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DIARIO DI UNA GIURATA POPOLARE

AL PROCESSO DELLE BRIGATE ROSSE

di Adelaide Aglietta

Prefazione di Leonardo Sciascia


Prefazione di Leonardo Sciascia

"Nelle prime pagine di questo diario, Adelaide Aglietta ricorda quel mio breve articolo,
"per cui tanto reo tempo si volse", in cui esprimevo un'opinione relativamente all'essere giu-
rato in un processo come quello che all'Assise di Torino stava per cominciare contro Curcio
e altri delle Brigate Rosse. Opinione che continuo a sostenere come abbastanza sensata e
per nulla eversiva, se affermavo che per rispetto e dovere verso me stesso avrei accettato di
fare il giurato in un processo di quel tipo: e anzi forzando la mia innata e assoluta ripugnan-
za a giudicare i miei simili (e mai la parola "simili" ha senso così totale come quando si par-
la di peccati e di colpe). E ancora non riesco a capire perché tanto scandalo, perché tanta
polemica, se di un dovere verso una astrazione ed astratto io facevo un dovere concreto e
inamovibile; e con gli stessi effetti. Ad una opinione uguale - o quasi - erano arrivati i radi-
cali dopo il dibattito interno lungo ed intenso: ma era una opinione non vincolante per cia-
scuno di loro. Ed ecco che, nel sorteggio per i giurati al processo di Torino, appunto vien
fuori il nome di Adelaide Aglietta. E non so come il sorteggio dei giurati avvenga: se si im-
bussolano dei nomi; se si estraggono, come alla tombola, numeri che corrispondono ai nomi
dei probi cittadini che hanno i requisiti per giudicare i loro simili (requisiti che non riguar-
dano, si capisce, la vera e profonda vita morale di ognuno); fatto sta che era proprio un bel
caso di venir fuori del nome di Adelaide Aglietta. Ancora più bello sarebbe stato il caso se
avesse rifiutato. Ma ha accettato: e certo non senza esitazione, non senza disagio, non senza
pena. Per un dovere verso se stessa, per il dovere di non aver paura proprio quando la si ha:
alla paura del giudicare aggiungendosi, nella circostanza, quella della propria vita minaccia-
ta, in pericolo (e minacciata concretamente, come da esempi che quasi quotidianamente se
ne avevano). Dalla sua esperienza è venuto questo diario: discreto, senza declamazioni, per
quel che riguarda i suoi stati d'animo, le sue apprensioni: che diventano quasi marginali ri-
spetto al resoconto del processo - un resoconto tra i più oggettivi, forse il più oggettivo, che
se ne abbia. Perché, bisogna dirlo, non molto oggettivi sono stati i resoconti che ogni giorno
ne davano i giornali: approssimativi, anzi, e divaganti. E si consideri, per esempio, l'episo-
dio misteriosissimo della lettera di cui parla al processo nell'udienza del 18 aprile: quale
groviglio da affrontare e da sciogliere sarebbe stato per un giornalismo avvertito, vigile e -
per come richiesto dalla situazione italiana - preoccupato; e come invece è stato sorvolato
senza alcuna attenzione e senza nemmeno riuscire a dare un netto ragguaglio dei dati di fat-
to. Ve aggiunto che al di là del momento, al di là della particolarità del processo, al di là
della singolarità in cui Adelaide Aglietta si trova ad affrontare il suo ruolo di giudice - come
divisa tra la" disobbedienza civile "professata in quanto radicale e l'obbedienza alla dignità
personale - questo diario è una delle poche, delle pochissime testimonianze dirette, nate da
una diretta esperienza, che siano state pubblicate in Italia sull'amministrazione della giusti-
zia. Ne ricordo soltanto un altro, anzi:" Il diario di un giudice "di Dante Troisi. Dopo essere
stato giurato in Corte d'assise, Andrè Gide scrisse un libro di ricordi e prese a dirigere una
collana che s'intitolava" Non giudicate. "Purtroppo, nella situazione italiana, non ci è per-
messo di non giudicare: come questo caso dimostra. Non è permesso, cioè, nemmeno a co-
loro che per principio non vorrebbero. Solo che, giudicando, bisogna anche giudicare i giu-
dici e se stessi giudici: come mi pare Adelaide Aglietta abbia fatto".

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1. IL CORAGGIO DELLA PAURA

Dalla dichiarazione di Adelaide Aglietta, allora segretaria nazionale del Partito radicale,
resa in data 4 marzo 1978 "...Sono stata sorteggiata - almeno così pare - come giurata al
processo di Torino. Penso che sia la prima volta che il massimo esponente di un partito si
trovi di fronte a questa evenienza, non solamente nella nostra storia nazionale. [...] Non ho
quindi avuto esitazioni nel comprendere quel che dovevo fare. Come tutti, come donna,
come madre, ho avuto e potrò avere momenti di dubbio e di paura per me, per le mie fi-
glie, per i miei compagni, per gli altri. Penso che il coraggio consista nel superare la paura,
non nel non provarla. Penso che il coraggio della paura sia meritevole e doveroso dinanzi
alla morte che una società sempre più basata sull'equilibrio instabile del terrore militare e
nucleare prepara e impone: come dinanzi ad ogni morte. Anche per questo per noi e per
me la vita è sacra, a cominciare da quella degli altri, così come la libertà e la giustizia. [...]
Intendo dunque, da questo momento, comportarmi come possibile giurata del processo di
Torino. Non intendo quindi esprimere opinioni in merito; anzi, per l'esattezza, se non ho
avute, non ne ho più. Ho radicato in me il dovere costituzionale e morale di presumere le
non colpevolezza degli imputati, di contribuire ad assicurare loro la più piena possibilità di
difesa, di ricercare processualmente la verità e, in coscienza, di giudicare. Mi sia consenti-
to di rivolgere a tutti un appello contro la paura, contro la violenza, contro la rassegnazio-
ne a vivere la violenza assassina sia essa quella del potere o di chiunque altro. Rifiuto di ri-
tenere in pericolo la mia vita e quella di chiunque altro per il solo fatto che si compia un
dovere di coscienza.

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2. UNA CITTÀ ASSEDIATA

Giovedì 19 gennaio, di prima mattina, arrivo alla stazione di Torino. Ero partita da Roma
alle undici di sera, ma le nove ore di viaggio non sono riuscite a farmi dormire, a disto-
gliermi dallo stato di rabbia, a tratti di disperazione nel quale mi aveva gettata la frase,
secca e imperturbabile, pronunciata al telegiornale della sera: "La Corte costituzionale ha
dichiarato inammissibili quattro degli otto referendum richiesti dai radicali e sottoscritti da
settecentomila cittadini. Si tratta dei referendum sul concordato fra Stato e Chiesa, sui reati
di opinione e sindacali del codice Rocco, su codici e tribunali militari". Dunque, era stato
tutto inutile? In viaggio non facevo altro che pensare e ripensare a questo. Mi si paravano
davanti i ricordi dell'ultimo anno, uno dietro l'altro: i comizi per il lancio della raccolta
delle firme, le decine di tavoli per le strade, le notti passate con tantissimi compagni a veri-
ficare e riverificare che tutto fosse in ordine, corretto, a posto. E poi, ancora, le donne e i
vecchi. Erano quelli che più mi avevano colpito: si avvicinavano, nelle manifestazioni e ai
tavoli, e ti davano le cinquemila o le diecimila lire. Sapevano già tutto, pronti a discutere,
ad aderire. Dovunque l'entusiasmo era stato grande. Finalmente, dopo trent'anni, le leggi di
Mussolini, di Rocco, le leggi clericali, militariste, venivano messe in discussione. La spe-
ranza era più grande dell'entusiasmo: si poteva prospettare una primavera di lotta, un gran-
de movimento della sinistra, unita nel comune intento di abbattere i pilastri legislativi fa-
scisti dello Stato, imporre alla DC una vittoria laica sull'aborto, spazzare leggi borboniche,
sconfiggere una logica di governo corrotta e corruttrice. Poteva essere un 12 maggio 1974
moltiplicato per otto, con la candidatura della sinistra a forza di governo alternativa; una
sinistra unita nel rispetto delle diversità delle sue componenti e nel riconoscimento della
Costituzione repubblicana come punto di riferimento obbligato. Ma già dopo poche setti-
mane il clima era cambiato: comunisti e socialisti avevano mostrato ben altre intenzioni,
avallando il tentativo del governo di massacrare quanto meno i principali referendum (per
gli altri avrebbe poi provveduto il Parlamento) attraverso pressioni sulla Corte di cassazio-
ne prima e su quella costituzionale poi. Nel mio non-sonno gravavano soprattutto gli ulti-
mi quaranta giorni, l'annuncio del telegiornale. Avevamo fatto di tutto. Decine di giuristi,
non di parte, si erano pronunciati contro le tesi governative; in almeno cento avevamo in-
trapreso un ennesimo sciopero della fame per chiedere alla RAI informazione sull'iter dei
referendum, sapendo bene che solo nella censura e nella disinformazione si possono rea-
lizzare operazioni come quella della Corte costituzionale; centinaia di telegrammi si erano
accumulati sui tavoli della presidenza del Consiglio dei ministri, né si potevano contare i
sit-in e le dimostrazioni di piazza contro gli interventi di Andreotti. Il tutto era stato igno-
rato da un'informazione sempre più ammaestrata e obbediente: l'"arco costituzionale" ri-
spondeva alle nostre iniziative con il controllo ferreo dei mass-media, un muro di gomma
terribile, non perforabile. Non avendo la vocazione di Jan Palach o dei bonzi buddisti,
pronti a bruciarsi in piazza e candidati al martirologio, avevamo deciso, il 17 gennaio, di
cessare le attività politiche nazionali del partito. Un comunicato stampa chiariva le moti-
vazioni di tale decisione: "Per una forza politica di opposizione che intenda essere nonvio-
lenta, costituzionale, in queste condizioni non esistono più i margini per esercitare la pro-
pria funzione; l'unica via praticabile è ormai diffondere le lotte radicali e libertarie nelle
città e nelle regioni, non più da Roma, dal centro". Il giorno seguente, veniva diffusa la
sentenza della Corte. La Costituzione era stata stracciata, il patto di ferro DC-PCI, la logi-

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ca soffocante delle "larghe intese" aveva vinto. Probabilmente grazie all'operato, in seno
alla Corte, del democristiano Elia e del comunista Malagugini. Anche i socialisti però ave-
vano avallato il "colpo" con il silenzio o la latitanza. Mi ritrovo così nella mia città, con
tutto da rifare. Nel giro di pochi giorni la situazione si è ribaltata: il partito "chiuso", il
progetto politico dei referendum decapitato, la necessità del mio impegno a Torino e dun-
que non nuovo trasferimento. Non appena scesa dal treno, acquisto i giornali, forse qual-
che quotidiano avrà pubblicato sdegnati commenti contro la sentenza. Per vecchio istinto
apro "La Stampa": "Pannella ha affermato che questa è la pagina più nera degli ultimi tren-
t'anni, il comitato per i referendum ha detto che la sentenza rappresenta un colpo di Stato
legale... Con i loro commenti esagitati Pannella e il comitato assumono una posizione di
violenti e dimostrano di non saper accettare le norme e le istituzioni di un paese democra-
tico". L'articolo, firmato da Giovani Trovati, vicedirettore, è tutto un elogio alla sentenza
della Corte, che causa "minor tensione" fra i partiti. Mi sento impotente.

Martedì 28 febbraio, al termine di una riunione di partito, il discorso cade - quasi ca-
sualmente - sul prossimo processo alle Brigate Rosse. Spesso i radicali sono stimolati all'i-
niziativa politica da esperienze personali, e prestano comunque alla sfera del "personale" -
proprio e altrui - un'attenzione particolare. Piovono le lamentele: Torino è una città occu-
pata militarmente, non se ne può più. La retorica dilaga, è opprimente: partiti "costituzio-
nali", giunta regionale, PCI, giornali cittadini battono la grancassa della raccolta delle fir-
me "contro il terrorismo". Qualcuno ridicolizza: "L'appello della giunta regionale inizia
sostenendo che il processo del 9 marzo sicuramente si farà, ma più raccolgono firme e me-
no la gente accetta di fare il giudice popolare". Altri scherzano sul fatto che persino l'arci-
vescovo Ballestrero ha assicurato l'impegno della diocesi sulla raccolta delle firme. Osser-
vo che questo è un "processo monstrum", voluto dal regime come prova di forza fra terro-
rismo e Stato; ricordo poi l'articolo della "Stampa" del 13 gennaio, col quale si rimprove-
ravano i torinesi che non accettavano l'incarico di giudice popolare: "Nessuno è costretto
ad essere un eroe, ma nessuno può sottrarsi a un dovere. La violenza vincerà sono a quan-
do i cittadini non passeranno dalle deprecazioni verbali (magari a bassa voce) alle reazioni
di fatto". Tutti insieme osserviamo che in pratica l'"arco costituzionale" propone al citta-
dino di incarnare il ruolo del "vendicatore della violenza", anzichè quello del giudice po-
polare che, come la legge vuole, si impegna a ricercare processualmente la verità: "Alla
gente si chiede, insomma, di essere giustiziere". Qualcuno - ricordando che noi siamo
sempre stati favorevoli al fatto che tutti i processi, senza alcuna eccezione, si facciano -
avverte che questo è il modo più assurdo e controproducente per convincere i cittadini ad
assumersi l'incarico. Poi la discussione si allarga: cosa può spingere un uomo a diventare
un terrorista? Che tipo di vita conducono? Come si può credere nella "scorciatoia" della
lotta armata, fin troppo comoda per il potere? Le ipotesi e le curiosità si accavallano. La
sera seguente - per una strana coincidenza - ci troviamo a discutere con Elena Negri, Paolo
Chicco e Giovanni Negri, tre compagni di Torino che conosco da anni, e nasce la doman-
da: "Cosa fareste se vi sorteggiassero per fare il giudice popolare?". Le risposte sono di-
verse. C’è chi pensa che "questo regime ha assassinato la Costituzione e non mi può venire
a chiedere nulla"; gli si ricorda che la nostra concezione del diritto è diversa, e sta al centro
del nostro modo di fare politica: la legge è una occasione di confronto in ogni caso. Siamo
imputati in centinaia di processi e chiediamo che essi si celebrino, così come ci battiamo
perché si facciano quelli contro gli uomini di regime coinvolti nelle truffe, nei peculati di

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Stato, nella strategia della tensione. "Altrimenti muore anche la speranza dello Stato di di-
ritto". Certo, siamo tutti d'accordo sul fatto che la borghesia faccia un "uso di classe" del
diritto. Sono le sue storiche contraddizioni; il problema nostro è quello di fare esplodere
queste contraddizioni, di farle entrare in crisi, di farne apparire in piena luce, con la disob-
bedienza civile e la nonviolenza, tutta la carica di reale violenza. Alla fine tutti concordia-
mo con l'appello, civile e coerente, lanciato da Leonardo Sciascia sulle colonne del "Cor-
riere della Sera": "Per questo Stato non farei il giudice popolare. Se fossi estratto a sorte
accetterei per coerenza nei confronti di me stesso e dei valori nei quali credo". Il giorno
dopo, sulla "Stampa", compare un articolo di Claudio Cerasulo: "La funzione svolta dalla
stampa in un caso come questo del processo alle BR è essenziale. Da una corretta informa-
zione dipende l'atteggiamento della gente e quindi anche di chi può essere sorteggiato fra i
giudici popolari. Non a caso tutti i giornali si astengono dal pubblicare i nomi di chi accet-
ta l'incarico". Giovedì 2 marzo. Alle otto del mattino parto per Roma, con un compagno.
Per la mattina successiva, dopo più di un mese di cessazione delle attività nazionali del
partito, è convocata una riunione, per valutare e approfondire l'ipotesi di riconversione re-
gionale delle lotte radicali. Ho un senso di sollievo nell'allontanarmi da Torino, dove il
clima è sempre più pesante: la città è ormai una palestra di esercitazioni di militari, di ca-
rabinieri, di poliziotti in borghese. Non si contano più le macchine civili con targa di fuori
Torino, evidentemente in dotazione alle forze dell'ordine: facce dure, che mi ricordano i
volti delle squadre speciali inviate il 13 maggio del 1977 a piazza Navona da Cossiga per
cercare la strage e criminalizzare l'intero movimento di opposizione; quel giorno fu assas-
sinata Giorgiana Masi. Pesa enormemente l'atmosfera, ambigua e sinistra, del cosiddetto
"bunker", la caserma Lamarmora, dove si terrà il processo. In treno, leggendo i giornali,
rivedo le foto delle vittime di Torino, uccise barbaramente da ignoti assassini. L'ormai an-
ziano avvocato Croce, reo di essere presidente dell'ordine degli avvocati; l'avversario poli-
tico Carlo Casalegno. Mi soffermo su una frase pubblicata dal quotidiano "la Repubblica".
Pare che sia stato estratto un grosso nome di Torino, forse un esponente del PCI, come
giurato al processo delle BR: ho una punta di curiosità, faccio qualche battuta. Mi addor-
mento.

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3. L'APPUNTAMENTO CON I VIOLENTI

Giovedì 2 marzo. Arrivo a Roma alle quattro del pomeriggio, annoiata per il viaggio. Va-
do a casa per lasciare il bagaglio, telefono a Gianfranco Spadaccia e poi al gruppo parla-
mentare, con la gioia di risentire e rivedere i compagni coi quali ho lavorato quotidiana-
mente per un anno e che da un mese non vedo. Al telefono risponde Marisa Galli, con il
solito modo brusco e affettuoso, e mi dice che c’è un certo capitano dei carabinieri che ma
ha cercato telefonicamente da Torino almeno quattro o cinque volte e vuole essere imme-
diatamente richiamato. Mi stupisco per tanta urgenza, penso a una delle incriminazioni per
vilipendio o per le iniziative dei centri CISA sull'aborto ("Strano che tirino fuori proprio
adesso quest'argomento!"), ma in ogni caso telefono a Torino. "Lei è proprio Adelaide A-
glietta?", mi chiede il capitano; replico che non saprei proprio come dimostrarglielo, per
telefono. Il capitano mi comunica allora che il giorno precedente il mio nominativo è stato
estratto per la formazione della giuria popolare. Resto interdetta, non so rispondere altro
che sino a domenica sono improrogabilmente impegnata a Roma; mi suggerisce di manda-
re un telegramma al presidente della Corte d'assise per comunicargli la mia impossibilità
ad essere presente. Mi annuncia contemporaneamente, per il giorno successivo, l'arrivo
della notificazione scritta ufficiale. Una ridda di pensieri mi passa per la testa: perché è
stato estratto il mio nome? E' possibile che il caso abbia scelto me su almeno un milione di
altre possibilità? La mia posizione è compatibile con quella di giurato? Devo andare a rap-
presentare istituzioni contro le quali lotto ogni giorno? A quali rischi vado incontro? Mi
prende la paura, parecchia paura. Penso alle bambine e mi metto persino a piangere. Di
nuovo la dinamica del sospetto mi assale: cosa c’è sotto? perché un radicale? cosa voglio-
no? In fin dei conti il nostro paese è da anni oggetto di torbide operazioni. Questo processo
io non lo condivido, ma mi viene in mente la frase di alcune sere prima: "I processi debbo-
no essere fatti, tutti". Faranno il tiro al piccione contro di me? Farò da bersaglio? Cerco di
razionalizzare tutto con Giovanni, il quale chiamato subito Torino e parla con Paolo. Paolo
sa già tutto: in mattinata ha telefonato a Radio Radicale un giornalista di "Repubblica" e
gli ha chiesto un appuntamento, non specificando la ragione. Così Paolo è venuto a sapere
molte cose, e con parecchie ore di anticipo: la sera precedente era circolata la voce che
fosse estratto un "grosso nome" del PCI torinese. Dalla segreteria della federazione comu-
nista si confermava solo che "era stato sorteggiato un operaio del PCI, e che invece era sta-
ta estratta la Aglietta", la quale "pare abbia già rifiutato". Ora, sapendo tutto questo Paolo,
mi rammento che Marisa Galli mi aveva avvertito che nel pomeriggio due giornalisti mi
avevano affannosamente cercato al gruppo parlamentare, e con amara ironia ripenso all'ar-
ticolo di Cerasuolo sulla "Stampa". Già, la funzione della stampa è molto importante... Pi-
glio un taxi e vado a al gruppo parlamentare. Non entriamo nel merito della questione, ma
stiliamo un comunicato che annuncia il telegramma della Corte d'assise sulla mia impossi-
bilità ad essere a Torino il giorno dopo. Aggiungiamo una domanda: "Quale sarebbe, in
questo caso, il comportamento degli altri segretari di partito?". La sera tento di parlare con
mio marito e le bambine, che sono in vacanza in montagna, ma è impossibile: pare che gli
ospiti del Club Mèditerranée non abbiano il diritto di ricevere telefonate. Furibonda desi-
sto, e chiamo mio padre: so come sia apprensiva mia madre, come sempre teme per me,
per la mia salute; conosco le angosce che ha vissuto durante gli scioperi della fame, prefe-
risco che sia mio padre a parlargliene, debbo assolutamente evitare che apprenda la notizia

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dai giornali. Mio padre, dopo avermi ascoltata, resta un po' silenzioso, poi mi chiede cosa
farò. Gli dico che non so, che tendenzialmente sono per accettare e che comunque ne di-
scuterò con i compagni il giorno dopo, perché è anche da valutare la sottrazione del mio
tempo e del mio impegno rispetto ai programmo del partito. Lui mi dice che, nella mia po-
sizione, farei meglio a rifiutare; gli chiedo a bruciapelo cosa farebbe lui: mi risponde cate-
gorico che accetterebbe. La sera, a letto, mi riprende l'angoscia, ho la sensazione di avere
di fronte un tunnel buio che non so dove conduca. Nuovamente penso a Francesca a ad
Alberta; come reagiranno le bambine? Saranno coinvolte? Ritelefono in montagna, litigo
dieci minuti con la telefonista, ma non c’è niente da fare.

Venerdì 3 marzo, nelle primissime ore, mi sveglia lo squillo del telefono. E' Marco, mio
marito, già al corrente di tutto. In verità non abbiamo da scambiarci molte idee, anche con
lui - giorni prima - ci eravamo detti le nostre impressioni sul processo. Gli raccomando di
parlare con Francesca e Alberta, per le quali mi sembra molto preoccupato. Accenna anche
a un loro possibile trasferimento da Torino. Io non condivido l'idea, o quanto meno mi ap-
pare prematura e in ogni caso intendo parlarne direttamente con le bambine, domenica,
quando conto di tornare a Torino. Sono convinta, come al solito, che mascherare o mini-
mizzare la realtà ai bambini sia una scelta stupida e controproducente. Vado alla riunione
del partito, nella saletta di un albergo di Roma. Ad un tratto, nel breve tragitto, mi ricordo
dei giornali. La notizia sarà riportata? E in che modo, in quali proporzioni? Compro tutti i
giornali, mi casca l'occhio sulla "Repubblica". In prima pagina campeggia un titolo:
"Scoppia il caso Aglietta". Scalfari ha decisamente mutato atteggiamento nei nostri con-
fronti, dopo le continue censure o mistificazioni. Aggiungiamo all'ordine del giorno della
riunione la mia estrazione a giudice popolare al processo di Torino. Marco Pannella mi
sussurra una prima considerazione: "Era scontato... prima o poi dovevamo giungere all'ap-
puntamento con i ``violenti''. Quando tu non scegli i fatti, i fatti scelgono per te". Io mi ri-
guardo le cifre che alcuni quotidiani riportano, piuttosto impressionanti: più di un centi-
naio di estratti, ma i "sì" si possono contare sulle dita di una sola mano; bel risultato hanno
ottenuto il PCI, l'arcivescovo, "La Stampa", con i loro strilli "contro il terrorismo"... Guar-
do tutti i compagni seduti attorno al tavolo: con ognuno ho un vissuto, un rapporto perso-
nale e politico. Sono presenti i compagni del gruppo e della segreteria: i quattro deputati
(Marco, Emma, Adele, Mauro), due dei deputati supplenti (Marisa Galli e Roberto Cic-
ciomessere), Paolo Vigevano, Sergio Stanzani, Gianfranco Spadaccia, i compagni della
segreteria (Geppi Rippa, Peppino Calderisi, Giovanni Negri, Loredana Lipperini, Mario
Signorino). Da Torino è venuto Paolo Chicco. Dopo altri argomenti, si apre il dibattito sul
mio eventuale impegno. Tutto si impernia su un'unica questione: è legittimo il rifiuto, data
la funzione "costituzionalmente rilevante" che svolgo in qualità di segretario di un partito?
E' il succo della domanda già rivolta ai segretari degli altri partiti, su ciò che loro farebbero
trovandosi nella mia situazione. Concludiamo che, pur avendo validi motivi per rifiutare,
questi cadono dal momento che segreteria e tesoreria, sono cessate, ed io sono dunque li-
bera da vincoli ed impegni. Alcuni sono però pregiudizialmente contrari alla mia accetta-
zione, avvolti e vinti dalla "dinamica del sospetto" nei confronti di una "operazione di re-
gime" esplicitamente ipotizzata. Mentre discutiamo, il portiere dell'albergo, ogni dieci mi-
nuti, ci comunica che c’è al telefono una giornalista "che vuole sapere...". Mi prende un at-
timo d'ira, ripenso ai settanta giorni di sciopero della fame dello scorso anno per il miglio-
ramento delle condizioni di vita e di lavoro degli agenti di custodia e per l'amnistia, tra-

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scorsi nel silenzio totale; ripenso alle invocazioni ai giornalisti perché pubblicassero qual-
cosa, un minimo di spazio, affinchè si sbloccasse la situazione... I compagni ed io siamo
comunque unanimi su una considerazione: il nonviolento si difende solo con le linearità
delle proprie scelte di coscienza, in una dimensione di divulgazione il più pubblica possi-
bile del proprio operato. Dunque Francesco Cossiga tenga alla larga da me qualsiasi suo
uomo, qualsiasi scorta. La "protezione" di colui che, secondo noi, scientificamente, a tavo-
lino, ho progettato, cercato, costruito e trovato l'evento criminale del 12 maggio, può solo
costituire un grave pericolo, mai una sicurezza. Fissiamo una conferenza stampa per il
giorno successivo: ritorniamo a discutere dell'importanza - a maggior ragione questa volta
- dell'informazione corretta e della conoscenza come unica garanzia di sicurezza fisica per
me. Mi si deve conoscere non come simbolo, bensì come persona: con le mie emozioni, i
miei ideali e valori, le mie motivazioni di radicale. La riunione termina e vado a casa, ho
un po' meno paura. E' invece molto preoccupato mio padre, soprattutto per Francesca e
Alberta. Ho riflettuto sul problema delle bambine, e gli rispondo che bisogna smetterla di
essere vittime della logica che costruisce "mostri": nella strategia delle Brigate Rosse mai
vi sono stati bersagli che non fossero obbiettivi politici diretti, non vi debbono dunque es-
sere preoccupazioni eccessive per i familiari. Comunico anche a mio padre che ho deciso
di rifiutare preventivamente qualsiasi scorta armata. Lui non dice nulla.

Sabato 4 marzo. I giornali giocano ad una sorta di "toto-radicale": accetterà, non accette-
rà? Ancora una volta non riesco a non pensare al disprezzo mostrato dalla maggior parte
degli organi di informazione in occasione di battaglie di liberazione condotte in anni e an-
ni. Mi soffermo sulle dichiarazioni de miei "colleghi", segretari di partiti: tutte molto "pu-
re", molto "dure", categoriche, sicure. Sento una stonatura pesante, forse perché sono abi-
tuata anch'io a diffidare delle "purezze", degli integrismi. Penso anche alla scelta esisten-
ziale del terrorista: non è anch'essa la scelta totalizzante e clericale della "purificazione" di
se stessi e degli altri dal "nemico", e dunque una scelta che racchiude valori di espiazione e
di mondamento dei peccati in un lavacro di sangue? Da bambina temevo l'arcangelo Ga-
briele, "giustiziere e vendicatore" dalla lunga spada e dalla dorata aureola (ben diverso dal
laico e simpatico Robin Hood). Ritorno comunque a leggere le dichiarazioni: Berlinguer,
Zaccagnini, Romita: nessuno avrebbe esitazioni. L'unico contributo serio e problematico
viene dal segretario liberale Valerio Zanone, che rileva le difficoltà oggettive - per un se-
gretario di partito - ad assumere un incarico così impegnativo. Il segretario del PRI, Oddo
Biasini, mi rimprovera: non solo egli accatterebbe subito, ma ritiene assurda qualsiasi esi-
tazione e ogni forma di consultazione con i compagni di partito. Vado al gruppo parlamen-
tare piuttosto presto, poiché bisogna terminare di scrivere gli interventi per la conferenza
stampa. Marco Pannella e Gianfranco Spadaccia, che mi attendono, hanno tentato invano
di ottenere un'intervista per me dai telegiornali: la risposta è stata secca, neanche in questo
caso si può avere diritto di parola, alla vicenda verranno dedicati due minuti nel corso dei
quali i redattori della RAI "riferiranno correttamente". Accusano sovente noi radicali di es-
sere dei vittimisti: ma se qualsiasi altro segretario di partito si fosse trovato nelle mie con-
dizioni non sarebbe stato intervistato dalla televisione? Perché intere colonne di piombo e
centinaia di veline televisive vengono ogni giorno dedicate alle dichiarazioni, anche le più
insignificanti, dei "politici" dei partiti "costituzionali"? Perché ogni comunicato delle BR
viene pubblicato fino all'ultima riga? Perché fra regime e terrorismo a tutti i costi ci deve
essere terra bruciata, non deve essere esistere - in termini di informazione - nulla, e se

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qualcosa c’è, questo è immediatamente manipolato e minimizzato? Affronto la saletta del-
la conferenza stampa, che è affollatissima, piuttosto tesa. Discuto con il redattore del TG1
e con un altro Giornale Radio: non è colpa loro ma oggi più che mai li vedo come avvoltoi
pronti ad usarmi come volto, come persona, come simbolo, senza preoccuparsi di ciò che
ho realmente da esprimere, di ciò che mi preme far conoscere. Mi rallegrano invece le de-
cine di compagne e compagni che sono venuti, tutti molto affettuosi. Inizia la conferenza
stampa: ADELAIDE AGLIETTA: "Il coraggio di avere paura" Sono stata sorteggiata -
almeno così pare - come giurata al processo di Torino. Penso che sia la prima volta che il
massimo esponente di un partito si trovi di fronte a questa evenienza, non solamente nella
nostra storia nazionale. Non so cosa avrei fatto, se mi fossi trovata nella pienezza delle mie
responsabilità di segretaria nazionale del Partito radicale. Non sono affatto sicura, come si
sono proclamati ieri, a quanto pare, i miei illustri colleghi Zaccagnini, Romita, Biasini,
Zanone e Berlinguer, che avrei ritenuto di poter e dover anteporre ragioni e incombenze di
giurata a quelle, di rilevanza anche costituzionale, del mio ufficio. Vi sono contraddizioni
evidenti, non ultime ma non soltanto, quelle di natura pratica. Comunque è facile parlare
per assurdo. Ma, per quello che mi riguarda, fin quando non si saranno creati fatti nuovi,
auspicabili e che siamo tesi a conquistare perché il Partito radicale possa riprendere la sua
attività nazionale nell'esercizio dei diritti e doveri costituzionali, non mi attribuisco altri
compiti che quelli di una qualsiasi militante, nonviolenta, libertaria, radicale. Consentitemi
per un istante di fare una considerazione forse non oziosa, forse necessaria. Meno di due
mesi fa sono tornata a Torino, ho deciso di far cessare l'attività nazionale del partito, dopo
22 anni di lotte d'insuperato valore civile e politico, di fronte all'evidenza che da tempo ce-
lavamo a noi stessi. Nell'Italia degli anni '70 anche il solo chiedere l'attuazione della Costi-
tuzione, l'abrogazione dei fondamenti fascisti dello Stato, il rispetto della sua propria legge
da parte del potere, la conquista di diritti civili e costituzionali fondamentali a tutti e per
ciascuno esige processi, condanne, discriminazioni, ostracismi; ma esige - anche ormai - di
mettere in causa la propria vita, se si è nonviolenti; la vita altrui oltre che la propria se si è
violenti e si crede che i fini giustificano i mezzi e non che i mezzi prefigurano i fini. Nel
1977 abbiamo dovuto condurre decine di digiuni per quasi cento giorni ognuno, per otte-
nere che alcune distorte e avare notizie raggiungessero l'opinione pubblica. Contempora-
neamente, nel 1977 è stato sufficiente sparare alle gambe o al cuore di qualcuno, perché
messaggi politici venissero trasmessi a cinquanta milioni di italiani, per essere sempre più
eletti a protagonisti della cronaca politica e antagonisti ufficiali di un potere che sembra
volere la terra bruciata tra il suo 90 per cento di consensi parlamentari e la "opposizione"
violenta dei gruppi terroristici. In questa escalation della violenza delle istituzioni, dal
peggioramento delle leggi fasciste a - soprattutto - l'uso fascista, letteralmente fascista, del-
la informazione della RAI-TV e della stampa sovvenzionata contro le grandi, poderose lot-
te politiche referendarie, civili, del "partito nonviolento", eravamo e siamo giunti al punto
in cui m'era parso evidentemente che, d'ora in poi, un esito tragico dei nostri digiuni della
sete, non evitabili dinanzi alla gravità delle violenze anche costituzionali, degli arbitrii cui
dobbiamo disobbedire, sarebbe divenuto obbligato. L'informazione di regime, per sua pro-
pria ideologia, è omogenea agli assassinii dei cosiddetti partiti armati. Ho assunto dunque
la responsabilità di far cessare questa nostra attività politica nazionale, contro il prezzo
della vita che stava ineluttabilmente divenendo necessario pagare o rischiare per lotte civili
doverose ma vietate. E' dunque per questo che ero tornata a Torino e ho avviato una con-
versione delle lotte radicali. "E' qui che di nuovo vengo ora a trovarmi personalmente in

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collusione con la spirale di violenza e di paura nella quale trenta anni di potere "costitu-
zionale" hanno precipitato e sempre più precipitano il paese". E' qui che altri sembrerebbe-
ro aver scelto di divenire in tutto e per tutto simili a coloro che combattono, nel peggio che
li caratterizza. Non ho quindi avuto esitazioni nel comprendere quel che dovevo fare. Co-
me tutti, come donna, come madre, ho avuto e potrò avere momenti di dubbio e di paura
per me, per le mie figlie, per i miei compagni, per gli altri. Penso che il coraggio consista
nel superare la paura, non nel non provarla. Penso che il coraggio della paura è meritevole
e doveroso dinanzi alla morte che una società sempre più basata sull'equilibrio instabile
del terrore militare e nucleare prepara e impone: come dinanzi ad ogni morte. Anche per
questo per noi e per me la vita è sacra, a cominciare da quella degli altri, così come la li-
bertà e la giustizia. Ho consultato i compagni del partito e del gruppo parlamentare per
meglio valutare con loro le possibili scadenze della vita politica, in particolare quelle ri-
guardanti i referendum di cui siamo stati promotori e le lotte di difesa della Costituzione.
Per il resto abbiamo valutato insieme le conseguenze politiche della mia decisione che, se
appartiene interamente e integralmente alla mia coscienza, anche e proprio per questo non
può non costituire anche una manifestazione concreta dei nostri comuni ideali e obiettivi.
Ho trovato, in tutti, l'uguale consapevolezza che è improbabile, in questa evenienza, non
opporre alla spirale della paura che ha dilagato e sta dilagando ovunque, specie a Torino,
ora attorno a questo processo, una comune, rigorosa, attiva azione nonviolenta. Intendo
dunque, da questo momento, comportarmi come possibile giurata del processo di Torino.
Non intendo quindi esprimere opinioni in merito; anzi, per l'esattezza, se ne ho avute, non
ne ho più. Ho radicato in me il dovere costituzionale e morale di presumere la non colpe-
volezza degli imputati, di contribuire ad assicurare loro la più piena possibilità di difesa, di
ricercare processualmente la verità e, in coscienza, di giudicare. Mi sia consentito di rivol-
gere a tutti un appello contro la paura, contro la violenza, contro la rassegnazione a vivere
la violenza assassina sia essa quella del potere o di chiunque altro. Rifiuto di ritenere in
pericolo la mia vita e quella di chiunque altro per il solo fatto che compie un dovere di co-
scienza. Non so se la violenza per la quale tanti cittadini, cui va in questo momento tutta la
mia comprensione, la mia solidarietà e la mia stima, hanno avuto il coraggio della paura,
sia reale o supposta. Fino a prova del contrario, rifiuto di presupporla. Ma questa spirale va
spezzata. Chiedo alle donne come me, alle donne di Torino, alle compagne di manifestare
con la loro sola presenza, silenziosamente e in massa, lunedì pomeriggio alle ore 15, in via
Garibaldi 13, la volontà di una vita diversa, di una società nonviolenta, contro ogni assas-
sinio e assassino. Lo chiedo alle donne, come io sono, alle compagne, ai compagni. Muo-
viamoci come altre donne, in condizioni più tragiche, hanno fatto, in Irlanda. Portiamo i
nostri figli e genitori. Chiedo che unanimi e solidali i giurati designati si uniscano con se-
renità per affrontare il loro compito vincendo la paura con cui ci si vuole degradare, a sud-
diti o a donne e uomini vili, in nome della nonviolenza, di una giustizia vera, almeno da
tentare.
MARCO PANNELLA: "Chi vuole s'accomodi" Chi pensa che i nonviolenti siano degli i-
nerti e dei disarmati, sbaglia. C’è una cosa, almeno, che unisce profondamente nonviolenti
e violenti politici: gli uni e gli altri giudicano che la situazione storica e sociale nella quale
vivono esige da loro di dare letteralmente corpo alle loro speranze ed ai loro ideali, di rite-
nere comunque in causa la loro esistenza e di trarne le conseguenze. C’è una sorta di inte-
grità che li unisce. Ma gli uni ritengono che i mezzi prefigurano e determinano i fini; ed
essendo dei libertari e dei socialisti la vita è per loro sacra, innanzitutto quella dei loro ne-

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mici; gli altri credono che i fini giustificano i mezzi, e scendono sullo stesso campo del-
l'avversario, alzano anch'essi il vessillo dell'assassinio e della guerra, giusti e sacri. L'ideo-
logia stessa che presiede alla vita del nostro Stato, retto con leggi fasciste e incostituzionali
per volontà degli antifascisti al potere da trent'anni, fa scegliere "il partito armato", il terro-
rismo come interlocutore privilegiato. La stampa e la RAI-TV fanno di costoro gli antago-
nisti politici e i protagonisti della cronaca politica. Censurano, soffocano, deturpano fero-
cemente i nonviolenti, referendari, costituzionali, che si muovono fra la gente e ne rappre-
sentano aggregazioni maggioritarie. Come nonviolenti denunciamo ogni giorno la violenza
assassina di un potere che ha al suo attivo la strategia delle stragi e la strage di legalità.
Siamo processati, condannati. Ma come nonviolenti sappiamo che la scelta del cosiddetto
"partito armato" è non solamente assassina sul piano della proclamazione teorica e della
prassi, ma è suicida se e quando davvero partecipa alle speranze della sinistra e non sia an-
che soggettivamente espressione di servizi paralleli nazionali e internazionali. In queste
condizioni, per noi il processo di Torino ha da farsi. La spirale della paura deve essere
spezzata, una volta per tutte. Certo, esistono dei pericoli nuovi. In realtà non sono che il
nuovo volto di vecchie realtà che hanno sempre accompagnato le nostre lotte radicali. Co-
gliamo l'occasione per dire al ministro di polizia Cossiga, al responsabile della strage di
piazza Navona e dell'assassinio di Giorgiana Masi che non tollereremo di essere "protetti"
dai suoi servizi. Siamo armati di nonviolenza e non d'altro. Chi vuole s'accomodi. Non ri-
schia nulla se non d'essere un indiretto "boia di Stato". GIANFRANCO SPADACCIA: "La
coerenza del nonviolento" Ringraziamo i segretari degli altri partiti per il contributo che,
con grande sicurezza e senza esitazioni, hanno voluto dare al segretario del nostro partito
in questa circostanza. Forse avremmo apprezzato maggiormente dichiarazioni più proble-
matiche, soprattutto tenendo conto del fatto che i loro autori, tutti parlamentari eletti, non
avrebbero potuto trovarsi nella situazione in cui si è trovato il segretario del Partito radica-
le. Non intendo mettere in dubbio la sincerità di quelle dichiarazioni né liquidare con faci-
lità l'esistenza di questa incompatibilità che, nelle intenzioni del legislatore, aveva un valo-
re garantista. Ma proprio l'esistenza di questa norma, se non viene intesa come un'altra
forma di immunità e come un privilegio di casta, dimostra che, nella sostanza se non nella
forma, i problemi posti al segretario del Partito radicale non erano e non sono soltanto
problemi di carattere pratico. Le stesse considerazioni dell'onorevole Biasini ne sono del
resto un'ulteriore conferma, anche se le dichiarazioni di Adelaide Aglietta hanno fugato
ogni possibile dubbio sul carattere che hanno avuto le sue consultazioni con noi. Ma per
un radicale, per un nonviolento esiste un altro elemento di contraddizione che sarebbe in-
giusto sottacere in un momento in cui siamo costretti a denunciare le persistenti e le nuove
violazioni della legalità repubblicana da parte delle istituzioni. In oltre quindici anni di lot-
ta politica, i radicali di questa generazione hanno conosciuto la giustizia del regime in altra
veste che non quella di giurati: nella veste di imputati, e spesso di detenuti, per reati d'opi-
nione, per obiezione di coscienza, per la nostra disubbidienza civile a leggi fasciste e inco-
stituzionali; come difensori, quelli di noi che sono avvocati, di radicali o altri; meno spes-
so come parti civili, ma sempre per difenderci contro la prevaricazione e la violenza degli
avversari e del potere. Oggi una di noi quelle stesse leggi, contro molte delle quali abbia-
mo lottato con tutte le armi della nonviolenza, è invece chiamata ad applicarle in qualità di
giudice popolare. E' una contraddizione, ma una contraddizione cui un nonviolento non si
può sottrarre. Siamo sicuri che Adelaide saprà affrontarla con la forza e la coerenza di chi
ha sempre lottato per chiedere non l'affermazione della propria legalità alternativa ma il ri-

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spetto della legalità da cui il potere e le istituzioni traggono la loro legittimità, la piena at-
tuazione della Costituzione, l'integrale applicazione delle norme interne e internazionali
che garantiscono gli insopprimibili diritti dei cittadini.
GRUPPO PARLAMENTARE RADICALE: "Va finalmente assicurato il diritto degli im-
putati all'autodifesa" Il gruppo parlamentare radicale ringrazia la compagna Adelaide A-
glietta, segretaria nazionale del Partito radicale, per la sua esemplare decisione. Il suo ge-
sto va confrontato al suo indubbio diritto di essere - ove lo avesse ritenuto opportuno - e-
sonerata dalle funzioni di giurata al processo di Torino per la indubbia rilevanza costitu-
zionale del suo incarico, e per i conseguenti normali doveri del suo ufficio. Il gruppo radi-
cale non può in questa occasione non ribadire fermamente e solennemente che la Conven-
zione europea dei diritti dell'uomo, legge dello Stato italiano, garantisce a ogni imputato il
diritto di difendersi, a sua scelta, direttamente o con l'assistenza di legali difensori. Questo
diritto deve essere finalmente rispettato. Il gruppo radicale ha deciso inoltre di proporre
nella prossima seduta della Camera un emendamento al decreto di legge governativo sulle
Corti d'assise, con cui viene abrogata la norma che vieta ai parlamentari della Repubblica
di essere designati come giurati nei processi di Corte d'assise.
PARTITO RADICALE DEL PIEMONTE: "Appello agli uomini e alle donne di Torino"
La nostra città, Torino, è in questo giorni e lo sarà ancor più nei prossimi, avvolta da una
drammatica spirale di paura, di terrore, di angoscia. E' nei momenti di maggior pericolo,
quando si teme per se stessi e per gli altri, quando si ha evidentemente paura di assistere ad
una impressionante escalation di degradazione della vita civile, che si ha il diritto e il do-
vere, e si deve trovare la forza, di fronteggiare individualmente e collettivamente la situa-
zione, assumendo le responsabilità che tutto ciò comporta. Nella nostra città oggi l'unico
lucido e responsabile comportamento possibile è quello di spezzare al più presto, subito, la
spirale della paura. Una spirale che è funzionale al regime e la cui logica deve essere rove-
sciata con la nonviolenza, con la forza dei valori della Costituzione, dello Stato di diritto,
del rispetto e della tolleranza reciproca, della aspirazione alla pace, dell'ordine democratico
e repubblicano. Dissennato è colui che pensa che tutto ciò sia utopia. Ancor più dissennati
coloro che credono che la paura scompaia occupando militarmente la nostra città o impo-
nendo al paese la trentennale vergogna delle leggi fasciste e l'aberrazione di altre ancora
peggiori. Ancora una volta la possibilità di superare un frangente drammatico risiede nella
maturità e nella civiltà degli uomini e delle donne semplici, la cui semplicità è di gran lun-
ga più efficace di tutte le misure, gli appelli, le parole ipocrite e inutili, di una classe politi-
ca dirigente che è creatrice di questa situazione di caos e di disordine pubblico. Adelaide
Aglietta non ha dato oggi che la prova del proprio senso di responsabilità. Lo ha fatto con-
fidando in voi e riponendo in voi tutta quella fiducia che le è stata necessaria per compiere
tale gesto. In voi cittadini di Torino, non certo nelle poco autorevoli autorità. Spezziamo e
rovesciamo la spirale della paura: accettiamo di fare i giudici popolari, scendiamo nelle
nostre strade e nelle nostre piazze, occupiamo la città noi cittadini con la calma e la non-
violenza, contro la paura, il caos, il terrore. Il primo appuntamento, con Adelaide Aglietta,
è fissato per lunedì 6 prossimo, alle ore 15, di fronte alla sede del Partito radicale, in via
Garibaldi 13. Che sia il primo appuntamento di massa, silenzioso, sereno, nonviolento,
quindi realmente forte, contro la paura.
ADELAIDE AGLIETTA A COSSIGA: "Rifiuto la scorta" Signor ministro, le chiedo for-
malmente di dare disposizioni perché venga evitata assolutamente ogni e qualsiasi forma
di tutela o vigilanza armata che le autorità locali o d'altra natura dovessero ritenere in do-

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vere si assicurare Stop Non conosco altra garanzia possibile di serenità e di sicurezza che
quella derivante dall'assenza di armi e armati di qualsiasi tipo - Adelaide Aglietta, segreta-
ria nazionale del Partito radicale. 4 MARZO: "dall'Ansa" Onorevole Zaccagnini, segretario
della Democrazia cristiana: "Accetterei perché si tratta di adempiere a un fondamentale
dovere civico e morale". Onorevole Romita, segretario del PSDI: "Non ho alcun dubbio,
andrei certamente. I doveri dei cittadini vanno rispettati dai segretari dei partiti con impe-
gno ancora maggiore". Onorevole Biasini, segretario del PRI: "Accetterei senza esitazione
l'incarico nella consapevolezza che esso comporta l'assolvimento di un preciso dovere ci-
vico, il cui adempimento riguarda la coscienza dell'individuo. Mi parrebbe assurdo, sotto
questo profilo, subordinare la mia decisione a una valutazione del mio partito". Onorevole
Zanone, segretario del PLI: "L'ufficio di giurato soprattutto nelle drammatiche condizioni
in cui versa la giustizia nel nostro paese è un dovere pubblico che vale per tutti i cittadini,
non esclusi quindi i segretari dei partiti. Qualora fossi sorteggiato mi troverei nella diffi-
coltà di conciliare i compiti, anch'essi pubblici, di deputato e segretario del PLI con quelli
di giudice popolare. Di fronte alle troppe rinunce di cui si è avuta in questi giorni la penosa
sequenza, darei la prevalenza al dovere di rendermi disponibile, perché la giustizia possa
vere corso". Onorevole Pecchioli, per il PCI: "Accetterei senza alcuna esitazione. Si tratta
di un dovere verso lo Stato democratico che deve scrupolosamente essere osservato. Credo
fermamente nella partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia, così come
afferma la Costituzione della Repubblica". Onorevole Berlinguer, segretario del PCI: "Ac-
cetterei senza alcuna esitazione". Senatore Cipellini, per il PSI: "E' dovere di tutti i cittadi-
ni difendere la legalità dello Stato democratico e quindi in questa prospettiva amministrare
la giustizia. E se questo è un dovere per tutti i cittadini, figuriamoci per un dirigente di par-
tito. Alle forze politiche spettano infatti il diritto e il dovere di difendere la legalità dello
Stato democratico, salvaguardare quei valori che vengono da lontano, dalle lotte di popolo
della Resistenza. Per questo io come giurato nel processo alle BR avrei svolto questo im-
pegno civile e politico con serenità, ma anche con la fermezza che viene dal ricordo di tan-
ti compagni e amici che, durante la Resistenza, hanno sacrificato la vita per quei valori di
democrazia contro i quali anche le BR hanno sferrato il loro attacco. Noi socialisti, che
svolgeremo il nostro Congresso a Torino, riaffermeremo ancora una volta il no dei demo-
cratici alla violenza, alla criminalità, che non hanno niente a che fare con la lotta politica".

