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Storia sociale

da

dell’arte
di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi 1


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume ter-
zo. Rococò Neoclassicismo Romanticismo e Volume
quarto. Arte moderna e contemporanea, trad. it. di
Anna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Indice

ROCOCÒ NEOCLASSICISMO ROMANTICISMO

VI. Il Romanticismo in Germania e nell’Europa


occidentale 4

ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

I. La generazione del 1830 76

II. Il Secondo Impero 141

III. Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia 193

IV. L’impressionismo 261

Storia dell’arte Einaudi 3


Capitolo sesto

Il Romanticismo in Germania
e nell’Europa occidentale

Il liberalismo ottocentesco identificò il romanticismo


con la Restaurazione e la reazione. Questa connessione,
anche se non mancava di qualche legittimità, specie per
quel che riguarda la Germania, finí per provocare, in
generale, un’errata visione storica. Questa poté essere
rettificata soltanto quando si cominciò a distinguere tra
il romanticismo tedesco e quello dell’Europa occidenta-
le, riconducendo il primo a tendenze reazionarie, il
secondo a tendenze progressiste. Il quadro che ne
derivò, benché ancora semplicistico per molti aspetti,
risultò assai piú vicino al vero, poiché, politicamente, né
l’una né l’altra forma di romanticismo furono chiare e
coerenti. Piú tardi infine, con piú aderenza alla realtà,
si distinsero nel romanticismo tedesco, come in quello
francese e in quello inglese, una fase primitiva e una piú
tarda, una prima e una seconda generazione. Si constatò
che in Germania e nell’Occidente europeo lo sviluppo
seguiva direzioni diverse e che il romanticismo tedesco
da inizi rivoluzionari si svolgeva poi in senso reaziona-
rio, mentre quello dell’Europa occidentale da posizioni
legittimistiche e conservatrici si accostava progressiva-
mente al liberalismo. Il quadro era esatto, ma piuttosto
infruttuoso per una determinazione del concetto di
romanticismo. Infatti il movimento romantico ebbe que-
sto di caratteristico, che in sé non rappresentava una

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ideologia rivoluzionaria o conservatrice, progressista o


reazionaria, ma all’una o all’altra di queste posizioni
giungeva per una via irreale, irrazionale, non dialettica.
La passione rivoluzionaria restava nel romanticismo
qualcosa di estraneo al mondo, esattamente come l’op-
posto atteggiamento conservatore; l’entusiasmo per «la
Rivoluzione, Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe» era
in esso atteggiamento tanto ingenuo, tanto lontano dalla
conoscenza delle vere forze motrici dell’evoluzione,
quanto il fanatismo per la Chiesa e il Trono, la cavalle-
ria e il feudalesimo. Dappertutto vi furono romantici
rivoluzionari e altri devoti all’antico regime e alla
Restaurazione. Danton e Robespierre furono astratti
dogmatici quanto Chateaubriand e De Maistre, Görres
e Adam Müller. Friedrich Schlegel fu un romantico da
giovane, quando si esaltava per Fichte, il Wilhelm Mei-
ster e la Rivoluzione, come da vecchio, quando applau-
diva Metternich e la Santa Alleanza. Quanto a Metter-
nich, non era un romantico, benché tradizionalista e
conservatore; egli lasciò ai letterati il compito di elabo-
rare il mito dello storicismo, del legittimismo e del cle-
ricalismo. È un realista chi sa quando lotta per i propri
interessi e quando fa concessioni agli interessi altrui; ed
è un dialettico chi riconosce che ogni situazione storica
comporta un complesso di motivi e di impegni che non
si possono eludere. Il romantico, pur con tutta la sua
comprensione del passato, ignora la storicità e la dialet-
tica del presente; non capisce ch’esso sta fra passato e
futuro e presenta un insolubile contrasto di elementi sta-
tici e dinamici.
La definizione di Goethe per cui il romanticismo
incarna il principio della malattia – un giudizio che, cosí
com’era inteso, difficilmente era accettabile – alla luce
della recente psicologia acquista un senso nuovo e rice-
ve una nuova conferma. Infatti, se effettivamente il
romanticismo vede solo un lato di una situazione piena

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di tensioni e di contrasti, se non considera che un solo


fattore della dialettica storica, accentuandolo a spese
dell’altro, se infine mostra una tale unilateralità, una
reazione cosí esagerata, una mancanza di equilibrio psi-
chico, si ha ragione di chiamarlo «morboso». Infatti,
perché esagerare e svisare le cose, se non ne siamo tur-
bati, impauriti? «Things and actions are what they are,
and the consequences of them will be what they will be;
why then should we wish to be deceived?» [«Cose e
azioni son quel che sono, e le loro conseguenze saranno
quel che saranno; a che dunque volersi illudere?»],
domanda il vescovo Butler, caratterizzando cosí nel
miglior modo il sereno e «sano» realismo settecentesco,
alieno da ogni illusione1. Da questo punto di vista il
Romanticismo appare sempre una menzogna, un autoin-
ganno che, come dice Nietzsche a proposito di Wagner,
«non vuol sentire i contrasti come contrasti» e afferma
a gran voce proprio quello di cui dubita di piú. La fuga
nel passato non è la sola forma dell’irrealismo e dell’il-
lusionismo romantico; c’è anche una fuga nel futuro,
nell’utopia. Quello a cui si aggrappa il romantico è, in
ultima analisi, senza importanza; quel che importa è la
sua paura del presente, dell’imminente cataclisma.
Il romanticismo improntò di sé tutta un’epoca, e ne
ebbe chiara coscienza2. Esso costituí una delle piú
importanti svolte nella storia dello spirito occidentale,
e di questa sua funzione storica fu pienamente consa-
pevole. Dall’età gotica in poi lo sviluppo della sensibi-
lità mai aveva subito impulso piú energico, e il diritto
dell’artista a seguire la voce del suo sentimento e della
sua natura non era mai stato accentuato con tale riso-
lutezza. Il razionalismo, che a cominciare dal Rinasci-
mento aveva senza soste guadagnato terreno, raggiun-
gendo nell’età dei lumi una validità universale in tutto
il mondo civile, conobbe il piú grave scacco della sua
storia. Dopo la fine del trascendentalismo e del tradi-

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zionalismo medievale mai era accaduto che si parlasse


con tanto disprezzo della ragione, della vigile e misu-
rata intelligenza, della volontà e della facoltà di domi-
narsi. «Those who restrain desire do so because theirs
is weak enough to be restrained» [«Coloro che frena-
no il desiderio, cosí fanno perché il loro è abbastanza
fiacco per essere frenato»], dice persino Blake, che pure
certamente non approvava lo sfrenato sentimentalismo
di un Wordsworth. Se come principio della scienza e
della pratica il razionalismo ha potuto presto riaversi
dagli attacchi romantici, l’arte occidentale è però rima-
sta «romantica». Il romanticismo non è stato soltanto
un generale movimento europeo, che l’una dopo l’altra
ha conquistato tutte le nazioni, creando infine quell’u-
niversale linguaggio letterario, comprensibile in Russia
e in Polonia come in Francia e in Inghilterra: al pari del
naturalismo dell’età gotica e del classicismo del Rina-
scimento, esso si è rivelato uno di quei movimenti che
rimangono come fattori costanti dell’evoluzione stori-
ca. Effettivamente non c’è prodotto dell’arte moderna,
né impulso sentimentale, né impressione o stato d’ani-
mo dell’uomo della nostra epoca, che non debba la sua
sottigliezza e ricchezza di sfumature a quell’eccitabilità
che nel romanticismo ha la sua prima origine. E ad
esso risalgono tutta l’esuberanza, l’anarchia e la vio-
lenza dell’arte moderna, il suo ebbro e balbettante liri-
smo, l’esibizionismo senza freno né riguardo. E questo
atteggiamento soggettivo, egocentrico, è diventato per
noi cosí naturale, cosí inevitabile, che non possiamo
neppure esporre un astratto sviluppo di idee senza par-
lare delle nostre sensazioni3. La passione intellettuale,
il pathos della ragione, la fecondità artistica del razio-
nalismo sono cosí completamente caduti in oblio, che
anche l’arte classica la possiamo intendere soltanto
come espressione di un sentimento romantico. «Seuls
les romantiques savent lire les ouvrages classiques,

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parce qu’ils les lisent comme ils ont été ecrits, roman-
tiquement» [«Solo i romantici san leggere le opere clas-
siche, perché le leggono come sono state scritte, roman-
ticamente»], dice Marcel Proust4.
Artisticamente tutto l’Ottocento dipende dal roman-
ticismo, ma questo a sua volta era un prodotto del Set-
tecento, e non aveva mai perduto la coscienza del suo
carattere di transizione e della sua problematica posi-
zione storica. L’Occidente conobbe molte altre crisi,
analoghe e piú gravi, ma non ebbe mai cosí vivo il senso
di trovarsi a una svolta della storia. Certo non era la
prima volta che una generazione assumeva un atteggia-
mento critico di fronte al proprio tempo e rifiutava le
forme tradizionali della cultura, perché in esse non pote-
va esprimere il proprio mondo spirituale. Anche in epo-
che anteriori era accaduto che si avesse il senso di un
invecchiamento e si desiderasse un generale rinnova-
mento, ma nessuno aveva mai pensato di porre in dub-
bio il significato e la ragion d’essere della propria civiltà,
chiedendosi se veramente si potesse giustificare la par-
ticolare fisionomia e se rappresentasse un elemento
necessario nel complesso della civiltà umana. Il senso
romantico di un risorgimento non era certo cosa nuova;
la Rinascita l’aveva ben conosciuto e già il Medioevo era
stato agitato da pensieri di rinnovamento e fantasie di
resurrezione, il cui oggetto era l’antica Roma. Ma nes-
suna generazione ebbe mai cosí forte il senso di essere
erede e discendente, né cosí netto il desiderio di restau-
rare e richiamare a nuova vita tempi remoti e una per-
duta civiltà. Il romanticismo cerca continuamente nella
storia reminiscenze e analogie e trova il piú forte stimolo
in ideali, che crede già attuati nel passato. Ma il suo rap-
porto con il Medioevo è alquanto diverso da quello del
neoclassicismo con l’antichità: il neoclassicismo vede
nei Greci e nei Romani semplicemente un esempio, il
romanticismo invece conserva sempre il senso del «déjà

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vécu». Esso ricorda le età remote come una preesisten-


za. Questo sentimento per altro non prova affatto che
romanticismo e Medioevo fossero piú affini tra loro di
quanto fossero antichità e neoclassicismo, anzi prova il
contrario. «Quando un benedettino studiava il Medioe-
vo, – si dice in una recente, acuta analisi del romantici-
smo, – non si domandava a che cosa questo gli servisse
e se nel Medioevo si vivesse piú felici e piú vicini a Dio.
Poiché egli stesso si trovava ancora nell’ambito di quel-
la fede e di quell’organizzazione ecclesiastica fonda-
mentali per il Medioevo, di fronte alla religione poteva
esser miglior critico di un romantico, che si trovava a
vivere in un secolo rivoluzionario, in cui ogni fede era
scossa e tutto posto in discussione»5. Non si può disco-
noscere che nell’esperienza storica dei romantici si espri-
ma un morboso timore del presente e un tentativo di
evasione. Ma non ci fu mai psicosi piú feconda. Ad essa
i romantici debbono la loro sottigliezza e chiaroveggen-
za di fronte alla storia, la loro sensibilità nel cogliere le
piú remote analogie, nel tentare le piú difficili inter-
pretazioni. Senza questa iperestesia, il romanticismo
non sarebbe riuscito a stabilire i grandi nessi nella sto-
ria dello spirito, a definire la civiltà moderna di fronte
all’antica, a riconoscere nel cristianesimo la gran cesura
della storia occidentale e a scoprire il comune carattere
«romantico» delle civiltà derivate dal cristianesimo,
individualistiche, riflesse, piene di problemi.
Senza la coscienza del proprio tempo cosí viva nei
romantici, senza il continuo problema del presente che
domina il loro pensiero, tutto lo storicismo dell’Otto-
cento sarebbe inconcepibile, e con esso una delle piú
profonde rivoluzioni nella storia dello spirito. Fino
all’età romantica, nonostante Eraclito e i sofisti, il nomi-
nalismo scolastico e il naturalismo rinascimentale, il
dinamismo dell’economia capitalistica e i progressi della
critica storica nel Settecento, l’Occidente ebbe del

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mondo un’immagine sostanzialmente statica, parmeni-


dea, astorica. I fattori determinanti della civiltà umana,
i principî razionali dell’ordinamento naturale e sopran-
naturale, le leggi morali e logiche, l’idea della verità e
del diritto, il destino dell’uomo e il fine delle istituzio-
ni sociali furono, in fondo, concepiti come qualcosa di
essenzialmente chiaro e immutabile nel suo significato,
eterne entelechie, o idee innate. Rispetto alla stabilità di
questi principî, ogni mutamento, ogni sviluppo e diffe-
renziazione apparivano irrilevanti ed effimeri; tutto quel
che si svolgeva nei tempi storici pareva non toccare che
la superficie delle cose. Solo a partire dalla Rivoluzione
e dall’età romantica si cominciò a sentire la natura del-
l’uomo e della società come essenzialmente dinamica e
in continua evoluzione. La concezione che noi e la
nostra civiltà siamo coinvolti in un eterno fluire e in una
lotta senza fine, il pensiero che la nostra vita spirituale
ha il carattere transitorio di un processo, è una scoper-
ta del romanticismo e ne costituisce il piú valido con-
tributo al pensiero del nostro tempo.
È noto che il «senso storico» già nell’età preroman-
tica non solo era vivo e vigile, ma agiva come una forza
motrice dell’evoluzione. E l’illuminismo, che produsse
storici quali Montesquieu, Hume, Gibbon, Vico,
Winckelmann e Herder, non solo oppose alla rivelazio-
ne l’origine storica dei valori civili, ma anche presenti
la relatività di questi stessi valori. Era certo un pensie-
ro corrente per l’estetica del tempo che ci fossero piú tipi
equivalenti di bellezza e che il concetto stesso di bellezza
fosse variabile come variabili erano gli aspetti della vita,
insomma che fosse vero che «un dio cinese ha il ventre
grosso come quello di un mandarino»6. Tuttavia la con-
cezione storica dell’illuminismo rimane legata all’idea
base che nella storia si dispieghi una ragione sempre
identica a se stessa, in un processo che tende a una meta
sicura, discernibile fin dagli inizi. Il Settecento dunque

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non fu antistorico, perché indifferente alla storia o igna-


ro del carattere storico della civiltà umana, ma perché
fraintese la natura del divenire, immaginandolo come un
processo continuo e rettilineo7. Friedrich Schlegel è il
primo a riconoscere che i rapporti storici non sono di
natura logica, e Novalis il primo a sottolineare che «la
filosofia è radicalmente antistorica». Ma soprattutto la
consapevolezza che esiste qualcosa come un destino sto-
rico e che «noi siamo quelli che siamo, perché guardia-
mo indietro a un tal passato», è una conquista dell’età
romantica. Pensieri di questa specie e lo storicismo che
essi riflettono erano lontanissimi dall’illuminismo. L’i-
dea che la natura dello spirito umano, delle istituzioni
politiche, del diritto, del linguaggio, della religione e del-
l’arte si possa comprendere solo attraverso la loro sto-
ria e che il processo storico rappresenti la sfera in cui tali
creazioni appaiono nel modo piú diretto, piú puro e piú
reale, sarebbe stata semplicemente inconcepibile prima
del romanticismo. Ma dove menasse lo storicismo risul-
ta forse nel modo piú chiaro dalla formula acutamente
paradossale di Ortega y Gasset: «L’uomo non ha una
natura, ha solo una storia»8. Sulle prime non suona inco-
raggiante; tuttavia anche qui, come sempre nel movi-
mento romantico, si tratta di un atteggiamento ambi-
valente: ottimismo e pessimismo, attivismo e fatalismo
possono ugualmente richiamarvisi.
Insieme con l’arte ermeneutica, la prontezza a coglie-
re i nessi storici, la sensibilità per tutto ciò che nella sto-
ria è problematico e suscettibile di diversa valutazione,
abbiamo ereditato dal romanticismo anche la mistica
del concetto, la sua tendenza a personificare e mitolo-
gizzare, le forze storiche; in altre parole, l’idea che i
fenomeni storici non siano altro che le funzioni, le mani-
festazioni e le incarnazioni di principî autonomi. Per
questo modo di pensare è stata escogitata la formula
molto calzante ed espressiva di «logica emanatistica»9

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con la quale si coglie non solo l’astratta concezione sto-


rica, ma anche l’inconscia metafisica spesso implicita in
un tal metodo. Secondo questa logica la storia appare
come una sfera dominata da potenze anonime, un sub-
strato di idee sublimi che solo incompiutamente si espri-
mono nei singoli fenomeni storici. E questa metafisica
platonica si manifesta non solo nelle teorie romantiche
ormai superate dello spirito popolare, dell’epos popola-
re, delle letterature nazionali e dell’arte cristiana, ma
ancora nel concetto dell’«intento artistico» (Kunstwol-
len). Infatti anche Riegl è in certa misura ancora affa-
scinato dalla mistica del concetto e dalla visione pneu-
matica della storia propria del romanticismo. Egli imma-
gina l’intento artistico di un’epoca come una persona
che agisce e realizza il suo proposito spesso contro la piú
energica opposizione, e talvolta riesce a farsi strada
senza che i suoi esponenti ne abbiano coscienza, anzi
addirittura contro la loro volontà. Negli scritti di Riegl
gli stili ci appaiono come individui a sé stanti, inconfon-
dibili e incomparabili, che vivono, muoiono e, soccom-
bendo, vengono sostituiti da altri stili ugualmente indi-
viduali. La storia dell’arte, come, coesistenza e succes-
sione di tali fenomeni stilistici che richiedono di essere
giudicati ognuno secondo una loro propria misura, e
hanno il loro valore nella loro stessa individualità, è in
certo modo il piú puro esempio della concezione roman-
tica della storia, che personifica le forze storiche. In
realtà le creazioni piú importanti e piú vaste dello spi-
rito umano non risultano quasi mai da una simile evo-
luzione, che fin dall’inizio procede rettilinea verso un
fine prestabilito. L’epos omerico e la tragedia attica, l’ar-
chitettura gotica e il teatro shakespeariano non sono
certo l’esplicazione di un intento artistico netto e coe-
rente, ma il casuale prodotto di esigenze specifiche,
determinate dal tempo e dal luogo, e di una serie di
mezzi preesistenti, spesso sostanzialmente estranei e

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inadeguati. Sono, in altre parole, il prodotto di gradua-


li innovazioni tecniche che spesso possono deviare dal
disegno originario, e altrettanto spesso avvicinarvisi, di
effimeri motivi occasionali, di trovate improvvise, d’e-
sperienze personali che a volte non hanno alcun rapporto
con il vero compito dell’artista. La teoria dell’«intento
artistico» ipostatizza come idea determinante il risulta-
to ultimo di questa evoluzione, che in sé è tutta discon-
tinua ed eterogenea. Ma anche la teoria della «storia del-
l’arte senza nomi», proprio perché elimina le persona-
lità reali come fattori determinanti dell’evoluzione, non
è che una forma di quella metafisica che conferisce al
concetto una realtà e personifica le forze storiche. In
essa la storia dell’arte diventa un processo che si svolge
secondo un suo intimo principio vitale e non tollera l’af-
fermarsi dell’autonoma personalità artistica, come un
organismo animale non tollererebbe l’emancipazione dei
singoli organi. A posizioni analoghe si può giungere infi-
ne anche col materialismo storico. Se con esso sempli-
cemente si intende che nelle varie creazioni dello spiri-
to non si esprimono se non i caratteri propri dei mezzi
di produzione di ogni epoca e si vuol significare che la
realtà economica esercita nella storia un dominio non
meno assoluto di quello dell’«intento artistico» o
dell’«immanente legge formale» dell’idealismo, è chia-
ro che in questo caso non si fa che romanticizzare e sem-
plificare il processo storico, in realtà assai piú comples-
so; in altre parole si riduce anche la concezione mate-
rialistica della storia a una variante della logica emana-
tistica. Il vero senso del materialismo storico, e in que-
sto esso costituisce il progresso piú significativo della
storiografia dal romanticismo in poi, sta piuttosto nel-
l’intuizione che la storia non nasce da principî formali,
da idee, da entità, cioè non da sostanze che nel proces-
so storico si dispieghino attraverso semplici «modifica-
zioni» della loro natura fondamentalmente astorica; ma

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che invece lo sviluppo storico costituisce un processo


dialettico in cui ogni fattore è fluido, soggetto a conti-
nue trasformazioni. In esso nulla è statico, nulla eter-
namente valido e neppure volto a un effetto unilatera-
le, ma tutti i fattori, materiali e spirituali, ideali ed eco-
nomici, sono inscindibilmente interdipendenti, e, per
quanto lontano si risalga nel tempo, non è dato trovare
situazione storicamente definibile che già non risulti da
un tal reciproco influsso di fattori. Anche l’economia piú
primitiva è già organizzata; ciò non toglie che la nostra
analisi debba partire dalle premesse materiali che – a dif-
ferenza di quanto avviene per le forme dell’organizza-
zione intellettuale – sono dati autonomi e comprensibi-
li in sé.
Legato a un orientamento completamente nuovo
della civiltà, lo storicismo è il risultato di un profondo
mutamento dell’esistenza e risponde al sovvertimento
che ha scosso le basi della società. La rivoluzione poli-
tica aveva abolito le antiche barriere fra le classi, la
rivoluzione economica aveva reso la vita di gran lunga
piú instabile. Il romanticismo fu l’ideologia della nuova
società ed espresse l’animo di una generazione che non
credeva piú a valori assoluti, e non avrebbe ormai accet-
tato alcun valore senza ricordarsi della sua relatività, del
suo limite storico. Questa generazione vedeva tutto lega-
to a premesse storiche poiché si trovava a vivere tra il
tramonto dell’antica civiltà e la nascita della nuova e di
questo trapasso storico era partecipe come del suo pro-
prio destino. Cosí profonda era nell’epoca romantica la
consapevolezza della storicità in tutta la vita sociale, che
anche i ceti conservatori, quando vollero dare un fon-
damento ai loro privilegi, seppero addurre ormai solo
argomenti storici e per sostenere le loro pretese non
poterono che vantare antiche, profonde radici nella sto-
ria della civiltà nazionale. Ma, contrariamente a quan-
to piú volte è stato detto, la visione storicistica non fu

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creata dai conservatori; questi non fecero che appro-


priarsela svolgendola poi in un senso tutto particolare,
opposto a quello originario. La borghesia progressista
vedeva nell’origine storica delle istituzioni sociali una
prova contro il loro valore assoluto; i ceti conservatori,
invece, che per fondare i loro privilegi non potevano che
appellarsi ai «diritti storici», all’antichità e alla priorità,
diedero allo storicismo un nuovo senso: velarono il con-
trasto tra storicità e validità sovratemporale, ma in cam-
bio istituirono una sorta di opposizione fra il prodotto
della evoluzione storica, cresciuto e affermatosi lenta-
mente, e l’atto di volontà spontaneo, razionale, rifor-
matore. In questo modo all’antica opposizione tra il
tempo e l’eterno, la storia e l’assoluto, si sostituiva quel-
la tra il «divenire organico» e l’arbitrio individuale.
La storia diventa il rifugio di tutti gli elementi in
rotta col presente, minacciati nella loro esistenza mate-
riale o spirituale; e prima di tutti degli intellettuali, che
ora non solo in Germania, ma anche nei paesi dell’Oc-
cidente europeo si sentono frustrati nelle loro speranze
e defraudati dei loro diritti. L’esclusione da ogni effi-
cacia politica, che finora era stata propria dell’intellet-
tuale tedesco, ora diviene sorte comune degli intellet-
tuali anche nell’Occidente. L’illuminismo e la Rivolu-
zione avevano incoraggiato l’individuo a speranze smi-
surate; essi sembravano garantire l’illimitato dominio
della ragione, e l’assoluta autorità dei poeti e dei pen-
satori. Nel Settecento gli scrittori erano le guide spiri-
tuali dell’Occidente; costituivano l’elemento dinamico
che dava vita alle tendenze riformatrici e incarnavano
quell’ideale della personalità a cui tendevano i ceti pro-
gressisti. Le cose cambiarono con il concludersi della
Rivoluzione. Ad essi fu imputata di volta in volta la
responsabilità ora del troppo ora del troppo poco che la
Rivoluzione aveva potuto cambiare, e in questo tempo
di ristagno e di confusione non poterono conservare il

Storia dell’arte Einaudi 15


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loro prestigio. La soddisfazione morale dei «filosofi» set-


tecenteschi rimase loro ignota, anche se erano d’accor-
do con la reazione e la servivano lealmente. Ma i piú tra
loro si vedevano completamente esautorati e si sentiva-
no superflui. Cosí si volsero al passato, in cui cercava-
no l’adempimento dei loro desideri e dei loro sogni, e da
cui eliminavano ogni tensione fra idea e realtà, io e
mondo, individuo e società. «Nelle sofferenze della vita
ha radice il romanticismo, e cosí si troverà tanto piú
romantico ed elegiaco un popolo, quanto piú infelice è
il suo stato», dice un critico liberale del romanticismo
tedesco10. I tedeschi erano certo il piú infelice popolo
d’Europa; ma dopo la Rivoluzione ben presto nessun
popolo dell’Occidente, o almeno gli intellettuali di nes-
sun popolo poterono sentirsi protetti e sicuri nel proprio
paese. E proprio il senso dell’esilio e della solitudine fu
l’esperienza cruciale della nuova generazione, che ne
ebbe cosí determinata in modo durevole tutta la visio-
ne del mondo. Tale senso di solitudine assunse innu-
merevoli forme, e trovò la sua espressione in tutta una
serie di tentativi d’evasione, dei quali il ritorno al pas-
sato fu il piú tipico. La fuga nell’utopia e nella favola,
nell’inconscio e nell’immaginario, nel sinistro e nel
misterioso, il volgersi all’infanzia e alla natura, al sogno
e alla follia, non erano che forme mascherate e piú o
meno sublimate di uno stesso sentimento, della medesi-
ma aspirazione all’irresponsabilità e all’assenza del dolo-
re; tentativi cioè di evasione in quel caos e in quell’a-
narchia contro cui il classicismo del Sei e del Settecen-
to aveva combattuto ora con tono aspro e preoccupato,
ora con spirito e con grazia, ma sempre con la stessa riso-
lutezza. Il classicista si sentiva signore della realtà; con-
sentiva a lasciarsi imporre delle regole, perché egli sape-
va imporle a se stesso e credeva che la vita potesse esse-
re regolata. Il romantico invece respingeva ogni vinco-
lo esteriore, era incapace di impegnarsi e si sentiva iner-

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

me in balia della soverchiante realtà, che perciò spre-


giava e, a un tempo, divinizzava. Di fronte ad essa si
comportava con prepotenza oppure le si abbandonava
ciecamente e senza resistenza, ma restava inesorabil-
mente conscio della propria inferiorità.
Ogni volta che i romantici analizzano la loro visione
dell’arte e della vita, s’insinua nelle loro frasi la parola
nostalgia o l’idea dell’esilio. Novalis definisce la filoso-
fia come «nostalgia», come «l’ansia, dovunque, di esse-
re a casa», e la favola come un sogno «di quel paese
natio che è dappertutto e in nessun luogo». In Schiller
egli esalta «il senso della patria che non è di questa
terra» e Schiller a sua volta chiama i romantici «esuli,
che anelano alla patria». Perciò essi parlano tanto di
vagabondaggio senza meta né fine, del «fiore azzurro»
che è irraggiungibile e tale deve restare, della solitudi-
ne che si cerca e si fugge, dell’infinito che è tutto e nulla.
«Mon cœur désire tout, il veut tout, il contient tout.
Que mettre à la place de cet infini qu’exige ma pensée?»
[«Il mio cuore desidera tutto, vuole tutto, contiene
tutto. Che cosa sostituire a quell’infinito che il mio pen-
siero esige?»] si dice nell’Obermann di Senancour. Ma
è evidente che quel «tout» non contiene nulla, e
quell’«infini» non si trova in nessun luogo. Nostalgia e
amor di terra lontana: ecco i sentimenti che si conten-
dono l’anima romantica; essa disprezza ciò che è vicino,
soffre del suo isolamento fra gli uomini, ma li evita e
cerca assiduamente quel che è lontano e ignoto. Soffre
perché estraniata dal mondo, ma afferma e vuole que-
sta sua condizione. Per Novalis la poesia romantica è
questo: «l’arte di suscitare un piacevole stupore, di fare
un oggetto strano, e pure noto e attraente»; per lui
tutto diventa romantico e poetico «se lo si allontana»,
tutto può diventarlo se «si dà al consueto un aspetto
misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un
senso infinito». La «dignità dell’ignoto»: ancora una

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

generazione prima, anzi ancora pochi anni prima, quale


uomo ragionevole avrebbe detto una simile assurdità? Si
parlava della dignità della ragione, della conoscenza, del
buon senso, del saggio e freddo realismo, ma la –
«dignità dell’ignoto» a chi sarebbe mai venuta in
mente? L’ignoto, si voleva domarlo e renderlo inoffen-
sivo; esaltarlo ed elevarlo al di sopra di sé sarebbe stato
un suicidio intellettuale, un’autodistruzione. Ma Nova-
lis non si limita a dare una definizione di ciò che è
romantico; suggerisce anche come essere romantici, per-
ché al romantico non basta esser tale, ma del romanti-
cismo egli fa una meta e un programma per la vita.
Oltre che ritrarla in modo romantico, egli la vuole adat-
tare all’arte, cullandosi nell’illusione di una utopistica
esistenza tutta estetica. Questo significa anzitutto ren-
dere la vita piú semplice e omogenea, liberarla dalla tor-
mentosa dialettica di ogni realtà storica, eliminarne le
contraddizioni insolubili e indebolire le resistenze della
ragione ai desideri irreali e alle fantasie. È vero che
ogni opera d’arte è una visione, una trasfigurazione
mitica della realtà, dove l’utopia si sostituisce alla vita;
ma nel romanticismo questo carattere d’utopia si espri-
me piú puro e senza contrasti che altrove.
Il concetto d’«ironia romantica» si fonda essenzial-
mente sul riconoscimento che l’arte non è che autosug-
gestione e autoinganno, e che si ha sempre chiara
coscienza della sua natura fittizia. La definizione del-
l’arte come «consapevole illusione»11 risale al romanti-
cismo e a idee come quella espressa da Coleridge di una
«willing suspension of disbelief» [«Volontaria sospen-
sione dell’incredulità»]12. Ma la scelta consapevole che
è alla base di tale atteggiamento è ancora un tratto clas-
sico e razionalistico, che il romanticismo va cancellan-
do sostituendovi l’illusione inconscia, lo stordimento e
l’ebbrezza dei sensi, la rinunzia all’ironia e alla critica.
Si è paragonato l’effetto del film a quello dell’alcool e

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’oppio, descrivendo la folla dei cinematografi che


esce vacillando nel buio della notte, come degli ubria-
chi, storditi dalle droghe, che non sanno né vogliono
rendersi conto del loro stato. Ma quest’effetto non è
esclusivo del film; risale per l’appunto all’arte romanti-
ca. Anche il classicismo naturalmente voleva essere sug-
gestivo e suscitare nel lettore o nello spettatore senti-
menti e illusioni – come del resto ogni arte – ma nelle
sue immagini c’era sempre un esempio istruttivo, un’a-
nalogia illuminante, un simbolo ricco di riferimenti, e ad
esse il lettore o lo spettatore si trovavano a reagire non
con lacrime, estasi o deliqui, ma con riflessioni, giudizi
e una piú profonda comprensione dell’uomo e del suo
destino.
Il periodo postrivoluzionario fu un tempo di genera-
le delusione. Per chi non era profondamente legato alle
idee rivoluzionarie la delusione cominciò già con la Con-
venzione; per chi piú le amava col Termidoro. Ai primi
a poco a poco venne in odio tutto ciò che ricordava la
Rivoluzione; per gli altri, ogni nuovo passo confermava
il tradimento dei loro ex alleati. Ma fu un doloroso
risveglio anche per chi fin dal principio aveva subito
come un incubo il sogno rivoluzionario. A tutti il pre-
sente appariva ormai squallido e vuoto. Gli intellettua-
li si isolavano sempre piú dal resto della società e gli
ingegni piú fecondi vivevano ormai appartati. Cominciò
cosí a formarsi il concetto del filisteo e del piccolo bor-
ghese, del bourgeois contrapposto al citoyen; e si ebbe la
strana situazione, fino allora quasi senza esempio, di
artisti e poeti pieni di odio e di sprezzo per quella clas-
se cui pure dovevano la loro vita intellettuale e mate-
riale. Infatti il romanticismo fu un movimento essen-
zialmente borghese, anzi il movimento borghese per
eccellenza, che mise fine definitivamente alle conven-
zioni classiche, all’artificio e alla retorica aulica e nobi-
liare, allo stile elevato e al linguaggio scelto. L’arte del-

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’illuminismo, pur con le sue inclinazioni rivoluzionarie,


aveva tuttavia seguito il gusto classicheggiante dell’ari-
stocrazia. Non solo Voltaire e Pope, ma anche Prévost
e Marivaux, Swift e Sterne erano piú vicini al Seicento
che all’Ottocento. Soltanto con il romanticismo l’arte
diventa «document humain», grido di confessione, feri-
ta scoperta e dolorante. Quando la letteratura illumini-
stica celebra il borghese, lo fa sempre con un’intenzio-
ne piú o meno polemica verso i ceti superiori; solo con
il romanticismo il borghese diventa la naturale misura
dell’uomo. Né questo carattere borghese viene sminui-
to per l’origine aristocratica di tanti esponenti romanti-
ci, né per l’ostilità contro il filisteo, che è nel program-
ma culturale del romanticismo. Novalis, Kleist, Arnim,
Eichendorff e Chamisso, il visconte di Chateaubriand,
Lamartine, de Vigny, de Musset, Bonald, de Maistre e
Lamennais, lord Byron e Shelley, Leopardi e Manzoni,
Pu∫kin e Lermontov appartenevano a famiglie nobili e
in parte manifestavano opinioni aristocratiche; ma con
l’età romantica la letteratura era ormai esclusivamente
destinata al libero mercato, cioè a un pubblico borghe-
se. A un pubblico come questo si potevano magari sug-
gerire idee politiche opposte ai suoi veri interessi, ma
non era piú possibile presentargli il mondo nello stile
impersonale e nelle astratte categorie di pensiero del Set-
tecento. La concezione del mondo che questo pubblico
sentiva come sua si rivela soprattutto in quell’idea del-
l’autonomia dello spirito e dell’immanenza delle singo-
le sfere della cultura, che da Kant in poi ha dominato la
filosofia tedesca e sarebbe stata inconcepibile senza l’e-
mancipazione della borghesia13. Fino al romanticismo il
concetto di cultura era rimasto legato all’idea della fun-
zione subordinata dello spirito umano: si trattasse della
visione ecclesiastico-ascetica, o eroico-mondana, o ari-
stocratico-assolutistica, lo spirito vi appariva sempre
come un mezzo, mai rivolto a fini propri, immanenti.

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Sciolti gli antichi vincoli, svanito il senso dell’assoluta


nullità di fronte alle gerarchie ecclesiastiche e mondane,
ricondotto l’individuo a se stesso, solo allora poté sor-
ger l’idea dell’autonomia dello spirito. Essa corrispon-
deva alla mentalità del liberalismo economico e politico
e si mantenne finché il socialismo non portò l’idea di una
nuova subordinazione distruggendo nuovamente l’au-
tonomia dello spirito nel materialismo storico. Que-
st’autonomia, come anche l’individualismo romantico,
fu dunque una conseguenza, non la causa, del conflitto
che scosse la società settecentesca. In sé e per sé nessu-
no dei due concetti era veramente nuovo, ma per la
prima volta accadde che s’incitasse l’individuo alla rivol-
ta contro la struttura sociale e contro tutto ciò che impe-
diva la sua felicità14.
I romantici esaltarono il proprio individualismo per
compensare l’indifferenza del mondo per le cose dello
spirito e proteggersi dall’ostilità dell’ambiente borghe-
se e filisteo. Come già i preromantici, essi volevano con
l’estetismo isolarsi in una loro sfera esclusiva, dove nes-
suna forza estranea potesse interferire. Il classicismo
aveva regolato il concetto di bellezza su quello di verità,
cioè su un canone universalmente umano che compren-
desse tutta la vita. Ma ora Musset invertiva il motto di
Boileau proclamando: «Rien n’est vrai que le beau»
[«Nulla è vero se non la bellezza»]. I romantici giudi-
cavano la vita con i criteri dell’arte, tentando cosí di ele-
varsi sul resto dell’umanità quasi come una casta sacer-
dotale. Ma anche nel loro rapporto con l’arte si tradiva
l’atteggiamento ambivalente che dominava tutta la loro
concezione. La problematica goethiana intorno alla
natura dell’artista continuò e si arricchí nell’epoca
romantica; l’arte considerata come un organo
dell’«intuizione intellettuale», dell’esaltazione religiosa
e della rivelazione divina, tuttavia si dubitò del suo
valore nella vita. «L’arte è un frutto seduttore, proibi-

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to, – diceva già Wackenroder, – chi ne ha gustato una


volta il piú intimo e dolce succo è irreparabilmente per-
duto per la vita attiva. Egli si rannicchia sempre piú nel
suo piacere...» E ancora: «Questo è il veleno dell’arte:
l’artista diventa un attore, che considera ogni vita come
una parte da recitare, e vede nella sua scena il mondo
vero, la polpa, e nella vita reale il guscio, una miserabi-
le imitazione raffazzonata»15. Anche la filosofia dell’i-
dentità di Schelling fu solo un tentativo di superare
questa contraddizione, e cosí il messaggio di Keats:
«Beauty is truth, truth beauty» [«Bellezza è verità,
verità è bellezza»]. Tuttavia l’estetismo rimane il carat-
tere fondamentale della visione romantica; e giusta-
mente Heine riassume classicismo e romanticismo come
«l’epoca dell’arte» (Kunstperiode) nella letteratura tede-
sca.
Nulla per i romantici era senza conflitto; e in ogni
loro manifestazione si riflette la problematica della loro
situazione storica e il loro intimo dissidio sentimentale.
La vita morale dell’umanità è tutta una catena di con-
trasti e di lotte; quanto piú differenziata la società,
tanto piú frequenti e aspri sono gli urti tra l’io e il
mondo, l’istinto e la ragione, il passato e il presente. Ma
nell’età romantica il conflitto diventa forma essenziale
della coscienza. Vita e pensiero, natura e civiltà, storia
ed eternità, solitudine e società, rivoluzione e tradizio-
ne non appaiono piú come logici correlativi e come alter-
native morali, fra cui si debba scegliere, ma come pos-
sibilità, che si cerca di attuare contemporaneamente.
Certo, essi non vengono ancora contrapposti dialettica-
mente, non si cerca una sintesi che ne esprima l’inter-
dipendenza; essi sono soltanto oggetto di esperimento e
di gioco. Né l’idealismo e lo spiritualismo, né l’irrazio-
nalismo e l’individualismo dominano senza contrasti;
piuttosto si alternano con una tendenza altrettanto forte
al naturalismo e al collettivismo. La schiettezza e la sta-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bilità delle posizioni filosofiche è cessata; non ci sono


piú che atteggiamenti riflessi, critici, problematici, tali
che portano sempre con sé, presente e realizzabile, il
loro contrario. Lo spirito umano ha perduto anche quel-
l’ultimo resto di spontaneità, che aveva ancora nel Set-
tecento. L’intimo dissidio e l’ambivalenza dei rapporti
spirituali vanno tanto oltre da giustificare l’affermazio-
ne che i romantici, o almeno i primi romantici tedeschi
fecero ogni sforzo per tener lontano da sé proprio quel
che era «romantico»16. Friedrich Schlegel e Novalis ten-
tarono almeno di superare la propria emotività e, pur
cosí soggettivi e sensibili, cercarono di fondare la loro
filosofia su qualcosa di saldo e universalmente valido.
Ecco appunto la grande, fondamentale differenza fra
preromantici e romantici: il sentimentalismo settecen-
tesco fu sostituito da un’acuita sensibilità, da un’accre-
sciuta «eccitabilità dell’animo» e se è vero che si conti-
nuò a versar lacrime, la reazione sentimentale cominciò
a perdere il suo valore etico scendendo a strati cultura-
li sempre piú bassi.
Nulla riflette con tanta immediatezza ed efficacia il
dissidio dell’anima romantica come la figura del «dop-
pio», sempre presente al romantico, e che ritorna nella
letteratura in forme e varianti innumerevoli. L’origine
di questa che finisce col diventare un’idea fissa è chia-
ra: è l’irresistibile impulso all’introspezione, la mania
dell’autocontemplazione di chi è spinto a considerarsi
sempre come un ignoto, un estraneo inquietante e lon-
tano. Anche questo naturalmente non è che un tentati-
vo di evasione che tradisce l’incapacità del romantico di
adattarsi alla propria condizione storica e sociale. Egli
si getta nello sdoppiamento come in tutto quel che è
oscuro e ambiguo, caotico ed estatico, demoniaco e dio-
nisiaco, cercandovi un rifugio di fronte alla realtà, che
la sua ragione non sa dominare. E in questa fuga egli sco-
pre l’inconscio, quel che alla ragione è celato, la fonte

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

delle fantasie nate dal desiderio e delle soluzioni irra-


zionali. Scopre che due anime abitano il suo petto; ch’e-
gli ha nell’intimo, diverso da sé, qualcosa che pensa e
sente; ch’egli porta seco il suo demone e il suo giudice;
in breve, scopre i fatti fondamentali della psicanalisi. Ai
suoi occhi l’irrazionale ha l’immenso vantaggio di esse-
re incontrollabile, quindi egli apprezza gli impulsi oscu-
ri e inconsci, gli stati d’animo sognanti ed ebbri, e ricer-
ca in essi l’appagamento, che non può dargli la critica
spassionata e fredda della ragione. «La sensibilité n’est
guère la qualité d’un grand génie... Ce n’est pas son
cœur, c’est sa tête qui fait tout» [«La sensibilità non è
affatto la qualità di un grande genio... Non il suo cuore,
ma la sua testa fa tutto»], diceva Diderot17. Ora invece
si attende tutto dal salto mortale della ragione; donde
la fede nelle esperienze dirette e negli stati d’animo,
l’abbandono all’istante e all’impressione fuggevole e
quell’adorazione del caos di cui parla Novalis. Quanto
piú impenetrabile è il caos, tanto piú splendido si spera
l’astro che ne uscirà. Di qui il culto del misterioso e del
notturno, del bizzarro e del grottesco, del pauroso e
dello spettrale, del diabolico e del macabro, del patolo-
gico e del perverso. Definire sommariamente, come ha
fatto Goethe, il romanticismo «poesia da lazzaretto», è
certo una grande ingiustizia, ma un’ingiustizia signifi-
cativa, anche se, dicendo questo, non si pensa proprio
a Novalis e ai suoi aforismi, secondo cui la vita è una
malattia dello spirito, e sono le malattie che distinguo-
no l’uomo dalle piante e dagli animali. Naturalmente,
anche la malattia non è che un modo di sfuggire ai com-
piti imposti dalla vita alla ragione, un pretesto per sot-
trarsi a doveri quotidiani. Affermando che i romantici
erano «malati» non si dice gran che; ma quando si rico-
nosce che la filosofia della malattia era un elemento
essenziale della loro generale concezione, si viene a dire
qualche cosa di piú. Per loro la malattia rappresentava

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la negazione del consueto, del normale, del ragionevole


e portava in sé quel dualismo di vita e morte, natura e
non natura, vincolo e dissoluzione, che dominava tutto
il loro mondo. Essa significava la svalutazione di tutto
ciò che è chiaro e durevole e rispondeva all’ostilità
romantica verso ogni limite, ogni forma salda e defini-
tiva.
Come sappiamo, già Goethe parlava di una falsità e
insufficienza delle forme e, ripensando alle sue parole,
comprendiamo perché i francesi lo abbiano sempre
annoverato fra i romantici. Ma per Goethe le circo-
scritte forme dell’arte erano false solo di fronte alla con-
creta ricchezza della vita; per i romantici invece ogni
cosa chiara e definitiva era di per sé meno valida del-
l’aperta, irrealizzata possibilità a cui essi attribuivano i
caratteri dell’infinito divenire, dell’eterno moto, del
dinamismo e della fecondità vitale. Ogni forma salda,
ogni idea chiara, ogni netta parola per loro era morta e
bugiarda; quindi, pur con il loro estetismo, essi erano
inclini a svalutare l’opera d’arte per la sua forma disci-
plinata e autosufficiente. In loro le intemperanze e gli
arbitrî, la mescolanza e la fusione delle arti, l’espressio-
ne improvvisata e frammentaria non erano che sintomi
di questa visione dinamica della vita a cui essi doveva-
no tutta la loro genialità, la loro sensibilità esasperata e
la loro chiaroveggenza storica. Dalla Rivoluzione in poi
l’individuo aveva perduto ogni appoggio esteriore; dove-
va contare su se stesso e in se stesso cercare i punti d’ap-
poggio; e appunto nel suo io trovò un oggetto infinita-
mente importante, infinitamente interessante. All’espe-
rienza del mondo sostituí l’esperienza di sé e la vita inte-
riore, il flusso delle idee e dei sentimenti, il moto da uno
stato d’animo all’altro finirono col sembrargli piú reali
della realtà esterna. Considerò il mondo soltanto come
materia prima e substrato delle proprie esperienze e se
ne valse come di un pretesto per parlar di se stesso.

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«Tutti i casi della nostra vita, – disse Novalis, – sono


materiali, di cui possiamo far quel che vogliamo, ogni
cosa è un anello in un’infinita catena». Cioè vengono
svalutati tanto l’inizio quanto il termine ultimo dell’e-
sperienza, in altre parole il contenuto e la forma della
creazione artistica. Il mondo diventa soltanto occasione
dell’attività spirituale, l’arte un vaso casuale in cui i
contenuti dell’esperienza assumono forma per un atti-
mo. In altre parole, sorge quel modo di pensare che è
stato chiamato occasionalismo romantico18, nel quale la
realtà si dissolve in una serie di occasioni senza reale
sostanza, in sé indeterminate, in puri stimoli alla fecon-
dità intellettuale, in situazioni che apparentemente esi-
stono solo perché il soggetto possa accertarsi della pro-
pria esistenza. Quanto piú indeterminati, cangianti,
aerei, «musicali» sono gli stimoli, tanto piú forte è la
vibrazione del soggetto; quanto piú inafferrabile, fluido,
inconsistente appare il mondo, tanto piú forte, libero,
autonomo si sentirà l’io, che lotta per affermarsi. Solo
una situazione storica, in cui l’individuo era ormai libe-
ro e indipendente, ma si sentiva minacciato e in perico-
lo, poteva produrre un tale atteggiamento. L’ostentato
soggettivismo, l’incontenibile impulso all’espansione
della sfera psichica, il lirismo dell’arte nuova, sempre
insoddisfatto e in gara con se stesso, si spiegano solo con
questa intima scissione. Non si intende il romanticismo
se non si parte da questa disarmonia e dalle ipercom-
pensazioni correlative che caratterizzano l’individuo
liberato e deluso del periodo postrivoluzionario.
La conversione politica del romanticismo dal libera-
lismo al legittimismo conservatore, in Germania; il pro-
cesso opposto, in Francia; quello ben piú complicato
nelle sue oscillazioni tra Rivoluzione e Restaurazione,
ma in complesso simile allo sviluppo francese, in Inghil-
terra, furono possibili solo grazie all’atteggiamento del
romanticismo, ambivalente anche di fronte alla Rivolu-

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zione, e sempre pronto a rovesciar le sue posizioni. Il


neoclassicismo tedesco aveva simpatizzato con le idee
della Rivoluzione francese, e questa simpatia si fece
anche piú profonda nel romanticismo tedesco che, come
già hanno accertato Haym e Dilthey, non fu mai del
tutto apolitico19. Solo durante le guerre napoleoniche
riuscí alle classi dominanti di guadagnare i romantici alla
reazione. Fino all’invasione napoleonica, in Germania le
forze conservatrici si erano sentite pienamente sicure e
si erano mostrate a loro modo «illuminate» e tolleranti;
ma ora che il vittorioso esercito francese minacciava di
diffondere anche le conquiste della Rivoluzione, deci-
sero di reprimere ogni forma di liberalismo e nell’inva-
sore combatterono soprattutto l’esponente della Rivo-
luzione. Gli elementi davvero progressisti e indipen-
denti, come Goethe, non si lasciarono trarre in ingan-
no dalla propaganda antinapoleonica; ma nella borghe-
sia e nel ceto colto non rappresentavano che una mino-
ranza sempre piú esigua. Fin dall’inizio lo spirito rivo-
luzionario in Germania era stato diverso da quello fran-
cese. L’entusiasmo dei poeti tedeschi per la Rivoluzio-
ne era un atteggiamento astratto che travisava i fatti; ad
essi, come alle classi dominanti, nella loro improvvida
tolleranza, sfuggiva il vero significato degli avvenimen-
ti. I poeti s’immaginavano la Rivoluzione come una gran
discussione filosofica; e i detentori del potere vi assi-
stevano come a uno spettacolo che in Germania, secon-
do loro, non sarebbe mai divenuto realtà. Questo spie-
ga il completo voltafaccia di tutto il paese durante le
guerre di liberazione. Il mutamento di Fichte, il repub-
blicano che a un tratto vede nel presente il tempo
dell’«assoluta empietà», è quanto mai sintomatico. La
Rivoluzione, un tempo romanticizzata, è ora tanto piú
aspramente respinta, e questo provoca l’identificarsi del
romanticismo con la Restaurazione. E tutti i romantici
sono già passati al campo legittimista e conservatore,

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quando in Occidente il movimento romantico entra


nella fase davvero creatrice e rivoluzionaria20.
Il romanticismo francese, che agli inizi era una «let-
teratura di emigrati»21, rimase fino dopo il 1820 il por-
tavoce della Restaurazione. Ma, tra il 1825 e il 1830,
esso si trasforma in un movimento liberale, che formu-
la i suoi obbiettivi artistici in termini analoghi a quelli
della politica rivoluzionaria. In Inghilterra, come in Ger-
mania, il romanticismo dapprima è favorevole alla Rivo-
luzione e solo durante la lotta contro Napoleone diven-
ta conservatore; tuttavia, dopo la guerra esso prende una
nuova piega e si riavvicina agli antichi ideali. In Fran-
cia e in Inghilterra esso dunque finisce col rivolgersi con-
tro la Restaurazione e la reazione, e in termini assai piú
chiari di quanto accada nell’evoluzione politica. Infatti,
sebbene le idee liberali apparentemente riescano a
imporsi nelle costituzioni e nelle istituzioni dell’Occi-
dente, l’Europa moderna, con la sua politica economi-
ca filocapitalistica, le sue monarchie militaristiche e
imperialistiche, i suoi sistemi amministrativi accentrati
e burocratici, le Chiese riabilitate e le religioni di stato,
è nella stessa misura creazione della Restaurazione e
dell’illuminismo, e con uguale diritto si può vedere nel-
l’Ottocento un periodo di opposizione allo spirito rivo-
luzionario, e anche un trionfo del pensiero illuministi-
co e liberale22. Se già l’impero napoleonico aveva signi-
ficato il dissolversi degli ideali individualistici della
Rivoluzione, la vittoria degli alleati sul Còrso, la Santa
Alleanza e il ritorno dei Borboni portarono alla defini-
tiva frattura con il Settecento e con l’idea di modellare
lo stato e la società sulle esigenze dell’individuo. Ma dal
pensiero e dall’esperienza della nuova generazione l’in-
dividualismo non poté piú esser bandito; il che spiega la
contraddizione tra la politica reazionaria e le tendenze
liberali dell’arte.

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Per la Restaurazione l’avventura militare di Bona-


parte non era che la controparte del delitto politico del
1789, e il Primo Impero ne continuava l’illegalità e l’a-
narchia. Per i legittimisti tutta l’epoca rivoluzionaria e
napoleonica era un unico fenomeno, una metodica dis-
soluzione dell’ordine antico, della gerarchia, dei diritti
di proprietà. E l’Impero, pur con le sue tendenze rea-
zionarie, era tanto piú pericoloso in quanto pareva con-
solidare le conquiste della Rivoluzione e creare un nuovo
equilibrio. Di fronte a tutto questo la Restaurazione
aprí una era nuova. Essa salvò il salvabile e tentò di sta-
bilire un compromesso fra quanto si poteva restaurare
delle antiche istituzioni e quanto delle nuove non si
poteva piú mutare. In questo anche la Restaurazione
non fece che continuare il periodo napoleonico; rappre-
sentò essa pure un compromesso fra i principî rivolu-
zionari e le idee dell’ancien régime; con la differenza
però che Napoleone voleva conservare il piú possibile
delle conquiste rivoluzionarie, mentre la Restaurazione
avrebbe voluto, potendo, negare la Rivoluzione. Non si
deve sottovalutare questa differenza, sebbene nei primi
tempi la Restaurazione abbia significato un allentamen-
to di quel rigore, che avevano dovuto esercitare sia la
Rivoluzione sempre in pericolo mortale, sia l’Impero
minacciato da destra e da sinistra. Naturalmente non
c’era da parlare di rinascita della libertà civile, dopo la
dittatura militare di Napoleone; parve che cosí fosse,
solo perché ora si perseguitavano o danneggiavano grup-
pi o classi intere anziché individui singoli; tuttavia nel
quadro di questo regime classista la libertà, nei limiti
della legge, era fino a un certo punto garantita. La
Restaurazione poté permettersi il lusso di esser piú tol-
lerante dei suoi predecessori. La reazione era vittoriosa
in tutta Europa e le idee liberali diventavano innocue;
i popoli europei erano stanchi delle imprese rivoluzio-
narie e militari e anelavano alla tranquillità. Cosí lo

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scambio delle idee poté avvenire con piú libertà di


prima, e non ci furono piú interventi dell’autorità per
imporre questo o quel criterio di gusto, benché si sen-
tisse molto nettamente lo sfondo politico delle diverse
posizioni artistiche.
In Francia da principio i romantici si dichiarano
senza eccezione legittimisti e clericali, mentre la tradi-
zione classica nella letteratura è rappresentata princi-
palmente dai liberali. Non tutti i classicisti sono libera-
li, ma tutti i liberali sono classicisti23. Forse non c’è
altro esempio nella storia dell’arte da cui risulti cosí
chiaro che una tendenza politica conservatrice può
benissimo accordarsi con un atteggiamento innovatore
in arte; anzi, che i concetti di conservazione e progres-
so sono incommensurabili fra le due sfere. Tra i libera-
li di tendenze classiciste e gli ultra romantici non è pos-
sibile alcuna intesa, ma fra i legittimisti c’è tutto un
gruppo che aderisce alla visione classica, sebbene, a dif-
ferenza dei liberali, si ispiri al classicismo del grand siè-
cle, non già a quello del Settecento. E nella lotta contro
i romantici, classicisti liberali e conservatori sono asso-
lutamente unanimi; perciò l’Accademia respinge Lamar-
tine, benché conservatore. Essa, del resto, non rappre-
senta piú il gusto letterario prevalente fra il pubblico;
gran parte dei lettori segue i romantici, con una passio-
ne finora sconosciuta. Già il successo del Génie du Chri-
stianisme fu inaudito nel suo genere, ma mai, né prima
né poi, era accaduto che una piccola raccolta di liriche
fosse accolta con l’entusiasmo con cui furono accolte le
Méditations di Lamartine. Dopo il lungo ristagno, comin-
cia ora per la letteratura un’epoca viva, fecondissima,
ricca d’ingegni eccezionali e di opere riuscite. Il pubblico
non è vasto, ma si appassiona alla letteratura con entu-
siasmo e sinceramente24. Si comprano molti libri, i gior-
nali seguono con la massima attenzione gli avvenimen-
ti letterari, i salotti si riaprono e onorano i nuovi eroi

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dello spirito. La relativa libertà favorisce la differenzia-


zione delle aspirazioni letterarie, e l’unità culturale del
grand siècle a poco a poco appare in una mitica lonta-
nanza. È vero che anche il Seicento aveva conosciuto un
conflitto tra vecchio e nuovo, un contrasto tra la ten-
denza accademica di Le Brun e la concezione pittorica
dei suoi avversari; e il Settecento l’antagonismo, ben piú
aspro, tra l’aulico Rococò e il preromanticismo borghe-
se. Ma per tutto l’ancien regime aveva dominato un
gusto sostanzialmente omogeneo, un’ortodossia i cui
oppositori facevano sempre figura di eretici e di bizzar-
ri. Insomma, non c’erano in arte tendenze propriamen-
te rivali. Ora invece ci sono due gruppi ugualmente
forti, o almeno ugualmente stimati. Nessuna delle ten-
denze in lizza domina incontrastata o prevale negli
ambienti piú colti; e neppure dopo il trionfo del roman-
ticismo c’è un «gusto romantico» che detti legge come
un tempo il gusto neoclassico. È vero che nessuno sfug-
ge al suo influsso, ma non è affatto vero che ognuno lo
proclami, e i primi conflitti interni cominciano quasi
nello stesso momento del suo trionfo. L’antagonismo
delle tendenze è adesso un tratto fondamentale della vita
artistica, non meno che l’intolleranza del pubblico verso
i nuovi ingegni. La borghesia fiuta scherno e disprezzo
in tutto ciò che non capisce e finisce col respingere per
principio ogni cosa nuova. La linea che separa l’orto-
dossia estetica dall’eresia a poco a poco si perde, e alla
fine la distinzione non avrà piú senso. Ben presto in let-
teratura non ci sono piú che «partiti», e comincia per le
lettere quasi un tempo di democrazia. La novità socio-
logica del Romanticismo è la politicizzazione dell’arte,
non solo nel senso che artisti e scrittori aderiscono a par-
titi politici, ma anche che fanno una politica di partito
anche nel campo artistico. «Vous verrez qu’il faudra
finir par avoir une opinion» [«Vedrete che bisognerà
finire per l’avere un’opinione»], dice malinconicamen-

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

te un eclettico dell’epoca, e Balzac nelle Illusions per-


dues25 descrive cosí la situazione: «Les royalistes sont
romantiques, les libéraux classiques... Si vous êtes éclec-
tiques, vous n’aurez personne pour vous» [«i monarchici
sono romantici, i liberali classici... Se siete eclettici,
nessuno vi sosterrà»]. La necessità di prendere posizio-
ne nella grande controversia, Balzac la vede giustamen-
te, ma la situazione è alquanto piú complicata.
Il principale esponente della «letteratura dell’emigra-
zione» è Chateaubriand. Con Rousseau e Byron, egli è
uno dei piú autorevoli artefici del nuovo uomo romanti-
co, e come tale ha nella storia della letteratura moderna
una parte incomparabilmente maggiore di quanto com-
porti il valore intrinseco delle sue opere. Egli è l’espo-
nente, non il campione o il creatore di un movimento spi-
rituale, ch’egli arricchisce soltanto di una nuova forma
espressiva, non di un nuovo contenuto d’esperienza. Il
Saint-Preux di Rousseau e il Werther di Goethe erano
state le prime incarnazioni del disinganno che aveva dato
il tono all’età romantica; il René di Chateaubriand espri-
me la disperazione in cui ora il disinganno va trasfor-
mandosi. Il sentimentalismo e la malinconia preroman-
tica rispondevano allo stato d’animo della borghesia
prima della Rivoluzione; il pessimismo e il taedium vitae
della letteratura degli emigrati riflettono invece lo stato
d’animo dell’aristocrazia dopo la bufera rivoluzionaria.
Questo diventa un generale fenomeno europeo dopo la
caduta di Napoleone ed esprime il sentimento di tutta
l’alta società. Rousseau ancora sapeva perché era infeli-
ce: soffriva a causa della civiltà moderna, delle conven-
zioni sociali inadeguate alle esigenze del suo spirito. Egli
sapeva immaginarsi una situazione concreta, non impor-
ta se irrealizzabile, nella quale il suo male sarebbe guari-
to. Invece la malinconia di René è indefinibile e incura-
bile. Per lui tutta la vita è ormai priva di senso; egli prova
un infinito, esaltato bisogno di amore, di comunione,

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un’eterna brama di abbracciare l’universo e di scioglier-


si in esso; ma sa che non è dato appagarla e che l’anima
sua rimarrebbe insoddisfatta anche se si adempisse ogni
suo desiderio. Nulla è degno di essere desiderato, vano
è ogni sforzo e vana ogni lotta; l’unica azione sensata è
il suicidio. E suicidio è già l’assoluta separazione del
mondo intimo da quello esterno, della poesia dalla prosa
quotidiana; suicidio è la solitudine, il disprezzo del
mondo e la misantropia, l’esistenza irreale, astratta,
disperatamente egoistica, che menano le nature roman-
tiche del nuovo secolo.
Chateaubriand, Madame de Staël, Senancour, Con-
stant, Nodier sono tutti vicini a Rousseau e sono vio-
lentemente avversi a Voltaire. Ma i piú fra loro si sen-
tono in contrasto solo con il razionalismo settecentesco,
non con quello del grand siècle. Solo cosí riesce, soprat-
tutto a Chateaubriand, di conciliare la concezione arti-
stica progressiva con la politica conservatrice, la fedeltà
alla monarchia e il clericalismo, l’entusiasmo per il trono
e l’altare. E solo perché il romanticismo si sente piú affi-
ne a tempi lontani che al recente passato, Lamartine,
Vigny e Victor Hugo rimangono cosí a lungo fedeli al
legittimismo. I primi segni di una conversione politica
appaiono verso il 1824. Nasce allora la prima delle con-
venticole romantiche (cénacles), il celebre gruppo intor-
no a Charles Nodier all’Arsenal, e il movimento comin-
cia a concretarsi in una specie di scuola. La cornice
sociale in cui si era sviluppata la letteratura francese del
Settecento erano stati i salotti, cioè i regolari incontri
di poeti, artisti e critici con i membri della classe diri-
gente nelle case dell’aristocrazia, e dell’alta borghesia.
Erano ambienti chiusi, ligi al costume signorile, che,
nonostante ogni concessione alle maniere dei corifei
intellettuali, conservavano un ben preciso tono di
«società». Ma il loro influsso, pur stimolante per lo
scrittore, non era direttamente creativo. Essi costitui-

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vano piuttosto una sorta di tribunale letterario a cui per


lo piú ci si sottometteva docilmente, una scuola di buon
gusto, dove si decideva delle mode letterarie, ma non era
certo un ambiente propizio alla feconda collaborazione
di un gruppo. I cenacoli romantici invece sono circoli
amichevoli di artisti in cui c’è assai poco il tono di
«società»: anzitutto perché si formano sempre intorno
a un artista e poi perché sono molto meno chiusi del piú
liberale dei salotti. Qui non solo è benvenuto ogni poeta,
artista, critico pronto ad aderire al movimento, ma
anche ogni semplice membro del pubblico che ne sia fau-
tore. Questa apertura e promiscuità, se certamente
impediscono al movimento di avere un rigido carattere
di scuola, non impediscono però lo sviluppo di criteri
estetici comuni e di un programma caratterizzato. A
differenza di quanto avveniva un tempo, l’ambito in cui
si svolge la vita letteraria non è un salotto privo di cen-
tro, come nella Francia del Settecento, e neppure un
club o un caffè, come in Inghilterra; qui abbiamo un
gruppo che si raccoglie intorno a un poeta o a una per-
sonalità che il gruppo considera come maestro, e di cui
riconosce l’autorità assoluta, benché non sempre in un
esplicito rapporto di scuola. Per la prima volta nella sto-
ria della letteratura moderna accade che sia una scuola
a determinare l’evoluzione. Né il Sei, né il Settecento
conoscono tale fenomeno, che pure sarebbe stato piú
rispondente al carattere normativo della letteratura clas-
sica. Il romanticismo invece, nonostante la dubbia vali-
dità dei suoi principî artistici, o forse grazie ad essa, svi-
luppa una scuola con una dottrina rigorosamente for-
mulabile e apprendibile. Nell’età classica tutta quanta la
letteratura francese costituiva una grande scuola, e il
gusto era unico in tutta la Francia; i dissidenti e i ribel-
li rappresentavano un gruppo troppo disparato per
inquadrarsi in un programma comune. Ma ora che la let-
teratura francese è divenuta il campo di battaglia di due

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

grandi partiti quasi equivalenti, ora che l’esempio della


vita politica induce i poeti a formulare programmi di
parte, suscitando in loro il desiderio di un capo, ora, infi-
ne, che le mete della nuova corrente artistica sono anco-
ra cosí oscure e contraddittorie da dover essere riassun-
te e codificate, ora è venuto il tempo di fondare scuole
letterarie.
Questo aspetto del romanticismo fu piú evidente in
Francia che in Germania, dove l’ideale classico non si
realizzò mai con assoluta purezza, e dove la sua visione,
già cosí venata di romanticismo, rimase in complesso
normativa anche per i romantici. In ogni caso, qui il
carattere partigiano della vita letteraria fu meno netto
che in Francia, e quindi meno reciso il raggrupparsi
degli scrittori per scuole. In Inghilterra, dove il contra-
sto tra classici e romantici aveva perso ogni preciso con-
tenuto fin dalla seconda metà del Settecento, perché
ormai la letteratura non era che romantica, non si costi-
tuirono scuole, né si ebbero veri e propri maestri26. Vera-
mente anche i cénacles francesi spesso non sono che
chiesuole letterarie tenute insieme unicamente da un
gergo comune; viste dall’esterno sembrano congiure,
dall’interno, compagnie di attori pieni di gelosia. Spes-
so pare che siano soltanto sette battagliere o ambienti
di accesa polemica, per cui la dottrina è piú importante
della prassi e il distinguersi vale piú che l’adeguarsi.
Tuttavia, in Francia come in Germania, è propria del
movimento romantico una concezione profonda della
comunione di idee e di intenti e una forte tendenza a
raccogliersi in gruppi. I romantici amano dedicarsi in
comune alla filosofia, alla poesia, alla discussione, alla
critica e trovano nell’amicizia e nell’amore il senso piú
intimo della vita; fondano riviste, pubblicano annali e
antologie, tengono conferenze e corsi, fanno propagan-
da per sé e per i compagni, cercano, insomma, l’unione
piú stretta, anche se questa urgenza di simbiosi è sol-

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tanto l’altra faccia del loro individualismo, il compenso


alla loro solitudine di sradicati.
Il confluire del romanticismo francese in un gruppo
omogeneo coincide con il volgersi dell’opinione pubbli-
ca verso il liberalismo. Intorno al 1824 il «Globe»
comincia a cambiare tono, ed è il momento delle prime
riunioni regolari all’Arsenal. I romantici piú in vista,
anzitutto Lamartine e Hugo, sono ancora fedeli alla
Chiesa e al trono, ma il romanticismo cessa di essere
esclusivamente clericale e monarchico. Tuttavia il vero
e proprio rivolgimento lo si ha nel 1827, quando Victor
Hugo scrive la celebre prefazione del Cromwell enun-
ciando chiara e netta la tesi del romanticismo come libe-
ralismo letterario. Quell’anno stesso il Salon espone per
la prima volta numerosi quadri dei pittori romantici piú
in vista: accanto a dodici tele di Delacroix, opere tipi-
che di Devéria e di Boulanger. È un vasto, compatto
movimento, che pare estendersi a tutta la vita intellet-
tuale e giungere alla vittoria definitiva. A questo carat-
tere di universalità corrisponde anche il costituirsi del
nuovo cénacle intorno a Victor Hugo, che d’ora in poi
è il maestro della scuola romantica. Gli scrittori
Deschamps, Vigny, Sainte-Beuve, Dumas, De Musset,
Balzac, i pittori Delacroix, Devéria, Boulanger, gli inci-
sori Johannot, Gigoux, Nanteuil, lo scultore David
d’Angers sono fra gli ospiti usuali di rue de
Notre-Dame-des-Champs. Qui Victor Hugo legge i suoi
drammi, Marion Delorme e Hernani. È vero che il grup-
po si scioglie già nello stesso anno, ma la scuola conti-
nua. Anzi il movimento si concentra e si chiarisce,
diventando sempre piú definito e radicale. Già dal
secondo cénacle in casa di Nodier, nel 1829, scompaio-
no gli elementi semiclassicheggianti, mentre pittori e
scultori diventano membri regolari del gruppo. La com-
pleta unità del movimento, come la sua tendenza anti-
borghese che a poco a poco diventa un dogma, si rivela

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nel modo piú netto nell’ultimo cénacle che si riunisce


negli atéliers di rue du Doyenné, dove abitano Théophi-
le Gautier, Gérard de Nerval e i loro amici. Questa colo-
nia di artisti con la sua avversione per il filisteo e la sua
dottrina de «l’art pour l’art» è il vivaio della moderna
bohème.
Lo stile bohème, che si usa attribuire al romanticismo,
non risale davvero ai suoi inizi. Da Chateaubriand a
Lamartine, i romantici in Francia furono quasi esclusi-
vamente elementi della nobiltà e quando, dal 1824,
cessò l’unanime fedeltà alla monarchia e alla Chiesa, il
romanticismo rimase tuttavia piú o meno aristocratico
e clericale. Solo gradatamente la guida del movimento
passa a plebei come Victor Hugo, Théophile Gautier e
Alexandre Dumas; e solo poco prima della Rivoluzione
di luglio, la maggioranza dei romantici rinuncia al pro-
prio atteggiamento conservatore. Ma l’importanza
nuova dell’elemento plebeo è un sintomo piú che la
causa del mutamento politico. Da principio gli scrittori
borghesi si erano adeguati alla mentalità conservatrice
degli aristocratici; ora invece anche i nobili Lamartine
e Chateaubriand passano all’opposizione. Le restrizioni
sempre maggiori delle libertà sotto il governo di Carlo
X, la clericalizzazione della vita pubblica, l’introduzio-
ne della pena di morte per i sacrilegi, lo scioglimento
della Guardia Nazionale e della Camera, l’arbitrio di
ordinanze e decreti, non fanno che affrettare l’evolver-
si della cultura in senso radicale. Si sente ancora piú
chiaramente quel che fin dal 1815 era innegabile, cioè
che la Restaurazione segnava la sconfitta definitiva della
Rivoluzione. Ora gli spiriti si sono finalmente riavuti
dell’apatia postrivoluzionaria, e proprio questo nuovo
stato d’animo spinge Carlo X a misure sempre piú retri-
ve, che è l’unica via possibile a un governo che si appog-
gia agli elementi reazionari. I romantici, che a poco a
poco si erano resi conto dove realmente portava la

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Restaurazione, riconobbero nello stesso tempo che la


ricca borghesia capitalistica era il piú forte sostegno del
regime, assai piú dell’antica nobiltà, in parte spogliata
dei suoi beni e comunque inabile alla lotta. Tutto il loro
odio, tutto il loro disprezzo si riversò ora sulla classe bor-
ghese. Il bourgeois, meschino, avido, ipocrita, divenne
il principale nemico e di fronte ad esso l’artista, pove-
ro, onesto, sincero, ribelle a ogni vincolo umiliante e a
ogni convenzione menzognera, apparve senz’altro come
il nuovo ideale umano. Lo straniarsi dalla vita pratica,
da una vita legata a solide radici sociali e a chiari impe-
gni politici, fenomeno caratteristico del romanticismo e
in Germania già in atto fin dal Settecento, ormai divie-
ne l’atteggiamento prevalente dappertutto. Anche nei
paesi occidentali si apre ora un abisso invalicabile tra il
genio e l’uomo comune, tra l’artista e il pubblico, tra
l’arte e la realtà sociale. I modi liberi e sfacciati della
bohème, l’ambizione spesso fanciullesca di mettere in
imbarazzo e irritare il borghese sprovveduto, lo spa-
smodico sforzo di distinguersi dalla normalità, dalla
media, gli abiti eccentrici, le zazzere e le barbe, il pan-
ciotto rosso di Gautier e il bizzarro costume altrettan-
to appariscente, se pur non sempre cosí chiassoso, dei
suoi amici, il linguaggio disinvolto e paradossale, l’esa-
gerazione delle idee formulate in modo aggressivo, le
invettive e le sconvenienze, tutto ciò manifesta soltan-
to l’intento di isolarsi dalla società borghese, o piutto-
sto di presentare come voluto e gradito l’ormai comple-
to isolamento.
Per la Jeune France, come si chiamano ora i ribelli,
tutto s’impernia sull’odio contro i filistei, sul disprezzo
della vita borghese metodica e inaridita, sulla lotta con-
tro tradizioni e convenzioni, contro tutto quel che si può
insegnare e apprendere, tutto quel che è maturo e tran-
quillo. Il sistema dei valori spirituali si arricchisce ora di
un nuovo concetto: l’idea della giovinezza come forza

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

creatrice e già di per sé superiore alla vecchiaia. È un’i-


dea nuova, estranea soprattutto al classicismo, ma in
certo modo anche a ogni precedente cultura. Natural-
mente anche prima non mancavano rivalità fra le diver-
se generazioni e la giovinezza riusciva spesso vittoriosa
in quanto esponente dei nuovi valori artistici. Ma non
vinceva per il solo fatto d’esser «giovane»; di fronte ad
essa la cautela prevaleva sull’eccessiva fiducia. Solo con
il romanticismo ci si avvezza a considerare i «giovani»
come i naturali campioni del progresso, e solo dopo la
sconfitta del classicismo si parla del torto che, per prin-
cipio, la vecchia generazione ha di fronte a loro27. Del
resto, la solidarietà fra i giovani, come l’insistenza sul-
l’unità delle arti, non è che un sintomo dell’isolamento
romantico nel mondo prosaico del filisteo. Mentre il
Settecento aveva insistito sulla connessione della lette-
ratura con la filosofia, ora, coerentemente, la letteratu-
ra viene designata come «arte»28. Finché gli artisti ave-
vano avuto l’ambizione di appartenere all’alta borghe-
sia, avevano insistito sull’affinità della loro professione
con quella dei letterati; ma ora sono i poeti che voglio-
no distinguersi dalla borghesia e cosí accentuano la loro
affinità con gli artisti.
I romantici sono talmente compiaciuti di se stessi e
tale è la loro vanità, che correggono anche il loro este-
tismo iniziale e, se prima del poeta facevano un dio, ora
di Dio fanno un poeta. «Dieu n’est peut-être que le pre-
mier poète du monde» [«Dio forse non è che il primo
poeta del mondo»] dice Gautier. Anche la teoria de
«l’art pour l’art», che veramente è un fenomeno quan-
to mai complesso ed esprime insieme un atteggiamento
liberale e un quietismo conservatore, nasce dalla prote-
sta contro i canoni borghesi. Quando Gautier mette in
evidenza il carattere di pura forma e di gioco dell’arte,
quando la vuol liberare dalle idee e dagli ideali, vorreb-
be anzitutto liberarla dalla tirannia dell’ordine borghe-

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

se. E pare ch’egli abbia detto a Taine, che lodava De


Musset a spese di Victor Hugo: «Taine, sembra che lei
cada nell’idiozia borghese. Esigere sentimento dalla poe-
sia! Non è questo che importa. Parole radiose, parole di
luce che si fanno ritmo e musica, ecco la poesia»29. Ne
«l’art pour l’art» di Gautier, Stendhal e Mérimée, nella
loro emancipazione dalle idee del tempo, nel proposito
di esercitare l’arte come un gioco sublime e di goderla
come un segreto paradiso vietato ai comuni mortali,
l’opposizione al mondo borghese gioca un ruolo anche
maggiore che nell’estetismo del periodo piú tardo, quan-
do la rinunzia a ogni attività politica e sociale è ben
accolta dalla borghesia ormai al potere. Gautier e i suoi
compagni rifiutano di cooperare con la borghesia al sog-
giogamento morale della società; Flaubert, Leconte de
Lisle e Baudelaire invece, chiudendosi nella loro torre
di avorio, senza curarsi piú di come vada il mondo, non
fanno che favorire gli interessi borghesi.
La lotta dei romantici per conquistare il teatro, in
particolare la famosa battaglia per Hernani di Victor
Hugo, fu la lotta di rue du Doyenné, della bohème e
della gioventú. Non si può dire che sia stata coronata da
una smagliante vittoria; l’opposizione non scomparve da
un giorno all’altro, e ancora per molto tempo rimase
padrona dei maggiori teatri di Parigi. Ma ormai il desti-
no del movimento non era piú legato all’accoglienza
fatta a un dramma; come indirizzo del gusto, esso già da
un pezzo aveva conquistato il mondo. Intorno al 1830
la sola novità è la piena adesione del romanticismo alla
vita politica e la sua alleanza con il liberalismo. Dopo la
Rivoluzione di luglio, gli esponenti della cultura escono
dalla loro passività e molti abbandonano la carriera let-
teraria per quella politica. Ma anche i poeti che restano
fedeli alla loro vocazione, come Lamartine e Victor
Hugo, partecipano agli eventi politici piú attivamente e
direttamente di prima. Victor Hugo non è un ribelle né

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un bohémien e non ha alcun rapporto diretto con la


campagna dei romantici contro i borghesi. Piuttosto,
nella sua evoluzione politica, egli segue la strada della
borghesia francese. Da principio fedele seguace dei Bor-
boni, piú tardi prende parte alla Rivoluzione e aderisce
alla monarchia di luglio; infine sostiene le aspirazioni di
Luigi Napoleone, per diventare repubblicano e radicale
solo quando ormai la maggioranza della borghesia fran-
cese è diventata liberale e antimonarchica. Anche nei
suoi atteggiamenti verso Napoleone non fa che rispec-
chiare i mutamenti dell’opinione generale. Nel 1825
egli è ancora un avversario accanito del Còrso e ne male-
dice la memoria; solo verso il 1827 muta atteggiamen-
to, e comincia a parlare della gloria francese unita al
nome di Napoleone. Infine egli diviene tipico portavo-
ce di quel bonapartismo che è un miscuglio cosí singo-
lare d’ingenuo culto dell’eroe, di nazionalismo senti-
mentale e di liberalismo sincero, sebbene non sempre
ponderato. Quanto intricati siano i motivi di questo
movimento lo mostra il fatto che ad esso aderiscono spi-
riti cosí diversi come Heine e Béranger e che può valer-
si dell’appoggio sia degli elementi schiettamente volter-
riani e degli eredi dell’illuminismo, sia della piccola bor-
ghesia anch’essa volterriana, anticlericale e antilegitti-
mista, ma sentimentale e disponibile alle leggende. Il
fatto che un unico editore, il celebre Touquet, fra il
1817 e il 1824 venda 31 000 copie – cioè un milione e
seicentomila volumi – delle opere di Voltaire30 è il segno
piú impressionante della rinascita illuministica e una
prova che il medio ceto costituisce una parte notevole
degli acquirenti. Ed è tipico di questo ceto acquistare
l’opera omnia di Voltaire e nello stesso tempo cantare le
canzoni di Béranger, liberali benché povere d’arte e di
pensiero. Queste canzoni si sentono dappertutto ora, i
loro ritornelli risuonano all’orecchio di tutti, e, a quan-
to si dice, contribuiscono a minare l’autorità dei Borboni

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú di ogni altra opera del tempo. Naturalmente, anche


prima la borghesia aveva le sue canzoni: canzoni da
ballo, canti conviviali, patriottici e politici, strofette
d’attualità e canzonette, non certo migliori di quelle di
Béranger: ma erano al di fuori della «letteratura» e non
avevano alcun influsso sostanziale sui poeti dell’am-
biente colto. Ora la rivoluzione, non solo aveva provo-
cato una piú ricca produzione in questo genere popola-
re, ma ne aveva introdotto il gusto anche presso i lette-
rati. L’evoluzione poetica di Vietor Hugo costituisce il
miglior esempio di questo assorbimento e mostra chia-
rissimi i vantaggi e gli svantaggi ad esso legati. La poe-
sia patriottica del tardo romanticismo è inconcepibile
senza le canzoni di Béranger, come il dramma romanti-
co senza il teatro popolare. Anche come poeta, Victor
Hugo segue l’evoluzione della borghesia; il suo stile liri-
co oscilla fra il gusto popolaresco del periodo rivoluzio-
nario e l’enfasi, il fasto pseudo-barocco del Secondo
Impero. Hugo non era affatto uno spirito rivoluziona-
rio, ad onta di tutte le battaglie che si svolsero intorno
a lui. Né era nuova la definizione del romanticismo
come liberalismo della letteratura, quando egli la for-
mulò; l’idea era già in Stendhal. La sua concezione arti-
stica venne sempre piú perfettamente a concordare con
il gusto della ricca borghesia dominante. Infine si tro-
varono a coincidere nel culto di un gigantismo, da cui
in realtà erano ben lontani, e nell’amore di un pathos
pomposo, sonoro, esaltato, di cui gli echi risuonano
ancora in Rostand.
La massima conquista della rivoluzione romantica fu
il rinnovamento del linguaggio poetico. In Francia, la
lingua letteraria si era venuta riducendo, nel corso del
Sei e Settecento, povera e incolore a causa delle rigide
convenzioni che vagliavano la correttezza della espres-
sione e della forma stilistica. Ogni termine che suonas-
se come volgare o di mestiere, arcaico o dialettale, era

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rigorosamente vietato. Le espressioni semplici, natura-


li, in uso nella lingua parlata dovevano essere sostituite
da parole nobili, scelte, «poetiche» o da artificiose peri-
frasi. Non si diceva «guerriero» o «cavallo», ma «eroe»
e «destriero»; non si poteva dire «acqua» o «tempesta»,
ma si doveva dire «l’umido elemento» e «la furia degli
elementi». Per Hernani, com’è noto, la battaglia si acce-
se sul passo: «Est-il minuit? – Minuit bientôt» [«È
mezzanotte? – Mezzanotte fra poco»], che parve espres-
sione troppo comune, troppo diretta e semplice. La
risposta, diceva Stendhal, avrebbe dovuto essere:

... l’heure
atteindra bientôt sa dernière demeure.

