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BIBLIOTHECA SARDA

N. 100

Salvatore Cambosu

MIELE AMARO
a cura di Bruno Rombi

In copertina: Maria Lai, Senza titolo (1954)

INDICE

9 Prefazione 29 Nota bio-bibliografica MIELE AMARO 37 39 62 73 77 85 87 90 93 96 99 100 112 116 119 120 123 125 128 131 134 136 137 140 143 Miele amaro Dal Vecchio al Nuovo Testamento Le parole di Antioco Mezzadria Di luna in luna Le case sulle alture Nasce il fuoco col cavallo Tempo romano Larchitrave bizantino in Porto Torres Il re pastore Tempo nuovo Alla ricerca di titoli di nobilt La vita e lufficio di S. Giorgio Vescovo di Barbagia Lospite moro Una Chiesa e un Monastero Castelli medioevali Il cervo in ascolto Cuore mio Verbos o carmi incantatorii Il racconto del domatore Nascita, vita e morte dun armento La vecchia che piange Carnevale a Mamoiada La sposa alla finestra Racconto di Potenzia Moro Racconto di Bonaventura Mameli

Riedizione dellopera: Miele amaro, Firenze, Vallecchi, 1954.

Cambosu, Salvatore Miele amaro / Salvatore Cambosu ; a cura di Bruno Rombi. Nuoro : Ilisso, c2004. 407 p. : ill. ; 18 cm. (Bibliotheca sarda ; 100) Sardegna Usi e costumi I. Rombi, Bruno 390.009459
Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro

Copyright 2004 ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 88-87825-97-1

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Il pescatore solitario Pensare a settembre Sfoghi del povero Il cavaliere della fame Da che dipender? Il veterano crucciato Arma di Sardegna La Brigata Sassari Corvetto e le rondini Notte dei risuscitati Festa del dolore Il pianto di Nostra Signora Pianto della Madonna e consolazione Triste giorno Mi mancato il sole In morte di Gisella Il tappeto del Cristo Un battesimo Del misterioso bambino e altri indovinelli La ballata di Tonara Un celebre processo Poesie natalizie liete e tristi Nascere, soffrire, morire Elegie del tempo perduto Canto della Trexenta Inno algherese Ricordo di Cosima Uccelli che volate A cavallo del toro Lisola del toro Ritorno di Florida

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Lultima impresa La vergine Silvestra La madre dellucciso Rais e demoni Il gregge risuscitato La piccola storia di Vincenzo Abeltino Per diventare poeta Canti del cuculo Stefano Beritta commemora suo padre Desiderio di ritorno La morte nel frutteto Festa nella vigna Una commedia a soggetto Canti della pioggia La capretta Pastori del monte Lamuleto nero Canti per i bambini Altri canti Il lamento del principale Parla il ricco (per modo di dire) Poeti del Novecento La favola di Rosa Tracca La tanca 1848: anno dei portenti Sette picchi al portone Il trenino se ne va Nota cronologica degli avvenimenti principali Nota bibliografica Periodici e riviste Indice di nomi e delle cose pi notevoli

PREFAZIONE

Come un bastimento carico di spezie e di fiabe, dessenze e di storia, di immagini preziose e di racconti, di miele e di poesia,1 questo libro di Salvatore Cambosu, staccatosi dallIsola nel 1954 per affrontare lavventuroso viaggio di tutti i messaggi in codice, continua a navigare ancor oggi negli oceani delle ipotesi interpretative sulla natura e sul valore del suo carico, sullo scopo e la meta del suo viaggio. Ci che gli consente ancor oggi di non andare a fondo, n di arenarsi, la prerogativa essenziale di tutti i natanti che vogliano andare lontano, ossia la saldezza dello scafo, la capacit di resistere a lungo a forze avverse alla navigazione. E ci perch Cambosu, prima di varare il suo bastimento, si era ben assicurato dellequilibrio del carico, essendo esso costituito da materiali diversi per natura intrinseca, peso specifico, vivacit ed equilibrio statico. A ordinarne linsieme sembra abbia provveduto con un intento un po criptico, quasi che volesse indurre tutti coloro che, marinai o passeggeri, salissero sul suo bastimento a collaborare con lui perch il viaggio fosse il pi sicuro possibile e la meta pi rapidamente raggiungibile. I marinai che dovevano condurre la nave in porto non potevano essere che i Sardi, i quali, proprio perch convocati per sostenere un ambizioso progetto, dovevano diventare altri, farsi artefici di nuovi destini, puntando su rotte diverse, sostenuti da un portolano che faceva tesoro dogni esperienza pregressa, in vista di una meta da loro non ancora bene individuata, ma che si prospettava come la promessa di un anno nuovo.
1. G. Pinna, Un bastimento carico di miele e di poesia, in La Nuova Sardegna, 2 gennaio 1955; ora in Lo scrittore nascosto. Il meglio di Salvatore Cambosu, a cura di M. Bua e G. Mameli, Cagliari, Della Torre, 1984, p. 264.

Prefazione

Intanto, te lho gi detto, lanno dellanima sta per cominciare. Interroga la tua coscienza e promettiti di essere migliore (p. 68). Nellofferta vera un gusto un po chiuso: come di colloquio interno, di chi parla a gente che sa e che intende,2 perch i diretti interessati allavventura dovevano essere i Sardi, ma anche un non segreto desiderio che il libro potesse diventare la migliore guida della Sardegna sia per i sardi che per i non sardi, come scrisse Margherita Guidacci.3 Da uomo di cultura impegnato qual era, Cambosu era ben cosciente dellallora incontrollabile metamorfosi socio-antropologica in atto, e nellIsola, e fuori di essa, perch come ha scritto Manlio Brigaglia quando usciva Miele amaro, vecchio e nuovo, passato e presente non erano soltanto i termini duna coppia oppositiva temporale. Sul vecchio e sul nuovo, sulla scelta fra il passato e il presente si giocava quella che si chiamava allora la rinascita della Sardegna: lidea, la speranza, la strategia per un rinnovamento globale dellisola e della sua gente. A chi militava nel campo del nuovo (che voleva dire lopzione radicale per lo sviluppo e per quello che pareva allora il suo omologo, il progresso) ogni operazione che in qualche misura richiamasse il passato pareva riconvocare intorno al tavolo in cui si stavano per giocare i destini duna Sardegna nuova i fantasmi duna immobilit, duna arcaicit come si diceva allora sempre incombente, anzi ancora largamente radicata.4 Che il libro non dovesse considerarsi una sorta di summa dei rimpianti del bel tempo andato, ma piuttosto una specie di corpus di tutto ci che costituisce lanimo e il genio sardo nei secoli lo mise in evidenza, nella maniera giusta, Giuseppe Petronio, recensendolo sulle pagine dellAvanti! del 29 aprile 1955.
2. A. M. Cirese, Miele amaro, in La lapa, settembre 1955; ora in Lo scrittore nascosto cit., p. 272. 3. M. Guidacci, Miele amaro, in Il Ponte, marzo 1955, pp. 420-421. 4. M. Brigaglia, introduzione a Miele amaro, Firenze, Vallecchi, 1989, p. 10.

In tale recensione sottolineava, fra laltro: Eroi antichi e moderni, fatti storici di tutte le et, documenti di archeologia e di arte, di letteratura e di folclore, tutto il Cambosu mette assieme, ora riportando testualmente documenti, ora riproducendo opere darte, ora riscrivendo lui leggende e tradizioni, a costituire cos come un breviario di tutto ci che un sardo pu conoscere e amare della sua isola. E ne viene unopera calda di affetto e fragrante di terra: canti popolari, pianti funebri, leggende sacre e profane, uno spiraglio aperto sullanima sarda, sulla vita di pastori e contadini, sulla cultura di genti segregate per secoli dalle correnti vive di pensiero che pure hanno messo assieme cos, nella solitudine delle loro pianure e dei loro monti, lentamente, nei secoli, un tesoro di conoscenze e di tradizione che anchesso cultura, e al quale occorre riallacciarsi se ci si voglia adoperare a che i suoi possessori entrino soggetto di storia nella vita e nella cultura moderna. Vi entrino, intendo, senza spezzare i legami col loro passato, ma portandoselo dietro questo passato, come un elemento positivo, che occorra conservare e pure, nello stesso tempo, trasfigurare e superare in una concezione nuova e pi alta del mondo. Il libro-cargo che Cambosu aveva consegnato allarmatore Vallecchi, vincitore nella gara di nolo sugli altri editori, fra cui Einaudi e Garzanti, era quel tesoro di conoscenze e di tradizione puro e semplice che Cambosu affidava ai soggetti della storia sarda perch con quel corredo entrassero nella vita e nella cultura moderna. Dallaura poetica compatta, quelle pagine erano venate di nostalgia per il mondo pastorale nel quale sera formato, mondo che ritrovava, giorno dopo giorno, nella solitudine del retrobottega della libreria Cocco di Cagliari, dove pare che il libro sia stato concepito.5 Ed esse trasudavano una infinita
5. Vedi a questo proposito: A. Romagnino, Salvatore Cambosu a Cagliari, in Atti del Convegno Salvatore Cambosu tra due Sardegne, a cura di U. Collu, Orotelli, Comune-Biblioteca Nunzio Cossu, 1995, pp. 61-167.

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Prefazione

carica damore per la propria terra, amore che la sua strabiliante inventiva trasformava in alta prosa e in puro lirismo. Ed era tale la compenetrazione nellanima del suo popolo che, pur dolendosi con se stesso dessere stato costretto a corredare il testo, nato semplice e fragrante, con note e fredde tavole cronologiche che ne appesantivano lideale snella conformazione, accett, pur di navigare fuori delle acque territoriali della Sardegna, di pagare lo scotto alleditore nazionale, facendo sua una delle massime contenute nel suo portolano: Rammentati tuttavia che sei uomo, e che uomo vero non piange e non deve dire che una parte del suo male (p. 69). Quella nave, partita nel 1954 con il suo prezioso carico, era in navigazione al momento della sua morte, e lo tuttora, in attesa che marinai sardi la conducano, se non direttamente alla meta che Cambosu sera prefisso, per lo meno in un porto sicuro da cui poi riprendere il viaggio. Ma per far ci occorre salire a bordo e, con estrema pazienza, pari a quella che Cambosu ebbe nello scegliere le merci con cui caricarla, disporre perch spezie ed essenze siano tonificanti per la circolazione del nostro sangue, e le fiabe, i racconti, le leggende, le pagine di storia o di poesia nostro immaginario collettivo siano stimolanti per il flusso della nostra linfa spirituale. Perch Cambosu desiderava che la nostra anima e il nostro corpo traessero, dallassunzione di tali elementi, pur nelle loro anche estreme contraddizioni, quella particolare sostanza, che il miele amaro, che tutti noi Sardi dobbiamo riassaporare per essere altri, rimanendo nel contempo fedeli alla nostra natura. E tale miele, una sorta di nettare capace di far aprire gli occhi sulla realt dellIsola, di stimolare la sensibilit di coloro che vogliono comprendere lanima del nostro popolo, dalla storia antichissima e dagli infiniti tab, doveva essere offerto anche ai passeggeri che, viaggiando su quella imbarcazione, avessero percorso con noi litinerarium mentis fino alle radici della nostra esistenza. Perch solo cos sarebbero penetrati sino in fondo alla nostra anima.
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La navigazione con marinai sardi, nocchieri, mozzi o commissari di bordo che fossero, avrebbe reso il periodo del viaggio una forma di iniziazione a una realt per molti versi complessa, in quanto configuratasi attraverso una simbologia del tutto unica. Solo cos il bastimento Sardegna, col suo prezioso carico dei pi semplici e pi complessi elementi della sua anima, sarebbe potuto finalmente approdare nel porto verso cui ha sempre indirizzato la prua anche nei momenti pi difficili della sua storia: la propria genuina identit. E i suoi marinai ve lavrebbero condotto a condizione che si dichiarassero finalmente disposti, dopo anni di ammutinamenti e di diserzioni, a navigare fiduciosi, tenendo conto del fatto che anche il loro mondo, come tutti i mondi, muore e rinasce nella continua misteriosa palingenesi storica di ogni epoca. La prima consegna di Cambosu il carico di fede in noi stessi e in Dio con cui il libro si apre. Si deve, infatti, amare lIsola non ciecamente, come Stefano Virde, che ne nascondeva i difetti e ne ingrandiva i pregi: tanto che non permetteva a nessuno, neppure ai suoi figli di far dellironia sul conto del Sardo che ha, fra i suoi vezzi principali, anche quello dappartarsi e di mettersi a cantare nelle solitudini, come uno che pianga di nascosto. E non si deve commettere lerrore dello stesso Virde, e che era gi stato del terribile vescovo Lucifero di Cagliari, quello di impermalirsi, dinselvatichirsi, di separarsi dal mondo, di diffidare della gente e delle cose di fuori. Si deve cessare dessere malunidos, smentendo una volta per sempre anche Carlo V, mentre non si dovr pi chiudere la porta alla speranza, canticchiare mestamente, sempre pi numerosi, nelle solitudini pi squallide; conversare giorno e notte con la Morte (p. 41). E che Salvatore Cambosu, iniziando a caricare la sua nave allinsegna della pi intensa religiosit, avesse subito posto una distinzione tra vecchie e nuove credenze, molto importante. Perch, oltre che di sfatare il mito della malasorte, radicatosi
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nei secoli, Cambosu chiede ai nuovi Sardi di non considerarsi pi stirpe reietta dal Dio del Vecchio Testamento, lirato Dio dei fulmini, di non perorare pi lintervento dei maghi, come Stefano Virde, perch esorcizzino il male, ma di procedere sulla nuova strada dove incontreranno il Dio del Nuovo Testamento, quello che chiama ogni tanto Pietro e gli dice: Che te ne pare delluomo che vedo laggi, uno che sta facendo di tutto per aiutarsi? Io direi, Pietro, che meriti subito una mano daiuto (p. 47). Accanto al carico prezioso di beni per lo spirito, il bastimento di Cambosu accoglie, infatti, nella sua capiente stiva, il pi ampio campionario di atmosfere, colori e sapori dellIsola, tutto ci, o quasi, che occorre tener sempre davanti agli occhi, come visione ideale da far giungere in porto, da proiettare nel futuro: tutto ci, in sostanza, di cui devono alimentarsi i Sardi che abbiano accettato, o accettino, lingaggio sulla nave pi avventurosa che lIsola abbia mai armato. Tale parte di carico non comprende soltanto la visione di Cagliari e del suo destino, come viene delineandosi dalla simbologia storico-archeologico-museale, o dal traffico febbrile del suo porto; non solo la fierezza di Sassari e di Nuoro, o le istanze di terre da semina e di pascoli del contado; non solo lodore di zolfo di Carbonia, citt nata nel cuore deserto del furriadroxiu, dove oggi nemmeno le donne pi superstiziose riescono a far discendere tanto carbone da un originario mucchio doro daltrettanto peso e volume. Il carbone di Carbonia, anche per esse non un tesoro maledetto; anchesse sanno che il processo, se mai, inverso: luomo con le sue arti trasforma il carbone in oro, luce, calore, anticrittogamici, fertilizzanti, ma anche un carico di fiducia nel Sardo come pianta uomo (p. 60). Cambosu, in sostanza, invita a considerare le risorse spirituali e materiali dellIsola non come beni statici, acquisiti una volta per sempre, ma come qualcosa che debba continuamente essere mosso, adeguato ai tempi, alle necessit storiche, allacquisizione di nuove capacit da parte delle popolazioni. Lo esplicita chiaramente in chiusa alla pagina su Carbonia, con la visione problematica del futuro del Sulcis, che
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non sar chiaro fino a quando si continuer a considerare la cittadella del carbone come un malato sempre in coma, e non si avr il coraggio o di tentare la cura estrema per risvegliarlo, oppure di staccare i fili che lo tengono apparentemente in vita, pur se gi clinicamente defunto. Nella loro perentoriet, le consegne di Cambosu alle future generazioni implicano la fede dei Sardi nelle loro risorse morali. Ma tale fede pare si sia perduta nel corso di quel prolungato ammutinamento delle popolazioni, durante il quale capitani velleitari, se non addirittura mercenari, anzich dirigere la nave Sardegna verso un porto, lhanno lasciata in bala delle correnti economico-politiche le quali lhanno spinta ora verso nord, ora verso sud; un giorno verso est e lindomani a ovest. Lo sottolinea in tutta umilt, ma non senza qualche ragione, Giuseppe Tropea allorch asserisce: Il male nostro sempre dipeso dal capitano: da lui che deve mostrarsi alla prova, e senza il quale, per lesperienza che ne ho, anche la compagnia barracellare pi intrepida finisce col far la figura del moro bendato (p. 61). E non a caso, e direi proprio perch cosciente che lo sforzo debba essere comune a tutti i Sardi, Cambosu non fa carico alla nave di un suo Vangelo o di una sua filosofia, ma ora ripercorre, attraverso le parole di Antioco Mezzadria, lanno contadino, partendo da capidanni e badando non solo al corso delle stelle, ma anche alla saggezza popolare contenuta nei proverbi (Di luna in luna); ora raccoglie le testimonianze geologiche sulla struttura della sua nave, ora quelle preistoriche sul fuoco infernale e la ferula. Ora ridisegna, per flashes epigrafici, il passaggio dei Romani o dei Bizantini; ora rievoca lincontro spirituale tra il re dei pastori Ospitone e il pontefice Gregorio Magno; ora racconta, nella favola mitica Tempo nuovo, come i Sardi abbiano interrotto la barbara consuetudine di sacrificare i vecchi ultrasettantenni a Kronos. E ancora, in Lospite moro, sottolinea la piet per il nemico ferito da parte di un vecchio per il quale In ube bhat istranzu / mancari malu / best Deus, ora nel brano poetico Sfoghi
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del povero di autore anonimo sottolinea in una serie di ottave a rime incrociate, i primi sette versi secondo lo schema ABBAACC e lottavo su fiagu de su corru ricorrente a mo di ritornello, le fortune dei ricchi e le fatalit dei poveri. I paradigmi di un modo di vivere antichissimo, che cerca le sortite verso il futuro, sono desumibili dalla complessit di un carico che comprende uninfinita variet di simboli. Il lavoro delle tessitrici di tappeti dei vari centri dellIsola, il battere del [cui] telaio nel silenzio della casa e nellattesa e nella malinconia dei giorni non lascia morire la speranza (p. 121), richiama per associazione di idee limmagine dellantico manufatto artigianale tapinu de mortu, paragonabile per bellezza al kilim del Caucaso o di Caraman, pretesto al commento di Cambosu dellepigrafe In tantos modos soffendet Cristos (p. 188). Modi diversi di praticare la fede, da parte dei Sardi, vengono inventariati nella partita sacrale del carico della nave Sardegna. Ora sono passati in rassegna i Verbos o carmi incantatori nel loro uso dettato dallingenua superstizione, e nel loro abuso, come nella pretesa di Maria Pietra di opporsi, per loro mezzo, allineluttabilit della morte, anche se in nome del sacrosanto amore materno (pp. 123-124); ora sono richiamati alla memoria brani lirici dallintensa carica mistica, come quello in gallurese Il pianto di Nostra Signora di autore anonimo, che richiama, per assonanze, lo Stabat mater dolorosa di Jacopone da Todi. Cos recita infatti: In un Vennari di malzu / piddesi Cristu la molti, / ficchendili ciodi folti / pa dalli di pi turmentu. / Nostra Signora ha pientu / tutta la notti a siccuttu; / lu sangu sill asciuttu / di la ena di la rosa, / mamma tantu dulurosa / tutta cupalta de luttu. Oppure come Pianto della Madonna e consolazione, di Bonaventura Licheri (XVIII secolo), nel quale tutto il dolore per la morte del Cristo non espresso dal pianto della Madonna, ma, con estrema delicatezza, dalle parole di chi cerca di consolarla. Esse trovano il loro acme nella sestina che recita: A casu, Segnora mia, / sezzis cudda lastimada / afflitta desemparada, / sa chi jamesint Maria? / Como mare dagonia / e de contrariedades?.
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In questo contesto patetico si inserisce anche lattitidu di antico autore, intitolato Triste giorno, che sapre allinsegna di un classico ritornello emotivo (Tristu die chispettamus / sos chi in su mundu bivmus, / a unu a unu mormus / e niente bi pensamus!), tipico di tutte le lamentazioni rituali che si concludono sempre come scrive Ernesto De Martino con un modulo obbligato in cui espressa linutilit della ricerca e lirrevocabilit della scomparsa.6 E ancora in questo contesto va inserito lattitidu In morte di Gisella di Paolo Mossa (1821-1892) che, contemplando la partecipazione di sa Mammattitta, sa Sogra, su Maridu e unAmiga, ha un incedere corale che, per alcuni versi, rimanda alla lamentazione tipica del discorso protetto, per cui il pianto si muove su un piano di attenuata storicit e di provvisoria spersonalizzazione dei rapporti, e appunto perch il patire riplasmato in una parte da recitare come se si trattasse del patire di un altro anonimo e sognante, possibile cedere la parte a un altro, come avviene nella ripartizione dei ritornelli emotivi, o nella cessione dello stesso discorso individuale della lamentazione. Proprio per il carattere impersonale della presenza stereotipa del pianto viene reso possibile un nesso interpersonale recitato a comando, con scambi e sostituzioni e collaborazioni pianificate e tradizionalizzate che sarebbero del tutto inconcepibili in un regime strettamente individuale di cordoglio. In questo quadro tecnico si comprende anche come sia possibile quel particolare sviluppo tecnico del lamento per cui esso diventa un oggetto commerciale, che pu vendersi e comprarsi, come accade talora (ma non sempre) nel caso della lamentatrice specializzata, che offre i suoi servizi nei funerali.7 Se il fantasma della Morte, uno dei pi presenti nellimmaginario collettivo dellIsola, ripetutamente rinvenibile nel carico del bastimento Sardegna, ora negli attitidu, ora
6. E. De Martino, Pianto e morte rituale, Torino, Boringhieri, 1975, p. 155. 7. E. De Martino, Pianto e morte rituale cit., p. 135.

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nelle canzoni, delle quali va citata almeno Notte dei risuscitati per laugurio di pace contenuto nel finale, uno dei brani pi appassionati di Miele amaro di certo quel canto della Trexenta di autore ignoto, intitolato Tristu passirillanti, che affascina per la sua semplicit nellestrema perfezione formale. Tristu passirillanti, / comenti massimbillas: / poita mi consillas / a plangi po samanti? / (Lar, lar, la lara). // Comenti massimbillas: / tristu passirillanti: / poita mi consillas / a plangi po samanti? / J andi mi ronnai / andira a nora andira. // Tristu passirillanti / su cantu t daggradu, / si puru seu interradu, / si de tui morgiu innanti! / (Lar, lar, la lara). Annota in calce lo stesso Cambosu: Loscuro ritornello, con un suo termine che vagamente accenna a un andare e andare e con la sua voce nora che sicuramente di tempo protosardo, ha tutta laria di essere antichissimo. Per altro la sua lettura richiama alla memoria echi poetici, diversissimi nel tempo e nello spazio, come quelli avvertibili in Lusignolo di Alcuino, per non citare il Bembo di O rossignol, che n queste verdi fronde, o Giambattista Marino di Canto dellusignolo. E, volendo risalire pi lontano nel tempo, vien dato di pensare al libro omerico dei Cinesi, ossia al Libro delle Odi, la pi antica delle quali fu composta nel 1753 a.C. e le altre per lo pi tra l800 e il 600 a.C., nelle quali domina una concezione del mondo primitiva. O, restando nellarea europea, e considerando il fondo di malinconia che circola nella lirica cambosiana, diventa fatale trovare un accostamento con le atmosfere create dal poeta portoghese, molto amato dai romantici, Bernardim Ribeiro (1482-1552), e nellEgloga di Jano e Franco, un poemetto in cui il paesaggio delineato con acqua, boschi, sabbia e prati, sembra trasformarsi per diventare sfondo ideale alla tristezza umana, e nel secondo capitolo del suo romanzo Saudades, dedicato specificamente a un usignolo. Questi riferimenti letterari non sembrino al marinaio sardo divagazioni dellinterprete cambosiano. Quanto si sostiene
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in questa, o in altre sedi,8 attiene soltanto al desiderio di uno svelamento, il pi ampio possibile, del suo discorso culturale, che consenta di comprendere fino in fondo quale sia stato il contributo complessivo di Cambosu a quel sogno di rinascita dellIsola che ancor oggi ci affascina e ci tormenta. Perch siamo persino indotti a pensare, a tratti, che Cambosu abbia attribuito ad anonimi brani suoi, per consentire alla sua estrema modestia. Anche se poi la rigorosa compostezza formale e la profonda umanissima vena poetica di tali brani ne tradiscono la paternit, senza bisogno di acclararla con lanalisi del loro DNA letterario. La cultura di Cambosu era vasta e profonda, radicata nellhumus naturale e umano dellIsola, ma nutrita altres, costantemente, da referenti ideali universali. In ci stava il segreto della duttilit espressiva della sua scrittura, capace di delineare con identica armonia le molte pagine creative di Miele amaro, da accostare, senza contrasti, a quelle che via via andava pubblicando su riviste prestigiose come Il Politecnico, Nord e Sud o Il Mondo, o, per un uso pi rapido, sui quotidiani. Se le si paragonano a brani delle pi disparate letterature ci si accorge che il confronto regge in quanto Cambosu sempre profondamente se stesso. E questa fedelt gli consente di essere il pi dialettico possibile, pur nella compattezza dellinsieme. Lo sottolineava anche Luca Clerici, nel corso del convegno svoltosi a Orotelli e Nuoro nel novembre del 1992, allorch, occupandosi della sua collaborazione a Il Mondo, cos fra laltro osservava: Anche la fisionomia del narratore dei racconti e la personalit dello scrittore-giornalista dei pezzi documentari e informativi fortemente monomorfica, mostra cio un profilo regolare e costante. I tratti salienti sono lasciuttezza e la ritrosia nel mostrarsi al lettore: parlino i fatti, le testimonianze, le cifre statistiche e le citazioni. Le conclusioni non potranno non venire da s. Chi dice io rimane defilato, la sua preferenza si manifesta
8. Cfr. B. Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario, Nuoro, Il Maestrale, 1992.

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soprattutto nei termini di colui che organizza la dispositio delle parti del testo e che presiede al loro assemblaggio in forma darticolo, giacch ogni pezzo in effetti il risultato dellaccostamento di singoli paragrafi o gruppi di paragrafi dismogenei fra loro e di differente indole.9 Sicch se per un verso ci tocca il cuore la sua profonda sensibilit e la sua grazia poetica, per altro ci intriga molto, del carico della nave, il miele filosofico che si assapora in quei brani in cui i concetti vengono espressi per mezzo di metafore da interpretare. Nel corso dellispezione delle stive del bastimento, per verificare che il suo carico di merci pregiate, nellattesa di giungere in porto, non si sia rovinato per mancanza di aerazione, ricomponiamo in un ideale puzzle altri frammenti dellimmagine della Sardegna che ci ha affidata, ora attraverso le rapide riflessioni sulla bardana (pp. 131-133), ora con quelle sulla sacralit della casa (pp. 137-139), ora con quelle metaforiche contenute nellincipit del Racconto di Potenzia Moro (Non augurare mai a nessuno la sorte dellorzo. Non dico di quella che tocca come biada alle bestie, ma di quellaltra che consiste in tanti maltrattamenti, uno dietro laltro, e di altrettante torture, perch diventi pane), racconto che spiega quanta fatica occorra per ricavare dallorzo i ghimisones. Gli si accosta il Racconto di Bonaventura Mameli che rievoca il clima festoso che si instaurava in ogni casa sarda il giorno in cui vi veniva cotto il pane preparato dalle donne della famiglia. Era, in effetti, una vera e propria festa dello spirito quella che ricordo daver vissuto anchio, da ragazzo, nel paese dellestremo sud dellIsola dove son nato. Ed era un compito cos emozionante la consegna ad altri del pane caldo che potrei fare mio, testualmente, il finale del brano cambosiano, perch anchio e i miei fratelli, al sorgere dellalba, e dopo che sera offerta la giusta porzione di quel pane benedetto ai poveri, recavamo ai parenti pi stretti e agli amici pi cari un dono
9. L. Clerici, Piccola enciclopedia della Sardegna. Salvatore Cambosu e Il Mondo, in Atti del Convegno cit., p. 142.

del nostro pane. Era uno dei doni pi graditi, ed essi lo contraccambiavano tutte le volte che accendevano il loro forno. Quel pane ci faceva meno irrequieti del solito per tutto il giorno, come se contenesse una sostanza miracolosa. Levento miracoloso era determinato da quella catena stretta di rapporti umani che prevedeva, e unattenzione a coloro che meno possedevano, e un pensiero affettuoso, costantemente rinnovato, verso parenti e amici. Il messaggio metaforico di solidariet era implicito in quel gesto cos semplice, ma cos importante, che convocava a tramandarlo le giovani generazioni, coloro che si facevano portatori anche della simbologia del dono, e quindi implicitamente si sentivano impegnati, per il futuro, a ripeterlo e a tramandarlo, a loro volta, ai propri figli. Il flash-back su quel passato, chera ancora vitale durante la mia infanzia, e forse anche in quella della generazione successiva alla mia, minduce a sfogliare ancora il registro di carico per verificare quanto dellimmaginario collettivo dellIsola dedicato allinfanzia sia stato imbarcato da Cambosu sul suo bastimento. Le sorprese non sono minime. Si va dagli indovinelli (pp. 194-199) intriganti, in particolare, quello del bambino misterioso e quelli di Su sizzigorru o di Sa mura alle Poesie natalizie liete e tristi. Cambosu spiega, in una sorta di nota introduttiva a queste ultime, che la nascita di Ges, nella sua originale ambientazione (capanna, mangiatoia, pastori, cielo stellato), molto sentita nei paesi dellIsola in quanto ci vuole proprio un villaggio perch un bambino come Ges possa nascere ogni anno per la prima volta. In citt non c una stalla vera con lasino vero e il bue; non si ode belato. I due determinanti liete e tristi, in funzione oppositiva, si spiegano notando che alcuni frammenti cantano le prove che Ges dovr affrontare nella sua vita terrena. Molti sono frammenti di gosos che costituivano una parte importante nei drammi sacri dei secoli scorsi, con una predominanza del verso senario che, secondo lo Spano, ben saccorda a una naturale modulazione e al suono delle launeddas (p. 206).
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Leggiamone una strofe: Dormi cun riposu / dormi fillu miu / divinu pippiu / de su mundu gosu / fillu graziosu / de sanima mia. Annota lo stesso Cambosu, a proposito di queste ninnenanne, che il Dessanay vi rinveniva un che di dolce e di doloroso insieme. Il canto della Madonna una sintesi di primavera e dautunno, un lampo di gioia che brilla tra le lacrime. La Mater gaudiosa sente gi in s la Mater dolorosa. La luce del suo sorriso traversata dalla nube del presentimento e tra gli splendori del cielo e i canti di gloria e di pace dei bianchi angeli e il suono delle launeddas dei pastori adoranti, tra lo scintillio degli ori e il profumo deglincensi dei coronati Re della Terra, la Madre vede gi sul nudo calvario profilarsi lombra della croce. Limportanza di questa parte di Miele amaro determinata dalla sua bellezza intrinseca, in termini di poesia, bellezza tale da consentire e autorizzare delle comparazioni con testi italiani e stranieri risalenti al XV secolo, quando non addirittura a referenti ancora pi antichi. Si prenda il canto dedicato alla primavera (p. 236) da Giorgio Filippi di Bitti (Gi su eranu est torradu / che prima allegru e fozidu // Gi torrat a sas campagnas / su virde allegru colore, / gi est isoltu su rigore / de su nie in sas montagnas / ma su coro in sas intragnas / est die e notte affliggidu) e lo si paragoni, ad esempio, col celebre Ben venga maggio di Angelo Poliziano. Si noter come, alla gioiosa vitalit di questultimo, Filippi opponga una profonda malinconia, estremamente controllata nel tono. Fra le ninnenanne della tradizione sarda, molte sono soffuse di spirito mistico, come quello che savverte in Nascere, soffrire, morire, la quale trae ispirazione dalla quotidiana esperienza delle spose sole. Esse infatti ninnano il loro piccolo, col pensiero rivolto ai mariti lontani, invocandosi alla Madonna, della quale ripercorrono, cantandola, la sofferenza come madre di Ges. Nel clima melanconico di tali brani ben si inseriscono le due Elegie del tempo perduto: e quella di Gavino Pes
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(1724-1795) A lu tempu, dallalto tono esclamativo, e Caro tempo di Maria Grazia Mureddu Cossu di Sassari nella quale, alla nota di rimpianto per quanto la donna non ha avuto, si alterna, dopo ogni due strofe, il ritornello (Torra como tempus meu, / ah cr, thapa trattare / comente si trattat Deu!) che divinizza il passato. Sensibilit poetica naturale e competenza psicopedagogica, acquisita nel corso di lunghi anni di insegnamento, si avvertono nella scelta degli elementi di unaltra sezione importante del carico di Miele amaro: i Canti per i bambini. Essi, pur nella loro differenziazione contenutistica, hanno in comune la quasi identica modulazione armonica e limmediatezza degli incipit. Degni di nota e lo stesso Cambosu lo sottolineava sono i vocativi con cui le madri si rivolgevano ai piccoli, chiaro riflesso dellambiente agro-pastorale in cui erano nati e crescevano. Ora chiamati agnellini, ora uccelli, e sempre con un tono affettivo molto sensuale, i bimbi sarebbero diventati uomini o donne, considerando lestrema carica patetica sottesa allapproccio materno, con la consapevolezza della propria forza e delle proprie umane debolezze. E non importa che il canto fosse quello usato per fare addormentare il piccolo, oppure per farlo divertire; era importante che dal suo ritmo particolare e uno spazio tutto suo ha, ad esempio, il duru-duru (Duru duru duru; duru duru tai, / su pippiu nostru no si morgiat mai; / mellus si morgiat una vitelledda, / sa vitelledda nos idda pappaus; / e, de su pippiu, nos ndi giogaus, p. 303) il bambino comprendesse subito di appartenere a un mondo un po chiuso, ma forte nella sua compattezza, fedele a quella tradizione che tiene sempre desti i valori dello spirito per pi facilmente superare le difficolt materiali dellesistenza e avanzare coraggiosamente verso il futuro. Immanente e trascendente finivano per contemperarsi cos, in maniera del tutto naturale, gi nei primi elementi di
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Prefazione

comunicazione interpersonale, attraverso le varie forme di linguaggio, dalla parola al canto, alla musica, profondamente radicate nellimmaginario collettivo di appartenenza, che le madri affidavano alle nuove generazioni con il calore del loro affetto trasparente dalle loro semplici parole: Tu se lu me aneddu / aggi doru un casteddu (p. 302). Il florilegio di questi canti, e di altri destinati agli adulti, nei quali circola a tratti quel riso tutto particolare di noi Sardi, un po amaro e mai sguaiato (p. 321), ora tratti dalla tradizione popolare, ora da opere di autori importanti e citiamo per tutti Araolla, Calvia, Mannu e Satta , stando a Sandro Maxia, non farebbe che rispecchiare un dato di fatto, rendendo materialmente visibile quellosmosi tra produzione popolare e produzione letteraria dellintellettuale locale che sarebbe il segno distintivo della situazione culturale sarda.10 Lo stesso Maxia, mostrando di non condividere lopinione di Cirese sul gusto un po chiuso: come di colloquio interno, di chi parla a gente che sa e intende, cos prosegue: Con Miele amaro Cambosu non si proponeva come suo compito principale di illustrare la Sardegna a chi non la conosce affatto. Il suo intento era un altro e risulta chiaramente dal modo in cui ha per cos dire mimetizzato il suo lavoro di autore, consegnando allo stesso livello di dignit letteraria tutti i testi che compaiono nel volume. Lidea centrale che ha guidato la composizione di Miele amaro che la Sardegna debba essere raccontata dallinterno, o meglio che debba raccontare se stessa, sia attraverso i documenti storici ed etnologici, sia per mezzo della voce dei poeti che in varie epoche si sono espressi nella lingua locale; sia infine attraverso gli strumenti espressivi dello scrittore moderno che traduce nella lingua nazionale gli autoracconti dei contadini, delle massaie, dei pastori, degli artigiani, introdotti direttamente a parlare.11
10. S. Maxia, I fedeli di San Terroso, in La Grotta della Vipera, n. 9, 1977; ora in Lo scrittore nascosto cit., p. 297. 11. Nella nota 3 al suo testo, Maxia cita i seguenti brani dellopera di Cambosu: Le parole di Antioco Mezzadria, Racconto di Potenzia Moro,

Non sempre Cambosu sfuggito alla contraddizione tra nostalgia di un passato ormai irricuperabile e razionale esigenza di cambiamento; ma che ci fosse in lui lintento di contribuire con la sua opera a quella metnoia collettiva che egli giudicava condizione essenziale per la salvezza della stessa cultura tradizionale dellisola in ci che essa ha di moralmente e anche politicamente valido, cosa di cui difficilmente si pu dubitare.12 Quel suo modo tutto particolare di convocare i Sardi per il viaggio della loro terra verso il porto del futuro, forse ha origine dal passaggio del testimone, a Cambosu bambino, da parte della cugina Grazia Deledda, nel giorno che egli cos rievoca in Ricordo di Cosima: Camminava lentissima sul sentiero di Valverde: parlava sottovoce dei colori della valle. A una svolta ella chiese al fanciullo che cosa ne fosse stato di una casa lontana, dove egli era cresciuto, e che ella aveva conosciuta da ragazza: una di quelle case padronali piene dabbondanza, di servi e di mendicanti. Quella casa era quasi un ricordo: era come sparita insieme con i grandi banditi e le epiche bardane, con gli amuleti e i fattucchieri, e i cercatori pazzi di tesori, e gli esodi migratori, e le diligenze lente e avventurose, e gli alibi raccomandati alla velocit dei cavalli. Il fanciullo, timido e malinconico di natura, le rispose con uno sguardo, nel quale ella lesse forse un nascente rimpianto dun mondo che tramontava e lo consol con una carezza e un sorriso di luna. Forse, proprio durante quel colloquio simbolico il piccolo Boboricu pu aver contratto la febbrile ansia di comprendere meglio la realt della sua terra. Sul ricordo di quellincontro incombevano anche le ombre di altri due nuoresi celebri, Antonio Ballero e Francesco
Racconto di Bonaventura Mameli, Stefano Beritta commemora suo padre. 12. S. Maxia, I fedeli di San Terroso cit., p. 298.

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Prefazione

Ciusa, anchessi convocati, con le loro opere, a collaborare al viaggio dellIsola unitamente a tutti gli oscuri marinai cui Cambosu avrebbe concesso, pi tardi, pari dignit operativa. Le ombre di tutti i richiamati per il viaggio ideale verso il porto darrivo del bastimento Sardegna sfilano cos in sequenza ritmica, spuntando dalle pagine del registro di bordo, dove sono stati opportunamente iscritti. Ora loscuro vescovo del quale soltanto dopo la morte si scopre lestrema bont (pp. 202-203); ora lombra del fantomatico spaventadonne de Lisola del toro a creare unatmosfera di suspence esistenziale per i bimbi che, nel bene e nel male, devono crescere; ora a campeggiare Massimo Ru, il Maledetto, il quale, uscito di notte per uccidere un amico traditore, muore per soccorrere una povera puerpera senza cibo, vittima di colui che gli ha regalato un agnello per la donna, per poi tendergli unimboscata e riscuotere cos la taglia pendente sul suo capo. Questi e altri personaggi, come quelli dei racconti La madre dellucciso, Rais e demoni, o di Sette picchi al portone, sottolineano le grandi capacit narrative di Cambosu e dimostrano ancora una volta come Miele amaro, nella sua variet tematica e modulare, sia unopera circolare sempre in movimento, con momenti di ripresa dei leit-motiv ideali. Si veda lultimo dei racconti appena citati e vi si ritroveranno personaggi che ritornano dalle ombre del loro sito ultramondano, come Pietro Marengo, gi incontrato in Il tappeto del Cristo, condannato dalla sua presunzione in eterno, o come Massimo Ru, la cui generosa fine, dopo una vita di delitti, cos viene rievocata da San Pietro nel giorno del giudizio: E tu corresti senzaltro in cerca dun agnello e, dopo averlo trovato e lasciato alla puerpera, fosti ferito a morte dal pastore, non per lagnello ma perch gli faceva gola la taglia. E poi, poi hai gettato via il fucile, e sei andato lontano, sei caduto, hai appoggiato la testa sopra una pietra per morire da uomo, ti sei fatto la croce per morire da cristiano. E quello che tu non sai, oggi la madre allatta sana e contenta il suo bambino. Perci entra e resta con noi (pp. 363-364).
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Si potrebbero ancora citare due personaggi iscritti nel registro di bordo: Simone Cottasole, protagonista di quella stupenda pagina di solidariet allinsegna epigrafica del verso biblico Et dederunt ei unusquisque ovem unam che Il gregge risuscitato; oppure il protagonista del racconto La capretta, dal quale si ricava un assunto morale sullimportanza della scelta che si chiamati a fare, un giorno, dalla vita: scelta che deve essere ben meditata perch quasi mai si ripresenta unidentica opportunit. Cambosu rammentava, e ci rammenta ancora, che Giacomo Quesada negli ultimi anni della sua vita paragonava la fine del suo viaggio a questo trenino, unico su tutta la terra, che da alcuni anni se ne va a diporto, avanti e indietro, da una stazione allaltra, tre stazioni in tutto, senza passeggeri n merci, gi ridotto dalle autocorriere a un superfluo e inutile balocco. Nato necessario, ora, almeno per esso, proprio finita. E perch rammaricarsene? Se questo significa uscire di minorit, e andar pi spediti? (p. 366). E se quel treno che va avanti e indietro inutilmente simboleggiasse la Sardegna tra passato e futuro, ma sempre ferma in un presente statico? Se cos fosse occorrerebbe uscire dalla minorit senza tradire la propria natura. Questo lo riconosceva anche Giacomo Quesada ma al tempo stesso egli sosteneva che non si fa niente di male a volgersi indietro di tanto in tanto, per rimpiangere sia pure un trenino che gi era grande in uninfanzia che ora lontana quanto la luna (p. 366). Quel treno, simbolicamente, per Cambosu solo quello che, andando avanti e indietro per tutta lIsola, gli ha consentito di armare la nave Sardegna per il viaggio verso il futuro. E tale carico, come abbiamo potuto constatare nel farne linventario nel porto della stasi, deve raggiungere presto la sua destinazione, avanti che deperisca. E tutti dobbiamo considerare terminato, per sempre, il periodo della diserzione dai propri compiti, dellammutinamento. Che non suona pi come disobbedienza nei confronti di chi ha amministrato male lIsola in questi anni, ma
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contro quellautorit morale che si chiama sardit, nella quale tutti dobbiamo dialetticamente riconoscerci. Nessuno, ha scritto Michelangelo Pira neppure la Deledda, neppure il Satta, aveva tradotto in lingua, con tanta sapienza, con tanto amore e con tanta umilt, il patrimonio culturale della civilt sarda che chiamiamo autentica.13 Cambosu affermava allora, in chiusa al suo portolano, tenendo gli occhi aperti sulla realt: Limmobilit, che dura a morire quasi quanto la solitudine e la nostalgia, cede dunque al progresso. Alla lentezza biblica sincrocia la velocit: e chi vuole indugiarsi a camminare lungo i greti del rimpianto, come accadeva a Giacomo Quesada, trovi almeno una sua rassegnazione allurgere del nuovo considerando le cose che hanno secoli e secoli, nate col segno delleterno (p. 368). A superare lacquiescenza a quellimmobilismo, che ha impedito sino a oggi al bastimento Sardegna di salpare deciso verso la sua meta, pu aiutare soltanto il desiderio di tutti i Sardi, viventi o no nellIsola, di nascervi unaltra volta, anche a costo di molto soffrire (p. 369).
Bruno Rombi

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

13. M. Pira, Lalbero di Cambosu, in Sardegna oggi, 1-15 dicembre 1962; ora in Lo scrittore nascosto cit., p. 290.

Salvatore Cambosu nasce a Orotelli il 5 gennaio 1895 e cresce sotto la guida del padre Gavino (zio da parte materna della Deledda) e della madre Grazia Nieddu accanto ai suoi numerosi fratelli e sorelle Gavino, Battistina, Nicolina, Sebastiano, Andrea, Antonietta e Grazia. Frequenta a Orotelli le prime classi delle elementari che termina a Nuoro, dove pi tardi consegue il diploma di maestro elementare e, successivamente, la maturit classica. Iscrittosi pi tardi allUniversit di Padova, e poi a quella di Roma, non consegue mai la laurea. Si avvia alla carriera di insegnante nelle Elementari di Orotelli e di altri villaggi della provincia di Nuoro e, dopo una parentesi politica (fu amministratore dal 1923 al 1926 del comune di Orotelli dove realizz diverse opere pubbliche fra cui la pavimentazione a selciato di tutte le strade), si trasferisce a Cagliari dove insegna in vari istituti. Intraprende nel contempo lattivit pubblicistica con articoli, racconti e novelle che appaiono su Il Messaggero, Il Corriere dItalia, Il Popolo Romano e sulla rivista Noi e il Mondo e sin da quei primi articoli si manifesta linteresse dello scrittore per i problemi dellIsola (specie quelli sullidentit dei Sardi) che costituiranno la materia delle sue importanti collaborazioni future. Nel 1932 esce a Bologna, per i tipi delle Edizioni La Festa, Lo zufolo, definito impropriamente un romanzo in quanto lo scritto , stando alla Deledda, pi prossimo al poemetto in prosa che a un vero e proprio racconto. Vi si respira, infatti, latmosfera di una favola con alienazione del piccolo protagonista Atanai dagli avvenimenti reali e con il suo risveglio alla realt con la morte di Jane, figlia di Giossante, una creatura fragilissima di cui il giovinetto era perdutamente innamorato. Non a caso pi tardi Cambosu, riprendendo il testo, ne ricava un racconto diverso non solo nel titolo Lanno del
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Nota bio-bibliografica

campo selvatico,1 ma anche nella prospettiva. Latmosfera magica cede il posto alla metafora sul mondo agreste perch nel nuovo titolo racchiuso il senso del tempo di una metamorfosi alla quale ci si appresta, da parte dei protagonisti della vicenda. Con la coscienza dello scorrere del tempo emerge anche la convinzione che non ci si pu attardare malinconicamente sul tempo andato senza tentare, grazie allesperienza, altre vie. Da un lato Giossante e il suo mondo attaccato alla terra e ai suoi valori, dallaltro Atanai che, ferito profondamente da un dolore sproporzionato alla forza intima della sua giovane et, riuscir a dare un senso, con laiuto del semplice Isidoro Vese e dei coetanei, oltre che alla morte, alla vita, nella prospettiva di una solidariet con i ritrovati compagni di giochi. Nel 1934 pubblica su LUnione Sarda a puntate il romanzo Il carro che appare postumo in volume nel 1992, a cura di chi scrive, col titolo Lo sposo pentito indicato dallautore in una copia dattiloscritta dopo alcune revisioni.2 Ambientato in Sardegna, a Farte, il romanzo narra la lotta psicologica del protagonista, Marco Serra, per sottrarsi al dispotismo del padre Giorgio, che lo mortifica, opponendogli, in continuazione, la figura del fratello minore Onofrio. Cambosu, nello stabilire unangolazione particolare dalla quale osservare il protagonista, traccia nel contempo un ritratto della lotta generazionale con un ottimo dosaggio psicologico nel ritrarre i personaggi. Ed anche in questo romanzo la morte sar arbitra dei destini della famiglia. Sfollato al suo paese durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, nominato commissario prefettizio di Orotelli, Bolotana, Bitti e Orune, si adopera per far fronte ai problemi connessi alla siccit, alle gelate e al caro-pascolo che mettono in serie difficolt i pastori della zona, angariati, fra laltro,
1. Edito insieme a Il quaderno di don Demetrio Gunales, a cura di U. Collu, Nuoro, Ilisso, 1999. 2. S. Cambosu, Lo sposo pentito, a cura di B. Rombi, Nuoro, Il Maestrale, 1992.

con canoni daffitto esosi e con ricatti, dai padroni dei terreni definiti dallo scrittore i San Terroso. Col suo ritorno a Cagliari, alla fine della guerra, lattivit letteraria di Cambosu si intensifica, grazie anche alle collaborazioni estese ai quotidiani LUnione Sarda, La Nuova Sardegna, Il tempo, LAvvenire dItalia, Il Giornale dItalia e a riviste dellIsola come Ichnusa e SIschiglia, e ad altre di respiro nazionale come Omnibus, Il Ponte, Il Mondo, Nord e Sud, Quadrivio, Le vie dItalia, LIllustrazione Italiana, La Tribuna e Il Politecnico di Vittoriani sul quale esord con il racconto Linferno venuto dopo il 2 febbraio 1946. Sia nei sette racconti apparsi su Il Politecnico, sia in quelli apparsi su Il Mondo e su Nord e Sud si colgono segnali importanti della svolta narrativa che Cambosu va operando, sostituendo alla cadenza lirica un sofferto scavo meditativo sul sociale sardo, scavo che trover il suo risultato pi alto in Miele amaro, apparso nel 1954 nelle edizioni Vallecchi. Opera composita, dialettica, innovativa, Miele amaro apparve subito, con la sua dirompente carica polimorfica, una sorta di summa della sardit: Il ritratto storico, morale, poetico della Sardegna, ricavato da una vasta quantit di elementi antichi, moderni e contemporanei, stando alla indicazione di Giuseppe Susini; il breviario di tutto ci che un sardo pu conoscere e amare della sua isola, come lebbe a definire Giuseppe Petronio nel 1955, o, ancora, una libera, e a tratti scientifica, e a tratti poetica, immersione in una realt che vuole essere comunicata come pi recentemente ha detto Giuliano Manacorda. Tuttavia il libro, che stato letto con troppe remore, non stato ancora assunto del tutto come un messaggio, a futura memoria, dello scrittore. Dopo il successo di Miele amaro, esce nel 1957, a cura di Mario Massaiu, presso lIstituto di Propaganda Libraria di Milano, Una stagione a Orolai, un romanzo che sullo sfondo di una Sardegna mitica e insieme prepotentemente reale, coi suoi contrasti sociali, la sua gente pittoresca, le sue costumanze comebbe a scrivere la giuria del premio Deledda segnalando lopera , narra la vicenda di Cardellino, abitante nel
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Nota bio-bibliografica

rione troglodita degli Scalzi, un bambino col cuore contadino che, immesso nel mondo pastorale la societ del Noi non riesce a trovare in s le ragioni della fedelt, della silenziosa complicit e dellomert che quel mondo richiede e che nella ricerca della verit trover la morte. Mentre agli inizi degli anni 60 la sua notoriet cresce anche al di fuori dellIsola, la sua salute, minata dalla tubercolosi, lo costringe a tornare a Nuoro dove, assistito con amorevoli cure dal fratello Gavino e dalla sorella Nicolina, muore il 21 novembre 1962. Il dibattito culturale sullimportanza del ruolo svolto da Cambosu, con le sue opere, nella societ sarda, si fa pi acceso dopo la sua morte, come dimostrano le varie pubblicazioni che si susseguono nel tempo. Nel 1984 lAmministrazione provinciale di Nuoro a proporre una ristampa di Miele amaro con prefazione di Francesco Masala, mentre le Edizioni Della Torre di Cagliari pubblicano unantologia di scritti di e su Cambosu, a cura di Mimmo Bua e Giovanni Mameli, intitolata Lo scrittore nascosto. Il meglio di Salvatore Cambosu. Dal canto suo lIstituto Superiore Etnografico Regionale di Nuoro, con presentazione di Enea Gandini, licenzia un libro di Racconti. Dopo una seconda edizione di Una stagione a Orolai nel 1986, leditore Vallecchi propone nel 1988 il pamphlet Il Supramonte di Orgosolo a cura di Paolo Pillonca, e, un anno dopo, una nuova edizione di Miele amaro a cura di Manlio Brigaglia. Nel 1992, in vista del convegno di studi per il trentennale della morte dello scrittore esce, per i tipi delleditore Marietti di Genova, a cura di Bruno Rombi, il romanzo Due stagioni in Sardegna, ossia Una stagione a Orolai e il suo seguito Una stagione a Tharros. Se nel primo romanzo la morte di Cardellino non riscatta i servi pastori dalla loro condizione di minorit psicologica e sociale, dalla loro estraneit al processo storico in atto, nel secondo romanzo il ruolo della nuova coscienza di una realt diversa viene assunto dallo zio della piccola vittima, Stefano. Egli, per lungo tempo servo-pastore,
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poi socio della cooperativa S. Eusebio in lotta contro chi vuol mantenere in condizioni di arretratezza economica e sociale vaste aree del territorio isolano. Sul piano della metafora il passaggio dalla condizione di servo pastore a quella di contadino segna il riscatto sociale degli uomini dellIsola. Sempre nel 1992, per i tipi de Il Maestrale di Nuoro Bruno Rombi licenzia il saggio Salvatore Cambosu cantore solitario nel quale analizza scritti editi ed inediti dello scrittore e raccoglie, in appendice, alcune testimonianze di studiosi ed estimatori. Il Convegno Nazionale di Studi, svoltosi a Orotelli e a Nuoro nello stesso anno, fa il punto sullintera opera cambosiana, come dimostra il volume degli Atti, a cura di Ugo Collu, pubblicato nel 1995. Nel 1996, a cura di Paolo Maninchedda, presso Il Maestrale esce lantologia delle corrispondenze giornalistiche, intitolata I racconti mentre nel 1999, a cura di Ugo Collu, per i tipi della Ilisso esce un volume che comprende i due racconti Lanno del campo selvatico e Il quaderno di don Demetrio Gunales. Di inedito restano soltanto i Diari che comprendono scritti di natura diversa (racconti, poesie, riflessioni, appunti) la cui stesura, su due vecchie agende, allo studio di chi scrive.

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MIELE AMARO

MIELE AMARO

ARISTEO Figlio della Terra, missionario civile nellagricoltura, nella pastorizia e fin nella medicina, in un modo o nellaltro arriv anche in Sardegna. Fra le molte imprese, una pi benefica dellaltra, gli antichi gli hanno voluto attribuire anche la fondazione di Olbia, la felice, Terranova Pausania; e di Agrilla, Osidda, o, come pi fondatamente ritiene il Pais, Gurulis Vetus, ossia Padria, come gi vide il vecchio Cluverio. La statuetta di Aristeo col corpo ornato di api la conserva il Museo di Cagliari, come dono del sen. Spano. Venne trovata nel centro dellisola, presso Oliena, in regione detta sa vidda e su medde (il villaggio del miele). Fortunato villaggio, Oliena, anche per la rinomanza che gli diede e continua a dargli il suo vino colore del fuoco, odore dun profondo roseto (come lo defin DAnnunzio) ma anche traditore; in questo simile allalba dintala: miele bianco peculiare della Gallura, il quale d alla testa proprio come un vino.

Lo ricorda Orazio: Ut gratas inter mensas symphonia discors / et crassum unguentum et Sardo cum melle papaver / offendunt (Ars poetica, 374 ss.). A miele amaro accenna il noto verso di Virgilio: Immo ego Sardoniis videar tibi amarior herbis (Bucoliche, ecloga VII, 41). Il sapore amaro, secondo il La Marmora (Voyage en Sardaigne), dipende dal fatto che le api visitano di preferenza i fiori del corbezzolo. Si sa che, nella primitiva concezione greca, la Terra gener Aristeo (Aristios, Aristaeus). La mitologia lo mostra dio benefico, originario della Tessaglia, patrono dei prodotti della terra e vigilante sui greggi. La vite, lulivo, larte di coagulare il latte e quella di riprodurre artificialmente le api e compartecipare al loro miele gli appartengono. Gli uomini potevano chiedergli anche i rimedi della medicina e persino gli si potevano rivolgere per conoscere il loro avvenire; tutto questo testimoniato da Apollonio Rodio (Le Argonautiche, II, 500) e da Nonno (Le Dionisiache, XVII, 6 e 35). Quanto alle sue peregrinazioni missionarie, si rammenta che egli pass da Corcira in Sicilia (Siracusa); di qui giunse in Italia, a Napoli, in seguito agli scambi ceo-euboici e precisamente dalleuboica Cuma. I navigatori cumani, secondo il Malten, lo trasportarono in Sardegna. Timeo, invece, presso Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, IV, 82, 4) ve lo fa arrivare dalla Libia; Pausania (Periegesi della Grecia, X, 17, 3) dalla Beozia; Sallustio, da Ceo. Lo dicono fondatore di Olbia e di Agrilla. Gli si attribuisce anche saggezza di governo, in quanto sanc una legge contro gli oziosi e stabil lobbligatoriet della denuncia dei proventi. Degna di particolare nota la statuetta che rappresenta Aristeo col corpo ornato di api (Museo di Cagliari) trovata nel centro dellisola, presso Oliena, in regione detta sa vidda e su medde (il villaggio del miele).
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DAL VECCHIO AL NUOVO TESTAMENTO

Era solito dire Stefano Virde, il quale si atteneva per lo pi alle favole antiche, che, di un intero continente caduto in disgrazia, Dio salv unicamente questisola perch era abitata da una gente laboriosa e di semplici costumi. Stefano Virde amava troppo la sua terra, lamava ciecamente: ne nascondeva i difetti e ne ingrandiva i pregi: tanto che non permetteva a nessuno, neppure ai suoi figli (che erano andati raminghi in cerca di lavoro, nei continenti estraeuropei), e neppure ai suoi nipoti (che avevano passato il mare per fare le guerre): non permetteva nemmeno a loro di far dellironia sul conto del Sardo che ha, fra i suoi vezzi principali, anche quello dappartarsi e di mettersi a cantare nelle solitudini, come uno che pianga di nascosto. Molti secoli prima che Stefano Virde nascesse, un terribile vescovo, Lucifero di Cagliari, era arrivato ad affermare che il pontefice di Roma era incorso in errore, reintegrando nella loro dignit i pastori danime che erano ritornati allovile, gi fautori delleresia dArio, al fianco dellimperatore Costanzo, contro Atanasio:1 errore tanto grave, a suo parere, che anche come reduce dallesilio (che aveva scontato nella Tebaide con dignit ed estremo coraggio e aperto vilipendio di Costanzo che glie lo aveva inflitto) si sentiva autorizzato a mettersi in rotta con la Curia romana, e a proclamare la Sardegna immune da lue eretica, e perci la sola sede che fosse
1. Lucifero, vescovo di Cagliari. Nellinverno 354-55 si reca con altri, messo del papa Liberio, dallimperatore Costanzo per chiedergli la convocazione di un nuovo concilio per risolvere la controversia ariana. Ma chi nel sinodo tenuto nel 355 a Milano non volle sottoscrivere la condanna dAtanasio fu esiliato. Tra gli altri lesilio colp anche Lucifero il quale fu inviato a Germanicia di Commagene, poi a Eleuteropoli di Palestina e in ultimo nella Tebaide. Di qui egli sfidava il tiranno e lo provocava con invettive come filius pestilentiae, mendax, homicida

SARDINIA ANTIQUA Nova monumentorum ope novaque telluris recensione restituta ab Alberto La Marmora 1840.

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MIELE

AMARO

Dal Vecchio al Nuovo Testamento

rimasta degna di Cristo. Il che faceva dire con sarcasmo a San Gerolamo: il Figlio di Dio non essere disceso ob tantum Sardorum mastrucam. Cos, linflessibile e intransigente presule e Stefano Virde, a distanza di secoli luno dallaltro, mostravano di essere della stessa pasta e commettevano il medesimo errore: di impermalirsi, dinselvatichirsi, di separarsi dal mondo, disolarsi, di diffidare della gente e delle cose di fuori. Ancora oggi, dopo la loro morte (luno relegato nel limbo dei santi di tollerato culto provinciale, laltro dorme in un cimitero di campagna) ancora oggi si sente dire da qualcuno,
Graziato da Giuliano lApostata si batt perch i vescovi che avevano piegato la schiena fossero s perdonati, ma non riammessi in seno alla chiesa cattolica con la loro dignit prelatizia, sibbene come semplici gregari. Non gli fu dato ascolto. Relegatosi nella sua sede di Cagliari, e fatto da quella sua intransigenza quasi scismatico, vi mor nel 370 o 371. Durante lesilio compose opuscoli polemici, diretti contro Costanzo, violentissimi, che ci restano insieme con un suo epistolario. Come scrittore, notevole per le importanti citazioni bibliche, numerosissime e di tipo italico, cio affine al testo del codice vercellese, e per la storia del latino. Latino rozzo e volgare il suo, ma pervaso di fervore religioso quasi fanatico. Gli si contrappone solitamente un altro celebre vescovo sardo, suo contemporaneo e amico: Eusebio da Vercelli, danimo mite e conciliante tanto, quanto laltro ardente e inflessibile. C chi ha voluto vedere in questi due contemporanei i paradigmi di due anime sarde, corrispondenti pressa poco al dualismo vigente quasi fino a ieri e gi rispecchiato nello stesso codice dEleonora: lantitesi tra il pastore e il contadino, tra il mangiatore di carne e il mangiatore di pane, tra un Nord e un Sud isolani che si avviano a un componimento amichevole, come nella penisola. Stile di Lucifero, rivolto allimperatore che lo aveva esiliato: tu cimpedisci ogni umano conforto, le miniere tutte e i luoghi che potevano meritare il nome di esilio riempisti delle nostre persone relegandoci innocenti e travagliandoci con la fame con la sete con la nudit. Tu difendi i tuoi errori con la spada e noi difenderemo la religione non uccidendo ma morendo (dal Moriendum esse pro Dei Filio). Rileggendo il suo latino volgare, col tono sempre acre e senza riguardi di fronte alleretico imperatore, ho ripensato alle foreste sarde ed ai monti aspri, dai quali Lucifero respir lo spirito robusto e combattivo (Agostino Saba della Biblioteca Ambrosiana).

ma sempre pi di rado: Pinta la legna e mandala in Sardegna: adagio, che, sostanzialmente, esprime forte diffidenza verso il forestiero. Vero che anche nel passato il Sardo seppe distinguere il grano dal loglio. Semprech infatti il forestiero veniva come ospite o visitatore o studioso, il Sardo si faceva in quattro per onorarlo. Sa domo est minore gli diceva su coro est mannu. Che se poi qualche ospite, ritornato a casa sua, illuso daver tutto compreso s voluto far bello con scoperte inverosimili e con qualche malignit intinta nellinchiostro, soltanto lui sfigur e continua a sfigurare. Ma tornano sempre grati alla memoria i nomi di ospiti che hanno fatto onore a se stessi con opere che ogni Sardo dovrebbe avere nella sua biblioteca: dove anche le verit pi crude non furono taciute, ma il tono era, e rimane, dellamico, del poeta, dellindagatore, dello studioso che prepara il terreno al pioniere, al clinico, allingegnere. Gli stranieri che arrivarono in armi nellisola dal mare e la sopraffecero e le camminarono sul cuore, la gente o non li nomina, o se li nomina, esce in frasi come questa: Su fogu si los mandighet (il fuoco li divori). Di dominazione in dominazione mentre la malaria, la consanguineit e la denutrizione li decimavano, i Sardi arrivarono alla conclusione desolata: Pal noi non vha meddori / n impolta qual ha vintu / sia iddu Filippu chintu / o Carlu imperadori .2 E, peggio, si ridussero a ripiegare su se stessi, a litigare tra vicini, a essere malunidos per non smentire Carlo V, a chiudere la porta alla speranza, a canticchiare mestamente, sempre pi numerosi, nelle solitudini pi squallide; a conversare giorno e notte con la Morte. Dobbiamo scontare un peccato? Scontiamolo pure diceva il nonno di Stefano Virde. Quale, mi domandi? Tutto quello che ti posso rispondere, figlio mio, questo: che colpa della stirpe,
2. Strofa duna canzone di Gavino Pes, in occasione della Guerra di Successione (per noi non c miglioramento / n importa chi ha vinto / sia lui Filippo quinto / o Carlo imperatore).

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un peccato oscuro e nero, un astro di fuoco nero . Era il mito della cattiva stella: il complesso dei malfatati; mito che sera venuto radicando nei secoli, oltre che per il tragico delle invasioni e delle incursioni barbaresche, anche per gli eroismi sfortunati a cominciare dai pi remoti, in parte avvolti in un alone di leggenda. Un lungo e sanguinoso elenco: da Amsicora al nome del pi umile fantaccino, inciso nella lapide dei caduti, nel pi ignorato dei paesetti. Amsicora, capo dellesercito sardo e anima della sollevazione contro Roma, il quale riesce a fuggire dopo la sconfitta inflittagli da Tito Manlio e, mentre riorganizza la lotta, si uccide al messaggio che suo figlio, il giovinetto Iosto, morto sul campo con le vene aperte e con la faccia contro il nemico.3 Stefano Virde con innocente boria dava per certo, come glielo avevano tramandato gli avi, che quel vecchio soldato, prima di morire, aveva detto che la sua pelle era incartapecorita ma che alla riscossa poteva servire per un tamburo da battaglia.
3. Traduzione da Livio, Historiae, XXIII, 40-41: Col pretore Quinto Manlio si riprese la conquista della Sardegna, che era rimasta interrotta da quando il pretore Q. Mucio era caduto gravemente ammalato. Manlio, condotte fin sotto Cagliari le sue navi, con i suoi marinai, armati in modo che potessero combattere anche per terra, e con lesercito avuto dal pretore, riusc a raccogliere 22 mila fanti e 1.200 cavalieri. E muovendo con queste forze di fanteria e di cavalleria verso il territorio occupato dai nemici, mise il campo non lontano dagli accampamenti di Amsicora. Amsicora in quel momento si trovava per caso presso i Sardi Pelliti a raccogliere giovani per accrescere le sue forze. Era comandante del campo suo figlio, Iosto: questi, pieno di giovanile baldanza, dando inizio con imprudente audacia alla battaglia, vi rimase sconfitto e poi messo in fuga. In questa battaglia furono uccisi circa tremila Sardi e ne furono presi vivi circa ottocento. La rimanente parte dellesercito si disperse in fuga prima per i campi e per i boschi, ma poi si ritir nella citt di Cornus, capitale di regione, dove appunto si diceva che fosse fuggito il loro capo. Con quella battaglia si sarebbe posto fine alla guerra in Sardegna se, a dar soccorso alla ribellione dei Sardi, non fosse sopraggiunta, al comando di Asdrubale, una flotta cartaginese, la quale era stata spinta da una tempesta fin sotto le Baleari.

La legislatrice Eleonora dArborea: che innalz la bandiera dellindipendenza contro Aragona e che, forse, mor come una santa assistendo gli appestati. Di essa Stefano Virde raccontava,
Manlio, quando seppe dellarrivo della flotta cartaginese, si ritir a Cagliari: cos si lasci ad Amsicora loccasione di unirsi al Cartaginese. Asdrubale, dopo che ebbe sbarcato i suoi soldati e rimandata la flotta a Cartagine, mosse a devastare i campi delle popolazioni alleate dei Romani; sarebbe arrivato fino a Cagliari se Manlio, muovendogli incontro con un esercito, non gli avesse impedito la completa devastazione della campagna. Dapprima si posero gli accampamenti luno di fronte allaltro a breve distanza, poi si diede inizio alle incursioni e a scaramucce di poca importanza: infine si scese a battaglia, e con tutte le forze disponibili si combatt in regolare combattimento per quattro ore. Lesito del combattimento fu a lungo incerto solo per la resistenza dei Cartaginesi, perch i Sardi si lasciavano di solito vincere senza difficolt; ma poi, quando tutto il terreno allintorno fu pieno di Sardi uccisi o in fuga, anche i Cartaginesi furono sbaragliati: ma il duce romano, circondando quella parte del campo dove aveva ricacciato in fuga i Sardi, precluse ogni scampo ai fuggitivi. Allora il combattimento si ridusse a una feroce strage: furono uccisi 12 mila Sardi e altrettanti Cartaginesi, furono fatti prigionieri circa 37.000 uomini e conquistate 27 insegne militari. Un bello e memorabile combattimento sostennero Asdrubale, che fu fatto prigioniero, Annone e Magone, nobili Cartaginesi: Magone era della gente dei Barca e parente prossimo di Annibale; Annone era stato il promotore della ribellione dei Sardi e senza dubbio sostenitore di quella guerra. Anche i capi sardi resero con la loro morte memoranda quella battaglia: infatti in questa battaglia mor il figlio di Amsicora, Iosto; ed Amsicora, ormai in fuga con pochi cavalieri, quando, oltre alla sconfitta patita, seppe anche della morte del figlio, di notte, perch nessuno col suo intervento impedisse il suo proposito, si uccise. Traduzione da Silio Italico, Punicae, XII: Ennio disceso dallantico re Messapo, guidava nella zuffa le prime schiere Gli muove incontro impetuoso Iosto, sperando di farsi immortale, se gli riuscisse di ricacciare tanta rovina, e vibra con forza lasta. Seduto su di una nuvola, Apollo rise di quel vano sforzo, e mand lasta a perdersi lontano, fra i venti e la freccia mortale pass da parte a parte le tempie ad Iosto. Sgomente per la morte del giovane, si volgono in fuga per i campi le sue schiere, e tutto lesercito in disordine si volge anchesso alla fuga. Allora il padre, non appena ud la morte del figlio, levando barbaro e inumano grido, si trapass il petto anelante, e dietro lorme del figlio si affrett ai Mani.

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sulla fede degli avi, che, come donna, era un uomo dei pi animosi. La stessa che il fiero prete Muroni, allorch sotto la bandiera dAngioy aveva sposato, dopo la parrocchia di Semestene, la causa degli oppressi contro i feudatari (i cavalli di stalla), proclamava la Giovanna dArco dei Sardi. E il giudice di Bono non sera messo alla testa di quellesercito di schiavi? E non gli apriva la marcia un vento che faceva martellare da sole tutte le campane dei borghi? E a che era valso? Perch saccaniva cos contro di noi la sorte? E poi tutti quelli che morirono nelle sabbie, nel fango delle trincee, nei mari e nelle nevi. Per tutto questo e anche a causa delle pesti una peste, una chiesa di campagna e anche a causa dei rovesci stagionali e delle bibliche locuste, un Sardo lo pensava, due Sardi che sincontrassero se lo confidavano, ma sottovoce per non svegliare il destino: Dio non grida ma giudica (Deus non jubilat ma judicat): e, senza volerlo, calcavano laccento su questultima parola. Perch, da non si sa quanto tempo, e quasi fino a ieri, il pastore alla grande disponeva nella sua capanna duna Bibbia che con tutti quei patriarchi gli teneva compagnia nelle solitudini: e lui, lanacoreta, la compitava sempre arrestandosi per alle soglie del Vangelo, come un escluso. Tuttal pi, se si attentava a entrare in quel paese promettente, egli si fermava a fare gruppo coi pastori invitati dagli angeli in quella antica notte di dicembre; ma, dopo quellomaggio, sentendosi di stirpe reietta, non sinoltrava, anzi ritornava con sconforto, come a luoghi di vita anteriore, allEgitto flagellato o alla casa decaduta di Giobbe. Lo stesso maggior poeta della Sardegna4 si lasci verso quel tempo scoraggiare, almeno per un momento, dalle sfortune e dai lutti della sua gente, a tal punto che, rivolgendosi alle madri, avvalorava il mito della cattiva stella con questi disperati e astratti accenti oratori: O Madri o Madri! i cieli vi
4. Sebastiano Satta, autore di Canti Barbaricini e di Canti del salto e della tanca; coltiv anche la poesia dialettale.

mentirono, e mentito / Vi ha nei secoli Ges: / E il suo regno non venne, e quel sogno svanito / E non torner mai pi. Cos, non si pu dire che i Sardi andassero alla festa ma gi sperano di potervi andare per divertirsi. Andavano alle feste, e in gran parte le frequentano ancora, piuttosto per stordirsi, per dimenticare. Per nascondere lansia e la cupezza nel tumulto e nellallegria rumorosa; o nelle danze ora troppo composte, quasi ieratiche, ora addirittura frenetiche; e gli stessi carnevali o sono ebbri di selvatici gridi, o consistono in quasi funebri silenzi che pesano come pietra. Allegria chiusa e malata: recita convenzionale, dove tutti prendono la maschera: e in quel carnevale non resta che un solo spettatore che nessuno vede e tutti sentono: il Dio del Vecchio Testamento, lirato Dio dei fulmini. Le ore morte sono cos in soprannumero sulle ore vive: molto si esiste e poco si vive, se vivere significa, almeno, dormire un sonno sano e profondo e ridere spontaneamente di cuore; e se esistere significa sopra tutto la monotonia, le launeddas ,5 il malinteso, il ripicco, il litigio, la bruttezza del
5. Launeddas. Agli albori della sua civilt la Sardegna conosceva le launeddas, strumento simile allauls greco, alla dukta russa, allo scitecki cinese, al sur naj persiano, allotou indiano e allarghoul egiziano. Alloriginale e autonoma espressione darte architettonica dei nuraghi preistorici e a quella della stessa epoca che riguarda la fusione dei metalli fa riscontro la sua antichissima musica: della stessa et ciclopica se non precedente la statuetta di bronzo la quale rappresenta una deit che suona le launeddas accompagnando o accennando un desiderio di danza. Piccola statuetta, 120 millimetri, di un trenta secoli fa. Il nume impugna lo strumento formato di tre canne convergenti sulle labbra: due di queste canne sono legate e modulate dalla mano sinistra: la prima intona il canto, la seconda lo accompagna; la terza canna, libera, modulata dalla mano destra, accorda un suono grave e perenne. Questo strumento, come rileviamo da una nota dello Zedda, d la possibilit di produrre pi di due suoni contemporaneamente, ed la pi antica testimonianza della polifonia, arte che, solo dopo il 1000, doveva essere registrata in Francia e in Inghilterra come linizio duna nuova ra musicale. Le dominazioni succedutesi nellisola non risulta abbiano modificato questo strumento indigeno o favorito leducazione musicale dei vinti.

