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Università degli studi di Pavia

Corso di Storia degli studi classici


(prof. Guglielmino Cajani)

Tesina conclusiva di Erica Gazzoldi

Sguardi su Medea
Volti di un mito

Anno Accademico 2012/2013


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Il disegno precedente è stato realizzato da una studentessa 23enne nel 2012. È la sua interpretazione del personaggio di Medea,
successiva alla lettura di: Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia. Il racconto del mito, la nascita della civiltà,
(“Tascabili. Saggi”), Milano, 2009, Il Saggiatore.
Medea è raffigurata al centro. Indossa l’abito nuziale che compare su una metopa del tempio E di Selinunte indosso alla dea Era: è
un’allusione sia alle nozze dell’eroina, sia alla sua devozione per Era (Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia…, p.
465). Reca un seno scoperto, alla maniera delle Amazzoni, essendo, come loro, simbolo di una femminilità “barbara” e temuta.
Nella mano sinistra, tiene un mazzolino di colchici: l’etimologia del loro nome rimanda alla Colchide, patria del personaggio (cfr.
“Còlchico” in: Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, 2003, Zanichelli). La sollevata dalla sua
mano destra rimanda alla “coppa dorata” da cui rinasceva quotidianamente il Sole, nonno di Medea (ibid., p. 463). Ella stessa
avrebbe saputo praticare rinascite/ ringiovanimenti per mezzo di un calderone. Ai suoi piedi, è acciambellato un pitone: allude al
drago che custodiva il Vello d’Oro in Colchide (ibid., p. 456) e, in generale, ai culti di divinità femminili ctonie (si pensi alla
dragonessa Delfine sconfitta da Apollo, che sostituì così il proprio culto a quello di Gea, a Delfi. Delfine è anche nominata come
Pitone).
Alle spalle di Medea, si vede una nave in arrivo: allusione alla vicenda degli Argonauti, inestricabilmente legata alla sua
(ibid., pp. 442-467). I tre archi a sesto acuto inquadrano ciascuno una fase lunare. La compresenza delle tre fasi in cui la luna è
visibile rimanda al triplice volto di Ecate, di cui Medea è sacerdotessa (ibid., pp. 39ss. e 458-459).
In secondo piano, a sinistra, compare il Vello d’Oro, che Giasone e gli Argonauti conquistarono con l’aiuto di Medea
(ibid., p. 458). La sfera che vi è posata sopra è un simbolo di potere regale, anche se rimanda più all’arte figurativa medioevale che
alla mitologia greca. È anche interpretabile come un riferimento alla rotondità del Sole. La scure bipenne allude al sacrificio, che
Medea praticava in quanto sacerdotessa, e, in generale, al sangue da lei sparso. A destra, sono disposte penne di pavone (uccello sacro
a Era), nonché una composizione di sedano (pianta funebre per i Greci: ibid., p. 485), melograni (ancora un’allusione agli Inferi: ad
essi rimase legata Persefone proprio per aver mangiato un chicco di melograno: ibid., p. 201) e asfodeli (crescevano nell’Oltretomba
greco: ibid., p. 207). Ricordano, ancora una volta, il legame di Medea con Era e il carattere funesto delle sue vicende, nonché la
natura infera del suo culto principale (a Ecate). Le piante rimandanti all’Ade sono poste in un recipiente concavo, con allusione al
calderone della morte e della rinascita (vedi sopra). In basso a destra, sono presenti rami di mirto, tradizionalmente associato alla dea
dell’amore: l’eroina avrebbe fondato il santuario di Afrodite a Corinto (ibid., p. 465). Ma è leggibile anche come un’allusione alla
sua passione fatale per Giasone.
Il tutto è posto in una cornice gotica, che vuol creare un’atmosfera sacrale e atemporale. Tipici delle chiese cristiane sono
anche i due altari in marmo che affiancano Medea.

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Introduzione: chi è Medea?

Del personaggio di Medea, maga e sacerdotessa nipote del Sole, sono disponibili innumerevoli
reinterpretazioni. Il presente lavoro si concentrerà soprattutto su alcuni suoi ritratti moderni e
contemporanei, che mostrano la vitalità del mito attraverso i secoli.
Nelle opere antiche che narrano di lei, Medea (1) è figlia di Eeta, re della Colchide: una regione
pianeggiante sulle rive del Mar Nero. È ricordata soprattutto in connessione con Giasone, capitano
degli Argonauti. Essi avrebbero varato la prima nave dell’umanità, per compiere un’impresa ordinata da
Pelia, zio di Giasone e re di Iolco, in Tessaglia. Egli avrebbe ceduto il trono al nipote solo se questi gli
avesse riportato il Vello d’Oro: la pelle dell’ariete che aveva trasportato in Colchide Frisso, discendente
da un ramo della genealogia di Giasone. Il Vello era, appunto, custodito da Eeta. (2)
Il nome dell’eroina (Μ α) ha la stessa radice di α , “provvedere”. *Med- è
indoeuropea; si ritrova nel latino mĕdicu(m), da cui “medico” . È caratterizzata, infatti, dalla conoscenza
(3)

di φ α α sia benefici che mortali. È nipote del Sole per parte di padre, pertanto imparentata con
l’omerica Circe. È sacerdotessa della divinità infera Ecate e le si attribuiscono poteri magici pressoché
illimitati. Uno degli atti che la caratterizzano maggiormente è lo πα α , rito sacrificale per
smembramento, spesso seguito dalla bollitura e dal ringiovanimento della vittima in un calderone. Ciò
rimanda alla morte e rinascita quotidiana del Sole dalla “coppa d’oro” in cui attraversa l’Oceano. (4)
L’atto è legato anche alla condizione sacerdotale di Medea: il calderone, infatti, era strumento dei
sacrifici nel culto, ricorrente altresì nei miti di Pelope e Dioniso. (5) La scena della bollitura rituale è
rappresentata frequentemente nelle figurazioni vascolari attiche tra il 520 a.C. e la metà del V sec. a. C.
(6)

Esiodo (seconda metà VIII sec. a.C.), nella sua Teogonia, attribuisce a Medea una genealogia
divina (956ss.) (7). Nomina come sua madre Idia, “colei che sa”. Costei è un’Oceanina che esprime una
qualità intellettuale: la ῆ , l’intelligenza pratica. Ai vv. 992ss., è inserita fra le dee che si unirono a
mortali e generarono figli con loro. Mimnermo (seconda metà VII sec. a.C.; fr. 10 Gentili-Prato)
chiama Aia la terra di Medea e la colloca là dove Omero pone l’isola di Circe (Odissea XII, 3-4). La
medesima regione è detta “Colchide” da Eumelo di Corinto (VIII sec. a. C.), nel fr. 3,8 Bernabé. (8)
La vicenda della dea-maga colchica è legata inestricabilmente al mito degli Argonauti e all’amore
di lei per Giasone, che li guidava. Ne parla Pindaro (522/18 – 438 a.C.?) nella Pitica IV (9), in termini
che saranno sostanzialmente mantenuti dagli autori successivi. Giasone deve ottenere da Eeta il Vello
d’Oro, che questi custodisce gelosamente. Deve perciò sostenere dure prove, superate grazie ai filtri di
Medea. La dea Afrodite, infatti, ha suscitato in lei la passione per l’eroe greco. Compiuta l’impresa,
Giasone riparte, conducendo la principessa colchica con sé. Pindaro riprende la vicenda nell’Olimpica
XIII, ricordando la presenza di Medea a Corinto. Il personaggio è menzionato anche nei Canti di
Naupatto (VI sec. a.C. circa), in Ferecide (VI-V sec. a.C.; FGrHist 3 F 113ab) e Simonide (556-466
a.C.; fr.551 Page). Questi ultimi narrano di una “rinascita” di Giasone dal calderone di Medea. Una cosa
simile è detta di Esone, padre di Giasone, nei Nòstoi , poema epico del VII sec. a.C. (10) Di nuovo
Eumelo racconta del diritto di successione di Medea al trono di Corinto e di come avrebbe nascosto i
figli nel locale tempio di Era, per farli immortali. (11) Uno scolio all’Olimpica XIII Pindaro (74g) informa
che Medea avrebbe liberato i corinzi da una carestia e che avrebbe respinto il corteggiamento di Zeus
per rispetto a Era. Quest’ultima le avrebbe promesso l’immortalità dei figli, come premio. Essi
avrebbero poi goduto di venerazione a Corinto. (12)
Creofilo (non si sa se il poeta samio dell’VIII sec. a.C. o lo storico efesino del IV-III sec. a.C.)
afferma che Medea avrebbe avvelenato Creonte, re corinzio, per poi fuggire ad Atene. Avrebbe lasciato
i figli sull’altare di Era Acraia; i cittadini li avrebbero uccisi, addossando la colpa a lei. (13) Parmenisco,
filosofo del II-I sec. a.C., narra una storia simile, adducendo però, come causa del linciaggio dei
bambini, il fatto che i Corinzi fossero ostili alla regina barbara. (14) Ibico (VI sec. a.C.; fr. 291 Page-
Davies) e Simonide (fr. 558 Page) attribuiscono a Medea una felice condizione ultraterrena nei Campi
Elisi, al fianco di Achille.

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Nel 431 a.C., ad Atene, fu portata in scena la tragedia di Euripide intitolata a Medea. Questa è la
versione che ha segnato il futuro del mito: quella in cui l’eroina diviene infanticida per vendetta, dopo
un forte conflitto interiore. A Corinto, Giasone ha abbandonato la sposa barbara per un matrimonio
più vantaggioso con Glauce, figlia del re Creonte. Medea, condannata all’esilio allo scadere di un giorno,
uccide moglie e suocero del fedifrago con doni avvelenati, poi estingue nei figli la discendenza di
Giasone. La tragedia vede un rovesciamento della condizione iniziale: è l’uomo a trovarsi annientato,
mentre Medea, pur soffrendo, trionfa, allontanandosi sul carro del Sole.
L’eroina è presentata da Euripide come vittima di un’ingiustizia (v. 207) secondo le leggi di
Temi, deificazione dell’ordine naturale (vv. 160-165; vv. 208-209). Si fa portavoce della condizione
femminile (vv. 230-251) e lamenta la propria condizione di espatriata (vv. 252-259). Nella tragedia,
ricorrono termini come υ (v. 265) e (v.591), che sottolineano l’unione sessuale “di fatto”
(significano entrambi “letto”). Sono contrapposti ai […] α (v. 547) di Giasone, frutto
della mera convenienza. Euripide scriveva per un pubblico che aveva vissuto le conseguenze delle
restrizioni periclee sul diritto di cittadinanza. La circoscrizione di quest’ultimo a chi avesse entrambi i
genitori ateniesi avrebbe portato a numerosi divorzi da mogli straniere, per la necessità di procreare
eredi legittimi con altre donne. (15) La Medea euripidea, dunque, mostrerebbe i risvolti negativi di questa
politica. Inoltre, paradossalmente, l’infanticidio riafferma sia il peso della maternità che quello della
paternità. Colpendo in loro sia Giasone che se stessa, l’eroina rifiuta il sogno della partenogenesi, sia
femminile (16) che maschile (vv. 573-575). Il suo conflitto interiore mostra la straordinaria lucidità dei
suoi υ α α (v. 1079), messi però a servizio d’un violento υ (ibid.). Come Achille nell’Iliade e
l’Aiace sofocleo, Medea agisce secondo l’etica eroica della vendetta, mirando a evitare “il riso dei
nemici” (cfr. vv. 1049-1050).
L’esposizione completa dell’antefatto della Medea euripidea è presente nella Argonautiche di
Apollonio Rodio, risalenti al III sec. a.C. Qui, l’eroina è presentata ancora fanciulla nella casa paterna.
Ne vengono sottolineati i poteri e la sapienza magico-farmaceutica (eloquente l’espressione
π υφ α , III, 27). Allo stesso tempo, però, ne vengono descritti gli umanissimi turbamenti
amorosi, gli affetti familiari e le paure, degni d’un personaggio da romanzo psicologico. Compaiono
anche i primi tratti negativi: il fratricidio di Medea ai danni di Apsirto, a cui Euripide solamente
accennava (Medea, v. 167), diventa una lunga scena di tradimento e imboscata (IV, 450-481).
Ennio (239-169 a.C.) tentò un rifacimento latino della tragedia euripidea. Di Accio (170 a.C. –
85 ca. a.C.) restano i frammenti di una Medea sive Argonautae. Ovidio (47 a.C.-17 d.C.) riprese più volte le
vicende della principessa colchica. Perduta è la tragedia a lei intitolata, se non per due frustuli che
sottolineano la capacità di Medea ugualmente di giovare e mandare in rovina, nonché il suo stato di
“invasamento” dovuto all’infelicità. (17) Rimane un ritratto completo di lei nelle Heroides (XII, Medea
Iasoni), in cui predomina la perorazione della propria causa da parte dell’abbandonata. C’è un’eco della
sua vicenda anche nel lamento di Ipsipile (VI, Hypsipyle Iasoni), la cui gelosia accentua gli aspetti
“mostruosi” della rivale e preannuncia l’infausto esito delle sue nozze con l’eroe. Sempre nelle Heroides,
Elena (XVII, Helena Paridi, vv. 231-236) si paragona alla Colchica, diffidando delle promesse
dell’amante straniero. Il libro VII delle Metamorfosi ritrae una Medea trepidante, verso cui il poeta si
sente comprensivo e complice (v. 85). Ciò non le evita la consapevolezza di commettere un errore,
cedendo all’infatuazione. Medea diviene, qui, simbolo della debolezza umana, dell’incapacità del
raziocinio di porre veri argini ai desideri (…video meliora proboque,/deteriora sequor, ormai proverbiale:
vv.20-21). Ovidio racconta anche del successivo matrimonio dell’eroina con Egeo, re di Atene, e del
suo fallito tentativo di avvelenare il figliastro Teseo (vv. 399-424).
Seneca (4 ca. a.C. – 65 d.C), in un’altra Medea tragica, fa di lei l’esempio degli effetti devastanti
cui porta l’ira, quando la voluntas asseconda il motus irrazionale (18). Anche Lucano (39-65 d.C.) avrebbe
proposto una propria versione teatrale, rimasta incompleta. Ne dà notizia la biografia composta da
Vacca (19). Di Valerio Flacco (m. ca. 90 d.C.) è una ripresa delle Argonautiche. La materia tratta da
Apollonio Rodio è ampliata o tagliata, alla luce delle esigenze dell’autore o della tradizione accumulatasi
nei secoli. In particolar modo, Medea è una “nuova Didone”, votata a patria, fama e decus (VII, v. 459).
Come la regina virgiliana, è combattuta fra il pudor e la culpa dell’amor (VII, vv. 386-387), che è saevus
(VII, v. 307). Anche lei è una pedina nei piani di Giunone e di Venere (VI, vv. 450ss.). Il suo tumulto
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sentimentale le fa presagire l’abbandono dell’amato (VIII, vv. 410 ss.) e lo sfogo di lei lascia lui pieno di
parole non dette, come avveniva a Enea. Per descrivere il suo stato di furor passionale, ritorna il
paragone con l’invasamento bacchico (VI, vv. 755-760; VIII, vv. 446-449). Anche in Flacco sono figure
femminili familiari e confidenti a favorire il cedimento all’amore (VI, vv. 659ss.; VII, vv. 193ss.). In
Medea sono presenti anche tratti di Lavinia, in quanto principessa contesa fra diversi pretendenti e
promessa, secondo un oracolo, a uno sposo straniero (V, vv. 231-258; VIII, vv. 335-348). Non manca
un’eco della Nausicaa omerica, nella scena del primo incontro con Giasone (V, vv. 373ss). Lo Pseudo-
Apollodoro (vissuto tra metà del I sec. a.C. e inizi del IX d.C.; forse, da collocare tra I e II sec. d.C.),
nella sua Biblioteca, non poteva ignorare le vicende di Medea e Giasone, dato il tentativo di compendiare
il patrimonio mitologico greco. Narra di loro nel libro I. Afferma che, dopo aver abbandonato Egeo,
Medea avrebbe esulato in Asia col figlio Medo, da cui la stirpe dei Medi. Sarebbe tornata in Colchide a
spodestare lo zio Perse, per ridare il trono al padre.
Pausania (II sec.) ricorda, a Corinto, “la Fonte di Glauce”, in cui la principessa, ustionata
dall’abito stregato inviatole da Medea, si sarebbe gettata (Periegesi della Grecia, “Corinto”, III, 6). Parla
anche della tomba dei figli di Medea, venerati dai Corinzi (ibid.). Riferisce le discordanti tradizioni sui
loro nomi e sul loro numero (ibid., 8-10).
Una menzione della Colchica è presente anche nella Varia Storia di Eliano (175-235), che la cita
per scagionarla dall’accusa d’infanticidio (V, 21).
La materia del mito sarà ripresa anche in un tardo poema, le Argonautiche Orfiche del IV secolo.

