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Ettore Panizon
Mercante di perle
Ettore Panizon
MERCANTE DI PERLE
JAHWEH JIREH
1990
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Mercante di perle
Indice
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Mercante di perle
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Mercante di perle
PROLOGO e anticipazione:
UNO SCRIBA AMMAESTRATO
PER IL REGNO DEI CIELI
Non avrei mai pensato di poter diventare amico di Dio. Mai da quando ho
cominciato a ragionare su queste cose. Da piccolo, come tutti i bambini,
vivevo anch’io nella ducia che le cose fossero state tutte fatte da Dio per
me, ma dopo gli undici o dodici anni ho cominciato a pensare che Dio, se
mai ne esisteva uno, se ne stesse ben lontano da me e dagli altri uomini e
non gli importasse più che tanto della mia persona, forse neanche della
sorte di un’umanità perduta nell’universo. E senz’altro ero effettivamente
perduto e privo della vita. Ora invece sono stato ritrovato e riportato in vita.
Parlo fuor di metafora, e anche fuori d’iperbole. Solo per quello che si può
vedere non sono ancora morto e risorto. La vita però è intessuta di cose
che non si possono vedere, come le nostre speranze, i nostri timori, i nostri
pensieri; cose che non si vedono, ma che ci modi cano continuamente.
Da questo interno invisibile escono le nostre scelte visibili (parole e azioni).
È nel mio interno invisibile che ero morto, perché dentro di me sapevo di
dover morire, e la vita mi sembrava assurda: “Siamo tutti dei morti in
licenza”, ha detto Lenin (citato da Godard). È per quello che ho creduto
dentro di me che sono nato di nuovo 1 e sono tornato a vivere con la
meraviglia di un bambino piccolo.
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Mercante di perle
Un amico, allora studente di sica, una sera che per la prima volta gli
parlavo della fede, mi ha raccontato un fatto che gli era capitato tempo
prima. Gli avevano rubato la macchina e lui, la notte, facendo forza sulla
sua stessa ragione che gli calcolava le bassissime probabilità di ritrovarla, è
montato su un’altra auto di casa ed è partito a cercarla. Ha cominciato a
scegliere sistematicamente la strada opposta a quella che gli indicava la
voce del dubbio, che lo voleva riportare a casa, ed ha trovato la macchina
senza tornare mai sui suoi passi, all’altro capo della città.
Penso che molte scoperte scienti che siano state il frutto di questo tipo
di fede. Ma con la fede non c’entrano solo le scoperte, scienti che e non
scienti che. La maggior parte delle cose che sappiamo, le sappiamo per
fede. Innanzitutto fede in quello che abbiamo imparato dalle nostre
esperienze, grazie alle quali, anche se ancora non si vedono, ci aspettiamo
certi eventi futuri. Abbiamo fede anche nelle esperienze degli altri uomini
e nelle parole che ce le raccontano: crediamo ai giornali, alla televisione,
agli scienziati, certe volte anche ai loso . Prestiamo fede anche ai loro
giudizi e alle loro impressioni. L’uomo crede nell’uomo, e dall’uomo trae
gloria, credito. In base alla fede che accordiamo a certe persone e che ci
viene accordata, rmiamo contratti, rilasciamo ed accettiamo assegni. In
fondo, il credito di cui godiamo presso gli altri uomini è la cosa che
umanamente ci importa di più, e che più ci serve nel mondo. Ma la fede
non è solo questo. Anzi la fede che ha cambiato la mia vita in un certo
senso è proprio tutto il contrario.
Ci sono delle volte in cui sentiamo con suf ciente chiarezza che tutte le
cose, immagini, parole sulle quali appoggiamo la nostra fede e che
carichiamo del nostro interesse sono in realtà vuote apparenze. A seconda
dei momenti chiamiamo questa sensazione: depressione, disperazione,
angoscia, illuminazione. II fatto resta sempre quello: ci accorgiamo di
essere sospesi nel vuoto. In questi momenti ci sentiamo come ciechi
guidati da altri ciechi. Smettiamo di appoggiarci con tutta la nostra fede
sugli uomini (compresi noi stessi), ma non sappiamo a cosa altro
appoggiarci. Tutto cede, tutto sembra inutile.
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Mercante di perle
Fede è una parola che nell’uso ha nito per indicare un’entità astratta. È
diventato quasi un termine tecnico. In realtà la fede, la ducia non è altro
che l’ingrediente fondamentale dell’amicizia. Un amico è innanzitutto
qualcuno sul quale contiamo e qualcuno che conta su di noi, soprattutto
per quel che riguarda le cose del nostro cuore (le cose che non si vedono),
qualcuno a cui diamo ducia e che si da di noi. Avere fede in Dio
concretamente signi ca essere diventati suoi amici. “La fede è un dono”,
ho sentito dire spesso, a mo’ di scusa. Ma è un dono che Dio, in diversa
misura, ha fatto a tutti gli uomini. Tutti gli uomini sanno cos’è l’amicizia. Si
tratta di usare bene questo dono, rivolgendolo verso di lui, cercando la sua
amicizia, invece che rivolgerlo verso le cose più assurde, come facciamo (o
abbiamo fatto) tutti quanti, che cerchiamo (o abbiamo cercato) l’amicizia
di questo mondo.
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Mercante di perle
Recentemente mio padre e mia moglie parlavano del fascismo. Lei stava
leggendo Gli anni che scottano, un libro autobiogra co di Fidia Gambetti,
nostro amico e vicino di casa in campagna. Fidia, prima di nire volontario
in Russia, dove è diventato antifascista, è stato segretario di federazione e
poeta fascista. Quello che dicevano mia moglie e mio padre era che, come
si vedeva anche da questo libro che racconta il fascismo dal di dentro,
quella di molti intellettuali fascisti, non era proprio “buona fede”, perché
c’era sempre un lo di interesse che teneva legati al regime tutti, piccoli e
grandi, anche persone sincere e intelligenti. Mio papà ricordava se stesso
che ascoltava i discorsi del Duce rendendosi benissimo conto della loro
ridicolaggine, ma negandola dentro di sé. Non voleva vederla perché
voleva credere, voleva credere perché quello era il linguaggio dei suoi
amici.
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Mercante di perle
O, per meglio dire, così fa la nuova creatura che è nata in me. Perché la mia
carne (cervello compreso) continuerebbe con il vecchio modo di vivere,
riferendo tutto a se stessa. Delle volte, per esempio, mi scopro ancora a
fantasticare e a progettare la mia vita e la mia istruzione come facevo
prima di convertirmi. Ma, a differenza di un tempo, adesso so che quei
progetti sono soltanto rumore (un impedimento per il mio stesso lavoro) e
non ci faccio più caso.
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Vendere tutto non è stato un sacri cio, anzi lo faccio con sollievo e con
gioia perché in cambio sto trovando qualcosa di molto più grande e più
bello di tutto ciò che avrei mai potuto sperare dalle mie cose: un nuovo
rapporto con Dio. Un nuovo, vero tesoro.
Gli scribi e i farisei sono coloro che hanno tramato contro Gesù per
toglierlo di mezzo. Volevano essere loro i detentori della verità. Qualcosa
del genere avviene anche oggi nel mondo. Scriba nell’originale greco del
passo citato suona grammatéus, cioè, etimologicamente, “letterato”.
Potremmo dire intellettuale, perché non ci sono, sotto questo rispetto,
molte differenze tra scienze umane e scienze esatte o naturali: in tutti i
campi si tratta sempre soprattutto di conoscere roba scritta, letteratura (e
oggi forse hanno più bisogno di leggere e scrivere gli scienziati che gli
stessi scrittori). Gli intellettuali in genere, cattedratici e no, si sentono
anche loro, come gli scribi di un tempo, investiti di una autorità che nel
loro intimo temono di perdere. Temono perché il loro sapere è slegato
dalla loro vita, perché “dicono e non fanno”. Ma c’è un bisogno che gli
intellettuali sentono (lo so per esperienza diretta): il desiderio di diventare
un punto di riferimento, una guida, “un’autorità in materia”. Questo
bisogno è la fame che lavora per loro e che nel segreto dei loro cuori
spinge molti intellettuali a lavorare. (Un giorno ho sentito dire a uno
scienziato abbastanza famoso, a proposito di un suo lavoretto: “fatene
quello che volete, basta che dite che l’ho fatto io”). Ma non è per il
riconoscimento degli uomini che si diventa delle vere autorità. Anzi ho
visto che la vanità e la superbia sono la causa del fallimento personale e
scienti co della stragrande maggioranza degli intellettuali (compreso
me), che credendo di sacri carsi per la scienza niscono per con narsi in
un angusto e litigioso mondo di immagini (eppure le cose che premiano
sono la conoscenza e la pace).
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II cambiamento che è avvenuto nella mia vita (e a cui io stesso certe volte
stento a credere) è quello che oggi mi permette di raccontare la mia
storia, di riconoscere il corso del tempo, le cose nuove e le cose vecchie,
dando un senso nuovo alle cose vecchie. Difatti, “le cose vecchie sono
passate: ecco sono divenute nuove” 5. II mio racconto è il racconto della
mia vita vecchia, ma come la vedo oggi con occhi nuovi, e anche se quelle
cose sono successe allora, solo oggi possono essere raccontate nel modo
in cui desidero che lo siano: cioè non per mostrare le cose che ho fatto o
che potrei fare io, ma le cose che Gesù Cristo ha fatto per me; da cosa mi
ha liberato, e come.
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Mercante di perle
In questa luce voglio raccontare la mia storia. Non la storia della mia vita,
ma la storia della mia nuova nascita. Una storia che soltanto il Padre
conosce veramente e completamente, e che si svolge secondo i modi del
cielo. Per questo ho diviso il mio racconto in capitoli ordinati in senso non
rigorosamente cronologico, ma piuttosto nel senso del progressivo
approfondimento della rivelazione del Signore Gesù.
Un’ultima cosa. Da quando sono entrato a far parte del popolo dei
credenti, ho ascoltato e letto tantissime storie di conversioni: conversioni
di ma osi, di prostitute, di assassini, di tossicodipendenti, addirittura di
spiritisti e di servi di Satana, oltre che di gente comune, apparentemente
sana e soddisfatta; ma ne ho sentite poche di intellettuali e pochissime di
loso . Con questo non voglio dire che la mia storia sia speciale rispetto
alle altre. Le testimonianze di Dio sono tutte egualmente speciali, e anzi la
mia personale, tra quelle che ho potuto ascoltare è una delle
testimonianze della grazia di Dio in cui il graziato, per titubanza e
sospettosità, fa la peggior gura. Voglio soltanto dedicare queste pagine a
tutte le persone ri essive, introverse, studiose, un po’ nevrotiche e
ciclicamente depresse come ero io. A coloro che, come me un tempo,
cercano la verità nei libri scritti dagli uomini, anziché nella vita. E, senza
potersi veramente saziare, si sfamano di letteratura.
Nel mio racconto queste persone non troveranno il loro cibo abituale. La
storia che sta per cominciare è una storia con pochi dialoghi e pochi colpi
di scena, senza grandi passioni, senza trama, e senza meta sica, fatta del
solitario substrato mentale e materiale su cui si è prodotta. Se Gesù non
fosse venuto a cambiare la mia vita, non mi sarei mai sognato di
raccontarla per scritto. Ma proprio la mancanza di particolari qualità del
protagonista di questa storia è da parte del Signore, una promessa per
tutti i suoi lettori. Ed è una ulteriore prova di ciò che è attestato in vari
luoghi della Bibbia: “l’Eterno non guarda alla qualità delle persone”.
Anzi, “...Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; e
Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose sprezzate, anzi le cose
che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, af nché nessuna
carne si glori al cospetto di Dio.” 6.
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NOTE
5. II Corinzi 5:17.
6. I Corinzi, 1:27-29.
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CAPITOLO I
L’IPOCRITA CHE VOLEVA TROVARE LA
VERITÀ
Lunedì, 28 luglio 1975, Trieste. Alcuni giorni dopo la chiusura degli esami di
maturità. Dai sedici anni in poi mi ero votato allo studio, dopo una pubertà
passata nell’ozio, nei vizi, e in molto dolore. Avevo studiato con passione e
con diligenza, per piacere e anche per non dispiacere ai miei professori
che mi accordavano piena ducia. Ma non avevo studiato solo per piacere
a loro. Attraverso di loro, specialmente attraverso il professore di storia e
loso a, avevo scoperto il mondo scon nato ma percorribile della
letteratura. Mi ero accorto cioè che dietro ai libri di testo c’erano tanti altri
libri, libri di cui quelli di scuola erano solo un pallido ri esso, o, nel migliore
dei casi, una buona introduzione. Avevo imparato a frequentare la
Biblioteca Civica e a trascorrervi le estati. Lo studio, in pochi anni, era
diventato la mia vita. E la prova di maturità aveva fatto ampio onore a
questo impegno. Ero contento. Anche per i miei genitori ( n da piccolo, il
comandamento di onorare il padre e la madre aveva avuto per me
principalmente il senso di andare bene a scuola). Così, quando mi
telefonarono per chiedermi se volevo essere intervistato da un giornalista
de “Il Piccolo”, non riuscii a dire di no. Non che non avessi i miei
presentimenti. Lo studio e soprattutto certa letteratura esistenzialista mi
avevano instillato una profonda dif denza per i mezzi di comunicazione di
massa. Specialmente per la stampa, che vedevo come la Babilonia della
letteratura.
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Non era ancora il tempo per una ri essione di quel tipo. In quegli anni, più
che la verità in sé, mi importava la verità per gli altri, e soprattutto la verità
su ciò che gli altri pensavano e dicevano di me. Sapevo che era così: un
giorno ero riuscito anche a dirlo. Mi ricordo che era stato qualche anno
prima, sugli scogli di una baia di Arbe, un’isola della Dalmazia. Parlando con
mio padre gli confessavo di essere interessato al mio prossimo solo per
quello che poteva rivelarmi di me. Di fronte a tanta desolazione ricordo di
avere anche pianto. Ma non di sincero pentimento, piuttosto di
autocommiserazione.
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Forse però mi sforzavo anche per paura. Difatti i miei genitori avevano
deciso di sottopormi a quella visita perché a scuola non rendevo come
avrebbero desiderato. Se non sbaglio mi ero appena trasferito da Pavia a
Padova e si preoccupavano di sapere (soprattutto mia madre) se non
andavo bene perché avevo dei problemi di ambientamento o un ritardo
intellettivo. Io dei problemi psicologici non mi curavo molto, quello che mi
premeva era di non risultare scemo. Ma i miei non sapevano di queste
preoccupazioni e dopo la visita mi raccontarono che avevo fatto un’ottima
impressione a quello psicologo, che aveva detto che sarei migliorato
sempre più con il passare degli anni e che avevo un Quoziente Intellettivo
molto alto. A1 momento mi rincuorai, ma poi lentamente cominciai a
domandarmi come mai, se ero tanto intelligente, mi avevano voluto
misurare il Quoziente Intellettivo; non mi avevano forse mentito sul
risultato dell’esame?
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Poi, dopo una gravissima crisi negli anni della pubertà, quando al timore di
essere de ciente si era aggiunta la certezza di essere un imbranato,
riprendendo a leggere e a studiare all’età di sedici anni ho presto ritrovato
questi pensieri e iperbolici dubbi. Alla sorpresa di ritrovare i miei timori in
un racconto si mescolava anche un certo compiacimento per la bellezza
della forma con cui venivano espressi i “miei” pensieri. Prima ancora che
nel programma di storia della loso a ho ritrovato difatti le mie
angosciose fantasticherie espresse in forma poetica un giorno che, in un
fresco riparo scavato dal mare dentro una roccia di granito di una spiaggia
dell’Asinara, ho iniziato e quasi nito il mio primo libro di Jorge Luis Borges,
L’aleph. I brevi racconti contenuti in quel libretto mi sembrarono scritti da
un amico di lunga data, qualcuno al quale fosse apparsa allo stesso modo
che a me la fragilità e l’insussistenza di tutto ciò che sappiamo delle cose.
