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Giovanni Bianconi

RAGAZZI DI
MALAVITA

Fatti e misfatti della banda


della Magliana.
Milano 2004.
"Le ultime azioni da uomo
libero del Duca Massimiliano
Grazioli Lante della Rovere
furono quelle di salire sulla sua
BMW 320 grigia metallizzata,
accendere il motore e
percorrere qualche centinaio di
metri. Era buio, le diciotto e
trenta di lunedì 7 novembre
1977... La BMW 320 del duca
era quasi arrivata all'incrocio di
via della Marcigliana con via
Salaria, quando un'Alfetta
spuntò all'improvviso dal lato
della strada, la strinse e obbligò
il duca a fermarsi..." I sequestri
di persona erano allora, per
così dire, di moda in Italia, tra
quelli per terrorismo e quelli
per lucro. Nel 1977 l'Anonima
ne aveva già messi a segno
sessantasei. A Roma "don
Massimiliano" era l'ottavo
ostaggio dall'inizio dell'anno,
ma la banda che lo portò via la
sera del 7 novembre non era
composta da "professionisti" e
quel sequestro significò un
salto di qualità per Franco
Giuseppucci e i suoi amici di
Trastevere, di Testaccio e della
Magliana. Il duca ci rimise la
pelle, e il suo assassinio fu il
primo atto di rilievo di quella
che è stata definita la banda
della Magliana, ma in un certo
senso non è mai stata una
banda e, più che
un'organizzazione, è stata un
ambiente, una sorta di
contenitore in cui hanno
transitato e fatto affari i
personaggi più diversi, e si
sono consumate alleanze,
tradimenti e vendette, senza
capi e un progetto unitario che
non fosse il controllo del
malaffare, come principale e
inesauribile fonte di ricchezza.
Giovanni Bianconi ricostruisce,
basandosi sullo studio
approfondito e appassionato
degli atti processuali
accumulatisi in anni d'inchieste
giudiziarie, una sconvolgente
storia di delinquenza collettiva
che sta tra i traffici dei
quaranta ladroni di Ali Babà ne
"Le mille e una notte" e le
stragi di gangster di "Raccolto
rosso" di Dashiell Hammett, ma
non è una favola antica o
moderna, è un pezzo della
nostra allarmante realtà.
Proprio per l'assenza di
organismi decisionali e di
confini alle attività della banda
che non è mai stata una banda,
le vicende della Magliana si
intrecciano con tutte quelle dei
personaggi di spicco della
cronaca italiana, da Pippo Calò
a Totò Riina, da Raffaele Cutolo
a Licio Gelli, un groviglio di
soprusi, atrocità e misteri. Il
volontariato del male.
ORESTE DEL BUONO

Giovanni Bianconi, nato a


Roma nel 1960, è inviato del
"Corriere della Sera". Per
Baldini Castoldi Dalai editore
ha scritto "A mano armata. Vita
violenta di Giusva Fioravanti"
(1992) e con Gaetano Savatteri
"L'attentatuni. Storia di sbirri e
di mafiosi" (1998). Nel 2003 ha
pubblicato "Mi dichiaro
prigioniero politico. Storie delle
Brigate rosse" (Einaudi).
INDICE

Prefazione, di Gianni De
Gennaro.

RAGAZZI DI MALAVITA.

Avvertenza dell'autore.

1. Nobili e borgatari.
2. Napoletani a Roma.
3. Fuoco sui «pesciaroli».
4. Polvere.
5. Bulli, pupe e affari
sporchi.
6. «Ciao, Nicolino».
7. Cosa Nostra e i misteri
d'Italia.
8. Amici neri, Servizi e
segreti.
9. La strage.
10. Pentimenti.

I protagonisti.

Note.

***
PREFAZIONE

di Gianni De Gennaro.

Un cane lupo. Il cane di


Libero Mancone. Un flash, un
ricordo. Grazia Selis, alla
disperata ricerca della verità
sulla scomparsa di suo fratello
Nicolino, non riesce a entrare
in casa di Mancone per
chiedergli notizie.
Un gruppo di poliziotti
intenti nell'ennesimo arresto di
Mancone sono ostacolati dallo
stesso cane lupo, feroce
custode della "privacy" del suo
padrone. C'ero anch'io tra quei
poliziotti: Mancone riuscì a
fuggire e si diede alla latitanza.
Per uno come me, cresciuto
nella Squadra Mobile di Roma
negli stessi anni in cui quella
gente di malavita, che l'autore
chiama con affettuosa ironia i
«bravi ragazzi», cresceva a sua
volta nei bar e nelle bische
della Magliana, del Tufello, di
Trastevere e di Testaccio, il
libro di Giovanni Bianconi è un
susseguirsi di ricordi.
Capita di rado a un
poliziotto, perennemente
distratto da una miriade di fatti
e di episodi che si rincorrono
disordinatamente nella sua
memoria, di avere la possibilità
di rileggerli nitidi, lineari,
logicamente consequenziali.
La banda della Magliana,
questa misteriosa entità cui la
fantasia popolare e una stampa
talvolta disattenta hanno
spesso attribuito ruoli e attività
tendenti a circoscriverla quasi
esclusivamente in un mondo
lontano dai vicoli del centro e
dalla periferia di una grande
città, torna, grazie all'opera di
Bianconi, ad appartenere a
quella malavita nostrana,
violenta e senza regole, che ha
imperversato a Roma per anni,
intersecandosi, talora
casualmente, talaltra
intenzionalmente, con altri
poteri criminali, che della
capitale avevano fatto terra di
conquista.
Il libro di Bianconi dunque,
al di là di quell'aspetto per me
simpaticamente autobiografico,
ha uno specifico valore per chi,
curioso e attento lettore della
cronaca, riesce finalmente a
capire cosa hanno
rappresentato, per oltre un
decennio, le miserevoli gesta
dei «bravi ragazzi della
Magliana». Droga, rapine, gioco
d'azzardo, sequestri di persona,
inutili omicidi, spavaldi e
prepotenti inserimenti in realtà
criminali più grandi di loro.
Soldi, troppi soldi, futile potere,
e poi la fine: tragica e
apparentemente ingloriosa per
chi ha condotto un'intera vita
nel disprezzo degli altri e della
legge. Lunghe confessioni
davanti a un giudice istruttore
e finalmente la verità, o
meglio, gran parte della verità.
Quanti rapporti di polizia,
quante indagini, quante
istruttorie si erano
ripetutamente avvicinate a
definire la reale portata dei
delitti di «Renatino», «er
vòto», «accattone»,
«operaietto», «palle d'oro», «er
cane», «er criminale», «er
ciambellone» e di tanti altri
«er» che hanno popolato per
anni le cronache del
«Messaggero» prima e di tutta
la stampa nazionale poi.
Soltanto le testimonianze
dirette di Claudio Sicilia, di
Fulvio Lucidi, di Maurizio
Abbatino, di Antonio Mancini, di
Fabiola Moretti ci portano oggi
a collegare tra loro e nella loro
giusta valenza morti misteriose
e complicati intrecci.
Fabiola Moretti: una donna.
Già, le donne dei «bravi
ragazzi», così profondamente
presenti nel loro delinquere e
così apparentemente assenti
dalla loro vita. Giovanni
Bianconi ce le descrive con
concretezza attraverso le crude
e asettiche parole dei verbali di
polizia, quando, soprattutto nei
momenti più tragici, con un
rituale quasi studiato, ripetono
tutte indistintamente,
all'unisono, la loro completa
estraneità alle amicizie e alle
attività dei loro compagni che
non mancano di ricordare o
rimpiangere come «bravi
ragazzi». Non era facile
ricollegare tanti fatti e tanti
personaggi, né spiegare quei
misteriosi contatti con un
mondo criminale più adulto di
quello della banda della
Magliana: la mafia siciliana, i
Marsigliesi, la camorra e ancora
più su, gli affari, la politica.
A me sembra che lo sforzo di
intelligente ricostruzione che
l'autore ha fatto, selezionando
tra le migliaia e migliaia di
pagine processuali, quelle più
significative, sia stato premiato.
E così, leggendo il libro di
Bianconi, un vecchio poliziotto
può riordinare i suoi ricordi
nella memoria, un conoscitore
della cronaca può rileggere
compiutamente tanti fatti che
in parte gli erano noti e anche
un giovane, che nulla sa dei
«bravi ragazzi», può avvicinarsi
alle loro storie riuscendo a
collocarle in una esatta
dimensione.
***
RAGAZZI DI MALAVITA.

"Non c'era più orgoglio


popolare, (...)
alternativo (...).
Anzi, le mille lire di più che
il benessere aveva
infilato nelle saccocce dei
giovani proletari,
avevano reso quei giovani
proletari sciocchi,
presuntuosi, vanitosi,
cattivi".

Pier Paolo Pasolini, "Petrolio"


***

La definizione più comune è


«agenzia del crimine», un'altra
usata spesso è «holding
politico-criminale». Da ultimo
un magistrato ha rinviato a
giudizio i suoi componenti con
l'accusa di associazione
mafiosa. E' comunque il ruolo
che le è stato attribuito di
«braccio armato» di settori
delle istituzioni «deviati» e dei
vari «poteri occulti» ad aver
reso famosa la banda della
Magliana, un'organizzazione
che viene chiamata in causa
con sempre maggiore
insistenza in quasi tutti i
misteri d'Italia, ogni volta che
un delitto sembra nascondere
qualcosa di oscuro o
inconfessabile.
Ciò che ormai appare
accertato è che con la banda
della Magliana, coi suoi uomini
o almeno con alcuni spezzoni di
essa, sono entrati in contatto e
in affari, nel corso degli anni e
a diversi livelli, la mafia
siciliana e quella catanese, la
'ndrangheta calabrese, la
camorra, la loggia P2, i sempre
presenti Servizi segreti
«deviati», i terroristi neri,
imprenditori d'assalto e
riciclatori di denaro sporco.
Il giudice Libero Mancuso ha
definito la banda come «il luogo
nel quale l'Antistato consuma
tutto il suo potenziale eversivo
e antagonista per diventare
esso stesso, attraverso una
serie di passaggi mediati, di
apporti operativi e ideativi,
"istituzione, sistema" che si
arroga il diritto di eliminare
tutte le sue variabili impazzite,
di proteggere tutti coloro che
operano all'interno delle
proprie finalità». Un ruolo per il
quale, aggiunge il magistrato,
«se vi è stata
un'organizzazione criminale
che abbia mai avuto protezioni,
e che sia stata sottovalutata
nonostante la profluvie di
elementi di accusa raccolti
inutilmente a suo carico,
questa è la banda della
Magliana».
Ma se questo è l'aspetto più
noto, quello che rende la
«Magliana» un fenomeno di
rilevanza nazionale e per certi
versi politico, ce n'è anche un
altro, meno approfondito
perché apparentemente meno
dirompente, quasi mai valutato
nel suo insieme ma
abbandonato nel corso degli
anni alle cronache nere dei
quotidiani. E' la storia di quel
gruppo di malavitosi di
quartiere che piano piano si
organizzano, affinano le loro
capacità criminali diventando
veri e propri gangster,
intrecciano contatti e rapporti
che li trasformano in boss,
sbaragliano il campo dai banditi
della generazione precedente
fino a ottenere il controllo
quasi totale dei traffici illeciti a
Roma - dai sequestri di persona
al commercio della droga, dalle
scommesse clandestine al
«racket» dei videogiochi, dal
traffico d'armi all'usura -,
dando vita a quell'agglomerato
chiamato convenzionalmente
banda della Magliana.
Una vicenda che diventa la
storia criminale di Roma dalla
fine degli anni Settanta a tutti
gli anni Ottanta, o se si vuole
di «Roma capitale del crimine»,
visto che questa città è stata -
anche a causa dell'attività della
banda - il crocevia di azioni e
interessi della malavita
organizzata nazionale.
Questo libro cerca di fare
luce soprattutto sul secondo
aspetto della storia della banda,
quello più «interno», nel
tentativo di approfondire le
dinamiche e l'evoluzione di
quel pugno di criminali con
pochi scrupoli e senza padroni,
non organizzato
gerarchicamente secondo rigide
strutture ma nel quale di volta
in volta prendono il
sopravvento questo o quel
personaggio, con fazioni
interne che prima collaborano e
poi si annientano tra loro
seminando decine di morti con
una cadenza che - nel
disinteresse quasi generale - ha
trasformato interi quartieri di
Roma in qualcosa di molto
simile alla Chicago degli anni
Trenta.
Decine di omicidi che presi
singolarmente dicono poco o
niente, ma che messi insieme e
collegati l'uno all'altro,
soprattutto attraverso le
dichiarazioni dei «collaboratori
di giustizia», sollevano il velo
su quella «guerra di piccola
mafia» che s'è combattuta nella
capitale mentre l'attenzione
dell'opinione pubblica nazionale
era rivolta quasi
esclusivamente al terrorismo
prima e a Cosa Nostra siciliana
poi. Ne viene fuori una storia di
sentenze di morte covate a
lungo e omicidi maturati e
consumati nel corso di una
serata, anche per una banale
lite; di esecuzioni compiute a
freddo, magari dopo una cena
tra la vittima e i suoi assassini,
e di episodi di «lupara bianca»
col seppellimento del cadavere
sotto colate di cemento; una
storia di «bravi ragazzi»
arricchiti dalla droga, che
vivono tra bar, ippodromi e sale
giochi, sniffando cocaina e
correndo su auto di lusso e
moto giapponesi, fino
all'esaurimento suggellato
prima dai morti e poi dai
«pentimenti» di alcuni
superstiti.
Vista da questa angolazione
la banda della Magliana appare
un'organizzazione più che un
«ambiente», una sorta di
contenitore dove transitano e
fanno affari i personaggi più
diversi, dentro il quale si
consumano alleanze,
tradimenti e vendette, senza
capi e senza un «progetto»
unitario che non sia quello di
controllare il malaffare,
principale e inesauribile fonte
di ricchezza.
Ma proprio per questo,
proprio perché non ci sono capi
né vertici, bensì individui
disposti a tutto pur di
accaparrarsi un guadagno, una
protezione o un alleato per
eliminare il nemico di turno, la
banda diventa anche lo
strumento che può essere
utilizzato da «burattinai» di
ogni tipo. Ecco allora che il
secondo aspetto della storia,
quello «interno», si lega al
primo, quello dell'«agenzia del
crimine» e della «holding
politico-criminale». Proprio per
l'assenza di organismi
decisionali e di confini alle
attività della banda, la storia
della «Magliana» si intreccia
con quella di personaggi che
hanno riempito le cronache
dell'Italia criminale, da Pippo
Calò a Totò Riina, da Raffaele
Cutolo a Licio Gelli, passando
per faccendieri, terroristi neri e
trafficanti internazionali di armi
e droga; ed ecco il
coinvolgimento in episodi
tuttora misteriosi come
l'omicidio Pecorelli, il ferimento
dell'ex vicepresidente del Banco
Ambrosiano Roberto Rosone, il
depistaggio delle indagini sulla
strage di Bologna.
Naturalmente si tratta di un
tentativo, di una ricostruzione
certamente parziale, nella
quale alcune vicende sono state
trattate solo per accenni
oppure omesse perché
avrebbero finito per diventare
un altro libro e non questo, che
non può e non vuole essere
esauriente, ma solo contribuire
a far conoscere le storie di un
gruppo di «ragazzi di
malavita», che sono anche un
pezzo di storia d'Italia.

Questo lavoro si basa


essenzialmente sullo studio
degli atti processuali
accumulatisi in anni di
inchieste giudiziarie, fino a
quella sfociata nel rinvio a
giudizio di novantotto persone
nell'agosto del 1994. Altre
inchieste sono tuttora in corso
da parte dell'autorità
giudiziaria in diverse città
d'Italia, ed è prevedibile che
nuovi sviluppi si avranno in
seguito.
La storia della banda della
Magliana e dei personaggi che
intorno a essa hanno gravitato,
quindi, è in parte ancora al
vaglio dell'autorità giudiziaria.
E anche sui fatti per i quali ci
sono state delle sentenze
definitive, i racconti dei nuovi
«pentiti» hanno fornito ulteriori
particolari ed elementi di
riscontro che mancavano al
momento dei giudizi passati.
Nelle vicende narrate ho
cercato di tener conto, laddove
è stato possibile ricostruirli, dei
pronunciamenti della
magistratura, ma molti
procedimenti penali sono stati
interrotti prima che si
giungesse a un giudizio
definitivo, per morte
sopravvenuta delle persone
coinvolte.
Oltre ai racconti dei
«pentiti» contenuti negli atti,
ho potuto contare su
testimonianze, colloqui e
consigli ricevuti da tante
persone che a causa del loro
lavoro o di altre circostanze
hanno avuto a che fare con le
vicende qui narrate. Elencarle
sarebbe troppo lungo, ma
ringrazio ciascuna di loro.
Indispensabile per le
ricerche e la documentazione è
stato ancora una volta
Giuseppe Valdroni, segretario
giudiziario della Procura della
Repubblica di Roma.

G. B.
Roma, gennaio 1995

***
1. NOBILI E
BORGATARI

Le ultime azioni da uomo


libero del duca Massimiliano
Grazioli Lante della Rovere
furono quelle di salire sulla sua
BMW 320 grigia metallizzata,
accendere il motore e
percorrere qualche centinaio di
metri. Era buio, le diciotto e
trenta di lunedì 7 novembre
1977.
A quell'ora il duca lasciò la
località Le Torrette, un
allevamento di cavalli che
passava a visitare quasi ogni
sera. Doveva andare agli uffici
dell'amministrazione della sua
tenuta, e imboccò la strada in
discesa, seguito dal fattore
Luigi Nanni a bordo di una Fiat
126. Quella campagna che
circondava la strada era tutto,
ormai, per il duca Grazioli
Lante: «don Massimiliano», lo
chiamavano dipendenti e amici;
i più intimi, invece, «Max». Era
riuscito a ottenere quei 534
ettari di terreno a nord di Roma
coltivato a grano e pascolo
dopo anni di liti e controversie
legali con gli altri eredi di una
famiglia che affondava le sue
radici di nobiltà nella fine del
Settecento. Finalmente era
diventato amministratore della
tenuta, una delle poche
proprietà che gli erano rimaste
insieme a un'ala di palazzo
Grazioli in città - in via del
Plebiscito, a due passi da piazza
Venezia - e qualche altra cosa.
Lasciato il lavoro che svolgeva
al «Messaggero», il giornale
che era stato della famiglia
della moglie Isabella, il duca
s'era buttato anima e corpo
nella sua campagna e adesso, a
sessantasei anni, l'aveva
trasformata in una tenuta
modello.
Gli ettari di terreno che in
quel momento si intuivano
soltanto nel buio seguito al
tramonto, erano anche il suo
orgoglio, un modo per
prolungare la tradizione di una
famiglia cresciuta e prosperata
con l'agricoltura. I Grazioli,
baroni dal 1823 per volontà di
papa Gregorio Sedicesimo e
diventati duchi nel 1851 per
ordine di Ferdinando Secondo
re di Napoli, erano stati i
mugnai del pontefice e grazie a
quell'attività avevano
accumulato decine di palazzi e
una delle ricchezze più
cospicue nella Roma papalina.
E se a «don Massimiliano» era
rimasto ben poco di quei beni,
nello stemma della casata -
insieme all'aquila, alla colomba
e al capretto - c'era ancora un
fascio di spighe di grano. Lui, a
oltre un secolo di distanza,
voleva continuare a dare
sostanza a quell'emblema.
Il duca si recava ogni giorno
alla tenuta della Marcigliana,
dalle parti di Settebagni, ed era
più che metodico negli orari.
Usciva al mattino da palazzo
Grazioli con la sua BMW,
trascorreva la giornata in
campagna e non tornava a
Roma che dopo il tramonto. Era
il suo lavoro, la fonte dei suoi
guadagni ancora alti anche se
ultimamente, nelle casse di
famiglia, erano entrati altri
soldi freschi. La vendita del
«Messaggero» da parte dei
Perrone, infatti, aveva fruttato
qualcosa alla moglie Isabella. E
quella notizia era circolata pure
tra gente con cui «don
Massimiliano» non aveva mai
avuto a che fare. Fino a quella
sera.
La BMW 320 del duca era
quasi arrivata all'incrocio di via
della Marcigliana con via
Salaria, quando un'Alfetta
spuntò all'improvviso dal lato
della strada, la strinse e obbligò
il duca a fermarsi. La 126 del
signor Nanni, che seguiva «il
padrone», arrivò poco dopo e il
fattore fece appena in tempo a
vedere l'auto grigia ferma in
mezzo alla via e due persone
che trascinavano «don
Massimiliano» fuori dalla BMW,
tenendolo per le braccia e per i
piedi. Luigi Nanni pensò subito
a un incidente, ma pochi attimi
dopo si trovò la canna di un
mitra puntata contro la spalla
sinistra. Un uomo incappucciato
ordinò a quello col mitra:
«Tiralo fuori e tastalo». Mentre
teneva le mani alzate e veniva
perquisito, il fattore udì due
spari, poi l'uomo col mitra gli
gridò di buttarsi faccia a terra
nel fossato che costeggiava la
strada. «Se ti muovi ti faccio
saltare la testa.» «Stai calmo,
non mi muovo», balbettò
Nanni, che con il viso nell'erba
sentì il rumore di due macchine
che ripartivano sgommando. Il
duca Massimiliano Grazioli
Lante della Rovere era ormai
un ostaggio dei suoi rapitori.

In Italia andavano di moda i


sequestri di persona, in quel
periodo. Nel 1977 l'Anonima ne
aveva già messi a segno
sessantasei superando la cifra
record stabilita nel '75, e alla
fine dell'anno mancavano quasi
due mesi. Il giorno dopo il
rapimento Grazioli, a Lecce fu
sequestrato Pietro Fiocchi, il
«re delle cartucce», e a
Chiavari, sulla riviera ligure, il
figlio del commerciante e
impresario edile Livio Fontana
sfuggì per puro caso ai suoi
rapitori.
Le preoccupazioni degli
italiani, però, erano altre: la
situazione politica, coi
comunisti che si apprestavano
a entrare per la prima volta
nella maggioranza di governo,
e il terrorismo che stava
diventando qualcosa di più
massiccio rispetto a quanto
appariva all'inizio: anche il
movimento degli studenti
aveva impugnato le armi, e le
sedi di Autonomia Operaia
venivano chiuse in base alle
prime leggi speciali.
A Roma, «don Massimiliano»
era l'ottavo ostaggio preso
dall'inizio dell'anno, ma la
banda che l'aveva portato via la
sera del 7 novembre non era
composta da «professionisti». A
ideare il sequestro fu un certo
Franco Giuseppucci, trentenne
segnalato più volte dalla polizia
per rapine e detenzione di
armi. A quel tempo i suoi amici
di Trastevere, di Testaccio e
della Magliana gli avevano già
cambiato soprannome: prima
era «il fornaretto», poi era
diventato «er negro» a causa
del colorito scuro della pelle.
Oltre a compiere rapine e a
commerciare armi, Giuseppucci
faceva il «buttafuori» in una
sala corse dalle parti di Ostia,
gestita da un certo Enrico, uno
che frequentava i giovani
fascisti figli della Roma bene, i
«pariolini» con capelli corti e
scarpe a punta, giacconi
paramilitari e passione sfrenata
per le armi. Attraverso il giro
dei possessori di macchine
fuoristrada, ancora ristretto nel
1977, Enrico aveva conosciuto
ed era diventato amico di Giulio
Grazioli, figlio del duca
Massimiliano. Le informazioni
necessarie per il sequestro,
dalle abitudini del futuro
ostaggio alle sue possibilità
economiche, venivano proprio
da lì.
Uno della banda messa
insieme da Giuseppucci,
Maurizio Abbatino, all'epoca
ventritreenne, racconterà ai
giudici: «Si trattava di un salto
di qualità rispetto alle rapine
che sino a quel momento
costituivano la nostra principale
attività. Ovviamente un
sequestro di persona richiedeva
una maggiore organizzazione
sia logistica che di impegno
personale. Pertanto, mentre
iniziavano i pedinamenti del
sequestrando, prendemmo
anche contatto, da un lato, con
Giorgio Paradisi, il quale
conosceva il Giuseppucci a
ragione della comune passione
per i cavalli e frequentazione di
ippodromi, sale corse e bische,
nonché con altra persona che
faceva il ricettatore, conosciuta
da Paradisi; dall'altro lato con
una banda di Montespaccato,
della quale ricordo facevano
parte Antonio Montegrande,
siciliano, Stefano Tobia, tale
Angelo detto anche 'faccia
d'angelo' e un cognato di
quest'ultimo». (1)
Tra queste persone, la
divisione dei compiti era
precisa. Continua Abbatino:
«Io, Giuseppucci, Piconi,
Castelletti, Danesi, Enzo
Mastropietro, Paradisi e 'Bobo'
dovevamo curare e curammo le
fasi preparatorie del sequestro,
nel corso delle quali si unì a noi
anche Marcello Colafigli,
conosciuto dal Giuseppucci, che
procurò il cloroformio utilizzato
per il rapimento. Il ricettatore
amico di Paradisi doveva
tenere, come in effetti tenne, i
contatti con la famiglia del
Grazioli. Quelli di
Montespaccato dovevano
custodire, come in effetti
fecero, per qualche tempo
l'ostaggio». (2)

La prima telefonata a
palazzo Grazioli arrivò meno di
un'ora dopo il sequestro, alle
diciannove e quindici del 7
novembre 1977. Una voce
contraffatta disse soltanto
poche parole: «Preparate dieci
miliardi». La richiesta del
riscatto finì subito sui
quotidiani, e un paio di giorni
più tardi il telefonista della
banda si rifece vivo. Parlò con il
figlio del duca, Giulio, un
ragazzo abituato agli agi e ai
vizi tipici dei rampolli della
nobiltà romana, ma anche alle
regole rigide imposte dal
sangue blu, che
improvvisamente si ritrovava
sbattuto in una vicenda di
cronaca nera. Il telefonista si
lamentò per le notizie uscite
sui giornali, ribadì la cifra
richiesta e specificò che doveva
essere consegnata in biglietti di
piccolo taglio. Giulio voleva la
prova che suo padre fosse vivo,
e che quelli al telefono fossero
davvero i suoi rapitori:
«Chiedetegli e riferitemi quale
fu la sua prima macchina». La
risposta arrivò dopo
quarantott'ore: «La macchina
era una Lancia Augusta. Ma voi
dovete sborsare dieci miliardi».
«Non ce li abbiamo», disse
Giulio, «adesso possiamo darvi
duecentonove milioni.» Il
rumore dell'ultimo gettone che
cadeva interruppe la
telefonata.
Passò mezz'ora e il rapitore
era di nuovo dall'altra parte del
filo: «Ascolta, duecentonove
milioni non sono niente per noi.
Chiedi i soldi a tuo zio e a tua
madre». Anche i sequestratori
sapevano della vendita del
«Messaggero» da parte della
famiglia Perrone, e volevano
quei soldi. I telefoni di palazzo
Grazioli, naturalmente, erano
sotto controllo, ma i tecnici
riuscirono a stabilire soltanto
che le chiamate arrivavano
dalla zona di Ladispoli,
quaranta chilometri a nord di
Roma, lungo il mare.
Passarono i giorni, le
settimane, e con lo stile delle
Brigate Rosse che di lì a poco
sarebbe diventato famoso, i
sequestratori del duca facevano
arrivare di tanto in tanto
messaggi e fotografie
dell'ostaggio attraverso i
giornali. Telefonavano alle
redazioni: «C'è un'informazione
importante nel cestino
dell'immondizia vicino a Castel
Sant'Angelo», «Correte in
quella cabina telefonica»,
«Andate in quel bar». Le
chiamate arrivavano quasi
sempre da fuori Roma, con una
voce chiaramente falsata. «Il
telefonista», confesserà uno dei
sequestratori, «parlava con una
pallina da ping-pong in bocca,
per camuffare la voce.»
Le lettere per la famiglia
dell'ostaggio erano battute con
una macchina da scrivere
giocattolo, oppure composte
con ritagli di giornale secondo il
più consumato degli
accorgimenti usati dai criminali.
Da palazzo Grazioli
continuavano a domandare
particolari sulla vita privata del
duca, sempre per verificare che
fosse vivo: «Come si chiamava
la prima balia di Giulio? Chi era
il falegname che fece i lavori a
casa?» E scritte a lato dei
messaggi dei rapitori, con
calligrafia malferma,
arrivavano le risposte del
rapito. Qualche volta, sugli
stessi fogli, c'erano le minacce
dei sequestratori e le parole
affettuose del duca. «Ricordati
la fine di 'Pallino' fatta a Pisa»,
scrivevano i sequestratori a
Giulio, riferendosi a un cavallo
ammazzato prima di una corsa.
Poco più in basso una frase
dell'ostaggio alla moglie
Isabella: «Ho saputo che non
sei stata tanto bene. Ti invio
infiniti auguri. Tuo Max».
Una notte, dal cortile di
palazzo Grazioli sparì la
macchina della duchessa.
Accadde in un periodo in cui i
contatti coi sequestratori
sembravano interrotti, e il furto
fece pensare a un'ulteriore
minaccia di chi aveva in mano
il duca: se volevano erano
davvero in grado di fare ciò che
dicevano.
Il 14 febbraio 1978 giunse il
messaggio che stabilì il contatto
decisivo per il pagamento del
riscatto. Le richieste dei
sequestratori erano scese di
molto. Perché tutto andasse
bene Giulio doveva far mettere
un annuncio su un quotidiano,
«Il Tempo»: «Gambero rosso
tutte le specialità marinare,
pranzo a prezzo fisso, Lit.
1500». Quel 1500 stava a
significare un miliardo e mezzo,
l'ultima cifra fissata per la vita
del duca Grazioli. E lui,
l'ostaggio, scrisse alla moglie
una raccomandazione:
«Collabora con questi signori
nella fase del mio rilascio,
perché è gente d'onore».
Ma incassare il riscatto non
era facile. I carabinieri, oltre a
intercettare tutte le telefonate,
seguivano ogni passo di Giulio
Grazioli, e c'era il rischio per i
rapitori di essere catturati
mentre ritiravano i soldi. Ad
avvisarli era quell'Enrico, amico
di Giuseppucci e di Giulio
contemporaneamente, sul
quale solo più tardi si addensò
qualche sospetto, quando lui
era già sparito dalla
circolazione. Il gestore della
sala corse avvisò Giuseppucci
che «le guardie» stavano
sempre dietro al figlio del duca,
e che addirittura il tettuccio
della sua macchina era stato
dipinto con una vernice
speciale che lo rendeva visibile
anche di notte. La consegna del
denaro saltò in diverse
occasioni, ogni volta si scopriva
una macchina che non doveva
esserci, probabilmente
un'autocivetta dei carabinieri.
Fu così che si decise di
organizzare, nella sera
stabilita, una specie di caccia al
tesoro. E per l'occasione i
rapitori rubarono un'auto, una
Volkswagen Golf, con la quale
Giulio si sarebbe dovuto
muovere.
L'ultima telefonata a palazzo
Grazioli arrivò la sera del 4
marzo 1978. Rispose Giulio,
dall'altra parte una voce con
accento romano: «Stai
tranquillo, avrai la prova di tuo
padre. Prendi la metropolitana
fino alla stazione Magliana
partendo da via Aventina».
Clic. Giulio prese il miliardo e
mezzo in banconote già pronte,
e accompagnato da un amico
uscì di casa per andare alla
metropolitana. Arrivato alla
stazione indicata, in un cestino
della spazzatura trovò il primo
messaggio firmato dal nome in
codice scelto dai rapitori: «Sali
le scale di fronte a te, troverai
una macchina tipo Golf
Volkswagen di colore bianco,
targata Roma R29185, e
troverai altre istruzioni sopra il
parasole. Leone Rosso».
L'auto era quella rubata dai
sequestratori, dentro c'erano le
chiavi e il biglietto con le nuove
indicazioni: «Dirigiti sulla via
Cristoforo Colombo fino allo
stabilimento Kursaal di Ostia, di
fronte allo stesso stabilimento
troverai una tabella
dell'autobus con cestino
attaccato. Dentro troverai una
busta di plastica con altre
istruzioni. Leone Rosso». Alla
terza tappa, «Leone Rosso»
fece trovare una piantina
disegnata a penna e nuove
indicazioni: «Rimonta in
macchina e avviati verso Ostia
per prendere la via Ostiense in
direzione Roma seguendo bene
le frecce che indicano
l'aeroporto. Dopo fatto un
tratto dell'Ostiense che è a
senso unico troverai
l'indicazione Fiumicino
aeroporto, gira e vai verso
Roma e verso autostrada
Civitavecchia. Giunto al grande
cartello che indica diritto per
Roma, a seicento metri per
Civitavecchia fermati che
troverai altre indicazioni».
Giulio e il suo amico fecero
come gli era stato ordinato, e
arrivarono al quarto
messaggio: «Rimonta in
macchina e prendi l'autostrada
per Civitavecchia,
oltrepassando il casello
preparati, che al prossimo
appuntamento troverai la foto
di tuo padre. Una volta passato
il casello assumerai una
velocità di cinquanta chilometri
all'ora per arrivare al cartello
numero 17 indicante Cerveteri-
Ladispoli chilometri 11, fermati
posteggiando sulla tua destra,
traversa e dietro troverai altre
indicazioni. I messaggi li
troverai attaccati in basso sul
palo di sostegno». Stavolta la
firma era diversa, «Giglio
Rosso».
Arrivati sull'autostrada, la
caccia al tesoro non era ancora
finita. Un altro messaggio di
«Leone Rosso»: «Giulio,
rimonta in macchina e avviati
sempre alla stessa velocità
verso il cartello numero 20
indicante allacciamento Aurelia,
riposteggiati, ritraversa e
prendi sempre nello stesso
posto dove "ai" trovato il
precedente, troverai altre
informazioni». Il figlio del duca
Grazioli fece ciò che era scritto
su quel foglietto, risalì in
macchina e proseguì fino al
segnale stradale scelto dai
rapitori. Lì c'era, insieme a una
fotografia di suo padre, l'ultimo
messaggio: «Giulio, sei arrivato
alla fine della corsa. Proprio di
fronte al cartello, e cioè dove
"ai" posteggiato, c'è il parapetto
di un ponte, affiancati e getta
di sotto la borsa con i soldi,
rimonta in macchina e vai fino
a Civitavecchia, esci
dall'autostrada e prendi
l'Aurelia, e torna a casa. Stai
tranquillo intanto, perché hai in
mano la foto recentissima. Se
tutto andrà come noi vogliamo
a distanza massima di
ventiquattr'ore riceverai la
telefonata di papà. Leone
Rosso».
Alla luce dei fari della
macchina Giulio scrutò la foto
di suo padre, il duca Grazioli,
ritratto in piedi davanti alla
porta di una stanza, la barba
lunga, in mano una copia de «Il
Tempo» di quel giorno. Prese
dall'auto la borsa coi soldi, si
avvicinò al ponte indicato
nell'ultimo messaggio e da
sotto sentì delle voci che
gridavano le parole d'ordine
concordate nelle telefonate:
«Forza, butta i soldi e
vattene», aggiunsero. Giulio
ebbe un attimo di esitazione,
ma poi si convinse che lì sotto
c'erano i rapitori di suo padre.
Non si vedeva niente, il buio
non lasciava nemmeno intuire
la presenza di persone o
automobili. Giulio gettò la
borsa dal ponte, risalì in
macchina col suo amico e prese
la strada per tornare a casa.
Arrivato a palazzo Grazioli,
cominciò l'attesa della
telefonata di papà.

Il duca Massimiliano Grazioli


Lante della Rovere morì senza
la sepoltura che si addice a un
nobile romano, in un giorno
non precisato del marzo 1978.
La telefonata a palazzo Grazioli
annunciata da «Leone Rosso»
nel suo ultimo messaggio, non
arrivò mai. Per un lungo
periodo di tempo giunsero
chiamate di sciacalli che
chiedevano altri soldi per la sua
liberazione, ma né la famiglia
né la polizia credettero mai a
quelle voci così diverse dalle
altre che avevano chiamato un
tempo.
La signora Isabella non
smise mai di sperare che il suo
«Max» un giorno sarebbe
tornato a casa, si rivolse
perfino a maghi e veggenti;
morì, undici anni più tardi,
senza averlo rivisto e senza
aver avuto altre sue notizie.
Durante il sequestro i
rapitori avevano inviato alla
famiglia anche un'altra foto,
nella quale l'ostaggio teneva in
mano il quotidiano fiorentino
«La Nazione», acquistato
appositamente in Toscana per
depistare le indagini e far
credere che il duca fosse
prigioniero da quelle parti.
«Scegliemmo la Toscana perché
in quel momento in quella
regione operavano nel settore
dei sequestri delle bande di
sardi», ha spiegato Maurizio
Abbatino. Invece Grazioli -
dopo un periodo trascorso in
due diversi nascondigli a Roma,
uno a Primavalle e l'altro
sull'Aurelia, nella casa in
costruzione del cognato di uno
dei rapitori - era stato portato
in Campania. Per scattare
quella foto Abbatino andò
personalmente nel napoletano,
e nello stesso giorno rientrò
nella capitale per recapitare il
messaggio.
«La morte del duca»,
racconterà il bandito al
magistrato, «avvenne
successivamente al pagamento
del riscatto. Il gruppo di
Montespaccato ci informò del
fatto che l'ostaggio aveva visto
in faccia uno dei carcerieri, e
quindi ci fu detto che non si
poteva fare a meno di
ucciderlo. A questa decisione,
che non fu nostra, non ci
opponemmo in quanto
l'individuazione dei complici
poteva significare anche la
nostra individuazione. Pertanto
il Montegrande e i suoi complici
diedero luogo all'esecuzione
alla quale noi non
partecipammo. Nulla sono in
grado di riferire di preciso circa
le modalità esecutive
dell'omicidio. So soltanto che il
fatto è avvenuto nel
napoletano, dove l'ostaggio era
stato trasferito in una casa di
campagna appartenente a
familiari di persone del gruppo
di Montespaccato, in quanto
anche la seconda 'prigione' di
Roma era diventata insicura
per il protrarsi della durata del
sequestro. So altresì che il
cadavere venne sepolto, ma
non sono in grado di dire
dove.» (3)
I soldi del riscatto furono
equamente divisi tra i due
gruppi che realizzarono e
gestirono il sequestro. «Il
denaro», dirà ancora Maurizio
Abbatino, «era costituito da
banconote di grosso taglio,
sicuramente da centomila lire
e, ma di questo non conservo
preciso ricordo, anche da
cinquantamila. La somma
venne ripartita in ragione del
cinquanta per cento a quelli di
Montespaccato, che avevano in
custodia l'ostaggio, e del
cinquanta per cento a noi:
ognuno dei due gruppi doveva
detrarre dalla propria parte la
'stecca', rispettivamente per il
basista Enrico e per il
telefonista. Le quote spettanti a
ciascun gruppo si ridussero del
dodici per cento, costo del
cambio delle banconote in
franchi svizzeri effettuato da
Salvatore Mirabella, milanese,
amico di Montegrande. Il
Mirabella, facendo parte della
banda di Francis Turatello (4),
inserito nel gruppo delle bische
clandestine, aveva per tale
ragione frequenti contatti con
esponenti del mondo
imprenditoriale milanese, e
dunque notevole disponibilità di
denaro, sicché era la persona
più indicata per l'operazione di
pulitura dei soldi provento del
sequestro. Si trattava, peraltro,
di un personaggio alquanto
pericoloso: girava sempre con
una bomba a mano e la pistola
in tasca. Debbo anche precisare
che Enzo Mastropietro, il quale
aveva partecipato alla
preparazione del sequestro,
non poté partecipare però
all'esecuzione, in quanto poco
prima era stato arrestato. Ciò
nonostante venne a lui
riservata una quota di lire venti
milioni, e una quota di lire
quindici milioni venne riservata
a Enrico De Pedis, il quale era
anch'egli detenuto, in
considerazione dei suoi stretti
rapporti con Franco
Giuseppucci. Tali ultime due
quote gravarono su noi che
avevamo eseguito il sequestro,
e non su quelli di
Montespaccato.» (5)
Giulio Grazioli ha finito di
pagare i debiti con le banche
che gli prestarono i soldi solo
da poco tempo. Le indagini di
Carabinieri e Polizia rimasero
ferme per anni, oppure
imboccarono piste diverse, dai
calabresi al terrorismo; i
percorsi contorti del riciclaggio,
infatti, avevano fatto arrivare
alcune banconote del riscatto in
un covo di Prima Linea a
Torino. In un rapporto
dell'Arma del 1986 sulla
criminalità a Roma si legge:
«Grazioli Massimiliano,
possidente, sequestrato in
Roma il 7-11-1977 e non
ancora liberato. Si presume che
sia stato ucciso dai suoi
sequestratori. Pagato il riscatto
di oltre un miliardo di lire.
Autori ignoti». Solo nell'ottobre
del 1993, grazie alle rivelazioni
di Maurizio Abbatino, sono stati
emessi una decina di
provvedimenti di cattura contro
i presunti esecutori del
sequestro. Qualcuno è stato
arrestato, altri erano già in
carcere, uno è riuscito a
fuggire.

Quel miliardo e mezzo


pagato dalla famiglia dei
mugnai del papa, anche se
diviso e sezionato in molte
parti, fu davvero un salto di
qualità per il gruppo di
rapinatori che venivano dalla
Magliana, dal Portuense e dal
Trullo - periferie disastrate e
abbandonate a se stesse -, e da
quartieri popolari come
Trastevere e Testaccio - che del
romanticismo e della solidarietà
d'un tempo conservavano ben
poco. Fino a quel momento
erano andati avanti con le
rapine e i furti, mai avevano
guadagnato tanti soldi in una
volta sola. Un paio di sequestri
erano stati tentati in
precedenza, ma s'erano risolti
in altrettanti fallimenti. Adesso,
quel colpo andato a segno
aveva cementato i rapporti
all'interno del nuovo gruppo
che s'era formato, e apriva la
strada ad altri «affari».
Promotore delle iniziative e
anima della banda che stava
nascendo era Franco
Giuseppucci, «er negro» che da
tempo si muoveva tra
rapinatori e ricettatori della
capitale, uno che intimidiva
solo a guardarlo, occhi e
sopracciglia spioventi, collo
taurino. La prima denuncia a
suo carico risaliva al 1974, per
detenzione e porto illegale di
pistola.
Nel 1976 i carabinieri della
compagnia Trastevere
scoprirono una roulotte,
appartenente a Giuseppucci e
parcheggiata al Gianicolo,
piena di armi. «Er negro» fu
arrestato, ma dopo qualche
settimana uscì di galera: la
roulotte aveva un vetro rotto e
Giuseppucci sostenne che delle
armi che c'erano dentro lui non
sapeva niente, evidentemente
ce le aveva messe qualcun
altro, forse la persona che
aveva rotto il vetro. Fu creduto
e scarcerato.
Un'altra storia di armi, poco
tempo dopo, mise in contatto
«er negro» con Abbatino e gli
altri della Magliana che più
tardi avrebbero sequestrato il
duca Grazioli. Giuseppucci
«lavorava» con Enrico De
Pedis, chiamato «Renatino»,
uno di Testaccio che era già
stato in carcere diverse volte
per rapina. Mentre De Pedis si
trovava in galera «er negro»
doveva custodirgli i «ferri del
mestiere», e dopo la scoperta
della roulotte al Gianicolo
teneva un borsone con pistole,
fucili e munizioni nel suo
«Maggiolone» Volkswagen.
Un giorno si fermò al bar
davanti al cinema Vittoria, a
Testaccio, per bere qualcosa, e
lasciò l'auto con le chiavi
inserite. «Er negro» non era
certo l'unico malvivente in giro
per il quartiere, e un
malavitoso della zona,
«Paperino», non si fece
sfuggire l'occasione: adocchiata
la Volkswagen con le chiavi nel
quadro, salì a bordo e si
dileguò. Appena si accorse del
bottino che c'era su quella
macchina «Paperino» provò a
combinare quello che
certamente sarebbe stato un
affare, arrivò al Trullo e
vendette le armi a un
rapinatore che conosceva, al
prezzo di due milioni.
Giuseppucci non ci mise
molto a sapere che fine aveva
fatto la sua macchina, e il
giorno stesso si presentò dal
rapinatore che aveva comprato
pistole e fucili per riaverli
indietro. Il nome di Enrico De
Pedis, conosciuto anche al
Trullo, fece sì che tutto si
risolvesse senza incidenti, e
che il «negro» si unisse al
gruppo del rapinatore.
Le deposizioni di Maurizio
Abbatino, a quel tempo
frequentatore dei rapinatori
della Magliana, del Trullo e del
Portuense, raccontano come
nacque il nuovo sodalizio
criminale: «Nel corso del tempo
si erano cementati i rapporti
tra me, Giovanni Piconi, Renzo
Danesi, Enzo Mastropietro ed
Emilio Castelletti, ma non
costituivamo quella in gergo
viene chiamata 'batteria', cioè
un nucleo legato da vincoli di
esclusività e solidarietà. In
altre parole non ci eravamo
ancora imposti l'obbligo di
operare esclusivamente tra noi,
e di ripartire i proventi delle
operazioni con chi non vi
avesse partecipato. La 'batteria'
si costituì tra noi quando ci
unimmo a Franco Giuseppucci.
Di qui ci imponemmo gli
obblighi di esclusività e
solidarietà... L'aver costituito
una 'batteria' (in un primo
momento ci dedicavamo quasi
esclusivamente alle rapine)
comportò che ognuno di noi
apportasse le armi di cui
disponeva, che venivano
custodite inizialmente da
incensurati ai quali ci
rivolgevamo per questioni di
sicurezza e di fiducia, da
familiari, o in appartamenti
disabitati di cui alcuni di noi
avevano la disponibilità. Nel
frattempo la 'batteria' si
trasformò in 'banda' e si allargò
integrando altri partecipi, come
ad esempio Marcello Colafigli,
Giorgio Paradisi, Claudio Sicilia,
e altri gruppi, come quello di
Acilia e dei 'testaccini', al punto
che si rese necessario
provvedere altrimenti alla
custodia delle armi.
«La differenza tra 'batteria'
e 'banda', oltre che nel diverso
numero dei partecipi, minore
nella prima rispetto alla
seconda, sta anche nel
ventaglio più ampio di interessi
criminosi della 'banda' rispetto
alla 'batteria', la quale si dedica
alla commissione di un unico
tipo di reati, per esempio le
rapine. La 'banda', peraltro,
comporta l'esistenza di vincoli
più stretti tra i partecipi, vincoli
che si traducono in obblighi
maggiori di solidarietà tra gli
associati, i quali sono pertanto
maggiormente impegnati e
tenuti a prendere in comune
ogni decisione, senza possibilità
di sottrarsi dal dare esecuzione
alle stesse...»
La «banda» determina
dunque una sorta di
responsabilità collettiva, ma
anche un'attività di mutuo
soccorso. «Le vendette e in
generale tutti gli omicidi
riconducibili alla banda»,
continua Abbatino, «in quanto
funzionali ad assicurarsi il
rispetto da parte delle altre
organizzazioni operanti su
Roma e a imporre il predominio
il più possibile incontrastato sul
territorio, vennero di volta in
volta decisi da tutti coloro che
facevano parte della banda nel
momento dell'esecuzione,
affidata di volta in volta a chi
aveva la maggiore capacità per
assicurarne il successo con il
minor rischio sia personale che
collettivo. Questo comportava
che tutti si era parimenti
compromessi, quindi tutti
parimenti motivati ad aiutare
chi fosse stato colto in
flagranza o comunque arrestato
o incriminato, a limitare i danni
processuali, ad avere la
tranquillità di assistenza per sé
e per i propri familiari.»
Il primo nucleo di quella che
diventerà la famigerata banda
della Magliana - dal nome della
borgata-simbolo del disagio
urbano prima e della
criminalità metropolitana poi,
dove abitavano gran parte dei
malavitosi cresciuti lì o
trasmigrati da Trastevere e da
Testaccio - nacque così.

Ecco come viene descritta,


questa zona a sud di Roma, in
uno stradario del 1922:
«Magliana (v. della) - Così
viene chiamata la borgata a 8
chilometri da Porta Portese,
nella quale sorge il casale
omonimo, oggi chiamata a
nuova vita dalla bonifica Pino-
Lecce. Il più insigne dei casali-
castelli della Campagna
Romana è certamente quello
della Magliana. Nel secolo
quarto la località, dove ora
sorge il casale, era detta "super
Philippi" ovvero "ad sextum
Philippi" (Tommasetti). I fondi
nel medioevo conservarono
molti nomi degli antichi romani,
come "Manlianus". Quando vi
era memoria di un "praedium",
si mantenne il nome in genere
neutro (manlianum, della gens
Manlia). Il neutro latino fu, dai
possidenti e notai, spesso
tradotto al femminile,
supponendosi sottintesa la voce
possessione, onde la
denominazione Magliana.
«In questa località, nel
1868, De Rossi scoprì, nel
cimitero di Generosa, l'insigne
piccola basilica, che San
Damaso edificò sul sepolcro dei
martiri S.S. Simplicio e
Faustino. Questi, durante la
persecuzione di Diocleziano,
furono affogati nel Tevere, che
ivi formando un'ampia
insenatura scorre vicinissimo a
questo luogo, e donde i loro
corpi furono ripescati dalla
sorella Beatrice o Viatrise e da
due preti, Crispo e Giovanni...
«Sotto l'aspetto di
paesaggio, questa contrada, fin
d'allora soggetta alla malaria,
presenta poche attrattive; solo
la passione per la caccia può
spiegarci perché Girolamo
Riaro, nipote di Sisto Quarto
(1471-1483), vi facesse erigere
un sontuoso castello, ampliato
e abbellito poi da Innocenzo
Ottavo (1484-1492), del quale
ancora si legge il nome sulle
finestre. Il castello venne
circondato da splendida villa dal
cardinal Alidosi, favorito di
Giulio Secondo (1504-1512), il
qual papa qui veniva a godersi i
suoi faziosi ozi. L'epoca di
maggior splendore per la
Magliana fu sotto Leone
Decimo, che, oltre a
provvederla di acquedotto, fece
affrescare la cappella con
disegni di Raffaello. Volle anche
piantarvi una vigna, che rese
un prodotto così buono da
indurre il suo successore Paolo
Terzo (1535-1549) di far
servire alla mensa solo vino
della Magliana. Leone Decimo
vi si recava spesso, perché
nella solitudine della silenziosa
campagna egli viveva in piena
libertà, circondato da una turba
di cortigiani. Nel 1517 il papa,
allontanandosi di poco dalla
Magliana, cacciando, corse
pericolo di essere fatto
prigioniero dai corsari di Tunisi.
«Pio Quarto (1559-1565)
animò la villa di splendide
fontane. Nel 1576 fu visitata da
Gregorio Tredicesimo e
finalmente Sisto Quinto fu
l'ultimo papa che l'abitò.
D'allora cominciò la decadenza
di questa splendida residenza,
finché si ridusse al miserando
stato attuale di masseria, le cui
sale servono da magazzini pel
grano (Pastor)». (8)
Ed ecco la Magliana nel
1977, divenuta preda del
degrado e della speculazione
edilizia, raccontata con
statistiche e cifre in uno studio
del comitato di quartiere:
«Passata la crisi edilizia degli
anni 1964 e 1965 e confermata
dal Nuovo Piano Regolatore la
destinazione residenziale
intensiva prevista dal
preesistente piano
particolareggiato, saranno
banche e imprese industriali a
promuovere la realizzazione
del quartiere della Magliana.
Protagonista indiscusso
dell'edificazione è, infatti, un
gruppo di società immobiliari
che fanno capo al gruppo
Condotte. Nel giro di quattro
anni (1965-1969), contando su
ingenti finanziamenti della
Banca Nazionale del Lavoro,
vengono ottenute licenze e
realizzate costruzioni per circa
due milioni e mezzo di metri
cubi.
«Innescata la speculazione
con il sistema tradizionale, la
costruzione di edilizia intensiva
e popolare, tutti i 'palazzinari'
operanti a Roma vengono
attratti dall'operazione. Le
colline che sovrastano il
quartiere vengono ricoperte di
palazzine. Nel 1975 il
comprensorio è completamente
edificato. In dieci anni sono
stati realizzati in 42 ettari oltre
tre milioni di metri cubi, 7800
alloggi per oltre 30000
abitanti...
«Al censimento del 20
ottobre 1971, la popolazione
della Magliana era di 19068
abitanti, le stanze di abitazione
occupate 16677, con un
rapporto di 1,1 abitante per
stanza. Alla fine del 1975, con
tutte le abitazioni realizzabili
ultimate e occupate, la
popolazione è salita a 31671
abitanti, in parte per l'effetto
dell'incremento del numero
delle famiglie residenti
(+2307), in parte per
l'incremento demografico... Il
rapporto abitanti/stanze è
salito a 1,3 contro una media
per il resto della circoscrizione
e per Roma rispettivamente di
1,06 e di 0,96.
«A causa dell'alta densità,
del tipo edilizio intensivo, con
cortili interni, e delle maggiori
altezze abusivamente
realizzate, gran parte degli
alloggi è totalmente priva di
insolazione e di aerazione,
costretta dall'unica vista
dell'edificio prospiciente; circa il
58% degli alloggi non ha altro
sbocco che un cortile, largo in
media quindici metri. Il 25%
delle stanze di abitazione si
affacciano sulle chiostrine
interne.
«Per dare un'idea
dell'intensità di edificazione
possiamo citare alcuni dati
sull'utilizzazione delle aree del
quartiere. Dei 42 ettari su cui
si estende, il 63% (26 ettari) è
destinato all'edificazione; il
32% (14 ettari) è occupato da
strade e fasce di rispetto dei
fabbricati; il 5% residuo (2
ettari) è occupato da un edificio
scolastico e dalla chiesa. Sono
immaginabili le condizioni di
vita in un quartiere con questa
popolazione e con questi servizi
pubblici.
«Se si osserva la
popolazione in età scolare
(5800 secondo la media
romana), le sessantacinque
aule scolastiche esistenti, solo
per la scuola dell'obbligo,
soddisfanno meno di un 30%
del fabbisogno. Si arriva così al
triplo turno, nonostante
l'utilizzazione di locali inadatti,
di una palazzina di abitazione e
di prefabbricati leggeri. La
scuola materna, tre aule
funzionanti dall'inizio del 1976,
dovrebbe bastare a 2800
bambini. L'asilo nido non esiste.
Se è possibile, ancora più grave
è la carenza di spazi pubblici
attrezzati per il tempo libero;
infatti mancano del tutto, come
mancano del tutto il verde
pubblico, i parcheggi, gli
ambulatori, il mercato,
eccetera.
«Ma non sono solo le
carenze dei servizi a rendere
insopportabili le condizioni del
quartiere. Sono gravissime,
infatti, le condizioni igieniche,
determinate dalla totale
assenza di fogne comunali. Gli
scarichi degli edifici finiscono
nelle fosse biologiche e in un
fosso scoperto che scarica nel
Tevere. La mancanza di reti di
scarico provoca il ristagno
permanente delle acque
piovane e superficiali e
l'umidità perenne del quartiere,
già svantaggiato dalla posizione
a ridosso dell'argine del Tevere.
Che non si tratti di lievi disagi
lo può suggerire il fatto che
perfino nei mesi estivi si trova
acqua stagnante nelle strade e
umidità negli edifici, anche
dopo quaranta giorni di
assoluta mancanza di piogge.
Le conseguenze, poi, di questo
particolare ordine di condizioni
si sono rivelate pienamente
nella salute di quasi tutti gli
abitanti del quartiere...» (9)

Mentre i «palazzinari»
facevano scempio della borgata
sorta sotto il livello del Tevere,
dai litorali di Acilia e di Ostia -
più a sud della Magliana, una
sorta di sbocco naturale verso il
mare - era sbarcato a Roma un
altro gruppo criminale. Le sue
origini, e i nomi di maggiore
spicco, si ritrovano nella
requisitoria di un pubblico
ministero: «Nel 1975, giovane
di circa ventun'anni, Lucidi
Fulvio conosce Gianni Girlando,
già all'epoca dotato di
particolari doti delinquenziali e
in contatto con Nicolino Selis,
Urbani Gianfranco e altri
elementi di rispetto della
malavita. Preso
dall'ammirazione per la
personalità del Girlando, con il
quale ha conservato un
rapporto di amicizia anche dopo
averlo accusato di gravi delitti,
il Lucioli sale con lo stesso le
scale del crimine fino ad
arrivare a posizioni di vertice».
(10)
Anche questi cominciarono
coi furti e le rapine: alle
tabaccherie, agli uffici postali,
ai treni. «Si forma quasi
immediatamente una
organizzazione che si dedica
per otto mesi, da gennaio
all'agosto 76, al compimento di
rapine a mano armata e reati
connessi. Il Lucidi racconta che
la stessa era composta da lui,
Selis, Girlando, Urbani,
Capogna Renato, Apolloni
Franco, Simeoni Raffaele. Tale
era l'associazione di base a cui
di volta in volta si sono
aggiunti altri complici.» (11)
Cominciarono con l'assalto al
deposito della Superpila, nel
gennaio di quell'anno.
Racconterà Lucioli che un
dipendente della fabbrica da
«ripulire», cognato di Girlando
detto «Gianni il roscio», fece da
basista procurando le chiavi del
deposito e avvertendo quando
sarebbe stato pronto il camion
con la refurtiva. Il giorno
stabilito Lucioli, il «roscio» e un
certo Mariolino entrarono nel
deposito, trovarono il camion
carico di calcolatrici e altra
merce di valore, provarono a
metterlo in moto ma non
riuscirono a farlo partire. Allora
tolsero i sedili posteriori a
un'Alfa 2000 trovata nel
parcheggio e caricarono una
parte della refurtiva. Poi
tornarono col furgone di un
loro amico fruttivendolo e
portarono via il resto del carico.
Quattro mesi più tardi, il 26
aprile, Fulvio Lucioli festeggiò il
suo ventiduesimo compleanno
a Fondi, in provincia di Latina,
rapinando venti milioni insieme
a Nicolino Selis nella filiale del
Banco di Napoli. Selis entrò in
banca col camice nero da
fruttivendolo, e puntando la
pistola alla tempia di un cliente
che stava depositando i suoi
soldi prese il pacco con le
banconote; Lucioli lo aspettava
fuori a bordo di una Kawasaki
900, col casco in testa e la tuta
blu da meccanico.
Il 21 giugno il gruppo si
spostò in Toscana, a Pontedera,
per assaltare l'ufficio postale
della stazione ferroviaria. Selis
e Girlando entrarono armati, e
con un calcio tra le gambe
costrinsero l'impiegato di turno
ad aprire l'armadio blindato
dov'erano custoditi venticinque
milioni.
Il 27 giugno, giorno di
stipendi, toccò all'Esattoria
consorziale di Palestrina.
Quattro giovani armati di
pistole e mitra, due a volto
scoperto e due col
passamontagna, rapinarono
quasi cento milioni di lire, la
paga mensile dei dipendenti
dell'ospedale. L'azione fu
guidata da Selis e Lucioli il
quale aggiungerà che del
gruppo di banditi faceva parte
anche un certo Pasquale,
camorrista napoletano.
Due settimane dopo,
l'irruzione in un'altra stazione
in Toscana, quella di Follonica:
«Egidio Angiolini, dipendente
della ditta appaltatrice dei
trasporti postali, veniva
affrontato da due individui a
viso scoperto con spiccato
accento romanesco, i quali gli
puntavano una pistola alla nuca
e si facevano consegnare due
pacchi contenenti i valori e,
dopo averlo legato con del filo
di ferro, chiudevano la porta a
chiave e si dileguavano». (12) I
due individui erano Girlando e
Selis, Lucioli aspettava
nell'appartamento che era
servito da base. Bottino della
rapina: ventitré milioni e 950
mila lire.
Passarono otto giorni, e il 22
luglio venne presa di mira
l'agenzia del Monte dei Paschi
di Siena a Riva del Sole,
frazione di Castiglion della
Pescaia. Lucioli, Selis, Girlando
e un altro bandito portarono
via quattordici milioni e mezzo.
Il 10 agosto di quell'estate
vissuta all'insegna del «mordi e
fuggi», il gruppo diede l'assalto
al treno. Verso le diciotto, sul
diretto che andava da Chiusi a
Siena, tre uomini armati e
mascherati si presentarono
nella vettura di coda, chiusero
il controllore in uno
scompartimento, tennero per
qualche minuto i passeggeri
sotto tiro, presero quattro
sacchi postali pieni di
raccomandate e assicurate e
bloccarono il treno col freno
d'emergenza all'altezza di un
passaggio a livello. Scesi dal
vagone, i rapinatori
raggiunsero la Fiat 126 su cui li
aspettava un complice e
fuggirono verso l'Autostrada del
Sole, dove entrarono tagliando
una delle reti di recinzione.
Due ore più tardi, una pattuglia
di polizia fermò una Porsche
sulla via Prenestina: a bordo
c'erano Giovanni Girlando,
Fulvio Lucioli, una pistola
calibro 38 con cinque pallottole
nel tamburo, una Beretta
calibro 19 completa di
caricatore e cartucce, una
Browning 7.65 col colpo in
canna, due paia di guanti e due
passamontagna. Addosso a
Girlando un biglietto ferroviario
valido per il treno Chiusi-Siena
di quel giorno, timbrato dallo
stesso controllore che era stato
rinchiuso nello
scompartimento. I due furono
arrestati, processati e
condannati: cinque anni e dieci
mesi di carcere a Girlando, due
anni e otto mesi a Lucioli.

Nella zona fra Acilia e Ostia,


al seguito di Nicolino Selis - un
«ragazzo del '52» arrestato la
prima volta a vent'anni per
«tentato omicidio plurimo, furto
e altro», recitava il suo
certificato penale - crescevano
altri personaggi come Edoardo
Toscano (evaso a ventidue anni
dal carcere di Regina Coeli,
dove era finito per una rapina
con tentato omicidio) e Libero
Mancone, un ragazzone più
grande degli altri per età e
stazza, primo arresto nel 1970
per furto aggravato, uno
talmente grosso che quando lo
caricavano sulle macchine della
polizia il secondo agente al suo
fianco non riusciva a entrare.
In carcere Selis parlava
spesso di un certo Raffaele
Cutolo e delle sue gesta
criminali, e con Antonio
Mancini, un giovane bandito
arrestato da poco ma già ben
inserito nel sottobosco della
malavita, faceva progetti per il
futuro. «Intorno al 1975»,
ricorderà Mancini «mentre ero
detenuto insieme a Nicolino
Selis nel carcere di Regina
Coeli, si parlava del fatto che a
Napoli tal Raffaele Cutolo, che
allora non era noto come lo
sarebbe diventato in seguito,
stava mettendo in piedi
un'organizzazione criminale
allo scopo di escludere dal
territorio infiltrazioni di altre
organizzazioni di diversa
estrazione territoriale. Con
Selis si decise di tentare su
Roma la stessa operazione che
Cutolo stava tentando su
Napoli.»
Ciascuno fece i nomi degli
amici che potevano tornare
utili, e si parlò anche di Urbani,
che nel frattempo aveva preso
contatti con i calabresi. Con
questo nuovo gruppo, nel
1978, Fulvio Lucioli avviò un
commercio di droga, per
passare dalle rapine a quello
che si stava rivelando di gran
lunga il settore più redditizio
dell'economia criminale.
«A Roma era già operante
un gruppo comprendente tra gli
altri Giuseppucci e Abbatino,
con i quali Toscano e Selis
erano in rapporti di amicizia.
Favorita da questi rapporti, vi
fu una fusione tra il gruppo di
Acilia e quello di Roma;
Toscano, detenuto a Rebibbia,
ne parlò con Lucioli,
proponendogli di aderire alla
nuova organizzazione che si
occupava prevalentemente di
rapine e traffico di stupefacenti,
e riferendogli che, oltre a lui
stesso, ne facevano già parte
Giuseppucci e Selis come capi,
e poi Abbatino, Colafigli,
Mancone, Piconi, Danesi,
Castelletti, Paradisi e
Mastropietro. Lucioli accettò la
proposta di Toscano, e sino alla
scarcerazione ricevette tra le
duecento e le trecentomila lire
alla settimana, che venivano
consegnate a sua madre da
Abbatino, Piconi e altri.» (14)
La banda ormai s'era
allargata, e aveva deciso di
avere campo libero su Roma. In
pochi anni nuovi criminali, tutti
ragazzi tra i venti e i
trent'anni, entravano in scena.
Erano «i romani», pronti a
soppiantare le organizzazioni
venute da fuori, come per
esempio quella dei Marsigliesi,
e a scendere in guerra contro
chiunque si mettesse tra loro e
il guadagno, il controllo del
territorio e degli «affari», dalla
droga alla gestione delle bische
e delle scommesse clandestine.
Uno dei soppiantati, Albert
Bergamelli, gangster della
generazione precedente ucciso
nel carcere di Ascoli Piceno
nell'agosto dell'83, membro del
leggendario «clan delle 3 B»
insieme a Jacques Berenguer e
Maffeo Bellicini, li aveva bollati
fin dalla loro apparizione con
un certo disprezzo: «Sono solo
dei borgatari, gente che agisce
senza alcuna razionalità, senza
una mente direttiva».

***
2. NAPOLETANI A
ROMA.

A Tor di Valle, alle


Capannelle, ma anche ad
Agnano e in altri ippodromi
della Campania, lo conoscevano
quasi tutti. Piccolo, tanto che
da Franco era stato
soprannominato Franchino, e
con la fama da duro,
guadagnata fuori e dentro la
galera. «Franchino er
criminale», gli dicevano,
mentre per l'anagrafe era
Nicolini Franco di Ornello, nato
a Roma il 26 gennaio 1935, ivi
residente in piazza San
Giovanni di Dio n. 23, quartiere
Monteverde.
Era qualche anno che
Franchino batteva gli
ippodromi, spendendo e
guadagnando soldi nel mondo
delle corse dopo essere
diventato famoso nelle case e
nelle bische dove si giocava a
poker. I cavalli erano diventati
la sua passione, oltre che il suo
lavoro. Un lavoro poco pulito, si
intende, nel senso che era fatto
di scommesse clandestine e
gare truccate, ma pur sempre
lavoro. Del resto, dopo essere
diventato romano a tutti gli
effetti salendo i gradini di
Regina Coeli, come voleva il
poeta, era difficile per chiunque
tornare fuori e guadagnarsi da
vivere legalmente. Figuriamoci
per uno soprannominato
«Franchino er criminale», già
invischiato negli affari del «clan
dei marsigliesi» e segnalato
negli archivi di Polizia e
Carabinieri con «pregiudizi a
carico per rapina, svariati furti
aggravati, favoreggiamento
reale, associazione per
delinquere e altro».
Al mondo dei cavalli Nicolini
aveva iniziato anche la sua
famiglia: un fratello, Salvatore,
era allievo fantino alle
Capannelle; un altro, Giovanni
chiamato «er bebby» (proprio
così, «baby» detto e scritto alla
romana), lo seguiva quasi ogni
giorno negli ippodromi,
controllava i giochi e gli faceva
da autista; alla figlia Stefania
Franchino aveva intestato i
cinque cavalli acquistati negli
ultimi mesi. Quegli animali
erano il vero capitale di un
uomo che a quarantatré anni
non aveva altra occupazione
che il gioco. Li teneva alle
Capannelle ma all'improvviso,
in quello scorcio di 1978, se ne
era disfatto: Pierre Curie lo
vendette a un fantino, Pacifica
e Piavolo li regalò al fratello
Salvatore, Oliviera fu ceduta a
un ex fantino divenuto
allenatore, un certo Brunone,
mentre Filigudes morì.
La moglie di Nicolini,
Iolanda, infermiera al
Policlinico Umberto Primo,
accompagnava quasi sempre
Franchino alle corse. Ma di gare
e di scommesse lei non si
interessava: se ne andava nei
bar e nei ristoranti, dove
incontrava qualche amica e
aspettava che il marito
l'andasse a prendere, al
termine delle gare e fatta
l'ultima scommessa.
Tutti quelli che conoscevano
«Franchino er criminale»
sapevano anche, e non solo per
il soprannome che portava, che
era un tipo focoso, suscettibile
e pronto al litigio. Uno che si
faceva rispettare, e che non
esitava a menar le mani per far
valere le sue ragioni se c'erano
di mezzo i soldi. Succedeva
quando andava a giocare a
poker, e succedeva negli
ippodromi, quando c'era
qualcosa che a suo giudizio non
andava nella gestione delle
scommesse clandestine. D'altra
parte, nelle corse Franchino
metteva molti soldi, quasi dieci
milioni a sera: puntava
all'incirca due milioni a corsa, e
a ogni riunione scommetteva
su quattro o cinque corse.
Per lui avevano cominciato a
lavorare diverse persone.
«Dracula» e «Righetto», per
esempio, due che andavano ai
picchetti, prendevano le quote
e poi puntavano sui cavalli a
nome di Nicolini. Tutto nel
settore clandestino. Alla fine di
ogni serata, se aveva vinto,
Franchino dava qualche
biglietto da centomila lire a
«Dracula», il quale doveva
dividerseli con «Righetto». Che
truccasse le corse corrompendo
i fantini lo sussurravano tutti, e
la voce era arrivata fino alla
polizia che lo sospettava anche
per un incendio scoppiato
qualche tempo prima a Tor di
Valle. (1)
Chi si intrometteva od
ostacolava l'attività del
«criminale» rischiava grosso.
Ne seppe qualcosa, una sera di
luglio, un tale chiamato
Albertone, venuto dal
Tiburtino, conosciuto
all'ippodromo perché si vedeva
spesso e sempre vestito in
modo elegante. Quella sera
arrivò un po' tardi, ma in
tempo per giocare sull'ultima
corsa. Orecchiando tra
allibratori e scommettitori
venne a sapere che un cavallo
di nome Herbert aveva buone
possibilità di vincere.
Albertone, come tanti altri,
puntò su Herbert, e le quote
del cavallo scesero di molto,
arrivando alla metà di quelle
iniziali. Mentre discuteva di
questo fatto con alcuni amici,
l'uomo fu avvicinato da un paio
di individui che senza dire una
parola cominciarono a riempirlo
di calci e pugni, nonostante
Albertone avesse un braccio
ingessato e non potesse
difendersi. Lo lasciarono a
terra, e a chi lo soccorse
Albertone chiese subito chi
fossero gli aggressori. «Due
amici del 'criminale'», gli
risposero. Anche Franchino,
infatti, aveva puntato su
Herbert, e che altri avessero
fatto lo stesso facendo
abbassare le quote lo aveva
disturbato. (2)
Un'altra sera di quell'estate
del 78 - sempre a Tor di Valle,
davanti a decine di persone, ma
tanto nessuno aveva il coraggio
di intromettersi - Nicolini
picchiò personalmente uno
scommettitore, Salvatore
Caruso, che veniva da Caserta
e frequentava il giro dei
napoletani, amico e
collaboratore di «don Mimì»
Iodice, proprietario di una
fabbrica di acqua minerale e
notabile democristiano di
Casoria, frequentatore di
ippodromi e titolare di una
scuderia. Alla stazione dei
Carabinieri del suo paese
«Iodice Domenico, in oggetto
generalizzato», era conosciuto
come persona «di cattiva
condotta morale e civile,
notoriamente legata alla
malavita locale e dei paesi
limitrofi», già denunciata per
porto d'armi, lesioni, usura,
minacce e tentato omicidio (3);
ma questo non gli aveva
impedito di essere eletto, in
rappresentanza della D.C.,
vicesindaco di Casoria.
Nicolini era considerato un
amico di «don Mimì», ma negli
ultimi tempi i rapporti tra i due
s'erano raffreddati. Un po'
perché Nicolini s'era messo in
testa di allontanare tutti i
napoletani dagli ippodromi
romani, in modo da restarne
l'unico «padrone», e un po'
perché Iodice, secondo
Franchino, faceva il gioco
sporco: tirava ad abbassare le
quote dei cavalli su cui giocava
lui, e quando doveva puntare
anche per conto suo non lo
faceva, accampando stupide
scuse. (4)
Quella sera se la prese con
un dipendente di «don Mimì»,
Caruso, che all'improvviso si
trovò addosso il «criminale»:
Nicolini lo aggredì con una
testata, poi gli afferrò un
orecchio e cominciò a
strizzarglielo con forza,
riempiendo di insulti «il
napoletano»; un altro sferrò
qualche pugno e quando
Caruso cadde a terra gli
arrivarono un bel po' di calci.
Lo portarono al pronto soccorso
dell'ippodromo, poi all'ospedale.
Franchino quella sera faceva
il gradasso, e dopo aver pestato
il suo rivale riprese e giocare.
Rientrato a casa raccontò tutto
alla moglie: «Ho dato due
schiaffi a quello zozzo di
Caruso, lui e Mimì Iodice fanno
abbassare le quote dei cavalli
che gioco io. Non mi piace».
Aveva con sé anche un paio di
occhiali da sole. «Sono di quel
miserabile», disse a Iolanda,
«non li buttare che glieli voglio
ridare.»
Franchino ne parlava con
sufficienza, diceva che la sua
vittima era un infame, ma
quell'aggressione fece scalpore
a Tor di Valle. «Il criminale» si
faceva rispettare, d'accordo, ma
Caruso non era uno qualunque.
«Sta nel giro della 'mala
pesante'», commentavano
allibratori e scommettitori,
«questa storia non finisce
così.» Se non fossero stati tutti
troppo impegnati a puntare su
cavalli e fantini, si sarebbero
potute accettare scommesse su
come e quando sarebbe
arrivata la vendetta.

Lasciato il carcere dopo aver


scontato quasi due anni per la
rapina al treno, Fulvio Lucioli si
era legato sempre più a un
terzetto composto da Gianni «il
roscio», Edoardo Toscano detto
«operaietto» e Nicolino Selis,
anche lui uscito di galera da
poco tempo, il quale aveva reso
più stabili i suoi contatti con i
napoletani trapiantati a Roma.
Sia Selis che Franco
Giuseppucci, «er negro»,
frequentavano gli ippodromi. E
a Tor di Valle avevano
conosciuto Enzo Casillo, uno
dei luogotenenti di «don»
Raffaele Cutolo e della Nuova
Camorra Organizzata. Tutti
insieme si erano resi conto che
nel mondo dei cavalli si poteva
guadagnare molto.
Fu «er negro» a presentare
Selis e i napoletani a quelli
della Magliana. «La conoscenza
di Nicolino Selis», ha
raccontato ai giudici Maurizio
Abbatino, «avvenne attraverso
Franco Giuseppucci, il quale ce
lo presentò.
Contemporaneamente
conoscemmo anche Raffaele
Cutolo, il quale in quel periodo,
secondo quanto ci disse Selis,
era latitante a seguito di
un'evasione dall'ospedale
psichiatrico giudiziario e
avrebbe dovuto regolare dei
conti. L'incontro con il Cutolo
avvenne in un albergo
all'ingresso di Fiuggi, dove
questi disponeva di un intero
piano, per sé e per i suoi
guardaspalle.»
Selis aveva conosciuto
«don» Raffaele nel centro
clinico del carcere napoletano
di Poggioreale, poi s'erano
rivisti al manicomio giudiziario
di Aversa. Il boss di Ottaviano
l'aveva preso a ben volere,
tanto da arruolarlo nella
camorra. «Nicolino divenne
subito mio amico», ha detto
Cutolo al giudice. «Rispetto ai
miei tanti amici, di lui mi fidavo
ciecamente, allo stesso modo in
cui mi fidavo di Enzo Casillo.
Dopo il mio rumoroso
allontanamento dall'ospedale
psichiatrico giudiziario di
Aversa, avvenuto il 5 febbraio
1978, Nicolino Selis venne da
me fatto contattare e invitato a
raggiungermi ad Albanella,
dove mi ero rifugiato in una
masseria. Da quel momento
Selis divenne il mio capozona
su Roma.» (6)
Un giorno di luglio del '78
Marcello Colafigli, un
venticinquenne coi suoi bravi
precedenti penali conosciuto
attraverso Selis e Toscano,
chiese a Lucioli di rimediargli
una macchina. Rimediare
voleva dire rubare, e Lucioli
non se lo fece dire due volte. Al
quartiere dell'Alberone, davanti
a una macelleria, vide una 132
rossa che faceva al caso suo,
abbandonata in doppia fila dal
proprietario con le chiavi
attaccate al cruscotto.
Impossessarsi di quell'auto fu
uno scherzo. «Rubata la
macchina», confesserà Fulvio
Lucioli nel 1983, cinque anni
più tardi, «la consegnai al
Colafigli. Intendo precisare che
ignoravo del tutto che utilizzo
dovesse essere fatto
dell'auto...» (7) Lo capì qualche
giorno dopo, leggendo i
giornali.

