RAGAZZI DI
MALAVITA
Prefazione, di Gianni De
Gennaro.
RAGAZZI DI MALAVITA.
Avvertenza dell'autore.
1. Nobili e borgatari.
2. Napoletani a Roma.
3. Fuoco sui «pesciaroli».
4. Polvere.
5. Bulli, pupe e affari
sporchi.
6. «Ciao, Nicolino».
7. Cosa Nostra e i misteri
d'Italia.
8. Amici neri, Servizi e
segreti.
9. La strage.
10. Pentimenti.
I protagonisti.
Note.
***
PREFAZIONE
di Gianni De Gennaro.
G. B.
Roma, gennaio 1995
***
1. NOBILI E
BORGATARI
La prima telefonata a
palazzo Grazioli arrivò meno di
un'ora dopo il sequestro, alle
diciannove e quindici del 7
novembre 1977. Una voce
contraffatta disse soltanto
poche parole: «Preparate dieci
miliardi». La richiesta del
riscatto finì subito sui
quotidiani, e un paio di giorni
più tardi il telefonista della
banda si rifece vivo. Parlò con il
figlio del duca, Giulio, un
ragazzo abituato agli agi e ai
vizi tipici dei rampolli della
nobiltà romana, ma anche alle
regole rigide imposte dal
sangue blu, che
improvvisamente si ritrovava
sbattuto in una vicenda di
cronaca nera. Il telefonista si
lamentò per le notizie uscite
sui giornali, ribadì la cifra
richiesta e specificò che doveva
essere consegnata in biglietti di
piccolo taglio. Giulio voleva la
prova che suo padre fosse vivo,
e che quelli al telefono fossero
davvero i suoi rapitori:
«Chiedetegli e riferitemi quale
fu la sua prima macchina». La
risposta arrivò dopo
quarantott'ore: «La macchina
era una Lancia Augusta. Ma voi
dovete sborsare dieci miliardi».
«Non ce li abbiamo», disse
Giulio, «adesso possiamo darvi
duecentonove milioni.» Il
rumore dell'ultimo gettone che
cadeva interruppe la
telefonata.
Passò mezz'ora e il rapitore
era di nuovo dall'altra parte del
filo: «Ascolta, duecentonove
milioni non sono niente per noi.
Chiedi i soldi a tuo zio e a tua
madre». Anche i sequestratori
sapevano della vendita del
«Messaggero» da parte della
famiglia Perrone, e volevano
quei soldi. I telefoni di palazzo
Grazioli, naturalmente, erano
sotto controllo, ma i tecnici
riuscirono a stabilire soltanto
che le chiamate arrivavano
dalla zona di Ladispoli,
quaranta chilometri a nord di
Roma, lungo il mare.
Passarono i giorni, le
settimane, e con lo stile delle
Brigate Rosse che di lì a poco
sarebbe diventato famoso, i
sequestratori del duca facevano
arrivare di tanto in tanto
messaggi e fotografie
dell'ostaggio attraverso i
giornali. Telefonavano alle
redazioni: «C'è un'informazione
importante nel cestino
dell'immondizia vicino a Castel
Sant'Angelo», «Correte in
quella cabina telefonica»,
«Andate in quel bar». Le
chiamate arrivavano quasi
sempre da fuori Roma, con una
voce chiaramente falsata. «Il
telefonista», confesserà uno dei
sequestratori, «parlava con una
pallina da ping-pong in bocca,
per camuffare la voce.»
Le lettere per la famiglia
dell'ostaggio erano battute con
una macchina da scrivere
giocattolo, oppure composte
con ritagli di giornale secondo il
più consumato degli
accorgimenti usati dai criminali.
Da palazzo Grazioli
continuavano a domandare
particolari sulla vita privata del
duca, sempre per verificare che
fosse vivo: «Come si chiamava
la prima balia di Giulio? Chi era
il falegname che fece i lavori a
casa?» E scritte a lato dei
messaggi dei rapitori, con
calligrafia malferma,
arrivavano le risposte del
rapito. Qualche volta, sugli
stessi fogli, c'erano le minacce
dei sequestratori e le parole
affettuose del duca. «Ricordati
la fine di 'Pallino' fatta a Pisa»,
scrivevano i sequestratori a
Giulio, riferendosi a un cavallo
ammazzato prima di una corsa.
Poco più in basso una frase
dell'ostaggio alla moglie
Isabella: «Ho saputo che non
sei stata tanto bene. Ti invio
infiniti auguri. Tuo Max».
Una notte, dal cortile di
palazzo Grazioli sparì la
macchina della duchessa.
Accadde in un periodo in cui i
contatti coi sequestratori
sembravano interrotti, e il furto
fece pensare a un'ulteriore
minaccia di chi aveva in mano
il duca: se volevano erano
davvero in grado di fare ciò che
dicevano.
Il 14 febbraio 1978 giunse il
messaggio che stabilì il contatto
decisivo per il pagamento del
riscatto. Le richieste dei
sequestratori erano scese di
molto. Perché tutto andasse
bene Giulio doveva far mettere
un annuncio su un quotidiano,
«Il Tempo»: «Gambero rosso
tutte le specialità marinare,
pranzo a prezzo fisso, Lit.
1500». Quel 1500 stava a
significare un miliardo e mezzo,
l'ultima cifra fissata per la vita
del duca Grazioli. E lui,
l'ostaggio, scrisse alla moglie
una raccomandazione:
«Collabora con questi signori
nella fase del mio rilascio,
perché è gente d'onore».
Ma incassare il riscatto non
era facile. I carabinieri, oltre a
intercettare tutte le telefonate,
seguivano ogni passo di Giulio
Grazioli, e c'era il rischio per i
rapitori di essere catturati
mentre ritiravano i soldi. Ad
avvisarli era quell'Enrico, amico
di Giuseppucci e di Giulio
contemporaneamente, sul
quale solo più tardi si addensò
qualche sospetto, quando lui
era già sparito dalla
circolazione. Il gestore della
sala corse avvisò Giuseppucci
che «le guardie» stavano
sempre dietro al figlio del duca,
e che addirittura il tettuccio
della sua macchina era stato
dipinto con una vernice
speciale che lo rendeva visibile
anche di notte. La consegna del
denaro saltò in diverse
occasioni, ogni volta si scopriva
una macchina che non doveva
esserci, probabilmente
un'autocivetta dei carabinieri.
Fu così che si decise di
organizzare, nella sera
stabilita, una specie di caccia al
tesoro. E per l'occasione i
rapitori rubarono un'auto, una
Volkswagen Golf, con la quale
Giulio si sarebbe dovuto
muovere.
L'ultima telefonata a palazzo
Grazioli arrivò la sera del 4
marzo 1978. Rispose Giulio,
dall'altra parte una voce con
accento romano: «Stai
tranquillo, avrai la prova di tuo
padre. Prendi la metropolitana
fino alla stazione Magliana
partendo da via Aventina».
Clic. Giulio prese il miliardo e
mezzo in banconote già pronte,
e accompagnato da un amico
uscì di casa per andare alla
metropolitana. Arrivato alla
stazione indicata, in un cestino
della spazzatura trovò il primo
messaggio firmato dal nome in
codice scelto dai rapitori: «Sali
le scale di fronte a te, troverai
una macchina tipo Golf
Volkswagen di colore bianco,
targata Roma R29185, e
troverai altre istruzioni sopra il
parasole. Leone Rosso».
L'auto era quella rubata dai
sequestratori, dentro c'erano le
chiavi e il biglietto con le nuove
indicazioni: «Dirigiti sulla via
Cristoforo Colombo fino allo
stabilimento Kursaal di Ostia, di
fronte allo stesso stabilimento
troverai una tabella
dell'autobus con cestino
attaccato. Dentro troverai una
busta di plastica con altre
istruzioni. Leone Rosso». Alla
terza tappa, «Leone Rosso»
fece trovare una piantina
disegnata a penna e nuove
indicazioni: «Rimonta in
macchina e avviati verso Ostia
per prendere la via Ostiense in
direzione Roma seguendo bene
le frecce che indicano
l'aeroporto. Dopo fatto un
tratto dell'Ostiense che è a
senso unico troverai
l'indicazione Fiumicino
aeroporto, gira e vai verso
Roma e verso autostrada
Civitavecchia. Giunto al grande
cartello che indica diritto per
Roma, a seicento metri per
Civitavecchia fermati che
troverai altre indicazioni».
Giulio e il suo amico fecero
come gli era stato ordinato, e
arrivarono al quarto
messaggio: «Rimonta in
macchina e prendi l'autostrada
per Civitavecchia,
oltrepassando il casello
preparati, che al prossimo
appuntamento troverai la foto
di tuo padre. Una volta passato
il casello assumerai una
velocità di cinquanta chilometri
all'ora per arrivare al cartello
numero 17 indicante Cerveteri-
Ladispoli chilometri 11, fermati
posteggiando sulla tua destra,
traversa e dietro troverai altre
indicazioni. I messaggi li
troverai attaccati in basso sul
palo di sostegno». Stavolta la
firma era diversa, «Giglio
Rosso».
Arrivati sull'autostrada, la
caccia al tesoro non era ancora
finita. Un altro messaggio di
«Leone Rosso»: «Giulio,
rimonta in macchina e avviati
sempre alla stessa velocità
verso il cartello numero 20
indicante allacciamento Aurelia,
riposteggiati, ritraversa e
prendi sempre nello stesso
posto dove "ai" trovato il
precedente, troverai altre
informazioni». Il figlio del duca
Grazioli fece ciò che era scritto
su quel foglietto, risalì in
macchina e proseguì fino al
segnale stradale scelto dai
rapitori. Lì c'era, insieme a una
fotografia di suo padre, l'ultimo
messaggio: «Giulio, sei arrivato
alla fine della corsa. Proprio di
fronte al cartello, e cioè dove
"ai" posteggiato, c'è il parapetto
di un ponte, affiancati e getta
di sotto la borsa con i soldi,
rimonta in macchina e vai fino
a Civitavecchia, esci
dall'autostrada e prendi
l'Aurelia, e torna a casa. Stai
tranquillo intanto, perché hai in
mano la foto recentissima. Se
tutto andrà come noi vogliamo
a distanza massima di
ventiquattr'ore riceverai la
telefonata di papà. Leone
Rosso».
Alla luce dei fari della
macchina Giulio scrutò la foto
di suo padre, il duca Grazioli,
ritratto in piedi davanti alla
porta di una stanza, la barba
lunga, in mano una copia de «Il
Tempo» di quel giorno. Prese
dall'auto la borsa coi soldi, si
avvicinò al ponte indicato
nell'ultimo messaggio e da
sotto sentì delle voci che
gridavano le parole d'ordine
concordate nelle telefonate:
«Forza, butta i soldi e
vattene», aggiunsero. Giulio
ebbe un attimo di esitazione,
ma poi si convinse che lì sotto
c'erano i rapitori di suo padre.
Non si vedeva niente, il buio
non lasciava nemmeno intuire
la presenza di persone o
automobili. Giulio gettò la
borsa dal ponte, risalì in
macchina col suo amico e prese
la strada per tornare a casa.
Arrivato a palazzo Grazioli,
cominciò l'attesa della
telefonata di papà.
Mentre i «palazzinari»
facevano scempio della borgata
sorta sotto il livello del Tevere,
dai litorali di Acilia e di Ostia -
più a sud della Magliana, una
sorta di sbocco naturale verso il
mare - era sbarcato a Roma un
altro gruppo criminale. Le sue
origini, e i nomi di maggiore
spicco, si ritrovano nella
requisitoria di un pubblico
ministero: «Nel 1975, giovane
di circa ventun'anni, Lucidi
Fulvio conosce Gianni Girlando,
già all'epoca dotato di
particolari doti delinquenziali e
in contatto con Nicolino Selis,
Urbani Gianfranco e altri
elementi di rispetto della
malavita. Preso
dall'ammirazione per la
personalità del Girlando, con il
quale ha conservato un
rapporto di amicizia anche dopo
averlo accusato di gravi delitti,
il Lucioli sale con lo stesso le
scale del crimine fino ad
arrivare a posizioni di vertice».
(10)
Anche questi cominciarono
coi furti e le rapine: alle
tabaccherie, agli uffici postali,
ai treni. «Si forma quasi
immediatamente una
organizzazione che si dedica
per otto mesi, da gennaio
all'agosto 76, al compimento di
rapine a mano armata e reati
connessi. Il Lucidi racconta che
la stessa era composta da lui,
Selis, Girlando, Urbani,
Capogna Renato, Apolloni
Franco, Simeoni Raffaele. Tale
era l'associazione di base a cui
di volta in volta si sono
aggiunti altri complici.» (11)
Cominciarono con l'assalto al
deposito della Superpila, nel
gennaio di quell'anno.
Racconterà Lucioli che un
dipendente della fabbrica da
«ripulire», cognato di Girlando
detto «Gianni il roscio», fece da
basista procurando le chiavi del
deposito e avvertendo quando
sarebbe stato pronto il camion
con la refurtiva. Il giorno
stabilito Lucioli, il «roscio» e un
certo Mariolino entrarono nel
deposito, trovarono il camion
carico di calcolatrici e altra
merce di valore, provarono a
metterlo in moto ma non
riuscirono a farlo partire. Allora
tolsero i sedili posteriori a
un'Alfa 2000 trovata nel
parcheggio e caricarono una
parte della refurtiva. Poi
tornarono col furgone di un
loro amico fruttivendolo e
portarono via il resto del carico.