[«... L’ora | giungerà presto all’ultima dimora»]. I


difensori dello stile classico sapevano benissimo qual
era la questione. La lingua di Victor Hugo non era pro-
priamente nuova; non se ne udiva altra sulle scene dei
boulevards. Ma i classicisti si preoccupavano soltanto
della «purezza» del teatro letterario, non dei boule-
vards, né del divertimento delle masse. Finché c’era un
teatro elevato e una poesia colta, si poteva tranquilla-
mente sorvolare su quel che si recitava in periferia; ma
quando anche sul palcoscenico del Théâtre Français si
poté parlare come meglio garbava, allora non rimase piú
nessuna differenza sensibile tra i vari ceti culturali e
sociali. Da Corneille in poi la tragedia era considerata il
genere letterario piú elevato; un poeta doveva esordire
con una tragedia e come tragediografo giungeva al colmo
della fama. Tragedia e teatro letterario erano il terreno
proprio dell’élite intellettuale; finché esso rimase intat-
to, ci si poté sentire eredi del grand siècle. Ma ora del tea-
tro letterario si stava impadronendo un dramma popo-
lareggiante, che trascurava i problemi psicologici e mora-
li della tragedia classica, e ricercava invece il movimen-

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to dell’intreccio, le scene pittoresche, i personaggi inte-


ressanti, la violenza dei sentimenti. Il destino del teatro
era l’argomento del giorno; nei due campi si sapeva che
si trattava di conquistare una posizione chiave. E in que-
sta lotta il personaggio nato, si direbbe, per assumere
figura di simbolo, se non proprio per essere la forza pro-
pulsiva, era Victor Hugo, in grazia della sua natura tea-
trale e della sua passione per il teatro, del suo carattere
sonante e apodittico, della sua sensibilità per tutto ciò
che è popolare, volgare, brutalmente efficace.
Nel campo del teatro il romanticismo si trovò di fron-
te a una situazione intricatissima. Il teatro popolare,
erede dell’antico mimo, della farsa medievale e della
commedia dell’arte, era stato nel Sei e nel Settecento
soverchiato dal teatro letterario. Ma con la Rivoluzione
la produzione popolare aveva preso nuovo impulso e, sia
pure con influenze del dramma letterario, aveva ricon-
quistato una parte delle scene parigine. Alla Comédie
Française e all’Odéon si recitavano ancor sempre le
opere di Corneille, Racine, Molière e di quegli autori che
si erano adeguati alla tradizione classica e al gusto di
corte, o si erano attenuti alla concezione letteraria del
dramma borghese. Invece nei teatri dei boulevards – al
Gymnase, al Vaudeville, all’Ambigu-Comique, alla
Gaieté, nei Variétés e Nouveautés – si rappresentavano
lavori adatti al gusto e al livello culturale delle masse.
Durante e subito dopo la Rivoluzione, stando alle testi-
monianze molto dettagliate dei contemporanei, il pub-
blico nei teatri muta radicalmente e in genere si fa nota-
re la mancanza di esigenze artistiche e il difetto di cul-
tura nei ceti che ormai riempiono le platee parigine. È
un pubblico fatto in gran parte di soldati, operai, com-
messi di negozio e ragazzi; e, secondo una fonte, appe-
na un terzo di loro sa scrivere31. Questo uditorio non sol-
tanto domina i teatri plebei dei boulevards, ma giunge
a minacciare l’esistenza degli eleganti teatri letterari,

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

perché attrae anche il pubblico piú raffinato, cosí che gli


attori della Comédie Française e dell’Odéon recitano
davanti a sale vuote32.
Durante il Primo Impero, la Restaurazione e la
monarchia di luglio, ecco i generi che figurano nel reper-
torio dei teatri parigini: 1) la comédie en cinq acts et en
vers, genere letterario per eccellenza, e come tale desti-
nato alla Comédie Française e all’Odéon (ad esempio,
l’Othello di Ducis); 2) la comédie de mœurs en prose che,
come erede del dramma borghese, è di tipo piú mode-
sto, ma sempre abbastanza stimata, perché l’accolgano
i migliori teatri (esempio, il Mariage d’argent di Scribe);
3) il drame en prose, cioè il dramma patetico, anch’esso
risalente al dramma borghese, ma, per il gusto, inferio-
re alla comédie de mœurs (esempio, L’Abbé et l’épée di
Bouilly); 4) la comédie historique che tratta eventi e per-
sonaggi storici non piú come esempi e modelli, ma come
curiosità e offre una serie di scene invece d’una coerente
azione drammatica (gli esempi sono vari e numerosi:
dal Cromwell di Mérimée alle Barrìcades di Vitet, com-
prendono tutti i tentativi da cui nacque Henri III di
Dumas); 5) il vaudeville, cioè la commedia musicale o,
piú esattamente, la commedia inframmezzata di canzo-
ni, uno dei piú diretti precedenti dell’operetta (in que-
sta categoria si possono annoverare la maggior parte dei
lavori di Scribe e dei suoi collaboratori); 6) il mélodra-
me, forma ibrida, che ha in comune con il vaudeville l’ac-
compagnamento musicale, e con gli altri generi inferio-
ri, specialmente col dramma patetico e con quello stori-
co, il soggetto serio e spesso tragico.
A spiegare l’enorme produzione nei generi popolari,
specie nei due ultimi elencati, e il graduale cedimento
del dramma letterario di maggior pretesa, non basta il
fatto che la Rivoluzione aveva aperto i teatri alle masse,
e che erano queste ormai a decidere il successo dell’o-
pera; occorre anche ricordare in primo luogo l’effetto

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

della censura sul repertorio. La censura napoleonica e


quella della Restaurazione impedivano che nel dramma
letterario piú elevato si discutessero questioni di attua-
lità o si descrivessero i costumi della classe dominante.
Invece la farsa, la commedia musicale, e il melodramma
erano piú liberi, perché erano presi meno sul serio e si
pensava che non valesse la pena di preoccuparsene. Alla
franca descrizione di costumi e situazioni, inammissibi-
le alla Comédie Française, non si ponevano ostacoli nei
teatri dei boulevards: e ciò spiega l’attrattiva che que-
sti esercitavano sugli autori e sul pubblico33. Le forme
drammatiche piú importanti e interessanti per la suc-
cessiva evoluzione del teatro sono il vaudeville e il melo-
dramma; essi costituiscono la vera svolta nella storia
del teatro moderno e la transizione dal dramma classi-
co a quello romantico. Per essi il teatro torna ad essere
un divertimento, riacquista la sua vivacità, la sua evi-
denza. Dei due, il melodramma ha la struttura piú com-
plessa e la genealogia piú ramificata. Uno dei suoi nume-
rosi precedenti è il monologo con accompagnamento
musicale, la forma originaria di quell’ibrido genere che
è vivo ancor oggi nei programmi dei filodrammatici, e
che nel Pygmalion di Rousseau (1775) ha il primo esem-
pio noto. Di qui comincia a rinnovarsi la recita con
accompagnamento musicale, forma di origine antichis-
sima. Un’altra fonte del mélodrame, tecnicamente assai
piú ricca, è il dramma borghese di De la Chaussée, Dide-
rot, Mercier e Sedaine, che dalla Rivoluzione in poi è
diventato, per la sua natura lacrimosa e moraleggiante,
carissimo ai ceti piú umili. Ma a preparare il melo-
dramma è soprattutto la pantomima. Le cosiddette pan-
tomimes historiques et romanesques cominciano ad appa-
rire nell’ultimo terzo del Settecento. Dapprima tratta-
no soggetti mitologici e leggendarî, come Ercole e Onfa-
le, Rosaspina, La maschera di ferro, piú tardi anche temi
contemporanei, come la Bataille du général Hoche. Sono

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

serie di quadri a mo’ di rivista, per lo piú tumultuosi,


senza coerenza organica né sviluppo drammatico e pre-
diligono le situazioni in cui prevalgano il mistero e il pro-
digio, spettri e spiriti, carceri e sepolcri. A poco a poco
nelle singole scene vengono inseriti brevi passi esplica-
tivi e dialoghi, e cosí durante la Rivoluzione e nell’epo-
ca successiva questi lavori si sviluppano nelle curiose
pantomimes dialoguées e finiscono nel mélodrame à grand
spectacle, che lentamente va perdendo il suo carattere
coreografico e gli elementi musicali, e diventa la com-
media d’intreccio, fondamentale per la storia del teatro
ottocentesco. Sulla trasformazione del melodramma
influiscono soprattutto i romanzi neri della Radcliffe e
dei suoi imitatori. Di qui derivano quegli effetti da
Grand Guignol che esso presenta, e anche certi suoi
aspetti criminali.
Ma tutti questi influssi modificano e arricchiscono
solo la forma del melodramma, la sua essenza rimane pur
sempre il conflitto del dramma classico. Il melodramma
non è che la tragedia in veste popolare, o, se si vuole,
degenerata. Pixérécourt, il principale esponente di que-
sto genere letterario, è perfettamente conscio dell’affi-
nità dell’arte sua con il teatro popolare, ed erra solo nel
supporre fra il melodramma e il mimo una comune natu-
ra e una continuità storica34. È vero che egli riconosce
il giusto nesso che lega il mimo ai misteri medievali, al
dramma pastorale e all’arte di Molière, ma non sa coglie-
re la differenza di fondo che corre tra il carattere schiet-
tamente popolare del mimo e il carattere derivato inve-
ce di un teatro letterario decaduto poi al livello del gran
pubblico urbano. Il melodramma è tutt’altro che un’ar-
te spontanea e ingenua; segue invece i raffinati principî
formali che la tragedia si era elaborata in un lungo e
cosciente sviluppo, sia pur interpretandoli piú rozza-
mente, senza le finezze psicologiche e le bellezze poeti-
che della forma classica. Formalmente, il melodramma

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

è il genere piú convenzionale, schematico e artificioso


che si possa pensare: un canone in cui non c’è posto per
novità e spontaneità, per elementi di spregiudicato natu-
ralismo. Esso presenta una struttura rigorosamente tri-
partita, con una situazione iniziale di forte contrasto, un
urto violento e un dénouement in cui la virtú trionfa e
il male è punito: insomma un’azione molto evidente e
sommaria, in cui l’intreccio prevale sui caratteri e le figu-
re sono sempre le stesse: l’eroe, l’innocente perseguita-
to, il malvagio e il tipo comico35. Sugli eventi domina
una fatalità cieca e crudele; ma assume anche un ener-
gico spicco la morale che, veramente, per la sua scipita
tendenza a tutto accomodare, premiando i buoni e
punendo i cattivi, non corrisponde piú al carattere etico
della tragedia, ma con essa ha in comune il pathos subli-
me, sebbene spinto all’esagerazione. Il melodramma
rivela la sua dipendenza dalla tragedia anzitutto per
l’osservanza delle tre unità o almeno per l’inclinazione
a non trascurarle. Pixérécourt si permette mutamenti di
luogo fra un atto e l’altro, ma in questi casi il mutamento
non salta troppo agli occhi, e solo in Charles le Téméraire
(1814) egli cambia la scena nel corso di un atto. Ma se
ne scusa in una nota, che costituisce una singolare indi-
cazione dei suoi principî classici: «Accade per la prima
volta che io mi permetta un’infrazione delle regole», egli
assicura. In generale Pixérécourt mantiene anche l’unità
di tempo: per lo piú nei suoi lavori tutto si svolge in ven-
tiquattr’ore. Solo nel 1818, con la Fille de l’exilé ou huit
mois en deux heures egli segue un nuovo criterio, scu-
sandosene anche questa volta36. Invece il mimo, che con-
sta di una sola scena naturalistica, ritratta dalla vita, o
di una libera serie di scene del genere, non ha un’azio-
ne stereotipa, riducibile a schema rigido, né caratteri
tipici o fuor del comune, né una severa morale, né uno
stile idealizzato, distinto dalla lingua parlata. Il melo-
dramma ha in comune col mimo il dinamismo delle

Storia dell’arte Einaudi 48


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scene e la violenza degli effetti, i mezzi abborracciati e


il carattere popolare dei temi; ma per altri aspetti inve-
ce si attiene rigidamente all’ideale stilistico della trage-
dia classica. Il convenzionalismo di una forma non è
sempre il segno di una destinazione elevata.
La varietà moderna del mimo non è il melodramma,
bensí il vaudeville, che è assai piú affine all’antico tea-
tro popolare per la sua azione episodica, disarticolata in
scene singole, per le canzoni intercalate, i tipi popolari
tratti dalla vita quotidiana, lo stile fresco, piccante, che
pare improvvisato, sebbene non vi manchino influssi let-
terari. Tra il 1815 e il 1848 questo genere presenta una
grande fecondità, e produce una folla di lavori e lavo-
retti tenui, leggeri, divertenti, oltre alle numerose com-
medie di Scribe. La costernazione dei letterati per l’ab-
bondanza e il successo di tale produzione si può imma-
ginare solo ricordando come si reagí alla marcia trion-
fale del film. Durante la Rivoluzione la commedia si era
esaurita, come già prima era avvenuto della tragedia; e
come questa era degenerata rozzamente nel melodram-
ma, cosí il vaudeville fu una rozza degenerazione della
commedia. Ma né l’uno né l’altro uccisero il dramma,
che anzi ne uscí rinnovato; infatti il dramma romantico
– Hernani di Victor Hugo, l’Antony di Dumas – altro
non era che il mélodrame parvenu; e il moderno dramma
di costume, di Augier, Sardou e Dumas figlio, non fu
che una varietà del vaudeville37.
Pixérécourt scrisse fra il 1798 e il 1834 circa cento-
venti lavori, di cui molti furono rappresentati migliaia
di volte. Per trent’anni il melodramma dominò la vita
del teatro parigino, e il suo favore cessò solo quando il
gusto del pubblico cominciò a elevarsi, e le crudezze di
quei lavori, il loro difetto di logica, l’insufficiente moti-
vazione e il linguaggio innaturale apparvero sempre piú
fastidiosi. Ma i romantici avevano un debole per il melo-
dramma, non solo per la loro opposizione ai ceti colti

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

conservatori, ma anche per la loro maggior spregiudica-


tezza che li portava a comprendere meglio i pregi extra-
letterari, schiettamente teatrali del genere. Charles
Nodier si dichiarò subito fautore entusiasta del melo-
dramma che non esitò a definire «la seule tragédie popu-
laire qui convienne à notre époque» [«La sola tragedia
popolare che convenga alla nostra epoca»]38; e Paul
Lacroix indica Pixérécourt come il drammaturgo che svi-
luppa e conclude gli spunti di Beaumarchais, Diderot,
Sedaine e Mercier39. L’inaudito successo, l’opposizione
dei circoli ufficiali, la particolare predilezione dei roman-
tici per gli effetti melodrammatici, i colori violenti, le
situazioni sensazionali, gli accenti forti, tutti questi ele-
menti hanno fatto sí che nel dramma romantico si siano
conservati tanti caratteri del teatro plebeo. Ma dal melo-
dramma il romanticismo riprese soltanto quel che era
suo dall’inizio, o in germe era già implicito nel prero-
manticismo e nello Sturm und Drang, e che al teatro era
stato trasmesso in parte dal racconto terrifico inglese e
da quello tedesco di briganti e cavalieri. Il teatro roman-
tico ha infatti in comune col melodramma anzitutto gli
acuti contrasti e gli ardenti conflitti, l’azione complica-
ta, avventurosa, cruenta e selvaggia; il predominio del
prodigio e del caso, i passaggi bruschi, i mutamenti
improvvisi, per lo piú ingiustificati, gli incontri e i rico-
noscimenti insperati, il continuo avvicendarsi di ten-
sione e distensione; la violenza, l’irresistibile brutalità
degli espedienti; il raccapricciante, il sinistro, il demo-
niaco che sorprende e soggioga lo spettatore; il mecca-
nismo già bell’e pronto della vicenda, gli intrighi e le
congiure, i travestimenti e gli inganni, le macchinazio-
ni e i tranelli; infine gli effetti teatrali e il repertorio sce-
nico, senza cui non si concepisce un dramma romanti-
co: imprigionamenti e ratti, contrattempi e salvataggi,
tentativi di fuga e assassini, salme e bare, carceri e crip-
te, torri e segrete, pugnali, daghe, fiale di veleno, anel-

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

li, amuleti e tesori di famiglia, lettere intercettate, testa-


menti perduti, contratti segreti trafugati. Il romantici-
smo non era certo schizzinoso; ma basta pensare a Bal-
zac, il piú grande scrittore del secolo e il piú discutibi-
le in fatto di gusto, per accorgersi come siano ormai
ristretti, e in conclusione trascurabili, i criteri del gusto
classico.
Che il teatro si andasse sviluppando in senso popo-
laresco lo prova non tanto l’esistenza in sé del melo-
dramma, quanto la buona fede con cui Pixérécourt spac-
ciava i suoi prodotti. Egli riteneva cattivi, falsi, immo-
rali e pericolosi i lavori dei romantici, ed era profonda-
mente persuaso che i suoi ambiziosi concorrenti avesse-
ro meno cuore di lui e meno senso di responsabilità
morale40. A questo proposito Faguet nota giustamente
che bisogna credere alla robaccia per farne di buona,
destinata al successo. D’Ennery, per esempio, era
miglior scrittore e persona piú intelligente di Pixéré-
court, ma scriveva i suoi melodrammi senza convinzio-
ne, unicamente per guadagnare, e cosí non riuscí nem-
meno una volta a scriverne di buoni41; invece Pixéré-
court credeva di adempiere a una missione e non vole-
va aver niente in comune col nuovo dramma romanti-
co. I romantici invece devono a lui anzitutto il senso del
vero teatro e il contatto con il gran pubblico. A lui
anche devono se hanno potuto avere una parte cosí
importante nello sviluppo della pièce bien faite [Dramma
ben fatto]; e tutto l’Ottocento gli deve la rinascita di un
vivace teatro popolare che, paragonato a quello del Sei
e del Settecento, può risultare farraginoso e spesso tri-
viale, ma ha avuto il merito di evitare che il dramma si
volatilizzasse in mera letteratura. Era destino di questo
secolo che, ogni qualvolta l’elemento poetico si affer-
mava nel dramma, finisse per minacciarne il diverti-
mento, l’efficacia e l’evidenza scenica. Già nell’età
romantica i due elementi vengono a conflitto, per cui o

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

il successo teatrale o la perfezione poetica vengono sacri-


ficati. Alessandro Dumas tendeva al dramma robusto,
fatto per la scena, Victor Hugo, alla soverchiante elo-
quenza, e la stessa alternativa si presentò ai loro suc-
cessori; soltanto in Ibsen le due opposte tendenze tro-
varono un equilibrio armonico, se pur precario.
L’Inghilterra aveva avuto già nel Seicento la sua rivo-
luzione politica e un secolo dopo quella industriale e arti-
stica; al tempo della gran contesa tra classici e romanti-
ci in Francia, qui non restava quasi nulla della tradizio-
ne classica. Il romanticismo inglese ebbe cosí uno svi-
luppo piú continuo e coerente di quello francese e incon-
trò minor resistenza fra il pubblico; anche politicamen-
te fu meno diviso che in Francia. All’inizio esso era net-
tamente liberale e guardava con schietta simpatia alla
Rivoluzione; la lotta contro Bonaparte portò poi a un’in-
tesa fra conservatori e romantici, e solo dopo la caduta
di Napoleone fra questi ultimi tornò a prevalere il libe-
ralismo. L’unità di un tempo tuttavia non fu piú ritro-
vata; non si vollero dimenticare tanto presto gli «inse-
gnamenti» della Rivoluzione e del dominio napoleoni-
co, e molti degli antichi liberali, fra cui i Laghisti, rima-
sero antirivoluzionari. Walter Scott era e rimase un
tory; invece Godwin, Shelley, Leigh Hunt e Byron rap-
presentarono il radicalismo prevalente nella giovane
generazione. Il romanticismo inglese nacque, in sostan-
za, dalla reazione degli elementi liberali alla rivoluzione
industriale; quello francese, dalla reazione dei ceti con-
servatori alla rivoluzione politica. Il rapporto fra roman-
ticismo e preromanticismo in Inghilterra fu assai piú
stretto che in Francia, dove il classicismo rivoluziona-
rio spezzò la continuità dei due movimenti. In Inghil-
terra fra il romanticismo e la rivoluzione industriale
ormai in atto correva un rapporto sostanzialmente ana-
logo a quello che era intercorso tra preromanticismo e
prodromi dell’industrializzazione. Nel Deserted Village

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

[Il villaggio abbandonato] di Goldsmith, nei Satanic Mills


[I mulini diabolici] di Blake e nell’Age of Despair [L’età
disperata] di Shelley si esprime su per giú il medesimo
stato d’animo. La passione dei romantici per la natura
è inconcepibile senza il distacco fra città e campagna,
come il loro pessimismo senza lo squallore e la miseria
delle città industriali. Essi sono pienamente consci di
quanto accade e vedono esattamente che cosa significhi
il convertirsi del lavoro umano in semplice merce.
Southey e Coleridge nella disoccupazione periodica rico-
noscono la conseguenza inevitabile dell’anarchica pro-
duzione capitalistica, e Coleridge sottolinea che secon-
do la nuova concezione del lavoro l’imprenditore com-
pera e l’operaio vende qualcosa che essi non avrebbero
il diritto di comprare né di vendere, «la salute, la vita,
il benessere del lavoratore»42.
Al termine del conflitto con Napoleone, l’Inghilter-
ra, benché non esausta, si trova indebolita e disorienta-
ta, in una condizione cioè particolarmente adatta perché
la società borghese dubiti delle basi stesse della propria
esistenza. Questo processo viene avviato dai piú giova-
ni fra i romantici, la generazione di Shelley, Keats e
Byron. Il loro intransigente umanesimo è la protesta
contro la politica di sfruttamento e di oppressione; la
loro vita ribelle alle convenzioni, il loro aggressivo atei-
smo e la loro spregiudicatezza morale sono le varie forme
della loro lotta contro la classe che dispone dei mezzi per
sfruttare e opprimere. Persino nei suoi esponenti con-
servatori, come Wordsworth e Scott, il romanticismo
inglese è un movimento in certo modo democratico, che
contribuisce a rendere la letteratura popolare. Il propo-
sito di Wordsworth, di avvicinare la lingua poetica alla
lingua parlata, è un esempio caratteristico di questa ten-
denza, benché la «naturale» dizione poetica di cui egli
si serve non sia, in realtà, piú semplice e spontanea del-
l’antica lingua letteraria, ch’egli rifiuta perché artificio-

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sa. Se essa è meno dotta, tanto piú complicate ne sono


le premesse psicologiche soggettive. E per quanto riguar-
da l’impresa di descrivere se stesso e la propria evolu-
zione spirituale, in un poema lungo quanto l’epopea
omerica, questa sì, rispetto all’obiettività dell’antica let-
teratura, è un’azione, rivoluzionaria e per il nuovo sog-
gettivismo forse significativa quanto Poesia e verità di
Goethe; ma la «popolarità» e la «naturalezza» di una
simile impresa sono piú che dubbie. Nel suo saggio su
Wordsworth, Matthew Arnold, parlando di certi difet-
ti del poeta, osserva che anche Shakespeare, natural-
mente, ha i suoi punti deboli; ma se nei Campi Elisi glie-
ne potessimo parlare, certo risponderebbe di esserne
pienamente consapevole. «Del resto, – aggiungerebbe
forse sorridendo, – che fa se una volta tanto ci si lascia
andare!» Invece, concentrandosi tutto sul proprio io, il
poeta moderno è portato a sopravvalutare senza umori-
smo ogni manifestazione personale, a far conto del valo-
re espressivo di ogni minimo particolare e perde cosí la
felice noncuranza con cui l’antico poeta lasciava sgorgare
i suoi versi.
Per il Settecento la poesia era espressione di idee;
senso e scopo delle immagini poetiche era la spiegazio-
ne e l’illustrazione di un contenuto ideale. Nella poesia
romantica invece l’immagine poetica è non il risultato,
ma la fonte delle idee43. La metafora le genera, e noi
abbiamo il senso che la parola si renda indipendente e
diventi per se stessa poesia. Apparentemente i roman-
tici vi si abbandonano senza resistenza, esprimendo
anche cosí la loro concezione irrazionale dell’arte. Può
darsi che il Kubla Khan di Coleridge sia stato un caso
limite; ma certo è sintomatico. I romantici credevano a
una forza soprasensibile, emanante dall’anima del
mondo, come origine dell’ispirazione poetica, e la iden-
tificavano con la spontanea forza creatrice della parola.
Lasciarsene dominare, era per loro il segno del genio

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

artistico. Naturalmente già Platone parlava dell’«entu-


siasmo», dell’ispirazione divina dei poeti, e la fede in
essa è propria di ogni tempo in cui poeti e artisti voglio-
no apparire quasi una casta sacerdotale. Ma non era mai
accaduto che l’ispirazione fosse concepita come una
fiamma che s’accende da sé, come una luce che ha nel-
l’anima stessa del poeta la sua sorgente. La sua origine
divina riguarda solo la forma, non già il contenuto; nulla
ne viene all’anima, ch’essa già non possegga. Cosí ven-
gono mantenuti i due principî: il divino e l’individuale;
e il poeta diventa il dio di se stesso.
Il panteismo estatico di Shelley è il paradigma di
questa autodeificazione. Manca in esso ogni traccia di
abnegazione devota, la rinunzia di chi è pronto a scom-
parire di fronte a ciò che è sublime. Il perdersi nel Tutto
è volontà di dominio, non già sottomissione. Il mondo
governato dalla poesia e dal poeta è considerato il piú
alto, il piú puro, il piú schiettamente divino, e la divi-
nità stessa non conosce altri criteri che quelli derivati
dalla poesia. Shelley fonda la sua visione cosmica, in per-
fetto accordo con Friedrich Schlegel e con il romantici-
smo tedesco, su una mitologia a cui, però, egli stesso non
crede. Accade in lui che la metafora diventa mito, non
già l’inverso, come presso i Greci. Ma anche questo
mitologizzare non è che un modo di evadere dalla realtà
consueta, volgare, inerte; un ponte per ricongiungersi
alla propria vita piú intima e alla propria sensibilità. Per
il poeta non è che un mezzo per ritrovarsi. Il mito anti-
co era sorto da una simpatia e da un legame con la
realtà; la mitologia romantica nasce dalle sue rovine e in
certo modo come un surrogato. La visione cosmica di
Shelley s’impernia sull’idea di una grande lotta, estesa
a tutto il mondo, tra il principio del bene e quello del
male; e rappresenta una idealizzazione grandiosa del-
l’antagonismo politico che costituisce la piú profonda e
decisiva esperienza del poeta. Il suo ateismo come è

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stato notato, è una rivolta contro Dio piú che una nega-
zione di Dio; esso combatte un oppressore e un tiran-
no44. Shelley è il ribelle nato, che in tutto quanto è legit-
timo, costituzionale e convenzionale vede l’opera di una
volontà dispotica e per il quale l’oppressione, lo sfrut-
tamento e la violenza, l’ottusità, la sozzura e la menzo-
gna, i re, le classi dominanti e le Chiese formano con il
Dio della Bibbia un’unica forza compatta. Il carattere
astratto e fragile di quest’idea mostra chiaramente quan-
to vicini siano ormai, a quest’epoca, gli scrittori inglesi
e quelli tedeschi. L’isterismo antirivoluzionario ha avve-
lenato l’atmosfera spirituale in cui potevano ancora
esprimersi liberamente gli scrittori inglesi del Settecen-
to; le manifestazioni dell’epoca assumono un aspetto
irreale, rispecchiano un atteggiamento di fuga e nega-
zione del mondo, che fin qui era ignoto alla letteratura
inglese. I migliori poeti della generazione di Shelley non
trovano consenso nel pubblico45; si sentono senza patria
e fuggono all’estero. Questa generazione in Inghilterra
è condannata non diversamente che in Germania o in
Russia; Shelley e Keats vengono schiacciati dal loro
tempo con la stessa inesorabilità che Höderlin e Kleist
o Pu∫kin e Lermontov. E anche il risultato ideologico è
dovunque lo stesso: idealismo in Germania, «l’art pour
l’art» in Francia, estetismo in Inghilterra. Dappertutto
si cessa di lottare distogliendosi dalla realtà e rinun-
ziando a mutare la struttura sociale esistente. In Keats
questo estetismo va già unito con una profonda malin-
conia, con il lamento sulla bellezza che non è vita, che
anzi è negazione della vita; negazione di quella vita e di
quella realtà, che al poeta, adoratore della bellezza, sono
eternamente negate, inaccessibili come la santità, l’e-
roismo, l’amore, come tutto ciò ch’è immediato, natu-
rale, spontaneo. Già si presente la rinunzia flaubertia-
na, la rassegnazione dell’ultimo grande romantico, a cui
già era ben chiaro che la vita è il prezzo della poesia.

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Fra tutti i celebri romantici, è Byron ad esercitare


l’influsso piú profondo e piú vasto sui contemporanei.
Ma egli non è certo il piú originale; è soltanto il piú feli-
ce nel formulare il nuovo ideale della personalità. Né il
mal du siècle, né l’eroe solitario e orgoglioso, segnato dal
destino, cioè nessuno dei due elementi fondamentali
della sua poesia è veramente una sua invenzione. La
malinconia byroniana viene da Chateaubriand e dalla
letteratura dell’emigrazione francese; l’eroe byroniano
discende da Saint-Preux e da Werther. Il senso dell’in-
conciliabilità fra le esigenze morali dell’individuo e le
convenzioni sociali già per Rousseau e per Goethe carat-
terizzava l’uomo nuovo, e già Sénancour e Constant
descrivono l’eroe come un eterno esule, che porta in sé
la maledizione della sua natura asociale. Ma nell’opera
loro il carattere asociale dell’eroe era ancora connesso
con un senso di colpevolezza, e si palesava in rapporti
complicati e ambivalenti con la società; solo Byron lo
trasforma in aperta ribellione senza piú scrupoli; in
un’accusa ai contemporanei da parte dell’eroe che rende
giustizia a se stesso e si commisera lamentosamente:
Byron rende esteriore e volgare il gran problema del
romanticismo; l’intimo tormento del suo tempo in lui
diventa moda, atteggiamento mondano. Grazie a lui
l’inquietudine del romantico, senza piú scopo nella vita,
diventa un contagio, la «malattia del secolo»; il senso
dell’isolamento degenera in un culto della solitudine
pieno di rancore, la perdita degli antichi ideali in anar-
chico individualismo, il tedio della civiltà e della vita in
un gioco affettato con la vita e la morte. Alla maledi-
zione da cui la sua generazione si sentiva oppressa Byron
dà un aspetto seducente: i suoi eroi sono degli esibizio-
nisti che ostentano le loro ferite, dei masochisti che si
coprono pubblicamente di colpe e di vergogna, dei fla-
gellanti che si torturano con autoaccuse e rimorsi e

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rivendicano per sé, con lo stesso orgoglio, le buone e le


cattive azioni.
L’eroe byroniano, questo tardo epigono del cavalie-
re errante, altrettanto amato e quasi altrettanto longe-
vo, domina tutta la letteratura ottocentesca e imperversa
ancora negli odierni film di criminali e di gangsters. Certi
suoi tratti sono antichissimi, almeno antichi quanto il
romanzo picaresco. In questo infatti si trova già la figu-
ra del reietto che dichiara guerra alla società ed è nemi-
co imperterrito dei grandi e dei potenti quanto amico e
benefattore dei deboli e dei poveri: esteriormente rude
e spiacevole, si rivela alla fine schietto e magnanimo; è
insomma quale la società lo ha fatto. Tra Lazarillo de
Tormes e Humphrey Bogart l’eroe byroniano è solo un
anello intermedio. Già molto tempo prima di Byron il
briccone era diventato l’inquieto pellegrino che regola-
va i suoi passi sulle stelle, l’eterno straniero tra gli uomi-
ni, che cercava la felicità perduta senza trovarla mai,
l’amaro misantropo che portava il proprio destino con
l’orgoglio di un angelo caduto. Tutti questi motivi esi-
stevano già in Rousseau e in Chateaubriand; di nuovo
nella figura byroniana non ci sono che i tratti satanici e
narcisistici. L’eroe romantico, che Byron introduce nella
letteratura, è un’uomo misterioso; nel suo passato c’è un
segreto, un tremendo peccato, un fatale errore o una
omissione irreparabile. Egli è un proscritto, ognuno lo
sente, ma nessuno sa che cosa si celi sotto il velo del
tempo, ed egli non lo solleva. Si avvolge nel mistero del
suo passato come in un manto regale: solitario, tacitur-
no, inaccessibile. Da lui emana dannazione e rovina. È
spietato con se stesso e con gli altri. Non conosce per-
dono e non chiede grazia né a Dio, né agli uomini. Non
rimpiange nulla, non si pente di nulla e, nonostante la
sua vita disperata, nulla vorrebbe mutare in quel che è
stato e in quel ch’egli ha fatto. È rude e selvatico, ma
d’alta origine; i suoi lineamenti sono duri e impenetra-

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bili, ma nobili e belli; da lui emana uno strano fascino


a cui nessuna donna può resistere, mentre ogni uomo
risponde con amicizia o inimicizia. Egli è colui che il
destino incalza e che diventa per gli altri il destino; il
prototipo non solo degli irresistibili e fatali amanti che
troviamo nella letteratura moderna, ma in certo modo
anche dei demoni di sesso femminile, dalla Carmen di
Mérimée alle vamps di Hollywood.
Se non è stato proprio Byron a scoprire l’«eroe sata-
nico» che, ossesso e accecato, getta nella perdizione se
stesso e chiunque venga a contatto con lui, certo egli ne
ha fatto l’uomo «interessante» per eccellenza, Gli ha
dato i caratteri piccanti e seducenti che da allora gli sono
rimasti, lo ha tramutato nell’immoralista, nel cinico,
irresistibile proprio per il suo cinismo. Per il disincan-
tato mondo romantico in cerca di una nuova fede l’idea
dell’«angelo caduto» aveva una fortissima attrattiva. Ci
si sentiva colpevoli, ribelli a Dio, ma nella dannazione
si voleva essere almeno come Lucifero. Anche i serafici
Lamartine e Vigny finirono per passare al satanismo
mettendosi nel seguito degli Shelley e dei Byron, dei
Gautier, dei Musset, dei Leopardi e degli Heine46. Que-
sto atteggiamento, traendo origine dal contraddittorio
atteggiamento dei romantici di fronte alla vita, scaturi-
va senza dubbio da un’inquietudine religiosa, ma, spe-
cialmente in Byron, si trasformò in scherno per tutto ciò
che appariva sacro alla borghesia. Si trattava però di
un’avversione diversa da quella della bohème francese
per il borghese: l’anticonvenzionalismo plebeo di Gau-
tier e dei suoi amici rappresentava un attacco dal basso;
l’immoralismo di Byron, invece, un attacco dall’alto.
Ogni espressione piú o meno tipica di Byron tradisce lo
snobismo che accompagna le sue idee liberali, ogni sua
testimonianza svela l’aristocratico, certo non piú salda-
mente radicato nella sua posizione sociale, ma fedele alle
pose della casta. Soprattutto l’isterica passionalità con

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cui, nelle opere tarde, egli si scaglia contro l’aristocra-


zia che lo scomunica, mostra quanto profondamente
egli si senta legato a quella classe e, nonostante tutto,
quanta autorità e attrattiva essa abbia ancora per lui47.
«La morte non è un argomento», dice Hebbel. Certo
Byron con la sua morte eroica non ha provato nulla. Essa
non gli si addice, bench’egli fosse di sentimenti rivolu-
zionari. Byron cercò la morte «perché il suo equilibrio
spirituale era turbato» e morí «coronato di pampini»
come voleva morire Hedda Gabler.
Dalle inclinazioni aristocratiche di Byron dipende
anche la sua fedeltà all’estetica classicistica e la sua pre-
dilezione per Pope. Di Wordsworth gli spiaceva il tono
freddamente solenne, prosaicamente untuoso; e disprez-
zava Keats per la sua «volgarità». Da queste preferen-
ze classiche derivano anche lo spirito distaccato e ironi-
co, la forma vivace delle opere byroniane, soprattutto il
disinvolto tono discorsivo del Don Juan. Tuttavia è inne-
gabile una connessione fra la scorrevolezza del suo stile
e la dizione «naturale» di Wordsworth; sono entrambi
aspetti della reazione al pathos retorico del Sei e del Set-
tecento. Il fine comune era quello di raggiungere una
maggior flessibilità della lingua, e proprio come maestro
di uno stile fluido, agilissimo, apparentemente improv-
visato, Byron destò il maggior entusiasmo fra i contem-
poranei. Né la grazia alata di Pu∫kin, né l’eleganza di
Musset sarebbero concepibili senza questo nuovo tono.
Il Don Juan con il suo particolare accento non solo fu
esemplare per la poesia arguta, maliziosa, satirica, ma è
all’origine del moderno romanzo d’appendice48. I primi
lettori di Byron probabilmente appartennero alla nobiltà
e all’alta borghesia; ma il suo vero, grande pubblico egli
lo trovò nelle file di quella borghesia scontenta, piena
di rancore, incline al romanticismo, dove ogni fallito si
riteneva un Napoleone incompreso. L’eroe byroniano
era concepito in modo che ogni giovane deluso nelle sue

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

speranze, ogni fanciulla offesa nel suo amore vi si potes-


se riconoscere. Incoraggiando il lettore a tale intimità,
Byron non fa che continuare la tendenza già palese in
Rousseau e in Richardson, ed è questa la ragione piú
profonda del suo successo. L’intimità del vincolo fra let-
tore ed eroe provocava un interesse tutto particolare per
la persona dell’autore. Anche questo era fenomeno già
noto ai tempi di Rousseau e di Richardson, tuttavia si
può dire che fino all’età romantica la vita privata del
poeta fosse rimasta ignota ai lettori. Ma da quando
Byron prese a farsi réclame, il poeta divenne il benia-
mino del pubblico, e i lettori – specialmente le lettrici
– ebbero con lui quei singolari rapporti che sogliono sta-
bilirsi fra lo psicanalista e il suo paziente, o fra un astro
del cinematografo e le sue adoratrici.
Byron fu il primo poeta inglese che esercitò un influs-
so importante sulla letteratura europea; Walter Scott fu
il secondo. Grazie a loro divenne realtà quel che Goethe
intendeva per «letteratura universale». La loro scuola si
estese a tutto il mondo letterario, godendovi la più alta
autorità, introdusse nuove forme, nuovi valori, avviò
nutriti scambi culturali fra l’uno e l’altro paese d’Euro-
pa, quasi flussi e riflussi che portavano seco nuovi inge-
gni, spesso sollevandoli al di sopra dei loro maestri.
Basta pensare a Pu∫kin e a Balzac per capire l’ampiezza
e la fecondità della scuola. Forse la moda byroniana fu
piú febbrile e appariscente, ma l’azione di Walter Scott,
che è stato detto «il piú fortunato scrittore del
mondo»49, fu piú reale e profonda. Da lui procede quel
rinnovamento del romanzo naturalistico, il genere
moderno per eccellenza, che trasforma l’intero pubbli-
co letterario. In Inghilterra il numero dei lettori era
venuto crescendo continuamente già dal principio del
Settecento. In questo processo si possono distinguere tre
tappe: la fase iniziatasi verso il 1710 con i nuovi perio-
dici e culminante nel romanzo della metà del secolo; il

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tempo dei pseudostorici romanzi neri, dal 1770 fino al


1800; e il periodo del romanzo naturalistico moderno,
aperto da Walter Scott. Ad ognuna di queste fasi corri-
spose un aumento considerevole di lettori. La prima
conquistò alla letteratura di argomento profano una
parte relativamente esigua della borghesia, cioè di gente
che fino allora non leggeva nulla, o, al massimo, libri edi-
ficanti; nella seconda questo pubblico ingrossò fino a
comprendere un’ampia cerchia di borghesi in via di
arricchirsi, soprattutto signore; nella terza vi si aggiun-
sero altri elementi dell’alta e della piccola borghesia, che
cercavano nel romanzo divertimento e istruzione. Wal-
ter Scott riuscí a raggiungere la popolarità dei romanzi
neri e sensazionali con i mezzi, ben piú raffinati, dei
grandi romanzieri settecenteschi. Egli divulgò le descri-
zioni del passato feudale, fino allora lettura esclusiva dei
ceti superiori50, e nello stesso tempo elevò a vera dignità
letteraria lo pseudostorico romanzo a forti tinte.
L’ultimo grande romanziere del Settecento fu Smol-
lett. Il mirabile sviluppo che nel romanzo inglese corri-
spose alle conquiste politiche e sociali della borghesia,
si arresta verso il 1770. L’improvviso crescere del pub-
blico provoca una sensibile decadenza: la richiesta ecce-
de di molto il numero dei buoni scrittori, e poiché la pro-
duzione viene in ogni modo assorbita, si produce senza
freno né discernimento. L’esigenza delle biblioteche cir-
colanti impone il ritmo e determina la qualità. Le cose
piú ricercate, oltre ai romanzi raccapriccianti, sono gli
scandali del giorno, i «casi» celebri, le biografie piú o
meno romanzate, le relazioni di viaggi e le memorie
segrete, insomma i soliti generi sensazionali. Ne viene,
fenomeno inaudito, che gli ambienti colti cominciano a
disprezzare il romanzo51. Solo Walter Scott ne restaura
il prestigio, trattandolo anzitutto in modo da soddisfa-
re l’interesse degli ambienti intellettuali per la storia e
la scienza. Non solo egli cerca di offrire ogni volta un

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fedele quadro storico, ma provvede i suoi romanzi di


introduzioni, note e appendici, a sostegno della loro
attendibilità scientifica. Se è vero che non si può con-
siderare Walter Scott come il vero creatore del roman-
zo storico, è tuttavia fuor di dubbio che egli è l’inven-
tore del genere storico-sociale, prima affatto ignoto. I
romanzieri francesi del Settecento, Marivaux, Prévost,
Laclos e Chateaubriand avevano certo determinato con
le loro opere un immenso progresso del romanzo psico-
logico, ma non avevano saputo creare l’atmosfera socia-
le intorno ai loro personaggi, o li avevano circondati di
un ambiente che non esercitava alcun influsso sostan-
ziale sulla loro intima struttura. Il romanzo inglese del
Settecento può chiamarsi «sociale», in quanto insiste
maggiormente sui rapporti fra gli uomini; ma anch’es-
so, nel delineare i personaggi, trascura affatto le distin-
zioni di classe o la causalità sociale. Invece le figure di
Walter Scott ne portano sempre l’impronta52. E poiché
in complesso Scott descrive giustamente lo sfondo socia-
le delle sue storie, nonostante le sue opinioni di conser-
vatore egli diventa un campione del liberalismo e del
progresso53.
Per quanto avverso egli sia, anche politicamente, alla
Rivoluzione, il suo metodo sociologico sarebbe incon-
cepibile senza questa svolta della storia. Solo con essa,
infatti, si sviluppa il senso delle differenze di classe e
diviene un dovere per ogni artista onesto di rappresen-
tare nei suoi scritti la realtà che a quelle corrisponde.
Come scrittore, il retrivo Scott è piú profondamente
legato alla Rivoluzione del radicale Byron. Certo non
bisogna sopravvalutare il «trionfo del realismo», come
Engels chiama l’astuzia dell’arte che spesso fa strumen-
ti del progresso anche gli spiriti conservatori. Di solito
in Scott la comprensione, l’entusiasmo per il «popolo»
non è che un atteggiamento poco impegnativo, e in com-
plesso il popolo minuto ch’egli descrive rimane conven-

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zionale e schematico. L’atteggiamento conservatore di


Scott è però meno aggressivo dei sentimenti antirivolu-
zionari di Wordsworth e di Coleridge, che sono espres-
sione di un amaro disinganno e di un improvviso muta-
mento di idee. È vero che Scott, come generalmente i
romantici reazionari, è entusiasta della cavalleria medie-
vale e ne deplora la decadenza; ma nello stesso tempo
anch’egli, come Pu∫kin e Heine, critica tutta la strava-
ganza romantica. Con la stessa chiaroveggenza con cui
Pu∫kin constata l’affettazione di Oneghin, in Riccardo
Cuor di Leone egli riconosce lo «splendido, ma inutile
cavaliere della leggenda»54.

Delacroix, il primo e il massimo esponente della pit-


tura romantica, già si contrappone al romanticismo e lo
supera. Egli rappresenta ormai l’Ottocento, mentre in
sostanza il romanticismo è ancora Settecento, e non
solo perché continua il preromanticismo, ma anche per-
ché è contraddittorio ma non relativistico, ambivalente
nei suoi rapporti spirituali, ma non cosí scisso come il
secolo xix.
Il Settecento è dogmatico – lo sono un po’ anche i
suoi romantici – l’Ottocento è scettico e agnostico. Da
ogni cosa, perfino dal sentimentalismo e dall’irraziona-
lismo, gli uomini del Settecento cercano di trarre una
chiara formulazione teorica e una visione universale net-
tamente definibile; sono sistematici, filosofi, riforma-
tori, si dichiarano favorevoli o avversi a una cosa e spes-
so mutano parte, ma prendono posizione, seguono dei
principî, si attengono a un piano riformatore della vita
e del mondo. Invece gli intellettuali dell’Ottocento
hanno perduto la fede nei sistemi e nei programmi, e
vedono il senso e il fine dell’arte nell’abbandonarsi pas-
sivamente alla vita, nel coglierne il ritmo, nel conser-
varne l’atmosfera e l’intimo accordo; la loro fede è un’ir-
razionale, istintiva affermazione della vita; la loro mora-

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le, un adeguarsi alla realtà. Essi non vogliono regolarla


né superarla; vogliono viverla e riprodurne l’esperienza
nel modo piú diretto, fedele e completo. Li domina un
sentimento invincibile che la vita e il presente, i con-
temporanei e il mondo circostante, le esperienze e i
ricordi sfuggano giorno per giorno e si perdano per sem-
pre. L’arte diventa il mezzo d’inseguire «il tempo per-
duto», la vita che sfugge, eternamente inafferrabile. Il
naturalismo intransigente non è dei secoli che credono
di possedere saldamente e sicuramente la realtà, ma di
quelli che temono di perderla; perciò l’Ottocento è il
tempo classico del naturalismo.
Delacroix e Constable stanno sulla soglia del nuovo
secolo. In parte sono ancora degli espressionisti roman-
tici, che lottano per esprimere l’idea; ma in parte sono
già degli impressionisti, che cercano di cogliere l’ogget-
to fuggevole e non credono piú a un equivalente perfetto
della realtà. Dei due, Delacroix è il piú romantico; se lo
si paragona a Constable, appare evidentissima la conti-
nuità storica che lega classicismo e romanticismo, distin-
guendoli dal naturalismo. Di fronte a questo, classicismo
e romanticismo hanno in comune l’esaltazione della vita
e dell’uomo, a cui dànno grandezza tragica ed eroica,
espressione appassionatamente patetica: caratteri questi
ancora presenti in Delacroix, ma non in Constable e nel
naturalismo dell’Ottocento. Per Delacroix l’uomo è
ancora il centro del mondo, mentre per Constable egli
è divenuto una cosa fra le cose, riassorbito dall’am-
biente. Perciò Constable, sebbene non sia il piú grande,
è l’artista piú innovatore del suo tempo. Scacciato l’uo-
mo dal centro dell’arte, vi subentra il mondo delle cose,
e la pittura non solo acquista un nuovo contenuto, ma
tende sempre piú esclusivamente alla soluzione di pro-
blemi tecnici e puramente formali. A poco a poco il sog-
getto perde ogni valore estetico, ogni interesse per l’ar-
tista, e l’arte diventa piú formalistica che mai. Non

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

importa piú affatto che cosa si dipinga, si chiede soltanto


come lo si dipinga. Una tale indifferenza al tema non si
era avuta neppure col piú disinvolto Manierismo. Mai
finora si erano considerati argomenti di ugual valore
artistico un cavolo e una testa di Madonna. Solo ora che
il pittorico costituisce il vero contenuto della pittura,
viene meno l’antica gerarchia accademica dei soggetti e
dei generi. Già in Delacroix, pur cosí legato alla poesia,
i motivi letterari costituiscono soltanto l’occasione, non
la sostanza del quadro. Egli nega alla pittura ogni inten-
to letterario e, invece di concetti, cerca di esprimere
qualcosa di proprio, d’irrazionale, simile alla musica55.
L’origine di questo spostarsi dell’interesse dall’uomo
alla natura, è da vedere nella scarsa fiducia che la nuova
generazione ha in sé, nel suo disorientamento, nella sua
incerta coscienza sociale, ma soprattutto nel trionfo
della visione scientifico-naturalistica cosí lontana dai
valori dell’umanesimo. Constable supera l’umanesimo
classico-romantico piú facilmente di Delacroix e diven-
ta il primo paesista moderno, mentre Delacroix rimane
essenzialmente «pittore di storia». Ma entrambi incar-
nano in ugual misura lo spirito del nuovo secolo per il
modo scientifico di porsi i problemi pittorici, dando
all’ottica il predominio sulla visione. Lo sviluppo dello
stile «pittorico», cominciato in Francia con Watteau e
interrotto dal classicismo settecentesco, viene ripreso e
continuato da Delacroix. Per la seconda volta Rubens
sovverte la pittura francese; per la seconda volta egli dà
origine a un sensualismo irrazionale ribelle al gusto clas-
sico. La massima di Delacroix, per cui un quadro dev’es-
sere anzitutto una festa per gli occhi, era anche il mes-
saggio di Watteau e fu vangelo per tutto l’impressioni-
smo. Il vibrante dinamismo delle forme, il movimento
lineare e cromatico, l’agitazione barocca dei corpi e il
dissolversi dei colori locali nei loro componenti, tutto
concorre a creare quest’arte sensuale, che ora permette

Storia dell’arte Einaudi 66


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di unire romanticismo e naturalismo, contrapponendo-


li entrambi al gusto classico.
In certa misura Delacroix fu ancora una vittima del
mal du siècle. Soffriva di gravi depressioni, conosceva il
senso dell’inutilità e del vuoto, lottava contro un inde-
finibile e inguaribile tedio. Era un malinconico, un
insoddisfatto, con il rovello dell’imperfezione. Lo stato
d’animo di Géricault a Londra, quando scriveva a casa:
«Qualunque cosa io faccia, vorrei aver fatto qualcosa
d’altro», tormentò Delacroix per tutta la vita56. Le sue
radici romantiche erano ancor cosí profonde, che non gli
erano estranee neppure le tentazioni piú brutali. Basta
pensare a un’opera come il Sardanapalo (1829) per capi-
re quanto posto avessero nel suo spirito il teatrale demo-
nismo e l’idolatria di Moloch cari ai romantici. Ma il
romanticismo come atteggiamento pratico, egli lo com-
batté; si riconobbe fra i suoi esponenti soltanto con
forti riserve, e lo accettò come tendenza artistica soprat-
tutto per la larghezza di motivi che offriva alla pittura.
Come sostituì un viaggio in Oriente al tradizionale viag-
gio a Roma, cosí attinse dalle fonti poetiche dell’antico
e del moderno romanticismo, da Dante e da Shake-
speare, da Byron e da Goethe, anziché dall’antichità
classica. Soltanto l’interesse del soggetto lo legava ad
Ary Scheffer e Louis Boulanger, a Decamps e Delaro-
che. Egli odia il falso romanticismo del chiaro di luna e
i sognatori incorreggibili, Chateaubriand, Lamartine e
Schubert, ch’egli accomuna alquanto arbitrariamente57.
Quanto a lui, non volle esser chiamato romantico e negò
assolutamente di essere il maestro di quella scuola. Del
resto, non aveva nessuna voglia di educare artisti, né
diede mai libero accesso al suo studio; al massimo assu-
meva qualche aiuto, ma non allievi58. Nella pittura fran-
cese, non ci fu piú nulla di simile alla scuola di David;
nessuno sostituí il maestro. Le mete dell’arte erano
ormai troppo personali, i criteri di valutazione troppo

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

differenziati, perché potessero sorgere scuole di pittura


come quelle di un tempo59.
L’antiromanticismo di Delacroix si esprime anche
nella sua ripugnanza per la bohème. Rubens è il suo
modello, non solo come artista, ma anche come uomo;
e, dopo Rubens e i grandi del Rinascimento, egli è il
primo e forse l’unico pittore che unisca modi signorili a
una grande cultura60. Le sue inclinazioni aristocratiche
gli fanno odiare ogni esibizionismo e ogni ostentazione;
della tradizione della bohème gli rimane una cosa sola:
il disprezzo del pubblico. A ventisei anni, egli è già un
pittore celebre, ma ancora trent’anni piú tardi scrive: «Il
y a trente ans que je suis livré aux bêtes» [«Da trent’an-
ni mi si dà in pasto alle bestie»]. Aveva amici, ammira-
tori, mecenati, incarichi dallo Stato; ma il pubblico non
lo amò né lo comprese mai. Nella stima che gli si tribu-
tava mancava ogni calore. Delacroix è un isolato, un soli-
tario in un senso assai piú vero di quello in uso fra i
romantici. C’è un solo contemporaneo, ch’egli apprezzi
e ami senza riserve: Chopin. Né Hugo, né Musset, né
Stendhal, né Mérimée gli sono particolarmente vicini;
egli non prende molto sul serio George Sand, la trascu-
ratezza di Gautier lo respinge, Balzac gli dà sui nervi61.
Lo straordinario valore che ha per lui la musica, e che
lo porta ad ammirare tanto Chopin, è un sintomo della
nuova gerarchia fra le arti e della posizione preminente
che l’estetica del romanticismo assegna alla musica. Essa
è l’arte romantica per eccellenza e Chopin è il piú
romantico dei romantici. L’affetto per lui è la rivela-
zione piú diretta dell’intima affinità di Delacroix con il
romanticismo. Ma il suo giudizio sugli altri grandi musi-
cisti tradisce l’incoerenza del suo sentimento. Di Mozart
egli parla sempre con la piú viva ammirazione, mentre
Beethoven gli sembra troppo arbitrario, troppo roman-
tico. In fatto di musica il suo gusto è classicista62, il sen-
timentalismo stereotipo di Chopin non lo disturba, ma

Storia dell’arte Einaudi 68


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’«arbitrio» di Beethoven, che dovrebbe essergli molto


piú vicino come artista, lo sorprende e lo confonde.
La musica romantica si contrappone non solo a quel-
la classica, ma anche a quella preromantica, in quanto
quest’ultime poggiano entrambe sul principio dell’unità
formale e dell’esaltazione dell’effetto finale. La struttu-
ra accentrata, in funzione di un’acme drammatica, delle
forme musicali nell’età romantica si dissolve, e torna a
prevalere il modo aggiuntivo della composizione piú
antica. La sonata si disgrega e viene sempre piú spesso
sostituita da altre forme meno rigide e meno tipiche, da
brevi liriche e bozzetti musicali, come il pezzo caratte-
ristico, la fantasia, l’improvviso e l’intermezzo, l’arabe-
sco e lo studio, l’improvvisazione e la variazione. Anche
le composizioni piú vaste constano spesso di queste
forme miniaturistiche, che strutturalmente non costi-
tuiscono piú gli atti di un dramma, bensí le scene di una
rivista. Una sonata o una sinfonia classica era un micro-
cosmo. Una serie di quadretti musicali, come il Carna-
val di Schumann o Les années de pélerinage di Liszt, è
come l’album di schizzi di un pittore; può contenere par-
ticolari di gran pregio lirico e impressionistico, ma rinun-
zia senz’altro a un effetto di insieme e di unità organi-
ca. Anche la predilezione per il poema sinfonico, che in
Berlioz, Liszt, Rimskij Korsakov, Smetana e altri sot-
tentra alla sinfonia, è soprattutto un segno d’inettitudi-
ne o di esitazione a rappresentare il mondo come un
tutto. Del resto, questo mutamento di forme dipende
anche dalle tendenze letterarie dei compositori e dalla
loro predilezione per la musica descrittiva. L’ibridismo
formale che si può osservare dappertutto, nella musica
si manifesta anche nel fatto che molto spesso il compo-
sitore romantico ha notevoli doti di scrittore. Una minor
coerenza strutturale si può constatare anche nella pittura
e nella poesia del tempo, ma la disintegrazione delle
forme non è mai cosí rapida e cosí vasta come nella musi-

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ca. La differenza si spiega in parte col fatto che le altre


arti già da lungo tempo avevano superato la struttura
ciclica «medievale», mentre nella musica questa era
rimasta in vigore fino a mezzo il secolo xviii è solo dopo
la morte di Bach l’unità formale aveva cominciato ad
allentarsi. Richiamarsi ad essa era quindi assai piú faci-
le che in pittura, dove tale struttura appariva ormai
affatto antiquata. Tuttavia l’interesse storico dei roman-
tici per la musica antica e il risorgente prestigio di Bach
non contribuiscono che in via secondaria a dissolvere il
rigore formale della sonata; la ragione vera del muta-
mento va cercata in una svolta del gusto che si fonda su
cause essenzialmente sociologiche.
Il romanticismo porta a termine il processo che s’era
iniziato nella seconda metà del Settecento: la musica
diventa esclusivo possesso della borghesia. Non soltan-
to le orchestre passano dalle sale dei castelli e dei palaz-
zi alle sale da concerto affollate di borghesi, ma anche
la musica da camera trova il suo ambiente nelle case bor-
ghesi, anziché nei salotti aristocratici. Il gran pubblico,
sempre piú assiduo alle manifestazioni musicali, esige
tuttavia una musica piú leggera, piú attraente, meno
complicata. Quest’esigenza favorisce il sorgere di forme
brevi, piú dilettevoli, piú mosse, ma porta anche a una
divisione tra musica seria e musica leggera. Finora le
composizioni destinate al semplice divertimento non si
distinguevano per qualità dalle altre; naturalmente c’e-
rano opere di valore assai differente, ma ciò non dipen-
deva dalla loro destinazione. Come sappiamo, la gene-
razione successiva a Bach e a Haendel distingueva già
tra il comporre per proprio diletto e la produzione desti-
nata al pubblico; ma adesso si distingue ormai fra le
diverse categorie del pubblico stesso. Già le opere di
Schubert e di Schumann si possono classificare secondo
questo criterio63; in Chopin e in Liszt la preoccupazio-
ne di compiacere anche la parte piú accontentabile del

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pubblico influisce, per cosí dire, su ogni singola opera;


e in Berlioz e Wagner porta spesso a un’esplicita civet-
teria. Quando Schubert dichiara di non conoscere musi-
ca «allegra» ha l’aria di voler prevenire il rimprovero di
frivolezza; poiché dall’avvento del romanticismo in poi
ogni gaiezza appare frivola e superficiale. L’unione della
piú spensierata leggerezza con la piú profonda serietà,
del gioco piú esuberante con l’ethos piú alto, piú puro,
piú profondamente trasfiguratore, ancor presente nel-
l’opera di Mozart, viene meno; d’ora in poi tutto ciò che
non è solito e volgare assume un’aria cupa e pensierosa.
Basta confrontare lo spasmodico espressionismo della
musica romantica con la serena, chiara umanità di
Mozart, esente da ogni misticismo, per misurare quel
che con il Settecento è andato perduto.
Nei romantici le concessioni al pubblico valgono a
compensare l’assenza di ogni ritegno e l’arbitrio dell’e-
spressione. Consciamente e volutamente si rendono piú
difficili le composizioni, sia nello spirito che nella tec-
nica, sicché esse non si prestano piú ad essere eseguite
da dilettanti. Già le più tarde opere di Beethoven per
pianoforte e per orchestra da camera potevano essere
eseguite solo da artisti e apprezzate da un pubblico di
raffinata cultura musicale. I romantici accrescono anzi-
tutto le difficoltà tecniche. Weber, Schumann, Cho-
pin, Liszt compongono per i grandi concertisti. La bra-
vura, ch’essi esigono dall’esecutore, ha un duplice effet-
to: riserva l’esercizio della musica all’esperto e abbaglia
il profano. Per il virtuoso-compositore, il cui prototipo
è Paganini, lo stile brillante non ha altro scopo che di
sbalordire l’ascoltatore, è l’espressione di una difficoltà,
di una complicazione intima. Entrambe le tendenze, sia
quella che accresce la distanza tra il dilettante e il vir-
tuoso, sia quella che approfondisce la cesura tra musica
leggera e musica difficile, portano alla dissoluzione dei
generi classici. Per sua natura, lo stile del virtuoso ato-

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mizza le grandi forme massicce: il pezzo di bravura è


relativamente breve, scintillante, pungente. Ma anche
uno stile intrinsecamente difficile, originale, volto a
sublimare pensieri e sentimenti favorisce il dissolversi
delle forme universalmente valide, tipiche e di lungo
respiro.
La facilità con cui la musica può essere sottoposta a
questa disgregazione formale, l’irrazionalità del suo con-
tenuto e l’autonomia dei suoi mezzi espressivi, spiega-
no la preminenza che ora assume nel sistema delle arti.
Per i classici l’arte sovrana era la poesia, il preromanti-
cismo tendeva in parte alla pittura; il romanticismo
maturo guarda alla musica. Per Gautier la pittura rap-
presentava ancora l’ideale dell’arte, per Delacroix la
musica è ormai la fonte delle piú profonde esperienze
artistiche64. Tale evoluzione culmina nella filosofia di
Schopenhauer. Il romanticismo celebra nella musica i
suoi maggiori trionfi. La gloria di Weber, Meyerbeer,
Chopin, Liszt, Wagner riempie tutta l’Europa e sover-
chia il successo dei poeti piú noti. Alla fine dell’Otto-
cento la musica è la sola fra le arti che sia rimasta pie-
namente romantica. E che il secolo sentisse proprio nella
musica l’essenza dell’arte, è prova chiarissima di quan-
to profondamente fosse legato al romanticismo. La con-
fessione di Thomas Mann, che riconosce esser stata la
musica di Wagner a svelargli il senso dell’arte, è alta-
mente sintomatica. Ancora sullo scorcio del secolo for-
mule come «le sang, la volupté et la mort», la romanti-
ca ebbrezza dei sensi e il salto mortale della ragione var-
ranno a indicare il senso profondo dell’arte. L’Otto-
cento non arrivò a concludere la sua lotta con lo spirito
romantico; la decisione doveva toccare al nuovo secolo.

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

1
Citato da f. l. lucas, The Decline and Fall ot the Romantic Ideal,
1937, p. 36.
2
Per questo concetto della «coscienza epocale», cfr. karl jaspers,
Die geistige Situation der Zeit, 1932, 3a ed., pp. 7 sgg.
3
g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 943.
4
marcel proust, Pastiches et mélanges, 1919, p. 267.
5
joseph aynard, Comment définir le romantisme?, in «Revue de
littérature comparée», v, 1925, p. 653.
6
f. benoit, L’art français ecc. cit., pp. 62-63.
7
Cfr. albert pötzsch, Studien zur frühromantischen Politik und
Geschichtsauffassung, 1907, pp. 62-63.
8
ortega y gasset, History as a System, in Philosophy and History.
Essays presented to Ernst Cassirer, a cura di r. klibansky e j. h. paton,
1936, p. 313.
9
emil lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, 1902, pp. 56 sgg.,
83 sgg. Cfr. erich rothacker, Einleitung in die Geschichtswissenschaf-
ten, 1920, pp. 116-18.
10
arnold ruge, Die wahre Romantik, Gesammelte Schriften, III, p.
134; citato da carl schmitt, Politische Romantik, 1925, 2a ed., p. 35.
11
konrad lange, Das Wesen der Kunst, 1901.
12
coleridge, Biographia Literaria, XIV.
13
Cfr. albert salomon, Bürgerlicher und kapitalisticher Geist, in
«Die Gesellshaft», iv, 1927, p. 552.
14
louis maigron, Le Romantisme et les mœurs, 1910, p. v.
15
Citato da ricarda huch, Ausbreitung und Verfall der Romantik,
1908, 2a ed., p. 349.
16
e. kirchner, Die Philosophie der Romantik, 1906, pp. 42-43.
17
diderot, Paradoxe sur le comédien, 1773.
18
c. schmitt, Politische Romantik cit., pp. 24 sgg., 120 sgg.,
148-49.
19
Cfr. a. pötzsch, Studien ecc. cit., p. 17.
20
fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, in Wölf-
flin-Festschrift, 1924, p. 54.
21
georg brandes, Hauptströmungen der Literatur des 19. Jahrhun-
derts, 1924, I, pp. 13 sgg.
22
Cfr. ernst troeltsch, Die Restaurationsepoche am Anfang des 19.
Jahrhunderts, in «Vorträge der Baltischen Literatur- Gesellschaft»,
1913, p. 49.
23
c.-m. des granges, La presse littéraire sous la Restauration, 1907,
p. 44.
24
a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 107.
25
pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, p. 132.
26
henry a. beers, A History of English Romanticism in the 19th Cen-
tury, 1902, p. 173.

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

27
a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 121.
28
g. brandes, Hauptströmungen ecc. cit., III, p. 9.
29
Ibid., p. 225.
30
Ibid., II, p. 224.
31
grimod de la reynière, in «Le Censeur dramatique», i, 1797.
32
maurice albert, Les Théâtres des Boulevards (1789-1848), 1902.
33
c.-m. des granges, La Comédie et les mœurs sous la Restauration
et la Monarchie de Juillet, 1904, pp. 35-41, 43-46, 53-54.
34
w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt, 1913, pp. 52-54.
35
paul ginisty, Le Mélodrame, 1910, p. 14.
36
alexander lacey, Pixerécourt and the French Romantic Drama,
1928, pp. 22-23.
37
émile faguet, Propos de théâtre, II, 1905, pp. 299 sgg.
38
w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., p. 51.
39
Ibid.
40
g. de pixérécourt, Dernières réflexions sur le mélodrame, 1843;
citato da hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., pp. 231-32.
41
faguet, Propos de théâtre cit., p. 318.
42
alfred cobban, Edmund Burke and the Revolt against the 18th
Century, 1929, pp. 208-9, 215.
43
c. day lewis, The Poetic Image, 1947, p. 54.
44
h. n. brailsford, Shelley, Godwin and their Circle, 1913, p. 226.
45
francis thompson, Shelley, 1909, p. 41.
46
Cfr. fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, p. 54.
47
h. y. c. grierson, The Background of English Literature, 1925, pp.
167-68.
48
julius bab, Fortinbras oder der Kampf des 19. Jahrhunderts mit dem
Geist der Romantik, 1914, p. 38.
49
w. p. ker, Collected Essays, 1925, I, p. 164.
50
henry a. beers, A History of English Romanticism ecc. cit., p. 2.
51
j. m. s. tompkins, The Popular Novel in England (1770-1800),
1932, pp. 3-4.
52
louis maigron, Le roman historique à l’époque du romantisme,
1898, p. 90.
53
g. lukács, Walter Scott and the Historical Novel, in «The Inter-
national Literature», 1938, p. 80.
54
walter scott, Ivanhoe, 1820, cap. XLI.
55
léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 205-6.
56
delacroix, Journal [trad. it., Diario (1804-1863), Torino 1954].
Cfr., tra l’altro, la nota del 26 aprile 1824.
57
Ibid., 14 febbraio 1850.
58
l. rosenthal, La peinture romantique cit., pp. 202-3.
59
paul jamot, Delacroix, in Le Romantisme et l’art, 1928, p. 116.
60
Ibid., p. 120,

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

61
Ibid., pp. 100-1.
62
andré joubin, Journal de Delacroix, 1932, I, pp. 284-85.
63
alfred einstein, Music in the Romantic Era, 1947, p. 39.
64
delagroix, Journal, passim; in particolare nota del 30 gennaio
1855.

Storia dell’arte Einaudi 75


Capitolo primo

La generazione del 1830

Se il fine della ricerca storica è la comprensione del


presente – né altro potrebbe essere – quest’indagine è
ormai prossima al suo fine. Ora finalmente proprio degli
aspetti moderni del capitalismo dobbiamo occuparci,
della società borghese, del naturalismo in arte e in let-
teratura, insomma, di quello che è il nostro mondo. In
ogni campo ci stanno di fronte nuovi rapporti, nuove
forme di vita, e ci sentiamo come staccati dal passato.
Ma in nessun altro settore forse la cesura è cosí profon-
da come nella letteratura, dove il confine fra le opere piú
antiche, che ormai hanno assunto carattere storico, e
quelle piú vicine, tuttora piú o meno attuali, costituisce
la frattura piú rilevante che si conosca nella storia del-
l’arte. Soltanto le opere che rimangono al di qua di que-
sto confine ideale costituiscono la letteratura moderna,
viva, che tocca direttamente i nostri problemi; dalle
altre ci separa un abisso incolmabile, tanto che per com-
prenderle ci occorre una disposizione particolare, un
particolare sforzo, e interpretandole si rischia sempre di
errare e di fraintenderle. Noi leggiamo le opere lettera-
rie del passato con occhi diversi da quelle del nostro
tempo; le godiamo in modo puramente estetico, cioè con
distacco, anzi spassionatamente e con la chiara consa-
pevolezza del loro carattere fittizio e del nostro illuder-
ci. Questo presuppone punti di vista e capacità che man-
cano certamente al lettore comune; ma anche il lettore

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

guidato da interessi storici ed estetici sente un’immen-


sa differenza tra opere che non hanno alcun diretto rap-
porto col suo tempo, con il suo senso della vita e con i
fini ch’essa persegue, e quelle invece che da tale senso
della vita derivano e cercano di rispondere alla doman-
da di come si possa o si debba vivere in questo nostro
tempo.
L’Ottocento, o l’epoca che con questo termine comu-
nemente si intende, comincia intorno al 1830. Soltanto
al tempo della monarchia borghese cominciano a deli-
nearsi le basi e le linee generali del secolo: l’ordine socia-
le in cui noi stessi siamo radicati, il sistema economico
di cui sussistono ancor oggi i principî e le contraddizio-
ni, quella letteratura che, in complesso, è ancor oggi la
forma in cui noi ci esprimiamo. I romanzi di Stendhal
e di Balzac sono i primi libri che trattino della nostra
vita, dei nostri problemi, di difficoltà morali e di con-
flitti ignoti alle generazioni precedenti. Julien Sorel e
Mathilde de la Mole, Lucien de Rubempré e Rastignac
sono i primi uomini moderni della letteratura occiden-
tale, i primi nostri contemporanei ideali. In loro per la
prima volta troviamo quella sensibilità che è anche la
nostra, nel loro carattere troviamo i primi segni di quel-
la complicata psicologia che contraddistingue i contem-
poranei. Da Stendhal a Proust, dalla generazione del
1830 a quella del 1910, noi siamo testimoni di una con-
tinua, organica evoluzione intellettuale. Tre generazio-
ni si affaticano con gli stessi problemi; per settanta,
ottant’anni il corso della storia non devia.
I tratti caratteristici del secolo si possono già tutti
riconoscere intorno al 1830. La borghesia è in pieno svi-
luppo, già forte e consapevole della sua potenza. L’ari-
stocrazia è scomparsa dalla scena storica, ridotta a una
condizione strettamente privata. Il trionfo della bor-
ghesia è indubbio e incontrastato. È vero che i vincito-
ri costituiscono una classe capitalistica del tutto conser-

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vatrice e illiberale che adotta, in parte ancora tali e


quali, le forme e i metodi di governo dell’antica aristo-
crazia; ma i suoi membri nella condotta e nel pensiero
non sono affatto aristocratici, né tradizionalisti. Già il
romanticismo era stato un movimento essenzialmente
borghese, inconcepibile senza l’emanciparsi delle classi
medie; ma i romantici avevano spesso assunto atteggia-
menti ancora prettamente aristocratici, lusingati dall’i-
dea di trovare il loro pubblico fra la nobiltà. Queste illu-
sioni cessano dopo il 183o ed è evidente allora che non
c’è piú un vasto pubblico letterario fuori della borghe-
sia. Ma compiuta l’emancipazione borghese, ecco subi-
to iniziarsi la lotta politica della classe operaia. E que-
sto è il secondo dei movimenti fondamentali per l’Ot-
tocento, che prendono l’avvio dalla rivoluzione di luglio
e dalla monarchia borghese. Finora le lotte di classe del
proletariato si erano confuse con quelle della borghesia
e soprattutto per le mire politiche del ceto medio si
erano mosse le classi lavoratrici. Solo le vicende succes-
sive al 183o apriranno loro gli occhi convincendole che
nella lotta per i loro diritti non potranno appoggiarsi a
nessun’altra classe. Mentre si viene così svegliando nel
proletariato la coscienza di classe, la teoria socialista
assume la sua prima forma concreta, e nello stesso tempo
si delinea il programma di un attivismo artistico che per
intransigenza supera ogni precedente. L’art pour l’art
attraversa la prima crisi e d’ora in poi, oltre all’ideali-
smo dei classicisti, dovrà combattere anche l’utilitarismo
sia dell’arte «sociale» che dell’arte «borghese».
Il razionalismo economico che procede di pari passo
con l’industrializzazione e la completa vittoria del capi-
talismo, il progresso delle scienze storiche ed esatte e
quindi la generale tendenza scientifica del pensiero, la
rinnovata esperienza di una rivoluzione fallita e il con-
seguente realismo politico, sono tutti fattori che prepa-
rano quella grande lotta contro il romanticismo, che

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

riempie la storia dei cento anni successivi. La prepara-


zione e l’avvio di questa lotta è un altro contributo della
generazione del 183o al costituirsi del secolo xix. L’o-
scillare di Stendhal fra logique e espagnolisme, i rappor-
ti ambivalenti di Balzac con la borghesia e in entrambi
la dialettica di razionalismo e irrazionalismo mostra che
ormai la battaglia è in corso; la generazione di Flaubert
non fa che acuire una situazione di lotta già in atto. La
visione artistica della monarchia di luglio è in parte bor-
ghese, in parte socialista, ma in complesso antiromanti-
ca. Il pubblico, osserva Balzac nella prefazione a La
peau de chagrin (1831), «è ristucco di Spagna, d’Orien-
te, di storia di Francia alla Walter Scott». È passato,
deplora Lamartine, il tempo della poesia, cioè della poe-
sia «romantica»1. Il romanzo realista, la piú originale
creazione di questi anni e il piú importante acquisto del
secolo nel campo artistico, esprime, nonostante il roman-
ticismo dei suoi fondatori, cioè benché Stendhal si
richiami a Rousseau e in Balzac ci sia ancora l’eco del
melodramma, lo spirito antiromantico della nuova gene-
razione. Sia il razionalismo economico, che il pensiero
politico formulato in termini di lotta di classe spingono
il romanzo allo studio della realtà sociale e dei mecca-
nismi psicologico-sociali. L’oggetto e il punto di vista
dell’indagine rispondono pienamente alle intenzioni
della borghesia e il risultato, il romanzo realista, serve
quasi da manuale a questa classe in ascesa, che aspira al
completo dominio della società. Gli scrittori del tempo
ne fanno uno strumento per conoscere l’uomo e tratta-
re col mondo, rispondendo alle esigenze e al gusto di un
pubblico che essi odiano e disprezzano. Essi cercano di
soddisfare i loro lettori borghesi, siano o non siano san-
simoniani o fourieristi, credano all’arte sociale o a l’art
pour l’art, poiché un pubblico proletario non c’è e, se
anche ci fosse, non riuscirebbe che a metterli in imba-
razzo.

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Fino al Settecento gli autori non erano che i porta-


voce del loro pubblico2; essi curavano i beni intellettua-
li dei lettori, come i domestici e gli impiegati ne cura-
vano i beni materiali. Accettavano e sanzionavano la
morale e il gusto corrente, non li inventavano né li
mutavano. Scrivevano le loro opere per un pubblico
nettamente definito e limitato e non tentavano certo di
acquistare nuovi lettori. Quindi non c’era tensione alcu-
na tra pubblico vero e pubblico ideale3. Lo scrittore
ignorava il tormentoso problema della scelta fra diver-
se possibilità soggettive, e il problema morale della scel-
ta fra diversi ceti sociali. Solo nel Settecento il pubbli-
co si divide in due campi e l’arte in due tendenze riva-
li. D’ora in poi ogni artista ha di fronte due ordini con-
trastanti, il mondo dell’aristocrazia conservatrice e quel-
lo della borghesia progressista; un gruppo che si attiene
agli antichi valori tradizionali, presunti assoluti, e uno
che stima anche quei valori – e specialmente quelli –
legati al tempo e afferma che altri ne esistono, piú
aggiornati e meglio rispondenti al bene comune. La bor-
ghesia si affranca dai modelli aristocratici e l’aristocra-
zia stessa comincia a dubitare della validità dei propri
criteri, cosí che in parte passa nel campo borghese, per
favorire una letteratura che le è nemica e funesta. Per
gli scrittori si sviluppa una situazione affatto nuova:
quelli che continuano a servire i ceti conservatori, la
Chiesa, la corte e la nobiltà, finiscono per tradire i loro
compagni di classe; quelli invece che si fanno interpre-
ti delle idee della borghesia in ascesa, si trovano a com-
piere una funzione finora mai compiuta da nessuno
scrittore importante, salvo poche eccezioni: essi com-
battono per una classe oppressa o, comunque, non anco-
ra al potere4. Questo pubblico non ha una sua ideologia
già bell’e pronta, ed essi stessi debbono collaborare a
definire il sistema concettuale, le nuove categorie e i
nuovi valori. In questo modo essi non sono piú sempli-

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ci portavoce dei lettori, ma, per cosí dire, i difensori e


i maestri, e riprendono perfino qualcosa di quella dignità
sacerdotale perduta da tanto tempo, che né i poeti del-
l’antichità classica né quelli del Rinascimento avevano
posseduta, e meno che mai i chierici del Medioevo, che
per lettori avevano solo dei chierici e, come letterati,
non avevano alcun contatto con i laici. Durante la
Restaurazione e la monarchia borghese i letterati ven-
gono a perdere la singolare posizione che avevano avuto
nel Settecento; non sono piú i difensori e nemmeno i
maestri del lettore, ne sono anzi gli involontari servito-
ri, sempre ribelli, ma non per questo meno utili. Di
nuovo essi divengono i portavoce di un’ideologia, ch’es-
si trovano già piú o meno elaborata e chiaramente pre-
scritta: il liberalismo della borghesia trionfante, che essa
ha derivato dall’illuminismo attraverso molteplici alte-
razioni. Questo dev’essere il loro orientamento, se
vogliono trovare lettori. È tuttavia singolare che essi lo
seguano senza però identificarsi in alcun modo con il
loro pubblico. Anche gli scrittori dell’illuminismo anno-
veravano fra i loro seguaci solo una parte del pubblico
letterario, anch’essi erano circondati da un mondo osti-
le e pericoloso, ma almeno appartenevano allo stesso
campo dei loro lettori. Persino i romantici, per quanto
spaesati, si sentivano vicini all’uno o all’altro ambiente
sociale, e potevano sempre dire per quale gruppo, per
quale classe scendessero in campo. Ma a quale parte del
pubblico si sente legato Stendhal? Al massimo agli happy
few [To the happy few (ai pochi eletti): dedica delle opere
La Chartreuse de Parme, Lucien Leuwen, Promenades dans
Rome], gli indesiderabili, gli esclusi, i vinti. E Balzac?
S’identifica con la nobiltà, la borghesia o il proletaria-
to? con la classe che gl’ispira magari qualche simpatia,
ma ch’egli abbandona senza batter ciglio; o con quella
di cui ammira le inesauribili energie, e che tuttavia gli
ripugna; o con le masse, di cui ha paura come del fuoco?

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Gli scrittori che non sono puri maîtres de plaisir della bor-
ghesia non hanno un loro vero pubblico: questo per il
fortunato Balzac come per l’incompreso Stendhal.
Lo stato di tensione, il rapporto difficile che corre tra
autori e lettori della generazione del 1830 si riflettono
nettissimi nel nuovo tipo d’eroe che appare nei roman-
zi di Balzac e di Stendhal. Negli eroi di Rousseau, Cha-
teaubriand e Byron, solitari e straniati dal mondo, la
delusione e il senso del dolore universale si trasformano
in rinunzia ad attuare i propri ideali, in disprezzo per la
società e spesso in disperato cinismo di fronte alle norme
e alle convenzioni. Il romanzo del disinganno diventa il
romanzo della disperazione e della rassegnazione. Scom-
pare ogni tratto tragico-eroico, ogni volontà di autoaf-
fermazione, ogni fede nel perfezionamento del proprio
essere; e vi subentra la disposizione al compromesso, a
vivere senza scopo e a morire senza gloria. Nel roman-
zo della delusione balenava ancora l’idea della tragedia,
che faceva l’eroe in lotta contro la volgare realtà vitto-
rioso pur nella sconfitta. Invece nel romanzo ottocen-
tesco l’eroe risulta vinto nell’intimo, anche quando sem-
bra giungere alla meta e, spesso, proprio in quel momen-
to. Per l’eroe del giovane Goethe, di Chateaubriand o
di Benjamin Constant, il dubbio sulla ragion d’essere
della propria personalità, sulla legittimità dei propri fini
non esisteva; è il romanzo moderno che per primo crea
la cattiva coscienza dell’eroe nel conflitto con l’ordine
borghese, e gli impone di accettare i costumi e le con-
venzioni sociali, almeno come regola di gioco. Werther
è ancora l’individuo eccezionale, a cui il poeta accorda
fin da principio il diritto di ribellarsi al mondo stupido
e prosaico; invece Wilhelm Meister finisce i suoi anni
di tirocinio riconoscendo che bisogna adattarsi a questo
mondo cosí com’è. La realtà esteriore è ormai piú insen-
sata e ottusa, perché è diventata piú meccanica e arro-
gante; la società, finora ambiente naturale e campo d’a-

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zione dell’individuo, ha perduto ogni importanza, ogni


valore per i fini piú alti dell’individuo, e tuttavia anco-
ra piú forte si è fatta la necessità di adattarvisi, di vive-
re in essa e per essa.
La politicizzazione della società, iniziata con la Rivo-
luzione francese, giunge all’acme durante la monarchia
di luglio. Il conflitto tra liberalismo e reazione, lo sfor-
zo di conciliare le conquiste rivoluzionarie con gli inte-
ressi delle classi privilegiate continua, investendo tutti
i campi della vita pubblica. Il capitale finanziario trion-
fa sulla proprietà terriera; aristocrazia e Chiesa non sono
piú protagoniste della vita politica; i progressisti si
oppongono ai banchieri e agli industriali. L’antagonismo
politico e sociale di un tempo non si è certo attenuato,
solo sono mutate le posizioni. Ora i contrasti piú profon-
di sono quelli che dividono il capitalismo industriale dal
proletariato e dalla piccola borghesia. I fini della lotta
di classe si chiariscono, si inaspriscono i metodi, tutto
sembra annunziare un’altra rivoluzione. Nonostante i
frequenti riflussi, il liberalismo guadagna terreno; len-
tamente si prepara la democrazia dell’Europa occiden-
tale. La legge elettorale viene cambiata, e il numero
degli elettori, da circa centomila, cresce di due volte e
mezzo. Si costituiscono in embrione gli elementi del
sistema parlamentare e si gettano le basi della coalizio-
ne proletaria. Veramente, nonostante la riforma eletto-
rale, in Parlamento continuano a essere rappresentate
soltanto le classi possidenti, e il liberalismo che è giun-
to al potere è semplicemente quello dell’alta borghesia.
Insomma, la monarchia di luglio è un periodo di eclet-
tismo, di compromessi, l’epoca del «mezzo», anche se
non proprio del «giusto mezzo» come amava definirla
Luigi Filippo e come ora è indicata da tutti vuoi seria-
mente vuoi con ironia. Esteriormente, è un tempo di
moderazione e tolleranza, ma nella realtà della piú dura
lotta per l’esistenza; è un’epoca di moderato progresso

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

politico e di conservatorismo economico sull’esempio


inglese. I Guizot e i Thiers esaltano l’idea della monar-
chia costituzionale, auspicano che il sovrano regni e non
governi, ma essi stessi sono lo strumento di un’oligarchia
parlamentare, di un esiguo partito di governo che tiene
in balia i piú vasti ceti borghesi con la magica parola enri-
chissez-vous! La monarchia di luglio è un periodo di pro-
sperità, di floridezza industriale e commerciale. Il dena-
ro domina tutta la vita pubblica e privata: tutto si piega
al suo servizio, tutto gli si prostituisce – esattamente, o
quasi, come descrive Balzac. Certo il dominio del capi-
tale non comincia da ora; ma prima in Francia il dena-
ro era soltanto uno dei mezzi per potersi affermare, e
non il piú cospicuo né il piú efficace. Adesso invece ogni
diritto, ogni potere, ogni attitudine viene a un tratto
espressa in denaro. Ogni cosa dev’esser ridotta a quel
denominatore per diventare comprensibile. D’ora in poi
tutta la storia antecedente del capitalismo appare un
semplice preludio. Non solo l’alta politica e l’alta
società, non solo il Parlamento e la burocrazia hanno un
carattere plutocratico, non solo la Francia è dominata
dai Rothschild e dagli altri juste-millionaires [gioco di
parole fra milieu (mezzo) e million (milione)], come li
chiama Heine, ma il re stesso è uno speculatore astuto
e senza scrupoli. Per diciott’anni il governo, come dice
Tocqueville, è una specie di società commerciale: re,
Parlamento e amministrazione si dividono i grossi boc-
coni, si scambiano informazioni e favori, affari e con-
cessioni, speculano sulle azioni e sulle rendite, sulle cam-
biali e sulle ipoteche. Il capitalista afferra le redini della
società assicurandosi una posizione quale mai aveva
avuto. Finora una funzione del genere si era accompa-
gnata alla trasfigurazione ideologica della ricchezza; il
ricco doveva apparire il protettore della Chiesa, della
Corona, o delle arti e delle scienze; ora invece gode dei
massimi onori semplicemente perché è ricco. «D’ora in

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

poi regneranno i banchieri», profetizza Laffitte, quan-


do viene proclamato re Luigi Filippo. E nel 1836 un
deputato dichiara in Parlamento: «Nessuna società può
vivere senza un’aristocrazia. Volete sapere chi sono gli
aristocratici della monarchia di luglio? I grandi indu-
striali; su di loro si fonda la nuova dinastia»5. Ma la bor-
ghesia è ancora impegnata nella lotta per la supremazia,
per il prestigio sociale, che la nobiltà le concede a malin-
cuore, esitando. Essa è ancora una «classe in ascesa» ed
ha ancora lo slancio dell’offensiva, la sicurezza senza
dubbi di chi reclama i propri diritti. Ma è cosí certa di
vincere, che la sicurezza già comincia a mutarsi in com-
piacimento, in autoapologia. La sua buona coscienza
riposa già in parte su un’illusione ed essa si avvia a quel-
lo stato in cui le rivelazioni del socialismo incrineranno
la sua fiducia. Diventa sempre piú intollerante e retriva
e dei suoi peggiori difetti – grettezza, piatto razionali-
smo, mascheramenti idealistici della corsa al guadagno
– fa le basi della sua filosofia. Ogni vero idealismo le par
sospetto, ridicolo ogni distacco dal mondo; combatte
ogni intransigenza, ogni radicalismo, perseguita e repri-
me ogni opposizione allo spirito del juste-milieu e alla
prudente dissimulazione dei contrasti. Alleva i propri
satelliti all’ipocrisia e si trincera dietro le sue finzioni
ideologiche, tanto piú disperatamente, quanto piú peri-
colosi diventano gli attacchi del socialismo.
Le tendenze fondamentali del moderno capitalismo,
visibili fin dal Rinascimento, si palesano ora con bruta-
le e intransigente chiarezza, non mitigate da nessuna tra-
dizione. Specialmente sensibile si fa la tendenza alla
considerazione obiettiva, lo sforzo cioè di sottrarre l’ap-
parato di un’impresa economica a ogni influsso diretta-
mente umano, a ogni considerazione delle circostanze
personali. L’impresa diventa un organismo autonomo,
che persegue interessi e fini suoi propri, diretta da una
sua propria logica; un tiranno che asservisce chiunque lo

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

avvicini6. La completa dedizione agli affari, il sacrificio


spontaneo dell’imprenditore per resistere alla concor-
renza, per la prosperità e l’incremento della ditta, quel-
l’astratta ambizione del successo che lo fa spietato verso
di sé, acquistano un aspetto pauroso, monomaniaco7. Il
sistema si affranca dai suoi promotori e si trasforma in
un meccanismo, che nessuna forza umana può arresta-
re. Questo automatismo dell’apparato è l’aspetto sinistro
del capitalismo moderno; esso gli dà quell’impronta
demoniaca che ci atterrisce nella descrizione di Balzac.
Via via che i mezzi e le condizioni del successo sfuggo-
no alla sfera dell’influenza individuale, negli uomini si
fa sempre piú grave l’incertezza, il senso di essere in
balia di un mostro. E quanto piú gli interessi si fanno
estesi e intricati, tanto piú selvaggia e disperata è la
lotta, tanto piú multiforme il mostro, e inevitabile la
rovina. Infine ci si ritrova completamente circondati da
rivali, avversari, nemici; tutti combattono contro tutti;
ognuno è sul fronte di una guerra perpetua, generale,
veramente «totale»8. Ogni proprietà, ogni posizione,
ogni influsso dev’essere giorno per giorno riguadagnato,
riconquistato, estorto; tutto sembra provvisorio, insta-
bile, infido9. Di qui lo scetticismo, il pessimismo gene-
rale, il senso dell’angoscia che prende alla gola; il mondo
di Balzac ne è pieno, ed esso rimane il carattere preci-
puo nella letteratura dell’età capitalistica.
A Luigi Filippo e alla sua aristocrazia di finanzieri sta
di fronte una forte, vasta opposizione che, oltre ai legit-
timisti della nobiltà e del clero, comprende tutti coloro
che sentono frustrate le speranze riposte nella rivolu-
zione di luglio: da un lato la piccola borghesia patriot-
tica e bonapartista, ma in fondo liberale; dall’altro la
sinistra, composta dei borghesi repubblicani e dei socia-
listi, a cui si aggiungono gli intellettuali militanti nel-
l’uno o nell’altro settore. Il partito di governo, cosí
detto «liberale», è quindi assediato da ogni parte da

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gruppi di opposizione e sovversivi, e Luigi Filippo, il «re


cittadino», è completamente estraneo alla stragrande
maggioranza del suo popolo10. Le tendenze radicali si
manifestano e si sfogano nella costituzione di associa-
zioni democratiche, partiti e sette, in scioperi, rivolte
della fame e attentati; a dirla breve, in quel che a ragio-
ne si designò come uno stato di rivoluzione permanen-
te. Questi torbidi non sono affatto il seguito puro e sem-
plice delle rivoluzioni e delle rivolte antecedenti. Già la
sommossa di Lione del 1831 se ne distingue per il suo
carattere apolitico11; è l’arsi, l’inizio di quel movimento
di masse il cui simbolo, la bandiera rossa, appare per la
prima volta nel 1832. La svolta comincia con una sco-
perta caratteristica del pensiero socialista: «Le teorie
dell’economia borghese sull’identità di interessi fra capi-
tale e lavoro, sull’armonia universale e l’universale
benessere conseguenti alla libera concorrenza sono state
contraddette dai fatti, – osserva Engels, – in modo sem-
pre piú convincente»12. Il socialismo come dottrina si
sviluppa dal riconoscimento del carattere di classe del-
l’economia borghese. Idee e tendenze socialiste le incon-
triamo, naturalmente, fin dalla grande Rivoluzione fran-
cese, specie nella Convenzione e nella congiura di
Babeuf; ma di un movimento proletario di massa e di
una corrispondente coscienza di classe si può parlare solo
dopo il trionfo della rivoluzione industriale e lo stabilirsi
delle grandi aziende meccanizzate. Qui dalla continua
convivenza nasce la solidarietà fra i lavoratori, e quin-
di tutto il moderno movimento operaio13. L’odierno pro-
letariato, come integrazione dei piccoli gruppi operai,
prima dispersi, è frutto dell’Ottocento e dell’industria-
lismo; prima, la storia non aveva conosciuto nulla di
simile14. La teoria socialista, fondata da filantropi e uto-
pisti isolati e sorta dal disagio economico del popolo, dal
desiderio di lenirlo e di risolvere il problema di una piú
equa distribuzione della ricchezza, diventa un’arma effi-

Storia dell’arte Einaudi 87


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cace soltanto con l’organizzazione dell’attività indu-


striale nelle città e con le lotte sociali che si combatto-
no dopo il 1830; solo ora essa imbocca la via che Engels
ha chiamato sviluppo «dall’utopia alla scienza». Anche
la critica sociale di Saint-Simon e Fourier era nata dal-
l’esperienza dell’industrialismo e dalla constatazione dei
suoi effetti rovinosi; ma in quei pensatori il realismo era
ancora molto commisto di romanticismo, e ai problemi
bene impostati facevano riscontro tentativi di soluzio-
ne del tutto fantastici. Le tendenze religiose, emerse con
la Restaurazione, anzi in certa misura già con il Con-
cordato, e che dal 1830 si facevano sempre piú profon-
de, non mancavano di influenzare la loro opera di rifor-
matori e missionari. Da Saint-Simon fino ad Auguste
Comte, i socialisti e i filosofi sociali hanno ancora l’oc-
chio fisso a quella che era stata l’ambizione dei roman-
tici: tutti vorrebbero sostituire alla Chiesa medievale,
come forma «organica», sintetica, un nuovo ordine, una
nuova organizzazione sociale, realizzando la nuova «cri-
stianità» con l’aiuto dei poeti e degli artisti.
Con la sempre maggiore politicizzazione, della vita,
anche nella letteratura viene accentuandosi, fra il 1830
e il 1848, l’interesse politico. In questo periodo quasi
non si hanno opere politicamente indifferenti; perfino
il quietismo de l’art pour l’art assume una tinta politica.
La nuova tendenza si rivela specialmente nel frequente
intrecciarsi della carriera politica con quella letteraria,
e nel fatto che tanto i politici quanto i letterati appar-
tengono per lo piú allo stesso ceto. Attitudini letterarie
si considerano premesse naturali per una carriera politi-
ca, e spesso il prestigio politico ricompensa meriti let-
terari. Durante la monarchia di luglio, i politici che scri-
vono e gli scrittori che fanno politica – Guizot, Thiers,
Michelet, Thierry, Villemain, Cousin, Jouffroy, Nisard
– sono gli epigoni dei «filosofi» settecenteschi; gli auto-
ri della generazione successiva non avranno piú alcuna

Storia dell’arte Einaudi 88


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ambizione politica, né i politici alcuna autorità nell’am-


bito culturale. Ma fino alla rivoluzione di febbraio la
vita politica assorbe tutte le forze intellettuali. I giova-
ni d’ingegno, che la povertà esclude dalla carriera poli-
tica, si dedicano al giornalismo, che è ora l’inizio abi-
tuale e la forma tipica della professione letteraria. Il gior-
nalismo non solo è un mezzo per passare alla politica e
alla letteratura vera e propria, ma è, già in sé, un’atti-
vità che assicura spesso una notevole influenza e un
reddito considerevole. Bertin, il redattore-capo del
«Journal des Débats», soddisfatto e sicuro di sé, ci appa-
re come la quintessenza della monarchia di luglio. Egli
incarna la borghesia che si fa letterata, e la letteratura
che si fa borghese. L’attività letteraria si trasforma non
solo in un affare per i Bertin, ma, come nota Sainte-
Beuve, in un’«industria» per quanti vi partecipano15.
Essa diventa semplicemente un mezzo di procurarsi
annunzi pubblicitari e abbonamenti. La stretta connes-
sione fra letteratura e stampa quotidiana ha, secondo l’o-
pinione di un contemporaneo, un effetto rivoluzionario
come l’uso del vapore nelle industrie; tutta la produ-
zione letteraria viene a mutare carattere16. Forse si insi-
ste troppo in questa analogia, in quanto l’industrializ-
zarsi della letteratura non è in realtà che un sintomo di
un’evoluzione generale della mentalità, e non fa che
mettere in luce una tendenza ormai implicita nella pro-
duzione artistica; tuttavia quando Émile de Girardin,
scrittore insignificante, ma uomo d’affari pieno d’im-
maginazione, fa propria l’idea di Dutacq, che fino allo-
ra era affatto sconosciuto, e nel 1836 fonda il giornale
«La Presse», è questo un evento d’importanza storica.
La gran novità consiste nel fissare il costo annuo d’ab-
bonamento a quaranta franchi, la metà del prezzo soli-
to, proponendosi di colmare il deficit con annunzi pub-
blicitari e avvisi. Nello stesso anno Dutacq fonda il
«Siècle» con ugual programma, e gli altri giornali pari-

Storia dell’arte Einaudi 89


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gini ne seguono l’esempio, ognuno nel proprio settore.