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4. FIORI IN TRIBUNALE

Sabato 4 marzo. Passo il pomeriggio con i compagni, poi parto da Fiumicino con l'aereo
delle ventitrè: voglio trascorrere la domenica con Francesca e Alberta, mi preoccupano i
loro possibili pensieri, reazioni, paure. Attero a mezzanotte, ad aspettarmi ci sono Paolo,
Elena e Giovanni. Saliamo sulla cinquecento di Paolo, l'atmosfera non è affatto piacevole,
le battute mascherano una pura che è collettiva. Qualcuno ha la sensazione che siamo se-
guiti e lo dice, gli occhi di tutti si concentrano sullo specchietto retrovisore e sui finestrini.
Ma sono le allucinazioni di uno stato psicologico folle e controproducente, dei cui rischi
incomincio a rendermi conto solo ora.
Domenica 5 marzo i giornali riportano, tutti in prima pagina, la notizia della mia accetta-
zione. Parrebbe un'informazione corretta, in realtà le motivazioni che ne ho dato non e-
mergono. Le frasi riportate, isolate dal contesto generale, forniscono una visione parziale
del mio discorso, a seconda del "taglio" che i vari quotidiani hanno scelto. Alcuni specula-
no sul brivido di un possibile fatto di sangue individuando nel giudice popolare non il cit-
tadino che ritiene che la giustizia debba aver corso e che in sede processuale si impegna a
ricercare la verità, bensì colui che è pregiudizialmente "contro" l'imputato. Il "Roma",
giornale minore di Napoli, titola: "La segretaria del PR giurata a discarico". L'articolista
riporta la frase, che ho pronunciato nel corso della conferenza stampa: "Ho radicato in me
il dovere di presumere l'innocenza degli imputati", insinuando insomma la mia connivenza
con le Brigate Rosse. L'articolo si chiude così: "Si comprende bene come mai l'Aglietta
abbia rifiutato la scorta". Altri quotidiani mettono solo in evidenza un fantomatico "corag-
gio", nella logica della contrapposizione di violenza a violenza: la violenza dello Stato alla
violenza delle Brigate Rosse. Lo spirito costituzionale della mia accettazione, la nonvio-
lenza come necessità esistenziale e politica tutt'altro che passiva o disarmata, l'appello a
spezzare la spirale della pura e della violenza a Torino riappropriandosi serenamente delle
strade della città, il rifiuto della scorta come garanzia e il pacifico rigetto di qualsiasi ipo-
tesi di coartazione - dettato dalla paura - della propria coscienza, sono tutti messaggi che
non a caso i mass-media non diffondono, perché totalmente estranei alle loro logiche. Per
questo, non appena mi telefona un giornalista di "Stampa Sera" chiedendomi un'intervista,
pongo delle condizioni: domande scritte, risposte scritte, pubblicazione integrale. Il giorna-
le accetta e nel primo pomeriggio mi trovo con il giornalista, gli consegno le risposte e lui
gentilmente mi offre un passaggio sino a casa. Sorpresa: il giornalista mi offre un alloggio
nel caso abbia bisogno di trasferirmi. E' il primo di una lunga serie di persone amiche e
generose. Lo ringrazio, penso di non essere disponibile a vivere nella clandestinità e nel
sospetto. Per la prima volta, da quando sono immersa in questa vicenda, vedo Francesca e
Alberta. Mi sembra stiano bene, mio marito ha parlato con loro, ma appaiono reticenti.
Cerco di capire cosa pensino, se si siano fatte qualche idea leggendo i giornali. Francesca
mi spiega che sperava che io accettassi e quando le chiedo se conosce i motivi per cui mol-
ti cittadini non hanno accattato mi sento rispondere che "sa" che è una "cosa pericolosa".
Ci troviamo a parlare delle Brigate Rosse. Le parlo come sempre. La violenza genera ter-
rore e morte, bisogna mutare la società con la parola, con la convinzione e il dialogo. Le
lotte popolari di liberazione sono altra cosa dalla violenza. Nessuno può erigersi a giusti-
ziere e assassino di altri. Capisco che sono parole schematiche, con le quali tento di preve-
nire reazioni irrazionali, che potrebbero derivare dalla non comprensione dei fatti, nel caso

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che mi si scatenasse addosso una qualche forma di violenza. Alberta, la più piccola, ascol-
ta, silenziosissima, tutto il discorso. Francesca mi chiede se ho paura. Le rispondo che ogni
tanto, sì, ce l'ho; ma non sempre, mi prende a tratti, paura e angoscia. Vado oltre, sento che
serve anche a me stessa. No, non penso che qualcuno si possa divertire a giocare con me al
tiro al bersaglio. In ogni caso, quello che importa sono le proprie convinzioni, la coerenza:
mi è capitato altre volte, ricordo, almeno tre, di rimettere in discussione la mia esistenza,
inseguendo obiettivi che mi ero prefissati, di crescita collettiva e democratica. Mentre la
bambina più piccola mi abbraccia in modo protettivo, Francesca scherzosamente mi rac-
comanda di stare attenta. Mi trattengo ancora un attimo a discutere con mio marito sulle
bambine. Secondo me non corrono alcun rischio, sarebbe maggiore il danno che potrebbe
venir loro dal cambiare vita o dall'essere scortate. Marco è d'accordo: una sorveglianza
particolare aggraverebbe solo l'ansia, creerebbe un dato stridente di diversità nei confronti
degli altri bambini, incrementando traumi negativi. Con la mia macchina vado a casa di un
avvocato, dove ci sono altri legali. Li conosco ormai da anni, sono da sempre vicini al par-
tito, ho chiesto loro di informarmi, di spiegarmi, di chiarirmi, questioni che non conosco
se non superficialmente. Mi sono infatti resa conto, in vista di ciò che dovrò fare, che ho
bisogno di imparare molte cose; le voglio sapere anche perché la sera ho un "filo diretto"
con gli ascoltatori di Radio Radicale, e mi par giusto che il maggior numero di persone
possibile debba conoscere, essere coinvolto. Gli avvocati mi spiegano tutto: le funzioni del
giudice popolare, i meccanismi "istituzionali" nei quali egli si trova a dover operare, i limi-
ti della sua possibile incisività. Intanto è arrivato da Roma Marco Pannella, anche lui è ve-
nuto per la trasmissione alla radio, ma si sofferma a lungo - sia con me che con gli avvoca-
ti - sul problema dell'autodifesa, del diritto cioè di ogni imputato a difendersi da solo, se ri-
fiuta di essere assistito da un avvocato o di fiducia o d'ufficio, così come il diritto italiano
e la Convenzione di Ginevra sanciscono. Alle nove si sera sono alla radio, con Marco.
L'interesse è altissimo, le telefonate giungono senza sosta sino alle due di notte. E' uno
"spaccato" interessantissimo. C’è chi è curioso rispetto alla mia persona, c’è la "spinta
d'ordine" che invoca la pena di morte. Io non entro nel merito di valutazioni politiche sulle
BR, né tanto meno sugli imputatati. Marco parla a lungo, attacca a fondo la scelta violenta
("suicida e omicida"), mi colpisce quando parla di Renato Curcio: "Conosco la sua storia
politica: è lineare". Io di Curcio so molto poco, ma mi interessano particolarmente coloro
che chiedono perché vado "a giudicare compagni che sbagliano". Rifaccio tutto il discorso
della accettazione, mi soffermo sulla concezione che i radicali hanno del diritto. L'alterna-
tiva non sta fra il fare o il non fare i processi, il problema è come li si fa; aggiungo che non
so quanto potrò incidere sul "processo monstrum". Un ascoltatore osserva acutamente che
se questo processo, dopo due tentativi, non si riesce a portare a termine, lentamente si sci-
volerà verso la logica della Germania occidentale, verso la barbarie di Stammheim, verso
una disperata e assassina guerra fra bande. Più dialogo e più acquisto serenità e speranza:
comprendo che senza dialogo sono un pesce fuor dell'acqua. Alla fine della trasmissione
mi ritrovo ad esprimere una considerazione che mi ripeterò decine di volte nel corso delle
lunghe mattinate del processo. La differenza fra noi e le Brigate Rosse, il muro altissimo
che ci separa, ciò che ci oppone, è che loro agiscono secondo la filosofia del "tanto peggio,
tanto meglio", del "più il regime è criminale più sono possibili i passi verso una società di-
versa". Ma così non si concorre a mutare lo Stato e a far deperire la violenza dello Stato, ci
si pone come Antistato, ancora più dogmaticamente dello Stato, perché si ipotizza di po-
terlo costruire solo attraverso la lotta dell'avanguardia armata, senza crescita collettiva del-

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la società civile, delle masse. Penso anche che oggi il nonviolento paga prezzi - politici se
non personali - ben più alti dell'oppositore violento. Ogni giorno, in termini di possibilità
di comunicare le proprie opinioni, il nonviolento è massacrato, al violento si regala invece
- non a caso - un ruolo privilegiato. A notte fonda chiudiamo la trasmissione ricordando
l'appuntamento per l'indomani, di fronte alla sede del partito, per andare in tribunale. U-
scendo dal portone scorgo due individui a bordo di una macchina ferma. Nei giorni se-
guenti spesso vedrà agenti in borghese nei pressi di casa mia o del partito. Il fatto mi colpi-
sce, mentre mi metto a letto mi attanaglia l'angoscia: non sono le Brigate Rosse a susci-
tarmi apprensione, ma il gesto spontaneo e isolato del "solista del mitra" o del gruppetto
fanatico. Poi comprendo che il rischio non è nemmeno questo. La realtà è ben altra: se a
servizi segreti o a "corpi separati" di regime servisse politicamente far ricadere sui "terrori-
sti" un assassinio a sinistra, non esiterebbero. Ripercorro i più torbidi episodi della strate-
gia della tensione: piazza Fontana, l'Italicus, la strage di Peteano, l'ambiguissima vicenda
di Lo Muscio e Zicchitella. Tutte riflessioni inutili. Sono stanca e mi addormento subito.
Lunedì 6 marzo. Alle tre di pomeriggio dopo aver dormito a lungo mi avvio verso il par-
tito. Sono un po' tesa. E' la prima occasione nella quale sono conosciuti i miei spostamenti.
E se qualcuno avesse intenzione di bloccare il processo, non sarebbe questo il momento
buono? Mi irrito con me stessa, come ogni volta che mi rendo conto di non usare il razio-
cinio. Scatta una molla psicologica che sarà determinante d'ora in avanti: se qualcuno ha
intenzione di colpirmi non ha alcun problema. Continuare a sospettare, a scrutare di tanto
in tanto i volti della gente che per strada mi incrocia, è stupido e senza senso. Non sono io
che mi ritrovo isolata e lontana dalla gente. Di fronte al partito ci sono già un centinaio di
persone, nonostante si tratti di un giorno lavorativo. Non conosco molti, ma mi si stringo-
no attorno affettuosamente, mi abbracciano, mi hanno portato i fiori. C’è un grande mazzo
di rose mandatomi da Roma da Enzo Zeno. Alle tre e mezzo ci avviamo tutti verso il tri-
bunale: saremo circa in trecento. Quando saluto Marco Pannella, che riparte per Roma, mi
sento un po' più sola; poi invadiamo l'ampio cortile del tribunale, nessun agente (ce ne so-
no moltissimi, in divisa e in borghese) si oppone. Resto colpita: la città è in stato d'assedio,
dell'ordine la mobilitazione e lo schieramento di forze dell'ordine e dell'esercito sono im-
pressionanti, ma trecento persone armate di nonviolenza, di fiori, di serenità riescono indi-
sturbate a occupare il "cuore giudiziario" della città. Quando i compagni entrano nell'aula
il contrasto fra loro e il grigiore, il conformismo del posto, le toghe dei magistrati, i cara-
binieri con il mitra al collo è ancor più stridente. Mentre attendo, il capitano dei carabinieri
che è addetto alle scorte mi avvicina: "Lei rinuncia veramente alla scorta?". Confermo, mi
fa firmare un foglio col quale dichiaro che rinuncio sotto la mia responsabilità (responsabi-
lità di cosa? della mia vita, delle mie scelte?). Quando tocca a me antro nell'aula, i compa-
gni mi salutano, mi accorgo di avere ancora due fiori in mano. Per la prima volta mi trovo
di fronte Guido Barbaro, presidente della Corte di assise. Mi chiede se non ho impedimen-
ti, rispondo negativamente e confermo di essere tuttora residente a Torino. Scattano i flash
dei fotografi, il cancelliere ha un sussulto e suda; Barbaro si irrita e ironicamente osserva:
"Oggi sono persino presenti degli avvocati". Ci deve essere una polemica in corso. Fissan-
dolo mi rammento di averlo già visto: era presidente in un processo tenutosi due anni pri-
ma contro alcuni antimilitaristi, per i quali avevamo organizzato una manifestazione di so-
lidarietà. Voci di tribunale lo dipingono come un molto duro e reazionario, ma le voci so-
no voci. Vedremo. Insieme a me hanno accettato altri quattro: ho la sensazione che dopo la
mia estrazione le accettazioni siano aumentate. Sciolta la "marcia", mio padre mi chiama

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le accettazioni da Sanremo: mi annuncia il suo arrivo a Torino per il giorno dopo. Non rie-
sco a dissuaderlo. Mi reco all'appuntamento che ho, per cena, con alcuni compagni e Gu-
stavo Zagrebelsky, giovane quando valido e simpatico docente di diritto costituzionale. Ad
un tratto scruta fuori dalla finestra e abbassa la persiana: mi scappa da ridere, anzi ridiamo
tutti a lungo, non siamo proprio fatti per l'atmosfera dei film gialli. Resta la sensazione che
tutti si preoccupino per me più di quanto non faccia io stessa, e mi domando se faccio ma-
le. Parecchi amici mi telefonano offrendomi ospitalità, alloggi, macchine.

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5. NEL BUNKER

Martedì 7 marzo. Fra due giorni inizia il processo. Pranzo al ristorante con due amici.
Sono anche loro preoccupati per me, ma fioccano battute su battute e mi accorgo - tutto
sommato - di sorridere spesso. Mi prende la rabbia leggendo la cronaca della mia accetta-
zione, come riportata dalla "Gazzetta del Popolo": "La partecipazione di Adelaide Aglietta
al processo delle BR si risolve per i radicali in una buona manovra pubblicitaria". Ritengo
che anche questa volta siano stati superati i limiti della civiltà. Nel pomeriggio scrivo al
giornale. Infatti questa storia della pubblicità è uno di quegli argomenti che riescono a
farmi indignare. E' lecito l'uso che i giornali fanno della mia immagine e della mia accetta-
zione per la loro propaganda di regime? E' lecita l'amplificazione che essi assicurano al
partito armato, ad ogni suo gesto di violenza come ad ogni sua dichiarazione o comunica-
to? Non appena, in queste opposte e convergenti propagande, tentiamo di far passare il no-
stro messaggio nonviolento (in questo caso le ragioni per cui ho accettato, che non sono
quelle della "Stampa" e della "Gazzetta del Popolo"), il nostro tentativo viene immediata-
mente stroncato con l'accusa di "manovre pubblicitarie" o di folklorismo radicale. E quale
altro mezzo ha il nonviolento per affermare le sue idee se non la propria parola, il proprio
corpo, i propri gesti nel tentativo, attraverso di essi, di ricercare e imporre il dialogo? Ma è
appunto il dialogo che si tenta di impedire nello scontro delle opposte violenze. E' come se
il giornalista dicesse, senza rendersene conto, che non solo io ma tutti coloro che sono di-
sarmati e privi di potere possiamo essere soltanto oggetti e non anche soggetti di messaggi.
Sono queste considerazioni che, qualche mese più tardi, mi spingeranno a portare fino in-
fondo provocatoriamente la logica dei miei avversari, e ad accettare di posare per una pub-
blicità commerciale. Verso sera incontro mio padre, che è arrivato da Sanremo. Mi sembra
un po' commosso anche se, come sempre, si nasconde dietro i suoi silenzi. Mi chiede dove
sto. Può sembrare una domanda strana, ma da quando ho deciso di vivere per conto mio e
ho accettato la segreteria del partito non ho praticamente più avuto "fissa dimora", né a
Roma né a Torino. Anzi, per l'esattezza, finalmente avevo trovato casa a Roma, ma solo
giorni prima di decidere la sospensione delle attività della segreteria nazionale e di ritorna-
re a Torino. Così, dopo aver vissuto a rotazione da alcuni compagni per un anno e mezzo,
mi ritrovo nella mia città, senza casa, di nuovo ospite di compagni. Per l'esattezza in que-
sto periodo e per tutti i mesi successivi sarò ospite di Angelo Pezzana, al quale mi lega una
amicizia di molti anni. Mio padre mi chiede ancora cosa intendo fare, se e quali minime
precauzioni ho preso, se in questo periodo ho bisogno di una maggiore disponibilità di de-
naro (sa che sono spesso in difficoltà). No, lo ringrazio, non ho bisogno di nulla, per vivere
è sufficiente quel minimo di cui finora dispongo. Non credo che avrò spese straordinarie,
in quel caso glielo dirò. Per il resto, gli rispondo che se qualcuno volesse fare qualsiasi a-
zione nei miei confronti non ci sarebbero precauzioni che potrebbero evitarlo; compagni
ed amici stanno però insistentemente cercando di farmi accettare l'idea di cambiare fre-
quentemente alloggio. Mi raccomanda ancora di stare attenta, mi dà dei soldi e ripete di
farmi sentire e vedere spesso. I dialoghi con mio padre sono sempre stati fatti di sfumature
e in essi hanno sovente avuto più significato i silenzi che le parole, ma per me è sempre
stato semplice capirlo.
Mercoledì 8 marzo vado a trovare le bambine e passo con loro alcune ore molto serene:
anche loro mi sembrano tranquille. Alberta mi chiede all'improvviso quand'é "quella cosa

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là". Intende dire il processo, le rispondo che inizia domani: con un certo sollievo afferma
"allora domani sera è finito". Nel pomeriggio vedo i compagni di Lotta Continua che do-
vrebbero seguire, per il giornale, il processo. Mi chiedono di collaborare, rispondo loro che
non è possibile se non relativamente a episodi particolari e per ora imprevedibili. Discu-
tiamo un po' sulla mia accettazione, non la condivido anche se la capiscono, sono d'accor-
do che la mia presenza nella giuria sia comunque una garanzia per la regolarità dello svol-
gimento del processo. Sostengono però che strane fuori sarebbe stato meglio: faccio notare
che le loro osservazioni sono molto contraddittorie e che sarebbe importante ci riflettesse-
ro almeno sopra. Le mie contraddizioni le ho già sviscerate. Ci abbracciamo. La sera, u-
scendo di casa, una macchina posteggiata di traverso sul marciapiede accende di colpo i
fari: ho un soprassalto e mi infilo in un ristorante; evidentemente anche se sono tranquilla
e scherzo sempre sugli eventuali rischi (ma questa sera, quella che precede l'inizio del pro-
cesso, certamente molto meno), in realtà sono molto tesa. Dopo cena, con Giovanni, Paolo
ed Elena, dopo molte insistenze accetto di andare a dormire in una casa in collina: mi
sembra una cosa strana, ho la certezza che sia inutile, mentre invece sono contenta di esse-
re con loro tre. E' un puro sfogo psicologico, ma non me la sento di stare sola.
Giovedì 9 marzo. Mi alzo prestissimo, molto prima che suoni la sveglia, come mi succede
ogni volta che ho un impegno. Appena usciti da casa telefono a mio padre, compro i gior-
nali e ci avviamo con un taxi alla caserma Lamarmora. "La Stampa" descrive minuziosa-
mente le misure di sicurezza in atto nella città: quattromila uomini in assetto di guerra, le
teste di cuoio, i tiratori scelti sui tetti intorno alla caserma Lamarmora, novecento uomini
addetti alle scorte. Avvicinandoci alla caserma cominciamo a vedere tutto intorno uomini
con giubbotti antiproiettile, appoggiati dietro ogni albero del viale: per riuscire ad entrare
devo passare da uno sbarramento ad una altro, in mezzo ai mitra spianati ad altezza d'uo-
mo fra le braccia di ragazzini giovanissimi, con i volti un po' smarriti. Vivere tutto questo
è ben altro dal leggerlo sui giornali: queste scene continueranno ad impressionarmi per tut-
to il processo, arrivando a causarmi momenti di vero e proprio rigetto fisico. Nella strada
d'accesso alla caserma, nel giardino di fronte, c’è uno schieramento incredibile di carabi-
nieri, polizia, agenti in borghese. Questa strada è riservata all'arrivo e al posteggio delle
macchine degli avvocati, dei giurati e delle loro scorte: continuo a pensare che la scorta
può servire al massimo ad aumentare il numero di persone che corrono eventuali rischi,
senza garantire ulteriormente la persona scortata. Per tutto il periodo del processo arriverò
sulla mia macchina da sola, e continuerò a posteggiarla nel corso fuori del recinto, evitan-
do così, almeno in parte, mitra e sbarramenti. All'ingresso riservato al pubblico e ai giorna-
listi, due persone su tre sono agenti in borghese, camuffate per mimare la rappresentazione
di tutta la scala sociale: c’è l'imbianchino, l'operaio, il borghese, con il loden e "la Repub-
blica" sotto il braccio, c’è il falso estremista. Dopo i controlli e controcontrolli, ordini e
contrordini, riesco ad arrivare all'ingresso, saluto i compagni che tenteranno di entrare co-
me giornalisti di Radio Radicale, peraltro senza riuscirvi. Nel cortile, passo in mezzo ad
una fila di carabinieri e ad una decina di cani lupo. Arrivo all'ingresso dell'edificio dove
devo sottostare ad un accurato controllo della persona e dei miei oggetti personali: ho un
attimo di perplessità, poi lascio perdere. Dopo di me controllano un tale (che scoprirò poi
essere un altro giurato) il quale con mio enorme stupore depone una rivoltella: accerterò
nei mesi seguenti che anche altri girano costantemente armati e cercherò di capire, chie-
dendolo direttamente a loro, quale grado di sicurezza possa venire da una rivoltella. Le ri-
sposte, vaghe, mi convincono che è soltanto un fatto psicologico, quindi ancor più perico-

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loso. Salgo al primo piano dove è ubicata l'aula: c’è un salone dove trascorreremo i tempi
morti delle udienze (intervalli, attese, ecc...) e tre stanze, di cui una destinata al presidente,
una alla giuria, una alla cancelleria e agli avvocati. E' tutto ridipinto e pulito, ma la struttu-
ra rivela inequivocabilmente la sua origine di caserma. C’è un'altra saletta, antistante l'au-
la, dove sosto con gli altri giurati convocati, una trentina di persona; a parte noi, in giro ci
sono carabinieri e agenti in borghese. Incomincia una lunga attesa, durante la quale cerco
di parlare con le persone che sono con me. Una donna, molto angosciata, mi spiega che
non può accettare perché ha due bambini e nessuno a cui lasciarli; un'altra, sempre per mo-
tivi familiari, non accetta, è molto preoccupata della possibilità che il rifiuto venga segna-
lato sulla fedina penale; un tale ha una bancarella ai mercati, che non gli permette di assen-
tarsi oltre l'una, pena la perdita del "posto" vendita. Gli altri sono per lo più silenziosi. Ad
un certo punto cerco una macchinetta del caffé, un telefono e informazioni su quel che
succede: i carabinieri non sanno nulla, telefono e caffé non sono previsti. Mi sento segre-
gata. Due donne (che non faranno parte della giuria) cominciano a chiedermi notizie del
partito (scopro che sono simpatizzanti) e della mia attività; in effetti, soprattutto le donne
dimostrano sempre una grande curiosità nei confronti miei, della mia vita, della militanza
politica, delle mie figlie. Finalmente arriva Barbaro che con un sorriso accattivante e tono
deciso ci spiega che stiamo per iniziare, che gli imputati sono in aula e certamente (almeno
stando alla sua esperienza) leggeranno un comunicato. Il primo atto processuale - prosegue
Barbaro - sarà la nomina della giuria e il giuramento secondo l'ordine di estrazione, subito
dopo dovremo risolvere il problema degli avvocati d'ufficio, perché è evidente che gli im-
putati revocheranno l'incarico agli avvocati di fiducia. Ha un'aria sorniona ma decisa, mol-
to educato, formale, sorridente e un po' paternalista. Indossa un abito grigio che mi fa veni-
re in mente gli amici di mio padre. Certo, un abisso ci divide nella mentalità, nei modi,
nelle scelte. Un punto a mio favore è però che, per nascita, per educazione, per l'ambiente
nel quale sono cresciuta ho conoscenza e familiarità con il mondo che lui rappresenta. Da
parte mia chiarisco che ritengo sia auspicabile - presentandosi questo processo difficile e
complicato non solo giuridicamente ma per il clima creatogli attorno dalle campagne poli-
tiche e di stampa e da sicure pressioni di altra natura - che vi sia sempre un confronto fra
presidente e giuria sulla conduzione del dibattimento, anche sulle decisioni di sua stretta
competenza, che tali ovviamente restano. Manifesto la preoccupazione che, rifiutando gli
imputati la difesa, sia loro garantita la possibilità di esprimere il più compiutamente possi-
bile le loro tesi. Il presidente mi pare d'accordo, dice che ne riparleremo a giuria formata.
Suona il campanello e si apre l'udienza. Entrano il presidente ed il giudice a latere, noi a-
spettiamo fuori. Dall'aula si sente parlare, entro e capisco che in imputato sta leggendo un
comunicato: non riesco a vedere chi sia. Ascoltando il comunicato resto un attimo esterre-
fatta: è la prima volta che assisto a questo rituale. Giornalisti, avvocati, carabinieri, tutti
sono attenti e tesi al discorso degli imputati. Attraverso i microfoni, che permettono a tutti
di sentire i "comunicati" dei brigatisti, riesco a cogliere le principali affermazioni: ...Come
comunisti abbiamo sostenuto e sosteniamo che la giustizia borghese è solo un'arma con cui
da sempre opprimete il popolo; e questa caserma, che con particolare buon gusto avete
scelto per celebrare i fasti della "democrazia armata", lo dimostra anche nella forma. Que-
sto NON E' UN PROCESSO ma, più esattamente, E' UN MOMENTO DELLA GUERRA
DI CLASSE; è un episodio dello scontro più generale che oppone in una lotta irreversibile
le forze della rivoluzione alla controrivoluzione imperialistica. Ed è quindi su questo ter-
reno generale che affronteremo la battaglia. Che le cose stiano così è dimostrato ampia-

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mente dalla mobilitazione generale che ha coinvolto tutte le forze politiche del vostro fron-
te (dalla DC ai revisionisti, ai radicali) in una iniziativa unitaria a sostegno delle decisioni
dell'esecutivo... ...I REVISIONISTI vogliono che il "processo" si celebri ad ogni costo e a
Torino, per dimostrare a cani e porci l'efficacia del loro modello controrivoluzionario e la
loro capacità di mobilitare la classe operaia e le classi intermedie a sostegno dello Stato
imperialista. Così abbiamo assistito, in questi ultimi giorni, alla campagna isterica e for-
caiola che essi hanno scatenato ricorrendo alla squallida attivazione di tutti gli organismi
da loro controllati (dalla Regione alla FGCI) per mobilitare la nuova MAGGIORANZA
SILENZIOSA. Di questa operazione, in cui la burocrazia revisionista si è fatta Stato impe-
rialistico, a tutti è apparsa chiara la sostanza: dividere il proletariato e attaccare con tutti i
mezzi le sue avanguardie. Ma la mobilitazione che doveva essere di massa, nonostante i
suoi contenuti terroristici-ricattatori-polizieschi, non è riuscita a coinvolgere che una mi-
nima parte della classe operaia, della piccola borghesia e dei cosiddetti "ceti medi". Le mi-
gliaia di firme in tutta la regione sono un trucchetto da prestigiatori... ...I RADICALI. Se il
"caso" ha voluto che una militante radicale fosse sorteggiata per far parte della giuria spe-
ciale, la scelta politica cosciente di farne parte è stata del tutto razionale. L'infortunio dei
radicali é, a suo modo, emblematico e patetico: dopo aver abbaiato contro il regime e le
"leggi speciali", al momento del bisogno sono corsi a puntellare il più speciale dei tribuna-
li! In questo affanno generale, anche loro non hanno perso l'occasione di "farsi Stato impe-
rialista". L'ideologia radical-pacifista svela qui fino in fondo il suo carattere borghese e re-
azionario: chi disarma le masse non può che finire per armare la controrivoluzione. Le
mimose non ingannano più nessuno!... ...GLI AVVOCATI. Non siamo qui per difenderci e
non abbiamo bisogno di difensori. REVOCHIAMO PERTANTO IL MANDATO AI
NOSTRI AVVOCATI DI FIDUCIA E RIFIUTIAMO QUALSIASI IMPOSIZIONE DI
AVVOCATI DI REGIME. Nessuno può ragionevolmente pensare di ostinarsi a proseguire
per questo vicolo cieco senza incontrare la più dura risposta del movimento rivoluziona-
rio... Sul momento - naturalmente - rifletto solo sul pezzo concernete i radicali, anche per-
ché istintivamente ho la tentazione di replicare. Il loro linguaggio mi pare rozzo quanto lo
è l'analisi. Dei radicali hanno capito poco o nulla: poco della concezione del diritto, nulla
della nonviolenza ("disarmo delle masse"). Quando mi sento dire di aver abbaiato contro
le leggi speciali e di essermi adesso "fatta Stato imperialista" mi vien voglia di rispondere
che noi le leggi speciali tentiamo di abrogarle, mentre le loro azioni costituiscono per il re-
gime il miglior spunto per vararne altre. Dal linguaggio ho la conferma di opinioni già
formate: il loro modo di porsi è una sintesi di stalinismo e di cattolicesimo, con una visio-
ne dei rapporti umani e sociali basata sull'intolleranza e sull'indisponibilità al dialogo, al
centro una forte e retorica mistica della morte e del sacrificio. I valori che - direttamente o
indirettamente - ascolto propagandare non mi trasmettono nulla di nuovo; l'unica parte in-
teressante del comunicato può essere quella relativa alla "raccolta delle firme", alla quale
non a caso essi si appigliano. Le accuse e le minacce alla giuria e agli avvocati sono pesan-
ti: un messaggio da passare all'esterno, attraverso i mass-media? Perché questi "militanti
rivoluzionari", così "rigorosi e attenti", non si chiedono come mai i mass-media del regime
riservano loro spazi di informazione enormi? Il presidente incomincia a chiamare i giurati:
mentre attendo il mio turno sento che accanto a me qualcuno dice che "sì, accetterò perché
bisogna condannarli. Anzi bisognerebbe condannarli a morte": decido subito di chiederne
l'allontanamento dalla giuria, ma non sarà comunque chiamato a farne parte. La giuria po-
polare deve essere una garanzia in più di equità e di controllo nel processo, non può essere

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formata da persone di parte e che hanno opinioni preconcette: il giudizio dovrebbe matura-
re fondandosi sulla conoscenza dei fatti che si acquisisce durante il dibattimento. La base
di partenza è la presunzione della innocenza, fino a prova del contrario: su questo è indi-
spensabile essere rigorosi, da subito. Accetto per nona, ripetendo la formula del giuramen-
to. Ma sono fra i giurati supplenti: non so ancora se ho la possibilità di partecipare alle
camere di consiglio e alle discussioni, la cosa è controversa, non c’è una disposizione pre-
cisa. Il presidente chiarirà subito che lui intende far partecipare tutti i giurati alle discus-
sioni e alle decisioni - fatto salvo il diritto di voto - fino alla sentenza. La responsabilità è
minore, però la possibilità di controllo e di intervento durante il processo è garantita: era
quanto più mi preoccupava, dover dare nei fatti una copertura alla giuria senza poter inci-
dere e intervenire. Mi seggo dietro il presidente, da dove è più facile parlargli anche duran-
te le udienze, e mi guardo intorno. Gli imputati sono nella gabbia, anzi nelle due gabbie ed
è quasi impossibile vederli, perché sono circondati da un cordone di carabinieri. Sono mol-
to impressionata, e non potrebbe essere diversamente. Ho la percezione soffocante della
privazione della libertà, anche minima, anche dei movimenti più inoffensivi o innocenti.
Tutto appare assurdo, a cominciare dallo schieramento di forze dell'ordine all'interno di u-
n'aula nella quale a stento riescono ad accedere persino i parenti: una manifestazione di
impotenza e di paura, una esibizione plateale di inutile forza, un modo subdolo di vendere
all'opinione pubblica un'immagine di "mostri", "criminali" che mai debbono apparire nor-
mali, esseri umani. Altrimenti la gente potrebbe porsi interrogativi, magari scomodi. Que-
sti imputati non sono processati per assassinio o per strage, e non a caso l'opinione pubbli-
ca lo ignora e lo continuerà ad ignorare per tutto il processo. Gli imputati appaiono tran-
quilli, ridono molto, cercano volti familiari in mezzo al pubblico, si esibiscono alla stampa
e ai fotografi, consapevoli che da oggi si apre per loro la possibilità di rompere l'isolamen-
to in cui vivono da mesi, usando i mezzi di informazione come canale di trasmissione, sia
pur stravolto, del loro messaggio politico. E' ovvio che si prestino al gioco, cercando di
usufruire della ribalta del processo. Il comportamento dei giornalisti si adegua perfetta-
mente a questa necessità: non si perderà occasione, durante il processo, per calcare la ma-
no, spesso mistificando, sui comportamenti degli imputati. I fotografi sono scatenati: ar-
rampicati gli uni sopra gli altri, sembra veramente che abbiamo l'occasione storica di foto-
grafie il ciclope o l'ultimo esemplare di Neanderthal. Intravedo in mezzo ai carabinieri il
volto di Curcio, quello che mi è più noto: gli latri imparerò a conoscerli nel corso del pre-
cesso: per ora sono volti senza nome. Sono uomini: ma chi sono? Qual è stata la loro vita,
al di là delle biografie ufficiali che la stampa ci propina con un taglio tutto particolare?
Cosa significa vivere per anni nella clandestinità, limitando la propria individualità, la
propria esistenza, i propri rapporti ad un cerchio ristretto di persone? Cosa significa non
vivere in mezzo alla gente? E da quali esperienze politiche provengono? Come si passa da
una militanza politica aperta alla scelta dei mitra? Alla fine la giuria è formata, la corte si
ritira in camera di consiglio: il presidente chiarisce le funzioni di ognuno, in particolare dei
giurati supplenti. Dice che ci sono ancora dieci avvocati d'ufficio da nominare, che non sa-
rà facile, lui ne ha preventivamente consultati molti, ha già ricevuto cinquanta rifiuti (a-
desso capisco la sua battuta il giorno della mia accettazione), è molto polemico e dà la
sensazione di sentirsi solo, lasciato solo a portare il carico e le responsabilità di questo
processo. Cerchiamo dieci avvocati, vengono nominati in aula e si rinvia l'udienza alla
mattina successiva. Ho la sensazione che Barbaro tiri un sospiro di sollievo. Esco con gli
altri giurati, ripercorrendo all'inverso tutto lo schieramento dei mitra: nel cortile ad ogni

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giurato si affianca - con mio stupore - un carabiniere con il mitra spianato, le macchine de-
gli avvocati e dei giurati partono seguite a ruota da un'altra macchina con una media di tre
mitra ognuna. Mi fermo a guardare la scena, chiedendomi che razza di vita possa essere
quella degli "scortati"; sempre, a piedi o in macchina, seguiti da gente armata: addio all'al-
legria di camminare fra la gente, uno tra i tanti. Mi sembra folle. Mi avvio da sola fuori dal
recinto che blocca la strada-posteggio riservata a questa nuova specie di vigilati speciali: al
di là delle transenne mi aspettano i compagni. Mi abbracciano. Con loro mi avvio alla ri-
cerca di un taxi, ma sono letteralmente aggredita dai fotografi, che quasi impediscono di
camminare; contemporaneamente mi scattano intorno agenti in borghese e carabinieri: mi
innervosisco, accelero il passo cercando di farmi largo. Da un gruppo di tre o quattro don-
ne, parenti o compagne degli imputati, partono insulti: mi fermo interdetta, la tentazione è
quella di avvicinarmi e parlare, ma so che è inutile. E' un episodio che mi fa male. I com-
pagni mi raccontano che entrare in aula era quasi impossibile, il pubblico al 90 per cento
era composto di agenti in borghese; i parenti hanno avuto grosse difficoltà e così pure l'af-
flusso dei giornalisti è stato molto rallentato dai controlli. Finalmente trovo un taxi: vado a
casa, dove resterò tutto il giorno. Mi cerca un giornalista della "Stampa" ma non ho voglia
di rilasciare interviste. Forse ho bisogno di stare un po' tranquilla, per prender fiato, dopo
tutte queste ore. A pranzo vengo a sapere che un "commando" delle cosiddette "formazioni
comuniste combattenti" ha occupato nella mattinata la sede di Radio Radicale di Roma,
trasmettendo un delirante comunicato contro il processo. Chiedo subito notizie di Carlo
Couvert, il compagno che è stato imbavagliato e legato sotto la minaccia di una pistola. Mi
dicono che sta bene, che ha superato lo choc, che gli autori dell'azione erano molto giovani
e piuttosto insicuri. Mi chiedo a cosa possa preludere questa azione diretta, ma sono anco-
ra troppo psicologicamente occupata dall'atmosfera del processo per avere paura. E' strano
(e me ne rendo conto) come la paura sia alienata in un unico, grigio, surreale mondo che è
del tutto staccato e lontano dalla vita di tutti i giorni. La sera, dormiamo ancora nell'allog-
gio in collina, la mattina uscendo notiamo una macchina della polizia nelle vicinanze.

