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Lassoluto della prosa.

Conversazione con Gianni Celati


A cura di Andrea Cortellessa

Andrea Cortellessa: In una tua precedente conversazione con Silvana Tamiozzo-Goldman, hai insistito sulla differenza sostanziale tra novella tradizionale intesa come unit narrativa breve nella tradizione compresa fra il Novellino e il Cinquecento neoboccacciano e racconto moderno inteso, stavolta, come attitudine narrativa di impianto psicologico e/o sociale, codificata in epoca naturalistica e poi perseguita con continuit sino ai giorni nostri. Gianni Celati: Nella conversazione con Silvana TamiozzoGoldman cercavo di dire come questa narrativa naturalistica di ristagno (ad esempio quella di Moravia) sia fatta di procedimenti standardizzati per catturare a freddo il lettore, e in sostanza tenda ad amministrare i pensieri di chi legge. Se leggendo un romanzo il lettore ricava lidea di capire la realt, e la portata di certi problemi da risolvere, vuol dire che stato sedotto con la carota dei fatti sociali o della psicologia; cos dopo crede davvero di saperne sul mondo pi degli altri animali umani, e diventa anche presuntuoso.

A. C.: Nella maniera narrativa inaugurata da Narratori delle pianure e giunta sino allultimo Cinema naturale hai inteso ricreare il senso di vaghezza, di sospensione, di un narrare assoluto appunto come quello degli antichi novellisti (il cui spirito hai ritrovato anche in scrittori moderni ma in qualche misura laterali: come lo Stendhal della Chartreuse, certo Hawthorne e certo Poe, ma anche un tuo conterraneo come Antonio Delfini). G. C.: Conterraneo? Non ti sembra che questi raggruppamenti regionali abbiano un pesante sottinteso amministrativo? il trionfo dello stato civile, come diceva Benedetto Croce. Un bellissimo libro di racconti, come quello di Daniele Benati, Silenzio in

Emilia, stato liquidato perch era preso alla lettera in quei termini, come un libro regionale mentre un libro sullaldil, una fantasia dantesca. Delfini disfa lidea della territorialit locale, la trasforma in una visione favolosa (La modista, Il fidanzato, etc.). Stendhal uguale, nella Chartreuse. Io credo che quello sia un indice di fuga dal realismo o naturalismo di ristagno, che deve sempre rimettere lindividuo dentro a coordinate anagrafiche. Poi, perch dici narrare assoluto?

A. C.: Scusa la caduta terminologica (ma in fondo tu amministrativamente non sei conterraneo di Delfini Sei nato da tuttaltra parte, no? Mentre conterraneo lo sei, eccome, in un altro senso Una territorialit fantastica proprio quella di Delfini quando decreta Modena citt della Chartreuse). Quando dico narrare assoluto, invece, alludo alltimo dellaggettivo: sciolto, cio, dagli obblighi di verosimiglianza dellistanza sociale, nonch dal circuito chiuso, come lhai definito, dellintimit psicologistica fra autore e lettore. Questo tuo elogio del racconto come genere a s, frammentario, dispersivo, nomade (ti cito) mi pare continui una tradizione recente di riscoperta delle forme brevi proprio in funzione antinaturalistica (per esempio nelle Lezioni americane di Calvino, o negli scritti di Manganelli raccolti nel Rumore sottile della prosa) che molti lettori mi pare abbiano frainteso. G. C.: Il romanzo (naturalistico, psicologistico) diventato un genere monumentale che d autorevolezza a chi scrive, mentre i libri di racconti sono poco graditi agli editori e guardati con notevole diffidenza da molti. Questo perch di solito si considera il racconto solo come una forma pi corta rispetto al romanzo, dunque un po inferiore, un sottoprodotto. Manganelli mi sembra lunico che abbia visto la differenza radicale tra il genere del racconto e quello del romanzo. Sono due generi che portano con s modi diversi del pensiero: il racconto vive su pensieri corti ed eterogenei, vale nel suo movimento dispersivo, e non ha bisogno di arrotondare i bordi. Le forme brevi, i racconti, o i pezzi satirico-filosofici delle Operette morali di Leopardi, oppure la raccolta di exempla di Manganelli in Centuria e di Cavazzoni in Vite brevi di idioti, hanno il pregio di scansare la postura dautorit, e prendono la via dun pensiero pi slegato. Le cose letterarie si leggono bene senza ipoteche dautorit. Se c lipoteca dellautorit, le parole ti passano sopra la testa e basta, come quelle dei comizianti.