Il numero degli abbonati cresce e nel 1846 ha raggiun-
to i duecentomila, di fronte ai settantamila di dieci anni
prima. Le nuove iniziative spingono gli editori alla con-
correnza. Essi debbono offrire ai loro lettori il cibo piú
sapido e variato, per accrescere l’attrattiva del giornale,
soprattutto in considerazione della pubblicità. D’ora in
poi ognuno deve trovare nel suo giornale quel che gli
interessa e gli serve; per ognuno esso deve sostituire una
piccola biblioteca e un’enciclopedia.
Accanto agli interventi degli esperti, i giornali reca-
no articoli d’interesse generale, specie descrizioni di
viaggi, storie di scandali e cronache giudiziarie. Ma l’at-
trattiva maggiore è il romanzo a puntate. Tutti lo leg-
gono, aristocratici e borghesi, il gran mondo e gli intel-
lettuali, giovani e vecchi, uomini e donne, padroni e ser-
vitori. «La Presse» apre la serie dei suoi romanzi d’ap-
pendice (feuilletons), pubblicando Balzac che ogni anno,
fra il 1837 e il 1847, fornisce un romanzo, ed Eugenio
Sue, che le affida la massima parte delle sue opere. A
questi autori il «Siècle» contrappone Alessandro Dumas
e l’enorme successo dei Tre Moschettieri reca al giornale
un notevole profitto. Il «Journal des Débats» deve la sua
popolarità soprattutto ai Mystères de Paris di Eugenio
Sue, che sarà d’ora in poi fra gli autori piú richiesti e
meglio pagati. Il «Constitutionnel» gli offre centomila
franchi per il Juif errant, e questa rimarrà la misura dei
suoi onorari. Ma i guadagni maggiori sono sempre quel-
li di Dumas, che ricava circa duecentomila franchi all’an-
no e a cui «La Presse» e il «Constitutionnel» per due-
centoventimila righe a stampa pagano annualmente la
somma di sessantatremila franchi. Per far fronte all’e-
norme richiesta, gli autori cari al pubblico si associano
i coolies della letteratura, che prestano loro inapprezza-
bili servigi nella produzione in serie. Sorgono vere e pro-
prie manifatture letterarie, dove i romanzi vengono fatti

Storia dell’arte Einaudi 90


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a macchina. In una azione giudiziaria viene provato che


Dumas ha pubblicato con il suo nome piú di quanto gli
fosse materialmente possibile scrivere, anche lavorando
ininterrottamente giorno e notte. Di fatto egli impiega
settantatre collaboratori, fra i quali un certo Auguste
Maquet, a cui lascia piena libertà. L’opera letteraria ora
diventa «merce» nel vero senso della parola: ha una
tariffa, segue un modello fisso, e si consegna a termine.
È un articolo commerciale, per cui si paga il prezzo
dovuto, che verrà ripreso. A nessun editore viene in
mente di pagare i signori Dumas e Sue piú di quanto si
debba e si possa pagare, e gli autori dei romanzi d’ap-
pendice non sono «strapagati», come non lo sono oggi
gli astri del cinematografo: i loro prezzi sono regolati
dalla richiesta e non dipendono in alcun modo dal valo-
re artistico dei prodotti.
«La Presse» e il «Siècle» sono i primi quotidiani che
escano con romanzi a puntate, ma la trovata non è loro.
È invece un’idea di Véron, che già la mette in pratica
nella sua «Revue de Paris» fondata nel 182917. Buloz
l’adotta poi nella sua «Revue des Deux Mondes», pub-
blicando, fra l’altro, anche romanzi di Balzac. Ma in sé
il feuilleton è ancora piú antico di queste riviste; lo si
trova già verso il 1800. I giornali, che durante il Con-
solato e il Primo Impero sono assai magri, per la cen-
sura e altre restrizioni, tanto per offrire qualcosa ai let-
tori pubblicano un’appendice letteraria. Dapprima è
solo una specie di cronaca mondana e artistica, ma
durante la Restaurazione si sviluppa in una vera pagi-
na letteraria. Dal 1830 racconti e relazioni di viaggio
ne formano l’argomento principale, e dopo il 1840 esso
non reca piú che romanzi. Il Secondo Impero, appli-
cando l’imposta di un centesimo su ogni copia di gior-
nale che porti un’appendice, prepara al romanzo a pun-
tate una rapida fine. È vero che piú tardi il genere ha
una seconda fioritura, ma non influisce piú sull’evolu-

Storia dell’arte Einaudi 91


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zione letteraria, mentre ha lasciato profonde tracce


nella letteratura fra il 1840 e il ’50.
Il romanzo d’appendice è destinato, come il melo-
dramma e il vaudeville, a un pubblico promiscuo e di
nuovo tipo; dominano in questo romanzo gli stessi cri-
teri di forma e di gusto che sono propri dei teatri popo-
lari. Quanto allo stile, vi si predilige di regola l’eccessi-
vo e il piccante, il grossolano e l’eccentrico; i soggetti
preferiti sono quelli che trattano di ratti e adulteri, vio-
lenze e crudeltà. Anche qui, come nel melodramma,
caratteri e azione sono stereotipi18. La necessità di inter-
rompere il racconto a ogni puntata, e ogni volta trova-
re un finale atto a eccitare la curiosità del lettore per la
puntata successiva, spinge l’autore ad adottare una spe-
cie di tecnica teatrale, che consenta di evidenziare e arti-
colare come in singole scene autonome la narrazione.
Alessandro Dumas, maestro della tensione drammatica,
è anche un virtuoso di questa tecnica; infatti, quanto piú
drammatico è lo sviluppo di un romanzo a puntate,
tanto piú forte ne è l’effetto sul pubblico. D’altra parte
il particolare modo di lavoro per cui l’opera viene con-
dotta giorno per giorno e le singole parti vengono pub-
blicate per lo piú senza un piano preciso e senza possi-
bilità di correggere quelle già uscite e di accordarle con
quelle successive, determina una forma narrativa «anti-
drammatica», episodica e improvvisata, un dilungarsi
del corso degli eventi, nonché un disegno inorganico e
spesso contraddittorio dei caratteri. Tutta l’arte della
preparazione degli effetti, la tecnica per assicurare ai
fatti una motivazione che risulti naturale, spontanea,
non voluta, vanno cosí perdute. Talora i casi dell’in-
treccio e gli sviluppi dei personaggi paiono tirati pei
capelli; le figure secondarie che compaiono nel corso del
racconto spesso sembrano piovere dal cielo, poiché l’au-
tore ha trascurato di «presentarle» tempestivamente. La
brusca introduzione di certe figure è un errore frequente

Storia dell’arte Einaudi 92


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

anche in Balzac, benché egli rimproveri appunto questa


improvvisazione alla Chartreuse de Parme. Ma in
Stendhal la costruzione trascurata e debole è la conse-
guenza di una tecnica narrativa in se stessa episodica,
picaresca, essenzialmente antidrammatica19; mentre in
Balzac, che mira al romanzo drammatico, essa è un
difetto che dipende dal modo di scrivere giornalistico,
di chi vive alla giornata. Tuttavia non possiamo affer-
mare che l’industrializzarsi della letteratura sia sempli-
cemente una conseguenza del giornalismo e il romanzo
ameno debba il suo carattere rigidamente stereotipo
unicamente all’appendice; infatti, come provano gli
esempi dell’Impero e della Restaurazione, verso il 1830
già da un pezzo il romanzo era sulla via di ridursi a uno
stile puramente convenzionale20.
Il romanzo d’appendice significa una democratizza-
zione senza precedenti della letteratura e un livella-
mento quasi completo del pubblico. Mai un’arte aveva
trovato unanime accoglienza in ambienti sociali e cul-
turali cosí diversi e un tale accordo di sentimenti. Per-
fino un Sainte-Beuve loda nell’autore dei Mystères de
Paris qualità che è dolente di non trovare in Balzac. La
diffusione del socialismo va di pari passo con l’aumen-
to dei lettori; ma le idee democratiche di Eugenio Sue
e la sua fede nel fine sociale dell’arte non bastano a spie-
gare il successo dei suoi romanzi. Piuttosto è strano sen-
tire il beniamino di un pubblico in gran parte borghese
entusiasmarsi per il «nobile lavoratore» e tuonare con-
tro il «crudele capitalismo». Il compito ch’egli si assu-
me, di svelare le piaghe della società malata, spiega, al
massimo, la simpatia con cui lo tratta la stampa pro-
gressista: il «Globe», la «Démocratie pacifique», la
«Revue indipendente», la «Phalange» e il loro seguito.
La maggioranza dei suoi lettori considera la sua ten-
denza al socialismo come un soprappiú. Ma tutti senza
dubbio trovano naturale che la letteratura tratti dei piú

Storia dell’arte Einaudi 93


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scottanti problemi sociali. L’energica affermazione di


Madame de Staël, che la letteratura deve essere espres-
sione della società, trova un generale consenso e diven-
ta un assioma per la critica francese. Dal 1830 è regola
giudicare un’opera letteraria nei suoi rapporti con i pro-
blemi d’attualità politica e sociale e, ad eccezione dei
gruppi relativamente ristretti che seguono il movimen-
to de l’art pour l’art, nessuno si scandalizza vedendo l’ar-
te al servizio della politica. Mai forse l’estetica pura, for-
male, lontana da ogni riferimento pratico, ha avuto scar-
so seguito come ora21.
Fino al 1848 le opere maggiori per numero e impor-
tanza fanno capo a questa tendenza attivistica; dopo
quell’anno, a un indirizzo quietistico. La delusione di
Stendhal è ancora aggressiva, estroversa, anarchica; la
rassegnazione di Flaubert è passiva, egocentrica, nichi-
lista. Nel seno stesso del romanticismo la corrente prin-
cipale non è piú ora l’art pour l’art di Théophile Gautier
e di Gérard de Nerval. Romantici non si è pié nel vec-
chio senso mistico e mistificatore di esuli nel mondo. Il
romanticismo continua, ma si trasforma, acquista un
altro significato. La tendenza anticlericale e antilegitti-
mista che si era manifestata alla fine della Restaurazio-
ne si acuisce in una visione rivoluzionaria. I piú dei
romantici rinnegano l’arte pura e si accostano alle idee
di Saint-Simon e Fourier22. I corifei – Hugo, Lamarti-
ne, George Sand – fanno professione di attivismo arti-
stico e si pongono al servigio dell’arte «popolare» auspi-
cata dai socialisti. Il popolo ha vinto, e anche nell’arte
bisogna esprimere questa svolta rivoluzionaria. Non solo
George Sand ed Eugenio Sue diventano socialisti, non
solo Lamartine e Hugo si entusiasmano per il popolo, ma
anche scrittori come Dumas, Scribe, Musset, Mérimée
e Balzac civettano con le idee socialiste23. Questo idil-
lio, d’altronde, finisce ben presto; infatti, come la
monarchia di luglio abbandona le mete democratiche

Storia dell’arte Einaudi 94


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

della rivoluzione e diventa il regime della borghesia con-


servatrice, cosí i romantici abiurano il socialismo e ritor-
nano, sia pur con qualche modifica, alle antiche opinio-
ni sull’arte. Alla fine non rimane nessun poeta di qual-
che valore fedele all’idea sociale e per ora la causa
dell’«arte popolare» sembra perduta. Si verifica una
sorta di acquetamento interiore dell’arte romantica che
si fa borghese e disciplinata. Sotto la guida di Lamarti-
ne, Hugo, Vigny e Musset sorge un romanticismo acca-
demico e conservatore, e anche un elegante romantici-
smo da salotto. Il fiero e violento spirito ribelle è doma-
to e la borghesia accoglie con entusiasmo questo roman-
ticismo in parte ammansato dall’accademia, fatto per
cosí dire «classico», in parte fuso con il dandysmo dei
discepoli di Byron24. Sainte-Beuve, Villemain, Buloz
sono le piú alte autorità, il «Journal des Débats» e la
«Revue des Deux Mondes» sono gli organi ufficiali del
nuovo gruppo letterario borghese, tinto di romanticismo
e con tendenze accademiche25.
Ma a certe categorie del pubblico il romanticismo
sembra ancor troppo violento e arbitrario. Gli si con-
trappone un nuovo classicismo, sobrio, strettamente
borghese, l’arte della cosí detta école de bon sens e del
juste-milieu estetico. Il successo di Ponsard, la rinascita
della tragédie classique e la moda della Rachel sono i sin-
tomi piú evidenti di questo nuovo gusto. Dopo i «mor-
bosi» eccessi di un’atmosfera rovente, si vuol respirare
di nuovo aria fresca. Si vuol aver a che fare con carat-
teri equilibrati, regolari, esemplari, con sentimenti e
passioni normali, universalmente comprensibili, con una
concezione che si fondi sull’equilibrio, l’ordine, la mode-
razione: si vuole insomma una letteratura che rinunzi
alla mordacità, alle trovate bizzarre e all’espressione
eccentrica dei romantici. Il 1843 vede il successo della
Lucrèce e il fiasco dei Burgraves; e al trionfo di Ponsard
su Victor Hugo, si accompagna quello di Scribe, Dumas,

Storia dell’arte Einaudi 95


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ingres su Stendhal, Balzac e Delacroix. Dall’arte la bor-


ghesia non vuole piú scosse, ma divertimento; per essa
il poeta non è un vate, ma un maître de plaisir. Dietro
Ingres viene l’infinita serie dei pittori accademici, cor-
retti ma noiosi; dietro a Ponsard, quella dei fidati, ma
insignificanti fornitori dei teatri statali e comunali. Ci
si vuol divertire in pace e quindi si torna a favorire l’ar-
te «pura», apolitica.
L’art pour l’art nasce dal romanticismo, per il quale
rappresenta uno strumento nella lotta per la libertà; è la
conseguenza e, in certo modo, il vero risultato dell’e-
stetica romantica. Il movimento che in origine si era pro-
posto solo la negazione delle regole imposte all’arte dal
classicismo, si è trasformato in rivolta contro ogni vin-
colo esteriore, un’emancipazione da tutti i valori intel-
lettuali e morali estranei all’arte. Per Gautier la libertà
dell’arte significa già l’indipendenza dai criteri di valo-
re della borghesia, l’indifferenza ai suoi fini utilitari e il
rifiuto di contribuire a attuarli. L’art pour l’art diventa
la torre d’avorio in cui i romantici si ritirano dalla vita
pratica. L’accordo con l’ordine costituito è il prezzo
ch’essi pagano per questa loro quiete e per la superiorità
del loro atteggiamento puramente contemplativo. Fino
al 1830 la borghesia si era ripromessa dall’arte un appog-
gio ai propri fini, e per questo aveva acconsentito a
svolgere una propaganda politica attraverso l’arte.
«L’uomo non è fatto soltanto per cantare, credere,
amare... La vita non è un esilio, ma una missione...»,
scrive il «Globe» nel 182526. Ma dopo il 1830 la bor-
ghesia comincia a diffidare dell’arte, e all’alleanza di
prima preferisce la neutralità. La «Revue des Deux
Mondes» ora pensa che non è necessario, anzi neppur
desiderabile, che l’artista abbia idee politiche e sociali
sue proprie; e cosí pensano i critici piú autorevoli, fra
cui Gustave Planche, Nisard e Cousin27. La borghesia fa
proprio il principio de l’art pour l’art; esalta la natura

Storia dell’arte Einaudi 96


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ideale dell’arte e l’alta posizione dell’artista al di sopra


dei partiti politici; lo chiude cioè in una gabbia d’oro.
Cousin riprende dalla filosofia kantiana l’idea dell’au-
tonomia e rinnova la teoria del carattere «disinteressa-
to» dell’arte; e qui gli viene in taglio la tendenza alla spe-
cializzazione, che prende il sopravvento con il capitali-
smo. Effettivamente l’art pour l’art corrisponde sia a
quella divisione del lavoro che con l’industrialismo
aumenta sempre piú, sia a una necessità di difesa del-
l’arte minacciata dal pericolo di venir assorbita dalla
vita industrializzata e meccanizzata. Esso rappresenta
innegabilmente una razionalizzazione, un disincanta-
mento e anche una limitazione dell’arte, ma nello stes-
so tempo un tentativo di salvarne la particolare natura
e la spontaneità nella generale meccanizzazione.
Senza dubbio l’art pour l’art ha dato espressione a
quello che è il problema piú intricato dell’estetica. Nulla
rivela cosí netto il dualismo, l’intimo dissidio dell’at-
teggiamento estetico. È l’arte fine a se stessa, o soltan-
to un mezzo? La risposta varierà, non solo a seconda
della condizione storica e sociale, ma anche a seconda
dell’elemento che si considera nel complesso quadro del-
l’arte. L’opera d’arte è stata paragonata a una finestra
da cui si può osservare la vita, senza tener conto della
struttura, della trasparenza, del colore dei vetri della
finestra stessa28. Quest’analogia fa dell’opera soltanto un
veicolo, dell’osservazione e della conoscenza, appunto
come un vetro o una lente, indifferente in sé e sempli-
ce strumento. Ma come si può volgere lo sguardo alla
struttura del vetro, senza badare al quadro che si apre
oltre la finestra, cosí anche l’opera d’arte si può conce-
pire come una forma indipendente, che ha in sé la sua
ragion d’essere, un contesto significativo in sé conchiu-
so e perfetto; e tutto quel che la trascende, ogni «sguar-
do attraverso la finestra» ne pregiudica l’intima coe-
renza. Il senso dell’opera d’arte oscilla continuamente

Storia dell’arte Einaudi 97


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tra questi due aspetti: l’immanenza, rescissa dalla vita,


da ogni realtà che trascenda l’opera stessa, e la funzio-
ne determinata dalla vita, dalla società, dalla prassi. Dal
punto di vista dell’esperienza estetica immediata, l’au-
tonomia e l’autosufficienza appaiono la vera sostanza
dell’opera d’arte, poiché solo in quanto essa si stacca
dalla realtà sostituendosi interamente ad essa, solo in
quanto costituisce un cosmo totale, in sé perfetto, essa
è in grado di suscitare una completa illusione. Ma que-
sta illusione non è affatto tutto il contenuto dell’arte e
spesso non ha parte alcuna nella sua efficacia. I piú alti
capolavori rinunziano all’illusionismo ingannatore di un
mondo estetico chiuso in sé e rinviano a qualcosa che li
trascende. Essi sono in diretto rapporto con i grandi pro-
blemi del loro tempo e cercano sempre una risposta alla
domanda: come trarre un senso dalla vita umana? come
parteciparvi?
Il paradosso piú arduo dell’opera d’arte sta nel fatto
che essa sembra esistere per sé e nello stesso tempo non
soltanto per sé; che essa si rivolge a un pubblico con-
creto, storicamente e socialmente definito e insieme
sembra ignorare ogni pubblico. La «quarta parete» della
scena appare a volte il piú naturale presupposto, altre
volte la piú arbitraria finzione dell’estetica. Distrug-
gendo, con una tesi, un indirizzo morale, un intento pra-
tico l’illusione, si impedisce, è vero, il godimento este-
tico assoluto; tuttavia è l’unico modo di provocare una
vera adesione all’opera, un’adesione che investa tutto
l’essere dello spettatore o del lettore. Quest’alternativa
però è affatto estranea all’intenzione dell’artista. Anche
l’opera politicamente e moralmente piú tendenziosa può
esser compresa come arte pura, cioè pura forma, se è
davvero un’opera d’arte; e ogni prodotto artistico, anche
privo, per l’autore, di qualsiasi fine pratico, può esser
considerato come espressione e strumento della causa-
lità sociale. L’attivismo di Dante non esclude affatto

Storia dell’arte Einaudi 98


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un’interpretazione puramente estetica della Divina Com-


media, né il formalismo di Flaubert esclude una spiega-
zione sociologica di Madame Bovary e dell’Education sen-
timentale.
Verso il 1830 i rapporti fra le principali correnti arti-
stiche – l’«arte sociale», l’école de bon sens e l’art pour
l’art – sono complicati e per lo piú contraddittori. Que-
ste contraddizioni caratterizzano l’atteggiamento dei
sansimoniani e dei fourieristi sia verso il romanticismo,
sia verso il classicismo borghese. Del primo essi rifiuta-
no le simpatie per la Chiesa e per la monarchia, la visio-
ne romanzesca e irreale della vita, l’egoistico individua-
lismo, ma specialmente il quietismo de l’art pour l’art.
D’altronde li attrae nel romanticismo il liberalismo, il
concetto della libertà e spontaneità dell’arte, la rivolta
contro le regole e l’autorità dei classici. E ancora ammi-
rano fortemente nei romantici le aspirazioni realistiche,
ch’essi riconoscono affini al loro interesse per la vita, alla
loro disposizione verso la realtà. L’affinità fra socialismo
e realismo spiega anzitutto la loro simpatia per Balzac
di cui, soprattutto in principio, essi giudicano con molto
favore le opere29. Con questi sentimenti contrastanti di
fronte al romanticismo è connesso il loro atteggiamen-
to, altrettanto contraddittorio, verso il classicismo bor-
ghese. Il consenso al liberalismo dell’estetica romantica
li porta a condannare il ritorno ai modelli classici del-
l’arte borghese; invece l’avversione agli arbitrî e alle
esagerazioni della poesia, e specialmente del teatro
romantico, li spinge a una parziale adesione al classici-
smo di Ponsard»30. A questa indecisione dei socialisti
corrisponde da un lato l’incertezza del gusto borghese
diviso tra il romanticismo accademico e il dramma di
Ponsard; dall’altro, l’oscillare del romanticismo stesso
tra l’attivismo e l’art pour l’art. Ma con queste tre cor-
renti ne incrocia una quarta, che storicamente è la piú
importante: il realismo di Stendhal e di Balzac. Anch’es-

Storia dell’arte Einaudi 99


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so si trova in un rapporto contraddittorio con il roman-


ticismo. In questo caso l’ambivalenza è frutto princi-
palmente di quel dissidio che di solito esiste tra due
generazioni o due tendenze intellettuali di cui una è la
prosecuzione dell’altra. Il realismo rappresenta la con-
tinuazione e la dissoluzione del romanticismo; Stendhal
e Balzac ne sono i piú legittimi eredi e i piú ardenti
avversari.
In arte il realismo non è una concezione chiara e uni-
taria, che segua costantemente uno stesso concetto della
realtà, bensí un’interpretazione della vita sempre diver-
sa, volta a un fine determinato, a un compito concreto,
e limitata a fenomeni particolari. Ci si professa realisti,
non perché si ritenga a priori che ci sia piú arte nella rap-
presentazione naturalistica che in quella stilizzatrice,
ma perché nella realtà si scopre un carattere, una ten-
denza, che si vorrebbe fortemente accentuare, favorire
o combattere. In sé, tale scoperta non deriva dall’osser-
vazione del vero; se mai, l’interesse per il vero ne è una
conseguenza. La generazione del 1830 comincia la sua
carriera letteraria con la coscienza che un totale muta-
mento è avvenuto nella struttura della società; in parte
lo approva, in parte lo combatte, comunque si tratta
sempre di una reazione estremamente attiva, ed è
appunto da questo atteggiamento impegnato che deriva
la sua tendenza realistica. Il realismo dunque non mira
semplicemente al vero, alla «natura» o alla «vita» in
genere, ma in modo particolare alla vita sociale, cioè a
quella sfera della realtà che per questa generazione ha
assunto un’importanza particolare. Stendhal e Balzac si
assumono il compito di rappresentare la nuova società
trasformata; proprio lo sforzo di esprimerne la novità e
i caratteri particolari li porta al realismo e determina il
loro concetto della verità artistica. La coscienza sociale
della generazione del 1830, la sua sensibilità a fenome-
ni in cui sono in gioco interessi sociali, la sua perspica-

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cia per i cambiamenti nella società e nella sua scala di


valori, fanno degli scrittori di questa generazione i crea-
tori del romanzo sociale e del moderno realismo.
La storia del romanzo comincia nel Medioevo con l’e-
popea cavalleresca. Questa a dir vero ha poco di comu-
ne con il romanzo moderno; pure la sua composizione
aggiuntiva, la sua tecnica prolissa che allinea senza fine
avventure ed episodi, sono all’origine di una tradizione
che si continua non solo nel romanzo picaresco o nelle
storie eroiche e pastorali del Rinascimento e dell’età
barocca, ma addirittura nel romanzo d’avventure del-
l’Ottocento e in quelle evocazioni del fluire della vita e
dell’esperienza che sono i romanzi di Proust e Joyce. A
prescindere dall’inclinazione alla forma aggiuntiva
comune a tutto il Medioevo, e dalla concezione cristia-
na che tende a vedere la vita non come un fenomeno tra-
gico, che culmina in singoli conflitti drammatici, ma
come un itinerario con le sue varie stazioni, questa strut-
tura dipende soprattutto dal fatto che la poesia era reci-
tata e che il pubblico vi portava un’ingenua avidità di
nuovi argomenti. La stampa, cioè la diretta lettura di
libri, e la visione sintetica dell’arte rinascimentale fanno
sì che la narrazione diffusa del Medioevo cominci a
cedere a una rappresentazione piú unitaria, meno epi-
sodica. Il Don Quijote, nonostante la sua struttura essen-
zialmente picaresca, costituisce anche formalmente una
critica alla prolissità dei romanzi cavallereschi. La svol-
ta decisiva, verso l’unità e la semplificazione del roman-
zo, la dobbiamo al classicismo francese.
La Princesse de Clèves è un caso affatto isolato, poi-
ché in genere i romanzi eroici e pastorali del Seicento
non sono diversi dalle storie d’avventure del Medioevo
che s’ingrossano a valanga rotolando senza fine. Il capo-
lavoro di Madame de Lafayette invece aveva attuato,
dimostrando che si trattava di una possibilità sempre
attuabile, l’idea del «romanzo d’amore», con un’azione

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coerente, un’acme drammatica e l’analisi psicologica di


un singolare conflitto.
D’ora in poi il romanzo d’avventure costituisce una
forma letteraria di second’ordine; rimane fuori dei con-
fini dell’arte ufficiale e viene a godere dei vantaggi di
ciò che è insignificante e irresponsabile. Il Grand Cyrus
e l’Astrée sono letti principalmente dall’aristocrazia di
corte, ma li si legge, per cosí dire, in via strettamente
privata e ci si abbandona a quel piacere come a un vizio,
o almeno come a una debolezza, di cui non si può esse-
re certo orgogliosi. Bossuet nell’orazione funebre per
Enrichetta d’Inghilterra rammenta come un elogio che
la defunta non si curava affatto dei romanzi in voga e
dei loro insulsi eroi; ciò basta per farsi un’idea di come
il genere fosse giudicato in pubblico. Ma l’aristocrazia,
quando si trattava dei suoi svaghi privati, non si lascia-
va guidare dalle regole dei classicisti, e continuava
imperterrita a godersi avventure e stravaganze.
Ancora nel Settecento, per lo piú, il romanzo non si
discosta dal prolisso genere picaresco. Non solo il Gil
Blas e il Diable boiteux, ma anche i romanzi di Voltaire,
benché brevi, sono costruiti a episodi, e Gulliver e
Robinson rispondono perfettamente al principio del-
l’addizione. Perfino Manon Lescaut, la Vie de Marianne
e le Liaisons dangereuses sono ancora forme di transizio-
ne dalle antiche storie d’avventure al romanzo d’amo-
re, che a poco a poco diventa il genere principale e
comincia a dominare la letteratura preromantica. Con
Clarissa Harlowe, la Nouvelle Héloïse e il Werther trion-
fa nel romanzo il principio drammatico dando inizio a
un processo che culminerà in opere come Madame
Bovary di Flaubert e Anna Karenina di Tolstoj. L’atten-
zione si accentra ormai sullo sviluppo psicologico; i dati
esterni vengono considerati solo in quanto provocano
reazioni psichiche. È questo il segno piú evidente della
progressiva tendenza al soggettivismo e all’introversio-

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ne che si sviluppa nella cultura del tempo; tendenza che


si afferma anche piú fortemente nel romanzo della for-
mazione intima, il cosiddetto Bildungsroman, che rap-
presenta lo stadio successivo del processo e, dal punto
di vista della storia, stilistica, è la forma letteraria piú
importante del secolo. La storia interiore dell’eroe
diventa la storia del formarsi di un mondo. Solo un
tempo per cui lo sviluppo individuale è la fonte piú
importante della cultura poteva suscitare questa forma
di romanzo che non a caso ha avuto origine in un paese
come la Germania, ove meno profonde erano le radici
di una cultura collettiva. Comunque il Wilhelm Meister
di Goethe è il primo Bildungsroman in senso stretto, seb-
bene se ne trovino le origini in opere piú antiche, soprat-
tutto di tipo picaresco, come il Tom Jones di Fielding e
il Tristram Shandy di Sterne.
Il romanzo diventa il maggior genere letterario del
Settecento, perché esprime nel modo piú ampio e
profondo il problema culturale del tempo, il contrasto
tra individuo e società. In nessun’altra forma letteraria
gli antagonismi della società borghese si affermano cosí
intensi, o con altrettanta efficacia vengono descritte le
lotte e le sconfitte dell’individuo. Non per nulla Frie-
drich Schlegel vede nel romanzo il «genere romantico»
per eccellenza. Il romanticismo vi ravvisa la piú adeguata
rappresentazione del conflitto tra l’io e il mondo, il
sogno e la vita, la poesia e la prosa, e l’espressione piú
profonda di quella rassegnazione, che considera l’unica
soluzione del conflitto. La soluzione invece che ne dà
Goethe nel Wilhelm Meister è diametralmente opposta
a quella romantica: l’opera in realtà rappresenta non
solo il punto d’arrivo del romanzo settecentesco, ma
anche il prototipo da cui, direttamente o indirettamen-
te, si possono far derivare le creazioni piú tipiche del
genere, Le rouge et le noir, Les illusions perdues, L’édu-
cation sentimentale e Der Grüne Heinrich [Enrico il

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Verde], per non nominare che le piú famose. Ma oltre a


questo, il Wilhelm Meister rappresenta la prima critica
importante del romanticismo come forma di vita. Qui
Goethe – ed è il vero messaggio dell’opera – mostra
quanto sia sterile lo straniarsi dei romantici dalla realtà,
e afferma che al mondo si rende giustizia se vi si è inti-
mamente legati, e che solo dall’interno lo si può rifor-
mare. Egli non vela né abbellisce il dissidio tra mondo
intimo e mondo esterno, tra l’io spirituale e la realtà con-
venzionale, ma riconosce e dimostra che il disprezzo
romantico del mondo è un’evasione di fronte al vero
problema31. L’esortazione goethiana a vivere col mondo
e secondo le sue regole si involgarí in seguito nella let-
teratura borghese, trasformandosi in un invito alla col-
laborazione senza riserve. Il pacato, ma non certo pas-
sivo adeguarsi alla situazione esistente, divenne cosí
conciliante servilismo e utilitario culto del mondo.
Goethe è responsabile di questo processo solo in quan-
to non si avvide dell’impossibilità di appianare pacifi-
camente i contrasti, per cui il suo ottimismo un po’ faci-
le poté apparire come ideologia della politica borghese
di conciliazione. Assai piú acutamente di lui Stendhal e
Balzac videro le tensioni che dominavano l’epoca e le
giudicarono in modo piú realistico. Il romanzo sociale,
a cui essi affidarono le loro intuizioni, non solo va oltre
il romanzo della delusione ma anche oltre quello goethia-
no dello sviluppo intimo. La loro rassegnazione supera
il disprezzo romantico del mondo, e la stessa critica
goethiana del romanticismo. Il loro pessimismo risulta
da un’analisi che non si fa illusioni sulla possibilità di
risolvere la questione sociale.
Il realismo, con cui Stendhal e Balzac descrissero la
situazione, la loro comprensione per la dialettica da cui
era mossa la società, era senza esempio nella letteratura
del tempo; ma l’idea del romanzo sociale era nell’aria.
Sottotitoli come Scene del gran mondo o Scene della vita

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privata si incontrano già molto prima di Balzac32. «Molti


giovani descrivono le cose, come avvengono ogni gior-
no in provincia... non ne vien fuori molta arte, ma molta
verità», scrive Stendhal a proposito del romanzo socia-
le dei suoi giorni33. Da lungo tempo si notavano dap-
pertutto indizi e tentativi, ma con Stendhal e Balzac il
romanzo sociale diventa senz’altro il romanzo moderno,
e ormai pare impossibile rappresentare un personaggio
avulso dalla società, che si sviluppi e agisca al di fuori
di un determinato ambiente. La realtà della vita socia-
le entra nella coscienza dell’uomo e non potrà piú esser-
ne rimossa. Le grandi opere letterarie dell’Ottocento,
quelle di Stendhal, Balzac, Flaubert, Dickens, Tolstoj e
Dostoevskij, e ancora quelle di un Proust e di un Joyce,
sono romanzi sociali, a qualunque categoria apparten-
gano. Un personaggio si considera ormai vero e plausi-
bile solo se è radicato nella società; e diventa argomen-
to del nuovo romanzo realista, solo per la problematica
sociale che la sua vita coinvolge. Questo concetto socio-
logico dell’uomo è la scoperta dei romanzieri della gene-
razione del 1830, ed è la ragione dell’interesse di Marx
per le opere di Balzac.
La società del tempo trova in Stendhal e Balzac due
critici severi, spesso malevoli; ma l’uno giudica da libe-
rale, l’altro da conservatore. Pure, nonostante le sue
opinioni reazionarie, fra i due artisti il piú avanzato è
Balzac; egli vede piú nettamente la struttura della
società borghese e nel descriverne le tendenze è piú
obiettivo di Stendhal, radicale in politica, ma contrad-
dittorio in tutto il suo modo di pensare e di sentire.
Nella storia dell’arte non c’è esempio che dimostri piú
chiaramente che un artista è utile alla causa del pro-
gresso non tanto per le sue convinzioni e le sue simpa-
tie, quanto per la potenza con cui sa rappresentare i
problemi e le contraddizioni della realtà sociale.
Stendhal giudica il suo tempo secondo le idee, ormai

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antiquate, del Settecento, e gli sfugge il significato sto-


rico del capitalismo. Balzac considera addirittura trop-
po avanzate anche queste idee, ma nei suoi romanzi non
può fare a meno di descrivere la società in modo tale,
che un ritorno alle condizioni e alle idee prerivoluzio-
narie risulta del tutto impensabile. Per Stendhal la cul-
tura illuministica, la visione intellettuale di Diderot,
Elvezio e Holbach è senz’altro esemplare e imperitura;
egli ne considera la decadenza come un fenomeno tran-
sitorio e ne prevede la rinascita in quel tempo da cui egli
si attende anche un giusto apprezzamento dell’arte sua.
Balzac invece riconosce che l’antica civiltà si è ormai
disgregata, che l’aristocrazia stessa si è fatta strumen-
to di questo processo, e proprio in questo vede un segno
della forza irresistibile dell’evoluzione capitalistica. La
posizione di Stendhal è essenzialmente politica ed egli,
nel descrivere la società, è attento soprattutto al «mec-
canismo dello stato»34. Balzac invece fonda il suo edi-
ficio sociale sull’economia, anticipando in certo modo
le teorie del materialismo storico. Egli sa bene che le
varie forme della scienza, dell’arte e della morale sono,
come quelle della politica, funzioni della realtà econo-
mica e che la civiltà borghese, individualista e raziona-
lista, affonda le sue radici nelle forme dell’economia
capitalistica. Quest’intuizione non è certo meno fecon-
da perché il poeta crede di ravvisare nella società feu-
dale il proprio ideale di civiltà meglio che in quella del
capitalismo borghese. Nonostante l’entusiasmo per l’an-
tica monarchia, la Chiesa cattolica e la società aristo-
cratica, nel mondo di Balzac il realismo e il materiali-
smo sono come fermenti intellettuali che distruggono
gli ultimi resti del feudalesimo.
I romanzi di Stendhal sono cronache politiche: Le
rouge et le noir è la storia della società francese durante
la Restaurazione, La Chartreuse de Parme, il quadro del-
l’Europa dominata dalla Santa Alleanza, Lucien Leuwen,

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l’analisi storico-sociale della monarchia di luglio. Anche


prima, naturalmente, c’erano stati romanzi a sfondo
storico e politico, ma a nessuno, prima di Stendhal,
sarebbe venuto in mente d’impostare un romanzo pro-
prio sul sistema politico del tempo. Prima di lui nessu-
no fu mai cosí conscio del momento storico, nessuno
sentí cosí fortemente che di tali momenti è composta
tutta la storia, in una continua cronaca delle generazio-
ni. Il presente è per Stendhal l’ora fatale della prima
generazione postrivoluzionaria, tempo di promesse e di
speranze inadempiute, di energie inutilizzate e d’inge-
gni delusi. Egli lo vive come una paurosa tragicomme-
dia, in cui la borghesia arrivata al potere gioca una parte
non meno deplorevole di quella dell’aristocrazia cospi-
ratrice, come un crudele dramma politico, in cui non ci
sono che intriganti, siano essi reazionari o liberali. In un
tal mondo, egli si domanda, dove tutto è menzogna e
ipocrisia, non è forse buono ogni mezzo che porti al suc-
cesso? La cosa piú importante è di non fare il gabbato,
cioè di mentire, di finger meglio degli altri. Tutti i gran-
di romanzi di Stendhal s’imperniano sul problema del-
l’ipocrisia, sul segreto per trattare con gli uomini, per
ingannare il mondo; sono tutti per cosí dire dei manua-
li di realismo e amoralismo politico. Nella sua critica a
Stendhal, Balzac osserva che La Chartreuse de Parme è
un nuovo Principe, che Machiavelli non avrebbe potuto
scrivere altrimenti, se fosse vissuto esule nell’Italia del-
l’Ottocento. Il motto machiavellico di Julien Sorel «Qui
veut la fin veut les moyens» [ «Chi vuole il fine vuole i
mezzi»] ha qui la sua formulazione classica, ripetuta-
mente usata dallo stesso Balzac: nel mondo bisogna
accettare le regole del suo gioco, se si vuol parteciparvi
e contar qualcosa.
Per Stendhal la nuova società si distingue dalla vec-
chia anzitutto per le diverse forme del potere, che si
sono costituite in seguito allo spostarsi delle forze e al

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mutato valore politico delle classi; per lui il sistema capi-


talistico è la conseguenza della nuova struttura politica.
Egli descrive la società francese nel momento in cui la
borghesia si è già assicurata il potere economico, ma
ancora deve lottare per imporsi sul piano sociale. Que-
sta lotta egli la rappresenta da un punto di vista perso-
nale, soggettivo, precisamente come si configura per
l’intellettuale in ascesa. L’isolamento di Julien Sorel è il
motivo dominante di tutta l’opera stendhaliana, il tema
che viene variato e modulato negli altri romanzi, spe-
cialmente nella Chartreuse de Parme e nel Lucien Leuwen.
Per Stendhal la questione sociale consiste nel destino di
quei giovani ambiziosi di umile origine, che la cultura ha
strappato al loro ambiente: rimasti, alla fine dell’epoca
rivoluzionaria, senza mezzi e senza legami, abbagliati
dalle occasioni della Rivoluzione e dalla fortuna di
Napoleone, vogliono avere nella società una parte ade-
guata al loro ingegno e alle loro ambizioni. Ma essi sco-
prono che poteri, influenza, posti importanti sono tutti
nelle mani dell’antica nobiltà e della nuova aristocrazia
del denaro e che dappertutto la mediocrità ha il soprav-
vento sulle doti e sull’ingegno. Il principio che ognuno
è l’artefice della propria fortuna – idea affatto estranea
agli uomini dell’ancien régime, ma familiare alla gioventú
rivoluzionaria – perde il suo valore.
Vent’anni prima il destino di Julien Sorel sarebbe
stato tutt’altro; a venticinque anni sarebbe diventato
colonnello, a trentacinque generale: ecco il motivo che
ritorna sempre. Egli è nato troppo tardi o troppo pre-
sto; è come sospeso fra un’epoca e l’altra, fra una clas-
se e l’altra. Qual è il suo vero posto? per chi parteggia?
È ancora il vecchio, ben noto problema del romantici-
smo, che anche ora come allora rimane insoluto. L’ori-
gine romantica delle idee politiche di Stendhal si rivela
nel modo piú chiaro nel fatto che egli fonda le pretese
del suo eroe semplicemente sul privilegio del talento,

Storia dell’arte Einaudi 108


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dell’intelligenza e dell’energia. Per criticare la Restau-


razione e giustificare la Rivoluzione egli parte dal pre-
supposto che vera vitalità ed energia si possono ancora
trovare soltanto nel popolo. Le circostanze del famoso
omicidio del seminarista Berthet, ch’egli riprenderà nel
Rouge et noir, sono per lui una prova che d’ora in poi i
grandi uomini usciranno da quei ceti inferiori ancora
pieni d’energia e capaci di vere passioni, a cui apparte-
neva non solo Berthet, ma, com’egli sottolinea, anche
Napoleone.
Cosí la coscienza della lotta di classe entra nella let-
teratura. Naturalmente, anche prima i narratori aveva-
no rappresentato il conflitto tra i vari ceti; nessuna rap-
presentazione viva della realtà sociale poteva trascurar-
lo. Ma il suo vero significato rimaneva oscuro ai perso-
naggi e anche all’autore. Lo schiavo, il servo della gleba,
il contadino figuravano abbastanza spesso nell’antica
letteratura – soprattutto come figure comiche – e il ple-
beo era descritto non solo come un infingardo, ma anche
– ad esempio, nel Paysan parvenu di Marivaux – come il
nuovo ricco; tuttavia mai accadeva che un uomo di
umile condizione, cioè al di sotto della media borghesia,
fosse presentato come il campione di una classe disere-
data. Julien Sorel è il primo eroe di romanzo che sia con-
sapevole della sua origine plebea e l’abbia sempre pre-
sente; per lui ogni successo è una vittoria sulla classe
dominante e ogni sconfitta un’umiliazione. Neppure a
Madame de Rênal, l’unica donna ch’egli ami davvero,
può perdonare di esser ricca e di appartenere a quella
classe davanti a cui egli crede di dover sempre stare in
guardia. Nei suoi rapporti con Mathilde de la Mole la
lotta di classe ormai si confonde con la lotta dei sessi.
E la sua allocuzione ai giudici non è se non una affer-
mazione della lotta di classe, una sfida lanciata agli
avversari da chi ha il collo sotto la scure: «Signori, io
non ho l’onore di appartenere alla vostra classe, – egli

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dice. – Voi vedete in me un contadino, che si è ribella-


to all’umiltà della sua sorte... Io vedo uomini che vor-
ranno punire in me e scoraggiare per sempre quella clas-
se di giovani che, nati in basso e oppressi dalla povertà,
hanno la fortuna di potersi istruire e l’audacia di mesco-
larsi a quel che l’orgoglio dei ricchi chiama la società...»
E tuttavia all’autore non importa unicamente, e neppu-
re in modo particolare, la lotta di classe; la sua simpatia
non va senz’altro ai poveri e agli oppressi, ma ai figlia-
stri geniali e sensibili della società, alle vittime della clas-
se dominante senza cuore e senza fantasia. Perciò Julien
Sorel, il figlio di contadini, Fabrizio del Dongo, il ram-
pollo di una famiglia di antichissima nobiltà, e Lucien
Leuwen, l’erede di un patrimonio di milioni, ci appaio-
no come fratelli d’arme, compagni di lotta e di pena, che
si sentono ugualmente stranieri e sperduti in questo
mondo volgare e prosaico. La Restaurazione ha creato
condizioni in cui il conformismo è l’unica via al succes-
so e in cui piú nessuno può respirare e muoversi libera-
mente, qualunque sia la sua origine.
Ma il destino comune degli eroi stendhaliani nulla
toglie al fatto che la lotta di classe è l’origine sociologi-
ca del nuovo tipo di eroe e che Fabrizio e Lucien non
sono che trasposizioni ideologiche di Sorel, metamorfo-
si del «plebeo ribelle», varietà dell’«infelice che muove
guerra a tutta la società». Senza un ceto medio insidia-
to dalla reazione, senza quegli intellettuali condannati
alla passività, fra cui lo stesso Stendhal, la figura di
Fabrizio del Dongo sarebbe inconcepibile come quella
di Julien Sorel. Henri Beyle, funzionario dell’esercito
imperiale, nel 1815 viene messo in pensione a metà
paga; per anni cerca di ottenere un altro impiego, ma
non riesce neppure a diventare bibliotecario. Vive in
volontario esilio lontano dalla Francia, tagliato fuori da
ogni possibilità di carriera, come un naufrago. Odia la
reazione, ma quando parla di libertà pensa unicamente

Storia dell’arte Einaudi 110


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a sé, al diritto di inseguire la sua felicità. La felicità del-


l’individuo, la felicità in senso puramente epicureo è per
lui lo scopo di ogni attività politica. Il suo liberalismo è
il risultato del suo destino personale, della sua educa-
zione, dello spirito ribelle determinato in lui da espe-
rienze infantili, del suo fallimento nella vita, ma non di
uno schietto sentimento democratico. Egli è un enfant
de gauche35, anzitutto perché soggiace a un complesso di
Edipo, ma anche perché allievo del nonno che, fedele
alunno dei «filosofi» settecenteschi, lo alleva nel culto
dell’illuminismo. L’insuccesso lo conferma in questo spi-
rito e ne fa un ribelle; ma sentimentalmente egli è un
individualista e un aristocratico, alieno da ogni istinto
gregario. Il suo culto romantico dell’eroe, l’esaltazione
della personalità forte, dotata, eccezionale, il suo con-
cetto degli happy few, la morbosa avversione a tutto
quel che è plebeo, l’estetismo, il dandysmo sono tutte
forme di un preziosismo e di un autocompiacimento ari-
stocratico.
Ha paura della repubblica, si tiene lontano dalla folla,
ama gli agi e il lusso e il suo ideale politico è una monar-
chia costituzionale che assicuri al fiore dell’intellettua-
lità una vita senza crucci. Ama i salotti signorili, l’ozio
dell’epicureo, la gente ben educata, frivola e intelligen-
te. Teme che la repubblica e la democrazia rendano piú
povera e squallida la vita, teme la vittoria delle rozze
masse ignoranti sulla società colta, che della vita sa
godere la bellezza nel modo piú raffinato. «Amo il popo-
lo e odio gli oppressori, – dice, – ma sarebbe un tor-
mento per me dover sempre vivere con il popolo».
Benché solidale con Julien Sorel, Stendhal lo accom-
pagna con sguardo severamente critico e, pur ammiran-
do l’ingegno e l’integrità del giovane ribelle, non dissi-
mula affatto le sue riserve sulla sua natura plebea. Egli
ne comprende l’amarezza, ne condivide il disprezzo per
la società, ne approva l’ipocrisia senza scrupoli e il rifiu-

Storia dell’arte Einaudi 111


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to di collaborare con la gente che lo circonda, ma ciò


ch’egli non capisce e non approva è la folle méfiance, la
morbosa, umiliante diffidenza del plebeo afflitto da
complessi d’inferiorità e da rancori, la sua impotente
brama di vendetta che infuria alla cieca, la brutta invi-
dia che lo sfigura. L’analisi dei sentimenti di Julien,
dopo la lettera di Mathilde che gli dichiara il suo amore,
mostra chiarissima la distanza che divide Stendhal dal
suo eroe. Di fatto essa è la chiave di tutto il romanzo e
ci ricorda che nella storia di Julien Sorel non dobbiamo
vedere una semplice confessione dell’autore. Anzi, que-
sti è preso da un senso di repulsione, di paura, di ribrez-
zo di fronte a quel sospetto maniaco. «Lo sguardo di
Julien era crudele, la sua espressione orrenda», dice
senza alcuna simpatia, senza tentare affatto di scusarlo.
Non gli venne mai fatto di pensare che la piú grande
colpa della società verso Julien era appunto di averlo reso
cosí diffidente e perciò cosí infelice, cosí inumano?
Le opinioni politiche di Stendhal sono altrettanto
contraddittorie. Per origine egli appartiene alla borghe-
sia, ma per educazione diventa uno dei suoi avversari.
Sotto Napoleone egli è un alto funzionario, partecipa
alle ultime campagne dell’imperatore, che forse gli fa
profonda impressione, ma certo non lo entusiasma: egli
mantiene le sue riserve di fronte al despota violento e
allo spietato conquistatore36. Anche per lui da principio
la Restaurazione significa la pace, la fine del lungo,
inquieto, incerto periodo rivoluzionario; nella nuova
Francia, dapprima egli non si sente affatto estraneo e
scontento. Ma via via che si accorge come al misero pen-
sionato sia chiusa ogni prospettiva, e quale sia il vero
volto della Restaurazione, cresce in lui, con l’odio e la
nausea per il nuovo regime, l’entusiasmo per Bonapar-
te. Il suo debole per la vita bella e comoda lo rende
avverso al livellamento sociale; ma il suo stato povero e
oscuro alimenta la sua diffidenza e l’ostilità verso l’or-

Storia dell’arte Einaudi 112


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dine attuale impedendogli di aderire alla reazione. Le


due tendenze sono sempre presenti nel pensiero di
Stendhal; e, secondo le circostanze della sua vita, pre-
vale or l’una or l’altra. Nel periodo, per lui cosí oscuro,
della Restaurazione, crescono sempre piú il suo scon-
tento e il suo radicalismo politico; ma quando le sue con-
dizioni personali migliorano, egli si calma e da ribelle
diventa un difensore dell’ordine e un moderato conser-
vatore37. Le rouge et le noir è ancora la confessione di uno
spostato e di un sedizioso, La Chartreuse de Parme è già
l’opera di un animo placato nella tranquilla rinunzia38.
La tragedia è diventata tragicommedia, alla genialità
dell’odio è subentrata una saggezza cordiale, quasi con-
ciliante, un piú aperto, superiore umorismo che certo
osserva con inesorabile obiettività, ma riconosce la rela-
tività delle cose e la debolezza di tutto ciò ch’è umano.
Veramente nel tono del poeta s’insinua cosí una certa
frivolezza, che ricorda la tolleranza del «tutto com-
prendere – tutto perdonare»; ma quanto lontano è
Stendhal dal conformismo della piú tarda borghesia che
tutto perdona nell’ambito delle sue convenzioni, ma
nulla fuori di esse! Che diverso senso dei valori! Che
entusiasmo in Stendhal per la giovinezza, il coraggio,
l’ingegno, il bisogno di felicità, l’abitudine a goderla e
a crearla; e che stanchezza, che tedio, che timore della
felicità nella borghesia ormai saldamente al potere! «...
Devo esser piú felice di un altro, perché possiedo quel
che gli altri non hanno... – dice il conte Mosca. – Ebbe-
ne, siamo giusti, l’abitudine di questo pensiero deve
guastarmi il sorriso... deve darmi un’aria da egoista...
soddisfatta... E il suo, che sorriso incantevole! – (egli
parla di Fabrizio). – Ne traspare la spontanea felicità
della prima giovinezza e la suscita». Eppure Mosca non
è un furfante. È soltanto un debole, e si è venduto.
Stendhal si sforza in ogni modo di comprenderlo. Anzi,
nel Rouge et noir si chiedeva: «Chi sa quel che si deve

Storia dell’arte Einaudi 113


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

passare sulla via di una grande impresa? – Danton ha


rubato, Mirabeau si è venduto. – Napoleone in Italia ha
rubato milioni, se no, non sarebbe andato avanti... Sol-
tanto Lafayette non ha mai rubato. – Bisogna rubare,
bisogna vendersi?» Evidentemente si tratta di ben altro
che dei milioni di Napoleone: Stendhal scopre l’ineso-
rabile dialettica di ogni atto che opera nella realtà, il
materialismo di ogni esistenza, di ogni prassi. Una sco-
perta sconvolgente per un romantico genuino, anche se
travagliato da forti inibizioni.
Nell’Ottocento nessuno come Stendhal è diviso fra
attrazione e opposizione al romanticismo. Anche in que-
sto si riflette il dissidio della sua visione politica.
Stendhal è un rigido razionalista e positivista; ogni
metafisica, ogni pura speculazione, ogni confuso ideali-
smo gli è estraneo, odioso. L’essenza della morale, della
dirittura intellettuale sta per lui nello sforzo «di veder
chiaro in quel che è», nel resistere alle seduzioni della
superstizione e dell’autoinganno. «La sua fervida fan-
tasia le velava talvolta le cose, – dice di una delle sue
creature predilette, la duchessa Sanseverina, – eppure
le erano ignote quelle illusioni gratuite che suggerisce la
viltà». Ai suoi occhi il fine piú alto è l’ideale di Voltai-
re e di Lucrezio: vivere liberi dalla paura. Il suo ateismo
è lotta contro il despota della Bibbia e del mito, ed è
solo un aspetto del suo appassionato realismo ribelle a
ogni menzogna, a ogni inganno. Il suo orrore della reto-
rica e del pathos, delle parole e delle frasi magnilo-
quenti, dello stile smagliante, esuberante, enfatico di
Chateaubriand e di De Maistre, la sua predilezione per
la chiara, concisa concretezza del «codice civile», per le
«buone definizioni», per le frasi brevi, precise, disa-
dorne: tutto in lui esprime un materialismo rigido,
intransigente – «eroico», come dice Bourget – e il desi-
derio di veder chiaro e far veder chiaro in quel che è.
Ogni esagerazione, ogni ostentazione gli ripugna, e seb-

Storia dell’arte Einaudi 114


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bene egli sia spesso entusiastico, non è mai pomposo. Si


è osservato, per esempio, ch’egli non dice mai «libertà»,
ma sempre «le due Camere e la libertà di stampa»39;
anche questo è un segno della sua avversione a tutto
quanto è irreale ed enfatico; anche questo fa parte della
sua lotta contro il romanticismo e contro il suo stesso
sentimento romantico.
Il suo sentire infatti è schiettamente romantico; «egli
pensa come Elvezio, ma sente come Rousseau», è stato
detto40. I suoi eroi sono idealisti delusi, spiriti avventu-
rosi, appassionati, anime intatte di fanciulli non conta-
minati dalla sozzura della vita. Come il loro celebre pre-
decessore, Saint-Preux, amano la solitudine e i luoghi
alti e remoti, dove possono sognare indisturbati e abban-
donarsi ai loro ricordi. I loro sogni, le loro memorie, i
loro piú segreti pensieri sorgono dai piú teneri affetti.
Ecco la grande forza che in Stendhal bilancia la ragio-
ne, la fonte della piú pura poesia e del piú profondo
fascino dell’opera sua. Ma in lui il romanticismo non è
sempre poesia pura, schietta e limpida arte; spesso impli-
ca elementi romanzeschi, fantastici, morbosi e macabri.
Anzitutto il suo culto del genio non è solo entusiasmo
per quel che è grande e sovrumano, ma gusto dello stra-
vagante e del curioso; egli esalta la «vita pericolosa» non
solo perché adora l’intrepido eroismo, ma anche perché
ama giocare con la perversità e il delitto. Le rouge et le
noir è, se vogliamo, un romanzo nero, con una fine ecci-
tante e orrida; La Chartreuse de Parme è un romanzo
d’avventure pieno di sorprese, salvataggi miracolosi,
crudeltà e situazioni melodrammatiche. Il «beylismo»
non è solo una religione della forza e della bellezza, ma
anche un culto del piacere e un vangelo della violenza –
una variante del satanismo romantico. Tutta la critica
stendhaliana alla civiltà ha un carattere romantico; si
ispira all’entusiasmo di Rousseau per lo stato di natura,
ma conclude a un entusiasmo insieme esaltato e negati-

Storia dell’arte Einaudi 115


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vo, che rimprovera al mondo civile non solo la perdita


della spontaneità, ma anche il diminuito coraggio per i
grandi delitti pittoreschi. Il bonapartismo di Stendhal è
la prova migliore della natura complessa, in parte anco-
ra fortemente romantica, del suo mondo intellettuale.
Oltre l’esaltazione estetizzante del genio, entrano in
questo culto la stima per chi viene dal basso e vuole ele-
varsi, ma anche la solidarietà per il vinto, la vittima della
reazione e dell’oscurantismo. Per Stendhal, Napoleone
è il tenentino che diventa signore del mondo, il cadetto
della favola che scioglie l’enigma e ottiene la figlia del
re; ma è anche l’eterno martire e l’eroe dello spirito,
troppo buono per questo mondo corrotto, e votato al
sacrificio. Anche qui immoralismo e satanismo roman-
tico si confondono e trasformano l’apoteosi della gran-
dezza – nel bene come nel male –, l’ammirazione per
essa nonostante il male che spesso necessariamente ne
deriva, in un culto della grandezza proprio perché dispo-
sta anche al male, anche al delitto. Il Napoleone di
Stendhal, come Julien Sorel, appartiene agli antenati di
Raskol´nikov; essi incarnano quel che per Dostoevskij
era il romanticismo dell’Occidente e ch’egli volle fatale
al suo eroe.
Anche la rassegnazione stendhaliana conserva tratti
romantici e mostra di derivare dal romanzo della delu-
sione piú direttamente che non il freddo e oggettivo pes-
simismo balzachiano. Ma i romanzi di Stendhal fini-
scono male come quelli di Balzac; la differenza è quin-
di nel modo, non nel grado della rinunzia. Anche i suoi
eroi sono sconfitti, anch’essi affondano miseramente o,
peggio, sono costretti alla capitolazione, ai compromes-
si, muoiono giovani o si appartano delusi. Alla fine sono
tutti stanchi della vita, logori, consunti, bruciati; cessa-
no di lottare e patteggiano con la società. La morte di
Julien è una specie di suicidio e la fine dell’eroe nella
Chartreuse de Parme è una sconfitta altrettanto triste. Il

Storia dell’arte Einaudi 116


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tono della rinunzia risuona già in Armance, dove il tema


dell’impotenza è il chiaro simbolo dell’isolamento che
affligge tutti gli eroi stendhaliani. Il motivo riecheggia
nella persuasione del giovane Fabrizio di essere incapa-
ce di vero amore; e un analogo dubbio sorge in Julien
Sorel. Comunque, la potenza di Eros che colma di feli-
cità spegnendo l’essere egoisticamente individuale, l’ab-
bandono intero all’istante e il perfetto oblio di sé nella
dedizione all’amata gli sono ignoti. Per gli eroi di
Stendhal non esiste felicità del presente; la felicità per
essi è sempre già alle loro spalle, ci pensano soltanto
quando è già trascorsa. Il senso tragico che Stendhal ha
della vita mai si esprime in modo tanto straziante come
quando Julien scopre che i giorni di Vergy e di Verriè-
res, vissuti inconsciamente e distrattamente, e ora ine-
sorabilmente e per sempre svaniti, erano la cosa piú
bella, piú buona, piú preziosa che la vita avesse da offri-
re. Solo il passare delle cose ci fa consci del loro valore;
solo nell’ombra della morte Julien impara ad apprezza-
re la vita e l’amore di Madame de Rénal; solo in carce-
re Fabrizio scopre la vera felicità e la vera, intima
libertà. Chi sa, si domanda Rilke davanti alla gabbia di
un leone, dov’è la libertà: davanti o dietro le sbarre?
Domanda schiettamente stendhaliana e altamente
romantica.
Nonostante la sua avversione allo stile colorito ed
enfatico, anche formalmente Stendhal è un erede del
romanticismo, e in senso assai piú stretto di quanto si
possa dire, piú o meno, per ogni artista moderno. L’i-
deale classico dell’unità, dell’ordine rigoroso, della
subordinazione a un’idea principale, l’equilibrato svi-
luppo dell’argomento, senza arbitrî soggettivi, e senza
mai perdere di vista il lettore, in lui scompaiono del
tutto, sostituiti da una visione in cui domina unica-
mente la volontà di esprimersi, e che mira a rendere l’e-
sperienza nel modo piú diretto, semplice e autentico. I

Storia dell’arte Einaudi 117


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romanzi di Stendhal appaiono come un insieme di pagi-


ne di diario e di schizzi, che anzitutto cercano di fissa-
re i moti dell’animo, il meccanismo dei sentimenti e il
lavorio mentale dell’autore. Espressione, confessione,
comunicazione soggettiva sono la meta vera; il fluire
delle esperienze, il ritmo stesso della corrente sono il
vero argomento; in confronto, ciò che la corrente tra-
scina e porta con sé appare quasi secondario.
Piú o meno, ogni arte moderna, post-romantica, è
improvvisazione e all’origine di questo sta sempre l’idea
che il sentimento, lo stato d’animo, l’ispirazione siano
piú ricchi e piú vicini alla vita, che non l’abilità, il gusto
critico e la costruzione sapiente. Consciamente o no,
tutta la concezione moderna parte dalla convinzione
che gli elementi piú validi dell’opera d’arte siano le fan-
tasie improvvise, le felici trovate, i doni della divina ispi-
razione e che per l’artista il meglio sia di abbandonarsi
all’inventiva. Perciò l’invenzione del particolare è cosí
importante nell’arte moderna, e tanto piú forte è il suo
effetto quanto piú frequenti vi sono le svolte inattese e
i motivi accessori imprevisti. Già Beethoven, rispetto ai
suoi predecessori, fa l’effetto di improvvisare, benché le
opere di quelli, specie quelle di Mozart, siano nate in
modo evidentemente piú agevole, sereno e ispirato delle
composizioni beethoveniane che invece sono state pre-
parate con molta cura, spesso attraverso numerosi
abbozzi. Mozart sembra sempre seguire un piano obiet-
tivo, necessario, invariabile, mentre Beethoven in ogni
tema, in ogni motivo, in ogni tono ha l’aria di dire «per-
ché lo sento così», «perché lo odo così» e «perché voglio
che sia così». Le opere dei maestri piú antichi sono
composizioni ben articolate e costruite, melodie schiet-
te e nitide, mentre le opere di Beethoven e dei compo-
sitori piú tardi sono recitativi, gridi dal fondo del cuore
in pena.

Storia dell’arte Einaudi 118


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

In Port Royal Sainte-Beuve osserva che per il classi-


cismo il maggior poeta era chi creava l’opera piú per-
fetta, piú chiara, piú gradevole, mentre noi moderni da
un poeta ci aspettiamo soprattutto uno stimolo, cioè un
motivo per sognare e poetare con lui41. I nostri poeti
prediletti sono quelli che suggeriscono molte cose accen-
nandole appena e lasciando sempre qualcosa d’inespres-
so, che tocca a noi indovinare, chiarire, integrare. L’o-
pera incompiuta, inesauribile, indefinibile è per noi la
piú affascinante, la piú profonda ed espressiva. Tutta
l’arte psicologica di Stendhal mira a stimolare la colla-
borazione del lettore nell’osservazione e nell’analisi.
Due fondamentalmente sono i metodi di analisi psico-
logica. I classici francesi partono dall’idea unitaria di un
carattere e sviluppano i diversi attributi psichici da una
sostanza in sé immutabile. La forza persuasiva del per-
sonaggio cosí creato sta nella logica coerenza dei tratti,
ma in sé l’immagine è piuttosto il mito che il ritratto di
un uomo. L’introspezione del lettore nulla aggiunge, si
può dire, all’interesse e alla verosimiglianza dei perso-
naggi; questi s’impongono in linee grandi e nitide,
vogliono esser contemplati e ammirati, non analizzati e
interpretati. Il metodo psicologico di Stendhal, che si
suol considerare ugualmente analitico, benché diame-
tralmente opposto a quello classico, non parte dall’unità
logica della personalità, ma dalle sue manifestazioni sin-
gole, e nel quadro non accentua i contorni, ma le sfu-
mature e i valori tonali. L’immagine complessiva consta
di particolari, di osservazioni singole, di puntuali preci-
sazioni, in un contesto per lo piú cosí lacunoso e con-
traddittorio, che il lettore viene sempre rinviato all’in-
trospezione e all’interpretazione soggettiva del com-
plesso e caotico quadro. Per i classici un carattere era
tanto piú plausibile quanto piú era chiaro e coerente, ora
invece una figura poetica risulta tanto piú viva e per-
suasiva, quanto piú è complicata e rapsodica, quanto piú

Storia dell’arte Einaudi 119


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chiede di essere integrata dalla personale esperienza del


lettore.
La tecnica di Stendhal dei petits faits vrais non vuol
dire che la vita psichica consista tutta di piccole mani-
festazioni effimere, in sé e per sé irrilevanti, ma invece
che un carattere è imprevedibile e indefinibile e contie-
ne innumerevoli aspetti capaci di modificarne la misura
fondamentale e di romperne l’unità. Incoraggiare il let-
tore a osservare e poetare insieme con l’autore e ammet-
tere che il soggetto è inesauribile significa una cosa sola:
dubitare che l’arte sia in grado di dominare la realtà.
L’intricata psicologia moderna è un segno della nostra
incapacità di comprendere l’uomo odierno con la stessa
sicurezza con cui il classicismo aveva compreso l’uomo
del Sei e del Settecento. Ma di fronte a quest’insuffi-
cienza, esclamare con Zola: «La vita è piú semplice»42,
sarebbe pura cecità di fronte alla complessa natura della
vita moderna. Per Stendhal la complicazione psicologi-
ca è il frutto della sempre piú chiara consapevolezza del-
l’uomo odierno, della sua appassionata introspezione,
della sua attenzione a ogni moto del cuore e della mente.
Ma quando lo scrittore afferma: «L’uomo ha in sé due
anime» (Le rouge et le noir), con ciò non intende ancora
l’intima scissione che in Dostoevskij rende l’uomo estra-
neo a se stesso, ma semplicemente quel dualismo che fa
del nostro intellettuale un essere che insieme agisce e
contempla, attore e spettatore di se stesso. Stendhal ne
conosce la piú grande felicità e la peggior miseria: l’au-
tocoscienza che ne accompagna la vita spirituale. Quan-
do egli ama, gode della bellezza, si sente intimamente
libero da ogni vincolo, non soltanto per questo s’allie-
ta, ma anche per la coscienza della sua felicità43. Tutta-
via, mentre dovrebbe interamente abbandonarvisi, sciol-
to da ogni imperfezione e insufficienza, è sempre pieno
di problemi e di dubbi: E questo è tutto? – si domanda
– questo, il celebrato amore? È dunque possibile amare,

Storia dell’arte Einaudi 120


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sentire, estasiarsi e intanto osservarsi cosí freddamente


e tranquillamente? La risposta di Stendhal non è certo
quella corrente, che tra sentimento e ragione, passione
e riflessione, amore e ambizione ammette una distanza
insuperabile; egli è invece persuaso che l’uomo moder-
no sente, si inebria e si esalta diversamente da un con-
temporaneo di Racine o di Rousseau. Per costoro senti-
mento spontaneo e suo riflettersi nella coscienza erano
cose inconciliabili, per Stendhal e i suoi eroi sono inve-
ce cose inscindibili; nessuna delle loro passioni è forte
quanto il desiderio d’essere sempre consci di ciò che
avviene nel loro intimo. Questa consapevolezza signifi-
ca, rispetto alla letteratura precedente, un mutamento
non meno profondo del realismo stendhaliano; e il supe-
ramento della psicologia classicoromantica è per la sua
arte una premessa essenziale quanto l’annullamento del-
l’alternativa tra romantica fuga dal mondo e ottimismo
antiromantico.
I caratteri di Balzac sono piú coerenti, meno com-
plicati e problematici di quelli di Stendhal; in certo
modo essi segnano un ritorno alla psicologia delle opere
classiche e romantiche. Sono monomani, soggiogati da
una sola passione e ogni loro passo, ogni parola sembra
obbedire a un ordine. Ma è strano che tale costrizione
non menomi la verosimiglianza delle figure, che risulta-
no in definitiva piú reali di quelle stendhaliane, meglio
rispondenti per altro, con le loro antinomie, alle nostre
concezioni psicologiche. Ci troviamo di fronte al miste-
ro di un’arte travolgente, benché straordinariamente
disuguale di valore, che costituisce un fenomeno fra i piú
inesplicabili nella storia della creazione artistica. Del
resto i personaggi di Balzac non sempre sono cosí sem-
plici come si usa affermare: alla loro maniaca unilatera-
lità spesso si associa una grande ricchezza di tratti indi-
viduali. Forse sono meno brillanti e «interessanti» degli

Storia dell’arte Einaudi 121


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

eroi stendhaliani, ma appaiono piú vivi, inconfondibili


e indimenticabili.
Si è chiamato Balzac gran pittore di ritratti, ricondu-
cendo l’irresistibile efficacia della sua arte alla potenza
delle sue figure. Di fatto, parlando di Balzac, si pensa
anzitutto alla giungla umana dei suoi romanzi, alla folla
e alla varietà dei tipi a cui dà vita; ma per lui il fattore
psicologico non è il piú importante. Quando si cerca di
chiarire l’origine del suo mondo, ci si deve sempre rifa-
re alla sua sociologia, parlando delle condizioni materia-
li da cui sorge il suo cosmo intellettuale. A differenza di
Stendhal, Dostoevskij o Proust, per lui c’è una cosa piú
essenziale, piú irriducibile della realtà psichica. Un per-
sonaggio non ha importanza di per sé; comincia ad esse-
re interessante e significativo soltanto come rappresen-
tante di un gruppo sociale, come esponente di un con-
flitto tra opposti interessi di classe. Lo stesso Balzac con-
sidera sempre i suoi personaggi come fenomeni naturali
e, quando vuol indicare i fini dell’arte sua, non parla mai
della sua psicologia, ma sempre soltanto della sua socio-
logia, della sua storia naturale della società e della fun-
zione dei singoli individui nella vita dell’organismo socia-
le. Tuttavia, non già come «dottore in scienze sociali»,
come gli piacque chiamarsi, egli divenne il maestro di un
nuovo tipo di romanzo, ma come assertore della nuova
idea dell’uomo, secondo cui «l’individuo esiste solo in
rapporto con la società». Come da una scoperta geologi-
ca si può trarre tutto un mondo, – egli dice nella Recher-
che de l’absolu, – cosí ogni monumento di una civiltà,
ogni casa, ogni mosaico esprime tutta una struttura socia-
le; tutto è espressione e testimonianza di quel grande pro-
cesso. Una sorta d’ebbrezza, d’estasi lo afferra di fronte
a questa causalità sociale, a questa legge ineluttabile, che
sola può spiegare il senso del presente, e quindi risolve-
re il problema su cui s’impernia tutto il suo mondo. La
Comédie humaine difatti deve la sua intima unità, non al

Storia dell’arte Einaudi 122


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

concatenarsi dell’azione, né al ricorrere dei personaggi,


ma alla presenza di questo problema come motivo domi-
nante, che in realtà ne fa un unico grande romanzo, la
storia della moderna società francese.
Balzac libera la narrativa dalle angustie dell’autobio-
grafia e della pura psicologia, in cui si era rinchiusa nella
seconda metà del Settecento. Egli spezza quei limiti di
vicenda individuale, cui si attenevano sia i romanzi di
Rousseau e di Chateaubriand, sia quelli di Goethe e di
Stendhal, e si emancipa dallo stile di confessione che era
stato proprio del Settecento, pur non riuscendo, natu-
ralmente, a spogliarsi d’un tratto d’ogni elemento liri-
co-autobiografico. Balzac anzi trova il suo stile assai
lentamente: in un primo tempo continua la letteratura
in voga durante la Rivoluzione, la Restaurazione e il
romanticismo, e anche nella piena maturità conserva
reminiscenze di certi mediocri romanzi precedenti. Egli
non può negare che la sua arte derivi dal misterioso
romanzo nero e dal melodrammatico romanzo d’appen-
dice, come da quello amoroso e storico; e il suo stile
discende da Pigault-Lebrun e da Ducray-Duminil, come
da Byron e da Walter Scott44. Non solo Ferragus e Vau-
trin, ma anche Montriveau e Rastignac rientrano nella
serie romantica dei ribelli, dei proscritti, e il gusto del
romanzo nero riaffiora, non solo nella vita degli avven-
turieri e dei delinquenti, ma, come è stato osservato,
anche nella descrizione della vita borghese45. La società
moderna con i suoi politici, burocrati, banchieri, con gli
speculatori, i gaudenti, le cocottes, i giornalisti, gli pare
un incubo, un’implacabile danza macabra. Egli conce-
pisce il capitalismo come una malattia della società e per
un certo tempo vagheggia l’idea di trattarla da un punto
di vista medico, in una Patologia della vita sociale46. La
sua diagnosi è che esiste un’ipertrofia del desiderio di
profitto e di potenza, e la causa del male sta per lui nel-
l’egoismo e nell’irreligiosità dell’epoca. In tutto egli

Storia dell’arte Einaudi 123


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vede le conseguenze della Rivoluzione e imputa il crol-


lo delle antiche strutture gerarchiche – monarchia, Chie-
sa e famiglia – all’individualismo, alla libera concorren-
za e alla smodata, sfrenata ambizione. Balzac descrive
con mirabile acume i sintomi dell’epoca d’espansione
economica in cui vive la sua generazione, penetra le
fatali contraddizioni interne del sistema capitalistico, ma
nello spiegarne l’origine dà troppa parte all’arbitrio, ed
egli stesso non crede fermamente alla cura che prescri-
ve. L’oro, il luigi d’oro e lo scudo, le azioni, le cambia-
li, le polizze e le carte da gioco, ecco gl’idoli e i feticci
della nuova società: il «vitello d’oro» è qui una realtà piú
tremenda che nel Vecchio Testamento e il richiamo dei
milioni è piú seducente di quello della meretrice apoca-
littica. Balzac ritiene che le sue tragedie borghesi, anche
se imperniate soltanto sul denaro, siano piú crudeli del
dramma degli Atridi; e infatti le parole di Grandet
morente alla figlia: «Tu me ne renderai conto laggiú»,
superano in orrore i toni piú cupi della tragedia greca.
Le cifre, le somme, i bilanci sono qui gli scongiuri e gli
oracoli di una nuova mitologia, di un nuovo mondo
magico. Come nella favola i doni degli spiriti malvagi,
qui i milioni emergono dal nulla e subito spariscono,
dileguano. Balzac facilmente scivola in un tono fiabesco,
quando si tratta di denaro. Gli piace far la parte di quei
geni che coprono di doni i mendicanti, e con i suoi eroi
si rifugia volentieri in un’orgia romantica di sogni. Ma
sugli effetti ultimi dell’oro, sulle devastazioni ch’esso
provoca, sull’avvelenamento dei rapporti umani che
determina, egli non s’inganna mai; il suo senso della
realtà mai lo tradisce.
La caccia al denaro e al profitto distrugge la vita
famigliare, allontana la moglie dal marito, la figlia dal
padre, il fratello dal fratello, trasforma il matrimonio in
un’associazione d’interessi, l’amore in un affare e inca-
tena le vittime l’una all’altra come schiavi. Si può imma-

Storia dell’arte Einaudi 124


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ginare nulla di piú sinistro dell’obbligo imposto dal vec-


chio Grandet alla figlia, erede della sua ricchezza? o di
quei tratti del carattere paterno che riaffiorano in Eugé-
nie, appena essa diventa padrona di casa? C’è qualcosa
di piú spettrale di questa forza della natura, di questo
dominio della materia sulle anime? Il denaro estrania
l’uomo da se stesso, distrugge gli ideali, corrompe gl’in-
gegni, prostituisce artisti, poeti, studiosi, del genio fa un
delinquente, trasforma in avventurieri e in giocatori
d’azzardo coloro che erano nati per essere dei capi. La
classe sociale piú responsabile della spietata economia
monetaria, quella che ne trae il massimo profitto, è
naturalmente la ricca borghesia; ma la lotta selvaggia e
bestiale ch’essa scatena, coinvolge tutti i ceti: l’aristo-
crazia, che ne è la vittima maggiore, come le altre clas-
si. Eppure, di fronte all’anarchia del presente, Balzac
non trova altro rimedio da proporre se non un rinnova-
mento di quest’aristocrazia, che vorrebbe educata al
razionalismo e al realismo borghese e aperta ai plebei
d’ingegno. Egli è un ardente fautore della feudalità,
ammira gl’ideali intellettuali e morali ch’essa rappre-
senta e ne deplora la rovina; ma appunto per questo è
tanto piú spietato e obiettivo nel descriverne la dege-
nerazione e anzitutto la deferenza per le borse d’oro
della borghesia. Lo snobismo di Balzac fa sempre un
effetto penoso, ma i suoi scarti politici sono affatto
innocenti, poiché, sebbene sostenga con tanto zelo la
causa dell’aristocrazia, egli non è un aristocratico, il
che, come giustamente si è notato47, muta la sostanza
delle cose. Il suo atteggiamento è tutto speculativo; non
viene dal cuore né dall’istinto.
Balzac non solo è uno scrittore borghese fino al
midollo, che attinge spontaneamente e profondamente
dall’intimo orientamento della sua classe, ma è anche il
piú felice apologeta della borghesia, e non dissimula la
sua ammirazione per quanto essa ha fatto. Solo, è pieno

Storia dell’arte Einaudi 125


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

d’isterica paura e fiuta dappertutto disordine e rivolu-


zione. Egli combatte tutto quel che minaccia l’ordine
costituito e difende tutto quello che pare sostenerlo. Il
miglior baluardo contro l’anarchia e il caos sono per lui
il trono e la Chiesa, e il feudalesimo è soltanto il siste-
ma che consegue al loro dominio. Egli non considera
affatto la monarchia, la Chiesa e la nobiltà quali sono
diventate dopo la Rivoluzione, ma soltanto gl’ideali
ch’esse rappresentano, e combatte la democrazia e il
liberalismo perché sa che tutto l’edificio gerarchico fatal-
mente crollerà, se si comincia a criticarlo. Egli pensa
infatti che «una potenza discussa non dura».
L’uguaglianza è una folle utopia, in nessun luogo del
mondo si è attuata. E come ogni comunità – prima d’o-
gni altra la famiglia – riposa sul principio autoritario,
cosí tutta la società deve reggersi su questo principio. I
democratici e i socialisti sono astratti sognatori, non
solo perché credono alla libertà e all’uguaglianza, ma
anche perché idealizzano smisuratamente il popolo e il
proletariato. Pure gli uomini sono in fondo tutti ugua-
li; tutti pensano al proprio vantaggio e fanno solo i pro-
pri interessi. La società nel suo complesso è dominata
dalla logica della lotta di classe; la guerra tra ricchi e
poveri, forti e deboli, privilegiati e paria non avrà mai
fine. «Ogni potere tende alla propria conservazione» (Le
Médecin de campagne), e ogni classe oppressa a distrug-
gere i suoi oppressori: questi i fatti immutabili. Ma Bal-
zac, a cui sono già familiari i concetti della lotta di clas-
se, conosce anche il metodo rivelatore del materialismo
storico. «Uno scassinatore si manda all’ergastolo, – dice
Vautrin nelle Illusions perdues, – mentre un uomo che
con una bancarotta fraudolenta rovina intere famiglie,
se la cava con qualche mese... I giudici che condannano
il ladro fanno buona guardia alla barriera tra ricco e
povero... ma sanno che il bancarottiere causa al massi-
mo uno spostamento della ricchezza».