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Note a Introduzione: chi è Medea?

(1) Vedasi: Angelo Taccone, “Medea”, in: Enciclopedia Italiana (1934)


(http://www.treccani.it/enciclopedia/medea_(Enciclopedia-Italiana)/ ); E. Simon, “Medea”, in:
Enciclopedia dell’Arte Antica (1961) (http://www.treccani.it/enciclopedia/medea_(Enciclopedia-dell’-
Arte-Antica)/ ); Clara Kraus, “Medea”, in: Enciclopedia Dantesca (1970)
(http://www.treccani.it/enciclopedia/medea_(Enciclopedia-Dantesca)/ ); “Medea”, in: Enciclopedia
dei miti, Milano, 1990, Garzanti.
(2) Vedasi nota 1. Per la genealogia di Giasone: Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia. Il racconto del
mito, la nascita della civiltà, (“Tascabili. Saggi”), Milano, 2009, Il Saggiatore, tavola genealogica C.
(3) Cfr. Pietro Giannini, “Medea nell’epica e nella poesia lirica arcaica e tardo-arcaica”, in: AA.VV.,
Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, Venezia, 2000, Marsilio,
nota 11 a p. 23. Vedasi anche “Medico”, in: Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna,
2003, Zanichelli.
(4) Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia…, p. 463.
(5) Ibid., p. 464.
(6) Cornelia Isler-Kerényi, “Immagini di Medea”, in: AA.VV., Medea nella letteratura e nell’arte…, p. 123.
(7) Pietro Giannini, “Medea nell’epica e nella poesia lirica arcaica e tardo-arcaica”, in: ibid., p. 14.
(8) Ibid.
(9) Ibid., pp. 14ss.
(10) Ibid., pp.19-20.
(11) Ibid., pp.20ss.
(12) Ibid., p. 21.
(13) Ibid., p. 22.
(14) Ibid.
(15) Paola Pedrazzini, Medea fra tipo e arche-tipo. La ferita dell’amore fatale nella diagnosi del teatro, (“Lingue e
letterature Carocci”), Roma, 2007, Carocci, p. 53).
(16) Anna Beltrametti, “Eros e maternità. Quel che resta del conflitto tragico di Medea”, in: AA.VV.,
Medea nella letteratura e nell’arte…, p. 59.
(17) Publio Ovidio Nasone, Opere, (“Classici Latini”), a cura di Fabio Stok, Torino, 1999, UTET, vol. IV,
Medea, frr. [1] e [2].
(18) Paola Pedrazzini, op. cit., cap. 6.
(19) Vita M. Annaei Lucani ex Vaccae qui dicitur commentario sublata, in: Lucani Opera, Renatus Badalì
recensuit, Romae, Typis Officinae Polygraphicae, MCMXCII, p. 405.

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Medea all’Opera

La vicenda di Medea, carica di abnormi sentimenti, di magia e di delitti plateali, non avrebbe potuto non
ispirare un genere di teatro che di cose simili si nutre: il melodramma.
Medea s’intitola, appunto, una tragedia lirica in tre atti di Luigi Cherubini, su libretto di
François-Benoît Hoffmann. Fu rappresentata, per la prima volta, a Parigi, nel 1797, al Théâtre
Feydeau (1).
Il soggetto è sostanzialmente ripreso da Euripide, ma con significativi rimaneggiamenti di sostanza. Il
focus e l’empatia sono fissati non sull’eponima, ma sulla coppia Glauce-Giasone. A comparire per prima
è proprio la principessa corinzia, circondata dalle ancelle, alla vigilia delle nozze. Il pensiero di Medea è
una nube che disturba il suo idillio amoroso (“Scendi in me,/vieni Amor,/sol per te/lieto ho il cor!/Da
me sia lungi ognor/la fatal maga torva,/che a sua malia legò/d’un eroe l’alto cor!”, Atto I). Giasone
rinnega il proprio passato, nella speranza (o illusione?) di tornare alla “normalità”: “Or che più non
vedrò/quella sposa crudele,/che a me vergogna e pianto fu,/del lungo error non ho/la memoria più,/il
mio destin si rinnovella./Fu Imene il mio dolor,/avrò gioia da Imen.” (Atto I). Medea rappresenta una
“diversità” temuta, un rimosso che il mondo “borghese” di Corinto cerca invano di esorcizzare. È
pericolosa in quanto maga feroce e in quanto peso sulla coscienza di Giasone, che vuole liberarsi di lei,
dopo averla sfruttata e sradicata. I suoi delitti puniscono l’egoistica ricerca del “quieto vivere”. La
“normalità” costa vittime, che mietono vittime a propria volta. Non ci sono riflessioni sociali, né
un’etica “eroica”, né un raziocinio portato alle estreme conseguenze, come in Euripide. Il dramma è
interamente determinato dai sentimenti che confliggono: l’amore fra Giasone e Glauce contro quello
di Medea abbandonata; l’affetto paterno e protettivo di Creonte nei confronti di Glauce; l’istinto
materno contro il desiderio di vendetta nell’animo della maga. Vi sono echi senecani: “Perisca questa
mia rival/che fece sue le gioie mie più care! […] Ah, s’egli un padre, se fratelli avesse!” (Atto II; cfr.
Seneca, Medea, vv. 125-126); “MEDEA: Dei figli miei l’amor mi rendi! GIASONE: No, piuttosto il mio
sangue e la vita,/che darti i piccoli/cari innocenti! MEDEA (con gioia a stento nascosta): Oh gioia! ei li ama
ancor!/Or so che far dovrò!/Finzione, sol tu puoi/aiuto dare a me!” (Atto II; cfr. ibid., vv. 540-550).
Anche il finale del melodramma riprende Seneca, con l’apocalittico incendio che coinvolge tutta la corte
e i corinzi: “Giusto ciel! Oh terror!/Terra e ciel fiamme son!/Fuggiam, fuggiam/l’arso ciel, l’atro
duol!/Già l’abisso s’aprì!/Fuggiam da questo infausto suol!” (Finale; cfr. ibid., vv. 885-890).
Il librettista F.B. Hoffmann ha mantenuto la presenza del coro, peraltro assai funzionale nel
teatro lirico.

Oltre a questa ripresa dichiarata delle vicende di Medea, ci è sembrato opportuno segnalare un
curioso parallelismo: quello con la Norma di Vincenzo Bellini (tragedia lirica in due atti, su libretto di
Felice Romani). La prima rappresentazione fu allestita presso il Teatro alla Scala, a Milano, nel 1831. Il
soggetto era tratto da una tragedia di Alexandre Soumet: Norma ou L’infanticide, andata in scena
mesi prima al Théâtre Royal de l’Odéon, a Parigi.
La trama è la seguente: la druidessa Norma, coi propri oracoli, frena il desiderio di rivalsa dei
Galli sui dominatori Romani. La causa inconfessabile del suo comportamento è la sua relazione con il
proconsole Pollione. Da lui ha avuto due figli, che tiene nascosti nel tempio del dio Irminsul. Nel
frattempo, Pollione ha cominciato a temere l’amante e a volersi distaccare da lei. Ha anche concepito
una forte passione per Adalgisa, giovane gallica collocata dal padre presso il tempio, nell’attesa che
pronunci i voti di sacerdotessa. La ragazza, turbata dall’incertezza della propria vocazione e dall’amore
per Pollione, si confida con Norma. Questa cerca, dapprima, di dissuaderla; poi, le confessa la propria
relazione e cerca di affidarle i figli. Adalgisa preferisce implorare il proconsole di rimanere presso
Norma e i bambini, invano. Pollione assale il tempio di Irminsul per rapire la ragazza, ma viene
catturato. Norma vorrebbe, dapprima, metterlo a morte con Adalgisa; poi, si autodenuncia come sua
amante e si prepara a scontare la pena del rogo con lui. Adalgisa implora il perdono per la druidessa
sacrilega; quando esso viene negato, la ragazza rinnega la religione gallica e decide di convertirsi al
cristianesimo. Pollione viene liberato a forza dai Romani; Norma, in un raptus di follia, pugnala uno dei
figli e si getta in un lago con l’altro, sotto gli occhi del fedifrago.
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Romani snellisce, in generale, il testo. Taglia il finale originario, per far concludere la vicenda
con la ricongiunzione di Norma e Pollione sul rogo e l’affidamento dei bambini al padre della druidessa.
Scompare il conflitto tra passione e devozione (“NORMA: Attachez-vous aux dieux, ne songez pas au
monde:/ Vous n’y trouverez pas de voix qui vous réponde;/Ce qui vient de la terre est mortel au
bonheur. (2) ”, Atto I, Scena V). Scompare il confronto tra il culto di Irminsul e il cristianesimo (cfr. il
dialogo tra il piccolo Agenore e la nutrice cristiana Clotilde, Atto III, Scena I; cfr. anche la conversione
di Adalgisa, Atto V, scena III). Romani elimina anche la polemica “libertino-illuminista” di Pollione
contro la religione gallica (“Eh! que me font à moi ces prêtres imposteurs,/Ces prodiges grossiers
comme leurs inventeurs,/Et, sous un ciel serein, qui dément leur orage,/Ces miracles d’enfans, qui
glacent ton courage! (3) ”, Atto I, Scena I). La “filosofia” del libretto italiano è fondata sull’amore
romantico, visto come forza che supera ogni altra: “POLLIONE: Me protegge, me difende/Un poter
maggior di loro./È il pensier di lei che adoro,/È l’amor che m’infiammò.” (Atto I, Scena II);
“NORMA: Ah! bello a me ritorna/del fido amor primiero,/E contro il mondo intiero/Difesa a te sarò”
(Atto I, Scena IV); “ADALGISA: Al mio Dio sarò spergiura,/Ma fedel a te sarò!” (Atto I, Scena VI);
“NORMA: Un nume, un fato di te più forte/Ci vuole uniti in vita e in morte. […] POLLIONE:
Moriamo insieme, ah, sì, moriamo!/L’estremo accento sarà ch’io t’amo. […] POLLIONE: Il tuo rogo,
o Norma, è il mio!/Là più santo/Incomincia eterno amor!” (Atto II, Scena Ultima). Compare anche la
morale del perdono, concesso a Norma dal padre Oroveso, seppur solo a titolo personale: “NORMA:
Padre, tu piangi?/Piangi e perdona!/Ah! Tu perdoni!/Quel pianto il dice.”
Ciò che interessa ai fini del presente lavoro, tuttavia, è la somiglianza del personaggio e della
vicenda della sacerdotessa gallica con il mito di Medea. Entrambe sono viste attraverso gli occhi d’un
amante straniero che le considera “barbare” e irrazionali (“POLLION: Son orgueil insultant, même
quand il supplie,/Donne à ses passions le cri de la folie. (4) ”, Atto I, Scena I). Sono state salvifiche per
l’amante, ma saprebbero anche essergli fatali e il loro amore si può agevolmente rovesciare in odio
(“POLLION: Chacun de ses bienfaits m’apporte une terreur;/Son dévoûement pour moi ressemble à la
fureur (5) ”, ibid.). Sono sacerdotesse di un culto oscuro agli occhi del proprio uomo e, in ogni caso,
sanguinario e pieno di terrori. La loro sapienza sconfina nella magia (“NORMA: Je suis magicienne.
(6)
”Atto V, Scena IV). Perfino la quercia sacra a Irminsul potrebbe essere ricordare quella su cui era
appeso il Vello d’Oro. Sia Norma che Medea, per assecondare i propri sentimenti, si trovano a tradire il
proprio popolo; la loro vicenda amorosa è carica di delicate implicazioni diplomatiche. Ciò è dovuto
alla posizione di prestigio di cui godono in patria: non sono “private cittadine”, il loro comportamento
è un punto di riferimento per tutti. L’esito delle loro irregolari unioni è il medesimo: l’uomo le
abbandona per un’altra donna, lasciandole con figli; la vendetta prescelta è l’infanticidio (compiuto in
Soumet, soltanto sfiorato in Romani). Il loro risentimento verso il fedifrago è dato non solo dalla
propria gelosia, ma anche dall’ingratitudine di lui, il cui “eroismo” non è che un frutto del favore
goduto: “NORMA: À qui dois-tu le jour, ta gloire, tes lauriers?/ Quelle voix jusqu’ici maîtrisa nos
guerriers?/Tu n’es rien, j’ai tout fait. (7) ” (Atto II, Scena IV). La Norma di Soumet anticipa, poi, un
dramma che sarà vissuto dalla Medea di P.P. Pasolini: la “conversione alla rovescia”, la perdita della
propria visione magico-religiosa del mondo (“NORMA: …la forêt sacrée a perdu ses miracles,/Les
ombres de mon âme ont voilé les oracles,/Les dieux m’ont retiré leur céleste flambeau. (8) ” Atto V,
Scena IV).
Sebbene né in Soumet, né in Romani vi sia esplicito richiamo all’eroina euripidea, l’evidente
parallelismo fra le due vicende mostra come un mito possa essere riattualizzato al di là della propria
lettera. Le vicende mitiche sono archetipiche e possono inconsapevolmente ripetersi in culture, luoghi
ed epoche differenti, mantenendo la propria sostanza.

10
Note a Medea all’Opera

(1) Cfr. il sito del Teatro Regio di Torino: www.teatroregio.torino.it/node/1427


(2) “Attaccatevi agli dei, non pensate al mondo:/Non vi troverete voce che vi risponda;/Ciò che viene dalla
terra è letale per la felicità.” (Traduzione nostra).
(3) “Eh! Cosa fanno a me questi sacerdoti impostori,/Questi prodigi rozzi come i loro inventori,/E, sotto
un cielo sereno, che smentisce la loro tempesta,/Questi miracoli da bambini, che raggelano il tuo
coraggio!” (Idem)
(4) “Il suo orgoglio offensivo, perfino quando supplica,/Dà alle sue passioni il grido della follia.” (Idem)
(5) “Ognuno dei suoi benefici mi incute terrore;/La sua devozione a me somiglia al furore.” (Idem).
(6) “Sono una maga.” (Idem)
(7) “A chi devi tu il giorno, la tua gloria, i tuoi allori?/Quale voce finora ha tenuto a bada i nostri guerrieri?/
Tu non sei nulla, ho fatto tutto io.” (Idem).
(8) “…la foresta sacra ha perduto i suoi miracoli,/Le ombre della mia anima hanno velato gli oracoli,/ Gli
dei hanno ritirato lontano da me il loro splendore celeste.” (Idem).