A. C.: Unaltra cosa che mi colpisce quanto hai scritto in uno dei tuoi saggi recenti pi belli, Leggere e scrivere (la presentazione ai Racconti impensati di ragazzini raccolti da Enrico De Vivo per Feltrinelli nel 1999), che cio lo scrivere felice (non si parla di felicit psicologica, naturalmente, ma stilistica) sia per te quello senza pressioni addosso, senza gli obblighi sociali dellio che deve affermarsi. Uno scrivere come quello di Walser, di Manganelli, di Gadda e di Beckett: come star a vedere cosa combineranno le parole, se seguiamo la loro cadenza, la loro metrica, la loro sonorit, lincantamento che le porta avanti di frase in frase. G. C.: Gli obblighi sociali dellio che deve affermarsi, lo sappiamo cosa sono. Nel caso dei prodotti letterari, di mezzo c il fardello della tradizione umanistica, dove luomo sempre proposto come un portatore di contenuti il dentro delluomo come un pieno di contenuti, il mondo dellautore, linteriorit piena di contenuti, etc. Guarda la voga della confessione, il romanzo come confessione duna interiorit piena di contenuti, secondo categorie stabilite: le donne, i giovani, etc. Gli autori che citavo se lo dimenticano quel fardello obbligatorio, oppure lo smontano, lo mollano per strada, e si affidano alla lingua, ai comportamenti della lingua questa la loro felicit.

A. C.: quella che Rebecca West nel suo libro su di te (Gianni Celati. The Craft of Everyday Storytelling, Toronto University Press, 2000) ha chiamato poetica del contingente. E in Leggere e scrivere prorompi a un certo punto: Viva Gadda, viva Imbriani, viva Delfini, viva Manganelli! Ecco autori a loro modo spensierati, anche se disperati. Nomi che faranno balzare sulla sedia qualcuno che ti legge come maestro di una prosa spoglia, decolorata, sans style e che magari si messo in questi anni a scrivere semplice senza capire che lo stile semplice tuo (o di certe cose di Cavazzoni) frutto di una sottrazione, di una dissimulazione: e non, evidentemente, di uneffettiva povert, un grado zero dal quale non si sappia come muovere. G. C.: La sottrazione da fare sempre quella dei contenuti psicologici che uno suppone di portarsi dentro. A me sembra che quei contenuti vengano alla luce per quello che sono cio come discorsi inflazionati quando ad esempio qualcuno chiede a un autore: Cosa voleva esprimere con questo libro? In quella domanda ci sono tutti gli strascichi dellinsegnamento scolastico. Comunque se ne pu fare a meno. Si pu anche fare a meno duno stile dautore. Necessario solo quello che ti porta verso il

fuori, nei comportamenti: la disinvoltura che si riesce ad avere mescolandosi col fuori e con le voci sentite. questa la sottrazione di cui parlavi, mi sembra.

A. C.: Basterebbe in questo senso leggere in sequenza le tue cose, da Comiche in poi. Il punto che per te in primo piano sempre stata la prosa spettacolare ed espressivistica o al contrario inespressiva al massimo, non importa. Viva il fluire delle parole, insomma, non i (supposti) contenuti che quelle parole avrebbero il compito di veicolare G. C.: S, il fluire delle parole, ma con pensieri corti. Ci vogliono pensieri corti, secondo me: altrimenti ogni pensiero si porta dietro un gran discorso sulla cosiddetta visione del mondo, o sulla cosiddetta poetica dautore nozione classicista, per dire che tu avevi proprio lintenzione di scrivere quello che stai scrivendo, come se le parole fossero al tuo servizio. Se prendi le parole dal loro lato metrico, sillabico, ritmico, ti accorgi che non le domini. Sono loro che ti comandano. Il lavoro allora quello di comprimere un pensiero corto dentro poche sillabe, un ritmo. Penso a Gerald Manley Hopkins, che parlando dun albero, dun fiore o duna nuvola, aveva un modo di comprimere le parole dentro poche sillabe, tanto strette e scandite che diventano intraducibili. Cos c una costellazione di punti, punti di compressione di energia instress, diceva lui e niente pi discorsi e niente pi visione del mondo.