Era il periodo che cominciavo a passare del tempo davanti allo specchio
con un forte senso di estraneità per la mia faccia, senso di estraneità che
poi si estendeva spesso anche al mio nome e cognome, e nivo col
domandarmi se tutta la mia vita non appartenesse per caso a uno strano
sogno. In quel libro, come in tutti i suoi altri, Borges prospettava la
vertiginosa possibilità (teoricamente inconfutabile) che tutta la storia e
tutte le storie, compresi tutti i libri (sottinteso anche i libri di Borges) non
siano state inventate che un attimo fa. A dire il vero mi accorgevo che
Borges scriveva con così tanto divertimento e acutezza da farmi
sospettare che, nonostante questi cosmici dubbi, qualche sicurezza, alla
ne, l’avesse trovata. O forse era proprio la possibilità di esprimere
l’incertezza che ne alleviava il dolore, trasformandolo anzi in sottile piacere.
Quell’estate lessi, mi pare, anche L’uomo senza qualità di Musil e altri libri,
specialmente di Mann e di Kafka. Immerso in queste opere cominciai a
pensare seriamente che la letteratura potesse essere la soluzione per
tutta la vita: leggere e scrivere libri poteva forse essere il modo per
assorbire fruttuosamente tutti i miei pensieri, trasformando la sofferenza
in qualcosa di utile, qualcosa che poteva essere comunicato e apprezzato
da altri.
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La semiotica del testo mi interessava più della linguistica, perché non c’era
da studiare, ma solo da ri ettere, e si faceva meno fatica a fare belle gure.
Il lavoro che avevamo iniziato consisteva nel tentare di esplicitare le regole
implicite che usiamo quando parliamo, ascoltiamo, leggiamo, scriviamo.
Lavoro almeno all’inizio assai affascinante, soprattutto perché lavoravamo
in classe (era un seminario con scadenza settimanale) e su un breve testo
ci soffermavamo per molti mesi.
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Intorno a questo gioco collettivo, con cui combinava anche lo studio per
altri corsi, la vita si svolgeva abbastanza allegramente, in una città che mi
appariva molto più colorata, ricca e ridente della sgarbata, metallica, dura
Trieste. Mi sembrava di aver fatto un ottimo affare.
Negli ultimi anni di università le mie idee erano un po’ cambiate. Era
cambiata anche la mia situazione sociale: prima stavo con una spensierata
ragazza che aveva alcuni anni meno di me, poi, dopo un breve periodo di
vacanza, stavo con una ragazza di alcuni anni più vecchia di me e con
molti problemi. Inoltre avevamo formato attorno a Eco e ad altri professori
dello stesso istituto un gruppo abbastanza assiduo, una specie di piccola
classe, come ai tempi del liceo, con la differenza che questa era una classe
tutta di primi della classe. Io però, che non ero lo stesso del tempo del
liceo, perché alle normali dif coltà della vita del fuori sede si erano
aggiunti molti altri disagi esteriori e interiori, non vivevo più la vita di classe
con la dovuta leggerezza, ma anzi con molta fatica. Per miracolo riuscivo
ancora a leggere e a studiare, ma cominciavo ad avvertire un sempre più
forte calo di interesse. L’entusiasmo per le mie scoperte durava poco.
Dopo un po’ restavo con uno strano senso di irrealtà nella testa, simile a
quello che avevo provato n da bambino ripetendo molte volte una
stessa parola. Le nuove idee duravano nuove relativamente poco, ma
invecchiando non se ne andavano via, si intrecciavano invece come i li di
una tela di ragno. Oppure si depositavano come una sabbia ne, che
andava a indurire il mio cuore.
Non credevo più alla fattibilità di una scienza generale dei segni, anche se
continuavo a lavorare nel gruppo di Eco. In realtà quel gruppo non era
esattamente un gruppo di lavoro. Intanto perché più ci si vedeva al
ristorante o dopo cena con i professori e in particolare con Eco, meno ci si
riusciva a concentrare sul lavoro in classe (e se non era in classe non si
poteva parlare di semiotica, ma solo di futilità). Poi perché la semiotica,
come stavo imparando a conoscerla, mi si presentava come un insieme di
teorie abbastanza indipendenti le une dalle altre, e vedevo i semiologi più
che a ri ettere concretamente sulle regole che governano la
comprensione di un certo testo, soprattutto intenti a pensare a come
confutare o comprovare le loro o le altrui teorie. Mancandomi le basi per
un vero lavoro scienti co, mi trovavo ad inseguire idee, ed è molto dif cile
inseguire idee in gruppo. Tanto peggio se le idee, come accadeva
certamente a me, le si inseguiva principalmente allo scopo più o meno
segreto di mostrare quanto brillasse il proprio intelletto.
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Così mi sentivo solo. Mi vedevo con Renato, che riusciva a divertirsi molto
meglio di me e aveva sempre qualche nuova idea da sottopormi, ma non
era sempre facile trovarlo (anche se in teoria dormivamo nella stessa casa).
Anche Renato mi vedeva volentieri perché lavoravamo bene insieme: io
ero rigoroso no alla pignoleria (anche nel delirio meta sico), lui invece era
informato e produttivo. Io mi perdevo nei miei pensieri, riemergendo a
tratti, ma restando in una condizione di permanente ambiguità tra la
vaghezza dell’oggetto di studio e la confusione derivante dalla mia
personale mancanza di un metodo. Renato invece, più metodico e
distaccato, riusciva molto meglio ad individuare e a nominare i problemi.
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Non è facile e non è utile ricostruire tutto il groviglio delle nostre ri essioni
di allora. Eravamo partiti dalle letture delle principali opere loso che di
Ludwig Wittgenstein. Nei libri di Wittgenstein avevamo trovato impostati
e irrisolti i problemi fondamentali della loso a del linguaggio. Ma mentre
io naufragavo dolcemente nell’inestricabilità di questi problemi, Renato
trovava moltissimi collegamenti con altri libri che man mano mi passava,
testi di altri loso , ma anche di economisti, di autori di polizieschi e
fantascienza, e addirittura di cineasti. Con una certa invidia ma anche con
molta ammirazione, vedevo le mie perplessità e i miei travagli prendere
progressivamente forma di brillanti idee. Per esempio, un problema
teorico nel quale mi ero dibattuto n dai primi mesi di ri essione
semiotica e che era stato sollevato nelle opere del secondo periodo
dell’attività loso ca di Wittgenstein, era quello di comprendere non solo
quali fossero le regole implicite nella nostra pratica della lingua, ma anche
quando, come e perché queste regole venissero usate. Nella mia mente
questo problema teorico si mescolava con la mia effettiva incapacità di
parlare a proposito in società, con le mie incertezze e i miei continui sbagli.
Credo che a me importasse sbandierarlo quasi come una giusti cazione.
Invece per Renato, che in società apparentemente non aveva problemi,
questo insieme di discorsi loso ci esprimevano semplicemente il
concentrarsi dell’attenzione, in un certo momento storico, “sull’aspetto
dell’applicazione delle regole” (piuttosto che su quello della produzione).
Con questa e molte altre simili chiare e distinte formulazioni, Renato
marciava rapidamente verso la stesura de nitiva della tesi di laurea,
mentre io ero ancora in alto mare.
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Mi sentivo un po’ sulle orme dei miei parenti da parte materna, mio nonno
e un mio prozio, che erano emigrati in America all’inizio del secolo. Era
effettivamente un mondo nuovo. Il cielo, la lingua, i tratti orientali dei miei
nuovi amici e della gente mi facevano sentire in una specie di lungo
sogno. Dal quale però, anche se con una certa impressione, potevo
comunicare con l’esterno. Scrivevo molte lettere ai miei amici e
soprattutto ai miei genitori, nelle quali mi sforzavo di far trasparire un po’
della luce da cui mi sentivo bagnato. Ma quello che comunicavo
probabilmente era solo il fatto che stavo bene: non potevo certo far star
bene anche loro. Anzi, li facevo un po’ preoccupare, e non a torto, perché a
un certo punto decisi di lasciar scadere il mio biglietto di ritorno valido per
tre mesi.
Ciò nonostante, anche in Messico viaggiavo sempre con una borsa carica
di libri. Evidentemente l’idea che lo studio fosse la principale via per
comunicare con gli altri era troppo radicata in me. Stranamente, però,
amavo i libri più dif cili, quelli che non si possono raccontare. Forse perché
mi interessavano (e mi interessano tutt’ora) le cose semplici, di cui l’uomo
non riesce a parlare. Per dare un’idea delle mie velleità di lettura in quel
periodo, posso elencare i libri che mi ero portato dall’Italia: I fondamenti
della teoria del linguaggio di Hjelmslev, Mille Plateaux di Deleuze &
Guattari, Stabilità strutturale e morfogenesi di Thom, gli Esercizi di
topologia Schaum, oltre a una vecchia copia de L’Orlando furioso. Libri che
poi, tra l’altro, a parte i primi due, ho soltanto iniziato.
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Fin dai sedici anni, da quando avevo cominciato a leggere, la lettura per
me era stata una specie di esercizio, anzi un lavoro. Interminabile. Leggevo
con accanimento, ma per dovere: con la reverenza dovuta a quella che mi
appariva come la vera realtà. Poi a Bologna, all’Università, questa “realtà”
era diventata sempre più opprimente. Di solito di un libro più che leggerlo
mi interessava averlo letto, o anche solo averlo visto o comprato (spesso
senza pagare). In giro per librerie passavo lunghe nevrotiche ore, con la
tensione del cacciatore, ma senza il fresco della boscaglia e in più con la
coscienza sporca del ladro (anche quando pagavo). Certo ogni tanto
facevo delle scoperte, capivo delle cose, ma prevaleva sempre lo spirito del
collezionista (lo spirito, non l’anima, perché non ho mai avuto la suf ciente
costanza per iniziare una collezione, neanche di libri): quello che più mi
importava era di mostrare agli altri queste cose capite o trovate. Per
questo avevo bisogno di essere informato.
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Anche all’Escuela de Filosofía c’erano dei seminari, cioè delle riunioni in cui
a turno i partecipanti (tutti docenti tranne me) presentavano e
discutevano le loro ricerche assieme ai colleghi. Erano discussioni
abbastanza vivaci, che toccavano spesso temi di mio interesse e a cui, in
uno spagnolo sempre più disinvolto, prendevo anche parte. Ma un po’
perché poco ascoltato, un po’ perché lontano dai miei interessi personali, il
ricordo di quei discorsi non mi perseguitava e non guidava le mie letture e
le mie ricerche in biblioteca come mi accadeva a Bologna con le
chiacchiere tra amici e professori.
Ri ettevo sulle cose, anzi sugli eventi, i rapporti e gli incontri tra le cose
(cause ed effetti, variazioni continue e discontinue), viaggiando oltre che
con il corpo (mi piaceva girare in città in autobus o a piedi, oppure partire
per giri di qualche settimana in corriera e in treno) anche e soprattutto
con la mente, distinguendo e tipologizzando. Avevo anche dei veri amici,
con mia grande meraviglia, perché a Bologna la mia miseria interiore era
giunta al punto che credevo che gli amici fossero solo quelli che avevo già,
mentre tutto il resto del mondo mi appariva assolutamente estraneo.
Invece lì, nonostante fossi uno straniero sprovvisto di titoli (a parte la
laurea e una lettera di Eco) e specialmente di savoir faire, la maggior parte
delle persone che incontravo si dimostrava interessata a conoscere la mia
vita e a farmi conoscere la loro.
Mi sentivo molto bene, forte e sano di mente. In realtà ero tutto matto. Se
riprendo in mano un quaderno di appunti di quel periodo non ci capisco
più niente. Di cosa stavo parlando?
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Lo studio più serio e sistematico che avevo fatto n dai primi mesi del mio
soggiorno messicano era stato I fondamenti della teoria del linguaggio di
Louis Hjelmslev. I fondamenti è un libro di linguistica intessuto di
de nizioni molto tecniche e astratte. Meditando su questo dif cile libro
mi era venuta un’idea che mi sembrava geniale. Hjelmslev aveva chiarito
che la semiologia studia relazioni reciproche, come quella tra le cose da
dire e le parole per dirle (la reciprocità essendo data dal fatto che
cambiando la cosa bisogna cambiare le parole per esprimerla, e
cambiando le parole cambia anche la cosa, il contenuto, di quello che si
dice). L’idea che mi era venuta era che si potessero considerare allo stesso
modo governati da relazioni reciproche anche molti fenomeni naturali
come, per fare un esempio che mi sembrava molto calzante, la caccia,
dove i movimenti del predatore in uenzano quelli della preda e viceversa
ne sono anche in uenzati.
Mi sembrava che con una semiotica allargata in quel modo si potesse fare
anche dell’antropologia, e in particolare descrivere le differenze tra città e
campagna (con il differente grado di autonomia di cui godono le cose). Mi
interessava soprattutto studiare l’artigianato, come modo di vivere e di
signi care. Il titolo del mio progetto di ricerca era “La festa e il sapere
artigianale”.
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Difatti i soldi per il mio progetto di ricerca sul sapere artigianale non
arrivavano mai. Anzi proprio in quei mesi è arrivata la crisi economica che
non ha ancora lasciato il Messico, e i cui primi effetti, dal nostro punto di
vista, sono stati i tagli alla ricerca, e soprattutto agli stranieri.
In Italia, dopo due anni e mezzo di assenza non avevo molte speranze. Ho
partecipato ad un po’ di concorsi per dottorato (scrivendo dei temi in cui
riuscivo sempre a parlare delle mie invenzioni hjelmsleviane, ma con
scarso successo, perché non sono mai arrivato agli orali). Vivevo a Roma a
casa della mia nuova compagna, con sua madre e con nostro glio
Emiliano (nato a Morelia sei mesi prima di partire). Lei, dopo un po’, ha
trovato lavoro in una impresa di animazione al computer, e io, su richiesta
del loro art director, mi occupavo, dal punto di vista della teoria semiotica,
di questo nuovo modo di produrre segni, persistendo
l’autocompiacimento per le cose che capivo e che scrivevo (e che
oltretutto sono rimaste inedite).
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Quando RAI Tre ci diede il via cominciai a leggere i libri che mi dava il mio
amico e a scrivere il testo del programma. Anche se questa volta c’era
anche simpatia e un certo interesse per la fede delle persone di cui stavo
leggendo, il detentore della verità e della retta interpretazione restavo
sempre io, e non mi lasciava quel senso di voler far quadrare tutto,
caratteristico dell’attività loso ca. Mi sforzavo di comprendere le cose di
Dio con la mia intelligenza (e come, se no?) e con gli strumenti scienti ci
che avevo a disposizione. I concetti della semiotica, soprattutto quelli dei
recenti sviluppi della pragmatica (la branca della semiotica che si occupa
dell’uso dei segni), mi sembravano suf cienti al mio scopo che era quello
di dare statuto di segni alle parole “in altre lingue” 1, l’enigma semiologico
per il quale ero stato consultato. Mi compiacevo nel pensare che lo Spirito
potesse essere colui che dirigeva nella libertà ma n nei dettagli
l’applicazione delle regole (linguistiche e non linguistiche), costituendo
una misteriosa risposta al problema delle ricerche bolognesi. Ma non
potevo credere che Dio potesse guidare anche la mia vita e la mia ricerca.
