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La corte italiana del Quattrocento

di Sergio Bertelli

Storia dellarte Einaudi

Edizione di riferimento:

in La pittura in Italia, Il Quattrocento, vol. II, Electa, Milano 1986 e 1987

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La geografia delle corti italiane presenta alcune costanti, che incideranno profondamente nei costumi, nelle abitudini, nei modi di pensare degli Italiani sino alle soglie dellet contemporanea. Si tratta di permanenze feudali o signorili che trascendono il succedersi, sullo stesso territorio, di dinastie diverse. Cronologicamente, la pi antica di queste corti (a parte quella pontificia del Laterano), si situa, ai suoi inizi, in realt, fuori dal territorio peninsulare, al crocevia fra tre grandi culture: greca, latina e araba. la corte normanna di Palermo, splendida e raffinata sotto gli Svevi, da Federico II (1250) a suo figlio Manfredi (1266). La costante opposizione dei papi romani agli Hohenstaufen porter alla distruzione della loro potenza in Italia (battaglia di Benevento) e, con Carlo I dAngi, ad una pi stretta dipendenza feudale da Roma per il Regno di Napoli, ora staccato dalla Sicilia, che passa a sua volta agli Aragona di Spagna in seguito alla guerra del Vespro (1282-1302). Annessa direttamente alla corona dAragona da Ferdinando I (1412), Palermo avrebbe visto appannarsi la magnificenza della sua corte, entrando in un lungo periodo di faide comunali. Scadr al rango di viceregno, quando Alfonso il Magnanimo (1442-1458) riunificher i due regni, sotto la corona di rex utriusque Siciliae. Ma gi sotto gli Angioini Napoli era emersa come capitale di un regno, sia pure con una corte anco-

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ra di impronta medievale. Sar con Aragona che quella corte subir una profonda trasformazione, diventando un importantissimo modello di corte rinascimentale. Possiamo ugualmente individuare delle lunghe permanenze, delle secolari continuit territoriali, al Nord e al Centro. Si tratta di entit emerse da un mare di feudi, tra lXI e il XIII secolo. A Nord Ovest, dallo smembramento della Marca degli Aleramici, assume una sua propria configurazione, unindividualit rimasta intatta per ben settecento anni, il marchesato del Monferrato, sorto agli inizi dellanno Mille. Retto dalla dinastia dei Paleologi sino al loro estinguersi nel 1533, passer ai Gonzaga (1536/59) e scomparir come entit autonoma solo coi trattati di Utrecht e di Rastadt del 1713-1714. A Nord Est, nella marca Trevigiana, avanzano i da Romano, i San Bonifacio, i Camposampiero, i Caminesi, i da Este. Di tutti questi casati, saranno gli Estensi quelli che riusciranno a creare e a mantenere a lungo un proprio stato territoriale, da Ferrara (vicariato di Niccol III dal 1332) a Modena e Reggio e alla Garfagnana. Con alterne vicende raggiungeranno lapice della loro potenza con Borso (1471) e con Ercole (1493). Pi rapide le esperienze signorili di Verona, con gli Scaligeri, e di Padova, coi da Carrara, entrambi fagocitati dallespansione veneziana. Mentre una dinastia che riuscir a mantenersi a lungo, sino alla sua naturale estinzione, sui territori dominati, quella dei Gonzaga. Andati al potere nel 1328, dopo aver travolto i Bonacolsi, reggeranno sino al 1708 un territorio che dal 1433 diverr marchesato e dal 1530 un ducato. Sue appendici, rette da rami collaterali, andranno considerate le corti di Sabbioneta (la cui storia strettamente legata a Vespasiano Gonzaga, il suo rifondatore) e Guastalla. Il ducato di Guastalla ha una sua propria lunga storia: dominato tra il 1307 e il 1346 dai da Correggio,

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quindi dai Visconti (1347-1402), da questi ultimi eretto a contea nel 1428 e concesso in feudo a Guido Torelli. Passer nel 1539 ad un ramo collaterale dei Gonzaga (Ferdinando I e suo figlio Cesare), arrivando autonomo allestinzione della dinastia. Unesistenza di quasi quattro secoli e mezzo non pu non lasciare una qualche traccia distintiva nei suoi abitanti, anche se, per cultura, Guastalla risentir profondamente della vicinanza della corte mantovana. Chi perder una propria individualit, che veniva autonomamente delineandosi, saranno piuttosto Verona e Padova fagocitate allinterno di una pi ampia civilt veneziana, dalla quale subiranno una vera e propria acculturazione. Al contrario, in Padania, Ferrara e Mantova sapranno conservare una loro autonomia culturale (basti pensare alla scuola ferrarese, da Cosm Tura a Dosso Dossi). Entrambe poste in posizioni nevralgiche per le comunicazioni (prevalentemente fluviali) della Padania, le due corti avrebbero potuto pi facilmente subire influssi culturali esterni; si mantennero invece sostanzialmente individue. Semmai, ebbero un punto di contatto assai importante fra loro, grazie al rapporto matrimoniale tra Isabella dEste e Francesco Gonzaga. Note e drammatiche sono le vicende del ducato milanese, visconteo prima, sforzesco poi, annientato dallinvasione francese del 1500-1501, fugacemente risorto tra il 1526 e il 1535. Rimasto sostanzialmente intatto nei suoi confini, anche e nonostante le alterne spartizioni ereditarie subte periodicamente sotto i Visconti, Milano aveva tuttavia fatto a tempo a dare unimpronta al proprio territorio, che, al contrario dei casi di Verona e di Padova, sarebbe risultata indelebile e che si sarebbe conservata anche sotto la dominazione spagnola, di Carlo V e di Filippo II, che non modific i confini esterni del suo territorio.