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6. LA PROSSIMA SARÀ ADELAIDE AGLIETTA

Venerdì 10 marzo alle 9 sono alla caserma Lamarmora. Quando arriva un capitano mi in-
forma dell'assassinio del maresciallo Berardi. Il luogo mi sembra ancor più tetro. I carabi-
nieri sono tesi e sconvolti. Chiedo chi fosse questo maresciallo, perché proprio lui. Ap-
prendo che aveva fatto parte per alcuni anni del nucleo antiterrorismo, quello che ha arre-
stato Ferrari. Da due anni aveva un incarico tranquillo nella zona di Porta Palazzo. Aveva
cinquantatrè anni. Sono sommersa dall'angoscia e dall'impotenza, travolta dal clima, dal-
l'atmosfera di morte che fatti come questi riescono a creare: mi ribello a questa delirante,
pazzesca logica. Quante volte lo abbiamo detto: così si fa il gioco del potere, si asseconda
il regime, col suo bisogno di un antagonista violento per continuare a legittimare la propria
violenza. Sono invasa da una grande tristezza di fronte a tutto ciò, che altro non è che la
negazione della speranza, dell'ottimismo, del dialogo, della serenità, e quindi anche del di-
ritto fisico alla vita. Il tutto certamente si ripercuoterà sul processo, aumenterà la tensione,
si rifletterà sugli e contro questi imputati. Mi avvicino agli altri membri della giuria, con la
curiosità di capire chi sono, cosa fanno, cosa pensano. Non è il giorno migliore, sono tutti
sconvolti dall'assassinio di Berardi e non appaiono loquaci: apprendo che due di loro sono
operai, le tre donne sono impiegate, uno è pensionato, due lavorano nel settore assicurati-
vo, uno è ferroviere, uno antiquario ed uno procuratore legale. Dai discorsi che fanno sul-
l'estrazione, sulle reazioni dei familiari e dei conoscenti, sulla scorta, sui giornalisti mi
sembrano, almeno alcuni, molto preoccupati dei riflessi di tutto questo sulla propria vita,
vista e vissuta però soprattutto attraverso i giudizi della gente. Uno dei due operai e il fer-
roviere parlano della loro speranza di capire, attraverso questo processo, le ragioni sociali
e politiche che hanno provocato le scelte degli imputati. Mi chiedono che cosa ne penso,
se sarà possibile almeno che questo processo sia un momento anche di dibattito sul feno-
meno del terrorismo e sulle ragioni che l'hanno fatto nascere: rispondo che, conoscendo i
mezzi di informazione, credo che tutto ciò sarà molto difficile. Siamo interrotti da Barbaro
(scuro in volto, penso per l'accaduto): appena saputo dell'assassinio ha telefonato alla mo-
glie. Nel corso del processo scoprirò che è perennemente in contatto telefonico con la mo-
glie. Sei avvocati hanno accettato, fra cui alcuni miei amici di vecchia data: ne dobbiamo
ancora trovare quattro. Segnalo a Barbaro le difficoltà di accesso all'aula verificatesi il
giorno prima e gli chiedo intervento. Ripropongo poi il problema del superfluo schiera-
mento di carabinieri in aula, che oltretutto impedisce la vista degli imputati: credo che più
che mai la pubblicità del processo vada garantita. Si apre l'udienza, i sei avvocati accetta-
no: accettano anche gli avvocati Bianca Guidetti-Serra e Zancan che erano incerti fino al-
l'ultimo, essendo già impegnati per la difesa di fiducia di altri imputati. L'assassinio di Be-
rardi ha vinto ogni resistenza. Barbaro ne nomina altri quattro. Protesto con Barbaro per-
ché sono civilisti, e come tali non danno buone garanzie di difesa. Glielo faccio nuova-
mente notare all'uscita, dopo che l'udienza è rinviata. Uscendo, mi fermo a salutare alcuni
degli avvocati nominati il giorno prima. Sono tutti molto sconvolti dagli ultimi avveni-
menti. Uscire dall'aula, dall'edificio e da quell'atmosfera dà un senso di liberazione. In
strada sono nuovamente inseguita dai fotografi fin dentro il bar, dal quale chiamo un taxi:
alcuni giornalisti mi aggrediscono, li mando a quel paese dopo che uno mi chiede se ora,
dopo l'assassinio di Berardi, ho più paura. Sono talmente legati al loro mestiere, da non
capire che la portata, la riflessione, e le reazioni a fatti come questi vanno molto al di là

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della dimensione individuale. Il bar si è riempito di facce strane: tutti agenti in borghese.
Me lo confermano Giovanni e Paolo che stando nell'aula li hanno ormai individuati. Vado
a pranzo con mio padre che, dietro a una apparente calma, mi pare preoccupato e teso: per
tutto il primo periodo del processo mi sembrerà provare sollievo solo quando mi ha fisi-
camente davanti. Il non vivere insieme nei vari momenti della giornata penso che gli crei
ansia. Poi vado a casa, dalle bambine che non vedo da due giorni. Arrivando incontro un
inquilino che mi fa le sue "congratulazioni": gli rispondo ironicamente, non mi sembra l'e-
spressione più felice. Trovo mio marito con una faccia strana; le bambine mi travolgono in
un abbraccio. Francesca mi pare irrequieta, va e viene ininterrottamente, è scorbutica, ri-
sponde a monosillabi e sgarbatamente. Resto sola con mio marito che mi chiede "cosa ne
penso". Dell'assassinio di Berardi? "Non solo - replica - della minaccia nei tuoi confronti".
In mattinata una telefonata all'Ansa, che rivendicava l'assassinio di Berardi, aveva aggiun-
to: "State attenti a Maria Adelaide Aglietta, la prossima sarà lei. Colonna Walter Alasia".
Resto muta: mi si è chiusa la gola. Suona il telefono: è Giovanni che ha saputo il tutto da
una telefonata ricevuta a mezzogiorno da mia madre, mi dice di chiamarla perché è scon-
volta. Anche lui non mi pare da meno: gli dico di sentire i compagni di Roma, cosa che ha
già fatto, e che ci vediamo più tardi a casa di Elena. Mia madre è abbastanza agitata, vuole
ritornare a Torino: le dico che non serve a niente e che comunque di telefonate di questo
tipo, fasulle, che rivendicano o minacciano, le agenzie ne ricevono in questi casi decine e
decine. Cerco insomma di tranquillizzarla, assicurandola che le telefonerò più spesso. Mi
raccomanda di stare attenta. A che cosa? Chiedo a mio marito se le bambine hanno sentito
la televisione: dice di no. Mentre Alberta se ne è andata a giocare in giardino, Francesca
stranamente è rimasta in camera sua. La raggiungo per vedere che cosa le stia capitando.
Scoppia a piangere: ha sentito la televisione, senza che mio marito se ne potesse accorgere
(é sempre attentissima a cogliere il mio nome), ed è sconvolta. Me la prendo in braccio,
nonostante sia quasi alta come me, e parliamo a lungo. Le spiego che una telefonata non
vuole dire nulla, che probabilmente è la bravata di un esibizionista: comunque non bisogna
lasciarsi prendere dal panico. Capisco che il discorsetto si fa un po' pedante, ma insisto a
spigarle che non si può scappare via, e che se si crede nella nonviolenza non ci si può far
complice di chi è violento, soprattutto quando questo ti spingerebbe a sottrarti alla tua co-
scienza. Poiché sono sicura che siamo noi ad avere ragione, non alcun problema ad andare
avanti. La lascio che è in po' più tranquilla. L'angoscia sta invece invadendo me: mi fermo
mentre scendo in città (da dove abitano le bambine la si vede tutta) e penso che là in mez-
zo c’è qualcuno che ha deciso di ammazzarmi. Ciò che più mi angoscia non è la cosa in sè,
ma il fatto di non poter parlare con questo o con questi, il fatto che lo abbiano deciso senza
conoscermi, senza saper nulla della mia storia, delle mie motivazioni; è la negazione del
dialogo, del confronto. E' questa la vera violenza, peggiore di quella fisica. Troppo spesso,
senza rendercene conto, nei nostri rapporti di tutti i giorni siamo colpevoli di questa vio-
lenza, quella che deriva dall'omettere - per vigliaccheria, per presunzione, per timidezza,
per pigrizia - di parlarsi, di dirsi le cose, di ascoltare quello che ci viene detto. Questo sen-
tirmi muta e mutilata dei miei pensieri e di quelli altrui mi far star male. Resterò così, sotto
choc, tutto il giorno e in quelli successivi. Ogni tanto mi assalirà, ma molto raramente, la
paura fisica, il tentativo immaginare come si svolgerà la cosa: me ne renderò conto, rico-
noscerò chi mi sparerà? Ma la mia angoscia è più per chi resta che per me: come reagiran-
no le bambine? Sarà un odio irrazionale o riusciranno a liberarsene, per riconfermare i va-
lori che ho cercato di trasmettere loro? Ed il partito della nonviolenza, i compagni con cui

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ho condiviso speranze di cambiamento, scelte di vita, lotta politica, scioperi della fame,
con cui ho condiviso spesso il tetto, i pasti, a cui sono legata da un sentimento di solidarie-
tà basato sui fatti e non sulle parole, come reagiranno? Non entreranno individualmente, se
non politicamente, in crisi? Questi interrogativi angosciosi mi perseguiteranno per alcuni
giorni e mi lasceranno un segno anche nei mesi successivi: la realtà è che sono entrata di-
rettamente e personalmente in collusione con la strategia della violenza. Ci devo passare
attraverso, e non è facile. Ogni giorno tutti ci scontriamo con la violenza, quella di regime,
dell'informazione, del potere, quella del silenzio, e siamo troppo spesso a nostra volta, an-
che senza rendercene conto, o conniventi o violenti. Mi ritorna alla mente il 12 maggio in
piazza Navona, i volti e le armi degli agenti in borghese, la sentenza della Corte costitu-
zionale, la RAI-TV, gli incontri con uomini come il direttore del TG2, Barbato. Sono state
esperienze non meno cariche di violenza di quella odierna: ma questa è scoperta, non ma-
scherata, si rivolge a me, direttamente. Un'altra esperienza terribile mi dominerà in questi
giorni: la dimensione del sospetto. Per giorni vivrò (proprio io che caratterialmente mi so-
no sempre distinta per l'incapacità di diffidare, fino a prova contraria, di chicchessia) guar-
dando con sospetto le persone che incrocio per strada, diffidando di ogni scampanellata al-
la porta, di qualsiasi rumore. Sono dimensioni in cui non riesco proprio a vivere: infatti
questo non è vivere ma è sopravvivere; anche per le persone che mi sono intorno, che mi
amano, che amo. Quando i sindacati, dopo il rapimento di Moro, inviteranno i lavoratori
ad esercitare sui posti di lavoro una sorveglianza (naturalmente "democratica") rispetto ai
loro stessi compagni, avrò una reazione molto dura, proprio di chi ha appena superato un
atteggiamento di quel genere. Anche loro, dunque, partecipi di una follia che investe quasi
tutte le forze politiche e istituzionali, auspicheranno una società fatta di spie e di spioni,
fondata sul sospetto e sulla delazione, valori "chiave" sui quali uniformare rapporti sociali
e interpersonali. Questa perdita collettiva dei dati di ragione, espressa sia dalle dichiara-
zioni di alcuni grossi leaders politici sia dai provvedimenti anticostituzionali imposti al
paese, non sarà - di fatto - la prima vera vittoria delle Brigate Rosse? Mi muovo e raggiun-
go i compagni; mi metto in contatto con Roma: su iniziativa di Emma Bonino viene lan-
ciato e reso pubblico un appello di donne democratiche contro il terrorismo. Dobbiamo di-
re chiaro e forte che il terrore come arma politica, l'uccisione del maresciallo Rosario Be-
rardi, le precise minacce di morte ad Adelaide Aglietta e quelle generiche a tutti i giudici
della Corte d'assise di Torino, da chiunque siano state fatte, Brigate Rosse o altri, non ci
appartengono come donne e femministe, non appartengono alle tradizioni del movimento
di liberazione di tutti gli oppressi, non appartengono alle speranze delle masse femminili e
maschili in lotta per una società a misura di persona. La violenza indiscriminata, il terrori-
smo, il farsi giudice e boia della vita altrui, sono sempre stati metodi adottati dagli Stati
autoritari, dai potenti, dai fascismi e nazismi per imporre la propria autorità contro il popo-
lo. Per queste ragioni esprimiamo tutto il nostro orrore, sdegno e condanna per la minaccia
ad Adelaide Aglietta che in questo momento, al di là delle nostre differenze, ci rappresenta
tutte, come donne, come democratiche: colpire Adelaide Aglietta o le altre donne che co-
me giudici o come difensori affrontano questo processo, significa colpire oggi le lotte che
ognuna di noi, nelle case, nelle strade, nelle piazze, nelle carceri, nei tribunali, nelle istitu-
zioni ha portato avanti in prima persona; significa divenire oggettivamente boia e mandan-
te proprio di coloro che si vorrebbe colpire. Non diversa condanna esprimiamo per minac-
ce rivolte agli altri giudici, avvocati, testi del processo di Torino. Per queste ragioni, de-
nunciamo con la massima forza e convinzione il comportamento delle Brigate Rosse e del-

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le altre simili sospette organizzazioni che ancora una volta vorrebbero espropriarci delle
lotte che ognuna di noi conduce, costringendoci a difenderci non solo da una società e da
un regime maschiliste e autoritari, ma proprio da coloro che si dicono rivoluzionari e che
invece perpetrano nei confronti della gente tutta la peggiore delle violenze. Per queste ra-
gioni rivolgiamo un appello a tutte le donne perché si stringano attorno alla compagna A-
delaide Aglietta e alle altre donne che come giudici o come difensori affrontano questo
processo, nella difesa della loro autonomia, della loro vita, delle comuni speranze di libe-
razione oggi messe in discussione non solo dallo Stato ma da uomini che si fanno Stato,
giudici, vendicatori e giustizieri. Petra Krause, Franca Rame, Giancarla Giacomini, Camil-
la Cederna, Carla Rodotà, Bianca Toccafondi, Paola Pitagora, Dacia Maraini, Annamaria
Mammoliti, Lisa Foa, Natalia Aspesi, Tina Lagostena Bassi, Elisabetta Rasi, Emma Boni-
no, Adele Faccio, Fiamma Mirestein, Lea Cicogna, Anna Proclemer, Edith Bruck, Anna
Maria Mori, Ada Viani, Pia Levi, Fernanda Pivano, Lara Foletti, Bimba De Maria, Chiara
Beria, Silvana Bevione, Gigliola Iannini, Serena Zoli, Anna Bartolini, Adriana Mulassano,
Liliana Cavani, Livia Pomodoro, Rossana Rossanda, Paola Fallaci, Elvira Badaracco, Ga-
briella Luccioli D'Amore, Movimento di Liberazione della Donna (M.L.D.) Nessun gior-
nale, "Lotta Continua" a parte, ne dà notizia. Mi arrivano parecchie telefonate di compa-
gni: Paolo, Giovanni ed Elena non mi lasceranno per tutto il giorno. Mi sembrano tutti, al
di là delle apparenze, assai allarmati. Parlo a lungo con Gianfranco Spadaccia, cerchiamo
di capire che cosa si potrebbe fare: si parla di una mobilitazione e quindi anche di una e-
sposizione "fisica" di tutti i radicali con il loro messaggio di nonviolenza e di civiltà. An-
che lui, nonostante l'apparente calma, mi pare preoccupato ad ancora di più lo sarà dopo il
comunicato n. 9 degli imputati. Mi conferma che arriverà a Torino la sera seguente, rac-
comanda di telefonargli subito le reazioni degli imputati in aula, il giorno dopo. Nel frat-
tempo abbiamo parlato con l'Ansa, l'agenzia alla quale è arrivata la telefonata: pare che
non sia una cosa da prendere sul serio. Verso sera mi riferiscono, al partito, che mi hanno
cercato dalla questura. Non richiamo. Cerco di capire un po' le cose: ciò che mi preoccupa
e mi impaurisce di più sono le azioni improvvisate di qualche gruppo, come quello che il
giorno precedente ha fatto irruzione a Radio Radicale. In questo momento, per chiunque
creda nella lotta armata e nella strategia violenta con più o meno convinzione, con più o
meno infantilismo, io e con me qualsiasi altro radicale possiamo essere un bersaglio faci-
lissimo, alla portata del gruppo meno organizzato. E al di là di tutto c’è comunque il di-
scorso di quanto questi gruppi siano indirettamente guidati e pilotati, dell'intreccio, in tutti
gli ultimi anni, di terrorismo e infiltrati della polizia, dei carabinieri, dei servizi segreti. E'
un humus oramai talmente consolidato che delle sue possibilità, indirizzi, finalità di azione
non si vedono i confini. La sera i compagni insistono perché si cambi di nuovo casa.

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7. GIUSTIZIA PER GIORGIANA MASI, GIUSTIZIA PER IL MARESCIALLO
BERARDI

Sabato 11 marzo. Mentre mi reco al processo chiacchiero con il tassista, che mi ha rico-
nosciuto e che oltre ad esprimermi affettuosamente la sua solidarietà si lascia andare ad
uno sfogo: contesta la militarizzazione assurda della città, ha parole di esecrazione e di di-
stacco rispetto ai terroristi non riconoscendo loro alcun ruolo politico, giudica criticamente
la pagliacciata della crisi di governo e l'azione dei partiti, individua nella gestione corrotta
e chiusa del paese da parte della DC, ma anche degli altri partiti, la causa di tutti i mali.
Quanto al processo, come del resto mi confermeranno i discorsi di tutti coloro che in que-
sto periodo si fermeranno a parlarne con me, c’è abbastanza disinteresse. Scorre via come
un qualcosa che nessuno sente: in realtà i tentativi (soprattutto del PCI a Torino) di impor-
re la necessità di fare questo processo, in quanto momento di scontro con il terrorismo e di
affermazione dello "Stato", hanno avuto come conseguenza l'accentuazione del distacco
fra società civile e istituzioni, per cui questo processo non è sentito come un'occasione nel-
la quale è importante riconfermare la forza dello Stato di diritto, ma come un momento
dello scontro fra due realtà ambedue estranee. Alla caserma Lamarmora il capitano addetto
alle scorte insiste per affibbiarmene una, lo ringrazio ma non la voglio. Alcuni dei giurati
tentano di dimostrare che sarebbe meglio che mi adattassi alla scorta, altri (insieme ad al-
cuni avvocati) si lamentano di averla e dichiarano di invidiarmi: non riesco a farmi spiega-
re e a capire perché per loro sia impossibile liberarsene, mentre per me sia stato così sem-
plice. Mentre aspettiamo l'inizio dell'udienza, chiacchierando ci si conosce fra giurati e si
cerca di stabilire un rapporto. Quello che si instaurerà nei primi giorni del processo è un
clima di falsa familiarità, che nasce solo dal rischio comune. Si trasformerà poi in un rap-
porto forzato, innaturale, che sfocerà a volte in comportamenti goliardici e di dubbio gu-
sto, come ad esempio l'abitudine di festeggiare con una torta il trascorrere di ogni mese del
processo. A questi momenti mi sono sempre sottratta, facilitando forse il crearsi di un lie-
ve disagio fra me ed alcuni giurati. Quello che inizialmente salta gli occhi è una prevalen-
za di luoghi comuni, sia nei comportamenti che nei valori apparentemente scelti come
punto di riferimento, con la difficoltà quindi di arrivare ad una conoscenza reale delle per-
sone. Però, quel giorno, si avvia anche un buon rapporto con un giurato con il quale, nel
corso del processo, riuscirò a colloquiare in termini seri: di rispetto delle regole del gioco,
della Costituzione, dei diritti civili; e con cui mi ritroverò, quasi isolata, a difendere alcuni
princìpi che ci sembrano fondamentali. Umanamente, è molto diverso da me. Appare chiu-
so in una fatalistica sfiducia negli altri e nella società, senza margini di speranza nelle pos-
sibilità di dialogo, di crescita attraverso il confronto. Questo stato d'animo alla fine del
processo avrà raggiunto in lui il livello di guardia dell'indifferenza e dell'assenza. Col pas-
sare dei giorni capirò meglio che è una persona chiusa in un suo mondo di imperativi lega-
ti a un concetto di Stato di diritto, che lo sorregge quasi in ogni sua azione: crede talmente
in questi suoi valori, che alla fine li trasforma in una barriera di incomunicabilità nei con-
fronti di opportunisti e ignoranti. La prima reazione mi sembra giusta, la seconda mi appa-
re invece come un suo limite. In apertura d'udienza, gli imputati chiedono di leggere un
comunicato. Mi appunto i passi più significativi per poi poterli telefonare a Gianfranco,
così come mi ha chiesto. Il "PROCESSO" SI DEVE FARE: questo è quello che noi vo-
gliamo! E lo vogliamo per dimostrare che il "processo" alla rivoluzione proletaria NON SI

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PUO' FARE. Infatti, lo scontro che si svolge in quest'aula è solo un momento della guerra
tra borghesia imperialistica e proletariato metropolitano che polarizza l'insieme degli inte-
ressi, delle aspirazioni e dei comportamenti di classe... Ciò che sta succedendo a Torino,
la città che avevate scelto per sancire la sconfitta storica della lotta armata, ne è una prova:
qui, dove la costruzione dello Stato Imperialista delle Multinazionali ha percorso le sue
tappe più significative (da un lato, spingendo la militarizzazione a livelli più alti e, dall'al-
tro, affidando ai revisionisti il compito del controllo ideologico del proletariato tanto nelle
fabbriche quanto nei quartieri) il processo alla lotta armata vi è esploso tra le mani. Il ma-
stodontico apparato di uomini e mezzi, questa mostra-spettacolo di "terrorismo di Stato" in
cui la funzione militare non riesce a dissimulare quella di guerra psicologica, non ha potu-
to impedire che un nucleo armato giustiziasse un alto dirigente dei Corpi Antiguerriglia
locali. Ci interessa mettere in chiaro che quest'azione non va interpretata come rappresa-
glia legata direttamente alle vicende processuali. Essa, infatti, è piuttosto una vittoria che
si inscrive nella linea dell'attacco ai centri nevralgici dello Stato Imperialista, e cioè un e-
pisodio della guerra di classe rivoluzionaria che travalica le mura di questa caserma, ed i
cui effetti si ripercuotono, naturalmente, anche sulle vicende processuali. E del resto, lo
stesso scontro politico che qui si realizza proietta i suoi echi su tutto il Movimento di Re-
sistenza Proletario Offensivo: l'attacco a Radio Radicale di Roma, in seguito al quale un
nucleo delle Formazioni Comuniste Combattenti ha mandato in onda un comunicato di
lotta, di solidarietà e di unità, ne è una prova! In questo quadro, emerge con assoluta chia-
rezza la ragione per cui NON ACCETTIAMO NE' ACCETTEREMO MAI qualsiasi tipo
di avvocato di regime... Con l'azione Croce, il discorso non si è chiuso, né questa linea di
combattimento potrà esaurirsi prima della soluzione definitiva della contraddizione anta-
gonistica che ci oppone agli avvocati di regime come pure all'altra componente militariz-
zata del processo, e cioè alla giuria speciale. La risposta del partito è immediata: da Roma,
appena conosce il testo del comunicato, Gianfranco risponde con una dichiarazione, natu-
ralmente non ripresa da nessun giornale né dalla RAI-TV. L'uccisione del maresciallo Be-
rardi, i comunicati telefonici che ne rivendicano ieri la paternità, il comunicato odierno n.
9, scritto dagli imputati del processo di Torino, esigono una risposta immediata da parte
dei nonviolenti del Partito radicale. E la risposta immediata é: basta con gli assassinii poli-
tici. Giustizia per Giorgiana Masi, uccisa dagli assassini di Stato, ma giustizia anche per il
maresciallo Berardi, ucciso dagli assassini cosiddetti rivoluzionari. Gli imputati hanno af-
fermato oggi nel proclama di guerra n. 9 che vogliono che questo processo si faccia. I radi-
cali hanno lottato in Parlamento contro molte delle norme che lo hanno reso possibile. E-
ravamo contrari a questo tipo di processo perché esso è stato concepito come una prova di
forza tra coloro che assumono di rappresentare lo Stato democratico mentre rappresentano
soltanto lo Stato dei codici Rocco e delle leggi fasciste vecchie e nuove e coloro che assu-
mono di rappresentare la classe e la rivoluzione mentre rappresentano soltanto una folle
politica omicida e suicida: gli uni e gli altri impegnati a creare terra bruciata di ogni spe-
ranza di democrazia, di dialogo, di nonviolenza. Ma anche noi, ora che è stato convocato,
volgiamo che questo processo si faccia. Perché solo nella sede processuale possono rive-
larsi e discutersi le eventuali irregolarità e illegittimità. E perché riteniamo che ogni assas-
sinio debba essere giudicato. Respingiamo pertanto la minaccia che è stata ripetuta oggi
nei confronti degli avvocati difensori e dei giurati. Non solo Adelaide Aglietta, ma tutti i
giudici e tutti gli avvocati rappresentano non il regime ma la volontà popolare di ripristina-
re la convivenza civile e il diritto contro la logica del terrorismo. La loro prova, in questo,

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è anche la nostra. Come nonviolenti che hanno saputo affrontare con la loro disubbidienza
civile la violenza dello Stato e delle istituzioni non rimarremo inerti di fronte a queste mi-
nacce. Invitiamo pertanto sia gli imputati di Torino sia coloro che operano all'esterno del
carcere e del tribunale a ritornare sui loro propositi. E' un invito che rivolgiamo con l'umil-
tà di chi non crede che esistano mostri ma soltanto diversi e crede nel dialogo e nella ra-
gione. Ma nel momento stesso in cui chiediamo il dialogo, dobbiamo con fermezza avver-
tirli che se le loro minacce dovessero giungere a compimento contro qualsiasi giudice o
giurato o contro qualsiasi difensore, ci riterremmo impegnati personalmente, quelli di noi
che sono avvocati, e gli altri come cittadini ad assicurare lo svolgimento del processo. Si
nominano ora i quattro avvocati mancanti, questa volta scegliendoli fra penalisti: fra questi
c’è Maria Magnani-Noya, deputata del PSI. Rinviata l'udienza, riaffronto i fotografi e i
giornalisti. Mentre nel bar aspetto un taxi, da sotto il loden di un agente in borghese (trave-
stito da giornalista, e che sta prendendo il caffé accanto a me, facendo finta di nulla) si
mette in funzione una radio trasmittente: lo guardo ridendo e lui si allontana velocemente.
Nel pomeriggio vado al Congresso straordinario del Partito radicale del Piemonte, che si
svolge alla Galleria d'arte moderna di Torino. I compagni sono con me molto affettuosi e
mi offrono ogni forma di collaborazione, dalla casa ad una specie di scorta nonviolenta, ad
ogni altro aiuto possa essere utile. Quando sono in mezzo alla gente mi rendo conto di co-
me la mia sicurezza risieda proprio in questo: riesco finalmente a liberarmi di ogni forma
di angoscia e di sospetto. Nel tardo pomeriggio arriva Gianfranco: sono contenta di veder-
lo, come lui lo è di stare con me. Il dibattito si svolge soprattutto su temi interni: il ruolo
del partito regionale, delle associazioni, del partito autofinanziato. La discussione è ad un
buon livello, c’è consapevolezza della necessità di radicare le lotte nella regione e dell'im-
portanza della nascita delle autonomie regionali. Mi accorgo però di essere abbastanza
staccata dal tutto. E' forse la prima volta che mi si manifesta questa difficoltà (che aumen-
terà col passare del tempo, fino a mettermi seriamente in crisi) per cui da una parte mi sen-
to emarginata dall'attività e dalla vita del partito, dall'altra impegnata in una dimensione
che non mi è abituale e in una esperienza che non condivido con nessuno. Mi sembra quasi
di essere spaccata in due, con tempi di recupero di entrambe le dimensioni sempre più lenti
e difficili.
Domenica 12 marzo. Le bambine sono andate in montagna per due giorni. Passo la gior-
nata al Congresso e poi, il pomeriggio, con Gianfranco. Cerchiamo di chiarirci le idee, di
capire la situazione. Sembra dunque che siamo arrivati ad un confronto diretto con la stra-
tegia violenta, alla quale dobbiamo dare una risposta. Ci appare necessario chiarire la no-
stra posizione con un documento. Purtroppo, nulla che sia radicale ha diritto, ormai, alla
cronaca: mai come in questi giorni le nostre dichiarazioni e prese di posizione vengono
censurate. Perché qualcosa passi, o si deve far parte della maggioranza, o le si dà in qual-
che modo una copertura come opposizione di comodo, o, infine, si deve sparare, insangui-
nare il paese. Parleremo alla gente, decidiamo, con i soliti tavolini, con i volantini, i cartel-
li. Non sarà un rischio per i compagni? Per Gianfranco, è proprio questo il valore della
mobilitazione. Convochiamo una riunione a Roma entro breve per parlarne con loro. Sarò
presente, perché il processo si avvia ad una pausa di una settimana, per permettere agli av-
vocati appena nominati di studiarsi gli atti. Lunedì 13 marzo. Il collegio di difesa è forma-
to. Per ultimo viene nominato il presidente dell'ordine degli avvocati, Gabri. In preceden-
za, aveva accettato, tra gli ultimi, l'onorevole Magnani-Noya. Negli intervalli, parlo con
qualcuno degli avvocati che conosco. Scherzano, ma mi sembrano anche preoccupati per

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la loro integrità fisica. Nei discorsi di tutti, rispetto al "bene" della vita, le razioni sono
molto diverse, legate alle scelte "esistenziali" di ciascuno. I più individualisti, i più attenti
ad accumulare "certezze" per il futuro in cambio dei propri "sacrifici", i più attenti a carrie-
ra e famiglia sono quelli, ovviamente, che mostrano maggiore paura. I più disponibili a vi-
vere senza particolari aspettative o rinvii, quelli che tendono a considerare la propria vita
come possibile patrimonio di altri, mi pare ne abbiano meno, di paura. L'udienza riprende,
Ferrari chiede di leggere il comunicato n. 10. E' un comunicato stranamente breve: il pri-
mo sul problema (che emergerà più volte nel corso del processo) dei colloqui con i vetri
divisori. 1. Abbiamo rifiutato questa farsa che voi avevate definito colloquio; è chiaro però
che noi i colloqui li vogliamo e pertanto la battaglia per ottenerli continua. 2. Abbiamo os-
servato in quale modo avete infine messo insieme la banda degli avvocati di regime; come
già per la giuria speciale anche gli avvocati speciali sono un'infima minoranza: voi stessi
avete dovuto riconoscerlo.
3. La linea politica dell'Organizzazione Comunista Combattente B. R. non lascia alcun
dubbio a questo proposito, ed è definita in modo inequivocabile dai comunicati 1, 2 fino al
n. 9 e dall'iniziativa del Movimento Rivoluzionario.
4. Ora lasciamo questa caserma; restano esclusivamente come osservatori delle vostre atti-
vità contro-rivoluzionarie tre compagni della nostra Organizzazione. Come tutti gli impu-
tati, Ferrari è accusato di costituzione di banda armata, e dei sequestri di Amerio e Labate,
un dirigente Fiat e un sindacalista Cisnal, oltreché di reati minori. E' rosso di capelli e di
barba, impulsivo, direi il più scomposto del gruppo, pronto ad accettare e creare la polemi-
ca, anche pretestuosa. Il PM Moschella gliene offre spunti in continuazione. Durante tutto
il processo, Moschella si opporrà alla lettura dei comunicati, anche in modo impetuoso. A
volte, perde il controllo di sé con reazioni quasi isteriche. Conclude spesso chiedendo, ta-
lora senza fondamento, l'espulsione dall'aula degli imputati. Non capisco ancor oggi se
questo comportamento gli è stato imposto dal ruolo, o se gli è stato dettato dal carattere.
Forse per un processo come questo sarebbe stata necessaria una persona più equilibrata.
Molte volte protesterò apertamente contro il suo atteggiamento. Spesso, anche le argomen-
tazioni giuridiche che il PM porta sono di difficile comprensione: le espone in forma auli-
ca, contorta, persino nella forma. Già in questa occasione esplode la polemica. Barbaro
cerca di mediare tra le diverse posizioni, di sdrammatizzare. Moschella reagisce di fronte
agli imputati che accusano, che definiscono "una farsa" i colloqui con i familiari perché si
svolgono ancora attraverso i vetri divisori. E' la denuncia di un arbitrio (che ritornerà pun-
tuale durante tutto il processo) condivisa dalla giuria e dal presidente. Questi cercherà, con
le sue ordinanze, di sbloccare la situazione, concedendo agli imputati di parlare con i pa-
renti negli intervalli del processo. Ferrari definisce i difensori d'ufficio "banda degli avvo-
cati di regime", e la giuria una "giuria speciale": Moschella salta su per chiedere il suo al-
lontanamento dall'aula. Ferrari annuncia che gli imputati abbandonano l'aula, lasciando tre
"osservatori". Non riesco a capire perché per certe frasi, che ormai suonano come pura-
mente rituali, si ostacoli la lettura dei comunicati. Tra le righe, anche da questi si possono
ricavare spunti difensivi ad atti giuridicamente rilevanti, utili per la giuria. Mi pare discu-
tibile anche la trovata di non far parlare gli imputati, ma di allegare poi agli atti i comuni-
cati; in tal modo si crea solamente tensione in aula. Il presidente dà lettura della relazione
riassuntiva dei fatti, delle imputazioni, dei reati contestati, dello svolgimento delle indagi-
ni. Per quanto riesco a capire (e la sensazione mi sarà confermata dalla lettura delle ordi-
nanze di Caselli e del tribunale di Milano) la situazione è resa complessa dall'unificazione

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di tre processi legati tra loro unicamente dal richiamo all'articolo 306 del codice penale
(costituzione e partecipazione a banda armata). Un fatto che Barbaro sottolineerà spesso,
nel corso del dibattito, con toni anche più che polemici. L'istruttoria è tutta indiziaria, si
fonda sulle "prove" trovate nei covi, che dimostrerebbero l'apparenza delle singole persone
alle BR, e molto raramente su dati concreti, di partecipazione ai fatti contestati. Ancora più
imprecise alcune imputazioni rivolte a protagonisti minori: ad esempio, una delle prove ri-
correnti, contro l'uno o l'altro, è quella di aver avuto documenti o volantini delle BR. Ma, a
parte qualche caso, tale materiale è reperibile nelle case di centinaia di persone. Abnorme è
anche l'imputazione di appartenenza a banda armata per chi ha scritto sul muro (ma neppu-
re la testimonianza è attendibile) "W le Brigate Rosse", con la vernice spray. Un tale è
coinvolto nel processo perché, durante la perquisizione di un ristorante, frequentato da mi-
litanti delle BR, è stato trovato in possesso di un coltello: è assurdo. Dopo la relazione di
Barbaro, l'udienza è rinviata. Passo da casa, a salutare le bambine. Le trovo di buon umore,
con una bella faccia abbronzata. Mi domandano del processo, anche se, ovviamente, la co-
sa le interessa poco. Credo che, attraverso queste domande, cerchino di conoscere il mio
stato d'animo. Mi trattengo con mia madre (é arrivata a Torino), che appare commossa e
soprattutto più tranquilla proprio perché ha occasione di vedermi. Cerca di insinuare qual-
che dubbio sulla mia partecipazione al processo e di capire se c’è una qualche eventualità
che me ne tiri fuori. La sera parto per Roma, con un senso di sollievo. Andar via da Torino
significa allontanarmi da un'atmosfera pesante, dalla "fisicità" del processo, dal sospetto e
dalla pura; e quindi avere più possibilità di ragionare in modo staccato e disteso.

Martedì 14 marzo. Arrivo a Roma di primo mattino. Mi pare di tornare a vivere, di uscire
da un incubo. Corro a casa in via Giulia. L'avevo presa insieme ad Emma, all'inizio del-
l'anno, prima di decidere la sospensione delle attività nazionali del partito. Praticamente
non ci ho mai vissuto, se non in queste rapide corse a Roma. Trovo Emma che sta uscendo
per portare Rugiada all'asilo prima di andare in Parlamento. La raggiungo più tardi nella
sede del gruppo, in via Degli Uffici del Vicariato. Abbraccio Marisa e Mauro, parlo con
Roberto. Sto a Lungo con Peppino Calderisi, che si è assunto pressochè da solo il compito
di coordinare le iniziative per la difesa dei referendum: da ingegnere idraulico si è trasfor-
mato in una specie di ingegnere costituzionale, come ironicamente dice (ma con molto af-
fetto e stima) Mauro. Sono felice di stare di nuovo con questi compagni, che a largo pro-
vano le stesse emozioni nei miei confronti. Marco Pannella ha scritto un articolo per "Pa-
norama", chiaro e significativo: Già lo dicemmo subito, all'inizio di questa vicenda. Se
hanno deciso di sparare, di ammazzarci, s'accomodino. Non rischieranno nulla, o quasi
nulla, i boia che si credono giustizieri e rivoluzionari. Le vittime saranno inermi. Non ac-
quisteremo armi o armati per difenderci. Non tollereremo che l'assassino impunito di
Giorgiana Masi faccia rischiare vite di agenti di PS o di CC o dei servizi speciali per pro-
teggerci. Non muteranno il corso delle nostre vite o delle nostre lotte, nemmeno in questi
giorni. La semplice minaccia della morta avrebbe già altrimenti colpito la nostra vita, spe-
gnerebbe di già quello per cui l'assassinio è stato decretato. Non accetteremo, insomma,
l'alternativa di essere assassinati o assassini: poiché non può che generare e legare altro che
morte, una vita simile è già persa, per rivoluzionari autentici, libertari, socialisti, umanisti
quali sono i nonviolenti del Partito radicale. E noi siamo tutt'altro che vinti. La nostra forza
non cessa di crescere. Siamo sempre una componente essenziale e vincente dell'alternativa
socialista. Se le Brigate Rosse hanno deciso di assassinare Adelaide Aglietta, o chiunque

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di noi radicali, nei prossimi giorni, lo faranno. Ne siamo pienamente consapevoli così co-
me ne sono pienamente consapevoli e responsabili i giornalisti, i politici e gli amministra-
tori della RAI-TV, che concordano con questa eventuale scelta delle Brigate Rosse, e han-
no per questo rifiutano di rimuovere le cause della scelta di Adelaide Aglietta come vitti-
ma di turno e di prestigio. Se accadrà qualcosa dimostreremo a qual punto questi rapinatori
di verità, questi teppisti e brigatisti del video non si imitino ad ammazzare moralmente e
quotidianamente democrazia e legalità repubblicana ma concorrano attivamente a liquidare
anche fisicamente ogni opposizione nonviolenta e civile. A qual punto abbiamo, loro, già
sparato contro Adelaide. La RAI-TV, come il potere, ha bisogno di "brigatisti rossi" e di
radicali nei giornali radio e nei notiziari televisivi: ma i primi li vuole assassini, i secondi
assassinati. Vivi siamo pericolosi e ci si deve abrogare un po' ogni giorno con la censura,
con la denigrazione: come i referendum. Il governo e la maggioranza hanno bisogno di
"rappresentare" anche noi, vogliono davvero l'unanimità. Cossiga che - sostenuto dal PCI -
commemora in aula Giorgiana Masi, accusando noi della responsabilità morale della sua
morte e gli "autonomi" (che aveva mandato lui) della responsabilità pratica, costituisce un
momento perfettamente emblematico della vicenda politica italiana. DC, PCI e Brigate
Rosse temono insieme in "partito armato" della nonviolenza. E' l'unico, da quasi vent'anni,
che ha vinto battaglie democratiche e civili e che ha scosso alle fondamento il regime. Non
sono ancora affatto sicuro che anche questa volta gli "autonomi" delle Brigate Rosse siano
davvero autonomi da servizi segreti nazionali e internazionali. Se invece lo sono, non sono
certo che abbiano voglia e che ritengano giusto di dedicarsi al tiro al piccione contro di
noi; vedremo ben presto, comunque... Non è la prima volta che Adelaide rischia letteral-
mente la vita contro la morte della giustizia, di altri, di noi e di se stessa. Viviamo da sem-
pre insidiati e colpiti dalla violenza delle istituzioni e da quella che ne consegue nella so-
cietà. Abbiamo sempre sostenuto che chi assassina legalità prepara stragi e massacri, chi
sequestra e rapina verità, democrazia, onestà, diritto e diritti, che lo faccia in nome della
Chiesa, dello Stato, del partito, che sia clericale, fascista o stalinista, è alla radice del di-
sordine e della catastrofe. Contro costoro abbiamo sempre lottato. La gente sappia che nei
nostri corpi e nelle nostre esistenze, a cominciare da quella di Adelaide poiché di lei oggi
si parla, digiuni di mesi o digiuni della sete, si sono conficcati lasciando segni e conse-
guenze certamente maggiori che se fossimo stati feriti alle gambe o in organi non vitali da
pallottole. Ogni mese di digiuno sono comunque anni di vita che si bruciano; forse com-
pensati, questo è vero, da altri che se ne conquistano o riconquistano con l'amore e la spe-
ranza praticati. Scienza, medici, documenti di cliniche non solamente italiane lo dimostra-
no. Ma la canea ignobile e volgare per cui la denigrazione dei nonviolenti e dei loro mezzi
di lotta è divenuta una sorta di sport nazionale, per screditare presso la gente, che è la de-
stinataria prima di questi civili messaggi, il "partito armato" della nonviolenza. Poiché noi
non abbiamo al nostro attivi decine di assassinati, ma il divorzio, i referendum, l'obiezione
di coscienza, brecce di libertà e di liberazione, vittorie in lotte ritenute impossibili; lo stes-
so odio cieco dei vertici dei partiti responsabili del caos, e tutti sanno che più ci si isola al
vertice più siamo popolari fra la gente. Decideranno i radicali, nei prossimi giorni. Ma non
resteremo inerti, non subiremo alcun ricatto, non lasceremo affatto via libera alla minaccia,
alla paura, all'assassinio come metodo di lotta politica e sociale. Non l'abbiamo mai fatto.
Se il processo di Torino ha accumulato vizi di nullità o d'altro, è evidente che non può e
non deve giungere ad altra conclusione che alla sua fine. Ma se così non é, se si continuas-
se a minacciare e si colpissero giudici, giurati, avvocati nelle loro esistenze e nei loro dirit-

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ti, non v'é dubbio che sapremo organizzare a migliaia e migliaia altri giurati, altri giudici,
altri avvocati. Faremmo appello alla solidarietà militante internazionalista, democratica di
classe; passeremmo a organizzare le famiglie delle vittime. Vogliono di nuovo ammazzare
Gobetti? Stiano attenti, non è più solo. Nel pomeriggio, fino a sera tarda, partecipo a una
riunione: vi sono i compagni della segreteria, compagni di Roma, ma anche compagni ve-
nuti da altre città. Per la prima volta dopo il Congresso di Bologna, che ci aveva diviso -
avevo avuto l'impressione che volesse evitarmi e addirittura non mi salutasse - interviene a
una riunione di partito Massimo Teodori: anche lui mi sembra preoccupato, emozionato e
a suo modo affettuoso. Il dibattito, introdotto da Gianfranco, è assorbito dalle iniziative
pubbliche che il partito deve prendere. L'atmosfera è carica di tensione. I compagni sono
emotivamente coinvolti nei rischi che posso correre a Torino. Uno di essi, in un intervento
in cui esprime molte apprensioni, a un certo punto esclama: "Forse stiamo inconsciamente
preparando il sacrificio di un'altra Giorgiana Masi!". Gianfranco non nasconde il proprio
fastidio, io faccio gli scongiuri. Nel mio intervento racconto ai compagni la mia vita, le
mie emozioni, in questo periodo. Passo poi alle mie impressioni sugli avvenimenti politici,
sul nuovo accordo di governo appena raggiunto dai partiti della maggioranza. Ed evoco un
interrogativo che mi sono posta spesso in questo giorni: di fronte al comportamento della
sinistra, al tentativo di annullare ogni opposizione nonviolenta, alla cancellazione dei refe-
rendum, all'eliminazione delle garanzie costituzionali, non esiste il rischio che altre mi-
gliaia di persone siano spinte a scegliere la strada dell'opposizione violenta? Quante volte
in questi mesi mi sono sentita chiedere: "Avete visto? A che servono le vostre firme?". Il
dibattito faticosamente supera le angosce e le emozioni per affrontare il problema di cosa
possiamo fare, con i nostri mezzi limitati, in questo periodo per noi difficile. Emma inter-
viene. Ci riferisce del dibattito e dei programmi del gruppo. Fra due giorni il governo si
presenta alle Camere. Da quel che si sa, il conclamato programma di Andreotti conosce
una sola "emergenza": un serrato impegno parlamentare dei partiti della maggioranza per
"far fuori" quattro dei cinque referendum salvati dalla Corte costituzionale. Il gruppo è de-
ciso a contrastare con tutti i mezzi, anche con l'ostruzionismo, il disegno della maggioran-
za. Alla fine decidiamo di convocare per sabato a Torino una riunione del consiglio federa-
tivo sul tema "violenza e nonviolenza", e di indire per il lunedì e il martedì successivi due
giornate di mobilitazione radicale in questa città. Strumento di mobilitazione: i tavoli nelle
strade e nelle piazze, con manifesti e volantini da distribuire alla gente, appelli e dichiara-
zioni da far firmare ai cittadini. Perché a Torino? Perché questa è la città dove l'attività
omicida delle Brigate Rosse è stata più virulenta e perché qui si svolge il processo con il
clima da "giustizia sommaria" che la maggioranza, intorno ad esso, tenta di suscitare. Alla
fine della riunione incontro Mimmo Pinto e Gad Lerner della redazione di "Lotta Conti-
nua". Sono venuti per parlare con Gianfranco. Io vado a cena con Giovanni, Giorgio, Ma-
rio, Rosa e altri compagni. Questo è stato il mio impatto con il processo. Non c’è dubbio: i
primissimi giorni sono stati i più difficili, ma anche i più vivi. Ho affrontato con enorme
rapidità esperienze, reazioni emotive, riflessioni diverse, contrastanti: un vivere intensa-
mente la realtà circostante. In certi momenti mi è parso di invecchiare velocemente, di ac-
cumulare una stanchezza dalla quale ho pensato di non riuscire più a riprendermi. I fatti mi
sono cascati addosso con tutto il loro peso: inchiodata al processo, impotente, esposta an-
che fisicamente, ho avuto la sensazione che lo scontro regime-terrorismo avrebbe finito
per distruggere quanto il paese racchiudeva di positivo. Per alcuni giorni ho avuto la sen-
sazione di aver perso fiducia e speranza, di dover rimettere tutto in discussione. Il tentativo

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di passare, sempre e comunque, attraverso i fatti, senza tenermene almeno in parte staccata
e lontana, mi ha logorata. Poi ho cominciato lentamente e riemergere: come sempre ho
confidato nella capacità della gente di valutare, capire e decidere. E così ho riacquistato,
forse senza accorgermene, una forma (magari un po' strana) di serenità.

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8. LA STRAGE DI VIA FANI

Giovedì 16 marzo. Verso le nove e trenta mi sveglia una telefonata di Emma Bonino che,
con voce agitata, mi comunica che è stato rapito Moro. Le chiedo se sta scherzando, mi ri-
sponde di no e io resto lì, con la cornetta del telefono in mano. E' la seconda volta, in poco
più di dieci giorni, che una telefonata mi dà notizie gravi, che mi turbano. Accendo la ra-
dio e la cronaca dice che quattro uomini della scorta sono stati ammazzati, il quinto è gra-
ve, all'ospedale. Rivedo davanti agli occhi le facce dei giovani carabinieri, smarriti, di se-
vizio al processo di Torino. Penso a Moro, al nostro avversario, a colui che è destinato al
Quirinale, a colui che permea con la sua logica tutta la politica italiana, al "grande logora-
tore". Lì per lì penso che non possa essere sopravvissuto al massacro. Mi sforzo di analiz-
zare gli avvenimenti: questa volta hanno proprio colpito il cuore dello Stato... la risposta
del regime sarà una chiusura spaventosa, l'opposizione sarà ulteriormente spazzata, non ci
ascolterà nessuno... E poi: cosa comporterà, per il processo, il rapimento di Moro? E se in-
vece è vivo, chiederanno lo scambio e dovremo affrontare il problema? Ma chi ha colpito
l'uomo più potente d'Italia? Sono proprio le Brigate Rosse? Come reagiranno gli imputati
di Torino? Mi vesto, vado a Montecitorio. Roma è tranquilla: all'ingresso della piazza del-
l'Obelisco mi sfreccia davanti una macchina blu (credo un'Alfetta): riconosco, nel sedile
posteriore, Francesco Cossiga. E' stretto fra due agenti, davanti accanto al guidatore ce n'é
un altro. Mi scatta istintivamente un pensiero: "Anche tu hai assassinato". Al gruppo par-
lamentare si manifestano chiaramente i primi sintomi di ciò che il caso Moro rappresenta:
La Malfa chiede leggi marziali e pena di morte, neanche Almirante riesce ad eguagliarlo.
Su "la Repubblica" del mattino c’è un titolo: "L'Antilope è Aldo Moro?"; nell'edizione
straordinaria la prima pagina, dove a caratteri cubitali si annuncia la strage e il rapimento,
è identica, solo è scomparso il pezzo su Moro. Marco Pannella sbuca dall'ascensore, viene
Dal Transatlantico; Antonello Trombadori gli ha urlato contro: "E voi che vorreste abolire
il confino! A fil di spada! A fil di spada!". Ecco cosa significa il caso Moro. Richiedo un
biglietto per la tribuna di Montecitorio, per assistere al discorso di presentazione del go-
verno Andreotti. I banchi dei deputati sono affollati: molti scorrono i quotidiani, alcuni -
incredibilmente - sghignazzano. Mi torna in mente il vecchio motto "qualunquista": "Non
fare politica, la politica è una cosa sporca". Andreotti è un po' meno curvo del solito; col
rapimento Moro in ballo, oggi si può permettere tutto: "Il governo intende varare una nuo-
va legge, che possa scongiurare il referendum sulla legge Reale, che oggi sarebbe un refe-
rendum pro o contro la criminalità". Vedo Marco, all'estrema sinistra, scattare in piedi e
protestare. Ingrao scampanella con veemenza, zittendo i deputati radicali, i quali abbando-
nano l'aula. Osservo con interesse Andreotti, che sta sornionamente sciorinando tutto ciò
che da trent'anni si sente dire ad ogni presentazione di un governo alle Camere. Poi fisso i
banchi comunisti: Berlinguer è impassibile, Pajetta ha il volto - tanto per cambiare - arro-
gante. Guardo Alessandro Natta, capogruppo del PCI a Montecitorio, e penso alla beffa di
sei giorni prima: "l'Unita" del 12 marzo aveva pubblicato una sua intervista nella quale si
affermava che avrebbe fatto parte del governo anche "personalità" ed "esperti" graditi alle
sinistre. Il giorno stesso Andreotti rendeva noti i nomi dei ministri, tutti democristiani, da
sempre intercambiabili alla guida dei vari dicasteri. Quando i comunisti l'hanno saputo
migliaia di copie dell'"Unità" erano già in edicola. Al gruppo parlamentare chiamo Torino:
mi dicono che il servizio d'ordine del PCI chiude le saracinesche dei negozi, piaccia o non

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piaccia ai negozianti, e che c’è un grande concentramento indetto dai sindacati, come o-
vunque. Stiliamo alcune dichiarazioni. Sia io che Marco Pannella chiediamo che il mini-
stro degli Interni si dimetta; come previsto, una certa gestione del potere e dell'ordine pub-
blico si è rivelata disastrosa per lo stesso regime. Torna alla mente la lucidità di Pasolini:
la sinistra ha rifiutato di fare il "processo al regime", e oggi l'intero paese deve assistere al
processo farsa di un manipolo di assassini, che tengono in pungo il "potente fra i potenti".
Gianfranco Spadaccia analizza le reazioni del "mondo politico" di fronte al crimine: Stato
di guerra, pena di morte non sono soltanto le reazioni isteriche di esponenti della classe
politica di fronte ad un avvenimento così grave: sono anche la manifestazione di impoten-
za di una classe politica e di uno Stato debole e incapace, che non solo non riescono a ga-
rantire l'ordine pubblico ma non riescono a salvaguardare e difendere neppure la libertà e
l'incolumità dei suoi più alti esponenti. Dopo anni di leggi Reale, di supercarceri, di proce-
dure eccezionali, di leggi speciali, di annullamento delle garanzie costituzionali abbiamo
avuto non uno Stato più forte ma uno Stato più debole. E' questa la politica che ha portato
allo sfascio attuale, sempre più grave e drammatico. In questo momento come non mai oc-
correrebbero invece nervi a posto e una classe politica consapevole che soltanto nella lega-
lità e nella ricostruzione e nel ripristino del funzionamento degli organismi essenziali dello
Stato è possibile uscire dal caos e dalla tragedia in cui si sta precipitando. Le prossime ore,
che saranno comunque drammatiche, saranno affrontate, temiamo, nelle peggiori condi-
zioni: con le urla di chi crede di darsi con esse la forza e con nuove dimostrazioni di impo-
tenza e di debolezza. Tornata a casa, accendo la televisione: il Ministero degli Interni dif-
fonde le fotografie di presunti brigatisti: fra questi, il ben noto Pisetta, infiltrato della poli-
zia nell'organizzazione! Mogli e madri dei caduti piangono disperate: come sempre sono
quelle che più di tutti pagano. Per una attimo penso che sia giusto che chiedano vendetta.
A letto, un altro pensiero non mi lascia dormire, un pensiero che mi assale solo ora: è ipo-
tizzabile uno sviluppo "tedesco" della situazione? Se fra i rapitori e il governo si instaura il
braccio di ferro, o se Moro viene ritrovato assassinato, l'ombra di Stammheim e dei falsi
suicidi di Andreas Baader e dei suoi compagni non si allungherà anche sull'Italia? Se si in-
nescassero meccanismi perversi di questo tipo, la logica della morte e della violenza terro-
ristica o di Stato trionferebbe, facendo terra bruciata di tutto ciò o di tutti coloro che riget-
tano e rifiutano anche solo di avallare una logica fondata sulla forza. La giustizia deve al-
meno essere tentata, è l'unica via attraverso la quale si possano impedire crimini di qual-
siasi tipo, è l'unico punto di riferimento al quale possano essere affidate le residue speran-
ze di non precipitare nel disastro. Sono dunque molte, e fra loro anche diverse, le ragioni
per le quali mi ribadisco che la mia presenza nel processo è necessaria.