Il signor Bruno veniva da


Capistrello, in provincia
dell'Aquila, e faceva il
ferroviere. Al mattino lavorava
al deposito di San Lorenzo, la
sera, per arrotondare lo
stipendio, faceva il
posteggiatore a Tor di Valle.
Sul piazzale davanti
all'ippodromo c'era un grande
parcheggio, il numero di
posteggiatori variava di volta in
volta, a seconda delle esigenze.
La sera del 25 luglio 1978 ce
n'erano due o tre, ma quello
che vide meglio ciò che accadde
fu il signor Bruno.
Mezzanotte era passata già
da un po', la riunione era
terminata e la gente aveva
cominciato a sfollare. Erano in
tanti, perché nelle sere d'estate
a Tor di Valle va anche chi
cerca semplicemente un po' di
fresco e con i cavalli non ha
niente a che fare. Tra coloro
che tornavano alle macchine, il
signor Bruno notò Franco
Nicolini, che aveva
parcheggiato la sua Mercedes
nel pomeriggio, e gli andò
incontro per farsi pagare.
Franchino era conosciuto,
almeno di vista, da tutti i
posteggiatori dell'ippodromo.
Bruno si fece dare i soldi,
tolse il tagliando dal
tergicristallo della Mercedes,
salutò e tornò verso gli altri
clienti che volevano ritirare le
proprie macchine.
All'improvviso sentì dei colpi
secchi, degli spari. Si voltò di
scatto e vide che provenivano
dal punto in cui si trovava lui
qualche secondo prima. Intorno
alla Mercedes di Franchino
c'era un fuggi fuggi generale,
persone che gridavano e che
scappavano verso l'entrata
dell'ippodromo. Dentro,
nessuno s'era accorto di nulla,
il megafono dello speaker
aveva appena gracchiato una
strana frase: «Angelo ammazza
la morte telefoni a casa».
Anche il signor Bruno cominciò
a correre verso l'ingresso, poi si
voltò ancora e notò un'auto
scura che procedeva a zig zag
tra le macchine parcheggiate,
sentì altri spari.
A quel punto Bruno si
bloccò, la macchina ormai se
n'era andata dopo aver fatto
un'ultima curva sgommando, e
pensò che doveva tornare da
dove era venuto: forse poteva
aiutare qualcuno. Ma arrivato lì
si rese conto che non c'era
proprio niente da fare: Franco
Nicolini era a terra in un lago di
sangue, già morto.
Ai poliziotti che lo portarono
in Questura il posteggiatore
raccontò tutto questo, ma
quando si trattò di essere più
preciso sulle facce e le
macchine che aveva visto
rispose: «Non sono in grado di
fornire alcuna indicazione circa
il numero di targa né la
provincia di appartenenza
dell'auto che si allontanava dal
luogo della sparatoria. Non ho
sentito alcuno che avesse
appuntato il numero di targa
della citata auto. Non sono in
grado di fornire alcuna altra
indicazione sulla dinamica dei
fatti avvenuti. Non ho udito
nessuna voce né grida al
momento dell'esplosione dei
colpi, né ho visto alcuno con
armi in mano. Non conosco
nessuna delle persone che
accompagnavano il Nicolini
nelle serate all'ippodromo...»
Era sempre la solita storia, mai
nessuno che ricordasse una
targa, un nome, o desse
un'indicazione che andasse
oltre gli spari e il fuggi fuggi.
Quel martedì sera la signora
Iolanda Nicolini non aveva
accompagnato il marito alle
corse dei cavalli. Per questo
Franchino era solo, sul piazzale
dell'ippodromo. All'interno di
Tor di Valle aveva appena
salutato suo fratello Giovanni,
«il bebby», e altri amici: «il
zanzara» e «il marinaretto». La
figlia Stefania se n'era andata
da un paio di minuti, in
macchina col marito. Quando
uscì fuori e vide Franchino
disteso a terra, Giovanni
Nicolini scoppiò a piangere, e
chiese all'amico Serafino di
andare a casa di Iolanda.
Serafino andò, disse alla
signora che Franco aveva avuto
un incidente, e insieme a lei
tornò a Tor di Valle in tempo
per farle guardare il corpo di
suo marito rimasto dove
l'avevano lasciato i suoi
assassini. «Immobile», tenne a
precisare un poliziotto nel
rapporto.
Gli uomini della Scientifica
che fecero la perquisizione del
cadavere gli trovarono addosso
più di undici milioni in
banconote da cinquanta e
centomila lire, un Rolex e un
braccialetto d'oro, cambiali per
sette milioni firmate da Franco
Nicolini, un «pagherò» del
poker da settemila lire, qualche
biglietto da visita, fatture
d'albergo e una copia del
giornale «L'eco della pista - Tor
di Valle». Niente armi. «Mio
marito», spiegò la moglie in
Questura, «non ha mai portato
armi. Quando ha litigato lo ha
sempre fatto a parole o con le
mani.»
Quanto alle liti più recenti,
Iolanda Nicolini ricordò quella
con «don Mimì» Iodice, che
però, a quanto ne sapeva lei, si
era risolta: «Infatti giovedì 20
corrente, stando al campo di
Tor di Valle, ho visto che mio
marito attraversava dal bar
verso il campo in compagnia di
Serafino e del 'Mimì'. A fine
corse ho chiesto a Franco se
aveva fatto la pace con 'Mimì' e
lui mi ha risposto
affermativamente, dicendomi
però che ognuno di loro, da
quel momento, doveva pensare
per sé».
Il fratello del morto, «il
bebby», che conosceva quasi
tutto dell'attività di Franchino,
non solo non collaborò con gli
investigatori, ma fu sospettato
addirittura di voler intorbidire
le acque: dopo l'omicidio spostò
la Mercedes di Nicolini e fece
sparire qualcosa dall'interno
della macchina. Finì arrestato
per falsa testimonianza,
un'accusa che non avrebbe
portato da nessuna parte e che
si sarebbe risolta in un nulla di
fatto.
Un commissario della
Squadra Mobile, cinque anni
più tardi, scriverà in un
rapporto a proposito
dell'omicidio Nicolini: «Fin dalle
prime indagini apparve ovvio
che il movente doveva
ricercarsi nell'ambiente degli
scommettitori clandestini,
attività che la vittima gestiva
da anni con modalità
autoritarie e irruenti. Le
investigazioni però
naufragavano di fronte al muro
di omertà presentato dalle
numerose persone che, nel
tempo, avevano avuto dispute
con l'ucciso».

Ad ammazzare Franco
Nicolini, sul piazzale di Tor di
Valle, erano andati in sette.
L'ottavo del gruppo, Franco
Giuseppucci, aspettava
all'interno dell'ippodromo.
Avevano due macchine, la 132
rossa rubata da Lucioli qualche
giorno prima e una 131 scura,
rubata anche quella.
Aspettarono «il criminale» al
parcheggio, e appena si accorse
di loro Franchino tentò di
scappare. Partirono i primi
colpi, e la fuga di Nicolini fu
bloccata dalla 132 che gli si
mise davanti. A quel punto i
due killer gli scaricarono
addosso le loro pistole. Il
medico legale disse che era
stato colpito da nove proiettili:
uno gli trapassò la guancia, un
altro l'emitorace destro e un
altro ancora il braccio destro,
due lo colpirono al torace e
quattro alla testa. «E' morto
quasi istantaneamente»,
sentenziò il referto.
Nessun testimone lo disse,
ma in quella pioggia di fuoco
rimase ferito anche uno degli
assassini, Nicolino Selis, colpito
al piede, di striscio, da un
proiettile. I suoi complici lo
portarono a medicarsi al
Sant'Eugenio, da un infermiere
amico loro che non fece
figurare nulla sui registri
dell'ospedale.
Quattordici anni più tardi,
nel 1992, Maurizio Abbatino,
che faceva parte del
«commando» di Tor di Valle, ha
confessato al giudice istruttore:
«I componenti del gruppo che
commise l'omicidio erano:
Renzo Danesi alla guida della
Fiat 132, io alla guida della Fiat
131, Enzo Mastropietro,
Giovanni Piconi, Edoardo
Toscano, Marcello Colafigli,
Nicolino Selis. A sparare furono
Toscano e Piconi, le armi usate
erano a canna corta e tutti,
comunque, eravamo armati.
All'interno dell'ippodromo si
trovava, invece, il solo Franco
Giuseppucci. Successivamente
all'esecuzione dell'omicidio
abbandonammo le auto e ci
portammo tutti a casa mia,
dove in un secondo tempo ci
raggiunse anche Giuseppucci.
La mia abitazione in quel
periodo era libera, poiché la
mia famiglia aveva affittato una
casa sul litorale di Fondi
insieme a Renzo Danesi. Per
commettere l'omicidio ci
eravamo spostati, sia io che il
Danesi, da Fondi a Roma, il che
doveva rappresentare una
specie di alibi». (8)
Il gruppo che stava
nascendo dalla fusione tra
quello di Giuseppucci e quello
di Selis aveva più di un motivo
per eliminare Franco Nicolini.
Nicolino Selis lo cercava da
qualche anno, da quando aveva
litigato con Franchino a Regina
Coeli. Era il '74 o il' 75, e nel
vecchio carcere romano si
respirava aria di rivolta. I
detenuti godevano di molta
libertà, in pratica erano loro a
dettare legge, e per questo
ogni volta che arrivavano ordini
di trasferimento si barricavano
nelle celle e impedivano agli
agenti di custodia di entrare.
Ma in un'occasione, una mano
alle guardie la diede proprio
Nicolini, che insieme a un altro
detenuto si mise a girare per i
corridoi e convinse gli altri ad
aprire le porte delle celle,
costringendoli a uscire e a fare
quello che dicevano gli agenti.
Selis vide tutto e affrontò
Franchino, gli disse che era
«una guardia infame», che gli
mancava solo il berretto. Volò
anche qualche schiaffo, un
affronto che per uno come
Selis, considerato un capo a
Regina Coeli, non poteva
restare impunito.
Tornati tutti e due in libertà,
Selis decise di punire «il
criminale», e chiese l'appoggio
a quelli della Magliana anche
per saggiarne l'affidabilità sul
piano operativo, visto che da
allora in avanti avrebbero
dovuto «lavorare insieme».
Abbatino, Giuseppucci e
compagni non erano stati a fare
tante domande: sapevano che
tra quei due c'era della ruggine
e tanto bastava. Del resto
anche a loro, decisi a
conquistare la supremazia su
Roma, non andava giù che
Nicolini continuasse a fare «il
capo». «La decisione di fargliela
pagare», ha raccontato Antonio
Mancini, «era già stata presa
prima della sua scarcerazione,
si attendeva solo l'occasione
propizia per ammazzarlo». (9)
Ma a parte la vendetta, c'era
qualche altro motivo per
togliere di mezzo Franchino. Il
controllo delle gare a Tor di
Valle, per esempio.
«Giuseppucci», ha spiegato
Abbatino, «riusciva quasi
sempre a condizionare
l'andamento di qualche corsa e
Nicolini, essendo un allibratore
di un certo calibro e avendo un
sostanzioso controllo
dell'ippodromo, spesso
intralciava i programmi del
primo, ma anche quelli di altri
allibratori i quali operavano a
Tor di Valle ed erano, a loro
volta, legati a organizzazioni
malavitose come la camorra...
«L'organizzazione di
Raffaele Cutolo, nell'ambiente
delle corse, aveva come
referenti Vincenzo Casillo e
Giuseppe Rizzo, proprietario di
cavalli e fantino. Ricordo che
proprio dopo l'omicidio Nicolini
facemmo una cena presso il
ristorante Bastianelli di
Fiumicino, e avemmo un altro
incontro nella villa di un
fantino sulla via Cristoforo
Colombo con il Casillo, il Rizzo
e un altro napoletano che
ricordo chiamarsi 'Mimì 'o
pruovolo', già visti, in
precedenza, con Nicolino Selis.
Questi due incontri ai quali
partecipammo io, il Selis e il
Giuseppucci, avevano lo scopo
di convincere il fantino del
quale non ricordo il nome ma
che godeva di un certo
prestigio e aveva molti
'movimenti', ad accordarsi con
il Rizzo per condizionare
l'andamento delle corse a Tor di
Valle, facendogli capire che
l'accordo era possibile in
quanto, a seguito della morte di
Franco Nicolini con il quale egli
'lavorava' in precedenza, ormai
l'ippodromo era in mano nostra
e dei napoletani.» (10) C'è da
credere che il fantino si lasciò
convincere piuttosto in fretta.
Nicolino Selis era uno che
alle vendette non rinunciava. A
«Franchino er criminale» aveva
fatto pagare uno sgarro subito
in carcere, e un altro della
banda raccontò che dopo
l'omicidio di Tor di Valle,
nonostante la ferita al piede,
Nicolino faceva salti di gioia
gridando: «Ce l'ho fatta, ce l'ho
fatta!» Sergio Carrozzi, invece,
morì perché in galera, Selis, ce
l'aveva mandato.
Successe in una strada di
Ostia, la sera del 29 agosto del
'78, un mese dopo l'esecuzione
di Franchino. Sergio Carrozzi,
trentotto anni, non era uno
stinco di santo: aveva
precedenti penali per rissa,
furti aggravati, lesioni, ingiurie,
truffa e guida senza patente. A
Ostia Lido aveva aperto una
boutique, col nome e l'insegna
un po' pacchiani, Sergio's. I
«bravi ragazzi» di Ostia,
guidati da Nicolino Selis e
Gianni Girlando, «il roscio»,
l'avevano presa di mira, e a
Carrozzi cominciarono a
chiedere soldi. Telefonava
proprio Selis: «Ci devi dare
dieci milioni, altrimenti ci vai di
mezzo tu, il tuo negozio e la
tua famiglia». Sergio non
cedette, e per tutta risposta
denunciò gli estorsori facendoli
arrestare, Selis compreso. Da
quel momento le telefonate a
casa sua non chiedevano più
soldi, ma annunciavano
vendetta contro quel «Giuda»
che li aveva spediti dietro le
sbarre. Se rispondeva lui,
dall'altra parte del filo
restavano in silenzio, ma se
andavano la moglie o la cugina,
che lavoravano come
commesse nel negozio,
venivano riempite d'insulti: «Tu
sei una troia e tuo marito un
infame»; «Zoccola, lo prendi
nel sedere». Una volta rispose
il cugino Valentino, il
telefonista pensò che fosse
Sergio e si decise a parlare: «E'
arrivata la tua ora, devi morire,
è arrivato il tuo momento»,
disse.
E se quelli dicevano una
cosa, poi la facevano. La sera
del 29 agosto Carrozzi stava
giocando a carte in strada, ai
tavolini di un bar accanto alla
boutique. Era con tre amici,
andavano avanti da più di
un'ora, una partita di tressette
e una di briscola. All'improvviso
dietro le spalle di Sergio
comparve una persona, occhiali
da sole, pantaloni chiari e
camicia a strisce. Sparò tre
colpi alla schiena e alla nuca di
Carrozzi, senza dire una
parola. Il rumore degli spari fu
coperto dal rombo della moto
guidata da un complice
dell'assassino, sulla quale il
killer salì di corsa. Era
un'Honda 500, e fu ritrovata
un'ora e mezzo più tardi sotto
un cavalcavia. Fulvio Lucioli era
andato a prenderla
sull'autostrada Roma-Napoli,
qualche giorno prima. La stessa
storia dell'omicidio Nicolini, lui
rubava macchine o moto e poi,
leggendo i giornali, veniva a
sapere che servivano per gli
omicidi. Oltre alla Honda, il
«gruppo di fuoco» di Ostia
aveva usato un paio di
macchine e un'altra moto, una
Kawasaki. A sparare fu
l'«operaietto», Edoardo
Toscano; in una macchina c'era
Maurizio Abbatino, che rivelerà
tutti questi particolari nel
1992; sulla Kawasaki sedeva
Fabrizio Selis, fratello di
Nicolino. Quelli della Magliana
non lo volevano portare,
dicevano che era un tipo
inaffidabile, ma siccome si
trattava di vendicare il fratello
lo fecero partecipare
all'esecuzione: un fatto
simbolico.

Le cene da Bastianelli a
Fiumicino e al ristorante di Tor
di Valle tra Giuseppucci,
Abbatino e i loro amici coi
napoletani legati a Raffaele
Cutolo, divennero un'abitudine.
Una volta all'ippodromo, in
compagnia del «negro» arrivò
pure Claudio Sicilia, uno di
circa trent'anni nato a
Giugliano, in provincia di
Napoli, trapiantato a Roma e
imparentato con la famiglia
Maisto, la faccia da studente
universitario, ma già coinvolto
in un omicidio di camorra, la
morte di un contrabbandiere
diventato troppo potente. Nella
capitale abitava dalle parti della
Magliana, e frequentando gli
stessi bar aveva conosciuto i
«bravi ragazzi», che poco dopo
affibbiarono un soprannome
anche a lui e presero a
chiamarlo «il vesuviano».
Il primo che incontrò Sicilia
fu Marcello Colafigli, il quale un
giorno gli disse che una
persona importante, che aveva
parlato bene di lui, lo voleva
rivedere. Per questo, quella
sera, Giuseppucci lo
accompagnò a Tor di Valle. Ma
all'appuntamento la «persona
importante» non poté
presentarsi: si trattava di
Raffaele Cutolo, rimasto
bloccato a Napoli perché
avevano rapito il figlio di un
commerciante suo amico; il
boss di Ottaviano voleva
occuparsi da vicino, e con tutta
la sua autorità, di quel
sequestro.
In assenza di Cutolo, a Tor
di Valle Claudio Sicilia trovò
altri esponenti della Nuova
Camorra Organizzata, i quali gli
confermarono la stima di «don»
Raffaele nei suoi confronti.
Allora Sicilia ricordò che tra il
'67 e il '68, quando aveva
appena compiuto diciott'anni,
nel padiglione Avellino del
carcere di Poggioreale dov'era
stato rinchiuso per l'omicidio di
quel contrabbandiere, aveva
conosciuto Raffaele Cutolo, il
quale l'aveva preso a ben
volere e aveva conservato di lui
un buon ricordo, tanto da
parlarne bene ai suoi soci in
affari.
I «padrini» sono fatti così,
se decidono che uno è un bravo
ragazzo se lo ricordano anche
dopo dieci anni. E Claudio s'era
comportato bene con «don»
Raffaele e con altri boss come
Bardellino, sia in galera che
fuori. Una volta uscito, infatti,
si preoccupò di spedire a
Poggioreale i pacchi con le cose
che gli avevano chiesto quelli
rimasti dentro: cartoline e
francobolli, cioccolata e altra
roba che rende meno dura la
vita del carcere. Per questo il
boss di Ottaviano gli era
riconoscente, e per questo lo
voleva riabbracciare.
Prima che veri e propri
affari, tra romani e napoletani
ci furono scambi di favori.
Accadde, per esempio, quando
l'«operaietto» e Lucioli, su
richiesta di Cutolo, erano
dovuti andare fino a Ottaviano,
per prelevare una BMW verde
metallizzata e portarla a Roma
per farla distruggere da uno
«sfasciacarrozze». Bisognava
liberarsene perché lì dentro il
boss in persona aveva
ammazzato due uomini che poi
erano stati buttati in mare, un
costruttore che si era rifiutato
di pagare una tangente e il suo
segretario. L'auto era rimasta
sporca di sangue e siccome era
un modello vistoso e poco
comune, dovevano
sbarazzarsene. Nella zona di
Napoli, però, qualcuno avrebbe
potuto notarla, e quindi quelli
della Magliana la presero in
consegna. Fu Giuseppucci, al
quale venne affidata a Roma, a
portare la Mercedes con le
tracce del delitto dal demolitore
giusto, uno che non avrebbe
mai parlato.
Col gruppo dei cutoliani, in
un'altra occasione, Selis e i
suoi amici fecero dei furti ai Tir
che trasportavano tappeti
persiani e sete cinesi. Il titolare
della ditta di trasporti pensò di
rivolgersi a Giuseppucci per
tentare di recuperare la merce,
senza sapere che era stato
proprio il gruppo del «negro» a
rubarla, con la complicità della
società di import-export di un
camorrista, lo stesso che
gestiva le operazioni
internazionali del trasportatore.
E quando un gruppo di fuoco
della N.C.O., la Nuova Camorra
Organizzata di Raffaele Cutolo,
si trasferì a Roma per tentare
di eliminare il boss rivale
Michele Zaza, chiese e ottenne
l'appoggio della banda della
Magliana. Abbatino e Toscano,
diventati amici inseparabili,
procurarono ai napoletani - tra
cui Enzo Casillo, Giuseppe Puga
detto «Giappone» e due ragazzi
di Pozzuoli chiamati «i
puzzolani» - appoggi e armi. E
li accompagnarono in giro per
le vie di Roma, alla ricerca di
Zaza, uno che alla Magliana era
noto perché suo suocero
gestiva i grandi magazzini della
borgata.
Michele Zaza detto «'o
pazzo», un altro camorrista
trafficante di droga trasferitosi
a Roma e legato alla mafia
siciliana tramite i corleonesi di
Totò Riina, era dunque un
nemico dei cutoliani. Ma
quando quel Claudio Sicilia
tanto caro a «don» Raffaele finì
a Regina Coeli per una storia di
hashish e marijuana e se lo
trovò davanti, i due divennero
amici. Un'amicizia interessata,
visto che essere protetto da
uno come Zaza voleva dire, per
esempio, poter frequentare
altri detenuti anche se i
magistrati avevano ordinato
l'isolamento. In carcere «'o
pazzo» faceva il bello e il
cattivo tempo. Dall'esterno,
rivelerà Sicilia, gli arrivava
regolarmente la cocaina,
perfino un sacerdote gli fece da
inconsapevole corriere. Uno dei
cappellani di Regina Coeli,
infatti, portava dall'esterno
delle bottigliette di medicine.
Zaza aveva raccontato al prete
di averne bisogno perché,
diceva, stava facendo lo
sciopero dei medicinali per
essere trasferito in ospedale,
ma per non correre il rischio di
aggravarsi troppo doveva
prendere almeno quelle
capsule. Il cappellano si era
prestato, senza sapere che
all'interno delle capsule era
nascosta la cocaina. (11)
Come tutte le amicizie più
interessate che sincere, quella
tra Michele «'o pazzo» e Sicilia
rischiava sempre di rompersi
per un nonnulla. Successe una
sera che un ragazzo rinchiuso
nello stesso padiglione di Zaza
mangiò dei granchi sottovuoto
che appartenevano al
camorrista, senza chiedere il
permesso. Appena «'o pazzo»
se ne accorse cominciò a
picchiare il ragazzo, un
tossicodipendente un po'
malandato, e la cosa non
piacque a Sicilia che si mise in
mezzo e finì per dare due
schiaffi a Zaza. Era
un'umiliazione che il boss non
poteva subire, afferrò una
bottiglia e la ruppe contro il
muro, pronto a saltare addosso
a Sicilia. Ma le guardie
carcerarie fecero in tempo ad
arrivare prima che la rissa
degenerasse.
Passata mezza giornata,
Zaza decise di risolvere la
questione, in un modo o
nell'altro. Chiamò Sicilia e gli
chiese se fosse sua intenzione
ammazzarlo nel sonno. «No,
non ci penso proprio», rispose
«il vesuviano», e allora il
camorrista-mafioso propose la
riappacificazione. «Però c'è un
problema», aggiunse «'o
pazzo». «Dello scontro che
abbiamo avuto si verrà a
sapere fuori, e per non fare
brutta figura coi miei io ti devo
uccidere, perché hai osato
schiaffeggiarmi. Oppure ti devi
imparentare con me.» Fu scelta
la seconda strada, e si decise
che la moglie di Zaza avrebbe
fatto da madrina alla figlia di
Sicilia.
Da quel momento i rapporti
tra i due divennero ottimi, e
Michele Zaza cominciò a
riempire di regali la moglie e la
figlia del suo nuovo compare:
bottiglie di profumo ordinate
dal carcere e, in occasione di
un compleanno della signora
Sicilia, centouno rose rosse.

Testimone oculare dei


traffici di droga tra romani e
napoletani era spesso Claudio
Sicilia, uno che è sempre
rimasto a metà strada tra i due
gruppi, amico di tutti e alla fine
uomo solo, impegnato a
guadagnare soldi col commercio
di eroina e cocaina, ma anche a
sperperarli con donne e
champagne. E pronto a
collaborare con la polizia
quando capì che sulla piazza
non c'era più posto per lui, e
che le prove raccolte a suo
carico - per esempio il deposito
d'armi trovato a casa di un suo
amico orologiaio - non gli
avrebbero lasciato scampo se
non voleva più avere rapporti
coi complici di un tempo. «Io
già sapevo» ha raccontato
Sicilia ai giudici, «dei contatti
che avevano a Roma quelli
della Nuova Camorra
Organizzata, ma sono venuto a
conoscenza di maggiori
particolari quando ho
cominciato a frequentare più
assiduamente mio cugino
Corrado Iacolare. Questi venne
a Roma quando non era ancora
latitante, ma sapeva che a
Napoli poteva essere nell'aria
qualche provvedimento nei suoi
confronti... Lo Iacolare andava
spesso, anche in compagnia di
Enzo Casillo, al bar di via
Chiabrera; in particolare per
prendere della cocaina che
veniva acquistata in
quantitativi di un chilo alla
volta dai napoletani, che la
pagavano quindici giorni dopo.
La cocaina, come mi venne
detto dallo Iacolare, dal
Colafigli, da Abbatino, da
Toscano e anche dal Mancini
Antonio detto 'l'accattone',
veniva sostanzialmente
venduta a prezzo di costo, era
quasi una cortesia che i romani
facevano ai napoletani. Questo
commercio era già in atto
prima della morte di
Giuseppucci e proseguì fino
all'arresto del Toscano e
dell'Abbatino.» (12)
Il luogo di consegna della
«roba» era quasi sempre il bar
di via Chiabrera, tra la
Cristoforo Colombo e
l'Ostiense, alle spalle della
basilica di San Paolo: un piccolo
esercizio, con una fila di
tavolini fuori, sul marciapiede,
e una sala da biliardo sul retro
dove i nuovi boss si ritrovavano
e decidevano i loro affari tra
stecche, tavoli verdi e luci al
neon. Lì, a qualsiasi ora del
giorno, c'era qualcuno della
banda che stazionava. Da lì
partivano le spedizioni e lì si
tornava dopo aver fatto
qualche «lavoro». Lì addirittura
ci si faceva telefonare, proprio
come nei film dove i baristi che
la sanno lunga ma stanno
sempre zitti rispondono e
chiamano il gangster che sta
giocando o bevendo a qualche
tavolo.
Ma alla gente della strada i
frequentatori del bar non
davano fastidio; gli abitanti
della zona e i negozianti lì
intorno notavano quel viavai di
uomini senza immaginare che
razza di traffici combinassero.
Tutt'al più poteva capitare che
al fruttivendolo accanto al bar
chiedessero una mela senza
pagarla, e quello gliela dava e
zitto; o che ogni tanto
arrivasse una «pantera» della
polizia per qualche controllo.
Per il resto, non erano certo i
«bravi ragazzi» a turbare la
tranquillità di quel pezzo di
periferia già di per sé piuttosto
grigio.
A via Chiabrera si
presentavano Casillo e
Iacolare, Abbatino o Toscano
andavano a prendere la
polvere, quasi sempre dal
cofano di una macchina - la
nascondevano sotto il motore -,
e gliela consegnavano. Non
c'era bisogno di dire niente, se
non qualche chiacchiera o un
saluto da mandare a Nicolino
Selis, l'amico dei napoletani
che nel frattempo era finito in
carcere. La confidenza e la
collaborazione era arrivata al
punto che i napoletani si
rivolgevano ai romani con il
«tu» abbandonando il
tradizionale «voi» che per
gente abituata a risolvere le
controversie con le armi era un
segno di distacco più che di
rispetto.
Una volta però i cutoliani
arrivarono al bar con delle
facce niente affatto tranquille.
Sicilia era seduto a un tavolino,
lo chiamarono da una parte.
«L'ultima partita di cocaina che
ci hanno dato i tuoi amici non
andava bene», gli disse
Iacolare, «era meno di quella
che avevamo concordato. C'è
ancora da fidarsi di quelli?» «E
io che ne so? Voi li conoscete
meglio di me, siete voi che ci
fate gli affari», rispose Sicilia
che aveva imparato a non
immischiarsi nelle questioni che
non lo riguardavano
direttamente.
Mentre ancora discutevano
arrivarono i due amichetti,
Abbatino e Toscano. Casillo e
Iacolare quasi li aggredirono
protestando per quella cocaina
che pesava meno di quanto
doveva, il clima davanti al bar
s'era già fatto molto, ma molto
pesante. I due romani dissero
di stare calmi, che
probabilmente era stata
l'umidità a far calare il peso
della polvere bianca. E che
comunque la cosa si poteva
aggiustare subito. Salirono in
macchina tutti e quattro, e
andarono in un deposito lì
vicino gestito da Toscano.
L'«operaietto» aprì un pacco di
vestiti nuovi, e cominciò a
scavare tra la stoffa finché non
trovò un sacchetto di plastica
con dentro una busta fatta di
carta di giornale. La scartò e
c'era un altro involucro, largo e
piatto, chiuso da nastro
adesivo. Toscano lo diede a
Casillo, che l'aprì da un lato, ci
infilò un dito, e quando lo tirò
fuori se lo strofinò sulla lingua
e sotto il naso. «Questa è
abbastanza asciutta»,
sentenziò il napoletano, e si
portò via quella partita di
cocaina.
L'incidente era stato evitato,
tutto era tornato come prima, e
alla consegna successiva
Corrado Iacolare chiese ad
Abbatino se poteva rimediargli,
oltre alla cocaina, dei
passaporti e delle patenti di
guida in bianco. Servivano per
altri camorristi venuti a Roma a
«trascorrere la latitanza»,
come fosse un periodo di ferie.
Ferie lavorative, però, visto che
anche nella capitale avevano
continuato a gestire le loro
attività.

Il giudice Elisabetta Cesqui,


nel 1981, era un giovane
sostituto procuratore della
Repubblica in servizio a
Velletri, con una formazione
umanistica e una carica di
impegno sociale che
l'accompagnavano fin da
ragazza. S'era dedicata con
entusiasmo al lavoro di
magistrato, dopo averlo
preferito a quello universitario
e all'avvocatura, ma per lo più,
in una Procura come quella del
piccolo centro laziale, si
occupava di incidenti stradali.
Di lì a pochi anni, trasferita a
Roma, avrebbe avuto tra le
mani alcune delle inchieste più
scottanti della storia giudiziaria
d'Italia, dalle trame neofasciste
alla P2 di Licio Gelli, ma allora,
in quell'estate calda e ricca di
avvenimenti che turbavano il
Paese - dalla P2, appunto,
appena scoperta, alle Brigate
Rosse che avevano sequestrato
e massacrato l'ingegner
Taliercio e stavano per fare
altrettanto con Roberto Peci,
fratello del «pentito» Patrizio -,
non pensava ancora a casi così
delicati. Continuava a sbrigare
l'ordinaria amministrazione di
Velletri e dintorni quando
all'improvviso la malavita le
buttò tra i piedi un cadavere, il
primo di un morto ammazzato
nella sua carriera di
magistrato: quello di Antonio
Mottola, medico e perito
psichiatra del tribunale.
La mattina di sabato 25
luglio il giudice Cesqui doveva
andare al matrimonio di un suo
collega, ma arrivò una
segnalazione dei carabinieri
che fece saltare tutti i piani
della giornata: era stata
trovata una macchina bruciata
con dentro i resti di un uomo,
in una strada sterrata lungo la
via Casilina, dalle parti di
Valmontone. Il magistrato
arrivò che qualche pezzo d'auto
bruciava ancora. La vittima di
quello che apparve subito un
omicidio non faceva nemmeno
troppa impressione per quanto
il corpo era carbonizzato, un
tizzone irriconoscibile; i periti
chiamati sul posto non
riuscivano neanche a capire se
fosse di sesso maschile o
femminile. Mentre faceva i
primi rilievi, il medico del
tribunale estrasse dalla
carcassa dell'auto un ferro
bruciato che fino a poche ore
prima era stato uno stetoscopio
e disse: «Dev'essere un
collega». Era la prima, generica
traccia a disposizione degli
investigatori: il morto era un
medico. Poco dopo, ecco
spuntare un secondo elemento,
anche questo mezzo
bruciacchiato: una vecchia
rivoltella, più simile a un pezzo
d'antiquariato che a un'arma in
grado di sparare.
A riconoscere il cadavere, se
quello scheletro annerito si
poteva definire tale, fu la
moglie Vittoria che la domenica
si presentò alla stazione dei
carabinieri, e alla quale i
militari fecero vedere gli altri
oggetti recuperati nella
macchina carbonizzata: una
fede nuziale, una penna
stilografica, l'orologio da polso
fermo sulle 5.15. «Sì», disse la
signora Mottola, «sono di mio
marito. E' scomparso dall'altra
notte, tre persone sono venute
a prenderlo verso le quattro.
Stavamo dormendo e hanno
suonato al citofono. Dissero che
doveva andare con loro, c'era
da visitare una persona, un
caso urgente. Antonio li ha fatti
salire, s'è vestito in fretta, ha
preso la borsa dei ferri ed è
andato con loro. Quando sono
scesi mi sono affacciata alla
finestra e li ho visti salire su
una macchina targata Milano.
Io non li conoscevo, dicevano
che li mandava un certo
Ammaturo.»
Ecco un altro indizio:
Umberto Ammaturo, boss della
Nuova Famiglia,
l'organizzazione camorristica
avversa a quella di Raffaele
Cutolo. Nel frattempo il lavoro
di periti e investigatori aveva
stabilito due punti fermi: il
dottor Mottola era stato ucciso
da una revolverata alla gola,
sul collo della vittima era stato
rilevato del piombo; e la
macchina carbonizzata, una
Renault 20, era stata rubata
qualche giorno prima a Milano.
Aveva avuto una vita e una
carriera movimentata il dottor
Antonio Mottola da Atripalda,
provincia di Avellino. In
Questura c'era un fascicolo
intestato a suo nome, negli
anni Sessanta aveva avuto
qualche guaio con la giustizia,
per «appropriazione indebita»,
presunte truffe e altro. Ma ne
era uscito bene, e anni dopo
riuscì a farsi nominare perito
del tribunale. A Mottola
vennero assegnate consulenze
sulle infermità mentali anche in
casi molto particolari: per
esempio visitò alcuni esponenti
del clan dei Marsigliesi tra cui
Jacques Berenguer; e aveva
dichiarato la totale infermità di
mente, consentendone la
scarcerazione, di Alessandro
D'Ortenzi, «lo zanzarone»,
rapinatore e ricettatore
tormento della Squadra Mobile,
legato alla banda della
Magliana e protagonista di una
rocambolesca fuga, in pigiama,
dall'ospedale Forlanini.
Dai familiari di Mottola,
moglie e quattro figli che
vivevano già per conto loro, il
giudice Cesqui ottenne una
collaborazione che le sembrò
solo apparente. A parte quella
traccia su Ammaturo, che lì per
lì non portò da nessuna parte,
non seppero dire altro
sull'attività del loro congiunto
che potesse aiutare le indagini.
Dalle risposte che davano,
sembrava non si fossero mai
interessati al lavoro del
dottore. In casa furono
sequestrate montagne di carte
e di appunti, da cui non si cavò
granché. Vennero fatti controlli
sui conflitti a fuoco degli ultimi
giorni, perché si pensava che il
medico potesse essere stato
chiamato per curare qualche
ferito che non poteva
presentarsi all'ospedale; si
cercarono collegamenti col
sequestro di Giovanni
Palombini, l'industriale del caffè
rapito ad aprile e che sarebbe
stato ritrovato cadavere,
sempre dalle parti di
Valmontone, alla fine di
ottobre: i sequestratori
potevano aver chiamato
Mottola per curare l'ostaggio e
poi aver deciso di
sbarazzarsene perché magari
aveva riconosciuto qualcuno.
Ma non si arrivò a nulla.
Un'altra pista poteva essere
quella della collaborazione tra il
dottor Mottola e il criminologo
Aldo Semerari, anche lui perito
psichiatra, estremista di destra
già inquisito, a quel tempo, per
la bomba alla stazione di
Bologna che il 2 agosto 1980
aveva ucciso ottantacinque
persone, accusa da cui sarà in
seguito prosciolto. Mottola e
Semerari avevano lavorato
insieme molte volte, erano
diventati amici, ed era stato
proprio Semerari, dopo che il
marito non aveva dato notizie
da ventiquattr'ore, a consigliare
alla signora Vittoria di
rivolgersi ai carabinieri. Ma il
professor Semerari,
incredibilmente, non fu
nemmeno interrogato. Ancora
oggi il giudice Cesqui non sa
spiegarsi il perché: «Fu una
traccia che trascurammo
inconsapevolmente e
colpevolmente. Fu un fatto di
inesperienza e forse di
ingenuità da parte mia,
probabilmente di scarsa
attenzione da parte degli
investigatori. A parte che
quello era il mio primo morto
ammazzato, non pensammo di
indagare sul 'contesto' per
venire a capo del fatto. Ci
concentrammo sulla ricerca di
un episodio specifico, uno
sgarro da pagare o un conto
rimasto in sospeso. Provammo
a ingrandire dei particolari
senza cercare di avere la
visione d'insieme sulla vittima,
la sua attività e il suo
ambiente». (13)
Si tentò di lavorare sulle
analogie con casi simili
verificatisi in passato, per
esempio l'omicidio di Antonio
Sbriglione, pregiudicato
catanese trasferito a Roma per
commerciare droga,
ammazzato e bruciato in una
macchina, proprio come
Mottola, nell'agosto del '79. Per
quel delitto la polizia era
arrivata a sospettare del capo
di una banda di sequestratori,
ma a parte le stesse modalità
d'esecuzione non c'erano
elementi che potessero
collegare quell'uomo al dottor
Mottola.
L'inchiesta finì per arenarsi
senza che giudice e carabinieri
riuscissero a prendere in mano
il filo giusto, che invece
avrebbero potuto trovare se
avessero messo insieme i nomi
di Ammaturo e Semerari.

A presentare il professor
Semerari a quelli della banda
della Magliana era stato «lo
zanzarone», Alessandro
D'Ortenzi. A quei ragazzi che
sembravano disposti a tutto il
criminologo «nero» propose un
patto: lui li avrebbe assistiti
con perizie di favore in caso di
arresti, in cambio loro
dovevano piazzare bombe in
giro per Roma e sequestrare le
persone che lui avrebbe
indicato. Abbatino e Selis
risposero che non se ne faceva
niente, ma con Semerari
rimasero in contatto, al punto
che divenne lo psichiatra di
fiducia della banda. Fu a forza
di frequentarlo che si resero
conto di quanto il professore
fosse un doppiogiochista e di
come la sua vita fosse appesa a
un filo.
«Ci eravamo accorti», ha
spiegato Maurizio Abbatino,
«poiché egli non ne faceva
mistero e anzi se ne vantava,
che nell'ambiente della
malavita organizzata giocava
spavaldamente su più tavoli. In
particolare, avendo appreso da
lui stesso che forniva
prestazioni professionali tanto
alla N.C.O. di Raffaele Cutolo
quanto alla Nuova Famiglia di
Umberto Ammaturo,
commentammo più volte fra noi
che lo stesso correva grossi
rischi.» (14)
Avevano visto giusto, quelli
della Magliana, e nella trappola
in cui rischiava di cadere
Semerari era finito prima di lui
il suo amico e collaboratore
Antonio Mottola. Uno dei
napoletani a Roma, Corrado
Iacolare, ne raccontò i
particolari a suo cugino
acquisito Claudio Sicilia, il
quale li svelerà ai giudici
cinque anni più tardi: «Iacolare
mi disse che il Mottola curava
delle perizie per Umberto
Ammaturo, che era a capo della
Nuova Famiglia e quindi in
contrasto con Raffaele Cutolo.
Poiché il Mottola era riuscito in
base a delle perizie da lui
redatte a far scarcerare
l'Ammaturo, o comunque a
rendere prossima la
scarcerazione dello stesso, per
semplice vendetta e per fare in
modo di togliere all'Ammaturo
futuri appoggi venne deciso, in
una riunione tenutasi a Roma
in un negozio di mobili di
proprietà di un certo Giorgi, di
eliminare il Mottola.
«Il Mottola», continua
Sicilia, «un tempo era stato
vicino a un altro medico legale,
il professor Semerari.
Quest'ultimo poi si avvicinò al
clan di Cutolo. Iacolare mi disse
che a compiere l'omicidio, oltre
a lui stesso, erano stati
Pasquale Scotti più altre
persone. Sapendo che il
Mottola avrebbe seguito senza
fare alcuna difficoltà qualsiasi
persona che si fosse presentata
a nome di Ammaturo, loro
dissero così e Mottola fece
entrare in casa senza difficoltà
lo Iacolare e gli altri. Il Mottola
iniziò a capire qualche cosa
quando il gruppo era già sceso
in strada o stava uscendo di
casa. Uno del gruppo si era
impossessato, dentro
l'abitazione, di una pistola con
relative munizioni, sottraendola
da una collezione di armi del
Mottola, o comunque da un
posto dove questi teneva le
armi: come venne sottolineato
dallo Iacolare, il Mottola venne
ucciso con la sua stessa
pistola.» (15)
Il riavvicinamento a Cutolo
dopo l'assassinio del suo amico
Mottola, non servì a salvare
Aldo Semerari. La sua testa,
staccata di netto, fu trovata in
una bacinella di plastica sul
sedile anteriore di una Fiat 128
parcheggiata in una strada del
centro di Ottaviano, il primo
aprile 1982. Il corpo del
criminologo, mani e piedi
legati, era chiuso dentro il
portabagagli.

***
3. FUOCO SUI
«PESCIAROLI».

Un sabato sera, il 13
settembre 1980, Franco
Giuseppucci si presentò
all'ospedale Nuovo Regina
Margherita con una pallottola
in corpo. Era solo, aveva
guidato la Renault 5 per
qualche centinaio di metri, dal
luogo in cui gli avevano sparato
fino al pronto soccorso. Alle
20.05 entrò in sala operatoria.
«Ferita d'arma da fuoco del
torace, lateralmente a
sinistra», scrisse il chirurgo di
guardia sul foglio dell'ospedale,
con l'aggiunta di «prognosi
riservata».
Il «negro» morì sotto i ferri
mezz'ora più tardi. Addosso
non aveva documenti, ma un
milione e trecentomila lire in
banconote, due milioni e mezzo
in assegni, il Rolex d'oro, la
catenina con la medaglietta, un
anello con brillante e un mazzo
di chiavi. Lo identificarono i
poliziotti del commissariato
Trastevere chiamati dagli
infermieri. Franco Giuseppucci,
infatti, aveva incontrato il suo
assassino in una piazza di
Trastevere.
Era con qualche amico e il
fratello Augusto - di sette anni
più giovane e di mestiere
fornaio, lo stesso che Franco
aveva fatto un tempo e che gli
era valso il soprannome di
«fornaretto» prima che
cominciassero a chiamarlo
«negro» - nella sala biliardo del
bar Castelletti, a piazza San
Cosimato. Stavano giocando dal
pomeriggio, e ormai s'era fatta
sera quando Giuseppucci salutò
la compagnia dicendo che
doveva andare a Tor di Valle:
voleva controllare come
andavano le cose e fare
qualche puntata. Uscì dal bar e
raggiunse la Renault 5 di sua
moglie; lui aveva una BMW, ma
gliel'avevano sequestrata. Girò
la chiave nello sportello, l'aprì e
s'infilò nell'abitacolo. Mentre
stava accendendo il motore
comparve un uomo sul
marciapiede, dal lato sinistro
della macchina: era giovane e
magro, con i capelli biondi e
lunghi che sembravano di una
parrucca, un paio di occhiali
scuri. Non si sa se Franco lo
guardò in faccia mentre il
ragazzo gli sparò il primo colpo
fracassando il finestrino e
colpendolo su un fianco; si sa
invece che ebbe la prontezza di
fare retromarcia, uscire dal
parcheggio e partire a forte
velocità.
Il killer non fece in tempo a
esplodere il secondo colpo,
corse a piedi nella stessa
direzione in cui era andata la
sua vittima, e arrivato alla fine
della piazza salì su una moto
Honda guidata dal suo
complice. Provarono a inseguire
la Renault 5 di Giuseppucci, ma
quando questa si fermò davanti
all'ospedale l'abbandonarono e
proseguirono la loro fuga.
L'esecuzione non era certo
stata perfetta, ma il «negro»
morì ugualmente, in sala
operatoria anziché in strada.
L'ispiratore della banda della
Magliana, visto che non si
poteva parlare di capi in quel
piccolo esercito di criminali
allergici a qualsiasi ordine, era
stato fatto fuori. Aveva
trentatré anni, l'ultimo
compleanno l'aveva passato in
galera, dov'era finito con
l'accusa di ricettazione. A
gennaio dell'80, infatti, gli
avevano trovato dei travellers'
cheque rubati in una rapina
alla Chase Manhattan Bank di
Roma compiuta da un
commando di neofascisti.
Coi giovani terroristi neri
Giuseppucci era in buoni
rapporti, loro gli portavano i
proventi di furti e rapine e lui
glieli riciclava. Utilizzava quei
ragazzi, di tanto in tanto,
anche per fare qualche
«lavoretto», l'avvertimento a
qualcuno che non si decideva a
pagare i debiti di gioco o gli
interessi sui soldi prestati «a
strozzo», oppure l'eliminazione
di chi non voleva piegarsi alle
leggi dell'estorsione. Del resto
lui, Franco Giuseppucci detto
«er negro», era e si dichiarava
un fascista: a casa aveva dei
dischi con le registrazioni dei
discorsi di Mussolini, medaglie
e gagliardetti con le effigi del
Ventennio. «Tuttavia questa
sua infatuazione», ricorderà
Abbatino, che gli fu amico fino
all'ultimo, «non ne
condizionava minimamente
l'azione, né lo conduceva a
perdere di vista gli interessi e
gli scopi della banda che erano
tutt'altro che politici.» (1)

Interrogare la moglie di un
pregiudicato morto ammazzato,
il più delle volte, serve solo a
togliersi un pensiero. Bisogna
farlo e si fa, si comincia sempre
dai parenti stretti della vittima,
ma quasi mai se ne cava
qualcosa di utile. Di solito
dicono che il marito era una
persona tranquilla, che pensava
solo alla famiglia e al lavoro.
Oppure che i rapporti erano
talmente rarefatti che
dell'attività del loro uomo non
sanno niente. In entrambi i casi
il risultato è lo stesso, e finisce
per essere trascritto nelle
ultime righe del verbale: «Non
ho altro da aggiungere e non so
chi possa aver ucciso mio
marito, né chi aveva interesse
a volerne la morte».
Successe anche con la
moglie di Franco Giuseppucci,
Patrizia, di dodici anni più
giovane del marito e madre di
Maurizio, un bambino che
aveva due anni quando il
«negro», suo padre, morì
assassinato da un killer dai
capelli biondi.
Patrizia fu avvisata con una
telefonata alle nove e mezza di
quel sabato sera, le dissero di
andare subito all'ospedale
Nuovo Regina Margherita
perché Franco aveva avuto un
incidente. Si fece
accompagnare dalla madre e
dal cognato e lì, riferì al
poliziotto che l'interrogò un'ora
più tardi negli uffici della
Questura, «ho appreso che mio
marito era morto, in quanto gli
avevano sparato.» Per il resto,
spiegò che con Franco aveva
ormai molto poco in comune. Si
vedevano di rado, lui rincasava
sempre più tardi e addirittura
«saltuariamente», una cosa che
Patrizia non poteva più
sopportare: litigavano quasi
ogni volta si trovavano faccia a
faccia. Da qualche mese s'erano
trasferiti a vivere dalla madre
di lei, sempre alla Magliana, e
forse anche per questo lui in
casa non voleva rimanere.
Fatto sta che non ci rimaneva,
e che cosa facesse fuori, lei,
Patrizia, disse di non saperlo.
«Suo marito che lavoro
faceva?» chiese il poliziotto. E
Patrizia, innocentemente: «A
quanto ne so lavorava presso il
forno di suo padre». Il
poliziotto insisté: «Ma come
passava il tempo? Aveva degli
amici? Chi erano? Si
incontravano a casa vostra? Di
che cosa parlavano?» Patrizia si
tenne sul vago, chissà se per
scelta o perché realmente non
ne sapeva di più: «So che mio
marito aveva molti amici, che
io conosco soltanto di vista,
non sono in grado di dire i
nomi. Da loro riceveva spesso
telefonate, oppure venivano a
citofonargli sotto casa».
Davanti a lei Franco non aveva
mai combinato affari né
organizzato qualcosa di losco.
«E delle corse di cavalli, delle
scommesse all'ippodromo, non
sa niente?» tentò ancora il
poliziotto. «Mio marito era un
frequentatore degli ippodromi
della capitale», rispose
telegrafica la signora
Giuseppucci, ventun'anni,
vedova da poco più di due ore,
«presso i quali mi ha condotto
alcune volte.»
Provando a scandagliare
nella vita domestica andò
appena un po' meglio. Negli
ultimi tre giorni - raccontò
Patrizia -, dopo l'ennesima lite,
Franco era scomparso. Tornò a
casa soltanto il venerdì sera,
verso le nove e mezza. Cenò e
andò a dormire. La mattina
dopo uscì intorno alle dieci, e
salutò la moglie dicendole che
sarebbe passato a prenderla in
serata, per portarla fuori.
Invece le cose erano andate
diversamente, e lei lo aveva
rivisto cadavere all'ospedale.
Anche coloro che erano stati
con Giuseppucci al biliardo del
bar Castelletti fino a pochi
attimi prima che gli sparassero
- tutti pregiudicati o con varie
denunce a carico - non furono
di grande aiuto con le loro
testimonianze. Augusto, il
fratello del «negro», disse che
con Franco non si incontrava
spesso, «mi risulta che era un
assiduo frequentatore e
giocatore alle corse dei cavalli e
per questo motivo era solito
portare molto denaro liquido
con sé, ma ignoro quale era la
sua vera attività perché lui non
mi ha mai riferito alcunché
circa le sue amicizie.»
Vide mentre gli sparavano, e
riferì che dopo aver assistito
all'agguato lui e i suoi tre amici
montarono in macchina e si
gettarono all'inseguimento
della moto col killer a bordo, le
tennero dietro per un tratto di
strada, ma poi la persero nel
traffico. Gli altri amici, invece,
dissero cose diverse. Uno
raccontò che dopo lo sparo a
Franco, visti andar via sia la
vittima che il sicario, il gruppo
decise che «per non avere noie
con la polizia» era meglio
cambiare aria: salirono sulla
BMW di Augusto Giuseppucci, si
fecero un giretto e tornarono in
piazza mezz'ora dopo; lì
trovarono i carabinieri che li
accompagnarono in caserma.
Un altro, Giorgio Paradisi,
negò addirittura di aver visto
sparare a Giuseppucci.
«Eravamo sulla BMW di
Augusto», disse al carabiniere
che l'interrogava, «e ci
stavamo facendo una
passeggiata in macchina, siamo
arrivati a piazza San Cosimato
e voi ci avete fermato.» «A noi
risulta», lo interruppe
l'ufficiale, «che tu e i tuoi amici
eravate davanti al bar e avete
visto sparare. E' vero?» «No, le
cose stanno come le ho detto»,
rispose sicuro Paradisi,
proveniente pure lui dalla
Magliana. «Ci risulta che dopo
il colpo d'arma da fuoco siete
partiti dalla piazza a forte
velocità, e siete tornati dopo
mezz'ora», provò a incalzare il
carabiniere. «No», ribatté
quello impassibile, «ho già
detto che ci siamo fatti un giro
per Roma. Guidavo io, e
durante la passeggiata ho
accelerato l'andatura perché a
me piace guidare veloce.»
«Conosci Franco Giuseppucci?
Che rapporti c'erano tra voi?»
«Lo conosco da molti anni,
abbiamo commesso alcuni reati
insieme e sono stato anche
arrestato con lui. L'ultima volta
che l'ho visto è stata due giorni
fa.»

In Questura, saputo che il


cadavere all'ospedale Nuovo
Regina Margherita era di
Franco Giuseppucci detto «er
negro», decisero di cominciare
le indagini dall'ippodromo di
Tor di Valle. E verso le dieci e
mezza di quel sabato sera
ancora estivo il brigadiere di
Pubblica Sicurezza Emilio
Verrillo girava per le tribune e i
bar in cerca di notizie sul morto
e di indizi sugli assassini.
«Mentre mi trovavo
all'interno dell'ippodromo»,
scriverà il brigadiere nella sua
relazione di servizio, dalla
prosa tipica quanto incerta,
«notavo il noto pregiudicato
Proietti Fernando parlare con
alcuni giocatori clandestini e
dopo poco si allontanava con
fare sospetto, e cioè guardando
a destra e a sinistra in mezzo
alla folla dei giocatori. Nel
mentre si allontanava lo
scrivente non lo perdeva mai di
vista e nel contempo chiedevo
a un mio confidente che cosa
stava cercando il Proietti, il
confidente mi faceva presente
che stava cercando a una
persona soprannominata
'Mimmo il biondo' amico intimo
del Giuseppucci, non
trovandolo stava andando via.»
Il brigadiere Verrillo
continuò a seguire Fernando
Proietti, e vide che si
avvicinava a una Giulietta col
motore acceso. «Quella
persona non c'è», disse Proietti
al guidatore, e fece per salire in
macchina.
Verrillo, insieme ad altri due
poliziotti, decise di bloccare
quei due tipi sospetti, e «all'alt
intimato dal sottufficiale, il
guidatore faceva la mossa di
mettere la mano alla cintola dei
pantaloni come per estrarre un
pistola ma veniva prontamente
immobilizzato... Entrambi gli
individui venivano trovati in
possesso di pistole automatiche
con il colpo in canna, e
dichiarati in arresto. Il giovane
che era alla guida veniva
identificato per il fratello del
Proietti Fernando, Maurizio,
anch'egli in oggetto indicato.»
Li portarono in ufficio, dove
gli archivi erano pieni di notizie
sul clan Proietti, «noti
malavitosi della capitale legati
al defunto Nicolini Franco». Era
un gruppo di fratelli, cugini e
affini venuti su dai banchi dei
mercati rionali di Monteverde,
a piazza San Giovanni di Dio e
in via Donna Olimpia,
«pesciaroli» e gestori di case da
gioco, ben inseriti nel giro delle
scommesse clandestine. Un
gruppo simile per struttura a
quelli della 'ndrangheta
calabrese, dove sono quasi tutti
parenti.
Il capostipite Giovanni
Proietti, classe 1909, titolare
del banco del pesce a San
Giovanni di Dio, la piazza dove
abitava «Franchino er
criminale», aveva undici figli,
tra cui Fernando,
soprannominato «il pugile»,
Maurizio detto «il pescetto»,
Mario chiamato «palle d'oro»,
ed Enrico. Un altro Enrico
Proietti, detto «er cane», era
figlio di Mariano, fratello di
Giovanni, e i suoi figli si
chiamavano Orazio e Mariano,
lo stesso nome del nonno.
Secondo polizia e carabinieri
erano tutti esponenti di un clan
che dopo l'omicidio di Nicolini
contendeva il controllo delle
scommesse clandestine negli
ippodromi al gruppo di Franco
Giuseppucci. Tra i figli di
Giovanni Proietti, Fernando,
Maurizio e Mario erano già stati
denunciati per furto,
ricettazione, oltraggio, lesioni e
guida senza patente.
Addosso a Fernando Proietti,
in Questura, trovarono la
chiave di una moto Honda. Lui
disse che quella moto non ce
l'aveva più da un anno. Sentì i
poliziotti che parlavano della
prova del guanto di paraffina, e
allora, per mettere le mani
avanti, raccontò che mentre
veniva in macchina da Ostia a
Roma con suo fratello Maurizio,
aveva sparato un paio di colpi
di pistola, senza però spiegare
dove e perché. Ma Maurizio,
interrogato su questo punto e
ignaro di quello che aveva
detto Fernando, negò che suo
fratello avesse sparato.
Fernando era sposato da
diciannove anni con Rosanna,
dalla quale aveva avuto tre
bambini. Rosanna, secondo
copione, disse alla polizia che i
rapporti col marito «negli ultimi
tempi si erano un po'
raffreddati», e che «a seguito
dell'incompatibilità di carattere
lui in casa ci veniva
raramente.» Lei l'aveva visto
l'ultima volta sabato mattina,
era uscito di casa dicendo che
andava a Ostia, poi le telefonò
all'ora di pranzo avvisandola
che avrebbe mangiato dalla
madre. «Non ho altro da
aggiungere.»
La moglie di Maurizio,
Stefania, riferì invece che
sabato 13 suo marito aveva
pranzato a casa, poi s'era
messo a letto e aveva dormito
fino alle venti. La serata
l'avevano trascorsa a Ostia, a
casa di papà Giovanni, e verso
le dieci e mezza Fernando e
Maurizio erano usciti senza dire
dove andavano.
Dagli informatori della
Squadra Mobile, il giorno dopo
l'omicidio Giuseppucci arrivò
una «soffiata»: a sparare col
silenziatore al «negro» era
stato Fernando Proietti, «il
pugile», mascherato con una
parrucca bionda, mentre
l'Honda era guidata da suo
fratello Mario, «palle d'oro». La
pistola l'avevano nascosta a
Ostia, sotto terra. Dalla
perquisizione nel garage del
«pugile», oltre a pistole,
proiettili e passamontagna,
saltarono fuori una moto Honda
500, una parrucca bionda «tipo
capellone» e un paio di occhiali
da sci, mentre a Ostia, accanto
a una baracca vicina alla casa
del Proietti, fu trovata una buca
nella sabbia profonda circa
trenta centimetri, «coi bordi
ancora umidi, come se la stessa
fosse stata scavata poco
prima».
Il 18 settembre, il
vicedirigente della Squadra
Mobile Luigi De Sena consegnò
al magistrato un rapporto
giudiziario di denuncia contro
Proietti Fernando, «detenuto»,
e Proietti Mario, «irreperibile»,
entrambi «gravemente
indiziati, in concorso tra loro, di
omicidio volontario in persona
di Giuseppucci Franco.» Il piano
dei due fratelli, secondo il
rapporto, oltre all'eliminazione
del «negro» prevedeva anche
l'esecuzione di Domenico
Zumpano, detto «Mimmo il
biondo», «amico intimo e
assiduo accompagnatore del
Giuseppucci, in compagnia del
quale era stato da ultimo
controllato nei pressi del bar di
via Enrico Fermi, altro punto di
riunione della malavita di San
Paolo.» Fernando Proietti era
andato a cercarlo a Tor di Valle
per ammazzarlo, ma non
l'aveva trovato.

E' una storia quasi


monotona, tutta scandita da
piombo e sangue, quella della
vendetta dei «bravi ragazzi»
della Magliana contro il clan dei
Proietti, colpevole di aver
ammazzato uno dei leader della
banda. Un programma di morte
che sotto la parola d'ordine
«annientare i 'pesciaroli'»
cementò l'unione tra gli ex
complici di Giuseppucci e un
altro gruppo di amici del
«negro» guidato da Enrico
«Renatino» De Pedis e Danilo
Abbruciati, rapinatori e
trafficanti già collaudati,
provenienti dal Testaccio. Una
vendetta portata avanti con
puntiglio e senza scrupoli per
due anni, che non ha
risparmiato parenti, amici e
anche persone che non
c'entravano niente, del tutto
ignare della faida che si stava
consumando.
La rappresaglia cominciò
proprio con un errore, uno
scambio di persona, una
settimana dopo l'omicidio di
Giuseppucci. Il presunto killer
del «negro», Fernando Proietti,
stava in galera; suo fratello
Mario - che più tardi sarebbe
riuscito a provare la propria
estraneità al delitto: la moto
non era sua, disse, e la
parrucca non proveniva dal
guardaroba della moglie - si
nascondeva chissà dove dalla
polizia e dagli amici del morto;
un altro dei fratelli Proietti,
Enrico, era finito pure lui in
carcere. Quelli della banda -
Abbatino, Toscano, Colafigli e
altri ancora - avevano allora
deciso di prendersela con l'altro
Enrico Proietti, «er cane»,
cugino di Fernando. Avevano
saputo che frequentava una
casa tra Ostia e Castelfusano;
uno di loro aveva visto la sua
macchina parcheggiata fuori
dalla villa. La sera di venerdì
19 settembre 1980 si
appostarono pronti a fare
fuoco.
«Intorno alle due di notte»,
racconterà Maurizio Abbatino,
«vedemmo uscire una Fiat
Ritmo dalla villa. La
inseguimmo e dopo duecento o
trecento metri la superammo:
eravamo muniti di un fucile a
pompa, un mitra Mab e una
pistola calibro 9 con
silenziatore. Avevamo anche
una bomba a mano. Il
silenziatore della calibro 9,
dopo due o tre colpi, si ruppe. Il
conducente della Fiat Ritmo
fece una rapidissima
retromarcia, riportandosi
davanti al cancello della villa,
balzò fuori dall'auto e si gettò
in un burrone, mentre l'altro
passeggero, che non avevamo
capito si trattasse di una
donna, restò 'accucciato' nella
macchina. Io mi trovavo alla
guida della nostra autovettura,
gli altri spararono tutti:
Colafigli col fucile a pompa
sparò all'interno dell'abitacolo
della Fiat Ritmo.» (2)
Dentro quella macchina,
invece di Enrico Proietti,
c'erano l'avvocato Pierluigi
Parente, ventotto anni, figlio di
un industriale, e la fidanzata
Nicoletta Marchesi, che nulla
sapevano della banda della
Magliana, del clan Proietti e
della guerra tra i due gruppi. Il
ragazzo fece in tempo a
scappare, ma Nicoletta rimase
gravemente ferita. Fu uno
sbaglio dei sicari, e ci vollero
ventriquattr'ore d'indagini per
capirlo. I giornali, il giorno
dopo l'agguato, parlarono di un
fallito sequestro di persona, e
qualcuno ipotizzò addirittura
una vendetta politica, anche se
il giovane Parente insisteva a
negare di essersi mai
interessato di partiti e
movimenti studenteschi.
Passò un mese, e quelli della
Magliana ci riprovarono.
Stavolta agirono nel loro
territorio, dove abitava pure
«er cane», e non sbagliarono
obiettivo. Enrico Proietti era in
strada con la moglie, vicino alla
sua Mercedes parcheggiata
davanti a un negozio di articoli
sportivi. Stava per salire in
macchina quando una Fiat 132
lo affiancò e partirono alcuni
colpi di pistola e di fucile. Il
«cane» capì al volo quello che
stava succedendo: «Infami, con
me ve la prendete!» gridò a chi
gli stava sparando, e si buttò a
terra per ripararsi dietro le
macchine. Un pallettone gli
trapassò un polmone, ma riuscì
a salvarsi.
Uno dei sicari era Maurizio
Abbatino: «Poiché Enzo
Mastropietro non era stato
tempestivo nell'esplodere i colpi
di fucile, così da non colpire in
pieno il Proietti, ricordo che mi
arrabbiai per questo, anche
perché essendo molto
conosciuti nella zona non
potevamo scendere
dall'autovettura per finire il
Proietti, come invece è
avvenuto in altri casi, senza
correre il rischio di essere
riconosciuti dalle persone che si
trovavano sul posto». (3)
Abbatino e i suoi sapevano
che la loro vittima li aveva
riconosciuti, ma un loro amico,
infermiere dell'ospedale dove
Proietti fu ricoverato, disse che
potevano stare tranquilli, il
«cane» si era trasformato in un
pesce, e alla polizia non aveva
detto niente. Qualche tempo
dopo, sempre in ospedale,
Enrico Proietti incontrò Claudio
Sicilia, arrestato e piantonato
dai poliziotti. I due non si
conoscevano, ma ciascuno
sapeva chi era l'altro. Una sera
Proietti si presentò, guardò per
un po' la televisione nella
stanza di Sicilia, poi cominciò a
parlare. «Mi disse che aveva
riconosciuto Abbatino, Toscano
e Mastropietro», ricorderà
Sicilia, «che non aveva fatto i
loro nomi per paura e che non
riteneva di meritare un
trattamento del genere di
quello subito, in quanto
estraneo alle attività dei cugini.
Il Proietti aveva molta paura,
anche di uscire di casa, e mi
chiese in sostanza di parlare
con le persone che avevano
attentato alla sua vita affinché
lo lasciassero perdere.»
Non disse niente sui suoi
aggressori nemmeno Mario
Proietti, «palle d'oro», quello
che secondo i confidenti della
polizia guidava la moto quando
fu ammazzato Giuseppucci. I
vendicatori del «negro»
riuscirono a individuarlo a
dicembre, avevano saputo che
frequentava una bisca dalle
parti di Ponte Milvo. La notte
del 12 dicembre, verso l'una e
trenta, la sua Renault 5 fu
tamponata sul lungotevere da
un'auto, dalla quale partirono
alcuni colpi di pistola. «Palle
d'oro» riuscì a mantenere il
controllo della sua macchina,
ma quelli continuavano a
sparare e lui si buttò da un
lato, infilandosi tra i cespugli e
poi nascondendosi tra i rottami
di uno «sfasciacarrozze».
Rimase acquattato per un
paio d'ore, poi si decise a venir
fuori e a suonare al citofono di
una casa lì vicino. Era ferito a
una mano, gli abitanti lo fecero
salire e chiamarono il 113. Ai
poliziotti che lo portarono negli
uffici del secondo distretto
raccontò quello che era
successo, e alla fine mentì:
«Ignoro i motivi dell'insano
gesto degli sconosciuti, anche
perché lavoro in proprio, ho un
banco di vendita del pesce in
piazza San Giovanni di Dio,
non mi occupo di politica e né
tantomeno ho nemici». Il
vicequestore che l'interrogava
non gli credette e «ritenuto che
trattavasi di un regolamento di
conti tra pregiudicati, e che il
Proietti, pur conoscendoli,
aveva tutto l'interesse che
questi rimanessero
sconosciuti», lo denunciò per
favoreggiamento personale,
oltre che per l'immancabile
guida senza patente. Accuse
che non dovettero
impressionare troppo un tipo
come «palle d'oro», e che
presto sarebbero svanite nel
nulla.

Era un venerdì pomeriggio


come tanti altri, un po' freddo,
il 23 gennaio 1981. Claudio
Sicilia era sceso al bar di via
Chiabrera per prendere un
caffè dopo il pranzo, poi era
risalito a casa. Intorno alle
quattro suonò alla porta un
amico, gli consegnò una borsa
di plastica. «Tienila tu,
ripassiamo a prenderla più
tardi.» «Perché, che cosa c'è?»
«Niente, un giubbotto e
qualche documento.» C'erano
le carte d'identità di Maurizio
Abbatino, Edoardo Toscano,
Enrico De Pedis e qualche altro.
«Ma che devono fare?» «Un
servizio, vanno a trovare un
amico dei Proietti.»
A quell'ora Orazio Benedetti,
per gli amici «Orazietto»,
trentotto anni e un lavoro
saltuario da giornalaio
all'edicola della moglie,
pregiudicato dalle compagnie
considerate pericolose, collo
taurino e orecchie un po' a
sventola, era già arrivato nella
sala corse di via Rubicone, al
quartiere Salario. Lui era di
un'altra zona, abitava dalle
parti di Monteverde, ma in via
Rubicone andava quasi tutti i
pomeriggi. Era da un po' che
non si faceva vedere negli
ippodromi, preferiva le agenzie
ippiche, meglio se lontane dal
suo quartiere. Quella al Salario
era una delle più accoglienti e
attrezzate di Roma: al centro il
bancone per le puntate, sospesi
in aria alcuni televisori con le
immagini delle piste,
tutt'intorno quattro file di
poltroncine rosse un po'
sporche e con qualche
bruciatura di sigaretta.
«Orazietto» era conosciuto
nel mondo dei cavalli e delle
scommesse clandestine. Era un
«picchettaro», un tempo al
servizio di Umberto Cappellari,
assassinato nel '75, quaranta
giorni dopo l'omicidio dell'altro
boss delle bische clandestine,
Ettore Tabarrani, suo rivale.
Adesso sembrava essersi messo
in proprio, e coi picchetti
guadagnava bene, a giudicare
da come vestiva e dalle
macchine che guidava: tra
cavalli e totonero, quello sulle
partite di calcio, gestiva un giro
d'affari da cinque o sei milioni a
settimana. Ma era «amico dei
Proietti» - uno dei «pesciaroli»
aveva perfino fatto il compare
al battesimo di sua figlia - e il
suo destino segnato.
Quel venerdì Benedetti
aveva puntato sulla «tris» di
Tor di Valle, partenza prevista
alle ore diciassette, fatturato
delle scommesse «in nero» su
quella corsa calcolato intorno ai
due miliardi. Lui aveva fatto la
sua giocata, chissà se era
quella giusta, l'accoppiata
vincente fu Withers-Spago: non
fece in tempo a sapere come gli
era andata.
«Orazietto» s'era appena
sistemato su una delle
poltroncine rosse, quando nella
sala corse entrò un tipo sui
trent'anni, impermeabile beige
tipo Burberrys', occhiali scuri e
uno «zuccotto» di lana calato
sulla fronte. Cominciò a girare
per la sala guardando in faccia
le persone, si avvicinò a uno
che da sotto l'impermeabile
vide spuntare la canna di una
pistola. Quello sbiancò in viso,
il killer ebbe un attimo di
esitazione, poi si girò e incrociò
il volto di «Orazietto», ancora
seduto sulla sua poltroncina.
L'uomo con lo «zuccotto» e gli
occhiali scuri fece qualche
passo verso di lui, gli si parò
davanti e sparò quattro colpi,
uno dietro l'altro.
A ogni proiettile che lo
colpiva il corpo di Benedetti
sussultava come fosse un
manichino di stracci, ma la
vittima ebbe ugualmente la
forza di alzarsi e rincorrere il
suo assassino che aveva girato
le spalle e stava scappando.
Cadde a terra qualche metro
più in là, stroncato dalle
pallottole che l'avevano colpito
alla gamba, al torace, al collo e
al mento. Lo portarono al
Policlinico, morì due ore più
tardi. Addosso al cadavere
trovarono, tra l'altro, una
bustina di polvere bianca,
eroina o cocaina, e un lungo
sigaro avana.
Interrogata in Questura, la
moglie Nadia ripeté il solito
ritornello: «Mio marito non mi
ha mai messo al corrente di
quello che faceva e su che cosa
scommettesse, in questo fatto
egli era molto riservato. Sono a
conoscenza che frequentava
amici ma non sono in grado di
fare dei nomi... Non so proprio
chi possa aver ucciso mio
marito e non credo che lui
avesse dei nemici. Egli fino a
qualche tempo fa era piuttosto
irascibile ma non aveva mai
fatto discussioni con
chicchessia...»
La segnalazione che
«Orazietto» si trovava
nell'agenzia di via Rubicone era
arrivata al bar di via Chiabrera,
e il gruppo di fuoco era partito
a bordo di una Kawasaki 1300:
sopra c'erano «Renatino» De
Pedis e Edoardo Toscano, il
killer con l'impermeabile che
aveva una finta tasca da cui si
poteva sparare senza estrarre
la pistola. Fuori, a fare da palo
su una Volkswagen Golf, il suo
amico Abbatino. Quando
tornarono al bar raccontarono
agli amici, tra cui Sicilia, come
era andata. «Toscano disse che
ritornando verso l'uscita della
sala corse, sulle scale, aveva
incontrato una guardia giurata
armata; lui gli aveva puntato
contro la pistola e la guardia
aveva subito alzato le mani.»
(5)
Due giorni dopo gli assassini
organizzarono un pranzo in
onore dell'amico che aveva
fatto la soffiata sul luogo dove
avrebbero trovato «Orazietto».