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Al di sotto del Po, altri piccoli stati presentano, fra Tre e Quattrocento, unaltrettanto eccezionale vitalit. Tra Parma e Piacenza assumono una propria struttura statuale i feudi dei Rossi, dei Landi, dei Pallavicino. Si tratta duna presenza costante di enclaves feudali, che le pressioni espansionistico-accentratrici del ducato milanese (distruzione della potenza dei Rossi nel 1482) e il sorgere del ducato farnesiano a met Cinquecento poterono solo in parte ridimensionare. Una pi breve storia di signorie presentano le Romagne: i Manfredi dominano su Faenza, da Astorgio I (1377) a Galeotto (1488); i Malatesta su Rimini e Pesaro, da Malatesta II (1312) a Sigismondo Pandolfo, alla trasformazione dellultimo signore, Pandolfo V, in patrizio veneziano (1503). Si tratta di esperienze marginali, provinciali, sulle quali la meteora di Pandolfo Sigismondo (1422-1468) e della sua committenza umanistica non riusc ad incidere. Soprattutto perch il personale al quale il principe si affid per il suo programma urbanistico (dal castello al tempio) fu tutto dimportazione. Altrettanto effimera la dominazione dei Bentivoglio su Bologna, da Sante a Giovanni (1460-1506). Ma al contrario di Rimini, in cos breve arco di tempo il loro mecenatismo fu talmente grande e limpresa della costruzione della loro reggia cos cospicua, da attivare in loco una schiera di artisti, che lascer un segno nella scultura e nella pittura bolognesi del tempo. scendendo verso il Centro che troviamo di nuovo lunghe continuit di dominio. In Lunigiana i Malaspina, dominanti dal XII secolo le alte valli appenniniche fra il passo dei Giovi e la Garfagnana, pur divisi dal 1221 nei due rami dello Spino secco e dello Spino fiorito, riescono ad insignorirsi di Sarzana nel 1334 e a creare il marchesato di Fosdinovo. Bench sottoposti alle continue pressioni genovesi e fiorentine, riusciranno a giungere indipendenti sino alla rivoluzione francese e oltre il con-

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gresso di Vienna. Il loro rester, per, un caso di anacronismo politico. Reggeranno il proprio stato con criteri feudali, anche in uninoltrata et moderna. Saltato il mare comunale toscano, unaltra costante presenza feudale dato rilevare in Maremma. La storia degli Aldobrandeschi inizia nel 1200 ed tutta intessuta di scontri col Comune di Siena che, tra il 1334 e il 1335, riesce ad impossessarsi della signoria di Grosseto. Una data che segna un severo ridimensionamento della loro potenza. Nella seconda met del Trecento i discendenti di Ildebrandino di Bonifazio iniziano una serie di vendite: Sassoforte, Casteldelpiano, Arcidosso, Badia San Salvatore, Magliano, Scansano. Le ultime roccaforti, Sovana, Samprugnano, Saturnia, Montauto vengono espugnate dai Senesi nel 1410. Quando, nel 1438, scomparir anche lultimo dei conti, Guido, le sue tre figlie verranno fatte sposare dalla repubblica di Siena ad Attendolo Sforza, al conte Galeazzo dArco e a un patrizio senese, Bartolomeo di Tommaso Pecci, in modo da disperdere definitivamente la casata. Leredit aldobrandesca per raccolta e perpetuata per un altro secolo ancora, nella contea degli Orsini di Pitigliano, imparentati sin dal 1293 cogli Aldobrandeschi. Si tratta di una enclave feudale che scomparir solo nel 1577, inglobata dal granducato mediceo. Ma gli Orsini, che si vantano di discendere per sangue paterno da Licaone re di Arcadia et per materno da Alceste troiano (Sansovino), al tempo della scomparsa di Guido Aldobrandeschi avevano gi esteso i loro dominii feudali sul Lazio settentrionale, col possesso di Bracciano, a loro concesso in vicariato da Martino V nel 1419. Il loro stato, sia pure privo di continuit territoriale, davvero ragguardevole: dalle contee di Tagliacozzo, Alba e Carsoli in Abruzzo, scende attraverso il territorio di Subiaco sino al mare, a Palo, attraversando tutta la Sabina e controllando cos le vie di accesso