Venerdì 17 marzo. La Camera dei deputati discute la nuova normativa per la composizio-
ne delle giurie di Corte d'assise. Mauro Mellini presenta l'emendamento per l'abolizione
della dispensa della funzione di giudice popolare, dispensa di cui godono i deputati e i se-
gretari di partiti che sono tutti deputati. "Conversione il legge del D. L. sulle Corti d'assise
14-2-78 n.31" (Emendamento a firma Mellini e altri) E' aggiunto il seguente articolo: Sono
abolite le lettere b, c, d, dell'art. 29 della L. 10 aprile 1951 n. 287 (1). E' abolito l'art. 12
lettera c della L. 10 aprile 1951 n. 287 (2) Alla lettera b di tala articolo è aggiunto: per ap-
partenenti alle Forze Armate (3) si intende, a tutti gli effetti, colui che abbia assunto e pre-
sti effettivamente servizio militare alle armi. (1) Sono dispensati dall'ufficio di giudice po-
polare per la durata della carica: a) i ministri etc... ; b) i membri del Parlamento; c) i com-

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missari delle Regioni; d) i prefetti... (2) Non possono assumere l'ufficio di giudice popola-
re: a) i magistrati; b) gli appartenenti alle Forze Armate dello Stato ed alle forze di polizia;
c) i ministri di qualsiasi culto. (3) Art. 8 C.P.M.P.: cessano di appartenere alle Forze Ar-
mate dello Stato: a) gli ufficiali, dal giorno successivo alla notificazione del provvedimen-
to che stabilisce la cessazione definitiva degli obblighi del servizio militare; b) gli altri mi-
litari dal momento della consegna ad essi del foglio di congedo assoluto (45ø anno di età).
I gruppi della maggioranza respingono l'emendamento. Il giorno seguente scorro i quoti-
diani, convinta che quanto meno la notizia sia riferita: non un solo giornale la riporta; l'in-
formazione italiana è così pronta ad offrire copertura, omissioni, silenzi, censure e qualsi-
voglia altro servizio al "Palazzo"!

Sabato 18 e domenica 19 marzo si svolge, nella sede del Partito radicale di Torino, la
riunione del consiglio federativo. Sono appena passati quattro giorni da quando l'abbiamo
convocata ma il tempo trascorso sembra tanto di più. Di mezzo c’è il rapimento di Moro e
la strage della sua scorta. Questi fatti danno maggiore concretezza alle nostre angosce di
allora e rafforzano le nostre analisi, rendono ancora più drammatica la situazione. Il dibat-
tito, a cui partecipano molti compagni, rivela anche un più alto grado di consapevolezza.
Ricordo in particolare un intervento di Rosa Filippini sulla politica dell'assassinio, dell'an-
nientamento dell'avversario: non c’è nulla di più radicalmente opposto alla nonviolenza,
che presuppone sempre il dialogo, cioè l'esistenza dell'altro. Erano gli stessi concetti che
espressi quando appresi la notizia, che mi colpì dolorosamente, dell'uccisione di Carlo Ca-
salegno. Nell'intervallo per il pranzo mi fermo un quarto d'ora con Luca Boneschi: è venu-
to con alcune compagne di Milano. Fra esse c’è Bea, una delle compagne del Movimento
di liberazione della donna con cui ho avuto nei mesi precedenti motivo di polemica. Il fat-
to che sia venuta mi fa piacere. Luca mi ha portato un libro sull'autodifesa, un problema
che si porrà nel processo e sul quale sento il bisogno di documentarmi. Vado a mangiare
con un gruppo di compagni di Roma, di Torino, di Milano e di Napoli: Marcello Crivelli-
ni, Giorgio Spadaccia, Rosa, Mario Signorino, Elena Negri, Paolo Chicco, Angiolo Bandi-
nelli, Nicola Lucatelli, Laura Cherubini, Geppi Rippa, Loredana Lipperini. Nel pomeriggio
arriva Sergio Stanzani. E' quasi incredibile come, nonostante i suoi gravosi impegni di di-
rigente industriale, riesca a non mancare mai a nessun appuntamento di partito. Sergio ap-
partiene al gruppo "storico", come chiamiamo con rispetto ma anche con affettuosa irrive-
renza i compagni più anziani. Negli anni '50 era con Marco Pannella e Franco Roccella
uno dei leaders del movimento studentesco di allora (l'Unione goliardica italiana). Di lui
mi meraviglia lo straordinario rapporto che riesce ad avere con i compagni più giovani:
penso che sia la naturale conseguenza di una attenzione costante, non superficiale o stru-
mentale, ma reale. Il dibattito dalle questioni generali passa al "che fare", alle concrete dif-
ficoltà che dobbiamo affrontare. Un intervento di Gianfranco, al di là degli avvenimenti di
questi giorni, riporta il discorso sulle prospettive, sulle scadenze meno vicine, sul nostro i-
tinerario collettivo: una forza politica è tale se ha la capacità di non farsi travolgere dagli
avvenimenti, per quanto drammatici essi siano. In questi momenti è necessario ancorarsi
alla propria storia, far fronte umilmente ai propri doveri (quello mio nel processo, quello
dei deputati in Parlamento, quello degli altri compagni nella attività quotidiane, saper at-
tendere che nuove contraddizioni si presentino e resistere per saperle cogliere e fare esplo-
dere. Penso ai lunghi periodi "sotterranei" della vita del partito che compagni come Marco,
Gianfranco, Angiolo e più recentemente noi abbiamo conosciuto: senza questa capacità di

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distacco e di resistenza il Partito radicale di oggi non sarebbe esistito. Gianfranco conclude
dicendo che la scadenza che abbiamo davanti è il referendum dell'11 giugno: è quella l'oc-
casione in cui la parola tornerà alla gente, in cui potremo tornare a far valere il funziona-
mento della democrazia contro l'opposta violenza del regime e delle Brigate Rosse. Do-
menica arrivano molti altri compagni delle associazioni. Lunedì ci saranno venti tavoli del
partito, e intorno ad ogni tavolo gruppi di compagni e di compagne con volantini e con i
testi di una dichiarazione. La gente si ferma, chiede informazioni, firma, prende il materia-
le, lascia soldi. Quando si avvicina la primavera i tavoli sono quasi uno strumento fisiolo-
gico per l'organizzazione radicale: un modo di stare insieme e di stare insieme alla gente.
Ma ora i tavoli hanno anche un significato simbolico: combattere la paura, riportare la po-
litica nelle strade e nelle piazze, confermare la nostra volontà di esistere e di lottare in ma-
niera nonviolenta, esporci collettivamente con le nostre idee per contrastare il terrore delle
BR e l'autoritarismo del regime.

Lunedì 20 marzo. Arrivo in ritardo alla caserma Lamarmora. Gli altri giurati, abituati a
vedermi puntuale, si sono preoccupati. Ca n'é uno in attesa, che appena mi vede tira un so-
spiro di sollievo e mi rimprovera, anche bruscamente, la poca puntualità: era serpeggiato
infatti il timore che mi fosse successo qualcosa. Fuori dell'aula c’è una grande agitazione:
tutti commentano il rapimento di Aldo Moro. Alcuni ipotizzano la richiesta - da parte delle
BR - di uno scambio con gli imputati di questo processo. Gli avvocati con cui parlo sono
categorici nel dire che, anche volendolo, non esisterebbero appigli giuridici. Barbaro è
meno loquace del solito e pensieroso. Gli imputati, non appena hanno saputo del rapimen-
to di Aldo Moro, hanno esultato e gioito, o almeno così affermano i giornali. Tento di veri-
ficare l'autenticità della notizia, ma non mi riesce. Non appena entro nell'aula mi rendo
immediatamente conto che il clima è tesissimo, e mi soffermo a guardare attentamente gli
imputati. Renato Curcio siede in mezzo al gruppo, lo vedo improvvisamente invecchiato
rispetto alle fotografie di soli due anni prima, il suo atteggiamento é, come sempre, molto
composto e spesso attento. Normalmente, nel corso delle lunghe udienza, Curcio è pensie-
roso. Verso la fine del processo lo noterò con sempre maggior frequenza con la testa ap-
poggiata fra le mani, il che mi farà pensare a una sorta di logoramento psicologico, di stan-
chezza. Ciò che è certo è che la figura di Curcio mi è apparsa quella più determinata, sor-
retta da convinzione e intransigenza. I suoi interventi sono precisi e approfonditi, il com-
portamento è lineare, calmo; lo sguardo è di chi non nutre né dubbi né esitazioni, pur non
essendo disumano. La curiosità di parlare con gli imputati, di conoscere le ragioni che li
hanno indotti alla via della clandestinità e della lotta armata, mi rimarrà per tutto il proces-
so. L'udienza inizia con un incidente. I giornalisti parlano a voce alta, alcuni di loro sono
furibondi e non lesinano improperi. Anche fra gli avvocati serpeggia l'inquietudine. Barba-
ro mi spiega immediatamente che per ordine della questura è stato vietato l'accesso all'aula
ai fotografi e ai giornalisti muniti di registratore. E' stato anche sequestrato un mangiana-
stri all'avvocato Bianca Guidetti-Serra, che per abitudine registra tutto. Si vuole evitare la
"pubblicità" di eventuali dichiarazioni dei brigatisti, inneggianti al rapimento Moro. Dopo
alcuni minuti di consultazione ci troviamo tutti concordi nel considerare che non sono
ammissibili interferenze: la garanzia della pubblicità, tanto più e a maggior ragione in que-
sto frangente, deve essere assicurata. Mi convinco che si tenta di scaricare sul processo la
lunga sequela di carenze ed errori che il Ministero degli Interni ha commesso; visto che la
"forza dello Stato" non ha possibilità di esplicarsi in altro modo, la si esaurisce nel tentati-

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vo di chiudere la bocca agli imputati. Si arriverà ben presto - da parte di alcuni quotidiani -
a calare costantemente la mano su di essi, deformando il loro comportamento, enfatizzan-
do in senso negativo i loro discorsi. L'atteggiamento degli imputati, l'ho detto, è drammati-
camente composto. Al pubblico ministero Moschella saltano invece i nervi quando inter-
vengono sul caso Moro (Ferrari: "... c’è ben altro processo... "; Franceschini: "il vero pro-
cesso si sta svolgendo altrove... "; Curcio: "Moro è nelle mani del proletariato e sarà pro-
cessato... "). Mentre avviene tutto ciò, Barbaro indaga sulle ragioni che hanno indotto la
questura a impedire l'accesso all'aula ai fotografi e ai giornalisti muniti di registratore. I ca-
rabinieri dichiarano di non avere alcuna responsabilità nella decisione, e ben presto si vie-
ne a sapere che è Francesco Cossiga in persona ad aver diramato l'ordine. Barbaro tiene
duro, e ordina innanzitutto la restituzione del registratore alla Guidetti-Serra. Poi inizia
una lunga attesa. Non avendo nulla da fare, decido di andare a prendere un caffé. E' in que-
st'occasione che, casualmente, mi trovo di fronte un funzionario dell'antiterrorismo che sta
parlando al telefono, con Roma: "Certo, certo, non si preoccupi... Non appena leggeranno
il comunicato le diremo tutto subito, vedremo se conterrà elementi utili per l'indagine... ".
Mi auguro che le speranze per la salvezza di Moro non siano affidate unicamente alle "ri-
velazioni" dei comunicati degli imputati di questo processo. Dopo un paio d'ore si viene a
sapere che Cossiga ha ceduto, di fronte al netto rifiuto della corte di proseguire l'udienza. Il
processo riprende con il tentativo di Ferrari (respinto da Barbaro) di dare lettura del comu-
nicato n. 11, che col solito "escamotage" viene comunque allegato agli atti. Gli imputati
abbandonano allora l'aula, o meglio l'abbandonano tutti meno tre (quelli che vengono defi-
niti gli "osservatori che sorvegliano la vostra attività contro-rivoluzionaria"). L'udienza si
chiude con un ultimo battibecco fra il pubblico ministero Moschella e Ferrari. In cancelle-
ria mi faccio dare una fotocopia del comunicato di cui si è impedita la lettura e constato
che, relativamente a Moro, non dice più di quanto riportano tutti i quotidiani, rifendo del
comunicato che ha rivendicato il rapimento: ... Aldo MORO, catturato e rinchiuso come
PRIGIONIERO DI GUERRA in un CARCERE DEL POPOLO dall'Organizzazione co-
munista combattente BRIGATE ROSSE, verrà processato. MORO non ha maggiori re-
sponsabilità politiche dei suoi "amici" democristiani, anche se è venuto progressivamente
configurandosi come baricentro politico, come "teorico" e "stratega" del regime democri-
stiano e dello Stato imperialista. Questo Processo proletario riguarda tutta la DC, la sua
trentennale "occupazione dello Stato" ed il corollario di crimini-nefandezze-stragi-
scandali, cui essa ha cercato di assuefarci; riguarda i progetti di controrivoluzione preven-
tiva che le più potenti centrali imperialistiche intendono imporre, per suo tramite, al nostro
Paese. E' inutile che Zaccagnini si affanni a riproporre travestimenti populistici o interclas-
sisti per il suo Partito: la DC non è mai stata un partito POPOLARE... E inutile è anche il
"soccorso interessato" del PCI e dei sindacati. "L'azione psicologica di massa" a sostegno
dell'Esecutivo, richiesta esplicitamente da Andreotti e costruita sul RICATTO, il
TERRORE, l'INGANNO ed il QUALUNQUISMO, lo "sfruttamento crudele delle emo-
zioni dell'opinione pubblica" ha la vita breve e si ritorcerà contro i suoi incauti suscitato-
ri... Inutile, infine, è anche il soccorso politico e militare che le classi dominanti degli altri
Stati imperialisti elargiscono a piene mani. Da Carter a Schmidt alla NATO, tutti hanno
imposto il loro "aiuto"... L'unità di questo nuovo regime politico neo-corporativo, con-
formista, privo di identità positiva, rigido formalmente ma fragile ed inconsistente sul pia-
no dei contenuti politici è simile a quella dei naufraghi: è un'unità per la sopravvivenza ad
ogni costo! Instabile e transitorio, questo regime non rappresenta comunque una soluzione

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per "portare il paese fuori dalla crisi". Per questo esso deve essere, con ogni mezzo e con
tutte le energie, combattuto e liquidato. A chi obietta che l'attacco rivoluzionario è causa di
controrivoluzione, di "involuzioni" e perfino di "colpi di Stato" diciamo che questa è pura
DEMAGOGIA LIQUIDAZIONISTA! Insomma, chi mai dovrebbe farlo, questo "colpo di
Stato", visto che il potere, lo Stato, è gestito "democraticamente" da tutto il fronte della
borghesia imperialista, dalla "grande intesa" (DC, PCI e reggicoda vari)? Il vero pericolo,
il vero "colpo di Stato" non è di là da venire, ma è il divenire stesso di questo regime e del-
la ristrutturazione imperialistica dello Stato, che già da alcuni anni sta marciando nel pae-
se. Certo, noi accettiamo la guerra! Ma non siamo noi a "CREARE" la controrivoluzione.
Essa è la forma stessa che assume l'imperialismo nella crisi: non ne è un "aspetto" ma la
sua "sostanza". Far emergere, attraverso la pratica della LOTTA ARMATA PER IL
COMUNISMO questa fondamentale verità, è il presupposto necessario della guerra di
classe nella metropoli... Questo è il terreno strategico della ricostruzione di una effettiva
opposizione di classe al regime della "grande intesa" ed allo Stato imperialista, della
UNIFICAZIONE del Movimento Rivoluzionario, della costituzione del Partito Comunista
Combattente. Ecco perché il processo a Moro non "chiude la partita"... Scappo veloce-
mente al partito. Per strada mi fermo a due tavoli radicali con dei compagni di Napoli e
Torino. Nel pomeriggio vado anch'io al tavolo di piazza Castello. Incontro lì, intirizzita dal
freddo, Camilla Cederna. La sua venuta a Torino era prevista per la sera, per una trasmis-
sione a Radio Radicale di presentazione del suo libro: "Giovanni Leone. Carriera di un
presidente". Avendo saputo della mobilitazione nonviolenta del partito, in segno di solida-
rietà nei miei confronti ha anticipato il suo arrivo. Mi fa piacere la sua presenza e la ab-
braccio. Questa del "tavolo" in mezzo alla gente è per lei una esperienza nuova, ma certa-
mente ricca di spunti interessanti e divertenti, che la sua sensibilità ed il suo senso dell'u-
morismo sono pronti a cogliere. Mentre volantiniamo e conversiamo con i passanti, mi
parla del suo libro. Nessuna delle due può prevedere oggi le clamorose conseguenze di
quello che lei definisce "il frutto della mia curiosità".

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9. LA QUESTIONE DELL'AUTODIFESA

Martedì 21 marzo. Entra in vigore il decreto antiterrorismo, la prima delle leggi speciali
annunciate dal governo Andreotti. A Montecitorio Mauro Mellini commenta: "Oggi le
Brigate Rosse hanno conseguito un grosso successo". Il provvedimento decreta la fine del
segreto istruttorio, la possibilità di essere interrogati senza avvocato, l'estensione pratica-
mente illimitata del fermo di polizia e del diritto di intercettazione telefonica. Con incredi-
bile faccia tosta dirigenti della CGIL e della sinistra storica continuano a proclamarsi con-
trari a "qualsiasi norma di carattere eccezionale che contrasti con il dettato costituzionale".
Alla caserma Lamarmora viene invece posta la questione giuridica più interessante dell'in-
tero processo: quella dell'autodifesa. Già da alcuni giorni i quotidiani, innanzitutto quelli
torinesi, dipingono a fosche tinte la possibilità che venga sancito il diritto degli imputati a
difendersi da soli, nonchè il dovere dei difensori d'ufficio a non violare l'etica professiona-
le difendendo un imputato dal quale si è ricusati. Gli avvocati che pongono la questione
dell'autodifesa sono ormai classificati, direttamente o fra le righe, come il "partito del rin-
vio" del processo. La vicenda dell'autodifesa rasenta il ridicolo: innanzitutto è già stata sol-
levata due anni or sono, al primo tentativo di processo alle BR, e inoltre è prevista dal no-
stro ordinamento da quando è diventata legge dello Stato la Convenzione di Ginevra per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. I nostri odici prima non pre-
vedevano il diritto a difendersi da soli. Sono codici del 1930, dunque ispirati a una precisa
ideologia e ad una conseguente visione dello Stato. Configurando solo la "difesa d'ufficio",
vale a dire l'obbligo ad essere difesi da una avvocato scelto dai giudici. Quando, due anni
prima, gli imputati del processo di Torino ricusarono i difensori, la Corte d'assise rifiutò
l'eccezione di incostituzionalità giudicandola inammissibile. Nel corso dei mesi successivi
furono però elaborate varie tesi, si aprì un ampio dibattito fra i tecnici del diritto, e alcuni
di questi misero addirittura a punto ipotesi di soluzioni ispirate a modelli di altre nazioni
dove l'istituto dell'autodifesa è previsto e attuato. Non solo: il presidente della corte, Bar-
baro, prevedendo che presto o tardi il nodo sarebbe arrivato al pettine, aveva più volte sol-
lecitato al Ministero di Grazia e Giustizia e al Parlamento la regolamentazione dell'autodi-
fesa. Alcuni giuristi torinesi avevano preparato un progetto di legge che però, dopo essere
stato presentato da un deputato, ancor oggi giace nelle secche di Montecitorio. Ciò che più
stupisce è che nonostante le pressioni del Ministero di Grazia e Giustizia e di alcune forze
politiche affinchè il processo "fosse fatto e fatto subito", nessun partito di maggioranza si
sia degnato di interessarsi del problema. E' pur vero che si tratta di una maggioranza di
"non governo": la riforma del codice di procedura penale viene rinviata da più di un de-
cennio, anno dopo anno. Di fronte a tali fatti, e con un problema spinoso tra le mani, Bar-
baro non tenta neanche, giustamente, di nascondere il proprio malcontento e disappunto.
Subito, all'inizio dell'udienza, dodici degli avvocati d'ufficio (Albanese, Avonto, Bonati,
Chiusano, Del Fiume, Gianaria, Guidetti-Serra, Minni, Mittone, Papa, Speranza, Zancan)
leggono una "memoria", in cui si ripropone l'eccezione di incostituzionalità delle norme
sulla difesa d'ufficio e si sostiene il diritto all'autodifesa. I passi salienti della memoria
chiariscono come si debba intendere il ruolo del difensore nel processo politico. Quando vi
sia rifiuto globale del processo ed il giudicabile assuma d'essere lui il giudice, ne consegue
che non ci si trova di fronte ad un momento meramente processualistico di rifiuto del di-
fensore per una più efficace tutela degli interessi dell'imputato ma ci si scontra con l'uso, di

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per sè niente affatto infrequente nei processi politici - qual è certo l'attuale - del dibatti-
mento quale occasione di attacco allo Stato. Si tratterebbe, ad avviso di alcuni, di proble-
matica insuscettibile di risposta diversa dal superamento autoritario in esenzione da con-
fronto su piano strettamente giuridico. Ammonisce la difesa a disattendere tale ordine di
pensiero che si risolve, oltre tutto, in una contraddittoria consacrazione di soccombenza
dialettica dello Stato: Stato che può e deve garantire invece celebrazione e regolarità del
processo che non è e non può essere mai, per definizione, celebrazione di un rito vendica-
tivo. Il taglio della tesi dei firmatari privilegia insomma pienamente il diritto di scelta del-
l'imputato rispetto ai cosiddetti superiori interessi dello Stato. I fautori dell'autodifesa par-
tono dal presupposto ideologico che protagonista del processo è l'imputato; suo, esclusi-
vamente suo, il diritto di difesa che si iscrive tra i diritti personali, inviolabili, di cui all'ar-
ticolo 2 della Costituzione, attenenti ai rapporti tra Stato e cittadino; inaccettabile la delega
autoritativa ad un terzo, perché decida sui contenuti di causa. Per non cadere nel rischio di
pervenire a pericolosi e fuorvianti risultati, si dovrebbe dire che funzione del difensore non
è quella di garantire i cosiddetti "superiori interessi della società" quanto piuttosto quella,
più semplice ma non meno importante, di tutelare in via primaria ed esclusiva gli interessi
del suo patrocinato per ottenere la sentenza a lui più favorevole. Se di ciò deve preoccu-
parsi, è chiaro che tale finalità non potrebbe realizzarsi dove manchi almeno un minimo di
collaborazione con il suo assistito: quale intervento potrà fare, in tema di assunzione di
prove, ad esempio, se nulla ha potuto apprendere dal suo patrocinato circa il "fatto"? Quali
elementi sulla sua personalità, quale strategia processuale è immaginabile, tanto più do-
vendo poi egli obbligatoriamente assumere conclusioni? La conclusione ribadisce il diritto
del cittadino a difendersi come vuole, cioè anche a non difendersi. Siamo forse al cospetto
di una grande mutazione che involge in ripensamento circa il ruolo che l'avvocatura è de-
stinata a svolgere nelle aule di giustizia. Ripensamento che non deve, peraltro, far pensare
necessariamente a retrocessioni sul piano della civiltà giudiziaria; riprendendo le parole
contenute in una ammirevole sentenza di un giudice di una nazione che da tempo conosce
e sperimenta l'istituto dell'autodifesa: "Altro è sostenere che ogni imputato, ricco o povero,
ha il diritto all'assistenza dell'avvocato e altro è dire che lo Stato può imporre all'imputato
di accettare un avvocato che egli non vuole". Tale impostazione, alla quale non aderiscono
sette difensori d'ufficio - tra i quali in primo luogo gli avvocati comunisti - richiama la cor-
te ad un problema di grandissima portata. I difensori d'ufficio rifiutati non vogliono diveni-
re una funzione, non vogliono essere difensori del processo anzichè degli imputati. La rea-
zione della "Stampa" all'eccezione sarà dura e strumentale: "Il processo deve essere fatto a
qualsiasi costo". Né gli altri giornali si dimostreranno da meno; la "Gazzetta del Popolo":
"Perché rischia di saltare il processo di Torino: dodici avvocati per l'autodifesa delle BR";
"la Repubblica": "L'autodifesa blocca il processo"; "l'Unità": "La questione dell'autodifesa
appare un falso problema". Solo con il passare del tempo gli osservatori si renderanno con-
te che l'incidente è divenuto questione di principio, di prima importanza. Gli avvocati pro-
ponenti (tra di loro vi sono socialisti, liberali, radicali, moderati, e di estrema sinistra) sce-
glieranno di restare al loro posto al solo scopo di controllare il rispetto delle norme fonda-
mentali del processo; non assumeranno iniziative se non su indicazione dei loro assistiti;
sostanzialmente sceglieranno di esercitare soltanto il ruolo di garanti. Per tutti e dodici,
sembra essere un'esperienza nuovissima. Nasce un nuovo modello di difesa nel processo
politico. Il documento è letto in aula da Bianca Guidetti-Serra. Seguono gli interventi di al-
tri avvocati. Maria Magnani-Noya candidamente dichiara che "per ragioni giuridiche, ma

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soprattutto per motivi di opportunità" non concorda con la tesi poco prima espressa, di-
menticando che la garanzia dell'indipendenza della magistratura e dell'eguaglianza dei cit-
tadini di fronte alla legge dovrebbe tener lontani gli opportunismi dalle aule di tribunale. Il
PM Moschella si oppone alla "tesi dei dodici", argomentando tecnicamente, a dire il vero
in modo poco comprensibile, che "la presenza di un difensore d'ufficio rappresenta una ga-
ranzia ulteriore, che non esclude l'autodifesa". La corte si ritira per la prima vera riunione
di camera di consiglio. Il dibattito è lungo e serrato, le posizioni diverse, esiste il preceden-
te negativo di due anni prima e non è facile mettere in discussione i sacri codici. Al termi-
ne, la giuria effettiva estende un'ordinanza con la quale si rileva "l'indubbia validità e im-
portanza del quesito sottoposto". L'ordinanza non entra però nel merito della questione,
che è ritenuta non rilevante in questo processo, "non avendo gli imputati dichiarato di vo-
lersi difendere da soli". Si tratta probabilmente di un espediente. Nel comunicato n. 12, del
29 marzo, gli imputati così commenteranno questa vicenda processuale: ... Voi stessi, ba-
sando l'ordinanza (con cui avete dichiarato irrilevante la questione della "autodifesa") sui
nostri comunicati, avete dovuto riconoscerlo: "ora è la rivoluzione proletaria che "fa la
legge"!!! Questo preciso rapporto di forza ci permette inoltre di ribadire concretamente che
noi, in quanto parte dell'Organizzazione Comunista Combattente che sta dirigendo questo
processo, siamo qui non per difenderci ma per accusare. Gli imputati qui dentro non siamo
noi, "egregi signori"!!! E' quindi ovvio che la questione dell'autodifesa non può riguardar-
ci, ma riguarda solamente voi e i vostri avvocati di regime. Infatti noi qui prendiamo e
prenderemo la parola ogni volta che lo riterremo necessario, per esporre e sostenere le no-
stre accuse... Dopo le tre ore e mezzo di camera di consiglio e la lettura dell'ordinanza,
Barbaro stabilisce di sospendere il processo: sono prossime le vacanze pasquali. Uscendo
dalla caserma Lamarmora mi si avvicinano alcuni carabinieri per salutarmi: uno si essi mi
sussurra che - soprattutto dopo la strage di via Fani - si parla molto, fra loro, delle scorte e
del mio rifiuto di protezione armata. Sarà per questo o per altre ragioni, ma sta di fatto che
mi rendo conto di essere ben accetta a questi ragazzi, dei quali scopro tutta la drammaticità
umana (i giornali li dipingono come "gli uomini di ferro"). Avviandomi verso la macchina
capisco anche che psicologicamente ho "passato il guado": sarà perché sono convinta di
ciò che faccio, sarà perché ci si abitua anche al rischio, ma sta di fatto che non ho più pau-
ra, anche se regolarmente mi arrabbio con i conoscenti che esclamano: "Bel coraggio!",
poiché di coraggio non si tratta. Giovedì parto per Roma e dalla città raggiungo, per ripo-
sarmi un po', un vicino paese di mare, dove vengo a sapere del ferimento dell'ex sindaco di
Torino Picco e degli sviluppi del caso Moro. Il giorno di Pasqua mi raggiungono Rolando
Parachini e Anna D'Amico. Dopo alcuni giorni torno a Roma, per ripartire subito per Tori-
no. La capitale è stretta da un'imponente cintura di sicurezza, sono fermata da decine di
posti di blocco: si sospetta che il commando di via Fani approfitti dell'esodo o del rientro
pasquale per spostarsi. Anch'io, nella macchina di un amico che mi riporta a Roma, vengo
fermata all'ingresso della città. I militari esaminano i documenti, mi scrutano a lungo in
volto, esaminano Giovanni, che è un po' malvestito, e la cinquecento in pessimo stato con
la quale circoliamo. Alla fine si decidono: "Ma lei chi é?". Rispondo che sono Adelaide
Aglietta, come il documento testimonia. Non convinti si fermano in due con il mitra spia-
nato a sorvegliarci, mentre il terzo si mette a parlottare con l'autoradio. Nel bosco che è
sulla nostra destra vedo nel buio sagome di militari accovacciati fra i sacchi. Finalmente
giunge la conferma che non sono una brigatista travestita da giudice popolare e possiamo
ripartire.

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Mercoledì 29 marzo si riapre il processo con lettura in aula di un documento degli avvo-
cati che avevano proposto l'eccezione di incostituzionalità sull'autodifesa. Come ho accen-
nato, d'ora in avanti, pur mantenendo l'incarico di legali d'ufficio, si limiteranno alla sola
presenza per farsi garanti della corretta osservanza delle norme processuali. Si dibattono
poi alcune eccezioni procedurali, che sono in gran parte respinte. Durante un intervallo
dell'udienza tento di raggiungere il fondo dell'aula, dove come al solito sono assiepati av-
vocati e giornalisti. Mi viene incontro la Carletti e mi abbraccia. Mi prende da parte: "Sai,
ti cercavo, ma ci vedo ormai molto male e non ti scorgevo proprio". Poi si sfoga, con tutta
la sua carica umana: è stanca, sono ormai quattro anni che questa storia delle Brigate Ros-
se le grava addosso e la obbliga ad una condizione di "libertà vigilata", si sente oppressa,
come "ai tempi del fascismo". Mentre parliamo getto un'occhiata alla gabbia degli imputa-
ti: alcuni paiono incuriositi dall'episodio, altri ridono. "Nonna Mao" si trattiene ancora un
po' con me, con noncuranza: la sua istintività la rende - simpaticamente - incapace di trat-
tare con distacco tutti coloro che lei stima come "compagni", in qualsiasi frangente. E lei
conosce bene i radicali, abituata a vederli con i tavoli a Porta Palazzo, il mercato più popo-
lare della città dove tiene il suo banchetto. La saluto stringendole forte la mano.

Giovedì 30 marzo. Dall'avvocato di Levati (un imputato minore che avrebbe rappresenta-
to il "tramite" del quale si servì il famoso "Frate Mitra", cioè Silvano Girotto, per entrare a
far parte delle BR) viene sollevato un interessante quesito giuridico: i carabinieri hanno
fornito alla corte due nastri registrati di altrettanti colloqui intercorsi fra Silvano Girotto e
il Levati; la registrazione di tali colloqui non fu mai autorizzata dal magistrato; i nastri
debbono o no essere acquisiti come prova? L'avvocato del Levati sostiene di no, poiché al
momento in cui le registrazioni furono effettuate la legge obbligava le forze dell'ordine ad
ottenere il placet della magistratura per poter effettuare operazioni di questo tipo (ora, con
il decreto antiterrorismo, tale vincolo non esiste più). L'eventuale accoglimento delle regi-
strazioni come prove rappresenterebbe una violazione della certezza del diritto. Lunghis-
sima riunione, due ore e mezzo, in camera di consiglio: ciò che appare a me ovvio e costi-
tuzionalmente chiaro deve invece fare i conti con i commi e sottocommi di un codice ante-
cedente alla Costituzione e il dibattito si fa impervio. Al termine, la giuria effettiva decide
che le registrazioni non sono valide. Il giorno seguente capisco che per gli organi di infor-
mazione esistono non solo persone e forze politiche "scomode", ma c’è anche la categoria
delle "ordinanze di Corte d'assise" scomode. L'ordinanza della corte, importante non tanto
per il contenuto, quanto perché fissa una prassi e respinge logiche antilegalitarie, e anche
perché riapre giuridicamente la discussione sulle normative varate pochi giorni prima, vie-
ne minimizzata e riportata non chiaramente all'opinione pubblica, nel timore che quest'ul-
tima incominci a porsi più di una domanda circa la correttezza costituzionale del decreto
del 21 marzo. al termine dell'udienza Barbaro pronuncia una frase che da molti è conside-
rata "fatidica": "Il dibattimento è aperto".

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10. IL DIBATTIMENTO è APERTO

Giovedì 30 marzo. Il processo è ora alla svolta cruciale, in attesa che finalmente si passi
all'esame del contenuto dei capi d'imputazione, la fase con la quale si dovrebbe prendere
conoscenza dei fatti e dunque formarsi una convinzione circa la colpevolezza o meno degli
imputati. Nel pomeriggio di giovedì e il giorno seguente seguo il Congresso socialista: mi
hanno riferito che Craxi ha parlato di "evidente crisi, con conseguente processo di disfaci-
mento, del Partito radicale". Mi piacerebbe riuscire a capire qualcosa di più circa questa cu-
riosa tesi. entrando al Palazzo dello sport di Torino molti socialisti mi abbracciano: non
credo perché convinti di abbracciare il segretario di un partito in via di disfacimento. Alcuni
mi fanno firmare le tessere socialiste esclamando che la mia, sommata alla loro, dovrebbe
formare una tessera unica. Se i compagni mi sembrano eccezionali, l'atmosfera all'interno
del Congresso è ben diversa: la parata è grandiosa, si palpa l'esistenza di un fortissimo ap-
parato molto ben finanziato e impegnato nel tentativo di darsi una facciata rinnovata che lo
differenzi dagli altri partiti della maggioranza. Mi accompagnano nello spazio riservato alle
delegazioni dei partiti. E' uno spazio che appare angusto rispetto all'enorme tribuna riserva-
ta alle delegazioni straniere. Craxi, penso, ha fatto le cose in grande. Alla mia desta, nella
fila davanti, sono Pajetta e Cervetti, per il PCI. Alle mie spalle Magri, con la delegazione
del PDUP. Mi saluta, compitissimo, l'onorevole Sarti, democristiano, ex ministro, che non
avevo mai né visto né conosciuto. Si siede vicino a me e mi rivolge alcune domande. Cerco
di concentrarmi sugli interventi: sta parlando Manca, un terzo della platea applaude, molti
fischiano. Passa Giolitti. Sarti commenta: "Sarebbe un presidente della Repubblica impec-
cabile". Penso che dica sul serio, ma mi accorgo che ha il gusto delle battute. Quando poco
più tardi scambia quattro parole con il responsabile culturale del PSI, tornando al suo posto
mi dice: "L'ho fatto per dovere d'ufficio. Lei non lo sa, ma dirigo la politica culturale della
DC: mi creda, non ho proprio nulla da fare". Magri, senza salutare, chiede a Giovanni Negri
di accendergli una sigaretta. Più tardi lo incrocio e mi domanda se interveniamo per il di-
scorso di saluto: gli rispondo che abbiamo incaricato di questo Giovanni, ma che non ab-
biamo ancora avuto risposta dalla presidenza del Congresso. I compagni che rimangono al
Palazzo dello sport attenderanno inutilmente che Giovanni sia chiamato per poter prendere
la parola. Il saluto ai congressisti socialisti il PR l'ha dato attraverso un volantino distribuito
all'ingresso. Venerdì pomeriggio abbandono il Palazzo dello sport quando sento - dalla tri-
buna degli oratori - invitare il delegati "ad applaudire la compagna Magnani-Noya, che, a
differenza di quei molluschi degli altri avvocati del processo delle BR, non ha aderito al do-
cumento sull'autodifesa". La notizia di questo intervento giungerà alle orecchie degli avvo-
cati che hanno sottoscritto l'eccezione di incostituzionalità. Alla ripresa del processo Fulvio
Gianaria e Alberto Mittone, giovani avvocati del foro torinese, me ne chiederanno confer-
ma, facendomi leggere una lettera inviata alla "Repubblica". In essa tutti i dodici firmatari,
richiamandosi alle tesi di Leonardo Sciascia, riaffermano con fermezza le loro motivazioni,
la dignità delle loro posizioni, la loro volontà come avvocati di difendere e garantire di di-
ritti degli imputati, così come vuole la Costituzione: se questo significa "essere molluschi"
non intendono fare nulla per non esserlo. Il giorno seguente parto per Roma, dove è pro-
grammata una assemblea nazionale delle associazioni radicali. Ma lentamente, giorno dopo
giorno, mi sento sempre un po' più distante dal partito, delle sue battaglie: è comprensibile,
è ormai un mese che vivo soltanto di riflesso le vicende radicali. La situazione politica ge-

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nerale, invece, mi coinvolge più che mai, con la sua carica oppressiva. In Parlamento i de-
putatati radicali tentano a ogni pié sospinto di ottenere la convocazione della Camera per
dibattere il caso Moro: ma è inutile, la maggioranza intende discutere qualsiasi argomento
pur di non affrontare la questione.