29
Mercante di perle
Alla ne, come con le feste messicane e con la gra ca al computer, anche
nel testo per la trasmissione sul movimento pentecostale, oltre a un po’ di
lavoro storico sulle origini e sulle persecuzioni subite dai primi
pentecostali italiani in epoca fascista, avevo trovato il modo di usare le mie
categorie semiotiche. La formulazione de nitiva della mia idea fu che la
chiesa cattolica aveva trascurato il contenuto del culto per concentrare la
sua attenzione sulla sua espressione, mentre al contrario le chiese
riformate, concentrandosi troppo sul contenuto, avevano dimenticato i
modi per esprimerlo: nel movimento pentecostale, lo Spirito Santo poteva
aiutare le chiese a ritrovare la perduta armonia.
Non ricordo niente della predica, né delle preghiere (sapevo già che non
erano recitate a memoria, ma che esprimevano un colloquio diretto con
Dio). Non sentii nessuno parlare in lingue. Ricordo invece un episodio che
mostra abbastanza bene la mia strana situazione di allora. Quella sera c’era
la Santa Cena, il pane e il vino mangiati e bevuti in memoria di Gesù.
Quando passarono per distribuire il pane (pezzettini di focaccia) ne presi
anch’io. Da tempo volevo “comunicarmi”, ma sapevo che per farlo nella
chiesa cattolica avrei dovuto confessarmi, e in confessione avrei dovuto
dire che non avevo battezzato mio glio, e che anzi non ero nemmeno
sposato: si prospettava una tra la troppo lunga. Qui forse trovavo una
scorciatoia. Invece uno che mi stava vicino gentilmente mi chiese se ero
già battezzato, io gli risposi che sì, da piccolo. “Ah, da piccolo. Allora è
meglio che lasci stare, in seguito capirai perché”. Accettai il consiglio senza
discussioni, anzi con sollievo, e un certo rossore.
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Mercante di perle
Volevo prendere quel pane e quel vino come si può prendere una
medicina, perché mi facesse bene. Non sapevo assolutamente cosa
signi casse mangiare il corpo e bere il sangue di Cristo. Difatti, anche se
con il mio corpo ero lì e avrei voluto anche partecipare di quello che
mangiavano e bevevano le persone che mi stavano attorno, con la mia
mente e con il mio cuore ero assai lontano e non mi sentivo
minimamente parte di loro. Anzi li osservavo e li giudicavo. Tanto che uno
dei pensieri che ricordo di quella sera è stato “fossi matto che ritorno qui”.
Ero lì in veste di giornalista, e come giornalista mi ero lasciato coinvolgere
anche troppo.
NOTE
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Mercante di perle
CAPITOLO II
CONDANNATO A MORTE
Forse è così per tutti, ma io, da quando mi ricordo, mi sono sempre sentito
speciale. Non che cercassi di primeggiare in tutto, o in qualcosa: al
contrario, mi mettevo da parte. Dai sette anni in poi ho cominciato a non
fare la maggior parte delle cose che facevano i miei coetanei, come
giocare a pallone, tenere per una squadra, fare a botte con i compagni di
giochi, ecc., cercandomi amici più grandi, possibilmente adulti, più
disposti ad ascoltare e meno esigenti nel fare. E spesso mi domandavo
che cosa fosse che mi teneva in disparte. Pensavo troppo? O pensavo
troppo poco? Certo che sono sempre stato molto lento.
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Mercante di perle
Sentivo molto amore da parte dei medici e delle infermiere, oltre che del
papà e della mamma. Mi avevano fatto un sacco di lastre e una mattina
che mi avevano detto che me ne avrebbero fatta un’altra, mi portarono
invece in sala operatoria. Mi sono svegliato croci sso al lettino, tutto
incerottato e con una sete pazzesca, ma non potevo bere. Dovevo stare
fermissimo e soprattutto evitare qualsiasi tipo di scosse (da cui credo il
divieto di bere: l’acqua poteva andarmi di traverso o provocarmi conati di
vomito). Ho tossito lo stesso tutta la notte, ma una settimana dopo ero
fuori dall’ospedale.
Era successo che Rahir Terzian, un neurologo amico di mio padre (e poi
anche mio) aveva insistito perché si facessero più esami del solito. Alla ne
aveva scoperto dove stava il tumore e me l’avevano tolto: era un angioma,
un tumore benigno, pericoloso solo per le emorragie che aveva potuto
provocare rompendosi.
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Mercante di perle
Dopo Ferrara, dove ci eravamo trasferiti per seguire il professore di cui mio
padre era assistente, ho cambiato molte altre città. Tanti traslochi che
hanno segnato la vita della nostra famiglia e probabilmente anche il mio
modo di ricordare.
Nato a Trieste, ero arrivato a Ferrara dopo aver vissuto a Sassari i miei primi
sei anni, poi, dopo un anno, ci siamo trasferiti a Pavia, dove siamo rimasti
tre anni, e poi a Padova dove siamo rimasti altri tre anni, e poi di nuovo a
Trieste, dove mio padre è entrato in cattedra e la mia famiglia nalmente
si è fermata. Non facevo a tempo a farmi degli amici che subito li dovevo
lasciare, cosa di cui ho sofferto soprattutto i primi tempi a Trieste, quando
avevo circa quattordici anni e nessun amico di infanzia, in una città in cui
la gente mi appariva molto chiusa e interessata. Le uniche compagnie
erano nella FGCI, a cui mi ero iscritto seguendo l’esempio di un mio
giovane zio.
Ero molto insicuro, non riuscivo ad aprire il mio cuore con nessuno,
neanche con gli amici più assidui, perché cominciava a pesare il pensiero
di come sarei stato giudicato. Era l’età in cui si cominciano ad avere timori
segreti, ed anche quando ho avuto amici con cui parlare, ricordo che il mio
problema costante erano “gli altri”.
"Gli altri" era una entità in qualche modo strettamente connessa all’altro
sesso, perché questa cosa di avere una ragazza era venuta a rendermi
ancora più estranei i miei coetanei. Il mio problema era che (non so se per
mia sensibilità o per cosa altro: vulpes in alta vinea, insinuava qualcuno)
percepivo l’avere la ragazza come un intollerabile obbligo sociale. Non
sopportavo l’idea che il mio comportamento potesse venire interpretato
univocamente come “sta dietro alla tale”, o ancora peggio “mi sta
invitando perché vuole mettersi con me”. Non sopportavo che dal di fuori
mi si leggesse dentro. Ricordo di essere scoppiato in lagrime, qualche
anno prima, una volta che mia nonna aveva voluto interpretare un mio
muso e l’aveva fatto erroneamente dicendo che ero triste per la partenza
di mia madre.
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Mercante di perle
Anche in quegli anni e con i miei amici ero geloso di me stesso, di una
gelosia che era più forte di me. Perché, sia ben chiaro, a quest’obbligo
sociale di avere una ragazza non ero per niente insensibile col mio senso
delle convenienze. Lo dimostra il fatto che la principale causa di
preoccupazioni per me in quel periodo era una bugia che avevo detta a
proposito di una ragazza amata alla ne della terza media, quando ancora
non conoscevo nessuno della mia nuova compagnia.
Giulia era una ragazza di tredici anni che conoscevo e che mi piaceva n
da quando eravamo molto piccoli. Quell’estate, a Lignano, avevamo
cominciato a sorriderci, guardandoci negli occhi e prendendoci per la
mano. Poi lei mi aveva fatto invitare dai suoi (nostri amici di famiglia) a Torri
del Benaco, sul Lago di Garda, dove eravamo tenuti a vista, e ricordo che
l’unico segno del nostro amore era che lei ogni sera mi veniva a salutare
dalla porta della stanza dove dormivo. Gli ultimi giorni siamo stati più
insieme, ma non ci siamo scambiati che castissimi baci. Poi ci siamo scritti
per alcuni mesi, no a che il padre non glielo ha impedito perché le mie
lettere la facevano stare male. Ebbene, avevo usato il ricordo di quei giorni
per attestare a me stesso e agli altri che anch’io avevo avuto un amore. E
anzi a domanda avevo risposto mentendo sul tipo di baci che ci eravamo
scambiati con Giulia (i lunghi baci che si vedevano al cinema costituivano
un vero mistero iniziatico, al quale avrei voluto far credere di avere già
avuto accesso). Così, da una parte soffrivo all’idea di poter essere
conosciuto a fondo dalle parole super ciali del mio mondo circostante.
Dall’altra questa specie di morte mi sembrava quasi desiderabile (perché
pensavo che la mia normalità avrebbe evitato altre parole).
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Mercante di perle
A un certo punto i miei amici mi informarono che una ragazza della nostra
compagnia aveva dichiarato di essere interessata a me, ed io timidamente
l’avvicinai. Ci vedevamo tenendoci per mano. Ma succedeva esattamente
quello che io avevo sempre pensato: ero bloccato dal pensiero che il mio
comportamento venisse giudicato per quello che effettivamente sarebbe
stato, se avessimo cercato di baciarci. E dopo qualche tempo lasciammo
perdere di vederci da soli. Un’altra volta, in campeggio a Grado, mi
costrinsero ad andare a dormire in tenda con una ragazza che mi piaceva,
e anche quella volta non osai allungare un dito.
Con questi ed altri solitari riti, la mia anima era suf cientemente occupata,
e la mia mente non veniva distratta dai temi del mio studio. Ero rimasto
vergine, ma non immacolato.
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Mercante di perle
Comunque i veri guai sono cominciati proprio con la prima morosa, quella
per cui ho scelto Bologna come sede degli studi universitari.
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Mercante di perle
Il pensiero del cibo, in particolare, non mi lasciava mai. Ma, mentre i libri li
leggevo più che altro per quello che immaginavo di farci dopo averli letti,
con il cibo preferivo l’atto di mangiarlo allo stato di averlo già mangiato.
Anzi, dopo pranzo ero per lo più rattristato. Così cercavo di mangiare cose
che non mi dessero la sensazione di aver mangiato (come mele o carote).
Oppure mangiavo cose di cui pensavo di aver bisogno (degli alimenti,
quasi più che al sapore, badavo agli ingredienti). Oppure ancora
trangugiavo cose che mi togliessero la fame (per esempio a un certo
punto bevevo l’olio). Nei miei spostamenti - spaziali e mentali - ero
completamente legato dal pensiero di cosa avrei mangiato e giravo
sempre con delle borse piene di cibarie.
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Mercante di perle
Una era Paola. Fin dall’inizio del primo anno accademico l’avevo vista e
notata a lezione da Eco assieme al suo ragazzo. Poi l’anno successivo ci
eravamo visti una sera da qualcuno e avevo subito provato simpatia per
lei, meravigliandomi, ricordo, per la sincerità della sua intelligenza. Ancora
non sapevo che era glia di Gianni Rodari, scrittore con cui avevo avuto un
incontro molto particolare, perché me l’aveva dato da leggere al tempo
dell’intervento al cervello Rahir Terzian, il mio amico neurologo. Paola era
rimasta colpita dalle mie carote e dalle mie mele e mi aveva scritto un
affettuoso bigliettino in cui in sostanza mi diceva che capiva che le mie
stranezze erano espressione di una sofferenza che la gente di solito
nasconde anche a se stessa, e che lei mi voleva bene per questo. Non mi
ricordo cosa le ho risposto, ma abbiamo cominciato a parlare a tu per tu e
siamo diventati amici. Una sera, alla luce di un lampione, le ho scritto
anche una poesia d’amore-amicizia, l’unica che abbia mai scritto in vita
mia.
L’altra amica era Licia. Licia io non l’avevo notata, era stata lei a notare me.
Mi aveva chiamato a casa sua per parlare, perché voleva conoscermi, e
conoscendola meglio mi sono accorto che era una ragazza molto
intelligente, di un’intelligenza prepotente e bambinesca. Dopo alcuni
incontri, la conoscenza si è fatta più intima e ho cominciato a fermarmi a
dormire con lei. Licia era sposata, ed io ero amico di suo marito, ma era un
matrimonio già naufragato e non vedevo niente di male nel convivere con
una donna sposata in queste condizioni (sulla legittimità della convivenza
pre-matrimoniale non avevo il minimo dubbio), tanto che dormivamo
assieme a casa loro indipendentemente dalla presenza di lui. Adesso, a
ripensarci, rabbrividisco per la mia insensibilità. Ma allora non avevo niente
e nessuno che mi potesse mostrare quanto sdrucciolevole fosse il terreno
sul quale stavo camminando. Tanto più che tra me e Licia sentivo un
affetto e un interesse più sinceri di quelli che legavano i componenti del
gruppo intorno ad Eco, e il rapporto che si stava creando tra di noi mi si
rivelava più importante di qualsiasi altro legame più o meno
istituzionalizzato. Con Licia potevo aprirmi, anzi dovevo farlo. E, come era
accaduto anche con Laura, l’aver messo a nudo il mio essere con qualcun
altro mi sembrava un passo avanti, qualcosa di salutare rispetto al modo
intellettualistico e nevrotico in cui vivevo la vita, da topo di biblioteca. E,
nonostante tutto, chiacchierare con Licia mi faceva sentire impegnato in
qualcosa di più vitale che inseguire i miei pensieri e i miei professori.
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Mercante di perle
Convivevamo con una certa reciproca libertà. Io avevo anche la mia casa, e
gli amici, che vedevo per lo più senza di lei, soprattutto Renato, con cui in
teoria abitavo (dai tempi di Laura avevo fatto due traslochi) e poi, dopo il
cinema o il lavoro, la raggiungevo a casa sua.
Prima del cinema o del lavoro (di scrittura, s’intende), invece, con Renato
avevamo preso l’abitudine di confezionarci una sigaretta di tabacco misto
ad hashish o a marijuana. C’era la noia (e la spesa) di procurarci gli
ingredienti (per lo più in Piazza Maggiore e da individui poco
raccomandabili), ma l’effetto ci sembrava che ripagasse il fastidio, perché
le immagini, la musica, le parole e i nostri stessi pensieri acquistavano un
interesse che normalmente non avevano. Questa delle “canne” (come le
chiamavamo) per me era stata una conquista della primavera del ’77. Non
mi ricordo se prima o dopo i “fatti di marzo” (credo prima), una sera in una
auletta della facoltà (occupata) di Lettere e loso a, a un certo punto
girava una pipa di tabacco e hashish. Ho dato due tirate e poi sono tornato
a casa. Ricordo ancora il percorso, al ritmo delle luci e delle colonne dei
portici con l’emozione di essermi drogato.
Anche Licia stava diventando una necessità, e man mano che lei
diventava più importante per me, io lo diventavo meno per lei. All’inizio
l’avevo fatta molto soffrire mettendola su un piano diverso da (e in
qualche modo inferiore a) quello in cui mettevo lo studio e gli altri amici (e
professori). Nel giro di un anno o poco più, però, era ormai Licia che
cominciava a fare soffrire me, anche lei mettendomi su un piano diverso
da quello in cui metteva i suoi nuovi amici, diciamo pure le sue nuove
conquiste.
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Mercante di perle
Renato era sempre più introvabile, anche lui con le sue conquiste. In
compenso c’erano altri amici che mi facevano compagnia. Ma il mio dolore
non lo potevo dare a nessuno. Era un dolore fatto di incertezze e dubbi
anche molto concreti: parto? o non parto? vado lì? o non ci vado? prendo
l’autobus? o faccio quell’altro giro? dormo a casa? o telefono a Licia? e con
tutti questi dubbi naturalmente facevo quasi sempre le scelte sbagliate,
anche perché gli unici valori che mi aiutavano a scegliere erano quelli della
convenienza, soprattutto nel senso del risparmio. Così, dopo essere uscito
dalla depressione del dopo-Laura, stavo entrando in una nuova
depressione, mentre Licia voleva e non voleva lasciarmi. Una depressione
che preoccupò nuovamente i miei, perché perdevo ancora chili. A me
quello che preoccupava era il dolore che sentivo in pancia, e i pensieri che
non mi lasciavano e che stavano quasi per diventare delle voci, esterne e
insopportabili.