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a Roma. con Napoleone Orsini che si forma a Bracciano la loro corte, con la trasformazione nel 1470 della vecchia rocca dei prefetti di Vico nellimponente castello che ancora oggi domina il lago. Il frazionamento territoriale e i molti rami nei quali il casato orsino si divise, prendendo nome dai feudi posseduti, imped la formazione di quello che sarebbe altrimenti stato un potente stato territoriale centro-meridionale, e gli Orsini non riuscirono a dare una fisionomia unitaria per stile, per cultura, per costumi ai territori loro sottomessi. Lo stesso va detto per i loro irriducibili avversari, i Colonna. Patrizi romani, discendenti dai conti di Tuscolo, nel XIII secolo erano fortificati in Roma nel Mausoleo di Augusto e su Monte Citorio, possedevano Palestrina, Capranica e Zagarolo. Lelezione alla cattedra di Pietro di uno di loro (Oddone, che prese il nome di Martino V) e le buone relazioni del papa con la regina Giovanna di Napoli, ampliarono i loro possedimenti, sia nel Lazio meridionale che nel Regno dove, con Marcantonio del ramo di Paliano (1584) ottennero la carica ereditaria di Gran Connestabile. Ridotti per nella loro potenza territoriale nei Castelli romani dagli assalti di Cesare Borgia (1500/1501), non riuscirono mai a darsi un proprio assetto statuale. Laddove Orsini e Colonna fallirono, riusc invece, sempre nellItalia centrale, una famiglia discesa dai conti di Carpegna e che dal possesso di San Leo (lantica Mons Feretri) prese il nome di Montefeltro. Buonconte otteneva infatti dallimperatore Federico II Urbino e il titolo di conte di Montefeltro nel 1213 (anche se, materialmente, prese possesso di Urbino solo nel 1234); nel 1388 Antonio aggiungeva ai vecchi feudi Gubbio e nel 1393 Cantiano; Oddantonio, nel 1443, otteneva il titolo ducale. Si rinsaldava, in tal modo, una struttura statale che sarebbe andata oltre i destini terreni del casato. Lultimo dei Montefeltro, Guidobaldo, privo di

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eredi, adott il nipote Francesco Maria della Rovere (1504), salvando in tal modo lindividualit del ducato. Un ducato che al pari degli stati estense e gonzaghesco seppe indubbiamente esprimere una propria cultura e divenire, sul declinare del Quattrocento, modello di vita, di stile, di etichetta. Un discorso a parte va riservato alla corte romana, insediata nei palazzi Lateranensi sino al Grande scisma e alla cattivit avignonese, trasportata nei nuovi palazzi Vaticani in pi momenti successivi, tra il 1445 (rifacimento del palazzo di Niccol III da parte di Niccol V) e il 1484/92 (demolizione e ricostruzione della cappella magna da parte di Sisto IV, costruzione del Belvedere da parte di Innocenzo VIII). Di modello bizantino nel periodo lateranense, la corte subisce una profonda trasformazione lungo il Quattrocento, divenendo uno dei pi importanti poli culturali ed artistici della Penisola. Territorialmente, in questa et, il suo governo non si estende di molto oltre quello che veniva chiamato il territorio di San Pietro (grosso modo il Lazio settentrionale), anche se rivendica la propria sovranit feudale su buona parte dellItalia centro-meridionale. Esula da questo quadro e meriterebbe un discorso a parte il ducato sabaudo, sorto come feudo borgognone con Umberto Biancamano (1048). infatti solo con lacquisto della contea di Asti, nella prima met del Cinquecento, che possiamo cominciare a considerare quel ducato in un contesto peninsulare. E anche allora la corte sabauda pur dopo il suo trasferimento da Chambry a Torino con Emanuele Filiberto (1580) rest essenzialmente, per cultura e per tradizioni, francese. Voler tracciare uno sviluppo unitario e sincronico per la storia delle molteplici corti italiane sarebbe impossibile. Non solo la loro evoluzione fortemente diacro-

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nica, ma anche in un periodo abbastanza compatto per sviluppo culturale met Trecento, Quattrocento il modo di darsi, ciascuna di esse, una residenza (che poi il luogo del governo, degli uffici amministrativi e giudiziari), denuncia differenti culture urbanistiche. Queste si riallacciano, fondamentalmente, a due modelli pi antichi e tra loro assai distanti, reinterpretati secondo i nuovi modi di sentire architettonici e le mutate esigenze abitative. Questi modelli sono: la residenza/fortezza (trasposizione urbana del castello feudale), non a caso posta a ridosso della cinta muraria; e la reggia, intesa come un palazzo monumento, isolato nel tessuto urbano o, meglio, come un complesso di edifici (una citt sacra ispirata a Bisanzio e al Laterano), separati dal mondo urbano su cui la corte esercita il proprio dominio. Da una parte, dunque, un possente edificio turrito e merlato, come cubiculum del dominus e accasermamento della sua guardia, con un coinvolgimento della citt nella committenza per lapprovvigionamento della corte, grande motrice di attivit economiche, non soltanto voluttuarie. Gli stessi funzionari, cortigiani e servitori abitano in maggioranza fuori dal castello, dove si recano solo per espletare le loro funzioni diurne. Dallaltra parte un palazzo o un sistema di palazzi (talvolta tra loro collegati da passaggi aerei, da cortili interni, da percorsi riservati), nei quali, oltre allappartamento del signore, sono allestite le residenze dei funzionari, dei cortigiani e dei servitori, ai quali per raramente consentito avere presso di s la propria famiglia. Questo tipo di corte in genere autonomo, avendo al suo interno tutte le attivit e le botteghe artigianali necessarie alla propria vita. Rispondono al primo modello Ferrara (1385); Mantova (1395-1406); Rimini (1437-1446); Napoli

