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Associazione Amici della

Biblioteca Militare Italiana


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CINEFORUM

“LA BATTAGLIA DI ALGERI”


di Gillo Pontecorvo
Mercoledì 26 novembre 2008 – Ore 20.00 – Sala Fondi Militari
Biblioteca Civica “Farinone Centa” – Corso Umberto I Varallo

La guerra d’Algeria (1954-1962)

La guerra d’indipendenza algerina, condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e dal suo
esercito (ALN), pose fine al tentativo della Francia di mantenere in forme nuove il proprio impero
coloniale, determinò il crollo della IV repubblica e aperse – per entrambi i paesi - una nemesi
storica non ancora conclusa. Combattuta esclusivamente col terrorismo e la guerriglia e senza
battaglie campali, provocò forse mezzo milione di morti algerini (300/460.000 combattenti e civili
e 30/90.000 collaborazionisti) e oltre trentamila francesi (di cui 28.500 militari e 4/6.000 civili).
Ripetutamente sconfitti sul campo e infine respinti in Marocco e Tunisia da un potente esercito di
oltre mezzo milione di uomini, gli 8.000 superstiti dell’FLN resistettero abbastanza a lungo da
vincere la battaglia per conquistare i cuori e le menti, non solo degli algerini, ma della stessa
opinione pubblica francese, logorando le risorse finanziarie e la determinazione del governo
nemico. Salito al potere nel maggio 1958 a seguito di un putsch militare capeggiato dal generale
Salan e col programma, inizialmente condiviso dallo stesso Partito Comunista, di salvare l’Algeria
francese, fu lo stesso generale de Gaulle a volere il referendum che l’8 gennaio 1961 approvò
l’autodeterminazione dell’Algeria, a reprimere il secondo putsch dei generali, ad aprire i negoziati
segreti col Governo provvisorio della Repubblica Algerina che condussero all’indipendenza e infine
a stroncare la resistenza dell’OAS (Organizzazione Armata Segreta), appoggiata da una parte del
milione di europei immigrati in Algeria (i “pieds noirs”). Amnistiati nel 1968, i generali golpisti
furono riabilitati nel 1982, ma il ricordo della “sale guerre” non cessa d’inquietare il presente.

Bibliografia essenziale: AMIRI, Linda, La Bataille de France, la guerre d'Algérie en métropole, Robert Laffont,
2004. AUSSARESSES, Paul, La battaglia d’Algeri dei servizi speciali francesi 1955-57, Libreria Editrice Goriziana,
2007*. BRANCHE, Raphaëlle, La Guerre d’Algérie, une histoire apaisée ?, Points Seuil, 2005. DROZ, Bernard, Évelyne
LEVER, Histoire de la guerre d'Algérie, Seuil, 1982 (2002). DUCHEMIN, Jacques C., Histoire du FLN, La Table Ronde,
1962*. HARBI, Mohammed, Les Archives de la Révolution algérienne, 1981. ID. et Benjamin STORA, La Guerre
d'Algérie (1954-1994). La fin de l'amnésie, Robert Laffont, 2004. ID.et Gilbert MEYNIER, Le FLN, documents et
histoire 1954-1962, Paris, Fayard, 2004. HENISSART, Paul, OAS. L’ultimo anno dell’Algeria francese, Garzanti, 1970*.
HORNE, Alistair, Storia della guerra d’Algeria, Rizzoli, 1980*. MAUSS-COPEAUX, Claire, Appelés en Algérie. La
parole confisquée, Paris, Hachette-Littératures, 1999. ID., À travers le viseur. Algérie 1955-1962, Lyon, éd. Aedelsa,
2003. MEYNIER, Gilbert, Histoire intérieure du FLN, Paris, Fayard, 2002. PERVILLE, Guy, Pour une histoire de la
guerre d'Algérie, Picard, 2002. RIOUX, Jean-Pierre (dir), La Guerre d'Algérie et les Français, Fayard, 1990. STORA,
Benjamin, Histoire de la guerre d'Algérie, 1954-1962, la Découverte, 1993. THENAULT, Sylvie, Histoire de la guerre
d'indépendance algérienne, Flammarion, 2005. UBOLDI, Raffaello, Servizio proibito. Il primo libro sulla guerra
algerina, Einaudi, 1958*. [I libri contrassegnati dall’asterisco sono posseduti dalla ns biblioteca; fanno però parte della
IV Sezione, non ancora trasferita a Varallo per mancanza di locale idoneo].