Via Donna Olimpia è la


strada dove Pier Paolo Pasolini
fece vivere alcuni dei suoi
«Ragazzi di vita», ammassati
con le loro famiglie - madri
sempre in camicia da notte,
padri ubriaconi e nidiate di figli
vestiti di stracci - in casermoni
occupati che sembravano
altissimi, tanto che venivano
chiamati «i Grattacieli». Era il
dopoguerra, e quei palazzi alla
periferia di un quartiere di
periferia apparivano «grandi
come catene di montagne, con
migliaia di finestre, in fila, in
cerchi, in diagonali, sulle
strade, sui cortili, sulle scalette,
a nord, a sud, in pieno sole, in
ombra, chiuse o spalancate,
vuote o sventolanti di bucati,
silenziose o piene della caciara
delle donne o delle lagne dei
ragazzini. Tutt'intorno si
stendevano ancora prati
abbondanti, pieni di gobbe o
ponticelli, zeppi di creature che
giocavano coi zinalini sporchi di
moccio o mezzi nudi». (6)
Trent'anni e più dopo, la
periferia era meno periferia ma
i casermoni ancora gli stessi,
solo assediati da altri ancora
più alti e ancora più abitati, e
anziché prati abbondanti,
tutt'intorno si stendeva altro
asfalto e altro cemento, con le
macchine arrampicate fin sui
marciapiedi e pochi alberi
rimasti a combattere per un po'
d'aria e di sole.
In uno di quei casermoni
costruiti in serie, in via Donna
Olimpia 152, a poca distanza
dal mercato dove avevano il
loro banco di pesce e dalle case
degli altri parenti, si
rifugiavano Maurizio e Mario
Proietti, «il pescetto» e «palle
d'oro». Da cinque mesi, dopo
l'omicidio Giuseppucci e le
prime vendette, avevano
abbandonato le loro case e si
nascondevano in quest'altro
appartamento arredato solo con
brande, un tavolo e qualche
seggiola, fornelletti da
campeggio per una cucina
improvvisata.
Maurizio era stato
scarcerato da poco e Mario era
sfuggito al primo agguato,
quelli della Magliana
continuavano a cercarli.
Girarono a vuoto finché un
allibratore non li informò che i
due Proietti erano rimasti a
vivere a Monteverde.
Cominciarono l'«inchiesta»,
facendo qualche appostamento
in un bar vicino a via Donna
Olimpia. Da lì erano riusciti a
capire che proprio in quella
strada i due fratelli
comparivano spesso,
frequentavano un palazzo che
però non era chiaro quale
fosse. Appostamenti e
pedinamenti, infatti, si
dovevano fare con
circospezione e a distanza, per
non essere scoperti e dover
ingaggiare un conflitto a fuoco
impreparati e in «territorio
nemico». La zona dove
avrebbero dovuto colpire,
comunque, era quella.
Lunedì 16 marzo 1981 -
quando i giornali e la T.V.
ricordavano ancora
l'anniversario del rapimento di
Aldo Moro a opera delle Brigate
Rosse, avvenuto tre anni prima
- Mario e Maurizio Proietti
avevano deciso che la sera
avrebbero portato
nell'appartamento-rifugio
anche le loro famiglie, mogli e
figli che solitamente facevano
la spola tra le varie case. E la
sera arrivò.
Dal solito bar di via
Chiabrera, una volta stabilito
che quella era la data in cui i
due «pesciaroli» dovevano
morire, partirono in cinque, a
bordo di due macchine.
Passarono a ritirare le armi nel
loro deposito, arrivarono a
Monteverde e appena
intercettati i Proietti con le loro
donne si appostarono. Ormai
era buio, all'incirca le otto, e in
via Donna Olimpia, affollata di
gente che tornava a casa dopo
la chiusura dei negozi, non era
difficile seguire e controllare le
vittime senza essere visti. Una
macchina si sistemò all'imbocco
di una strada laterale, un'altra
nella traversa dalla parte
opposta, in modo da bloccare
possibili vie di fuga. I due sicari
prescelti, «Marcellone» Colafigli
e Antonio Mancini - uno di
trentatré anni che chiamavano
«l'accattone», faccia
pasoliniana e un curriculum
criminale di tutto rispetto,
uscito da poco dal carcere e
presentato alla banda da
Edoardo Toscano -, aspettavano
sul marciapiede per vedere da
quale parte sarebbero andati i
due fratelli.
Mario e Maurizio Proietti,
seguiti dalle mogli Maria Laura
e Stefania e dai figli Daniele,
Alessio e Stefano, infilarono un
portone, il numero 152.
Velocissimi, «Marcellone» e
«l'accattone» comparvero alle
loro spalle, il volto coperto dai
passamontagna, e
cominciarono a sparare. Fu un
inferno di fuoco e urla: degli
assassini, delle vittime
predestinate, delle mogli e dei
figli.
Maurizio Proietti venne
colpito, Mario anche, ma uno
dei due ebbe il tempo di reagire
e tirare fuori la rivoltella.
Sparò, e in quello schizzare di
pallottole rimasero feriti pure
Colafigli e Stefania, la moglie di
Maurizio che stava cercando di
scappare con i bambini verso le
scale. L'altra donna, Maria
Laura, tentò invece di bloccare
uno dei due sicari buttandoglisi
addosso, ma ne guadagnò solo
una ferita in testa provocata
dal calcio di una pistola.
Sentite le urla e gli spari,
qualcuno, nel palazzo o per la
strada, chiamò il 113, ma
intanto una Volante del
commissariato Monteverde in
servizio per le vie del quartiere
era già arrivata. L'agente Luigi
Mastroianni scese dall'auto e si
trovò davanti gli assalitori, a
dividerli solo il cancello di ferro
e vetro ormai frantumato che
non si apriva. L'agente sparò e
ferì Mancini a una spalla, ma
un proiettile colpì anche lui. I
due fratelli Proietti erano a
terra nell'androne del palazzo,
feriti come le loro mogli, fuori
c'era la polizia, i due killer non
trovarono di meglio che
afferrare il più piccolo dei
bambini - Daniele, figlio di
Maurizio, quattro anni - per
proteggersi la fuga e scappare
lungo le scale del palazzo. Il
bambino lo abbandonarono un
paio di piani più su.
Arrivarono le ambulanze che
portarono via i feriti, Maurizio
Proietti giunse all'ospedale che
era già morto, nel suo
portafoglio trovarono una foto
ricordo di «Orazietto»
Benedetti. Mario se la cavò
ancora una volta con una ferita
al braccio, le due mogli furono
dichiarate guaribili in pochi
giorni, come l'agente. E mentre
i medici si davano da fare per
prestare le prime cure, il
palazzo di via Donna Olimpia
era stato circondato da
poliziotti e carabinieri, con il
turbinio delle luci blu a
intermittenza e le cellule
fotoelettriche che illuminavano
a giorno, e centinaia di abitanti
del quartiere ammassati contro
le transenne e le auto:
volevano avere tra le mani i
due assassini asserragliati nello
stabile.
All'arrivo della polizia, i loro
complici che aspettavano in
macchina se n'erano andati, e
Mancini e Colafigli, sanguinanti
per le ferite, erano saliti sul
tetto del palazzo e, passando
dalle terrazze, s'erano calati
nell'edificio accanto, riuscendo
a entrare in un appartamento.
Da lì telefonarono al bar e
parlarono con uno degli amici:
«Siamo chiusi in una casa,
chiamate qualche avvocato e
fatelo venire qui, perché sennò
ci ammazzano», disse Mancini.
Gli amici avvisarono gli
avvocati, e gli uomini della
Squadra Mobile che fino a quel
momento avevano perquisito
decine di appartamenti di via
Donna Olimpia in cerca degli
assassini - con caschi, giubbotti
antiproiettile e mitra spianati,
immagine e realtà di uno stato
d'assedio - arrivarono alla casa
dove si erano asserragliati.
Stavano per buttare giù la
porta quando i due killer si
arresero: Mancini gettò la sua
pistola a terra, a Colafigli
dovettero strapparla di mano.
Li portarono in strada per
caricarli sulle macchine, e i
poliziotti faticarono a
trattenere la folla che li voleva
linciare.
«Marcellone», con aria di
sfida, chiese all'agente che gli
sedeva accanto: «E' morto
quell'infame che ha ammazzato
Franco mio?» E quando seppe
con certezza di aver ucciso
Maurizio Proietti sorrise: «L'ho
fatto secco l'infamone, l'ho
fatto secco». Poi Colafigli
spiegò che era stato Maurizio
Proietti il primo a sparare: «Mi
ha preso, e allora io gli ho
scaricato addosso tutti i colpi
che avevo». Un po' sembrava
pieno di cocaina, e un po' si
preparava a sostenere la parte
del pazzo. A Maurizio Abbatino,
uno di quelli che l'aspettavano
in macchina, «Marcellone»
l'aveva confidato prima: «Se mi
prendono comincio a dare di
matto, dico che sento sempre la
voce di un gatto che mi dice di
vendicare Giuseppucci, e di
sognarmi Maurizio Proietti sotto
forma di un pesce». Ci riuscirà,
e dall'accusa di omicidio sarà
prosciolto per «totale infermità
di mente».
Nella strada del delitto, tra
poliziotti e curiosi che
commentavano che se c'erano
di mezzo i Proietti voleva dire
che era «roba pesante, di mala
grossa», c'era pure Giovanni, il
vecchio padre. Lui stava seduto
al bar quando cominciarono gli
spari, e gli amici l'avevano
trattenuto. Ma appena saputo
della morte di Maurizio s'era
lanciato tra la folla: «Datemeli,
datemeli li vojo ammazzà!»
S'era perfino aggrappato allo
sportello aperto di una Volante
per tentare di afferrare gli
assassini di suo figlio.
Riuscirono a portarlo via che si
dimenava, bestemmiava e
gridava vendetta.
Il giorno dopo, ferito e
piantonato in ospedale, Antonio
Mancini diede al fotografo di un
giornale romano la sua
spiegazione dell'omicidio,
attribuendolo a questioni di
gioco: «Io la gente dritta non la
sopporto. Si vinceva ogni morte
di papa e non pagava mai.
Anche per mille lire non
bisogna sgarrare. Mi voleva
fregare, ero andato lì per
parlare, però avevo la pistola
sotto il cappotto. I Proietti? Non
comandano nulla, contano solo
perché sono molti». Poi, senza
rinunciare alla spavalderia del
killer-giustiziere, chiese al
fotografo che continuava a
scattare: «Ma che foto vengono
con quella macchina?» (8)

Nell'elenco dei Proietti da


eliminare ce n'era ancora uno,
Fernando, «il pugile», che s'era
salvato perché arrestato la sera
stessa dell'omicidio
Giuseppucci. Quelli della
Magliana non l'avevano
dimenticato. Anzi, tramite
alcuni avvocati tentarono più
volte di avere notizie sulla data
di scarcerazione di
«quell'infame».
In galera c'era stato pure
qualche scontro tra «il pugile»
e i componenti della banda.
Una volta Proietti aveva
picchiato un amico di
«Renatino» De Pedis e Danilo
Abbruciati. E in un'altra
occasione, a Rebibbia, se l'era
presa con l'assassino di suo
fratello, Marcello Colafigli: gli si
presentò davanti con un
coltello, pronto a colpirlo, ma
non fece in tempo perché fu
bloccato da altre persone che
avevano assistito alla scena.
Erano episodi sufficienti, da
soli, a decretare la morte di
una persona, ma nel caso di
Fernando Proietti,
sopravvissuto per quasi due
anni al suo destino, si trattava
solo di qualche altra goccia
finita nel mare di odio che lo
divideva dalla gang avversaria.
E lui poteva già considerarsi un
cadavere galleggiante in quel
mare.
«Il pugile» lasciò il carcere
un giorno del 1982, e gli amici
di Giuseppucci si misero subito
a cercarlo. Lo scovò, dirà
Abbatino, Giorgio Paradisi,
quello che aveva assistito
personalmente all'omicidio del
«negro» a Trastevere,
nonostante ai carabinieri
l'avesse negato. Era il 30
giugno, Paradisi vide Proietti a
viale Marconi e corse ad
avvisare gli amici che stavano lì
vicino, al bar Fermi. Trovò
Roberto Fittirillo, Edoardo
Toscano e Maurizio Abbatino, il
quale racconterà al magistrato
come morì Fernando Proietti:
«Dato che la notizia ci aveva
colto di sorpresa, decidemmo di
operare immediatamente,
utilizzando la moto di Toscano,
una Honda 750 rossa, alla cui
guida si pose Roberto Fittirillo
con il Toscano a bordo. Sul
luogo il Toscano si avvicinò a
piedi al Proietti, contro il quale
esplose dei colpi con una
calibro 38, unica arma usata
per l'occasione. Sul posto, oltre
alla moto che restò in posizione
defilata, sull'opposta
carreggiata di viale Marconi, si
trovava, a piedi, il Paradisi,
mentre io ero rimasto ad
attenderli al bar Fermi dove
tornarono più tardi. Il Paradisi,
tornato prima degli altri, mi
informò che anche il Proietti
era armato, ma non era riuscito
a usare l'arma di cui
disponeva».
Il conto di sangue tra la
banda della Magliana e il clan
dei «pesciaroli» s'era chiuso
con cinque proiettili calibro
38/357 Magnum che avevano
messo fine all'esistenza del
«pugile». Ma c'era stato
qualcun altro, in quel periodo,
che se l'era presa coi Proietti,
sparando sull'altro ramo della
famiglia, quello di Enrico detto
«er cane», ferito nella vendetta
per l'omicidio di Giuseppucci
ma poi abbandonato a se stesso
e sopravvissuto alla
carneficina.
I figli del «cane» erano
rimasti invischiati in un traffico
di droga che aveva i suoi
terminali nelle bische
clandestine di Ostia. Uno,
Orazio, venne ferito pochi
giorni prima del suo ventesimo
compleanno, la sera del 31
ottobre 1980: gli spararono al
Lido, lo colpirono a un braccio e
si salvò. Qualche tempo dopo fu
trovato morto per un'overdose
di eroina. L'altro, Mariano,
ventiquattro anni, lo
ammazzarono a colpi di
revolver in un circolo ricreativo
di Ostia due anni più tardi, il 14
dicembre dell'82.
Per polizia e carabinieri
c'erano pochi dubbi, quelle due
azioni rientravano nella
rappresaglia scatenata contro i
Proietti dagli amici di Franco
Giuseppucci. Invece non era
così, e il risultato di quelle due
sparatorie fu un altro cadavere,
trovato dentro un'auto sul
lungotevere, dalle parti del
cinodromo: il morto si
chiamava Daniele Caruso,
trentotto anni, nato a Torino e
residente a Ostia Lido, sposato
e padre di due figli, ex
impiegato del catasto divenuto
trafficante di droga, precedenti
penali per rapina e furto. Gli
avevano tagliato la gola,
finendolo con una dozzina di
coltellate, condannato a morte
perché colpevole dell'omicidio
di Mariano Proietti. Ma per uno
dei paradossi del crimine, a
emettere il verdetto e
giustiziarlo non furono quelli
del clan Proietti, bensì i loro
avversari e sterminatori: la
banda della Magliana.
L'omicidio del giovane
Proietti, spiegherà Maurizio
Abbatino dieci anni dopo, «ci
disturbò alquanto, perché
avrebbe potuto essere
ricollegato a noi in quanto già
autori dell'attentato nei
confronti del padre Enrico, e
anche perché le caratteristiche
fisiche dell'autore erano simili a
quelle di Edoardo Toscano. Ci
muovemmo per scoprire chi
fosse l'autore, e attraverso
informazioni che riuscimmo a
raccogliere potemmo stabilire
che il delitto era maturato
nell'ambito del commercio di
stupefacenti nella zona di
Ostia, e che l'autore era stato
appunto Caruso.
Conseguentemente decidemmo
che quest'ultimo dovesse
morire.» (10)
La vittima fu portata al
macello da un suo
inconsapevole amico, al quale
quelli della Magliana avevano
proposto un incontro per
trattare una partita di droga. I
due arrivarono al bar di via
Chiabrera la sera del 22
gennaio 1983, l'amico rimase a
chiacchierare nel locale,
Daniele Caruso invece fu
invitato a fare un giro in
macchina. Con lui salirono sulla
Giulietta Edoardo Toscano e
Claudio Sicilia, su una 127
rubata li seguirono Maurizio
Abbatino e un altro della
banda. Passò circa un'ora, e al
bar tornarono, con la 127,
soltanto Abbatino, Toscano e
Sicilia; con loro avevano un
fagotto, qualcosa che
somigliava a un indumento
sporco di sangue. Caruso non
c'era e il suo amico, che senza
saperlo l'aveva consegnato ai
carnefici, chiese dove fosse
finito. Per tutti rispose Edoardo
Toscano, con un ghigno: «Se
n'è ito», se n'è andato. L'amico
insisteva, e Toscano provò a
essere più chiaro: «L'abbiamo
parcheggiato».
Prima avevano provato a
strangolarlo, ma siccome quello
si dimenava e non moriva, lo
dovettero ammazzare a
coltellate: avevano pensato a
ogni evenienza, e s'erano
portati un coltello da caccia, la
lama lunga almeno venti
centimetri. Non sarebbe stata
un'esecuzione difficile visto che
la vittima doveva essere
attirata in una trappola, e non
valeva la pena usare una
pistola della quale poi
avrebbero dovuto sbarazzarsi.
Sarebbe stato uno spreco
inutile.
L'esecuzione dell'ex
impiegato del catasto
precipitato nel gorgo della
malavita è descritta nel
racconto di Abbatino, reso
ancora più gelido dal linguaggio
dei verbali d'interrogatorio:
«Giunti in una zona defilata,
nei pressi del cinodromo, l'auto
del Caruso si fermò, e Sicilia,
munito di un filo elettrico o di
una calza da donna, tentò lo
strangolamento. Poiché si
trattava di operazione difficile
da eseguire stante la violenta
reazione della vittima,
intervenne il Toscano, il quale
finì il Caruso col coltello...
Tornati al bar di via Chiabrera
pensammo fosse il caso di
distruggere la Fiat 127,
pertanto incaricammo Claudio
Sicilia e Gianfranco Sestili di
incendiare la macchina». (11)
«Delitto al cinodromo»,
titolò qualche giornale
riportando la notizia della
morte di Daniele Caruso. In
realtà il cadavere era stato
trovato a qualche centinaio di
metri dalle piste per le corse
dei cani, ma agli organizzatori
delle gare cominciarono ad
arrivare telefonate allarmanti
dei frequentatori. «Clienti
abituali», si lamentò su un
quotidiano il legale
rappresentante del cinodromo,
«telefonano chiedendoci se è il
caso di frequentare ancora
l'ambiente. Vorremmo ricordare
che il cinodromo non ha niente
a che fare con quel delitto, e
che qui nulla è cambiato: i
nostri cani, splendidi esemplari
irlandesi, continuano a correre
tre volte a settimana, nel
pomeriggio.» (12)

***
4. POLVERE.

Il telegramma arrivò al
braccio di G11 di Rebibbia, un
giorno del 1980, indirizzato al
detenuto Mohammed Kan, un
arabo finito in carcere per
traffico di droga. Era indirizzato
a Kan, ma l'aspettavano in
molti.
Veniva dall'Olanda, era
scritto in inglese: «Please,
confirm if is only snow or even
the moth», pregasi confermare
se è solo neve o anche fango.
Una frase cifrata,
evidentemente. Kan, con il
telegramma in mano, andò
dagli altri che lo aspettavano.
«Vogliamo tutto, digli che
mandi tutto», disse Nicolas
Naja, venezuelano, un altro
trafficante di droga finito in
quella galera. O meglio,
siccome quello era arabo e
parlava solo arabo, Naja lo
disse al detenuto-interprete,
che lo riferì a Kan.
Bisognava far partire il
telegramma con la risposta,
destinazione Olanda, indirizzo:
ambasciata del Pakistan presso
i Paesi Bassi. Ci pensò
l'interprete associato
nell'affare, Pietro De Riz, in
cella da qualche mese per una
storia di passaporti e travellers'
cheque falsi, una specie di
mago della truffa e delle lingue,
visto che ne parlava sei, arabo
compreso. Scrisse il testo,
«Serve sia la neve che il
fango», e lo diede a Mario, un
detenuto addetto alle cucine
che lo consegnò all'agente di
custodia giusto, quello di cui ci
si poteva fidare perché era
stato «addomesticato». La
corrispondenza cifrata andava e
veniva così, senza problemi, in
una delle galere più grandi
d'Italia.
Dall'ambasciata arrivò
l'ultima conferma, e con essa il
momento di far partire non più
telegrammi ma persone per
l'Olanda: c'era da ritirare la
valigia con dentro mezzo chilo
di eroina purissima, aveva
assicurato Kan,
duecentocinquanta grammi di
"brown sugar", il «fango», e
duecentocinquanta di polvere
bianca, la «neve». Naja provò a
mandare la moglie, ma la
donna si rifiutò. Serviva
un'altra «corriera» - per questo
genere di viaggi le donne
funzionano sempre meglio degli
uomini, pare che diano meno
nell'occhio -, e la trovò il
quarto detenuto venuto a
conoscenza dell'operazione:
Gianfranco Urbani, chiamato
«er pantera» per l'aggressività
che dimostrava, quello che fino
a poco tempo prima
organizzava le rapine agli uffici
postali e ai treni insieme a
Fulvio Lucidi e Nicolino Selis.
Urbani risolse la questione
spedendo in Olanda una sua
amica, una certa Maria Grazia,
la quale partì per Amsterdam,
si presentò al funzionario
dell'ambasciata pakistana che
era stato debitamente
informato e ritirò la valigia.
Kan aveva fornito al «pantera»
anche la combinazione per
aprire quel prezioso bagaglio, e
tutto andò per il verso giusto.
Tranne un piccolo particolare:
al momento di aprire la valigia
e tirar fuori la polvere dal
doppiofondo, saltò fuori solo
l'eroina bianca e non la "brown
sugar", che costituiva l'aspetto
più allettante dell'affare. In
carcere Urbani venne a saperlo,
lo disse a Naja che, sempre
tramite l'interprete De Riz, lo
riferì a Kan.
Il risultato fu che l'arabo - il
quale aveva accettato di
vendere la sua eroina sulla
fiducia, senza anticipo perché
gli avevano detto «prendere o
lasciare, noi possiamo portare
la roba in Italia e tu no», e lui
non aveva nemmeno i soldi per
l'avvocato - non venne pagato,
mentre Urbani e Naja si
tennero l'eroina. Kan provò a
protestare ma non ottenne
nulla, e quando ci riprovò gli
spiegarono che non solo
mancava il «fango», ma la
«neve» era pura solo al diciotto
per cento, il resto era stricnina.
Kan disse che non poteva
essere, ma non era il caso di
insistere troppo. Rimase senza
una lira e con il dubbio che
quei suoi «amici» lo avessero
imbrogliato: del resto lui che
ne sapeva? Tutte quelle cose le
mandavano a dire quelli che
stavano fuori, sia che mancava
la "brown sugar" sia che era
stata tagliata. Non potevano
essersi inventati tutto per
fregarlo? Sì che potevano, ma
lui non aveva modo di reagire.
Solo più tardi, per farlo
stare zitto e toglierselo dai
piedi, all'arabo vennero dati
mille dollari, a saldo
dell'«operazione Pakistan»,
piccolo esempio di come si può
gestire un traffico di droga da
dietro le sbarre di un carcere. A
raccontarla all'allora giudice
istruttore Giovanni Falcone, nel
1983, fu il detenuto-interprete
Pietro De Riz, che diventerà
uno dei più importanti
testimoni d'accusa al
maxiprocesso di Palermo contro
Cosa Nostra. (1)

In carcere Gianfranco Urbani


detto «er pantera», nato a
Roma nel 1938, era
considerato da tutti come un
padre. La sua cella era una
sorta di ufficio del sindaco, lì
arrivavano reclami e
raccomandazioni, richieste e
proposte e lui, «er pantera»,
cercava di accontentare tutti, di
trovare sempre una soluzione.
Tifosissimo della Roma,
organizzava spesso tornei di
calcio fra detenuti, un'attività
che lo divertiva e gli serviva
per far incontrare le persone
rinchiuse in bracci diversi e
continuare a gestire i suoi
affari. Perché a quelli, «er
pantera» non aveva rinunciato.
Giudici e investigatori lo
conoscevano, oltre che come
rapinatore, anche come amico
dei calabresi arruolati della
'ndrangheta. Nel 1974 i
carabinieri, messi sulle piste da
alcune intercettazioni
telefoniche, avevano interrotto
a Roma una specie di
«colazione di lavoro» che si
stava svolgendo al ristorante Il
Fungo dell'Eur, e identificarono
Gianfranco Urbani allo stesso
tavolo con boss del calibro di
Giuseppe Piromalli, Paolo De
Stefano, Pasquale Condello.
Insomma, era sospettato di
essere uno degli
«ambasciatori» della
'ndrangheta nella capitale.
Sua sorella, Paola Urbani,
era la convivente di
quell'Antonio Sbriglione ucciso
e bruciato in macchina
nell'estate del 79, alla maniera
del dottor Mottola. E per
quell'omicidio «er pantera»
meditava vendetta. «Mi disse
che un gruppo di calabresi, e in
particolare la famiglia di Paolo
De Stefano, gli aveva promesso
di aiutarlo», riferirà ai giudici il
suo amico Fulvio Lucioli.
Dopo le rapine degli anni
Settanta organizzate insieme a
Lucioli e Selis, Urbani s'era
avvicinato a quelli della banda
della Magliana, i quali avevano
capito quale gigantesco giro
d'affari fosse il commercio di
droga, e avevano deciso di
prendere tutto quello che c'era
da prendere, da tutti coloro che
potevano offrire qualcosa.
Anche in carcere.
Fu Antonio Mancini a
proporre di arruolare «er
pantera»: «Poiché a reggere le
fila della costituenda
organizzazione si riteneva
necessario dovesse essere una
persona di riconosciuto
spessore criminale, ci si
accordò nell'affidare tale ruolo
a Gianfranco Urbani, su mio
suggerimento. Da parte sua
Urbani non volle assumere il
ruolo che gli veniva proposto,
ma piuttosto fu d'accordo nel
dare la sua disponibilità per
tutte quelle esigenze che
potevano insorgere, quale ad
esempio quella di risolvere
eventuali conflitti interni e
quella di fungere da
collegamento con le altre
organizzazioni. Non fu un caso,
pertanto, che allorché insorsero
i contrasti tra la nostra
organizzazione e Giuseppe
Magliolo, dopo l'omicidio di
Nicolino Selis, sia stato proprio
Gianfranco a tentare, sia pure
inutilmente, la mediazione. In
altri termini, Gianfranco Urbani
è più un uomo 'di parole' che 'di
pistole'». (2)
E Maurizio Abbatino
spiegherà con grande chiarezza
i motivi per cui l'organizzazione
che Selis stava mettendo in
piedi si unì con il gruppo
originario della Magliana:
«Nicolino Selis, pur vantando
considerevoli conoscenze nel
mondo della malavita
organizzata, disponeva tuttavia
di una banda 'raccogliticcia'.
Gianfranco Urbani, loro basista
per le rapine e anche addentro
al traffico degli stupefacenti,
era all'epoca detenuto, così
come Giovanni Girlando;
Edoardo Toscano, al quale
erano legati i fratelli Giuseppe
e Vittorio Carnovale, suoi
cognati, era stato scarcerato da
poco; Libero Mancone, tra una
rapina e un'estorsione, insieme
a Fulvio Lucidi e Roberto
Frabetti, quest'ultimo titolare di
una tintoria ad Acilia,
provvedeva al sostentamento
dei detenuti e delle loro
famiglie così come Gianni
Travaglini, il quale all'epoca
gestiva una stentata attività di
commercio d'auto. L'unione con
la nostra banda, la quale era
meglio organizzata ed
efficiente, oltre che
economicamente più solida,
consentiva al Selis di sfruttare
al meglio i canali che gli si
erano aperti durante le
carcerazioni. D'altra parte gli
stessi canali erano funzionali
allo sviluppo della nostra
banda, sicché non fu difficile
trovare un accordo operativo
per il traffico e il commercio
degli stupefacenti su Roma».
(3)
Quando Pietro De Riz entrò
a Rebibbia - ufficialmente
faceva il direttore d'albergo, ma
oltre alle truffe per cui era
finito dentro aveva già alle
spalle una condanna e
un'evasione in Belgio, dove era
stato arrestato con due chili di
cocaina -, gli unici a conoscerlo
erano due boss delle cosche
calabresi, Papalia e Trichilo,
che lui aveva incontrato a
Reggio Calabria. E Papalia
aveva parlato di De Riz a
Gianfranco Urbani. Radio-
carcere diffuse la voce che era
arrivato un nuovo detenuto
«con buone referenze»,
soprattutto perché parlava un
sacco di lingue, e dopo una
decina di giorni nella cella di De
Riz arrivò la visita del
«pantera». Bastò un primo
contatto per far avere al nuovo
arrivato una cella singola - con
lui c'era prima un detenuto di
colore, che venne fatto
sloggiare -, il lavoro alla
contabilità e l'opportunità di
fare alcune commissioni nella
cucina del carcere.
La futura collaborazione con
Urbani e poi con Nicolino Selis,
che faceva avanti e indietro tra
Rebibbia e i manicomi
giudiziari, nacque così, con una
visita in cella. Da quel giorno
Pietro De Riz ebbe molto
lavoro.

Il libanese Jousef Hallak


Ibrahim era arrivato a Rebibbia
da poco, e l'avevano messo in
cella con Enrico Proietti, «er
cane». Era finito «a bottega»
per un traffico di droga, e quelli
di Rebibbia vollero sapere che
cosa trattava e che cosa poteva
offrire. Nicolino Selis mandò De
Riz in missione, e l'occasione
per agganciare il trafficante la
offrì il normale corso della
giustizia. Hallak doveva essere
interrogato dal sostituto
procuratore Francesco Nitto
Palma, e serviva un interprete
dall'arabo. Di ufficiali non ce
n'erano, e così venne chiamato
De Riz, il quale nella saletta
degli interrogatori, prima che
arrivasse il magistrato, parlò
con il libanese e venne a
sapere che aveva a
disposizione quindici chili di
eroina siriana.
Per conto dei suoi mandanti
De Riz disse che era interessato
all'acquisto, ma che lui non
doveva far sapere nulla al suo
compagno di cella, il «nemico»
Proietti. Poi arrivò il giudice, il
colloquio tra i due detenuti si
interruppe e De Riz spiegò che
lui l'interprete non l'avrebbe
fatto, perché non voleva
collaborare nell'incolpare
qualcuno attraverso la
partecipazione a un
interrogatorio. Tanto quello che
doveva sapere, ormai, l'aveva
saputo.
Dopo il primo contatto le
trattative con Hallak
proseguirono, i romani
concordarono con il libanese il
prezzo di quarantacinque
milioni per ogni chilo di eroina.
Dalla Siria, la «roba» veniva
portata in Italia dalla moglie di
Hallak, dal fratello e da altri
corrieri, e consegnata a un
emissario di Nicolino Selis, un
certo Bruno di Primavalle, da
poco uscito di galera. Bruno, a
sua volta, la consegnava a
Lucioli e a Gianni «il roscio».
Prendevano appuntamenti per
la mattina presto, prima delle
nove perché a quell'ora si
sapeva che sarebbero
cominciati i controlli di polizia e
carabinieri sugli spacciatori; si
incontravano in luoghi affollati,
dove non avrebbero dato
nell'occhio: per esempio ad
Acilia, alle fermate delle
corriere che trasportano i
pendolari a Roma. Andarono
avanti per un po', ma anche
con Hallak ci furono problemi e
lamentele perché qualche
partita venne giudicata poco
genuina, il rischio che arrivasse
eroina troppo tagliata c'era
sempre.
Il libanese continuò a
lavorare nel traffico di droga, e
negli anni a seguire è stato
scoperto il suo coinvolgimento
in altri scambi di eroina gestiti
dalla camorra, dalla
'ndrangheta e dalla mafia.
S'era trasferito a vivere dalle
parti dell'aeroporto di
Fiumicino, e da lì gestiva il
traffico di polvere bianca
controllando gli arrivi - tramite
il narcotrafficante turco
Gopuroglu Halil - e gli
smistamenti agli emissari
napoletani di Raffaele Cutolo,
ai calabresi della cosca
Rositano-Pesce e ai siciliani del
clan Spadaro.

Pietro De Riz parlava tante


lingue, ma per scrivere in
inglese aveva bisogno di aiuto.
Stava ancora collaborando alla
gestione del traffico di eroina
messo in piedi con Hallak,
quando chiese una consulenza
su sintassi e ortografia proprio
a un inglese finito anche lui a
Rebibbia per illeciti commerci,
Alan Thomas. Doveva mandare
una lettera per tranquillizzare
gli amici del libanese, i quali si
lamentavano perché i soldi non
arrivavano. Lettera in codice,
naturalmente.
«Mi meraviglio», era il tono
della lettera, «che la tua
signora non abbia ricevuto il
regalo che le è stato fatto. Se
hai già avuto quarantacinque
chili di grano, che ti importa di
quindici grammi? Aspetta il
prossimo raccolto, sarà più
proficuo.»
Quando la vide, Thomas capì
di che cosa si trattava, e chiese
di entrare anche lui nel giro,
visto che fuori dal carcere
aveva conoscenze che
potevano tornare utili a tutti.
De Riz riferì a chi di dovere, e
Urbani gli disse di stringere i
contatti. Nel frattempo venne
utilizzato come interprete per
trattare con Thomas anche da
un altro trafficante romano
rinchiuso a Rebibbia, Roberto
Masciarelli, e in questo modo
l'inglese, dalla sua cella, si mise
a gestire un doppio traffico di
droga.
La «roba» veniva comprata
e venduta fuori, ma finiva per
entrare anche in carcere, per lo
più con la compiacenza o la
collaborazione diretta di
guardie, assistenti sociali e una
volta addirittura di un
cappellano. Questo, al
«pantera», non piaceva. Non
voleva che nelle «sue» celle
girassero eroina e cocaina, e
siccome Nicolas Naja, in barba
al divieto, ne distribuiva
eccome, finì per cadere in
disgrazia. Una volta poi la fece
davvero grossa: non solo
ricevette una partita di ben
cinquanta grammi di cocaina,
ma pensò bene di non dividerla
con gli altri. O meglio, decise di
tagliarla e mettere in giro
quella non più pura. Le
lamentele arrivarono
all'orecchio del «pantera», e si
decise che quella Naja
l'avrebbe pagata.
Accadde un giorno che
sembrava come tutti gli altri.
Un gruppetto di detenuti
consumò il pranzo nella cella di
Urbani, come al solito, ma
all'improvviso, mentre stavano
lavando i piatti, uno ruppe una
bottiglia, si avvicinò al
venezuelano e con un pezzo di
vetro lo sfregiò sulla faccia.
Nicolas Naja gridò e si ribellò,
ma c'era poco da protestare. E
quando le guardie gli chiesero
che cosa era successo, lui «fu
uomo», e non denunciò
nessuno: disse che scivolando a
terra era caduto su un pezzo di
vetro. Una versione non solo
falsa ma anche inverosimile,
che però accontentò tutti e
servì a evitare altri guai
all'interno del carcere.

Il giro dei trafficanti di droga


è come una catena che non
finisce mai: da un anello si
passa all'altro e poi all'altro
ancora. Ognuno ne conosce di
nuovi, li mette in contatto con i
suoi acquirenti e la catena si
allunga. In carcere Alan
Thomas rivelò di poter
agganciare un trafficante di
Singapore, un certo Koh Bak
Kin, piccolo di statura e con la
passione per la pittura e per
l'alcol, arrestato la prima volta
a Fiumicino mentre tentava di
far entrare in Italia venti chili
di eroina, pressata e nascosta
nelle cornici dei quadri che
portava con sé. Thomas l'aveva
conosciuto nel carcere di
Sulmona, ma poi Kin era stato
liberato, e da Rebibbia l'inglese
gli scrisse una lettera
parlandogli di quei romani che
aveva conosciuto in galera,
disposti ad acquistare grossi
quantitativi di polvere bianca:
Urbani, Masciarelli, e
l'«interprete» De Riz.
Passò qualche mese e tutti
questi personaggi si ritrovarono
fuori di prigione, liberi: chi per
scadenza dei termini di
carcerazione preventiva, chi
per la concessione della
semilibertà, chi per riduzioni di
pena. E fuori, passato un po' di
tempo, tutti cominciarono a
cercare colui che un po' per le
lingue che parlava e un po' per
le conoscenze che aveva tra i
falsari, era diventato il crocevia
di ogni traffico: Pietro De Riz.
Il primo a farsi vivo fu
Thomas, che doveva tornare in
Inghilterra e aveva bisogno di
un passaporto. De Riz gliene
procurò uno falso, e l'inglese gli
confidò di essere rimasto in
contatto con Masciarelli per
alcune forniture di eroina. Poi
telefonò «er pantera», e quello
che successe De Riz lo raccontò
al giudice Falcone: «Prima che
il Thomas partisse per
l'Inghilterra, ricevetti a casa
mia una telefonata di
Gianfranco Urbani, il quale mi
chiese di farlo mettere in
contatto con Thomas stesso per
una fornitura di eroina. Pur
malvolentieri fui costretto ad
accettare per evitare
conseguenze a carico mio e
della mia famiglia, ma non
mancai di far presente al
Thomas che era molto
pericoloso fornire eroina a due
acquirenti diversi sulla stessa
piazza. Il Thomas mi disse che
egli avrebbe mantenuto
contatti con Masciarelli, mentre
io avrei avuto il compito di
porre in contatto diretto Koh
Bak Kin con Gianfranco Urbani.
Durante questo periodo ebbi
modo di vedere che Thomas e
Masciarelli si incontrarono, in
mia presenza, all'hotel
Barberini di Roma. Si discusse
la fornitura di ingenti
quantitativi di droga e il
Masciarelli disse che era
disposto ad acquistare qualsiasi
quantità, tanto che fu
convenuto il prezzo di sessanta
milioni al chilo. Egli avrebbe
venduto la droga a centoventi
milioni al chilo, e il guadagno
sarebbe stato diviso in parti
uguali fra lui stesso e il
Thomas. Quest'ultimo partì per
l'Inghilterra e da lì mi telefonò
a casa dicendomi di andare a
prendere alla stazione Termini
Koh Bak Kin, del quale mi
descrisse le fattezze fisiche».
(4)
I due si incontrarono, il
«cinese» aveva portato con sé
dei quadri a olio dipinti da lui, e
ne regalò qualcuno a De Riz:
una specie di biglietto da visita,
un omaggio e un augurio di
buoni affari. L'«interprete» lo
accompagnò nella villa del
«pantera» a Rocca Priora, sulle
colline dei Castelli romani, e lì
furono gettate le basi per i
futuri traffici, nei quali
sarebbero entrati anche quelli
della banda della Magliana.
Urbani, come Masciarelli, disse
che lui e i suoi amici erano
disposti ad acquistare qualsiasi
quantità di eroina, e venne
fissato il prezzo di
cinquantacinque milioni al
chilo; a pagare e riscuotere
sarebbe stato De Riz.
Passò qualche settimana, e a
casa dell'«interprete» arrivò la
telefonata di uno che disse di
chiamarsi Tony. «Sono a
Roma», disse, «vieni a trovarmi
all'hotel Traiano.» De Riz andò
e si trovò davanti a due cinesi,
i quali gli consegnarono lo
scontrino di deposito di una
valigia lasciata alla stazione
Termini: dentro c'era un chilo
di eroina.
De Riz telefonò a Urbani,
fissò un appuntamento e gli
consegnò lo scontrino, il giorno
dopo la valigia fu ritirata. «Er
pantera» richiamò
l'«interprete»: «L'indomani, in
mia presenza, l'Urbani e la
sorella consegnarono ai due
corrieri la somma di lire
sessanta milioni in contanti, in
banconote da cinquantamila e
centomila lire, e regalarono a
essi un milione e uguale cifra a
me. L'Urbani disse che avrebbe
rivenduto l'eroina per la somma
di centodieci milioni, e che
avrebbe ripartito il guadagno in
tre parti uguali: una per sé,
una per Lucidi Fulvio e la terza
per il Thomas».
Andarono avanti per un po'
con De Riz che continuava a
fare da tramite per i
rifornimenti destinati sia a
Urbani che alla banda di
Masciarelli, in cambio di buoni
guadagni - in gergo venivano
chiamati «lo sgobbo» -, qualche
apprensione e molti rischi.
Teneva i contatti con Koh Bak
Kin, si incontravano spesso per
stabilire quantità di droga da
importare, prezzi e modalità di
consegna. Possibilmente in
luoghi affollati. Avevano i loro
ristoranti abituali - una sera si
trovarono a cenare gomito a
gomito con una tavolata di
poliziotti che discutevano di
un'operazione antidroga -, i
loro locali. Quando potevano si
vedevano da Babington, a
piazza di Spagna, fra turisti
americani e giapponesi. Oppure
nei night intorno a via Veneto,
dove in una sera Kin era
capace di scolarsi da solo una
bottiglia di cognac, marca
Napoléon, la sua preferita.
Ma all'improvviso Kin sparì
dalla circolazione, e Thomas
dovette rientrare a Roma
dall'Inghilterra per andarlo a
cercare in Thailandia. L'inglese
ritornò dopo poco tempo,
portandosi dietro Koh Bak Kin,
otto suoi amici cinesi e due chili
di eroina: uno fu consegnato a
Masciarelli e l'altro a Urbani.
Disse che c'erano altri dieci
chili a disposizione a
Copenaghen, ma nessuno dei
due acquirenti romani fu
disposto ad anticipare la cifra
necessaria per la spedizione.
Finì che Thomas, Kin ed Enzo,
un amico di De Riz arruolato
per le consegne di «roba»,
partirono per la Danimarca e
tornarono con l'eroina.
Del nuovo carico, il «cinese»
ne destinò quasi tre chili al
«pantera», il quale la fece
ritirare da un certo Antonio
Boccarusso, che presi i tre
pacchetti di polvere, li infilò nel
tascapane e si recò
all'appuntamento con i nuovi
amici di Gianfranco Urbani ai
quali doveva andare l'eroina:
Edoardo Toscano e Maurizio
Abbatino. Ma arrivò in ritardo,
e fu intercettato da una
pattuglia di carabinieri.
Boccarusso tentò la fuga,
cominciò una caccia all'uomo
che si concluse con gli spari dei
militari e la morte del
trafficante.
Gli «incidenti di percorso» e
i ritardi nei pagamenti
cominciarono a diventare
sempre più frequenti, e Koh
Bak Kin se ne lamentò con i
romani. Anche perché,
contemporaneamente, aveva
aperto un canale di
approvvigionamento di eroina
per i mafiosi siciliani che
s'erano rivelati clienti molto più
affidabili: ritiravano
quantitativi più grossi e
pagavano puntualmente la
merce, in Svizzera, a prezzi più
alti. In pochi mesi Kin aveva
consegnato ai trafficanti di
Cosa Nostra duecentottanta
chili di droga.
Così, verso la fine del 1982,
quando De Riz gli propose di
mettersi nuovamente in
contatto con Urbani che voleva
comprare altra «roba», il
«cinese» disse che avrebbe
trattato personalmente con
quelle persone. Koh Bak Kin e
il «pantera» ebbero altri
incontri nella villa di Rocca
Priora, e una volta De Riz
organizzò una riunione, ad
Acilia, tra il «cinese», due suoi
amici dalla pelle gialla e gli
occhi a mandorla che dissero di
chiamarsi Lam e Yueng, il
«pantera» e gli altri della
Magliana: Edoardo Toscano,
Maurizio Abbatino, Giovanni
Girlando. «Tutti costoro»,
raccontò a Falcone
l'«interprete», che nel
frattempo era diventato un
informatore della Squadra
Narcotici della Questura di
Roma, e aveva fatto fotografare
gli incontri tra Kin e Urbani a
Rocca Priora, «erano interessati
alla fornitura di eroina da parte
del Kin. Ho appreso che Kin
aveva consegnato all'Urbani
1,800 chili di eroina. Preciso
che aveva fatto venire dalla
Thailandia due valigie,
rispettivamente con chili 1,800
e 2,300, e che la seconda
partita era destinata in Olanda.
Tuttavia le due valigie erano
state scambiate, per cui in
Olanda era giunta una partita
di chili 1,800 e non di chili
2,300. Urbani invece sostenne
non solo di aver ricevuto chili
1,800 e non 2,300, ma che si
trattava di una partita di
pessima qualità, sforzandosi di
far convincere personalmente il
Kin con un'analisi davanti a lui,
alla presenza mia e anche di
Abbatino, Toscano, Girlando,
Yueng e Lam. A questo punto
Kin insistette perché l'Urbani si
tenesse l'eroina e pagasse un
prezzo inferiore, ma l'Urbani,
istigato dagli altri, si rimise al
giudizio dei suoi soci che si
rifiutarono di tenere la roba.
Sono sicuro che si trattava di
una manovra di Girlando
Giovanni in combutta con
Nicolas Naja, i quali in quel
periodo lavoravano con un
siriano a nome Gerek
Mohammed, e in siffatta
maniera intendevano
estromettere dal traffico
Gianfranco Urbani.»

Il primo canale che fece


arrivare l'eroina alla banda
della Magliana, secondo la
ricostruzione che farà Abbatino
alla magistratura, fu quello
aperto da due trafficanti
siciliani, Angelo Nicolini e
Giacinto Misuraca. Alla cocaina
pensavano invece due cileni,
Manuel Fuentes Cancino e
Arturo Caceres, che lavoravano
in società, giunti in Italia
infiltrandosi tra gli esuli arrivati
dopo il 1973, all'indomani del
golpe del generale Pinochet. Poi
c'era la «roba» procurata da
Fulvio Lucioli tramite un certo
Alessandro, occupazione
ufficiale coltivatore di
noccioline a Soriano nel
Cimino. Altri affari vennero
fatti ancora con Nicolas Naja, il
quale con i soldi del traffico
s'era comprato una Rolls-
Royce, e che in una sola volta
procurò ad Abbatino e soci
cento chili di «fumo». Lo stesso
Naja finì per mettersi in società
con Fuentes Cancino, e insieme
avviarono un rifornimento di
eroina e cocaina dalla Francia:
la droga arrivava a bordo di
automobili su cui era stato
costruito un apposito
doppiofondo.
All'interno della banda c'era
chi si doveva occupare di
curare i vecchi canali e
trovarne di nuovi e chi, invece,
di piazzare la «roba» sul
mercato. Maurizio Abbatino
aveva questo compito: «Io,
Toscano, Colafigli, Picone,
Mastropietro, Giuseppucci,
Castelletti, Danesi e lo stesso
Paradisi, il quale si occupava
pure della custodia e della
commercializzazione,
battevamo la piazza per
imporre il nostro prodotto agli
spacciatori, promettendo e
garantendo loro la protezione
nei confronti dei precedenti
fornitori. In altri termini
mettevamo la concorrenza
nelle condizioni di non poter
più operare se non facendo
capo a noi». (7) Dallo spaccio al
minuto, invece, rimanevano
fuori; lo controllavano, ma
stando sempre attenti a non
esserne coinvolti.
I soldi avevano preso ormai
l'aspetto della polvere bianca,
s'erano aperte fonti di
guadagno che sembravano non
dovessero mai esaurirsi: «Via
via che la nostra
organizzazione si annetteva
sempre più vaste fette di
mercato, la stessa si allargava
a seguito delle scarcerazioni di
Enrico De Pedis, amico sia mio
che di Giuseppucci, e di
Raffaele Pernasetti, i quali ne
entrarono a far parte a pieno
titolo, apportando nuovi canali
di approvvigionamento che
consentivano di soddisfare le
esigenze di conservazione del
mercato acquisito e di ulteriori
ampliamenti di attività. Amico
del De Pedis era Danilo
Abbruciati, il quale consentì di
prendere contatto con fornitori
del calibro di Stefano Bontade e
Pippo Calò...
«Nel gruppo che ho
chiamato dei 'testaccini' (De
Pedis e i suoi amici, N.d.A.)
gravitava con un certo peso
decisionale Ettore Maragnoli, il
quale aveva anch'egli contatti
operativi nel settore degli
stupefacenti con gruppi
pugliesi, in particolare baresi,
aperti durante un periodo di
comune detenzione con tal
'Ziffolino' o 'Zinfolino', nel
carcere di Rebibbia... Gli
appoggi per la
commercializzazione venivano
offerti ai 'testaccini' da Antonio
Ripini, il quale curava per loro
conto la custodia e gli
spostamenti dello stupefacente,
e da Giuseppe Scimone, il
quale aveva entrature nel
mondo dello spettacolo,
ambiente particolarmente
interessato alla cocaina». (8)
Nulla era lasciato al caso,
ognuno aveva il suo spicchio di
città da controllare. Dal bar di
via Chiabrera, Claudio Sicilia
vedeva e controllava tutto,
ritagliandosi uno spazio anche
per lui. E da trafficante pentito
racconterà ai magistrati
com'era suddivisa la fornitura
della droga a Roma all'inizio
degli anni Ottanta, una vera e
propria mappa della morte
distribuita in polvere:
«Abbatino e Colafigli
controllavano la zona della
Magliana e di San Paolo, e
nell'81-'82 cominciarono a
effettuare qualche vendita ai
Ponti; Danesi e Mastropietro
controllavano il Trullo;
Castelletti la zona dei Colli
Portuensi; De Angelis, Toscano,
Carnovale e Fittirillo la zona
Tufello-Val Melaina; Picone
aveva una piccola attività di
spaccio in viale Marconi e alla
Magliana; Sestili aiutava, ma
non in maniera determinante,
l'attività di Colafigli e di
Abbatino. Il gruppo
Giuseppucci, De Pedis,
Pernasetti, Abbruciati, eccetera
aveva la zona Testaccio-
Ostiense, la Maranella e Ostia».
(9)
La suddivisione del territorio
era molto rigida, e gli stessi
organizzatori del traffico di
droga dovevano fare attenzione
a non sgarrare. A Fabiola
Moretti, la principale figura
femminile della banda,
Abbruciati aveva assegnato la
zona di Trastevere, una delle
più fertili per lo spaccio di
eroina. «Una volta che io
sconfinai effettuando una
distribuzione alla Garbatella»,
ha rivelato la donna, «territorio
assegnato a Manlio Vitale e
altri, Danilo si arrabbiò molto
con me. A suo dire lo avevo
messo in grosse difficoltà
avendo egli dovuto dare al
Vitale, personaggio di notevole
prestigio nell'ambiente
malavitoso, spiegazioni circa lo
sconfinamento; aveva faticato
a convincerlo che era stata una
cosa del tutto accidentale e non
il sintomo di una volontà di
sottrarci al rispetto delle
regole.» (10)
«Roma è nelle nostre mani»,
si dicevano l'un l'altro i nuovi
boss, spavaldi e col sorriso sulle
labbra, interessati solo ad
allargare il controllo sulla città
e a entrare in nuovi affari,
incuranti di chi ci fosse dietro.
La droga poteva arrivare e
andare indifferentemente a
uomini della mafia, della
camorra, della 'ndrangheta,
dell'eversione nera, di
organizzazioni mediorientali.
Agli ex rapinatori cresciuti nelle
«batterie» di quartiere, passati
al giro più grosso delle bische e
delle scommesse clandestine e
diventati in pochi anni
impresari di morte attraverso il
traffico di droga, non
interessava servire ed essere
serviti da questa o quella
banda.
L'unico obiettivo era sapere
tutto, poter scegliere i canali di
rifornimento più convenienti e
guadagnare tanti soldi: gli utili
- decine e decine di milioni che
entravano in cassa ogni
settimana - venivano distribuiti
«a stecca para», cioè in parti
uguali anche con quelli che di
tanto in tanto finivano in
galera. Ma bisognava avere
l'accortezza di evitare i cattivi
affari e le fregature, sempre in
agguato. Su questo terreno
tentavano di giocare d'anticipo.
Per provare la qualità di una
partita di eroina, per esempio,
di solito chiamavano un
tossicodipendente della zona,
rimediato al bar o da qualche
altra parte, e gli consegnavano
una dose da iniettarsi subito.
Poi stavano a guardare che
effetto faceva.
Anche l'universo del livello
inferiore, quello degli
spacciatori di strada, era sotto
controllo. E se qualcuno
«sgarrava» c'era pronto un
gruppetto di persone
addestrato a risolvere ogni
controversia con la violenza; li
chiamavano i «drizzatorti».
Uno di questi, Antonio
Mancini, ha spiegato che
ottenere la «collaborazione»
degli spacciatori era piuttosto
semplice: «Si faceva loro una
proposta che non potevano
rifiutare, di prendere la droga
da noi o tramite noi;
accettando, entravano
automaticamente a far parte
del nostro gruppo. Nessuno si
rifiutò mai di accedere alle
nostre proposte, in quanto se
fosse accaduto il riluttante era
un uomo morto». (11)

Una volta i «testaccini»


dovettero partire per una
spedizione punitiva contro i
Femia, una famiglia di calabresi
trapiantati a Roma e che per la
banda della Magliana costituiva
uno dei tramite con i boss della
'ndrangheta legati ai clan di
Mammoliti e Piromalli.
Gestivano una pizzeria a
Primavalle, i Femia, e
commerciavano droga con il
gruppo di De Pedis e Abbruciati.
Per poi spacciarla al minuto
nelle strade della borgata.
Capitò che i calabresi
tentarono di imbrogliare i
romani: una partita di droga
ceduta dai Femia, anziché
eroina, si rivelò un prodotto per
la cura dei capelli. De Pedis e i
suoi partirono immediatamente
alla volta di Primavalle, ma il
regolamento di conti fu rinviato
a un incontro successivo,
stavolta in una zona controllata
dai loro amici, a viale Marconi.
Per salvarsi i calabresi
dovevano consegnare subito
l'eroina, ma quelli dissero che
non potevano, il fornitore che
aveva consegnato la merce
ormai non era più
rintracciabile. Insomma, fecero
la parte di quelli che a loro
volta erano stati truffati: se la
cavarono con una scarica di
botte.
Anche a Ostia i «drizzatorti»
avevano un bel daffare, perché
in quella zona arrivavano
spesso spacciatori che
compravano la droga da altri
fornitori e non ne volevano
sapere di sottomettersi a quelli
della Magliana. Un certo
Maurizio, uno che aveva una
tintoria ma che guadagnava di
più spacciando eroina, non solo
si riforniva da altri, ma andava
a dire in giro che la sua «roba»
era migliore di quella procurata
dalla gang della Magliana. Lo
individuarono in pochi giorni, e
quella sera di fine '82, sul
lungomare, se la vide davvero
brutta. Si presentarono a casa
sua in tre: Gianni «il roscio» e i
due amici inseparabili, Toscano
e Abbatino. Presero Maurizio, lo
trascinarono in macchina e
guidarono fino alla spiaggia.
Erano tutti armati, ma Maurizio
provò a far vedere che non
aveva paura e si mise a
insultarli. Quelli per tutta
risposta lo picchiarono, poi lo
fecero inginocchiare con le
mani dietro la schiena, la faccia
rivolta verso il mare e le spalle
verso di loro. La scena era
pronta per l'esecuzione, pochi
secondi e sarebbe arrivato il
colpo di pistola alla nuca.
Invece fecero un'altra cosa: si
sbottonarono i pantaloni e
cominciarono a orinare su
quello spacciatore che non
voleva comprare la loro droga.
Risero mentre lo facevano e
risero quando lo raccontarono
agli amici; da allora quel
«lavandaio» che spacciava
droga fu soprannominato «il
piscione».

A Ostia e ad Acilia, un po'


quartieri residenziali e un po'
borgate del litorale che si
riempiono d'estate ma in cui la
criminalità fa affari anche
d'inverno, uno dei principali
fornitori di polvere era Fulvio
Lucioli. Lo chiamavano «il
sorcio», per la sua capacità di
rosicchiare dovunque ci fosse
da prendere e da guadagnare
qualcosa. Dopo qualche tempo
Lucioli riuscì a organizzare le
cose in modo da non incontrare
quasi mai gli acquirenti che
avrebbero spacciato la droga al
minuto. Per ridurre i rischi al
minimo aveva assoldato dei
collaboratori, i quali andavano
a ritirare i carichi di eroina o
cocaina dai commercianti
all'ingrosso, per esempio
quell'Alessandro che coltivava
noccioline nel viterbese; altri
invece erano incaricati di
sistemare la «roba» nei luoghi
dove gli spacciatori l'avrebbero
presa in consegna. Lui si
limitava a fissare gli
appuntamenti e riscuotere i
soldi.
Anche per conservare la
droga erano state assunte delle
persone estranee al giro, quindi
sconosciute a polizia e
carabinieri e difficilmente
individuabili. Fra gli altri,
Lucioli aveva preso con sé due
impiegati della Sip. Uno era
scapolo e proprietario di una
garçonnière a Ostia, l'altro si
chiamava Mario. Giravano
quasi sempre insieme, sul
furgoncino della società dei
telefoni, e si occupavano delle
riparazioni sul litorale, proprio
tra Ostia e Acilia. Solo che oltre
ai cavi telefonici e agli attrezzi
per il loro lavoro, di tanto in
tanto capitava che
trasportassero su quel furgone
anche eroina e cocaina.
Lo scapolo custodiva la
droga nella garçonnière, e
quando gli arrivava qualche
richiesta Lucioli lo avvisava:
mai per telefono, sempre al
primo incontro utile. Gli
comunicava la quantità da
consegnare e il grado di
intervento sulla polvere, nel
senso che la droga custodita
era pura, e bisognava tagliarla
a seconda delle necessità e
delle richieste. Lo scapolo
provvedeva al peso e al taglio,
poi la dava a Mario che con il
furgoncino della Sip la portava
sul luogo delle consegne: una
stradina di campagna, non
lontana dal loro ufficio. C'erano
tre alberi, tagliati a circa due
metri d'altezza, con il tronco
scavato internamente. Le
bustine di polvere venivano
abbandonate lì, gli spacciatori
dovevano solo passare a
ritirarle.
Per questo lavoro i due
impiegati della Sip ricevevano
uno «stipendio» di un milione
al mese; le cose erano
organizzate in modo che tra
loro e gli spacciatori non
avvenisse mai alcun contatto.

Ci fu anche chi si preoccupò


di rivendere la droga all'estero.
L'ha raccontato Claudio Sicilia,
riportando le confidenze che gli
fece Gianfranco Sestili, uno
legato al gruppo di De Pedis e
Abbruciati. Una storia semplice,
ma che contiene in nuce metodi
e risvolti del grande traffico
internazionale, oltre a sistemi
di pagamento che ricordano,
per esempio, quelli usati dai
signori di Tangentopoli.
«Sestili mi disse», ha
rivelato Sicilia, «che era in atto
già da qualche tempo un
traffico di cocaina tra l'Italia e
l'Inghilterra. Partecipanti a
questa attività erano, oltre a
Sestili, Corrado Sofia,
destinatario dello stupefacente
in Inghilterra, e tale Sellia
Barreto Cherenco, che
effettuava i trasporti dall'Italia
all'Inghilterra. La Sellia
lavorava all'ambasciata del
Brasile in Inghilterra, e
successivamente fu trasferita
all'ambasciata brasiliana a
Roma, in piazza Navona. So
che la Sellia era stata fidanzata
in Inghilterra con un ragazzo
che venne tratto in arresto per
traffico di cocaina. In Italia la
Sellia ebbe una relazione con
Francesco Sestili, dal quale
ebbe anche una figlia.
«Il traffico si svolgeva in
questa maniera: Sestili
consegnava alla Sellia cocaina
pura per un quantitativo di
duecento grammi per volta; la
ragazza effettuava frequenti
viaggi in Inghilterra
trasportando lo stupefacente
che occultava nelle parti
intime; giunta in Inghilterra, lo
consegnava personalmente a
Sofia. I pagamenti avvenivano
a mezzo rimessa bancaria, e a
volte in denaro liquido; le
rimesse bancarie, delle quali io
ho visto una copia per una cifra
di tremila dollari, venivano
fatte da Sofia alla Sellia
Barreto. La rimessa bancaria
era domiciliata presso
l'ambasciata brasiliana a Roma.
Mi venne detto, inoltre, che i
soldi venivano poi trasferiti su
un conto in Svizzera, dove
abitava la madre della Barreto;
conti intestati, in firma
disgiunta, alla Barreto e a
Sestili.
«Il traffico è andato avanti
fino alla fine del 1982. Sofia
restò debitore, nei riguardi di
Sestili, di quattro milioni di lire,
in quanto Sofia aveva
comperato per Sestili, con i
soldi della cocaina, un
complesso di videoregistratore
e telecamera che venne rubato
in Inghilterra.» (12)
***
5. BULLI, PUPE E
AFFARI SPORCHI.

Prima andava in giro con


una BMW 316, poi con una Golf
G.T. di quelle decappottabili,
dopo s'era comprato una
Mercedes 200 rossa fiammante.
Aveva anche due moto, due
Kawasaki 1300, una rossa e
l'altra nera, che gli aveva
venduto Libero Mancone,
motociclista esperto e
spericolato. E portava vestiti
firmati, oltre al solito Rolex
d'oro, braccialetti e catenine.
Per sé, la moglie e i bambini
s'era fatto costruire una villa
all'Axa, un complesso
residenziale dove si respira aria
di mare, sul litorale a sud di
Roma, dopo quello lussuoso di
Casalpalocco e prima di Acilia,
zona troppo popolare per chi
vuole ostentare ricchezza e
benessere.
La polizia gli stava alle
calcagna, ogni tanto lo
interrogava, in seguito a
controlli occasionali oppure con
iniziative mirate, per tentare di
incastrarlo: si sapeva che era
uno dei terminali del traffico di
droga a Roma, ma le prove
erano sempre troppo poche.
Eppure, dal '79 in poi, Maurizio
Abbatino - per qualche amico
«crispino» a causa dei capelli
scuri e crespi - entrava e usciva
dal carcere con una certa
frequenza. A Regina Coeli e
Rebibbia ormai lo conoscevano
bene, procedimenti penali su di
lui e i suoi amici della Magliana
venivano aperti in
continuazione, ma non si
riusciva mai a «stringere», e
quelli continuavano indisturbati
nei loro affari.
Pochi giorni prima che gli
venisse notificato un nuovo
mandato di cattura, nel maggio
dell'83, un giudice provò a
fargli dire qualcosa giocando la
carta dei soldi. Com'era
possibile che lui, Abbatino
Maurizio, ventinove anni
ancora da compiere, senza fissa
occupazione, avesse tutti quei
soldi, disponesse di case e
macchine di lusso? Forse fu
ingenuo il giudice a credere che
quel ragazzo magro e dal viso
già consumato avrebbe
confessato chissà che cosa, o
forse, invece, si aspettava una
bugia per risposta e voleva
semplicemente vedere che cosa
si sarebbe inventato. Fatto sta
che «crispino», con la faccia un
po' seria e un po' strafottente
del gangster che si sente sicuro
e si diverte a prendere in giro
chi lo ascolta, rispose: «Signor
giudice, in questi anni mi sono
procurato da vivere con
un'attività di vendita
ambulante di oggetti religiosi».
Un'invenzione perfino
divertente, come dovette
ammettere, un anno e mezzo
più tardi, anche il pubblico
ministero: «Parole che se non
fossero pronunciate da una
persona che ha commesso
omicidi e tentati omicidi
farebbero quanto meno
sorridere». Ma poi il magistrato
concludeva amaro: «Parole che
dimostrano come da anni
Abbatino Maurizio e il suo
gruppo siano abituati a
prendere in giro la giustizia».
(1)
E non prendeva in giro solo
la giustizia, Abbatino. Per
arrotondare le entrate e crearsi
un alibi finanziario (forse era
evidente anche a lui che la
storia del venditore ambulante
avrebbe retto poco), si fece
gioco pure della burocrazia.
Con la complicità di un paio di
persone influenti nel giro delle
cliniche, riuscì a raccogliere
una falsa documentazione e
certificati medici contraffatti
che gli servirono a chiedere e
ottenere il riconoscimento di
totale invalidità civile: fu
dichiarato malato mentale
bisognoso di
accompagnamento, e grazie a
questo, ottenne una pensione
dallo Stato.
Sui soldi, sui milioni e i beni
di lusso che circolavano tra
quelli della Magliana, del
Testaccio e delle altre zone in
cui la banda aveva prosperato,
le giustificazioni che poliziotti e
magistrati si sentivano ripetere
erano quasi tutte del tipo di
quella di Abbatino. Una volta
successe che Enrico De Pedis,
«Renatino», fu fermato
casualmente mentre andava in
giro con la sua Lancia Delta
nera, per un normale controllo.
Nella macchina i poliziotti
trovarono svariati milioni.
Chiesero a «Renatino» di chi
fossero e da dove venissero, lui
farfugliò qualcosa, ma non
diede una spiegazione credibile.
Si beccò una denuncia a piede
libero per «possesso
ingiustificato di valori», e
quando gli fu chiesto quali
fossero le sue proprietà e di
che cosa vivesse, lui, senza
scomporsi neanche un po',
rispose: «Sono nullatenente, e
per il mio mantenimento
usufruisco di saltuari aiuti
economici da parte di mia
madre, Proietti Eda». (2)
Sempre la stessa storia,
insomma, tutti che vivevano
alla giornata, con guadagni
stentati e sporadici. Eppure
davanti al bar di via Chiabrera
c'era un viavai di macchine di
lusso che faceva impressione, e
che strideva in maniera
evidente con quella strada
periferica e non certo ricca, tra
due ali di palazzi vecchi e
altissimi, tutti uguali, tristi e
con i muri scrostati, alveari di
cemento colorati solo dai panni
stesi alle finestre e dai fiori
esposti su qualche balconcino. I
«bravi ragazzi» arrivavano su
auto di grossa cilindrata,
esibendo il più classico degli
status symbol: della ricchezza,
ma anche della potenza e della
rispettabilità per chi vuole farsi
strada nel mondo della
malavita.
A parte Abbatino e De Pedis,
Danilo Abbruciati si presentava
con una BMW 323 color
marroncino metallizzato, che
dopo un po' regalò a un
trafficante di droga cileno;
Franco Giuseppucci aveva
anche lui una 323, però
celeste, poi una BMW 320 nera
e un'altra auto della stessa
marca, che la polizia gli
sequestrò pochi giorni prima
che venisse ammazzato. Dalla
lista che Claudio Sicilia fece al
magistrato sembra che ci fosse
una generale preferenza per le
BMW, ma c'era pure chi
arrivava in Ferrari, su una
Mercedes, con una Volvo o una
Jaguar. E poi rombavano le
moto, quasi sempre Kawasaki.
«Tutte queste macchine»,
raccontò Sicilia, «so che
venivano rifornite da un
autosalone di Vitinia, di
proprietà di Gianni Travaglini.»
(3)
Ma non di sole macchine era
fatta la «bella vita» dei nuovi
gangster; come si addice al
ruolo, c'erano anche le donne e
i piaceri della carne da
coltivare, il più delle volte
conditi da abbondanti dosi di
cocaina. Una volta Sicilia - che
spendeva in «accompagnatrici»
buona parte di ciò che
guadagnava - arrivò in un
appartamento di Acilia dove
trovò Edoardo Toscano e altri
due latitanti in compagnia di
tre ragazze, una delle quali
lavorava nello studio di un
avvocato conosciuto da quelli
della banda. «Mi resi conto che
tutte le persone che stavano
all'interno dell'appartamento
avevano fatto o stavano
facendo uso di cocaina. Le
ragazze erano nude, si era
trattato di un festino.» (4)
Per tirare la cocaina
qualcuno utilizzava delle
cannucce dorate che portava
appese al collo, sempre pronte
all'uso, le chiamavano
«pippotti». E spesso venivano
utilizzate in un ristorante alla
moda di Trastevere, tra i più
frequentati dai nuovi gangster.
Lì si mangiava e si beveva, ma
non si pagava mai: in cambio
delle cene il proprietario,
cocainomane, riceveva la
polvere bianca. E a volte si
univa ai suoi ospiti, quando gli
altri avventori se n'erano
andati o dopo la chiusura del
ristorante, tutti intorno allo
stesso tavolo per un buon
digestivo a base di cocaina.
Era proprio la «neve» la
fonte di quel livello di vita e di
tutti i guadagni che venivano
maldestramente giustificati con
la vendita di oggetti religiosi o
benevoli aiuti materni. E per
difenderla, per garantirsi il
controllo del mercato, i «bravi
ragazzi» non si facevano
scrupoli: quando c'era da
ammazzare, ammazzavano.

Che dietro quella porta a


vetri che dava direttamente
sulla strada - al numero 9 di
via Capraia, quartiere quasi
borgata del Tufello - ci fosse un
circolo ricreativo, lo diceva un
cartello di cartone un po'
ingiallito, dove era scritto
«Dopolavoro Enal». Varcata la
porta, c'era subito un altro
avviso: «Ingresso riservato ai
soli soci». Dentro, il bancone di
un bar, un tavolo da biliardo,
qualche flipper, sedie e tavolini
con ripiani di fòrmica e zampe
di ferro. In un'altra stanza,
separata dalla sala giochi e con
tutt'altro genere di
frequentatori, c'era la sede di
un pretenzioso «Circolo
Monarchico Nazionale».
Era la sera del 23 febbraio
1982, martedì grasso. Ma
nonostante il carnevale, al
«Dopolavoro» non c'erano
festoni, né un clima di
particolare euforia. Alla
spicciolata arrivarono i soliti
frequentatori, signori anziani
ma anche giovanotti del
quartiere che passavano le
serate tra carte, amici e un po'
di alcol. Poco dopo le diciotto
giunse anche Claudio
Vannicola, che tutti
chiamavano «la scimmia» a
causa del suo aspetto, trentatré
anni e nessun impiego ufficiale,
un certificato penale piuttosto
nutrito di procedimenti
pendenti, camicia di seta fatta
su misura, scarpe di camoscio,
sciarpa firmata da Yves Saint-
Laurent.
La «scimmia» era conosciuto
al circolo, abitava un paio di
strade più in là e si presentava
quasi tutte le sere per giocare a
poker. Ma era conosciuto anche
dalla polizia e dalle guardie
carcerarie, che l'avevano
ospitato più di una volta. Nel
corso degli anni gli erano
piovute addosso molte accuse,
dall'associazione per delinquere
al favoreggiamento, ed era
stato diffidato in quanto
individuo «socialmente
pericoloso». Adesso Vannicola
era in libertà provvisoria, in
attesa di un processo. Lo
accusavano di aver preso parte
al sequestro di Barbara
Piattelli, una ragazza che aveva
trascorso tutto il 1980 in mano
ai banditi, rapita il 10 gennaio
a Roma e rilasciata il 17
dicembre in Calabria, dopo che
la sua famiglia aveva pagato un
miliardo di riscatto. E dicevano
che in precedenza aveva
collaborato con la banda dei
Marsigliesi.
Amico di Vannicola era stato
Francis Turatello, il bandito
milanese che da quasi un anno,
ormai, era morto, squartato in
carcere da un gruppo di
camorristi. Un altro suo amico,
Raffaele Di Chio, nome di
spicco nella mala romana, era
stato assassinato un paio di
anni prima. Da qualche tempo,
secondo la polizia, la
«scimmia» aveva cambiato
«lavoro»: non si occupava più
di sequestri, ma di traffico di
droga.
«Ciao Claudio.» «Ciao. Dove
sono gli altri?» «Di là.»
Vannicola, dopo aver salutato il
barista e chiesto notizie dei
suoi amici, superò alcuni
pannelli di legno e andò nella
«saletta riservata» del circolo,
dove altre persone stavano
chiacchierando e giocando.
«Ciao Claudio.» «Ciao.» Ancora
saluti, poi la «scimmia» e altri
tre si misero intorno a un
tavolo e cominciarono a giocare
a poker.
Fuori dal locale, intorno alle
diciotto e quarantacinque, si
fermò una Giulia marrone.
Scesero tre persone, una
quarta rimase al volante. Tre
figuri mascherati, dietro quelle
facce di cartone rette da un
elastico che si comprano in
cartoleria. Uno aveva il volto di
Paperino, altri due il pizzetto,
le corna e il cappuccio da
diavolo. Entrarono spediti nel
locale, e chi stava giocando a
flipper o bevendo qualcosa al
bar sorrise nel vedere quei tipi
mascherati e stravaganti. Ma
quelli non si fermarono a
scherzare né a farsi ammirare,
tirarono dritti oltre il séparé di
compensato, e comparvero
improvvisamente davanti a
Vannicola e agli altri che
stavano giocando a poker.
Nelle mani di Paperino, da
sotto il cappotto, saltò fuori un
fucile a canne mozze, in quelle
di uno dei due diavoli una
pistola. Quello col fucile sparò
un colpo solo, dalla pistola
partirono tre proiettili: Claudio
Vannicola fece in tempo ad
alzarsi, ma indietreggiando finì
in un angolo, alzò le braccia
come a voler fermare i suoi
assassini, ma un attimo dopo si
abbatté sul pavimento, ucciso
da un colpo in faccia e uno al
torace.
I tre killer in maschera
uscirono di corsa, s'infilarono
nella Giulia e scomparvero. «La
polizia ritiene che si tratti di un
regolamento di conti negli
ambienti della malavita
romana», scrissero i quotidiani
del giorno dopo. Quattro anni e
mezzo più tardi Claudio Sicilia
spiegò ai giudici che «la
scimmia» era stata uccisa da
Edoardo Toscano e altri tre del
«giro» della Magliana che
gestivano lo spaccio di droga al
Tufello e a Val Melaina: «Nella
stessa zona operava il
Vannicola, che disponeva tra
l'altro di una eroina di qualità
migliore di quella del gruppo
ora indicato. Per questa ragione
di 'concorrenza' venne decisa
l'eliminazione del Vannicola...
Mi venne riferito che gli autori
dell'omicidio erano entrati
nell'esercizio pubblico con il
volto travisato forse da una
maschera di carnevale». Ma
ammazzare Vannicola non era
sufficiente. Per essere sicuri di
aver spazzato via la
concorrenza, bisognava
eliminare anche un certo
Fausto, socio della «scimmia»
nel traffico di eroina. Toscano e
gli altri organizzarono con lui
un incontro al Gianicolo, lì
l'avrebbero ucciso. Le cose,
però, andarono diversamente
da come avevano previsto
quelli della Magliana. Fausto
aveva sentito puzza di bruciato,
e s'era presentato
all'appuntamento sotto la
statua di Garibaldi
accompagnato da alcuni amici,
una decina di persone.
Toscano, Danilo Abbruciati e gli
altri rimasero interdetti, non
potevano far fuori tutta quella
gente né portare via la vittima
designata sotto gli occhi di tanti
testimoni. Così l'esecuzione
venne sospesa, ci fu soltanto
un colloquio tra «duri» nel
quale, per vedere la reazione e
capire le sue intenzioni, quelli
della Magliana, cioè gli
assassini di Vannicola,
accusarono Fausto di aver
ucciso il suo socio. Lui negò,
ma probabilmente capì che per
rimanere vivo doveva perdere
quella partita. «Sta di fatto»,
racconterà Sicilia, «che in un
periodo successivo lasciò
completamente libera la piazza
del Tufello e di Val Melaina.»

Scorreva sangue per la


droga e i soldi, ma scorreva
anche per delle liti occasionali,
per piccoli «sgarri» o questioni
di donne.
Amleto Fabiani, trentadue
anni, detto «er vòto» nel senso
di vuoto, «pluripregiudicato per
sequestri di persona,
associazione per delinquere,
furti e altro» secondo un
rapporto della Squadra Mobile,
legato al boss del Casilino
Tiberio Cason, fu trovato
cadavere nella sua BMW nera,
la sera del 15 aprile 1980,
vicino a un deposito di autobus,
alla borgata Finocchio. Era
seduto al posto di guida, con
quattro buchi alla testa e al
braccio destro.
Con Fabiani aveva un conto
in sospeso Enrico De Pedis, per
una lite avuta a Regina Coeli:
«er vòto» si era permesso di
dare uno schiaffo in pubblico a
«Renatino». Ma una volta usciti
tutti e due dalla galera, De
Pedis non s'era dato troppa
pena di vendicarsi. La
situazione precipitò dopo
qualche tempo, quando Fabiani
si ritrovò nel bar Settebello,
alla Garbatella, insieme a
Marcello Colafigli e altri. I due
cominciarono con qualche
frasetta minacciosa, poi presero
a litigare sul serio finché non
scoppiò una rissa vera e
propria, durante la quale
«Marcellone» prese una
bottigliata in testa da Fabiani.
Un amico del «vòto»,
soprannominato «gnappa», si
mise in mezzo ed evitò che la
questione prendesse una piega
più drammatica; Colafigli, con il
volto sanguinante, salì in
macchina e tornò dai suoi
amici, al bar di via Chiabrera.
Qui venne medicato, poi
spuntarono tre revolver che
vennero distribuiti a
«Marcellone», a Maurizio
Abbatino e a Edoardo Toscano.
I tre salirono decisi sulla
Mercedes di «crispino» e in
pochi minuti furono al
Settebello. Cercavano Fabiani,
ma non lo trovarono. C'era
ancora, invece, «gnappa», il
quale cercò di calmare i tre
vendicatori proponendo una
pacificazione con reciproche
scuse. Quelli dissero che ci
avrebbero pensato. Mentre se
ne andavano, Colafigli si
accorse che nella saletta c'era
Franco, il cognato del «vòto», e
lo picchiò, tanto per gradire.
Passarono un paio di giorni
e, su iniziativa di Franco, che a
causa della lite al Settebello
aveva già avuto la sua razione
di guai, avvenne l'incontro
pacificatore in un altro bar,
nella zona di Testaccio. Del
gruppo della Magliana
andarono in parecchi, ma non
Abbatino. «Quando avvenivano
incontri di questo tipo»,
spiegherà proprio «crispino» al
magistrato, «non vi
partecipavamo mai tutti, in
quanto, se le cose fossero
degenerate e i problemi non si
fossero potuti risolvere
pacificamente ma si fosse
invece arrivati a soluzioni di
forza, era opportuno che
qualcuno di noi restasse fuori.
Ciò, per un verso, costituiva
garanzia per chi partecipava
all'incontro, perché sapere che
altri erano a conoscenza del
fatto e che, dunque, avrebbero
potuto attuare una sicura
vendetta, scoraggiava la
controparte dall'assumere
iniziative sconsiderate; per
altro verso, il non presentarsi
tutti insieme era anche un
modo per scongiurare il rischio
di un fin troppo facile
coinvolgimento a livello
giudiziario, qualora in seguito
si fosse dovuto eliminare gli
avversari.»
Al ritorno
dall'appuntamento, Colafigli
raccontò tutto a Claudio Sicilia,
ma gli parlò della «pace fatta»
con un tono ironico che non
lasciava presagire niente di
pacifico. Passò ancora qualche
giorno, finché una mattina
«Marcellone» si presentò a casa
di Sicilia con la sorella e un
altro amico. Era di buon umore,
aveva portato delle mozzarelle
al burro, si mise in cucina e
preparò il pranzo per tutti. Poi,
nel primo pomeriggio, invitò
Claudio a fare un giretto in
macchina. Sicilia prese con sé
la sua bambina, Emy, e
accompagnò Colafigli per le
strade del quartiere,
chiacchierando degli affari e di
un paio di «schifosi» da
eliminare. Arrivati davanti ai
campi da tennis della Magliana,
«Marcellone» scese ed entrò
nel complesso sportivo,
lasciando nella BMW Sicilia con
la bambina. Claudio gli chiese
di fare in fretta perché Emy si
era stancata, cominciava a
piagnucolare, e lui voleva
tornare a casa. Colafigli stette
via un quarto d'ora, e quando
tornò riaccompagnò «il
vesuviano» al bar di via
Chiabrera.
Fu lì che Sicilia lo rivide,
dopo un paio di giorni in cui
non lo aveva incontrato, la
mattina del 16 aprile, mentre
leggeva sul giornale della
morte di Amleto Fabiani. Come
erano andate le cose lo
raccontò lo stesso Colafigli a
Sicilia, la polizia lo venne a
sapere poco dopo da qualche
informatore, e lo confermerà,
dodici anni più tardi, Maurizio
Abbatino al giudice istruttore:
«Con la scusa di un 'lavoro',
che se ben ricordo doveva
essere una rapina al deposito
Atac, 'Renatino ' De Pedis
convocò sul posto il Fabiani.
All'appuntamento si recò il
'Renatino' stesso, in compagnia
di Raffaele Pernasetti, che
guidava la moto; giunto il
Fabiani, il quale non sospettava
nulla, a bordo della sua BMW
nera, lo uccisero. Non so chi
abbia materialmente sparato.
Poiché l'omicidio era stato
concordato insieme e io,
Toscano, Marcello Colafigli e
Franco Sestili potevamo essere
sospettati stante la recente
discussione, per procurarci un
alibi ci recammo a giocare a
tennis, su dei campi ubicati
presso l'argine del Tevere alla
Magliana». (8)
Erano i campi che Colafigli
era andato a prenotare, tre
giorni prima, durante la
passeggiata con Sicilia. De
Pedis, invece, era voluto
andare, per potersi vendicare
personalmente dello schiaffo
ricevuto in carcere.