A. C.: Sempre nella conversazione sulla novella, dici unaltra cosa che fa pensare: la novella data come racconto dun racconto gi sentito, ed quello che conta pi di tutto. Mentre la narrativa dominante, post-naturalistica, ha lo scopo di tenerci in sospeso su come andr a finire la storia, il narrare assoluto se ne disinteressa. Un altro scrittore della prosa che oggi non gode di troppa stima, Antonio Pizzuto, distingueva il raccontare che bada ai fatti dal suo narrare che osserva il fluire delle faccende, nel corso del loro farsi G. C.: Tutto si fa, tutto va facendosi e disfacendosi sempre, non si arriva mai a niente di definitivo. Narrare questo: vai dietro a dei motivi, come a un motivo musicale, o come linee o colori su un quadro. Ci vai dietro, e quelle cose ti portano da qualche parte. I fatti: i fatti sono quello che nasce dalle parole. Lidea che ci siano dei fatti che vengono prima delle parole come lidea che ci

siano dei vestiti prima della stoffa. Naturalmente nel regime giornalistico le cose sono viste in un altro modo. L come se esistessero i fatti in s. Dunque ci sarebbe uninformazione che riguarda degli oggetti, e linformazione in s sarebbe il contenuto di quegli oggetti, indenne dalla retorica. Mentre linformazione non che un grande sistema di persuasione retorica, ed proprio l che non si riesce quasi mai a intravedere un fuori delle parole.

A. C.: La tua insistenza sul gi sentito (sulle Twice-told stories, per dirla con Hawthorne) ti ha fatto adottare negli ultimi libri una serie di artifici distanzianti, cornici apparentemente trasparenti che in realt ci separano radicalmente dallillusione di una scritturavita, di un contatto innocente con lesistenza. Per esempio, in Narratori delle pianure come in Cinema naturale, i personaggi vivono le loro esperienze solo perch gi pensano a come le organizzeranno nella loro narrazione, una volta tornati a casa: cos, commenti, la novella si presenta come celebrazione dun sentito dire, che non spunta dal vuoto, ma dichiaratamente da un passaggio di parole di bocca in bocca, come un motivetto. E i critici stilistici da Enrico Testa a Roberta Piazza a Francesca Gatta hanno descritto gli artifici che usi tu, nelle tue narrazioni, per ricreare questeffetto (dalla dominante di certi tempi verbali, come limperfetto, alla cosiddetta deixis am phantasma al quadrato). G. C.: Il gi sentito che dici il sentito dire, che avvolge tutto quello che possiamo pensare o immaginare. Poi, nota come le parole vengono fuori pi sciolte se ti attacchi a quello che gi stato detto, a un sentito dire, a una tonalit, a voci nellaria. Le novelle antiche ri-raccontavano storie risapute, dove la cosa importante era la performance del narrare. Il che somiglia alla traduzione, dove tu segui quello che gi stato detto, devi trovare un suono adatto nella tua lingua, ma nessun pensiero originale. Del resto anche in filosofia, i pensieri originali non si sa cosa siano. Di originale in un pensatore c il modo i cui articola i pensieri, come li fa lavorare, come li porta lontano. Tu dicevi: gli artifici per distanziarsi. S forse. un gioco per mostrare che anche le esperienze sono sempre gi dei racconti che ci facciamo.