11
A confronto con Euripide e Seneca

L’eredità di Euripide e Seneca è stata recepita dal teatro moderno anche al di fuori dell’opera lirica. Ne
sono esempi eminenti la Médée di Pierre Corneille (1635) e la trilogia Das Goldene Vliess (“Il Vello
d’Oro”) di Franz Grillparzer (1822).
Paola Pedrazzini analizza il rapporto fra queste opere e i loro modelli classici nel saggio: Medea
fra tipo e arche-tipo. La ferita dell’amore fatale nelle diagnosi del teatro, (“Lingue e letterature Carocci”), Roma,
2007, Carocci (capp. 7, 8, 10, 11, 14, 15).
La Médée di P. Corneille si richiama esplicitamente a Seneca (1). Essa fu composta nella temperie
neostoica dell’ambiente parigino (2). In questa cornice, uscirono le tragedie senecane edite da Del Rio e
Farnaby. Plausibilmente, fu in queste edizioni che il drammaturgo ebbe a disposizione i modelli di
riferimento. Il neostoicismo cercava di conciliare il pensiero di Seneca col cristianesimo, facendo leva
sui punti in comune: l’indirizzo monoteista; l’idea di un universo ordinato; l’etica basata su
autocontrollo, forza d’animo, dominio sulle passioni, sopportazione della sorte. Questa corrente
filosofica, però, non basterebbe a comprendere il teatro corneilliano. A esso manca quel senso
dell’atarassia che sarebbe propriamente stoico. Inoltre, il generale clima di riforma cattolica e lotta
all’eresia richiedeva, nella prima metà del XVII sec., modelli più attivi e vigorosi del sapiens
imperturbabile. A questa esigenza rispondeva Aristotele, con il suo ideale di “magnanimità” (3). Essa
poteva tradursi in impassibilità davanti ai rovesci di fortuna o in coraggio impetuoso. Questa virtù fu
idealmente posta al servizio della Riforma cattolica dai gesuiti. Detta formazione culturale era alla base
dell’opera di P. Corneille. All’epoca, circolavano anche trattati sulle passioni umane (4), quali quello di
Jean-Pierre Camus (Trattato delle passioni dell’animo, 1620) e quello di Nicolas Coeffeteau (Descrizione delle
passioni umane, 1620). Entrambi vedono nei moti passionali il vero motore dell’uomo; in particolare,
nell’amore indicano non una malattia dell’animo, ma un generoso sprone all’azione virtuosa.
Utile a comprendere la Medea corneilliana è anche un cenno alla cosiddetta querelle des femmes: la
discussione sulla condizione della donna, in un’epoca che vedeva sia l’accrescimento del pubblico
femminile colto, sia un maschilismo ancora diffuso, nonché una vera e propria caccia alle streghe.
Nella sua pièce, P. Corneille mostra la nascita dell’amore in Medea secondo una legge misteriosa
e naturale, come passione volta al bene (5). A deviare il sentimento verso esiti delittuosi è Giasone, il
dongiovanni che strumentalizza l’amante. Solo sua è la colpa, non dell’indole di Medea, come era invece
in Seneca (6). Una certa sua predisposizione agli atti estremi sarebbe, però, nella sua volontà titanica e
nella sua intolleranza verso le ingiustizie. L’eroina sarebbe, in altre parole, una “magnanima” aristotelica.
(7)
La sua saggezza arcana fa di lei una possibile “strega”, capro espiatorio di una società patriarcale e
delle sue paure (8).
Rispetto alla Medea senecana, quella di Corneille vede la scomparsa del coro e la riduzione dei
monologhi. In compenso, è più consistente il ruolo di Giasone, viene reintrodotto il personaggio
euripideo di Egeo e compaiono nuove figure. L’azione si snoda in cinque atti e comincia nel giorno
delle nozze fra Giasone e Creusa (altro nome di Glauce). La preghiera di Medea ai divini protettori del
matrimonio non è più posta in apertura, come in Seneca, ma solo dopo che il marito infedele ha avuto
modo di mostrare il proprio cinismo calcolatore. In questo modo, l’eroina non è più presentata come
“gratuitamente” iraconda, ma come giustamente sdegnata. Secondo questa linea, Creonte viene ritratto
come violatore dell’ospitalità regale e Creusa come un’egoista capricciosa. (9)
Pur avendo come modello una tragedia latina del I sec., la Médée recherebbe anche i tratti della
tragicommedia, del “teatro della crudeltà”, del balletto di corte che erano in voga all’epoca della
rappresentazione. Vi sarebbe, secondo la Pedrazzini (10), un certo qual gusto delle azioni brutali, della
magia, della vendetta per onore, della ripetizione, dell’accumulo di elementi, della metamorfosi. Il suo
linguaggio sarebbe précieux, riccamente artificioso. Il compiacimento dell’orrido sarebbe esemplificato
nella Scena I dell’Atto I: quella in cui Giasone descrive la morte di Pelia, lo zio usurpatore sul trono di
Iolco. Medea avrebbe convinto le sue figlie a smembrarlo e a cuocerlo nel suo famoso calderone –salvo
lasciarlo morire, anziché ridargli la giovinezza. La versione corneilliana si ispira evidentemente a quella,
dettagliatissima, di Ovidio (Metamorfosi, VII, vv. 297-349).

12
Nell’opera, si avvertirebbe anche la vena di commediografo propria dell’autore: Giasone sarebbe un
dongiovanni, Creusa una civetta ed Egeo un quasi comico “vecchione”. Tuttavia, P. Corneille ha
rispettato, in essa, le unità aristoteliche di tempo, d’azione e (parzialmente) di luogo. Il metro della
versificazione è l’alessandrino (11).
Contrariamente ai tragediografi antichi, P. Corneille si preoccupa della verosimiglianza (12): quella
“generale” (i nobili personaggi devono sempre restare all’altezza di se stessi) e quella “particolare” (è
possibile introdurre nuovi elementi, purché compatibili con il mito tradizionalmente conosciuto). Essa
è associata al ritratto psicologico dei personaggi, anch’esso accuratamente realistico. Invenzioni
corneilliane di successo (13) sarebbero: la spiegazione iniziale dell’azione da parte di due personaggi; la
suspense tra un atto e l’altro; la continuità fra scene e l’introduzione delle stanze. Adattando il modello
senecano, l’autore ridusse (come abbiamo detto) i monologhi; nel testo, chiarì quei dettagli del mito che
il pubblico a lui contemporaneo non necessariamente conosceva; sviluppò il ruolo dei confidenti.
L’eliminazione del coro fu a servizio della verosimiglianza e lasciò spazi adeguati a scene che facessero
risaltare le sfaccettature psicologiche dei personaggi.

Franz Grillparzer ebbe occasione di vivere una stagione di grande vitalità teatrale per il mito di
Medea: quella che durò dalla seconda metà del Seicento e per tutto il Settecento. La vicenda era
proposta nelle forme della satira, del mimo, del balletto, richieste soprattutto dal teatro cortigiano. Nel
frattempo, ferveva, nei Paesi di lingua tedesca, l’attività di rielaborazione e traduzione dei testi classici.
Anche Grillparzer si propose di riprendere e rinnovare la tragedia greca (14). Il mito di Medea, in
particolare, si innestava bene sulle questioni correnti nella prima metà dell’Ottocento (15): il rapporto tra
struttura familiare, modello genealogico e decisioni politiche; la battaglia fra i sessi, tra fiducia, amore,
fedeltà e gelosia; l’articolazione del conflitto psicologico. Il contrasto tra Colchide e Grecia poteva
rispecchiare la querelle politica sulla differenza fra culture. In particolar modo, nella Vienna in cui viveva
Grillparzer, serpeggiava una certa xenofobia nei confronti dei numerosi ebrei provenienti dal resto
dell’Impero asburgico (16).
Quanto alla temperie culturale in cui il drammaturgo era immerso, egli si manteneva lontano
(apparentemente) dai fermenti romantici, per rivolgersi a W. Shakespeare, a Euripide, a Lope de Vega e
a Calderón de la Barca. Tuttavia, seppe descrivere i tormenti e gli squilibri dei sentimenti come un
“romantico di fatto” (17).
Nella vita affettiva di Grillparzer, sono ravvisabili tratti che saranno del suo Giasone e della sua
Medea. Come il primo, fu un “dongiovanni passionale e poligamo” (18), che assistette alla sofferenza
amorosa delle proprie conquiste senza poterla capire. Tanto quanto la fanciulla di Colchide nel suo
dramma, era animato da una sete d’amore inevasa dai genitori (19). Viveva uno squilibrio emotivo, una
continua alternanza fra lucidità e irrazionalità ed era in balia delle proprie sensazioni. Anche la sua
fertilità artistica subiva sbalzi; era attratto dal dolore e studiava intensamente i propri stessi malesseri.
La sua trilogia dedicata al Vello d’Oro si articolava in: Der Gastfreund (“L’ospite”); Die Argonauten
(“Gli Argonauti”); Medea. Le tre parti non sono indipendenti, bensì sezioni consecutive dell’unico
dramma della protagonista. La prima è ambientata in Colchide, dove Medea vive da amazzone e sdegna
l’amore. All’arrivo del greco Frisso, il padre Eeta le ordina di preparare un veleno, per permettergli di
uccidere e derubare l’ospite. Dopo aver raccontato la vicenda del Vello d’Oro da lui portato, Frisso
domanda ospitalità, ma viene assassinato. In seguito a questo sacrilegio, Medea si ritira in una torre, a
pregare. Nella seconda parte, sono narrati l’arrivo di Giasone con gli Argonauti e l’amore fra l’eroe e
Medea. Nella terza, ambientata a Corinto, il matrimonio fra i protagonisti crolla. Nonostante la
Colchica si sforzi di divenire una “buona moglie greca”, rinunciando alla magia, Giasone le preferisce
Creusa. Medea viene umiliata davanti alla principessa corinzia, che credeva amica; anche i figli
antepongono a lei la matrigna scelta dal padre. La maga decide così di tornare se stessa e vendicarsi.
Medea, in Grillparzer, è schiava dei propri oggetti d’amore. Vorrebbe ribellarsi al padre
tirannico, ma ha bisogno di essere la sua “buona bambina”. Cede così a ogni suo volere, accettando di
essere apprezzata solo in quanto strumento (20). È schiava anche del narcisista ed egoista Giasone, con
cui ricrea il copione del rapporto doloroso col padre (21). Mendica l’affetto di Creusa, da cui è
ripetutamente avvilita, e la prende a modello per divenire la donna ideale di Giasone (22). Finché s’illude
13
di recuperare l’amore del marito, è disposta (invano) ad annullare la propria personalità di amazzone.
Con la sua intelligenza, i suoi poteri e il suo bisogno di reciprocità nel rapporto di coppia, Medea è
“ingombrante” per quel narcisista irresponsabile. Creusa, invece, è innocua: perfettamente inserita nella
società patriarcale, garante di un matrimonio placido e senza troppo impegno per Giasone (23).
Diversa è anche la concezione dell’amore per la Colchica e per l’eroe greco. Per lei, esso è estasi
proiettata nell’eternità; per lui, è un’esperienza del tutto terrena e contingente (24).
Il capitano degli Argonauti può essere visto anche come un colonizzatore che, in terra straniera,
bada a conquistare quanto potrebbe essergli utile, o come il rappresentante del patriarcato contro
l’amazzone Medea (25). Questa vive in una condizione d’innocente legame con la Madre Terra, che
sacrifica cedendo alla forza dell’uomo. Egli prende in sposa l’amazzone senza poterla tenere sotto
controllo: ciò distruggerà entrambi (26).
La catena di sventure che culmina con la distruzione esistenziale di Giasone è determinata da
una rigida casualità. È innescata da un’azione malvagia (il tradimento di Eeta ai danni di Frisso), che
porta le conseguenze. È presente anche il senso dell’ereditarietà: i fatti dolorosi si svolgono di
generazione in generazione (27). Il Vello d’Oro accompagna le vicende: oggetto “morto”, ma simbolo di
ambizioni e desideri che generano colpe (28).
La Medea dipinta da Grillparzer manifesta la compresenza in lei di elementi solari ed elementi
ctoni attraverso i colori del suo abbigliamento (rosso, oro, nero). Creusa, remissiva, amorfa e
(apparentemente) innocente, è caratterizzata, invece, dal bianco (29). La Colchica è una figura complessa
e sfaccettata, i cui mutamenti psicologici sono segnalati dal drammaturgo con fitte didascalie. (30) In lei
convivono luce e tenebra, amore e odio, ferocia e grazia. Come Seneca, Grillparzer istituisce un
dualismo tra lei e Creusa, identificando ciascuna di queste due figure ora con la luce, ora con la tenebra
(mentre l’autore latino era più manicheo nel caratterizzarle: una Medea negativa contro una Creusa
positiva). La principessa colchica ha una “doppia personalità”, proiettata in altre due figure: quella della
rivale corinzia e quella di Gora, la confidente. La prima rappresenta la grazia e il candore, la seconda la
“selvatichezza” colchica. Tra questi due poli si colloca Medea. (31)
Nel linguaggio della trilogia, è fitta la semantica sadomasochistica.(32) L’ospite si apre con una
scena di sanguinolento sacrificio, che sembra preludere all’autoannullamento dell’amazzone sull’altare
dell’amore. Sempre in questa prima parte del Vello d’Oro, ricorrono termini quali “legare” e
“incatenare”. Si riferiscono all’effetto delle pozioni di Medea sulle facoltà umane e alle conseguenze
ineluttabili dei misfatti. Ne Gli Argonauti, la passione della protagonista per Giasone la “irretisce”, la
“lacera”, la “ferisce”, come il serpente a custodia del Vello. È presente anche l’immagine della
“ragnatela”, che designa l’agguato in cui Frisso è stato assassinato (L’ospite) e l’azione punitiva delle
Furie contro l’omicida dell’ospite (ibid.).

Come è stato accennato in precedenza, è usuale attribuire come modello Seneca a P. Corneille
ed Euripide a F. Grillparzer. Nell’analisi della “schiavitù d’amore” di Medea, invece, è possibile invertire
i termini di paragone (33). Sia Euripide che P. Corneille pongono all’esterno le cause del comportamento
della protagonista, incolpando l’opportunismo e il dongiovannismo di Giasone. F. Grillparzer, invece,
individua le radici della passione autoannullante nella psiche stessa di Medea, come faceva Seneca,
sebbene all’interno di una diversa concezione delle passioni. Il filosofo latino abbozzò un primitivo
approccio psicanalitico; l’analisi psicologica operata dal drammaturgo austriaco ne sembra, invece, un
vero e proprio prototipo.

14
Note a A confronto con Euripide e Seneca

(1) Cfr.: Paola Pedrazzini, Medea fra tipo e arche-tipo. La ferita dell’amore fatale nelle diagnosi del teatro, (“Lingue e
letterature Carocci”), Roma, 2007, Carocci, pp. 96-97.
(2) Ibid., pp. 90-91.
(3) Ibid., pp. 91-92.
(4) Ibid., p. 93.
(5) Ibid., p.94.
(6) Ibid., p. 95.
(7) Ibid., pp. 95-96.
(8) Ibid., p. 96.
(9) Ibid., pp. 98-99.
(10) Ibid., pp. 100-101.
(11) Ibid., pp. 101-102.
(12) Ibid., pp. 102-103.
(13) Ibid., pp. 102-103.
(14) Ibid., p. 115.
(15) Ibid., pp. 115-116.
(16) Ibid., p. 133 (nota 16).
(17) Ibid., p. 116-117.
(18) Ibid., p. 117.
(19) Ibid., pp. 118-119.
(20) Ibid., pp. 126-127.
(21) Ibid., pp. 119-120.
(22) Ibid., pp. 215-219.
(23) Ibid., pp. 120-121.
(24) Ibid., pp. 121-122.
(25) Ibid., p. 122.
(26) Ibid., pp. 125-126.
(27) Ibid., p. 123.
(28) Ibid., p. 125.
(29) Ibid., p. 128.
(30) Ibid., p. 130.
(31) Ibid., pp. 128-129.
(32) Ibid., pp. 130-131.
(33) Ibid., pp. 131-133.