Storia dell’arte Einaudi 126


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx:


il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del pro-
letariato esattamente come quella delle altre classi, una
lotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invece
vi scorge l’inizio di un’era nuova e, nel suo trionfo, l’at-
tuazione di una condizione ideale e definitiva48. Prima
di Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esem-
plare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero.
«La virtú comincia con il benessere», dice nella Rabouil-
leuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lusso
dell’onestà», che ci si può permettere solo quando si
disponga di posizione e censo adeguati. Già nel suo
Essai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indi-
ca come proceda il formarsi dell’ideologia. «Le rivolu-
zioni si compiono, – egli afferma, – prima nelle cose e
negli interessi, poi si estendono alle idee e infine si tra-
sformano in principî». Il nesso che lega il pensiero all’e-
sistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, egli
li scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osser-
va, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sem-
pre piú chiara la materialità del pensiero. Evidente-
mente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobbero
quasi a un tempo la struttura dialettica dei contenuti
della coscienza. L’economia capitalistica e la moderna
borghesia erano piene di contraddizioni e mettevano in
luce il duplice condizionamento dello sviluppo storico
piú chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi mate-
riali della società borghese non solo già di per sé erano
piú trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovo
ceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico di
travestire ideologicamente le premesse economiche del
suo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora trop-
po recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine.
Nella concezione di Balzac il tratto saliente è il rea-
lismo, la considerazione nuda e obiettiva dei fatti. Il suo
materialismo storico e la sua teoria delle ideologie non

Storia dell’arte Einaudi 127


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sono che obiettivazioni del suo senso della realtà. E


questa posizione realistica e critica Balzac la mantiene
anche di fronte a quei fenomeni a cui sentimentalmen-
te è legato. Così, pur con le sue opinioni conservatrici,
egli sottolinea soprattutto la forza incoercibile dello svi-
luppo che ha portato alla moderna società capitalistico-
borghese, e non cade mai nel provincialismo degli idea-
listi nel giudicare la civiltà della tecnica. Egli è netta-
mente favorevole all’industria moderna, nuova potenza
universale49; ammira la moderna metropoli con le sue
grandi proporzioni, il suo dinamismo, il suo slancio.
Parigi lo inebria; egli l’ama pur cosí viziosa, anzi forse
per la mostruosità dei suoi vizi. Infatti, quando parla del
«grand chancre fumeux, étalé sur les bords de la Seine»
[«Gran cancro fumoso, che s’adagia sulle rive della
Senna»], ogni parola tradisce il fascino che si cela die-
tro l’espressione violenta. Il mito di Parigi nuova Babi-
lonia, città di luci notturne e di segreti paradisi, patria
di Baudelaire e di Verlaine, di Constantin Guy e di
Toulouse-Lautrec, il mito della Parigi pericolosa, sedut-
trice, irresistibile, ha la sua origine nelle Illusions perdues,
nell’Histoire des Treize e nel Père Goriot. Balzac è il
primo scrittore entusiasta di una moderna metropoli, il
primo che si compiaccia di fronte a un impianto indu-
striale. Parlare di «délicieuses fabriques» in mezzo al
dolce paesaggio di una valle, non era ancor venuto in
mente a nessuno50. Quest’ammirazione per la nuova
vita, creatrice pur nel suo impeto spietato, è un com-
penso al pessimismo balzachiano, è la sua forma di spe-
ranza, di fiducia nell’avvenire. Egli sa che non è piú pos-
sibile ritornare alla vita patriarcale e idillica della piccola
città e del villaggio; ma sa pure che questa non era affat-
to cosí romantica e poetica, come di solito la si descri-
ve, poiché «naturalezza» non significava che ignoranza,
malattia e povertà (Le Médecin de campagne, Le Curé de
village). Il «misticismo sociale» dei romantici gli è affat-

Storia dell’arte Einaudi 128


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to estraneo, nonostante le sue inclinazioni per il roman-


zesco51; e specialmente sulla «purezza morale» e l’«inno-
cenza» dei contadini egli non si fa illusioni. Giudica le
qualità buone e cattive del popolo con la stessa obietti-
vità con cui analizza le virtú e i vizi dell’aristocrazia e
il suo atteggiamento verso le masse è altrettanto poco
dogmatico, contraddittorio anzi, che quello, di odio e
amore insieme, verso la borghesia.
Balzac, senza volerlo e senza saperlo, è uno scrittore
rivoluzionario. Le sue vere simpatie lo portano verso i
ribelli e i nichilisti. La maggior parte dei suoi contem-
poranei lo sentono politicamente infido; essi sanno che
in fondo egli è un anarchico, sempre solidale con i nemi-
ci della società, con chi è fuori rango, con gli spostati.
Louis Veuillot osserva ch’egli difende trono e altare in
un modo che potrebbe valergli tutta la riconoscenza dei
loro nemici52. Alfred Nettement nella «Gazette de Fran-
ce» (febbraio 1836) scrive che Balzac vuole vendicarsi
della società per tutte le ingiustizie subite in gioventú,
e solo per questo esalta le nature antisociali. Nei suoi
ricordi (ottobre 1833) Charles Weiss sottolinea che Bal-
zac si dichiara legittimista, ma parla sempre come un
liberale. Victor Hugo afferma che, volente o nolente,
egli appartiene alla razza dei poeti rivoluzionari, e nelle
sue opere si manifesta il cuore di uno schietto demo-
cratico. Zola infine rileva il contrasto tra gli elementi
palesi e quelli latenti della sua visione e osserva, preve-
nendo l’interpretazione marxista, che l’ingegno di un
poeta può benissimo contrastare con le sue opinioni. Ma
il vero senso di questo antagonismo lo scopre e lo defi-
nisce Engels. Per primo egli studia in forma suscettibi-
le di ulteriore sviluppo scientifico la contraddizione tra
le vedute politiche e l’arte del poeta, formulando cosí
uno dei piú importanti principî euristici della sociologia
artistica. Da allora in poi è acquisito che arte progressi-
sta e politica conservatrice possono benissimo coesiste-

Storia dell’arte Einaudi 129


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re e che ogni onesto artista che descriva fedelmente e


sinceramente la realtà fa opera di per sé illuminante e
liberatrice. Un tale artista contribuisce involontaria-
mente a distruggere quelle convenzioni e quegli schemi,
quei tabú e quei dogmi su cui poggia l’ideologia reazio-
naria, ostile al progresso. In una lettera divenuta cele-
bre, dell’anno 1888, a una certa miss Harkness, Engels
scrive fra l’altro: «Il realismo di cui parlo può manife-
starsi perfino nonostante le opinioni dell’autore... Bal-
zac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga
superiore a tutti gli Zola passati, presenti e futuri, nella
Comédie humaine ci dà un’eccellente storia realistica
della «società» francese, descrivendo quasi a mo’ di cro-
naca, quasi anno per anno, dal 1816 fino al 1848, la
pressione sempre crescente della borghesia in ascesa
contro la società nobiliare che dopo il 1815 si ricostituí
e, per quanto poteva, tenne alta la bandiera della vieil-
le politesse française [antica cortesia francese]. Egli descri-
ve come gli ultimi residui di questa società per lui esem-
plare a poco a poco soccombano all’assalto dei volgari
arricchiti, o ne vengano corrotti... Certo, Balzac politi-
camente era un legittimista; la sua grande opera è un
continuo epicedio sull’inevitabile decadenza della buona
società; tutte le sue simpatie vanno alla classe condan-
nata. E tuttavia la satira non è mai piú acuta, né l’iro-
nia piú amara, di quando entrano in scena appunto gli
uomini e le donne di quella classe piú profondamente
cara all’autore, la nobiltà... Che Balzac sia così costret-
to ad agire contro le proprie simpatie sociali, i propri
pregiudizi politici, ch’egli veda ineluttabile il tramonto
dei suoi diletti nobili e li descriva come gente che non
merita destino migliore; e che egli veda i veri uomini del
futuro soltanto là dove allora si potevano trovare – que-
sto io lo considero uno dei massimi trionfi del realismo
e uno dei piú grandiosi tratti del vecchio Balzac»53.

Storia dell’arte Einaudi 130


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Balzac è un naturalista che si abbandona alla forza


espansiva di una volontà artistica, tutta tesa ad arric-
chire e differenziare il materiale dell’esperienza. Ma si
esiterà a considerarlo veramente tale, se per naturalista
s’intende chi si adegua perfettamente ai dati della realtà,
e usa lo stesso criterio di verità in tutti i piani dell’ope-
ra. Piuttosto si dovrà constatare che la sua fantasia
romantica e la sua inclinazione al melodramma finisco-
no sempre per avere la meglio e che spesso egli non solo
sceglie i caratteri piú eccentrici e le situazioni piú inve-
rosimili, ma addirittura costruisce i fondi delle sue sto-
rie in modo che non è possibile immaginarseli concre-
tamente, e solo i colori e i toni suggeriscono l’impres-
sione voluta. Definirlo senz’altro un naturalista può solo
condurre a delusioni. È assurdo e vano paragonarlo,
come psicologo o ricreatore di ambienti, ai maestri del
piú tardo romanzo naturalistico, quali Flaubert o Mau-
passant. Le sue opere vanno godute come descrizioni
della realtà e insieme come sogni tra i piú audaci e sfre-
nati; pretendere che esse siano qualcosa di diverso da
questo miscuglio indiscriminato di elementi, ne impedirà
sempre la comprensione. L’arte di Balzac è dominata da
un appassionato desiderio di abbandonarsi alla vita, ma
in complesso è relativamente poco quel che essa deve
all’osservazione diretta; il piú è invenzione, immagina-
zione, sentimento.
Ogni opera d’arte, anche la piú naturalistica, è un’im-
magine ideale e una versione leggendaria della realtà.
Anche nello stile meno convenzionale certi elementi,
come, ad esempio, i colori chiari e le macchie senza
contorni della pittura impressionistica o le figure incoe-
renti e inconsistenti del romanzo moderno, noi le accet-
tiamo senz’altro, come veri e giusti. Ma in Balzac la
descrizione della realtà è ancora piú arbitraria che nella
maggior parte dei naturalisti. Egli suscita l’impressione
della vita soprattutto sottomettendo dispoticamente il

Storia dell’arte Einaudi 131


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lettore al suo capriccio, alla totalità microcosmica del suo


mondo fittizio che esclude a priori la concorrenza della
realtà empirica. Le figure e gli scenari appaiono cosí
autentici, non perché i singoli tratti con cui sono dise-
gnati corrispondano all’esperienza reale, ma perché il
loro disegno è altrettanto sottile e circostanziato, che se
fosse stato osservato e ritratto dal vero. Il senso di esser
di fronte a una densa realtà, ci viene dal fatto che i sin-
goli elementi di quel microcosmo sono inscindibilmen-
te connessi, e le figure appaiono inimmaginabili senza
l’ambiente, i caratteri senza l’aspetto fisico, le persone
senza gli oggetti circostanti.
Le opere classiche sono isolate dal mondo esterno:
chiuse nella loro sfera estetica stanno l’una accanto all’al-
tra, in una rigorosa solitudine. Qualsiasi tratto natura-
listico, ogni evidente dipendenza da un modello rompe
l’immanenza di questa sfera, e ogni struttura ciclica che
intervenga a collegare le diverse rappresentazioni arti-
stiche annulla l’autonomia dell’opera singola. Per la mag-
gior parte le opere medievali sono composizioni aggiun-
tive di questo tipo, che includono piú unità indipen-
denti; tali sono l’epos cavalleresco e i romanzi d’avven-
tura, con la loro vicenda interminabile e le figure in
parte ricorrenti; tali i cicli della pittura medievale e gli
innumeri episodi dei misteri. Balzac, con il suo sistema,
con l’idea della Comédie humaine come quadro unitario
in cui includere i singoli romanzi, in pratica ritorna pro-
prio a questo modo di composizione medievale, facen-
do sua una forma per cui non avevano senso e valore
l’autonomia e la cristallina perfezione dell’opera classi-
ca. Ma come è giunto Balzac a questa forma «medieva-
le»? Come ha potuto questa tornare attuale a metà del-
l’Ottocento? La concezione medievale era stata intera-
mente eclissata dal classicismo rinascimentale, dall’idea
di unità e subordinazione. Finché il classicismo si era
mantenuto in vigore, la composizione ciclica non aveva

Storia dell’arte Einaudi 132


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mai potuto affermarsi; ma il classicismo durò soltanto


finché durò la convinzione di poter dominare la realtà
materiale. L’arte classica decade quando nasce il senso
della soggezione dell’essere alle condizioni materiali.
Anche in questo senso i romantici precorrono Balzac.
Zola, Wagner e Proust segnano le tappe ulteriori di
questo sviluppo e affermano sempre piú la tendenza
all’opera ciclica, enciclopedica, universale, in contrasto
con il principio dell’unità e della scelta. L’artista moder-
no vuol essere partecipe di una vita che appare inesau-
ribile e non si lascia chiudere nella misura di un’opera
singola. Egli può esprimere la grandezza solo ricorren-
do all’estensione, la forza solo rompendo ogni limite.
Proust era evidentemente conscio delle sue connessioni
con la forma ciclica di Wagner e di Balzac. «Il musici-
sta (Wagner), – egli scrive, – dovette provare la stessa
ebbrezza di Balzac quando guardò alle sue creazioni con
l’occhio di un estraneo e insieme, di un padre... Egli
allora osservò che sarebbero state assai piú belle, se
unite in un ciclo da figure ricorrenti e aggiunse un’altra
pennellata, l’ultima, sublime, all’opera sua... un’unità
che era un complemento, ma non certo un artificio...
un’unità prima non riconosciuta, ma perciò tanto piú
vera e vitale...»54.
Dei duemila personaggi della Comédie humaine, oltre
quattrocentosessanta ricorrono in piú romanzi. Henry
de Marsay, per esempio, lo incontriamo in venticinque
opere diverse e in Splendeurs et misères des courtisanes
compaiono centocinquanta personaggi che anche altro-
ve hanno una parte piú o meno importante55. La ric-
chezza delle figure trascende l’opera singola e si ha sem-
pre l’impressione che Balzac non ci dica tutto quel che
ne sa.
Quando fu chiesto a Ibsen, perché all’eroina di Casa
di bambola avesse dato un nome esotico, rispose che era
il nome di sua nonna che era italiana. La nonna vera-

Storia dell’arte Einaudi 133


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mente si chiamava Eleonora, ma da bimba la chiama-


vano col vezzeggiativo di Nora. All’obiezione che tutto
ciò non compariva affatto nel dramma, egli rispose stu-
pito: «Ma i fatti sono fatti». Thomas Mann ha piena-
mente ragione: Ibsen rientra nella stessa categoria a cui
appartengono gli altri due grandi del teatro ottocente-
sco, Zola e Wagner56. Anche in lui l’opera singola ha per-
duto la microcosmica compiutezza della forma classica.
Aneddoti come quello di Ibsen riferito non si contano
nei rapporti di Balzac con i suoi personaggi. Notissimo
è quello di Jules Sandeau, che mentre sta raccontando-
gli di sua sorella malata, viene da lui interrotto: «Tutto
bene, ma torniamo alla realtà: che marito daremo a
Eugénie Grandet?» Altrettanto nota la domanda con
cui aggredisce uno dei suoi amici: «Lo sai chi sposerà
Félix de Vaudeville? Una Grandeville. È proprio un
buon partito». Ma il piú bello e caratteristico è l’aned-
doto di Hofmannsthal, che fa dire a Balzac in un dialo-
go immaginario: «Il mio Vautrin la ritiene [la Venezia
salvata di Otway] il piú bello di tutti i drammi. Io do
molta importanza al giudizio di un uomo come lui»57.
Per Balzac l’esistenza dei suoi personaggi anche fuori
dell’opera è una realtà cosí evidente, che potrebbe sem-
pre dire che cosa pensano, o dovrebbero pensare, Vau-
trin o de Marsay o Rastignac di un dramma o di un libro
qualsiasi. E va tant’oltre in questo, che gli avviene spes-
so di richiamarsi a personaggi della Comédie humaine
anche quando non compaiono affatto in quel determi-
nato romanzo, e di citare i titoli di certe parti dell’ope-
ra complessiva come fonti d’informazione oggettive.
Si sa quanto volentieri Paul Bourget sfogliasse il
Répertoire della Comédie humaine, il «Chi è?» dei per-
sonaggi di Balzac58. Ancor oggi questa passione serve a
riconoscere un vero «balzacien» ed è, in ogni caso, il
segno di una effettiva comprensione della natura di
quest’opera inscindibile dalla vita reale, solo in parte

Storia dell’arte Einaudi 134


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

concepita e solo in parte valida sul piano estetico. Bal-


zac rappresenta nella storia dell’arte un momento fug-
gevole, che sta fra l’epoca esclusivamente artistica della
poesia classica e romantica e la successiva fase dell’e-
stetismo di Flaubert e di Baudelaire: la breve ora di
un’arte completamente immersa nei problemi del pre-
sente. Nell’Ottocento non c’è scrittore piú lontano di
lui da l’art pour l’art e dal purismo artistico. Non è pos-
sibile gustare senza disagio e a pieno le opere di Balzac,
se fin da principio non ci si rende conto ch’esse sono
un miscuglio mal dosato, in parte grezzo, che ben poco
ha a vedere con i principî classicistici del «nulla di piú
e nulla di meno» e della riduzione ad un unico piano dei
dati dell’esperienza. L’opera d’arte d’un sol getto è
sempre una finzione; anche le creazioni piú complete
sono piene di elementi caotici e disparati. Ma i roman-
zi di Balzac sono davvero l’esempio tipico dell’opera
riuscita a dispetto di ogni norma estetica. Giudicando-
li coi criteri delle opere classiche, sarà facile riscontrarvi
le piú grossolane offese alle leggi dell’arte, anche a quel-
le piú liberali. Sotto la loro diretta impressione, quan-
do non si è ancora spenta nell’animo nostro la furia sui-
cida dei personaggi, la tempesta delle scene, la voce cru-
dele dei delusi e dei ribelli, saremo obbligati ad ammet-
tere che in queste opere quasi tutto quel che si può ana-
lizzare razionalmente è «sbagliato». Dovremo conce-
dere che Balzac non sa comporre né sviluppare nitida-
mente l’azione, che i suoi caratteri sono spesso confu-
si ed eterogenei come gli ambienti e gli sfondi, che il
suo naturalismo non soltanto è incompleto, ma anche
scorretto, e talvolta la sua psicologia è, non solo inve-
rosimile, ma anche goffa e sommaria. E soprattutto
non ci si potrà dissimulare che a tutte queste insuffi-
cienze si aggiungono difetti di gusto da far rizzare i
capelli; che al nostro autore manca ogni senso critico,
e ogni mezzo è buono per lui pur di sorprendere e sog-

Storia dell’arte Einaudi 135


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

giogare; che piú nulla gli rimane della cultura settecen-


tesca, del suo riserbo, della sua eleganza, della sua ama-
bile scorrevolezza; che il suo gusto è degno del pubbli-
co dei peggiori romanzi d’appendice; che per lui nulla
è mai eccessivo, esagerato, stravagante; ch’egli è inca-
pace di esprimere quanto gli sta a cuore senza enfasi e
senza superlativi; che è sempre pronto a vantarsi, a
sballarle grosse e a raccontare fandonie; che è un disgu-
stoso ciarlatano appena vuol darsi l’aria di studioso e di
filosofo e, come pensatore, è tanto piú grande quanto
meno sa d’esser tale, quando pensa e ragiona secondo
il suo spontaneo sentire, gli immediati interessi della
sua vita e la sua posizione storica.
Specialmente sgradevoli sono i suoi difetti di gusto
in fatto di stile: l’abbondanza confusa del suo discorso,
la pesante solennità, le metafore studiate e pompose,
l’entusiasmo sempre acceso, la commozione che vuol
essere sempre sublime. Nemmeno i dialoghi sono impec-
cabili; anche qui ci sono punti morti e toni «falsi,»,
come le stecche di un cantante. È noto come Taine
cerca di spiegare e giustificare le singolarità stilistiche di
Balzac. Ammesso che in letteratura ci sono vari lin-
guaggi ugualmente legittimi, fa notare che l’autore della
Comédie humaine non si rivolge piú al pubblico dei salot-
ti del Sei e del Settecento, ad un pubblico cioè sensibi-
le alle piú lievi allusioni e non solo ai colori sfacciati e
ai toni acuti, ma a gente su cui ha presa solo ciò che è
strano, sensazionale, eccessivo, in altre parole i lettori
del romanzo d’appendice59. Ecco, senza dubbio, un otti-
mo esempio di critica sociologica; infatti, sebbene molti
autori della generazione di Balzac abbiano saputo evi-
tare i suoi errori stilistici, pochi sono stati cosí intima-
mente uniti al loro tempo. Ma invece di scusare le pec-
che di Balzac non si dovrebbe piuttosto cercar di capi-
re quell’immediata contiguità di grandioso e di scaden-
te che c’è in lui? E la spiegazione sociologica non

Storia dell’arte Einaudi 136


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dovrebbe anzitutto dimostrare che le caratteristiche del


suo stile sono legate alla sua stessa origine plebea e che
egli è l’espressione intellettuale della nuova borghesia,
relativamente incolta, ma straordinariamente viva e
capace?
È stato ripetutamente osservato che nelle sue opere
Balzac fa un quadro della generazione successiva piú che
della propria, e che i suoi nouveaux riches e parvenus, i
suoi speculatori e avventurieri, gli artisti e le cocottes
sono tipici del Secondo Impero piú che della monarchia
di luglio. Di fatto, pare che la vita abbia imitato l’arte.
Balzac è di quegli scrittori profeti, che sono in ultima
analisi piú visionari che osservatori. Profeta, visionario:
sono veramente parole dettate dall’imbarazzo e piú che
altro servono a dissimulare la nostra perplessità di fron-
te a un’arte, di cui ogni insufficienza par che accresca il
magico effetto. Ma che altro dire davanti a un’opera
come il Chef-d’œuvre inconnu che unisce la piú profon-
da intuizione della vita e del presente a un’incredibile
ingenuità? Vi si narra di Frenhofer, il piú grande allie-
vo di Mabuse, l’unico a cui il maestro ha trasmesso l’ar-
te d’infondere vita alle figure dipinte. Da dieci anni egli
lavora a un’opera – un’immagine femminile – sforzan-
dosi di giungere al piú alto fine di ogni arte, al segreto
di Pigmalione. Ogni giorno egli si sente piú vicino alla
meta, eppure rimane sempre qualcosa d’invincibile, inso-
lubile, irraggiungibile. Crede che sia colpa della realtà,
del fatto che non ha ancora trovato il modello adatto.
Un giorno Poussin, nel suo entusiasmo per l’arte, gli
conduce la sua amica, che si dice abbia il corpo piú per-
fetto che mai sia stato dipinto. Frenhofer è affascinato
dalla bellezza della donna, ma poi i suoi occhi si distol-
gono da quel corpo giovanile e tornano al quadro incom-
piuto e impossibile a compiersi. La realtà non lo trat-
tiene piú, egli ha ucciso in sé la vita. Ma il quadro, l’o-
pera della sua vita, che egli, piú geloso che Poussin della

Storia dell’arte Einaudi 137


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sua donna, finora non ha voluto svelare a occhi estranei,


il quadro non è che un incomprensibile groviglio di linee
sinuose e di macchie sovrapposte, accumulate nel corso
di tanti anni, sotto cui non si distinguono che le forme
di una gamba perfetta. Balzac ha preveduto il destino
dell’arte dell’ultimo secolo e l’ha rappresentato da arti-
sta in modo insuperabile. Egli ha individuato le conse-
guenze dell’estraniarsi dalla vita e dal pubblico e meglio
dei piú colti e intelligenti fra i suoi contemporanei ha
compreso la minaccia dell’estetismo e del nichilismo, il
pericolo di autodistruzione che doveva divenire una
paurosa realtà al tempo del Secondo Impero.

1
henri guillemin, Le Jocelyn de Lamartine, 1936, p. 59.
2
Per quel che segue, cfr. jean-paul sartre, Qu’est-ce que la litté-
rature?, in «Les Temps Modernes», ii, 1947, pp. 971 sgg. Anche in
Situations , II, 1948.
3
Ibid., p. 976.
4
Ibid., p. 981.
5
s. charléty, La Monarchie de Juillet, in e. lavisse, Histoire de la
France contemporaine, V, 1921, pp. 178-79.
6
w. sombart, Der moderne Kapitalismus, III, i, pp. 35-38, 82,
657-61.
7
id., Der Bourgeois, 1913, p. 220.
8
Cfr. louis blanc, Histoire de dix ans, III, 1843, pp. 90-92. w. som-
bart, Die deutsche Volkswirtschaft des 19. Jahrhunderts, 7a ed., 1927, pp.
399 sgg.
9
emil lederer, Zum sozialpsychologischen Habitus der Gegenwart,
in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XLVI, 1918,
pp. 122 sgg.
10
paul louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nos
jours, 1936, 3a ed., pp. 64, 97. - j. lucas-dubreton, La Restauration et
la Monarchie de Juillet, 1937, pp. 160-61.
11
p. louis, Histoire du socialisme en France ecc. cit., pp. 160-7.
12
friedrich engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Uto-
pie zur Wissenschaft, 4a ed., 1891, p. 24.
13
robert michels, Psychologie der antikapitalistischen Massenbewe-
gungen, in Grundriß der Sozialökonomie, IX, 1, 1926, pp. 244-246, 270.
14
w. sombart, Die deutsche Volkswirtschaft cit. p. 471.

Storia dell’arte Einaudi 138


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

15
sainte-beuve, De la littérature industrielle, in «Revue des Deux
Mondes», 1839. Anche in Portraits contemporains, 1847.
16
jules champfleury, Souvenirs et portraits, 1872, p. 77.
17
eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909,
p. 209.
18
nora atkinson, Eugène Sue et le roman-feuilleton, 1929, p. 211.
alfred nettement, Études critiques sur le feuilleton-roman, 1845, I,
p. 16.
19
Cfr. maurice bardèche, Stendhal romancier, 1947.
20
andré le breton, Le Roman français au 19e siècle, I, 1901, pp. 6-
7, 73. - m. bardèche, Balzac romancier, 1947, pp. 2-8, 12-13.
21
c.-m. des granges, La Presse littéraire sous la Restauration, 1907,
p. 22.
22
h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp.
195, 340.
23
Ibid., pp. 203-4. - albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art
en France, 1906, pp. 61-71.
24
Cfr. edmond estève, Byron et le romantisme français, 1907, p. 228.
25
Cfr. pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, pp.
242 sgg.
26
Articolo di charles rémusat del 12 marzo 1825, citato da a.
cassagne, La Théorie ecc. cit., p. 37.
27
Ibid.
28
josé ortega y gasset, La Deshumanización del Arte, 1925, p. 19.
29
h. j. hunt, Le socialisme ecc. cit., pp. 157-58.
30
Ibid., p. 174.
31
g. lukàcs, Goethe und seine Zeit, 1947, pp. 39-40 [trad. it.,
Goethe e il suo tempo, Milano 1949].
32
m. bardèche, Balzac romancier cit., pp. 3, 7.
33
Citato da jules marsan, Stendhal, 1932, p. 141.
34
m. bardèche, Stendhal romancier cit., p. 424.
3
5 a. thibaudet, Stendhal, 1931. - henri martineau, L’Œuvre de
Stendhal, 1945, p. 198.
36
Cfr. jean mélia, Stendhal et Taine, in «La Nouvelle Revue»,
1910, p. 392.
37
pierre martino, Stendhal, 1934, 302.
38
h. martineau, L’Œuvre de Stendhal cit., p. 470.
39
é. faguet, Politiques et moralistes, III, 1900, p. 8.
40
m.bardèche, Stendhal romancier cit., p. 47.
41
sainte-beuve, Port-Royal, 1888, 5a, ed., VI, pp. 266-67.
42
émile zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., p. 124.
43
Cfr. paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885,
p. 282.
44
andré le breton, Balzac, 1905, pp. 70-73.

Storia dell’arte Einaudi 139


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

45
m. bardèche, Balzac romancier cit., p. 285.
46
bernard guyon, La Pensée politique et sociale de Balzac, 1947,
p. 432.
47
v. grib, Balzac, «Critics Group Series», n. 5, 1937, p. 716.
48
marie bor, Balzac contre Balzac, 1933, p. 38.
49
e. buttke, Balzac als Dichter des moaernen Kapitalismus, 1932,
p. 28.
50
balzac, Correspondance, 1876, I, p. 433.
51
ernest seillière, Balzac et la morale romantique, 1922, p. 61.
52
andré bellessort, Balzac et son œuvre, 1924, p. 175.
53
karl marx - friedirich engels, Über Kunst und Literatur, a cura
di I. K. Luppol, 1937, pp. 53-54. - Anche in «International Literatu-
re», luglio 1933, n. 3, p. 114.
54
m. proust, La Prisonnière, I [trad. it., La prigioniera, Torino
1950].
55
e. preston, Recherches sur la technique de Balzac, 1926, pp. 5, 222.
56
t. mann, Die Forderung des Tages, 1910, pp. 273 sgg.
57
hugo von hofmannsthal, Unterhaltungen über literarische Gegen-
stände, 1904, p. 40.
58
a. cerfberr - j. christophe, Répertoire de la Comédie humaine,
1887.
59
taine, Nouveaux essais de critique et d’histoire, 1865, pagine
104-13.

Storia dell’arte Einaudi 140


Capitolo secondo

Il Secondo Impero

I romantici erano pienamente consapevoli della per-


dita di prestigio subita dallo scrittore dopo la Rivoluzio-
ne e contro il pubblico ostile cercavano un rifugio nel-
l’individualismo. Il loro senso d’isolamento si esprimeva
in un umore aspramente battagliero, ma essi non pensa-
vano certo che fosse vana la loro lotta contro la società.
Gli scrittori della generazione del 1830 furono i primi a
dimettere lo spirito combattivo dei loro predecessori e a
trovarsi a proprio agio nell’isolamento; la loro protesta
si limitò ad accentuare la loro differenza dal pubblico,
che essi servivano. Gli scrittori della generazione suc-
cessiva andarono tant’oltre con il loro orgoglio, da rinun-
ziare anche a quelle manifestazioni coprendosi sotto il
velo di una ostentata impersonalità e insensibilità. Ma si
trattava di un ritegno ben diverso dall’obiettività del
Sei e del Settecento. Gli scrittori classici volevano
distrarre o istruire il lettore, oppure discutere con lui
determinati problemi della vita. Invece, dall’età roman-
tica in poi, la letteratura non era piú stata conversazio-
ne e discussione fra pubblico e autore, ma una confes-
sione e un’autoesaltazione di quest’ultimo. Naturale
quindi, che quando Flaubert e i Parnassiani cercano di
celare i loro sentimenti personali, non si tratta di un sem-
plice ritorno allo spirito della letteratura preromantica,
ma della forma piú altezzosa e arrogante dell’individua-
lismo, quello che sdegna persino di comunicare.

Storia dell’arte Einaudi 141


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il 1848 e le sue conseguenze hanno completamente


straniato i veri artisti dal pubblico. Anche questa volta,
come nel 1789 e nel 1830, la Rivoluzione era seguita a
un periodo di fervore intellettuale fecondissimo e, come
le rivoluzioni precedenti, si era conclusa con la sconfit-
ta della democrazia e della libertà intellettuale. La vit-
toria della reazione provocò un appiattimento senza
esempio del pensiero e un completo imbarbarimento del
gusto. La congiura dell’alta borghesia contro la rivolu-
zione, la denunzia della lotta di classe come un tradi-
mento verso la nazione, che divise in due campi avver-
si una società per sua natura pacifica1, la soppressione
della libertà di stampa, la creazione della nuova buro-
crazia come il piú forte sostegno del regime, l’insediar-
si dello stato poliziesco come giudice supremo in ogni
questione di morale e di gusto, provocarono nella cul-
tura della Francia una scissione senza precedenti. Si
determinò cosí fra gli intellettuali quel contrasto tutto-
ra aperto fra conformismo e ribellione, e quell’opposi-
zione allo stato che ha trasformato una parte degli intel-
lettuali in un elemento di disgregazione.
Il socialismo fu sacrificato senza resistenza all’«ordi-
ne» ristabilito. Nel primo decennio dopo il colpo di
stato non si verifica in Francia nessun movimento ope-
raio degno di nota. Il proletariato è esausto, intimidito,
confuso, le sue associazioni sono sciolte, i suoi capi
imprigionati, espulsi o ridotti al silenzio2. Le elezioni del
1863, rinforzando notevolmente l’opposizione, sono il
primo sintomo di un cambiamento. Gli operai tornano
ad associarsi, gli scioperi si moltiplicano e Napoleone III
è costretto a nuove concessioni. Il socialismo non avreb-
be certo raggiunto cosí presto il suo scopo, se non aves-
se trovato un aiuto involontario nell’alta borghesia libe-
rale, che nel cesarismo di Napoleone vedeva un perico-
lo per la propria potenza. Lo sviluppo politico dopo il
1860, il declino del governo autoritario e la decadenza

Storia dell’arte Einaudi 142


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’Impero si spiegano con questo intimo dissidio del


regime3. Il potere di Napoleone III si appoggiava al capi-
tale finanziario e alla grande industria; l’esercito, pre-
zioso nella lotta contro il proletariato, era tanto piú inu-
tile contro l’alta borghesia, in quanto poteva sussistere
solo grazie ad essa. Il Secondo Impero è inconcepibile
senza l’ondata di prosperità con cui venne a coincidere.
Esso trovò appoggio e giustificazione nella ricchezza
dei suoi cittadini, nelle nuove invenzioni tecniche, nella
costruzione di ferrovie e di canali, nell’infittirsi e acce-
lerarsi degli scambi, nella diffusione e nella crescente
flessibilità del credito. Durante la monarchia di luglio
era ancora la politica che piú attraeva i giovani d’inge-
gno; ora le forze migliori le assorbe l’economia. La Fran-
cia diventa capitalistica, non solo nei rapporti latenti, ma
anche nelle forme palesi della sua cultura.
Il capitalismo e l’industrialismo non escono, è vero,
dai binari ben noti, ma solo ora si sviluppano in tutta la
loro ampiezza, e la vita quotidiana degli uomini, le abi-
tazioni, i trasporti, la tecnica dell’illuminazione, il nutri-
mento e il vestire subiscono dal 1850 in poi mutamen-
ti piú radicali di quanti ne abbiano subiti nei secoli dal-
l’inizio della civiltà urbana. Incomparabilmente piú
grande e piú che mai diffuso, il bisogno di lusso e anzi-
tutto l’amore dei piaceri.
Il borghese diventa sicuro di sé, pretenzioso, arro-
gante e crede di poter coprire con un lusso esteriore la
modestia delle sue origini e il carattere promiscuo della
nuova società mondana, in cui assumono un’importan-
za fin qui inaudita demi-monde, attrici e stranieri. La
disgregazione dell’antico regime entra nello stadio fina-
le e, scomparsi gli ultimi rappresentanti della buona
società di un tempo, la cultura francese attraversa una
crisi piú sensibile che ai giorni della sua prima scossa.
Nell’arte, soprattutto nell’architettura e nella decora-
zione degli interni, il cattivo gusto predomina come mai

Storia dell’arte Einaudi 143


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

prima. Per la classe ricca, abbastanza importante per


voler brillare, ma non abbastanza antica per saper evi-
tare l’ostentazione, nulla è troppo prezioso e carico. Si
usano senza discernimento materiali genuini e falsi, si
riprendono e si contaminano gli stili. Rinascimento e
Barocco non sono che mezzi, come il marmo e l’onice,
il velluto e la seta, gli specchi e i cristalli. Si imitano
palazzi di Roma e castelli della Loira, atri pompeiani e
sale barocche, le ebanisterie Luigi XV e gli arazzi Luigi
XVI. Parigi acquista un nuovo splendore, un nuovo
aspetto di metropoli. Ma la sua grandezza è tutta appa-
rente, il pretenzioso materiale spesso non è che un sur-
rogato: il marmo è stucco, la pietra è intonaco. Le pom-
pose facciate sono posticce, la ricca decorazione è inor-
ganica e non strutturale. L’architettura assume un aspet-
to instabile, degno della classe di parvenus che la diri-
ge. Parigi ridiventa la capitale dell’Europa, ma non è,
come una volta, il centro dell’arte e della cultura, bensí
la metropoli dei piaceri, la città dell’opera, dell’operet-
ta, dei balli, dei boulevards, dei ristoranti, dei magaz-
zini, delle esposizioni universali, dei piaceri bell’e pron-
ti e a buon mercato.
Il Secondo Impero è il classico tempo dell’ecletti-
smo: un tempo senza stile proprio nell’architettura e nel-
l’artigianato e senza unità stilistica nella pittura. Sorgo-
no nuovi teatri, alberghi, case d’affitto, caserme, magaz-
zini, mercati, intere vie che s’irradiano da piazze circo-
lari; Parigi è quasi riedificata da Haussmann, ma tutto
ciò, se si prescinde dal nuovo criterio degli ampi spazi e
dalla tecnica della costruzione in ferro che ora comincia
a diffondersi, non ha alcuna originalità architettonica.
Naturalmente anche in altri tempi si era avuta una com-
presenza di stili diversi, rivali; ed anche l’antitesi tra uno
stile storicamente valido, ma non accetto ai ceti domi-
nanti, e uno meno importante, affatto sterile nel pro-
cesso evolutivo, ma caro al pubblico, non era un feno-

Storia dell’arte Einaudi 144


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

meno nuovo. Tuttavia mai era accaduto che le tenden-


ze veramente significative dell’arte avessero cosí scarsa
eco presso i contemporanei. In questo caso noi sentia-
mo che la storia dell’arte e della letteratura, in quanto
tratta delle manifestazioni esteticamente valide e stori-
camente significative, meno che per ogni altra epoca
risulta aderente alla reale vita artistica del tempo; in
altre parole, che la storia delle tendenze progressive,
significanti per il futuro e quella delle tendenze che
hanno avuto una voga o un influsso momentaneo ver-
tono su due serie di fatti completamente distinti. Un
Octave Feuillet o un Paul Baudry, a cui si dedicano dieci
righe nei nostri manuali, apparivano al pubblico del loro
tempo incomparabilmente piú importanti di Flaubert o
Courbet, a cui noi dedichiamo tante pagine. La vita
artistica del Secondo Impero è dominata da una produ-
zione facile e piacevole, destinata a una borghesia che
si è fatta indolente e intellettualmente pigra. La grassa
borghesia, a cui dobbiamo quella pretenziosa architet-
tura che si rifà ai modelli piú grandiosi, ma è per lo piú
vacua e disorganica, e riempie le sue case degli oggetti
piú costosi, ma spesso perfettamente superflui, scoper-
ta falsificazione dei modelli storici, favorisce una pittu-
ra che si riduce a una gradevole decorazione murale, una
letteratura di frivolo divertimento, una musica leggera
e lusinghevole e un teatro che celebra i suoi trionfi con
gli espedienti della pièce bien faite. Prevale un gusto
incerto, cattivo, facilone, mentre l’arte vera diviene
esclusivo possesso di una cerchia d’intenditori, che non
è piú in grado di offrire alcun compenso adeguato al
lavoro dell’artista.
Il naturalismo, che in germe contiene tutta l’evolu-
zione successiva, e può rivendicare le opere d’arte piú
significative del secolo, è una corrente di opposizione,
cioè lo stile di una piccola minoranza, sia fra gli artisti
che fra il pubblico. È il bersaglio dell’accademia, del-

Storia dell’arte Einaudi 145


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’università e della critica, insomma di tutti i circoli


ufficiali e autorevoli. E l’ostilità si acuisce via via che si
precisano i fini e i presupposti del movimento, e dal
cosiddetto «realismo» si sviluppa il «naturalismo». Ma
distinguere cosí le due fasi, che in realtà non hanno
limiti netti, si rivela praticamente affatto inutile, se non
addirittura ingannevole. In ogni caso è piú opportuno
comprendere col solo nome di naturalismo l’intero feno-
meno, riservando il concetto di realismo alla filosofia che
si contrappone all’idealismo romantico. Se per naturali-
smo si intende lo stile artistico e per realismo la conce-
zione filosofica la cosa rimane chiara, mentre volendo
distinguere naturalismo e realismo in arte non si fa che
complicare le cose e porsi un problema fittizio. Inoltre
il concetto di realismo applicato all’arte verrebbe a sot-
tolineare troppo l’opposizione al romanticismo, facendo
dimenticare che si tratta di una diretta continuazione
degli intenti dell’arte romantica e che in sostanza il
naturalismo è piuttosto una lotta incessante con lo spi-
rito romantico che una vittoria su di esso. Il naturalismo
è un romanticismo con nuove convenzioni, con nuovi,
e piú o meno arbitrari, postulati di verosimiglianza. La
maggior differenza tra romanticismo e naturalismo sta
nell’indirizzo scientifico della nuova tendenza, che
applica i criteri delle scienze esatte alla rappresentazio-
ne artistica della realtà. Il predominio dell’arte natura-
listica nella seconda metà dell’Ottocento non è che un
sintomo del trionfo di una generale concezione scienti-
fica e della mentalità razionalistico-tecnicistica sullo spi-
rito idealistico e tradizionale.
Si può dire che il naturalismo derivi tutti i suoi cri-
teri di verosimiglianza dall’indagine scientifica. Il suo
concetto della verità psicologica si fonda sul principio di
causalità, quello del corretto sviluppo di un intreccio sul-
l’eliminazione del caso e del miracolo; la sua descrizio-
ne dell’ambiente, sull’idea che ogni fenomeno naturale

Storia dell’arte Einaudi 146


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rientra in una serie infinita di condizioni e moventi; la


sua valorizzazione del particolare caratteristico, sul
metodo dell’osservazione scientifica, che non trascura
alcuna circostanza, per quanto irrilevante; la sua rinun-
zia alla composizione troppo perfetta, sul carattere
necessariamente non conclusivo dell’indagine scientifi-
ca. Ma la fonte principale della dottrina naturalistica è
l’esperienza politica della generazione del 1848: l’in-
successo della rivoluzione, la repressione di giugno e il
colpo di stato di Luigi Napoleone. Il disinganno dei
democratici, il brusco e generale cader delle illusioni, si
esprimono benissimo nella visione obiettiva, spassiona-
ta, strettamente aderente all’esperienza, delle scienze
naturali. Fallito ogni ideale, caduta ogni utopia, ci si
attiene ai fatti, e nulla piú. L’origine politica del natu-
ralismo ne spiega anzitutto gli aspetti antiromantici e
morali: il rifiuto di sfuggire alla realtà e l’esigenza di
un’assoluta onestà nel descrivere i fatti; lo sforzo d’es-
sere impersonali e impassibili per garantire l’obiettività
e la solidarietà sociale; l’attivismo che vuol mutare la
realtà, non solo conoscerla e descriverla; lo spirito di
modernità, che si attiene al presente come alla sola cosa
che importi; infine il carattere popolare nella scelta dei
soggetti e del pubblico. La frase di Champfleury4, «Le
public du livre à vingt sous, c’est le vrai public» [«Il vero
pubblico è quello dei libri da venti soldi»], mostra in
quale senso la rivoluzione del 1848 abbia agito sulla let-
teratura e quanto il nuovo concetto di «popolarità» sia
diverso da quello dei vecchi scrittori d’appendice. Que-
sti scrivevano per le masse, perché volevano scrivere per
tutti; i naturalisti invece, Champfleury e la sua cerchia,
vogliono scrivere anzitutto per le masse. Comunque, si
distinguono nella letteratura naturalistica due correnti:
il naturalismo degli scrittori che vengono dalla bohème
– Champfleury, Duranty e Murger – e quello dei possi-
denti, di Flaubert e dei Goncourt5. Son due campi oppo-

Storia dell’arte Einaudi 147


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sti: la bohème odia ogni tradizione, mentre a Flaubert


e ai suoi amici riesce sospetto ogni scrittore che ambi-
sca al favore popolare.
Il naturalismo comincia come movimento del prole-
tariato artistico; il suo primo maestro è Courbet, uomo
del popolo e artista affatto insensibile alla rispettabilità
borghese. Sciolta l’antica bohème, mentre i suoi mem-
bri diventano i beniamini del pubblico borghese roman-
ticizzante, si forma intorno a Courbet un nuovo circo-
lo, un altro cénacle della bohème. Il pittore degli Spac-
capietre deve la sua posizione di guida alle sue qualità di
uomo, piuttosto che di artista; anzitutto alla sua origi-
ne, al fatto ch’egli descrive la vita del popolo e con l’ar-
te sua si volge al popolo, o almeno al piú vasto pubbli-
co, vive la vita precaria e libera dell’artista proletario,
disprezza il borghese e i suoi ideali, è un convinto demo-
cratico e un rivoluzionario, un perseguitato e un reiet-
to. La teoria naturalistica sorge appunto a difesa della
sua arte contro la critica tradizionalista. Quando viene
esposto il Funerale di Ornans (1850) Champfleury dichia-
ra: «D’ora in poi i critici debbono decidersi pro o con-
tro il realismo». Cosí la gran parola è detta6. Sostanzial-
mente in quest’arte né la teoria né la pratica sono nuove,
anche se la vita quotidiana forse non ha mai avuto una
rappresentazione cosí brutale; quel che è nuovo è la ten-
denza politica, il messaggio sociale, la vita del popolo
ritratta senza degnazione, senza alcun tono di superio-
rità, satirico o bozzettistico. Ma per quanto sia nuovo
questo atteggiamento sociale, per quanto si parli, nel-
l’ambiente di Courbet, del fine umanitario e del com-
pito politico dell’arte, la bohème è e rimane erede del-
l’estetismo romantico. Spesso essa attribuisce all’arte
un’importanza che non le fu concessa nemmeno dalle
piú esaltate teorie romantiche, e fa un profeta di un pit-
tore confusionario e chiacchierone, un avvenimento sto-
rico Dell’esposizione di un quadro invendibile.

Storia dell’arte Einaudi 148


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ma la passione che anima Courbet e i suoi seguaci è


fondamentalmente politica; in loro l’orgoglio nasce dalla
persuasione di essere i campioni della verità e gli araldi
del futuro. Champfleury afferma che il realismo non è
che l’arte della democrazia e i Goncourt definiscono
senz’altro la bohème come il socialismo nella letteratu-
ra. Agli occhi di Proudhon e di Courbet realismo e rivol-
ta politica sono manifestazioni diverse di uno stesso
atteggiamento, né essi vedono un’essenziale differenza
tra verità sociale e verità artistica. In una lettera del
1851 Courbet dichiara: «Io non sono soltanto un socia-
lista, ma un democratico e un repubblicano, insomma un
partigiano della rivoluzione e anzitutto un realista, cioè
il sincero amico della verità vera»7. E Zola non fa che
sviluppare l’idea di Courbet, quando afferma8: «La
République sera naturaliste ou elle ne sera pas» [«La
repubblica sarà naturalista o non sarà»]. Quindi il rifiu-
to del naturalismo non è, nelle classi dirigenti, che istin-
to di autoconservazione; si sente giustamente che ogni
arte che osi ritrarre la vita senza pregiudizi né remore,
è di per sé un fatto rivoluzionario. Questo pericolo è
avvertito dai conservatori anche piú nettamente che
dall’opposizione9. Gustave Planche nella «Revue des
Deux Mondes» dice esplicitamente che l’opposizione al
naturalismo è una professione di fede nell’ordine costi-
tuito e, rifiutandolo, si rifiuta a un tempo il materiali-
smo e la democrazia10.
La critica conservatrice degli anni fra il ’50 e il ’60
adduce contro il naturalismo tutti i noti argomenti e
cerca di dissimulare sotto il manto dell’estetica i pre-
giudizi sociali e politici che determinano il suo atteg-
giamento. Il naturalismo, dicono, non ha ideali né
morale superiore, sguazza nel brutto e nel volgare, nel
morboso e nell’osceno, è un’indiscriminata, servile imi-
tazione del vero. Ma quel che li turba non è evidente-
mente il grado, ma l’oggetto dell’imitazione. Sanno fin

Storia dell’arte Einaudi 149


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

troppo bene che Courbet, distruggendo la kalokagathìa


classico-romantica ed eliminando il vecchio ideale di
bellezza mantenutosi quasi intatto, pur fra rivoluzioni
e mutamenti sociali, fin verso il 1850, propugna un’u-
manità nuova e un nuovo ordine di vita. Sentono che
la deformità dei suoi contadini e dei suoi operai, la vol-
gare corpulenza delle sue borghesi è una protesta con-
tro la società esistente e che «il dispregio dell’ideali-
smo» e «il grufolare nel fango» sono le armi rivoluzio-
narie della pittura naturalista. Millet celebra con la sua
pittura l’apoteosi del lavoro manuale, e dei contadini fa
gli eroi di una nuova epopea. Daumier descrive il bor-
ghese conservatore, ostinato e ottuso, ne deride la poli-
tica, la giustizia, i piaceri, e svela tutta la spettrale com-
media che si cela dietro il suo decoro. È evidente che
la scelta dei temi qui è determinata da motivi politici
piú che artistici.
Persino il quadro di paesaggio diventa una dimostra-
zione contro la cultura della società dominante. Il pae-
saggio moderno nasce veramente come antitesi alla vita
della città industriale; ma quello romantico rappresen-
tava ancora un mondo autonomo, il quadro di una vita
irreale, ideale, senza alcun diretto rapporto con quella
quotidiana. Era un mondo cosí diverso dalla scena della
realtà contemporanea, che lo si concepiva come antite-
si ad essa, difficilmente come protesta. Invece il paysa-
ge intime della pittura moderna ritrae un ambiente che
per la sua intimità e quiete, è, sì, affatto diverso dalla
città, ma pur cosí vicino ad essa per il suo carattere sem-
plice, antiromantico, quotidiano, da indurre spontanea-
mente al confronto. Le vette montane e gli specchi mari-
ni dei romantici, e anche i boschi e i cieli di Constable,
avevano in sé qualcosa di favoloso, di mitico; invece i
pittori di Barbizon ci mostrano radure e bordi di fore-
ste cosí naturali e familiari, cosí accessibili al nostro
piacere, che a un abitante della città moderna debbono

Storia dell’arte Einaudi 150


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sempre apparire come un ammonimento e un rimpro-


vero. La scelta di questi motivi comuni, «non poetici»
rivela lo stesso spirito democratico che affiora nei tipi
di Courbet, Millet e Daumier; con la sola differenza che
i paesisti sembrano dire: la natura è bella sempre e dap-
pertutto, per avvedersene non occorrono motivi «idea-
li»; mentre i pittori di figura vogliono provare che l’uo-
mo è brutto e miserabile, l’oppresso come l’oppressore.
Ma il paesaggio dei naturalisti, pur cosí schietto e sem-
plice, diventa presto convenzionale com’era stato quel-
lo dei romantici. Questi dipingevano la poesia del
boschetto sacro, i naturalisti la prosa della vita campa-
gnola: la radura con le bestie al pascolo, il fiume con la
chiatta, il campo con la bica di fieno. Anche qui, come
sovente nella storia dell’arte, il progresso sta piú nel rin-
novarsi, che nello scomparire dei motivi tradizionali. I
mutamenti piú radicali derivano dal principio della pit-
tura «all’aria aperta», che del resto non viene messo in
pratica subito e quasi mai coerentemente e si limita per
lo piú a «dar l’impressione» che il quadro sia dipinto
all’aria aperta. Anche l’idea di questa tecnica ha alla sua
base, oltre i palesi elementi scientifici, un fondo etico-
politico, quasi a significare: «Fuori, all’aria libera, alla
luce della verità!»
Il carattere sociale della nuova arte si esprime anche
in una piú marcata tendenza dei pittori a raggrupparsi,
a fondare colonie di artisti, a condurre vita in comune.
La «scuola di Fontainebleau» che non è una scuola né
una conventicola, ma un gruppo fluido, dove i membri
seguono ciascuno la propria via e sono uniti solo dalla
serietà degli intenti, rappresenta già lo spirito collettivo
dei tempi nuovi. E le successive confraternite e colonie
di artisti, i comuni tentativi di riforma e i gruppi d’a-
vanguardia dell’Ottocento esprimono sempre la stessa
tendenza alla coalizione e alla cooperazione. La coscien-
za della propria funzione storica, la percezione del senso

Storia dell’arte Einaudi 151


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e delle necessità dell’ora, intuizioni del romanticismo,


guidano ormai la mente degli artisti. La frase di Cour-
bet, «faire de l’art vivant» [«Far dell’arte viva»] e il
motto attribuito a Daumier, «Il faut être de son temps»
[«Bisogna essere del proprio tempo»] dicono una cosa
sola: il desiderio di rompere l’isolamento romantico e
riscattare l’artista dal suo individualismo.
Anche il fatto che la litografia assurga ora a espres-
sione d’arte è un sintomo di questa tendenza sociale.
Essa non corrisponde soltanto a quella democratizza-
zione del godimento artistico che in letteratura si è
attuata col romanzo d’appendice, ma segna il trionfo
dello spirito popolare e del giornalismo a un livello
incomparabilmente piú alto. Il giornalismo pittorico di
Daumier è anche uno dei vertici dell’arte del tempo,
mentre il romanzo d’appendice di Balzac segna uno sca-
dimento dell’autore e non giunge ad elevare il livello
generale.
I naturalisti rappresentavano veramente il loro tempo,
o almeno, se non tutto, la parte maggiore e piú impor-
tante del pubblico contemporaneo? La maggioranza di
coloro che ordinavano, compravano o giudicavano pub-
blicamente i quadri, che dirigevano le accademie e deci-
devano sulle opere da esporre, no certamente. Le idee
artistiche di costoro erano in genere piuttosto liberali, ma
la loro tolleranza cessava di fronte al naturalismo. Essi
amavano e favorivano l’accademico idealismo di Ingres
e della sua scuola, la romantica pittura aneddotica di
Decamps e di Meissonier, gli eleganti ritratti di Win-
terhalter e di Dubufe, i quadroni pseudobarocchi di Cou-
ture e di Boulanger, le decorazioni mitologico-allegoriche
di Bouguereau e di Baudry11, cioè la forma grande, fasto-
sa, ma vuota, in tutte le sue variazioni. Invece per le
opere dei naturalisti non c’era posto in quelle case piene
di mobili e di drappeggi, né negli arcaizzanti saloni di
rappresentanza. L’arte moderna fu bandita e cominciò a

Storia dell’arte Einaudi 152


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

perdere ogni funzione pratica. La stessa distanza che si


nota tra la pittura naturalistica e l’elegante «decorazio-
ne murale» si riscontra anche tra poesia e letteratura
amena, tra musica seria e musica leggera. Al pari della
pittura progressista, erano prive di un’effettiva funzio-
ne anche la letteratura e la musica non destinate al puro
divertimento. Finora anche le opere letterarie piú valide
e piú serie, come i romanzi di Prévost, Voltaire, Rous-
seau e Balzac, avevano trovato un pubblico relativa-
mente vasto, anche se spesso indifferente alla qualità
artistica. Ma ora la letteratura cessa di essere a un tempo
arte e divertimento, e di soddisfare con le stesse opere
le esigenze di ceti di diversa cultura.
Le opere piú valide non sono piú considerate lettura
amena e perdono ogni attrattiva per il lettore comune,
a meno che non lo attirino per qualche particolare moti-
vo e ottengano un successo di scandalo, come ad esem-
pio Madame Bovary di Flaubert. Un’adeguata conside-
razione queste opere la trovano solo in un gruppo esi-
guo di letterati e d’intellettuali, e anche questa può
chiamarsi «arte di atelier», come tutta la pittura pro-
gressista: è una letteratura destinata a specialisti, artisti
ed esperti. Lo straniarsi degli artisti dal presente e la loro
rinunzia a ogni comunione col pubblico va tant’oltre,
ch’essi non solo accettano l’insuccesso come cosa natu-
rale, ma considerano il successo come segno di scarso
valore artistico, e scorgono proprio nell’incomprensione
dei contemporanei una promessa d’immortalità.
Il romanticismo ancora conservava in sé un elemen-
to popolare capace di parlare a ceti piuttosto vasti; il
naturalismo invece, almeno nelle opere piú notevoli,
non ha nulla che sappia attrarre il gran pubblico. Con
la morte di Balzac termina l’età romantica; è, vero che
l’arte di Victor Hugo è ancora nel suo pieno sviluppo,
ma come grande movimento letterario il romanticismo
è ormai concluso. Il ripudio dell’ideale romantico da

Storia dell’arte Einaudi 153


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

parte dei piú eminenti scrittori segna anche la comple-


ta rottura con i gruppi autorevoli del pubblico e della cri-
tica. La partie de résistance [La parte dei resistenti], che
in letteratura corrisponde al partito dell’ordine, è piú
favorevole al romanticismo di quanto lo sia al naturali-
smo, che pur ne è la diretta conseguenza storica. La cri-
tica conservatrice combatte lo spirito della rivolta in
ogni forma, romantica o naturalistica, e antepone la
ragionevolezza a ogni specie di spontaneità; esige però
dalla poesia l’espressione di «puri sentimenti» e consi-
dera la «profondità» come il criterio dell’arte vera. Ma
quest’estetica del sentimento non è che una nuova
forma, sebbene non sempre chiarissima, dell’antica
kalokagathìa; essa si fonda sulla presunta identità di
spontaneità sentimentale e validità morale nella vita psi-
chica e postula una mistica corrispondenza fra il bene e
il bello.
L’effetto morale dell’arte è il suo piú importante
assioma e l’artista educatore il suo piú alto ideale. L’at-
teggiamento della ricca borghesia a proposito de l’art
pour l’art si è nuovamente modificato. Dopo una prima
ripulsa, e un successivo consenso, ora si dichiara defi-
nitivamente ostile all’arte «pura», moralmente indiffe-
rente. Fiaccata la ribellione dell’artista, non c’è piú nulla
da temere, se anche egli s’immischia di questioni prati-
che; l’art pour l’art può esser buttata a mare, e si può tor-
nare a riconoscere all’artista la funzione di guida spiri-
tuale. La minaccia ora viene dal naturalismo; ma poiché
i suoi esponenti propugnano, se non l’art pour l’art, una
trattazione spregiudicata e senza riguardi delle questio-
ni morali, cioè un amoralismo artistico, la condanna de
l’art pour l’art coinvolge anche loro. Il governo include
anche l’arte e gli artisti nel suo programma di educazione
e di correzione. I caporedattori e i critici delle grandi
riviste e dei giornali, i Buloz, i Bertin, Gustave Planche,
Charles Rémusat, Arnaud de Pont-Martin, Émile

Storia dell’arte Einaudi 154


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Montégut sono le maggiori autorità del regime; i suoi piú


illustri poeti sono Jules Sandeau, Octave Feuillet, Étmi-
le Augier e Dumas figlio; università e accademie sono le
sue scuole e i suoi laboratori per questa igiene spiritua-
le; il procuratore generale e il prefetto di polizia, i custo-
di dei suoi principî morali. Gli esponenti del naturali-
smo hanno da lottare contro l’ostilità della critica fin
verso il 1860, contro l’università per tutta la vita. L’ac-
cademia rimane chiusa per loro, né possono mai conta-
re su aiuti dello stato. Flaubert e i fratelli Goncourt ven-
gono denunziati per offese alla morale, a Baudelaire
viene inflitta una forte multa.
Il processo contro Flaubert e il successo strepitoso di
Madame Bovary (1857) decidono la battaglia in favore
del naturalismo. Il pubblico si appassiona e presto anche
la critica cede le armi; solo i piú cocciuti e miopi rea-
zionari restano all’opposizione. Questa volta sono i let-
tori a imporre il nuovo gusto ai critici, anche se l’inte-
resse del pubblico non ha cause puramente artistiche.
Sainte-Beuve, sensibilissimo alle oscillazioni delle ten-
denze intellettuali, ritorna al suo liberalismo di gio-
ventú. Egli si associa al gruppo di Taine, Renan, Berthe-
lot e Flaubert, critica il governo e proclama il trionfo del
naturalismo. Questa sua conversione, che è nello stesso
tempo politica e artistica, è acutamente sintomatica per
la situazione intellettuale; essa prova che il naturalismo,
pur diviso nei due campi della bohème e dei rentiers, ha
le sue radici nel liberalismo. Neppure di Flaubert, con-
servatore in politica, si può affermare che rappresenti
una posizione reazionaria, antisociale e antiliberale. La
sua opposizione al sistema politico del Secondo Impero
e all’opportunismo della borghesia, come si esprime
soprattutto nell’Education sentimentale, certo rispecchia
il suo pensiero meglio della diffamazione della demo-
crazia, che fa nelle sue lettere spesso troppo impulsive
e contraddittorie. La critica sociale avversa al regime è

Storia dell’arte Einaudi 155


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un tratto comune a tutta la letteratura naturalistica, e


Flaubert, Maupassant, Zola, Baudelaire e i Goncourt,
pur diversamente orientati in politica, sono perfetta-
mente concordi nel loro non-conformismo12. Il «trionfo
del realismo» si ripete e i suoi esponenti contribuisco-
no tutti a minare le basi della società esistente. Nelle sue
lettere, Flaubert deplora piú volte la soppressione della
libertà e l’odio contro le tradizioni della grande rivolu-
zione13. Egli è un aperto avversario del suffragio uni-
versale e dell’egemonia delle masse incolte14, ma non
certo un alleato della borghesia dominante. Le sue opi-
nioni politiche sono spesso ingenue e confuse, ma espri-
mono sempre un onesto intento razionalistico e reali-
stico e un atteggiamento alieno da ogni utopia, sia pur
quella dei benefattori del popolo e dei fanatici del pro-
gresso. Del socialismo gli repugnano non tanto gli aspet-
ti materialistici, quanto quelli irrazionali15. Per timore
d’ogni dogmatismo, d’ogni fede cieca, d’ogni sorta di
vincoli, egli respinge ogni attivismo politico e combat-
te contro tutto ciò che possa distoglierlo dalla sua cer-
chia strettamente privata16. Per timore d’illudersi, diven-
ta un nichilista. Ma si sente legittimo crede della Rivo-
luzione e dell’illuminismo e imputa la decadenza dello
spirito alla fatale vittoria di Rousseau su Voltaire17.
Flaubert si aggrappa al razionalismo come all’ultimo
resto del Settecento antiromantico, e basta pensare alla
patologica angoscia del nostro tempo per capire il senso
del suo ammonimento di fronte alle tendenze irrazionali
e suicide del romanticismo di origine rousseauiana. «Di
quale colpa dovrebbero rispondere gli uomini?», scrive
a una malata di nervi, che si tormenta con fissazioni reli-
giose e rimorsi18. Pare un grido d’allarme, un ultimo
tentativo di mantenersi in equilibrio in un mondo
minacciato da ogni parte. La lotta di Flaubert con lo spi-
rito del romanticismo, il suo continuo oscillare di fron-
te ad esso, che gli dà sempre il senso di essere un tradi-

Storia dell’arte Einaudi 156


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tore, non è che una manovra per conservare tale equili-


brio. Tutta la sua vita e la sua opera oscillano tra due
poli, tra le inclinazioni romantiche e l’autodisciplina, la
nostalgia della morte e la volontà di restar vivo e sano.
Egli, che è un provinciale, è vicino al romanticismo,
ormai un po’ fuori moda, piú dei suoi coetanei parigi-
ni19, e ancora passati i vent’anni vive nel mondo fittizio
e nella surriscaldata atmosfera spirituale di una gioventú
strappata alle sue radici e fuor del suo tempo. Piú tardi
egli ricorda spesso in quale paurosa condizione, minac-
ciato dalla follia e dal suicidio, si trovasse allora con i
suoi amici20 e come riuscisse a salvarsi soltanto con uno
sforzo inaudito di volontà e un’autodisciplina ferrea e
spietata. Fino alla crisi, subita a ventidue anni, egli è un
uomo tormentato da visioni, depressioni, da una furia
selvaggia di sentimenti; è un malato che va incontro alla
catastrofe per la sua eccitabilità e sensibilità. La sua
vita tutta dedita all’arte, il carattere regolare e intran-
sigente del suo lavoro, il rigore inumano che assume in
lui l’indirizzo de l’art pour l’art, il tono impersonale del
suo stile, insomma tutta la sua teoria e la sua prassi di
artista non sono che uno sforzo disperato per salvarsi
dalla rovina certa. L’estetismo assume in lui, sul piano
psicologico, la stessa funzione che aveva avuto per i
romantici su un piano sociologico: la funzione di fuga
dalla realtà ormai insopportabile.
Flaubert si libera dal romanticismo; e arriva a supe-
rarlo rappresentandolo poeticamente, trasformandosi da
amante soggiogato, in analista e critico del movimento.
Egli contrappone alla realtà della vita quotidiana il
mondo dei sogni romantici e diventa naturalista per
rivelarne il carattere falso e malsano. Ma non si stanca
mai di dire quanto odii la volgarità quotidiana e gli
spiaccia il naturalismo di Madame Bovary e de L’Educa-
tion sentimentale, e quanto gli sembri puerile tutta la dot-
trina. E tuttavia egli è il primo vero scrittore naturali-

Storia dell’arte Einaudi 157


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sta, il primo a dare nelle sue opere un quadro – della


realtà rispondente alle teorie del naturalismo. Sainte-
Beuve riconosce con sguardo sicuro le conseguenze della
svolta che Madame Bovary rappresenta nella storia della
letteratura francese: «Flaubert adopera la penna come
altri il bisturi», scrive nella sua recensione, e caratterizza
il nuovo stile come il trionfo di un anatomico e di un
fisiologo nell’arte21. Dalle opere di Flaubert, Zola deri-
va tutta la sua teoria del naturalismo e considera l’au-
tore di Madame Bovary e de L’Education sentimentale
come il padre del romanzo moderno22. Flaubert, soprat-
tutto di fronte alle esagerazioni e agli effetti violenti di
Balzac, rappresenta la totale rinunzia all’azione melo-
drammatica, avventurosa, e anche soltanto appassio-
nante; descrive con amore la vita quotidiana monotona,
uguale, piatta; evita ogni estremo nel dar forma ai per-
sonaggi, astenendosi dall’accentuare in loro il bene o il
male; rinunzia ad ogni tesi, ad ogni morale, ad ogni ten-
denza, insomma ad ogni indiretto intervento negli avve-
nimenti e ad ogni diretta interpretazione dei fatti.
Questa sua impersonalità e imparzialità non deriva-
no però esclusivamente dai principî del naturalismo, né
rispondono solo all’esigenza estetica che l’oggetto del-
l’opera d’arte agisca come realtà immediata e non per-
ché raccomandato dall’autore; la sua non è soltanto una
reazione agli eccessi di Balzac e un ritorno al concetto
dell’opera come un microcosmo in sé conchiuso, un
sistema in cui «l’autore, come Dio nell’universo, dev’es-
sere sempre presente e mai visibile»23. Né si tratta sol-
tanto della convinzione, da allora cosí spesso ripresa e
riaffermata – dai Goncourt, da Maupassant, Gide,
Valéry e altri – che dei piú bei sentimenti si fanno i versi
peggiori, e la partecipazione personale, la schietta com-
mozione, il sussulto dei nervi e le lacrime agli occhi non
fanno che pregiudicare l’acutezza dello sguardo; no,
l’impassibilità di Flaubert non è solo un principio tec-

Storia dell’arte Einaudi 158


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nico, ma piuttosto contiene un’idea nuova, una nuova


morale per l’artista. Il suo «Nous sommes faits pour le
dire et non pour l’avoir» [«Siamo fatti per dirlo, non per
averlo»] è la formulazione estrema e intransigente di
quella rinunzia alla vita da cui è nato il romanticismo
come visione artistica e filosofica; ma, dato il suo inti-
mo dissidio, è nello stesso tempo il piú netto rifiuto del
romanticismo. Infatti, quando Flaubert proclama che la
poesia non è «la schiuma del cuore» egli vuol salvare la
purezza del cuore come quella della poesia.
Dal riconoscimento che la confusa, esaltata, roman-
tica sensibilità della sua giovinezza era in procinto di
distruggerlo come artista e come uomo, Flaubert derivò
un nuovo metodo di vita e una nuova estetica. «Ci sono
bambini, – scrive nel 1852, – su cui la musica agisce sfa-
vorevolmente; hanno gran disposizione, ricordano le
melodie sentite una volta sola, il pianoforte li eccita, dà
loro il batticuore; si fanno magri e smunti, si ammalano
e; quando sentono musica, i loro poveri nervi spasima-
no come quelli dei cani. Fra questi bimbi si cercheran-
no invano i Mozart del futuro. In loro il talento si è stra-
volto, l’idea è passata nella carne, dov’è sterile, e per la
carne esiziale...»24. Flaubert non sospettava quanto
romantiche fossero quella distinzione di «idea» e
«carne», e la sua rinunzia alla vita per amore dell’arte;
e non si accorse mai che la soluzione vera, antiromanti-
ca del suo problema, soltanto la vita poteva offrirla. La
personale soluzione che egli ne tenta rientra tuttavia tra
i grandi atteggiamenti simbolici dell’umanità occiden-
tale; essa rappresenta l’ultima incarnazione importante
della concezione romantica, quella in cui il romanticismo
viene negato provocando negli intellettuali borghesi la
coscienza della loro incapacità a dominare la vita e fare
dell’arte uno strumento per la vita. Come ha sottoli-
neato Brunetière, l’autoavvilimento è connaturato alla
psicologia borghese25, ma occorre aggiungere che auto-

Storia dell’arte Einaudi 159


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

critica e autonegazione diventano un fattore decisivo


nella vita culturale soltanto dal tempo di Flaubert. I bor-
ghesi della monarchia di luglio credevano ancora in se
stessi e nella missione della loro arte.
La critica flaubertiana del romanticismo, l’orrore del-
l’esibizionismo romantico, della prostituzione delle pro-
prie esperienze personali e dei piú intimi sentimenti
ricordano l’antipatia di Voltaire per la cruda schiettez-
za di Rousseau. Ma Voltaire era ancora immune da
romanticismo e, quando si opponeva a Rousseau, non
aveva da combattere anche contro se stesso; il suo carat-
tere borghese era chiaro e sicuro. Invece Flaubert è
pieno di contraddizioni e il suo rapporto contradditto-
rio con il romanticismo corrisponde a un rapporto ana-
logo con la borghesia. È stato spesso osservato che l’o-
dio contro il bourgeois è la fonte della sua ispirazione e
l’origine del suo naturalismo. Nella sua mania di perse-
cuzione lo spirito borghese assurge a sostanza metafisi-
ca, una specie di «cosa in sé» impenetrabile, inesauri-
bile. «Il borghese, – egli scrive a un amico, – è per me
qualcosa d’indefinibile»: parola in cui all’idea d’inde-
terminato si unisce quella d’infinito. La scoperta che i
borghesi stessi sono diventati romantici, anzi, per cosí
dire, rappresentano l’elemento romantico per eccellen-
za, e che nessun altro declama con tanta sensibilità e
commozione i versi dei poeti romantici, e le Bovary
sono le ultime rappresentanti dell’ideale romantico, ha
contribuito molto ad allontanare Flaubert dal romanti-
cismo. Ma borghese è la sua indole piú profonda ed egli
lo sa. «Io rinunzio alla posizione del letterato, – egli
dichiara: – ... sono soltanto un borghese che vive in cam-
pagna e si occupa di letteratura»26. Sotto processo per il
suo romanzo, egli, preparando la propria difesa, scrive
al fratello: «Si deve sapere al Ministero degli Interni che
noi a Rouen siamo quel che si dice una famiglia e abbia-
mo profonde radici nel paese». Ma questo aspetto di

Storia dell’arte Einaudi 160


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Flaubert si esplica anzitutto nel suo modo di lavoro


strettamente disciplinato, nell’antipatia per il disordine
della creazione «geniale.». Egli cita le parole di Goethe
sull’«esigenza quotidiana» e si fa un dovere di esercita-
re il mestiere di scrittore come una professione metodi-
ca, indipendente dalla voglia, dall’ispirazione e dall’u-
more. Ma la sua monomania, il suo sforzo per la forma
perfetta, il suo estetismo concreto nascono da questa
concezione borghese-artigiana dell’attività artistica.
Com’è noto, l’art pour l’art risponde solo in parte al
senso romantico della vita, avulsa dalla società e dalla
pratica; per certi aspetti esprime anzi un’etica del lavo-
ro schiettamente borghese e artigiana, tutta volta all’e-
secuzione27. L’antipatia di Flaubert per il romanticismo
è strettamente connessa con la sua avversione all’artista
come tipo, con la sua ripugnanza per i sognatori e gli
idealisti irresponsabili. Nell’artista e nel romantico egli
combatte la personificazione di un costume, che gli pare
minacci tutta la sua esistenza morale. Egli odia il bor-
ghese, ma ancor piú il vagabondo. Egli sa che negli arti-
sti c’è sempre un elemento distruttore, una forza disgre-
gatrice e antisociale. Sa che l’artista nella vita tende
all’anarchia e al caos e che il suo lavoro, già per il moven-
te irrazionale da cui nasce, cerca di sottrarsi ad ogni
ordine e ad ogni disciplina, ad ogni perseveranza e sta-
bilità. Quel che già sentiva Goethe28, e di cui Thomas
Mann farà il problema centrale della sua psicologia del-
l’artista – cioè l’inclinazione dell’artista al patologico e
al criminale, il suo esibizionismo spudorato, il suo istrio-
nismo senza dignità, insomma tutta l’esistenza di vagans
cui è obbligato – deve aver profondamente turbato e
oppresso Flaubert. L’ascesi, ch’egli s’impone, la dili-
genza artigianesca, quel monastico celarsi dietro l’ope-
ra, debbono in definitiva testimoniare della sua serietà,
della sua decenza e probità borghese, che non ha nien-
te di comune con il «panciotto rosso» di Gautier. Il pro-

Storia dell’arte Einaudi 161


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

letariato artistico è ormai diventato un fatto sociale non


trascurabile; la borghesia lo sente come un pericolo rivo-
luzionario e gli scrittori borghesi solidarizzano con lei
contro questo pericolo, come piú tardi contro la Comu-
ne, che sveglia in loro tutti gli istinti borghesi repressi.
Tuttavia una dottrina come l’estetismo flaubertiano
non è una soluzione chiara, definitiva, ma una forza dia-
lettica che, mutando direzione, mette in dubbio la sua
stessa validità. Contro l’irruenza romantica della sua
gioventú, Flaubert cerca quiete e riparo nell’arte; ma in
questa funzione essa prende proporzioni fantastiche e
figura demoniaca. Non solo soppianta ogni altra cosa che
possa appagare l’anima e placarla, ma diventa il princi-
pio stesso della vita. Pare che solo essa abbia realtà,
costituisca un punto fermo nel flusso di ciò che passa e
dilegua, si corrompe e si dissolve. La dedizione della vita
all’arte assume qui un carattere mistico-religioso; non è
piú semplicemente servizio o sacrificio, ma un fissarsi,
estatici, all’unica realtà, un dissolversi e un annullarsi
nell’idea. «L’art, la seule chose vraie et bonne de la vie»
[«L’arte, la sola cosa vera e buona della vita»] scrive
Flaubert all’inizio della sua carriera29; e alla fine30:
«L’homme n’est rien, l’œuvre tout» [«L’uomo non è
nulla, l’opera è tutto»]. Il virtuosismo artigianesco, l’e-
saltazione della maestria tecnica in contrasto con il dilet-
tantismo romantico, in origine esprimeva il desiderio
d’inserirsi in un saldo ordine di vita sociale; l’ultimo
estetismo di Flaubert è invece un nichilismo antisocia-
le e avverso alla vita, una fuga da tutto ciò che è con-
nesso con la pratica e con l’uomo di carne e d’ossa. Vi
si esprime l’estremo disprezzo del mondo, l’estrema
ripulsa. «La vita è cosí orribile, – geme Flaubert, – che
la si può sopportare soltanto fuggendola. E lo si fa viven-
do nell’arte»31. «Nous sommes faits pour le dire et non
pour l’avoir», è un crudele messaggio, l’accettazione di
un destino infelice, inumano. «Tu potrai descrivere il

Storia dell’arte Einaudi 162


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vino, l’amore, le donne, la gloria soltanto se non sei


bevitore, né amante, né sposo, né soldato», scrive Flau-
bert, e soggiunge che l’artista «è qualcosa di mostruoso
e innaturale». Il romantico era troppo intimamente lega-
to alla vita, al desiderio di vita; egli era tutto sentimen-
to e natura. Per Flaubert l’artista non ha piú alcun diret-
to rapporto con la vita; non è che un automa, un’astra-
zione, qualcosa d’inumano e contro natura.
Nell’opposizione al romanticismo l’arte ha perduto
ogni carattere spontaneo, è ormai divenuta un premio
che l’artista deve conquistare lottando con se stesso, con
la sua origine romantica, le sue inclinazioni e i suoi
impulsi. Per attività artistica, finora s’intendeva, se non
proprio un abbandono intero al proprio talento, alme-
no un lasciarsene guidare; ora l’opera ha sempre l’aria
di un tour de force, di un prodotto dello sforzo, di una
conquista nella lotta contro se stessi. Faguet osserva
che lo stile epistolare di Flaubert è ben diverso da quel-
lo dei romanzi e che il bello stile e la lingua corretta non
gli riescono affatto agevoli e naturali32. Nulla illumina la
distanza fra l’uomo e l’artista piú nitidamente di questa
constatazione. Pochi sono gli scrittori di cui si conosca
cosí bene il metodo di lavoro, ma non ce n’è sicuramente
alcuno che abbia scritto le sue opere con tanto tormen-
to e spasimo, contrastando cosí aspramente ai propri
istinti. Ma quella continua lotta con la lingua, la lotta
per trovare la parola giusta, l’unica giusta, non è che il
segno di un’invalicabile distanza tra il «possedere» la
vita e il «raccontarla». Non c’è parola, come non c’è
forma, che sia l’unica giusta; sono invenzioni di esteti,
per i quali la funzione vitale dell’arte è del tutto perdu-
ta. «Io preferisco crepare come un cane piuttosto che
precipitare anche di un istante la mia frase, prima che
sia matura»; non parla cosí uno scrittore che abbia con
l’opera sua uno spontaneo rapporto umano. Lo Shake-
speare di Matthew Arnold sorriderebbe di questi scru-

Storia dell’arte Einaudi 163


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

poli nell’Eliso. Il lamento sulla lotta quotidiana che stor-


disce il cuore, il cervello e i nervi, sulla vita da forzato
in catene che è costretto a fare, è il motivo dominante
delle lettere di Flaubert. «Da tre giorni mi sbatto su
tutti i mobili, perché mi venga in mente qualcosa», scri-
ve nel 1853 a Louise Colet33. «Non riesco piú a distin-
guere i giorni della settimana... faccio una vita da pazzo,
assurda... È il nulla puro, assoluto», scrive nel 1858 a
Ernest Feydeau34. «Lei non sa quel che vuol dire star lì
a sedere tutta una giornata, con il capo fra le mani per
spremersi una parola dal povero cervello», scrive nel
1866 a George Sand35. Col suo orario regolare di sette
ore al giorno egli scrive una pagina al giorno, poi venti
pagine in un mese, poi due pagine in una settimana. È
una cosa pietosa. «La rage des phrases t’a desséché le
cœur» [«La smania delle frasi ti ha inaridito il cuore»],
gli dice la madre, e forse nessuno ha detto di lui cosa piú
crudele e piú giusta. Il peggio è che Flaubert, nonostante
il suo estetismo, dubita anche dell’arte. In fondo, forse
non è che un gioco di birilli, forse è tutta ciarlataneria,
osserva egli una volta36. La sua incertezza, il suo lavoro
sforzato e tormentato, a cui manca del tutto la spensie-
ratezza degli antichi scrittori, derivano dal fatto che
egli sente l’opera sua sempre in pericolo e non gli riesce
di crederci veramente. «Quel che faccio adesso, –
dichiara mentre lavora a Madame Bovary, – può facil-
mente diventare qualcosa alla Paul de Kock... In un
libro come questo una riga fuor di posto può allontana-
re dalla meta...»37. E mentre scrive L’Education senti-
mentale: «Quel che mi spinge alla disperazione è il senso
di far qualcosa d’inutile, contrario all’arte»38. Diventa
una formula fissa nelle sue lettere dire ch’egli si occupa
di cose che non gl’importano, e che non riesce mai a scri-
vere quel che realmente vorrebbe, né come vorrebbe39.
La frase di Flaubert: «Madame Bovary, c’est moi» è
doppiamente vera. Spesso dovette sembrargli che non

Storia dell’arte Einaudi 164


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

solo il romanticismo dei primi anni, ma anche la reazione


critica ad esso, la funzione di giudice che esercitava pro-
prio nell’atto stesso della sua creazione fosse un falsifi-
care la vita. Proprio perché egli visse cosí intensamente
il problema di questa menzogna, la crisi dell’autoingan-
no, la deformazione della propria personalità, Madame
Bovary è un’opera d’arte cosí vera e attuale. Con la pro-
blematica del romanticismo vennero in luce tutti i pro-
blemi dell’uomo moderno che fugge il presente, rifiuta
il luogo che dovrebbe esser suo, cerca quel che è lonta-
no, perché teme la responsabilità di quel che è prossimo
e attuale. L’analisi del romanticismo portò a diagnosti-
care la malattia di tutto il secolo, a scoprire la nevrosi
le cui vittime non hanno mai chiara coscienza del loro
stato e, sempre desiderose di essere nei panni altrui, non
si vedono come sono, ma come vorrebbero essere. In
questo autoinganno e in questa falsificazione della vita,
in questo bovarismo, come è stata chiamata la sua filo-
sofia40, Flaubert vede l’essenza della soggettività moder-
na, che deforma tutto quel che tocca. Il senso che noi
possediamo la realtà attraverso deformazioni, imprigio-
nati nelle forme soggettive del nostro pensiero, trova in
Madame Bovary la prima espressione artistica. Di qui una
via diritta e quasi continua mena all’illusionismo di
Proust41. La trasformazione della realtà attraverso la
coscienza, a cui già accennava Kant, assunse nel corso
dell’Ottocento carattere di un inganno ora piú o meno
cosciente, ora del tutto inconscio, e si tentò di spiegar-
la e di smascherarla in teorie quali il materialismo sto-
rico e la psicanalisi. Con la sua interpretazione del
romanticismo, Flaubert appartiene alla schiera dei gran-
di rivelatori e smascheratori del secolo, quindi agli ini-
ziatori della moderna concezione introspettiva.
I due maggiori romanzi flaubertiani, la storia della
piccola provinciale che il suo romanticismo rende inet-
ta alla vita, e quella del giovane borghese agiato, di

Storia dell’arte Einaudi 165


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

media intelligenza, che disperde le sue forze intellettuali


e le sue capacità, sono strettamente connessi. Frédéric
Moreau è stato detto il figlio spirituale di Emma Bovary;
ma entrambi sono frutto di quella «stanca civiltà»42 in
cui si muove la vita della borghesia arrivata al potere.
Entrambi incarnano la stessa confusione sentimentale e
rappresentano lo stesso tipo di «falliti» cosí caratteri-
stico per quella generazione di eredi. Zola vide nell’E-
ducation sentimentale il romanzo moderno per eccellen-
za; e infatti, come storia di una generazione, segna l’ac-
me di uno sviluppo che si era iniziato con il Rouge et noir
e proseguito ne La comédie humaine. È un romanzo
«storico», cioè un romanzo dove protagonista è il
tempo, sia come l’elemento che determina e anima i per-
sonaggi, sia come il principio che li consuma, li annien-
ta, li inghiotte. Il romanticismo ha scoperto il tempo
come realtà creativa; la lotta antiromantica svela il
tempo come forza corruttrice, che mina la vita e logora
gli uomini. La constatazione di Flaubert, che «nella vita
non sono da temere le grandi sventure, ma le piccole»43,
che, in altre parole, non si cade abbattuti dai nostri
maggiori e piú sconvolgenti disinganni, ma ci si consu-
ma lentamente insieme con le nostre speranze e le nostre
ambizioni, è la realtà piú triste. Questo graduale, imper-
cettibile, inarrestabile languire, che mina silenziosa-
mente la vita senza produrre neppure lo schianto delle
grandi, imponenti catastrofi, è l’esperienza su cui s’im-
pernia L’Education sentimentale e, si può dire, tutto il
romanzo moderno; esperienza che, per il suo carattere
non tragico, anzi neppur drammatico, può esprimersi
soltanto in forma narrativa. L’egemonia del romanzo
nella letteratura dell’Ottocento si spiega specialmente
perché il senso dell’irresistibile appiattimento e inaridi-
mento della vita e l’idea del tempo come forza distrut-
tiva si sono impadroniti interamente degli animi. Il
romanzo sviluppa i suoi principî dal concetto del tempo