A. C.: In questo modo la tua prosa come una parete di vetro che ci separi dallatroce reale: per esempio lungo tutto il tuo diario Avventure in Africa. come se tu sentissi il bisogno di metterti di faccia al reale per questo tutta la tua narrativa recente en plein

air, si disloca di pari passo col tuo viaggiare ma poi non potessi guardarlo che di sponda, attraverso un riflesso: per specula et in nigmate, come dice San Paolo G. C.: Tutto il gi detto qualcosa di riflesso, ma pi che mai enigmatico. Le parole sono in s animaletti enigmatici: le tonalit, il senso, le figurazioni. Devi prenderle come enigmi figurati, e poi andarci dietro con la metrica: comprimere gli enigmi nelle cadenze, e dopo non sembrano pi neanche cos strani. A parte ci, seguendo quel riflesso, il riflesso dun sentito dire, per quanto enigmatico, non devi rimettere in gioco tutti i presupposti del tuo dire, non devi ripiombare nella faticosa questione della visione del mondo. Quella diventa sempre una storia di chi ha torto o ragione, e ti riporta sempre a dei giudizi che sono come quelli di Dio il grande Dio con la barba, che tutti gli uomini dordine invocano, per mostrarsi nel giusto.

A. C.: C un grande maestro che poi il grande maestro di prosa italiana anche per Calvino e Manganelli, ma ha contato molto anche per Beckett che tu citi molto spesso, negli ultimi tempi: il Leopardi delle Operette morali e soprattutto dello Zibaldone. In uno scritto consegnato a una rivista che ancora deve esordire, e che si chiamer probabilmente proprio Zibaldoni, hai detto che questa sintassi non ipotattica n paratattica []. Il fraseggio si sviluppa per aggiunzioni continue di frasi appese e scandite da virgole, archi di frasi con ritorni allindietro, ripetizioni avvolgenti, e un andamento aperto che spesso si perde in un eccetera. Questo il modo di articolare il fraseggio di chi pensa scrivendo []. Questo ci ricorda come la visione naturale non possa mai abbracciare i limiti del nostro sguardo, definire il suo campo, fissare in modi prescritti quel che c da vedere intorno a noi []. Allora trattando di Leopardi ci troviamo anche noi nella stessa situazione della sua prosa, privi di protezione, e necessariamente mossi da attrazioni, da intensit, umori ed estri del momento. Quello che conta alla fine non sono le mete a cui arriviamo, ma il continuo transito attraverso gli stadi di affezione che sorgono. G. C.: Leopardi che lo dice, quando parla della sua filosofia come duna ultrafilosofia. Vuol dire che il pensiero si muove per intensit daffezioni, di stati affettivi: ad esempio la noia, che un grande attivatore di pensieri. Non c un pensiero che si muova per puro interesse conoscitivo. Si muove perch gli stati affettivi lo agitano e uno deve cavarsela, aprendo un po lorizzonte seguendo un cammino allaperto, come dice Antonio

Prete per lo Zibaldone. Lunico filosofo che io conosca, che ha toccato questo argomento sui motivi per pensare Enzo Meandri, il quale tirava in ballo un vecchio motto: Se il millepiedi dovesse pensare a come si muovono i suoi piedi, cascherebbe subito per terra. Lo cita in un capitolo della Linea e il circolo. Lui non parlava di stati daffezione, perch usava un altro linguaggio. A. C.: Studi di affezione si intitoler invece, se non sbaglio, il tuo prossimo volume di saggi. Laffezione, dici, qualcosa di esterno che ci tocca, che produce uninclinazione, un appetito del pensiero e dei sensi; e tutti i libri che ci piacciono agiscono su di noi in questo modo. Come quando si dice che si affetti da una malattia, cos si resta affetti dalle parole. Sono concetti spinoziani, questi, mediati magari dallinterpretazione di Gilles Deleuze. Ma allora questo tuo sogno di una prosa assoluta, di un narrare puro senza limiti e senza formine contenitive, possiamo considerarlo come un equivalente artificiale, umano, di quella che Spinoza chiama ora sostanza ora Dio? E quali conseguenze dobbiamo trarne, in senso metafisico, ontologico, ecc.? Scusa la mia idiozia G. C.: Il termine affezione viene dalla scolastica, presuppone unontologia, presuppone dei modi in cui lumano resta affetto da cosa? Spinoza dice dai modi della sostanza, e vuol dire natura, poi dice Dio, e vuol dire natura. Natura come potenza germinativa, potenza di proliferazione di cose singolari. Se per via della nostra idiozia dobbiamo parlare di Spinoza, bisogna aggiungere che per lui le affezioni non centrano con linteriorit dellindividuo. Per Spinoza non ha senso lindividuo come lo concepiamo noi, separato da tutto il resto. Per lui ogni individuo fatto di miriadi di individui, di monadi, di entit, di punti di affezioni, che risalgono ai modi della sostanza, o natura, o unit di tutto luniverso: facies totius universi. Bene. Per questo la parola affezioni mi va meglio di altre. Si leggono i libri per stati daffezione, perch si rimane affetti da qualcosa di singolare che ci tocca, ci contagia, ci sposta da unaltra parte o no? A. C.: Tu parli delle parole e della loro danza come di una malattia dalla quale siamo inguaribilmente affetti. Ma una volta, intervistato dalla rivista Inchiesta, hai anche parlato della lettura dei classici e di un classico particolarissimo, nella fattispecie, come lOrlando Furioso: una storia di follia che vuole apparire come il massimo dellarmonia come di una terapia. Qualcosa di essenziale per restare in salute.