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Mercante di perle
Non parlo della nudità solo in senso metaforico. Ricordo che un giorno di
quel periodo, in Sardegna al largo di una spiaggia in barca con molti amici
e conoscenti, siccome mi ero dimenticato il costume, mi sono messo
tutto nudo. Denudandomi per bagnarmi e assolarmi, mi sembrava di aver
vinto su molti tabù e molte paure (in realtà non mi sentivo affatto a mio
agio e non ricordo un giorno più piatto di quello). Con il mio
atteggiamento spregiudicato di fronte al corpo e al rapporto sessuale,
credevo di essermi liberato da molti falsi condizionamenti. Eppure ero
sempre più condizionato, sempre più schiavo delle mie necessità
corporali, o più esattamente di quelle che credevo fossero le mie
necessità corporali. La mia mente era diventata una specie di lente di
ingrandimento dei bisogni del corpo (naturalmente, ingrandendoli, anche
li deformavo, e, senza saperlo, in realtà bistrattavo il mio povero corpo). E
non c’era solo il bisogno di sesso, ma anche il bisogno di sole, di
movimento, di proteine, di vitamine, di bre vegetali, eccetera, eccetera,
eccetera.
Di fronte alla mia prima casa, su di un lungo viale alla periferia di Morelia,
c’era una piscina comunale con un bel prato e la maggior parte delle mie
mattinate, dopo una colazione a base di banane e altra frutta tropicale, le
passavo a nuotare e a prendere il sole, fregandomi mentalmente le mani
al pensiero che a Bologna era ancora inverno.
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Mercante di perle
Una volta ben sveglio andavo in centro e prima di andare alla città
universitaria spesso facevo un giro al mercato. A Morelia ce ne erano vari,
uno per ogni principale zona della città. Impiegavo anche delle ore a
scegliere e a consumare i miei pasti. Nei miei giri imparavo le posizioni e gli
orari (approssimativi) dei vari rivenditori. Mi lasciavo guidare dalle mie
voglie, come una foglia trasportata dai mulinelli di vento. Venivo trascinato
a quel modo dai miei desideri non solo al mercato, ma anche la sera, per la
cena, che consumavo per lo più per strada in banchi allestiti all’aperto da
gente povera per gente altrettanto povera ma buongustaia. Le semplici
cose che si mangiavano per pochi soldi erano proprio squisite: in Messico,
come nel nostro Meridione, la gente pensa al mangiare con molta più
intensità che nell’industrioso Nord, e la sera anche nel centro delle città
era tutto un brulicare di banchi e banchetti. Tanto ero preso dal pensiero
della bontà di queste cibarie che un giorno, al vedere un rivenditore
ambulante di patate americane (condite con melassa), mi sono gettato
sulla porta dell’autobus sul quale viaggiavo e che si stava già richiudendo,
e mi sono fatto un brutto taglio su un dito.
Poi c’erano i negozi di prodotti naturali: una tta rete di punti vendita in
cui con ogni probabilità venivano rivendute le cibarie integrali che non
avevano passato i controlli per la messa in vendita negli Stati Uniti, e che
quindi di naturale avevano forse molto poco; ma a me bastava la parola.
Ero irresistibilmente attratto da questi negozi.
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CAPITOLO III
NELLA RETE DEL REGNO DEI CIELI
Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio glio fuori d'Egitto (...)
Io insegnai a Efraim a camminare, sorreggendolo per le braccia; ma essi
non hanno riconosciuto che io cercavo di guarirli. Io li attiravo con corde
umane, con legami d'amore; ero per loro come chi solleva il giogo dalle
mascelle, e porgevo loro dolcemente da mangiare.
Osea, 11:1-4
Ma non sono guarito solo da malattie siche. Era stata una cosa seria
anche la crisi negli anni dello sviluppo, quando bevevo per dimenticare.
Soprattutto perché andavo male a scuola: ero in quarta ginnasio e non
avevo nessuna voglia di imparare, anzi non ci riuscivo. L’insuccesso pesava
su di me e mi impediva di ascoltare e di ricordare. Poi, invece, qualcuno mi
ha dato ducia e quella crisi è stata dimenticata, e, in breve tempo, sono
diventato circa il primo della classe. Una grazia che sapevo di non essermi
meritata, anche se allora non osavo attribuirla alla misericordia di Dio.
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Uno dei problemi che dovevo risolvere per potermi fermare in Messico era
il numero limitato di scatolette della mia scorta di barbiturici. Ne prendevo
una pastiglia al giorno (una e mezza, quando mi ricordavo della mezza) da
oramai più di tre anni, in seguito ad un episodio a cui ho già accennato di
sfuggita. Un episodio che aveva segnato la mia vita all’epoca
dell’università.
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Quelle parole mi colpirono, ma non è che ci pensai su. Non capivo cosa
volessero dire. Eppure ogni tanto mi tornavano in mente. In qualche
modo si formava in me la convinzione che esisteva qualcosa che era
importante che io cercassi prima di ogni altra. Cosa fosse questo regno di
Dio non avevo idea. Ma adesso, che non prendo più barbiturici, posso
ringraziare il Signore anche per quelle convulsioni, perché proprio da
questa mia infermità doveva nascere l’occasione per ricevere il seme della
salvezza.
C’erano molti scogli che dovevano essere ancora tolti, per preparare la
strada a Gesù. Primo fra tutti la fornicazione. Fornicazione è una parola
strana, che sa di catechismo e che no a poco tempo fa non riuscivo a
capire cosa signi casse; la radice greca pornè = “ prostituta” mostra invece
come questa parola indichi una condizione sì antica, ma che purtroppo
non accenna a divenire inattuale. Anche se ovviamente con le mie amiche
non ci siamo mai sognati di parlare di soldi, il rapporto carnale era sempre
collegato con un esercizio, un accumulo, o una dissipazione di potere.
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Durante gli anni dell’università l’amicizia con Paola era cresciuta sempre
più. In particolare ricordo un paio di settimane passate con lei a Stintino,
un paesino sulla punta nordoccidentale della Sardegna che io consideravo
la mia vera patria perché con la mia famiglia ci siamo andati in vacanza da
quand’ero appena nato ed eravamo tra le pochissime famiglie di
villeggianti. Era settembre. Dei nostri amici mi avevano offerto di andare a
completare il lavoro della tesi nella loro casa vuota, una bella grande casa
dentro il paese e di fronte agli scogli. Io avevo esteso l’invito a Paola, che
pure doveva nire di scrivere la tesi, e così ci siamo trovati a vivere da soli
in questa casa tutta per noi, ognuno con la sue scartof e. Dormivamo
nella stessa stanza ma in letti separati, eravamo grandi amici e ci
sentivamo come fratello e sorella. Già un’altra volta, che avevamo fatto un
viaggio insieme a Parigi a trovare un nostro amico ebreo egiziano, avevo
provato una gioia intensa a stare con lei dormendo nella stessa stanza,
proprio come dei fratellini. Quello che c’era tra di noi era un bene speciale.
Avevamo anche i nostri rispettivi morosi, ma non eravamo gelosi, forse
perché sapevamo che erano solo degli amori in qualche modo provvisori.
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Poi io sono partito per il Messico. A Morelia, quando avevo già deciso di
fermarmi, mi sono arrivate notizie di Paola, che stava molto male a causa di
un amore (in seguito ho saputo che questo era stato il primo amore che
lei avrebbe voluto durasse per sempre, ma anche da lontano sapevo che
si doveva trattare di un dolore più grande di quello per una storia nita).
Poi sono arrivate anche delle telefonate. Paola mi voleva venire a trovare.
L’arrivo era previsto per un certo giorno tra luglio e agosto. Viaggiava con
Franco, un caro amico. Io dovevo andare a Mexicali, sulla frontiera
settentrionale, per rinnovare il visto turistico. Sono andato e tornato di
corsa (si fa per dire: viaggiavo in corriera, in treno o in autostop). Ma al mio
ritorno è iniziata l’attesa. Paola non arrivava mai. Mi stavo quasi adirando,
anzi ero proprio scocciato, perché dopo quei mesi di vita semisolitaria mi
ero dimenticato cosa fossero le preoccupazioni, mentre adesso le sentivo
fastidiosamente tornare assieme a Paola. Ma quando, dopo una settimana
di attesa durante la quale non ero riuscito a sapere nulla di loro, Paola e
Franco mi sono comparsi sulla porta di casa, la gioia per trovarmi con la
mia amica nella grande luce di quella nuova patria (paragonavo il Messico
a una grande Sardegna) ha fatto immediatamente sparire tutta la mia
arrabbiatura e tutto il fastidio. Non solo, ma ho presto capito che senza
Paola la mia vita in Messico non aveva più lo stesso senso, perché quello
che io credevo l’inizio di una nuova vita in America in realtà era
innanzitutto il nostro viaggio di nozze. L’ho capito de nitivamente
quando Paola mi ha chiesto di prometterle che saremmo sempre stati
assieme. E l’ho toccato con mano quando lei è ripartita (perché aveva un
impegno di lavoro a Bologna in ottobre), chiedendomi di venire a
riprenderla quanto prima mi fosse stato possibile.
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Paolino era un ragazzo (anzi ormai un uomo sulla trentina) alto, magro, coi
capelli ricci, il volto scavato alla Eduardo de Filippo e dei folti baffetti;
suonava il sassofono e non faceva esami. La prima volta che l’ho incontrato
è stato in una delle case in cui ho vissuto a Bologna (una casa sui tetti, la
più felice), perché conosceva il mio compagno e padrone di casa. Era
venuto a chiedere se avevamo cinquemila lire da prestargli. Gliele diedi
volentieri, pur sapendo che dif cilmente le avrei riviste. Me lo ricordo
perché la cosa mi stupì: ero molto attaccato al denaro e per risparmiare
cinquecento lire a quell’epoca facevo cose indegne. Diventammo amici;
anche se non avevamo molto da dirci ci volevamo bene. Poi avevamo
molte conoscenze in comune, così ci si vedeva spesso. Quando ritornai a
Bologna per mantenere la parola data a Paola che la sarei venuta a
riprendere, non so come non so perché, offrii a Paolino di venirsene in
Messico con noi. Aveva appena ricevuto dei soldi da una compagnia di
assicurazioni per un incidente sul lavoro (un TIR che tempo prima era
entrato nel casello autostradale dove lui riscuoteva i pedaggi), ed accettò
volentieri la mia proposta.
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Finimmo in mezzo alla selva, dove abbiamo dormito anche all’aperto. Poi
in Guatemala, in mezzo alla paura della gente e ai soldati con gli occhi rossi
per la marijuana e con i mitra spianati. E poi di nuovo sulla sierra
messicana, perché il caldo della costa aveva fatto gon are un ascesso in
bocca a Paola e ci dispiaceva abusare di antibiotici dato che nel frattempo
avevamo cominciato a sospettare di star viaggiando in tre.
Prima dell’arrivo di Paola avevo trovato una ottima sistemazione con uno
studente di loso a vicino alla Città Universitaria: un bell’appartamento al
piano terra con una grande vetrata su un piccolo ma rigoglioso giardino
interno. Avevo una stanza tutta per me e pagavo ventimila lire di af tto.
Ma dopo il mio ritorno con Paola e Paolino, e soprattutto con la novità del
nascituro, il mio compagno di casa ha cominciato a dare chiari segni di
insofferenza, e noi abbiamo dovuto cercare un’altra sistemazione.
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Era una bella stanza isolata sulla terrazza. Sotto, al piano terra, in due
stanze, gabinetto, patio e cucina vivevano Luis e sua moglie. L’abbiamo
rimessa un po’ a posto (anche se dal sof tto hanno continuato a
minacciarci dei mattoni scoperti), ci abbiamo messo un materasso, un
tavolo da disegno, una sedia a dondolo, delle cassette della frutta
riverniciate in color turchese come armadi e libreria, ed avevamo una casa
bellissima, piena di luce, di aria e di verde, senza neanche pagare l’af tto.
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Lessi gli Atti degli Apostoli e alcune Lettere di Paolo, e quelle scritture mi
colpirono per la loro freschezza e attualità. Ma soprattutto mi furono utili
certi libri scritti da autori evangelici che Paolino aveva preso per me da
casa di suo padre. Mi servirono non tanto a quello che avevo in mente di
scrivere, quanto piuttosto ad appassionarmi all’argomento. Soprattutto a
capire che nella Bibbia c’era effettivamente qualcosa di molto nuovo, di
cui non avevo mai sentito parlare, anche se alle mie orecchie parole come
Spirito Santo, Pentecoste o conversione non erano certo nuove. Eppure
queste cose che sentivo, che pure erano scritte nel Nuovo e nel Vecchio
Testamento, per me erano proprio nuove, di una novità che non sapevo
esprimere. E che difatti non risultò dal testo che alla ne scrissi.
Per scrivere quel testo, oltre a leggere dei libri, ebbi anche l’occasione di
conoscere delle persone. Innanzitutto i genitori di Paolo, con i quali mi
incontrai a Sestri Levante, prima nel locale di culto della loro piccola
comunità: una stanzetta al piano terra (uso negozio) con qualche
strumento musicale e poche sedie nella quale, dopo alcuni brevi scambi
di parole, facemmo anche una preghiera. La preghiera la innalzò solo il
padre di Paolo, ma io non rimasi indifferente. Mi colpì soprattutto il fatto
che quell’uomo parlasse direttamente a Dio senza cerimonie e
salamelecchi, esprimendo quelle che effettivamente erano necessità
(necessità anche mie) cui solo Dio poteva provvedere. Uscendo dalla sala
la madre di Paolo mi disse una cosa che pure mi colpì; mi disse: Gesù la
ama. Mi colpì perché mi accorsi che non lo diceva come uno slogan, ma
con convinzione, cioè con vero amore. Poi, alcuni giorni dopo, ci vennero a
trovare loro, sempre a Sestri Levante dove eravamo ospitati a casa di Paolo
(una casa di suo nonno che in estate veniva af ttata a turisti milanesi).
C’erano anche Paola, Emiliano ed Ermannina, la nostra secondogenita. In
quella occasione parlammo più a fondo. Quello che mi dissero in sostanza
fu che ero molto confuso. E lo ero davvero.
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Poi, dopo aver scritto il mio testo pensai che era doveroso almeno visitare
qualche chiesa, non fosse altro per fare delle registrazioni. In realtà nel mio
intimo quella o quelle visite erano il vero scopo di tutto il lavoro, anche di
scrittura. Avevo scritto dei credenti con simpatia e con desiderio di
conoscerne qualcuno, tanto che al responsabile di struttura RAI era
venuto il sospetto che fossi anch’io un pentecostale. Scelsi con
trepidazione il numero telefonico di una delle comunità pentecostali di
Roma. Mi informai degli orari e una domenica andai a vedere. Dopo il culto,
quello che ho in parte già descritto alla ne del primo capitolo, andai a
parlare con il responsabile della comunità il quale mi disse che avrei
potuto parlare più a lungo con lui o forse meglio ancora ricevere a casa
mia uno dei consiglieri della chiesa (usò questa parola, consigliere, mai più
risentita) che in quel momento non era presente, con cui avrei potuto
accordarmi per telefono.
Mi vidi arrivare un ragazzo della mia età o poco più, molto semplice e
tranquillo. Parlammo pacatamente. Alla ne del colloquio mi raccontò la
sua testimonianza, cioè come aveva conosciuto Gesù. Mi raccontò come
non volesse ascoltare la voce che sentiva nella sua coscienza e quali
incidenti gli fossero occorsi prima di riconoscere quella voce come la voce
del suo Salvatore. Naturalmente pensai a me, e la mia simpatia per questi
cristiani crebbe ancora.