Storia dell’arte Einaudi 166


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che rode e distrugge, come la tragedia li aveva tratti dal-


l’idea dell’eterno destino che annienta l’uomo d’un
colpo. E come in questa il fato possiede sovrumana
grandezza e forza metafisica, così, nel romanzo, enorme
e quasi mitica è la dimensione del tempo. Nell’Educa-
tion sentimentale Flaubert scopre – e in questo consiste
l’importanza storica dell’opera – la costante presenza,
nella nostra vita, del tempo che passa ed è passato. Egli
è il primo a vedere che mutano col tempo il senso e il
valore delle cose, che esse possono diventare per noi
significative e importanti solo perché sono parte del
nostro passato, e in questa funzione il loro valore è
affatto indipendente dal loro effettivo contenuto e dai
loro rapporti obiettivi. Ma questa rivalutazione del pas-
sato e l’implicito conforto che il tempo, che seppellisce
noi e le rovine della nostra vita, lascia trasparire «dap-
pertutto germi e tracce del senso perduto»44, non fa che
esprimere un sentimento romantico: il presente, ogni
presente, è irrilevante e vuoto, e tale fu il passato,
quand’era presente. Questo è il senso delle ultime pagi-
ne de L’Education sentimentale, che sono la chiave di
tutto il romanzo e di tutta la concezione flaubertiana del
tempo. Questo spiega perché l’autore in queste pagine
prenda a caso un episodio del passato del suo eroe e lo
consideri quanto di meglio la vita potesse offrirgli. L’as-
soluta nullità di quell’esperienza, affatto comune e
vuota, significa che nella catena della vita per noi manca
sempre un anello e che ogni particolare della nostra esi-
stenza è pieno della malinconia che deriva dalla sua
assurdità obiettiva e dal senso puramente soggettivo che
gli attribuiamo.
Flaubert segna la massima depressione nella visione
ottocentesca della vita. L’opera di Zola, pur con i suoi
toni cupi, rappresenta già una speranza, una svolta in
senso ottimistico. E Maupassant, sebbene altrettanto
amaro, è tuttavia piú leggero e piú cinico di Flaubert; le

Storia dell’arte Einaudi 167


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sue novelle segnano già, come concezione del mondo, il


trapasso alla letteratura amena borghese, ad una conce-
zione che, quanto a elementi ottimistici e pessimistici,
non è meno complicata e contraddittoria di quella dei
ceti piú umili. Per giudicare rettamente, occorre in que-
sto caso distinguere con chiarezza i sentimenti delle sin-
gole classi sociali di fronte al presente e al futuro. Le
classi in ascesa, sebbene considerino il presente con gran
pessimismo, hanno fiducia nell’avvenire; le classi domi-
nanti, invece, pur nella potenza e nello splendore attua-
le, sovente hanno il cuore stretto da un senso d’immi-
nente rovina. Nelle classi oppresse, ma fiduciose nella
propria ascesa, il pessimismo del presente si unisce all’ot-
timismo del futuro; anche fra i ceti condannati al decli-
no l’immagine del futuro contrasta con quella del pre-
sente, ma con opposti auspici. Perciò Zola, che si sente
solidale con gli oppressi e gli sfruttati, giudica il presente
con assoluto pessimismo, ma non gli manca la speranza
nel futuro. Questo contrasto corrisponde anche alla sua
visione scientifica. Com’egli stesso dichiara, Zola è un
determinista, ma non un fatalista; in altre parole, egli è
perfettamente conscio che il comportamento degli uomi-
ni dipende dalle condizioni materiali della loro vita, ma
non crede che queste siano immutabili. Egli accetta
senza riserve la teoria di Taine sull’importanza dell’am-
biente, anzi la esagera, ma considera particolare compi-
to e meta perfettamente accessibile delle scienze socia-
li il mutamento, il miglioramento – oggi diremmo la
pianificazione – dell’ambiente in cui vivono gli uomini45.
Tutto il pensiero scientifico di Zola ha quest’im-
pronta utilitaristica ed è permeato dallo spirito di rifor-
ma e di progresso civile dell’illuminismo. Anche la sua
psicologia mira a fini pratici; essa è al servizio di un’i-
giene spirituale e parte dalla teoria che anche sulle pas-
sioni si può influire, appena se ne colga il meccanismo.
In Zola giunge all’estremo la visione scientifica propria

Storia dell’arte Einaudi 168


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dei naturalisti. Questi finora consideravano la scienza


come ancella dell’arte; ma Zola inverte il rapporto.
Anche Flaubert crede che l’arte sia giunta a uno stadio
scientifico, e non solo si sforza di descrivere la realtà
secondo la piú esatta osservazione, ma di questa accen-
tua il carattere scientifico, anzi medico. Tuttavia non si
attribuisce mai meriti diversi da quelli artistici, a diffe-
renza di Zola che invece vuol esser considerato uno stu-
dioso e accrescere il proprio valore di artista con la sua
attendibilità scientifica. In questo si ha la stessa divi-
nizzazione della scienza, lo stesso feticismo scientifico
che in genere caratterizza il socialismo ed è proprio di
quei ceti che dal trionfo della scienza sperano la propria
ascesa. Anche per Zola, come per tutta la concezione del
socialismo scientifico, l’uomo è un essere determinato
nei suoi caratteri da leggi ereditarie e ambientali, ed egli
va tant’oltre nel suo entusiasmo per le scienze naturali,
da definire il naturalismo nel romanzo semplicemente
come l’applicazione del metodo sperimentale alla lette-
ratura. Ma qui «esperimento» è solo un parolone privo
di senso, o tutt’al piú equivalente a «osservazione»46.
Nelle teorie letterarie di Zola c’è un po’ di ciarlatane-
ria, eppure i suoi romanzi hanno un certo valore teore-
tico, perché, sebbene non contengano alcuna novità
scientifica, sono opera di un notevole sociologo, come
giustamente è stato sottolineato. E, cosa importantissi-
ma per la storia dello stile, sono il risultato di un lavo-
ro condotto con metodo scientifico, affatto nuovo nel-
l’arte. Di solito l’artista esperimenta il mondo senza un
piano né un sistema prestabilito; si direbbe ch’egli rac-
colga, passando, il suo materiale, dati ed elementi della
vita che si porta via con sé: germi da lasciar crescere e
maturare, per trarre un giorno da quella provvista igno-
ti, insospettati tesori. Lo scienziato invece sceglie la via
opposta. Parte da un problema, cioè da un fatto di cui
egli non sa nulla, o non sa precisamente quello che gl’im-

Storia dell’arte Einaudi 169


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

porta. Per lui comincia, con l’impostarsi stesso del pro-


blema, la raccolta e il vaglio del materiale, cioè una piú
intima conoscenza di quel settore della vita. Non è l’e-
sperienza a portarlo al problema, ma questo all’espe-
rienza. Ecco appunto la via e il metodo di Zola: egli
comincia un nuovo romanzo come quel tal professore un
nuovo corso, documentandosi con cura su un soggetto
che gli è oscuro. E appunto quel che racconta Paul
Alexis sulla preparazione di Nana, sulle esplorazioni di
Zola nel mondo della prostituzione e del teatro, fa veni-
re in mente quel professore.
L’idea complessiva secondo cui Zola costruisce il suo
ciclo romanzesco ha l’aria di un piano per qualche impre-
sa scientifica. Secondo il programma, le singole opere
costituiscono le parti di un grande sistema enciclopedi-
co, di una summa della società moderna. «Io voglio spie-
gare come una famiglia, cioè un piccolo gruppo di esse-
ri, si comporta in una società», scrive nella prefazione
a La fortune des Rougon. E tale società è la Francia deca-
dente e corrotta del Secondo Impero. Non ci può esse-
re per un artista programma piú obiettivo, preciso, scien-
tifico. Ma Zola non sfugge al destino del suo secolo;
nonostante il suo metodo, egli è un romantico, e assai
piú sfrenato degli altri contemporanei, meno radical-
mente naturalisti. Anche il suo modo di razionalizzare
e schematizzare la realtà, unilaterale e non dialettico, è
ardito, acceso romanticismo. E i simboli a cui egli ridu-
ce la varietà molteplice, contraddittoria della vita – la
città, la macchina, l’alcool, la prostituzione, il fondaco,
il mercato, la borsa, il teatro, ecc. – non sono che le
visioni di un sistematico, non affrancato dal romantici-
smo, che al posto di singoli fenomeni concreti vede alle-
gorie. A questa inclinazione si aggiunge il fascino che
ogni cosa grande, gigantesca esercita su di lui. Egli è un
fanatico della massa, del numero, della rozza, compat-
ta, inesauribile realtà di fatto. Egli s’inebria della mate-

Storia dell’arte Einaudi 170


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ria, della realtà pullulante, dello spettacolo grandioso


della vita. Non per nulla è contemporaneo del grand-
opéra e del barone Haussmann.
In quest’epoca dell’alta borghesia e del grande capi-
tale, lo spirito pratico e antiromantico non si rivela nel
naturalismo, bensí nell’idealistica letteratura amena dei
ricchi borghesi. La produzione naturalistica, benché
radicalmente materialista, anzi spesso appunto perché
tale, offre un quadro della realtà sfrenatamente fanta-
stico. Invece il razionalismo e il pragmatismo borghesi
tendono a un’immagine del mondo equilibrata, armoni-
ca, tranquilla. Per soggetti «ideali» la borghesia inten-
de quelli che, servono a calmare, acquetare, sopire. Alla
letteratura spetta il compito di riconciliare con la vita gli
infelici e gli scontenti, velando ai loro occhi la realtà e
introducendoli illusoriamente in un’esistenza da cui sono
e rimangono esclusi. Si mira ad abbagliare, non già illu-
minare. Al romanzo naturalista di Flaubert, di Zola, dei
Goncourt, sempre sconvolgente, eccitante, l’élite socia-
le contrappone i romanzi della «Revue des Deux Mon-
des», specie quelli di Octave Feuillet, dove la vita e le
aspirazioni del gran mondo appaiono il piú alto ideale
dell’umanità civile; dove ancora ci sono veri eroi, forti,
arditi e disinteressati cavalieri, figure ideali che già
appartengono all’alta società, o giovani, che questa è
pronta ad accogliere nel suo seno. Finora, nonostante le
rivoluzioni e i mutamenti sociali, la vita dell’aristocra-
zia veniva sempre descritta con una certa evidenza e
immediatezza; benché sorpassata, essa conservava anco-
ra certi caratteri naturali e spontanei. Ma nei romanzi
d’ora la vita del gran mondo appare come fuori d’ogni
rapporto con la vita reale, in una luce da salotto palli-
da, vaga, gradevolmente smorzata, che ricorda gli odier-
ni film di Hollywood. Feuillet non distingue affatto tra
eleganza e cultura, belle maniere e buone qualità; per lui
buona educazione e nobiltà d’animo sono sinonimi e la

Storia dell’arte Einaudi 171


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fedeltà verso le classi superiori è già prova di una certa


finezza. L’eroe del suo Roman d’un jeune homme pauvre
(1858) incarna la distinzione dei modi e dell’animo; è
bello e generoso, sportivo e intelligente, virtuoso e sen-
sibile, e con la sua povertà prova soltanto che l’inegua-
le distribuzione dei beni materiali non impedisce l’at-
tuarsi degli ideali aristocratici. Si tratta cioè di un vero
e proprio romanzo a tesi, analogo ai drammi di Augier
e Dumas. Vi si proclamano e vi si esaltano i precetti
della morale cristiana, del conservatorismo politico e
del conformismo sociale; vi si combatte il pericolo della
grande passione caotica, della selvaggia disperazione e
della resistenza passiva.
L’ipocrisia borghese va insieme a uno straordinario
abbassamento del livello culturale. Il Secondo Impero,
se dà luogo all’arte di Flaubert e di Baudelaire, è anche
all’origine del cattivo gusto e del ciarpame moderno.
Naturalmente neanche prima mancavano imbrattatele e
poeti senza talento, opere rozze e abborracciate, idee
annacquate e scadenti; ma l’opera deteriore era tale
manifestamente, volgare e priva di gusto, senza pretese
e senza importanza: la sciocchezza ben lisciata, la robac-
cia eseguita con meccanica raffinatezza, non c’erano, o
almeno restavano prodotti secondari. Tutto questo inve-
ce ora diventa norma e la qualità è regolarmente sosti-
tuita dalla vuota apparenza. Si mira a un’arte che si
possa godere con il minimo sforzo e il massimo piacere,
eliminandone difficoltà e complicazioni, ogni elemento
problematico e tormentoso, insomma riducendola ai soli
aspetti piacevoli e lusinghieri. L’arte come svago, nella
quale il pubblico consciamente e di proposito abbassa il
proprio livello mentale, è invenzione di quel tempo;
essa domina in tutte le forme, ma specialmente in quel-
la piú decisamente e schiettamente pubblica: il teatro.
Nel romanzo e nella pittura, accanto alle tendenze
care al gusto borghese, domina il naturalismo; nel tea-

Storia dell’arte Einaudi 172


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tro invece non c’è nulla che si opponga agli interessi e


alle idee della borghesia. Per difendersi dalle correnti
che gli appaiono pericolose, il governo non soltanto si
affida alla maggioranza del pubblico, composta di «ben-
pensanti», ma le combatte con ogni sorta di prescrizio-
ni e divieti. In quanto arte destinata a un gran pubbli-
co, il teatro viene trattato piú severamente degli altri
generi, proprio come oggi il film è soggetto a restrizio-
ni che non si estendono alla scena. Dalla metà del seco-
lo gli sforzi degli scrittori, in armonia con le intenzioni
del governo, mirano a creare uno strumento di propa-
ganda per l’ideologia borghese, per i suoi principî eco-
nomici, sociali e morali. L’avidità di piacere delle clas-
si dominanti, il loro debole per gli spettacoli, la loro
gioia di vedere e di farsi vedere fanno del teatro la tipi-
ca arte del tempo. Nessuna società ne fu cosí amante, e
mai una première ebbe tanta importanza come per il
pubblico di Augier, Dumas e Offenbach47. Questa pas-
sione riesce gradita a coloro che foggiano l’opinione
pubblica, che la incoraggiano e ne confermano le incli-
nazioni e il gusto. Il concetto del pubblico di un Sarcey,
ad esempio, cioè del piú autorevole critico teatrale del
tempo, è senza dubbio strettamente connesso con tale
preoccupazione. La sua affermazione che la sostanza
del teatro è il pubblico e che nell’esecuzione di un dram-
ma si può astrarre da ogni cosa fuor che dallo spettato-
re48, non rispecchia soltanto il generale sviluppo delle
scienze sociali e l’accentrarsi dell’interesse su fenomeni
intellettuali collettivi. Per Sarcey il principio, che, il
pubblico ha sempre ragione è la norma di ogni critica ed
egli vi si attiene, benché sappia benissimo che l’antico
pubblico colto è scomparso da gran tempo, e dei vecchi
habitués, ancora concordi in un vero criterio di gusto,
resta solo un piccolo gruppo, stabile nella sua composi-
zione, di spettatori regolari: il pubblico delle premières49.
Per Sarcey il mutamento sociale, da cui è uscito il pub-

Storia dell’arte Einaudi 173


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

blico del grande teatro moderno, è un processo relati-


vamente nuovo che avviene nell’ambito della stessa bor-
ghesia. Il rapido aumento del pubblico in seguito allo
sviluppo delle ferrovie che riversano a Parigi provincia-
li e stranieri, sostituendo al gruppo discretamente omo-
geneo degli habitués una platea promiscua e occasiona-
le, è un fenomeno su cui insistono, oltre che Sarcey, altri
contemporanei, come la causa principale del mutamen-
to di stile nel teatro50; si tratta però solo dello sviluppo
piú recente, e non certo il piú importante, di un processo
che risale alla Rivoluzione francese.
In Francia, la svolta decisiva nel teatro moderno si
compie con Scribe, che non solo è il primo che sappia
portare sulla scena l’ideologia della borghesia della
Restaurazione, asservita al denaro, ma con la sua com-
media d’intreccio crea lo strumento piú adatto a favo-
rire l’affermazione di tale ideologia. Dumas e Augier
rappresentano soltanto una forma piú evoluta del suo
bon sens ed hanno per la borghesia del 1850 lo stesso
significato che Scribe aveva avuto per la Restaurazione
e la monarchia di luglio. Quello ch’essi proclamano è lo
stesso razionalismo piatto e utilitario, lo stesso ottimi-
smo e materialismo superficiale; ma Scribe era piú one-
sto di loro e senza falsi pudori, senza sentimentalismi,
parlava di denaro, di carriera, di matrimoni, di conve-
nienza, mentr’essi parlano d’ideali, di doveri, di eterno
amore. La borghesia che all’epoca di Scribe era una clas-
se in ascesa e ancora in lotta, ora è ormai giunta alla
meta e, già minacciata dal basso, crede di dover amman-
tare d’idealismo le sue mire materialistiche, rivelando
cosí un timore, che non prova mai chi lotta ancora per
il suo posto nella società.
Per un’idealizzazione della borghesia non si poteva
trovare piedistallo piú adatto dell’istituzione del matri-
monio e della famiglia. Si poteva rappresentarla in
buona fede tra le forme sociali che esprimono i piú puri,

Storia dell’arte Einaudi 174


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

altruistici e nobili sentimenti; e certamente, sciolti gli


antichi vincoli feudali, era l’unica istituzione che potes-
se assicurare stabilità e durata alla proprietà. Comunque,
l’idea della famiglia come scudo della società borghese,
contro le pericolose intrusioni dall’esterno e gli elemen-
ti disgregatori interni, divenne fondamento spirituale
del dramma. E tanto piú si prestava, in quanto la si pote-
va collegare direttamente con il tema amoroso, cosa pos-
sibile con la nuova idea che veniva affermandosi dell’a-
more, che perdeva cosí molti dei suoi elementi roman-
tici. Non doveva essere piú la grande passione selvaggia,
né si doveva accettarlo od esaltarlo come tale. I roman-
tici si erano sempre mostrati comprensivi e indulgenti
verso l’amore sfrenato, ribelle, irresistibile: la sua giu-
stificazione stava nella sua stessa intensità. Per il dram-
ma borghese invece il senso e la dignità dell’amore sta
nella sua durata, nel suo mantenersi nella quotidianità
del matrimonio. Questo mutamento noi lo seguiamo di
passo in passo dalla Marion Delorme di Victor Hugo alla
Dame aux camélias e al Demi-Monde di Dumas. Già nella
Dame aux camélias l’amore dell’eroe per la ragazza cadu-
ta è inconciliabile con i principî morali di una famiglia
borghese, ma l’autore, almeno sentimentalmente, se
pure non razionalmente, parteggia ancora per la vittima;
nel Demi-Monde invece l’autore è ormai del tutto avver-
so alla donna di dubbia fama, che dev’essere allontana-
ta dall’organismo sociale come un focolaio d’infezione.
Essa infatti rappresenta per la famiglia borghese un peri-
colo ancora maggiore di una ragazza povera, ma onesta,
che infine può diventare una buona madre, una fedele
compagna e una fida custode del patrimonio. Se dunque
si è sedotta una ragazza del genere, la si deve anche spo-
sare, e non solo per riparare l’errore, ma anche per met-
tere ordine e – come Zola riassume la morale di Augier
nei Fourchambault – per non finire con una bancarotta.
Ma quando si è messo al mondo un figlio illegittimo –

Storia dell’arte Einaudi 175


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cosa riprovevole – si deve legittimarlo, come Dumas


sostiene nel Fils naturel e in Monsieur Alphonse, soprat-
tutto per non accrescere il numero di quegli spostati che
sono un pericolo costante per la società borghese. Anche
l’adulterio viene giudicato semplicemente in quanto
minaccia all’istituto familiare. In certi casi lo si può per-
donare all’uomo, non mai alla donna. Del resto, una
donna di dubbia moralità difficilmente arriva a rompe-
re il legame familiare (Francillon). In breve, è permesso
tutto quanto è conciliabile con l’idea della famiglia, vie-
tato tutto quanto vi contraddice. Ecco le norme e gli
ideali, propugnati in tono apologetico dai drammi di
Augier e Dumas, e il loro successo sta a provare che gli
autori leggevano nell’animo del pubblico.
Lo scarso valore di quei drammi – perché valgono
poco davvero – non si deve tuttavia al fatto ch’essi ser-
vono una tendenza e sono «lavori a tesi» – tali erano
anche le commedie di Aristofane e le tragedie di Cor-
neille – ma al fatto che la tesi è imposta dall’esterno e
in nessun personaggio riesce veramente a incarnarsi. Il
legame inorganico fra tesi e rappresentazione vi si rive-
la specialmente nella figura stereotipa del raisonneur. Il
semplice fatto che si abbia una figura che non ha altra
funzione se non di portavoce dell’autore mostra che la
teoria non esce dall’astratto e che l’ideologia di fondo
non riesce a fare tutt’uno con la creazione artistica. In
pratica, gli autori si fanno le loro idee, o piuttosto accet-
tano quelle della classe dominante, sul costume e il mal-
costume del tempo, e in piú, indipendentemente da que-
ste idee, hanno un certo talento per lo spettacolo, una
certa capacità di suscitare interesse e tensione con i
mezzi teatrali. Essi combinano questi dati e utilizzano
il loro talento scenico per diffondere le opinioni e le teo-
rie che vogliono divulgare. Ma lo fanno in modo tanto
diretto e grossolano, che indirettamente contribuiscono
a giustificare il principio de l’art pour l’art. Infatti nel-

Storia dell’arte Einaudi 176


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’arte la propaganda è specialmente fastidiosa quando


non arriva a fondersi interamente con le forme concre-
te della rappresentazione e l’idea da diffondere non
coincide a pieno con la visione dell’artista.
A differenza del romanticismo, il Secondo Impero è
un’epoca di razionalismo, di riflessione e di analisi51.
Dovunque sono in primo piano i problemi tecnici e la
comprensione critica domina in ogni genere artistico.
Nel romanzo Flaubert, Zola e i fratelli Goncourt, nella
lirica Baudelaire e i Parnassiani, nel dramma i maestri
della pièce bien faite sono gli esponenti di questo spirito
critico. I problemi formali, che nelle altre forme lette-
rarie in genere riescono appena a far da contrappeso alle
tendenze sentimentali, dominano invece incondiziona-
tamente il teatro. E non è solo per le circostanze este-
riori della rappresentazione, gli stretti limiti di spazio e
di tempo, il carattere di massa del pubblico e la natura
immediata delle sue reazioni, che il drammaturgo è por-
tato a preoccuparsi dei problemi di struttura e di eco-
nomia artistica; già in partenza il fine didattico e pro-
pagandistico gli impone una trattazione formalmente
chiara, efficiente, diretta allo scopo. Autori e critici
diventano sempre piú consapevoli che il teatro è in sé
tutt’altro dalla letteratura, che la scena si regge secon-
do una logica e leggi proprie e nel dramma la poesia spes-
so addirittura contrasta con l’effetto scenico. Quando
Sarcey parla di prospettiva teatrale (optique de théâtre)
e d’istinto teatrale (génie de théâtre) o quando dice sem-
plicemente: c’est du théâtre, si riferisce alle convenienze
sceniche, astraendo da ogni considerazione letteraria, ad
un uso energico dei mezzi teatrali, alla preoccupazione
di conquistare – e ad ogni costo – il pubblico; si tratta
insomma, di una posizione che trasforma la scena in tri-
buna. Già Voltaire sapeva che in teatro era piú impor-
tante de frapper fort que de frapper juste, ma solo i tecni-
ci e i teorici della pièce bien faite arrivano a stabilire le

Storia dell’arte Einaudi 177


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

regole di questo colpir forte e dar nel segno. La loro


maggiore scoperta è di aver riconosciuto che l’efficacia
scenica, anzi la semplice possibilità di condurre una rap-
presentazione, riposa su una serie di convenzioni, rego-
le di gioco, tricheries (trucchi), come Sarcey le chiama, e
che il tacito accordo fra autore e pubblico è nel dram-
ma ancora piú decisivo che negli altri generi. Fra le con-
venzioni teatrali c’è anzitutto la disposizione del pub-
blico a lasciarsi sorprendere dalle vicende, il suo conscio
autoinganno, la sua docilità nel consentire al gioco senza
opporre resistenza. Altrimenti, non solo ci annoierem-
mo assistendo due volte a un dramma che si regga su
espedienti puramente teatrali, ma non potremmo pren-
derci gusto neppure la prima volta. Infatti in un lavoro
di questo genere tutto deve sorprendere, benché tutto
sia prevedibile. Qui le scènes à faire (le scene principali)
sono gli inevitabili chiarimenti a cui, come Sarcey fa
notare, il pubblico sa benissimo che si deve arrivare e si
arriverà52 e il dénouement è la soluzione attesa e deside-
rata dallo spettatore53. Cosí il teatro diventa un gioco di
società che è, sì, eseguito con tutte le regole e l’abilità
piú consumata, ma tuttavia ha in sé qualcosa di ingenuo
e di primitivo. Le difficoltà non derivano tanto dalla
varietà del materiale, quanto dalla complicazione delle
regole del gioco. Queste debbono anzitutto ricompen-
sare gli spettatori piú esigenti del contenuto povero e
trito. Il preciso funzionamento della macchina teatrale
deve, insomma, dissimulare il suo girare a vuoto. Il pub-
blico, anche il migliore, vuole un divertimento leggero,
senza sforzo; non devono esserci quindi oscurità, né
problemi insolubili, né profondità insondabili. Per que-
sto si accentua tanto il rigore della struttura, la logica
delle connessioni. Il dramma deve svolgersi come un’o-
perazione matematica; l’intima necessità dev’essere
sostituita da una necessità esteriore, come l’illusoria
argomentazione sostituisce l’intima verità della tesi.

Storia dell’arte Einaudi 178


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il dénouement è la soluzione del problema. Se il risul-


tato è sbagliato, lo è tutta l’operazione, dice Dumas.
Perciò, egli pensa, si deve cominciare un lavoro dalla
fine, dalla soluzione, dalla chiusa. Nulla meglio di que-
st’andatura da gambero illumina la differenza fra il cal-
colo ingegnoso, con cui si costruisce una pièce bien faite
e gli impulsi irrazionali da cui si lascia trascinare il poeta.
Il drammaturgo fa un passo innanzi e due indietro; deve
confrontare e accordare ogni idea, ogni motivo, ogni
mossa nuova con i motivi e le mosse prestabilite. Scri-
vere drammi obbliga di continuo ad anticipare i fatti e
rifarsi ai precedenti, a ordinare e riordinare, a procede-
re a tastoni, elevando a poco a poco l’edificio, saggian-
done di continuo la resistenza, consolidando e rincal-
zando i singoli piani. Un razionalismo di questo genere
caratterizza piú o meno ogni prodotto artistico passabi-
le e, in modo particolare, ogni opera drammatica rap-
presentabile – le opere di Shakespeare nate effettiva-
mente per il palcoscenico, come i lavori di Augier e
Dumas – ma l’efficacia della pièce bien faite sta sempli-
cemente nella successione degli effetti e delle risorse,
mentre in un dramma shakespeariano l’efficacia risulta
da infinite componenti, fuor d’ogni rapporto matema-
tico. Si sa che Emerson amava leggere Shakespeare
invertendo l’ordine delle scene, rinunziando deliberata-
mente all’effetto teatrale per concentrarsi tutto sulla
sostanza poetica. Una vera pièce bien faite letta in que-
sto modo diventerebbe non solo intollerabile, ma anche
incomprensibile, poiché i singoli elementi non hanno
valore in sé, ma solo in relazione agli altri. Nel loro svi-
luppo, come in una partita a scacchi, tutto mira alla
mossa finale; e come vi si possa giungere meccanica-
mente, lo mostra benissimo il metodo con cui Sardou ha
fatto propria la tecnica di Scribe. Egli racconta che si
limitava a leggere il primo atto dei lavori del maestro e
tentava di dedurre il «giusto» seguito dalle premesse

Storia dell’arte Einaudi 179


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cosí acquisite. Col tempo, grazie a questo «puro eserci-


zio logico», com’egli stesso lo chiama, arrivò a prevedere
con approssimazione sempre maggiore la soluzione adot-
tata da Scribe nel secondo e nel terzo atto dei suoi lavo-
ri; e nello stesso tempo giunse alla convinzione, condi-
visa dal Dumas, che tutta la vicenda risulti con una
certa necessità dalla situazione iniziale. Per Dumas
inventare una situazione drammatica ed escogitare un
conflitto non era arte; piuttosto lo era preparare bene
la scena madre e sciogliere agevolmente i nodi. La trama
che al primo sguardo pare il dato piú spontaneo, indi-
scutibile e immediato del dramma, si rivela cosí l’ingre-
diente piú artificiale e ottenuto piú laboriosamente.
Essa non è affatto pura materia prima o puro prodotto
di fantasia, ma è una serie di mosse strategiche che non
lasciano campo all’invenzione spontanea, né al sovrano
arbitrio del poeta.
A seconda delle opinioni, si può considerare l’arma-
tura di un’opera ben costrutta come la scala per giungere
a vertiginose altezze, o semplicemente come uno sche-
ma meccanico e professionale che non ha nulla in comu-
ne con l’arte e l’umanità vera. Si può entusiasticamen-
te celebrare con Walter Pater l’ingegno dell’artista che
«nel principio prevede la fine e mai la perde di vista, in
ogni sua parte considera l’opera intera e fino all’ultima
frase, con immutato vigore, sviluppa e giustifica la
prima»; ma si può anche, come Bernard Shaw, temere
che la tirannia di una tal logica risulti fatale al dram-
maturgo, poiché «è quasi impossibile per chi ne è schia-
vo dare ai suoi drammi un ultimo atto tollerabile, tanto
convenzionale è il modo per cui dalle premesse discen-
dono le conclusioni». Ma per credere che Shaw disprez-
zi e rifiuti davvero gli ingegnosi trucchi e artifici di que-
sta tecnica, si dovrebbe dimenticare ch’egli è l’autore di
lavori come L’alunno del diavolo e Candida che, osser-
vati da presso, si rivelano vere e proprie pièces bien fai-

Storia dell’arte Einaudi 180


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tes. Tuttavia non solo Shaw, ma anche Ibsen e Strind-


berg, e con loro tutto il dramma moderno che vera-
mente si presti alla rappresentazione, discendono piú o
meno direttamente da quel modello francese. L’arte di
costruire l’intreccio e provocare la tensione, di stringe-
re il nodo dell’azione e differirne lo scioglimento, di pre-
parare le svolte del dramma, pur non facendo mancare
la sorpresa, le regole dell’esatta distribuzione e tempe-
stività dei «colpi di scena», la casistica delle grandi tira-
te e delle chiuse incisive di ogni atto, la sapienza nello
scegliere il momento opportuno per far calare il sipario,
e mantenere incerto fino all’ultimo istante lo sciogli-
mento: tutto questo essi lo hanno imparato da Scribe,
Dumas, Augier, Labiche e Sardou. Con ciò non si vuol
dire che la moderna tecnica teatrale sia creazione esclu-
siva di quei drammaturghi. Anzi, è possibile risalire ben
oltre il melodramma e il vaudeville del periodo postri-
voluzionario, oltre il dramma borghese e la commedia
settecentesca, oltre la commedia dell’arte e Molière,
fino addirittura alla commedia romana e alla farsa
medievale. Resta tuttavia che il contributo dei maestri
della pièce bien faite a questa tradizione è grandissimo.
Il prodotto artistico piú originale – e per molti aspet-
ti il piú espressivo – del Secondo Impero è l’operetta54.
Neppur essa veramente è un’assoluta novità – cosa
impensabile, del resto, ad uno stadio cosí avanzato della
storia teatrale – ma continua due generi piú antichi, l’o-
pera buffa e il vaudeville. In quest’epoca priva di grazia
e di umorismo essa porta un riflesso dello spirito sette-
centesco, leggero, gaio, antiromantico. È l’unica forma
giocosa di questi anni, danzante, agile e leggiadra. Fra il
conformismo delle tendenze che si adattano al prosaico
gusto borghese e l’anticonformismo dei naturalisti, essa
costituisce un mondo a sé, un limbo. È molto piú attraen-
te del dramma borghese o del romanzo in voga, piú
socialmente rappresentativa del naturalismo e, come tale,

Storia dell’arte Einaudi 181


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e il solo genere che dia luogo ad opere popolari, adatte


al gran pubblico e non prive di valore artistico.
Il carattere piú saliente dell’operetta – e il piú sin-
golare dal punto di vista del naturalismo – è l’assoluta
inverosimiglianza, il carattere irreale, fantastico, fiabe-
sco delle sue scene fuggevoli e vorticose. Essa è per
l’Ottocento quel che per i secoli precedenti era stato il
dramma pastorale. Il suo contenuto artificioso, gli
intrecci e gli scioglimenti convenzionali sono un gioco,
privo ormai di ogni rapporto con la realtà. Al tono falso
dell’invenzione s’accompagna il meccanismo marionet-
tistico dei personaggi e l’esecuzione apparentemente
improvvisata. Già Sarcey nota la somiglianza fra ope-
retta e commedia dell’arte55 e sottolinea l’impressione
d’irrealtà, di sogno, che gli viene dalle composizioni di
Offenbach; ma con ciò egli vuol dire soltanto che esse
hanno di caratteristico una vena stranamente fantasti-
ca. Solo un moderno ammiratore di Offenbach, il vien-
nese Karl Kraus, ha tentato di interpretare in un senso
piú profondo questo loro carattere, sottolineando che
nell’operetta di Offenbach la vita è inverosimile e assur-
da, grottesca e inquietante com’è appunto in realtà, se
guardata da una certa distanza56. Naturalmente Sarcey
era lontanissimo da una simile interpretazione, che forse
sarebbe stata inconcepibile, prima che l’espressionismo
e il surrealismo facessero risaltare l’aspetto irreale e allu-
cinante della vita. Soltanto un occhio affinato attraver-
so queste esperienze artistiche era in grado di constata-
re che l’operetta non era unicamente un’immagine della
frivola e cinica società del Secondo Impero, ma anche
un’autoderisione; ch’essa esprimeva non soltanto la
realtà, ma anche l’irrealtà di quel mondo; che, insomma,
era nata dall’aspetto operettistico della vita stessa57, se
si può dir cosí di un tempo come quello, tanto serio,
posato e critico. I contadini all’aratro, gli operai nelle
fabbriche, i commercianti in ufficio, i pittori a Barbizon,

Storia dell’arte Einaudi 182


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Flaubert a Croisset, erano quel che erano; ma la classe


dirigente, la corte alle Tuileries, il mondo dei banchie-
ri crapuloni, degli aristocratici dissipati, dei giornalisti
risaliti e delle raffinate cocottes aveva in sé qualcosa
d’inverosimile, di spettrale e caduco: era un paese da
operetta, un palcoscenico dove le quinte minacciavano
di crollare ogni momento.
L’operetta era il prodotto di un generale laissez faire,
laissez aller, cioè del liberalismo economico, sociale,
morale: un mondo in cui ciascuno poteva far quel che
voleva, fuor che discutere il sistema. Questa condizio-
ne significava ampia indulgenza e, d’altro canto il piú
stretto rigore. Lo stesso governo che citava in giudizio
Flaubert e Baudelaire, tollerava in Offenbach la piú
sfrontata satira sociale, la piú insolente canzonatura del
regime autoritario, della corte, dell’esercito, della buro-
crazia. Ma si sopportavano le beffe soltanto perché non
erano o non parevano pericolose, perché le accoglieva un
pubblico la cui fedeltà era indubbia, e che bastava la val-
vola di sicurezza di quell’innocua canzonatura ad appa-
gare. Solo a noi quello spasso appare spettrale; i con-
temporanei erano sordi alla vibrazione sinistra che noi
cogliamo nel folle ritmo del galoppo e del cancan di
Offenbach. Ma il divertimento non era del tutto inno-
cuo, perché vi si cercava l’ebbrezza da cui si voleva
esser trascinati. L’operetta corrompeva la gente, non
perché dileggiasse ogni cosa «rispettabile», non perché
la derisione dell’antichità, della tragedia classica, del-
l’opera romantica celasse una sua critica sociale, ma per-
ché scoteva la fiducia nelle autorità, senza negarne le
basi. L’immoralismo dell’operetta consisteva nella fri-
vola tolleranza con cui essa esercitava la sua critica verso
la corruzione del sistema politico e della società con-
temporanea, nell’apparenza innocente ch’essa dava alla
futilità delle piccole prostitute, dei galanti scapestrati e
degli amabili vecchi gaudenti. La sua critica fiacca ed

Storia dell’arte Einaudi 183


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esitante non faceva che incoraggiare la corruzione. D’al-


tronde da artisti che godevano di uno straordinario suc-
cesso, e che il successo amavano sopra ogni cosa, un suc-
cesso legato al perdurare di quella società indolente e
avida di piaceri, non ci si poteva attendere che questo
ambiguo atteggiamento. Offenbach era un ebreo tede-
sco, un esule, un musicista nomade, un artista doppia-
mente minacciato nella sua esistenza; nella capitale fran-
cese, in quel mondo corrotto e pur tanto seducente, egli
doveva sentirsi doppiamente straniero, spostato, spet-
tatore indifferente. Piú della maggior parte dei suoi col-
leghi egli doveva sentire la posizione problematica del-
l’artista nella società moderna, la contraddizione tra le
sue ambizioni e il suo risentimento, il suo orgoglio di
accattone che pur s’affanna a conquistare il favore del
pubblico. Non era un ribelle, e neppure un democrati-
co, anzi ben volentieri accettava il governo della «mano
forte» e con animo tranquillissimo godeva i vantaggi,
che il sistema politico del Secondo Impero gli offriva;
ma considerava tutto quell’agitarsi intorno a lui con lo
sguardo distaccato, acuto, freddo di un escluso e, senza
volerlo, affrettava il declino della società a cui doveva
l’esistenza.
L’operetta significa in fondo l’ingresso del giornali-
smo nella musica. Dopo il romanzo, il dramma e l’arte
grafica, ora anche il teatro musicale commenta i fatti del
giorno. Ma qui il giornalismo non si limita alle strofet-
te e alle battute comiche su fatti di attualità; tutto il
genere è come una rubrica permanente degli scandali
mondani. Con ragione Heine è stato chiamato il pre-
cursore di Offenbach. L’origine, il temperamento, la
posizione sociale dei due sono su per giú gli stessi;
entrambi sono giornalisti nati, nature critiche e positi-
ve, che non vogliono vivere ai margini della società, ma
in essa, con essa, benché, certo, non sempre d’accordo
con i suoi fini e i suoi mezzi.

Storia dell’arte Einaudi 184


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Nella Parigi cosmopolita della monarchia di luglio e


del Secondo Impero, Heine aveva le stesse probabilità
di successo di Meyerbeer e di Offenbach; ma per espri-
mersi non disponeva di un linguaggio universale come i
suoi piú fortunati compatrioti. La sua fama rimase limi-
tata a una cerchia relativamente angusta, mentre Meyer-
beer e Offenbach conquistarono Parigi e con essa tutto
il mondo civile. Non solo essi crearono due fra i generi
piú caratteristici dell’arte francese, ma con piú fedeltà
e larghezza dei colleghi francesi seppero essere interpreti
del gusto parigino del tempo. Anzi, Offenbach può con-
siderarsi come un vero e proprio compendio del suo
tempo; l’opera sua contiene molti di quelli che sono i
suoi tratti piú peculiari e originali. Già ai contempora-
nei parve cosí rappresentativo, ch’essi lo identificarono
con lo spirito di Parigi e videro nella sua arte il perpe-
tuarsi della tradizione classica francese. In Offenbach
tutto l’Occidente sentí la gioia e il rigoglio della vita58.
La granduchessa di Gerolstein si rivelò la piú grande e
duratura attrattiva dell’esposizione universale del 1867;
i numerosi sovrani e principi in visita a Parigi furono
entusiasti dello spettacolo e dell’irresistibile Hortense
Schneider nella parte della protagonista, non meno dei
roués [gli smaliziati] della capitale e dei borghesucci di
provincia. Lo zar di Russia, tre ore dopo il suo arrivo,
era già in un palco delle Variétés; e Bismarck, benché
apparentemente sapesse dominare meglio la sua impa-
zienza, era estasiato quanto le teste coronate. Rossini
chiamava Offenbach il «Mozart dei Champs Élysées» e
Wagner confermò quel giudizio, ma solo dopo la morte
dell’invidiato rivale.
L’operetta fiorí per tutto il periodo fra le due espo-
sizioni universali del 1855 e del 1867. Dopo le traver-
sie politiche sulla fine del sesto decennio le venne meno
il pubblico adatto, un pubblico spensierato o che si cul-
lava nell’illusione di una spensierata sicurezza. I tempi

Storia dell’arte Einaudi 185


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

migliori dell’operetta finirono in una con il Secondo


Impero; le generazioni successive l’amarono, non piú
come espressione viva, spontanea, immediata del pre-
sente, ma perché richiamava, come nessun’altra forma
d’arte, «i bei tempi andati». Grazie a questa associa-
zione d’idee, l’operetta sopravvisse ai rivolgimenti sullo
scorcio del secolo, e in una città intellettualmente cosí
volubile come Vienna rimase fino alla seconda guerra
mondiale la forma piú diffusa d’idealizzazione senti-
mentale del passato. Ci vollero le esperienze degli ulti-
mi vent’anni perché ci si decidesse a rivedere il concet-
to dei «bei tempi andati», che una parte d’Europa asso-
ciava con Napoleone III e Offenbach, l’altra con l’im-
peratore Francesco Giuseppe e Johann Strauss. La lotta
di classe, che fra il 1848 e il 1870 era stata dovunque
repressa, tornò a divampare dopo il ’70, minacciando il
potere di quella borghesia che piú di tutti aveva tratto
profitto dalla reazione. E l’operetta apparve come l’im-
magine di un’esistenza sicura, tranquilla, felice: un idil-
lio che nella realtà non era mai esistito.
Ebbero ragione i Goncourt con la loro profezia che
il circo, il varietà e la rivista avrebbero soppiantato il
teatro. Il film, che si può annoverare fra questi tipi per
le sue qualità spettacolari, ne è un’ulteriore conferma.
Vicinissima al varietà e alla rivista, l’operetta non è tut-
tavia la forma piú antica in cui lo spettacolo trionfi sul
dramma. La vera svolta era avvenuta prima, con l’af-
fermarsi del grand-opéra, durante la monarchia di luglio,
benché l’elemento spettacolare fosse sempre stato parte
integrante del teatro e avesse sempre finito per preva-
lere sull’elemento drammatico e lirico. Cosí era avve-
nuto anzitutto nel teatro barocco, dove la solennità della
rappresentazione, gli scenari, i costumi, le danze e le sfi-
late spesso soverchiavano tutto il resto. La cultura bor-
ghese della monarchia di luglio e del Secondo Impero,
una cultura da villan rifatti, nel teatro cercava il monu-

Storia dell’arte Einaudi 186


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mentale, l’imponente, e della grandezza tanto piú esa-


gerava l’apparenza quanto piú gliene mancava l’intimo
senso. Sappiamo che due diversi impulsi spingono la
società alla cerimonia, alla forma grandiosa e pretenzio-
sa: il bisogno di magnificenza come sua naturale forma
di vita, e la smania del colossale come ipercompensa-
zione di un difetto sentito piú o meno dolorosamente.
Il Barocco secentesco rifletteva la grandiosità connatu-
rata alla corte e all’aristocrazia dell’era assolutistica; lo
pseudo-barocco ottocentesco riflette l’ambizione che la
borghesia giunta al potere ha di una grandiosità del
genere. L’opera fu il suo genere preferito, perché meglio
di ogni altro si prestava all’ostentazione, alla parata,
allo sfarzo, all’accumulo e all’esagerazione degli effetti.
Il tipo attuato da Meyerbeer includeva tutte le attratti-
ve spettacolari creando un insieme eterogeneo di musi-
ca, canto e danza, fatto per l’occhio come per l’orecchio,
e in cui tutti gli elementi miravano ad abbagliare e sba-
lordire lo spettatore. L’opera di Meyerbeer era un gran-
de programma di varietà, la cui unità stava piú nel ritmo
del dinamismo scenico, che nell’assoluta prevalenza della
musica59. Era uno spettacolo destinato a un pubblico che
non aveva nessuna intima disposizione alla musica.
L’idea dell’«opera d’arte totale» si affermò qui molto
tempo prima di Wagner, ed espresse un’esigenza prima
ancora che si pensasse a una sua formulazione pro-
grammatica. Wagner cercò di giustificare la complessa
natura dell’opera attraverso l’analogia con la tragedia
greca, che in realtà non era che un oratorio; ma il desi-
derio di una tal giustificazione nasceva dalla barocca
molteplicità del genere, che dopo Meyerbeer minaccia-
va di diventare sempre piú «informe e privo di stile».
Il grand-opéra, cui sono ancora legati i Maestri cantori e
l’Aida, e che rappresenta una convenzione anche piú
rigida dell’antica opera italiana60, poté affermarsi perché
la cultura della borghesia francese era esemplare per

Storia dell’arte Einaudi 187


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tutto il continente e dappertutto rispondeva a schiette


esigenze radicate nella realtà sociale. Nulla vi si ade-
guava meglio dell’arte di Meyerbeer, che organizzava
tutti i mezzi a sua disposizione – l’orchestra gigantesca,
l’immenso palcoscenico, il grande coro – in un insieme
che voleva soltanto imporsi, sopraffare e soggiogare. A
ciò mirava anzitutto il grande finale, che spesso riuscí a
trovare nuovi effetti visivi e musicali, che non avevano
nulla di comune con la profonda umanità del finale
mozartiano, né con la danzante grazia di quello rossi-
niano. Quel che noi chiamiamo di solito «operistico» –
la monumentalità scenografica, l’enfasi vacua, il tonan-
te eroismo, il falso pathos, il linguaggio artificioso – non
è tuttavia creazione di Meyerbeer, né appartiene unica-
mente a questo genere di spettacolo. Persino un artista
di gusto così castigato come Flaubert non è del tutto
esente da teatralità. Essa fa parte dell’eredità romanti-
ca di quella generazione, e al suo sviluppo Victor Hugo
contribuí non meno di Meyerbeer.
Fra tutti i grandi musicisti del tempo Riccardo
Wagner è quello piú vicino allo stile operistico di
Meyerbeer: e non solo perché cerca di legarsi alla vita
teatrale del tempo, ma anche perché nessuno piú di lui
tiene al successo. Egli accetta la convenzione domi-
nante senza intima opposizione e, come è stato giusta-
mente osservato, solo a poco a poco trova una sua ori-
ginalità, percorre cioè uno sviluppo contrario a quello
solito che in genere parte da un’esperienza individua-
le, da una scoperta personale e finisce in maniera61. Ma
assai piú sorprendente dei suoi rapporti con il grand-
opéra, è in Wagner la fedeltà a una forma che unisce l’e-
spressione dei sentimenti piú intimi, fervidi ed elevati,
con il fasto del Secondo Impero. Infatti non solo il
Rienzi e il Tannhaüser sono opere ancora pienamente
coreografiche in cui predomina l’apparato scenico, ma
anche i Maestri cantori e il Parsifal sono in certa misura

Storia dell’arte Einaudi 188


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

spettacoli musicali che vogliono impegnare tutti i sensi


e superare tutte le aspettative. L’amore della grandio-
sità e della massa è forte in Wagner quanto in Meyer-
beer e in Zola; e, come Victor Hugo e Dumas, egli è
nato per il teatro, è un «istrione», un «mimomane»,
come disse Nietzsche62. Ma questa sua teatralità non
viene dalle sue opere, anzi queste non sono che espres-
sione del suo indiscriminato gusto teatrale e della sua
natura sonora, tutta ostentazione. Come Meyerbeer,
Napoleone III, la Païva o Zola, anch’egli ama l’ecces-
sivo, il prezioso, il voluttuoso; e le sue opere ricordano
i salotti di allora, pieni di tappeti e di portiere, di mobi-
li rivestiti di seta, velluto, broccato d’oro, anche quan-
do non si sappia ch’egli voleva gli scenari dipinti da
Makart63. La sua smania di magnificenza ed esuberan-
za ha origini complicate; ci sono elementi che risalgo-
no non soltanto a Makart, ma anche a Delacroix. Fra
la Morte di Sardanapalo e il Crepuscolo degli Dei corro-
no stretti rapporti come tra il fasto del grand-opéra pari-
gino e i festival di Bayreuth. Ma neppure questo esau-
risce l’argomento; non solo il sensualismo di Wagner è
piú elementare dell’avidità di fasto, ma anche piú genui-
no e spontaneo di tutto il misticismo di quel tempo,
espresso dalla formula: «il sangue, la voluttà e la
morte». Non per nulla l’opera sua apparve per molti dei
piú raffinati spiriti del secolo la quintessenza dell’arte,
il paradigma da cui essi traevano il senso e il principio
della musica. Certo essa fu l’ultima e forse la maggior
manifestazione del romanticismo, l’unica sua forma tut-
tora viva, l’unica che ne riveli pienamente l’effetto ine-
briante sui contemporanei, che vi ravvisarono il rifiu-
to di ogni convenzione e la scoperta di un misterioso
mondo sepolto. È comprensibile, benché sulle prime
sorprendente e in definitiva spiegabile solo col genera-
le clima del tempo, che Baudelaire, che per natura era
alieno dalla musica, ma è il solo fra i contemporanei di

Storia dell’arte Einaudi 189


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Wagner che sappia comunicarci quello stesso senso di


felicità che sgorga dalla musica del Tristano, sia anche
stato il primo a riconoscere l’importanza dell’arte
wagneriana. Wagner ha in comune con Baudelaire, oltre
alla grande eccitabilità nervosa, la passione per l’ipno-
si e per i mezzi ipnotizzanti, i sentimenti quasi religio-
si e il romantico desiderio di redenzione. E a Flaubert,
oltre il debole per i colori ardenti e le forme esuberan-
ti, lo unisce il geniale dilettantismo e l’atteggiamento
riflesso verso l’opera propria. Anche l’ingegno di
Wagner, come quello di Flaubert, manca di sponta-
neità e di naturalezza, ed alle sue opere egli arriva attra-
verso una lotta quasi altrettanto violenta e disperata e
con un’uguale diffidenza verso l’arte. A ventott’anni
nessuno fra i grandi maestri era cosí cattivo musicista
come lui, osserva Nietzsche, e nessun grande artista,
eccettuato Flaubert, dubitò cosí a lungo del proprio
talento. Per entrambi l’arte fu il martirio di tutta l’esi-
stenza, entrambi sentivano ch’essa li separava dalla
vita, e consideravano invalicabile l’abisso tra arte e
realtà, tra l’avoir e il dire. Appartenevano alla stessa
generazione di quei tardi romantici che lottavano inces-
santemente e disperatamente contro il proprio egoismo
di esteti.

1
Cfr. il discorso di Tocqueville all’Assemblea nazionale citato da
paul louis, Histoire du socialisme en France, 3a ed., 1936, II, p. 191.
2
Ibid., pp. 200-1.
3 Ibid., p. 197.
4
pierre martino, Le Roman réaliste sous le Second Empire, 1913,
p. 85.
5
a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos
jours, 1936, p. 361.
6
émile bouvier, La Bataille réaliste, 1913, p. 237.
7
jules coulin, Die sozialistische Weltanschauung in der französischen
Malerei, 1909, p. 61.

Storia dell’arte Einaudi 190


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

8
é. zola, La République et la littérature, 1879.
9
oliver larkin, Courbet and his Contemporaries, in «Science and
Society», III, 1939, I, p. 44.
10
é. bouvier, La Bataille réaliste cit., p. 248.
11
Cfr. léon rosenthal, La Peinture romantique, 1903, pp. 267-268.
- henri focillon, La Peinture aux xixe et xxe siècles, 1928, pp. 74-101.
12
h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp.
342-44.
13
Cfr. la lettera a Victor Hugo del 15 luglio 1853, in Correspon-
dance, ed. Conard, III, 1910, p. 6.
14
Ibid., II, pp. 116-17, 366.
15
Ibid., III, pp. 120, 390.
16
e. e j. de goncourt, Journal, 29 gennaio 1863, ed. Flammarion-
Fasquelle, II, p. 67.
17
gustave flaubert, Correspondance, III, pp. 485, 490, 508. - L’É-
ducation sentimentale, II, 3 [trad. it., L’educazione sentimentale, Tori-
no 1949]. - ernest seillière, Le Romantisme des réalistes: Gustave
Flaubert, 1914, p. 257. - eugen haas, Flaubert und die Politik, 1931,
p. 30.
18
Lettera a Mlle Leroyer de Chantepie del 18 Maggio 1857, in Cor-
respondance, III, p. 119.
19
eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909,
p. 157.
20
Correspondance, III, pp. 157, 448, ecc.
21
«Le Moniteur», 4 Maggio 1857. - Causeries du Lundi, XIII.
22
é. zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., pp. 126-29.
23
Correspondance, II, p. 182, III, p. 113.
24
Ibid., II, p. 112.
25
a. thibaudet, Gustave Flaubert, 1922, p. 12.
26
Correspondance, II, p. 155.
27
g. lukäcs, Die Seele und die Formen (Theodor Storm oder die Bür-
gerlichkeit und l’art pour l’art), 1911. - t. mann, Betrachtungen eines
Unpolitischen, 1918, pp. 69-70.
28
georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933,
pp. 126-22
29
Correspondance, I, p. 238, settembre 1851.
30
Ibid., IV, p. 244, dicembre 1875.
31
Ibid., III, p. 119.
32
é. faguet, Flaubert, 1913, p. 145.
33
Correspondance, II, p. 237.
34
Ibid., III, p. 190.
35
Ibid., p. 446.
36
Ibid., II, p. 70.
37
Ibid., p. 137.

Storia dell’arte Einaudi 191


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

38
Ibid., III, p. 440.
39
Ibid., II, p. 133, 140-41, 336.
40
jules de gaultier, Le Bovarysme, 1902.
41
édouard maynial, Flaubert, 1943, pp. 111-12.
42
paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 144.
43
Correspondance, I p. 289.
44
g. lukàcs, Die Theorie des Romans, 1920, p. 131.
45
é. zola, Le Roman expérimental, 1880, 2e ed., pp. 24, 28.
46
charles-brun, Le Roman social en France au 19e siècle, 1910, p. 158.
47
andré bellessort, La Société française sous le second Empire, in
«La Revue Hebdomadaire», 1932, 12, pp. 290, 292.
48
francisque sarcey, Quarante ans de théâtre, I, 1900, pp. 120,
122.
49
Ibid., pp. 209-12.
50
J.-J. weiss, Le Théâtre et les mœurs, 1889, pp. 121-22. - Cfr. la
prefazione di Renan ai Drames philosophiques, 1888.
51
a. thibaudet, Gustave Flaubert cit., 295 sgg.
52
sarcey, Quarante ans de théâtre cit., V, p. 94.
53
Ibid., p. 286.
54
Cfr. jules lemaitre, Impressions de théâtre, I, 1888, p. 217.
55
sarcey, Quarante ans de théâtre cit., VI, 1901, p. 180.
56
s. kracauer, Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, 1937,
p. 349.
57
Ibid., p. 270.
58
Cfr. fleury-sonolet, La Société du second Empire, III, 1913,
p. 387
59
paul bekker, Wandlungen der Oper, 1934, p. 86.
60
lionel de la laurencie, Le Gotit musical en France, 1905, p. 292.
- william l. crosten, French Grand Opera, 1948, p. 106.
61
a. einstein, Music in the Romantic Era cit., p. 231.
62
friedrich nietzsche, Der Fall Wagner, 1888. Nietzsche contra
Wagner, 1888.
63
Cfr. t. mann, Betracktungen eines Unpolitischen, 1918, p. 75. -
Leiden und Größe der Meister, 1935, pp. 145 sgg.

Storia dell’arte Einaudi 192


Capitolo terzo

Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia

La rivoluzione industriale ebbe in Inghilterra i suoi


inizi e in Inghilterra raggiunse gli sviluppi piú fecondi e
suscitò le piú forti e appassionate proteste. Ma le accu-
se non impedirono alle classi dirigenti di opporsi con la
massima energia e con pieno successo alla rivoluzione
sociale. Mentre in Francia una parte degli intellettuali e
dei letterati, dopo le esperienze della Rivoluzione, comin-
ciò ad assumere un atteggiamento antidemocratico, qui,
dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari, l’orienta-
mento degli intellettuali rimase, se non sempre rivolu-
zionario, in complesso radicale. Tuttavia una differenza
fondamentale divise le élites dei due paesi: mentre gli
intellettuali francesi erano e rimasero fortemente razio-
nalisti, comunque fossero orientati rispetto alla rivolu-
zione e alla democrazia, gli inglesi invece, nonostante le
loro tendenze radicali e la loro opposizione all’indu-
strialismo, spesso anzi perché contrari alla società domi-
nante, si orientarono verso un disperato irrazionalismo
rifugiandosi nel nebuloso idealismo dei romantici tede-
schi. Cosa strana, in Inghilterra i capitalisti e i fautori
dell’utilitarismo erano piú profondamente legati alla filo-
sofia illuministica che non i loro avversari che negavano
il principio della libera concorrenza e della divisione del
lavoro. Dal punto di vista della storia delle idee, in ogni
caso, gli idealisti nemici delle macchine erano i reazio-

Storia dell’arte Einaudi 193


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nari, mentre materialisti e capitalisti rappresentavano il


razionalismo e il progresso.
La libertà economica e il liberalismo politico aveva-
no comuni radici storiche; erano entrambi conquiste
dell’illuminismo e logicamente erano inscindibili. Par-
tendo dalla libertà personale e dall’individualismo, si
dovette accettare la libera concorrenza come parte inte-
grante dei diritti dell’uomo. L’emancipazione della bor-
ghesia fu un passo necessario nella liquidazione del feu-
dalesimo e a sua volta postulò l’affrancarsi dell’econo-
mia dai vincoli e dalle restrizioni del Medioevo. La con-
quista della parità dei diritti da parte della borghesia si
spiega soltanto come risultato di un processo in cui le
forme dell’economia precapitalistica furono via via supe-
rate. Solo dopo che l’economia ebbe raggiunto una com-
pleta autonomia e le classi medie si furono liberate dei
rigidi vincoli del sistema feudale, si poté pensare alla
liberazione della società dall’anarchia della libera con-
correnza. Ed era inoltre del tutto vano combattere sin-
gole manifestazioni del capitalismo senza rimettere in
discussione l’intero sistema. Finché l’economia capita-
listica non fu revocata in dubbio, fu possibile soltanto
parlare di attenuazioni filantropiche dei suoi abusi. L’at-
tenersi ai principî razionalistici e liberali era l’unica via
per mettervi riparo; occorreva soltanto allargare il con-
cetto di libertà oltre i limiti borghesi. Invece l’abban-
dono della ratio e dell’idea liberale, per quanto buona e
onesta ne fosse l’intenzione, doveva portare a un incon-
trollabile intuizionismo e a una specie di minorità del-
l’intelletto. Questo pericolo, sempre presente in Carly-
le, minaccia l’idealismo dei piú fra i pensatori vittoria-
ni, e il proverbiale compromesso del tempo, la via di
mezzo fra tradizione e progresso, non è mai cosí palese
come nel ribelle romantico, nostalgicamente volto al
passato. Nessuno dei vittoriani piú noti sfugge del tutto
al compromesso, e l’ambiguità che ne deriva pregiudica

Storia dell’arte Einaudi 194


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’influsso politico anche di un radicale cosí schietto come


Dickens. In Francia gli intellettuali si sentivano costret-
ti a scegliere tra rivoluzione e politica borghese e, se
spesso la scelta era legata anche a un dissidio dei senti-
menti, era tuttavia chiara e definitiva. In Inghilterra
invece anche quella parte dei ceti intellettuali che si
opponeva al capitalismo partiva spesso da una visione
altrettanto conservatrice, o perfino piú arretrata, di
quella della borghesia capitalistica.
I seguaci dell’utilitarismo, che rappresentavano i
principî dell’economia industriale, erano i discepoli di
Adam Smith e i campioni della dottrina secondo cui l’e-
conomia lasciata a se stessa rispondeva meglio d’ogni
altra, non solo allo spirito del liberalismo, ma anche agli
interessi della comunità. Contro di loro si scatenava
l’opposizione degli idealisti che batteva non tanto sulla
insostenibilità della tesi quanto sul loro fatalismo nel
rappresentare gli istinti egoistici come movente fonda-
mentale e invariabile dell’azione, sulla necessità mate-
matica con cui si credeva di poter dedurre le leggi del-
l’economia e della società dall’egoismo umano. La pro-
testa degli idealisti contro questa riduzione dell’uomo
all’homo œconomicus era l’eterna protesta della roman-
tica «filosofia della vita» – la fede cioè nella vita che non
si può risolvere intera nella logica né costringere senza
residui nella teoria – contro il razionalismo e il pensie-
ro che astrae dall’immediata realtà. Fu questo un secon-
do romanticismo, in cui la lotta contro l’ingiustizia socia-
le e l’opposizione alla concretezza della dismal science
[funesta scienza] ebbero parte assai minore della fuga dal
presente – di cui non si potevano e non si volevano risol-
vere i problemi – nell’irrazionalismo dei Burke, dei
Coleridge e dei romantici tedeschi. L’invocazione a un
intervento dello stato, specie in Carlyle, era segno a un
tempo di inclinazioni antiliberali, autoritarie, e di sen-
timenti umanitari, altruistici; e nel suo lamento sull’a-

Storia dell’arte Einaudi 195


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tomizzarsi della società si esprimeva tanto il desiderio


di comunione quanto la nostalgia di un capo diletto e
temuto.
Passato il tempo migliore del romanticismo inglese,
verso il 1815 comincia a diffondersi un razionalismo
antiromantico, che culmina nella riforma elettorale del
1832, nel nuovo Parlamento e nel trionfo della borghe-
sia. Questa, giunta al potere, si fa sempre piú conser-
vatrice e oppone alle aspirazioni democratiche una rea-
zione che ha di nuovo un carattere essenzialmente
romantico. Accanto all’Inghilterra razionalistica si affer-
ma un’Inghilterra sentimentale; e il capitalista indurito,
di mente chiara e fredda, si mette a civettare con idee
filantropiche, umanitarie, riformistiche. La reazione
ideale al liberismo, assume la forma di una questione
intima, di un autosalvataggio morale della borghesia; è
opera cioè di quello stesso ceto che nella pratica rap-
presenta il principio liberistico e nel compromesso vit-
toriano crea quell’elemento che equilibra il materialismo
e l’egoismo.
Gli anni fra il 1832 e il 1848 sono un tempo di acu-
tissima crisi sociale, di torbidi e di lotte cruente tra
capitale e lavoro. Dopo il Reform bill [riforma eletto-
rale] il proletariato inglese ha avuto dalla borghesia lo
stesso trattamento di quello francese dopo il 1830. L’a-
ristocrazia e il popolo sono cosí quasi uniti da un comu-
ne destino contro lo stesso nemico, la borghesia capita-
listica. Veramente è un legame effimero, che non può
condurre mai a una vera comunione d’interessi né a fra-
ternità d’armi, ma basta a velare la realtà agli occhi
d’un pensatore cosí emotivo come Carlyle e a trasfor-
mare la sua lotta contro il capitalismo in un’esaltazione
romantico-reazionaria della storia. Mentre in Francia
l’odio contro la borghesia si esprime in un rigoroso e
sobrio naturalismo, in Inghilterra, dove dal Seicento
non si sono piú avute rivoluzioni e si ignorano le espe-

Storia dell’arte Einaudi 196


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rienze e le delusioni politiche dei francesi, si assiste al


sorgere di un secondo romanticismo. Questo in Francia
verso la metà del secolo è già superato come movimen-
to e l’ultima polemica intorno ad esso ha il carattere di
una questione piú o meno personale. In Inghilterra le
cose vanno altrimenti; qui l’antagonismo tra tendenze
razionalistiche e irrazionalistiche non si limita ad esse-
re un conflitto intimo, come in Flaubert, ma divide il
paese in due campi, in realtà molto piú eterogenei delle
«due nazioni» di Disraeli. Anche qui, come in tutto
l’Occidente, la tendenza dominante è quella positivisti-
ca, rispondente ai principî del razionalismo e del natu-
ralismo. Non solo gli arbitri del potere politico ed eco-
nomico, non solo i tecnici e gli studiosi, ma anche l’uo-
mo comune e quello legato alla consuetudine del suo
mestiere, pensano da razionalisti e avversano la tradi-
zione. La letteratura del tempo invece è pervasa di
romantica nostalgia per il Medioevo e per un’Utopia in
cui non valgono le leggi dell’economia capitalistica, del-
l’attività commerciale, della vita ormai prosaica e disin-
cantata. Il feudalesimo di Disraeli è romanticismo poli-
tico; il «movimento di Oxford», romanticismo religio-
so; la critica alla civiltà di Carlyle, romanticismo socia-
le; la filosofia artistica di Ruskin, romanticismo esteti-
co: teorie e correnti tutte che negano il liberalismo e il
razionalismo, e di fronte ai problemi del presente si
rifugiano in un ordine superiore, sovrapersonale e
sovrannaturale, in una stabilità non soggetta all’anarchia
della società liberale e individualistica. La voce piú alta
e piú seducente è quella di Carlyle, il primo e il piú ori-
ginale di quei flautisti acchiappatopi che aprono la via
ai Mussolini e agli Hitler. Infatti, per quanto importante
e fecondo sia stato, sotto certi aspetti, il suo influsso, e
tanto a lui debba anche l’epoca moderna nella sua lotta
per una piú diretta rispondenza spirituale delle forme
della civiltà, egli fu un confusionario, e con i fumi del

Storia dell’arte Einaudi 197


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suo entusiasmo per l’infinito e l’eterno, con la sua mora-


le del superuomo e la mistica dell’eroe, annebbiò e
oscurò i fatti per intere generazioni.
L’immediato erede di Carlyle è Ruskin, che deriva da
lui gli argomenti contro il liberalismo e l’industrialismo,
ripete le sue querele contro la civiltà moderna senz’ani-
ma e senza Dio, partecipa alla sua esaltazione per il
Medioevo e la civiltà unitaria dell’Occidente cristiano.
Ma egli trasforma l’astratto culto degli eroi in un culto
della bellezza pieno di significato, il vago romanticismo
sociale in un idealismo estetico volto a compiti concre-
ti e fini esattamente definibili. Nulla prova l’opportu-
nità storica e la concretezza delle teorie ruskiniane,
meglio del fatto ch’egli poté divenire il portavoce di un
movimento cosí rappresentativo come il preraffaellismo.
Le sue idee e i suoi ideali erano nell’aria: soprattutto il
rifiuto dell’arte rinascimentale, della forma grande, opu-
lenta, autonoma e sovrana e il ritorno all’arte preclassi-
ca, «gotica», alle rigide e ispirate espressioni dei «pri-
mitivi»; erano i sintomi di una generale crisi della cul-
tura, che abbracciava tutta la società. Le teorie di
Ruskin e l’arte dei preraffaelliti sorgono dallo stesso
clima spirituale e rappresentano un’uguale protesta con-
tro la convenzionale visione della vita e dell’arte che
domina l’Inghilterra vittoriana. Quello che Ruskin
intende per degenerazione dell’arte a partire dal Rina-
scimento, i preraffaelliti lo vedono e lo combattono nel-
l’accademia del tempo. La loro lotta prende di mira
soprattutto il classicismo, il canone di bellezza della
scuola raffaellesca, cioè il vuoto formalismo e la mecca-
nica levigatezza di un’arte, che la borghesia vuol porta-
re come prova della sua rispettabilità, della sua morale
puritana, dei suoi alti ideali e del suo senso poetico. La
borghesia vittoriana ha la fissazione della «grande arte»1
e il cattivo gusto che domina nell’architettura, nella pit-
tura e nelle arti «minori» è in sostanza la conseguenza

Storia dell’arte Einaudi 198


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di un autoinganno e di una presunzione che le impedi-


scono un’espressione spontanea della sua natura.
La pittura vittoriana brulica di temi storici, poetici,
aneddotici; è pittura «letteraria» per eccellenza, un’ar-
te ibrida, in cui, del resto, piú che l’abbondanza di moti-
vi letterari è deplorevole la penuria di valori pittorici. È
soprattutto la paura di ogni sensualità e spontaneità ad
impedire che qui si diffonda lo schietto, rigoglioso pit-
toricismo dei francesi. Ma la natura, scacciata dalla
porta, rientra dalla finestra. Nella collezione Chantrey,
singolare monumento del mal gusto vittoriano, c’è un
quadro in cui una giovane suora, rinunziando al mondo,
ne rifiuta perfino le vesti. Affatto nuda, essa è inginoc-
chiata davanti all’altare, nella penombra notturna di
una cappella, e mostra ai monaci che stan dietro di lei
le forme seducenti del suo tenero corpo. Non si può
immaginare cosa piú penosa di un tal quadro, che appar-
tiene alla peggiore, perché meno sincera, specie di por-
nografia.
La pittura preraffaellita è letteraria e «poetica» come
tutta l’arte vittoriana; ma ai soggetti che di per sé non
si prestano ad essere perfettamente risolti in pittura,
essa unisce certi valori pittorici, spesso non soltanto
attraentissimi, ma anche nuovi. Allo spiritualismo vit-
toriano, ai soggetti storici, religiosi, letterari, alle alle-
gorie morali e ai simboli fiabeschi essa unisce un sen-
sualismo che si esprime nella gioia del minuto partico-
lare, nel gioco di contraffare ogni stelo, ogni piega. Que-
sta precisione non riflette soltanto il generale naturali-
smo dell’arte europea, ma anche un’etica del lavoro pro-
pria della borghesia, che vede un criterio di valore arti-
stico nell’irreprensibile mestiere, nell’esecuzione accu-
rata degli antichi maestri. Seguendo questo ideale del-
l’arte vittoriana, i preraffaelliti accentuano la perizia
tecnica, l’abilità mimetica, la perfezione dell’ultima
mano. I loro quadri sono politi quanto quelli degli acca-

Storia dell’arte Einaudi 199


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

demici, e il contrasto tra i preraffaelliti e gli altri pitto-


ri vittoriani ci appare molto minore di quello che si nota
tra naturalisti e accademici in Francia. I preraffaelliti
sono idealisti, moralisti, erotici impauriti, come la mas-
sima parte dei vittoriani. Hanno dell’arte lo stesso con-
cetto contraddittorio, tradiscono lo stesso imbarazzo, le
stesse inibizioni nel dare espressione artistica alla loro
esperienza, e tale è l’impaccio puritano di fronte al
mezzo espressivo, che le loro opere fanno sempre l’ef-
fetto di un timido, benché geniale dilettantismo. Que-
sta distanza fra l’artista e l’opera aggrava l’aspetto arti-
gianale proprio della pittura preraffaellita. Perciò essa
appare cosí artefatta, manierata, leggiadra e affettata e
ha sempre in sé qualcosa di stilizzato e irreale, che ricor-
da gli ingegnosi arabeschi dei tappeti. Il tono del moder-
no simbolismo, prezioso, intellettualistico e, nonostan-
te la sua natura lirica, freddo; l’acerba grazia e l’ango-
losità un po’ ricercata dei neoromantici; il ritegno, la stu-
diata ritrosia, l’ermetismo dell’arte sullo scorcio del seco-
lo risalgono in parte a questa stilizzazione.
Il preraffaellismo è un movimento estetizzante, un
estremo culto della bellezza, un tentativo di dar valore
alla vita richiamandosi all’arte. Ma anch’esso, al pari
della filosofia di Ruskin, non può indentificarsi con l’art
pour l’art. La tesi che il supremo valore dell’arte consi-
sta nell’espressione di «un animo buono e grande»2
rifletteva la persuasione di tutti i preraffaelliti. Essi
erano certo degli edonisti mancati, ma vivevano nella
fede che il loro gioco formale avesse un fine superiore,
la virtú di elevare e di educare. In loro, estetismo e
moralismo erano in aperta contraddizione, come arcai-
smo e minuzia naturalistica dei particolari3. La stessa
contraddizione vittoriana è patente anche negli scritti di
Ruskin; il suo intellettualistico entusiasmo per l’arte
non sempre si può conciliare con il suo messaggio socia-
le, che vede possibile la perfetta bellezza solo in una

Storia dell’arte Einaudi 200


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

comunità retta da solidarietà e giustizia. Una grande arte


è l’espressione di una società moralmente sana; nel
tempo materialista della macchina fatalmente intristi-
scono il senso della bellezza e la facoltà di creare valori
d’arte. La stereotipa accusa contro la moderna società
capitalistica di uccidere l’anima con l’impronta della
moneta e con i suoi metodi meccanici di produzione, già
l’aveva lanciata Carlyle; Ruskin non fa che ripetere le
parole del predecessore. E neppure il lamento sulla deca-
denza dell’arte è nuovo. Anzi è antico quanto la leg-
genda dell’età dell’oro l’atteggiamento verso l’arte con-
temporanea, che la considera inferiore a quella del pas-
sato e pretende di vedere in essa i segni della stessa deca-
denza che affligge i costumi. Ma finora nel declino del-
l’arte non si era mai scorto il sintomo di una malattia che
minasse tutto l’organismo sociale, né mai prima di
Ruskin il legame organico fra l’arte e la società era stato
visto con tanta chiarezza4. Senza dubbio egli fu il primo
a concepire lo scadere dell’arte e del gusto come segno
di una generale crisi della civiltà e ad enunciare il prin-
cipio, fondamentale anche se neppure oggi abbastanza
apprezzato, che si debbono mutare anzitutto le condi-
zioni di vita se si vuole suscitare nell’uomo il senso della
bellezza e la comprensione dell’arte. Questa scoperta lo
indusse ad abbandonare la storia dell’arte per l’econo-
mia politica; e, riconoscendo il materialismo di questa
scienza, si scostò dall’idealismo di Carlyle. Inoltre
Ruskin fu il primo in Inghilterra a sostenere ferma-
mente che l’arte è di pubblico interesse e che il favorir-
la è uno dei compiti piú importanti dello stato; che, in
altre parole, essa è necessaria alla società e nessuna
nazione può trascurarla senza pericolo per la sua vita
intellettuale. Infine egli fu il primo a proclamare che l’ar-
te non è privilegio di artisti, esperti e persone colte, ma
retaggio e proprietà di tutti. Tuttavia egli non era un
socialista, anzi neppure un vero democratico5. La plato-

Storia dell’arte Einaudi 201


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nica repubblica dei filosofi, nella quale la bellezza e la


saggezza erano i principî informatori, era la forma piú
vicina al suo ideale, e quanto al suo «socialismo» si limi-
tava ad asserire che l’uomo è educabile e ha diritto alla
cultura. Secondo lui, la vera ricchezza non consiste nel
possesso di beni materiali, ma nella capacità di godere
la bellezza della vita e dell’arte. Questo quietismo este-
tico e il rifiuto di ogni violenza sono i limiti del suo rifor-
mismo6.
William Morris, il terzo di quelli che si occupano di
critica della cultura nell’epoca vittoriana, è assai piú
coerente in teoria e progredito nella pratica, di Ruskin.
Per certi riguardi egli di fatto è il piú grande7, cioè il piú
audace, il piú intransigente dei vittoriani, benché non
sappia liberarsi del tutto dalle contraddizioni e dai com-
promessi. Ma dalla teoria ruskiniana sul legame fatale
dell’arte con la società egli ha saputo trarre l’estrema
conseguenza, giungendo alla persuasione che «fare dei
socialisti» fosse piú urgente che fare della buona arte.
L’idea di Ruskin che l’inferiorità dell’arte moderna, il
declino della cultura artistica, il cattivo gusto del pub-
blico non fossero che sintomi di un male piú profondo
ed esteso, egli la sviluppò fino in fondo, e comprese che
era insensato voler migliorare l’arte e il gusto, lascian-
do immutata la società. Egli sapeva che è inutile cerca-
re d’influire direttamente sullo sviluppo artistico e che
al massimo si possono creare condizioni sociali che ne
permettano una migliore comprensione. Egli era per-
fettamente consapevole della lotta di classe, nelle cui
forme si svolge il processo sociale e quindi anche l’evo-
luzione artistica, e considerava il compito piú impor-
tante renderne conscio il proletariato8. Benché chiare sui
fatti fondamentali, le teorie e le esigenze di Morris con-
tengono tuttavia, come si è detto, numerose contraddi-
zioni. Nonostante il suo realismo nel concepire la natu-
ra e la funzione sociale dell’arte, egli è un romantico

Storia dell’arte Einaudi 202


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

invaghito del Medioevo e del suo ideale di bellezza.


Predica la necessità di un’arte fatta dal popolo e per il
popolo, ma resta un dilettante fallito e fa cose che solo
i ricchi possono comprare e solo i colti godere. Egli
sostiene che l’arte nasce dal lavoro, dall’esercizio del
mestiere, ma non riconosce l’importanza del massimo e
piú pratico strumento della produzione moderna, la mac-
china. La fonte delle contraddizioni fra la sua dottrina
e la sua attività d’artista va cercata nel tradizionalismo
piccolo-borghese con cui i suoi maestri, Carlyle e
Ruskin, giudicano l’epoca della tecnica, e nel loro pro-
vincialismo da cui, egli non sa liberarsi del tutto.
Ruskin deduceva la decadenza dell’arte dal fatto che
la moderna fabbrica, con il suo metodo di produzione
meccanica e la sua divisione del lavoro, impedisce al
lavoratore un intimo rapporto con l’opera sua, cioè priva
il lavoro di una sua anima ed estrania il produttore dal
prodotto delle sue mani. La lotta contro l’industrialismo
veniva a perdere in lui il significato di lotta contro il pro-
letarizzarsi delle masse per trasformarsi in romantico
entusiasmo per qualcosa che non poteva ripetersi, cioè
per il lavoro artigianale, l’industria casalinga, le corpo-
razioni, insomma le forme medievali di produzione. Il
merito di Ruskin è di aver additato la bruttezza dell’arte
applicata dell’età vittoriana, e, di fronte ai materiali
spuri, alla forma assurda e all’esecuzione rozza e a buon
mercato, di aver richiamato alla memoria dei suoi con-
temporanei il fascino del lavoro a mano, solido e accu-
rato. Il suo influsso fu vastissimo, quasi inestimabile. Il
lavoro nell’ambito di un’officina relativamente piccola,
in cui i rapporti fra i lavoratori conservassero un carat-
tere personale, in cui il lavoro a mano fosse assoluta-
mente prevalente e ogni lavoratore attendesse a un’o-
pera singola, completa, divenne l’ideale della moderna
produzione artistica e artigiana. Il carattere pratico e
solido dell’architettura e dell’arte industriale moderna

Storia dell’arte Einaudi 203


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sono in gran parte il risultato degli sforzi e dell’inse-


gnamento di Ruskin. Ma il loro effetto immediato fu
quello di provocare un culto esagerato del lavoro a
mano, che misconosceva i compiti e le possibilità del-
l’industria meccanica, e di destare una speranza che
doveva andare delusa. Era romanticismo, irrazionali-
smo della peggior specie credere che le conquiste tecni-
che, sorte da reali bisogni e in vista di concreti vantag-
gi economici, potessero venire semplicemente respinte.
Era quanto mai ingenuo voler fermare lo sviluppo tec-
nico ed economico con polemiche e proteste. Ruskin e
i suoi discepoli avevano ragione in quanto effettiva-
mente gli uomini vennero a perdere il dominio sulla
macchina, la tecnica si rese indipendente e, specie nel
campo dell’arte industriale, produsse gli oggetti piú
repellenti e privi di gusto; ma essi dimenticavano che per
dominare la macchina non c’era altra via che accettarla
di buon grado e sottoporla allo spirito.
L’errore stava anzitutto nella troppo angusta defini-
zione della tecnica, nel disconoscere la natura tecnica di
ogni concreta produzione, di ogni applicazione pratica,
di ogni contatto con la realtà obiettiva. All’arte occor-
re sempre un espediente materiale, tecnico, uno stru-
mento, una «macchina»; ed è cosa tanto evidente che si
è potuto vedere appunto in questo suo carattere media-
to, nella natura materiale dei suoi mezzi, nel suo condi-
zionamento tecnico uno dei suoi caratteri piú essenzia-
li. Forse l’arte è proprio la piú sensibile, la piú tangibi-
le «manifestazione» dello spirito e già come tale è lega-
ta a qualcosa di concreto, a una tecnica, a uno stru-
mento, sia questo il telaio a mano o il telaio meccanico,
il pennello o la macchina da presa, il violino o – per
nominar qualcosa di veramente orribile – la macchina
del sonoro. Perfino la voce umana – e anche l’apparato
canoro di un Caruso – è uno strumento materiale e nulla
piú. L’anima si versa nell’anima, direttamente, d’un

Storia dell’arte Einaudi 204


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tratto, senza strumento alcuno, solo nell’estasi mistica,


nella felicità d’amore, nella compassione – forse soltan-
to nella compassione – ma non mai nell’esperienza di
un’opera d’arte.
Tutta la storia dell’arte si può rappresentare come un
continuo rinnovarsi, ampliarsi e perfezionarsi dei mezzi
tecnici dell’espressione, e il suo normale e regolare svi-
luppo può definirsi come un processo di piena utilizza-
zione e dominio di essi, come un armonico equilibrio tra
il potere e il volere, tra i mezzi e l’intento artistico. Il
ristagno intervenuto in tale sviluppo con la rivoluzione
industriale, il vantaggio acquistato dall’evoluzione tec-
nica su quella intellettuale, non vanno tanto attribuiti
alla maggior complicazione ed efficienza delle macchine
che si cominciavano a usare, quanto al ritmo assunto dal-
l’evoluzione tecnica sotto l’impulso della congiuntura
economica, un ritmo cosí rapido da non poter essere
seguito dallo sviluppo intellettuale. In altre parole, colo-
ro che avrebbero potuto trasferire nella produzione mec-
canica la tradizione dell’artigiano, i maestri indipen-
denti e i loro aiuti, vennero esclusi dalla vita economi-
ca, prima che avessero potuto adattare ai nuovi metodi
le antiche tradizioni del loro mestiere. Cioè l’equilibrio
fra evoluzione tecnica ed evoluzione intellettuale fu tur-
bato da una crisi dell’organizzazione e non già da un
cambiamento fondamentale nella natura della tecnica:
nelle industrie che si erano sviluppate dal vecchio arti-
gianato scarseggiarono a un tratto gli esperti.
Morris condivideva i pregiudizi di Ruskin contro la
produzione meccanica come il suo entusiasmo per il
lavoro a mano, ma fu assai piú razionale e progressista
del maestro nel giudicare la funzione della macchina.
Egli rimproverava alla società del suo tempo l’abuso
della tecnica, ma già sapeva come in certe circostanze
questa potesse diventare una benedizione per l’uma-
nità9.

Storia dell’arte Einaudi 205


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il suo ottimismo socialista si manifestava anche in


questa speranza, fondata sul progresso tecnico. Secon-
do la sua definizione, l’arte esprime la gioia del lavoro10;
per lui essa non è soltanto una fonte di felicità, ma
nasce da un senso di felicità. Il suo vero valore sta nel
processo creativo; nell’opera l’artista gode della propria
produttività ed è la gioia del lavoro a generare l’arte.
Questa autogenesi è invero piuttosto misteriosa e accu-
sa un deciso influsso di Rousseau, ma non è piú mistica
né piú romantica dell’idea che nel macchinismo vede la
fine dell’arte.