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(1444-1448); Urbino (1447-1465); Milano (1454-1468); Bracciano (1470-1480). Rispondono al secondo modello Padova (1338, 1343-1347, 1370); Foligno (1386-1406); Pesaro (1465-1466); Bologna (1460-1491); Citt di Castello (1487-1495). Si situano a met, tra luno e laltro modello, Pavia (1348, 1391, 1415), per la sua ragguardevole estensione, e Vigevano dopo la sua ultima ristrutturazione (1492), non solo per lestensione e il collegamento del castello con lantica rocca, ma anche per il coinvolgimento totale del borgo nel progetto abitativo della corte di Lodovico il Moro. Subir una trasformazione, accettando il modello del recinto sacro, su esempio patavino della reggia carrarese, Mantova; ma bisogna dire che anche gli Estensi, in un certo senso, erano andati nella direzione della reggia come complesso di edifici, collegando con un ponte la nuova residenza fortificata agli antichi palazzi comunali. Anche quando il castello si trasformava, per successivi ampliamenti, in reggia, sintomatico come si potessero avere stili di vita davvero distanti, tra corte e corte. Dagli inventari del castello di Ferrara, del tempo di Lionello e di Borso, appare evidente come nella reggia vi fossero spazi privati, assegnati ai pi importanti di grado o ai pi vecchi cortigiani; per lo stesso periodo, nel castello di Porta Giovia, che aveva ormai raggiunto una notevole dimensione, gli spazi del gineceo erano talmente ridotti, da impedire le pi intime attivit (una donzella della duchessa, Teodora Angelini, scriveva a Isabella dEste, nel gennaio 1493: Per mia maledetta sagura sono confinata a starmene quasi tutto il giorno a quelle malenconiche stantie de la Illustrissima duchessa, che a me pare essere a casa del gran diavolo. Poi la sera se radunamo dove me predisse Vostra Signoria, in certe stantie in Rocheta, che hanno date a Madonna Anna, dove non se potemo devoltare in far li bisogni nostri, che ognuno non mi veda).

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Tante e multiformi soluzioni alle esigenze abitative duna corte, non rispondevano solo al gusto del signore, (talvolta condizionato da edifici preesistenti, che occorreva ristrutturare), ma erano dettate anche da un diverso modo di porsi nei confronti dei sudditi, da un diverso emergere sulla citt dominata. Del resto, difformi erano anche le fonti dalle quali i signori italiani traevano la propria autenticazione. Vassalli dellImpero erano i Visconti per Milano (infeudati come vicari imperiali dal 1294, titolo ducale nel 1395), i Gonzaga per Mantova (1433) e Sabbioneta; vassalli a loro volta del duca di Milano erano i Torelli per la contea di Guastalla (1428), mentre i Paleologi del Monferrato erano legati da vincoli dinastici allImpero dOriente; vassalli imperiali per Modena e Reggio (1452) erano gli Estensi, che dipendevano invece da Roma per il possesso di Ferrara (vicariato dal 1332, erezione a ducato nel 1471); vassalli imperiali erano i conti di Montefeltro per il loro feudo e per Urbino, ma sottostavano alla Chiesa per Cagli (1371) e per Gubbio (1384) e il loro stato, eretto in ducato nel 1443, avrebbe conosciuto un ultimo ampliamento coi Della Rovere, con la concessione in feudo, sempre da parte della Chiesa, di Sinigaglia, Pesaro e Gradara (1513). Del papa erano vassalli i signori delle Romagne e i re di Napoli. Privi infine di qualsiasi titolo i Bentivoglio (se non quello di capo del Reggimento, concesso a Giovanni II, con riconoscimento ereditario della carica solo nel 1473). La stessa ascesa al potere tra loro difforme. Le alterne vicende napoletane fanno rientrare il possesso di quel Reame nel diritto di conquista, seguito dal riconoscimento di vassallaggio nei confronti di Roma; ma per molti altri signori del centro-nord, la loro legittimazione duplice: essi traggono la propria fonte dautorit dallacclamatio popolare e dalla successiva inve-