Lunedì 3 aprile. Inizia l'interrogatorio degli imputati, o meglio quello che dovrebbe essere
l'interrogatorio degli imputati. I giornalisti si accalcano nella parte dell'aula loro riservata,
pronti a registrare le dichiarazioni. I "capi storici" delle BR appaiono tranquilli. Ancora og-
gi, a distanza di mesi, non sono riuscita a formarmi un'opinione circa i loro caratteri indivi-
duali: restano al massimo alcune sensazioni superficiali. Sono convinta ad esempio che ab-
biano sempre attentamente seguito il processo, calcolando scientificamente gli interventi, e
mai, tranne in due o tre occasioni, sono intervenuti spinti da emozioni derivanti da fatti non
previsti. All'inizio discutevano, spesso scherzavano, ostentando disinteresse per tutto ciò
che li circondava, magari fingendosi immersi nella lettura dei giornali. Per due volte mi è
accaduto di incontrarli nei corridoi del "bunker". I volti erano impassibili, gli sguardi di al-
cuni, nei miei confronti, parevano impregnati di ironica curiosità. L'udienza si apre con il
rituale tentativo di interrogatorio. Gli imputati si rifiutano di rispondere alle domande del
presidente. A ruota libera invece intervengono Semeria, Franceschini, Ferrari, Curcio, Ber-
tolazzi, Bassi, Ognibene. Denunciano le carceri speciali, il trattamento riservato ai prigio-
nieri politici che vi sono rinchiusi, il trattamento riservato ai prigionieri politici che vi sono
rinchiusi, le negazione del diritto del detenuto alla socialità, negazione che all'interno del
carcere si realizza con l'isolamento e all'esterno con l'imposizione dei vetri divisori per i
colloqui e il controllo della corrispondenza. I brigatisti annunciano l'avvio della lotta all'in-
terno delle carceri e sostengono che "le BR trattano meglio i loro prigionieri politici". Fran-
ceschini esclama: "Noi a Sossi davamo i risotti". L'"arringa" continua: "Il reato che ci è con-
testato è politico, gli avvocati rappresentano i partiti, uno il PSI, altri due il PCI". Per quan-
to riguarda me, Franceschini sostiene che "i radicali sono i pedalini di Cossiga", Bassi inve-
ce "si riserva di interrogarmi". Secondo i brigatisti i veri imputati sono avvocati e giuria.
Mai si allontaneranno dal loro ruolo di "Antistato". Altri imputati, prendendo la parola, af-
fermano che i giudici non possono essere "sopra le parti" poiché applicano una legge di
classe (qualcuno urla anche: "Le vostre leggi sono il codice Rocco e la legge Reale"). La
lunga "requisitoria" termina con le solite minacce: "Non ce l'abbiamo con i singoli indivi-
dui, ma con la funzione che essi accettano di svolgere. Non si vengano poi a piangere i mor-
ti". Tutto questo mi fa molto effetto, mi scuote soltanto una frase ripetuta più volte: "L'uni-
co rapporto che ci può essere tra noi è di spararci in faccia". Al termine del lungo discorso
gli imputati abbandonano l'aula lasciando come al solito tre "osservatori". Barbaro inizia al-
lora la lunga lettura degli interrogatori resi in fase istruttoria: comincia la fase processuale
della "grande noia". Da tutti questi atti si riesce a ricavare elementi sostanziali nuovi e ca-
paci di incidere sul processo.
Martedì 4 aprile. C’è un nuovo comunicato degli imputati, il n. 13, che dimostrano di es-
sere molto attenti non solo alla realtà del processo, ma ai fatti che si susseguono nel paese,
traendone spunto di commento e di intervento puntuale. A proposito del trattamento che
Moro subirebbe nel cosiddetto "carcere del popolo", argomento in questi giorni al centro dei
commenti dei quotidiani, affermano: ... Parlando del presunto trattamento del prigioniero
Moro, la stampa, contrariamente a quanto voleva far apparire nei mesi scorsi, ha dimostrato
di conoscere e capire molto bene quale sia l'essenza, la funzione fondamentale dei carceri

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speciali. Qui l'isolamento è permanente: non ha più l'alibi giuridico della "prova da non in-
quinare" ma quella militare della "sicurezza". E dietro quest'infame gioco di parole dei soliti
"specialisti", i mesi d'isolamento diventano anni, condizione definitiva del prigioniero, nei
cubicoli individuali e nei "piccoli gruppi". Nei fatti, l'attacco all'identità del proletario co-
sciente, la sua destabilizzazione psico-fisica, diventa pratica sistematica di annientamento.
La detenzione punitiva diventa così in realtà una misura di guerra, il paravento che dovreb-
be nascondere l'esistenza dei nuovi campi di concentramento. E in questi campi applicate
con metodo ogni vostra tecnica psico-fisica di annientamento. Ora la controrivoluzione, in-
vece di limitarsi ad estesi massacri "dopo", agisce in modo strisciante e sistematico già da
"prima", diviene controrivoluzione preventiva in ogni settore della società. Ma per realizza-
re l'obiettivo dell'annientamento, non vi è sufficiente eliminare la socialità all'interno del
carcere, dovete spingervi oltre: eliminare anche la socialità verso l'esterno. Così avete im-
posto i "colloqui" con vetro e citofono, il cui unico scopo è di eliminare i colloqui. E' un
passo ulteriore del vostro programma, la cui cinica ferocia va dalle parole degli utili idioti
come Trombadori e Corvisieri ai fatti dei silenziosi sicari di un Videla italiano. In questi
giorni noi stiamo rifiutando questi cosiddetti "colloqui"... Vi sono dei casi in cui la violen-
za psicologica, inevitabile e necessaria nella VOSTRA visione della carcerazione, non è
sufficiente a ottenere l'effetto voluto. Si tratta di quei casi in cui la dignità, la fierezza, il
senso di responsabilità del prigioniero sono tali da non farlo cadere in una visione indivi-
dualistica del mondo. Da un lato, egli non si piega, mantiene la sua identità politica, proprio
perché dall'altro lato i compagni della sua classe non lo abbandonano come pescicani acce-
cati dai loro gretti affari e giochi di potere. Allora, la "confessione" viene estorta mediante
le cosiddette "pressioni fisiche"... Il fine della nostra guerra rivoluzionaria, il comunismo, è
profondamente diverso e si manifesta necessariamente con mezzi diversi. I processi, i car-
ceri del popolo, sono per i comunisti espressioni improprie che vengono prese dal vostro
vocabolario, solo per arrivare a dimostrare l'abisso che nei principi separa il proletariato
dalla borghesia nella sua pratica di lotta. Il processo, per noi, non è un "atto di giustizia",
ma di lotta tra gli interessi antagonistici del proletariato e della borghesia, il momento in cui
questa lotta assume la forma del confronto più generale davanti al popolo. Per questo le "o-
biezioni" filistee che la borghesia porta in questi giorni al processo che nel paese si sta
svolgendo contro la DC, non sono "attinenti", come usate dire, egregi signori. Non sono at-
tinenti perché esse vorrebbero misurare la lotta fra le classi e le forme che essa assume, con
il metro di una presunta legalità assoluta, "al di sopra delle parti". In realtà, voi cercate di-
speratamente di nascondere il carattere politico dello scontro; e per questo ricorrete "a que-
sti mezzi meschini". Oggi le forze rivoluzionarie fanno crollare con la loro iniziativa anche
la miserabile ipocrisia che si cela dietro l'uso, tanto amato dalla borghesia, di valori astratti
quali "Giustizia", "Libertà", "Uguaglianza". La rivoluzione invece esprime sempre come va-
lore concreto la lotta per la distruzione dell'apparato borghese, per la realizzazione degli in-
teressi e dei bisogni del proletariato. Di conseguenza, anche la carcerazione e non solo il
processo, dal punto di vista proletario e comunista, è un esplicito atto di guerra contro una
classe e non contro singoli individui; e viene inteso esclusivamente come momento di af-
fermazione dell'interesse del proletariato. Poiché in tal modo l'identità politica del nemico
catturato dai proletari è esplicitamente riconosciuta, non vi è pertanto bisogno di reprimere
l'individuo, né fisicamente né psicologicamente, calpestando la sua identità personale...
Terminata l'udienza fuggo velocemente al partito: torniamo a discutere della faccenda dei
colloqui con i vetri divisori. Da tempo a Torino, nell'ambito della lotta contro le carceri

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speciali, i compagni ne avevano denunciato la disumanità. 5-6-7 aprile. Si passa all'interro-
gatorio degli imputati a piede libero. Ascoltiamo Levati, Borgna, Caldi, Carletti, Sabatino. I
primi tre, un medico, un avvocato e un sindacaliste, fanno parte del cosiddetto gruppo di
Borgomanero, in quanto vivono e lavorano in quella zona. L'imputazione è strettamente le-
gata alla figura di Girotto, che continuerà ad aleggiare sul processo fino alla sua improvvisa
e ben orchestrata comparsa, quando già lo si dava per disperso nonostante le "accurate ri-
cerche" dei carabinieri di Dalla Chiesa. Hanno imputazioni piuttosto gravi: organizzazione
di banda armata il Lavati (é quello che procurò il colloquio di Girotto con Lazagna), parte-
cipanti alla banda armata il Borgna e il Caldi. Oltre tutto sono incriminati per atti compiuti
nei mesi di giugno-luglio '74: mi chiedo come si possa essere organizzatori e partecipanti a
una banda armata clandestina, e quindi legata a regole e precauzioni ferree (almeno così si
presume), per un periodo di soli trenta giorni. Gli indizi, perché tali restano, a carico di
Borgna e di Caldi sono rappresentati dall'aver avuto colloqui con Girotto e dall'averlo mes-
so in contatto con Levati. Per Levati gli indizi sono i colloqui con Girotto e l'aver messo in
contatto quest'ultimo con Lazagna. Leggendo gli atti e il contenuto dei colloqui mi riesce
difficile capire come si siano potuti attribuire loro reati di tale gravità: ragionando con la
mente sgombra dalle responsabilità di un'inchiesta e senza tener conto né di voci o articoli
di settimanali come il "Candido", le cui fonti sono quanto meno sospette, né di necessità od
opportunità "politiche", al massimo si può pensare che vi siano labili indizi di eventuali
"contatti". Levati mi ha dato l'impressione di essere un po' confuso, e direi anche timoroso:
il racconto da lui fatto circa la sua passata conoscenza degli imputati, i rapporti avuti con
loro, il suo rapporto con Girotto, mi è parso assolutamente privo di reticenze e di opportuni-
smo. A qualcuno è rimasto il dubbio non tanto che facesse parte del gruppo, quanto che co-
noscesse i canali per arrivare alle BR. Ma tutto ciò non costituisce necessariamente "parte-
cipazione"; e poi, non è forse vero che il dubbio giuoca a favore dell'imputato? Mi paiono
completamente al di là di ogni sospetto il Borgna e il Caldi, che attraverso l'interrogatorio
confermano una estrema ingenuità e leggerezza, ma nulla di più. Quando apprenderò della
condanna del Levati e del Borgna (rispettivamente a sei e tre anni, insieme con l'interdizio-
ne dai pubblici uffici) resterò letteralmente sconvolta. E' evidente: la caccia alle streghe sca-
tenata nel periodo del rapimento Sossi non era andata per il sottile, c'era stato un generale
rastrellamento nell'area dell'estrema sinistra. In questo clima era stata architettata, impianta-
ta - da quando? - e condotta a termine l'operazione Girotto, certamente influenzata da esi-
genze politiche ed indirizzata a priori verso il gruppo di Borgomanero, esponenti del quale
avevano avuto rapporti con "sinistra proletaria" prima che Curcio ed altri se ne staccassero
scegliendo la via della clandestinità: alcune voci - fra le quali non a caso quella del settima-
nale "Candido" - li indicavano come vicini alle BR. In questa operazione è stato ancora una
volta coinvolto Lazagna, combattente della Resistenza, vecchio militante del PCI anche se
non più iscritto dal '72. Come Levati, Lazagna è già stato arrestato nel '72 nell'abito dell'in-
chiesta Feltrinelli. Rimesso in libertà, ma vincolato dall'obbligo di presentarsi alle autorità
di Genova due volte alla settimana, con il telefono sotto controllo, nel '74 l'indice accusato-
re di Silvano Girotto lo riconduce in carcere con l'imputazione di capo ideologico delle BR.
Viene nuovamente rimesse in libertà dopo un anno di detenzione e una campagna di appel-
li, sottoscrizioni e petizioni in suo favore: da allora vive al confino a Rocchetta Ligure, do-
ve per tirare avanti fa l'agricoltore. Le accuse di Girotto si basano su un colloquio di un'ora
avuto con l'imputato, colloquio generico che non si è addentrato nello specifico della realtà
politica e organizzativa delle BR, dallo stesso Lazagna criticate nel corso della conversa-

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zione. "E' incaricato del reclutamento" dirà Girotto. Lazagna si presenta all'interrogatorio
calmo e sereno. E' abbronzati, bianco di capelli, lo sguardo intenso e fermo. contesta tran-
quillamente le accuse di Girotto, ricorda che le sue attività sono sempre state pubbliche e
negli anni dal '72 e '74 controllate dalla polizia. Ricorda poi le sue posizioni critiche nei
confronti dell'attività politica e strategica delle BR, già note all'epoca del suo arresto. Difen-
se nell'interrogatorio il diritto alle proprie idee e posizioni politiche, che sono quelle di un
comunista che crede nella rivoluzione, afferma il diritto di denuncia e di opposizione rispet-
to alle ombre che offuscano la storia del nostro paese e della sua classe politica e dirigente.
Non fa alcun tentativo di minimizzare la propria ideologia o di recedere dai propri princìpi
per opportunismo processuale. Il dubbio sul tentativo di "incastrare" attraverso l'operazione
Girotto una vasta area della sinistra, montando il pericolo eversivo rappresentato dalle BR e
tentando di collegarlo a varie personalità e aree del mondo della sinistra, si fa strada in al-
cuni componenti della giuria. Nel corso dell'interrogatorio della Carletti ("nonna Mao", co-
me affettuosamente è conosciuta a Torino) viene in evidenza l'assurdità delle accuse nei
suoi confronti alla luce di quelli che sono la sua personalità e il suo passato. Piccolo, minuta
e con enormi occhialoni, vive da anni dietro il suo banco a Porta Palazzo, attenta a tutto ciò
che si muove a sinistra, vivendolo però, ancora oggi, con lo spirito, la psicologia e le rea-
zioni con le quali ha vissuto la Resistenza, le persecuzione e le torture in un campo di con-
centramento: solo a partire da questa sua esperienza, che non può non averla segnata inde-
lebilmente per tutta la vita, si può arrivare a comprendere i suoi comportamenti. La sua pre-
senza nel processo, la spontaneità e franchezza, emerse non solo nell'interrogatorio ma du-
rante tutto il dibattimento, sono state spesso un elemento di distensione utile a tutti. Dopo
l'interrogatorio della Carletti due o tre giuranti mi si avvicina pere scambiare alcuni giudizi
di simpatia e di comprensione verso l'imputata. In particolare mi si avvicina uno dei due
operai: tenta ancora di recuperarmi ad una dimensione di dialogo con il resto della giuria. I
miei rapporti con alcuni giurati sono infatti tesi, spesso non ci scambiamo alcuna parola.
Questa situazione si è già determinata la prima volta che siamo entrati in camera di consi-
glio per decidere su un argomento importante. In quell'occasione, oltre a difendere con de-
cisione il mio punto di vista, polemizzai con una parte della giuria per l'assenteismo nella
discussione e l'atteggiamento di delega nei confronti dei due magistrati togati. Il giorno do-
po tre giurato inviarono una lettera a Barbaro per chiedere che nelle riunioni in camera di
consiglio non fosse consentito diritto di parola ai giudici popolari supplenti. Di fronte a
questo tentativo di escludermi non solo dalle decisioni, ma anche dal dibattito, Barbaro ha
invece auspicato, in modo tanto corretto quanto diplomatico, la moltiplicazione e la diffe-
renziazione delle posizioni in seno alla giuria. In quella stessa occasione ho avuto accenni
fortemente polemici nei confronti di una giurata, una donna che si è assunta sin dall'inizio
del processo il ruolo di "mamma", sempre interessata ai malanni e alle beghe di ognuno, at-
tenta a raddrizzare il fiocco della toga del presidente o la fascia tricolore degli altri giurati,
preoccupata che "non si faccia brutta figura". Recupererò con lei, dopo giorni e giorni di si-
lenzio e man mano che in lei crescerà tutta la drammaticità di chi si rende conto di dover
giudicare degli altri uomini, un rapporto reale e una dimensione di solidarietà. Non sono
riuscita, invece, a "legare" con le altre due donne, a parte qualche generico e reciproco ap-
proccio a discussioni sulle condizioni di vita, sulle difficoltà, sui momenti di emarginazione
che ognuno di noi - in quanto donna - vive. Mi impressionerà, in seguito, il notare che quel-
la delle due apparentemente più sensibile a questi temi si dimostrerà nei fatti molto influen-
zabile dai dati di "sapere" e quindi di "potere" maschili. L'altra mi pare viva molto lontano

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da tutto. Cerco comunque di spiegare al mio interlocutore (iscritto comunista) che, ad e-
sempio, non mi è facile discorrere con uno dei giurati che perde occasione per manifestare e
tentare di contrabbandare una concezione assolutamente autoritaria, antigarantista e violen-
ta dello Stato: quando proprio è inevitabile, la discussione non può che trasformarsi in scon-
tro. Non mi riesce poi di giustificare il comportamento, fortemente passivo, di alcuni mem-
bri della giuria; e la loro eccessiva familiarità con un avvocato comunista che, al momento
della discussione, ha fatto circolare voci calunniose nei confronti degli avvocati fautori del-
l'autodifesa. I suoi rapporti con alcuni giurati travalicano i limiti della correttezza: si adope-
ra per organizzare alcune cene o serate comuni al Teatro Regio (il primo teatro di Torino).
Per concludere, rassicuro questo compagno, col quale nonostante le divergenze politiche ho
avuto per tre mesi un ottimo rapporto, che la mia volontà e disponibilità al dialogo non è
venuta meno, né mai lo verrà; ma ribadisco anche che il rigore e l'intransigente difesa di al-
cuni princìpi e norme di comportamento non possono essere messi da parte in nome di pre-
sunte e fittizie "solidarietà". Mentre in aula si svolge l'interrogatorio della Carletti ("mi pare
di essere ritornata ai tempi fascisti"), in Parlamento si svolge il dibattito sull'ordine pubbli-
co: lo ascolto in diretta a Radio Radicale nel pomeriggio, e ne traggo conferma di una classe
politica preoccupata di dare ancora una volta una risposta illusoria alle richieste e allo sgo-
mento del paese senza affrontare i problemi e senza impostare il discorso ormai urgente di
una diversa gestione dell'ordine pubblico. Il problema, per la maggioranza, non è l'ineffi-
cienza della polizia (magari la riforma della polizia, oramai scomparsa dagli appuntamenti
parlamentari), la disorganizzazione e le ambiguità dei servizi segreti, la necessità di chiarire
i dubbi sempre più consistenti di coperture dirette o indirette al rapimento Moro, l'apertura
di un dibattito su questo caso in Parlamento. No, per bocca di Preti (e non solo sua) si chie-
de che i giudici di Torino affrettino i tempi del dibattimento e pronuncino una condanna "e-
semplare". Le parole suonano come esplicita, insofferente critica verso i magistrati. Ma co-
me si permette - mi chiede - di venire ad anticipare ad una giuria un verdetto, come se non
fossimo lì per giudicare in base a ciò che emerge, ma per recitare un copione già predispo-
sto? Scrivo subito un comunicato: Il presidente del Consiglio, l'onorevole Andreotti, che si
è appellato ai giudici italiani affinchè tutti processi si facciano e si facciano rapidamente
(appello sul cui contenuto sono perfettamente d'accordo in linea di principio) non può che
stupire. Per decine d'anni governi democristiani e ministri come Bonifacio si sono adoperati
per l'insabbiamento di centinaia di processi nei quali erano coinvolti, per latrocinii o per
stragi, gli uomini del regime. La responsabilità della situazione di sfascio in cui versa la
Repubblica è di questo regime, che per trent'anni non ha attuato la Costituzione e ora si è
presto al di fuori e contro di essa, e si prepara in Parlamento a rapinare nel giro di poche
settimane i referendum dell'opposizione. L'appello rivolto ai giudici di Torino dall'onorevo-
le Preti ("Fate in fretta e condannate") suona invece come vergognosa interferenza nei lavo-
ri della Corte d'assise. Questa classe politica la cui gestione dell'ordine pubblico ha sfruttato
i risultati che abbiamo sotto gli occhi, non si può permettere alcuna lezione ai cittadini di
una Repubblica che essa sta portando allo sfacelo. Arrivando al tribunale passo da Barbaro,
che come sempre sta parlando al telefono con la moglie, e gli faccio leggere il comunicato.
Quasi tutte le mattine ho uno scambio di opinioni con il presidente, sia sull'andamento del
dibattito sia sul comportamento del "potere" nei confronti di questo processo. Spesso mani-
festa con me (ma non solo con me) intolleranza verso qualsiasi tentativo di ingerenza: rifiu-
ta di rispondere alle telefonate provenienti dalla procura o dai ministeri o da Roma, non par-
la con i giornalisti. Sa che la responsabilità dell'andamento del processo grava su di lui ed è

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deciso a portarla fino in fondo in prima persona. Con quel modo paternalisticamente e iro-
nicamente affettuoso, con il quale ogni tanto mi rivolge delle battute spesso provocatorie,
Barbaro mi assicura che condivide il contenuto del comunicato e mi chiede: "Lei crede che
passerà?". In effetti non passa.

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11. TRAGEDIA NEL PAESE, ILLEGALITÀ IN PARLAMENTO, NOIA IN
TRIBUNALE

Lunedì 10 aprile. Siamo arrivati all'audizione delle parti lese. Ho da tempo riacquistato
calma e serenità rispetto alle paure e ai sospetti dei primi tempi. Sempre più frequenti sono
invece i momenti di rifiuto della fisicità dell'aula e della sua atmosfera. Fuori di essa, cre-
scono le difficoltà di rapporto con i compagni di partito, che sento lontani dalla realtà del
processo. Vivo come un oltraggio all'intelligenza, e ne sono mortificata, l'interminabile
farsa degli interrogatori. Sfilano di fronte a noi decine di persone che vengono a confer-
marci di aver subito per davvero il furto della carta d'identità, o della patente, o del passa-
porto, o dell'automobile; fatti già tutti accertati e ovviamente superflui per fare luce sugli
autori dei reati. Unico modo per occupare questo interminabile tempo è cercare di avvici-
nare sempre meglio, sul piano della consapevolezza, gli imputati, di capirne le scelte alla
luce delle loro storie, di approfondirne le personalità. Cerco di trovare, in sguardi quasi
immobili, la spia di una dimensione più vera, interiore, loro. Mi interessa in particolare
Nadia Mantovani, che con il suo comportamento ha messo in risalto diversità e alterità tut-
te femminili. Appare più aperta, disponibile, anche quando, con l'avvicinarsi della fine del
processo, gli altri imputati appariranno più logorati. Palesa una serenità e, forse, un ottimi-
smo profondo, sul volto spesso sorridente, che suggerisce una impressione di solidità. In
un intervallo dell'udienza entrando casualmente nella stanza dei giurati li trovo intenti a
tagliare una torta con una candelina. "E' passato un mese di processo!", esclama qualcuno
notando il mio volto stupito e interrogativo, invitandomi a restare. Forse sarò poco socie-
vole, ma non riesco proprio ad essere partecipe dell'entusiasmo generale e mi allontano.

Martedì 11 aprile. Arrivando alla caserma Lamarmora ho la sensazione che ci sia qualco-
sa nell'aria. I carabinieri all'ingresso infatti non mi salutano con la solita cordialità, ma
hanno volti tirati e seri. Apprendo che hanno ucciso Lorenzo Cotugno, un agente di custo-
dia delle Nuove (il carcere di Torino) mentre usciva di casa. Uno dei feritori Cristoforo
Piancone è stato a sua volta ferito dall'agente stesso, che ha così firmato la sua condanna a
morte: l'intenzione degli assassini era quella di colpirlo alle gambe - come apprenderemo
da un comunicato diffuso dalle BR contemporaneamente all'attentato - ma alla sua risposta
hanno di nuovo sparato, ammazzandolo. Sposato con figli. Non usciremo più da tutto que-
sto. Da due mesi la vita italiana è coperta da questa coltre di morte. In una atmosfera più
cupa del solito si apre l'udienza. Depone Labate, il sindacalista della Cisnal rapito dalla
BR, sottoposto a interrogatorio e rilasciato la stessa mattina, rapato a zero, legato ad un pi-
lastro di corso Tazzoli. Racconta sottovoce, non ha nulla di nuovo da aggiungere alle de-
posizioni già rese in istruttoria. Mi viene da chiedermi se dopo quell'episodio abbia conti-
nuato a lavorare nel sindacato, se sia ancora fascista, se e in quale misura sia cambiato
qualcosa nella sua vita. I tre imputati presenti sembrano assolutamente estranei. Solo
quando l'avvocato Guidetti-Serra chiede che venga posta agli imputati la domanda se ab-
biano qualche domanda o contestazione da fare, Bonavita interviene dicendo che loro sono
solo osservatori. Nel retro dell'aula mi fermo per sentire se ci sono novità: no, c’è unica-
mente senso di sconforto e di rassegnazione. Mi avvio lentamente verso casa. Telefono a
Roma, al gruppo parlamentare: in questa settimana è iniziato in Parlamento lo scontro sul-
l'aborto. I nostri deputati sono impegnati nell'ostruzionismo e trascorreranno tre giorni
senza dormire né mangiare. La lontananza, il mio essere bloccata dal processo, il leggere

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sui giornali il linciaggio dei quattro parlamentari, il non vedere riportata - mai - nessuna
delle nostre dichiarazioni, mi dà un grande ovvio senso di impotenza. Lì, in Parlamento, ci
sono Adele ed Emma; dopo le lotte, dopo la galera, dopo le centinaia di interventi, di di-
scorsi fatti con le donne, assistono ora alla svendita delle speranze di liberazione, della di-
gnità della donna, e vedono riconfermare con una nuova legge la violenza dell'aborto clan-
destino. Con le compagne vado a protestare sotto le sedi del PCI e del PSI. Ancora una
volta mi trovo in polemica con la Magnani-Noya, la quale si giustifica di fronte alle donne
sostenendo che "la legge non è buona, poiché con violenza i deputati radicali hanno impe-
dito qualsiasi forma di serio dibattito parlamentare che la potesse migliorare". Questa volta
sono stupita dalla malafede della deputata socialista, poiché lei sa benissimo che la legge è
frutto di un baratto fra DC, PCI e PSI, siglato al di fuori di un Parlamento oramai comple-
tamente esautorato delle sue funzioni e dei suoi poteri: e chi le vietava di dissociarsi dalla
linea del proprio partito, intervenendo in sede di dibattito alla Camera? Attraverso Radio
Radicale ascolto gli interventi di Adele, Emma, Marco e Mauro. Quello che mi stupisce,
sia nella discussione, sia nella illustrazione delle centinaia di emendamenti presentati, è la
puntualità dei loro interventi, tutti pieni di considerazioni e di riferimenti precisi e perti-
nenti all'argomento di volta in volta affrontato. Questo ostruzionismo radicale non ha nulla
a che fare con l'immagine che di esso viene trasmessa attraverso la stampa, e neppure con
la fama del "filibustering" che veniva praticato in passato alla Camera dei Comuni inglese,
dove è stato inventato questo strumento di lotta parlamentare (con i deputati intenti a leg-
gere, per ore e ore, imperturbabili, l'Enciclopedia Britannica, o a trattare argomenti che
non avevano alcun legame diretto con la questione discussa). Ascoltando i deputati radica-
li si ha invece la sensazione netta che, dietro la loro stanchezza, ci sia l'estremo sforzo, l'e-
stremo tentativo di imporre il dialogo ad una maggioranza sorda a qualsiasi argomento, a
qualsiasi proposta, anche la più ragionevole. E contemporaneamente è chiaro che in questo
sforzo essi versano il patrimonio di una competenza legislativa e di una conoscenza che
nascono da sette anni di lotte, combattute da loro e dall'intero partito nel paese. Sempre da
Radio Radicale mi arriva la voce di Adele, rotta dal pianto, che motiva il voto contrario al-
la legge: esprime tutta l'angoscia e la tristezza delle minorenni condannate alle mammane
ed ai cucchiai d'oro, delle donne condannate alla violenza fisica e psichica della clandesti-
nità: un nuovo massacro di classe, in nome dell'emergenza e del "socialismo". Il tema del-
l'aborto mi distrae dal processo, forse perché è stato quello che in tutta la mia esperienza
politica più mi ha coinvolta: la raccolta delle firme sull'aborto ha sancito la mia entrata de-
finitiva nel partito. Per alcuni giorni sento di nuovo vicino il partito e il mio mondo. Poi,
dopo la "sconfitta" dei deputati radicali - che ha avuto comunque un grande significato di
denuncia, costringendo tutti a buttare le carte in tavola - i fatti mi impongono di rientrare
nell'atmosfera processuale.
Giovedì 13 aprile. "Oggi viene a deporre Amerio", mi annuncia il presidente al mio arrivo
in tribunale, mentre si appresta a scorrere come sempre i miei giornali; sfoglia in particola-
re il "Corriere della Sera", lascia da parte come sempre "Lotta Continua". Mentre sono ini-
ziati i capricci e le bizze di Sossi, è positivo che le altre parti, vittime dei reati più gravi e
cioè dei sequestri, vengono a testimoniare senza tirarsi indietro. Anche in questo caso, co-
me in occasione della testimonianza di Labate, non apprendiamo nulla di più di quanto già
sapessimo dagli interrogatori resi in istruttoria, subito dopo la fine del sequestro. Seque-
strando e interrogando Amerio le BR hanno tentato di far luce sui criteri con i quali veni-
vano attuati il licenziamenti e le assunzioni, e di sapere quali erano le persone nei vari set-

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tori della Fiat che fungevano da raccordo e da informatori fra gli operai. Le risposte che
Amerio dà in sede di dibattimento denotano ancora la paura e lo choc subiti, e la volontà di
lasciarsi alle spalle tutta la vicenda. La testimonianza sulla settimana trascorsa sotto seque-
stro è asciutta: no, non ha subito violenze fisiche, è stato sottoposto a interrogatori, non è
mai stato minacciato, è stato nutrito regolarmente. Si direbbe quasi che non abbia un ricor-
do angoscioso di quei giorni, se non fosse per l'ansia sulla propria sorte. Durante una rico-
gnizione di voce fatta successivamente Amerio ha riconosciuto fra quattro, e lo conferma
in aula, la voce di Curcio come "la più rassomigliante" a quella del suo interlocutore. Sen-
za che gli imputati intervengano, la deposizione di Amerio comunque termina. Vado a
prendere Alberta e Francesca a scuola e resto con loro a pranzo. I giorni brutti, per le bam-
bine, sono superati e tutto è rientrato, almeno apparentemente, nella normalità, anche se
sono sempre molto attente a tutti i miei spostamenti, ai miei orari, alla mia presenza o alle
mie telefonate, pronte a farmi rimarcare eventuali distrazioni o assenza.

Lunedì 17 aprile. Mentre in tutto il paese è diffusa l'angoscia per il comunicato delle BR
del giorno precedente, che annuncia la condanna a morte di Moro, il processo prosegue
con la sua routine quotidiana. Alla caserma Lamarmora trovo una atmosfera tesa, come
sempre quando vi sono fatti esterni che possono riflettersi sul processo. L'udienza si apre
con la richiesta del PM di fissare una audizione a domicilio di Sossi, che continua a comu-
nicare di essere impossibilitato a presenziare al processo. Semeria dichiara a nome degli
imputati che in tal caso vogliono venire anche loro a Genova per essere presenti all'inter-
rogatorio: hanno delle domande da porre. Non posso fare a meno di sorridere: sono d'ac-
cordo, così come lo sono alcuni avvocati della difesa. Sul banco dei testimoni compare
Sogno, con il suo profilo aquilino ed il suo fare arrogante. Durante la sua deposizione pen-
so che vorrei invece sentirlo parlare del "golpe bianco", del disegno di instaurare in Italia
una repubblica presidenziale, dei legami e delle coperture che ha avuto: ricordo lo scalpore
che aveva fatto a Torino la sua incriminazione e come anche quel processo sia stato an-
nacquato negli anni. Sogno fa una brevissima deposizione. Il presidente sta per congedarlo
quando si alza Franceschini chiedendo quali rapporti vi erano fra il Centro di Resistenza
Democratica e Beria d'Argentine, del quale hanno ritrovato una lettera durante la loro
"perquisizione". In quella lettera il magistrato si diceva d'accordo con gli scopi di un con-
vegno indetto per il marzo '74, anche se per la sua posizione riteneva di non poter interve-
nire. Barbaro frettolosamente dice che la domanda non è pertinente. Il suo comportamento
mi sembra un po' affrettato e ingiustificato. C’è una richiesta del PM e di alcuni avvocati
che il documento cui ha accennato Franceschini venga letto; la corte si ritira. Il presidente,
senza accettare discussione, fa un'ordinanza e licenzia il teste. Mi sembra incredibile e pro-
testo: alcuni giurati sono seccati. Si alza Curcio e riassume il contenuto del documento:
parla del progetto di Sogno, della scadenza del referendum sul divorzio, fa i nomi di Leo-
ne, Fanfani e Taviani. Il presidente lo interrompe, Curcio continua. Barbaro licenzia defi-
nitivamente Sogno ed espelle Curcio. Curcio protesta, afferma che questo tribunale è fa-
scista e che la sentenza su Moro è valida anche per il presidente. Interviene Moschella, sol-
lecitando l'espulsione dell'imputato per le minacce da lui proferite. L'avvocato Guiso chie-
de l'acquisizione agli atti dei documenti citati da Curcio, Franceschini interviene sollevan-
do un nuovo problema: dopo essere arrivata nelle mani del giudice Violante per il processo
a Sogno la famosa lettera è sparita. Altri avvocati ed il PM si associano alla richiesta di
Guiso e chiedono l'audizione di Violante. Questa volta la richiesta si può discutere. Curcio

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è riammesso in aula, il carteggio Sogno deve essere acquisito, la corte cita Violante e si ri-
serva di riascoltare il teste Sogno. Ma il giorno dopo, sulla "Stampa", appare il seguente
articolo: "Con arroganza, i brigatisti vorrebbero essere loro ad interrogare i testimoni". Ze-
lo e servilismo fanno dimenticare che nei nostri codici, sia pur del 1930, è previsto il dirit-
to degli imputati a porre domande ai testi e che i motivi per cui è stata fatta l'irruzione al
CRD sono elementi indispensabili per il giudizio della giuria. Nonostante venga successi-
vamente ascoltato Violante, le lettere scomparse dalla cartella sequestrata a Curcio e a
Franceschini al momento dell'arresto non saranno più ritrovate. La seconda deposizione di
Sogno non servirà naturalmente a chiarire nulla, perché si troverà la scorciatoia giuridica
della legittimazione a non rispondere in quanto imputato in altro processo e non tenuto a
fare dichiarazioni che possano nuocere alla sua posizione. Ma se Sogno ha diritto di non
parlare, non ha però certamente il diritto di insultare la corte per una sua presunta debolez-
za nei confronti dell'arroganza degli imputati e di esprimere pesanti apprezzamenti sugli
stessi. Sollecito il presidente a farlo stare zitto. Siccome continua, cerco con gli occhi fra
gli avvocati per vedere se qualcuno reagisce. Mi alzo e mi avvio verso l'uscita: si alza con-
temporaneamente l'avvocato Guidetti-Serra che chiede al presidente di far tacere il teste, in
quanto esprime solo valutazioni personali, e che le frasi vengano tolte dal verbale. Il presi-
dente si dichiara d'accordo. Per forza! Torno al mio posto. Mai come in quel momento ho
sentito il disagio di non poter intervenire se non in modo indiretto.

Martedì 18 aprile. Depone l'onorevole Costamagna, come parte lesa per l'irruzione avve-
nuta al Centro Don Sturzo. Con questa deposizione si apre un altro tema che non sarà mai
chiarito nel corso del processo: il mistero di una lettera inviata al Centro dal professor
Calderon, segretario di Don Sturzo, lettera sottratta durante l'invasione dei brigatisti ma
che non è mai stata ritrovata insieme al resto dei materiali rinvenuti nei covi. E' invece
riapparsa in fotocopia tra le mani del pretore Guariniello, quando un mese dopo ha convo-
cato l'onorevole Costamagna. Questi afferma che il pretore non chiarì i motivi della con-
vocazione e rifiutò di dare spiegazioni circa la provenienza della fotocopia in suo posses-
so. Sapremo poi dal pretore Guariniello che la famosa lettera fu trovata durante una per-
quisizione in casa di Cavallo, il quale affermò che egli era stata affidata, perché fosse tra-
dotta in inglese, da una persona di cui però non fece il nome. A questo punto le cose sono
completamente oscure: abbiamo capito solo che questa lettera ha fatto dei giri strani, dal
Centro Sturzo alle BR, poi, fotocopia, a Cavallo. L'originale non si è mai più ritrovato. Ha
ragione l'onorevole Costamagna quando definisce assurda e incredibile la vicenda.

Giovedì 20 aprile. E' iniziato da due giorni il giallo del Lago della Duchessa ed è stato
scoperto il "covo" di via Gradoli. Si saprà poi che in via Gradoli sarebbe stato possibile ar-
rivarci molto prima. Mentre la polizia si perde letteralmente nelle ricerche in Abruzzo ed il
paese quasi no reagisce più all'alternarsi di notizie drammatiche, nell'aula di Torino conti-
nuano a sfilare decine di testimoni che non sanno nulla, non hanno visto nulla e, se hanno
visto, non ricordano o non hanno riconosciuto nessuno. Protesto a più riprese con Barbaro,
chiedendo che i testimoni inutili vengano stralciati. Mi viene risposto che la lista presenta-
ta dal PM deve essere rispettata per intero. So che i rapporti con Moschella non sono dei
più affabili, per cui si aspetta. La noia ed il nervosismo crescono: ognuno pensa a ciò che
sacrifica per essere presente alle udienze e si sente preso in giro o comunque spinto a pro-
testare perché si accelerino i tempi. L'unico che appare sempre calmo, imperturbabile, è il

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giudice a latere, Mitola. Non vi è stato momento, nel corso del processo, in cui abbia perso
il suo distacco, sia nei rapporti personali con noi che di fronte agli avvenimenti processuali
e a quelli esterni. Questo non vuol dire che in alcuni momenti non sia venuta alla luce una
sua nascosta dimensione umana, ricca di ironia. Mitola è rigorosamente legato alla "sua"
etica professionale, che gli fa respingere (ma in modo diverso da Barbaro) qualsiasi tenta-
tivo di interferenza nel processo. E' estremamente rigido nell'interpretazione, quasi lettera-
le, degli articoli del codice, pur essendo sempre interessato a qualsiasi altro punto di vista
e disponibile alla discussione: di tutta la giuria è stato l'ascoltatore più attento e minuzioso
delle arringhe conclusive. Di fronte al rischio personale ha un atteggiamento quasi fatali-
stico: per lui il rischio c’è, ma è una realtà già implicita nella scelta della sua professione.
Negli ultimi giorni, prima della fine del dibattimento, lo sento dire sarcasticamente: "Caro
presidente, se vogliono bloccare il processo a questo punto, o tocca a te o tocca a me... ".
Scorrendo i giornali noto alcuni articoli che annunciano che è stata ritirata a Barbaro la
scorta. Resto a bocca aperta: mi pare un fatto inaudito, del quale non riesco a dare un'in-
terpretazione logica, a mano che si tratti di una sorta di ritorsione. Nei corridoi della ca-
serma Lamarmora tutti commentano - indignati - l'accaduto. Incrocio Barbaro e tento un
approccio, per cercare di saperne di più: "Lei deve proprio aver pestato i piedi a qualcu-
no!". Barbaro ride amaro, e non risponde. Oggi viene a deporre Marco Boato, un dirigente
di Lotta Continua che si è formato, come gli imputati, alla facoltà di sociologia di Trento.
La sua deposizione è lunga e particolareggiata e dà un contributo di chiarezza sul ruolo di
Pisetta nell'mabito delle BR. Pisetta, che è imputato in questo processo in base all'art. 306,
è stato uno dei primi infiltrati del SID nei gruppi della sinistra ed in particolare nelle BR.
Dopo essere stato alcuni mesi in prigione, quando ne è uscito, approfittando della fiducia
acquisita riprende il suo "lavoro" fra i compagni. Nell'estate '74 esce come una bomba il
suo oramai famoso memoriale sulle BR: è il primo documento storico sulla vita dell'orga-
nizzazione. Pisetta affermerà più tardi di non essere l'autore materiale, ma di aver solo pre-
stato la firma a questa operazione del SID, che servì ad incastrare un centinaio di persone
della sinistra italiana. Afferma di aver tradito una prima volta per uscire di galera e poi per
paura. Mi viene in mente la deposizione di Allegra, responsabile dell'ufficio politico di
Milano, che ha dichiarato di non aver mai conosciuto Pisetta, se non nel momento in cui lo
ha arrestato la seconda volta a Milano, e che non era stato messo a conoscenza, a suo tem-
po, dell'esistenza del memoriale (che fu diffuso in tutte le questure italiane). Ancora una
volta ritorna l'ombra dei servizi segreti sulla vita della sinistra in quegli anni: le zone oscu-
re sulle quali non si riesce a far luce, le responsabilità che non si riescono a individuare, i
processi diluiti e rimandati (quelli sì, speciali) al terrorismo di Stato. Al termine della te-
stimonianza Marco Boato resta in aula fra gli avvocati, per consegnare in un intervallo del-
l'udienza, avutone il permesso dal presidente, un appello a Curcio per la liberazione di
Moro, in nome delle comuni esperienze del '68, prima che le diverse scelte li dividessero.
Il paese sta precipitando in una situazione drammatica, apparentemente senza ritorno: gli
azzoppamenti, le uccisioni, il tragico evolversi della vicenda Moro, con la richiesta di
scambio non ancora precisata, i messaggi del presidente della DC, l'irrigidimento di una
classe politica tanto intransigente sui princìpi quanto duttile nel giustificare il suo porsi
fuori della Costituzione, il messaggio del Papa, la cronica inerzia delle indagini che conti-
nuano ad approdare ad un nulla di fatto calano su un paese che all'apparenza pare rasse-
gnato, indifferente, senza capacità di reazione: forse questa volta sono riusciti davvero a
soffocare completamente le speranze e la volontà di partecipazione che in questi anni si

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erano manifestate nella società civile. Il decreto antiterrorismo passa al Senato senza pro-
vocare alcuna reazione: oltre ai provvedimenti di cui ho già parlato viene aggiunto un
comma, che prevede la non riammissione in aula degli imputati dopo due espulsioni. E' la
terza legge speciale emanata ad hoc per questo processo, a procedimento già iniziato. Non
solo si lede il diritto alla difesa dell'imputato sancito dalla Costituzione, prevedendo pro-
cessi fatti in assenza non volontaria degli imputati e quindi negando loro il diritto al con-
traddittorio, ma si approvano disposizioni di legge che sono nei fatti retroattive. Alla Ca-
mera annunciamo l'ostruzionismo. Per timore che, per decorrenza dei termini, salti la con-
versione in legge del decreto il governo sarà costretto poi a porre la fiducia. Il giurato col
quale ho stretto una sorta di amicizia si chiede e mi chiede: "Che cosa ci stiamo ancora a
fare qui dentro? Quali speranze puoi ancora avere?". Sta lentamente precipitando in una si-
tuazione di assenza e di abulia. Medita di dimettersi dalla giuria. Alla Camera si deve av-
viare la discussione sulla Reale-bis che dovrebbe modificare la legge Reale sulla quale
pende uno dei referendum. Con un colpo di mano la maggioranza, in previsione di un
nuovo ostruzionismo dei radicali, stabilisce che la nuova legge venga discussa e approvata
direttamente in commissione giustizia in sede legislativa. Ciò comporta innanzitutto la non
pubblicità dei lavori (i giornalisti infatti non possono assistere ai lavori di commissione) e
il non passaggio della legge in aula. La legge, insomma, deve essere approvata nel buio del
"Palazzo", lontano dall'opinione pubblica. La reazione di Emma è dura: "E' una proposta
inaudita e inaccettabile. Non trovo altre parole che fare mia l'opposizione già sostenuta da
Spagnoli il 23 aprile 1975 quando fu proposto di votare la prima legge Reale in legislativa:
``Chi cerca di evitare il dibattito in assemblea teme che si parli pubblicamente delle re-
sponsabilità delle forze che per trent'anni hanno diretto il Ministero degli Interni e i servizi
segreti''". Il PCI ha imparato velocemente i metodi del potere! Pannella si fa espellere di
notte dall'aula della commissione: viene riportato il fatto, non le tesi e le motivazioni del
deputato. I deputati radicali attuano l'ostruzionismo: non se ne riferiscono le ragioni. Si sa
solo che insieme ai radicali fano ostruzionismo anche i missini, le cui motivazioni otten-
gono ampio spazio e rilievo. I referendum si avvicinano: il linciaggio è cominciato. La
maggioranza, però, ha sbagliato i suoi calcoli: l'ostruzionismo in commissione si rivela più
efficace di quello in aula. Le discussioni con gli altri giurati sui referendum, sulla Reale-
bis, sui radical-fascisti, sono all'ordine del giorno, e molto accese. Da alcuni avvocati che
conosco da anni, tra i quali molti si che sono d'accordo sul referendum sulla Reale, mi vie-
ne posto il quesito: "In questa situazione l'ostruzionismo sulla Reale non può essere con-
troproducente? Se per caso si arrivasse al referendum sarebbe una sconfitta schiacciante, e
quindi un ritorno indietro". Sono segnali che mi riempiono di sconforto. Mi chiedo per
l'ennesima volta chi manovra le BR. Ma se persino le persone più razionali abdicano e si
lasciano schiacciare dalla sfiducia, non vorrà dire che siamo già ad una situazione di non
ritorno, di annullamento di qualsiasi speranza, di grigiore e conformismo totalmente do-
minanti? Continua la sfilata opprimente e tediosa dei testi: a volte mi ciondola il capo sulla
spalla ed il sonno rischia di avere il sopravvento. La sera vado a letto sempre tardi, perché
con i compagni di partito passo le notti ad organizzare la campagna politica che dovrebbe
iniziare il 12 di maggio. Mentre aumenta la sonnolenza in aula, cresce la socialità fuori
dell'aula: si riempiono gli intervalli discutendo un po' di tutto. In questi giorni, soprattutto,
ci poniamo l'interrogativo sullo "scambio": c’è il dubbio che possa essere scaricato su que-
sta giuria. Nessuno esprime certezze, la confusione direi è generalizzata, la strada da per-
correre appare ai più ancora irrimediabilmente lunga e buia. Anche qui sfiducia e rasse-

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gnazione sono protagonisti. In mezzo a tutto questo guizza la figurina indaffarata di Guiso,
con quel suo fare sempre un po' misterioso, fra il dire e il non dire, l'apparire e lo scompa-
rire, l'atteggiamento dal presuntuoso al dimesso, speso appartato in lunghi colloqui con il
presidente; certamente una figura anomala in mezzo alla compostezza e alla quasi staticità
del foro torinese. Verso la fine del processo mi confiderà il suo sconforto ed anche i suoi
timori per le critiche, le insinuazioni e le velate accuse si cui è stato fatto oggetto dalla
stampa, e non solo da essa.

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12. CURCIO: «UN ATTO DI GIUSTIZIA RIVOLUZIONARIA»

Giovedì 27 aprile. L'udienza si apre con un intervento di Curcio: il Ministero gli ha invia-
to una persona in carcere con il permesso di colloquio senza vetri, mentre questo continua
ad essere negato ai familiari. Apprendo da Barbaro che si tratta di Franca Rame. E' quan-
tomeno una mossa sintomatica dello stadio al quale sono ferme le indagini sul caso Moro.
Quando escono dell'aula vengo avvicinata da un giovane carabiniere, che molto timida-
mente mi chiede informazioni su come e dove può abortire la sua ragazza. Gli abbasso la
canna del mitra inavvertitamente rivolta verso il mio stomaco e gli do le informazioni che
mi ha chiesto. Il processo è stato rinviato al 3 maggio. In questi giorni mi dedico più al
partito e passo molto tempo con le bambine, la cui compagnia rappresenta un momento di
tregua nelle mie giornate. Venerdì 28, dopo cena, abbiamo una fiaccolata in difesa dei re-
ferendum, a Torino: le persone intervenute sono più di un migliaio ed in un clima come
quello di Torino, con un partito che continua a vivere col telefono tagliato e carico di debi-
ti, legato unicamente all'informazione data dai miseri impianti di Radio Radicale è indub-
biamente un successo. In questi giorni i quotidiani continuano a dedicare le prime pagine
all'evolversi del caso Moro: il PCI, la DC e il governo sono arroccati sul no al ricatto. Cra-
xi ventila una proposta umanitaria che non si concretizza mai, Moro scrive dal buio della
sua prigione lettere e lettere, per tentare di sbloccare la situazione. Il paese appare inerte e
impotente. Io cerco a volte di immaginare quale sia il rapporto che Moro ha instaurato con
i suoi rapitori, o ho la certezza che, comunque, ha mantenuto intatta la sua lucidità e le sue
capacità mediatorie. Gli saranno sufficienti questa volta? Mi è difficile immaginarlo in una
posizione non di forza e di potere. Difficile penetrare nelle sue reazioni psicologiche, an-
che se le lettere che ha scritto alla moglie, almeno quelle pubbliche, rivelano la drammati-
ca angoscia di un uomo cui si negano il dialogo, la fiducia, la vita. Arriva l'ultimatum per
lo scambio con i tredici detenuti, ma è una proposta universalmente interpretata come
strumentale. I nostri deputati chiedono ancora il dibattito parlamentare, ma una volta di più
i rappresentanti del popolo vengono espropriati dei loro diritti. Durante tutto il periodo del
rapimento di Moro, e sino al suo assassinio, i miei pensieri non sono diversi da quelli di
moltissimi altri cittadini. Le ripercussioni sul processo sono state infatti soltanto indirete,
se si esclude la tensione dei primi giorni dovuta alle dichiarazioni e ai commenti degli im-
putati. Spesso ho la netta sensazione (l'impressione sarà poi confermata dalla lettura del
"memoriale" e dei cosiddetti "verbali d'interrogatorio") che Moro non abbia mai perso la
sua lucidità, né rinnegato in alcun modo il suo passato. Man mano che i giorni scorreranno
mi indignerà sempre più il tentativo di negargli il diritto alla paternità delle lettere, e in ge-
nerale il comportamento dei suoi amici di partito, che sin dall'inizio della vicenda hanno
accettato, come unica realtà possibile, quella del tragico epilogo del 9 maggio. Marcoledì
3 maggio. Ognibene si alza in piedi all'inizio dell'udienza e, attraverso la lettura del comu-
nicato n. 14, rilancia in modo più organico il programma di lotta nelle carceri già annun-
ciato da Curcio in una precedente udienza. C’è un appello a tutti i detenuti, perché si uni-
scano alla lotta contro le carceri speciali. Il programma strategico della Organizzazione
Comunista Combattente Brigate Rosse nelle carceri è preciso: liberazione di tutti i proleta-
ri e distruzione delle galere. Ciò non significa l'assenza di iniziativa sui problemi immedia-
ti. L'abolizione del trattamento differenziato per tutti i prigionieri dei campi è il compito
più urgente. Esso comprende: L'eliminazione dell'isolamento individuale e di gruppo, che

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significa: conquista di spazi di socialità all'interno; lotta contro ogni tentativo di distruzio-
ne dell'identità politica e personale dei prigionieri; autodeterminazione della composizione
delle celle; ora d'aria e di vita collettiva, ecc... L'abolizione dell'isolamento verso l'esterni,
vale a dire l'eliminazione dei vetri divisori al colloquio, del blocco dell'informazione e del-
la corrispondenza... Ciò che proponiamo "non é" il terreno della trattativa, della rivendi-
cazione sindacale, ma la concretizzazione, attraverso la lotta, dei rapporti di forza che già
sono maturati a livello generale. Lottando per questi obiettivi noi intendiamo costruire po-
tere proletario armato anche nelle "carceri speciali" e saldare nel programma strategico
dell'"attacco allo Stato" la lotta di vati strati proletari... Ancora una volta la borghesia ha
fatto male i suoi conti, se ha creduto, con l'istituzione delle "carceri speciali", di risolvere
definitivamente il problema, perché coloro che nei suoi desideri dovrebbero essere annien-
tati diventeranno gli affossatori di questo criminale regime carcerario. Chi ha paura delle
"carceri speciali"? Non certo noi che vi siamo rinchiusi... Barbaro annuncia che il teste
Girotto è irreperibile. Per capire meglio la sua posizione si chiede di riascoltare il colon-
nello Franciosa ed il capitano Pignero, alle cui dipendenze ha operato, ovviamente pagato,
"Frate Mitra". I testi stanno lentamente andando ad esaurimento, ma le testimonianze con-
tinuano ad essere praticamente vuote di contenuti e di prove. Viene fissata, dopo la perizia
piuttosto movimentata fatta sul giudice Sossi (la scorta del giudice, mitra alla mano, ha
tentato di impedire la presenza dell'avvocato rappresentante la difesa, nominato da Barba-
ro), la data dell'audizione di quest'ultimo al 22 maggio. Continua la divaricazione, sempre
più sofferta, fra il compito di giurata e l'impegno di militante. Terminata l'udienza corro al
partito. Telefono al gruppo, mi risponde Emma, sbrigativa e quasi sgarbata. Con Marco da
tempo non riesco a parlare. Gianfranco è preso dalle cose del partito. Mi sembra di esser
tagliata fuori da tutto. Ho una crisi di depressione che volgo in rabbia. A che serve ormai
che rimanga a fare questo processo? Sono soltanto giudice supplente, la mia presenza è
pressochè superflua dal momento che il processo è ormai solidamente incardinato e le u-
dienze si susseguono, noiose ma con regolarità. Avrò pure il diritto di far valere le mie
funzioni di segretario del partito e di tornare ad esercitarle, libera da altri impegni pubblici,
almeno durante la campagna referendaria! E' uno stato d'animo che durerà alcuni giorni.
So benissimo che i compagni in Parlamento hanno affrontato, anch'essi, un periodo massa-
crante. So altrettanto bene che la responsabilità che mi sono assunta quando ho accettato
l'incarico di giudice popolare devo portarla fino in fondo. E' una responsabilità davanti al-
l'opinione pubblica: non si comprenderebbe, giustamente, un abbandono. Abbiamo detto
tante volte che siamo gente fra la gente. Non sono il "deus ex machina", evocato dalla sor-
te per far uscire il processo dalle secche della paura in cui rischiava di arenarsi. Sono, devo
essere un giurata fra i giurati e condividere le loro rinunce e i sacrifici che la sorte ci ha
imposto. Dalle prime avvisaglie della campagna elettorale, posso infine immaginare benis-
simo l'uso che il PCI farebbe di questo abbandono. Mi farebbero a pezzi e farebbero a pez-
zi il Partito radicale, se già così e nonostante la mia esperienza al tavolo della giuria ci in-
dicano (é avvenuto in Parlamento) come sostenitori delle Brigate Rosse. Le considerazioni
non migliorano il mio stato d'animo. Mi sento come tradita dagli avvenimenti e dai doveri
che mi impongono. Tutta la fatica fatta, prima per arrivare a raccogliere le firme dei refe-
rendum e poi per difenderli, e trovarmi ora drasticamente allontanata da ogni impegno,
proprio nel momento conclusivo... Gianfranco deve averlo intuito nelle rare e rapide tele-
fonate che ci siamo scambiati. Ricevo una sua lunga lettera, molto affettuosa ma senza

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l'ombra del paternalismo cui impronta talvolta, nei momenti difficili, i rapporti con me e
gli altri compagni.