15
Medea nel Novecento

La storia di Medea ha parlato anche al secolo scorso. Ne è stata responsabile, almeno in parte, la
psicanalisi, che ha preso in prestito termini del lessico mitologico (cfr. il capitoletto successivo).
L’inquietudine della maga e dei fantasmi che suscita, però, è anche una buona maschera per rivestire
inquietudini attuali. L’hanno fatto Corrado Alvaro (La lunga notte di Medea, 1950), Christa Wolf (Medea.
Stimmen, 1996) e diversi autori balcanici degli anni ’90. Ne hanno trattato Giorgio Ieranò (“Tre Medee
del Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf”, in: AA.VV., Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di Bruno
Gentili e Franca Perusino, Venezia, 2000, Marsilio), Margherita Rubino e Chiara Degregori (Medea
contemporanea, a cura di M. Rubino, Genova, 2000, Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., N.S., n. 192).
La lunga notte di Medea è una “tragedia in due tempi”. Fu composta da Corrado Alvaro su
commissione dell’attrice russa Tatiana Pavlova. La prima rappresentazione avvenne al Teatro Nuovo di
Milano nel 1950. (1) Degno di nota è il fatto che scene e costumi fossero di Giorgio De Chirico. La
reinterpretazione si collocava così in quella “Metafisica” che giocava a ricomporre in modo straniante
elementi classici.
C. Alvaro fa della Colchica un simbolo di “umanità oppressa” che uccide i figli per sottrarli alla folla di
Corinto. Nella postfazione (2), a p. 116, Alvaro scrive: «Medea mi è apparsa un’antenata di tante donne
che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza
passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi profughi». La straniera
perde la “terribilità” che ne connota la nomea e diventa un’umanissima vittima. Anche Giasone non è
più un eroe, ma un ambizioso che liquida il proprio passato per darsi alla politica. Lo fa con malinconia
e disillusione, chiamando “miserabile” la sua nuova professione. Dopo la perdita dei figli, decide di
dimenticare se stesso e di passare il resto della vita in anonimato, guardando il mare su cui visse i propri
tempi eroici (3). Il Giasone opportunista di Euripide diventa un moderno borghese che ripone le valige
in solaio.
Un’altra lettura del dramma è offerta dall’autore stesso, sempre nella postfazione di cui sopra (p. 116):
«Medea è la vittima tipica del passaggio di una civiltà quando la società umana, da primitiva e patriarcale
ed eroica, diventa società politica retta da concetti politici» (4). Questo sarà anche il nocciolo della Medea
pasoliniana.

Sempre vittima innocente sarà la Colchica nell’atipico romanzo di Christa Wolf. Medea. Stimmen
(“Medea. Voci”) fu pubblicato nel 1996 a Monaco. Nell’ambito della narrativa, si trattò d’un evento
d’importanza non comune. L’autrice era una romanziera e polemista celebre; la sua opera era una
riappropriazione inedita e creativa del mito. Medea. Stimmen conobbe una vasta diffusione e perfino un
gran successo di mercato (5).
L’attesa che circondava le pubblicazioni della Wolf era legata anche all’interesse verso le voci di scrittori
provenienti dall’ex -Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Il muro di Berlino era caduto sette anni
prima; era ancora aperta la questione del nuovo ruolo degli ex-intellettuali di regime della RDT nella
Germania unificata. Era facile la tentazione di intravedere anche nel romanzo mitologico una struttura a
tesi (6).
La Wolf dichiarò apertamente di essersi rivolta a fonti pre-euripidee (quelle citate nel primo
capitoletto di questo lavoro), che scagionavano Medea dall’accusa di infanticidio. La sua opera fa della
maga una figura emersa da un antichissimo mondo matriarcale, in cui “i figli erano il bene supremo di
una tribù e in cui le madri venivano tenute in gran stima proprio per la loro capacità di perpetuare la
stirpe” (7). Anche il teso clima storico, in cui la politica aveva adottato la prassi di cercare “capri
espiatori” per il recente passato, contribuì alla riflessione sul tema del sacrificio umano (8). Di questo
atteggiamento fu vittima la stessa Ch. Wolf. Dopo l’apertura degli archivi segreti della Stasi (Ministero
per la Sicurezza dello Stato), fu accusata di essere stata una spia al servizio della RDT. In realtà, lei
compariva nei documenti come “collaboratrice informale” dal 1959 al 1962; ma la sua attività era stata
talmente infruttuosa da valerle lo stigma di “sovversiva” (9). Questo è un esempio di cosa significasse
esser considerati una voce della Germania comunista. La presa di distanza da quell’esperienza era quasi
pretesa, nella Germania unificata, in nome del “superamento del passato” (10). L’adesione della Wolf al
16
socialismo della RDT era stata vigile e critica; non essendo lei collocabile con certezza in alcun quadro
ideologico, subì critiche da parti opposte. In Medea. Stimmen, la politica subisce una demistificazione
radicale, come fondata sulla menzogna e (si è già detto) sul sacrificio umano (11). La critica dell’autrice
scavalca la contrapposizione fra Germania Orientale e Germania Occidentale, per investire tutti i
governi in quanto tali, in quanto bisognosi di escamotage per giustificare se stessi e la propria storia.
Il romanzo è strutturato, come suggerisce il titolo, per “voci”. I capitoli sono lunghi monologhi
che recano il nome del personaggio che li pronuncia. Ognuno di essi fornisce un punto di vista su
Medea e sulla sua vicenda. La trama è riassumibile come segue: Medea si trova a Corinto, con lo sposo
Giasone, che l’ha ormai abbandonata in vista delle nozze con Glauce. Quando ancora frequenta il
palazzo reale, la Colchica scopre il segreto celato nei suoi sotterranei: le ossa di Ifinoe, principessina
assassinata per stroncare le velleità di restaurazione matriarcale di una parte della corte. “La donna che
sa troppo” viene progressivamente isolata; la si accusa di un fratricidio in Colchide, nonché di
stregoneria (ha facoltà di guaritrice). Gioca a suo sfavore anche l’essere straniera, il suo fare “selvaggio”
così dissimile da quello delle riservate corinzie. Medea viene dapprima allontanata dal palazzo reale, poi
dalla città. I suoi figli vengono lapidati dai corinzi e viene confezionata la menzogna dell’infanticidio per
gelosia. L’opera si conclude con la maledizione di Medea sulla corte e la città, in un finale autoesilio
dall’umanità.
La versione euripidea del mito viene, in un certo senso, demistificata dalla Wolf. Medea non è
né fratricida, né infanticida. Non è gelosa di Giasone. Non pratica la magia: è semplicemente una buona
conoscitrice della natura. In modo “illuministico”, spinge i corinzi a superare una carestia facendo
scoprire loro risorse locali di cui non sapevano o che non osavano toccare: “…divulgò la conoscenza
delle piante selvatiche commestibili, che sembra inesauribile, e insegnò, no, costrinse i corinzi a
mangiare carne di cavallo. […] Cominciò con me [Giasone]. […] mi indusse a confessare davanti a tutto
il popolo di aver mangiato carne di cavallo. Ma la punizione degli dèi non mi aveva colpito, il popolo
macellò i cavalli, mangiò, sopravvisse e non lo perdonò a Medea.” (12) Ancor più eloquente è la
considerazione successiva: “… la gente preferisce ritenersi stregata, piuttosto che credere di aver
mangiato erbacce e divorato le viscere di animali intoccabili per banale fame. Medea dice che chi
costringe la gente a toccare ciò che per essa è sacro, se la rende nemica.” (13)
La mistificazione dell’infanticidio sarebbe stata introdotta da Euripide dietro compenso da parte
dei corinzi. Questo, almeno, sostiene il grammatico alessandrino Parmenisco, negli scolii a Medea 9 e
264. (14)
Nella versione della Wolf, come abbiamo detto, la donna non ha ucciso Apsirto. Né assassina
Glauce. Il primo è caduto vittima di un intrigo di corte, come Ifinoe. La seconda si suicida, dopo aver
sostenuto anni di tormento psicologico. Una forte innovazione rispetto alla tragedia ateniese del 431
a.C. è proprio il ruolo assegnato alla figlia di Creonte. Parla di persona, per la lunghezza di un intero
capitolo. L’autrice si concentra sul suo dramma di adolescente repressa, che somatizza in una forma di
epilessia e in singolari fobie il trauma rimosso della morte della sorella. Medea la cura con una sorta di
terapia psicanalitica. La fa parlare, fa riemergere i suoi scomodi ricordi. Come in Euripide, le dona una
veste: non per nuocerle, ma per migliorarne l’aspetto. Attraverso Medea, sostituto di una madre che
non le dedica attenzione, Glauce si scopre bella e desiderosa di vivere. Anche questo diventerà
“stregoneria”, nelle parole dei detrattori che plageranno la gracile principessa. Al posto delle ustioni
provocate dal vestito avvelenato, sulla pelle di Glauce compare un’eruzione cutanea: una
somatizzazione del suo traumatico distacco dalla madre, che Medea cura proprio come quest’ultima
aveva fatto un tempo. Quando la Colchica sarà allontanata da palazzo, Glauce vivrà il suo addio come
la ripetizione dell’abbandono materno: da qui, il suo odio per la guaritrice. Della sua morte, la Wolf
riprende la versione riportata da Pausania: si sarebbe gettata in un pozzo. Il suicidio è simile a quello
della Creusa di C. Alvaro (15) e della Glauce di P.P. Pasolini (vedasi Due Medee cinematografiche). In tutti e
tre i casi, la ragazza cade sotto un peso dell’anima ed è accomunata a Medea dal ruolo di vittima.
Ognuna delle “voci” che compongono il romanzo è preceduta da un’epigrafe. In questo modo,
la versione moderna del mito viene ricollegata a Seneca, Platone, Euripide, Catone, Ingeborg
Bachmann, René Girard, Dietmar Kamper, Adriana Cavarero. Le epigrafi e il testo a cui sono apposte

17
si illuminano a vicenda. A volte, i modelli antichi (Euripide, Seneca) vengono risemantizzati nel segno
del rovesciamento.
La modernizzazione di Medea è data anche da una lettura prosaica della sua “barbarie”. Non più
di stirpe divina, non più proveniente da una terra di mostri e magia, Medea è un membro di una
minoranza etnica combattuta fra conservazione della propria identità e ricerca d’integrazione. Gli
aspetti che sembrano orribili o meravigliosi a Giasone vengono spiegati razionalmente e/o
antropologicamente: il Vello è dorato, perché impiegato a estrarre l’oro di fiume; le ossa pendenti dagli
alberi testimoniano usanze funerarie; Medea sa ammansire il “dragone” custode del Vello perché la
domesticazione dei serpenti è comunissima presso il suo popolo; la lotta di Giasone contro i tori è vinta
non grazie a filtri magici, ma a un rituale che provoca l’estasi; la “sanguinarietà” di Medea è legata al suo
ruolo di sacerdotessa sacrificante. Davanti a tutto ciò, il capitano degli Argonauti si comporta da
“occidentale”: affascinato o scandalizzato, a seconda dei casi. “…i colchi seppellivano solo le donne; i
cadaveri degli uomini venivano appesi tra gli alberi, perché gli uccelli potessero spolparli fino allo
scheletro, poi quegli scheletri, tolti alle famiglie, venivano custoditi in caverne nella roccia, era un
sistema pulito e rispettoso, cosa mi [Giasone] disturbava? Mi disturbava un po’ tutto […] E
l’importante, chiese [Medea] alla fine, non era il senso che si dava a un’azione? Quell’idea mi era
estranea, io ero sicuro e lo sono tuttora che c’è un solo modo giusto di onorare i morti, e molti
sbagliati.” (16) “Ma per favore, Giasone, in fin dei conti [i colchi] sono dei selvaggi, ha detto ultimamente
[Creonte] mettendomi la mano sul braccio. Selvaggi affascinanti, d’accordo, fin troppo comprensibile
che non sappiamo resistere sempre a quel fascino.” (17) Questa presunzione di superiorità viene sfidata e
vanificata da Medea, attraverso la sua ottica “altra”. “Non so del resto perché in seguito [Medea] mi [a
Giasone] abbia domandato se da noi in campagna c’erano sacrifici umani al sole che tramonta. Ma no,
dissi sdegnato, lei inclinò la testa e mi fissò indagatrice. No? disse. Neanche quando le cose si fanno
serie? Io continuai a dire no, e lei disse meditabonda: ah sì. Forse è vero.” (18) (L’ “affaire Ifinoe” darà
ragione alla Colchica). “Non riuscire a mentire è un grave impedimento. […] Questi [i corinzi] invece,
Apsirto, sono maestri nel mentire, anche nel mentirsi.” (19) Nient’affatto mitologiche sono le
osservazioni della straniera sulla nuova economia con cui è venuta in contatto: “Corinto è ossessionata
dalla brama dell’oro. Pensa, madre, che fabbricano con l’oro non solo suppellettili di culto e gioielli, ma
oggetti d’uso comune, piatti, ciotole, vasi, persino sculture, e che c’è chi vende a caro prezzo questi
oggetti nel loro Mediterraneo, ma è anche disposto a scambiare grano, bovini, cavalli, armi con oro
greggio, con semplici barre. E la cosa che ci sbigottì di più: il valore di un cittadino di Corinto si misura
dalla quantità di oro che possiede, e in base a questa si calcolano i tributi che egli deve pagare al palazzo.
Intere legioni di funzionari si occupano di tali calcoli […] Ma perché proprio oro, chiesi io [Medea].
Dovresti sapere, disse Acamante, che sono i nostri desideri e le nostre voglie a conferire valore a un
materiale, disvalore a un altro. Il padre del nostro re Creonte era un uomo intelligente. Con un unico
divieto ha reso l’oro un oggetto agognato a Corinto: con la legge, cioè, in base alla quale i corinzi, le cui
imposte al palazzo non raggiungessero una determinata somma, non potevano indossare gioielli d’oro.
Anche tu sei un uomo intelligente, Acamante, gli dissi. Di un genere d’intelligenza che nella Colchide
non c’era. Perché da voi non ce n’era bisogno, disse, di nuovo con quel sorriso che all’inizio mi feriva.
E aveva ragione.” (20) Qualcuno ha voluto vedere in queste parole le velate osservazioni di una tedesca
dell’Est sull’economia capitalistica. (21) Tuttavia, l’antinomia fra una “Colchide/Germania Orientale” e
una “Corinto/Germania Occidentale” non è proponibile. Ben lungi dall’essere contrapposte, la patria di
Medea e quella di Giasone sono l’una lo specchio dell’altra. Eeta, per conservare il trono, ha sacrificato
il figlio Apsirto, così come Creonte ha fatto con Ifinoe. L’intrigo dominava in Colchide e così pure a
Corinto. Due mondi geograficamente e antropologicamente distantissimi sono accomunati dalla natura
delittuosa del potere politico. Il “capro espiatorio” Medea si scompone e si sfaccetta nelle “voci” che la
ritraggono, di cui la sua non è che una fra tante. La protagonista è “una, nessuna e centomila”. Come
Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, per l’appunto, si ritira dal consorzio umano, in una
situazione di annullamento della propria identità. La conclusione è aperta e inquietante: “È pensabile un
mondo, un tempo, in cui io possa stare bene? Qui non c’è nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la
risposta.” (22)