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tugurio, Lod, Lodine, Lollove,6 la malattia storica che ha lasciato, e lascia ancora, scarso margine alliniziativa dellindividuo e alla esperienza personale, la paralisi della volont, la precariet, le ore avvelenate dalle ombre e dai sospetti. Anche il paesaggio, che vario quanto mai di contrada in contrada, il Sardo stava sul punto di perderlo definitivamente: egli si inselvatichiva fino a odiarlo: e lo feriva con la scure e lo inceneriva con lincendio doloso. Ma gi egli non crede pi nelle Janas 7 che custodiscono i tesori con tanta gelosia da vendicarsi sul minatore,
Tacito (Annales, libro XIV, 3, 7, 8, 62) ricorda che Nerone esili in Sardegna Aniceto Alessandrino, suonatore di tibie, ma non risulta se questi abbia insegnato qualcosa ai suonatori isolani. certo solo che il nume dellet nuragica modula quel canto che addormenta pecore e cani e fiumi e monti e boschi e piani ma contagia le danze ieratiche con uno strumento identico alle launeddas della grande festa di SantEfisio e delle sagre paesane, e che tale e quale come lui lo impugnano i viventi suonatori. Dal VI secolo sino alle invasioni dei Musulmani, e ancora sino a quando Pisa congiunta a Genova caccer questi dallisola, non si trova sviluppo alcuno dellarte musicale, se non indagando in seno alla vita ecclesiastica nelle principali sedi dellisola. Mancano a questo riguardo specifici documenti di unattivit e duna manifestazione propriamente musicali, sicch possibile soltanto procedere per induzioni. Lo stesso strumento scrive Giulio Fara a tre tubi di canna, con lancia volta verso il cono, che suonava il sacerdote nello spianato vicino al nuraghe, tuttora fa sentire la sua esile e ronzante voce nelle solennit paesane. E la stessa corona di danzatori e danzatrici, con lo stesso ieratico procedere, con gli stessi rigidi movimenti, possiamo affermare, gira lenta intorno al suonatore. 6. Paesetti tra i pi miserabili del Nuorese. 7. Diana: log. yana, giana; camp. giana, azana in Sardegna il nome delle fate che, secondo la credenza popolare, abitano le cos dette domos de yanas, grotte che servirono di tombe nellepoca nuragica (nel Nuorese si chiamano anche birghines). Queste fate vengono per lo pi concepite come esseri di minuscola statura e come incantatrici dotate di bellissima voce e del dono della profezia, di modo che di una persona fortunata si dice: est affadadu beni de is gianas, e di una persona sfortunata che isgianada; ma in alcuni paesi sono esseri malvagi e difformi, e perci susa il vocabolo anche nel senso di strega (M. L. Wagner, La lingua sarda, pp. 124-125).

seppellendolo con le frane e abbreviandogli la vita con le malattie. Egli crede, invece, nella tecnica e nella medicina. Pu essere rimasta Vincenza Urru a parlar del diavolo che presiede alloro e lo fa carbone. I figli sanno bene che tra oro e carbone corre stretta parentela. Pu essere rimasto un qualsiasi Bonaventura Vedimorti come depositario ultimo e screditato del rimedio che, per allontanare la morte dai giovani, basti appendere alluscio della stanza dellinfermo una falce messoria. Il Sardo ormai crede molto di pi nei sieri, dei quali ha esperimentato gli effetti anche sulle sue bestie. Ha visto che la zanzara stata distrutta, ed arrivato al punto di ridersi della leggenda che non vale muovere un dito. Ha scritto sul ponte del Cedrino:8 Vincer luomo o la zanzara?. E una mano ha risposto: Luomo ha vinto. E ormai sa che luomo destinato a grandi cose. Arriva a dire tutto questo con la frase: Il forestiero, quante ne inventa che il rovescio delladagio: Pinta la legna. Se le fiumane e le acque precipitose o sotterranee causano lutti e rovine, egli non ricorre pi ai maghi che le esorcizzino, come avveniva al tempo di Stefano Virde: chiede, invece, lintervento dei tecnici. Se le cavallette sabbattono come nembi e con le loro scimitarre sono pi nefaste delle stesse orde saracene duna volta, non ricorre pi al fattucchiere che le scacci come figlie del demonio: suona, invece, le campane a stormo e scende in battaglia. Baster perci assecondarlo perch continui su questa strada, lungo la quale, come gi presente e spera, incontrer il Dio del Nuovo Testamento, quello che (come solito esprimersi uno dei pi giovani nipoti di Stefano Virde e figlio del grande capitano Giuseppe Tropea) chiama ogni tanto Pietro e gli dice: Che te ne pare delluomo che vedo laggi, uno che sta facendo di tutto per aiutarsi? Io direi, Pietro, che meriti subito una mano daiuto.
8. Fiume della Baronia (Nuoro).

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CAPITANO E LE CITT

E anche Giuseppe Tropea ora dorme in quel cimitero di campagna. E non c lapide che lo ricordi; ma la sua croce ancora in piedi, perch fresca la sua sepoltura. Era, in certo senso, parente di Stefano Virde, perch, risalendo di un secolo o poco meno, i loro antenati avevano lo stesso cognome. E, del resto, non si stretti parenti, quando si della stessa terra sulla quale per di pi sempre passata, per tutti, come diceva Rosa Tracca, la bardana straniera? Quante cose cambiate, pi in meglio che in peggio, dal tempo di Giuseppe Tropea. Era egli un capraro di media statura, col pizzetto a punta, vestito in bianco e nero come la rondine, occhi piccolini e mobilissimi, tiratore ineguagliabile alla palla impiccata, fischiatore non per nulla era capraro che si faceva sentire da un versante allaltro della valle, capitano infine dei barracelli (guardie campestri giurate). Quante cose cambiate nella lunga vita di Giuseppe Tropea. Per Giuseppe Tropea certe citt antiche e un po demoniache come Bitia, Nora, Tharros e Cornus, nonostante persone di buone lettere e degne di fede gli dessero per certo che sono esistite nellisola, a parte la non falsa testimonianza dei ruderi, per quel modesto capitano erano nomi vuoti, anzi pure fantasie. Non basta. La prima volta che gli mostrarono in un libro grosso il disegno di una moneta di bronzo: una testa barbata, con sul vertice le penne da sembrare unupupa, e dietro la nuca un qualcosa come uno scettro, e gli fu spiegato che era il Sardopatore una specie di Padre Eterno della sola Ichnusa, come si chiamava allora la Sardegna, dal quale dipendeva il bello e il cattivo tempo Giuseppe Tropea prima ebbe a fare un fischio, poi disse che era nato capraro e capraro voleva morire, ma che non era matto al punto da stimare quella medaglia pi di unantica vile moneta. Giuseppe Tropea invece si levava la berretta frigia a solo sentire nominare la citt di Cagliari (in lingua materna Casteddu) e ne dava due ragioni, che erano delle pi semplici e ingenue: primo, perch in certe filastrocche (che aveva appreso da sua madre in fanciullezza e che citava a memoria)
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si parlava e si parla di galli cagliaritani oltre che di mele sassaresi e persino di strade sul mare di Casteddu, per significare cosa impossibile; secondo, perch laggi, in riva al mare, lui cera stato di persona per fare il testimonio e vi era arrivato a cavallo perch ancora non viaggiavano i treni e di autopostali e littorine non si parlava ancora, anzi si principi a parlarne pochi mesi prima che la vecchiaia, come egli si esprimeva, lo sgarrettasse. Per Sassari e per Nuoro, e anche per Oristano, si limitava a toccarsi la berretta; e per Ozieri e per Tempio, e Iglesias e Bosa a fare un semplice inchino. Uneccezione singolare faceva invece per Alghero, non perch ne apprezzasse le aragoste o il vino torbato o la visita di Carlo V, ma perch, nonostante la distanza, il suo villaggio apparteneva a quella diocesi: cos, se la nominava, si faceva il segno della croce. Come spiegare allora che desse la palma a Cagliari, lui che di Cagliari non era e nemmeno dei Campidani? Lui che, anzi, ci teneva a non esserlo? Sta il fatto che Cagliari, a quei tempi, non era ancora n tram n radio, ma era gi Casteddu, il Castello: sede della massima Giustizia, dei grossisti, del sale, del fenicottero9 fiammante che arriva ad agosto e riparte in aprile, delle torri di Pisa, della festa di SantEfisio patrono dellisola. Dicevano allora e dicono anche oggi: Egli a Cagliari per dire: arrivato dove voleva arrivare. Cos la frase di qui a Cagliari
9. Fenicotteri (campidanese: mangonis). Soggiornano in Sardegna sei mesi: vengono in settembre, ripartono in marzo per lAfrica. Volano nellordine delle gru. Sospettosi, le loro sentinelle gridano, suonano come una loro tromba dallarme. Vivono in riva agli stagni: hanno le gambe a stecco, le ali color fragola, raccolte; il capo indietro sul collo a S, in begli atteggiamenti come avessero lo spadino al fianco, hidalghi. Caligola, convinto dessere un dio, volle che il fenicottero (e il pavone) fossero le vittime da sacrificarsi alla sua deit; e il giorno prima che fosse trucidato si era asperso, in un sacrificio, col sangue dun fenicottero. Di lingue di fenicottero si cibarono nei loro banchetti Vitellio ed Eliogabalo, trovandole del sapore delle midolla. Si sono fatti rari, forse vittime delle guerre africane.

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rimasta a indicare enfaticamente una distanza astronomica, comera realmente al tempo di Giuseppe Tropea, cio delle diligenze avventurose e dei viaggi a cavallo. I nipoti di Giuseppe Tropea sono arrivati pi lontano del loro antenato: alcuni hanno visto altre costellazioni; e hanno importato persino malattie che non si possono nominare, ma anche idee nuove e dimensioni e proporzioni diverse e disinganni; altri hanno fatto tante guerre da potersi vantare con voce amara dessere nati per fare il soldato quanto dura la vita. Tutto questo, somma di delusioni, di danni e di sciagure, li trov tanto stoici da non metterli in piena rotta col mondo. Si direbbe che lunica vera vendetta che essi si siano presi consista in quel gettarsi sulle spalle il gabbano, e nel contrapporre a Roma con innocente orgoglio Casteddu mannu, quasi citt delle citt. Del resto tutte le strade di Sardegna conducono a Cagliari. Nonostante Cagliari, pur in Sardegna, non sia propriamente Sardegna. Questa comincia appena al di l dei suoi nuovi quartieri di cemento, appena fuori delle sue porte, in fragili case di paglia e fango e, pi in l, in abitazioni di aspro granito, a mano a mano che le linee orizzontali e lo spazio disteso cedono alle oblique e allaccidentato, e che le siepi di fichidindia cedono alle muricce di Narbolia.10 Cagliari una citt moderna, di miti inverni, di venti che opprimono o esaltano; di ore che non hanno fretta di passare. Solo il traffico del suo porto febbrile, tanto che persino il pi ozioso che lo contempli ha la facile illusione di non restare inoperoso. Nata sul mare, la sua storia pressa poco quella dun approdo e dun porto conteso. Ancora miraggio a forestieri che, bene accolti, vi si stanziano e avviano i loro negozi fortunati. La sua originaria fisionomia di villaggio di pescatori e di artigiani lhanno alterata fino allirriconoscibile le successive ondate di gente doltremare: is istrangius, stranieri e forestieri. E anche le sovrapposizioni delle genti
10. Muricce a secco o muri barbari, di architettura nuragica in cui sono maestri quei di Narbolia, villaggio dellOristanese.

del contado. Essa ha accettato fin dallantico un ruolo subalterno. Non chiude le porte allospite pacifico e intraprendente, ma non ne accetta la sfida per emularlo. Gli si mette al fianco piuttosto: e da fiancheggiatrice e da intermediaria davvero esemplare. Avere ufficio di mediatrice, questa la sua vocazione. Forestiere quasi tutte le iniziative, essa si appaga di offrirsi da scalo e da capace magazzino di merci importate da smistare allinterno. Poco o nulla sogna: il suo sogno, tuttal pi, di avere, ora e sempre, un mercato favorevole dove collocarle, e dal quale prelevare generi da esportare. Per questo, risolvere i problemi dellinterno, fare uscire vaste plaghe dallarretratezza, s che pi producano e pi consumino, costituisce per Cagliari, ora capitale anche ufficiale, non solo una buona azione, ma anche un affare lucroso. Cos, laugurio che essa fa in cuor suo allimmediato retroterra e a tutta lisola che essi abbiano buone stagioni. I capricci stagionali, i flagelli e le sorprese celesti che sabbattono sulla campagna toccano il cuore di Cagliari; e ne turbano anche il sonno, almeno come compromissione di affari. Quanto alla penisola, Cagliari vi guarda; ma con locchio attento per lo pi ai listini. La natura lha voluta aperta ai venti; la storia lha esposta ai pirati, ai cupidi forestieri, ai conquistatori. Dindole sua tranquilla, fu costretta dopo aspre lotte a scegliere tra labbandonare la costa per unirsi ai ribelli delle Alpi barbaricine o il continuare a sopravvivere collaborando a prezzo di compromessi. Scelse questultima strada, che era il solo suo modo istintivo di ammansire e conquistare i conquistatori (se quellunica volta che saffacci loccasione di accogliere, anzich combattere e vincere, uno straniero, la Francia dell89, che portava la libert, e quella vittoria, come stato scritto, fu una sventura, la colpa non fu dei Sardi del Nord e del Centro, ma neppure dei Sardi del Sud come popolo, fu colpa ed errore soltanto della classe dirigente retriva della citt principale). Perci essa, anche nella rovina delle altre citt, non manc mai di prosperare, e pot uscire sempre viva dal fuoco, come la salamandra. Finch non arrivarono anche per lei, e quasi
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unicamente per lei, le notti e i giorni apocalittici. Il fuoco venne dal cielo: la citt and in cenere e faville, e gli scampati cercarono un rifugio nel retroterra e sostennero dignitosamente per mesi e mesi il duro esilio. Cantavano, allora, certi profughi unincomprensibile canzone che era nel suo intimo mistero un saluto a una patria antica perduta. Si diceva fosse linguaggio di Nora, morta di maremoto, i cui pochi superstiti si erano rifugiati nella Trexenta. In questa contrada, una volta, secondo la leggenda, di trecento paesi, quei profughi avevano forse inventato la patetica canzone: una specie di attitidu (canto funebre), un compianto senza consolazione, che dopo secoli e secoli ora altri profughi ripetevano con lo stesso sentimento desilio, con la stessa certezza di avere perduto ogni cosa. Dopo la guerra, invece, ognuno ritorn alle sue rovine e non sindugi a piangere sulle pietre: ognuno risollev la sua casa. E sono ritornati i dolci inverni che non conoscono la neve e risvegliano i mandorli. E si pu unaltra volta andare verso la citt alta, lungo il viale dei pini contorti, a sciogliere quasi un voto, il voto duna visita a un santuario. Salire vedere il mare e larco puro del golfo, liridata distesa delle acque ferme degli stagni con le piramidi di sale, la compatta folla verde dei pini del Monte Urpino, il polledro di pietra del diavolo invisibile, i bianchi paesi che navigano nella luce, i loro campanili che si mandano lun laltro la voce come scolte. Gi, oltre i vecchi tetti, quartieri nuovi, di cemento. Si sale ancora verso il Castrum le cui pareti a picco hanno buchi di finestre che agitano panni bianchi come bandiere di resa. Lorizzonte sallarga, rivela macchie verdi di vigne e di colture. Si entra nella citt fortificata. Le sue porte sono senza serrame, il sole ne diserta i budelli, si accoccola sui bastioni, cerca stemmi e blasoni e corone infrante. Sttani con Cristi fra le candele, voci di rivenduglioli, cadenze da cammellieri, atri freddi e disabitati Il nobile castello si va spopolando. Musiche e canti traboccano dal Palazzo del Conservatorio e sinfrangono alle soglie del vicino Museo, dimora deroi di bronzo
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con quattro braccia e quattro occhi, di divinit senza volto, di sacerdoti, di capi trib: muti, ambigui custodi di un tesoro di scarabei, di gioielli, di vasi, di monete puniche e romane. Ma si direbbe che quel mondo arcaico sia nato a spese del dolore della madre dellucciso la quale abitava un tempo nella Casa dellorco di Urzulei.11 Ma il sole gioca fuori del freddo quartiere e chiama i fanciulli alla festa del belvedere, ai piedi del quale si spalanca il mare e, digradando fino al Golfo degli Angeli, si stende la citt dei traffici. Ad essa i Sardi del monte guardano come a una citt di vita mite e agevole. I Sardi del sottosuolo quasi lignorano. Agricoltori e pastori non vorrebbero starvi a nessun costo, ma invidiano chi vi dimora. Deplorano la sua gente comoda che sta tutto il giorno dietro il banco a vendere quel che altri produce, e a incassare milioni; e che, quando chiude bottega e spegne le luci delle vetrine, si d a lauti pranzi e corre in grandi macchine ai teatri, e si ripaga delle ore sacrificate della giornata con tutti i divertimenti, anche i pi proibiti. Gli stessi mendicanti del Nord, per questo, arrivano ad invidiare i mendicanti del Sud, quando sarebbe loro facile prendere esempio dalle rondini che vanno incontro alla bella stagione, o almeno da quegli industri pastori del monte che lasciano la neve e scendono ai pascoli invernali. Anche le reclute vanno a Cagliari cantando, perch Cagliari la bandiera, perch Cagliari lavventura, la luna da toccare con mano, liniziazione ai misteri. I suoi giovani invece li si sente talvolta sparlarne in congiura quasi in un gergo ermetico, rivolti al mare e struggendosi di passarlo. Sassari e Nuoro la punzecchiano, ma come una nobile e ricca parente che parli col miele in bocca, mentre ruvido e forte il loro accento. Anche le ragazze del Nord hanno
11. Orcus non designava soltanto il regno dei morti, ma era anche uno dei nomi di Plutone, e cos si spiega che nel dominio romanzo si usi come denominazione di un demone malvagio o duno stregone. Questo appunto il significato che orcu ha in sardo, e si crede che abiti nei nuraghi, i quali si chiamano perci in molti luoghi domos de orcu (M. L. Wagner, La lingua sarda, p. 125).

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tratti pi risentiti di corpo e di spirito di quelle del Sud, ma sta il fatto che il tempo, leducazione fisica, lo sport, le mistioni di sangue hanno contribuito a dare la novit del tipo di fanciulla snella. Cagliari contrappone allintransigenza e alla fierezza di Sassari e di Nuoro un suo maggiore saper fare: pieghevolezza che richiede per se stessa un versarsi allesterno. Piace al Cagliaritano la casa bella. Gli piace, anzi venera, il suo mercato che tanto ricco da sembrare una permanente mostra di primizie. Tra pesci, crostacei, molluschi, erbaggi, grasce e dolci, si corre in inverno alle taccole: grappoli di otto tordi o merli, lessi e odorosi di mirto. Economo di temperamento, il cittadino sa spendere, spende per trarne soddisfazione. La sua prima autonomia quella di non mancare del necessario a tavola. Per nascondersi al fisco, che ivi ha centocchi, niente veri e propri palazzi. Scendere quotidianamente alla marina per formare la processione nel sole o, nel maltempo, sotto i portici della via Roma, un impegno. Tradizionalista, non si fida di quanto gli proponga una brusca deviazione di rotta, vincendo in questo Sassari e Nuoro. La prosa non lo attira, la musica lo incanta, la lirica lo trasporta in un paradiso carnale. I vincoli di famiglia sono saldi, lonore coniugale geloso. Caustico tanto quanto arguto il Sassarese (il quale ultimo crede e non crede, ammira e irride insieme, e si concede di guardare un po dallalto i Sardi),12 poco puntuale ai convegni, corretto negli affari. Amicizie che nascono da simpatia: compagno di scuola mai si dimentica; gli uomini pi fedeli delle donne; rari gli scandali, blandi amore e odio (che sono forti invece nelle solitudini del Nord e del Centro); maldicenza che sostituisce la vendetta la quale, talvolta, in alcune contrade dellinterno, esplode per lo pi in ritardo. Odiare no: guasta le digestioni; inimicizie nemmeno: perch richiedono impegno; amicizie neppure: perch importano sacrifici. Pigrizia che accetta quello
12. Daccordo in questo con quei di Gallura i quali tendono a vivere negli stazzi sparpagliati, a differenza degli altri Sardi che preferiscono accentrarsi.

che casellario e catalogo; scarso impegno nellapprofondire i problemi. Dalla stessa pigrizia, e da essa soltanto, nasce il complesso che pu essere chiamato del feticcio, il quale mal si concilia col desiderio dapparire e demergere. E anche quello dellattesismo, che nel 1939 le fece accettare come una novit stupenda il futurismo. E se Nuoro al di sopra o quasi dei santi patroni colloca i patrocinatori dei tribunali; e Sassari, la libera antica contadinesca e laboriosa citt, come la disse Luigi Falchi,13 pur tenendosi dei suoi professionisti, esalta a ragione i suoi orti, i suoi agrumeti e i suoi uliveti e le sue vigne; Cagliari sta per glimpresari e per glingegneri: e alla Deledda e al Satta, vanto di Nuoro, contrappone un qualche suo saggio amministratore pubblico, e porta alle stelle i suoi fumaioli e le sue ciminiere. Sacro e profano si mescolano alle feste. Fasto e coreografia spagnoleschi piacciono alle citt e ai villaggi. C quasi pi feste che santi, perch a qualche intercessore si ricorre anche due volte lanno, tanto sono infide le stagioni, e accaniti i flagelli, e il fisco. Andare di festa in festa dunque un po come voler incantare la fortuna. E non c Sardo che non si auguri di farsi festaiolo almeno tre volte in vita sua. Che significa toccare le tre citt principali. Cagliari chiama le genti il 1 maggio, quando il patrono dellisola, SantEfisio, parte dalla citt nel suo cocchio dorato, con un corteo variopinto preceduto dalle launeddas lamentose, per Nora sua patria che affiora dalle acque marine con i suoi ruderi di marmo. Sassari spopola i villaggi con la sua festa dei Candelieri, a Ferragosto: celebre quella sua processione umoresca, e significativo lonore che concede alla bandiera dei massai, facendola sventolare, insieme col tricolore e con la bandiera della citt, al balcone del Palazzo ducale, sede del Comune. Nuoro, dal 26 al 30 agosto, invita tutti al Redentore, festa tra religiosa e pagana in citt e festa tutta omerica nel bosco. Antiburocratici, i giovani tendono agli uffici e agli impieghi. Della politica militante diffidano. Cagliari si limita ad
13. Valente letterato e critico di questo secolo. Vedi Bibliografia.

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ascoltare i comizi e i discorsi di piazza con animo sportivo senza trascendere mai al tifo, quasi parentesi domenicale dove la bella voce, il gesto, la facilit della parola e lornato sono tutto, o fanno almeno colpo pi degli stessi argomenti. Il contado invece sente pi vivi i suoi problemi, che sono istanze di terre da semina e di pascoli. Fatto nuovo, pastori e contadini si stringono la mano, comera avvenuto nel 1919, quando il giovane Partito Sardo dAzione innalz la bandiera dellunit dei Sardi. Urgono e fervono le forze nuove nei centri minerari, e specialmente a Carbonia, citt che aspetta di riconciliarsi con la terra che oggi la ospita come straniera. CARBONIA, ODORE DI ZOLFO Quando nel 1948, dopo soli dieci anni di vita e di esercizio si stava per accettare come una fatalit la chiusura delle miniere di carbone, fu quasi miracolo venisse ascoltata la voce che aveva gridato nel deserto sulcitano per la salvezza duna popolazione di oltre 80 mila unit che, tra operai, famiglie e fornitori, gravitava intorno alla citt moribonda. Il problema di Carbonia una sola cosa con quello del suo retroterra rurale. Per questo non si pu parlare di Carbonia, senza prima toccare il deserto dove un giorno la citt fu collocata di forza. Il pastore De Maccioni alla domanda: Che cos questo Sulcis? risponde mezzo sdegnato: un furriadroxiu dando cos, a sua insaputa, una risposta degna di nota. Il Sulcis si apre sul golfo di Palmas ad anfiteatro, con un altopiano costituito duna mezzaluna di montagne antiche; al centro sinnalza il Monte Caravius. Le sue bassure si alternano a guisa di pianori adorni di colline. Labitato disseminato di borgate corrispondenti, ciascuna, a un corpo di case pi o meno complesso: il casale da 5 a 30 case lunit caratteristica del popolamento. Risalgono al XVI e soprattutto al XVII secolo gli stanziamenti nel Sulcis di cinque o sei gruppi di pastori, lontano dalla riva che era malfida a causa delle scorrerie barbaresche. La paura li associava in furriadroxius. Il furriadroxiu definito dallo Spano, nel suo dizionario: un ritiro,
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una tenuta, un ovile, luogo dove si ritira il bestiame; il Porru, nel suo, lo definisce in dialetto meridionale: possessu de campagna propriu de is pastoris e lo fa corrispondere al termine italiano tenuta. Chiaramente esso deriva dal verbo furriai che significa, fra laltro, anche fuori del Sulcis, ritornare, restituirsi al chiuso dalla campagna aperta. Lo stanziamento stabile risale al 1830. Raggruppatisi i pastori in borgate, queste conservarono il nome che , come si visto, dorigine pastorale. Via via questi aggregati vennero addensandosi di case, da cinque a quindici. Le case isolate sono posteriori: nessuna di esse stata costruita prima della seconda met del XIX secolo. Il furriadroxiu conserva ancora i suoi tratti di origine: tenta di nascondersi: nato dal sospetto. Appiattato, cerca ancora, sia pure meno duna volta, di confondersi col terreno, di non dare nellocchio, ed come in un continuo allarme, organizzato alla difesa, nel deserto sulcitano. Le facciate esterne, infatti, sono cieche: le finestre danno sul cortile interno. I padroni bisogna stanarli: incontrarsi con loro una scoperta, dopo unavventura attraverso un labirinto di camminamenti. Una volta il bestiame brado era molto pi malsicuro e dormiva nelle corti: oggi questi cortili, circondati da muricce a statura duomo, sono riservati alle bestie da lavoro; molte corti poi sono diventate aie, prova che i tempi sono pi sereni, come testimoniano del resto altri segni: le facciate imbiancate, le scale meno rustiche, i volti e i tratti meno ispidi e chiusi. Con latteggiamento un po ironico e scontroso del pastore De Maccioni contrasta quello, quasi patrizio, dellantica madre dei veri minatori, Urru, nonna Vincenza. Per nonna Vincenza deplorevole che i giovani doggi, e persino i suoi figli, che sono ormai anziani, non credano pi alle fate nane. Alle janas. Le quali fin dalla prima creazione del mondo comandano sui metalli. E imperdonabile che si ridano del demonio, custode, a sua volta, fin dallo stesso tempo, delloro che diventa carbone, non appena lesploratore ne tocchi anche una briciola incautamente, cio senza previi e complicati esorcismi. Vero , soggiunge lantica donna con una punta dironia e di boria, vero che Dio ha voluto fare dono a questo nostro Sulcis di
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cumuli preziosi che lass e indica vagamente il nord non riescono neppure ad immaginare. Lass, tra i cabillus che ci chiamano maurreddus poco metallo e niente carbone. Se qualche mucchiettino di carbone vi si incontrato, sempre si saputo che era da focherelli di pastori mala razza, o da oro accumulato da usurai e avari che il maligno aveva convertito in carbone . Ma, tornando alle janas, esse sarebbero, nella mitologia di nonna Vincenza, non solo golose di miele, ma anche gelose dei loro metalli. Fughe di vene, frane, allagamenti, esplosioni anticipate o ritardate o imprevedute, coliche, cecit, vita abbreviata e senza canti: con tutti questi e altri malefizi esse infieriscono sui minatori, per vendicarsi degli spaventi alla dinamite, e delle loro lampade, e dei loro furti. Ma, forse e senza forse, nonna Vincenza lultimo esemplare di una razza che va scomparendo. Le vecchie come nonna Vincenza nellisola si possono ormai contare sulle dita duna mano. Tant, dicono, cominciata anche qui la stagione del vidisti-credisti. Oggi i bambini nascono con gli occhi aperti. Sicch il carbone del Sulcis rimasto nudo di una vera e propria mitologia paurosa. Nemmeno le donne pi superstiziose riescono a far discendere tanto carbone da un originario mucchio doro daltrettanto peso e volume. Il carbone di Carbonia, anche per esse, non un tesoro maledetto; anchesse sanno che il processo, se mai, inverso: luomo con le sue arti trasforma il carbone in oro, luce, calore, anticrittogamici, fertilizzanti. E quando si ruppe il bando che a nessuno era vietato lingresso, tutti vi accorsero dalloltremare e dallinterno. Gente anche che lasciava il suo mestiere, se ne aveva uno. A uomini di avventura si mescolarono in gran numero contadini e pastori, rovinati dalle annate e dal fisco e anche reduci, sconfitti nella battaglia contro loligarchia feudale dei grossi proprietari e dei grandi armentari (anchessi vittime delle tasse, dei rovesci stagionali e dellarretratezza) oppure ex combattenti della guerra perduta. Contadini e pastori, che mai avevano pensato di rinunciare ai campi o ai prati aperti, ora, spinti dalla fame, partivano verso il Sud, ma col voto segreto di fare ritorno alle
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loro case quanto prima, come lemigrante loro nonno o loro padre che era andato pi lontano (in Tunisia e in Algeria, in Argentina o nel Brasile, a Panama o nel Texas) con quel medesimo destino di sradicato e di profugo, e con quel sogno di ritornare ricco al pi presto. Citt dunque che non poteva essere amata. N pu esserlo ancora, fredda e provvisoria come un albergo. Ma non detto che essa non possa riconciliarsi con la terra sarda. Chi vi ha fatto la sua esperienza sfortunata ritornato alla vita mezzo disperata del suo villaggio. Dire di uno: a Carbonia ancora oggi per la gente dellinterno come dire che egli in terra straniera. Dire di uno: stato a Carbonia per quelli del contado che se lo sono visto ritornare pi povero di prima ancora come dire delusione e mala sorte. Per questo se Carbonia, come citt senza storia e senza leggende, non ha ispirato uno dei mille e mille che labitano, ha per ispirato uno di quei reduci contadini che al tempo della crisi pi acuta del 1948 lha cantata in versi dialettali che esprimono un disperato tenace amore non corrisposto: Carbonia odore di zolfo / citt dei traditi del monte e della valle: / sempre pensa chi arriva di voltarti le spalle. / Citt di mala idea / citt in agonia / minatori e manovali combattono in trincea e anche in retrovia. / Troppo freddi gli alberghi: / solo di tanto in tanto / sogniamo qualche santo / dei nostri villaggi lontani / che entra vestito di fuoco / avvolto del fuoco divino / quello del tempo lontano / del villaggio contadino. / La notte non pi notte / il giorno non pi giorno: / sempre le ossa rotte / sempre la morte intorno. / Nata ieri e gi mortale, / si fermer lingranaggio? / Fosti dunque un miraggio / nel deserto sulcitano? / Nessuno ti salver? / Chi ti dar una mano?. Sono passati tanti e tanti anni, e la citt non morta. Forse quel contadino contento, come se sia stato miracolo dei suoi versi. E intanto si fa strada lidea che, se la Sardegna, allinverso della penisola, ha ricchezza di carbone e precariet dacque, con tanta riserva di carbone si potr dare allisola, per mezzo di centrali termoelettriche, lenergia che le occorre, e si potr disporre a scopi preminentemente agricoli delle acque gi imprigionate nei bacini, e di quelle da imprigionare.
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La citt del carbone, potenziale citt sarda indispensabile alla vita della regione, deve perdere il suo volto ambiguo tra quello che e quello che potrebbe essere. Quando il Sulcis sar diventato una vasta e distesa contrada di moderne fattorie, Carbonia si sentir abbracciata dal suo retroterra, e chi vi arriver dalla campagna la vedr finalmente riconciliata con la terra che oggi la ospita come straniera. LOASI DI PELAU Non si creduto abbastanza nel Sardo come pianta uomo. Eppure pu occorrere di entrare nellOgliastra, e di far la conoscenza duna valle bonificata chiamata Pelau dIerzu, quasi ignorata dalle guide. Una creatura di Sardi. Sulla landa dieri sono nati vigneti, oliveti, frutteti, fattorie con case ridenti che danno alunni a quattro classi rurali. Nessuno se n accorto, almeno per il curioso contrasto dun silos con un molino a vento che fa da ventilatore a un nuraghe. E, il pi importante, nessuno s reso conto che le popolazioni limitrofe, che erano ostili e scettiche e inerti, si sono messe da sole, per quellesempio, su quella strada: segno che i Sardi sanno fare anche da s, e hanno amor proprio e gi sanno rifiutare il mito della cattiva stella. UNA GRANDE OFFENSIVA stato detto con le migliori intenzioni del mondo che lisolamento ha esaltato nel Sardo le virt familiari, mentre ha affievolito le virt sociali.14 piuttosto che le virt sociali non sono affievolite nei Sardi, pur dopo tante traversie, ma dormono soltanto, e basta una circostanza, che essi riconoscano importante, a ridestarle. Nella primavera del 1946 la strada nazionale che da Olbia a Cagliari traversa lisola in longitudine (quella strada che, una volta percorsa da settentrione a mezzogiorno e viceversa, fa dire al forestiero frettoloso: Io conosco la Sardegna, e il suo paesaggio monotono mentre meglio lo informerebbero le paralitiche corserelle, purtroppo scomode, dei trenini
14. Valentino Martelli, La Sardegna e i sardi.

complementari, e miglior pro gli farebbe uno sbarco iniziale ad Alghero come in Catalogna, a Oristano come in terra islamica, a SantAntioco erede dellantica Sulcis, ad Arbatax di Tortol) quella monotona striscia stradale era coperta di cavallette morte. I campi e i margini, che ne avevano brulicato e nereggiato, ora ne rosseggiavano; morte attossicate. Un ristretto stato maggiore di tecnici aveva chiamato a raccolta la gente, e la gente si era data a suonare le campane perch nelle case non restasse che i vecchi e glinvalidi. Offensiva grandiosa, con giornate piene di ottanta mila combattenti ciascuna, non contando i ragazzi e i fanciulli. Erano uscite bianche dalluovo nel marzo: dopo poche ore dalla nascita erano gi nere; di giorno in giorno pi perfide e pi fosche dintenzioni e colore, attraverso le loro cinque mute, con la croce di SantAndrea sul dorso. Croce di SantAndrea? O non piuttosto due lettere: F e D dellalfabeto di popoli scomparsi, iniziali, come sempre i vecchi avevano detto, di Filiae Diaboli o anche Flagellum Dei? Nessuno pi ci credeva. Dicevano: Anche lasino ha la croce sul dorso, e ciascuno di noi ne ha una sulle spalle dal momento stesso che si nasce . E, nelle pause della terribile lotta che non dava respiro, sinformavano dai dottori che cosa fosse quel grillastro crociato. E piaceva anche ai bambini la strana storia. Dalla lontana notte dei secoli esse discendono dalla Campeda di Macomer e Bonorva. L le antiche madri. La punta di quella primavera era la pi alta, fin allora conosciuta, del flagello. Battaglie seguirono a battaglie sui due terzi dellisola e furono tutte vinte. Dove si vede che il pericolo comune, linteresse comune, la bont dellintento, la fiducia nei capi e nella tecnica trovano i Sardi pronti a scendere in campo tutti insieme anche contro le forze cieche e demoniache. I primi tre termini i Sardi (la media dellintelligenza notoriamente elevatissima) riescono a riconoscerli da s. Il male nostro era solito dire con umilt Giuseppe Tropea sempre dipeso dal capitano: da lui che deve mostrarsi alla prova, e senza il quale, per lesperienza che ne ho, anche la compagnia barracellare pi intrepida finisce col far la figura del moro bendato.
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LE PAROLE DI ANTIOCO MEZZADRIA

Onora le feste. Se vai a Gonare,16 taiuti a campare. Ed denaro messo a frutto, senza contare che festa solenne e che da quella cima si vede tutto, tutta la nostra terra come barca sul mare.
(Cluverio, Italia antiqua, v. Sardinia, fa arrivare i Greci in Sardegna nellanno 448, dopo la distruzione di Troia). Il padre Madao, invece, sta con Diodoro Siculo, Strabone, Solino, Pausania e altri: Iolao sarebbe venuto in Sardegna con i prncipi tespiesi, suoi cugini, nellanno 1218 a.C. Sar tutto favola? Il cav. Mameli de Mannelli che pubblic nel 1805, con la traduzione italiana, le Costituzioni di Eleonora giudicessa dArborea intitolate Carta de Logu il pi reciso nellaffermare la derivazione dellanno sardo dallanno greco antico. Egli, dopo aver attribuito ai Greci il cambiamento stesso del nome dellisola da Cadossene (sacra pianella in ebraico) in Sandaliotes o Ichnusa, fa notare che la sola differenza degna di nota che i Greci iniziarono lanno il 24 settembre, i Sardi lo retrocessero al primo dello stesso mese. E si vuol avvalere di riscontri greco-sardi, come le launeddas, il ballo tondo, le corse a cavallo, la mastruca e il colletto di pelle degli uomini, labbigliamento muliebre di gusto greco, lusanza delle donne di non sedere a mensa in presenza di estranei ecc.: tutta unaffinit omerica, insomma. La Marmora (Voyage en Sardaigne, parte I, lib. II, cap. III) si appoggia al Bochard (Geografia sacra, lib. I, capo 31) e non riconosce tutte le colonie greche di cui fanno menzione gli scrittori e riduce quasi a nulla linfluenza esercitata in Sardegna dal contatto diretto con i Greci; e anche si richiama al Mnters (Ueber einige sardische Idole) il quale fa derivare i vocaboli greci a risultato delle relazioni con la Sicilia, con Roma e con lImpero dOriente. Da notare particolarmente: M. L. Wagner (in La lingua sarda) con la sua autorit di insigne romanista che domina sovranamente il campo specifico della linguistica sarda, al Cap. VI lelemento greco e bizantino dopo avere affermato che non si pu contestare che siano esistite in Sardegna colonie greche, come pare sulla costa nord-orientale pur essendo scarse e contraddittorie le notizie che ci sono pervenute scrive: Il sardo ha parecchie voci di origine greca che per lo pi gli sono comuni collitaliano meridionale, sicch probabile che fossero gi usate nella latinit dellItalia meridionale e che quindi non si debbano considerare come veri grecismi. Anche lo Spano si riallaccia (Ortografia sarda) alla tradizione degli Ebrei e di altri popoli che fissano il settembre come mese di nascita del mondo: cabude o cabudu (caput) egli dice termine che indica in Logudoro la focaccia che i paesani si regalano a mo di strenna nel primo giorno dellanno.

Contadino, dura vita. Da quando cominciano le piogge di settembre, acqua e vento egli deve amministrare. Altrettanto si dica del pastore. Beato lartigiano che batte sullincudine o ha i piedi nei trucioli. Beato limpiegato e beato il rettore, nati con la camicia. Viaggiano le gru, beccano le olive i tordi e fischiano dallegria. Laria fumosa odora di polvere da sparo: volpi e pernici, lepri e conigli si raccomandano lanima. Il sole sbadiglia e va a letto pi presto. Prepara gli attrezzi, uomo della semina, affila la roncola, pensa ai debbi. Il fuoco prepara al grano culla e letto. Col grano che muore e giace in sepoltura comincia lanno nuovo. Lanno nuovo: mese di capidanni (caput anni).15 Laltro anno, quello dellanima, nasce col Bambino.
15. Cronologia. Quando chiedi al contadino quale sia il nono mese dellanno, egli ti risponde: capidanni. Cabidanni o cabudanni indica principio danno, (caput anni); il che dimostra allevidenza che anticamente lanno in Sardegna aveva principio nel mese di settembre. Quanto allorigine, che non trova riscontro nelle altre regioni del mondo latino, varie sono le opinioni. Secondo il padre Vidal (Annales Sardiniae, ed. 1645, pars II, ad ann. 249) lorigine dello stile sardo si riferirebbe, niente meno, alla creazione del mondo, che risalirebbe a un 24 settembre caput anni alludit sententiae plurimorum, qui mense septembris conditum adstruunt mundum. Labate Madao (Dissertazione sulle sarde antichit, ed. 1792, p. 329, n. 2) esclude che il mondo sia stato creato in estate (Dio cre il mondo essendo il sole in Ariete, cio nella dolce stagione della primavera; vedi Dante: Tempera dal principio del mattino, / e l sol montava n su con quelle stelle / cheran con lui quando lamor divino / mosse di prima quelle cose belle), lo stesso giorno, secondo gli antichi, dellincarnazione o della morte di Cristo. Lanalogia dellanno sardo con lanno ebraico ha fatto nascere la supposizione che siano stati i Greci a importare lanno ebraico in Sardegna

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Le parole di Antioco Mezzadria

Ammetterai che settembre fratello daprile, quanto allaria dolce. Quanto poi a frutti, portagli rispetto: frutti da per tutto: uva, fichi, pere, fichidindia. La buona massaia si conosce dalla sapa, si conosce dalla mostarda.
In opposizione a questi autori c chi, senza perdersi in congetture e smarrirsi nel labirinto dellerudizione, fa coincidere linizio dellanno civile e legale con quello dellanno agrario che in Sardegna principiava appunto verso settembre, come anche adesso in molti paesi della Sardegna. Resterebbe da spiegare come mai solo la Sardegna (non Roma, non Pisa, non Firenze, non Venezia nel Medioevo) non sinformasse al sistema generale dellera cristiana in relazione alla grande festa del Natale e degli episodi pi solenni della vita di Ges. Pu darsi che la Sardegna (vedi Michele Pinna, in Mediterranea, anno I, n. 4, 1 aprile 1927 e n. 5 del maggio successivo: Note di cronologia sarda) non abbia prodotto ma abbia invece accettato quel sistema importatovi dai Greci con i quali la Sardegna nellantichit ebbe stretti rapporti. Comunque sia, non pu dubitarsi che lanno sardo avesse principio nel mese di settembre. Sta anche il fatto che la festa di Natale la pi grande da noi, e che la si aspetta per tutto un anno pi dello stesso capodanno: per questo Antioco Mezzadria ne parla come della data che apre lanno dellanima, mentre il settembre apre lanno della grande fatica del contadino. Il Calendario sardo proprio delle carte amministrative, giudiziarie, notarili e private: in tutte quelle scritture cio meno soggette al formulario diplomatico o cancelleresco e pi armonizzanti col gergo e con le usanze del popolo per uso del quale venivano redatte. NOMI DEI MESI 1 mese: settembre cabudanni. 2 mese: ottobre mese ladaminis (da letamen = concime) Vidal, La Marmora, Spano e altri. Mameli de Mannelli, invece, lo fa derivare da litamen, sacrificio, mese delle oblazioni. Nel settentrione dellisola chiamasi Santuaini (Santugabinu, Santugaini), da San Gavino martire sardo protettore della regione, la cui festa ricorre il 25 ottobre a Portotorres. Per lo stesso motivo (Mameli) in qualche luogo lo chiamano mese de Santu Sadurru, dal martirio di San Saturnino patrono della chiesa cagliaritana. 3 mese: novembre dognassantu detto anche (nella diocesi di Bosa) su mese de sos Mortos o siat de Santu Andria (vedi Discorso sopra la coltivazione di alcuni alberi, ecc. scritto in bosano; e anche Ortografia sarda dello Spano). 4 mese: dicembre mese Idas, in alcuni luoghi anche Nadale o Mese e Paschixedda. La Marmora (Voyage) la riferisce allespressione Idi di dicembre, Mameli lo fa derivare da Vedove (secondo Macrobio) il quale

Per altra protezione va in processione a Santa Croce.17 Per carne caprina, sposa unogliastrina, al tempo di settembre.18 Contadino, fatti coraggio. Sei proprio in ballo. E la ballerina ti segue nei solchi e ruba il verme rosso al fanciullo che lo
ultimo ricava letimologia dal verbo etrusco iduare dividere (le vedove rimpiangerebbero in questo mese la buona compagnia goduta da spose in tempo di freddo). Spano, da vegliare, dalla veglia della notte di Natale (bizare = vegliare). 5, 6, 7, 8, 9, 12 Mesi conformi al calendario romano. Ginnaggiu Friargiu, log. fribaggiu marzu abril o arbili maju austu. 10 mese: giugno lampadas, Vidal: da lampane per lilluminazione del 248, in occasione dei giochi secolari a Roma, sotto limperatore Filippo. Spano: fuochi della notte di San Giovanni. 11 mese: luglio Treulas, da trebbiare, log. triulare; infatti, anche mese e argiolas (mese delle aie). NOMI DEI GIORNI La denominazione dei giorni conforme al calendario romano. Eccetto il venerd: cenbara, cenura, chenpura; Porru: coena e paro; Spano: caena pura. La convivenza di ebrei e cristiani nei primi tempi del cristianesimo in Sardegna riceve una conferma linguistica dal nome sardo del venerd coena pura (sardo antico kenpura, sardo mod. kenbura, cenbura) giacch ci attestato espressamente che coena pura la traduzione del greco dipnon catharn e che questa denominazione fu adottata dagli Ebrei per designare la vigilia del sabato (prosbbaton), evidentemente perch gli ebrei ortodossi preparavano in quel giorno il loro cibo per il sabato Se in Sardegna e solo in Sardegna fra tutti i paesi di lingua romanza il venerd ha il nome di kenpura, lo si deve al fatto che gli Ebrei venuti dallAfrica settentrionale in Sardegna lo hanno portato con s, e che questo nome fu adottato in seguito anche dai cristiani sardi. La connessione del nome con le abitudini rituali degli Ebrei riceve una conferma anche dal fatto che il pane azimo continua a chiamarsi in Sardegna (pane) purile o purilndzu, vocaboli evidentemente derivati da (kena) pura (M. L. Wagner, La lingua sarda, pp. 32-33). 16. Festa di Orani (Nuoro). 17. Festa di Oristano. 18. A settembre la carne caprina, in Ogliastra, straordinariamente squisita.

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ricerca come esca per prendere con le sue trappole dasfodelo gli uccelli che non sanno emigrare. Carnevale gi nella vigna. Carnevale di ottobre. Il vignaiolo balla scalzo, balla scalza la vignaiola e non sembrano cristiani. Anche le api hanno perduto la testa allodore del mosto: e la gente canta canzoni che non stanno n in cielo n in terra. Ara, contadino, che ora darare. Prega Maimone, il dio che piove: gridagli col grano: Acqua prima e acqua dopo. C chi sta fermo e c chi viaggia. E il mondo cos pi vario. Gi il vecchio non lascia pi il fuoco, e gi arrivato il desulese,19 arrivato il tonarese20 con le noci, le nocciole e le castagne. E i pastori se ne vanno, e va con loro la rondine, e canta lultimo grillo. Ritorna il rintocco di campanile che non si faceva sentire pi, da San Giovanni: il bambino che non pi capretto si tinge le dita di mirto e dinchiostro e ruba il gessetto al maestro distratto. Fiorisce di campanelle di cera nelle macchie il corbezzolo carico dei frutti maturi di un anno fa, e tu mangiane uno solo21 per lasciarli alle api che ti daranno il miele amaro, che tanto raro, e ci ha dato un nome nel mondo, come diceva fra Raimondo del convento di Bonorva. Fratelli miei, le campane sono tutte addolorate e suonano per tutta la notte. Ritornano stanotte in visita i nostri morti alle case, siedono alle tavole imbandite e conversano dun tempo che cera lacqua e il pane anche per loro e le frutta e ogni bene a portata di mano, mentre adesso come in sogno: e sindugiano a guardare la bianca tovaglia finch non scoppia come un colpo di fucile il primo canto del gallo: allora se ne
19. Desulo, borgo alpestre in provincia di Nuoro. 20. Tonara, borgo alpestre in provincia di Nuoro. 21. Letimo di unedo da unum e edere gi in Plinio (pomum inhonorum, ut cui nomen ex argumento una tantum edendi) ma non c probabilit che sia autentico, perch unedo sembra che abbia lu breve, mentre unus ha lu lunga. Quanto a lidone, invece, la derivazione da unedo, -onis comunemente accettata (Bruno Migliorini).

vanno dicendo: Una volta questa voce non ci spaventava: una volta ci risvegliava e ora ci addormenta. Se grigia la nebbia e grigio il cielo, pensa allindovinello: chi muore non muore. Riproponilo a te, proponilo ai tuoi figli. Hai notato che lalbero appena potato entra in malinconia, gli sembra di morire e poi rinasce pi vivo che mai? Ti rammenti il sapore del primo vino dopo la giornata mortale di vomere e ancor peggio di zappa che fu, questultima, la vera condanna dAdamo? Cerca, ch tempo, lamicizia del cacciatore che ti dia almeno ununghia di cinghiale. Se passa il cane ferito, lacerato dal dente di fulmine, fatti fare il conto delle sue cicatrici che sono altrettante medaglie. Che piova ancora. E chi ha ancora da seminare, tempo non perda. Resta pure a casa, nel grande maltempo. Mai il fuoco tanto bello come in questa prigionia di dicembre: e le mani al calore perdono quasi i calli e il legnoso e sanno intrecciare il giunco e lasfodelo e dipingere con essi animali e alberi che furono dei nostri antichi pi antichi. Fa la trottola, il cavallo e il carretto: e, se non hai figli, mandali a quelli del tuo vicino: crescer cos la schiera dei tuoi amici. Senza amici, lo sai, la terra sarebbe senza sole. Non te ne restare solo con i tuoi pensieri: vattene al frantoio piuttosto; vattene dal fabbro, vattene dal falegname: l ci fa caldo e si discorre di tutto, di quello di oggi, di quello dieri, di quello di domani: l ti puoi incontrare con quello che legge il foglio che racconta che cosa avvenuto nel mondo nelle ultime ventiquattro ore: cosa miracolosa, come sembrava una volta; e ora quasi nulla, dal momento che il forestiero da qualche tempo in qua ne ha inventate tante. Ti raccomando le nespole coronate, le mele con lanima fredda ma senza peccato, le cotogne che dal nascondiglio della cassa parlano con lodore, e le pere che prendono le rughe ma la veste questa volta non traveste. E le arance a chi le lasci? Arance, arance belle: arrivato il Milese.22 A costo
22. Milis, terra daranci, in provincia di Cagliari [Oristano].

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anche dindebitarti, portane qualcuna nella tua casa del fumo.23 Altro che olive, altro che tordi, che tutto dire. Vedrai che luce, vedrai che festa. Ti sento gi mormorare che comunque non sar festa paragonabile a quella che gi nellaria e ha fatto passare il mare alle launeddas forestiere e alluccello che parla e predice la fortuna. Certo, meglio era una volta. Quando il giovane sposo la notte della messa del gallo arrivava alla promessa sposa che lo aspettava sulla soglia per ricevere dalle sue mani un piccolo sole: la moneta doro che si chiamava marengo: e Dio voglia che ritorni il tempo di quel ricco dono, che sarebbe la pace che non si compera con loro. Intanto, te lho gi detto, lanno dellanima sta per cominciare. Interroga la tua coscienza e promettiti di essere migliore. Capodanno, salute e felicit a tutti. Se passano i bambini anche da te e ti cantano la filastrocca che chiede in nome del Bambino nuovo il dono delle frutta secche, o dei cavallini di formaggio fresco o dei dolci di miele, e tu non ne hai, fagli almeno un bel sorriso, digli almeno una buona parola. Oggi avesse ognuno un capretto, o un agnello a tavola, e una casa col fuoco acceso, e amicizia col vicino. O almeno un tordo che ha passato la vita a beccare il mirto, il corbezzolo e il lentischio. Ritornano oggi a piedi le grandi comitive dei cacciatori e i loro cavalli sono carichi di cinghiali. Cos la gente si carica di allegria sperando che sar cos per tutto lanno. Poi, domani stesso, o sar questione di giorni, un miracolo accadr, il miracolo di ogni anno; sali sopra un albero, sali sulla collina, o affacciati alla finestra pi alta e grida: Grano, vieni! e vedrai le prime lingue verdi spuntare, le piccole lingue di fuoco verde del grano bambino. il miracolo maggiore dopo quello stesso di SantAntonio che scese allinferno e rub il fuoco per gli uomini. E dal momento che lo abbiamo nominato, sii come il fuoco suo che si accende in piazza e brucia lentamente, e
23. Cucina allantica.

ognuno vi si pu accostare. Sono inoltre, queste, le notti che fioriscono non si sa come i mandorli. Sono giorni di confusione luno dietro laltro, di gemme e di carnevale, di gridi laceranti di porco e di odore di setole strinate. E se vuoi un carnevale che non ce n un altro su tutta la terra, vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di SantAntonio: vedrai larmento con maschere di legno, larmento muto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un carnevale triste, un carnevale delle ceneri: storia nostra dogni giorno, gioia condita con un po di fiele e aceto, miele amaro. Rammentati tuttavia che sei uomo, e che uomo vero non piange e non deve dire che una parte del suo male. E considera, per esempio, che stanno per scoppiare le gemme; che dico? sono gi scoppiate. La terra si rallegra, ritorna ogni erba, anche quella maligna. Se sei uomo, strappa la zizzania. Non senti la voce nuova, del resto? Il sospiro che esce dal bosco? dunque con noi unaltra volta luccello ambasciatore, lui, luccello indovino. Che sia il benvenuto, e ognuno ne possa contare tanti ritorni, quanti il suo cuore desidera. Correte, fanciulle, a consultarlo: non si paga niente. tempo vostro, tempo di spose. Quando, quando? Parole che gridate al tempo che va come il fiume. Tempo vostro. Non date retta alle vecchie pietrose che si voltano indietro, chiudono gli occhi e sospirano: e che i tempi sono cambiati, sfido io, e che le loro primavere erano pi verdi, e il sole pi brillante. Rispettate le vecchie, anche oggi. Va da s che anche i santi da vecchi furono brontoloni: ora la chioccia si mette a chiocciare e sempre lo ha fatto, e sempre lo far; e il contadino rizappa le fave e c in lui o suo padre o suo nonno; e una ciliegia tirer sempre laltra; e marzo sempre stato pazzo; e cos la gente. Ormai le biade corrono al vento. Il sangue fermenta come mosto nelle vene. Dalla capra occhidizolfo al pi piccolo uccellino, tutti vanno a due a due. Alta lallodola canta e si precipita come un sasso sulla zolla del suo colore. I cortei di nozze lasciano le strade seminate di grano, e le galline beccano
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gli auguri. Le rondini non hanno tempo di giocare, siedono nelle loro barchette di mota e aspettano larrivo dei figli. Gi ritornano i pastori, gi la neve s sciolta, le lane sono come neve sui prati. Le campane sono legate. Suona, fanciullo, la tabella, che morto il tuo pi grande amico, quello che fu come te per tutta la sua corta vita: suona, suona: e sospendi quando cantano i grandi cantori di tra la barba finta di mascherati Giudei: ascoltali, cercano di far coraggio a una madre disperata. Suona, finch ritorni il fuoco in piazza, finch ritorni lagnello alla madre. E gi la falce miete lorzo. E tutto ronza, tutto odora, tutto trema di piacere. Ogni fanciullo tenta dincantare la lucertola col suo zufolo di canna; ma pi gli giova il fieno, per prenderla al laccio. Ragazzi, lho fatto anchio, ma quanto era mal fatto: non tagliate le code alle prigioniere per vederle tremare e bestemmiare: poi vengono i sogni incubi in punizione: non uccidetele, liberatele: avete visto come batte loro il cuore di paura? Che cosa vi hanno fatto di male? Non avete osservato quanto son belle sulla roccia, come locchio si rallegra al vederle correre veloci e rimbucarsi e tirar fuori la testa per guardare il mondo? Avete visto come piange lalbero, se lo ferite? Come lacrima il ramoscello, se lo stroncate? Non fate di queste cose, non offendete chi non nuoce e non si pu difendere. Difenditi s dal topo e dalla formica. Strappa la gramigna per il bene di tutti. Se fai il bene tutto il mondo se ne tiene, e il sonno verr a te ogni sera a passo scalzo. E come avviene dogni cosa, anche il verde si stanca, e il giallo vince. Anche i sogni divengono gialli, ora che nelle spighe c il mare, e ogni seme sasciuga e simpasta, e i pastori partono per la montagna. Primizie dei frutti, la casa, anche la pi povera, per un frutto maturo che vi entri, un lume che la fa ricca, un verminare di disegni. Andare, andare. Tempo di vendere, tempo di comprare. Sopra tutto cavalli. A Sorgono, San Mauro taspetta.24
24. Fiera di cavalli.

Se non sei libero n ricco, canta almeno rivolto a mezzogiorno e pensando a SantEfisio che viaggia lungo il mare: Maju, maju, beni venga / cun totu su sole e amore / cun sarma e cun su fiore / e cun sa margaritina. il tempo del mietitore, il tempo anche dei gigli. Fioriti castagni e melograni. Ciliege, albicocche, pere, pesche, nespole fanno ladro ogni bambino. E il cielo comincia a piovere fuoco, e presto le zolle salteranno come rane. Solo le api si bagnano di sole. E il miele e il canto delle cicale traboccano. Ma gi scoppiato un grido, e tutti lhan sentito. Allaia, allaia. Cominciata la giostra. Venga il vento spagliatore. Motti e canzoni labbondanza li chiama. Ma attenti alla tarantola doro, doro falso: del suo veleno non si muore, ma non il pi bel divertimento tremare come laria sospesa sul forno acceso e dover chiamare le vedove che ti ballino attorno seppellito nel fimo.25 Manda per questo un pensiero a Santu Antine26 che seduto sul trono di Sedilo ti assista sino alla fine, come fa con i cavalieri che gli corrono attorno con i cavalli pi arditi. Che non venga la grandine, invocalo, che non vengano glincendi, che sia dispersa la razza delle locuste. Invoca anche SantIsidoro, invoca Santa Giusta della terra dOristano. Credi pure nella crusca avvelenata, non c cavalletta che non perda la testa per un pizzico di quel dolciume, crediamo in chi ha studiato e ci ha aiutato a vincere il demonio. Non pi il tempo di prendere le lucciole per scintille. La vera croce labbiamo noi sulle spalle, ma se non ci aiutiamo nessuno ci aiuta. Dove sono ormai le ombre? Non ti spazientire se il sole se le mangiate. Avresti per caso pere mature dalle acerbe come sono ancora? E i fichi e le pesche a chi li lasci? E poi ritornano dallaia i carri a passo di processione. Ogni strada s messa in festa: ecco il carro di Melchiorre, e quello di Geremia, e quello di Saturnino, e altri e altri, chi li pu contare? Anche gli stracci oggi sono drappi, sono broccati, sono
25. Come rimedio disintossicante. 26. Limperatore Costantino per volont popolare santo in Sardegna, e dei pi venerati. La sua festa viene celebrata ai primi di luglio in Sedilo (Nuoro) [Oristano].

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damaschi. E ogni massaio un santo che ha fatto il suo miracolo, uno solo ma grande. Pane nuovo, nuovo odore. A ogni animale, a ogni oggetto si ispira la massaia per i giocattoli mangerecci dei suoi figli. Alluomo prepara la luna grande che occhi e bocca non ha, e la impronta di monete antiche, di croci, dincomprensibili mani, di uccelli fermi ad ascoltare la voce della Fortuna che l sulla porta duna casa da contadino. Fa festa anche la volpe e fa allamore con la vigna. Lacino poppa nei giorni e nelle notti, mai sazio e sempre sazio. Cocomeri e poponi arrivano a carri dalla dolce Baronia27 piena di melograni e di carrubi. Perci passa di bocca in bocca, da bambino a bambino, lindovinello del rosso che non fuoco, dellacqua che non mare, del verde che non prato. E il ficodindia si mette in pompa, e il mosto odora, e ogni altro frutto dorme come un bambino sazio. Ogni festa ha una fine, ogni campo il suo confine. Fuggono gli uccelli che ci rallegrarono ma lasciandoci la speranza che ritorneranno. Cadono al vento le prime foglie, di giorno in giorno pi numerose: a poco a poco gli alberi restano nudi, e il vento affilato li brucia. Dunque lestate se n andata, ma, nel timore dei giorni duri che non potranno mancare, contadino e pastore ascoltano unaltra volta contenti la pioggia che canta. Ritornano le nespole, le castagne, le mele cotogne, il vino nuovo: tutto ritorna, ed una vera allegrezza questo miracolo che si ripete e che continuer anche quando noi non ci saremo, ma ci sar lalbero che avremo piantato e che avr il nostro nome sulle labbra dei figli che lavranno ereditato, ma ci sar qualche volta uno che ci far rinascere dando il nostro nome a un nuovo uomo, limportante lasciare un buon ricordo, come di uno che ha fatto qualche cosa per migliorare il mondo. E intanto che il viaggio continua, riprendiamo la semina e guardiamo di quando in quando le stelle che viaggiano unaltra volta con noi.
27. Contrada alle porte di Nuoro.

DI LUNA IN LUNA

GENNAIO

Bennarzu Sin custa die no tenes affannu no ds haer fastizu in totu sannu. Se in questo giorno non avrai affanni, non avrai guai per tutto lanno.
DIALOGO TRA IL PASTORE E GENNAIO PASTORE

Bessidu che ses bennarzu / chi mhaias minettadu / chi mi dias haer dadu / sa morte a su primu nie / no timo pius a tie / chi como timo a Frearzu. Te ne sei andato, gennaio, tu che mi avevi minacciato di darmi la morte alla prima neve: non temo pi te, ora che temo febbraio.
GENNAIO

(Per sorprendere il pastore va da Febbraio e lo prega:) Prestami duas dies / chi ti las hapo a torrare / cando ds benner innanti. Prestami due giorni ch te li render quando mi precederai (mai, cio).
FEBBRAIO

Frearzu Frearzu: campat serveghe e campat servegarzu. Febbraio: campa la pecora, campa il pecoraio.

MARZO

Martu Si su lentore in martu no reposat, de su massaju sa fiza sisposat. Se la rugiada in marzo non riposa, del massaio la figlia si sposa.
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Di luna in luna

APRILE

Aprile Sabba e aprile fachet imbianchire. Lacqua daprile fa impallidire (aprile, mese di malattie). Maju Maju maju beni venga chin totu sole e amori e chin sa margheritina. Ben venga maggio tutto sole e amore e margheritine. No abbides in maju n caddu n messaju. Non guardare di maggio n cavallo n contadino. Lampadas Tempus da cariasa, si no nde comporas no ndhasa. Tempo di ciliege, se non ne compri, resti a desiderarle. Triulas Cando si pesat su entu est prezisu bentulare. Quando si leva il vento lora di trebbiare. (Ritornello del Canto contro i feudatari). Colcia lagliola chi timi la fulmica! Misera laia che teme la formica. Austu Austu, austu, foras de assustu. Agosto agosto, siamo a posto. Capidanni Tempus de figu, foras amigu. Tempo del fico, fuori lamico. Poveru, ingrassa: est capidanni. Povero, ingrassa: settembre. Santuaini o santugaini (mese di San Gavino)
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Annada e inu annada e pacu tinu. Annata di vino, annata di scarso senno. No est prus tempus de ficumurisca, ma calicuna si nde piliscat. Non pi tempo di fichidindia, ma qualcuno ancora se ne busca.
NOVEMBRE

SantAndria (SantAndrea) Attunzu ispilidu, baccarzu famidu. Autunno calvo, vaccaro affamato. Nadale La nebi purificheggia lu sangui e ammazza li criadduri. La neve purifica il sangue e uccide i bambini. ISSOS SUN SOS MESES, ED EO TI LOS PINTO ESSI SONO I MESI, E IO TE LI DIPINGO

DICEMBRE GIUGNO

LUGLIO

AGOSTO

SETTEMBRE

OTTOBRE

SantAndria est a murrunzu ca hat brigadu cun Nadale, chi non bi cheret andare ca fachet dies minores. Bennarzu cun sos pastores brigat ogni temporada, Frearzu juchet in cara unu cavanile nou, Martu nde ettat a prou sos arbores de-e sa rocca, Abrile bene si portat chi nos bettat sos lentores, e da Maju sos frores, Lampadas e Triulas trigu, Austu paret nimigu pro su sole iscallentadu, e Capidanni est torradu
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cun sarriu e figumurisca, gi Santuaini infriscat e gi proet sAttunzu SantAndria est a murrunzu. SantAndrea (novembre) sta brontolando / perch ha litigato con Natale (dicembre) / di lui non vuol sapere / perch ha le giornate corte. / Gennaio coi pastori / litiga a ogni tempesta, / Febbraio si coperto la faccia / con una maschera nuova, / Marzo sradica e rovescia per prodezza / gli alberi dalle alture, / Aprile bene si comporta / col far piovere rugiada, / e d Maggio i fiori, / e Giugno e Luglio il grano, / Agosto sembra nemico / per il sole arroventato, / e Settembre ritornato / col suo carico di fichidindia, / gi Ottobre reca i primi freddi / e gi piove lAutunno. / SantAndrea sta brontolando.

LE CASE SULLE ALTURE

La Sardegna ha le ossa molto antiche. Delle rocce emerse dei territori italiani le sue sono le pi arcaiche. In quel trambusto tellurico che gener lo sprofondamento della Tirrenide, la terra sarda non and tutta sommersa. Era, in termini scientifici, il periodo terziario. Dal di dentro il fuoco continu a lavorarla, e i freddi venti aiutarono i periscopi a divenire paesaggi duri, granitici. I geologi e i chimici sono i soli competenti a spiegare le tante complicate trasformazioni che seguirono. Sta tuttavia il fatto che da tutta quella segreta e indefessa industria sotterranea vennero accumulandosi quei grandi tesori (escusorgius) di piombo, zinco, rame, ferro, nichelio, cobalto e chi sa altro, che poi richiamarono tanti stranieri, con rilevanti conseguenze per le vicende storiche dellisola, come ben nota il Pallottino in Sardegna nuragica (Roma 1950). Escusorgius ormai accaparrati; mentre restano ancora a disposizione dei sognatori di olle piene doro quelli nascosti dagli antichi in tempo dinvasioni e di scorrerie dal mare, e che non si sono ancora ritrovati nonostante chi si messo da solo o in comitiva labbia tentato dopo i sogni premonitori fatti presso alla mattina. Intanto si formavano i fertili terreni a ovest, e con essi i vulcani Montiferru e Monte Arci, che, ormai da gran tempo, dormono il sonno profondissimo delle montagne. E, passando i giorni, ecco la terra matura, alla sua quarta et: quella della madre fiorente che d alla luce il migliore suo frutto, il meglio fatato: la pianura pi vasta che oggi i Sardi delle alpi barbaricine invidiano alla gente del Sud: il Campidano. Poi, come ci volevano anche le citt alte per la gente che per suo destino segnato avrebbe dormito allaperto con il capo nelle stelle, il demiurgo disse: Sia fatto, e nacquero i basalti disposti orizzontalmente, tabulari li chiamano gli scienziati: e quelle furono le acropoli che, se non partecipano in
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nulla della bellezza ellenica, non la cedono in stranezza solenne alle ambe abissine. Il pi a questo punto era fatto. E la terra sarda aspett lo sposo. E luomo venne dal mare, ed era di bassa statura e armato di armi scheggiate: era ligure, forse era toscano, o forsanche africano o ibero. Da quelle parti veniva; lod la terra e diede la voce a quelli che passavano lungo la costa e questi ad altri e vi presero domicilio e vi fecero comunella. Allora tutti insieme cominciarono a levigare le pietre. Si diedero le tombe a forno, conversarono con le janas che erano, qua piccoline e belle, l un po diverse e anche brutte ma tutte golose di miele e gelose dei metalli e tessitrici ai telai doro; inoltre si fabbricarono i punteruoli e i coltellini. Poi venne la stagione del bronzo, e allora tutti vollero una armatura e anche una casa forte. Nessuno voleva pi saperne di vivere in grotte. E questa casa la idearono anche sui modelli di quante ne vedevano e di cui riferivano quelli che andavano per mare, ma vollero nelle loro imprimere un segno, unimpronta, un marchio di fabbrica in modo che tutti potessero dire un giorno, e infatti si dice, che alla foggia sarda di quelle case costruite con grandi pietre sovrapposte a secco e a forma di secchie rovesciate, dette nuraghi ,28 non ne esistono altri esemplari fuori di Sardegna. Cos quegli antichi ebbero a migliaia i loro castelli e vissero per lungo tempo liberi e forti.
28. Nuraghe. La forma pi antica, non ancora scomparsa, norake. Secondo il Motzo (Norake e i Fenici, Studi Sardi, vol. I, 1934) la derivazione romana della parola insostenibile. Egli afferma che tale parola ha connessione con la base nora, nura, nurra, nole, nula, nule, che tanta parte ha nella toponomastica sarda, e che una di quelle basi prefenicie e pregreche e preromane alla cui ricerca gli studiosi si rivolgono come a quelle che possono sollevare un lembo del manto di tenebre che avvolge la nostra preistoria. Gi il Pais aveva segnalato che la parola nurra ha, nella zona pi conservativa della Sardegna, la Barbagia, il significato di cavit, fessura nel suolo, dolina. Il Motzo segnala che la stessa parola, nella stessa regione, ha laltro significato di cumulo, ammasso e quindi torre.

BARBETTA, CONTADINO Altezza m 0,125. Da un santuario delle acque in localit Mazzani, presso Villacidro (Cagliari). Rappresenta un popolano, probabilmente un contadino che fa offerta alla divinit. tutto nudo, tranne che alla vita coperta da un corto gonnellino: sulla testa una berretta, un tocco; sulla spalla sinistra una borsa (sa sacchetta). La statuina stilisticamente rappresenta un compromesso tra le maniere del gruppo di Uta e quelle del gruppo cos detto barbaricino. Delle prime mostra la forma strutturale nel profilo del volto terminante nellaguzzo della barbetta; delle altre, il modellato sciolto e rotondo, la linea aperta molle e movimentata, il gusto del caratteristico e del popolaresco, la tendenza naturalistica e di genere. Il bronzetto, come tutti i bronzetti analoghi della produzione barbaricina, caratterizzato da una dispersione di movimento, da una specie di tendenza centrifuga degli elementi compositivi, da una sorta di tensione disarticolata contro e fuori da ogni canone geometrico di ordine e compostezza: qualit che sono comuni anche a una numerosa serie di bronzetti mediterranei, vastamente diffusi dalla penisola iberica allAsia minore (dove forse si deve ricercarne lorigine) e di tale e tanta divulgazione e universalit spirituale che il loro linguaggio dur, con accenti pi o meno variati, dal secondo millennio alla met circa del primo millennio a.C. e oltre, prima, contemporaneamente e dopo il lungo svolgersi delle esperienze geometriche panmediterranee e continentali europee (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

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PROFEZIA Finas da-e antigriu sos omines tuos giughan battor ogros, battor brazzos: gaich in sos altos giassos domos de pedra ordan pro notriu. Pustis zente e parte e logu nos han fattu simbentu; o, a mezus narrer, su giogu. Ma dn passare annos chentu, e chentu e chentu ancora, finas chi dt benner sora chi in sas puntas de ia shan a pesare fogos e cantigos de allegria.
INEDITO

Fin dai tempi pi remoti / i tuoi uomini erano dotati / di quattro occhi e quattro braccia: / sicch sulle alture / case di pietra costruivano a secco / per vedetta. / Poi genti di ogni risma / ci hanno fatto lincantesimo; / o, a dir meglio, un brutto scherzo. / Ma passino pure cento anni / e secoli e secoli ancora, / ma dovr pur venire lora / che dalle alture che dominano le strade / si eleveranno fuochi / e canti dallegrezza.
Qui si allude agli eroi dai quattro occhi e dalle quattro braccia che appartengono al gruppo dei bronzetti figurati paleosardi che si conservano, circa quattrocento statuette, nei Musei e nelle Collezioni pubbliche e private isolane e, fuori della Sardegna, nelle raccolte del Continente (Torino, Firenze, Roma, Catania) e allestero (Londra, Parigi, Copenaghen). Nellagosto del 1949 se ne esposero sessanta nel salone delle Procuratie Nuovissime in Venezia e successivamente a Roma. Parigi li ospit e li ammir nel luglio 1954. Una cultura barbarica, unet eroica che le statuette ci aiutano a intuire o a comprendere con un linguaggio meno difficile delle altre documentazioni della cultura paleosarda detta genericamente nuragica (vedi Giovanni Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica. I bronzetti nuragici paleosardi, Venezia 1949).

CAPOTRIB Altezza m 0,39. Proviene da Uta (Cagliari) da un ripostiglio di bronzetti stilisticamente omogenei, di cui la figurina pi caratteristica ed esemplare. Capotrib o re pastore, esprime il potere dinastico con lo spadone di parata, il bastone nodoso che fa da scettro, col ruvido e ampio manto che ricorda su saccu, il sacco dei pastori sardi di oggi. La dignit di governo espressa dalla stessa forma e specialmente marcata dallo stilismo della schiena e dal capo tratto indietro, secondo una formula mediterranea che dal paleolitico balcanico scende ai tempi minoico-micenei e geometrici paleo-ellenici. Il linguaggio plastico sommario e contenuto, tutto chiuso nella forma. Poche decorazioni lineari sono segnate sui capelli, sulle sopracciglia e sulle frange che, a cadenza simmetrica e precisa, scendono brevi sulla nudit del manto sul dorso. La lettura formale del profilo particolarmente chiara: tutto espresso in estensione di piano, dal naso gigantesco che ricorda quello della Madre mediterranea, ai dischetti delle orecchie spostate disorganicamente sulla nuca ad ampliare la visione laterale e ad accentuare lo stilismo del capo inarcato indietro. Sullo sfondo, di l dalla concretezza volumetrica di primo piano della testa, la visione conclusiva della grande spada di comando del re pastore suggerisce una prospettiva intuitiva. VII-VI sec. a.C. (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

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Le case sulle alture

ADORATORI DI LEGNI E DI PIETRE E STREGONI


EROE DAI QUATTRO OCCHI E DALLE QUATTRO BRACCIA Altezza m 0,19. Proviene da Abini (Teti di Nuoro). Rappresenta uno stranissimo essere in abiti militari, con lelmetto sormontato da lunghissime corna a globetto (forse ricordo dun culto totemico); corazza tutta striata, gambali, armato di due stocchi e due scudi decorati e segnati, sul margine superiore, da manici di pugnali che vi aderiscono internamente a coppia. Duplicate sono le armi e duplicati anche gli occhi, espressi da metallici globetti linearmente contornati, quasi schizzanti fuori sotto ununica arcata sopracciliare; duplicate sono pure le braccia. Si pensato, per queste e per analoghe statuette, a divinit, a soldati che avessero superato con esito felice il giudizio ordalico delle acque, a eroi. Forse trattasi di esaltazione magica, tradotta in forma darte espressionistica, del valore guerriero, dello eroismo militare. Sono evidenti nella figurina i caratteri dello stile dAbini: la dilatazione frontale del volto che sembra quasi una maschera piatta laminata, ed coerente col gusto di superficie proprio del gruppo; lornamentalismo calligrafico sviluppato su vesti ed armi; lattenuazione della forma plastica compensata dallesaltazione espressiva di organi fisici. VII-VI sec. a.C. (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

Rispetto alle regioni del Centro lecito affermare che, sino allet romana, anzi bizantina, vi perdurarono con tenacia culti pi antichi.29 Lo ricaviamo con sicurezza dallepistolario di San Gregorio Magno (Di aruspicina si serbava traccia [come mi stato affermato da teste oculare degno di fede] nella Nurra ancora verso la met del secolo scorso). Non sorprende certo che popolazioni che abitano regioni inaccessibili, lontane dal consorzio civile, mantenessero riti e costumi, che risalivano alle et pi vetuste. N reca meraviglia lapprendere che da cospicui personaggi romani del IV secolo si tenessero in conto stregoni sardi, che, per mezzo di pratiche magiche, davano ad intendere di far apparire i morti. (Di un mago della Sardegna fa ricordo Ammiano Marcellino, XXVIII, 1, 7 ad a. 368 a.C.). Larte dello stregone sardo del tempo di Valentiniano, della quale si valeva il vicario imperiale di Roma, fa ripensare alle sanzioni raccolte nel Codice Teodosiano contro coloro che persistevano nel consultare gli aruspici. ovvio del resto ricordare le tabulae defixionum sparse in tutto il mondo romano, con le quali si credeva poter distruggere la vita dei nemici.
Ettore Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, parte II, Roma 1923, pp. 585-587.