Quattro mesi più tardi, il 26
aprile, Fulvio Lucioli festeggiò il
suo ventiduesimo compleanno
a Fondi, in provincia di Latina,
rapinando venti milioni insieme
a Nicolino Selis nella filiale del
Banco di Napoli. Selis entrò in
banca col camice nero da
fruttivendolo, e puntando la
pistola alla tempia di un cliente
che stava depositando i suoi
soldi prese il pacco con le
banconote; Lucioli lo aspettava
fuori a bordo di una Kawasaki
900, col casco in testa e la tuta
blu da meccanico.
Il 21 giugno il gruppo si
spostò in Toscana, a Pontedera,
per assaltare l'ufficio postale
della stazione ferroviaria. Selis
e Girlando entrarono armati, e
con un calcio tra le gambe
costrinsero l'impiegato di turno
ad aprire l'armadio blindato
dov'erano custoditi venticinque
milioni.
Il 27 giugno, giorno di
stipendi, toccò all'Esattoria
consorziale di Palestrina.
Quattro giovani armati di
pistole e mitra, due a volto
scoperto e due col
passamontagna, rapinarono
quasi cento milioni di lire, la
paga mensile dei dipendenti
dell'ospedale. L'azione fu
guidata da Selis e Lucioli il
quale aggiungerà che del
gruppo di banditi faceva parte
anche un certo Pasquale,
camorrista napoletano.
Due settimane dopo,
l'irruzione in un'altra stazione
in Toscana, quella di Follonica:
«Egidio Angiolini, dipendente
della ditta appaltatrice dei
trasporti postali, veniva
affrontato da due individui a
viso scoperto con spiccato
accento romanesco, i quali gli
puntavano una pistola alla nuca
e si facevano consegnare due
pacchi contenenti i valori e,
dopo averlo legato con del filo
di ferro, chiudevano la porta a
chiave e si dileguavano». (12) I
due individui erano Girlando e
Selis, Lucioli aspettava
nell'appartamento che era
servito da base. Bottino della
rapina: ventitré milioni e 950
mila lire.
Passarono otto giorni, e il 22
luglio venne presa di mira
l'agenzia del Monte dei Paschi
di Siena a Riva del Sole,
frazione di Castiglion della
Pescaia. Lucioli, Selis, Girlando
e un altro bandito portarono
via quattordici milioni e mezzo.
Il 10 agosto di quell'estate
vissuta all'insegna del «mordi e
fuggi», il gruppo diede l'assalto
al treno. Verso le diciotto, sul
diretto che andava da Chiusi a
Siena, tre uomini armati e
mascherati si presentarono
nella vettura di coda, chiusero
il controllore in uno
scompartimento, tennero per
qualche minuto i passeggeri
sotto tiro, presero quattro
sacchi postali pieni di
raccomandate e assicurate e
bloccarono il treno col freno
d'emergenza all'altezza di un
passaggio a livello. Scesi dal
vagone, i rapinatori
raggiunsero la Fiat 126 su cui li
aspettava un complice e
fuggirono verso l'Autostrada del
Sole, dove entrarono tagliando
una delle reti di recinzione.
Due ore più tardi, una pattuglia
di polizia fermò una Porsche
sulla via Prenestina: a bordo
c'erano Giovanni Girlando,
Fulvio Lucioli, una pistola
calibro 38 con cinque pallottole
nel tamburo, una Beretta
calibro 19 completa di
caricatore e cartucce, una
Browning 7.65 col colpo in
canna, due paia di guanti e due
passamontagna. Addosso a
Girlando un biglietto ferroviario
valido per il treno Chiusi-Siena
di quel giorno, timbrato dallo
stesso controllore che era stato
rinchiuso nello
scompartimento. I due furono
arrestati, processati e
condannati: cinque anni e dieci
mesi di carcere a Girlando, due
anni e otto mesi a Lucioli.
***
2. NAPOLETANI A
ROMA.
Ad ammazzare Franco
Nicolini, sul piazzale di Tor di
Valle, erano andati in sette.
L'ottavo del gruppo, Franco
Giuseppucci, aspettava
all'interno dell'ippodromo.
Avevano due macchine, la 132
rossa rubata da Lucioli qualche
giorno prima e una 131 scura,
rubata anche quella.
Aspettarono «il criminale» al
parcheggio, e appena si accorse
di loro Franchino tentò di
scappare. Partirono i primi
colpi, e la fuga di Nicolini fu
bloccata dalla 132 che gli si
mise davanti. A quel punto i
due killer gli scaricarono
addosso le loro pistole. Il
medico legale disse che era
stato colpito da nove proiettili:
uno gli trapassò la guancia, un
altro l'emitorace destro e un
altro ancora il braccio destro,
due lo colpirono al torace e
quattro alla testa. «E' morto
quasi istantaneamente»,
sentenziò il referto.
Nessun testimone lo disse,
ma in quella pioggia di fuoco
rimase ferito anche uno degli
assassini, Nicolino Selis, colpito
al piede, di striscio, da un
proiettile. I suoi complici lo
portarono a medicarsi al
Sant'Eugenio, da un infermiere
amico loro che non fece
figurare nulla sui registri
dell'ospedale.
Quattordici anni più tardi,
nel 1992, Maurizio Abbatino,
che faceva parte del
«commando» di Tor di Valle, ha
confessato al giudice istruttore:
«I componenti del gruppo che
commise l'omicidio erano:
Renzo Danesi alla guida della
Fiat 132, io alla guida della Fiat
131, Enzo Mastropietro,
Giovanni Piconi, Edoardo
Toscano, Marcello Colafigli,
Nicolino Selis. A sparare furono
Toscano e Piconi, le armi usate
erano a canna corta e tutti,
comunque, eravamo armati.
All'interno dell'ippodromo si
trovava, invece, il solo Franco
Giuseppucci. Successivamente
all'esecuzione dell'omicidio
abbandonammo le auto e ci
portammo tutti a casa mia,
dove in un secondo tempo ci
raggiunse anche Giuseppucci.
La mia abitazione in quel
periodo era libera, poiché la
mia famiglia aveva affittato una
casa sul litorale di Fondi
insieme a Renzo Danesi. Per
commettere l'omicidio ci
eravamo spostati, sia io che il
Danesi, da Fondi a Roma, il che
doveva rappresentare una
specie di alibi». (8)
Il gruppo che stava
nascendo dalla fusione tra
quello di Giuseppucci e quello
di Selis aveva più di un motivo
per eliminare Franco Nicolini.
Nicolino Selis lo cercava da
qualche anno, da quando aveva
litigato con Franchino a Regina
Coeli. Era il '74 o il' 75, e nel
vecchio carcere romano si
respirava aria di rivolta. I
detenuti godevano di molta
libertà, in pratica erano loro a
dettare legge, e per questo
ogni volta che arrivavano ordini
di trasferimento si barricavano
nelle celle e impedivano agli
agenti di custodia di entrare.
Ma in un'occasione, una mano
alle guardie la diede proprio
Nicolini, che insieme a un altro
detenuto si mise a girare per i
corridoi e convinse gli altri ad
aprire le porte delle celle,
costringendoli a uscire e a fare
quello che dicevano gli agenti.
Selis vide tutto e affrontò
Franchino, gli disse che era
«una guardia infame», che gli
mancava solo il berretto. Volò
anche qualche schiaffo, un
affronto che per uno come
Selis, considerato un capo a
Regina Coeli, non poteva
restare impunito.
Tornati tutti e due in libertà,
Selis decise di punire «il
criminale», e chiese l'appoggio
a quelli della Magliana anche
per saggiarne l'affidabilità sul
piano operativo, visto che da
allora in avanti avrebbero
dovuto «lavorare insieme».
Abbatino, Giuseppucci e
compagni non erano stati a fare
tante domande: sapevano che
tra quei due c'era della ruggine
e tanto bastava. Del resto
anche a loro, decisi a
conquistare la supremazia su
Roma, non andava giù che
Nicolini continuasse a fare «il
capo». «La decisione di fargliela
pagare», ha raccontato Antonio
Mancini, «era già stata presa
prima della sua scarcerazione,
si attendeva solo l'occasione
propizia per ammazzarlo». (9)
Ma a parte la vendetta, c'era
qualche altro motivo per
togliere di mezzo Franchino. Il
controllo delle gare a Tor di
Valle, per esempio.
«Giuseppucci», ha spiegato
Abbatino, «riusciva quasi
sempre a condizionare
l'andamento di qualche corsa e
Nicolini, essendo un allibratore
di un certo calibro e avendo un
sostanzioso controllo
dell'ippodromo, spesso
intralciava i programmi del
primo, ma anche quelli di altri
allibratori i quali operavano a
Tor di Valle ed erano, a loro
volta, legati a organizzazioni
malavitose come la camorra...
«L'organizzazione di
Raffaele Cutolo, nell'ambiente
delle corse, aveva come
referenti Vincenzo Casillo e
Giuseppe Rizzo, proprietario di
cavalli e fantino. Ricordo che
proprio dopo l'omicidio Nicolini
facemmo una cena presso il
ristorante Bastianelli di
Fiumicino, e avemmo un altro
incontro nella villa di un
fantino sulla via Cristoforo
Colombo con il Casillo, il Rizzo
e un altro napoletano che
ricordo chiamarsi 'Mimì 'o
pruovolo', già visti, in
precedenza, con Nicolino Selis.
Questi due incontri ai quali
partecipammo io, il Selis e il
Giuseppucci, avevano lo scopo
di convincere il fantino del
quale non ricordo il nome ma
che godeva di un certo
prestigio e aveva molti
'movimenti', ad accordarsi con
il Rizzo per condizionare
l'andamento delle corse a Tor di
Valle, facendogli capire che
l'accordo era possibile in
quanto, a seguito della morte di
Franco Nicolini con il quale egli
'lavorava' in precedenza, ormai
l'ippodromo era in mano nostra
e dei napoletani.» (10) C'è da
credere che il fantino si lasciò
convincere piuttosto in fretta.
Nicolino Selis era uno che
alle vendette non rinunciava. A
«Franchino er criminale» aveva
fatto pagare uno sgarro subito
in carcere, e un altro della
banda raccontò che dopo
l'omicidio di Tor di Valle,
nonostante la ferita al piede,
Nicolino faceva salti di gioia
gridando: «Ce l'ho fatta, ce l'ho
fatta!» Sergio Carrozzi, invece,
morì perché in galera, Selis, ce
l'aveva mandato.
Successe in una strada di
Ostia, la sera del 29 agosto del
'78, un mese dopo l'esecuzione
di Franchino. Sergio Carrozzi,
trentotto anni, non era uno
stinco di santo: aveva
precedenti penali per rissa,
furti aggravati, lesioni, ingiurie,
truffa e guida senza patente. A
Ostia Lido aveva aperto una
boutique, col nome e l'insegna
un po' pacchiani, Sergio's. I
«bravi ragazzi» di Ostia,
guidati da Nicolino Selis e
Gianni Girlando, «il roscio»,
l'avevano presa di mira, e a
Carrozzi cominciarono a
chiedere soldi. Telefonava
proprio Selis: «Ci devi dare
dieci milioni, altrimenti ci vai di
mezzo tu, il tuo negozio e la
tua famiglia». Sergio non
cedette, e per tutta risposta
denunciò gli estorsori facendoli
arrestare, Selis compreso. Da
quel momento le telefonate a
casa sua non chiedevano più
soldi, ma annunciavano
vendetta contro quel «Giuda»
che li aveva spediti dietro le
sbarre. Se rispondeva lui,
dall'altra parte del filo
restavano in silenzio, ma se
andavano la moglie o la cugina,
che lavoravano come
commesse nel negozio,
venivano riempite d'insulti: «Tu
sei una troia e tuo marito un
infame»; «Zoccola, lo prendi
nel sedere». Una volta rispose
il cugino Valentino, il
telefonista pensò che fosse
Sergio e si decise a parlare: «E'
arrivata la tua ora, devi morire,
è arrivato il tuo momento»,
disse.
E se quelli dicevano una
cosa, poi la facevano. La sera
del 29 agosto Carrozzi stava
giocando a carte in strada, ai
tavolini di un bar accanto alla
boutique. Era con tre amici,
andavano avanti da più di
un'ora, una partita di tressette
e una di briscola. All'improvviso
dietro le spalle di Sergio
comparve una persona, occhiali
da sole, pantaloni chiari e
camicia a strisce. Sparò tre
colpi alla schiena e alla nuca di
Carrozzi, senza dire una
parola. Il rumore degli spari fu
coperto dal rombo della moto
guidata da un complice
dell'assassino, sulla quale il
killer salì di corsa. Era
un'Honda 500, e fu ritrovata
un'ora e mezzo più tardi sotto
un cavalcavia. Fulvio Lucioli era
andato a prenderla
sull'autostrada Roma-Napoli,
qualche giorno prima. La stessa
storia dell'omicidio Nicolini, lui
rubava macchine o moto e poi,
leggendo i giornali, veniva a
sapere che servivano per gli
omicidi. Oltre alla Honda, il
«gruppo di fuoco» di Ostia
aveva usato un paio di
macchine e un'altra moto, una
Kawasaki. A sparare fu
l'«operaietto», Edoardo
Toscano; in una macchina c'era
Maurizio Abbatino, che rivelerà
tutti questi particolari nel
1992; sulla Kawasaki sedeva
Fabrizio Selis, fratello di
Nicolino. Quelli della Magliana
non lo volevano portare,
dicevano che era un tipo
inaffidabile, ma siccome si
trattava di vendicare il fratello
lo fecero partecipare
all'esecuzione: un fatto
simbolico.