Giovedì 4 maggio. Sono libera dal processo e vado con Elena e Giovanni dal sindaco di
Torino Novelli per ricordargli le scadenze della campagna elettorale e gli adempimenti che
gli spettano per legge, oramai slittati come in molte altre amministrazioni comunali. La re-
azione è sconcertante. Il sindaco pare quasi cadere dalle nuvole e non ricordare che esisto-
no dei referendum. Subito dopo però convoca il segretario comunale e, appurato il ritardo,
dà disposizioni perché la macchina si metta in moto. Ho la nausea dei treni e delle notti
trascorse in cuccetta. Il sabato e la domenica corro quasi sempre a Roma per seguire alcuni
appuntamenti importanti del partito, i Consigli federativi e il Convegno teorico. E' proprio
durante quest'ultimo, il pomeriggio del 5 maggio, che ci raggiunge la notizia della condan-
na a morte di Moro. I tre successivi, con le ultime lettere drammatiche alla famiglia ed il
silenzio dei brigatisti, sono giorni cupi e immobili: ancora una volta il paese è attonito, pa-
ralizzato (o indifferente?) di fronte alla violenza di una banda di assassini. L'idea di que-
st'assassinio, a freddo, che forse sta per essere eseguito o è appena stato eseguito mi ributta
nel clima ossessivo e oppressivo di questi mesi cancellando in me quel poco di speranza e
ottimismo che lentamente andavo riacquistando. Le considerazioni che faccio sul mio in-
tervento al Convegno teorico del partito, forse risentono di questo stato d'animo. ... Ho let-
to su "Lotta Continua", prima di venire al convegno, la tragica lettera del compagni Vali-
tutti, che ha deciso di lasciarsi morire in carcere. Mi sono chiesta se ce la faremo a strap-
parlo alla morte o se siamo già nella condizione di assistere impotenti al compiersi di que-
sti crimini, all'annientamento scientifico e legale di una persona. E mi sono chiesta cosa
non avremmo fatto noi, quanti cortei non avrebbero organizzato gli extraparlamentari, co-
sa non avrebbe fatto la stessa "Lotta Continua" se avessimo ricevuto e letto questa lettera
un anno fa o anche solo alcuni mesi fa. Poi sono venuta al convegno e vi ho ritrovato le
facce conosciute e care di tante persone di Roma e di altre città, con le quali percorriamo
ormai da anni, giorno dietro giorno, lo stesso itinerario. Anche se per intenderci fra noi lo
abbiamo chiamato ampollosamente "convegno teorico", siamo riusciti a non farne una riu-
nione da addetti ai lavori, ma qualcosa che assomiglia, pur nel dibattito impegnativo, fatto
di riflessioni e di approfondimenti per noi ormai importanti ed essenziali, ai nostri tradi-
zionali appuntamenti. Eppure avevo la sensazione che ci fosse qualcosa che mancava, che
lo rendeva differente dalle nostre altre riunioni. Poi ho capito che cosa rendeva così facili,
così ordinati i nostri lavori: non era il contenuto del convegno, non era il carattere del di-
battito, ma era l'assenza di un certo tipo di personaggi che hanno sempre contrassegnato i
nostri congressi, i nostri convegni, le nostre iniziative pubbliche, rendendole spesso diffici-
li e creandoci dei problemi. Voi li ricordate. Erano e sono forse i più esibizionisti di una
schiera di umili e di emarginati che fra noi pretendevano di trovare il loro posto o la loro
tribuna e che rappresentavano il nostro problema non risolto, a volte una nostra sconfitta, e
comunque sempre un momento di verità. La loro presenza fra noi non era certo la soluzio-
ne e il superamento del problema dell'emarginazione, ma costituiva almeno un segno di
speranza. E la loro assenza oggi, lungi dal produrmi un sollievo liberatorio, mi ha suscitato
una preoccupazione, mi ha indotto a pormi un interrogativo: se non sia una conseguenza
del fatto che i recenti episodi di violenza, il crescere della spirale di violenza, non abbia
ormai messo in crisi il modello della disubbidienza civile e nonviolenta, e se ad esso non
si sono già sostituiti altri modelli. Ma se è così questi assenti non troveranno posto negli

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altri modelli, quelli proposti dai nuovi chierici, dai depositari esclusivi, freddi e spietati,
della rivoluzione violenta e del partito armato: per essi sarà solo il massacro di classe, quel
massacro che ci è annunciato dalla lettera di Valitutti e che riguarda i mille Valitutti dal
volto e dal nome sconosciuti che già oggi sono vittime della illegalità e della violenza.

Martedì 9 maggio. L'udienza si apre con un comunicato letto da Ferrari, nel quale gli im-
putati si associano alla protesta dei detenuti in corso alla Nuove di Torino dal pomeriggio
precedente. viene smentita la notizia, data da alcuni organi di informazione, di contesta-
zioni da parte dei detenuti comuni nei confronti degli imputati, è data invece notizia del
comunicato dei detenuti e ne viene richiesta la pubblicazione. Ascolto il comunicato e non
posso che essere d'accordo sui contenuti. Alcuni sono obiettivi sui quali da tempo ci stia-
mo muovendo in Parlamento e fuori. Le carceri si rivelano oggettivamente, per le condi-
zioni di vita cui sono costretti i detenuti, un momento di contestazione molto dura, della
quale non si può disconoscere e l'importanza. Gli obiettivi che tutti i detenuti italiani vo-
gliono raggiungere sono i seguenti: immediata approvazione della legge sull'amnistia e su
di un ampio condono generalizzato; immediata discussione ed approvazione del provve-
dimento della "libertà provvisoria" a tutti i detenuti e le detenute in cattive condizioni di
salute; libertà provvisoria a tutte le detenute che hanno figli in tenera età e specialmente
per quelle che hanno bambini in carcere o che debbano partorire; applicazione alla lettera
della riforma approvata ma in effetti mai realizzata in nessun carcere. In merito alle condi-
zioni del carcere di Torino facciamo presente il sovraffollamento e le disumane "sistema-
zioni" nel reparto "celle" nel quale sono costretti a dormire nel corridoio decine di detenuti
in mezzo alla sporcizia, senza servizi igienici (i cui pochi funzionano male e sono rotti).
Facciamo presente l'insorgere di malattie tipo scabbia, diarrea ecc... ... In questo momento
tutta la popolazione detenuta si è rifiutata di rientrare nelle celle invadendo pacificamente i
passeggi e le sezioni in attesa di una positiva risposta che ci riserviamo di valutare. Mentre
la nostra manifestazione si svolgeva pacificamente in attesa delle persone richieste, le
guardie del muro di cinta hanno esploso senza alcun motivo raffiche di mitra ad altezza
d'uomo verso il secondo e quinto braccio... Sono venuti a testimoniare intanto il colonnel-
lo Franciosa ed il capitano Pignero. L'interrogatorio, condotto dagli avvocati della difesa
Zancan e Arnaldi, è molto lungo e particolareggiato, ma non riesce a far chiarezza sul pe-
riodo nel quale è iniziata la collaborazione con Girotto (anzi le dichiarazioni appaiono in
parziale contraddizione) né sui motivi per cui è stata scelta Borgomanero come sede privi-
legiata delle indagini. Si alza Franceschini e fornisce l'interpretazione degli imputati sulla
operazione Girotto, che verrà poi messa per iscritto nel comunicato n. 16, consegnato alla
corte il 19 maggio. Guardo Franceschini, che le biografie ufficiali indicano come uno dei
teorici del gruppo, e che come sempre mi dà una sensazione di grande freddezza e distac-
co. Nei suoi interventi è molto aggressivo e duro anche se molto attento ai termini usati,
per non farsi togliere la parola: ha spesso delle sfumature ironiche che rimbalzano, dallo
sguardo attraverso le lenti, anche se i suoi discorsi sono infarciti di dogmatismo. Mi sem-
brano istintivamente più interessanti, perché più immediati e più semplici, altri imputati.
L'operazione Girotto, ci spiega Franceschini, è stata messa in atto come supporto al com-
promesso storico, per distruggere i primi nuclei operai combattenti. Per capire la funzione
della spia Girotto bisogna inserire la sua azione all'interno del quadro politico più generale
in cui è andata sviluppandosi. Nell'autunno '73, dopo il colpo di Stato militare in Cile, esce
chiaramente allo scoperto all'interno del PCI quel processo di revisione politica che si so-

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stanzierà nella formula berlingueriana del "compromesso politico". Sono di quel periodo i
due famosi articoli di Berlinguer comparsi su Rinascita... E' in questo quadro che matura
l'"operazione Girotto". Essa viene preparata insieme dal PCI e dalla DC, attraverso la col-
laborazione del sindacato (CGIL) con i carabinieri (nucleo speciale) e la magistratura. Di-
fatti ai primi di maggio '74 Levati, che a quel tempo era funzionario sindacale, viene con-
vocato alla Camera del lavoro e gli viene ritirata la tessera con la motivazione che "essen-
do in preparazione da parte dei BR una grossa operazione di provocazione in cui avrebbe-
ro potuto essere coinvolti anche membri del sindacato, era opportuno togliergli la tessera
perché lui poteva essere coinvolto". E' dopo questo incontro che il Girotto inizia la sua
manovra di aggancio col Levati. Questa collaborazione DC-PCI la ritroviamo in tutti i
corpi che partecipano all'operazione. Nella magistratura si tratta della coppia Caccia-
Caselli. Caccia, sostituto procuratore generale, quindi espressione diretta dell'esecutivo
(quindi della DC), svolge in tutta l'inchiesta funzioni di controllo. Deve, cioè, assicurare
che tutto si svolga entro i confini preventivamente stabiliti dal governo. Caselli, membro
del direttivo di Magistratura Democratica, uomo del PCI. La sua funzione in tutta l'istrut-
toria è essenzialmente politica. Suo compito non è tanto quello di ricercare prove, ma di
"capire politicamente chi gli sta di fronte" e quindi in base a queste valutazioni politiche,
stabilire chi è membro delle BR, quale ruolo svolge nell'organizzazione, eccetera. Nel pia-
no direttamente militare troviamo la coppia Dalla Chiesa-Girotto. Dalla Chiesa è un uomo
di fiducia della DC ed ha svolto per questo partito una gran quantità di incarichi speciali.
Inoltre non appare totalmente sgradito al PCI, stando almeno alle ripetute dichiarazioni di
approvazione e di esaltazione delle "qualità di efficienza e di serietà dell'uomo" rilasciate
da vari esponenti del PCI (on. Trombadori, il giornalista dell'"Unità" Settimelli... ) per la
sua opera di "Riforma carceraria" (cioè di costruzione dei Lager!). Girotto, uomo del PCI,
con funzione di consulente politico dei nuclei specialisti. Del resto solo un uomo di "sini-
stra" poteva sperare di riuscire ad infiltrarsi con qualche successo all'interno delle BR. L'o-
perazione Girotto rappresenta quindi uno dei primi momenti in cui la politica del "com-
promesso storico" mostra chiaramente il suo fine: collaborazione con il nemico di classe
per distruggere ogni forma di opposizione rivoluzionaria di classe... Nel pomeriggio, a ca-
sa, dove mi sono rifugiata per cercare di riposare, mi arriva la notizia del ritrovamento del
cadavere d Moro. Resto per un po' con la mente vuota, senza pensieri. La città è immedia-
tamente cosparsa di manifesti listati a lutto. Si organizza una concentrazione verso piazza
S. Carlo, ma non mi pare molto affollata. Mi ritrovo ad ascoltare questo commento: "Chis-
sà quante persone hanno tirato il fiato fra Piazza del Gesú e le Botteghe Oscure". Merco-
ledì 10 maggio. I partiti costituzionali, i giornali, le radio commemorano la figura di Aldo
Moro. Alla caserma Lamarmora si apre l'udienza, in un clima ancor più funebre. Curcio si
alza e incomincia a leggere un comunicato, il n. 15, che fa una analisi di cosa ha significa-
to l'operazione Moro in termini di "lotta di classe" e rivendica la portata "rivoluzionaria"
del rapimento e dell'assassinio del presidente democristiano, Più precisamente nel comuni-
cato gli imputati affermano: ... Con il 16 marzo non si è affermato un nuovo regime capa-
ce di stabilizzare la situazione economica-politica-sociale nel breve periodo come era nelle
intenzioni, ma si è invece manifestata l'esistenza di due poteri contrapposti, espressioni di
classi antagoniste, di interessi, bisogni e aspirazioni inconciliabili: lo Stato imperialista ed
il potere proletario armato. Il potere proletario armato, di cui le BRIGATE ROSSE costi-
tuiscono il nucleo strategico, affonda le sue radici nella classe operaia, nei lavoratori pro-
duttivi, nel proletariato metropolitano; ed il suo "interesse generale", vale a dire il suo sco-

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po, è la trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici, la creazione di una società
comunista. Il potere proletario armato sa di essere forza organizzata e concentrata, aspira
apertamente a diventare DITTATURA! Il suo esercizio da parte delle ORGANIZZAZIONI
COMUNISTE COMBATTENTI, del movimento di Resistenza Proletario Offensivo e del-
le lotte di massa non si riferisce ad una astratta "giustizia", ma è il prodotto di un reale
rapporto di forze nel processo di liberazione. E come non esiste un'astratta giustizia, così
non esiste, per noi, un'astratta "moralità". Per noi - ha detto Lenin - la moralità dipende da-
gli interessi della lotta di classe del proletariato. La morale è ciò che serve a distruggere la
vecchia società sfruttatrice. Ecco perché noi sosteniamo che il 9 maggio, anniversario del-
l'assassinio "a freddo", nel carcere speciale di Stammhein, della compagna Ulrike Meinhof
conclude giustamente la battaglia iniziata il 16 marzo ed inaugura una nuova fase della
guerra di classe rivoluzionaria. Ecco perché noi sosteniamo che l'atto di giustizia rivolu-
zionaria esercitato dalle BRIGATE ROSSE nei confronti del criminale politico Aldo
MORO, responsabile insieme ai suoi complici della DC di un regime trentennale anti-
proletario e sanguinario, oltre che eminenza grigia dei nuovi progetti di stabilizzazione
imperialista affidati al regime dell'intesa, varato il 16 marzo, è il più alto atto di umanità
possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari in questa società divisa in classi. Curcio
viene espulso e così pure Franceschini. L'indignazione sulla "Stampa" e su tutti gli altri
giornali sarà enorme. Nonostante la gravità delle affermazioni, a me sembra che ci sia una
logica molto stretta nell'identificarsi degli imputati con l'organizzazione Brigate Rosse che
opera all'esterno, anche nel caso non siano d'accordo con alcune azioni. Sono convinta che
gli imputati non condividano la soluzione dell'assassinio a freddo adottata dai rapitori, ma
è comprensibile che la avallino. Il PM chiede il processo per direttissima per apologia di
reato. La corte, riunitasi, respinge la richiesta, contraddittoria con i comportamenti prece-
denti, e la rinvia a chi ne ha competenza.

Venerdì 12 maggio. E' ormai un fatto quotidiano il ferimento di qualcuno, tale da non de-
stare più impressione nella gente. Nella caserma Lamarmora, negli intervalli delle udienze,
si fanno ormai sempre più spesso i conti con i tempi del processo e le previsioni sulla sua
conclusione. Un anno fa, nel pieno della raccolta delle firme, sono accaduti i fatti di piazza
Navona e ancora oggi ripenso ai compagni inermi, ai volti terrorizzati della gente, all'ac-
cerchiamento della forze di polizia, alle pistole degli agenti in borghese che sparavano ad
altezza d'uomo, al fumo dei lacrimogeni che invadeva tutto il centro di Roma, ai tentativi
drammatici dei nostri parlamentari di intervenire per sbloccare la situazione, all'assenza
plateale di Cossiga e alla certezza acquisita che l'operazione era stata premeditata ed orga-
nizzata freddamente a tavolino, per tentare di criminalizzare l'opposizione nonviolenta.
Arrivò alle ventuno, nella piazza quasi deserta, la notizia dell'assassinio di Giorgiana Masi.
Troppe volte in quest'anno mi sono tornati alla mente quei fatti. Oggi stiamo facendo un
processo difficile: altri devono essere fatti. Preparo un comunicato, chiedendo questi pro-
cessi: quello dell'associazione a delinquere della quale, secondo Cossiga, faccio parte, co-
me promotrice della manifestazione del 12 maggio, e quello a Cossiga, per strage. E' un
anno esatto a oggi che secondo la denuncia dell'ex ministro Cossiga, io sono la rappresen-
tante di una associazione a delinquere, rea di aver istigato a delinquere migliaia di cittadi-
ni. Protesto fermamente contro questa dimostrazione di cronica inefficienza fornita dalla
magistratura. In Italia, oggi più che mai, tutti i processi debbono essere fatti; soprattutto se
si tratta poi di presunti gravi reati quali appunto "associazione a delinquere". Non mi riesce

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di comprendere come mai questo non avvenga né per me né per i deputati radicali, che in
svariate occasioni hanno sollecitato l'autorizzazione a procedere in Parlamento. Esigiamo
giustizia per tutti coloro che sono stati uccisi. Esigere giustizia è l'unica possibilità per as-
sicurare al paese momenti migliori. Se associazione a delinquere noi siamo, chiediamo di
essere immediatamente condannati; se associazione a delinquere è quella di chi il 12 mag-
gio scorso inviò squadre speciali travestite da "autonomi" a seminare il terrore tra la folla
inerme, a cercare e trovare la strage, a tentare di criminalizzare chi si oppone con la non-
violenza e non con le pistole, ebbene chiediamo che paghi e paghi subito poiché già per
troppo tempo questa associazione è stata latitante. Cossiga esporrà le sue prove, noi le no-
stre fotografie e i nostri filmati, e la magistratura deciderà. Ma la magistratura faccia il suo
dovere: questo processo deve essere fatto. Parlandone con gli altri giurati e con Barbaro mi
rendo conto che queste cose sono poco conosciute, o già dimenticate. L'impegno di una
anno fa, di esigere e fare chiarezza, è tanto più importante quanto più evidente il tentativo
di insabbiare.

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13. FRATE MITRA

Sabato 13 maggio. Vengono lette le testimonianze di Silvano Girotto oramai dato per di-
sperso. C’è un drammatico confronto in aula fra la Carletti ed un ragazzo per anni legatis-
simo alla donna, poi diventato informatore della polizia: è lui che carpendone la buona fe-
de nel modo più subdolo ha puntato l'indice contro di lei. "Nonna Mao" gli urla in faccia
tutto il suo disprezzo. L'udienza viene sospesa e il teste licenziato. Alcuni avvocati paiono
voler protestare perché è stato intimidito in teste, ma la cosa è platealmente ridicola e la
polemica si spegne subito. Dopo questo episodio la Carletti scomparirà dalla caserma La-
marmora.

Domenica 14 maggio si svolgono le elezioni amministrative in molti comuni italiani: la


DC cresce sensibilmente, e si registra anche una consistente avanzata del PSI. Il PCI accu-
sa invece una pesante flessione: è presto chiaro che larga parte di quell'elettorato che nel
'76 aveva votato il PCI, consentendogli il "grande balzo", non ha rinnovato la sua fiducia.
Le elezioni del 14 maggio rappresentano, in un ceto senso, il primo sintomo di una situa-
zione che va configurandosi e che esploderà con i referendum dell'11 giugno e nelle suc-
cessive tornate elettorali.

Martedì 16 maggio. Al tribunale, appena mi vede, Barbaro mi Sussurra che è arrivato Sil-
vano Girotto. Stupita gli domando come mai, che cosa ha spinto Dalla Chiesa a tirarlo fuo-
ri dal cappello. Non lo sa neppure lui, appare molto seccato da quest'ennesimo episodio di
gestione esterna del processo. La notizia serpeggia fra gli avvocati e fra i giurati. C’è da
una parte indignazione e dall'latra curiosità e attesa. Mancano alcuni degli avvocati difen-
sori interessati a questa deposizione e si decide di avvertirli, spostando la testimonianza al
pomeriggio. In aula Ognibene ha appena fatto un commento ironico sulla irreperibilità del
teste. Alle due del pomeriggio, l'aula è zeppa di avvocati, rappresentanti della stampa, cu-
riosi. Barbaro, infastidito, rileva la presenza di alcuni avvocati che hanno rifiutato la difesa
d'ufficio e non risparmia loro commenti polemici. Magro, coprendosi il volto con una ma-
no, Girotto entra per iniziare il suo show. Dalle quattordici alle diciotto farà il racconto
delle sue vicissitudini e risponderà alle domande poste dai difensori, con precisione ed e-
sattezza rispetto alle sue passate testimonianze, usando le stesse identiche espressioni, in-
cisi, parole della famosa testimonianza a futura memoria, quasi l'avesse ripassata il giorno
prima. Ci sono discordanze con le testimonianze del capitano Pignero. Non aggiunge nulla
a quanto già si sapeva, non porta elementi di maggiore utilità per capire e provare i capi
d'accusa contro il gruppo di Borgomanero. Mentre parla a getto continuo, salvo rifugiarsi,
su alcune contestazioni della difesa, nel "non ricordo, è passato troppo tempo", lo osservo
attentamente cercando di metterlo a fuoco, sento crescere in me un profondo disagio. Non
è solo conseguenza di una avversione conformista e scontata per chi fa il suo mestiere. Il
suo modo di fare gesuitico, come le cose dette sottovoce, lo sguardo sfuggente in mille di-
rezioni, il concentrato di ambiguità e ipocrisia della sua esposizione, il tentativo superfluo
di giustificare ideologicamente il suo operato mi rendono ostico l'approccio al personag-
gio. Una maggior chiarezza di se stesso, delle sue azioni, delle sue motivazioni, anche se
difficilmente stimabili o vendibili al perbenismo comune, avrebbe certamente reso la figu-
ra più credibile. Alla fine dell'udienza - molto lunga e stancante - trascorsa nel silenzio as-

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soluto e impassibile degli imputati, me ne torno a casa pensierosa, dopo aver verificato che
non sono la sola ad avere questo disagio e a rimuginare la domanda: "cui prodest?". Si è
aperto e subito rinviato intanto il processo a Camilla Cederna, intentatogli dai figli del pre-
sidente Leone, naturalmente non sulle accuse più gravi contenute nel libro, ma su fatti
marginali. Attraverso il libro della Cederna e la campagna dell'"Espresso" sono venuti alla
luce fatti sui quali i deputati radicali più di un anno fa avevano chiesto, formulando una
precisa denuncia, un supplemento di indagine alla Commissione inquirente. Eravamo stati
accusati di volere una campagna "destabilizzante" e si era archiviata la denuncia. Oggi,
grazie al libro della Cederna, si riapre questo caso che si concluderà nel momento in cui
"politicamente" sarà utile: Leone sarà il capro espiatorio da offrire al 43 per cento di SI' sul
finanziamento pubblico. In mezzo alle polemiche su Leone, alle analisi postelettorali, al
processo di Torino, quella che però, non a caso, viene letteralmente soffocata è la campa-
gna per i referendum: c’è stato un tacito accordo fra i partiti della maggioranza per com-
primere e dilazionare l'apertura del dibattito. I giornali tacciono, la televisione pure, le tra-
smissioni di Tribuna politica sono ridotte all'osso dalla Commissione di vigilanza e non
sono ancora iniziate, manifesti non se ne vedono (i nostri per mancanza di fondi, quelli
degli altri per ritardare il più possibile il momento dello scontro e quindi della conoscenza,
con la speranza di trasformare i referendum in un plebiscito).

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14. LA CAMPAGNA DEI REFERENDUM: SCHIZOFRENIA DI UNA GIURATA

Giovedì 18 maggio. L'udienza è sospesa, per permettere che si faccia il processo a Curcio
e Franceschini per apologia di reato. Leggo la pena assurda che viene comminata: penso
con amarezza che questo era uno degli articoli del codice Rocco che prevedono i reati d'o-
pinione dei quali chiedevamo l'abrogazione. Non è impedendo a chicchessia di esprimere
le proprie opinioni, sia pure apologetiche di reato, che si argina la criminalità, ma arrestan-
do i criminali; e non è impedendo che si vilipendio i capi di Stato o le istituzioni che si ri-
dà a queste credibilità. Mi viene in mente il caso del ragazzino sospeso qualche settimana
fa dalla scuola perché aveva dichiarato di essere brigatista rosso: sono le conseguenze ridi-
cole di uno Stato nel quale i reati d'opinione continuano ad essere il baluardo di una giusti-
zia borbonica. La sera, mentre sono a Milano per la campagna elettorale referendaria, c'è la
prima trasmissione televisiva dei comitati dei referendum e del Partito radicale. La tra-
smissione, ventiquattro minuti complessivi, si svolge nel silenzio assoluto: Emma, Marco,
Gianfranco, Mauro si presentano sullo schermo imbavagliati, e tali rimangono per venti
minuti, limitando agli ultimi quattro la spiegazione del messaggio che si è voluto, in que-
sto modo così insolito, trasmettere. I tempi televisivi sono una truffa: scarsi, lottizzati e
senza confronto diretto fra le forze politiche; da mesi non abbiamo diritto di parola e di o-
pinione; i cittadini non devono poter "conoscere per giudicare", un cinico modo per spera-
re di raggirarli. Se, in queste condizioni, avessimo accettato di svolgere il nostro ruolo
normalmente e nei modi previsti, saremmo stati a nostra volta conniventi e responsabili
del sopruso e dell'illegalità imposti al paese. Le immagini dei quattro radicali denunciano
platealmente e grottescamente la situazione dell'informazione di regime; i cittadini che
hanno visto recapitare a casa i certificati elettorali senza saperne nulla si pongono ora
qualche domanda, i partiti della maggioranza sono costretti a venire allo scoperto: dal
giorno seguente ha infatti inizio la vera campagna elettorale, tutti i giornali sono costretti a
parlare dei referendum. Per inciso, la trasmissione è quella che ha avuto il più alto indice
d'ascolto tra le trasmissioni politiche.

Venerdì 19 maggio. Il referendum sulla legge Reale è ormai certo: l'ostruzionismo dei de-
putati radicali (quattro su seicento, anzi su più di mille contando i senatori) ha avuto suc-
cesso, i tempi per cambiare la legge sono slittati irreparabilmente. La mia vita per un mese
non avrà più sosta. Non riuscirò quasi più a ritagliarmi gli spazi di tempo da trascorrere
con le bambine, che sono stati in questo periodo quelli più rilassanti, sereni e allegri. Finite
le udienze, passerò da un comizio all'altro, da una radio ad una televisione privata. Nono-
stante cerchi di limitare le richieste, passerò molte delle mie notti in autostrada, mezzo ad-
dormentata, per riuscire ad arrivare in orario alle udienze della mattina. Ma anche questo
periodo, che in minima parte mi fa rinascere la volontà di lottare insieme a un po' di entu-
siasmo, lo vivrò in modo paranoico, non in sintonia con i compagni di partito: anzi spesso
con angosciose contrapposizioni. Non partecipando al lavoro collettivo di impostazione
della campagna politica avrò spesso la sensazione di essere un robot o, ancora peggio, un
pacco postale, costretta a passare attraverso due realtà diversissime, senza i tempi suffi-
cienti per adattarmi alle due diverse dimensioni: esco dalla caserma Lamarmora e passo in
via Garibaldi, la sede del partito, dove mi viene dato il mio "ruolino di marcia", e subito
riparto. Una o due colte sarò costretta a chiedere a Barbaro di adattare parzialmente i tempi
del processo alle mie esigenze: lo troverò sempre comprensivo.

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Lunedì 22 maggio. Con grande soddisfazione di Barbaro, della giuria e di molti avvocati,
oggi viene a deporre il giudice Sossi. Non che nessuno si attenda grosse novità o dichiara-
zioni esplosive, evidentemente, ma la prepotenza e l'arroganza con le quali costui ha tenta-
to si sottrarsi a questa incombenza hanno influenzato tutti negativamente, anche chi non ha
nessuna conoscenza della persona e del suo operato. Prima di aprire l'udienza, ci sono le
solite perplessità su come andrà a finire, sulle eventuali reazioni degli imputati e, cono-
scendolo, anche del giudice. In effetti, oltre a fornire la ricostruzione dei fatti relativi al
suo rapimento ed alla sua detenzione, il giudice Sossi se ne esce - dopo quattro anni - con
un nuovo ricordo: Lazagna fu esplicitamente menzionato come rappresentante dell'orga-
nizzazione dai suoi carcerieri, che fecero pure richiami ad altri avvocati come persone con
cui avevano rapporti, in particolare la Guidetti-Serra, Arnaldi e Guiso. La Guidetti-Serra
reagisce indignata e detta a verbale una dichiarazione, menzionando fatti che smentiscono
Sossi. L'avvocato Zancan chiede come mai le accuse su Lazagna vengano fuori proprio
oggi, e mai negli interrogatori dopo la sua liberazione: appare sorprendente e poco credibi-
le che particolari di questa portata affiorino solo ora dalla memoria del giudice o, come so-
stiene Sossi, che siano sfuggiti a Caselli nel corso di una istruttoria già non abbondante di
fatti e testimonianze precisi. Nella confusione generale, Ognibene e Franceschini inter-
rompono la testimonianza per rievocare il passato del giudice, smentire di aver mai avuto
loro infiltrati al Viminale, porre domande a Sossi. L'avvocato di Sossi sbotta che è ora di
finirla di condurre così il dibattimento, ma Barbaro lascia la parola all'imputato che conte-
sta le affermazioni del giudice. Gli imputati puntualizzeranno la loro posizione nei con-
fronti di Sossi in un comunicato, il n. 17, che consegneranno alla corte il 29 maggio. 1)
Sossi ha collaborato con le forze rivoluzionarie a smascherare la macchinazione costruita
intorno al processo dei G. A. P. Interrogandolo abbiamo potuto individuare e ricostruire le
forze e le tecniche che la controrivoluzione ha messo in campo per annientare i compagni
dei G.A.P. di Genova... Sossi ha parlato chiaro, gli uomini che hanno istituito il processo
speciale e che lo hanno diretto secondo gli interessi e le direttive del potere politico, sono i
suoi colleghi e superiori: CASTELLANO, GRISOLIA, COCO!... Il processo di Ge è stato
PRECOSTITUITO, l'unico obiettivo era di arrivare ad una condanna esemplare, non solo
degli uomini, ma prima di tutto delle loro tesi politiche... Con l'interrogatorio ed il proces-
so di Sossi, abbiamo potuto verificare concretamente il ruolo di subordinazione della ma-
gistratura alle direttive dell'esecutivo. Non a caso ciò si è concretizzato in modo evidente
proprio nel primo tentativo di processare un'organizzazione comunista combattente... Dal-
laglio e Saracino sono i nomi dei funzionari del SID che, al momento giusto passavano a
Sossi le veline da utilizzare contro i compagni. Lui, da bravo PM non si è mai chiesto la
ragione di questa intromissione; ma forse questa è un'abitudine comune tra i PM ... ! Il
traffico di armi tra la questura di Ge e due armerie. Il poliziotto Catalano, che è uno degli
artefici del processo ai G. A. P. , si è fatto i soldi con questo traffico losco... ... Catalano
però ha le spalle coperte: al Ministero degli Interni c'è Taviani, al vertice della magistratu-
ra genovese Coco; così l'istruttoria sul traffico illecito, viene prima assegnata al fido Ca-
stellano, e poi sparisce. La paura di Sossi. Dopo averci parlato di questi fatti e averci indi-
cato i nomi (e gli INDIRIZZI) dei potenti personaggi che ne sono i responsabili, Sossi ha
più paura dei poliziotti e dello Stato che non delle BR... Sossi aveva già collaborato atti-
vamente (anche suo malgrado) con le forze rivoluzionarie e questo è uno fra i diversi mo-
tivi per cui abbiamo deciso di "sospendere" la condanna contro di lui e di rimetterlo in "li-

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bertà provvisoria". 2) Una precisazione a proposito della insinuazione velenosa di rapporti
tra le BR e l'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno. Ribadiamo che l'unico rap-
porto esistente e possibile tra i combattenti comunisti e il Ministero degli Interno è già sta-
to definito con una serie di operazioni che vanno da Tuzzolino, a Berardi, a Demartini... A
proposito del massacro nel carcere di Alessandria, al di là delle fantasie ben retribuite del
"frate spia", non c'era certo bisogno di veline per formulare un tipo di analisi che tutto il
movimento faceva. Nell'operazione di Alessandria c'era un significato simbolico più gene-
rale e un riferimento preciso all'operazione Sossi. La violenza messa in campo contro tre
detenuti non era riferibile alla pericolosità del fatto. In realtà TAVIANI, REVIGLIO,
DALLA CHIESA parlavano a noi; si voleva evitare un precedente e dimostrare che lo Sta-
to aveva scelto la strada della forza... 3) L'azione di Genova ha una sua storia. Non è nata
dalla testa di qualcuno, ma ha la sua origine nelle lotte operaie di quegli anni, in particola-
re nelle lotte della FIAT che hanno sempre rappresentato la punta più avanzata dell'offen-
siva operaia in Italia. Per capire il significato politico del sequestro di Sossi, occorre dun-
que partire da quel punto di svolta che sono state le lotte operaie che hanno portato Torino
alla "settimana rossa" con l'occupazione di Mirafiori e ai fenomeni di organizzazione
spontanea degli operai sul terreno del potere proletario armato come i "fazzoletti rossi"...
Di fronte all'incalzare delle lotte operaie, da una parte cresce l'interesse della FIAT per le
forze che all'interno del PCI spingono per una svolta di tipo socialdemocratico... Dall'altra
si inserisce in modo organico all'interno della DC e della Confindustria che sono i centri
politico-economici fondamentali per il progetto di ristrutturazione imperialista dello Stato
(Gianni Agnelli assume la presidenza della Confindustria e Umberto Agnelli prepara la
sua ascesa politica dentro la DC). All'interno del movimento operaio si definiscono due li-
nee di "uscita dalla fabbrica", cioè il superamento della parzialità dell'iniziativa di fabbri-
ca... Come dicevamo allora in un nostro documento: "Compromesso storico o potere pro-
letario armato, questa è la scelta che i compagni devono oggi fare. Una divisione s'impone
in seno al movimento operaio, ma è da questa divisione che nasce l'unità del fronte rivolu-
zionario che noi ricerchiamo". La sola prospettiva valida per le avanguardie comuniste è
quella di uscire con le armi dalle fabbriche per estendere l'offensiva rivoluzionaria ai centri
vitali dell'imperialismo. Ed è questo ciò che accade nel '74... A proposito del CRD e di Be-
ria d'Argentine. La strategia che ha portato alla riunione di Biumo e alla nascita del CRD è
la stessa delle bombe di Piazza Fontana e della mobilitazione dei ceti reazionari della
"Maggioranza silenziosa"... Fino al '74 i progetti di Sogno coincidono con gli obbiettivi
strategici della politica imperialista in Italia... Il fallimento dei piano dei "golpisti bianchi"
non significa la fine del progetto imperialista. Dopo la sconfitta di Fanfani al referendum
del '74, si sviluppa nella DC la linea Moro di "attenzione" e di "apertura" al PCI. A questo
punto è la DC ad assumersi come partito dell'imperialismo il compito della
RIFONDAZIONE dello STATO, mentre il PCI, da parte sua, garantisce quella resa sociale
indispensabile alla "cogestione della crisi"... Ci pare emblematica la figura di Beria d'AR-
GENTINE. Intanto ribadiamo l'esistenza di una lettera a Sogno in occasione del Convegno
sulla "rifondazione dello stato" a cui Beria rinuncia a partecipare per motivi di "conve-
nienza politica", ma al quale invia una propria relazione pregando Sogno di leggerla senza
citare il suo nome... La posizione politica assunta da Argentine è rappresentativa della con-
tinuità dell'iniziativa imperialista in Italia in questi anni al di là delle vicissitudini del qua-
dro politico. Ed è indicativa del ruolo ricoperto da questi "tecnici della controrivoluzione"
che costituiscono il personale politico imperialista. Argentine infatti sarà proprio uno degli

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ispiratori del programma sull'ordine pubblico proposto dal governo Andreotti e approvato
col favore del PCI. A partire da questa data si attua una svolta nella
RISTRUTTURAZIONE dello STATO che porta fino alla realizzazione delle CARCERI
SPECIALI, dei TRIBUNALI SPECIALI e delle TRUPPE SPECIALI
ANTIGUERRIGLIA. L'udienza finisce con uno strascico di polemiche nel corridoio. Non
posso non amministrare l'indifferenza di Barbaro di fronte ad avvenimenti di questo tipo.
Barbaro rimase completamente imperturbabile anche quando gli sospesero la scorta, e sarà
superiore anche di fronte al comunicato della magistratura torinese, a sostegno indiretto
della posizione di Moschella, e polemico nei suoi confronti. Questa linearità di comporta-
mento, a parte pochissime eccezioni, è ciò che di Barbaro mi ha colpito ed impressionato
più favorevolmente, facilitando i momenti molto frequenti di dialogo che nel corso del
processo abbiamo avuto. Scappo via dall'udienza perché devo prendere un aereo per Ro-
ma. Gianfranco Spadaccia mi ha ventilato l'ipotesi di un suo nuovo sciopero della fame, ed
eventualmente anche della sete, contro le decisioni della Commissione parlamentare di vi-
gilanza sulla RAI-TV. Ogni volta che qualcuno di noi inizia un digiuno entro in agitazio-
ne. La gente, per una sorta di assuefazione determinata soprattutto dall'irrisione e dalla de-
nigrazione dei nostri avversari, non prende in considerazione i rischi di queste azioni non-
violente o perché è indotta a considerarci dei fachiri per i quali è normale digiunare come
per gli altri è normale magiare, o perché semplicemente non crede alla nostra onestà nel
portarli avanti. Io so bene quanto siano invece costosi per la salute, anche se gli effetti non
sono immediatamente avvertibili. So anche che esistono rischi più gravi per la stessa vita
di chi li intraprende, e che sono tanto maggiori quanto meno si può contare sull'informa-
zione, cioè sulla onestà e sulla correttezza della stampa e della televisione. Sulla nonvio-
lenza non c'è mai stato dibattito. O viene considerata una sorta di generico rifiuto della
violenza, oppure hanno credito e vengono diffuse (quando diventa obiezione di coscienza
e disubbidienza civile) le peggiori mistificazioni: la più insidiosa è quella secondo la quale
la richiesta del nonviolento è ricattatoria quanto quella del violento (per esempio il seque-
stratore di persona). Secondo questa tesi, l'unica differenza riconosciuta o almeno non con-
testata è che l'oggetto della "minaccia" del nonviolento è la propria vita e non quella di al-
tri. Non è una differenza da poco, ma non è la sola. In realtà con il digiuno, con lo sciopero
della fame, o con quello della sete, il nonviolento non pretende di imporre la propria vo-
lontà contro la legalità vigente; al contrario chiede il rispetto delle regole del gioco fissate
dai propri avversari e dalle quali il potere trae la fonte della propria legittimità. Questa vol-
ta sono in gioco i principi e la correttezza della campagna elettorale dei referendum. La
commissione parlamentare di vigilanza l'ha regolamentata come se fosse una normale ele-
zione politica. Poiché i partiti del NO sono in netta maggioranza, anche calcolando i tempi
dei comitati promotori dei referendum, i sostenitori del SI' sono fortemente svantaggiati in
una campagna che dovrebbe essere paritaria. Non è stata regolamentate l'informazione dei
normali giornali radio e telegiornali, non sono previsti dibattiti e contraddittori, sono state
abolite le conferenze stampa, due referendum (formalmente ancora indetti) sono stati arbi-
trariamente depennati a campagna elettorale già iniziata. Parto dunque molto preoccupata:
voglio conoscere gli obiettivi che Gianfranco vuol dare all'iniziativa e sapere se sono in
qualche modo raggiungibili. Si tratta infatti di far correggere dalla Commissione di vigi-
lanza una decisione che è già stata formalmente presa.
Martedì 23 maggio. Mentre sono a Roma con Emma e Gianfranco abbiamo un incontro
con il presidente Leone. Arriviamo al Quirinale cinque minuti prima dell'udienza. L'unico

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di noi tre presentabile è Gianfranco, in giacca e cravatta. Io sono in pantaloni e maglione,
Emma in gomma e zoccoli. Ma non fanno obiezioni al nostro abbigliamento. Ci riceve il
segretario generale Bezzi, cortesissimo, che ci introduce subito nello studio del presidente.
Giovanni Leone mi appare ancora più piccolo di come lo immaginavo, ma soprattutto mol-
to invecchiato e stanco. Non ha nulla dell'arguzia napoletana, non scevra di qualche volga-
rità, che l'aveva reso noto in passato. Mi appare come un vecchi signore un po' ridicolo e
molto impacciato. Saluta Gianfranco ed Emma, e poi subito si rivolge a me con fare quasi
affettuoso per dirmi che "è stato molto apprezzato [proprio così, non di aver molto apprez-
zato] il mio gesto di accettare l'incarico di giudice popolare al processo di Torino". Cerco
di interrompere questa conversazione sul processo. Rispondo seccamente che "ho solo ub-
bidito alla mia coscienza di cittadina". Spero che comprenda che non mi sono sentita co-
stretta da altro e che capisca che non intendo parlare del processo. Ma m'accorgo subito di
aver di fronte un interlocutore che riesce ad avere poca attenzione per chi gli parla. Conti-
nua a chiedermi quanto si prevede che durerà il processo, mi chiede, ancora, del presidente
Barbaro; aggiunge di averlo conosciuto quando era ancora giudice di Napoli e di conside-
rarlo un valente magistrato. Ci accompagna quindi dall'altro lato, prospicente alla sua scri-
vania, dove si trovano un divano e alcune poltrone. Accende nervosamente una sigaretta,
infilata in un lungo bocchino, e comincia il colloquio. L'impressione di prima si rafforza.
E' come se tutti i nostri argomenti costituzionali fossero esposti al vuoto. A tutti Leone ri-
sponde dicendo che il presidente della Repubblica non ha poteri e competenze diretti, in
materia, ma solo un potere di influenza e persuasione sugli organi costituzionalmente
competenti. Ma non è questa volta l'arroganza del potere che si nasconde dietro questo at-
teggiamento: è come se non riuscisse proprio a concentrarsi, a prestare attenzione, a com-
prendere il contenuto dei nostri argomenti. Penso che sia impossibile che un professore u-
niversitario, un avvocato, un uomo dalla lunga esperienza politica e parlamentare, sia pri-
vo della più elementare capacità di attenzione e di dialogo. Evidentemente mi trovo di
fronte ad un uomo estremamente provato. Non mi suscita irritazione, ma soltanto pena.
Penso quanto sia ingiusto averlo a tutti i costi voluto mantenere in quel posto, nonostante
la gravità delle accuse e dei sospetti: ingiusto e pericoloso per la Repubblica, ma anche per
lui. Ho come la sensazione che invece di concentrarsi sui nostri discorsi, sia condizionato
dal filo di questi pensieri non espressi. Alla fine Gianfranco, dopo un quarto d'ora, riesce a
fargli intendere questo concetto: che la costituzione riconosce a lui, e solo a lui, come pre-
sidente della Repubblica, il potere di indire i referendum, e che quindi la Commissione di
vigilanza sulla RAI-TV, cancellando due dei quattro referendum ancora formalmente in-
detti, ha invaso le sue competenze. Il nostro parere è che non solo il presidente della Re-
pubblica ha il potere, ma "anche il dovere" di intervenire nei confronti di uno "sconfina-
mento" di questa natura. Anche Bezzi interviene per spiegare il concetto e alla fine l'argo-
mento sembra colpirlo: la constatazione che una sua attribuzione costituzionale non è stata
tenuta in nessun conto sembra farlo in qualche modo reagire. In conclusione ci assicura
che eserciterà il suo potere di persuasione presso i presidenti delle Camere per gli altri
problemi da noi sollevati, mentre per quanto riguarda questo "sconfinamento" della Com-
missione di vigilanza sulla RAI-TV interverrà direttamente presso il presidente della
commissione con un documento. Viene anche concordato con Bezzi un comunicato in
questo senso. Non c'è da aspettarsi, a questo punto, che la cosa possa avere alcun seguito
pratico. Ma per noi quest'intervento ha comunque un valore di principio: è l'ulteriore te-
stimonianza delle illegalità commesse dalla maggioranza, della disinvoltura con cui il po-

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tere piega le leggi ai suoi interessi. Dopo tre quarti d'ora di udienza, riattraversiamo a piedi
il cortile che fiancheggia i giardini del Quirinale. Una macchina ministeriale lo attraversa
in senso opposto. Dentro c'è Piccoli che si reca dal capo dello Stato. Ci guarda con aria
stupita, come se non si attendesse in incontrarci in quel posto. Prima di riprendere l'aereo
per Torino Gianfranco mi prega di non unirmi alla sua iniziativa. Comprendo le ragioni
senza bisogno che me le spieghi: a febbraio sono stata molto male fisicamente, e i medici
hanno attribuito questo mio stato di profonda debolezza ai digiuni dell'anno precedente.
Assicuro Gianfranco che farò lo sciopero della fame e non quello della sete. Ennio Bogli-
no, il compagno che come medico ci assiste sempre in queste circostanze, è come al solito
innervosito. Forse fra tutti noi è quello che soffre di più. Ricordo le sue telefonate ango-
sciate da Madrid, nottetempo, quando Marco stava facendo lo sciopero della sete per i di-
ritti degli obiettori di coscienza in carcere.