29. Come il culto di Sardopatore provato dalle monete che recano leffige del pretore M. Atius Balbus, zio materno di Augusto; il culto delle vecchie divinit dei Fenici attestato dallimportante iscrizione bilingue di Sulci, appartenente allet di Silla; il culto di Esculapio Merre (Merre = forestiero?) attestato dalla celebre base trilingue di Pali Gerri; i culti egizi praticati liberamente in Sardegna durante tutto il tempo romano; il culto di Aristeo; quello molto diffuso di Cerere, quello di Dionysos e altri (Pais).

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NASCE IL FUOCO COL CAVALLO


Fogu, fogu / peri su logu / peri su mundu / fogu giucundu. Fuoco fuoco / in ogni luogo / in tutto il mondo / fuoco giocondo.

SARDUS PATER Il titolo di pater non eccede per nulla il significato latino del suo tempo che ben lontano da quello genetico in senso affettivo ed equivale nella religione e nel diritto dei prischi Romani a quello di signore. Ed esprime soprattutto la dignit dun capo. Un Sardus come eroe eponimo di tutta lisola pi probabilmente una invenzione degli storiografi greci, poich non nemmeno certo che autoctono sia il nome stesso dellisola scritto in una delle epigrafi fenicie pi antiche. Questa lopinione dellAlbizzati, che contrasta con quella del Pettazzoni il quale lo fa invece ente supremo dei Sardi, una specie di padre eterno provinciale che fa il bello e il brutto tempo. Il Sardus pater, comunque, in unantica moneta (coniata nel 59 a.C.), la sola di cui lorigine sarda non sia contestata, sostiene una specie di colloquio con lavo materno di Augusto, M. Atius Balbus, il quale govern da propretore lisola, lanno di Roma 693. Un compromesso, forse; o un contentino del vincitore al vinto.

Al tempo che la nostra isola, una delle pi antiche del mondo, era ancora tutta gelata e cera una sola stagione: ghiaccio in cielo e ghiaccio in terra, e la vita vi dormiva aspettando che uno la risvegliasse, venne in mente a SantAntonio, comera decretato sin dalla prima creazione del mondo, di scendere allinferno con un suo bastone di ferula30 la quale uno stelo che al fuoco non si arrossa, si annerisce soltanto e continua a bruciare in silenzio. Quando picchi a quella porta che era rossa come intinta di sangue di capra alla maniera delle nostre antichissime arche, lAnzipirri in persona venne ad aprirgli e, non avendogli preso odore di peccato che odore di strinato di porco, gli disse gettando scintille da ogni parte: Vattene con i pari tuoi che puzzi di sagrestia . Ma il santo non si scompose: Prima di tutto gli obiett io vengo da parte di Chi comanda cielo e terra, e questo dovrebbe bastarti; in secondo luogo, dato che avr unocchiata, ti lascer subito con tutta questa estate ardente. LAnzipirri, tanto per darsi qualche aria dimportanza, gli disse indicando la ferula: E il tuo bastone che significato pu avere? Che scherzo di legno che non vale una canna? Sarebbe per caso miracoloso tale da poter convertire i miei servi in angeli che odorano di giglio?
30. Ferula, da ferire per luso di farne bastoni. Frequente nella macchia (ferula communis) sa feurra che giunge fino a 4 metri daltezza e talora su pendici e su pianure aride, forma veri feruleti, come nella valle del Tirso al sud di Bolotana. pericolosa per il bestiame. I fusti dritti, grossi, nodosi, servono, secchi, a far seggiole e panchetti leggieri (Martelli, La Sardegna e i Sardi, Cagliari 1926, p. 78).

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Antonio rispose con una voce innocente: proprio legno del pi povero, infatti: e i pi poveri ne fanno cavallini per i loro figlioletti, e per s scanni e bacoli. LAnzipirri concluse annoiato e ironico: Troppo tempo mi hai fatto perdere fino a questora, e allora sbrighiamoci e sta bene attento a non prelevare campione di cosa che sta qui dentro. Antonio disse di s ed entr guardando a destra e a sinistra. E cerano caldaie di pece bollente, e cerano cataste di ginepro che facevano da torce in tanto buio: e a queste egli accost la sua ferula come a misurare i gradi di calore. E disse al Piedicapra che lo vigilava: Ti do atto che bruciano bene, ma mi basta quel che ho visto, qui non si respira: ti saluto e sono . In quel punto si sent chiamare: era corsa notizia della sua visita, e cera qualcuno dei pensionanti, ancora qualcuno che sperava di poter uscire da quel reclusorio senza sapere che quella speranza era la loro pena speciale: ed erano voci di bambini, anche vagiti: di piccole creature innocenti morte senza battesimo. Il santo sospir, trattenne le lacrime e riusc allaria pura. Comera il suo pensiero, in un momento fu nellisola di ghiaccio, sal sul pi alto monte, agit la ferula in ogni direzione: si staccarono scintille, e il vento le dissemin nellacciaio, nellesca, nella pietra. Ma la terra rest comera, comuna morta in una bara di cristallo. Allora egli scese alla pianura, scav una fossa della lunghezza e della larghezza della ferula, seppell quel fuoco silenzioso. Da quello stesso momento la terra sorrise, si ridest dal suo sonno di mille e mille anni, cominci a germogliare, in poco tempo si popol derbe e danimali, era la primavera: e il Sardo salt a cavallo.

TEMPO ROMANO

ISCRIZIONI In piena et imperiale, forse ai tempi dAdriano, viveva in Cagliari confinato il cavaliere romano Cassio Filippo. Colpito da malattia mortale, Attilia Pontilla, sua sposa, la quale lo aveva voluto seguire nellesilio, offr la propria vita agli dei inferi in cambio di quella di lui: e gli dei la esaudirono. Il marito superstite le dedic per gratitudine un piccolo sepolcro a foggia di tempio con sul timpano quei due serpenti dai quali, simbolo dei numi sotterranei, esso designato come La grotta della vipera Sa grutta de sa pibera (nel quartiere cagliaritano di SantAvendrace). Sette iscrizioni in greco e cinque in latino ornano le pareti del tempietto e dellipogeo, tutte in versi. Esse meritano dessere ritenute il documento letterario pi notevole della Sardegna antica. Sin dal sec. XVII richiamarono lattenzione degli studiosi di antichit. La loro fortuna raccomandata alle edizioni e ai commenti principalmente di L. A. Muratori, del Mommsen, dello Spano, del Coppola, dellAlbizzati. Conosciamo traduzioni in francese e in italiano. Dallesame stilistico architettonico lAlbizzati e il Coppola hanno concluso che il monumento databile non pi indietro del I secolo d.C. e non pi avanti del II. ISCRIZIONE GRECA Dalle tue ceneri, o Pontilla, germoglino viole e gigli, e possa tu cos rifiorire nei petali delle rose, del profumato croco, dellimperituro amaranto e nei soavi fiori della viola bianca, affinch simile al narciso e al mesto giacinto, anche il tempo avvenire sempre abbia un tuo fiore. Infatti, quando gi lo spirito di Filippo dalle sue membra era sul punto di sciogliersi ed egli lanima aveva a fior di labbra, piegandosi sullo sposo languente, Pontilla la vita di lui scambi
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Tempo romano di Marziale dei due fratelli pronti a morire luno per laltro: accostamento che concede di fissare per lepigrafe una data anteriore all85 o all86, ai quali anni risale lepigramma di Marziale.

con la propria. E gli dei spezzarono una cos felice unione: mor Pontilla per salvare il suo dolce sposo, vive ora Filippo contro la sua volont, sempre augurandosi di confondere lanima sua con quella della sua sposa che cos fortemente lo am. ISCRIZIONE LATINA Vissi in citt ed avendo sin qui nelle sue gravi sventure seguito lo sposo mio infelice io Attilia, gioia di Filippo, qui giaccio consacrata ai cari mani del mio sposo: a me che lo chiedevo, infatti, gli dei concessero di morire per lui. O fama, merito dunque che di me non ti dimentichi. Questo che tu, o viandante, credi e veneri come un tempio, il sepolcro che ricopre le ceneri e le tenere ossa di Pontilla. Avendo qui accompagnato lo sposo, ora giaccio sepolta in terra sarda e la fama di me racconta che volli morire per salvar lui. ISCRIZIONE LATINA Pi non canterai Penelope, n Edadna che il rogo sal di Capaneo; n Laodamia che col figlio di Ifiele la sua dimora terrena lasci, dolorosamente piangendo. E si taccia pure Alcesti: per lei le Parche spezzarono i fili della vita mentre due volte avvolsero quelli di Admeto. Infatti, tutte le famose eroine che il tempo antico consacr allimmortalit vince oggi Attilia, la quale volle per s un terribile destino e salv lo sposo suo Filippo. EPIGRAFE LATINA (delle due di sinistra del pronao) Vivemmo uniti quarantun anni, e il nostro reciproco amore molte gioie ci diede. Per prima, spinta al Lete, Pontilla: Vivi, disse, Filippo, in vece mia. Ora leterna pace della morte e il silenzio del mesto Dite consacrarono ad essi questo sepolcro, in segno di piet.
stato notato che questa epigrafe per il verso tempore tu dixit vive, Philippe, meo mostra una evidente derivazione dallepigramma

EPIGRAFE GRECA Una sola donna, la saggia Pontilla, onorata memoria, con le sue preghiere vincendo ogni ostacolo, sconvolse i fili delle Parche, mai prima di allora turbati; ed essa unica al mondo mor perch il suo sposo vivesse. EPIGRAFE LATINA Qui giace Pontilla, mescolata alle ceneri dello sposo Filippo. Unurna in questo tempietto racchiusa li unisce ed accresce di loro la fama presso i viventi. EPIGRAFE LATINA Mirate tutti la dimora dellinfera Giunone: mutata dunque la divinit, e con lei Pontilla risplender in eterno. Chi lautore? Discordi i pareri. Si conviene generalmente che la tecnica del verso, lo stile e le reminiscenze letterarie rivelano o la mano di un solo autore, lo stesso Filippo persino; o la mano di anonimi e oscuri poeti cagliaritani appartenenti alla stessa scuola poetica in periodo imperiale.
Le ha studiate particolareggiatamente Francesco Alziator (vedi Bibliografia).

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LARCHITRAVE BIZANTINO IN PORTO TORRES

Nella primavera del 1927, mentre seseguivano alcuni lavori presso le rovine romane dette il Palazzo di re Barbaru in Porto Torres (Sassari): rovine non duna reggia, bens, probabilmente, di un edificio termale, corse voce che erano venute alla luce parole strane, verbos di popoli scomparsi. Ma presto venne precisato che era stato disseppellito un architrave marmoreo (di metri 2,40 per 0,70 per 0,40) che recava una iscrizione bizantina. Lo scalpellino o lapicida, che era un latino ignaro della lingua greca, era incorso in alcune anomalie grafiche. Sembr sulle prime che lepigrafe presentasse gravi difficolt anche allo studio dei pi valenti epigrafisti. Gli indotti pi ingenui si attardarono tuttavia a parlare di escusorgius (tesori) nel tono in cui, nelle cattive annate, di queste favolose fortune essi sono pi facili a pascersi per opporre speranza a disperazione. Il Motzo la dichiar di non difficile interpretazione, anche perch non aveva trascurato tutto un inciso, come invece era seguito ad altri. Liscrizione un tributo di grazie a Dio, signore di tutta la terra; a Lui si offrono i simboli della vittoria cio insegne, armi, trofei, parte della preda fatta sui nemici, forse la costruzione del tempio stesso come monumento di gratitudine. Egli lattribuisce al 717 allincirca: i barbari designati genericamente potrebbero essere non elementi conglobati nelle schiere longobarde e quindi trascurabili, ma nemici pi precisi che minacciavano la Sardegna. Perch del 711 il primo assalto (se pur non il secondo) dato alla Sardegna dai Saraceni, moventi, sotto la guida di Musa, ad occupare lisola quasi dipendenza dellesarcato dAfrica conquistato una quindicina danni prima. La spedizione, che dovette abbattersi nelle parti meridionali, su Cagliari e Solci, fu respinta. Probabilmente fu lo stesso Costantino (Comandante di Bisanzio) che organizz la resistenza dellisola contro i nemici incombenti da mezzogiorno e da settentrione.
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Vinca la fortuna del re e dei Romani. Te, unico trionfatore, di tutta la terra abitata Signore, distruttor dei nemici Langobardi e degli altri Barbari (riconosciamo). Da incerte vicende era travagliato lo Stato, quando le navi e le armi dei Barbari mossero sui Romani. Ma tu, Costantino, con la saggezza del tuo comando armatoti contro, dimostrasti allora ai sudditi il divin verbo che rasserena il mondo. Perci della vittoria i simboli offre, di tutta la terra abitata al Signore, Costantino il molto lodato console e duce, (per) la rovina dei tiranni Langobardi e degli altri Barbari armatisi per asservir questa a Te fedele isola dei Sardi.
(trad. di Bacchisio Raimondo Motzo) A queste conclusioni del Motzo molto distanti da quelle del Taramelli a cui si deve la scoperta del marmo e il successivo collocamento di esso nellantico e mirabile tempio di S. Gavino di Torres, e che laveva assegnato ai tempi di Gregorio Magno, verso lanno 597 si sono richiamati il De Sanctis in La Sardegna ai tempi di Costantino Pogonato, Rivista di filologia e di istruzione classica, 1928, p. 71 ss.; e il Solmi in Liscrizione greca di Porto Torres del sec. VII, Archivio Storico Sardo, vol. XXI, fascicoli 3 e 4, aprile 1939, ottobre 1939. Il De Sanctis avverte il richiamo preciso a un imperatore di nome Costantino, sotto i cui auspici era stata conseguita la vittoria e avanza lipotesi che dovesse trattarsi di Costantino IV Pogonato, il quale imper tra il 668 e il 685, e che quindi lavvenimento possa essere assegnato agli anni 668678 circa. Il De Sanctis tuttavia non esclude possa essere assegnata ai tempi di Costantino V Copronimo (741-775) figlio di Leone lIsaurico; ovvero che lepigrafe possa riferirsi anche a Costante II (642-668). Il Solmi lattribuisce ai tempi di Costantino IV Pogonato (668-685) e precisamente ai tempi dellimpero di Costantino. Pertanto egli d dellepigrafe questa traduzione letterale: Vince la fortuna dellimperatore e dei Romani! (Veneriamo) Te, il solo trionfatore Signore di tutta quanta la terra, distruttore dei Longobardi e degli altri barbari. Mentre una bufera si abbatteva incerta sullo Stato, dei barbari si portano contro i Romani. Ma tu, Costantino, per la saggezza del tuo governo, contrapponendo le navi e le armi del Verbo Divino, mostrerai (= mostrasti) ai tuoi sudditi il mondo pacificato. Per questo, Costantino, lillustrissimo console e duce, presenta al Signore di tutta quanta la terra, come segni di vittoria, la caduta dei Longobardi tiranni e

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degli altri barbari, levatisi in armi contro la stessa, a te fedele, isola dei Sardi. La conclusione del Solmi conferma lipotesi principale del De Sanctis. Lepigrafe esalta, dalla prima allultima riga, limperatore Costantino, che, in base alla visione universalistica dellimpero romano, detto sovrano di tutta la terra; quello a cui lisola dei Sardi fedele e dal quale viene la pacificazione del mondo; ben distinto dallaltro Costantino, console e duce, che pone umilmente ai piedi dellimperatore i segni della vittoria riportata sui barbari. La divergenza di interpretazione (se ne occupato anche il Mazzarino in Epigraphica, a. II, fasc. IV, 1940, che accetta sostanzialmente lopinione del De Sanctis) lascia intatta limportanza del documento che conserva il ricordo di uno degli avvenimenti pi memorabili della storia sarda dellalto medioevo.

IL RE PASTORE

Ollolai Ollolai / cando hat a benner sa die / chi torres comente a mai? Ollolai Ollolai / quando sar il giorno / che ritornerai comuna volta?

Stando a quanto racconta lo zio Antico, Ospitone era il re dei pastori. Alto, barbuto, mangiatore di carne, valentissimo fromboliere, era nato a cavallo. Non sapeva n leggere n scrivere: illetterato del tutto, afferma lo zio Antico. Perci era costretto a farsi leggere e spiegare le lettere latine che il pontefice (Gregorio Magno) gli mandava di tempo in tempo da Roma per rallegrarsi della sua salute, di quella del corpo e di quella dellanima. Perch infatti, stancatosi di adorare le pietre e le fonti, sera convertito alla religione di Cristo e a questa convert le sue genti. La sua sede era lalpestre Ollolai, citt in quel tempo, ora villaggio: il quale sconta con pazienza un suo peccato antico: davere bruciato il convento ai frati, dopo averli coinvolti in un delitto di cui erano innocenti. E quei sudditi decaduti ora vanno a piedi o con cavallini pelosi di villaggio in villaggio e gridano la loro merce che consiste in cestini, corbole di giunco e dasfodelo sopra i cui fianchi sono disegnati, in memoria dellantica dinastia, animali, alberi ed erbe, che ora non ci sono pi. Il loro ballo un medicamento magico: a passo lento e solenne arrivano a una ridda in cerchio, a mani incatenate, la quale non appena matura d loro la forza di stare librati ma solo un momento, per farli poi ricadere e ritornare come prima; e poi ricominciare; sempre cos, Giuoco del dimenticare, si chiama. Anche allora da Ollolai a Belv, da Belv a Seulo, tutti si vantavano del loro Gennargentu, che significa, e una volta laveva, porta dargento che una sola parola poteva aprire, e questa parola se l portata via il vento. Ancora avvoltoi e mufloni, elci e querce, e castagni e fitti boschi, e aquile e
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Il re pastore

cuccumei e fiumi che gli uomini hanno finalmente ammansito. Sentiva, Ospitone, parlare dei mangiatori di pane e permetteva ai suoi di far rapide scorrerie in quelle pianure, ma, quando si fu convertito, invece di chiudere tutte due gli occhi su quelle imprese, ne chiudeva uno solo. Della sua morte non si racconta niente di preciso. Sembra, per, che le sue genti non lo considerassero mai morto. I pi, infatti, continuarono a fare i pastori. Nonostante la distanza, questi si consideravano parenti di quei di Gallura, soprattutto perch il nome del loro re ricordava lospitalit di quella contrada che salva lospite nel nemico mortale. Parenti anche per laranciata e per il corbezzolo, pasto alle api che danno il miele amaro. E sempre, quasi fino a ieri, guardavano ai Campidani, e chiamavano gli abitanti mangiatori di grano, e anche maurreddus perch si sentivano chiamare gabillus. Cosa che ha cominciato a non avere molta importanza, e ne perde di giorno in giorno sempre di pi come la zanzara, da quando, di fronte alla morte, in questa e in altre guerre, scoprirono dessere figli della stessa madre. E anche quelli che lavorano sotto terra tali si sentono. Tutto questo un poeta senza lettere lo ha cantato in una canzone che comincia cos: Nel nostro cuore due terre, due amori. Epistula 27, liber IV, Ind. XII Maii a. 594. Gregorius Hospitoni Duci Barbaracinorum. Cum de gente vestra nemo christianus sit, in hoc scio, quia omni gente tua es melior, quia tu in ea christianus inveniris. Dum enim Barbaracini omnes ut insensata animalia vivant, Deum verum nesciant, ligna autem et lapides adorent: in eo ipso quod Deum verum colis, quantum omnes antecedas, ostenderis. Sed fidem quam percepisti, etiam bonis actibus exsequi debebis; et Christo, cui credis, offerre quod praevales; ut ad eum, quoscumque potueris, adducas,
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eosque baptizari facies, aeternam vitam diligere admoneas. Quod si fortasse ipse agere non potes quia ad aliud occuparis, salutans peto ut hominibus nostris, quos illuc transmisimus, scilicet fratri, et coepiscopo meo Felici, filio quoque meo Cyriaco servo Dei, solatiari in omnibus debeas Gregorio Magno a Ospitone capo dei Barbaricini. Poich nessuno del tuo popolo cristiano, anche da ci io argomento quanto tu sia superiore agli altri, trovandoti tra di essi il solo cristiano. Mentre infatti tutti i Barbaricini vivono come animali e non conoscono il vero Dio, ma adorano le pietre e il legno, tu solo adori il vero Dio. Ma ben si conviene che quella fede che tu ricevesti dimostri anche con le buone opere ed offra a Cristo cui credi, quanto le tue forze prevalgono, conducendo a lui tutti quelli che potrai, facendoli battezzare e indirizzandoli alla vita eterna. Che se tu per avventura non potessi fare tanto, io ti prego con riverenza di aiutare Felice e Ciriaco che ho mandati cost a tale missione

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TEMPO NUOVO

Est istadu Cristos chi hat nadu: / Sos babbos los boccat su tempus. stato Cristo che ha detto: / I padri li consumi il tempo.

E un vecchio, un padre ormai inutile, andava alla morte: e la doveva ricevere in fondo al sentiero dalle mani dei suoi propri figli, dei quali due lo sorreggevano, tristi, nel camminare. A met del sentiero incontrarono uno sconosciuto che se ne stava sopra una specie di scranna di pietra. Lo sconosciuto, al vederli, si alz e chiese, con la sollecitudine nella voce, dove andassero con quel vecchio. Tutti li avevano visti partire, tutti sapevano dove essi erano diretti: soltanto quello sconosciuto, a quanto sembrava, doveva venire chi sa da quale terra lontana, chi sa da quale distanza, se aveva fatto quella domanda. Uno dei figli, e precisamente quello al quale, dopo la morte del padre, doveva passare lautorit sui fratelli, rispose: Andiamo a liberare il vecchio dal peso dei suoi anni, che c ormai di pi, come tu stesso vedi. Allora lo sconosciuto si rivolse al vecchio con una voce alla quale non si poteva resistere: Fermatevi un poco, venite, sedete a questa pietra, vecchio, siete tanto stanco, ognuno lo vede. Il vecchio, con sorpresa sua e dei suoi figli, si diresse da solo alla scranna di pietra e, sedendosi, sospir: Comoda, questa pietra. I figli cominciarono a sentire sdegno di quellintruso che faceva loro perdere del tempo. Ma lo sconosciuto non diede loro modo di manifestare a parole quel loro sdegno, perch usc nel dire: Dalle mie parti i vecchi muoiono quando viene la morte a prenderseli. Da voi, dove? chiese il figlio maggiore.
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L disse laltro e indic un punto dellorizzonte. Come mai dalle tue parti pu accadere quello che dici? domand incuriosito il figlio. Ma cosa tanto naturale da noi, rispose lo sconosciuto, perch cane non mangia cane, corvo non acceca corvo, albero non uccide albero. Del resto, vi comprendo: anche da noi, una volta, si faceva come qui. Ma poi rimanevano tristi, quelli che restavano: avevano paura dinvecchiare, perch, naturalmente, pensavano che i loro figli avrebbero fatto lo stesso. E dunque giusto che i miei figli facciano a me quello che io feci a mio padre disse il vecchio. Ma tu, gli fece lo sconosciuto, incontrasti per caso, quel giorno, chi ti facesse un discorso come quello che io ti ho fatto? No, che non lo incontrai ammise il vecchio. Dunque il caso diverso, molto diverso: infatti, allora, tu non sapevi che altrove i vecchi li lasciavano fino a consumarsi. la verit, non lo sapevo. Ma ormai siamo a questo punto: che domani i tuoi figli non potrebbero dire a loro discolpa le tue stesse parole continu lo sconosciuto. Sicch, io dico a voi che volete abbreviare la vita a vostro padre: lasciate scorrere il sangue verso la morte, come lacqua scorre per natura sua al mare. Se cos farete, sono pronto a garantirvi che non avrete pi paura dinvecchiare. E se vi resta qualche dubbio che io vi inganni, io rimango con voi e, se vi avr ingannato, farete di me quel che vorrete. Divertito, il figlio, ma anche un po turbato, disse: E sia, ma che garanzia ci offri, non solo a parole? Questa mia stessa persona disse fermo lo sconosciuto. I figli avevano, per caso, bisogno proprio di uno che girasse loro la macina. E il figlio maggiore disse tutto interessato: Bene, noi torniamo senzaltro lass, col vecchio e con te: e finch il vecchio vivr tu ci compenserai girando la macina; ti va?
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Da questo stesso momento mi metto nelle vostre mani disse lo sconosciuto. Cos il forestiero fu legato alla macina. Tutti i vecchi andavano a vederlo e da prima provavano soltanto curiosit; poi piacere con dolore, mescolati insieme, come gustassero del miele amaro: dolcezza di poter continuare a vivere; amarezza di quella fatica da schiavo alla quale lo sconosciuto si era condannato, per loro. Venivano a vederlo anche dai luoghi pi lontani: e tutti sospendevano la loro usanza fino a sapere lesito di quello strano contratto. Lo schiavo volontario pen a lungo, perch il vecchio a lungo dur, prima di consumarsi. Era la prima volta che un vecchio moriva di morte naturale in quella terra. E il sole continuava il suo giro, la luna lo stesso, i fiumi continuavano a scorrere, la terra non cessava di dare le sue erbe, gli alberi i loro frutti: tutto rimaneva come prima. Era proprio un mistero, tanto pi che lo sconosciuto continuava a girare la macina e non chiedeva di essere liberato. I giorni passarono, passarono i mesi: e i figli sentivano che il tempo scorreva e non li impauriva: e cos sentivano tutti i figli che avevano padre entrato in vecchiaia. Fu a questo punto che luomo misterioso scomparve, e gi era cominciato il tempo nuovo.
I sacrificati a Kronos. Nel campo della paleontologia si venuta formando e delineando in modo sempre pi preciso la teoria della pertinenza etnica dei Protosardi a una razza stanziata lungo le coste settentrionali dellAfrica, e della loro immigrazione dal continente africano nellisola mediterranea (Pettazzoni, Paleoetnologia sardo-africa, in Revue dethnographie et de Sociologie [1910], pp. 219-222). Sappiamo che presso i Sardi i vecchi che avevano passato i settanta erano sacrificati a Kronos dai loro stessi figli, i quali armati di verghe e di bastoni, a forza di percosse spingendoli sullorlo di fosse profonde come baratri, barbaramente li uccidevano; e la crudele operazione accompagnavano con risa inumane (Eliano, e pare risalga ultimamente a Timeo; Pettazzoni, Paleoetnologia cit., p. 222).

ALLA RICERCA DI TITOLI DI NOBILT

Nellanno 1845 e poi, il mondo scientifico fu messo a rumore da una scoperta. Si venivano pubblicando pergamene e codici cartacei che Cosimo Manca, frate del convento di Santa Rosalia in Cagliari, offriva in vendita. Questi li diceva provenienti dagli archivi dei Giudici dArborea in Oristano; donde il nome di Pergamene e Codici Cartacei o pi comunemente Carte dArborea (quaranta e pi documenti). Era dunque possibile diradare le tenebre di quel periodo della storia sarda (secc. VII-XI) per il quale mancava negli archivi sardi ogni documentazione, come manca tuttora. Le carte rivelavano tutta una schiera di celebri poeti sardi e continentali; chiarivano il problema dellorigine dei Giudici, le loro genealogie e la storia dellinvasione degli Arabi, allora ricca dincognite. La cultura della poesia italiana sarebbe stata pertanto anteriore di qualche secolo e, poi, coeva alle prime manifestazioni conosciute del volgare italico. Senonch una larga Commissione di dotti, fra cui il Mommsen, che fu relatore, le dichiarava false, e ancora pesa su di esse il verdetto di falsit. Motivo della falsificazione? Secondo lopinione prevalente, il desiderio di far rifulgere il passato dellisola, un malinteso amor patrio. (Un accuratissimo ed esauriente saggio sulle Carte dArborea fa parte del Dizionario archeologico per la Sardegna compilato da F. Loddo Canepa. Vedi voce relativa, Archivio Storico Sardo, vol. XVII, Cagliari 1929).

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LA VITA E LUFFICIO DI S. GIORGIO VESCOVO DI BARBAGIA

Ha inizio la leggenda del santissimo presule Giorgio di Suelli. Lezione I Al tempo del Giudice cagliaritano Torchitorio, principe della regione, viveva nella sua provincia un tale di nome Lucifero, che conduceva una vita onesta insieme con la moglie sua di nome Vivenzia (forse Umedia), e, se pur uso a servire il suo re, tuttavia molto dedito alle pratiche religiose. Viveva inoltre una nobildonna di nome Greca di Surapen, la quale, non avendo n marito n figli, faceva vita solitaria; ed era non solo fornita di grandi ricchezze, ma altres dotata di buoni costumi. Al suo servizio il detto Lucifero giorno e notte con fedelt stava insieme con la moglie Vivenzia, la quale, per essere rimasta troppo tempo senza figli e per et e per sterilit, aveva ormai perduto la speranza daverne. Ma le accadde cos come dice un noto poeta: Grazie e doni verranno anche a quelli che hanno perduto ogni speranza. Pertanto, quando sera ormai rassegnata, Vivenzia concep. E quando ancora n ad altri n a lei stessa la cosa era nemmeno in sospetto, apparve a Greca, sua padrona, in un sogno, di notte, una splendente figura duomo che le disse: Sappi che lancella tua Vivenzia ha concepito un figlio che avr nome Giorgio: sar pio e probo uomo e santo ancora nel ventre della madre sua. Non sottoporla a fatiche, ma bbile riguardo come a sorella: perch grande sar il figlio che da lei nascer e per lui il Signore dar salute a questa terra . E si svegli donna Greca e, desta, vedendo parte di quello splendore gi apparsole nel sogno, ne rimase colpita e volle che se ne stesse nella camera sua astenendosi da ogni occupazione gravosa e da ogni fastidio. A tempo maturo Vivenzia partor. E il Signore cominci a rivelare in lui ancora infante il futuro suo profeta. Infatti,
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prese a succhiare nel quarto e nel sesto giorno della settimana e una sola volta dopo il tramonto del sole, e cos facendo il santo bambino, la madre, preoccupata che lo facesse per languidezza, e temendo che le morisse, lo fece battezzare e gli diede il nome di Giorgio. Oh, mirabile e sempre da lodare potenza di Dio. Chi, infatti, degno, o Signore, di narrare e lodare i tuoi incomprensibili miracoli? Tu facesti questa promessa al profeta, cos dicendo: Prima che te formassi nel ventre, ti ho designato, e ancor prima che tu venissi alla luce ti feci per le cose sante. Tu che il figlio ancora nascosto nel ventre di Elisabetta al beato Giovanni rivelasti, sei tu quello stesso che in pi recente tempo facesti santo nel ventre materno il beato Giorgio. Tu, che ancorch grande nelle grandi cose, tuttavia operi pi meravigliosamente nelle minime. Infatti, per quanto il beato Giorgio non potesse, infante, dire le tue lodi con la voce, tuttavia gli concedesti di dirti in sorprendente modo grande con le opere. Lezione II Considerate pertanto queste cose, procediamo nella narrazione degli avvenimenti. Essendo stato dunque allevato con particolari attenzioni, e avendone riconosciuto la buona indole, venne, dalla padrona e dai suoi genitori, avviato agli studi letterari. E avendo in breve tempo appreso, secondo il costume della sua gente, le lettere latine e greche, fu fatto liberto dalla sua protettrice e divenne sacerdote. Indi, fu tutto intento ai digiuni e alle preghiere e alle elemosine. Crescendo di virt di giorno in giorno, a ventidue anni, per volere della Provvidenza fu eletto e consacrato vescovo del vescovado di Suelli. Dove, quale e quanto egli sia stato, sar detto nella lezione seguente. Infatti quello che allinizio di vita sua aveva intrapreso, in et piena cominci a perfettamente manifestare. Lezione III Prima di tutto dunque, dopo la sua ordinazione, subito prescrisse ai suoi assistenti il censimento generale dei poveri che dimoravano nei pressi della sua abitazione: e, censiti che furono, li soccorreva del suo, secondo le possibilit del suo stato.
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Frattanto nella sua pia opera cominci a dare bagliori di santit, anche con molti miracoli. Cos in occasione duna sua visita a una parrocchia del suo vescovado che faceva accompagnato dai suoi chierici per dare qualche ordine ad alcune faccende, giunse a un luogo deserto e arido, dove non si poteva trovare in nessun modo dellacqua. Pertanto, quando tutti quelli che erano col santo vescovo furono stanchi del viaggio e tormentati dallardore dellestate e dalla mancanza assoluta dellacqua, costretti dal pericolo che correvano, cominciarono a invocare con grande afflizione di cuore Dio e il beato Giorgio, suo confessore. Allora, il santo servo di Dio, seguendo lesempio del ministro di Dio, Mos il quale per ordine del Signore percosse due volte una pietra e ne sgorgarono acque abbondantissime egli confidando in Dio percosse col suo bacolo, per la sua speciale devozione alla Santa Trinit, tre volte, la roccia. E di qui scatur una fonte che rimane fino a oggi; alla quale ristoratisi quanto bastava, ripresero il cammino. Lezione IV Unaltra volta, trovandosi in un villaggio chiamato Gallilio31 e dirigendosi alla chiesa, gli si fece incontro un indemoniato il quale, appena giunto alla presenza del servo di Dio, cominci a urlare e diceva: Giorgio mi vuole scacciare: divento furioso per le sue preghiere . E il servo di Dio ordin a lui dicendo: Taci, sciagurato, esci da lui . E allistante quello usc da lui. Similmente, essendosi inoltrato nel paesetto di Lotzorai, lo preg un padre di visitare suo figlio: questi era in punto di morte. Il servo di Dio si rec da lui, ma lo trov gi spirato.
31. Gallilium, ora scomparso. Nel suo nome la continuazione dei Galilenses ricordati nella tavola di bronzo di Esterzili del tempo di Nerone come pastori e molesti vicini dei Patulcenses, le cui terre invadevano con le greggi, secondo unantica consuetudine. Ma ritengo che essi abitassero piuttosto il vasto paese di settentrione, al di l del Flumendosa, tra Escalaplano, Perdas de fogu ed Esterzili dove la tavola di bronzo fu trovata, e che ivi appunto sorgesse il villaggio di Gallilium loro centro (Motzo).

E il padre turbato e afflitto da un dolore indicibile, piangendo cominci a gridare e diceva: Perch, o padre, sei arrivato cos tardi? Ora ti supplico per il tuo amor di Dio, prega Dio che mi renda mio figlio . Allora San Giorgio, vedendo le sue lacrime e la sua fede, mosso a compassione, singinocchi e, rimasto alquanto assorto in orazione, risuscit il giovane. Visto ci, il padre si rallegr di grande allegrezza e ringrazi Dio e San Giorgio. Verso quel tempo, venne al beato Giorgio un cieco dal villaggio chiamato Urzulei e in ginocchio con grandi preghiere cominci a scongiurarlo dicendo: O servo di Dio, abbi compassione di me e rendimi il lume degli occhi miei . Allora San Giorgio, preso a compassione e imponendo le sue mani sopra gli occhi di lui, e facendo un segno di croce, restitu la luce ai suoi occhi. E quegli con la luce della vista e senza bisogno pi di guida ritorn a casa sua levando lodi in gloria di Dio e del beato Giorgio servo suo. Lezione V Di tanta benignit e di tanto amor di Dio il Santo Giorgio era pieno, che non solo agli uomini, ma altres ai bruti e agli uccelli prodigava la misericordia della compassione. Un giorno, infatti, in viaggio per le terre della chiesa di Suelli, giunse a una contrada che era sassosa e molto arida. E avendo veduto gli uccelli per il troppo ardore del sole anelare, percosse col bacolo una pietra: e di qui scatur dellacqua in tale quantit da essere sufficiente agli uccelli; la quale fino a oggi non cessa di scorrere e non mai cresce per cader di pioggia, n per ardore di sole decresce, n viene mai a mancare. Inoltre il sopra detto Giudice di Cagliari incorse in una gravissima e miseranda calamit. Infatti ogni volta che gli si preparava la mensa per il desinare o per la cena con molte portate, immediatamente tutti i cibi si coprivano di scarabei e di calabroni e dogni sudiciume. Ed essendosi il flagello di tanto accresciuto che egli non poteva pi portare il cibo alla bocca se non tenendolo nascosto nella mano, finalmente, per un rimedio di salvezza, si rec dal servo di Dio, Giorgio, e rifer a
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lui il tormento che lo affliggeva ogni giorno. Lo scongiur con molte preghiere e lacrime, perch si degnasse di soccorrerlo e con le sue preghiere lo liberasse da quellesiziale persecuzione. Udito questo, il beato Giorgio, presosi compassione di lui, lo invit a desinare a casa sua. Ed essendo venuto il Giudice alla sua tavola, gli ordin di sedersi: e prendendo il pane lo benedisse e lo spezz e ne diede a lui e insieme ne mangiarono. Cos da quel momento il Giudice fu liberato da quel flagello e non pi quelle brutture apparvero alla sua mensa. Riconoscendo poi che era stato liberato dalle preghiere e dai meriti di San Giorgio, gli don il villaggio di Suelli32 con terre boschi schiavi ancelle e ogni suppellettile in modo che egli e tutti i suoi successori li possedessero senza contestazione. La moglie, Sinispella, inoltre, offr a San Giorgio il villaggio di Simieri con tutte le dipendenze e leg a lui tutta la sua quota perch dopo la sua morte egli e i suoi successori la possedessero di diritto.33 Lezione VI Accadde poi che un uomo potente si adirasse con un suo servo, e che questi, per non essere flagellato,
32. Una donazione del 1121-1129 circa (Solmi, Carta IV) ricorda ancora il patrono S. Pietro, nella cui chiesa in Suelli era stabilita la cattedra vescovile. Ma poi S. Giorgio ne prende il posto. I documenti cominciano con un atto del 1140 (Solmi, Carta VII) e continuano sino al 10 luglio 1225. Il culto diffondevasi alle regioni vicine e lontane ove sorgevano chiese e altari dipinti in suo onore. Pi tardi nei secoli XV e XVI dopo lannessione che papa Martino V nel 1418 faceva del vescovado di Suelli a quello di Cagliari, la chiesa perdeva importanza, e il santo sardo veniva spesso confuso col martire omonimo tanto celebre e popolare, anche nella Sardegna. Nel 1606 per volont dellArcivescovo Francesco de Esquivel si raccoglievano in un volume manoscritto, ancora conservato nellarchivio arcivescovile di Cagliari, i documenti e le informazioni riguardanti la vita e il culto del santo di Barbagia (Motzo). 33. da ritenere che il santo vivesse approssimativamente dal 1000 al 1050, al quale periodo si giunge anche per induzione dalla serie dei Giudici, poich assegnato a quel tempo il Torquitorio o Trogodorio o Troodori e la moglie Sinispella o Nispella che gli donarono Suelli e Simieri.

riparasse da San Giorgio; ma il padrone lo insegu e, trascinatolo via dalla presenza del santo, lo fece frustare. Allora luomo di Dio, contristato, lo maledisse. E quegli venne in possesso del demonio, e questi lo vessava a tal punto che dovettero condurlo da San Giorgio e lo pregarono in suo favore. Luomo del Signore preg e imponendosi al demonio glielo scacci. E cos liberato, luomo offr al santo parte dei suoi averi. Si chiamava Pietro de Sibersa. Unaltra volta, essendovi contestazione tra San Giorgio e alcuni majorali intorno a certi confini, si adunarono per stabilirli definitivamente; stabiliti di buon accordo questi confini e dovendosene porre per memoria i segni, San Giorgio piant il suo bacolo in terra, e ne nacquero due alberi che ancora restano, senza che la gente sappia con certezza di che specie siano: in quanto producono ghiande come lelce, ma non del tutto sembrano elci, n simili a quelli in tutta quella terra se ne trovano. Lezione VII Una volta, mentre si dirigeva a Orosei,34 lo sorprese il tramonto vicino a una palude: al sopraggiungere della notte fece stendere un giaciglio per riposare. Ma in quella palude verano innumerevoli rane che con il loro insopportabile e incessante gracidare non permettevano al santuomo di prendere sonno. Avendo il santuomo visto che ivi non avrebbe potuto dormire, mand un suo diacono ad ordinare a quelle importune di tacere per permettergli di dormire. Ci fatto, allistante, miracolosamente si tacquero le rane, n pi alcuna voce misero, se non quando San Giorgio ordin loro di riprendere la canora natura che Dio aveva loro dato. In questo prodigio San Giorgio fu simile al beato Martino, il quale, avendo visto in un fiume certi smerghi che divoravano i pesci, ordin loro dabbandonare il fiume nel quale si trovavano, e subito essi allontanandosi si ritirarono in regioni aride e deserte. In questo miracolo San Giorgio fu pari al beato Savino, vescovo piacentino, il quale, sebbene nel miracolo fosse simile, dissimilmente oper
34. Oricensem terram: secondo il Motzo, Orosei (Uruse, Oruse).

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il suo. Infatti, avendo il fiume Eridano straripato e devastando le terre della chiesa, egli dett unepistola e con questa ordin al fiume di rientrare nel suo letto, e di cessare di devastare le terre della chiesa. La quale epistola nellEridano, che si chiama Po, ordin fosse gettata e allistante il fiume rientr nellalveo. N questi prodigi sembrino incredibili ad alcuno. Per il nostro Dio anche ci che morto rivive, le cose insensibili lo sentono, le irrazionali lo intendono; tutte le morte cose rivivono, perch alla fine del mondo tutti i morti, in un battito di ciglio, a un solo comando di Dio, risorgeranno; le cose insensibili lo sentono, perch il mare si prest a essere calcato sotto il suo piede; le irrazionali lo intendono perch, quando lo volle Dio, egli anche ai bruti prest lumana favella. Non dunque da stupire se le membra seguono il capo, e se quelli che lo imitano nelle virt ne ripetono anche i miracoli. Poich le membra sono serve di Dio: giusto che, dal momento che ogni cosa obbedisce alla volont di Dio, anche le creature alla volont di esse membra si pieghino, secondo che Dio ha stabilito. Egli, infatti, ai suoi discepoli fece questa promessa dicendo: Se avrete avuto fede come il granello di senape e avrete detto a questo monte: spostati, esso si sposter . E anche: Tutto quanto avrete chiesto verr a voi dal padre mio che nei cieli. Unaltra volta, mentre compiva un viaggio, il beato Giorgio giunse a un monte, presso il quale cera una via che, pur potendo a met di esso essere pi breve e diretta, tuttavia per laltezza e la ripidezza del monte, si faceva faticosa ai viandanti. E il beato Giorgio commiserando la gran fatica dei viandanti, levando a Dio le sue meritorie preghiere, apr il monte: e cos fece che in quel punto fosse piana e pi breve la via che or si chiama Scala di San Giorgio.35 A ristoro di quei viandanti fece anche scaturire ivi una fonte che neppur ora cessa di scorrere. Posso accertare che un Cherchi di nobile famiglia mi rifer come gli abitanti di quella terra fossero soliti raccontare che le cose sono andate cos.
35. Al villaggio di Osini resta anche oggi il nome di Scala di San Giorgio.

Per tutte queste opere, sia benedetto sempre il Signore che tali miracoli compie per mezzo dei suoi santi, a lode e sempiterna gloria sua. Dopo che Dio ebbe per mezzo del beato Giorgio dato questi e altri molti benefici, gli fu dal Signore rivelato che il giorno della sua morte era ormai imminente. Perci, radunati insieme i suoi confratelli, li inform che stava per lasciare questo mondo. A questa notizia molti accorsero a raccomandare al santo uomo le loro anime. E lui, ricevuti i sacramenti del suo Signore, benedicendoli e salutandoli saffrett al Signore. Si celebra la morte di quel venerabile il 23 aprile a lode del Dio e Signor nostro Ges Cristo il quale vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen. Anno del Signore 1117 Dopo la sua morte, il Signore, volendo dar fede che egli viveva nelleterna felicit dei beati, non cessa di soccorrere molti infermi restituendo loro salute per merito del santo. Al sepolcro infatti vengono e guariscono i paralitici, glinvasati vengono e sono liberati, e il Signore per suo mezzo si compiace di operare molti miracoli, dei quali, per non infastidire il lettore, poche cose aggiungeremo. Costantino de Ru, preso da misterioso languore, venne al sepolcro del Beato e ivi giacendo guar e don a San Giorgio unancella. E poi ancora il figlio suo Arzocco, essendo tenuto rattratto da un certo male, venne al sepolcro Suo e prostratosi preg il santo e ne fu guarito e offr alla chiesa di San Giorgio un servo. Anche il nobiluomo Serchi, fratello del giudice Mariano, pur egli dal morbo colpito, giaceva per lunghi nove mesi, dolorante notte e giorno, non cessando di urlare, e a lui in visione fu detto di portarsi presso il sepolcro del beato Giorgio. Ed essendo col giunto, si giacque davanti al sepolcro piangendo e pregando Iddio perch Dio padre per i meriti di San Giorgio si degnasse daver piet di lui. Salvato pertanto dalla miseranda fine che lo minacciava, ne usc guarito ringraziando e glorificando Dio e San Giorgio.
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Alla mia presenza e mentre scrivevo di questi miracoli venne condotta una donna dinanzi al sepolcro di San Giorgio e, per una notte ivi avendo giaciuto, il giorno seguente da furiosa che era riacquist il senno. Due presbiteri, luno dellepiscopato pisano e laltro di quello di Volterra, che per benignit divina sono ancora in vita, i cui nomi non ho qui segnato per la loro presenza sulla terra, essi mhanno riferito di s che furono sanati da gravissima infermit per intercessione del beato Giorgio. Il primo, cio il Pisano, da pi giorni era cos abbattuto dalle febbri quartane che non gli riusciva di levarsi, e meno ancora di camminare. Il quale, mentre nel vescovado di Suelli si trovava ospite del prelato, al sopraggiungere del quarto giorno nel quale soleva venire la febbre, preg un fanciullo di stendergli dinanzi al sepolcro di San Giorgio un letticciolo affinch ivi giacendo per lintercessione del beato Giorgio fosse ritenuto degno desser liberato dal male che lo minacciava. Avendo il fanciullo eseguito lincarico, presto laccesso febbrile sopravvenne. Allora il presbitero con purezza di cuore cominci a gridare rivolto al fanciullo dicendo: Fa presto, non ti fermare, perch fra poco non potr pi muovermi . E ritornando pertanto il fanciullo da lui, il presbitero molto si affrettava per giungere al sepolcro di San Giorgio, e l presso gridava: O San Giorgio, aiutami ; e subito fu risanato glorificando Dio. Laltro presbitero, di cui sopra abbiamo detto, risiedeva nel villaggio chiamato Furtei, preposto alla chiesa di Santa Barbara. Egli, rattratto da paralisi, continuamente era in preda a tremito di tutto il corpo sicch a stento poteva portare il calice alla bocca. Venne pertanto animato da gran fiducia al sepolcro del beato Giorgio e si fece legare a uno dei due oleastri vicini al sepolcro del santuomo e per intercessione di San Giorgio se ne ritorn allistante sanato. In altro tempo ancora, allorch un uomo di pochi scrupoli aveva usurpato una terra di San Giorgio, uno che abitava vicino alla chiesa ed era consanguineo dellusurpatore, che deteneva la terra del santo, contrast per tutta una giornata col
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Vescovo per il possesso. E avendo visto il presule che non poteva trarne vantaggio alcuno, e che da lui non si poteva ottenere giusta ragione, se ne lagn col beato Giorgio. La notte seguente pertanto il demonio entr nel corpo del figlio di quelluomo. Il quale al sorger del sole fu condotto dal padre suo alla tomba del Santo Giorgio, e cos la terra fu restituita alla chiesa, e il figlio suo fu liberato dal demonio posto in fuga. Molti altri ancora indemoniati furono liberati per intercessione del beato Giorgio e glinfermi furono sanati, e ancora oggi il Signore per mezzo suo opera molti benefici e finch il mondo sar egli non cesser di soccorrere quanti con pura e ferma fede lo richiedano daiuto. Lodiamo dunque il Signore nelle sue divine opere che, attraverso il beato Giorgio suo confessore e rappresentante in terra, si degn doperare miracoli. Preghiamo dunque il beato Giorgio, nostro santo padre, perch si degni di soccorrere per i suoi meriti e con le sue preghiere tutto il popolo cristiano e in special modo la santa Chiesa, a regger la quale Dio lo destin; da tutte le infermit, avversit e pericoli e da tutti i nostri nemici e dalla gente pagana ci liberi, ci salvi, ci difenda. Ricordati anche del servo tuo Paolo36 che, nella sua indegnit, ha voluto lodare le tue vittorie, a lode e gloria del nostro Signore Ges Cristo che col Padre e col Figlio e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.37
36. Lautore della leggenda non pu essere quel vescovo Paolo che govern la diocesi tra il 1190 e il 1210. Egli era verisimilmente un sacerdote addetto alla chiesa di Suelli presso la quale era la tomba del santo, poich egli stesso ricorda daver assistito ad alcuni miracoli che narra (Motzo). 37. Questa leggenda gi citata come documento antico e autorevole nellatto del giugno 1215 in cui Benedetta giudicessa di Cagliari conferma e accresce le donazioni fatte a San Giorgio dai predecessori. Ego Benedicta de Lacon, per bolintade de donnu deu potestando parte de Kalaris, fazzulli carta ad sanctu Jorgi de Suelli Et issa pestilentia de ki llu iscapedi sanctu Jorgi ad Iugi Troodori esti custa, sigundu indesti scritu in sa leggenda de sa bida de sanctu Jorgi.

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Lo storico Bacchisio Raimondo Motzo ha amorosamente riesumato e commentato nellArchivio Storico Sardo, vol. XV, fasc. 1-2, Cagliari 1924, pp. 59-82, questa leggenda sulla vita e i miracoli in vita e in morte di San Giorgio di Suelli, il buon pastore di cui la memoria e il culto rimangono ancora vivi nei luoghi dovegli ha esercitato la sua carit; narrazione del buon Paolo, verisimilmente un sacerdote addetto alla chiesa di Suelli, presso la quale era la tomba del santo. Il suo racconto pur umile, scrive il Motzo se si prescinde da qualche passione di martiri di dubbia data, il pi antico testo con una certa pretesa letteraria che la Sardegna ci offra dopo il 1000. Abbiamo tentato la versione di questo scritto che soggiunge il Motzo riflette la disposizione danimo propria di quellet ingenua, semplice, credente, che due secoli pi tardi produrr nel continente la letteratura francescana dei Fioretti.

ATTO DEL 20 APRILE 1217 Il giudice Torchitorio de Unali con la moglie Benedetta confermano e aumentano i diritti immunitari sulle ville di Suelli e di Sigii e proibiscono che per cause minori si giuri nel nome del santo. Et pregedi nos donnu Trogotori su piscopu nostru de Suelli, pro sa iura ki fagenta in sanctu Jorgi pro omnia kertu pikinnu, ki fudu et tropu carriu ad su piscobadu, et ad sanctu Jorgi non fut honori, ki imponiremus menti pro deu et minimaremus illu cussu mali. Et nos cum consiliu de sus hominis bonus de sa terra nostra, ordinarus ki no iurarit perunu homini in sanctu Jorgi de Suelli pro perunu kertu nin campniu ki balirit minus de C. sollus junuinus, non adprezzandu su pro kedi kertari [Solmi, Carta XVIII delle Carte volgari dellArchivio arcivescovile di Cagliari, Firenze 1905]. Nel seguito di questa Carta si accenna a una corona de logu: Arcivescovi e vescovi interpreta il Motzo vintervenivano e presiedevano la corona de logu dove le cause maggiori trattavansi o terminavansi, mentre le cause minori erano decise da altri giudici e arbitri. Argomento di prova accettissimo, in mancanza di altre testimonianze, era il giuramento davanti alla tomba o nella chiesa del santo, ed era venuto cos frequente, che il vescovo ne fece lamento, specialmente perch a fungere da testimoni erano chiamati gli abitanti del paese con molestia non lieve in cos gran numero di litigi che vi venivano portati. Il vescovo chiese e ottenne dai Giudici che il giuramento non fosse ammesso per somme inferiori ai 100 soldi genovini e gli abitanti non potessero essere chiamati, sotto pena di nullit, a fungere da testimoni.

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LOSPITE MORO

Piange lanimale, ma io non gli dir questo Mugahd mosse alla volta delle isole orientali della Spagna, vaste e fertili isole; le quali egli occup e tennele fortemente. Da quelle, poi, col navilio assalt la Sardegna, grande isola dei Rm, lanno quattrocentosei o quattrocentosette (giugno 1015-maggio 1017); insignorissi della pi parte di cotesta isola e ne espugn le fortezze. Alienandosi intanto da lui gli animi del suo gund (milizia) e sopravvenendo rinforzi dei Rm, egli si proponeva di abbandonare la Sardegna, ansioso [di tornare in Spagna e] disperdere [i nemici] che cospiravano contro di lui, quando i Rm gli piombarono addosso e presero la pi parte delle sue navi. Io tengo da Ab al Hasan Nugabah ibn Yahya la seguente narrazione, chegli aveva sentita da Sarh ibn Muhammad al Gurgni. Io mi trovai, dicea [questultimo] con Ab al Gays Mugahd nella guerra di Sardegna. Egli era entrato con le navi [in un porto] dellisola contro lespresso ammonimento del suo primo pilota Abu Harb, quando ecco levarsi un vento che ad una ad una gitt le nostre navi a terra; dove i Rm non avean altra briga che di pigliare i nostri e ammazzarli. Ad ogni nave che vedea cadere nelle loro mani, Mugahd rompeva in altissimo pianto; non potendo, n egli, n altruomo al mondo, dare aiuto ai musulmani in quel furor del mare e dei venti. Allora Abu Harbci si fece incontro recitando questo verso: Piange lanimale, ma io non gli dir: Dio ti consoli; no, che questanimale piange per dappocaggine. E continuava Abu Harb: Io lavvertii bene di non ficcarsi qui; ma non mi di retta . Qui finisce la citazione di Al Gurgni.
Dal libro Bugat al Muqtabis di Ad Dabb (sec. XII), versione dellAmari.

In ube bhat istranzu / mancari malu / best Deus. Dove c un ospite / anche non degno / l c Dio.

Alle prime luci dellalba i mori pirati, che erano stati segnalati in tempo dalle torri costiere, furono rotti e gettati a mare. I pochi che, nella confusione della mischia, erano riusciti ad accostarsi alle case, erano, ora, senza vita, sparsi nella campagna che si rischiarava. Nelle case gli uomini stavano accanto al fuoco, ancora in armi; e attendevano da un momento allaltro larrivo delle loro donne e dei loro figli che nella notte avevano messi al sicuro nella boscaglia vicina, e che avevano mandato a chiamare. Nessun morto da piangere; soltanto due feriti leggeri. I galli si rispondevano. Il fremere della boscaglia sembrava leco del mare vicino. A un tratto un cane abbai. Era un moro che si lasci cadere alla porta di Gaspare Noina, che era uno dei due feriti. Si era trascinato fin l e non ci vedeva pi; non ci sentiva pi, per il sangue che aveva perduto. Era cos nero che non sembravano nere le sue rosse ferite. Si lamentava debolmente e, cos disteso bocconi, faceva ogni tanto latto di remare. Gaspare Noina, bendato, si alz per respingerlo col piede. Ma un vecchio asciutto con mossa rapida gli afferr un braccio e disse: un ospite, prima di essere un nemico. Gaspare si ferm. Il fuoco si ravviv da solo: e la stanza sillumin. Ma era soltanto laurora che entrava. Il ferito era fermo ormai, non remava pi, non cera pi. Allora si scoprirono tutti e si segnarono. Poi lo sollevarono e lo misero in un sacco e, come volle il vecchio, lo seppellirono nellangolo sconsacrato del loro cimitero.
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CHIESA

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SACCARGIA (secolo XII): veduta absidale.

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SACCARGIA (secolo XII): facciata.

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UNA CHIESA E UN MONASTERO

Dalla Carta XXI (Tola, Codex diplomaticus Sardiniae, I, p. 192). Condague della solenne consagrazione della Chiesa della SS. Trinit di Saccargia, fondata e dotata da Costantino I di Laccon re di Torres e da sua moglie Marcusa di Gunale (1116, 5 ottobre). Currende su Annu de su Segnore nostru Iesu Christu Milliquentu et seygui, Indictione nona, quinta octobris. In su tempus qui papa Paschalis Segundu regiat sa sancta Ecclesia de Roma, in sa insula de Sardigna regnabat pro Juyghe et Segnore de su Regnu de Logudore su Christianissimu Constantinu, figiu qui fuit de Juyghe Mariane quondam, una cum sa prudente de Deu devota Donna Marcusa mugiere sua, sa quale fuit de Arvar de su Samben de Gunale Et regnande ambos umpare faguende iusta e sancta vida in servissiu de Deus, apisint figios e figias; et in quo piaguiat a Deus, non de lis podiat regnare, qui totu morian. Inhue deliberaint de andare a visitare sa Ecclesia de sos tres gloriosos Martyres, zo est sanctu Gavinu, Proptu et Ianuariu de Portu de Turres, su quale fuit habitadu dae mercantes Pisanos, et altera gente assay, et inivi faguer devotas oraciones, et humiles pregarias cum officios et missas, et luminarias mannas, pregande a Deus, et a sos gloriosos martyres, qui lis concederent unu figiu o figia pro herede inssoro. Et in ipso facto, fata sa deliberacione, si tucaint, e partidos qui furunt dae sa habitacione cum grandissima gente a pee e a caddu, cum piaguere mannu et triumphu, essendo in camminu, apisint a faguer nocte in sa Ischia de Saccargia. Et inivi per virtude de Deus et de sa gloriosa virgine Maria lis fuit demostradu visibilmente, qui si issos queriant sa gracia, qui in cuddu logu edificarent una Ecclesia a honore et laude de sa sanctissima Trinidade, zo est de su Padre, de su Figiu, et de su Spiridu Sanctu, et inivi faguerent
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unu monasteriu de sanctu Benedictu de su Ordine de Camaldulense. Inuhe, vistu su dictu Juyghe Constantinu, et donna Marcusa mugiere sua sa visione angelica, detisirunt recatu de grande moneda gasi comente aviant su podere, et apisirunt mastros Pisanos, et edificarunt sa ecclesia et monasteriu de sa Trinidade Et regnande algunos tempos ambos umpare su dictu Juyghe Constantinu cum sa devota donna Marcusa mugiere sua, operande su bene faguer, cum eleemosynas a quexias et poveras, coiuande sas poveritas orfanas, et ateros benes qui faguiant, apisint unu figiu, zo est a donnigueddu Gunnari, su quale post morte sua fuit Juyghe et Segnore de su predictu regnu de Logudore Correndo lanno del Signore nostro Ges Cristo Millecento e sedici, Indictione nona, quinta di ottobre. Nel tempo che papa Pasquale Secondo reggeva la santa Chiesa di Roma nellisola di Sardegna regnava come Giudice e Signore del Regno di Logudoro il cristianissimo Costantino, che era figlio del defunto Giudice Mariano, insieme con la prudente e di Dio devota Donna Marcusa, moglie sua, la quale era una degli Arvar, della casata dei Gunale E regnando insieme facendo giusta e santa vita al servizio di Dio, ebbero figli e figlie; e, poich cos piaceva a Dio, non gliene poteva durare in vita, ch tutti gli morivano. Perci deliberarono di andar a visitare la Chiesa dei tre gloriosi Martiri, cio San Gavino, Proto e Gianuario di Porto Torres, il quale era abitato da mercanti pisani, e altra gente assai, e ivi fare devote orazioni e umili preghiere con uffizi e messe, e luminarie grandi, pregando Dio e i gloriosi Martiri, che concedessero loro un figlio o una figlia per erede. E allistante, presa la deliberazione, si misero in viaggio e, partiti che furono dalla loro abitazione con grandissimo seguito di pedoni e di cavalieri, con grande piacere e trionfo, essendo in cammino, ebbero a far notte nella fresca piana di Saccargia. E ivi, per virt di Dio e della gloriosa vergine Maria, fu loro indicato per visione che, se essi volevano la grazia, edificassero in quel luogo
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una Chiesa a onore e lode della Santissima Trinit, cio del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e ivi erigessero un monastero di San Benedetto dellordine di Camaldoli. E cos, considerata, il detto Giudice Costantino e Donna Marcusa, moglie sua, la visione, raccolsero una grande quantit di denaro come era in loro potere, e fecero venire maestri pisani ed edificarono la Chiesa e il Monastero della Trinit E, regnando alcuni anni insieme, il detto Giudice con la devota Donna Marcusa, moglie sua, operando il bene, con elemosine alle vedove e alle povere, ebbero un figlio, cio il donnicello Gonario, il quale, dopo la morte di lui (Costantino), fu Giudice e Signore del predetto Regno di Logudoro.

CASTELLI MEDIOEVALI

Oh, de mama casteddu, mi dormo su piseddu a ninnare a ninnia Oh, di mamma castello addormento il mio bambino

Bellissimi nomi: castello di Salvaterra, castello di Gioiosaguardia, castello Orguglioso, castello della Rosa, fra i tanti del Giudicato di Cagliari. Castello di Marepontis, castello di Medusa, e quello di Girapala e quello di Pasules, fra i molti del Giudicato dArborea. E quelli di Civita e di Padulaccio e di Balaiano e di Erguri, fra i non pochi del Giudicato di Gallura. E le rocche di Monte Acuto, dOlomene ed Essola e altri del Giudicato di Torres. E i Doria ebbero i loro manieri, anche quello di Bonuighinu; e i Malaspina lo stesso, anche quello di Serravalle. Nati ai confini dei quattro Giudicati per la difesa gelosa della loro integrit territoriale, e non per estrema trincea della libert, e neppure per tenere a freno le turbe ribelli, il popolo non li am, non li odi nemmeno. Non li degn duna leggenda; non duno spettro romantico. Soltanto in qualche muttu o in qualche ninnananna, sincontra il vocabolo casteddu a solo titolo di rima con piseddu, isteddu, aneddu e simili: esso poi divenuto sinonimo di Cagliari. Ma i vecchi delle montagne continuano a chiamare la prima citt dellisola Callari, allantica. La Carta castellana cinforma che la costa orientale, munita di montagne e protetta dalla sua stessa povert che la rendeva inappetibile, ebbe poco bisogno di castelli; molti, invece, e disseminati strategicamente, quelli della regione a occidente, che era ricca di messi, di bestiame, di citt, di tesori minerari.
Rozzi e massicci, simbolo del tramonto della Sardegna patriarcale e dei nuovi tempi che sannunciano turbolenti e sanguinosi (R. Carta Raspi, Breve storia della Sardegna, Cagliari 1950).

CHIESA DI SAN NICOLA DI QUIRRA (CAGLIARI) (secolo XIII). lunico monumento in cotto in tutta lisola.

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IL CERVO IN ASCOLTO

ppo intesu sonu e telarzu / e sa bidda no pariat pis morta Ho sentito un batter di telaio / e il villaggio non pi sembrava morto

La sposa stava al telaio e aspettava il giovane marito che era andato a cacciare il cervo. Lo sposo non poteva oltre ritardare il suo ritorno: e lei era impaziente di confidargli una gioia, che aspettava un bambino. Era gi nata sotto la spola la selva che ora doveva ricevere e nascondere un ospite, un cervo in ascolto. La tessitrice era tanto felice; solo la turbava di quando in quando un incomprensibile affanno, come di uno che le picchiasse al cuore. E diceva tra s: Devessere il bambino. Poi, a un tratto, sent alla porta gente che bisbigliava: la porta si apr ed entr un vento gelido. Da quel momento la sposa riprese a tessere e ad aspettare, e tess e aspett finch non ebbe partorito. La bambina aveva occhi di cerbiatta, e la madre per quella grande gioia usc dal silenzio della selva: celebr il battesimo e prese il lutto. Lorfana crebbe al telaio aspettando lo sposo, e sua madre fece in tempo a vedersi nonna. Le nipoti si chiamavano Emanuela, Giusta e Daniela e crebbero anchesse al telaio aspettando lo sposo. E gli sposi arrivarono e se le portarono lontano coi loro telai. Ognuna fece nido, quale in montagna, quale in pianura. I telai della montagna diedero tappeti folti dombre severe; i telai della Marmilla e dei Campidani feraci li diedero di festa, San Sperate li accese di colori. E le consanguinee se li scambiavano alle feste, e ciascuna si guardava intorno e onorava le erbe e gli animali e i colori e lanima della sua contrada. Ma nella libert di guardarsi ciascuna attorno e di essere diverse, era pi forte di loro il dare testimonianza dessere
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discese dalla stessa dinastia. E tutte mettevano in mostra trionfale vasi di palmizi, tralci di vite, melograni, garofani e rose, animali e angeli, coppie che danzano tenendosi per mano, re e regine, Lucrezie e Cristine, il cavallo alla fonte, il cavaliere o gli sposi a cavallo, gli asinelli e i cani e i cervi, le oche e le colombe, stelle innumerevoli di cieli inverosimili o suggerite dalla natura. E le nuove tessitrici stettero al telaio e aspettarono anchesse lo sposo, e gli sposi venivano ma sempre pi di rado da contrade lontane. E di discendenza in discendenza qualcuna quasi si dimentic dellorigine e volse gli occhi allOriente. Cos Nule diede il suo tappeto, e linnalz quasi insegna straniera per insoliti colori.38 E cos Ploaghe col suo leone e il tralcio della vite. Morgongiori invece rest fedele allaquila coi cervi e fantastic castelli e torri e chiese. Mogoro diede cavalli quasi quadrati neri o rossi. Isili gli uccelli stecchiti, la cavalcata nuziale, la gente che balla in tondo, il guerriero che combatte coi cervi. Santa Giusta le confraternite dangeli. La Marmilla il ballo tondo come gara di resistenza. La Barbagia la geometria che Nuoro altern con gli uccelli. Gavoi, Bolotana e Oliena il tapinu de mortu .39 E Ruinas diede gli asinelli in serie, e Ilbono i garofani sanguigni, e Nulvi palme e uccelli e cagnolini. Senis, terra di pochi fuochi, cervi neri grecizzanti. E Terralba rose dogni colore. E Sarule calici e chiavi e clessidre. Tappeti antichi di ruvida lana che sfidano il sole di tuttagosto senza perder colore. Nati dal dolore dunantica sposa. Le nipoti, ancora fedeli ai miti e ai telai, credono che il tessere porti fortuna: il battere del telaio nel silenzio della casa e nellattesa e nella malinconia dei giorni non lascia infatti morire la speranza.

38. Verde smeraldo, o giallo oro, o rosso vivo, o azzurro chiaro su fondo arancione. 39. Vedi Il tappeto del Cristo, p. 188.

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CUORE MIO

Pro su fizu sa mama / su coro si nche bocat. Per il figlio la madre / si strappa anche il cuore. MADRE MEDITERRANEA Altezza m 0,44. Trovata a Senorb (Cagliari) nel suo santuarietto, ritta entro un cerchio di rozze pietre. di et eneolitica, databile circa 2000-1500 a.C. una dea madre, sintesi damore e di morte (la si trova anche a proteggere le tombe delle domos de janas che sono grotticelle scavate ad arte nella roccia), espressione di civilt agricola. Sulla piatta nudit dello schema cruciforme che chiude, in una giusta sintesi geometrica, il contorno del corpo, spiccano i volumi dellenorme naso e delle poppe carnose. Volumi intuitivi, frontalit, partizione bilaterale, rigida asciuttezza, chiarezza e penetrabilit sono i valori fondamentali della statuetta che di marmo e di gusto largamente mediterraneo, e, in particolare, egeo-cicladico. In essa appare il substrato originario formale delle figurine bronzee nuragiche (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

Maria Pietra era in potere di certe parole, ora perdute, che avevano il potere di legare (affascinare, privare della libert) tutte le creature; e che era proibito adoperare, pena un terribile castigo. Essa aveva un figlioletto che era tutta la sua vita e perci lo chiamava Cuore-mio. Ora accadde che Cuore-mio venisse in punto di morte e non facesse che desiderare tortore e colombe, lepri e cerbiatte vive. Ma queste abitavano ormai in lontanissime contrade, da quando le avevano spaventate gli incendi e la polvere da sparo. Cuore-mio piangeva continuamente e si struggeva di giorno in giorno di desiderio. Finch la madre, temendo di perderlo, sfid, e super, laltra paura, dun terribile arcano castigo, e ricorse alle parole proibite per accontentarlo. Tortore e colombe, lepri e cerbiatte arrivavano a semplice comando di Maria Pietra: arrivavano col cuore che batteva. Malinconiche prigioniere, dopo due o tre giorni di fascino, si consumavano: Cuore-mio ne pretendeva altre, sempre altre, e la madre, come drogata, continuamente gliele sostituiva. E venne il primo castigo: tutto fu inutile, Cuore-mio mor. La madre rest attonita e muta di dolore e curva sotto il peso della colpa. Dun tratto, quando la lasciarono sola, si mise a intridere la farina e le vennero le lacrime. E con esse la impastava, e con la pasta faceva e disfaceva bambini. Dimentica del cibo e del sonno, venne finalmente a visitarla un giovane bellissimo. Veniva da parte del suo bambino. E le disse: Quasi non contenta dellaltro peccato, ora per colpa delle tue lacrime il tuo bambino sempre triste, in mezzo a tanti e tanti altri bambini che sono sempre in festa.
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AMARO

La madre, udendo questo, si risent di colpo e disse con affanno: Adesso stesso fermerei le lacrime, ma come voler fermare il fiume. Acqua e acqua passer sempre, Cuore-mio, e tu quando potrai giocare? Il peccato solo mio, esso ricada tutto sulla mia testa . Detto questo, chin il capo per accettare lespiazione, fece anche ogni sforzo per frenare le lacrime e cos pacificare subito il suo bambino, ma vedeva che tutto era inutile. Laltro le chiese allimprovviso: Hai dichiarato daccettare che ricada tutto sopra di te? . La madre lev gli occhi e, attraverso il velo delle lacrime, vide pi splendido il messaggero e comprese che egli aveva il potere di fare ogni cosa, anche di fermare il fiume allistante. S, subito disse e riprese a impastare il suo dolore. Laltro le sfior la testa con gesto dolente: e allistante la madre perdette le lacrime e si sent legata, chiusa in una prigione di pietra; ma aveva fatto in tempo a sentire per un attimo, un attimo solo, lungo come leternit, una gioia fulminante: i piccoli animali, prima mesti e poi morti per colpa sua, ritornavano festosi alla selva, e Cuore-mio gi giocava nel giardino.
Molto screditati sono ormai gli stregoni di ogni pratica, anche quelli della defixio ( noto che erano sparse in tutto il mondo romano le tabulae defixionum con le quali si credeva poter distruggere la vita dei nemici). La puppia o pippia (bambola) confezionata, per odio o vendetta, con un lembo del vestito della vittima e trafitta di molte spille nelle parti da colpire, continua, se mai, a far ribrezzo, quanto la vista duna biscia. Le pupattole sono variamente chiamate: majas, maas, maghas, mazznas, li fatturi, da cui prendono nome di majargios, maiarzos, maghiarzos, mazzineris, ecc. gli stregoni che le mercanteggiano. Del resto, chi continuasse a temerle, reciti questa formola magica che, se rester inefficace, almeno non avr fatto del male a nessuno: Glorioso SantElia; contro chi cercher di offendermi, dammi la forza che hai avuto quando hai vinto nella guerra Gloriosu SantElia a chi hat a circai a offendi a me / donaim sa frozza chi hais tentu candu hais bintu issa gherra / Gloriosu SantElia a chie hat a chircare de offendere a mie, / dademi sa forza chi hades ppidu cando hazis bintu in sa gherra.

VERBOS O CARMI INCANTATORII

A FULGURE ET TEMPESTATIBUS Santa Barbara isposa e Santa Nicolosa e Santa Anastasa, in mesu e sa ia, in mesu e su campu liberdenos de tronu e de lampu. Santa Barbara sposa / e Santa Nicolosa / e Santa Anastasia, / in mezzo alla strada, / in mezzo ai campi / liberateci dal tuono e dal fulmine. PER CHIAMARE LA FORTUNA SantElna mia santa preparademi sa banca, cun duna tiaza bianca, tres lepuzzos a segare tres panes de armonia: dademi in craru sa fortuna mia. SantElena mia santa, / preparatemi la tavola, / con una tovaglia bianca, / tre coltelli per tagliare / tre pani di concordia: / rivelatemi la mia fortuna. PER VOLARE SENZALI Va in chiesa e invoca il morto. Digli: Metti il tuo piede sinistro sopra il mio piede destro . E subito il morto parler:

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Verbos o carmi incantatorii

Morto al vivo: Ite bides? (Che cosa vedi?). Il vivo risponda: Nudda (Nulla). Il morto replicher: Mira bene (Guarda bene). Il vivo: Mes passada una cosa fritta (fredda) supra su pe. Il morto: Cussa so eo e beni cun megus (Questa cosa sono io e vieni con me). A questo punto si vola insieme senzali. PER LULTIMA NOTTE DELLANNO Che cosa mi porterai, anno nuovo? Santu Silvestru donnu, bendemi in su sonnu cun cosas de piaghere cun cosas de allegria: de cantu happa passare in tota sa vida mia. San Silvestro dmino, / visitatemi in un sogno, / pieno di cose che fan piacere, / e di cose allegre: / (e rivelatemi) quante ne passer / in tutta la mia vita. Ce n per tutto, e per tutti: per la pleurite, per le malattie degli animali, per i fuochi fatui Ma sono formule ormai molto screditate. PAROLE A SAN GIOVANNI Eo mi corco in su lettu meu, anima e corpus incumando a Deu, anima e corpus a Santu Giuanne; sinimigu mai no mingannet,
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sinimigu mai no mi tochet, ne a die, ne a notte, ne in vida, ne in morte. Io mi corico nel mio letto, / anima e corpo raccomando a Dio, / anima e corpo a San Giovanni; / il maligno mai minganni, / il maligno mai mi tocchi, / n di giorno n di notte / n in vita n in morte.