Le cene da Bastianelli a
Fiumicino e al ristorante di Tor
di Valle tra Giuseppucci,
Abbatino e i loro amici coi
napoletani legati a Raffaele
Cutolo, divennero un'abitudine.
Una volta all'ippodromo, in
compagnia del «negro» arrivò
pure Claudio Sicilia, uno di
circa trent'anni nato a
Giugliano, in provincia di
Napoli, trapiantato a Roma e
imparentato con la famiglia
Maisto, la faccia da studente
universitario, ma già coinvolto
in un omicidio di camorra, la
morte di un contrabbandiere
diventato troppo potente. Nella
capitale abitava dalle parti della
Magliana, e frequentando gli
stessi bar aveva conosciuto i
«bravi ragazzi», che poco dopo
affibbiarono un soprannome
anche a lui e presero a
chiamarlo «il vesuviano».
Il primo che incontrò Sicilia
fu Marcello Colafigli, il quale un
giorno gli disse che una
persona importante, che aveva
parlato bene di lui, lo voleva
rivedere. Per questo, quella
sera, Giuseppucci lo
accompagnò a Tor di Valle. Ma
all'appuntamento la «persona
importante» non poté
presentarsi: si trattava di
Raffaele Cutolo, rimasto
bloccato a Napoli perché
avevano rapito il figlio di un
commerciante suo amico; il
boss di Ottaviano voleva
occuparsi da vicino, e con tutta
la sua autorità, di quel
sequestro.
In assenza di Cutolo, a Tor
di Valle Claudio Sicilia trovò
altri esponenti della Nuova
Camorra Organizzata, i quali gli
confermarono la stima di «don»
Raffaele nei suoi confronti.
Allora Sicilia ricordò che tra il
'67 e il '68, quando aveva
appena compiuto diciott'anni,
nel padiglione Avellino del
carcere di Poggioreale dov'era
stato rinchiuso per l'omicidio di
quel contrabbandiere, aveva
conosciuto Raffaele Cutolo, il
quale l'aveva preso a ben
volere e aveva conservato di lui
un buon ricordo, tanto da
parlarne bene ai suoi soci in
affari.
I «padrini» sono fatti così,
se decidono che uno è un bravo
ragazzo se lo ricordano anche
dopo dieci anni. E Claudio s'era
comportato bene con «don»
Raffaele e con altri boss come
Bardellino, sia in galera che
fuori. Una volta uscito, infatti,
si preoccupò di spedire a
Poggioreale i pacchi con le cose
che gli avevano chiesto quelli
rimasti dentro: cartoline e
francobolli, cioccolata e altra
roba che rende meno dura la
vita del carcere. Per questo il
boss di Ottaviano gli era
riconoscente, e per questo lo
voleva riabbracciare.
Prima che veri e propri
affari, tra romani e napoletani
ci furono scambi di favori.
Accadde, per esempio, quando
l'«operaietto» e Lucioli, su
richiesta di Cutolo, erano
dovuti andare fino a Ottaviano,
per prelevare una BMW verde
metallizzata e portarla a Roma
per farla distruggere da uno
«sfasciacarrozze». Bisognava
liberarsene perché lì dentro il
boss in persona aveva
ammazzato due uomini che poi
erano stati buttati in mare, un
costruttore che si era rifiutato
di pagare una tangente e il suo
segretario. L'auto era rimasta
sporca di sangue e siccome era
un modello vistoso e poco
comune, dovevano
sbarazzarsene. Nella zona di
Napoli, però, qualcuno avrebbe
potuto notarla, e quindi quelli
della Magliana la presero in
consegna. Fu Giuseppucci, al
quale venne affidata a Roma, a
portare la Mercedes con le
tracce del delitto dal demolitore
giusto, uno che non avrebbe
mai parlato.
Col gruppo dei cutoliani, in
un'altra occasione, Selis e i
suoi amici fecero dei furti ai Tir
che trasportavano tappeti
persiani e sete cinesi. Il titolare
della ditta di trasporti pensò di
rivolgersi a Giuseppucci per
tentare di recuperare la merce,
senza sapere che era stato
proprio il gruppo del «negro» a
rubarla, con la complicità della
società di import-export di un
camorrista, lo stesso che
gestiva le operazioni
internazionali del trasportatore.
E quando un gruppo di fuoco
della N.C.O., la Nuova Camorra
Organizzata di Raffaele Cutolo,
si trasferì a Roma per tentare
di eliminare il boss rivale
Michele Zaza, chiese e ottenne
l'appoggio della banda della
Magliana. Abbatino e Toscano,
diventati amici inseparabili,
procurarono ai napoletani - tra
cui Enzo Casillo, Giuseppe Puga
detto «Giappone» e due ragazzi
di Pozzuoli chiamati «i
puzzolani» - appoggi e armi. E
li accompagnarono in giro per
le vie di Roma, alla ricerca di
Zaza, uno che alla Magliana era
noto perché suo suocero
gestiva i grandi magazzini della
borgata.
Michele Zaza detto «'o
pazzo», un altro camorrista
trafficante di droga trasferitosi
a Roma e legato alla mafia
siciliana tramite i corleonesi di
Totò Riina, era dunque un
nemico dei cutoliani. Ma
quando quel Claudio Sicilia
tanto caro a «don» Raffaele finì
a Regina Coeli per una storia di
hashish e marijuana e se lo
trovò davanti, i due divennero
amici. Un'amicizia interessata,
visto che essere protetto da
uno come Zaza voleva dire, per
esempio, poter frequentare
altri detenuti anche se i
magistrati avevano ordinato
l'isolamento. In carcere «'o
pazzo» faceva il bello e il
cattivo tempo. Dall'esterno,
rivelerà Sicilia, gli arrivava
regolarmente la cocaina,
perfino un sacerdote gli fece da
inconsapevole corriere. Uno dei
cappellani di Regina Coeli,
infatti, portava dall'esterno
delle bottigliette di medicine.
Zaza aveva raccontato al prete
di averne bisogno perché,
diceva, stava facendo lo
sciopero dei medicinali per
essere trasferito in ospedale,
ma per non correre il rischio di
aggravarsi troppo doveva
prendere almeno quelle
capsule. Il cappellano si era
prestato, senza sapere che
all'interno delle capsule era
nascosta la cocaina. (11)
Come tutte le amicizie più
interessate che sincere, quella
tra Michele «'o pazzo» e Sicilia
rischiava sempre di rompersi
per un nonnulla. Successe una
sera che un ragazzo rinchiuso
nello stesso padiglione di Zaza
mangiò dei granchi sottovuoto
che appartenevano al
camorrista, senza chiedere il
permesso. Appena «'o pazzo»
se ne accorse cominciò a
picchiare il ragazzo, un
tossicodipendente un po'
malandato, e la cosa non
piacque a Sicilia che si mise in
mezzo e finì per dare due
schiaffi a Zaza. Era
un'umiliazione che il boss non
poteva subire, afferrò una
bottiglia e la ruppe contro il
muro, pronto a saltare addosso
a Sicilia. Ma le guardie
carcerarie fecero in tempo ad
arrivare prima che la rissa
degenerasse.
Passata mezza giornata,
Zaza decise di risolvere la
questione, in un modo o
nell'altro. Chiamò Sicilia e gli
chiese se fosse sua intenzione
ammazzarlo nel sonno. «No,
non ci penso proprio», rispose
«il vesuviano», e allora il
camorrista-mafioso propose la
riappacificazione. «Però c'è un
problema», aggiunse «'o
pazzo». «Dello scontro che
abbiamo avuto si verrà a
sapere fuori, e per non fare
brutta figura coi miei io ti devo
uccidere, perché hai osato
schiaffeggiarmi. Oppure ti devi
imparentare con me.» Fu scelta
la seconda strada, e si decise
che la moglie di Zaza avrebbe
fatto da madrina alla figlia di
Sicilia.
Da quel momento i rapporti
tra i due divennero ottimi, e
Michele Zaza cominciò a
riempire di regali la moglie e la
figlia del suo nuovo compare:
bottiglie di profumo ordinate
dal carcere e, in occasione di
un compleanno della signora
Sicilia, centouno rose rosse.
A presentare il professor
Semerari a quelli della banda
della Magliana era stato «lo
zanzarone», Alessandro
D'Ortenzi. A quei ragazzi che
sembravano disposti a tutto il
criminologo «nero» propose un
patto: lui li avrebbe assistiti
con perizie di favore in caso di
arresti, in cambio loro
dovevano piazzare bombe in
giro per Roma e sequestrare le
persone che lui avrebbe
indicato. Abbatino e Selis
risposero che non se ne faceva
niente, ma con Semerari
rimasero in contatto, al punto
che divenne lo psichiatra di
fiducia della banda. Fu a forza
di frequentarlo che si resero
conto di quanto il professore
fosse un doppiogiochista e di
come la sua vita fosse appesa a
un filo.
«Ci eravamo accorti», ha
spiegato Maurizio Abbatino,
«poiché egli non ne faceva
mistero e anzi se ne vantava,
che nell'ambiente della
malavita organizzata giocava
spavaldamente su più tavoli. In
particolare, avendo appreso da
lui stesso che forniva
prestazioni professionali tanto
alla N.C.O. di Raffaele Cutolo
quanto alla Nuova Famiglia di
Umberto Ammaturo,
commentammo più volte fra noi
che lo stesso correva grossi
rischi.» (14)
Avevano visto giusto, quelli
della Magliana, e nella trappola
in cui rischiava di cadere
Semerari era finito prima di lui
il suo amico e collaboratore
Antonio Mottola. Uno dei
napoletani a Roma, Corrado
Iacolare, ne raccontò i
particolari a suo cugino
acquisito Claudio Sicilia, il
quale li svelerà ai giudici
cinque anni più tardi: «Iacolare
mi disse che il Mottola curava
delle perizie per Umberto
Ammaturo, che era a capo della
Nuova Famiglia e quindi in
contrasto con Raffaele Cutolo.
Poiché il Mottola era riuscito in
base a delle perizie da lui
redatte a far scarcerare
l'Ammaturo, o comunque a
rendere prossima la
scarcerazione dello stesso, per
semplice vendetta e per fare in
modo di togliere all'Ammaturo
futuri appoggi venne deciso, in
una riunione tenutasi a Roma
in un negozio di mobili di
proprietà di un certo Giorgi, di
eliminare il Mottola.
«Il Mottola», continua
Sicilia, «un tempo era stato
vicino a un altro medico legale,
il professor Semerari.
Quest'ultimo poi si avvicinò al
clan di Cutolo. Iacolare mi disse
che a compiere l'omicidio, oltre
a lui stesso, erano stati
Pasquale Scotti più altre
persone. Sapendo che il
Mottola avrebbe seguito senza
fare alcuna difficoltà qualsiasi
persona che si fosse presentata
a nome di Ammaturo, loro
dissero così e Mottola fece
entrare in casa senza difficoltà
lo Iacolare e gli altri. Il Mottola
iniziò a capire qualche cosa
quando il gruppo era già sceso
in strada o stava uscendo di
casa. Uno del gruppo si era
impossessato, dentro
l'abitazione, di una pistola con
relative munizioni, sottraendola
da una collezione di armi del
Mottola, o comunque da un
posto dove questi teneva le
armi: come venne sottolineato
dallo Iacolare, il Mottola venne
ucciso con la sua stessa
pistola.» (15)
Il riavvicinamento a Cutolo
dopo l'assassinio del suo amico
Mottola, non servì a salvare
Aldo Semerari. La sua testa,
staccata di netto, fu trovata in
una bacinella di plastica sul
sedile anteriore di una Fiat 128
parcheggiata in una strada del
centro di Ottaviano, il primo
aprile 1982. Il corpo del
criminologo, mani e piedi
legati, era chiuso dentro il
portabagagli.
***
3. FUOCO SUI
«PESCIAROLI».
Un sabato sera, il 13
settembre 1980, Franco
Giuseppucci si presentò
all'ospedale Nuovo Regina
Margherita con una pallottola
in corpo. Era solo, aveva
guidato la Renault 5 per
qualche centinaio di metri, dal
luogo in cui gli avevano sparato
fino al pronto soccorso. Alle
20.05 entrò in sala operatoria.
«Ferita d'arma da fuoco del
torace, lateralmente a
sinistra», scrisse il chirurgo di
guardia sul foglio dell'ospedale,
con l'aggiunta di «prognosi
riservata».
Il «negro» morì sotto i ferri
mezz'ora più tardi. Addosso
non aveva documenti, ma un
milione e trecentomila lire in
banconote, due milioni e mezzo
in assegni, il Rolex d'oro, la
catenina con la medaglietta, un
anello con brillante e un mazzo
di chiavi. Lo identificarono i
poliziotti del commissariato
Trastevere chiamati dagli
infermieri. Franco Giuseppucci,
infatti, aveva incontrato il suo
assassino in una piazza di
Trastevere.