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stitura feudale. Di qui un interrogarsi continuo sulla legittimit del loro potere, un discutere sui confini tra signore e tiranno. Allorigine popolare della signoria aveva certamente guardato Tommaso dAquino, quando aveva definito il tiranno in rapporto al bonum communi; altrettanto aveva fatto Bartolo da Sassoferrato (1313-1357), esaltando il momento dellacclamatio quale fonte di autorit. Sul finire del Trecento, anche Coluccio Salutati si pose il problema, tracciando efficacemente il meccanismo dellinsorgere delle signorie cittadine: E poich negli stati intimamente discordi e turbati dalla frequenza delle lotte interne e civili e di quotidiani contrasti, avviene assai spesso che, al fine di por termine alla discordia o per stanchezza dei mali presenti, si elegga un signore, o che talora, tumultuando il popolo, qualcuno venga, senza deliberazione o scelta, inalzato a principe, o che, infine, venute le fazioni alle armi, si deferisca per volont della fazione prevalente a un solo individuo la somma del governo, potr forse chiedersi da qualcuno se il potere per tal via o in tal modo acquisito sia da ritenersi fondato su un titolo legittimo. Al quale proposito dir che, ove si tratti di un popolo che, non avendo o non riconoscendo volont superiore alla propria, sia signore di s stesso, sar senzaltro da starsi a ci che la maggioranza del popolo avr deciso. E legittimo sar senza dubbio il governo, se in un popolo soggetto alla sovranit di un principe, alla decisione popolare seguir la conferma per parte di questo. Per i signori italiani, la necessit di una duplice legittimazione (acclamatio e confirmatio) li poneva in una condizione di inferiorit, rispetto ai principati dOltrAlpe. Per tutti, fondamentale, lassenza di unzione, che sola ne poteva fare dei christomimtes. Di qui il tentativo di Martino Garati, un giurista lodigiano che dedi-

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ca il suo Tractatus de principatibus a Filippo Maria Visconti, di conferire sacralit anche ai principi italiani inviati sulla terra dal Sommo Iddio, a premiare i buoni e a castigare i malvagi. Garati anche il primo a teorizzare in ambiente visconteo lindissolubilit territoriale dello Stato: il regno qualcosa di indivisibile, anticipando di un secolo la tesi dei giuristi elisabettiani, sul doppio corpo regale: un corpo politico (Body politic), immortale, contrapposto al corpo fisico (Body natural), mortale. In unet in cui era molto forte la venerazione per la sacralit del principe, loriginaria acclamatio, che stava alla base di moltissime dinastie italiane, doveva essere sentita come una diminuzione di potestas. Di qui la ricerca di una legittimazione dinastica precedente quellatto popolare, il riallaccio ideale del principe e della sua stirpe con un passato mitologico, capace di staccare la dinastia dalle sue vere origini vassallatiche e/o comunali. Cos i genealogisti estensi facevano risalire quella prosapia alla diaspora troiana, ad Antenore e ad Aceste; cos Durante Dorio faceva discendere i Trinci da Anchetros, mitico re di Dardania, fondatore di Trevi; pi complicata ancora lorigine degli Orsini, discesi da Calisto, figliola di Licaone re di Arcadia e nipote di Aceste troiano, tramutata dagli dei in orsa; meno fantasiosi invece i Vitelli, signori di Citt di Castello, che reclamavano come loro capostipite limperatore romano Vitellio; e pi modesti ancora i Baglioni, signori di Perugia, che riconoscevano come loro antenato Ballius, generale di Graziano. Ma vi era anche unaltra possibilit di anoblissement: quella di riallacciarsi idealmente agli uomini grandi del passato, magari affiancandoli ai ritratti dei propri antenati. Lesempio era venuto da Napoli, da Castel Nuovo, dove Giotto, ad istanza di Roberto dAngi (un conquistatore), aveva dipinto nella cappella palatina un ciclo

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di uomini famosi, in un sincretismo religioso che univa mondo pagano e mondo biblico. Vi erano rappresentati Alessandro, Salomone, Ettore, Enea, Achille, Paride, Ercole, Sansone e Cesare. Con loro le loro donne: Rossana, la regina di Saba, Andromaca, Didone, Polissena, Elena, Deianira (o Jole oppure Onfale), Dalila, Cleopatra. Il ciclo precede di almeno tre anni il progetto petrarchesco del De viris illustribus (1337) e dovette essere di esempio per tutti i successivi cicli di uomini famosi. Da Galvano Fiamma sappiamo che un ciclo simile era stato fatto dipingere da Azzone Visconti nel suo palazzo milanese nel 1339, troppo presto, dunque, per ipotizzare un influsso da Petrarca. Questo invece presente e dichiarato nella reggia che i da Carrara costruiscono a Padova a met Trecento, autentica isola separata dalla citt, su modello bizantino e romano. Sono essi a compiere un ulteriore passo avanti, affiancando al ciclo degli uomini famosi i ritratti dei propri antenati. Subito imitati da Can Signorio della Scala, che attorno al 1364 commissiona ad Altichiero, per la sala grande del suo nuovo palazzo, un ciclo sulla conquista romana della Palestina, spartendo nelle facce di quella sala da ogni banda una storia con un ornamento solo che la ricigne attorno attorno. Nel quale ornamento pose dalla parte di sopra, quasi per finire, un partimento di medaglie, nelle quali si crede che siano ritratti di naturale molti uomini segnalati di que tempi, et in particolare molti di quei Signori della Scala (Vasari). Un altro ciclo di uomini famosi (con cartigli sintomaticamente attribuiti al Petrarca dal panegirista Durante Dorio, ma in realt dettati dal vescovo Federico Frizzi) compare in una sala del palazzo di Ugolino Trinci, signore di Foligno (post 1386). Qui sono raffigurati Carlomagno, Art, Goffredo di Buglione, Cincinnato, Fabrizio, Torquato, Publio Decio, Tiberio, Marco Marcello, Scipione. Un simile ciclo comparira pi tardi, tra il 1435 e il 1440, nel castello della

