentecostali italiani in epoca fascista, avevo trovato il modo di usare le mie
categorie semiotiche. La formulazione de nitiva della mia idea fu che la
chiesa cattolica aveva trascurato il contenuto del culto per concentrare la
sua attenzione sulla sua espressione, mentre al contrario le chiese
riformate, concentrandosi troppo sul contenuto, avevano dimenticato i
modi per esprimerlo: nel movimento pentecostale, lo Spirito Santo poteva
aiutare le chiese a ritrovare la perduta armonia.

Idea verosimile, ma intrisa di falsità. Del resto non conoscevo la chiesa


evangelica pentecostale.

Quando per la prima volta mi trovai ad assistere a un culto evangelico, era


di sera, nella periferia meridionale di Roma (dall’altra parte di dove abitavo),
in un grande garage riattato a sala e sede di una comunità abbastanza
numerosa (erano presenti occhio e croce duecento persone). Avevo scelto
con inspiegabile sicurezza questa comunità sulla guida telefonica tra le
varie comunità pentecostali di Roma.

Non ricordo niente della predica, né delle preghiere (sapevo già che non
erano recitate a memoria, ma che esprimevano un colloquio diretto con
Dio). Non sentii nessuno parlare in lingue. Ricordo invece un episodio che
mostra abbastanza bene la mia strana situazione di allora. Quella sera c’era
la Santa Cena, il pane e il vino mangiati e bevuti in memoria di Gesù.
Quando passarono per distribuire il pane (pezzettini di focaccia) ne presi
anch’io. Da tempo volevo “comunicarmi”, ma sapevo che per farlo nella
chiesa cattolica avrei dovuto confessarmi, e in confessione avrei dovuto
dire che non avevo battezzato mio glio, e che anzi non ero nemmeno
sposato: si prospettava una tra la troppo lunga. Qui forse trovavo una
scorciatoia. Invece uno che mi stava vicino gentilmente mi chiese se ero
già battezzato, io gli risposi che sì, da piccolo. “Ah, da piccolo. Allora è
meglio che lasci stare, in seguito capirai perché”. Accettai il consiglio senza
discussioni, anzi con sollievo, e un certo rossore.

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Mercante di perle

Volevo prendere quel pane e quel vino come si può prendere una
medicina, perché mi facesse bene. Non sapevo assolutamente cosa
signi casse mangiare il corpo e bere il sangue di Cristo. Difatti, anche se
con il mio corpo ero lì e avrei voluto anche partecipare di quello che
mangiavano e bevevano le persone che mi stavano attorno, con la mia
mente e con il mio cuore ero assai lontano e non mi sentivo
minimamente parte di loro. Anzi li osservavo e li giudicavo. Tanto che uno
dei pensieri che ricordo di quella sera è stato “fossi matto che ritorno qui”.
Ero lì in veste di giornalista, e come giornalista mi ero lasciato coinvolgere
anche troppo.

Avevo trovato la verità, e avevo trovato anche chi la viveva e la predicava.


Internamente, però, non l’avevo ancora trovata, perché non la volevo
accettare come la verità. Io ero io, con le mie convinzioni e le mie
perplessità, e non avevo nessuna intenzione di rinunciare ad esserlo.

NOTE

1. Gesù, prima di essere accolto in cielo, aveva promesso ai suoi discepoli il


dono delle nuove lingue (assieme ad altri doni), dicendo: “questi sono i
segni che accompagneranno coloro che avranno creduto: nel nome mio
cacceranno demoni, parleranno in lingue nuove, ...” (Marco, 16:17). Questa
promessa è stata subito adempiuta, quando, poco tempo dopo
l’ascensione di Gesù in cielo, i credenti erano tutti insieme che pregavano
nello stesso posto, durante la festa della Pentecoste a Gerusalemme.
“Tutti furono ripieni dello Spirito Santo, e cominciarono a parlare in altre
lingue, secondo che lo Spirito dava loro di esprimersi.” (Atti, 2:4).
Successivamente questo dono è stato comunicato anche ai Gentili, a
cominciare da quelli riuniti in casa del centurione Cornelio, mentre Pietro
parlava loro di Gesù (Atti, 10:44-46). Molti altri passi del Nuovo Testamento
(per esempio Atti, 19:1-7; o I Corinzi, 12:10 e tutto il capitolo 14) dimostrano
che il dono delle lingue nuove era assai diffuso nelle chiese dei primi
tempi. Anche oggi, nelle chiese dove si ricerca la guida e la pienezza dello
Spirito Santo, questo dono è molto diffuso.

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Mercante di perle

CAPITOLO II
CONDANNATO A MORTE

Poiché il salario del peccato è la morte...


Romani, 6:23

Forse è così per tutti, ma io, da quando mi ricordo, mi sono sempre sentito
speciale. Non che cercassi di primeggiare in tutto, o in qualcosa: al
contrario, mi mettevo da parte. Dai sette anni in poi ho cominciato a non
fare la maggior parte delle cose che facevano i miei coetanei, come
giocare a pallone, tenere per una squadra, fare a botte con i compagni di
giochi, ecc., cercandomi amici più grandi, possibilmente adulti, più
disposti ad ascoltare e meno esigenti nel fare. E spesso mi domandavo
che cosa fosse che mi teneva in disparte. Pensavo troppo? O pensavo
troppo poco? Certo che sono sempre stato molto lento.

Comunque proprio all’età di sette anni qualcosa di abbastanza speciale mi


era effettivamente capitato. Un giorno, durante un dettato in classe
(facevo la seconda elementare, a Ferrara) ho cominciato a sentire un mal
di testa che diventava sempre più forte. A un certo punto sono dovuto
uscire e sono andato in bagno, dove mi hanno trovato svenuto Ricordo la
lunga corsa in ambulanza, perché mio padre deve aver deciso di non
ricoverarmi a Ferrara e mi hanno portato subito a Padova. Sono rimasto
molte settimane in ospedale. Avevo avuto una emorragia cerebrale, ma
non riuscivano a localizzarne la causa. A un certo punto mi hanno parlato
anche di andare in Svezia (dove ci sono le renne, mi dicevano), e anche di
aprirmi una porticina nella testa, ma non era chiaro né come né quando. Io
in realtà ero l’unico a non preoccuparsi davvero.

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Mercante di perle

Sentivo molto amore da parte dei medici e delle infermiere, oltre che del
papà e della mamma. Mi avevano fatto un sacco di lastre e una mattina
che mi avevano detto che me ne avrebbero fatta un’altra, mi portarono
invece in sala operatoria. Mi sono svegliato croci sso al lettino, tutto
incerottato e con una sete pazzesca, ma non potevo bere. Dovevo stare
fermissimo e soprattutto evitare qualsiasi tipo di scosse (da cui credo il
divieto di bere: l’acqua poteva andarmi di traverso o provocarmi conati di
vomito). Ho tossito lo stesso tutta la notte, ma una settimana dopo ero
fuori dall’ospedale.

Era successo che Rahir Terzian, un neurologo amico di mio padre (e poi
anche mio) aveva insistito perché si facessero più esami del solito. Alla ne
aveva scoperto dove stava il tumore e me l’avevano tolto: era un angioma,
un tumore benigno, pericoloso solo per le emorragie che aveva potuto
provocare rompendosi.

Ero rimasto praticamente illeso. Come esiti dell’intervento mi restavano


soltanto una cicatrice a ferro di cavallo dietro l’orecchio sinistro (stigma
ben visibile sotto il taglio a spazzola), una limitazione laterale del campo
visivo soprattutto a destra (che oggi mi evita di guidare l’auto) e uno
strabismo divergente abbastanza accentuato.

Per lo strabismo alcuni anni dopo ho subito un altro intervento, a Lione, un


intervento decisamente riuscito perché da allora il mio strabismo si nota
appena. È stato di ritorno da Lione che ricordo di aver fatto per la prima
volta il pensiero che se Dio non mi aveva lasciato morire sotto i ferri
neanche quella volta voleva dire che doveva esserci qualcosa di
importante per me. Ma questo pensiero non ha avuto vita facile negli anni
che sono seguiti.

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Dopo Ferrara, dove ci eravamo trasferiti per seguire il professore di cui mio
padre era assistente, ho cambiato molte altre città. Tanti traslochi che
hanno segnato la vita della nostra famiglia e probabilmente anche il mio
modo di ricordare.

Nato a Trieste, ero arrivato a Ferrara dopo aver vissuto a Sassari i miei primi
sei anni, poi, dopo un anno, ci siamo trasferiti a Pavia, dove siamo rimasti
tre anni, e poi a Padova dove siamo rimasti altri tre anni, e poi di nuovo a
Trieste, dove mio padre è entrato in cattedra e la mia famiglia nalmente
si è fermata. Non facevo a tempo a farmi degli amici che subito li dovevo
lasciare, cosa di cui ho sofferto soprattutto i primi tempi a Trieste, quando
avevo circa quattordici anni e nessun amico di infanzia, in una città in cui
la gente mi appariva molto chiusa e interessata. Le uniche compagnie
erano nella FGCI, a cui mi ero iscritto seguendo l’esempio di un mio
giovane zio.

Ero molto insicuro, non riuscivo ad aprire il mio cuore con nessuno,
neanche con gli amici più assidui, perché cominciava a pesare il pensiero
di come sarei stato giudicato. Era l’età in cui si cominciano ad avere timori
segreti, ed anche quando ho avuto amici con cui parlare, ricordo che il mio
problema costante erano “gli altri”.

"Gli altri" era una entità in qualche modo strettamente connessa all’altro
sesso, perché questa cosa di avere una ragazza era venuta a rendermi
ancora più estranei i miei coetanei. Il mio problema era che (non so se per
mia sensibilità o per cosa altro: vulpes in alta vinea, insinuava qualcuno)
percepivo l’avere la ragazza come un intollerabile obbligo sociale. Non
sopportavo l’idea che il mio comportamento potesse venire interpretato
univocamente come “sta dietro alla tale”, o ancora peggio “mi sta
invitando perché vuole mettersi con me”. Non sopportavo che dal di fuori
mi si leggesse dentro. Ricordo di essere scoppiato in lagrime, qualche
anno prima, una volta che mia nonna aveva voluto interpretare un mio
muso e l’aveva fatto erroneamente dicendo che ero triste per la partenza
di mia madre.

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Anche in quegli anni e con i miei amici ero geloso di me stesso, di una
gelosia che era più forte di me. Perché, sia ben chiaro, a quest’obbligo
sociale di avere una ragazza non ero per niente insensibile col mio senso
delle convenienze. Lo dimostra il fatto che la principale causa di
preoccupazioni per me in quel periodo era una bugia che avevo detta a
proposito di una ragazza amata alla ne della terza media, quando ancora
non conoscevo nessuno della mia nuova compagnia.

Giulia era una ragazza di tredici anni che conoscevo e che mi piaceva n
da quando eravamo molto piccoli. Quell’estate, a Lignano, avevamo
cominciato a sorriderci, guardandoci negli occhi e prendendoci per la
mano. Poi lei mi aveva fatto invitare dai suoi (nostri amici di famiglia) a Torri
del Benaco, sul Lago di Garda, dove eravamo tenuti a vista, e ricordo che
l’unico segno del nostro amore era che lei ogni sera mi veniva a salutare
dalla porta della stanza dove dormivo. Gli ultimi giorni siamo stati più
insieme, ma non ci siamo scambiati che castissimi baci. Poi ci siamo scritti
per alcuni mesi, no a che il padre non glielo ha impedito perché le mie
lettere la facevano stare male. Ebbene, avevo usato il ricordo di quei giorni
per attestare a me stesso e agli altri che anch’io avevo avuto un amore. E
anzi a domanda avevo risposto mentendo sul tipo di baci che ci eravamo
scambiati con Giulia (i lunghi baci che si vedevano al cinema costituivano
un vero mistero iniziatico, al quale avrei voluto far credere di avere già
avuto accesso). Così, da una parte soffrivo all’idea di poter essere
conosciuto a fondo dalle parole super ciali del mio mondo circostante.
Dall’altra questa specie di morte mi sembrava quasi desiderabile (perché
pensavo che la mia normalità avrebbe evitato altre parole).

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A un certo punto i miei amici mi informarono che una ragazza della nostra
compagnia aveva dichiarato di essere interessata a me, ed io timidamente
l’avvicinai. Ci vedevamo tenendoci per mano. Ma succedeva esattamente
quello che io avevo sempre pensato: ero bloccato dal pensiero che il mio
comportamento venisse giudicato per quello che effettivamente sarebbe
stato, se avessimo cercato di baciarci. E dopo qualche tempo lasciammo
perdere di vederci da soli. Un’altra volta, in campeggio a Grado, mi
costrinsero ad andare a dormire in tenda con una ragazza che mi piaceva,
e anche quella volta non osai allungare un dito.

Capivo e non capivo che in quel modo la mia coscienza mi stava


impedendo di fare inutili sciocchezze. Così, prima che iniziassi a studiare
(spesso assieme a carissime compagne di scuola), ho molto sofferto per la
mia incapacità di trovarmi una ragazza. O almeno così pensavo, e quei
pensieri di autocommiserazione non mi facilitavano certo la mia vita
sociale. Tanto più che in quegli anni usavo affogare nell’alcool il mio
disadattamento. Bevevo per dimenticare la mia miseria, ma, grazie a Dio,
bevevo anche con un certo disgusto, cosicché, quando cambiai scuola e
cominciai a impegnarmi di più nello studio, fu relativamente facile
smettere di bere.

Invece non smisi di fumare. Non smisi neanche di bestemmiare, né di


usare tutte le brutte parole che ormai consideravo come il mio nuovo
vestito da adulto. In più diventavo sempre più superstizioso. Il mio lento
ma progressivo miglioramento scolastico aveva rovesciato anche la mia
situazione in famiglia: dalla preoccupata s ducia dei miei si era passati a
un ducioso disinteresse, situazione estremamente favorevole allo studio
e che io temevo molto di perdere. Nella mia ingratitudine interpretavo
quel rovesciamento come l’inizio di un buon periodo, un periodo
generalmente fortunato. Ma conoscevo, e cercavo anche di prevedere e di
controllare le piccole oscillazioni della “fortuna”. Per esempio in lavo i
pacchetti di sigarette in una logora borsetta di cuoio con frangette stile
pelle-rossa che tenevo davanti attaccata ai passanti della cintura, e a cui
attribuivo l’ef cacia di un amuleto.

Con questi ed altri solitari riti, la mia anima era suf cientemente occupata,
e la mia mente non veniva distratta dai temi del mio studio. Ero rimasto
vergine, ma non immacolato.

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Comunque i veri guai sono cominciati proprio con la prima morosa, quella
per cui ho scelto Bologna come sede degli studi universitari.

Conoscevo Laura già da molti anni quando siamo partiti per un


campeggio all’isola di Cherso con un amico comune che aveva già la
patente. Avevo sentito un calore particolare nella nostra amicizia e nel suo
interessamento per me. Mi ero lasciato cullare da quella situazione no a
che a lei non è stato suf cientemente chiaro che c’era qualcosa di più che
un’amicizia. Lei era così bella, sincera e simpatica, che non vidi nulla di
male nel corrispondere al suo amore. Anzi mi sembrò una meraviglia. E, a
poco a poco, mi innamorai anch’io, sempre più profondamente, nendo
per scriverle quasi ogni giorno. Io meravigliavo Laura e Laura meravigliava
me. Ma purtroppo non c’era solo la meraviglia. Dopo aver passato alcune
notti nello stesso sacco a pelo, mi sembrava un mio inalienabile diritto
poter dormire assieme quando ci pareva, tanto che giudicavo assurdo il
comportamento del padre (per altro mio amico) che non permetteva a
Laura di stare con me la notte, le volte che veniva a trovarmi di sabato a
Bologna. E i problemi non venivano solo da fuori. Avrei voluto tra di noi una
assoluta trasparenza, quando né il mio cuore né il suo erano trasparenti,
neanche a se stessi. Così cominciarono i malumori e in un altro anno Laura
mi piantò. Non si era mai parlato di matrimonio, e quindi era in qualche
modo dolorosamente implicito che prima o poi tutto dovesse nire.

Col distacco da Laura (niente più andate Bologna-Parma e ritorno, niente


più lunghe lettere, niente più appuntamenti telefonici, niente più sabati
pomeriggio chiusi nella stanzetta dell’appartamento di periferia che
condividevo con altri tre studenti calabresi), cominciò un nuovo periodo
della mia vita bolognese. Avevo più tempo per le lezioni e per lo studio, ma
era anche un tempo meno intenso, perché i momenti di gioia erano
molto più rari. Tutto si ripeteva e tornava a ripetersi. L’unico modo per
sentire veramente qualcosa era mangiare, mentre leggere un libro era
l’unico modo per vedermi progredire. Piano piano dentro di me entravano
gli orari e la topogra a della città, con il pensiero dei negozi e delle cose
che ci potevo comprare: eminentemente libri e formaggi.

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Il pensiero del cibo, in particolare, non mi lasciava mai. Ma, mentre i libri li
leggevo più che altro per quello che immaginavo di farci dopo averli letti,
con il cibo preferivo l’atto di mangiarlo allo stato di averlo già mangiato.
Anzi, dopo pranzo ero per lo più rattristato. Così cercavo di mangiare cose
che non mi dessero la sensazione di aver mangiato (come mele o carote).
Oppure mangiavo cose di cui pensavo di aver bisogno (degli alimenti,
quasi più che al sapore, badavo agli ingredienti). Oppure ancora
trangugiavo cose che mi togliessero la fame (per esempio a un certo
punto bevevo l’olio). Nei miei spostamenti - spaziali e mentali - ero
completamente legato dal pensiero di cosa avrei mangiato e giravo
sempre con delle borse piene di cibarie.

Progressivamente e con qualche duro colpo (un incidente alle mani, un


attacco di convulsioni), sono scivolato in quella che i medici chiamano
“una grave depressione”. Non avevo quasi più altro interesse che i libri
(che però avevo sempre meno la forza di leggere), il cibo (che valeva
soltanto quando non mi era ancora entrato in gola), e il denaro (che non
guadagnavo e che quindi dovevo risparmiare). Ero arrivato a pesare meno
di cinquanta chili, tanto che mio padre, seriamente preoccupato per la
mia salute, mi fece vedere anche da un neuropsichiatra che mi mise in
terapia antidepressiva (dosi crescenti e poi decrescenti di psicofarmaci).

Ma senza Laura era cominciato anche il periodo delle amicizie


universitarie, prima fra tutte quella con Renato. Con Renato abbiamo
frequentato per un po’ un gruppo di amici della sorella di Laura. Abbiamo
lavorato assieme e abbiamo condiviso altre amicizie. Poi l’estate siamo
stati invitati da Eco a Urbino, dove ogni anno si tengono dei seminari estivi
organizzati dal Centro Internazionale di Semiotica di quella città. Lì,
soprattutto la seconda volta che ci siamo andati, abbiamo fatto altre
amicizie, che sono continuate anche a Bologna. A Urbino come a Bologna,
da fuori sede avevamo una completa libertà di orario e l’amicizia poteva
trasformarsi anche in temporanea convivenza. Tra queste nuove amicizie
due ragazze, che erano amicissime tra di loro, sono state molto importanti
anche per me.

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Una era Paola. Fin dall’inizio del primo anno accademico l’avevo vista e
notata a lezione da Eco assieme al suo ragazzo. Poi l’anno successivo ci
eravamo visti una sera da qualcuno e avevo subito provato simpatia per
lei, meravigliandomi, ricordo, per la sincerità della sua intelligenza. Ancora
non sapevo che era glia di Gianni Rodari, scrittore con cui avevo avuto un
incontro molto particolare, perché me l’aveva dato da leggere al tempo
dell’intervento al cervello Rahir Terzian, il mio amico neurologo. Paola era
rimasta colpita dalle mie carote e dalle mie mele e mi aveva scritto un
affettuoso bigliettino in cui in sostanza mi diceva che capiva che le mie
stranezze erano espressione di una sofferenza che la gente di solito
nasconde anche a se stessa, e che lei mi voleva bene per questo. Non mi
ricordo cosa le ho risposto, ma abbiamo cominciato a parlare a tu per tu e
siamo diventati amici. Una sera, alla luce di un lampione, le ho scritto
anche una poesia d’amore-amicizia, l’unica che abbia mai scritto in vita
mia.

L’altra amica era Licia. Licia io non l’avevo notata, era stata lei a notare me.
Mi aveva chiamato a casa sua per parlare, perché voleva conoscermi, e
conoscendola meglio mi sono accorto che era una ragazza molto
intelligente, di un’intelligenza prepotente e bambinesca. Dopo alcuni
incontri, la conoscenza si è fatta più intima e ho cominciato a fermarmi a
dormire con lei. Licia era sposata, ed io ero amico di suo marito, ma era un
matrimonio già naufragato e non vedevo niente di male nel convivere con
una donna sposata in queste condizioni (sulla legittimità della convivenza
pre-matrimoniale non avevo il minimo dubbio), tanto che dormivamo
assieme a casa loro indipendentemente dalla presenza di lui. Adesso, a
ripensarci, rabbrividisco per la mia insensibilità. Ma allora non avevo niente
e nessuno che mi potesse mostrare quanto sdrucciolevole fosse il terreno
sul quale stavo camminando. Tanto più che tra me e Licia sentivo un
affetto e un interesse più sinceri di quelli che legavano i componenti del
gruppo intorno ad Eco, e il rapporto che si stava creando tra di noi mi si
rivelava più importante di qualsiasi altro legame più o meno
istituzionalizzato. Con Licia potevo aprirmi, anzi dovevo farlo. E, come era
accaduto anche con Laura, l’aver messo a nudo il mio essere con qualcun
altro mi sembrava un passo avanti, qualcosa di salutare rispetto al modo
intellettualistico e nevrotico in cui vivevo la vita, da topo di biblioteca. E,
nonostante tutto, chiacchierare con Licia mi faceva sentire impegnato in
qualcosa di più vitale che inseguire i miei pensieri e i miei professori.

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Convivevamo con una certa reciproca libertà. Io avevo anche la mia casa, e
gli amici, che vedevo per lo più senza di lei, soprattutto Renato, con cui in
teoria abitavo (dai tempi di Laura avevo fatto due traslochi) e poi, dopo il
cinema o il lavoro, la raggiungevo a casa sua.

Prima del cinema o del lavoro (di scrittura, s’intende), invece, con Renato
avevamo preso l’abitudine di confezionarci una sigaretta di tabacco misto
ad hashish o a marijuana. C’era la noia (e la spesa) di procurarci gli
ingredienti (per lo più in Piazza Maggiore e da individui poco
raccomandabili), ma l’effetto ci sembrava che ripagasse il fastidio, perché
le immagini, la musica, le parole e i nostri stessi pensieri acquistavano un
interesse che normalmente non avevano. Questa delle “canne” (come le
chiamavamo) per me era stata una conquista della primavera del ’77. Non
mi ricordo se prima o dopo i “fatti di marzo” (credo prima), una sera in una
auletta della facoltà (occupata) di Lettere e loso a, a un certo punto
girava una pipa di tabacco e hashish. Ho dato due tirate e poi sono tornato
a casa. Ricordo ancora il percorso, al ritmo delle luci e delle colonne dei
portici con l’emozione di essermi drogato.

Presto le canne erano diventate una necessità per sentirsi veramente


felici e spesso mi trovavo a pensare, di fronte a qualcosa di bello o in
qualche circostanza più o meno interessante, a quanto sarebbe stato più
bello sotto l’effetto della cannabis.

Anche Licia stava diventando una necessità, e man mano che lei
diventava più importante per me, io lo diventavo meno per lei. All’inizio
l’avevo fatta molto soffrire mettendola su un piano diverso da (e in
qualche modo inferiore a) quello in cui mettevo lo studio e gli altri amici (e
professori). Nel giro di un anno o poco più, però, era ormai Licia che
cominciava a fare soffrire me, anche lei mettendomi su un piano diverso
da quello in cui metteva i suoi nuovi amici, diciamo pure le sue nuove
conquiste.

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Renato era sempre più introvabile, anche lui con le sue conquiste. In
compenso c’erano altri amici che mi facevano compagnia. Ma il mio dolore
non lo potevo dare a nessuno. Era un dolore fatto di incertezze e dubbi
anche molto concreti: parto? o non parto? vado lì? o non ci vado? prendo
l’autobus? o faccio quell’altro giro? dormo a casa? o telefono a Licia? e con
tutti questi dubbi naturalmente facevo quasi sempre le scelte sbagliate,
anche perché gli unici valori che mi aiutavano a scegliere erano quelli della
convenienza, soprattutto nel senso del risparmio. Così, dopo essere uscito
dalla depressione del dopo-Laura, stavo entrando in una nuova
depressione, mentre Licia voleva e non voleva lasciarmi. Una depressione
che preoccupò nuovamente i miei, perché perdevo ancora chili. A me
quello che preoccupava era il dolore che sentivo in pancia, e i pensieri che
non mi lasciavano e che stavano quasi per diventare delle voci, esterne e
insopportabili.

Alla ne Licia mi lasciò andare e io ebbi un po’ di respiro. Cominciò un


periodo di relativo benessere. Ma di questo benessere, a parte la lenta e
contorta scrittura della tesi, facevo un uso sempre più sregolato. Ormai
avevo quasi completamente messo a tacere la voce della coscienza che
anni prima mi aveva fatto fuggire come la morte l’idea di cercarmi
attivamente una ragazza. Cercare la compagnia intima e la conoscenza
carnale di una ragazza o di una donna stava diventando una cosa normale
e giusta, come cercare l’unico vero rifugio nel deserto di questo mondo.
Non che il sesso mi importasse più dell’amicizia, ma spesso diventava
l’inevitabile conclusione di un incontro. Non mi rendevo proprio conto
che, anziché uscire dal deserto, in quel modo diventavo sempre più
dominato dalla mia stessa volontà, che mi trascinava a fare le cose che
credevo più convenienti. Non avevo più paura che le mie azioni venissero
descritte univocamente e il mio comportamento interamente (e
falsamente) interpretato. Non mi vergognavo più della mia nudità. Ma non
più con l’innocenza di un bambino, piuttosto con l’indifferenza di un
morto.

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Non parlo della nudità solo in senso metaforico. Ricordo che un giorno di
quel periodo, in Sardegna al largo di una spiaggia in barca con molti amici
e conoscenti, siccome mi ero dimenticato il costume, mi sono messo
tutto nudo. Denudandomi per bagnarmi e assolarmi, mi sembrava di aver
vinto su molti tabù e molte paure (in realtà non mi sentivo affatto a mio
agio e non ricordo un giorno più piatto di quello). Con il mio
atteggiamento spregiudicato di fronte al corpo e al rapporto sessuale,
credevo di essermi liberato da molti falsi condizionamenti. Eppure ero
sempre più condizionato, sempre più schiavo delle mie necessità
corporali, o più esattamente di quelle che credevo fossero le mie
necessità corporali. La mia mente era diventata una specie di lente di
ingrandimento dei bisogni del corpo (naturalmente, ingrandendoli, anche
li deformavo, e, senza saperlo, in realtà bistrattavo il mio povero corpo). E
non c’era solo il bisogno di sesso, ma anche il bisogno di sole, di
movimento, di proteine, di vitamine, di bre vegetali, eccetera, eccetera,
eccetera.

In Messico la situazione era temporaneamente migliorata, perché, come


con i libri, il nuovo panorama alimentare e un popolo con abitudini più
af ni alle mie di quanto non fossero quelle degli studenti e dei bottegai di
Bologna, mi faceva sentire meno schiavo dei miei pensieri su ciò che
consideravo utile o necessario per me. Ma il cambiamento non è stato
affatto un cambiamento radicale.

Di fronte alla mia prima casa, su di un lungo viale alla periferia di Morelia,
c’era una piscina comunale con un bel prato e la maggior parte delle mie
mattinate, dopo una colazione a base di banane e altra frutta tropicale, le
passavo a nuotare e a prendere il sole, fregandomi mentalmente le mani
al pensiero che a Bologna era ancora inverno.