Era con qualche amico e il
fratello Augusto - di sette anni
più giovane e di mestiere
fornaio, lo stesso che Franco
aveva fatto un tempo e che gli
era valso il soprannome di
«fornaretto» prima che
cominciassero a chiamarlo
«negro» - nella sala biliardo del
bar Castelletti, a piazza San
Cosimato. Stavano giocando dal
pomeriggio, e ormai s'era fatta
sera quando Giuseppucci salutò
la compagnia dicendo che
doveva andare a Tor di Valle:
voleva controllare come
andavano le cose e fare
qualche puntata. Uscì dal bar e
raggiunse la Renault 5 di sua
moglie; lui aveva una BMW, ma
gliel'avevano sequestrata. Girò
la chiave nello sportello, l'aprì e
s'infilò nell'abitacolo. Mentre
stava accendendo il motore
comparve un uomo sul
marciapiede, dal lato sinistro
della macchina: era giovane e
magro, con i capelli biondi e
lunghi che sembravano di una
parrucca, un paio di occhiali
scuri. Non si sa se Franco lo
guardò in faccia mentre il
ragazzo gli sparò il primo colpo
fracassando il finestrino e
colpendolo su un fianco; si sa
invece che ebbe la prontezza di
fare retromarcia, uscire dal
parcheggio e partire a forte
velocità.
Il killer non fece in tempo a
esplodere il secondo colpo,
corse a piedi nella stessa
direzione in cui era andata la
sua vittima, e arrivato alla fine
della piazza salì su una moto
Honda guidata dal suo
complice. Provarono a inseguire
la Renault 5 di Giuseppucci, ma
quando questa si fermò davanti
all'ospedale l'abbandonarono e
proseguirono la loro fuga.
L'esecuzione non era certo
stata perfetta, ma il «negro»
morì ugualmente, in sala
operatoria anziché in strada.
L'ispiratore della banda della
Magliana, visto che non si
poteva parlare di capi in quel
piccolo esercito di criminali
allergici a qualsiasi ordine, era
stato fatto fuori. Aveva
trentatré anni, l'ultimo
compleanno l'aveva passato in
galera, dov'era finito con
l'accusa di ricettazione. A
gennaio dell'80, infatti, gli
avevano trovato dei travellers'
cheque rubati in una rapina
alla Chase Manhattan Bank di
Roma compiuta da un
commando di neofascisti.
Coi giovani terroristi neri
Giuseppucci era in buoni
rapporti, loro gli portavano i
proventi di furti e rapine e lui
glieli riciclava. Utilizzava quei
ragazzi, di tanto in tanto,
anche per fare qualche
«lavoretto», l'avvertimento a
qualcuno che non si decideva a
pagare i debiti di gioco o gli
interessi sui soldi prestati «a
strozzo», oppure l'eliminazione
di chi non voleva piegarsi alle
leggi dell'estorsione. Del resto
lui, Franco Giuseppucci detto
«er negro», era e si dichiarava
un fascista: a casa aveva dei
dischi con le registrazioni dei
discorsi di Mussolini, medaglie
e gagliardetti con le effigi del
Ventennio. «Tuttavia questa
sua infatuazione», ricorderà
Abbatino, che gli fu amico fino
all'ultimo, «non ne
condizionava minimamente
l'azione, né lo conduceva a
perdere di vista gli interessi e
gli scopi della banda che erano
tutt'altro che politici.» (1)
Interrogare la moglie di un
pregiudicato morto ammazzato,
il più delle volte, serve solo a
togliersi un pensiero. Bisogna
farlo e si fa, si comincia sempre
dai parenti stretti della vittima,
ma quasi mai se ne cava
qualcosa di utile. Di solito
dicono che il marito era una
persona tranquilla, che pensava
solo alla famiglia e al lavoro.
Oppure che i rapporti erano
talmente rarefatti che
dell'attività del loro uomo non
sanno niente. In entrambi i casi
il risultato è lo stesso, e finisce
per essere trascritto nelle
ultime righe del verbale: «Non
ho altro da aggiungere e non so
chi possa aver ucciso mio
marito, né chi aveva interesse
a volerne la morte».
Successe anche con la
moglie di Franco Giuseppucci,
Patrizia, di dodici anni più
giovane del marito e madre di
Maurizio, un bambino che
aveva due anni quando il
«negro», suo padre, morì
assassinato da un killer dai
capelli biondi.
Patrizia fu avvisata con una
telefonata alle nove e mezza di
quel sabato sera, le dissero di
andare subito all'ospedale
Nuovo Regina Margherita
perché Franco aveva avuto un
incidente. Si fece
accompagnare dalla madre e
dal cognato e lì, riferì al
poliziotto che l'interrogò un'ora
più tardi negli uffici della
Questura, «ho appreso che mio
marito era morto, in quanto gli
avevano sparato.» Per il resto,
spiegò che con Franco aveva
ormai molto poco in comune. Si
vedevano di rado, lui rincasava
sempre più tardi e addirittura
«saltuariamente», una cosa che
Patrizia non poteva più
sopportare: litigavano quasi
ogni volta si trovavano faccia a
faccia. Da qualche mese s'erano
trasferiti a vivere dalla madre
di lei, sempre alla Magliana, e
forse anche per questo lui in
casa non voleva rimanere.
Fatto sta che non ci rimaneva,
e che cosa facesse fuori, lei,
Patrizia, disse di non saperlo.
«Suo marito che lavoro
faceva?» chiese il poliziotto. E
Patrizia, innocentemente: «A
quanto ne so lavorava presso il
forno di suo padre». Il
poliziotto insisté: «Ma come
passava il tempo? Aveva degli
amici? Chi erano? Si
incontravano a casa vostra? Di
che cosa parlavano?» Patrizia si
tenne sul vago, chissà se per
scelta o perché realmente non
ne sapeva di più: «So che mio
marito aveva molti amici, che
io conosco soltanto di vista,
non sono in grado di dire i
nomi. Da loro riceveva spesso
telefonate, oppure venivano a
citofonargli sotto casa».
Davanti a lei Franco non aveva
mai combinato affari né
organizzato qualcosa di losco.
«E delle corse di cavalli, delle
scommesse all'ippodromo, non
sa niente?» tentò ancora il
poliziotto. «Mio marito era un
frequentatore degli ippodromi
della capitale», rispose
telegrafica la signora
Giuseppucci, ventun'anni,
vedova da poco più di due ore,
«presso i quali mi ha condotto
alcune volte.»
Provando a scandagliare
nella vita domestica andò
appena un po' meglio. Negli
ultimi tre giorni - raccontò
Patrizia -, dopo l'ennesima lite,
Franco era scomparso. Tornò a
casa soltanto il venerdì sera,
verso le nove e mezza. Cenò e
andò a dormire. La mattina
dopo uscì intorno alle dieci, e
salutò la moglie dicendole che
sarebbe passato a prenderla in
serata, per portarla fuori.
Invece le cose erano andate
diversamente, e lei lo aveva
rivisto cadavere all'ospedale.
Anche coloro che erano stati
con Giuseppucci al biliardo del
bar Castelletti fino a pochi
attimi prima che gli sparassero
- tutti pregiudicati o con varie
denunce a carico - non furono
di grande aiuto con le loro
testimonianze. Augusto, il
fratello del «negro», disse che
con Franco non si incontrava
spesso, «mi risulta che era un
assiduo frequentatore e
giocatore alle corse dei cavalli e
per questo motivo era solito
portare molto denaro liquido
con sé, ma ignoro quale era la
sua vera attività perché lui non
mi ha mai riferito alcunché
circa le sue amicizie.»
Vide mentre gli sparavano, e
riferì che dopo aver assistito
all'agguato lui e i suoi tre amici
montarono in macchina e si
gettarono all'inseguimento
della moto col killer a bordo, le
tennero dietro per un tratto di
strada, ma poi la persero nel
traffico. Gli altri amici, invece,
dissero cose diverse. Uno
raccontò che dopo lo sparo a
Franco, visti andar via sia la
vittima che il sicario, il gruppo
decise che «per non avere noie
con la polizia» era meglio
cambiare aria: salirono sulla
BMW di Augusto Giuseppucci, si
fecero un giretto e tornarono in
piazza mezz'ora dopo; lì
trovarono i carabinieri che li
accompagnarono in caserma.
Un altro, Giorgio Paradisi,
negò addirittura di aver visto
sparare a Giuseppucci.
«Eravamo sulla BMW di
Augusto», disse al carabiniere
che l'interrogava, «e ci
stavamo facendo una
passeggiata in macchina, siamo
arrivati a piazza San Cosimato
e voi ci avete fermato.» «A noi
risulta», lo interruppe
l'ufficiale, «che tu e i tuoi amici
eravate davanti al bar e avete
visto sparare. E' vero?» «No, le
cose stanno come le ho detto»,
rispose sicuro Paradisi,
proveniente pure lui dalla
Magliana. «Ci risulta che dopo
il colpo d'arma da fuoco siete
partiti dalla piazza a forte
velocità, e siete tornati dopo
mezz'ora», provò a incalzare il
carabiniere. «No», ribatté
quello impassibile, «ho già
detto che ci siamo fatti un giro
per Roma. Guidavo io, e
durante la passeggiata ho
accelerato l'andatura perché a
me piace guidare veloce.»
«Conosci Franco Giuseppucci?
Che rapporti c'erano tra voi?»
«Lo conosco da molti anni,
abbiamo commesso alcuni reati
insieme e sono stato anche
arrestato con lui. L'ultima volta
che l'ho visto è stata due giorni
fa.»
***
4. POLVERE.
Il telegramma arrivò al
braccio di G11 di Rebibbia, un
giorno del 1980, indirizzato al
detenuto Mohammed Kan, un
arabo finito in carcere per
traffico di droga. Era indirizzato
a Kan, ma l'aspettavano in
molti.
Veniva dall'Olanda, era
scritto in inglese: «Please,
confirm if is only snow or even
the moth», pregasi confermare
se è solo neve o anche fango.
Una frase cifrata,
evidentemente. Kan, con il
telegramma in mano, andò
dagli altri che lo aspettavano.
«Vogliamo tutto, digli che
mandi tutto», disse Nicolas
Naja, venezuelano, un altro
trafficante di droga finito in
quella galera. O meglio,
siccome quello era arabo e
parlava solo arabo, Naja lo
disse al detenuto-interprete,
che lo riferì a Kan.
Bisognava far partire il
telegramma con la risposta,
destinazione Olanda, indirizzo:
ambasciata del Pakistan presso
i Paesi Bassi. Ci pensò
l'interprete associato
nell'affare, Pietro De Riz, in
cella da qualche mese per una
storia di passaporti e travellers'
cheque falsi, una specie di
mago della truffa e delle lingue,
visto che ne parlava sei, arabo
compreso. Scrisse il testo,
«Serve sia la neve che il
fango», e lo diede a Mario, un
detenuto addetto alle cucine
che lo consegnò all'agente di
custodia giusto, quello di cui ci
si poteva fidare perché era
stato «addomesticato». La
corrispondenza cifrata andava e
veniva così, senza problemi, in
una delle galere più grandi
d'Italia.
Dall'ambasciata arrivò
l'ultima conferma, e con essa il
momento di far partire non più
telegrammi ma persone per
l'Olanda: c'era da ritirare la
valigia con dentro mezzo chilo
di eroina purissima, aveva
assicurato Kan,
duecentocinquanta grammi di
"brown sugar", il «fango», e
duecentocinquanta di polvere
bianca, la «neve». Naja provò a
mandare la moglie, ma la
donna si rifiutò. Serviva
un'altra «corriera» - per questo
genere di viaggi le donne
funzionano sempre meglio degli
uomini, pare che diano meno
nell'occhio -, e la trovò il
quarto detenuto venuto a
conoscenza dell'operazione:
Gianfranco Urbani, chiamato
«er pantera» per l'aggressività
che dimostrava, quello che fino
a poco tempo prima
organizzava le rapine agli uffici
postali e ai treni insieme a
Fulvio Lucidi e Nicolino Selis.
Urbani risolse la questione
spedendo in Olanda una sua
amica, una certa Maria Grazia,
la quale partì per Amsterdam,
si presentò al funzionario
dell'ambasciata pakistana che
era stato debitamente
informato e ritirò la valigia.
Kan aveva fornito al «pantera»
anche la combinazione per
aprire quel prezioso bagaglio, e
tutto andò per il verso giusto.
Tranne un piccolo particolare:
al momento di aprire la valigia
e tirar fuori la polvere dal
doppiofondo, saltò fuori solo
l'eroina bianca e non la "brown
sugar", che costituiva l'aspetto
più allettante dell'affare. In
carcere Urbani venne a saperlo,
lo disse a Naja che, sempre
tramite l'interprete De Riz, lo
riferì a Kan.
Il risultato fu che l'arabo - il
quale aveva accettato di
vendere la sua eroina sulla
fiducia, senza anticipo perché
gli avevano detto «prendere o
lasciare, noi possiamo portare
la roba in Italia e tu no», e lui
non aveva nemmeno i soldi per
l'avvocato - non venne pagato,
mentre Urbani e Naja si
tennero l'eroina. Kan provò a
protestare ma non ottenne
nulla, e quando ci riprovò gli
spiegarono che non solo
mancava il «fango», ma la
«neve» era pura solo al diciotto
per cento, il resto era stricnina.