Ma, come avevo detto a me stesso, non tornai in quella chiesa. Non tanto
presto, almeno.
La mia situazione familiare e personale era sempre più dif cile. Tanto
dif cile che non ce la facevo proprio più. D’altra parte con la nascita di
Ermanna, Paola aveva perso il suo posto di lavoro e io non avevo trovato
niente di sso. Non c’era niente che ci tenesse legati a Roma, se non la
casa e un dif cile rapporto con la madre di Paola. Bastò una parvenza di
incarico, la mia nomina a segretario di un’associazione (l’Associazione
Interculturale per la Scienza e l’Arte) e decidemmo di trasferirci almeno
temporaneamente a Trieste, sede di quest’associazione, dove un mio ex
compagno di classe mi prestò un appartamento in centro, e dove
comunque eravamo aiutati e sostenuti dai miei. Il lavoro crebbe
rapidamente e nel giro di pochi mesi avevamo molto da fare, sia io che
Paola.
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Queste cose sulla realtà mondiale della Chiesa non erano certamente il
contenuto della predicazione che iniziava a trasformarmi, erano soltanto
ciò che la mia mente vecchia registrava della chiesa. Ma avevo bisogno
anche di queste cose, e Dio me le aveva preparate. Come aveva preparato
tutte le vie d’uscita di cui ho parlato in questo capitolo e molte altre di cui
sarebbe stato troppo lungo parlare.
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NOTE
2. Come ho scoperto poi, ancora una volta si realizzava quello che dice la
Parola di Dio, e che è rivelato nella lettera ai Romani (11:11), cioè che è per la
caduta di Israele (in questo caso di Paolino, che, essendo glio di credenti,
secondo Atti 16:31, “Credi nel Signore Gesù Cristo, e sarai salvato tu e tutta
la casa tua”, sarà salvato per promessa, come Israele) la salvezza è giunta ai
Gentili (me), salvati per pura misericordia.
3. Romani, 10:17.
4. Romani, 1:17.
5. I Pietro, 2:5.
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CAPITOLO IV
FUNGHI, DEMONI E LA PAROLA DI DIO
La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero
Salmi, 119:105
Allora non l’avrei mai ammesso, ma uno dei principali problemi con cui mi
ero abituato a convivere era l’invisibile laccio della droga. Forse perché era
entrata nella mia vita relativamente tardi, e per me era una specie di
conquista.
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Con dare nel destino per lui era l’unico modo di vivere, cioè di impegnarsi
nella realtà, anche sporcandosi, inevitabilmente; ma mi sembrarono parole
rivolte anche a me. Con dare nel destino mi sembrava una buona regola
per ottenere il coraggio necessario per muovermi in quel mondo grande e
magico nel quale mi stavo avventurando.
Prima di quella festa a Città del Messico con gli amici di Luis, avevo fatto il
mio primo viaggio da solo.
Ero stato alcuni giorni a Puebla, dove avevo visitato incredibili chiese
indio-barocche, e dove vivevo nei pressi del mercato centrale, in una
pensione che sembrava una prigione, con un vicino di cella che
collezionava gabbie di canarini. Una sera in piazza sono venuto a sapere di
massacri di contadini che stavano avvenendo in quei giorni nel completo
silenzio della stampa anche locale, notizia che cominciò a darmi le
dimensioni di una realtà molto più spaziosa e tremenda di quella che
crediamo di dominare dalla nestra (sarebbe meglio dire dal nto buco
della serratura) dei mass media, e fece anche aumentare la mia paura. Poi
una mattina prestissimo ho preso un treno per Oaxaca. Viaggiavo in terza
classe, vicino a me sedeva un vecchietto con un fazzoletto al collo che
andava a vendere per pochi pesos il gallo che teneva in braccio. Sui vagoni
senza porte salivano venditori di frutta, carni cotte, riso, che poi
scendevano alla fermata successiva. Più si andava a sud più aumentava la
gente e la povertà. Ma aumentava anche la sensazione che in qualsiasi
momento potesse succedere di tutto.
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Visto che, con una deviazione che sulla cartina appariva modesta, il paese
dove viveva Maria Sabina poteva rientrare nel mio itinerario di ritorno,
decisi di tentare. Dopo un interminabile viaggio notturno in piedi sul retro
di un furgoncino aperto, assieme ad una mezza dozzina di indios
assonnati, arrivai in un paesino di montagna immerso nella nebbia
mattutina, dove non riuscivo a trovare un letto per buttarmici a dormire.
Af dato il mio bagaglio alla clemenza di qualche negoziante, mi sono
rannicchiato su una panchina di cemento della piazza.
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Con la stagione delle piogge i funghi erano entrati addirittura nella mia
vita quotidiana. Paola era appena arrivata quando assieme a lei sono
andato per la prima volta con un gruppo di amici pittori in un posto vicino
a Morelia dove i funghi si potevano raccogliere e mangiare freschi. Anche
questo era un posto molto bello e in seguito ci sono tornato numerose
altre volte.
Poi con Paola e Franco siamo partiti per un giro. Li ho portati a Puebla da
dove Franco è proseguito con degli altri amici di Bologna con cui avevamo
appuntamento. Io e Paola, invece, ci siamo diretti verso la Sierra Mazateca.
Quei posti erano ancora più belli di come li ricordavo, la piazza del paese
dove questa volta avevamo trovato una specie di albergo certe volte
restava poche decine di metri sopra una distesa di nuvole che si
insinuavano tra i monti. Sui prati crescevano le orchidee selvatiche, e su
quei prati leggevo Vendredi ou les limbes du Paci que di Michel Tournier
trovando sotto i miei occhi una natura ancora più forte di quella con cui
lotta e amoreggia il Robinson di quel romanzo. Naturalmente
mangiammo anche dei funghi.
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Probabilmente, se non fosse stato per Jesús, non sarei ripartito. Jesús
Cervantes è un nostro amico pittore che aveva deciso di accompagnarmi
in Italia con la sua ragazza, e che a Città del Messico, il giorno prima della
partenza, quando stavo lottando e quasi soccombendo alla tentazione di
perdere una seconda volta il mio biglietto di rientro, mi disse che mi
vedeva troppo debole per fare quel salto (si riferiva all’Atlantico) e mi offriva
di occuparsi lui del rientro di Paola. Vidi che stavo per mancare alla parola
data e mi animai a partire, per fare il mio dovere.
Bologna la trovai più fredda che mai, e intorno a Paola il gelo. Nessuno dei
nostri amici ci ospitò a casa sua e nimmo in albergo. Così sentivo
crescere l’importanza del mio sacri cio e il mio atteggiamento con lei
cominciava ad essere di degnazione . Anche con sua madre mi sono
comportato molto male, dormendo con la glia nel salotto di casa sua a
Roma come se fosse la cosa più ovvia. Ma non avevamo rinunciato al
nostro viaggio, e, dopo qualche settimana di preparativi, assieme a Paolino
abbiamo preso l’aereo per Los Angeles.
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Da quel viaggio con Paolino, come ho già raccontato, avevo portato a casa
anche una Bibbia. Non sentivo di iniziare a leggerla dall’inizio o di iniziare
qualche libro in particolare, piuttosto certe volte la aprivo e leggevo quello
che mi capitava. Spesso mi capitavano sotto gli occhi passi già letti e
molte volte li rileggevo. Ricordo in particolare un passo del libro dei
Proverbi che mi consolava nella mia “scelta” familiare. Dice: “Figliuolo mio,
sta attento alla mia sapienza, inclina l’orecchio alla mia intelligenza,
af nché tu conservi l’accorgimento, e le tue labbra ritengano la scienza.
Poiché le labbra dell’adultera stillano miele, e la sua bocca è più morbida
dell’olio; ma la ne a cui mena è amara come l’assenzio, è acuta come una
spada a due tagli. I suoi piedi scendono alla morte, i suoi passi fanno capo
al soggiorno dei defunti. Lungi dal prendere il sentiero della vita, le sue vie
sono erranti e non sa dove va. Or dunque glioli ascoltatemi, e non vi
dipartite dalle parole della mia bocca. Tieni lontana da lei la tua via e non ti
accostare alla porta della sua casa, per non dare ad altri il ore della tua
gioventù, e i tuoi anni al tiranno crudele; perché degli stranieri non si
sazino dei tuoi beni, e le tue fatiche non vadano in casa d’altri; perché tu
non abbia a gemere quando verrà la tua ne, quando la tua carne e il tuo
corpo saranno consumati e tu non dica: «Come ho fatto ad odiare la
correzione, e come ha potuto il cuor mio sprezzare la riprensione? Come
ho fatto a non ascoltare la voce di chi mi ammaestrava, e a non porgere
l’orecchio a chi mi insegnava? poco mancò che non mi trovassi immerso
in ogni male, in mezzo al popolo e all’assemblea». Bevi l’acqua della tua
cisterna, l’acqua viva del tuo pozzo. Le tue fonti devono spargersi al di
fuori? e i tuoi rivi devono essi scorrere per le strade? Siano per te solo, e
non per degli stranieri con te. Sia benedetta la tua fonte e vivi lieto con la
sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, cavriola di grazia, le sue carezze
t’inebrino in ogni tempo, e sii del continuo rapito nell’affetto suo. E perché,
gliuol mio, ti invaghiresti di una estranea, e abbracceresti il seno della
donna altrui? Ché le vie dell’uomo stanno davanti agli occhi dell’Eterno,
che osserva tutti i sentieri di lui. L’empio sarà preso nelle proprie iniquità, e
tenuto stretto dalle funi del suo peccato. Egli morrà per mancanza di
correzione, andrà vacillando per la grandezza della sua follia.” 1.
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Avevo una riprova tangibile della superiorità della mia condizione diciamo
pure di drogato (ma allora avrei detto piuttosto di viaggiatore) in lunghe
conversazioni con Mario Teo, un mio giovane amico già professore di storia
della loso a. Lui conosceva bene molti dei testi (soprattutto francesi) che
erano stati il mio quotidiano oggetto e strumento di studio n dagli ultimi
anni dell’università, e potevo mostrargli la penetrazione che le mie
esperienze mi stavano permettendo di acquisire. Con lui non parlavamo
di droghe (non fumava marijuana perché non gli piaceva, non voleva
mangiare funghi perché gli facevano paura) ma proprio di loso a: la
percezione, il visibile, l’invisibile, gli eventi, le serie, i piani, gli strati, i
quadranti....
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Il fatto che mi piacesse trovare una riprova della superiorità della mia
condizione avrebbe dovuto allarmarmi e forse mi allarmava, ma c’era tanto
chiasso dentro di me che non potevo far caso a nessun campanello. Non
che mi disinteressassi di quello che mi poteva capitare. Anzi, ero sempre
più preoccupato di camminare sulla strada giusta. Ma potevo pensare alla
strada solo in termini esteriori, preoccupandomi di essere nel posto giusto
al momento giusto; per questo la droga era così importante, perché dopo
aver fumato e a maggior ragione dopo avere mangiato dei funghi ero
portato, quasi forzato a convincermi di essere nel migliore dei mondi
possibile: guai se no.
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In quel periodo ho conosciuto César. Era un uomo sui trent’anni, con una
faccia che ricordava moltissimo quella di Jack Nicholson, ma più aperta e
simpatica. Lo incontrai un giorno che andavo da solo in cerca di funghi. In
seguito mi disse che dovevo avere del coraggio perché in quel posto i
ragazzi non si avventurano da soli. Era sposato con tre gli maschi, e
vivevano tutti in una casetta (due stanze, cucina e bagno) nella periferia
meridionale di Morelia, vicino alle colline. Sul tetto allevava galli da
combattimento. La loro stanza era ingombra di quadri dipinti da lui con un
certo gusto (quadri astratti o ritratti di Gesù - “non sdolcinati” - e di altri
maestri), di strumenti musicali che stava costruendo, di libri e scatole varie
(tra le quali una contenente una grande quantità di funghi secchi, la
scorta per il periodo di secca). Sapeva molte cose, cose che mi
sembravano concrete, utili segni delle realtà invisibili. Me le raccontava
senza atteggiarsi a maestro, ma proprio per questo io lo ascoltavo
bevendo le sue parole come un discepolo. La mia ammirazione e la stima
reciproca ci legarono presto in un’amicizia che Paola non vedeva di buon
occhio. Andavo a trovarlo spesso, da solo, attraversando di sera rioni
pericolosi. Fumavamo assieme una sigaretta di marijuana e
chiacchieravamo, soprattutto lui. I funghi erano per le gite in campagna.
“Molti con i funghi cercano Dio - mi aveva detto - io no, a me piace la forza”.
Mi raccontava di averne mangiati decine e decine in una sola volta, e di
essere andato in giro a sollevare macigni; io stesso l’avevo visto s dare dei
tori, e gli credevo; Paola invece lo giudicava “un pallonaro”. Mi raccontava
che erano venuti a prenderlo “per la guerra” delle creature che si erano
quali cate come appartenenti alle Forze verdi, che poi se ne erano andate
perché lui si era messo a piangere pensando ai suoi gli. Un’altra volta,
dopo una notte passata sui monti, mi ha raccontato di avere visto le forme
dei raggi lunari e degli altri corpi celesti (la cosa non mi lasciava incredulo
perché anch’io, guardando il sole sotto l’effetto di un poco di peyotl 2
masticato per strada, avevo visto una specie di esercito di strane creature).
Aveva un librone di astrologia da cui aveva ricavato un sacco di nozioni che
usava con una grande sicurezza. Era questa sicurezza che soprattutto gli
ammiravo.
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In parte a seguito delle mie conversazioni con César, in parte per le cose
che io stesso avevo visto, in me si andava formando una specie di pietà,
nel senso pagano di timore più o meno reverenziale per ciò che non si
può vedere. Ma da questa convinzione sorgeva il poco pietoso desiderio di
svelare l’invisibile. Volevo averne una visione, magari un modello, una
teoria, almeno una prova. Perché la mia era una convinzione inquieta,
qualcosa su cui non potevo riposare con certezza e di cui non era facile
parlare.
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Quando siamo andati in Italia per mostrare Emiliano agli altri parenti, ho
parlato con Renato delle mie esperienze con i funghi, e Renato mi ha
raccontato di quelle fatte contemporaneamente con l’acido lisergico.
Anche lui, sotto l’effetto dell’LSD, aveva visto una natura solitamente
invisibile e zoomorfa. Bestie nelle rocce, negli alberi, ecc. Le stesse forme
che si vedono anche da bambini nelle nuvole e nelle macchie sui muri, ma
più nitide e più complete. Del resto, dicevamo, anche Antonin Artaud
aveva avuto una simile rivelazione di sculture naturali che lo guardavano
dalle rocce della Sierra dei Tarahumara. Ri ettevamo a molte altre cose
lette insieme nei libri di Deleuze sulla “visagéité”, sul “devenir enfant” o il
“devenir animal”. Anche lui aveva letto Vocazione e stava leggendo un
libro intitolato II Tao della sica di Fritjof Capra, dove pure si parlava di
loso a orientale e di cosmiche danze degli atomi.