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Una volta ben sveglio andavo in centro e prima di andare alla città
universitaria spesso facevo un giro al mercato. A Morelia ce ne erano vari,
uno per ogni principale zona della città. Impiegavo anche delle ore a
scegliere e a consumare i miei pasti. Nei miei giri imparavo le posizioni e gli
orari (approssimativi) dei vari rivenditori. Mi lasciavo guidare dalle mie
voglie, come una foglia trasportata dai mulinelli di vento. Venivo trascinato
a quel modo dai miei desideri non solo al mercato, ma anche la sera, per la
cena, che consumavo per lo più per strada in banchi allestiti all’aperto da
gente povera per gente altrettanto povera ma buongustaia. Le semplici
cose che si mangiavano per pochi soldi erano proprio squisite: in Messico,
come nel nostro Meridione, la gente pensa al mangiare con molta più
intensità che nell’industrioso Nord, e la sera anche nel centro delle città
era tutto un brulicare di banchi e banchetti. Tanto ero preso dal pensiero
della bontà di queste cibarie che un giorno, al vedere un rivenditore
ambulante di patate americane (condite con melassa), mi sono gettato
sulla porta dell’autobus sul quale viaggiavo e che si stava già richiudendo,
e mi sono fatto un brutto taglio su un dito.

Poi c’erano i negozi di prodotti naturali: una tta rete di punti vendita in
cui con ogni probabilità venivano rivendute le cibarie integrali che non
avevano passato i controlli per la messa in vendita negli Stati Uniti, e che
quindi di naturale avevano forse molto poco; ma a me bastava la parola.
Ero irresistibilmente attratto da questi negozi.

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Mercante di perle

I negozi di prodotti naturali per me sono diventati soprattutto importanti


a Roma, dove la rete non era così tta come a Morelia, ed io facevo
considerevoli sforzi per raggiungerne uno che stava a Testaccio, a quasi un
quarto d’ora di macchina da Monteverde senza contare il tempo del
parcheggio. Questo sia perché questo negozio offriva garanzie di molto
maggiore serietà rispetto ai negozietti messicani, sia, soprattutto, perché
a Roma mi sentivo più avvelenato e molto più moribondo che a Morelia.
Inoltre, mentre in Messico, vedendo che c’era tanta gente migliore di me
che non aveva soldi per nutrire bene i suoi gli, mi vergognavo di fare
tanta attenzione a quello che mangiavamo, a Roma, dove non vedevo
mancare da mangiare a nessuno, pensavo che fosse diventato un mio
dovere preservare me e la mia famiglia dai mali che potevano venire da
una dieta squilibrata e da una alimentazione malsana. Così la
preoccupazione per quello che avremmo mangiato e bevuto diventava
sempre più forte e quello del cibo era tornato ad essere, come nei
peggiori periodi bolognesi, un pensiero che dominava completamente la
mia mente.

Dovevo programmare i miei pasti con l’anticipo di molte ore, perché se


non c’era qualcosa di soddisfacente da mettere sotto i denti a pranzo e a
cena, fosse anche una pagnotta di pane integrale (ma fatta con grano
proveniente da coltivazione biologica - quella che andavo a comprare
dicevano che era fatta anche con grano macinato a pietra, e con acqua di
sorgente), dovevo assolutamente andarmelo a procurare, altrimenti non
potevo nemmeno studiare. E siccome non riuscivo a comunicare a
nessuno le mie idee in fatto di alimenti (mi sembrava che facessero
apposta a non capirmi), spendevo il mio tempo e le mie energie nel fare la
spesa.

Erano quelle stesse attenzioni, in teoria volte ad acquistare salute e libertà,


che invece mi inchiodavano anima e corpo a certi luoghi e a certi orari.
Nonostante tutte le esperienze fatte la mia vita era sempre più ripetitiva,
sempre più morta.

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Mercante di perle

CAPITOLO III
NELLA RETE DEL REGNO DEI CIELI

Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio glio fuori d'Egitto (...)
Io insegnai a Efraim a camminare, sorreggendolo per le braccia; ma essi
non hanno riconosciuto che io cercavo di guarirli. Io li attiravo con corde
umane, con legami d'amore; ero per loro come chi solleva il giogo dalle
mascelle, e porgevo loro dolcemente da mangiare.
Osea, 11:1-4

Mio padre è pediatra ed io ho vissuto la mia infanzia in clinica pediatrica.


Questo soprattutto perché nella Clinica Pediatrica di Sassari, città in cui ho
passato infanzia e prima fanciullezza, c’era una suora capo-reparto che mi
faceva da baby sitter. Per i ripetuti contagi diretti e indiretti, e per
ammaestrare mio padre (causa ef ciente e causa nale), da piccolo ho
avuto un gran numero di malattie: difterite, meningite, reumatismo
articolare acuto.., per ricordare solo le più gravi tra le infettive. All’età di tre
anni circa sono anche svenuto per una emorragia cerebrale, la prima di
una serie che nessuno è stato in grado di diagnosticare con precisione
no ai sette anni, quando, come ho già raccontato, mi è stato tolto
l’angioma congenito che me le provocava.

Ma non sono guarito solo da malattie siche. Era stata una cosa seria
anche la crisi negli anni dello sviluppo, quando bevevo per dimenticare.
Soprattutto perché andavo male a scuola: ero in quarta ginnasio e non
avevo nessuna voglia di imparare, anzi non ci riuscivo. L’insuccesso pesava
su di me e mi impediva di ascoltare e di ricordare. Poi, invece, qualcuno mi
ha dato ducia e quella crisi è stata dimenticata, e, in breve tempo, sono
diventato circa il primo della classe. Una grazia che sapevo di non essermi
meritata, anche se allora non osavo attribuirla alla misericordia di Dio.

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Mercante di perle

La crisi degli ultimi anni di università, il periodo della separazione da Licia, è


stata ancora più grave. Ero stordito dal dolore, un dolore sordo a cui mi ero
anche abituato. Ma quando mi si è aperta una strada per il Messico, ho
subito riconosciuto che anche quella era una grazia dal cielo. Poteva
essere anche una trappola del demonio, come mia madre mi con dò di
temere, ma io sentivo che qualcuno mi stava tirando fuori da una
situazione disperata (anche se apparentemente la mia vita era quasi
normale) e mi sono lasciato partire.

In aeroporto a Milano ho incontrato un napoletano che stava andando in


Messico per disintossicarsi dall’eroina. Aveva con sé della marijuana e mi
offrì di fumare con lui. Consumammo lo spinello entrando a turno nel
gabinetto dove era scritto a tutte lettere che era vietato fumare, poi ce ne
tornammo ai nostri posti a soffrire. Sballo e mal di testa no a New York,
poi un’altra canna in aeroporto e poi, sempre più tesi, in volo verso Città
del Messico. Il mio sciagurato compagno di viaggio stava portando un
sacco di collane di corallo; anzi, mi propose: “Perché non tieni tu l’erba
passando la dogana? che io sono già pieno di roba di contrabbando”. Non
sono stato capace di dire di no e ho preso il cartoccio con la marijuana.
Sono passato davanti ai doganieri con gli occhi rossi e i capelli lunghi
(incoscienza pura: non molto tempo dopo ho scoperto che per molto
meno in Messico si rischiano mesi di carcere, botte ed estorsioni). Poi di
notte in taxi a cercare un albergo con questo napoletano, e la mattina
dopo un’altra canna: gran brividi, anche se l’aria era già tiepida nonostante
fossimo ancora a febbraio.

Il napoletano andava a Puerto Escondido, più a Sud sulla costa atlantica, io


invece dovevo restare sul grande altipiano centrale, e così ci salutammo.
Con lui salutai anche l’Italia e, per un po’, pure la marijuana. Ricordo il mio
arrivo a Morelia, quella sera stessa: le sagome degli eleganti edi ci di
epoca coloniale contro l’indaco terso del cielo al crepuscolo, e poi il duro
giaciglio in una stanza con i muri tutti colorati di giallo cromo e di blu in
una vecchia pensione. Avevo l’impressione e la felicità di un approdo in un
luogo amato e familiare, anziché in un paese del tutto sconosciuto.

Di fatto a Morelia e in Messico non ho mai sentito nostalgia dell’Italia. Anzi


una mattina mi sono svegliato che piangevo al pensiero di dovermene
ripartire. Così nel giro di qualche giorno è maturata la decisione di
rinunciare al biglietto di ritorno, e ricevuto il consenso paterno, la
decisione è diventata un’allegra realtà.

46
Mercante di perle

Uno dei problemi che dovevo risolvere per potermi fermare in Messico era
il numero limitato di scatolette della mia scorta di barbiturici. Ne prendevo
una pastiglia al giorno (una e mezza, quando mi ricordavo della mezza) da
oramai più di tre anni, in seguito ad un episodio a cui ho già accennato di
sfuggita. Un episodio che aveva segnato la mia vita all’epoca
dell’università.

Era successo durante un periodo di stanza a Trieste, a casa dei miei, un


pomeriggio (un buio pomeriggio invernale) che avevo preso troppi caffè e
che mi ero arrabbiato troppe volte con il mio fratello più piccolo. A un
certo punto, mentre stavo leggendo in poltrona non so quale libro di
loso a (mi pare II dramma barocco di Walter Benjamin), le righe del testo
hanno cominciato a ballare, le parole scritte non erano più parole ma segni
di inchiostro, mentre una strana luce mi entrava nel cervello. Nonostante
non vedessi più le parole, mi sembrava ugualmente di capire qualcosa,
anzi tutto. Ma quella luce non era la luce di Dio, difatti caddi per terra in
preda alle convulsioni. Non ricordo nulla di quei momenti, ma mi hanno
raccontato che mi tenevano fermo, mentre mi dimenavo e insultavo le
persone che cercavano di aiutarmi, in particolare un anziano medico che
abitava al piano di sotto. Da quella volta, dopo alcuni orribili giorni di
ospedale e molti elettroencefalogrammi, mi dovetti sottoporre ad un alto
anche se decrescente dosaggio di barbiturici. A causa di queste pastiglie
avevo sempre sonno ed ero diventato ancora più lento di ri essi.
Verosimilmente l’attacco era una conseguenza delle lesioni subite a causa
dell’angioma cerebrale che mi avevano tolto quando avevo sette anni,
cioè agli occhi dei medici non si trattava di vera e propria epilessia. Ma la
prudenza consigliava ugualmente di non interrompere il trattamento. Le
volte che non prendevo la pastiglia mi sentivo nervoso e spesso mi
mettevo sdraiato con una certa paura di risentire l’avvicinarsi di quella
luce.

47
Mercante di perle

Insomma dovevo trovare un medico che mi ricettasse questi barbiturici.


Non era facile perché i barbiturici ad alte dosi hanno un effetto
stupefacente e molti ragazzi, come avevo scoperto proprio lì a Morelia,
usavano scatolette di pastiglie come le mie per volare con la testa. Mi
diressi verso una clinica privata che stava in centro vicino all’edi cio di
epoca coloniale adibito a caffetteria dove andavo a leggere, e a scrivere
lettere nei miei pomeriggi. Ci ero già entrato alcune settimane prima, per
delle iniezioni di antitetanica, dopo quel taglio sulle porte automatiche
dell’autobus. Chiesi chi mi potesse ricettare quelle pastiglie e mi
indicarono un medico con un nome che ora non ricordo più.

Era una persona insolita, con un lieve accento nordamericano, ma di


cognome e sangue messicano, di Guanajuato. Mi ssò un appuntamento
nel suo studio per il giorno dopo. Pur consigliandomi di smettere di
prendere quelle pastiglie, mi fece la ricetta. Non volle nulla per la visita e
mi invitò ad andare a trovarlo a casa sua. Era stato così gentile che alcuni
giorni dopo andai a cercare il suo indirizzo e salii da lui. Mi accolse con
molta semplicità, offrendomi caffè e biscotti, e stemmo un po’ assieme
parlando del più e del meno. A un certo punto, in modo abbastanza
improvviso rispetto a ciò che stavamo dicendo, ma nella pace e nel calore
dell’amicizia mi rivolse queste parole del Vangelo: “cerca prima la giustizia
e il regno di Dio, il resto ti verrà dato come un’aggiunta.” 1

Quelle parole mi colpirono, ma non è che ci pensai su. Non capivo cosa
volessero dire. Eppure ogni tanto mi tornavano in mente. In qualche
modo si formava in me la convinzione che esisteva qualcosa che era
importante che io cercassi prima di ogni altra. Cosa fosse questo regno di
Dio non avevo idea. Ma adesso, che non prendo più barbiturici, posso
ringraziare il Signore anche per quelle convulsioni, perché proprio da
questa mia infermità doveva nascere l’occasione per ricevere il seme della
salvezza.

C’erano molti scogli che dovevano essere ancora tolti, per preparare la
strada a Gesù. Primo fra tutti la fornicazione. Fornicazione è una parola
strana, che sa di catechismo e che no a poco tempo fa non riuscivo a
capire cosa signi casse; la radice greca pornè = “ prostituta” mostra invece
come questa parola indichi una condizione sì antica, ma che purtroppo
non accenna a divenire inattuale. Anche se ovviamente con le mie amiche
non ci siamo mai sognati di parlare di soldi, il rapporto carnale era sempre
collegato con un esercizio, un accumulo, o una dissipazione di potere.

48
Mercante di perle

In Messico non avevo ancora incontrato una ragazza che dimostrasse


interesse per me o che suscitasse in particolare il mio interesse , ma
presto o tardi sarebbe successo, perché le donne messicane piacevano
molto ai miei occhi. Tra me e loro a dire il vero sentivo un muro invisibile
(anche perché a Morelia i rapporti tra i sessi erano regolati molto
diversamente che a Bologna: per dire solo la cosa più evidente, le ragazze
e i ragazzi formavano raramente gruppi misti). Il divieto di cercarmi
amicizie femminili (che la mia coscienza, nonostante tutto quello che era
successo gli anni prima, in Messico percepiva di nuovo chiaramente) lo
giusti cavo ogni tanto recitando tra me e me il detto: “mogli e buoi, dei
paesi tuoi”. Ma covavo la segreta speranza che quell’attesa avrebbe
fruttato prima o poi l’incontro con una sposa messicana. Invece la vita
aveva già preparato una delle sue sorprese.

Durante gli anni dell’università l’amicizia con Paola era cresciuta sempre
più. In particolare ricordo un paio di settimane passate con lei a Stintino,
un paesino sulla punta nordoccidentale della Sardegna che io consideravo
la mia vera patria perché con la mia famiglia ci siamo andati in vacanza da
quand’ero appena nato ed eravamo tra le pochissime famiglie di
villeggianti. Era settembre. Dei nostri amici mi avevano offerto di andare a
completare il lavoro della tesi nella loro casa vuota, una bella grande casa
dentro il paese e di fronte agli scogli. Io avevo esteso l’invito a Paola, che
pure doveva nire di scrivere la tesi, e così ci siamo trovati a vivere da soli
in questa casa tutta per noi, ognuno con la sue scartof e. Dormivamo
nella stessa stanza ma in letti separati, eravamo grandi amici e ci
sentivamo come fratello e sorella. Già un’altra volta, che avevamo fatto un
viaggio insieme a Parigi a trovare un nostro amico ebreo egiziano, avevo
provato una gioia intensa a stare con lei dormendo nella stessa stanza,
proprio come dei fratellini. Quello che c’era tra di noi era un bene speciale.
Avevamo anche i nostri rispettivi morosi, ma non eravamo gelosi, forse
perché sapevamo che erano solo degli amori in qualche modo provvisori.

49
Mercante di perle

Poi io sono partito per il Messico. A Morelia, quando avevo già deciso di
fermarmi, mi sono arrivate notizie di Paola, che stava molto male a causa di
un amore (in seguito ho saputo che questo era stato il primo amore che
lei avrebbe voluto durasse per sempre, ma anche da lontano sapevo che
si doveva trattare di un dolore più grande di quello per una storia nita).
Poi sono arrivate anche delle telefonate. Paola mi voleva venire a trovare.
L’arrivo era previsto per un certo giorno tra luglio e agosto. Viaggiava con
Franco, un caro amico. Io dovevo andare a Mexicali, sulla frontiera
settentrionale, per rinnovare il visto turistico. Sono andato e tornato di
corsa (si fa per dire: viaggiavo in corriera, in treno o in autostop). Ma al mio
ritorno è iniziata l’attesa. Paola non arrivava mai. Mi stavo quasi adirando,
anzi ero proprio scocciato, perché dopo quei mesi di vita semisolitaria mi
ero dimenticato cosa fossero le preoccupazioni, mentre adesso le sentivo
fastidiosamente tornare assieme a Paola. Ma quando, dopo una settimana
di attesa durante la quale non ero riuscito a sapere nulla di loro, Paola e
Franco mi sono comparsi sulla porta di casa, la gioia per trovarmi con la
mia amica nella grande luce di quella nuova patria (paragonavo il Messico
a una grande Sardegna) ha fatto immediatamente sparire tutta la mia
arrabbiatura e tutto il fastidio. Non solo, ma ho presto capito che senza
Paola la mia vita in Messico non aveva più lo stesso senso, perché quello
che io credevo l’inizio di una nuova vita in America in realtà era
innanzitutto il nostro viaggio di nozze. L’ho capito de nitivamente
quando Paola mi ha chiesto di prometterle che saremmo sempre stati
assieme. E l’ho toccato con mano quando lei è ripartita (perché aveva un
impegno di lavoro a Bologna in ottobre), chiedendomi di venire a
riprenderla quanto prima mi fosse stato possibile.

Mi sembrava di tagliarmi la mano sinistra impugnando una scure con la


destra, ma di lì a qualche settimana la mia promessa mi costrinse a
lasciare l’altopiano ancora tiepido per reimmergermi di nuovo nella gelida
Bologna. Ad ogni modo (e non ricordo più con che soldi) partii. Senza
portarmi via niente, con dei sandali di corregge intrecciate e una busta di
stoffa aperta a tracolla, ben deciso a ritornare al più presto sul mio amato
altipiano.

Poi Iddio mi provvide una Bibbia. Accadde sempre in Messico, alcune


settimane dopo essere stato a riprendere Paola e dopo che, viaggiando
lungo tutta la Bassa California (dove abbiamo passato il Natale sulla
spiaggia), eravamo già ritornati a Morelia. Con noi da Bologna era partito
anche Paolo, un amico che noi chiamavamo Paolino.

50
Mercante di perle

Paolino era un ragazzo (anzi ormai un uomo sulla trentina) alto, magro, coi
capelli ricci, il volto scavato alla Eduardo de Filippo e dei folti baffetti;
suonava il sassofono e non faceva esami. La prima volta che l’ho incontrato
è stato in una delle case in cui ho vissuto a Bologna (una casa sui tetti, la
più felice), perché conosceva il mio compagno e padrone di casa. Era
venuto a chiedere se avevamo cinquemila lire da prestargli. Gliele diedi
volentieri, pur sapendo che dif cilmente le avrei riviste. Me lo ricordo
perché la cosa mi stupì: ero molto attaccato al denaro e per risparmiare
cinquecento lire a quell’epoca facevo cose indegne. Diventammo amici;
anche se non avevamo molto da dirci ci volevamo bene. Poi avevamo
molte conoscenze in comune, così ci si vedeva spesso. Quando ritornai a
Bologna per mantenere la parola data a Paola che la sarei venuta a
riprendere, non so come non so perché, offrii a Paolino di venirsene in
Messico con noi. Aveva appena ricevuto dei soldi da una compagnia di
assicurazioni per un incidente sul lavoro (un TIR che tempo prima era
entrato nel casello autostradale dove lui riscuoteva i pedaggi), ed accettò
volentieri la mia proposta.

Una volta arrivati a Morelia, ci riposammo un po’: in quella città io e Paola ci


sentivamo quasi a casa, certamente più “a casa” lì che a casa nostra.
Paolino invece friggeva per usare il suo tempo. Così presto decidemmo di
partire per un giro, Paolino col miraggio dei Caraibi, noi col desiderio della
sierra.

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Mercante di perle

Non ricordo perché, una delle nostre soste la facemmo a Córdoba, un


paesotto polveroso (a quell’epoca dell’anno) e scassato nello stato di
Veracruz, dove ero già passato viaggiando da solo. Nella scalcinata stazione
di Córdoba, in una specie di bar incontrammo un ragazzo con cui
attaccammo discorso. Risultò che questo ragazzo (anche di lui ricordo
molto poco, era molto giovane e mi pare che si chiamasse Mauricio) era
glio di un servo di Dio, un pastore evangelico. Ci raccontò che si era
allontanato dall’insegnamento ricevuto a casa per andare in giro e
conoscere il mondo, ma da un po’ era ritornato al Vangelo. Anche il padre
di Paolino è un servo del Vangelo (e la moglie lo aiuta nel servizio). Fino a
questo punto della nostra storia questo fatto era rimasto molto sullo
sfondo. E anche dopo, per più di un anno, il fatto che Paolo fosse glio di
servi di Dio non era ai nostri occhi molto diverso che se fosse glio di ebrei
o di pescatori. Mauricio parlò soprattutto a Paolo. Dopo alcune ore non
aveva nito di dirgli quello che aveva in cuore, ma oramai dovevamo
partire. Così Mauricio montò in treno con noi. La mattina, a Villahermosa,
se non sbaglio (comunque nelle nebbie mattutine dell’Istmo di
Tehuantepec) dopo una notte di sonni scomodi e di parole che non
ricordo (ma nemmeno le ricordo come un assillo), Mauricio ci disse che
ritornava a Córdoba e ci salutò. Solo allora realizzai che era montato sul
treno e aveva percorso centinaia di chilometri solo per noi. In quel
momento intesi qualcosa di una realtà che mi era quasi del tutto
sconosciuta, ma viaggiando in Messico ero troppo abituato all’ ignoto e
all’imprevisto per poter discernere le novità spirituali.

Mauricio comunque, prima di lasciarci, aveva regalato a Paolo la sua


personale copia della Bibbia, un librone con una copertina di pelle nera,
pieno di riferimenti e di annotazioni a penna. Paolo non ri utò la Bibbia,
ma una volta lasciato Mauricio in mezzo alle nebbie, la regalò a me. 2

Quel viaggio, che era il mio quarto tuffo nell’imprevedibile continente


messicano, continuò come una lunga scivolata. Nei miei giri in Messico,
nonostante mangiassi di tutto, usando meno delle minime precauzioni di
igiene consigliate a uno straniero, non mi sono mai veramente ammalato
ma ugualmente li ho vissuti tutti come in una specie di febbre. La bellezza
di quei posti mi assorbiva al punto che non badavo più tanto al mio corpo,
alle mie abitudini e ai miei stessi programmi. Andavo allo sbaraglio. E
anche con Paola viaggiavamo allo sbaraglio. Paolo invece voleva fare tre
pasti al giorno e rispettare i suoi programmi. Così dopo un po’ ci
separammo.

52
Mercante di perle

Finimmo in mezzo alla selva, dove abbiamo dormito anche all’aperto. Poi
in Guatemala, in mezzo alla paura della gente e ai soldati con gli occhi rossi
per la marijuana e con i mitra spianati. E poi di nuovo sulla sierra
messicana, perché il caldo della costa aveva fatto gon are un ascesso in
bocca a Paola e ci dispiaceva abusare di antibiotici dato che nel frattempo
avevamo cominciato a sospettare di star viaggiando in tre.

In Messico l’aborto non è legalizzato, saremmo dovuti andare negli Stati


Uniti. Un po’ questo, un po’ le frotte di bambini che in Messico si vedono
dappertutto e che intessono profondamente la struttura sociale, un po’ (e
non ultima) la voce della nostra coscienza, decidemmo di tenere quello
che Dio ci aveva mandato. Lì in Messico avere un glio era una cosa
naturale e la gravidanza non appariva come un peso insopportabile (come
la si considerava negli anni’70 nel nostro ambiente a Bologna). A Morelia i
nostri amici, con il loro comportamento più che con le parole, ci
insegnavano come fosse inutile e ridicolo farsi tante preoccupazioni
(“avere un glio è la cosa più naturale”) e quei mesi di attesa sono trascorsi
senza ansie e senza troppi preparativi. Ci siamo preoccupati per no
troppo poco: siamo addirittura partiti per un viaggio nel deserto che Paola
era al quinto o sesto mese. Ci bastava aver risolti i problemi primari. Come
la casa, per esempio.

Prima dell’arrivo di Paola avevo trovato una ottima sistemazione con uno
studente di loso a vicino alla Città Universitaria: un bell’appartamento al
piano terra con una grande vetrata su un piccolo ma rigoglioso giardino
interno. Avevo una stanza tutta per me e pagavo ventimila lire di af tto.
Ma dopo il mio ritorno con Paola e Paolino, e soprattutto con la novità del
nascituro, il mio compagno di casa ha cominciato a dare chiari segni di
insofferenza, e noi abbiamo dovuto cercare un’altra sistemazione.

Le cose si sono risolte senza drammi. Prima di trovare quell’appartamento


avevo abitato in una casa af ttata camera per camera a studenti (quella
davanti alla piscina comunale), dividendo la mia stanza con Luis, un
impiegato governativo che veniva da Città del Messico con cui avevo fatto
una strana amicizia, mista di dif denza (mia) e di intenso affetto. Questo
Luis nel frattempo aveva ereditato in qualche modo una vecchia casetta
nel centro storico, che aveva rimesso un po’ a posto. Un giorno,
incontrandolo per strada, gli avevo parlato del mio problema e lui, senza
esitazioni, mi aveva offerto una stanza della sua nuova casa.

53
Mercante di perle

Era una bella stanza isolata sulla terrazza. Sotto, al piano terra, in due
stanze, gabinetto, patio e cucina vivevano Luis e sua moglie. L’abbiamo
rimessa un po’ a posto (anche se dal sof tto hanno continuato a
minacciarci dei mattoni scoperti), ci abbiamo messo un materasso, un
tavolo da disegno, una sedia a dondolo, delle cassette della frutta
riverniciate in color turchese come armadi e libreria, ed avevamo una casa
bellissima, piena di luce, di aria e di verde, senza neanche pagare l’af tto.

Mi mancava un lavoro retribuito. Poi ricevetti anche quello, nella facoltà di


lingue dell’Università, come insegnante di italiano.

Ma non dovevo restare in Messico per molto tempo ancora. Dopo la


nascita di Emiliano, la vita, soprattutto per Paola, era molto cambiata. Lei
doveva lavorare molto a lavare e a pulire ma anche quando era tutto
pronto non potevamo più girare come ci pareva, neanche in città, così lei
restava spesso sola. Eravamo comunque determinati a restare a Morelia.
Ma, al ritorno dal breve e travagliato viaggio natalizio in Italia per fare
conoscere il bambino a casa, le cose cominciarono a farsi sempre più
dif cili. Cominciammo ad avvertire screzi e discordie nei gruppi di amici
che frequentavamo. Anche nella gente, per strada, cominciavamo ad
avvertire una preoccupazione crescente. Il prezzo del dollaro continuava,
lentamente, a salire. Poi cominciò a salire molto di corsa. Paola si sentiva
sempre più stanca, poi si ammalò e le medicine la facevano sentire ancora
peggio. Decidemmo di fare delle analisi e dai risultati mio padre al telefono
mi disse che si trattava senz’altro di epatite. Inoltre scoprimmo che il
biglietto aereo, che credevamo aperto per un anno, scadeva nel giro di
pochi giorni. Insomma, con la morte nel cuore, dovetti rassegnarmi a
ritornare in Italia.

Adesso so che in quello strano modo il Signore stava iniziando a tirarmi


fuori da una situazione molto pericolosa, ma allora non riuscivo a capire né
quanto pericolosa fosse la mia condizione, né perché dal Messico dovevo
essere capitato proprio a Roma, la città più stressante d’Italia, e in casa con
la madre di Paola, con cui nemmeno lei andava d’accordo. Come si dice,
non me ne facevo una ragione. Ora avevamo tutti gli agi e le comodità, ma
mi sembrava di avere perso le cose più preziose che avevo mai avuto.
L’unica cosa buona, ai miei occhi, era che Paola era guarita in fretta
dall’epatite, e che né mio glio né io ci eravamo ammalati.