Kan disse che non poteva
essere, ma non era il caso di
insistere troppo. Rimase senza
una lira e con il dubbio che
quei suoi «amici» lo avessero
imbrogliato: del resto lui che
ne sapeva? Tutte quelle cose le
mandavano a dire quelli che
stavano fuori, sia che mancava
la "brown sugar" sia che era
stata tagliata. Non potevano
essersi inventati tutto per
fregarlo? Sì che potevano, ma
lui non aveva modo di reagire.
Solo più tardi, per farlo
stare zitto e toglierselo dai
piedi, all'arabo vennero dati
mille dollari, a saldo
dell'«operazione Pakistan»,
piccolo esempio di come si può
gestire un traffico di droga da
dietro le sbarre di un carcere. A
raccontarla all'allora giudice
istruttore Giovanni Falcone, nel
1983, fu il detenuto-interprete
Pietro De Riz, che diventerà
uno dei più importanti
testimoni d'accusa al
maxiprocesso di Palermo contro
Cosa Nostra. (1)
Le perizie psichiatriche
compiacenti, così come i
ricoveri facili e i certificati che
permettevano ai detenuti il
trasferimento nelle infermerie
delle prigioni, gli arresti nelle
cliniche o quelli domiciliari,
erano le armi più utilizzate dai
«bravi ragazzi» per contrastare
il carcere e i guai giudiziari. Per
«aggiustare i processi»,
insomma, come facevano i
mafiosi.
Il trucco più frequente era
quello delle false cartelle
mediche da cui risultavano
ricoveri mai avvenuti, quasi
sempre per sospette malattie
mentali, in cliniche
specializzate. Ne usufruì
Marcello Colafigli prima ancora
di essere dichiarato infermo di
mente per l'omicidio di via
Donna Olimpia, quando subì un
processo per furto. Nella casa
di cura dove «Marcellone» era
stato ricoverato per un
incidente di moto, scoprirono
all'improvviso una malattia
mentale. Lo stesso Colafigli, ai
medici andati a visitarlo per
l'ennesima perizia, raccontò un
passato disastroso: «Il paziente
avrebbe ripetuto la prima
media e la terza superiore,
conseguendo il diploma in
geometra a ventidue, ventitré
anni; sembra che sia stato
riformato alla visita di leva, ma
il periziando è impreciso al
riguardo; nel 76 pare abbia
subito un ricovero in una
clinica psichiatrica, non è molto
preciso in proposito». La sorella
riferì inoltre agli investigatori
che Marcello «è nato settimino,
da parto gemellare, con morte
quasi immediata del fratello;
appena nato, pesando chili
1,200, è stato tenuto, anziché
in incubatrice, in una scatola da
scarpe imbottita di ovatta;
avrebbe sofferto di meningite
verso i due anni e mezzo; è
stato seguito per molto tempo,
nel corso dell'infanzia e fino a
dieci, dodici anni, per certe crisi
che la sorella a tratti definisce
di epilessia, a tratti di acetone;
era molto affezionato alla
madre (che era sempre molto
premurosa e protettiva con lui)
e ha molto sofferto per la sua
morte, reagendo
negativamente al secondo
matrimonio del padre e
attaccandosi morbosamente
alla sorella; verso il 1978 fu
ricoverato in una clinica per
malattie nervose a Roma.»
(17)
E pensare che un
maresciallo di Polizia, in un
rapporto del 1981, scriveva che
Marcello Colafigli, «noto
rapinatore e bandito di levatura
nazionale, incontrastato boss
della malavita organizzata dei
quartieri Magliana, Trullo, San
Paolo e altre zone, per il suo
grado di cultura superiore agli
altri (diplomato geometra) è
tenuto in particolare
considerazione.» (18)
Agli uomini della Magliana,
durante le detenzioni e i
processi, comparivano d'un
tratto i disturbi e i segni delle
malattie più strane. Specialista
era Maurizio Abbatino, che
mentre si trovava in isolamento
a Regina Coeli riuscì a ottenere
la libertà provvisoria grazie a
irritazioni e gonfiori degli occhi,
appositamente procurati dai
semi di ricino applicati sulle
palpebre che gli venivano
portati da uno dei cappellani
del carcere. «Padre
Gianfranco», racconterà
«crispino», «non soltanto mi
consegnò i semi di ricino, ma
anche pacchetti contenenti
hashish, cocaina occultata in
confezioni di medicinali e una
radio la cui detenzione era
assolutamente vietata in
carcere.» (19)
In un'altra occasione
Abbatino presentò una
documentazione dalla quale
risultava essere affetto da
un'inesistente malattia al
cuore; al cardiologo che
gliel'aveva procurata fu
recapitato, nel suo studio
privato, un costoso apparecchio
per il telecuore. Poi spese oltre
sessanta milioni nell'acquisto di
una macchina per l'applicazione
di pacemaker, con la quale
«crispino» doveva farsi inserire
lo stimolatore cardiaco: non ne
aveva alcuna necessità, serviva
solo per apparire
irrimediabilmente malato. Ma
non riuscì a trovare un medico
disposto a effettuare
l'operazione su una persona
perfettamente sana.
Abbatino non si arrese, e
pur di simulare una malattia
finì addirittura sotto i ferri.
«Più facile», rivelerà una volta
pentito, «fu trovare sanitari
disposti a praticarmi una
biopsia con gastroscopia allo
stomaco, ad acquisire un
'vetrino' di cellule tumorali,
ovviamente non mie, e a
certificarmi un tumore. Il
'vetrino' in questione, che
proveniva dall'ospedale
Sant'Eugenio, era relativo a un
adenocarcinoma diffuso del
sistema linfatico, sicché fu
necessario asportarmi anche un
linfonodo cervicale, per rendere
credibile la frode. I miei
linfonodi, peraltro, apparivano
ingrossati, e questo perché nel
carcere di Rebibbia, reparto
infermeria, mi ero iniettato il
sangue di un altro detenuto che
presentava linfonodi
ingrossati.» (20)
A consigliare Abbatino era
un amico medico, il quale si
occupava di prelievi, diagnosi e
prognosi, e fece ricoverare
«crispino» all'ospedale San
Camillo per un trattamento di
chemioterapia. Nel frattempo
l'avvocato otteneva per il suo
assistito, «per gravi motivi di
salute», gli arresti domiciliari in
una clinica privata, gestita da
medici che Abbatino già
conosceva: «Uno era stato
amico di Giuseppucci, il quale
gli aveva 'sistemato' una
questione con un tale di Ostia
che gli molestava l'amante».
(21)
Durante la «degenza» in
clinica, ad Abbatino fu
notificato un nuovo mandato di
cattura, e il giudice istruttore
fece sapere all'avvocato che per
verificare le condizioni
dell'imputato avrebbe ordinato
una perizia. Il bandito e i suoi
medici giocarono d'anticipo,
simularono una colonoscopia e
inviarono il solito «vetrino». Il
perito annunciò altri esami.
«Vennero rimandati»,
confesserà il «malato», «in
considerazione del grave stato
di deperimento organico
conseguente al fatto che non
mangiavo e mi sottoponevo a
clisteri, nonché di una sclerosi
a placche con paralisi degli arti
inferiori che riuscivo a simulare
riproducendo la sintomatologia
in modo da ingannare il
neurologo.»
Maurizio Abbatino era
ancora agli arresti domiciliari in
quella clinica dalle parti dell'Eur
quando, nel 1986, Claudio
Sicilia cominciò a collaborare
con i giudici. «Abbatino»,
avvertì Sicilia, «è in perfette
condizioni di salute, assume
farmaci per deperire e afferma
falsamente di non poter
camminare. Sta su una sedia a
rotelle, ma personalmente l'ho
visto alzarsi e sedersi a
dimostrazione che era in grado
di camminare, quando io gli
avevo chiesto se potesse farlo o
meno. Attualmente, nonostante
sia piantonato, riceve
costantemente visite, mattina e
pomeriggio, dai familiari e
anche da estranei. Anche io,
come ho detto, sono entrato
nella stanza dell'Abbatino
presentato come suo cugino.
Gli agenti, si trattava di
poliziotti di cui uno si chiamava
Roberto, nulla hanno rilevato;
tra l'altro non erano nella
stanza, ma in una saletta
attigua.» (23) Abbatino evase
indisturbato da quella clinica
poche settimane più tardi.
Altri malati immaginari in
carcere erano Gianfranco
Urbani, «er pantera», che
lamentava un diabete
diagnosticato grazie alla
sostituzione dei campioni dopo i
prelievi per le analisi, e
l'«operaietto» Toscano, il quale
si fece ricoverare d'urgenza in
ospedale per un finto
avvelenamento: dichiarò di
aver ingerito un'intera
confezione di Roipnol, mentre
aveva mandato giù solo due
pasticche.
Nel centro clinico di
Rebibbia, al detenuto Enrico De
Pedis fu di fatto certificato un
tumore. Nel diario clinico
comparvero notizie di una
«asportazione di metastasi
regione sottomandibolare
destra da carcinoma
epidermoidale» e di ripetuti
disturbi lamentati dal detenuto
a causa di una «ipotrofia
testicolare destra». Fu
necessario che De Pedis
morisse per scoprire che non
era vero niente, e che anche lui
aveva truffato la giustizia con
le sue false malattie. Nel
febbraio del 1990, dopo che era
stato ammazzato a via del
Pellegrino, nel cuore della città,
il cadavere di «Renatino» fu
sottoposto all'autopsia, e il
professor Sacchetti dichiarò al
giudice: «Il quadro anatomo-
patologico non appariva
caratterizzato dalla presenza di
patologie neoplastiche... Del
resto le condizioni di nutrizione
del cadavere (peso chili 98) e
la conformazione delle masse
muscolari del medesimo, mal si
sarebbero conciliate con una
patologia neoplastica, e
specialmente con quella di un
carcinoma epidermoidale
metastatizzato che sarebbe
stato diagnosticato da alcuni
anni.» (24)
***
6. «CIAO,
NICOLINO».
Il maresciallo Paradiso
l'aveva convocata in Questura
per le nove e mezza di sera.
«Signora, ci scusi, abbiamo
trovato un cadavere, potrebbe
essere quello di suo fratello,
dovrebbe venire a
riconoscerlo.» Grazia Selis si
presentò puntuale,
l'accompagnarono all'obitorio, a
vedere il morto. Era il 3 marzo
1981, Nicolino Selis era
scomparso da un mese.
Sparito, volatilizzato. Il
pomeriggio del 3 febbraio era
uscito con suo cognato, Antonio
Leccese. Avevano un
appuntamento, poi Leccese
aveva lasciato Selis e la sera,
mentre tornava a casa, venne
fulminato da sei colpi di calibro
38. Di Nicolino, invece, non
s'era saputo più niente.
Da un mese Grazia Selis
faceva avanti e indietro dalla
sua abitazione alla Questura;
c'erano pochi dubbi che suo
fratello avesse fatto la fine di
Leccese, ma mancava ancora il
cadavere. Adesso ne avevano
trovato uno che avrebbe potuto
essere quello di Nicolino, e
toccava a lei la triste
incombenza di riconoscerlo. «Il
morto che abbiamo trovato ha
dei tatuaggi, come suo fratello,
venga a vedere», aveva
insistito il maresciallo. «Va
bene, vengo.»
Nella camera gelida e male
illuminata dell'obitorio un
impiegato sollevò il lenzuolo,
Grazia Selis guardò quel
cadavere mal ridotto e senza
nome, scrutò il volto, il corpo,
lo squadrò in lungo e in largo.
Poi disse: «No, non è Nicolino».
«E' sicura?» «Sicurissima.»
«Bene, venga in ufficio che
dobbiamo comunque fare il
verbale.» Lo strazio non era
ancora finito, adesso il
maresciallo doveva mettere
nero su bianco tutti i motivi per
cui Grazia Selis si diceva così
certa che quel morto - che se
fosse stato Selis avrebbe risolto
un bel po' di problemi - non era
suo fratello.
Tornarono nell'ufficio della
Squadra Mobile, ormai s'erano
fatte le undici. «Allora,
cominciamo», fece il
maresciallo mettendosi alla
macchina da scrivere, mentre
infilava fogli e carta carbone.
«Processo verbale di
ricognizione di cadavere...
L'anno 1981, addì 3 del mese di
marzo... La Selis, dopo aver
effettuato un'adeguata
ricognizione riferisce quanto
segue: nel cadavere che mi è
stato esibito non riconosco mio
fratello Nicolino... Signora, dica
perché.» Grazia dettava, il
maresciallo Paradiso traduceva
nel linguaggio dei verbali di
Polizia e scriveva: «Mio fratello
è più basso e più snello del
cadavere che mi è stato
mostrato, ha il corpo
interamente tatuato in ogni sua
parte ed è coperto da cicatrici
di lesioni infertesi con corpi
taglienti durante le sue crisi di
nervi».
Ma anche il morto che le
avevano fatto vedere era pieno
di tatuaggi, bisognava
specificare meglio. A Grazia
Selis toccò ricordare nei
dettagli ogni centimetro di pelle
di Nicolino: «I tatuaggi che si
rilevano sul corpo della salma
sono differenti da quelli di mio
fratello. In particolare, il
serpente che è tatuato sulla
salma rappresenta solo la testa
del rettile mentre mio fratello
aveva anch'esso un serpente
tatuato sul braccio destro, ma
con la testa rivolta in basso
verso il polso, e l'intero rettile
si avvolgeva per l'intero
braccio, partendo dal polso fino
alla spalla. Anche la scritta sul
braccio sinistro è diversa
seppure riferita alla madre.