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IL RACCONTO DEL DOMATORE

In viaggio raggiungevano comitive di mercanti che portavano cappellucci con la tesa calata sugli occhi e bastoni ricurvi. Chi voleva alludere alla loro scaltrezza diceva che lasciavano orme di capra, come compari del demonio. Altri, accettando invece la versione che fossero mercanti siciliani e basta, raccontava storie prodigiose di cavalli che finivano tutti in un paradiso in premio del lavoro e delle tribolazioni che avevano sofferto per gli uomini. Fu persino aperto un processo contro ai padroni di cavalli, perch raramente essi li trattano bene da vecchi. Cos e altro parlando, arrivarono ad un campo cinto di muro barbaro, che era affollato di polledri. La torma era arrivata quasi allora da un tavoliere che aveva da tre lati le pareti a picco sul precipizio, e che toccava il cielo con le sue foreste. I cavallini erano sudati, affranti, come sgomenti per un cataclisma. Il domatore Sempreinsella li osservava con occhio clinico. A un tratto indic un sentiero in salita e disse che solo per quello si poteva arrivare in cima, a un cancello. Passato quel cancello, uno vede la radura con in fondo la foresta. A traversare quella radura si sente chiamare a voce bassa nel silenzio: un camminare in un cimitero senza croci e, a guardare meglio, si scoprono tra le basse erbe, le ceppaie degli alberi abbattuti. Uno vorrebbe fermarsi e non pu. Perch quella voce verde e cupa continua a chiamarlo. Non resta altro che affrettare il passo, sia pure col cuore in gola. Certo dovr scoppiare un grande urlo che scioglier il mistero. Ed ecco uno, due, tre, cento nitriti. Sono i cavalli che danno lallarme. Sono i cavalli bradi. Quanti saranno? Nessuno lo sa, nessuno mai lo sapr. La loro vita mobile come laria che circola tra gli alberi fermi. Nascono, crescono, lottano, amano, invecchiano, muoiono, tutti dun medesimo sangue, piccoli e ispidi che morirebbero nella loro libert se ogni anno luomo, tanti uomini non salissero al tempo della fiera.
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I cavalli che lanno prima sono sfuggiti alla cattura sentono il nemico e cominciano a giostrare. Gli uomini saddentrano ululando con in pugno i loro lunghi bastoni dalla punta dacciaio e i loro lacci di pelle di bue e le loro fruste: non si stancano di cercarli, li scovano, li spingono verso la radura. L il loro destino. Altri uomini a cavallo li rincorrono come per gioco tra ululi, schiocchi di frusta e sibili: nitriscono i cavalli mansi, nitriscono i cavalli rudi: la giostra d il capogiro: sudano gli uomini, sudano i cavalli. Ormai il gioco fatto. I vinti straripano stanchi, disfatti, dal cancello, scendono a valle, singorgano nel sentiero, il fiume di cavalli riprende a scorrere a valle, solo di tanto in tanto lanciano nitriti alla foresta, dalla foresta nitriti rispondono. A mano a mano il campo savvicina, i nitriti si fanno sempre pi radi e pi delusi e comincia il malumore muto dei piccoli cavalli. finita la libert, e troveranno il padrone e anche il domatore. Verr poi il tempo della carretta o delluomo sul dorso. Fortunati quelli che conosceranno i palii, i premi e la fama: il poeta li canter: il loro nome voler di bocca in bocca. Ma essi lo sapranno? Verr poi per tutti lora del frantoio, o lora dei caseifici fumosi, o quella di stramazzare sul campo o sulla strada.
Poich i nuragici che vissero in uno dei due unici tempi dindipendenza dellisola (laltro il tempo dei Giudicati, nel quale campeggia Eleonora dArborea) non conoscevano il cavallo, mentre conoscevano il toro che adoravano, si sarebbe tentati di chiamare quel periodo megalitico tempo del toro, al quale succede un secondo tempo, quello del cavallo, che coinciderebbe pressa poco con la dominazione dei Cartaginesi i quali importarono il quadrupede nellisola. Comunque sia, il cavallo per il Sardo simbolo di signoria, di dominio, di appartenenza al ceto dei benestanti. Il Sardo a cavallo lo dice col suo stesso atteggiamento spavaldo che a cavallo, non solo metaforicamente. Le locuzioni: ora a cavallo caduto da cavallo caduta da cavallo attento alle cadute da cavallo est torradu a pe in terra (s appiedato per colpo di fortuna) celebre, nellinno contro i feudatari, lammonimento a questi di provvedere in tempo a moderare la loro tirannia se non vogliano andare in rovina: (ca si no pro vida mia / torrades a pe in terra) tutte queste locuzioni e altre simili hanno il doppio significato: letterale e metaforico, e alludono spesso ai capricci della fortuna.

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In correlazione a questo, opportuno avvertire che il ceto pi umile si accontenta dellasino come cavalcatura. Lo sfrutta in tutti i modi, come fa del resto anche il benestante. Alle feste gli tocca la parte del malumore per s: del buonumore per la gente: lo mettono a correre, e lui fa di tutto, stizzosamente, per arrivare ultimo. I pi poveri lo cavalcano, facendo sforzi inauditi per non toccare coi piedi il terreno. I fanciulli se ne fanno un gran balocco. I pi poveri tra i poveri si consolano di non possedere nemmeno un asino, chiamando in causa il cavallo di San Francesco, che uno dei santi pi venerati, anzi il pi miracoloso, e che, come noto anche dalla poesia Il voto del Satta, persino il protettore dei ladri di bestiame, gli abigeatari: il Mercurio di questi traviati.

NASCITA, VITA E MORTE DUN ARMENTO

Est che familia cumprda / su tazu chubdit sa mama. come famiglia esemplare larmento / obbediente alla madre (mucca che domina).

Questo registro devessere stato tenuto dallantico parroco che venne incarcerato per aver fatto causa comune con i pastori e i contadini ribelli a una legge che rovesciava un sistema secolare di godimento in comune dei semineri e dei pascoli. Lo ha infatti firmato, di foglio in foglio, e timbrato con un San Giorgio a cavallo, che trafigge il drago. Il toro capostipite si chiamava Corna dacciaio. Non era n forestiero n straniero. Ancora non erano stati importati soggetti piemontesi, pisani, romagnoli, marchigiani, reggiani, bruno-alpini, siciliani, simmenthal, spagnoli, i quali non furono fortunati nelle loro nozze con bovine nostrane. Ma vennero i riproduttori modicani: e i bovini sardo-modicani hanno popolato il Nuorese e la Planargia e parte del Sarcidano e del Montiferro, e i Campidani di Cagliari e di Oristano, la Marmilla e la Trexenta, buona parte del Gerri e del Srrabus, dellIglesiente e del Sulcis: generazioni che danno soprattutto carne e forza-lavoro. Altri riproduttori ha mandato la Lombardia e la Svizzera al Logudoro e allAnglona, al Marghine e al Mandrolisai, al Montiferro e ad Arborea: sono nati i bruno-sardi, animali che danno latte e carne. I bovini indigeni piccoli, sobri, rustici, resistenti, infaticabili sono ormai relegati nelle zone montuose della Gallura e della Nurra, nella Barbagia e nellOgliastra alta, un po nel Srrabus, nel Gerri e nel Sulcis, ma gi sapparentano con la gente di fuori. La loro vita ed stata sempre tanto dura che se sono sopravvissuti c da pensare si siano nutriti di erbe miracolose.
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Nascita, vita e morte dun armento

A questa piccola razza apparteneva Corna dacciaio. Le sue concubine (mogli e buoi dei paesi tuoi) erano tuttal pi di parte barigadu (di l dal fiume): cio luomo faceva loro da paraninfo passando anche i fiumi. Si chiamavano Speranza, Occhio-di-sole, Coda-di-seta, Vestita-a-festa, Massaia, Troppo-ti-miri, Cento-ne-vuoi dove si vede che in mezzo a loro cerano anche le capricciose, le vanitose, le modeste e le fatali. Le figlie ne ereditavano, di solito, il nome. I figli si accontentavano di chiamarsi figli di Corna dacciaio e ne erano fieri, a quanto racconta Venanzio Issogatore, ultimo discendente duna fiera prosapia di grandi armentari. Nascite, vendite, filiazioni, morti, smarrimenti, furti, macellazioni: tutta la storia dellarmento vi scritta: una cronaca nuda, un inventario che sollecita la fantasia. La storia paradigmatica quella di Nostrassignora, quella che comandava: la matriarca. La sua maternit regale benefic negli anni la gente: col suo latte prima, con quello delle figlie poi; non prov, come capita nelle famiglie umane, lo strazio delle sventure familiari (cos piace congetturare. La natura benigna con le bestie dotandole di facile smemoratezza). Una sua discendente fu immolata giovane a un banchetto nuziale; unaltra a un banchetto funebre; unaltra alla festa del santo patrono; unaltra per un voto Nostrassignora non dovette disperarsi nemmeno per quelle due o tre nipoti che patirono il ratto, una notte, non da parte dellamante: e non se ne seppe pi nulla. Questo e altro si legge in questo libro scritto con sole date e sobrie note, anche sul come erano ammantate: bianche, nere, frumentine, fior di pesco, sorcine, lupine, pezzate Altre e altre mucche figliarono. Un toro mor di morte naturale. Altri perirono miseramente, al macello. I loro cuoi andarono in bisacce, in soghe, in crudi tappeti per capanne. Una croce a fianco di ciascuno. In questo, dei molti fogli, le croci cominciano a spesseggiare come in un cimitero. Strano cimitero, non consacrato: le croci sono allineate dallalto in basso, e lungo il margine destro. Cos continuano in alcuni fogli successivi. tempo di
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moria. Carbonchio, siccit, afta? Chi sa. Tempo di lutto e mutismo nelle case. I santi, le parole segrete, le processioni non valsero, non che ad allontanare la pestilenza, a mitigarla. Si saranno chiesti: Quale peccato dobbiamo scontare? . Non si conoscevano ancora i sieri e i vaccini, a quei tempi. Poi, la vita ritorna. Larmento si ricostituisce a poco a poco, negli anni. Larmento di nuovo, finalmente, in rigoglio. Rubati due vitelli: non ci voleva: rubati il 24 dicembre notte di Natale. Rubato tutto larmento il giorno di SantAntonio dellanno successivo Interruzione. Fine. Questo lo fece, in una notte, la bardana.
Bardana (italiano antico, gualdana!). Le chiamavano e le chiamano ancora, in qualche parte, ominas, o anche bugrus, rugrus: dal Nuorese al Marghine. Nel Sud vanno a sartillai, ed lo stesso razziare il bestiame nei saltus, dove esso pascola quasi sempre brado. Non valsero a distruggerle, opportunamente addestrati alla caccia delluomo, i bracchi e i segugi di Marco Pomponio Mario, n le aspre guerriglie del pretore Tito Albucio e del console Caio Cecilio Metello. Le frenarono nel XIII e nel XIV secolo, le leggi della Repubblica sassarese e la Carta de Logu. In questo codice insigne, Eleonora, con le sue terribili pene, protegge il mite contadino dal pastore invadente. Codice, miracolo di saggezza per quei tempi: ricorda talvolta le pene infernali dantesche, specie in quelle mutilative, con evidente contrappasso. Verranno poi altre leggi, certo meno crudeli e lontane dal taglione, forse anche pi efficaci. Ma la mala pianta dura a morire. Il giorno che gli armenti e i greggi avranno un loro tetto e non dormiranno pi allaperto: quel giorno sar anche la fine della bardana, e lo stesso pastore potr dormire tranquillo nel suo letto, e radersi spesso, e affacciarsi alluscio della casa nella fattoria, allalba, riposato, ancora padrone, a leggere nel cielo il tempo che far.

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LA VECCHIA CHE PIANGE

Su poveru senza bestiolu est poverin terra. Il povero senza lasino povero scannato.

Babbo ci morto / quel padre amato! / Babbo ci morto / sotterrato nellorto! / Quel padre amato / nellorto sotterrato! La famiglia amata / lui lha lasciata sola, / La famiglia amata / quella bestia da mola; / Quella bestia da mola / lui lha lasciata sola! Quel pap grande / era un ecceomo / Era un ecceomo / che danno per la nostra casa!
Si noti lamarezza dellultimo verso. Lasino, il pegus de mola, il molente, su bestiolu, sainu, su poveru (il povero), su battilosu (quello del basto), su bettiosu (il lunatico, lecceomo, ecc.) se ne va dalla casa rustica senza lasciarsi dimenticare.

Ci morto un parente, uno di quei parenti che se ne vanno senza lasciarci nulla, che si portano tutto con s, e anche il nostro cuore. Perch ci ha aiutato in ogni stagione, al caldo e al freddo, per un pugno di paglia; perch ha portato sul dorso ogni peso, e anche i nostri bambini; ha accettato anche le percosse, come per un paradiso che gli stato promesso, e che avr certamente nei campi dasfodelo in Norgoddoe.40 ATTITTIDU BURLESCU IN MORTI DE SU MOLENTI LAMENTO FUNEBRE BURLESCO IN MORTE DELLASINO Babbu no chest mortu, / cuddu babbu stimau! Babbu no chest mortu, / interrau est in sortu! Cuddu babbu stimau / in sortu est interrau! Sa famiglia stimada / ca ddha lassada sola, Sa famiglia stimada / cuddu pegus de mola; Cuddu pegus de mola / ca ddha lassada sola; Cuddu babbai mannu / fiat un Ecce homo, Fiat un Ecce homo, / ha fattu dannu a domo!
ANONIMO

(da Raccolta di Vacca-Concas, Lanciano 1926)

40. Nome fantastico del paese dei morti, che ricorre in questa filastrocca (inedita): Norgoddoe terra-pasa: / nemos finas ches biu / barrivit hoe ne crasa (Norgoddoe terra di riposo: nessuno finch vivo vi arriva oggi n domani).

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CARNEVALE A MAMOIADA41

LA SPOSA ALLA FINESTRA

Carrasecare maccu, de peccados unu saccu, dallegria fattu e margura. Carnevale pazzo, di peccati un sacco, dallegria fatto e amarezza.

In ue no bhat femina no bhat domo ne manera. Dove non c donna, non c casa n grazia.

Ieri notte, 16 gennaio, lallegra catasta bruci in piazza per tutti. Oggi, diciassette, come ogni anno e dal tempo dei padri, tornato il carnevale. tornato con i prigionieri muti: vecchi prigionieri muti, vecchi cattivi vestiti alla rovescia, con la cintura di campanacci e la collana di sonagli. Dura, di duro legno o di sughero la loro maschera di lutto. Camminano a passo di bue aggiogato e sotto peso; scuotono a colpi di spalla le loro sonagliere, ora con questa ora con quella: e lo squillo uno solo. Dice la sonagliera: finita, finita. Dure, giovani guardie li circondano, che solo di tanto in tanto prendono al laccio lamata o gli amici che guardano dai margini della strada il triste armento che passa.

41. Villaggio del Nuorese.

La mia casa qui, in mezzo a queste casette nere, salvo i tetti rossi che la pioggia e il sole non riescono a slavare del tutto. Queste casette sono allantica, solo che hanno in pi finestra e camino. Una volta nel mezzo della stanza il fuoco veniva acceso nel focolare quadrato di pietra, e la notte riposava sotto la cenere. Il fumo se ne usciva dalla porta e dal tetto di canna integolato. Ai lutti lo spegnevano e la casa sembrava morta con chi se ne era andato. Ancora oggi chiamiamo la cucina la casa del fumo; anche dopo che s conosciuto il ferro elettrico da stiro. Ho sentito le prime storie davanti al fuoco. Mia madre ci ha lasciato questo grande camino con la grande cappa sotto la quale c posto per tutti nelle notti dinverno. I miei nonni sedevano l, e ruminavano i loro pensieri, salvo di primavera e destate. I miei genitori erano gi al braciere di rame, nellaltra stanza. I vecchi nonni non erano contenti di quella novit. Ma adesso se ne sono andati tutti, e devo dire che, se continuiamo ad accenderlo, in loro memoria. Ma anche perch non c cosa pi viva del fuoco in una casa: ci sembra che, essendoci lui, la morte non possa entrare, che non si debba morire mai; la stessa impressione di quando si mette al mondo un figlio. Quando mi nacque il primo figlio, vi gettarono sopra il sale. Il sale che non deve mai mancare nella casa: perch amaro come la vita, ma condisce i cibi e aggiunge saggezza. E cos non deve mancare il lievito che la crescita della vita, e cos il cero che si accende per segnare i nostri morti e farli rinascere nellaltra.
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AMARO

La sposa alla finestra

Ancorch ci sia arrivato il molino elettrico non abbiamo rinunciato alla macina, e in questo rione batte ancora qualche telaio, nonostante le cotonine e le tele stampate. Ecco la grande cassa di castagno. Questa la ebbe mia nonna, quando and sposa. stata tinta con sangue di capra, e il tempo lha incupita. E questo il seggiolone del paraninfo sul quale sedeva mio padre quando venne lambasciatore per chiedermi per luomo che mi ha sposata. E laltro quasi tutto venuto dal nostro tempo, e chi sa quante ce ne avrebbero dette i nostri vecchi. Questa la culla di castagno che servita per me e per i miei figli e passer, come spero, ai nipoti. In essa sono entrata, e cos anche i miei figli, solo dopo che la madrina, che mi aveva presa in consegna come mora, mi ha restituita cristiana a mia madre. Da questa porta sono usciti tanti che non sono ritornati; ma stabilito cos, e solo conta quello che si fatto di bene da vivi: il nome che si lascia. I giorni e le notti si alternano. E qui, quando torna luomo o tornano i ragazzi, sempre un momento di festa, dopo le ore che s aspettato. Siamo, come si dice siano le mogli dei marinai, quelle che aspettano i loro uomini ogni giorno. Ieri cera la malaria ed era peggio ancora. Ma c ancora il vento, la pioggia, la neve, il sole pazzo, i peccati degli uomini e gli errori dei giudici. Da questa finestra li guardo partire e li seguo con gli occhi finch sono spariti; poi li accompagno con il pensiero. Da questa finestra mi consolo nelle ore pi amare, pensando: Tanti stanno peggio di noi . Quella la casa della venditrice di sanguisughe; quella dellinfornatrice che un brutto mestiere, specialmente di estate; l la lavandaia mercenaria che va scalza al fiume in ogni stagione; l la rivenditrice duova che fa la spola tra il villaggio e la citt; l la corbolaia, forestiera, discesa in cerca di fortuna dal paese della neve; l la zappatrice e la raccoglitrice di ulive e di bacche di lentischio; l anche la prefica che con le sue rime ci strappa il cuore nelle ore pi tristi, ma il dolore si fa pi dolce.
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Non abbiamo grandi ambizioni, e poco tempo ci resta per sognare. Lambizione e il vanto delle nostre nonne erano di sentirsi lodare come tessitrici e come ricamatrici. Ma soprattutto per il pane e per i dolci preparati per le feste. Anche per noi la festa pi bella, quando gli uomini e i ragazzi ci dicono: Questo pane indovinato; questi dolci sono buoni. Molto crediamo negli auguri, e ci piace farli e riceverli. Laugurio pi bello che ci facciamo che vengano giorni sempre migliori, che non tornino le guerre, che il fuoco non manchi mai nei nostri focolari.

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RACCONTO DI POTENZIA MORO

Ti facan che assorzu / mancu a su peius nemigu lu ns. Ti tocchi la sorte dellorzo / neanche al peggiore nemico lo augurare.

Non augurare mai a nessuno la sorte dellorzo. Non dico di quella che gli tocca come biada alle bestie, ma di quellaltra che consiste in tanti maltrattamenti, uno dietro laltro, e di altrettante torture, perch diventi pane. Questo gli capita, per fortuna sua, soltanto nella stagione invernale, almeno qui, nei nostri paesi di pietra. Ma Dio ci avr perdonato fin dallantico, una volta per sempre, perch non lo facciamo con cattivo animo. Pane per pane, meglio quello di grano; ma, quando di questo si a corto, cosa che capita quando lannata andata a male, allora si supplisce con lorzo che sempre meno caro del grano di mercato, e il povero vi pu arrivare con minore sacrificio. Ho sentito dire una volta a uno (che a sua volta laveva appreso da persona di chiesa) che gli antichi patriarchi mangiavano il pane dorzo, n pi n meno come noi. Dunque, peccato non c. E poi non un divertimento tutto quello che costa di fatica, a noi donne, il prepararlo. I nostri uomini, quando sospiriamo di quella penitenza, ci rispondono un po divertiti che non poi la fatica di mettere al mondo un figlio. Ma lo sanno anche loro quello che ci vuole, perch di fatiche se ne intendono quanto noi, e forse pi. Lorzo, prima di tutto, labbiamo tostato nel forno, altrimenti non si lasciava macinare. Poi, purgato e macinato, abbiamo stacciato la farina: prima con lo staccio rado, con lo staccio fitto poi. Si arrivati cos alla crusca grossa, alla crusca sottile e al farro. Questo farro che la semola pi grossa labbiamo cribrata per separare la semola fina, sa podda (il friscello): e questa vola e imbianca la stanza e incipria la
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stacciatrice. Con la farina senza la crusca grossa si impastano i ghimisones, ma senza lievito e senza sale; cinque oppure sei, e anche pi, secondo la quantit dellorzo da panificare. Questi grossi pani pesanti: uno, o pi chilogrammi ciascuno, vengono messi nel forno mondato della brace e chiuso, e lasciati l a cuocere a fuoco lento. Allora non c fretta: quando la corteccia s indurita, tempo di cavarli fuori, e cos caldi come sono subito li deponiamo in corbe dasfodelo, li copriamo bene tuttintorno di farina e aspettiamo che maturino. Aspettiamo due giorni. Si pu adesso mettere il lievito, meglio se di grano, nella farina impastata. Apriamo i ghimisones: il loro cuore crudo ma saporoso, grigio e molle: rammolliamo con acqua tiepida, filtriamo il tutto e quello che ne viene simpasta con la farina fine. Questo impasto la madre di tutta quanta la farina da panificare. E quando questa avr fermentato schiacceremo i pani, li presseremo con le mani e col mattarello, fnch non saranno divenuti come carta grossa. Finalmente siamo davanti al forno: ora gli capita come al fratello, al pane di grano: le ostie che si gonfiano come otri, questi che vengono aperti con la punta dun coltello tuttattorno lungo i margini, rimessi nel forno pi tardi perch diventino biscotto, piegati a mezzaluna, accatastati, riposti negli armadi, negli scaffali, nelle casse. Parecchi giorni per abburattare e vagliare la farina, parecchi altri per i ghimisones, altri ancora per impastare, stendere e cuocere, sei o sette persone pratiche: tutto questo una lunga fatica, nessuno lo pu negare. Ma anche una soddisfazione per noi, quando i nostri uomini lo mangiano come ruminandolo e dicono di tanto in tanto: Lavete proprio indovinato . E poi ci scherzano sopra: e non mancano mai di chiedere alle pi anziane se abbiano anchesse mangiato la crosta del ghimisone che ha, chi sa poi se vero, la virt di far gonfiare il seno. E le anziane prendono ogni volta un tizzone dal focolare e fanno finta di bruciare loro la bocca.

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RACCONTO DI BONAVENTURA MAMELI

Chie hat pane / mai no morit. Chi ha pane / mai muore.

IL PANE BENEDETTO Pane nostru de ogni die, / no manches mai a mie, / no manches a perunu. / Mai connoscat jeunu / sa zente venturera (inedito). Pane nostro quotidiano / mai tu mi manchi / non mancare a nessuno. / Mai conosca il digiuno / la gente che va alla ventura. Augurio col quale si accompagna la distribuzione del pane benedetto fatta ai poveri nella ricorrenza della festa dun Santo che abbia dato assistenza e consolazione nelle malattie, nei dissesti, nelle sventure.

La vigilia dellinfornata, sul tramonto, mia madre seppelliva in segreto una palla di pasta color terra nella farina intrisa con lacqua tiepida e salata. Poi, disegnata con la punta dun dito una croce sul mucchio, non so quali parole o preghiere bisbigliasse movendo appena le labbra; come si fa davanti a una sepoltura. Ma passavano pochi momenti, e lei ricopriva tutto con panni di lana, come faceva con noi bambini, quando cadevamo ammalati e, per guarire, dovevamo sudare. Quella specie di fattura non mi lasciava prendere sonno subito, come le altre sere. Fantasticando finivo col mettermi al posto di quella palla e proprio allora mi addormentavo in un nido di lana. Ai primi canti dei galli gi si lavorava nella cucina. Gi impastavano uccelli mai visti in volo; lune che invece di occhi e bocca avevano croci e candelabri; modellavano anche aratri e corni da caccia; mani ferite di Cristo o di San Francesco; simboli di fecondit. Ma la maggior parte della pasta veniva ridotta in grandi ostie per il pane di ogni giorno; ostie che al calore del forno si gonfiavano come otri. Il forno acceso continuava a mandare dalla sua bocca il buon odore che tiene lontane la morte e le malattie. Si dice che risvegli persino i morti. Certo fa cantare le donne e le fa parlare della loro et pi fresca, degli amori che si aspettavano, e come sono venuti, e come si sono fatti aspettare invano. Le assistenti dellinfornatrice aprivano queste ostie con la punta del coltello, come ho visto fare alle persone istruite quando tagliano i fogli dun libro nuovo, e accatastavano le due sottilissime lune. Terminata questa cottura, i fogli rotondi venivano introdotti di nuovo nel forno fiammante, per la tostatura. Avevamo i cani: i cani guardiani e i cani cacciatori:
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e se ne stavano l, nella cucina calda, come ad attendere un momento della festa. Infatti quando si era finito di pensare ai cristiani, cuocevano le focacce per loro. Verso lalba arrivavano i mendicanti. Mia madre, soprattutto dinverno, appena li sentiva, si affrettava, correva, quasi, a dare loro un pezzo di pane caldo. Le mie sorelle aspettavano la prima luce del giorno e facevano a gara, in ogni stagione, a recare ai parenti pi stretti e agli amici pi cari un dono del nostro pane. Era uno dei doni pi graditi, ed essi ce lo contraccambiavano tutte le volte che accendevano il loro forno. Quel pane ci faceva meno irrequieti del solito per tutto il giorno, come se contenesse una sostanza miracolosa.

IL PESCATORE SOLITARIO

Si ses piscadore pisca; / e torra grassias a Deus desser biu. Se sei pescatore, pesca; / e ringrazia Dio desser vivo.

Si nasce nudi una volta sola, ma noi nasciamo nudi due volte. La prima, come ognuno che nasce; laltra, appena la poca salute 42 ci consiglia di andare alle rive solitarie e ai fiumi che simpaludano. Fortunato chi di noi possiede la nassa. I pi ci accontentiamo della bisaccia, della fruscina, della furchitta; e il lusso lo facciamo con la pezzuola di colore con la quale ci ricopriamo il capo e che ci annodiamo sotto il mento. Camminiamo scalzi nel vento e nel sole delle rive del mare, dove pi solitudine e silenzio: e non ci viene voglia di cantare per la polvere che ci accieca, per il calore che ci soffoca. La giornata comincia quando le prime luci filtrano nella capanna di erbe. Il nostro concorrente lairone, ma anche il solo che ci faccia compagnia. Cefali anguille arselle sono la nostra pesca, senza la quale non entrerebbero in casa il pane, lolio, il vino, il vestito. Spesso si sospira: Avessimo una donna e dei figli . Ma chi lo vuole un pescatore come noi che servo dellincerto, soggetto ai capricci delle acque e delle stagioni? (Lavete mai vista una famiglia di pescatori come noi? Fa dolore a guardarla, molto simile alle canne che crescono nella palude). E allora si finisce allosteria, e il vino ci fa dimenticare il vivere soli, la fatica, il domani incerto: e ci d voglia di cantare tra i denti e di fare il verso del vento e del mare.
42. Le statistiche di leva registrano unaltissima percentuale di riformati tra i giovani pescatori solitari.

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PENSARE A SETTEMBRE

SFOGHI DEL POVERO

Ficuindia donosa / grassias a tie / no so in sa losa. Ficodindia generoso, / grazie a te / non sono nella fossa.

Toccan su riccu in pettorru, ognunu lu cheret bene, per su povero tene(t) su fiagu de su corru. A su riccu laman totu e laman pro suinari, ma su poveru, mancari siat shomine pius dottu, issu mai tenet votu, ogni cosa si laffeat: est pro ca si li leat su fiagu de su corru. A su poveru comente si riende si reparat, rie rie si li narat: gi tistat bene sa entre! Ma su riccu allegramente giogat, riet e recreat: est ca no si li leat su fiagu de su corru. Su giovanu benestante, ognunu si ndinnamorat, ogni giovana ladorat, totu lu cheren pro amante. Su poveru pro birbante fin a morte si mantenet: est proite chi tenet su fiagu de su corru. Una giovanedda ricca,

C un paese dove gli anziani, che ne hanno viste tante, quando lannata andata a rovescio, e la gente si mette a mormorare e peggio se ne sta attonita ad aspettare la morte: c un paese dove essi dicono: Pensate a settembre. E intendono dire che il mondo duro a morire, che i sospiri o il mutismo non commuovono la sorte; che infine, a settembre, alle sue prime piogge, i fichidindia saranno maturi. Siano lodati i fichidindia (cos comincia la canzone del rapsodo Cucchiaino). Cantate, ragazzi e mangiate continua ma attenti alle spine, e pi agli scherzi voi mi capite: non lasciatevi ingannare dal dolce frutto: ogni frutto ha la sua stagione, ogni troppo per fa intoppo; intesi, fratellini? E, di notte, quanto mi piace sentirvi gridare nascosti il nome di Severina con quello di Martino, e il nome di Cosima con quello di Daniele, e altri e altri, sempre a coppie, che Dio li salvi e li unisca sposi al pi presto, come il loro cuore desidera. Cantate e denunciate tanti innamorati, e arrotate i coltellini. Che importa se la festa si spegner presto, come il gran fuoco in piazza? Come a SantAntonio, come a San Giovanni? Sar giusto al tempo che le rondini si mettono in partenza; che le foglie si mettono a cadere; che i grilli sono ormai pochi e stanchi, e le piogge dicono dolore a questo e a quello, ma fanno grandi promesse al contadino e al pastore; e il primo vento canta come un mendicante: lautunno che scaccia e chiama. Coraggio, fratellini, il tempo cambier dopinione, come il sole e la luna comandano, e riporter anche settembre.

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Sfoghi del povero

mancari siat tinzosa, brutta, fea, loroddosa, pro bella si califcat: a sa povera sa ficca, sest bella passat pro fea: est pro ca si li leat su fiagu de su corru. Intrat su riccu a faeddare cale si cherzat persone, cun ite grandattenzione no lu cheren iscultare? Siden su poveru intrare, no li dan mancu cadrea: est pro chi si li leat su fiagu de su corru. Su riccu tenet intrada in cale si cherzat logu, su poveru paret fogu chi brujat a sallumada, e bida saccurziada lu timen che-i sa frea: est pro ca si li leat su fiagu de su corru. In riccos sa falzidade est veridade segura, in su poveru soscura(t) sa propria veridade, e cheren cun libertade de chi nessunu lu creat: est pro ca si li leat su fiagu de su corru. Su poveru sempre izat chirchende calchi uccada,
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su riccu a sismurriada che limbolat una miza, e si in domo si labbizat cheret chi mancu si seat: proite chi si li leat su fiagu de su corru. Ite fiagu infernale chi tenet su corru siccu, chi paret chi a su riccu li causet ogni male; su poveru che animale cun cussu fiagu morit: benit chi si lassaborit su fiagu de su corru.
AUTORE INCERTO

Toccano il ricco nel petto, / ognuno gli vuole bene, / per al povero gli si prende / lodore del corno bruciato. Al ricco vogliono bene tutti / e vogliono bene per il denaro, / ma il povero, ancorch / sia luomo pi dotto, / lui mai ha voce in capitolo, / niente gli si mena per buono: / dipende dal fatto che gli si prende / lodore del corno bruciato. Se il povero ridendo / appena appena si sfoga, / in celia gli si dice: / che pancia hai messo su! / Ma il ricco allegramente / gioca, ride, si ricrea: / ed perch non gli si prende / lodore del corno bruciato. Il giovane benestante, / ognuno se ne innamora, / ogni giovane lo adora, / tutte lo voglion per amante. / Il povero per birbante / fin alla morte tenuto: / ed perch gli si prende / lodore del corno bruciato. Una giovinetta ricca, / sia pure tignosa, / brutta, sgraziata, sudicia, / per bella si qualifica, / alla povera le fiche, / se bella passa per orrida: / ed perch le si prende / lodore del corno bruciato. Entra (in una casa) il ricco per conversare / con qualsivoglia persona, / con qual grande attenzione / non lo vogliono
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ascoltare? / Se vedono il povero entrare, / non gli offrono nemmeno la sedia, / ed perch gli si prende / lodore del corno bruciato. Al ricco si concede lentrata / in quale si voglia luogo, / il povero simile al fuoco / che brucia in una fiammata, / e visto appena si accosta / lo temono come il vento affilato: / ed perch gli si prende / lodore del corno bruciato. Nei ricchi la falsit / verit sicura, / nel povero si oscura / la verit stessa, / e pretendono con libert / che nessuno gli creda: / ed perch gli si prende / lodore del corno bruciato. Il povero di continuo veglia / cercando qualche boccone, / il ricco con una musata / lo getta lontano un miglio, / e se in casa se lo sorprende / vuole che nemmeno si sieda: / perch, perch gli si prende / lodore del corno bruciato. Quale fiato infernale / che manda il corno secco, / sicch sembra che al ricco / gli causi ogni sorta di male; / il povero come un animale / con quel celebre odore muore: / proprio per quel sentore; / per quellodore di corno bruciato.

IL CAVALIERE DELLA FAME

MASTRU GIUANNE Mastru Giuanne est benndu, a Bonorva a caddu e a sedda. Gsus, ite nue niedda hat battidu pro nos dare! Como nos faghet istare in su cuzone arrimados, cun sos ossos refinados, nos lassat in dolu e pena, in sa carrela, in sena Mastro Giovanni arrivato / a Bonorva col cavallo sellato. / Ges, che nube nera / ha recato, per regalarcela! / Ora ci far stare / fermi in un angolino della casa / con le ossa nude e lisce. / Ci lascer in sospiri e affanno / nelle strade del villaggio, nei campi Segue un lungo, interminabile elenco dei pi poveri nelle cui case il Cavaliere della Fame entra non invitato, per ridurli allosso.

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DA CHE DIPENDER?

IL VETERANO CRUCCIATO

DE INUI VINER? Lu pobaru mai be; de inui viner? Di ri conti chi vo fa nisciunu ni ri riesci; n minimeggia e n cresci, cuntnu pobaramenti; sar Deu onnipotenti chi labar primmittiddu. Candu pensa azz un diddu, setti pimi a fondu z. Il povero non ha mai bene; / da che dipender? / Dei conti chegli si fa / uno non gliene riesce; / n diminuisce n cresce, / di continuo in povert; / sar Dio onnipotente / che lavr permesso. / Quando (il povero) pensa di innalzarsi dun dito / gi di sette palmi andato a fondo.

Su soldadu in sa gherra / nn chi sest olvidadu / de sa mama e de sisposa: / faula pius manna no bhat Il soldato nella guerra / dicono si sia dimenticato / della madre e della sposa: / fandonia maggiore non c

Se devo giudicare da me che ho risposto alla chiamata, e ne fanno fede le mie ferite e anche, perch no?, una medaglia, mi sembra strano che si sia potuto dire, e voluto anche dimostrare, che la nostra isola guerriera nellanimo e nella sua intima e profonda natura. Ma anche i nuraghi e le statuette di bronzo dei guerrieri non lo provano. Provano anzi il contrario. Il Sardo nato pacifico ed divenuto guerriero occasionalmente, e per necessit di difesa. Mai il Sardo ha portato le sue armi in altra terra. Sempre, nel corso dei secoli, i Sardi hanno dovuto affrontare la guerra contro gli estranei. Che cos il nuraghe se non lestrema difesa dei pochi contro i molti? I voti pi antichi, i pi significativi e patetici sono madri dolorose, madri di uccisi, scongiuri, esorcismi contro le guerre, auguri per la tranquillit della vita. Ben diversi dagli altri Rumi, battaglieri, sempre in armi ha scritto di noi uno storico arabo. Uno storico degli aggressori. Sempre in armi; ma per reagire, per legittima difesa. Quando siamo stati chiamati, abbiamo creduto e abbiamo risposto e pagato di persona. Sul nome del disertore e dellimboscato ci sputavamo sopra. Ma sempre ci facevamo beffe di quelli che, senza obblighi di leva, arrivavano nei nostri reparti, nella nostra famiglia.
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Ci ritrovammo lultima volta, parlo della mia generazione, in una grande famiglia che parlava la stessa lingua, che ballava lo stesso ballo, che cantava le stesse canzoni.43 Quando uno moriva, il suo nome ce lo passavamo di bocca in bocca, insieme col nome del suo villaggio, e quel villaggio era di tutti noi. In seguito neppure questo ci consolava, perch cominciarono a morirne tanti che, di quando in quando, tutta la Brigata era morta: e poi rinasceva e rimoriva, e cos finch dur la guerra che sembrava non dovesse avere fine, e che si era convinti dovesse essere lultima. E invece mio nonno fece il 59 e ritorn nudo ai campi; mio padre fece il 70 e se ne torn nudo, e scomunicato, ai campi; dopo, di noi, chi arriv in Africa, chi fece in tempo a entrare nella nostra Brigata, nella Brigata Sassari; e i nostri figli e i nostri nipoti sono arrivati non si sa dove Sempre per un pugno di mosche. Come mi chiamo? Posso dire un numero di matricola. Potrei anche dire che mi chiamo Michele Soldato. Non questo che importa. Importa piuttosto chiedersi: Perch le abbiamo fatte, tante guerre? Per chi le abbiamo fatte? Perch le fanno sempre, per lo pi, i contadini e i pastori e gli operai, dalluna parte e dallaltra?

ARMA DI SARDEGNA

rappresentata da una croce rossa in campo bianco inquartata con quattro teste di moro con benda sulla fronte scendente sugli occhi, annodata alloccipite. Cos figura con qualche variante negli stemmi, nelle monete, nei frontespizi dei libri, nei sigilli dei documenti (quanto alle varianti, talora le teste sono coronate, oppure la benda non scende sugli occhi o si guardano a due a due, o hanno gli occhi aperti. Lo stemma ufficiale corrisponde alla descrizione data sopra). Sotto la dominazione piemontese lo scudo sardo fu caricato dellaquila Sabauda (adottata da Tomaso I quando fu nominato vicario imperiale) portante la croce bianca in campo rosso, sostenuto da due leoni, e sormontato dalla corona reale (ne pendono le insegne dellAnnunziata e dellordine mauriziano). Gli scrittori sardi del sec. XVII furono propensi ad attribuire origine indigena allemblema dei quattro mori, accettando senza critica unantica tradizione per cui larma avrebbe simboleggiato la vittoria degli isolani sui Saraceni. Larma invece da ritenersi dimportazione aragonese, come dimostrano i sigilli di alcune pergamene dei re dAragona, conservate nellArchivio comunale di Cagliari.44 Nel reame dAragona larma sarebbe sorta per immortalare la vittoria di Alcoraz riportata contro i Mori (1096) e dovuta, secondo la leggenda, allintervento di S. Giorgio in aiuto dei cristiani inferiori di numero. Larma e la leggenda furono, con la conquista, importate in Sardegna, ove esisteva probabilmente una leggenda analoga, giacch lisola era
44. Nella copia (1390) dellatto di pace tra Eleonora dArborea e Giovanni I dAragona, esistente nellArchivio comunale di Cagliari, fatta menzione del sigillo dei Quattro Mori, che pendeva dalloriginale dellatto (1388).

43. La Brigata Sassari.

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stata impegnata per secoli in lotte frequenti contro le scorrerie dei Saraceni. Il fondo comune della leggenda pot portare ad attribuire unorigine sarda allarma dei conquistatori, che, nei documenti ufficiali, non potevano non adottare lemblema del loro paese.
Dal Dizionario archivistico per la Sardegna di Francesco Loddo Canepa, Archivio Storico Sardo, vol. XVI, Cagliari 1926; vedi anche nota al suo studio: Gli Archivi di Spagna e la Storia Sarda, in Studi Sardi, 1950).

LA BRIGATA SASSARI

MOTIVAZIONE DELLA 1a MEDAGLIA DORO CONCESSA ALLE BANDIERE DEI DUE REGGIMENTI: (R. D. 3 agosto 1916): Conquistando sul Carso salde posizioni nemiche e fortissimi trinceramenti delle Frasche e dei Razzi, che sotto nutrito fuoco rafforzarono a difesa; riconquistando sullaltipiano dei Sette Comuni posizioni dalle nostre armi perdute (Monte Castelgomberto, Monte Fior e Casera Zebio), sempre non curanti delle ingenti perdite, diedero ripetuta prova di sublime audacia ed eroica fermezza (luglio e novembre 1915-giugno 1916). MOTIVAZIONE DELLA 2a MEDAGLIA DORO CONCESSA ALLE BANDIERE DEI DUE REGGIMENTI: (R. D. 5 giugno 1920): Espressione vivissima delle forti virt dellintrepida gente di Sardegna. Dettero il pi largo tributo di eroismo alla gloria dellEsercito e alla causa della Patria, dovunque vi furono sacrifici da compiere e sangue da versare. Nei giorni della sventura, infiammati di fede e di amore, riconquistarono con meraviglioso slancio le munitissime posizioni nemiche di Col del Rosso e di Col dEchele (28-31 gennaio 1918). Allimbaldanzito invasore opposero sul Piave laudacia della loro indomabile volont, di vittoria e fierezza sublime e la granitica tenacia della loro antica stirpe (16-24 giugno 1918). Nella battaglia della riscossa non conobbero limiti di ardimento nellinseguire il nemico (26 ottobre-4 novembre 1918).

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CORVETTO E LE RONDINI

Sas benennidas siedas, / rundinas, a domo mia Siate le benvenute, / rondini, a casa mia PAOLO MOSSA

Quel non lontano inverno di guerra era stato una stagione di fame e nudit. E anche una serie di bollettini insignificanti. Si era sospirato tanto un ritorno della primavera; ma la primavera, appena allora nata, gi mescolava ai suoi colori di festa quelli di lutto: la primavera che risvegliava dal suo letargo invernale la guerra. Aggiungeva danno e tristezza il cielo che, terso, deluse ognuno con, da prima, un non so che dinsolito e dinnaturale: le rondini tardavano a venire; e, passando i giorni, con qualcosa di doloroso fino alla costernazione: le rondini non sarebbero venute. Gli anziani giuravano di non aver sentito mai, n di avere memoria, di una primavera senza rondini. Il segno era ritenuto infausto anche dai pi scettici e dai pi spensierati, e ognuno a suo modo dava sfogo alla sua malinconia e al suo sgomento. Anche Domenico e Alberto; i quali, rifacendosi alle loro letture, volevano scoprire uninterruzione nei secoli ai viaggi puntuali delle rondini e ne trovarono invece la conferma. Partono ogni anno dallAfrica diceva Plinio; passano il mare e se ne vengono in marzo, vicino allequinozio, in Italia, a fare i nidi. Dopo aver partorito due volte e allevato i figlioli, se ne ritornano con loro nellaltro equinozio. Secoli e secoli erano passati: e in tanta distesa di tempo era quella forse la prima volta che il cielo primaverile della loro antica terra non conosceva lallegria delle rondini. Quella testimonianza dellantico scrittore si riduceva a una rigorosa e fredda registrazione di una quasi legge di natura, che
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tuttavia, ora, era bastata la violenza delluomo a smentire, e quasi profanare. Delusi, emigrarono nelle isole dellEgeo sulla scia delle cantilene popolari della rondine Vieni Vieni, rondinella / porta la stagione bella porta gli anni di fortuna sotto il ventre bianca / sopra il dorso bruna. La rondine viene dal bianco mare; si pos e ha cantato: / marzo marzo mio buono, / sebben tu nevichi, sebben diluvii / pur di primavera odori. Ma non si era ancora spenta leco di quei richiami che a Domenico e ad Alberto cadeva ogni illusione: quei fanciulli chiamavano le rondini invano perch la guerra imperversava anche da loro escludendole, e cos in ogni luogo, e per miglia e miglia allintorno. Non cera dunque pi un cielo dove poter scorgere il girar e il virare delluccello bianco e nero. Allora Domenico e Alberto ripiegarono per lultima difesa ai cieli della loro infanzia. I nidi li abbattevano con una lunga canna, senza rimorso: anzi il cuore balzava loro di gioia nel petto al franare delle barchette di mota, e al cadere a terra delle uova o degli implumi. Era quella la loro guerra. Erano sprecate, per loro scolaretti, le prediche utilitarie del maestro del villaggio, il quale non era mai riuscito a convincerli che le rondini fossero utili ai campi: lui che, cacciatore, faceva strage di selvaggina di nido e di selva. Esplorati quei cieli e ritrovatili guizzanti di frecce bianco nere, ecco Alberto ostinato a sostenere, ma Domenico lo contradiceva con pari accanimento, che non li avrebbe commossi n ingentiliti, allora, nemmeno un San Bernardino che pure aveva un alato parlare: Oh fanciulli, fanciulli; quando voi pigliate i rondinini, come fanno le rondini? Tutte le rondini si ragunano insieme e voglionsi ingegnare daiutare i rondinini. Non fa cos luomo: non che elli singegni daiutarlo, ma egli non gli ha compassione. Peggio che gli uccelli luomo. Tutto questo stava bene; ma la consolazione che cercavano? Stavano proprio per disperare di averne una, quando dal rifugio invernale delle rondini arriv loro un saluto. Una cartolina in franchigia. Corvetto era vivo. Corvetto aveva passato il mare, anche se le rondini non lavessero passato.
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Ma la loro festa fu in breve turbata da una sottile angoscia che per cos dire odorava di polvere da sparo. Corvetto scriveva alla spensierata e questo era consolante; dava allegria persino la sua incerta scrittura, che era poco diversa da quella di cui il loro vecchio maestro lo rimproverava celiando che arava con la penna, come suo padre con laratro. Non era passato molto tempo da quegli indulgenti rimbrotti che Corvetto, non per disgusto n di sua scelta, s perch era uno dei poveri, era andato ai campi, e pi tardi dai campi alla guerra. Essi, invece, pi fortunati, prima erano andati alle scuole alte, la fortuna poi li aveva presi sotto la sua protezione esentandoli per complessione delicata dai rischi di guerra. Domenico e Alberto vollero festeggiare in intimit il ritorno di Corvetto. Se ne andarono con lui nei campi, dalla parte dove lui era solito arare, dalla parte dove tante e tante volte erano stati insieme per imprese. Rivolevano i loro dieci anni. E li riebbero. E, cos andando, rievocavano le loro tante prodezze compiute con le canne; vagarono e vagarono, finch stanchi si fermarono a riposare sotto un albero. Dicevano ora tante cose, a occhi chiusi (e Corvetto era l e li sentiva): tante cose, degli uccelli da prendere a suo tempo con le trappole dasfodelo; poi, cresciuti di statura, si sarebbero fatti veri cacciatori con giacchetta di velluto e fucile. E qui riaprirono gli occhi, e Corvetto era sparito: ritornato di nuovo nel deserto infido: certezza ormai pi dura della pietra: Corvetto col suo fucile poteva uccidere uomini; uomini, armati anchessi, potevano uccidere lui. Risposero a Corvetto rimproverandolo allegramente della sua penna che arava. Passarono i giorni, passarono i mesi: la guerra sinaspr: Corvetto non rispose. Alberto e Domenico, in mezzo ai lutti e alle privazioni che crescevano, si rammentavano di quando in quando di lui; ne parlavano, ma a voce bassa e guardandosi attorno con sospetto, quasi potesse sentirli un delatore. Passarono altri mesi. Il silenzio di Corvetto era gi lungo come un fiume E la guerra si spense, e le rondini ritornarono con le primavere, e quel fiume non cessa, non cesser mai di passare.
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NOTTE DEI RISUSCITATI

NOTTE E SOS RESUSCITADOS Da-e cando mundu est mundu una olta cadannu, una olta a su mancu, semper hana a torrare sos bestidos de biancu. Istoria chi curre semper e mai shat a firmare sin a sa die nodda chi sas trumbas de pratta a sadde e Giosafatta shana a intender giamare. Istoria chi curret semper: chi torran in bistta, isculzos, su coro in boleu sos mortos in grassia e Deu a ue han suzzadu sa titta. Hamus una die a torrare nois puru, in custa notte: e, comente a issos, a nois hat a parrer su chelu (in ue andat sa luna faghende lughe a pastore e sos isteddos cuados sun che ischintidda in chisina) nos hat a parrer su chelu unispantu e pizzinnia; e-i su fogu e-i sabba e-i sa papassa e-i suinu e-i sa turta e chidonza
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Notte dei risuscitati

e-i sostia carasada cun duna mariposa in mesa apparizzada ite sonnu, ite cosa, itammentos. In biazu est Cardellinu nominzu sou e pizzinnu pro sa oghe e-i su carinnu e como no cantat piusu da cando est ruttisconfusu in su fronte tunisinu. Ite gana e cantare a succuttu e de narrer, oddu, su chi no si podet narrer intreu si no cun su coro, como chin Logudoro gi intenden campnas nende e lastimende che attitadoras galanas: coro, vida, amore meu . E landat in pari presse e a fiancu a fiancu in sa ia e che attulinu areste su cumpanzu e pizzinna, Piriccu Sorigadore, gasi giamadu da-e tando chi abilidades haat e trassas pro comente miaulaat e arziaiat in rbores de cariasa e donzi frttora noa premeda chessret o de coa. Fini de sa matessi cresura in tempus de cando mai. Mortos, poi, a conca a pare: findos pro istranzare
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in su matessi cumbentu chi no est ne ingoi ne ingi, inue no tirat bentu e creschet de pratta iscrareu. Ca lis han fattu simbentu chi su tempus sest firmadu: comente cando unu cantat, dogni cosa ismentigadu, in dunu campu e aristas chi no mnimat n achstat e messadore no benit ne oje ne cras ne mai. E ista notte, itispantu, ecco su campusantu ue sisettna reposu a bezzos mannos e in gosu; e sas domos sena sonu; in su campanile solu sas campanas de dolu, sas campanas a succuttu: Avanzade, no timedas. E tempus no, non perdedas: sa bistta est meda curza, solu fin a cantos de puddu . A custa oghe sos duos, prima de imbisitare sa mesa apparizzada cun sa mariposa cuntenta e-i sostia carasada; alzian sos ojos a chelu pro torrare grassa a sas attittadoras de brunzu: e biden, su coro unu punzu, una lughe de idda: lughe de pedra bianca sutta una lmpana allutta.
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Notte dei risuscitati

No timas, nt Cardellinu est unammentu e sos bios . E-i sAttu sorigadore: Ite disaccattu e numenes, respondet sena timore. Cantos numenes iscrittos: messajos e narbonarzos pastores e frailarzos, e finas istudiantes, ne mancat su minadore ne piscadore e ambidda. Sas campanas, sona sona: Corazu, bene torrados, sos bennnidos siedas, tantu tempus isettados, Mortos de custa idda best iscrittu in mannu mai ruttos da-e su coro. E-i su numene issoro in cussu formicarzu lis paret unisteddu nieddu brujadu de cantu chi chest lontanu in palas de Casteddu chi non si podet toccare, ne giamare. E pro no si ponner a prangher cun sa paraula ispesa, e pro su tempus chest curzu, pustis sezzdos a mesa, de nou a sattoppare in cussu matessi logu pro si nde torrare in pare, si dispedin in presse e curren a domo issoro
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prima chi puddu cantet. Isparin in cussistante ma in dunu momentu sun cue, intro e una nue de tristura. Abbaidados si sunu e tottu shana gi nadu in cussa ojada asciutta: sa domo iscura, derrutta, mannos e minoreddos, totu, male fadados, imbdian sos sepultados. Proite nos semus gherrados? Pro chie hamus fattu gherra? Atteru no si nn sos duos. Sas campanas a succuttu no ischin si non dolore, e gi su puddu hat cantadu. In su caminu fadadu cantos, bestidos de biancu, chi no si poden contare, chi torran a siscrareu. Andan a passu e soldadu tottus pro si presentare a Chie hat su mundu in punzu: cha pustis de tantu deunzu dt a sos bios de samare e de no si fagher pius gherra: e cras chi siet sa terra arzola e sede in assentu.
INEDITO

Da quando mondo mondo / una volta ogni anno, / una volta almeno, / sempre ritorneranno / i vestiti di bianco. Storia che corre sempre / e mai si fermer / sin al giorno
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Notte dei risuscitati

solenne / che le trombe dargento / alla valle di Giosafatte / si udiranno a chiamare. Storia che corre sempre: / ch ritornano in visita, / scalzi, il cuore in volo, / i morti in grazia di Dio / dove han succhiato il latte materno. Un giorno ritorneremo / anche noi, in questa notte: / e, come a loro, a noi / apparir il cielo / (dove viaggia la luna / facendo lume al pastore / e le stelle nascoste / sono come scintille nella cenere). / Ci sembrer il cielo / uno stupore dinfanzia; / e il fuoco e lacqua / e luva passa e il vino / e la torta di cotogna / e lostia (luna sottile di pane infornato due volte) biscottata / con una falena (lumino votivo) accesa / alla tavola imbandita, / che sogno, che (indicibile) cosa, / che ricordi. In viaggio Cardellino / nomignolo suo di (quandera) fanciullo / per la voce e le moine / e ora non canta pi / da quando caduto confuso / al fronte tunisino. / Che spasimo di cantare a singulto / e di narrare, o Dio, / quel che non si pu dire intero / se non col cuore, / ora che nel Logudoro / gi odono campane / a dire e a deplorare / come prefiche sovrane: / cuore, vita, amore mio . E gli va di pari fretta / e a fianco a fianco nella via / e come un gattino di selva / il compagno dinfanzia / Pieruccio Soriano, / cos chiamato da quel tempo / che abilit aveva e furbizie / per come miagolava e sarrampicava / ad alberi di ciliege / e dogni frutta nuova / che fosse primaticcia o di coda (tardiva). Furono della medesima siepe (villaggio cinto di siepi) / in tempo del quando-mai (lontanissimo, remoto, tramontato). / Morti, poi, a testa a testa: finiti col prender domicilio straniero / nel medesimo convento / che non n qui n l, / dove non tira vento, / e cresce dargento lasfodelo. / Ch gli han fatto lincantesimo / e cos il tempo s fermato: / come quando uno canta / dogni cosa smemorato / in mezzo a un campo di spighe / che non diminuisce n acquista (cresce) / e il mietitore non viene / n oggi n domani n mai. E questa notte, stupore, / ecco il camposanto / dove speravano il riposo / da vecchi e sereni; / ecco le case mute; / sul campanile solo / le campane di duolo, / le campane a singulto:
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/ Venite avanti, non temete. / E tempo no, non perdete: / la visita molto corta, / solo fin al canto del gallo. A questa voce i due, / prima di visitare / la tavola apparecchiata / con la falena (il lumino votivo) contenta / e lostia biscottata, / alzano gli occhi al cielo / per rendere grazie / alle prefiche di bronzo: / e vedono, il cuore un pugno, / una luce di gelo (gelata): / luce di pietra bianca (marmo) / sotto una lampada accesa. Non temere dice Cardellino / un ricordo dei vivi . / E il Gatto soriano: / Che disastro di nomi / risponde senza timore. Quanti nomi scritti: / aratori e zappatori / pastori e fabbri ferrai (artigiani) / e persino studenti, / n manca il minatore / n il pescatore danguille. Le campane, suona suona: / Coraggio, ben tornati, / i benvenuti siate, / per tanto tempo aspettati, / Morti di questo villaggio / v scritto in grande / mai caduti dal cuore. / E il nome loro / in quel formicaio / sembra loro una stella nera / bruciata / da quanto che lontano / di l da Castello (Cagliari), / che non si pu toccare / n chiamare. E per non mettersi a piangere / e per il tempo che corto, / con la parola spesa (data), / di, dopo essere stati a tavola, / incontrarsi di nuovo / in quel medesimo luogo / per rifare la strada insieme, / si accomiatano di fretta / e corrono a casa loro / prima che il gallo canti. Spariscono in quellistante / ma in un momento sono l (di ritorno), / dentro una nube / di tristezza. / Si sono sogguardati appena / e tutto si sono gi detto / con quella occhiata asciutta: / la casa scura, distrutta, / adulti e piccini / tutti, male fatati (sventurati), / invidiano i morti. Perch abbiamo fatto la guerra? / Per chi abbiamo fatto la guerra? / Altro non si dicono i due. / Le campane singultanti / non sanno se non dolore, / e gi il gallo ha cantato. Sul cammino fatato / quanti, vestiti di bianco, / che non si posson contare, / che ritornano agli asfodeli. / Marciano a passo di soldato / tutti per presentarsi / a Chi il mondo ha nel pugno: / che dopo tanto digiuno / dia ai vivi damarsi / e di non farsi pi guerra: / e domani sia la terra / unaia di covoni ordinati.
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FESTA DEL DOLORE

IL PIANTO DI NOSTRA SIGNORA

Santa Rughe / vera lughe / de su mundu / Chie in te pendet / mi defendet / da ogni male. Santa Croce / vera luce / del mondo / Chi da te pende / mi difende / da ogni male. MATTEO MADAO

Al crepuscolo i Giudei deposero il Cristo dalla Croce, lo avvolsero nel fusciacco e lo adagiarono in una lettiga sulla quale era disteso il tapinu de mortu. La croce dargento velata dun broccato violaceo pass la porta della chiesa, in testa alla processione. La Madre seguiva il letto gridando per bocca dun gruppo di cantori un lamento che spetrava lanima. I sacerdoti e i Giudei con la barba finta incedevano lenti come ai mortori. Una frotta duccelli scorreva per laria bruna agitando ali di ferro, e il cielo si era abbassato con le sue stelle pi languide: ed erano le tabelle agitate dai fanciulli che Ges aveva amato sopra ogni cosa viva, ed erano le fiammelle dei ceri che le donne reggevano tra le dita, inseriti in calici di carta.

In un Vennari di malzu piddesi Cristu la molti, ficchendili ciodi folti, pa dalli di pi turmentu. Nostra Signora ha pientu tutta la notti a siccuttu; lu sangu sill asciuttu di la ena di la rosa, mamma tantu dulurosa tutta cupalta de luttu
ANONIMO

(Mari)

In un venerd di marzo / ricevette Cristo la morte, / gli ficcarono chiodi forte / per dargli maggiore tormento, / Nostra Signora ha pianto / tutta la notte a singulti, / il sangue le si asciugato / della vena della rosa, / madre tanto dolorosa / tutta coperta di lutto

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PIANTO DELLA MADONNA E CONSOLAZIONE

Segnora, e prte cuades sa cara bianca che nie? [Nade, Segnora, pro chie mantu nieddu portades?] Pro chie est custu corruttu, pro chie est custu fastizu? Bos hat mortu calchi fizu o calchi persona e fruttu? Tale dolu no sest giutu in totu custas edades. Bos hat mortu pro ventura calchi fizu in teraccha, chest sa pius forte agonia de unhumana criatura? Pro chie est custamargura cha sas pedras lastimades? Bos declarat cun rejone sa pena senzaccunortu, chi devet esser su mortu alguna bona persone, de bona condissione e de bonas calidades. Alzade, Segnora mia, unu pagu cussu mantu, e ndenos intertantu pro chi est tantagonia. Chi sas, cun sa cumpagnia, tantas penas alliviades.
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Humilemente pedimus chi sa cara nos mustredas, no ischimus chie siedas si sa cara no bidimus, in sa cara connoschimus sas bostras penalidades. A casu pro traissione fizu bostru est intregadu? A casu lhana attrozzadu comenta malu ladrone? Si est cussu cun rejone sa cara bos ammantades. A casu lhana accusadu senza culpa falsamente? E sende tantinnozzente a morte lhan cundennadu? Si cussu bos es costadu, cun rejone suspirades. A casu lhana azzottadu, a casu lhana iscuppidu? de istrazzos lhan bestidu e dispinas coronadu? Si tottu custu est costadu non bos no iscoberzadas. A casu lhan incravadu o a casu male fertu? pro ventura lhat abertu calchi lanza su costadu? Si cussu sest operadu bene samben lagrimades. Pro chie tantu bujosa, pro chie tantaffliggida?
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Pianto della Madonna e consolazione

pro chie tantu sentida? prte tantu dolorosa? Devet esser preziosa sa prenda chi suspirades. Tenides medas fizos, mortu bos ndhat calecunu? O ndhaiazis solunu accabbadu cun fastizos? Cheret supremos consizos in tales avversidades. Sezis gasi accorruttada pro calchi bonu maridu? o calchi fizu nodidu est sa prenda chest faltada? Nade, e comentest istada sa morte chi lastimades? Fit a casu cussu mortu calchi segnore potente? calchi giovanu prudente chi faghiat bene a tottu? Si fit gasi, gi est connotu chi giustu dolu portades. A casu, Segnora mia, sezis cudda lastimada, afflitta desamparada, sa chi jamesint Maria? Como mare de agonia e de contrariedades? Unu fizu zelestiale lhan mortu a issa tambene, cha totu faghiat bene, e a nemos faghiat male;
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cun cussu dolu mortale su coro nos trapassades. Segnora posta in fastizu, nadenos cun trista oghe si su mortu chest inoghe est su ostru caru fizu. Pro chest de cussassimizu cussu mortu chi chircades. Istadebos affliggida pianghende safflissione, e torrade a su rancone de ue sezis bessida; accumpagnade a sorbida, devotas sorres, e frades. [Nade, Segnora, pro chie mantu nieddu portades].
BONAVENTURA LICHERI (sec. XVIII)

Signora, e perch nascondete / il volto bianco di neve (esangue) / [Dite, Signora, per chi / manto nero portate?]45 Per chi questo lutto, / per chi questo strazio? / Vi morto un figlio / qualche persona di frutto (persona matura)? / Un dolore simile non s patito / in tutti questi tempi. Vi morto per avventura / un figlio in servit / che la pi forte agonia / dunumana creatura? / Per chi questa amarezza / che anche le pietre ne piangono? Vi fa palese con ragione / la pena senza conforto, / ch devessere morta / qualche buona persona, / di buona condizione / e di buone qualit. Alzate, Signora mia / un poco codesto manto, / e informateci intanto / per chi tantagonia. / Ch, con la nostra compagnia, / le tante pene alleviate. Umilmente (vi) chiediamo / che il volto ci mostriate, / non
45. Il distico tra parentesi costituisce il ritornello.

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sappiamo chi siate / se non vi scoprite il volto, / nel volto riconosceremo / i vostri patimenti. Forse per tradimento / il figlio vostro stato consegnato? / Forse lo hanno legato con forza / come un cattivo ladrone? / Se cos, con ragione / il volto vi ammantate. Forse lo hanno accusato / senza colpa falsamente? / Ed essendo tanto innocente / a morte lhan condannato? / Se questo vi toccato, / con ragione sospirate. Forse lhanno frustato, / forse lo hanno bastonato? / di stracci lhanno vestito / e di spine incoronato? / Se tutto questo capitato / no, non vi disvelate. Forse lhanno inchiodato / o forse male ferito? / per avventura gli ha aperto / qualche lancia il costato? / Se questo stato operato / giuste lacrime di sangue spargete. Per chi tanto rabbuiata / per chi tanto afflitta? / per chi tanto affranta? / perch tanto dolorosa? / Deve essere prezioso / il tesoro per cui sospirate. Avete molti figli, / ve ne morto qualcuno? / O ne avevate uno solo / finito negli affanni? / Ci vogliono supremi consigli / in tali avversit. Siete cos in gramaglie / per un buon marito? / o un figlio rinomato / il tesoro che mancato? / Dite, e com stata / la morte di cui vi affliggete? Era forse quel morto / qualche signore potente? / qualche giovane prudente / che faceva bene a tutti? / Se era cos, evidente / che un giusto dolore soffrite. Forse, Signora mia / siete quellinfelice / afflitta sventurata / che chiamano Maria? / Ora mare dagonia / e di avversit? Un figlio celestiale / le hanno ucciso ahim, / che tutti beneficava / e non faceva male a nessuno; / il cuore ci trapassate. Signora messa in affanni, / diteci con triste voce / se il morto che qui / il vostro caro figlio. / Perch molto egli somiglia / al morto che ricercate. Restatevi afflitta / piangendo lafflizione, / ritornate allangolo nascosto della casa / di dove siete uscita; / accompagnate lorbata, / devote sorelle, e fratelli. [Dite, Signora, per chi / manto nero portate?]
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TRISTE GIORNO

Epicedio di autore antico (attitidu) che si cantava dai confratelli dinanzi al cadavere, in casa, prima di portarlo a seppellire. In qualche villaggio si cantava in chiesa a modo di esequie. Tristu die chispettamus sos chi in su mundu bivmus, a unu a unu mormus e niente bi pensamus! Cunsidera, o cristianu, custu mundu falsu e leve, pro chi passat totin breve pius chi no su sonnu vanu, chi, benzende su manzanu, su bentu nos agatamus. Custu mundu est unu fiore chi si siccat per momentos, suggettu a tottu sos bentos de shumidade e calore, est unu fumu est vapore, est cschidu chi alidamus. Maria, consoladora de ognanima affliggida, custanima chest partida de custu mundu in custhora, succurridela Segnora, aggiudu bos dimandamus. Apostolicu Senadu, Martires e Cunfessores, virgines chi sos amores
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Triste giorno

in puresa hazis salvadu, si in calchi cosa hat faltadu a bois lincumandamus. Animas de purgatoriu, sas chistades pro partire a sos chelos pro godire, dadeli calchaggiutoriu, tale chin su Consistoriu totu juntos nos bidamus. Da-e sintrada a sessida, nara, ite ndhas leadu de custu chhas tribuladu in custa mortale vida? Si sanima est desvalida, trista de issa, a ue andamus! Sesemplu tenimus cughe de custu corpus defuntu, chi de su mundu est disgiuntu, feu, tristu e senza lughe, solu sas manos a rughe li bidimus e notamus. Bides cun ite reposu est corcadu in sa lettra? Lassadhat ogni chimera de custu mundu ingannosu, sende chest tantu forzosu custu passu chi ispettamus. O morte tantassortada cha dognunu faches reu, finza su fizu de Deu tattrivisti abbalanzada! In te reposu no bi hada, totu in duna porta intramus.
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Segnore cruzzificadu, o invittissimu marte, (mirade chin sistendarte de sa rughe est allistadu) cussu frade fit soldadu de sabbidu chi portamus. Ue est sa galanteria inue est cudda bellesa? ue cudda gentilesa de sa prima pizzinnia? inue est sa valentia, chi tantu nos pressiamus? Custu frade chi pianghimus heris biu, e hoe mortu! Gasi demus esser totu e puru no lu creimus, bene su colpu fuimus a su fine no faltamus. In dun fossu profundu conca a unu murimentu, tenet hoe sappusentu pienu de bermes a fundu, custa paga dat su mundu sos chin issu cunfidamus. Timida morte ispantosa senzintragnas de piedade cun nisciunu has amistade, cun totu ses odiosa, mustrati, morte, piedosa per non nos aggiustamus. Triste die chaspettamus sos chi in su mundu bivmus.
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Triste giorno

CROCIFISSO DETTO DI NICODEMO (secolo XIV): scultura in legno policromato. Attribuito ad artista spagnolo operante nel decennio 1320-30 al seguito di modelli renani. Chiesa di San Francesco di Oristano. Dimensioni: m 1,95 x 2,30.

Triste giorno che aspettiamo / quanti nel mondo viviamo, / a uno a uno moriamo / e per niente ci pensiamo! Considera, o cristiano, / questo mondo falso e lieve, / che passa tutto in breve / pi che non un sogno vano, / che, venendo il mattino, / di vento noi lo troviamo. Questo mondo un fiore / che si secca sul momento, / soggetto a ogni vento / di umidit e calore, / un fumo, vapore, / sbadiglio che alitiamo. Maria, consolatrice / di ogni anima afflitta, / questanima che partita / da questo mondo in questora, / soccorretela, Signora, / aiuto vi chiediamo. Apostolico Senato, / Martiri e Confessori, / vergini che gli amori / in purezza avete salvato, / se in qualche cosa ha errato / a voi lo raccomandiamo. Anime di purgatorio, / quelle (tra voi) che state per salire / ai gaudi dei cieli, / dategli qualche soccorso, / talch nel Concistorio / tutti congiunti ci si riveda (un giorno). Dallentrata alluscita / arrivo alla partita / dimmi, che cosa ti sei portato con te / di questo che hai tribolato / in questa mortale vita? / Se lanima svigorita, / misera lei, dove andiamo? Lesempio labbiamo qui, / di questo corpo defunto, / che dal mondo si disgiunto, / brutto, triste e senza luce, / solo con le mani in croce / lo vediamo e notiamo. Vedi con quale abbandono / coricato sulla lettiga? / Ha lasciato ogni chimera / di questo mondo ingannoso, / posto che tanto fatale / questo passo che aspettiamo. O morte s avventurata / che ognuno fai reo (chiami a rendere i conti) / persino il figlio di Dio / osasti (imputare) vittoriosa. / In te riposo non v, / tutti per una sola porta entriamo. O Signore crocifisso, / o invittissimo martire / (miratelo che sullo stendardo / della croce allestito) / quel (lormai lontano) fratello (il defunto) fu soldato / dellabito (di confraternita) che portiamo. Dov la galanteria / dove lantica bellezza? / dove quella gentilezza / della prima et giovane? / dove la valentia (il vigore), / che tanto noi apprezziamo?
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Questo fratello che piangiamo / ieri vivo, e oggi morto! / Cos fatale per tutti, / eppure non ci crediamo, / bench il colpo scansiamo / alla fine non sfuggiremo. In una fossa profonda / disteso in un avello / ha oggi una stanza / piena di vermi nel fondo, / questo premio d la vita mondana / a quanti in essa confidiamo. Temuta morte spaventosa / senza viscere di piet / con nessuno hai amicizia / con tutti sei odiosa, / mostrati, morte, pietosa / perch non bastiamo (a noi stessi). Triste giorno che aspettiamo / quanti nel mondo viviamo.

MI MANCATO IL SOLE

Tiradu hana a sisteddu / bettadu han su gigante gi fi bone balente / in male forte semper balente che astore / de domo nostra frore frore de domo nostra / leadu than custa olta ndest ruttu su casteddu / mancadu mest su sole ndest ruttu su pinnellu / in sarbore e frutta mia pis no potto aumbrare / oh, sarbore fruttuosa Deus mi lhat siccada.
GIUSEPPE FERRARO (in Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari)

Hanno sparato allastro / atterrato hanno il gigante / era buono e valente / nelle avversit forte sempre / valente come il falco / di casa nostra il fiore / il fiore della nostra casa / than colpito questa volta / rovinato il castello / mi mancato il sole / caduto il pennone / allombra dellalbero mio da frutto / pi non posso mettermi allombra / ahim, lalbero fruttuoso / Dio me lha seccato.

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IN MORTE DI GISELLA

SATTITIDU Sa Mammattitta, Sa Sogra, Su Maridu, UnAmiga La balia, la suocera, il marito, unamica Mammattitta Itest custu chidia? Fiza-de-titta mia Morta, a manos in giae, a ps a gianna! Et eo che de fora Ahi! no ischi ancora Des sas disgrascias mias sa pius manna? E como chi la miro De morte repentina no ispiro? A bezzesa in sas mias Sobradas tribulias Custu mi restaiat accunortu Pro peus sorte mala, Muzza como hapognala, Ahi, samparu meu accollu mortu! A sa ezzesa trista So durada pro ider custa vista? Sogra Gisella mia cara, Perla sa pius rara, E mhas potidu goi abbandonare? Su bellu tou trattu Mhaiat cant e fattu Una fiza carissima olvidare; Cudda pagu durada Chi chest in Terranoa sepultada! Ahi, fiza! Ahi, nura! A tanta disaura
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Si misvenat in sambene su coro: Potereo assunessi In sistante matessi Dare sa vida mia in giambinsoro! Prega, Gisella, a Deu Chaggradesset pro te su morrer meu! Maridu Prtistas goi muda? Si dormis tabbertuda; Consola sogra, fizas e maridu: Intende su piantu De sa chi cara tantu Duos meses a hoe has parturidu In sinu ti la pone Cun susadamorosa passione! Efisiedda a tie Chirchendest totta die Pesandnde appgali ogni brama Ite naro? Itispero? Ahi, da erisero, Fizas mias, pius non hazis mama! A piangher cominzade Sa ostrantizipada orfanidade! Amiga Ah, disgrascia! disgrascia! Ruet sa zente a fascia, Tottest morte, terrore e ispaventu! E pro mazore luttu Acc como distruttu De Bonorva su mezus ornamentu! Ahi, colpu ispensadu, Chi su comune luttu has duplicadu! Uest como sistella Tantu brillante e bella, Chazzendiat de lughe sas aeras?
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AMARO

In morte di Gisella

Uest como sa rosa, hi riende amorosa Aggiunghiat bellesa a sas attras? Ahi, non bido como Che unu cadaver tristu in mesu domo! Maridu Mammattitta Ca cara mi fis troppu, Simmens affannu intoppu Faghet a su piantu, a su faeddu Ahi, disdiciada! in custu Vintibattor daustu Su chi mest rutu ite raju nieddu! Bene lu poto in mente Custu fatale die haer presente! Non fit, non fit debadas In sas nottes passadas De sistria su cantigu orrorosu; Non fit senza motivu Churulende fittivu Sos canes matterrian su reposu! Disgrascia manna ispressa Mhan in limbazu insoro, e mest suzzessa! Amiga Sogra Prte thapo connotta? Pro chi passere totta Sa chi mavanzat vida in arguai! Thaera ness intesu Unu faedd iscortesu. O nessi non thaera idu mai! Ahi, cale hamos perdidu Riccu tesoro appena cunsighidu! Accansade, Segnore, Chi pro raru favore Sonnu e non morte siat custu sou: A totta ostra gloria
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Nde dmus sa memoria Solennizzare ognannu da-e nou; Dmus eo cun issa A benujos trazende intender missa! Ahi! tue morta et eo Ancora no mi leo Custa vida? e ancora so in seru? Su mundu senza te Una tumba est pro me, Sa vida unorrorosu disisperu; Ca tue fis su solu, Sunicu meu teneru consolu. Snana sas campanas Tue gi tallontanas? Ahi, distaccu orribile e funestu! Ne longu ne fiaccu Dt esser su distaccu: Ispettamin sa tumba cantu prestu Ca devimus istare Semprin vida e in morte ambos umpare! Paret ra maligna: Suna nde naschet digna, Passat che lampu e restana sas malas Anghelos de su Chelu, Luttuosu unu velu Faghidebos a ojos de sas alas: Sa chi piango fit tale, Cha nisciunu pariat cosa mortale! Ma su Chelu est in festa: Canta nois funesta, Venturosa est a issos custa die Non fit dignu su mundu De godire giocundu
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AMARO

In morte di Gisella

Unanimadorabile gase; Sa Giustiscia divina Fatta lhat de su Chelu zittadina.


PAOLO MOSSA (1821-1892)

Balia Che cos questo che vedevo? / Figlia mia di latte / morta, con le mani in croce e con i piedi al limitare!46 / Ed io, dalla strada / Ah, non sapevo ancora / delle disgrazie mie la pi grande? / E ora che la miro, di morte repentina non muoio? In vecchiaia nelle mie / forti tribolazioni / mi restava questo conforto / Per peggiore sorte avversa, / tarpate ora le ali, / ahi, il mio riparo eccolo morto! / Sono durata fin alla triste vecchiaia per assistere a questo? Suocera Gisella mia cara, / perla la pi rara / e mhai potuto cos abbandonare? / Il tuo bel viso / maveva comera fatto / una figlia carissima dimenticare: / quella di corta vita / che sepolta in Terranova (oggi Olbia, prov. di Sassari). Ahi figlia, ahi nuora! / A tanta disavventura / il cuore mi si svena: / potessi almeno / in questistante medesimo / dare la vita mia in luogo loro! / Prega, Gisella, Dio / che gradisca per te il morir mio. Marito Perch stai cos muta? / Se dormi, risvgliati; / Consola tua suocera, le figlie e il marito: / Ascolta il pianto / di quella cara tanto / che due mesi a oggi partoristi. / Avvicinatela al seno / con lusato affetto! Efisietta te / va chiamando tutto il giorno. / Alzati e appagale ogni desiderio. / Che dico? Che spero? / Ahi, da ieri sera, / figlie mie, non avete pi la mamma. / A pianger cominciate / la vostra orfanezza prematura. Amica Ahi sventura! sventura! / Cade la gente a fasci, / tutto morte, terrore ed spavento!47 / E per maggior lutto / ecco ora distrutto / di Bonorva il pi bellornamento! / Ah colpo impreveduto / che il comune lutto ha raddoppiato.
46. Cos si stendono sopra un tavolo le maritate defunte. 47. Si in tempo di colera.