Ero molto euforico per tutte queste coincidenze e credo anche Renato lo
fosse. Ma la nostra euforia è stata presto bruscamente smorzata da un
fatto che è rimasto inspiegato e che è stato un segno inequivocabile per
le nostre coscienze. Avevamo organizzato di vederci tutti per capodanno
nella casa di campagna di Paola vicino a Roma. Tutti gli amici di Bologna, o
quasi. Doveva raggiungerci anche Angelo, un compagno di classe di
Renato negli anni del liceo, che poi era diventato suo compagno di casa
all’Università e anche amico mio. Quando mi vedevo con Renato per
scrivere la nostra prima tesina, si niva sempre per scherzare assieme; una
sera, ricordo, anche attorno a un tavolino evocando gli spiriti. Quando poi,
al mio secondo trasloco, ero andato a vivere in casa con loro, le
chiacchierate con Angelo erano diventate un fatto quotidiano e la nostra
amicizia un aspetto della vita. L’avevo rivisto a Bologna ingrassato e più
triste di come l’avevo lasciato, c’eravamo scambiati poche parole,
entrambi contando sulle chiacchierate che avremmo fatto appunto in
campagna. Ma a mezzanotte Angelo non era ancora arrivato. Abbastanza
dopo mezzanotte è arrivata invece una telefonata del fratello che ci diceva
che l’avevano trovato accoltellato in un fosso. Era stato accoltellato la
notte prima molte volte alla schiena e poi trasportato sui colli bolognesi
dove era stato ritrovato per caso in un fosso la mattina seguente.
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In quel periodo la mia ricerca sul movimento pentecostale era già a buon
punto (lo ricordo bene perché una delle cose che mi avevano stupito del
mio amico induista era che mi aveva chiesto di fargli leggere il testo della
trasmissione, dicendomi di essere stato anche lui un cristiano
pentecostale). Per questa trasmissione avevo pensato ad una intervista
con Baget Bozzo. Speravo di cogliere l’occasione dell’intervista per
conversare con lui anche di Simone Weil e delle altre fedi, soprattutto
orientali. Invece Baget Bozzo, neoeletto deputato al Parlamento Europeo,
mi scrisse una gentile letterina in cui, dandomi del tu, si scusava di non
poter partecipare alla mia trasmissione a causa dei suoi impegni politici.
Invece alla Rai mi indicarono il nome di un’altra persona competente in
fatto di religione cristiana di cui loro si erano serviti molte altre volte:
Sergio Quinzio. Altra coincidenza, perché io avevo appena nito di leggere
un suo libro, La croce e il nulla, dove cristianesimo e loso e orientali
erano chiaramente contrapposti.
Capivo sempre meglio che quella dello yoga e delle loso e orientali non
era la strada che Dio mi indicava. Nonostante questo mi ostinavo a
seguirla, pensando di non averne altre a mia disposizione e anche, mi
dicevo, per non ri utare quello che mi era stato dato. Ero anzi sempre più
assiduo nell’eseguire regolarmente gli esercizi al mattino e anche alla sera,
dedicando, dopo di questi, sempre più tempo alla meditazione.
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Intanto si avvicinava il tempo del Tantra Yoga. Anche se l’iscrizione non era
niente affatto gratis, la curiosità assieme al pensiero di non dispiacere al
mio maestro Alessandro mi avrebbero probabilmente portato a
partecipare a quei riti iniziatici. Tanto più che per la prima volta in assoluto
questo Tantra si sarebbe tenuto in Italia, e non solo, ma proprio nel
castello di Bracciano, a pochi chilometri dalla casa di campagna di Paola.
Invece poche settimane prima dell’inizio del Tantra ci trasferimmo a
Trieste, da dove la mia partecipazione a quello stage (come asetticamente
lo chiamavano) era ritornata ad essere un’opzione del tutto facoltativa.
Così una delle prime cose che avevo chiesto in preghiera era stata di poter
entrare in contatto con persone che credessero davvero alle parole di
Gesù. Per questo, quando mio zio mi ha detto che c’era una comunità
pentecostale anche a Trieste, ho sentito dentro di me di andare a vedere.
Ci sono andato e ci sono anche tornato, perché avevo trovato qualcosa di
nuovo, ma che corrispondeva anche al bisogno che avevo espresso nelle
mie preghiere. Quelle che avevo trovato erano persone che prendevano le
parole di Gesù certamente più sul serio di me.
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Restavano gli esercizi di yoga. Fin dalle prime volte che avevo piegato le
mie ginocchia per pregare Dio come un cristiano, avevo sentito una
grande differenza di senso tra l’atteggiamento di preghiera cristiano e
quello orientale. Sentivo che nello spirito dello yoga erano importanti cose
che davanti a Gesù non lo erano affatto e viceversa. Man mano che avevo
fatto esperienza del Signore in preghiera, ero sempre più certo che lui
guardava il mio atteggiamento interiore e non la posizione del mio corpo,
e che lo stare inginocchiati era l’effetto, la libera espressione di una
prostrazione interiore, non viceversa, come nello yoga, dove si cercano
modi cazioni interiori a partire da certe posizioni del corpo. Volevo
smettere, ma mi avevano detto che per il corpo era pericoloso lasciare di
colpo lo yoga e quindi continuavo a fare un certo numero di esercizi, ma
sempre meno convinto. Un giorno ne ho parlato con Velio, allora l’unico
pastore della comunità; ero andato a trovarlo a casa sua, come molte altre
volte specialmente in quel periodo; mi disse che se si trattava soltanto di
esercizi sici per il corpo potevo continuare a farli senza preoccuparmi,
“ma aggiunse con un sorriso - è scritto che l’esercizio corporale è utile a
poca cosa”, e mi mostrò il passo 5 nella sua Bibbia. Così smisi anche di
incrociare le gambe, di inarcare la schiena e di spingere il ventre.
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Poi, col tempo, man mano che le mie preghiere si facevano più dirette,
vedevo con sempre maggior nitidezza la falsità degli insegnamenti dello
yoga, e specialmente del mio atteggiamento di fronte a queste dottrine,
come se mi avessero potuto guidare in una realtà più alta e più vicina al
cielo. Come se per entrare stabilmente in cielo bastasse imparare a
ritmare il respiro e a recitare qualche formula magica, o, da un altro punto
di vista, occorresse impegnarsi in un continuo esercizio sico e mentale.
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Questi libri però non mi facevano una gran luce, ancora meno facevano
luce sulle parole della Bibbia, anzi vi gettavano tte ombre. Invece la
Bibbia fa una gran luce anche su quei libri e sulle realtà di cui più o meno
consapevolmente essi si fanno complici. Quello che la Bibbia mi ha
cominciato a mostrare su queste realtà (realtà di cui avevo avuto
esperienza diretta nelle gure che sotto l’effetto dei funghi avevo visto
nell’aria e dentro di me, ma al cui tipo potevo anche ricondurre tutte le
divinità esotiche dei popoli pagani di cui avevo visto e considerato
innumerevoli raf gurazioni e letto molte storie, e anche le cosiddette
anime dei morti e dei beati del paganesimo di casa), è che questi spiriti,
anche se hanno alimentato ed alimentano la fantasia degli uomini, non
sono essi stessi delle fantasie.
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NOTE
1. Proverbi, 5.
3. II Timoteo, 4:3.
5. I Timoteo, 4:8.
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CAPITOLO V
IMMERSO NEL NOME DI GESÙ
Di cosa sapessero di Gesù i miei bisnonni non so nulla, e anche della fede
dei miei nonni so ben poco, perché, eccezion fatta per la nonna paterna
che è ancora viva, con loro non ho praticamente mai parlato di queste
cose. Da quel poco che posso sapere il loro rapporto con Gesù è stato per
lo più super ciale. Gesù era per loro qualcuno a cui rivolgersi “in caso di
necessità”, ma non un amico fedele e tanto meno un Signore
onnipotente a cui obbedire con timore e tremore. Anche mia madre mi
insegnava a rispettare le regole della Chiesa Cattolica più che a temere
l’Eterno, e mi mostrava di sentire più vicini ed utili i nomi dei santi che
quello di Gesù.
Mio padre invece non va a messa la domenica. Ma credo che Gesù gli ha
mostrato cose di sé già da molti anni prima della mia nascita. Prima ancora
della guerra, che ha fatto da alpino, diciottenne, e dove pure deve avere
imparato molte cose importanti, un episodio esteriormente insigni cante
gli si è tanto impresso nella coscienza che un giorno, non ricordo a che
proposito, gli è venuto di raccontarmelo. Questo fatto me lo guro in un
cortile o uno slargo davanti a scuola, dopo l’introduzione delle leggi razziali,
tra un ragazzo ebreo e lui balilla come tutti gli altri. Per puro conformismo
aveva parlato di qualcuno chiamandolo “sporco ebreo”. Il ragazzo ebreo
non si era adirato e non l’aveva insultato a sua volta, ma l’aveva
rimproverato con dolcezza chiedendogli: “Perché dici così? dire «sporco» è
una cosa, dire «sporco ebreo» un’altra, molto differente”. Mio padre in
seguito ha avuto molti amici ebrei e ha avuto sempre un forte interesse
per la loro storia, trasmettendo anche a me, n che ero piccolo, questo
rispetto e questa considerazione.
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Dagli anni della pubertà, invece, nella mia mente il pensiero del “popolo di
Dio” ha assunto un opposto tono affettivo. Erano gli anni di Al-fatah e dei
fedayn, anni in cui la stampa, specialmente quella che in uenzava le
persone a cui stavo attento io, faceva una pessima pubblicità a Israele.
A dodici anni avevo smesso di andare a messa (negli ultimi tempi ci ero
andato solo per non far dispiacere a mia madre). È vero che, dopo i fervori
comunisti dei quattordici-quindici anni, quando ho smesso di frequentare
la Federazione e mi sono messo a studiare, gli argomenti per me più
interessanti erano nuovamente quelli connessi con la storia del
Cristianesimo. Agostino, Pascal, Kierkegaard sono stati i miei autori
prediletti. I loro libri mi avevano dato da pensare perché parlavano della
fede come di una scelta e di una decisione molto profonde. Così,
nonostante non avessi fatto quella scelta e non avessi preso quella
decisione (non avevo neanche capito bene di cosa si trattasse) e
nonostante continuassi a imprecare bestemmiando Iddio, mi consideravo
molto più cristiano di mia madre. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe
continuavo però a sentirlo lontano. Tanto più negli anni di Bologna.
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A Roma, nelle pagine della Bibbia e degli altri libri che leggevo per scrivere
il testo di quella trasmissione sul movimento pentecostale, la forma e il
contenuto della scelta del cristiano mi si facevano più chiari. Avevo
sempre la scusa che erano cose che stavo comprendendo per studio, anzi
per lavoro. E difatti, per quello che mi era permesso, le usavo
effettivamente scrivendo e discorrendo, come di idee. Ma presto ho
dovuto riconoscere che, anche se io non avevo ancora voluto provarle,
quelle parole non erano teorie. E che se rimanevano teorie non erano
proprio niente.
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Invece cominciavo a capire che se la Bibbia era la parola di Dio, allora non
c’era da stupirsi che io mi ci riconoscessi e che la sentissi rivolta a me,
perché la parola di Dio è eterna, e quindi può ben parlare a distanza di
millenni. Il suo divino autore poteva ben essere in grado di guidarne la
lettura, come mi era accaduto e mi stava accadendo di sentirmi guidato a
leggere certi libri e certi capitoli della Bibbia piuttosto che altri. Come
spiegare altrimenti il fatto che quelle parole si riferivano direttamente a
me, alla mia vita quotidiana? Ma ancora non riuscivo a fare il primo passo,
quello decisivo.
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A questo punto del racconto risulta forse più chiaro perché desiderassi
entrare in contatto con qualcuno che mi guidasse per mano. Si spiega la
mia lettera a Baget Bozzo. Si spiega come non solo un giorno sia andato a
sentire una conferenza di un monaco benedettino con un nome indiano
che dentro una chiesa del centro di Roma esponeva la sua loso a della
religione (un ottetto di vie di cui quella cristiana era la centrale), ma abbia
anche desiderato, senza però riuscirvi, di andare a parlare con lui come da
un padre spirituale.
Questo monaco piccolo e con i pochi capelli della chierica tenuti lunghi
sulle spalle, mi era sembrato di vederlo un giorno farsi a piedi Galleria
Sandrinelli (un tunnel che congiunge due piazze di Trieste). Le chiare
parole lette nel Nuovo Testamento dopo la visita al mio amico arancione
evidentemente non mi erano bastate. A Trieste difatti sono andato a
vedere un centro di yoga vicino a casa; sono andato ad assistere a una
conferenza di argomento esoterico a cui ero stato invitato; ho esplorato gli
angoli delle librerie dedicati alle religioni e all’occulto, cercando qualcosa di
interessante che non avessi già letto. Ma non trovavo niente di solido su
cui potermi appoggiare. Per questo, nonostante tutte le mie ricerche
esteriori, dentro di me continuavo a guardare alla Bibbia come all’unica
fonte di pace, e cercavo qualcuno che mi aiutasse a crederci.
Nella comunità di Trieste sono stato accolto con molto calore, come se mi
stessero aspettando. Ho sentito subito che il loro interesse per me era un
interesse disinteressato. Ho sentito che sapevano che era Dio che mi
aveva portato in mezzo a loro, e che solo lui mi ci avrebbe riportato. Non
ho sentito nessuna insistenza e nessun tipo di pressione. Sono stato anzi
impressionato dalla discrezione con cui si manifestava tanto interesse.
Difatti non sono stati il calore e l’amicizia degli uomini a farmi tornare.
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La mia prima necessità era stata quella di uno spazio e di un tempo per
pregare. A casa c’era sempre qualcuno che mi entrava in camera, o che
bussava, se la porta era chiusa, o che telefonava, o che suonava il
campanello. Ma soprattutto non mi sentivo capito nel mio bisogno di
inginocchiarmi, forse anche per via di tutte le genu essioni e strane
posture dei miei esercizi di yoga. Per la stessa ragione non sono mai
entrato a pregare in una chiesa cattolica: mi sarei sentito osservato. Invece
in mezzo a persone che si rivolgevano apertamente a Dio come a
qualcuno presente lì in quel momento, mi sentivo a mio agio. Non è che
pregassi tutto il tempo che stavo in ginocchio: spesso il pensiero correva
qua e là osservando e ascoltando ma senza sentire niente con il cuore;
spesso capivo qualcosa, altre volte qualcos’altro mi risultava oscuro, o
addirittura mi sembrava sbagliato. Ma n dalla prima volta che mi sono
inginocchiato nella comunità assieme ad altri credenti ho sentito, in quel
semplice gesto fatto in comune con il cuore e con convinzione, la
vicinanza e l’intimità della vera amicizia.
C’era anche un altro fatto nuovo: spesso prima della preghiera il pastore
esortava a liberarsi di tutti i pensieri e di tutte le preoccupazioni che
potevano essere di impedimento al colloquio personale con Dio,
mettendo ogni cosa davanti al Signore, con fede che non solo Dio
conosce ogni cosa, ma anche ha già preordinato, per coloro che lo
cercano, cose molto migliori di qualsiasi fantasticheria. Seguendo questo
consiglio, effettivamente, almeno per il tempo che restavo in mezzo ai
credenti, il pensiero del mio futuro (prossimo e remoto: pasti e
programmi) non mi disturbava più.
Ogni volta che ci si riuniva veniva anche predicata qualche parola, o veniva
raccontato qualche fatto, o qualche esperienza. Questi racconti, queste
esortazioni, e questi insegnamenti pur armonizzandosi con quello che già
conoscevo della Bibbia, mi risultavano ugualmente sempre nuovi. Così
ogni volta me ne andavo diverso da come ero venuto, e felice di aver
trovato quell’oasi di pace.
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Quando mi sono rialzato era come se nella mia vita qualcuno avesse
acceso la luce, che, come succede alle volte di pomeriggio, man mano era
venuta scemando. Mi sentivo felice e leggero. Avevo nalmente
imboccato la strada di Cristo. E difatti, da quel momento, è iniziato il vero
travaglio.