Infatti, sul braccio di mio
fratello si legge 'Ti voglio bene
mamma'...»
Poteva anche bastare, ma
siccome c'era dell'altro il
maresciallo volle scrivere tutto.
La sorella dello scomparso
riprese a dettare: «Mio fratello
Nicolino tra gli altri tatuaggi
aveva anche un grande
crocifisso sulla schiena, e una
pistola tatuata su una coscia,
segni che non ho notato sul
cadavere. Mio fratello
presentava vistosi segni di tagli
alle braccia e al torace
compreso il basso ventre; sul
cadavere non ho notato alcun
segno di tali lesioni. Anche i
capelli della salma, sebbene
neri e spessi come quelli di
Nicolino, sono abbastanza
lunghi mentre mio fratello,
l'ultima volta che è stato in
casa, li portava cortissimi,
tagliati dal giorno 2 febbraio. Il
cadavere, in alcune parti del
corpo ancora indenni,
presentava una peluria
piuttosto abbondante, mentre
Nicolino era di carnagione
gentile e privo di peluria». Era
tutto, finalmente. «Stante
quanto sopra», dettò a se
stesso il maresciallo, facendo
sentire alla signora che doveva
sottoscrivere, «posso affermare
con assoluta certezza che il
cadavere che mi è stato
mostrato è persona
assolutamente a me
sconosciuta. Non ho altro da
aggiungere. Letto, confermato
e sottoscritto... Ecco, firmi
qui.»
Quando Grazia Selis si
ritrovò per strada era quasi
mezzanotte. Aveva lasciato a
quel poliziotto l'ultima,
dettagliata descrizione di suo
fratello. Ufficialmente era
scomparso, ma lei sentiva,
sapeva che era morto. E
immaginava anche chi l'avesse
ammazzato. Sapeva infatti - e
l'aveva pure riferito, ma chissà
che cosa stava facendo la
Polizia - con chi doveva
incontrarsi Nicolino, quel giorno
che poi sparì.
Un rapporto alla
magistratura la Polizia l'aveva
fatto, proprio contro gli «amici»
di Selis denunciati da Grazia,
basato su «notizie fiduciarie» e
«fonti confidenziali». Il
problema era andare avanti,
mettere insieme indizi più
consistenti, raccogliere prove. E
anche trovare il cadavere non
sarebbe stato inutile, anzi.
Sarà successo, scriveva il
vicedirigente della Squadra
Mobile tre giorni dopo la
scomparsa di Nicolino, che i
suoi complici «abbiano voluto
scalzare il Selis divenuto per
loro elemento quanto mai
scomodo, potendo questi
contare su amicizie e appoggi,
sia nel luogo di detenzione sia
all'esterno... Anch'egli è caduto
nella trappola tesagli dai suoi
stessi 'amici', che lo
aspettavano probabilmente solo
per dargli una lezione.»
Il maresciallo Paradiso,
quello della «ricognizione di
cadavere», aveva anche
riassunto, per il magistrato,
quanto risultava alla Polizia
riguardo a uno dei più
pericolosi criminali in giro per
Roma. Oppure non più in giro
perché tolto dalla circolazione.
Scomparso, definizione ufficiale
«irreperibile». «Selis Nicolino»,
scriveva il poliziotto-biografo,
«diffidato ai sensi dell'art. 1
della nota legge, ha cominciato
a interessare la Giustizia fin dal
1966, quando aveva appena
quattordici anni. Da allora,
salvo interruzioni per periodi di
detenzione, ha proseguito sulla
via del crimine associandosi con
pregiudicati più noti di lui
dando così la scalata ai vertici
della 'mala' e, considerando la
sempre maggiore gravità dei
reati e la pericolosità dei soci ai
quali si affiancava, si può dire
che abbia notevolmente
progredito...
«Agli atti d'Ufficio figura
pregiudicato per detenzione e
porto abusivo d'armi, violazione
di domicilio, evasione,
estorsione aggravata e
inquisito per omicidio nonché
imputato di falso in atto
pubblico. E' stato anche
denunziato, unitamente a
Danesi Renzo di anni ventisei,
da Roma, che nella circostanza
venne trovato in possesso di
sostanze stupefacenti...
«Da altre fonti
documentabili, il presunto
viene descritto come elemento
violento e considerato capo
incontrastato di una ben
organizzata banda di malfattori
gravitanti in quel di Ostia Lido
e della vicina Acilia, dedita
prevalentemente al traffico
della droga. Per i suoi trascorsi
viene considerato di indole
malvagia, senza rispetto della
vita altrui. E' stato anche
indiziato quale mandante, se
non esecutore materiale,
dell'omicidio commesso a Ostia
in danno di Carrozzi Sergio...»
Quando l'uomo dall'«indole
malvagia» scomparve, era
uscito dal manicomio
giudiziario, in licenza, da
appena tre giorni. Selis ci
teneva a quel permesso, perché
aveva molte questioni da
affrontare e risolvere coi suoi
amici - ma si poteva ancora
chiamarli così? - della
Magliana. Mentre stava dentro,
infatti, tra Rebibbia e gli
ospedali psichiatrici di
Montelupo Fiorentino, Reggio
Emilia e Napoli, erano sorti dei
contrasti che bisognava
appianare. Quel ragazzo che
veniva da Ostia e col quale
avevano cominciato a
collaborare due anni e mezzo
prima, per l'omicidio di
«Franchino er criminale», che
si dava tante arie, piccoletto e
col brillante al dito mignolo,
capelli sempre curatissimi e
pantaloni a zampa d'elefante,
amico dei camorristi, pieno di
carisma ma anche un po'
fanatico, non piaceva più ad
Abbatino e compagni.
S'era messo in testa di far
entrare i napoletani nel traffico
di droga gestito dalla Magliana,
e quelli non volevano. Durante
la primavera e l'estate del
1980, inoltre, aveva cominciato
a collaborare con il gruppo di
Fulvio Lucioli e Gianni «il
roscio», aprendo un commercio
parallelo, e però pretendeva
che i soci di prima - cioè
Toscano da un lato e Libero
Mancone dall'altro -
continuassero a dare le
«sovvenzioni» alla sua donna e
a suo fratello. L'«operaietto»,
in particolare, non sopportava
più che Selis si atteggiasse a
capo, non voleva più stare ai
suoi ordini. Quella storia che
adesso bisognava pagare anche
il fratello Fabrizio poi - uno di
cui quelli della Magliana non si
fidavano per niente, dicevano
che aveva cominciato a «farsi»
di eroina - era davvero il
colmo. Nicolino voleva la
«doppia stecca» sui guadagni,
una per sé e l'altra per
Fabrizio, e dal carcere inviava
ammonimenti e rimproveri.
Quando Toscano mandò a
dire a Selis che si poteva
rientrare negli affari della
Magliana a pieno titolo, solo
che lui avesse avuto pretese
meno esorbitanti e reciso i
legami con gli altri gruppi,
Nicolino rispose «picche».
Decideva lui, e anzi, sia
Toscano che Mancone dovevano
smetterla di lesinare il denaro
spedito in carcere. Selis non
riceveva più le «stecche» né le
paghe settimanali, e
minacciava rappresaglie.
All'«operaietto» scrisse che
doveva far avere subito sei
milioni a sua madre da parte di
Vittorio Carnovale, «il
coniglio», il cui figlio stava a
casa della signora Selis senza
che lui si degnasse di pagare le
spese di mantenimento. E
avvertì Mancone che se non
riprendeva a rigare dritto,
appena uscito gli avrebbe dato
«una tiratina d'orecchie».
Alla lettera sui sei milioni
per la madre, Toscano - che a
sua volta si stava allontanando
da Mancone e avvicinando
sempre più ad Abbatino,
trovando quel coraggio di
opporsi al suo capo che fino ad
allora gli era mancato - non
rispose nemmeno. Mentre per
spiegare alcune cose che non
erano piaciute a Selis,
l'«operaietto» gli scrisse di
essere dispiaciuto di tante
lagnanze, che tutto quello che
decideva lo faceva anche
nell'interesse di Nicolino; si
rammaricava della sua amicizia
con gruppi diversi, e gli
mandava i saluti di Maurizio
Abbatino e «Marcellone»
Colafigli. Saluti sinistri, visto
che quelli non aspettavano che
il pretesto buono per liberarsi
di Selis.
Il pretesto arrivò con una
nuova lettera di Nicolino a
Toscano, in cui Selis
annunciava dal carcere l'arrivo
di una partita di tre chili di
eroina fornita da alcuni
trafficanti siciliani. Bisognava
gestirla con oculatezza.
«Secondo gli accordi»,
racconterà Abbatino, «tale
fornitura doveva essere
ripartita al cinquanta per cento
tra il suo e il nostro gruppo, ma
Nicolino Selis ritenne di
operare una ripartizione di due
chilogrammi per i suoi e di uno
per noi e, pertanto impartì al
Toscano istruzioni in tal senso.
Si trattò di un passo falso,
Edoardo Toscano non attendeva
altro. Mi mostrò
immediatamente la lettera,
fornendo così la prova del
'tradimento' del Selis, col quale
diventava non più rinviabile il
'chiarimento'. In altre parole,
Nicolino Selis doveva morire...»
(1)
Anche Danilo Abbruciati ce
l'aveva con Selis, perché
quello, un anno prima o poco
più, aveva ordinato a Toscano
di ammazzarlo. E l'«operaietto»
sarebbe stato pronto a premere
il grilletto se gli altri amici della
Magliana non l'avessero
fermato in tempo. Selis voleva
eliminare Abbruciati perché
conoscendo la sua amicizia con
Francis Turatello, e avendo
saputo che Francis stava per
uscire di galera, temeva che i
due volessero spadroneggiare
su Roma tagliandolo fuori dagli
affari. Ma non solo Toscano si
fece convincere a non uccidere
Abbruciati; decise anche di
dirgli tutto, e da quel momento
Danilo cominciò a covare
propositi di vendetta, sempre
rinviati. Adesso invece era
arrivato il momento.
Amico di Nicolino era pure
Gianni Travaglini, il
proprietario dell'autosalone. E i
«bravi ragazzi», tanto per far
capire al commerciante di
macchine con chi conveniva
schierarsi, gli avevano piazzato
due bombe davanti al negozio.
«Seppi poi», racconterà Sicilia,
«che in un momento successivo
le stesse persone si recarono
da Travaglini ingiungendogli
esplicitamente di non avere più
contatti con Selis... Dell'uscita
dal carcere del Selis la
'Magliana' venne a conoscenza
in quanto Travaglini fece
sapere che Selis insieme a
Lucioli, forse il giorno stesso
della scarcerazione, si era
presentato nell'autosalone per
ritirare una Golf blindata.»
***
7. COSA NOSTRA E I
MISTERI D'ITALIA.
Domenico «Memmo»
Balducci era latitante dal
gennaio del 1980, e venne
ucciso il 16 ottobre 1981. I
killer lo trovarono dove la
polizia, evidentemente, non era
mai andata a cercarlo, anche se
sarebbe stato il primo posto da
controllare: la sua villa
all'Aventino, nell'esclusiva e
lussuosa via di Villa Pepoli.
Quella sera, poco prima delle
otto, Balducci arrivò col
motorino davanti al cancello di
casa, al numero 13, scese e
citofonò alla moglie. Non aveva
ancora finito di parlare che due
sicari sbucarono dal buio e
fecero fuoco sei o sette volte
sul «cravattaro» diventato
imprenditore. Poi si rituffarono
nell'oscurità.
Quando arrivarono, gli
agenti trovarono il cadavere
supino, trapassato da cinque
proiettili. Nella tasca interna
della giacca due documenti,
uno autentico e uno falso,
intestato a un tal Nello
Bongarzoni. Nel taschino della
camicia di seta, azzurra e
intrisa di sangue, un'agendina
piena di numeri di telefono.
Nessuna traccia, invece, del
borsello, i killer se l'erano
portato via. Qualche decina di
metri più in là, attaccata a un
albero, penzolava una corda:
gli assassini si erano
arrampicati lì per scavalcare il
muro di cinta di un parco e
ritrovarsi dall'altra parte, su via
Guerrieri, dove un complice li
aspettava in macchina.
«Quel che mi impressionò»,
ha raccontato la signora Italia,
moglie della vittima, «fu la
posizione del braccio, non
ricordo se il destro o il sinistro,
la cui mano aveva una
posizione del tutto innaturale,
piegata, come se qualcuno
avesse strappato con forza
qualcosa che la mano stessa
reggeva. Mio marito portava
sempre con sé una borsa, ma
quella borsa non l'aveva in
mano né venne trovata vicino
al suo corpo, sicché ritengo che
la sua mano avesse quella
posizione innaturale perché gli
era stata strappata la borsa.»
(8)
Tra le carte del morto fu
trovato un biglietto aereo della
Swissair, che avrebbe dovuto
portarlo a Ginevra. Viaggiava
spesso per affari, «Memmo»
Balducci, soprattutto in
Svizzera, negli Usa e in
America del Sud. E s'era
talmente convinto che i veri
affari si fanno all'estero che
aveva mandato sua figlia
Roberta, a diciassette anni, a
studiare lingue prima a Londra
e poi a Losanna.