Mercoledì 24 maggio. Arrivo alla caserma Lamarmora e sono colta dall'atmosfera di


suspense, di fronte alla notizia che in provincia di Cuneo è stato rubato un camion di divi-
se dei carabinieri: alcuni fanno l'ipotesi che il fatto possa preludere a una azione contro la
caserma Lamarmora, per liberare i prigionieri. Scrollo le spalle, mi pare fantascienza. A-
scoltiamo Beria d'Argentine che, chiamato in causa dalle dichiarazioni degli imputati sui
suoi rapporti con Sogno e con il progetto del Centro di Resistenza Democratica, ha chiesto
di venire a deporre. E' evidente che semai il suo posto sarebbe nel processo contro Sogno,
non qui. Infatti le sue dichiarazioni non portano contributi aggiuntivi sui fatti dei quali
dobbiamo giudicare. Ho iniziato lo sciopero della fame in appoggio a quello di Gianfranco
e di altri compagni: per una settimana sarò oggetto di curiosità di attenzioni. Il presidente
Barbaro mi chiede subito preoccupatissimo che cosa si debba fare nel caso mi senta male e
se è necessario un medico. Un avocato che non conosco, dopo aver sentito un mio inter-
vento sugli scopi del digiuno ad una televisione libera, mi avvicina e mi manifesta la sua
solidarietà ed il suo rispetto per questo tipo di iniziative. Persino il PM Moschella mi viene
a stringere la mano dicendomi che, nonostante le frequenti divergenze, non può che rispet-
tare chi fonda la lotta politica su azioni nonviolente. L'atteggiamento degli imputati è iro-
nico: Semeria, durante l'arringa del PM, avendo notato una mia momentanea assenza do-
vuta all'arrivo di un compagno del partito che mi porta notizie urgenti, esclama rivolto a
Moschella: "Ne ha già fatta fuori una della giuria... A meno che non sia andata a mangiare
un panino". L'udienza viene sospesa per rintracciarmi. Gli avvocati che io conosco si limi-
tano a disapprovare recisamente la cosa, puntualizzandola con battute maschiliste, cui an-
che il presidente non si sottrae. forse la presenza mia e di altre donne avvocato e femmini-
ste invoglia a questo tipo di battute. Dopo una settimana, grazie al passaggio allo sciopero
della sete da parte di Gianfranco, con un rischio non indifferente reso evidente dalle sem-
pre più preoccupanti analisi cliniche, riusciremo ad ottenere un supplemento di informa-
zioni Tv in misura uguale per tutti. I dibattiti contrapporsi invece sono stati bloccati dai
commissari comunisti: il confronto su questi referendum non è accettato. La maggioranza
che sulla carta ha il 94 per cento si è impaurita. Torino e tutta Italia nel frattempo sono sta-
te invase dagli slogan farneticanti diffusi dell'"Unità" e dal PCI: i radicali sono a volta a
volta non solo più irresponsabili, o folcloristici, ma fascisti, qualunquisti, destabilizzanti e
fiancheggiatori dei terroristi. Questa campagna all'insegna della diffamazione non ha biso-
gno di risposte, si commenta da sola: non c'è nessuno disposto a credere a queste incredibi-
li e oltre a tutto contraddittorie affermazioni. Il paese la respingerà. Tutti gli avvocati di si-

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nistra presenti al processo, a parte i tre comunisti, sono indignati e vengono a parlarmene,
a volte chiedono che cosa facciamo per rispondere. Io ribadisco che tanto più in questa oc-
casione sono i fatti che parlano per noi: la nostra linearità di posizioni è continua e chiara,
altri devono spiegare perché dopo aver contestato il codice Rocco e la legge Reale sono
quest'anno diventati i difensori dell'uno e dell'altra. Quelle che invece vanno smentite sono
le affermazioni che hanno inizio con l'intervento in televisione di Ugo Spagnoli, e che con-
tinueranno con diverse sfumature e aggiustamenti di tiro durante tutta la campagna eletto-
rale, diventando il cavallo di battaglia dell'"Unità", dei manifesti e dei comizi comunisti. Si
afferma che se venisse abrogata la legge Reale sarebbero rimessi in libertà Concutelli e
Curcio, i "mostri" del Circeo, Ferrari e Vallanzasca. Illustri giuristi, non sospetti di simpa-
tie radicali, smentiscono indignati queste affermazioni. Io lo farò nell'intervento in televi-
sione, l'unico durante la campagna elettorale, che mi è costato una corsa affannosa a Roma
e due notti insonni, per rispettare i tempi del processo di Torino.

Giovedì 25 maggio. Mentre discuto aspramente con un giurato che ha come sua unica fon-
te d'informazione "l'Unità", mi viene in mente una dichiarazione comunista sui referen-
dum, riportata in gennaio sulla "Stampa": "I referendum sono tali da provocare uno scontro
confuso e lacerante, che servirebbe a riunire un fronte assai vasto ed equivoco di difensori
dell'ordine". Gliela ricordo senza commentarla. Anche attraverso le bambine, inevitabil-
mente, vengo a contatto con l'"esterno": pure nelle loro scuole si parla di referendum.
Mentre pranzo con loro Francesca mi narra un episodio, mettendola un po' sul ridere, ma
in realtà ne è rimasta turbata. Un suo compagno di scuola, figlio di un "ortodosso" del PCI,
l'ha accusata di essere "fascista, come la tua mamma". Ci penso su un momento, per capire
se è il caso di parlarle e di chiarire. Poi mi accorgo, dal suo commento, che è inutile. Fran-
cesca, nonostante i suoi dodici anni, è una bambina matura e forte. Il fatto però mi preoc-
cupa, è una fedele "spia" del clima che ci stanno creando intorno. Oggi anche il PSI ha
preso ufficialmente posizione per il NO, lasciando peraltro liberi i propri iscritti di votare
come credono quasi ce ne fosse bisogno. Il processo intanto continua fra il disinteresse ge-
nerale: anche nei corridoi fuori dell'aula il tempo passa in discussioni politiche, a volte
molto accese. Invece l'udienza di oggi è quasi storica: "Il dibattimento è chiuso" annuncia
Barbaro. Pare quasi di sentire, insieme a quello del presidente, un sospiro di sollievo col-
lettivo.

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15. LA PAROLA è ALLE PARTI

Giovedì 25 maggio. La parola ora è alle parti civili, al PM, alle difese, infine agli imputati.
Poi sarà alla giuria. Seguo quest'ultima fase del processo in modo distaccato, con la mente
alla campagna elettorale: la mattina, stanca e insonnolita, sono alla caserma Lamarmora, il
pomeriggio, la sera e di notte sono sempre in viaggio.

Mercoledì 31 maggio. Mentre le arringhe delle parti civili sono scontate, c'è una certa atte-
sa per la requisitoria del PM Mi appresto a seguirla in un stato d'animo indecifrabile, ma
non sereno. Le argomentazioni del PM, anche se non sono sempre facili da capire perché il
modo di esporle è come sempre assai tecnico, seguono sistematicamente le argomentazioni
di Caselli: l'accusa affonda le radici nel ritrovamento dei covi, che distingue per ordine di
importanza a seconda del materiale in essi ritrovato. I covi sono il punto di congiunzione tra
i documenti che portano ai reati contestati e l'dentità degli imputati. Quelle che continuano
a mancare sono però le prove precise delle singole responsabilità di coloro che hanno com-
messo i singoli fatti.

Giovedì-venerdì 1-2 giugno. La requisitoria del PM continua serrata per tre giorni; cerca di
ripercorrere la storia del nucleo storico delle BR e dei reati che stiamo giudicando, ma non
riesce a superare questi limiti. C'è intanto una conferenza stampa dei giurati per denunciare
il fatto che, forse per la poca chiarezza della normativa in materia, a due giurate lo stipendio
non viene pagato per intero, ma decurtato a causa della forzata assenza dal lavoro, nono-
stante lo Stato non abbia ancora provveduto al loro compenso per l'incombenza cui le ha
chiamate. Stiamo infine arrivando al termine della requisitoria del PM; quando Moschella
nomina la Carletti, Buonavita ha uno scatto da dentro la gabbia: "Non ti permettere di no-
minarla"; gli fa eco Franceschini: "Ti lasciamo in vita perché ci servi, sei troppo stupido". E'
l'ultimo fiacco tentativo di aprire una schermaglia. Venerdì mattina, in un silenzio di tomba,
il PM chiede le pene. Mi sento chiudere lo stomaco: sono travolta da un senso di angoscia,
come di fronte alle catene, alla gabbia, alle visite alle carceri. E provo indignazione quando
sento che per le donne (in particolare per Nadia Mantovani), in quanto ritenute pedine mi-
nori coinvolte nella vicenda solo per il legame con i rispettivi compagni, sono chieste pene
minori. Neppure la dignità delle "proprie" idee! Al termine dell'udienza mi guardo intorno:
mi accorgo di non essere l'unica, della giuria, pallida e scossa. Nei giorni successivi ho ap-
pena tempo di scorrere i giornali, completamente sommersa dalla campagna politica. Con
mio stupore, i giornalisti e i soliti esperti disquisiscono sulle richieste del PM Moschella
che appaiono a tutti indulgenti. Forse, solo essendo direttamente coinvolti in un processo si
riesce a valutare con lucidità che cosa significhi esattamente la perdita della libertà e come
anni di detenzione non siano un fatto astratto, ma una dura realtà che dovrà essere vissuta
giorno dopo giorno; e come, questa volta, non sia stato detto che questi imputati non sono
quelli che hanno insanguinato il paese in questi anni e che i reati dei quali sono accusati non
prevedono pene superiori a quelle richieste. Ancora una volta è proprio vero: la funzione
della stampa è stata fondamentale. . . Domenica faccio un giro di comizi in Piemonte, per
un giorno ritrovo il contatto vitalizzante con i compagni e con la gente, e riesco a scrollarmi
di dosso il carico di tristezza e di opacità che porto dietro. Stiamo per affrontare gli ultimi
quindici giorni del processo: la mia insofferenza è ormai all'esasperazione. In questi giorni

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riuscirò però a tirare le fila dei rapporti stabiliti, magari anche con il silenzio, in questi due
mesi all'interno della caserma Lamarmora.

Lunedì-martedì 5-6 giugno. Iniziano le arringhe dei difensori di Borgna, Levati, Carletti.
Inizia anche l'applicazione della nuova legge sull'aborto e appaiono le prime denunce dell'i-
nagibilità degli ospedali, delle obiezioni di coscienza dei medici, ben superiori a quelle pre-
viste, delle difficoltà oggettive di poter applicare questa legge. Credo di dover ringraziare
l'avvocato Bianca Guidetti-Serra della sua arringa in difesa della Carletti; è riuscita con la
sua lucidità, con la precisione delle argomentazioni giuridiche, con una seria valutazione
della storia personale, morale, sociale della figura e delle motivazioni dell'imputata, a dare
un esempio importante di come il diritto, al di là delle norme e dei codici, non possa mai
essere sganciato dalla realtà storica e sociale cui viene applicato: tutto questo senza ovvia-
mente mai prescindere dal principio chiave della certezza del diritto, come fondamento del-
la convivenza civile. La figura di Bianca, al di là della sua credibilità e della stima di cui
gode non solo a Torino, ma in tutti i fori italiani, è stata in questi lunghi mesi, con la sua
presenza serena e riservata, con la sua decisione e correttezza, uno dei punti di riferimento,
almeno per me, in questa vicenda processuale difficile, travagliata, spesso prevaricata dal-
l'esterno.

Mercoledì 7 giugno. Si alza a parlare l'avvocato Zancan. Per sei ore terrà inchiodata la giu-
ria e l'aula alla sua arringa in difesa dell'avvocato Lazagna, portando sicuri e inoppugnabili
elementi di dubbio anche grave rispetto alle tesi della pubblica accusa. Al termine della sua
difesa, che ha avuto il pregio di distaccarsi dalla terminologia strettamente giuridica per riu-
scire comprensibile a tutti, nella giuria ci saranno grosse discussioni sul merito delle tesi
svolte. In questa fase, ritrovo con alcuni componenti della giuria un dialogo reale. La con-
sapevolezza dei limiti di un processo (non solo di questo), della difficoltà di restare nei con-
fini del diritto di una istruttoria così lacunosa, della fragilità di alcune prove e quindi la con-
sapevolezza della responsabilità angosciosa di giudicare, sono diventati finalmente patri-
monio di altri giurati. Cade la barriera che in questi mesi ci ha a volte inevitabilmente sepa-
rati. In particolare con una donna della giuria riapro un rapporto di solidarietà: da una posi-
zione direi superficiale è approdata ad una comprensione della realtà di classe e delle ingiu-
stizie socilai che ha radicato in lei la volontà di affermare una giustizia non discriminante,
fondata su fatti e prove reali, non influenzata da preconcetti. La difficoltà di rapporti inizia-
le, determinata anche da una vaga conflittualità rispetto al mio essere figura pubblica e
quindi pubblicizzata, cade per lasciar posto a un confronto, a un rapporto serio e leale. Bar-
baro solitamente riservato si lascia andare oggi ad alcune confidenze. All'improvviso all'ora
di pranzo aveva ordinato una lunga sospensione del processo. Non era mai accaduto e non
ce ne spiegavamo la ragione. Quando lo incontro nel pomeriggio gliene chiedo il motivo: si
scusa e mi dice di aver sentito il bisogno di andare a casa perché la moglie gli aveva detto
che sua figlia era stata presa da una crisi di angoscia. "Le ho parlato, adesso è tranquilla.
L'ho lascata, come sempre, vicina alla radio". Apprendo così che la figlia è una ascoltatrice
assidua di Radio Radicale. Rifletto sulla vita che quest'uomo e la sua famiglia sono costretti
a vivere, ormai da anni, prigionieri quali sono delle scorte armate, sotto la minaccia costan-
te delle BR. Terminata l'udienza esco frettolosamente dalla caserma: come ormai da vari
giorni alcuni compagni mi attendono, con una macchina, e subito ricomincia il "tran-tran"
della campagna elettorale: mancano pochissimi giorni al voto, l'impegno si intensifica. Alle

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sei del pomeriggio, fra una radio e una televisione privata, corro ad improvvisare uno degli
ultimi comizi, in una sala del centro. Come al solito, dove è annunciata la mia presenza sal-
ta agli occhi un insolito schieramento di polizia, e agenti in borghese si mescolano fra il
pubblico. Li riconosco bene, alcuni di loro sono fra quelli che, imperterriti, continuano da
mesi a recitare (male) la parte dei cittadini interessati al processo, nel settore dell'aula riser-
vato al pubblico. Parlando sfogo le mie tensioni, le preoccupazioni: mi soffermo, a lungo,
sul tema dell'ordine pubblico. Alla fine del comizio mi si avvicina un alto funzionario di
polizia, che ho già avuto occasione di conoscere: "Lo sappiamo noi quanto avete ragione. . .
Le leggi Reale sono le leggi del disordine, altro che dell'ordine pubblico. Siamo in molti, sa,
a votare SI', domenica. . . ". Lo dice a bassa voce, ma lo dice. E questo è l'importante.

Venerdì 9 giugno. Continuano gli interventi degli avvocati della difesa. E' di scena Arnal-
di, per alcuni imputati minori. Cerca di fare un esame dei motivi per cui è nato il fenomeno
del terrorismo, di far emergere le motivazioni degli imputati, di ricondurle al valore sociale
e morale che intendono esprimere, al di là dei fatti e dei comportamenti che hanno determi-
nato. Per questi motivi chiede in via subordinata le attenuanti previste e applicate normal-
mente nei "delitti d'onore" e in altre occasioni. La reazione della stampa è sorprendente. Sa-
bato, mentre sono alla radio impegnata dal giorno prima in un filo diretto in vista del voto
di domenica, leggo sui quotidiani un linciaggio nei confronti dell'avvocato Arnaldi che mi
lascia sgomenta e che dà il segno di come questo processo all'esterno sia stato colto e vissu-
to come un processo "speciale", certamente così è stato imposto all'opinione pubblica dalla
stampa. Insieme a quella di Guiso, che parla di uso spregiudicato della prova penale, che di-
stingue fra rivoluzionari e terroristi e si richiama anche lui al particolare valore sociale delle
motivazioni che hanno spinto gli imputati, sono le uniche due arringhe in cui si tenta un e-
same più approfondito del fenomeno del terrorismo, del nascere e dello svilupparsi delle
BR. Le tesi sono interessanti e avrebbero meritato maggior attenzione da una stampa che,
anche in questa fase, si limita a dare una visione degli imputati e dei fenomeni che si sono
presentati in questo processo o strumentale alla situazione politica o folcloristica. Arnaldi,
che ha partecipato alla Resistenza e ha profuso il suo impegno di avvocato in processi a mi-
litanti della sinistra e sindacalisti, è insultato su tutti i giornali. La stessa cosa capita a Gui-
so. Pare quasi che si pretenda di trasformare il ruolo della difesa in un ruolo concorrenziale
a quello del PM

Domenica-lunedì 11-12 giugno. Seguo le votazioni e gli scrutini dei referendum. Nel po-
meriggio di lunedì, al comune, i volti dei funzionari e degli assessori comunisti sono sem-
pre più tirati, seri, pallidi. Verso la fine degli scrutini del primo referendum, quello sul fi-
nanziamento, viene sospesa la pubblicità dai dati. Sono i sintomi, divenuti poi certezza, che
a Torino il finanziamento pubblico è stato sconfitto. Il 53,8 per cento dei cittadini ha votato
per la sua abrogazione. Anche il 27 per cento sulla Reale è superiore a quello del resto d'Ita-
lia. La città operaia per eccellenza ha dato una risposta seria a certe propagande faziose,
prive di contenuti, fondate sulla disinformazione, la mistificazione, il linciaggio. La sera, in
piazza Carlo Alberto, si radunano spontaneamente centinaia di persone, per festeggiare que-
sta grande vittoria politica. Con un megafono improvvisato incomincio a parlare, ma non
riesco a trattenere la commozione. Decine di compagni mi abbracciano: le lacrime che mi
cadono sono forse l'inizio dello sciogliersi di un grosso nodo interno, l'inizio del rinascere e
del riaffermarsi in me della fiducia nella gente, nella sua maturità e civiltà. Mi sono ricon-

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quistata la volontà di continuare a lottare, ad affermare nei comportamenti personali e poli-
tici quelle speranze che vedo non più patrimonio di pochi, ma sempre più patrimonio di
molti: ora è necessario dare voce e rappresentanza a questa opposizione che con tanta chia-
rezza è venuta alla luca, l'11 giugno. Dopo la manifestazione, in un clima di euforia, torno
al partito. Mi telefonano da Roma: vogliono una dichiarazione per Radio Radicale. Gian-
franco ed Emma - mi dicono - sono con Mimmo Pinto a Piazza Navona, a festeggiare an-
ch'essi il risultato. Marco Pannella ha invece atteso i risultati in piazza, a Trieste, dove sia-
mo già in piena compagna elettorale e dove il partito radicale, il 24 giugno, prenderà oltre il
6 per cento dei voti. Nei giorni successivi, anche alla caserma Lamarmora i toni pessimistici
di alcuni avvocati lasciano il posto all'euforia e ad atteggiamenti di entusiasmo.

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15. LA CORTE SI RITIRA, IL MIO COMPITO è FINITO

Venerdì 16 giugno. Mentre si dimette il presidente Leone, grazie al 43,7 per cento di sì
sul finanziamento pubblico a non certamente al "tempestivo" intervento di Botteghe Oscu-
re, a Torino siamo alle ultime battute processuali. Questa mattina viene data lettura del do-
cumento unitario degli avvocati d'ufficio: ai dodici che avevano presentato l'eccezione di
incostituzionalità, con molta minor credibilità e forza si sono ora aggregati gli altri sette,
fra cui i tre avvocati comunisti e l'onorevole Magnani-Noya, che tanto avevano attaccato
gli avvocati del "rinvio". Il congedo dei difensori di ufficio presenta caratteri di assoluta
novità: nessuna arringa, un lungo testo elaborato, a quanto si sa, in lunghe sedute notturne,
una faticosa unanimità che sostanzialmente allinea le posizioni di tutti su quelle dei primi
sostenitori dell'autodifesa. Ogni imputato ne ha ricevuto una copia. Le argomentazioni
qualificanti non mancano: E' giunto il momento del congedo quando le parti, tirate le
somme dell'esperienza dibattimentale, espongono le loro idee, tesi o argomenti. Poi tace-
ranno le varie voci e sarà la solitudine tremenda della Camera di consiglio dove i giudici,
raccolti, decideranno del destino di uomini mentre, fuori nell'animo di ognuno si agiteran-
no ansie, timori e speranze. Ma, sin qui, la solennità e l'emozione del rituale ripetono, pur
con diversi gradi di intensità, quelle di ogni altro processo. La divergenza, per la singolari-
tà del processo che non conosce precedenti (per quanto ne sappiamo) nella storia giudizia-
ria e certamente - di ciò non può dubitarsi - di portata e significato storico, sta nelle moda-
lità del congedo. Quale ha da essere, in un simile processo, il ruolo giusto, la funzione au-
tentica di una difesa di ufficio rispettosa della legge, della propria coscienza professionale
e civica, della sua indipendenza? E' ben conosciuta la posizione degli imputati detenuti:
essi disconoscono la legittimità del vigente sistema statuale, intendono abbatterlo e pertan-
to si rifiutano a ogni contraddittorio e dialogo con i suoi organi rappresentativi. Di qui la
contestazione del processo stesso visto come espressione di quello Stato che essi negano.
Consegue che, contestato il processo, non possa che contestarsi anche una delle sue com-
ponenti e cioè il difensore da quello stesso Stato imposto. Le conseguenze clamorose: I
sottoscritti difensori (salvo le eccezioni di cui si dirà) ritengono di non dover svolgere di-
fese nel merito in favore dei singoli imputati per rispettare la identità politica di tutti e al-
tresì per non rischiare di pregiudicare la posizione processuale di alcuno. Noi, quali difen-
sori, ci asteniamo, quindi, deliberatamente da qualunque tentativo metagiuridico; per noi
deve valere solo il dato oggettivo di quella posizione, così da ricavare da essa le corrette
conseguenze sostanziali e processuali. Orbene, il primo rilievo che balza agli occhi è l'in-
transigente coerenza con la quale gli imputati detenuti hanno portato innanzi il proprio di-
scorso ideologico, mantenuto nonostante la lunga e rigorosa detenzione (che essi non han-
no perso occasione per denunciare come "speciale") cosicchè è assolutamente fuori di
dubbio la sicura autenticità di tale pensiero e di tale scelta difensiva. Perciò, sorge l'inelu-
dibile esigenza di noi difensori di rispettare questi pensieri e scelte. Ai giudici spetterà la
valutazione; a noi occorre invece l'obbligo di impedirne e altresì di non favorirne (magari
involontariamente) la manomissione e il travisamento. Non solo, ma la coerenza da essi
manifestata racchiude una indubbia dignità nella misura in cui attesta che non si sono mai
piegati a strumentali, sempre fattibili, operazioni processuali per guadagnare un esito piut-
tosto che un altro. Se tanto avessero fatto si sarebbero trasformati da detenuti politici - pri-
gionieri di guerra, quali si definiscono - in imputati comuni, abbandonando appunto sul

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terreno del processo la loro personalità. Insomma, deve essere chiaramente compreso che
per costoro l'accettazione del processo e quindi del difensore significherebbe necessaria-
mente scendere a compromessi col sistema da essi contestato, ossia la negazione della loro
identità. Un difensore, dunque, che non può, per difetto di mandato fiduciario e correlativa
adesione ideologica alla loro "causa", trasmettere in modo autentico ed efficace il loro
pensiero e non essendo quindi (e volgiamo aggiungere coerentemente) accreditato amba-
sciatore deve solo preoccuparsi di evitare comportamenti che possano in qualche modo
contraddire ciò che l'imputato vuole apparire ed essere. Concludendo, gli avvocati ribadi-
scono il punto di principio essenziale: La verità è che noi processi contro detenuti "politi-
ci" l'imputato teme mano la condanna che la possibile perdita della sua coerenza ideale, in
una parola della sua personalità, o quanto meno non è disposto, per guadagnare qualche
anno di galera se non addirittura la liberazione, a pagare un simile prezzo. In breve: Il più
sicuro attestato di democrazia e libertà di un ordinamento lo si trae proprio dalla misura in
cui consente agli imputati "politici" la conservazione della loro personalità in ciò differen-
ziandosi dagli ordinamenti autoritari dove le posizioni ideologiche sgradite vengono svalu-
tate con mezzi vari sono anche all'irrisione (é pazzo!, si dice). Credo che questo documen-
to, che sintetizza la posizione processuale coerente tenuta dai difensori d'ufficio, rappre-
senti nel mondo giuridico un punto di arrivo e insieme di partenza in materia di regola-
mentazione dell'autodifesa: la prassi, in questo processo, ha anticipato il diritto. Bisogna
dare atto che è stata per gli avvocati una esperienza umanamente e professionalmente sof-
ferta, attraverso la quale hanno dato una lezione di serietà a una classe politica inefficiente
e come sempre in ritardo, aprendo una strada nuova nel campo del diritto processuale.

Lunedì 19 giugno. In un silenzio assoluto e quasi commosso Lintrami, la Mantovani e


Basone leggono il comunicato n. 19, sottoscritto da tutti gli imputati detenuti. Sono le uni-
che conclusioni e quindi anche l'unica difesa a chiusura del processo, tratte, come ovvio,
dagli imputati stessi, per cui ritengo giusto affidarmi a questo documento. 1) Quando, nel
maggio '76, questo processo ha iniziato la sua storia, voi avevate un progetto politico pre-
ciso ed ambizioso. Lo possiamo sintetizzare così: annientare la nostra identità politica e,
quindi, sancire la sconfitta si un pugno di "criminali", tanto ricchi di illusioni e di velleità
rivoluzionarie, quanto poveri di motivazioni comprensibili e di intelligenza storica. Il "ca-
polavoro" del rinvio a giudizio di Caselli è tutto qui: cercare di dare corpo e sostanza a
questo scheletro di ragionamento. Caselli affermava: "Il dispiegarsi di una nuova crimina-
lità diffusa ed organizzata, che forma oggetto di analisi ormai tanto frequenti quanto ``an-
siose'', trova nell'attività delle B.R. esempi significativi e quasi emblematici. Si può conce-
dere che la violenza delle B.R. (come pure altre forme di ribellione alla legge) abbia radici
inestricabilmente confuse con il nodo in cui è venuta sviluppandosi la società italiana.
Troppo spesso però le ``radici'' della violenza vengono sublimate a ``cause'', quando non
addirittura a ``scriminanti'' di esse: in realtà esperienze anche recenti dimostrano che nelle
distorsioni del ``sistema'' italiano è possibile reagire efficacemente con mezzi legali. La
violenza è la risposta di chi (a dispetto delle sue illusioni) è incapace di analisi veramente
approfondite ed insofferente per una valutazione realistica dei dati di fatto, e quindi sog-
getto ai condizionamenti di un'impazienza avventuristica". E' fin troppo evidente che, se-
condo Caselli, l'opposizione allo Stato, per essere "politica", e con ciò legittima e tollerata,
non deve manifestarsi come antagonismo in atto. Cioè deve accettare di svolgersi intera-
mente dentro al cerchio magico tracciato dalle leggi, dalle convenzioni, e dai codici di

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comportamento sociale "normale" stabiliti dalla classe dominante. L'alternativa, ogni al-
ternativa, è CRIMINE! Data questa premessa, si capisce allora perché la vostra preoccupa-
zione fondamentale sia sempre stata, sin dall'inizio del processo, quella di svolgere contro
di noi un "processo normale". Solo così, infatti, avreste potuto stravolgere la iniziativa ri-
voluzionaria in attività criminale e, così facendo, liquidare la nostra identità politica. Se il
processo, infatti, avesse assunto, anche solo parzialmente, una forma speciale, sarebbe di-
ventato inevitabilmente chiaro che, quantomeno, eravamo "criminali speciali". E ciò a-
vrebbe comportato di fatto un, sia pur modesto, riconoscimento politico. Ecco perché? Noi
abbiamo sempre sostenuto che il processo "più normale" è di fatto anche il processo "più
rivoluzionario". 2) L'unica cosa alla quale un combattente comunista non può rinunciare è
la sua identità politica. Identità politica, per il militante rivoluzionario, significa prima di
tutto PARTITO. E' nei principi, nella strategia, nel programma, nella disciplina del Partito
che egli autonomamente e liberamente si riconosce. Ed è affermando nella pratica della
guerra di classe questo patrimonio proletario, che egli viene riconosciuto dal popolo, per-
ché il partito rivoluzionario è l'espressione più alta della maturità, della coscienza, della
organizzazione della classe. Nell'azione collettiva di partito, il combattente comunista af-
ferma la sua identità; nella negazione di questa dimensione, lo Stato Imperialista cerca di
distruggerla. Per questo motivo non non potevamo accettare il "processo normale" che ci
volevate imporre: non potevamo "suicidare" la nostra identità politica. La nostra risposta
poteva essere, come di fatto è stata, una sola: il processo guerriglia. Col comunicato n. 1
del 17 maggio '76, la nostra iniziativa prendeva forma. Dichiaravamo allora: "Questo tri-
bunale ha un obiettivo ben più ambizioso della semplice criminalizzazione di alcuni mili-
tanti e della loro organizzazione. Esso intende colpire una tendenza storica, un programma
strategico: la lotta armata per il comunismo... "Ci proclamiamo pubblicamente militanti
dell'Organizzazione Comunista BRIGATE ROSSE e come combattenti comunisti ci as-
sumiamo collettivamente e per intero la responsabilità di ogni sua iniziativa passata, pre-
sente e futura. "Affermato questo, viene meno qualunque presupposto legale per questo
processo: gli imputati non hanno niente da cui difendersi, mentre, al contrario, gli accusa-
tori hanno da difendere la pratica criminale antiproletaria dell'infame regime che essi rap-
presentano. "Se difensori dunque devono esserci, questi servono a voi, egregie eccellenze.
Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato di fiducia per
la difesa e li invitiamo, nel caso fossero nominati d'ufficio, a rifiutare ogni collaborazione
col potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale e per questo
lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d'ordine: PORTATE L'ATTACCO AL
CUORE DELLO STATO!". Il nostro rifiuto di assumere il ruolo di "imputati" e la conse-
guente ricusazione dei difensori, ha disarticolato profondamente il disegno che intendevate
attuare. Avete reagito tentando di imporci avvocati di ufficio, che sono diventati così veri e
propri avvocati di regime, e cercando di stravolgere il significato politico della nostra a-
zione, insinuando che fosse nostra intenzione paralizzare il processo. Nel "comunicato n.
4" del 24 maggio '76, affermavamo perciò: "E' importante fare ulteriore chiarezza sulla no-
stra decisione di rifiutare di essere, in qualunque modo, difesi da qualunque specie di av-
vocati. Con questa scelta abbiamo voluto affermare un principio estremamente chiaro: in
qualunque processo l'avvocato ha la funzione di mediatore tra l'imputato e il giudice, è
``l'altra faccia'' del giudice. In un processo politico, questa funzione diventa ancora più pa-
lese, perché in questo caso si tratta di stabilire un terreno di mediazione fra la rivoluzione e
la contro-rivoluzione. Con la dichiarazione del 17 maggio abbiamo capovolto i termini:

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noi, gli imputati, siamo diventati gli accusatori; voi, i giudici, siete diventati gli imputati.
Per cui, da questo momento, ogni avvocato è diventato di fatto il vostro avvocato... "Per
questo, d'ora in pi, chiunque accetta il ruolo di avvocato d'ufficio deva andare ben oltre la
collaborazione e diventare, di fatto, parte organica ed attiva della contro-rivoluzione. Oltre
il difensore di fiducia, oltre il difensore d'ufficio, c’è ora necessariamente il difensore di
regime... "Chi ha creduto di vedere nella dichiarazione politica del 17 maggio un nostro
avviso tattico per far saltare, o quantomeno rinviare, questo processo, non ha capito un
questione fondamentale: non siamo noi ad aver paura della verità! Al contrario, siamo qui
ben decisi a continuare, in quanto militanti comunisti combattenti, il processo proletario
contro il regime che voi rappresentate, i suoi crimini ed i suoi criminali!". L'otto giugno
'76, sviluppando la parola d'ordina PORTATE L'ATTACCO AL CUORE DELLO
STATO, le BRIGATE ROSSE giustiziarono il procuratore generale di Genova, Francesco
Coco, con ciò procedendo nella "campagna" iniziata con la cattura ed il processo del giu-
dice SOSSI, il cui scopo era quello di evidenziare, dietro la maschera democratica, il con-
tenuto ferocemente controrivoluzionario dello Stato imperialista. Con questa azione anche
i rapporti di forza in aula si spostano decisamente a nostro favore. Con essa, inoltre, si rea-
lizza la saldatura strategica tra un'avanguardia rivoluzionaria che, per quanto imprigionata,
ha la forza politica di mettere sotto accusa il tribunale di regime, ed il movimento rivolu-
zionario nel suo complesso. In queste condizioni, il presidente della Corte ed i centri di po-
tere di cui egli è espressione, valutano tatticamente conveniente rinviare il processo di
qualche mese, in attesa di tempi migliori. La sospensione del processo è la prima sconfitta
politica del disegno controrivoluzionario che intendevate perseguire. L'aspetto essenziale
di questa sconfitta sta nel fatto che con il nostro rifiuto di assumere il ruolo di imputati,
con la gestione dell'azione COCO in aula, il carattere "speciale" del processo comincia a
manifestarsi. Tuttavia, da questa sconfitta, voi speravate ancora di poterne uscire mante-
nendo inalterata la forma del "processo normale". Nei mesi di sospensione, infatti, tutti i
vostri sforzi sono tesi a precostituire un manipolo di avvocati, che sia disponibile ad accet-
tare e sostenere fino in fondo il ruolo di "avvocati di regime". Ma l'attacco offensivo e pre-
ventivo portato dalle BRIGATE ROSSE contro il presidente dell'Ordine degli avvocati,
Fulvio CROCE, intorno al quale si imperniava la vostra manovra, ha fatto fallire anche
questo ulteriore tentativo. A questo punto, risalta nettamente che questo non è certamente
un "processo normale", ma che, a dispetto delle parole, è un PROCESSO POLITICO.
L'impossibilità di costituire la giuria popolare ne è una prima clamorosa conferma. Anche
l'Esecutivo è costretto allora a scendere direttamente in campo, emanando, nel tempo re-
cord di una notte, il decreto legge sulla "carcerazione preventiva". E ancora una volta cer-
cate di nascondere la verità insinuando che il nostro obiettivo sia quello di sabotare il pro-
cesso, per consentire ad alcuni compagni di uscire in libertà. Il "comunicato n. 7" fa chia-
rezza su tutti questi problemi. In esso si afferma che: "Il processo alla rivoluzione proleta-
ria non è possibile. Voi stessi in questi mesi vi siete incaricati di dimostrarlo, mettendovi
tranquillamente sotto i piedi ogni parvenza di legalità: avete trasformato le vostre ``aule di
giustizia'' in vere e proprie roccaforti militari; avete preteso di imporci avvocati di regime,
squallidi burattini nelle vostre mani; avete emanato leggi speciali che in un batter d'occhio
hanno vanificato ogni traccia del vostro tanto sbandierato ``stato di diritto''. "Così facendo,
avete dimostrato nei fatti ad ogni proletario ciò che abbiamo sempre affermato: dietro le
forme democratiche, lo Stato imperialista nasconde la sua vera natura di feroce dittatura
controrivoluzionaria della borghesia. E questa è una vittoria della rivoluzione comunista!

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(... ). "Con l'azione CROCE non si è inteso, come tentate di far credere, raggiungere l'o-
biettivo di rinviare il processo. Non è certamente da voi che ci aspettiamo la nostra libertà
(... ). Essa invece ha realizzato l'obiettivo strategico di disarticolare il vostro piano preven-
tivo, di neutralizzazione della nostra iniziativa. E, nello stesso tempo, ci ha restituito l'of-
fensiva". Alla ripresa, nel marzo '78, nessuna mistificazione è più possibile. Il carattere po-
litico del processo è ormai dominante. Tutto sta a dimostrarlo: la mobilitazione politica
"contro il terrorismo" organizzata dal PCI; la militarizzazione spettacolare di Torino volu-
ta dall'Esecutivo; il tribunale alloggiato in una ex-caserma; la seconda legge speciale sulla
"giustizia popolare", alla quale se ne aggiungerà presto una terza che, se per un verso a-
vrebbe dovuto consentirci di tapparci la bocca a vostro piacimento, dall'altro costituisce
un'ulteriore "interferenza" dell'Esecutivo, che annichilisce le ultime illusioni sulla autono-
mia della magistratura, tanto care a qualcuno in quest'aula; e, infine, gli avvocati di regime
che, riconoscendo esplicitamente questo loro ruolo, si mettono da parte, riducendo la loro
presenza in aula ad un puro dato coreografico. Alla ripresa, nel marzo '78, appare chiaro
che questo non è più un processo ma un argomento politico della guerra di classe; un epi-
sodio dello scontro più generale che oppone, in una lotta irreversibile, le forze della rivo-
luzione alla controrivoluzione imperialista. Ed è proprio su questo terreno generale, infatti,
che ora si articola la battaglia. In questi mesi il movimento rivoluzionario scatena la sua
più dura e più ampia offensiva, che trova nel processo ad Aldo MORO la sua espressione
più alta. E' naturale, quindi, che anche lo svolgersi concerto delle udienze metta in luce,
giorno dopo giorno, l'esistenza di un doppio potere, riflesso particolare nell'aula dello
scontro di potere più generale che percorre il Paese. Sono i nuovi rapporti di forza com-
plessivi tra le classi, tra il campo della rivoluzione e quello della controrivoluzione, e non
la presunta tolleranza del giudice, che ci consentono di conquistare quegli spazi, che ci
permettono di sviluppare il nostro attacco politico contro tutti coloro che anche dal fatto
che, nel maggio '76, quando i rapporti di forze erano ben diversi, non solo ci veniva impe-
dito sistematicamente di parlare, ma si giunse perfino a denunciarci per oltraggio. Noi, qui
dentro, mai abbiamo dovuto difenderci. Tutto ciò che è stato contestato all'Organizzazione
Comunista BRIGATE ROSSE, di cui facciamo parte, è per noi titolo di merito. Ed infatti,
ne abbiamo assunto apertamente la responsabilità politica collettiva. Affermare pertanto,
come fanno nel documento conclusivo gli avvocati che avete tentato di imporci, che da
parte nostra ci sarebbe stato un ricorso all'autodifesa, costituisce soltanto una macroscopi-
ca e mistificante giustificazione della funzione puramente coreografica che hanno recitato
in quest'aula, ma non corrisponde certamente alla realtà dei fatti. Le "prove" che essi addu-
cono, infatti, vale a dire le citazioni di brani o frasi tratte dai nostri interventi, sono così
clamorosamente manipolate da far vedere, anche ai ciechi, l'intento bassamente strumenta-
le dell'operazione. L'attacco alle articolazioni del controllo e del dominio nelle grandi fab-
briche (azioni contro i capi aguzzini, spie, fascisti,... ); le perquisizioni nei covi dove si
tramavano soluzioni golpiste al problema rappresentati dalla forza operaia (CRD, Centri
Sturzo, UCID,... ); la cattura di informazioni strategiche per l'ulteriore avanzamento della
lotta di liberazione contro il lavoro salariato (Labate, Amerio,... ); i processi rivoluzionari
ai funzionari della controrivoluzione imperialista (Sossi,... ); unitamente al lavoro politico
quotidiano per ricostruire nel tessuto di classe la coscienza organizzata della necessità e
della possibilità di dare una soluzione rivoluzionaria alla questione del potere, perché mai
avrebbero dovuto costituire, di fronte a voi, che rappresentate, che siete i nostri nemici di
sempre, motivo di difesa? Al contrario, è toccato a voi, agli esponenti della vostra classe,

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da Labate ad Amerio, da Sogno a Sossi, da Girotto a Beria d'Argentine - tutti coinvolti in
più o meno losche vicende contro il proletariato - recitare la parte miserabile che la storia
di questi anni gli ha assegnato e tentare un'impossibile difesa. Li abbiamo visti mentire,
truccare le carte in tavola, trincerarsi dietro silenzi oscuri. Abbiamo osservato attentamente
la rappresentazione della vostra disgregazione e non dimenticheremo. Certo è quello che in
origine doveva essere l "processo alla rivoluzione comunista" si è stravolto, cammin fa-
cendo, nel suo esatto contrario; è diventato cioè un'articolazione del processo più generale
che le forze comuniste rivoluzionarie hanno condotto e continuano a condurre in tutto il
Paese contro lo Stato imperialista ed il suo personale politico-militare. Il suo svolgimento,
come pure la sentenza, non dimostrano dunque - come i più stupidi cercano di far credere -
una "vittoria dello Stato ed una sconfitta delle BR". Questo processo, infatti, non dovete
mai dimenticare, si è svolto per una precisa scelta politica e militante delle forze rivolu-
zionarie. E questo non lo diciamo oggi, a cose fatte, tant'é vero che, ancora il 19 marzo, nel
"comunicato n. 1", le BRIGATE ROSSE precisavano: "Abbiamo già detto che il processo
attraverso il quale un tribunale speciale vorrebbero liquidare la rivoluzione comunista non
può essere una farsa. Ben altro processo è in atto nel Paese, è quello che vive nelle lotte
del proletariato contro il nemico imperialista, che nello svilupparsi della guerra civile per
la costruzione della società comunista, mette sotto accusa la borghesia ed i suoi servizi.
Quindi, che la farsa inscenata a Torino si svolga pure, noi riaffermiamo quanto già i mili-
tanti della nostra organizzazione imprigionati hanno ampiamente ed efficacemente soste-
nuto: il rapporto che lega i comunisti combattenti ai tribunali speciali è uno solo:
GUERRA!". Ciò detto, potrete forse anche capire il significato profondo di un'affermazio-
ne ricorrente nei nostri comunicati: "Il processo alla rivoluzione proletaria non è possibile.
L'unico processo possibile è quello proletario contro lo Stato imperialista". Oggi esiste, nel
nostro Paese, un doppio potere: allo Stato imperialista si contrappone la presenza offensiva
ed antagonistica del movimento di resistenza proletario. Tra questi due poteri che si af-
frontano non c’è però alcuna simmetria; essi sono espressione di classi antagonistiche, di
interessi, bisogni ed aspirazioni inconciliabili. E' falso quanto, in sostanza, afferma il dirit-
to borghese, vale a dire la pretesa uguaglianza formale degli individui-cittadini. E' falso,
perché sotto l'astrazione "i cittadini" agiscono ben precisi individui storici reali, per niente
uguali, ma, invece, collocati in classi sociali tra loro antagonistiche. Il cittadino Agnelli ed
il cittadino Basone, che faceva l'operaio nella sua fabbrica, ad esempio, che cosa hanno da
spartire? La società capitalistica non poggia, come voi sostenete, su individui-cittadini, fat-
ti uguali tra loro nel diritto e ricomposti nei loro interessi dallo Stato. Questa è semplice
ideologia. Appunto, ideologia del dominio di una classe: la vostra! Alla base della società
capitalistica si affrontano precise classi sociali che stanno tra di loro in una relazione anta-
gonistica di sfruttamento-espropiazione, dominio-subalternità, controrivoluzione-
rivoluzione. Lo Stato, la sua ideologia giuridica, il suo diritto, non sono altro che strumenti
attraverso i quali la borghesia esercita la sua dittatura sul proletariato. Leggi e diritto non
sono al di sopra del mondo degli uomini reali, non discendono dal cielo, ma molto più ter-
renamente sono armi in mano ad una classe per affermare i suoi interessi materiali e per
combattere chi questi interessi, con le sue lotte pregiudica. Voi dite: "la legge è uguale per
tutti". E falso. Di fronte ad essa proletari e borghesi non sono affatto uguali. E' vero invece
che voi imponete con la forza, con la violenza, le vostre leggi a tutta la società. Ma noi,
che in questa caserma non riconosciamo le vostre leggi, i vostri codici, la vostra autorità,
dimostriamo che ciò che voi vorreste far apparire come ordine naturale delle cose è piutto-