G. C.: LOrlando Furioso una bella terapia, soprattutto contro i malanni del pensiero discorsivo, del pensare per generalit. Perch l c solo pensiero figurale, pensiero per figure e immagini, che ti trascina. Per questo genere di terapia sempre paradossale. Tu ti dedichi a qualcosa che si chiama letteratura, e subito ti trovi chiuso nei meandri duna istituzione ministeriale. Non so se ti ricordi quel meraviglioso Misteri dei ministeri di Augusto Frassineti, che non ripubblicano pi da anni, perch non va daccordo col mercato dattualit. Frassineti parlava dei paradossi dellistituzione ministeriale, di tutte le lettere che arrivano al ministero, e dei dossier che si creano sui vari postulanti, con le loro suppliche, etc. Per me era la figurazione perfetta della letteratura un lavoro di disgraziati postulanti che chiedono dessere ascoltati. Poi per quello era un libro altamente terapeutico.

A. C.: Anche in questo apparente paradosso non riesco a non vederci un po del Deleuze tardo, quello di Critica e clinica: La letteratura salute, dice Deleuze, non nel senso che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa [], ma gode di unirresistibile salute precaria che deriva dallaver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. questa precariet quella con cui vuoi contagiarci, Gianni? G. C.: La precariet quella delle parole: ognuno ha la sua, la sua sottolingua senza pi un popolo che la parli. Dunque va a finire che uno si parla da solo. vero che c un problema di salute incerta, di incerta salute mentale. Gli autori tutti sani, senza incertezze, sono i propagandisti duna letteratura come attivit sociale, socializzabile o socializzata in partenza. Questa la letteratura tutta spiegata e spiegabile, che non ha enigmi, segue la segnaletica dei giornali e del principio dautorit. Invece forse la cosiddetta letteratura ha senso solo come traccia duna attivit asociale, dun pensiero asociale. Quello che leggibile (almeno per me) porta i segni della precariet e anche di unaria irrespirabile da cui si vuol saltare fuori. impossibile sognare unaltra aria pi respirabile, e insieme seguire la prassi sociale che rende laria irrespirabile. Pochi libri hanno un po daria che circola nelle loro pagine, laria di quellindeterminato che resta fuori dai discorsi. Io adesso voglio fare un documentario sullaria, che credo si chiamer Aria ai confini dEuropa. Vorrei farlo con un

amico, lo scrittore inglese John Berger, e quando gli ho scritto per spiegargli la mia idea, lui mi ha risposto: The air of Europe begins with a flight of worries. Elsewhere they are wishes.

(Aprile 2002)

Lassoluto della prosa. Conversazione con Gianni Celati, a cura di Andrea Cortellessa, in il verri, XLVII, 19, maggio 2002, pp. 56-64

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