Dov ora la stella / tanto brillante e bella / che accendeva di luce i cieli? / Dov ora quella rosa / che ridendo amorosa / aggiungeva bellezza a tutte le altre? / Ahi, ora non vedo / che un cadavere in mezzo alla casa. Balia Poich cara mi eri molto, / limmenso affanno intoppo / fa alle lacrime, alla voce / Ahi, sventurata! in questo / ventiquattro dagosto / il fulmine nero che mi ha colpita! / Bene lo posso rammentare / questo fatale giorno. Non era, non era invano / nelle notti passate / della civetta il canto orroroso; / non era senza motivo / che ululando insistentemente / i cani matterrivano, e non mi lasciavano prender sonno. / Disgrazia grande che essi esprimevano / nel loro linguaggio, e mi successa! Suocera Perch ti ho conosciuta? / Perch passassi tutta la vita / che mavanza in guai? / Avessi almeno sentito da te / una parola scortese. / Meglio non ti avessi visto mai! / Ahi, quale abbiamo perduto / ricco tesoro appena conquistato. Fate, o Signore, / che per raro favore / sonno e non morte sia questo suo: / a tutta gloria vostra / ne solennizzeremo la memoria / ogni anno, di nuovo; / strisciando per terra i ginocchi / sentiremo messa io e lei. Marito Ahi, te morta, e io / ancora non mi tolgo / questa vita? e ancora ho il senno? / il mondo senza di te / una tomba per me; / la vita unorrorosa disperazione; / ch tu eri la mia sola, / unica mia, tenera consolazione. Rintoccano a morto le campane / e tu gi tallontani? / Ah, distacco orribile e funesto! / N lungo n lento / sar il distacco: / aspettami nella tomba al pi presto. / Perch dovremo stare insieme / sempre in vita e in morte. Amica Sembra un destino maligno, / se ne nasce una degna, / passa in un lampo e restano le indegne / Angeli del Cielo, / luttuoso un velo / fatevi agli occhi delle ali: / colei che piango era tale / che a nessuno pareva cosa mortale. Ma il Cielo in festa: / quanto a noi funesto / tanto fortunato a loro questo giorno. / Non era degno il mondo / di godere, giocondo, / una cos adorabile anima; / la Giustizia divina / lha fatta del Cielo cittadina.
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IL TAPPETO DEL CRISTO

In tantos modos soffendet Cristos. In tanti modi si offende Cristo.

Era una processione di visitatori che non finiva mai; e tutto per guardare attoniti quel tappeto che non sembrava pi lo stesso del Venerd Santo, che anzi sembrava loro tanto profanato da trovarsi a chiedere mentalmente al Cristo che perdonasse tutto a don Pietro Marengo, anche quellultimo peccato.

Era morto don Pietro Marengo lasciando mobili e semoventi, prati, campi e sughere e, si diceva, sacchi doro e dargento. Secondo le sue ultime volont gli eredi lo avevano disteso sul tapinu de mortu.48 La gente veniva e guardava: e pensava mestamente al Cristo deposto. E questo, perch ogni anno, e da generazioni e generazioni, i Giudei con la barba finta deponevano il Cristo dalla Croce e lo stendevano proprio su quel tappeto, che aveva tanti secoli, eppure era nuovo dato che usciva dallarca solo in quella occasione solenne. Veniva dunque la gente, anche forestiera; venivano anche quelli che egli aveva soccorso nelle necessit con prestiti a usura. E nessuno degnava di attenzione quel defunto; n prestava troppo orecchio a Severina e Lia, fiore delle prefiche mercenarie della contrada, che cantavano le lodi di lui; non gli eredi, chiusi nel loro dolore e forse anche nei loro pensieri notarili; non le campane della cattedrale n quelle pi lamentose di una chiesa di famiglia (onore, questultimo, che gli veniva reso come a uno dei parenti pi stretti dun santo pisano). Niente di tutto questo.
48. Esemplare ormai raro di tappeto, il tapinu de mortu, il cui tessuto somiglia molto al Kilim del Caucaso o di Caraman. Sul fondo arancio pallido spiccano il nero e il bianco, accompagnati da sfumature di rosso e di tinte men forti. Pare che non risalga pi in l del 700. Il coro di donne che danzano, e gli asini, potrebbero escludere la destinazione funeraria del tappeto che ha il suo riscontro, quanto a questuso, nei paesi islamici, come lAlbizzati ha potuto conoscere nei suoi viaggi in Siria o nellAfrica del Nord. Secondo lo stesso Albizzati, questo genere di tappeto, quando era divenuto raro perch non se ne facevano pi, stato tenuto in pregio: e gli esemplari rimasti sono stati trasmessi da una generazione allaltra in qualche casa per le occasioni dolorose e solenni. Questo spiega che siano giunti a noi in ottimo stato.

TAPINU DE MORTU Questo tappeto, tessuto in Barbagia, probabilmente a Mamoiada oppure a Orgosolo, somiglia molto al Kilim del Caucaso o di Caraman. Il fondo arancio pallido; nel disegno spiccano il nero e il bianco, accompagnati da sfumature di rosso e di tinte men forti. ben chiaro linflusso della tecnica orientale: la reminiscenza pi esplicita, nellornato, il motivo del riquadro centrale, dove gli uncini sembrano interpretati come teste daquila. Lo schema si ritrova in tappeti del Caucaso; ed pure frequente in Anatolia. Tolto il motivo asiatico (che pu essere arrivato in Sardegna dal Maghreb, oppure attraverso la dominazione spagnola), adattato esso pure in maniera assai originale, gli altri elementi di questo Kilim barbaricino sono completamente indigeni. Quanto al problema cronologico, lAlbizzati ritiene che questo tappeto non risalga pi in su del 700. Il nome di tapinu de mortu, secondo i venditori, sarebbe stato dato a questo e ad altri simili tappeti dalle famiglie che li custodivano nelle cassepanche, dalle quali li traevano soltanto ai grandi lutti, e precisamente per distendervi le salme: uso che ha il suo riscontro specialmente nei paesi islamici (in Siria e nellAfrica del Nord, dove lAlbizzati stesso lo accert nei suoi viaggi). difficile convincersi che i tapinos de mortu venissero eseguiti per tale destinazione: il ballo tondo delle pupazze e gli asini non sono soggetti di carattere funerario. Se mai, dobbiamo pensare, con lAlbizzati, che questi singolari tappeti, quando erano diventati rari perch non se ne facevano pi, siano stati tenuti in pregio e trasmessi da una generazione allaltra, in qualche casa, per quelle occasioni dolorose e solenni. Questo spiega perch i pochi giunti sino a noi siano in ottimo stato. Ne risultano alcuni esemplari in Collezione Daneu, Palermo, e un esemplare al Museo di Boston. Lo stesso Museo di Cagliari ne privo.

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UN BATTESIMO

Bidda chena campana gama sena tintinnu. Villaggio senza campana gregge senza campano.

Una fredda mattina la campana fece uno strano suono e le fu subito scoperta una lesione. Forse era stata colpa del campanaro che laveva strapazzata, noncurante del gelo; forse il male covava da quando qualche ragazzetto delegato da lui sera sbizzarrito a battere il trotto ai cavalli che precedevano e scortavano le processioni pittoresche. Cominci il compianto. Oh, la cara campana che aveva accompagnato i loro morti sino a quel piano che disertato anche dalle cicale perch non v un albero intorno, un albero solo; e che aveva tante volte chiamato con disperazione gli uomini a combattere gli incendi dellestate Spaccato il sole, il piccolo sole impresso sulla sua costa: e lincrinatura sera arrestata, quasi per scrupolo sacro, allorlo del manto della Vergine ai cui piedi nasceva ancora intatta la luna. Fu quella la volta, come fosse la prima, che ognuno notava con ribrezzo stesa in letargo sopra una delle facce prismatiche della torre campanaria una biscia di pasta cruda. Quanti erano ammessi a visitare la campana ferita, guardavano quel simbolo viscido: le donne si segnavano, con gli occhi alla Vergine; poi si condolevano in coro di quellinfortunio. Come quando muore il bue al contadino e corre di soglia in soglia simile a lingua di fuoco una parola sola per cui un altro bue appare quasi miracolosamente alluscio dellinfortunato, cos in breve si quotarono tutti, persino i mendicanti. Non vanno forse, i mendicanti, di festa in festa, e c forse festa dove non suoni campana? E la campana part. Andava alla fonderia; non avrebbe tardato a tornare. Varcato il mare, giunta allaltra riva, fu vista correre in treno, fu vista a tanta distanza, e seguita fino al
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Un battesimo

Padovano. Allora non ci fu altro santo; non si parlava che di lui, in lui confidavano prima che nei fonditori, almeno per la sola incognita che li preoccupasse veramente, che era se sarebbe ritornata con la sua voce: lavrebbero voluta tale e quale come prima. Durante quegli interminabili mesi la surrog in tutto la campana minore che aveva avuto fino allora lufficio suo di annunciare i nuovi nati: e faceva del suo meglio, ma la gente incontentabile e persino ingiusta a volte. Enorme la confusione: protestava la gente una babilonia, non ci si comprende pi: uno nasce o uno muore? lalba o il tramonto? Le vecchie vecchie allora riuscivano a calmarli nominando il santo lontano, ma non passava molto che si era da capo a quel mormorare. Il giorno che telegrafarono che era guarita e gi in viaggio, si fece congresso per il Vescovo. Lo volevano subito. Ma il Vescovo non a immediata disposizione della gente. Tuttavia lo pretendevano, e anche prima che arrivasse la campana. Era sostituibile? Non era sostituibile. Dunque? E se lo spiegavano lun laltro. La campana la campana, non un bambino; come il ponte piuttosto, come la strada se vogliamo, con nessuno padrone e tutti padroni. Ponte e strada, non si fa una grande festa, che una specie di battesimo anchessa, per inaugurarli? E non si scomoda in quelloccasione tanto il Prefetto quanto lautorit ecclesiastica e anche quella militare? Minacciavano persino una sedizione. Ed ecco di giorno in giorno un crescere di scommesse: a quale delle stazioni fosse di tappa in tappa la campana, e la durarono cos per ingannare limpazienza fino al suo arrivo che coincise con quello del Vescovo. Il Vescovo fu accolto con ogni onore, anche con i cavalieri e le fucilate in aria. Ma la gente era un po distratta. Smaniavano di trasportare la campana dallo scalo ferroviario, si vergognavano di lasciarla in deposito fra le casse di sapone e le altre mercanzie. Allultimora scoppi una grande contesa, la rivalit tra i contadini a chi spettasse lonore del trasporto col suo carro
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rustico, che era la fortuna di poter dire dopo e fino alla morte: Su questo carro non ha viaggiato soltanto il grano, la legna da ardere, la sposa con i figli che vanno alla festa, il vecchio stanco che sincontra per la strada e ti chiede di portarlo, ma anche la nostra campana. Non rest che sorteggiare il carro. Il fortunato non stava nella pelle, la gente non osava quasi toccarlo n rivolgergli la parola. E uomini donne e bambini: tutti a gara, a recare pervinca dai campi per rivestirne la piazza. E in poco questa fu tutta allestita, e gli artigiani vi innalzarono in mezzo un castelletto: poi chi pot accompagn il carro del contadino, che viaggi in una nuvola di esaltazione. Arriv la campana e la issarono in fasce, al centro della macchina, come una florida neonata. Quando il Vescovo apparve, la campanella lo salut come una bambina facendo ridere dallegria la gente. Il prelato unse la battezzanda, la benedisse, la dedic, fece finalmente un cenno con la mano inanellata. La madrina diede uno strappo alla fune, e un altro e un altro: i tre gridi rotondi si rincorsero a volo, e la gente li inseguiva con gli occhi, atteggiata come fosse tornato lordine in tutto luniverso.

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DEL MISTERIOSO BAMBINO E ALTRI INDOVINELLI

Fizu est de fizu meu, frada maridu meu e mest connadu; e istimadu forte, mest nebode e connadu fina morte . Dezzdilu in custora: battor coros chi Deus hat unidu: fit a sa ninnadora fizue fizu, a frade a su maridu: e cun samore insoro, fin chimbe e cumparian unu coro Buongiorno, comare! Come avete trascorso tutto questo tempo? Mi permetto di domandarvi di chi il bambino che ninnate. Perch a me, riesce cosa nuova, perci ve ne voglio interrogare. Comare mia, o Dio! Che domanda mavete fatto! figlio di mio figlio, fratello di mio marito e mi cognato; e, fortemente amato, mi nipote e cognato sino alla morte. Spiegalo sul momento: quattro cuori che Dio ha unito: (il bambino) era figlio del figlio, e fratello del marito (dellinterrogata): e con il loro amore, erano cinque e sembravano un cuore solo Lindovinello continua per altre strofe, dove messo in chiaro che in tutto limbroglio non ci fu peccato n occorse alcuna dispensa ecclesiastica, e che il bambino fu battezzato nella chiesa del villaggio intitolata a San Gavino.

Due amiche che chiameremo Luisa e Valeria, rimaste vedove giovanissime, e con un figlio ciascuna, continuarono a volersi bene per molto tempo. Si pu dire anzi che quella disgrazia le legasse, se possibile, pi forte. Il figlio di Luisa si chiamava Pietro, il figlio di Valeria, Marco. Avvenne che, quando essi giunsero in et da prender moglie, le loro madri si scambiassero come legittimi mariti i propri figli. E cos esse divennero ciascuna suocera e nel medesimo tempo nuora luna dellaltra. Il matrimonio di Pietro e Valeria rimase sterile, mentre Luisa e Marco ebbero un figlio che, dalla nonna, prese il nome di Valerio. Ma la madre di Valerio, Luisa, mor dopo aver dato alla luce il bambino. Un giorno Valeria cullava lorfano, quando venne a visitarla una sua cara comare, di nome Elena, la quale da molto tempo si era trasferita in un paese lontano e ora ritornava a rivedere i suoi luoghi. Elena che non sa nulla della vicenda si meraviglia che quella sua comare vedova culli con tanto affetto un bambino Bonas dies comare! e comente sas dies bos passades? Bos cherzo preguntare de chie est su pizzinnu chi ninnades. Ca deo no lischa, pro cussu preguntare bos chera . Comare mia, oddeu! De ite cosa mhazis preguntadu!
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Del misterioso bambino e altri indovinelli

SA SINDRIA IL COCOMERO Est tundu, e no est mundu, est ruju, e no est focu, est birde, e no est erba, est abba, e no est funtana rotondo e non il mondo, / rosso e non fuoco, / verde e non erba, / acqua e non fontana. SU SIZZIGORRU LA LUMACA Omini dottu sempira cappottu e morit cantendu. Uomo dotto / sempre col cappotto / e muore cantando. SU MUSTIU IL MOSTO Buddit sena focu in padedda e linna. Bolle senza fuoco, / in padella di legno. SU COCCI IL LUMACONE Unanimale corrudu falat da-e Campidanu chena pedes ne manu chena oricras e mudu. Un animale cornuto / scende dal Campidano / senza piedi n mani / senzorecchie e muto.
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LA SECCHIA Davalla rient i munta plorant. Scende ridendo / risale piangendo. Ndi calu arriendu e ndarziu plangendu. Scendo ridendo / risalgo piangendo. IL PIPISTRELLO Il poeta F. Alvaru di Berchidda (Sassari) propone il seguente indovinello (indevinzu, istivinzu, ecc.) a Pietro de Ligios di Ploaghe (Sassari). Il de Ligios, pronto improvvisatore, scioglie in versi lindovinello. Alvaru Tue ses Pedru e Lizos su cantadore famadu? Tue chhas istudiadu finas sa filosofiia: itest unae chi criat e dat sa titta a sos fizos?

De-Lizos S, chi so Pedru e Lizos; no balet chi pis faeddes: sae challattat sos fizos est su tirriolupedde. A. Tu sei Pietro de Ligios / il cantatore celebre? / Tu che hai studiato / persino la filosofia: / che cos un uccello che cova / e d la mammella ai figli? D. S, sono Pietro de Ligios; / non serve che pi tu parli: / luccello che allatta i figli / il pipistrello.
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Del misterioso bambino e altri indovinelli

SAS APES LE API Puzoneddas chi olan in nuraches sausentan: sos mortos consolan sos bios alimentan. Uccellin(e) che volano / nei nuraghi si rifugiano / i morti consolano (con la cera) / i vivi alimentano (col miele). IL FUMO Prima di nasc lu babbu nasci lu figliolu. Prima che nasca il padre nasce il figliolo. IL RAGGIO DI SOLE Intra in lea e non sinfundi. Entra nellacqua e non si bagna. SA MURA LA MORA DEL ROVO Custa est sa vida mia: isto bianca baghiana ruja so cojuada e niedda so batta. Questa la vita mia / sono bianca da nubile / rossa da maritata / e sono nera da vedova. LA BOTTE DEL VINO Una acca mustiddina lalltani da la schina
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la mgnini da lu fronti di sai ni faci tonti. Una mucca color mosto / lallattano dalla schiena / la mungono dalla fronte / da savi ci fa storditi. SU CHELU ISTEDDADU IL CIELO STELLATO Itest unu, itest unu chi sa notte firit e-i su manzanu iscttinat? Che cos, che cosa / che la notte fiorisce / e allalba scuote i fiori? IL GALLO Portat cappeddarrubiu e no est cardinali; portat isprones e no est cavalleri; sonat a chizzi e no est sagrestanu. Ha il cappello rosso / e non cardinale / ha gli speroni / e non cavaliere; / suona di buonora / e non sagrestano.

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LA BALLATA DI TONARA

Duas animas in gherra sun in dunu corpus solu. Due anime in guerra sono in un corpo solo.

Non bere, cristiano, ancorch sapiente come Salomone, non sfiorare, non lambire nemmeno con la punta della lingua lacqua di Sutoni e lacqua di Sulaco: esse dissetano pi dogni altra al mondo, ma dissennano. E se tra castagni e noccioli che ti guardano in silenzio mentre passi, entri in questo paese, che mi chiamo Tonara, sappi che, cosa rara, sono due discordi anime in un corpo, come si dice del lupo: quartiere alto e quartiere basso, truci e duri, duri e truci. E se vedi bimbi in culla dormire come dormon le pietre e senti nellaria effluvio dacquardente, esso dai loro ciuccetti e dalla loro bocca mezzo aperta di vecchiettini sdentati. E son quasi figli senza madre. Mentre essi scontano lebriet nel sonno, le madri sono nellorto a lavorare, o al fiume a lavare e cantano come condannate; o saranno nel vortice delle danze Ragazzetti barcollano e vengono alle mani, trascendono alla rissa e al coltello, soprattutto alle feste sante, emuli dei carrettieri imbevuti a guisa di stoppini, tra fornaciai incalcinati, tra boscaioli che hanno odore e colore di alberi abbattuti. Dense le nebbie invisibili vanno nellaria con odore danidride dalle fornaci che fumano. Terra da sogni incubi, traversati di quando in quando da quel colorato fiume che straripa di chiesa, scorre tra case e alberi in lenta salmodia, non ha foce e non ha mare, ritorna alla sua sorgente che odora di cera e dincenso: la sola ora che le due anime discordi cantano dolcemente insieme. Dopo tornan rivali; rivali anche i loro cani. Entrare gli uni nel campo dellaltro sfida e rischio di morte; arma i sottilissimi stili. La notte di Natale, pochi momenti prima che nascesse il Bambino e dopo le danze e il vino e i liquori e lacquardente
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e una rissa grande per Serafina Serafina Marchiadoro entr in chiesa trafelato, inseguito come un daino, il pi agile dei danzatori; il quale era pazzo di Serafina, e lei di lui. Altri erano pazzi di Serafina, altre di Sebastiano, di Sebastiano Mulinello. Inseguito e inseguitori erano, ora, in ginocchio incantati come bambini a guardare un palloncino veneziano, la stella dOriente, che, per tramite di fili, viaggiava a lente tappe verso il presepio dellaltare. Allimprovviso fuori scoppiarono le fucilate, e le campane gridarono che era nato il Bambino. E i cani abbaiavano in coro s che sembrava una grande caccia, o anche un allarme per unincursione di demoni saraceni, o per un incendio nelle foreste, le pi belle del mondo, quelle di Villagrande. Ma, dentro, al calore animale, la gente cantava: il cantico era antichissimo dei tempi dOspitone, re dei Barbaricini: un neonato figlio di re partorito in una stalla era nudo e intirizzito. Sebastiano sentiva sopra di s tutto quel freddo dellultimo dicembre, soltanto lui, lui solo: e tentava di riscaldarsi cantando con tutti quanti: e non poteva e non comprendeva per quale incantesimo, per quale arcano la parola gli mancasse con la voce. Non comprendeva neppure, come disse a un tratto a un suo vicino, che cosa fosse quellandare di notte con altra gente, con tanta gente sulla neve. Laltro gli rispose: Mulinello, Mulinello, il vino fa anche quello. Poco dopo Sebastiano saccasci senza un gemito: il vicino sabbass, lo tocc: trov sangue e ghiaccio: grid che Sebastiano era morto. E quel grido fece morire il canto. E le donne si misero a piangere il pi bello e il pi agile dei danzatori, che era finito cos: senza dolore, senza rancore, senza sapere che uno dei rivali, poco prima, nella rissa o nella corsa, lo aveva trafitto alle spalle.

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UN CELEBRE PROCESSO

De cundennare no ti lt sa presse. Non ti prenda la fretta di condannare.

Alla morte del Vescovo vennero da ogni parte a vederlo derelitti, vagabondi e mendicanti. Il loro odore invase la cattedrale. Solo il Monsignore, rigido nei suoi paramenti, non lo sentiva. E neppure ormai lo toccava che i Cavalieri e il Capitolo e lo stesso Cerimoniere lo condannassero sottovoce della scandalosa sua vita davaro, durata tanti e tanti anni. Se fosse dipeso da loro, dal loro santo zelo il richiamarlo in vita, lo avrebbero fatto per chiedergli conto, come prima cosa, dove avesse nascosto tutto il suo denaro, che doveva essere molto dopo tanti lustri di risparmio accanito se non addirittura scandaloso. Con tutto quel denaro, che cosa non si sarebbe potuto fare? Persino dare ordinazione, a un grande scultore e a un grande pittore, di angeli per le cappelle; o quanto meno acquistare nuove pianete, e possibilmente un ostensorio, da fare sfigurare tutte le altre diocesi. Uno che era venuto dalla gavetta e finito canonico dopo un tirocinio in uno dei paeselli pi sperduti del mondo, pensando a qualche viceparroco che sbarcava a stento il lunario quasi eroicamente, sarrischi a obiettare che la somma non sarebbe stata male spesa destinata a dotare dalloggio (uno due, quanti alloggi fino al numero che la somma consentiva) il clero pi bisognoso. Ma, come il proponente godeva fama di bizzarro, cos lo canzonarono con benevolenza. E intanto che il tempo passava, e quel denaro non si trovava, ingannavano la loro impazienza cercando dindovinare se non ci fosse nella diocesi il Vicario generale, un arciprete, un canonico, un religioso qualsiasi, degno che, succedendogli, riabilitasse il Vescovado. E nel frattempo il Vescovo impallidiva sempre pi nel lezzo e nellincenso che ormai, con tutto quellarmento daccattoni e derelitti, gi formava una nuvola densa e corrotta.
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Pi tardi il defunto fu calato nella cripta. Fu allora che tutti quegli ospiti di Cristo (come la gente li chiama, trattandoli come tali solo di quando in quando) diedero in un pianto che sembrava un canto di dolore e damore, o quasi una preghiera, uno dei gosos (laudi corali) a questo o a quel santo, quando lannata ha deluso le speranze. E quel pianto era cos insolito e fu tanto scandaloso che, subito dopo le esequie, fu aperto un grande processo. Gli ospiti furono sottoposti a un interrogatorio malizioso e accorto. Essi come congiurati riluttarono da principio, poi tra allusioni e reticenze quasi pudiche, finirono col confessare che il loro Vescovo li soccorreva ogni mese da anni e anni.

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POESIE NATALIZIE LIETE E TRISTI

Alloggiatemi Maria / morta di freddo e sfinita / vi lascio in pegno un cancello / fatto di rovo spinoso. / Siamo Giuseppe e la Sposa / con Ges in compagnia. Alcuni di questi frammenti si sono associati ai canti delle feste pagane delle Calende, formando un genere di poesia ibrida che in qualche villaggio viene ancora cantata ed eseguita mimicamente per le strade. Gruppi di persone percorrono le vie cantando e fermandosi alla porta dogni casa, in attesa del donum calendarium. Ddemi su calendariu / chi siat bonu e manno / chi mi duret unannu / unannu e una chida / chi a posta so bennda / pro bo lu cherre cantare. / Gi isco chi lu tenides / si mi nde cherides dare / de su chi hazis in domo Datemi il dono calendario / che sia buono e grande / che mi duri un anno / un anno e una settimana / che apposta son venuta / per volervelo chiedere in canto. / So di certo che lo avete (che ne disponete) / se me ne volete dare / di quanto avete in casa E continua con lepisodio della Nativit: Otto dies est a como / chi su Segnore est naschdu / a cantare est bessdu / minoreddu e tantu abbistu. / In nomen de Ges Cristu e de sa mama Maria Otto giorni fa a oggi / il Signore nato / uscito (di casa) a cantare / bambinello e (gi) tanto vispo. / In nome di Ges Cristo e di sua madre Maria. Qua e l si cantano i gosos natalizi i quali sono quasi certamente derivati dai Cori che rappresentavano una parte importantissima nei drammi sacri dei secoli scorsi e formavano
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Da secoli, ogni anno, nella notte di Natale, il popolo sardo, dalle contrade pastorali alle pianure dei contadini, canta, nelle chiese illuminate, nenie anonime, ora languide, ora dolorose. Esse si arrestano alle porte delle nostre citt; in qualcuna sono ospitate, appena come curiosit pittoresche. Certo, ci vuole proprio un villaggio perch un bambino come Ges possa nascere ogni anno per la prima volta. In citt non c una stalla vera con lasino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In citt persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo. E infine, con tante luci che vi oscurano le stelle quando si mostrano, troppo pretendere attecchisca la speranza che una volta o laltra, alla punta di mezzanotte, i cieli si spalancheranno e dallo squarcio saffaccer una grotta azzurra con dentro il trono di Dio, e Dio come il sole. Aria da Vangeli apocrifi nei villaggi, e lattesa dei prodigi non turbata dagli antichissimi canti. Dal Nord al Sud, da levante a ponente. Chi voglia ascoltare le launeddas non vada tra i pastori, che non le conoscono, e sembra una stranezza: vada invece tra i contadini dei Campidani. Lass, tra i monti, a Martis e Aggius, una stella si muove da un punto allaltro della chiesa. Nuchis delega San Giuseppe a cantare questo frammento dun dramma sulla Nativit (o sulla fuga in Egitto?): Alluggetemi Maria / molta di fritte istracca; / vi lassu in prenda la acca / fatta de maccia spinosa. / Semu Giuseppe e la Sposa / cun Ges in compagnia
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due gruppi: uno di quelli che erano veri e propri cori; laltro dei Ninnidos de Nostra Sennora canti della culla, eseguiti da un solo personaggio nelle antiche rappresentazioni, e precisamente dalla Madonna. E, per quanto oggi si cantino in coro, essi hanno conservato la forma dellantica ninnananna religiosa (secondo lo Spano, antichissimo in Sardegna il senario, perch adatto a una naturale modulazione e al suono delle launeddas). SENARIO RITORNELLO: Celesti tesoru / deterna allegria / dormi vida e coru / riposa anninnia. Celeste tesoro / deterna allegria / dormi vita e cuore / riposa ninnananna. STROFE: Dormi cun riposu / dormi fillu miu / divinu pippiu / de su mundu gosu / fillu graziosu / de sanima mia. Dormi con riposo / dormi figlio mio / divino bambino / del mondo gaudio / figlio grazioso / dellanima mia. SECONDO RITORNELLO, in settenari: Su veru Redentore / passat da-e sas alturas / cagliadebos creaturas: / ca dormit su Segnore. Il vero Redentore / passa dalle alture / fate silenzio creature / perch dorme il Signore. STROFE: Ninnia, sole ermosu / Lassa su lagrimare / ca est ora de lis dare / a sos ojos reposu / dormi sole lustrosu / deternu resplendore. Ninnananna sole splendido / cessa di lacrimare / ch tempo di dare / agli occhi riposo / dormi sole abbagliante / deterno splendore.
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Siamo ai primordi della poesia religiosa: la forma pressa poco quella delle laudi antiche. Di questo periodo delle origini lAnninna di lu puppu bellu di Aggius (Sassari). RITORNELLO nella forma attuale: Celesti tesoru / deterna allegria / dormi vida e coru / riposa anninnia. Celeste tesoro / di eterna allegria / dormi vita e cuore / riposa ninnananna. RIPRESA: Angelus canti a su Fillu e Maria. Dormi vida e coru / riposa anninnia. Angelus canti a su Fillu e Maria. Angeli cantate il Figlio di Maria. STROFE: Istat in su fenu / e cun pagus pannus / cun grandus affannus / su Rei Nazzarenu / chini su terrenu / arricchit de oru. Sta sopra il fieno / e con pochi panni / con grandi affanni / il re Nazzareno / che la terra / arricchisce doro. RIPRESA ANTICA: O Deu ninnu meu / beddu pi di loru. O Dio, bimbo mio / bello pi delloro. STROFE: Supra la dura padda / vidsi chera natu / e mi parsi un clu di stlli curunatu / da soli accumpagnatu / supra un mannu decoru. Sopra la dura paglia / vidi che era nato / e mi sembrava un cielo di stelle incoronato / dal sole accompagnato / sopra un grande decoro (apparato).
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Afferma il Bouiller che la maggior parte dei Ninnidos religiosi sardi celebrano, come quelli profani, solo le bellezze del fanciullo. Ci non esatto. Tra le molte espressioni che glorificano lineffabile bellezza del Bambino si insinuano quasi sempre gli accenni al doloroso dramma della Passione. Caglia, ninnu, caglia / chi tempuennar / candu in la dura cruzi / ciudadu hai a ist; / e tandu hai a pru / un crudeli disdoru. Taci, bimbo, taci / ch tempo verr / quando sulla dura croce / inchiodato starai / e allora proverai / una crudele onta. Cos cantava un tempo nelle chiese di Gallura la Vergine, china sulla culla del figlio Ges. E con pari accoramento, un tempo, si cantava nelle chiese del Logudoro: Dormi, candidu lizu / chi sende coronadu / ds esser affogadu / in mortale fastizu Dormi pippiu bellu / in presente penosu / ca lettu de reposu / ti parat su Judeu. Dormi, candido giglio / ch essendo coronato / dovrai essere soffocato / da un mortale affanno. Dormi bambino bello / in un presente penoso / ch un letto di riposo / ti prepara il Giudeo. Di canti di gioia amareggiata da presagi di dolore, che prevalevano nonostante laccompagnamento delle launeddas, si riempivano in quella notte anche le chiese del Campidano. Dormi cun contentu / no prangias ancora; / hat a benni sora / de su patimentu.
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Dormi contento / non piangere ancora / verr (purtroppo) / lora del patimento. V in queste ninnenanne scrive il Dessanay un che di dolce e di doloroso insieme. Il canto della Madonna una sintesi di primavera e dautunno, un lampo di gioia che brilla tra le lacrime. La Mater gaudiosa sente gi in s la Mater dolorosa. La luce del suo sorriso traversata dalla nube del presentimento e tra gli splendori del cielo e i canti di gloria e di pace dei bianchi angeli e il suono delle launeddas dei pastori adoranti, tra lo scintillio degli ori e il profumo deglincensi dei coronati Re della Terra, la Madre vede gi sul nudo calvario profilarsi lombra della croce. Quanto amore dellatroce, quanto romanticismo medioevale in questo dialogo tra Ges e la Madonna la quale si lamenta prigioniera dun sogno incubo: G. Chi hati, mama mea? / Sti drummta o sti sciutata? Che avete, madre mia? / Siete addormentata o siete sveglia? M. Un sonniu haggiu fattu / e a lu cori m datu. Pa li piani di Bell ti idia passatu e la to santa Cruci vidia prisintata e li to santi pedi vidia ciudati e li to santi ginocci vidia attuppati lu to santu custagliu vidia lanciatu li to santi bracci idia ingravati lu to santu capu idia spinatu la to santa bucca idia abbiarata a calcina mera, a fumaticu e a acetu sciurata. Un sogno ho sognato / e al cuore mi ha colpito. / Per le piane di Betlem ti vedevo passare / e la tua santa Croce vedevo presentata / e i tuoi santi piedi vedevo inchiodati / e i tuoi santi ginocchi vedevo aggroppati / il tuo santo costato
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vedevo squarciato dalla lancia / le tue sante braccia vedevo messe in croce / il tuo santo capo vedevo coronato di spine / la tua santa bocca vedevo abbeverata / di calcina mera, di fuliggine e daceto oscurata. Simile cupezza risuona in un canto sloveno: Santa Maria di Gerusalemme dormiva. G.: Madre, madre, dormite? M.: Cattivi sogni ho sognato / cattiva gente vi catturer / le vostre sante manine aperte sulla Croce ecc.. Detta pi tardi per scongiuro: Coloro che la sanno e che la dicono tre volte il giorno, tre volte la notte per un anno otterranno indulgenza e purificazione dal peccato. Grazie a fra Antonio Maria da Esterzili (Nuoro) sacerdote cappuccino di Sanluri conosciamo un manoscritto del 1688. Esso porta la licenza di rappresentazione concessa nellanno 1674 da Pedro, archiepiscopo dOristano. Il titolo la Conueta del nacimento de Christo tratta dal Libro de comedias. Il testo in dialetto sardo meridionale, con didascalie in lingua castigliana. Ventotto i personaggi: principali Adamo e Eva, la Vergine e Giuseppe, re David e Michea, angeli e pastori, due demoni, un cavaliere: animato il dialogo. La rappresentazione si conchiude con una fredda, scolastica disputa tra SantAgostino e un dottore ebreo che ha la peggio. Nella parte vitale della rappresentazione la Vergine attende lora della maternit e invoca il Padre onnipotente esprimendo anche lansia dellattesa: Beni prestu arrichesa de su coru beni consolu meu sublimadu nos portis custu tempu spiciadu beni cuntentu miu e tesoru: cumencit custa musica de tonu po chi is criaturas spettan in sa terra, beni po aplicari tanti gherra, annunciendi sa pasgi in altu sonu.
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Vieni presto ricchezza del (mio) cuore / vieni consolazione mia indicibile / recaci questo tempo straordinario / vieni contentezza mia e tesoro mio; / incominci questa musica intonata / per la quale le creature sono in ansia sulla terra / vieni per placare tanta guerra / annunciando la pace in alto grido. San Giuseppe soprappensiero: sperduti nella notte, senzalbergo, mal coperti, digiuni. I due sposi vanno nel buio e nellandare scoprono una casa. Va San Joseph, y la virgen alla primera casa, y dize: ol. Responden: chini esti, pues no est ora (chi ? questa non lora di dar noia alla gente che dorme). San Joseph dize: S. JOSEPH: Intendadimi segnora / su chi di ollu declarari abri shada a agattari / una domu fin a saurora po chi insara de bona ora / su remediu happa circari. Mi dia ascolto, signora, / per quel che le devo riferire: / si potrebbe trovare alloggio / almeno sino alla aurora / cos poi di buonora / altro rimedio cercher. Responden los de la casa primera: Baji po domu os circari / ca inoji nc ihadi istrangeris segnores e cavalleris / a chini no pozu faltari. Andate a cercarvi alloggio / ch qui abbiamo ospiti / signori e cavalieri / ai quali non posso mancare di riguardo. Va San Joseph a otra casa, y dize: Deo gratias. Responden: Chini est sa genti? iti olint domandari?
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Chi ? che cosa volete? S. JOSEPH: Esti si sis olit lassai / in domu po amori e Deus custa notti a is dus chi seus / ca issu si dhada a pagai. Vi si chiede di ospitarci / per lamore di Dio / questa notte, noi due, / e Lui vi ricompenser. Responden de la casa secunda: Baji e cras mi torradi / chi happu segnoris de festa e no siais genti molesta / po chi os hanta a castigai. Andate e tornate da me domani / ch ho ospiti per la festa / e non siate molesti / se no, avrete la lezione che meritate. San Giuseppe risponde sconsolato e chiede scusa alla signora della casa. MARIA: Jhais biu, Padri eternu, isbandonadu / a sunicu fillu ostu poderosu, / no agattu undi tennir arreposu, / po chi tottus is danti desterradu; / providedi unu logu consoladu / chi nasciat in custa ora tanti aflita / fiedi chi abajit luegu sa vista / de cussu altu aposentu sublimadu. Avete visto, Padre eterno, abbandonato / lunico figlio vostro potente / non trovo dove riposarmi / dopo che tutti ci hanno respinti; / provvedeteci un luogo riposante / che (il Bambino) nasca in questa ora tanto afflitta / fate che si rivolga in gi presto il (vostro) sguardo / da codesta stanza tanto alta. A questo punto la didascalia prescrive si canti Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Si tiri la cortina (del presepe).
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PRIMO ANGELO: Gloria naru cun amori / ingenugadu in sa terra pues capitanu de gherra / os gliamai redemtori concedidi nos favori / alcanzadi sa vittoria po chi tottus in unioni / os canteus cussa gloria. Gloria dico con amore / inginocchiato sino a terra / dopo il titolo di capitano di guerra / vi spetta quello di redentore / concedeteci il favore / premiateci con la vittoria / perch tutti uniti / cantiamo in vostra gloria. SECONDO ANGELO: In excelsis. TERZO ANGELO: A Deus trinu adoraus. QUARTO ANGELO: Totus in terra prostraus / adoraus. Tutti prostrati / adoriamo. QUINTO ANGELO: et humilis et humilibus / sa paji a bojis seguras: bos annunciamus hominibus. SESTO ANGELO: teneis bella cumpangia / inoji in custu presepi (sale a los pastores diziendo:) Annuncio vobis gaudium magnum / pastoris meda devottus cumbidadu seis totus / ad videndum illum agnum. Nascidu est su Salvadori / a bosatterus custa d prestu ijidais / chi est su Cristus nostru Segnori In sa citadi e David / chi est Betlem terra giudea hoi pipiu nos cumparit / cum sa vista chi recreat. Annuncio a voi una grande allegrezza / pastori molto devoti /
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siete invitati tutti a vedere quellagnello. / Nato il Salvatore / per voi in questo giorno / presto svegliatevi / ch il Cristo nostro Signore. / Nella citt di David, / in Betlemme terra giudea / oggi un bambino ci appare / con un aspetto che vivifica. A questo punto entrano in scena due pastori e parlano in dialetto centro-settentrionale. dicembre: in quella pianura pastori del centro montuoso svernano, secondo antiche consuetudini dettate dalla legge delle stagioni e delleconomia pastorale. Essi fanno Natale lontano dalle case. In quella notte gli Angeli si rammentano di loro e da loro inviano i pastori campidanesi perch gli esuli non restino soli in preda alla nostalgia. Responde uno de los pastores que estaban apartados un poco de los otros: PRIMO PASTORE (esule, svernante): Has intendidu, cumpanzu / custa oghe celestiale sena falda est divinale / e pro nois meda balanzu. Hai udito, compagno / questa voce celestiale / senza dubbio viene da Dio / ed per noi molto guadagno. Responde su companero: SECONDO PASTORE del Nord: Unu pagu so istadu / iscultende sos clamores pero de cussas rejones / no isco niente ithat nadu. Un poco sono stato / ad ascoltare i clamori / per del vero significato / poco o nulla ho afferrato. ANGELO (spiegando in dialetto meridionale): De su nadu os dau signali / de Jesus su Redemtori basgi ca deis agatari / totu bestidu de amori in duna stadda colcadu / in logu e lettu de oru est sangioni immaculadu / po no tenni pius tesoru.
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Del nato vi do indicazione / di Ges Redentore / andate, lo troverete / tutto vestito damore / in una stalla coricato / invece che in un letto doro / lagnello immacolato / che vale pi dogni altro tesoro. UNO DEI PASTORI del Nord: Como hamus intenddu / su chi sanghelu hat naradu Ora abbiamo compreso / ci che langelo ha detto E si avviano al presepio coi doni. UN ALTRO PASTORE del Nord: Totu tenimus a manu / cussas cosas preparadas andamus po chi est manzanu / cantende cosas sagradas. Abbiamo ogni cosa pronta e a mano / andiamo che gi luce / cantando canti sacri. Entonan los flautos, y canta uno, y los otros responden: PASTORI del Nord: Bennidu est cuddu Messia / ispettadu de sa zente est veru Deus potente / e consolu e cumpanzia. Custu est cudda vera ghia / de sa nostra salvazione custa notte e allegria / naschidu est su Salvadore. arrivato quel Messia / atteso dalle genti / vero Dio potente / e consolazione e assistenza. / Questi quella vera guida / della nostra salvazione / in questa notte dallegria / nato il Salvatore. Da questi cori sono nati i gosos: i canti corali che riempiono le chiese di Sardegna, le chiese dei pastori e dei contadini. Le loro donne li cantano, e i loro piccoli figli li ascoltano e li imparano. I Pastori del Nord continuano:
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In sa zittade e Davd / Cristos (nt sAnghelu) chi est naschidu / ispozadu ma bestidu. Nella citt di David / Cristo (dice langelo) nato / spogliato e pur vestito. UNO DEI DUE PASTORI del Nord: Andemus nois prestamente / pro chi lhamus de adorare sende Deu onnipotente / bestidu e umilidade est Deu de caridade / pienu e ogni dulcore. Andiamo noi sollecitamente / ch nostro dovere adorarlo / poich il Dio onnipotente / vestito di umilt / ed Dio di carit / pieno di ogni dolcezza. L ALTRO PASTORE del Nord: O nova chi perveniat / a nois aligramente de cuddu Deus potente / e anco veru messia sa mama si nat (chiama) Maria / consolu e su peccadore. I due arrivano al presepio coi doni: Llegan todos al deversorio, le hazen reverentia, se arrodilan y dize el Primer Pastor : PRIMO PASTORE (offrendo il suo dono): O anzone immaculadu / reclamadu de sa zente siazis bene abasciadu / salvatore onnipotente pigade custu presente / cum su coro totu impare rezide cun voluntade / su regalu ancu chest niente. O agnello immacolato / sospirato dalle genti / siate il ben disceso sulla terra / salvatore onnipotente / accettate questo presente / e il cuore (nostro) insieme / graditelo con indulgenza / questo dono da niente. SECONDO PASTORE (offrendo un formaggio): Eo ancora bos presento / custu casu e marinzone
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arrezidelu pro cuntentu / cun voluntade e amore recordadebos Segnore / chi so poveru meschinu mandademi de continu / sa ostra grascia e favore. E anchio vi reco un dono / questo formaggio in fiscella / graditelo con contentezza / con indulgenza e amore / ricordatevi, Signore / che sono un povero, meschino / mandatemi di continuo / la vostra grazia e favore. Arrivano altri doni da parte di altri pastori: e fra tutti i doni il pi confortevole: unu pannu ca faghet tempus de frittu (un panno perch la stagione rigida) e finalmente il PRIMO PASTORE (rivolto alla Madre): E a tie regina formosa / ti pregamus de continu gi chi ses tantu diciosa / mama e su Re divinu chi siat cun nois beninu / peus si llamat Salvadore custu sole cristallinu / a nos dare galardone. E te regina bellissima / preghiamo di continuo / giacch sei tanto fortunata / madre del Re divino / chegli sia benigno / poich si chiama Salvatore / questo sole di cristallo / ci conceda i suoi doni. il momento che SantAgostino si fa sulla scena in abiti pontificali con un servo vestito da cavaliere e sostiene vittorioso col dottore ebreo la fredda disputa sullavvento.

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NASCERE, SOFFRIRE, MORIRE

su Redentore e su mundu faladu da-e su chelu


GIUSEPPE FERRARO (in Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari, XIII, 27)

Ninnananna natalizia tragica che cantano le madri come canto della culla, quando nessuno la sente e i loro uomini sono lontani, e vogliono ingraziarsi la Madre di Ges rammentandole quanto ha sofferto: Tu che sai il peso del dolore e dellafflizione Anninna, anninna, puppu bellu chi ses bellu che-i soro, a mi nde dolet su coro a mi nde dole sas tittas; sas venas mias sun siccas, siccas, siccas de smbene fizu non poto pianghere de tantu vele toscadu. In sa rughe than corcadu nudu nudu e iscobertu chena cabidales e lettu chena niente in sischina sa corona de ispina ti servit pro cabidale. Mamas chi fizos penades gi bi idides sos fastizos, mamas chi penades fizos gi bi idides sos dolores. Sa morte e nostru Segnore a la devimus pianghere cun lacrimas de sambene cun lacrimas a pischina battidebi meighinas meighinas de arghentu a ponnere in sapposentu in sapposentu majore chest naschidu su Salvadore,
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Ninnananna, bel bambino / sei bello come loro / ah quanto mi duole il cuore / e dolgono le mammelle / le vene mie son secche / secche secche di sangue / figlio non posso piangere / per il tanto fiele attossicato (che ti stato propinato). / Sulla croce than coricato / nudo nudo e scoperto / senza guanciali da letto / senza un sostegno sotto la schiena / la corona di spine / ti fa da capezzale. / Madri che figli allevate con pena / ben vedete ivi i fastidi / madri che allevate con pena i figli / ben ivi vedete i dolori. / La morte di Nostro Signore / ben la dobbiamo piangere / con lacrime di sangue / con lacrime a pozze / portate qui aromi / aromi di argento / da mettere nella stanza / nella stanza maggiore. / Ch nato il Salvatore / il Redentore del mondo / disceso dal Cielo.

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ELEGIE DEL TEMPO PERDUTO

A LU TEMPU Palch no torri, di, tempu passatu? Palch no torri, di, tempu paldutu? Torra alta volta, torra a fatti meu, tempu impultanti, tempu priziosu; tempu chi vali tantu cante Deu, per un cori ben fattu e viltuosu. Troppu a distempu, o tempu caru, arreu a cunniscitti, (o pesu aguniosu!) Cantu utilosu mi saristi statu, tempu, aenditi a tempu cunnisciutu! Palch no torri, di, tempu passatu? Palch no torri, di, tempu paldutu? Tempu, chi in un continu muimentu poni tutta la to stabilitai, chi la to chiet, lu to assentu cunsisti in no ist chietu mai; ritrocedi pal me, chi era ditentu, candu passasti, da un sonnu grai: ah, si turrai, tempu male gastatu, chi be chi taaria ripaltutu! Palch no torri, di ecc. Lalburi tristu senza fiori e frondi vinutu maggiu acquista frondi e fiori; a campu siccu tandu currispondi un beddu traccu dallegri culori. Supelbu salta dinvarru li spondi riu distiu poaru dumori; e lanticu vigori rinuatu no sar mai in un omu canutu? Palch no torri, ecc.
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La notti pal vin, la d simbruna candu lu soli mori in occidenti; a luci poi torra tuttu in una candu rinasci allegru in orienti; e la suredda, la candida luna, da li mancanti torra a li criscenti. E un omu cadenti, a chiddu statu no de turr, da undi decadutu? Palch no torri, di ecc. Tempu disprizziatu, torra abali chi aggiu di ca se tu cunniscimentu! Torra oggi chi cunnoscu cantu vali chi pruar tuttaltru trattamentu. Ah, daetti trattatu tantu mali no possu ditti cantu mi ni pentu. Cunniscimentu, ah, canthai taldatu! A passi troppu lenti sei vinutu. Palch no torri, di ecc. Si cumincia di nou a vi dia usa differenti economia; n palticula mancu di la d senza imprialla be, passacci dia: chi ben pruisti, innanzi di mur, pa lultimu viaggiu mi saria! Oh, alligria! Oh tre volti biatu, tempu, candu da te fussi attindutu! Palch no torri, di, tempu passatu? Palch no torri, di, tempu paldutu?
GAVINO PES (1724-1795)

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Elegie del tempo perduto

Perch non torni, dimmi, tempo passato, / perch non torni, dimmi, tempo perduto? / Ritorna unaltra volta, ritorna a farti mio / tempo importante, tempo prezioso; / tempo che vali tanto quanto Dio / per un cuore ben fatto e virtuoso. / Troppo tardi, o caro tempo, arrivo / a conoscerti, (oh, rimorso angoscioso!) / Quanto utile mi saresti stato, / tempo, se ti avessi conosciuto prima dora! / Perch non torni, dimmi Tempo, che in un continuo movimento / riponi tutta la tua quiete / che la tua quiete, la tua calma / fai consistere in unassidua inquietudine; / retrocedi per me, che ero prigioniero, / quando passasti, di un grave sonno: / ah, se ritornassi, tempo male speso, / come ti ripartirei bene. / Perch non torni, dimmi Lalbero triste senza fiori e fronde / venuto maggio acquista fronde e fiori; / a campo secco allora corrisponde / un bel tralcio dallegri colori. / Superbo salta dinverno le sponde / ruscello destate povero dumore; / e lantico vigore rinnovato / non sar mai in un uomo canuto? / Perch non torni, dimmi La notte per venire, laria imbruna / quando il sole muore alloccidente, / luce ritorna poi tutto dun tratto / quando rinasce allegro alloriente; / e la sorella, la candida luna, / da calante ritorna crescente. / E luomo venuto meno una volta, a quello stato / perch non pu ritornare, mai, dal quale caduto? / Perch non torni, dimmi Tempo disprezzato, ritorna ora / che, di te ho conoscenza! / Ritorna oggi che so quanto vali / e troveresti tuttaltro trattamento. / Ah, daverti trattato tanto male / non posso dirti quanto me ne pento. / Ah, conoscenza, quanthai tardato! / A passi troppo lenti sei venuta! / Perch non torni, dimmi Se cominciassi di nuovo a vivere / tadopererei con differente economia; / nemmeno particola del giorno / che non fosse bene spesa, passerebbe: / bene mi preparerei, prima di morire, per lultimo viaggio! / Oh contentezza; oh tre volte beato, / tempo, se tu maspettassi ancora! / Perch non torni, dimmi, tempo passato? / Perch non torni, dimmi, tempo perduto?
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CARO TEMPO Torra como tempus meu, ah cr, thapa trattare comente si trattat Deu! Tempus, narami comente firmesa mi promittias? e hoe mancu mimbias su tempus cumbeniente, nessi pro su penitente, tempus, devias torrare. Creendedi sussistente troppu mi nde so fidadu, ma chirchende su passadu perdo su tempus presente e-i custu regularmente giughet alas pro bolare. Sesemplu leo ogni die da chie a tie hat criadu, est mortu, est resuscitadu, est inoghe, et est inie, si no est in issu, in chie, tempus, thas a retrattare? Sas piantas insensadas piedade hana connotu, andana e torrana totu e totu sunt accansadas, e a mie sunt negadas dies pro ti laudare. Giamende listo ogni die, tempus, su numene tou, o faghe a mie de nou
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o torra de nou a mie, si mi cunfortas gasie, Deus ti lhat a pagare. Sos bentos chi sun sos bentos dana su chi negas tue, andan, benin de tottue, partin, torran a momentos: tue solu discuntentos sos bios has a lassare? Ah, torra, chi thapa trattare
MARIA GRAZIA MUREDDU-COSSU di Sassari (da Canzoni popolari, Cagliari 1864)

CANTO DELLA TREXENTA


TRISTU PASSIRILLANTI Tristu passirillanti, comenti massimbillas: poita mi consillas a plangi po samanti? (Lar, lar, la lara). Comenti massimbillas: tristu passirillanti: poita mi consillas a plangi po samanti? J andi mi ronnai andira a nora andira. Tristu passirillanti su cantu t daggradu, si puru seu interradu, si de tui morgiu innanti! (Lar, lar, la lara).
AUTORE IGNOTO

Torna adesso tempo mio, / ah credimi, ti tratter / come se tu fossi Dio. Tempo, dimmi, come / costanza mi promettevi? / e oggi nemmeno minvii / le ore convenienti, / almeno al pentito, / tempo, dovresti tornare. Considerandoti consistente, / troppo di te mi son fidato, / intanto ricerco il passato / e perdo il tempo presente / e questo inesorabilmente / ha le ali per volare. Esempio prendo ogni giorno / da Colui che ti ha creato: / morto, risuscitato, / vicino ed lontano, / se non in Lui in chi, / tempo, ti specchierai? Gli alberi privi della ragione / piet hanno trovato, / vanno e ritornano tutti / e tutti sono aiutati, / e a me sono negati / i giorni per darti lode. Vado invocando ogni giorno, / tempo, il tuo nome, / o rinnovami, / o ritorna a me di nuovo, / se mi conforterai cos, / Dio ti ricompenser. I venti che sono i venti / concedono ci che tu neghi, / vanno, vengono da ogni lato, / partono, ritornano momentanei: / tu solo discontenti / lascerai noi vivi? Ah, ritorna, che ti tratter
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Mesto usignolo, / oh! quanto mi somigli; / perch tu mi consigli / di piangere per lamante? Oh! quanto mi somigli, / mesto usignolo / perch tu mi consigli / di pianger per lamante? J andi mi ronnai / andira a nora andira Mesto usignolo / il canto tuo gradisco, / se anche son sepolto, / se morir prima di te.
J andi mi ronnai / andira a nora andira. Loscuro ritornello, con un suo termine che vagamente accenna a un andare e andare e con la sua voce nora che sicuramente di tempo protosardo, ha tutta laria di essere antichissimo.

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singolare lo si registri a commento dun canto della Trexenta, contrada meridionale interna dellisola. Pu darsi (a dar retta alla fantasia) che il ritornello esprima col termine nora un rimpianto per una patria perduta: per la citt di Nora, antico scalo fenicio, poi centro punico e pi tardi fiorente citt romana che serb fino allultimo il vanto di citt madre di tutte le altre citt sarde (vedi voce Nora, Guida Touring). In et romana essa ebbe grado e onori pari a Kralis. I suoi avanzi (templi, necropoli, moli, edifici portuensi romani, basiliche ecc.) risultano sconvolti per lazione dei terremoti e del mare. Decaduta con le invasioni vandaliche, non risorse pi. Cos, il rimpianto potrebbe essere di antichi Norensi i quali, in seguito ai cataclismi e alle invasioni, fuggirono la costa e ripararono nellinterno rurale, dove, nelle ore dei ricordi, inventarono il ritornello nostalgico, fatto proprio, in seguito, dai loro ospiti. Qualcosa di simile accadde durante lultima guerra, quando, fulminata dal cielo, Cagliari and in rovina, e gli esuli, cercato rifugio anche sui monti barbaricini, li si sentiva cantare i loro canti e, in essi, anche questo dellandra a nora andra.

INNO ALGHERESE

IMNO ALGUERES De la banda de ponnt hi ha una terra llunya llunya; es la nostra Catalunya bella, forta i renaixnt. En all nostros germns redimits de la gran prova, van cantant la cans nova que atravssa monts i plans. Es un crit atronador per la catalana terra, que mil animas ensrra en un llas de germanor. Aquest crit es arribat finsas a la nostra pltja catalans dAlguer cortge! No olvidm nostro passat. En la sou glorios cam Catalunya sempre avansa; i per tot hont passa llansa la llevor que ha de florir. O germans no desprm Catalunya est fent via. Prest arribar lo dia en que tots renaixerm.
RAMON CLAVELLET (Antonio Ciuffo) Dallopuscolo: La conquista de Sardnya, pubblicato a Sassari, 1906, dalla Tip. Armonia Sarda).

Da la parte di ponente / c una terra lontana lontana / la nostra Catalogna / bella forte e rinascente.
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L i nostri fratelli / gloriosi dopo la gran prova / cantano la canzone nuova / che varca monti e pianure. un grido di riscossa / per la catalana terra / che mille anime stringe / in un nodo di fraternit. Questo grido arrivato / fino al nostro lido: / catalani dAlghero coraggio! / Non dimentichiamo il nostro passato. Nel suo glorioso cammino / Catalogna sempre procede / e dovunque passa sparge / il seme che dovr fiorire. O fratelli non disperiamo / Catalogna in marcia. / Presto verr il giorno / nel quale tutti rinasceremo. Scritta forse nel 1895, periodo della Renaixensa (movimento catalanista dindipendenza).

RICORDO DI COSIMA

Se, dopo tanti anni, quel visitatore soner al cancello di Via Porto Maurizio, Cosima49 non gli verr incontro ad aprirgli, come altre volte. Tante cose sono mutate; mutato persino il nome della via. Via Porto Maurizio: da questo porto siamo un bel giorno salpati, verso i mari gelati e le metropoli scintillanti ai confini della terra abitata. Da esso un altro bel giorno, in una barca debano decorata doro e lieta di ghirlande e di rose, salperemo verso il paese dei cipressi, che ci sembra qui limitrofo ed invece oltre i confini della terra (cos scriveva nel dicembre 1927, dopo aver ricevuto a Stoccolma il premio Nobel). Dalle finestre della sua casa si vedevano i cipressi del Verano e i colli Albani. Fiochi vi giungevano allora i rumori della citt. Bastavano pochi passi, e si entrava nella campagna: una campagna che respirava tanto vicina da ridestarle spesso il ricordo dei luoghi della sua adolescenza, ai quali soleva ritornare nellestate. Quel pomeriggio di luglio Cosima camminava lentissima sul sentiero di Valverde: parlava sottovoce dei colori della valle con un pittore50 che firmava con un ragno le sue tele e i suoi disegni. Solo si rammaricava di tanto in tanto non fosse con loro un poeta con gli occhi azzurri. Il poeta poteva camminare a stento lungo il Corso lastricato, al braccio dun amico; e talvolta avendo al fianco un giovane scultore51 che aveva dato vita a una madre dolorosa. A una svolta ella chiese al fanciullo che cosa ne fosse stato di una casa lontana, dove egli era cresciuto, e che ella aveva conosciuta da ragazza: una di quelle case padronali
49. Grazia Deledda. 50. Antonio Ballero di Nuoro. 51. Francesco Ciusa di Nuoro.

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piene dabbondanza, di servi e di mendicanti. Quella casa era quasi un ricordo: era come sparita insieme con i grandi banditi e le epiche bardane, con gli amuleti e i fattucchieri, e i cercatori pazzi di tesori, e gli esodi migratori, e le diligenze lente e avventurose, e gli alibi raccomandati alla velocit dei cavalli. Da poco era arrivato il fustagno, con le cotonine e le tele stampate. Rara la cambiale e la bancarotta, sacra la parola data. A ogni ovile si poteva ricevere ancora pane e companatico, e un posto accanto al fuoco, e la stuoia; ma gi lusanza era minacciata dallavvento dei caseifici e dei treni. Il fanciullo, timido e malinconico di natura, le rispose con uno sguardo, nel quale ella lesse forse un nascente rimpianto di un mondo che tramontava e lo consol con una carezza e un sorriso di luna.

UCCELLI CHE VOLATE

Fin dal secolo XII la lingua logudorese era gi convenientemente matura a entrare nei documenti. Da quella data in poi i documenti in prosa sono numerosi: la lingua sarda dei documenti antichi, come scrive il Wagner, una lingua protocollare, che per la sua stessa natura non ha pretese artistiche. Unica eccezione fa leloquenza ecclesiastica che lunica forma di prosa di tipo, per dir cos, elevato e letterario. Molti dei pi rinomati poeti sardi furono sacerdoti. La tradizione si apre con Antonio Cano, arcivescovo di Sassari, nato in Sassari verso la fine del sec. XIV. A lui si attribuisce un poemetto intitolato Sa vita e sa morte et passione de Santu Gavinu, Prothu e Januariu (Martirio dei SS. Gavino, Proto e Gianuario) pubblicato anonimo a Cagliari nel 1557, di solo valore storico. Da esso discende il poema dellAraolla, morto circa nel 1600, il quale si pu considerare liniziatore della Storia letteraria della Sardegna. Il tono predicatorio delle poesie di quegli antichi poeti si trasmesso sia pure sempre pi attenuandosi ai poeti delle et posteriori. La poesia italiana e la spagnola non hanno mancato di allontanare i poeti dalla sincerit e dalla genuinit. Vi si sottratta notevolmente la cos detta poesia popolare o dei poeti incolti che dir si voglia: sempre tuttavia frammentaria e limitata quasi esclusivamente ai temi: amore e dolore; e in particolare per freschezza una parte della poesia satirica e burlesca e quella che piacerebbe chiamar della casa, della Settimana di Passione, dei pensieri esuli

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STORNELLI
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In sa matte su spiccu canta su bappajallu; su goru miu pitticcu, ci gapis a traballu. In sa matte su spiccu canta sarrussignolu: su goru miu pitticcu ci gapis tui solu. In sa matte su spiccu canta su crucculeu: su goru miu pitticcu, ci gapis tui e deu. Sa luna est a de notte, su sole est a de die, sistella a su manzanu. Sa luna est a de notte Chin sa propria manu, si no balanzo a tie, mhapa dare sa morte. Barbara oscura nui, de nieddu mhas velau: bollu morri bo dui, amanti miu stimau. In su monte e Limbara bhat duas filumenas cantan a boghe a boghe. In su monte Limbara Mi bides mortu inoghe, si de me no tappenas, bellesa pura e rara.
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Sa bella Drusolina cantu male ha passadu da-e Bianca Dora. Sa bella Drusolina Pro te, casteddu amadu, no nde reposo unora, gi nde perdo sa vida. Sarbore chi froridi sa foza in terra lassada: iscuru a chie moridi gi su piantu passada. Sa roba chi sculoridi mi larribo in sa cascia: iscuru a chie moridi, su piantu gi passada. Beneitta sa sorti chi denus tottis dusu! mai bassessi sa notti, drommendi in brazzus tusu. Adios, Nugoro, adios ca parto a sordadare: sa die chapo a torrare sos mortos dnt esser bios. Passizeri avventuradu chi traessas de continu nara sin calchi caminu sa turture has incontradu. Pillonis chi bolais cun is alas di oru: puita no mi bortais novas de ghinadoru?
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In Gavoi vainti vrenus a sa moda e su logu: an is froris allenus mai no pongas sogu. Tres paras, tres guventus, tres sordaus e tres damas: a quartus e a momentus mi odias e mi amas. Su biscadori e stani bort fibbias de pratta: po un arrogu de bani, su mundu, ita gumbatta!
EGIDIO BELLORINI, Cian-Nurra (Garzia, vedi Bibliografia)

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Benedetta la sorte / che ci unisce, / mai passasse la notte / mentre dormo tra le tue braccia. Addio, Nuoro, addio / parto per fare il soldato: / quando sar ritornato, / i morti saranno vivi. Passerotto fortunato / che puoi andare e tornare / dimmi se in qualche viaggio / hai incontrato la mia tortora. Uccelli che volate / con le ali doro: / perch non mi recate / notizie di lei che adoro? In Gavoi fabbricano freni (da cavallo) / secondo le usanze del luogo: / sui fiori altrui / mai non posare lo sguardo. Tre frati, tre conventi, / tre soldati e tre dame: / a quarti e a momenti / mi odii e mi ami. Il pescatore di stagno / ha le fibbie dargento: / per un pezzo di pane, / il mondo, che lotta!

Sulla pianta di spigo / canta il pappagallo: / il cuore mio piccolo, / c posto appena per te. Sulla pianta di spigo / canta lusignolo: / il cuore mio piccolo, / c posto per te solo. Sulla pianta di spigo / canta il passero: / il cuore mio piccolo, / c posto per noi due soli. La luna c di notte, / il sole c di giorno, / la stella (Venere) allalba. / La luna c di notte / Con la mia stessa mano, / se non conquisto te, / mi dar la morte. Barbara oscura nube / di nero mhai velato: / voglio morire per te, / amante mio adorato. Sul monte Limbara / ci sono due usignoli / cantano a voce a voce. / Sul monte Limbara / Mi vedrai morto in questo luogo / se di me non tappeni, / bellezza pura e rara. La bella Drusolina / quante ne ha passato / per colpa di Bianca Dora. / La bella Drusolina / Per te, castello amato, / ho perduto il sonno, / e gi perdo la vita. Lalbero che fiorisce / lascia le foglie alla terra: / sventurato chi muore, / tant, il pianto passa. Le stoffe che scoloriscono / le conservo nel cassone; / sventurato chi muore, / tant, il pianto passa.
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AMORE PICCHIA ALLA PORTA Abbrimi sa janna, frisca rosa, chi so tremende che fozas de canna, tue in su lettu drommis e reposas e a mie mi lassas in sa janna, che pelegrinu chistat in campagna isto passende una vida penosa.
AUTORE INCERTO DI

SERENATE In custistrada mi seo benzo pro ti visitare: cando mi has a pagare custu serenu chi leo? Inoghe mi faghet die cantende a pramma adorada: tue in su lettu corcada ed eo frittu che nie. Accollu si faghet die ponende riga in su mare: ed eo ancora a basare, bella, sa laras a tie. Su questa panchina (di pietra) mi siedo / vengo per visitarti: / quando mi ricompenserai / di questo sereno che prendo? Qui mi si fa giorno / mentre canto alla (mia) palma adorata / tu al caldo del letto / ed io freddo come la neve. Ecco gi si fa giorno / segnando una riga sul mare; / e io ancora non ho baciato, / bella, le tue labbra. Duminichin Ali, Lunis in Buddus, Martis in Sinda, Mercuris in Piaghe, Jobiin sa Costera, Chenapurin Nugro, Sappadu reposau. Duminichin Ali Coro, fache manera chi sia illepiau, ca so in pena assai.
EGIDIO BELLORINI (Canti, p. 19)

PLOAGHE

Aprimi la porta fresca rosa / che sto tremando come le foglie duna canna / tu nel letto dormi e ti riposi / e me mi lasci fuori della porta / come pellegrino che sta in campagna / sto trascorrendo una vita penosa. PRIMAVERA MA IL CUORE Gi su eranu est torradu che prima allegru e fozidu Gi torrat a sas campagnas su virde allegru colore, gi est isoltu su rigore de su nie in sas montagnas ma su coro in sas intragnas est die e notte affliggidu.
GIORGIO FILIPPI
DI

BITTi

Gi la primavera tornata / come prima allegra e frondosa Gi ritorna ai campi / il verde ameno colore / gi s disciolto il rigore / della neve sui monti / ma il cuore nel suo profondo / notte e giorno senza pace.

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Domenica in Al / Luned in Buddus / Marted in Sindia / Mercoled in Ploaghe / Gioved nella Costera (Mrghine) / Venerd in Nuoro, / Sabato riposato. Domenica in Al / Cuore, sii cos buono / chio sia consolato, / ch troppa la mia pena. Per i nomi dei giorni della settimana: Luni mandaddu a Malti un de Mascuri a dilli a Gioi si da Vennari aa intesu chi Sabadu aa dittu chi Dumeniga era festa.
Dial. Castellanese (da PARENTI: Sassarese e gallurese, Torino-Firenze 1925)

PRO ISPOSOS Duos sun sos coros, duos chi sistiman in Nugro. Mzine fatta tottoro chi no bhat niente pratta; mzine tottoro fatta chi no bhat pratta niente; sispaju ses de sa zente, luna de su mese e maju: de sa zente ses ispaju de su mese maju luna. De sas bellas cconduna, chi ndhan zelu sas istellas, cconduna de sas bellas chi sas istellas ndhan zelu. Juches unu trattu lenu chi tottu su mundu luchet; unu trattu lenu juches chi luchet tottu su mundu. Su pilu doradu brundu no lhat mine pintadu; su pilu brundu doradu no lhat pintadu omine. Oro nette pratta fine, rosa nda in bona matta; oro nettu e fine pratta nda in bona matta rosa. Funtana medichinosa chi su maladiu sanat medichina funtana chi sana su maladu
EGIDIO BELLORINI (Canti, p. 30)

Luned mand Marted da Mercoled perch domandasse a Gioved se da Venerd avesse sentito dire che Sabato aveva detto che Domenica era festa. SOGNO DINNAMORATO In sedda a unu caaddu curridori, sunniatu mi socu lalta sera, cun tecu, rosa mea, a la gruppera, currendi in una piana di fiori. In sella a un cavallo corridore / ho sognato di esser laltra sera, / con te, rosa mia, alla groppa, / in corsa in una pianura fiorita.

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Due sono i cuori, due / che si amano in Nuoro. / Immagine tutta doro / senza alcuna lamina dargento; / / delizia di tutti, / luna del mese di maggio: / Delle belle eccone una (la prima) / di cui sono gelose le stelle, / Il tuo portamento incanta / e a tutta la terra d splendore; / I tuoi capelli doro biondo / non hanno leguale in pittura; / Oro schietto e argento fine, / rosa nata in bel roseto; / Fontana di salute / per tutti glinfermi /

CANZONE DELLIMPOSSIBILE AMORE Corigheddu, coro amadu, su retrattu e onzi die, candhas a leare a mie, su attu filat e tesset; cando su sole dt esser calende peri sa sea; cando innamoradu leas, leachelu a domo tua; cando fiorit sa ua chi fiorit in bennarzu; cando has a bider porcarzu faghinde casu porchinu; cando has bider caminu in su mare de Casteddu; cando has a leare aneddu pro isposare, pro me; cando has a bider su re falende in Monteleone; cando has a bider anzone faeddande italianu; cando su puzone e ranu hat a benner consizeri; cando sa mela piperi in pruna shat a boltare; cando has a bider su mare tottu a giardinos de rosa; cando has a bider a Bosa tottu a nou fraigadu; corigheddu, coro amadu.

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Cuoricino cuore amato, / ritratto dogni giorno (forse: volubile, incostante) / quando mi sposerai / il gatto filer e tesser; / quando il sole sar, / nel calare, nella valle; / quando, fattoti linnamorato / te lo porterai a casa (cosa contraria alle buone e oneste usanze degli antichi) / quando fiorir la vite / (quella) che fiorisce in gennaio / quando vedrai porcaro / fare cacio porcino / quando vedrai una strada sul mare di Cagliari / allora comprerai lanello per sposarti con me; / quando vedrai il re sostare a Monteleone / quando udrai agnello parlare litaliano / quando il forasiepe diventer consigliere (comunale) / quando la mela appiola in prugna si convertir / quando vedrai il mare tutto un giardino di rose; / quando vedrai Bosa tutta fabbricata a nuovo: cuoricino, cuore amato

A CAVALLO DEL TORO Rotolava lento sulla strada asfaltata il carro di campagna. E il boaro al ritmo del cigolio delle ruote che esorcizza gli spiriti maligni (sempre vogliosi di scherzi, come scornare i buoi aggiogati, sfasciare una ruota e simili) e che, tuttavia fatidico, in quanto, se il guidatore celibe, gli porter fortuna nelle nozze cantava: A santu Bacchis ando / a caddu cun su boe: / gi mi chera hoe / comente fia tando. Vado alla festa di San Bacchisio a cavallo del bue: vorrei essere oggi (felice), come allora. Festa di SantIsidoro, sagra dei contadini. Buoi lenti sciolti o aggiogati, con le arance infisse sulla punta delle corna, al collo uno scialle di seta violetta e corruscanti specchietti in fronte. Li cavalcavano i ragazzetti, candidati a contadini. Il santo li precedeva seguito e scortato da cavalli e cavalieri, in una selva di labari e di croci di pervinca. Ma ogni attenzione era rivolta al sacro animale che incedeva solenne come un nume, solo, al posto donore: cavalcato da un adulto molto pallido, senza speroni: era un ergastolano graziato, o qualcosa di simile, certo un miracolato, che scioglieva un voto che lo restituiva alla vita, o alla riabilitazione. Molti e molti anni prima, alcuni millenni prima, un suo antenato nuragico, a cavallo dun toro anche lui, ringraziava la divinit con la stessa cavalcatura.

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Vado alla festa di San Bacchisio / a cavallo del bue: / vorrei essere oggi / come ero allora. Anche in questo caso il boaro, pur esprimendo un suo sincero segreto rimpianto del tempo felice, non si rendeva conto che quellusanza era ormai tramontata: un sardo che uomo, da quando i Cartaginesi hanno importato il cavallo nellisola, preferirebbe fare la strada a piedi per qualsiasi distanza, piuttosto che cavalcare un toro. Salvo non si dia il caso dun voto, duna promessa sacra per grazia ricevuta. Allora anche un barbuto pu imbrancarsi coi ragazzetti, i quali, pur di cavalcare, non vanno per il sottile: cominciano dalle canne e dalle ferule, passano sul dorso degli asinelli e poi su quello dei cavalli, e infine, purch sia festa grande, specialmente per SantIsidoro che era un contadino che si rimboccava le maniche, persino sui buoi. I buoi con le arance infisse sulla punta delle corna, al collo uno scialle di seta violetta e corruscanti specchietti in fronte, coi cavalieri bambini che si voltano a guardare il santo agitando croci di pervinca Se vero che gli antenati, in occasione di certe feste rustiche, lasciano le loro sedi e vi partecipano invisibili, essi si saranno tante volte compiaciuti che almeno i bambini siano rimasti fedeli alle loro usanze, a certe loro usanze almeno, come quella del cavalcare il toro, lanimale che essi un giorno adorarono. La loro divinit sotterranea aveva laspetto di toro. Lelmo di talune statuette di bronzo sovrumane quattro occhi, quattro braccia decorato dampie corna. Anche gli elmi di molte statuette di guerrieri atteggiati a rigidit devota, sono ornati di corna; le ampie corna taurine, segni caratteristici del dio eponimo che chiamavano padre, erano portate da loro nellabito di guerra. Sacro animale, il toro, anche presso i popoli dellEgeo e presso quelli di Babilonia e dellEgitto e dellAsia minore e dei Persiani e degli antichi Indiani: la vittima per eccellenza Che Dio lo protegga e difenda e salvi dalla morte improvvisa e dalla gente senza legge.
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Il boaro che, al ritmo lentissimo del suo carro a buoi, cantava che per la sua bella avrebbe ripetuto le gesta di Paride, e fatto per lei persino il corsaro e addirittura atterrato montagne e rupi, non si faceva prendere sul serio. A parte che chi ha in animo di passare ai fatti difficilmente lo grida, sia pure per le pi solitarie strade di campagna, un carro rustico non pu condurre lontano e con la sua pace finisce col dissuadere dalle pi epiche imprese. Ma tant il boaro cantava: Si fit a modu de ti nde furare comente Paris a sermosa Elna, dia andare corsariu in terra anzena pro una bella a mi fagher ladrone. Tando mi dia antare cun rejone de tenner unElna in manu mia. Bella, pro thaer sempre in cumpagnia, montes e roccas nde dia bettare.
GIAN PIETRO CUBEDDU (1748-1829)

Se potessi rapirti / come Paride la bella Elena / me nandrei corsaro fuori dellisola / a fare il ladrone per una bella: / allora s, mi potrei vantare / di avere unElena nelle mie mani. / Bella, per averti sempre accanto / montagne e rupi le atterrerei A un tratto il boaro, alla vista duna chiesetta di campagna, abbandon limpresa e pass dagli endecasillabi ai settenari. I buoi affrettarono il passo. A Santu Bacchis ando a caddu cun su boe: gi mi cheria hoe comente fia tando
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A cavallo del toro

Cos dice il vecchio contadino; anzi ripete come uno scongiuro le antiche parole rimate degli antichi: Deus, prima de nchelu leare, unu boe a massaju, o chi bi nchelu lessas furare o isarchilare pessabei tue: chest a laccabbare. Mezus, unu raju!
INDEDITO

Dio, prima di toglierglielo / il bue, al contadino, / e di permettere che glielo rubino / o glielo sgarrettino, / pensaci bene tu: sarebbe il colpo di grazia. / Piuttosto, fulminalo!