54
Mercante di perle

A Roma rincontrammo presto Paolino. Dopo che ci eravamo separati nei


pressi di un tempio maya, lui era andato a raggiungere il suo Caribe e poi
si era inoltrato anche lui in Guatemala, ma in un’altra zona. Lì aveva
incontrato una ragazza brasiliana di cui, al suo ritorno a Morelia, ci diceva di
essere follemente innamorato. Poi era ripartito per l’Italia, ed era tornato a
Sestri Levante dove abitava con i suoi. Da lì aveva mandato i soldi per il
biglietto a questa ragazza, che l’aveva raggiunto e, niti i soldi
dell’assicurazione, rapidamente abbandonato. Così era sceso a cercare
lavoro, proprio a Roma, e ci vedevamo spesso, sentendoci in qualche
modo ancora compagni di viaggio. Non riusciva a trovare un lavoro sso,
ma ne procurò uno abbastanza buono a Paola, in quella ditta di
animazione al computer, e anche a me offrì del lavoro. Fu lui che mi
propose l’idea della trasmissione RAI sul movimento pentecostale.

Accettai anche perché l’argomento rientrava in qualche modo nelle mie


competenze. Un’estate a Urbino avevo seguito un seminario sulla
glossolalia (come in certi ambienti viene chiamato dal greco il parlare in
altre lingue), in cui il fenomeno era stato esaminato da un punto di vista
semiotico. Ma accettai volentieri non solo per questo. In realtà quel
seminario era stato molto confuso e i lmati presentati addirittura
inquietanti; da parte mia avevo qualche idea più o meno originale su cosa
dire, ma non era questa la ragione vera del mio interesse. La verità, che
forse non confessavo neanche a me stesso, è che quella Bibbia che mi era
stata data in Messico non era rimasta chiusa, e che quando la avevo aperta
per leggerla, avevo trovato parole che si riferivano chiaramente alla mia
situazione. Non erano sfumature o coincidenze casuali: certi passi, che
erano poi i passi su cui sempre mi cadevano gli occhi, parlavano
inequivocabilmente a me. Con insistenza e crescente precisione. Così ero
personalmente interessato a sapere di più della Bibbia e del suo autore.

55
Mercante di perle

Lessi gli Atti degli Apostoli e alcune Lettere di Paolo, e quelle scritture mi
colpirono per la loro freschezza e attualità. Ma soprattutto mi furono utili
certi libri scritti da autori evangelici che Paolino aveva preso per me da
casa di suo padre. Mi servirono non tanto a quello che avevo in mente di
scrivere, quanto piuttosto ad appassionarmi all’argomento. Soprattutto a
capire che nella Bibbia c’era effettivamente qualcosa di molto nuovo, di
cui non avevo mai sentito parlare, anche se alle mie orecchie parole come
Spirito Santo, Pentecoste o conversione non erano certo nuove. Eppure
queste cose che sentivo, che pure erano scritte nel Nuovo e nel Vecchio
Testamento, per me erano proprio nuove, di una novità che non sapevo
esprimere. E che difatti non risultò dal testo che alla ne scrissi.

Per scrivere quel testo, oltre a leggere dei libri, ebbi anche l’occasione di
conoscere delle persone. Innanzitutto i genitori di Paolo, con i quali mi
incontrai a Sestri Levante, prima nel locale di culto della loro piccola
comunità: una stanzetta al piano terra (uso negozio) con qualche
strumento musicale e poche sedie nella quale, dopo alcuni brevi scambi
di parole, facemmo anche una preghiera. La preghiera la innalzò solo il
padre di Paolo, ma io non rimasi indifferente. Mi colpì soprattutto il fatto
che quell’uomo parlasse direttamente a Dio senza cerimonie e
salamelecchi, esprimendo quelle che effettivamente erano necessità
(necessità anche mie) cui solo Dio poteva provvedere. Uscendo dalla sala
la madre di Paolo mi disse una cosa che pure mi colpì; mi disse: Gesù la
ama. Mi colpì perché mi accorsi che non lo diceva come uno slogan, ma
con convinzione, cioè con vero amore. Poi, alcuni giorni dopo, ci vennero a
trovare loro, sempre a Sestri Levante dove eravamo ospitati a casa di Paolo
(una casa di suo nonno che in estate veniva af ttata a turisti milanesi).
C’erano anche Paola, Emiliano ed Ermannina, la nostra secondogenita. In
quella occasione parlammo più a fondo. Quello che mi dissero in sostanza
fu che ero molto confuso. E lo ero davvero.

56
Mercante di perle

Poi, dopo aver scritto il mio testo pensai che era doveroso almeno visitare
qualche chiesa, non fosse altro per fare delle registrazioni. In realtà nel mio
intimo quella o quelle visite erano il vero scopo di tutto il lavoro, anche di
scrittura. Avevo scritto dei credenti con simpatia e con desiderio di
conoscerne qualcuno, tanto che al responsabile di struttura RAI era
venuto il sospetto che fossi anch’io un pentecostale. Scelsi con
trepidazione il numero telefonico di una delle comunità pentecostali di
Roma. Mi informai degli orari e una domenica andai a vedere. Dopo il culto,
quello che ho in parte già descritto alla ne del primo capitolo, andai a
parlare con il responsabile della comunità il quale mi disse che avrei
potuto parlare più a lungo con lui o forse meglio ancora ricevere a casa
mia uno dei consiglieri della chiesa (usò questa parola, consigliere, mai più
risentita) che in quel momento non era presente, con cui avrei potuto
accordarmi per telefono.

Mi vidi arrivare un ragazzo della mia età o poco più, molto semplice e
tranquillo. Parlammo pacatamente. Alla ne del colloquio mi raccontò la
sua testimonianza, cioè come aveva conosciuto Gesù. Mi raccontò come
non volesse ascoltare la voce che sentiva nella sua coscienza e quali
incidenti gli fossero occorsi prima di riconoscere quella voce come la voce
del suo Salvatore. Naturalmente pensai a me, e la mia simpatia per questi
cristiani crebbe ancora.

Ma, come avevo detto a me stesso, non tornai in quella chiesa. Non tanto
presto, almeno.

La mia situazione familiare e personale era sempre più dif cile. Tanto
dif cile che non ce la facevo proprio più. D’altra parte con la nascita di
Ermanna, Paola aveva perso il suo posto di lavoro e io non avevo trovato
niente di sso. Non c’era niente che ci tenesse legati a Roma, se non la
casa e un dif cile rapporto con la madre di Paola. Bastò una parvenza di
incarico, la mia nomina a segretario di un’associazione (l’Associazione
Interculturale per la Scienza e l’Arte) e decidemmo di trasferirci almeno
temporaneamente a Trieste, sede di quest’associazione, dove un mio ex
compagno di classe mi prestò un appartamento in centro, e dove
comunque eravamo aiutati e sostenuti dai miei. Il lavoro crebbe
rapidamente e nel giro di pochi mesi avevamo molto da fare, sia io che
Paola.

57
Mercante di perle

Considero una grazia speciale di Dio anche questa uscita da Roma e


questo trasferimento a Trieste, non solo per le ragioni a cui ho già
accennato, né solo per quelle che racconterò nel prossimo capitolo (nel
quale parlerò delle insidie spirituali in cui sono caduto soprattutto nel
periodo che stavamo a Roma), ma specialmente perché è a Trieste che ho
trovato la comunità nella quale dovevo rinascere cristiano.

È successo in conseguenza della trasmissione alla Rai di Roma, perché, se


non fosse stato per quella trasmissione, mio zio forse non avrebbe mai
notato, fuori da un anonimo portone, la targa con la scritta “Chiesa
Cristiana Evangelica” con la sottoscritta “comunità pentecostale”, e
certamente non si sarebbe sognato di segnalarla a me. Io d’altra parte, se
non avessi avuto il pretesto di continuare una ricerca iniziata, non mi sarei
mai deciso a telefonare e soprattutto non avrei iniziato a frequentare la
comunità. Eppure, a modo mio, avevo pregato per trovare qualcuno che
credesse nelle parole di Dio. Ma mi sarei troppo vergognato ad ammettere
pubblicamente questo bisogno. C’erano tante voci dentro di me e non
potevo esprimere una decisione e una fede che non c’era.

Invece cominciando a frequentare con la scusa dell’interesse


professionale, cominciai ad ascoltare. E, come è scritto, dall’ascoltare viene
la fede 3. Perché, come è anche scritto, il Vangelo è predicato da fede a
fede 4. Vedevo che era la fede a parlare e a operare in quelle persone che
pregavano e che predicavano: parlavano perché avevano creduto. E
avevano creduto in ciò in cui anch’io stavo cominciando a credere, cioè
che la Bibbia è la parola dell’Iddio vivente, Dio che parla direttamente a chi
la legge con il cuore.

58
Mercante di perle

Poco a poco mi affacciavo alla realtà della Chiesa, che non è


un’organizzazione umana ma un edi cio spirituale fatto di pietre viventi (i
credenti in Cristo)5 e tenuto assieme da un amore soprannaturale. Mi
accorgevo con grande sollievo che la Chiesa Cristiana Evangelica di Trieste
non dipendeva da nessuna sovrastruttura centralizzata, ma anche che
questo non signi cava che fosse isolata, anzi: per esempio a Trieste
conoscevano bene i fratelli (certo non tutti) della Chiesa Evangelica
Pentecostale di Roma dove ero stato io, ed erano in rapporti di
comunione fraterna con molte comunità nei dintorni e in tutt’Italia.
Inoltre venivano spesso fratelli di altre nazioni e razze, soprattutto
dall’Africa (per lo più ricercatori ospiti per periodi più o meno brevi al
Centro Internazionale di Fisica Teorica di Miramare), così potevo anche
rendermi conto delle dimensioni mondiali di questa Chiesa, di cui dalla
stampa e dalla televisione non si sentiva parlare (come anche oggi, se non
raramente e per lo più a causa di scandali: perché la Chiesa è il corpo di
Cristo, costituito da tutte le persone che gli hanno effettivamente af dato
la loro vita, e normalmente non si fa pubblicità).

Queste cose sulla realtà mondiale della Chiesa non erano certamente il
contenuto della predicazione che iniziava a trasformarmi, erano soltanto
ciò che la mia mente vecchia registrava della chiesa. Ma avevo bisogno
anche di queste cose, e Dio me le aveva preparate. Come aveva preparato
tutte le vie d’uscita di cui ho parlato in questo capitolo e molte altre di cui
sarebbe stato troppo lungo parlare.

Eppure la maggior parte dei miei problemi restava ancora da risolvere.

59
Mercante di perle

NOTE

1. Quel medico non si preoccupò di citare testualmente le parole di Gesù e


non mi stette a indicare la referenza. ma chi desiderasse leggere questa
frase nel suo contesto la può trovare in Matteo, 6:33.

2. Come ho scoperto poi, ancora una volta si realizzava quello che dice la
Parola di Dio, e che è rivelato nella lettera ai Romani (11:11), cioè che è per la
caduta di Israele (in questo caso di Paolino, che, essendo glio di credenti,
secondo Atti 16:31, “Credi nel Signore Gesù Cristo, e sarai salvato tu e tutta
la casa tua”, sarà salvato per promessa, come Israele) la salvezza è giunta ai
Gentili (me), salvati per pura misericordia.

3. Romani, 10:17.

4. Romani, 1:17.

5. I Pietro, 2:5.

60
Mercante di perle

CAPITOLO IV
FUNGHI, DEMONI E LA PAROLA DI DIO

La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero
Salmi, 119:105

Allora non l’avrei mai ammesso, ma uno dei principali problemi con cui mi
ero abituato a convivere era l’invisibile laccio della droga. Forse perché era
entrata nella mia vita relativamente tardi, e per me era una specie di
conquista.

Le droghe che usavo io, tutte droghe cosiddette leggere, mi sembravano


un aiuto da parte della natura alla mia attività di losofo, come il sole caldo
e i cibi mediterranei, o la frutta tropicale. Ma poco a poco, quasi a mia
insaputa, la droga è salita praticamente al vertice della scala dei miei
oggetti di valore, e da lì ha cominciato a guidare molti dei miei passi.
Questo era già avvenuto negli ultimi anni di università. Ma anche in
Messico, dove pur, di base, ero più felice, la marijuana era presto diventata
un ingrediente fondamentale della mia vita quotidiana. Luis, il mio
compagno di stanza, impiegato del Palazzo del Governo, arrivava la
domenica sera da Città del Messico e aveva sempre la sua abbondante
scorta di erba. Vedendomi italiano, strambo e con i capelli lunghi, dopo un
paio di giorni mi invitò ad accompagnarlo nel suo giretto serale, e capii
immediatamente di cosa si trattava.

61
Mercante di perle

Abitavamo in periferia e la sera, dopo le nove, le strade erano praticamente


deserte. Raggiungevamo qualche vicoletto laterale e Luis si accendeva la
sua sigaretta di marijuana pura, poi me la passava per un tiro. Una tirata
era suf ciente per trovarsi in piena avventura: il mio corpo entrava in una
specie di danza paranoica che faticavo a trasformare in un’andatura che
non desse nell’occhio, la mia mente veniva attraversata dai pensieri più
spaventosi, un po’ anche perché Luis nei suoi racconti mi rivelava con
nonchalance un mondo e una personalità (una storia) d’una violenza
abbastanza terribile. Non erano racconti di un mondo lontano nello spazio
e nel tempo, erano la gente che avevo attorno e alla quale mi stavo
legando d’affetto.

Dopo alcune settimane di convivenza mi invitò a casa sua in un rione


popolare di Città del Messico, dove viveva con sua moglie. In realtà fui
ospitato a casa di sua madre e dormii in camera con suo fratello più
giovane. Conobbi i suoi amici, un gruppo di ragazzi che formavano una
specie di banda. Il fulcro del lungo week-end era una festa di compleanno
a casa di uno di questi amici, chiamato el Charro, un ragazzo alto dai tratti
negroidi ma biondo. Io avevo bevuto troppo già ad ora di pranzo e la festa,
a cui partecipavano anche genitori e parenti, nì a pugni che ero già bello
che addormentato. L’amico di Luis che mi stava più simpatico era proprio
el Charro. Con lui passai l’intera giornata del lunedì. Avrà avuto circa la mia
età ed era già gravemente alcolizzato, per non parlare della marijuana e
delle altre droghe, ma questo non mi impediva di guardarlo ed ascoltarlo
come una guida e un maestro. Mi accompagnò in un lunghissimo giro per
Città del Messico e nella nostra pacata conversazione mi rivelò la sua
loso a della vita. Mi disse che il mondo si divide in due: gli sporchi e i
morti. Mi disse anche: io con do nella sorte, in cosa altro potrei con dare?

62
Mercante di perle

Con dare nel destino per lui era l’unico modo di vivere, cioè di impegnarsi
nella realtà, anche sporcandosi, inevitabilmente; ma mi sembrarono parole
rivolte anche a me. Con dare nel destino mi sembrava una buona regola
per ottenere il coraggio necessario per muovermi in quel mondo grande e
magico nel quale mi stavo avventurando.

Prima di quella festa a Città del Messico con gli amici di Luis, avevo fatto il
mio primo viaggio da solo.

Ero stato alcuni giorni a Puebla, dove avevo visitato incredibili chiese
indio-barocche, e dove vivevo nei pressi del mercato centrale, in una
pensione che sembrava una prigione, con un vicino di cella che
collezionava gabbie di canarini. Una sera in piazza sono venuto a sapere di
massacri di contadini che stavano avvenendo in quei giorni nel completo
silenzio della stampa anche locale, notizia che cominciò a darmi le
dimensioni di una realtà molto più spaziosa e tremenda di quella che
crediamo di dominare dalla nestra (sarebbe meglio dire dal nto buco
della serratura) dei mass media, e fece anche aumentare la mia paura. Poi
una mattina prestissimo ho preso un treno per Oaxaca. Viaggiavo in terza
classe, vicino a me sedeva un vecchietto con un fazzoletto al collo che
andava a vendere per pochi pesos il gallo che teneva in braccio. Sui vagoni
senza porte salivano venditori di frutta, carni cotte, riso, che poi
scendevano alla fermata successiva. Più si andava a sud più aumentava la
gente e la povertà. Ma aumentava anche la sensazione che in qualsiasi
momento potesse succedere di tutto.

63
Mercante di perle

Stetti a Oaxaca una settimana circa. Passavo il mio tempo in visite,


passeggiate, scrivendo lettere e leggendo. Leggevo, tra l’altro, un
volumetto tratto da Los indios de México, l’opera monumentale di un
giornalista antropologo che ha raccontato i suoi viaggi e i suoi incontri tra
le popolazioni indigene del suo paese. In questo libro lessi di una vecchia
signora, una certa Maria Sabina, che aveva guidato anche stranieri in
esperienze con i funghi allucinogeni. Dei funghi avevo solo sentito parlare
e più che tanto non mi interessavano, ma mi colpirono il racconto
dell’incontro con questa donna e le sue parole. Poi ho incontrato un
gruppo di ragazzi con i quali ho fatto un breve pezzo di strada di ritorno da
una visita alle rovine zapoteche di Monte Albán. Uno di questi mi disse di
essere un nipote di Maria Sabina e che, per quello che ne sapeva lui, la
prozia era ancora viva. A me allora non importava tanto l’opportunità di
mangiare funghi allucinogeni (avrei già avuto occasione di consumare
roba del genere a Bologna, ma me ne ero astenuto dato che prendevo
barbiturici per l’attacco epilettico avuto anni prima), quanto parlare con
questa donna, che mi sembrava potesse essere una porta per conoscere il
Messico, e anche l’Aldilà.

Visto che, con una deviazione che sulla cartina appariva modesta, il paese
dove viveva Maria Sabina poteva rientrare nel mio itinerario di ritorno,
decisi di tentare. Dopo un interminabile viaggio notturno in piedi sul retro
di un furgoncino aperto, assieme ad una mezza dozzina di indios
assonnati, arrivai in un paesino di montagna immerso nella nebbia
mattutina, dove non riuscivo a trovare un letto per buttarmici a dormire.
Af dato il mio bagaglio alla clemenza di qualche negoziante, mi sono
rannicchiato su una panchina di cemento della piazza.

64
Mercante di perle

Mi sono svegliato con il sole in un posto splendido. Ma la sensazione di


incertezza non mi abbandonava. Gli indigeni, piccoli e vestiti con bellissimi
ricami, sembravano tutti un po’ suonati. Le loro case avevano un aspetto
decisamente orientale, come i loro volti. Non era facile comunicare, la
maggioranza conosceva lo spagnolo poco meglio di me che lo stavo
appena imparando, parecchi parlavano solo mazateco. Anche Maria Sabina
non parlava spagnolo. Avevo raggiunto la sua casa a mezz’ora di cammino
fuori del paese chiedendo informazioni quasi a tutti quelli che incontravo,
come per rassicurarmi. Era un gruppetto di case al limite del bosco, dove
viveva la sua estesa famiglia. Faceva da interprete una delle tante nipoti.
C’erano anche alcuni nipoti maschi, armati di machete. Il suo sguardo era
di una profonda tristezza, mi sembrò infastidita, quasi irritata con me. Io
che avevo sperato in un colloquio cordiale, mi sentii subito parlare di
funghi e di soldi: era molto che non pioveva e aveva solo funghi secchi, me
ne offriva un paio per 500 pesos, che allora valevano circa ventimila lire. Mi
sembrò moltissimo, ma dagli sguardi dei nipoti capii che non dovevo fare
storie. Ero diventato un prigioniero. Mi dissero che dovevo aspettare la
sera per mangiare i funghi, e nel frattempo sarei rimasto con la nipote che
mi aveva fatto da interprete e con la sua famiglia. Andammo a fare legna
mentre a me cresceva un forte mal di testa, tanto che mi misi a riposare,
chiuso dentro una capanna. Mi addormentai febbricitante. Dopo qualche
tempo mi portarono misere tortillas con frijoles, chiedendomi
immediatamente degli altri soldi. Poi mi portarono ancora tortillas e fagioli,
chiedendomi di nuovo soldi, anche per le precedenti, che io ero convinto
di avere già pagato. Allora la mia rabbia e la mia paura sono scoppiate
assieme, ho gridato che non potevo darmi di loro se continuavano a
chiedermi soldi e mi sono messo a correre. Non so come ho fatto a non
farmi raggiungere, ma sono riuscito ad arrivare in paese sano e salvo.

65
Mercante di perle

Era già l’imbrunire. Entrai in un ristorante vegetariano a prendere


qualcosa. Non c’era quasi nessuno perché non era l’epoca delle piogge e
gli avventori di quel posto dovevano essere tutti mangiatori di funghi.
C’era solo un ragazzo tutto vestito di nero, dall’aspetto molto cittadino. Gli
raccontai della mia fuga e gli mostrai i funghi che avevo pagato così cari.
Mi disse che potevo anche buttarli, ma che c’era un altro posto lì vicino
dove potevo dormire, mangiare tortillas con fagioli e comprare funghi
sotto miele spendendo molto meno. Intanto avevo bisogno di dormire,
così mi sono fatto accompagnare da quest’altra signora. Questa era una
donna giovane, con famiglia, gentile e sorridente. Mi diede una coperta e
mi accompagnò al piano di sotto, dove c’erano due altri ragazzi di Città del
Messico, che stavano fumando marijuana. La mattina dopo la signora mi
offrì i funghi nel miele. Nonostante la terribile notte passata tra grida, colpi
e rumori di passi, e nonostante tutto quello che mi era successo il giorno
prima, la serenità e i sorrisi di quella giovane signora mi convinsero ad
accettare e, un poco alla volta, mi sono mangiato la mia dose di funghi,
una poltiglia terrosa dal sapore fortemente metallico. Poi sono uscito per
una passeggiata. Mentre camminavo aspettando che mi salisse l’effetto
decisi di tornare dalle parti di Maria Sabina, a cercare un quaderno di
appunti che avevo dimenticato su un prato in cima a un monte mentre si
faceva legna. Mi sono messo risolutamente in marcia, convinto che l’avrei
trovato e incurante del pericolo di rincontrare i miei inseguitori del giorno
prima. La cosa strana è che persi la strada, ma a un certo punto, parlando
con degli ingegneri che stavano facendo delle misure con un sestante,
l’ho visto su un prato, lontanissimo e sfogliato dal vento.

Dopo questa e altre piccole avventure sulla Sierra Mazateca, cominciai a


ri ettere con maggiore intensità sul tema del destino e sulla sua strana
logica. Rendendomi conto della natura spirituale della realtà con cui stavo
entrando in contatto, ma quasi completamente incosciente del pericolo
insito in questo contatto. Anzi imparare a conoscere la realtà spirituale mi
sembrava l’unica via per imparare a vivere. I miei viaggi, anche quelli
intraurbani, erano i miei esperimenti, di cui gli incontri che facevo erano il
risultato, e la droga il principale catalizzatore.

66
Mercante di perle

Con la stagione delle piogge i funghi erano entrati addirittura nella mia
vita quotidiana. Paola era appena arrivata quando assieme a lei sono
andato per la prima volta con un gruppo di amici pittori in un posto vicino
a Morelia dove i funghi si potevano raccogliere e mangiare freschi. Anche
questo era un posto molto bello e in seguito ci sono tornato numerose
altre volte.

Poi con Paola e Franco siamo partiti per un giro. Li ho portati a Puebla da
dove Franco è proseguito con degli altri amici di Bologna con cui avevamo
appuntamento. Io e Paola, invece, ci siamo diretti verso la Sierra Mazateca.
Quei posti erano ancora più belli di come li ricordavo, la piazza del paese
dove questa volta avevamo trovato una specie di albergo certe volte
restava poche decine di metri sopra una distesa di nuvole che si
insinuavano tra i monti. Sui prati crescevano le orchidee selvatiche, e su
quei prati leggevo Vendredi ou les limbes du Paci que di Michel Tournier
trovando sotto i miei occhi una natura ancora più forte di quella con cui
lotta e amoreggia il Robinson di quel romanzo. Naturalmente
mangiammo anche dei funghi.

Notavo come le esperienze sotto l’effetto della droga non mi portassero


fuori dalla realtà che avevo imparato a conoscere sui migliori libri di
loso a. Anzi, tutt’al contrario mi sembrava di vivere nalmente quella
che a Bologna o a Trieste per me era stata soltanto letteratura. Non
consideravo le mie esperienze come delle allucinazioni, ma come delle
esplorazioni in una dimensione più profonda e invisibile per il nostro
occhio adulto e troppo abitudinario.

Tra un “viaggio” e l’altro Paola mi chiese di stare sempre assieme e io le


assicurai che sarei stato il suo compagno. Ma, come ho già raccontato,
Paola doveva ripartire quasi subito perché si era impegnata per un lavoro
sui fumetti a Palazzo Re Enzo, in piazza Maggiore a Bologna. Restammo
d’accordo che l’avrei raggiunta per riportarla in Messico. Così mi aveva
chiesto, perché mi confessava che non avrebbe avuto la forza di ripartire
da sola, e io sapevo che era così.

67
Mercante di perle

Avevo promesso, ma avevo anche molta paura. Sentivo che legarmi a


Paola signi cava rinunciare alla completa libertà nella mia ricerca, lo
sentivo e l’avevo anche visto in visione. Ma d’altra parte ero già legato. È
stata una lotta pesante. Facevo tutte le cose necessarie per partire, ma
non ero io che le facevo (tanto è vero che non mi ricordo come ho trovato i
soldi per il biglietto dell’aereo). Io quasi cercavo di dimenticarmi
dell’impegno che avevo preso di ritornare a Bologna, vivendo sempre più
intensamente la vita sociale e collettiva di Morelia. I funghi, la marijuana, il
tequila, le feste. In una di queste feste ho cominciato a chiacchierare con
Rocío (“rugiada”), una ragazza di sangue abbondantemente indio che mi
parlava della sua vita e dalla quale sentivo emanare un fascino strano.
Sapevo che era una cosa pericolosa, ma sentivo più forte l’attrazione per le
promesse non fatte da questa ragazza, che per l’impegno reciproco preso
con Paola. Non ero innamorato di Rocío, ma affascinato dal suo mondo e
dal suo enigmatico modo di fare, mentre il mondo e il modo di fare di
Paola mi erano molto noti.

Probabilmente, se non fosse stato per Jesús, non sarei ripartito. Jesús
Cervantes è un nostro amico pittore che aveva deciso di accompagnarmi
in Italia con la sua ragazza, e che a Città del Messico, il giorno prima della
partenza, quando stavo lottando e quasi soccombendo alla tentazione di
perdere una seconda volta il mio biglietto di rientro, mi disse che mi
vedeva troppo debole per fare quel salto (si riferiva all’Atlantico) e mi offriva
di occuparsi lui del rientro di Paola. Vidi che stavo per mancare alla parola
data e mi animai a partire, per fare il mio dovere.

Bologna la trovai più fredda che mai, e intorno a Paola il gelo. Nessuno dei
nostri amici ci ospitò a casa sua e nimmo in albergo. Così sentivo
crescere l’importanza del mio sacri cio e il mio atteggiamento con lei
cominciava ad essere di degnazione . Anche con sua madre mi sono
comportato molto male, dormendo con la glia nel salotto di casa sua a
Roma come se fosse la cosa più ovvia. Ma non avevamo rinunciato al
nostro viaggio, e, dopo qualche settimana di preparativi, assieme a Paolino
abbiamo preso l’aereo per Los Angeles.

68
Mercante di perle

Il ritorno a Morelia è stato abbastanza burrascoso. Io volevo rivedere Rocío.


Soltanto per parlarle, ma la volevo rivedere. Paola non voleva. Io
interpretavo il comportamento di Paola come gelosia paranoica e,
paranoicamente, sentivo il nostro legame sempre più pesante. In realtà
Paola non è che non si dasse di me: non si dava di Rocío, e combatteva
con coraggio e con tutte le sue forze per difendermi da colei che
considerava un pericolo mortale. Ma io non lo sapevo, o non lo volevo
capire, e mi sentivo una vittima, anzi sentivo di avere fatta una vittima: la
mia libertà. Credevo di avere sacri cato a Paola la possibilità di continuare
la mia vita di ricerca.

Non ho più parlato con Rocío, ma ero rimasto con un fondo di


scontentezza, una scontentezza che mi ha accompagnato lungo il viaggio
nelle foreste del Sud che abbiamo iniziato con Paolino e che abbiamo
continuato da soli. Non ero contento nonostante i posti meravigliosi e le
avventure emozionanti che abbiamo passato, e nonostante il bene che ci
volevamo. Da quando abbiamo saputo di aspettare un glio, poi, le lotte
interiori sono anche aumentate, i litigi si sono fatti più drammatici. Poi in
qualche modo abbiamo accettato la cosa, e la pancia ha cominciato a
crescere.