I fenomeni sociali intorno a cui si affatica la critica


dell’arte e della cultura nell’epoca vittoriana formano
anche l’argomento del romanzo inglese del tempo.
Anche questo s’impernia sul problema, che Carlyle ha
chiamato «della condizione inglese», e descrive i rap-
porti sociali sorti dalla rivoluzione industriale. Ma esso
si rivolge a un pubblico piú composito di quello della let-
teratura critica, ha un carattere piú eterogeneo e parla
un linguaggio piú vario, meno scelto. Cerca di interes-
sare ceti in cui non sono mai penetrate le opere di Carly-
le e di Ruskin, e vuol conquistarsi lettori per i quali le
riforme sociali non siano soltanto questione di coscien-
za, ma di vita. Ma poiché questi lettori sono una mino-
ranza, il romanzo rimane principalmente orientato
secondo gli interessi dell’alta e media borghesia, e serve
di sfogo ai conflitti morali, che la lotta di classe suscita
nei vincitori. Lo stimolo può venire, come per Disraeli,
da nostalgiche fantasie patriarcali e feudali, o da un
ideale di vita cristiano-sociale, come per Kingsley e Mrs
Gaskell, oppure (ed è il caso di Dickens), dalla preoc-
cupazione per l’immiserirsi della piccola borghesia; ma
si finisce sempre con l’accettare in sostanza l’ordine
costituito. Tutti cominciano con i piú aspri attacchi alla
società capitalistica, ma alla fine ne accolgono le pre-

Storia dell’arte Einaudi 206


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

messe in un quadro ottimistico o quietistico, come se


volessero metterne a nudo e combatterne gli abusi sol-
tanto per evitare profondi cambiamenti rivoluzionari. In
Kingsley la tendenza conciliativa dà luogo a un aperto
mutamento di opinioni, in Dickens è velata dall’atteg-
giamento radicale del poeta, che va spostandosi sempre
piú a sinistra. Una parte degli scrittori simpatizza con
le classi piú elevate, un’altra con gli umiliati e gli offe-
si, ma non ci sono fra loro veri rivoluzionari. Nel caso
migliore essi oscillano fra impulsi schiettamente demo-
cratici e la persuasione che, nonostante tutto, le distin-
zioni di classe siano giustificate e abbiano un benefico
effetto. Le differenze tra loro sono, comunque, d’im-
portanza secondaria in confronto alle analogie del loro
conservatorismo filantropico11.
Il moderno romanzo sociale sorge anche in Inghil-
terra, come in Francia, intorno al 1830 e fiorisce negli
anni torbidi fra il 1840 e il 1850, quando il paese è sul-
l’orlo della rivoluzione. Anche qui esso diventa la mas-
sima espressione letteraria di quella generazione per la
quale le mete e i valori della società borghese sono pro-
blematici e vuol spiegarsene la rapida ascesa e l’incom-
bente sfacelo. Ma nel romanzo inglese i problemi discus-
si sono piú concreti e generali, meno intellettualistici e
raffinati che in quello francese; la posizione dello scrit-
tore è piú umana, piú generosa, ma insieme piú conci-
liante e opportunistica.
Disraeli, Kingsley, Mrs Gaskell e Dickens sono i
primi discepoli di Carlyle e sono tra quegli scrittori che
piú prontamente ne accettano le idee12. Sono irraziona-
listi, idealisti, favorevoli all’intervento dello Stato,
scherniscono l’utilitarismo e l’economia nazionale, con-
dannano il liberalismo e l’industrialismo, pongono i loro
romanzi al servizio della lotta contro il principio del lais-
sez faire e l’anarchia economica, che per essi ne è la con-
seguenza. Prima del 1830, il romanzo mai si era pre-

Storia dell’arte Einaudi 207


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sentato come interprete di una tal tendenza, benché in


Inghilterra il romanzo moderno già con Defoe e con
Fielding avesse assunto carattere «sociale». Esso si col-
legava ai saggi di Addison e Steele ben piú direttamen-
te e profondamente che al romanzo pastorale e amoro-
so di Sidney e di Lyly, e i suoi primi maestri dovettero
agli stimoli del giornalismo l’attenzione per le questio-
ni di attualità e la sensibilità per i problemi sociali del
giorno. È vero che questa s’attutí alla fine del primo
grande periodo del romanzo inglese, ma non venne
meno del tutto. Il romanzo nero e sensazionale, che si
sostituí alle opere di Fielding e di Richardson nel favo-
re del pubblico, non aveva diretto rapporto con la realtà
sociale, e neppure con la realtà in genere, e d’altronde
nei romanzi di Jane Austen la realtà sociale era, sì, il ter-
reno da cui nascevano i personaggi, ma non costituiva
certo un problema, che la scrittrice tentasse di risolve-
re o di interpretare. Solo con Walter Scott il romanzo
ridiventa «sociale», benché in tutt’altro senso che in
Defoe, Fielding, Richardson o Smollet. In Scott la
dipendenza dei personaggi dallo sfondo sociale è assai
piú chiaramente sentita che nei suoi predecessori; egli li
mostra sempre come esponenti di una classe, ma il suo
quadro della società è assai piú astratto e programmati-
co di quello del romanzo settecentesco. Egli fonda una
nuova tradizione e solo vagamente discende dalla linea
di Defoe, Fielding, Smollet. Invece Dickens, che suc-
cede immediatamente allo scozzese, soprattutto in quan-
to è il miglior narratore e l’autore piú popolare del suo
tempo, si ricollega proprio a quella linea poiché, sebbe-
ne discepolo di Walter Scott – e chi non lo è, fra i
romanzieri della prima metà del secolo? – è assai piú
vicino alla forma picaresca degli antichi autori che allo
stile drammatico del suo maestro. Dickens si riannoda
al Settecento anche per la tendenza morale e didattica
dell’arte sua; oltre la tradizione picaresca di Fielding e

Storia dell’arte Einaudi 208


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Sterne, egli riprende l’indirizzo filantropico di Defoe e


di Goldsmith, che Scott aveva trascurato13. La sua popo-
larità si spiega soprattutto con la ripresa di entrambe
quelle tradizioni letterarie per cui egli è in grado di
rispondere ai gusti del nuovo pubblico, sia con la varietà
picaresca, sia con il tono sentimentale e morale delle sue
opere.
In Inghilterra, fra il 1816 e il 1850, si pubblicano in
media cento romanzi all’anno14; e i libri editi nel 1853,
in prevalenza opere narrative, sono il triplo di quelli
pubblicati venticinque anni prima15. Vi è un reciproco
rapporto di causa ed effetto fra l’aumento dei lettori e
la diminuzione del prezzo dei libri. Il pubblico lettera-
rio, formatosi nel Settecento, si accrebbe a un tratto con
lo sviluppo delle biblioteche circolanti; ma queste, se rin-
vigorirono l’attività editoriale, non ridussero i prezzi dei
libri. Anzi, la loro crescente richiesta contribuiva a sta-
bilizzarli a un livello relativamente alto. Un romanzo, di
solito in tre volumi, costava una ghinea e mezza, somma
che solo pochissimi potevano spendere per quello scopo.
Quindi la letteratura amena difficilmente superava la
cerchia degli abbonati alle biblioteche. Un mutamento
fondamentale nella composizione e nell’ampiezza del
pubblico si verificò soltanto quando i romanzi comin-
ciarono a uscire in fascicoli mensili. Il pagamento ratea-
le, benché riducesse il prezzo solo di un terzo, permise
a molti, che fino allora non compravano libri, di acqui-
starsi le opere degli autori prediletti. La pubblicazione
di romanzi a dispense mensili rappresentò quindi un’in-
novazione commerciale, che in sostanza corrispondeva
all’uso del romanzo d’appendice ed ebbe analoghe con-
seguenze sociali e artistiche. Una di esse fu il ritorno alla
forma picaresca.
Dickens, i cui successi segnano anche il trionfo dei
nuovi metodi editoriali, gode di tutti i vantaggi e soffre
di tutti gli inconvenienti che derivano dall’ampia diffu-

Storia dell’arte Einaudi 209


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sione della letteratura. Il continuo contatto con il gran


pubblico lo aiuta a trovare uno stile popolare nel senso
migliore; egli è di quegli artisti non molto numerosi che
sono grandi appunto perché popolari. Alla fedeltà del
suo pubblico e al senso di sicurezza di cui lo riempie la
devozione dei lettori egli deve il suo grande stile epico,
il tono costante del suo linguaggio e quel suo creare in
modo spontaneo, schietto, quasi ingenuo, che può dirsi
unico nell’Ottocento. Veramente il carattere popolare
del suo stile spiega solo in parte la sua grandezza, poi-
ché Alexandre Dumas ed Eugène Sue sono altrettanto
popolari, senza esser grandi. E ancor meno la sua gran-
dezza spiega il suo successo, perché Balzac è incompa-
rabilmente piú grande, altrettanto facile, eppure assai
meno fortunato, benché le condizioni esteriori in cui
crea le sue opere siano perfettamente analoghe. Gli
inconvenienti della popolarità sono invece molto piú
facili da spiegare. La fedeltà verso i lettori, la solidarietà
spirituale con la moltitudine ingenua e il desiderio di
mantenere la cordialità di tale rapporto lo spingono ad
attribuire un valore assoluto a quei mezzi che trovano
eco nell’emotività delle masse, e a credere quindi nel-
l’infallibile istinto e nel gran cuore del pubblico16. Non
avrebbe mai ammesso che siano sovente in rapporto
inverso il pregio di un’opera e il numero di coloro che
se ne sentono commossi. Ci sono certi mezzi che rie-
scono a muoverci al pianto, benché poi ci si vergogni di
non aver resistito alla loro suggestione «universalmente
umana». Sul destino degli eroi di Omero, Sofocle,
Shakespeare, Corneille, Racine, Voltaire, Fielding, Jane
Austen, Stendhal e Flaubert, noi non versiamo lacrime;
invece Dickens suscita la stessa facile, compiaciuta com-
mozione con cui reagiamo alla maggior parte degli odier-
ni film.
Dickens è uno dei piú fortunati scrittori di tutti i
tempi, e forse il piú popolare fra i grandi dell’età moder-

Storia dell’arte Einaudi 210


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

na. Certo è l’unico vero poeta, dall’età romantica in qua,


la cui opera non nasca in contrasto con il suo tempo, in
tensione con l’ambiente e risponda invece perfettamen-
te alle aspirazioni del pubblico. Egli gode di una popo-
larità mai raggiunta dopo Shakespeare, probabilmente
analoga a quella degli antichi mimi e giullari. Il mondo
di Dickens è cosí totale e senza incrinature, perché egli
non ha bisogno di fare concessioni quando parla al suo
pubblico, e il suo orizzonte è altrettanto ristretto, il suo
gusto altrettanto indiscriminato e la sua fantasia altret-
tanto ingenua, sebbene incomparabilmente piú ricca, di
quella dei suoi lettori. Molto giustamente Chesterton
osserva che, a differenza di Dickens, gli odierni scritto-
ri popolari hanno sempre la sensazione di dover abbas-
sarsi al livello del loro pubblico17. Tra loro e il lettore esi-
ste una frattura altrettanto sensibile, anche se diversa di
carattere e assai meno giustificata, che tra i veri poeti e
il pubblico medio del tempo. Nulla di simile per
Dickens. Non soltanto egli è il creatore della piú gran-
de galleria di figure che, impresse nell’animo di ogni let-
tore inglese, ne popolano il mondo fantastico, ma il suo
intimo rapporto con esse è identico a quello del pubbli-
co. I beniamini del lettore sono anche i suoi ed egli parla
della piccola Nell o del piccolo Dombey con lo stesso
affetto e lo stesso tono ingenuo di qualsiasi vecchietto
o vecchia zitella.
La serie dei trionfi per Dickens cominciò con la prima
grande opera, Il circolo Pickwick che, a partire dalla
quindicesima dispensa, si vendette in quarantamila copie.
Questo successo determinò la forma editoriale in cui
doveva svilupparsi per venticinque anni la letteratura
amena inglese. L’autore, divenuto a un tratto celebre,
non perdette mai piú il suo ascendente. Il mondo non si
saziava di leggere i suoi libri; ed egli lavorava febbril-
mente, senza tregua, quasi come Balzac, per rispondere
all’enorme richiesta. Questi due colossi si fanno riscon-

Storia dell’arte Einaudi 211


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tro: sono gli esponenti della stessa congiuntura lettera-


ria, i fornitori dello stesso pubblico affamato di libri
che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fer-
menti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fit-
tizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel
caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute. Ma
Dickens diventa piú popolare di Balzac. Favorito dalla
vendita a dispense mensili a buon mercato, egli conqui-
sta alla letteratura un pubblico completamente nuovo,
gente che prima non leggeva mai romanzi, e di fronte al
quale i lettori della piú antica narrativa fanno l’effetto di
veri intellettuali, Una donna di servizio narra che nel suo
casamento c’era l’abitudine di riunirsi, il primo lunedí di
ogni mese, nell’alloggio di un tabaccaio a prendere il tè,
pagando una piccola quota; quindi il padron di casa leg-
geva ad alta voce l’ultimo fascicolo di Dombey, e alla let-
tura venivano ammessi gratis tutti gli inquilini dello sta-
bile18. Dickens fu un produttore di letteratura amena
per le masse, il continuatore del vecchio romanzo nero e
l’inventore del moderno «giallo»19; insomma, l’autore di
libri che, a prescindere dal valore poetico, corrispondo-
no perfettamente ai nostri best-sellers. Ma sarebbe un
errore credere ch’egli scrivesse i suoi romanzi soltanto
per le masse incolte o di scarsa cultura; una parte dell’alta
borghesia e perfino degli intellettuali lo leggevano con
entusiasmo. I suoi romanzi erano adeguati ai tempi, arte
attuale, come per noi quella del film; e, anche per chi è
ben conscio dei suoi difetti, essa ha l’inapprezzabile valo-
re di cosa viva e volta all’avvenire.
Fin dall’inizio Dickens, tanto come gusto quanto
come ideologia, fu l’esponente della nuova letteratura
progressista. Egli riusciva a interessare anche dove non
piaceva, e si trovavano divertenti i suoi romanzi anche
se non riusciva gradito il suo messaggio sociale. La sua
arte si poteva separare dalla politica. Egli si scagliava con
parole infiammate contro le colpe della società, contro

Storia dell’arte Einaudi 212


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la spietata albagia dei ricchi, la durezza ottusa dei giu-


dici, il crudele trattamento dei bambini, le condizioni
inumane nelle prigioni, nelle fabbriche e nelle scuole,
insomma contro la brutalità propria di ogni organizza-
zione istituzionale. Le sue accuse rimbombavano all’o-
recchio di tutti ed empivano i cuori dell’angoscioso sen-
timento di un’ingiustizia imputabile a tutta la società.
Ma non si andava oltre il grido d’allarme e la soddisfa-
zione che si prova quando ci si è sfogati a gridare. Il mes-
saggio sociale del poeta non portò frutti in politica e la
sua filantropia non fu sempre vantaggiosa per l’arte.
Essa approfondí la sua penetrazione psicologica, ma
suscitò anche un sentimentalismo atto a velargli lo sguar-
do. Il suo confuso atteggiamento umanitario, il suo
«cheeriblismo» [fratelli Cheeryble sono figure filantro-
pi del Nicola Nickleby], la sua fiducia che la beneficen-
za privata e la bontà dei ricchi possano rimediare ai mali
della società nascevano, in conclusione, da un difetto di
chiarezza nella sua concezione sociale, che ne faceva un
piccolo-borghese indeciso fra l’una e l’altra classe. Egli
non riuscí mai a superare la violenta scossa della sua fan-
ciullezza, l’esperienza di chi era stato gettato fuori del
ceto medio, ai limiti del proletariato, e si sentí sempre
un decaduto, o in procinto di diventarlo20. Era in fondo
un filantropo radicale, un liberale amico del popolo, un
appassionato avversario dei conservatori, ma non un
socialista né un rivoluzionario: al massimo, un piccolo-
borghese ribelle, un umiliato che non dimenticò mai
quel che gli era toccato in gioventú21. E per tutta la vita
egli rimase il piccolo-borghese che credeva di dover
scongiurare non solo un pericolo dall’alto, ma anche
uno dal basso. Egli sentiva e pensava da piccolo-bor-
ghese e i suoi ideali erano quelli della piccola borghesia:
la vita era fatta di lavoro, di sforzo, di risparmio, per
giungere alla sicurezza, alla tranquillità e alla rispetta-
bilità; la felicità consisteva nel modesto benessere, nel-

Storia dell’arte Einaudi 213


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’idillio di una vita al riparo dal mondo ostile, nel cer-


chio familiare, nel rifugio di una camera ben riscaldata,
di un’accogliente locanda o della diligenza che ti con-
duce a una meta sicura.
Dickens è incapace di superare le intime contraddi-
zioni della sua visione sociale. Da un lato egli accusa la
società nel modo piú amaro, ma dall’altro sottovaluta la
portata del male, perché rifiuta di riconoscerla22. In
realtà egli si attiene ancora al principio: «Tutto per il
popolo – nulla con il popolo», e non riesce a liberarsi dal
pregiudizio che il popolo sia incapace di governarsi23.
Egli teme la «plebaglia» e identifica il «popolo» in senso
ideale con il ceto medio. Flaubert, Maupassant e i Gon-
court, benché conservatori, sono ribelli irriducibili;
Dickens invece, benché politicamente progressista e
oppositore, è un pacifico borghese che accetta senz’al-
tro i presupposti del dominante capitalismo. Egli cono-
sce soltanto i fardelli e le pene della piccola borghesia e
combatte contro mali a cui si può rimediare senza scuo-
tere le basi della società. Della condizione del proleta-
riato, della vita nelle grandi città industriali egli non sa
quasi nulla, e sul movimento dei lavoratori ha molte idee
storte. Solo la sorte dell’artigiano, del piccolo esercen-
te, dei garzoni e degli apprendisti lo preoccupa. Le esi-
genze della classe operaia, la grande forza del futuro in
continuo accrescimento, non fanno che impaurirlo. Le
conquiste tecniche del suo tempo non lo interessano in
modo particolare e lo spirito romantico con cui egli ade-
risce alle forme di vita tradizionali è molto piú profon-
do e spontaneo dell’entusiasmo di Carlyle e di Ruskin
per i conventi e le Arti del Medioevo. Di fronte all’a-
more di Balzac per la grande città, le innovazioni, il tec-
nicismo, questo atteggiamento appare inerzia, meschi-
nità provinciale. Nelle opere tarde, specie in Tempi dif-
ficili, la sua concezione forse si amplia: il problema della
città industriale vi è ormai presente, e il destino della

Storia dell’arte Einaudi 214


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

classe lavoratrice è discusso con crescente interesse. Tut-


tavia il quadro ch’egli si fa dell’intima struttura del capi-
talismo rimane insufficiente e limitato ed ingenuo è il
giudizio sui fini del movimento proletario. Del resto è
tipicamente piccolo-borghese la sua idea che l’agitazio-
ne socialista sia tutta demagogia e lo sciopero non sia che
ricatto!24. La simpatia dell’autore va al bravo Stephen
Blackpool, che non ha preso parte allo sciopero e, per
atavica, canina fedeltà, si sente irresistibilmente, benché
assai velatamente, solidale con il padrone. La «morale
del cane» in Dickens ha una parte importante. Quanto
piú un atteggiamento è lontano dalla posizione matura,
critica di un intellettuale, tanto maggiore comprensione
e simpatia trova in Dickens. I semplici, gli incolti gli
sono sempre piú vicini della gente colta, e i bambini, piú
degli adulti.
Dickens fraintende del tutto la lotta fra capitale e
lavoro; non capisce che si tratta del contrasto di due
forze inconciliabili e che non basta la buona volontà del
singolo a comporre il dissidio. La verità evangelica che
l’uomo non vive di solo pane non suona molto persua-
siva in un romanzo che appunto descrive la lotta del pro-
letariato per il pane quotidiano. Ma Dickens non può
rinunziare alla sua puerile fiducia nella possibilità di
conciliare le classi. Egli si culla nell’illusione che senti-
menti di patriarcale filantropia da una parte, e una
paziente abnegazione dall’altra possano assicurare la
pace sociale. Predica la rinunzia alla violenza, perché
ritiene che rivolta e sovversione siano mali peggiori del-
l’oppressione e dello sfruttamento. Non è mai arrivato
a parole cosí dure come il famoso «meglio l’ingiustizia
che il disordine» solo perché era meno audace di Goethe
e meno chiaro verso se stesso. Egli trasforma il sano,
schietto egoismo dell’antica borghesia in un intruglio
zuccherino di «filosofia natalizia», che Taine caratte-
rizza benissimo: «Siate buoni e amatevi; il sentimento

Storia dell’arte Einaudi 215


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

del cuore è l’unica vera gioia... Lasciate la scienza ai


dotti, l’orgoglio ai nobili, il lusso ai ricchi...»25. Dickens
non sapeva quanto fosse duro il nocciolo di quel mes-
saggio d’amore e quanto cara sarebbe costata la sua pace
ai piú deboli. Ma lo sentiva e le intime contraddizioni
della sua visione si riflettono chiaramente nei gravi
disturbi nervosi che lo affliggono. Il mondo di questo
apostolo di pace non è certo un mondo pacifico e inno-
cente. Il suo beato sentimentalismo spesso non è che la
maschera di una spaventosa crudeltà, l’umorismo è un
sorriso fra le lacrime, il buonumore combatte con una
soffocante angoscia, dietro i lineamenti delle sue figure
piú bonarie si cela una smorfia, il decoro borghese con-
fina sempre con la criminalità, lo scenario del suo dilet-
to mondo patriarcale è un sinistro ripostiglio di roba vec-
chia, la sua immensa vitalità, la sua gioia di vivere sta
all’ombra della morte e la sua fedeltà al vero è una feb-
brile allucinazione. Questo vittoriano apparentemente
cosí decoroso, corretto, rispettabile si rivela un disperato
surrealista in preda a sogni angosciosi.
Dickens non è soltanto un rappresentante del verismo
e del naturalismo, non solo un perfetto maestro, di petits
faits vrais, ma proprio l’artista a cui il naturalismo della
letteratura inglese deve le piú importanti conquiste.
Tutto il romanzo inglese moderno deriva da lui l’arte di
ricreare l’ambiente, di disegnare i caratteri, di condur-
re i dialoghi. In realtà però tutti i personaggi di questo
naturalista sono caricature, tutti i tratti della vita sono
calcati, esagerati, spinti all’estremo, tutto diventa un
fantastico spettacolo di marionette, di ombre cinesi,
tutto si trasforma in situazioni e rapporti da melo-
dramma, stilizzati, semplificati, stereotipi. Le sue figu-
re piú attraenti sono veri e propri pazzi, i suoi piú inno-
cui piccoli borghesi sono degli originali impossibili, dei
monomani, dei coboldi; i suoi ambienti accuratamente
disegnati fanno l’effetto di scenari romantici, e tutto il

Storia dell’arte Einaudi 216


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suo naturalismo sbocca sovente nel fantasma crudo e


tagliente del sogno. Le peggiori assurdità di Balzac risul-
tano piú logiche di molte delle visioni dickensiane. Le
inibizioni e i compromessi vittoriani favoriscono in lui
lo sviluppo di uno stile affatto senza equilibrio, incon-
trollato, «nevrotico». D’altronde non sempre le nevro-
si sono complicate, e Dickens effettivamente non aveva
in sé nulla di complicato e differenziato. Non solo era
fra i meno colti scrittori inglesi, non solo era altrettan-
to indotto e di scarse letture che un Richardson o una
Jane Austen; ma, a differenza specialmente di quest’ul-
tima, era primitivo e per certi aspetti ottuso, veramen-
te un bambino insensibile ai piú profondi problemi della
vita. Non aveva nulla in sé dell’intellettuale, e del resto
agli intellettuali non era molto favorevole. Se gli avve-
niva di descrivere un artista o un pensatore, se ne pren-
deva gioco. Di fronte all’arte manteneva la diffidenza
del puritano, aggiungendovi l’incomprensione e l’ostilità
del prosaico borghese; egli la considerava propriamente
come qualcosa di superfluo, anzi dissoluto. Questa sua
avversione era peggio che borghese, era piccolo-borghe-
se e filistea. Egli rifiutava ogni rapporto con artisti,
poeti e simili fanfaroni, come se volesse provare anche
cosí la propria solidarietà con il suo pubblico26.
Nell’epoca vittoriana il pubblico letterario era già
diviso in due sfere ben distinte e Dickens, benché aves-
se i suoi fedeli anche fra le classi elevate, era conside-
rato l’autore del pubblico incolto e di facile contenta-
tura. Questa divisione esisteva fin dal Settecento, e di
fronte a Defoe e a Fielding si può ritenere che fosse
Richardson a interpretare il gusto della borghesia piú
raffinata; tuttavia i lettori di Defoe, Fielding e Richard-
son erano in complesso le stesse persone. Invece dopo
il 1830 il divario di cultura tra i due ceti si fece assai piú
sensibile, e il pubblico di Dickens poteva distinguersi
abbastanza nettamente da quello di Thackeray e di Trol-

Storia dell’arte Einaudi 217


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lope, benché molti lettori appartenessero all’uno e all’al-


tro. Evidentemente anche nel Settecento c’erano colo-
ro che si potevano identificare piú facilmente e perfet-
tamente con gli eroi e le eroine di Richardson, altri
invece con quelli di Fielding; ma ora la distinzione è piú
netta: c’è chi non può assolutamente sopportare Dickens
e chi non riesce quasi a capire Thackeray o George
Eliot. La presenza – accanto al pubblico colto e dotato
di senso critico – di lettori altrettanto assidui, ma che
nella letteratura cercano solo un leggero e fugace diver-
timento, è un fenomeno tipico dei nostri giorni, ma era
ignoto prima dell’età vittoriana. Il pubblico della lette-
ratura amena era per lo piú un pubblico di lettori occa-
sionali; i lettori assidui e regolari non si trovavano che
tra le persone colte. Ma ai tempi di Dickens, proprio
come oggi, la letteratura amena ha già due gruppi diver-
si di clienti. Quei tempi si distinguono dai nostri in
quanto allora il romanzo popolare comprendeva le opere
di un Dickens, amate anche da molti che pur sapevano
apprezzarne anche di piú raffinate27; mentre oggi la
buona letteratura è fondamentalmente non popolare e
quella popolare non è per la gente di gusto.
L’esposizione universale del 1851 segna una svolta
nella storia d’Inghilterra; a differenza del primo perio-
do vittoriano, il successivo è un tempo di prosperità e
di pacificazione. L’Inghilterra diventa l’«officina del
mondo», i prezzi salgono, le condizioni dei lavoratori
migliorano, il socialismo è reso inoffensivo, il potere
politico della borghesia si consolida. Veramente i pro-
blemi sociali non vengono risolti, ma semplicemente
smussati. La catastrofe del 1848 ha provocato una sorta
di stanchezza e passività nei ceti progressisti e cosí anche
il romanzo perde la sua aggressiva intolleranza. Thacke-
ray, Trollope e George Eliot non scrivono piú «roman-
zi sociali» come quelli di Kingsley, Mrs Gaskell e
Dickens. Essi disegnano grandi quadri della società, ma

Storia dell’arte Einaudi 218


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di rado discutono i problemi del giorno, e rinunziano a


diffondere una tesi politico-sociale. Per George Eliot, la
cui concezione è assai caratteristica dell’atmosfera intel-
lettuale del tempo28, la realtà sociale non è piú in primo
piano, sebbene, come per Jane Austen, sia l’elemento
vitale in cui si muovono i personaggi diventando l’un per
l’altro fatali. Suo tema costante è l’interdipendenza degli
uomini, il campo magnetico ch’essi creano intorno a sé,
e di cui intensificano la potenza con ogni azione e ogni
parola29; essa mostra che nella società moderna nessuno
può vivere isolato, autonomo30, e il suo è in questo senso
un romanzo sociale. Ma l’accento è mutato: la società è
sí una realtà positiva, che tutto abbraccia, ma anche un
fatto che si accetta e non si discute.
George Eliot significa nella storia del romanzo ingle-
se una svolta verso l’introversione. Gli avvenimenti piú
importanti sono nella sua opera di natura intellettuale e
morale, e la scena delle grandi lotte fatali è l’anima, l’in-
timo, la coscienza morale degli uomini. Il suo è quindi
un romanzo psicologico31. Anziché avvenimenti e avven-
ture esteriori, questioni e conflitti sociali, al centro del-
l’azione stanno un problema e una crisi morale. I suoi
eroi sono anime pensose, per cui le esperienze della
mente e della coscienza morale hanno l’immediatezza di
fatti fisici. I romanzi della Eliot sono saggi psicologico-
filosofici, che in certa misura si accostano a quell’ideale
del romanzo a cui miravano i romantici tedeschi. Tutta-
via si tratta di un’arte già diversa dal romanticismo, anzi
il primo tentativo fortunato di sostituirne i valori intel-
lettuali e morali con altri, fondamentalmente antiro-
mantici. I romanzi di George Eliot hanno un nuovo con-
tenuto intellettuale e passionale che si era perduto dal
tempo del classicismo. Anziché su esperienze sentimen-
tali di natura irrazionale, l’opera si impernia su un atteg-
giamento, che l’autrice stessa chiama «passione intellet-
tuale»32. Analisi e interpretazione della vita, conoscenza

Storia dell’arte Einaudi 219


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e comprensione dei valori intellettuali, ecco il vero argo-


mento dei suoi romanzi. Comprendere è la parola che vi
ricorre sempre33; un atteggiamento vigile, responsabile,
severo con se stesso, e l’esigenza sempre ribadita: «Il
segno della vocazione e dell’elezione è la rinunzia all’op-
pio, la sopportazione del dolore con piena coscienza ed
occhi aperti», essa scrive in una lettera del 186034.
Solo nell’opera di un autore cosí profondamente lega-
to alla vita intellettuale del proprio tempo come Geor-
ge Eliot, poteva esprimersi il destino di nature cosí
riflessive, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, le
sue tragedie e le sue sconfitte, giungendo all’immedia-
tezza e alla forza, che troviamo in Middlemarch. I miglio-
ri pensatori dell’Inghilterra di allora, i piú progressisti
– Mill, Spencer, Huxley – sono amici di George Eliot;
essa traduce Feuerbach e D. F. Strauss, ed è al centro
del movimento razionalista e positivista. Un severo
senso critico, che la tiene lontana da ogni atteggiamen-
to superficiale e da ogni credulità e che impronta il suo
atteggiamento morale, caratterizza tutto il suo pensie-
ro. Fra i romanzieri inglesi è la prima a saper descrive-
re adeguatamente un intellettuale. Nessun altro con-
temporaneo sa parlare di un artista o di uno studioso
senza renderlo ridicolo e senza cader nel ridicolo. Anche
per Balzac gli intellettuali sono esseri strani, esotici, che
lo gettano in un ingenuo stupore e lo inducono a un sor-
riso piú o meno bonario. Accanto a George Eliot, egli
fa la figura di un autodidatta semicolto, anche se, come
nel Chef-d’œuvre inconnu, apre prospettive piú ampie e
piú profonde di quelle concesse all’arte della scrittrice
inglese. La forza di Balzac sta nella rappresentazione
della vita, quella di George Eliot nell’analisi. Essa cono-
sce per propria esperienza il tormento di chi lotta con
problemi intellettuali, conosce o intuisce le tragedie
legate alle sconfitte dello spirito, altrimenti non avreb-
be mai potuto creare una figura cosí originale come il

Storia dell’arte Einaudi 220


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dottor Casaubon35. Solo grazie a quest’intima disposi-


zione essa può giungere a un nuovo ideale di vita e a una
nuova concezione della «vita mancata», arricchendo di
un tipo nuovo la serie di quei «falliti» a cui apparten-
gono per lo piú gli eroi del romanzo moderno.
L’intellettualismo di George Eliot non è tuttavia la
causa reale dello svolgersi del romanzo sociale in senso
psicologico, ma è solo il sintomo di un generale proces-
so che provoca un recedere dei problemi sociali di fron-
te a quelli psicologici. Il romanzo psicologico è il gene-
re letterario degli intellettuali in quanto ceto colto in via
di emancipazione dalla borghesia, come il romanzo
sociale era quello di una intellettualità ancora in com-
plesso solidale con essa. Solo al principio del secondo
periodo vittoriano gli intellettuali si presentano in
Inghilterra come un gruppo libero, «indipendente»36, «al
di là di ogni distinzione di classe»37, «mediatore» fra le
classi38. Fino a quel momento non c’era stato un «ceto
intellettuale» conscio di una propria autonomia sociale
e ribelle alla borghesia. A questa il ceto colto rimane
legato fino a che la borghesia non lo lascia andare per la
sua strada. Questo processo di separazione tra la lette-
ratura progressista e la borghesia conservatrice, che era
cominciato con il romanticismo, cessò quando i roman-
tici divennero conservatori. Gli scrittori del primo perio-
do vittoriano propugnavano riforme all’interno della
società borghese, ma non pensarono mai a distruggerla.
E neppure la borghesia li aveva mai considerati come
estranei, né come traditori; anzi ne seguiva la critica
sociale e culturale con simpatia e benevolenza. Nella vita
della società borghese l’intellettuale esercitava una fun-
zione della cui importanza le classi dominanti erano piú
o meno consapevoli. Era la valvola di sicurezza che evi-
tava le esplosioni e dava sfogo alle tensioni interne della
borghesia, rivelando conflitti di coscienza che minac-
ciavano di venire repressi.

Storia dell’arte Einaudi 221


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Soltanto dopo la vittoria sulla Rivoluzione e la scon-


fitta del cartismo, la borghesia si sentí cosí sicura del suo
potere che non ebbe piú conflitti di coscienza né rimor-
si e credette di poter fare a meno di critiche. I gruppi
culturali e specialmente gli scrittori perdettero in que-
sto modo il senso di avere una missione nella società. Si
videro esclusi da quella classe di cui fino allora erano
stati gli interpreti, e si sentirono affatto isolati tra i ceti
incolti da un lato e dall’altro la borghesia che non aveva
piú bisogno di loro. Cosí questi gruppi, prima profon-
damente radicati nella borghesia, furono portati a
mutarsi nel ceto sociale, che noi chiamiamo degli «intel-
lettuali». Veramente questa fu solo l’ultima fase del
lungo processo di graduale affrancamento degli espo-
nenti della cultura da quelli del potere. L’umanesimo e
l’illuminismo erano state le prime tappe su questa via,
emancipando la cultura sia dal dogma e dalla Chiesa, che
dall’egemonia del gusto aristocratico. La Rivoluzione
francese aveva segnato la fine del monopolio culturale
dei due ceti superiori e aperta la strada a quello della
borghesia, che con la monarchia di luglio sembra defi-
nitivamente assicurato. Verso la metà del secolo l’epo-
ca rivoluzionaria si conclude con il distacco della cultu-
ra dalle classi dominanti e l’avvio alla formazione di un
vero e proprio ceto degli intellettuali.
Il ceto degli «intellettuali» trae origine dalla borghe-
sia e ha i suoi precursori in quell’avanguardia che aveva
presieduto al maturare della Rivoluzione francese. La
cultura è per loro illuministica e liberale, il loro ideale
di umanità è quello della personalità libera, progressiva,
sciolta da vincoli tradizionali. Quando la borghesia
allontana da sé gli intellettuali e questi abbandonano la
classe d’origine, a cui li legano innumerevoli fili, si com-
pie un processo veramente innaturale, assurdo. L’e-
mancipazione degli intellettuali può considerarsi una
fase della generale specializzazione, un aspetto cioè di

Storia dell’arte Einaudi 222


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quel processo di astrazione che dopo la rivoluzione indu-


striale abolisce i nessi «organici» tra i diversi ceti, tra le
varie professioni e i vari campi culturali; ma può anche
interpretarsi come una diretta reazione a quel processo,
come un tentativo di attuare l’ideale dell’uomo comple-
to, versatile, che integra in sé tutti i valori culturali.
L’apparente indipendenza degli intellettuali dalla bor-
ghesia, e quindi da ogni vincolo sociale, corrisponde
all’illusione che lo spirito trascenda le classi, illusione
comune a borghesi e intellettuali. Questi vogliono cre-
dere al carattere assoluto della verità e della bellezza,
perché in questo modo vengono ad essere gli esponenti
di una verità «superiore» e possono compensare la loro
mancanza d’influsso sociale; quelli tollerano la pretesa
degli intellettuali di essere al di sopra delle classi, per-
ché cosí credono di veder dimostrata l’esistenza di valo-
ri universali e la possibilità di superare i contrasti di clas-
se. Ma la scienza per la scienza o la verità per la verità,
non meno che l’art pour l’art, sono solo una conseguen-
za dell’estraniarsi dell’intellettuale dalla vita pratica.
L’idealismo implicito in questo atteggiamento esige che
la borghesia superi il suo odio per la cultura, ma gl’in-
tellettuali da parte loro vi esprimono soprattutto la loro
gelosia per la potenza dei borghesi. Il risentimento degli
uomini di cultura contro i loro padroni non è nuovo; già
gli umanisti avevano sofferto di questo conflitto da cui
derivavano i ben noti sintomi nevrotici del loro com-
plesso d’inferiorità. Ma era forse possibile per una clas-
se, che si credeva in possesso, della verità, non provare
odio e gelosia contro quella che possedeva tutta la poten-
za economica e politica? Nel Medioevo il monopolio
della «verità» l’aveva il clero, a cui non mancavano i
mezzi per esercitare il potere nella politica e nell’eco-
nomia. Tale coincidenza evitava i fenomeni patologici,
che seguirono piú tardi alla divisione di queste sfere
d’autorità.

Storia dell’arte Einaudi 223


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

A differenza del clero medievale, il moderno ceto


degli intellettuali si recluta da classi varie per censo e
mestiere e di esse rappresenta gli interessi e le vedute,
diverse e spesso antagonistiche. Questo rafforza in loro
il senso di essere al di sopra dei conflitti di classe e di
rappresentare la viva coscienza della società. La loro
origine promiscua li rende piú sensibili ai limiti delle
varie ideologie e forme di cultura, e inasprisce il tono
della loro critica sociale a cui già si sentivano chiamati
fin dal tempo della loro alleanza con la borghesia. Fin
da principio il loro compito era stato di chiarire le pre-
messe dei valori culturali e furono loro a dare chiara for-
mulazione alle idee che stavano all’origine della conce-
zione borghese, ad assicurare coerenza ideologica a quel-
lo che semplicemente era un senso della vita; in un
mondo pratico essi adempirono alla funzione del pen-
siero contemplativo, dell’introversione e della sublima-
zione; furono insomma i portavoce dell’ideologia bor-
ghese. Ma, allentati ormai i loro vincoli con la borghe-
sia, quella che un tempo era una censura che la classe
dominante imponeva a se stessa, si trasforma in una cri-
tica distruttiva, il principio della dinamica e del rinno-
vamento si muta in un principio di anarchia. Come
parte della classe borghese, gli intellettuali avevano aper-
to la via alle riforme; abbandonandola, diventano fomi-
te di rivolta e disgregazione. Fin verso il 1848, rappre-
sentano ancora lo spirito d’avanguardia della borghesia,
dopo il 1848 consciamente o inconsciamente diventano
i campioni della classe lavoratrice. La precarietà della
loro esistenza li porta a sentire una certa comunione di
destino con il proletariato, e questo senso di solidarietà
accresce la loro costante disposizione a cospirare contro
la borghesia, contribuendo a preparare la rivoluzione
contro il capitalismo.
Nella bohème l’affinità fra intellettuali e proletaria-
to va ben oltre i limiti di questa generica simpatia. Anzi,

Storia dell’arte Einaudi 224


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

il bohémien è parte del proletariato. In certo modo egli


rappresenta la figura compiuta, e insieme anche la cari-
catura dell’«intellettuale». Infatti se la bohème eman-
cipa l’intellettuale dalla borghesia, fa anche in modo
che la lotta contro le convenzioni borghesi diventi un’i-
dea fissa, spesso quasi una mania di persecuzione.
Attuando l’ideale di una concentrazione esclusiva sui
fini intellettuali, l’intellettuale trascura gli altri valori
della vita e toglie ogni significato a questa vittoria dello
spirito sulla vita. L’indipendenza del mondo borghese si
rivela una libertà apparente, poiché l’intellettuale sente
il proprio isolamento come una colpa grave, se pure
inconfessata; la sua arroganza copre in realtà una debo-
lezza; il suo esagerato orgoglio, un dubbio sulla propria
forza creativa. In Francia quest’evoluzione e piú rapida
che in Inghilterra, dove a mezzo il secolo con Ruskin,
J. S. Mill, Huxley, George Eliot e il loro seguito appaio-
no i primi rappresentanti di un «pensiero libero», «indi-
pendente», ma dove per il momento non si può parlare
né di una svolta verso la rivoluzione proletaria, né del
costituirsi di una bohème. I vincoli con la borghesia qui
sono ancora cosí stretti che gli intellettuali preferiscono
rifugiarsi in un «aristocratico moralismo»39 piuttosto
che far causa comune con le masse. Anche George Eliot
concepisce essenzialmente come una questione psicolo-
gico-morale quel che in realtà è un problema sociologi-
co, e i suoi romanzi cercano nella psicologia la risposta
a quesiti, che soltanto il sociologo può risolvere. Cosí
essa abbandona il sentiero che il romanzo russo invece
percorre, trovandovi la sua perfezione.

Il moderno romanzo russo è essenzialmente opera


dell’intelligencija russa, cioè di quell’élite che si considera
scissa dalla Russia ufficiale e per letteratura intende
anzitutto critica della società e per romanzo il romanzo
«sociale». Come semplice genere ameno o pura analisi

Storia dell’arte Einaudi 225


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

psicologica, senza pretese d’importanza e di utilità socia-


le, il romanzo è un genere ignoto in Russia fin verso il
1880. La nazione è in tal fermento e fra i lettori è cosí
evoluta la coscienza politica e sociale, che un principio
come l’art pour l’art qui non può certo affermarsi. In
Russia l’intellettuale implica sempre l’attivista, ben piú
legato che in Occidente all’opposizione democratica. I
nazionalisti conservatori non possono in alcun modo
essere annoverati fra questi intellettuali intransigenti,
esclusivi, settari40, e gli stessi maestri maggiori del
romanzo russo, specialmente Dostoevskij e Tolstoj, solo
con riserva vi possono rientrare; per altro il loro atteg-
giamento critico verso la società è legato al pensiero
dell’intelligencija, e la loro arte partecipa alla sua opera
distruttiva, anche se personalmente non vogliono aver
nulla di comune con essa41.
Tutta la moderna letteratura russa nasce dallo spiri-
to dell’opposizione. La sua prima fioritura si deve all’at-
tività poetica della nobiltà progressista e cosmopolita,
che mira ad affermare le idee dell’illuminismo e della
democrazia contro il dispotismo degli zar. La nobiltà
liberale e occidentalizzante è, al tempo di Pu∫kin, l’u-
nico gruppo colto della società russa. È vero che con il
sorgere del capitalismo commerciale e industriale la clas-
se dei lavoratori della mente, finora composta soprat-
tutto di funzionari e di medici, si allarga sensibilmente
grazie ai nuovi tecnici, avvocati e giornalisti42; ma la let-
teratura rimane dominio esclusivo di ufficiali dell’ari-
stocrazia, insoddisfatti del loro mestiere, che sperano
piú nel libero mondo borghese che nel loro vacillante
feudalesimo43. Sconfitti i decabristi, la reazione, rinvi-
gorita, riesce, sì, a sbaragliare i ribelli, ma non a evita-
re la formazione di una nuova avanguardia politica e let-
teraria – quella dell’intelligencija. Cosí nella letteratura
russa finisce l’egemonia della nobiltà, quasi esclusiva
fin verso il 1840. La morte di Pu∫kin conclude un’epo-

Storia dell’arte Einaudi 226


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ca: la funzione direttiva passa nelle mani dell’intelligen-


cija e in complesso non vi sono deviazioni fino alla rivo-
luzione bolscevica44.
Il nuovo ceto colto è un gruppo misto di nobili e ple-
bei, che recluta spostati d’ogni classe. Lo compongono
i cosiddetti «nobili penitenti», idealmente ancora abba-
stanza vicini ai decabristi, e i figli di piccoli commer-
cianti, di funzionari subalterni, di preti di città e di servi
emancipati, che di solito vengono indicati come «gente
di origine promiscua», e per lo piú conducono la vita
precaria di «liberi artisti», giornalisti, studenti e pre-
cettori. Fin verso la metà del secolo i plebei sono una
minoranza di fronte ai nobili, ma a poco a poco si fanno
piú numerosi e finiscono con l’assorbire gli altri ele-
menti. La parte piú importante l’hanno i figli dei sacer-
doti, che da casa portano con sé una certa cultura e sen-
sibilità intellettuale, ma, per la naturale opposizione tra
padri e figli, sono i piú aspri nel manifestare l’ostilità
dell’intelligencija alla religione e alle tradizioni. In com-
plesso essi sono quel che nel Settecento erano stati i figli
dei pastori in Occidente, dove l’illuminismo aveva tro-
vato condizioni analoghe a quelle della Russia prerivo-
luzionaria. Non a caso, dunque, due dei massimi cam-
pioni del razionalismo e del radicalismo russo,
Cerny∫evskij e Dobroljubov, sono figli di preti e ven-
gono dalla borghesia delle grandi città commerciali.
L’università di Mosca con le sue associazioni stu-
dentesche e i suoi circoli culturali è il centro della nuova
intelligencija senza classi. Il contrasto tra l’antica resi-
denza imperiale, scettica e dedita ai piaceri, popolata di
alti funzionari e generali, e la moderna città universita-
ria con la sua gioventú infiammabile e avida di sapere,
sta all’origine di questa svolta culturale45. Lo studente
povero, che può contare solo su se stesso, è il prototipo
del nuovo ceto intellettuale, come il nobile ufficiale
della Guardia lo era dell’antica élite. La società colta di

Storia dell’arte Einaudi 227


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Mosca conserva ancora per qualche tempo un’impronta


semiaristocratica, e fin verso il 1850 le discussioni filo-
sofiche si tengono ancora per lo piú nei salotti46, ma que-
sti non hanno piú un carattere esclusivo e a poco a poco
perdono d’importanza. Nel settimo decennio del secolo
la democratizzazione della letteratura e la costituzione
del nuovo ceto intellettuale sono ormai compiute. Dopo
l’emancipazione dei contadini questo si accresce note-
volmente per l’afflusso di elementi della piccola nobiltà
impoverita; ma questi elementi non mutano piú nulla
all’intima struttura del gruppo. I possidenti rovinati
debbono in parte vivere del loro lavoro intellettuale e
adattarsi alle condizioni dell’intelligencija borghese. Se
una parte di essi va ad accrescere il numero degli occi-
dentalisti, cosmopoliti e progressisti, un’altra parte
accresce quello degli slavofili, favorendo cosí l’equilibrio
fra i due gruppi.
Il movimento slavofilo, reazione intellettuale al razio-
nalismo degli occidentalisti, corrisponde allo storicismo
e al tradizionalismo romantico con cui, mezzo secolo
prima, l’Occidente aveva reagito alla Rivoluzione. Gli
slavofili sono gli eredi indiretti, e per lo piú inconsci, di
Burke, de Bonald, de Maistre, Herder, Hamann, Möser
e Adam Müller, come gli occidentalisti sono discepoli di
Voltaire e dell’Encyclopédie, dell’idealismo tedesco e,
piú tardi, dei socialisti Saint-Simon, Fourier e Comte,
o dei materialisti Feuerbach, Büchner, Vogt e Mole-
schott. Di fronte al cosmopolitismo e al libero pensiero
ateo degli occidentalisti, gli slavofili insistono sul valo-
re delle tradizioni religiose e nazionali e proclamano la
loro mistica fede nel contadino russo e la loro devozio-
ne alla Chiesa ortodossa. In contrasto con il razionali-
smo e il positivismo, si dichiarano per l’idea irrazionale
dell’«organico» sviluppo storico e presentano la vecchia
Russia con il suo «genuino cristianesimo» libero dal-
l’individualismo occidentale, come l’ideale e la salvezza

Storia dell’arte Einaudi 228


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’Europa; mentre per gli occidentalisti, era l’Europa


l’ideale e la salvezza della Russia. La slavofilia è in sé
antichissima, anche piú antica dell’opposizione alle rifor-
me di Pietro il Grande, ma ufficialmente comincia solo
con la lotta contro Belinskij. Ad ogni modo l’avvio effet-
tivo e il programma del movimento risalgono all’oppo-
sizione contro «gli uomini del quinto decennio». Espo-
nenti di questa slavofilia che presenta una sua defini-
zione teorica e una sua consapevolezza programmatica
dapprima sono specialmente nobili possidenti, ancora
legati a una vita feudale e che mascherano il loro con-
servatorismo politico e sociale con l’ideologia della
«santa Russia» e della «funzione messianica degli
Slavi». Per lo piú il loro culto delle tradizioni naziona-
li non è che un mezzo per combattere le idee progressi-
ve degli occidentalisti, e il loro entusiasmo, rousseauia-
no e romantico, per il contadino russo è solo la forma
ideologica del loro sforzo di mantenere condizioni di
vita patriarcali e feudali.
Ma la slavofilia non s’identifica del tutto con il con-
servatorismo e la reazione. Fra gli slavofili ci sono veri
amici del popolo, come tra gli occidentalisti non man-
cano anche avversari della democrazia. È noto che lo
stesso Herzen nutriva certe riserve contro le istituzioni
democratiche dell’Occidente. I primi slavofili sono, in
ogni caso, avversari dell’autocrazia zarista e combatto-
no il governo di Nicola I. Piú tardi la loro corrente si
riconcilia con lo zarismo, la cui idea è parte integrante
della loro teoria dello Stato e della loro filosofia della
storia; ma continuano ad annoverare dei democratici fra
i loro partigiani. Dobbiamo distinguere soprattutto due
fasi nel movimento slavofilo, proprio come dobbiamo
parlare di due generazioni diverse di occidentalisti.
Infatti, come il riformismo e il razionalismo degli anni
1840-50 si sviluppa nel socialismo e nel materialismo
degli anni ’60-80, cosí la slavofilia dei proprietari feu-

Storia dell’arte Einaudi 229


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dali si trasforma nel panslavismo e nel populismo di


Danilevskij, Grigor´ev e Dostoevskij. Il nuovo indiriz-
zo democratico è in stridente contrasto con l’antica ten-
denza aristocratica47. Dopo l’emancipazione dei conta-
dini molti degli scrittori piú anziani s’allontanano dal-
l’intelligencija e dagli occidentalisti per aderire al nazio-
nalismo, cosí che non si può piú affermare che «la cri-
tica conservatrice qualitativamente e quantitativamen-
te sia notevolmente inferiore a quella progressista»48.
Gli slavofili e gli occidentalisti ora si distinguono piú
nei metodi di lotta che nei fini. Tutti gl’intellettuali russi
fanno propria l’«idea slava»; tutti sono patrioti e araldi
della «missione russa». Essi «s’inginocchiano mistica-
mente davanti al contadino e alla sua pelliccia di peco-
ra»49, studiano l’anima russa e si entusiasmano per la
«poesia folkloristica». La frase di Pietro il Grande:
«Abbiamo bisogno dell’Europa per qualche decennio,
poi potremo voltarle le spalle», risponde ancora all’opi-
nione prevalente fra questi riformatori. La parola narod,
che vuol dire insieme «popolo» e «nazione», è tale da
permettere di cancellare la distinzione tra democratici e
nazionalisti50. Le velleità slavofile dei radicali si spiega-
no anzitutto col fatto che i Russi, ancora in una fase ini-
ziale del capitalismo, sono una nazione assai piú omo-
genea, cioè assai meno differenziata in classi, di quelle
dell’Occidente. In Russia tutta l’élite intellettuale è
sotto l’influsso di Rousseau e piú o meno ostile all’arte
e alla cultura; le tradizioni culturali dell’Occidente, l’an-
tichità classica, la Chiesa romana, la scolastica medie-
vale, il Rinascimento e la Riforma e, in parte, perfino il
moderno individualismo, l’orientamento scientifico e
quello estetizzante, le appaiono come un ostacolo all’at-
tuazione. delle sue proprie mete51. L’utilitarismo esteti-
co di Belinskij, Cerny∫evskij e Pisarev è antitradiziona-
lista non meno dell’atteggiamento di Tolstoj contro l’ar-
te. Neppure nella grande controversia tra soggettivismo

Storia dell’arte Einaudi 230


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e obiettivismo, individualismo e collettivismo, libertà e


autorità, le parti sono nettamente divise tra occidenta-
listi e slavofili, benché naturalmente i primi siano piú
inclini al liberalismo, i secondi all’autoritarismo. Belin-
skij e Herzen combattono non meno disperatamente di
Dostoevskij e Tolstoj, e spesso nello stesso modo incon-
sulto, con il problema della libertà individuale. Tutta la
speculazione filosofica dei Russi s’impernia su questo
problema, e il pericolo del relativismo morale, lo spet-
tro dell’anarchia, il caos del delitto sono l’angosciosa
preoccupazione di ogni pensatore russo. Il grande pro-
blema, fondamentale per la coscienza europea, dell’e-
straniarsi dell’individuo dalla società, della solitudine e
dell’isolamento dell’uomo moderno, diviene per i Russi
il problema della libertà. In nessun altro luogo esso è
stato vissuto e dibattuto piú profondamente e intensa-
mente; e nessuno piú tormentosamente di Tolstoj e
Dostoevskij ha sentito la responsabilità della sua solu-
zione. L’eroe delle Memorie del sottosuolo, Raskol´nikov,
Kirillov, Ivan Karamazov, tutti vi si cimentano, tutti
lottano contro il pericolo di essere inghiottiti dall’abis-
so dell’illimitata libertà, dell’arbitrio e dell’egoismo. Il
rifiuto dell’individualismo da parte di Dostoevskij, la
sua critica all’Europa razionalista e materialista, la sua
apoteosi della solidarietà umana e dell’amore non hanno
altro senso che quello di prevenire un’evoluzione che
porterebbe al nichilismo di Flaubert. Il romanzo occi-
dentale finisce con la rappresentazione dell’individuo
isolato dalla società, soccombente al peso della propria
solitudine; il romanzo russo, dal principio alla fine,
descrive la lotta contro i demoni che inducono l’indivi-
duo a rinnegare il mondo e la comunità degli uomini.
Questo tratto essenziale spiega non solo le figure pro-
blematiche di Raskol´nikov e Ivan Karamazov, di Pier-
re Bezuchov e Levin, non solo il messaggio d’amore e

Storia dell’arte Einaudi 231


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di fede di Dostoevskij e Tolstoj, ma il messianismo di


tutta la letteratura russa.
Il romanzo russo è letteratura impegnata in un senso
molto piú stretto che non quello occidentale. I proble-
mi sociali non solo vi occupano piú spazio e una posi-
zione piú centrale, ma vi mantengono una preminenza
piú lunga e incontrastata che nella letteratura d’Occi-
dente. Fin dall’inizio in esso l’aggancio con le questio-
ni sociali e politiche del momento è piú stretto che nelle
opere degli scrittori contemporanei di Francia e d’In-
ghilterra. Il dispotismo russo non permette alle energie
intellettuali altra affermazione che quella letteraria, e la
censura fa sí che la critica sociale non abbia altra via di
comunicazione che la poesia52. In quanto forma che
meglio vi si presta, il romanzo assume quindi un carat-
tere attivistico, pedagogico, anzi profetico, che in Occi-
dente non ebbe mai, e gli autori russi rimangono i mae-
stri e i profeti del loro popolo, quando ormai in Euro-
pa i letterati cadono in totale passività e isolamento.
L’Ottocento è l’epoca illuministica dei Russi; per tutto
il secolo essi conservano l’entusiasmo e l’ottimismo del-
l’Occidente prerivoluzionario. La Russia non ha prova-
to le delusioni delle rivoluzioni europee, tradite, scon-
fitte, falsate; qui non c’è traccia della stanchezza che si
osserva in Francia e in Inghilterra dopo il 1848. Alla gio-
vanile inesperienza della nazione e alla sua fiducia, non
ancora mortificata, nell’idea del progresso sociale dob-
biamo la promettente freschezza del romanzo naturali-
stico russo, mentre il naturalismo in Francia e in Inghil-
terra comincia ad evolversi verso un passivo impressio-
nismo. La letteratura russa, passando dalle mani della
nobiltà stanca e in declino in quelle di un ceto in asce-
sa, quando in Occidente la borghesia, il ceto cultural-
mente egemone, si sente ormai esausta e minacciata dal
basso, riesce a superare non soltanto la malinconia che
cominciava ad affermarsi negli scrittori della nobiltà

Storia dell’arte Einaudi 232


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

incline al romanticismo, ma anche lo stato d’animo ras-


segnato e scettico prevalente nella moderna letteratura
occidentale. Nonostante i suoi toni cupi, il romanzo
russo esprime un invincibile ottimismo, testimonia la
fede nell’avvenire della Russia e dell’umanità; è e rima-
ne pervaso da uno spirito combattivo pieno di speran-
za, da una brama, da una certezza evangelica di reden-
zione. Quest’ottimismo non si manifesta certo in facili
ideali né in un «lieto fine» a buon mercato, ma nella
sicura fiducia che abbiano un senso e non siano mai vani
il dolore e il sacrificio dell’umanità. Le opere dei gran-
di scrittori russi hanno quasi sempre una fine dolce-
mente placata, sebbene spesso tristissima; sono piú seri
dei romanzi di Flaubert, di Maupassant e dei Goncourt,
ma non sono mai cosí amari, cosí disperati.
È prodigioso come il romanzo russo, pur cosí recen-
te, non solo uguagli il romanzo francese e inglese, ma si
sostituisca ad essi nella funzione di guida e si ponga
come la forma letteraria piú avanzata e vitale del tempo.
Accanto alle opere di Dostoevskij e di Tolstoj, tutta la
letteratura occidentale del secondo Ottocento appare
esausta e stagnante. Anna Karenina e I fratelli Karama-
zov segnano le vette del naturalismo europeo; essi rias-
sumono e sorpassano le conquiste psicologiche del
romanzo francese e inglese, senza mai smarrire il senso
dei grandi nessi sovraindividuali. Come il romanzo
sociale giunge a perfezione con Balzac, il romanzo della
formazione intima con Flaubert, il romanzo picaresco
con Dickens, cosí il romanzo psicologico entra con
Dostoevskij e Tolstoj nella piena maturità. Sono questi
due artisti i primi che portano a conclusione il processo
iniziatosi con il romanzo sentimentale di Rousseau,
Richardson e Goethe, come con il romanzo analitico di
Marivaux, Benjamin Constant e Stendhal. La psicologia
moderna comincia con la rappresentazione del dissidio
dell’anima, dissidio che non si può semplicemente ridur-

Storia dell’arte Einaudi 233


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re a un conflitto intimo. Già Antigone oscilla fra dove-


re e impulsi e gli eroi di Corneille si può dire non vivo-
no se non in questo contrasto. In Shakespeare l’indeci-
sione dell’eroe diventa l’argomento stesso del dramma.
È vero che le inibizioni qui non vengono soltanto da un
impulso morale, come in Sofocle e in Corneille, ma
anche dai nervi, cioè da una zona psichica inconscia e
incontrollata; ma le opposte inclinazioni si presentano
sempre ben distinte, e il giudizio morale dei personaggi
sui propri impulsi è netto e coerente. Al piú essi esita-
no tra impulsi e sentimenti diversi, ma non mai nella
loro adesione morale all’una o all’altra parte dei loro
impulsi. La disintegrazione della personalità, per cui
l’antagonismo dei sentimenti va tant’oltre che l’indivi-
duo non è piú chiaro a se stesso e diventa per se stesso
un problema, non fa la sua comparsa che al principio del
secolo scorso. Solo con i fenomeni connessi con il
moderno capitalismo, cioè il romanticismo e l’estraniarsi
dell’individuo dalla società, si hanno questi spiriti cosí
coscienti del loro intimo dissidio e con essi il problema-
tico personaggio moderno. Le contraddizioni psicologi-
che in Shakespeare e negli elisabettiani per lo piú non
sono che assurdità; rappresentano uno stadio di svilup-
po anteriore alla sintesi classica. In altri termini, il dram-
maturgo non ha ancora imparato come si disegna un per-
sonaggio che agisca in modo unitario e coerente, né dà
speciale importanza all’unità del carattere. I personaggi
incoerenti della letteratura romantica sono invece
espressione di una cosciente e programmatica reazione
al razionalismo della psicologia classica. Si prediligono
tipi sfrenati e fantastici, perché si crede che il caotico
sentimento sia piú genuino e spontaneo della coerente
e metodica ragione. L’espressione piú evidente, benché
ancora un po’ cruda, dell’anima in contrasto con se stes-
sa, ormai irriducibile ad unità razionale, è l’idea del
«doppio», che lo stesso Dostoevskij desume dai roman-

Storia dell’arte Einaudi 234


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tici come requisito costante del personaggio, e conserva


sino alla fine. Ma la completa dissoluzione dell’unità del
carattere, cioè la disorganizzazione che consiste non
solo nell’incoerenza dei contenuti psichici, ma anche
nel loro continuo spostarsi e trasformarsi, mutando valo-
re e significato, si ha con la lotta contro il romanticismo
e il continuo oscillare fra atteggiamenti romantici e anti-
romantici. In Stendhal, che apre questa fase, i vari con-
tenuti della psiche si trasformano sotto i nostri occhi. La
provvisorietà del quadro psichico e la natura indefinibile
degli atteggiamenti intimi, diventano ora il criterio di
ogni studio psicologico e solo una figura cangiante e
caleidoscopica può suscitare un interesse artistico. L’ul-
timo stadio di questa evoluzione si ha nei personaggi di
Dostoevskij, del tutto imprevedibili e irrazionali. «Tu
non sei quel che sembri», diventa la norma della psico-
logia, e importanza psicologica nell’uomo ha soltanto
quel che è strano e sinistro, demoniaco e abissale.
Accanto alle figure di Dostoevskij, i caratteri ben meno
complicati della letteratura precedente appaiono sempre,
dal piú al meno, idillici e arbitrari. Oggi per altro è faci-
le accorgersi che anche la psicologia di Dostoevskij è
piena di tratti convenzionali e largamente si serve di
residui di byronismo e di romanzo nero. Vediamo che
Dostoevskij non è un inizio, ma un termine e che, pur
con tutta la sua originalità e fecondità, è pronto ad acco-
gliere e sviluppare coerentemente le conquiste del
romanzo psicologico occidentale.
Dostoevskij scopre il piú importante principio della
psicologia moderna: l’ambivalenza dei sentimenti e il
dissidio di ogni atteggiamento psichico eccessivo, che si
esplichi in forme esagerate e troppo dimostrative. Non
solo amore e odio, orgoglio e umiltà, autoesaltazione e
autoavvilimento, sadismo e masochismo, desiderio del
sublime e «nostalgia del fango», sono intimamente lega-
ti; non solo figure come Raskol´nikov e Svidrigailov,

Storia dell’arte Einaudi 235


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

My∫kin e Rogo∆in, Ivan Karamazov e Smerdjakov sono


due volti di un unico principio; ma ogni impulso, ogni
moto dell’animo, ogni idea suscita il suo opposto appe-
na affiora alla coscienza di questi uomini. Gli eroi di
Dostoevskij sono sempre di fronte ad alternative:
dovrebbero e non possono scegliere; quindi il loro pen-
siero, l’autoanalisi e l’autocritica non sono che un con-
tinuo infierire contro se stessi. La parabola dei porci in
cui è entrato il Maligno non si riferisce solo ai personaggi
dei Demoni, ma piú o meno a tutta la stirpe dostoev-
skiana. I suoi romanzi si svolgono alla vigilia del giudi-
zio universale; vi regna sempre una terribile tensione,
un’angoscia mortale, vi si disfrena il caos; ogni cosa
attende lume, pace, salvezza da un miracolo: attende
una soluzione che non verrà piú dalla forza e dal rigore
dell’intelletto, dalla dialettica razionale, ma dalla rinun-
zia a quella forza e dal sacrificio della ragione. Nell’idea
del suicidio intellettuale, che Dostoevskij propugna, si
rivela quanto sia discutibile la sua filosofia, che cerca di
risolvere in modo affatto irreale problemi reali, que-
stioni rettamente impostate.
Dostoevskij deve la profondità e la sottigliezza della
sua psicologia all’intensità con cui egli vive la proble-
matica dell’intellettuale moderno. Ma l’ingenuità della
sua etica nasce dai suoi scarti antirazionalistici, dall’ab-
bandono dei valori intellettuali e dall’incapacità di resi-
stere alle seduzioni del romanticismo e dell’astratto idea-
lismo. In lui nazionalismo mistico, ortodossia religiosa,
etica intuitiva si legano in una fondamentale unità che
risale evidentemente alla stessa esperienza, alla medesi-
ma scossa psichica. In gioventú Dostoevskij fu un radi-
cale e appartenne alla cerchia socialisteggiante di
Petra∫evskij. Per tale attività venne condannato a morte
e, dopo aver assistito a tutti i preparativi dell’esecuzio-
ne, fu graziato e mandato in Siberia. Quest’esperienza
e gli anni della prigionia sembrano averne fiaccato lo spi-

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rito di rivolta. Quando, dopo un’assenza di dieci anni,


egli torna a Pietroburgo, non è piú socialista né radica-
le, benché sia ancora molto lontano dal misticismo poli-
tico e religioso dei suoi anni successivi. Soltanto le ter-
ribili privazioni dei tempi che seguirono, il peggiora-
mento della malattia e il vagabondaggio per l’Europa
infrangeranno del tutto la sua resistenza. Già l’autore di
Delitto e castigo e dell’Idiota cerca rifugio e pace nella
religione, ma il creatore dei Demoni e dei Fratelli Kara-
mazov è ormai un entusiastico apologeta dell’autorità
ecclesiastica e laica e un banditore del dogma. Solo però
negli ultimi anni Dostoevskij diventa il moralista, il
mistico, il reazionario, quale si suole sommariamente
caratterizzarlo53. Tuttavia, anche con queste limitazioni
non è agevole definirlo politicamente.
La sua critica del socialismo è semplicemente assur-
da; eppure, il mondo ch’egli descrive invoca il socialismo
e la liberazione dell’umanità dalla miseria e dall’umilia-
zione. Anche in questo caso si deve parlare di «trionfo
del realismo», di vittoria dell’artista penetrante e sensi-
bile alla realtà sul politico romantico e confuso. Ma in
Dostoevskij la situazione è assai piú complicata che in
Balzac. Nell’arte sua hanno una grande importanza la
simpatia e la solidarietà con gli «umiliati e offesi», sim-
patia di cui non c’è traccia nello scrittore francese; e c’è
in lui una specie di nobiltà della miseria, benché nelle
sue pagine sulla povera gente molto sia convenzione let-
teraria e derivazione romantica. In ogni caso Dostoev-
skij è uno dei pochi veri poeti della povertà, e non solo
per compassione verso i poveri come George Sand ed
Eugène Sue, o per pallidi ricordi come Dickens, ma per-
ché ha passato la piú gran parte della sua vita in mise-
ria e talvolta ha letteralmente sofferto la fame. Perciò,
anche quando parla dei suoi problemi religiosi e mora-
li, Dostoevskij riesce piú travolgente e rivoluzionario di
George Sand, Eugène Sue e Dickens quando descrivo-

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no la miseria e l’ingiustizia del loro tempo. Ma egli non


è comunque un interprete delle masse rivoluzionarie.
Con il proletariato operaio e coi contadini egli non ha
alcuna intima affinità, nonostante la sua idealizzazione
del «popolo» e la sua slavofilia54. Solo il proletariato
intellettuale lo attrae veramente. Egli stesso si chiama
«proletario della letteratura» e «cavallo di posta», per-
ché lavora sempre sotto l’assillo del contratto, non ha
mai venduto un’opera se non a pagamento anticipato, e
spesso non sa ancora quale sarà la fine di un capitolo,
mentre il principio è già in tipografia. Egli si lamenta che
il lavoro lo ha schiacciato, consunto; che ha lavorato fino
all’istupidimento, fino a sentirsi rompere il cervello e
sospira di riuscire a scrivere anche un solo romanzo,
come Turgenev e Tolstoj scrivono le loro opere. Tutta-
via egli si proclama «letterato» in tono di fierezza e di
sfida e si considera il rappresentante di una nuova gene-
razione e di una nuova classe sociale, che ancora non
hanno trovato espressione letteraria. E, nonostante la
sua opposizione alle aspirazioni politiche dell’intelligen-
cija, è il primo valido esponente di essa nel romanzo
russo. Gogol´, Goncarov e Turgenev, sostanzialmente
esprimono ancora la mentalità nobiliare, anche se sosten-
gono idee molto avanzate e, in contrasto con gli interessi
della propria classe, sono fra i campioni dell’evoluzione
borghese della Russia. Dostoevskij giustamente anno-
vera anche Tolstoj fra i rappresentanti di questa «lette-
ratura di possidenti», e lo chiama lo «storiografo del-
l’aristocrazia», che nei suoi grandi romanzi, soprattut-
to in Guerra e pace, si attiene alla forma della cronaca
famigliare di Aksakov55.
Per lo piú gli eroi di Dostoevskij, specie
Raskol´nikov, Ivan Karamazov, \catov, Kirillov, Stepan
Verchovenskij, sono intellettuali borghesi, e l’autore
orienta la sua analisi della società secondo il loro punto
di vista, benché non si identifichi mai espressamente con

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loro. Ma per capire la visione di uno scrittore non impor-


ta tanto sapere quale causa egli sostenga, quanto con
quali occhi egli consideri il mondo. Dostoevskij vede i
problemi sociali del suo tempo, anzitutto il disgregarsi
della società e l’abisso sempre piú profondo tra le clas-
si, dal punto di vista dell’intelligencija, e per lui la solu-
zione può venire solo dal ricongiungersi della gente colta
al popolo ingenuo e credente da cui si è allontanata. Tol-
stoj giudica gli stessi problemi dal punto di vista della
nobiltà e spera il risanamento sociale dall’intesa fra con-
tadini e signori terrieri. Il suo pensiero rimane vincola-
to alle idee di un feudalesimo patriarcale, e anche quei
personaggi che meglio incarnano le sue idee, Levin e
Pierre Bezuchov, sono al piú benefattori del popolo, ma
non veri democratici. Invece nel mondo di Dostoevskij
domina una perfetta democrazia spirituale. Tutti i suoi
personaggi, ricchi e poveri, aristocratici e plebei, lotta-
no con gli stessi problemi morali. My∫kin, il ricco prin-
cipe, e Raskol´nikov, il povero studente, sono entram-
bi esuli, vagabondi, decaduti e reietti e non hanno posto
nella moderna società borghese.
In certa misura tutti i suoi eroi ne sono esclusi e for-
mano un mondo senza classi, in cui dominano rapporti
puramente spirituali. In quel che fanno essi si impegna-
no con tutto l’essere loro, con tutta l’anima, e nella
meccanica monotonia del mondo moderno rappresenta-
no un’utopica realtà dell’intelletto e dell’anima. «Noi
non abbiamo interessi di classe, perché, a rigore, non
abbiamo classi e perché l’anima russa è piú grande dei
contrasti, degli interessi e della giustizia di classe», scri-
ve Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; e nulla è piú
caratteristico del suo modo di pensare di questa affer-
mazione che contraddice alla sua consapevolezza d’esser
diverso dai suoi nobili colleghi proprio per una diffe-
renza di classe. Il medesimo Dostoevskij che pone una
cesura cosí netta tra sé e gli esponenti della «letteratu-

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ra dei possidenti» e come scrittore fonda la sua ragion


d’essere sulla sua natura di intellettuale plebeo, d’altra
parte nega le classi e crede al primato di rapporti spiri-
tuali fuori d’ogni legame sociale.
Piú volte si è insistito sull’analogia fra la posizione
sociale dello scrittore russo e quella di Dickens. È stato
osservato che entrambi erano figli di gente senza salde
radici sociali e fin da giovani conobbero l’insicurezza
sociale e la condizione di spostati56. Il padre di Dostoev-
skij era un medico militare e la madre era figlia di un
mercante. Il padre aveva acquistato una piccola pro-
prietà e fatto educare i figli in una scuola frequentata
specialmente da giovani nobili. La madre morí presto e
il padre, datosi al bere, venne ucciso dai suoi contadini
che, a quanto pare, egli maltrattava. Così, da un livello
sociale relativamente rispettabile, Dostoevskij cadde al
livello di quel proletariato intellettuale, da cui egli si sen-
tiva attratto e insieme respinto. Nulla di piú verosimile
che, per Dickens come per Dostoevskij, il loro atteg-
giamento verso la società, contraddittorio e per molti
aspetti confuso, sia connesso con la posizione incerta del
padre e con la loro precoce esperienza della degradazio-
ne sociale.
Nella storia del romanzo sociale Dostoevskij ha anzi-
tutto il merito di averci dato la prima rappresentazione
naturalistica della grande città moderna con la sua popo-
lazione piccolo-borghese e proletaria, i bottegai e gli
impiegati, gli studenti e le prostitute, i perdigiorno e gli
affamati. La Parigi di Balzac era ancora una selva roman-
tica, teatro di fantastiche avventure e di prodigiosi
incontri, uno scenario dipinto a violento chiaroscuro, un
paese di fiaba dove la ricchezza abbagliante stava accan-
to alla povertà pittoresca. Invece Dostoevskij dipinge il
quadro della gran città grigio su grigio, come un luogo
di cupa, incolore miseria. Egli ne mostra i sordidi uffi-
ci, le bettole soffocanti, le camere ammobiliate, quelle

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«casse da morto» – com’egli le chiama – in cui consu-


mano i loro giorni le piú tristi vittime della vita cittadi-
na. Tutto ciò ha un chiaro significato sociale e una punta
politica; ma Dostoevskij si sforza di eliminare dai suoi
personaggi i coefficienti di classe. Egli abbatte le bar-
riere economiche e sociali e li mescola tutti insieme,
come se veramente esistesse per gli uomini un comune
destino. In lui spiritualismo e nazionalismo hanno la
stessa funzione: servono a creare la leggenda di un esse-
re morale che vive secondo leggi che trascendono la
nascita, la classe e la cultura. In Gon™arov, Turgenev e
Tolstoj le caratteristiche di classe dei personaggi riman-
gono; il fatto ch’essi siano nobili, borghesi o popolani
non è mai trascurato né dimenticato. Invece Dostoev-
skij tralascia spesso queste distinzioni, anzi talvolta sem-
bra farlo deliberatamente. Se tuttavia il carattere di
classe riesce ad affermarsi nei suoi personaggi, e soprat-
tutto i suoi intellettuali ci appaiono come un gruppo
sociale ben definito, è questo un trionfo del realismo che
fa di Dostoevskij, a suo dispetto, un materialista.
Ma questo «materialismo» non è che una delle pre-
messe invisibili e per lo piú inconsce, di una vera pas-
sione intellettuale, di un’ossessione che lo spinge ad
esaurire fino all’ultimo le esperienze, a scrutare i senti-
menti fin nel piú remoto impulso, ad approfondire sem-
pre piú le idee, a esperimentarne le estreme conseguen-
ze scendendo fino alle piú profonde sorgenti del sub-
conscio. Gli eroi di Dostoevskij sono pensatori appas-
sionati, impavidi, maniaci, in lotta disperata con le loro
idee e i loro fantasmi come un tempo gli eroi dei roman-
zi cavallereschi con i mostri e i giganti. Per le idee essi
soffrono, uccidono, muoiono; per essi la vita è un com-
pito filosofico e la loro unica incoercibile attività, l’unica
sostanza della vita è il pensiero. Essi lottano veramen-
te con i mostri, con idee non ancor nate, indefinibili,
amorfe, con problemi che non si possono risolvere, anzi

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neppur formulare. Non solo Dostoevskij è il primo pen-


satore moderno che sappia rendere un’esperienza intel-
lettuale concreta e immediata come un’esperienza sen-
sibile, ma si spinge in regioni dello spirito ancora ine-
splorate. Egli scopre una nuova dimensione, una nuova
profondità, una nuova intensità del pensiero. Certo la
scoperta appare cosí nuova anzitutto perché il romanti-
cismo ci ha abituati a distinguere nettamente pensiero
e sentimento, idea e passione, e a considerare oggetto di
poesia soltanto sentimenti e passioni57. La vera novità
dello spirito dostoevskiano consiste nel fatto ch’egli è un
romantico del pensiero e in lui le idee hanno la stessa
forza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patolo-
gico, che presso i romantici hanno il flusso e il tumulto
dei sentimenti. La sintesi di intellettualismo e romanti-
cismo è la pietra miliare posta dall’arte di Dostoevskij;
da essa deriva la forma letteraria piú avanzata della
seconda metà dell’Ottocento, la forma piú adeguata alle
esigenze artistiche di quel tempo inscindibilmente lega-
to al romanticismo e irresistibilmente attratto dall’in-
tellettualismo. La rinunzia all’uno o all’altro di questi
elementi culturali, l’affettazione neoclassica come l’i-
sterismo neoromantico si erano rivelati vicoli ciechi; l’e-
spressionismo dostoevskiano invece poteva essere con-
tinuato, e adattato al nuovo senso della vita.
Dostoevskij però oltre che sulle vette si muoveva
anche nelle bassure del romanticismo. È vero che l’opera
sua continua la letteratura di confessione dei romanti-
ci, ma anche il romanzo di delitti e di avventure58.
Anche in questo egli è il contemporaneo di Dickens –
uno scrittore che nella scelta dei suoi mezzi artistici non
era piú difficile degli altri produttori di letteratura d’ap-
pendice. Forse egli avrebbe davvero evitato certi difet-
ti di gusto e certa trascuratezza, se avesse potuto lavo-
rare come Tolstoj o Turgenev. D’altra parte il tono
melodrammatico del suo stile era intimamente connes-

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so alla sua concezione del romanzo psicologico; e i mezzi


drastici non servivano soltanto ad aumentare la tensio-
ne nel lettore, ma contribuivano anche a creare quella
rovente atmosfera spirituale senza cui sarebbero incon-
cepibili le situazioni drammatiche dei suoi romanzi. Se
si vuole, I fratelli Karamazov sono un romanzo giallo,
Delitto e castigo un romanzo poliziesco, I demoni un
romanzo di avventure, L’Idiota un romanzo sensazio-
nale; assassinio e delitto, segreti e sorprese, scene com-
moventi e orrende, stati morbosi e macabri vi hanno una
parte preminente. Ma sarebbe un errore credere che
tutto questo miri unicamente a compensare il lettore del-
l’astratto contenuto intellettuale; anzi il poeta vuol
suscitare il senso che i processi spirituali su cui s’im-
pernia la storia sono elementari quanto gli impulsi piú
primitivi.
In Dostoevskij ritroviamo tutta la galleria degli eroi
romantici: l’eroe byroniano bello, forte, misterioso e
solitario (Stavrogin), il personaggio impulsivo, sfrena-
to, pericoloso, ma bonario (Rogozin e Dmitrij Kara-
mazov), le figure angeliche e luminose (My\kin e
Alë\a), le prostitute dall’anima pura (Sonja e Nata\a
Filippovna), il vecchio dissoluto (Fëdor Karamazov), il
forzato evaso (Fedka), il beone depravato (Lebjadkin)
e cosí via. Vi ritroviamo tutti gli elementi e le caratte-
ristiche del romanzo nero e avventuroso: la ragazza
sedotta e abbandonata, il matrimonio segreto, le lette-
re anonime, l’assassinio misterioso, la pazzia, gli acces-
si epilettici, lo schiaffo clamoroso, soprattutto e ripe-
tutamente le scene di pubblico scandalo che portano a
un’esplosione59. Queste specialmente mostrano che cosa
sappia trarre Dostoevskij dai mezzi del romanzo sensa-
zionale. Non solo esse gli servono, come si potrebbe
credere, per finali e colpi di scena, ma fin dal principio
incombono come un pericolo, e suscitano il senso che
le grandi passioni e le condizioni elementari dell’anima

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urtano sempre contro i limiti della convenzione e della


tolleranza sociale. L’Utopia spirituale in cui vive l’eroe
di Dostoevskij si rivela una stretta gabbia; appena l’im-
manenza della sua vita viene forzata, tosto ne nasce lo
scandalo. In queste scene di scandalo è essenziale la pre-
senza di un pubblico straordinariamente misto, l’inter-
vento degli elementi socialmente piú disparati. Sia nella
grande scena in casa di Nata∫a Filippovna, nell’Idiota,
come in quella presso Varvara Petrovna, nei Demoni,
tutti coloro che vi partecipano sono raccolti, come per
provare che la differenziazione sociale non può regge-
re di fronte alla catastrofe generale. Ognuna di queste
scene è come un sogno angoscioso; una folla di gente è
stipata in uno spazio incredibilmente stretto e l’atmo-
sfera d’incubo mostra quale sinistro potere abbia per
Dostoevskij la società con le sue differenze di classe e
di rango, i suoi tabú e i suoi veti.
Per lo piú i critici mettono in rilievo la struttura
drammatica dei grandi romanzi di Dostoevskij; senon-
ché di solito questa caratteristica formale viene inter-
pretata come un puro espediente per effetti teatrali e
viene contrapposta all’ampio, epico flusso dei romanzi
tolstoiani. Eppure la tecnica drammatica in Dostoevskij
non serve solo per le scene culminanti, in cui conflui-
scono le fila dell’azione e scoppia il conflitto fino allora
incombente, ma piuttosto anima tutta l’azione ed espri-
me una visione affatto diversa da quella epica. Per
Dostoevskij il senso della vita non è nel suo carattere
temporale, nel sorgere e nello svanire delle sue mete, nei
ricordi e nelle illusioni, negli anni, giorni e ore che cado-
no l’un sull’altro a seppellirci; ma in quei momenti eccel-
si in cui le anime sono messe a nudo, ridotte a una for-
mula semplice e chiara, in cui esse sentono la loro indub-
bia sostanza, si dichiarano identiche a se stesse e in
armonia con il proprio destino. Sull’esistenza di simili
momenti si fonda il tragico ottimismo di Dostoevskij,

Storia dell’arte Einaudi 244


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quella riconciliazione con il destino, che la tragedia greca


chiamava catarsi. Su ciò si fonda la sua filosofia oppo-
sta al pessimismo e al nichilismo di Flaubert. Dostoev-
skij ha sempre indicato il senso della massima felicità e
della perfettissima armonia come un’esperienza di eter-
nità; tale soprattutto lo stato di My∫kin prima degli
attacchi epilettici e i «cinque secondi» di Kirillov, quel
gaudio, com’egli afferma, che non si potrebbe soppor-
tare piú a lungo. Per descrivere un’esistenza che culmi-
na in momenti simili, la concezione flaubertiana del
romanzo, fondata tutta sul senso del tempo, dovette
subire tali trasformazioni, che spesso il risultato pare
non avere piú nulla di comune con il romanzo in senso
tradizionale. Se è vero che la forma dostoevskiana con-
tinua direttamente il romanzo sociale e psicologico, è
anche vero che essa dà l’avvio a un nuovo processo.
Quella che si suol chiamare la sua struttura drammati-
ca si regge su un principio formale affatto diverso dal-
l’unità propria dei romanzi d’amore e della formazione
intima, che con il romanticismo s’erano sostituiti alla
vecchia forma picaresca. Il romanzo dostoevskiano è
piuttosto un ritorno a quest’ultima, già per il solo fatto
che i momenti drammatici vi sono dispersi, costituendo
dei punti di concentrazione indipendenti. Abolendo in
questo modo la continuità a favore di una serie di epi-
sodi essenziali, carichi di potenza espressiva, ma com-
binati a mosaico, esso precorre il principio formale del
moderno romanzo espressionistico. La narrazione cede
il passo alla spiegazione, all’analisi psicologica e alla
discussione filosofica, e il romanzo diventa una raccol-
ta di dialoghi e intimi monologhi, accompagnati da com-
menti e digressioni dell’autore.
Spesso questo metodo s’allontana dal naturalismo
come stile non meno che dal romanzo come genere
epico. Innegabilmente per l’acutezza dell’osservazione
psicologica Dostoevskij rappresenta la forma piú evolu-

Storia dell’arte Einaudi 245


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ta del romanzo naturalistico; ma se per naturalismo s’in-


tende la rappresentazione di quel che è normale, medio,
quotidiano, bisogna vedere una reazione al naturalismo
nel suo amore per le situazioni estreme quasi da alluci-
nazione, per i caratteri fantasticamente esagerati.
Dostoevskij stesso definisce la sua posizione storico-sti-
listica con perfetta esattezza: «Mi chiamano psicologo,
– dice; – è falso, io non sono che un realista in senso piú
alto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana». E
per lui questi abissi sono appunto gli aspetti irraziona-
li, demoniaci, visionari e spettrali dell’uomo; elementi
che richiedono un naturalismo che non si limiti alla
verità superficiale; che rivelano fenomeni in cui gli ele-
menti della vita reale si mescolano, fantasticamente
disordinati e acuiti. Egli dichiara: «Il realismo nell’arte
l’amo fuor di misura, il realismo che, per cosí dire, giun-
ge al fantastico... Che cosa può apparirmi piú fantasti-
co e inatteso della realtà? Anzi, che cosa può essere piú
inverosimile?» Non c’è definizione piú esatta dell’e-
spressionismo e del surrealismo. Quelle che in Dickens
erano ancora puntate puramente occasionali, e per lo piú
inconsce, in quella zona che sta al limite fra sogno e
realtà, esperienza e allucinazione, qui diventa una
costante apertura sui «misteri della vita». In questo
modo si prepara la rottura con lo scientifismo dell’arte
naturalistica. Un nuovo spiritualismo sta sorgendo dalla
reazione all’orientamento scientifico, dalla rivolta con-
tro il naturalismo, dalla diffidenza per la visione scien-
tifica del mondo e per il modo razionalistico di affron-
tare i problemi. La vita stessa ora viene sentita come
qualcosa di essenzialmente irrazionale; si crede di per-
cepire da ogni parte voci misteriose, e l’arte ne diventa
l’eco.
Nonostante i profondissimi contrasti, c’è una fonda-
mentale analogia tra l’atteggiamento di Dostoevskij e
quello di Tolstoj di fronte al problema dell’individuali-

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smo e della libertà. Entrambi considerano il distacco del-


l’individuo dalla società, la sua solitudine e il suo isola-
mento, come il peggiore dei mali. Entrambi vogliono ad
ogni costo evitare il caos che minaccia di travolgere gli
uomini resi cosí solitari. Specialmente in Dostoevskij
tutto s’impernia sul problema della libertà e i suoi gran-
di romanzi, in fondo, non sono che analisi e interpreta-
zioni di quest’idea. Il problema in sé non era nuovo; i
romantici vi si erano sempre affaticati e dal 1830 esso
era al centro del pensiero filosofico e politico. Per il
romanticismo libertà significava la vittoria dell’indivi-
duo sulla convenzione; libera e creatrice era ritenuta una
personalità che avesse la forza intellettuale e il coraggio
di trascurare i pregiudizi estetici e morali del suo tempo.
Per Stendhal il problema è quello stesso del genio, in
particolare del genio di Napoleone il cui successo, egli
pensa, dipende dalla brutale imposizione della sua
volontà, della sua personalità, della sua grandezza. L’ar-
bitrio del genio e i sacrifici ch’esso richiedeva gli pare-
vano il prezzo dovuto dal mondo all’eroe dello spirito.
Su questa via il Raskol´nikov di Dostoevskij rappresen-
ta la tappa successiva. L’individualismo geniale trova in
questa figura una forma astratta, virtuosistica, la forma,
per cosí dire, del gioco. La personalità esige le sue vit-
time non piú nell’interesse di un’idea superiore, di un
fine obiettivo, di un’opera praticamente valida, ma sem-
plicemente per provare la propria attitudine all’azione
libera e sovrana. L’azione in sé diventa affatto secon-
daria; il problema è puramente formale: la libertà del-
l’individuo è in se stessa un valore? La risposta di
Dostoevskij non è certo cosí chiara come potrebbe a
prima vista sembrare. L’individualismo porta al caos e
all’anarchia, ma dove portano la costrizione e l’ordine?
Il problema trova la sua espressione ultima e piú profon-
da nel racconto del Grande Inquisitore, e la soluzione a
cui giunge qui Dostoevskij può considerarsi il risultato

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di tutta la sua filosofia morale e religiosa. L’abolizione


della libertà cristallizza le istituzioni e sostituisce alla
religione la Chiesa, all’individuo lo Stato, all’inquietu-
dine di chi domanda e ricerca l’acquietamento nel
dogma. Cristo è intima libertà, ma anche lotta senza
fine; la Chiesa è intima costrizione, ma anche pace e
sicurezza. Si vede come sia dialettico il pensiero di
Dostoevskij e quanto sia difficile definirne chiaramen-
te la posizione etica e politico-sociale. Il tanto depreca-
to reazionario e dogmatico conclude l’opera sua con un
problema aperto.
Per Tolstoj la questione dell’individualismo è di gran
lunga meno importante che per Dostoevskij, ma è pur
sempre la chiave per comprendere le sue figure psicolo-
gicamente piú interessanti e moralmente piú significati-
ve. Soprattutto la figura di Levin è tutta costruita per
essere l’esponente di questo problema, e la violenza dei
suoi intimi conflitti rivela quanto sia dura la lotta di Tol-
stoj con l’idea dell’isolamento e lo spettro dell’uomo
abbandonato a se stesso. Dostoevskij aveva ragione:
Anna Karenina non è un libro innocuo. È pieno di dubbi,
scrupoli, timori. Il motivo fondamentale, che è quello
poi che lega la storia di Anna con quella di Levin, è
anche qui l’appartarsi dell’individuo dalla società e il
pericolo di diventarle estranei. Lo stesso destino, che
colpisce Anna per il suo adulterio, minaccia Levin per
il suo individualismo, la sua visione anticonformista, i
suoi strani dubbi e problemi. Entrambi si espongono al
rischio di venir espulsi dalla società della gente norma-
le e rispettabile. Ma, mentre Anna rinunzia senz’altro
all’approvazione della società, Levin fa ogni sforzo per
non perderne l’appoggio. Egli accetta il giogo matrimo-
niale, amministra la sua terra come fanno i suoi vicini,
si piega alle convenzioni e ai pregiudizi del suo ambien-
te; in breve, è disposto a tutto, pur di non diventare uno
spostato, un escluso, un eccentrico, uno stravagante60.