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Dopo aver creduto con il cuore che Gesù è morto e risorto per me, era
necessario che confessassi con la mia bocca che egli è il Signore 1. In altre
parole dovevo rendere pubblica la mia decisione di seguirlo e di obbedirgli
in tutto e per tutto. Altrimenti sarei rimasto chiuso nei miei pensieri e
nelle mie paure.
Anche quella è stata una vittoria. Prima di alzarmi ero trattenuto da mille
timori. Alzandomi invece è come se mi fossi abbandonato a una corrente,
una corrente calma. Tutte le cose avvenivano nella pace e nella verità.
C’era la potenza del Signore, che si manifesta perfetta nella debolezza
dell’uomo. E dopo essere tornato al posto sentivo chiaramente che era
successo qualcosa; che, non badando ai miei giudizi (cioè a quello che
avrebbe potuto pensare il mio mondo), avevo fatto un altro passo verso
Gesù.
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Quando a novembre, dopo un anno circa dalla prima volta che sono
entrato nella comunità di Trieste, mi sono fatto battezzare (nella comunità
di Udine, dove c’è una vasca), ho provato una grande gioia. Di nuovo un
senso di vittoria, di una grande vittoria. È stata una cosa molto semplice:
Velio ed io siamo entrati in una vasca con l’acqua che ci arrivava alle cosce;
ho affermato di essere un peccatore e di accettare Gesù come mio
personale salvatore e sono stato immerso, nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo. Ad assistere, oltre alla comunità di Udine e a quella di
Trieste quasi al completo, c’erano anche mio padre, mia moglie, mio
fratello e la mia futura cognata. Mi ricordo il viaggio di ritorno in macchina
e le discussioni con mia moglie (mio padre invece diceva di capirmi). Ma
soprattutto ricordo di aver percepito chiaramente che quella gioia che
no allora avevo sentito intorno a me in mezzo ai credenti, adesso era
entrata dentro di me. Ero effettivamente stato immerso in qualcosa di
nuovo. Ero entrato in una nuova realtà. La discussione con mia moglie, per
esempio, non mi agitava più: adesso dentro di me sentivo palpitare una
vita nuova, e questa vita era l’unica cosa importante, perché sentivo che
non era solo per me.
Una cosa che mi aveva colpito n dall’inizio della preparazione del testo
per la trasmissione sul movimento pentecostale era stata quanto poco si
tenesse conto in genere dello Spirito Santo, quanto poco ne avessi sentito
parlare, nonostante tutti i libri letti.
Nel mio ricordo della dottrina cattolica lo Spirito Santo era una delle tante
parole strane, poi invece è diventata una espressione d’uso, il cui
signi cato restava giusti catamente impreciso data la scarsa de nizione
dello stesso termine spirito. Di spirito avevo risentito parlare studiando
loso a. Nei primi anni dell’università mi ero letto tutta la Fenomenologia
dello Spirito di Hegel. Poi avevo letto quel libro di Jung sulla psicologia
dello spirito, che tra l’altro era preceduto da un saggio di uno studioso che
parlava dello Spirito nella Bibbia. Di Spirito (Purusha) parlavano anche i
testi di loso a indiana di cui mi sono riempito la testa.
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Fin dall’inizio delle mie ricerche bibliche ero rimasto colpito dall’episodio
della Pentecoste. Non solo perché dovevo scrivere del movimento
pentecostale, ma perché il miracolo di persone che parlano lingue che
non hanno imparato mi istruiva sulla natura spirituale dell’amore di Dio,
cioè sulla sua potenza. Nella Bibbia ed in altri libri evangelici avevo letto
che il dono dello Spirito Santo era per tutti i credenti. Avevo letto di servi
di Dio che avevano predicato in lingue nei nostri giorni e che il loro
messaggio era stato compreso da persone di cui non parlavano e non
capivano la lingua, persone che si sono convertite in seguito a quella
predicazione. Sapevo che il dono di parlare in lingue era molto diffuso
nelle chiese evangeliche pentecostali, e che veniva considerato la prima
manifestazione del battesimo nello Spirito Santo. Queste cose le trovavo
con stupore anche nel Nuovo Testamento raccontate come cose normali
della prima chiesa, e senza nessuna indicazione che fossero cose che
dovevano smettere con gli anni (ma solo al ritorno del Signore). Anzi il
battesimo dello Spirito Santo per la chiesa, dal Vangelo risultava lo scopo
ultimo degli anni di Gesù sulla terra. Gesù ha insegnato a cercarlo senza
timore dicendo: “E chi è quel padre fra voi che, se il gliolo gli chiede un
pane gli dia una pietra? oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente?
oppure ancora se gli chiede un uovo gli dia uno scorpione? se dunque voi,
che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri glioli, quanto più il
vostro Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo
domandano?” 4.
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Dopo un anno circa dal mio battesimo in acqua, una notte che mi sono
attardato in preghiera in ginocchio sul pavimento del bagno, ho sentito
crescere la comunione con Gesù, la con denza con lui, ed ho cominciato a
sentire dentro di me cose che non riuscivo a dire con le mie parole, ma la
mia bocca si muoveva e qualcosa dicevo. Anche se era solo un balbettio,
ho sentito che avevo libertà, nel cospetto di Dio, di balbettare a quel
modo. Comprendevo anzi che il Signore gradiva il fatto che parlando a lui
non mi appoggiassi più sulla mia intelligenza ma lasciassi sgorgare dal
cuore le cose che ne uscivano. Lo gradiva e lo gradisce perché, con mia
inesauribile meraviglia, in preghiera, nel nome di Gesù, dal mio cuore non
sgorgano più i desideri e le scemenze di una volta, ma cose sante, misteri
che nella mia bocca diventano parole incomprensibili per la mia carne, e
un balsamo per lo spirito.
Non è che dal giorno che ho ricevuto il dono delle lingue mi rivolgo a Dio
solo con espressioni inintelligibili. Se posso parlare a Dio in lingue
dicendogli cose che nemmeno capisco, posso anche aprirgli il mio cuore
raccontandogli le cose che capisco. Questo è solo più dif cile, ma è anche
più necessario.
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Anche se erano di gran lunga le percezioni più forti che avessi mai avuto,
erano lo stesso cose che andavano assolutamente messe tra parentesi, se
non volevo cominciare a camminare per le strade della follia, e dopo
grandi aperture mi ritrovavo più rinchiuso di prima, come una bestia in
gabbia. Insomma, nonostante molte esperienze e nonostante il calore di
certe particolari amicizie e di certe condizioni geogra che, continuavo a
sentirmi sostanzialmente solo. Tanto che sempre più mi convincevo di
essere l’unica vera realtà dentro cui potessi cercare qualcosa. Mi
confermavano in questa idea le tradizioni orientali, su cui avevo tanto letto
e che (pur super cialmente) avevo anche praticato. Leggevo che la Via
(Dio), dovevo trovarla dentro al mio cuore. Io cercavo, guardavo, tendevo
l’orecchio, ma non trovavo Dio. Avevo trovato degli dei, anzi dei demoni,
ma non certo il Santo d’Israele. Dio non era dentro di me. Dentro di me, in
un modo o nell’altro, al centro di tutto c’ero sempre io. Quei testi mi
dicevano che dovevo liberarmi di quell’io, e avrei trovato la conoscenza e la
luce. "Sarà", dicevo. Ma le persone che mi si erano offerte come guida per
quel viaggio interiore mi erano apparse strapiene di sé. E, come unico
effetto di quei contatti, alla certezza di essere da solo con me stesso, si era
aggiunto il dubbio di essere un incapace condannato all’infelicità.
Ma come avrei potuto sapere con certezza, se non proprio ricevendolo nel
mio cuore, che non era affatto vero che Dio fosse già dentro di me, e che
non era vero che non l’avevo trovato perché ero stato pigro nella mia -
egoistica - ricerca (o, ancora peggio, perché non ero nato in un certo
tempo, in un certo luogo e in una certa famiglia)? Solo Dio stesso,
donandomi la sua amicizia, ha potuto liberarmi da questi errori e da
questa carceraria solitudine.
Ora so con certezza che Dio non è già dentro gli uomini, come le religioni
vogliono far credere, ma è in Gesù. Ha scelto Gesù come unica via per
entrare in noi, e solo attraverso Gesù noi potremo entrare in lui.
So anche che occorre essere ben decisi per camminare su questa via,
perché è una via angusta. Ma è anche una via molto sicura, perché
nessuna bestia può percorrerla.
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NOTE
1. Romani, 10:9-10.
2. Ebrei, 4:12.
4. Luca, 11:11-13.
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CAPITOLO VI
CITTADINO DEL CIELO
Alcuni anni fa, non ricordo bene in che occasione, mio padre mi diceva di
essersi meravigliato per la precocità con cui io, già all’età di tredici o
quattordici anni, ho espresso la mia pessimistica percezione del passare
del tempo. Chiacchierando, gli avevo detto di essermi oramai rassegnato a
vedere sparire le cose belle e crescere sempre più le brutte, che questo
fosse il corso normale del tempo.
Il mio termine di riferimento, più che un rione o una città (ne ho cambiate
tante), è stato, n da quando ero molto piccolo, un paesino della costa
sarda, Stintino, quello in cui abbiamo iniziato a stendere la tesi Paola ed io.
Come ho già detto, Stintino era il posto dove andavamo ogni anno in
vacanza con la mia famiglia, anche dopo il nostro trasferimento in
continente. Era anche il posto dove potevo giocare per strada, e che
conoscevo “come le mie tasche”. Oltre al paesino, costruito da pescatori
liguri all’inizio del secolo, non c’erano che pochissime case sperdute. Poi,
poco a poco, le case sono cominciate a crescere.
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Poco a poco in me si radicava l’idea che i ricchi fossero i nemici della Terra e
dell’umanità, e che sarebbe bastato togliere di mezzo la proprietà privata
per eliminare tutti i nostri principali problemi. Trovavo che molte altre
persone avevano già pensato nella stessa direzione, e cominciai a
desiderare di essere ammaestrato da queste persone. Ricordo in
particolare, pochi mesi prima di trasferirmi da Padova a Trieste, all’età di
tredici anni, un viaggio in montagna con la famiglia di un mio amico, e la
mia invidia per questo amico che poteva essere continuamente istruito
dai suoi genitori (entrambi comunisti) nella conoscenza delle verità
occultate dal sistema. In breve il mio giovanile impegno politico era
diventato notorio; un amico ebreo di mio padre, regalandomi un libro
degli Editori Riuniti, mi aveva scherzosamente ed affettuosamente
chiamato “giovane intellettuale di sinistra”. De nizione che mi piacque e
alla quale nei mesi successivi ho cercato di attenermi, no a quando non
sono stato bocciato (in IV ginnasio), perché, per leggere e meditare
qualche testo comunista e per frequentare le riunioni e le birrerie, non
studiavo più quasi niente. Dopo un breve periodo maoista, ero entrato
nella FGCI, dove passavo praticamente tutti i pomeriggi, per lo più
oziando nel bar. Nelle riunioni non mi facevo avanti, perché avevo sempre
molti dubbi e molti problemi personali; anche in bar ero vittima
consenziente di numerose prese in giro.
Negli anni successivi, così, anche a causa dell’infelicità della mia vita di
partito, il mio impegno politico è andato progressivamente perdendo di
spessore. Rispetto ai problemi della gente, le soluzioni politiche mi
apparivano sempre troppo astratte, e, nonostante tacciassi di
qualunquismo luoghi comuni come “la politica è una cosa sporca”, dentro
di me la politica la vedevo sempre più come un gioco autonomo, slegato
dalla vera realtà. Continuavo a considerarmi un comunista, ma mi sentivo
sempre più lontano dai comunisti. Soprattutto a Bologna. Gli stessi
autonomi mi sembravano troppo organizzati, troppo sicuri di sé. Anche il
movimento del’77 mi sembrava esagerato. Ho seguito, con una certa noia,
solo alcune assemblee, più che altro per stare con Renato che invece
sentiva il dovere di “partecipare alla storia”.
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In Messico, invece, la vita quasi gratis era una realtà. E anche l’ideale del
puro spettatore era molto più consono al carattere contemplativo della
gente, oltre che al continuo spettacolo della terra e del cielo. Dentro le
scon nate frontiere del continente Messico c’era veramente spazio per
perdersi, tra i monti e anche tra la gente. Naturalmente anche in Messico
c’erano i ricchi e i prepotenti, la forma dello stato però era diversa:
senz’altro più violenta, ma la sentivo molto meno opprimente. Poi c’erano
immensi spazi in cui l’uomo quasi spariva, spazi che facevano apparire al
confronto il territorio europeo come una specie di giardino aiuolato. Ed
effettivamente, ci dicevamo con Paola, l’impressione predominante in
Messico era quella di essere usciti all’aperto.
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Il ritorno dal Messico era stato molto duro, come svegliarsi da un bel sogno
in mezzo ai problemi di sempre. A Morelia vivevamo quasi senza soldi, in
una stanza con il sof tto rotto e in una casa senza bagno, e ci sentivamo
liberi e felici. In ogni momento poteva succedere l’imprevedibile, ma
sarebbe stato accolto come parte della vita. A Roma, invece,
l’imprevedibile era tornato a chiamarsi "disgrazia".
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Inoltre sapevo che “non ci si reimmerge mai nello stesso ume” e che se
fossi tornato in Messico per ritrovare la perduta libertà mi sarei
probabilmente trovato anche peggio che in Italia. Tanto più che a Morelia
la vita diventava ogni giorno più dif cile. L’in azione stava ormai
galoppando come in molti paesi sudamericani e ci arrivavano notizie di
una sempre maggiore disperazione tra la gente. I nostri stessi amici e
colleghi dell’università stavano cominciando ad arrangiarsi con piccoli
commerci per arrotondare lo stipendio ormai insuf ciente.
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Così, di fatto, come il turista che odiavo, per le mie scelte ero
completamente succube delle parole degli altri e delle mie
immaginazioni su queste parole. Come ogni turista, desideravo un mondo
pieno di un’in nita varietà di toni di colore e di sfumature di sapore, pieno
di ossigeno e di movimento, di amore e di rapporti disinteressati. Ma
vedendo con la mia immaginazione delle plaghe di morte all’interno e
tutt’intorno a queste sognate isole di paradiso, io per primo non riuscivo
ad essere altruista e disinteressato. Quello che cercavo di fatto era la mia
personale sopravvivenza, e non mi comportavo molto diversamente dalla
disprezzata massa di turisti ipocondriaci a cui cercavo di sfuggire.
Quando, in ginocchio, ho visto che non potevo liberarmi da solo del mio
orgoglio, ho sentito anche la nullità, anzi la nocività di tutti i miei sforzi per
sopravvivere. Dentro di me ho visto quello che dice il profeta Isaia: “... tutta
la nostra giustizia è diventata come un abito sporco, tutti quanti
appassiamo come una foglia e le nostre iniquità ci portano via come il
vento.” 1.
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Stando con Gesù, il pensiero del cibo è andato a mettersi al giusto posto,
alla super cie del mio essere, o almeno è stato spodestato dal luogo
centrale che era andato ad occupare quando ero convinto che il mio
umore dipendesse in gran parte da quello che avevo mangiato. Perché ho
avuto nalmente la certezza che la mia situazione interiore dipende non
da quello che ho mangiato, ma da come mi sono comportato; cosa che in
parte naturalmente sapevo già, ma senza certezza, perché non riuscivo
mai a capire se un fatto mi avesse messo di malumore per la sua causa
nascosta (il nemico più o meno invisibile e interiore che mi aveva spinto a
dire, a fare, o a mangiare, quella certa cosa) o per i suoi effetti indesiderati.