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Manta, in un sincretismo religioso che mira ad accomunare le tre principali religioni: lebraica, la pagana e quella cristiana. Un maestro prossimo a Giacomo Jaquerio vi dipinge infatti David, Giuda Maccabeo e Giosu, accanto a Ettore, Alessandro, Cesare per i gentili, Carlomagno, Art, Goffredo di Buglione per i cristiani. Con loro nove eroine: Delfila vincitrice di Tebe, Semiramide regina degli Assiri, Sinope, Ippolita regina delle Amazzoni, Etiope, Lampeto, Tamiramide, Tenca, Pantesilea. Giacomo Jaquerio aveva gi compiuto una prova simile nel castello di Fenis (1431-1433), ma con pi complesse funzioni iniziatiche e di viatico per il visitatore, condotto attraverso un percorso elicoidale, controllato dallalto da maschere apotropaiche, sino al cortile interno del castello, dove unideale salita del purgatorio portava allincontro coi saggi, che introducevano a loro volta lospite/pellegrino, attraverso una porta magica, nella grande sala dalla finestra crucifera, alle cui pareti erano affrescati messaggi sacri. Tra il 1470 e il 1480 la volta del castello di Bracciano, edificato sopra la medievale rocca dei prefetti di Vico, prendendo a modello stilistico il napoletano Castel Nuovo. Qui Antoniazzo dipinge, nella sala superiore davanti allappartamento dei principi, un fregio con quadri e medaglioni in cui rappresenta, a chiaroscuro su fondo nero, i sovrani dellantichit: Cesare, Alessandro Magno, Maccabeo, David, Art. A Bracciano laccostamento con gli antenati non immediato, ma ugualmente presente: nella sala sottostante, pendono infatti dalle pareti 151 ritratti di casa Orsini. Le false genealogie, mirate a scavalcare le origini feudali del casato, e i cicli degli uomini illustri nelle sale dudienza, volti a ricordare lascendenza ideale del principe, erano solo surrogati di una sacralit che, non posse-

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duta, non poteva venire pubblicamente espressa, ma solo allusa. Persino Cola di Rienzo, tribuno romano e cavaliere dello Spirito santo, era giunto ad attribuirsi unascendenza illegittima, pretendendo dessere figlio naturale dellimperatore, pur di dare una parvenza sacrale al suo comando. Unaltra strada, per riallacciarsi alla figura del divus imperator, era stata indicata da Castruccio Castracani, che nel 1326 era entrato in Lucca su un carro trionfale, facendosi precedere dai prigioni, come in un vero adventus romano. Cos come per il ciclo giottesco degli uomini illustri, sarebbe stato per Francesco Petrarca a diffondere daccapo il modello, questa volta coi suoi Triumphi (dAmore, di Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo, dellEternit), stesi tra il 1356/1360 e il 1374 e subito miniati in innumerevoli codici. Particolarit delliconografia dei Trionfi petrarcheschi quella di presentare un carro, anzich il pi diffuso modello della biga, con due sole possibili ascendenze: i trionfi dei bassorilievi dellarco di Costantino in Roma e dellarco di Galerio a Salonicco, e il Carroccio comunale. Fu probabilmente da questa iconografia che Alfonso il Magnanimo trasse ispirazione (con la sua corte di umanisti), per il trionfo del 26 febbraio 1443. Si deve proprio a quegli intellettuali e ai loro scritti, se il modello sacrale delladventus fu subito diffuso in ambiente cortese italiano. Il Porcelio (Giannantonio de Pandoni) scrisse un Triumphus regis Aragoniae devicta Neapoli; il Panormita (Antonio Beccadelli), un De dictis et defactis Alphonsi regis; Bartolomeo Facio un De rebus gestis ab Alphonsi primi Neapolitanorum rege commentarium, tutti insistendo sul trionfo come momento di legittimazione regia. E del Panormita la migliore descrizione/spiegazione dei vari momenti di questa cerimonia, che vide il re dAragona protagonista in prima persona, assiso su un carro coperto dal baldacchino (simbolo della volta cele-