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ma nell’anti-individualismo di Dostoevskij e di Tol-


stoj si svela tutta la differenza della loro mentalità. Le
obiezioni di Dostoevskij sono di natura irrazionale e
mistica; per lui il principium individuationis significa la
negazione dello spirito universale, l’unità originaria, l’i-
dea divina che, in forma storicamente concreta, si mani-
festa come popolo, nazione, comunità sociale. Tolstoj
invece respinge l’atteggiamento individualistico sempli-
cemente per motivi razionali, eudemonistici; l’assoluta
libertà personale non può portare all’uomo né felicità,
né soddisfazione; sollievo e contentezza egli può trova-
re soltanto nella rinunzia al proprio io e nell’altruismo.
Fra i due scrittori si ripropone quel rapporto signifi-
cativo, esemplare, profondamente tipico, che già era
intercorso fra Voltaire e Rousseau e che si era ripresen-
tato in termini analoghi fra Goethe e Schiller61. In tutti
questi casi si tratta dell’antitesi di razionalismo e irra-
zionalismo, senso e intelletto, o, come si esprime Schil-
ler, di spontaneo e sentimentale. Nei tre casi il contra-
sto si può ricondurre alle differenze sociali degli anta-
gonisti: ogni volta un aristocratico, un patrizio sta di
fronte a un plebleo, a un ribelle. Certamente si deve
soprattutto alla sua natura aristocratica se tutta l’arte e
il pensiero di Tolstoj si radicano nell’idea del corporeo,
dell’organico, del naturale. Lo spiritualismo di Dostoev-
skij invece, la sua natura speculativa, il procedere dina-
mico, dialettico del suo pensiero si spiegano con la sua
origine borghese e la sua plebea mancanza di vincoli.
L’aristocratico si afferma col semplice fatto di essere,
grazie all’origine, alla razza; ma il plebeo deve tutto al
suo talento, alle sue attitudini e alle sue azioni. Il rap-
porto tra signori feudali e scrivani non è mutato nel
corso dei secoli, anche se talvolta il signore è diventato
egli stesso una specie di «scrivano».
Il contrasto tra la discrezione di Tolstoj e l’esibizio-
nismo di Dostoevskij, tra il nobile ritegno dell’uno e –

Storia dell’arte Einaudi 249


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

com’è detto nei Demoni – «il danzar nudo in pubblico»


dell’altro, risulta dallo stesso divario sociale che divide
Voltaire da Rousseau. Piú difficile invece è riferire a pre-
messe sociologiche le peculiarità di stile e di carattere:
cioè misura disciplina, ordine per l’uno; assenza di
forma, caos, anarchia per l’altro. In certe circostanze la
dismisura è dell’aristocratico come del plebeo, e sappia-
mo che l’arte borghese dimostra spesso una tendenza al
rigorismo non inferiore a quella dell’arte aulica. Nella
composizione delle sue opere Tolstoj è eccessivo e arbi-
trario quanto Dostoevskij; per questo riguardo sono
entrambi anarchici. Ma in Tolstoj c’è un riserbo mag-
giore nello scrutare gli abissi dell’anima e un piú esigente
criterio nella scelta dei mezzi destinati a commuovere.
L’arte sua è molto piú elegante, pura e gradevole di
quella di Dostoevskij e, di contro a questo tipico rap-
presentante della nevrosi ottocentesca, a ragione lo si è
detto un figlio del Settecento. Rispetto a Dostoevskij
romantico, mistico, «dionisiacamente» estatico, egli ha,
piú o meno, l’aria di un classico o, se vogliamo mante-
nere la terminologia di Nietzsche, di una natura «apol-
linea», plastica, statuaria. In contrasto con la natura
problematica di Dostoevskij, tutto il suo modo di pen-
sare ha un carattere positivo, nel senso che gli attribui-
va Goethe quando diceva di voler sentire l’opinione
altrui espressa in forma «positiva», perché di proble-
matico ne aveva abbastanza in se stesso. Il detto, se non
per la forma certo per la sostanza, potrebbe essere di
Tolstoj, che appunto disse qualcosa di simile a proposi-
to di Dostoevskij. Egli lo paragonava a un cavallo che
alla prima occhiata fa una splendida impressione e pare
valga mille rubli; ma a un tratto ci si accorge che ha un
difetto nell’andatura e zoppica, e si conclude con rin-
crescimento che non vale un soldo. Effettivamente
Dostoevskij aveva un difetto e, accanto al robusto,
«sano» Tolstoj, lascia sempre un po’ un’impressione

Storia dell’arte Einaudi 250


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

patologica, come Rousseau di fronte al ragionevole ed


equilibrato Voltaire. Ma qui le categorie non si posso-
no piú distinguere cosí nettamente come in Voltaire e
in Rousseau. Lo stesso Tolstoj rivela tutta una serie di
tratti che per molti riguardi lo pongono assai piú di
Dostoevskij vicino a Rousseau. Il suo ideale di sempli-
cità, naturalezza e sincerità non è che una variante del
rousseauiano «disagio della cultura», e la sua nostalgia
dell’idillico villaggio patriarcale non è che una nuova
forma della vecchia avversione romantica alla civiltà.
Non per nulla egli cita le parole di Lichtenberg, che l’u-
manità sarebbe perduta se non ci fossero piú selvaggi.
Ma anche questi aspetti alla Rousseau non sono che
espressione del timore della solitudine, dello sradica-
mento, dell’esclusione dalla società. Tolstoj condanna la
civiltà moderna per i suoi effetti di differenziazione, e
l’arte di Shakespeare, di Beethoven e di Pu∫kin, perché
divide, invece di unirli, i vari strati dell’umanità. Quel
che nelle teorie di Tolstoj potrebbe dirsi collettivismo e
lotta contro le distinzioni di classe, non ha nulla a che
vedere con la democrazia e il socialismo; è piuttosto la
nostalgia di un intellettuale solitario per una comunità
da cui egli spera anzitutto la propria salvezza. Quando
Cristo invitò il giovane ricco a distribuire ai poveri tutto
quanto possedeva non voleva, secondo l’esegesi di
Henry George, aiutare i poveri, ma solo il giovane ricco.
Anche l’intento di Tolstoj è di aiutare anzitutto il «gio-
vane ricco». L’autoperfezionamento e la salvezza del-
l’anima sono il suo vero scopo. Spiritualismo ed ego-
centrismo determinano il carattere irreale, utopico del
messaggio sociale tolstoiano e le intime contraddizioni
della sua dottrina politica. Questa morale strettamente
privata implica il quietismo, il rifiuto dell’opposizione
violenta al male, e lo sforzo di riformare le anime inve-
ce della realtà. «Nulla è piú dannoso per gli uomini»,
scrive nel suo appello Al popolo lavoratore dopo la rivo-

Storia dell’arte Einaudi 251


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

luzione del 1905, «dell’idea che le cause della loro mise-


ria stiano nelle condizioni esteriori, anziché in loro stes-
si». La passività di Tolstoj di fronte alla realtà esterio-
re corrisponde allo spirito pacifico della soddisfatta clas-
se dominante e il suo lambiccato moralismo di autoac-
cusa e di autotormento è del tutto estraneo al pensiero
e al sentimento del popolo.
Ma Tolstoj, come Dostoevskij, non si lascia costrin-
gere in una definizione politica troppo stretta. Egli è un
inflessibile osservatore della realtà sociale, un sincero
amico della verità e della giustizia e un implacabile cri-
tico del capitalismo, benché giudichi i difetti e le colpe
della moderna società unicamente dal punto di vista del
contadino e dell’economia agricola; d’altra parte, egli
non vede le vere cause del male e predica una morale che
a priori significa la rinunzia ad ogni attività politica62.
Tolstoj non è un rivoluzionario, anzi è un nemico aper-
to di ogni atteggiamento rivoluzionario; tuttavia, a dif-
ferenza dei fautori dell’«ordine» e della pace sociale in
Occidente, come Balzac, Flaubert e i Goncourt, egli
tollera il terrore governativo ancor meno di quello rivo-
luzionario. L’assassinio di Alessandro II non lo scuote
affatto, ma all’esecuzione degli attentatori reagisce con
una protesta63. Nonostante i suoi pregiudizi e i suoi
errori, Tolstoj rappresenta un’immensa forza rivoluzio-
naria. La sua lotta contro le menzogne dello stato poli-
ziesco e della Chiesa, il suo entusiasmo per la comunità
contadina e l’esempio della sua stessa vita, qualunque sia
stato l’intimo motivo della sua «conversione» e della sua
fuga finale, sono da considerare tra i fermenti che
disgregano la vecchia società e favoriscono non solo la
rivoluzione russa, ma il movimento rivoluzionario con-
tro il capitalismo in tutta Europa. Di fatto, per Tolstoj
si può parlare non solo di «trionfo del realismo», ma
anche di «trionfo del socialismo»; non solo della spre-

Storia dell’arte Einaudi 252


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

giudicata pittura sociale di un aristocratico, ma anche


dell’efficacia rivoluzionaria di un reazionario nato.
L’intransigente razionalismo impedisce all’arte e alla
dottrina filosofica di Tolstoj di finire nella sterilità e nel-
l’inefficienza. Il suo sguardo acuto e obiettivo per i fatti
fisici e psichici e la sua ripugnanza ad ingannare se stes-
so e gli altri mantengono la sua religiosità fuori da ogni
misticismo e dogmatismo e fanno del suo moralismo cri-
stiano un efficace fattore politico. L’entusiasmo di
Dostoevskij per l’ortodossia russa gli è estraneo quanto
in genere la religiosità degli slavofili. Anche alla fede egli
giunge per una via razionale, pragmatica, non sponta-
nea64. Tutto razionale è il processo della sua cosiddetta
conversione, senza alcuna immediata esperienza religio-
sa. Fu, com’egli dice nella sua Confessione, «il senso di
paura di chi è orfano e solo» a far di lui un cristiano.
Non un’esperienza mistica di Dio e dell’aldilà, ma la
scontentezza di sé, l’aspirazione a trovare un senso e uno
scopo alla vita, la disperazione per la propria nullità e
inconsistenza, e soprattutto l’infinita paura della morte
fanno di lui un credente. Egli diventa un apostolo del-
l’amore, perché ha coscienza di mancare d’amore; esal-
ta la solidarietà umana per contrastare alla propria sfi-
ducia e al proprio disprezzo verso gli uomini; e afferma
l’immortalità dell’anima umana, perché non può sop-
portare l’idea della morte. Tutta la sua esperienza reli-
giosa è un’ascesi «razionalmente intesa a uno scopo», un
esercizio di cristianesimo secondo il modello orientale.
Ma la sua fuga dal mondo è aristocraticamente altera,
non già cristianamente umile; al mondo egli rinunzia,
perché il mondo non si lascia completamente dominare
e possedere.
Il concetto della grazia è l’unico elemento irraziona-
le nella concezione religiosa di Tolstoj. Nei suoi Racconti
popolari lo scrittore riprende una vecchia leggenda d’o-
rigine medievale. In tempi remoti viveva in un’isola

Storia dell’arte Einaudi 253


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

deserta un santo eremita. Un giorno, presso la sua capan-


na, approdarono dei pescatori, fra cui un vecchio cosí
semplice che non riusciva quasi ad esprimersi e non
sapeva nemmeno pregare. L’eremita, profondamente
turbato da tanta ignoranza, con molta fatica gli insegnò
il Paternoster. Il vecchio lo ringraziò caldamente e, con
gli altri pescatori, lasciò l’isola. Dopo qualche tempo,
quando il battello era ormai sparito in lontananza, a un
tratto il santo scorse all’orizzonte una figura umana che
si avvicinava all’isola camminando sullo specchio delle
acque. Ben presto riconobbe il vecchio, il suo scolaro,
e, quando questi toccò terra, gli andò incontro muto e
sbalordito. Balbettando, il vecchio gli fece capire che
aveva dimenticato la preghiera. «Tu non hai bisogno di
pregare», rispose l’eremita, e congedò il vecchio che,
librandosi sull’acqua, s’affrettò verso il battello dei
pescatori. Il senso di questa storia sta nell’idea di una
salvezza eterna non legata ad alcun criterio morale. In
un altro racconto degli anni tardi, Padre Sergio, Tolstoj
rappresenta lo stesso motivo dal lato opposto: la grazia,
che ad uno viene concessa senza che faccia nessun sfor-
zo e apparentemente senza merito, rimane negata all’al-
tro, nonostante ogni pena e ogni tormento, nonostante
i sacrifici sovrumani e l’eroica vittoria su se stesso. Que-
sto concetto della grazia, per cui l’elezione sta al di
sopra del merito e la predestinazione viene assimilata
alla nascita e alla fortuna, evidentemente si lega piú con
l’origine aristocratica di Tolstoj che con il suo cristia-
nesimo.
L’ottimismo dell’aristocratico sano e sicuro di sé, che
ancora domina in Guerra e pace, e fa del romanzo un’a-
poteosi della vita animale, vegetativa, organicamente
creatrice, un grande idillio, «un’ingenua epopea» – e sul
suo coronamento, come osserva cosí gustosamente
Mere∫kovskij, il poeta «pianta come bandiera che indi-
chi la via all’umanità le fasce dei bimbi di Nata∫a»65 –

Storia dell’arte Einaudi 254


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

questo ottimismo panteistico si oscura in Anna Kareni-


na e si avvicina al pessimismo della letteratura occiden-
tale; ma la delusione per l’arida e convenzionale civiltà
moderna ha qui tutt’altro carattere che in Flaubert e in
Maupassant. Il trionfo della vita reale sul romanticismo
dei sentimenti già in Guerra e pace si contaminava di una
certa malinconia, e anche prima, ad esempio in Felicità
domestica, Tolstoj aveva avuto toni flaubertiani nel
descrivere il degenerare delle grandi passioni, special-
mente il decadere dell’amore ad amicizia. Ma il dissidio
tra ideale e realtà, poesia e prosa, giovinezza e vecchiaia
non è mai in lui cosí sconsolato come nei francesi. La sua
delusione non porta mai al nichilismo, né all’accusa con-
tro tutto quel che ha corpo e vita. Nel romanzo occi-
dentale l’eroe venuto a conflitto con la realtà commise-
ra e drammatizza se stesso con troppe querimonie; la
colpa dell’urto è sempre delle condizioni esteriori:
società, stato, ambiente. In Tolstoj invece, quando si
giunge al conflitto, l’io soggettivo è colpevole quanto la
realtà obiettiva66. Se la vita che delude è troppo arida,
l’eroe deluso è però troppo sentimentale, poetico, uto-
pico; alla vita manca, è vero, ogni tolleranza verso i
sognatori, ma a questi manca il senso della realtà.
Da questa concezione dell’io e del mondo, diversa da
quella di Flaubert, dipende soprattutto la profonda dif-
ferenza di forma tra il romanzo occidentale e quello tol-
stoiano. Di fatto, questo è lontano dalla norma natura-
listica almeno quanto quello di Dostoevskij; ma in senso
opposto. Se i romanzi di Dostoevskij hanno una strut-
tura drammatica, i suoi hanno carattere epico, sono
veramente simili all’epos. Non c’è lettore attento che
non ne abbia sentito il maestoso, omerico fluire, l’am-
piezza panoramica e il panteistico senso della vita. Tol-
stoj stesso si era paragonato a Omero, e il paragone è
diventato una formula costante nella critica. Omerica è
sempre apparsa la sua forma, aliena da ogni risalto

Storia dell’arte Einaudi 255


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

romantico e drammatico, la sua rinunzia all’esaspera-


zione e all’intensità del dramma. L’accentramento dram-
matico del romanzo, maturato con il trapasso dalla
forma picaresca del Settecento a quella biografica del
preromanticismo, non si riscontra ancora in Guerra e
pace. Egli considera il conflitto tra individuo e società
non come una tragedia inevitabile, ma come una cala-
mità che egli, come i settecentisti, fa risalire alla man-
canza di perspicacia, d’intelligenza e di serietà morale.
Egli vive ancora nell’età illuministica della Russia, in
un’atmosfera intellettuale di fiducia nel mondo e nel-
l’avvenire. Ma, lavorando ad Anna Karenina, quell’otti-
mismo viene meno, e soprattutto viene meno la sua fede
nell’arte, dichiarata del tutto inutile, anzi dannosa, a
meno che non rinunci alle raffinatezze e alle trovate del
naturalismo e dell’impressionismo moderno, e da arti-
colo di lusso diventi bene comune dell’umanità. Nell’e-
straniarsi dell’arte dalle grandi masse e nel restringersi
del pubblico a una cerchia sempre piú angusta, Tolstoj
riconobbe un reale pericolo. È indubbio che l’ampliarsi
di quella cerchia e il contatto con ceti culturalmente
meno esclusivi sarebbe stato un vantaggio per l’arte. Ma
un tale mutamento non poteva prodursi se non contra-
stando l’attività degli artisti cresciuti nella tradizione
dell’arte moderna e favorendo invece con ogni mezzo,
e a svantaggio di quelli, l’attività dei dilettanti che a que-
sta tradizione erano estranei? Col suo rifiuto della gran-
de evoluzione dell’arte moderna e la sua predilezione per
le forme dell’arte primitiva, «universalmente umana»,
Tolstoj si palesa ancora discendente di Rousseau, non
meno di quando contrappone il villaggio alla città e
identifica la questione sociale con quella dei contadini.
Che per esempio egli trascurasse Shakespeare, è perfet-
tamente comprensibile. Come poteva piacere il manie-
rismo di un poeta, anche grandissimo, a un puritano che
odiava ogni forma di esuberanza e di virtuosismo? Ma

Storia dell’arte Einaudi 256


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

è incomprensibile che il creatore di opere d’arte cosí raf-


finate come Anna Karenina e La morte di Ivan Il´ic, in
tutta la letteratura moderna accettasse senza riserve,
oltre a La capanna dello zio Tom, solo I masnadieri di
Schiller, I Miserabili di Victor Hugo, I racconti di Nata-
le di Dickens, Le memorie dalla casa dei morti di
Dostoevskij e Adam Bede di George Eliot67. L’atteggia-
mento di Tolstoj di fronte all’arte può essere inteso sol-
tanto come il sintomo di un mutamento storico, come il
segno di un’evoluzione che conclude la cultura estetica
dell’Ottocento e produce una generazione che nell’arte
torna a vedere anzitutto la mediatrice delle idee68.
Questa generazione venerò nell’autore di Guerra e
pace non solo il grande poeta, non solo il creatore del
massimo romanzo della letteratura universale, ma piú
ancora il riformatore sociale e il fondatore di una reli-
gione. Tolstoi ebbe la fama di Voltaire, la popolarità di
Rousseau, l’autorità di Goethe e, piú di tutto questo,
divenne una figura leggendaria, il cui prestigio ricorda-
va gli antichi veggenti e profeti. Jasnaja Poljana diven-
ne meta di pellegrinaggio per uomini d’ogni nazione,
classe e cultura, che ammiravano come un santo il vec-
chio conte con la blusa da contadino. Gor´kij non
dev’essere stato l’unico a pensare, vedendolo: «Que-
st’uomo è simile a Dio!» Confessione di un miscreden-
te che cosí chiude i suoi ricordi su Tolstoj69. E forse,
come Thomas Mann, molti altri ebbero il senso che
dopo la sua morte l’Europa fosse rimasta «senza padro-
ne»70. Ma erano soltanto sentimenti e stati d’animo,
parole di riconoscenza e di fedeltà. Senza dubbio Tol-
stoj fu come la viva coscienza dell’Europa, il grande
maestro ed educatore che meglio di ogni altro seppe
esprimere l’inquietudine morale e la volontà di rinno-
vamento spirituale della sua generazione; ma con il suo
ingenuo orientamento alla Rousseau e con il suo quieti-
smo non avrebbe certo potuto rimanere «padrone» del-

Storia dell’arte Einaudi 257


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’Europa, se mai lo fu. Infatti, come pensava Ωechov,


per un artista può bastare porre giustamente i problemi,
ma per un uomo che debba regnare sul suo secolo è
necessario che sappia anche giustamente risolverli.

1
a. paul oppé, Art, in Early Victorian England, a cura di G. M.
Young, 1934, II, p. 154.
2
ruskin, Stones of Venice, III, in Works, 1904, XI, p. 201.
3
h. w. singer, Der Präraffaelismus in England, 1912, p. 51.
4
Cfr. a. clutton-brock, William Morris. His Work and Influence,
1914, p. 9.
5
d. c. somervell, English Thought in the 19th Century, 1947, 5a ed.,
p. 153.
6
christian eckert, John Ruskin, in «Schmollers Jahrbuch», XXVI,
1902, p. 362.
7
e. batho - b. dobrée, The Victorians and After, 1938, p. 112.
8
a. clutton-brock, William Morris ecc. cit., p. 150.
9
Ibid., p. 228.
10
william morris, Art under Plutocracy, 1883.
11
m. louis cazamian, Le Roman social en Angleterre (1830-1850),
II, 1935, pp. 250-51.
12
Ibid., I, 1934, pp. 11-12, 163.
13
w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899, p. 182.
14
m. l. cazamian, Le roman social ecc. cit., I, p. 8.
15
a. h. thorndike, Literature in a Changing Age, 1920, pp. 24-25.
16
Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1939, p. 156.
17
g. k. chesterton, Charles Dickens, 1917, 11a ed., pp. 79, 84.
18
amy cruse, The Victorians and their Books, 1936, 2a ed., p. 158.
19
osbert sitwell, Dickens, 1932, p. 15.
20
Cfr. m. l. cazamian Le roman social ecc. cit., I, pp. 209 sgg.
21
t. a. jackson, Charles Dickens, 1937, pp. 22-23.
22
humphrey house, The Dickens World, 1941, p. 219.
23
Cfr. il discorso di Dickens a Birmingham il 27 settembre 1869.
24
Cfr. h. house, The Dickens World cit., p. 209.
25
hippolyte taine, Histoire de la littérature anglaise, 1864, IV, p. 66.
26
o. sitwell, Dickens cit., p. 16.
27
q. d. leavis, Fiction ecc. cit., pp. 33-34, 42-43, 158-59, 168-69.
28
m. l. cazamian, Le roman et les idées en Angleterre, I, 1923, p.
138. - elizabeth s. haldane, George Eliot and her Times, 1927, p. 292.
29
p. bourl’honne, George Eliot, 1933, pp. 128, 135.
30
ernest a. baker, History of the English Novel, VIIII, 1937, pp.
240-54.

Storia dell’arte Einaudi 258


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

31
e. batho - b. dobrée, The Victorians and After cit., pp. 78-79,
91-92.
32
george eliot, Middlemarch, 1871-72, XV.
33
m. l. cazamian, Le roman social cit., p. 108.
34
j. w. cross, George Eliot’s Life as related in her Letters and Jour-
nal, 1885, p. 230.
35
f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, p. 61.
36
alfred wtzer, Die Not der geistigen Arbeiter, in «Schriften des
Vereins für Sozialpolitik», 1920.
37
g. lukacs, Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialek-
tik, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiter-
bewegung», xii, 1926, p. 123.
38
karl mannheim, Ideology and Utopy, 1936, pp. 136 sgg. - Man
and Society in an Age of Reconstruction, 1940, pp. 79 sgg.
39
Cfr. hans speier Zur Soziologie der burggerlischen Intelligenz in
Deutschland, in «Die Gesellschaft», II, 1929, p. 71.
40
d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature, 1926, pp. 42-43.
41
id., A History of Russian literature, 1927, p. 321-22.
42
m. n. pokrovsky, Brief History of Russia, I, 1933, p. 144.
43
d. s. mirsky, Russia. A Social History 1931, p 199.
44
janko lavrin, Pushkin and Russian Literature, 1947, p. 198.
45
d. s. mirsky, A History of Russian Literature, pp. 203-4.
46
Ibid., p. 204.
47
Ibid., p. 282.
48
t. g. masaryk, Zur russischen Geschichts- und Religionsphilo-
sophie, 1913, I, p. 126.
49
turgenev in una lettera a Herzen dell’8 novembre 1862.
50
e. h. carr, Dostoevsky, 1931. p. 268.
51
nikolaj berdjaev, Mirosozercanie Dostoevskogo, Praha 1923 [trad.
it., La concezione di Dostoevskij, Torino 1945, p. 21].
52
mirsky, A History of Russian Literature cit., p. 219.
53
e. h. carr, Dostoevsky cit., pp. 281 sgg.
54
Ibid., pp. 267-68.
55
dostoevskij, Diario di uno scrittore, febbraio 1877.
56
edmund wilson, The Wound and the Bow, 1941, p. 50. - rex
warner, The Cull of Power, 1946, p. 41.
57
Cfr. d. s. MEREZKOVSKIJ, Tolstoj i Dostoevskij [trad. ted., Tolstoj
und Dostojewskij, 1903, p. 232].
58
vladimir pozner, Dostoievskij et le roman d’aventure, in «Euro-
pe» XXVII, 1931.
59
Ibid., pp. 135-36.
60
Cfr. lenon sestov, Dostoevskij i Nietzsche [trad. ted., Dostojew-
skij und Nietzsche, 1924, pp. 90-91].

Storia dell’arte Einaudi 259


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

61
t. mann, Goethe und Tolstoi, in Bemühungen, 1925, p. 33 [trad.
it., Goethe e Tolstòj, in Nobilità dello spirito, Milano 1954].
62
n. lenin, L. N. Tolstoi (1910), in n. lenin - g. plechanov, L. N.
Tolstoi im Spiegel des Marxismus, 1928, pp. 42-44.
63
d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature cit., p. 8.
64
Ibid., p. 9. janko lavrin, Tolstoy, 1944, p. 94.
65
d. s. mereikovskij, Tolstoij Dostoevskij cit., p. 183.
66
g. lukács, Nagy orosz realisták, Budapest 1946, p. 92 [trad. it.,
Saggi sul realismo, Torino 1950].
67
tolstoj, Che cosa è l’arte?, XVI.
68
Cfr. t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 283.
69
maksim gor’kij, Letteratura e vita.
70
t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 278.

Storia dell’arte Einaudi 260


Capitolo quarto

L’impressionismo

Il confine fra naturalismo e impressionismo è fluido,


le due correnti non ammettono una precisa distinzione
né storica, né concettuale. La gradualità del mutamen-
to stilistico corrisponde alla continuità dello sviluppo
economico dell’epoca e alla stabilità dei rapporti socia-
li. Nella storia di Francia il 1871 ha un’importanza solo
transitoria. Il predominio dell’alta borghesia rimane
sostanzialmente intatto e all’impero «liberale» subentra
la repubblica conservatrice: quella «repubblica senza
repubblicani»1, a cui ci si adatta, perché sembra assicu-
rare il minor attrito possibile nella soluzione dei pro-
blemi politici. Ma con essa ci si riconcilia soltanto dopo
che essa ha sterminato i comunardi, confortandosi con
la teoria del salasso necessario e benefico2. Gli intellet-
tuali assistono perplessi agli avvenimenti. Flaubert, Gau-
tier, i Goncourt e molti altri con loro si sfogano in vitu-
peri e imprecazioni contro i perturbatori. Al massimo,
dalla repubblica sperano un riparo contro il clericalismo
e nella democrazia vedono il male minore3. Il capitali-
smo finanziario e industriale continua la sua coerente
evoluzione secondo l’antico indirizzo; ma nel profondo
avvengono mutamenti notevoli, sebbene ancora inav-
vertiti. L’economia entra nello stadio del grande capi-
talismo e da «libero gioco di forze» si trasforma in un
sistema rigidamente organizzato e razionalizzato, in una
fitta rete di sfere d’interessi, zone doganali, situazioni

Storia dell’arte Einaudi 261


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di monopolio, cartelli, trusts e sindacati. E come questo


accentramento sistematico dell’economia ha potuto esser
designato come un fenomeno di senilità4, cosí dovunque
nella società borghese si possono constatare indizi d’in-
certezza e segni premonitori di dissoluzione. La Comu-
ne finisce con una sconfitta cosí completa degli insorti,
quale nessun’altra rivoluzione aveva ancora subito, ma
è la prima che sia sostenuta da un movimento operaio
internazionale, e la borghesia ne esce, sì, vittoriosa, ma
con il senso di un pericolo acuto5. È quest’intima crisi
a rinnovare le tendenze idealistiche e mistiche e a susci-
tare contro il pessimismo prevalente la reazione di un
forte movimento religioso. Soltanto nel corso di questo
processo l’impressionismo, perde il contatto con il natu-
ralismo e, specie nella poesia, si trasforma in una nuova
forma di romanticismo.
Gli enormi progressi della tecnica non valgono a
mascherare l’intima crisi del tempo. Anzi la crisi stessa
è da considerarsi tra gli stimoli alle conquiste tecniche
e al miglioramento dei metodi produttivi6. Certi aspet-
ti dell’atmosfera di crisi si fanno sentire in tutte le mani-
festazioni della tecnica. Soprattutto il ritmo frenetico
dello sviluppo e il succedersi forzato dei mutamenti
appaiono patologici, specie se confrontati con il pro-
gresso dei secoli precedenti e studiati nelle loro riper-
cussioni sull’arte. Il rapido sviluppo della tecnica non
affretta soltanto il variare delle mode, ma anche il muta-
re del gusto artistico; sovente esso porta a un’assurda e
sterile smania di novità, a una incessante aspirazione al
nuovo in quanto nuovo. Gli imprenditori debbono
accrescere ad arte il bisogno di prodotti piú moderni e
alimentare continuamente l’idea che la cosa nuova sia
sempre la migliore, se vogliono realmente trarre profit-
ti dalle conquiste della tecnica7. Ma la continua e sem-
pre piú frequente sostituzione dei vecchi oggetti d’uso
fa sí che diminuisca sempre piú l’attaccamento alle cose

Storia dell’arte Einaudi 262


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

materiali, e ben presto anche a quelle dello spirito, sic-


ché il ritmo dei mutamenti in campo filosofico e artistico
finisce per adattarsi a quello delle mode. La tecnica
moderna provoca cioè una inaudita dinamizzazione della
concezione del mondo, ed è essenzialmente questo
nuovo senso dinamico che si esprime nella vita.
Un fenomeno imponente che va connesso con il pro-
gresso tecnico è lo svilupparsi dei centri di cultura in
vere e proprie metropoli moderne; queste sono il terre-
no in cui l’arte nuova affonda le sue radici. L’impres-
sionismo è l’arte urbana per eccellenza, e non solo per-
ché scopre la città e alla città riporta, dalla campagna,
la pittura di paesaggio, ma anche perché vede il mondo
con gli occhi del cittadino e reagisce alle impressioni dal-
l’esterno con l’ipertensione nervosa dell’uomo educato
alla tecnica moderna. È uno stile urbano, perché ritrae
la mutevolezza, il ritmo nervoso, le impressioni subita-
nee, nette ma labili, della vita cittadina. E appunto
come tale rappresenta un’immensa espansione della per-
cezione sensoriale, una nuova, acuita sensibilità, una
nuova eccitabilità nervosa e, accanto all’arte gotica e al
romanticismo, rappresenta una fra le piú importanti
svolte nella storia dell’arte occidentale. Nel processo
dialettico che percorre la storia della pittura, nell’alter-
narsi di stasi e dinamismo, disegno e colore, ordine
astratto e vita organica, l’impressionismo segna l’acme
della tendenza dinamica che dissolve interamente la sta-
tica visione medievale. Come dall’economia del tardo
Medioevo al grande capitalismo corre una linea ininter-
rotta di sviluppo, cosí anche dall’arte gotica all’impres-
sionismo; e l’uomo moderno, che concepisce tutta la
sua vita come lotta e gara, che traduce in movimento e
mutamento ogni forma di vita, che sente l’esperienza del
mondo sempre piú come esperienza del tempo, è il pro-
dotto di questo processo duplice, ma fondamentalmen-
te unitario.

Storia dell’arte Einaudi 263


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il prevalere del momento sulla durata e la stabilità,


il senso che ogni fenomeno è una costellazione transi-
toria e irripetibile, una labile onda del fiume in cui non
si scende due volte, è la piú semplice formula a cui si può
ridurre l’impressionismo. Tutto il metodo impressioni-
stico, con i suoi mezzi e i suoi trucchi, non mira che ad
esprimere questa visione eraclitea, sottolineando che la
realtà non è un essere, ma un divenire, non uno stato,
ma un evento. Ogni quadro impressionistico è il sedi-
mento di un istante nel perpetuum mobile della vita, la
rappresentazione di un labile equilibrio sempre minac-
ciato nel gioco delle opposte forze. La visione impres-
sionistica trasforma il quadro naturale in un processo, in
qualche cosa che si forma e svanisce. Ogni cosa stabile
e coerente, si risolve in essa in metamorfosi e la realtà
vi assume un volto non-finito e imperfetto. Viene cioè
perfettamente reso l’atto soggettivo del vedere, non piú
l’obiettivo substrato di esso vedere, con cui s’inizia la
storia della moderna pittura prospettica. La rappresen-
tazione della luce, dell’aria, dell’atmosfera, la scompo-
sizione della superficie colorata in macchie e tocchi, la
dissoluzione del colore locale in tono, in valori prospet-
tici e atmosferici, il gioco dei riflessi e delle ombre schia-
rite, il tocco virgolato, tremulo e guizzante e la pennel-
lata scoperta, fluida, libera, tutto quel dipingere alla
prima con il rapido disegno appena schizzato, il colpo
d’occhio fuggevole, apparentemente distratto, e l’im-
magine resa con virtuosistica approssimazione, in ulti-
ma analisi altro non esprimono se non quel senso di una
realtà mobile, dinamica, sempre mutevole che è comin-
ciato con la soggettivizzazione della rappresentazione
pittorica attraverso la prospettiva.
Un mondo di fenomeni che senza posa si rinnova per
innumerevoli, impercettibili passaggi, suscita l’impres-
sione di un continuo in cui tutto confluisce; sicché a
mutare è solo l’atteggiamento, il punto di vista dell’os-

Storia dell’arte Einaudi 264


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

servatore. Un’arte adeguata a questo mondo non solo


accentuerà il carattere momentaneo e transitorio dei
fenomeni, non solo vedrà nell’uomo la misura delle cose,
ma cercherà il criterio del vero nell’hic et nunc dell’in-
dividuo. Il caso sarà per essa il principio di ogni esi-
stenza e la verità del momento toglierà valore ad ogni
altra verità. Il primato dell’istante, del divenire e del
caso significa, espresso in termini estetici, il prevalere
dello stato d’animo sulla vita, cioè di un rapporto con
le cose, caratterizzato non solo dalla mutevolezza, ma
dalla mancanza di qualsiasi impegno. In questa tenden-
za dell’arte si esplica un atteggiamento fondamental-
mente passivo di fronte alla vita, un adattarsi alla parte
di spettatore, di soggetto recettivo e contemplante, cioè
una posizione di distacco, di attesa, di neutralità –
insomma, il puro atteggiamento estetico. L’impressio-
nismo è al sommo di questa cultura ed è l’estrema con-
seguenza della rinunzia romantica alla vita attiva.
Come stile, l’impressionismo è un fenomeno singo-
larmente complesso. Per certi aspetti esso rappresenta
soltanto la coerente evoluzione del naturalismo. Se con
questo termine s’intende il passaggio dal generale al par-
ticolare, dal tipico all’individuale, dall’idea astratta all’e-
sperienza concreta, determinata nel tempo e nello spa-
zio, la rappresentazione impressionistica della realtà,
proprio in quanto accentua l’elemento momentaneo e
irripetibile, rappresenta una importante conquista del
naturalismo. I quadri impressionistici sono piú vicini
all’esperienza dei sensi di quelli naturalistici in senso
stretto, e per la prima volta nella storia dell’arte sosti-
tuiscono totalmente all’oggetto del sapere teorico quel-
lo dell’immediata esperienza visiva. Senonché, separan-
do gli elementi ottici da quelli concettuali ed elaboran-
do il dato visivo nella sua autonomia, l’impressionismo
si allontana da tutta la pratica dell’arte precedente e
quindi anche dal naturalismo. Mentre finora si tendeva

Storia dell’arte Einaudi 265


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a un’immagine che, pur unificata nella coscienza, era


tuttavia composta di elementi eterogenei, concettuali e
sensoriali, il metodo proprio dell’impressionismo tende
a ottenere una omogeneità dell’immagine puramente
visiva. Ogni arte precedente era il risultato di una sin-
tesi; l’impressionismo, di un’analisi. Ogni volta esso
costruisce il suo oggetto dai puri dati dei sensi, risalen-
do all’inconscio meccanismo psichico, e in parte esso for-
nisce un materiale d’esperienza ancora grezzo, piú lon-
tano dalla consueta immagine della realtà di quanto lo
siano le impressioni sensoriali elaborate razionalmente.
L’impressionismo è meno illusionistico del naturalismo,
non dà l’illusione, ma gli elementi dell’oggetto; invece
di un’immagine totale, dà i singoli elementi di cui si
compone l’esperienza. Prima dell’impressionismo l’arte
riproduceva gli oggetti per mezzo di segni, ora li rap-
presenta attraverso le loro componenti, attraverso ele-
menti della materia prima di cui sono composti8.
Rispetto all’arte piú antica, il naturalismo aveva signi-
ficato un ampliamento del patrimonio della pittura,
aveva accresciuto i temi e arricchita la tecnica. Invece
il metodo impressionistico implica una serie di riduzio-
ni, un sistema di limitazioni e semplificazioni9. Nulla è
piú tipico per un dipinto impressionista del fatto che si
debba contemplarlo da una certa distanza e ch’esso
ritragga le cose con le omissioni proprie della veduta da
lontano. La serie delle riduzioni comincia limitando gli
elementi figurativi alla pura visualità ed eliminando
tutto quello che non è di natura ottica o traducibile
nelle categorie dell’ottica. La rinunzia ai cosiddetti ele-
menti letterari del soggetto, al racconto o all’aneddoto,
è l’espressione piú evidente di questo «ripiegare della
pittura sui propri mezzi». Che i temi figurativi si ridu-
cano al paesaggio, alla natura morta e al ritratto, o che
ogni altro soggetto venga trattato come «paesaggio» o
«natura morta», non è che un sintomo che rivela il pre-

Storia dell’arte Einaudi 266


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dominio di uno specifico «pittoricismo»: «La scelta di


un soggetto non per se stesso, ma per i suoi toni è ciò
che distingue gli impressionisti dagli altri pittori», con-
stata già uno dei primi storici e teorici del movimento10.
Questa tendenza a materializzare, a neutralizzare il
tema, può essere considerata come espressione dei sen-
timenti antiromantici dell’epoca, una forma di comple-
ta diseroicizzazione dei soggetti artistici, ma può anche
essere intesa come un allontanamento dalla realtà; e la
tendenza a limitare la pittura a soggetti specifici può
apparire come una perdita da un punto di vista natura-
listico. Il sorriso, che i Greci avevano dato all’arte figu-
rativa e che, come qualcuno ha osservato, va perdendo-
si nell’arte moderna11, è sacrificato alla visione «pittori-
ca»; ma con esso scompare dalla pittura ogni psicologia
e ogni umanesimo.
La sostituzione dell’immagine visiva all’immagine
plastica, cioè la traduzione in superficie del volume dei
corpi e della forma plastico-spaziale, è un grado ulterio-
re, anch’esso legato alla tendenza «pittorica» dell’epo-
ca, nella serie di quelle riduzioni che l’impressionismo
impone all’immagine naturalistica della realtà. Questa
però non è il fine, ma soltanto una conseguenza latera-
le del metodo. È solo per meglio accentuare gli effetti
cromatici e per il desiderio di trasformare la superficie
del quadro in un’armonia di effetti di colore e di luce,
che lo spazio viene assorbito e viene dissolta la struttu-
ra dei corpi. L’impressionismo, oltre a ridurre la realtà
a una superficie bidimensionale, la semplifica ancora in
un sistema di macchie senza contorno; rinunzia insom-
ma alla plastica e al disegno, alla forma spaziale e a quel-
la lineare. È indiscutibile che in questo modo la rap-
presentazione acquista, in luogo della chiarezza e del-
l’evidenza che innegabilmente perde, energia e fascino
sensuale, e questo appunto premeva agli impressionisti.
Ma il pubblico sentí la perdita piú dell’acquisto, ed è

Storia dell’arte Einaudi 267


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

impossibile per noi moderni, per i quali la visione


impressionistica è ormai uno dei fattori piú importanti
della nostra esperienza visiva, immaginare la perplessità
suscitata da quell’intrico di macchie, tocchi e sgorbi.
L’impressionismo fu certo l’ultimo passo di un secolare
processo di involuzione formale. Fin dall’età barocca la
pittura era diventata sempre piú difficile per il pubbli-
co; si era fatta sempre meno nitida, e sempre piú com-
plicato era divenuto il suo rapporto con la realtà. Ma in
tutto questo processo l’impressionismo rappresenta cer-
tamente il salto piú ardito, e lo scandalo delle prime
esposizioni non è comparabile a quello di nessun’altra
novità artistica. La tecnica sommaria e la mancanza di
forma degli impressionisti parvero una provocazione;
furono prese come una beffa e il pubblico se ne vendicò
nel modo piú crudele.
Ma la serie delle riduzioni di cui il metodo si serve
non si esaurisce qui. Gli stessi colori usati dall’impres-
sionismo mutano e deformano l’immagine della comu-
ne esperienza. Ad esempio, per noi un pezzo di carta
«bianco» è bianco, comunque sia illuminato, nonostan-
te i riflessi colorati ch’esso mostra alla luce diurna. In
altri termini, il «colore della memoria», che noi asso-
ciamo a un oggetto e che risulta da lunga esperienza e
abitudine, soverchia la concretezza dell’esperienza
immediata12; ora l’impressionismo al di là del colore
mentale, teorico, ritrova la percezione reale, il che d’al-
tronde non è un atto spontaneo, ma rappresenta un pro-
cesso psicologico quanto mai artificioso e complicato.
La visione impressionistica infine compie un’altra
sensibilissima riduzione sull’immagine consueta della
realtà, mostrando i colori non come qualità concrete,
legate al singolo oggetto, ma come fenomeni cromatici
astratti, incorporei, immateriali – per cosí dire, colori in
sé. Se davanti a un oggetto mettiamo uno schermo con
una piccola apertura, che lasci vedere un colore, ma non

Storia dell’arte Einaudi 268


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

consenta di farsi nessuna idea della forma dell’oggetto


e del suo rapporto con quel determinato colore, noi,
com’è noto, otteniamo un’impressione di colore sciolta,
incorporea, fluttuante, di natura diversissima da quella
dei colori che siamo abituati a vedere inscindibili dalla
forma dell’oggetto. In questo modo il fuoco perde il suo
splendore, la sera il suo riflesso, l’acqua la sua traspa-
renza, e cosí via13. Ora l’impressionismo dipinge sempre
gli oggetti in questi incorporei colori di superficie che,
cosí freschi e intensi, producono un’impressione imme-
diata, ma diminuiscono considerevolmente l’illusioni-
smo della rappresentazione e rivelano chiarissima la con-
venzionalità del metodo.
Nella seconda metà dell’Ottocento la pittura è l’arte
d’avanguardia. L’impressionismo ha già raggiunto una
sua autonomia, quando in letteratura si combatte anco-
ra per il naturalismo. La prima esposizione collettiva
degli impressionisti è del 1874, ma la storia dell’im-
pressionismo comincia circa vent’anni prima e finisce nel
1886, con l’ottava esposizione del gruppo. Questo si
scioglie verso quell’anno e si apre da allora un nuovo
periodo, post-impressionistico, che dura fino alla morte
di Cézanne, nel 190614. Dopo il predominio della lette-
ratura nel Sei e nel Settecento e quello della musica nel-
l’età romantica, verso la metà dell’Ottocento è la volta
della pittura. Il critico d’arte Asselineau già verso il
1840 constata che la pittura ha detronizzato la poesia15
e, una generazione piú tardi, i fratelli Goncourt escla-
mano con entusiasmo: «Che felice professione è quella
del pittore rispetto a quella del letterato!»16. Non solo
la pittura domina tutte le altre arti come la piú progre-
dita del tempo, ma anche qualitativamente le sue crea-
zioni superano la letteratura contemporanea, specie in
Francia, dove si è potuto dire con ragione che i grandi
poeti di quegli anni sono i pittori impressionisti17. È vero
che l’arte dell’Ottocento rimane in certa misura roman-

Storia dell’arte Einaudi 269


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tica, cioè «musicale», e i poeti del secolo confessano di


aver nella musica il loro supremo ideale; ma con ciò essi
intendono un simbolo della sovrana forza creatrice, indi-
pendente dalla realtà obiettiva, piú che l’esempio con-
creto della musica. Invece la pittura impressionistica
scopre sensazioni, che in seguito anche la poesia e la
musica si sforzeranno di esprimere, adattando il proprio
linguaggio alle forme pittoriche. Le impressioni atmo-
sferiche, specialmente l’esperienza della luce, dell’aria e
della chiarità colorata sono percezioni proprie della pit-
tura, e quando le altre arti cercano di riprodurle è giu-
stificato parlare di «pittoricismo» della poesia e della
musica. «Pittorico» per altro è lo stile di queste arti
anche quando esse si esprimono in forme «senza con-
torni», ricorrendo ad effetti di colore e di luce, e dànno
piú importanza alla vivacità dei particolari che all’unità
dell’impressione complessiva. Quando Paul Bourget
constata, a proposito dello stile letterario del suo tempo,
che l’impressione delle singole pagine è sempre piú forte
di quella di tutto il libro, che la frase colpisce piú della
pagina e la parola piú della frase18, egli caratterizza il
metodo dell’impressionismo, stile di una visione atomi-
stica e dinamica del mondo.
L’impressionismo tuttavia non è soltanto lo stile del
tempo, che domina in tutte le arti, è anche l’ultimo stile
«europeo», l’ultima corrente artistica che possa conta-
re su un generale consenso del gusto. Dopo, non si avrà
piú uno stile unitario che comprenda le diverse arti o la
cultura delle diverse nazioni. Ma l’impressionismo non
cessa né sorge all’improvviso. Delacroix, che scopre la
legge dei colori complementari e delle ombre colorate,
e Constable, che constata la composizione complessa
degli effetti di colore in natura, precorrono in piú modi
il metodo impressionistico. Il dinamizzarsi della visione,
che costituisce l’essenza dell’impressionismo, comincia
senza dubbio con loro. I rudimenti del plein air speri-

Storia dell’arte Einaudi 270


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mentati dai pittori di Barbizon sono un altro passo su


quella via. Ma al sorgere dell’impressionismo come
movimento collettivo contribuiscono soprattutto l’e-
sperienza pittorica della città i cui primi segni si hanno
in Manet e in Monet, e anche la coalizione delle ener-
gie giovanili provocata dall’ostilità del pubblico. A prima
vista può apparire sorprendente che la grande città, cosí
affollata e promiscua, abbia potuto nutrire quest’arte
cosí intima, cosí radicata nel sentimento dell’individua-
lità e della solitudine. Ma, com’è noto, nulla isola quan-
to la stretta vicinanza di troppa gente e in nessun luogo
ci si trova cosí soli e abbandonati come in una gran folla
estranea. I due fondamentali sentimenti, che la vita in
simile ambiente provoca, il senso di esser soli e inosser-
vati e l’impressione vertiginosa del traffico, del moto
incessante, del continuo mutamento, sono quelli che
determinano la visione impressionistica, visione che uni-
sce gli stati d’animo piú sottili con il piú rapido avvi-
cendarsi delle sensazioni. E altrettanto sorprendente
può apparire a prima vista l’osservazione che l’atteggia-
mento ostile del pubblico ha dato impulso al movimen-
to impressionista. Gli impressionisti non furono mai
aggressivi di fronte al pubblico; volevano rimanere nel
quadro delle tradizioni e spesso fecero sforzi disperati
per ottenere il placet delle sfere ufficiali, soprattutto al
Salon, considerato la normale via del successo. In ogni
caso lo spirito di contraddizione e il desiderio di attira-
re l’attenzione con mezzi sbalorditivi è molto meno rile-
vante in loro che nella maggior parte dei romantici e in
molti naturalisti. E tuttavia non c’era forse mai stata
scissione cosí profonda tra gli ambienti ufficiali e gli arti-
sti della nuova generazione, né mai era stato cosí forte
nel pubblico il senso di esser gabbato. Non si può dire
che gli impressionisti aiutassero la gente a capire le loro
idee – ma che dire di un pubblico che quasi lasciava

Storia dell’arte Einaudi 271


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

morire di fame artisti cosí grandi, onesti, pacifici come


Monet, Renoir e Pissarro!
Né d’altra parte l’impressionismo aveva in sé alcun
elemento plebeo che potesse respingere il borghese; anzi
è uno «stile aristocratico», elegante e arguto, nervoso e
sensibile, sensuale ed epicureo, amante del prezioso e del
raro, ispirato da esperienze strettamente personali, dal
senso della solitudine e dell’isolamento, da sensi e nervi
raffinatissimi. D’altra parte esso è opera di artisti che
non solo vengono in gran parte dal popolo e dalla pic-
cola borghesia, ma che di problemi estetici e intellettuali
si occupano assai meno dei colleghi della generazione
precedente; sono molto meno versatili e complicati, piú
schiettamente artigiani e «tecnici» dei predecessori. Ma
fra loro si trovano anche borghesi agiati e perfino ari-
stocratici: Manet, Bazille, Berthe Morisot e Cézanne
sono di famiglia ricca, Degas è un aristocratico e Tou-
louse-Lautrec discende da un grande casato. L’intelli-
gente e mondana raffinatezza di Manet e di Degas, e la
scaltrita originalità di Constantin Guy e di Toulouse-
Lautrec mostrano sotto l’aspetto piú attraente la cospi-
cua società borghese del Secondo Impero, il mondo delle
crinoline e dei décolletés, delle carrozze e dei cavalli da
sella al Bois.
Nella storia letteraria il quadro è assai piú complica-
to che nella pittura. Come stile letterario, l’impressio-
nismo non è un fenomeno nettamente definito; i suoi
inizi non si possono facilmente discernere dal comples-
so del naturalismo, e le sue forme piú evolute si confon-
dono completamente con le manifestazioni del simboli-
smo. Anche cronologicamente si può osservare un certo
divario fra l’impressionismo letterario e quello pittori-
co: il suo periodo piú fecondo è già passato nella pittu-
ra, quando comincia appena a definirsi nella poesia. Ma
la distinzione maggiore sta nel fatto che l’impressioni-
smo in letteratura perde abbastanza presto il contatto

Storia dell’arte Einaudi 272


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

con il naturalismo, il positivismo, il materialismo, e


quasi subito si fa l’araldo di quella reazione idealistica
che in pittura si fa strada solo dopo la disgregazione del
gruppo impressionista. Il fenomeno trova la sua spiega-
zione soprattutto nel fatto che l’élite culturale conser-
vatrice ha fra i letterati un peso incomparabilmente
maggiore che fra i pittori, assai piú difesi, per la loro
stessa formazione artigiana, di mestiere, contro gli assal-
ti dello spiritualismo.
La crisi del naturalismo, semplice sintomo di quella
del positivismo, si palesa solo verso il 1885, ma se ne
possono constatare i segni premonitori fin dal 1870. I
nemici della repubblica sono per lo piú nemici del razio-
nalismo, del materialismo e del naturalismo; combatto-
no il progresso scientifico e si attendono la rinascita
dello spirito da un rinnovamento religioso. Parlano di
«bancarotta della scienza», di «fine del naturalismo», di
«arido meccanizzarsi della civiltà»; ma quando si sca-
gliano contro il materialismo del tempo, pensano sem-
pre alla rivoluzione, alla repubblica, al liberalismo. Se i
conservatori hanno perduto il loro influsso sul governo,
hanno però mantenuto la loro autorità nella vita pub-
blica. Occupano sempre i posti piú importanti nell’am-
ministrazione, nella diplomazia, nell’esercito e dirigono
l’istruzione pubblica, specie nei gradi superiori19. Licei
e università sono ancora dominio del clero e dell’alta
finanza, e di qui si diffondono gli ideali della cultura che
si affermano piú che mai fra i letterati. Gli scrittori di
formazione accademica sono assai piú numerosi di
prima, e sotto il loro influsso la vita intellettuale acqui-
sta un prevalente aspetto reazionario. Flaubert, Mau-
passant e Zola non erano dei dotti; Bourget e Barrès
invece rappresentano lo spirito dell’accademia e dell’u-
niversità; in certo modo essi si sentono responsabili del
patrimonio culturale della nazione e si presentano nella
loro missione di guide intellettuali della gioventú20. L’in-

Storia dell’arte Einaudi 273


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tellettualizzarsi della letteratura è forse il tratto piú spic-


cato e generale dell’epoca; esso si manifesta sia negli
scrittori progressisti, sia nei conservatori21. Per questo
aspetto Anatole France non si distingue minimamente
dai suoi colleghi clericali e nazionalisti. Ma se di fronte
ai Bourget, ai Barrès, ai Brunetière, ai Bergson, ai Clau-
del troviamo un solo Anatole France, l’autorità di que-
sto erede di Voltaire prova che in Francia non è morto
lo spirito dell’illuminismo. D’altra parte, casi come il
processo Dreyfus e lo scandalo del canale di Panama
sono fatti apposta per destarlo dal letargo.
Intorno al 1870 la Francia attraversa una delle sue
piú gravi crisi intellettuali e morali; ma quella «Sedan
intellettuale», contrariamente all’asserzione di Barrès22,
non dipende affatto dal disastro militare, e la «mortale
stanchezza» non deriva, come crede Bourget, dal mate-
rialismo e dal relativismo. Da quella stanchezza della
vita non vanno esenti né Bourget né Barrès, come non
lo erano stati Baudelaire e Flaubert. Si tratta ancora
della malattia romantica del secolo e il naturalismo zolia-
no, che la generazione del 1885 tratta da capro espia-
torio, rappresenta in realtà l’unico tentativo serio, ben-
ché insufficiente, di superare il nichilismo che si è impa-
dronito degli animi. Il panorama letterario verso il 1890
è dominato dagli assalti contro Zola e dalla dissoluzio-
ne del movimento naturalistico, come tendenza domi-
nante. Questa è l’impressione piú forte che si ricava
dalle risposte all’inchiesta promossa da Jules Huret, col-
laboratore de «L’Echo de Paris», che nel 1891 furono
pubblicate in volume sotto il titolo Enquéte sur l’évolu-
tion littéraire e costituiscono uno dei documenti piú
importanti sullo sviluppo culturale di quegli anni. Huret
chiese a sessantaquattro scrittori, fra i piú noti al pub-
blico francese, che cosa pensassero del naturalismo: se
potesse ancora salvarsi o fosse già morto e, se mai, quale
corrente letteraria lo avrebbe sostituito. La gran mag-

Storia dell’arte Einaudi 274


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gioranza degli interrogati, e, fra i primi, molti ex disce-


poli di Zola, diedero per spacciato il paziente. Solo il
fedele Paul Alexis si affrettò a telegrafare: «Naturalisme
pas mort. Lettre suit», come se volesse evitare la diffu-
sione di una voce pericolosa. Ma la sua fretta non serví
a nulla. La voce si diffuse e il naturalismo fu rinnegato
anche da quelli che gli dovevano tutta la loro vita di arti-
sti. Eppure fra questi c’erano molti fra i migliori dell’e-
poca. Infatti che cosa è stata fino allo scorcio del seco-
lo la letteratura valida, e che cos’è, in parte, ancor oggi,
se non naturalismo distruttore di formule, teso ad arric-
chire sempre piú i contenuti dell’esperienza? Soprat-
tutto il «romanzo psicologico» di Bourget, Barrès, Huy-
smans e ancora quello di Proust cos’era se non il pro-
dotto di un’osservazione naturalistica, intenta al docu-
ment humain? È vero che alcuni tratti antinaturalistici
sono inscindibili dall’impressionismo letterario come da
quello pittorico, ma rampollano anch’essi dal terreno del
naturalismo. L’accanimento del pubblico nel reagire con-
tro di esso appare a prima vista inspiegabile. Gli argo-
menti contro il naturalismo non erano nuovi; è strano
invece che ci si ribellasse contro di esso con tanta acri-
monia nel momento in cui sembrava essere vittorioso.
Che cosa non si poteva, o si fingeva di non poter per-
donare al naturalismo? Si afferma ch’esso è un’arte bru-
tale, oscena, espressione di un piatto materialismo, stru-
mento di una stupida, grossolana propaganda democra-
tica, una raccolta di noiose, futili volgarità, una rappre-
sentazione della realtà che descrive nell’uomo solo la
bestia selvaggia, feroce, sfrenata, nella società soltanto
l’opera della distruzione, il dissolversi dei rapporti
umani, il disgregarsi della famiglia, della nazione e della
religione; insomma, esso è distruttivo, contro natura,
ostile alla vita. La generazione del 1850 combattendo il
naturalismo difendeva semplicemente gli interessi dei
ceti superiori; quella del 1885 lo combatte per difende-

Storia dell’arte Einaudi 275


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re l’umanità, la vita feconda, il buon Dio. La religione


ci ha forse guadagnato, non certo la sincerità.
Si farnetica sui misteri dell’essere e gli abissi dell’a-
nima; si chiama piatto ciò che è ragionevole e si vuole
esplorare, sperimentare l’ignoto, l’inconoscibile. Si fa
professione di «ideali ascetici» negatori del mondo, ma
si trascura di chiedersi con Nietzsche a che cosa essi ser-
vano in realtà. Il simbolismo è la corrente letteraria in
auge; Verlaine e Mallarmé sono al centro dell’interesse
generale. I piú grandi nomi del movimento romantico,
Chateaubriand, Lamartine, Vigny, Musset, Mérimée,
Gautier, George Sand non compaiono nemmeno nelle
risposte ricevute da Huret23. Si scoprono in quest’oc-
casione Stendhal e Baudelaire, ci si entusiasma per Vil-
liers de l’Isle-Adam e Rimbaud, si crea la moda del
romanzo russo, del preraffaellismo inglese e della filo-
sofia tedesca.
Ma l’influsso piú profondo e fecondo è quello di Bau-
delaire; egli appare il massimo precursore della poesia
simbolista e il creatore della lirica moderna. È lui a
riportare la generazione di Bourget e Barrès, Huysmans
e Mallarmé sulla via dell’estetismo romantico, inse-
gnando a conciliare il nuovo misticismo con il vecchio
fanatismo per l’arte.
Con gli impressionisti, l’estetismo giunge al colmo del
suo sviluppo. Ormai i suoi tratti caratteristici, l’atteg-
giamento passivo, puramente contemplativo, di fronte
alla vita, la fugacità dell’esperienza che non impegna e
il sensualismo edonistico sono i soli criteri dell’arte.
L’opera non solo è considerata fine a se stessa, come un
gioco il cui fascino andrebbe distrutto con l’imposizio-
ne di un qualsiasi scopo estraneo all’arte, non solo è
tenuta il piú bel dono della vita, al cui godimento occor-
re prepararsi devotamente, ma nel suo splendido isola-
mento, nella sua indifferenza per tutto ciò che è fuori
della sua sfera, essa diventa modello di vita: la vita del

Storia dell’arte Einaudi 276


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dilettante che ora nella stima dei poeti comincia a sosti-


tuire gli antichi eroi dello spirito, e diventa l’ideale fin
de siècle. Ciò che soprattutto è tipico del dilettante è il
suo proposito di «far della sua vita un’opera d’arte»,
cioè qualcosa di lussuoso e d’inutile, qualcosa che scor-
re libero e prodigo, interamente dedito alla bellezza, alla
forma pura, all’armonia dei colori e delle linee. L’este-
tismo imperante, che eleva a stile di vita l’inutile e il
superfluo, è la quintessenza della rassegnazione e della
passività romantica. Anzi esso esagera il romanticismo;
non solo rinunzia alla vita per amore dell’arte, ma in
questa cerca la giustificazione della vita. Considera l’o-
pera d’arte come l’unico compenso alle delusioni, la vera
attuazione e il compimento dell’esistenza, in sé sempre
imperfetta e confusa. Ma ciò significa non solo che la
vita sublimata nelle forme dell’arte appare piú bella e
attraente, ma che – secondo la concezione di Proust,
l’ultimo grande impressionista ed edonista – soltanto nel
ricordo, nella visione, nell’esperienza estetica essa si
dispiega in pregnante realtà. Noi siamo maggiormente
presenti e partecipi delle nostre esperienze non quando
incontriamo realmente gli uomini e le cose – il «tempo»
e la presenza sono qui sempre «perduti» –, ma quando
«ritroviamo il tempo», quando cioè non siamo piú atto-
ri, ma spettatori della nostra vita, quando creiamo opere
d’arte o le godiamo, cioè quando ricordiamo. In Proust
per la prima volta l’arte s’impadronisce di quel che Pla-
tone le rifiutava: le idee, il ricordo adeguato alle forme
essenziali dell’essere.
Il moderno estetismo, in quanto atteggiamento passi-
vo e puramente contemplativo di fronte alla vita, risale
nel suo fondamento teoretico a Schopenhauer, che defi-
nisce l’arte riscatto dalla volontà, elemento sedativo che
riduce al silenzio avidità e passioni. La concezione este-
tica del mondo giudica e valuta l’intera esistenza dal
punto di vista di quest’arte abulica e apatica. Il suo idea-

Storia dell’arte Einaudi 277


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le è un pubblico tutto di artisti veri o potenziali, nature


per cui la realtà costituisce soltanto il substrato di espe-
rienze estetiche. Il mondo civile è per essi un grande stu-
dio d’artista e l’artista stesso è il miglior intenditore
d’arte. D’Alembert poteva ancora ammonire: «Guai
all’arte che riservi la sua bellezza agli artisti!» Ma ch’e-
gli si sentisse indotto a questo ammonimento prova che
il pericolo dell’estetismo esisteva già nel Settecento; nel
Seicento un’idea simile non sarebbe venuta a nessuno. E
per l’Ottocento quel che D’Alembert temeva non è piú
un pericolo. I Goncourt vedono nelle sue parole la piú
gran sciocchezza che si possa immaginare24, e soprattut-
to sono profondamente persuasi che la prima condizio-
ne per intendere adeguatamente l’arte sia una vita ad essa
dedicata, cioè il suo esercizio pratico.
L’estetismo dell’epoca impressionistica segna l’inizio
di una degenerazione profonda. Gli artisti creano per gli
artisti e l’arte, cioè l’esperienza formale del mondo sub
specie artis, si riduce ad avere come suo unico soggetto
l’arte stessa. La rozza, informe, vergine natura perde il
suo fascino estetico e l’ideale della naturalezza cede il
posto a quello dell’artificio. La città con la sua cultura
e i suoi piaceri, la vie factice e i paradis artificiels non sol-
tanto paiono incomparabilmente piú attraenti, ma anche
assai piú intelligenti e spirituali del cosiddetto fascino
della natura. Questa di per sé è brutta, volgare, infor-
me; soltanto l’arte la rende piacevole. Baudelaire odia
la campagna, i Goncourt nella natura scorgono una
nemica, e i piú tardi esteti, specialmente Whistler e
Wilde, ne parlano con sprezzante ironia. È la fine del-
l’Arcadia, del romantico entusiasmo per la natura e della
fede nell’identità di natura e ragione. Si conclude cosí
la reazione a Rousseau e al culto, da lui promosso, dello
stato di natura. Tutto ciò che è semplice e chiaro, istin-
tivo ed ingenuo perde valore; si insiste invece sulla con-
sapevolezza, l’intellettualismo e l’artificio della cultura.

Storia dell’arte Einaudi 278


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Nello stesso processo della creazione artistica si scopre


la partecipazione dell’intelligenza e delle facoltà razio-
nali. La fantasia dell’artista produce di continuo cose
buone, mediocri, cattive, – afferma Nietzsche; – solo il
suo giudizio scarta, sceglie e ordina il materiale dispo-
nibile25. In fondo anche quest’idea, come tutta la filo-
sofia della vie factice, procede da Baudelaire, che vuol
trasformare «il diletto in conoscenza», nel poeta vuol
sempre vedere anche il critico26 e nel suo entusiasmo per
tutto quel ch’è artificioso va cosí oltre da considerare la
natura anche moralmente inferiore. Egli afferma che il
male accade senza sforzo, cioè naturalmente, mentre il
bene è sempre il prodotto di un’arte, è cioè artificiale,
innaturale27.
Tuttavia l’entusiasmo per l’artificio della cultura non
è che una nuova forma dell’evasione romantica. Si sce-
glie la vita artificiosa e fittizia, perché la realtà non
potrebbe mai esser bella come l’illusione, e ogni contatto
con la realtà, ogni tentativo di attuare sogni e desideri
finisce col corromperli. Solo che ora fuggendo dalla
realtà sociale non ci si rifugia nella natura, come face-
vano i romantici, ma in un mondo artificiale, piú alto,
sublimato. Nell’Axel di Villiers de l’Isle-Adam (pubbli-
cato postumo nel 1890), una delle classiche espressioni
del nuovo senso della vita, le forme intellettuali e fan-
tastiche prevalgono sempre su quelle naturali e pratiche,
e i desideri inadempiuti appaiono sempre piú perfetti e
soddisfacenti del loro attuarsi nella realtà comune e vol-
gare. Axel vuole uccidersi insieme con l’amata Sara.
Essa è pronta a morire con lui, ma prima vorrebbe cono-
scere la felicità di una notte d’amore. Tuttavia Axel
teme che dopo gli mancherà il coraggio di morire e che
il loro amore, come tutti i sogni avverati, non resisterà
alla prova del tempo. Egli preferisce la perfetta illusio-
ne all’imperfetta realtà. Da questo sentimento deriva piú
o meno tutto il mondo ideale dei neoromantici; dap-

Storia dell’arte Einaudi 279


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pertutto c’imbattiamo in un Lohengrin che, per dirla


con Nietzsche, lascia in asso la sua Elsa nella notte delle
nozze. «Vivere? – domanda Axel: –ci pensano i nostri
servi per noi». In A rebours di Huysmans (1884), il testo
fondamentale di questo estetismo timoroso della natu-
ra e del mondo, la sostituzione della vita mentale alla
vita pratica è ancora piú completa. Des Esseintes, il
celebre eroe del romanzo, il prototipo di tutti i Dorian
Gray, si isola cosí ermeticamente dal mondo, che non
osa piú nemmeno intraprendere un viaggio, perché teme
di essere deluso dalla realtà. È lo stesso paralizzante sog-
gettivismo ostile alla vita che si esprime nel tedio della
natura. «Il tempo della natura – dice Des Esseintes – è
passato. Essa ha ormai esaurito la pazienza degli spiriti
raffinati con la stucchevole monotonia dei suoi paesag-
gi e dei suoi cieli». Per quegli spiriti non c’è che una via:
rendersi del tutto indipendenti e sostituire la natura
con lo spirito, la realtà con la finzione. Si tratta di tor-
cere quel ch’è diritto, di invertire ogni impulso e ogni
inclinazione naturale. Des Esseintes vive nella sua casa
come in un chiostro, non fa né riceve visite, non scrive
né riceve lettere, dorme di giorno, legge, fantastica e
specula di notte; si crea i suoi «paradisi artificiali» e
rifiuta tutto ciò che piace al comune mortale. Inventa
sinfonie di colori, profumi, bevande, fiori strani, gemme
rare; poiché rari e preziosi debbono essere gli strumen-
ti del suo acrobatismo spirituale. Naturalmente, nel suo
vocabolario, dire che una cosa è a buon mercato è come
dirla insulsa o plebea.
Ma il misticismo di tutto questo indirizzo non ha
forse espressione piú forte della novella Véra di Villiers
de l’Isle-Adam28. Vera è l’idolatrata sposa dell’eroe, che
rifiuta di ammettere la sua morte prematura, perché
non potrebbe sopportare di averne coscienza. Attraver-
so le sbarre del cancello, il protagonista getta la chiave
del sepolcro in cui essa giace, va a casa e comincia una

Storia dell’arte Einaudi 280


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nuova vita fittizia, cioè continua come prima, come se


nulla fosse accaduto. Si comporta, parla e agisce come
s’ella fosse viva e accanto a lui. Il suo contegno è un
insieme cosí coerente e perfetto di atteggiamenti e di
azioni, che a renderlo del tutto sensato non manca che
la presenza fisica di Vera. Ma in ispirito essa è così pre-
sente, e cosí immediata e soverchiante è la suggestione
della sua personalità, che la sua vita artificiale assume
una realtà ben piú profonda, vera e pura che non il
fatto della sua morte. Essa muore soltanto quando al
sonnambulo sfuggono le parole: «Mi ricordo... sei pro-
prio morta!» A nessun lettore intelligente sfuggirà l’a-
nalogia fra questo ostinato rifiuto di conoscere l’impor-
tanza della realtà e la negazione cristiana del mondo; ma
insieme nessuno può trascurare la differenza tra l’osti-
nazione di un’idea fissa e la fermezza di una fede reli-
giosa. Anzi non si può immaginare nulla di piú lontano
dal cristianesimo, di piú alieno dallo spirito del Medioe-
vo, dell’«ennui», questa nuova forma, impressionistica,
della malinconia romantica. Vi si esprime un senso di
ripugnanza per la monotonia della vita29, cioè proprio
l’opposto di quella insoddisfazione per le avversità del-
l’esistenza, che, come fu osservato, avevano provato età
piú antiche, che credevano in un ordine divino30. In
queste si era turbati dalla mutevolezza della fortuna, dal-
l’incostanza e imprevedibilità del destino; si aspirava alla
quiete e alla sicurezza, alla monotonia e alla noia della
pace; per il moderno esteta, invece, l’ordine e la sicu-
rezza borghese sono la cosa piú insopportabile. L’aspi-
razione dell’impressionismo a fermare l’ora mutevole, il
suo abbandono all’umore del momento come al piú alto
valore della vita, irriducibile e indefinibile, la volontà di
vivere nell’istante e dissolversi in esso, è soltanto la
conseguenza di quella visione antiborghese, di quella
rivolta contro la routine e la disciplina della vita bor-
ghese. Anche l’impressionismo è un’arte di opposizione,

Storia dell’arte Einaudi 281


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

come ogni movimento d’avanguardia dal romanticismo


in poi, e il sentimento di ribellione latente nell’atteg-
giamento dell’impressionismo verso la vita, benché non
sempre gli impressionisti ne fossero consapevoli, è tra le
cause del rifiuto dell’arte nuova da parte del pubblico
borghese.
Tra il 1880 e il ’90 l’edonismo estetico assume di pre-
ferenza il nome di «decadentismo». Des Esseintes, il
raffinato epicureo, è anche il prototipo dell’estenuato
«decadente». Ma l’idea di decadentismo include moti-
vi che esorbitano dall’estetismo: anzitutto il senso del
declino di una cultura e di una crisi profonda, la coscien-
za cioè di trovarsi alla conclusione di un ciclo storico e
prossimi alla fine di una civiltà. La simpatia per antiche
epoche, stanche e ultraraffinate, come l’ellenismo, la
tarda romanità, il Rococò e il tardo stile «impressioni-
stico» dei grandi maestri del passato, è un tratto essen-
ziale del decadentismo. Il senso di essere a una svolta
della storia si era avuto anche in epoche precedenti, ma
sempre s’era accompagnato ad un rammarico profondo,
come avviene, ad esempio, ancora in Musset, per que-
sto trovarsi a vivere il tramonto di una cultura; ora inve-
ce il concetto di senescenza e stanchezza, di saturazio-
ne culturale e degenerazione, si unisce a un’idea di
nobiltà spirituale. S’impadronisce degli uomini una vera
ebbrezza di rovina, sentimento anch’esso non nuovo, ma
piú forte che mai. I richiami alla tradizione di Rousseau,
al tedio byroniano e alla romantica voluttà della morte
sono chiarissimi. Lo stesso abisso attrae romantici e
decadenti, la stessa brama di distruzione, di autoan-
nientamento li travolge. Ma per i decadenti tutto è
«abisso», tutto è pervaso dall’insicurezza e da un’ango-
scia mortale: «Tout plein de vague horreur, menant on
ne sait oú» [«Tutto pieno di vago orrore, che porta non
sai dove»] come si legge in Baudelaire.

Storia dell’arte Einaudi 282


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«Chi sa se la verità non è triste» diceva Renan: paro-


le di profondo scetticismo, quali nessun grande scritto-
re russo avrebbe sottoscritto. Poiché tutto per loro pote-
va esser triste, tranne la verità. Ma quanto piú sinistre
sono le parole di Rimbaud: «Quel che non sappiamo è
forse orrendo» (Le forgeron). Si intuisce da quali impe-
netrabili e inesauribili enigmi egli si senta circondato,
anche se subito aggiunge: «Noi sapremo». L’abisso che
per il cristiano era il peccato, per il cavaliere il disono-
re, per il borghese l’illegalità, per il decadente è tutto ciò
che sfugge a concetti, parole, formule. Di qui la sua lotta
disperata per la forma e la sua invincibile ripugnanza per
tutto quanto è informe, selvaggio, naturale. Di qui la sua
predilezione per le età piú ricche di formule – anche se
non profondissime – e che offrivano per tutto una paro-
la, anche se inadeguata.
La frase di Verlaine «Je suis l’empire à la fin de la
décadence» [«Sono l’impero alla fine della decadenza»]
diventa l’etichetta del tempo; e benché nell’apologia
della decadenza romana già lo abbiano preceduto Gérard
de Nerval31, Baudelaire e Gautier32, egli sa lanciare il suo
motto al momento giusto e muta cosí quella che era
stata la semplice espressione di uno stato d’animo in un
programma culturale. C’erano state epoche che di un’età
dell’oro non sapevano o non volevano sapere, ma prima
del decadentismo ottocentesco mai c’era stata una gene-
razione che all’età dell’oro preferisse l’età argentea.
Questa scelta significava non solo una coscienza di epi-
goni, non solo una modestia di tardi eredi, ma anche una
specie di contrizione e un senso d’inferiorità. I deca-
denti erano edonisti di cattiva coscienza, peccatori che,
come Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Verlaine, Wilde,
Beardsley, si gettavano fra le braccia della Chiesa cat-
tolica. Questo senso di colpa trova nella loro concezio-
ne dell’amore, tutta dominata da quella psicologia della
pubertà che era stata propria del romanticismo, la sua

Storia dell’arte Einaudi 283


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

espressione piú scoperta. Per Baudelaire l’amore è il


frutto proibito, la caduta, la perdita irreparabile del-
l’innocenza. «Faire l’amour c’est faire le mal» [«Far l’a-
more è fare il male»]. Il suo romantico satanismo tutta-
via trasforma anche il peccaminoso in una fonte di
voluttà: non solo in sé e per sé l’amore è male, ma il pia-
cere supremo consiste appunto nella coscienza di far
male33. Anche la simpatia per le prostitute, comune a
romantici e decadenti, e a questi suggerita da Baudelai-
re, rivela l’inibizione, il senso di colpa che pesa sull’a-
more. Naturalmente questa simpatia è soprattutto
espressione della rivolta contro la società e la morale bor-
ghese, fondata sulla famiglia. La prostituta è la sposta-
ta, la reietta, che si ribella non solo alla forma istitu-
zionale dell’amore, ma anche alla sua «naturale» forma
psicologica. Essa distrugge non solo la disciplina mora-
le del sentimento, ma anche i fondamenti di esso. È
fredda nell’infuriare della passione, è e rimane spetta-
trice distaccata della voluttà ch’essa provoca, si sente
sola e indifferente dove altri si abbandona all’ebbrezza:
in breve, essa è il «doppio» femminile dell’artista. Da
questa comunione di sentimenti e di destino nasce la
comprensione dell’artista decadente. Anch’egli sa di
prostituirsi, di esibire i suoi piú cari sentimenti, di cede-
re a vile prezzo i suoi segreti.
Con questa dichiarata solidarietà con la prostituta,
l’estraneità dell’artista dalla società borghese è comple-
ta. Il cattivo scolaro si mette nell’ultimo banco, come
dice Thomas Mann di un suo eroe, e, col senso di sol-
lievo di chi lascia il campo della gara, resta «nell’ultimo
banco», disprezzato, ma indisturbato. Sarebbe strano
che in un pensatore come Thomas Mann, la cui conce-
zione ruota tutta intorno a un unico problema, la posi-
zione dell’artista nella società borghese, anche questa
osservazione, apparentemente innocua, non si legasse
con la sua problematica. La peculiare esistenza dell’ar-

Storia dell’arte Einaudi 284


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tista, priva di ambizioni borghesi, è proprio simile a un


«ultimo banco» che lo sottrae ad ogni responsabilità e
ad ogni controllo. È certo comunque che l’accentuato
«contegno borghese» di Thomas Mann, non meno che,
ad esempio, il «corretto» atteggiamento sociale di Henry
James si debbono intendere unicamente come reazione
al costume di quegli artisti che si erano messi ostenta-
tamente nell’ultimo banco, e coi quali non si voleva
avere nulla in comune. Ma Thomas Mann e Henry
James sanno fin troppo bene che l’artista necessaria-
mente deve condurre una vita extraumana e inumana,
che la via normale gli è preclusa, né gli servono la spon-
taneità, l’ingenuità, il calore del sentimento. Il para-
dosso della sua sorte sta nel dover ritrarre la vita ed
esserne insieme escluso. Ne risultano complicazioni
gravi, spesso inestricabili. Paul Overt, il piú giovane dei
due scrittori che si contrappongono in The Lesson of the
Master [La lezione del maestro] di James, si ribella inva-
no alla crudele ascesi di una vita dedita all’arte, recalci-
tra invano contro la rinunzia ad ogni felicità personale,
privata, che il maestro, Henry St. George, esige da lui.
Egli è pieno d’impazienza e di rancore contro la spieta-
ta tirannia a cui si è vincolato. «Ma Lei non crederà
ch’io esalti l’arte!» replica il maestro: «Felice la società
che non la conosce!» E verso l’arte Thomas Mann è
altrettanto severo, altrettanto inesorabile. Infatti se egli
ci mostra tutte le esistenze problematiche, ambigue e
sospette, il debole, il malato, il degenerato, qualsiasi
avventuriero, cavaliere d’industria o delinquente, e in
ultimo perfino Hitler come affini psichicamente all’ar-
tista34, questa è la piú tremenda accusa che mai sia stata
elevata contro l’arte.
L’epoca dell’impressionismo offre due tipi estremi
dell’artista moderno, asociale, estraniato dalla società: il
nuovo bohémien e quello che per fuggire alla civiltà
occidentale si rifugia in lontane terre esotiche. Sono

Storia dell’arte Einaudi 285


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

entrambi espressione dello stesso sentimento, dello stes-


so «disagio della civiltà», ma l’uno sceglie «l’emigra-
zione interna», l’altro la fuga effettiva. Entrambi vivo-
no una vita astratta, separata dalla realtà concreta e pra-
tica, entrambi si esprimono in forme che debbono appa-
rire sempre piú strane, sempre piú incomprensibili alla
maggioranza del pubblico. Il viaggio in paesi lontani, per
fuggire la civiltà moderna, è antico quanto la protesta
della bohème contro l’ordine borghese. Entrambi risal-
gono all’irrealismo e all’individualismo romantico, ma
per via si sono profondamente trasformati, e la partico-
lare fisionomia che questi fenomeni presentano fra l’80
e il ’90 deriva soprattutto da Baudelaire. I romantici cer-
cavano ancora il «fiore azzurro», il paese dei sogni e del-
l’ideale, «mais les vrais voyageurs, – dice Baudelaire, –
sont ceux-là seuls qui partent pour partir» [«Ma i veri
viaggiatori sono soltanto quelli che partono per parti-
re»]. Ecco la vera fuga, il viaggio verso l’ignoto, che
obbedisce non già all’attrazione, ma alla repulsione:

O Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!


Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!
Si le ciel et la mer sont noirs comme l’encre!
Nos cœurs que tu connais sont remplis de rayons!