La chiamata al capo della


Sezione Omicidi della Squadra
Mobile, il commissario Nicola
Cavaliere, arrivò di mattina
presto, poco dopo le sette del
18 gennaio 1982. Avevano
trovato un cadavere mezzo
carbonizzato dentro una
macchina, sotto un ponte della
via Ostiense, vicino a un
cantiere edile. A scoprirlo era
stato un operaio, mentre si
recava al lavoro. Addosso non
aveva documenti, si
intravedevano capelli e barba
rossicci, doveva avere tra i
trenta e i trentacinque anni,
alto circa un metro e ottanta.
Il commissario arrivò sul
posto in pochi minuti. L'uomo
nella macchina era stato
ammazzato con due colpi di
pistola in fronte e alla nuca, ma
aveva dei segni intorno al collo
e alle caviglie, come se fosse
stato legato con una corda o
con il filo di ferro: forse
l'avevano «incaprettato», alla
maniera dei mafiosi. Ma non si
riusciva a capire chi fosse, il
fuoco aveva bruciato la pelle
delle mani e non si potevano
nemmeno rilevare le impronte
digitali. Doveva trattarsi del
tradizionale «regolamento di
conti», su questo c'erano pochi
dubbi. E siccome era il periodo
in cui quelli del «clan Proietti»
venivano colpiti in serie per
vendicare la morte di Franco
Giuseppucci, ci fu chi ipotizzò
l'ennesima esecuzione di
qualcuno legato ai «pesciaroli».
Il commissario Cavaliere,
giunto a Roma da pochi mesi,
chiese lumi al più vecchio
funzionario della Questura, il
quale si disse sicuro che quel
morto fosse un piccolo
criminale, non certo uno che
contava nella malavita della
capitale, perché lui quelli li
conosceva tutti. Si sbagliava.
Ci volle un giorno e mezzo
per scoprire che il morto si
chiamava Massimo Barbieri,
trentun anni costellati da un
buon numero di precedenti
penali, uno che contava nella
malavita della capitale. La
moglie ne aveva denunciato la
scomparsa, poi riconobbe i
vestiti. Barbieri aveva
cominciato la sua carriera
criminale nel 1974, coi furti e
le rapine. Sospettato di traffico
di droga, nel '75 era stato
accusato di riciclare i soldi del
«clan dei marsigliesi» con
l'acquisto di immobili e
appartamenti; nel '77 l'avevano
mandato in carcere per il
sequestro del duca Grazioli
Lante della Rovere, ma poi era
stato prosciolto per mancanza
di indizi. Scoperto il nome della
vittima, adesso bisognava
trovare un movente per
l'omicidio e gli assassini.
Cominciava un'altra indagine
complicata.
Qualcosa c'era già, negli
archivi della Mobile e nelle
«soffiate» degli informatori. Un
giorno di due anni prima,
Massimo Barbieri si era
presentato al bar di via
Chiabrera. Scese dalla sua Mini
90 e raggiunse Claudio Sicilia,
che come sempre stava lì a
chiacchierare con gli amici.
«Sei tu Sicilia?» chiese. «Il
vesuviano» rispose di sì,
Barbieri lo colpì con uno
schiaffo e si mise a insultarlo
davanti a tutti. Sicilia gli si
avventò contro e cominciò a
picchiarlo finché uno dei
presenti non lo agguantò alle
spalle per fermarlo, Barbieri
sgusciò via e scappò
continuando a urlare parolacce.
«Ma chi è?» domandò
Claudio, ricomponendosi,
all'uomo che l'aveva fermato;
quello gli spiegò chi era
Barbieri e perché ce l'aveva con
lui: credeva che Sicilia andasse
a letto con la sua amante. La
sera, in via Chiabrera, si
presentò «gnappa», quello che
era stato amico di Fabiani, e
disse a Sicilia che non doveva
prendersela con Barbieri, un
tipo strano, d'accordo, contro il
quale non era il caso comunque
di meditare vendette.
«Gnappa» propose anche un
incontro chiarificatore, ma
Sicilia non volle saperne: «Non
c'è niente da chiarire, io a
quello neanche lo conosco».
Il giorno dopo Sicilia stava di
nuovo davanti al bar,
appoggiato a una macchina. A
un tratto sentì un colpo di
pistola, si girò e vide un uomo
col cappello e gli occhiali da
sole che gli stava sparando. Si
gettò a terra tra le macchine,
poi riconobbe Barbieri; era
ferito di striscio a una gamba,
ma decise di affrontarlo. Gli
saltò addosso, e riuscì a
togliergli la pistola di mano, a
quel punto Barbieri pensò bene
di fuggire, raggiunse la sua
auto e filò via.
Questa storia di quello che
lo voleva ammazzare perché
s'era messo in testa che lui se
la facesse con la sua amante
cominciava a preoccupare
Claudio Sicilia. Chiese a
Giuseppucci di aiutarlo a
difendersi, ma il «negro» gli
consigliò di aspettare che
uscisse dal carcere Marcello
Colafigli, uno dei «drizzatorti»
più affidabili della banda, in
quel periodo detenuto. Altri
«mediatori» si presentarono da
Sicilia per scongiurare la
vendetta, e dirgli che Barbieri
avrebbe chiesto scusa, ma lui
rispondeva sempre che non
voleva scuse; «per me la
questione è chiusa, basta che
quello la smette.»
Passarono i mesi, morì
Giuseppucci, e un giorno Danilo
Abbruciati andò da Sicilia per
proporgli di ammazzare
insieme Barbieri: quello infatti
se l'era presa anche con lui,
sempre per una storia di
donne. «So dove sta adesso, tu
guidi la moto e io gli sparo»,
disse Abbruciati. «Il vesuviano»
rifiutò. Più tardi Sicilia finì in
galera per una storia di armi, e
mentre si trovava in cella
venne a sapere dell'omicidio di
Massimo Barbieri. Quando uscì
chiese a quelli della Magliana
notizie su quell'esecuzione. Le
trovò.
Gli amici dissero che ad
ammazzare «quel pazzo» era
stato Danilo Abbruciati insieme
a qualche altro, e che in fondo
lui poteva considerare
l'assassinio «un regalo
personale». «Ma perché? Sono
passati due anni, come mai
Danilo l'ha ucciso?» domandò
Sicilia. Allora venne fuori la
storia: non solo Abbruciati si
voleva ancora vendicare, non
solo Barbieri s'era messo a
insidiare le mogli e le fidanzate
di molte persone del «giro», ma
era anche diventato
assolutamente inaffidabile.
«Prendeva talmente tanta
cocaina, che per
controbilanciare gli effetti
aveva cominciato a bucarsi con
l'eroina. Ormai era una persona
inutile», spiegarono a Sicilia. E
gli raccontarono come morì
Barbieri.
Avevano organizzato una
festa a casa di «gnappa», e con
la scusa di andare a prendere
un po' di droga, uno uscì con
Massimo. Lo accompagnò fino a
un capannone poco distante,
dove ad aspettare c'erano
Abbruciati e altre due persone.
Appena vide Danilo, Barbieri
capì che era finito in trappola,
tentò di scappare ma fu preso e
«imbragato» con la corda, mani
e piedi legati. Prima lo
seviziarono, poi gli spararono
due colpi alla testa. Caricarono
il cadavere in macchina, lo
portarono sull'Ostiense e
diedero fuoco all'auto.
Sicilia seppe anche che uno
degli assassini di Barbieri era
già l'amante della moglie della
vittima, e dopo l'omicidio era
andato a vivere con lei e con i
bambini del morto. Al collo,
adesso, portava un medaglione
dove c'era su un lato la
fotografia di Massimo, e
sull'altro una dedica. «Ma tu
l'hai ammazzato, come fai ad
andare in giro con questa e a
stare con la moglie?» chiese
Sicilia. E quello: «Era uno
schifoso, se l'è meritato».

A Sicilia raccontarono anche


come aveva fatto Abbruciati a
crearsi l'alibi per l'omicidio
Barbieri, grazie a un
passaporto falsificato che s'era
procurato con la complicità del
vero titolare e di un poliziotto.
L'intestatario del documento ne
aveva denunciato lo
smarrimento, ma in Questura il
poliziotto compiacente aveva
bloccato la pratica. Così, nei
giorni in cui Abbruciati
commetteva l'omicidio, il
titolare del passaporto poté
andare in Brasile facendo
mettere sul documento i timbri
di entrata e di uscita. Tornato
in Italia, consegnò il passaporto
a un falsario, che lo diede ad
Abbruciati: adesso lì c'era una
sua foto, e Danilo poteva
sostenere che mentre qualcun
altro ammazzava Massimo
Barbieri lui si trovava al di là
dell'Atlantico.
Sette mesi prima di
quell'omicidio, Abbruciati aveva
provato a uccidere Ferdinando
Garofalo detto «er
ciambellone», proprietario di
un ristorante a Trastevere. Era
il primo giugno 1981, e
Garofalo si trovava da poco in
libertà, uscito in «licenza di
esperimento» dal carcere
psichiatrico di Aversa. Secondo
la polizia, che lo considerava
l'anello di collegamento tra il
vecchio «clan delle 3 B» e i
calabresi, era coinvolto in
alcuni sequestri di persona e
nel traffico di droga, ma lui
continuava a ripetere che non
c'entrava niente. Nel suo
quartiere, comunque, lo
conoscevano tutti come un
boss. E lo conoscevano anche
quelli della Magliana, in
particolare i «testaccini»,
infastiditi dalla sua presenza
«sul mercato». Abbruciati, poi,
ce l'aveva col «ciambellone»
perché diceva che gli aveva
soffiato la donna mentre lui
stava in galera.
Alla gelateria di piazza in
Piscinula, nel cuore di
Trastevere, quel pomeriggio
c'era un discreto movimento.
Garofalo arrivò, trovò un
tavolino all'aperto libero, si
mise a sedere. Forse aspettava
qualcuno, forse voleva
semplicemente starsene un po'
al fresco. All'improvviso, il
rombo di una moto coprì le
chiacchiere dei presenti e un
uomo bassino, col volto coperto
e un fucile avvolto in un foglio
di giornale, comparve dietro la
siepe che delimitava lo spazio
dei tavolini. A differenza di tutti
gli altri presenti, «er
ciambellone» capì al volo quello
che stava per succedere, scattò
in piedi e corse verso l'interno
del bar: il colpo di fucile prese
la sedia rimasta vuota e finì su
una signora che sedeva al
tavolino accanto.
Mentre il complice aspettava
in moto e la vittima designata
cercava riparo dentro il locale,
il killer sparò ancora, stavolta
all'interno del bar, ma mancò
nuovamente il bersaglio. In
compenso ferì il cassiere a un
piede. Ormai non c'era più
tempo, bisognava fuggire, la
moto sparì per le stradine di
Trastevere; Garofalo s'era
salvato, e prima che
arrivassero la polizia e le
ambulanze anche lui si dileguò
tra i vicoli del quartiere.

A qualcuno dei «bravi


ragazzi» il cinema piaceva, a
qualcun altro no, ma di certo le
loro gesta richiamavano alla
mente le scene di certi film,
riadattate ai quartieri e ai
personaggi della periferia
romana di quegli anni. Come
l'omicidio di un barbone
avvenuto al Laurentino, riferito
da uno degli assassini a Claudio
Sicilia.
Era un signore alto, vestito
di stracci, la barba lunga e i
capelli ridotti a tanti ciuffi
cementati dalla sporcizia.
Chiedeva l'elemosina lungo i
marciapiede del quartiere,
davanti ai negozi, fermando la
gente che passava. Dava
fastidio soprattutto per il suo
aspetto, e in particolare ai
commercianti, i quali temevano
che il barbone allontanasse i
clienti dalle loro vetrine. Un
gruppo di amici di Sicilia si
trovava da quelle parti - uno
era soprannominato «il gobbo»,
un altro «il ciociaro» -, e intimò
all'uomo di andarsene. Quello
obbedì, ma insultando e
maledicendo chi lo stava
cacciando via.
La sera, «il gobbo», «il
ciociaro» e gli altri decisero di
dare una lezione al vecchio.
Salirono su una Volvo e su
un'Alfasud, e si misero a girare
in cerca del suo rifugio. Arrivati
a una collinetta dietro i cantieri
della Laurentina, lo trovarono
che dormiva dentro una grotta,
sopra un'incerata, coperto da
giornali e un po' di stoffa.
Volevano impaurirlo, dettero
fuoco all'incerata. Ma le fiamme
divamparono in un attimo, e il
barbone morì bruciato.
La cosa sarebbe finita lì se
non fosse che un guardiano dei
cantieri disse in giro di aver
notato la Volvo e l'Alfasud
aggirarsi per la collinetta. Così
uno degli assassini dovette
avvicinarlo, e non ci mise molto
a convincerlo che certe cose
sarebbe stato meglio tenerle
per sé.
Ed ecco un altro omicidio
«da film», così come l'ha
raccontato Claudio Sicilia al
magistrato: «Mi venne riferito
dal Pernasetti che un tal
'Rufetto' era stato l'autore
materiale di un omicidio
avvenuto a Ostia. Non so chi
sia il morto, posso dire che a
detta del Pernasetti il 'Rufetto'
era entrato in un negozio di
barbiere, aveva il volto
travisato da una sciarpa e
aveva sparato uccidendo un
uomo che si trovava seduto
sulla sedia del barbiere. Il fatto
era conseguenza di una 'sòla'
fatta dal morto al 'Rufetto': i
due avevano compiuto
unitamente ad altre persone
una rapina a un portavalori, e
la persona uccisa non aveva
regolarmente diviso il provento
della rapina. So di questo fatto
in quanto ne parlarono in mia
presenza il Pernasetti e un tale
'Gallina', simpatizzante di
destra... Il Pernasetti accusava
il 'Gallina' dell'omicidio, e
questi gli disse appunto che
non era opera sua ma del
'Rufetto'. Successivamente ebbi
modo di riparlare del fatto con
il Pernasetti, il quale mi disse
che il 'Rufetto' gli aveva
confermato quanto dettogli dal
'Gallina'». (9)

Ci fu persino chi si ricordò di


un film del 1952, interpretato
da Simone Signoret, quando
vide Claudiana Bernacchia, e
gli venne in mente di chiamarla
«casco d'oro». Come il titolo del
film, appunto, perché diceva
che per fascino e autorevolezza
somigliava alla protagonista.
Lei, Claudiana, giovane, minuta
e carina, era diventata la
donna di Claudio Sicilia,
finendo per condividerne ogni
traffico e ogni affare. Lui diceva
di amarla, e l'aveva fatta
entrare nel «giro», facendola
sentire «la donna del capo»
anche se Sicilia capo non era.
Spediva Claudiana agli
appuntamenti, come quella
volta che la mandò, di notte, a
un incontro con un certo
«capello» davanti al convento
dei frati trappisti, per farle
ritirare delle armi che «il
vesuviano» doveva custodire
per conto della banda. Oppure
le faceva «tagliare» l'eroina da
vendere. Era una di cui ci si
poteva fidare, apprezzata da
tutti.
Quando Sicilia capì che
qualcuno s'era messo in testa
di ammazzarlo perché temeva
un suo tradimento, venne a
sapere che volevano far fuori
pure Claudiana, «in quanto a
detta di tutti la stessa voleva
farmi cambiare vita, cosa in
effetti vera», dirà al giudice.
Dunque «casco d'oro» cercava
di convincere il suo uomo a
farla finita con la droga e gli
altri «affari sporchi». E dopo
l'arresto di Sicilia, i suoi amici
l'avevano cercata, con la scusa
di volerla aiutare e offrirle
assistenza, ma lei s'era
spaventata ed era sparita dalla
circolazione. Immaginava che
volessero eliminarla, perché
avrebbe potuto confermare
molte delle cose che Sicilia
avrebbe detto ai magistrati.
Ma riuscì a salvarsi, e in
seguito si legò a un altro boss
della Magliana. Secondo gli
investigatori ha continuato a
fare affari e a gestire col suo
nuovo uomo i traffici della
banda, tanto che nell'estate del
1993 l'hanno arrestata con
l'accusa di associazione di
stampo mafioso. Abitava in una
bella villa sulla via dei Laghi,
vicino ai Castelli, da sola
perché il suo uomo era già in
carcere.
Anche la moglie di Maurizio
Abbatino, la signora Carla,
sapeva dei traffici del marito.
Una volta, raccontò Sicilia, fu
interessata al ritiro di «due
tocchi di cocaina», che
dovevano servire per fare un
regalo. E quando Maurizio si
trovava in carcere, riusciva a
farsi rispettare perché era pur
sempre la «moglie del capo».
Andava regolarmente a trovare
Maurizio, riferiva quello che gli
amici gli mandavano a dire e
portava fuori le risposte. In
assenza del «capo», era lei a
incassare le quote di guadagni
che spettavano al marito.
Quella della riscossione, del
resto, era un'attività che spesso
veniva affidata alle donne dei
boss. Nicolino Selis, per
esempio, gestiva tre bische
clandestine, una a Pomezia e
due a Roma, e quando stava in
galera ci pensava la sua
convivente, Maria Antonietta, a
ritirare ogni settimana le
ottocentomila lire che le bische
fruttavano a Selis.
Succedeva anche che le
fidanzate passassero da un
boss all'altro senza troppi
problemi. Una ragazza che
spacciava droga nella zona di
Campo de' Fiori, Fabiola
Moretti, e che si riforniva di
«roba» al bar di via Chiabrera,
secondo il racconto di Claudio
Sicilia passò dal «ciambellone»
Garofalo, a Massimo Barbieri, a
Danilo Abbruciati, fino a
diventare - dopo la morte
dell'ultimo amante - la donna di
un altro emergente della
Magliana, Antonio Mancini.
Fabiola era giovane e carina,
minuta e con dei grandi occhi
neri. Figlia di genitori onesti e
severi nell'educazione, a
quattordici anni era scappata di
casa, aveva trovato lavoro
come commessa in una
boutique e con un'amica di
qualche anno più grande,
Chiara, aveva cominciato a
frequentare bar e locali
notturni, dove era inciampata
nel fascino della bella vita
ostentata dai malavitosi.
Si innamorò di Abbruciati
che non aveva ancora
vent'anni. Lo conobbe nel
ristorante del «ciambellone»,
lei una ragazzina, lui un boss
già temuto da molti. Cominciò a
desiderarlo in segreto, perché
all'inizio Danilo non mostrava
di avere occhi per quella
moretta troppo giovane, finché
non riuscì a conquistarlo,
intessendo una storia d'amore
che un giorno avrebbe
consegnato a un verbale
d'interrogatorio: «Le
frequentazioni con Danilo si
fecero più regolari dopo il
1973, quando finii per avere
con lui la relazione affettiva
che avevo sempre desiderato. A
quell'epoca Danilo si dedicava
alle rapine e i suoi compagni
erano Umbertino Cappellari,
Amleto Fabiani detto 'er vòto',
Paolo Frau e Marco Meschino».
(11)
Fabiola finì per «lavorare»
con Abbruciati e gli altri «bravi
ragazzi», ma il fatto di avere
legami sentimentali coi capi
non faceva passare in
subordine i rapporti d'affari e le
leggi imposte dalla banda. Per
cui, ha raccontato ancora
Sicilia, la volta che lei si
presentò da Abbruciati per
protestare per la pessima
qualità dell'eroina che le aveva
dato da spacciare, l'uomo la
rispedì bruscamente da dove
era venuta, intimandole di
piazzare quella «roba».
Del resto Danilo non era un
tenero, nemmeno con le «sue»
donne; una volta, in Questura,
dichiarò al poliziotto che lo
stava interrogando: «Io le
avvicino solo per necessità
fisiche». E Fabiola, molti anni
dopo, rivelerà a un giudice la
natura turbolenta del rapporto
tra lei e Abbruciati: «L'ho
amato come nel nostro
ambiente si sa amare. Voglio
dire che il fatto che noi ci
amassimo non significa che in
certi casi non si litigasse di
brutto. Se si potesse riesumare
il corpo del povero Danilo gli si
troverebbero ancora i segni
delle coltellate che gli ho
infetto. Eppure l'ho amato, e lui
mi ha amata...»
Un'altra amante e trafficante
che circolava intorno alla banda
era una certa Antonietta, del
Trullo, moglie di un idraulico e
amica di uno della Magliana
prima e di suo fratello poi.
Antonietta teneva la droga nel
suo appartamento, il marito lo
sapeva e collaborava a
custodire la «roba». Quando
serviva l'eroina, l'amico di
Antonietta - quello della
Magliana - fissava un
appuntamento e lei si
presentava con la quantità
richiesta.
C'erano le mogli e c'erano le
amanti. Le donne ufficiali dei
boss - quasi tutti con doppia o
tripla vita - il più delle volte
sapevano, ma lasciavano fare,
curandosi di mantenere un
buon livello economico, le case
e i bambini. «Mio marito»,
dicevano, «può anche prendersi
degli spuntini fuori, ma poi
torna a mangiare a casa.» Le
amanti, invece, a volte si
trasformavano in un'arma in
mano ai poliziotti: successe con
Maurizio Abbatino, che, nel
maggio del 1983, fu arrestato
proprio in seguito ai
pedinamenti alla sua
amichetta, Roberta,
giovanissima e di buona
famiglia.
La ragazza usciva di casa di
buon'ora, e con l'autobus e il
taxi arrivava al residence Prato
Smeraldo, sulla Laurentina.
Faceva un po' di spesa al
supermercato, poi entrava nella
palazzina numero 57, in un
appartamento al piano terra. In
quella casa si nascondeva
«crispino», e in quella accanto
il suo amico «operaietto»,
Edoardo Toscano. I poliziotti,
una volta certi che Abbatino
fosse dentro, fecero saltare la
serratura della porta con un
colpo di fucile a pompa,
irruppero nell'appartamento
lussuosamente arredato e
trovarono il ricercato. Subito
dopo presero Toscano. Li
arrestarono senza che
muovessero un dito; nelle case
protette da vetri blindati
trovarono soldi in contanti e
hashish, oltre ad «alcuni
contenitori metallici con
evidenti tracce di cocaina».
(12)
A Roberta, Abbatino aveva
anche procurato un lavoro
come commessa in un negozio,
e il proprietario che l'aveva
assunta detraeva i soldi dello
stipendio della ragazza da
quanto doveva pagare per
l'eroina e la cocaina di cui lo
rifornivano quelli della
Magliana. Maurizio aveva
voluto quell'impiego per
l'amante in modo che non
avesse problemi a uscire di
casa, e lui potesse incontrarla
ogni volta che voleva.

I soldi arrivavano con la


droga, ma non solo. C'erano
anche le case da gioco, i
videopoker, le scommesse
clandestine e l'usura a riempire
le casse della banda. Che poi
aveva le sue spese, non
soltanto per rifornirsi di eroina
e cocaina, ma anche per pagare
gli avvocati, i poliziotti e le
guardie carcerarie da
corrompere, il sostentamento ai
detenuti e alle loro famiglie.
Quando ancora c'era Franco
Giuseppucci, la strada del gioco
d'azzardo fu intrapresa
affittando una villa dalle parti
di Casal Lumbroso, a nord di
Roma. La trovarono «er negro»
e Libero Mancone, due esperti
dello "chemin de fer", era la
residenza di un attore che
lavorava nei film western. Le
diedero un nome, My club, e
invitando giocatori di un certo
livello, riuscivano a incassare
anche quaranta milioni a
serata.
«La villa», racconterà
Abbatino, «venne affittata per
due periodi di un mese, ma
considerati i preparativi per
l'allestimento di quello che
potrebbe definirsi un casinò
clandestino, si giocò ogni volta
per non più di due settimane.
Sebbene si trattasse di un
affare lucroso, non ritenemmo
di dover andare avanti a lungo,
sia perché eravamo impegnati
in altre attività, sia per non
correre il rischio di essere
scoperti in considerazione della
permeabilità dell'ambiente
sociale che frequentava le
'partite', sia, infine, perché sul
terreno organizzativo, per la
gestione di quegli affari, erano
meglio attrezzati in un primo
tempo i milanesi della banda di
Francis Turatello, e in un
secondo tempo, dagli inizi degli
anni Ottanta, i siciliani.» (13)
Ma i «testaccini», il gruppo
capeggiato da De Pedis e
Abbruciati, non volevano
rinunciare al gioco d'azzardo,
perché oltre alle consistenti
entrate che garantiva, era
anche un modo per riciclare e
«lavare» il denaro sporco
proveniente dal traffico di
droga. Inoltre era un terreno
fertile per coltivare il prestito
dei soldi «a strozzo», con il
circolo vizioso dei giocatori che
perdevano, si indebitavano,
chiedevano prestiti ai
«cravattari» pronti a
concederli, si indebitavano
ancora di più e finivano
completamente nelle mani degli
usurai, i quali alla fine avevano
diritto di impadronirsi delle
aziende o delle imprese dei
debitori che non potevano
pagare.
Queste attività, ha poi
spiegato Maurizio Abbatino,
«per chi, come i 'testaccini',
non voleva ricorrere, non
avendone alcun bisogno, alla
'protezione' dei siciliani,
comportavano la necessità di
disporre di personale che fosse
versato nel dirigere il gioco e
che, soprattutto, provvedesse a
recuperare i crediti, nonché a
garantire lo svolgimento
dell'attività stessa in condizioni
di sicurezza. A questo riguardo,
la fama della nostra banda era
di per sé garanzia che
difficilmente i debitori si
sarebbero sottratti ai
pagamenti. D'altra parte
doveva essere allargata la base
dell'organizzazione, attraverso
l'immissione in essa di persone
che gestissero il gioco e
svolgessero le necessarie
operazioni di liquidazione degli
incassi che non sempre
avvenivano in denaro contante,
ma specialmente in titoli di
credito. Fu così che persone
con trascorsi malavitosi e
versate in quel tipo di
operazioni vennero man mano
reclutate.
«In particolare entrarono in
tal modo nell'organizzazione
personaggi come Giuseppe
Scimone, il quale inizialmente
si occupava soltanto di piazzare
sostanze stupefacenti e che,
successivamente, divenne uno
dei perni della gestione dei
circoli privati. Analogamente è
da dirsi per tal Salvatore
Nicitra, siciliano con trascorsi di
rapinatore, già amico di Franco
Giuseppucci e referente di
Enrico De Pedis per la
commercializzazione della
droga nella zona di Primavalle,
il quale per la sua abilità di
gestire il gioco venne anch'egli
'arruolato' nella banda per la
conduzione dei circoli privati.»
(14)
Furono affittate altre ville
per ospitare bische e case da
gioco clandestine, cominciò
l'attività di gestione dei
videopoker (un settore che in
passato Tiberio Cason aveva
offerto alla banda, ma che
quelli della Magliana avevano
rifiutato per evitare di
scatenare contrasti con altri
gruppi per il controllo del
territorio), l'organizzazione del
totonero.
Siciliano di Palma di
Montechiaro - provincia di
Agrigento, patria di Tomasi di
Lampedusa e di uno dei più
feroci e temibili clan mafiosi
dell'isola, quello dei Ribisi -
Salvatore Nicitra divenne ben
presto, benché molto giovane,
uno dei boss più autorevoli in
questo genere di attività. Un
rapporto dei carabinieri
definisce lui e altri gestori di
bische collegati a Nicitra
personaggi regolarmente
impuniti e rispettati, «sia per la
loro particolare scaltrezza
nell'eludere le investigazioni
della polizia, sia perché molte
persone che hanno subito
prepotenze, soprusi e violenze
nonché ricatti di ogni tipo,
preferiscono non denunciare le
loro malefatte per paura di più
gravi rappresaglie.»
Di Salvatore Nicitra, classe
1957, il rapporto dice che è
«capace di esercitare e godere
notevole ascendente nei
confronti dei consociati. Non ha
disdegnato, in passato, di
ricorrere a minacce,
intimidazioni e violenze nei
confronti di quanti si siano
opposti alla sua volontà,
facendo anche leva
sull'attestato 'vizio totale di
mente' riconosciutogli in
passate sentenze penali di cui
egli stesso si fa vanto... Per
conto dell'organizzazione ha
gestito il gioco d'azzardo
clandestino, seguendo
personalmente l'attività dei
circoli ricreativi dove erano
installati i videopoker e
riscuotendo le puntate del
totonero presso le ricevitorie di
pertinenza.» (15)

Le perizie psichiatriche
compiacenti, così come i
ricoveri facili e i certificati che
permettevano ai detenuti il
trasferimento nelle infermerie
delle prigioni, gli arresti nelle
cliniche o quelli domiciliari,
erano le armi più utilizzate dai
«bravi ragazzi» per contrastare
il carcere e i guai giudiziari. Per
«aggiustare i processi»,
insomma, come facevano i
mafiosi.
Il trucco più frequente era
quello delle false cartelle
mediche da cui risultavano
ricoveri mai avvenuti, quasi
sempre per sospette malattie
mentali, in cliniche
specializzate. Ne usufruì
Marcello Colafigli prima ancora
di essere dichiarato infermo di
mente per l'omicidio di via
Donna Olimpia, quando subì un
processo per furto. Nella casa
di cura dove «Marcellone» era
stato ricoverato per un
incidente di moto, scoprirono
all'improvviso una malattia
mentale. Lo stesso Colafigli, ai
medici andati a visitarlo per
l'ennesima perizia, raccontò un
passato disastroso: «Il paziente
avrebbe ripetuto la prima
media e la terza superiore,
conseguendo il diploma in
geometra a ventidue, ventitré
anni; sembra che sia stato
riformato alla visita di leva, ma
il periziando è impreciso al
riguardo; nel 76 pare abbia
subito un ricovero in una
clinica psichiatrica, non è molto
preciso in proposito». La sorella
riferì inoltre agli investigatori
che Marcello «è nato settimino,
da parto gemellare, con morte
quasi immediata del fratello;
appena nato, pesando chili
1,200, è stato tenuto, anziché
in incubatrice, in una scatola da
scarpe imbottita di ovatta;
avrebbe sofferto di meningite
verso i due anni e mezzo; è
stato seguito per molto tempo,
nel corso dell'infanzia e fino a
dieci, dodici anni, per certe crisi
che la sorella a tratti definisce
di epilessia, a tratti di acetone;
era molto affezionato alla
madre (che era sempre molto
premurosa e protettiva con lui)
e ha molto sofferto per la sua
morte, reagendo
negativamente al secondo
matrimonio del padre e
attaccandosi morbosamente
alla sorella; verso il 1978 fu
ricoverato in una clinica per
malattie nervose a Roma.»
(17)
E pensare che un
maresciallo di Polizia, in un
rapporto del 1981, scriveva che
Marcello Colafigli, «noto
rapinatore e bandito di levatura
nazionale, incontrastato boss
della malavita organizzata dei
quartieri Magliana, Trullo, San
Paolo e altre zone, per il suo
grado di cultura superiore agli
altri (diplomato geometra) è
tenuto in particolare
considerazione.» (18)
Agli uomini della Magliana,
durante le detenzioni e i
processi, comparivano d'un
tratto i disturbi e i segni delle
malattie più strane. Specialista
era Maurizio Abbatino, che
mentre si trovava in isolamento
a Regina Coeli riuscì a ottenere
la libertà provvisoria grazie a
irritazioni e gonfiori degli occhi,
appositamente procurati dai
semi di ricino applicati sulle
palpebre che gli venivano
portati da uno dei cappellani
del carcere. «Padre
Gianfranco», racconterà
«crispino», «non soltanto mi
consegnò i semi di ricino, ma
anche pacchetti contenenti
hashish, cocaina occultata in
confezioni di medicinali e una
radio la cui detenzione era
assolutamente vietata in
carcere.» (19)
In un'altra occasione
Abbatino presentò una
documentazione dalla quale
risultava essere affetto da
un'inesistente malattia al
cuore; al cardiologo che
gliel'aveva procurata fu
recapitato, nel suo studio
privato, un costoso apparecchio
per il telecuore. Poi spese oltre
sessanta milioni nell'acquisto di
una macchina per l'applicazione
di pacemaker, con la quale
«crispino» doveva farsi inserire
lo stimolatore cardiaco: non ne
aveva alcuna necessità, serviva
solo per apparire
irrimediabilmente malato. Ma
non riuscì a trovare un medico
disposto a effettuare
l'operazione su una persona
perfettamente sana.
Abbatino non si arrese, e
pur di simulare una malattia
finì addirittura sotto i ferri.
«Più facile», rivelerà una volta
pentito, «fu trovare sanitari
disposti a praticarmi una
biopsia con gastroscopia allo
stomaco, ad acquisire un
'vetrino' di cellule tumorali,
ovviamente non mie, e a
certificarmi un tumore. Il
'vetrino' in questione, che
proveniva dall'ospedale
Sant'Eugenio, era relativo a un
adenocarcinoma diffuso del
sistema linfatico, sicché fu
necessario asportarmi anche un
linfonodo cervicale, per rendere
credibile la frode. I miei
linfonodi, peraltro, apparivano
ingrossati, e questo perché nel
carcere di Rebibbia, reparto
infermeria, mi ero iniettato il
sangue di un altro detenuto che
presentava linfonodi
ingrossati.» (20)
A consigliare Abbatino era
un amico medico, il quale si
occupava di prelievi, diagnosi e
prognosi, e fece ricoverare
«crispino» all'ospedale San
Camillo per un trattamento di
chemioterapia. Nel frattempo
l'avvocato otteneva per il suo
assistito, «per gravi motivi di
salute», gli arresti domiciliari in
una clinica privata, gestita da
medici che Abbatino già
conosceva: «Uno era stato
amico di Giuseppucci, il quale
gli aveva 'sistemato' una
questione con un tale di Ostia
che gli molestava l'amante».
(21)
Durante la «degenza» in
clinica, ad Abbatino fu
notificato un nuovo mandato di
cattura, e il giudice istruttore
fece sapere all'avvocato che per
verificare le condizioni
dell'imputato avrebbe ordinato
una perizia. Il bandito e i suoi
medici giocarono d'anticipo,
simularono una colonoscopia e
inviarono il solito «vetrino». Il
perito annunciò altri esami.
«Vennero rimandati»,
confesserà il «malato», «in
considerazione del grave stato
di deperimento organico
conseguente al fatto che non
mangiavo e mi sottoponevo a
clisteri, nonché di una sclerosi
a placche con paralisi degli arti
inferiori che riuscivo a simulare
riproducendo la sintomatologia
in modo da ingannare il
neurologo.»
Maurizio Abbatino era
ancora agli arresti domiciliari in
quella clinica dalle parti dell'Eur
quando, nel 1986, Claudio
Sicilia cominciò a collaborare
con i giudici. «Abbatino»,
avvertì Sicilia, «è in perfette
condizioni di salute, assume
farmaci per deperire e afferma
falsamente di non poter
camminare. Sta su una sedia a
rotelle, ma personalmente l'ho
visto alzarsi e sedersi a
dimostrazione che era in grado
di camminare, quando io gli
avevo chiesto se potesse farlo o
meno. Attualmente, nonostante
sia piantonato, riceve
costantemente visite, mattina e
pomeriggio, dai familiari e
anche da estranei. Anche io,
come ho detto, sono entrato
nella stanza dell'Abbatino
presentato come suo cugino.
Gli agenti, si trattava di
poliziotti di cui uno si chiamava
Roberto, nulla hanno rilevato;
tra l'altro non erano nella
stanza, ma in una saletta
attigua.» (23) Abbatino evase
indisturbato da quella clinica
poche settimane più tardi.
Altri malati immaginari in
carcere erano Gianfranco
Urbani, «er pantera», che
lamentava un diabete
diagnosticato grazie alla
sostituzione dei campioni dopo i
prelievi per le analisi, e
l'«operaietto» Toscano, il quale
si fece ricoverare d'urgenza in
ospedale per un finto
avvelenamento: dichiarò di
aver ingerito un'intera
confezione di Roipnol, mentre
aveva mandato giù solo due
pasticche.
Nel centro clinico di
Rebibbia, al detenuto Enrico De
Pedis fu di fatto certificato un
tumore. Nel diario clinico
comparvero notizie di una
«asportazione di metastasi
regione sottomandibolare
destra da carcinoma
epidermoidale» e di ripetuti
disturbi lamentati dal detenuto
a causa di una «ipotrofia
testicolare destra». Fu
necessario che De Pedis
morisse per scoprire che non
era vero niente, e che anche lui
aveva truffato la giustizia con
le sue false malattie. Nel
febbraio del 1990, dopo che era
stato ammazzato a via del
Pellegrino, nel cuore della città,
il cadavere di «Renatino» fu
sottoposto all'autopsia, e il
professor Sacchetti dichiarò al
giudice: «Il quadro anatomo-
patologico non appariva
caratterizzato dalla presenza di
patologie neoplastiche... Del
resto le condizioni di nutrizione
del cadavere (peso chili 98) e
la conformazione delle masse
muscolari del medesimo, mal si
sarebbero conciliate con una
patologia neoplastica, e
specialmente con quella di un
carcinoma epidermoidale
metastatizzato che sarebbe
stato diagnosticato da alcuni
anni.» (24)

Per le false perizie sono


state spese decine di milioni,
che durante le inchieste e nei
processi fruttavano
proscioglimenti e assoluzioni.
Ma il denaro e la corruzione
arrivavano anche agli impiegati
del palazzo di giustizia, per le
perizie sulle armi utilizzate
negli attentati, in cambio di
informazioni su come stavano
andando i procedimenti in
corso, per «oliare» i magistrati.
Quando fu scoperto un
arsenale della banda e
cominciarono le indagini per
abbinare pistole e fucili ai vari
agguati che s'erano consumati
negli anni precedenti, quelli
della Magliana tentarono di
arrivare al perito del tribunale
che doveva fare gli esami.
Sicilia, Abbatino e altri erano
finiti in quell'inchiesta, e
temevano di vedersi accollare
gli omicidi e i tentati omicidi
avvenuti fino al 1981. Ma uno
dei loro avvocati disse che non
c'era da preoccuparsi, che «era
tutto a posto». A Sicilia fu
spiegato che si sarebbe risolta
ogni cosa versando degli acidi
sulle armi ritrovate.
Spesso erano i difensori di
alcuni imputati a chiedere e
ottenere soldi dai loro clienti
dicendo che servivano per
comprare i magistrati e far
nominare periti compiacenti.
Ma altre volte i «bravi ragazzi»
cercavano e trovavano da soli i
loro contatti.
Per seguire un processo
contro Marcello Colafigli e
controllare che tutto andasse
bene per l'imputato, un
cancelliere del tribunale
ricevette in regalo un Rolex del
valore di due milioni e una
pelliccia di volpe per sua
moglie. Sicilia era presente alla
consegna dell'omaggio, lui e
Abbatino incontrarono il
cancelliere nel parcheggio del
palazzo di giustizia. Il
«vesuviano», in
quell'occasione, disse al
cancelliere che aveva uno
stand di frutta ai mercati
generali e che era a sua
disposizione, qualsiasi cosa gli
servisse. Quello, per tutta
risposta, gli diede il proprio
indirizzo, e qualche giorno dopo
Sicilia si presentò a casa sua
con una cassetta di frutta.
Un'altra pelliccia di volpe il
cancelliere la pretese perché
doveva servire, spiegò, a
«convincere» il magistrato che
si occupava di un certo
procedimento. Un magistrato
disponibile ma anche esigente,
a sentire il cancelliere che
continuava a ordinare regali e
incassare «mazzette» da
cinque e dieci milioni; sempre
per il giudice, diceva. Abbatino
e Sicilia, allora, procurarono un
busto di marmo di epoca
romana, senza braccia e senza
testa, valore di circa venti
milioni, e un servizio da
scrittoio in pelle con i sigilli
della gioielleria Bulgari, pagato
intorno ai tre milioni.
Consegnarono il tutto al
cancelliere, poi aspettarono i
risultati della corruzione, che
però non arrivavano. Quel loro
«contatto» era uno che la
mattina lavorava in tribunale e
il pomeriggio nella segreteria di
un deputato democristiano.
Qui, nell'ufficio dell'uomo
politico, Abbatino e Sicilia
andarono una volta per
depositare alcune «mazzette»,
e quando «crispino» si lamentò
col cancelliere dicendo che da
quanto aveva saputo la perizia
psichiatrica sul suo amico
«Marcellone» non stava
andando come doveva andare,
quello fece di tutto per
convincere il gangster del
contrario.
«Ma che cosa sta dicendo?»
si rivolse ad Abbatino. «Lei è
male informato, ho appena
parlato con il giudice, non ci
sono problemi di alcun
genere.» «Bene», rispose
l'emissario della banda,
«speriamo che sia così.» E
mentre metteva sul tavolo un
mucchietto di banconote pari a
dieci milioni di lire aggiunse
minaccioso: «Questi sono gli
ultimi soldi». Il funzionario del
tribunale annuì, prese quel
denaro e lo infilò in un
cassetto. Poi consegnò ad
Abbatino un pacco di volantini
elettorali. (25)
Al cancelliere che lavorava
anche per il deputato
democristiano la banda giunse
dopo che un altro tentativo di
arrivare al giudice del «caso
Colafigli» era fallito. In
quell'occasione - secondo il
racconto fatto da Abbatino - il
«contatto» era un uomo
politico calabrese conosciuto da
Gianfranco Urbani, al quale
l'aveva indirizzato il boss della
'ndrangheta Paolo De Stefano.
Il politico disse di avere buone
«entrature» coi magistrati, e
promettendo il proprio
interessamento intascò
venticinque milioni da quelli
della Magliana. Poco dopo disse
che ne servivano altri
venticinque, ma siccome il
primo pagamento non aveva
dato i risultati sperati, l'affare
fu lasciato in sospeso e i
gangster decisero di non dare
più un soldo a quel calabrese.
(26)

A New York, i mafiosi della


famiglia Gambino riuscivano ad
avere in anteprima le
trascrizioni delle intercettazioni
ambientali fatte dal F.B.I. nelle
loro abitazioni, e a organizzare
le contromosse; a Roma, nel
loro piccolo, quelli della banda
della Magliana erano in grado
di ottenere i documenti delle
inchieste in corso e sapere in
anticipo ciò che poliziotti e
magistrati avevano in mano.
In tribunale, dove Claudio
Sicilia e gli altri si recavano
indisturbati perfino quando
erano latitanti, circolavano
fotocopie di interrogatori,
trascrizioni di intercettazioni
telefoniche, fotografie allegate
agli atti delle inchieste.
Arrivavano da cancellieri o
uscieri adeguatamente
compensati, o dalle «talpe»
nascoste negli uffici di Polizia.
Due agenti del
commissariato competente
nella zona della Magliana
ricevevano dalla banda paghe
settimanali da duecento o
trecentomila lire, in cambio di
informazioni sulle indagini e
della «tranquillità» garantita in
via Chiabrera. Una volta i
poliziotti vendettero ai «bravi
ragazzi» alcune pistole, e in
un'occasione gli furono regalati
due televisori a colori, uno per
ciascuno.
Duecentomila lire a
settimana venivano date anche
a un altro poliziotto che faceva
servizio nel quartiere, il quale
ricevette pure due macchine
provenienti dal solito
autosalone di Gianni Travaglini.
Il poliziotto portava dei fogli
con i dati completi sugli arresti
da fare, le multe e altre
sanzioni previste per i
componenti della banda.
Quando Sicilia, che abitava
nello stesso palazzo di una
cognata del poliziotto, gli
chiese perché si facesse
corrompere così, senza
scrupoli, questi rispose che
aveva una figlia piccola a cui
mancava una mano, spendeva
molto per l'assistenza e i soldi
che prendeva dallo Stato non
gli bastavano.
Lo stesso agente mandò un
po' di hashish in carcere a
Fulvio Lucioli, quando era
detenuto, tramite un fratello
che faceva la guardia
carceraria, e nel «giro» si
sapeva che riceveva stipendi
anche dagli spacciatori del
quartiere, mentre a quelli che
non lo pagavano sequestrava
orologi e altri oggetti di valore
che poi teneva per sé, senza
redigere alcun verbale.
Pure tra i carabinieri c'erano
gli informatori che garantivano,
nella zona dell'Eur, l'impunità
ai gestori dei videopoker. Una
sera a Sicilia arrivò una
soffiata: «Domattina vengono
le guardie per una
perquisizione a casa tua».
Sicilia sistemò le cose, e il
giorno dopo, quando i militari
suonarono alla porta, lui era
ancora a letto con la sua amica.
Riconobbe i due carabinieri
corrotti e disse loro, senza
alcun imbarazzo, che aspettava
quella visita. Uno dei due era
un maresciallo il quale un anno
prima - così raccontavano quelli
della Magliana - aveva
sequestrato delle macchine
fotografiche a un ragazzo, poi
se l'era tenute senza fare
rapporti né presentare
denunce.
Un sottufficiale della
Guardia di Finanza si preoccupò
di fornire alla banda un po' di
droga presa tra quella
sequestrata all'aeroporto di
Fiumicino, in cambio di qualche
milione. Era lo stesso che più
tardi fu incaricato di pedinare
Claudio Sicilia, come disse al
«vesuviano» suo cugino
Corrado Iacolare, a sua volta
ricercato. Iacolare propose a
Sicilia di corrompere il
finanziere, perché poteva
fornire notizie utili su
imminenti mandati di cattura,
ma Sicilia sapeva già tutto:
aveva letto le intercettazioni
telefoniche uscite dagli uffici
della Polizia. Disse al cugino
che l'affare non gli interessava,
ma Iacolare combinò
ugualmente l'appuntamento fra
i tre, in un bar nella zona della
Camilluccia. Si parlò di
quaranta milioni da versare in
cambio degli atti dell'inchiesta
in corso, ma Sicilia rifiutò e di
fronte all'insistenza del
finanziere gli propose
addirittura, con un misto di
strafottenza e superiorità, di
arrestare all'istante sia lui che
Iacolare, latitante. Non
successe nulla.
Più tardi, uscito per un
permesso mentre si trovava
agli arresti domiciliari, accadde
che Sicilia venne fermato da
una pattuglia della Polizia
mentre viaggiava in macchina
con un pregiudicato. Gli agenti
preannunciarono il sequestro
dell'auto e un rapporto al
giudice che avrebbe significato,
per Sicilia, la revoca degli
arresti domiciliari, visto che
aveva il divieto di
accompagnarsi a pregiudicati.
«Il vesuviano» riconobbe una
delle «guardie», cognato di un
suo amico, il quale la sera si
presentò a casa sua con i due
poliziotti. Sicilia diede a
ciascuno cinquecentomila lire, e
quelli promisero che avrebbero
dimenticato ogni cosa. Ma
qualche giorno dopo il rapporto
arrivò sul tavolo del giudice
istruttore. Sicilia si infuriò e
disse all'amico di portargli a
casa quei due poliziotti.
Quando se li trovò davanti li
prese a schiaffi, nonostante gli
agenti continuassero a
piagnucolare e a ripetere che
non erano stati loro a fare la
denuncia.
Un comportamento da
autentico boss mafioso. E se i
veri «padrini», a Palermo,
facevano il bello e il cattivo
tempo nel carcere
dell'Ucciardone, i «bravi
ragazzi» nelle galere romane
non erano da meno. «La
droga», annoterà desolato un
pubblico ministero, «circola e
viene venduta e consumata
come e più che all'esterno del
carcere: gli spacciatori in
carcere dispongono di ingenti
somme di denaro con il quale a
volte riescono a corrompere gli
agenti di custodia che così
diventano docili strumenti nelle
loro mani... E' da rilevare
anche la facilità con la quale i
detenuti riescono a muoversi
come se fossero i padroni di
casa, con la quale riescono a
fare dei veri e propri summit
per decidere il proseguimento
delle loro attività criminose, e
con cui li vediamo fare colloqui
in più persone e con più
persone (il colloquio
straordinario tra detenuto e
persona non parente, che
risulta pregiudicata per
fattispecie analoghe e gravi, è
la regola permanente e
continuata). Ciò avviene perché
detti personaggi hanno grande
autorità e prestigio nel mondo
della criminalità, perché
dispongono di somme
inesauribili di denaro con cui
possono trovare gli anelli deboli
della pubblica amministrazione
e fare opera di corruzione, e
perché si tratta di persone
violente che dispongono della
volontà altrui attraverso
l'intimidazione implicita ed
esplicita.» (27)
I trasferimenti da un
penitenziario all'altro non
furono certo un problema per
Antonio Mancini, il quale passò
dal carcere di Cassino, «dove si
stava benissimo», a quello di
Chieti, «dove si stava assai
meglio che a Cassino»; e che
riuscì a lasciare Pianosa, «luogo
da cui è pressoché impossibile
essere trasferiti», per il carcere
di Busto Arsizio, dove dopo un
breve periodo di «grande
sorveglianza» la situazione
divenne «invidiabile».
«Talvolta», ha confessato l'ex
bandito della Magliana, «ho
ottenuto agevolazioni che gli
stessi agenti di custodia mi
facevano notare
presupponessero dei consistenti
appoggi 'in alto'.» (28)

***
6. «CIAO,
NICOLINO».

Il maresciallo Paradiso
l'aveva convocata in Questura
per le nove e mezza di sera.
«Signora, ci scusi, abbiamo
trovato un cadavere, potrebbe
essere quello di suo fratello,
dovrebbe venire a
riconoscerlo.» Grazia Selis si
presentò puntuale,
l'accompagnarono all'obitorio, a
vedere il morto. Era il 3 marzo
1981, Nicolino Selis era
scomparso da un mese.
Sparito, volatilizzato. Il
pomeriggio del 3 febbraio era
uscito con suo cognato, Antonio
Leccese. Avevano un
appuntamento, poi Leccese
aveva lasciato Selis e la sera,
mentre tornava a casa, venne
fulminato da sei colpi di calibro
38. Di Nicolino, invece, non
s'era saputo più niente.
Da un mese Grazia Selis
faceva avanti e indietro dalla
sua abitazione alla Questura;
c'erano pochi dubbi che suo
fratello avesse fatto la fine di
Leccese, ma mancava ancora il
cadavere. Adesso ne avevano
trovato uno che avrebbe potuto
essere quello di Nicolino, e
toccava a lei la triste
incombenza di riconoscerlo. «Il
morto che abbiamo trovato ha
dei tatuaggi, come suo fratello,
venga a vedere», aveva
insistito il maresciallo. «Va
bene, vengo.»
Nella camera gelida e male
illuminata dell'obitorio un
impiegato sollevò il lenzuolo,
Grazia Selis guardò quel
cadavere mal ridotto e senza
nome, scrutò il volto, il corpo,
lo squadrò in lungo e in largo.
Poi disse: «No, non è Nicolino».
«E' sicura?» «Sicurissima.»
«Bene, venga in ufficio che
dobbiamo comunque fare il
verbale.» Lo strazio non era
ancora finito, adesso il
maresciallo doveva mettere
nero su bianco tutti i motivi per
cui Grazia Selis si diceva così
certa che quel morto - che se
fosse stato Selis avrebbe risolto
un bel po' di problemi - non era
suo fratello.
Tornarono nell'ufficio della
Squadra Mobile, ormai s'erano
fatte le undici. «Allora,
cominciamo», fece il
maresciallo mettendosi alla
macchina da scrivere, mentre
infilava fogli e carta carbone.
«Processo verbale di
ricognizione di cadavere...
L'anno 1981, addì 3 del mese di
marzo... La Selis, dopo aver
effettuato un'adeguata
ricognizione riferisce quanto
segue: nel cadavere che mi è
stato esibito non riconosco mio
fratello Nicolino... Signora, dica
perché.» Grazia dettava, il
maresciallo Paradiso traduceva
nel linguaggio dei verbali di
Polizia e scriveva: «Mio fratello
è più basso e più snello del
cadavere che mi è stato
mostrato, ha il corpo
interamente tatuato in ogni sua
parte ed è coperto da cicatrici
di lesioni infertesi con corpi
taglienti durante le sue crisi di
nervi».
Ma anche il morto che le
avevano fatto vedere era pieno
di tatuaggi, bisognava
specificare meglio. A Grazia
Selis toccò ricordare nei
dettagli ogni centimetro di pelle
di Nicolino: «I tatuaggi che si
rilevano sul corpo della salma
sono differenti da quelli di mio
fratello. In particolare, il
serpente che è tatuato sulla
salma rappresenta solo la testa
del rettile mentre mio fratello
aveva anch'esso un serpente
tatuato sul braccio destro, ma
con la testa rivolta in basso
verso il polso, e l'intero rettile
si avvolgeva per l'intero
braccio, partendo dal polso fino
alla spalla. Anche la scritta sul
braccio sinistro è diversa
seppure riferita alla madre.
Infatti, sul braccio di mio
fratello si legge 'Ti voglio bene
mamma'...»
Poteva anche bastare, ma
siccome c'era dell'altro il
maresciallo volle scrivere tutto.
La sorella dello scomparso
riprese a dettare: «Mio fratello
Nicolino tra gli altri tatuaggi
aveva anche un grande
crocifisso sulla schiena, e una
pistola tatuata su una coscia,
segni che non ho notato sul
cadavere. Mio fratello
presentava vistosi segni di tagli
alle braccia e al torace
compreso il basso ventre; sul
cadavere non ho notato alcun
segno di tali lesioni. Anche i
capelli della salma, sebbene
neri e spessi come quelli di
Nicolino, sono abbastanza
lunghi mentre mio fratello,
l'ultima volta che è stato in
casa, li portava cortissimi,
tagliati dal giorno 2 febbraio. Il
cadavere, in alcune parti del
corpo ancora indenni,
presentava una peluria
piuttosto abbondante, mentre
Nicolino era di carnagione
gentile e privo di peluria». Era
tutto, finalmente. «Stante
quanto sopra», dettò a se
stesso il maresciallo, facendo
sentire alla signora che doveva
sottoscrivere, «posso affermare
con assoluta certezza che il
cadavere che mi è stato
mostrato è persona
assolutamente a me
sconosciuta. Non ho altro da
aggiungere. Letto, confermato
e sottoscritto... Ecco, firmi
qui.»
Quando Grazia Selis si
ritrovò per strada era quasi
mezzanotte. Aveva lasciato a
quel poliziotto l'ultima,
dettagliata descrizione di suo
fratello. Ufficialmente era
scomparso, ma lei sentiva,
sapeva che era morto. E
immaginava anche chi l'avesse
ammazzato. Sapeva infatti - e
l'aveva pure riferito, ma chissà
che cosa stava facendo la
Polizia - con chi doveva
incontrarsi Nicolino, quel giorno
che poi sparì.

Un rapporto alla
magistratura la Polizia l'aveva
fatto, proprio contro gli «amici»
di Selis denunciati da Grazia,
basato su «notizie fiduciarie» e
«fonti confidenziali». Il
problema era andare avanti,
mettere insieme indizi più
consistenti, raccogliere prove. E
anche trovare il cadavere non
sarebbe stato inutile, anzi.
Sarà successo, scriveva il
vicedirigente della Squadra
Mobile tre giorni dopo la
scomparsa di Nicolino, che i
suoi complici «abbiano voluto
scalzare il Selis divenuto per
loro elemento quanto mai
scomodo, potendo questi
contare su amicizie e appoggi,
sia nel luogo di detenzione sia
all'esterno... Anch'egli è caduto
nella trappola tesagli dai suoi
stessi 'amici', che lo
aspettavano probabilmente solo
per dargli una lezione.»
Il maresciallo Paradiso,
quello della «ricognizione di
cadavere», aveva anche
riassunto, per il magistrato,
quanto risultava alla Polizia
riguardo a uno dei più
pericolosi criminali in giro per
Roma. Oppure non più in giro
perché tolto dalla circolazione.
Scomparso, definizione ufficiale
«irreperibile». «Selis Nicolino»,
scriveva il poliziotto-biografo,
«diffidato ai sensi dell'art. 1
della nota legge, ha cominciato
a interessare la Giustizia fin dal
1966, quando aveva appena
quattordici anni. Da allora,
salvo interruzioni per periodi di
detenzione, ha proseguito sulla
via del crimine associandosi con
pregiudicati più noti di lui
dando così la scalata ai vertici
della 'mala' e, considerando la
sempre maggiore gravità dei
reati e la pericolosità dei soci ai
quali si affiancava, si può dire
che abbia notevolmente
progredito...
«Agli atti d'Ufficio figura
pregiudicato per detenzione e
porto abusivo d'armi, violazione
di domicilio, evasione,
estorsione aggravata e
inquisito per omicidio nonché
imputato di falso in atto
pubblico. E' stato anche
denunziato, unitamente a
Danesi Renzo di anni ventisei,
da Roma, che nella circostanza
venne trovato in possesso di
sostanze stupefacenti...
«Da altre fonti
documentabili, il presunto
viene descritto come elemento
violento e considerato capo
incontrastato di una ben
organizzata banda di malfattori
gravitanti in quel di Ostia Lido
e della vicina Acilia, dedita
prevalentemente al traffico
della droga. Per i suoi trascorsi
viene considerato di indole
malvagia, senza rispetto della
vita altrui. E' stato anche
indiziato quale mandante, se
non esecutore materiale,
dell'omicidio commesso a Ostia
in danno di Carrozzi Sergio...»
Quando l'uomo dall'«indole
malvagia» scomparve, era
uscito dal manicomio
giudiziario, in licenza, da
appena tre giorni. Selis ci
teneva a quel permesso, perché
aveva molte questioni da
affrontare e risolvere coi suoi
amici - ma si poteva ancora
chiamarli così? - della
Magliana. Mentre stava dentro,
infatti, tra Rebibbia e gli
ospedali psichiatrici di
Montelupo Fiorentino, Reggio
Emilia e Napoli, erano sorti dei
contrasti che bisognava
appianare. Quel ragazzo che
veniva da Ostia e col quale
avevano cominciato a
collaborare due anni e mezzo
prima, per l'omicidio di
«Franchino er criminale», che
si dava tante arie, piccoletto e
col brillante al dito mignolo,
capelli sempre curatissimi e
pantaloni a zampa d'elefante,
amico dei camorristi, pieno di
carisma ma anche un po'
fanatico, non piaceva più ad
Abbatino e compagni.
S'era messo in testa di far
entrare i napoletani nel traffico
di droga gestito dalla Magliana,
e quelli non volevano. Durante
la primavera e l'estate del
1980, inoltre, aveva cominciato
a collaborare con il gruppo di
Fulvio Lucioli e Gianni «il
roscio», aprendo un commercio
parallelo, e però pretendeva
che i soci di prima - cioè
Toscano da un lato e Libero
Mancone dall'altro -
continuassero a dare le
«sovvenzioni» alla sua donna e
a suo fratello. L'«operaietto»,
in particolare, non sopportava
più che Selis si atteggiasse a
capo, non voleva più stare ai
suoi ordini. Quella storia che
adesso bisognava pagare anche
il fratello Fabrizio poi - uno di
cui quelli della Magliana non si
fidavano per niente, dicevano
che aveva cominciato a «farsi»
di eroina - era davvero il
colmo. Nicolino voleva la
«doppia stecca» sui guadagni,
una per sé e l'altra per
Fabrizio, e dal carcere inviava
ammonimenti e rimproveri.
Quando Toscano mandò a
dire a Selis che si poteva
rientrare negli affari della
Magliana a pieno titolo, solo
che lui avesse avuto pretese
meno esorbitanti e reciso i
legami con gli altri gruppi,
Nicolino rispose «picche».
Decideva lui, e anzi, sia
Toscano che Mancone dovevano
smetterla di lesinare il denaro
spedito in carcere. Selis non
riceveva più le «stecche» né le
paghe settimanali, e
minacciava rappresaglie.
All'«operaietto» scrisse che
doveva far avere subito sei
milioni a sua madre da parte di
Vittorio Carnovale, «il
coniglio», il cui figlio stava a
casa della signora Selis senza
che lui si degnasse di pagare le
spese di mantenimento. E
avvertì Mancone che se non
riprendeva a rigare dritto,
appena uscito gli avrebbe dato
«una tiratina d'orecchie».
Alla lettera sui sei milioni
per la madre, Toscano - che a
sua volta si stava allontanando
da Mancone e avvicinando
sempre più ad Abbatino,
trovando quel coraggio di
opporsi al suo capo che fino ad
allora gli era mancato - non
rispose nemmeno. Mentre per
spiegare alcune cose che non
erano piaciute a Selis,
l'«operaietto» gli scrisse di
essere dispiaciuto di tante
lagnanze, che tutto quello che
decideva lo faceva anche
nell'interesse di Nicolino; si
rammaricava della sua amicizia
con gruppi diversi, e gli
mandava i saluti di Maurizio
Abbatino e «Marcellone»
Colafigli. Saluti sinistri, visto
che quelli non aspettavano che
il pretesto buono per liberarsi
di Selis.
Il pretesto arrivò con una
nuova lettera di Nicolino a
Toscano, in cui Selis
annunciava dal carcere l'arrivo
di una partita di tre chili di
eroina fornita da alcuni
trafficanti siciliani. Bisognava
gestirla con oculatezza.
«Secondo gli accordi»,
racconterà Abbatino, «tale
fornitura doveva essere
ripartita al cinquanta per cento
tra il suo e il nostro gruppo, ma
Nicolino Selis ritenne di
operare una ripartizione di due
chilogrammi per i suoi e di uno
per noi e, pertanto impartì al
Toscano istruzioni in tal senso.
Si trattò di un passo falso,
Edoardo Toscano non attendeva
altro. Mi mostrò
immediatamente la lettera,
fornendo così la prova del
'tradimento' del Selis, col quale
diventava non più rinviabile il
'chiarimento'. In altre parole,
Nicolino Selis doveva morire...»
(1)
Anche Danilo Abbruciati ce
l'aveva con Selis, perché
quello, un anno prima o poco
più, aveva ordinato a Toscano
di ammazzarlo. E l'«operaietto»
sarebbe stato pronto a premere
il grilletto se gli altri amici della
Magliana non l'avessero
fermato in tempo. Selis voleva
eliminare Abbruciati perché
conoscendo la sua amicizia con
Francis Turatello, e avendo
saputo che Francis stava per
uscire di galera, temeva che i
due volessero spadroneggiare
su Roma tagliandolo fuori dagli
affari. Ma non solo Toscano si
fece convincere a non uccidere
Abbruciati; decise anche di
dirgli tutto, e da quel momento
Danilo cominciò a covare
propositi di vendetta, sempre
rinviati. Adesso invece era
arrivato il momento.
Amico di Nicolino era pure
Gianni Travaglini, il
proprietario dell'autosalone. E i
«bravi ragazzi», tanto per far
capire al commerciante di
macchine con chi conveniva
schierarsi, gli avevano piazzato
due bombe davanti al negozio.
«Seppi poi», racconterà Sicilia,
«che in un momento successivo
le stesse persone si recarono
da Travaglini ingiungendogli
esplicitamente di non avere più
contatti con Selis... Dell'uscita
dal carcere del Selis la
'Magliana' venne a conoscenza
in quanto Travaglini fece
sapere che Selis insieme a
Lucioli, forse il giorno stesso
della scarcerazione, si era
presentato nell'autosalone per
ritirare una Golf blindata.»

A Roma, Nicolino Selis era


ospite dell'altra sorella, Anna
Paola, e di suo marito Antonio
Leccese, venticinque anni, per
gli amici Tonino: faccia da
ragazzino, con la passione per
il calcio e per la «sua» Roma
nel sangue, conosciuto da
tempo dalla polizia. Per conto
di Selis, suo cognato, Antonio
Leccese, controllava il traffico
di droga nelle zone di Casal
Bruciato e Tiburtino. S'era
sposato da quattro mesi, e da
tre sua moglie aspettava un
bambino, ma nei fascicoli
giudiziari risultavano altri dati:
pregiudicato, ex confinato a
Pistoia e in Basilicata, qualifica
di «sorvegliato speciale».
Giovane ma già «maturo» nel
mondo del crimine, insomma.
Nicolino era arrivato dal
manicomio giudiziario di
Sant'Eframo, a Napoli, sabato
31 gennaio, il 5 febbraio
doveva tornare dentro. In
cinque giorni voleva sistemare
tutto, soprattutto le questioni
con Libero Mancone, il padrino
di sua figlia, l'uomo che
accompagnava sua moglie a
fargli visita in carcere, le
pagava le spese e le
consegnava la paga
settimanale, e che adesso gli si
stava rivoltando contro.
Leccese gli faceva da guardia
del corpo, stava sempre al suo
fianco, ma per maggiore
sicurezza Nicolino s'era
procurato la macchina blindata:
sapeva come stavano andando
le cose coi suoi amici, che c'era
aria di tradimenti e poco da
fidarsi. Lo sapeva, ma cercava
ugualmente il contatto con
Toscano e Mancone. «Non ti
preoccupare», gli disse
l'«operaietto» quando si
sentirono, «ti organizzo un
appuntamento e sistemiamo
tutto.»
Tra le visite che Nicolino
aveva organizzato nei cinque
giorni di libertà ce n'era pure
una in carcere, ai suoi vecchi
compagni di Rebibbia. Nella
prigione romana, in quei giorni,
erano rinchiusi Gianni
Girlando, «il roscio», e Pietro
De Riz, l'interprete che aiutava
a organizzare i traffici di droga
dalla galera. E c'era pure suo
fratello Fabrizio.
La mattina di lunedì 2
febbraio furono convocati tutti
e tre nella saletta colloqui del
carcere, c'erano visite. Nicolino
comparve con il cognato e con
un altro amico, Enrico, uno del
«giro» coi suoi bravi precedenti
penali per droga ed evasione;
insomma, uno di quei summit
in carcere in teoria vietati ma
in pratica di ordinaria
amministrazione. Si
abbracciarono tutti, poi
Girlando prese a parlare con
Enrico, mentre Selis si appartò
con De Riz.
Pietro era affezionato a
Nicolino, il quale gli aveva
promesso che una volta uscito
dal carcere l'avrebbe preso a
lavorare con lui. Selis voleva
assumere De Riz come
consulente per investire
all'estero i soldi guadagnati con
la droga, e utilizzarlo come
guida per conoscere l'Oriente,
un suo antico desiderio. Nel
frattempo, gli pagava gli
avvocati.
Quel giorno, a Rebibbia,
l'«interprete» avvertì Selis:
«Stai attento, perché qui si
respira un'aria strana, mi
sembra che le cose non si
stiano mettendo bene». Era un
po' di giorni che De Riz notava
uno strano silenzio da parte di
Girlando, un'atmosfera di cupa
tranquillità, come se ci fosse
stato qualche lutto. E siccome
nessuno era morto,
l'impressione era che qualcuno
stesse per morire. «Non ti
preoccupare», risposte Nicolino,
«adesso chiarisco tutto. E poi
Lucioli mi ha fatto trovare una
Golf blindata, con quella sono
al sicuro.»
Mentre Selis gli diceva
queste parole, De Riz alzò lo
sguardo e incrociò gli occhi del
«roscio» puntati nella loro
direzione. Uno sguardo serio,
grave come l'aria del carcere.
Alla fine del colloquio, nuovi
saluti, e nuovo abbraccio tra
Girlando e Selis. Mentre
rientravano nelle celle, De Riz,
sempre più preoccupato, chiese
a Girlando che cosa stesse
succedendo. «Cerca di farti i
cazzi tuoi», fu la risposta.
La sera di quello stesso
lunedì, in casa di Leccese,
arrivarono Edoardo Toscano,
Maurizio Abbatino e Marcello
Colafigli. «Ciao, Nicolino»,
«Ciao.» Selis li aspettava, ma
quando lui e il cognato videro
che erano armati si irrigidirono
e chiesero una spiegazione.
«State tranquilli», sorrisero
quelli, «ci tocca girare armati
perché siamo in guerra coi
Proietti, no? Ma che andate a
pensare!» Chiacchierarono del
più e del meno, degli affari
rimasti in sospeso, di quanti se
ne potevano fare se quelli della
Magliana si fossero decisi a
comprare l'eroina da Fulvio
Lucidi. Selis diceva pure che
doveva ricevere ancora cento
milioni per i vecchi commerci di
droga, e poi voleva parlare con
Mancone, dov'era Mancone?
Toscano prese la palla al
balzo: «Possiamo organizzare
un appuntamento, va bene
domani?» Volevano tirarlo fuori
di casa, e possibilmente solo,
senza quel Leccese che gli
stava sempre attaccato. «Va
bene, domani», disse Nicolino.
La casa di Tonino al
quartiere Tiburtino, ormai, era
diventata una specie di ufficio,
dove Selis riceveva come fosse
ancora un boss. La mattina del
3 febbraio, martedì, si presentò
Lucioli. Discussero di affari, e di
come Nicolino stesse cercando
di risolvere i problemi con
Toscano e Mancone: «Li devo
incontrare, sistemerò tutto».
Subito dopo Selis, sua
moglie e Leccese uscirono.
Dovevano andare in tribunale,
per discutere la semilibertà di
Nicolino, ma arrivati lì
scoprirono che la causa era
stata rinviata d'un mese.
Passarono all'appuntamento
successivo: la visita a Carmen
D'Ortenzi, sorella di Alessandro
«lo zanzarone» e moglie di
Mariano, un compagno di
detenzione di Selis a
Sant'Eframo. Andarono, e si
fermarono a pranzo. Nel primo
pomeriggio tornarono a casa,
poi, verso le quattro del
pomeriggio, Leccese e Selis
scesero al bar. Tonino chiese
un gettone a Franca, la
padrona, e lo consegnò a
Nicolino, che andò al telefono,
fece un numero e parlò.
«Mentre io svolgevo il mio
lavoro dietro il bancone»,
racconterà la barista alla
Polizia, «ho sentito, nella breve
telefonata fatta da Nicolino,
soltanto queste parole:
'Altrimenti non faccio in
tempo... Se ti va bene alle
cinque davanti alla Fiera di
Roma'. Dopo questa telefonata
tutti e due sono usciti dal locale
e sono saliti a bordo della A
112 di Tonino.»

Quando arrivarono a via


Cristoforo Colombo, gli altri
erano già lì. Davanti alla Fiera
di Roma, come avevano
stabilito, Selis e Leccese
trovarono Abbatino e Toscano
che li stavano aspettando.
«Ciao, Nicolino.» «Ciao, dov'è
Libero?» «A casa sua, adesso ci
andiamo.» Selis si rivolse al
cognato: «Tonino tu che fai?»
«Devo tornare indietro, a
firmare.» «Vabbè, tanto mi
pare che sia tutto tranquillo. Io
vado con loro, ci vediamo
dopo.» «Ciao.» «Ciao.»
Pareva tutto tranquillo
perché Selis non s'era accorto
che, nascosti tra le macchine,
poco più in là, c'erano De Pedis,
Abbruciati e qualche altro che
guardavano senza essere visti.
Presenze poco rassicuranti per
lui, che l'avrebbero messo in
allarme. Ma non se ne accorse,
e così autorizzò Leccese ad
andarsene, perché entro le
19.30 doveva essere al
commissariato di zona; era un
«sorvegliato speciale», ogni
giorno una firma davanti ai
poliziotti.
Si divisero. Selis montò sulla
Renault 5 di Abbatino, con lui e
Toscano, per andare ad Acilia
da Mancone; Tonino, salutato
suo cognato, risalì sulla A 112
e riprese la strada di casa.
Dopo la «firma», Leccese
salì nel suo appartamento. La
moglie non c'era, aveva trovato
solo zia Cristina e nonna
Santina, la donna che l'aveva
tirato su dall'età di un anno, da
quando sua madre se n'era
andata di casa. Pochi minuti
dopo Tonino era di nuovo in
strada, entrò nel bar, fece una
telefonata, uscì e salì sulla A
112. Nascosti dietro un furgone
parcheggiato pochi metri più in
là, c'erano Antonio Mancini e
Danilo Abbruciati, pronti a far
scattare l'agguato.
Leccese non aveva ancora
infilato le chiavi nel cruscotto
quando uno dei due killer,
Mancini, fece partire il primo
proiettile, che entrò nella
fiancata sinistra dell'auto; il
secondo trapassò lo sportello
del guidatore e colpì Tonino a
un rene.
La vittima fece in tempo ad
aprire la portiera, uscire e
arrancare verso casa, il più in
fretta possibile, ma adesso era
spuntato fuori anche
Abbruciati, che gli scaricò altri
cinque colpi con una 357
Magnum. Tonino cadde davanti
a una Simca 1000, il
conducente bloccò la macchina
e scese per soccorrerlo.
Insieme ad altri passanti lo
caricò su una BMW che prese la
strada dell'ospedale, ma
quando vide Antonio Leccese,
giovane malavitoso in attesa di
diventare papà, il medico di
guardia del Policlinico non poté
fare altro che scrivere, nella
sua relazione, «giunto
cadavere, salma a disposizione
dell'autorità giudiziaria».
Gli assassini scapparono in
moto, ad attenderli sulla
Kawasaki c'era «Renatino» De
Pedis, che caricò i due amici e
sgattaiolò nel traffico; tutti
notarono quel bolide con tre
persone a bordo, nessuno riuscì
a fermarlo. Il resto l'ha
raccontato, dopo tredici anni,
Antonio Mancini al giudice
istruttore: «Ci recammo a casa
di mia madre, a San Basilio,
per lasciare la moto. Per
evitare di portarci dietro le
pistole, dovendo raggiungere in
taxi la Garbatella, le lasciammo
in custodia a mio fratello, con
l'intesa che saremmo andati a
riprenderle il giorno dopo; se
ciò non fosse stato possibile lo
incaricammo di disfarsene, cosa
che fece gettandole nel fiume
Aniene, sotto un ponticello nei
pressi di Ponte Mammolo, sulla
Tiburtina.»
I giornali scrissero che
Tonino faceva parte del gruppo
di Giuseppucci, «er negro»,
ammazzato cinque mesi prima
a Trastevere, e forse era stato
ucciso nella faida seguita a
quella morte; ancora non
immaginavano che i suoi
assassini erano proprio gli
amici di Giuseppucci. Qualcuno
arrivò perfino ad attribuire
l'esecuzione a fantomatici
gruppi antidroga, come i
«Nuclei armati contro gli
spacciatori».
Nell'obitorio del Policlinico, a
riconoscere «senza alcun
dubbio il proprio fratello
Antonio», fu Alessandra
Leccese, ventisette anni
compiuti da poco. Poi il
brigadiere di turno fece l'elenco
degli oggetti «rinvenuti
addosso al giunto cadavere»: il
libretto di sorvegliato speciale,
il certificato sostitutivo della
carta d'identità, ottocentomila
lire in contanti, un gettone
telefonico, una collanina
completa di medaglione con
fotografia, la fede nuziale, un
anello «di metallo giallo con
pietra bianca», tre chiavi,
accendino e sigarette, un
proiettile calibro 38 special. E il
Rolex d'oro.
La mattina del 4 febbraio, in
Questura, comparve Anna
Selis, ventisette anni da
compiere sei giorni dopo,
sposata in Leccese da quattro
mesi e vedova Leccese da poco
più di dodici ore. La sera prima,
raccontò, era uscita di casa
verso le diciassette, salutando
suo marito Tonino davanti al
portone del palazzo: «Nel far
rientro a casa ho trovato, nei
pressi della mia abitazione,
molta gente in strada, e
nell'occasione ho notato anche
la presenza di alcune auto della
Polizia. Giunta sotto il portone
sono stata messa al corrente da
alcuni conoscenti che poco
prima alcuni sconosciuti
avevano sparato alle gambe a
mio marito, per la quale
ragione era stato
accompagnato d'urgenza al
Policlinico Umberto Primo. Mi
sono recata d'urgenza presso il
noto nosocomio accompagnata
non ricordo da chi, e da quei
sanitari sono stata messa al
corrente che mio marito
Leccese Antonio era morto. Non
ho alcun sospetto circa gli
assassini di mio marito, pur
ripromettendomi di collaborare
con la massima disposizione
con gli organi di Polizia al fine
di identificare i colpevoli».