La Battaglia di Algeri nella storia e nel film (1965-66)

Il film racconta l’inizio della rivoluzione algerina, in particolare l’operazione militare condotta
dalla 10a Divisione paracadutisti comandata dal generale Massu, per circoscrivere la ribellione e
riprendere il controllo della Casbah: un netto successo militare, ma conseguito anche mediante la
tortura e le esecuzioni, come ha ammesso e rivelato il generale Aussaresses in un libro del 2001.
Pur apertamente schierato dalla parte algerina, il film rappresenta con equilibrio e obiettività la
strategia dei repressori e lo sdegno degli europei vittime degli attentati terroristici, né tace il passato
di delinquente e prosseneta dell’eroe algerino (Alì Lapointe). Nel film non ci sono “buoni” e
“cattivi”; eppure, proprio per questo, c’è un’alta tensione morale. Tortura, esecuzioni, terrorismo
sono raccontati come cruda cronaca, sia dal punto di vista degli autori sia da quello delle vittime,
segnalando allo spettatore che la verità e la comprensione storica rappresentano un ampliamento di
coscienza, e sono perciò eticamente superiori al pregiudizio ideologico o moralistico. Lo spettatore
vede che il comandante dei parà (chiamato nel film “colonnello Mathieu”) e il capo dell’FLN
(“Djafar”) si confrontano senza odio, con reciproca stima; mentre i giornalisti (inclusi quelli
comunisti) che contestano ad entrambi i rispettivi metodi sporchi sono presentati come ambigui o
ipocriti. “Il punto non è se dobbiamo o no usare la tortura: il punto è se l’Algeria deve o no restare
francese”, ribatte il colonnello. “I vostri bombardieri uccidono la nostra gente. Dateci i vostri
bombardieri e noi vi daremo i nostri cestini-bomba”, risponde il capo dell’FLN. Con suspense
drammatica lo spettatore vede le donne dell’FLN che si preparano per la loro missione di morte,
stirandosi i capelli e truccandosi per confondersi con le europee; passano i posti di blocco con la
bomba nascosta nel passeggino del figlio; scelgono le vittime al bar o all’aeroporto. Epica la scena
del primo matrimonio celebrato da un rappresentante del FLN: un gesto rivoluzionario che afferma
la nuova legittimità nata dalla lotta e la speranza di una nuova vita personale e comunitaria.

Scheda cinematografica del film

Il film nacque nel 1965 su proposta di Yacef Saadi, uno dei capi militari dell’FLN ad Algeri, che
ne fu anche produttore e attore e che scelse il titolo (quello inizialmente pensato da Pontecorvo era,
in alternativa, “Tu partorirai con dolore” oppure “Nascita di una nazione”). Fu però il regista a
imprimere al film l’effetto drammatico e documentaristico di un cinegiornale, non solo girandolo in
bianco e nero e con una cinepresa da 16mm, ma sgranando l’immagine, specialmente in alcune
scene. Tranne Jean Martin (nel ruolo del Col. Mathieu), tutti gli altri sono attori non professionisti
(tra cui Brahim Hadjadj nel ruolo di Alì Lapointe; Yacef Saadi interpreta sé stesso col nome di
“Djafar”). Il regista ha collaborato direttamente anche alla sceneggiatura, con Franco Solinas, e alle
musiche, con Ennio Moricone. La scenografia è di Sergio Canevari, la fotografia di Marcello Gatti.
Il film è stato premiato col Nastro d’argento al miglior regista e col Leone d’Oro al Festival di
Venezia e ha ottenuto 3 Nomination al premio Oscar (per Film stranieri, regista e sceneggiatura
originale).