18
Nella ex-Jugoslavia, gli anni ’90 furono quelli in cui si raccolse l’eredità immediata della guerra
civile che aveva diviso il Paese. Il teatro servì a demistificare l’illusione della pace e a proteggere dalle
insicurezze. Nelle sale, si riscoprirono il senso della comunità e l’orgoglio di essere rimasti uniti anche
nello sfacelo (23). Un gesto violento come l’infanticidio di Medea toccava la sensibilità di chi di violenza
ne aveva sperimentata molta, spesso proprio sui bambini. Chiara Degregori cita Medea apatrida del
macedone Ljubiša Georgievski (1992). Essa fu rappresentata per la prima volta in Croazia (24). Le fonti
sono Euripide e Seneca, contaminati con articoli di cronaca. La chiave del dramma viene vista nella
perdita della patria, che prelude a quella di tutto il resto. La protagonista è circondata da una cultura
estranea e non riesce a chiarire i propri “confini interiori” (25), a definire la propria identità etnica. Uccide
i figli per salvarli dalla propria stessa condizione di sradicamento e per rispondere al nonsenso della
guerra (26). In luogo del coro, a commentare le scene è un personaggio di indovino cieco, che ricollega il
mito alla cronaca nera dell’epoca.
Nel 1997, al 43° Festival di Spalato, la regista Ivica Boban presentò una Medea nata dalla
rifusione della tragedia euripidea e di Materiali per Medea – Paesaggio con Argonauti di Heiner Müller. (27)
Erano centrali, in essa, il rapporto fra i due coniugi separati, l’ineliminabile ombra del potere politico su
di loro, la violenza senza emozioni portata da Müller. L’allestimento venne collocato nei cantieri navali
Sv. Kajo, luogo di grande bellezza devastato dall’industrializzazione. Una squallida modernità fu la cifra
anche di scenografie e costumi: carcasse di navi, macchinari, fuochi d’artificio, divise da poliziotto…
Egeo giungeva su un panfilo, Giasone su un’auto di lusso. Comparivano segni di inquinamento: nafta,
fumo. Una movimentatissima coreografia rendeva l’idea del caos. Il coro era composto da profughi e
senzatetto. Medea era il simbolo della “follia” che demistifica il potere; era “la barbara rannicchiata
dentro ognuno di noi” (28). Di fronte a lei, Giasone era un mero arrivista, che si giustificava con parole
false.
Del 1998, invece, è la Medeja del croato Darko Lukić (29). Essa si configura come un viaggio
dalla Colchide a Sarajevo, dal mito all’attualità della guerra. La Medea “tradizionale”, nel momento in
cui abbandona la patria per seguire gli Argonauti, diventa per loro la “straniera” temuta e disprezzata,
capro espiatorio d’ogni sventura. Coloro che la feriscono, però, finiscono per trasmettere a lei la propria
forza, finché ella non grida a Giasone: “Sono forte, forte quanto te e mille volte più forte di te, perché
in me ci sono mille odii.” (30)
Infanticidi divengono gli Argonauti, per evitare che i figli di una “barbara” diventino, un giorno, i loro
re. Medea grida alla mistificazione, prevedendo che del delitto sarà incolpata lei, e accusa Euripide
d’essersi venduto ai suoi accusatori. Sceglie, infine, la solitudine, per rimanere libera (31). A lei si
contrappone un Giasone avido di conquista, che mira alla vittoria a ogni costo. Non esita a massacrare
gli alleati, alla cieca, pur di procedere con sicurezza (32). Una novità è il ruolo consistente affidato
all’indovino Mopso. Lui è la voce della coscienza collettiva, che vorrebbe frenare l’aggressività
inarrestabile degli Argonauti, ma assiste al loro smarrimento e al fallimento della loro missione.
Nel 1997, si era avuto anche un allestimento della Medea euripidea diretto da Vladimir Milćin
(33)
, al Teatro Nazionale di Bitola. L’opera fu da lui interpretata come una condanna del nazionalismo e
d’un potere arrogante, contro il quale la donna combatte per affermare la propria identità.
Nel 1995, venne portata sulle scene a Zagabria Medea 1995 di Josip Vela e Leo Katunarić (34).
Essa era emblematica della situazione in Croazia: ufficialmente, la guerra era finita, ma la pace non era
che illusoria.
Nel dramma, Giasone e Medea vengono trasformati in due valorosi reduci. Lui vorrebbe una “vita
normale”; ha anche cominciato una carriera politica e ricevuto una decorazione per meriti militari. Lei
sta cercando di trasformarsi in una perfetta moglie altoborghese, con risultati frustranti (eco di
Grillparzer?). Gli Argonauti (qui compagni d’armi dei protagonisti), travestiti, si sono trasformati alla
bell’e meglio in cameriere. La Nutrice (figura euripidea) è tossicodipendente e distribuisce stupefacenti
che alleviano i ricordi e il vuoto del presente. In questa situazione, viene annunciato il fidanzamento di
Giasone con Nuova Medea, nipote del Presidente Creonte. La ragazza, come suggerisce il nome, è la
Medea che il reduce sogna: raffinata, colta, esperta di economia domestica, ignara dell’esperienza bellica.
Davanti al tradimento, la “vecchia” Medea abbandona la farsa a cui si era costretta e ritrova la propria
identità guerriera. Così pure gli Argonauti. L’illusione di pace si sfascia e la casa si trasforma in bunker.
19
L’eroina uccide più volte Creonte, che però, come un robot, si rialza continuamente: “Io sono
Creonte./ Né guerriero né vigliacco./Uomo politico./Tanto vivo quanto morto.” (35)
Il dramma è centrato non solo attorno all’inconsistenza della pace, ma anche attorno al disadattamento
dei reduci, incapaci di vivere nel mondo che loro stessi, peraltro, hanno contribuito a costruire. Il
risentimento di Medea verso Nuova Medea non è solo quello dell’amante gelosa: odia la rivale perché
ha goduto dei benefici della pace senza mai essersi sporcata le mani con la guerra; perché era fuggita
all’estero, mentre lei (la “vecchia” Medea) rischiava la vita; perché le ha rubato senza sforzo tutto ciò
che lei ha conquistato a caro prezzo. “Parla, Medea! Guerriero!/Ora ti fai schifo da sola./Perché hai
ucciso per lei, perché lei ha potuto indossare un abito da sera,/perché lei ha potuto mettere il trucco
ogni sera/perché lei ha sedotto il tuo Giasone.” (36) Di sfumature diverse si tinge la condizione degli
Argonauti/cameriere. La loro alienazione è esemplificata dai loro grotteschi travestimenti e dalle droghe
di cui fanno uso, per dimenticare una vita presente che per loro non ha senso. “È evidente che noi
siamo superflui. Siamo obbligati ad essere cameriere o casi clinici”. (37) Anche l’identità di Giasone, alla
fine, perde consistenza. “Lui è stato il nostro pretesto! Abbiamo combattuto perché volevamo
combattere, abbiamo ucciso perché non potevamo starcene seduti davanti alla televisione e vedere che i
nostri bambini venivano uccisi. Quest’uomo era soltanto un nome, una leggenda necessaria per il
popolo. […] Giasone non esiste!” (38)
Significativa anche la reazione del tassista chiamato da Medea per far condurre Giasone a ricevere la
decorazione: si indigna, perché anche lui è stato in guerra, ma non ha ricevuto alcun riconoscimento per
questo. (39) La “pace” è piena di “invisibili”, di drammi senza voce, contrapposti alle “leggende
necessarie per il popolo”.
La Degregori rileva anche analogie fra il Presidente Creonte e il vero Presidente croato, Tudjman. (40)
Così come il personaggio della tragedia, quest’ultimo aveva una privilegiata famiglia, che affiancava a sé
nella gestione dello Stato. Giasone, futuro genero di Creonte, diviene ministro; Tudjman nominò il
figlio vicecapo dei servizi segreti dell’esercito. Gli altri figli e il nipote si arricchirono smisuratamente.
Giasone riceve una decorazione negata ad altri; così pure, nella realtà storica, gli alti ufficiali che
godevano della benevolenza del Presidente ricevettero onorificenze, sebbene fossero criminali di
guerra. Anche l’indugio compiaciuto (e quasi comico) sui dettagli delle decorazioni militari sembrerebbe
scimmiottare la passione di Tudjman per questa forma d’arte. I discorsi di Creonte, così come quelli del
suo plausibile modello, esaltano quale “liberazione” una guerra la cui realtà era fatta di massacri,
saccheggi, stupri e profughi.
Della vicenda euripidea non restano che i nomi dei personaggi. Ma il mito dell’ex-eroe che abbandona
una donna forte e selvaggia per un matrimonio vantaggioso conserva il proprio carattere di impalcatura
simbolica, rivestendosi dell’attualità più scottante.

20
Note a Medea nel Novecento

(1) Giorgio Ieranò, “Tre Medee del Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf”, in: AA.VV., Medea nella letteratura e
nell’arte, a cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, Venezia, 2000, Marsilio, pp. 178-179.
(2) La postfazione fu pubblicata, dapprima, sul settimanale «Il Mondo» l’11 luglio 1950, col titolo La Pavlova
e Medea. Fu riproposta nell’edizione Bompiani del 1996 e a questa si riferisce Ieranò, indicando i numeri
di pagina. Cfr. Giorgio Ieranò, “Tre Medee del Novecento…”, in: op. cit., pp. 195-196, nota 6.
(3) Giorgio Ieranò, “Tre Medee del Novecento…”, in: op. cit., p. 179.
(4) Citato in ibid., p. 181.
(5) Margherita Rubino, “Medea. Voci di Christa Wolf”, in: Medea contemporanea, a cura di M. Rubino, Genova,
2000, Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., N.S., n. 192, p. 85.
(6) Ibid., pp. 85-86.
(7) Dichiarazioni di Ch. Wolf citate in ibid., p. 87.
(8) Ibid., p. 87.
(9) Ibid., p.88.
(10) Ibid., p. 88.
(11) Cfr. ibid., p. 89.
(12) Christa Wolf, Medea. Voci, (“Tascabili”), 1996, Roma, Edizioni e/o, p. 43 (traduzione dal tedesco di
Anita Raja).
(13) Ibid., pp. 43-44.
(14) Margherita Rubino, op. cit., p. 93.
(15) Giorgio Ieranò, “Tre Medee del Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf”, in: Medea nella letteratura e nell’arte, a
cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, 2000, Venezia, Marsilio, p. 192.
(16) Christa Wolf, op. cit., p. 54.
(17) Ibid., p. 51.
(18) Ibid., p. 54.
(19) Ibid., p. 89.
(20) Ibid., p. 35.
(21) Cfr. Margherita Rubino, op. cit., p. 98.
(22) Christa Wolf, op. cit., p. 188.
(23) Chiara Degregori, “Medea nella ex-Jugoslavia”, in: Medea contemporanea…, pp. 127-128.
(24) Ibid., p. 131.
(25) Ibid., p. 131.
(26) Ibid., p. 132.
(27) Ibid., pp. 133-135.
(28) Madunić 1997a, cit. in: ibid., p. 134.
(29) Ibid., pp. 135ss.
(30) Lukić cit. in: ibid., p. 136.
(31) Ibid., p. 137.
(32) Ibid., pp. 137-138.
(33) Ibid., pp. 138-139.
(34) Ibid., pp. 145ss.
(35) Medea 1995, Parte II, Scena IV, cit. in: ibid., p. 186.
(36) Medea 1995, Parte II, Scena IV, cit. in: ibid., p. 187.
(37) Medea 1995, Parte II, Scena III, cit. in: ibid., p. 182.
(38) Medea 1995, Parte II, Scena III, cit. in: ibid., p. 184.
(39) Medea 1995, Parte I, Scena II, cit. in: ibid., p. 155.
(40) Ibid., pp. 150-151.

21
Tra i fantasmi della psiche

Se la versione euripidea non è né l’unica, né la più antica, è pur vero che è quella che ha consegnato la
figura di Medea all’immaginario collettivo. A essa si riferisce Marie-José Bataille, parlando di
“complesso di Medea”: l’insieme di «pulsioni incoscienti che hanno per oggetto la distruzione o
l’annientamento del figlio (spesso di sesso maschile) da parte di sua madre, e di reazione contro queste
pulsioni in rapporto con l’odio e il disgusto provato verso il genitore (più generalmente l’uomo) e con il
rifiuto incosciente della condizione generale di donna». (1)
Paola Pedrazzini, nel saggio cui abbiamo già fatto riferimento in A confronto con Euripide e
Seneca, dà un’altra lettura psicanalitica del personaggio di Medea: fa di lei il simbolo della Hörigkeit, la
“schiavitù d’amore”. Il concetto è ripreso da un’opera di Louise Kaplan, psicanalista di indirizzo
freudiano: Perversioni femminili. Le tentazioni di Emma Bovary, trad. it. di M. Nadotti, Milano, 1992,
Raffaello Cortina. Come il titolo dichiara apertamente, la definizione è modellata sul rapporto fra
l’eroina flaubertiana e il suo primo amante, Rodolphe. In base a essa, alla Hörigkeit viene attribuito il
seguente copione: una donna s’innamora di una persona, da cui è attratta fatalmente e irresistibilmente,
ma con tormento e senso di colpa. L’oggetto d’amore, idealizzato, viene posto al centro dell’esistenza
della “schiava”; questa è disposta a tutto per lui e vive nel terrore dell’abbandono. Quando l’abbandono
arriva, subentrano la depressione e il vuoto. (2) Secondo la Kaplan, dietro questa situazione, si
nasconderebbe una sorta di “feticismo masochista”: l’amante non sarebbe legata all’amato dalle
attrattive che lui esercita, ma dalla propria stessa condizione di sottomissione e sofferenza. L’oggetto
d’amore è, inevitabilmente, qualcuno impossibilitato a ricambiare quel tipo di dedizione assoluta. Anzi,
è sovente una persona distante, narcisista, pragmatica. Questo tipo di individuo eccita il desiderio di
sottomissione, proprio in virtù della sua tirannica alternanza fra atteggiamenti d’amore e atteggiamenti
di allontanamento. Da parte dell’innamorata, come si è già accennato, viene operata anche
un’idealizzazione (quasi una divinizzazione) dell’amato. La passione così configurata è “a tempo pieno”:
la donna è disperatamente impegnata a mantenere costantemente l’oggetto d’amore in posizione di
dominio, per confermare la propria identità e difenderlo dal proprio stesso risentimento inconscio. I
comportamenti di lui vengono continuamente giustificati, l’evidenza della sua inadeguatezza all’ideale
viene ripetutamente respinta. Il pensiero dell’abbandono e la gelosia, da parte dell’amante, sono
ossessivi. L'innamorata può arrivare ad abbassare se stessa in ogni modo, accettando anche la possibilità
di maltrattamenti. (3)
La Pedrazzini, come abbiamo detto, riscontra questo copione nella vicenda sentimentale di
Medea. (4) Il suo innamoramento è immediato e fatale (già Pindaro lo attribuì all’ineluttabile volontà di
Afrodite). Apollonio Rodio parla di υ […] ἀ (Argonautiche, III, v. 290), “dolcissimo dolore”:
come spiega la Kaplan, questo tipo di passione è inscindibilmente legato al tormento. All’interno della
coppia, si crea un legame di dipendenza a doppio senso. Giasone dipende da Medea per la conquista del
Vello d’Oro; Medea dipende da Giasone sotto il profilo emotivo. La prima, però, è una dipendenza a
termine. La seconda, invece, è persistente e spinge la donna a lasciare tutto quel che aveva avuto un
valore per lei fino a quel momento, facendola giungere al tradimento familiare e all’omicidio. Il
rapporto è, indubbiamente, sbilanciato. Pur di mantenere il proprio idolo in posizione di superiorità,
Medea si autodegrada socialmente: passa dalla condizione principesca in Colchide a quella di straniera
temuta e disprezzata a Corinto. Il copione della Hörigkeit giunge a compimento con l’abbandono e con
la crisi che esso suscita nell’abbandonata, quando Giasone lascia Medea per Glauce. L’infanticidio
potrebbe essere letto come il massimo sacrificio autolesionistico (la madre esibisce la propria
sofferenza, portando con sé i cadaveri dei figli) e come evirazione simbolica di quel “feticcio maschile”
che l’ha illusa.
La Pedrazzini riprende anche una teoria di M. Reynaud (L’amore è una droga leggera, Milano, 2006,
Ponte alle Grazie): quella per cui vi sarebbe un certo grado di ereditarietà nella Hörigkeit, simile alla
tossicodipendenza (5). Effettivamente, nella famiglia di Medea, si contano casi quali quelli della zia
Pasifae e delle cugine Arianna e Fedra (6). Tutte loro furono vittime di passioni incontrollabili e con
conseguenze rovinose. La prima s’innamorò di un toro: rinunciò momentaneamente alla propria natura
umana, per appagare il proprio desiderio, e generò l’antropofago Minotauro. Arianna, come Medea,
22
tradì padre e fratello per il proprio uomo, Teseo; lasciò ogni cosa per seguirlo e fu abbandonata in
condizioni indifese. Fedra desiderò l’incesto col figliastro; rifiutata da lui, si suicidò, accusandolo di
violenza nel proprio ultimo scritto e determinando la sua condanna.
La “predisposizione genetica” di Medea alla passione fatale si incontra con le caratteristiche di
Giasone: distanza emotiva, opportunismo, quelle ideali per suscitare Hörigkeit. Ciò fa sì che il grado di
“tossicità” di questo oggetto d’amore sia, per lei, estremamente alto. (7)
La differenza radicale fra queste due anime che s’incontrano è leggibile già nelle rispettive genealogie.
Medea discende direttamente dalle divinità primordiali (Gea, Urano, Oceano, Teti, il Sole): è, pertanto,
quasi congenere alle forze della natura. Gli avi di Giasone, invece, sono nati dai sassi da cui Deucalione
e Pirra fecero rigermogliare l’umanità, dopo il “diluvio universale”. Si tratta d’una genealogia assai più
terrena, che conta anche personaggi come Bellerofonte e Sisifo: scaltri e avidi di imprese, fino alla
ὕ . Anche la ῆ di cui sono eredi non è la medesima: quella di Medea è più vicina a una compiuta
φ α, è conoscenza della natura e dei suoi misteri; quella di Giasone è opportunismo, capacità di
strumentalizzare cose e persone. Medea, congenere agli elementi più immani (terra, acqua, fuoco), è
incompatibile con una creatura “umana, troppo umana”. Come Urano e Gea sono uniti in un coito
senza fine, che genera figli ricacciati in grembo alla madre, così Giasone e la donna di Colchide sono
due opposti legati da una dipendenza emotiva. L’incomprensione e l’odio che ne nascono soffocano
Medea. Solo l’evirazione (reale per Urano, simbolica per Giasone) potrà sciogliere la catena. (8)
Dietro il copione della Hörigkeit, vi sarebbe anche una “coazione a ripetere”: la donna
ricreerebbe inconsciamente lo schema della dipendenza da un padre amatissimo, ma dispotico e
anaffettivo. (9) Quest’ultimo profilo collimerebbe bene con quello del tirannico Eeta. La vittima della
Hörigkeit, però, sarebbe anche un “capro espiatorio” della società in cui si trova. Intelligente e colta, in
grado di concedersi libertà “proibite”, sconterebbe inconsapevolmente la propria emancipazione,
all’interno di un mondo patriarcale. (10)