Tonino era morto, il


cadavere stava al Policlinico;
Selis era sparito, nessuno
l'aveva più visto né sentito.
Ormai era quasi mezzanotte, a
casa Leccese si piangeva ma ci
si guardava anche negli occhi
con preoccupazione. Che fine
aveva fatto Nicolino? Maria
Antonietta, la moglie, telefonò
a Carmen D'Ortenzi, l'amica da
cui erano stati a pranzo, e
insieme decisero di andare a
chiedere notizie nelle case degli
amici dei loro uomini: Toscano,
Abbatino, Mancone, Colafigli.
Una via crucis senza esito
che Maria Antonietta ricostruì
due giorni dopo, stazione per
stazione, al poliziotto che
l'interrogava: «Mi sono recata
in via Greve presso le
abitazioni di Edoardo e
Maurizio, entrambi amici di
Nicolino, senza peraltro
rintracciare nemmeno loro. Ho
anche telefonato a casa dei
due, e mentre a casa di
Edoardo non mi ha risposto
nessuno, in quella di Maurizio
una voce di donna mi ha detto
che lui non c'era. Mi sono
quindi recata ad Acilia, presso
l'abitazione di un altro amico di
Nicolino a nome Libero, ma
dopo aver suonato un paio di
volte mi sono allontanata
perché impaurita dal cane di
guardia. Non mi sono potuta
recare presso l'abitazione di
Marcello, in quanto sconosco
l'ubicazione e il numero
telefonico. Ho fatto anche una
serie di telefonate ai vari pronti
soccorsi degli ospedali di Roma,
senza però appurare alcunché.
Sono ritornata quindi a casa...»
Da Firenze arrivò a Roma
pure Grazia Selis, quella che
per prima avrebbe rivelato alla
polizia i sospetti delle donne
sulla morte di Tonino e la
scomparsa di Nicolino. Si
presentò in Questura alle dieci
e mezza di sera. «Sia io, che
mia sorella, che i familiari del
Leccese», disse al maresciallo,
«abbiamo collegato la sua
uccisione a uno stato di
contrasto che si era venuto a
creare tra mio fratello Nicolino
e il gruppo di amici di Toscano
Edoardo e Mancone Libero.
Questo è il motivo della mia
presenza in questi uffici. Sono
preoccupata, così come lo è mia
sorella, che possa essere
successo qualcosa a mio fratello
Nicolino da parte delle persone
con cui doveva incontrarsi e
che potrebbero essere le stesse
che, conoscendo gli stretti
legami tra mio fratello e il
Leccese, si siano rese
eventualmente responsabili
dell'omicidio di quest'ultimo.
Per quanto è di mia conoscenza
mio fratello Nicolino era legato
da un rapporto di amicizia con
Mancone Libero, Toscano
Edoardo, Abbatino Maurizio,
Colafigli Marcello, De Angelis
Massimo e tale Mancini detto
'l'accattone'. Nel corso della
detenzione di mio fratello
questi amici lo hanno
abbandonato, nel senso che
non andavano più a fargli
visita, né gli mandavano più
soldi, cosa che invece facevano
prima regolarmente. Per tali
fatti so che Nicolino ebbe a
lamentarsi... Preciso che fra
tutti, Edoardo Toscano
sembrava essere rimasto più
legato a Nicolino...»
Proprio Toscano, due giorni
più tardi, si fece vivo con una
delle donne che cercavano
Nicolino, Carmen. Il 6 febbraio
il commissario di Polizia Gianni
De Gennaro - futuro direttore
della Direzione Investigativa
Antimafia e poi vicecapo della
Polizia, già allora impegnato
nelle indagini su Cosa Nostra -
ricevette in Questura l'inattesa
telefonata di Grazia Selis, che
lo informava degli strani
movimenti dell'«operaietto»,
una vecchia conoscenza del
dottor De Gennaro.
Il commissario fece rapporto
al dirigente della Mobile: «Selis
Grazia mi ha riferito che
durante la giornata di ieri la
loro amica D'Ortenzi Carmen
aveva ricevuto due telefonate
da parte di Toscano Edoardo,
nelle quali lo stesso con voce
tremante aveva dichiarato di
ignorare dove fosse il Selis
Nicolino, aggiungendo che non
rispondeva al vero che il giorno
della sua scomparsa egli avesse
appuntamento con lui...» Ma
Carmen, riferì il commissario,
aveva sentito dire direttamente
da Nicolino che quel giorno si
doveva incontrare con Toscano
e Libero Mancone, e rispose che
credeva alle sue orecchie più
che alle parole di Edoardo.
Anche i poliziotti, come le
donne di Selis, fecero il giro
delle case degli amici dello
scomparso, senza trovare
nessuno. Di Abbatino, Toscano,
Colafigli e Mancone s'erano
perse le tracce, al magistrato
che conduceva le indagini
giunsero solo verbali «di vana
perquisizione». Sempre il 6
febbraio la moglie di Toscano,
Antonietta Carnovale - sorella
di Vittorio «il coniglio» e
Giuseppe «il tronco» - disse
alle «guardie» che non vedeva
suo marito da tre giorni, giusto
dalle ore ventitré del 3
febbraio. Ma durante il giorno,
volle precisare la signora,
Edoardo era stato sempre in
famiglia, a festeggiare il
compleanno della figlia Simona.
La bambina compiva sei anni,
ed erano andati tutti a casa
della nonna, dove il marito era
rimasto, appunto fin verso le
ventitré, per poi uscire senza
dire dove sarebbe andato. Da
allora non s'era più visto né
sentito, ma la signora
Antonietta non si preoccupava:
«Edoardo è solito assentarsi da
casa senza dare contezza di sé,
anche per periodi di qualche
giorno...»
Dieci giorni più tardi, il 17
febbraio, una pattuglia del
commissariato di Polizia di
Ostia Lido identificò e fermò «il
noto pregiudicato Mancone
Libero», per il quale c'era un
ordine di rintraccio della
Squadra Mobile che lo
sospettava dell'omicidio
Leccese. Nel cortile della sua
casa di Acilia erano
parcheggiate due moto
Kawasaki.
Maurizio Abbatino si
presentò in Questura un mese
dopo l'assassinio di Tonino
Leccese e la scomparsa di
Nicolino Selis, il 2 marzo 1981,
con l'aria di quello che dice «Mi
cercavate? Eccomi qua.» I
poliziotti volevano la sua
versione dei fatti: come mai
non era in casa il 4 febbraio,
quando erano andati a
cercarlo? «Avevo litigato con
mia moglie», rispose
«crispino», «allora sono uscito
e ho girato per conto mio tutta
la notte. Sono tornato il giorno
dopo, all'ora di pranzo.» Il
maresciallo verbalizzò senza
credere a una parola, Abbatino
proseguì: «Dalla stampa ho
saputo dell'uccisione di Leccese
Antonio. L'avevo visto il giorno
prima della sua morte in
quanto mi sono recato presso la
sua abitazione per salutare il
Selis Nicolino, che sapevo era
venuto per alcuni giorni di
licenza. In casa vi era anche il
Leccese Antonio, che io conosco
ma con cui non ho molta
amicizia. Preciso che quando mi
sono recato in casa del Leccese
con me vi erano anche Toscano
Edoardo e Colafigli Marcello.
Non conosco Mancone Libero,
né Mancini Antonio, né De
Angelis Massimo...
«Non mi ricordo cosa ho
fatto il giorno 3 febbraio. Posso
assicurare che, quel giorno,
non ho incontrato né il Toscano
né il Colafigli; mi ricordo che la
sera del 2, quando ci siamo
lasciati, il Toscano mi disse che
il giorno successivo era il
compleanno della figlia, e che
non ci saremmo incontrati... Il
giorno 5 febbraio mi sono
incontrato con il Toscano,
anche perché abita nella mia
stessa via, e insieme abbiamo
commentato la morte del
Leccese. Siamo rimasti
alquanto sorpresi dell'accaduto,
senza però darci una
spiegazione valida...
«Dopo la morte del Leccese
non ho avuto più modo di
sentire Selis Nicolino, né so
dove possa trovarsi
attualmente. Non so nemmeno
dove possa trovarsi Toscano
Edoardo, ma ho saputo che
anche lui, spontaneamente, si
presenterà all'Autorità
competente. Non ho altro da
aggiungere».
Undici anni e otto mesi più
tardi, il 6 novembre 1992, dopo
che una sentenza aveva
mandato assolti i suoi amici
d'un tempo, Maurizio Abbatino
si sedette davanti al giudice
istruttore e rivelò quello che
aveva taciuto nel 1981. Parlò
dell'appuntamento davanti alla
Fiera di Roma, delle moto che
avevano seguito Leccese, di
quello che accadde nelle ore
successive: «Il Selis, dopo che
Antonio Leccese si era
allontanato, salì a bordo di una
Renault 5 in mio possesso, in
compagnia mia e di Edoardo
Toscano, per recarsi a casa di
Libero Mancone in Acilia. Sotto
il sedile di guida io avevo
occultato la pistola Smith &
Wesson calibro 22 da tiro,
munita di silenziatore non
artigianale, mentre a casa di
Libero Mancone, sul tavolo da
soggiorno, occultata in una
scatola di cioccolatini, si
trovava una pistola calibro
7.65, la quale sarebbe dovuta
servire al Toscano per eseguire
l'omicidio. A casa di Libero
Mancone, peraltro, erano in
attesa lo stesso Mancone e
Vittorio Carnovale. A
conoscenza di ciò che sarebbe
dovuto accadere, e pronto a
intervenire nella fase
dell'occultamento del cadavere,
era Giuseppe Carnovale, il
quale si trovava nei pressi della
casa ma non all'interno.
«Quando giungemmo,
mentre Edoardo Toscano e
Nicolino Selis entrarono
immediatamente in casa, io che
li avevo accompagnati al
cancello, con la scusa di
prendere un giubbotto in
macchina, tornai a recuperare
la pistola, avendo cura di
nasconderla sotto il giubbotto e
impugnandola, di modo che,
entrato in casa, esplosi
immediatamente un colpo alla
tempia sinistra del Selis, il
quale si trovava di fronte al
tavolo con le spalle rivolte
verso la parete di destra.
«La stanza nella quale fu
commesso l'omicidio era il
salone-ingresso, a piano terra
della villa di Mancone. Si
trattava di una stanza di circa
venticinque, trenta metri
quadrati, di forma
approssimativamente
rettangolare. La porta
d'ingresso dal giardino è
posizionata a ridosso della
parete di sinistra. Sulla destra
della porta, addossato alla
parete, vi era un divano. Sulla
parete lunga si trovava un
mobile sviluppantesi per
lunghezza; di fronte a tale
mobile vi era il tavolo
rettangolare.
«Nicolino Selis si trovava di
fronte al tavolo con le spalle al
suddetto mobile, sicché
esplodergli il colpo sulla tempia
sinistra fu del tutto naturale,
considerata anche la lunghezza
dell'arma, che impugnavo con
la mano destra. Edoardo
Toscano si trovava con le spalle
rivolte verso la parete di fondo,
in prossimità del lato breve del
tavolo, dove era appoggiata la
scatola di cioccolatini
contenente la pistola di cui ho
detto. Alle spalle del Toscano si
trovavano il Mancone, dietro il
mobile-bar che faceva angolo
tra la parete di fondo e la
parete sinistra, nonché Vittorio
Carnovale, che si trovava sulla
destra del mobile-bar.
«Il corpo del Selis venne poi
trascinato verso il mobile-bar,
davanti al quale si trovavano
degli sgabelli. A quella altezza,
venne esploso verso il Selis un
colpo dal Toscano, con la
pistola che si trovava sul
tavolo, occultata come ho
detto: mi sembra di ricordare
che a quella altezza anche
Carnovale abbia esploso un
colpo contro il Selis, mentre
Mancone si procurava dei
sacchi di plastica per
l'immondizia. Io e Toscano non
ci siamo occupati
dell'occultamento, fase curata
dai predetti Mancone e
Carnovale, nonché da Giuseppe
Carnovale detto 'il tronco'. In
precedenza erano state
preparate la buca e la Giulietta
parcheggiata nei pressi della
villa, necessaria per il trasporto
del cadavere». (4)
Nella casa dell'omicidio c'era
pure Antonio Mancini. A Selis
avevano raccontato che
l'«accattone» s'era separato da
quelli della Magliana, e quando
lo vide si stupì. «E tu che ci fai
qui? Che brutta fine che hai
fatto!» gli disse. «Tu piuttosto
pensa alla fine che stai per
fare», rispose Mancini. Selis
ormai aveva capito tutto, e fu
in quel momento che Abbatino
entrò e gli sparò il primo colpo
alla tempia. (5)
A controllare che il morto
fosse proprio Nicolino,
arrivarono subito dopo
Abbruciati e De Pedis: Danilo
aveva saputo del piano ma non
si fidava, temeva che la storia
dell'omicidio fosse una scusa
per tendergli una trappola e
farlo fuori; per questo volle
guardare in faccia il cadavere.
Avuta la certezza che si
trattava di Selis, andò ad
ammazzare Leccese con De
Pedis e Mancini.
La buca per seppellire
Nicolino era stata scavata al
mattino, lungo l'argine del
Tevere. Prima di buttarcelo e
ricoprirlo con pepe e calce, i
suoi assassini si divisero le
cinquecentomila lire che aveva
in tasca. Il morto portava
anche il solito Rolex d'oro e
l'anello col brillante al dito
mignolo; qualcuno voleva
tenerseli, ma sarebbe stato
pericoloso, e così i due oggetti
preziosi finirono nel fiume.
Dopo l'esecuzione Abbatino
e qualche altro tornarono al bar
di via Chiabrera, dove era stato
fissato l'appuntamento con
quelli che nel frattempo erano
andati a uccidere Leccese.
Incontrarono Claudio Sicilia.
«Erano preoccupati»,
racconterà il «vesuviano»,
«perché non vedevano arrivare
De Pedis e gli altri. Quando
giunsero tutti si abbracciarono,
congratulandosi per la morte
dei due 'schifosi'. Decisero di
festeggiare l'evento con una
cena.»

Nonostante i due morti,


però, l'operazione non era
ancora conclusa. C'era da
eliminare anche Fulvio Lucioli,
socio di Selis e per di più -
spiegherà Abbatino -
«allontanato
dall'organizzazione in quanto
non era concepibile che
tollerasse di essere 'cornuto'
per trafficare eroina in proprio
nella zona di Dragona-Acilia.»
Si raccontava infatti che sua
moglie andasse a letto con uno
dei due ragazzi che lo
aiutavano nello spaccio, e che
«il sorcio» non dicesse nulla
per non perdere la sua
collaborazione. Ma Lucioli
doveva morire anche perché
così i suoi assassini avrebbero
potuto impadronirsi della fetta
di mercato di droga che
controllava.
Sarà proprio la vittima
designata a raccontare al
giudice istruttore come e
quando provarono a ucciderlo:
«Due giorni dopo, tornando a
casa, trovai ad attendermi
Toscano, Colafigli e Abbatino,
insieme ad altre persone che
ora non ricordo. Io ero alla
guida della macchina blindata
del Selis, che nel frattempo
usavo per paura che volessero
farmi fuori. Mi accostai al
gruppo, aprii di pochi millimetri
il vetro blindato e chiesi a
Toscano cosa volesse. Mi disse
di scendere un attimo perché
volevano parlarmi. Io ebbi
timore e me ne andai. Preciso
che, essendo sorvegliato
speciale, dovevo rientrare a
casa a orari fissi, e questo
rendeva più difficili e pericolosi
i miei spostamenti. Dopo due o
tre giorni (...) feci in modo di
avere con Toscano un contatto
telefonico. Nel corso della
telefonata Toscano mi disse che
la sorella di Selis li aveva
denunciati alla Polizia per la
scomparsa del fratello. A un
certo punto sentii al telefono la
voce di Colafigli, il quale mi
disse che mi riteneva
responsabile delle dichiarazioni
alla Polizia della sorella di
Selis, e subito dopo riattaccò.
Da allora scomparii dalla
circolazione.»8

Giuseppe Magliolo, trentatré


anni, chiamato «il killer»
perché in carcere aveva
commesso vari omicidi su
commissione, conosceva
Nicolino Selis da quando erano
ragazzini. Nel 1975 lui e
Nicolino si ritrovarono a Regina
Coeli, e insieme evasero con
altre dieci persone tra cui
Laudavino De Sanctis, «Lallo lo
zoppo», uno specialista dei
sequestri di persona negli anni
Settanta. Fu una «vacanza»
dalla galera di breve durata,
poco dopo «il killer» venne
riacciuffato dalla polizia mentre
si nascondeva in una baracca,
all'Idroscalo di Ostia. Rientrato
in cella, Magliolo s'era
politicizzato, avvicinandosi ai
detenuti delle Brigate Rosse.
Ma non aveva reciso i
collegamenti coi suoi «colleghi»
comuni, primo fra tutti proprio
Nicolino Selis, al quale era
rimasto molto legato. E da
quando seppe, in carcere, della
morte di Leccese e della
scomparsa di Nicolino, cominciò
a sentirsi come un leone in
gabbia, pronto a uscire e
sbranare gli assassini dei suoi
amici. Ne parlava con tutti, era
assetato di vendetta.
Lasciò il carcere speciale di
Ascoli Piceno il 10 ottobre del
1981, con la consueta qualifica
di «sorvegliato speciale»,
obbligo di firma tutte le sere
alle venti al commissariato di
zona, e si mise subito a caccia
di notizie sui carnefici di
Leccese e Selis. Non gli fu
difficile individuarli, ma non fu
difficile nemmeno per le sue
potenziali vittime sapere che
c'era qualcuno in circolazione
pronto ad ammazzarli, e quindi
da ammazzare. Cominciò una
reciproca caccia all'uomo, sotto
gli occhi distratti o inermi delle
forze dell'ordine, che - stando
al significato delle parole -
avrebbero dovuto "sorvegliare
specialmente" i protagonisti di
questa guerra.
Non faceva segreto,
Giuseppe Magliolo detto «il
killer», capelli lunghi, baffoni
alla messicana e fama di
assassino senza scrupoli, della
missione che si era dato. Anche
perché con uno di quelli che
doveva far fuori, Edoardo
Toscano, c'era un vecchio conto
rimasto in sospeso:
l'«operaietto» e il fratello di
Magliolo, un ragazzo
soprannominato «er pollo»,
avevano partecipato a una
rapina sfociata in un conflitto a
fuoco nel quale il «pollo» era
rimasto ucciso. Giuseppe aveva
sempre pensato che Toscano
fosse il responsabile della
morte del fratello, e l'avrebbe
ammazzato già all'epoca se
Antonio Mancini, suo compagno
di carcere, non l'avesse
convinto a soprassedere.
Adesso era venuto il
momento di presentare un
conto unico, per il «pollo» e per
Selis. Due o tre volte Magliolo
si presentò da Lucioli.
«Sappiamo chi sono quegli
infami, aiutami a fargliela
pagare», gli propose. Ma il
«sorcio» non ne volle sapere,
l'aveva scampata una volta e
gli era bastato. Andò anche da
Anna Selis, la vedova di
Leccese. «Sto raccogliendo
informazioni, recupererò il
corpo di Nicolino e troverò gli
assassini suoi e di Tonino», le
promise.
A casa di Lucioli, negli stessi
giorni, aveva bussato pure
Edoardo Toscano, carico anche
lui di foschi propositi: «C'è in
giro 'il killer', dice che vuole
farci la pelle, lo toglierò di
mezzo». Per lui e gli altri
«bravi ragazzi» era una
necessità, magari faticosa ma
irrinunciabile: quando si uccide
qualcuno, per vendetta o per
«affari», comincia un conflitto
che si può considerare chiuso
solo con l'annientamento totale
degli amici del primo morto.
Perché quelli cominciano con le
rappresaglie, e non si può stare
tranquilli finché non sono stati
tolti di mezzo tutti. Altrimenti
rimarrà sempre il rischio, anche
dopo anni, di essere uccisi da
un vendicatore magari solitario
che ha ancora in testa il suo
amico morto ammazzato.
A chi lo avvertiva dei piani
dell'«operaietto» e dei pericoli
che correva, Magliolo spiegava
di esserne al corrente, ma che
ormai aveva ingaggiato una
gara dalla quale non poteva
ritirarsi. Quando stava in
macchina guardava in
continuazione lo specchietto
retrovisore, per vedere se
qualcuno lo seguiva. Sua
madre una volta lo sentì dire al
telefono: «Sì, lo so che quello
ce l'ha con me... Facciamo a chi
fa prima...»
Fecero prima gli altri. La
sera del 24 novembre, martedì,
il «sorvegliato speciale»
chiamato «killer» era in libertà
e a caccia delle sue prede
ormai da un mese e mezzo. Per
quel giorno non era accaduto
nulla, restava solo la firma al
commissariato.
Lasciò la casa di via Duca di
Genova, a Ostia, che
mancavano pochi minuti alle
venti, arrivò a piedi alla sua
Renault 5 parcheggiata lì
vicino. Mentre apriva lo
sportello un'Alfetta 2000 lo
affiancò, un uomo scese e
sparò il primo proiettile.
Giuseppe Magliolo, colpito alla
schiena, ebbe la forza di
attraversare la strada e
cominciare a correre.
L'uomo con la pistola lo
inseguì, e così l'Alfetta con
altre due persone a bordo.
Partirono ancora due o tre
colpi, «il killer» tentò di
reagire, tirò fuori dal borsello la
sua 7.65, ma non fece in tempo
a usarla. Mentre scappava lo
raggiunsero altri proiettili,
cadde qualche decina di metri
più in là. Il proprietario del bar
che stava abbassando le
saracinesche del locale si
affrettò a barricarsi dentro,
Magliolo si trascinò ancora per
qualche centimetro sui gomiti e
sulle ginocchia, ma il suo
inseguitore lo raggiunse e
sparò il colpo di grazia, alla
testa. L'assassino risalì
sull'Alfetta, che se ne andò
sgommando; sulla strada
rimase il cadavere del «killer»,
raggomitolato su un fianco,
illuminato dalla luce di un
lampione.

***
7. COSA NOSTRA E I
MISTERI D'ITALIA.

Tutto cominciò con


l'indagine su un traffico
clandestino di opere d'arte e
droga. Gli uomini della Squadra
Mobile erano arrivati a un tal
Virgilio Fiorini, romano,
cinquantacinque anni, casa
sulla Cassia e studio artistico
delle parti di via Margutta, la
strada dei pittori. Fecero le
perquisizioni, e oltre a quadri di
valore, litografie di Guttuso e
dipinti del Batoni, denaro in
contanti e strani congegni
elettronici, saltarono fuori i
documenti di un altro
appartamento del centro
storico, via delle Carrozze 55,
di proprietà della società
Gemelli I, amministratore unico
Virgilio Fiorini.
«Le chiavi di via delle
Carrozze ce l'ha Guido
Cercola», disse Fiorini ai
poliziotti, chiamando in causa
un'altra delle persone già
coinvolte nell'indagine.
Andarono in quella casa,
sistemata tra piazza di Spagna
e via del Corso, e come in una
caccia al tesoro, trovarono
nuove indicazioni.
L'appartamento sembrava
disabitato, ma da una
cassaforte aperta con la fiamma
ossidrica spuntarono gioielli di
ogni genere e valore, mazzette
di banconote per oltre duecento
milioni, appunti scritti in codice
e numeri di telefono, la fattura
rilasciata da un negozio di
abbigliamento intestata «sig.
Mattaliano», una fede
matrimoniale con la scritta
«Pippo e Sara 20-12-61»,
alcune foto formato tessera di
un signore dall'apparente età di
cinquant'anni, occhiali, baffi
sottili, papillon su camicia
bianca.
Ci volle poco a riconoscere
in quel signore il boss mafioso
Giuseppe «Pippo» Calò,
latitante, quattro mandati di
cattura sulle spalle di cui uno
firmato dai giudici di Palermo, il
«pool» di Falcone e Borsellino
che stava istruendo il
maxiprocesso a Cosa Nostra
sulla base delle dichiarazioni di
Tommaso Buscetta. E quante
ne aveva dette, Buscetta, sul
conto di Pippo Calò, il
«cassiere» e l'«ambasciatore»
della mafia a Roma. Era la fine
di marzo del 1985.
Nella casa disabitata di via
delle Carrozze, dunque, era
passato Calò. Ma lui dov'era?
Le indagini proseguirono, su
una busta trovata a casa di
Fiorini c'era scritto «Tito Livio»,
e venne fuori che Fiorini era
amministratore unico anche
della società Ila, proprietaria di
un appartamento in via Tito
Livio 76, quartiere Monte
Mario. Gli agenti arrivarono in
quella strada elegante,
silenziosa e protetta dal verde.
Sul citofono del palazzo che
cercavano, trovarono la
targhetta «Ilva»: corrispondeva
all'attico, scala A interno 6.
La sera del 29 marzo
vennero disposte operazioni di
«osservazione e discreto
accerchiamento ad ampio
raggio della zona interessata».
C'erano poliziotti in borghese
dappertutto: in strada, sui
terrazzi adiacenti da dove si
poteva vedere l'attico con le
luci accese e le persone che si
muovevano all'interno, nel
garage. Dalla finestra
dell'ultimo piano, di tanto in
tanto, si affacciava una signora,
guardava in basso e rientrava.
Intorno alle ventuno, quando i
poliziotti aspettavano già da un
po', giunse una Fiat Uno «di
colore scuro» - forse a causa
del buio, chi stese il rapporto
non seppe essere più preciso -
con due persone a bordo, che si
fermò sotto il palazzo. Scese un
uomo, citofonò dove c'era
scritto «Ilva», parlò pochi
secondi e tornò verso la
macchina.
«E' Calò», sibilò l'agente di
Polizia al collega che gli stava a
fianco. Decisero di intervenire.
L'agente si avvicinò e ordinò
all'uomo di fermarsi, quello
provò ad accelerare il passo,
ma fu bloccato. Un paio di colpi
sparati in aria fecero impallidire
il prigioniero, che abbandonò
ogni velleità, e richiamarono
sulla strada tutti i poliziotti
appostati nella zona. «Giuseppe
Calò, lei è in arresto.» «Vi state
sbagliando, non sono Calò»,
farfugliò il boss mostrando una
patente intestata a un certo
Mario Aglialoro. Non disse di
più.
Il «cassiere» di Cosa Nostra,
dunque, era caduto in trappola,
e con lui il suo «luogotenente»
Antonino Rotolo, trentanove
anni, a sua volta ricercato con
mandato di cattura del giudice
istruttore Giovanni Falcone.
Una squadra di poliziotti, mitra
e pistole spianate, salì in casa e
bloccò un altro siciliano
latitante, Lorenzo Di Gesù,
insieme con Rosaria Mattaliano,
moglie di Calò, documento falso
intestato a Carmela Larosa. Ma
il vero cognome della signora
era lo stesso che compariva
sulla fattura trovata in via delle
Carrozze, e la fede custodita
nella cassaforte era quella di
«don» Pippo, che con donna
Rosaria si avviava a festeggiare
le nozze d'argento.
Anche in questo
appartamento c'era una
cassaforte a muro, piena di
gioielli, banconote per
settantasei milioni, documenti
falsi, alcune ricetrasmittenti.
Sistemato in una stanza,
gracchiava una specie di
«baracchino», sintonizzato
sulla frequenza-radio della
Polizia.
Arrestati Calò e gli altri, gli
agenti rimasero a controllare il
palazzo, e il giorno dopo a
cadere nella rete fu Antonietta
Sansone, moglie di Rotolo.
Quando i poliziotti la
bloccarono, la donna strappò la
patente di guida che aveva con
sé, naturalmente falsa, ma non
fece in tempo a distruggere
l'agendina piena di annotazioni
in codice.
Le indagini, nei giorni
immediatamente successivi, si
fecero febbrili, nessuno
avrebbe immaginato che da
una banale inchiesta su opere
d'arte forse rubate si sarebbe
arrivati a spezzare l'anello della
catena che univa la mafia alla
capitale. In ogni casa perquisita
si trovavano tracce di altre
case, e a ogni nome che veniva
fuori si abbinavano società
finanziarie e immobiliari. Guido
Cercola, per esempio, risultò
socio della cooperativa edilizia
Delta, di cui era stato
presidente Domenico Balducci,
un imprenditore ammazzato tre
anni e mezzo prima, chissà
perché e chissà da chi. E lo
stesso Cercola aveva contatti
con un certo Federico, un
tecnico elettronico al quale era
stata ordinata la realizzazione
di apparecchiature simili a
quelle trovate in casa di Fiorini,
che si scopriranno essere
telecomandi per esplosivo; quel
Federico, scoprirà la Polizia,
altri non era che Friedrich
Schaudin, nato a Zagabria nel
1939 ma di nazionalità tedesca,
residente in Italia.
Furono individuate altre
società, appartamenti e ville,
decine di nomi comparvero
nell'elenco dei favoreggiatori e
dei soci in affari. C'era Ernesto
Diotallevi, un ex facchino dei
mercati generali divenuto
costruttore, già socio di
Balducci e insieme a lui
collegato alla banda della
Magliana attraverso Danilo
Abbruciati; e c'era Gianni
Travaglini, il venditore di
macchine da cui si servivano i
«bravi ragazzi»: la Fiat Uno di
Calò proveniva dal suo
autosalone.
A Tuscania, in provincia di
Viterbo, venne individuata una
villa che era stata utilizzata sia
da Cercola che da «don» Pippo.
Un'altra residenza di campagna
fu localizzata a Poggio San
Lorenzo, in provincia di Rieti,
frazione Case Sparse. Era una
villa con un vasto terreno
intorno, acquistata da Cercola
per duecentocinquanta milioni
tramite la società Hermes, sua
e del fratello; alle trattative,
disse il venditore alla Polizia,
aveva partecipato anche un
signore che Cercola gli aveva
presentato come suo cognato.
Gli agenti mostrarono al
testimone alcune fotografie.
«Riconosce il cognato in una di
queste persone?» «Eccolo, è
lui», disse l'ex proprietario
della villa indicando la foto di
Pippo Calò.
Durante la perquisizione a
Poggio San Lorenzo, dietro
un'intercapedine costruita in
cantina, furono trovate due
valigie con trasmettitori,
amplificatori, radioricevitori e
antenne varie; dieci detonatori
elettrici, esplosivo al plastico di
tipo Semtex, due mine
anticarro, un revolver calibro
38 special, due 357 Magnum,
un fucile a pompa e munizioni
varie. C'erano pure sei chili e
mezzo di eroina, custoditi in
sette sacchetti di plastica
trasparenti, dello stesso tipo di
quella prodotta nella raffineria
mafiosa di Alcamo, in provincia
di Trapani.
Non solo l'indagine sul
traffico di opere d'arte aveva
portato all'arresto di Pippo
Calò, boss latitante delle cosche
«vincenti», ma in poche
settimane era stato trovato il
bandolo della matassa
terroristico-mafiosa che il 23
dicembre 1984 aveva fatto
saltare in aria il treno rapido
904, provocando sedici morti e
trecento feriti: la «strage di
Natale», la risposta di Cosa
Nostra alle rivelazioni di
Tommaso Buscetta.
«Dall'istruttoria sono emerse
soltanto conferme alle accuse,
delineandosi in tutta la sua
pericolosità la bieca figura del
Calò, mandante di tanti efferati
assassinii e vera e propria
cerniera fra gli affari
tipicamente mafiosi e la
criminalità dei 'colletti
bianchi'... Il suo apparente
allontanamento da Palermo ha
fatto sì che gli organi
investigativi trascurassero di
seguirne le mosse, e in siffatta
maniera il prevenuto ha potuto
operare tranquillamente per
oltre un decennio nell'ombra,
diventando così uno dei membri
più autorevoli di Cosa Nostra e
uno dei più fidi alleati dei
corleonesi, senza che nessuno
facesse più caso a lui,
nonostante fosse latitante.»
E' il ritratto, nitido e
inesorabile, che del «cassiere
della mafia» fecero i giudici
istruttori di Palermo nel rinvio
a giudizio del primo
maxiprocesso. A confermarlo
sarebbero arrivate, negli anni a
seguire, le condanne
all'ergastolo, compresa quella,
definitiva, per la «strage di
Natale».
Quando fu arrestato, Pippo
Calò aveva cinquantatré anni, e
da tredici era sbarcato a Roma.
Di soldi ne aveva guadagnati
tanti, e ancor di più ne aveva
investiti, per conto suo e di
Cosa Nostra, anche se nel '77
denunciò al fisco un imponibile
Irpef di 540000 lire e nel '79
addirittura nessun guadagno.
Molti lustri e decine di miliardi
lo separavano ormai dal tempo
in cui era commesso nel
negozio di stoffe di via
Maqueda, al centro di Palermo.
Nel 1954, a ventidue anni,
aveva tentato di uccidere un
certo Francesco Scaletta,
l'assassino di suo padre; se la
cavò con una condanna a otto
mesi di reclusione perché -
stabilirono i giudici - la pistola
con cui aveva sparato «non era
idonea a produrre l'evento
letale». In carcere,
all'Ucciardone, aveva
conosciuto Domenico Balducci,
l'imprenditore che incontrerà di
nuovo a Roma.
Appena uscito di galera Calò
divenne «uomo d'onore», e
giurò fedeltà eterna a Cosa
Nostra sotto gli occhi di
Tommaso Buscetta; con una
carriera fulminante diventerà
rappresentante della «famiglia»
di Porta Nuova e componente
della «commissione», il
governo mafioso.
Nel '71 si trasferì a Roma,
sistemandovisi definitivamente
grazie a Domenico Balducci,
che continuò ad aiutarlo anche
quando, nel '73, «don» Pippo
divenne ufficialmente un
ricercato. Il primo «pentito» di
Cosa Nostra, Leonardo Vitale,
lo accusava di omicidio,
sequestro di persona, estorsioni
e altro, ma i magistrati non
credettero a quelle rilevazioni e
Calò poté continuare a vivere
la sua tranquilla e indisturbata
latitanza, coperta dal nome di
Mario Aglialoro, e poi Michele
Pulvirenti, Gaetano Fisalli e
altri ancora. Ma il soprannome
rimase sempre lo stesso:
«salamandra». A vicini di casa,
conoscenti e uomini d'affari,
così come al fedele barbiere dei
Parioli, si presentava come un
generale in pensione con il
gusto dell'impresa, riservato ed
elegante, un po' schivo ma
generoso.
L'imprenditore Balducci -
racconterà lui stesso - lo aveva
preso a lavorare come sensale,
per associarlo successivamente
nei suoi affari immobiliari. In
questo modo, e poi con
l'attività di antiquario, Calò
giustificherà i lauti guadagni
quando gli verranno scoperti e
contestati. Nel 1980 ospitò il
latitante Buscetta, al quale -
rivelerà «don» Masino - fece
conoscere sia Balducci che
Ernesto Diotallevi, che grazie al
matrimonio con una signora
benestante e ai rapporti con
Balducci era passato dai
mercati generali al giro
dell'edilizia d'assalto e delle
società immobiliari fantasma.
Molti raccontano, ma lui nega,
che «don» Pippo fece da
padrino al primo figlio di
Diotallevi, chiamato Mario,
come il generale in pensione
Mario Aglialoro.
In quel periodo Cosa Nostra
era già entrata nel traffico di
droga, e proprio per questa
attività il ramo che faceva capo
a Calò-Aglialoro e tutti gli altri
cognomi avviò i contatti con la
banda della Magliana,
interessata ad avere rapporti
con chiunque potesse offrire
eroina e cocaina da rivendere.
Siciliani compresi. Tra i «bravi
ragazzi» si cominciò a parlare
di quel boss mafioso elegante e
taciturno che viveva a Roma,
amico di Diotallevi e capace di
procurare droga in grandi
quantità. Il tramite era uno dei
più anziani ed esperti della
banda, ex rapinatore e
sequestratore, salito sui gradini
della scala criminale fino a
diventare killer e uomo d'affari
insieme: Danilo Abbruciati, il
quale si riferiva al boss anche
in tono scherzoso, come
quando Fabiola Moretti gli
chiedeva soldi e lui rispondeva:
«che ti credi che so' Pippo Calò,
"er cassiere"?»
Ad alcuni discorsi su Calò
partecipò pure Maurizio
Abbatino, per nulla
impressionato dalla notorietà
dell'«uomo d'onore» venuto
dalla Sicilia: «A quei tempi non
godeva di particolare fama nel
nostro ambiente, poiché
l'essere 'cassiere' della mafia
non significava di per sé che
egli rappresentasse un vertice
di tale organizzazione, dal
momento che tale ruolo di
vertice, all'epoca, era svolto da
Stefano Bontade, la cui morte
segnò l'ascesa di Calò. Da parte
mia, comunque, non ebbi mai
occasione di conoscerlo e
d'incontrarlo, né prima né dopo
tale evento... Danilo Abbruciati
era legato a Ernesto Diotallevi,
che ebbi modo d'incontrare, su
sollecitazione dell'Abbruciati
stesso, poco prima dell'omicidio
di Domenico Balducci. In
quell'occasione Diotallevi ci
venne presentato da Abbruciati
come suo tramite con la mafia
siciliana, e fu sempre in
quell'occasione che si parlò di
Pippo Calò come uomo di
Stefano Bontade, del quale
avevamo cominciato a
'lavorare' l'eroina... Dopo la
morte di Bontade si chiuse il
relativo canale di
approvvigionamento, senza che
si prendessero contatti col Calò,
né che questi prendesse
contatti con noi, anche perché
noi subimmo degli arresti e nel
frattempo morì lo stesso
Abbruciati. Non posso
escludere, comunque, che
Pippo Calò fosse rimasto in
contatto con i 'testaccini'».
Tutte le morti citate da
Abbatino - Bontade, Balducci,
Abbruciati - sono state morti
violente, tre cadaveri rimasti in
mezzo alla strada crivellati di
colpi. Il primo in ordine di
tempo a essere ucciso fu
Stefano Bontate - diventato
Bontade per quello strano
destino dei cognomi di alcuni
mafiosi, grazie al quale Leggio
s'è trasformato in Liggio, o
Cancemi in Cangemi; i
«picciotti», poi, Bontate lo
riducevano semplicemente a
Bontà -, il «principe di
Villagrazia» fulminato a colpi di
kalashnikov su ordine di Totò
Rima il 23 aprile 1981, giorno
del suo quarantaquattresimo
compleanno. Quando venne
assassinato, Calò aveva già
abbandonato Bontate per
passare coi corleonesi di Riina.
Buscetta aveva tentato di
convincere Pippo a darsi da fare
per ricucire lo «strappo» dentro
Cosa Nostra, c'era stato un
incontro, ma non era servito a
granché. Calò era più
interessato agli affari futuri, e
aveva offerto a Masino di
rimanere in Italia e diventare
suo socio: attraverso
Ciancimino che «era in mano ai
corleonesi», diceva, c'erano da
guadagnare miliardi con
l'edilizia a Palermo. Ma
Buscetta non ne volle sapere, e
prese la via del Brasile.

Per far soldi a Palermo, Calò


aveva cambiato alleati. A
Roma, invece, rimase legato a
quel Balducci che dieci anni
prima l'aveva accolto a braccia
aperte. Ufficialmente Domenico
Balducci, per gli amici
«Memmo», era proprietario di
un negozio di elettrodomestici
a Campo de' Fiori gestito dal
suo amico Oberdan Spurio, ma
tutti sapevano che era uno
strozzino, un «cravattaro»; si
racconta che sull'ingresso della
«bottega» di Campo de' Fiori
c'era un cartello con scritto
«Qui si vendono soldi». «Tale
negozio», ha spiegato il
«faccendiere» Flavio Carboni al
giudice, «fungeva da vero e
proprio sportello; qui lo Spurio
erogava prestiti, spesso parte
in denaro e parte in preziosi od
oggetti di valore, quali pelli non
lavorate, tappeti, argenteria
d'antiquariato, tutti provenienti
dal vicino Monte dei Pegni.» (3)
«Memmo» Balducci era il più
noto degli «usurai di Campo de'
Fiori». In breve tempo s'era
trasformato in imprenditore
edile, un vero e proprio mago
nel fare e disfare società che
compravano e vendevano
terreni, appartamenti, interi
complessi edilizi.
Tramite Abbruciati, Balducci
divenne il principale
investitore, e quindi riciclatore,
dei guadagni tirati su dalla
banda della Magliana, in
particolare dai «testaccini».
Questi infatti, che gestivano
pure l'usura a tassi d'interesse
tra il dieci e il venticinque per
cento mensili, reinvestivano
continuamente i propri soldi.
Abbatino e gli altri
«steccavano» all'incirca cinque
milioni a settimana ciascuno,
preoccupandosi però di lasciare
sempre in cassa un «fondo» per
le emergenze e le necessità
primarie, come il pagamento
della droga e l'assistenza ai
detenuti; i «testaccini» no,
impiegavano tutto il denaro che
avevano a disposizione,
moltiplicandolo a grande
velocità. Il «canale» Balducci
portava al costruttore Danilo
Sbarra, futuro socio di Calò,
che fece entrare nel «giro»
anche il faccendiere Flavio
Carboni e il finanziere
italosvizzero Florence Ley
Ravello. Si formò così una
catena che, anello dopo anello,
legava insieme i capitali mafiosi
di Calò e quelli della Magliana
in una serie impressionante di
attività e speculazioni edilizie.
Tra il 1975 e il 1976 la
Compagnia Industriale
Romana, CIR Spa, controllata
da Ley Ravello, cedette a tre
società altrettanti terreni
chiamati Fioranello 1,
Fioranello 2 e Cornacchiola,
dalle parti di Fiumicino. Il
finanziere italosvizzero
continuò ad avere interessi in
queste società, che avevano lo
studio commerciale nell'ufficio
dal quale operava Balducci. Le
stesse tre società, nel 1981,
attraverso un trasferimento dei
pacchetti azionari delle
finanziarie svizzere che le
controllavano formalmente,
passarono nelle mani di alcuni
siciliani, con movimenti di
denaro di sospetta provenienza
mafiosa.
Quasi contemporaneamente,
Balducci e Carboni gestivano
un'altra serie di speculazioni in
Sardegna, a Porto Rotondo. Il
primo come socio di minoranza
e il secondo di maggioranza,
diedero vita al complesso Costa
delle Ginestre, nel quale
investirà dei soldi anche Danilo
Abbruciati, attraverso il
Consorzio Porto Rotondo; nel
consorzio entrò la Punta Volpe
Spa, a cui era interessato Ley
Ravello.
Cominciò un complicato
gioco di compravendite nel
quale si ritrovano i nomi di
faccendieri, banchieri, mafiosi e
uomini legati alla banda della
Magliana, ricostruito così dal
giudice istruttore:
«Quest'ultima società (la Punta
Volpe, N.d.A.) non ha mai
iniziato l'attività di costruzione,
ma ha ceduto vari lotti
edificabili (su cui hanno
costruito ville Diotallevi,
Carboni e Balducci), per poi
frazionarsi in ben dodici società
minori con diversa sorte, ma
delle quali quattro sicuramente
create per effettuare il ritorno
dell'investimento, ovviamente
ricapitalizzato, al Calò, al
Balducci e agli altri; le altre
otto finiranno per confluire
quasi totalmente nella sfera
Carboni-Ravello, attraverso la
società So.F.Int.
«Fra le prime sono da
evidenziare la Mediterranea
S.r.l., dalle cui cessioni di
appartamenti si arriva infatti a
Calò, Abbruciati, Diotallevi,
Lorenzo Di Gesù e Faldetta
Luigi, e la Sa tazza dalla quale
la cooperativa Delta, fra i cui
soci si ritrovano Balducci,
Cercola, Fabiani, Mancini
Luciano, Picone Francesco,
Pistone Franco e altri, acquistò
i terreni per la costruzione
delle case da assegnare ai soci.
«Tra le seconde, invece,
meritano un occhio di riguardo
la società Prato verde e la
So.F.Int. La prima iniziò le
costruzioni con un
finanziamento trasversale del
Banco Ambrosiano, filiale di
Roma, senza alcuna garanzia
reale che lo sostenesse, grazie
anche ai buoni uffici di
Francesco Pazienza,
remunerato con ricca
percentuale; la seconda invece
(...) divenne la consociata
maggiore di tutte le altre, parte
assorbendole, parte vendendole
a terzi (tra cui una società
bresciana e il gruppo
Berlusconi), ma
sostanzialmente accentrandone
il controllo, pur tramite
l'interposizione dei compiacenti
Luciano Merluzzi e Gennaro
Cassella, nelle mani del
Carboni». (5)
Regista e primattore di tutte
queste operazioni fu Domenico
Balducci, il «cravattaro» che
nell'estate del 1981 si ritrovò a
villeggiare, a Porto Rotondo,
gomito a gomito con Carboni,
Pazienza, il presidente del
Banco Ambrosiano Roberto
Calvi appena uscito di galera,
Calò, Abbruciati e Diotallevi. Un
segno dei rapporti e delle
conoscenze che gli
consentivano di utilizzare, per i
suoi spostamenti all'estero, gli
aerei della Cai, la compagnia
privata del Servizio segreto
militare, grazie ai quali poteva
evitare ogni controllo di
frontiera, e che gli
permettevano di frequentare
tranquillamente funzionari di
Polizia anche quando era
latitante. Nemmeno la moglie
di Balducci s'era accorta di
avere un marito in fuga dalla
giustizia.
«Quando lo sposai»,
dichiarerà al giudice, «non
sapevo che fosse latitante, né
fu lui a dirmelo bensì, anni
dopo il nostro matrimonio, la
sorella. D'altra parte Domenico
conduceva una vita di relazioni
normalissima, non dava cioè
l'impressione di uno che si
nascondesse per sfuggire a
qualcosa o a qualcuno.» (6)
Delle sue conoscenze «in
alto» Domenico Balducci si
vantava spesso, e non gli
dispiaceva apparire potente nel
mondo del "jet set". Non s'è
mai capito se la promessa di
«Memmo» a Carlo Ponti e Sofia
Loren di intervenire presso la
magistratura affinché venissero
risolti i problemi giudiziari del
produttore cinematografico,
finito sotto inchiesta per
esportazione di valuta, fosse
una truffa, un millantato
credito o un reale approccio per
un tentativo di corruzione.
Fatto sta che Balducci aveva
assicurato di poter fare
pressioni non sulla Procura o
sui giudici del tribunale - che,
diceva, erano inavvicinabili -,
ma certamente sulla Corte
d'Appello e in Cassazione, dove
c'era «maggiore disponibilità».
Nello stesso periodo, il
produttore fu anche vittima di
un progetto di sequestro
organizzato proprio dall'usuraio
di Campo de' Fiori. L'ha rivelato
Tommaso Buscetta, parlando
del suo soggiorno romano da
latitante: «Da Pippo Calò
appresi che qualche tempo
prima, con Diotallevi e
Balducci, avevano tentato il
sequestro di Carlo Ponti, il
quale per sfuggire al sequestro
si era inerpicato con l'auto su
una collina. Balducci peraltro,
nel nostro primo incontro, mi
disse che a Roma potevo stare
tranquillo, poiché aveva la
situazione sotto controllo. Non
so però da che cosa derivasse
questa sicurezza; sebbene
alludesse ai suoi rapporti con le
forze dell'ordine, infatti, non so
se si riferisse a carabinieri o
polizia». (7)
Con i romani «don» Pippo
Calò cercò di combinare anche
l'«operazione Siracusa». C'era
da ristrutturare il centro storico
e il porto della città siciliana,
un progetto di cui poi non si
fece niente ma che Calò pensò
di affidare alla So.F.Int., la
società che nel frattempo era
passata da Ley Ravello a
Carboni. Per quest'ultimo il
boss mafioso stanziò ottocento
milioni, di cui
quattrocentocinquanta da
versare come anticipo.
Successe però che una
«tranche» da centocinquanta
milioni, che doveva arrivare a
Carboni tramite Domenico
Balducci, si fermò al passaggio
intermedio.
«Memmo» infatti vantava un
credito sul faccendiere pari
proprio a quella cifra, e decise
di intascare direttamente i soldi
destinati al suo debitore. Il
resto dell'anticipo, invece,
giunse a Carboni o
direttamente dai siciliani o
attraverso Ernesto Diotallevi,
che si preparava a scalzare
Balducci nel ruolo di referente
romano di Calò. Il
comportamento di Balducci, con
quella storia dei centocinquanta
milioni tenuti per sé, non era
piaciuto per niente al «cassiere
della mafia».

Domenico «Memmo»
Balducci era latitante dal
gennaio del 1980, e venne
ucciso il 16 ottobre 1981. I
killer lo trovarono dove la
polizia, evidentemente, non era
mai andata a cercarlo, anche se
sarebbe stato il primo posto da
controllare: la sua villa
all'Aventino, nell'esclusiva e
lussuosa via di Villa Pepoli.
Quella sera, poco prima delle
otto, Balducci arrivò col
motorino davanti al cancello di
casa, al numero 13, scese e
citofonò alla moglie. Non aveva
ancora finito di parlare che due
sicari sbucarono dal buio e
fecero fuoco sei o sette volte
sul «cravattaro» diventato
imprenditore. Poi si rituffarono
nell'oscurità.
Quando arrivarono, gli
agenti trovarono il cadavere
supino, trapassato da cinque
proiettili. Nella tasca interna
della giacca due documenti,
uno autentico e uno falso,
intestato a un tal Nello
Bongarzoni. Nel taschino della
camicia di seta, azzurra e
intrisa di sangue, un'agendina
piena di numeri di telefono.
Nessuna traccia, invece, del
borsello, i killer se l'erano
portato via. Qualche decina di
metri più in là, attaccata a un
albero, penzolava una corda:
gli assassini si erano
arrampicati lì per scavalcare il
muro di cinta di un parco e
ritrovarsi dall'altra parte, su via
Guerrieri, dove un complice li
aspettava in macchina.
«Quel che mi impressionò»,
ha raccontato la signora Italia,
moglie della vittima, «fu la
posizione del braccio, non
ricordo se il destro o il sinistro,
la cui mano aveva una
posizione del tutto innaturale,
piegata, come se qualcuno
avesse strappato con forza
qualcosa che la mano stessa
reggeva. Mio marito portava
sempre con sé una borsa, ma
quella borsa non l'aveva in
mano né venne trovata vicino
al suo corpo, sicché ritengo che
la sua mano avesse quella
posizione innaturale perché gli
era stata strappata la borsa.»
(8)
Tra le carte del morto fu
trovato un biglietto aereo della
Swissair, che avrebbe dovuto
portarlo a Ginevra. Viaggiava
spesso per affari, «Memmo»
Balducci, soprattutto in
Svizzera, negli Usa e in
America del Sud. E s'era
talmente convinto che i veri
affari si fanno all'estero che
aveva mandato sua figlia
Roberta, a diciassette anni, a
studiare lingue prima a Londra
e poi a Losanna.
Il vorticoso giro di società, di
interessi e di attività di
«Memmo» - non solo in quanto
usuraio e costruttore, ma
anche come assicuratore,
finanziere e tante altre cose -
venne alla luce soprattutto con
le indagini sulla sua morte, che
finirono per intrecciarsi con
quelle sul traffico di opere
d'arte e droga sfociato
nell'arresto di Pippo Calò.
«Sempre indagando sul
Balducci», scriveranno i giudici
del tribunale di Roma, «anche a
mezzo dell'acquisizione di altri
procedimenti, si accertava che
lo stesso, latitante al momento
della morte, era stato inquisito,
proprio insieme al Faldetta,
dall'autorità giudiziaria di
Palermo, per l'avvenuta
commercializzazione di un
elevato numero di assegni
circolari, provenienti da una
partita chiaramente frutto di
un'operazione di riciclaggio di
un'ingentissima somma di
denaro: taluni assegni di tale
partita erano stati rinvenuti sul
cadavere del presunto boss
mafioso Di Cristina, oltre che in
possesso di altri personaggi
vicini a tale ambiente.»
Quando Balducci diede
trecentocinquanta milioni in
assegni a Luigi Faldetta -
costruttore siciliano, amico e
prestanome di Calò - per la
realizzazione di alcuni affari in
Sardegna, gli disse che
provenivano dall'usura. A
Faldetta sembrò strano, perché
sapeva che i «cravattari»
operavano in contanti, e la
sicurezza che «Memmo» aveva
mentito la ebbe quando due
assegni della stessa partita
furono trovati addosso a
Giuseppe Di Cristina, la mattina
del 30 maggio 1978, a
Palermo. Il boss di Riesi era
steso sull'asfalto di viale
Michelangelo, fulminato da sei
pallottole alla testa sparate dai
killer di Totò Riina, e i poliziotti
della Scientifica, frugando nelle
sue tasche, si imbatterono in
quei titoli di credito che
portavano al «cravattaro di
Campo de' Fiori».
«Mi resi conto», dirà
Faldetta ai giudici, «che gli
assegni circolari del Balducci
avevano la loro origine nel
contrabbando di tabacchi e
pensai, dati i rapporti tra
Balducci e Pippo Calò, che
provenissero da quest'ultimo e
da altri personaggi
palermitani». (10) Ma da
tempo, ormai, «don» Pippo era
passato dalle sigarette ad affari
ben più lucrosi, e il capo della
Squadra Mobile palermitana
Boris Giuliano - anche lui
assassinato, nel luglio del '79 -,
sospettava che quei soldi
provenissero da un sequestro di
persona.
Con Abbruciati, Balducci
aveva sempre avuto rapporti
molto stretti e cordiali, finché
una volta Danilo non ebbe la
sensazione che il «cravattaro»
volesse fregarlo. Si trovava in
galera per uno dei suoi
innumerevoli reati, quando
mandò a dire a «Memmo» che
voleva indietro i milioni che gli
aveva affidato per un
investimento immobiliare. La
sorella di Abbruciati si presentò
da Balducci chiedendo i soldi di
suo fratello, con gli interessi e
il valore del «lucro cessante».
Il commerciante-usuraio-
imprenditore spiegò che il
denaro era ben investito, e
anziché restituirlo offrì al
detenuto alcune azioni di
società. Abbruciati non ne volle
sapere, e la trattativa andò
avanti finché Balducci non si
decise a cedere centoventi
milioni più un appartamento in
Sardegna.
Ma quella vicenda aveva
interrotto il rapporto di fiducia
tra Danilo e «Memmo». La cosa
si venne a sapere tra quelli
della Magliana, e arrivò
all'orecchio di Claudio Sicilia.
«Abbruciati», dirà il «pentito»
ai magistrati, «era determinato
a eliminarlo, ma non poté farlo
in quanto Balducci era mafioso,
legato in particolare a Pippo
Calò e a Ernesto Diotallevi...
Quando Abbruciati divenne più
importante di Balducci per il
clan Diotallevi e Calò, gli venne
dato il nulla osta dei mafiosi
per uccidere Balducci...» (11)
Negli ultimi tempi «Memmo»
aveva paura. Alla moglie aveva
confidato, pur rimanendo nel
vago e senza far nomi, di avere
bisogno di qualche centinaio di
milioni «per chiudere una sua
situazione». Poi sarebbe andato
a costituirsi davanti ai giudici di
Palermo, e certamente le sue
deposizioni potevano creare
problemi a più di un boss, a
Roma e in Sicilia. Due sere
prima di morire, stava
festeggiando al Jackie 'O il
diciottesimo compleanno di sua
figlia, quando qualcuno lo
chiamò fuori: c'erano due
persone che volevano parlargli.
«Quando mio marito rientrò nel
locale», ricorda la signora
Balducci, «era ridotto uno
straccio, ma non mi diede
spiegazioni particolareggiate. Si
limitò a dirmi che era stanco
del tipo di vita che stava
conducendo, che avrebbe
chiuso alcune situazioni dopo di
che avrebbe voluto lasciar
perdere tutto. Ritengo che
quella sera, per lo stato di
prostrazione in cui lo vidi,
avesse ricevuto la condanna a
morte.» (12)
Ad ammazzare Balducci,
secondo il racconto di Maurizio
Abbatino, andarono in tre:
«Apprendemmo che l'omicidio
era stato commesso da
Abbruciati, unitamente a
'Renatino' De Pedis e Raffaele
Pernasetti per fare un favore ai
siciliani: Balducci doveva dei
soldi a Pippo Calò. Il fatto
rivestiva per noi un notevole
interesse in quanto ci
sentimmo, come banda,
coinvolti in vicende a noi
estranee, quali i regolamenti di
conti tra mafiosi, senza
addirittura esserne informati.
In occasione del chiarimento
che venne dato dai predetti
Abbruciati, De Pedis e
Pernasetti, appresi che
l'omicidio era stato commesso
nei pressi, mi sembra, di una
villa, da Renato e Raffaele,
mentre Danilo li attendeva in
auto, e che i primi due si erano
dovuti calare da un muro con
una corda per raggiungere
l'auto stessa...» (13)
Rimasero seccati, «crispino»
e gli altri, dalle rivelazioni di
Abbruciati e dei «testaccini»
sull'assassinio di quel
«cravattaro». Se bisognava
essere soci, componenti della
stessa banda, allora le cose da
fare dovevano essere decise
insieme, e prima di farle.
Quanto meno per prepararsi a
gestire la situazione che si
sarebbe venuta a creare: finché
si trattava di condurre certi
affari in proprio andava bene,
ma quando c'era un cadavere di
mezzo, e un cadavere di un
certo «peso», bisognava
parlarne prima. Una regola
simile a quella per cui, dentro
Cosa Nostra, per i delitti
cosiddetti «eccellenti», ci
voleva l'assenso della
«commissione».
«Perlomeno», aggiungerà
Abbatino, «dovevamo esserne a
conoscenza. Perché noi
avevamo dei codici, e se a
qualcuno succedeva qualcosa
noi ci ritrovavamo a dover
aiutare la persona, sia con gli
avvocati, sia nella spesa
finanziaria richiesta dalla
detenzione. E se non sapevamo
neanche perché era
detenuto...» (14)

Lo «schema» disegnato da
Abbatino per l'omicidio Balducci
ha i tratti molto simili a quelli
riferiti dal pentito di mafia
Francesco Marino Mannoia per
l'omicidio dell'ex presidente del
Banco Ambrosiano Roberto
Calvi, trovato impiccato sotto il
Black Friars' Bridge di Londra, il
16 giugno 1982.
Il pentito ha raccontato di
quella morte ciò che seppe in
due occasioni, prima in libertà
e poi in carcere. «Durante la
mia latitanza», ha detto ai
giudici, «io ero a Fondo Trapani
con Ignazio Pullarà, allora
latitante, e con un terzo uomo
d'onore, forse Pietro Aglieri,
quando sentimmo la televisione
che commentava la notizia
della morte di Roberto Calvi, un
qualche cosa, forse una perizia,
secondo la quale si trattava di
un suicidio. Alcuni giorni dopo
ci trovammo a parlare io,
Ignazio Pullarà, e
probabilmente Pietro Aglieri.
Parlando di vari argomenti, uscì
fuori anche il discorso relativo
alla notizia televisiva; fu il
Pullarà a dire 'Che suicidio del
cazzo, è stato strangolato da
Franco Di Carlo.' (...) Il discorso
ritornò alcuni anni dopo. (...)
Pullarà commentò che il Di
Carlo si era messo sempre a
disposizione, quando richiesto,
citando il caso dello
strangolamento di Calvi, 'cosa
che aveva tolto un grosso peso
a Pippo Calò.' (...) Il Pullarà
disse che Calvi si era
impadronito di una grossa
somma di denaro che
apparteneva a Licio Gelli e a
Calò.» (15)
Francesco Marino Mannoia,
chiamato «mozzarella», il
raffinatore di droga e «uomo
d'onore» vicinissimo a Stefano
Bontate che con le sue
rivelazioni ha aperto la seconda
grande stagione del
«pentitismo», dopo quella di
Buscetta e Contorno, ha parlato
a lungo di Pippo Calò. E dei
suoi legami con quelli della
Magliana: «Calò certamente
aveva rapporti con la banda
della Magliana tanto che da uno
di costoro, di cui non ricordo il
nome, mi fece fare una patente
falsa durante la prima latitanza
(1976 circa), presentandomi a
costui nel negozio di Nunzio
Barbarossa. Comunque il Calò e
Antonino Rotolo ricettavano
gioielli e altri proventi di grosse
rapine commesse a Roma, a
danno di gioiellieri e di furgoni
postali. Proprio per quest'ultimo
motivo erano ben noti in Cosa
Nostra i rapporti tra Calò e
questa banda...
«Calò conosceva bene
Ernesto Diotallevi, il quale
aveva moltissimi contatti negli
ambienti più diversi. (...)
Stefano Bontate diceva che
Diotallevi era un lazzarone e
un usuraio, intendendo che era
un uomo meschino che coglieva
qualsiasi occasione. (...)
Ritornando ai rapporti di Calò
con elementi della banda della
Magliana preciso ancora che in
origine fu il Cosentino (16) a
presentare alcuni di costoro al
Calò, ma ben presto il Calò
monopolizzò queste
conoscenze. Il Cosentino,
persona anziana, fu messo da
parte». (17)

Il «cassiere della mafia»


Giuseppe «Pippo» Calò sembra
essere la chiave che ha fatto
entrare i «bravi ragazzi» della
Magliana in alcuni dei capitoli
ancora misteriosi della storia
d'Italia. Il caso Moro, per
esempio.
Ormai è accertato che Cosa
Nostra si dette da fare, almeno
fino a un certo punto dei
cinquantacinque giorni del
sequestro, per individuare la
«prigione del popolo» e tentare
di far liberare il presidente
della Democrazia Cristiana
rapito dalle Brigate Rosse.
Un tentativo di contatto con
i brigatisti rossi, nel marzo del
1978, fu avviato attraverso
Tommaso Buscetta, che lo riferì
al giudice Falcone nel 1984:
«Ho conosciuto Ugo Bossi in
carcere perché presentatomi da
Francis Turatello, di cui era
molto amico. Ricordo che poco
dopo il sequestro dell'onorevole
Moro, Bossi mi chiese se ero
disponibile per prendere
contatti, in carcere, coi
detenuti politici e precisamente
con le Brigate Rosse per vedere
se era possibile qualche
spiraglio per salvare l'uomo
politico. Io, per spirito
umanitario, acconsentii a
interessarmi e Bossi mi rispose
che a breve sarei stato
trasferito a Torino, dove avrei
potuto incontrare Curcio e altri
detenuti.
«Bossi mi disse che era stato
incaricato da persone altolocate
di Roma, di cui tuttavia non mi
fece i nomi. Successivamente
Bossi, quando siamo stati
detenuti insieme a Milano, mi
ha fatto leggere dei verbali dei
suoi interrogatori dai quali
risultava, se non mi ricordo
male, che gli era stato richiesto
da parte di certo Vitalone e di
certo Formisano». (18)
Il trasferimento di Buscetta
fu impedito dall'opposizione del
generale dalla Chiesa, all'epoca
responsabile della sicurezza
nelle carceri, e quel piano per
arrivare alla liberazione di
Moro fallì. Dalle indagini svolte
dalla Procura di Roma risulta
che il «mandante» di Bossi -
personaggio di spicco della
malavita milanese, legato, oltre
che a Turatello, a Frank
Coppola detto «tre dita» -, era
effettivamente Edoardo
Formisano, avvocato ed
esponente del M.S.I.,
consigliere regionale del Lazio.
Il 7 aprile 1978, in pieno
sequestro Moro e nel mezzo
della trattativa con Buscetta,
quando ancora si sperava di far
trasferire il mafioso a Torino
perché parlasse coi brigatisti,
Formisano telefonò a Bossi:
«Nonostante il parere contrario
Della Chiesa Portoghese... quel
signore marcia in Piemonte»,
disse l'esponente missino. E
Bossi: «Sì, sì, ho capito».
«Nonostante.» «Uh.» «Sai
perché?» «Eh.» «La cosa»,
spiegò Formisano, «sta
assumendo una tale
importanza che tu non te la
immagini neanche...
Comunque, dati gli sviluppi
dovrà venire su per forza... Ti
farò dare un posto come
sottosegretario.» «Eh», fece
Bossi per niente euforico,
«scherza, scherza... Un posto
me lo daranno sotto terra.»
(19)
Sembrava preoccupato
Bossi, mentre il suo amico
«onorevole» - così lo
chiamavano - si lasciava
andare a un ottimismo che
poco dopo si rivelò del tutto
ingiustificato. Entrambi questi
protagonisti del tentato
aggancio delle Brigate Rosse
via Buscetta, conoscevano ed
erano conosciuti dai «bravi
ragazzi» della Magliana. Danilo
Abbruciati, amico di Turatello,
era in contatto, a Milano, pure
con Ugo Bossi. E Formisano era
uno dei politici, democristiani o
missini, che usufruivano delle
campagne elettorali gratuite
organizzate da quelli della
banda.
«Ai tempi del Giuseppucci»,
racconterà Claudio Sicilia,
«questi faceva propaganda per
il M.S.I. Era legato a Semerari
e a tale Formisano. In
corrispettivo dell'attività di
propaganda, quelli della
Magliana avevano l'appoggio
incondizionato del Semerari per
le varie perizie medico-legali.»
(20)
Un altro tentativo di Cosa
Nostra per liberare Moro dalle
mani dei brigatisti rossi fu
avviato da Stefano Bontate,
democristiano convinto oltre
che capomafia, il quale durante
i cinquantacinque giorni spedì
Francesco Marino Mannoia a
Roma per prendere Angelo
Cosentino e portarlo in Sicilia.
Ma ormai il capodecina di Santa
Maria di Gesù era stato
soppiantato, nella capitale, da
Pippo Calò, il quale si oppose
all'intervento di Cosa Nostra
per la liberazione di Moro.
«Dopo qualche giorno
dall'incontro con Cosentino»,
ha raccontato Marino Mannoia,
«il Bontate convocò la
'commissione', di cui faceva
parte anche il Calò, e sottopose
il problema della esigenza di
attivarsi per liberare
l'onorevole Moro, così come
richiestogli da alcuni politici
influenti del palermitano.
Aggiungo che la maggior parte
dei componenti della
'commissione', tra cui Michele
Greco che all'epoca svolgeva
funzioni di coordinatore, era di
fede democristiana, e in
contatto con i politici
democristiani che
'comandavano' l'economia
regionale... Calò, quale unico
conoscitore, insieme al
Cosentino, dei problemi politici
romani, dopo aver tergiversato
affermando di non avere modo
di intervenire, alle
contestazioni del Bontate, si
rivolse a quest'ultimo e gli
disse: 'Stefano, ma non l'hai
ancora capito, uomini politici di
primo piano del tuo partito non
lo vogliono libero'.» (21)
Si avvicinava a grandi passi
il tempo in cui sarebbero stati
Calò e i corleonesi a condurre
le danze mafiose, anche con i
politici, a Roma.

La tragica fine di Aldo Moro -


con i risvolti rimasti oscuri di
quel sequestro - insieme ad
altri assegni per decine di
milioni - quelli che fanno capo
alla Sir di Nino Rovelli e allo
scandalo Italcasse - portano a
un altro cadavere e a un altro
dei misteri d'Italia in cui in
qualche modo s'è infilata la
banda della Magliana: l'omicidio
del giornalista Mino Pecorelli.
Cominciò facendo l'avvocato
specializzato in diritto
commerciale, dopo una
giovinezza avventurosa che
l'aveva portato persino ad
arruolarsi nell'Armata polacca;
poi si diede da fare come
portaborse, frequentando il
sottobosco politico romano e gli
uffici dei Servizi segreti, fino a
ottenere un altro tesserino
rosso, quello dell'Ordine dei
giornalisti; lavorò prima a
«Mondo d'oggi» e poi a
un'agenzia da lui stesso
fondata e chiamata «OP»,
«Osservatorio politico», che
dopo qualche tempo riuscì a
trasformare in settimanale con
pretese patinate. Nel frattempo
s'era messo in tasca una nuova
tessera, quella della Loggia P2
di Licio Gelli, numero 1750,
codice E19.77, data d'iscrizione
1° gennaio 1977, fascicolo
0235.
Era Carmine «Mino»
Pecorelli, nato a Sessano,
provincia di Isernia, nel 1928.
Un uomo che s'è sempre mosso
nel mondo delle spie, dei ricatti
e delle informazioni pilotate
come un pesce nel mare, e che
però non è riuscito a evitare di
arenarsi nel punto in cui un
killer gli ha sparato quattro
colpi di calibro 7.65 alla testa,
in via Tacito, a Roma, davanti
alla sede del suo giornale.
«Carmine Pecorelli venne
ucciso intorno alle ore 20.45
del 20 marzo 1979. Nessun
teste oculare fu presente al
fatto. Franca Mangiavacca, la
giornalista legata
sentimentalmente e nello
stesso tempo segretaria di
redazione della rivista 'OP',
vide un individuo fermo nei
pressi della vettura a bordo
della quale era la salma del
Pecorelli. La Mangiavacca fu
però in grado di indicare solo
che si trattava di una persona,
della quale non sapeva
precisare il sesso, di altezza
normale (intorno al metro e
settanta) e che indossava un
indumento chiaro (cappotto o
impermeabile)... Che l'omicidio
fosse da ricondursi all'attività
giornalistica del Pecorelli e che
si intendesse attribuirgli anche
un significato simbolico, può
arguirsi anche dalla perizia
medico-legale. Pecorelli, infatti,
fu ucciso con un colpo di pistola
in bocca, che fu probabilmente
anche il primo dei quattro che
lo attinsero...
«Basta scorrere i fogli della
rivista per comprendere come
le continue allusioni, rinvii a
successive precisazioni e
ulteriori notizie, per di più su
vicende di grandissimo rilievo e
ancora in parte oscure all'epoca
in cui apparivano gli articoli,
non potevano non destare
grave allarme negli interessati.
Semmai è proprio la vastità e
la quantità degli interessi lesi
dagli articoli di Pecorelli che
può costituire un serio ostacolo
alla individuazione del
mandante dell'omicidio, per la
possibilità di prospettare più
ipotesi, tutte apparentemente
fondate.» (22)
Due dei proiettili che misero
fine alla vita e agli articoli di
Mino Pecorelli, riferiscono i
periti, erano di una marca
molto rara in Italia, la Jevelot,
uguali in tutto e per tutto a
quelli che due anni e mezzo più
tardi sarebbero stati trovati in
un arsenale nascosto negli
scantinati del ministero della
Sanità, a Roma. A quel
deposito d'armi attingevano i
«bravi ragazzi» della Magliana,
da Maurizio Abbatino a Claudio
Sicilia, da Edoardo Toscano a
Danilo Abbruciati, insieme ad
alcuni terroristi di estrema
destra collegati alla banda.
Quell'arsenale è uno dei
crocevia dei misteri d'Italia, e
da lì - hanno stabilito le
indagini - provenivano i
proiettili che uccisero Mino
Pecorelli.
Sui mandanti dell'omicidio, a
oltre tredici anni di distanza, ha
detto la sua il mafioso pentito
Tommaso Buscetta: «Una
notizia che ricordo con
chiarezza e che mi fu data, in
due occasioni successive e negli
stessi termini, da Stefano
Bontate e da Gaetano
Badalamenti, è quella
concernente l'omicidio del
giornalista Mino Pecorelli,
commesso a Roma. Una prima
volta mi parlò di questo fatto,
nel 1980 a Palermo, il Bontate.
Durante una conversazione a
Fondo Magliocco, che toccò vari
argomenti, il discorso cadde sui
cugini Salvo, Nino e Ignazio.
(23) Il Bontate mi disse: 'Anche
l'omicidio di Pecorelli l'abbiamo
fatto noi perché ce l'hanno
chiesto i Salvo' (...)
«Successivamente, nel 1982
a Rio de Janeiro, la stessa
notizia mi fu data da Gaetano
Badalamenti, sempre nel corso
di una conversazione
riguardante altri argomenti.
Anche il Badalamenti, che nulla
sapeva dell'analogo racconto a
me fatto dal Bontate, disse che
l'omicidio del Pecorelli era stato
fatto eseguire da loro due su
richiesta dei Salvo (...) I Salvo
ne avevano richiesto l'uccisione
poiché quegli 'disturbava
politicamente'».
In altre occasioni «don»
Masino dichiarerà di aver capito
che dietro i Salvo, nella veste
di ispiratore dell'omicidio, c'era
Giulio Andreotti, indicato da lui
e da altri «pentiti» come il
«referente romano» di Cosa
Nostra. Per la ricerca dei
moventi, anche prima che
venisse tirato in ballo il
senatore a vita, gli stessi
magistrati avevano scritto che
c'era solo l'imbarazzo della
scelta. Poi la loro attenzione s'è
posata su due possibili intrecci,
«gli assegni del presidente» e il
caso Moro, dietro i quali poteva
esserci, in entrambi i casi,
proprio Giulio Andreotti.
Dei miliardi dell'Italcasse
inghiottiti dai fratelli
Caltagirone e dalla Sir di Nino
Rovelli, Mino Pecorelli si occupò
a lungo, chiamando spesso in
causa Andreotti, capo del
governo fra il '76 e il '79. E a
scavare dietro le complesse
vicende finanziarie fatte di
società che subentrano ad altre
e di assegni che girano di mano
in mano, passando da politici a
faccendieri e viceversa, si
scoprono i «soliti noti»
riciclatori della mafia e della
banda della Magliana.
«Può affermarsi in via di
ipotesi di lavoro», ha scritto il
pubblico ministero Giovanni
Salvi nella richiesta di
autorizzazione a procedere
contro Andreotti, «che intorno
alle vicende Italcasse e assegni
della Sir (e cioè gli 'assegni del
presidente') si sia determinata
la convergenza di interessi di
gruppi mafiosi, riconducibili a
Giuseppe Calò e a Domenico
Balducci... Particolare interesse
investigativo riveste
l'intervento di Ley Ravello nel
tentativo di subentrare ai
Caltagirone nel rapporto con
l'Italcasse, con il possibile
duplice obiettivo di salvare i
predetti dal crack e di
condizionare, attraverso il
controllo della più rilevante
esposizione dell'Istituto, la
stessa Italcasse.» (25)
C'erano poi gli assegni della
Sir, alcuni dei quali, attraverso
«prestanome o persone
inesistenti», per una cifra pari
a cinquantacinque milioni, sono
finiti alla So.F.Int di Ley
Ravello e «Memmo» Balducci:
«Dalle indagini espletate è
emerso che il senatore
Andreotti aveva la diretta
disponibilità di questi assegni,
che negoziò personalmente,
cedendoli a persone diverse».
(26)
Su quegli assegni Pecorelli
aveva puntato da tempo la sua
attenzione, e già nel 1977,
quando ancora «OP» era una
semplice agenzia di stampa,
sotto il titolo «Presidente
Andreotti, questi assegni a lei
chi glieli ha dati?», pubblicò
«un primo elenco» di assegni
bancari che a suo dire erano
stati messi in giro direttamente
dall'allora presidente del
Consiglio, «per un ammontare
complessivo che supera i due
miliardi».
Nel gennaio del 79, il
giornalista stava per ritornare
sull'argomento con una
copertina di «OP», divenuto
ormai settimanale, nella quale
compariva una fotografia di
Andreotti e, sopra, il titolo «Gli
assegni del Presidente». Quella
doveva essere la copertina del
numero cinque della rivista,
che fu stampata ma mai
distribuita. Lo stesso Pecorelli,
infatti, ne bloccò la diffusione a
stampa già avvenuta. A
convincerlo - si scoprirà dopo la
sua morte - erano stati alcuni
andreottiani «doc», tra cui il
giudice e futuro senatore
democristiano Claudio Vitalone.
E alla vigilia della sua morte,
grazie alla mediazione di
Franco Evangelisti - un altro
nome che compariva spesso
nell'agenda di Pecorelli,
insieme a quelli di Ciarrapico e
altri uomini-satellite
dell'universo andreottiano - al
direttore di «OP» arrivò un
finanziamento di trenta milioni
attraverso il costruttore
Gaetano Caltagirone.
Aspettava anche altri soldi,
il giornalista assassinato. Il 20
marzo 79, poco prima di
lasciare la redazione, salire
sulla Citroën C.X. ed essere
finito da quegli inusuali
proiettili Jevelot, Pecorelli
incontrò la sorella Rosina, alla
quale confidò: «Adesso ho
avuto una promessa dal gruppo
Evangelisti-Andreotti di un po'
di pubblicità per la rivista... Se
questa cosa si verifica, io non
avrò più problemi per pagare i
debiti e mi sentirò più
tranquillo. Però guarda,
massimo due anni e lascio il
giornale per ritirarmi in
provincia, sono stanco». Ma i
suoi assassini, e soprattutto
coloro che li armarono, non
potevano attendere tutto quel
tempo.