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sto un "ordine storico", transitorio, destinato a mutare ed a perire. Caratteristica essenziale
dello Stato è il suo essere "violenza concentrata ed organizzata". Ma tutto ciò deve essere
coperto, mascherato, da un'azione capillare continua di mistificazione ideologica e propa-
gandistica. La simulazione opera a tutti i livelli dell'iniziativa contro-rivoluzionaria ed an-
che in questo processo, naturalmente, dove gli attori - giudici, PM, avvocati, giuria - si e-
sibiscono in un gioco desolante: tentare di salvare le apparenze, a qualsiasi costo! Gioco
desolante ma necessario, perché nel cosiddetto "Stato di diritto" solo la simulazione ideo-
logica, che opera nel concetto basilare di "sovranità popolare", può consentire alla borghe-
sia imperialista di tener celata alle masse la nuda realtà. Da dove viene il diritto? ci rispon-
dete: dalla democrazia. E da dove viene la democrazia? ci rispondete: dal diritto. E allora
noi vi chiediamo: da dove vengono entrambi? A questo interrogativo diamo noi la rispo-
sta: vengono dalla classe dominante. Democrazia e diritto sono la formalizzazione politi-
co-giuridica degli interessi di questa classe. E dunque, quello che voi chiamate "Stato di
diritto" è soltanto una forma storica, specifica, della dittatura della borghesia. Il potere pro-
letario, al contrario, non ha bisogno di mistificare, di simulare, i suoi fondamenti. Le sue
basi sono nella classe operaia, nei lavoratori produttivi, nel proletariato metropolitano, ed
il suo interesse generale, vale a dire il suo scopo, è la trasformazione dei rapporti di produ-
zione capitalistici, la creazione di una società comunista. Il potere proletario sa di essere
una forza organizzata e concentrata, ed aspira apertamente a diventare dittatura. Il suo e-
sercizio da parte delle avanguardie comuniste combattenti, del movimento di resistenza
proletario offensivo e delle lotte di massa, non è dunque riferito ad un'astratta giustizia, ma
è il prodotto di un reale rapporto di forze nel processo di liberazione. Se quindi ogni forma
di diritto è la codificazione di un rapporto di forza tra le classi, è conseguente, anche, che
in quest'aula non vi sono né colpevoli né innocenti, ma semplicemente chi ha ragione e chi
ha torto. E qui siamo noi ad avere ragione! Abbiamo ragione, perché siamo espressione
della classe emergente e rivoluzionaria che, unica, col suo movimento, può portare a solu-
zione la contraddizione ormai esplosiva fra le forze produttive e rapporti di produzione.
Voi, tuttavia, dovete emettere una sentenza di condanna. Dovete farlo perché, per la classe
che rappresentate, è necessario bloccare, annientare, il movimento storico reale che non ha
rispetto per le vostre toghe, irride l'ipocrisia dei vostri rituali, non riconosce le vostre leggi
e non teme le vostre armi. Dovete farlo, anche se in quest'epoca di rivoluzione sociale, a
nulla serve condannare singoli militanti, per fermare un processo che è il risultato di uno
scontro profondo fra le classi. Per fare questo, siete costretti a fondare la vostra sentenza -
mancandovi perfino quelle che voi chiamate "prove certe" - sul concetto indeterminato di
"nucleo storico". Sarebbe, come ci ha spiegato il PM, l'appartenenza a questo "nucleo sto-
rico" a "inchiodare" alcuni di noi; a dimostrare cioè la partecipazione a tutte le azioni del-
l'organizzazione! perché, si sa, nelle BR "tutti fanno tutto". Il PM è quello che é, ed già
molto che sia riuscito a svolgere un ragionamento così elementare. Ma, a parte il PM, an-
che gli allocchi capiscono, senza troppa fatica, che si tratta di un "ragionamento" senza
fondamento, perché quello che è stato indicato come "nucleo storico", è semplicemente il
primo nucleo di compagni che vi è capitato di arrestare. Sono stati i carabinieri e Caselli
(che poi è la stessa cosa) a trasformare questi compagni arrestati prima in "colonnelli" e,
successivamente, in "nucleo storico". Ma quanti e quali sono i compagni che sin dall'inizio
hanno militato nelle BR? La verità è questa: voi non siete mai riusciti a capire, e perciò a
ricostruire, la genesi, la storia delle BRIGATE ROSSE, né politicamente (come diremo in
seguito) né tantomeno sul terreno dell'organizzazione. Anche in quest'aula avete fatto ogni

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sforzo per non capire, solo preoccupati di arrivare alla fine. E così il fenomeno che vi tra-
volgerà resta per voi un mistero, un fantasma al quale, tanto per liberarvi dall'incubo, avete
cercato di dare una facciata di comodo. Troppe sono le banalità ed i luoghi comuni raccat-
tati tra le veline dei carabinieri, che infrangono l'istruttoria del giudice istruttore e la requi-
sitoria del PM per ricordarle tutte; e comunque troppo noiosa per tutti sarebbe un'escursio-
ne di tal genere in quei cimiteri dell'intelligenza. Perciò, con maggior generosità di quanto
non ne abbia avuta Moschella, ve ne facciamo grazia. Ma che sia così non potete nascon-
derlo, perché è la continuità e la forza in continuità crescita dell'organizzazione di cui fac-
ciamo parte, che ve lo impedisce. La verità è che, fondando la vostra sentenza sulla nostra
partecipazione a quello che chiamate "nucleo storico", siete costretti a condannarci "per
ciò che siamo politicamente", perché siamo comunisti rivoluzionari; e questa, egregie ec-
cellenze, è una nostra ulteriore vittoria, perché, così facendo, siete infine costretti ad am-
mettere ciò che più di tutto avreste voluto nascondere: la nostra identità politica. 3) Da do-
ve sono nate dunque le BR? E' una domanda ossessiva, alla quale la borghesia, le sue varie
"teste d'uovo" e lo stesso GI, per non parlare del PM, non hanno saputo dare una risposta.
E' però una risposta decisiva, e dunque dobbiamo fare chiarezza. Da dove vengono allora
le BR? Sono un'emanazione dei servizi segreti ed internazionali, di destra o di sinistra?
Sono il prodotto del volontarismo fanatico di alcuni intellettuali, e cioè il prolungamento
senile ed armato di un manipolo di irriducibili del '68? Sono gli ultimi orfanelli si Stalin,
traditi dal compromesso storico e nostalgici di un'impossibile rivoluzione? Sono un'aggre-
gazione di individui socialmente devianti, disadattati, con accentuate tendenze criminali?
Sono il prodotto abnorme e mostruoso della crisi economica più devastante che ha investi-
to il sistema capitalistico in questi ultimi trent'anni? No! Le BRIGATE ROSSE non na-
scono né all'Ufficio Affari Riservati, né a Mosca, né a Washington, e neppure all'università
di Trento, o alla Federazione del PCI di Reggio Emilia. Le BRIGATE ROSSE nascono
molto più semplicemente, all'inizio degli ani '70, dai reparti avanzati dalla classe operaia,
come embrionale soluzione del BISOGNO STRATEGICO di mantenere l'offensiva nelle
nuove condizioni politiche, caratterizzate dal violento e sanguinoso contrattacco che la
borghesia andava organizzando. In particolare, le BRIGATE ROSSE nascono alla fabbrica
Pirelli di Milano. Questo non a caso, perché proprio la classe operaia della Pirelli rappre-
sentava in quella fase i più alti livelli di coscienza politica e di autonomia, maturati dalla
lotta di massa del biennio '68-'69; e perché, proprio nel '70, questa classe operaia, decisa a
mantenere l'offensiva, fu costretta ad elaborare nuove linee di combattimento e nuove for-
me organizzative. In un documento del marzo '71, in cui si tracciava un bilancio della lotta
alla Pirelli, scrivevamo: "La fase che lo scontro tra le classi oggi attraversa, noi riteniamo
sia quella della conquista degli strumenti di organizzazione e di accumulazione delle forze
rivoluzionarie capaci di reggere lo scontro e di preparare l'offensiva di fronte al progredire
di un movimento di reazione, articolato fino al limite della controrivoluzione armata; e
cioè dal passaggio necessario dalla risposta spontanea di massa, anche se violenta, all'at-
tacco organizzato, che sceglie i suoi tempi, calcola la sua intensità, decide il terreno, im-
pone il suo potere". L'offensiva operaia, culminata nel ciclo di lotte '68-'70, aveva modifi-
cato sostanzialmente i rapporti di forza tra le classi, mettendo conseguentemente in crisi le
strutture politiche ed istituzionali che, nel dopoguerra, avevano caratterizzato la forma del-
lo Stato. Tra gli effetti di questo ciclo di lotte, quello più devastante è stato la CRISI
POLITICA ED ISTITUZIONALE che ha caratterizzato gli anni '70 e che è tuttora irrisolta.
La lotta operaia ha dovuto così misurarsi con il progetto di ristrutturazione che la borghe-

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sia andava elaborando, nel tentativo di risolvere questa crisi. Progetti che implicavano tan-
to l'organizzazione del lavoro in fabbrica con l'obiettivo di riconquistare, almeno in parte,
il terreno perduto, quanto la forma dello Stato, messa in discussione dalla richiesta di pote-
re delle masse. La crisi economica mondiale, che a partire dal '74 sconvolge l'area imperia-
lista nel suo complesso, innestandosi sulle contraddizioni irrisolte del nostro Paese, fun-
ziona da moltiplicatore della crisi politica già in atto. E gli effetti sociali della crisi econo-
mica, vale a dire riduzione della base produttiva, abbassamento dei salari reali, disoccupa-
zione, emarginazione, non fanno che approfondire le condizioni oggettive e sviluppare le
condizioni soggettive che favoriscono un ulteriore salto di qualità del processo rivoluzio-
nario. Le BRIGATE ROSSE non sono quindi il prodotto della crisi economica. Non na-
scono cioè su un'ipotesi tattica e difensiva, ma in quanto espressione politica e prolunga-
mento dell'offensiva proletaria, rappresentano, all'interno della crisi, un elemento strategi-
co di coagulo per tutte quelle forze e quei settori di classe, che possono risolvere la loro
condizione solo dando uno sblocco rivoluzionario alla crisi. A questo punto è importante
fare una considerazione di ordine generale. Le teorie sociali rivoluzionarie, le organizza-
zioni rivoluzionarie nascono e si affermano solo quando esprimono un bisogno profondo
delle classi sociali che le generano. Questa è una legge scientifica dello sviluppo storico.
Come afferma il compagno Stalin: "Le idee e le teorie sociali nuove sorgono solo quando
lo sviluppo della vita materiale della società pone di fronte alla società compiti nuovi. Se
delle teorie sociali nuove sorgono è perché esse sono necessarie alla società, perché senza
la loro azione organizzatrice, trasformatrice, mobilizzatrice, è impossibile la soluzione dei
problemi urgenti posti dallo sviluppo della vita materiale della società". Che le BRIGATE
ROSSE siano l'espressione organizzata di questa necessità storica, lo dimostra chiaramente
il fatto che, nonostante la debolezza iniziale delle forze, i limiti soggettivi, gli errori com-
piuti e l'attacco globale portatoci dallo Stato, dalle organizzazioni revisioniste e neorevi-
sioniste e più in generale dall'internazionale controrivoluzionaria, non solo sul piano mili-
tare, ma anche sul terreno ideologico e politico, noi ci siamo sviluppati, abbiamo esteso la
nostra presenza nei maggiori poli proletari del Paese, abbiamo maturato la nostra capacità
politica e militare. 4) Le BRIGATE ROSSE non sono una "banda armata". Fin dal loro
sorgere esse di caratterizzano come organizzazione politico-militare, primo elemento di
coagulo delle avanguardie proletarie per la costruzione del Partito Comunista Combatten-
te. Tutta la loro pratica, negli otto anni della loro storia, lo dimostra ampiamente. E ciò si
riflette con estrema chiarezza anche nei documenti politici. Nell'intervista del marzo '71, si
affermava: "Le BR non sono ``organismi militari'' ed è completamente estraneo al nostro
stile di lavoro dividere gli ``organismi politici'' dagli ``organismi militari''. Il principio da
altri formulato che deve essere la politica a guidare il fucile è da noi inteso e praticato in
un senso preciso, e cioè sollecitando in ogni compagno ed in ogni nucleo di compagni un
approfondito chiarimento politico a guida, fondamento e scelta del proprio comportamento
rivoluzionario, all'occorrenza anche militare". Nell'intervista del settembre '71, ribadiva-
mo: "Le BR sono i primi punti di aggregazione per la formulazione del partito armato del
proletariato. In questo sta il nostro collegamento profondo con la tradizione rivoluzionaria
comunista del movimento operaio". Tradizione che, lo ricordiamo, ha sempre sostenuto la
tesi scientifica secondo cui gli affari militari non sono che la politica in particolari circo-
stanze. La guerra è il prolungamento della politica. In questo senso, la guerra è politica. La
politica, in altri termini, è una guerra senza spargimento di sangue. I due termini, guerra e
politica, nel movimento reale della lotta di classe sono inestricabilmente connessi, e non

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possono, in nessun caso, essere separati. Nelle condizioni oggettive che definiscono l'im-
perialismo delle multinazionali, questa tesi assume un rilievo strategico e centrale, poiché
la lotta di classe tende progressivamente ad assumere il carattere della guerra di classe.
Anche il processo di costruzione del Partito non può sfuggire a queste precise determina-
zioni, per cui esso, sin dal suo sorgere, deve assumere la forza di un'organizzazione politi-
co-militare. Nell'intervista del gennaio '73, sviluppando questa tesi, affermando che: "Noi
crediamo che l'azione sia solo il momento culminante di un vasto lavoro politico, attraver-
so il quale si organizza l'avanguardia proletaria, il movimento di resistenza, in modo diret-
to rispetto ai suoi bisogni reali ed immediati. In altri termini, per le BR l'azione armata è il
punto più alto di un profondo lavoro di classe: è la sua prospettiva di potere". E più avanti:
"Il problema che dobbiamo risolvere è quello di fare alle spinte rivoluzionarie che vengono
dal movimento di resistenza una dimensione di potere. Si richiede per questo uno sviluppo
organizzativo a livello di classe che sappia rispettare i livelli di coscienza che vi operano,
ma sappia nello stesso tempo unificarli e farli evolvere nella prospettiva strategica della
lotta armata per il comunismo. Le BRIGATE ROSSE sono i primi nuclei di guerriglia che
operano in questa direzione. Per questo intorno ad esse vanno organizzandosi i militanti
comunisti che pensano alla costruzione del Partito armato del proletariato". Gli stessi temi
venivano ripresi ad approfonditi nella Risoluzione Strategica dell'aprile '75: "La guerriglia
urbana organizzata il ``nucleo strategico'' del movimento di classe non il ``braccio armato''.
Nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare ed agire militarmente e dare
il primo posto alla politica. Essa svolge le sue iniziative rivoluzionarie secondo una linea
di massa politico-militare. "Nell'immediato l'aspetto fondamentale della questione rimane
la costruzione del Partito Combattente, come reale interprete dei bisogni politici e militari
dello strato di classe oggettivamente rivoluzionario e l'articolazione di organismi di com-
battimento a livello di classe sui vari fronti della guerra rivoluzionaria". Infine, nella Riso-
luzione Strategica del febbraio '78: "Per trasformare il processo di guerra civile strisciante,
ancora disperso e disorganizzato, in un'offensiva generale diretta da un disegno unitario, è
necessario sviluppare ed unificare il movimento di resistenza proletario offensivo co-
struendo il Partito Comunista Combattente. Movimento e Partito non vanno però confusi:
tra essi opera una relazione dialettica, ma non un rapporto di identità. Ciò vuol dire che è
dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che
l'avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria ed or-
ganizzazione stabile e, infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di com-
battimento, programma, strutture di massa del potere proletario. "Vuol dire che il processo
corretto che dobbiamo seguire parte dalla classe per arrivare al Partito e parte dal Partito
per ritornare ancora, sotto forma più matura, alla classe. Il Partito Comunista Combattente,
prima che una struttura organizzativa, è un'avanguardia politico-militare, che è realmente
davanti a tutti, che traccia la via da percorrere per tutto il movimento, che sa farsi ricono-
scere per mezzo della sua iniziativa rivoluzionaria dalla parte più avanzata del proletariato.
"Agire da Partito vuol dire collocare la propria iniziativa politico-militare all'interno ed al
punto più alto dell'offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspet-
to dominante in ciascuna congiuntura ed essere così di fatto il punto di unificazione del
movimento di resistenza proletario offensivo, la sua prospettiva di potere. Per questo è im-
portante condurre nel movimento di resistenza proletario offensivo una lotta ideologica e
politica contro le tendenze economiciste-spontaneiste, che sfociano nel minoritarismo ar-
mato e, paradossalmente, nel militarismo. E contemporaneamente, contro quelle tendenze

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burocratico-minoritarie, che concepiscono la costruzione del Partito Comunista Combat-
tente come un processo di pura crescita organizzativa, che si svolge al di fuori del movi-
mento della classe, separato da essa. "Agire da Partito vuol dire anche dare all'iniziativa
armata un duplice carattere. Essa deve essere rivolta a disarticolare e a rendere disfunzio-
nale la macchina dello Stato e, nello stesso tempo, deve anche proiettarsi nel movimento
di massa. Essere indicazione politico-militare per orientare, mobilitare, dirigere ed orga-
nizzare il movimento proletario di resistenza offensivo verso la guerra civile antimperiali-
sta. "Strategicamente è tanto importante distruggere gli organi centrali dello Stato, quanto
distruggere le sue articolazioni particolari che percorrono tutto il corpo sociale. "Strategi-
camente è tanto importante costruire una capacità organizzata e centralizzata di esercitare
il potere proletario, quanto costruire le sue articolazioni all'interno della classe operaia e
del proletariato nelle fabbriche, nei quartieri, dappertutto. "Per questo non c’è contraddi-
zione tra linea di massa e ruolo di avanguardia, non c’è dicotomia tra una politica di mo-
vimento e l'azione armata. Le B. R. non sono il Partito Comunista Combattente ma un'a-
vanguardia armata che lavora all'interno del proletario metropolitano per la sua costruzio-
ne. "Mente affermiamo che non c’è identificazione tra le B. R. ed il Partito Combattente,
affermiamo con uguale chiarezza che l'avanguardia armata deve agire da Partito sin dal
suo nascere. "Il processo di costruzione politica, programmatica, e di fabbricazione orga-
nizzativa del Partito Comunista Combattente è un processo discontinuo, dialettico, prodot-
to cosciente di un'avanguardia politico-militare che, nel complesso fenomeno della guerra
di classe, afferma la validità della prospettiva strategica e del programma comunista che
sostiene, e l'adeguatezza dello strumento organizzativo necessario per realizzarlo. Si pone
quindi come punto di riferimento essenziale, come ``nucleo strategico'' del Partito Comu-
nista Combattente in costruzione, sin dal suo nascere". Fatte queste necessarie precisazio-
ni, si capisce perché MAI le BRIGATE ROSSE sono state una "banda armata". Al contra-
rio, esse hanno sempre condotto, all'interno del movimento proletario, una lotta politica
ideologica contro tutte le tendenze militariste, inevitabilmente portate a degenerare nel
"terrorismo". L'assenza del terrorismo, infatti, sta proprio nella separazione meccanica del
politico dal militare; nel restringere all'azione militare, alla quale si attribuisce un potere
taumaturgico e della quale si esalta l'esemplarità, l'intelligenza pratica dell'avanguardia. Di
conseguenza, il gruppo terroristico, proprio perché volontariamente ignora i compiti fon-
damentali di direzione, mobilitazione ed organizzazione del proletariato, nella prospettiva
della conquista del potere, si pome come "strumento", vale a dire si adatta a svolgere un
ruolo necessariamente subalterno ad un qualche disegno politico. Ma che hanno allora in
comune le BRIGATE ROSSE con un gruppo terroristico? Nulla, assolutamente nulla! Per-
ché dunque la borghesia imperialista cerca di cucirci addosso quest'immagine; cerca cioè,
utilizzando ogni strumento - dai mass media alle vostre requisitorie - di mimetizzare la no-
stra effettiva identità politica? Con tutta evidenza l'obiettivo principale della sua campagna
di guerra psicologica è quello di dividere la guerriglia dalle masse, confezionandone e dif-
fondendone un profilo di comodo, che le fa apparire come il prodotto dell'iniziativa priva-
ta, ed oscura nelle sue motivazioni e nei suoi fini, di un gruppo di "terroristi". La classe
dominante sa bene, però, quando - riferendosi alle B. R. - parla di "terrorismo", di trovarsi
invece di fronte ad un movimento rivoluzionario reale con profonde ed inestirpabili radici
di classe. Anzi, lo sa così bene, che alla sua propaganda, pur condotta secondo le tecniche
della guerra psicologica, lega sempre indissolubilmente una ben più consistente azione mi-
litare - questa sì terroristica - nei confronti dei reparti avanzati del proletariato metropoli-

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tano. Ed è proprio questa strategia articolata della risposta controrivoluzionaria il più e-
splicito riconoscimento nei fatti che le BRIGATE ROSSE non sono, come vuol far credere
la propaganda di regime, un gruppo "terroristico", una "banda armata", ma un'avanguardia
politico-militare del proletariato metropolitano, che si muove nella prospettiva della co-
struzione del Partito Comunista Combattente, della conquista del potere e dell'instaurazio-
ne della dittatura del proletariato. 1) Il vostro obbiettivo principale in questo processo, lo
ricordiamo ancora una volta, era la distruzione della nostra identità politica. Non ci siete
riusciti; l'obiettivo è fallito, e tuttavia la partita è ancora aperta. Perché la sentenza non è
l'ultimo atto, e la battaglia continua su un nuovo terreno: le carceri speciali. Quel risultato
che non vi è riuscito di ottenere in questa caserma, ora si incaricheranno di rincorrerlo le
vostre controfigure all'Asinara, a Fossombrone, a Trani, a Cuneo, a Messina, e via dicen-
do. Voi passate la mano, e la catena di smontaggio della forza comunista prosegue il suo
cammino in un altro reparto speciale, di questa gran fabbrica di controrivoluzione, che è lo
Stato imperialista. Ma su questo cammino, anche nel nuovo reparto, troverete ancora al
fianco dei comunisti rivoluzionari, un intero strato di classe; troverete cioè migliaia di pro-
letari che hanno acquisito coscienza nelle galere e che con le loro lotte hanno contribuito a
mettere in crisi il sistema carcerario. Anche la lotta rivoluzionaria segue il suo corso, egre-
gie eccellenze, e pur affrontando il presente con decisione sempre maggiore, non dimenti-
ca il passato. Statene certi! 2) E' ormai un anno che esistono le "carceri speciali". Un anno
in cui, dopo il primo disorientamento, i proletari prigionieri, insieme alle organizzazioni
comuniste combattenti, hanno imparato a vivere, a muoversi, a lottare anche su questo ter-
reno. Nel luglio '77, con il trasferimento di massa in questi lager di migliaia di avanguar-
die, si apre all'interno delle carceri un periodo di sbandamento politico. La ristrutturazione
cancella gli spazi conquistati nelle lotte degli anni precedenti e la risposta dei proletari pri-
gionieri resta imbrigliata nella ricerca generale, ma inizialmente confusa, di contenuti e di
forme di lotta adeguate, che consentano la ripresa del movimento di resistenza. Nascono le
prime manifestazioni spontanee di protesta, che si esprimono principalmente attraverso
scioperi della fame collettivi. Questi scioperi, se da un lato testimoniano una generica vo-
lontà di lotta, dall'altro denunciano i gravo limiti politici in cui si muovono i prigionieri e
cioè: mancanza di un'analisi approfondita delle "carceri speciali", della loro funzione nella
nuova fase della guerra di classe; incapacità di definire un programma offensivo, una linea
di combattimento adeguata, forme di lotta opportune. Sulla debolezza del movimento al-
l'interno, si innesta il tentativo di alcune forze democratiche e neo-revisioniste di canaliz-
zare la protesta su un terreno difensivo, pacifico e legalitario. Questi tentativi, tuttavia,
hanno vita breve. I proletari prigionieri dei campi comprendono rapidamente l'inutilità e
l'inadeguatezza delle forme di lotta adottate, le autocriticano, e cominciano a porre i pro-
blemi nella loro dimensione reale. L'analisi dei campi viene approfondita e porta a queste
fondamentali conclusioni: - la lotta "interna" non può essere disgiunta dall'azione "esterna"
delle organizzazioni comuniste combattenti, poiché il problema dei campi investe l'intero
movimento rivoluzionario, e non è un problema particolare, specifico, dei proletari che vi
sono rinchiusi; - la resistenza all'annientamento deve avere un carattere offensivo, e cioè
tendere a costruire nuovi rapporti di forza, attraverso l'organizzazione e la mobilitazione
del proletariato prigioniero, per disarticolare e sabotare, con sempre maggiore incisività,
queste strutture, muovendosi sulla linea strategica dell'attacco ai centri vitali dello Stato
imperialista. Sono acquisizioni importanti che consentono un salto di qualità decisivo. Se
ne ha una prova, con il tentativo di evasione da Favignana, che segna il punto di svolta da

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una linea difensiva ad una prospettiva offensiva. La beffa astuta, organizzata da un nucleo
di compagni, con la collaborazione della massa dei detenuti, se indica e sottolinea l'impor-
tanza di attacchi che aprono e divarichino le contraddizioni politiche latenti nel campo
nemico, ancor più dimostra che il mastodontico apparato delle "carceri di massima sicu-
rezza" si regge sul fragile presupposto che nessuno osi portare un attacco militare duro, di
guerra! Altro episodio importante, in questa fede, è la lotta dei prigionieri del campo di
Nuoro, che si salda, per la prima volta, con iniziative politiche di massa all'esterno e trova
il suo completamento più maturo negli attacchi armati sistematici contro le strutture e il
personale di sorveglianza. La maggior consapevolezza raggiunta dal proletariato prigionie-
ro inoltre, si proietta anche all'esterno del movimento di resistenza proletario offensivo. La
parola d'ordine "portare l'attacco al potere carcerario" in quanto articolazione di guerra del-
lo Stato imperialista, diventa un punto qualificante del processo unitario in corso tra le a-
vanguardie combattenti, e si traduce in obiettivi che gli attacchi armati e il movimento di
massa cominciano a colpire. Anche questa seconda fase è però attraversata da una con-
traddizione politica di fondo che frena lo sviluppo del movimento di lotta dei proletari pri-
gionieri. Si tratta della mancanza di un "programma", di un vuoto di tattica, pur nella sem-
pre più nitida coscienza dei passaggi strategici essenziali. Questa mancanza di programma
di manifesta, in primo luogo, nella episodicità e frammentarietà dell'iniziativa interna, e si
riflette nella genericità e dispersione degli obiettivi che il movimento attacca all'esterno. Il
rischio più grave che si corre in questa fase è uno sviluppo puramente quantitativo, che
non sa cogliere i passaggi tattici necessari a far compiere gli indispensabili salti qualitativi.
L'azione Palma chiude questa fase e ne apre una nuova. L'aspetto positivo di questo attac-
co consiste, prima di tutto, nella assunzione da parte delle Brigate Rosse di questo terreno
di scontro e nella sua unificazione dentro un disegno strategico. In secondo luogo, la quali-
tà politica ed il livello militare cui viene portato l'attacco sono tali da consentire un effetti-
vi, anche se iniziale, spostamento dei rapporti di forza, in modo che possibilità nuove si
aprono per una crescita qualitativa del movimento di lotta dei proletari prigionieri. La lotta
che abbiamo iniziato nel "braccio speciale" delle Nuove, qui a Torino a partire dal mese di
marzo, è a suo modo emblematica di questa nuova fase. Infatti, intorno ad essa, si rico-
struisce l'unità del proletariato prigioniero e non, e si articola un programma di congiuntu-
ra, che nel "comunicato n. 14" viene così esposto: "Il programma strategico dell'Organiz-
zazione Comunista Combattente Brigate Rosse nelle carceri è preciso: liberazione di tutti i
proletari e distruzione di tutte le galere. Ciò non significa però un'assenza di iniziativa sui
problemi immediati. L'abolizione del trattamento differenziato per tutti i prigionieri dei
campi è il compito più urgente. Esso comprende: "L'eliminazione dell'isolamento indivi-
duale e di gruppo, che significa: conquista di spazi di socialità all'interno; lotta contro ogni
tentativo di distribuzione dell'identità politica e personale dei prigionieri; autodetermina-
zione della composizione delle celle; ore d'aria e di vita collettiva, ecc. "L'abolizione dell'i-
solamento verso l'esterno, vale a dire l'eliminazione dei vetri divisori a colloquio, del bloc-
co dell'informazione e della corrispondenza, ecc. "Questo è il programma immediato di
lotta che le Brigate Rosse propongono per le ``carceri speciali'' a tutti i proletari. "L'intera
Organizzazione lo porta avanti come articolazione, sul fronte delle carceri, della propria
linea strategica di attacco allo Stato. E' necessaria su questo punto molta chiarezza; ciò che
proponiamo non è il terreno della trattativa, della rivendicazione sindacale, ma la concre-
tizzazione, attraverso la lotta, dei rapporti di forza che già sono maturati a livello generale
[... ]". Noi, comunisti rivoluzionari delle Brigate Rosse sapremo essere in prima linea nel

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nuovo ciclo di lotte contro l'organizzazione carceraria del potere dello Stato. Saremo in
prima linea dentro e fuori le carceri "speciali" e "normali". Dentro: per la crescita politica
del proletariato prigioniero attraverso la lotta; per organizzare e sviluppare l'iniziativa rivo-
luzionaria nelle infinite forme che la creatività proletaria sa disegnare; per la conquista del
programma immediato; per porre le basi più solide all'affermazione del programma strate-
gico; per l'unità del proletariato metropolitano nel movimento di resistenza proletario of-
fensivo e dei comunisti nel Partito Comunisti Combattente. Fuori: per attaccare, a partire
dai loro gangli vitali, le articolazioni fondamentali del potere carcerario, al fine di creare
disfunzioni in questo apparato di guerra controrivoluzionario, incepparlo; e contemporane-
amente demoralizzare il nemico il nemico di classe ed infondere fiducia al movimento di
lotta. Noi, comunisti rivoluzionari delle Brigate Rosse combatteremo fino alla vittoria per
la distruzione di tutte le galere e la liberazione di tutti i proletari. La nuova situazione crea-
tasi dopo il 16 marzo ha posto compiti nuovi alle organizzazioni comuniste combattenti
nel processo di costruzione del Partito. Il 16 marzo, nelle intenzione della borghesia impe-
rialista, era destinato a segnare l'inizio di un nuovo regime politico nel nostro Paese. In
quel giorno, difatti, si usciva da una crisi politica senza precedenti con il progetto di "inte-
sa di programma" fra i cinque maggiori partiti costituzionali, costruita intorno all'abbraccio
interclassista della DC con il Partito revisionista. Il programma era quello di amministrare,
nel quadro delle strategie imperialiste e per conto delle multinazionali, gli effetti sociali
devastanti della più tremenda crisi economica degli ultimi decenni, e di gestire - nel senso
di rendere funzionali agli interessi del capitale monopolistico - i comportamenti della clas-
se operaia nella crisi. In altri termini, la borghesia imperialista si proponeva di correspon-
sabilizzare direttamente il Partito revisionista in una vasta operazione tesa ad impedire la
crescita delle lotte proletarie e, di conseguenza a bloccare lo sviluppo del processo rivolu-
zionario nel nostro Paese. La consapevolezza della crisi e dei pericoli insiti nella presenza
di una opposizione, conduce alla scelta politica di catturare, mantenendola, co-... delle lot-
te proletarie e, di conseguenza, a bloccare lo sviluppo del programma", dopo trent'anni di
totale preclusione. Questo disegno, plausibile e realistico a tavolino data la disponibilità
senza riserve del PCI a "farsi Stato", è comunque destinato al fallimento, fondamentalmen-
te per il motivo che non c’è identificazione reale tra PCI e classe, cosicchè l'integrazione
neo-corporativa dei revisionisti nel cielo della politica non significa, al tempo stesso, cattu-
ra dei comportamenti di classe operai, delle lotte, dell'iniziativa rivoluzionaria. La "cam-
pagna" sferrata il 16 marzo dalle BRIGATE ROSSE con la cattura di Aldo MORO, ha a-
vuto il grande merito di chiarire agli occhi di tutti che per il nostro regime sarebbero ini-
ziati giorni difficili. Con il 16 marzo non si è affermato un nuovo regime capace di stabi-
lizzare la situazione economica-politica-sociale nel breve periodo, come era nella inten-
zioni, ma si è invece manifestata l'esistenza di quei poteri contrapposti, espressione di
classi antagoniste, di interessi, bisogni ed aspirazioni inconciliabili tra lo Stato imperialista
ed il potere proletario armato. Non solo, ma la contraddizione tra il "regime d'intesa" e
l'opposizione di classe armata è diventata la contraddizione politica principale. E questo è
avvenuto contro ogni previsione, tanto della DC che dei revisionisti, nel senso che, se da
un lato veniva ammesso un margine di comportamenti antagonistici endemici, che si rite-
neva, tutto sommato, controllabile, dall'altro veniva esclusa la capacità di quest'aera di
comportamenti di organizzarsi ad un livello tale di maturità politica ed organizzativa, da
rappresentare una nuova contraddizione strategica dalle potenzialità incontrollabili. Con il
16 marzo, il movimento proletario di resistenza offensivo realizza un vero e proprio salto

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di qualità: per l'aumento quantitativo, l'estensione territoriale, la crescita qualitativa degli
attacchi armati, e per l'omogeneità politica crescente tra le "campagne offensive" scatenate
dalle organizzazioni comuniste combattenti e l'iniziativa particolare dei settori avanzati
della classe, esso raggiunge la soglia, e matura la potenzialità, di un vero e proprio movi-
mento di massa rivoluzionario. Questa è la caratteristica nuova e principale che le organiz-
zazioni comuniste combattenti devono comprendere in tutti i suoi molteplici aspetti, per-
ché questa è la base di un ulteriore salto di qualità nel processo di costruzione del Partito
Combattente. Chi non coglie che in questa fase il movimento di massa rivoluzionario si
presenta nella forma specifica di un'estrema frammentazione, di un'apparente disomoge-
neità nei comportamenti politico-militari antimperialisti ed antirevisionisti, non capisce
che ogni movimento di massa rivoluzionario è il punto di arrivo di un'iniziativa di Partito,
e non il punto di partenza. Non a caso, dopo il 16 marzo, assistiamo ad una netta divarica-
zione tra l'iniziativa offensiva dei reparti avanzati del proletariato e la totale bancarotta dei
gruppi dell'"Autonomia Organizzata". Mentre i primi hanno sviluppato ed articolato la loro
presenza conquistandosi nuovi spazi nel più generale tessuto di classe, i secondi sono stati
del tutto incapaci di esprimere una qualsiasi prassi offensiva nella nuova situazione. Ciò
che è entrato in crisi, dopo il 16 marzo, non é, come qualcuno ha detto, l'iniziativa offensi-
va del movimento dell'"Autonomia Organizzata", che alcuni si ostinano a voler mantenere
ad ogni costo e che si configurano come un freno oggettivo alla crescita del movimento ri-
voluzionario. La contraddizione non si è data tra l'attacco portato dalle organizzazioni co-
muniste combattenti e l'arretratezza dell'iniziativa di massa, ma tra una linea rivoluzionaria
portata avanti in forme diverse, ma sostanzialmente omogenee dalle organizzazioni comu-
niste combattenti e dal movimento, da un lato, e le organizzazioni dell'autonomia organiz-
zata, dall'altro. In conclusione, se nella fase precedente il compito principale delle organiz-
zazioni comuniste combattenti è stato quello di radicare nel movimento di classe l'organiz-
zazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica, ora comincia a
porsi concretamente il problema di organizzare il movimento di massa sul terreno della
lotta armata per il comunismo. La congiuntura presente, che si caratterizza per il passaggio
di fase dalla "propaganda armata" alla "guerra civile", richiede alle organizzazioni comuni-
ste combattenti di ridefinire il loro ruolo in rapporto ai nuovi compiti, ai nuovi livelli di
combattività delle masse ed alle forme di organizzazione nuove generate, nel loro movi-
mento, dai settori più avanzati del proletariato. In particolare è necessario evitare due erro-
ri. Il primo consiste nell'inventarsi "organismi di massa", entro cui tentare di imbottigliare
il movimento reale, invece di prendere atto delle forme storiche che la dialettica tra rivolu-
zione e controrivoluzione produce. Il secondo consiste nel voler ricondurre tutte le forme
di organizzazione delle masse ad organizzazioni di Partito, negando così, ancora una volta,
il movimento reale nella sua concretezza ed originalità. La crescita del potere proletario
implica, di conseguenza, al tempo stesso, il rafforzarsi della capacità di direzione ed orga-
nizzazione del Partito sul movimento di resistenza proletario offensivo nel suo complesso,
ed il consolidarsi della capacità di mobilitazione e di combattimento degli "organismi di
massa", generati dai settori avanzati del proletariato metropolitano. Il compito principale
delle organizzazioni comuniste combattenti nella nuova congiuntura, rispetto al movimen-
to rivoluzionario nel suo complesso, dev'essere perciò quello di esaltarne le potenzialità,
aiutarlo ad organizzarsi in forme proprie ed originale di combattimento, dirigerlo strategi-
camente inserendone le tensioni dentro un disegno politico unitario, unificarne gli elementi
comunisti nel Partito. BASONE Angelo, BASSI Pietro, BERTOLAZZI Pietro,

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BUONAVITA Alfredo, CURCIO Renato, FERRARI Maurizio, FRANCESCHINI Alber-
to, GUAGLIARDO Vincenzo, ISA Giuliano, LINTRAMI Arialdo, MANTOVANI Nadia,
OGNIBENE Roberto, PARODI Tonino, PELLI Fabrizio, SEMERIA Giorgio. Torino, 19
giugno 1978 Alle 12,25 il presidente Barbaro licenzia i giurati supplenti e la corte si ritira.
Recupero finalmente la mia libertà, esco per la l'ultima volta dalla caserma Lamarmora.
Sono pronta a riprendere la mia attività politica, ma più stanca. Resterò nei giorni seguenti
turbata e angosciata dal pensiero dei giurati caricati dell'onere di giudicare, soprattutto nei
loro confronti di coloro fra essi che alla fine mi hanno trasmesso la loro consapevolezza di
questa drammatica responsabilità. Alla lettura della sentenza i volti tirati e segnati da un
pianto trattenuto di alcuni giurati denunceranno quanto faticosa e contraddittoria sia stata
l'ultima fase di questa lunga e logorante esperienza.

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Conclusione - PERCHÉ QUESTO LIBRO

Quando per iniziativa di alcuni amici e dei responsabili della Milano Libri mi è stata offerta
la possibilità di questo libro, ho avuto più di una esitazione. Probabilmente c'era in me la
volontà di voltare pagina il più rapidamente possibile su un periodo che non è stato certo
felice. Ma c'erano anche perplessità di altra natura. Innanzitutto ciò che mi interessava e mi
pareva meritevole di riflessione era il nostro confronto, di radicali, di libertari e di nonvio-
lenti, con i "violenti" delle BR, un confronto che per me è stato drammatico nelle prime set-
timane del processo. Ma era possibile affrontarlo limitandolo a questa mia esperienza e alla
vicenda processuale? O non c'era forse il rischio di scrivere un ennesimo libro nel quale i
giudizi si sovrappongono ai fatti, né un diario né un saggio? Per lo stesso motivo ho escluso
subito un libro di stretta documentazione della vicenda processuale. Paradossalmente que-
sto processo non era tanto importante per il suo farsi, quanto per il pericolo che non si riu-
scisse a fare. Sicchè nel momento stesso in cui aveva successo la nostra tesi - che si dovesse
assicurare lo svolgimento di questo come di tutti i processi politici che attendono di essere
celebrati - la sua importanza diminuiva, e tanto più diminuiva quanto più veniva ricondotto
nella normalità, cioè nell'alveo delle comuni garanzie procedurali e costituzionali. Fra mille
difficoltà questo è indubbiamente avvenuto e sono stati momentaneamente sconfitti sia co-
loro che, all'interno del regime, intendevano farne un processo speciale, sia coloro che vo-
levano trasformarlo (e ce n'erano da una parte e dall'altra) in una prova di forza fra il regime
e le BR, puntando gli uni e gli altri sulle conseguenze negative di un suo fallimento. Ho ri-
solto alla fine il problema adottando la formula del diario, cioè di far parlare i fatti così co-
me li ho vissuti, del rileggere e riproporre al lettore i documenti non in appendice ma collo-
candoli nella narrazione, con una selezione anch'essa personale perché riflette l'importanza
che hanno avuto per me in questa vicenda: non solo i fatti e i documenti processuali, ma an-
che quelli - personali e politici - che si svolgevano fuori del processo e che mi coinvolgeva-
no come radicale e come segretario del partito. Ho cercato di censurare il meno possibile sia
i sentimenti e le emozioni, sia i fatti del processo e della giuria, e spero di averlo fatto senza
scadere nell'intimismo, e senza violare il riserbo che mi è imposto dal diritto. I protagonisti
di questa narrazione sono dunque gli imputati che contestavano il processo in nome della
loro condizione di rivoluzionari, sono gli avvocati e i giudici che, attraverso difficoltà e
contraddizioni, ne hanno consentito lo svolgimento e la conclusione. Ma ci sono anche altri
protagonisti: le mie compagne e i miei compagni radicali che hanno partecipato anche emo-
tivamente alla mia scelta nelle prime settimane di questo processo, e dai quali mi sono sen-
tita spesso separata e lontana nel lungo periodo successivo; le vittime della violenza rivolu-
zionaria del partito armato, come della violenza repressiva dello Stato; la stampa quotidia-
na, che in questa vicenda, in quella del rapimento Moro, e nella campagna dei referendum,
si è comportata, salvo rare eccezioni, come una stampa di regime; la maggioranza parla-
mentare e il governo di Roma, con le loro scelte politiche e legislative. Fra i tanti, due pro-
tagonisti assumono particolare rilievo: il PCI, a cui rimprovero di aver consentito e voluto
che Torino fosse per mesi militarizzata, in preda alla spirale della paura, alla dinamica del
sospetto e del terrore sui quali hanno speculato le forze del nuovo potere e i nuovi sosteni-
tori dell'ordine, di un vecchio ordine che combattiamo da ben più di trent'anni. Per settima-
ne e mesi il sospetto e il terrore sono diventati strumenti di consenso in ogni momento della
vita civile della nostra città, nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche. E' stata una opera-
zione scientifica che in molti abbiamo tentato di contrastare e che in molti non dimentiche-
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remo. L'altro protagonista è l'elettorato dell'11 giugno, quello - in gran parte comunista, so-
cialista, autenticamente cristiano - che ha votato SI' alla abrogazione della legge Reale e del
finanziamento pubblico, ma anche a quello che ha votato NO. E' lo stesso elettorato cui in
tutti i modi la maggioranza parlamentare voleva impedire di esprimersi. Il fatto che si sia
potuto esprimere ha riaffermato e fatto prevalere, almeno per il momento, la logica della
democrazia su quella della violenza. La caduta di Leone, l'elezione di Pertini sono stati al-
cuni primi, piccoli segni di cambiamento, i segni della speranza che le cose possano andare
in modo diverso in questo paese. Non trarrò un bilancio da questa vicenda. Il bilancio, se un
bilancio è possibile, spetta al lettore. Se fossi stata giudice effettivo invece che supplente, la
sentenza sarebbe stata diversa? Forse no. Per quanto riguarda le posizioni processuali di
Lazagna, Levati, Borgna e altri, certo in me il dubbio avrebbe prevalso sugli indizi istruttori
e sulle testimonianze di Girotto. Per quanto riguarda la mia esperienza in una giuria (fermo
restando che l'acquisizione da parte del diritto della formazione di giurie popolari e non so-
lo togate è un momento di avanzamento della civiltà giuridica) ne ho tratto l'impressione
che la sua composizione promiscua metta in difficoltà, soprattutto nella interpretazione del-
le norme e nelle scelte procedurali, i giudici popolari facendo correre loro il rischio di esse-
re alla mercè dei giudici togati. Ma a tale argomento dovrebbe essere dedicato altro spazio e
altra attenzione. Non so se ci sono riuscita, ma mi è parso che l'unico motivo di interesse
per scrivere questo libro consistesse proprio nel tentare di trasmettere ai lettori la singolare
condizione nella quale mi sono trovata e le molte contraddizioni che ho dovuto affrontare:
di segretario di partito, improvvisamente chiamato ad esercitare questa funzione di giudice;
di giudice che deve applicare norme e procedure cui si oppone come cittadino e in nome
delle quali è sottoposto, in quanto militante radicale, a giudizio in altri procedimenti penali;
di partecipe delle vicende processuali e, sia pure indirettamente, delle vicende politiche che
si svolgevano fuori del processo. Ci sono stati momenti di schizofrenia che ho cercato di
evitare e di superare, con costi personali non indifferenti. Nelle drammatiche vicende di
questi mesi, il processo è stato del resto - accanto ad altri drammatici e a volte tragici avve-
nimenti - una tessera di un mosaico più vasto. Di questo intreccio di fatti e di avvenimenti
ho cercato di essere testimone.

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