23
Note a Tra i fantasmi della psiche

(1) M.-J. Bataille, “Peut-on parler d’un complexe de Médée?”, in: Angoisse et Divination (1er Congrès
International de Mythologie et Psychothérapie, Paris-Delphes 25-31 Août 1988). Cit. in traduzione in:
Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, Venezia, 2000, Marsilio, p. 11,
nota 17.
(2) Paola Pedrazzini, Medea fra tipo e arche-tipo. La ferita dell’amore fatale nella diagnosi del teatro, (“Lingue e
letterature Carocci”), Roma, 2007, Carocci, pp. 18-19.
(3) Ibid., 19-20.
(4) Ibid., pp. 20-24.
(5) Ibid., p. 29.
(6) Ibid., pp. 29-30.
(7) Ibid., p. 31.
(8) Ibid., pp. 32-33.
(9) Ibid., pp. 35-36.
(10) Ibid., pp. 36-39.

24
Due Medee cinematografiche

Della cinematografia tratta dalla vicenda della Colchica e degli Argonauti sono qui prese in esame due
pellicole d’interessante profilo artistico: Medea di Pier Paolo Pasolini (1969) e Medea di Lars von Trier
(1988).
Alla prima è già stato fatto cenno a p. 16 del presente lavoro, quando abbiamo citato le
considerazioni di Corrado Alvaro: «Medea è la vittima tipica del passaggio di una civiltà quando la
società umana, da primitiva e patriarcale ed eroica, diventa società politica retta da concetti politici». Il
film di P.P. Pasolini comincia con l’educazione di colui che introdurrà la sacerdotessa colchica nella
“società politica”: Giasone. Egli compare ancora ragazzino, affidato al sapiente centauro Chirone
(Laurent Terzieff). È lui a raccontargli la vicenda della sua stirpe e a dirgli del Vello d’Oro. Il regista
stesso fece considerazioni d’interesse psicanalitico sul mitologico precettore: «È un’immagine onirica
relativamente chiara, nella simbolica freudiana: il simbolo del blocco parentale, padre e madre. Il cavallo
raffigura sia il padre che la madre. È il simbolo dell’androgino: della potenza paterna e della maternità
(nel senso in cui viene intesa la coppia madre-figlio, dato che la madre antica porta il bambino sulla
schiena)». (1) Questa figura primordiale, sullo sfondo della laguna di Grado, pronuncia per l’allievo un
discorso che sarà la chiave interpretativa dell’opera: «Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è
niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tientelo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà
naturale, tutto sarà finito –e comincerà qualcos’altro. […] In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano, è
nascosto un Dio!» (2)
Della trasformazione preannunciata da Chirone si ha la prima avvisaglia nel mutamento del centauro
stesso: da creatura ibrida diviene completamente antropomorfo, da sacro diviene profano. Anche le sue
parole cambiano: «Ciò che l’uomo, scoprendo l’agricoltura, ha veduto nei cereali, ciò che ha imparato
da questo rapporto, ciò che ha inteso dall’esempio dei semi che perdono la loro forma sotto terra per
poi rinascere, tutto questo ha rappresentato la lezione definitiva. La resurrezione, mio caro. Ma ora
questa lezione definitiva non serve più. Ciò che tu vedi nei cereali, ciò che intendi dal rinascere dei semi,
è per te senza significato, come un lontano ricordo che non ti riguarda più. Infatti, non c’è nessun Dio».
(3)
Eloquentemente, l’attenzione viene spostata proprio su un rito di morte e resurrezione in un contesto
agricolo: quello celebrato in Colchide, con la principessa Medea (Maria Callas) quale officiante. In
questo modo, il personaggio raccoglie l’eredità di precedenti rappresentazioni: Medea è figlia di re,
sacerdotessa di culti inquietanti, “dea del buon calderone” che smembra in funzione della rinascita. È
apparentabile al “primo” centauro, che vedeva il divino in ogni elemento della natura. Il paesaggio è
arido e assolato. Ambientazioni mediterranee ricorrono in tutto il film, con predilezione (circa gli
esterni) per quelle non europee: la Siria, la Turchia. (Non mancano comunque scorci di paesaggi italiani,
come la già citata laguna di Grado). Anti-eurocentrica è anche la colonna sonora, curata dallo stesso
P.P. Pasolini con la collaborazione di Elsa Morante: brani religiosi antichi dal Giappone, canti e danze
d’amore iraniani. (4) La musica misteriosa e arcaizzante che accompagna gli atti religiosi di Medea è detta
“gregoriana” o “sacra”, in riferimento al mondo magico-sacrale della Colchide. (5) Essa sottolinea la
distanza tra l’universo della donna e quello di Giasone (Giuseppe Gentile). In quest’ultimo, è avvenuta
quella desacralizzazione che Chirone aveva presagito. Gli Argonauti, nella nuova terra, si comportano
da colonizzatori, prendendo disinvoltamente ciò che è a loro utile, anche aggredendo e sottomettendo.
Infrangono la ciclicità di quell’antico mondo. Anche loro sono, però, figure di una dimensione
primigenia. L’Argo è la prima imbarcazione della storia umana e quest’idea è sottolineata dalla sua
semplice forma di zattera. La lira miracolosa di Orfeo è un rudimentale strumento a una sola corda.
Pelia, a Iolco, porta un copricapo la cui forma rimanda alle corna, simbolo di potere nel Vicino Oriente
antico. (6)
La “quercia” su cui, secondo la tradizione letteraria, era custodito il Vello diviene un trespolo all’interno
d’un tempio eretto su un’altura. Le prove da superare per ottenere l’accesso sono, qui, di carattere
purificatorio. In particolar modo, è richiesto il passaggio su carboni ardenti. La presenza del fuoco
ricorda l’origine solare della stirpe di Medea.
La storia d’amore fra lei e il capitano degli Argonauti si svolge in un silenzio misterioso. Nessun
dialogo, se non di sguardi. Non viene inscenato alcun conflitto con Eeta. La prima visione di Giasone
25
da parte della donna è sottolineata dall’interruzione della musica “sacra” che aveva accompagnato la
sacerdotessa fino a quel momento: lei sta già entrando nella dimensione “laica” del greco.
Durante la fuga con gli Argonauti e l’inseguimento da parte dei colchi in armi (che si svolge via terra,
dal momento che solo i compagni di Giasone, in tutta l’umanità, possiedono un’imbarcazione, al
momento), avviene il fratricidio ai danni di Apsirto. Esso è stato preannunciato dal gesto sacrificale che
ha presentato Medea agli spettatori. Le membra del ragazzo vengono sparse lungo il viaggio, in modo
da rallentare Eeta, che si ferma a raccoglierle (cfr. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, I).
L’inconciliabile diversità antropologica tra la sacerdotessa e i navigatori emerge nel momento in cui
questi si accampano sulla terraferma: senza una ritualità religiosa. La donna è sconvolta: «Questo luogo
sprofonderà perché senza sostegno! Aaaah! Non pregate Dio, perché benedica le vostre tende! Non
ripetete il primo atto di Dio… Voi non cercate il centro… non segnate il centro. No! Cercate un albero,
un palo, una pietra!» (7) La reazione degli Argonauti è di irridente superiorità. Segue il vagare disperato di
Medea, alle prese con la distruzione del proprio mondo. «Parlami, terra, fammi sentire la tua voce! Non
ricordo più la tua voce! Parlami, sole! Dov’è il punto dove posso ascoltare la vostra voce? Parlami, terra,
parlami, sole. Forse vi state perdendo per non tornare più? Non sento più quello che dite! Tu erba,
parlami! Tu pietra, parlami! Dov’è il tuo senso, terra? Dove ti ritrovo? Dov’è il legame che ti legava al
sole? Tocco la terra coi piedi e non la riconosco! Guardo il sole con gli occhi e non lo riconosco!» (8)
A ricondurre Medea all’accampamento sarà Giasone. Nell’unione amorosa con lui, la donna –non più
“bestia disorientata”- ritrova la propria umanità e il rapporto sacrale con la realtà. (9) Il Sole che sorge
nella scena successiva rimanda alla ciclicità del perduto mondo della sacerdotessa, oltre a ricordare la
sua parentela con la divinità celeste. Giunto a Iolco, Giasone abbandona il Vello d’Oro ai piedi di Pelia,
con una frase eloquente: «…se vuoi che ti dica quella che secondo me è la verità, questa pelle di
caprone, lontano dal suo paese, non ha più alcun significato.» (10) Esprime un concetto molto
interessante dal punto di vista antropologico: il “sacro”, così come il “magico”, non sono proprietà
intrinseche di un oggetto. Sono conferite a esso dai riti in cui esso è inserito, che sono un linguaggio
legato alla specifica realtà culturale che li ha partoriti. (11) Giasone ha intuito questo e, molto
probabilmente, ha colto anche il significato che il Vello d’Oro aveva per i colchi; ma se ne distanzia con
disprezzo. (12) Anche Medea muta identità etnica, attraverso un atto simbolico: le donne di Corinto
sostituiscono i suoi abiti “stranieri” con quelli tipicamente locali. La protagonista si lascia assimilare,
accettando le conseguenze del proprio sradicamento per amore.
In una scena successiva, girata nella Piazza dei Miracoli a Pisa (13), Giasone ritrova Chirone. Di lui
compaiono simultaneamente le due forme, quella “sacra”, mista, e quella “profana”, antropomorfa.
Davanti al disorientamento dell’allievo, risponde alle sue domande: «GIASONE: È una visione?
CENTAURO: Se lo è, sei tu che la produci. Noi due siamo infatti dentro di te. GIASONE: Ma io ho
conosciuto un solo Centauro. CENTAURO: No! Ne hai conosciuti due: uno sacro, quando eri
bambino, uno sconsacrato, quando sei diventato adulto. Ma ciò che è sacro si conserva accanto alla sua
nuova forma sconsacrata. Ed eccoci qua, uno accanto all’altro!» (14) La duplicazione di Chirone proietta
l’antinomia fra il mondo originario di Medea e quello di Giasone, che vivono l’uno accanto all’altro,
senza annullarsi, ma anche senza potersi conciliare. Emblematico è il fatto che, a parlare, sia solo il
centauro “profano”. A lui appartiene la dimensione verbale, che rende esprimibile il substrato
polimorfo dell’extrarazionalità umana: quella per cui “tutto è santo”, che l’uomo “moderno” e “laico”,
conosce soltanto nell’infanzia. «Esso [il Vecchio Centauro] non parla naturalmente, perché la sua logica
è così diversa dalla nostra che non si potrebbe intendere… Ma posso parlare io per lui. […] Perché
nulla potrebbe impedire al Vecchio Centauro di ispirare dei sentimenti e a me, Nuovo Centauro, di
esprimerli». (15) Questo dualismo potrebbe anche esser metafora del duplice volto della tragedia
euripidea: essa ha, per materia, il mito (suscitato dal “Vecchio Centauro”), ma lo espone in maniera
altamente formalizzata e ragionativa (l’abilità verbale del “Nuovo Centauro”). La “società primitiva”,
come avveniva nelle Eumenidi eschilee, rimane sotto forma di substrato. Quest’ultimo riemerge con vari
aspetti, come quello dell’angoscia esistenziale o della fantasia. (16) Il “Vecchio Centauro” non è privo di
logica, né è portatore di una “inferiore”. La sua logica è semplicemente diversa da quella imposta dal
“mondo civile”.