Tra gli enigmi a cui si


interessava il giornalista-
massone-collaboratore dei
Servizi segreti Mino Pecorelli,
c'era pure quello del caso Moro.
Per un anno intero,
dall'indomani del rapimento del
presidente democristiano, il
direttore di «OP» pubblicò
articoli e lanciò messaggi per
far capire che molte cose in
quel rapimento, e soprattutto
nelle indagini e nelle scoperte
fatte dallo Stato, non erano
così limpide come le si voleva
far apparire. Un esempio per
tutti sono i suoi scritti dopo la
scoperta del covo brigatista di
via Monte Nevoso, avvenuta il
primo ottobre 1978, dove fu
ritrovata una parte del
memoriale di Aldo Moro. Allora
non si sapeva che mancava
qualcosa (il successivo
ritrovamento avverrà nel
1990), ma Pecorelli già parlava
di scritti incompleti in un
articolo intitolato «Memoriali
veri e memoriali falsi». E
lanciava messaggi,
incomprensibili per un normale
lettore ma probabilmente chiari
a chi doveva intendere. Come
nell'altro articolo intitolato
«L'ultimo messaggio è il
primo», sottotitolo «Un
memoriale mal confezionato»:
«La bomba Moro non è
scoppiata. Il memoriale,
almeno quella parte recuperata
nel covo milanese, non ha
provocato gli effetti devastanti
tanto a lungo paventati». (27)
Di altri segreti e misteri del
sequestro era a conoscenza
Pecorelli, visto che fu il primo,
ad esempio, a scrivere che non
erano state ritrovate le bobine
con gli interrogatori di Moro
registrati dai brigatisti, e che
solo più tardi i terroristi
diranno essere state bruciate.
Una delle «fonti» del
giornalista era probabilmente il
generale Carlo Alberto dalla
Chiesa, mandato a dirigere i
reparti antiterrorismo,
responsabile dell'operazione di
via Monte Nevoso, un militare
tutto d'un pezzo che, rivelerà
Buscetta, Cosa Nostra doveva
ammazzare già nel 1979, e
cioè tre anni prima di quando il
generale, spedito nel frattempo
a Palermo, venne
effettivamente ucciso dai killer
mafiosi. Un progetto di morte
che dunque si può legare -
considerata l'epoca e le cose di
cui i due si occupavano - a
quello di Pecorelli.
«Il generale dalla Chiesa»,
spiegherà il pentito Buscetta,
«sempre secondo quanto mi
disse Badalamenti, doveva
essere ucciso perché conosceva
segreti (non so se informazioni,
documenti, carte o altro)
connessi al caso Moro e
suscettibili di infastidire
seriamente Andreotti. Forse gli
stessi segreti che erano noti a
Mino Pecorelli. Penso perciò che
Pecorelli e dalla Chiesa sono
cose che si intrecciano tra loro.
Secondo quanto ho dedotto
dalle mie conversazioni con
Bontade, l'omicidio Pecorelli era
stato un delitto politico 'fatto'
da Cosa Nostra, e più
precisamente da lui stesso e da
Badalamenti, su richiesta dei
cugini Salvo, 'richiesti' a loro
volta dall'onorevole Andreotti.
Due anni dopo, nel 1982,
Badalamenti mi ripeté, in
termini assolutamente identici,
la versione di Bontade.
Pecorelli era stato assassinato
perché stava appurando 'cose
politiche' segretissime collegate
con il caso Moro. Giulio
Andreotti era estremamente
preoccupato che potessero
trapelare questi segreti, di cui
era a conoscenza anche il
generale dalla Chiesa.»
Sui killer di Pecorelli si sono
incrociate le piste e i nomi più
diversi, ma sempre gravitanti
intorno alla banda della
Magliana. Anche perché uno dei
pochi dati certi di questo delitto
irrisolto è la provenienza dei
proiettili dall'arsenale utilizzato
dalla banda.
Il terrorista «nero» e capo
dei Nar Giusva Fioravanti è
stato inquisito e poi prosciolto
insieme al suo «compagno
d'armi», Massimo Carminati,
estremista di destra molto
attratto, fino a esserne
completamente assorbito, dal
fascino della delinquenza
comune respirato proprio tra i
«bravi ragazzi» della Magliana
che sfoggiavano fuoristrada,
Rolex d'oro e armi luccicanti.
Qualcuno ha anche chiamato in
causa l'assassino di Giorgio
Ambrosoli, il liquidatore della
banca di Sindona assassinato a
Milano nel luglio del 1979,
William Aricò.
Infine sono venuti fuori i
testimoni della banda, che
hanno fatto due nomi: di nuovo
Carminati e un certo «Angelo il
biondo», riconosciuto in
Michelangelo La Barbera,
capomandamento della
«famiglia» mafiosa di Passo di
Rigano, a Palermo, il quale
sarebbe venuto appositamente
dalla Sicilia per chiudere la
bocca al giornalista. Il suo
utilizzo confermerebbe la tesi
di Buscetta di un legame tra
l'omicidio Pecorelli e quello
progettato di dalla Chiesa, con
un coinvolgimento delle cosche
nei due attentati.
Tra i «bravi ragazzi», si
parlò diverse volte di questo
delitto. «Edoardo Toscano», ha
rivelato tra l'altro Vittorio
Carnovale, «ci aveva detto che
De Pedis e Abbruciati si erano
adoperati per organizzare
l'omicidio Pecorelli. In
particolare Toscano sapeva che
chi aveva condotto l'operazione
era stato Massimo Carminati e
un tal 'Angelo', siciliano,
mentre Abbruciati era stato
presente per dirigere e fornire
la copertura. Non so se De
Pedis e Abbruciati avessero un
interesse personale
all'eliminazione del giornalista;
quel che diceva Toscano era
che 'Renato' De Pedis era stato
coinvolto da alcuni siciliani. Un
particolare che aveva colpito
Toscano era il fatto che il
predetto 'Angelo', dopo
l'omicidio, avesse consegnato a
De Pedis una pistola
automatica, caratteristica per
essere cromata, quasi si
trattasse di un trofeo, la quale
sarebbe stata usata per
commettere l'omicidio.» (29)
Quell'arma finì tra le mani di
Fabiola Moretti, senza che lei lo
sapesse. Una sera - racconterà
ai giudici quando deciderà di
svelare tutti i misteri che
l'hanno vista protagonista
insieme ai suoi uomini - rimase
in piedi fino a tardi per pulire e
oliare una pistola, con
Abbruciati che le girava intorno
e diceva: «Lascia perdere,
finisci domattina». Fabiola
invece volle terminare il lavoro
prima di andare a dormire.
Tempo dopo, quando l'arsenale
della banda era stato scoperto
dalla polizia, Abbruciati le parlò
di quella pistola chiedendo se
potevano esserci le sue
impronte. «Certo che ci
saranno, perché?» domandò la
donna. «Perché lì c'è
l'abbacchio di Pecorelli»,
rispose Danilo, un modo poco
elegante ma molto esplicito per
indicare l'arma che aveva
ucciso il giornalista. «E non
potevate buttarla via?» chiese
Fabiola, piuttosto irritata.
Abbruciati, che secondo la
Moretti «era un po' taccagno»,
sorrise: «Ma come sei signora!»
(30)
Tra i mandanti dell'omicidio
è stato inquisito pure l'ex
giudice, ex senatore ed ex
ministro democristiano Claudio
Vitalone, uno dei «fedelissimi»
di Andreotti tirato in ballo dai
«pentiti» della Magliana, che
lui ha puntualmente
denunciato, mentre nel ruolo di
«mediatore» tra mandanti ed
esecutori, è finito sotto
inchiesta anche Pippo Calò,
l'ambasciatore di Cosa Nostra
nella capitale.
Antonio Mancini,
«l'accattone», ha parlato
esplicitamente di interessi
mafiosi nel delitto Pecorelli, che
gli furono svelati prima da
Enrico De Pedis e poi da Danilo
Abbruciati: «Anche lui
confermò che era stato
Massimo Carminati a sparare
assieme ad Angiolino il biondo,
siciliano, ma aggiunse che il
delitto era servito alla banda
della Magliana per favorire la
crescita del gruppo, favorendo
entrature negli ambienti
giudiziari, finanziari romani,
ossia negli ambienti che
detenevano il potere». (31)
A Maurizio Abbatino, invece,
alcuni segreti di quell'omicidio
li aveva confidati Franco
Giuseppucci, «er negro»: «Mi
disse che era stato lui a fornire
le persone che avevano ucciso
Pecorelli, su richiesta di Danilo
Abbruciati (...). L'omicidio del
giornalista era stato richiesto
dai 'siciliani', esponenti di Cosa
Nostra. Non disse se la
richiesta era stata fatta da
Pippo Calò, che era l'esponente
di Cosa Nostra in contatto con
Danilo Abbruciati e lui.
Giuseppucci aggiunse che il
Pecorelli era un giornalista che
era stato eliminato perché
aveva fatto troppe indagini e
stava ricattando un
personaggio politico». (32)

All'inizio degli anni Ottanta


la seconda «guerra di mafia»
infuriava a Palermo, scatenata
dai corleonesi di Totò Riina,
deciso a diventare il «dittatore»
di Cosa Nostra. Morivano
Bontate, Inzerillo, Riccobono e
decine di altri capi e «picciotti»
delle cosche avverse a quella di
«Totò 'u curtu». Ma ci fu pure
chi tentò di esportare un
pezzetto di quella guerra a
Roma, scegliendo di
combatterla in privato: una
specie di vendicatore solitario.
Salvatore «Totuccio»
Contorno a trentacinque anni
aveva una condanna a un
quarto di secolo di galera per
sequestro di persona e due
soprannomi: la «primula di
Brancaccio», il quartiere più
insanguinato di Palermo, e
«Coriolano della Floresta», dal
nome del protagonista di un
romanzo di William Galt. Era
cresciuto all'ombra di Stefano
Bontate, il suo capo, di cui era
stato anche guardia del corpo.
E dopo l'uccisione di Bontate
uno dei più feroci e decisi killer
di Riina, Pino Greco detto
«Scarpazzedda», tentò di
eliminare anche Totuccio, ma
lui fu più svelto dei suoi sicari.
In macchina riuscì a evitare la
prima scarica di kalashnikov
partita dalla moto in corsa,
saltò fuori impugnando una
pistola, attese il ritorno della
moto piazzandosi davanti
all'auto e accolse i suoi killer a
colpi di calibro 38:
«Scarpazzedda» si salvò solo
perché indossava un giubbotto
antiproiettile.
L'aria di Palermo, per
Contorno, s'era fatta ormai
irrespirabile, e mentre i
corleonesi gli sterminavano la
famiglia ammazzando perfino
un ignaro cugino di sua moglie,
lui si trasferì a Roma, alla
ricerca di quello che
considerava il traditore e
l'assassino del suo «Bontà» -
Pippo Calò -, e a sua volta
braccato da mafiosi e poliziotti.
Anche le tracce di «Coriolano
della Floresta» finirono per
incrociarsi con quelle dei
banditi della Magliana e con gli
affari dei «bravi ragazzi». Gli
echi delle trame arrivarono fino
a Claudio Sicilia, che all'epoca
si divideva tra il carcere e i bar
dove trafficava la droga.
«Pernasetti mi disse», ha
raccontato ai giudici il
«vesuviano», «che dalla Sicilia
era giunta notizia che Totuccio
Contorno si nascondeva a
Roma, che circolava a bordo di
una Jetta blindata e che ad
avere contatti con Contorno era
una persona anziana che
abitava dalle parti di San Saba.
Queste cose erano state riferite
al Pernasetti dal Diotallevi...
Dagli accertamenti svolti si era
appurato che la persona in
contatto con Contorno era tal
Fratoni. Questi si occupava ad
alto livello di traffico di
sostanze stupefacenti, in
particolare di morfina base, ed
era atteso a Roma l'arrivo di un
notevole quantitativo di detta
sostanza. Ricordo in merito che
il Pernasetti mi disse che
costava diecimila lire o poco più
al grammo.» (33)
Duilio Fratoni aveva
cinquant'anni e - secondo le
informazioni in possesso degli
investigatori - un passato di
tutto rispetto nel mondo della
«mala». Polizia e Carabinieri lo
conoscevano per i suoi traffici
di cocaina, soprattutto con la
Colombia, e un paio di volte
l'avevano accompagnato in
carcere. Ufficialmente faceva il
fotografo, ma il suo certificato
penale parlava di droga,
ricettazione e truffa. Abitava
nel quartiere di San Saba, a
pochi passi da dove era morto
ammazzato Domenico Balducci,
uno che come lui era in
contatto con i siciliani a Roma.
La sera dell'11 marzo 1982
Fratoni uscì con un amico da un
bar di San Saba, attraversò la
strada e fece per aprire la sua
A 112. Non aveva ancora girato
la chiave nello sportello che
una moto sbucò alle sue spalle,
a bordo due uomini protetti dai
caschi integrali, e quello che
stava dietro fece fuoco sette od
otto volte. Fratoni morì
all'istante, in mano al capo
della Sezione Omicidi della
Mobile che arrivò pochi minuti
dopo non c'era altro che
qualche proiettile recuperato
dentro la A 112 e un paio di
testimonianze inutili o
reticenti. Quattro anni e mezzo
più tardi Claudio Sicilia riferirà
che l'assassino di Fratoni era
Danilo Abbruciati, mandato a
uccidere uno dei «contatti»
romani di Salvatore Contorno.
Nei giorni successivi
all'omicidio, comunque, le
indagini mossero qualche passo
proprio partendo dalle
deposizioni chiaramente
reticenti di un testimone, che si
diceva amico di Fratoni e che
risultava essere in contatto con
un certo «Sebastiano», un
siciliano che doveva avere a
che fare col traffico di droga. Il
testimone finì in galera, e le
ricerche su «Sebastiano»
arrivarono a un casolare sulla
via che porta al lago di
Bracciano, acquistato da questo
signore per duecentoventi
milioni, la metà già versata e
l'altra ancora da pagare. Lì
abitava, sotto falso nome,
Totuccio Contorno con la
moglie incinta, i suoceri, la
cognata, un fucile a canne
mozze, una Smith & Wesson
calibro 38, due chili di eroina e
un quintale e mezzo di hashish.
Nel garage del casolare
c'erano la Jetta blindata con
l'accensione a telecomando,
installata per evitare attentati
con l'esplosivo, una Mini 90
della nipote di Gaetano
Badalamenti e la 127 del
testimone reticente
dell'omicidio Fratoni. Gli
investigatori erano convinti di
aver messo le mani su uno
degli assassini del trafficante di
droga, ma si sbagliavano.
Contorno aveva altri obiettivi:
in una delle tasche di Totuccio
c'erano i numeri di telefono dei
cantieri gestiti da Danilo
Sbarra, diventato uno dei
principali referenti negli affari
romani di Pippo Calò,
«l'infame» che doveva morire
perché aveva tradito Bontate.
Era stato un altro uomo d'onore
della famiglia di Santa Maria di
Gesù, Mimmo Teresi, a dare
quell'indicazione a Contorno, e
lui era deciso ad appostarsi
vicino a quei cantieri, aspettare
che arrivasse «l'infame» e
sparare. Non fece in tempo, ma
tra i tanti che lo cercavano
arrivò prima la polizia, e
«Coriolano della Floresta» avrà
modo di vendicarsi di Calò e
degli altri mafiosi con le sue
confessioni al giudice Falcone.

Nel manicomio giudiziario di


Aversa, nella prima metà degli
anni Ottanta, uno dei finti
malati di mente era Giuseppe
Marchese, giovanissimo
mafioso legato ai «corleonesi»,
cognato di Leoluca Bagarella (a
sua volta cognato di Totò Riina)
e «combinato» - cioè affiliato a
Cosa Nostra - in maniera
riservata su ordine dello stesso
Riina nel 1981. Arrestato nel
1982 per la strage di Bagheria,
Marchese s'era fatto passare
per matto ed era finito
nell'ospedale psichiatrico
anziché in carcere.
Prima di Aversa era stato a
Reggio Emilia, e lì aveva
incontrato qualche romano, tra
cui Marcello Colafigli, il quale
gli aveva raccontato di far
parte di una banda che, nella
capitale, era in guerra con altri
gruppi per il controllo criminale
della città. Marchese non gli
aveva dato troppo peso, del
resto erano stati insieme
appena qualche giorno in
infermeria, poi lui era stato
trasferito. Quando si rividero
ad Aversa, invece, i due fecero
amicizia, anche perché il
siciliano era stato avvertito da
suo fratello Antonino Marchese,
mafioso pure lui, che quel
Colafigli che stava per arrivare
«era una persona affidabile».
Dal 1992 Giuseppe
Marchese è diventato uno dei
più importanti «pentiti» di
mafia, confessando omicidi
commessi in prima persona e
aiutando gli inquirenti a
smascherare esecutori e
mandanti di decine di delitti,
compresa la strage di Capaci.
Ma ai giudici ha raccontato
anche episodi che dimostrano i
più recenti collegamenti tra la
mafia e la banda della
Magliana. A cominciare dal
nuovo incontro con
«Marcellone» Colafigli.
«Lui», ha spiegato
Marchese, «aveva con me
l'interesse a mettersi in mostra
e a far ben figurare il suo
spessore criminale. Per tale
motivo, nel prospettarmi la
possibilità, una volta che fosse
stato scarcerato, di concludere
affari e operazioni insieme, mi
diceva che all'esterno del
carcere, a Roma, egli faceva
parte di un'organizzazione
impegnata a mantenere il
controllo del territorio nella
capitale, e nella quale egli
rivestiva un ruolo di vertice. In
particolare ci teneva a far
vedere che non solo in carcere,
ma soprattutto fuori, aveva dei
'fratelli' i quali si interessavano
a lui ed erano disponibili a
unificarsi operativamente a
persone facenti parte di
organizzazioni prestigiose come
la mia.» (34)
Nello stesso periodo, nel
carcere di Pianosa, Leoluca
Bagarella aveva preso sotto la
sua protezione Antonio
Mancini, e a nome della banda
Colafigli chiese a Marchese di
ringraziare «Luchino» per aver
aiutato l'«accattone».
«Marcellone» e Marchese
rimasero insieme per qualche
tempo, condividendo anche la
stessa cella, poi si persero di
vista a causa dei trasferimenti.
Nel 1989 il romano era di
nuovo a Reggio Emilia e da lì, a
luglio, riuscì a evadere.
Tornato libero Colafigli si
mise subito «al lavoro»; non
aveva dimenticato Marchese e i
suoi amici mafiosi, e decise di
ricontattarli per avviare delle
forniture di eroina. Non era
certo la prima volta che i
«bravi ragazzi» si rivolgevano
a Cosa Nostra per avere la
droga, e «Marcellone» chiamò
un altro fratello di Giuseppe
Marchese, Gregorio, col quale
fissò un appuntamento a
Palermo. Prima dell'incontro,
Gregorio raccontò tutto a
Giuseppe e Antonino Marchese,
durante una visita in carcere.
«Noi», ha riferito poi
Giuseppe, «avendo appreso del
viaggio a Palermo che doveva
fare il Colafigli e della sua
esigenza di trovare un
appartamento, consigliammo a
nostro fratello di rivolgersi, per
tale incombenza, a nostro
cugino Giovanni Drago.
Raccomandammo inoltre a
Gregorio di avvertire Salvatore
Riina del viaggio di Marcello
Colafigli a Palermo e
dell'esigenza di trovare
l'appartamento.
«Gregorio lo fece, e
nell'occasione Salvatore Riina
disse che prima di assumere
qualunque impegno circa
attività criminali o traffici con il
Colafigli, sarebbe stato
opportuno chiedergli di
impegnarsi a 'farsi' Gianni De
Gennaro a Roma, o
quantomeno a individuarne gli
spostamenti nella capitale. A
tale riguardo, Riina disse che
lui non doveva apparire, ma
che si facesse in modo che al
Colafigli sembrasse che la
richiesta partiva da noi.» (35)
Quel «farsi», significava
«ammazzare». De Gennaro, un
poliziotto tenace che lavorava
ormai da tempo al fianco di
giudici come Falcone e
Borsellino, era diventato a
causa delle sue indagini uno dei
principali ostacoli per Cosa
Nostra, e di conseguenza uno
dei nemici da eliminare appena
possibile. L'ordine era stato
impartito a tutti gli «uomini
d'onore»: quello «sbirro»
doveva morire. Come Boris
Giuliano, come Beppe Montana,
come Ninni Cassarà. Durante
uno dei suoi soggiorni a
Palermo, ma se capitava
l'occasione anche a Roma, e
per questo, quando si presentò
l'occasione, fu attivata la banda
della Magliana. Del resto, per
gli omicidi da commettere fuori
dalla Sicilia, le regole della
mafia non impediscono di
rivolgersi a personaggi esterni
all'organizzazione. Conta il
risultato, non come lo si
raggiunge.
«Effettivamente Colafigli
andò a Palermo», continua il
racconto di Marchese.
«All'appuntamento si
presentarono mio fratello
Gregorio e Saverio Marchese,
figlio di Filippo. Colafigli venne
ospitato nell'appartamento
procurato da Giovanni Drago.
Chiese di potersi rifornire di
droga da Cosa Nostra, e di
avere a disposizione motoscafi
per il trasporto dello
stupefacente. Non gli venne
data immediatamente una
risposta positiva, bensì gli fu
avanzata, come se provenisse
da noi, la proposta di Salvatore
Riina.
«Colafigli si impegnò a
soddisfare la nostra richiesta
promettendo che avrebbe
provveduto all'eliminazione di
De Gennaro attraverso la sua
organizzazione romana.
Trascorsero dei mesi nel corso
dei quali Colafigli si faceva
sentire per ribadire il suo
impegno, e far presente che se
ancora non aveva provveduto
era soltanto perché era
'incasinato'. Dopo di che,
essendo stato lui nuovamente
arrestato, la cosa non ebbe più
seguito.
«La decisione di eliminare
De Gennaro non era stata
presa estemporaneamente da
Riina, ma quella del viaggio di
Colafigli a Palermo fu soltanto
l'occasione per attivare un
ulteriore strumento per il
conseguimento di uno scopo
che Cosa Nostra stava già
autonomamente perseguendo.
Ero infatti stato informato che
l'eliminazione di Gianni De
Gennaro era stata decisa dalla
'commissione'. Pertanto, il fatto
che Colafigli sia stato arrestato
prima di provvedervi non
significa assolutamente che sia
venuto meno, per questo,
l'interesse di Cosa Nostra a
perseguire l'obiettivo già
prefissato.»
Marcello Colafigli fu
riacciuffato dagli uomini della
Squadra Mobile di Roma il 26
luglio 1990, in compagnia di un
ex militante dell'eversione
nera. Furono fermati su una
127, nel quartiere di San Paolo,
e «Marcellone» non fece in
tempo a impugnare la Beretta
calibro 9 che teneva nel
cruscotto dell'auto con il colpo
in canna. Insieme all'arma i
poliziotti trovarono anche due
silenziatori, l'indizio che il killer
stava preparando un nuovo
agguato.
Nell'anno vissuto da
latitante, Colafigli era
comunque riuscito a mettere in
piedi un buon traffico di droga,
con l'aiuto di Vittorio
Carnovale, «il coniglio».
Carnovale accompagnò
«Marcellone» nel suo viaggio in
Sicilia, e ai giudici ha
confermato sia l'acquisto di
eroina dai mafiosi che la
proposta ricevuta di compiere
un omicidio «eccellente»: «Gli
accordi per la fornitura di
eroina li prendemmo
direttamente con Gregorio
Marchese... Le forniture
avvenivano mensilmente,
iniziarono nell'autunno del
1989 e proseguirono per
quattro o cinque mesi.
Successivamente ci si riforniva
da siciliani residenti a Milano...
Inizialmente il prezzo era
fissato in centoventi milioni al
chilo, successivamente fu
ridotto. Tra le altre cose,
secondo quanto mi disse
Marcello Colafigli nel viaggio di
ritorno da Palermo, che
facemmo sul traghetto
Palermo-Napoli, i siciliani
avevano fatto sapere di essere
interessati a uno scambio di
favori, quali potevano essere la
commissione di omicidi. A me la
cosa non andava e pertanto
non chiesi spiegazioni a
Colafigli... Il 'favore' richiesto
non riguardava l'omicidio di
malavitosi, bensì di persona
che nulla aveva a che fare con
le normali vicende di malavita.
Per tale motivo non volli
neppure sapere di chi si
trattasse, proprio perché la
cosa mi appariva
particolarmente grossa e non
volevo entrarci.»

***
8. AMICI NERI,
SERVIZI E SEGRETI.

Era un giorno del 1980, o


forse dell'81, Walter non
ricordava bene. Lui e
Alessandro si trovavano dalle
parti della via Prenestina.
Quando furono in una strada
laterale, Alessandro gli indicò
un negozio e disse: «Vedi, lì
abbiamo ucciso un tabaccaio».
Walter guardò l'insegna, e
senza mostrare troppo stupore
chiese: «Perché? Chi era?» «Ce
l'ha chiesto Giuseppucci, quello
della Magliana. Era uno che
aveva sgarrato. Siamo andati
io, Massimo e Claudio.»
Alessandro Alibrandi e
Walter Sordi avevano vent'anni
- mese più, mese meno.
Facevano politica, e nella
guerra che si combatteva allora
tra «rossi» e «neri» s'erano
schierati dalla parte dei fascisti;
in pochissimo tempo, quasi
senza accorgersene, erano
passati dalle spranghe ai mitra.
Alessandro era figlio di un
giudice istruttore di Roma, noto
per le sue idee di destra, e
insieme ai fratelli Valerio e
Cristiano Fioravanti aveva
fondato i Nar, Nuclei armati
rivoluzionari, il gruppo
«spontaneista» e giovanile del
terrorismo nero.
Ma oltre a fare politica con
le armi, il figlio del giudice - la
faccia pulita del boyscout che
era stato, le orecchie un po' a
sventola - s'era messo a
«lavorare» con qualche suo
amico per i criminali comuni, ai
quali importava poco o niente
dei partiti, ma molto della
spregiudicatezza e della
disponibilità di quei ragazzini.
Franco Giuseppucci, Danilo
Abbruciati e altri falsari e
ricettatori legati al «giro» della
Magliana avevano cominciato a
utilizzarli sempre più spesso,
prima per scambi o lavoretti da
poco, poi per «missioni» più
impegnative.
Come quel giorno dell'aprile
1980, quando «er negro» -
secondo il racconto di Sordi -
diede l'ordine di andare ad
ammazzare Teodoro Pugliese,
fratello del tabaccaio di via
Sampiero di Bastelica 56, al
Prenestino. Lo avrebbero
trovato al negozio, disse.
Alessandro spiegò a Walter
come andò, soffermandosi su
ogni particolare: non
immaginava certo che di lì a un
anno o poco più lui sarebbe
finito ammazzato per strada e
Sordi, arrestato e «pentito»,
avrebbe consegnato a un
verbale di interrogatorio la
ricostruzione di quell'omicidio
su commissione.
«A uccidere Teodoro
Pugliese», disse Walter Sordi al
magistrato nel settembre del
1982, «sono stati Alessandro
Alibrandi, Massimo Carminati e
Claudio Bracci. Me l'ha
raccontato proprio Alessandro,
secondo il quale il delitto fu
commesso per conto di Franco
Giuseppucci, uno della banda
della Magliana che era in stretti
rapporti d'affari con loro, in
particolare con Carminati.
Entrarono in due, Alibrandi e
Carminati, vestiti con degli
impermeabili chiari, trovarono
Pugliese e un'altra persona.
Uno dei due chiese un
pacchetto di sigarette, il
tabaccaio si girò e loro
spararono tre colpi di pistola,
Alessandro mi ha detto che
l'hanno colpito alla testa e al
cuore. Poi sono saliti a bordo di
una macchina, e durante la
fuga hanno avuto un incidente,
ma sono riusciti ad arrivare
ugualmente al punto in cui si
doveva fare il cambio auto. So
che la pistola usata era una
Colt Detective.» (1)
Una pistola dello stesso tipo
fu ritrovata due anni più tardi
dentro una Volkswagen Golf
abbandonata dopo l'omicidio di
un agente di Polizia che faceva
la sorveglianza al
rappresentante dell'O.L.P. in
Italia.
L'agente Antonio Galluzzo,
venticinque anni e padre di una
bambina di cinque mesi, fu
ammazzato la sera del 24
giugno 1982 davanti
all'abitazione romana del
palestinese. I colpi di pistola
partirono da una Vespa e dalla
Golf: prima di scappare uno
degli assassini prese con sé il
mitra d'ordinanza dell'agente
Galluzzo. L'indomani i giornali
parlarono di una «nuova
vittima della lotta tra Servizi
segreti, terroristi israeliani e
killer internazionali», ma dopo
altre ventiquattro ore una
telefonata alla redazione
dell'agenzia Ansa chiarì le cose.
«Nella mattinata in cui
vengono celebrati i funerali
dell'agente Antonio Galluzzo, i
Nar rivendicano ufficialmente
l'attentato. Non volevamo
assolutamente colpire il
rappresentante dell'O.L.P. La
vendetta per il camerata Vale
continua», disse una voce
riferendosi alla morte di Giorgio
Vale, un ragazzo che aveva
attraversato a grande velocità
la galassia del terrorismo nero,
amico di Alibrandi e Fioravanti,
rimasto ucciso nel covo dove la
Digos l'aveva rintracciato. Un
perito balistico sostenne che
era stato vendicato con la
stessa arma che due anni prima
era servita per eseguire un
ordine di Franco Giuseppucci,
detto «er negro».
Con Walter Sordi, Alibrandi
si vantò di aver centrato il
tabaccaio del Prenestino nei
punti vitali, testa e cuore, ma
in realtà quell'esecuzione fu
tutt'altro che perfetta: a
uccidere Teodoro Pugliese fu
uno solo dei proiettili calibro 38
sparati dai killer, che lo colpì al
torace. «All'altezza dell'ottavo
spazio intercostale sinistro»,
stabilì l'autopsia. Quanto al
movente, non ci volle molto a
mettere in relazione il
commercio di droga in cui era
impegnato Giuseppucci col fatto
che anche «il tabaccaio»
comprava e vendeva cocaina.
L'omicidio Pugliese, scrisse il
giudice istruttore, «non si può
non ricondurre a un
regolamento di conti che tragga
origine da questioni di droga,
come del resto si era ritenuto
fin dall'inizio delle indagini.»
(2)
Dieci anni più tardi sarà
Maurizio Abbatino ad
aggiungere qualcosa sulla
collaborazione tra Giuseppucci
e i giovani neofascisti romani, e
a dare un'altra spiegazione
dell'omicidio del tabaccaio:
«Un'attività che per certo
Carminati e i suoi svolgevano
per conto di Franco
Giuseppucci, ma non
nell'interesse della banda, era il
'recupero crediti' nei confronti
dei debitori che si rifiutavano o
non erano in grado di far fronte
ai propri impegni. Era questa,
peraltro, un'attività che
svolgevano anche nel proprio
interesse, considerato che pure
il denaro del gruppo Carminati
era oggetto dei prestiti 'a
strozzo' di Giuseppucci. Per
capire meglio i rapporti tra
Giuseppucci e Massimo
Carminati occorre tener
presente il comportamento che
la banda, stante l'attenzione da
cui era circondata, si era
imposta per dare all'esterno
l'impressione di un
frazionamento in gruppi tra
loro scollegati. Vi fu pertanto
un periodo, tra la scarcerazione
di Enrico De Pedis e la morte di
Franco Giuseppucci, durato
qualche mese, nel quale
quest'ultimo diede
l'impressione di lavorare da
solo. Allo scopo si avvalse del
gruppo Carminati per realizzare
una vendetta nei confronti di
un tabaccaio, appartenente alla
malavita dell'Alberone, il quale
non aveva adempiuto agli
obblighi di solidarietà a favore
del De Pedis durante il tempo
in cui questi era detenuto».
Anche Carminati raccontò
qualcosa di quel delitto a un
altro della banda, Claudio
Sicilia, durante un periodo di
comune detenzione. E una
volta fuori tutti e due, il
terrorista nero andò a trovare il
«vesuviano» a casa. «Si disse
molto preoccupato», racconterà
Sicilia, «di una richiesta di
accertamento dattiloscopico
fatta dal pubblico ministero nel
corso del processo su
un'impronta digitale rilevata
sull'auto rubata e usata per
l'omicidio; quest'impronta, mi
disse, era stata rilevata su un
vetro. In un altro colloquio
Carminati mi disse che tramite
conoscenze alla Criminalpol era
riuscito ad arrivare a contattare
il perito incaricato
dell'indagine, o comunque ad
arrivare a una persona vicina,
sempre della Criminalpol, così
da alterare l'impronta oggetto
dell'accertamento... Sta di fatto
che nelle conclusioni della
perizia si affermava che il
confronto tra le impronte non
poteva essere effettuato in
quanto l'impronta oggetto
dell'indagine era troppo
vecchia.» (4)
Il processo andò come
doveva andare, la possibile
prova dell'impronta digitale
svanì nel nulla e i due imputati,
Bracci e Carminati, furono
assolti.

I contatti tra i ragazzini del


terrorismo nero e i «grandi»
della Magliana cominciarono tra
la fine del '77 e l'inizio del '78,
quando qualcuno dei neofascisti
era ancora minorenne. A
quell'epoca la sigla Nar non
esisteva, ma i giovani
«spontaneisti» dell'estremismo
di destra avevano già i loro
morti, provocati e subiti. Nel
settembre del '77, durante uno
scontro di piazza tra «rossi» e
«neri» al quartiere Balduina,
morì il giovane militante di
Lotta Continua Walter Rossi.
Cristiano Fioravanti e
Alessandro Alibrandi erano lì, e
quando incontrarono Valerio,
furono proprio loro a
confessargli: «L'abbiamo
ammazzato noi. Avevamo una
pistola in due, abbiamo sparato
un po' per uno».
«Quello», spiegherà anni
dopo Valerio Fioravanti a una
Corte d'Assise, «fu il primo
morto attribuibile al nostro
gruppo, anche se arrivava dopo
vari tentativi. Quello, detto un
po' cinicamente, è riuscito, ma
era già stato tentato, c'erano
stati diversi accoltellamenti.»
(5)
A parte la «guerra politica»
che combattevano, molti dei
giovani terroristi neri di quel
gruppo erano affascinati dalle
armi, dal guadagno facile, dalla
«vita da duri», e furono
comode prede di chi si faceva
pochi scrupoli a utilizzarli.
Cominciarono a portare a
ricettatori e trafficanti di droga
i bottini delle loro rapine a
gioiellerie e filatelie; i primi
guadagni li fecero così, poi
passarono alle banche. In
seguito, dopo aver dato prova
di affidabilità ed efficienza, ai
piccoli terroristi che crescevano
furono affidati compiti più
delicati come il «recupero
crediti» - espressione elegante
per indicare pestaggi,
gambizzazioni e attentati
contro chi non poteva o non
voleva pagare i debiti
accumulati col gioco o col
prestito «a strozzo» - e qualche
omicidio.
Il primo a stringere i legami
fu Franco Giuseppucci, che si
definiva pure lui fascista e
quindi aveva anche
un'assonanza politica, oltre che
un certo atteggiamento
paternalistico, con quei
ragazzini che gli stavano
intorno. Si incontravano nei
bar dalle parti della Magliana, a
viale Marconi, dove i «neri»
ascoltavano i discorsi dei
«comuni», imparavano,
traevano insegnamenti sulle
fonti di guadagno e sui modi
per risolvere qualunque tipo di
contrasto. Un altro «modello»
era Danilo Abbruciati, deciso,
ribelle, sempre a bordo di una
moto potente e rumorosa.
Quando si misero a parlare,
furono proprio i «pentiti» del
terrorismo nero ad aprire i
primi squarci dall'interno sulla
banda della Magliana, di cui la
Polizia intuiva molte cose ma
che sembrava fatta di
intoccabili, gente che ogni
tanto si riusciva anche ad
arrestare, e che però poco dopo
era di nuovo libera e impegnata
più di prima nei suoi traffici.
«I rapporti del mio gruppo
con la banda capeggiata da
Giuseppucci e Abbruciati», ha
spiegato Walter Sordi ai
magistrati, «si svilupparono
attraverso l'intermediazione di
Massimo Carminati,
principalmente, e di Claudio e
Stefano Bracci. Tutti e tre
frequentavano la zona di ponte
Marconi, e in particolare il bar
Barone, dove andavano anche
Giuseppucci e Abbruciati.
Carminati li conosceva da
moltissimi anni, e Alibrandi mi
disse che era il pupillo dei due.
I contatti tra il gruppo
Alibrandi, Carminati e la banda
Giuseppucci-Abbruciati, erano
precedenti al mio inserimento
nel gruppo Alibrandi, avvenuto
alla fine del 1979. Alibrandi,
Carminati e i fratelli Bracci mi
dissero anche che la banda
Giuseppucci-Abbruciati era
dedita al traffico della droga, ai
sequestri di persona, alle
estorsioni, alla gestione di
bische clandestine, nonché alle
scommesse clandestine che
avvenivano all'ippodromo di Tor
di Valle. Mi fu detto che la
banda aveva da qualche tempo
abbandonato il settore dei
sequestri di persona per
dedicarsi esclusivamente alle
altre attività.» (6)
Prima di Sordi, Cristiano
Fioravanti aveva già spiegato ai
magistrati che il suo amico
Alibrandi utilizzava «il negro»
della Magliana come
finanziatore: «Lui dava a
Giuseppucci parte del denaro
provento delle rapine, e il
Giuseppucci lo prestava agli
scommettitori a interessi
usurari. Alla fine di ogni mese
Alibrandi riceveva da
Giuseppucci gli interessi che, a
quanto so, si aggiravano
intorno alle settecentomila lire
mensili (...) Nella zona di viale
Marconi il gruppo di Alibrandi
era strettamente collegato con i
comuni del clan Giuseppucci, ai
quali non è da escludere
abbiano chiesto alloggio». (7)
Anche Cristiano, il più
giovane dei fratelli Fioravanti,
fece qualcosa per conto della
Magliana. Un'azione di poca
importanza, a sentire lui,
rispetto a tutto quello che i suoi
amici avrebbero commesso: «Io
mi limitai a compiere un
attentato a un benzinaio posto
in una via perpendicolare alla
Pineta Sacchetti. Si trattava di
un grosso impianto, e
l'indicazione ci fu data da
Massimo Sparti (un ricettatore
amico dei Fioravanti, N.d.A.) il
quale conosceva e frequentava
gli ambienti della Magliana, dai
quali otteneva documenti e
targhe per noi. Sparti disse a
me e Tiraboschi, autori
materiali, che per ingraziarci
maggiormente la gente
dell'ambiente sarebbe stato
opportuno fare loro il favore
dell'attentato. Il fatto risale al
1978. (...) Ad Alibrandi,
Carminati e Bracci, quelli della
Magliana davano indicazioni sui
luoghi e le persone da
rapinare... Avevano anche la
funzione di recuperare i crediti
di quelli della Magliana (fu
proposto anche a me, ma io
rifiutai) e di eliminare alcune
persone poco gradite. Tali
persone da eliminare
gravitavano nell'ambiente delle
scommesse clandestine di
cavalli. In particolare Carminati
mi disse, presumibilmente
intorno al febbraio 1981, di
aver ucciso due persone: una di
queste era stata 'cementata',
mentre l'altra era stata uccisa
in una sala corse. A
quest'ultimo proposito
rammento che fui io stesso ad
accennare a Massimo Carminati
se per caso si trattava di quella
persona da poco uccisa in una
sala corse ed egli, con un
sorrisetto, mi fece capire di sì».
(8)
Secondo Claudio Sicilia,
Carminati e Claudio Bracci
parteciparono, con quelli della
Magliana, anche al ferimento di
uno dei fratelli Proietti, Mario
«palle d'oro».

Alessandro Alibrandi, Valerio


e Cristiano Fioravanti erano i
tre frequentatori inseparabili
della sezione missina al
quartiere Monteverde, cresciuti
come picchiatori e destinati a
diventare terroristi neri più in
nome della ribellione, dei
vincoli d'onore e d'amicizia, che
dell'ideologia e delle
convinzioni politiche.
Soprattutto Valerio, che proprio
per questo non vedeva di buon
occhio il progressivo
avvicinamento di Alessandro e
Cristiano ai «comuni» in
generale e a quelli della
Magliana in particolare. Certo,
anche lui faceva le rapine e
affidava i proventi ai ricettatori,
ma avrebbe voluto mettere un
limite a quella commistione,
recintare in qualche modo il
suo gruppetto per non
inquinare la solidarietà e i
legami di fratellanza che
c'erano fra loro. Ma gli altri due
non sentivano ragioni,
soprattutto Alessandro, e alla
fine le strade dei tre si divisero,
anche se poi si sarebbero
incrociate nuovamente e
sempre li avrebbe legati
l'amicizia e la promessa di
reciproco aiuto, in qualunque
circostanza.
Alessandro seguitò a
frequentare i «bravi ragazzi»,
cercava di spiegare a Cristiano
che conveniva a tutti lavorare
con loro. I milioni circolavano
come fossero caramelle, e si
moltiplicavano. «Nel 1980»,
racconterà Walter Sordi,
«Alibrandi affidò alla banda
Giuseppucci-Abbruciati venti
milioni di lire, Claudio Bracci
dieci milioni, Carminati venti
milioni, Stefano Bracci e
Tiraboschi cinque milioni.
Ricordo che Alibrandi percepiva
un milione al mese di rendita.
Mi fu spiegato che gli
investimenti dovevano
avvenire per un periodo non
inferiore a sei mesi, e che gli
interessi corrisposti erano del
cinque, sei per cento mensili...
Tutto era fondato sulla fiducia, i
soldi affidati alla banda erano
tutti in contanti.» (9)
Ci fu un periodo in cui
Alessandro si trasferì in Libano,
un po' per sfuggire alla
giustizia italiana e un po' per
provare altre emozioni al fianco
dei miliziani falangisti. Anche
da laggiù, però, rimase in
contatto coi suoi amici romani.
Con lui era andato Walter
Sordi, il quale riferirà al
giudice: «Ricordo che un
giorno, mentre ero a Beirut
insieme ad Alibrandi, ricevetti
una telefonata da Carminati, il
quale chiese se vi era la
possibilità di 'piazzare' pietre
preziose di provenienza illecita.
Della ricettazione di gioielli
provenienti da rapine si
interessava quasi
esclusivamente Santino Duci,
collegato alla banda
Giuseppucci-Abbruciati». (10)
Era stato lo stesso
Giuseppucci a creare il «circuito
virtuoso» per i giovani
rapinatori neofascisti.
«Franco», spiega Maurizio
Abbatino, «aveva messo
Carminati in contatto con
Santino Duci, titolare di una
gioielleria in via dei Colli
Portuensi, il quale ricettava i
preziosi provento di rapine ad
altre gioiellerie e orefici,
liquidando a Carminati il
contante che questi riciclava e
reinvestiva mediante lo stesso
Giuseppucci.» (11) Il
«reinvestimento» consisteva
nel prestito «a strozzo», da cui
Franco ricavava interessi del
venti, venticinque per cento
mensili, che poi «steccava» alla
pari con Massimo: «Lui, per
ogni dieci milioni di lire veniva
a percepire mensilmente da
Giuseppucci da un milione a un
milione e mezzo di lire, fermo
restando che Franco
Giuseppucci garantiva la
restituzione del capitale». (12)
Mentre Alibrandi si trovava
in Libano, Cristiano Fioravanti
vide ancora qualche volta, con
Carminati, quelli della
Magliana. Andavano a pranzo
insieme, discutevano di quello
che si poteva fare. Cristiano si
era riavvicinato a Valerio, e la
sera del 5 febbraio 1981 erano
insieme a Padova, sull'argine
del canale Scaricatore. Una
pattuglia dei Carabinieri li
sorprese mentre stavano
recuperando delle armi dal
fiume, ci fu una sparatoria, i
due militari vennero uccisi,
Valerio rimase ferito, Cristiano
e Francesca Mambro lo
lasciarono in un appartamento
della città, poco dopo fu
arrestato. Tornato a Roma,
Cristiano chiese aiuto agli amici
che erano rimasti in
circolazione, e attraverso
Carminati trovò ospitalità in
una casa sulla Laurentina, che
era di un amico di Marcello
Colafigli. Lì si incontrarono
anche Stefano Soderini e
Pasquale Belsito, altri due
«neri» in fuga, con
«Marcellone» e Antonio
Mancini, che di lì a qualche
settimana sarebbero stati
arrestati dopo aver ucciso
Maurizio Proietti nell'agguato di
via Donna Olimpia.
Poco più di un anno prima,
nel novembre del '79, un
«commando» misto di giovani
neofascisti, tra cui Valerio
Fioravanti, e componenti della
banda della Magliana, fece una
rapina alla sede della Chase
Manhattan Bank, all'Eur. Alle
sette del mattino i banditi
immobilizzarono i vigilantes e il
personale delle pulizie che era
già dentro l'istituto, poi
attesero l'arrivo del direttore e
dei cassieri: si fecero aprire la
cassaforte, disattivarono i
sistemi di allarme, bloccarono
gli impiegati e se ne andarono
con cento milioni in contanti e
molti altri in travellers' cheque.
Per riciclare la parte di
bottino in assegni, Fioravanti si
rivolse a un falsario di sua
fiducia, Marco Mario Massimi,
conosciuto in carcere nel 1979.
Carminati e Alibrandi
consegnarono invece la loro
quota a Giuseppucci, che ne
parlò con Abbatino. Decisero di
farseli cambiare da un cileno
col quale erano in contatto per
un progetto di furto in alcune
cassette di sicurezza. Ma il
giorno fissato per l'incontro,
Giuseppucci, Abbatino e Giorgio
Paradisi furono arrestati e
finirono a Regina Coeli.
Era il gennaio dell'80.
Partendo dalla traccia di quei
travellers' cheque, sui «bravi
ragazzi» cominciò a indagare
anche il sostituto procuratore di
Roma Mario Amato, unico
titolare delle inchieste sul
terrorismo nero nella capitale;
cinque mesi dopo, a giugno, fu
ammazzato da un killer dei
Nar, Gilberto Cavallini, con un
colpo di pistola alla nuca.
Tre mesi più tardi venne
assassinato Franco
Giuseppucci, ma per i terroristi
neri mescolati alla Magliana
non cambiò granché: c'erano
ancora Abbatino e gli altri
conosciuti attraverso «er
negro», a cominciare da Danilo
Abbruciati. «Il gruppo di
Carminati», ricorderà Abbatino,
«si offerse spontaneamente di
partecipare alla vendetta per la
morte di Franco Giuseppucci.»
(13)

«Sì, intendo rispondere. Io


entrai in contatto con il gruppo
della Magliana tramite il
professor Aldo Semerari. Ciò
avvenne prima del 1979, penso
verso l'estate del 1978. La
ragione del contatto mi fu
spiegata da Semerari con la
possibilità, nel futuro, di avere
rapporti di reciproca
collaborazione, in particolare
per quanto riguarda il
finanziamento. Era noto,
comunque mi fu detto anche da
Semerari, che le persone del
gruppo della Magliana si
interessavano prevalentemente
di sequestri di persona, e si
occupavano anche di droga.»
(14)
Davanti ai sostituti
procuratori di Firenze Pier Luigi
Vigna e Gabriele Chelazzi, che
indagavano sugli attentati
neofascisti ai treni, il «pentito»
Paolo Aleandri parlava spedito.
Ormai aveva deciso di dire
tutto. Aveva trent'anni, solo
qualcuno in più dei suoi
«colleghi» dei Nar Carminati,
Alibrandi e Fioravanti, ma
politicamente apparteneva a
un'altra generazione
dell'eversione nera, quella che
era rimasta in contatto con «i
professori», con le derivazioni
dei vecchi gruppi di
Avanguardia Nazionale e
Ordine Nuovo.
Aleandri veniva proprio dal
movimento che aveva per
simbolo l'ascia bipenne e che
era stato sciolto dal ministro
dell'Interno Paolo Emilio
Taviani. Con Sergio Calore, un
altro «intellettuale» cresciuto
alla scuola dei Semerari, De
Felice e Signorelli, aveva
fondato «Costruiamo l'azione»,
un gruppo e un giornale che
predicavano il superamento dei
«limiti della destra» e una
sorta di alleanza tra giovani
neofascisti e rivoluzionari
comunisti in nome
dell'abbattimento del sistema,
nella quale avevano più valore
i concetti un po' fumosi di
combattimento e di rivoluzione
che non le vecchie ideologie
contrapposte.
Ma mentre dava il suo
contributo a quel «laboratorio
di idee», Aleandri assisteva e
partecipava a contatti e
progetti più concreti, tra
Semerari e i criminali comuni:
bombe e sequestri di persona in
cambio di perizie psichiatriche
di favore e appoggi processuali,
proponeva il professore. Ma
non tutto era così chiaro e
semplice, né filava così liscio.
«Io conobbi varie persone
del gruppo della Magliana»,
continuò Aleandri davanti ai
giudici, «ma i nomi li ricordo
solo di alcuni, altri potrei
riconoscerne in fotografia.
Rammento i nomi di Franco
Giuseppucci, detto il Negro, che
sembrava un po' il capo o il
coordinatore del gruppo; e poi
Maurizio Abbatino, Edoardo
Toscano, Marcello Colafigli... La
maggior parte delle volte mi
sono visto con questa gente nei
pressi di un bar della Magliana,
frequentato assiduamente da
Giuseppucci. All'inizio dei
rapporti ci eravamo visti una
volta almeno presso lo studio di
Semerari: c'era sicuramente
Giuseppucci, con qualche altro
che non ricordo. In un primo
momento si andava avanti a
livello discorsivo, progettando
eventuali rapporti concreti che
dovevano avvenire in futuro.
«Nel 1979, direi intorno alla
primavera, Giuseppucci mi
chiese di custodire un sacco, di
quelli che si portano a tracolla,
ma grande, nel quale c'erano
delle armi della banda della
Magliana... Giuseppucci mi fece
intendere che aveva rapporti
simili, cioè di custodia delle
armi, con un gruppo di sinistra,
ma non mi dette altri
particolari.
«Ricordo che io divisi il
contenuto del sacco in due
parti: una parte, con delle
pistole calibro 38 e una
machine pistole, era custodita
presso la casa di Italo Iannilli;
l'altra la detti in deposito, ma
facendo capire che non poteva
essere usata, a Mario Rossi.
Tutto ciò all'insaputa di quelli
della Magliana. Iannilli
custodiva anche materiale
nostro, e successe che per
cattiva organizzazione, alcune
persone della destra presero,
dal suo deposito, il materiale
dato da quelli della Magliana. A
questo punto, quando mi venne
richiesta la restituzione del
sacco, io non ero in grado di
farlo perché mancava del
materiale, e temporeggiavo
nella speranza di poter
ricostituire la dotazione che mi
era stata data in custodia.
«Ci furono degli interventi
su di me, affinché provvedessi
alla restituzione, da parte di
Pancrazio Scorza, che mi
diceva di essere stato
sollecitato da Carminati,
preoccupato che questa cattiva
gestione dei rapporti sciupasse
la buona immagine che egli era
riuscito a creare con quelli della
Magliana.
«Io in quel periodo stavo
maturando l'idea di ritirarmi, e
quindi i rapporti con gli altri del
mio gruppo si erano deteriorati.
A causa di questa particolare
situazione, non mi fu possibile
ricostituire la dotazione: quindi
a un certo punto, a ridosso
dell'estate del 1979, venni
sequestrato da gente della
Magliana, episodio che finora
non ho riferito per vari motivi,
e che comunque mi vedeva solo
come parte lesa.» (15)
I «bravi ragazzi» s'erano
liberati delle armi,
consegnandole ad Aleandri,
perché avevano saputo di
possibili arresti contro la
banda, e non volevano farsi
trovare con pistole e
mitragliette a disposizione. Nei
primi mesi del '79, Abbatino e i
suoi amici entrarono e uscirono
da Regina Coeli, ma all'inizio
dell'estate erano di nuovo in
libertà. E certo non furono
contenti di sapere che il
borsone con le armi affidato a
quel giovane fascista amico di
Semerari davanti alla stazione
di Trastevere era andato perso.
Sentivano puzza di bruciato,
chiesero conto al. «professore»
che promise di interessarsene,
ma non potevano lasciar cadere
la cosa senza conseguenze.
Un giorno di agosto,
Abbatino e un altro paio dei
suoi si trovavano in tribunale,
per parlare con un avvocato. A
un tratto vide Aleandri, quello
che, ormai ne erano sempre più
convinti, aveva rubato le loro
armi. All'istante, senza avere
un piano preordinato, decisero
di sequestrarlo per costringerlo
a restituire pistole e
mitragliette. Lo seguirono, uno
di loro preparò la bendatura
attaccando due pezzi di cerotto
all'interno delle lenti di un paio
d'occhiali da sole, e appena
furono fuori dal tribunale
circondarono Aleandri, lo
presero alle spalle e lo spinsero
nella Renault 5 con cui erano
arrivati.
Con gli occhiali da sole
incerottati, il giovane
neofascista non capì dove lo
stessero portando: si accorse
solo che l'auto correva e stava
uscendo di città, perché da uno
spiraglio sulle lenti credette di
riconoscere una strada di
periferia. Di reagire, ad
Aleandri non venne nemmeno
in mente: sapeva bene di che
cosa erano capaci quelli.
Piuttosto si mostrò
condiscendente, e ripeté ancora
una volta che non era colpa sua
se le armi erano sparite. Ma
quelli non vollero saperne:
«Adesso ti teniamo un po' con
noi, e vediamo se le
ritroviamo».
Lo portarono ad Acilia, in un
appartamento dove spesso
quelli della Magliana andavano
a «pippare» la cocaina. Ormai
erano quasi tutti schiavi di
quella polverina bianca.
Quando si spostavano da una
città all'altra in aereo,
succedeva che dovevano
infilarsi nelle toilette degli scali
anche due o tre volte in pochi
minuti, col rischio di destare
sospetti ed essere controllati,
per tirare la cocaina di cui non
potevano fare a meno.
Aleandri fu rinchiuso in una
camera da letto con la finestra
sbarrata, da cui non arrivavano
i rumori del traffico, ma voci di
bambini. L'ostaggio vedeva i
suoi rapitori sempre e solo con
un cappuccio in testa, e ce
n'era uno piccolino, con
l'accento sardo, che ogni volta
gli ripeteva: «Fosse per me, ti
avrei già dato ai maiali».
Ma per il momento, a quelli
della Magliana Paolo Aleandri
serviva vivo: rivolevano le
armi, e comunque dovevano
sapere che fine avevano fatto.
Ogni tanto gli portavano il
telefono, perché - sempre
davanti a uno di loro -
chiamasse qualcuno e cercasse
di far saltar fuori quel borsone.
Il fascista tentò di convincere i
suoi amici almeno a mettere
insieme un po' di pistole e
mitra, in modo da proporre ad
Abbatino e compagni uno
scambio con un quantitativo di
armi equivalente a quelle
scomparse.
A uno dei soliti bar, a circa
una settimana dal sequestro, si
presentò Massimo Carminati
insieme a Pancrazio Scorza e
Bruno Mariani, altri due «cani
sciolti» della destra eversiva, i
quali proposero ad Abbatino lo
scambio: se liberavano
Aleandri, loro gli avrebbero
portato un altro stock di armi.
Un paio di giorni dopo,
Abbatino e tre dei suoi si
presentarono alla stazione
Trastevere con l'ostaggio,
Mariani e gli altri neofascisti
con due mitra Mab modificati e
due bombe a mano tipo
ananas. Pistole non ce n'erano,
ma i «bravi ragazzi» ritennero
ugualmente vantaggioso lo
scambio, soprattutto per i due
mitra. Così Aleandri poté
tornare a casa sua.
«Non ci disse mai che fine
avessero fatto le armi che gli
avevamo consegnato»,
ricorderà Abbatino,
«limitandosi sempre a dire che
erano andate perse non per
colpa sua. La vicenda non
comportò un nostro distacco da
Semerari, in quanto la sua
assistenza professionale ci era
comunque vantaggiosa, ma né
lui chiese più 'favori' di tipo
criminale, né noi eravamo
disposti a trattare su tale
terreno.»
I rapporti proseguirono
invece con i procacciatori delle
nuove armi, presentati al
gruppo da Carminati, il quale si
avviava a entrare a pieno titolo
all'interno della banda, in una
sorta di doppia militanza: tra i
terroristi neri e con i malavitosi
comuni. Scorza e Mariani
proposero a quelli della
Magliana altri affari, come ad
esempio l'acquisto di un
bazooka che sarebbe andato
bene per assaltare i furgoni
blindati. Ma non se ne fece
niente, perché poco dopo
vennero arrestati.

Il professor Semerari, che


già faceva quel doppio gioco
con i camorristi - tra Cutolo e
Ammaturo - che gli sarebbe
costato la vita, teorizzava con i
suoi «allievi» la collaborazione
con la criminalità comune per
evitare che il suo gruppo
politico dovesse ricorrere ad
azioni di autofinanziamento.
Bastava fornire qualche
indicazione utile alle bande dei
sequestratori, diceva, per
aiutarli a individuare e rapire
gli ostaggi, in modo da poter
riscuotere una quota del
riscatto. La proposta di azioni
come piazzare bombe qua e là
in cambio di perizie
psichiatriche compiacenti
sarebbe stato un passo
successivo.
Ma il terreno dei rapporti tra
malavitosi e neofascisti era
stato battuto ancor prima che
esistesse il «marchio» della
banda della Magliana. Nel
1975, quando finirono in
carcere o dovettero darsi alla
latitanza, i «massacratori del
Circeo» Andrea Ghira, Angelo
Izzo e Gianni Guido avevano
molti agganci con i gruppi che
smerciavano la droga e
organizzavano i rapimenti nella
capitale. Erano ancora i tempi
in cui imperava il clan dei
Marsigliesi, e c'erano pariolini
infatuati di neofascismo e
propositi golpisti che si
vantavano di fare affari con
loro.
«Io», ha raccontato il
«pentito» Izzo al pubblico
ministero Vigna, «ho avuto
rapporti con i francesi. Ero
molto legato da amicizia con
Andrea Ghira, fin da ragazzo, e
negli ultimi due o tre anni egli
era invischiato in ambienti
malavitosi, mentre io facevo
riferimento ad altre persone,
come Guido. Andrea Ghira
trafficava in droga, vendeva sia
eroina che cocaina che hashish,
e compiva anche furti e rapine
per finanziare questo traffico di
droga. Io peraltro continuavo
ad avere rapporti di amicizia
con lui, e gli avevo consegnato
in custodia delle armi che mi
appartenevano; si trattava di
alcuni mitra M.P. 40, Mab e
Sten, e di varie pistole. Le
pistole le avevo comprate con
un falso porto d'armi, mentre i
mitra li avevo acquistati da
malavitosi. Le armi me le ero
procurate sia perché nel '74-'75
si parlava di colpo di Stato, e
sia perché ne facevo
commercio.
«Intorno al giugno-luglio
1975, Ghira era uscito da poco
dal carcere, ed ebbi con lui una
mezza lite in quanto mi voleva
dare quattro milioni ricavati
dalla vendita di due mitra e
quattro pistole. Io non volli
quei soldi, e mi irritai con lui
perché aveva venduto la mia
roba. Ghira mi disse che le
armi le aveva vendute al clan
dei Marsigliesi, gente che in
quel periodo era salita agli
onori della cronaca; aggiunse
che era entrato in contatto con
questa gente e mi disse che a
costoro avrebbe fatto piacere
conoscermi.
«Io mi lasciai convincere e
feci a Ghira delle domande su
queste persone. Poiché il nome
che circolava di più era quello
di Berenguer, gli chiesi se lo
aveva conosciuto e Ghira mi
disse che lui era l'ultima ruota
del carro, e che vi erano
persone più in gamba;
aggiunse che Berenguer era
scaduto in quanto aveva
commesso uno sbaglio nel
sequestro Ortolani lasciandosi
prendere dal panico alla vista
della polizia e che per questa
ragione lo avevano fatto
sparire.
«Nei giorni successivi, siamo
verso il luglio 1975, una sera
mi recai con Ghira al ristorante
Il Bolognese, a piazza del
Popolo a Roma, e qui egli mi
presentò due persone: una che
poi seppi essere Jacques Forcet,
e l'altra un sudamericano mai
più visto. Quella sera si parlò
genericamente senza affrontare
argomenti specifici; ricordo che
eravamo armati e in quattro
avevamo otto pistole: ciò uscì
fuori nel parlare tra noi...
«Ad agosto rimasi in stretto
contatto con Ghira andando al
Circeo, e una sera Ghira mi
disse che potevamo andare
insieme a Roma per vedere
Forcet. Ci incontrammo, lui ci
disse di volerci far conoscere
altri amici, e ci recammo
insieme a un pianobar vicino a
via Veneto, che aveva un nome
tipo Far West o Cow Boy: la
proprietaria di questo locale era
una donna bionda e piuttosto
bella, che mi sembrò essere
intima di Forcet e delle altre
persone che ci presentò. Erano
Bergamelli, che a quel tempo
aveva un grosso paio di baffi, e
due romani di uno dei quali
ricordo il nome, Enrico, che
aveva una Kawasaki 900. Ghira
disse che erano ricercati per
sequestro...» (18)
Con quelli della Magliana,
negli anni successivi, era
invece Massimo Carminati -
milanese trapiantato a Roma,
classe 1958 - il neofascista che
aveva i rapporti più stretti. Se
ne parlava spesso tra i ragazzi
dei Nar che avevano
imbracciato il mitra. Uno di
questi, Stefano Soderini, ha
ricordato ai giudici quello che di
Carminati diceva il capo
riconosciuto dei Nuclei armati
rivoluzionari, Valerio
Fioravanti: «Me ne parlò come
di un elemento di provenienza
'destrorsa', che si era poi
lasciato andare a condurre un
percorso illegale di un notevole
spessore con ambienti
malavitosi di una certa
levatura... Di Carminati,
Valerio diceva che aveva deciso
di intraprendere quella vita per
porsi a conoscenza di tutte le
esperienze illegali e criminali;
aveva voluto fare il rapinatore,
il sequestratore, si era messo
in giri di droga, scommesse,
aveva intrattenuto rapporti
loschi e intriganti, episodi di
killeraggio, eccetera». (19)
In un rapporto dei
Carabinieri del 1986, Massimo
Carminati viene descritto come
elemento «notoriamente
collegato al gruppo della
Magliana con il quale peraltro
ha anche condiviso interessi
finanziari... Noto appartenente
alle organizzazioni eversive di
estrema destra tra cui Terza
Posizione e i Nar, è risultato
collegato a elementi della
banda della Magliana, in
particolare con il Maragnoli
Ettore e l'Abbatino Maurizio...
E' segnalato come componente
di un sodalizio criminoso
facente capo al Maragnoli
Ettore e al Paradisi Giorgio,
dedito anche all'organizzazione
del gioco d'azzardo e al traffico
di sostanze stupefacenti.» (20)
Dalla banda, il giovane
neofascista veniva utilizzato
come artificiere, perché era in
grado di mettere a punto
ordigni esplosivi che servivano
per avvertimenti o attentati
dimostrativi. Li costruiva con
dei barattoli di vernice riempiti
di esplosivo, bulloni e schegge
di metallo, chiusi
ermeticamente e collegati con
miccia e detonatore. «Per
nostro conto», ha rivelato
Maurizio Abbatino, «preparò
anche un ordigno costituito non
da un barattolo, ma da un tubo
di metallo chiuso alle
estremità, che facemmo
esplodere tra le saracinesche e
il vetro della porta di una bisca
alla Magliana, dalle parti di via
Greve, a fianco della quale
c'era il comitato di quartiere.
L'attentato aveva scopi
intimidatori nei confronti del
gestore, in quanto, a poca
distanza, Gianni Piconi aveva
aperto un'altra bisca in società
con il suocero, e non tollerava
la concorrenza. A piazzare
l'ordigno avevamo provveduto
io e lo stesso Carminati.» (21)
Al terrorista nero, divenuto
«pupillo» di Abbruciati dopo la
morte di Giuseppucci, era
anche consentito l'accesso
all'arsenale della banda, che
sarebbe stato scoperto dalla
polizia alla fine del 1981. Nel
frattempo però Massimo
Carminati era stato arrestato e
ferito in una sparatoria, il 21
aprile '81, mentre stava
tentando di passare
clandestinamente dall'Italia alla
Svizzera con un «camerata» di
Avanguardia Nazionale,
Domenico Magnetta. La polizia
s'era appostata a quel valico
utilizzato molte volte dai
«neri» e la cui esistenza era
stata svelata da Cristiano
Fioravanti, caduto in trappola
alcuni giorni prima e passato
velocemente nelle file dei
«pentiti».
A Fabiola Moretti, la «donna
dei boss» piuttosto orgogliosa
della sua origine povera e
proletaria, quel neofascista che
si stava riciclando nella
criminalità comune non
piaceva: «Lo sentivo diverso da
noi. Noi commettevamo certe
azioni perché avevamo bisogno
di vivere, e non conoscevamo
altro modo che quello per
vivere. Massimo Carminati e i
fascisti come lui,
commettevano le stesse azioni
per gusto, per fanatismo
ideologico, e ne ricavavano
anche soldi, ma il movente
primo era l'ideologia. Per
questo non mi piaceva, e lo
dissi a brutto muso a Danilo, il
quale invece la pensava
diversamente, mi diceva che
Massimo era un bravo
ragazzo... Abbruciati lo stimava
moltissimo... Massimo era un
tipo taciturno, serio, educato
rispetto alla media delle
persone che frequentavamo...
Era stato coinvolto in un
conflitto a fuoco, diceva sempre
che dopo quell'episodio in cui
sarebbe potuto morire, ogni
giorno in più di vita era tanto di
guadagnato, mostrando così
una sorta di disinteresse per la
morte». (22)

Quando fu arrestato con le


accuse di «detenzione di armi
da guerra e comuni, detenzione
di materiale esplodente e
ricettazione», Biagio Alesse
aveva quarantun anni. Era un
dipendente del ministero della
Sanità, con la qualifica di
«impiegato esecutivo», e
svolgeva le mansioni di custode
nell'edificio dell'Eur dove aveva
sede la direzione generale dei
servizi di igiene pubblica;
all'ottavo piano gli avevano
dato anche un alloggio di
servizio. Proprio negli
scantinati di quel palazzo, al
numero 34 di via Liszt, che
dovevano servire da ripostiglio
e laboratorio per le necessità
del ministero, la polizia trovò
una gran quantità di pistole,
mitra, proiettili ed esplosivi;
nascosti nel terrazzo c'erano
pure due fucili.
Era il 27 novembre 1981.
Alesse finì in manette, ma negli
uffici della Digos, che aveva
ereditato gli archivi dell'Ufficio
politico della Questura,
saltarono fuori informazioni sul
suo conto vecchie di oltre dieci
anni. Il custode infatti - scrisse
il solerte poliziotto nel suo
rapporto al magistrato - «era
noto agli atti perché denunciato
in stato di libertà in data 12-3-
1969 alla locale Procura della
Repubblica per il reato di
resistenza a pubblico ufficiale,
lesioni personali,
danneggiamento e radunata
sediziosa, fatti commessi in
Roma il 27-2-1969 nel corso
delle manifestazioni indette
dall'estrema sinistra contro la
Nato e contro la visita in Italia
dell'allora presidente degli Stati
Uniti Richard Nixon.»
Era stata una giornata
violenta, quel 27 febbraio di
dodici anni prima. Nixon si
trovava in Italia da pochi
giorni, e sui muri delle città il
suo nome compariva spesso
ornato da una svastica al posto
della «x» e accompagnato dalla
parola «boia». Contro la visita
del presidente Usa s'erano
mobilitati i movimenti di
sinistra e gli studenti che nel
frattempo avevano occupato
parecchie università, impegnati
a fronteggiare polizia e
carabinieri ma anche le
squadracce fasciste che
volevano farsi paladine di
«legge e ordine». Proprio a
causa di un assalto dei «neri»
alla facoltà di Magistero, quel
giorno a Roma morì un ragazzo
di ventiquattro anni, mentre
per le strade del centro
bruciavano le auto e si
respirava il gas dei lacrimogeni
sparati dai celerini per
disperdere i manifestanti che
gridavano contro Nixon e
l'imperialismo nordamericano.
Tra loro - secondo quanto
risultava alla Digos - c'era pure
Biagio Alesse, che poi era
uscito indenne da quella storia.
Ma adesso, dodici anni più
tardi, si trovava in una cella di
Regina Coeli a riflettere su
quell'autentico arsenale
malamente nascosto in
scatoloni, fogli di giornale e
casse nei locali di cui lui aveva
le chiavi, che gli valeva
un'accusa ben più grave.
Avevano trovato perfino bombe
a mano, parrucche, guanti di
gomma e giubbotti
antiproiettile, infilati nei tubi
dell'aria condizionata.
Per quanto fino a quel
momento Alesse non avesse
dato problemi sul lavoro, fosse
considerato da tutti un
insospettabile e il suo arresto
avesse «colto di sorpresa»
(come accade quasi sempre) i
colleghi e gli altri dipendenti
del ministero, il custode fu
immediatamente sospeso
dall'impiego e sfrattato
dall'alloggio di servizio. Ora
doveva affrontare il carcere e
un processo, e pensava a quel
suo amico, Alvaro, anche lui
dipendente del ministero, che
l'aveva ficcato in questa storia.
Gli aveva già chiesto dei favori,
come quello di fare pure i suoi
turni di lavoro in cambio di una
parte del suo stipendio; poi, un
giorno del 1980, gli si presentò
con la proposta di «fare un
piacere a degli amici».
Cominciarono ad arrivare
valigie piene di roba,
spuntarono le armi e gli
esplosivi, Alesse si preoccupò,
chiamò Alvaro per avvertirlo
che bisognava smetterla, non si
poteva rischiare più di tanto.
Ma quello non volle sentire
ragioni, «sei proprio limitato»
disse all'amico, che non aveva
potuto replicare nulla.

Le armi, per i «bravi


ragazzi» della Magliana e di
Testacelo, erano diventate più
importanti del pane. Nelle loro
case ce n'era sempre qualcuna,
nascosta negli armadietti a
parete posteriore mobile fatti
costruire appositamente da un
falegname di Ostia, con un
doppiofondo che poteva
comodamente ospitare pistole e
proiettili. Ma il problema più
generale, quello di dove tenere
il grosso dell'arsenale, era
rimasto insoluto. La storia di
Aleandri aveva dimostrato che
dei potenziali complici c'era
poco da fidarsi, e continuare a
servirsi di conoscenti
incensurati poteva essere
pericoloso: intorno alla banda
gravitavano ormai troppe
persone, e il rischio che
qualcuno coinvolto
marginalmente negli affari del
gruppo - ad esempio proprio
nella custodia delle armi -
parlasse con la Polizia facendo
nomi e cognomi, era diventato
troppo grande.
Decisero di costituire un
unico, grande deposito, e
c'erano due possibilità:
raccogliere tutte le armi in un
appartamento «pulito» e
disabitato, dove ciascuno
poteva entrare e prendere
quello che gli serviva, oppure
affidare il grosso dell'arsenale a
una persona, naturalmente
insospettabile, che l'avrebbe
custodito giorno e notte.
Maurizio Abbatino avrebbe
preferito la prima alternativa e
invece - come racconterà al
giudice istruttore - «prevalse la
seconda, caldeggiata in
particolare da Marcello Colafigli
e Claudio Sicilia, anche perché
le locazioni immobiliari erano
diventate difficili da gestire per
l'emergenza terroristica.» (23)
La catena con cui si arrivò
agli scantinati dell'Eur fu
piuttosto breve e lineare.
«Marcello Colafigli aveva un
notevole ascendente su Alvaro
Pompili, all'epoca impiegato del
ministero della Sanità, pertanto
gli prospettò la possibilità di
costituire un deposito presso
tale ministero. Pompili, a sua
volta, era particolarmente
legato a Biagio Alesse, custode
del ministero, il quale si fece
convincere agevolmente a fare
anche il custode delle armi, con
un compenso fisso di circa un
milione al mese e con la tacita
garanzia che, per ogni
necessità economica, la banda
avrebbe fatto fronte ai suoi
impegni. Fu così che gran parte
delle armi furono trasferite dai
precedenti depositi presso la
Sanità.» (24)
Abbatino e Colafigli furono
presentati ad Alesse e
ispezionarono gli scantinati che
avrebbero ospitato la loro
«santabarbara». C'era spazio a
sufficienza, e si poteva perfino
utilizzare un locale, sempre
sotterraneo, per la
preparazione degli «strumenti
di lavoro», cioè, nelle parole di
Abbatino, «l'indispensabile
attività di pulitura delle armi
reputate necessarie alla
specifica operazione per cui
dovevano essere usate, previa
individuazione delle stesse, di
caricamento, di predisposizione
dei guanti e di approntamento
dei contenitori. Salvo che non
si rendesse indispensabile,
queste operazioni, come pure
quelle di consegna al custode,
venivano effettuate di sera, per
non dare nell'occhio. Alesse, di
solito preavvertito
telefonicamente da Sicilia, si
faceva trovare al ministero o al
bar dell'Eurcine, di fianco al
ministero. Noi non
disponevamo delle chiavi di
accesso al ministero. La
riconsegna poi veniva
effettuata quasi sempre da
Claudio Sicilia e da Gianfranco
Sestili, che si limitavano a
lasciare il borsone ad Alesse, il
quale provvedeva
autonomamente
all'occultamento». (25)
Insomma si andava, si
prendevano e si preparavano le
armi, si sparava, e poi si
tornava lasciando tutto nelle
mani del custode: del ministero
e della banda della Magliana.
Alesse aveva l'ordine di far
entrare nel deposito solo
Sicilia, Abbatino, Colafigli e
altri che eventualmente si
fossero presentati in loro
compagnia. Abbatino arrivò sia
con Abbruciati che con Massimo
Carminati, il quale poi fu
autorizzato a entrare negli
scantinati anche da solo,
«nell'ottica di uno scambio di
favori tra la banda e il suo
gruppo.» Fu probabilmente
tramite lui che al ministero
della Sanità arrivarono pure
armi provenienti dai Nar, come
la pistola rubata in un'armeria
di Roma da un «commando»
neofascista di cui facevano
parte anche Valerio Fioravanti
e Francesca Mambro.
Oltre a quella calibro 38,
dagli scantinati di via Liszt 34
saltarono fuori altre diciotto
pistole e revolver, un fucile a
pompa, una carabina, una
machine pistole M12, un mitra
Mab 38/42, un fucile
mitragliatore Schmeisser M.P.
40, un altro mitragliatore Sten
M.K. 2, una bomba a mano tipo
ananas, tre giubbotti
antiproiettile, un rotolo di
miccia a lenta combustione,
munizioni e proiettili tra cui
quelli marca Jevelot uguali a
quelli che avevano ucciso il
giornalista Mino Pecorelli, dieci
sacchetti di polvere esplosiva,
quattro ordigni esplosivi
confezionati artigianalmente
ma già innescati, alcuni
passamontagna e qualche paio
di guanti. Guanti da killer,
come spiegherà Abbatino,
necessari a passare indenni le
eventuali prove con la
paraffina: «Ve ne erano di tutti
i tipi: in pelle, in lana, in
gomma da cucina e da
chirurgo. Questi ultimi due tipi,
per le loro caratteristiche, oltre
a garantire una certa
sensibilità, erano i più adatti a
impedire che la polvere da
sparo esplosa aderisse alla
pelle». (26)
La mitraglietta M12 trovata
al ministero era quella
scomparsa nel gennaio del
1981 dal commissariato di
Polizia Cristoforo Colombo «in
circostanze mai del tutto
chiarite», come specificava il
rapporto della Digos.
Circostanze che invece erano
chiarissime a Claudio Sicilia, il
quale una sera aveva visto
quell'arma passare dalle mani
di un maresciallo del
commissariato Colombo, uno di
quelli che stavano sul «libro
paga» della banda della
Magliana, a quelle di
«Marcellone» Colafigli, in
cambio di cinque milioni in
contanti.
Dopo l'arresto del novembre
'81, Biagio Alesse fece i nomi di
Sicilia, Abbatino, Colafigli e
altri, ma quando venne
scarcerato fu costretto a fare
marcia indietro. Il «vesuviano»,
uscito anche lui di galera, andò
a cercarlo e gli fece firmare una
lettera in cui il custode del
ministero scagionava tutti i
«bravi ragazzi» tranne Marcello
Colafigli, che aveva già i suoi
guai giudiziari per l'agguato di
via Donna Olimpia. All'incontro
partecipò anche Alvaro Pompili,
il «tramite» tra Alesse e i
«bravi ragazzi». «Fu Sicilia»,
spiegherà proprio Pompili, «a
pregarmi di partecipare a
quella riunione senza
spiegarmene preventivamente i
motivi. In quella riunione
effettivamente Sicilia 'fece
capire' ad Alesse che avrebbe
dovuto ritirare le sue accuse.
Non ci furono minacce
specifiche, ma mi sembrò che
non fossero necessarie per
impaurire Alesse.» (27)
La bomba alla stazione di
Bologna era scoppiata da
cinque mesi e dieci giorni,
ottantacinque morti
aspettavano giustizia. La
magistratura aveva imboccato
la pista neofascista, quella che
porterà fino alle contraddittorie
sentenze di condanna,
assoluzione e poi nuovamente
condanna di uno strano e
improbabile terzetto, miscuglio
di manovalanza criminale e
terrorismo nero: Valerio
Fioravanti, Francesca Mambro e
Sergio Picciafuoco. Ma allora,
nei primi mesi di indagini, si
procedeva ancora per grandi
linee: sotto accusa c'erano i
«ragazzini» di Terza Posizione -
un altro gruppo del giovane
terrorismo di destra - e «vecchi
maestri» dell'eversione
neofascista come Aldo
Semerari, il criminologo dei
doppi e tripli giochi, Fabio De
Felice, Paolo Signorelli e
Massimiliano Fachini: verranno
tutti prosciolti o assolti nel
corso delle istruttorie e dei
processi.
Semerari era ancora in
carcere con l'accusa di strage -
ma l'Italia stava seguendo col
fiato sospeso un'altra vicenda
della stagione terroristica, il
destino del giudice Giovanni
D'Urso ostaggio delle Brigate
Rosse - quando, il 13 gennaio
1981, sul treno Taranto-Milano
fermo alla stazione di Bologna,
fu trovata una valigia piena di
armi, esplosivo e altre tracce.
Sulla reticella di uno
scompartimento di seconda
classe, durante un controllo,
alcuni agenti di Polizia
notarono quel bagaglio di stoffa
marrone con le cerniere
bloccate da due piccoli
lucchetti, che non apparteneva
a nessuno dei viaggiatori.
Aperta la valigia comparvero,
fra le altre cose, un mitra Mab
38/42 in dotazione alle truppe
naziste d'occupazione,
modificato e con il numero di
matricola abraso; otto barattoli
pieni di «esplosivo gelatinoso e
pulvirento, analogo a quello
utilizzato nell'agosto
precedente per l'attentato alla
stazione di Bologna»; giornali
francesi e tedeschi; due
biglietti aerei intestati a
fantomatici cittadini di Francia
e Germania; due
passamontagna e alcune paia di
guanti in gomma trasparente.
Il ritrovamento fu dovuto a
una segnalazione del Sismi, il
Servizio segreto militare
guidato dal generale Giuseppe
Santovito, che di lì a qualche
mese si scoprirà essere iscritto
alla Loggia massonica P2 di
Licio Gelli, e confermava la
pista internazionale che gli 007
con le stellette accreditavano
da tempo. La stessa indicata da
Gelli per la strage di Bologna,
prima di passare all'idea
dell'eccidio casuale provocato
da un mozzicone di sigaretta
gettato inavvertitamente vicino
all'esplosivo. Un'informativa del
Sismi successiva di qualche
settimana ribadiva l'ipotesi
della matrice straniera,
collocando l'operazione
«terrore sui treni» nell'ambito
di un'alleanza tra neofascisti
italiani (quelli più giovani però)
e gruppi eversivi francesi e
tedeschi.
Era un depistaggio, si
scoprirà pochi anni dopo, di cui
sono stati indicati come
responsabili il colonnello
Musumeci e il tenente
colonnello Belmonte, due
ufficiali del Sismi condannati
per i reati di porto di esplosivo
e di armi da guerra e
simulazione di reato, coautori,
secondo i giudici di primo grado
di una «scellerata
macchinazione ordita in ampio
ambito» per provocare
«l'allarme sociale e
l'intossicazione delle indagini di
polizia giudiziaria e della
magistratura». (28) Ma ci sono
voluti altri anni prima che,
seduto davanti al giudice
istruttore, Maurizio Abbatino, il
«crispino» della Magliana,
svelasse anche una parte di
questo mistero.
Nel dicembre del '92, il boss
di un tempo parla dell'arsenale
del ministero della Sanità. Lì
dentro, spiega al magistrato,
c'erano anche due mitra Mab,
che facevano parte del
«borsone» che Massimo
Carminati, Pancrazio Scorza e
Bruno Mariani avevano
consegnato ai «bravi ragazzi»
in cambio della liberazione di
Paolo Aleandri, il giovane
«allievo» del professor
Semerari sequestrato dalla
banda perché aveva fatto
sparire un intero stock di
pistole e fucili lasciatogli in
consegna. Ma quando la polizia
scoprì il deposito del ministero,
di mitra Mab ce n'era uno solo.
«Se lo vedessi», dice
Abbatino, «sarei in grado di
riconoscere il secondo Mab che
consegnai, un paio di mesi dopo
la morte di Franco Giuseppucci,
a Massimo Carminati, e che
questi non restituì». (29)
Carminati poteva farlo: la
banda di lui si fidava, e se
l'arma era stata «sporcata»,
cioè utilizzata in qualche
omicidio, era normale che non
rientrasse al deposito.
Ma adesso il problema era
un altro: tra le armi trovate
nella valigia sul treno Taranto-
Milano, quella del depistaggio
targato Sismi, c'era proprio un
mitra Mab 38/42, e il 9 gennaio
1993 viene mostrata ad
Abbatino la foto di quell'arma.
Il «collaboratore di giustizia» fa
mettere a verbale: «Riconosco
con certezza il mitra prelevato
da Carminati e mai più
restituito, nelle circostanze
sopra indicate». Poco prima
Abbatino aveva detto: «Preciso
che Carminati prese non una
ma due volte il mitra Mab che
non è stato rinvenuto al
ministero della Sanità. Si
trattava, tra i due, del mitra
meglio modificato. Confermo
che Carminati prese per la
seconda volta il mitra circa due
mesi dopo la morte di
Giuseppucci, e colloco la prima
in epoca immediatamente
precedente alla morte del
Giuseppucci stesso. Ero
presente quando il Carminati
prese il mitra per la seconda
volta e nell'occasione, come
d'abitudine, prese due
caricatori, uno più lungo e uno
più corto. Come accadeva
normalmente non chiesi a
Carminati la ragione per la
quale prelevava l'arma, né gli
chiesi mai di restituirla, né
perché non l'avesse fatto».
(30)
Due mesi dopo ad Abbatino
viene messo in mano il mitra
del depistaggio, «crispino» lo
guarda attentamente e dice che
si tratta proprio di quello che
stava nella «santabarbara»
della Magliana. Il modo in cui il
calcio appare modificato,
leggermente diverso da quello
con cui era stato trasformato
l'altro Mab trovato alla Sanità,
non lascia spazio a dubbi: sul
treno Taranto-Milano c'era il
mitra consegnato dal gruppo di
Semerari ai «bravi ragazzi», a
sua volta proveniente, secondo
altri «pentiti» del terrorismo
nero, da Massimiliano Fachini,
ritirato poi da Carminati e
collocato in quella valigia da chi
voleva depistare le indagini
sulla strage del 2 agosto 1980.
E i magistrati di Bologna hanno
potuto scrivere: «Il percorso di
questo mitra è dunque ormai
chiaro in ogni momento...
Emergono con certezza
l'inserimento del Carminati
nell'area della banda della
Magliana e i rapporti
collaborativi di questa agenzia
del crimine con i nostri Servizi
segreti militari, rapporti che
peraltro si svolgono nel
medesimo periodo di tempo in
cui si predispone e si realizza la
nota operazione 'terrore sui
treni', all'indomani della cattura
del professor Aldo Semerari e
di Massimiliano Fachini». (31)
Quanto al movente dei
depistatori, i magistrati lo
attribuiscono alla necessità di
bloccare eventuali rivelazioni di
Semerari, uomo legato non
solo al mondo della malavita e
dell'eversione neofascista ma
anche ai Servizi segreti, che
sarebbe stato sul punto di
«crollare». Il criminologo
Franco Ferracuti, anche lui
iscritto alla P2 di Gelli, amico e
collega del «professore nero»,
andò a trovarlo mentre era
detenuto e piantonato in
ospedale, e su quella visita
riferì al pubblico ministero di
Bologna: «Lo trovai in
gravissimo stato di nevrosi
fobico-ossessiva... Mi prospettò
la possibilità di 'farla finita',
ritenni che Semerari volesse,
attraverso me, riferire ad altri
e cioè ai Servizi, che egli stava
per crollare».
Un elemento in più per far
sostenere ai magistrati che
«l'intero depistaggio ordito dal
Sismi viene realizzato con la
collaborazione
dell'avanguardista Carminati in
direzione del salvataggio
processuale di Aldo Semerari,
uomo chiave dell'eversione
nazionale, nel momento in cui
questi minacciava di parlare e
aveva perfino iniziato a farlo
rendendo in carcere delicate
dichiarazioni confidenziali ad
agenti della Digos di Bologna.»
(32)
I giornali scrissero
diffusamente della valigia
trovata sul Taranto-Milano, ed
evidentemente Semerari capì il
messaggio che passava
attraverso quel mitra Mab. Non
disse più nulla; poche
settimane dopo il ritrovamento
delle armi e dell'esplosivo sul
treno, il criminologo fu
scarcerato e un anno più tardi
ucciso, inghiottito dalle trame
della camorra e dei Servizi
segreti. Trame che, a causa del
mitra in dotazione alle truppe
d'occupazione naziste uscito
dall'arsenale della banda,
hanno finito per coinvolgere
anche i «bravi ragazzi» della
Magliana.