69
Mercante di perle

Da quel viaggio con Paolino, come ho già raccontato, avevo portato a casa
anche una Bibbia. Non sentivo di iniziare a leggerla dall’inizio o di iniziare
qualche libro in particolare, piuttosto certe volte la aprivo e leggevo quello
che mi capitava. Spesso mi capitavano sotto gli occhi passi già letti e
molte volte li rileggevo. Ricordo in particolare un passo del libro dei
Proverbi che mi consolava nella mia “scelta” familiare. Dice: “Figliuolo mio,
sta attento alla mia sapienza, inclina l’orecchio alla mia intelligenza,
af nché tu conservi l’accorgimento, e le tue labbra ritengano la scienza.
Poiché le labbra dell’adultera stillano miele, e la sua bocca è più morbida
dell’olio; ma la ne a cui mena è amara come l’assenzio, è acuta come una
spada a due tagli. I suoi piedi scendono alla morte, i suoi passi fanno capo
al soggiorno dei defunti. Lungi dal prendere il sentiero della vita, le sue vie
sono erranti e non sa dove va. Or dunque glioli ascoltatemi, e non vi
dipartite dalle parole della mia bocca. Tieni lontana da lei la tua via e non ti
accostare alla porta della sua casa, per non dare ad altri il ore della tua
gioventù, e i tuoi anni al tiranno crudele; perché degli stranieri non si
sazino dei tuoi beni, e le tue fatiche non vadano in casa d’altri; perché tu
non abbia a gemere quando verrà la tua ne, quando la tua carne e il tuo
corpo saranno consumati e tu non dica: «Come ho fatto ad odiare la
correzione, e come ha potuto il cuor mio sprezzare la riprensione? Come
ho fatto a non ascoltare la voce di chi mi ammaestrava, e a non porgere
l’orecchio a chi mi insegnava? poco mancò che non mi trovassi immerso
in ogni male, in mezzo al popolo e all’assemblea». Bevi l’acqua della tua
cisterna, l’acqua viva del tuo pozzo. Le tue fonti devono spargersi al di
fuori? e i tuoi rivi devono essi scorrere per le strade? Siano per te solo, e
non per degli stranieri con te. Sia benedetta la tua fonte e vivi lieto con la
sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, cavriola di grazia, le sue carezze
t’inebrino in ogni tempo, e sii del continuo rapito nell’affetto suo. E perché,
gliuol mio, ti invaghiresti di una estranea, e abbracceresti il seno della
donna altrui? Ché le vie dell’uomo stanno davanti agli occhi dell’Eterno,
che osserva tutti i sentieri di lui. L’empio sarà preso nelle proprie iniquità, e
tenuto stretto dalle funi del suo peccato. Egli morrà per mancanza di
correzione, andrà vacillando per la grandezza della sua follia.” 1.

Naturalmente molte cose della Bibbia mi restavano oscure, anzi quasi


tutto. Ma leggendo non potevo negare l’evidenza con cui sentivo che
quella che mi parlava era la voce della verità. Eppure non la volevo
ascoltare, perché mi rendevo conto che cominciando ad ascoltare quella
voce avrei dovuto smettere di seguire altri richiami, ed altre evidenze.

70
Mercante di perle

Viaggiando con i funghi avevo visto spiriti che formavano la struttura


dell’aria, creature che lottavano nelle nuvole, forme anche nella tessitura
dell’erba dei prati. Una volta mi sono accucciato chiudendo gli occhi e
dentro di me ho visto un serpente le cui spire formavano il corpo di una
donna, poi ho visto anche molti visi che mi guardavano con sguardi
indecifrabili, e quando ho riaperto gli occhi mi sono stupito di ritrovarmi
ancora nel corpo. Ma le esperienze che mi coinvolgevano di più erano
quelle ad occhi aperti, e soprattutto la stessa raccolta dei funghi. Man
mano che se ne mangiava si cominciava a poterli vedere anche da
lontano, come se ammiccassero. Una volta che non riuscivo a trovare
niente, il mio amico Rafael (un altro pittore) con cui ero andato a cercare
funghi e che ne aveva già trovati alcuni, mi ha detto: mettici fede; io ce l’ho
messa e tra l’erba mi è apparso un fungo enorme, che poi ci siamo divisi.
Mi sembrava di stare imparando passo passo qualcosa di molto
importante, e senz’altro in me qualche conoscenza cresceva, e assieme
alla conoscenza anche la sensazione di star vivendo una vita importante.

Mi tornavano in mente il detto di Talete che “il tutto è animato e assieme


pieno di demoni”, e l’orgogliosa risposta di Eraclito: “Anche qui, difatti, ci
sono gli dèi”.

Avevo una riprova tangibile della superiorità della mia condizione diciamo
pure di drogato (ma allora avrei detto piuttosto di viaggiatore) in lunghe
conversazioni con Mario Teo, un mio giovane amico già professore di storia
della loso a. Lui conosceva bene molti dei testi (soprattutto francesi) che
erano stati il mio quotidiano oggetto e strumento di studio n dagli ultimi
anni dell’università, e potevo mostrargli la penetrazione che le mie
esperienze mi stavano permettendo di acquisire. Con lui non parlavamo
di droghe (non fumava marijuana perché non gli piaceva, non voleva
mangiare funghi perché gli facevano paura) ma proprio di loso a: la
percezione, il visibile, l’invisibile, gli eventi, le serie, i piani, gli strati, i
quadranti....

71
Mercante di perle

Il fatto che mi piacesse trovare una riprova della superiorità della mia
condizione avrebbe dovuto allarmarmi e forse mi allarmava, ma c’era tanto
chiasso dentro di me che non potevo far caso a nessun campanello. Non
che mi disinteressassi di quello che mi poteva capitare. Anzi, ero sempre
più preoccupato di camminare sulla strada giusta. Ma potevo pensare alla
strada solo in termini esteriori, preoccupandomi di essere nel posto giusto
al momento giusto; per questo la droga era così importante, perché dopo
aver fumato e a maggior ragione dopo avere mangiato dei funghi ero
portato, quasi forzato a convincermi di essere nel migliore dei mondi
possibile: guai se no.

Nonostante tutte le mie visioni, e per quanto cercassi, non riuscivo a


vedermi dentro.

72
Mercante di perle

In quel periodo ho conosciuto César. Era un uomo sui trent’anni, con una
faccia che ricordava moltissimo quella di Jack Nicholson, ma più aperta e
simpatica. Lo incontrai un giorno che andavo da solo in cerca di funghi. In
seguito mi disse che dovevo avere del coraggio perché in quel posto i
ragazzi non si avventurano da soli. Era sposato con tre gli maschi, e
vivevano tutti in una casetta (due stanze, cucina e bagno) nella periferia
meridionale di Morelia, vicino alle colline. Sul tetto allevava galli da
combattimento. La loro stanza era ingombra di quadri dipinti da lui con un
certo gusto (quadri astratti o ritratti di Gesù - “non sdolcinati” - e di altri
maestri), di strumenti musicali che stava costruendo, di libri e scatole varie
(tra le quali una contenente una grande quantità di funghi secchi, la
scorta per il periodo di secca). Sapeva molte cose, cose che mi
sembravano concrete, utili segni delle realtà invisibili. Me le raccontava
senza atteggiarsi a maestro, ma proprio per questo io lo ascoltavo
bevendo le sue parole come un discepolo. La mia ammirazione e la stima
reciproca ci legarono presto in un’amicizia che Paola non vedeva di buon
occhio. Andavo a trovarlo spesso, da solo, attraversando di sera rioni
pericolosi. Fumavamo assieme una sigaretta di marijuana e
chiacchieravamo, soprattutto lui. I funghi erano per le gite in campagna.
“Molti con i funghi cercano Dio - mi aveva detto - io no, a me piace la forza”.
Mi raccontava di averne mangiati decine e decine in una sola volta, e di
essere andato in giro a sollevare macigni; io stesso l’avevo visto s dare dei
tori, e gli credevo; Paola invece lo giudicava “un pallonaro”. Mi raccontava
che erano venuti a prenderlo “per la guerra” delle creature che si erano
quali cate come appartenenti alle Forze verdi, che poi se ne erano andate
perché lui si era messo a piangere pensando ai suoi gli. Un’altra volta,
dopo una notte passata sui monti, mi ha raccontato di avere visto le forme
dei raggi lunari e degli altri corpi celesti (la cosa non mi lasciava incredulo
perché anch’io, guardando il sole sotto l’effetto di un poco di peyotl 2
masticato per strada, avevo visto una specie di esercito di strane creature).
Aveva un librone di astrologia da cui aveva ricavato un sacco di nozioni che
usava con una grande sicurezza. Era questa sicurezza che soprattutto gli
ammiravo.

73
Mercante di perle

In parte a seguito delle mie conversazioni con César, in parte per le cose
che io stesso avevo visto, in me si andava formando una specie di pietà,
nel senso pagano di timore più o meno reverenziale per ciò che non si
può vedere. Ma da questa convinzione sorgeva il poco pietoso desiderio di
svelare l’invisibile. Volevo averne una visione, magari un modello, una
teoria, almeno una prova. Perché la mia era una convinzione inquieta,
qualcosa su cui non potevo riposare con certezza e di cui non era facile
parlare.

Nella Bibbia, anche nel Nuovo Testamento, trovavo ampiamente


confermata l’idea che esistesse una realtà invisibile alla base di quella
visibile, ma non erano le conferme e le descrizioni che cercavo io. Poi la
Bibbia mi chiedeva di credere prima di vedere, e a questo non ero ancora
disposto. Ero disposto a credere ai racconti degli uomini, ma non alle
promesse di Dio.

Per la nascita di Emiliano, a settembre, è venuta a trovarci la madre di


Paola, e subito dopo mio papà. Mio padre stava leggendo Vocazione, di
Baget Bozzo, la storia autobiogra ca di un ragazzo guidato da una Voce. A
quell’uomo mi sentivo di credere, anche se nel suo racconto quella voce
nel dopoguerra l’aveva guidato verso la vita politica, naturalmente negli
ambienti DC. Inoltre Baget Bozzo citava il Tao The Ching e sembrava non
avere dubbi sul fatto che si trattasse dello stesso Dio della Chiesa
Cattolica. Anche quest’ultimo fatto mi rincuorava, perché nel periodo
universitario avevo letto alcuni libri di loso a orientale che avevo trovato
molto giusti, e mi dispiaceva rinunciare al mio taoismo e al mio zen, come
invece, stando a certe letture della Bibbia, mi sembrava di aver capito che
avrei dovuto fare. “Vuol dire che mi sbagliavo - mi dicevo - meglio così”.

74
Mercante di perle

Quando siamo andati in Italia per mostrare Emiliano agli altri parenti, ho
parlato con Renato delle mie esperienze con i funghi, e Renato mi ha
raccontato di quelle fatte contemporaneamente con l’acido lisergico.
Anche lui, sotto l’effetto dell’LSD, aveva visto una natura solitamente
invisibile e zoomorfa. Bestie nelle rocce, negli alberi, ecc. Le stesse forme
che si vedono anche da bambini nelle nuvole e nelle macchie sui muri, ma
più nitide e più complete. Del resto, dicevamo, anche Antonin Artaud
aveva avuto una simile rivelazione di sculture naturali che lo guardavano
dalle rocce della Sierra dei Tarahumara. Ri ettevamo a molte altre cose
lette insieme nei libri di Deleuze sulla “visagéité”, sul “devenir enfant” o il
“devenir animal”. Anche lui aveva letto Vocazione e stava leggendo un
libro intitolato II Tao della sica di Fritjof Capra, dove pure si parlava di
loso a orientale e di cosmiche danze degli atomi.

Ero molto euforico per tutte queste coincidenze e credo anche Renato lo
fosse. Ma la nostra euforia è stata presto bruscamente smorzata da un
fatto che è rimasto inspiegato e che è stato un segno inequivocabile per
le nostre coscienze. Avevamo organizzato di vederci tutti per capodanno
nella casa di campagna di Paola vicino a Roma. Tutti gli amici di Bologna, o
quasi. Doveva raggiungerci anche Angelo, un compagno di classe di
Renato negli anni del liceo, che poi era diventato suo compagno di casa
all’Università e anche amico mio. Quando mi vedevo con Renato per
scrivere la nostra prima tesina, si niva sempre per scherzare assieme; una
sera, ricordo, anche attorno a un tavolino evocando gli spiriti. Quando poi,
al mio secondo trasloco, ero andato a vivere in casa con loro, le
chiacchierate con Angelo erano diventate un fatto quotidiano e la nostra
amicizia un aspetto della vita. L’avevo rivisto a Bologna ingrassato e più
triste di come l’avevo lasciato, c’eravamo scambiati poche parole,
entrambi contando sulle chiacchierate che avremmo fatto appunto in
campagna. Ma a mezzanotte Angelo non era ancora arrivato. Abbastanza
dopo mezzanotte è arrivata invece una telefonata del fratello che ci diceva
che l’avevano trovato accoltellato in un fosso. Era stato accoltellato la
notte prima molte volte alla schiena e poi trasportato sui colli bolognesi
dove era stato ritrovato per caso in un fosso la mattina seguente.

75
Mercante di perle

Tutti quanti sentimmo chiaramente che era nita un’epoca. Io e Renato


non avevamo più voglia di parlare delle nostre scoperte. Poi, dopo alcune
settimane, Paola ed io siamo ripartiti per il Messico, tanto più decisi a non
fare ritorno in quel freddo, in quel grigio e in quella paura. Ma per sfuggire i
momentacci non sempre basta una trasvolata atlantica. Difatti le cose
cominciarono a prendere una brutta piega anche a Morelia. Pettegolezzi,
adulteri e separazioni, nel gruppo dei nostri amici più intimi. Crack
nanziario e crisi economica, in tutto il paese. I soldi che guadagnavo con
le mie lezioni di italiano bastavano a coprire sempre meno i bisogni più
elementari. Ed era sempre meno probabile che io, come straniero, potessi
trovare un posto sso all’università o in qualche altra scuola.

76
Mercante di perle

Io non mi preoccupavo: la mia mente era altrove. Andavo a trovare César,


lasciando a casa Paola con il bambino. Lei un po’ si preoccupava, ma non
se la sentiva di chiedermi di ritornare in Italia, e così tirammo avanti altri
mesi, nel mio ricordo tutto sommato abbastanza felici. Mi ero comprato
una buona enciclopedia delle religioni in parecchi volumi, una edizione in
brossura che leggevo con molto interesse. Paola aveva comprato
1’edizione spagnola di un libro di Carl Gustav Jung intitolato Psicologia
dello spirito, che pure lessi con molto interesse. Leggendo questo e poi
altri libri di Jung, cominciò ad abbozzarmisi - come una specie di visione -
una teoria di come nella vita le cose si organizzano in fatti e i fatti in storie.
Fin da molto giovane quando le cose andavano storte soffrivo come se
qualcuno si stesse divertendo a farmi i dispetti. Ma questa impressione a
quei tempi era qualcosa di totalmente privato che non avrei mai osato
trasformare in un pensiero da esporre in pubblico. Più tardi, studiando
prima Wittgenstein e poi Deleuze e la logica dello Stoicismo antico, avevo
trovato le parole e le occasioni per esprimere nella mia tesi (che poi in
Messico ho anche parzialmente riscritto e tradotto in spagnolo) qualcosa
che si avvicinava a toccare quelle mie sensazioni così private. Ma l’idea che
le cause invisibili dietro all’apparenza dei fatti fossero degli spiriti, giudicata
ancora follia, era pur sempre rimasta inespressa. Invece, dopo le
esperienze con i funghi e i libri di Jung, cominciava a convincermi sempre
di più l’ipotesi che le serie dei fatti dipendano da questi spiriti, cause
invisibili di cui la scienza sperimentale non può che limitarsi a studiare gli
effetti più ripetitivi. Le storie avevano un ordine e un senso che non
poteva venire spiegato da nessuna scienza naturale. Ci doveva essere una
struttura spirituale responsabile dell’organizzazione nello spazio e nel
tempo di tutte le serie. Il che quadrava anche con la meta sica semi-
poetica che mi ero formata: ussi che a tutti i livelli e in tutte le scale,
intersecandosi formavano la super cie delle cose. All’attività dello spirito
erano soprattutto pertinenti, secondo Jung, proprio gli incontri tra le serie,
le coincidenze. Una delle sue idee che più mi ha colpito è stata la
cosiddetta “legge dell’accumulazione degli eventi straordinari”, la legge
per cui le disgrazie non vengono mai da sole. E ormai per me era
abbastanza chiaro che dietro a quelle “accumulazioni” di eventi infausti o
fausti stava l’accanimento di qualche spirito cattivo, o la misteriosa
benevolenza di qualche spirito buono.

77
Mercante di perle

Un altro libro che ha condizionato i miei pensieri in quel periodo mi arrivò


attraverso un collega, Raimundo, un ragazzo molto gentile che insegnava
anche lui italiano anche se era messicano di nascita: un tipo buffo che
andava in giro su una bicicletta olandese con un’aria assolutamente
spaesata. Raimundo, la prima volta che chiacchierammo assieme a casa
nostra, ci raccontò di essere af liato ad un gruppo religioso, una setta che
seguiva un maestro indiano morto in California. Ci salutò augurandoci che
“la forza” fosse con noi, come nei lm di guerre stellari, e promettendomi
una copia in italiano di un libro del suo defunto maestro: Autobiogra a di
uno yogi, di un certo Yogananda. In questo libro, pieno di ricordi favolosi
ma abbastanza credibili, tra le altre cose questo Yogananda scrive di aver
ricevuto un mandato per l’uni cazione del Cristianesimo e dell’Induismo e
conclude ogni capitolo - un po’ meccanicamente, notavo già - con
citazioni dai Vangeli intese a mostrare le somiglianze tra gli insegnamenti
di Gesù e la loso a dello yoga. A me rimaneva un forte sospetto,
soprattutto riguardo alle pratiche idolatriche descritte e caldeggiate
come utili mezzi per aumentare il contatto spirituale con il proprio
maestro (si potevano conciliare quelle cose con la Bibbia?), ma ero anche
molto interessato agli effetti di una pratica speciale di meditazione e di
respirazione che nel libro non veniva descritta, ma abbondantemente
reclamizzata. Quando ho chiesto a Raimundo in cosa consistesse questa
tecnica capace di far progredire con tanta potenza nel cammino spirituale,
mi ha risposto che non poteva descrivermela perché era un segreto che
poteva essere svelato solo a quelli che decidevano di entrare nella sua
setta, cosa che per il momento non desideravo affatto fare. Anzi percepivo
una specie di muro, qualcosa che mi faceva sentire che non dovevo
nemmeno provare a cercare l’indirizzo della loro sede in California.
Comunque, anche per consiglio di César, cominciai a evitare la carne e a
nutrirmi preferibilmente di vegetali, traendone un certo bene cio alla
digestione che avevo sempre avuta lenta e appesantita.

Ho continuato a non mangiare carne anche dopo che siamo dovuti


tornare in Italia per l’epatite di Paola. Non solo, ma ho trovato tra i libri di
casa Rodari un’introduzione alla pratica dello yoga e ho cominciato a
seguire i primi esercizi.

78
Mercante di perle

A Roma ho letto molti altri libri di Jung e di loso e e religioni orientali:


testi taoisti, buddisti, zen, libri sul su smo e sullo yoga, la Bhagavad Gita e i
Vangeli apocri . Mi sono comprato anche un grosso trattato di astrologia e
alcuni libri sull’astrologia e il mito. Leggevo tutte queste cose per la sete di
conoscere - l’apostolo Paolo preferisce parlare di “prurito di udire” 3 - le
cose del mondo, per farmi delle idee, costruirmi dei modelli, magari anche
in quello che avrebbe potuto essere un mio campo di studio, cioè la
semiotica del mito. Ma non era un cammino libero, più mi riempivo la
testa con quelle parole e quei pensieri, meno riuscivo a pensare e a
ragionare sulle cose del mio lavoro e della mia vita. Anche questa era una
specie di droga.

79
Mercante di perle

A un certo punto ho deciso che avevo bisogno di seguire un corso di yoga


perché molti esercizi non riuscivo a farli. Immediatamente mi è caduto
l’occhio su un annuncio pubblicitario di un corso di YogaKundalini che
stava per cominciare a Trastevere, abbastanza vicino a casa nostra. Sono
andato al primo incontro con una certa trepidazione. Il nostro maestro era
un ragazzo più giovane di me, italianissimo, anzi con un accento
vagamente sardo, e anche i miei compagni non avevano niente di
speciale. Alessandro, così si chiamava il nostro maestro, ci spiegò cosa
fosse questa Kundalini, un serpente spirituale che secondo l’induismo
esoterico giace arrotolato alla base della nostra colonna vertebrale e che
questo yoga era in grado di risvegliare, per armonizzare la forza femminile
che questo serpente rappresenterebbe, con la natura maschile presente
e manifesta in ognuno. Io ne sapevo qualcosa (l’avevo anzi già identi cato
con ciò che avevo visto una volta con i funghi), inoltre quei discorsi
quadravano abbastanza bene con le mie letture junghiane. Ero contento
delle lezioni, dopo un breve momento di super ciale delusione per non
aver trovato un maestro nato nell’India misteriosa. Mi piaceva che questo
ragazzo non si desse arie di rivelarci quei misteri, di cui ci parlava anzi con
un pizzico di malcelato scetticismo, ma ci parlasse di religione quasi per
avvisarci onestamente di cosa stesse dietro alla ginnastica che ci
insegnava. Cominciai a frequentare le lezioni con assiduità, diventando
presto l’allievo più promettente della piccola classe. Mi piacevano gli
esercizi, anche il signi cato delle parole indiane che ci facevano
pronunciare (sat “cosa”, nam “nome”) mi sembrava particolarmente
adatto ai miei studi semiotici, anche se un po’ mi disturbava la vicinanza
fonetica con il nome ebraico del diavolo (ma mi avevano assicurato che il
riferimento era puramente casuale). Alessandro ci disse che dopo un anno
avremmo potuto partecipare ai Tantra Yoga, una cerimonia rituale di
iniziazione ad un gradino superiore dello yoga che avevamo cominciato.
Questa cerimonia, che durava alcuni giorni, si sarebbe svolta sotto la guida
del guru che presiedeva quella organizzazione, un sikh di cui conoscevo il
viso e il sorriso ritratti in varie fotogra e appese o stampate e di cui avevo
letto qualche scritto che non mi era sembrato malaccio. Guardavo con
una certa apprensione a quei giorni, ma intanto mancavano tanti mesi...

80
Mercante di perle

Invece arrivò subito qualcos’altro. Un giorno, ritornando a casa dal


dentista, tenevo in mano un libricino di liriche religiose del Duecento che
avevo appena acquistato a metà prezzo in una libreria a Largo Argentina e,
aspettando l’autobus, ebbi uno scambio di occhiate con un signore, un
negro dagli occhi particolarmente luminosi. Saliti sull’autobus questo
signore a un certo punto mi apostrofò chiedendomi se mi interessassi di
religione e, subito dopo, se avessi letto i Veda. “Non è possibile che ti
interessi alla religione e non hai letto i Veda!”. Ne nacque una intensa
discussione, intensa perché più che di una discussione si trattava di
seduzione bella e buona. Ed io, sedotto, non mi sottraevo al gioco perché
mi interessava sapere come sarebbe andata a nire. Oltretutto erano
argomenti che effettivamente continuavo a rimuginare. Lui si dimenticò
di scendere alla sua fermata (o forse così nse) e scese con me alla mia
continuando a raccontarmi un sacco di cose, congratulandosi moltissimo
con me per il fatto che ero vegetariano e che avevo letto almeno la
Bhagavad Gita. Mi invitò a casa sua insistendo per avere il mio numero di
telefono. Quando ci separammo sapevo di aver fatto una fesseria, ma:
“tant’è”, dicevo. Quando, dopo un po’ di telefonate, mi convinse ad
accettare un invito a casa sua, la sensazione di stare facendo una fesseria
crebbe, ma contemporaneamente avevo anche la convinzione che non
poteva farmi niente di male e, nonostante le giuste preoccupazioni di
Paola, presi il mio autobus e scesi alla fermata che mi era stata indicata.
Oltre a non volere fare uno sgarbo era fortissima anche la curiosità. Mi
venne ad aprire in una tunica indiana color sabbia, un mantello di un
colore più sull’arancio e calzini decisamente arancioni. La sua casa era una
specie di tempio. Alle pareti, oltre a un gran numero di immagini di una
divinità azzurrina che conoscevo bene, erano appese anche altre cose
come un bastone da pellegrino, campane e campanelli, ecc. Se non
sbaglio c’era anche un altare. Non mi sentivo affatto a mio agio. Parlammo
di molte cose. Dopo avermi ripetuto che dovevo considerare un grande
dono il fatto di aver letto la Bhagavad Gita e di aver sentito di non
mangiare più carne, mi disse che in seguito avrei smesso anche di
mangiare il pesce e le uova, e poi anche i funghi. “Anche i funghi?”, questa
era nuova. Immediatamente pensai che quella non era la mia strada: io
non avevo bisogno di altre sime, ne avevo già abbastanza per conto mio.
Mi colpirono sfavorevolmente anche un discorso un po’ fumoso sulla ne
del mondo che secondo i suoi calcoli doveva venire tra non so quanti
millenni e un accenno a Gesù, che secondo lui non era mai morto

81
Mercante di perle

A quel punto qualcosa dentro di me ha detto “alt!”. Un alt che non mi ha


impedito di bere una tisana e di mangiare dei pasticcini orientali e anche
di accettare di imparare un mantra, che questo signore mi ha
raccomandato di recitare il più spesso possibile. Quando sono uscito ero
molto turbato. In autobus ho aperto la copia del Nuovo Testamento che
mi portavo dietro e ho letto un passo (credo I Timoteo, 4:3 e ss.) nel quale
si parla di spiriti seduttori che ordineranno l’astensione da cibi che Dio ha
creati. Qualcosa mi si faceva sempre più chiaro.

Quel tipo continuò a telefonarmi con una certa assillante regolarità, ma


non l’ho più rivisto, se non una volta, dall’autobus, che parlava
animatamente credo con qualche vicino di casa. Anche il suo mantra non
mi dava molto af damento. Invece ho continuato a prepararmi e a bere la
tisana di spezie di cui mi ero fatto dare la ricetta. Un’altra tisana di spezie
era consigliata dal guru sikh che dirigeva la mia scuola di yoga e anche
quella bevevo abbastanza spesso.

In quel periodo la mia ricerca sul movimento pentecostale era già a buon
punto (lo ricordo bene perché una delle cose che mi avevano stupito del
mio amico induista era che mi aveva chiesto di fargli leggere il testo della
trasmissione, dicendomi di essere stato anche lui un cristiano
pentecostale). Per questa trasmissione avevo pensato ad una intervista
con Baget Bozzo. Speravo di cogliere l’occasione dell’intervista per
conversare con lui anche di Simone Weil e delle altre fedi, soprattutto
orientali. Invece Baget Bozzo, neoeletto deputato al Parlamento Europeo,
mi scrisse una gentile letterina in cui, dandomi del tu, si scusava di non
poter partecipare alla mia trasmissione a causa dei suoi impegni politici.
Invece alla Rai mi indicarono il nome di un’altra persona competente in
fatto di religione cristiana di cui loro si erano serviti molte altre volte:
Sergio Quinzio. Altra coincidenza, perché io avevo appena nito di leggere
un suo libro, La croce e il nulla, dove cristianesimo e loso e orientali
erano chiaramente contrapposti.

Capivo sempre meglio che quella dello yoga e delle loso e orientali non
era la strada che Dio mi indicava. Nonostante questo mi ostinavo a
seguirla, pensando di non averne altre a mia disposizione e anche, mi
dicevo, per non ri utare quello che mi era stato dato. Ero anzi sempre più
assiduo nell’eseguire regolarmente gli esercizi al mattino e anche alla sera,
dedicando, dopo di questi, sempre più tempo alla meditazione.