26
A uno sdoppiamento simile a quello di Chirone va incontro Medea. Ella è sempre più alienata, in una
realtà sociale che le nega anche quella libertà di movimento che aveva in Colchide. Quando Giasone la
abbandona per Glauce, un’ancella la sprona a reagire, ricordandole i poteri di un tempo e la sua fama di
maga. Medea si rende conto, una volta di più, di quanto abbia dimenticato la propria identità. Poi, ha
un’intuizione: «Forse, hai ragione: sono rimasta quella che ero… un vaso pieno di un sapere non mio».
A questo punto, il personaggio si biforca in una “Medea sacra” e una “Medea profana”. La prima
compare come in un sogno, rivestita dei vecchi abiti colchici, e ripete la preghiera euripidea a Zeus, alla
Giustizia e al Sole (Medea, vv. 764ss.). Riesce nuovamente a udire la voce dell’antenato divino, prima
ricercata invano. Sempre secondo la versione di Euripide si svolge il resto della visione, fino alla
distruzione di Glauce e Creonte (Massimo Girotti) per opera dell’abito stregato. Quest’ultimo non
consiste in altro che nei paramenti sacerdotal-principeschi che Medea portava in Colchide. Il contatto
con un oggetto sacro e legato al fuoco distrugge i comuni mortali: quasi un’eco del mito di Semele. (17) I
figli della maga, che recano i doni stregati a Glauce, sono incoronati come vittime sacrificali, il che
preannuncia l’epilogo.
La “Medea profana” viene condannata all’esilio da Creonte, secondo la falsariga euripidea. Qui, però, le
preoccupazioni di quest’ultimo sono inedite. «Non è per odio contro di te, né per sospetto della tua
diversità di barbara, arrivata nella nostra città coi segni di un’altra razza, che ho paura. Ma è per timore
di ciò che può fare mia figlia: che si sente colpevole verso di te e, sapendo il tuo dolore, prova un
dolore che non le dà pace». (18) Come la Nutrice, Glauce è legata a Medea da una solidarietà data dalla
comune condizione femminile. La nuova sposa di Giasone non è più vincente di colei che viene
abbandonata: anche lei subisce decisioni prese da altri. Un’altra nota non euripidea è la riflessione
sull’impossibilità di vedere nel fondo di un’anima, condivisa da Creonte e Medea. (19)
Successivamente, la Colchica ha un ultimo incontro con Giasone. Lui è sprezzantemente sicuro di sé:
«È ora che tu ti convinca infine, chiaramente, che io devo soltanto a me stesso la buona riuscita delle
mie imprese. Anche se tu non vorrai mai riconoscere che, se hai fatto qualcosa per me, lo hai fatto solo
per amore del mio corpo». (20) Quella dimensione del “corpo” aveva permesso a Medea di recuperare il
senso della sacralità. L’amplesso con l’uomo l’aveva introdotta nel “nuovo mondo”; allo stesso modo,
attraverso il corpo di lui, si congeda da esso. (21)
Si ripete la scena dell’invio dei doni a Glauce. Stavolta, essi non sono più terribili oggetti sacri. La morte
della principessa corinzia è causata da quel senso di colpa di cui parlava suo padre, che la consuma
come il fuoco della visione precedente. Creonte si suicida sul corpo della figlia. La “razionalizzazione”
dell’episodio sottolinea come rimanga impossibile, da parte di Medea, un vero recupero della
dimensione magico-religiosa.
L’infanticidio finale è preparato da affettuosi “riti della buonanotte”, che mostrano la donna,
paradossalmente, come madre-modello, proprio mentre si appresta a uccidere i figli. Il suo gesto sarà,
pertanto, straziantemente enigmatico. È muta, mentre lo medita. Le ragioni sono tutte dentro di lei.
Non è neppure possibile con certezza identificarle con quelle tradizionali. Il bagno che somministra ai
bambini può ricordare la preparazione della vittima prima del sacrificio umano presentato poco dopo
l’inizio del film. La (parzialmente) ritrovata identità sacerdotale di Medea sarà sottolineata dal ritorno
della musica “gregoriana” che l’aveva caratterizzata in Colchide. La donna riaccende il focolare,
ricordando, attraverso il fuoco, la propria parentela col Sole. La scena finale riprende Seneca e
Hoffmann, oltre a Euripide: il palazzo reale è in fiamme e Medea è elevata al di sopra di Giasone, coi
cadaveri dei figli. La figura della donna è circondata dalle fiamme. Esse possono stare a significare il
carro del Sole, in una raffigurazione semplice ma potente, o un rogo funebre su cui lei si autoimmola
con le piccole salme. Viene sancita l’inconsolabilità di Giasone, ma anche quella di Medea, che si
dichiara pronta a soffrire, pur di colpirlo. Il fuoco concretizza la loro separazione ormai incolmabile. Il
film si chiude su una dichiarazione della donna: «Niente è più possibile, ormai!» In quel “niente”, si
possono leggere molte cose: il ritorno all’antico mondo magico-sacrale, l’amore, la comunicazione fra
due universi antropologici, la dolcezza dell’affetto filiale. O la rinascita che, un tempo, il sacrificio
umano garantiva a tutta la natura. Il sangue sparso a Corinto non dà vita al seme e non redime nessuno.
Per la prima volta, Medea sperimenta una concezione annullante della morte.

27
Attraverso il linguaggio filmico, P.P. Pasolini può dare espressione al suo amore per le “cose”,
per quegli esseri concreti, soprattutto naturali, che nasconderebbero un dio ciascuno. Le parole,
perlopiù, tacciono; parlano i gesti intensi, i colori, gli oggetti. La realtà è rappresentata in modo onirico,
“irregolare”, perfino aggressivo e quasi feticistico. Le possibilità espressive delle tecniche
cinematografiche vengono liberate. In questo senso, il cinema pasoliniano è intensamente “poetico”.
L’anti-naturalismo di questo stile esemplifica quanto diceva Chirone al piccolo Giasone: non c’è nulla
che non sia miracoloso, straordinario. (22)
Anche la scelta di Maria Callas come interprete di Medea è tutt’altro che oziosa. La sua fisionomia era
capace di espressioni intensissime, non levigate. Anche la sua biografia era simile a quella del
personaggio: proveniente da un mondo contadino, si trapiantò in una realtà borghese e sperimentò
l’abbandono del marito. In funzione di lei, P.P. Pasolini scrisse la sceneggiatura. (23) Del resto, il soprano
aveva già interpretato l’eroina euripidea nelle riproposizioni della Medea di L. Cherubini (24) e aveva
ricevuto la proposta di recitare in quel ruolo nella pellicola preparata da Carl Th. Dreyer. (25) Il suo
rifiuto condizionò, almeno in parte, il futuro del progetto: non finanziato, fu abbandonato. (26) Quando
Lars von Trier riprenderà la sceneggiatura di Dreyer, il risultato sarà radicalmente diverso da quello
pensato originariamente. Di questo tratterà il prossimo paragrafo.

Medea (1988) appartiene a una fase “citazionista” della produzione del danese Lars von Trier, in
cui egli ama giocare dichiaratamente coi modelli del passato. (27) La sua pellicola sulla donna della
Colchide fa riferimento contemporaneamente a Euripide e all’inedita sceneggiatura di Carl Th. Dreyer,
di cui abbiamo detto. È un omaggio dichiarato a quest’ultimo, ma non una ripresa pedissequa del suo
progetto. Il film di C. Th. Dreyer sarebbe stato una sorta di “rappresentazione teatrale filmata”, con
tanto di parodo, coro di donne corinzie ed esodo, come nel modello antico. (28) L’atmosfera sarebbe
stata mediterranea e senza tempo; la scena d’apertura avrebbe dovuto svolgersi in un anfiteatro.
L’abitazione di Medea sarebbe stata una sorta di castello vichingo. (29) L’infanticidio sarebbe stato il più
edulcorato possibile: la madre avrebbe somministrato una “medicina” (un veleno) ai bambini, per poi
cullarli nel sonno fatale. (30) Di C. Th. Dreyer, L. von Trier riprende il sostanziale rispetto delle unità
aristoteliche, la presenza di un prologo, la tendenza alla sintesi. Ma elimina il coro e muta
l’ambientazione: non più una solare Grecia, ma il mare e le piane paludose della Danimarca.
Soprattutto, cambia la scena dell’infanticidio: esso diventa un’impiccagione. Inoltre, il più grande dei
due bambini è consapevole di ciò che sta succedendo e aiuta la madre. Vi si potrebbe leggere un’eco de
La passion de Jeanne d’Arc (“La passione di Giovanna d’Arco”), girato da C. Th. Dreyer: quando la
protagonista sta per essere legata al palo, la corda cade; lei la raccoglie e la porge al boia. (31)
L’infanticidio, dunque, sarebbe anche un consapevole martirio da parte di un figlio, che firmerebbe così
la condanna a carico del padre. (32)
La trama è notevolmente fedele a quella euripidea. Originali, come abbiamo già in parte accennato,
sono le scelte di regia. Innanzitutto, per il ruolo della protagonista, viene scelta l’attrice Kirsten Olesen:
sotto il profilo fisionomico, è l’opposto di Maria Callas. La sua è una Medea glaciale ed eterea. Del
personaggio viene sottolineato il rapporto quasi simbiotico col mare. Nella prima scena, ella cerca la
morte facendosi sommergere dall’alta marea. Gli spasmi delle sue mani denotano l’intenso tormento; la
sua posizione e il vortice impresso alla figura intera rimandano a una ruota di tortura. (33) Egeo, re di
Atene, giunge a bordo di una nave, a prometterle rifugio presso la propria corte (avrà un ruolo di deus ex
machina, nella fuga dell’infanticida da Corinto). Sempre via mare se ne andrà Medea, alla conclusione del
film. La Colchica, in questa versione, è marinaia, come marinai erano stati gli antichi danesi: c’è una
tensione verso le origini, verso il passato su cui si fonda la coscienza dell’oggi. (34) Al suo mondo si
contrappone la terraferma a cui si è volto Giasone (Udo Kier). L’Argo è definitivamente ormeggiata;
per propria stessa dichiarazione, l’eroe si appresta a guidare ben altra nave: quella dello Stato. Nel
discorso d’investitura davanti al re Creonte (Henning Jesen), si definisce “nocchiero” e chiama
“equipaggio” cortigiani e funzionari. La sua è, dunque, un’idea non assolutistica del potere. Intende
riprodurre il rapporto di collaborazione che vigeva fra gli Argonauti, fra i quali lui era un primus inter
pares. Tuttavia, l’autonomia ideologica di Giasone, nella versione di L. von Trier, è nettamente ridotta,
rispetto a quanto avveniva nella sceneggiatura di C. Th. Dreyer. (35) Qui, il giovane rimane,
28
sostanzialmente, una creatura del re corinzio. A sottolineare il suo atteggiamento di pedissequa fedeltà,
gli sono affiancati due cani. Ripetute carrellate di primi e primissimi piani dei dignitari corinzi in
atteggiamento giudicante citano un’altra scena de La passion de Jeanne d’Arc, quella del processo per
stregoneria ed eresia. (36) Del palazzo reale si vedono, qui, i cupi sotterranei, quasi un’anticipazione di
quelli che descriverà Christa Wolf. La scelta del successore e l’annuncio del suo fidanzamento con la
principessa si svolgono in un clima di cospirazione e segreto, più che di cerimonia. Più ancora: si
ripropone la costante poetica di L. von Trier, il mondo equiparato a un inferno. (37)
Glauce (Ludmilla Glinska) è un’adolescente spensierata e civettuola, a tratti capricciosa (si fa attendere
dai cortigiani, ricatta sessualmente lo sposo novello). Fino alla fine, rimane estranea al dramma che si
svolge attorno a lei, divenendone inconsapevole vittima.
Giasone sembra non godere frutti del proprio tradimento ai danni di Medea. Esso l’ha liberato da un
legame scomodo, ma solo per gettarlo in una pania più insidiosa. Ben presto, diviene evidente la sua
sudditanza non solo nei confronti di Creonte, ma anche in quelli di Glauce, che gli impone di
allontanare la rivale da Corinto. Non ne ha paura: è capricciosamente gelosa. Lo sposo è costretto a
trascorrere da solo la prima notte di nozze, per ricatto di lei. Le sue inquietudini sono incarnate dalle
ombre proiettate sulla tenda ove la coppia è appartata. Il profilo di Glauce e i due cani assumono
proporzioni enormi, spettrali. L’attesa notte d’amore si rivela notte di incubi.
Il mattino dopo, Creonte si reca da Medea, per condannarla all’esilio. Lei va in cerca di erbe in una
palude; lui si presenta superbo, su una portantina. Ma, in mezzo alla nebbia e agli acquitrini, è costretto
a scendere, instaurando un “dialogo fra pari”. Le due figure, velate dalla foschia, diventano
fantasmatiche. La ricerca di erbe (che si riveleranno velenose) ha avuto inizio all’annuncio dell’arrivo del
re: Medea ha ormai presagito quale sarà la sua sorte e ha già delineato la vendetta. Come nella prima
notte di nozze di Giasone, la sensazione di unheimlich, di “inquietante”, è ottenuta con artifici
semplicissimi (là le ombre, qui la nebbia). Anche l’ambiente palustre conferisce un’atmosfera spettrale.
Ogni cosa sembra morta e/o marcescente. Le inquadrature oblique dal basso verso l’alto, i primi piani
della protagonista senza sfondi definiti, la scenografia stilizzata sono, ancora una volta, un omaggio al
C. Th. Dreyer de La passion de Jeanne d’Arc. (38)
Come in Euripide, l’eroina ottiene un giorno di dilazione e lo impiega per portare a effetto la propria
vendetta. Lo strumento di essa, come in P.P. Pasolini, è altamente simbolico: la sua corona nuziale.
Colpirà la rivale con ciò che ricorda il primo matrimonio di Giasone. Si aggiunga che la corona in
questione è simile a quella della Giovanna d’Arco di C. Th. Dreyer. (39) Come lei, Medea è una “strega”
da sacrificare sull’altare del potere politico.
Il veleno confezionato con le erbe di palude viene accuratamente spalmato sui puntali della corona, che,
più che un ornamento, sembra un sinistro strumento di tortura. La sua valenza funesta viene
sottolineata da due scene: uno dei (condannati) bambini di Medea, innocentemente, estrae la corona
avvelenata dalla custodia e la esamina; un cavallo punto accidentalmente da detto oggetto si lancia in
una corsa disperata, spinto dal bruciore del veleno. I momenti d’agonia dell’animale fanno da
contrappunto alle scene in cui Glauce gioca compiaciuta con il dono, fino a pungersi un dito, come la
principessa della nota fiaba. Ai funerali suoi e del padre, altra vittima della corona, Giasone reagirà con
una scandalosa assenza: altro segno della sua debolezza di anti-eroe malinconico. In scene precedenti,
come in Euripide, ha raggiunto la sposa abbandonata, per giustificare la propria scelta. Non c’è stato,
però, alcun insulto, nella discussione. L’agonismo fra i due e le loro opposte idee di “giustizia” era
espresso dagli strattoni scambiati per mano da un lato all’altro di un telaio, esile, ma altamente
emblematico diaframma. Il confronto è stato anche fra le loro speculari superbie: quella di lei è stata la
sua rovina, quella di lui la sua fortuna (ma solo in apparenza). Medea ha affermato d’aver cullato la
vanità dell’uomo con la propria fragilità e ha denunciato la sua incapacità di prendersi le proprie
responsabilità: «Ora, deve sembrare che sia io ad abbandonare te». A vincere emotivamente, in ogni
caso, era la donna: impassibile, ha rivolto sinistre felicitazioni al fedifrago. Successivamente, si è avuta
l’illusione d’un riavvicinamento della coppia. Sulla riva di quel mare che li ha fatti incontrare, Medea ha
preannunciato l’amplesso con un gesto tipico delle antiche iconografie vascolari (svelarsi il capo) e, per
poco, i due sono tornati all’antica concordia. L’incanto, però, è stato rotto bruscamente dallo schiaffo e
dall’insulto di Giasone. La donna è caduta, ma per l’ultima volta. Specchiandosi nell’acqua, ha
29
confessato all’innamorato d’un tempo: «Quando mi guardo, riesco a capirti». La posizione di “bassezza”
in cui lei si trova a Corinto non può soddisfare l’ambizione dell’ex-eroe.
Mentre medita l’infanticidio, Medea riprende i discorsi euripidei sulla necessità di prole per un uomo e
sulle ormai vane speranze d’una vecchiaia assistita dai figli. Per condurli sul luogo dell’impiccagione, li
trascina, ponendosi al collo una sorta di giogo. Il peso della sua azione, da metaforico, si fa così reale.
Dopo aver consumato l’infanticidio, Medea indugia con lo sguardo sul ginocchio sbucciato del bimbo
più piccolo. Poche ore prima, l’aveva curato, pur sapendo che quella premura sarebbe stata inutile. Il
piano dei sentimenti è, in qualche modo, svincolato da quello della progettualità. Le intenzioni
infanticide non riescono a cancellare l’istinto materno della donna. Il dolore dei piccoli morenti si vede
nel riflesso sul suo volto.
Mentre si trova sulla nave di Egeo, pronta a fuggire da Corinto, Medea si libera i capelli dalla cuffia nera
che li ha avvolti fino a quel momento, quasi a scrollarsi di dosso i ricordi penosi che lascia in quella
terra. L’ultima scena mostra Giasone vagante senza meta, dopo la perdita di tutta la famiglia. Si distende
come Medea aveva fatto nella prima scena, simbolicamente morto. La sua immagine viene coperta, in
sovraimpressione, dalle onde: quelle su cui l’infanticida sta fuggendo, quelle da cui lei ha potuto
risorgere, al contrario dell’uomo.