Il contesto politico e ideologico del film italo-algerino

Il film, prodotto nel 1966 da Saadi e distribuito dalla Rizzoli, era in piena sintonia col clima
ideologico allora prevalente in tutta Europa, incluse la Francia e la Gran Bretagna, caratterizzato dal
benessere economico, dall’egemonia culturale comunista, dal rifiuto del passato coloniale e del
militarismo, dal progressismo, dal pacifismo e dalla simpatia per i movimenti di liberazione del
Terzo Mondo. Questa espressione fu addirittura coniata in Francia nei primi anni Cinquanta, ma la
guerra d’Algeria provocò una profonda crisi nazionale e ciò spiega perché il film di Pontecorvo fu
censurato fino al 1970 dal governo francese. Nel caso dell’Italia, il “terzomondismo” era però anche
una precisa linea di politica estera, tesa a recuperare la piena “parità” diplomatica con i minori
vincitori della seconda guerra mondiale (Francia e Gran Bretagna) e a ritagliarci un nostro spazio
autonomo nei rapporti coi paesi produttori di petrolio. Il punto di forza del terzomondismo
diplomatico italiano era di poter contare su di una convergenza di interessi con gli Stati Uniti,
impegnati anch’essi a subentrare in forme nuove nei due ultimi imperi coloniali europei. Benché la
questione non sia stata finora approfondita, sembra ormai certo che l’Italia – su pressione dell’ENI
guidata da Enrico Mattei – abbia dato un forte sostegno militare al FLN algerino, e che il Centro
Addestramento Guastatori (CAG) – la base segreta italo-americana creata nel 1954 a Nord di
Oristano – sia stato utilizzato addirittura per addestrare i combattenti algerini (“terroristi” per i
francesi, ma “freedom fighter” per l’Italia e gli Stati Uniti, pur alleati della Francia, il cui territorio
metropolitano, garantito dalla NATO, includeva allora anche l’Algeria). In ogni caso questa politica
fu ufficializzata nel 1956 dal rifiuto dell’Italia di partecipare all’ultima e fallimentare impresa
neocoloniale europea (l’intervento anglo-francese nel Canale di Suez), e non fu fermata dalla
misteriosa morte di Enrico Mattei (avvenuta nel 1962 per un incidente aereo di cui furono sospettati
l’OAS o gli stessi servizi segreti francesi) e fu rafforzata dal ritiro delle forze armate britanniche da
Malta (1967) e dal colpo di stato in Libia (pianificato nel settembre 1969 nell’ambasciata libica a
Roma), con conseguente espulsione delle basi militari e delle compagnie petrolifere inglesi dalla
Cirenaica (Nonostante l’espulsione della comunità ebraica e italiana dalla Libia, nel 1971 l’Italia
sventò un tentativo dei servizi segreti inglesi di assassinare Gheddafi, che fu riarmato dall’Italia,
accolse 30.000 tecnici dell’ENI e nel 1974 salvò la FIAT). (v. V. Ilari, Storia Militare della Prima
Repubblica, 1994: consultabile nella nostra biblioteca).
Cosa possiamo imparare oggi dal film di Pontecorvo
Rivedere questo film oggi, consente di cogliere il mutamento del clima ideologico determinato in
Europa e negli Stati Uniti dalla lotta contro il terrorismo islamico e dalla difficile convivenza con le
minoranze musulmane. Ma consente anche di confrontare la diversa ispirazione politica della lotta
d’indipendenza algerina (che si richiamava comunque ai modelli laici ed europei del nazionalismo e
del socialismo) e dell’attuale fondamentalismo islamico a base religiosa. Non dimentichiamo che la
Francia fece appello proprio alla tradizione religiosa musulmana per contrastare il proselitismo del
FLN nella popolazione algerina, e che fu poi il trasferimento del consenso popolare al Fronte