Il vorticoso giro di società, di
interessi e di attività di
«Memmo» - non solo in quanto
usuraio e costruttore, ma
anche come assicuratore,
finanziere e tante altre cose -
venne alla luce soprattutto con
le indagini sulla sua morte, che
finirono per intrecciarsi con
quelle sul traffico di opere
d'arte e droga sfociato
nell'arresto di Pippo Calò.
«Sempre indagando sul
Balducci», scriveranno i giudici
del tribunale di Roma, «anche a
mezzo dell'acquisizione di altri
procedimenti, si accertava che
lo stesso, latitante al momento
della morte, era stato inquisito,
proprio insieme al Faldetta,
dall'autorità giudiziaria di
Palermo, per l'avvenuta
commercializzazione di un
elevato numero di assegni
circolari, provenienti da una
partita chiaramente frutto di
un'operazione di riciclaggio di
un'ingentissima somma di
denaro: taluni assegni di tale
partita erano stati rinvenuti sul
cadavere del presunto boss
mafioso Di Cristina, oltre che in
possesso di altri personaggi
vicini a tale ambiente.»
Quando Balducci diede
trecentocinquanta milioni in
assegni a Luigi Faldetta -
costruttore siciliano, amico e
prestanome di Calò - per la
realizzazione di alcuni affari in
Sardegna, gli disse che
provenivano dall'usura. A
Faldetta sembrò strano, perché
sapeva che i «cravattari»
operavano in contanti, e la
sicurezza che «Memmo» aveva
mentito la ebbe quando due
assegni della stessa partita
furono trovati addosso a
Giuseppe Di Cristina, la mattina
del 30 maggio 1978, a
Palermo. Il boss di Riesi era
steso sull'asfalto di viale
Michelangelo, fulminato da sei
pallottole alla testa sparate dai
killer di Totò Riina, e i poliziotti
della Scientifica, frugando nelle
sue tasche, si imbatterono in
quei titoli di credito che
portavano al «cravattaro di
Campo de' Fiori».
«Mi resi conto», dirà
Faldetta ai giudici, «che gli
assegni circolari del Balducci
avevano la loro origine nel
contrabbando di tabacchi e
pensai, dati i rapporti tra
Balducci e Pippo Calò, che
provenissero da quest'ultimo e
da altri personaggi
palermitani». (10) Ma da
tempo, ormai, «don» Pippo era
passato dalle sigarette ad affari
ben più lucrosi, e il capo della
Squadra Mobile palermitana
Boris Giuliano - anche lui
assassinato, nel luglio del '79 -,
sospettava che quei soldi
provenissero da un sequestro di
persona.
Con Abbruciati, Balducci
aveva sempre avuto rapporti
molto stretti e cordiali, finché
una volta Danilo non ebbe la
sensazione che il «cravattaro»
volesse fregarlo. Si trovava in
galera per uno dei suoi
innumerevoli reati, quando
mandò a dire a «Memmo» che
voleva indietro i milioni che gli
aveva affidato per un
investimento immobiliare. La
sorella di Abbruciati si presentò
da Balducci chiedendo i soldi di
suo fratello, con gli interessi e
il valore del «lucro cessante».
Il commerciante-usuraio-
imprenditore spiegò che il
denaro era ben investito, e
anziché restituirlo offrì al
detenuto alcune azioni di
società. Abbruciati non ne volle
sapere, e la trattativa andò
avanti finché Balducci non si
decise a cedere centoventi
milioni più un appartamento in
Sardegna.
Ma quella vicenda aveva
interrotto il rapporto di fiducia
tra Danilo e «Memmo». La cosa
si venne a sapere tra quelli
della Magliana, e arrivò
all'orecchio di Claudio Sicilia.
«Abbruciati», dirà il «pentito»
ai magistrati, «era determinato
a eliminarlo, ma non poté farlo
in quanto Balducci era mafioso,
legato in particolare a Pippo
Calò e a Ernesto Diotallevi...
Quando Abbruciati divenne più
importante di Balducci per il
clan Diotallevi e Calò, gli venne
dato il nulla osta dei mafiosi
per uccidere Balducci...» (11)
Negli ultimi tempi «Memmo»
aveva paura. Alla moglie aveva
confidato, pur rimanendo nel
vago e senza far nomi, di avere
bisogno di qualche centinaio di
milioni «per chiudere una sua
situazione». Poi sarebbe andato
a costituirsi davanti ai giudici di
Palermo, e certamente le sue
deposizioni potevano creare
problemi a più di un boss, a
Roma e in Sicilia. Due sere
prima di morire, stava
festeggiando al Jackie 'O il
diciottesimo compleanno di sua
figlia, quando qualcuno lo
chiamò fuori: c'erano due
persone che volevano parlargli.
«Quando mio marito rientrò nel
locale», ricorda la signora
Balducci, «era ridotto uno
straccio, ma non mi diede
spiegazioni particolareggiate. Si
limitò a dirmi che era stanco
del tipo di vita che stava
conducendo, che avrebbe
chiuso alcune situazioni dopo di
che avrebbe voluto lasciar
perdere tutto. Ritengo che
quella sera, per lo stato di
prostrazione in cui lo vidi,
avesse ricevuto la condanna a
morte.» (12)
Ad ammazzare Balducci,
secondo il racconto di Maurizio
Abbatino, andarono in tre:
«Apprendemmo che l'omicidio
era stato commesso da
Abbruciati, unitamente a
'Renatino' De Pedis e Raffaele
Pernasetti per fare un favore ai
siciliani: Balducci doveva dei
soldi a Pippo Calò. Il fatto
rivestiva per noi un notevole
interesse in quanto ci
sentimmo, come banda,
coinvolti in vicende a noi
estranee, quali i regolamenti di
conti tra mafiosi, senza
addirittura esserne informati.
In occasione del chiarimento
che venne dato dai predetti
Abbruciati, De Pedis e
Pernasetti, appresi che
l'omicidio era stato commesso
nei pressi, mi sembra, di una
villa, da Renato e Raffaele,
mentre Danilo li attendeva in
auto, e che i primi due si erano
dovuti calare da un muro con
una corda per raggiungere
l'auto stessa...» (13)
Rimasero seccati, «crispino»
e gli altri, dalle rivelazioni di
Abbruciati e dei «testaccini»
sull'assassinio di quel
«cravattaro». Se bisognava
essere soci, componenti della
stessa banda, allora le cose da
fare dovevano essere decise
insieme, e prima di farle.
Quanto meno per prepararsi a
gestire la situazione che si
sarebbe venuta a creare: finché
si trattava di condurre certi
affari in proprio andava bene,
ma quando c'era un cadavere di
mezzo, e un cadavere di un
certo «peso», bisognava
parlarne prima. Una regola
simile a quella per cui, dentro
Cosa Nostra, per i delitti
cosiddetti «eccellenti», ci
voleva l'assenso della
«commissione».
«Perlomeno», aggiungerà
Abbatino, «dovevamo esserne a
conoscenza. Perché noi
avevamo dei codici, e se a
qualcuno succedeva qualcosa
noi ci ritrovavamo a dover
aiutare la persona, sia con gli
avvocati, sia nella spesa
finanziaria richiesta dalla
detenzione. E se non sapevamo
neanche perché era
detenuto...» (14)
Lo «schema» disegnato da
Abbatino per l'omicidio Balducci
ha i tratti molto simili a quelli
riferiti dal pentito di mafia
Francesco Marino Mannoia per
l'omicidio dell'ex presidente del
Banco Ambrosiano Roberto
Calvi, trovato impiccato sotto il
Black Friars' Bridge di Londra, il
16 giugno 1982.
Il pentito ha raccontato di
quella morte ciò che seppe in
due occasioni, prima in libertà
e poi in carcere. «Durante la
mia latitanza», ha detto ai
giudici, «io ero a Fondo Trapani
con Ignazio Pullarà, allora
latitante, e con un terzo uomo
d'onore, forse Pietro Aglieri,
quando sentimmo la televisione
che commentava la notizia
della morte di Roberto Calvi, un
qualche cosa, forse una perizia,
secondo la quale si trattava di
un suicidio. Alcuni giorni dopo
ci trovammo a parlare io,
Ignazio Pullarà, e
probabilmente Pietro Aglieri.
Parlando di vari argomenti, uscì
fuori anche il discorso relativo
alla notizia televisiva; fu il
Pullarà a dire 'Che suicidio del
cazzo, è stato strangolato da
Franco Di Carlo.' (...) Il discorso
ritornò alcuni anni dopo. (...)
Pullarà commentò che il Di
Carlo si era messo sempre a
disposizione, quando richiesto,
citando il caso dello
strangolamento di Calvi, 'cosa
che aveva tolto un grosso peso
a Pippo Calò.' (...) Il Pullarà
disse che Calvi si era
impadronito di una grossa
somma di denaro che
apparteneva a Licio Gelli e a
Calò.» (15)
Francesco Marino Mannoia,
chiamato «mozzarella», il
raffinatore di droga e «uomo
d'onore» vicinissimo a Stefano
Bontate che con le sue
rivelazioni ha aperto la seconda
grande stagione del
«pentitismo», dopo quella di
Buscetta e Contorno, ha parlato
a lungo di Pippo Calò. E dei
suoi legami con quelli della
Magliana: «Calò certamente
aveva rapporti con la banda
della Magliana tanto che da uno
di costoro, di cui non ricordo il
nome, mi fece fare una patente
falsa durante la prima latitanza
(1976 circa), presentandomi a
costui nel negozio di Nunzio
Barbarossa. Comunque il Calò e
Antonino Rotolo ricettavano
gioielli e altri proventi di grosse
rapine commesse a Roma, a
danno di gioiellieri e di furgoni
postali. Proprio per quest'ultimo
motivo erano ben noti in Cosa
Nostra i rapporti tra Calò e
questa banda...
«Calò conosceva bene
Ernesto Diotallevi, il quale
aveva moltissimi contatti negli
ambienti più diversi. (...)
Stefano Bontate diceva che
Diotallevi era un lazzarone e
un usuraio, intendendo che era
un uomo meschino che coglieva
qualsiasi occasione. (...)
Ritornando ai rapporti di Calò
con elementi della banda della
Magliana preciso ancora che in
origine fu il Cosentino (16) a
presentare alcuni di costoro al
Calò, ma ben presto il Calò
monopolizzò queste
conoscenze. Il Cosentino,
persona anziana, fu messo da
parte». (17)
***
8. AMICI NERI,
SERVIZI E SEGRETI.
***
9. LA STRAGE.
A Giovanni Girlando,
«Gianni il roscio», spararono
un colpo alla nuca nella pineta
di Castelporziano, una sera di
maggio di quel 1990, l'anno dei
Mondiali di calcio in Italia e dei
regolamenti di conti tra «bravi
ragazzi». Il «roscio» era il
trafficante di droga amico di
Fulvio Lucidi, veniva dal gruppo
di Acilia-Ostia, poi era passato
con quelli della Magliana.
Continuava a trafficare eroina,
e per fare affari, quando per le
dichiarazioni dei «pentiti» e la
guerra interna l'aria s'era fatta
pesante, era andato in Olanda,
dove fu arrestato, estradato in
Italia e poi scarcerato.
Nel Paese dei tulipani erano
transitati diversi dei banditi
cresciuti nelle borgate intorno
al Tevere, che lì avevano
aperto un canale per
commerciare la droga; la
cocaina adesso arrivava dalla
Spagna e dal Marocco, l'eroina
invece dalla Turchia, via
Olanda. Non solo Girlando era
arrivato nei Paesi Bassi, ma
anche Colafigli, Vittorio
Carnovale, Libero Mancone e
Antonio D'Inzillo, un altro
giovane neofascista riciclatosi
nelle bande criminali comuni;
nell'aprile del '91, in una
località non lontana da
Amsterdam, comparirà il
cadavere di un trafficante
turco, Ercan Mahmut
Inanguray: sulla sua agendina
c'erano i numeri di telefono di
Colafigli, Carnovale e D'Inzillo.
A quarantaquattro anni
Gianni Girlando voleva ancora
dire la sua nel mondo della
malavita. Da cinque mesi s'era
stabilito a Ostia, insieme a una
nuova donna: quella
precedente, Patrizia, l'aveva
lasciata col figlio di nove anni.
La mattina di lunedì 21
maggio, Gianni uscì di casa
proprio per andare a trovare il
bambino nella sua casa di
Acilia. Non ci arrivò mai. Tre
giorni dopo, la sera del giovedì,
ricomparve tra i cespugli della
pineta: il cadavere con la
maglietta alzata fino al petto e
la faccia sfigurata dal sangue
rappreso, scoperto da due
ragazzi, era del «roscio».
Documenti addosso non ne
aveva, solo il Rolex d'oro, una
catenina e il tatuaggio di una
farfalla.
In casa, nemmeno i parenti
poterono parlar bene ai
giornalisti di Gianni Girlando:
«Litigava spesso, non abbiamo
certo un buon ricordo. Non
lavorava, aveva pochi soldi.
Patrizia ha tirato su il piccolo
solo grazie a un minimo
sussidio. Si bucava, ma non ci
raccontava niente di quanto
facesse. Ci diceva di essere
'internazionale'». (28)
Le indagini sulla morte del
«roscio» non portarono a nulla.