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ste) e avendo di fronte a s, ai suoi piedi, una fiamma, scelta come propria divisa (il Siti perillos o Sitio pericoloso si rifaceva al romanzo cavalleresco di re Art. Alla tavola dei suoi cavalieri era rimasto sempre un posto vuoto, perch il mago Merlino aveva predetto che chiunque vi si fosse seduto sarebbe stato divorato da una fiamma, ad eccezione di un solo eroe. Quando alla corte di Art si present Don Galaz, sollevato il panno che ricopriva il seggio, apparve la scritta Esto es el asiento de Galaz, riconoscendo in lui leroe pronosticato da Merlino. La scelta di questa divisa paragonava perci Alfonso al cavaliere Galaz e fu affiancata dal motto: In dextera tua salus mea, Domine). Prima di salire sul carro, il re aveva creato alcuni cavalieri, ancor pi sottolineando limmagine di s che intendeva offrire; si era quindi spogliato e rivestito (un rito di ingresso proprio di ogni iniziazione sacrale) con una roba larga di velluto cremisi foderata di martora calabrese. Aveva per rifiutato la corona dalloro che gli era stata offerta, credo spiega il Panormita pro singulari animi ejus modestia ac religione, Deo potius coronam deberi, dejudicans, quam cuipiam mortali. Attorno al carro, coi volti coperti da maschere, un gruppo di soldati catalani mimava una rivolta (simul rissantes li dice un altro testimone oculare), con riferimento alla violenza rituale connessa allinterregno (Alfonso non sarebbe stato infatti re sacrato, se non dopo la cerimonia religiosa in duomo). Altri carri seguivano quello del re, con figuranti nelle vesti di Cesare, delle virt cardinali; baroni del Reame, ambasciatori e lesercito chiudevano il corteo trionfale. Se lepisodio di Castruccio era rimasto un esempio dellantico, privo di valenze sacrali, per i principi italiani del Quattrocento questo ingresso di un re conquistatore nel suo nuovo regno sarebbe divenuto centrale nel problema, esistenziale, della loro sacralit,

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Dieci anni dopo lingresso di Alfonso il Magnanimo, unaltra citt, Milano, si apprestava ad accogliere il suo conquistatore. Come scrivono Bernardino Corio e il Simonetta, il 25 marzo 1453 i Milanesi havevono eletti li principali della citt che ricevessino il duca. Et acci che lentrata fussi pi honorata, havevano preparato un carro trionfale, con baldacchino di drappo doro bianco. Et cos gran moltitudine aspettavano i Principi dinanzi alla porta. Ma Francesco Sforza per sua modestia ricus il carro et lo baldacchino, dicendo queste cose essere superstitiose de Re et de gran Prencipi. Il perch entrando, and al sacro et massimo tempio di Maria Vergine, et ferm innanzi alle porte, si vest di drappo biancho insino a pi. La quale veste era di consuetudine che se vestissino i Duchi quando pigliavano la signoria. Il condottiero figlio dun uomo darme (Attendolo), sente dunque che avrebbe commesso un sacrilegio, se fosse montato sul carro ricoperto dal baldacchino, non essendo n re n gran principe. Compie tuttavia un gesto che lo rende, lui pure, in un qualche modo, sacro: la svestizione/vestizione prima dellingresso in duomo. In quello stesso anno, chi non aveva timore di salire sul carro, per celebrare la presa di possesso duna nuova citt, Reggio, era Borso dEste, ricevuto dalla statua del patrono, san Prospero (un gesto del quale, per, non resta iconografia, dal momento che i trionfi di Schifanoia sono daccapo quelli petrarcheschi). Che lesempio si diffondesse rapidamente provato dal dono che nel 1457 il re dUngheria faceva a Carlo VII di Francia, di un chariot branlant et moulte riche, che alla sua morte, nel 1461, sarebbe stato usato per il trionfo delleffige regale, nellentre a Parigi. Si direbbe che il carro avesse un riferimento immediato agli attributi divini del conquistatore. Lo si pu dedurre dal fatto che quando il pontefice Giulio II rien-

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tr a Roma dalla spedizione militare del 1507, sal anchegli su un carro, celebrando il proprio trionfo in forma solenne; e che due anni dopo, quando il re di Francia, Luigi XII, entr in Cremona, appena conquistata ai Veneziani, i suoi abitanti lo ricevettero selon lancienne coustume des Romains. Ancora su un carro sembra salisse (almeno tale la tradizione iconografica tramandataci) limperatore Carlo V, circondato da figuranti nelle vesti degli antenati, al suo ingresso a Gand. comunque certo che, per tutto il Quattrocento e il primo Cinquecento, il problema del trionfo divenne cos importante, quasi ossessivo, da coinvolgere tutte le corti. Chi non pot avere un proprio trionfo, lo volle almeno raffigurato. Agostino di Duccio, nel 1454, scolpiva il trionfo di Scipione per larca degli antenati di Sigismondo Pandolfo Malatesta; nel 1457/1459 Biondo Flavio stendeva la Roma triumphans; attorno al 1472 Piero della Francesca dipingeva il trionfo di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza; tra il 1474 e il 1478 Mantegna, su sollecitazione di Lodovico Gonzaga, incideva la serie del trionfo romano; nel 1499 un trionfo compariva nelle illustrazioni della Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna... A sua volta anche il baldacchino assumeva un significato sacrale e poteva essere usato solo in particolari contesti e circostanze. Alludendo alla volta celeste, esso spettava soltanto a chi avesse diritto al riconoscimento del titolo di divus. Il Quattrocento conosce infatti un altro tipo di adventus, senza carro, ma a cavallo sotto un baldacchino. Questa seconda cerimonia ripeteva, in sostanza, quella, molto pi antica, dellincoronazione pontificia e della successiva cavalcata di possesso della diocesi romana (in quelloccasione, il popolo romano assaliva il corteo pontificio, si impadroniva del baldacchino e, facendolo a pezzi, lo trasformava in innumeri reliquie). Questo tipo di adventus sareb-