82
Mercante di perle

Per lo più non meditavo su niente in particolare, facendo puro esercizio di


concentrazione. Certe volte invece mi aiutavo ssando qualche forma o
qualche gura. Certe altre volte leggevo prima (e poi - durante - mi
interrogavo sul signi cato di) qualche ko-an 4 da un libro intitolato La
porta senza porta. Man mano che progredivo nella pratica della
meditazione cominciavo a sentire degli effetti sici sempre più chiari, ma
non era la pace interiore che avrei voluto trovare. Sentivo chiaramente
che, in tutto quel mio brigare, Dio, il Dio di Gesù e d’Israele, non c’entrava
proprio niente. Lo sentivo soprattutto nella vergogna che provavo quando
venivo scoperto più o meno immerso nelle mie pratiche, una vergogna
che veniva dalla coscienza che quelle erano cose solo per me, cose da cui
non poteva venire nessun vero bene per il mio prossimo. Difatti il mio
corpo acquistava forza, ma spiritualmente ero sempre più debole. La
collera mi travolgeva per un nonnulla. Un altro segno che non stavo in
realtà crescendo era la fa. Avevo sempre più paura, non solo del veleno
nei cibi, non solo del veleno nell’aria, non solo delle malattie, ma anche del
buio. Per meditare avevo bisogno di posti molto tranquilli. A volte, per un
minimo rumore improvviso saltavo su come per un pericolo mortale. In
campagna tenevo vicino al letto una lunga roncola e prima di andare a
dormire, al piano di sopra, mettevo una sedia sopra la botola delle scale
come sistema di allarme. “Forse, - mi dicevo rendendomi parzialmente
conto della situazione - se avessi un vero maestro...” e purtroppo per me
pensavo ancora ad un guru, o a qualcosa del genere.

Più leggevo, più mi si confondevano le idee. Ero in stretto contatto


(epistolare e telefonico) con il mio amico Renato. Era stato Renato a darmi
da leggere La croce e il nulla ed altri libri di Quinzio. Ma mi aveva
consigliato anche libri di Réné Guénon (una strana gura di iniziato
islamico divulgatore di misteri) che andavano in tutt’altra direzione.
Dapprima eravamo stati d’accordo nel giudicare quest’autore affascinante
ma freddo; poi, poco a poco, ci siamo letti tutto ciò che abbiamo trovato di
suo. Tutti libri scritti in una prosa singolarmente sciolta e cristallina. Ma
quello che lasciavano a lettura ultimata era solo l’impressione di sapere
qualcosa di più, mentre in realtà quella che aumentava era la sensazione, a
volte esaltante a volte desolata, che esistessero dei centri di conoscenza
segreta solo accedendo ai quali si poteva imparare qualcosa di veramente
importante.

83
Mercante di perle

Ma la parola di Dio mi metteva in guardia anche dagli insegnamenti di


Guénon, nonostante questo Guénon pretendesse di interpretarne il vero,
occulto signi cato. Come poteva sostenere di avere inteso le parole di
Gesù un erudito gon o di conoscenze esoteriche, quando Gesù invita a
mutare e a diventare come piccoli fanciulli? Eppure, come con quell’altro
induista, ero rimasto incantato dai suoi ragionamenti e dagli insoliti temi
della sua conversazione letteraria.

Intanto si avvicinava il tempo del Tantra Yoga. Anche se l’iscrizione non era
niente affatto gratis, la curiosità assieme al pensiero di non dispiacere al
mio maestro Alessandro mi avrebbero probabilmente portato a
partecipare a quei riti iniziatici. Tanto più che per la prima volta in assoluto
questo Tantra si sarebbe tenuto in Italia, e non solo, ma proprio nel
castello di Bracciano, a pochi chilometri dalla casa di campagna di Paola.
Invece poche settimane prima dell’inizio del Tantra ci trasferimmo a
Trieste, da dove la mia partecipazione a quello stage (come asetticamente
lo chiamavano) era ritornata ad essere un’opzione del tutto facoltativa.

A Trieste continuavo a fare i miei esercizi di yoga, a fumare


occasionalmente i miei spinelli, a cercare e a leggere libri esoterici. Ma le
parole del vangelo stavano facendo il loro lavoro nel mio cuore. La
meditazione mi aveva quasi de nitivamente stufato. Preferivo occupare
quel tempo cercando di pregare, anche se a pregare mi vergognavo
ancora di più che a incrociare le gambe nella posizione del loto (in realtà a
un certo punto mi sono comprato un libro di yoga per cristiani e pregavo
preghiere in un certo senso clandestine, anche in posizioni indiane). Ma
era una vergogna diversa, una vergogna che mi veniva dal timore di venir
frainteso.

Così una delle prime cose che avevo chiesto in preghiera era stata di poter
entrare in contatto con persone che credessero davvero alle parole di
Gesù. Per questo, quando mio zio mi ha detto che c’era una comunità
pentecostale anche a Trieste, ho sentito dentro di me di andare a vedere.
Ci sono andato e ci sono anche tornato, perché avevo trovato qualcosa di
nuovo, ma che corrispondeva anche al bisogno che avevo espresso nelle
mie preghiere. Quelle che avevo trovato erano persone che prendevano le
parole di Gesù certamente più sul serio di me.

84
Mercante di perle

Durante i primi mesi di frequenza ai culti domenicali e infrasettimanali, la


mia vita era rimasta circa uguale. Continuavo a fare i miei esercizi (anche
se passavo sempre meno tempo in meditazione); se se ne presentava
l’occasione non ri utavo uno spinello; e anche i litigi con Paola non erano
sensibilmente meno furibondi. Ma pur continuando a fare tutte queste
cose, dentro di me cresceva la coscienza che erano tutte cose da evitare, e
che con l’aiuto di Dio, quando l’avessi veramente desiderato, me ne sarei
presto allontanato. Questo non perché venissero predicate parole contro
la droga o simili, ma era lo spirito della parola che veniva predicata che mi
faceva sentire così.

Dopo la mia conversione, che racconterò nel prossimo capitolo, il mio


rapporto con la droga era completamente cambiato. Non la desideravo
più, per il semplice fatto che la comunione con Gesù mi dava una pace
molto più profonda dell’appagamento che l’hashish dava al mio bisogno
di avventura. Mentre al contrario avevo chiaramente sentito questa
comunione minacciata dall’atto di drogarmi. Così, anche se ho continuato
per molto tempo a sognare di aver fumato, non ho più toccato uno
spinello ed ho anzi acquisito un certo intimo ribrezzo per quelle situazioni.

Restavano gli esercizi di yoga. Fin dalle prime volte che avevo piegato le
mie ginocchia per pregare Dio come un cristiano, avevo sentito una
grande differenza di senso tra l’atteggiamento di preghiera cristiano e
quello orientale. Sentivo che nello spirito dello yoga erano importanti cose
che davanti a Gesù non lo erano affatto e viceversa. Man mano che avevo
fatto esperienza del Signore in preghiera, ero sempre più certo che lui
guardava il mio atteggiamento interiore e non la posizione del mio corpo,
e che lo stare inginocchiati era l’effetto, la libera espressione di una
prostrazione interiore, non viceversa, come nello yoga, dove si cercano
modi cazioni interiori a partire da certe posizioni del corpo. Volevo
smettere, ma mi avevano detto che per il corpo era pericoloso lasciare di
colpo lo yoga e quindi continuavo a fare un certo numero di esercizi, ma
sempre meno convinto. Un giorno ne ho parlato con Velio, allora l’unico
pastore della comunità; ero andato a trovarlo a casa sua, come molte altre
volte specialmente in quel periodo; mi disse che se si trattava soltanto di
esercizi sici per il corpo potevo continuare a farli senza preoccuparmi,
“ma aggiunse con un sorriso - è scritto che l’esercizio corporale è utile a
poca cosa”, e mi mostrò il passo 5 nella sua Bibbia. Così smisi anche di
incrociare le gambe, di inarcare la schiena e di spingere il ventre.

85
Mercante di perle

Poi, col tempo, man mano che le mie preghiere si facevano più dirette,
vedevo con sempre maggior nitidezza la falsità degli insegnamenti dello
yoga, e specialmente del mio atteggiamento di fronte a queste dottrine,
come se mi avessero potuto guidare in una realtà più alta e più vicina al
cielo. Come se per entrare stabilmente in cielo bastasse imparare a
ritmare il respiro e a recitare qualche formula magica, o, da un altro punto
di vista, occorresse impegnarsi in un continuo esercizio sico e mentale.

Il nostro modo naturale di vedere e di ragionare in termini di ciò che si può


toccare, contare e misurare, ci porta a considerare le cose spirituali a volte
come qualcosa di nuovo ed eccitante, a volte come qualcosa di
conturbante e pericoloso. E porta così inevitabilmente anche molta
confusione, perché il piano spirituale non è una realtà omogenea.

Il piano che trascende la nostra conoscenza sensibile è ciò che certi


studiosi hanno chiamato “il sacro”, “il numinoso”, “l’inconscio collettivo”
ecc. e che n dai tempi antichissimi ha avvolto l’esperienza degli uomini.
Molti (come Jung, Kerenji, Eliade...) si sono occupati di questa sfera di
esperienze restando per lo più nei con ni della scienza storica,
dell’antropologia o della psicologia, ma suscitando anche una forte
curiosità in persone come me attratte da fenomeni non spiegabili
sicamente ma al contempo rassicurate dalla autenticità dell’impegno
scienti co che questi autori dimostravano nei loro libri, peraltro editi dalle
migliori case; altri invece (come Zolla, Capra, Castaneda...) si sono
addentrati a tal punto nei pericolosi territori del misticismo orientale e
dello sciamanesimo da non essere più considerati dei veri studiosi, e
diventare essi stessi delle fonti di “spiritualità”. Ma per una persona
insoddisfatta delle risposte del senso comune alle domande profonde del
suo essere, i libri di tutti questi autori brillano quasi indistintamente come
dei lumicini nel buio della notte.

86
Mercante di perle

Questi libri però non mi facevano una gran luce, ancora meno facevano
luce sulle parole della Bibbia, anzi vi gettavano tte ombre. Invece la
Bibbia fa una gran luce anche su quei libri e sulle realtà di cui più o meno
consapevolmente essi si fanno complici. Quello che la Bibbia mi ha
cominciato a mostrare su queste realtà (realtà di cui avevo avuto
esperienza diretta nelle gure che sotto l’effetto dei funghi avevo visto
nell’aria e dentro di me, ma al cui tipo potevo anche ricondurre tutte le
divinità esotiche dei popoli pagani di cui avevo visto e considerato
innumerevoli raf gurazioni e letto molte storie, e anche le cosiddette
anime dei morti e dei beati del paganesimo di casa), è che questi spiriti,
anche se hanno alimentato ed alimentano la fantasia degli uomini, non
sono essi stessi delle fantasie.

Ma la Bibbia mi mostrava anche che, se è vero che ci si sbaglia a


considerare queste creature come personaggi puramente fantastici
appartenenti a miti e leggende di una volta (come facevano i Sadducei al
tempo di Gesù, e come fa o dice di fare oggi la maggioranza della gente), è
vero anche che anch’io sbagliavo di grosso a pensare che dalla fede in
questa realtà normalmente invisibile (ma io qualcosa avevo visto) avrei
potuto ottenere la mia liberazione. Anzi: erano proprio queste realtà che
mi tenevano legato e che stanno ancora tenendo prigioniere molte,
moltissime persone, mediante pensieri e timori che queste persone a
volte non confessano neanche a se stesse. Non solo gente interessata alle
cose occulte e paranormali, ma anche persone religiose, o anche atee e
illuministe.

Secondo la Bibbia gli spiriti sono un dato di fatto, ma la Bibbia è un libro


sorprendente e mostra che questi spiriti non sono e non agiscono come
se li immagina la nostra mente carnale. E che il vero combattimento
spirituale non è come quello che si vede nelle favole, nell’iconogra a
religiosa o nei cartoni animati giapponesi.

87
Mercante di perle

Dopo molti sforzi è venuta in me la convinzione che non possiamo


elaborare nessuna teoria per poterci orientare in questa realtà con la
nostra mente e la nostra logica. Le immagini che trovavo o che mi facevo
della realtà spirituale erano tutte rigorosamente sbagliate o inutili, perché
non possiamo raf gurarci una realtà in cui siamo immersi. Le cose
spirituali sono più grandi di noi e ci risultano paradossali. Scoprivo che certi
spiriti legano proprio operando apparenti liberazioni, mentre lo Spirito di
Dio libera proprio legando con l’amore… 

Da quello che sto per raccontare si comprenderà meglio, credo, su cosa e


su chi si fondi questa convinzione che è venuta in me.

NOTE

1. Proverbi, 5.

2. Peyotl è il nome azteco di un piccolo cactus, fortemente allucinogeno e


dal sapore amarissimo. Si raccoglie nelle zone desertiche della regione
settentrionale del Messico e si mastica rischiando il vomito. Intorno alla
raccolta e alla ingestione rituali del peyotl si è formata una specie di
religione. A queste pratiche, originariamente proprie di alcune popolazioni
indie, recentemente prendono parte anche molti ragazzi di città, come
me allora, alla ricerca di nuove esperienze. Difatti ho provato il peyotl
perché me ne avevano regalato qualche spicchio degli amici di César che
erano da poco tornati dal Nord.

3. II Timoteo, 4:3.

4. I ko-an sono brevi testi poetici contenenti domande tipo “qual è il


suono di una mano sola?”. Per i monaci buddisti zen costituiscono il
principale oggetto di meditazione.

5. I Timoteo, 4:8.

88
Mercante di perle

CAPITOLO V
IMMERSO NEL NOME DI GESÙ

Poiché tu, o Dio, hai esaudito i miei voti, 


m'hai dato l'eredità di chi teme il tuo nome.
Salmi, 61:5

La mia storia con Gesù è iniziata quando ho cominciato a conoscere il suo


nome, da bambino. Ma il modo in cui l’ho iniziato a conoscere è stato
fortemente condizionato dal modo in cui lo conoscevano le persone
intorno a me. E così via.

Di cosa sapessero di Gesù i miei bisnonni non so nulla, e anche della fede
dei miei nonni so ben poco, perché, eccezion fatta per la nonna paterna
che è ancora viva, con loro non ho praticamente mai parlato di queste
cose. Da quel poco che posso sapere il loro rapporto con Gesù è stato per
lo più super ciale. Gesù era per loro qualcuno a cui rivolgersi “in caso di
necessità”, ma non un amico fedele e tanto meno un Signore
onnipotente a cui obbedire con timore e tremore. Anche mia madre mi
insegnava a rispettare le regole della Chiesa Cattolica più che a temere
l’Eterno, e mi mostrava di sentire più vicini ed utili i nomi dei santi che
quello di Gesù.

Mio padre invece non va a messa la domenica. Ma credo che Gesù gli ha
mostrato cose di sé già da molti anni prima della mia nascita. Prima ancora
della guerra, che ha fatto da alpino, diciottenne, e dove pure deve avere
imparato molte cose importanti, un episodio esteriormente insigni cante
gli si è tanto impresso nella coscienza che un giorno, non ricordo a che
proposito, gli è venuto di raccontarmelo. Questo fatto me lo guro in un
cortile o uno slargo davanti a scuola, dopo l’introduzione delle leggi razziali,
tra un ragazzo ebreo e lui balilla come tutti gli altri. Per puro conformismo
aveva parlato di qualcuno chiamandolo “sporco ebreo”. Il ragazzo ebreo
non si era adirato e non l’aveva insultato a sua volta, ma l’aveva
rimproverato con dolcezza chiedendogli: “Perché dici così? dire «sporco» è
una cosa, dire «sporco ebreo» un’altra, molto differente”. Mio padre in
seguito ha avuto molti amici ebrei e ha avuto sempre un forte interesse
per la loro storia, trasmettendo anche a me, n che ero piccolo, questo
rispetto e questa considerazione.

89
Mercante di perle

Dagli anni della pubertà, invece, nella mia mente il pensiero del “popolo di
Dio” ha assunto un opposto tono affettivo. Erano gli anni di Al-fatah e dei
fedayn, anni in cui la stampa, specialmente quella che in uenzava le
persone a cui stavo attento io, faceva una pessima pubblicità a Israele.

Anche il nome di Cristo, in quegli anni, cominciava ad associarsi nella mia


mente alla pretesa di avere ragione tipica del modo di vivere e di pensare
degli americani. Le storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, imparate
per lo più al cinema, diventavano qualcosa di sempre più lontano dalla mia
esperienza.

A dodici anni avevo smesso di andare a messa (negli ultimi tempi ci ero
andato solo per non far dispiacere a mia madre). È vero che, dopo i fervori
comunisti dei quattordici-quindici anni, quando ho smesso di frequentare
la Federazione e mi sono messo a studiare, gli argomenti per me più
interessanti erano nuovamente quelli connessi con la storia del
Cristianesimo. Agostino, Pascal, Kierkegaard sono stati i miei autori
prediletti. I loro libri mi avevano dato da pensare perché parlavano della
fede come di una scelta e di una decisione molto profonde. Così,
nonostante non avessi fatto quella scelta e non avessi preso quella
decisione (non avevo neanche capito bene di cosa si trattasse) e
nonostante continuassi a imprecare bestemmiando Iddio, mi consideravo
molto più cristiano di mia madre. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe
continuavo però a sentirlo lontano. Tanto più negli anni di Bologna.

In Messico poi, in seguito alle esperienze raccontate nel capitolo


precedente, stavo cominciando a prendere sul serio certi discorsi
decisamente politeisti che avevo letto in francese e che riascoltavo in
castigliano. I “cristianizzatori” del Messico si sono curati per lo più solo di
dare nuovi nomi alle divinità venerate dalla gente nei secoli prima di
Colombo. In certe chiese cattoliche che ho visitato al Sud, agli antichi idoli
non erano stati cambiati nemmeno i nomi e le fattezze diaboliche. Questo
rendeva estremamente interessante ai miei occhi spesso drogati il loro
culto pieno di colore, e intensamente, coralmente partecipato soprattutto
dalle donne.

90
Mercante di perle

In contrasto con questa ricchezza visiva c’è stato un giorno lo spettacolo


che mi si è presentato entrando per curiosità in una chiesa protestante di
un paesino dell’Altopiano orientale. Era tutto grigio, nessuna immagine,
alcuni fedeli erano riuniti su poche le di banchi e a turno su indicazione
del pastore leggevano stentatamente alcuni versi della Bibbia; tema, il
diavolo. Mi infastidì tanta piattezza. E quando alcuni mesi più tardi una
ragazzina a Santiago Atitlán in Guatemala mi disse di essere cattolica
perché i protestanti non permettono le feste, in cuor mio le diedi
pienamente ragione. Il cristianesimo protestante (gringo) mi sembrava
esprimesse l’uniformizzarsi, l’ingrigirsi, lo sporcarsi della natura, ciò che io
odiavo come la mia morte. E in quest’odio mi sentivo pienamente
appoggiato da quei discorsi, che mi facevano guardare alle forze della
natura come a forze libere, belle perché varie, e minacciate dal
monoteistico sporco denaro.

In Messico, però, oltre a tanti discorsi politeisti, avevo ricevuto anche il


discorso di Dio, e dentro di me era iniziata una lotta. C’era il fatto evidente
che le parole che leggevo nella Bibbia mi parlavano della mia vita, e che mi
mostravano chiaramente una strada: la strada della fede in Dio e della
rinuncia, per questa fede, a ricercare quaggiù la mia realizzazione. Ma c’era,
ancora più evidente, un grande peso che mi impediva di incamminarmi
per quella strada, un peso a cui appunto non mi sentivo di rinunciare. Non
avevo coscienza di questo peso, ma spesso sognavo borse, borse che
dimenticavo nelle sale d’aspetto, che tornavo a prendere, o che cercavo,
ritrovavo, e controllavo di avere sempre dietro. Più o meno confusamente
mi rendevo conto che le borse di quei sogni erano il pensiero dei libri da
leggere, delle esperienze e dei giri da fare, delle mie opere e dei miei
giorni.

A Roma, nelle pagine della Bibbia e degli altri libri che leggevo per scrivere
il testo di quella trasmissione sul movimento pentecostale, la forma e il
contenuto della scelta del cristiano mi si facevano più chiari. Avevo
sempre la scusa che erano cose che stavo comprendendo per studio, anzi
per lavoro. E difatti, per quello che mi era permesso, le usavo
effettivamente scrivendo e discorrendo, come di idee. Ma presto ho
dovuto riconoscere che, anche se io non avevo ancora voluto provarle,
quelle parole non erano teorie. E che se rimanevano teorie non erano
proprio niente.

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Mercante di perle

Un giorno, sempre a Roma, mentre spingevo in un’ora grigia Emiliano in


passeggino lungo viale Donna Olimpia (tra Monteverde Vecchio e
Monteverde Nuovo), fra i miei grigi pensieri a un certo punto ne è apparso
uno che per me è stato come un raggio di sole: “Ma se Gesù è veramente
il Figlio di Dio, se Dio si è fatto uomo in un falegname che lui stesso ha
destinato al macello per noi, vuole dire che non sono affatto in obbligo
morale di conquistarmi tutte quelle cose che in fondo non mi interessano,
e che tutti vorrebbero farmi credere che sono indispensabili per essere a
posto, come una brillante carriera, una vera cultura, una vecchiaia
assicurata, ecc.: Dio non vuole queste cose da me.”

Era un periodo in cui sentivo con particolare angoscia la ne del mondo.


La respiravo nella puzza dei gas di scarico, la vedevo nella foschia del cielo,
la sentivo arrivare nell’accavallarsi di brutte notizie su giornali e riviste. Più
di tutto mi opprimeva il senso di responsabilità nei confronti della mia
famiglia, per il peso di tutte le cose che si sarebbero potute fare per
difendersi dal futuro. Prima fra tutte, scappare da Roma e forse anche
dall’Italia. Grazie a quel luminoso pensiero, per un poco mi sono sbarazzato
di tutti quei carichi ed ho goduto di una pace che non avevo mai provato.
Ma c’era quel “se”, a cui la mia mente automaticamente rispondeva: “e se
poi no?” Il dubbio uccide la fede, e senza la fede la pace non dura.

L’idea, costitutiva dell’età adulta, di essere sostanzialmente da solo con i


miei problemi era più forte di quel pensiero che mi invitava dolcemente
ad af dare a Dio il mio bagaglio di preoccupazioni quotidiane. Ad ogni
modo cominciavo a capire che si trattava di buttarsi e che c’era qualcosa
dentro di me che me lo impediva. Detto per inciso, fu in quel periodo che
incontrai quel negro induista, e tra le cose di cui mi parlò in autobus fu
proprio della necessità di un tuffo, un "tuffo trascendentale" mi disse
esattamente. È stato solo per opera di Dio se mi sono accorto che quella
che mi suggeriva era una via ben diversa dalla fede in Dio, e non gli sono
andato dietro.

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Mercante di perle

Invece cominciavo a capire che se la Bibbia era la parola di Dio, allora non
c’era da stupirsi che io mi ci riconoscessi e che la sentissi rivolta a me,
perché la parola di Dio è eterna, e quindi può ben parlare a distanza di
millenni. Il suo divino autore poteva ben essere in grado di guidarne la
lettura, come mi era accaduto e mi stava accadendo di sentirmi guidato a
leggere certi libri e certi capitoli della Bibbia piuttosto che altri. Come
spiegare altrimenti il fatto che quelle parole si riferivano direttamente a
me, alla mia vita quotidiana? Ma ancora non riuscivo a fare il primo passo,
quello decisivo.

Naturalmente questa lotta non mi era chiara in questi termini se non a


momenti. Soggettivamente prendeva piuttosto la forma di una guerra di
religione, un con itto mentale che continuamente cercavo di comporre.
Dagli studi di storia delle religioni, difatti, mi venivano molte indicazioni,
più o meno fantastiche, per accomunare fedi di differenti origini, ma poi,
dagli stessi studi, risaltavano anche profonde differenze. Soprattutto la
differenza tra le varie credenze religiose e la fede in Dio insegnata da Gesù.

Discorrevo con Renato di tutte queste cose. Ma da queste discussioni (per


lo più epistolari) non traevamo che argomenti per complicare il quadro già
abbastanza confuso delle nostre conoscenze. Gesù restava una delle vie, la
preferibile ai nostri occhi, ma pur sempre una delle tante. Ci sentivamo
cristiani: un giorno, il giorno del matrimonio di Renato, ci siamo anche
detti, in gran segreto, che credevamo nella resurrezione dei corpi. Ma
seguire la via di Gesù pensando che ce ne erano anche altre, per me
almeno, era impossibile. Inoltre nella Bibbia trovavo chiaramente scritto
che Iddio considerava il culto di altri dei come adulterio e come
fornicazione. Eppure con le mie forze non riuscivo a sottrarmi all’idea che
la gelosia fosse qualcosa che non si potesse attribuire a Dio, se non per
grossolana metafora. Pensiero che mi portava a screditare la Bibbia come
rivelazione di Dio e mi riportava alle mie considerazioni di storico delle
religioni pieno di fantasia e sprovvisto di fede. Invece quando credevo
fermamente (si fa per dire, perché era per brevi istanti) che Gesù è il Figlio
Unigenito di Dio, sentivo dentro di me pace, e nessun bisogno di tante
indagini e fantastiche ri essioni.

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Mercante di perle

A questo punto del racconto risulta forse più chiaro perché desiderassi
entrare in contatto con qualcuno che mi guidasse per mano. Si spiega la
mia lettera a Baget Bozzo. Si spiega come non solo un giorno sia andato a
sentire una conferenza di un monaco benedettino con un nome indiano
che dentro una chiesa del centro di Roma esponeva la sua loso a della
religione (un ottetto di vie di cui quella cristiana era la centrale), ma abbia
anche desiderato, senza però riuscirvi, di andare a parlare con lui come da
un padre spirituale.

Questo monaco piccolo e con i pochi capelli della chierica tenuti lunghi
sulle spalle, mi era sembrato di vederlo un giorno farsi a piedi Galleria
Sandrinelli (un tunnel che congiunge due piazze di Trieste). Le chiare
parole lette nel Nuovo Testamento dopo la visita al mio amico arancione
evidentemente non mi erano bastate. A Trieste difatti sono andato a
vedere un centro di yoga vicino a casa; sono andato ad assistere a una
conferenza di argomento esoterico a cui ero stato invitato; ho esplorato gli
angoli delle librerie dedicati alle religioni e all’occulto, cercando qualcosa di
interessante che non avessi già letto. Ma non trovavo niente di solido su
cui potermi appoggiare. Per questo, nonostante tutte le mie ricerche
esteriori, dentro di me continuavo a guardare alla Bibbia come all’unica
fonte di pace, e cercavo qualcuno che mi aiutasse a crederci.

Nella comunità di Trieste sono stato accolto con molto calore, come se mi
stessero aspettando. Ho sentito subito che il loro interesse per me era un
interesse disinteressato. Ho sentito che sapevano che era Dio che mi
aveva portato in mezzo a loro, e che solo lui mi ci avrebbe riportato. Non
ho sentito nessuna insistenza e nessun tipo di pressione. Sono stato anzi
impressionato dalla discrezione con cui si manifestava tanto interesse.
Difatti non sono stati il calore e l’amicizia degli uomini a farmi tornare.

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Mercante di perle

La mia prima necessità era stata quella di uno spazio e di un tempo per
pregare. A casa c’era sempre qualcuno che mi entrava in camera, o che
bussava, se la porta era chiusa, o che telefonava, o che suonava il
campanello. Ma soprattutto non mi sentivo capito nel mio bisogno di
inginocchiarmi, forse anche per via di tutte le genu essioni e strane
posture dei miei esercizi di yoga. Per la stessa ragione non sono mai
entrato a pregare in una chiesa cattolica: mi sarei sentito osservato. Invece
in mezzo a persone che si rivolgevano apertamente a Dio come a
qualcuno presente lì in quel momento, mi sentivo a mio agio. Non è che
pregassi tutto il tempo che stavo in ginocchio: spesso il pensiero correva
qua e là osservando e ascoltando ma senza sentire niente con il cuore;
spesso capivo qualcosa, altre volte qualcos’altro mi risultava oscuro, o
addirittura mi sembrava sbagliato. Ma n dalla prima volta che mi sono
inginocchiato nella comunità assieme ad altri credenti ho sentito, in quel
semplice gesto fatto in comune con il cuore e con convinzione, la
vicinanza e l’intimità della vera amicizia.