Ora invece sapevo con certezza che il mio umore profondo dipende dalla
mia relazione con Dio, e cioè in concreto da quello che io faccio della sua
parola, e non dalle cose che mi succedono esteriormente, tanto meno
dalle cose che ho mangiato (semmai dal modo ingordo e goloso con cui
mangio). Cominciavo a realizzare il senso delle parole che Gesù rivolge ai
suoi discepoli dopo aver evangelizzato la samaritana al pozzo: “Io ho un
cibo da mangiare che voi non sapete. (...) Il mio cibo è di fare la volontà di
colui che mi ha mandato, e di compiere l’opera sua.” 2. Le mie fami
spasmodiche sono sparite e i miei bisogni alimentari si sono decisamente
normalizzati.
È vero: sono rimasto per molto tempo ancora (e per certe cose rimango
tuttora) una specie di ipocondriaco; ma un ipocondriaco sempre meno
convinto, comprendendo sempre meglio - grazie alla parola di Dio che lo
Spirito Santo volta a volta mi rivela - (e certamente devo comprenderlo
ancora) che non posso preservare la mia vita facendo attenzione a quello
che mangio e a quello che bevo, ma tutt’al contrario, badando invece a
camminare seguendo l’esempio di Gesù che non ha pensato a se stesso;
cercando piuttosto il regno di Dio (cioè la vita con Dio, la vita eterna) che
come scritto, “non consiste in vivanda, né in bevanda” 3 terrene, ma,
innanzitutto, nell’obbedire alla voce e alle parole di Colui che sta sul trono.
Queste parole sono diventate il mio vero pane. E non solo il pensiero del
cibo materiale adesso in me è completamente subordinato alle esigenze
del mio corpo (mentre prima si può dire che vivevo per mangiare, anziché
mangiare per vivere), ma il cibo spirituale che è la parola di Dio mi ha tolto
anche il bisogno “psicologico” della tesaurizzazione e dell’aggiornamento
culturale, e anche le mie letture adesso sono decisamente subordinate
alle reali esigenze del lavoro. Con un gran risparmio di tempo e di energia.
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Ai suoi discepoli (cioè a tutti i credenti) il Signore dice che sta preparando
una dimora per loro in cielo. Avendo l’assicurazione di una dimora in cielo,
anche su questa terra, per chi segue Gesù, c’è una vita molto più ricca e
piena (certo anche di sofferenze e persecuzioni) di quella che ci si è
lasciata alle spalle con la conversione, perché non preoccupandosi più per
se stessi e potendosi perciò veramente curare degli altri, si vive
effettivamente cento volte meglio. Credendo in Cristo, quelle cose che
erano per me causa di continua preoccupazione sono diventate motivo di
incoraggiamento. Gesù ha detto difatti, riferendosi alle varie catastro che
segneranno gli ultimi tempi, “quando queste cose cominceranno ad
avvenire, rialzatevi, levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina” 5.
Il fatto che non esista più niente che non sia contaminato anziché
angosciarmi come una volta mi aiuta ora a staccare il mio cuore dalle cose
di quaggiù. E questa è l’unica vera necessità, perché si avvicina il giorno
del Signore, che sarà un giorno tremendo in cui tutto verrà consumato e
“chi vorrà salvare la sua vita, la perderà, ma chi avrà perduto la propria vita
per me, egli la salverà.” 6.
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Io non avevo mai desiderato una casa. Tornato dal Messico sognavo
piuttosto di vivere in un camper, o addirittura in una barca. Volevo una
dimora mobile perché pensavo che fosse il modo più giusto e più sicuro di
vivere, il modo per fuggire meglio (uno dei miei principali incubi ad occhi
aperti era di rimanere intrappolati a Roma in seguito a qualche calamità).
Comunque sognavo di girare per il mondo, abitando un paese dopo l’altro.
Avevo anche una specie di progetto paracolombiano: arrivare all’Oriente,
anche al vicino Oriente (l’Ungheria, terra dei bisnonni), viaggiando verso
Ovest o verso Sud. Sognavo queste cose condividendo un doppio
appartamento con la madre di Paola, che ci aveva anche proposto di
cercarci una casa a Roma, ma non volevamo.
A Trieste, sarei anche stato benissimo nella casa del mio ex compagno di
classe, nonostante i cinque piani di scale senza ascensore, le nestre
basse e due bambini molto piccoli.
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In realtà prima della casa nel senso di abitazione doveva essere stabilita la
mia casa nel senso della mia famiglia. Paola ed io non eravamo ancora
sposati. Quando ci eravamo messi insieme io avevo inteso le nostre
carezze come un approfondimento della nostra amicizia ed ho capito che
si trattava di qualcosa di molto più serio solo quando Paola mi ha chiesto
di non lasciarla più. Poi, dopo il primo glio ho cominciato a considerarci
praticamente sposati. Provavo un certo imbarazzo a non potere parlare di
Paola come di mia moglie, ma mi sembrava un fatto puramente lessicale.
Avremmo anche potuto sposarci, ci dicevano timidamente i miei genitori,
ma io non volevo legarmi esteriormente, perché temevo che un legame
uf ciale avrebbe potuto incrinare o soffocare quello uf cioso e interiore.
Così tiravamo avanti con la nostra “convivenza”, come si dice nel
linguaggio della burocrazia.
Io, pur considerando follia tutte le forme di lotta armata contro lo Stato nei
paesi sviluppati, avevo sempre dentro di me l’idea che lo Stato fosse una
bestia molto pericolosa, e come tale da trattare con il massimo di
dif denza. Ai miei occhi era lo Stato a perpetrare le peggiori ingiustizie. Ma
allora perché Dio comandava di essergli soggetto? "Perché i magistrati
non sono di spavento alle opere buone ma alle cattive" 7, rispondeva la
Bibbia. Ora potevo capirlo, perché mi rendevo conto che anche la
ribellione contro l’ingiustizia altrui non è un’azione ispirata da Dio (e quindi
è un’azione cattiva): "Perché non patite piuttosto qualche torto? perché
non patite piuttosto qualche danno?", dice l’apostolo Paolo a dei credenti
che avevano cercato la giustizia dell’uomo 8.
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Proprio in quel periodo i miei avevano ricevuto una eredità perché era da
poco morto mio nonno, e anche a Paola erano appena arrivati dei soldi, di
modo che disponevamo della cifra esatta. Acquistammo rapidamente e
af dammo i lavori di ripitturazione a un credente membro della chiesa e
di professione artigiano edile. (Che si sia trattato di un suo dono perfetto,
Dio me l’ha confermato oltre che con la gioia che mi dava da subito, anche
alcuni anni dopo con un segno speciale, facendo venire ad abitare al piano
di sopra nella stessa casa, una famiglia di credenti).
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In breve la casa fu pronta, in tempo per la data delle nozze. Ricordo il mio
matrimonio come un giorno molto bello: ero contento e per niente teso
sia durante il pranzo in famiglia in una semplice trattoria del Carso, sia
durante la festa voluta e organizzata da mia madre nella casa nuova, che
abbiamo inaugurato quella notte ospitando i testimoni, tra i quali Renato
con la moglie Maria Sole.
NOTE
1. Isaia, 64:6.
2. Giovanni, 4:32-34.
3. Romani, 14:17.
4. Isaia, 40:15.
5. Luca, 21:28.
ó. Luca, 9:24.
7. Romani, 13:3.
8. I Corinzi, 6:7.
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EPILOGO e antefatto:
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI ALTRO
NOME
Tu sei stato il mio sostegno n dal grembo materno, tu m'hai tratto dal
grembo di mia madre; a te va sempre la mia lode.
Salmi, 71:6
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Quel martedì avevo qualcosa io. Il giorno prima era venuto a trovarmi Velio.
Tra le altre cose di cui si è parlato, mi aveva chiesto di leggergli nel testo
greco originale due passi del Vangelo. Non mi ricordo con esattezza quali
fossero, ma ricordo che ci soffermammo su un fatto, un fatto che avevo già
notato, ma che da solo non avevo avuto la pace di considerare ben a
fondo: la traduzione della Bibbia che usiamo (la Luzzi Riveduta) per fare
più scorrevole l’italiano non rende il peso di una affermazione che Gesù ha
fatto in diverse occasioni dicendo: “io sono”. Ego eimi che in greco
signi ca appunto “io sono”, viene tradotto “sono io”, oppure “io sono (il
Cristo)”. Ma “Io sono” è il Nome con cui il Signore si è rivelato al popolo di
Israele, n dai tempi dell’Egitto 3.
So che era maggio perché a quella riunione era presente anche Stavros,
un credente di origine e lingua greca che è stato con noi solo un mese (è
greco di nascita, ma ora insegna Letteratura inglese negli Stati Uniti e si
trovava a Trieste perché era stato invitato a dare un corso alla Scuola
Interpreti). Alla ne del culto ci salutiamo sempre uno a uno. Stavros, dopo
avermi confermato che anche la lingua greca, in un passo di quelli da me
letti (Giovanni, 8:58), effettivamente vorrebbe “io ero” anziché “io sono”,
aggiunse queste parole: scrivi un libro sulla tua nuova nascita.
Devo confessare che sulle prime ho preso le sue parole come delle
congratulazioni. Difatti sono rimasto confuso, senza capire bene neanche
il preciso signi cato di quello che mi stava dicendo (si comunicava in
inglese e capii qualcosa tipo: hai espresso la tua nuova nascita). Non c’è
niente di peggio che ricevere un complimento per ciò che si è fatto (o si
sarebbe dovuto fare) esclusivamente per servire Dio e il prossimo. Eppure
la natura umana è incline sia a fare che a ricevere complimenti, e guarda
caso specialmente quando si tratta di doni che uno ha ricevuto, spirituali o
naturali. Ma, grazie a Dio, Stavros non mi stava facendo un complimento.
“Scrivi un libro sulla tua nuova nascita - mi tornò a dire, vedendo che non
avevo capito - e intitolalo La nuova nascita di un intellettuale”.
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All’inizio del Vangelo di Giovanni è scritto che “nessuna delle cose che
sono è stata fatta senza di lui [il logos, cioè la Parola]”. La Parola di Dio è una
parola creatrice. Chi accetta di prestarle fede comincia a vivere dentro di
lei. Le Scritture non sono letteratura, ma una guida spirituale per la realtà
spirituale nella quale si è immersi.
Con la Bibbia non è come prima coi libri che trovavo nelle biblioteche e
che compravo (o rubavo) nelle librerie, dove le cose mi interessavano
perché erano misteriosamente collegate con le cose che avevo trovato su
altri libri. Nella Bibbia, man mano che vivo, riconosco un nuovo senso -
sempre più profondo - delle parole che vi sono scritte e che lo Spirito
Santo riferisce alle cose della mia esperienza, per correggermi e
santi carmi.
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Ego eimi si può effettivamente tradurre anche “sono io”: sono io che ti ho
formato nel ventre di tua madre, che ti ho ammaestrato nella tua infanzia,
che ti ho guarito e che ti ho guardato, sono io che ho visto la tua af izione
e ho udito il grido del tuo dolore e ti ho risposto, io che conosco i tuoi
affanni, io che tacevo quando mi interrogavi con superbia. Sono io che ho
versato il mio sangue per te. Sono io colui che sono sempre vicino a te...
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Ciò non toglie che “le cose che occhio non ha vedute, e che orecchio non
ha udite e che non sono salite in cuor d’uomo, sono quelle che Dio ha
preparato per quelli che l’amano.” 10 Queste cose sono anche le stesse
cose della vita di sempre, che ora vedo completamente rinnovate e che
capisco in un modo totalmente nuovo.
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La biologia in particolare mi è apparsa sotto una nuova luce, una luce che
mi fa vedere la natura come qualcosa che sorpassa tutte le possibili
descrizioni scienti che e non scienti che, ma che al contempo le rende
anche interessanti. E così è anche per la storia, in cui riesco a vedere un
nuovo senso, la storia dei popoli e quella delle persone. Come ha detto
Paolo ad Atene nell’Areopago: “L’Iddio che ha fatto il mondo ed ogni cosa
in esso, (...) dà a tutti la vita, il ato ed ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo
tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra,
avendo determinato le epoche loro assegnate e i con ni della loro
abitazione, af nché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a
tastoni, benché egli non sia lungi da ciascuno di noi. Difatti «in lui viviamo,
ci muoviamo e siamo - come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto -
poiché siamo anche sua progenie».” 11
Questo nuovo modo di guardare alla scienza non mi porta a sentire che
Dio vuole fare di me uno scienziato. Non è un caso, tanto meno una
disgrazia, se tutti questi interessi si sono svegliati in me adesso che non
ho più tempo (e che non è più il tempo) di studiare.
L’intelligenza delle cose vere è semplicemente uno degli aspetti della vita
di ciascuno dei gli di Dio. Quella che solitamente chiamiamo intelligenza
è qualcosa che concepiamo e misuriamo in modo relativo, come
maggiore o minore capacità di affrontare certi problemi in certe culture e
in certe situazioni. Ma viste dal punto di vista di Dio le differenze che a noi
possono sembrare degli abissi diventano delle increspature, o addirittura
si livellano. Mentre la vera intelligenza, quella che conta agli occhi
dell’Eterno, non si dimostra solo leggendo o scrivendo un articolo
scienti co, ma piuttosto nel lasciarsi guidare da Dio come dei bambini
piccoli. Per questo nel libro dei Proverbi è scritto che l’intelligenza consiste
nell’amare Dio, il creatore di tutte le cose, e nell’evitare il male. Evitare cioè
di amare le creature più del loro creatore (“cerca prima il regno di Dio...”). La
qual cosa io personalmente, da intellettuale, non sono stato in grado di
fare.
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Desidero vivere di Dio e per Dio, come un glio. Come Gesù. Difatti
quando ho creduto dentro di me che Gesù è il Cristo e il glio dell’Iddio
vivente, Dio è diventato un padre anche per me, e anche un amico (anzi il
Padre, e l’Amico). E, rinunciando a vivere per il nutrimento naturale che si
compra nel mondo (libri, viaggi, formaggi..), nutrimento che non sfama
davvero, per cercare invece il nutrimento spirituale che dura (“ogni parola
che procede dalla bocca di Dio”), ho trovato un vero tesoro. Un tesoro che
non ho meritato in nessun modo, ma che è per tutti quelli che si rendono
conto di essere perduti e di star disperdendo. Per quelli cioè che invocano
Dio, per mezzo di Gesù, “poiché non c’è sotto il cielo alcun altro nome che
sia stato dato agli uomini, per il quale noi abbiamo ad essere salvati.” 12
“Voi tutti che siete assetati, venite alle acque, e voi che non avete denaro,
venite, comprate, mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza
pagare, vino e latte! Perché spendete denaro per ciò che non è pane? e il
frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi
attentamente e mangerete ciò che è buono, e l’anima vostra godrà di cibi
succulenti! Inclinate l’orecchio, e venite a me; ascoltate e l’anima vostra
vivrà; io fermerò con voi un patto eterno, vi largirò le stabili grazie
promesse a Davide. Ecco io l’ho dato come testimonio ai popoli, come
principe e governatore dei popoli. Ecco tu chiamerai nazioni che non
conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo
dell’Eterno, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché Egli ti avrà glori cato.
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Sì, voi partirete con gioia, e sarete ricondotti in pace; i monti e i colli
daranno in gridi di gioia dinanzi a voi, e tutti gli alberi della campagna
batteranno le mani. Nel luogo del pruno si eleverà il cipresso, nel luogo del
rovo crescerà il mirto; e sarà per l’Eterno un titolo di gloria, un monumento
perpetuo che non sarà distrutto.” 13
NOTE
1. Matteo, 18:19-20.
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5. Marco, 5:19.
6. 1 Corinzi 8:2.
7. Giovanni, 3:14.
9. I Corinzi, 4:7.
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