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be stato usato per lincoronazione di Alfonso II di Napoli, e sarebbe divenuto abbastanza comune per tutte le entrate del secolo successivo. Il trend iniziato a met Quattrocento dai principi italiani, per la loro affermazione in quanto divi, fu interrotto dalle guerre dItalia, seguite alla calata di Carlo VIII (un re che fece anchegli il suo ingresso in Napoli, sotto un baldacchino). Lultima, grande sfilata dincoronazione si situa, non a caso, alluscita da quel periodo: quella del 1530, quando cavalcarono assieme a Bologna, sotto un unico baldacchino, il pontefice e limperatore. Ma a quella data, i principi italiani non travolti dal terremoto politico, potevano solo sperare di mantenere i loro possessi, senza pi ambire a riconoscimenti nella sfera del sacro.

Nota bibliografica Per un quadro di riferimento generale alla corte si veda: A.G. Dickens ed., The Courts of Europe. Politics, Patronage and Royalty, 1400-1800, London 1977; S. Bertelli, F. Carini, E. Garbero Zorzi, Le corti del Rinascimento, Milano 1985 (trad. ingl. London, 1986); Patronage and Public in the Trecento, Proceedings of the Saint Lambrechk Symposium, V. Moneta ed., Firenze 1986; nonch i numerosi volumi pubblicati nella collana Europa delle corti, delleditore romano Bulzoni. Sul cerimoniale di corte si veda A. Pertusi, Quedam regalia insignia: ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il medioevo, in Studi veneziani, 7, 1965, pp. 3-123; R. Elze, I segni del potere ed altre fonti dellideologia politica del medioevo, in Atti del Congresso Int. Fonti medievali e problematica storiografica, 1977; M. Dykmans, Loeuvre de Patrizi Picco-

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lomini ou le Crmonial papal de la premire Renaissance, Citt del Vaticano 1980 (Studi e testi 293). Sul doppio corpo regale: E. Kantorowicz, The Kings Two Bodies, Princeton NJ 1957 (rist. 1966). Sullacclamatio: E. Kantorowicz, Laudes Regiae, Univ. of California Press 1947 (rist. 1958). Sui cicli di uomini illustri: G. De Blasiis, Immagini di uomini famosi, in Napoli nobilissima, IX, 1900; P. DAncona, Gli affreschi del castello di Manta nel Saluzzese, in LArte, VIII, 1905; M. Salmi, Gli affreschi del palazzo Trinci a Foligno, in Bollettino darte, XIII, 1919; A. Messina, Documenti per la storia del palazzo Trinci di Foligno, in Rivista darte, XXIV, II, 1942; A. Griseri, Percorso di Giacomo Jaquerio, in Paragone 11, 129, 1960; A. Griseri, Jaquerio e il realismo gotico in Piemonte, Torino 1966; H. Buchthal, Historia troiana: studies in the history of medieval secular illustration, in Studies of the Warburg Institut, 32, London 1971; C.L. JoostGaugier, A rediscovered series of Uomini famosi from Quattrocento Venice, in Art Bulletin, LVIII, 1976; M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed exemplum. I primi cicli umanistici di uomini famosi, in Memoria dellantico nellarte italiana (Storia dellarte italiana), Torino 1985. Sul trionfo: E. Kantorowicz, The Kings Advent and the Enigmatica Panels in the Doors of Santa Sabina, in The Art Bulletin, XXVI, 1944 (rist. in Selected Studies, Locust Valley 1965); B. Mitchell, Italian Civic Pageantry in the High Renaissance, Firenze 1979; A. Pinelli, Feste e trionfi: continuit e metamorfosi di un tema, in Memoria dellantico nellarte italiana, Torino 1985; B. Mitchell, The Majesty of the State. Triumphal Progressis of Foreign Sovereigns in Renaissance Italy (1494-1600), Firenze 1986; L.M. Bryant, La crmonie de lentre Paris au Moyen Age, in Annales E.S.C., XLI, 1986.

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Per i possessi pontifici, la migliore fonte da consultare rimane F. Cancellieri, Storia de solenni possessi de sommi pontefici detti anticamente processi o processioni, dopo la loro coronazione dalla basilica Vaticana alla Lateranense, Roma 1802.

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