C’era anche un altro fatto nuovo: spesso prima della preghiera il pastore
esortava a liberarsi di tutti i pensieri e di tutte le preoccupazioni che
potevano essere di impedimento al colloquio personale con Dio,
mettendo ogni cosa davanti al Signore, con fede che non solo Dio
conosce ogni cosa, ma anche ha già preordinato, per coloro che lo
cercano, cose molto migliori di qualsiasi fantasticheria. Seguendo questo
consiglio, effettivamente, almeno per il tempo che restavo in mezzo ai
credenti, il pensiero del mio futuro (prossimo e remoto: pasti e
programmi) non mi disturbava più.

Ogni volta che ci si riuniva veniva anche predicata qualche parola, o veniva
raccontato qualche fatto, o qualche esperienza. Questi racconti, queste
esortazioni, e questi insegnamenti pur armonizzandosi con quello che già
conoscevo della Bibbia, mi risultavano ugualmente sempre nuovi. Così
ogni volta me ne andavo diverso da come ero venuto, e felice di aver
trovato quell’oasi di pace.

La cosa principale che ricordo di avere appreso in quei giorni è la necessità


che la Chiesa ha del suo Signore. Ascoltavo chiedere guida, e dovevo
riconoscere che l’Eterno effettivamente rispondeva guidando.

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Mercante di perle

Mi confermavo in questa evidenza, che senza lo Spirito di Dio la Chiesa è


morta. La Chiesa difatti, come leggevo anche nei libri del Nuovo
Testamento, ha cominciato a operare dal giorno del battesimo nello
Spirito Santo, il giorno della Pentecoste. Come ho già ricordato, sono stato
convinto dal modo di leggere la Bibbia che veniva praticato. Non venivano
date delle interpretazioni, su base storica, o teologica, o simbolica. Le
parole della Bibbia venivano riferite a oggi e a noi lettori credenti, a
ognuno che legge, secondo che in lui opera la fede, per credere che la
Parola di Dio è lo Spirito che parla alla Chiesa. E la Bibbia la capivo così,
credendo, e in nessun altro modo.

Eppure, nonostante la mia adesione mentale, arrivai in breve ad un punto


morto. Le parole che avevo ricevuto diventarono presto delle morte
interpretazioni. Mi sembrava di avere capito nella sostanza tutto quello
che c’era da capire e cominciavo a sentire la mia assidua frequenza come
una meritoria offerta di tempo e capacità. Inoltre in qualche modo con i
miei pensieri attribuivo la causa di questo blocco, anziché a me, alle
persone che mi stavano intorno.

Erano pensieri di giudizio che non condividevo completamente con il


cuore, ma che si accompagnavano all’idea covata nel profondo che la mia
cultura e la mia preparazione potessero essere di qualche speciale utilità
per Dio. Giudicavo soprattutto le preghiere (le preghiere ad alta voce che
in comunità volta a volta ognuno può sentire la libertà di fare per guidare
e uni care la preghiera di tutti gli altri), che mi sembravano confuse,
teologicamente imprecise (si rivolgevano al Padre, o al Figlio? e allo Spirito
Santo?). Insomma mi sentivo qualcuno, e, nonostante tutte le porcherie
che avevo fatto nella mia vita, mi sentivo anche fondamentalmente
giusto.

96
Mercante di perle

Naturalmente mi guardavo dal dare qualche segno di questi miei pensieri:


sapevo bene, in teoria, che nessuno è giusto davanti a Dio se non Gesù
Cristo e che erano i Farisei a protestarsi giusti davanti agli uomini. Per
questo, quando Velio me ne parlò, ebbi la certezza che era stato il Signore
a rivelargli le cose che aveva avuto da dirmi. Mi si era avvicinato prima del
culto, dicendomi, all’incirca: “Sta scritto: «riprendi il savio e t’amerà». Per
questo non te la prendere per quello che ti devo dire. C’è dell’orgoglio
dentro di te, ti senti superiore agli altri qui. Questo tuo senso di superiorità
è ciò che ti separa dagli uomini e soprattutto da Dio.” Era la pura verità,
una verità così pura che io con le mie labbra impure non l’avrei mai potuta
confessare. Io avevo sempre detto di sentirmi semmai inferiore e non
certo superiore agli altri (senza per altro rendermi conto della superbia
insita in questo presunto sentimento di inferiorità). Ringraziai Velio di
quelle parole e subito dopo, iniziato il culto, scendemmo tutti in preghiera.
In ginocchio sentii il peso della mia condizione. Se mi fossi liberato da solo
dall’orgoglio - pensai - l’orgoglio sarebbe in realtà cresciuto, perché mi
sarei appunto sentito capace di liberarmene.

Alla mia mente abituata ai ragionamenti loso ci l’impossibilità di


liberarmi dall’orgoglio si presentava come questa specie di paradosso, che
forse avevo anche letto da qualche parte (Martin Buber?). Ma quello che
sentivo dentro al mio cuore non era un discorso astratto, piuttosto una
convinzione che riguardava tutta la mia vita e tutti i miei sforzi di
migliorarmi con lo studio e anche con le religioni, sforzi che ora mi
apparivano perfettamente vani, anzi nocivi. Ricordo di avere gridato
dentro di me e di avere pianto. Mentre piangevo ho capito perché Gesù
era dovuto morire per i peccatori. Ho realizzato che era morto anche per
me. Per fede (una fede che no a quel momento non avevo avuto)
realizzavo anzi che Gesù aveva accettato di morire proprio per me, perché
non solo genericamente gente come me, ma proprio io potessi
conoscerlo e diventare suo discepolo. Certo anche io, ma quell’“anche”
aveva perso il senso di “uno più uno meno” che ha nell’espressione
ordinaria della verità logica secondo cui Gesù essendo morto per tutti gli
uomini è morto anche per ognuno di noi. Era il mio peccato, non quello
degli altri, che mi aveva fruttato la condanna a morte. Ed era per la mia
condanna che Gesù aveva sopportato il supplizio.

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Mercante di perle

Quando mi sono rialzato era come se nella mia vita qualcuno avesse
acceso la luce, che, come succede alle volte di pomeriggio, man mano era
venuta scemando. Mi sentivo felice e leggero. Avevo nalmente
imboccato la strada di Cristo. E difatti, da quel momento, è iniziato il vero
travaglio.

Dopo aver creduto col cuore, nella testa cominciarono a turbinare un


sacco di pensieri. Ora non più sulle persone che stavano attorno a me, ma
nuovamente su Gesù. Pensieri di dubbio e di dif denza che non
accettavo e che non potevo né volevo esprimere, perché capivo
benissimo che si trattava di bestemmie della peggior specie.
Riguardavano Gesù e il popolo di Israele, come se le verità di Dio fossero
delle loro pretese. Come se Gesù volesse carpirmi la mia libertà
(dimenticavo di non essere affatto libero), come se il suo Spirito fosse uno
spirito seduttore.

Riconoscevo in questi pensieri la mia vecchia natura di ribelle che non


voleva saperne di morire. D’altra parte, mi dicevo, se Gesù non è Dio, allora
chi è Dio? Quale altro Dio ho conosciuto se non il Dio d’Israele, quale altro
Dio mi ha fatto conoscere il suo amore? Ormai non potevo più fare nta di
non avere udito con il cuore l’invito di Dio. Mi era sempre più evidente che,
come mi aveva detto la madre di Paolino, Gesù mi amava. Non potevo
negare questa realtà: Gesù mi amava, e mi amava tanto da sopportare
anche quei miei pensieri di suf cienza e di dubbio. Mi si stava rivelando
per il mio bisogno, nonostante io dubitassi di lui. Ma se avessi continuato a
ri utare sapendo tutto ciò, quanto avrebbe dovuto durare il suo dolore?
Eppure continuavano a venirmi dei pensieri terribili.

Mi ritornavano i miei pensieri sulle “altre vie”. Mi tornavano e tornavano a


tornare. Pensavo che in fondo anche lo yoga della Bhagavad Gita, per
esempio, o il buddismo zen insegnavano ad annullare il proprio io e a
cercare lo Spirito. Ma mi rendevo conto abbastanza bene del fatto che si
trattava di tentazioni perché mi era chiaro che questi pensieri
rispondevano al mio desiderio di trovare una scorciatoia per il cielo, una via
che non passasse per Gesù, e cioè innanzitutto per un sincero e fruttuoso
pentimento.

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Mercante di perle

I testi religiosi e mistici mi assicuravano che era possibile penetrare nelle


realtà celesti anche attraverso altre vie, ma quando mi lasciavo andare a
seguire questi pensieri sentivo un’agitazione crescente, una specie di
dispetto. Le parole della Bibbia mi diventavano lontane, tanto più il
pensiero di chi le predicava, e ritornavo a sentirmi da solo per la mia strada.
Invece quando, rendendomi conto che da quei pensieri non ricavavo nulla
di buono, ritornavo a credere che Gesù è l’unigenito glio di Dio, come
dice la Bibbia, allora l’agitazione spariva e la Bibbia la sentivo nuovamente
vicina, nelle sue pagine trovavo nuovamente riposo, conforto e
illuminazione. Cominciavo a capire che non si trattava di scegliere un
credo a partire dalla mia cultura, dal mio gusto e dalla mia situazione
anagra ca: non si trattava di scegliere tra dottrine e parole. Le dottrine
potevano assomigliarsi moltissimo e c’erano effettivamente molte
dottrine orientali sorprendentemente simili all’insegnamento di Gesù. Ma
non si trattava di questo. Si trattava piuttosto di scegliere se restare sotto
il mio io, sottomesso ai padroni spirituali di questo mondo, che facevano di
tutto per trattenermi ma che non potevano darmi pace perché non ne
hanno, oppure accettare Gesù come mio liberatore e Signore, Gesù che
non mi faceva violenza, e che mi aveva già fatto gustare la sua pace.

Ma, oltre agli allettamenti orientali (mi affascinava soprattutto il buddismo


zen, le cui dottrine e pratiche più si avvicinavano alla mia idea di verità e di
bellezza), c’era qualcos’altro che mi tratteneva dall’aprirmi completamente
a Gesù, qualcosa che mi teneva legato da dentro. Era un’immagine, quasi
un’idea, oscura e confusa. Un’immagine di me stesso, come quella che
nell’adolescenza mi aveva costretto a fumare e a tenermi i capelli lunghi.
Un’immagine ambigua e composita, perché ai tratti del mio personaggio,
con le doti e i limiti che avevo imparato a conoscere dalla ripetizione di
tante storie, si erano aggiunti da qualche tempo anche un tema astrale
che mi ero fatto tracciare a Morelia da un ex-prete sindacalista e astrologo
(più le successive elucubrazioni che ci avevo fatto sopra io), e alcune gure
mitologiche in cui mi ero riconosciuto e a cui mi andavo identi cando
(Epimeteo, e altri “santi” sopportatori).

99
Mercante di perle

Naturalmente non credevo seriamente a queste melanconiche


identi cazioni. Mi sembravano però pur sempre più realistiche delle
affermazioni della Bibbia, che dice che siamo fatti a immagine e
somiglianza del Creatore dell’Universo, e che ci esorta ad andare a lui,
seguendo in tutto e per tutto l’esempio di Gesù. Ma la chiamata di Dio,
tanto profonda che bisogna fare forza su se stessi per ascoltarla perché ci
sembra follia, è anche potente e luminosa, e a questa luce le mie
immagini mi apparivano per quello che erano: vuote e morte fantasie.

Ho cominciato a lottare - e continuo ancora - contro queste immagini


morte. Ma non lotto da solo, perché è proprio in questa lotta che ho
imparato a conoscere la potenza dell’aiuto e della vittoria di Dio. Un giorno,
all’uscita dal culto domenicale, sono stato preso da una forte nausea e dal
pensiero che quella fosse la mia “vera” risposta al progetto di diventare
cristiano. Grazie a Dio mi fu subito chiara la natura spirituale (diabolica) di
quel malessere e dentro di me mi misi in preghiera. Ero invitato a pranzo
con Paola e i bambini a casa di una famiglia di amici di lunga data, che non
capirono la mia serenità e le parole di vittoria annunciate dopo che quel
malessere passò.

Dopo aver creduto con il cuore che Gesù è morto e risorto per me, era
necessario che confessassi con la mia bocca che egli è il Signore 1. In altre
parole dovevo rendere pubblica la mia decisione di seguirlo e di obbedirgli
in tutto e per tutto. Altrimenti sarei rimasto chiuso nei miei pensieri e
nelle mie paure.

Cominciai con il farmi avanti un giorno che un ministro in chiesa aveva


invitato coloro che desideravano dare la loro vita a Gesù ad avvicinarsi per
pregare assieme. Quelli che siamo andati avanti abbiamo confessato di
essere dei peccatori e di avere bisogno del perdono e della grazia di Dio
per essere liberati dai nostri errori.

Anche quella è stata una vittoria. Prima di alzarmi ero trattenuto da mille
timori. Alzandomi invece è come se mi fossi abbandonato a una corrente,
una corrente calma. Tutte le cose avvenivano nella pace e nella verità.
C’era la potenza del Signore, che si manifesta perfetta nella debolezza
dell’uomo. E dopo essere tornato al posto sentivo chiaramente che era
successo qualcosa; che, non badando ai miei giudizi (cioè a quello che
avrebbe potuto pensare il mio mondo), avevo fatto un altro passo verso
Gesù.

100
Mercante di perle

Cominciai a sentire sempre più forte il desiderio di essere battezzato.


Perché appunto stavo imparando a non ascoltare i pensieri e le parole che
si opponevano alla mia decisione, quando sentivo nel mio cuore (e sapevo
dalla Bibbia) che qualcosa era la volontà di Dio. Niente poteva e niente
doveva rubarmi la gioia e la pace che avevo goduta nel fare ciò che il
cuore, nonostante tutte le proteste della testa, mi diceva essere la volontà
di Dio. Ma ugualmente i dubbi continuavano ad assalirmi, vinti soltanto
dalla semplicità, dalla profondità e dalla verità delle parole di Gesù. Ed io mi
accorgevo di essere un peccatore incallito perché non avevo creduto e
non riuscivo ancora a credere appieno a quelle semplici parole di grazia.
Parole che poi non erano solo parole. Nessun altro si era offerto di morire al
posto mio. E nessun altro era risorto perché anch’io potessi resuscitare. Ma
per conoscere più profondamente queste cose di cui la Bibbia mi dava
ampia assicurazione, per sapere con certezza che queste verità mi
avrebbero liberato dalle mie paure, dovevo credere e fare le cose che Dio
mi guidava a fare. Innanzitutto, secondo la Bibbia, dovevo essere
battezzato. Gesù stesso l’aveva insegnato con l’esempio.

Il battesimo è un gesto incomprensibile e ripugnante per la mente


dell’adulto. All’inizio, quando frequentavo per le prime volte la comunità,
non ci volevo nemmeno pensare. Come ho già detto, non volevo saperne
di morire. Invece adesso stavo cominciando a gustare gli incontri con il
Signore, e cresceva sempre di più il desiderio di rimuovere tutti gli ostacoli
che si frapponevano tra me e lui. Il principale ostacolo essendo appunto il
mio io.

Vinte, per il momento, le mie resistenze, mi è stato molto facile non


tenere conto del parere contrario di mia madre, e stando a quello che mi
disse lei, anche di quello di mio papà. Mia madre naturalmente diceva che
io ero già battezzato, che non dovevo cambiare la mia religione, che stavo
entrando in una setta. Ma il Signore mi dava la certezza che tutte queste
obiezioni erano come nulla, perché non stavo cambiando religione, ma
semplicemente seguendo la Parola di Dio. E dovevo battezzarmi
semplicemente perché non ero ancora stato battezzato, cioè immerso,
nel nome e nella morte di Gesù. Né io avevo avuto fede quando ero stato
spruzzato da piccolo, né l’avevano fatto per fede i miei genitori, semmai
per conformismo o, nella migliore delle ipotesi, per paura che mi toccasse
il Limbo anziché il Purgatorio, cioè in fondo per poca fede in Gesù (che, tra
l’altro, non ha mai parlato né di purgatorio, né tanto meno di limbo).

101
Mercante di perle

Sapevo che la mia ostinazione non era egoismo ma tutto il contrario.


Perché solo con la determinazione e la perseveranza nel credere potevo
essere salvato io e tutta la mia casa. Ma intanto restava sempre l’incertezza
del prima di provare. Gesù è una roccia che si conosce solo per esperienza.

Quando a novembre, dopo un anno circa dalla prima volta che sono
entrato nella comunità di Trieste, mi sono fatto battezzare (nella comunità
di Udine, dove c’è una vasca), ho provato una grande gioia. Di nuovo un
senso di vittoria, di una grande vittoria. È stata una cosa molto semplice:
Velio ed io siamo entrati in una vasca con l’acqua che ci arrivava alle cosce;
ho affermato di essere un peccatore e di accettare Gesù come mio
personale salvatore e sono stato immerso, nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo. Ad assistere, oltre alla comunità di Udine e a quella di
Trieste quasi al completo, c’erano anche mio padre, mia moglie, mio
fratello e la mia futura cognata. Mi ricordo il viaggio di ritorno in macchina
e le discussioni con mia moglie (mio padre invece diceva di capirmi). Ma
soprattutto ricordo di aver percepito chiaramente che quella gioia che
no allora avevo sentito intorno a me in mezzo ai credenti, adesso era
entrata dentro di me. Ero effettivamente stato immerso in qualcosa di
nuovo. Ero entrato in una nuova realtà. La discussione con mia moglie, per
esempio, non mi agitava più: adesso dentro di me sentivo palpitare una
vita nuova, e questa vita era l’unica cosa importante, perché sentivo che
non era solo per me.

Una cosa che mi aveva colpito n dall’inizio della preparazione del testo
per la trasmissione sul movimento pentecostale era stata quanto poco si
tenesse conto in genere dello Spirito Santo, quanto poco ne avessi sentito
parlare, nonostante tutti i libri letti.

Nel mio ricordo della dottrina cattolica lo Spirito Santo era una delle tante
parole strane, poi invece è diventata una espressione d’uso, il cui
signi cato restava giusti catamente impreciso data la scarsa de nizione
dello stesso termine spirito. Di spirito avevo risentito parlare studiando
loso a. Nei primi anni dell’università mi ero letto tutta la Fenomenologia
dello Spirito di Hegel. Poi avevo letto quel libro di Jung sulla psicologia
dello spirito, che tra l’altro era preceduto da un saggio di uno studioso che
parlava dello Spirito nella Bibbia. Di Spirito (Purusha) parlavano anche i
testi di loso a indiana di cui mi sono riempito la testa.

102
Mercante di perle

Quando ho cominciato a leggere la Bibbia ho subito realizzato che quel


libro non mi parlava dello Spirito, ma era lo Spirito che mi parlava. Del resto
è scritto in vari luoghi che il Signore è Spirito. Ho cominciato a
meravigliarmi che non fosse stata data suf ciente importanza a questo
fatto. I libri di teologia sullo Spirito Santo che ho letto mi sono apparsi
totalmente vuoti di spirito. Ho trovato invece conferma di ciò che stavo
cominciando a intravedere in molte testimonianze di persone la cui vita,
come quella di Saulo di Tarso, era stata cambiata dall’incontro con questo
Spirito. Cosa signi casse in termini più chiari il fatto che Dio è Spirito non
lo avrei saputo dire. Ma restava questa realtà, in qualche modo
emozionante, che la Bibbia che tutti conoscono almeno di nome e che
molti, almeno nominalmente, accettano come parola di Dio era stata
proprio l’opera vivente dello Spirito Santo. Ero emozionato dalle
conseguenze teoriche di questo fatto.

Ma la parola di Dio non è teoria, appunto "è vivente ed ef cace e più


af lata di qualunque spada a due tagli" 2, lo Spirito ha una spada, che è
appunto la parola di Dio 3, una spada che separa effettivamente ciò che è
di Dio e che può avere comunione con lui da ciò che non gli appartiene (la
ribellione del nostro io con tutte le sue male che conseguenze). Questa
spada avevo già potuto sperimentarla dentro di me come un bisturi
liberatore, quando mi era stato rivelato il mio peccato di superbia, e poi,
man mano che iniziava a staccarmi dal desiderio delle cose di questo
mondo rivelandomele come vanità. Frequentando i culti a Trieste ho
cominciato a poter vedere questo Spirito all’opera anche fuori di me in
mezzo ai credenti, perché le esortazioni, le preghiere, i canti, le
testimonianze avevano sempre un ordine e un senso che non potevano
essere stati prestabiliti da nessuno, e per me era sempre più evidente che
tutte quelle cose erano state preparate da Dio e rivelate per la guida del
suo Spirito. Avevo assistito anche a molte opere potenti del Signore:
persone che in seguito a preghiere fatte con fede erano guarite da
malattie considerate inguaribili; o erano uscite da situazioni familiari
insostenibili; o erano state liberate da spiriti che le possedevano. Molti altri
fatti mi erano stati raccontati. Ma la potenza di Dio, più che in queste
grandi cose, mi si iniziava a manifestare nella sua opera continua e
capillare, di cui lo Spirito Santo mi dava una perfetta convinzione, e più
ancora che nei miracoli potevo constatare la fedeltà del Signore nei
quotidiani gesti con cui mi confermava di prendersi effettivamente cura
di me e della mia educazione spirituale.

103
Mercante di perle

Riuniti nel nome di Gesù, le parole che ascoltavo lette e predicate le


potevo immediatamente riferire a questa esperienza personale della
realtà di Dio nella mia vita, perché, soprattutto in chiesa, percepivo
innegabilmente una invisibile presenza personale. La presenza di una
persona estremamente potente, ma anche molto dolce, molto pura e
molto calda che non si nascondeva al mio cuore, ma anzi si faceva sentire,
e non solo a me ma a tutti quanti assieme. Qualcuno che, per fede,
cominciavo a conoscere come lo Spirito Santo di Dio, lo Spirito di Gesù.

Scendendo nell’acqua della vasca battesimale per obbedienza alla parola


di Dio, lo spirito di questa parola, lo spirito della verità era entrato in me. E
da dentro cominciava a puri carmi e a vivi carmi.

Fin dall’inizio delle mie ricerche bibliche ero rimasto colpito dall’episodio
della Pentecoste. Non solo perché dovevo scrivere del movimento
pentecostale, ma perché il miracolo di persone che parlano lingue che
non hanno imparato mi istruiva sulla natura spirituale dell’amore di Dio,
cioè sulla sua potenza. Nella Bibbia ed in altri libri evangelici avevo letto
che il dono dello Spirito Santo era per tutti i credenti. Avevo letto di servi
di Dio che avevano predicato in lingue nei nostri giorni e che il loro
messaggio era stato compreso da persone di cui non parlavano e non
capivano la lingua, persone che si sono convertite in seguito a quella
predicazione. Sapevo che il dono di parlare in lingue era molto diffuso
nelle chiese evangeliche pentecostali, e che veniva considerato la prima
manifestazione del battesimo nello Spirito Santo. Queste cose le trovavo
con stupore anche nel Nuovo Testamento raccontate come cose normali
della prima chiesa, e senza nessuna indicazione che fossero cose che
dovevano smettere con gli anni (ma solo al ritorno del Signore). Anzi il
battesimo dello Spirito Santo per la chiesa, dal Vangelo risultava lo scopo
ultimo degli anni di Gesù sulla terra. Gesù ha insegnato a cercarlo senza
timore dicendo: “E chi è quel padre fra voi che, se il gliolo gli chiede un
pane gli dia una pietra? oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente?
oppure ancora se gli chiede un uovo gli dia uno scorpione? se dunque voi,
che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri glioli, quanto più il
vostro Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo
domandano?” 4.

104
Mercante di perle

Così anch’io, timidamente, cominciai a domandare lo Spirito Santo in


preghiera. Prima avevo fantasticato che sarebbe sceso su di me il giorno
del mio battesimo in acqua, come era successo a Gesù. Poi ho cominciato
a pensare che evidentemente non ne ero ancora degno, come se questo
battesimo arrivasse come riconoscimento di qualche speciale merito.

Nonostante questi pensieri lo desideravo e lo sospiravo. Lo chiedevo con


poca fede, ma sentendone sempre più il bisogno. Perché sempre più mi
rendevo conto che da me non sono capace di fare nulla di buono ed ho
necessità di essere guidato da Dio in ogni cosa. Avevo chiesto il battesimo
dello Spirito Santo anche pubblicamente e mi erano state imposte le
mani da fratelli che l’avevano chiesto in preghiera per me, ma ancora
facevo troppi pensieri e non riuscivo a credere con suf ciente semplicità.

Dopo un anno circa dal mio battesimo in acqua, una notte che mi sono
attardato in preghiera in ginocchio sul pavimento del bagno, ho sentito
crescere la comunione con Gesù, la con denza con lui, ed ho cominciato a
sentire dentro di me cose che non riuscivo a dire con le mie parole, ma la
mia bocca si muoveva e qualcosa dicevo. Anche se era solo un balbettio,
ho sentito che avevo libertà, nel cospetto di Dio, di balbettare a quel
modo. Comprendevo anzi che il Signore gradiva il fatto che parlando a lui
non mi appoggiassi più sulla mia intelligenza ma lasciassi sgorgare dal
cuore le cose che ne uscivano. Lo gradiva e lo gradisce perché, con mia
inesauribile meraviglia, in preghiera, nel nome di Gesù, dal mio cuore non
sgorgano più i desideri e le scemenze di una volta, ma cose sante, misteri
che nella mia bocca diventano parole incomprensibili per la mia carne, e
un balsamo per lo spirito.

Non è che dal giorno che ho ricevuto il dono delle lingue mi rivolgo a Dio
solo con espressioni inintelligibili. Se posso parlare a Dio in lingue
dicendogli cose che nemmeno capisco, posso anche aprirgli il mio cuore
raccontandogli le cose che capisco. Questo è solo più dif cile, ma è anche
più necessario.

In Gesù ho trovato un vero amico, un amico che posso frequentare più o


meno spesso, a cui posso pensare più o meno intensamente, perché lui
non mi ama per quello che gli do. Ma certamente più sto con lui, più il mio
amore per lui aumenta, cioè aumenta il mio desiderio di stare con lui, di
pensare assieme a lui.

105
Mercante di perle

I pensieri di autocompiacimento, di giudizio, di condanna, di invidia, di


desiderio egoistico ecc. che ogni tanto mi viene di fare, pensieri che non
vengono dalla fede ma dal dubbio, sono pensieri che faccio da solo, in
qualche modo appartandomi da Gesù, e per lo più senza rendermi conto
di quanto ingiusti essi siano. Invece i pensieri che mi sorgono
rivolgendomi a Cristo sono pensieri giusti, buoni e veri, perché assieme a
lui penso con la sua luce e secondo la sua giustizia. E stando con lui mi
pento anche dei pensieri fatti senza di lui (perché con lui mi rendo conto
che Gesù conosce tutti i miei pensieri e che non gli posso nascondere
nulla). Il mio pentimento poi, grazie alla sua presenza, può tramutarsi in
esplicita richiesta di perdono e di liberazione. Una viva richiesta, perché
con quelle cose dentro non posso stare veramente con lui con tutta la
desiderata intimità, come non si riesce a stare veramente con un amico se
si ha qualcosa che non gli si può o non gli si vuole dire.

Ricapitolando da questo punto (che non è un punto di arrivo, ma di


partenza), il passato mi appare come una notte che son ben lieto sia già
trascorsa. La solitudine interiore, diventata con la pubertà condizione
abituale, mi era sembrata così inequivocabilmente la realtà, da farmi
apparire come follia qualsiasi speranza di un contatto spirituale profondo.
In certi autori, soprattutto di loso a, avevo trovato delle anime gemelle,
ma erano come dei compagni di prigionia perché ciò che ci accomunava
era la coscienza della separazione dal nostro prossimo, e il contatto
reciproco non era affatto incoraggiato. La speranza di poter avvicinare e
conoscere l’interno di un altro essere vivo continuava ad essere una
chimera. Le esperienze con il sesso e la droga avevano trasformato poi
questa chimera in una specie di vizio, perché mi ero accorto che in una
certa misura il contatto era possibile. Ma questo durava un tempo limitato,
restando condizionato all’incontro con un corpo femminile o
all’assunzione di certe sostanze, e di conseguenza non era esente da un
certo sospetto di illusorietà. Anzi, più che di un sospetto si trattava di una
specie di condanna: non erano cose di cui si potesse parlare. 