Ci fu solo la solita «fonte
confidenziale» che spifferò in
Questura di una lite recente tra
Girlando e Marcello Colafigli, a
quell'epoca ancora uccel di
bosco, il quale «aveva
aspramente rimproverato» a
Gianni «il mancato aiuto fornito
ai componenti del sodalizio
detenuti.» (29)
Passò ancora un anno, e la
sera del 26 marzo 1991 toccò a
Pietro Sante Corsello, che di
Gianni Girlando era stato uno
dei gregari nella distribuzione
della droga lungo il litorale
laziale. Ma aveva lavorato
anche con gli altri della
Magliana, Colafigli e Carnovale.
I carichi di eroina che
«Marcellone» fece arrivare via
mare tra l'89 e il '90 dalla
Sicilia tramite i mafiosi di Totò
Riina, venivano ritirati al porto
di Napoli proprio da Corsello, il
quale poi trasportava la «roba»
a Roma, in macchina. Era
sempre lui, successivamente, a
curarne il taglio in casa sua,
quando la moglie usciva per
andare al lavoro, e a
consegnarla agli spacciatori.
Lo ammazzarono a colpi di
pistola in una via di Acilia,
mentre si trovava in compagnia
di alcuni amici. Ci fu una
sparatoria tra bande, e Corsello
- quarant'anni e una barba ben
curata, orologio e bracciale
d'oro - rimase ferito. Gli amici
in fuga tentarono di salvarlo
portandolo con loro, ma dopo
poche centinaia di metri lo
scaricarono dall'auto su un
marciapiede: ormai era morto.
***
10. PENTIMENTI.
***
I PROTAGONISTI.
Gruppo di Acilia-Ostia:
Nicolino Selis, punto di
contatto e tramite con la Nuova
Camorra Organizzata di
Raffaele Cutolo, ucciso il 3
febbraio 1981 dagli ex amici
della Magliana; il cadavere non
è mai stato ritrovato.
Antonio Leccese, cognato di
Selis, ucciso il 3 febbraio 1981
poco dopo l'esecuzione di Selis.
Giuseppe Magliolo, «il
killer», amico di Selis, trovato
morto il 24 novembre 1981;
stava tentando di organizzare
la vendetta contro gli assassini
di Nicolino.
Giuseppe Carnovale, «il
tronco».
Vittorio Carnovale, «il
coniglio».
Giovanni Girlando, «Gianni
il roscio», ucciso di 25 maggio
1990.
Fulvio Lucioli, «il sorcio».
Libero Mancone.
Clan Proietti:
Altri personaggi:
Orazio Benedetti,
«Orazietto», amico e
collaboratore dei Proietti,
ucciso il 23 gennaio 1981.
Daniele Raffaello Caruso,
ucciso il 22 gennaio 1983 dai
killer della Magliana perché
ritenuto responsabile
dell'omicidio di Mariano
Proietti.
Franco Nicolini, «er
criminale», ucciso all'ippodromo
di Tor di Valle il 26 luglio 1978
per questioni legate al controllo
delle scommesse clandestine.
Antonio Mottola, psichiatra,
collega di Aldo Semerari,
trovato morto su un'auto
bruciata il 25 luglio 1981.
Claudio Vannicola, «la
scimmia», ucciso per
concorrenza nel traffico di
droga il 23 febbraio 1982.
Amleto Fabiani, «er vòto»,
ucciso dopo una lite con
Colafigli il 15 aprile 1980.
Massimo Barbieri, ucciso
dopo alcuni contrasti con Sicilia
e Abbruciati il 18 gennaio
1982.
Sergio Carrozzi, titolare di
una boutique di Ostia e
«nemico» di Nicolino Selis,
ucciso il 29 agosto 1978.
Mario Loria, già implicato nel
delitto dei fratelli Menegazzo,
ucciso per contrasti legati al
traffico di droga e trovato
morto nel bagagliaio di un'auto
il 18 settembre 1983.
Pietro Sante Corsello, ucciso
per contrasti legati al traffico di
droga il 26 marzo 1991.
Roberto Abbatino, fratello di
Maurizio, trovato morto sul
greto del Tevere, otto giorni
dopo la scomparsa, il 26 marzo
1990.
Claudiana Bernacchia,
«casco d'oro», compagna di
Claudio Sicilia.
Fabiola Moretti, compagna
prima di Danilo Abbruciati e poi
di Antonio Mancini.
***
NOTE.
CAPITOLO 1.
1. Mandato di cattura
Giudice Istruttore Lupacchini
14-3-93, p. 141.
2. Ibidem.
3. Idem, p. 144.
4. Gangster milanese, «re»
delle case chiuse e delle bische,
Francesco «Francis» Turatello
ottenne appoggi e protezione
dalla mafia siciliana con la
quale faceva affari. Quando
provò a mettersi in proprio nel
commercio della droga, Cosa
Nostra decise di eliminarlo. Finì
ammazzato nel carcere nuorese
di Bad 'e Carros, il 17 maggio
1981, squartato a coltellate dal
camorrista Pasquale Barra,
detto «'o animale», e altri
cinque detenuti.
5. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 143.
6. Idem, pp. 18 e 20.
7. Ibidem.
8 Benedetto Blasi,
"Stradario romano", Edizioni
Colosseum, Roma 1986, p.
174.
9. A cura del Comitato di
quartiere, "La Magliana, vita e
lotte di un quartiere
proletario", Edizioni Feltrinelli,
Milano 1977, p.p. 26, 37-38.
10. Requisitoria del Pubblico
Ministero Luigi De Ficchy, 26-
11-1984, p. 8.
11. Idem, p. 13.
12. Sentenza della sesta
Corte d'Assise dì Roma 23-6-
86, p. 79.
13. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, 13-8-
1994, p. 18.
14. Sentenza della sesta
Corte d'Assise di Roma, cit., p.
111.
CAPITOLO 2.
1. Interrogatorio di Pietro
De Riz del 20-10-1983.
2. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
19.
3. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 21.
4. Interrogatorio del 20-10-
1983.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 25.
8. Ibidem.
9. Interrogatorio del 25-10-
1986.
10. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
52.
11. Idem, p. 35.
12. Interrogatorio del 25-
10-1986.
CAPITOLO 5.
1. Ufficio istruzione di
Palermo, ordinanza-sentenza
contro Abbate + 706, 8-11-
1985, p.p. 4640 e 4644.
2. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 37.
3. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
74.
4. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 43.
5. Idem, p.p. 43-44.
6. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
70.
7. Idem, p. 77.
8. Idem, p. 88.
9. Tribunale penale di Roma,
terza sezione, sentenza dell'8-
2-1986, p. 12.
10. Idem, p. 31.
11. Interrogatorio del 31-
10-1986.
12. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
88.
13. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p.p. 46-47.
14. Interrogatorio del 10-
12-1993, prima Corte d'Assise
di Milano.
15. Interrogatorio del 15-7-
1991, negli uffici della Procura
del distretto sud di New York.
16. Angelo Cosentino,
mafioso trasferitosi a Roma e
capo di una decina inserita
nella famiglia di Santa Maria di
Gesù, diretta da Stefano
Bontate.
17. Interrogatorio del 15-7-
1991, cit.
18. Interrogatorio del 4-12-
1984.
19. Senato della Repubblica,
Undicesima legislatura, Doc. IV
n. 169, Domanda di
autorizzazione a procedere
contro il senatore Giulio
Andreotti per il reato di cui agli
artt. 110, 575 e 577 n. 3 del
codice penale, trasmessa il 9-6-
1993, p.p. 14-15.
20. Interrogatorio del 19-
11-1986.
21. Interrogatorio del 15-7-
1991, cit..
22. Requisitoria del p.m.
Giovanni Salvi del 6-4-1991,
p.p. 1-2.
23. Noti come «gli esattori
di Salemi», legati a Salvo Lima
e al mondo democristiano della
Sicilia, furono rinviati a giudizio
nel maxiprocesso di Palermo
per il reato di associazione
mafiosa. Nino morì a
dibattimento in corso, Ignazio
fu condannato e assassinato nel
settembre del 1992.
24. Senato della Repubblica,
Undicesima legislatura, Doc. IV
n. 169, cit., p.p. 11-12.
25. Idem, p.p. 68-69.
26. Idem, p. 74.
27. «OP», n. 29 del 31-10-
1978.
28. Pino Arlacchi, "Addio
Cosa Nostra - La vita di
Tommaso Buscetta", Edizioni
Rizzoli, Milano 1994, p. 207.
29. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
127.
30. Interrogatorio di Fabiola
Moretti, contenuto in atti della
Procura di Palermo, proc. n.
3538/ 94 nei confronti di
Andreotti Giulio.
31. Interrogatorio di Antonio
Mancini, contenuto in atti della
Procura di Palermo, proc. n.
3538/94 nei confronti di
Andreotti Giulio.
32. Interrogatorio del 23-9-
1994.
33. Interrogatorio del 3-11-
1986.
34. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
358.
35. Idem, p.p. 359-360.
36. Ibidem.
37. Idem, p.p. 362-363.
CAPITOLO 8.
1. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Imposimato, 8-5-
1984.
2. Ibidem.
3. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p.p. 108-109.
4. Interrogatorio del 7-11-
1986.
5. Seconda Corte d'Assise
d'appello di Bologna, udienza
del 10-11-1989.
6. Interrogatorio del 15-10-
1982.
7. Interrogatorio del 2-3-
1982.
8. Interrogatorio del 21-6-
1985.
9. Interrogatorio del 15-10-
1982.
10. Ibidem.
11. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 107.
12. Ibidem.
13. Corte d'Assise d'appello
di Bologna, udienza del 2-3-
1994.
14. Interrogatorio del 5-6-
1985.
15. Ibidem.
16. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 99.
17. Jacques Forcet era uno
dei complici di Berenguer,
Bellicini e Bergamelli nella
banda dei Marsigliesi.
18. Interrogatorio del 21-6-
1985.
19. Interrogatorio del 12-5-
1986.
20. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 67.
21. Idem, p.p. 122-123.
22. Interrogatorio del 10-5-
1994.
23. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, p. 111.
24. Ibidem.
25. Idem, p. 112.
26. Idem, p. 123.
27. Idem, p. 117.
28. Sentenza della quinta
Corte d'Assise di Roma, 29-7-
1985, p.p. 166-167.
29. Interrogatorio dell'11-
12-1992.
30. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 124.
31. Procura della Repubblica
di Bologna, requisitoria nel
procedimento «bis» sulle stragi
dell'Italicus e alla stazione di
Bologna, 5-7-1994 p. 49.
32. Idem, p. 100.
33. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
51.
34. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 36.
35. Ibidem.
36. Interrogatorio al p.m. di
Perugia del 26-7-1994.
37. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
118.
38. Idem, p. 109.
39. Idem, p.p. 110 e 116.
40. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 48.
CAPITOLO 9.
1. Interrogatorio di Claudio
Sicilia del 5-11-1986.
2. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 223.
3. Idem, p. 224.
4. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
119.
5. Idem, p. 125.
6. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 48.
7. Ordinanza a rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
126.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Mandato di cattura g.i.
Lupacchini, cit., p. 49.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Interrogatorio del 26-1-
1987.
14. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
333.
15. Idem, p. 184.
16. Idem, p. 183.
17. Ibidem.
18. Idem, p. 184.
19. «Il Messaggero», 3-2-
1990.
20. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, p. 230.
21. Questura di Roma, terza
sezione Squadra Mobile,
rapporto del 19-9-1989.
22. Ibidem.
23. Interrogatorio di Antonio
Mancini, contenuto in atti della
Procura di Palermo, proc. n.
3538/94 nei confronti di
Andreotti Giulio.
24. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, p. 340.
25. Idem, p. 339.
26. Idem, p. 341-342.
27. «La Repubblica», 27-3-
1990.
28. «Il Tempo», 25-5-1990.
29. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
346.
CAPITOLO 10.
1. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit.,
p.p. 6-7.
2. Idem, p.p. 7-8.
3. Idem, p. 5.
4. Idem, p. 8.
5. Interrogatorio del 15-10-
1983.
6. Requisitoria del p.m. Luigi
De Ficchy, cit., p. 8.
7. Interrogatorio del 14-11-
1983.
8. Memoriale Lucioli, p.p. 7-
8.
9. Idem, p. 10.
10. Interrogatorio del 19-
10-1983.
11. Requisitoria del p.m.
Luigi De Ficchy, cit., p. 9-10.
12. Sentenza della sesta
Corte d'Assise di Roma, cit.,
p.p. 61-62.
13. Idem, p.p. 63-64.
14. Corte di Cassazione,
prima sezione penale, sentenza
del 14-6-1988, p.p. 33-35.
15. Idem, p.p. 46-48.
16. Idem, p.p. 49-50.
17. Interrogatorio del 19-
10-1986.
18. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
133,
19. Interrogatorio del 21-
10-1986.
20. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
3.
21. Memoriale Sicilia, p. 34.
22. Prima Corte d'Assise di
Milano, udienza del 10-12-
1993.
23. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, p. 227.
24. Ibidem.
25. Interrogatorio dell'11-3-
1994.
26. Ordinanza di rinvio a
giudizio g.i. Lupacchini, cit., p.
130.
27. Idem, p. 128.
28. Idem, p. 130.
29. Idem, p. 131.
30. Interrogatorio dell'8-5-
1994.