BARCHETTA CON LA TESTA DI CERVO Dal nuraghe Spiena presso Chiaramonti (Sassari). Lunghezza m 0,255. lesemplare pi elegante della numerosa serie di navicelle di bronzo che i Sardi nuragici, guerrieri e marinai, costumavano offrire in voto alla divinit nei santuari, o depositare anche nelle tombe, come simbolo, forse, della barca dei morti. La struttura semplice e parca. Un ornamento a zig-zag, nella tradizione della tematica coloniale greca e paleoetrusca, segna il prospetto; sulla prua una testa cervina, stilizzatissima, forma insieme spartito decorativo e la presa delloggetto votivo. Il gusto riprende i modi essenziali dello stile di Uta (Cagliari). VII-VI sec. a.C. (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

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LISOLA DEL TORO

Bhat festas chi no sischit proite benin. Ci sono feste che non si sa perch vengano.

Al principio della semina il ragazzo Domenico non si fece ricordare dal suo migliore amico Agostino la promessa di condurlo a visitare il campo chiamato lisola, che aveva ereditato da una zia, poco tempo prima, per testamento. Incamminatisi soli e tranquilli in un pomeriggio senza pioggia n vento, ebbero la sorpresa, prima ancora di essersi lasciati le case alle spalle, di vedersi seguiti da una frotta di bambini poveri del loro vicinato; i quali, non solo non conoscevano lisola, n pi n meno come Agostino, ma neppure un fiume che, per visitarla, era da guadare: il Toro, il fiume di tutti, il grande fiume, dal quale aveva preso nome una furiosa battaglia combattuta e vinta, a prezzo di sangue, dai loro antichissimi. Il primo impeto di Domenico fu di scacciarli; ma subito dopo vinse in lui il piacere di poter mostrare a tanti il dono che gli aveva fatto la fortuna. A un suo sorriso accogliente i bambini si rianimarono e, parlottando, saccodarono a lui e ad Agostino. Poco dopo arrivarono allo sconvolto sentiero che si gettava a valle, e lo imboccarono. Del grande fiume ognuno di essi sapeva che i loro antichissimi lavevano, vincendo, imposto come limite alle genti di Ilani che volevano passarlo per ingordigia di terre. Ora vi scendevano spesso le lavandaie che, al ritorno, facevano un gran parlare di un uomo selvatico, dalle cui insidie riuscivano a salvarsi coi tizzoni accesi tolti di sotto alle caldaie di ranno. Ma anche altri parlavano di quel fiume. Le sue pozze erano, s, il nido delle zanzare; ma davano e le anguille a certi pescatori che, da tempo immemorabile, uscivano sempre dalle medesime famiglie; e le sanguisughe a un parentado molto pi umile. Il sentiero era difficile, molto difficile. Stettero perci tutti muti finch non ebbero toccato fondo. Allora a uno venne in
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mente dintonare un canto che parlava dei giorni dallegria ed elencava tutte le cose pi belle della terra, del mare e del firmamento. Gli altri fecero coro, perdendo via via il senso delle parole e cantandole come le loro note gli uccelli. Domenico e Agostino si dissero a un tratto con unocchiata ironica che erano stanchi di fare i bambini, perci li mandarono avanti e rallentarono il passo. Esaltati dallodore aspro di quelle macchie, i due ragazzi presero a ragionare della tanta selvaggina, cinghiali volpi e pernici, che le popolavano. Cos si ripromisero di farsi cacciatori al pi presto. Poi Domenico con voce da padrone scese ai particolari. Avr un fucile da caccia, diceva allever un cane per le lepri e due per i cinghiali; volendo, ne alleverai tre anche tu: e faremo comunella. Ti va? . Come no? rispose Agostino. E pescheremo le anguille; continu Domenico infine faremo prigioniero lo spaventadonne, e lisola sar finalmente tranquilla; poi, per dargli una lezione, lo attaccheremo allaratro . A questo punto Agostino si dimentic che erano amici e che si erano anche associati: gli sembrava che quei sogni non si sarebbero mai avverati per lui e gi cominciava a invidiare Domenico della sua fortuna e della possibilit di condurre a termine le pi libere imprese. Ma ormai laria odorava forte, e i bambini cominciavano a lasciar cadere il loro canto, distratti dalle schiere di stornelli che li sorvolavano. E poi, uomini, dai margini del sentiero e di dietro i campi, lanciavano loro come sassi versi duccelli palustri: erano zappatori e aratori che lavoravano alla semina. I loro piccoli cani rabbuffati facevano le rane. Mise fine a quella gazzarra il grido dun bracciante giovane: Allisola, allisola . I bambini si vendicarono con una salva di fischi e corsero via. A un richiamo di Domenico si fermarono; poi ripresero a camminare lenti e muti. Nel silenzio che dilag a poco a poco si fece sentire una voce tremula, un bubbolo liquido a fior di terra. Era un piccolo corso dacqua che se ne andava distratto, senza fretta, quasi carezzando la sabbia e lambendo poche pietre allineate da sponda a sponda. I bambini lo passarono in beffa, camminando di pietra in pietra a
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Lisola del toro

passo di gallo. Quando Domenico fu allaltra riva insieme con Agostino, solo allora egli avvert che quello era il gran fiume. S, s proprio lui. Di che si meravigliavano? Ci si poteva aspettare altro da bambini come loro? Colpa dellestate, gli venuto meno il brio spieg Domenico: le ultime piogge sono state scarse, non questo il vero fiume: vederlo e sentirlo come schiuma e mugghia quando lui! Non per niente lhanno chiamato il Toro . Ma i bambini erano troppo delusi di quella biscia e sopra tutto di quel trucco di quattro pietre che nessun miracolo di nuvole o di magia poteva mai trasformare in ponte. Agostino dominava meglio di loro la sua delusione. Continuarono a camminare, lo passarono a un altro guado, quasi a piede asciutto. Ma ormai non avevano pi il tempo di degnare di attenzione il fiume: erano arrivati allisola. Era un piccolo campo. Il fiume gli girava attorno mansueto, silenzioso: lo annusava: lo isolava nella pianura che era desolata: senzalberi, senza voci, senza una casa, senza una capanna. Veniva solo chi sa di dove uno scampanellio di pecore. In mezzo allisola arava un contadino che li salut con cenni di capo senza sospender laratura. Era il padre di Domenico. I buoi erano piccoli, laratro era piccolo, anche laratore sembrava un ragazzo invecchiato troppo presto. Il fiume si era come fermato. Non pass molto tempo che, cominciando la luce a venire meno, scoppi un grido aspro, di uomo e danimale, di pianto e di riso. lui disse il contadino lo spaventadonne. Ha labitudine di annunziarsi cos, verso questora: dice che sente i passi della sera. Ma chiese rivolto ai pi piccini come gli si pu credere? . Nuovo silenzio. La campagna sera popolata di mostri che soffiavano aria tagliente. Forse obbedivano allo spaventadonne insieme con le ombre che presero a franare. Il contadino staccava. Si rimisero in viaggio in silenzio e non si rinfrancarono finch non furono arrivati ai piedi del sentiero, dove incontrarono tanti contadini e zappatori e buoi. La luce moriva. La salita sembrava impossibile. Tuttavia tutti la tentavano. Gli uomini guardavano quella frotta di bambini, guardavano sopra tutto
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il padrone dellisola, il piccolo nuovo padrone e si ricordavano di un tempo antico, quando temevano le ombre della sera e gli spiriti cattivi, ma non temevano ancora di gettare la loro fatica al vento. Lo sforzo della salita impediva di parlare. Tutti, anche i pi piccini, erano impegnati nella resistenza. Il buio era rotto appena dalle stelle fredde e lontane, il mondo forse non cera pi. Andavano muti, curvi, come quei morti che camminano sempre e non arrivano mai.

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RITORNO DI FLORIDA

Est festa ue su Santu si narat Torra-a-domo. festa dove il santo si chiama Ritorna-a-casa.

Ci avevano rubato Florida, una cavalla corridora. Era nevicato. Ne seguimmo le tracce per lungo tratto; al fiume le perdemmo. Ci rivolgemmo ad amici e conoscenti che ci aiutassero nelle ricerche e ci fecero promesse su promesse. Passarono per i mesi: La cavalla diceva il fattore se lera inghiottita il terreno. Non ci pensavamo pi, quando in maggio un amico dellamico dellamico di un amico ci avvis che potevamo andare da questultimo, per la cavalla. Ci si invogliava al viaggio avvertendoci che ci si offriva anche loccasione di goderci una festa che si celebrava in quei giorni, anche con corse di cavalli. Noi non eravamo molto pratici di quei luoghi e non comprendevamo troppo bene le usanze e le consuetudini di quelle genti, nonostante nelle loro vene scorresse sangue della nostra stessa stirpe, e sebbene la distanza che ci separava potesse essere percorsa in un quattro o cinque ore di cavallo. La curiosit di avere notizie ce la fece percorrere in un tempo anche pi breve. Il paese era in festa. Lamico ci aspettava e ci fece accoglienza alla grande. Si vedeva che, a parte laltro motivo della chiamata, era uno che, alla moda nostra, ci aspettava come ospiti; che aveva bisogno del calore della nostra presenza, una grande gioia di dividere dopo tanta solitudine una festa con gente che arriva di lontano. Tale atteggiamento egli mantenne fino allora della processione, quando la casa gli si spopol tutta. Andarono tutti, salvo una vecchia e una ragazza che sentivamo armeggiare in cucina: preparavano il grande pranzo, importante quanto mai, senza il quale la festa non festa.
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Le finestre della casa addobbate di tappeti e di drappi davano sulla strada, che era come un greto sabbioso e arido. Anche le altre case avevano messo in mostra ai davanzali i loro tappeti e i loro drappi. Il passaggio del santo non poteva tardare. Lo dicevano le campane, uno scampanio che sorvolava le case come uno stormo interminabile ed allegro duccelli. Stavamo alla finestra, noi e lamico. Lamico non parlava. Ci mancava il coraggio, sebbene la curiosit di saperlo fosse molto forte, ci mancava il coraggio di chiedergli perch ci tenesse l, come prigionieri, come in castigo. Fra poco, ci disse ad un tratto come rispondendo ai nostri pensieri, fra poco passer la processione, con in testa i cavalli. Quelli di punta correranno il palio. Cavalli coi fiocchi; coi fiocchi anche veri, e le sonagliere. Cavalli ronzini del resto non ne vedrete: troppo giusto: la gente mostra il meglio, alle feste, come sapete. Uno di noi chiese, tanto per dire: Ci sar la nostra cavalla? Questo non lo so. Io ho i miei sospetti. So soltanto di una cavalla che ha la coda mozza. Cavalla ogliastrina, mi sono detto qualche tempo fa. E tante volte lho rivista e qui me la rivedo. Oramai eravamo impazienti dosservare la sfilata: e lamico celiava su quei ragazzi incorreggibili che si procurano crini per lacci da tendere a merli e a tordi, e i padroni ogliastrini per difendersene non trovano altro rimedio che ridurre la coda alle loro bestie. Crine corto poco serve, concluse, crine corto e alludeva alla nostra cavalla scopre il furto . Ma pronunciava cos stretto lo della prima sillaba di corto che la rima con furto era perfetta. Ed ecco un vocio e i primi cavalli. Il vessillifero si pavoneggiava: era il priore. Sarebbe bella, celi lamico sarebbe bella che un priore fosse a cavallo della vostra cavalla. Un priore, almeno finch non scade dalla carica, che della durata dun anno, tiene lontano le mani dalle cose daltri; ma non sempre.
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MIELE

AMARO

Ritorno di Florida

Passavano i cavalli e le cavalle, a due a due, come sposi infiocchettati. Ad un tratto lospite fa un verso; il verso, diceva lui, del muflone quando in vista luomo: un m che poi un mo, diceva. Passava una cavalla, con la coda corta: la riconoscemmo. Solo che lo avessimo voluto, chiamata per nome, Florida avrebbe nitrito. Ma sarebbe stato un mandare tutto a monte. Il cavaliere, che era un giovane forestiero, avrebbe spronato e piantato in asso santo e ogni cosa. Facemmo cenno di s allamico che disse: Va bene; fra tre giorni, a Correboi. Da quel momento lasciammo la finestra e ci mescolammo alla folla. Eravamo tornati festaioli, festaioli soltanto. Lamico ci present ai suoi amici e cos divenimmo anche noi amici dellamico. Ma bevevano e mangiavano dolci continuamente, a dispetto, a gara: e ci minacciavano di toglierci la loro amicizia se non gradivamo il loro vino e i loro dolci. Al santo ci pensassero le donne, dicevano, senza dare troppo peso alle parole. Poca importanza davano anche alla quantit del vino; ma il vino lavorava tanto che si and a banchetto con un mulino nella testa. Il banchetto fu allegro e madornale. Non vorrete farvi un nemico mortale diceva lospite ogni tanto e strizzava locchio, facendo un gesto come un cavallo che scuota la criniera. Sapeva lui e sapevamo bene noi a che cosa alludeva. Al vespro rivedemmo Florida in testa. Vinse il palio e si ebbe un broccato, un tappeto e una somma. Il fantino, che era luomo stesso che la cavalcava alla processione, non stava nella pelle. Ci divertivamo ora a commentare con allusioni, e lamico ci secondava, quella bella vittoria. Ma tra lui e noi cera questa differenza: che noi giustamente eravamo proprio fieri di Florida. Nellaccomiatarci, lospite ci ripet lora ed il luogo dellincontro. A Correboi, a Correboi ci veniva voglia di gridare dallalto dei cavalli, tanto si era brilli ed allegri. La famiglia ci fece una ovazione: Ad altri anni, meglio; con fortuna, e a centanni e noi sul punto di commuoverci troppo lanciammo i cavalli. Ma, in aperta campagna, li mettemmo al passo. Da quel momento il viaggio divenne stanco e muto, e stanco
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e muto dur sino alla fine. Scontammo il troppo cibo ed il troppo vino con una giornata e mezzo di sonno. Ci chiamavano di tanto in tanto come Cristo chiam Lazzaro e finalmente ritornammo dai morti. Avevamo il tempo giusto, misurato, per arrivare a Correboi puntuali. E vi arrivammo con i cavalli trafelati, con un po danticipo sullora. Ziliu invece si fece aspettare. Non sapevamo che pensarne. Facevamo gi brutti pensieri quando lo vedemmo spuntare veloce, a cavallo. Era mortificato, sembrava. La cavalla affannata e schiumante. La chiamammo a nome: ci rispose. Ziliu ormai rinfrancato si mise a raccontare. Laveva presa di notte da un predio del ladro e, messole quel sellino del peso di un chilo e mezzo, laveva inforcata. A met strada incontro nel sentiero buio unombra con due buoi: lo saluto: lui grugnisce: affari tuoi, e crepa, dico. Poco dopo dal buio uno grida: fermati o sparo. Voce di braccio di re, anzi di meno, voce di barracello. Lo devo alla cavalla. Premo appena il ginocchio, la cavalla si volta, si slancia, il barracello spara: due buchi nellaria. Ero fuori tiro. Florida continu a correre nel buio, strada pi lunga, e di qui il ritardo. Lamico venne con noi e giunti alla nostra fattoria vi lasciammo libera Florida. Il mattino Ziliu era gi lontano. Quella stessa mattina il fattore ci svegli gridando che una cavalla che aveva tenturato aveva fatto danno nel vigneto. Lhai riconosciuta? gli chiese uno di noi. una cavalla di fuori; marchio che non conosco. Andiamo a vederla disse laltro. Andammo a vederla. Ma questa Florida grid uno di noi non vedi questo? e gli indic un ciuffettino bianco allo zoccolo. E il pi giovane di tutti che prometteva molto negli studi: Facciamo la prova del Pascoli? disse. E che cos? chiese il fattore tutto incuriosito. Oh bella, chiamarla per nome. Florida! Florida! La cavalla alz la sua bella testa e con un nitrito sommesso diede segno che era contenta di essere tornata a casa sua.
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LULTIMA IMPRESA

In fundu a su fossu / bi podet esser una manu / chi best e non si bidet. In fondo al fosso / vi pu essere una mano / che c e non si vede.

Cominci a piovere; e Massimo Ru, chiamato il Maledetto, si mise in cammino. Era gi la notte, che gli sarebbe occorsa tutta, per poter arrivare, allalba, alla curva di Stradaplana. Qui, a quellora, come ogni mattina, doveva passare il suo migliore amico, Lazzaro Padente, che gli aveva mandato a dire una seconda volta che moriva dal desiderio di rivederlo, e aveva tante e tante cose da riferirgli. Laltra volta Massimo Ru, pochi giorni prima, non era potuto arrivare al luogo fissato, il bosco di Girasole, perch, dopo un diluvio, il ruscello da guadare per arrivarvi si era gonfiato. E benedetto quel ruscello, il Rio Macilento, che dopo tante sue imprese delittuose aveva fatto una buona azione: infatti, indiavolandosi, gli aveva salvato la vita, appena in tempo cos, perch lui sapesse che al di l lo aspettava non Lazzaro Padente, ma Giuda Padente. Potere maledetto del danaro pensava, ora, nella notte. Pu spezzare persino lamicizia pi sicura, pi provata, pi antica. Quanduno finisce come finisce: una fiera con la testa doro e mezzo milione di taglia ma, insomma, lamicizia, non s sempre saputo che non c oro che la compri? troppo giusto che il Giuda paghi. Unimmondezza duomo come quello disonora tutta la terra. Come ha tradito me, potrebbe tradire anche suo padre; anche la stava per dire: la Patria ; parola imparata a scuola: questa cosa che la Patria: la terra dove si nasce a caso e dove, messe una volta le radici, quanto pi uno se ne va lontano e pi se la sente vicino, senza poterne
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prendere una manciata e portarsela alla bocca. La Patria. E che ne aveva fatto lui, della Patria, ora che era acceso il fuoco della guerra, una guerra che non rispettava pi nulla? E quando era scoppiata, lui era gi condannato e gli restava ancora da saldare tutti i conti con i suoi nemici. Prima del nemico, per lui cerano i nemici. E, quandanche allora avesse voluto cambiare strada, non era pi in tempo: persino la guerra lavrebbe rifiutato, un uomo come lui che ormai la legge aveva condannato a trentanni, sia pure per le testimonianze false di quelli che, prima e durante la guerra che continuava, avevano ricevuto dalle sue mani la paga che si meritavano. Saldato tutto, insomma, finalmente. E ora aveva la testa doro. E Giuda Padente glie la voleva tagliare. Andava dunque a ringraziarlo alla svolta di Stradaplana dello scherzo che gli voleva fare. Dopo, del mondo, non glie ne sarebbe importato pi. Sarebbe andato da qualche povero padre di famiglia carico di figli e di miseria e gli avrebbe detto: La fortuna non ti ha mai assistito, lo dici tu: eccomi qui, prenditi la mia testa e riscuoti la taglia. Dopo tante cattive azioni, io come il Rio Macilento, almeno questa una buona azione, dal momento che, anche lo volessi, non mi si accetterebbe alla guerra per farla finita l . La guerra. E si meravigli di essere gi nella landa, nella terra di Basilio Cadalai, un contadino, suo lontano parente, che era morto in battaglia alcuni giorni prima e aveva lasciato la sua giovane sposa incinta. Come per farsi un buon augurio, anche per rispettare le leggi dei padri, non respinse unidea improvvisa: quella di andare, quella notte, prima dellimpresa, a porgere alla giovane sposa le condoglianze, e insieme gli auguri per il felice arrivo della creatura. Calcol rapidamente le distanze. Era una diversione che non gli avrebbe impedito di arrivare allora giusta a Stradaplana. E col cuore in una malinconica festa affrett il passo; e cammina cammina, fu colto ad un tratto da una grande meraviglia: la casa della sposa incinta era illuminata; e quella casa isolata nella campagna con quel lume dentro lo fece pensare a sua madre che gli raccontava spesso, da bambino, la storia dellorco maggiore.
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AMARO

Lultima impresa

Quel lume dinfanzia gli si spense subito: restava acceso quello della casa dove doveva nascere, o era gi nato forse, il figlio di Basilio Cadalai, morto in battaglia. Questo era importante, molto importante. E Massimo Ru, che ormai si sentiva destinato a passare sulla terra senza lasciare un figlio, si sent quasi confortato che un altro, un suo lontano parente, fosse tanto sventurato e insieme tanto fortunato; pi fortunato, certo, di lui: di lasciare un figlio al mondo, e al figlio un nome onorato. Pi fortunato, certo di lui che, ora, sotto la pioggia andava col cuore pieno dodio e damore, come un pazzo che non si sa quello che vuole, n quello che ama, n quello che odia. Camminava in tumulto in direzione di quel lume: e saccorse che quel lume lo chiamava e gli diceva, come poteva, in confuso, che tutto non era perduto, neppure per lui che era maledetto. Si trov con questo cuore alla porta di quella casa e si fece sentire. Una voce di vecchia, la zia Caterina, gli chiese che volesse. Ah, disse lei aprendogli. Siete sole? chiese Massimo. Sole rispose la vecchia madre di Basilio Cadalai cio, si corresse c anche gente nuova . E pareva celiasse. Massimo Ru comprese, si scopr e disse a voce alta: Salute alla puerpera ed al bambino. Ma la vecchia gli fece cenno di tacere. Era prostrata, la puerpera; diceva la vecchia: era il primo figlio; era arrivato un po prima del tempo, ma era venuto bene. Si avesse almeno una scodella di brodo, per lei; sospir. Il neonato si lament, e la nonna si diresse verso di lui. Ma si volt subito perch sent che luomo se ne andava senza dire nulla. La pioggia si era interrotta. Il passo delluomo affond nel silenzio di fuori. Allora la vecchia and alluscio e lo chiuse a chiave, piangendo in cuor suo la sorte di quelluomo segnato dalla morte e dallignominia, tanto che le sembrava quasi sopportabile persino lo strazio per la morte di suo figlio. Come mescolato tutto, dolore, gioia, nascita,
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morte. Perch cos, Dio mio? disse. E si mise ad aspettare, che cosa? Lalba, forse? Il ritorno di suo figlio? Che ne sapeva lei, una vecchia come lei? Ricominciava a piovere. Riattizz il fuoco: e allora il vento flebilmente cominci a cantare, dietro la porta, dolce come uno scacciapensieri. E almanaccando: Venisse qualcuno la pioggia , la zia Caterina si assop e rest a lungo assopita. A un tratto sent picchiare e gridare: Allegria; non piove pi, sono il diavolo, aprite. Era Massimo Ru. Sembrava un altro. Un grosso ragazzo tutto bagnato, con un agnello sulle spalle. Ecco, per il brodo; regalo di Santino Mrino, viva lui e pi ancora il bambino. Era allegro, e gi fumava al calore del fuoco, e quasi spariva in una nuvola. Poi ad un tratto si riscosse. Ho fretta, zia Caterina. Devo andare. Ma prima; posso vederlo, s, il bambino? La vecchia lo guard, poi sorrise, and fino al letto e torn con una canestra. Il neonato vi dormiva. Massimo lo guard, non os toccarlo; disse come in celia: Quanto vi somiglia, nonna mia e quasi fugg. Pass un po di tempo. Scoppi una fucilata. Un cane abbai e subito tacque. La vecchia si fece il segno della croce e disse alla puerpera, che si era lamentata, che non era nulla. Infatti, ascoltando, la vecchia si convinse che non era proprio nulla. Silenzio, e basta. Invece Massimo Ru era caduto l presso. Sentendosi morire, cerc un sasso nel buio, lo trov, vi appoggi la testa per morire da uomo, si fece il segno della Croce e in un attimo fece tante cose: pens a Stradaplana come ad una cosa inutile; perdon al pastore che gli aveva dato lagnello e poi lo aveva atteso al varco e gli augur persino che gli facesse buon pr la taglia; infine, si sent la voglia di cantare perch era ritornato ragazzo, e sapeva dincontrare allalba in un luogo, del quale non ricordava pi il nome, Basilio Cadalai che aspettava da lui notizie della sua sposa e del suo bambino.
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LA VERGINE SILVESTRA

Un amore, sest amore, fachet luche che sole. Un amore, un vero amore, fa luce quanto il sole.

CHIESETTA MEDIOEVALE DI S. PIETRO Eretta nel 1291, sotto il regno di Mariano II dArborea, da maestro Anselmo da Como, con strutture romanico-lombarde gi tendenti al gotico. Labside poligonale fu rinnovata in forme gotiche nella prima met del sec. XIV. Nella creazione del lago Omodeo, la chiesetta fu ricostruita (1922-23) nella forma e coi materiali originali, nel villaggio nuovo di Zuri, essendo il vecchio andato sommerso (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

Quella vita che essi conducevano gi da molto tempo aveva dato loccasione ad un cantore di comporre una canzone che aveva questo ritornello: Le strade sono tristi perch mancano i giganti. Vita da disperati in presenza della morte. Fu perci giorno di festa per essi quello in cui arriv alla loro caverna Silvestra la quale disse: Sono venuta per restare. La giovinetta era gracile ma ardita. Dopo mesi e mesi di batticuore e di titubanze quellestate non aveva pi saputo resistere a stare lontana dal pi giovane, il pi bello di essi, che era il suo fidanzato. Ora che era fuggita di casa, aveva ritrovato la sua pace: solo gliela turbava di tanto in tanto il pensiero dei genitori e dei piccoli fratelli. Il fidanzato le leggeva negli occhi, meglio e pi spesso degli altri, quelle ombre: e avrebbe voluto, in quei momenti, rimandarla al piano. Ma era certo di sentirsi ripetere, come altre volte, che la scelta laveva fatta per sempre. Quindi la difendeva dalla nostalgia facendole guardare con lo Zeiss i luoghi, la valle, i villaggi sparsi, le loro case col comignolo che fumava. A quel crudele svago prendevano parte anche gli altri: e in quei momenti maledicevano in silenzio il demonio che li aveva spinti a tanti delitti per un limite, per un mazzo di giunchi secchi, perch n i nemici n gli amici potessero ridere di loro come di chi non sa farsi rispettare. Non li confortava il vento quando faceva arrivare fin lass fioche vibrazioni di campane, anzi riaccendeva il fuoco sotto la cenere, e insieme ricordi strazianti delle case perdute, e tentazioni di una sparatoria contro, ora che anche Silvestra era stata travolta senza colpa, contro il nemico nero come la notte di tempesta, invisibile come il cuculo che mette il
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MIELE

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La vergine Silvestra

suo uovo nel nido altrui: il destino. Ma il destino diceva Silvestra anchesso nelle mani di Dio, che sono buone. Ma essi erano arrivati a odiare tanto se stessi da non ritenersi degni di perdono mai pi. Quando su per i fianchi del monte rinvenivano viveri, solo in quei momenti riacquistavano qualche speranza, perch non si sentivano soli sulla terra. Cera dunque ancora qualcuno che pensava a loro da cristiano. E non erano soltanto parenti, non erano soltanto amici: erano persone conosciute appena di vista ma che dicevano: Di quellacqua nessuno dica: non ne berr, dolore, errore e morte non dimenticano nessuno, insomma. I visitatori che arrivavano pericolosamente fin lass, attraverso sentieri impervi e nascosti, erano rari. Silvestra accudiva alla cucina, al bucato, ai rammendi e pregava perch i giganti, in mezzo ai quali ormai doveva continuare a vivere e voleva morire, facessero una buona morte. Poi cominciarono a emigrare gli uccelli, e con essi i loro pensieri, in balia del vento lamentoso e verso brontolii lontani di tuono. In una di quelle notti arriv la madre di Silvestra travestita da uomo. Silvestra, tutti siamo contenti di te le disse in loro presenza tuo padre, io, tutti; ma lestate se ne andata, e c tornata in mente quella tua pleurite che potrebbe risvegliarsi . La figlia la interruppe dicendo: La morte non si dimentica di nessuno . La madre prov ad insistere, ma la trov come la fronda che cede al vento, lo lascia passare e ritorna come prima. Allora la donna la raccomand agli uomini ed in particolare al suo fidanzato, e li avvert che le squadriglie erano sempre pi numerose. Cos li lasci, col presentimento di non rivedere pi sua figlia. La rivide invece poco tempo dopo nel cuore dellautunno: fredda, con gli occhi chiusi. Gli uomini glielavevano riportata cos, a casa, nella notte. La madre non diede in smanie, la vest da sposa, sempre in silenzio. Solo quando la vide distesa con i piedi verso il limitare e con le chiavi in mano, le chiavi di casa dove i due sposi avevano sognato di fare il nido, sollev le braccia e prese a maledire i giganti
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come se gliela avessero uccisa loro. E gli uomini spaventati fuggirono verso il monte, trascinandosi dietro il fidanzato che era come cascato dalla luna. Ora salivano per quel sentiero, e non si guardavano attorno, e non pensavano a niente, quando sentirono dalla valle che si rischiarava una campana dire, gridare, piangere: Silvestra morta, morta Silvestra; e non si fermarono, e non si guardarono attorno, e camminavano in gruppo come cacciatori, e caddero insieme in una nuvola di fuoco. La madre continu in quei giorni a maledirli e non savvedeva del focolare che era spento, dei figli che la guardavano sempre pi stralunati. Ma una mattina parve risentirsi: amiche, nelle vesti da visita, le dicevano tra riso e pianto che i giganti erano morti senza combattere, senza difendersi, per rispettare la memoria di Silvestra: di lei che, come dicevano i periti settori, era morta sul suo stelo, come un fiore non colto. Tutto dunque ritornava come una volta. Allora la madre riaccese il fuoco e fu la prima a piangere per tutti quei morti.

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LA MADRE DELLUCCISO

Prima e tottu samore e poi su restu. Prima di tutto lamore, e poi laltro.

La donna che traversava a cavallo la sughereta sera dovuta dare un cuore duomo, da quando, ancora molto giovane, le era morto il marito. Aveva dovuto fare da madre e da padre al suo figlio unico. E ora se ne lodava. Fare da padre a un ragazzo, non facile a una donna, se essa non sia nata di cuore forte. Tanto pi quando si nasce e si vive in luoghi come erano i loro, contrada aspra e selvaggia, dove la forza della legge era quasi come un mito. Era infatti quasi tutta negli stemmi e nelle divise. Ma la vera giustizia, non quella che lenta nelle sentenze e cauta, troppo cauta, se difettino le prove, la vera giustizia, se un uomo valente, egli se la fa da s. Chi fa da s fa per tre. Ed giustizia pi economica: senza carta bollata, senza avvocati. La donna concludeva una tappa fra le pi importanti del suo viaggio, delle sue responsabilit materne e paterne: dava moglie a suo figlio, che si chiamava Valente. Tale di nome, tale di fatti. Delfina era figlia unica e orfana di madre. Delfina e Valente (orfano con orfana, matrimonio senza terzi incomodi di fratelli e sorelle). Due case: quella di lei a monte, quella di lui al piano: due armenti della stessa razza, di buona bocca. Un capolavoro di matrimonio. Era merito suo. Uguali con uguali, e pari in giovinezza, in salute, in onore, in sangue; e anche in beni. Perch, se i beni manchino, la pace pu volarsene dal nido. Questi e altri simili erano i pensieri della vedova, madre, padre, pronuba. Il cavallo assecondava col suo passo placido i pensieri calmi e compiaciuti della cavalcatrice; solo si concedeva qualche momento di svago per cogliere di tratto in tratto qualche erba fresca dal ciglio del sentiero, o strappare qualche foglia
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di rampicante dai tronchi. Il sentiero saliva teso come una fune. In cima al sentiero, i pensieri della donna furono interrotti da un muggito di toro, anzi spaventati. Era il vento. Un vento scatenato, mostruoso. La donna si ricompose e sorrise. Le erano tornati alla mente i versi di una canzone che si cantava nella pianura alludendo a quel villaggio quasi campato in aria: Il paese del vento sulla cima / con dietro il bosco e con davanti il mare: / la gente condannatavi a restare / per non morire vive di rapina. Ma in qualche modo bisogna far parlare di s, in qualche abilit essere i primi commentava con interna ilarit la donna. Eccellere sia pure nella melensaggine, ma eccellere. Non darla vinta a nessuno nelle burlette, negli alibi, nel tessere, in quello che vuoi, ma non essere cane da cenere. Il cavallo faceva ora fatica a resistere alle forti folate e alcune volte sprigion scintille dagli zoccoli posteriori, come un mezzo demonio. Il padre di Delfina la aiut a scendere da cavallo, e Delfina si lasci abbracciare dalla visitatrice, anzi dalla sua nuova madre. La visita non era inattesa. Le trattative erano state gi avviate da un paraninfo del luogo e ora la donna arrivava soltanto per dare la sua parola donore in nome del figlio. Poco dopo la breve cerimonia arriv un ricco pastore che si scus di non potersi fermare che per qualche momento: il tempo di salutarli, diceva: era diretto ai pascoli del Sud dove aveva il suo bestiame minacciato, a quanto gli era stato mandato a dire, da una epidemia. un male, a quanto dicono, spieg, che cammina come un incendio, e dove passa brucia tutto. Per fortuna nostra almeno, molto distante da queste parti. Dopo la partenza dellospite frettoloso, fecero di tutto per non pensare a quel pericolo. Ma quel pensiero molesto era entrato nella casa felice e ronzava loro attorno. Neppure le visite dei parenti che venivano a congratularsi, riuscivano a distrarli del tutto. La donna, sopra tutto lei, non riusciva a escludere che quella coincidenza fosse di cattivo augurio, tanto pi che luomo, il padre di Delfina, passava per uno
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esageratamente calcolatore. Il male era poi pi vicino alle case della pianura che a quelle del monte, e poi essa considerava una fortuna per il villaggio, dove ora si trovava, quel vento che passava sui tetti e per le strade portandosi via ogni granello di polvere, ogni cattivo odore, per rovesciarli chi sa dove, per contaminare chi sa quale lontana contrada. Come era stato stabilito, lo sposo arriv qualche giorno dopo con i doni doro e fu sottoposto dal suocero a un vero e proprio interrogatorio sulle cose della campagna. Luomo mostr visibilmente di non essersi ingannato sul conto del giovane. Valente era quello che ci voleva per sua figlia: uno che sapeva il fatto suo e anche farsi ragione da s. Si parl pure di quella epidemia; ma il giovane era tanto allegro e contento che ci scherzava sopra come di voci esagerate. Alla fidanzata diceva tra il faceto e il serio che, anzitutto, dalle loro parti cera una fattucchiera che poteva fermare ogni cosa, e poi: Ci siamo noi col fucile e con la cartuccera, e con noi Santo Antine, che era un grande guerriero . E cos quel giorno vollero fissare la data del matrimonio, e le feste alle quali sarebbero andati insieme da sposi a cavallo, oltre che a quella del santo guerriero. Alcuni mesi dopo il padre di Delfina traversava a cavallo il sentiero della sughereta, diretto a valle; quello stesso che alcuni mesi prima aveva salito la madre di Valente. Scendeva al piano il sentiero ripido e sassoso e si tormentava di non potere lanciare il cavallo alla corsa. Il viaggio lento lo metteva di fronte a tutte le sue responsabilit e glimponeva il ritmo dei pensieri. Pensieri lenti, da peccatore pentito, da uomo che si arrendeva alle circostanze. S, lo riconosceva: aveva mancato di parola per interesse, era venuto meno a una legge dei padri: ed era arrivato il castigo. Nulla si fa, uomo, si diceva, che non si sconti spesso in questa vita, e quelle volte che non lo sconti tu, lo scontano i figli; e sempre nellaltra . Se Delfina era agli estremi, se sua figlia si consumava come una candela, la colpa era sua; di lui che sera lasciato convincere dal demonio: che per il bene di lei era necessario rimandare in pace il giovane. Se il giovane
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LA MADRE DELLUCCISO Altezza m 0,102. Proviene da Urzulei (Nuoro) da localit sa domo e sorcu (la casa dellorco). Rappresenta il voto di una madre col figlio adulto in grembo, ucciso, che richiama il tipo iconografico della Piet. tra le figurine pi indicative dello stile di Uta (Cagliari) o cubistico. Si apprezza bene la cifra plastica costruttiva del bronzetto, il valore specifico volumetrico. La testa conclusa in un cilindro ed esprime volume ancor pi solido, posta, com, sulla piattezza quasi filiforme delle spalle. Si coglie una asciuttezza essenziale e una decantazione di elementi ornamentali che hanno il senso segreto della Madre mediterranea. Poche notazioni grafiche si incidono, linearissime, sui capelli, sulle sopracciglia o scavano rigidamente gli occhi, le mani, le estremit inferiori geometriche. Lausterit regale della matriarca traspare dallimperturbata fissit e rigidit psicologica assolutamente coerenti alla resa formale. limmagine plastica della mesta solitudine sarda. VII-VI sec. a.C. (testo inedito dellarcheologo Giovanni Lilliu dellUniversit di Cagliari).

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La madre dellucciso

era scaduto da padrone darmento a servo, il mutamento era arrivato dalla fortuna. E poi, perch non riconoscere che la madre di lui aveva avuto ragione di dire: Uomo, tu sei padrone di fare quello che vuoi, di fare il tuo interesse, non il tuo onore; ma come capitato a lui, poteva capitare a voi, e noi non ci saremmo tirati indietro. E poi, mio figlio sapr risollevarsi dalla polvere, questo te lo dico io: non un cane da cenere. E, infine, se ti pare che valga la pena di tenerne conto, tua figlia continua a volergli bene . Ma aveva vinto il demonio in lui. E ora, ecco il castigo. Ma non era in viaggio per umiliarsi e per riparare? Dunque. E se il rimedio ormai doveva arrivare troppo tardi? Se sua figlia moriva nel frattempo? Ma laveva lasciata con la promessa di riportarglielo, e questo lo faceva, ora, quasi cantare. Anche perch il peggio del sentiero era percorso, e poteva sollecitare il cavallo. Mancava poco al piano e appena vi sbocc, appena tocc il fondo della valle, spron. La corsa gli faceva bene, lo confortava, lo ringiovaniva, gli faceva vento, gli faceva speranza. Corri e corri, ecco il villaggio, ecco la casa. Smonta, picchia. Ah, sei tu? disse la donna che si present con uno scialle nero sulla testa e aveva la voce fredda, distante. Luomo non rispose. Smont, leg il cavallo a un anello infisso nel muro del cortile, entr preceduto dalla donna. Dov tuo figlio? chiese stando in piedi. Che te nimporta? Mio figlio sta bene dov, disse la donna, lascialo in pace. Ascolta. Vi ho offeso. Delfina muore. Dimmelo almeno per lei che non ne ha colpa. Dimmelo subito. il solo rimedio: la sua voce, basta la sua voce a sollevarla, a salvarla. La donna si abbass lo scialle sugli occhi e cominci a piangere; e diceva tra i singulti: Mi dici che sta per morire. Mi dici cos. Povera Delfina. E adesso, chi la ferma, la Morte? Come dici? Dov? Di l disse la donna: e fece un gesto che diceva una distanza immensa. Luomo non volle comprendere.
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Dove, dove? grid. Ascoltami, uomo. Io non ti accuso n ti giudico. Per questo c Dio. Sei un uomo, hai sbagliato. Sei un uomo, non un santo; soggetto come ognuno a sbagliare. E poi, c il Destino che ci prende come fa il vento con la polvere. Lui se ne andato. Se ne andato per unimpresa, dalla quale voleva ritornare ricco. Lha fatto senza dirmi nulla. Figlio mio, che hai fatto? Nellimpresa lhanno ferito a morte; lhanno seppellito senza farmelo vedere. Per la fretta di non lasciar indizi: i suoi compagni. Lhanno seppellito e ora? Va, non perder tempo, io ti ho perdonato. Va, corri, va da Delfina, e io non so che sar. Ma se deve proprio morire, lasciala morire, lasciala partire, la sua fortuna: si ritroveranno, corri a dirglielo, che possa almeno morire contenta. Luomo non disse neppure addio, corse alluscio, inforc il cavallo, spron. La donna arriv alla soglia e fece appena in tempo a vederlo scomparire.

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RAIS E DEMONI

Biadu su Carlofortinu chi li passat su tunnu affacca. Beato il Carlofortino che gli passa il tonno vicino.

Maggio e giugno, pesca del tonno: pesce misterioso: vago argenteo color dellocchio tondo liride adorna.52 Dopo tanto battagliare, si tornati, sembra, al vecchio, agli antichi Aristotele e Plinio, che li facevano arrivare dalla palude Maeotis (mare dAzov); donde, per il Bosforo cimmerico, entrerebbero nel Mar Nero e di qui nel Mediterraneo. Chi li dice naviganti in cubiche schiere; chi, questo, dice leggenda. Bisanzio, Spagna e Italia li onorarono di medaglie. E luomo di Carloforte in tutto il mese di aprile di ogni anno non fa che pensare allisola: grande parallelepipedo rettangolare, un po pi largo verso il mezzo: alcune trasversali camere successive con le pareti di rete sommerse la compongono. Sette camere, delle quali, lultima, quella della morte. I morituri viaggiano alla profondit di trenta metri. Il rais, capo della fiera compagnia dei diavoli con luncino, li spia arrivare e a lui sta il dare lordine di mattarli, come al capocaccia il segno di sguinzagliare i cani. La ciurma, di sette, dieci decine, pronta. Ora il rais si colloca con la sua barchetta in piedi, in mezzo alla camera della morte, si scopre, intona quattro Pater (a San Pietro, a San Giorgio, a SantAntonio, a San Gaetano). Che sia lontano il pesce cattivo: lo squalo e il pescespada che metterebbero scompiglio e sfonderebbero la rete. Poi si molli, in nome di Dio. La porta della camera della morte aperta: i condannati, inconsapevoli, accettano linvito. La ciurma ha i nervi tesi in un silenzio sacro: ora sui tre lati liberi
52. Dal poema I tonni di Raimondo Valle, Stamperia Reale, 1800, pp. XII94 (dedicato a S.A.R. Carlo Felice, Vicer di Sardegna).

della camera della morte: comincia a tirare le corde: il fondo della rete sale: ecco le prime code a mezzaluna, i primi dorsi con la corazza azzurra, i primi fianchi grigi, i primi ventri dargento bianco: i corpi, obesi siluri. E la follia, la loro paura per lacqua che viene mancando. E le pertiche uncinate (gli scrocchi) li feriscono, li agganciano, li traggono, li issano, li gettano negli stellati (scompartimenti delle barche). E il mare colorato in rosso: il mare sangue. E i gridi e i ringhi e le imprecazioni e i gesti sono di demonii che uccidono per vivere.

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IL GREGGE RISUSCITATO

Et dederunt ei unusquisque ovem unam (Bibbia)

TOMBA ROMANA DI SANTANTIOCO NELLISOLA OMONIMA Il pi antico documento su S. Antioco liscrizione ritrovata sulla sua tomba, nelle catacombe annesse alla sua chiesa chera lantica cattedrale della diocesi sulcitana. Ora murata nella cattedrale dIglesias e dice: Aula micat ubi corpus beati sancti Anthioci quiebit in gloria (Mommsen in Corpus Inscr. Lat., X, 7533 e Motzo, La donazione dellisola sulcitana a S. Antioco, in Archivio Storico Sardo, XIII, 1921, p. 88, nota). Dalliscrizione, certamente autentica, forse dei secoli VII-VIII si ricava che S. Antioco fu semplicemente vescovo (pontifex Christi) della diocesi sulcitana e venerato come santo (beatus sanctus Anthiocus), non martire. Questa nota ricavata da Studi [cagliaritani] di Storia e Filologia, vol. I; B. R. Motzo, 6, La Passione di S. Antioco, Cagliari 1927, p. 98.

Una volta Simone Cottassole, che aveva cento pecore e le amministrava con i suoi due ragazzi, le perdette di malattia, tutte in una volta. Poich non si sentiva in colpa di quella disgrazia, e, quandanche, non erano innocenti i suoi figli?, da prima se la prese col destino: poi cominci a mormorare contro Dio che, se padrone di tutto, pu comandare anche al destino. Ed aveva la mente tanto confusa che a un tratto sal sul poggio e si mise a cantare piangendo la sorte dei figli, e che non ci faceva pi nulla su questa terra, e diceva anche frasi sconnesse e le mescolava anche a propositi di seppellirsi nelle miniere per non vedere pi n sole n luna. I figli ascoltavano spaventati quel cantare che li faceva pensare a uno che portato via dal fiume o a uno che chiama i morti per volerli risuscitare: e piangevano in disparte pi per il loro padre che per il gregge che non cera pi. Perch per questo nella loro innocenza aspettavano un portento, un miracolo, larrivo dun santo. E non pass molto tempo che apparve un pastore con unagnella viva sulle spalle e gliela diede senza parlare. E vennero in processione altri e altri pastori: e chi dava una pecora e chi unagnella.

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LA PICCOLA STORIA DI VINCENZO ABELTINO

Andat su e Gaddura / dae levante a ponente. Va quello di Gallura / da levante a ponente.

Ora che si sono fatti rari come i fenicotteri53 che camminano sui trampoli e hanno le gonne rosa e mettono in gran festa i monelli di Cagliari, il caso di raccontare la piccola storia di Vincenzo Abeltino che era da principio un uccello migratore. Veniva chi diceva dal Limbara e chi diceva da Caprera: sicch i ragazzi gli rivolgevano principalmente due domande: se fosse vero che quel monte era fatto tutto lanno di zucchero; se nellisola, nelle notti di luna, uscisse ancora Garibaldi sul suo cavallo bianco cantando invece del suo inno la canzone che era solito cantare, tenendo sulle ginocchia i suoi bambini, a ritmo di duru duru: Tramontana, non venire: / ho venduto il mio cappotto, / lho venduto per tre lire: / tramontana non venire. Vincenzo Abeltino era molto diplomatico e, per ingraziarsi la gente, era cortesissimo anche con quei bambini che saccontentavano del suo s, che erano corridori dasinelli e che le nonne chiamavano ora cavallini ora disperazione. Poi Abeltino riprendeva a gridare con allegria: Tela, cotone e berrette. Non si stancava di andare, e tutta lisola conosceva la sua voce che era di granito. E cos per molti e molti anni con salute, pazienza e cortesia. Finch lo si vide dietro un banco con metro e bilancia e distribuiva cotonine stampate, tela, sapone, petrolio, caff, zucchero e candele e ogni altra cosa: a credito o a contanti; e gratis sorrisi e barzellette a tutti e complimenti alle pi belle senzoffendere le pi brutte. La gente un po sospettosa e invidiosa non lo voleva come uccello di stanza. Gente di fuori, diceva: Limbara, gente
53. Vedi p. 49, nota 9.

avara; Caprera, avara di giorno e peggio di sera. Ma lui faceva orecchi di mercante e insisteva con i suoi complimenti e le sue moine. Impallidiva nellombra intanto, e allo stesso tempo il suo denaro lievitava. Dopo alcuni anni di resistenza, spar senza chieder permesso, lasciando tutto sotto chiave. Duravano ancora le congetture una pi assurda dellaltra e riapparve con un gran cappello nero e abito dello stesso colore come gli fosse morto un parente: e invece aveva al fianco una sposa sana e vispa, che discendeva da una dinastia di mercanti. Da quello stesso momento la gente disse: Bravo il forestiero. Ora nostro, uno di noi per i figli che gli nasceranno in questo luogo ed entreranno nei nostri registri . Gli sposi distribuirono i confetti e perdonarono qualche debito ai pi poveri tra i poveri. Tuttavia la gente, per il fatto che a lei toccava pioggia e vento e sole, e spesso per un pugno di mosche, sfogava il suo malumore sopra il Governo e sopra di lui. Del Governo diceva che era il male mangiatore (cancro); di Abeltino, che ammucchiava denaro, al riparo dallumidit e dalle correnti e sfido che avesse il tempo di ridere, e di scherzare, come il folletto burlone sullalbero. Eppure vero che anche ad aver santi in corte, la fortuna che ti ha tenuto a battesimo la stessa che ti scoperchia la casa. Essa quella volta entr in casa al mercante festoso, senza invito, senza che se lo meritasse. Nessuno sulle prime ci credeva; sostenevano sulla certezza della morte che la sua era una simulazione, una barzelletta addirittura e nel tempo rimase un mistero. Solo dopo anni e anni, quando venne un giovane mercante vestito di nero e gli port via la figlia vestita da sposa, si seppe che molti di quei forestieri vestiti di nero, che erano venuti per fare corteo, gli si erano stretti attorno e lo avevano sollevato per lonore dei loro monti, e perch il miglior modo di vincere la fortuna per gli uomini che sono uomini cos diceva la gente quella di prendersi per mano e formare una catena come al ballo tondo. La vita non una danza? dicevano anche: e facevano il nome di Simone Cottassole, e di qualche altro pastore, come di persone del tempo di Giobbe.
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PER DIVENTARE POETA

Cuccu bellu chi cantas / demi donu e cantare. Cuculo bello che canti / dammi il dono del canto.

Quando la primavera manda ad annunziarla il cuculo, e lui si siede sopra un albero e si mette a suonare il suo flauto, e ogni cuore dice: Ci siamo, ci siamo , quella lora che le fanciulle si affrettano a lodargli i piedi, a lodargli le mani, a vezzeggiarlo, ad adularlo in tutti i modi, a dirgli: Cucolo mio, cucolo mio . E tutto questo perch lui, che vanitoso, si degni di far loro lindovino sospirando tanti cu-c, quanti anni mancano allarrivo del loro sposo valente. Senza dire che le pi incontentabili pretendono di sapere da lui persino se laspettato sar rosso o nero e anche se sar giovanetto. Qualche volta, che di malumore o stanco daver dato consulto a tante e tante innamorate, a una di esse lindovino non risponde: segno infausto: e lei se ne dispera, ma non si rassegna: corre da questa e da quella parte e non si d pace finch non ha trovato quello che la levi di pena. Altra volta, invece, lui tanto di buonumore che si precipita per burla a fare cu-c a cascatella, venti, trenta volte e anche pi: e lei si dispera, perch il dover aspettare il paraninfo vestito a festa e cerimonioso, per venti, trentanni e forse pi, una morte peggiore della morte vera, della quale almeno non si sa n il come n il quando. Ma luccello indovino caro ai giovani e agli anziani e anche ai vecchi come pu essere il vino, anzi di questo pi miracoloso, poich dispensa un dono che non c oro che lo compri. Sentitelo ora che canta. Non c che lui nella campagna, esso il cuore del bosco: ogni altro canterino in ascolto, tanto il miele del suo sospirare, tanto rispetto la primavera vuole gli si porti come a suo ambasciatore. Sentitelo, tutta
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la valle ne piena. Se ti accosti e fai rumore, lui tace un poco, come fa il grillo e poi lo senti che canta dallalbero dove emigrato. Sospettoso, geloso della sua arte, non vuole gente vicina. Cenerognolo, come certi maghi che spariscono in una nuvoletta di fumo. Non ti stancare, tenta e ritenta con cautela, con cautela sempre maggiore e chi sa che, dopo tanto e poi tanto, una volta non ti riesca (ma quanto difficile cosa) daccostarti allalbero dove lui canta, e di girargli attorno (impresa sempre pi difficile) tre volte, mentre lui, non essendosene accorto resta l e continua a cantare a distesa: oh, quel giorno, indimenticabile giorno per te e per quanti verranno sino alla fine dei secoli, sarai finalmente poeta: poeta che anche con un solo verso potrai far nascere tempesta e arcobaleno, e consolare i vivi e risuscitare i morti.

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CANTI DEL CUCULO

Cuccu perfettu in cantare de males mios tabbiza: cuccu bellu profetiza cun chie mhapo a cojare. Cuccu di beddi pedi, Cuccu di beddi mani, cantanni haggiu a ist a cujuani? Cuccu di beddi mani, chi vidi li me peni dimmi tu, si mi oi beni, si maggiu a cujani. Cuccu di beddi pedi si a li me lagni credi dimmi si russu o nieddu lu sposu meu ciuaneddu. Cuccu meu, cuccu meu, dimmi tu si la sai, di spos lora suai chi mha signatu Deu. Cuccu bellu e cantare, cantos annos a mi cojuare? Cuccu, faularzu ses ancu taran mortu, nadu mi ndaas tres e passadu ndhat ses: cuccu, faularzu ses. Cuccu meu de allegria, cantos annos mi lassas
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Cuccu perfettu in cantare, de males mios tabbiza; cuccu bellu, profetiza cun chie mhapa cojare. Gi chhat tanta abilidade sa naturalesa tua cuccu bellu individua cun certesa e veridade chie dtessere e cale no mi lu cherzas negare. Cuccu canta allegramente dami calchi significu sest miserabile o riccu, sest discretu o imprudente; si mi trattat malamente e mi dat malu passare. Cuccu prognosticu meu custu fine massegura, avvisendemi in figura si su suggettu e impreu si dt esser bellu o feu su chi mi dt accansare. Musicu de su eranu dami vera relassione sest de bona condissione si est battiu o bajanu, si dt essere litteradu chiscat causas portare.
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MIELE

AMARO

a mie e a mama mia? Cuccu, no fettas trassas: cantos annos mi lassas? Cuculo perfetto in cantare / dei miei mali datti pena: / cuculo bello, profetizza / quale sar il mio sposo. Poich ha tanta abilit / il tuo costume / cuculo bello indovina / con certezza e verit / chi dovr essere e quale / non me lo voler negare. Cuculo canta allegramente / dammi qualche avviso / se (sar) povero o ricco / se discreto o imprudente; / se mi tratter malamente / e mi dar dispiaceri. Cuculo pronostico mio / questo destino massicura / avvisandomi allusivamente / della persona e dellimpiego / se sar bello o brutto / colui che mi dovr levar di pena. Musico della primavera / dammi vera relazione / se sar di buona condizione / se sar vedovo o celibe / se sar uomo istruito / che sappia trattare cause. Cuculo perfetto in cantare / dei miei mali datti pena: / Cuculo bello, profetizza / quale sar il mio sposo. Cuculo dai bei piedi / cuculo dalle belle mani / quanti anni dovr stare / a sposarmi? Cuculo dalle belle mani / che vedi le mie pene, / dimmi, tu, se mi vuoi bene, / se mi sposer. Cuculo dai bei piedi / se ai miei lamenti credi / dimmi se sar rosso o nero / lo sposo mio giovinetto. Cuculo mio, cuculo mio / dimmi tu se lo sai / di sposare lora soave / che mi ha segnato Dio. Cuculo bello che canti, / quanti anni perch io trovi marito? / Cuculo, sei bugiardo, / che tavessero ucciso, / me ne avevi detti tre / e ne son passati sei, / cuculo, sei bugiardo. Cuculo mio allegro, / quanti anni mi concedi / a me e a mia madre? / Cuculo, non mingannare / quanti anni mi concedi?

STEFANO BERITTA COMMEMORA SUO PADRE

Chie ismntigat babbu e mama est mortu prima e nschere. Chi ripudia padre e madre un aborto.

Finch non entrai in malizia lo riconobbi profeta. Delle sue profezie due se ne avverarono (oltre qualche altra di minore importanza). La prima, potevo avere cinque anni, mindic la stella Cane e disse: Arriva il diluvio : e poco dopo cominci a lampeggiare, brontol il tuono, venne di corsa il vento con un diluvio che mescol cielo e terra. Laltra, era solito ripeterla a ogni annata, che povero era nato e povero doveva morire. Si vantava poco e di rado, ma non ammetteva ci fosse un altro pi esperto di lui nel guidare il debbio: nellaizzarlo e nel richiamarlo che gli obbedisse come fosse un cane. Il primo luned del mese di semina, avanti di lanciare la prima manciata di grano mescolata col sale, diceva parole di lusinga alla luna e alla fortuna, pi confidandosi nelluna che nellaltra. Della fortuna infatti era solito dire che fatta di vento: della luna, invece, che il mondo senza la luna il regno senza regina: se si mette la coroncina, dacqua una spruzzatina; se si mette la grande corona, Dio te la mandi buona. Mia madre da parte sua le dava altra importanza: se era a falce, si segnava, stando in piedi, con una moneta, per richiamar denaro in casa, ma dalle sue e mie esperienze, vorrei avvertire che sar sempre un perditempo. Pi bello era quando le si rivolgeva chiamandola in celia comare, e mi faceva ripetere una filastrocca con la quale chiedevamo in due, per me, la salute, la forza del ferro e lagilit del muflone. Mia madre e mio padre venivano a diverbio di tanto in tanto, e tutto si concludeva a spese del carro: perch, secondo lui, era per colpa del cigolio di esso che lei gli aveva badato; e
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MIELE

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lei lo rimbeccava che proprio quel cigolio era la causa prima della sua disgrazia, di averlo sposato. Poi, mi guardavano e scoppiavano a ridere insieme. Questa storia del cigolio del carro come paraninfo, vorrei avvertire che vera almeno in quanto carro significa anche due buoi che lo tirano, e il tutto la donna considera e apprezza meglio delle due sole braccia che spesso sono come due remi senza la barca nel mare; a parte che il carro col cigolio in questione e con le corna del suo timone tiene a giusta distanza gli spiriti maligni. Nelle ore di ozio forzato si rammentava che era stato fanciullo anche lui: perci mi preparava il cavallo di ferula o di canna, e la trottola di pero stagionato, e la trottolina di ghianda trapassata da una spina, e lo schioppetto di sambuco o di canna e, di tutti i balocchi il pi ambito, il carretto di ferula con le ruote di sughero e il giogo da mettere al collo ai buoi che erano due tutoli di granturco. Lo ringrazio col pensiero tutte le volte che li costruisco ai miei figli, cos come suppongo facesse anche lui per me, pensando a suo padre. Inoltre, quando mi riesce, per farli contenti come lui faceva contento me, di ritorno dal campo faccio loro la sorpresa duna tortora o duna pernice, dun leprotto o duna volpicina, duna tartaruga o duna martora, ma questultima s fatta rara. Di alcune novit come laratro di ferro e il treno e simili riconosceva i meriti, ma infine al casalingo e al semplice che esce dalle proprie mani il suo cuore non sapeva dire di no, per sempre. Adesso che essi sono nel mondo della verit, neppure adesso li lascio una qualche volta fuori della casa della memoria mia e dei miei figli. Cos li abituo a quando la loro madre ed io non ci saremo e a tener le mani in catena con quelli che non ci sono pi e con quelli che verranno.

DESIDERIO DI RITORNO

Da ube so bnniu no isco n isco a ubhappo a torrare. Da dove son venuto non so n so dov destino chio torni.

Come si erano divisi le parti, i tre pastorelli, tenta e ritenta, riuscirono a rifare la cavalletta verde, il grillo e lassiolo. La cavalletta che non va oltre la prima vocale e non si stanca di ripeterla; il grillo che trita cristalli; lassiolo che fa il solista col suo flauto.54 E cos li sentirono gli anziani, e il gioco piacque loro tanto che lo provarono a loro volta con le loro voci e la loro malizia, finch si ritrovarono imprigionati dallaccordo che fermava il tempo e il dolore, ma lasciava socchiusa la porta allamarezza, come se tutto fosse provvisorio, come un sogno che si sa di sognare. Il coro and nelle solitudini delle valli e sal le cime; pass il mare e gli oceani; arriv alle trincee dove sgoment il nemico; arriv ai deserti ed entr nei campi di prigionia: e sempre, da per tutto, voleva dire, anche a chi lo sentiva la prima volta, lontananza, esilio, desiderio del ritorno.

54. Vedi G. Gabriel, in Bibliografia.

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LA MORTE NEL FRUTTETO

Arbore no lu tocches / ne cun lesorza o istrale: Deus no lu perdonat ne santos. Albero non toccare / n con coltello o con scure: Dio non lo perdona, n santi.

Il bambino giocava spesso sotto alberi carichi di frutta e di uccelli. Un vecchio lo vigilava come una madre. Era il vecchio nonno, il quale somigliava a un santo che abitava in una piccola chiesa di campagna, l vicino: la stessa rigidit arcaica, lo stesso continuo silenzio, lo stesso sguardo assorto. Solo di tanto in tanto il nonno si moveva per porgergli qualche frutto lucido e acquoso e gli sorrideva senza parlare. In quei rari momenti il luogo prendeva pi lume, e il bambino pensava a certi paesi che gli accadeva di sognare rinchiusi in unimmensa bolla di sapone. Una mattina il bambino cerc con affanno le chiome verdi: gli uccelli le cercavano anchessi disperatamente. Poi il bambino le ritrov negli alberi che erano stati feriti ed erano caduti a terra. Il vecchio nonno era inginocchiato e accarezzava le foglie e i frutti, a occhi chiusi, come un cieco. E cos non ci vedeva pi veramente, e per lui non cera pi nemmeno il bambino che ora gli stava accanto e smaniava di gridare perch troppo gi aveva aspettato che il nonno lo prendesse in braccio per difenderlo come da uno che potesse ferirlo da un momento allaltro alle gambe per farlo cadere disteso come quei poveri alberi. Era tempo di caccia, e un improvviso colpo di fucile mise in fuga gli uccelli e riscosse il vecchio dal suo sonno. Il vecchio sbatt gli occhi alla luce, stent a raccapezzarsi e a un tratto, quando si fu finalmente accorto del bambino, si alz con la maggiore sollecitudine che poteva, lo prese per mano, se lo trasse appresso affrettando quanto pi poteva il passo.
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Dopo che ebbero varcato il cancello, il vecchio lo lasci aperto, non ne pot pi e scoppi in un pianto che gli scoteva le spalle curve e ossute. Il bambino si riemp di stupore, poi pianse con lui. Il vecchio si fece forza e ritir il suo pianto, tentando di calmare il bambino con carezze, e queste strappavano al bambino tutto il suo piccolo cuore. Non molto tempo dopo mor un uomo e si lev un vento furioso. In casa dicevano che era la prova: che sarebbe durato tutta la notte e dopo, finch quel morto non se lo fosse inghiottito la terra. E, infatti, quellimmenso stormo duccellacci impervers tutta la notte e parte del giorno successivo, e tutto il paese temeva di essere divelto, e portato via, come, dalle acque sotterranee, il lontano paese di Giro.

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FESTA NELLA VIGNA

Lgalu su pastinadore, comente ligan sa ide. Lega chi pianta la sua vigna come si lega la vite.

Fu stagione di straordinaria speranza. Un giorno, verso lalba, da venti a trenta persone, parenti e amici, si misero a vociare al mio portone. Io li aspettavo e simulai, comera duso, di cascar dalle nuvole; ma poi, come rammentandomi dellaccordo che tutti noi sera preso, feci passare loro lacquavite a bicchieri. Tutti gridavano: Viva il fil-di-ferro o Viva lacquavite o Viva lacqua ardente. Ci si incammin con gli attrezzi, e le donne ci seguivano cariche di provvigioni. Chi ci incontrava mi augurava di fare uva a carra e mosto a caratelli. Sul campo altra acquavite. Poi, io per primo ficcai in terra il paletto di ferro al capo del primo filare, lo scrollai e girai per allargare il buco, lo estrassi, scelsi il pi bel magliolo di vite e con esso mi feci il segno della croce e lo piantai augurandomi prospera salute e destino propizio. Tutta la comitiva in coro: Dio lo voglia. Cominci lopera, e le squadre si sparsero, ciascuna lungo il suo filare. Lavoravano a gara lanciandosi frizzi e cantando stornelli che levavano la pelle, ma tutto era permesso come in carnevale. A mezzogiorno le donne ci gridarono che il desinare era pronto. La tovaglia era stesa sullerba, sotto il sole della primavera che si avvicinava. Pane delle feste, vino, lesso, arrosto, ciccioni col cacio, seccumi, formaggio vecchio. Appetito e allegria; brindisi in prosa e in versi. Poi, il lavoro fu ripreso con grande alacrit fino allimbrunire. Si era calcolato tutto, e allimbrunire ci trovammo con lopera fornita. Ora sapevo quel che mi aspettava e cercavo fintamente di scappare dalla vigna, di svignarmela. Ma tutti tenevano gli
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occhi aperti e mi fecero prigioniero: mi legarono con la vitalba e il caprifoglio, mi fecero re con una ghirlanda derbe fiorite, mi sinchinarono davanti a uno a uno, mi misero una canna in mano, mi spinsero davanti a loro, me ne facevano e dicevano come a Cristo, solo che non avevo la croce sulle spalle. Cos per tutta la strada. Ma quando fummo alle prime case, cominci il Carnevale. Anzi ero io il Carnevale: il primo giorno che esso appare ad autorizzare ogni scherzo. Ma soltanto io non potevo scherzare con nessuno, e a loro era lecito punzecchiarmi e improperarmi. Vociavano, sghignazzavano mi ballonzolavano intorno. Entro labitato la baldoria sal alle stelle: dagli usci, dalle finestre mi chiamavano a nome; i ragazzi si accodarono al corteo; persino i cani ce lavevano con me, ma si comprendeva bene che anchessi lo facevano per festa. Mia moglie e le mie figlie ci aspettavano sulluscio tra sorridenti e costernate. Mi riscattarono con vino, seccumi, dolci, un vassoio di confetti e un altro di monete. Questi confetti e queste monete erano per i ragazzi: ed essi, al vederseli seminare sulla testa, se li contesero in grande gazzarra. Venne infine la cena che termin in canti; in canti sempre pi confusi e in un denso stupore che non ci lasci comprendere, per uno o due giorni, che cosa ci fosse successo. Alcuni anni dopo la fillossera ci fece cadere da cavallo e perdemmo quel po dallegria che potevamo procurarci con la medicina del vino. Il trovarci da unannata allaltra senza il cespite che era gran parte del nostro bilancio ci mise un malumore che di giorno in giorno ci suggeriva parole dira e di furore. I commenti finivano quasi sempre con la frase: Maledetto il giorno che siamo venuti al mondo . Anche Giobbe disse cos quando aveva perduto la testa. Poi, anche a costo dindebitarci, come infatti facemmo, ci risolvemmo a ripiantare le vigne; ma col vitigno americano. Cos la radice non era pi nostra, e la festa non fu pi quella.

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UNA COMMEDIA A SOGGETTO

TEMPO: IL VINO, LACQUA E LA FORTUNA

No ghettes gurpa mai a sa Fortuna / semper filu bi hat de falta tua. Non incolpare mai la Fortuna / sempre un filo di colpa c da parte tua.

La campagna entr in agonia. Non valsero le processioni dei ragazzi che con le pertiche rivestite in cima di pervinca invocavano un certo dio Maimone che fu pastore di greggi e ora pastore di nuvole: non valsero le processioni cristiane con in testa SantIsidoro o San Giorgio cavaliere: e neppure richiam le nuvole il sacrilego prelevamento di alcuni teschi dagli ossari, che vennero immersi nellacqua benedetta. E quando la gente si fu stancata di spiare il cielo sterile e crudele, ecco una nuvola gentile, e tutti gridarono: il lievito, il lievito . E infatti in breve tutto il cielo ferment in cumuli di pasta nera, e tutti i cuori si strinsero, e passarono saettie nere di gru, e cominci il diluvio. Persino certi fiumiciattoli, di cui sera dimenticato anche il nome, che le mappe pi minuziose avevano voluto ignorare, satteggiarono a torrenti: e ce ne fu uno, di nome rio Matzeu, piccolo come un verme, che fece le sue prodezze sulle fragili case di fango e paglia che cingono la citt forte di Cagliari (secondo alcuni: dal fenicio Karel, citt forte). Altri scherzi di natura lo emularono. Altri che avevano pi titoli e un passato di delirii e di crimini, come il Tirso, il Coghinas, il Cedrino, il Flumendosa e il Temo, non si fecero nominare. Non cos le acque sotterranee, specie quelle che hanno anima di talpa, per cui Osni e Giro si misero a slittare con tutte le loro case. Gli uomini si misero in moto con i soliti soccorsi, e non manc chi chiese rimedi radicali. Poi si seppe che anche il Po e alcuni suoi sudditi avevano lasciato i loro letti e serano dati a imprese rovinose. Pianti, lutti, esilii.
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Alla festa di Santa Barbara quegli avvenimenti, quelle sciagure, furono proposti come tema alla tenzone degli improvvisatori in rima. Erano tre fra i pi celebri poeti dellisola: e uno fu lAcqua, laltro il Vino e il terzo la Fortuna. Il contrasto in ottave fu aperto dal Vino. Il cantore, levatosi in piedi, cant la sua prima ottava, poi si sedette: si alz il secondo, ribatt e propose a nome dellAcqua, poi si sedette; si alz il terzo, diede un colpo alla botte e uno al cerchio, poi si sedette. Da quel momento si continu con le botte e le risposte: era il canto amebeo. E il coro, tre voci, faceva organo a ogni calata di verso, e la gente ascoltava con lanima sospesa. Il Vino elogi le sue sette dinastie. Il cantore, nonostante di poche lettere, sbalord tutti col nome di Monembasia facendolo rimare con la Malvasia: e il nome sembrava inventato a solo scopo di rima, e invece risult quello duna piccola citt greca sulla costa orientale della Morea, dalla quale arriv in Sardegna proprio la malvasia, quando lisola era sotto i regoli bizantini. Uva che d vino cantava bel colore doro e lascia la bocca di mandorla tostata, e riempie dodore tutto il Campidano E diceva nomi come Settimo San Pietro e come Bosa e Quartu, e Quartucciu e Selrgius, e Snnai e Maracalagnis, e Monserrato e Pirri. Poi cant la Vernaccia, famosissima nel mondo, oltre che nella vallata del Tirso dOristano e in Oristano citt, e anche in Villanova Truschedu, Zerfalu e Nuraxinieddu, Mssama e Zeddiani, Bartili e Nurachi, Riola e Solarussa, San Vero Milis e Milis e infine Siamaggiore. Giovane cantava, grossolana e asprigna, per tre o quattro anni da quando usc di vigna, poi singentilisce e va con gli amaretti dEleonora regina, e va con le anguille del gran pappa Martino;55 venuta forse da Roma, a Roma cos ritornata. Terzo salz il Moscato: quello del Campidano, giallo doro topazio, che, quanto al suo sapore, non si sa dimenticare della sua uva materna: o quello di Tempio Pausania paglierino e meno dolce che spumeggia da bottiglia colore verde
55. Allusione al XXIV del Purgatorio.

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MIELE

AMARO

Una commedia a soggetto

oliva. Quarto venne il Nasco cui conviene vena amara come al famoso miele, se vuol esser pregevole: che con sentore di muschio ogni malato risana. Quinto, ecco il Torbato dorigine catalana, color giallo dorato, anchesso dolce e amaro e piacque a Carlo V, quello dei caballeros e che fin in convento. E sesta, madama Monica, di Cagliari o sulcitana, che si sposa ai vini e nei migliori banchetti sembra lei la sposa in abito di grana. E settimo il Gir, dorigine spagnola, con mantello damaranto che vino proprio santo per infermi e vecchioni. E infine il Canonao dIerzu e Oliena, giustacuore di velluto, che trae ognuno di pena, ma pu dare anche la morte, persino quadriduana e, quando ne ritorni, rinasci con corona, con la corona di ferro (spranghetta) peggio di Carlo Magno. Ma quello dellAcqua la durava a cantare che senza lacqua uno non si sciacqua e vino non si pu fare, non si pu fare niente come annaffiar le rose e costruire le case, e non nascerebbe cocomero in quel di Baronia, addio creature e vita, e cit San Francesco e il calice daltare. E il Vino ribadiva con Gairo e Osini, col Tirso e col Cedrino, col Matzeu e col Temo che senza barca n remo penetra nelle case senza chieder permesso. E tante e tante ne dissero che alfine la Fortuna, che sera barcamenata vantandosi padrona di tutte le stagioni e di tutte le annate, dellacqua ottima e pessima, del vino dolce e amaro, concluse con mille scuse confessando che il suo cuore per i giovani arditi: sopra tutto per luomo che fa canali e dighe e dopo la fatica, titolo essa stessa donore, si rallegra e ristora con un calice di vino: meglio se il vino vecchio, dellet di No: quello che si salv dallacqua questo limportante, gridava costruendosi unarca, e poi usc di barca e si riscald col vino che gli concesse il destino di morire contento, giovane e antichissimo.

II

TEMPO: LA CICALA, LA FORMICA E IL PACIERE

Sa prima cosa de facher est de torrare sonore a chie lu meritat. La prima cosa da fare restituire lonore a chi lo merita.