Suo padre, Otello Abbruciati,


classe 1909, era stato
campione di pugilato, titolo
italiano dei pesi piuma nel
1928, molti successi in America
del Sud, poi di nuovo campione
in patria nel '38 e nel '40.
Anche lui, Danilo, nato il 4
ottobre 1944, giorno di San
Francesco d'Assisi, nella Roma
appena liberata dagli
americani, aveva provato con
le palestre e i guantoni. Ma
s'era stancato presto, e in poco
tempo, intorno ai vent'anni,
aveva abbandonato il ring per
passare ai bar, alle bische e
agli altri ritrovi dei giovani
malavitosi del suo quartiere,
Primavalle.
La prima gang di cui fece
parte fu un manipolo di topi
d'appartamento che rubavano
nelle abitazioni lussuose delle
zone alte della città: la
chiamavano la «banda dei
camaleonti», e per Danilo,
destinato a oltrepassare in
fretta i confini del quartiere
d'origine per spingersi verso
altri traguardi criminali,
significò ritrovarsi addosso il
nomignolo di «camaleonte».
Presto arrivò il carcere, e poi
la conoscenza coi pezzi grossi
della delinquenza romana,
quelli della «dolce malavita»
che prosperava intorno ai locali
di via Veneto, dominata dai
Marsigliesi. Erano i tempi delle
spider, dei pantaloni a zampa
d'elefante e degli stivaletti col
tacco; Danilo Abbruciati, grosso
e corpulento, girava con un bel
paio di baffi e moto di grossa
cilindrata.
Alla vigilia del Capodanno
1973 «il camaleonte» restò
impigliato in un omicidio che
accese i riflettori proprio sulla
«mala» che sfiorava l'alta
società: la morte violenta di
Carlo Faiella, playboy e un
tempo "lift" di grande albergo,
trovato morto dentro una
Citroën D.S. vicino allo stadio
Flaminio, ammazzato da alcuni
colpi di pistola la sera del 29
dicembre '72. L'auto però era
intestata a un certo Ernesto
Diotallevi, conosciuto anche lui
nel settore dei furti e in quello
delle bische clandestine, e la
mattina successiva qualche
giornale scrisse che l'allora
ventottenne Diotallevi era
morto «in circostanze ancora
misteriose».
Ma Diotallevi era vivo e
vegeto, e si presentò al
commissariato per farlo
presente. Spiegò che aveva
prestato la sua Citroën
all'amico Carlo Faiella, uno che
la polizia sapeva essere legato
ai Marsigliesi attraverso
Giuseppe Rossi, chiamato
anche Jo «le maire», cioè il
sindaco, finito in carcere per
l'omicidio di un suo ex braccio
destro avvenuto due anni
prima, un fatto che aveva
portato prima in galera e poi al
soggiorno obbligato pure
Faiella.
La sera del 29 dicembre 73,
Faiella s'era incontrato in un
bar dei Parioli con Diotallevi e
con un'altra persona, descritta
semplicemente come «un uomo
coi baffi». Era Danilo
Abbruciati, che accompagnato
dall'avvocato si presentò agli
investigatori il 15 gennaio,
confermò la storia dell'incontro
ma dell'omicidio disse di non
sapere proprio nulla. Un mese
più tardi il giudice provò a
strappargli qualcosa in più con
l'arresto, ma «il camaleonte»
non scucì una parola e venne
rilasciato poco dopo.
La moglie Claudia, nel '71,
l'aveva denunciato per lesioni,
maltrattamenti e sequestro di
persona. Col passare degli anni,
per Abbruciati continuarono ad
accumularsi accuse,
segnalazioni e arresti. E
cambiarono i nomi dei
coimputati: dagli esponenti del
«clan delle 3 B» - Berenguer,
Bergamelli e Bellicini - si passò
a Giovanni Tigani, «Paperino»;
Amleto Fabriani, «er vòto»;
Bruno Nieddu, Paolo Frau,
Danilo Sbarra e poi ancora altri
nomi della nuova criminalità
della capitale. Mutarono anche
le accuse; dopo le rapine e i
sequestri di persona, cominciò
a comparire il traffico di droga.
Il pugile fallito, che fino a quel
momento la «sniffava»
soltanto, prese a commerciare
la polvere bianca; ormai era
diventato un «duro» rispettato
e temuto, pieno di soldi e di
agganci.
A Milano Danilo entrò in
contatto e in affari con Francis
Turatello, e a Roma - usciti di
scena i Marsigliesi e i vecchi
boss come Ettore Tabarrani,
rimasti in sospeso conti antichi
come quello con Bebo
Belardinelli - arrivò a
incontrare quelli della
Magliana, banditi più giovani e
con minor esperienza della sua,
avvicinati attraverso la
«corrente» dei «testaccini».
Al suo fianco, da qualche
tempo, c'era Fabiola Moretti
che racconterà: «Riallacciati i
rapporti con Franco
Giuseppucci, nel 1979, fu
questi a prospettare a Danilo
l'opportunità di dedicarsi al
traffico dell'eroina, accanto a
quello della cocaina che già ci
veniva fornita, mentre Danilo
era detenuto, da Manuel
Fuentes Cancino. Danilo,
inizialmente contrario, si
convinse ben presto della bontà
dell'affare, e giustificava spesso
questo suo mutato
atteggiamento dicendo che non
era il caso che con l'eroina si
arricchissero soltanto gli
'infami'. A seguito dei nuovi
rapporti con Giuseppucci,
Danilo Abbruciati prese a
frequentare con assiduità il
Testaccio, anche perché nel
frattempo era stato scarcerato
Enrico De Pedis... Il Testaccio
peraltro era un punto
d'incontro tra vari personaggi
della malavita romana, Danilo
lo chiamava il suo 'ufficio'».
(33)
All'interno della sua nuova
banda, comunque, Danilo
Abbruciati manteneva sempre
un atteggiamento un po'
distaccato. «Lui», ha spiegato
Abbatino, «non aveva legami
con alcun gruppo in particolare:
economicamente non aveva
problemi di nessun genere, per
cui si dedicava, di tanto in
tanto, a qualche colpo, magari
limitandosi a fornire delle
'dritte'. Una volta che della
nostra associazione erano
entrati a far parte, grazie a
Franco Giuseppucci, i vari De
Pedis, Maragnoli e Pernasetti,
venne da costoro cooptato nel
gruppo. A causa dei suoi
contatti malavitosi, avvalendosi
anche delle numerose e
importanti conoscenze acquisite
in carcere, sia tra i comuni, sia
tra i mafiosi, sia tra i 'politici'
(non disdegnava di tenere
rapporti con estremisti di
destra) Danilo, una volta
entrato a far parte della banda,
strumentalizzò la stessa ai suoi
personali interessi, di fatto
impedendo l'incondizionata
integrazione nel sodalizio dei
'testaccini'.»
Il «bandito solitario»
insomma, a sentire Abbatino,
pur stringendo alleanze, voleva
rimanere tale: «Abbruciati
teneva sostanzialmente per sé
le proprie conoscenze, e faceva
partecipi delle attività
finanziarie attraverso le quali
riciclava il denaro provento del
traffico degli stupefacenti, non
già l'intera banda, ma soltanto i
'testaccini', i quali, ben presto,
acquisirono un consistente
patrimonio mobiliare, societario
e immobiliare, che si andava a
cumulare ai proventi
dell'attività di 'strozzinaggio' da
essi sempre praticata. Danilo
infatti aveva un campo di
interessi assai diversificati,
dall'edilizia al commercio di
auto, alla finanza, rispetto ai
quali i traffici criminali
rappresentavano la principale,
se non unica, fonte di
finanziamento.» (33)
Abbruciati divenne in breve
tempo uno degli anelli di
collegamento con Cosa Nostra,
la criminalità dei «colletti
bianchi», i terroristi neri.
Frequentava i mafiosi, andava
a Palermo per incontrare
Stefano Bontate, secondo
Claudio Sicilia era diventato
addirittura «uomo d'onore» a
tutti gli effetti, un sospetto che
anni dopo sarà confermato dal
boss pentito Salvatore
Cancemi: «Calò non mi disse
mai che aveva 'combinato'
Danilo Abbruciati, ma io, per
come egli ne parlava, capii che
Abbruciati era un uomo d'onore
di Pippo Calò». (36) I suoi
investimenti immobiliari
testimoniano dei contatti con
costruttori e finanzieri,
Domenico Balducci è solo un
esempio tra tanti; i giovani
neofascisti, soprattutto dopo la
morte di Giuseppucci, ne
avevano fatto un punto di
riferimento e lo frequentavano
appena potevano, abbacinati
dalla sua autorevolezza e dalle
sue moto. La Digos e l'allora
sostituto procuratore di Firenze
Pier Luigi Vigna si
interessarono a lui nelle
indagini per l'omicidio del
giudice Vittorio Occorsio,
ammazzato a Roma, nel 1976,
dal gruppo di Ordine Nuovo,
anche se poi l'inchiesta non
portò a nulla sul suo conto.

Una sera del luglio 1980, a


Trastevere, Danilo arrivò a
mettere fine alla lite tra due
ragazze, due «terminali» del
traffico di droga. Una si
chiamava Anna, l'altra Franca,
ma data la mole la chiamavano
«Francona», ed era amica di
Fabiola Moretti, la donna di
Abbruciati. Anna e «Francona»
s'erano accapigliate dopo
un'accesa discussione, arrivò
Fabiola a dare man forte
all'amica, e poco dopo
sopraggiunse Danilo, che
intervenne a modo suo: un
pugno violento stese Anna a
terra, e la questione era
chiusa. Ma solo per poco.
Un'ora più tardi Abbruciati
era ancora da quelle parti,
vicino all'arco di San Callisto, in
macchina con un amico.
All'improvviso arrivò un
motorino con due persone a
bordo, uno scese e si avvicinò
all'auto di Abbruciati. Era Carlo,
il marito di Anna. Danilo si
accorse subito del pericolo,
impugnò la pistola e sparò un
paio di colpi contro quell'uomo,
accese il motore della Panda e
partì a razzo. Carlo sparò
anche lui, ma riuscì solo a
mandare in frantumi il lunotto
posteriore dell'auto.
La Polizia provò a indagare,
e interrogò pure Abbruciati.
«Circa i miei spostamenti o
contatti con le persone durante
quel giorno», rispose lui in
Questura, «non ricordo
assolutamente nulla...
Ufficialmente sono disoccupato
e per vivere, siccome ho del
denaro mio, solitamente
effettuo prestiti a conoscenti o
commercianti di mia fiducia i
quali, a terminate esigenze, mi
ricompensano. In questi ultimi
giorni, stante il fatto che ho
mia madre ammalata di un
male incurabile, mi sto
interessando per farle ottenere
tutte le cure necessarie.»
Con toni che tentavano di
essere rassicuranti e gentili,
dunque, Abbruciati confessò di
essere uno «strozzino». Ma di
quella lite a Trastevere, e poi
della sparatoria, negò tutto,
secondo le regole del vero
malavitoso che davanti agli
«sbirri» non ammette nulla:
nemmeno l'attentato subito,
nemmeno la relazione con
Fabiola, ridotta a uno scambio
di corpi. «Conosco Fabiola
Moretti», si limitò a dire, «con
la quale ci incontriamo qualche
volta per questioni fisiologiche.
Io non ho legami di sorta con
donne in quanto le avvicino
solo per necessità fisiche,
stante che ho una famiglia e
una figlia naturale da me
riconosciuta e con me
convivente.» Poi si chiuse:
«Non sono a conoscenza di una
lite tra donne alla quale ha
partecipato anche Fabiola, ma
posso dire che la stessa, per il
suo carattere, non è nuova a
imprese del genere... Ho letto
sul giornale di una sparatoria a
Trastevere, ma non ricordo il
giorno. Comunque io non mi
sono interessato minimamente
al fatto perché non mi riguarda.
Secondo quanto mi dite la mia
autovettura Panda è rimasta
coinvolta nella detta sparatoria,
ma posso assicurare che tutto
ciò non è vero».
Abbruciati venne congedato
dagli agenti, ma la sera fu
nuovamente convocato per
vedere se s'era «ammorbidito».
Niente. Alle ventuno di quel 23
luglio 1980, «negli uffici della
Squadra Mobile, avanti a noi
sottoscritti ufficiali di Polizia
giudiziaria appartenenti al
suddetto ufficio», il «nominato
in oggetto Abbruciati Danilo»
non faceva altro che ripetere:
«In merito ai fatti di cui voi mi
parlate io non ho
assolutamente nulla da dire».
Lo arrestarono con l'accusa di
favoreggiamento, Danilo non
fece una piega, nominò
l'avvocato e varcò un'altra
volta la soglia di Regina Coeli.
Quella volta però, in
carcere, successe qualcosa di
nuovo, rivelato quattordici anni
dopo da Fabiola Moretti al
giudice istruttore. «Io
provvedevo», ha raccontato la
donna, «attraverso gli agenti di
custodia che incontravo al
cinodromo di viale Marconi, a
far pervenire a Danilo la
cocaina che egli consumava in
carcere. Una volta la sostanza
che doveva servire per
Abbruciati mi fu portata, a San
Callisto, da Franco Giuseppucci,
il quale, prima che io
consegnassi la droga ai soliti
agenti di custodia, mi disse che
non era più necessario che
gliela facessi avere in quel
modo, in quanto era stato
attivato un altro canale di
rifornimento. La sera stessa
che Danilo venne dimesso dal
carcere: egli, evidentemente
euforico, mi disse che con lui
avevano preso contatti uomini
dei Servizi segreti, i quali
erano entrati in carcere, gli
avevano fornito la cocaina,
avevano 'pippato' insieme a lui
e avevano allacciato delle
relazioni. Non so a che cosa
fossero finalizzate, ma Danilo
era troppo soddisfatto di
quell'incontro in carcere di
notte, dove aveva ricevuto
offerte di protezione e di
'lavoro' particolarmente
soddisfacenti per lui.
«So per certo che, almeno
inizialmente, Danilo ebbe dei
vantaggi da queste nuove
relazioni: riottenne la patente
e il passaporto, gli fornirono
denaro e autovetture, e
attribuiva a 'quelli' il merito di
essere uscito così presto dal
carcere... Successivamente,
talvolta, Danilo si lamentava
che non fossero state da loro
mantenute certe promesse.
Debbo aggiungere che anche io
ho incontrato, sia a Roma che a
Milano, persone che Danilo mi
diceva essere uomini dei
Servizi».
Per Antonio Mancini,
Abbruciati era legato anche alla
massoneria «deviata»: «So per
certo», dirà a un magistrato,
«che aveva rapporti con
esponenti della massoneria,
che ancora non era conosciuta
come P2 ma che aveva come
punto di riferimento Licio
Gelli».

Lunedì 26 aprile 1982, al


palazzo di giustizia di Milano,
c'erano parecchi giornalisti ad
attendere Roberto Calvi. Il
presidente del Banco
Ambrosiano, accusato di truffa
insieme a Michele Sindona, era
stato convocato dai giudici
istruttori Gherardo Colombo e
Giuliano Turone. Ma Calvi
aveva ricusato quei due
magistrati accampando
l'«inimicizia personale», e non
si presentò nel loro ufficio. Nel
frattempo, nonostante gli
scandali che lo stavano
travolgendo, il «banchiere di
Dio» aveva ricevuto lusinghiere
dichiarazioni di stima da
monsignor Paul Marcinkus,
presidente dello Ior, la banca
vaticana. «Calvi è meritevole
della nostra fiducia», aveva
detto il monsignore, «non ho
nessuna ragione di dubitarne.»
Quello stesso lunedì, mentre
a Roma moriva il boss mafioso
Frank Coppola, «tre dita», a
Milano c'era pure Danilo
Abbruciati, che adesso aveva
una folta barba a incorniciargli
il viso sempre un po'
corrucciato. La mattina dopo, il
27 aprile, poco prima delle
otto, l'ex «camaleonte»
camminava avanti e indietro
davanti all'agenzia 18 del
Banco Ambrosiano, in via
Odescalchi. Ma non era
interessato, come sarebbe
accaduto un tempo, alla banca,
bensì al portone di un palazzo
in una strada lì accanto, via
Oldofredi numero 2. Danilo e il
suo amico rimasto a bordo di
una moto controllavano e
aspettavano, cercando di non
dare nell'occhio; davanti allo
stesso portone c'erano la
portiera, una guardia giurata e,
dentro un'Affetta blindata, un
autista.
Poco dopo comparve Roberto
Rosone, vicepresidente del
Banco Ambrosiano, considerato
uomo di fiducia del «capo»
Roberto Calvi. Aveva
cinquantaquattro anni, e da
trentacinque lavorava in banca:
un gradino dopo l'altro, da
impiegato allo sportello era
diventato vicepresidente
dell'Ambrosiano. Sul portone
Rosone si fermò a fare due
chiacchiere con la portiera, poi
s'avviò verso la macchina. Ma
prima che salisse sull'auto di
servizio, un uomo col cappotto
beige e una sciarpa gli si parò
davanti: era Abbruciati, che
estrasse la pistola e sparò il
primo colpo. Si sentì soltanto
un «click», l'arma s'era
inceppata; Danilo riprovò e
colpì Rosone alle gambe.
Adesso il banchiere era a terra,
davanti a lui, ma anziché
sparare il colpo di grazia
Abbruciati corse in mezzo alla
strada, dove l'aspettava l'amico
sulla moto.
Verso di lui s'erano lanciati
l'autista di Rosone e la guardia
giurata Gianni Franco,
Abbruciati sparò ancora
colpendo l'autista, poi salì sulla
moto del complice. Fatti pochi
metri, però, fu tirato giù dai
proiettili di una 357 Magnum;
stavolta era stata la guardia a
sparare e a colpire
l'attentatore, lasciandolo
sull'asfalto. La moto ormai se
n'era andata, a terra c'erano
Rosone e il suo autista, feriti, e
Danilo Abbruciati, morto, la
faccia girata verso destra,
braccia ripiegate sopra la testa
e piedi incrociati, uno stivaletto
slacciato e quasi sfilato. Nelle
sue tasche, tra le altre cose, fu
trovata una scatola di
fiammiferi con un numero
scritto a penna: era il telefono
di Ernesto Diotallevi che
doveva servire, sosterranno
investigatori e magistrati
durante le inchieste, per
avvertire il boss romano che
tutto era stato compiuto.
Per l'attentato a Rosone,
Ernesto Diotallevi e Flavio
Carboni sono stati condannati,
nel processo di primo grado,
come mandanti. In attesa
dell'appello, la stessa accusa
pende sulla testa di Pippo Calò.
Ma i motivi di quell'agguato, e
del perché un malavitoso del
calibro di Abbruciati fu spedito
a Milano, molti se li chiedono
ancora, come se li chiesero
allora gli amici di Danilo.
Abbatino andò da «Renatino» e
«Palletta», De Pedis e
Pernasetti, i «bravi ragazzi»
più vicini ad Abbruciati: «Mi
riferirono di aver a loro volta
saputo da Ernesto Diotallevi
che, per suo tramite, Danilo
aveva ricevuto cinquanta
milioni di lire per eseguire
l'attentato. Non mi fornirono
ulteriori particolari, dicendo che
Abbruciati aveva agito anche a
loro insaputa. La spiegazione,
ricordo, mi lasciò alquanto
perplesso atteso che, sebbene
l'Abbruciati fosse non poco
avido, tuttavia era strano che
avesse agito solo come killer,
senza avere anche propri
interessi nell'attentato, tanto
più che secondo le regole
avrebbe dovuto comunque
dividere con i due i cinquanta
milioni che ne costituivano, a
loro dire, il prezzo». (38)
Nonostante i processi
celebrati e la morte di Calvi
avvenuta a Londra due mesi
dopo, sopravvivono ancora due
ipotesi alternative tra loro:
secondo la prima, l'attentato a
Rosone fu commissionato da
Roberto Calvi perché
«ostacolato nei suoi progetti di
autofinanziamento proprio da
Roberto Rosone»; la seconda,
invece, vuole che i colpi di
pistola sparati da Abbruciati a
Rosone fossero diretti «a
intimidire sia lui che Calvi, e
ascrivibili a chi era interessato
a controllare un gruppo del
valore di ventimila miliardi di
lire.»
Comunque fosse andata, a
quelli della banda della
Magliana non interessava più di
tanto. Per loro contava solo
l'ennesimo «strappo» di Danilo,
che stavolta gli era costato la
vita. Per il nucleo originario
della banda, guidato da
Maurizio Abbatino, la morte di
Abbruciati segnò la fine di
un'altra alleanza dopo quella
rotta, poco più di un anno
prima, con Nicolino Selis:
«Considerammo non più
affidabili i 'testaccini', in quanto
propensi a strumentalizzare per
fini personali l'intera
organizzazione, senza neppure
rendere conto di iniziative che
mettevano in pericolo la nostra
attività. Conseguentemente
adottammo la decisione di
eliminarli quando se ne fosse
data l'opportunità».

***
9. LA STRAGE.

Fino a quella sera d'inverno,


a Roma, non era mai successo
che dei banditi «locali»
uccidessero per una rapina. Per
questo la morte violenta di
Silvano e Gabriele Menegazzo,
freddati sotto casa la sera del
17 gennaio 1967 da un gruppo
di rapinatori che volevano
impossessarsi di due valigette
piene di gioielli, suscitò tanto
scalpore.
Perché tanta ferocia non era
ancora diventata un'abitudine,
e il giorno dopo i quotidiani
invocavano «una Polizia più
efficiente e una giustizia più
severa»; perché le vittime
erano giovani, ventitré e
diciannove anni, e avrebbero
avuto presto mogli, bambini e
utilitarie; perché i due fratelli
morirono sotto gli occhi dei
genitori e di tanti altri vicini
affacciati alle finestre; perché
accanto ai cadaveri gli assassini
lasciarono un paio di occhiali da
miope che permisero in breve
tempo di identificare uno dei
banditi, e scatenare una caccia
all'uomo seguita da tutto il
Paese che si sarebbe conclusa
solo cinquanta giorni più tardi.
Secondo gli organizzatori del
«colpo», più che una rapina
doveva essere uno scippo. Pio
Menegazzo faceva il gioielliere,
e ogni sera rientrava nella sua
casa al Nomentano,
accompagnato da uno dei due
figli, portando con sé le
valigette col campionario dei
gioielli. Bisognava appostarsi in
via Gatteschi, dove abitava,
aspettare che arrivasse,
strappargli di mano le borse coi
preziosi e scappare via. Un
gioco da ragazzi, quali erano i
giovani del Tufello che avevano
pensato a tutto. Tranne al fatto
che il loro capo, Leonardo
Cimino detto «lo smilzo»,
avrebbe portato con sé la
pistola.
Quel 17 gennaio pioveva, e
andò tutto storto. Anziché
padre e figlio, in via Gatteschi
arrivarono Silvano e Gabriele
Menegazzo, i due ragazzi. I
banditi erano lì, nascosti nel
buio, uno a bordo della Giulia
col motore acceso, pronto a
raccogliere i complici. Decisero
di agire ugualmente, ma
accadde l'imprevisto: i due
giovani, a differenza di quanto
forse avrebbe fatto il padre,
reagirono e non si lasciarono
strappare di mano le valigette
coi preziosi e i soldi in contanti.
Ci fu una colluttazione, uno dei
banditi perse gli occhiali, un
altro, Cimino, pensò bene di
farla finita tirando fuori la
pistola e lasciando per terra i
cadaveri dei due fratelli. Poi
prese le valigette -
quarantaquattro milioni di lire
fu valutato il bottino ottenuto
per due vite stroncate - e
scappò con gli altri.
Partendo da quelle lenti
trovate sull'asfalto bagnato,
dopo quasi due mesi, la Polizia
arrivò a circondare una casa al
quartiere Monte Mario: dentro
c'erano Cimino e due suoi
complici, Franco Torreggiani -
«il miope», quello che aveva
perso gli occhiali - e Mario
Loria, ventisette anni, «il
vivandiere» della banda.
Cimino tentò di farla franca alla
maniera di Butch Cassidy,
uscendo e sparando: fu ferito al
collo, rimase paralizzato e morì
nove mesi più tardi in
ospedale; Torreggiani e Loria si
arresero; il quarto bandito,
Francesco Mangiavillano, venne
arrestato successivamente in
Grecia.
Dopo la cattura arrivarono i
processi, e finalmente, nel
1975, la Corte di Cassazione
stabilì le condanne definitive
per la rapina di via Gatteschi:
ergastolo per Mangiavillano,
ventisei anni per Torreggiani
«il miope», dodici per Loria «il
vivandiere». Il primo a uscire di
galera in semilibertà, alla fine
del 1982, fu proprio Loria, un
«bullo» di quartiere, piccolo e
con gli occhi scavati, che nelle
aule giudiziarie si presentava in
giacca e cravatta. Lasciata la
cella, a quarantadue anni
compiuti, trovò lavoro da un
fioraio, ma nel frattempo
riprese a frequentare gli amici
di sempre, malavitosi che dalle
rapine degli anni Sessanta
erano passati alla droga degli
Ottanta.
Guadagnavano tanti soldi, e
così anche Loria decise di
infilarsi nel commercio
dell'eroina. Prese a frequentare
con assiduità le zone di Acilia e
Ostia, spacciava droga e
intascava denaro, sempre di
più, una cosa che mai gli era
capitata prima. In breve tempo
cominciò a spendere destando
sorpresa e sospetti: comprò un
anello di brillanti, un'auto
nuova - una Simca 1100 - e
una moto giapponese
fiammante, una Suzuki 750. In
altrettanto breve tempo, però,
finì rinchiuso nel bagagliaio di
una macchina, a faccia in giù,
le gambe piegate all'indietro e
un foro nella testa provocato da
un proiettile sparato a
bruciapelo, coperto malamente
da un tappeto gettato sopra il
cadavere.
A trovare il corpo di Mario
Loria era stato un passante,
che il 18 settembre 1983 in
una strada di Vitinia, un paese
tra Roma e Ostia, verso le
cinque e mezza del pomeriggio
aveva visto quella A 112 con
delle macchie rossastre sulla
fiancata sinistra e sul paraurti
posteriore; su una ruota, poi,
continuava a scorrere un rivolo
che arrivava fino a terra, e che
sembrava proprio sangue. Il
passante chiamò il barista, il
quale avvisò i carabinieri.
Che l'ex «vivandiere» della
banda Cimino s'era riciclato nel
traffico di droga, i carabinieri lo
sapevano già; indagando sulla
sua morte, da fonti
confidenziali, vennero a sapere
anche perché era stato
ammazzato: Loria era entrato
in un giro di spacciatori che
serviva i quartieri di Acilia e
Ostia, secondo i confidenti
Mario non aveva versato ai suoi
fornitori i guadagni di una
partita di droga, e aveva
pagato lo «sgarro» con la vita.
Le zone dove «lavorava» il
morto erano naturalmente
sotto il rigido controllo della
banda della Magliana, e quando
decise di dire tutto ai giudici,
Claudio Sicilia raccontò anche
l'omicidio di Mario Loria. Spiegò
di aver saputo che l'ex bandito
vendeva «roba» sulla piazza di
Ostia «a prezzi molto
concorrenziali», e che per
questo infastidiva quelli della
banda. Tramite due fratelli che
lo conoscevano, Loria fu preso
in trappola a un appuntamento,
trasportato nella villa di
Vittorio Carnovale e ucciso a
colpi di pistola. Secondo Sicilia,
insieme al «coniglio» c'era pure
Gianni Girlando, il «roscio». (1)
Avevano eliminato un
concorrente e scritto un nuovo
capitolo di storia della malavita
romana; ma il protagonista,
Mario Loria, aveva già avuto il
suo spazio nel «romanzo nero»
della capitale, con la rapina di
via Gatteschi, quando l'Italia
intera ebbe un fremito d'orrore.

Anche Angelo De Angelis,


«er catena», aveva concluso la
sua carriera di spacciatore di
droga nel bagagliaio di un'auto,
la sua Fiat Panda trovata
semicarbonizzata vicino al
ristorante Il fico vecchio, dalle
parti di Grottaferrata. Era il 24
febbraio 1983, e De Angelis
risultava scomparso da due
settimane. Da quel che restava
di lui, i medici stabilirono che
era stato ucciso da due colpi di
pistola, calibro 7.65 e 38,
sparati al cuore e alla nuca.
«Er catena» era stato preso
alle dipendenze della banda
della Magliana con la funzione
di tenere i contatti col fornitore
di cocaina Manuel Fuentes
Cancino, il cileno. Sapeva di
fare un lavoro che comportava
dei rischi, e girava sempre
armato, la pistola nascosta in
una fondina sistemata alla
caviglia, e una volta in
macchina, mentre guidava,
partì un colpo che lo ferì a un
piede. Ma quell'incidente non fu
nulla in confronto a quanto gli
sarebbe accaduto quando fosse
inciampato nei controlli dei suoi
datori di lavoro.
Si accorsero che De Angelis
prendeva la «roba» dal cileno e
la «tagliava» trattenendone
una parte per sé, dato che era
diventato cocainomane. Il peso
della polvere alla fine era lo
stesso, ma la quantità molto
più bassa. «A fronte di questo
comportamento, da cui
derivava un danno a tutta
l'organizzazione, si decise di
sopprimere De Angelis, in
quanto non affidabile», ha
spiegato Maurizio Abbatino al
giudice.
«Crispino» era molto legato
al «catena», e fino all'ultimo si
diede da fare per salvarlo: «Ero
amico di De Angelis, la sua
famiglia usciva con la mia, e
cercai di rinviare l'esecuzione.
Tentai di fargli capire che
avevamo notato l'alterazione
della cocaina dicendogli che da
qualche tempo il Fuentes
Cancino non si comportava
bene, in modo che la smettesse
di appropriarsene. Ero convinto
che questo sarebbe bastato per
evitare che venisse ucciso, ma
Angelo non capì, e la sua
eliminazione non poté essere
evitata».
L'amicizia non impedì ad
Abbatino di partecipare
all'omicidio, consumato nel
1983 e confessato dieci anni
dopo.
Di solito De Angelis si
incontrava con gli altri della
banda di sera, al bar di via
Chiabrera o in casa di
qualcuno. Il 10 febbraio,
intorno all'ora di cena, bussò a
casa di Edoardo Toscano, ma la
moglie dell'«operaietto» gli
disse che erano tutti a casa di
Vittorio Carnovale, e che lo
stavano aspettando: così le
aveva ordinato di fare il marito.
De Angelis non sospettò
nulla, e andò alla villa del
«coniglio», dove, oltre al
padrone di casa, c'erano pure
Toscano e Abbatino. Carnovale
gli aprì il cancello, facendogli
parcheggiare l'auto davanti alla
porta di casa. Abbatino s'era
nascosto dietro l'uscio, e
appena «er catena» entrò tirò il
grilletto della sua 7.65, ma il
colpo non partì. Angelo sentì il
«clic» e si voltò di scatto, il suo
amico «crispino» gli sorrise: «Ti
ho fatto paura, eh?» In quel
momento nella stanza
comparve Toscano, e prima che
Angelo riuscisse a dire qualcosa
venne fulminato da un
proiettile calibro 38. Quando
«er catena» era già
stramazzato, gli spararono un
altro colpo con la pistola di
Abbatino. Il cadavere fu
caricato nella stessa Panda con
cui De Angelis s'era presentato
ai suoi assassini, che venne
nascosta dalle parti di
Ciampino.
«Qualche giorno dopo questi
fatti», continua il racconto di
Abbatino, «Manuel Fuentes
Cancino, che vantava dei
crediti nei confronti di De
Angelis per pregresse forniture
di eroina, venne da me e dal
Toscano per chiedere se fosse
vero che Angelo era stato
ucciso. Disse di averlo saputo
da una persona legata a
Gianfranco Urbani, 'er pantera'.
Non ricordo di aver dato
spiegazioni al Fuentes, ma ci
preoccupammo di chiarire col
'pantera' come non fosse il caso
che continuasse a parlare. Lo
incaricammo di far sparire
l'auto col cadavere,
coinvolgendolo in modo tale
che non potessero più costruire
un pericolo per noi le persone a
cui lui aveva riferito
dell'omicidio... Si procurò un
carro attrezzi, facendo
rimuovere la macchina. Non
ricordo per quale precisa
ragione l'abbia poi incendiata.»
(3)
Morì come uno spacciatore
qualunque macchiatosi di
qualche «sgarro», Angelo De
Angelis. Ma circolava da
qualche tempo negli ambienti
della malavita, e faceva anche
strani discorsi, dicendo che era
massone e che per questo
godeva di molte protezioni. Se
lo ricordò Antonio Mancini,
quando cominciò a pensare agli
ambigui personaggi che
circolavano intorno alla
«Magliana» e che forse
avevano interessi diversi dai
banditi come lui, venuti su
dalle «batterie» di quartiere.
«Per chiarire il mio sospetto
di essere stato
strumentalizzato e di essere
strumentalizzata l'intera banda
da organismi estranei alla
stessa», rivelerà al magistrato
l'«accattone», «parlando di
specifici episodi, posso dire che
sin dal 1976 Angelo De Angelis
mi parlava di massoneria,
argomento a me del tutto
estraneo. De Angelis mi diceva
di far parte di un gruppo
massonico a Roma, gruppo per
il quale agiva e riceveva
protezione a livello poliziesco e
processuale. Quando lo
raccontava, fermo il fatto che
Angioletto fece assai poco
carcere, io gli credevo in
quanto era persona di
un'ingenuità tale da essere
incapace di elaborare un
discorso di quel tipo se non
fosse stato vero.» (4)

Da tempo, ormai, il gruppo


di banditi originario della
Magliana - che morto
Giuseppucci s'era aggregato
intorno ad Abbatino e Colafigli,
ai quali s'erano aggiunti
Toscano e Mancini - aveva
deciso di arrivare alla resa dei
conti coi «testaccini», i quali
avevano perso Abbruciati
sull'asfalto di Milano e ora
erano guidati da «Renatino» De
Pedis. I contrasti risalivano alla
fine del 1981, quando fu
ammazzato Domenico Balducci
senza che Abbatino e gli altri
ne sapessero niente, ed erano
diventati insanabili dopo la
«missione» di Abbruciati a
Milano per l'attentato al
banchiere Roberto Rosone.
«I testaccini», ha spiegato ai
giudici Vittorio Carnovale, che
veniva dal gruppo di Acilia-
Ostia ma si era legato ai
«maglianesi», «intrattenevano
rapporti con altre
organizzazioni criminose dei
quali tenevano all'oscuro l'altra
parte della banda. Non solo;
non sempre dividevano i
proventi delle attività
delinquenziali in modo equo,
tale da garantire la piena
assistenza ai detenuti.» (5)
Colafigli e Mancini, ad
esempio, erano in carcere da
più di un anno per l'agguato di
via Donna Olimpia ai fratelli
Proietti, un'azione che
rientrava in quel piano di
vendetta contro gli assassini di
Giuseppucci che aveva
cementato l'unione tra le due
anime della banda. Ebbene,
secondo i loro amici i
«testaccini» non rispettavano
l'obbligo di aiutare i due
compagni.
Ma i propositi di vendetta
del gruppo di Abbatino contro
De Pedis e gli altri non
ostacolavano gli affari in
comune, soprattutto nel traffico
di droga. «Il fatto che noi
avessimo deciso di eliminarli»,
confesserà «crispino», «non ci
impediva di continuare con loro
il traffico degli stupefacenti,
come se niente fosse.»
Mentre i due gruppi si
studiavano a vicenda,
aspettando il momento
opportuno per risolvere i
contrasti a colpi di pistola, sulla
banda si abbatté l'ondata di
arresti dovuta alle prime
confessioni di Fulvio Lucioli,
arrestato e deciso a collaborare
coi giudici per rifarsi una vita.
Quasi tutti i leader finirono in
carcere, e si arrivò a un
processo che si concluse nel
1986. Nelle gabbie, durante le
udienze, gli imputati avevano
modo di parlarsi e scontrarsi.
Discorsi spesso tesi, a
testimonianza che la rottura
era ormai senza ritorno.
A «Renatino» De Pedis,
proprio durante il processo,
Mancini e Toscano
rimproverarono di aver preso
un avvocato di piccolo calibro,
lui che con tutti i soldi che
aveva poteva scegliere i
migliori. Ma quello rispose che
il processo «l'aveva già fatto
fuori», «in corridoio», e che
l'avvocato in aula non gli
serviva; intendeva dire che la
sua posizione era già al sicuro,
sistemata attraverso la
corruzione, e questo convinse
una volta di più i «maglianesi»
che dei «testaccini» non ci si
poteva fidare. «I processi li fate
in corridoio solo per voi, non
per tutti», rinfacciò Edoardo a
«Renatino».
E quando De Pedis, sempre
durante il processo, propose un
piano di evasione fin troppo
facile a Toscano e Mancini -
una fuga durante il
trasferimento dall'aula
d'udienza al carcere -
l'«operaietto» e l'«accattone»
rifiutarono. Come loro volevano
ammazzare gli altri, così erano
certi che gli altri volessero
ammazzare loro, e dietro quella
proposta poteva nascondersi
una trappola. L'insistenza di
«Renatino» aveva convinto
Toscano che una volta fuori
l'avrebbero eliminato
immediatamente, mentre
Mancini stava aspettando la
concessione di qualche
beneficio di legge, e non se la
sentì di mandare tutto all'aria
con un tentativo di evasione
che se fosse andato male gli si
poteva ritorcere contro.
Chi decise di approfittarne,
invece, fu Vittorio Carnovale,
che si ritrovò libero quasi senza
accorgersene. Per lui il pubblico
ministero aveva appena chiesto
il carcere a vita: «Il rischio,
comunque minimo, di essere
ammazzato veniva ampiamente
bilanciato dalla possibilità di
riacquistare la libertà prima
della condanna all'ergastolo che
mi appariva ineludibile.» (7)
De Pedis aveva spiegato il
piano: a chi doveva evadere
non sarebbero stati messi, alla
fine dell'udienza, gli
schiavettoni, ma le semplici
manette, in modo da non
essere legato con le catene agli
altri detenuti; per evadere
bisognava solo nascondersi nel
sottoscala, far passare tutti gli
altri, e poi risalire in aula, dove
qualcun altro avrebbe pensato
al resto.
Andò tutto come previsto,
cioè come ha raccontato, sette
anni più tardi, proprio Vittorio
Carnovale: «Alla fine
dell'udienza, intorno alle
diciassette, io venni
ammanettato come d'accordo:
ricordo che le manette mi
vennero 'appoggiate', erano
cioè state lasciate talmente
larghe che avrei potuto
sfilarmele da solo. Scesi le
scale che dall'aula Occorsio
conducono ai sotterranei e
scivolai nel sottoscala, mentre
gli altri detenuti e la scorta dei
carabinieri si avviavano lungo il
corridoio. Attesi brevemente
che il convoglio si allontanasse
e risalii le scale rientrando
nell'aula, dove due persone mi
attendevano; si trattava di un
uomo sui trentacinque anni, un
poco più basso di me, moro, di
bell'aspetto, atletico, vestito
sportivamente, e di una donna
piuttosto bassa, rossa di capelli
e alquanto bruttina. I due
avevano sia le chiavi delle
manette che quelle dei cancelli.
Mi tolsero le manette, mi
affiancarono e così uscimmo in
maniera disinvolta dal
tribunale, sotto gli occhi di
alcuni poliziotti in borghese i
quali ci guardarono con un
certo sospetto. Fuori dal
tribunale ci attendeva una
vettura, se mal non ricordo una
Renault 5, condotta da un altro
uomo, più anziano degli altri
due, calvo».
Fuori dal tribunale, però,
non aspettavano il «coniglio»,
ma Edoardo Toscano:
«Renatino» non aveva fatto in
tempo ad avvisare del rifiuto
dell'«operaietto». «Salito in
auto», ha continuato l'evaso,
«quando mi chiesero 'Come va,
Edoardo?' dissi subito, a scanso
di equivoci, di essere Vittorio
Carnovale. I tre, appreso che
non ero Toscano, cambiarono
atteggiamento nei miei
confronti, chiedendomi
nervosamente dove dovessero
scaricarmi: sembravano
avessero fretta di sbarazzarsi
della mia presenza.» (8)
In molti attribuirono quella
fuga indisturbata a un
intervento dei Servizi segreti,
compresi i «bravi ragazzi».
«Parlando tra noi», ammetterà
proprio Carnovale, «io, Edoardo
e Antonio Mancini avevamo
preso in considerazione l'ipotesi
che l'evasione potesse essere
stata organizzata da qualche
Servizio.» (9)

Finito in carcere dopo che i


poliziotti avevano pedinato la
sua giovane amante, Maurizio
Abbatino scoprì di non essere
più un capo. O meglio, che chi
un giorno lo considerava uno
dei capi non si fidava più di lui.
E che quindi lui non si poteva
più fidare.
A Rebibbia c'era pure
«Marcellone» Colafigli; con
«crispino» aveva il divieto di
incontro, ma riuscì a mandargli
una lettera attraverso lo
«spesino», il detenuto che
distribuisce la spesa nelle varie
celle. Usava un tono scherzoso,
Colafigli, ma in quel pezzo di
carta c'era scritto che Abbatino
e gli altri non s'erano dati da
fare abbastanza per fargli
ottenere l'infermità mentale, e
questo lui non lo dimenticava.
Poi i due riuscirono a
incontrarsi nel reparto
ospedaliero del carcere:
Marcello rimase freddo con
Maurizio, e ogni volta che
questo cercava di arrivare a un
chiarimento quello si rifiutava.
Dopo un po', nello stesso
reparto, arrivò anche Edoardo
Toscano, l'amico inseparabile di
Abbatino, arrestato con
«crispino» nello stesso
appartamento; i due si
parlarono attraverso le finestre
dell'infermeria, ed Edoardo
ribadì che Colafigli ce l'aveva
con loro perché s'era sentito
abbandonato. Solo che poco
dopo Toscano finì nella cella di
«Marcellone» e riuscì a chiarire
ogni cosa, mentre Abbatino
continuò a essere considerato
un traditore.
«Né Edoardo fece nulla per
tranquillizzare Colafigli sul mio
conto», ricorderà poi Abbatino,
«in quanto subentrò da parte
sua nei miei confronti un certo
livore, essendo io riuscito a
farmi ricoverare in clinica. In
particolare, sull'atteggiamento
del Toscano influì la moglie, la
quale riteneva privilegiata la
mia famiglia per le maggiori
possibilità di incontri con me
rispetto a quelli che poteva
avere lei col marito. D'altra
parte al Toscano non era
piaciuto che io avessi speso
circa trenta milioni che
appartenevano
all'organizzazione per
acquistare uno strumento che
doveva servire ad applicarmi
un pacemaker.» (10)
Abbatino si sforzava di far
capire agli altri che la cosa
migliore era che lui riuscisse
non a evadere - che poi si
sarebbe trovato con la polizia
alle calcagna -, ma a farsi
scarcerare regolarmente per
motivi di salute, in modo da
poter riprendere in mano le fila
dell'organizzazione, gestire in
maniera oculata gli affari della
banda e occuparsi
adeguatamente dei detenuti
per farli uscire di galera. Gli
amici però non ne vollero
sapere, ormai Maurizio aveva
rotto, ai loro occhi, i vincoli di
solidarietà.
Secondo le regole interne,
non solo c'era l'obbligo del
mutuo soccorso verso i detenuti
e i loro familiari - oltre alla
«stecca», cioè la percentuale di
guadagni sugli affari che
andavano avanti, bisognava
garantire la «settimana», una
sorta di stipendio che
permettesse di conservare lo
stesso tenore di vita a chi finiva
in galera e alla sua famiglia -; i
«bravi ragazzi» che si
ritrovavano dietro le sbarre
dovevano anche attenersi a un
«codice di comportamento».
Il primo punto era quello di
non «scendere a patti di alcun
genere con il personale
carcerario»; ufficialmente, si
intende, perché poi guardie,
infermieri e tutti coloro che era
possibile «avvicinare» venivano
regolarmente contattati e
retribuiti per ottenere
trattamenti di favore. Ma era
vietato accettare le regole della
legge e del carcere, per cui non
si potevano chiedere attestati
di buona condotta, permessi e
licenze. Inoltre, in ogni
momento il detenuto della
banda doveva avere in testa
l'obiettivo dell'evasione: tutto
andava finalizzato alla fuga, e
quando Gianni Girlando, «il
roscio», non solo ottenne un
permesso, ma alla sua
scadenza ritornò
disciplinatamente in cella
anziché darsi alla latitanza, fu
guardato con sospetto dagli
amici. La stessa cosa stava
accadendo, ora, con Abbatino.
«Si determinò una mia
progressiva emarginazione
dalla banda», ha spiegato
«crispino», «dovuta anche al
fatto che probabilmente chi
aveva in mano la gestione delle
lucrose attività 'sociali', aveva
tutto l'interesse ad aggravare
la mia posizione agli occhi dei
detenuti, in quanto riteneva
ingombrante una mia presenza
all'esterno del carcere. In
pratica, se io fossi uscito
regolarmente dal carcere, la
direzione delle attività sarebbe
tornata saldamente in mano
alla 'vecchia guardia'.» (11)
Tra quelli che, fuori,
avevano approfittato della
momentanea decapitazione
della banda, c'era pure Claudio
Sicilia, il quale dal suo «ufficio»
di via Chiabrera e poi dalla
nuova casa di via Balzac,
all'Eur, aveva preso a dirigere i
traffici di droga: «Lui vedeva
assai male la possibilità di
tornare a svolgere il ruolo,
importante ma pur sempre di
gregario, che gli era proprio
prima della cattura mia e di
Edoardo Toscano».
In fondo i voltafaccia non
erano una novità, e il
«vesuviano» pensò bene di
presentarsi ai «testaccini» e
denunciare loro i propositi di
guerra di Abbatino e compagni.
A De Pedis Sicilia raccontò che
quelli della Magliana avevano
deciso di farli fuori uno a uno:
«In un primo tempo li
consigliavo genericamente di
stare attenti, di circolare con le
macchine blindate, di non stare
in mezzo alla piazza di
Testaccio e di guardarsi bene le
spalle. Poi, nel 1984, appena
uscito dagli arresti domiciliari,
ebbi un incontro a casa di mia
suocera con De Pedis, latitante,
e con Carminati; in questa
occasione fui più esplicito sulle
intenzioni di quelli della
Magliana, e De Pedis mi disse di
averlo già capito a suo tempo
dagli avvertimenti che gli
avevo dato».
Per i suoi «consigli», Sicilia
fu ampiamente ricompensato
da «Renatino» e gli altri del
Testaccio: orologi, bracciali e
catene d'oro, anfore antiche,
dollari in contanti, biciclette per
i bambini, abiti in pelle, e la
garanzia di rifornire di frutta il
ristorante di Trastevere gestito
da De Pedis. Ma anche quelli
della Magliana pensarono di
ricompensare il «vesuviano»: il
23 marzo del 1986 mandarono
un sicario a sparargli, in mezzo
alla strada, in pieno giorno.
Sicilia non morì, rimase in
coma per alcune settimane con
una pallottola in testa, ma alla
fine riuscì a cavarsela.
Ormai, fra quei tanti rivoli in
cui si stava sciogliendo la
banda della Magliana, la resa
dei conti non era più rinviabile.
A dar retta ai referti medici,
Maurizio Abbatino, detenuto
agli arresti domiciliari in una
clinica privata dell'Eur, aveva
un tumore addirittura in fase
terminale. Ma nella sua stanza,
piantonata dai poliziotti senza
troppo impegno, il bandito della
Magliana pensava al suo futuro.
Lui sapeva di non essere
malato, e che anzi, prima
usciva da lì e maggiori
possibilità avrebbe avuto di
salvarsi la vita. Perché fuori gli
amici di un tempo lo stavano
abbandonando; perché il suo
carisma all'interno della banda
si stava consumando
velocemente, mentre
aumentavano i contrasti;
perché in clinica non erano
disposti a tenerlo ancora a
lungo.
I suoi complici non gli
passavano più né «stecche» né
«settimane», e per pagarsi la
degenza «crispino» fu costretto
a consumare i risparmi e a
vendere ciò che aveva: le
automobili, la Saab e il Blazer
5700, le moto, il gommone. Le
perizie e i certificati
compiacenti costavano, così
come il silenzio dei medici che
coprivano le sue false malattie,
entro breve tempo non ce
l'avrebbe fatta più a sostenere
le spese. Ai processi le cose
non si stavano mettendo bene,
e anche l'idea di una
scarcerazione «regolare», cioè
per ordine del giudice, si
allontanava giorno dopo giorno.
Fu così che Maurizio Abbatino
decise di evadere; ma con un
piano solitario, senza avvisare
nessuno della banda.
L'unico che forse l'avrebbe
capito era Edoardo Toscano, ma
stava in galera e aveva i suoi
problemi. Degli altri, Abbatino
non volle sapere niente.
Progettò tutto insieme al
fratello, Roberto, un ragazzo di
ventinove anni che fino a quel
momento era rimasto fuori dal
«giro» di Maurizio e che
l'avrebbe aiutato facendo
ricorso a persone di tutt'altro
ambiente. L'idea del posto dove
andare, invece, era venuta da
uno dei medici che inventava le
sue malattie: «Vattene in Sud
America», gli aveva detto.
Arrivarono a pochi giorni
prima del Natale del 1986, poi
il piano scattò. Non ci fu
bisogno di corrompere gli
agenti che piantonavano la
stanza: quelli erano convinti
che Abbatino fosse davvero
affetto da un tumore e
paralizzato alle gambe come
diceva, e si limitavano a
stazionare fuori dalla porta
chiusa dopo aver dato
un'occhiata per controllare che
il detenuto fosse a letto.
La sera del 20 dicembre,
Maurizio diede la buonanotte a
infermieri e poliziotti, poi -
come sempre - si coricò. Ma
alle quattro era di nuovo in
piedi. Si vestì in fretta, sistemò
il cestino dei rifiuti e un cuscino
sotto alle coperte, in modo che
a un controllo distratto potesse
sembrare ancora a letto. La sua
stanza era al primo piano, a
pochi metri da terra: il più
classico dei sistemi d'evasione
funzionò come in un film, e con
un lenzuolo legato alla finestra
si calò nel cortile della clinica.
Scavalcò l'inferriata di
recinzione, che era bassa e non
era certo stata costruita per
bloccare prigionieri con progetti
di fuga; ormai era in strada, e
velocemente, anche se un po' a
fatica a causa dei mesi in cui
era stato immobile per simulare
la paralisi, arrivò all'auto sulla
quale l'aspettava il fratello.
Roberto l'accompagnò da un
amico, che aveva accettato di
prendere in casa Maurizio per
qualche tempo senza sapere
che fosse un fuggiasco. «Si
trattava di un uomo diviso dalla
moglie», ha ricordato Abbatino
davanti al magistrato, «il quale
viveva solo e non si pose
problemi a ospitarmi. Restai
suo ospite per un mese: l'uomo
usciva tutte le mattine presto e
rientrava la sera, per cui non si
accorse mai che durante il
giorno io non uscivo. Mio
fratello veniva tutti i giorni a
trovarmi, e in occasione di una
visita mi fece delle foto Polaroid
uso tessera, in modo da
procurarmi un passaporto. Egli
non era coinvolto in vicende
criminali e il giro delle sue
amicizie era di incensurati,
pertanto fu a uno di loro che
sottrasse il passaporto e la
carta d'identità, che falsificò
grossolanamente apponendovi
la mia foto, addirittura con gli
occhiali, e ricalcando i timbri a
secco.» (14)
Ma «crispino» non si fidava
di usare quei documenti per
uscire dall'Italia. A Roma era
fin troppo conosciuto da Polizia
e Carabinieri, e decise che
avrebbe raggiunto l'America del
Sud dalla Svizzera. Un giorno
di fine gennaio, quando tutto fu
pronto e poté finalmente
abbandonare il suo rifugio,
Maurizio si fece accompagnare
al di là delle Alpi da un altro
amico di Roberto. Andarono in
macchina, e al posto di
frontiera Abbatino si presentò
bardato in abiti da sci, con lo
«zuccotto» di lana calato sulla
fronte e gli occhiali da sole a
coprire il viso. Non lo riconobbe
nessuno, e arrivato a Ginevra
si imbarcò senza problemi per
Rio de Janeiro, da dove
avrebbe poi raggiunto il
Venezuela. Il piano d'evasione
aveva funzionato alla
perfezione, Maurizio Abbatino
era riuscito a fuggire: dalla
giustizia italiana e dai suoi
amici della banda della
Magliana.

Nell'aria di guerra interna


che si respirava, Fabiola
Moretti e Antonio Mancini,
l'«accattone», che aveva preso
il posto di Abbruciati nel cuore
della ragazza dopo la morte di
Danilo, cercarono di
barcamenarsi a causa dei
legami che continuavano ad
avere sia con gli uni che con gli
altri.
Colafigli e Toscano
accusavano De Pedis di non
aiutarli adeguatamente, e
pretendevano le loro parti di
guadagno sugli affari di
«Renatino»; «Marcellone», dal
carcere, inviò un suo amico di
Primavalle da un altro
«testaccino» che gestiva le sale
giochi di quel quartiere,
minacciandolo se non avesse
accettato di «steccare» con lui i
suoi guadagni.
In carcere Antonio Mancini
venne a sapere dei piani di
morte dei suoi amici, e tentò di
intervenire: «Colafigli e
Toscano avevano deciso di far
fuori 'Renatino'. Io, siccome De
Pedis, attraverso Fabiola
Moretti, provvedeva alle mie
esigenze e a quelle della stessa
Moretti, mi ero intromesso tra
gli uni e l'altro, per evitare che
a De Pedis potesse accadere
qualcosa». (15)
Da quando era diventata la
sua donna, l'«accattone» aveva
voluto che Fabiola non
vendesse più la droga, e per
questo De Pedis cominciò a
passare la «settimana» per lei
e per Mancini. Il fatto suscitò
gelosie e rimostranze nelle
altre donne, che invece
riscuotevano i soldi da Claudio
Sicilia, giudicato troppo
parsimonioso rispetto a De
Pedis. Arrestato «Renatino»,
anche la Moretti si rivolse a
Sicilia, ma De Pedis continuò a
farle arrivare altro denaro
attraverso i suoi
«luogotenenti».
Era stata Fabiola a chiedere
a Mancini di intervenire in
favore di De Pedis; a
«Renatino» scrisse anche una
lettera in carcere, avvisandolo
dei rischi che correva. La
ragazza portò cinque milioni di
De Pedis alla moglie di Toscano,
per provare a tacitare le
richieste di quelli che stavano
dietro le sbarre, e cercò fino
all'ultimo di ricucire lo strappo
tra gli amici di un tempo. Ma
non ci fu niente da fare. Una
sua temporanea rottura con
Mancini fu addirittura utilizzata
da «Marcellone» e
l'«operaietto» per mettere
l'«accattone» contro De Pedis:
«Gli attribuivano la colpa del
fatto che io avessi lasciato
Antonio», ricorderà Fabiola
Moretti, «ma si trattava di un
pretesto. 'Renatino' e Antonio
avevano infatti avuto modo di
chiarirsi, e il primo aveva
spiegato al secondo le ragioni
per cui io non volevo più stare
con lui. In realtà quello a cui
miravano i due erano i soldi di
'Renatino'». (16)
Il capo dei 'testaccini' non
voleva saperne di continuare a
versare denaro a quei due
carcerati e mettersi a
«steccare» con loro. Non
doveva nulla a nessuno, diceva,
perché fino a quel momento i
guadagni della banda erano
sempre stati divisi alla pari, e
se lui aveva fatto fruttare i
soldi mentre gli altri se li erano
mangiati non poteva farci nulla.
«E poi», disse una volta a
Fabiola, «se gliela do vinta
adesso, finisce che quelli
pretenderanno che io gli allacci
pure le scarpe.» Ma «quelli»,
dall'altra parte, insistevano, e
la situazione era giunta a un
punto che ormai potevano
parlare solo le pistole.
Edoardo Toscano, classe
1953, detto l'«operaietto»
perché si industriava sempre e
dimostrava di sapersela cavare
in ogni circostanza, prima
segnalazione per furto a
diciotto anni non ancora
compiuti, primo arresto per
rapina e tentato omicidio a
ventidue, considerato dagli
amici uno «studioso di
criminalità» perché si
informava su tutti i delitti che
avvenivano non solo in Italia e
sui modi per sottrarsi alla
giustizia; piccolo di statura,
naso ingombrante e occhi un
po' in fuori, uscì di galera, in
libertà provvisoria, la mattina
del 13 febbraio 1989. Aveva
trentacinque anni e mezzo, e
una gran voglia di ammazzare
il suo ex amico De Pedis prima
di fuggire all'estero.
«'Renatino'», continua il
racconto della Moretti, «venne
a sapere che Edoardo lo
cercava e ritenne di doverlo
uccidere, in quanto altrimenti
sarebbe stato ucciso lui.
Sapendo che Bruno Tosoni
'reggeva' i soldi di Toscano,
circa cinquanta milioni di lire,
offrì a costui una somma di altri
cinquanta milioni perché
attirasse Toscano in
un'imboscata. L'incarico di
uccidere Toscano venne dato da
'Renatino' a 'Cileno' e a
'Ruffetto'... Anche in altre
occasioni 'Rufetto' era stato
usato come killer dai
testaccini.» (17)
Si stava riproducendo,
inesorabile, il meccanismo di
qualche anno prima con
Nicolino Selis e i suoi amici,
quando i complici di un tempo
si cercavano per ammazzarsi.
La mattina del 16 marzo,
quando era libero e stava sulle
tracce di De Pedis già da un
mese, Edoardo Toscano andò a
Ostia. Lì, poco prima di
mezzogiorno, aveva
appuntamento con il suo
«cassiere»: quel Bruno Tosoni,
occupazione panettiere, che a
cinquantadue anni aveva sì la
qualifica di «sorvegliato
speciale», ma era riuscito a
contenere le noie con la
giustizia. Bruno, baffoni alla
Stalin e capelli imbiancati sulle
tempie, gestiva due panifici,
uno dei quali nella
centralissima via della Marina,
tra una pizzeria e un negozio di
lingerie e costumi da bagno.
Edoardo arrivò al panificio,
Bruno uscì e i due si misero a
parlare sul marciapiede, sotto
un sole pallido: Tosoni con le
spalle alle vetrine, Toscano di
fronte a lui, spalle alla strada.
Stavano discutendo da qualche
minuto quando dietro a
Edoardo comparve il suo
assassino: tre colpi di pistola,
altrettanti lampi, un proiettile
nel cranio e uno nel torace; il
boss della Magliana cadde sui
vasi di oleandri che era già
morto, si dovette aspettare
l'arrivo dei poliziotti perché
qualcuno gli chiudesse gli occhi
e lo coprisse con un lenzuolo.
A esecuzione avvenuta il
killer era scomparso a bordo
della solita moto rombante con
complice protetto dal casco
integrale. Bruno Tosoni rimase
ferito di striscio a un piede, lo
portarono in ospedale, guarì in
trenta giorni. Dovette
sostenere gli interrogatori dei
poliziotti e del giudice, ma
anche degli amici
dell'«operaietto» che s'erano
già messi a caccia di chi l'aveva
ammazzato.
Andò il «coniglio», Vittorio
Carnovale: «Dopo l'omicidio di
Edoardo, quando Tosoni uscì
dall'ospedale, io e Mancone ci
recammo da lui per chiedergli
come e chi avesse fatto 'la
carica'. Tosoni ci descrisse la
persona che aveva sparato: un
uomo robusto, con capelli
lunghi che secondo lui erano
una parrucca, che zoppicava.
Secondo quanto ci disse Tosoni
questa persona attraversò la
strada proveniente dalla banca,
Edoardo l'aveva di spalle
mentre lui se l'era trovato di
fronte, sicché l'aveva notata...
Ci disse che dopo che l'uomo
aveva sparato era fuggito a
bordo di una moto sopraggiunta
nel frattempo. A dire del
Tosoni, il quale fu molto
evasivo, il conducente della
moto aveva il casco ed egli non
aveva mai visto prima la
persona che aveva sparato».
Due giorni prima di morire,
nell'aula della Corte d'Assise
d'appello dove era stato assolto
come gli altri imputati della
banda, Edoardo aveva
incontrato il suo amico
Colafigli. Gli disse che avrebbe
chiarito tutto con le persone
che avevano degli obblighi nei
suoi confronti: non fece in
tempo, oppure il chiarimento
non fu sufficiente.
Undici mesi più tardi, all'ora
di pranzo di venerdì 2 febbraio
1990, la morte arrivò nel cuore
di Roma. In via del Pellegrino,
a poche decine di metri da
piazza Campo de' Fiori, ancora
piena dei rumori e dei colori del
mercato rionale. Accadde
all'improvviso.
«Ho sentito un gran botto»,
raccontò l'inquilina del primo
piano di un vecchio palazzo di
via del Pellegrino al cronista di
un quotidiano romano, «mi
sono affacciata e ho visto
quell'uomo per terra con il
sangue che gli usciva dalla
bocca. Il motorino era con le
ruote per aria. Il botto era
stato preceduto da un paio di
spari.» (19)
L'uomo col sangue che
usciva dalla bocca era Enrico
De Pedis, trentasei anni da
compiere il 15 maggio, come
era scritto sulla carta d'identità,
accanto a una foto in cui
appariva elegante e pettinato
con cura, capelli con la
scriminatura a sinistra, giacca,
cravatta e colletto inamidato.
L'avevano abbattuto mentre se
ne stava andando col suo
motorino, un Honda bianco che
dopo i due colpi di pistola aveva
proseguito a zig zag per
cinquanta metri, come fosse
guidato da un ubriaco, prima di
schiantarsi contro un'auto
parcheggiata.
I killer erano scappati in
moto, di fronte al luogo
dell'agguato c'era un bar, ma
come sempre nessuno aveva
visto niente. «C'è stato un
fuggi fuggi generale», raccontò
il barista.
Il capo dei «testaccini» era
morto così, fulminato dopo un
appuntamento e un incontro
nel quale tutto sembrava
essere andato come previsto,
anche se forse era volata
qualche parola di troppo. Era
arrivato in via del Pellegrino
per trattare con un
commerciante l'acquisto di
alcuni preziosi. Conclusa la
discussione, salì sul motorino
per andarsene, e a quel punto
entrarono in scena i killer che
con due colpi secchi
vendicarono Edoardo Toscano e
tutti gli «sgarri» che venivano
imputati a «Renatino».
Quando fu assassinato,
Enrico De Pedis aveva assunto
un «ruolo centrale all'interno
dell''anima finanziaria'
dell'associazione:
rappresentava il fondamentale
elemento di collegamento e
punto di riferimento tra i vari
De Tomasi, Serafini, Nicoletti,
Vitale» e una lunga sequela di
altri nomi. (20)
Cinque mesi prima della sua
morte, la Squadra Mobile di
Roma aveva presentato un
rapporto nel quale si parlava
della «mafia dei colletti
bianchi» nella capitale, che -
aveva scritto il dirigente -
«cura interessi macroscopici,
concentrandosi soprattutto sul
riciclaggio del denaro sporco
con il sistema ormai collaudato
delle società di comodo.» E al
centro del rapporto c'era
proprio lui, Enrico De Pedis:
«Pur risultando nullatenente»,
accusava la Squadra Mobile,
«gestisce indirettamente
esercizi commerciali della
capitale nei quali ha investito i
proventi delle sue illecite
attività. La rilevanza della sua
posizione in seno a
organizzazioni criminose e la
sua riconosciuta abilità fa sì che
lo stesso venga contattato dalla
mafia siciliana, che lo ritiene
all'altezza di rappresentarla nel
traffico di droga dalla Sicilia a
Roma... Il 'cinese pentito' Koh
Bak Kin lo indica come
intermediario di un traffico
dall'Estremo Oriente alla
Sicilia». (21)
Ristoranti a Trastevere e nel
centro di Roma, negozi e
imprese edili risultavano
intestate ai parenti di De Pedis,
compresa la madre Edda,
amministratore unico della
Edda Prima, sede nella sua casa
della Magliana, una società
dedita «all'acquisto e vendita di
beni immobili, rustici e urbani,
loro rifacimento e nuove
costruzioni». «Venivano altresì
acquisite notizie», continuava il
rapporto, «che l'Enrico De Pedis
e il Giuseppe Sergio De Tomasi
avevano rilevato il noto locale
notturno Jackie 'O sito in via
Boncompagni nonché, in
esclusiva, la boutique Coveri di
questa città.»
In molti lo conoscevano
come il nuovo «re» dell'usura e
del gioco d'azzardo, ma anche
come uno sospettato di avere
stretti legami coi Servizi
segreti: a parte l'evasione
organizzata dal tribunale, s'era
adoperato per far trasferire
poliziotti e carabinieri troppo
tenaci nelle indagini. Antonio
Mancini aveva cominciato a
frequentarlo quasi
quotidianamente, e la
domenica mattina «Renatino»
passava a prenderlo a casa per
portarlo a colazione in una
pasticceria di Testaccio.
«Vi era anche una ragione
precisa», spiegherà
«l'accattone» a un magistrato,
«che mi induceva a stare con
De Pedis: si diceva che egli
avesse preso il posto di
Giuseppucci nei contatti di un
certo livello. Intendo dire non i
contatti con persone della
malavita, che erano piuttosto
normali, ma contatti con organi
dello Stato, con funzionari di
questa o quella Polizia. Quando
mi riferisco a questi contatti,
non intendo affatto dire che De
Pedis fornisse informazioni alla
Polizia, bensì esattamente il
contrario, e cioè che De Pedis
riusciva a ottenere notizie da
organi e funzionari dello Stato
circa operazioni o
provvedimenti che si dovevano
adottare. In particolare si
diceva che De Pedis fosse in
contatto con uno della Digos di
Roma, dal quale riceveva
importanti o utili informazioni.
Veniva così a sapere con
congruo anticipo se eravamo
seguiti, e che intenzioni
avessero gli organi di Polizia
nei nostri confronti.»
Con gli amici era lo stesso
«Renatino» a vantarsi delle
conoscenze che aveva «in
alto», ma quel venerdì mattina,
a Campo de' Fiori, non poté
fare nulla contro chi aveva
l'ordine di toglierlo dal mondo.
Cinque giorni prima, il 28
gennaio, erano arrivati a Roma
due malavitosi toscani, Dante
Del Santo - chiamato «il
cinghiale», di Massa Carrara,
con lunghi trascorsi nei
manicomi criminali - e il suo
amico Alessio Gozzani. A
Fiumicino vennero controllati
da una pattuglia della «Polaria»
insieme a Libero Mancone, ma
risultarono «puliti» e furono
rilasciati. Nella capitale
dovevano semplicemente
rifornirsi di cocaina da quelli
della Magliana, ma due killer
«esterni» potevano tornare
utili, e finirono per essere
coinvolti nell'omicidio di De
Pedis.
Al giudice istruttore, nel
1993, l'ha svelato, dopo alcune
titubanze, Vittorio Carnovale
raccontando che da Enrico
Nicoletti, uno degli imprenditori
legati a De Pedis, lui e gli altri
amici vennero a sapere che
«Renatino» stava trattando un
affare con Angelo Angelotti:
«Io e Marcello Colafigli, il quale
era già amico di vecchia data di
Angelotti, contattammo
quest'ultimo che ci confermò la
trattativa in corso e che,
soprattutto, ci informò la
mattina dell'omicidio che
proprio quel giorno aveva un
appuntamento con De Pedis.
Quando giunsero a Roma Del
Santo e Gozzani, eravamo in
attesa di sapere quando
dovesse avvenire l'incontro tra
De Pedis e Angelotti, per cui
informammo del lavoro che
stavamo facendo i predetti
Gozzani e Del Santo, i quali si
offrirono di partecipare anche
loro... Chi sparò fu Del Santo».
(24)
Per gli investigatori fu fin
troppo logico collegare
l'assassinio di De Pedis con
quello di Toscano e inserirlo
nella faida tra i compari di un
tempo, «testaccini» e
«maglianesi». Per questo,
quando a luglio fu riacciuffato
l'evaso Colafigli, il pubblico
ministero gli chiese conto di
quel delitto. «Vorrei che lei
capisse», rispose «Marcellone»,
«che chi vorrebbero
ammazzare è il sottoscritto.
Sono certo di ciò dal momento
che mi pedinavano e mi si
appostavano sotto casa... Il
giorno che fu ammazzato De
Pedis ero da un mio parente qui
a Roma, anzi vicino Rieti.»
Il magistrato gli ricordò la
sua amicizia con Edoardo
Toscano, probabile vittima di
«Renatino», ma Colafigli
replicò: «Ma io sono anche
amico di Renatino. L'ho
conosciuto tramite Franco
Giuseppucci che era amico di
entrambi, poi Franco è morto,
io ho ammazzato 'il pescetto'
per vendicarlo, e da allora sono
rimasto legato a De Pedis, con
cui ho avuto degli incontri in
carcere... Quando sono uscito
da Reggio Emilia non ho avuto
modo di incontrarlo».
A «Renatino» era rimasto
legato Raffaele Pernasetti,
chiamato «er palletta», che
aveva dei buoni motivi per
temere anche lui una vendetta.
Sul suo conto Colafigli disse:
«Ho avuto modo di incontrare
Raffaele Pernasetti in questi
ultimi giorni proprio per dirgli
che non avevo nulla contro di
lui. L'ho incontrato a Testaccio,
da Augustarello, un ristorante.
Non avrei mangiato con
Raffaele né con nessun altro,
l'ho incontrato davanti al
locale. E' stata una persona
cara di cui non voglio fare il
nome e di cui mi fido che mi ha
detto che l'avremmo potuto
incontrare in questo posto, e
così è stato. Raffaele non è
male, l'ho visto sincero nel
dirmi che non c'era niente, lui
si è informato se mi serviva
qualcosa e io gli ho detto di
no».