106
Mercante di perle

Anche se erano di gran lunga le percezioni più forti che avessi mai avuto,
erano lo stesso cose che andavano assolutamente messe tra parentesi, se
non volevo cominciare a camminare per le strade della follia, e dopo
grandi aperture mi ritrovavo più rinchiuso di prima, come una bestia in
gabbia. Insomma, nonostante molte esperienze e nonostante il calore di
certe particolari amicizie e di certe condizioni geogra che, continuavo a
sentirmi sostanzialmente solo. Tanto che sempre più mi convincevo di
essere l’unica vera realtà dentro cui potessi cercare qualcosa. Mi
confermavano in questa idea le tradizioni orientali, su cui avevo tanto letto
e che (pur super cialmente) avevo anche praticato. Leggevo che la Via
(Dio), dovevo trovarla dentro al mio cuore. Io cercavo, guardavo, tendevo
l’orecchio, ma non trovavo Dio. Avevo trovato degli dei, anzi dei demoni,
ma non certo il Santo d’Israele. Dio non era dentro di me. Dentro di me, in
un modo o nell’altro, al centro di tutto c’ero sempre io. Quei testi mi
dicevano che dovevo liberarmi di quell’io, e avrei trovato la conoscenza e la
luce. "Sarà", dicevo. Ma le persone che mi si erano offerte come guida per
quel viaggio interiore mi erano apparse strapiene di sé. E, come unico
effetto di quei contatti, alla certezza di essere da solo con me stesso, si era
aggiunto il dubbio di essere un incapace condannato all’infelicità.

Ma come avrei potuto sapere con certezza, se non proprio ricevendolo nel
mio cuore, che non era affatto vero che Dio fosse già dentro di me, e che
non era vero che non l’avevo trovato perché ero stato pigro nella mia -
egoistica - ricerca (o, ancora peggio, perché non ero nato in un certo
tempo, in un certo luogo e in una certa famiglia)? Solo Dio stesso,
donandomi la sua amicizia, ha potuto liberarmi da questi errori e da
questa carceraria solitudine.

Ora so con certezza che Dio non è già dentro gli uomini, come le religioni
vogliono far credere, ma è in Gesù. Ha scelto Gesù come unica via per
entrare in noi, e solo attraverso Gesù noi potremo entrare in lui.

So anche che occorre essere ben decisi per camminare su questa via,
perché è una via angusta. Ma è anche una via molto sicura, perché
nessuna bestia può percorrerla.

107
Mercante di perle

NOTE

1. Romani, 10:9-10.

2. Ebrei, 4:12.

3. Come è scritto anche in Efesini, 6:17.

4. Luca, 11:11-13.

108
Mercante di perle

CAPITOLO VI
CITTADINO DEL CIELO

Così parla il SIGNORE: Maledetto l'uomo che con da nell'uomo e fa della


carne il suo braccio, e il cui cuore si allontana dal SIGNORE! Egli è come
una tamerice nel deserto: quando giunge il bene, egli non lo vede; abita in
luoghi aridi, nel deserto, in terra salata, senza abitanti. Benedetto l'uomo
che con da nel SIGNORE, e la cui ducia è il SIGNORE! Egli è come un
albero piantato vicino all'acqua, che distende le sue radici lungo il ume;
non si accorge quando viene la calura e il suo fogliame rimane verde;
nell'anno della siccità non è in affanno e non cessa di portare frutto.
Geremia, 17:5-8

Alcuni anni fa, non ricordo bene in che occasione, mio padre mi diceva di
essersi meravigliato per la precocità con cui io, già all’età di tredici o
quattordici anni, ho espresso la mia pessimistica percezione del passare
del tempo. Chiacchierando, gli avevo detto di essermi oramai rassegnato a
vedere sparire le cose belle e crescere sempre più le brutte, che questo
fosse il corso normale del tempo.

Il mio termine di riferimento, più che un rione o una città (ne ho cambiate
tante), è stato, n da quando ero molto piccolo, un paesino della costa
sarda, Stintino, quello in cui abbiamo iniziato a stendere la tesi Paola ed io.
Come ho già detto, Stintino era il posto dove andavamo ogni anno in
vacanza con la mia famiglia, anche dopo il nostro trasferimento in
continente. Era anche il posto dove potevo giocare per strada, e che
conoscevo “come le mie tasche”. Oltre al paesino, costruito da pescatori
liguri all’inizio del secolo, non c’erano che pochissime case sperdute. Poi,
poco a poco, le case sono cominciate a crescere. 

109
Mercante di perle

Prima delle singole villette, però, è apparso un grande albergo: il Rocca


Ruja, una immensa costruzione in cemento a forma di “S” rovescia (la “S” di
Soldi?), a lato di una splendida spiaggia di sabbia bianca e molto pesante,
con un’acqua per questo limpidissima e verde smeraldo come quella di
una grande piscina. Questo albergo, di proprietà di un famoso miliardario
milanese, anche per noi bambini era diventato il simbolo della minaccia
che incombeva sul nostro paradiso terrestre. 

Ma il paradiso era già stato abbondantemente contaminato. Quando ho


cominciato ad esplorare con maschera e pinne il mondo che sta sotto il
pelo dell’acqua, mio padre mi diceva che solo dieci anni prima il mare era
molto diverso, perché brulicava letteralmente di pesci. Poi era venuta la
pesca a strascico o addirittura con gli esplosivi. Sempre i soldi, l’amore per i
soldi. Dove c’era qualcosa di buono, c’era anche il rischio o meglio la
certezza che prima o poi sarebbe venuto qualcuno a impossessarsene per
trasformarla in soldi.

110
Mercante di perle

Poco a poco in me si radicava l’idea che i ricchi fossero i nemici della Terra e
dell’umanità, e che sarebbe bastato togliere di mezzo la proprietà privata
per eliminare tutti i nostri principali problemi. Trovavo che molte altre
persone avevano già pensato nella stessa direzione, e cominciai a
desiderare di essere ammaestrato da queste persone. Ricordo in
particolare, pochi mesi prima di trasferirmi da Padova a Trieste, all’età di
tredici anni, un viaggio in montagna con la famiglia di un mio amico, e la
mia invidia per questo amico che poteva essere continuamente istruito
dai suoi genitori (entrambi comunisti) nella conoscenza delle verità
occultate dal sistema. In breve il mio giovanile impegno politico era
diventato notorio; un amico ebreo di mio padre, regalandomi un libro
degli Editori Riuniti, mi aveva scherzosamente ed affettuosamente
chiamato “giovane intellettuale di sinistra”. De nizione che mi piacque e
alla quale nei mesi successivi ho cercato di attenermi, no a quando non
sono stato bocciato (in IV ginnasio), perché, per leggere e meditare
qualche testo comunista e per frequentare le riunioni e le birrerie, non
studiavo più quasi niente. Dopo un breve periodo maoista, ero entrato
nella FGCI, dove passavo praticamente tutti i pomeriggi, per lo più
oziando nel bar. Nelle riunioni non mi facevo avanti, perché avevo sempre
molti dubbi e molti problemi personali; anche in bar ero vittima
consenziente di numerose prese in giro. 

Negli anni successivi, così, anche a causa dell’infelicità della mia vita di
partito, il mio impegno politico è andato progressivamente perdendo di
spessore. Rispetto ai problemi della gente, le soluzioni politiche mi
apparivano sempre troppo astratte, e, nonostante tacciassi di
qualunquismo luoghi comuni come “la politica è una cosa sporca”, dentro
di me la politica la vedevo sempre più come un gioco autonomo, slegato
dalla vera realtà. Continuavo a considerarmi un comunista, ma mi sentivo
sempre più lontano dai comunisti. Soprattutto a Bologna. Gli stessi
autonomi mi sembravano troppo organizzati, troppo sicuri di sé. Anche il
movimento del’77 mi sembrava esagerato. Ho seguito, con una certa noia,
solo alcune assemblee, più che altro per stare con Renato che invece
sentiva il dovere di “partecipare alla storia”.

111
Mercante di perle

Io mi sentivo più vicino ai barboni e ai piccoli delinquenti. Il mio problema


e il mio ideale politico (micropolitico, come si diceva in quegli anni) non era
il potere, ma la sopravvivenza. Trovare la forma di vivere gratis, senza
pesare sugli altri (o pesando il meno possibile), ma anche senza dover
lavorare. Vivere nascosto, da perfetto spettatore, impercettibilmente. In
realtà, perseguendo questi ideali di immaterialità, nivo col badare
soprattutto alle cose materiali: consideravo le differenze di prezzo anche
dell’ordine delle cinquanta lire e per risparmiare le cinquecento lire della
mensa (oltre alla la), andavo a rovistare tra i vassoi depositati. Anche a
casa degli amici spiluccavo dagli avanzi degli altri. Al mercato mi facevo
svendere le mele più avvizzite. Al ristorante, con Eco o con altri professori,
non chiedevo quasi mai un coperto, mi sedevo ad un angolo della tavolata
prendendo un po’ del pane del cestino e rubando talvolta il parmigiano
grattugiato dalla formaggiera.

In Messico, invece, la vita quasi gratis era una realtà. E anche l’ideale del
puro spettatore era molto più consono al carattere contemplativo della
gente, oltre che al continuo spettacolo della terra e del cielo. Dentro le
scon nate frontiere del continente Messico c’era veramente spazio per
perdersi, tra i monti e anche tra la gente. Naturalmente anche in Messico
c’erano i ricchi e i prepotenti, la forma dello stato però era diversa:
senz’altro più violenta, ma la sentivo molto meno opprimente. Poi c’erano
immensi spazi in cui l’uomo quasi spariva, spazi che facevano apparire al
confronto il territorio europeo come una specie di giardino aiuolato. Ed
effettivamente, ci dicevamo con Paola, l’impressione predominante in
Messico era quella di essere usciti all’aperto.

Anche in Messico avevo amici tutti impegnati nella soluzione di problemi


sociali e nella discussione politica. Più che con un partito eravamo in
contatto con una organizzazione di comunità di contadini, la UCEZ (Unión
de Comuneros Emiliano Zapata). Io e Paola facevamo i disegni per la rivista
di questa organizzazione. Ma la nostra collaborazione si fermava lì, e per
quanto mi riguarda anche l’adesione spirituale. Nonostante non dubitassi
dei racconti di tutti i soprusi perpetrati a danno degli indios da ricchi
allevatori e latifondisti, mi rendevo anche conto che la realtà era molto più
complessa di quella che i politici, che pur rischiavano la pelle, potevano
raccontare, e che i problemi erano molto più profondi.

112
Mercante di perle

Più che la tutela della proprietà comunale in sé, mi preoccupavo per la


libertà interiore della gente che vedevo minacciata dalla miseria, una
miseria che non dipendeva direttamente da loro ma dai debiti con il
capitale nordamericano e internazionale. Pensavo che presto per molti
non sarebbe più stato possibile vivere con poche lire come ancora
riuscivano a fare e quelli che ne erano in grado sarebbero dovuti andare a
vendere la loro vita nella capitale o negli Stati Uniti. Ma ancora peggio,
temevo e in parte già vedevo, che il pensiero dei soldi occupava
progressivamente la mente delle persone, rendendo meno sinceri i
rapporti, impedendo l’ospitalità, calpestando la dignità di persone con una
vita e una forza che io ammiravo profondamente. Un giorno a vedere un
vecchio contadino che mi bussava alla porta per chiedere la carità, non ho
potuto trattenere il groppo in gola e le lagrime.

Nonostante tutti questi timori, però, il contatto con il prossimo a Morelia


(gli sguardi delle persone per strada, in negozio o al caffè; i modi e le
osservazioni dei conoscenti; il comportamento degli amici) era di una
vitalità incomparabilmente maggiore di quello con la gente di Bologna,
per non parlare di Trieste. E anche a Roma mi sembrava di passeggiare tra
gli zombi.

Il ritorno dal Messico era stato molto duro, come svegliarsi da un bel sogno
in mezzo ai problemi di sempre. A Morelia vivevamo quasi senza soldi, in
una stanza con il sof tto rotto e in una casa senza bagno, e ci sentivamo
liberi e felici. In ogni momento poteva succedere l’imprevedibile, ma
sarebbe stato accolto come parte della vita. A Roma, invece,
l’imprevedibile era tornato a chiamarsi "disgrazia".

Un nostro amico francese seminaturalizzato messicano mi aveva detto un


giorno “Vedi, in Europa, se c’è un buco in terra, come minimo ci mettono
anche un cartello con su scritto «Attenzione al buco»”, e io, nel ricordare
questi discorsi, mi identi cavo con il punto di vista del mio amico,
provando la stessa insofferenza per le egoistiche ansiose sollecitudini della
gente. Le sentivo pesare su di me come una cappa di piombo, perché le
preoccupazioni dei miei connazionali (e soprattutto quelle dei miei
parenti), stando in Italia, ritornavano mio malgrado ad essere anche le mie.

113
Mercante di perle

A dire il vero quelle dei miei erano preoccupazioni abbastanza sensate.


Avevo un glio e presto ne avrei avuto un altro, e non avevo lavoro; ma
soprattutto non mi impegnavo a cercarlo e non riuscivo a impegnarmi. Ho
partecipato ai concorsi banditi in quel periodo per il dottorato di ricerca in
Semiotica, ma solo così, tanto per farli. Non volevo stare in Italia, avevo
sempre il pensiero di partire e non riuscivo a desiderare di trovare un
posto. Ma non sapevo neanche come partire. Difatti ho dovuto rinunciare
a una borsa di studio che avevo ottenuto dal Ministero degli Esteri per
continuare la mia ricerca sull’artigianato in Michoacan, perché non potevo
lasciare Paola da sola con un glio piccolo e incinta di un secondo, né
portarmela dietro per poi ritornare dopo un anno peggio di prima. Tanto
meno con bambini così piccoli si poteva partire all’avventura per andare
da qualche altra parte, come la prima volta (io l’avrei anche fatto, ma non
Paola, più saggia di me).

Inoltre sapevo che “non ci si reimmerge mai nello stesso ume” e che se
fossi tornato in Messico per ritrovare la perduta libertà mi sarei
probabilmente trovato anche peggio che in Italia. Tanto più che a Morelia
la vita diventava ogni giorno più dif cile. L’in azione stava ormai
galoppando come in molti paesi sudamericani e ci arrivavano notizie di
una sempre maggiore disperazione tra la gente. I nostri stessi amici e
colleghi dell’università stavano cominciando ad arrangiarsi con piccoli
commerci per arrotondare lo stipendio ormai insuf ciente.

Così mi rassegnavo a restare a Roma. Ma rassegnato non vuol dire


contento. Anzi ero proprio infelice. Continuavo a fare i miei pensieri
sempre più tetri. Quella città, come tutte le altre grandi città (sempre più
grandi, sempre più affollate di automobili) mi sembrava la grossa
metastasi di un enorme cancro che ormai inarrestabilmente stava
rodendo la faccia della terra. Questo cancro mi si manifestava come un
progressivo uniformizzarsi di tutto: dal prevalere delle monocolture, alla
sparizione degli uccelli più colorati e degli animali più graziosi in favore di
quelli più grigi e ributtanti, alla sparizione delle lingue, dei dialetti e delle
culture popolari e personali, nel dilagare di una cultura e di uno snobismo
di massa. Il principale agello, ai miei occhi, era il turismo. La gente che
non sa viaggiare e che si sposta seguendo le indicazioni della pubblicità
anziché la percezione del proprio percorso; che porta denaro e quindi
miseria; che uccide i posti trasformandoli in cartoline.

114
Mercante di perle

Anziché amore per il prossimo, avevo sempre più indifferenza,


un’indifferenza che arrivava spesso a diventare fastidio. Da una parte mi
rendevo conto di non essere molto migliore degli altri, ma dall’altra, molto
di più, non riuscivo a trattenere il mio giudizio sulla stupidità e sulla
cattiveria dei miei simili e, come molti di loro, sognavo il mio solitario
paradiso perduto.

A questo paradiso terrestre non avevo affatto rinunciato. A volte pensavo


che fosse mio compito andarmelo a cercare. O costruirmelo, lavorando
come intellettuale nella denuncia e nella lotta contro il male, o addirittura
come contadino su qualche isola o qualche montagna. Non avevo capito
che il male era dentro di me. E che il bene, il regno di Dio, doveva venire
pure innanzitutto dentro di me, e non in qualche posto speciale su questa
terra. Forse - anzi senz’altro - perché non consideravo se non a parole che il
regno di Dio fosse il bene e che il bene fosse solo il regno di Dio. Volevo
essere io il re, anche se con l’aiuto di Dio, il mio onnipotente demiurgo.
Mentre era proprio il pensiero di questo paradiso da raggiungere che mi
impediva di ascoltare le parole dell’Eterno con tutta la mia fede. Avevo
paura che abbandonandomi completamente a Dio avrei abbassato la
guardia contro il nemico, avrei perso terreno.

Mi rendevo conto ma non abbastanza di certi limiti intrinseci della mente


umana, e pensavo che almeno a grandi linee si potessero conoscere i
percorsi, le storie delle cose: alimenti, merci, scoperte, pensieri. Pensavo
che ci fossero delle storie vere, singolari o collettive ma sempre naturali
(come le migrazioni dei popoli e degli animali), e delle storie false,
massi cate, e che tutto il problema stesse nell’uscire sicamente dai
percorsi di massa, cercando di non venirne neanche attraversati. A questo
scopo non disdegnavo nessun tipo di informazioni. Avrei voluto conoscere
le condizioni di inquinamento del suolo, dell’aria e dell’acqua di tutte le
regioni e di tutti i mari, per poter meglio decidere i miei spostamenti e le
preferibili provenienze dei cibi; appena una cosa diventava di moda
riceveva automaticamente il mio anatema; come ho già detto, odiavo il
turismo in tutte le sue manifestazioni; sognavo un mondo mercantile con
leggi che rendessero sconveniente il trasporto di grandi quantità di merci
su grandi distanze; cercavo di sapere dalle etichette con cosa erano stati
prodotti e da dove venivano i cibi che mangiavo; eccetera, eccetera.

115
Mercante di perle

Così, di fatto, come il turista che odiavo, per le mie scelte ero
completamente succube delle parole degli altri e delle mie
immaginazioni su queste parole. Come ogni turista, desideravo un mondo
pieno di un’in nita varietà di toni di colore e di sfumature di sapore, pieno
di ossigeno e di movimento, di amore e di rapporti disinteressati. Ma
vedendo con la mia immaginazione delle plaghe di morte all’interno e
tutt’intorno a queste sognate isole di paradiso, io per primo non riuscivo
ad essere altruista e disinteressato. Quello che cercavo di fatto era la mia
personale sopravvivenza, e non mi comportavo molto diversamente dalla
disprezzata massa di turisti ipocondriaci a cui cercavo di sfuggire.

Quando, in ginocchio, ho visto che non potevo liberarmi da solo del mio
orgoglio, ho sentito anche la nullità, anzi la nocività di tutti i miei sforzi per
sopravvivere. Dentro di me ho visto quello che dice il profeta Isaia: “... tutta
la nostra giustizia è diventata come un abito sporco, tutti quanti
appassiamo come una foglia e le nostre iniquità ci portano via come il
vento.” 1.

In un certo senso, apparentemente, la situazione non è completamente


cambiata. Soffro ancora più del dovuto nel vedere mia moglie e i miei gli
mangiare e prediligere cibi industriali falsi e malsani; preferisco ancora
passare un week-end in montagna piuttosto che in una grande città;
quando trovo arance o limoni non trattati dal fruttivendolo mi compro
delle piccole scorte e anche l’acqua oramai la bevo soprattutto dalle
bottiglie; certe volte compro anche alimenti cosiddetti “biologici”. Ma in
realtà il cambiamento c’è stato, e come. Perché quella dei cibi sani per me
non è più una necessità interiore: anzi quando mangio le cose comprate al
supermercato che mi cucina Paola mi sento più felice di quando le cose
che mangio sono state scelte, comprate ed eventualmente cucinate da
me.

116
Mercante di perle

Stando con Gesù, il pensiero del cibo è andato a mettersi al giusto posto,
alla super cie del mio essere, o almeno è stato spodestato dal luogo
centrale che era andato ad occupare quando ero convinto che il mio
umore dipendesse in gran parte da quello che avevo mangiato. Perché ho
avuto nalmente la certezza che la mia situazione interiore dipende non
da quello che ho mangiato, ma da come mi sono comportato; cosa che in
parte naturalmente sapevo già, ma senza certezza, perché non riuscivo
mai a capire se un fatto mi avesse messo di malumore per la sua causa
nascosta (il nemico più o meno invisibile e interiore che mi aveva spinto a
dire, a fare, o a mangiare, quella certa cosa) o per i suoi effetti indesiderati.
Ora invece sapevo con certezza che il mio umore profondo dipende dalla
mia relazione con Dio, e cioè in concreto da quello che io faccio della sua
parola, e non dalle cose che mi succedono esteriormente, tanto meno
dalle cose che ho mangiato (semmai dal modo ingordo e goloso con cui
mangio). Cominciavo a realizzare il senso delle parole che Gesù rivolge ai
suoi discepoli dopo aver evangelizzato la samaritana al pozzo: “Io ho un
cibo da mangiare che voi non sapete. (...) Il mio cibo è di fare la volontà di
colui che mi ha mandato, e di compiere l’opera sua.” 2. Le mie fami
spasmodiche sono sparite e i miei bisogni alimentari si sono decisamente
normalizzati.

È vero: sono rimasto per molto tempo ancora (e per certe cose rimango
tuttora) una specie di ipocondriaco; ma un ipocondriaco sempre meno
convinto, comprendendo sempre meglio - grazie alla parola di Dio che lo
Spirito Santo volta a volta mi rivela - (e certamente devo comprenderlo
ancora) che non posso preservare la mia vita facendo attenzione a quello
che mangio e a quello che bevo, ma tutt’al contrario, badando invece a
camminare seguendo l’esempio di Gesù che non ha pensato a se stesso;
cercando piuttosto il regno di Dio (cioè la vita con Dio, la vita eterna) che
come scritto, “non consiste in vivanda, né in bevanda” 3 terrene, ma,
innanzitutto, nell’obbedire alla voce e alle parole di Colui che sta sul trono.

Queste parole sono diventate il mio vero pane. E non solo il pensiero del
cibo materiale adesso in me è completamente subordinato alle esigenze
del mio corpo (mentre prima si può dire che vivevo per mangiare, anziché
mangiare per vivere), ma il cibo spirituale che è la parola di Dio mi ha tolto
anche il bisogno “psicologico” della tesaurizzazione e dell’aggiornamento
culturale, e anche le mie letture adesso sono decisamente subordinate
alle reali esigenze del lavoro. Con un gran risparmio di tempo e di energia.

117
Mercante di perle

Il regno di Dio non è un discorso umano, ma potenza di Dio. Ettore


Panizon non è nulla: di fronte all’Eterno, tutte le nazioni della terra sono
come un nulla, come la polvere sul piatto della bilancia, come la goccia nel
fondo della secchia 4. Eppure il Signore ci cerca e ci chiama uno per uno, e
mostra la via a tutti quelli che si lasciano trovare.

Così da quando ho accettato di riconoscere che colui che parla al mio


cuore non è altri che il Signore Gesù, il mio problema non è più “cosa
fare?”, ma come fare le cose che so bene di dover fare, perché quando ci si
decide ad ascoltarlo, il Signore sa parlare molto chiaramente. Anche la
risposta, naturalmente, viene dal Signore, quando gliela chiedo in
preghiera. È il Signore che dà gli ordini, ed è anche il Signore che mi dà
modo di eseguirli, se questo è veramente tutto il mio desiderio e mi af do
veramente a lui.

Di queste cose mi convincevo poco a poco, nello studio della Bibbia e


nell’ascolto della predicazione del vangelo del regno di Dio. Man mano che
entravo in contatto più profondo con il Signore Gesù riconoscendo di
essere una nullità e un peccatore, mi accadeva anche di ricordare le parole
che mi erano state rivolte n dall’inizio. Le collegavo tra loro e mi si
chiarivano l’una con l’altra. “Cerca prima il regno di Dio e la sua giustizia, e
tutte le altre cose ti saranno sopraggiunte”. Io, lo ripeto, avevo cercato,
stavo ancora cercando prima di tutto la mia giustizia, non quella di Dio. Per
questo non entravo nel regno di Dio, perché non volevo rinunciare al mio.
Ma poi, iniziando a rinunciare al mio regno, ho cominciato ad entrare nelle
realtà rivelate dallo Spirito Santo nelle Scritture.

118
Mercante di perle

Ai suoi discepoli (cioè a tutti i credenti) il Signore dice che sta preparando
una dimora per loro in cielo. Avendo l’assicurazione di una dimora in cielo,
anche su questa terra, per chi segue Gesù, c’è una vita molto più ricca e
piena (certo anche di sofferenze e persecuzioni) di quella che ci si è
lasciata alle spalle con la conversione, perché non preoccupandosi più per
se stessi e potendosi perciò veramente curare degli altri, si vive
effettivamente cento volte meglio. Credendo in Cristo, quelle cose che
erano per me causa di continua preoccupazione sono diventate motivo di
incoraggiamento. Gesù ha detto difatti, riferendosi alle varie catastro che
segneranno gli ultimi tempi, “quando queste cose cominceranno ad
avvenire, rialzatevi, levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina” 5. 
Il fatto che non esista più niente che non sia contaminato anziché
angosciarmi come una volta mi aiuta ora a staccare il mio cuore dalle cose
di quaggiù. E questa è l’unica vera necessità, perché si avvicina il giorno
del Signore, che sarà un giorno tremendo in cui tutto verrà consumato e
“chi vorrà salvare la sua vita, la perderà, ma chi avrà perduto la propria vita
per me, egli la salverà.” 6.

Il regno di Dio non è di questo mondo. Ed effettivamente, desiderando


innanzitutto camminare con Gesù e stare con lui, ho sempre meno paura
di morire per colpa dell’avidità e dell’ignoranza del mio prossimo. E il male
che ricevo (assieme a tutti quanti, con la rapida degradazione
dell’ambiente che è sotto i nostri occhi; o assieme ai miei fratelli, per le
inevitabili incomprensioni da parte di chi ancora non crede) non mi fa più
male, perché non si trasforma più in odio.

Il regno di Dio è dentro di noi e in nessun particolare posto sulla terra. Ma


oltre a prepararci una dimora in cielo, Iddio ha ssato anche i luoghi e le
epoche delle nostre dimore terrene. Non solo la città, ma anche il
quartiere e la casa che abito è un dono della provvidenza di Dio.

119
Mercante di perle

Io non avevo mai desiderato una casa. Tornato dal Messico sognavo
piuttosto di vivere in un camper, o addirittura in una barca. Volevo una
dimora mobile perché pensavo che fosse il modo più giusto e più sicuro di
vivere, il modo per fuggire meglio (uno dei miei principali incubi ad occhi
aperti era di rimanere intrappolati a Roma in seguito a qualche calamità).
Comunque sognavo di girare per il mondo, abitando un paese dopo l’altro.
Avevo anche una specie di progetto paracolombiano: arrivare all’Oriente,
anche al vicino Oriente (l’Ungheria, terra dei bisnonni), viaggiando verso
Ovest o verso Sud. Sognavo queste cose condividendo un doppio
appartamento con la madre di Paola, che ci aveva anche proposto di
cercarci una casa a Roma, ma non volevamo.

A Trieste, sarei anche stato benissimo nella casa del mio ex compagno di
classe, nonostante i cinque piani di scale senza ascensore, le nestre
basse e due bambini molto piccoli.

Ma questo mio amico, a un certo punto mi disse che senza fretta, ma


avrebbe avuto piacere di tornare a casa sua (nel frattempo stava dalla
madre). Così cominciammo a cercare una nuova casa in af tto, senza
troppo impegno né molto successo.

Intanto avevo cominciato a frequentare la comunità, e avevo cominciato a


rispondere agli appelli del Signore. Fuggire e viaggiare, tornare in Messico
o raggiungere qualche altro paradiso terrestre, mi importava sempre
meno: mi importava sempre più di conoscere Gesù e Gesù l’avevo
imparato a conoscere in mezzo ai credenti in una sala al primo piano di
una casa nella principale via di traf co del centro. A mia moglie o ai miei
amici, parlando di viaggi, dicevo che ormai l’unico posto dove mi
importava veramente andare era la Gerusalemme celeste. Sapevo che per
andarci occorre stare e andare non dove si ha voglia, ma dove dice il
Signore. Così mi andava bene, per il momento, di fermarmi a Trieste. Ma
non avevo fretta di trovare una casa mia. Ancora non ci contavo.