30
Note a Due Medee cinematografiche

(1) Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, 1999,
Mondadori, p. 1506. Cit. a p. 39 della tesi di laurea in Storia del teatro classico di Chiara Selvaggini –
Matricola 258, Università degli studi della Tuscia, Facoltà di Lingue e letterature straniere moderne,
corso di laurea in Lettere moderne, indirizzo Stampa-Editoria, A.A. 2005/2006. Titolo: La Medea di
Pasolini in rapporto al modello euripideo. Relatore: dott.ssa Grazia Sommariva; correlatore: prof. Luigi
Martellini.
(2) Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano, 2006 (1991 1), Garzanti, p. 544. Cit.
a p. 39 della tesi di laurea…, op. cit.
(3) Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo…, pp. 545-546. Cit. a p. 40 della tesi di laurea…, op. cit.
(4) Medea – Il cinema di Pier Paolo Pasolini – Pagine corsare, http://www.pasolini.net/cinema_medea.htm ,
pagina 4 di 4.
(5) Ibid., nota 61 a p. 45.
(6) Cfr. Elias Joseph Bickerman, “Daniel or The Fulfilled Prophecy”, in: Four Strange Books of the Bible, New
York, 1967, Schocken Books.
(7) Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo…, pp. 548-549. Cit. a p. 47 della tesi di laurea…, op. cit.
(8) Ibid.
(9) Cfr. Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo…, p. 507. Cit. a p. 48 della tesi di laurea…, op. cit.
(10) Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo…, p. 549. Cit. a p. 50 della tesi di laurea…, op. cit.
(11) Queste considerazioni furono espresse anche dal prof. Maurizio Bettini (Università di Siena), durante il
corso Antropologia del mondo antico, tenuto per la classe di Scienze Umane della Scuola Superiore IUSS di
Pavia, nel I semestre dell’A.A. 2010/2011.
(12) Cfr. p. 50 della tesi di laurea…, op. cit.
(13) Ibid.
(14) Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo…, p. 550. Cit. a p. 51 della tesi di laurea…, op. cit.
(15) Pier Paolo Pasolini, Medea (1969), Scena 69, cit. in: Giorgio Ieranò, “Tre Medee del Novecento: Alvaro,
Pasolini, Wolf”, in: Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di Bruno Gentili e Franca Perusino, Venezia,
2000, Marsilio, p.187.
(16) Cfr. Giorgio Ieranò, op. cit., p. 186-187.
(17) Semele, madre di Dioniso, volle a tutti i costi incontrare l’amante Zeus nel suo autentico aspetto. Il
contatto diretto con la divinità la incenerì. Vedasi: Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia. Il racconto del
mito, la nascita della civiltà, (“Tascabili. Saggi”), Milano, 2009, Il Saggiatore, pp. 213-214).
(18) Pier Paolo Pasolini, Medea (1969), Scena 66, cit. in: Giorgio Ieranò, op. cit., p. 184.
(19) Ibid.
(20) Pier Paolo Pasolini, Medea (1969), Scena 79, cit. in: Giorgio Ieranò, op. cit., p. 184.
(21) Cfr. Giorgio Ieranò, op. cit., p. 186.
(22) Cfr. ibid., pp. 182-183.
(23) Cfr. Medea – Il cinema di Pier Paolo Pasolini – Pagine corsare, http://www.pasolini.net/cinema_medea.htm, p.
3 di 4.
(24) Ibid.
(25) Margherita Rubino, “Medea di Lars von Trier”, in: Medea contemporanea, a cura di M. Rubino, Genova,
2000, Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., N.S., n. 192, p. 33.
(26) Ibid., (vedasi anche la nota 9).
(27) Ibid., pp. 36- 37.
(28) Ibid., p. 33.
(29) Cfr. Lars von Trier – Il cinema come dogma. Conversazioni con Stieg Björkman, Piccola Biblioteca Oscar
Mondadori, Milano, 2001, pp. 114-121.
(30) Margherita Rubino, op. cit., pp. 33-34.
(31) Gabrielle Lucantonio, Presentazione di: Lars Von Trier, Medea (1988), RaroVideo, Gianluca & Stefano
Curti Editori.
(32) Cfr. Flavio De Bernardinis, “La donna del mare”, in «Segnocinema» n. 71, gennaio-febbraio 1995.
(33) Cfr. Margherita Rubino, op. cit., p. 67.
(34) Cfr. Flavio De Bernardinis, op. cit.
(35) Margherita Rubino, op. cit., 69.
(36) Ibid.
(37) Ibid.
31
(38) Margherita Rubino, op. cit., p. 71.
(39) Ibid., p. 73.

32
Un racconto: Giasone a Corinto

Questo racconto è stato composto per il concorso letterario Donne in pagina, bandito dall’Assessorato alla Cultura e Pari
Opportuntà del Comune di Leno (BS), V edizione, sul tema: “L’uomo non si accorge che le difficoltà di essere donna sono anche le
sue difficoltà di essere uomo, di non vergognarsi dei suoi sentimenti, di poter vivere senza sentirsi fallito anche le proprie fragilità. La
donna e l’uomo sono fatti per incontrarsi, per comprendersi, per accettarsi, per rispettarsi, perché solo così la libertà dell’uno diventa
anche la libertà dell’altro.” (Da: Atiq Rahim, Pietra di pazienza, Einaudi).

ὺ ᾽ ὐ ἔ ἄ ᾽ἀ α
π ὸ ἐ ῶ ἐ ὶ
ὐ ᾽ἡ α , ὐ ᾽ὅ π ὶ υ
Κ ἀ α ὶ ῆ ᾽ἐ α ῖ .
π ὸ αῦ α αὶ α α , ἰ ῃ,
αὶ α ἣ υ ὸ ᾤ π α :
ῆ ῆ ὰ ὡ ῆ α α ἀ .

Tu, dopo aver disonorato il mio letto, non dovevi condurre una vita piacevole, deridendomi, né senza subir danno la tua
sposa regale, né colui che a te assegnò le nozze, Creonte, poteva cacciarmi da questa terra. Perciò chiamami pure leonessa,
se vuoi, e Scilla che abitò il suolo tirrenio. Al tuo cuore ho inflitto il dovuto contraccambio.

EURIPIDE, Medea, vv. 1354 - 1360

L'Argo posava il ventre curvo su un lembo mormorante di mare. La sua prua, come un collo di cigno,
levava al cielo nero una testa femminile, scolpita nel legno di quercia. A Giasone parve che facesse
cenni. Ma la figura rimase muta. Egli si chiese se davvero, un tempo, l'avesse sentita profetare, con la
bocca modellata da dita divine. Il lieve dondolio della prua gettava echi nella sua memoria fioca.
Alle sue spalle, lo sguardo poteva correre lungo la grande via del porto Lecheo, che lo riportava al lago
di buio in cui Corinto era immersa. La città saliva su due terrazze; in fondo, si adagiava il corpo delle
colline.
Sull’Acrocorinto, una sagoma si stagliava più greve, come un gigante spento: la rocca del re Creonte.
Giasone si voltò nuovamente verso il mare. Una sorta di vertigine l’aveva preso, come se si fosse aperto
un vuoto nel suo petto. L’acqua immensa continuava a sussurrare incanti e la volta del cielo si arcuava
come ciglia nere. Medea.
Alla corte della Colchide gli era parsa luminosa e terribile, come il Sole che le aveva dato il sangue. Si
era chiesto se fosse realmente una donna, come quelle di Tessaglia, miti ed umbratili. Per lui - un Greco
- quella maga devota di Ecate, ugualmente generosa di vita e di morte, era una straniera - uno splendido
mostro. Ella l’aveva fissato e, per un attimo, gli era sembrato che dal carbone dei suoi occhi baluginasse
fuoco.
Quel bagliore si era velato, quando Medea aveva toccato il suolo di Iolco. Ella aveva guardato Giasone
e questi le aveva risposto con un altro sguardo muto. Non si parlavano spesso, da quando ella gli aveva
spiegato come sottrarre al re suo padre il vello dorato dell’ariete di Era.
A Giasone, quella di Medea era parsa un’occhiata di timore. Il corpo di lei si ritraeva, come a difendersi
dall’aria estranea, e si stringeva al suo, sicuro, conosciuto. Eppure, anche nell’insicurezza, la fronte di
Medea restava alta e minacciosa come marmo. Dietro di essa, aveva poi saputo Giasone, si addensava
già l’uccisione fraudolenta di Pelia, l’usurpatore del trono di Iolco. Giasone ricordò il misto di trionfo e
d’orrore davanti alla fine dell’avversario, quando la sposa straniera gli aveva annunciato che era libero di
divenire re, come gli spettava. L’aveva stretta con un’attrazione ostile, immergendosi nella gratitudine
che le doveva per essersi insanguinata le mani al posto suo. Medea, da parte sua, non sembrava
mostrare orrore o rimorso. Come le fiere in natura, era sempre innocente. Di questo, egli si sentiva
incapace. Non sapeva far pace con l’ombra, con la magia ed il sangue che fermentano nel ventre.
Quando Acasto, figlio di Pelia, aveva cercato di vendicare il padre, erano fuggiti da Corinto. Proprio
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allora, in quel ventre terribile di Medea, era germogliato un altro frutto: i loro figli, due gemelli. Giasone
aveva sentito ancora più lontana la sposa, come fosse stata sollevata in un’aria che non gli apparteneva.
Si era ripetuto che quel seme era suo, che i figli erano l’impronta di lui nelle carni della donna, ma ciò
non aveva strappato Medea dall’isolamento in quel nuovo incantesimo.
Non era stata, dunque, solo ambizione quella che l’aveva spinto verso la principessa Glauce. Aveva
accettato la sua mano con un sordo sollievo, quando il re Creonte, suo padre, gliela aveva offerta.
Glauce era fine, una fragile miniatura; il suo silenzio era tinto di rossore ed il lume degli occhi si
smorzava a terra. Qualcosa, dentro Giasone, aveva riconosciuto il lei una donna.
Ma non aveva spiegato questo a Medea, quando le aveva confessato il fidanzamento. Forse, l’aveva
intuito ella, nella sua furia. Gli aveva gridato che era un traditore, un ingrato; i bambini non erano nella
stanza, ma a Giasone era parso che si nascondessero presso la soglia.
Era stato quello il momento in cui si era reso conto d’avere un potere su di lei. Le aveva detto che
aveva agito da buon padre; che, sposando Glauce, avrebbe assicurato un parentado regale ai figli. Aveva
aggiunto che una donna, come lei, poteva vedere solo l’interesse della propria casa e del proprio letto,
mentre egli aveva capito quale fosse la migliore occasione, per loro che erano esuli. Certo, ella avrebbe
dovuto andarsene da Corinto - Creonte non voleva rischi - ma era stata fortunata a cavarsela in questo
modo. “Se hai bisogno di qualcosa per te e per i bambini, chiedilo a me” aveva concluso.
Il volto di Medea, alle sue parole, s’era fatto di marmo. Le pupille, come aghi roventi, penetravano nel
petto di Giasone, strappando dal suo interno le ipocrisie e le doppiezze che vi aveva raccolto. Se n’era
andato dalla sua casa, conservando l’apparenza della ragione. “Sei stata tu a rifiutare il mio aiuto” si
ripeteva, a denti stretti.
Una maschera di soddisfazione aveva coperto il suo cuore anche quando Medea gli aveva inviato i figli,
con abiti preziosi per la sposa. Forse, aveva veramente creduto che ella avesse ceduto alla sua violenza.
Il mare latrò presso l’Argo.
Giasone rivide Glauce, splendida nell’abito incantato
-finché questo non aveva cominciato a corroderle le carni. Le sue nozze erano sfociate in una chimera
di urla, su cui danzavano le fiamme stregate scaturite dal diadema di lei.
Ora, era solo a vivere nella rocca oscura di Creonte. Talvolta, gli faceva compagnia il pensiero dei
bambini -dei loro corpi, adagiati sul carro del Sole, su cui anche Medea era svanita, come un sogno di
fuoco.
Non riusciva a pensare che sarebbe potuta andare diversamente. La sua logica era la forza e forza era
stata quella che l’aveva guidato. Che gli aveva fatto ripudiare Medea ed aveva suggerito a questa
l’infanticidio.
Mosse un passo verso l’ombra imponente dell’Argo. Nella Colchide, ella aveva avuto gli occhi lucidi per
lui. In Grecia, tutto era divenuto più difficile. Perché egli era un uomo e Medea non era -forse- una donna.
Aveva usato la propria forza su di lei e si era distrutto. Ebbene, fosse.
Udì un sordo scricchiolio. E la divina polena dell’Argo si abbatté sul suo capo.

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http://www.treccani.it/enciclopedia/medea_(Enciclopedia-Italiana)/

Filmografia

Medea
1969, Italia, 110’ 28’’, colore
Da: Medea di Euripide
Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Ennio Guarnieri. Scenografo arredatore: Dante
Ferretti. Architetto: Nicola Tamburro. Costumi: Piero Tosi. Commento musicale: Pier Paolo Pasolini
con la collaborazione di Elsa Morante. Montaggio: Nino Baragli. Collaborazione alla regia: Sergio Citti.
Assistente alla regia: Carlo Carunchio. Interpreti e personaggi: Maria Callas (Medea), Laurent Terzieff (il
Centauro), Massimo Girotti (Creonte), Giuseppe Gentile (Giasone). E inoltre: Margareth Clementi,
Sergio Tramonti, Anna Maria Chio. Produzione: San Marco S.p.A. (Roma), Le Films Number One
(Parigi) e Janus Film und Fernsehen (Francoforte). Produttori: Franco Rossellini, Marina Cicogna.
Produttori associati: Pierre Kalfon, Klaus Helwig. Pellicola: Kodak Eastmancolor formato 35 mm.
Macchina da ripresa: Arriflex. Sviluppo e stampa: Technostampa. Sincronizzazione: NIS Film.
Distribuzione: Euro International Films. Riprese: maggio-agosto 1969. Teatri di posa: Cinecittà.
Esterni: Turchia, Siria. Interni: Aleppo (Siria), Pisa, Marechiaro di Anzio, Laguna di Grado, dintorni di
Viterbo.

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Medea
1988, Danimarca, 76’, colore
Regia: Lars von Trier. Sceneggiatura: Lars von Trier, da un originale di Carl Th. Dreyer e Preben
Thomsen. Fotografia: Angel Luis Fernández. Operatore: Sejr Brockmann. Scenografia: Ves Harper.
Costumi: Annelise Bailey. Montaggio: Finnur Sveinsson. Trucco: Birgit Mortensen, Lis Olsson. Effetti
speciali: Søren Buus. Musica: Joachim Holbeck. Produzione: Bo Leck Fisher/Danmarks Radio.
Interpreti e personaggi: Kirsten Olesen (Medea), Udo Kier (Giasone), Ludmilla Glinska (Glauce),
Henning Jesen (Creonte), Baard Owe (Egeo), Solbjørg Højfeldt (Nutrice), Preben Lendorff Rye
(Pedagogo), Johnny Kilde, Richard Kilde (i figli di Medea e Giasone), Dick Kaysø (voce di Giasone),
Mette Munk Plum (voce di Glauce). Premio Internazionale Jean D’Arcy per il Migliore Film Televisivo
(1988).
Nel presente lavoro, è stato fatto riferimento anche al booklet curato da Gabrielle Lucantonio per
presentare il DVD edito da Gianluca & Stefano Curti Editori, RaroVideo.

Indice
Tavola illustrata……………………………………………………………………………………...p.3
Descrizione della tavola……………………………………………………………………………...p.4
Introduzione: chi è Medea?.................................................................................................................................p.5
Medea all’Opera……………………………………………………………………………………..p.9
A confronto con Euripide e Seneca……………………………………………………………........p.12
Medea nel Novecento……………………………………………………………………………....p.16
Tra i fantasmi della psiche …………………………………………………………………………p.22
Due Medee cinematografiche ……………………………………………………………………...p.25
Un racconto: Giasone a Corinto …………………………………………………………………........p.33
Bibliografia ………………………………………………………………………………………...p.35
Sitografia …………………………………………………………………………………………..p.36
Filmografia ………………………………………………………………………………………...p.36

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