Dopo una breve sosta che gli spettatori spesero nello sgranocchiare i dolci casalinghi e in una gara di bevutine a garganella, si apr il secondo atto. Cerano ora sul palcoscenico la Cicala, la Formica e il Paciere. Apr la gara la Formica: e si vant delle sue citt e dei loro perfetti ordinamenti, delle sue gesta e delle sue scorribande, del suo andare e venire che , diceva, come un trenino merci nero e lucido che va e viene dai mercati ai magazzini sotterranei e viceversa: granai, questi ultimi, duna stirpe che si scaccia il sonno e insegna agli uomini addormentati lordine, la pulizia, lindustria, lamore di patria. E la Cicala cominci a cantare. Era il mestiere suo, diceva. La sua dannazione, il suo male incurabile; il suo grande amore lestate e il sole delle grandi aie, stando sullalbero con gli uccelli, lei, sa chcala, lei la calunniata. Allora fu la volta del Terzo, che si profess paciere, il terziere, quello che altrove, nei tribunali, viene chiamato arbitro, lui che ascolta con la bilancia in mano, come il San Michele delle oleografie, i peccati della gente e le loro controversie e lamentele, e poi giudica e manda. Cosera questa calunnia di cui lui protestava mai aveva sentito parlare? Ma non gli rispose subito la Cicala interrogata, ch non le spettava di turno. Rispose, invece, la Formica come un testimone daccusa. Sempre, chi si sente in difetto e non vuole ammettere i suoi torti spiegava sempre, da che mondo mondo, egli salta fuori dicendo che una vittima, che tutta una calunnia, e chiama a testimoni di difesa Dio e santi e galantuomini. Cicala canta-canta dalla mattina alla sera, ogni inverno ritorni a bussare alla mia banca, ma infine sono troppo stanca della tua insolvenza. E il tempo che maestro persino al pi sfaticato, a te che ha insegnato, cantatrice molesta?
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Una commedia a soggetto

Allora la Cicala perse la pazienza. Secoli e secoli diceva di calunnie a favore della signora Formica. Avete mai visto cicala chiedeva a tutti i presenti quando comincia linverno? La nostra sorte ben altra, credetelo, buona gente: cantato e poi cantato senza far male ad alcuno, a chi fa male chi canta?, con lestate moribonda noi caschiamo dallalbero: caschiamo ormai finite, e il sole ci dissecca; poi, il primo piede che passa ci schiaccia senza piet, e morte restiamo e insepolte. Qui il Conciliatore prese tempo per scappare. Fuori le vostre ragioni, diceva lisciandosi il mento, ditele tutte quante, e poi a me la sentenza. Che altro poteva fare, si scusava. la sorte del giudice si rammaricava quella di pazientare, aspettando che le parti si siano confessate. E la Formica senza indugio usc dal suo pertugio e ricominci a lodare larte daccumulare. Chi accumula fa nurra spiegava: e faceva il caso dellantico nuraghe che pietra sopra pietra per poterci abitare contro il tempo e i briganti. E invece tu che fai, chcala tutto cantare? Raccontalo a tutti quanti. E la Cicala riprese al punto che aveva lasciato. Ahi, diceva, mal fato, il mio, ch sono morta, e ognuno mi pu calpestare; e gi arriva arzilla e feroce quella che mi fa sopra la croce, mi sbriciola e porta via al suo cimitero granaio per il tempo di carestia. E chi sarebbe questo? chiedeva a tutti i presenti e indicando la formica. Questo mio vicino molesto. La gente rise allomerica, e fischi anche di cuore: i suoi fischi erano applausi alla Cicala valente. Ma non era finita. Il signor Conciliatore, nonostante la sua prudenza, non seppe proprio nascondere che apprezzava largomento. Si accarezzava il mento e diceva: Bene, bene! Questo un bel tiro di fionda. Ma lufficio mio mimpone di sentire sino in fondo E la Formica invelenita tent di sviare il duello citando davanti al Giudice questo poeta con quello: uno dellaltro pi bello, diceva, di terra straniera e nostrana. E venne avanti Virgilio ad accusare quel canto che schianta, a suo dire, i rami; e lAriosto a giurare che la cicala noiosa assorda monti e piani. E la Cicala modesta rispose che ometteva, per non
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guastare la festa, i tanti e tanti poeti, nostri e di fuorivia, che lhanno coperta di lodi. Ma ciascuno ha i suoi amici, diceva, come ogni villaggio il suo santo: e questo non buon argomento. Verit santa piuttosto che, quando arrivato lagosto, la cicala canta e canta e col suo becco scava il pozzo nella corteccia dellalbero: si disseta e bagna lugola, canta e non chiede niente se non di lasciarla cantare. E invece ecco il predone, nero come il carbone, arrivare in confraternita e farsi padrone del pozzo e: Che mi resta da fare, scavatrice poverina, se non di andarmene altrove, lanciandovi, industri formiche, un mio getto dorina? La folla non ne pot pi, salt in piedi e gridava abbasso e morte alla Formica infame. Allora il Conciliatore mostr la sua anima nera e, per non inimicarsi le parti, fece come Pilato dicendo che a questo mondo ci vuole pi che altro armonia come in un ballo tondo e rec come argomento la secessione sul Monte. Mai lavesse detto. La Commissione dei temi sarbitr di proporre che dunque fosse lui Menenio, e la Formica lo Stomaco, e la Cicala il Bracciante. E tante e tante ne dissero: lo Stomaco che il forno acceso, e le Braccia legna e pane, e Menenio era tutto contento: quando a un cambiar di vento, il Bracciante salt a dire che tutto si pu concepire fuorch un corpo il cui stomaco viva staccato dalle sue braccia: ci vuole larmonia va bene, diceva a tutti i presenti, ma delle mani che spezzano il pane per i propri denti. Il premio per il vincitore consisteva in un drappo di broccato, e la folla lo assegn al Bracciante.

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CANTI DELLA PIOGGIA

DATECI LA PIOGGIA, SIGNORE O suprema Magestade, abblandade su rigore, dadenos abba, Segnore, in custa nezzesidade. Cussos trigos gi siccados cussos linos destruidos cussos orzos consumidos cussos panes accabbados
GIOVANNI BATTISTA MADEDDU (sec. XVIII)

Santu Jorgi cavalleri, dadenos abba e laore, ca bos fatto unu cogone mannu cantu unu tazeri. Santu Jorgi cavalleri. Dadenos abba, Sennore, pro custa nezzessidade, sos anzones pedin abba e nois pedimus pane, (variante: sos pizzinnos pedin pane,) sa Reina Majestade bos abbrandet su berbore. Dadenos abba, Sennore. Maimone, Maimone, abba cheret su laore, abba cheret su siccau, Maimone, lau lau. San Giorgio cavaliere / dateci pioggia e frumento, / ch vi far una focaccia / grande quanto un tagliere. Dateci la pioggia, Signore / in questa necessit, / gli agnelli chiedono acqua, / e noi chiediamo pane, / (var.: i bambini chiedon pane) / Sua Maest la Regina / vi addolcisca il rigore. Maimone, Maimone, / acqua vuole il frumento, / acqua vuole il terreno arido, / Maimone, lau lau.

O suprema Maest / mitigate i vostri rigori / dateci la pioggia, Signore, / in questa necessit. I campi di grano seccati / i lini distrutti / gli orzi consunti / il pane che non c pi

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LA CAPRETTA

PASTORI DEL MONTE

No balet chi ti peses chitto mezus sindevinas shora. Non ti vale tanto esser mattiniero quanto azzeccare lora.

Un pastorello che era mattiniero aveva una capretta la quale per lui era tutto. Questa capretta lo seguiva in ogni dove, finch una mattina, contrariamente al solito, gli si mise innanzi e lo scort per un sentiero che sembrava nato appena allora. Cammina cammina, arrivarono con grande stupore di lui a una grotta, e la grotta era piena dargento e doro, di pietre preziose e di gioielli, di balocchi e campanelle. Una voce invisibile non faceva che ripetergli: Scegliti loggetto che vuoi, scegli, pastorello . E lui dopo tanto scelse una campanella e lappese al collo della capretta. Ora questa andava anche lontano e si faceva sentire, e lui era tranquillo e aveva tempo di seguire con locchio le nuvole e di fare tanti disegni: e pensando e fantasticando si pent di non avere approfittato dun altro oggetto che lavrebbe fatto ricco. E fin con larrovellarsene, tanto che si mise a ricercare la grotta. Ma questa, per quanto cercata e ricercata dalle prime luci dellalba fino al tramonto, non si lasci pi ritrovare; e quando il pastorello se la prese con la capretta dicendole: Se non ci fossi stata tu, non mi veniva quella tentazione, la sua piccola amica disparve lasciandogli la campanella e un inutile rimpianto.

Ite bellu chi est a simpuddile / torrare a monte e bider campanile / comentarbore e giogu pro sa festa Quanto bello al cantar dei galli / tornare al monte ed ecco il campanile / come albero di cuccagna per la festa.
INEDITO

Pastori di Gavoi Un grande gregge che biancheggi sul verde dei distesi pascoli del Sud, quello quasi sempre il gregge del pastore di quella contrada montuosa nel cui cuore si slancia un campanile altissimo. Il pastore parte a cavallo al primo odore di neve. Il cavallo si muove lento e pigro, e un po anche solenne, per il suono liturgico del campano nellaria addolorata. Va il pastore ai pascoli del Sud, incontro a una primavera costosa ma redditizia; sa che sono pochi i mesi desilio, ma sempre un partire, un lasciarsi alle spalle la malinconia della sua donna e dei suoi figli minori. I figli maggiori sono gi dietro il gregge, strappati bruscamente ai giuochi: e, di essi, chi altra abilit non abbia, star attento ai cani impazienti che spingono avanti col muso il gregge indolente. Traversano villaggi. La gente si fa sugli usci, ammutolisce, li guarda passare, come si guarda lacqua che passa sotto i ponti. Il contadino gi sul campo a debbiare, ad ammansire i sodi cespugliosi, sospende un momento i suoi lavori e dice in cuor suo che il pastore beato, il pastore che va incontro alla primavera che lo aspetta in fondo alla strada. Viene lora che il gregge rasenta la ferrovia. Dalle cantoniere escono a sciami i bambini che si mettono alle calcagna del gregge e, se fosse possibile, non tornerebbero indietro. Incrociano un treno, due treni, i loro fischi: il gregge trasale, d in una corserella: un breve capogiro: il male passato. in quel punto che i cani lanciano latrati, e il meditabondo cavallo d unocchiata alla locomotiva che sbuffa e sbuffa anche lui.
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Traversano altri villaggi, la meta sempre pi savvicina, il cuore degli esuli sallarga via via, i monti e il campanile altissimo sono oramai nella nebbia dei sogni. E davvero la primavera li aspettava: luce calma, alito tiepido, erba, speranza. Ora persino tempo di cantare. I figli del pastore si dimenticano un poco della piazza e del campanile altissimo, della madre, dei fratellini, dei piccoli compagni: ora addirittura tempo di guardare le pecore gravi e dattendere larrivo degli agnelli. Arrivano gli agnelli e il latte; e, tra piogge e vento e calme soleggiate, anche la seconda primavera, quella che sfiora persino i monti ancora coperti di neve e attende intirizzita ai loro piedi lora di scalarli. Viene poi aria di forno. Un vento corre la pianura, e quasi un odore di fuoco la brucia. Ecco lora: lora che il pastore riprende la sua strada e riattraversa gli stessi villaggi. A mano a mano che si riavvicina ai suoi monti, anche il suo cavallo, anche i suoi cani mostrano allegrezza. Il gregge fa le sue soste nelle ore calde e riprende la strada verso il tramonto. Di tappa in tappa, belle sono le notti quasi estive, bello il filo daria che scende incontro ai reduci con odore di montagna. Ma pi bello il campanile che spunta allimprovviso sotto il lume delle stelle, o alle prime luci dellalba, come un altissimo albero di cuccagna.

LAMULETO NERO

Gli pendeva al collo la pietra nera, su sebeze, e diceva che quellamuleto era pi forte della Tentazione, e che non era poi tanto raro. I bambini senza il sebeze spiegava inciampano spesso per lo sgambetto del Maligno. Ma forse lo diceva per prendersi gioco di chi lo interrogava, e non del tutto scettico del potere apotropaico di quel suo talismano. Le superstizioni sono dure a morire, ancorch risalgano, come quasi certamente quella risale, a tempo molto remoto. Nel maggio del 594, San Gregorio parla ancora di Barbaricini che vivono ut insensata animalia, che non conoscono il vero Dio, che adorano ligna et lapides. Lapides; pietre: e quel bambino, battezzato al fonte battesimale di Gavoi (Nuoro), senza saper nulla di tutto questo, era ancora tanto antico. A poca distanza da quel borgo alpestre, in una regione di nome Sa Itria, sincontrano sparsi ruderi di costruzioni megalitiche, i quali testimoniano la presenza remota, in quei luoghi, di un centro abitato. In un punto chiamato Istelate si trovano tracce di mura ciclopiche formate da enormi macigni granitici sovrapposti senza calcina, e ruderi di alcuni nuraghi, dei quali quello di Talaigh il meglio conservato ed rivestito di una patina gialla dorata. Ma il monumento pi suggestivo sinnalza nel cuore del piano. la Pedra fitta. Unenorme grezza colonna monolitica di granito, la quale conficcata verticalmente e profondamente in terra e si innalza a guisa dobelisco fino allaltezza di circa quattro metri dal suolo. A un centinaio di metri di distanza da questo obelisco sorge la chiesa di Nostra Signora dellItria. Accanto al simbolo idolatrico, la chiesa cristiana. La Vergine dellItria, altrove Idria (per es. a Matera) proviene certamente dal menologio greco: ed passata in quelle regioni dItalia che vennero nel dominio dei Bizantini. La conversione dei sentimenti religiosi in Sardegna dovuta in parte al culto cristiano bizantino. E probabilmente il
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Lamuleto nero

culto dellItria venne introdotto proprio in quelle regioni ricche di vene naturali alle quali sattribuiva carattere divino. Si noti letimologia del termine Itria, altrove Idria, altrove anche Nostra Signora delle Acque. La regione dove sinnalza la Pedra fitta era senza dubbio un luogo di culto religioso delle antiche trib barbaricine. La pietra era certamente un idolo, attorno al quale le trib autoctone si raccoglievano per propiziarsi la divinit. Lo conferma il fatto che essa sorge in vicinanza delle domos de janas, altro elemento della religiosit di quelle popolazioni, proveniente da antichissimo culto dei morti. In generale la cristianizzazione avveniva senza la distruzione degli idoli, e con la tolleranza, negli stessi luoghi dadorazione, di alcune manifestazioni esterne; nel tempo stesso che sintroduceva il segno eminente del culto cristiano, cio la chiesa; e, con essa, il culto particolare del santo, in questo caso la Madonna dellItria. Lidolatria particolare alladorazione di quella pietra and nei secoli decadendo in superstizione. E la superstizione dura ancora in quella contrada, dove la pietra nera detta sebeze abbonda e dove ancora le si attribuiscono virt apotropaiche. Letimologia stessa del termine suggerisce lidea della venerazione.

MASCHERA

SILENICA E MASCHERA APOTROPAICA

Rinvenute nelle tombe della citt di Tharros presso Oristano.

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CANTI PER I BAMBINI

PER DIVERTIRE I BAMBINI BATTI


UNA MANINA SULLALTRA

PER ADDORMENTARE I BAMBINI (Pro incantare a Masedu Per incantare Mansueto, il sonno) Alla bambina Cun sagu e cun sispola pintes sae chi ola che luna bedda e soli Deu ti dia migliori. Al bambino malato Sa notte e-i sa die no ti lassan pasare: sos tuos e meos males, ne a mie ne a tie Tu se lu me aneddu aggi doru un casteddu.

Dami sa manu, bellitta bellitta, dami sa manu e torramila dare, chi thapo a dare bestire de seda, unu bestire e seda biaitta. Dami sa manu, bellitta bellitta CRESCI E CAMMINA 1. Custu pizzinnu no mi morzat mai mezus si morzat una bitelledda, ca sa bitella no la manicamus, e-i su pizzinnu no lu cumandamus, e lu mandamus in goi e in gai. Custu pizzinnu no mi morzat mai. 2. Duru duru duru; duru duru tai, su pippiu nostru no si morgiat mai; mellus si morgiat una vitelledda, sa vitelledda nos idda pappaus; e, de su pippiu, nos ndi giogaus. Dammi la mano, graziosa bambina, / dammi la mano, dammela ancora, / ch ti dar un vestito di seta, / un vestito di seta violetta. / Dammi la mano, graziosa bambina. Questo bambino abbia lunga vita, / muoia piuttosto una vitellina, / ch la vitella ce la mangeremo, / mentre al bambino potremo dar ordini / e lo manderemo di qua e di l. / Questo bambino abbia lunga vita. Duru duru duru, duru duru tai, / il nostro bambino abbia lunga vita, / muoia piuttosto una vitellina, / la vitellina ce la mangeremo, / e il bambino sar la nostra festa.
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Al bambino

Con lago e con la spola / tu dipinga luccello che vola. / Bella come il sole e la luna / Dio ti dia la felicit. La notte e il giorno / non ti lasciano riposare / i tuoi e i miei mali, / n me n te Tu sei il mio anello / abbi doro un castello.
Le madri li chiamano vida cara (cara vita) anzone, anzoneddu, -a (agnello, agnellino, -a) la me bedda turturella (la mia bella tortorella) la buatta e la buattedda (la bambola e la bamboletta) augurano loro la sapienza di Salomone e lontana la Morte; li chiamano anche smbene e su coro (sangue del mio cuore) e ramo dolivo; augurano alle bambine le migliori virt e le nozze pi splendide; quanto ai figli, li vorrebbero colonnelli, principi e cardinali, e frequentemente ricorrono alla parola moro che si presta per la rima con coro (cuore) e a Calris che fa rima con dinaris (quattrini) Cantano non di rado improvvisando e col vago sentimento di chiedere limpossibile.

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Canti per i bambini

PREGARE E NINNARE La madre al suo bambino perch saddormenti pensando agli angeli. SAve Maria, sa grassia prena Cando si toccat, Santa Maddalena Cando si toccat, da in ora in ora Tottu sos anghelos istana fora Tottu sos anghelos istan in bia Cando si toccat sAve Maria.
GIUSEPPE FERRARO (Canti popolari, XI, 26)

CONSOLATORIA Chi est su mortu? Zi Orcu. E chie lhat mortu? Sa muzere. E chin ite? Cun sa turudda. Zittu, zittu, chi no bhat nudda.

Chi il morto? / Zio Orco. / E chi lo ha ucciso? / La moglie. / E con che cosa? / Col mestolo. / Zitto, zitto, non niente (il male passato).

LAve Maria, colei piena di grazia, / quando si suona, Santa Maddalena / quando si suona, di ora in ora / tutti gli angeli sono (gi) fuori, / tutti gli angeli sono (gi) in via / quando si suona lAve Maria. FILASTROCCA Ohi, ohi, chi est mortu Lolloi! E chi ddha mortu? Fia su babbe tottu. E chi ddhat angiau? Unu boi iscorrau.
(da Garzia, in Canti popolari della Sardegna di Augusto Boullier, p. 31)

Ohi, ohi, ch morto Lolloi. / E chi lha ucciso? / Fu lo stesso padre. / E chi lo partor? / Un bue scornato

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Canti per i bambini

PREGHIERA DELLA SERA Su lettu meu est a battor cantones, battor anghelos si bei ponen, duos in ps, duos in cabitta. Nostra Segnora a costazu istat, a mie narat: Dormi e reposa, no hapas paura de mala cosa, no hapas paura de mala fine. SAnghelu Serafine, sAnghelu biancu, sIspiridu Santu, sa Vergine Maria, tottu sian in cumpagnia mia. Anghelu e Deu, custodiu meu, custa notte illumina a mie bardia e defende a mie, chi mincumando a tie. Il mio letto ha quattro cantoni, / quattro angeli vi si mettono, / due ai piedi, due al capezzale. / Nostra Signora mi sta al fianco / e mi dice: Dormi e riposa, / non aver paura della tentazione, / non aver paura duna cattiva morte. / Langelo Serafino, / langelo bianco, / lo Spirito Santo, / la Vergine Maria, / tutti mi tengano compagnia / Angelo di Dio, mia custodia, / questa notte, illuminami / guardami, difendimi, a te mi raccomando. Al litt me colgu Set angels trob, tres als peus quatre al cap, la Verge Maria a mon costat, y langel Seraf bona mort y bona f, me diu: dorm y reposa, no tingas por de mala cosa.
EDUARD TODA
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AUGURI ALLA BAMBINA CHE ASPETTA IL SONNO Sette barcas in mare tottu suggettas a tie; de latte, sambene e nie thana formadu sa cara: inie thana pintada in costadu e sa reina, fattu thana una femna de cuddu fine cristallu; sos balcones de corallu, sos abidos de seda fine; su manzanu a ti estire bhapat doighi zunzellas; vintichimbe damas bellas taccumpnzen a cresa, e tottu sa capitana armada darma bianca; sispugnola e sabbasanta ti lapporran a sa janna, coro giuttu in sa intragnas cun samante ballende, su re nostru ista prettende de ti cherre balanzare. Sette barcas in mare Sette barche nel mare / tutte obbedienti a te; / di latte, sangue e neve / ti hanno formato il volto; / l thanno dipinta / a lato della regina; / di te han fatto una donna / con quel fine cristallo; / le finestre di corallo, / i vestiti di seta fine; / la mattina alla vestizione / tassistano dodici donzelle; / venticinque dame belle / ti accompagnino in chiesa, / e tutta la guardia del corpo / armata darma bianca; / laspersorio dellacqua benedetta / te lo porgano alla porta della chiesa; / cuore nascosto nel profondo del mio, / (ti veda) ballare con linnamorato; / il nostro re sta lottando / per volerti conquistare. / Sette barche nel mare
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GELL (LAlguer, Barcellona 1889)

Nel letto mi coricai, sette angeli trovai, / tre ai piedi, tre [quattro] al capezzale, / la Vergine Maria al mio fianco, / e langelo Serafino, buona morte, buona fine, / mi disse: dormi e riposa / non aver paura di mala cosa.
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Canti per i bambini

QUANDO IL BAMBINO VUOL ANDARE A CAVALLO Duru duru durundana, sos pischeddos de Ottana, sas teulas de Solarussa, biadu a chi tenet buscia, buscia prena e dinari, a Calris e a Calris giuchene tottu saccusa(s), in beranu sas pubusas fachene sos pubuseddos, naran ches Leoneri su mastru piccapedreri chi piccad in contonera, inie pare sa guera, e bappa sartiana e ramine, su mazzone candhat famine chircat ite manicare, in su tempus de messare, su massaju bettat tricu sa festa e santu Antinu, la fachen sos Sedilesos, sos mercantes tattaresos bi giuchen sa pannaria Duru duru duru sia. Duru duru durundana, / i canestri di giunco dOttana, / le tegole di Solarussa, / fortunato chi possiede borsa, / borsa piena di denaro, / a Cagliari a Cagliari, / si portano tutte le accuse (le cause) / in primavera le upupe / fanno gli upupini, / dicono che sia Leoneri / il mastro scalpellino / che picchia nella cava di tufo, / ivi sembra la guerra / e ci sia padella di rame, / la volpe quando ha fame / cerca da mangiare, / al tempo di mietere, / il contadino semina il grano / la festa di San Costantino, / la festeggiano i Sedilesi, / i mercanti sassaresi / col portano i tessuti / Duru duru duru sia.
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Duru duru duru, pipia minori, e unu frari tenga arrettori, e una sorre tenga priorissa; a carira e oru, da portint a missa, a carira e oru, da portint a cresa, e sa mamma sua, sia sa marchesa: e su babbu suu su guvernarori. Duru duru duru, pipia minori. Duru duru duru, piccola bambina, / possa tu avere un fratello rettore, / e una sorella prioressa; / in portantina doro ti portino a sentir messa, / e tua madre sia marchesa, / e tuo padre sia governatore. / Duru duru duru, piccola bambina. DIO TI MATURI A duru duru, a duru duru. Deus ti crompat a orzu maduru, Deus ti crompat a orzu ispicadu. E babbu tuo siet delegadu, e mamma tua sa delegadissa, e sorre tua siet sa contissa e frade tuo iscrijanu mazore. A duru duru, pizzinnu minore. A duru duru, a duru duru. / Dio ti porti a orzo maturo / Dio ti porti a orzo spigato. / E tuo padre sia delegato, / e tua madre la delegatessa, / e tua sorella sia la contessa, / e tuo fratello scrivano maggiore. / A duru duru, piccolo bambino.

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Canti per i bambini

IL FIORE IN TESTA A duru duru, lhat nadu su babbu, chi lhat a jugher a sa festa a caddu chi lhat a jugher a caddu a sa festa e lhat a ponner su fiore in testa e lhat a ponner in testa unu fiore. A duru duru, pizzinnu minore. A duru duru, gli ha detto il babbo, / che lo condurr alla festa a cavallo / che lo condurr a cavallo alla festa, / e gli orner con un fiore la testa / e gli orner la testa con un fiore. / A duru duru, piccolo bambino. LA BELLA VIGNA Duru duru duruseddu, sas campnas de Casteddu las snana su manzanu, su puddu cagliaritanu cun sa mela tattaresa, cantu su coro mi pesat cantu mi pesat su coro, duas meligheddas doro chi las bido e no las tocco, cariasa e barracocco bhat in sa inza mia. Duru duru, duru sia. Duru duru, duruseddu, / le campane di Cagliari / le suonano la mattina, / il gallo cagliaritano / con le mele di Sassari, / quanto il cuore mi pesa, / [quanto mi pesa il cuore] / due piccole mele doro / le vedo e non le tocco, / ciliege e albicocche / ci sono nella mia vigna. / Duru duru, duru sia.

HA PARTORITO LA LUNA Duru duru, duru-ti la mamma appenta li steddi: sunajoli e campaneddi vndini li marinai. Li marinai so molti in dentr a lu bastimentu; di la forza de lu entu si lha pultatu lu mai. Duru duru duruti molti so li marinai. So boni li maccaroni cunditi cun li tumatti, sinnaia dui piatti mi piinaa lu panzaroni. Liarata s la luna e ha fattun diamanti. Prechini tutti li santi chaggia bona fultuna. Duru duru duruti, / la mamma diverte i bambini: / sonaglioli e bubboli / vendono i marinai. / I marinai son morti / nel bastimento: / la furia del vento / si portata via la nave [sic]. / Duru duru duruti, / morti sono i marinai. / Son buoni i maccheroni / conditi coi pomodori, / se ne avessi due piatti, / mi riempirei il pancione. / Ha partorito la luna, / ha partorito un diamante. / Preghino tutti i santi / che abbia buona fortuna.

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Canti per i bambini

LUNA MIA Luna mia luchente sanu magattas e sanu mi lesses forte che ferru, e sartiadore che unu murone. Luna noa, luna bccia sanu magatas, sanu mi lessas cun dinari in sa bursa e cun trigu in sa lussia. Luna luna bettami ndunu unu aranzu a facher su pranzu a facher sa chena: e bona sera! Luna mia lucente / mi trovi sano, lasciami sano / forte come il ferro e saltatore / come il muflone. Luna nuova, luna vecchia, / mi trovi sano, lasciami sano, / con denaro nella borsa / e con grano nel cestone (di canne). Luna luna / gettamene una, / unarancia, / per chiudere il pranzo / per chiuder la cena, / e buona sera.

BALLATE PER IL BAMBINO A badd e a badd! Croci polta lu din, lu din polta la crogi; lu chiu polta la nogi, la nogi polta lu chiu; lu pigioni piu piu, piu piu li pigioni; e me me fagi lagnoni, lagnoni fagi me me; lu pulcheddu n n, n n lu pulcheddu; ciau ciau lu cateddu, lu cateddu ciau, ciau; la gatta fagi miau, miau fagi la gatta; e mu mu fagi la vacca, la vacca fagi mu mu; lu gaddu cuccurudd, cuccurudd lu gaddu; zoppu lu me cavaddu zoppu e no po and, a badda e a badd. A ballare e a ballare! / Croce ha la moneta, / la moneta ha la croce; / il gheriglio ha la noce, / la noce ha il gheriglio; / luccello fa piu piu / piu piu fa luccello; / e mem fa lagnello / lagnello fa mem; / il porcellino n n / n n il porcellino; / ciau ciau il cagnolino / il cagnolino ciau ciau; / la gatta fa miau, / miau miau fa la gatta; / e mu mu fa la vacca / la vacca fa mu mu; / il gallo cuccurudd, / cuccurudd il gallo; / zoppo il mio cavallo / zoppo e non pu camminare, / a ballare a ballare.

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Canti per i bambini

Duru duru duru, du duru tai, chistu steddu ch beddu no molghia mai pa no muricci chistu beddu steddu meddu ci mlghia un beddu agnuneddu; che lagnuneddu ci lu magnaremu ma di lu steddu cinn abbintaremu Du duru duru duru, du duru tai.
ANDREA PIRODDA (in Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane, p. 19)

LA STORIA DEL PORCO 1. Custest su porcu, custu lhat mortu, custu lhat uscrau, custu lhat manicau, e a su pitieddeddu no ddi ndhanti donau. 2. Custest su porcu, custu lha furadu, custu lhat mortu, custu lhat uscradu, e a custu minoreddu non nde lhana dadu (chat iscoppiadu) .56 Questo il porco, / questo lha ucciso, / questo lo ha strinato, / questo lo ha mangiato, / e a questo piccolino / non gliene hanno dato. Questo il porco, / questo lo ha rubato, / questo lha ucciso, / questo lo ha strinato, / e a questo piccolino / non gliene han dato / (perch ha fatto la spia).

Duru duru duru, du duru tai / questo bambino che bello non muoia mai / perch non ci muoia questo bel bambino / meglio ci muoia un bellagnellino; / e lagnellino ce lo mangeremo / ma col bambino ci svagheremo. / Du duru duru duru, du duru tai.

56. Li si recita per giuoco, contando sulle dita duna mano a cominciare dal pollice.

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ALTRI CANTI
RISPOSTA A UNA LETTERA DEL VICER DI SARDEGNA Algunas voltas misto imaginende su currer nostru, e vida variada, quin issos sintellettu ando perdende: qui vido hoe una frisca e colorada, que rosa quando ispirat su ponente, cara, e la vido cras sicca e rugada
GIROLAMO ARAOLLA (sec. XVI)

SANZONE Sanzone mia est una bianca nida senzatteru colore cambiadu; mesulinedda, e cantos lhana bida la tenen pro gerrile, o madrigadu, tota aneddada e lani compartida, pertunta, innida; gighe de broccadu sa collana in su tuju con ischiglia. Bider a issa est una meraviglia!
PIETRO PISURZI (1724 ca.-1799 ca.)

Alcune volte vado considerando / il correr nostro, e la vita / s che in essi la mente mi consumo: vedo oggi un fresco e colorito, / come rosa quando spira il ponente, / viso, e lo vedo il domani secco e coperto di rughe POEMA SUI MARTIRI GAVINO, PROTO E GIANUARIO PRIMA OTTAVA A sos ventos dant vela, et cun sa manu faguent forza assu remu, et subra ispumas volat versu su portu Turritanu sa barca, pius que in aeras volant piumas: arribados disbarcant in su pianu, principiu qui su Coro mi consumas, et causas das qui fetant sojos rios, morte de santos tres Martires mios.
GIROLAMO ARAOLLA

Lagnella mia bianca come neve, / senzaltra mescolanza di colori; / di mezza et, e quanti lhan vista / la tengono nata a primavera o matricina, / tutta ricciutella e con la lana ben distribuita / e ha un foro nellorecchio ed immacolata; / ha al collo una collana di broccato con la campanella. / Vederla grande meraviglia. DA SABE LAPE Unape arriva alla mostarda e, nonostante avvertita, troppo vi saccosta e muore. Issa, lnde su olu, olesi alta, e cando penso chi fi retirada, accolla a bentu in puppa, a ala ispalta, a murmuttu a murmuttu chi torrda. Bolat e torra, per no sappalta da-e sa labia, chanzis saccostda; tantu e tantu saccostat, fina chasat soru de sa labia, ue si pasat.
PIETRO PISURZI

Ai venti dan la vela, e con la mano / fanno forza al remo, e sopra le onde spumeggianti / vola verso il porto turritano / la barca, pi che nellaria volin piume: / giunti a riva sbarcano nel piano, / principio che il Cuore mi consumi, / e mi dai cagione che gli occhi versino rivi di lacrime, / morte dei tre santi Martiri a me cari.
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Essa, prendendo il volo, vol alta, / e quando gi pensavo che si fosse allontanata, / eccola a vento in poppa, ad ali spiegate, / ronzando ronzando ritornava. / Vola e torna, per non si allontana / dal paiolo, anzi saccostava; / e tanto e tanto vi saccosta che bacia / lorlo del paiolo e vi si posa.
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BALLARE ALLE FESTE Il ballo sardo ritenuto da quasi tutti gli studiosi dei costumi del nostro popolo di origine greca. Il Mameli de Mannelli fa derivare il ballo tondo dei Sardi da quello inventato da Arione e perfezionato da Laso dErimone nellAcaia verso la LVIII Olimpiade. E avvalora questa sua opinione con citazioni attinte dalle fonti classiche ove si trovano descrizioni del ballo greco. Sono brani di poesia che si adattano mirabilmente anche al ballo sardo, come ognuno pu desumere da questi pochi versi: Ubi quidem iuvenes nubilesque honestae virgines / saltabant intectis bracchiorum carpo mutuo complexu manibus; e da questi altri che potrebbero servire a descrivere le fondamentali caratteristiche del ballo sardo e specialmente quelle che sono proprie del meridione dellisola: strettamente accoppiando palma a palma / complicati a vicenda in vago cerchio / carolavan con rara maestria / facendo al suonator ampia corona / Deposta Ulisse ogni guerriera cura / e le cavriole ad osservare intento / come davano i pie spesse faville / era compreso dalta meraviglia. Le danze greche, cristianizzate dalla Chiesa ortodossa, divennero una cerimonia speciale del culto che si mantenne vivo a lungo in tutti quei paesi che un tempo facevano parte dellImpero bizantino. Tale cerimonia sopravvive in Sardegna nelluso di eseguire le danze davanti alla porta della chiesa. Ed da credere che in altri tempi si danzasse dentro gli stessi santuari, a giudicare dal Sinodo del 1552 convocato dal vescovo di Sassari, nel quale fu decretato come leggiamo nella pagina che ad esso dedica il mons. Filia che le autorit civili non concedessero il permesso al popolo di recarsi, come costumava, a rinnovare antiche divozioni, per impedire che nella chiesa si ballasse e si commettessero altre profanazioni. Interessante a questo proposito una pagina che si legge nella Sardiniae brevis historia et descriptio dellArquer: Cum rustici diem festum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, profana cantant, choreas viri cum feminis ducunt ecc.. Anche in altre chiese dellItalia greca luso di danze cantate si prolung fino al sec. XVII. Dice il Perinozzi nelle Dissertazioni ecclesiastiche: Nella chiesa di Reggio Calabria nelle feste natalizie del Signore, linno Iam lucis orto sidere in mezzo al coro da due canonici ballando intuonare si suole: i quali poscia ad altri canonici si accostano e al sacro ballo glinvitano. Sebastiano Dessanay, Almanacco letterario e artistico della Sardegna, Cagliari, 1946. Xilografia di Mario Delitala

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SOPRA I BALLI Ello a chie, ella chie, si no a tie La do sa neghe, e mi poto chensciare? No has hapidu a chie nde ogare A pittighe in su ballu si no a mie? No lu pensao n lu creia mai Sende in su ballu su mezus fiorinu, Inie fit comare Anninnonai Cun sa cumpanza Risu mazzoninu, Cantende a chie hat ramine dacconciai Inghirint su ballu a pabadinu Tirende a destra, a manca, a calcunchinu Chi bi ndhaiat pro istesserare.
PIETRO PISURZI

PREGHIERA DI ZITELLONE A bosu pregaus, Santa Filomena, teneindi pena de tanti filai. De tanti filai tenei piedadi, de is fillas bostas, veras filongianas! Contaus de giai su trinta e prus di edadi, sumfrandi, mischinas, robustas e sanas! Cun promissas vanas, cun plantu, e cun dolu, e senze conzolu po si sullevai! A bosu pregaus Senza de conzolu, che disisperadas, sempiri furriendi cannugas e fusus! Asus teneus, tottaffattigadas, sighindiris modus, galas, e is usus! Cun tantis abusus, froccus, e pumadas es totu de badas su salluxentai. A bosu pregaus Comenti si siat, donaisi piccioccu, poburu, o arriccu, sabiu, o baioccu, o becciu, o sciancau, zumburud e trottu! Arriceus tottu, Santa Filomena, teneindi pena de tanti filai! A bosu pregaus
EFISIO PINTOR SIRIGU (1765-1814)

E a chi, e a chi, se non a te / dovrei dar colpa, e con chi prendermela? / Non sapevi scegliere a pizzicotto se non me / tra quanti si ballava? / Non lo pensavo n lo credevo mai. / E tu eri del ballo il pi bel fioretto, / l cera comar Anninnonai / con la sua amica Riso-volpino, / cantavano chi ha rame da stagnare / e facevano giri interi di ballo / con strappi a destra e a manca, con sgambetti uncinati / che cera rischio di restare slogati.

Noi vi preghiamo, Santa Filomena, / abbiate pena di tanto filare. / Di tanto filare abbiatene pena, / delle figlie vostre, vere filatrici. / Abbiamo sulle spalle trenta e pi anni / e, noi meschine, soffriamo robuste e sane! / Con promesse vane, con pianto e duolo, / e senza una consolazione che ci sollevi! / Perci vi preghiamo Senza una consolazione, come disperate, / sempre a far girare conocchie e fusi! / Che bellaspettare, tuttaffaticate, / nel seguire la moda, le gale e le buone usanze! / Con tanti fronzoli, fiocchi e pomate / tutto tempo perso il farci belle. / Perci vi preghiamo
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Come si sia, dateci uno sposo, / povero ricco savio o pazzarello; / ancorch sia zoppo o losco / o vecchio o sciancato, o gobbo e storto! / Siamo pronte a tutto, Santa Filomena, / abbiate pena di tanto filare! / Perci vi preghiamo RUSCELLETTO ORGOGLIOSO Non fettas, superbu riu, tantu fracassu in passare cha trainu ds torrare comente fisti unu die, cussas undas, cree a mie, las dt siccare sistiu. Tingannas, riu, si crs de dura sas abbas tuas, una chida asciutta, o duas ti mudat de su chi ses, senza minfunder sos ps, isetto de ti passare.
FRANCESCO MANNU (1758-1839)

DA SU PATRIOTTU SARDU A SOS FEUDATARIOS Procurade e moderare barones sa tirannia, chi si no, pro vida mia, torrades a pe in terra! Declarada est gi sa gherra contra e sa prepotenzia, e cominzat sa passenzia in su pobula mancare. O poveros de sas biddas trabagliade, trabagliade pro mantenner in zittade tantos caddos de istalla. A bois lassan sa palla, issos regollin su ranu: e pensan sero e manzanu solamente a ingrassare. Custa, pobulos, est sora destirpare sos abusos! A terra sos malos usos, a terra su dispotismu! Gherra, gherra a segoismu e gherra a sos oppressores, custos tirannos minores est prezisu umiliare. Si no calchi die a mossu bos nde segades su didu. Como chest su filu ordidu a bois toccat a tessere; minzi chi poi dt esser tardu sarripentimentu. Cando si tenet su bentu est prezisu bentulare.
FRANCESCO MANNU

Non fare, superbo torrente, / tanto fracasso passando / ch ritornerai rivoletto / come fosti una volta / codeste onde, credimi, / le seccher lestate. Tinganni, torrente, se credi / durevoli le acque tue / una settimana asciutta o due / muter il tuo stato / senza bagnarmi i piedi / mi riprometto di passarti.

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Procurate di moderare / baroni, la tirannia, / che se no, per vita mia (in fede mia) / finirete appiedati (sbalzati di sella). / Gi dichiarata la guerra / contro la prepotenza / e comincia la pazienza / nel popolo a mancare. O poveri dei villaggi, / lavorate, lavorate / per mantenere in citt / tanti cavalli da scuderia. / A voi lascian la paglia, / essi raccolgono il grano: / e pensan sera e mattina / solamente a ingrassare. Questa, popolazioni, lora / destirpare gli abusi! / A terra le male consuetudini / a terra il dispotismo! / Guerra, guerra allegoismo / e guerra agli oppressori, / questi tirannelli / ecco il preciso momento di umiliarli. Se no, un giorno coi denti / vi troncherete il dito. / Ora che pronto lordito / a voi sta il tessere; / badate, dopo sar / tardo il pentimento. / Quando il vento in favore / lora di trebbiare precisa. LINGENUA FARFALLA Simplize mariposa, chi disizas de girare faltosa in sa candela, incantada, mischina e no tabbizas cha malu portu incaminas sa vela? Mira chi tue et totu taffoghizas sas alas chi ti servint de bandela pro lompere a sintentu chi tue amas mi chinciampas in mesu e sas fiamas.
GIUSEPPE LUIGI PINNA ( 1836)

LAMENTO DI DONNE In Olzai viuda, ne bajana no nde cojuat pius est cosa intesa, sa levata nos faghet gravoffesa per chie nos bocchit est Ottana. De nos torrare da-e caddu a p est sa idea chi jughent in testa sas dOttana dividint cun su Re e homine pro nois non nde resta, si leades consizu da-e me nde faghmus formale una protesta chi de issas non benzant a sa festa antis ne mancu a comporare lana.
DIEGO MELE (1797-1861)

In Olzai (n) vedova n zitella / non se ne marita pi (una) cosa senza rimedio / il servizio di leva ci fa grave danno / per chi ci manda in rovina Ottana. / Di restituirci da cavallo a piedi (di umiliarci) / proposito che hanno fisso in mente / quelle di Ottana dividono col Re (che arruola i giovani) / e maschio per noi non ne resta / se ascoltate un mio consiglio / presentiamo formale protesta / perch (nessuna) di loro venga alla festa (del nostro patrono) / anzi nemmeno a comperare lana (di cui Olzai fa ancora commercio).

Semplicetta farfalla che ti struggi / di volteggiare fallando intorno al lume / incantata, meschina e non ti avvedi / che a mal porto dispieghi la vela. / Bada che tu stessa tinfiammi / le ali che ti servon da bandiera / per conseguire lintento che tu ami / attenta a non incappare nelle fiamme.

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DIFENDO LA VOLPE In Olzai no campat pis mazzone ca nde li han leadu sa pastura, sa zente, ingolumada a sa dulzura, inventat saba da-e su olidone. De nou han ogadu custimbentu pro sedare vementes appetittos: leadu hana a mazzone salimentu per lhana a piangher sos crapittos. No li faghen a isse impedimentu ne mancu de Dualche sos iscrittos. De mazzone aumentan sos delittos non codiat porcheddu ne anzone. Si furat, in cussattu liscusade ca su famen lu privat de sa vista: postu mazzone in sa nezessitade de fagher sa figura brutta e trista, cun piena e cun totta libertade da ue podet si faghet sa provvista, e isfidat su primu rigorista a li negare sassolussione. In Olzai no campat pis mazzone.
DIEGO MELE

In Olzai non campa pi la volpe / perch le hanno tolto la pastura, / la gente, fatta la gola dolce, / inventa la mostarda dal corbezzolo. / ben questa lultima trovata / che sedi i veementi appetiti: / hanno tolto alla volpe lalimento / ma la sconteranno i capretti. / Non gli possono impedire (le razzie) / nemmeno gli esorcismi di Dualchi (Nuoro): / della volpe aumentano i delitti / essa non si lascia n porcellino n agnello. Se ruba, scusatela in quellatto / ch la fame la priva della vista: / messa la volpe nella necessit / di fare una figura brutta e triste, / con piena e con tutta libert / di dove pu attinge la provvista, / e sfida il migliore dei rigoristi / a negarle lassoluzione. In Olzai non campa pi la volpe.

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AVVISO ALLUSURAIO Anninne, anninne, si cheres benner, ajoe, a sa missa chi adoramus, chi mormus no pessamus, e chi hat a benner sa morte sena de no ndabbizare: pessade e bos emendare sos chi hazis fattu sienda da-e su traballu anzenu Ninnananna, ninnananna, / se vuoi venire, andiamo, / alla messa adorata, / che moriremo non pensiamo, / e che verr la morte / a nostra insaputa: / pensate di emendarvi / quanti avete accumulato ricchezza / sulla fatica altrui CANTANO I MORTI NEL PLENILUNIO Ballemus, ballemus ca semus mortos e no juchimus n purpas n ossos. Balliamo balliamo / ch siamo morti / e siamo spolpati e senza scheletro (trasparenti).

LA SETTIMANA DELLA FILATRICE SVOGLIATA In ora mala, e candhappo a filare? In ora mala, e cando filo como? Su lunis, mundandemi sa domo; su martis, chirchandemi sa rucca; su mercuris, arminandemi sistuppa; sa joia incannucrandemla; sa chenapura mi faco sa farina; sappadu cotta, e mispizo sa testa; sa dominica no filo ca est festa, e sest die ona mi nc ando a ballare. In ora mala, e candhappo a filare? Alla malora, e quando potr filare? / Alla malora, e quando filer oggi? / Il luned (mi ci vuole a) spazzarmi la casa; / il marted a ricercare la rocca; / il mercoled a scardassare la stoppa; / il gioved, a inconocchiarla; / il venerd, a vagliar la farina; / il sabato, linfornatura, e mi pettino; / la domenica non filo perch festa, / e se fa bella giornata, vado a ballare. / Alla malora, e quando potr filare?

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CANTO DEL PICARO SCONFITTO Chircadhapo sa fortuna in terra tambenin mare, ma non la poto incontrare ancora in parte nisciuna. So istadu chin sa galera in chirca peri su mare, ma no potesi incontrare de sa fortuna unispera, non bhat modu ne manera pderla a lughe bogare. So istadu in sOriente bos giuro de cristanu, no servit chi su manzanu mi pese chito a chircare.
AUTORE INCERTO

LA BELLA VITA Si sas montagnas fint de maccarrones e i sos rios de inu mudadu, e ita vida sa e sos mandrones cun cuddos chi han pagu cuidadu! Chie est pesadu senza contivizu si corcat chito, e tarda(t) a si pesare unu mandrone semprest in disizu haer sienda senza tribagliare. Pro si campare dogni mariolu dian cunverter sas pedras in pane, sa vida faghent de su russignolu cantende in sumbra e famidos che cane. No si mattanen(t) chi sa cosa anzena est alimentu de sos isbancados, si li dant sustu, non lis dant sa chena mancari fattan(t) de isbirgonzados. Appoderados si mustran(t) ebbia e si li negan(t) ponide notoriu fina de sabba sun(t) a caristia una die intera no han(t) vivitoriu faghene cascu chi bintrat su punzu mancari parzan giovanos galanos de sappetitu sunu barritortos. Totu sa chida peri sos foghiles sezzidos paren(t) unu patriarca non bei lassan(t) gioddu in sos cuiles cambas de famine, passiza e casca. Su pilu brundu lis faghet servuzu a chie no lischit li naran chest bonu unu mandrone cun totest annuzu ca non li dan(t) a mandigare in donu.
GIUSEPPE TANCHIS (sec. XVIII)

Ho cercato la fortuna / in terra e anche in mare / ma non la posso incontrare / ancora in parte nessuna. / Sono stato con la galea / in cerca (sua) traverso il mare, / ma non potei incontrare / speranza di fortuna / non c modo n maniera / di poterla mettere in luce (scoprire). / Sono stato nellOriente / Vi giuro da cristiano / non serve che la mattina / mi alzi presto a cercare.

Se le montagne fossero di maccheroni / e i fiumi di vino da feste / beata vita quella dei michelacci / e di quelli di scarsa iniziativa.
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Chi si levato senza fretta / si corica presto e tarda a levarsi / il pelandrone non fa che sognare / ricchezze non sudate. Per vivere comodi questi marioli / convertirebbero le pietre in pane / essi fan la vita dellusignolo / cantando allombra e (intanto) affamati come cani. Non silludano che i beni altrui / siano destinati a sfamare chi non possiede tavola propria / se gli danno il pranzo non gli dan la cena / ancorch siano sfacciati. Fanno la figura dellintruso / e a un rifiuto fateci caso / persino dellacqua restano in carestia / restano senza cibo per tutta una giornata. fanno sbadigli con una bocca che centra un pugno / anche se han laria da signori / hanno le mascelle storte dallappetito. Tutta la settimana di casa in casa / prendono posto al focolare con laria da patriarchi / sono la peste degli ovili dove si consumano tutto il latte acido / gambe di fame, passeggio e sbadigli. Le erbe selvatiche gli fanno i capelli biondi / le vantano a chi non ne conosce questa virt / il pelandrone con tutti imbronciato / perch non gli danno da mangiare gratis.

METAFORA Sa burrasca sa nae mi hat perddu Chhaa tantos annos in su mare


RAIMONDO CONGIU (1762-1813)

La burrasca la nave mi ha fatto perdere / che avevo tanti anni in mezzo al mare LA BARCA CHE RITORNA SALVA DOPO LA TEMPESTA Cando su patimentu si mudat in cuntentu, ite bellu penare!
RAIMONDO CONGIU

Quando il patimento / si muta in contento, / quale dolce penare!

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IL LAMENTO DEL PRINCIPALE57

Riccu est andare a caddu, poveru a ssa molentina. Ricco chi va a cavallo, povero chi a dorso dasino.

Anche a nome del bracciante, del pecoraio e dellartigiano, il contadino mi chiama il cavallo ferrato, e chiama s lasino scalzo. Qualche volta mi battezza principale. Vorrei dire al contadino, per tutti, che in molte cose ci possiamo stringere la mano. Aspetto le annate buone anchio per pagare i debiti. Soprattutto al fisco, che venuto in fama di cancro. I venti scoperchiano la casa a me e al contadino. La siccit, le nevicate, le morie ci maltrattano tutti. Alle persecuzioni del cielo si aggiungono quelle degli uomini. Laltranno mi visit la bardana: fortuna e amici mi favorirono e ne ebbi il minore male, che fu che i soliti mi misero in croce, chiedendomi una somma per il riscatto delle bestie. Non passato molto tempo che a mio fratello, meno fortunato di me, sparito il gregge e non gli restato che farsi la croce. Dio ti guardi dallo sgarrettatore, dallincendiario, dal danneggiatore di orti, frutteti e vigne: ti sei addormentato ricco e ti svegli povero. Caso dun mio amico. La gente lo compassionava dicendo: caduto da cavallo . Il mio amico era ricco: e la sua ricchezza consisteva appunto, quasi esclusivamente, nellandare a cavallo; ma poi non faceva che prendere pioggia e sole e neve e vento, e una festa vera o una vacanza non se la poteva concedere, e non faceva che pensare ai figli da mantenere e sistemare. Direi che il contadino, e cos il pastore, vadano esenti da una disgrazia che invece tocca a noi. Il padre del contadino non aspetta la vecchiaia per cedergli il carro e i buoi o il
57. Possidente.

gregge, si mette in un canto, comprende che deve fare la parte del vecchio. Mio padre, invece, anche ora che si fermato, continua a comandare standosene accanto al fuoco o, nel bel tempo, al sole. Il bastone del comando non lo vuol cedere: dice che ci vede persino al buio, che lo vogliamo morto, anzi sotterrare vivo. Ora, quasi vecchio, con figli che vanno verso i venti anni, sono sotto tutela ancora. Perch dunque beccarci lun laltro? Il nostro nemico comune arriva al tempo giusto: il mercante, che sa delle nostre pendenze, lui che non ha fretta di comprare mentre noi abbiamo fretta di vendere; il prezzo lo fa lui, e poco noi lo possiamo discutere. Cos quello che ci costato sudore e sangue, rischi e soprassalti, se lo porta via lui in un momento e lo colloca lontano a colpo sicuro. Dopo il fisco, lui, lo scorticatore.

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PARLA IL RICCO
(per modo di dire)

Andat su poveritu dae depidu antigu a nou. Va il poveretto dal debito antico al nuovo.

Finalmente, dopo tante annate magre, unannata in grazia di Dio. Finalmente sappiamo che cosa significhi essere ricchi e abbiamo potuto passare alcuni giorni di pace. Una, due settimane. Come sono volate. E siamo qui, gi a fare i conti. I conti dei debiti che, mentre abbiamo viaggiato nelle stagioni, si sono accumulati. Noi li chiamiamo salari e, come il sale, essi sono amari; ma da uomini di coscienza, donore e di senno pagarli. Il salario del fabbro. Glielo diamo di cuore. Basta guardarlo in faccia; ne hai mai visto uno che non fosse pallido, di tanto pallore che neppure laria fumosa della sua fucina glielo nascondeva? E poi, ha pazientato fino ad oggi con noi, per lacciaio del vomere, per la roncola e per la scure, per il bullone dellaratro, per i ferri del bue, per la punta del pungolo. Il salario del calzolaio. Essere scalzo del mendicante. E poi dobbiamo camminare tra selci taglienti e tra rovi, e calpestare fango e neve. Ci cuce e cimbulletta le scarpe con coscienza, come piacciono a noi: pesanti, robuste, chiuse. E caro caro, ma ha figli da mantenere anche lui, e ha i suoi debiti, e ha pazientato, come il fabbro, da povero coi poveri. Il salario del veterinario che non ci sembra mai troppo, se pensiamo a certe cose. Lui ha assistito le nostre bestie nelle malattie e ha fatto festa con noi quando sono guarite; lui stato il primo a quotarsi per la colletta che ci rimettesse in piedi dopo linfortunio; lui ha preso il lutto con noi quando andata male. Il salario del medico. Anche lui un lavoratore che ha speso per studiare in citt. Anche in lui c un capitale. E anche al posto giusto un cuore. Ora come uno di noi, e va e viene, entra nelle nostre case ed come quando vi entra un po di sole; lo abbiamo chiamato anche di notte e non ha fatto
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lamento, quando ha trovato che il caso era urgente. E si sa come capita, le soddisfazioni gli arrivano contate, e persino le buone parole, dopo che si fatto in quattro nei casi pi gravi: se il malato se ne andato, la colpa laddossiamo a lui; se il malato se l scampata, tutto il merito lattribuiamo a Dio. E credo che Dio stesso brontoli col tuono, perch siamo cos ingiusti; anzi ne sono certo tutte le volte che ci parla dentro e ci ricorda che c per dare una mano, e non per fare tutto lui. Il salario della levatrice. Essa ci salva la madre dei nostri figli; essa la prima a venirci a dire: nato : ed sempre un bel momento quello, anche se la casa gi piena di creature. Il salario del bottegaio. Vita, la sua, che una delle nostre invidie: poter, come lui, stare dietro il banco in tempo cattivo e in sereno. E caro sar caro, ma infine senza di lui non so come avremmo potuto fare per essere qui vivi, in questi giorni che, ripeto, ci sembra di essere ricchi perch, almeno, possiamo sdebitarci. Il salario dellesattore. Lui ci ha lasciato respiro. E avrebbe potuto con la legge alla mano sequestrarci la caldaia, il canterano, il tripode del focolare, o subastarci la casa. Il salario del carpentiere. Lui ci ha medicato il carro che con i buoi la nostra casa che cammina. Il salario del parroco, che quellelemosina che le nostre donne versano in silenzio nella bisaccia del sagrestano in memoria dei nostri morti. Il salario della terra: e questo ci fa mormorare e ci mette di malumore perch ci ricorda questa e quella guerra che non ce lhan data secondo le promesse, e ci rammenta i compagni, o i figli che non ne sono ritornati. E cos lelenco terminato. E, fatto onore ai nostri impegni, eccoci qui a guardare nel granaio: preleva e preleva, il grande mucchio quasi sparito. Non passer molto e ricominceremo coi sospiri e coi debiti. Vengano almeno le buone annate che non ci fanno vergognare; che ci fanno questo dono di una, due settimane da ricchi. E ci capiti sempre davanti uno che ci ascolti con pazienza e ci faccia buon viso, quando ci consoliamo dicendo che Adamo stava meglio di noi perch tutta la terra era sua, e poteva scegliere la migliore, e quanta ne voleva.
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POETI DEL NOVECENTO

AVE MARIA Deu ti saivia, Maria, piena daffettu piena di grazia e piena dumisthai, binidittu lu fruttu i lu to pettu chissu latti purissimu chi di. Prega pa ca tadora ingiunicciaddu; e prega pa lu malu e linnuzenti, pa lu debbuli afflittu e lu putenti eddu pure infilizzi e tribuladdu. Prega pa ca senza cummitt fura piggia la fronti sotta la tusthura, mamma di caritai e mamma dumisthai, sajveddizi da dugna mala sosthi, abani e sempri e i lora di la mosthi.
POMPEO CALVIA (1857-1919)

RITORNANO LE RONDINI Santa Maria gi est bella a Pasca e aprile cando torran sas runchines da-e mare: in cada nidu e in cada campanile, toccos de gloria e gridos dallegria. Ma prus bellu est a bier da-e su jannile sas feminas bessinde tottimpare, artas e bellas, a passu signorile, chi paren santas foras de sartare.
SEBASTIANO SATTA (1867-1914)

Santa Maria bella a Pasqua daprile / quando ritornano le rondini dal mare: / da ogni nido, da ogni campanile, / rintocchi a gloria e gridi dallegria. Ma pi bello contemplare dalla soglia / le donne che escono tutte insieme, / alte e belle, con passo elegante, / che sembrano sante fuori della nicchia.

Dio ti salvi, Maria, piena daffetto, / piena di grazia e piena dumilt, / benedetto il frutto del tuo petto / e il latte purissimo che dai. Prega per chi tadora inginocchiato, / e prega per il cattivo e linnocente, / per il debole afflitto e il potente, / anche lui infelice e tribolato. Prega per chi senza commetter furto, / piega la fronte sotto la tortura, / madre di carit, madre dumilt, / salvaci da ogni mala sorte, / adesso e sempre e nellora della morte.

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LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA (rifacimento da Giacomo Leopardi) Passada es sa tempesta / a bolos in saera / ecco sos puzoneddos fagher festa. / Sas puddhas in carrera / a siscccarusadu / torran a trumas in su ighinadu. Si serenat su chelu in sa muntagna, / silgiarat sa campagna, / e giaru in saddhe cumparit su riu. / Si ponet dogni coro in disilviu, / a sarte sua su trabagliadore / torrat: torrat totue su rumore. Cantende sartijanu / cum arminzos in manu / bessit a su jannile pro mirare / su chelu nettu: a fora pro leare / de sabba piojia / bessin sa femineddhas a porfia Cando cun tantu amore / somine attendet a simpreu sou? / cumprit su ezzu e cuminzat su nou? cando leve e sos males es sammentu?
PIETRO CASU (1878-1954) Da Sischiglia, rivista mensile di poesia, letteratura e arte di Sardegna, anno III, n. 2, febbraio 1951.

EST UNA NOTTE E LUNA Est una notte e luna, de cuddas lunas de atonzu giaras, chi cando tue tacciaras a la ider andare isperas nuovamente in sa fortuna. Hat pipidu tantu tottu sa die. Pariat sa terra, in sadde e in sa serra, tra sos fenos siccados, bestida de antighissimu piantu. Ma ecco in su serenu avanzare sa notte; giaru chelu risplendere; e che velu de isposa, sa luna, bestit de biancore onzi terrenu.
ANTIOCO CASULA (1878-1957)

Passata la tempesta / a voli nellaria / ecco gli uccelli fare festa. / Le galline sulla strada / col verso consueto / ritornano a frotte nel vicinato. Si rasserena il cielo alla montagna / si rischiara la campagna / e chiaro nella valle appare il fiume. / Ogni cuore si pone in allegria / al lavoro suo il campagnolo torna: / torna in ogni luogo il rumore. Cantando lartigiano / con gli arnesi in mano / si fa sulla soglia per osservare / il cielo lavato: fuori per attingere / acqua piovana / escono le donnette a gara Quando con tanto amore / luomo attende alla sua occupazione? / termina la vecchia e comincia la nuova? Quando alleggerito dagli affanni il ricordo?

una notte di luna, / di quelle lune chiare dautunno / che, quando tu ti affacci / per vederla andare, / speri nuovamente la fortuna. Ha piovuto tanto, / tutto il giorno. Pareva la terra / nella valle e sulle alture boscose / tra i secchi fieni / vestita di antichissimo pianto. Ma ecco nel sereno / avanzare la notte; chiaro cielo / risplendere e come velo / di sposa, la luna, / veste di chiarore ogni cosa terrena.

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SA TIA DE FILARE Non rideva mai, qualche volta cantava canti tristi e molto antichi. Era sola, filava per un pane che non voleva mendicare Ma chi era? Ma, chie fiti? Non lu poto ischire, ne mai mi so postu a dimandare: la giamaian sa tia de filare, e folzis fit sa tia de patire. Una die pius a su giannile non besseit, serrada fit sa porta, sa tia de filare si fit morta, filende, senza fogu in su foghile.
ANTIOCO CASULA

SANTU FRANZISCHU DI LA FUNTANA Santu Franzischu, candu cara sori cun tanti nuareddi tinti in rosa, ed lAvemaria, mi fermu calchi voltha i la funtana a figgiur la to faccia di Santu, a ditti lu ghi sentu cu la prighiera in cori e un pogu di pientu. Santu Franzischu, cantu lhai amadi chissanimi chi brani firizi tutti li cosi chha criaddu Deju! Pardonu ti dumandu pa tutti li pizzoni chaggiu morthu, candera piccineddu, e ancora no sabia cosera umanidi, e no ti cunuscia. Santu Franzischu, eju non soggu dignu di funtumallu, di prigallu a Deju; prega tu soru, tu chhai tanta santidai e porthi li piaghi, chissi piaghi chEddu ha gi pusthadu pa noi che semmu tutti piccadori. Prega tu soru, tu chi in chista bida ch un mari di durori torria, e in eternu sia la pazi e chissa santa caridi chera fiara manna i lu to cori. Santu Francischu, tu chhai disizadu pa lamori di lomu lu marthiriu, tu sai canteju suffru si pensu a lorfaneddi
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Ma, chi era? Non lo posso sapere, / n mai mi son messo a domandare: / la chiamavano la vecchia del filare / e forse era la vecchia del patire. Un giorno non pi alla soglia / venne, serrata era la porta, / la vecchia del filare era morta / filando, senza fuoco al focolare.

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Poeti del Novecento

chi so senza li babbi morthi in gherra. Ahi, canti criaduri isthraziadi e ceghi, parch in custhu mondu inveci di lamori v lodiu cu la bomba e la mitraglia! Ma tu, chisthu ti digu, tu suffri milli volthi pi di me en lu to cori mannu chin dogni vena portha lu sangu binidittu di Ges. Pbari eri, fradareddu isculzu ma prnzipi, curunna di la Geisgja, e sempri i la to bida fideri a chissIsposa chi i lu mondu nisciunu vo pi b. E in chistu mondu ab finza li cristhiani pari pari sammazzani pa lru e li din e thani ismintiggadu, e tuttu sangu lagrimi ruina. Santu Franzischu, candu cara sori ed lAvemaria, e pregu, a me mi pari chi i lba di la bazza vi sia la luzi debba di lu zeru. Li cantighi sintndini, li soni di lgniri e di lnimi biadi, e tutti li pizzoni in giru in giru ti fzzini fstha Ma lomu chhai amadu non tha cumpresu ancora e in te no vedi lu matessi Deju chi zi vo tantu b e zi pardona, Santu Franzischu meju.
AGNIRU CANU (1878-1966)

Santo Francesco, quando tramonta il sole / con tante nuvolette color rosa, / ed lAvemaria, / mi fermo qualche volta alla fontana / per ammirare il tuo volto di santo, / e dirti ci che sento / con la preghiera nel cuore, / e un poco di pianto. Santo Francesco, quanto le hai amate / quellanime che volano felici, / tutte le cose create da Dio! / Perdono io ti chiedo / per tutti gli uccelli chho ucciso / quandero fanciulletto, / e ancora non sapevo / cosera umanit / e non ti conoscevo. Santo Francesco, io non sono degno / di nominarlo, di pregarlo Dio; / prega tu solo, tu / che hai tanta santit / e porti le piaghe, / quelle piaghe chEgli ha gi portato / per noi che siamo tutti peccatori. / Prega tu solo, tu che in questa vita / ch un mare di dolore / ritorni e sia in eterno, / la pace e quella santa carit / chera fiamma grande nel tuo cuore. Santo Francesco, tu chhai desiderato / per lamore delluomo il martirio, / tu sai quantio soffra / se penso agli orfanelli: / che sono senza i padri morti in guerra. / Ahi, quante creature / straziate e cieche / perch in questo mondo / invece dellamore / c lodio con la morte e la mitraglia! / Ma tu, questo ti dico, / tu soffri mille volte pi di me / con il tuo grande cuore / che in ogni vena porta / il sangue benedetto di Ges. Povero eri, fraticello scalzo / ma principe, colonna della Chiesa / e sempre nella tua vita / fedele a quella Sposa / a cui nel mondo nessuno vuole pi bene. / E in questo mondo ora / anche i cristiani tra loro / si ammazzano per loro e il denaro, / e ti hanno dimenticato, / e tutto sangue lagrime rovina. Santo Francesco, quando tramonta il sole / ed lAvemaria, / e prego, a me (mi) pare / che nellacqua della vasca / vi sia la luce bella del Cielo. / I canti si odono, i suoni / degli angioli e delle anime beate / che tutti gli uccelli / intorno intorno ti fanno festa / Ma luomo chhai amato / non tha capito ancora / e in te non vede lo stesso Dio / che tanto ci ama e ci perdona, / Santo Francesco mio.
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NIT CLARA Nel cel de lluna clara duas nuvulas llugras avanzan de grecal i passan las bandras damunt a la marina de plata alluminra. Las torras encantras ne la nitra dolza una rondalla ascltan que a la custra londa ne la llumra blanca apasigura conta. Un smniu me retrna aquesta nit al cor: un smniu que me lliga coma un bel fil de or a mttas derba lluisa a dint a un gran giard. Sagut al revell i tascultava allora o povra iia mia Ne laria saspalgiva lombra de la tardta, las flors sa carivan ne la campagna quita a poc sa murvan toz de una campana Tu divas la rondalla del golf i de la fara de torras, de murllas. Lus contas que a stanit tornan al cor ancra per duas nuvulas blancas per questa lluna clara.
RAFAEL SARI (1904-1978)

Nel cielo di plenilunio / due nuvole leggere / avanzano da grecale / e passano come bandiere / sopra il mare / illuminato dargento. Le torri incantate / nella notte dolce / ascoltano una fiaba / che alla riva londa / nella luce lunare / tranquilla racconta. Un sogno mi ritorna / questa notte nel cuore / un sogno che mi lega / come un bel filo doro / a cespugli di mentastro / dentro un grande giardino. Seduto sul muretto / io tascoltavo allora / povera nonna mia. Nellaria si spargeva / lombra del crepuscolo / i fiori si chinavano / nella campagna quieta / e piano morivano / gli squilli di una campana. Tu raccontavi la fiaba / del golfo e della fata / di torri e di muraglie. / Racconti che stanotte / mi tornano al cuore ancora / per due nuvole bianche / per questa luna chiara.

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SAPADU SANTU Oe est Sapadu Santu e sun tocchende sas campanas a forte. In mesu domo Peppa che assustada lassat como su pane chi giughiat cumassende (unu pagu de modde e de chivalzu). E isclamat: Su Cristos est risortu! Chessit coidadosa a mesu sortu e la ido afferrende unu furcalzu Unu furcalzu de ponner in bide, pro su bergulu e sortu ammanizzadu: e si sinnat su fronte infarinadu in nomen de Gessu e de sa Fide. A domo chintrat a furcalzu reu, cun sa chiza improntada a fagher morte: a rughes e a crastos colpat forte pro chisperder in presse su giudeu. Bessi fora giudeu! Essicha fora! nara Peppa contrita, a boghe manna: e colpat a sos muros, a sa gianna, ma su giudeu no chessit ancora! Bessi fora giudeu! E de piusu lu persighit a colpos fina terra: candecco su furcalzu perra perra si truncat pro samore de Gesusu! A sisostre che pigat attrivida e nde falat mazzocca e cherchizone: sutta sos bancos, in dogni cuzone contra giudeu tantu est accanida!
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Bessi fora giudeu!. E a sa zega colpat addae lettu su mazzuccu: e chessit manighendesi su succu unu attu furunciu, attrega attrega
ANGELO DETTORI (1894-1981)

Oggi Sabato Santo e stan rintoccando / forte le campane. In mezzo alla casa, / Peppa come spaventata lascia / di lavorare il pane, / (un po di focacce e di pane da biscottare). / Ed esclama: Il Cristo risorto . / Esce dalla stanza e va in mezzo allorto / e la vedo che afferra un forcone / Un forcone (una pertica) da far da palo alle viti, / che era destinato al pergolato dellorto, / e si fa il segno della croce sulla fronte infarinata, / in nome di Ges e della Fede. Rientra in casa col forcone dritto, / con la grinta dunassassina: / picchia a casaccio / per scacciare il giudeo al pi presto. Va fuori giudeo. Vattene fuori / dice Peppa contrita a gran voce, / e picchia sui muri, sulluscio, / ma il giudeo non vuole andar via ancora! Va fuori giudeo, vattene fuori . E di pi / lo perseguita con colpi che arrivano fino a terra: / quandecco il forcone / si stronca in due per lamore di Ges! (Allora Peppa) sale temeraria al solaio / e ne discende con un bastone nocchieruto di quercia annosa: / sotto le panche, in ogni angolo, / contro il giudeo tanto accanita! Va fuori giudeo, vattene fuori . E alla cieca / colpisce col bastone nodoso il letto: / e sbuca di sotto masticando la minestra cruda / il gatto ladro, quatto quatto.

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LAGNELLINO PASQUALE Alligros coros, es Pasca: da-e sas enas in fiore es beninde su pastore chin sanzoneddu in sa tasca.
GIOVANNI MULAS (1864-1945)

tristu che-i sa morte non frastimat, n tunciat: a dogni pedra abbrunciat ma torrat a bettare cum Deus isettende mezus sorte.
AUSONIO SPANO (1870-1942)

Allegri cuori, Pasqua: / dalle umide valli in fiore / arriva il pastore / con lagnellino nello zaino (di pelle di capra). TEMPORADA Nues fittas che tura saccaddan in sara: passan bascias a sera sas aes ali pistas affannosas chirchende una cresura. Finzas su chercu in monte tremet in dogni rattu: sos lampos, fattu fattu, in tantu iscurigore alluman de fiama sorizonte. Sabba falat a fustes: pro cantu ferit oju est rangulu e toroju ogni bene distruttu: arzolas, ervenarzos e bidustes. A caddu e su runzinu, ciuffi ciuffi e addaju, ruppet unu massaju cun su triuttu a coddu che puba chi chimentat su destinu:
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Nubi fitte e nere / saccavallano nellaria: / passano bassi a sera / gli uccelli con le ali peste / che cercano affannosi una siepe. Persino la quercia sul monte / trema in ogni fronda: / i lampi, luno dietro laltro, / in tanto buio / accendono di fiamma lorizzonte. La pioggia scende a frustate: / fin dove locchio si spinge / rantolo e strazio / ogni bene distrutto / aie, campi lavorati e maggesi. A cavallo del suo ronzino, / plaf plaf e lento, / spunta un contadino / col tridente sulla spalla / come un fantasma che il destino mette a cimento: / triste come la morte / non impreca n singulta: / inciampa in ogni sasso / ma continua a seminare / sperando con Dio miglior sorte.

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LI VECCIAREDDI Li vecciareddi accudini a lu soli i li pidrissi di Santa Maria, si posani e si contani li foli, palsch lu soli poni lallegria. Eiu chi laggiu intesi li so foli una sola cunt vi ni vulia, la fola di Martinu Buladori, cuss ciamaddu pa la valintia, cun Deus isettende mezus sorte. Giumpendi lannu milli e settizentu un marchesi vulessisi pus sobra unischina comu in un suf, Martinu tandu abissisi a buggani un pezzu di rasoggia e cun ausentu dizisi: Posa inogghi, anima cani!.
POMPEO CALVIA (1857-1919)

LA FAVOLA DI ROSA TRACCA

Furat chie furat in domo, peius chie benit de mare. Ruba chi ruba in casa, peggio chi viene dal mare.

I vecchietti si radunano al sole / alle panchine di pietra di Santa Maria / si siedono e si raccontano le fole / perch il sole mette allegria. Io che ho sentito (tante volte) le loro fole / una sola raccontare ve ne vorrei, / la fola di Martino Volatore, / cos chiamato per la valentia, / [con Dio in attesa di miglior sorte.] Allinizio del mille settecento, / un marchese pretendeva di sedersi / sopra la schiena dun uomo come sopra un divano. Allora Martino si tolse di tasca / una lama affilata e con calma / gli disse: Siediti su questa, anima di cane.

Al tempo che i nostri antichi amavano le pietre, gli alberi e le fonti al punto che li adoravano, comandavano le donne: e le cose andavano meglio di adesso. Da quando il bastone del comando passato agli uomini, sono cominciati anche i guai nel mondo. Prova ne sia che, finch io mi travestivo da uomo e conducevo alle bardane mio marito e i miei figli, la nostra casa fu in ponte; e da quando la vecchiaia mi leg mani e piedi, da quello stesso momento il vento scoperchi la casa. La bardana, che cos la bardana? difficile spiegarlo: come un giuoco che pu finir male. Ma non ho detto tutto. Anche i nostri antichi la praticavano. Al comando delle donne scendevano dai monti sulla gente addormentata. Nei momenti tranquilli, le famiglie, da nuraghe a nuraghe, venivano a male parole per i litigi dei ragazzi e per le usurpazioni di confine. Ma si faceva per passare il tempo in allegria. Discordie in famiglia; che si accomodavano sotto una quercia, con lodore degli arrosti. Perch, solo dove non c scompiglio, la concordia non succede, dove non c malattia, l non si cerca n si trova rimedio. Ma vennero dal mare i forestieri con armi nuove e ci sconfissero e dissero ai nostri antichi: Qui ci vuole una legge . E fu una legge contro le bardane: la legge del macello, che era il loro diritto di decima, e anche pi: una bardana alla grande. Cos, la gente si pass la voce e tutti daccordo dicevano che, ladri per ladri, il diritto di precedenza lavevamo noi in casa nostra, tanto pi che le cose prima del loro arrivo passavano s di mano in mano, ma restavano nellisola, mentre ora prendevano la via del mare. Chi aveva ragione? Avevamo
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La favola di Rosa Tracca

ragione noi. Per questo prendemmo le armi: e tanti e tanti morirono dalluna parte e dallaltra: la fortuna fu per con loro e ci trovammo con la fune al collo, come le bestie domite. Ma non tutti. Molti di noi entrarono nei boschi giurando di prendersi la rivincita. Quelli sapevano aprire strade e costruire ponti e ammaestrare cani e se ne servivano per le loro bardane. I loro dei somigliavano a loro: una pessima famiglia che aveva per capo uno che faceva tuoni e lampi, e intanto la moglie lo tradiva. Ma venne la paga anche per loro. E fu quando Pilato se ne lav le mani e lasci crocifiggere Cristo. Il terremoto di Gerusalemme fece cadere le loro citt, come lincendio distrusse Ollolai dopo il peccato. Caddero da cavallo. Ma se Ollolai non ritorn come prima, Roma s, come volle San Pietro. E Cristo arriv anche da noi e disse: Lasciate in pace gli alberi, le pietre e le fonti e adorate il Dio che li ha creati . E cos fu. Sembrava ritornata la fortuna. Ma vennero altri forestieri dai quali si sperava, perch credevano nel vero Dio, che cancellassero la legge del macello e invece non lo fecero e furono come gli altri e peggio. La gente cominci a dire: Siamo nati con un destino maledetto . Soltanto una donna che si chiamava Eleonora della corte di Oristano disse: Il destino ce lo facciamo noi e mont a cavallo e disse al re di Spagna: Tu vuoi mio figlio, e tu vieni a prenderlo se lanimo ti basta . Il re non venne, ma venne la peste, e la nostra regina and tra i malati e mor come una santa. Ricominciarono i giorni della disperazione e per anni e anni dur il lutto, finch si seppe che un bambino era nato nel Marghine e che la maga dIllorai aveva annunziato che questo bambino avrebbe fatto parlare di s il mondo. Infatti divenne un gran giudice e un giorno che il vento si era levato ordin di trebbiare. Era il tempo della speranza per tutti contro i pochi cavalli di stalla.58 Ma anche quella volta fu uno di quei sogni che al risveglio ci lasciano con la bocca
58. I feudatari.

amara. Poi ognuno riprese a uscire la mattina e ritornare la sera come condannato. E soltanto le guerre erano le cose veramente nuove: perch dove non c mai bene, un grande dolore persino un conforto. Ora io sono qui, e aspetto. Aspetto la morte che non rispetta nessuno e aspetto mio nipote che mi dice di tempo in tempo: Tu sei ferma come le montagne, ma gi Cristo s messo alla testa dei poveri.