120
Mercante di perle

In realtà prima della casa nel senso di abitazione doveva essere stabilita la
mia casa nel senso della mia famiglia. Paola ed io non eravamo ancora
sposati. Quando ci eravamo messi insieme io avevo inteso le nostre
carezze come un approfondimento della nostra amicizia ed ho capito che
si trattava di qualcosa di molto più serio solo quando Paola mi ha chiesto
di non lasciarla più. Poi, dopo il primo glio ho cominciato a considerarci
praticamente sposati. Provavo un certo imbarazzo a non potere parlare di
Paola come di mia moglie, ma mi sembrava un fatto puramente lessicale.
Avremmo anche potuto sposarci, ci dicevano timidamente i miei genitori,
ma io non volevo legarmi esteriormente, perché temevo che un legame
uf ciale avrebbe potuto incrinare o soffocare quello uf cioso e interiore.
Così tiravamo avanti con la nostra “convivenza”, come si dice nel
linguaggio della burocrazia.

Dopo la mia conversione sentivo diversamente anche questa faccenda.


Capivo che c’era qualcosa di storto, ma non con suf ciente chiarezza. Un
giorno Velio, in uno dei nostri numerosi incontri di quel periodo, mi ha
chiesto come mai io e Paola non eravamo ancora sposati. Io gli ho
raccontato un po’ come stavano le cose dal mio punto di vista,
aggiungendo che non avevo molto interesse a regolarizzare la mia
situazione familiare di fronte a uno Stato in cui non nutrivo nessuna
ducia. Allora Velio, che tra l’altro di lavoro fa il vigile, pazientemente ha
aperto la Bibbia e mi ha mostrato i vari passi (soprattutto al capitolo 13
della Lettera ai Romani) in cui è scritto di essere soggetti alle autorità civili.

Io, pur considerando follia tutte le forme di lotta armata contro lo Stato nei
paesi sviluppati, avevo sempre dentro di me l’idea che lo Stato fosse una
bestia molto pericolosa, e come tale da trattare con il massimo di
dif denza. Ai miei occhi era lo Stato a perpetrare le peggiori ingiustizie. Ma
allora perché Dio comandava di essergli soggetto? "Perché i magistrati
non sono di spavento alle opere buone ma alle cattive" 7, rispondeva la
Bibbia. Ora potevo capirlo, perché mi rendevo conto che anche la
ribellione contro l’ingiustizia altrui non è un’azione ispirata da Dio (e quindi
è un’azione cattiva): "Perché non patite piuttosto qualche torto? perché
non patite piuttosto qualche danno?", dice l’apostolo Paolo a dei credenti
che avevano cercato la giustizia dell’uomo 8.

121
Mercante di perle

A ripensarci, il mio astio nei confronti dello Stato risaliva proprio ai


quattordici anni, quando guidavo un vespino truccato e completamente
fuori regola e vedevo la sagoma del vigile urbano, e ancora peggio quella
dei carabinieri come quella del mio principale nemico.

Anche riguardo al mio matrimonio, lo Stato non doveva interferire con la


mia vita privata perché volevo sentirmi libero di sbagliare. Non volevo
essere costretto dalla legge a non fare ciò che io stesso ormai riconoscevo
come un male. E non avevo voluto legarmi con Paola, senza rendermi
pienamente conto, forse, del fatto che in quel modo la nostra relazione
non era ancora un matrimonio nel senso completo della parola; e che non
era solo questione di termini.

Vedendo la questione alla luce della parola di Dio, riconobbi


immediatamente il mio sbaglio e subito parlai a Paola di sposarci. Lei non
capiva questa improvvisa decisione (mi pare che mi sono vergognato di
dirle che seguiva un colloquio con il pastore), ma in linea di massima era
d’accordo. Come unica condizione, perché la cosa avesse senso anche per
lei, mise che trovassimo casa (avevamo imparato che in castigliano
“sposarsi” si dice proprio casarse).

Ho cominciato a pregare per questa casa. Ero sicuro che il Signore


avrebbe presto esaudito questa preghiera, perché il mio scopo era di fare
la sua volontà. Difatti nel giro di poche settimane, alla seconda o terza
visita, trovammo ciò che faceva per noi. Un appartamento in una casa
dell’inizio del secolo a due passi dalla Stazione e ai piedi di una collina
piena di verde; a un piano alto ma non troppo; grande: 130 metri quadri
circa (adesso che è nato Emanuele, ci stiamo comodamente anche in
cinque); molto luminoso, in condizioni abbastanza buone e a un ottimo
prezzo.

Proprio in quel periodo i miei avevano ricevuto una eredità perché era da
poco morto mio nonno, e anche a Paola erano appena arrivati dei soldi, di
modo che disponevamo della cifra esatta. Acquistammo rapidamente e
af dammo i lavori di ripitturazione a un credente membro della chiesa e
di professione artigiano edile. (Che si sia trattato di un suo dono perfetto,
Dio me l’ha confermato oltre che con la gioia che mi dava da subito, anche
alcuni anni dopo con un segno speciale, facendo venire ad abitare al piano
di sopra nella stessa casa, una famiglia di credenti).

122
Mercante di perle

In breve la casa fu pronta, in tempo per la data delle nozze. Ricordo il mio
matrimonio come un giorno molto bello: ero contento e per niente teso
sia durante il pranzo in famiglia in una semplice trattoria del Carso, sia
durante la festa voluta e organizzata da mia madre nella casa nuova, che
abbiamo inaugurato quella notte ospitando i testimoni, tra i quali Renato
con la moglie Maria Sole.

Il pomeriggio del giorno dopo, a Udine, domenica 17 novembre 1985, era


pronta per me la vasca battesimale.

NOTE

1. Isaia, 64:6.

2. Giovanni, 4:32-34.

3. Romani, 14:17.

4. Isaia, 40:15.

5. Luca, 21:28.

ó. Luca, 9:24.

7. Romani, 13:3.

8. I Corinzi, 6:7.

123
Mercante di perle

EPILOGO e antefatto:
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI ALTRO
NOME

Tu sei stato il mio sostegno n dal grembo materno, tu m'hai tratto dal
grembo di mia madre; a te va sempre la mia lode.
Salmi, 71:6

La vita del cristiano è tutta un’avventura. Alla ne del Vangelo di Giovanni


è detto che se si dovessero scrivere una a una tutte le cose che Gesù ha
fatto, la terra non basterebbe a contenere i libri che se ne scriverebbero.
Lo stesso discorso vale per le opere che Gesù compie nella vita di chi
accetta di seguirlo: si può raccontare solo qualcosa. E già questa piccola
parte riempirebbe (ed ha riempito) molti libri. Ma intitolandolo La nuova
nascita di un intellettuale ho limitato il soggetto del mio racconto alla
storia della mia conversione. La sostanza della nuova vita di oggi l’ho
lasciata quasi soltanto trasparire dalla descrizione della vita vecchia che mi
sono lasciato alle spalle. Della mia nuova vita voglio raccontare solo un
altro fatto, che è l’antefatto del libro. Perché l’idea di scriverlo non è stata
mia.

È successo un martedì pomeriggio del maggio 1988. So che era martedì


perché è stato nella sala di culto della nostra comunità, e si trattava di un
servizio di preghiera di quelle che si tengono il martedì pomeriggio (dalle
sei n circa alle otto).

I culti non sono cerimonie. Ci riuniamo perché crediamo a quello che ha


detto Gesù: “Se due di voi si accordano a domandare una cosa qualsiasi,
quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli. Poiché dovunque
due o tre sono radunati nel mio nome, quivi io sono in mezzo a loro.” 1.
Così, secondo come lo Spirito di Gesù ci guida, rendiamo note a Dio le
nostre richieste, con suppliche e ringraziamenti 2. Oltre alla preghiera, chi
si sente spinto dallo Spirito condivide con gli altri ciò che ha ricevuto dalla
Parola di Dio.

124
Mercante di perle

Quel martedì avevo qualcosa io. Il giorno prima era venuto a trovarmi Velio.
Tra le altre cose di cui si è parlato, mi aveva chiesto di leggergli nel testo
greco originale due passi del Vangelo. Non mi ricordo con esattezza quali
fossero, ma ricordo che ci soffermammo su un fatto, un fatto che avevo già
notato, ma che da solo non avevo avuto la pace di considerare ben a
fondo: la traduzione della Bibbia che usiamo (la Luzzi Riveduta) per fare
più scorrevole l’italiano non rende il peso di una affermazione che Gesù ha
fatto in diverse occasioni dicendo: “io sono”. Ego eimi che in greco
signi ca appunto “io sono”, viene tradotto “sono io”, oppure “io sono (il
Cristo)”. Ma “Io sono” è il Nome con cui il Signore si è rivelato al popolo di
Israele, n dai tempi dell’Egitto 3.

Guardando ancora nelle Sacre Scritture in questa direzione, specialmente


nel Vangelo di Giovanni, avevo trovato altri passi, in cui Gesù dichiara il suo
Nome. Così quel martedì, anche se non era giorno di studio, mi ero alzato
a leggere quello che il Signore mi aveva dato 4.

So che era maggio perché a quella riunione era presente anche Stavros,
un credente di origine e lingua greca che è stato con noi solo un mese (è
greco di nascita, ma ora insegna Letteratura inglese negli Stati Uniti e si
trovava a Trieste perché era stato invitato a dare un corso alla Scuola
Interpreti). Alla ne del culto ci salutiamo sempre uno a uno. Stavros, dopo
avermi confermato che anche la lingua greca, in un passo di quelli da me
letti (Giovanni, 8:58), effettivamente vorrebbe “io ero” anziché “io sono”,
aggiunse queste parole: scrivi un libro sulla tua nuova nascita.

Devo confessare che sulle prime ho preso le sue parole come delle
congratulazioni. Difatti sono rimasto confuso, senza capire bene neanche
il preciso signi cato di quello che mi stava dicendo (si comunicava in
inglese e capii qualcosa tipo: hai espresso la tua nuova nascita). Non c’è
niente di peggio che ricevere un complimento per ciò che si è fatto (o si
sarebbe dovuto fare) esclusivamente per servire Dio e il prossimo. Eppure
la natura umana è incline sia a fare che a ricevere complimenti, e guarda
caso specialmente quando si tratta di doni che uno ha ricevuto, spirituali o
naturali. Ma, grazie a Dio, Stavros non mi stava facendo un complimento.
“Scrivi un libro sulla tua nuova nascita - mi tornò a dire, vedendo che non
avevo capito - e intitolalo La nuova nascita di un intellettuale”.

125
Mercante di perle

Ho tardato ad iniziare questo libro, temendo soprattutto di dare spazio alla


mia vanità. Poi invece ho ricordato quello che Gesù dice all’uomo che egli
aveva liberato da una legione di demoni: “Va’ a casa tua dai tuoi e racconta
loro le grandi cose che il Signore ti ha fatto, e come egli ha avuto pietà di
te.” 5

Man mano che raccontavo, le cose mi si chiarivano e la mia convinzione


aumentava. Ora sono sicuro che Stavros non mi ha detto di scrivere
questo libro perché io avevo capito delle cose. Le cose di Dio non è che le
si capisca, è lui stesso che le rivela, e sceglie chi vuole e quando vuole. Il
fatto di aver avuto rivelato nelle Scritture che Gesù è il Signore non era
certo un segno di qualche mia particolare capacità. Semmai dovevo
scrivere un libro perché Dio, facendo grazia a me, fa grazia anche a tutta la
gente alla quale può arrivare attraverso un libro scritto da uno come me. A
Dio piace servirsi di uomini. Ma nessuno di noi è indispensabile, anzi siamo
tutti assolutamente inutili (e tanto più disutili quanto più ci crediamo
utili).

All’inizio del Vangelo di Giovanni è scritto che “nessuna delle cose che
sono è stata fatta senza di lui [il logos, cioè la Parola]”. La Parola di Dio è una
parola creatrice. Chi accetta di prestarle fede comincia a vivere dentro di
lei. Le Scritture non sono letteratura, ma una guida spirituale per la realtà
spirituale nella quale si è immersi.

Con la Bibbia non è come prima coi libri che trovavo nelle biblioteche e
che compravo (o rubavo) nelle librerie, dove le cose mi interessavano
perché erano misteriosamente collegate con le cose che avevo trovato su
altri libri. Nella Bibbia, man mano che vivo, riconosco un nuovo senso -
sempre più profondo - delle parole che vi sono scritte e che lo Spirito
Santo riferisce alle cose della mia esperienza, per correggermi e
santi carmi.

Così sarebbe assurdo vantarsi di avere capito qualcosa (come è invece


giusto gloriarsi di conoscere Gesù che ce l’ha fatta vivere: l’inverso di ciò
che avviene nel mondo). L’apostolo Paolo ha scritto, anzi, che “se qualcuno
si pensa di conoscere qualcosa, egli non conosce ancora come si deve
conoscere” 6. Ma le cose che il Signore rivela a chi gli presta ascolto sono
sempre assolute novità, doni preziosi per quella persona e per coloro che
vorranno parteciparli con lui. Indipendentemente dal mondo dell’editoria:
scienti ca, commerciale e religiosa.

126
Mercante di perle

Ho voluto descrivere per esteso il contesto dell’origine di questo racconto


per il nesso profondo che c’è tra la rivelazione del nome di Dio e la salvezza,
mia come di ogni altro uomo. Perché per essere salvati da Gesù è
necessario credere che egli è Colui che è: colui che ha parlato a Mosè e
che parla anche oggi, il primo e anche l’ultimo, l’Alfa e l’Omega. Gesù ha
detto: “Come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il
Figliolo dell’uomo sia innalzato, af nché chiunque crede in lui abbia vita
eterna” 7 e “Quando avrete innalzato il Figliolo dell’uomo, allora
conoscerete che io sono e non faccio nulla da me, ma dico queste cose
secondo che il Padre mi ha insegnato.” 8

Ego eimi si può effettivamente tradurre anche “sono io”: sono io che ti ho
formato nel ventre di tua madre, che ti ho ammaestrato nella tua infanzia,
che ti ho guarito e che ti ho guardato, sono io che ho visto la tua af izione
e ho udito il grido del tuo dolore e ti ho risposto, io che conosco i tuoi
affanni, io che tacevo quando mi interrogavi con superbia. Sono io che ho
versato il mio sangue per te. Sono io colui che sono sempre vicino a te...

II Signore ha bussato tante volte al mio interno dicendo “Sono io”. Ma io


non volevo sentire, e la sua voce è dolce e discreta, non usa la forza per
convincere.

Come tutti i loso , da Anassimandro ad Heidegger, da Platone a


Wittgenstein, la mia mente era assetata di assoluto, volevo vedere il
mondo come un tutto, studiare l’Essere, magari studiando gli atti di parola
o le società. Cercavo di contemplare la struttura e le leggi di questo Essere
di cui da secoli parlano i loso e non avevo tempo per ascoltare qualcuno
che voleva insegnarmi altre cose. La Bibbia non mi spiegava la struttura
dell’Essere.

Ma né io, né gli altri loso eravamo riusciti a trovare in questo Essere un


vero rifugio, qualcosa di più forte dell’attrazione che esercitano su di noi la
donna adultera (e l’uomo forte), qualcosa capace di vincere il nostro
orgoglio e la nostra timidezza, la paura di ammalarci e di morire. Gesù
invece non mi mostra delle cose alla lavagna o dentro una bolla di vetro.
Mi dà la via per seguirlo e per assomigliargli, nella mansuetudine,
nell’obbedienza, nell’umiltà di cuore, nel non cercare le cose della terra ma
quelle del cielo.

127
Mercante di perle

Spero con tutto il cuore di continuare a rispondere a questo invito no alla


ne, perché solo così sarò salvo. E so che dovrò sforzarmi per farlo. Ma devo
anche aggiungere, anche se sembra strano dopo questa premessa, che
da parte mia seguire Gesù non è stato (e non sarà) un sacri cio, perché ho
già ricevuto (e riceverò) anche su questa terra cento volte tanto quello
che ho (e avrò) lasciato. Anche su questa terra, e anche come scriba, cioè
come intellettuale.

La mia vecchia natura avrebbe taciuto tutte le cose raccontate in questo


libro, per timidezza, cioè per falsa modestia. Invece l’uomo nuovo in me
non si vanta e non si schermisce, “chi ti distingue dagli altri? e che cosa hai
tu che tu non l’abbia ricevuto? e se pur l’hai ricevuto, perché ti glori come
se tu non l’avessi ricevuto?”  9

Ciò non toglie che “le cose che occhio non ha vedute, e che orecchio non
ha udite e che non sono salite in cuor d’uomo, sono quelle che Dio ha
preparato per quelli che l’amano.” 10 Queste  cose sono anche le stesse
cose della vita di sempre, che ora vedo completamente rinnovate e che
capisco in un modo totalmente nuovo.

Un tempo le cose che mi interessavano emergevano faticosamente da un


fondo relativamente indifferenziato e insigni cante. E non erano
propriamente cose, quanto piuttosto nuovi modi di vedere le cose e di
esprimerle. Erano parole: parole che prendevo a prestito dall’uno o
dall’altro autore e che usavo con un certo intimo sussiego,
appoggiandomi nei miei pensieri sul pensiero di questi autori (Heidegger,
Wittgenstein, Deleuze, Spinoza) no alla pignoleria terminologica e alla
completa astrattezza. Le cose e le parole della vita quotidiana mi
sembravano interessanti solo in vista di questi schemi e pensieri astratti.
Altrimenti, per me erano inutilizzabili e scontate, come anche il Vangelo
mi sembrava scontato e impraticabile. Ora invece, virtualmente, tutto ciò
che esiste mi riguarda. Mi riguardano innanzitutto le storie della Bibbia,
ma anche tutte le altre storie vere, le storie degli uomini e le storie
naturali.

128
Mercante di perle

Quando, all’età di sedici anni, ho cominciato ad appassionarmi allo studio,


mi sono subito diretto verso le teorie. La natura in se stessa non mi
interessava quasi per niente, quello che mi poteva interessare, semmai,
era sapere cosa ne sapessero gli uomini. Ma siccome il sapere umano mi
sembrava in nito e quello naturalistico anche dispersivo, ho presto
pensato che la cosa più conveniente sarebbe stata limitarsi ad una
conoscenza nelle grandi linee. E meglio ancora al sapere sul sapere. Così
ho cominciato a trascurare, in favore della loso a, le scienze naturali, la
matematica e anche la storia.

Adesso che il Signore mi ha dato di conoscerlo, provo invece un vivo


interesse per tutte le cose, anche per quelle naturali. Prima un vero e
proprio velo di noia mi impediva di ricordare alcunché. Stranamente,
perché da bambino ero affascinato dalla natura, soprattutto dagli animali,
ed ero diventato una specie di piccolo zoologo. Ma con gli anni del liceo e
dell’Università la mia passione naturalistica era completamente
scomparsa. Ero così preso dalla loso a che le cose vere non mi
interessavano quasi più, perché le giudicavo apparenti, non trovandovi
alcun senso se non dopo molto lavoro di astrazione e di ristrutturazione.
Sentivo certamente il peso di questa continua fatica di reinventare la
realtà, perché ogni nuova idea, nonostante fossi relativamente lento nel
disamorarmi di una idea, presto diventava scontata, perdendo ogni vero
interesse, ridotta a un pezzo del mio repertorio di chiacchiere. Ma credevo
che fosse il destino dell’uomo e mi rassegnavo alla realtà. Viceversa, da
quando mi sono convertito, le teorie non mi interessano più, anzi mi
annoiano, mentre le cose della natura, nelle quali ora posso vedere
innumerevoli pensieri d’amore, hanno cominciato a parlarmi. E, strano a
dirsi, anche nella storia, anche in quella recente, sento la potenza
dell’amore di Dio.

129
Mercante di perle

La biologia in particolare mi è apparsa sotto una nuova luce, una luce che
mi fa vedere la natura come qualcosa che sorpassa tutte le possibili
descrizioni scienti che e non scienti che, ma che al contempo le rende
anche interessanti. E così è anche per la storia, in cui riesco a vedere un
nuovo senso, la storia dei popoli e quella delle persone. Come ha detto
Paolo ad Atene nell’Areopago: “L’Iddio che ha fatto il mondo ed ogni cosa
in esso, (...) dà a tutti la vita, il ato ed ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo
tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra,
avendo determinato le epoche loro assegnate e i con ni della loro
abitazione, af nché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a
tastoni, benché egli non sia lungi da ciascuno di noi. Difatti «in lui viviamo,
ci muoviamo e siamo - come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto -
poiché siamo anche sua progenie».”  11

Questo nuovo modo di guardare alla scienza non mi porta a sentire che
Dio vuole fare di me uno scienziato. Non è un caso, tanto meno una
disgrazia, se tutti questi interessi si sono svegliati in me adesso che non
ho più tempo (e che non è più il tempo) di studiare.

L’intelligenza delle cose vere è semplicemente uno degli aspetti della vita
di ciascuno dei gli di Dio. Quella che solitamente chiamiamo intelligenza
è qualcosa che concepiamo e misuriamo in modo relativo, come
maggiore o minore capacità di affrontare certi problemi in certe culture e
in certe situazioni. Ma viste dal punto di vista di Dio le differenze che a noi
possono sembrare degli abissi diventano delle increspature, o addirittura
si livellano. Mentre la vera intelligenza, quella che conta agli occhi
dell’Eterno, non si dimostra solo leggendo o scrivendo un articolo
scienti co, ma piuttosto nel lasciarsi guidare da Dio come dei bambini
piccoli. Per questo nel libro dei Proverbi è scritto che l’intelligenza consiste
nell’amare Dio, il creatore di tutte le cose, e nell’evitare il male. Evitare cioè
di amare le creature più del loro creatore (“cerca prima il regno di Dio...”). La
qual cosa io personalmente, da intellettuale, non sono stato in grado di
fare.

130
Mercante di perle

Desidero vivere di Dio e per Dio, come un glio. Come Gesù. Difatti
quando ho creduto dentro di me che Gesù è il Cristo e il glio dell’Iddio
vivente, Dio è diventato un padre anche per me, e anche un amico (anzi il
Padre, e l’Amico). E, rinunciando a vivere per il nutrimento naturale che si
compra nel mondo (libri, viaggi, formaggi..), nutrimento che non sfama
davvero, per cercare invece il nutrimento spirituale che dura (“ogni parola
che procede dalla bocca di Dio”), ho trovato un vero tesoro. Un tesoro che
non ho meritato in nessun modo, ma che è per tutti quelli che si rendono
conto di essere perduti e di star disperdendo. Per quelli cioè che invocano
Dio, per mezzo di Gesù, “poiché non c’è sotto il cielo alcun altro nome che
sia stato dato agli uomini, per il quale noi abbiamo ad essere salvati.” 12

Alla ne di questo libro voglio lasciare completamente a Dio la parola,


perché è lui che ci invita, dicendo:

“Voi tutti che siete assetati, venite alle acque, e voi che non avete denaro,
venite, comprate, mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza
pagare, vino e latte! Perché spendete denaro per ciò che non è pane? e il
frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi
attentamente e mangerete ciò che è buono, e l’anima vostra godrà di cibi
succulenti! Inclinate l’orecchio, e venite a me; ascoltate e l’anima vostra
vivrà; io fermerò con voi un patto eterno, vi largirò le stabili grazie
promesse a Davide. Ecco io l’ho dato come testimonio ai popoli, come
principe e governatore dei popoli. Ecco tu chiamerai nazioni che non
conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo
dell’Eterno, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché Egli ti avrà glori cato.

Cercate l’Eterno mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino. Lasci


l’empio la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri: e si converta all’Eterno
che avrà pietà di lui, e al nostro Dio che è largo nel perdonare. Poiché i miei
pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice
l’Eterno. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più
alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri. E come la
pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere
annaf ato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, sì da dar
seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita
dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto quello
che io voglio, e menato a buon ne ciò per cui l’ho mandata.

131
Mercante di perle

Sì, voi partirete con gioia, e sarete ricondotti in pace; i monti e i colli
daranno in gridi di gioia dinanzi a voi, e tutti gli alberi della campagna
batteranno le mani. Nel luogo del pruno si eleverà il cipresso, nel luogo del
rovo crescerà il mirto; e sarà per l’Eterno un titolo di gloria, un monumento
perpetuo che non sarà distrutto.” 13

NOTE

1. Matteo, 18:19-20.

2. Come è scritto in Filippesi, 4:ó.

3. Nel libro dell’Esodo è scritto che Mosè, dopo quarant’anni passati


curando le greggi del suocero Jethro, un giorno vide un pruno che
bruciava senza incenerirsi. La voce di Dio lo avvisò che il luogo nel quale
stava era suolo sacro. Poi quella stessa voce gli disse di aver udito il grido di
dolore del suo popolo e che lo mandava da Faraone perché facesse uscire
dall’Egitto i gli di Israele. Mosè non si sentiva in grado di portare a
termine questo incarico, e aveva anche buone ragioni per temere che i
gli di Israele non gli avrebbero creduto “E Mosè disse a Dio: ecco, quando
sarò andato dai glioli di Israele e avrò detto loro: l’Iddio dei vostri padri mi
ha mandato da voi, se essi mi dicono: qual è il suo nome? - cosa risponderò
loro? Iddio disse a Mosé: io sono colui che sono. Poi disse: dirai così ai glioli
di Israele: l’io sono mi ha mandato da voi. Iddio disse ancora a Mosè: dirai
così ai glioli di Israele: l’Eterno, l’Iddio dei vostri padri, l’Iddio di Abrahamo,
I’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe mi ha mandato da voi. Tale è il mio
nome in perpetuo, tale la mia designazione per tutte le generazioni.”
(Esodo 3:13-15). L’Eterno è una delle traduzioni italiane dell’ebraico JHWH (il
tetragramma che tuttora gli ebrei non osano pronunciare e leggono
Adonai = “mio Signore”), una parola il cui signi cato può essere reso da
“Colui che è, che era e che viene” (Apocalisse, 1: 4 e 8).

132
Mercante di perle

4. Secondo il racconto del vangelo di Giovanni, iI nome di Dio Gesù lo ha


annunziato una prima volta alla Samaritana incontrata al pozzo di
Giacobbe. Quando questa donna gli disse che sapeva che sarebbe dovuto
venire il Messia (il Cristo) e che si aspettava di avere spiegata da lui ogni
cosa, Gesù le rispose: “colui che ti sta parlando, io sono.” (Giovanni 4:26,
nell’originale). Più avanti ai Giudei che si meravigliavano delle sue parole
(perché aveva detto: “Abramo vostro padre ha giubilato nella speranza di
vedere il mio giorno; e l’ha visto, e se ne è rallegrato” - come poteva aver
visto Abramo, lui che non aveva ancora neanche cinquant’anni?) Gesù
rispose: “In verità, in verità vi dico che prima che Abramo fosse nato, io
sono.” (Giovanni 8:58), e quelli raccolsero delle pietre per lapidarlo. E
quando, alla ne, vennero con lanterne, torce ed armi “Gesù, ben sapendo
tutto quel che stava per succedergli uscì e chiese loro: chi cercate? Gli
risposero: Gesù il Nazareno! Gesù disse loro: io sono (...) Come dunque
ebbe detto loro: «Io sono», indietreggiarono e caddero a terra” (Giovanni
18:4-6 nell’originale). In molte altre occasioni Gesù ha detto “io sono”. II
nome stesso di Gesù (Jeshua') signi ca “Colui che è salva”. È stata la
confessione del senso pieno di questo nome a valergli alla ne la
condanna a morte (cf. Luca, 22:70-71, nell’originale, dove è scritto ancora
ego eimi).

5. Marco, 5:19.

6. 1 Corinzi 8:2.

7. Giovanni, 3:14.

8. Giovanni, 8:28 (nell’originale).

9. I Corinzi, 4:7.

10. I Corinzi, 2:9.

11. Atti, 17:24-28.

12. Atti, 4:12.

13. Isaia, 55.

133
Mercante di perle

Il regno dei cieli è anche simile


a un mercante che va in cerca
di belle perle; e, trovata una perla
di grande valore, se n'è andato,
ha venduto tutto quello che aveva,
e l'ha comperata.
Matteo, 13:45-46

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