[«Morte, vecchio capitano, è tempo! leviamo l’anco-


ra | Il paese ci annoia, Morte! Spieghiamo le vele! | Se
il cielo e il mare son neri come l’inchiostro, | I nostri
cuori, li conosci, sono pieni di raggi!]
Rimbaud intensifica il dolore del congedo: «la vie est
absente, nous ne sommes pas au monde» [La vita è
assente, noi non siamo al mondo»], ma nulla aggiunge
alla bellezza di quel commiato, senza pari nella poesia
moderna. Eppure egli è l’unico vero erede di Baudelai-
re, l’unico ad attuare i viaggi immaginari del maestro e

Storia dell’arte Einaudi 286


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a mutare in sistema di vita quel che, prima di lui, non


era che una scappata nel mondo della bohème.
In Francia la bohème non è un fenomeno unitario e
univoco. È ovvio che Rimbaud, posseduto dal Maligno,
e Verlaine, oscillante fra delinquenza e misticismo reli-
gioso, non hanno nulla di comune con i frivoli e amabi-
li giovani dell’opera pucciniana. Ma l’ascendenza di
Rimbaud e Verlaine è assai ramificata, e per intenderli
bisogna distinguere tre fasi e tre forme diverse nella vita
degli artisti: la bohème romantica, la naturalistica, l’im-
pressionistica35. In origine la bohème non era che una
protesta contro il costume borghese. Vi partecipavano
giovani artisti e studenti, in massima parte figli di gente
facoltosa, e la loro opposizione alla società dominante
per lo piú si esauriva in giovanile insolenza e spirito di
contraddizione. Théophile Gautier, Gérard de Nerval,
Arsène Houssaye, Nestor Roqueplan e tanti altri si stac-
cavano dalla società borghese non perché fossero obbli-
gati a farlo, ma semplicemente perché volevano vivere
altrimenti dai loro genitori. Erano puri romantici, che
volevano essere originali e stravaganti anche nel modo
di vita, perché per arte e poesia intendevano qualche
cosa di assolutamente originale e stravagante. Essi fug-
givano nel mondo dei reietti e dei paria come si fa un
viaggio in terra lontana ed esotica; nulla sapevano della
miseria della bohème piú tarda, e la via del ritorno alla
società borghese era per loro sempre aperta. La bohème
della generazione successiva, quella del naturalismo mili-
tante, che teneva il suo quartier generale in birreria, e
a cui fra gli altri appartenevano Champfleury, Courbet,
Nadar e Murger, era invece una vera bohème, cioè un
proletariato artistico fatto di gente che viveva in modo
affatto precario, al di fuori della società borghese. La
loro lotta contro la borghesia non era quindi un gioco
insolente, ma una dura necessità; il costume antibor-
ghese era quel che meglio si attagliava alla loro incerta

Storia dell’arte Einaudi 287


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esistenza, e non piú una semplice mascherata. Come lo


spirito peculiare di Baudelaire, che cronologicamente
appartiene a questa generazione, da un lato risale alla
bohème romantica e dall’altro precorre l’impressioni-
smo, cosí anche Murger, benché in altro senso, è un
fenomeno di transizione. Ora che la bohème cessa di
essere «romantica», la borghesia comincia a idealizzar-
la romanticamente. Murger vi ha la parte del maître de
plaisir che le offre un Quartiere Latino ben lavato e
addomesticato. Ciò gli vale, secondo il merito, un avan-
zamento fra gli autori accreditati della borghesia. Per il
filisteo la bohème è quasi come l’inferno. Essa lo attrae
e lo respinge. Egli civetta con la libertà e l’irresponsa-
bilità che vi dominano, ma arretra spaventato davanti
al disordine e all’anarchia impliciti in quella vita. Idea-
lizzandola, Murger tende a far piú innocua di quanto sia
realmente questa minaccia alla società, e a lasciare che
l’improvvido borghese continui a nuotare nei suoi sogni
ambigui. I personaggi di Murger per lo piú sono giova-
ni allegri e un po’ sventati, ma brava gente che si ricor-
derà della sua vita di bohème come il lettore borghese
ricorda le sue follie di studente. Quest’aspetto transito-
rio della bohème la rendeva innocua agli occhi del fili-
steo. E Murger non era il solo a pensarla così. Anche
Balzac considerava transitoria la vita di bohème dei gio-
vani artisti: «La bohème è fatta di giovani ancora oscu-
ri, ma che un giorno saranno chiari e famosi», scrive in
Un Prince de la bohème.
Tuttavia non solo la bohème di Murger, ma anche
quella vera del periodo naturalistico è un idillio in con-
fronto alla vita degli artisti e dei poeti antiborghesi della
generazione successiva, come Rimbaud, Verlaine, Tri-
stan Corbière, Lautréamont. La bohème è diventata
veramente un’accolta di vagabondi e di reietti, un grup-
po di disperati, in rotta non solo con la borghesia, ma
con tutta la civiltà europea. Baudelaire, Verlaine, Tou-

Storia dell’arte Einaudi 288


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

louse-Lautrec sono affetti da grave alcolismo; Rimbaud,


Gauguin e Van Gogh, vagabondi e giramondo; Verlai-
ne e Rimbaud muoiono all’ospedale, Van Gogh e Tou-
louse-Lautrec conoscono il manicomio, i piú passano la
vita nei caffè, nei varietà, nei bordelli, negli ospedali o
sulla strada. Essi distruggono in sé tutto quel che potreb-
be essere utile alla società, si accaniscono contro tutto
ciò che dà alla vita stabilità e durata, e perfino contro
se stessi, come se volessero estirpare da sé quel che li
accomuna agli altri. «Io mi uccido, – scrive Baudelaire
in una lettera del 1845, – perché sono inutile agli altri
e pericoloso per me stesso». Egli ha coscienza non solo
della propria infelicità, ma anche che la felicità degli altri
è qualcosa di comune e volgare. «Lei è un uomo felice»,
scrive in una lettera piú tarda: «La compiango, signore,
di esser cosí facilmente felice. Un uomo dev’essere cadu-
to molto in basso per ritenersi felice»36. Nella novella
L’uva spina Ωechov esprime lo stesso disprezzo per la
felicità a buon mercato. E non sorprende in uno scrit-
tore che ha tanta simpatia per la bohème. «Dica, per-
ché vive in modo cosí noioso, scolorito?», domanda al
suo ospite l’eroe di una delle sue novelle: «La mia è una
vita triste, difficile, monotona, perché io sono un arti-
sta, un uomo strano, fin dalla prima giovinezza strazia-
to dall’invidia, scontento di me stesso; incerto del mio
lavoro; sono povero, sono un vagabondo; ma Lei, Lei,
un uomo sano e normale, un possidente, un signore –
perché vive in modo cosí scialbo, perché prende cosí
poco della vita?»37. Il colore, almeno, non mancava alla
vita della prima bohème: essa si adattava alla miseria pur
di vivere in modo interessante e colorito. Ma la nuova
bohème è oppressa dal cupo tanfo di una noia soffo-
cante; l’arte non inebria piú, stordisce soltanto.
Tuttavia, né Baudelaire, né Ωechov, né gli altri
sospettano quale inferno potesse diventare la vita per un
uomo come Rimbaud. La civiltà occidentale doveva

Storia dell’arte Einaudi 289


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

giungere alla crisi odierna, perché noi potessimo capire


una vita simile. Un nevrastenico, un buono a nulla, un
perdigiorno, un uomo perverso, pericoloso, che errando
di paese in paese, si fa maestro di lingua, merciaio ambu-
lante, s’impiega in un circo, fa lo scaricatore, il brac-
ciante, il marinaio, il volontario nell’esercito olandese,
il meccanico, l’esploratore, il mercante di coloniali, e
chissà cosa ancora; si prende un’infezione chissà dove in
Africa, deve farsi amputare una gamba in un ospedale
di Marsiglia, per morire a trentasette anni, membro a
membro, fra i piú atroci tormenti; un genio che scrive
a diciassette anni versi immortali, a diciannove abban-
dona del tutto la poesia e non parlerà mai piú di lette-
ratura per tutto il resto della sua vita, un delinquente
verso gli altri e verso se stesso, che fa getto dei suoi piú
preziosi tesori, dimentica e nega assolutamente di aver-
li mai posseduti; uno dei precursori e, come molti sosten-
gono, il vero fondatore della poesia moderna che, quan-
do la notizia della sua gloria lo raggiunge in Africa, non
vuol saperne e non ha altro da dire che merde pour la poé-
sie: si può immaginare nulla di piú sinistro, di piú con-
trario all’idea di un poeta? Tristan Corbière non ha
forse ragione quando dice: «I suoi versi erano di un
altro; egli non li ha letti»? Non è questo il piú tremen-
do nichilismo, l’estrema negazione di sé? Ed è questo
che si raccoglie da quel che hanno seminato Flaubert, il
buon borghese onesto e scrupoloso, e i suoi amici raffi-
nati, colti, sensibili all’arte.
Dopo il 189o la parola decadentismo perde la sua eco
suggestiva e il «simbolismo» a sua volta assurge a ten-
denza artistica dominante. È Moréas ad introdurne il
nome, e lo definisce come l’aspirazione a sostituire,
nella poesia, l’«idea» alla realtà»38. Già la nuova termi-
nologia sta ad indicare la vittoria di Mallarmé su Ver-
laine, e uno spostarsi della linea di sviluppo dall’im-
pressionismo sensualistico verso lo spiritualismo. Spes-

Storia dell’arte Einaudi 290


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

so è molto difficile distinguere l’impressionismo dal sim-


bolismo: i due concetti sono in parte antitetici, in parte
equivalenti. L’impressionismo di Verlaine e il simboli-
smo di Mallarmé si distinguono abbastanza nettamen-
te, ma non è altrettanto agevole un’esatta definizione
dello stile di un Maeterlinck. «Impressionistici» sono nel
simbolismo gli effetti ottici e acustici, la contaminazio-
ne e lo scambio dei diversi dati dei sensi, l’influsso reci-
proco delle forme d’arte, soprattutto quel che intende-
va Mallarmé quando parlava di riprendere alla musica i
beni della poesia. Ma il simbolismo con la sua posizio-
ne irrazionalistica e spiritualistica costituisce anche una
netta reazione all’impressionismo, per sua natura natu-
ralistico e materialistico. Mentre per l’impressionismo,
infatti, l’esperienza dei sensi è qualcosa di conclusivo e
irriducibile, per il simbolismo tutta la realtà empirica
non è che l’immagine di un mondo ideale.
Il simbolismo rappresenta il risultato dell’evoluzione
che, dalla scoperta romantica della metafora come cel-
lula germinale della poesia, conduce alla ricchezza d’im-
magini dell’impressionismo; tuttavia esso rifiuta non
solo l’impressionismo perché materialista, e il movi-
mento parnassiano perché formalista e razionalista, ma
perfino il romanticismo perché sentimentale e conven-
zionale nel suo linguaggio figurato. Per qualche aspetto
il simbolismo si può considerare come la reazione a tutta
la poesia anteriore39; esso scopre qualcosa che fin qui era
rimasto ignoto o trascurato: la poésie pure40, la poesia
nata dall’irrazionale spirito della lingua, cioè estranea ai
concetti, ribelle all’interpretazione logica. Per i simbo-
listi la poesia non è che l’espressione dei rapporti e delle
rispondenze, che la lingua abbandonata a se stessa crea
fra il concreto e l’astratto, la materia e l’idea, come
anche fra i diversi ordini di sensazioni. La poesia, per
Mallarmé, è allusione ad immagini che ondeggiano e
svaporano; nominare un oggetto, egli dice, significa

Storia dell’arte Einaudi 291


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

annullare per tre quarti il piacere d’indovinarlo a poco


a poco41. E il simbolo non mira soltanto ad eludere la
necessità di nominare le cose, ma serve anche come
indiretta espressione di un significato che non si può
enunciare direttamente, che anzi per sua stessa natura
ricusa di venir formulato e definito.
Il simbolo come mezzo espressivo non è certo un’in-
venzione della generazione di Mallarmé; già prima era
esistita un’arte simbolica. Semplicemente, essa ha sco-
perto la differenza tra simbolo e allegoria e ha fatto del
simbolismo come stile poetico il fine consapevole delle
sue aspirazioni. Pur senza esprimerlo chiaramente, si
rendeva conto che l’allegoria non fa che tradurre in
figura concreta un’idea astratta, che rimane per altro
relativamente indipendente dalla sua espressione figu-
rata tanto che potrebbe anche esprimersi in altra forma;
il simbolo invece unifica inscindibilmente l’idea e la
figura, e col mutare di questa muta anche quella. Il con-
tenuto di un simbolo, insomma, è intraducibile in altra
forma, mentre il simbolo stesso si può interpretare in
modi assai diversi, e gli è appunto essenziale questa
mobilità dell’interpretazione, quest’apparente impossi-
bilità di esaurirne il significato. Accanto al simbolo, l’al-
legoria appare sempre la semplice, chiara e relativamente
superflua trascrizione di un’idea che nulla acquista nel
traslato. È una specie d’indovinello, che si può pronta-
mente risolvere. Il simbolo invece può soltanto venire
interpretato, non risolto. L’allegoria è espressione del
pensiero statico, il simbolo, di quello dinamico; quella
pone una meta e un limite all’associazione delle idee,
questo le mette e le mantiene in moto. L’arte dell’alto
Medioevo si esprime principalmente in simboli, quella
del tardo Medioevo in allegorie. Simboliche sono le
avventure di Don Quijote, allegoriche quelle degli eroi
dei romanzi cavallereschi che servono di modello a Cer-
vantes. D’altronde in quasi tutte le epoche troviamo

Storia dell’arte Einaudi 292


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

accanto a un’arte simbolica un’arte allegorica e a volte


perfino confuse nelle opere di uno stesso artista. La
«ruota di fuoco» (wheel of fire) di Lear è un simbolo, le
«candele della notte» (night’s candles) di Romeo sono
un’allegoria; ma la frase successiva dello stesso Romeo
– «the jocund day stands tiptoe on the misty mountain
tops» [«Il gaio mattino | Si leva furtivo sulle cime neb-
biose dei monti»] – suona già affine al simbolismo. Essa
è ricca di rapporti e allusioni la cui forza rappresentati-
va è maggiore di quella di un’allegoria.
Il simbolismo procede dall’idea che la poesia debba
esprimere qualcosa difficilmente raffigurabile e comun-
que non attingibile per via diretta. Poiché non si può
dire nulla d’importante sulle cose con i mezzi chiari
della coscienza, mentre la lingua arriva a scoprirne i
segreti rapporti, per cosí dire, automaticamente, il
poeta, come afferma Mallarmé, deve «lasciare l’inizia-
tiva alle parole», deve lasciarsi trasportare dal loro flus-
so, dallo spontaneo susseguirsi di immagini e visioni.
Con ciò si viene a dire non solo che la lingua è piú poe-
tica, ma anche piú filosofica della ragione. L’idea di
Rousseau di uno stato di natura superiore alla civiltà, e
quella di Burke, di un organico sviluppo storico, piú
fecondo di bene che non il riformismo con la sua sma-
nia del nuovo, sono le vere fonti di questa poetica misti-
ca, e sono fonti riconoscibili anche nell’idea di Tolstoj
e di Nietzsche, della maggior saggezza del corpo rispet-
to allo spirito, e nella teoria bergsoniana dell’intuizione
che è piú profonda dell’intelletto. Per un altro verso que-
sto misticismo della lingua, questa alchimie du verbe
muove da Rimbaud, come tutta l’interpretazione del
creare poetico quale fenomeno allucinatorio. La parola
decisiva per la poesia moderna è stata sua: il poeta dove-
va diventare un veggente e a tale stato doveva prepararsi
distraendo sistematicamente i sensi dalle loro funzioni
normali, rendendoli innaturali e inumani. La pratica

Storia dell’arte Einaudi 293


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

raccomandata da Rimbaud non rispondeva soltanto all’i-


deale dell’artificio, miraggio di tutti i decadenti, ma già
conteneva un elemento nuovo: la deformazione, la smor-
fia quale mezzo espressivo, che doveva assumere tanta
importanza per il moderno espressionismo. Essa si fon-
dava sul sentimento che gli atteggiamenti spontanei,
normali dell’anima fossero artisticamente sterili, e che
il poeta dovesse superare in sé la natura per scoprire il
senso occulto delle cose.
Mallarmé era un platonico, che vedeva nella comune
realtà sensibile la forma corrotta di un ente ideale, eter-
no, assoluto, ma voleva attuare, almeno in parte, nella
vita terrena il mondo delle idee. Viveva nel vuoto del
suo intellettualismo, del tutto scisso dalla vita comune,
e si può dire che non avesse rapporti col mondo, se non
letterari. Uccisa in sé ogni spontaneità, divenne, per
cosí dire, l’anonimo artefice delle sue opere. Nessuno
piú fedelmente di lui seppe seguire l’esempio di Flau-
bert. «Tout au monde existe pour aboutir à un livre»
[«Al mondo tutto esiste per mettere capo a un libro»].
Il maestro stesso non avrebbe potuto trovare una for-
mula piú flaubertiana. À un livre dice Mallarmé, ma non
è un libro quel che ne esce. Egli passa tutta la vita a scri-
vere, riscrivere e correggere una dozzina di sonetti, due
dozzine di poesie piú brevi e sei o sette poesie di piú
ampio respiro, una scena drammatica e alcuni fram-
menti teorici42. Sapeva che l’arte sua era un vicolo cieco43
e perciò il motivo della sterilità prende tanto spazio
nella sua poesia44. La vita del raffinato, colto, acuto
Mallarmé si concluse con uno scacco tremendo come
quella del vagabondo Rimbaud. Entrambi disperarono
dell’arte, della cultura, della società umana e non si sa
chi dei due si sia comportato con piú coerenza45. Con il
Chef-d’œuvre inconnu Balzac si è dimostrato buon pro-
feta: estraniandosi dalla vita, l’artista distrugge l’opera
sua.

Storia dell’arte Einaudi 294


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Già Flaubert pensava a un libro senza soggetto, che


doveva essere pura forma, puro stile, puro ornamento,
e a lui per primo si presentò l’idea della poésie pure.
Forse Mallarmé non avrebbe accettato alla lettera la sua
frase: «un bel verso senza senso val piú di uno che abbia
un senso, ma sia meno bello». La rinunzia ad ogni con-
tenuto non rispondeva affatto alla sua concezione della
poesia; egli pretendeva però che il poeta rinunziasse a
suscitare affetti e passioni e a servirsi di motivi extra
estetici, pratici e razionali. La concezione della «poesia
pura» può comunque considerarsi come il miglior com-
pendio della sua estetica e la quintessenza di tutte le sue
aspirazioni di poeta. Mallarmé cominciava a scrivere
senza saper bene dove lo avrebbe condotto la prima
parola, il primo verso; la poesia si formava come cri-
stallizzazione quasi automatica di parole e di segni, cate-
na di associazioni e di visioni che sbocciavano l’una dal-
l’altra, modificandosi a vicenda46. La poésie pure tradu-
ce il principio di questo metodo della creazione poetica
in una teoria del comportamento recettivo, e afferma
che, per ottenere un’esperienza poetica, non occorre
affatto leggere tutta la poesia, per quanto breve; spesso
bastano uno o due versi, talvolta persino frammenti di
parole per averne un’impressione adeguata. In altri ter-
mini: per godere una poesia non è necessario o comun-
que non basta, intenderne il significato razionale, anzi,
come dimostra la poesia popolare, non occorre affatto
che vi sia un «senso» chiaro47. È innegabile la somi-
glianza fra l’atteggiamento recettivo qui descritto e la
contemplazione a giusta distanza di un dipinto impres-
sionista; tuttavia nella concezione della «poesia pura» vi
sono elementi che non ricorrono necessariamente in
quella dell’impressionismo. Essa è la forma piú schietta
e intransigente dell’estetismo ed esprime essenzialmen-
te l’idea che possa esistere un mondo poetico affatto
indipendente dalla realtà consueta, pratica, razionale, un

Storia dell’arte Einaudi 295


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

microcosmo estetico autonomo, per sé stante, che gira


su un proprio asse.
L’orgoglio aristocratico del poeta che si isola e si
estrania dalla vita reale si palesa anche piú intenso nella
voluta oscurità dell’espressione e nella ricercata diffi-
coltà del pensiero. Mallarmé è l’erede del «rimar chiu-
so» dei trovatori e della dotta poesia degli umanisti. Egli
cerca il vago, l’enigmatico, il difficile, non solo perché
sa che l’espressione risulta tanto piú riccamente allusi-
va quanto piú è vaga, ma anche perché a suo parere una
poesia «dev’essere qualcosa di misterioso, e il lettore
deve trovarne la chiave» 48. Catulle Mendès indica
espressamente questo carattere aristocratico della poe-
sia di Mallarmé e dei suoi seguaci. Alla domanda di
Jules Huret, se rimproverasse ai simbolisti la loro oscu-
rità, egli risponde: «Niente affatto. In questo tempo di
democrazia l’arte pura diventa sempre piú l’esclusiva di
una élite, di un’aristocrazia bizzarra, malaticcia, affa-
scinante. È giusto che il suo livello si mantenga alto»49.
Constatando che di fronte alla poesia l’atteggiamento
caratteristico della mente non è la comprensione razio-
nale, Mallarmé ne deduce che il fondamento di ogni
grande poesia è l’incomprensibile e l’incommensurabile.
È evidente il profitto che l’arte può trarre dall’espres-
sione ellittica a cui egli pensa; saltare qualche anello
nella catena delle associazioni permette una rapidità, e
quindi un’intensità, che va perduta in un lento svilup-
po degli effetti50. Mallarmé sfrutta a fondo questi van-
taggi, e la sua poesia deve il suo fascino soprattutto alla
condensazione delle idee e al succedersi improvviso delle
immagini. Ma in lui l’astrusità non sempre dipende da
un’intima necessità artistica, anzi spesso risulta da arbi-
trarie, artificiose manipolazioni linguistiche51. E l’ambi-
zione della difficoltà in quanto tale svela solo la mira del
poeta di distinguersi dalla folla, chiudendosi in un cer-
chio minimo di seguaci. I simbolisti erano, in sostanza,

Storia dell’arte Einaudi 296


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dei reazionari, nonostante l’apparente indifferenza poli-


tica; erano, per dirla con Barrès, i boulangisti della let-
teratura52. Come la poesia di Mallarmé, anche l’odierna,
la cui difficoltà deriva in parte dagli stessi motivi, appa-
re esoterica, antidemocratica, volutamente chiusa al gran
pubblico, per quanto possano variare le opinioni politi-
che dei singoli poeti e per quanto noi sappiamo benissi-
mo che tale difficoltà risulta da un’evoluzione della cul-
tura moderna, ineluttabile e preparata di lunga mano.

Dalla Restaurazione in poi, l’influsso francese in


Inghilterra non fu mai tanto forte come nell’ultimo quar-
to dell’Ottocento. Dopo un lungo periodo di prosperità,
l’impero inglese attraversa una crisi economica che si svi-
luppa in vera e propria crisi dello spirito vittoriano. La
«gran depressione» comincia verso il 1875 e non dura
piú di un decennio, ma la borghesia inglese vi smarrisce
l’antica fiducia in sé. Comincia a sentire la concorrenza
economica di altre nazioni, spesso piú giovani, come la
tedesca e l’americana, e si vede impegnata in un’aspra
lotta per il possesso delle colonie. Come diretta conse-
guenza delle nuove condizioni si ha un recedere delle
concezioni liberistiche, che finora, nonostante ogni cri-
tica, avevano avuto per la borghesia inglese autorità di
dogma53. Il decrescere delle esportazioni provoca un
abbassamento della produzione che si ripercuote sul
tenore di vita dei lavoratori. La disoccupazione aumen-
ta, gli scioperi si moltiplicano, e il movimento socialista,
arenatosi dopo gli anni rivoluzionari verso la metà del
secolo, ora non solo riprende vigore, ma, per la prima
volta in Inghilterra, si fa consapevole delle sue mete e
della sua forza. Questa svolta ha le piú vaste ripercus-
sioni sullo sviluppo intellettuale del paese. La coscienza
di avere di fronte una concorrenza estera pone fine all’i-
solazionismo britannico54 e prepara il terreno agli influs-
si intellettuali stranieri. Fra questi, anzitutto quello della

Storia dell’arte Einaudi 297


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

letteratura francese; vengono poi il romanzo russo,


Wagner, Nietzsche e Ibsen e integrano gli stimoli che
vengono dalla Francia. Ma c’è un fatto ben piú impor-
tante degli influssi dall’estero, che anzi di questi costi-
tuisce la premessa: con la scossa inflitta all’orgoglio bor-
ghese e alla fede nella divina missione dell’Inghilterra
nel mondo, ma soprattutto con il nuovo movimento
socialista dopo l’80, si rinnova la lotta per la libertà indi-
viduale, che impronta di sé tutta la cultura, la lettera-
tura progressista e il modo di vita delle giovani genera-
zioni. Si può dire che nell’abito mentale del tempo non
c’è tratto che non rifletta questa lotta contro la tradi-
zione e la convenzione, il puritanesimo e il filisteismo,
l’arido utilitarismo e il sentimentalismo romantico. Si
combatte contro la vecchia generazione per conquista-
re e godere la vita. Modernità diventa il motto estetico
e morale della gioventú che batte alla porta e vuol pas-
sare. Fine e contenuto della vita è ora l’ibseniana affer-
mazione di se stessi, la volontà di esprimere la propria
personalità e d’imporre il proprio valore. E per quanto
rimanga per lo piú oscuro quel che s’intende per realiz-
zazione di sé, crolla sotto i colpi della nuova generazio-
ne la sicurezza morale del vecchio mondo borghese. Fin
verso il 1875 la gioventú si trova di fronte a una società
in complesso stabile, sicura nelle sue tradizioni e con-
venzioni e rispettata anche dagli oppositori. Non solo in
Jane Austen, ma anche in George Eliot si sente la sal-
dezza di un ordine sociale, che se non perfetto né del
tutto accettabile, non è tuttavia trascurabile né facile a
sostituirsi. Ma ora tutte le norme della vita sociale per-
dono a un tratto il loro valore; tutto vacilla, diventa pro-
blematico e discutibile.
Nella letteratura e nell’arte inglese dopo l’80 la ten-
denza liberale afferma un individualismo apolitico, ben-
ché naturalmente l’impulso alla realizzazione di sé, cosí
vivo nella gioventú, e la lotta di questa contro le vecchie

Storia dell’arte Einaudi 298


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

forme sovraindividuali siano strettamente connessi con


la nuova situazione politico-sociale55. La gioventú è
schiettamente antiborghese, ma non democratica e tanto
meno socialista. Anzi, in essa il sensualismo e l’edoni-
smo, la volontà di godere la vita e di inebriarsene, di fare
della propria esistenza un’opera d’arte, in cui ogni ora
diventi un’esperienza indimenticabile e insostituibile,
assume spesso un aspetto antisociale e amorale. La spin-
ta antifilistea non prende di mira i capitalisti, ma i bor-
ghesi nemici dell’arte. Tutto il movimento inglese verso
la modernità è dominato da quest’odio contro i filistei,
che diventa a sua volta una convenzione estrinseca. Ad
essa sono da connettere in gran parte anche le modifi-
cazioni che l’impressionismo subisce in Inghilterra. In
Francia l’arte e la letteratura impressionistica non erano
espressamente antiborghesi; i francesi erano già oltre la
fase della lotta contro il filisteismo, anzi i simbolisti
provavano una certa simpatia per la borghesia conser-
vatrice. In Inghilterra, invece, spetta alla letteratura
decadente di compiere l’opera di disgregazione che in
Francia romanticismo e naturalismo avevano da tempo
compiuto. Il tratto piú spiccato che ora distingue la let-
teratura inglese da quella francese è il gusto del para-
dosso, dell’espressione sorprendente, bizzarra, voluta-
mente urtante, di quell’arguzia ricercata che oggi sem-
bra cosí insulsa e con la sua civetteria cosí compiaciuta
di sé e incurante della verità. È chiaro che questo amore
del paradosso non è che spirito di contraddizione, che
ha la sua origine soprattutto nel desiderio di épater le
bourgeois [sbalordire il borghese].
Tutte le singolarità e le affettazioni, nella lingua come
nel modo di pensare, nel vestire come nella condotta
degli artisti, sono una protesta contro le opinioni del fili-
steo insensibile alle muse, privo di fantasia, bugiardo e
ipocrita. Tale è il loro stravagante dandysmo, proprio
come la loro lingua colorita che sfoggia tutte le attratti-

Storia dell’arte Einaudi 299


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ve dello stile impressionistico. Il decadentismo inglese


è stato con ragione chiamato una sintesi «di Mayfair e
Bohemia». In Inghilterra non troviamo né una bohème
cosí pura come in Francia, né artisti che vivano come
Mallarmé in una torre d’avorio, perfetta e inaccessibi-
le. La borghesia inglese è ancora abbastanza energica per
assimilarli o per eliminarli. Oscar Wilde è un fortunato
scrittore borghese finché la classe dominante lo giudica
tollerabile, ma appena egli comincia a disgustarla viene
«liquidato» senza pietà. In Inghilterra il dandy sosti-
tuisce in certo modo il bohémien, mentre in Francia gli
si contrapponeva. Il dandy è l’intellettuale borghese
spostato nell’alta società, il bohémien invece è l’artista
decaduto al livello del proletariato. L’elegante ricerca-
tezza e la stravaganza del dandy hanno la stessa funzio-
ne dell’incuria e della dissipazione del bohémien.
Entrambi incarnano una medesima protesta contro la
monotonia e la volgarità della vita borghese, solo che gli
Inglesi preferiscono portare il girasole all’occhiello piut-
tosto che il colletto sbottonato. Com’è noto, già i model-
li di Musset, Gautier, Baudelaire e Barbey d’Aurevilly
erano stati inglesi; Whistler, Wilde e Beardsley rileva-
no cosí dai francesi la filosofia del dandysmo. Per Bau-
delaire il dandy è la protesta vivente contro il livella-
mento democratico. Agli occhi del poeta egli raduna in
sé tutte le virtú aristocratiche compatibili con la vita
odierna; è all’altezza di ogni situazione, non si stupisce
di nulla, non è mai volgare e conserva sempre il freddo
sorriso dello stoico. Il dandysmo è l’ultima manifesta-
zione dell’eroismo in un’età di decadenza, un sole al tra-
monto, un estremo fulgido raggio dell’orgoglio umano56.
L’eleganza del vestire, la raffinatezza del contegno, il
rigore intellettuale non sono che la disciplina esteriore,
che gli uomini di quest’ordine eletto s’impongono nella
volgarità del mondo attuale; quel che soprattutto impor-
ta è l’intima superiorità e indipendenza, l’assenza di

Storia dell’arte Einaudi 300


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scopi pratici e di precise ragioni nell’essere e nell’agire57.


Baudelaire antepone il dandy all’artista58, poiché questi
è ancora capace d’entusiasmo, lavora, produce: è anco-
ra un meccanico, nel senso antico. Qui si va anche oltre
la crudele previsione di Balzac: l’artista non solo distrug-
ge l’opera sua, ma nega il suo diritto alla gloria e all’o-
nore. Quando Oscar Wilde vuol fare della sua vita un’o-
pera d’arte – l’arte delle sue conversazioni, dei suoi rap-
porti, di tutto il suo modo di vivere – e la antepone alle
sue opere letterarie, guarda anzitutto al dandy di Bau-
delaire, all’ideale di un’esistenza affatto inutile, gratui-
ta, senza meta.
Ma quanta vanità e civetteria ci sia in questa rinun-
zia agli onori e alla gloria, appare dalla strana unione di
dilettantismo e di estetismo che caratterizza i decaden-
ti inglesi. Mai l’arte fu presa sul serio come ora; mai ci
si diede tanta pena per scrivere versi magistralmente
cesellati, una prosa impeccabile, frasi perfettamente arti-
colate ed equilibrate. Mai l’elemento decorativo, la «bel-
lezza», l’eleganza, la squisitezza e la rarità ebbero tanta
importanza nell’arte; mai il preziosismo e il virtuosismo
vi furono piú largamente spiegati. Se in Francia la pit-
tura era modello alla poesia, in Inghilterra ci si ispira
propriamente all’arte dell’orafo. Non per nulla Wilde
parla con tanto entusiasmo del «jewelled style» [«stile
gemmato»] di Huysmans. Effetti di colore come i «jade-
green piles of vegetables» [«velluti verde-giada degli
ortaggi»] a Covent Garden sono la sua personale aggiun-
ta all’eredità dei francesi. G. K. Chesterton osserva da
qualche parte che lo schema del paradosso di Shaw con-
siste nel dire, invece di «uva bianca», «uva verde-chia-
ro». Anche Wilde, che ha tanto di comune con Shaw a
dispetto di tutte le differenze, nelle sue metafore parte
spesso dalla massima evidenza e trivialità e il tipico del
suo stile si rivela appunto nell’unione del triviale con lo
squisito. È come se egli volesse dire che anche nella

Storia dell’arte Einaudi 301


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

realtà piú ordinaria si trova la bellezza, come Walter


Pater gli ha insegnato. «Non il frutto dell’esperienza, ma
l’esperienza stessa è il fine... Nel mantenere quest’esta-
si sta il successo nella vita», dice Pater nella conclusio-
ne del Rinascimento, e in queste frasi è contenuto il
programma di tutto il movimento estetizzante. In Wal-
ter Pater l’evoluzione iniziata con Ruskin e continuata
con William Morris giunge a compimento, ma, a diffe-
renza dei suoi predecessori, i fini sociali esulano dai
suoi propositi, che non sono che edonistici, mirano solo
ad esaltare l’intensità dell’esperienza estetica. In lui
l’impressionismo è solo una forma di epicureismo. Poi-
ché «tutto scorre» in senso eracliteo e la vita rumoreg-
giando dilegua con sinistra rapidità, per noi non c’è che
una verità, quella del momento, e tutta la voluttà o il
piacere è solo quello che possiamo rapire all’istante. Ma
è in nostro potere di non lasciarne passare uno solo
senza goderne il fascino particolare, l’intima virtú.
Quanto in questo l’estetismo inglese si allontani dal-
l’impressionismo francese, lo vediamo chiaramente in un
fenomeno come Beardsley. Non si può immaginare
un’arte piú «letteraria» della sua, in cui piú d’ogni altra
hanno importanza la psicologia, i contenuti intellettua-
li, gli aneddoti. Il calligrafismo artigianale, che i maestri
francesi si dànno tanto pena di evitare, è l’elemento piú
tipico del suo stile; ed è il punto di partenza di tutta
quell’evoluzione antimpressionistica che porta agli sce-
nografi e agli illustratori mondani, cosí cari alla bor-
ghesia benestante e mediocremente colta.
L’intellettualismo, dominante nella letteratura fran-
cese nonostante la forte corrente intuizionistica, rap-
presenta anche in Inghilterra il tratto fondamentale della
nuova letteratura. Wilde non solo accetta l’idea di
Matthew Arnold, che è il critico a determinare il clima
intellettuale di un secolo59, e non solo consente alle paro-
le di Baudelaire, che ogni vero artista deve essere anche

Storia dell’arte Einaudi 302


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un critico, ma giunge ad anteporre il critico all’artista ed


è incline a considerare il mondo con gli occhi del criti-
co. Questo spiega perché sovente l’arte sua, come quel-
la dei suoi contemporanei, appare cosí dilettantesca.
Quasi tutto quello ch’essi creano pare il gioco abilissi-
mo di persone molto dotate, tuttavia non di artisti di
mestiere. Ma, se dobbiamo credere loro, essi volevano
appunto suscitare quest’impressione. Sul terreno dello
stesso intellettualismo, sebbene a un piú alto livello, si
muovono Meredith e Henry James. Se nel romanzo
inglese c’è una tradizione che collega George Eliot con
Henry James60, è certo quella dell’intellettualismo. Dal
punto di vista sociologico, con George Eliot si apre una
nuova fase nella storia della letteratura inglese: sorge un
pubblico nuovo, piú esigente. Ma George Eliot, benché
rappresentasse un ceto intellettuale assai superiore al
pubblico di Dickens, poteva contare su una cerchia rela-
tivamente ampia di lettori; il pubblico di Meredith e
Henry James invece si limita ormai a un esiguo ambien-
te d’intellettuali che a un romanzo non chiedono, come
il pubblico di Dickens o di George Eliot, un’azione
impressionante e figure di gran risalto, ma uno stile
impeccabile e maturi, esemplari giudizi sulla vita. Quel
che per lo piú in Meredith è soltanto maniera, in Henry
James è spesso vera passione intellettuale; ma entrambi
rappresentano un’arte che ha con la realtà rapporti
essenzialmente astratti; e le loro creature, confrontate
con il mondo di Stendhal, Balzac, Flaubert, Tolstoj,
pare che si muovano nel vuoto.

Verso la fine del secolo l’impressionismo predomina


in tutta Europa. Dappertutto fiorisce una poesia degli
stati d’animo, delle impressioni atmosferiche, del dile-
guare della stagione e dell’ora. La lirica si estenua in sen-
sazioni fuggevoli, inafferrabili, in eccitamenti dei sensi
indeterminati, indefinibili, in tinte delicate e voci stan-

Storia dell’arte Einaudi 303


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che. L’indeciso, il vago, quel che si muove alla soglia


della percezione sensoriale, diventa il tema principe
della poesia; non si tratta piú della realtà obiettiva, ma
della commozione del poeta per la propria sensibilità e
capacità d’esperienza. Quest’arte eterea degli stati d’a-
nimo domina ormai tutte le forme letterarie; tutte si tra-
sformano in lirismo, in immagine e musica, in colore e
sfumatura. Il racconto si riduce a semplici situazioni, l’a-
zione a scene liriche, il disegno dei caratteri alla descri-
zione di intime disposizioni e stati psichici. Tutto diven-
ta episodico, periferico in una vita priva di centro.
Fuori di Francia, l’influsso dell’impressionismo sulla
letteratura è piú forte di quello del simbolismo. Se inve-
ce si guarda solo alla letteratura francese, si è facilmen-
te indotti a identificare le due correnti61. Anche Victor
Hugo chiamava il giovane Mallarmé «mon cher poète
impressioniste». Ma a un esame piú attento le differen-
ze sono evidenti: l’impressionismo è materialistico e
sensualistico, per quanto delicati ne siano i temi; il sim-
bolismo invece è idealistico e spiritualistico, benché il
suo mondo ideale non sia che una sublimazione del
mondo dei sensi. Ma il simbolismo francese – in cui dob-
biamo includere quello belga – con le sue derivazioni,
cioè il vitalismo di Bergson da un lato, il cattolicismo
monarchico dell’Action française dall’altro, si distingue
essenzialmente in quanto rappresenta una tendenza sem-
pre pronta a mutarsi in attivismo; mentre l’impressio-
nismo dei viennesi, dei tedeschi, dei russi e degli italia-
ni, che ha in Schnitzler, Hofmannsthal, Rilke, Ωechov,
D’Annunzio, gli interpreti maggiori, esprime una con-
cezione della passività, del perfetto abbandono al mondo
circostante e del dissolversi senza resistenze nell’istan-
te. Eppure, quanto siano profondi i rapporti fra impres-
sionismo e simbolismo, come facilmente prevalga in
entrambi il momento irrazionale e la passività si tra-
sformi in frivolo attivismo, lo dimostra l’evoluzione di

Storia dell’arte Einaudi 304


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poeti come Stefan George e D’Annunzio. Saremmo


senz’altro disposti a collegare con le simpatie fasciste di
quest’ultimo il suo cattivo gusto, la paludata verbosità,
la cronica ebrezza di vita, se Barrès e Stefan George non
manifestassero la stessa velleità politica, pur con un
gusto e con maniere letterarie tanto migliori.
La forma piú pura dell’impressionismo che ripugna ad
ogni atteggiamento attivo e si abbandona senza resi-
stenza al flusso delle esperienze è quella dei viennesi.
Forse è la vecchia, stanca cultura della città, la mancanza
di ogni attiva politica nazionale e il grande contributo
straniero, specie ebraico, alla vita letteraria, a dare
all’impressionismo viennese il suo particolare carattere
di sottigliezza e di passività. Si tratta dell’arte di giova-
ni eredi borghesi, espressione del malinconico edonismo
di quella «seconda generazione» che gode i frutti del
lavoro paterno. Sono nevrotici e tristi, stanchi e senza
meta, scettici e ironici verso se stessi questi poeti degli
stati d’animo squisiti e subito dileguati, di cui nulla
rimane, se non il senso del transitorio, del mancato e la
coscienza dell’inettitudine alla vita. Il contenuto laten-
te di ogni impressionismo, la coincidenza di vicino e lon-
tano, l’estraneità delle cose prossime, quotidiane, il
senso di esser sempre divisi dal mondo, diventa qui l’e-
sperienza di fondo.
«Si può dar che questi giorni vicini – sian passati, per
sempre passati e del tutto perduti?» domanda Hof-
mannsthal, e in questa domanda sono contenute in
germe anche le altre: il brivido dell’«adesso e qui» che
è insieme un «oltre», lo stupirsi perché «queste cose
sono altre e ancora altre le parole che usiamo», lo sgo-
mentarsi perché «tutti gli uomini vanno per la loro stra-
da» e infine l’ultimo, grande problema: «Quando uno
muore, porta con sé un segreto: come sia stato possibi-
le a lui, proprio a lui, vivere nel senso spirituale della
parola». Se si pensa alla frase di Balzac «Nous mourons

Storia dell’arte Einaudi 305


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tous inconnus», si vede con quanta coerenza si sviluppi


in Europa il senso della vita dopo il 1830. Esso presen-
ta un carattere costante, prevalente, sempre piú profon-
do: la coscienza dell’isolamento, della solitudine, che
può avvilirsi fino al sentimento del completo abbando-
no da parte di Dio e del mondo, o elevarsi nell’istante
dell’orgoglio, che spesso è quello della massima dispe-
razione, all’idea del superuomo; questi nell’aria rarefat-
ta delle altezze si sente solo e infelice come l’esteta nella
sua torre d’avorio.
Il fenomeno piú rilevante di tutta la storia dell’im-
pressionismo europeo è la sua adozione da parte dei
russi e il sorgere di uno scrittore come Ωechov, che può
dirsi il piú puro rappresentante di tutto lo stile. Nulla è
piú sorprendente di un tale artista in un paese che fino
a poco prima viveva ancora nell’atmosfera intellettuale
dell’illuminismo, ed era del tutto estraneo all’estetismo
e decadentismo che in Occidente accompagnano il sor-
gere dell’impressionismo. Ma in un secolo tecnico come
il xix le idee si diffondono presto e l’adozione dell’eco-
nomia industriale crea anche qui condizioni che porta-
no al nascere di un gruppo sociale simile a quello degli
intellettuali d’Occidente e al manifestarsi di un atteg-
giamento analogo all’ennui62. Gor´kij fin dall’inizio com-
prese la funzione decisiva che era destinata a Ωechov
nella letteratura russa; egli vide che con lui si conclude-
va tutta un’epoca, e che il suo stile possedeva per le
nuove generazioni un fascino a cui esse non avrebbero
piú potuto rinunziare. «Sa Lei quel che fa? – gli scrive
nel 1900. – Lei annienta il realismo... Dopo uno dei Suoi
racconti, sia pure il meno importante, tutto sembra
rozzo, scritto con un bastone, non con la penna»63.
Come apologeta dell’insuccesso e dell’inettitudine
alla vita, Ωechov ha i suoi precursori in Dostoevskij e
Turgenev, ma questi non considerano ancora la sfortu-
na e la solitudine come inevitabile destino dei migliori.

Storia dell’arte Einaudi 306


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Solo con Ωechov si ha una visione del mondo imperniata


sull’esperienza della incomunicabilità fra gli uomini, cosí
caratteristica dell’impressionismo, sulla loro incapacità
di superare del tutto la distanza che li divide o, pur riu-
scendovi, di mantenersi vicini. L’umanità di Ωechov si
sente derelitta e disperata, irrimediabilmente paralizza-
ta nella volontà, o sterile in ogni suo sforzo. Questa filo-
sofia della passività e dell’indolenza, questo senso che
nulla nella vita giunga allo scopo e al termine, hanno
grandi conseguenze formali; portano ad accentuare il
carattere episodico, irrilevante dell’avvenimento ester-
no, alla rinunzia ad ogni struttura formale, a ogni con-
centrazione e integrazione, portano a preferire una com-
posizione eccentrica, che trascura o violenta la cornice.
Come Degas respinge parti importanti della scena pro-
prio ai margini del quadro e le taglia con la cornice,
Ωechov termina le sue novelle e i suoi drammi con un’ar-
si, per accentuare anche cosí l’impressione del non con-
chiuso, dell’interrotto, della fine casuale, arbitraria. Egli
segue un principio formale perfettamente opposto a
quello della «frontalità»: anzi, tutto è predisposto per
dare all’opera il carattere di un evento casuale, scoper-
to, colto per caso.
Il senso che gli eventi esterni sono assurdi, irrilevan-
ti e frammentari, porta nel dramma a ridurre al minimo
l’azione e a rinunciare agli effetti cosí caratteristici della
pièce bien faite. Il buon teatro deve essenzialmente la sua
efficacia ai principî della forma classica: unità, conclu-
sione e armonioso sviluppo dell’azione. Il dramma poe-
tico, sia quello simbolico di Maeterlinck, sia quello
impressionistico di Ωechov, rinunzia a questi mezzi
strutturali a favore dell’immediata espressione lirica. La
forma cecoviana è forse la meno teatrale di tutta la let-
teratura – una forma in cui i coups de théâtre, gli effet-
ti scenici di sorpresa e di tensione hanno una parte mini-
ma. Non c’è dramma piú povero di avvenimenti, di

Storia dell’arte Einaudi 307


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movimento, di conflitti. I personaggi ignorano la lotta,


la difesa, la sconfitta; cedono, affondano a poco a poco,
inghiottiti dalla monotonia della loro vita senza vicen-
de e senza prospettive. Si abbandonano al loro destino
che si consuma in delusioni, non in catastrofi. Fin dalla
sua prima comparsa, si è dubitato di poter giustificare
un simile dramma privo d’azione e di movimento e ci si
è chiesti se fosse il vero dramma, vero teatro, cioè se
sulla scena si sarebbe mostrato vitale.
La pièce bien faite apparteneva ancora al vecchio tea-
tro e, pur accogliendo certi elementi del naturalismo, in
complesso si atteneva sia alle convenzioni tecniche della
scena, sia all’ideale eroico del dramma classico-roman-
tico. Soltanto nel nono decennio il naturalismo conqui-
sta la scena, quando già nel romanzo comincia la sua
parabola discendente. Il primo dramma naturalistico,
Les corbeaux di Henri Becque, è del 1882, e il Théâtre
libre di Antoine, il primo della corrente naturalistica, è
fondato nel 1887. Da principio il pubblico borghese si
mostra del tutto refrattario, benché Henri Becque e i
suoi immediati successori non facciano che sfruttare per
la scena quel che già da gran tempo Balzac e Flaubert
hanno reso familiare a tutti. Il dramma naturalistico in
senso stretto sorge altrove, nei paesi nordici, in Ger-
mania e in Russia. A poco a poco il pubblico ne accetta
le convenzioni, come ha accettato quelle del romanzo,
e Ibsen, Brieux e Shaw suscitano proteste solo per gli
assalti troppo aspri alla morale borghese. Ma infine,
benché avverso ad essa, il nuovo indirizzo conquista la
borghesia, e persino il dramma socialista di Gerhart
Hauptmann celebra i suoi primi e massimi trionfi negli
ambienti dell’alta borghesia berlinese. Il teatro natura-
listico non è che la via verso il dramma intimo, verso
l’interiorizzazione dei conflitti, verso un piú immedia-
to contatto fra scena e pubblico. I troppo facili espe-
dienti, l’intreccio complicato e la tensione forzata, gli

Storia dell’arte Einaudi 308


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

indugi e le sorprese artificiose, le scene madri e i finali


di grand’effetto resistono nel teatro piú a lungo che nel
romanzo, ma a un tratto cominciano a sembrare ridico-
li e debbono essere sostituiti o velati con effetti piú sot-
tili. Senza l’adesione di un pubblico relativamente vasto,
il dramma naturalistico non sarebbe mai divenuto una
realtà nella storia del teatro. Se un volume di liriche può
uscire in due o trecento copie, e un romanzo in mille o
duemila, una rappresentazione teatrale dev’esser vista
da diecimila persone, perché se ne coprano le spese. Il
nuovo dramma naturalistico in questo senso già da un
pezzo si era dimostrato vitale, quando ancora critici e
teorici si stillavano il cervello sulle sue possibilità. Essi
non riuscivano a liberarsi dalla concezione classica del
dramma e anche i piú ragionevoli fra loro, o i piú acuti,
consideravano il teatro naturalistico come una contra-
dictio in adiecto64. Soprattutto non potevano ammettere
che si trascurasse l’economia del dramma classico, con-
versando liberamente sulla scena, discutendo problemi,
descrivendo esperienze, saltando di palo in frasca, come
se la rappresentazione non dovesse mai finire. Biasima-
vano che il dramma naturalistico non nascesse «dalla
considerazione del destino, del personaggio e del sog-
getto, ma da una riproduzione particolaristica della
realtà65»; in realtà poi accadde semplicemente che la
realtà, con i suoi vincoli concreti, divenne essa stessa il
destino, e i «personaggi» non furono piú semplici figu-
re da palcoscenico, ma uomini dalle molte facce, com-
plicati, incoerenti, «senza carattere» come si diceva un
tempo e che, come espose Strindberg nel suo proemio a
La signorina Giulia del 1888, erano un prodotto delle
condizioni, dell’eredità, dell’ambiente, dell’educazione,
dell’indole, degli influssi locali, stagionali e accidentali;
e le loro decisioni non avevano un solo motivo, ma tutta
una serie di motivi.

Storia dell’arte Einaudi 309


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Col prevalere dell’interiorità, dello stato d’animo,


dell’atmosfera e del lirismo sull’azione drammatica, si
assiste alla scomparsa del racconto vero e proprio, nel
teatro come nella pittura impressionistica. Tutta l’arte
del tempo mostra una tendenza allo psicologismo e al
lirismo; la ripugnanza al racconto e l’inclinazione a sosti-
tuire il movimento intimo a quello esteriore, la filosofia
e l’interpretazione della vita all’azione, possono di certo
considerarsi il tratto essenziale del nuovo indirizzo arti-
stico, che si afferma in ogni campo. Ma, mentre la pit-
tura aneddotica non trovò difensori fra i critici d’arte,
i critici teatrali protestarono con la massima energia
contro chi trascurava l’azione. Specialmente in Germa-
nia, essi parlarono di una fatale separazione del dram-
ma dal teatro, del peso decisivo dell’efficienza scenica
per l’esperienza teatrale, del carattere di massa di tale
esperienza e della fondamentale assurdità del teatro inti-
mo. I moventi di questa opposizione erano diversissimi;
la reazione politica non sempre vi aveva la parte princi-
pale, e spesso si esprimeva solo per via indiretta; di
maggior peso invece furono le simpatie per un «teatro
monumentale» che, soprattutto in Germania, si con-
trapponeva al teatro intimo rispondente alle vere esi-
genze spirituali, nonché l’ambizione di creare un «tea-
tro di massa» per le masse che effettivamente c’erano,
ma non formavano un pubblico teatrale. Caratteristico
di tutta questa confusione d’idee fu che come stile adat-
to al futuro teatro popolare si finí per presentare non già
il naturalismo cresciuto di pari passo con la concezione
democratica, ma il classicismo della vecchia aristocrazia
e della borghesia.
Le maggiori accuse rivolte contro il nuovo dramma
erano quelle di determinismo e relativismo, entrambi
inscindibili dalla visione naturalistica del mondo. Si pro-
clamava che dove manchino libertà intima ed esteriore,
valori assoluti, regole morali obiettive, universali e indi-

Storia dell’arte Einaudi 310


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scutibili, non può esistere un vero dramma, cioè una tra-


gedia. La relatività delle norme etiche e la comprensio-
ne per opposte posizioni morali escluderebbe del tutto
un vero conflitto drammatico. Quando sia lecito tutto
comprendere e tutto perdonare, l’eroe nella sua lotta a
oltranza apparirà alla fine un pazzo testardo, il conflit-
to perderà ogni necessità e il dramma verrà a prendere
un carattere tragicomico e patologico66. Tutto il ragio-
namento brulica di equivoci, pseudoproblemi e sofismi.
In primo luogo, si viene a identificare nel dramma tra-
gico tutto il dramma, o almeno lo si rappresenta come
la sua forma ideale, esprimendo cosí un giudizio di valo-
re per se stesso molto relativo, in quanto determinato da
condizioni storiche e sociali. In realtà, non solo il dram-
ma senza tragedia, ma anche senza conflitto può essere
una forma teatrale perfettamente legittima; e il teatro si
può benissimo conciliare con una visione relativistica del
mondo. Ma anche se si considera il conflitto un ele-
mento indispensabile, è difficile capire perché dovreb-
bero prodursi conflitti profondamente commoventi solo
dove si tratti di valori assoluti. Non è altrettanto impres-
sionante la lotta degli uomini per i loro principî morali
determinati da un’ideologia? E perfino quando si trat-
ta di una lotta necessariamente tragicomica non sarà
proprio questo suo carattere a produrre, in un tempo di
razionalismo e di relativismo, i maggiori effetti dram-
matici? Del resto la premessa di tutta l’argomentazione
è discutibile, e cioè l’idea che l’assenza di libertà socia-
le e il relativismo etico escludano senz’altro la tragedia.
Non consta affatto che solo uomini del tutto liberi,
socialmente indipendenti, come sovrani e condottieri,
siano eroi da tragedia. Non è forse tragico il destino del
Mastro Antonio di Hebbel, del Gregers Werle di Ibsen,
dello Henschel di Hauptmann? Concediamo pure che
tragico e triste non sono la stessa cosa. Ma sarebbe
«antidemocratico» affermare con Schiller che non ci

Storia dell’arte Einaudi 311


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

può esser tragedia nel furto di cucchiai d’argento. La tra-


gicità di una situazione dipende soltanto dalla forza, dal-
l’intransigenza con cui diversi, inconciliabili principî
morali si affrontano nell’anima di un uomo. Ma perché
si determini l’effetto tragico non è neppure assoluta-
mente necessario che un pubblico veda posti in discus-
sione valori ch’esso crede assoluti, e tanto meno valori
in cui non crede piú.
Nella storia del dramma moderno Ibsen è la figura
centrale, e non solo perché è il maggior drammaturgo del
secolo, ma perché l’opera sua pone con il massimo vigo-
re i problemi filosofici del tempo. La liquidazione del-
l’estetismo, problema cruciale della sua generazione,
segna il principio e la fine della sua carriera artistica. Fin
dal 1865 egli scrive a Björnson: «Se in questo momen-
to io dovessi dichiarare quale profitto abbia tratto in
sostanza dal mio viaggio, direi che mi sono liberato dal-
l’estetismo, che mi aveva tutto in suo potere, preten-
dendosi fine a se stesso. Quindi esso ora mi sembra una
maledizione per la poesia, come la teologia per la reli-
gione»67. Secondo ogni apparenza, Ibsen giunge a risol-
vere questo problema sotto l’influsso di Kierkegaard,
che tanta parte deve aver avuto nella sua evoluzione,
bench’egli affermasse di non capire gran che delle teo-
rie del filosofo68. Kierkegaard con il suo aut-aut deve
aver dato l’impulso decisivo soprattutto all’evolversi del
rigorismo morale ibseniano69. La passione etica di Ibsen,
la coscienza di dover scegliere e decidere, la concezione
dell’attività poetica come «l’ultima sentenza su se stes-
si», tutto ciò ha radice nelle idee di Kierkegaard. Che
il «tutto o nulla» di Brand corrisponda all’aut-aut di
Kierkegaard, lo si è osservato spesso; ma Ibsen deve ben
altro all’intransigenza del suo maestro; gli deve tutta la
sua concezione etica, antiromantica e scevra d’estetismo.
La miopia dei romantici consisteva soprattutto nel ridur-
re ogni manifestazione dello spirito a categorie estetiche,

Storia dell’arte Einaudi 312


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e ai loro occhi tutti i valori portavano piú o meno l’im-


pronta del genio. Kierkegaard fu il primo che contro il
Romanticismo osò affermare che l’esperienza etica e
religiosa non ha a che vedere con la bellezza e la genia-
lità, e un eroe della fede è affatto diverso da un genio.
Nell’Occidente postromantico nessun altro aveva colto
i limiti della sfera estetica, e all’infuori di lui non vi era
nessuno che potesse influire in tal senso su Ibsen. Quan-
to tale influsso abbia contribuito a determinare la criti-
ca ibseniana del romanticismo è difficile dire. L’irreali-
smo romantico era un problema generale del tempo, e
certo allo scrittore non occorrevano speciali stimoli per
affrontarlo. Tutto il naturalismo francese s’imperniava
sul conflitto tra ideale e realtà, finzione e verità, poesia
e prosa, e i piú noti pensatori del secolo riconoscevano
nel difetto di realismo la maledizione della cultura
moderna. Sotto questo aspetto Ibsen non fece che con-
tinuare la lotta dei suoi predecessori, ultimo di una
lunga serie che includeva tutti gli avversari del roman-
ticismo. Il colpo mortale che egli porta al nemico consi-
ste nello svelare il lato tragicomico dell’idealismo roman-
tico. Dopo il Don Quijote la cosa non era del tutto
nuova, ma Cervantes trattava ancora il suo eroe con sim-
patia e indulgenza, mentre Ibsen annienta moralmente
Brand, Peer Gynt e Gregers Werle. L’«esigenza idea-
le», fuor d’ogni realtà, dei suoi romantici si rivela puro
egoismo, che l’ingenuità dell’egoista non basta a miti-
gare. Don Quijote affermava i suoi ideali anzitutto con-
tro se stesso; gli idealisti di Ibsen invece si distinguono
soltanto per la loro intolleranza verso gli altri.
Ibsen dovette la sua fama europea al messaggio socia-
le dei suoi drammi, riducibile, in ultima analisi, a una
sola idea: il dovere dell’individuo verso se stesso, il suo
compito di realizzarsi affermando la propria natura con-
tro le convenzioni, meschine, stupide e superate, della
società borghese. Il suo era dunque un vangelo dell’in-

Storia dell’arte Einaudi 313


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dividualismo, un’esaltazione della personalità sovrana,


un’apoteosi della vita creatrice; dunque, in certo modo,
ancora un ideale romantico che fece la piú profonda
impressione sulla gioventú; e non solo era essenzial-
mente affine all’idea nietzschiana del superuomo e all’é-
lan vital di Bergson, ma tornò a riecheggiare in Shaw,
nel suo mito della forza vitale. In fondo Ibsen era un
individualista anarchico; nella libertà personale scorge-
va il piú alto valore della vita e il suo principio era che
l’individuo libero, sciolto da ogni vincolo esteriore, può
far molto per sé, mentre pochissimo può fare per lui la
società. La sua idea della realizzazione di se medesimi
era innegabilmente di grande portata sociale, ma la
«questione sociale» vera e propria lo lasciava indiffe-
rente. «A dir vero, per la solidarietà non ho mai avuto
gran simpatia» egli scrive a Brandes nel 187170. Il suo
pensiero si imperniava sui problemi dell’etica indivi-
duale; per lui la società esprimeva solo il principio del
male. Egli non vi scorgeva che il regno della stupidag-
gine, del pregiudizio e della costrizione. Infine giunse a
quella morale aristocraticamente conservatrice, che rap-
presentò con particolare chiarezza in Rosmerholm. Per
la sua modernità, il suo antifilisteismo, la sua lotta acca-
nita contro ogni convenzione, Ibsen apparve all’Europa
uno spirito assolutamente progressista; ma in patria,
dove si era in grado di giudicare le sue opinioni politi-
che con maggior conoscenza di causa, lo si considerava
il grande poeta conservatore, che si contrapponeva al
radicale Björnson. All’estero tuttavia se ne intese meglio
l’importanza storica. Egli apparve una delle poche figu-
re rappresentative dell’epoca, se non la sola, che fosse
lecito paragonare a Tolstoj, Anch’egli, infatti, dovette
il suo nome e la sua autorità non tanto alla sua opera di
poeta, quanto a quella di agitatore e di educatore. In lui
si onorò soprattutto il grande moralista, l’appassionato
accusatore e l’impavido campione della verità, per il

Storia dell’arte Einaudi 314


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quale il teatro era il mezzo a un fine piú alto. Politica-


mente, tuttavia, Ibsen non aveva nulla di positivo da
dire ai suoi contemporanei. Tutta la sua visione del
mondo era incrinata da una contraddizione profonda:
egli lottava contro la morale convenzionale, i pregiudi-
zi borghesi, la società dominante, in nome d’una libertà
ch’egli stesso non credeva attuabile. Era un crociato
senza fede, un rivoluzionario senza ideali sociali: e il
riformatore si trasformò alla fine in un duro fatalista.
Ibsen finí proprio come il Frenhofer di Balzac, o
come Rimbaud e Mallarmé. Rubek, l’eroe del suo ulti-
mo dramma, la piú schietta incarnazione della sua idea
dell’artista, rinnega la propria opera e prova quel che
ogni artista piú o meno ha provato dal romanticismo in
poi: il senso di essersi lasciato sfuggire per l’arte la vita.
«Una notte estiva sui monti con te, sì, con te, Irene,
questo sarebbe stata la vita!» In questo grido è implici-
to il giudizio su tutta l’arte moderna. L’apoteosi delle
«notti estive» della vita è diventata un povero surroga-
to, un oppio che ottunde i sensi e rende l’uomo incapa-
ce di godere direttamente la vita.
L’unico vero discepolo e successore di Ibsen è Shaw,
l’unico che ne abbia continuato con efficacia la lotta
contro il romanticismo, approfondendo il grande dibat-
tito dell’Europa ottocentesca. È lui che completa lo
smascheramento dell’eroe romantico, e la distruzione
della fede nei grandi gesti teatrali. Tutto ciò che è pura-
mente decorativo, vistosamente eroico, sublime e idea-
listico con lui diventa sospetto; ogni sentimentalismo e
distacco dalla realtà si rivelano inganni e imposture. La
psicologia dell’autoinganno è la fonte della sua arte, ed
egli è fra i piú animosi e intransigenti, ma anche fra i
piú gioviali e divertenti smascheratori di quest’intima
inclinazione. Se tutto il suo pensiero, cosí accanito nel
distruggere leggende e rivelare finzioni, ha un’innegabile
origine illuministica, la sua filosofia della storia, radica-

Storia dell’arte Einaudi 315


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ta nel materialismo storico, fa di lui il piú progressista


e il piú moderno scrittore della sua generazione. Egli
dimostra che la falsa prospettiva in cui gli uomini vedo-
no il mondo e se stessi, le menzogne ch’essi proclama-
no o lasciano affermare come verità e per cui, in certi
casi, sono pronti a tutto, sono legate alle ideologie, cioè
a interessi economici e aspirazioni sociali. Il peggio non
è che essi pensino in modo irrazionale – spesso anzi sono
fin troppo razionali – ma che non abbiano alcun senso
della realtà, che non vogliano ammettere i fatti come
fatti. Quindi non il razionalismo, bensí il realismo è la
meta di Shaw; e la volontà, non la ragione, è la faculté
maitresse dei suoi eroi71. Questo spiega in parte anche la
sua vocazione di drammaturgo, e come nel piú dinami-
co fra i generi letterari le sue idee abbiano trovato la loro
forma piú adeguata.
Shaw non sarebbe il perfetto rappresentante del suo
tempo, se non ne condividesse anche l’intellettualismo.
Pur con la loro pulsante vivacità, l’efficacia scenica spes-
so memore della pièce bien faite e il tono melodramma-
tico talvolta un po’ volgare, i suoi drammi sono essen-
zialmente intellettualistici; piú ancora di quelli di Ibsen
sono drammi di discussione e di polemica. Il ripiegarsi
dell’eroe su se stesso e il dibattito intellettuale fra le dra-
matis personae non sono caratteristiche esclusive del tea-
tro moderno; anzi il conflitto drammatico, se deve rag-
giungere una sua incisività e un suo rilievo, esige sem-
pre dai personaggi che vi sono impegnati la piena
coscienza di quel che avviene in loro. Non c’è vero
effetto drammatico, e tanto meno tragico, senza que-
st’intellettualismo dei personaggi. I piú ingenui, impul-
sivi eroi di Shakespeare diventano geniali nel momento
in cui si decide il loro destino. Ma, dopo il magro vitto
offerto alla mente dalle commedie allora in voga, quei
«dibattiti drammatici», come furono chiamati i lavori di
Shaw, riuscirono cosí indigesti, che critici e pubblico

Storia dell’arte Einaudi 316


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dovettero prima avvezzarcisi. Shaw si atteneva all’in-


tellettualismo tradizionale del dialogo drammatico assai
piú rigorosamente dei suoi predecessori; ma nessun pub-
blico poteva gustare una simile rappresentazione meglio
degli intelligenti frequentatori del teatro sullo scorcio del
secolo. Ed essi si divertirono cordialmente alle acroba-
zie intellettuali che venivano loro offerte, appena si
furono persuasi che gli assalti di Shaw alla società bor-
ghese non erano davvero così pericolosi come pareva e,
soprattutto, che egli non voleva togliere a nessuno il suo
denaro. Alla fine si scoprí che in sostanza egli era soli-
dale con la borghesia, ed era semplicemente il portavo-
ce di quell’autocritica che rientra nell’abito mentale di
questa classe.

La psicologia, che sullo scorcio del secolo determina


la concezione del mondo, è una «psicologia del profon-
do». Tanto Nietzsche che Freud partono dall’assunto
che la vita psichica manifesta – cioè quel che gli uomi-
ni sanno o pretendono di sapere sui moventi del loro
comportamento – spesso non fa che velare e deformare
i reali motivi dei sentimenti e delle azioni. Nietzsche
imputa tale falsificazione alla decadenza che travaglia
l’umanità dall’inizio del cristianesimo, e allo sforzo di
presentare come valori etici, come ideali altruistici e
ascetici, la debolezza e i rancori dell’umanità degenera-
ta. Al fenomeno dell’autoinganno – che Nietzsche sco-
pre valendosi della critica storica della civiltà – Freud
giunge analizzando la psiche individuale e giunge a sta-
bilire che, dietro la coscienza dell’uomo sta, vero moto-
re degli atteggiamenti e delle azioni, l’inconscio: ogni
pensiero cosciente non è che il velo piú o meno traspa-
rente degli impulsi che sono il contenuto dell’inconscio.
Qualunque cosa Nietzsche e Freud sapessero e pensas-
sero di Marx, quando sviluppavano le loro teorie, è
certo che nelle loro indagini seguivano quella tecnica

Storia dell’arte Einaudi 317


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

analitica, che per la prima volta il materialismo storico


aveva applicato. Anche Marx insiste sulla coscienza
deformata e guasta e sul fatto che essa vede il mondo in
una falsa prospettiva. Il concetto di «razionalizzazione»
della psicanalisi corrisponde appunto a quel che Marx ed
Engels intendono per elaborazione delle ideologie e
«falsa coscienza». Engels72 e Jones73 definiscono i due
concetti nello stesso senso. Gli uomini non solo agisco-
no, ma spiegano e giustificano le loro azioni secondo il
loro particolare punto di vista, determinato da condi-
zioni sociali e psichiche. Marx è il primo a rilevare che,
sotto la spinta degli interessi di classe, non solo essi
incorrono in singoli errori, falsificazioni e mistificazio-
ni, ma che tutto il loro pensiero, tutta la loro visione ne
vengono distorti e falsati, ed essi non possono piú vede-
re e giudicare la realtà se non partendo da premesse trat-
te dalle loro condizioni economiche e sociali. La dottri-
na su cui Marx fonda tutta la sua filosofia della storia
consiste nel principio che in una società differenziata e
scissa in classi è senz’altro impossibile un pensiero cor-
retto74. La scoperta che per lo piú si tratta di autoin-
ganno, e che i singoli individui non sempre sono consci
dei motivi del loro agire, fu di fondamentale importan-
za per l’ulteriore sviluppo della psicologia.
Ma anche il materialismo storico, con la sua tecnica
analitica, fu un prodotto di quella visione borghese-
capitalistica, di cui voleva scoprire il fondo. Prima che
l’economia avesse raggiunto nella coscienza del mondo
occidentale l’assoluta preminenza che ha ai nostri gior-
ni, una simile teoria sarebbe stata inconcepibile. L’e-
sperienza decisiva per l’età postromantica fu quella della
dialettica di ogni avvenimento, l’antitesi di esistenza e
coscienza, l’ambivalenza dei rapporti e delle rappresen-
tazioni. Il principio fondamentale della nuova tecnica
analitica è il sospetto che dietro ogni fatto manifesto ce
ne sia uno latente, dietro ogni coscienza si celi un incon-

Storia dell’arte Einaudi 318


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scio, dietro ogni apparente unità un dissidio. Perché


questo orientamento si generalizzasse non era affatto
necessario che i singoli pensatori e studiosi consapevol-
mente si rifacessero al metodo del materialismo storico;
l’idea del pensiero e della psicologia come strumenti di
smascheramento e rivelazione era tipica del secolo, e
Nietzsche non dipendeva tanto da Marx, né Freud da
Nietzsche, quanto tutti insieme da un’atmosfera di crisi.
Ciascuno a suo modo, scoprirono che l’autonomia dello
spirito è una finzione e che noi siamo gli schiavi di una
forza che opera dentro di noi e spesso contro di noi.
Come piú tardi in quella della psicanalisi, nella dottrina
del materialismo storico, pur piú ottimista nelle sue con-
clusioni, l’Occidente esprime una concezione che rive-
la la perdita della baldanzosa fede in se stesso.
Anche i pensatori piú razionali e consapevoli, non
sempre, nello sviluppo delle loro teorie, partono da quel-
le che sono le effettive premesse del loro pensiero. Spes-
so le realizzano solo piú tardi, e talvolta mai. Anche
Freud soltanto in uno stadio relativamente tardo della
sua evoluzione raggiunse una chiara consapevolezza del-
l’esperienza da cui derivava la problematica della sua psi-
canalisi. Questa esperienza, che era anche all’origine di
ogni significativa manifestazione del secolo, intellettua-
le come artistica, Freud stesso la chiamò «disagio della
civiltà». Essa era espressione dello stesso senso di estra-
neità e di smarrimento che si ritrova nel romanticismo
e nell’estetismo, della stessa angoscia mortale, della stes-
sa incertezza sul significato della cultura, della stessa
sensazione di esser circondati da pericoli ignoti, inson-
dabili, indefinibili. Freud spiegava questo disagio, que-
sto senso di equilibrio instabile e precario, con la forte
menomazione della vita istintiva, e soprattutto degli
impulsi erotici, trascurando del tutto la parte che pote-
va avervi la mancanza di sicurezza economica, di affer-
mazione sociale e di influsso politico dell’individuo.

Storia dell’arte Einaudi 319


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Senza dubbio le nevrosi rientrano nel prezzo da pagare


per la nostra civiltà, ma sono soltanto una parte, soven-
te solo una forma secondaria, dello scotto che paghiamo
alla struttura sociale. Freud per la sua visione stretta-
mente scientifica non è in grado di valutare i fattori
sociologici nella vita psichica degli uomini, e benché nel
super-io egli scorga un’istanza sociale, nega nello stesso
tempo che l’evoluzione della società possa provocare
sostanziali mutamenti nella nostra costituzione biologi-
co-istintiva. Per lui le forme culturali non sono costru-
zioni storico-sociologiche, ma espressioni piú o meno
meccaniche degli istinti. Nella società borghese-capita-
listica giungono a palesarsi istinti di erotismo anale, le
guerre sono opera dell’impulso di morte, il disagio nella
civiltà risale alla repressione della libido. Perfino la teo-
ria della sublimazione, che è fra i grandiosi risultati
della psicanalisi, porta a una pericolosa e grossolana
semplificazione del concetto di cultura, se si considera
l’istinto sessuale come l’unica, o almeno la piú impor-
tante fonte della creazione intellettuale. I marxisti
hanno ragione quando rimproverano alla psicanalisi di
muoversi nel vuoto, con il suo metodo che prescinde
dalla storia e dalla sociologia, e di celare un residuo d’i-
dealismo conservatore nell’idea di una natura umana
costante. Assai piú dogmatica invece appare l’altra obie-
zione, che designa la psicanalisi come un portato della
borghesia in decadenza, destinato a soccombere con
essa. Infatti, quali dei nostri valori intellettuali vera-
mente vivi – compreso il materialismo storico – non
sono il portato di questa cultura «in decadenza»? Se la
psicanalisi è un fenomeno di decadenza, lo è anche l’in-
tero romanzo naturalistico e tutta l’arte impressionisti-
ca; e insomma tutto quello che porta in sé il dissidio del-
l’Ottocento è decadenza.
Thomas Mann osserva che Freud per la natura del
suo materiale d’indagine – l’inconscio, gli affetti, gli

Storia dell’arte Einaudi 320


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

impulsi e i sogni – è profondamente legato all’irrazio-


nalismo dell’ultimo Ottocento75. In verità, Freud si lega
strettamente non solo a questo irrazionalismo neoro-
mantico, che accentra il suo interesse sul volto nottur-
no della vita psichica, ma anche agli inizi e alle origini
di tutto quel filone del pensiero romantico, che si volge
al primitivo e al prerazionale. C’è ancora parecchio di
Rousseau nel compiacimento con cui egli caratterizza la
libertà dell’uomo selvaggio, tutto istinto. E se anche non
giunge ad affermare che, ad esempio, l’uomo allo stato
di natura che uccideva il padre e si accoppiava con tutte
le donne della famiglia, si può chiamare «buono» nel
senso usato da Rousseau, comunque mette in dubbio che
sia diventato gran che migliore o piú felice incivilendo-
si. Il pericolo dell’irrazionalismo non sta, per la psica-
nalisi, nella scelta del materiale d’indagine e nella sim-
patia per i primitivi immuni dalla civiltà, ma nella sua
stessa teoria psicologica fondata sulla vita istintiva. Ogni
concezione dell’uomo che non sia dialettica e consideri
la sua natura come un dato costante, non modificabile
dalla storia, contiene già un elemento irrazionale e con-
servatore. Chi non crede alla possibilità di evoluzione
dell’uomo, per lo piú non desidera affatto ch’egli muti
se stesso e la società. Pessimismo e conservatorismo
sono in questo caso interdipendenti. Ma Freud non è un
vero pessimista e neppure un conservatore o un irrazio-
nalista. Nonostante tutti gli elementi pericolosi, l’ope-
ra sua presenta con innegabile evidenza una spontanea
filantropia e un orientamento progressista per cui non
occorrono speciali prove. Queste, del resto, non man-
cano. Certo egli dubita che la ragione possa prevalere
sugli impulsi, tuttavia dichiara che per dominarli non c’è
altro mezzo che la nostra intelligenza. E non è un’af-
fermazione disperata in lui. «La voce dell’intelletto è
tenue, – egli dice, – ma non tace prima di aver ottenu-
to udienza. Alla fine, sovente dopo innumerevoli ripul-

Storia dell’arte Einaudi 321


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

se, trova ascolto. Questo è uno dei pochi punti per cui
si può essere ottimisti sull’avvenire dell’umanità, ma in
sé non è cosa da poco e vi si possono riannodare altre
speranze. Il primato dell’intelletto è certo molto, molto
lontano, ma verosimilmente non a distanza infinita»76.
Freud sa superare il suo tempo e combatte le forze
oscure e irrazionali da cui esso è dominato; ma ad esso,
alle sue conquiste e alle sue deficienze, è e rimane lega-
to per innumerevoli fili. Il principio stesso della sua psi-
cologia del profondo, in cui le differenze individuali
hanno una parte tanto maggiore che in Marx, è stretta-
mente affine all’ideale impressionistico e al relativismo
filosofico di quegli anni. È tipico della mentalità impres-
sionista quel concetto dell’illusione che nasce dall’espe-
rienza del continuo variare in noi di sensazioni e impres-
sioni, di stati d’animo, e rappresentazioni, cosí che la
realtà si mostra in forme sempre diverse, sempre insta-
bili, e ogni impressione che ne ricaviamo è insieme cono-
scenza e inganno; e la corrispondente idea freudiana
che gli uomini passano tutta la vita come in incognito
davanti agli altri e a se stessi, difficilmente sarebbe stata
concepibile prima dell’impressionismo. L’impressioni-
smo è veramente lo stile del tempo, nel pensiero come
nell’arte. Tutta la filosofia degli ultimi decenni del seco-
lo ne è determinata. Relativismo, soggettivismo, psico-
logismo, storicismo, lo spirito antisistematico, il princi-
pio dell’atomizzarsi del mondo intellettuale e la conce-
zione prospettica della verità, sono elementi comuni alle
teorie di Nietzsche, di Bergson, dei pragmatisti e di
tutti gli indirizzi filosofici indipendenti dall’idealismo
accademico.
«Non s’è ancor vista la verità a braccetto con un asso-
luto», osserva Nietzsche. La scienza fine a se stessa, la
verità incondizionata, la bellezza disinteressata, la mora-
le altruistica sono, per lui e per i suoi contemporanei,
finzioni. Quelle che noi chiamiamo verità, egli afferma77,

Storia dell’arte Einaudi 322


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

realmente non sono che una serie di inganni e menzo-


gne opportune, necessarie alla vita, di cui esaltano le
energie; e in sostanza anche il pragmatismo adotta que-
sto concetto attivistico e utilitaristico della verità. Vero
è quel che è efficace, conveniente, utile, quel che fa
buona prova e si fa «pagare», come dice William James.
Non si può immaginare teoria della conoscenza meglio
rispondente all’impressionismo. Ogni verità ha una pre-
cisa attualità; è valida solo in ben determinate situazio-
ni. Un’affermazione può essere vera in se, ma affatto
assurda in certe circostanze, perché priva di qualsiasi
riferimento. Se alla domanda: «Che età hai?» si rispon-
de: «La terra gira intorno al sole», queste parole, nono-
stante l’eventuale verità dell’asserzione, sono in questo
caso affatto inutili e assurde. La verità è un rapporto
indissolubile fra soggetto e oggetto, di cui i singoli com-
ponenti non si possono discernere e concepire come
autonomi. Noi mutiamo, e con noi muta il mondo obiet-
tivo. Ragguagli su avvenimenti naturali e storici, che
cent’anni fa possono esser stati veri, oggi non lo sono
piú, perché la verità è, come noi, in continuo moto, svi-
luppo, mutamento; è la somma di fenomeni sempre
nuovi, inaspettati, casuali, e non può mai considerarsi
conclusa. Tutto il pragmatismo deriva dalla mutevole
esperienza della realtà, che l’impressionismo aveva rea-
lizzato; nell’impressionismo infatti, cioè nella sfera del-
l’arte, i rapporti con la verità sono di fatto come quella
filosofia li afferma per l’esperienza in genere. Lo Shake-
speare del dottor Johnson, di Coleridge, di Hazlitt e di
Bradley non esiste piú: le opere del poeta non sono piú
quel che erano un tempo. Se le parole possono essere le
stesse, un’opera non è soltanto fatta di parole, ma anche
del loro significato, e questo muta da una generazione
all’altra.
Il pensiero impressionista trova la sua espressione
piú pura nella filosofia di Bergson, e proprio nell’inter-

Storia dell’arte Einaudi 323


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pretazione bergsoniana del tempo, cioè di quel medium


che è l’elemento vitale dell’impressionismo. L’unicità
dell’istante, che non è mai esistito prima e non si ripe-
terà mai piú, fu l’esperienza fondamentale dell’Otto-
cento, e tutto il romanzo naturalistico, specie quello di
Flaubert, non fu se non la rappresentazione e l’analisi
di tale esperienza. La visione flaubertiana si distingue
tuttavia da quella di Bergson soprattutto perché Flau-
bert vedeva ancora nel tempo un elemento di dissolu-
zione che distrugge la sostanza ideale della vita. Il muta-
mento nella nostra concezione del tempo e in fondo di
tutta la realtà sensibile si compí gradualmente, prima
nella pittura impressionistica, poi nella filosofia bergso-
niana, infine – nel modo piú esplicito e significativo –
nell’opera di Proust. Il tempo non è piú principio di dis-
soluzione e distruzione, l’elemento in cui le idee e gli
ideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la loro
sostanza, ma anzi è la forma in cui noi diventiamo
padroni e consci del nostro essere spirituale, della nostra
natura vivente, opposta alla morta materia e alla rigida
meccanica. Quel che noi siamo, lo diventiamo non solo
nel tempo, ma grazie al tempo. Non solo siamo la somma
dei singoli momenti della nostra vita, ma il prodotto dei
nuovi aspetti ch’essi acquistano ad ogni nuovo momen-
to. Non diventiamo piú poveri per il tempo passato e
«perduto»; solo esso anzi dà sostanza alla nostra vita. La
giustificazione della filosofia bergsoniana è il romanzo
di Proust; in esso per la prima volta si esplica piena-
mente la concezione bergsoniana del tempo. L’esisten-
za riceve vita, moto, colore, trasparenza ideale e conte-
nuto spirituale solo dalla prospettiva di un presente che
risulta dal nostro passato. Non c’è felicità fuor del ricor-
do, che risuscita, ravviva, conquista il tempo passato e
perduto; poiché i veri paradisi sono quelli perduti, come
dice Proust. Dall’età romantica in poi si era sempre
fatto carico all’arte di perdere la vita, e si era conside-

Storia dell’arte Einaudi 324


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rato il dire e l’avoir di Flaubert come una tragica alter-


nativa; Proust è il primo a scorgere nella contemplazio-
ne, nella memoria e nell’arte non solo una delle forme
possibili, ma l’unica in cui sia dato possedere la vita.
Veramente la nuova concezione del tempo nulla muta di
sostanziale nell’estetismo di quegli anni, solo gli confe-
risce un’apparenza piú confortante; ma null’altro che
un’apparenza, poiché in Proust il trasmutare dei valori
della vita non è che il conforto e l’illusione di un mala-
to, di un sepolto vivo.

1
andré bellessort, Les Intellectuels et l’avènement de la troisième
République, 1931, p. 24.
2
p. louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nos
jours, 3a ed., 1936, pp. 236-37.
3
a. bellessort, Les Intellectuels ecc. cit., p. 39
4
w. sombart, Der moderne Kapitalsmus cit., III, 1, 1927, pp. xii-xiii
5
p. louis, Histoire du socialisme ecc. cit., pp. 242, 216-17.
6
Cfr. henry ford, My Life and Work, 1922, p. 153.
7
w. sombart, Der moderne Kapitalismus cit., III, 2, pp. 603-7 - Die
deutsche Volkswirtschaft im 19. Jahrhundert cit., pp. 397-98.
8
Cfr. pierre francastel, L’Impressionisme, 1937, pp. 25-26, 80.
9
georg marzynsky, Die impressionistische Methode, in «Zeitschrift
für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», xiv, 1920.
10
georges rivière, Exposition des Impressionistes, in «L’impressio-
niste. Journal d’Art», 6 aprile 1877. Riprodotto in l. venturi, Les
Archives de l’Impressionisme, 1939, II, p. 309.
11
andré malraux, The Psychology of Art, in «Horizon», 1948, 103,
p. 55.
12
g. marzynsky, Die impressionistische Methode cit., p. 90.
13
Ibid., p. 91.
14
john rewald, The History of Impressionism, 1946, pp. 6-7 [trad.
it., Storia dell’impressionismo, Firenze 1949].
15
albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art en France, 1906,
p. 351.
16
e. e j. de goncourt, Journal, 1° maggio 1869, ed. cit., III, p. 221.
17
h. focillon, La Peinture aux XIXe et XXe siècles, 1928, p. 200.
18
paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 25.

Storia dell’arte Einaudi 325


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

19
charles seignobos, L’Évolution de la troisième République, in e.
lavisse, Histoire de la France contemporaine, VIII, 1921, pp. 54-55.
20
henry bérenger, L’Aristocratie intellectuelle, 1895, p. 3.
21
a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours,
1936, p. 430.
22
e. r. curtius, Maurice Barrès, 1921, p. 98.
23
jules huret, Enquête sur l’évolution littéraire, 1891, pp. xvi, xvii.
24
e. e j. de goncourt, Idées et sensations, 1866.
25
nietzsche, Menschliches Allzumenschliches, 155.
26
baudelaire, Richard Wagner et Tannhäuser à Paris, 1861.
27
id., La Peintre de la vie moderne, 1863, in L’Art romantique, ed.
Ernest Raynaud, 1931, p. 79.
28
villiers de l’isle-adam, Contes cruels, 1883, pp. 13 sgg.
29
emile tardieu, L’Ennui, 1903, pp. 81 sgg.
30
e. von sydow, Die Kultur der Dekadenz, 1921, p. 34.
31
peter quennel, Baudelaire and the Symbolists, 1929, p. 82.
32
max nordau, Entartung, 1896, 3a ed., II, p. 102.
33
baudelaire, Journaux intimes, ed. Ad. van Bever, 1920, p. 8
[trad. it., Giornali intimi, Torino 1942].
34
t. mann, Kollege Hitler. Das Tagebuch, a cura di Leopold Schwarz-
schild, 1939.
35
Cfr. rené dumesnil, L’Époque realiste et naturaliste, 1945, pp. 31
sgg. - ernest raynaud, Baudelaire et la religion du dandysme, 1918, pp.
13-14.
36
baudelaire, Œuvres posthumes, ed. J. Crépet, I, p 223 sgg.
37
anton Ωechov, Dom s mezoninom [trad. it., La villa del mezza-
nino, in Racconti, Torino, 1950, I, p. 419].
38
«Le Figaro», 18 settembre 1886.
39
a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 485.
40
Ibid., p. 489
41
j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 60.
42
Cfr. ernest raynaud , La Mêlée symboliste, 1920, II, p. 163.
43
john charpentier, Le Symbolisme, 1927, 62.
44
charles mauron, introduzione alle poesie di Mallarmé tradotte
da Roger Fry, 1936, p. 14.
45
georges duhamel, Les Poètes et la poésie, 1914, pp. 145-46.
46
Cfr. roger fry, An Early Introduction to Mallarmés Poems, 1936,
pp. 296, 302, 304-6.
47
henri bremond, La Poésie pure, 1926, pp. 16-20.
48
e. e j. de goncourt, Journal, 23 febbraio 1893, IX, p. 87.
49
j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 297.
50
Cfr. c. m. bowra, The Heritage of Symbolism, 1943, p. 10.
51
g. m. turnell, Mallarmé, in «Scrutiny», v, 1937, p. 432.
52
j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 23.

Storia dell’arte Einaudi 326


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

53
h. m. lynd, England in the Eighteen-Eighties, 1945, p. 17.
54
Ibid., p. 8.
53
bernhard fehr, Die englische Literatur des 19. und 20. Jahrhun-
derts, 1931, p. 322.
56
baudelaire, Le Peintre ecc. cit., pp. 73-74.
57
j.-p. sartre, Baudelaire, 1947, pp. 166-67.
58
baudelaire, Le Peintre ecc. cit., p. 50.
59
m. l. cazamian, Le Roman et les idées en Angleterre (1880-1900),
1935, p. 167.
60
f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, passim.
61
h. hatzfeld, Der französische Symbolismus, 1923, p. 140.
62
Cfr. d. s. mirsky, Modern Russian Literature, 1925, pp. 84-85.
63
janko lavrin, An Introduction to the Russian Novel, 1942, p. 134.
64
t. mann, Versuch über das Theater, in Rede und Antwort, 1916,
p. 55.
65
paul ernst, Ein Credo, 1912, I, p. 227.
66
id., Der Weg zur Form, 1928, 3a ed., pp. 42 sgg.
67
ibsen, Sämtliche Werke, X, 1904, p. 40, lettera del 12 settem-
bre 1865.
68
halvdan koht, The Life of Ibsen, 1931, p. 63.
69
m. c. bradbrook, Ibsen, 1946, pp. 34-35.
70
ibsen, Sämtliche Werke, X 169.
71
holbrook jackson, The Eighteen Nineties, 1939 (1913), p. 177.
72
Lettera a Mehring del 14 luglio 1893, in marx-engels, Corre-
spondance, 1934, pp. 511-12.
73
ernest jones, Rationalism in Everyday Life. Read at the First
International Psycho-Analytic Congress, 1908, in Papers on Psycho-Analy-
sis, 1913.
74
karl mannheim, Ideology and Utopia, 1936, pp. 61-62.
75
t. mann, Die Stellung Freuds in der modernen Geistesgeschichte, in
Die Forderung des Tages, pp. 201 sgg.
76
s. freud, Die Zukunft einer Illusion, in Gesammelte Werke, XIV,
1948, p. 377.
77
nietzsche, Werke, 1895 sgg. XVI, p. 19.

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