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LA TANCA

Il Satta la definisce campagna incolta, cinta da siepe o muriccia, dove pasturano i branchi nomadi e gli armenti bradi. una definizione dellottobre 1909 (data della prefazione del poeta ai suoi Canti barbaricini) la quale pu essere accettata dopo un cinquantennio che passato senza che quella campagna abbia cessato di essere incolta, con i suoi muri barbari e i branchi nomadi e gli armenti bradi. Tanca viene dal verbo tancare che significa chiudere, cingere con muro o siepe. Ci fu un tempo, non molto lontano e ricordato dai pi vecchi, in cui la terra era aperta come un mare, dove pastori e contadini affrontavano le stagioni, quasi sempre incerte, godendola sotto consuetudinarie intese, e spartizioni rotatorie: in una specie di comunismo rurale. Raccontano che allora le feste nella campagna fossero parentesi senza nuvole almeno al tempo delle aie comuni e della tosatura e delle marchiature a fuoco. E che i canti anzich individuali ed elegiaci fossero corali e religiosi, capaci di sedare e spegnere le inimicizie e i dissensi. Da qualche parte lo chiamano il tempo de su connottu (del conosciuto) e lo rimpiangono come un paradiso perduto. Talvolta nel parlarne non riescono a nascondere il rancore, con frasi e furori astratti o cantando: Tancas serradas a muru / fattas a safferra-afferra / si sifferru esseret terra: / si haan serradu puru (tanche cinte da muro / frutto dellafferra-afferra / se linferno fosse terra / avrebbero usurpato esso pure). Perch di usurpazioni alla grande si pu parlare. La propriet privata in Sardegna si pu far risalire, grosso modo, alleditto emanato da Vittorio Emanuele I nel 1820, alla cos detta Legge delle chiudende che permetteva ai privati di diventare assoluti proprietari dei terreni ancora gravati da servit, sol che li recingessero con muri. La legge, inoltre, dava facolt ai Comuni di vendere o cedere gratuitamente i propri
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terreni. Si verificarono abusi e usurpazioni di ogni genere tra le popolazioni della campagna: donde la strofe popolare. Anche i beni ademprivili subirono la stessa sorte: 478 mila ettari nel 1865 e circa 200 mila nel 1873. Appena fu decretata la eversione della feudalit, pareva si volesse creare una classe di coltivatori diretti, pareva che si volesse insediare nelle campagne una notevole parte della propriet privata gi esistente. Specialmente quando fu incamerata tutta la propriet ecclesiastica, ci fu da parte dei proprietari agiati o grossi un immediato arraffare senza nessuno scrupolo. Solo i ricchi, scrive il Sonnino, trovavano amicizie e organizzavano le camorre. E i beni ecclesiastici caddero quasi esclusivamente nelle mani dei grossi proprietari. triste, soggiunge il Sonnino, pensare di quale enorme ricchezza stato defraudato lo Stato, senza che per questo si giovasse n allagricoltura n alle classi bisognose. Le quote assegnate ai contadini erano troppo piccole e poco fertili. Ai contadini daltra parte mancava il capitale indispensabile per la messa a coltura dei fondi. Tali quote venivano presto vendute per pochi soldi ai proprietari del luogo o venivano cedute agli usurai per debiti contratti. E ci per non parlare delle frodi e delle usurpazioni. Racconta un pubblicista di parte cattolica che un prelato, trovandosi a Genova, al primo sentore dellEditto sulle chiudende simbarc col primo veliero diretto in Sardegna e precedette i suoi colleghi deputati e la notizia ufficiale delleditto. Arriva a casa e dice ai suoi: Tancadebonde (chiudetene). E i parenti si diedero a chiudere o meglio a tancare e armatisi darchibugio e di spingarda si misero a fare la guardia alle tanche. Cos sarebbe nata la fortuna dei suoi. Larticolista continua testualmente: Quel vocabolo tanca da allora non significa soltanto tratto di terreno chiuso sia pure da muri a secco (ma molto massicci perch possano costituire un riparo dietro il quale asserragliarsi per la difesa contro le pretese degli altri) ma anche un sistema economico arretrato e restio a qualsiasi innovazione e a qualsiasi modificazione. Su questo sistema si fond la fortuna dei pochi e la miseria dei pi. La tanca, per la sua natura, per la sua origine, non poteva n
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ha potuto nel tempo organizzarsi e trasformarsi in azienda agricola moderna. Chiuso orizzonte della tanca, sistemi vieti di conduzione, tenace nel difendersi dal nuovo. Ma gi qualche trattore marcia sui cisti e sugli asfodeli. Come nelloasi di Siocco, nella Trexenta. Una tettoia, un silos in costruzione. E una casa quasi signorile. Uomini del Centro, mangiatori di carne, si sono collocati qui come pionieri. Con una fatica e un coraggio da tempi di gesta hanno gi liberato ettari e ettari dai sassi, montagne di sassi: hanno gi messo a vigna e a frutteto, e a orto, e a medicaio, e a oliveto, la loro vasta terra. Anche le pecore, anche le mucche non sono pi in braccio alla fortuna.

1848: ANNO DEI PORTENTI

Accudimu a una via di menti e di cori uniti: li balbari incrudeliti chi so in la Lombardia di scacci limpegnu sia; no v ora di pald. Andemu in bolu a ghirr come lalti libarali femu vid cantu vali lu nostru curaggiu ab. Pi non si de istint: O Libalti o Mur. Andemu sutta lInsegna di tre culori currendi ch Mamma nostra aspittendi
(da Raccolta di poesie tempiesi)

Accorriamo allo stesso luogo, / uniti di mente e di cuore; / i barbari incrudeliti / che sono in Lombardia / scacciare, questo sia il nostro impegno; / non c tempo da perdere. Voliamo alla guerra / come gli altri liberali, / facciamo vedere quanto vale / il nostro coraggio in questora. / Pi non si deve indugiare: / O Libert o Morire. Accorriamo sotto linsegna / dei tre colori; / ci attende la Madre nostra

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SETTE PICCHI AL PORTONE

La terra tremir de por (paura). Del cel gran foc devallar (discender) / Aprs vindr terribilment Lu Fil de Deu onnipotent / Qui morts i vius judicar. Da Lu Judici (Il Giudizio) che un canonico legge dal pulpito, in catalano, ad Alghero, la notte di Natale, con un chierico al fianco, che tiene in mano, simbolo di giustizia, la spada dargento regalata al Capitolo dallimperatore Carlo V.

1. Quando Barbaro Peronnia picchi al portone, San Pietro saffacci allo spioncino. Oh, chi si vede disse. Tu saresti quello che port via due buoi da lavoro a Pietro Asciutto, il contadino; e si dimentic di restituirli. Peronnia che aveva il suo alibi in tasca rispose: Voi lo sapete che me ne sono pentito, e sapete anche le lacrime sincere che piansi, quando il poverino mor di crepacuore; anche a voler trascurare che il vescovo me ne abbia assolto nella sua ultima visita pastorale al mio paese. Barbaro Peronnia figlio di Bachisio gli disse con la maggior calma possibile Pietro questo non un tribunale dove abbiano un qualche valore le arringhe degli avvocati e gli alibi pi scaltri. Qui si sa tutto molto prima che arrivi limputato. E gi c tanto di sentenza definitiva che affissa allalbo pretorio. E solo per il fatto che non hai imparato a leggere (e non te ne muovo rimprovero, dal momento che anchio, finch facevo il pescatore, ero di poche lettere) tenter di spiegartela, di fartela latina, come si dice dalle tue parti. Dunque; Pietro Asciutto che era contadino e non aveva altro bene se
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non quei buoi, si accor tanto della perdita che ne mor. Che il medico abbia certificato: morto di consunzione, poco importa; la verit che lhai ucciso tu dandogli quel dispiacere: e questo il primo punto. Secondo, sta bene che il Vescovo ti abbia assolto; ma lassoluzione qui non stata convalidata e ha, pertanto, lasciato le cose come stavano; e, mi devi credere, neanchio, se lo volessi, le potrei modificare: vale a dire che io che sono Pietro, nemmeno io potrei assolverti dun peccato che, con tanti dottori in sacre scritture che abbiamo in cielo, non s trovato come classificarlo, che cosa insomma sia stato: dato che fu omicidio nella sostanza vera e nascosta, e lucciso continu tuttavia a restare in vita apparente, finch ne mor consumato. Va dunque da Lusb, lAnzipirri,59 e proponigli il tuo indovinello che chiuso come una mandorla. Per la pena che nondimeno mi fai, mi consento di darti un consiglio: evita di piagnucolare anche a quella porta ch, approfondendo il caso, ti rifiuterebbero lentrata per lasciarti vagare in eterno, di cespuglio in cespuglio, come uno finito in peccato mortale e lasciato senza sepoltura. 2. Pochi giorni dopo picchi un altro e San Pietro affacciatosi prontamente lo salut: Ah, sei tu, Priamo Apiario? Mi compiaccio della tua venuta. E che nuove al tuo paese? Buone, ottime, tutti in florida salute rispose festoso Priamo. E, il raccolto degli alveari, com andato questanno? Priamo si fece rosso e non rispose. Lo ammetti anche tu davere sbagliato porta. Tu non puoi entrare, e gi c tanto di sentenza allalbo pretorio, che io non ti notifico, dal momento che sai leggere . E gli chiuse lo spioncino in faccia. Allora Priamo Apiario, sperando di poter andare almeno in purgatorio, gett gli occhi sulla sentenza che era proprio al posto dove San Pietro aveva detto.
59. Nome del Maligno; anche Luzinferru o Sa (b)estia.

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Sette picchi al portone

La sentenza diceva: Priamo Apiario, ladro dalveari, di miele dolce e miele amaro, morto alla fine di punture, condannato a vita. 3. Venne la volta di Vincenzo Roncola che si present con un gran picchio al portone. Eh, che furia abbiamo, caro Missente gli disse San Pietro dallo spioncino. Ti vedo di buona cera. E i boschi e gli alberi da frutto che fine han fatto? Vincenzo Roncola si fece rosso come il fuoco. Lo dicevo io gli fece il portinaio che c un errore grossolano, da parte tua. N posso negare che la tua sentenza non sia troppo complicata, perch non mi faccia obbligo la coscienza di rendertela latina. Dunque, ascoltami bene. Lodate le doti di scaltrezza e destrezza che Nostro Signore ti aveva elargite perch ne facessi buon uso, la sentenza contiene un elenco preciso delle tue prodezze. Un elenco che non finisce pi. Ne hai fatte pi di Carlo in Francia. Eppure ti s abbonato tutto perch, come sai, la misericordia di Dio infinita; ma neppure essa ti ha potuto far grazia di quattro misfatti: lincendio dun bosco, lo sgarrettamento di animali darmento, lo spiantamento duna vigna E forse e senza forse avresti trovato, grazie al tuo, sia pur tardivo, pentimento, un qualche santo avvocato favorevole alla tua reclusione in purgatorio per almeno un centinaio di secoli; ma ti sei perduto. Ti sei condannato al fuoco eterno per il pianto che facesti fare a un bambino: a quel bambino che entr una mattina nel suo frutteto e trov tutti i suoi alberi a terra: essi che non avevano fatto mai male a nessuno, essi che alloggiavano gli uccelli, che rallegravano la vista, che davano i loro frutti e lombra, che non potevano difendersi. Tu lo hai scacciato dal suo giardino ed giusto ti sia proibito dentrare in questo. 4. Unaltra volta San Pietro sente un picchio di bacolo al portone; scosta lo spioncino e fa: Benvenuto, don Pietro Marengo, mi sembrate proprio stanco.
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Gli anni pesano a tutti. Vedo per che voi, il mio caro e venerato San Pietro, ve li portate come un fiore allocchiello. Mi compiaccio, carissimo, del tuo stile fiorito; ma infine parliamoci col cuore in mano. Qui risultato, dopo calcoli e inchieste minuziose e precise, che il peso dei tuoi anni al di sotto del peso delloro che hai lasciato con tanto strazio in terra. Ti sono daltra parte obbligato delle continue offerte che mi hai fatto in questi ultimi tempi, ma mi sono visto costretto a respingerle ogni volta perch le trovavo macchiate di sangue: di sangue spremuto a quanti, perseguitati dalle annate e dalle malattie, ricorrevano a te nel bisogno. E la tua ultima volont quale stata? Che ti stendessero da morto sul tapinu de mortu, su quello stesso che gi da secoli la tua famiglia riservava al Cristo deposto dalla Croce il Venerd Santo. Cos facesti ridere anche le pietre del tuo paese e dintorni, e qui piangere persino gli angeli. Questo tutto . E riaccost lo spioncino. 5. In quello stesso anno arriv col passo legato uno che sul punto di picchiare ci pens su due volte. San Pietro saffacci. Massimo Ru, quello che tutti chiamavano Maledetto? Ci mancavi soltanto tu gli fece. Luomo abbass la testa e aspett di buon animo parole anche pi aspre, tanto orribile ora gli sembrava essere stata tutta la sua vita. Di te, riprese San Pietro, di te si parla ancora sulla terra, e le madri ti nominano in luogo dellorco per tener buoni i bambini. Ne hai fatte a piedi e a cavallo: hai seminato pianti e lutti col tuo fucile infallibile. Ma quellultima volta che andavi a uccidere il tuo peggiore nemico che ti voleva tradire, per un vagito nella notte ti fermasti a quella casa sperduta; te ne ricordi? Bene, e la nonna diceva: Si avesse almeno una scodella di brodo per la madre che muore. E tu corresti senzaltro in cerca dun agnello e, dopo averlo trovato e lasciato alla puerpera, fosti ferito a morte dal pastore, non per lagnello ma perch gli faceva gola la taglia. E poi, poi hai gettato via il fucile, e sei andato lontano, sei caduto, hai appoggiato la testa sopra una pietra per morire da uomo, ti sei fatto la croce per morire da
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cristiano. E quello che tu non sai, oggi la madre allatta sana e contenta il suo bambino. Perci entra e resta con noi. 6. Venne a morire il Rana e si trov sulla strada che conduce al Paradiso e lo comprese dal fatto che era una strada come quella che al pastore dice che in fondo lo aspetta la primavera. Cera poi da considerare che ogni cosa non scorreva ma volava. Eppure il Rana non si sentiva la coscienza tranquilla dopo tutto quello che aveva operato nella sua lunga vita, e nonostante avesse avuto la fortuna di fare una buona morte. Quando picchi timidamente al portone, gli fu aperto. E hai anche il coraggio gli disse San Pietro di presentarti a me, Carmine Muzzichile, che tutti conoscevano col solo nome di Rana, chi sa poi perch, se in fondo la rana non fa altro male che quello di rifare il verso al treno complementare del tuo paese; e dire che tutto ti era stato perdonato; ma quella storia della colica finta per derubare leremitano di San Francesco di Lula, stato il colmo. Te la rammenti? Ah, s, te la rammenti anche tu? E allora sappi che Francesco, che non nato a Lula ma ad Assisi, per vostra norma, ha preso oggi la parola per ultimo quale parte lesa e sai che ha detto col suo solito buon umore, lui che quello che , e che quanto a santit s fatto la parte del leone? Ha sostenuto che lo facesti per pagare i tuoi debiti di cui non avevi nessuna colpa, e anche per salvare il capitale per i tuoi figli: e fu ammesso; che gli facesti il pi grande dei piaceri personali a restituirlo in povert, dato che gran parte della refurtiva gli apparteneva: e anche questo parve ragionevole; ma infine che hai salvato dalla morte leremitano, quello dalla voce e dagli occhi di miele, il quale non ce lavrebbe fatta da solo a restituire il mal tolto, e tolto per giunta a un santo e, ti sembrer una stranezza di tutti noi, anche questo fu ammesso. Allora, puoi entrare, e non se ne parli pi. 7. Quando San Pietro, aperto lo spioncino, vide Onorato Dente detto il Testimonio, umile e contrito, gli domand a
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bruciapelo perch si fosse fermato l davanti sul solo piede sinistro che sembrava una gru. Onorato, colto alla sprovvista, rispose allimpensata: la forza dellabitudine. Dio sia lodato esclam San Pietro. Vedi miracolo che ti successo. Di dire la prima volta in vita tua tutta la verit e nientaltro che la verit. Labitudine una piega dellanima, Onorato Dente figlio di Bernardo, detto anche il Testimonio. Dico bene? E tu a furia di deporre il falso di mestiere, in pretura e anche pi in alto, sollevando ogni volta, conforme il consiglio del divino di Mandas, il tuo piede destro, convinto, cos, di farla in barba al Giudice divino, ti sei tanto rattrappito la gamba da sembrarmi difficile che tu possa sgranchirtela mai. Ma io disse il Testimonio posso stenderla quando voglio, cio, mi correggo umilmente, prometto che dora innanzi camminer sulla strada del Signore. E tu dammene subito, adesso stesso la prova disse San Pietro. Onorato Dente figlio di Bernardo tent di spiegare la gamba e continu a sembrare una gru; tent e ritent, e non gli valse a niente. Allora San Pietro: Te lo dicevo io. Dunque non ti resta che fare una cura di fanghi. Ti consiglierei quelli di Sardara o di Benetutti, ma sono troppo lontani. Come? Mi dici proprio che preferiresti le acque dOddini?60 Ma tu non sai in che mondo ti trovi. Lasciati consigliare. Per adesso dirigiti subito alle terme infernali che sono miracolose. Quando sarai ben guarito e sarai dimesso, che sar quando Pasqua verr di maggio, ritorna pure e fa un picchio. E Onorato Dente noto come il Testimonio comprese lantifona e savvi sconsolato saltellando su una sola gamba e pensava con rimpianto ai bei tempi, quando cos, da ragazzo, giocava al paradiso.61
60. Luoghi dacque termali: luno in provincia di Cagliari; gli altri in provincia di Nuoro [Benetutti attualmente in provincia di Sassari]. 61. Giuoco della campana.

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IL TRENINO SE NE VA

Eo no isco chin cale dulzura mi ritirat sa terra ue so nadu. Io non so con quale dolcezza mi richiama la terra ove son nato. MATTEO MADAO

Mi rammento che Giacomo Quesada negli ultimi anni della sua vita paragonava la fine del suo viaggio a questo trenino, unico su tutta la terra, che da alcuni anni se ne va a diporto, avanti e indietro, da una stazione allaltra, tre stazioni in tutto, senza passeggeri n merci, gi ridotto dalle autocorriere a un superfluo e inutile balocco. Nato necessario, ora, almeno per esso, proprio finita. E perch rammaricarsene? Se questo significa uscire di minorit, e andar pi spediti? Questo lo riconosceva anche Giacomo Quesada ma al tempo stesso egli sosteneva che non si fa niente di male a volgersi indietro di tanto in tanto, per rimpiangere sia pure un trenino che gi era grande in uninfanzia che ora lontana quanto la luna. Dunque, domani questo trenino non correr pi come oggi, e senza capogiri, sullorlo di questa valle profondissima, popolata di vigne, di oliveti e frutteti, verso il cui fondo camminano con tutte le loro case due paesi che presto saranno abbandonati dalla gente; la quale col cuore che piange andr ad abitarne altri due che saranno ricostruiti lontano. Gairo e Osini, addio. E addio trenino che sessantanni fa, al suo battesimo laico, don Sulis, zanelliano e anticarducciano, predic opera del demonio. Se egli fosse in vita, si ricrederebbe certamente e si riconcilierebbe con novit anche pi scandalose e sataniche: con la vespa che un sacerdote giovane inforca per queste strade; col non lontano Flumendosa, convertito per miracolo umano da acqua gi libera ma pessima in acqua asservita ma ottima.
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LELEFANTE DI PIETRA (Castelsardo). LORSO DI PIETRA (Palau).

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Il trenino se ne va

Limmobilit, che dura a morire quasi quanto la solitudine e la nostalgia, cede dunque al progresso. Alla lentezza biblica sincrocia la velocit: e chi vuole indugiarsi a camminare lungo i greti del rimpianto, come accadeva a Giacomo Quesada, trovi almeno una sua rassegnazione allurgere del nuovo considerando le cose che hanno secoli e secoli, nate col segno delleterno. I sassi e le rocce votive di Ulassai; le orme delle capre sullargilla e il loro festoso subbuglio alla vigilia dogni partenza dottobre verso il Sud per il ritorno in maggio; leco di Morosini, che ripete il fischio del trenino moribondo; le aquile, gli sparvieri, i colombi; le foreste di Santa Barbara, santuario arboreo; la dignit dei fanciulli che non rifiutano al forestiero un servizio o una cortesia, ma respingono come un affronto un qualsiasi compenso. Le case megalitiche e le rovine delle citt vetuste. I monastici cortili fioriti, e un ciuffo di palme, in Campidano, per lentrata di Cristo in Gerusalemme. I tetti di sangue dei villaggi alpestri col fico, lolmo, il ciliegio per sentinelle. I villaggi dalta montagna coi balconcini pensili e la quercia il mirto e la rosa. La poltrona di trachite delle case dei villaggi occidentali, alla quale fumare la pipa e conversare col vicino in pose orientali. Le pietre favolose degli animali che lisola mai conobbe: lElefante di Castelsardo, lOrso di Palau, il Toro, la Vacca e il Vitello di SantAntioco. Il verde argenteo degli oliveti della contrada turritana, punteggiato di cipressi; le valli incantevoli del Tirso e del Temo; le feraci campagne dAlghero. Il campanile accanto alla chiesa e i campanilini sui tetti dai quali sale il fumo azzurro. Lo stazzo e il tormento granitico della Gallura. Il mare congelato nelle colline dellAnglona. La catena del Marghine e il masso centrale su cui domina il Gennargentu, diaframma alla Sardegna, come il Gran
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Sasso allItalia, che fu e non sar pi dimpedimento nei secoli allunit dei Sardi. I monti anacoreti e le confraternite di scogli. Il selvatico Ortobene che un gran concerto dacque e di foglie. Le pianure di Giave, le prue dei toneri ogliastrini, lacropoli di Serrenti, i vulcani spenti. I campi elisi degli asfodeli. Gli stagni e le peschiere. Le piramidi di sale e le catacombe minerarie. I ponti e i manieri; le torri di Pisa e quelle antisaracine. I noci, i noccioli, i castagni, i corbezzoli, i carrubi. I giardini daranci. Le chiese nelle contrade dai bellissimi nomi. La conquista del vello del cinghiale. Le danze, i canti, le ardie dei cavalli. Le feste che domani saranno spensierate. Terra antica e giovane, isola della resistenza; della quale persino Giacomo Quesada, che pendeva alla malinconia e vi conobbe pi dolori che gioie, ebbe a dire negli ultimi suoi giorni che non sapeva andarsene senza esprimere un ultimo desiderio che riconosceva, con suo rammarico, impossibile; quello di nascervi unaltra volta, anche a costo di molto soffrire.

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NOTA CRONOLOGICA DEGLI AVVENIMENTI PRINCIPALI

Luomo paleolitico, che presente in tanta parte dItalia, manca affatto nellisola, resa, forse, inabitabile dalle bocche eruttive dei vulcani quaternari.

fino al 2000 a.C.?

neolitico antico e medio?

Macomer? Anghelu Ruju San Michele grotte di Cagliari Arzachena

2000-1500 circa eneolitico

1500-800

eneolitico attardato sepolcreti rupestri, grotte e principio della dellIglesiente, primi nuraghi civilt del bronzo nuragico pieno colonizzazione fenicia e contatti sardo-etruschi, fioritura dei centri nuragici, bronzi figurati conquista cultura indigena cartaginese, civilt impoverita punico-sarda, conquista romana

800-500

dal 500

nuragico attardato

(Questo schema corrisponde a quello proposto, con tutte le opportune riserve, dal Pallottino in La Sardegna nuragica, Roma 1950, p. 41). Tra mito e storia, lisola risulta abitata gi dal periodo neoeneolitico. Prevalgono i crani dolicocefali di tipo mediterraneo. Gi nel periodo neolitico e in quello eneolitico sinfiltrarono tipi armenoidi orientali.
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Arzachena Olbia Majori Cabuabbas

CARTA DEI MONUMENTI MEGALITICI E DELLE CITT FENICIO-PUNICHE I pochi nuraghi contenuti in questa carta sono i migliori esemplari delle 6.500 costruzioni megalitiche messe finora in luce in tutto il territorio sardo e ivi distribuite con maggiore intensit nel lato occidentale, pi ambito per le sue ricchezze naturali e meno difeso dalla natura; e con minore e minima intensit nel lato orientale, povero e difeso dalla natura. I Sardi li chiamano con voce originaria della parlata preistorica mediterranea nurakes nuraghes nuraxis ecc. (da un radicale nur, nor, frequentissimo nella toponomastica sarda, che ha certamente il significato di cavit, mucchio, mucchio cavo, torre, torre cava). Una torre cava il nuraghe, destinato, fin dalle origini, ai vivi e non, come si sostenne, ai morti. Nella gran parte i nuraghi vennero eretti prima delle colonizzazioni storiche (Fenici e Cartaginesi) verso la fine del sec. VIII a.C.; e furono, da principio, fortilizi, case forti, di cui si valevano i capi delle trib, o civitates, o piccole monarchie locali, a base economica e pastorale, spesso rivali fra loro. Al momento della conquista coloniale divennero strumento di resistenza ai semiti occupanti; resistenza che si accentu nel corso dei secoli VII e VI, nelle zone di pianura e di collina. Pi tardi essi poterono costituire, lultima difesa dei Barbaricini, abitatori dei monti della Barbria (oggi Barbagie) contro la penetrazione della Roma consolare. In ogni tempo fu, peraltro, organizzazione puramente difensiva, ossia negativa: ci che rester tratto caratteristico dello svolgimento storicopolitico sardo in ogni periodo (Lilliu). Si costruirono nuraghi verso la met del secondo millennio a.C. e verso gli inizi del primo, se ne ampliarono nellVIII e nel VII a.C. Pi duno fu distrutto dai Cartaginesi verso la fine del VI secolo nelloccupazione del retroterra strategico; nuraghi durarono anche nelluso originario fin forse ai tempi romani. Ultimo e straordinariamente importante ritrovamento quello del nuraghe, detto, per antonomasia, Su Nuraxi, di Barumini Cagliari. Venne distrutto dai Cartaginesi verso la fine del VI sec. (come quello Lugherras di Paulilatino Cagliari [Oristano]). stato messo in luce anche il villaggio, cresciuto dentro e fuori del castello nuragico. Il villaggio meschino e segna la decadenza e il tramonto di unet di gloriosi pastori-guerrieri: lo abitarono contadini sconfitti, fatti schiavi. (Istituto di disegno dellUniversit di Cagliari)

Palmavera Anghelu Ruiu Santu Antine Bosa Macomer Cornus Losa SUraki Tharros Abini Serra Orrios S. Andrea Priu Dorgali

Lugherras Othoca

Giara di Gesturi Arrubiu Neapolis Su Nuraxi Giara di Serri Su Putzu

Orku

Serrucci Sulci Sarroch Nora Bithia

Karalis

Legenda Nuraghi Borghi nuragici Tombe a circolo

Tombe di giganti Sepolcri rupestri Pozzi monumentali Citt fenicio-puniche

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Nota cronologica degli avvenimenti principali

Le trib indigene, costruttrici di nuraghi, vi iniziarono la coltivazione dei campi. Se pure fuori di dubbio che i Greci e in modo particolare gli Ioni (sec. VII-VI a.C.) conoscessero la Sardegna, troppo scarsi sono gli elementi che ci autorizzano a iniziare la storia della Sardegna prima del decennio che va dal 545 al 535 a.C. Verso la met del sec. VI a.C. Cartaginesi e Greci si contendono il possesso dellisola. 540 a.C. circa Un esercito cartaginese al comando di Malco viene sconfitto dagli isolani. 537 a.C. circa Gli Iolei e i Balari, probabilmente oriundi delle Baleari, primeggiavano allora sulle genti che abitavano la Sardegna. Dopo la battaglia di Alalia, Cartaginesi ed Etruschi sconfiggono i Focesi e si dividono le zone dinfluenza: la Sardegna ai Cartaginesi, la Corsica agli Etruschi. 500 a.C. circa o intorno al 510 a.C. Altra sconfitta dei Cartaginesi, comandati da Asdrubale, fratello di Amilcare. Tra il 510 e il 480 a.C. Lisola sarda diviene cartaginese; a eccezione dei distretti montuosi, dove si stabilirono in permanenza gli indigeni non sottomessi. Avvenimenti notevoli di questo periodo: incremento dei centri primitivi; fondazione di nuovi centri. Strabone nomina soltanto Caralis e Sulci. Plinio ci dice che lisola conteneva 18 oppida, citt, cio, di grado municipale; ma ne enumera soltanto 6, oltre la colonia di Turris Libysonis (Portu Turres, Porto Torres). Centri principali dei Cartaginesi: Cagliari (Caralis). Secondo Pausania (X, 17, 9) e Claudiano (XV, 520) Carales (Cagliari) fu fondata dai Cartaginesi (Tyria
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fundata potenti, Claudiano), ma probabile che Claudiano abbia usato lepiteto Tyrius come equivalente a Fenicio (Wagner, La lingua sarda, p. 13). Nora, fondata, secondo la tradizione, da un capo di Iberi immigrati, di nome Norake. Norake era il nome dei noraki. Nora il nome duna citt; le pi antiche costruzioni isolane che potessero aspirare a nome di citt erano le costruzioni e gli agglomerati nuragici; la civilt e i costumi e forse la lingua dei Sardi presentavano qualche analogia con quelle dellIberia: Norake diventa perci un mitico eroe ibero che fonda la pi antica citt dellisola (vedi Motzo, Norake e i Fenici, estratto da Studi Sardi, vol. I, 1934). Bitia, presso il capo Spartivento (Sardegna meridionale). Figura sulle pietre miliari romane e in uniscrizione punica come Bitan. Sulci, allestremo sud-ovest della Sardegna (isola di S. Antioco). Neapolis (Nabui) a 25 km da Oristano che sostitu Othoca. Tharros, sopra un promontorio allestremit nord del golfo di Oristano. molto probabile che i Fenici lavessero chiamata cos in ricordo della loro citt madre (Wagner, La lingua sarda, p. 143). Othoca, presso Oristano, spiegata come citt vecchia. Cornus, altra importante fondazione dei Punici, probabilmente la corrispondenza latina del punico karan corno ma anche sommit di montagna, come anche in ebraico (Wagner, La lingua sarda, p. 143); costa ovest. Bosa, alla foce del fiume Temo; costa ovest. Pi nellinterno: Gurulis vetus (Padria?); Gurulis nova (Cuglieri). Molto notevole Olbia, fondata dai Greci non prima del VI secolo (Pais): la felice, sulla costa nord orientale. Questi centri ebbero sotto i Cartaginesi carattere di cittadine coloniali, con svolgimento agricolo nel retroterra, ordinati, ciascuno, in comune autonomo, amministrato da suffeti (da shofet, in ebraico: giudice) e da un senato, costituito di membri appartenenti allaristocrazia commerciale.
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Nota cronologica degli avvenimenti principali

Tra Neapolis e Sulci, in luogo detto Antas, probabilmente la Metalla degli Itinerari, si riscontrano avanzi romani. Nellinterno acquistarono poi importanza, fra le altre, Forum Traiani (Fordongianus) sul fiume Tirso, a 28 km dalla foce, e Feronia, presso Posada, sulla costa est, 40 km a sud di Olbia. La dominazione cartaginese ebbe la durata di due secoli e mezzo. Influ sugli usi, sui costumi, sulla lingua dellisola. Secondo il Wagner, anche dopo la conquista romana, il punico rimase vivo, come ce lo attestano le iscrizioni di Pauli Gerrei e di Bitia. Cartagine attribu grande importanza allisola per il grano, i metalli e il sale che ne ricavava. Roma pens forse a sostituirsi a Cartagine nel possesso dellisola sin dal secolo IV a.C. Se ne impadronisce solo dopo la prima guerra punica, in seguito alla ribellione dei mercenari di Cartagine, estesasi anche allisola (238 a.C.). 238 a.C. Avviene la spedizione di Tito Sempronio Gracco. Ma Roma costretta a ricorrere a molte campagne per poter sottomettere lisola, dove trova lostilit delle trib dellinterno e la resistenza degli abitanti filopunici vincolati ai negozi di Cartagine. Ribellioni e insurrezioni. Notevoli quella del 231, quando M. Pomponio Matho ricorre ai cani segugi per rintracciare i Sardi nelle spelonche nuragiche, e soprattutto quella del 215 a.C., durante la seconda guerra punica. 215 a.C. Un latifondista punicizzato dellisola, di nome Ampsicora (Amsicora), si mette a capo duna sollevazione; centro, la citt di Cornus. Roma invia Tito Manlio Torquato, il quale sconfigge nei pressi della citt gli insorti costituiti in esercito al comando del giovinetto Iosto, figlio unico di Ampsicora. Iosto muore sul campo. Il padre, per il dolore e per non cadere prigioniero del vincitore, si uccide (vedi Livio, Historiae, XXIII, 40-41).
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La caduta di Cornus non diede ai Romani il possesso pacifico dellisola. Continuano le rivolte dei montanari. 177-176 a.C. Tiberio Sempronio Gracco console ne doma una. Un gran numero di Sardi vengono deportati a Roma. Un altro intervento in forze fu quello capeggiato da Quinto Cecilio Metello. Tra il 126 e il 122 scoppiano altre gravi insurrezioni. 146 a.C. Distruzione di Cartagine. Le regioni costiere dellisola furono assoggettate dopo un lungo periodo di lotta. Ma i distretti dellinterno si mantennero indipendenti. Lamministrazione dellisola sotto Roma fu affidata a un pretore che governava anche la Corsica. Principali pretori che governarono lisola: Catone il Vecchio (198 a.C.); Azio Balbo, nonno di Augusto (59 a.C.); Marco Emilio Scauro (154 a.C.), accusato di rapine dai Sardi, difeso da Cicerone e assolto da trecento senatori. Durante la guerra tra Cesare e Pompeo: 49 a.C. Cagliari parteggi per Cesare. 46 a.C. Sulci, per Pompeo: Cesare giunge a Cagliari e punisce Sulci. 27 a.C. / 67 d.C. La Sardegna viene assegnata ad Augusto. Viene attribuita al Senato. Nellet repubblicana lisola viene sottoposta a intenso sfruttamento. Grano e metalli vengono avviati a Roma. Roma costruisce strade e fonda nuovi centri, come Valentia e Turris Libysonis. Non concede la cittadinanza romana a nessun centro indigeno della Sardegna.
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Nota cronologica degli avvenimenti principali

370 d.C. Muore in Cagliari Lucifero, vescovo di Cagliari, meritandosi dai Sardi un culto provinciale come santo, per la sua ferma fede e la sua eroica fermezza nella battaglia contro larianesimo, in aperto contrasto col filoariano imperatore Costanzo, che gli inflisse lesilio. Da questo lo richiam Giuliano lApostata. Et imperiale. La Sardegna diviene terra desilio e di ozi malinconici. Vi si radica e si assesta il sistema latifondistico. Nel IV e nel V secolo vi si rifugiano i latifondisti italiani, minacciati nella penisola. A datare dal V secolo, i centri cittadini decadono rapidamente. 455 I Vandali, sotto Genserico, simpadroniscono dellisola. Durata del possesso: 80 anni circa. Dopo la scomparsa dei Vandali dallAfrica, avvenuta sotto Giustiniano, lisola pass allimpero romano dOriente. 534 Belisario occupa lAfrica del Nord. Cos la Sardegna passa ai Bizantini. In mezzo alle vessazioni lisola fece parte delle sette province dipendenti dalla Prefettura dAfrica. 552-553 ritolta ai Bizantini da Totila. Ritorna a Bisanzio con la caduta del regno goto in Italia. 594 San Gregorio Magno scrive a Ospitone, duce dei Barbaricini, per la conversione delle sue genti idolatre. 599 Un tentativo di sbarco della flotta longobarda viene respinto dai Sardi.
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697 I Bizantini abbandonano lisola a se stessa, quando gli Arabi riescono a dominare il Mediterraneo. 711-1016 Per tre secoli le coste della Sardegna vengono attaccate dai Mori dAfrica, delle Baleari e della Sicilia. I Sardi li fronteggiano respingendoli quasi sempre. Talvolta li soccorse la flotta franca. 1015-16 Spedizione araba ultima, con a capo Mugahd (Museto). I Sardi, Genova, Pisa e forse anche i Franchi la stroncano. In questo periodo (o poco prima) di distacco da Bisanzio si opera in Sardegna una spontanea trasformazione interna: sorgono quattro regni indipendenti, detti Giudicati, ciascuno con a capo un Giudice. Dopo il Mille la Sardegna trovasi quindi divisa in 4 Giudicati: di Cagliari (capoluogo Cagliari), di Torres (capoluogo Torres), di Gallura (capoluogo Olbia, detta Civita), di Arborea (capoluogo Tharros, poi Oristano). Pisa e Genova (sec. XII-XIII) si contendono il dominio dellisola. Il Giudicato di Gallura e il Giudicato di Cagliari cadono in potere di Pisa. In seguito questultimo viene ripartito tra le famiglie dei Gherardesca, dei da Capraia e dei Visconti (1253). Il Giudicato di Torres passa a Genova e precisamente alle famiglie dei Doria, degli Spinola e dei Malaspina. Solo la citt di Sassari diviene comune autonomo (1236 circa). Dura indipendente per lungo tempo il Giudicato di Arborea. I Giudicati erano divisi in distretti, detti curatorie o parti, che comprendevano numerose ville o villaggi, alcuni dei quali gi vici. Lagricoltura vi fior, anche per merito dei monaci di Montecassino, di Camaldoli, di Vallombrosa, di San Vittore di Marsiglia e dei Cistercensi. Furono riattivate notevolmente le saline, a iniziativa dei Vittorini e dei Pisani.
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Nota cronologica degli avvenimenti principali

sec. XII Nei primi decenni la Sardegna si popola di chiese, di monasteri e castelli. Dei monasteri, che sono caduti in rovina, si conservano alcuni condaghi, registri dove sono descritte le loro variazioni patrimoniali. 1297 Mentre Genova e Pisa si contendono il primato dellisola, Bonifacio VIII investe Giacomo II di Aragona del Regnum Sardiniae et Corsicae. 1324 Soltanto in questanno gli Aragonesi, entrati nellisola nel 1323, ne prendono possesso. 1355 Pietro IV convoca e presiede in Cagliari il primo Parlamento sardo, composto da tre Bracci o Stamenti: lecclesiastico, il militare e il reale. La Sardegna inizia la lotta contro Mariano IV, giudice dArborea. 1368 Sotto Pietro IV continua la campagna energica contro le rivolte. La lotta impegna anche i successori di questo re. I Giudici dArborea capeggiano la lotta contro Aragona: da prima Mariano, poi Ugone, suo figlio, infine Eleonora, giudicessa di eccezionale energia e saggia riordinatrice delle leggi di suo padre Mariano. 1375 Santa Caterina da Siena sollecita Mariano dArborea a partecipare alla crociata bandita da Gregorio XI. Mariano aderisce. 1392 Eleonora promulga il codice detto Carta de Logu. 1404 Morte di Eleonora, durante la pestilenza del 1403-04.
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La lotta di indipendenza contro gli Aragonesi continua anche dopo la morte di Eleonora. 1409 Battaglia di Sanluri: sconfitta dei Sardi da parte degli Aragonesi e morte del re Martino il Giovane, re di Sicilia. 1410 Cade il Giudicato di Arborea e si trasforma in Marchesato con Leonardo Cubello, investito dal re dAragona del Marchesato di Oristano e della contea del Goceano. 1420 Venuta in Sardegna di Alfonso il Magnanimo, il quale, lanno dopo (febbraio-marzo), convoca e presiede il II Parlamento Sardo in Cagliari. 1421 Gli Aragonesi estendono allisola, escluse le parti con legislazione autonoma, la Carta de Logu di Eleonora. 1436 Caduta del castello di Monteleone e sconfitta di Nicola Doria. Leonardo Alagon, succeduto ai Cubello nel Marchesato, riprende la lotta contro gli Aragonesi (1470). 1470 Battaglia dUras: sconfitta degli Aragonesi. 1478 Battaglia di Macomer: vittoria degli Aragonesi: tutta la Sardegna resta in possesso degli Aragonesi. Lisola pi divisa in feudi cade a mano a mano in rovina. 1485 La Sardegna ha 150.000 abitanti circa.
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Sec. XV, seconda met. Con lunit politica della Spagna subentra in Sardegna il governo spagnolo. Durante la dominazione aragonese-spagnola il Luogotenente generale, capo supremo del regno di Sardegna, divenuto parte integrante della monarchia spagnola, prende, a partire dal 1421, il titolo di Vicer, con poteri assoluti o quasi, e dura in carica tre anni. Il Parlamento si compone di tre Bracci: clero, nobilt e citt. Due governatori coadiuvano il Luogotenente generale: luno da Cagliari, laltro da Sassari. Lingua ufficiale, la catalana, sino alla fine del sec. XVI; poi, la spagnola. 1527 Nel corso della guerra tra Francia e Spagna, fallisce un attacco francese alla Sardegna. 1540 Colera e carestia. 1541 Scorrerie barbaresche. 1566 Viene introdotta in Sardegna (Cagliari) la stampa da Nicol Canelles, vescovo di Bosa. 1571 Muore sul rogo per eresia Sigismondo Arquer a Toledo. 1620-26 Fondazione dellUniversit di Cagliari sotto Filippo III. 1637 Secondo tentativo di sbarco dei Francesi in Oristano. 1652-55 Colera e cavallette.
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1680-81 Carestia ed epidemia. 1688 Censimento: 230.267 abitanti. 1701 Guerra di successione spagnola. Due partiti in Sardegna: uno favorevole a Carlo III di Spagna e VI dAsburgo, laltro a Filippo V di Borbone. Vince laustriaco. 1713-14 Trattati di Utrecht e di Rastadt. La Sardegna passa allAustria. 1717 La Spagna domina per altri tre anni in Sardegna. 1718 Trattato di Londra. Viene sancita la cessione dellisola ai Savoia. 1720 Vittorio Amedeo II ne prende possesso col titolo di re di Sardegna. Regna fino al 1730. Minacce di colera. 1728 Censimento: 309.994 abitanti. 1730 Carlo Emanuele II regna fino al 1773. Notevoli riforme. 1774 Regna fino al 1796 Vittorio Amedeo III. 1793 Attacchi francesi vengono respinti al Sud e al Nord dellisola.
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Nota cronologica degli avvenimenti principali

1794 Insurrezione dei Sardi contro i Piemontesi che sono cacciati da Cagliari e da tutta lisola. 1795 Moti antifeudali che dal Settentrione si estendono al Meridione. Rivolta in Cagliari. 1796 Moti rivoluzionari di Giovanni Maria Angioy. 1799 Carlo Emanuele IV, espulso da Torino per decreto della repubblica di Francia (1798), trova ospitalit a Cagliari. 1808 Muore in esilio a Parigi Giovanni Maria Angioy. 1814 Vittorio Emanuele I rientra nella sua sede di Torino alla caduta di Napoleone. 1820 Editto sulle chiudende. 1823 Istituzione delle scuole elementari in tutta lisola. 1824 Censimento: 461.976 abitanti. 1821-31 Larghe notevoli riforme del re Carlo Felice. Codice feliciano. 1826 Esce la prima edizione del Viaggio di Alberto de La Marmora.
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1827 Morte di Domenico Alberto Azuni. Cagliari pubblica il suo primo giornale: il Giornale di Cagliari. 1833 Efisio Tola viene processato come seguace della Giovane Italia e fucilato a Chambry. 1831-48 Periodo di vaste riforme sotto il re Carlo Alberto, fra le quali labolizione dellautonomia del Regno di Sardegna e il riscatto e labolizione dei feudi. Lisola viene unita al Piemonte con uguali diritti. La fusione viene sanzionata dallo Statuto albertino. Lisola manda al Parlamento subalpino i suoi rappresentanti. Guerre dindipendenza. I Sardi vi partecipano e contribuiscono a formare lunit dItalia. Negli ultimi ottantanni: costruzione di ferrovie, particolarmente nella zona mineraria; industrializzazione del sud-ovest e del nord-est; lavori portuali; miglioramenti nelleconomia agraria e pastorale; trasformazioni fondiarie (bonifiche); bacini artificiali (Tirso, Coghinas, Flumendosa); lotta antifillosserica e lotta antimalarica. 1948 Legge del 26 febbraio che crea lEnte Autonomo della Regione Sarda.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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Nota bibliografica

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Nota bibliografica

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Nota bibliografica

1952: ivi i capitoli introduttivi come segue: S. Vardabasso, Geografia fisica con annotazioni geologiche; R. Delogu, Cenno storico artistico e revisione di tutta la materia dArte; G. Pesce, Civilt preistoriche sarde e revisione della materia archeologica; M. Carta, Storia delle Miniere e notizie sui vari impianti; A. Mori, Geografia economica; G. Martinoli, Flora; C. Guareschi, Fauna; G. Bottiglioni, Dialetti e folklore; A. Serra, Clima; Ispett. Agric., Bonifica. A. Imeroni, Piccole industrie sarde, Milano-Roma 1928. Istituto Studi Romani, Sardegna Romana, Roma 1939, 2 voll. R. Laconi, La Sardegna, in Rinascita, n. 10, ottobre 1949. A. de La Marmora, Voyage en Sardaigne, Paris 1839. A. de La Marmora, Itinraire de lle de Sardaigne, Turin 1860. A. de La Marmora, Itinerario dellIsola di Sardegna, tradotto e compendiato con note dal can. G. Spano, Cagliari 1868. A. de La Marmora, Itinerario dellIsola di Sardegna, traduzione di P. Marica, Caserta 1917. A. de La Marmora, Viaggio in Sardegna, traduzione di V. Martelli, Cagliari 1926-28. La Rinascita della Sardegna, Atti del congresso per la rinascita economica e sociale della Sardegna, Cagliari 1950. D. H. Lawrence, Sea and Sardinia, traduzione parziale di E. Vittorini, Libri di Viaggio, Milano 1938. D. H. Lawrence, Sea and Sardinia, London 1950. G. Lei Spano, La Questione Sarda, Torino 1922. M. Le Lannoau, Ptres et Paysans de la Sardaigne, Tours 1941. M. Leli, Ichnusa, Milano 1927. A. Levi, Sardi del Risorgimento, in Archivio Storico Sardo, 1922.
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PERIODICI E RIVISTE

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE PI NOTEVOLI

Annali delle Facolt di Lettere e Filosofia, Cagliari 1925 e ss. Archivio Storico Sardo, Cagliari dal 1905 al 1946. Bollettino Bibliografico Sardo, Cagliari-Bologna 1901-13. Bullettino Archeologico Sardo, Cagliari 1865-84, annate 10. Fontana Viva, Cagliari 1926-27. Almanacco letterario e artistico della Sardegna, Cagliari 1946. La Regione, Cagliari 1922-25. Mediterranea, Cagliari 1927-35. Il Nuraghe, Cagliari 1923-30. Il Convegno, Cagliari 1946 e ss. Sischiglia, Cagliari 1949 e ss. Sardegna Nuova, Cagliari 1949 e ss. Ichnusa, Sassari 1949 e ss. Studi Sassaresi, Sassari dal 1901. Studi Sardi, Cagliari dal 1934.

I nomi propri di persona, le famiglie e le popolazioni sono in maiuscoletto, i luoghi in corsivo, gli altri nomi in tondo. Abril, Arbili, 65 Abrile, 75 Abu Harb/Harbci, 113 Ad Dabb, 113 ADRIANO, imperatore, 87 Africa, 49, 65, 90, 98, 154, 158, 188, 189, 380-381 prefettura di, 380 Aggius, 204, 207 Agrilla, 36-37 ALAGON LEONARDO, 383 ALBIZZATI CARLO, 84, 87, 188, 189 ALFONSO IL MAGNANIMO, 383 Algeria, 59 Alghero, 49, 61, 228, 360, 368 ALVARU F., 197 ALZIATOR FRANCESCO, 89 AMARI MICHELE, 113 AMILCARE, 376 AMMIANO MARCELLINO, 83 AMPSICORA, vedi AMSICORA AMSICORA, 42, 42-43, 378 ANDRIA, mese de Sant, 64, 75-76 Anghelu Ruju, 373 ANGIOY GIOVANNI MARIA, 44, 386 Anglona, 131, 368 ANICETO ALESSANDRINO, 46 ANNIBALE, 43 Antas, 378 Antifillosserica, lotta, 387 Antimalarica, lotta, 387 ANTONIO MARIA DA ESTERZILI, 210 Anzipirri, il diavolo, 85-86, 361 APIARIO PRIAMO, 361-362 ARABI, 99, 381 Aragona, 43, 155, 382 ARAGONESI, 382-383 ARAOLLA GIROLAMO, 231, 316 Arbatax di Tortol, 61 Arborea, 131 Giudici di, 99, 382 Giudicato di, 119, 381, 383 Argentina, 59 Argiolas, 65 ARIO, 39 ARISTEO, 36-37, 83 ARISTOTELE, 270 ARQUER SIGISMONDO, 318, 384 Arzachena, 373 Arzocco, 107 ASDRUBALE, 42-43, 376 ATANASIO, 39, 39 ATTILIA PONTILLA, 87-89 Attitidu, 52, 175, 182 AUGUSTO, imperatore, 83, 84, 379 Austu, 65, 74-75, 184 AZIO BALBO, 379 AZUNI DOMENICO ALBERTO, 387 Babilonia, 245 Bacini artificiali, 387 BALARI, 376 Baleari, 42, 376, 381 BALLERO ANTONIO, 229 Bartili, 289

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MIELE

AMARO

Indice dei nomi e delle cose pi notevoli 242, 246, 260, 267, 274, 288, 290, 308, 310, 365, 376, 379384, 386 grotte di, 373 primo giornale di, 387 CAIO CECILIO METELLO, 133 CALIGOLA, 49 CALVIA POMPEO, 339, 352 CAMALDOLESI, monaci, 118, 381 Campidani, 49, 77, 94, 120, 131, 196, 204, 208, 289, 368 CANELLES NICCOL, vescovo di Bosa, 384 CANO ANTONIO, 231 CANU AGNIRU, 344 Capidanni, 62, 62, 74-75 CAPRAIA, famiglia, 381 Caralis, 376 Caraman, 188, 189 Carbonia, 56, 58-60 CARLO ALBERTO, 387 CARLO EMANUELE II, 385 CARLO EMANUELE IV, 386 CARLO FELICE, 270, 386 CARLO III DI SPAGNA, 385 CARLO V, 41, 49, 290, 360, 362 CARLO VI DASBURGO, 385 Carloforte, 270 CARTA RASPI RAIMONDO, 119 Carta de Logu, 63, 133, 382-383 Cartagine, 43, 378-379 CARTAGINESI, 43, 129, 245, 373-374, 376-377 Carte dArborea, 99 CASSIO FILIPPO, 87 Castelli medievali, 119 Castelsardo, 367-368 Castrum, 52 CASU PIETRO, 340 CASULA ANTIOCO, 341-342 Catalogna, 61, 227-228 Catania, 80 CATERINA DA SIENA, santa, 382 CATONE IL VECCHIO, 379 Caucaso, 188, 189 Cedrino, 47, 288, 290 Cenbara, 65 Censimento, 385-386 Ceo, 37 Chambry, 387 Chenpura, 65 Chiudende, editto, 356-357, 386 Cian-Nurra, 234 CICERONE, 379 CIRIACO, 95 CISTERCENSI, 381 CIUFFO ANTONIO, 227 CIUSA FRANCESCO, 229 Civita, 119, 381 CLAUDIANO, 376-377 C LAVELLET R AMON , vedi Antonio Ciuffo CLUVERIO, 36, 63 Codex Diplomaticus Sardiniae, 116 Codice feliciano, 386 Coghinas, 288, 387 Colera, 186, 384-385 Conueta del nacimento de Christo, 210 Condague, condaghi, 116, 382 CONGIU RAIMONDO, 333 Contea del Goceano, 383 Copenaghen, 80 COPPOLA, 87 Corcira, 37 Cornus, 42, 48, 377-379 Corona de Logu, 111 Corsica, 376, 379 COSTANTE II, 91 COSTANTINO, comandante di Bisanzio, 90-91 COSTANTINO, imperatore, 71, 91-92 COSTANTINO COPRONIMO, 91 COSTANTINO POGONATO, 91 COSTANZO, 39, 39-40, 380 CUBEDDU GIAN PIETRO, 244 CUBELLO, famiglia, 383 CUBELLO LEONARDO, 383 CUCCHIAINO, rapsodo, 146 Cuglieri, 377 Cuma, 37 DANTE, 62 DE ESQUIVEL FRANCESCO, 104 DE LA MARMORA ALBERTO, 37-38, 63-64, 386 DE LIGIOS PIETRO, 197 DE MACCIONI, pastore, 56-57 DE RU COSTANTINO, 107 DE SANCTIS GAETANO, 91-92 DE SIBERSA PIETRO, 105 Dipnon catharn, 65 DELEDDA GRAZIA, 55, 229 DENTE ONORATO, 364-365 DESSANAY SEBASTIANO, 209, 318 Desulo, 66 DETTORI ANGELO, 349 DIODORO SICULO, 37, 63 Dognassantu, 64 Domos de orcu, 53 DORIA, famiglia, 119, 381 DORIA NICOLA, 383 EFISIO, santo, 46, 49, 55, 71 Egitto, 44, 204, 245 ELEONORA DARBOREA, 40, 43, 129, 133, 155, 283, 354, 382-383 Eleuteropoli di Palestina, 39 ELIANO, 98 ELIOGABALO, 49 ENNIO, 43 Epidemia, 265-266, 385 Eridano, 106

Barbagia, 78, 104, 121, 131, 189 BARBARICINI, 95, 201, 299, 374, 380 BARCA, gente dei, 43 Bardana, 48, 133, 334, 353 Baronia, 47, 72, 290 BELISARIO, 380 BELLORINI EGIDIO, 234, 237, 239 Belv, 93 BENEDETTA, moglie di Torchitorio, 109, 111 Beni ademprivili, 357 Bennarzu, 73, 75, 241 Beozia, 37 Berchidda, 197 Bisanzio, 90, 270, 380-381 Bitan, 377 Bitia, 48, 377-378 BIZANTINI, 289, 299, 380-381 Bizare, 65 BOCHARD, 63 Bolotana, 85, 121 BONAPARTE NAPOLEONE, 386 BONIFACIO VIII, 382 Bonifiche, 387 Bono, 44 Bonorva, 61, 66, 151, 183, 186 Bosa, 49, 64, 241-242, 289, 377 Bosforo, 270 BOUILLER AUGUSTO, 208 Bracci del parlamento, 382, 384 Brasile, 59 Brigata Sassari, 154, 154, 157 Bugrus, 133 Cabillus/gabillus, 58, 94 Cabudanni, 62, 64 Cadossene, 63 Cagliari, 36-37, 40, 42-43, 48-49, 50-51, 53-55, 60, 79, 81-82, 87, 90, 99, 104, 109, 119, 122, 131, 155, 155, 167, 189, 226, 231,

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MIELE

AMARO

Indice dei nomi e delle cose pi notevoli GENSERICO, 380 Germanicia di Commagene, 39 GEROLAMO, santo, 40 Gerri, 131 GHERARDESCA, famiglia, 381 GIACOMO II DARAGONA, 382 Giave, 369 Ginnaggiu, 65 GIORGIO DI SUELLI, 100-110 Giovane Italia, 387 GIOVANNI I DARAGONA, 155 Giudicati e Giudici, 99, 104, 129, 381 GIULIANO LAPOSTATA, 40, 380 GIUSTINIANO, imperatore, 380 Golfo degli Angeli, 53 Gonare, 63 Gosos natalizi, 205 Governatore generale della Sardegna, 384 Gran Sasso, 368-369 GRECA DI SURAPEN, 100 GRECI, 62-64, 376-377 GREGORIO MAGNO, santo, 83, 91, 93, 95, 299, 380 GREGORIO XI, 382 Grutta de sa pibera, 87 Guerre dindipendenza, 387 Gurulis nova, 377 Gurulis vetus, 36, 377 HASAN NUGAHAB, 113 IBERI, 377 Ichnusa, 48, 63 Iduare, 65 Ierzu, 60, 290 Iglesias, 49, 272 Iglesiente, 131 grotte dell, 373 Ilbono, 121 Impero romano dOriente, 63, 380 Industrializzazione, 387 IOLAO, 63 IOLEI, 376 IONI, 376 IOSTO, 42, 42-43, 378 Isili, 121 Istelate, 299 Istrangius, 50 Italia, 37, 63, 158, 270, 299, 318, 369, 373, 380, 387 Janas, 57-58, 78 Domos de, 122, 301 Karan, 377 KRONOS, 98 Lampadas, 65, 74-75 Launeddas, 45, 45-46, 55, 63, 68, 204, 206, 208-209 LEONE LISAURICO, 91 LEOPARDI GIACOMO, 340 LIBERIO, 39 Libia, 37 LICHERI BONAVENTURA, 173 Lidone, 66 LILLIU GIOVANNI, 79-82, 122, 246, 260, 267, 374 Limbara, 232, 234, 274 Litamen, 64 LIVIO, 42, 378 LODDO CANEPA FRANCESCO, 99, 156 Lod, 46 Lodine, 46 Logudoro, 63, 117-118, 131, 162, 166, 208 Lollove, 46 Lombardia, 131, 359 Londra, 80 trattato di, 385 Lotzorai, 102 LUCIFERO, 100 LUCIFERO DI CAGLIARI, 39, 39-40, 380 Lula, 364 Luogotenente generale della Sardegna, 384 Macomer, 373 battaglia di, 383 Campeda di, 61 MACROBIO, 64 MADAO MATTEO, 62-63, 168, 366 MADEDDU GIOVANNI BATTISTA, 295 MAGONE, 43 Maju, 65, 71, 74-75, 239 MALASPINA, famiglia, 119, 381 MALCO, 376 MALTEN, 37 MAMELI BONAVENTURA, 143 MAMELI DE MANNELLI GIOVANNI MARIA, 63-64, 318 Mamoiada, 69, 189 MANCA COSIMO, 99 Mandrolisai, 131 MANNU FRANCESCO, 322-323 Maracalagnis, 289 MARCO EMILIO SCAURO, 379 MARCO POMPONIO MARIO, 133 MARCO POMPONIO MATHO, 378 MARCUSA DI GUNALE, 116-118 Mare dAzov, 270 Marghine, 131, 133, 354, 368 MARI GIOVANNI, 169 MARIANO, Giudice, 107, 117 MARIANO DARBOREA, 382 MARIA PIETRA, 123 Marmilla, 120-121, 131 MARTELLI VALENTINO, 60, 85 MARTINO, beato, 105 MARTINO, papa, 289 MARTINO IL GIOVANE, 383 Martis, 204

Escalaplano, 102 Escusorgius, 77, 90 Esterzili, 102 ETRUSCHI, 373, 376 EUSEBIO DA VERCELLI, 40 FALCHI LUIGI, 55 FARA GIULIO, 46 FELICE, 95 FENICI, 83, 373-374, 377 Fenicotteri, 49, 49, 274 Feronia, 378 FERRARO GIUSEPPE, 181, 219, 304 Ferrovie, 387 Feudi, abolizione e riscatto, 387 FILIPPI GIORGIO, 236 FILIPPO III, 384 FILIPPO V, 41, 385 Firenze, 64, 80 Flumendosa, 102, 288, 366, 387 FOCESI, 376 Fordongianus, 378 Forum Traiani, vedi Fordongianus FRANCESI, 384 FRANCHI, 381 Francia, 45, 51, 362, 384, 386 Frearzu, 73, 75 Friargiu, 65 Fribaggiu, 65 Furriadroxiu, 56-57 Furtei, 108 Gairo, 290, 366 GALILENSES, 102 Gallilio/Gallilium, 102, 102 Gallura, 36, 54, 94, 131, 208, 274, 368 Giudicato di, 119, 381 Gavoi, 121, 234-235, 297, 299 Gennargentu, 93, 368 Genova, 46, 357, 381-382

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AMARO

Indice dei nomi e delle cose pi notevoli MULAS GIOVANNI, 350 MNTERS FRIEDRICH, 63 MURATORI LUDOVICO ANTONIO, 87 MUREDDU-COSSU MARIA GRAZIA, 224 MURONI GAVINO, 44 MUSA, 90 MUSETO, vedi Mugahd MUSULMANI, 46, 113 MUZZICHILE CARMINE, 364 Nadale, 64, 75 Napoli, 37 Narbolia, 50, 50 Natale, festa, 64-65, 133, 200, 204, 214, 360 Neapolis, 377-378 NERONE, 46, 102 Ninnidos, 206, 208 NOINA GASPARE, 112 NONNO, 37 Nora, 48, 52, 55, 226, 377 NORAKE, 377 Norgoddoe, 134, 134 Nuchis, 204 Nule, 121 Nulvi, 121 Nuorese (il), 46, 131, 133, 136 Nuoro, 49, 53-55, 66, 72, 121, 229, 235, 238, 240, 365 Nura/nole/nula, 78 Nurachi, 289 Nuraghe, 46, 60, 78, 153, 246, 292, 353, 374 Nuraxinieddu, 289 Nurra (la), 83, 131 Ogliastra, 60, 65, 131 Olbia, 36-37, 60, 186, 377-378, 381 Oliena, 36-37, 121, 290 Ollolai, 93, 354 Ominas, 133 Orani, 65 ORAZIO, 37 Orcus, 53 Oricensem terram, 105 Oristano, 49, 61, 65, 67, 71, 71, 99, 131, 177, 210, 289, 354, 374, 377, 384 capoluogo del Giudicato di Arborea, 381 marchesato di, 383 Orosei, 105, 105 Ortobene, 369 Oruse, 105 Osini, 106, 290, 366 OSPITONE, re dei pastori, 93-95, 201, 380 Othoca, 377 Ozieri, 49 Padria, 36, 377 PAIS ETTORE, 36, 78, 83, 83, 377 Palau, 367-368 Palazzo di re Barbaru, 90 PALLOTTINO MASSIMO, 77, 373 Palmas, golfo, 56 Panama, 59 Pane purile o purilndzu, 65 PAOLO, sacerdote, 109, 109, 110 PAOLO, vescovo, 109 PARENTI, 238 Parigi, 80, 386 Parlamento sardo, 382-384 subalpino, 387 Parte barigadu, 132 PASQUALE II, papa, 117 PATULCENSES, 102 Pauli Gerrei, 378 PAUSANIA, 37, 63, 376 Pedra fitta, 299, 301 Pelau de Ierzu, 60 Perdas de fogu, 102 Pergamene di Arborea, 99 PES GAVINO, 41, 221 PETTAZZONI RAFFAELE, 84, 98 Piemonte, 387 PIEMONTESI, 386 PIETRO IV, 382 PIETRO MARENGO, don, 188-189, 362 PINNA GIUSEPPE LUIGI, 324 PINNA MICHELE, 64 PINTOR SIRIGU EFISIO, 321 PIRODDA ANDREA, 314 Pirri, 289 Pisa, 46, 64, 381-382 PISANI, 381 PISURZI PIETRO, 317, 320 Planargia, 131 PLINIO IL VECCHIO, 66, 158, 270, 376 Ploaghe, 121, 197, 238 Po, 106, 288 POMPEO, 379 PORRU VINCENZO, 57, 65 Porto Torres, 90-91, 117, 376 Posada, 378 Quartu, 289 Quartucciu, 289 QUINTO CECILIO METELLO, 379 QUINTO MANLIO, 42 Rastadt, 385 Regione sarda/Ente autonomo della Sardegna, 387 Regnum Sardiniae et Corsicae, 382 Riforme di Carlo Alberto, 387 Riforme di Carlo Felice, 386 Riola, 289 Roma, 42, 50, 63-65, 80, 93, 289, 354, 374, 378-379 RONCOLA VINCENZO, 362 RU MASSIMO, 256, 258-259, 363 Rugrus, 133

Martu, 73, 75 Marzu, 65 Mssama, 289 Matera, 299 Matzeu, rio, 288, 290 Maurreddus, 58, 94 MAZZARINO, 92 Mediterranea, rivista, 64 Mediterraneo, 270, 381 MELE DIEGO, 325-326 MERRE ESCULAPIO, 83 Mese idas, 64 Mese ladaminis, 64 MESSAPO, re, 43 Metalla, 378 MEZZADRIA ANTIOCO, 62, 64 MIGLIORINI BRUNO, 66 Milano, 39 Milis, 67, 289 Mogoro, 121 MOMMSEN THEODOR, 87, 99, 272 Monembasia, 289 Monserrato, 289 Monte Arci, 77 Monte Caravius, 56 Monte Urpino, 52 Montecassino, monaci di, 381 Monteleone, castello, 383 Montiferru, 77 Morea, 289 Morgongiori, 121 MORI, 155, 381 MORO POTENZIA, 140 Morosini, 368 MOSSA PAOLO, 158, 186 Moti antifeudali, 386 Moti rivoluzionari, 386 MOTZO BACCHISIO RAIMONDO, 78, 90-91, 102, 104-105, 109, 110111, 272, 377 MUGAHD, 113, 381

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AMARO

Indice dei nomi e delle cose pi notevoli Scorrerie barbaresche, 56, 384 Scuole elementari, 386 Sebeze, 299, 301 Sedilo, 71, 71 Selrgius, 289 Semestene, 44 Senis, 121 SERCHI, nobiluomo, 107 Serrenti, 369 Settimo San Pietro, 289 Seulo, 93 Siamaggiore, 289 Sicilia, 37, 63, 381 Sigii, 111 Sigillo dei Quattro Mori, 155, 155 SILIO ITALICO, 43 SILLA, 83 Silos, 60, 358 SINISPELLA, moglie del Giudice di Cagliari, 104, 104 Snnai, 289 Siocco, 358 Siracusa, 37 Solarussa, 289, 308 Solci, 90 SOLINO, 63 SOLMI ARRIGO, 91-92, 104, 111 SONNINO SIDNEY, 357 Sorgono, 70 Spagna, 113, 270, 384-385 SPANO AUSONIO, 351 SPANO GIOVANNI, 56, 63-65, 87, 206 Spartivento, 377 SPINOLA, famiglia, 381 Stamenti, 382 Stampa in Sardegna, 384 Statuto albertino, 387 STRABONE, 63, 376 Successione spagnola, guerra di, 385 Suelli, 101, 103-104, 104, 108, 109, 110-111 Sulcis, 56-58, 60, 131 Svizzera, 131 TACITO, 46 Talaigh, nuraghe, 299 Tanca, 356-358 TANCHIS GIUSEPPE, 331 Tapinu de mortu, 121, 168, 188, 188, 189, 363 TARAMELLI ANTONIO, 91 Tebaide, 39, 39 Temo, 288, 290, 368, 377 Tempio, 49, 289 Terralba, 121 Tessaglia, 37 Texas, 59 Tharros, 48, 300, 377, 381 TIMEO, 37, 98 Tirso, 85, 288-290, 368, 378, 387 TITO ALBUCIO, 133 TITO MANLIO TORQUATO, 42, 378 TITO SEMPRONIO GRACCO, 378 TODA Y GELL EDUARD, 306 TOLA EFISIO, 387 TOLA PASQUALE, 116 Toledo, 384 TOMASO I, Vicario imperiale, 155 Tonara, 66, 200 TORCHITORIO, Giudice, 100, 111 Torino, 80, 386 Torres, 116, 119, 381 Tortol, 61 TOTILA, 380 TRACCA ROSA, 48, 353 Treulas, 65 Trexenta, 52, 131, 226, 358 Triulas, 74-75 Troia, 63 TROPEA GIUSEPPE, 47-48, 50, 61 Tunisia, 59 Turris Libysonis, 376, 379 UGONE, 382 Ulassai, 368 Unedo, 66 Uras, battaglia, 383 URRU VINCENZA, 47, 57 Uruse, 105 Urzulei, 53, 103, 267 Utrecht, 385 VACCA CONCAS SALVATORE, 134 Valentia, 379 VALENTINIANO, 83 VALLE RAIMONDO, 270 VALLOMBROSANI, monaci, 381 VANDALI, 380 VEDIMORTI BONAVENTURA, 47 Venezia, 64, 80 Vergine dellItria, chiesa, 299 Vicer, capo supremo della Spagna in Sardegna, 384 VIDAL SALVATORE, padre, 62, 64-65 Villanova Truschedu, 289 VIRDE STEFANO, 39-43, 47-48 VIRGILIO, 37, 292 VISCONTI, famiglia, 381 VITELLIO, imperatore, 49 VITTORINI, monaci, 381 VITTORIO AMEDEO II, 385 VITTORIO AMEDEO III, 385 VITTORIO EMANUELE I, 356, 386 VIVENZIA, 100 WAGNER MAX LEOPOLD, 46, 53, 63, 65, 231, 377-378 ZEDDA FRANCESCO, 45 Zeddiani, 289 Zerfalu, 289

Ruinas, 121 RM, isola dei, 113 SABA AGOSTINO, 40 Saccargia, chiesa, 114-118 Sadurru, mese de Santu, 64 SALLUSTIO, 37 Saltus, 133 San Gavino di Porto Torres, 91, 117 San Michele, 373 San Sperate, 120 San Vero Milis, 289 San Vittore di Marsiglia, 381 Sandaliotes, 63 Sanluri, 210, 383 SantAndrea, croce di, 61 SantAntioco, 61, 272, 368, 377 Santa Barbara, chiesa, 108 Santa Giusta, 121 Santa Rosalia in Cagliari, 99 Santuaini, 64, 74, 76 SARACENI, 90, 155-156 Sarcidano, 131 Sardegna, 36-37, 39, 42, 45-46, 48, 49, 50, 59, 62-65, 71, 7778, 78, 80, 83, 83, 87, 90, 104, 110, 113, 117, 155, 189, 206, 215, 289, 299, 318, 356-357, 368, 376-377, 379-385, 387 SARDI PELLITI, 42 SARDOPATORE, 48, 83 SARI RAFAEL, 346 Srrabus, 131 Sartillai, 133 Sarule, 121 Sassari, 49, 53-55, 310, 318, 381 SATTA SEBASTIANO, 44, 55, 130, 338, 356 SAVINO, beato, 105 SAVOIA, famiglia, 385 Scala di San Giorgio, 106, 106

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BIBLIOTHECA SARDA
Volumi pubblicati

Aleo J., Storia cronologica del regno di Sardegna dal 1637 al 1672 (35) Atzeni S., Passavamo sulla terra leggeri (51) Atzeni S., Il quinto passo laddio (70) Ballero A., Don Zua (20) Baudi di Vesme C., Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna (101) Bechi G., Caccia grossa (22) Bernardini A., Un anno a Pietralata La scuola nemica (93) Bottiglioni G., Leggende e tradizioni di Sardegna (86) Bresciani A., Dei costumi dellisola di Sardegna (71) Cagnetta F., Banditi a Orgosolo (84) Calvia P., Quiteria (66) Cambosu S., Lanno del campo selvatico Il quaderno di Don Demetrio Gunales (41) Cambosu S., Miele amaro (100) Casu P., Notte sarda (90) Cetti F., Storia naturale di Sardegna (52) Cossu G., Descrizione geografica della Sardegna (57) Costa E., Giovanni Tolu (21) Costa E., Il muto di Gallura (34) Costa E., La Bella di Cabras (61) Costa E., Rosa Gambella (95) Deledda G., Novelle, vol. I (7) Deledda G., Novelle, vol. II (8) Deledda G., Novelle, vol. III (9) Deledda G., Novelle, vol. IV (10) Deledda G., Novelle, vol. V (11) Deledda G., Novelle, vol. VI (12) Della Marmora A., Itinerario dellisola di Sardegna, vol. I (14) Della Marmora A., Itinerario dellisola di Sardegna, vol. II (15) Della Marmora A., Itinerario dellisola di Sardegna, vol. III (16) De Rosa F., Tradizioni popolari di Gallura (89) Dess G., Il disertore (19)

Dess G., Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo (94) Dess G., Paese dombre (28) Dess G., Michele Boschino (78) Dess G., San Silvano (87) Edwardes C., La Sardegna e i sardi (49) Fara G., Sulla musica popolare in Sardegna (17) Fuos J., Notizie dalla Sardegna (54) Gallini C., Il consumo del sacro (91) Goddard King G., Pittura sarda del Quattro-Cinquecento (50) Il Condaghe di San Nicola di Trullas (62) Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (88) Lawrence D. H., Mare e Sardegna (60) Lei-Spano G. M., La questione sarda (55) Levi C., Tutto il miele finito (85) Lilliu G., La costante resistenziale sarda (79) Lobina B., Po cantu Biddanoa (99) Lussu E., Un anno sullaltipiano (39) Madau M., Le armonie de sardi (23) Manca DellArca A., Agricoltura di Sardegna (59) Manno G., Storia di Sardegna, vol. I (4) Manno G., Storia di Sardegna, vol. II (5) Manno G., Storia di Sardegna, vol. III (6) Manno G., Storia moderna della Sardegna dallanno 1773 al 1799 (27) Manno G., De vizi de letterati (81) Mannuzzu S., Un Dodge a fari spenti (80) Martini P., Storia di Sardegna dallanno 1799 al 1816 (48) Mereu P., Poesias (96) Montanaru, Boghes de Barbagia Cantigos dEnnargentu (24) Montanaru, Sos cantos de sa solitudine Sa lantia (25) Montanaru, Sas ultimas canzones Cantigos de amargura (26) Moscati S., Fenici e Cartaginesi in Sardegna (102) Muntaner R., Pietro IV dAragona, La conquista della Sardegna nelle cronache catalane (38) Mura A., Su birde. Sas erbas, Poesie bilingui (36) Mura G. A., La tanca fiorita (98) Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano, vol. I (42)

Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano, vol. II (43) Pallottino M., La Sardegna nuragica (53) Pesce G., Sardegna punica (56) Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu A-C (74) Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu D-O (75) Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu P-Z (76) Rombi P., Perdu (58) Ruju S., Sassari vccia e nba (72) Satta S., De profundis (92) Satta S., Il giorno del giudizio (37) Satta S., La veranda (73) Satta S., Canti (1) Sella Q., Sulle condizioni dellindustria mineraria nellisola di Sardegna (40) Smyth W. H., Relazione sullisola di Sardegna (33) Solinas F., Squarci (63) Solmi A., Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo (64) Spano G., Proverbi sardi (18) Spano G., Vocabolariu sardu-italianu A-E (29) Spano G., Vocabolariu sardu-italianu F-Z (30) Spano G., Vocabolario italiano-sardo A-H (31) Spano G., Vocabolario italiano-sardo I-Z (32) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. I (44) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. II (45) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. III (46) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. IV (47) Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna A-C (67) Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna D-M (68) Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna N-Z (69) Tyndale J. W., Lisola di Sardegna, vol. I (82) Tyndale J. W., Lisola di Sardegna, vol. II (83) Varese C., Il Proscritto (97) Valery, Viaggio in Sardegna (3) Vuillier G., Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio (77) Wagner M. L., La vita rustica (2) Wagner M. L., La lingua sarda (13) Wagner M. L., Immagini di viaggio dalla Sardegna (65)

Finito di stampare nel mese di novembre 2004 presso lo stabilimento della Fotolito Longo, Bolzano

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