Roberto Abbatino era uscito


dalla sua casa di Acilia verso
mezzogiorno di domenica 18
marzo, un mese e mezzo dopo
l'omicidio De Pedis. «Torno a
pranzo», aveva detto alla
moglie. Poi era salito sulla sua
Peugeot 205 e se n'era andato,
senza dire dove.
Passò l'ora di pranzo, la
domenica, il lunedì, e quasi
l'intera settimana finché, nella
notte tra venerdì e sabato, la
signora Cinzia, moglie di
Roberto, impiegata di
un'azienda elettrica, si decise a
presentarsi ai carabinieri per
denunciare la scomparsa del
marito. Negli archivi dell'Arma,
su Roberto Abbatino - capelli
ricci, occhi scuri e sguardo
sfrontato - c'erano poche
annotazioni: un po' di cocaina
trovata in casa quattro anni
prima, ma era la «modica
quantità» consentita dalla
legge; una denuncia per
tentata estorsione. In realtà
Roberto era noto soprattutto
per il cognome e per essere
fratello di quel Maurizio
Abbatino, lui sì con un lungo
elenco di precedenti penali,
evaso e ricercato da oltre tre
anni. Ufficialmente Roberto
faceva il venditore di souvenir
per turisti davanti alla basilica
di San Paolo, ma alla
bancarella non lo vedevano da
mesi.
Lo cercarono per due giorni,
e a trovarlo - lunedì 26 marzo -
fu un pescatore che si trovava
sul Tevere, all'altezza di
Vitinia: dal fiume vide affiorare
un cadavere, avvertì i
Carabinieri che, accorsi sul
posto, identificarono Roberto
Abbatino, il corpo pieno di
ferite e il petto squarciato dalla
coltellata finale. Erano almeno
trenta i tagli che avevano
devastato il corpo del fratello
del boss, tagli superficiali fatti
apposta per farlo parlare, una
tortura in piena regola: il
cadavere aveva i pugni chiusi,
come se il giovane Abbatino li
avesse stretti nel tentativo di
resistere, e soprattutto
mancavano le ferite alle mani e
agli avambracci, tipiche di chi
tenta di difendersi da un
aggressore col coltello.
L'avevano torturato per
chissà quanto tempo e poi
ucciso e gettato nel Tevere,
senza darsi il pensiero di
«zavorrare» il cadavere per
evitare che ricomparisse in
poco tempo. Per punirlo di uno
«sgarro», probabilmente, ma
anche - altrettanto
probabilmente - per strappargli
notizie sul luogo in cui si
nascondeva suo fratello. Perché
Roberto Abbatino era l'unica
persona a sapere dove si
trovava Maurizio. Era andato a
fargli visita in Venezuela, e per
confondere le tracce aveva
preso un aereo dall'Olanda,
anziché dall'Italia.
«Venne a trovarmi alcuni
mesi prima di essere ucciso»,
ha rivelato il boss pentito, «ero
stato io a farlo venire. Da mia
madre avevo saputo che negli
ultimi tempi mio fratello era
particolarmente nervoso e si
scaricava in famiglia, senza che
nessuno riuscisse a capire quali
problemi avesse. In occasione
del nostro incontro appresi da
lui stesso che aveva allacciato
contatti con Libero Mancone e
Roberto Frabetti, dai quali
aveva avuto una partita di
eroina che però non era
riuscito a smerciare perché,
oltre a non essere pratico
dell'ambiente, si trattava di
merce di pessima qualità. Mio
fratello mi aveva anche fatto
notare che quelli della banda
non erano più miei amici, e che
avevano fatto pressioni su di lui
sia per ottenere il pagamento
della partita di droga fasulla,
sia per sapere dove mi
trovassi.» (26)
Di Roberto, Maurizio si
fidava. Aveva voluto il suo
aiuto, l'unico, per organizzare
la fuga, e soltanto a lui aveva
rivelato il falso nome che usava
in Venezuela e l'indirizzo al
quale poteva trovarlo; gli altri
familiari avevano solo dei
numeri di telefono. Che pure
lui, sulle orme del fratello,
avesse cominciato a fare
qualche affare con la droga,
l'avevano capito in tanti; dalle
abitudini di vita,
improvvisamente mutate:
macchine, moto giapponese,
frequentazione di locali
notturni alla moda, escluso
quel Jackie 'O dove troppo
spesso si facevano vedere i
«testaccini» che cercavano
Maurizio.
Forse lo sequestrarono,
forse gli tesero la trappola con
un appuntamento. Fatto sta
che Roberto Abbatino, a
trentatré anni, era caduto nella
guerra tra banditi che un
tempo erano stati complici e
amici per la pelle, vittima
diretta e trasversale insieme
dei loro traffici e delle loro
vendette.
I cronisti che tentavano di
capire ragioni e cadenze della
strage che si stava consumando
andarono a bussare, come
sempre, a casa del morto. Ma si
trovarono di fronte alla solita
reazione, porte sbarrate e
bocche cucite. Parlò solo il
padre di Maurizio e Roberto
Abbatino, per dire che non
voleva parlare: «Ne avrei tante
di cose da dire, ma le tengo per
me». (27)
Dal suo rifugio in Venezuela,
Maurizio Abbatino tentò
inutilmente di avere qualche
notizia in più sulla morte del
fratello. Telefonò in Italia a
qualcuno che pensava fosse
rimasto suo amico, ma ottenne
solo risposte evasive e
generiche. Era come se
dall'altra parte del filo si
materializzassero paura e
diffidenza, nessuno voleva più
avere a che fare con
«crispino», e tantomeno
aiutarlo.

A Giovanni Girlando,
«Gianni il roscio», spararono
un colpo alla nuca nella pineta
di Castelporziano, una sera di
maggio di quel 1990, l'anno dei
Mondiali di calcio in Italia e dei
regolamenti di conti tra «bravi
ragazzi». Il «roscio» era il
trafficante di droga amico di
Fulvio Lucidi, veniva dal gruppo
di Acilia-Ostia, poi era passato
con quelli della Magliana.
Continuava a trafficare eroina,
e per fare affari, quando per le
dichiarazioni dei «pentiti» e la
guerra interna l'aria s'era fatta
pesante, era andato in Olanda,
dove fu arrestato, estradato in
Italia e poi scarcerato.
Nel Paese dei tulipani erano
transitati diversi dei banditi
cresciuti nelle borgate intorno
al Tevere, che lì avevano
aperto un canale per
commerciare la droga; la
cocaina adesso arrivava dalla
Spagna e dal Marocco, l'eroina
invece dalla Turchia, via
Olanda. Non solo Girlando era
arrivato nei Paesi Bassi, ma
anche Colafigli, Vittorio
Carnovale, Libero Mancone e
Antonio D'Inzillo, un altro
giovane neofascista riciclatosi
nelle bande criminali comuni;
nell'aprile del '91, in una
località non lontana da
Amsterdam, comparirà il
cadavere di un trafficante
turco, Ercan Mahmut
Inanguray: sulla sua agendina
c'erano i numeri di telefono di
Colafigli, Carnovale e D'Inzillo.
A quarantaquattro anni
Gianni Girlando voleva ancora
dire la sua nel mondo della
malavita. Da cinque mesi s'era
stabilito a Ostia, insieme a una
nuova donna: quella
precedente, Patrizia, l'aveva
lasciata col figlio di nove anni.
La mattina di lunedì 21
maggio, Gianni uscì di casa
proprio per andare a trovare il
bambino nella sua casa di
Acilia. Non ci arrivò mai. Tre
giorni dopo, la sera del giovedì,
ricomparve tra i cespugli della
pineta: il cadavere con la
maglietta alzata fino al petto e
la faccia sfigurata dal sangue
rappreso, scoperto da due
ragazzi, era del «roscio».
Documenti addosso non ne
aveva, solo il Rolex d'oro, una
catenina e il tatuaggio di una
farfalla.
In casa, nemmeno i parenti
poterono parlar bene ai
giornalisti di Gianni Girlando:
«Litigava spesso, non abbiamo
certo un buon ricordo. Non
lavorava, aveva pochi soldi.
Patrizia ha tirato su il piccolo
solo grazie a un minimo
sussidio. Si bucava, ma non ci
raccontava niente di quanto
facesse. Ci diceva di essere
'internazionale'». (28)
Le indagini sulla morte del
«roscio» non portarono a nulla.
Ci fu solo la solita «fonte
confidenziale» che spifferò in
Questura di una lite recente tra
Girlando e Marcello Colafigli, a
quell'epoca ancora uccel di
bosco, il quale «aveva
aspramente rimproverato» a
Gianni «il mancato aiuto fornito
ai componenti del sodalizio
detenuti.» (29)
Passò ancora un anno, e la
sera del 26 marzo 1991 toccò a
Pietro Sante Corsello, che di
Gianni Girlando era stato uno
dei gregari nella distribuzione
della droga lungo il litorale
laziale. Ma aveva lavorato
anche con gli altri della
Magliana, Colafigli e Carnovale.
I carichi di eroina che
«Marcellone» fece arrivare via
mare tra l'89 e il '90 dalla
Sicilia tramite i mafiosi di Totò
Riina, venivano ritirati al porto
di Napoli proprio da Corsello, il
quale poi trasportava la «roba»
a Roma, in macchina. Era
sempre lui, successivamente, a
curarne il taglio in casa sua,
quando la moglie usciva per
andare al lavoro, e a
consegnarla agli spacciatori.
Lo ammazzarono a colpi di
pistola in una via di Acilia,
mentre si trovava in compagnia
di alcuni amici. Ci fu una
sparatoria tra bande, e Corsello
- quarant'anni e una barba ben
curata, orologio e bracciale
d'oro - rimase ferito. Gli amici
in fuga tentarono di salvarlo
portandolo con loro, ma dopo
poche centinaia di metri lo
scaricarono dall'auto su un
marciapiede: ormai era morto.

***
10. PENTIMENTI.

«Pronto Carla? So' Antonio.»


«Ciao. L'hai visto?»
No, non l'aveva visto.
Antonio Abbatino era andato
fino a Caracas, in Venezuela,
per incontrare il figlio Maurizio,
arrestato in Sud America dopo
una fuga durata cinque anni,
ma non gli avevano ancora
dato il permesso. Dicevano che
in carcere stava scoppiando
una rivolta, e che per adesso
non poteva entrare nessuno.
In Italia erano le undici e
mezza di sera; a Caracas, le sei
e mezza del pomeriggio di
giovedì 6 febbraio 1992.
Antonio Abbatino stava
telefonando a Carla, la moglie
di Maurizio, per chiedere come
andavano le cose a Roma. Sui
giornali s'era scritto dell'arresto
del boss della Magliana, uno
che se avesse voluto avrebbe
potuto raccontare molte cose a
poliziotti e giudici. E c'era chi
confidava che si sarebbe
pentito in aereo, sopra
l'Atlantico, nel viaggio dal
Venezuela a Roma. Come
Buscetta.
Di questo si preoccupavano
Antonio e Carla, anche perché
preoccupati erano «gli amici»,
gli ex complici di Maurizio,
timorosi di quanto il boss
avrebbe potuto spifferare.
Contro di loro, nel frattempo,
era partita una nuova raffica di
mandati di cattura, e stavolta,
oltre agli omicidi e al traffico di
droga, c'era un'accusa nuova:
associazione per delinquere di
stampo mafioso.
«Com'è la situazione, per
questi ragazzi?» chiese
Antonio.
«Niente... Stanno
aspettando», rispose la nuora.
«Ancora stanno dentro?»
«Stanno aspettando che
torna lui, perché pensano che
lui...»
«Ha parlato?»
«No, che lui...»
«Tranquilla, perché io ti dico
subito che questi hanno giocato
per venderselo. Capisci?
L'hanno fatto apposta a tenerlo
qui, sennò a questo punto già
se lo sarebbero portato. E tu...
sii più furba di loro... Vaglielo a
dire a tutti gli amici che lui...»
«Ma guarda che qui lo
sanno...»
«Che sono un mucchio di
stronzate... Mi capisci?»
«Fammi parlare un attimo a
me...»
«Chiama l'avvocato e
prepara tutta 'sta roba qui... E
agli amici digli che queste sono
tutte stronzate e che l'hanno
fatto apposta.»
«Ma guarda che loro lo
sanno, lo sanno che lui non ha
parlato, non ha detto niente...
Solo che il gioco...»
«Se lo vogliono vendere...
Hai capito come?»
«Loro sperano che quando
lui viene, durante il viaggio...
Che lui parla... Hai capito qual
è il discorso?» disse Carla
riferendosi alla Polizia.
«Ma non ha niente da dire,
hai capito?... Non c'è niente da
dire», si spazientì Antonio.
«Eh, lo so, ma loro stanno
co' 'sta speranza.»
«E tu agli amici gli devi dire
che tutte 'ste cose... Anche
perché non lo vedete Maurizio?
Lo tengono da una parte
proprio apposta, per far capire
che quello chissà che cosa gli
sta a dire, quando invece
magari Maurizio non gli sta a
dire un cazzo, perché non ha
un cazzo da dirgli... Hai
capito?»
«Va bene, va bene, ma
tanto...»
«Dì all'avvocato tutte 'ste
cose qui, e agli amici, in modo
che quando che viene giù, che
se lo portano giù, le sanno tutti
'ste cose...»
«Ma guarda che loro già le
sanno, n'hai capito? Degli
amici, non ci crede nessuno. Lo
sanno che è un gioco della
Mobile, m'hai capito? Gli amici
lo sanno, però la Mobile sta co'
la speranza che quando lui
arriva, nel viaggio gli possa
dire qualche cosa...»
A Roma s'era saputo anche
che un magistrato stava per
partire, e Carla lo disse al
suocero, raccomandandogli di
avvertire Abbatino: «Quando
che vai da lui, digli che stesse
tranquillo, che qui gli amici lo
sanno che lui non ha parlato, e
che non parlerà mai.
L'importante è questo... Perché
quelli lo sanno che lui...» (1)

Maurizio Abbatino l'avevano


arrestato a Caracas, il 25
gennaio di quel '92 che sarebbe
stato l'anno delle stragi di
mafia, ma anche l'anno dei
nuovi, grandi «pentimenti» tra
gli uomini delle cosche, non
solo siciliane. Gli uomini della
Squadra Mobile romana e della
Criminalpol l'avevano
individuato da tempo in terra
sudamericana, ma la telefonata
decisiva la intercettarono la
sera di Capodanno; meno di un
mese dopo gli saltarono
addosso, all'uscita di un locale
notturno. Lui, magro e smunto
come sempre, s'era mostrato
stupito, ma non troppo. Anzi,
appena capì che aveva a che
fare con dei poliziotti italiani si
tranquillizzò.
In Venezuela stava cercando
di rifarsi una vita, ma sempre
alla sua maniera: contatti con
la piccola criminalità locale e
spaccio di droga, anche se in
dimensioni contenute. Aveva
una nuova donna, non
navigava certo nell'oro, la
prima cosa che chiese fu una
stecca di sigarette. Le manette
per Maurizio Abbatino
significavano il carcere, ma
probabilmente anche la fine di
un incubo, quello del fuggiasco
che deve guardarsi dalla polizia
e dai banditi che vogliono farlo
fuori. E sul fatto che «gli amici»
volevano fargli la pelle, dopo la
morte di suo fratello Roberto,
c'erano pochi dubbi.
Adesso però, finito nelle
mani dei due ispettori che
erano andati ad arrestarlo,
Abbatino aveva di nuovo il
coltello dalla parte del manico,
e per questo i complici di un
tempo - timorosi di qualsiasi
parola avesse detto alla polizia,
come avevano fatto capire
anche alla moglie e al padre -
si mostrarono,
improvvisamente, prodighi di
aiuti, premure e assistenza nei
confronti di «crispino» e della
sua famiglia.
Qualcuno era riuscito a darsi
alla fuga, ma molti dei vecchi
amici di Abbatino erano
nuovamente in carcere, e ora
correvano il rischio, se lui
avesse parlato, di restarci per
un bel po'. Raccolsero fondi per
pagare le spese legali e aiutare
la famiglia: la banda s'era di
nuovo mobilitata per il boss
degli anni passati.
Anche Vittorio Carnovale,
dalla galera, fu chiamato a fare
la sua parte: «Diedi dieci
milioni di lire... L'iniziativa di
soccorrere Maurizio,
nonostante che con lui si
fossero ormai definitivamente
rotti tutti i rapporti, venne
accolta favorevolmente perché
sempre più insistente circolava
la voce di un suo proposito di
collaborazione con la
magistratura italiana». (2)
Nel carcere di Caracas, a
trovare il detenuto Abbatino
Maurizio, arrivò dall'Italia un
avvocato che conosceva il
Venezuela e parlava lo
spagnolo, ritenuto il più adatto
a seguire la pratica del boss. Il
legale, riferirà «crispino»,
aveva portato con sé i due
ordini di carcerazione per le
condanne a cinque e diciotto
anni di pena, ma lo rassicurò:
«Guardi che problemi non ce
ne sono, lei non è messo poi
così male». E se non si fidava,
se non voleva tornare in Italia,
ugualmente non ci sarebbero
stati problemi: «Può restare qui
in Venezuela, oppure essere
estradato ma in un Paese
diverso dall'Italia. Il Messico,
per esempio». (3)
Intanto le pratiche per il
trasferimento del boss in Italia
- o quanto meno per
l'espulsione dal Venezuela,
dopo di che sarebbe stato preso
in consegna dalla Polizia
italiana - stavano andando
avanti, bisognava fare in fretta.
Anche un avvocato
venezuelano, Hugo Albarran,
uno dei legali più noti di
Caracas, andò a trovare
Abbatino e gli spiegò che la
soluzione migliore poteva
essere quella di essere
giudicato e condannato in quel
Paese.
Aveva scoperto che in
carcere l'italiano aveva
picchiato un detenuto locale: si
poteva fare il processo per quel
fatto, arrivando a una piccola
condanna e alla scarcerazione,
evitando così l'estradizione.
Per le spese non c'era da
preoccuparsi, perché dall'Italia
erano già arrivati cinquanta
milioni di lire, e Albarran aveva
ridotto le sue pretese. Proprio
l'avvocato di Caracas si
ripresentò dopo qualche tempo,
assicurando a «crispino» che
tutto stava andando per il
meglio; in sua presenza parlò
con il direttore del carcere per
far avere al suo assistito una
cella singola: se c'erano delle
spese da sostenere ci avrebbe
pensato lui.
A Roma arrivavano notizie
che le cose, con Abbatino, si
stavano mettendo bene. Nel
corso dei colloqui, venne
avvisato anche Carnovale:
«Alcuni giorni prima che
Maurizio rientrasse in Italia,
avevamo avuto l'assicurazione
che la situazione sarebbe stata
definita entro breve tempo e
nel migliore dei modi». (4)
Non andò così. Il 4 ottobre
1992 Maurizio Abbatino fu
espulso dal Venezuela, preso in
consegna dagli uomini della
Squadra Mobile e portato in
Italia. Con un bagaglio di
segreti che presto avrebbe
svelato.

Era sempre in ottobre, ma di


nove anni prima, il giorno in
cui - senza attraversare
l'oceano, ma solo qualche
corridoio del vecchio carcere di
Regina Coeli - uno dei «bravi
ragazzi» aveva fatto, per
primo, il passo che l'avrebbe
portato a essere bollato come
«infame».
Prima l'avevano chiamato
«sorcio», poi gli avevano detto
«cornuto» e avevano deciso di
ammazzarlo; adesso, 15
ottobre 1983, in una saletta del
penitenziario, davanti al
sostituto procuratore della
Repubblica Nitto Francesco
Palma e al dottor Alessandro
Pansa, della Squadra Narcotici
della Questura, Fulvio Lucioli -
nato a Roma nel 1954 e
residente ad Acilia, detenuto,
imputato di associazione per
delinquere - stava per cambiare
bandiera, abbandonare gli
amici e i nemici con cui aveva
fatto affari fino a quel
momento, diventare un
«pentito». L'aveva scritto il
giorno precedente in una
lettera consegnata al direttore
del carcere, e adesso lo
ribadiva al magistrato:
«Confermo di aver spedito la
lettera che mi viene mostrata,
e confermo altresì che ho
intenzione di rendere
dichiarazioni in merito a fatti
criminali, anche di rilevante
gravità, in alcuni dei quali sono
coinvolto».
Il pubblico ministero
interruppe subito
l'interrogatorio, considerate le
dichiarazioni dell'inquisito
bisognava chiamare il giudice
istruttore. Nel frattempo
metteva a verbale: «Il Lucioli
dichiara di revocare i suoi
difensori di fiducia, e richiede
che presenzi, in sua assistenza,
un difensore d'ufficio». Il
cambio di avvocato è il primo
segnale verso l'esterno del
«pentimento» di un imputato di
criminalità organizzata: fu così
che i «bravi ragazzi» seppero
che uno di loro aveva tradito.
Un'ora più tardi
l'interrogatorio riprese, alla
presenza del giudice istruttore.
Fulvio Lucioli cominciò
dall'inizio, e come sempre c'era
di mezzo un bar: «All'incirca
verso il 15 settembre 1975,
pochi giorni dopo la sua uscita
dal carcere, conobbi ad Acilia
Gianni Girlando, in un bar ove
mi trovavo con alcuni amici;
quando al bar giunse il
Girlando, poiché le persone che
lo accompagnavano
conoscevano i miei amici, ci
mettemmo a parlare. Poiché
era senza macchina, mi chiese
di accompagnarlo a casa. Lo
feci, e il Girlando mi chiese se
potevo andarlo a prendere a
casa la mattina successiva. Da
lì è nata la mia amicizia con
Girlando. Aveva circa sette
anni più di me, e lo consideravo
degno di rispetto e stima per i
suoi trascorsi giudiziari;
effettivamente, avendo io
appena cominciato la mia
attività illecita, ero
suggestionato dal Girlando, ed
ero disposto a fare qualunque
cosa mi chiedesse nella
speranza di potermi associare
allo stesso nella sua attività».
Fulvio Lucioli era entrato
così nel «giro» che di lì a
qualche anno avrebbe dato vita
alla banda della Magliana.
Adesso la sua storia stava
diventando un libro aperto per
poliziotti e magistrati che fino a
quel momento avevano
assistito quasi impotenti alle
imprese criminali di quei
giovani rapinatori di quartiere
che s'erano organizzati e
avevano «conquistato» Roma.
La goccia che aveva fatto
traboccare il vaso dei segreti
custoditi da Lucioli - scriverà
nel 1984 un pubblico ministero
- era stata «la comprensione
che i suoi compagni sono pronti
a uccidere e a uccidersi anche
vicendevolmente per appagare
rancori, ripicche e paure, e per
guadagnare sempre più dal
traffico degli stupefacenti. Il
travaglio interiore che ne
consegue», continua il
magistrato, «anche se lento, è
di sicuro esito: il Lucioli capisce
a un certo punto che deve far
piazza pulita della sua vita
passata e che se deve
ricominciarne una nuova deve
pagare per quello che ha fatto
e collaborare in modo completo
con la giustizia. Queste sono le
ragioni che lo spingono a
parlare.» (6)
Il «sorcio» parlò per
settimane intere, raccontando
di rapine, traffici di droga,
racket dei videogiochi, truffe
varie, omicidi, contrasti interni
alla banda, contatti con la
criminalità organizzata di altre
città e regioni. Tutti fatti che
conosceva per avervi assistito
direttamente, o perché gli
erano stati raccontati da
complici. «Nella malavita
organizzata», spiegò al giudice
dopo un mese di interrogatori,
«e in particolare tra coloro che
si dedicano allo spaccio e al
traffico di stupefacenti, vi è una
scala gerarchica che tutti
conoscono e rispettano. In
questa scala io occupavo una
posizione di preminenza in
quanto ero considerato uno dei
più grossi spacciatori di eroina
della capitale, ed era normale
sapere i fatti che riguardavano
spacciatori che occupavano una
posizione inferiore alla mia...
Molte delle persone che mi
hanno fatto delle confidenze
(Carnovale Giuseppe, Mancini,
Urbani, Abbatino, Girlando,
Colafigli, Toscano, Selis,
eccetera), le hanno fatte nel
convincimento che io fossi
fedele al gruppo.»
Fedele al gruppo Lucioli lo
era stato davvero, anche
quando meditava di cambiare
vita, finché non comprese che i
suoi compagni non avrebbero
accettato che lui si fosse tirato
da parte. Cominciarono a
minacciarlo, a fargli capire che
avrebbe fatto una brutta fine.
Ciò che accadde nella mente di
quel trafficante di droga che
era stato il «sorcio», lo scrisse
lui stesso in un memoriale
consegnato al giudice: «Io
avevo già espresso più volte il
desiderio di smetterla e farla
finita con questa vita, e forse
per questo cominciarono a farsi
sentire pressanti le minacce nei
confronti miei e della mia
famiglia, perché forse loro
avevano già intuito quali erano
le mie intenzioni di
ravvedimento... Fu così che
mentre maturava in me il
rinnegamento dei miei
trascorsi, loro probabilmente
stavano preparando un
complotto per eliminarmi,
sapendo quale sarebbe stata la
portata delle mie rivelazioni.»
(8)
«Loro» erano gli altri
componenti della banda, da
Girlando in giù. Con alcuni
Lucioli si ritrovò nella stessa
cella a Regina Coeli, e lì capì
che la sua sorte era segnata.
Successe una sera che avevano
sniffato cocaina, Lucioli e altri
tre, e uno prese a insultarlo.
«Infame, faccia da stronzo,
guardia», gli diceva dandogli da
bere qualcosa che sosteneva
essere la solita acqua e
zucchero: Fulvio la prendeva
sempre dopo che aveva
«pippato». All'improvviso
Lucioli si sentì male, cominciò
ad avere giramenti di testa e
nausea; fece per alzarsi e
prendere la Novalgina, ma uno
dei compagni lo fermò: «Te la
prendo io». Andò in bagno e
tornò poco dopo col bicchiere.
«Hai messo venticinque
gocce?», chiese Lucioli, e
quello, ironico: «No, sono
ventisette, va bene lo stesso?»
Lucioli bevve, ma dal sapore
capì che in quel bicchiere c'era
qualcosa di strano. Sentì
parlare gli altri: «Adesso
gliel'abbiamo data proprio
tutta», dicevano, e gli offrivano
altra cocaina.
«La mattina dopo», ha
scritto ancora il «pentito», «mi
sono fatto riportare al Reparto
Separazione, e dopo una
serissima riflessione ho finito di
maturare in me il proposito di
collaborare con la giustizia.»
(9)
Mentre il loro ex amico
parlava coi giudici, quelli della
banda non stavano con le mani
in mano. Avevano saputo che il
«sorcio» era diventato «un
infame» a tempo di record: un
paio di giorni dopo il primo
interrogatorio di Lucioli, Gianni
Girlando era già a casa della
madre e della moglie, per dire
alle due donne che Fulvio stava
parlando, che aveva fatto oltre
cento nomi.
E lui, Lucioli, dal carcere
implorava: «Nutro grande
timore per i miei familiari, e
insisto affinché sia loro
assicurata una qualche
protezione... Chiedo con
insistenza di essere trasferito
in altro carcere, per motivi di
tutela della mia incolumità
personale». (10)
Proprio il rischio a cui il
«sorcio» si era sottoposto con
le sue confessioni, agli occhi dei
magistrati era uno degli
elementi che gli davano
credibilità. Inoltre, in un
periodo in cui per i «pentiti»
che non fossero di terrorismo
non erano previsti benefici,
l'imputato aveva ben poco da
guadagnare: prima di svelare
fatti e misfatti della banda della
Magliana, infatti, Lucioli aveva
sulle spalle solo una condanna
per traffico di droga, per la
quale avrebbe potuto presto
ottenere la concessione della
semilibertà, e una generica
imputazione di associazione per
delinquere; ora, invece, aveva
accusato anche se stesso di
delitti ben più gravi.
«Non vi è dubbio», noterà il
pubblico ministero, «che Lucioli
Fulvio ha attirato su di sé molti
più anni di carcere da scontare
di quelli che avrebbe fatto se
non avesse collaborato con la
giustizia... E chiama in causa
persone dal grilletto e dal
coltello molto facili, che hanno
dimostrato più di una volta di
saper raggiungere con le loro
sentenze di morte i loro nemici
anche nelle carceri più
protette, e di non badare a
criteri di umanità quando si
tratta di fare opera di
intimidazione. Lucioli è ben
conscio dei pericoli che corre,
ma nonostante ciò prosegue nel
suo racconto.» (11)

Da quel racconto, alla fine


dell'83, scaturirono decine di
mandati di cattura per i fatti e
le persone elencate da Lucioli.
Poi arrivarono il rinvio a
giudizio e il processo, quello
durante il quale, poco prima
della conclusione, Vittorio
Carnovale evase
tranquillamente dal palazzo di
giustizia sotto gli occhi dei
poliziotti.
La sentenza della sesta
Corte d'Assise arrivò il 23
giugno dell'86, a quasi tre anni
dalla prima deposizione di
Lucioli. Un verdetto nemmeno
troppo pesante per i «bravi
ragazzi»: dei sessanta imputati
ne furono condannati
trentasette; quattordici se la
cavarono con l'insufficienza di
prove, sei vennero assolti con
la formula piena, per tre i reati
furono dichiarati prescritti. Ma
il dato centrale era un altro: la
Corte aveva sancito l'esistenza
dell'associazione criminale,
colpendo i traffici di droga e
alcuni reati minori, mentre
aveva lasciato impuniti i sei
omicidi (da Nicolini e Magliolo
passando per Nicolino Selis e
altri) che doveva giudicare: i
presunti colpevoli erano stati
tutti assolti, tranne uno.
Proprio per gli omicidi il
pubblico ministero Leonardo
Agueci aveva chiesto le
condanne più pesanti. Ma a
parte Edoardo Toscano - per il
quale era stato proposto
l'ergastolo e aveva avuto
vent'anni, grazie alla
concessione del «vizio parziale
di mente», per aver ucciso
Selis - gli altri se l'erano cavata
con poco. Il carcere a vita era
stato sollecitato per Vittorio
Carnovale e Antonio Mancini,
condannati rispettivamente a
cinque anni e un anno e
mezzo; a Colafigli, anziché
trent'anni, ne furono inflitti
otto di cui uno condonato «per
vizio parziale di mente»; Libero
Mancone ebbe la metà dei
ventiquattro anni richiesti
dall'accusa, Gianfranco Urbani,
«er pantera», undici e mezzo al
posto di ventitré.
Per l'omicidio Loria non
bastò nemmeno la perizia
chimico-biologica eseguita sul
tappeto che ricopriva il
cadavere. Le analisi rilevarono
una «strettissima analogia delle
formazioni pilifere di specie
canina» trovate sul tappeto con
quelle prelevate nella casa di
Vittorio Carnovale dove,
secondo il racconto di Lucioli,
era avvenuto il delitto e nella
quale vivevano anche due
pastori tedeschi. E non solo i
peli di cane erano gli stessi; i
periti parlarono pure di
«marcata somiglianza nelle
formazioni pilifere umane»,
cioè dei capelli trovati sul
tappeto e in casa di Carnovale.
«Più che di 'processo alla
banda della Magliana'»,
scrissero i giudici della Corte
d'Assise nella loro sentenza,
«come impropriamente è stato
definito dalle cronache
giudiziarie, deve parlarsi di
'processo Lucioli', dato che le
imputazioni sono state
formulate per la massima parte
proprio in aderenza a quanto
da lui riferito, e tenuto altresì
conto che, nel bene e nel male,
il Lucioli è stato sempre al
centro dell'attenzione di tutti
quelli che si sono occupati di
questo processo: gli inquirenti
hanno esaltato la sua figura e
posto in evidenza la
spontaneità, l'univocità e la
costanza delle sue accuse,
mentre i difensori e gli stessi
imputati hanno cercato in tutti i
modi di porlo in cattiva luce e
di demolire il castello delle sue
affermazioni accusatorie.
L'impressione di questa Corte è
che vi siano state delle
esagerazioni sia nella
valutazione positiva che in
quella negativa.» (12)
Sulle reali ragioni del
«pentimento» di Lucioli, che
alla fine del processo fu
condannato a sette anni e
quattro mesi (il pubblico
ministero ne aveva chiesti
undici e mezzo), la Corte
osservò: «Deve convenirsi che
la mancanza di interesse è
un'ipotesi puramente teorica,
perché pentiti completamente
disinteressati, almeno nel
campo della delinquenza
comune, non sono mai esistiti.
Con ciò non si vuole escludere
che tra le motivazioni della
decisione di collaborare vi
possa essere stata, per il
Lucioli, anche una forte
componente morale e una
volontà di revisione critica della
propria esistenza; si deve
peraltro evitare di dare troppo
rilievo a queste considerazioni
di carattere etico, sembrando
preferibile una visione più
realistica e consapevole delle
umane debolezze». (13)
Un anno dopo il «processo
Lucioli» passò l'esame della
Corte d'Appello, dove le
condanne di primo grado
furono sostanzialmente
confermate, ma nel giugno del
1988 arrivò il verdetto della
Cassazione, prima sezione
penale, presidente quel
Corrado Carnevale intorno al
quale cominciava a crescere la
fama di «giudice
ammazzasentenze». L'impianto
dell'accusa fu demolito, e i
giudici che avevano condannato
in base alla «supina
accettazione delle dichiarazioni
del Lucioli» rimproverati
aspramente dalla Corte
Suprema. «E' mancata», si
legge nella sentenza della
Cassazione, «un'indagine seria
sulle motivazioni psicologiche
che possono aver spinto il
Lucioli ad assumere la
posizione, certo scomoda, non
esaltante, e neppure immune
da rischiosità, del delatore e,
secondo il gergo carcerario,
dell'infame... La motivazione
della sentenza finisce con il
risolversi in un mero atto di
fede nei confronti del
chiamante in correità.» (14)
Per i giudici di legittimità,
mancava la prova che esistesse
un'organizzazione criminale
come quella descritta dal
«pentito»: «Gli stessi
versamenti periodici a favore
delle famiglie dei detenuti
hanno più apparenza di
manifestazione di solidarietà
(assai comune nel mondo della
malavita), che di prova
dell'esistenza di una vera e
propria "societas sceleris"... I
dati raccolti possono essere
indicativi dell'esistenza di
rapporti di solidarietà e
comunanza di interessi
malavitosi, più che di esistenza
di una stabile organizzazione
criminale.» (15)
Basandosi forse sul modello
dei gruppi terroristici,
supersegreti e con
un'attenzione quasi maniacale
alla riservatezza, i giudici della
Cassazione non vollero credere
alla banda che agiva per lo più
alla luce del sole: «Le 'basi
operative' non erano altro che
due bar... Ora, la circostanza
che la banda non disponesse
neppure di una sede stabile ove
discutere, al riparo di orecchie
e occhi indiscreti, i problemi
organizzativi e operativi,
disegnare i programmi,
adottare le decisioni, è
elemento che di per sé induce a
perplessità».
Insomma, le condanne
furono annullate e le
assoluzioni per insufficienza di
prove trasformate in
assoluzioni con formula piena. I
«bravi ragazzi» avevano di che
essere soddisfatti, per stavolta
l'avevano fatta franca.

Anche la storia del


«pentimento» di Claudio Sicilia
comincia con un verbale
d'interrogatorio redatto in un
giorno d'ottobre. Del 1986,
quando era già arrivata la
prima sentenza del «processo
Lucioli» e sei mesi dopo
l'agguato dei «maglianesi» al
quale il futuro «collaboratore»
era scampato per miracolo. Il
«vesuviano» era stato
arrestato per l'ennesima volta
perché a casa di un suo amico,
dalle parti della Garbatella,
saltarono fuori armi e droga
che appartenevano a lui.
Alle nove di sera, negli uffici
della Questura, il detenuto si
sedette davanti al sostituto
procuratore Andrea De
Gasperis: «Sono Sicilia Claudio,
nato il 5 febbraio 1949 a
Giugliano (Napoli), residente a
Roma in via Balzac numero 15,
licenza media inferiore, non ho
militato, già condannato.
Intendo rispondere: ammetto
gli addebiti, e manifesto altresì
l'intenzione di riferire in ordine
ad altri fatti delittuosi dei quali
sono venuto a diretta
conoscenza, per un'esigenza di
carattere personale e di
coscienza». (17)
Non era la prima volta che
gli investigatori ascoltavano dei
racconti di malavita dalla viva
voce di Sicilia. Già qualche
anno prima, infatti, aveva
vestito i panni del confidente,
mentre era piantonato in
carcere, agli arresti domiciliari.
Raccontò qualcosa di quello che
aveva sentito in carcere, sui
progetti di attentato a un
magistrato romano. Dopo poco
si bloccò, disse che voleva la
garanzia di tornare libero.
Sembrava che stesse male, i
medici avevano diagnosticato
una grave forma di anoressia,
nessuno sapeva ancora che il
«vesuviano» digiunava
volontariamente, mettendo
davvero a rischio la propria
salute, per simulare la
malattia.
Trattò qualcosa con poliziotti
e magistrati, uscì e fece la
«soffiata» che portò in carcere
Gianni Girlando. Le sue
confidenze proseguirono tra alti
e bassi, anche perché si
imbottiva di cocaina e a volte
sragionava. I suoi «amici»
impiegarono poco tempo a
capire il gioco di Sicilia: «Si
stava pentendo, sicché era
necessario chiudergli la bocca»,
dirà Vittorio Carnovale,
all'epoca latitante in Olanda ma
«richiamato» in patria da
Edoardo Toscano proprio per
ammazzare il «vesuviano». Il
«coniglio» rientrò e si mise in
contatto con l'uomo incaricato
da Toscano di portare a termine
con lui l'operazione.
«Era d'inverno», ha
raccontato Carnovale, «e le
giornate erano piovose: lo
ricordo perché per alcune sere
consecutive ci appostammo nei
pressi dell'abitazione di Claudio
Sicilia, con l'unico risultato di
prendere un sacco d'acqua, in
quanto il Sicilia, in quelle
occasioni, non aveva fatto
rientro a casa... Poiché Sicilia
non si vedeva e io, essendo
ricercato, avevo il problema di
non farmi notare troppo,
decidemmo, dopo alcuni
infruttuosi appostamenti, di
soprassedere e rinviare la cosa.
Dopo qualche giorno, tuttavia,
venni tratto in arresto...» (18)
Successivamente, come
spesso capita agli informatori
quando non possono più dare
notizie alla polizia senza
confessare i propri reati, Sicilia
finì nuovamente in carcere, e a
quel punto decise di fare il salto
definitivo, diventando il
secondo «pentito» della banda
della Magliana. Ma si capiva
che non diceva tutto, che
taceva su alcuni episodi,
oppure minimizzava su altri per
non far apparire le
responsabilità sue e degli
«amici» che voleva salvare. E
anche da «pentito», alcune
cose che diceva non le voleva
verbalizzare, tornando al ruolo
di confidente.
Le sue fluviali dichiarazioni -
in cui gli affari della malavita
romana si intrecciavano con
quelli della camorra e con
alcuni dei misteri d'Italia
tuttora irrisolti, dall'omicidio
Calvi al sequestro Cirillo -
furono raccolte in modo
disordinato e in tutta fretta dai
magistrati, così come uscivano
dalla bocca del «vesuviano»,
col risultato che su molti fatti
non si andò a fondo come si
sarebbe potuto.
Anche per lui, raccontò nelle
sue confessioni, l'incontro con
la banda della Magliana era
avvenuto in un bar: «Sono
giunto a Roma da Giugliano nel
1978-79. Nel 1979 sono andato
ad abitare in via Chiabrera
numero 122. A quei tempi
lavoravo nella ditta familiare
che si occupa di commercio di
frutta. Ho iniziato a
frequentare il bar di via
Chiabrera. Qui, fra le altre
persone, ho conosciuto tale
Mauretto frequentando il quale,
fra l'altro, ho iniziato a
praticare l'ippodromo di Tor di
Valle. Il Mauretto mi presentò
varie persone fra le quali
Alvaro Pompili... Nel bar di via
Chiabrera avevo conosciuto
anche Marcello Colafigli,
sempre tramite Mauro. Il
Colafigli aveva saputo che io
ero parente dei Maisto, a lui
noti come esponenti della
malavita campana. In una delle
nostre visite all'ippodromo di
Tor di Valle, presenti il
Mauretto e il Pompili, notammo
in un gruppo di persone
Marcello Colafigli. Fra le
persone accanto al Colafigli mi
venne indicato un personaggio
denominato 'il negro', e cioè
Giuseppucci Franco...
Successivamente cominciai a
frequentare più assiduamente
Marcello Colafigli, e tra noi
nacque una vera e propria
amicizia». (19)
Dopo quattro mesi di
interrogatori quasi quotidiani,
la Procura di Roma, nel
febbraio del 1987, spiccò
novantuno ordini di cattura
contro le persone chiamate in
causa da Sicilia. Ma servì a
poco. Nonostante i pubblici
ministeri avessero assicurato
che le dichiarazioni del
collaboratore erano
accompagnate da «riscontri
intrinseci ed estrinseci», il 28
marzo - dopo solo tre giorni di
lavoro - il tribunale della libertà
scarcerò circa la metà degli
arrestati. Una decisione
clamorosa, dovuta al fatto che
per il tribunale, il «pentito»
«altro non era che una persona
soggettivamente poco
attendibile per i suoi
precedenti, la sua posizione
giudiziaria, la sua personalità e
i suoi presunti moventi.» (20)
Fu un brutto colpo per i
giudici e investigatori, ma
qualche responsabilità l'aveva
anche il «vesuviano», che in
molte occasioni era apparso
confuso, a volte addirittura
contraddittorio, uno che
secondo alcuni magistrati era
più utile come confidente che
come «collaboratore di
giustizia». Lui stesso se ne era
reso conto, e in un memoriale
consegnato al giudice istruttore
nell'aprile del 1987, dopo le
scarcerazioni, scrisse: «Io a
volte mi sono chiesto perché
facevo quella vita schifosa, mi
prendevano i rimorsi e
telefonavo, davo informazioni,
in modo particolare quando
vedevo i miei figli. E' vero che
ero pressato, non dico altro, sta
a voi giudicare, non più a me...
Ora solo vi sto dando quello
che era giusto darvi fin
dall'inizio per la fiducia che
avevate in me. Tenete queste
carte ben strette e combattete,
poiché mai nessuno è giunto
dove sono arrivato io...
Ricordatevi che ciò che vi ho
detto è sempre stata la verità,
anche se ho minimizzato il mio
ruolo mi capirete. Sono stanco
e deluso di tutto ciò che ha
fatto il tribunale della
"libbertà", e questo però è
dovuto anche per colpa mia...»
(21)
Anche nelle aule di giustizia
le dichiarazioni di Claudio
Sicilia furono considerate
inattendibili, e lo stesso
«pentito» abbandonò la galera,
nel dicembre del 1990, per
passare agli arresti domiciliari.
Infine, durante l'estate
successiva, tornò libero. S'era
trasferito con la moglie nella
zona di Tor Marancia, sempre
nella parte sud di Roma, girava
con una Croma sulla quale
aveva montato il radiotelefono.
Stava cercando di ricominciare
a vivere, quando il nuovo
appuntamento coi killer, il
terzo in pochi anni, si rivelò
fatale.
La sera di lunedì 18
novembre 1991, intorno alle
otto e mezza, Sicilia era andato
a trovare alcuni amici in un
negozio di scarpe di via Andrea
Mantegna, vicino a casa.
Accadde secondo la solita
dinamica, fin troppo
consumata: una moto, un
uomo che scende e spara
quattro colpi a ripetizione alla
persona sulla soglia del
negozio, la vittima che si
affloscia sul marciapiede,
l'assassino che risale in tutta
fretta sulla moto, l'accelerata
del complice, il rombo della
fuga e poi il silenzio. Poco dopo
le sirene delle auto della
Polizia, i rilievi, la raccolta delle
inutili testimonianze.
Gli assassini di Sicilia, come
quelli di tanti altri caduti nella
strage che s'è consumata dopo
lo sfaldamento della banda,
sono rimasti senza nome e
senza volto. Ma in molti hanno
accostato la figura del
«vesuviano» a quella di
Leonardo Vitale, il primo
«pentito» di mafia che già nel
1973 aveva rivelato ai giudici
molti segreti di Cosa Nostra,
senza essere giudicato
attendibile. Lo fecero passare
per matto, ma i mafiosi
sapevano che non era vero, e
non l'abbandonarono al suo
destino come aveva fatto lo
Stato. Undici anni dopo gli
fecero pagare il tradimento: gli
spararono da una moto in
corsa, un giorno di dicembre
del 1984.

L'aereo atterrò a Fiumicino


la mattina del 4 ottobre '92.
Sulla pista, ad attendere il boss
della Magliana, giornalisti,
fotografi e telecamere. Quando
si aprì il portellone sembrò di
rivedere la scena, di otto anni
prima, dell'arrivo di Tommaso
Buscetta dal Brasile: un nugolo
di poliziotti e in mezzo lui,
quello che sarebbe stato il più
audace pentito di Cosa Nostra.
Anche Maurizio Abbatino
scese la scaletta quasi portato a
braccia dagli «angeli custodi»
della Polizia: senza occhiali da
sole, mostrava un volto stanco
e segnato dalla barba di un
paio di giorni, la camicia rosa
aperta sul collo, i capelli
spettinati. Fatto qualche passo,
quando si accorse dei fotografi
e delle telecamere, provò a
nascondere il viso col braccio
destro, piegandosi in avanti,
ma con scarsi risultati.
Toccata terra, lo spinsero
nell'Alfa Romeo bianca e
celeste, e anche lì si ritrovò
stretto tra due agenti. L'auto
partì a sirene spiegate, ormai
era fatta, «crispino» era nelle
mani della giustizia italiana,
avrebbe collaborato e parlato,
l'aveva annunciato già in
Venezuela e ribadito nel
viaggio in aereo. Lo portarono
in un carcere lontano da Roma,
a Belluno; per qualche giorno
rimase segregato, poi revocò gli
avvocati di fiducia e cominciò a
riempire i primi verbali
d'interrogatorio. Maurizio
Abbatino, il boss freddo e
determinato, uno dei «capi
storici» della banda, quel
«crispino» che aveva una serie
impressionante di reati e di
morti sulla coscienza, era
diventato davvero il «Buscetta
della Magliana».
Sulla base delle sue
confessioni, che in gran parte
confermano quelle di Lucioli e
Sicilia, verrà imbastito un
nuovo maxiprocesso ai «bravi
ragazzi» degli anni Settanta e
Ottanta, e lui finirà per sfilare
davanti alle Corti d'Assise di
tutta Italia, ovunque ci siano da
giudicare fatti di mafia, di
eversione nera, di cospirazione
politica e di malaffare
economico, intrecci dove
puntualmente compaiono
tracce della banda della
Magliana. Proprio a una di
queste Corti, nel dicembre del
1993, Maurizio Abbatino ha
spiegato i motivi del suo
«pentimento».
«Quando ha deciso di
collaborare, confessare i suoi
reati e chiamare in correità
anche altri?» chiese il pubblico
ministero."
«Quando sono ritornato a
Roma», rispose Abbatino.
«Rispetto al suo arresto,
quanto tempo dopo?»
«Dopo nove mesi di
reclusione.»
«Ci può spiegare, ci può far
capire cos'è che le ha fatto
decidere di adottare questo
atteggiamento?»
«Perché appunto, io ho
vissuto cinque anni in Sud
America, e noi eravamo legati
da un'amicizia abbastanza...
abbastanza forte, che implicava
dei doveri, gli aiuti e le altre
cose. Io invece non sono stato
aiutato. Non rimprovero niente
ai miei compagni, però
logicamente non mi interessa
più niente di loro, e quindi non
ho difficoltà a fare dichiarazioni
che prima...»
«Quindi lei», lo interruppe il
pubblico ministero, «se ho
capito bene, si è sentito
abbandonato durante la sua
latitanza, quando stava in Sud
America?»
«Sì, però non è per questo
che io... Non è per un senso di
vendetta nei confronti dei miei
compagni... Semplicemente
sono caduti dei sentimenti che
prima avevo.»
«Cioè vuol dire che lei non
si è più sentito obbligato alla
lealtà nei loro confronti?»
«Esatto.»
«Non ho altre domande.»
(22)

Quando lesse il mandato di


cattura che l'aveva riportato in
carcere, nel quale erano
riprodotte le confessioni di
Maurizio Abbatino che
andavano a sovrapporsi quasi
perfettamente con quelle da cui
lui e suoi amici erano riusciti a
scampare in passato - di Fulvio
Lucioli, Claudio Sicilia e altri
«pentiti», soprattutto del
terrorismo nero - Antonio
Mancini capì che stavolta era
davvero finita. Il 14 aprile del
'93 il giudice istruttore Otello
Lupacchini aveva firmato
decine di nuovi ordini d'arresto
per capi e gregari della gang
che aveva insanguinato Roma
per oltre un decennio.
Ormai l'associazione mafiosa
denominata «banda della
Magliana» stava venendo alla
luce in tutti i suoi contorni, e il
vecchio «accattone», l'amico
fedele di tanti banditi morti
ammazzati, il killer affidabile
che non si tirava mai indietro,
il galeotto che si era sempre
attenuto scrupolosamente alle
regole della malavita, a
quarantasei anni decise anche
lui di saltare il fosso. Poco
prima l'aveva fatto pure
Vittorio Carnovale, il
«coniglio», che a trentasette
anni aveva scelto un'esistenza
nuova rispetto al passato e al
carcere.
«Per i miei trascorsi», dirà
Mancini al giudice istruttore,
«per le lunghe carcerazioni
subite, per la dignità sempre
dimostrata e per il rispetto del
codice di omertà al quale mi
sono sempre attenuto,
nell'ambiente carcerario sono
sempre stato considerato una
sorta di mito.» (23)
Improvvisamente, nella
primavera del '94, quel mito
s'era incrinato. L'«accattone»
era stato messo in isolamento
nel carcere dell'Aquila, e la
voce di un suo «pentimento»
s'era diffusa in un baleno tra gli
«amici». Provò lui stesso a
convincerli del contrario,
presentandosi in tribunale, il 6
aprile, e dichiarando
pubblicamente di non essere un
infame, che invece gli infami
erano quelli che mettevano in
giro certe voci.
Antonio Mancini in quell'aula
di giustizia appariva
invecchiato, la barba incolta
che ormai andava verso il «sale
e pepe», con gli occhiali da
miope e infilato in una tuta da
ginnastica, la classica «divisa»
dei carcerati di lungo corso. E
quando si trattò di difendersi
dall'accusa di aver spacciato
trecento grammi di eroina, con
aria di sfida, disse ai giudici:
«Guardate che io so' un
delinquente serio, un
appartenente alla banda della
Magliana, so' la storia della
malavita. Ci so' le mezze
calzette, ma io sono Mancini
Antonio, uno che non chiede
trecento grammi di droga a
chicchessia».
Rivendicava il suo passato e
il suo onore di malavitoso,
l'«accattone», ma il dado era
già tratto, e di lì a qualche
giorno, nel segreto di un
carcere di massima sicurezza,
avrebbe dichiarato al giudice
istruttore: «Immediatamente
dopo la mia cattura, a seguito
del provvedimento emesso da
codesto Ufficio il 14 aprile dello
scorso anno, avuta contezza
delle dichiarazioni di Maurizio
Abbatino e del livello elevato
delle conoscenze al quale erano
giunti gli organismi
investigativi, ho trovato la
necessaria determinazione per
rompere in maniera definitiva
con l'ambiente criminale nel
quale sono vissuto fin dai primi
anni Settanta.
«Verso questo ambiente, a
seguito di mie vicissitudini
personali legate da un lato alla
mia lunga carcerazione e
dall'altro dall'aver constatato
che, progressivamente, erano
state ammazzate in circostanze
che oggi reputo 'strane',
persone come Franco
Giuseppucci, Danilo Abbruciati,
Nicolino Selis, Angelo De
Angelis, Edoardo Toscano,
Gianni Girlando e lo stesso
'Renatino' De Pedis, con le quali
avevo intrattenuto fraterni
rapporti, avevo maturato un
profondo senso di delusione che
non esito a definire 'di schifo'».
In un altro interrogatorio, il
primo, Mancini aveva motivato
la scelta del «pentimento» con
una sorta di «rivolta morale» di
cui voleva mostrare di essere
capace anche un bandito
accanito come lui: «Ha
contribuito a far maturare il
mio proposito il senso di
disgusto, e vorrei dire di
nausea, che ha suscitato in me
il rendermi conto che io, come
altri partecipanti della banda
della Magliana, siamo stati
usati, strumentalizzati per fini
di bassa politica che nulla
avevano a che fare né con i
nostri interessi né con i nostri
obiettivi. Non voglio sostenere
di essere stato un santo, ma vi
è un limite a tutto, anche alla
delinquenza.
«Ho pagato per le mie
colpe», proseguiva
«l'accattone», «e sono pronto
anche a pagare ancora se è
necessario, ma intendo
scindere la mia responsabilità
morale da quella di altre
persone che, pur se non hanno
mai materialmente azionato un
grilletto, ritengo che siano
moralmente peggiori di me e
dei miei amici». (25)

In quell'udienza davanti alla


quarta sezione del tribunale di
Roma, sul banco degli imputati,
accanto a Mancini c'era pure la
sua donna, Fabiola Moretti,
incinta di pochi mesi. Più
giovane di otto anni rispetto ad
Antonio, piccola e vispa, senza
orecchini né anelli ma coi
capelli nerissimi e impomatati,
increspati in cima secondo lo
stile punk, occhioni neri e
tailleur-pantalone color crema,
salutava sorridente parenti e
amici confusi tra il pubblico.
Come Mancini, pure Fabiola
si rivolgeva al tribunale con un
atteggiamento sicuro e un po'
provocatorio. «Non so di che
devo rispondere, visto che non
ho fatto niente», disse quando
il presidente le chiese se aveva
qualcosa da dichiarare, e tornò
a sorridere verso il pubblico.
Anche lei stava decidendo di
collaborare con la giustizia;
non lo dava a vedere, ma
dentro di sé era preoccupata
per quello che poteva accadere.
Il giorno prima,
l'«accattone» aveva
verbalizzato le ansie della
donna: «In occasione del
colloquio telefonico avuto con
Fabiola Moretti il 26 marzo
u.s., la stessa mi ha informato
che appena avuti gli arresti
domiciliari è stata contattata da
Lamberto Canino, di Ostia,
detto 'pantera', il quale le ha
detto che Renzo Danesi lo
aveva incaricato di avvertire
l'ambiente che io mi stavo
'pentendo'. La Moretti, nel
corso della telefonata, era
particolarmente preoccupata,
perché mentre eravamo
entrambi detenuti avevamo
subito un furto in casa, il che è
sintomatico di una perdita di
prestigio nell'ambiente
malavitoso. Inoltre la Moretti
era preoccupata per il fatto che
riceveva visite di persone le
quali andavano a verificare la
notizia della mia
collaborazione. Non è stata in
grado di dirmi chi fossero i
visitatori: la telefonata è stata
interrotta per essere trascorsi i
minuti regolamentari». (26)
Con le confessioni di Mancini
e della Moretti, ancor più che
con quelle di Abbatino, si stava
aprendo agli inquirenti la
possibilità di andare a fondo nei
rapporti di personaggi come
Abbruciati e De Pedis non solo
con la «mala» milanese, la
mafia dei kalashnikov e dei
«colletti bianchi», l'eversione
nera, ma anche con «ambienti
istituzionali e personaggi
insospettabili»; il che -
avvertirà il giudice istruttore
nell'ordinanza di rinvio a
giudizio - può «creare qualche
'imbarazzo', tradottosi in
pressioni indebite su coloro che
ne sono, o almeno potrebbero
esserne, a conoscenza.» (27)
Una delle pressioni la
raccontò proprio Mancini, il
quale riferì al giudice quanto gli
aveva detto la Moretti, qualche
giorno prima. All'una di notte
qualcuno aveva bussato alla
porta di casa, spacciandosi per
colui che doveva controllare se
la donna - agli arresti
domiciliari - era effettivamente
in casa. Fabiola aprì, ma
anziché il solito carabiniere si
ritrovò davanti una faccia vista
più di dieci anni prima.
«Mi riconosci?» chiese
l'uomo entrando in casa. Dopo
qualche titubanza la donna
disse di sì, era uno che si
faceva chiamare Angelo. Lui
andò subito al sodo: «Che sta a
fa' Nino, si sta pentendo?» Lei
negò e quello promise che
entro dieci giorni lo avrebbero
fatto uscire dal carcere.
Fabiola, che dall'inizio sentiva
puzza di bruciato, sbottò:
«Perché lo volete far uscire?
Per fargli ammazzare qualcuno
o per ammazzare lui?» L'uomo
se ne andò senza rispondere.
Fabiola Moretti confermò
tutto il racconto del marito:
«Confermo in particolare di
aver subito pressioni e
intimidazioni, e di aver ricevuto
a questi fini la visita di 'Angelo',
che già conoscevo come uomo
in stretti rapporti con Danilo
Abbruciati. Con quest'ultimo,
'Angelo' condivideva molte
attività illegali; Danilo mi
aveva detto che si trattava di
una conoscenza importante,
appartenente a un Servizio
segreto o comunque
all'ambiente dei Servizi.
Sapevo che 'Angelo' e altri
dello stesso ambiente
risolvevano a Danilo numerose
grane; tramite loro, per quel
che mi risulta, Danilo ottenne
patente, passaporto e macchine
blindate. In più di un'occasione,
sapendo che stavo per essere
arrestata, ottenevo di evitare
ogni intervento nei miei
confronti». (28)
Al fianco di Abbruciati
Fabiola aveva vissuto quasi
dieci anni, testimone spesso
oculare delle sue «relazioni
pericolose». Dopo la morte di
Danilo si legò a Mancini e
collaborò a lungo con
«Renatino» De Pedis,
rimanendo al centro di intrecci
e affari sporchi. Adesso avrebbe
detto tutto, ma prima di andare
avanti la «donna dei boss»
volle spiegare perché s'era
decisa a collaborare con la
giustizia: «Sono consapevole
della gravità di quanto posso
raccontare, ma non intendo
proseguire una vita nella quale
debba quotidianamente temere
che qualcuno voglia eliminare
me o fare del male ai miei figli
per il timore che io possa
parlare. Spero che raccontando
ciò che è a mia conoscenza,
possa superare questo stato di
continua soggezione».
Il giorno dopo volle
precisare: «Desidero che si
capisca quanto per me questo
passo sia importante e in un
certo senso traumatico; infatti
segna un totale sconvolgimento
dei princìpi ai quali fino a oggi
mi sono ispirata e che mi rendo
conto di dover mutare... Erano
altri tempi, che mi rendo conto
essere irrimediabilmente
passati, e oggi devo pensare
alla salute dei miei figli e a dar
loro la possibilità di crescere in
un ambiente migliore di quello
nel quale sono cresciuta io».
Poi ricominciò a rispondere
alle domande del giudice.

***
I PROTAGONISTI.

[L'elenco comprende solo i


nomi dei personaggi principali.
Le divisioni per gruppo
originario di appartenenza e
quartiere di provenienza,
nonché i ruoli (con le relative
attribuzioni di fatti criminosi) e
i collegamenti con altri
personaggi, sono quelli indicati
negli atti giudiziari.]
Gruppo originario di base,
quartiere della Magliana:

Franco Giuseppucci, «er


negro», punto di contatto e
tramite con i neofascisti: Aldo
Semerari e Fabio De Felice;
Alessandro Alibrandi, Massimo
Carminati, Cristiano e Valerio
Fioravanti, ucciso il 13
settembre 1980; dell'omicidio
vengono accusati gli esponenti
del clan Proietti.
Maurizio Abbatino,
«crispino».
Edoardo Toscano,
«operaietto», ucciso il 16
marzo 1989.
Marcello Colafigli,
«Marcellone».
Antonio Mancini,
«l'accattone».
Claudio Sicilia, «il
vesuviano», punto di contatto e
tramite con la camorra di
Corrado Iacolare, Michele Zaza
e Lorenzo Nuvoletta, ucciso il
18 novembre 1991 dopo
essersi pentito e aver
testimoniato contro i suoi ex
amici.

Gruppo della zona Testaccio-


Trastevere:
Danilo Abbruciati, punto di
contatto e tramite con la mafia
di Pippo Calò, attraverso
Domenico Balducci ed Ernesto
Diotallevi, ucciso il 27 aprile
1982 a Milano, nel corso
dell'attentato al vicepresidente
del Banco Ambrosiano Roberto
Rosone, al quale Abbruciati
aveva appena sparato.
Enrico De Pedis, «Renatino»,
ucciso il 2 febbraio 1990.
Raffaele Pernasetti, «er
palletta».

Gruppo di Acilia-Ostia:
Nicolino Selis, punto di
contatto e tramite con la Nuova
Camorra Organizzata di
Raffaele Cutolo, ucciso il 3
febbraio 1981 dagli ex amici
della Magliana; il cadavere non
è mai stato ritrovato.
Antonio Leccese, cognato di
Selis, ucciso il 3 febbraio 1981
poco dopo l'esecuzione di Selis.
Giuseppe Magliolo, «il
killer», amico di Selis, trovato
morto il 24 novembre 1981;
stava tentando di organizzare
la vendetta contro gli assassini
di Nicolino.
Giuseppe Carnovale, «il
tronco».
Vittorio Carnovale, «il
coniglio».
Giovanni Girlando, «Gianni
il roscio», ucciso di 25 maggio
1990.
Fulvio Lucioli, «il sorcio».
Libero Mancone.

Gruppo della zona del


Tufello-Alberone:

Gianfranco Urbani, «er


pantera», punto di contatto e
tramite con la 'ndrangheta
calabrese di Paolo De Stefano.
Roberto Fittirillo.
Angelo De Angelis, «er
catena», ucciso il 10 febbraio
1983 perché sospettato dai suoi
amici di «tagliare» la cocaina
che doveva vendere per conto
della banda.

Clan Proietti:

Maurizio Proietti, «il


pescetto», ucciso il 16 marzo
1981.
Fernando Proietti, «il
pugile», fratello di Maurizio e
Mario, ucciso il 30 giugno
1982.
Mario Proietti, «palle d'oro»,
fratello di Maurizio e Fernando,
ferito in due diversi agguati, il
12 dicembre 1980 e il 16
marzo 1981.
Enrico Proietti, «er cane»,
cugino di Maurizio, Fernando e
Mario, ferito in un agguato il 27
ottobre 1980.
Orazio Proietti, figlio di
Enrico, ferito il 31 ottobre 1980
e poi trovato morto per
un'overdose di eroina.
Mariano Proietti, figlio di
Enrico, ucciso il 14 dicembre
1982 da elementi e per motivi
estranei alla banda della
Magliana.

Altri personaggi:

Orazio Benedetti,
«Orazietto», amico e
collaboratore dei Proietti,
ucciso il 23 gennaio 1981.
Daniele Raffaello Caruso,
ucciso il 22 gennaio 1983 dai
killer della Magliana perché
ritenuto responsabile
dell'omicidio di Mariano
Proietti.
Franco Nicolini, «er
criminale», ucciso all'ippodromo
di Tor di Valle il 26 luglio 1978
per questioni legate al controllo
delle scommesse clandestine.
Antonio Mottola, psichiatra,
collega di Aldo Semerari,
trovato morto su un'auto
bruciata il 25 luglio 1981.
Claudio Vannicola, «la
scimmia», ucciso per
concorrenza nel traffico di
droga il 23 febbraio 1982.
Amleto Fabiani, «er vòto»,
ucciso dopo una lite con
Colafigli il 15 aprile 1980.
Massimo Barbieri, ucciso
dopo alcuni contrasti con Sicilia
e Abbruciati il 18 gennaio
1982.
Sergio Carrozzi, titolare di
una boutique di Ostia e
«nemico» di Nicolino Selis,
ucciso il 29 agosto 1978.
Mario Loria, già implicato nel
delitto dei fratelli Menegazzo,
ucciso per contrasti legati al
traffico di droga e trovato
morto nel bagagliaio di un'auto
il 18 settembre 1983.
Pietro Sante Corsello, ucciso
per contrasti legati al traffico di
droga il 26 marzo 1991.
Roberto Abbatino, fratello di
Maurizio, trovato morto sul
greto del Tevere, otto giorni
dopo la scomparsa, il 26 marzo
1990.
Claudiana Bernacchia,
«casco d'oro», compagna di
Claudio Sicilia.
Fabiola Moretti, compagna
prima di Danilo Abbruciati e poi
di Antonio Mancini.

***
NOTE.

CAPITOLO 1.

1. Mandato di cattura
Giudice Istruttore Lupacchini
14-3-93, p. 141.
2. Ibidem.
3. Idem, p. 144.
4. Gangster milanese, «re»
delle case chiuse e delle bische,
Francesco «Francis» Turatello
ottenne appoggi e protezione
dalla mafia siciliana con la
quale faceva affari. Quando
provò a mettersi in proprio nel
commercio della droga, Cosa
Nostra decise di eliminarlo. Finì
ammazzato nel carcere nuorese
di Bad 'e Carros, il 17 maggio
1981, squartato a coltellate dal
camorrista Pasquale Barra,
detto «'o animale», e altri
cinque detenuti.
5. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 143.
6. Idem, pp. 18 e 20.
7. Ibidem.
8 Benedetto Blasi,
"Stradario romano", Edizioni
Colosseum, Roma 1986, p.
174.
9. A cura del Comitato di
quartiere, "La Magliana, vita e
lotte di un quartiere
proletario", Edizioni Feltrinelli,
Milano 1977, p.p. 26, 37-38.
10. Requisitoria del Pubblico
Ministero Luigi De Ficchy, 26-
11-1984, p. 8.
11. Idem, p. 13.
12. Sentenza della sesta
Corte d'Assise dì Roma 23-6-
86, p. 79.
13. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, 13-8-
1994, p. 18.
14. Sentenza della sesta
Corte d'Assise di Roma, cit., p.
111.
CAPITOLO 2.

1. Squadra Mobile di Roma,


relazione di servizio dell'8-8-
1978.
2. Interrogatorio di Ienni
Alberto, 27-7-1978.
3. Legione Carabinieri di
Napoli - Stazione dì Casoria,
rapporto del 4-8-1978.
4. Squadra Mobile di Roma,
rapporto del 3-8-1978.
5. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 21.
6. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit.,
p.p. 32-33.
7. Interrogatorio del 15
ottobre 1983.
8. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 156.
9. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
373.
10. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 157.
11. Interrogatorio di Claudio
Sicilia del 17-11-1986.
12. Interrogatorio del 18-
11-1986.
13. Da un colloquio con
l'Autore.
14. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 99.
15. Interrogatorio del 31-
10-1986. Al processo in Corte
d'Assise, le persone accusate da
Sicilia sono state assolte.
CAPITOLO 3.

1. Mandato di cattura g.i.


Lupacchini, cit., p. 93.
2. Idem, p. 181.
3. Idem, p. 185.
4. Interrogatorio del 24-11-
1986.
5. Interrogatorio di Claudio
Sicilia del 29-10-1986.
6. Pier Paolo Pasolini,
"Ragazzi di vita", Edizioni
Garzanti, Milano 1988, p. 47.
7 Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 209.
8. «Il Tempo», 18-3-1981.
9. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 212.
10. Idem, p. 216.
11. Ibidem.
12. «Il Messaggero», 29-1-
1983.
CAPITOLO 4.

1. Interrogatorio di Pietro
De Riz del 20-10-1983.
2. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
19.
3. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 21.
4. Interrogatorio del 20-10-
1983.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 25.
8. Ibidem.
9. Interrogatorio del 25-10-
1986.
10. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
52.
11. Idem, p. 35.
12. Interrogatorio del 25-
10-1986.
CAPITOLO 5.

1. Requisitoria del p.m. Luigi


De Ficchy, cit., p. 26.
2. Questura di Roma,
rapporto terza sezione Squadra
Mobile del 19-9-1989.
3. Interrogatorio del 23-10-
1986.
4. Ibidem.
5. Interrogatorio del 3-11-
1986.
6. Ibidem.
7. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 178.
8. Idem, p. 176.
9. Interrogatorio dell'1-12-
1986.
10. Interrogatori del 19-10-
1986 e del 22-12-1986.
11. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p.p. 61-62.
12. Squadra Mobile di Roma,
rapporto di denuncia a carico di
Abbatino Maurizio e Toscano
Edoardo, 7-5-1983.
13. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 53.
14. Idem, p. 54.
15. Idem, p.p. 66-67.
16. Sentenza della sesta
Corte d'Assise di Roma, cit., p.
247.
17. Ibidem.
18. Questura di Roma,
Squadra Mobile, esito
accertamenti, 6-2-1981.
19. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
327.
20. Idem, p. 331.
21. Idem, p. 332.
22. Ibidem.
23. Interrogatorio dell'11-
11-1986.
24. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
322.
25. Sentenza del tribunale
di Roma, nona sezione, del 16-
6-1989, cit. in Ordinanza di
rinvio a giudizio g.i. Lupacchini,
cit., p.p. 300 e segg.
26. Idem, p. 324.
27. Requisitoria del p.m.
Luigi De Ficchy, cit., p.p. 72 e
75.
28. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
229.
CAPITOLO 6.

1. Mandato di cattura g.i.


Lupacchini, cit., p. 32.
2. Interrogatorio del 31-10-
1986.
3. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
442.
4. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 197.
5. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
441.
6. Interrogatorio del 25-10-
1986.
7. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 196.
8. Interrogatorio del 18-10-
1983.
CAPITOLO 7.

1. Ufficio istruzione di
Palermo, ordinanza-sentenza
contro Abbate + 706, 8-11-
1985, p.p. 4640 e 4644.
2. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 37.
3. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
74.
4. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 43.
5. Idem, p.p. 43-44.
6. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
70.
7. Idem, p. 77.
8. Idem, p. 88.
9. Tribunale penale di Roma,
terza sezione, sentenza dell'8-
2-1986, p. 12.
10. Idem, p. 31.
11. Interrogatorio del 31-
10-1986.
12. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
88.
13. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p.p. 46-47.
14. Interrogatorio del 10-
12-1993, prima Corte d'Assise
di Milano.
15. Interrogatorio del 15-7-
1991, negli uffici della Procura
del distretto sud di New York.
16. Angelo Cosentino,
mafioso trasferitosi a Roma e
capo di una decina inserita
nella famiglia di Santa Maria di
Gesù, diretta da Stefano
Bontate.
17. Interrogatorio del 15-7-
1991, cit.
18. Interrogatorio del 4-12-
1984.
19. Senato della Repubblica,
Undicesima legislatura, Doc. IV
n. 169, Domanda di
autorizzazione a procedere
contro il senatore Giulio
Andreotti per il reato di cui agli
artt. 110, 575 e 577 n. 3 del
codice penale, trasmessa il 9-6-
1993, p.p. 14-15.
20. Interrogatorio del 19-
11-1986.
21. Interrogatorio del 15-7-
1991, cit..
22. Requisitoria del p.m.
Giovanni Salvi del 6-4-1991,
p.p. 1-2.
23. Noti come «gli esattori
di Salemi», legati a Salvo Lima
e al mondo democristiano della
Sicilia, furono rinviati a giudizio
nel maxiprocesso di Palermo
per il reato di associazione
mafiosa. Nino morì a
dibattimento in corso, Ignazio
fu condannato e assassinato nel
settembre del 1992.
24. Senato della Repubblica,
Undicesima legislatura, Doc. IV
n. 169, cit., p.p. 11-12.
25. Idem, p.p. 68-69.
26. Idem, p. 74.
27. «OP», n. 29 del 31-10-
1978.
28. Pino Arlacchi, "Addio
Cosa Nostra - La vita di
Tommaso Buscetta", Edizioni
Rizzoli, Milano 1994, p. 207.
29. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
127.
30. Interrogatorio di Fabiola
Moretti, contenuto in atti della
Procura di Palermo, proc. n.
3538/ 94 nei confronti di
Andreotti Giulio.
31. Interrogatorio di Antonio
Mancini, contenuto in atti della
Procura di Palermo, proc. n.
3538/94 nei confronti di
Andreotti Giulio.
32. Interrogatorio del 23-9-
1994.
33. Interrogatorio del 3-11-
1986.
34. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
358.
35. Idem, p.p. 359-360.
36. Ibidem.
37. Idem, p.p. 362-363.
CAPITOLO 8.

1. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Imposimato, 8-5-
1984.
2. Ibidem.
3. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p.p. 108-109.
4. Interrogatorio del 7-11-
1986.
5. Seconda Corte d'Assise
d'appello di Bologna, udienza
del 10-11-1989.
6. Interrogatorio del 15-10-
1982.
7. Interrogatorio del 2-3-
1982.
8. Interrogatorio del 21-6-
1985.
9. Interrogatorio del 15-10-
1982.
10. Ibidem.
11. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 107.
12. Ibidem.
13. Corte d'Assise d'appello
di Bologna, udienza del 2-3-
1994.
14. Interrogatorio del 5-6-
1985.
15. Ibidem.
16. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 99.
17. Jacques Forcet era uno
dei complici di Berenguer,
Bellicini e Bergamelli nella
banda dei Marsigliesi.
18. Interrogatorio del 21-6-
1985.
19. Interrogatorio del 12-5-
1986.
20. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 67.
21. Idem, p.p. 122-123.
22. Interrogatorio del 10-5-
1994.
23. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, p. 111.
24. Ibidem.
25. Idem, p. 112.
26. Idem, p. 123.
27. Idem, p. 117.
28. Sentenza della quinta
Corte d'Assise di Roma, 29-7-
1985, p.p. 166-167.
29. Interrogatorio dell'11-
12-1992.
30. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 124.
31. Procura della Repubblica
di Bologna, requisitoria nel
procedimento «bis» sulle stragi
dell'Italicus e alla stazione di
Bologna, 5-7-1994 p. 49.
32. Idem, p. 100.
33. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
51.
34. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 36.
35. Ibidem.
36. Interrogatorio al p.m. di
Perugia del 26-7-1994.
37. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
118.
38. Idem, p. 109.
39. Idem, p.p. 110 e 116.
40. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 48.
CAPITOLO 9.

1. Interrogatorio di Claudio
Sicilia del 5-11-1986.
2. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 223.
3. Idem, p. 224.
4. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
119.
5. Idem, p. 125.
6. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 48.
7. Ordinanza a rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
126.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 49.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Interrogatorio del 26-1-
1987.
14. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
333.
15. Idem, p. 184.
16. Idem, p. 183.
17. Ibidem.
18. Idem, p. 184.
19. «Il Messaggero», 3-2-
1990.
20. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, p. 230.
21. Questura di Roma, terza
sezione Squadra Mobile,
rapporto del 19-9-1989.
22. Ibidem.
23. Interrogatorio di Antonio
Mancini, contenuto in atti della
Procura di Palermo, proc. n.
3538/94 nei confronti di
Andreotti Giulio.
24. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, p. 340.
25. Idem, p. 339.
26. Idem, p. 341-342.
27. «La Repubblica», 27-3-
1990.
28. «Il Tempo», 25-5-1990.
29. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
346.
CAPITOLO 10.

1. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit.,
p.p. 6-7.
2. Idem, p.p. 7-8.
3. Idem, p. 5.
4. Idem, p. 8.
5. Interrogatorio del 15-10-
1983.
6. Requisitoria del p.m. Luigi
De Ficchy, cit., p. 8.
7. Interrogatorio del 14-11-
1983.
8. Memoriale Lucioli, p.p. 7-
8.
9. Idem, p. 10.
10. Interrogatorio del 19-
10-1983.
11. Requisitoria del p.m.
Luigi De Ficchy, cit., p. 9-10.
12. Sentenza della sesta
Corte d'Assise di Roma, cit.,
p.p. 61-62.
13. Idem, p.p. 63-64.
14. Corte di Cassazione,
prima sezione penale, sentenza
del 14-6-1988, p.p. 33-35.
15. Idem, p.p. 46-48.
16. Idem, p.p. 49-50.
17. Interrogatorio del 19-
10-1986.
18. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
133,
19. Interrogatorio del 21-
10-1986.
20. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
3.
21. Memoriale Sicilia, p. 34.
22. Prima Corte d'Assise di
Milano, udienza del 10-12-
1993.
23. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, p. 227.
24. Ibidem.
25. Interrogatorio dell'11-3-
1994.
26. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
130.
27. Idem, p. 128.
28. Idem, p. 130.
29. Idem, p. 131.
30. Interrogatorio dell'8-5-
1994.

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