Islamico di Salvezza a far crollare il regime del FLN, accusato di corruzione ma sostenuto, per via
del vitale gasdotto, dalle democrazie occidentali (le quali giustificarono, nel 1991, l’annullamento
del primo turno elettorale vinto dal FIS, il colpo di stato militare e la repressione della sanguinaria
rivolta terroristica con gli stessi metodi usati quarant’anni prima dai francesi: v. le confessioni del
colonnello algerino Habib Souaidia (La sale guerre, La Découverte, 2001* ). La battaglia di Algeri è
inoltre uno dei rarissimi film che fa comprendere la “struttura” oggettiva della guerra (posta in
gioco, calcolo e decisione strategica, incertezza). E’ dunque prezioso per la storia militare e non a
caso è stato proiettato e dibattuto nelle accademie militari americane alla vigilia dell’invasione
dell’Iraq (2003).
Gli altri film sulla guerra d’Algeria
La filmografia sulla guerra d’Algeria conta almeno 23 film e 3 documentari (v. “Films sur la
guerre d’Algérie” – Wikipédia, tratto da Guy Hennebelle, Mouny Berrah e Benjamin Stora, La
Guerre d’Algérie à l’écran, Cinémaction, 1997. Cfr. pure A. Evans, Brassey’s Guide to War Films,
2000 e la tesi di laurea di Yasmin Abo-Loha, La guerra di Algeria nel cinema francese, Milano,
UCSC, 2002; entrambi consultabili nella nostra biblioteca). I primi film, di intonazione fortemente
anticolonialista e perciò censurati dal governo francese, furono quelli di René Vautier (Une nation
1954; Algérie en flammes, 1958; Un peuple en marche, 1963): un quarto film di questo regista
controcorrente, del 1971 (Avoir 20 ans dans les Aurès), non fu distribuito, benché premiato a
Cannes. Il tema della guerra algerina fu portato nelle sale cinematografiche solo nel 1961, con due
film e un documentario francesi. Le petit soldat di Jean Luc Godard, censurato nel 1960 perché
trattava di diserzione e tortura (anche da parte del FLN), fu sdoganato nel 1963 e il tema della
tortura ricorre anche in Muriel di Alain Resnais (1964), mentre la guerra compare sullo sfondo di
Les parapluies de Cherbourg (1964, di Jacques Demy, con Catherine Deneuve).
Nel 1966, oltre al film di Pontecorvo, ne uscirono altri due, uno algerino (Le Vent des Aurès di
Mohammed Lakhdar-Hamina), incentrato su una madre alla ricerca del figlio arrestato dai francesi,
e uno americano (Né onore né gloria, 1966, di Mark Robson, tratto dal romanzo Les Centurions di
Jean Lartéguy), un tipico film d’azione anni ‘60, condito di banalità moralistiche. La storia (di pura
fantasia benché alcuni personaggi siano ispirati a Yacef Saadi, Bigeard e Aussaresses), è quella di
un improbabile colonnello francese (Anthony Quinn) incaricato di arrestare un suo ex-commilitone
dell’Indocina (George Segal) che si è ribellato contro l’abbandono dell’Algeria. La morale è
rappresentata da un capitano (Alain Delon) che affianca il colonnello disapprovandone i metodi ma
che alla fine comprende il diritto dei popoli all’indipendenza.
In seguito il cinema francese ha affrontato la guerra d’Algeria solo come questione morale ed
esclusivamente dal punto di vista soggettivo dei combattenti francesi. Se Le crabe-tambour (1977)
e L’honneur d’un capitaine (1982), entrambi di Pierre Schoendoeffer, La Trahison (2005, di
Philippe Faucon) e L’ennemi intime (2007, di Florent Emilio Siri) rivalutano la memoria e le
ragioni dei veterani, vi sono pur state nuove denunce della tortura e delle stragi. Ancora nel 1973 fu
censurato R.A.S. (una coproduzione italo-franco-tunisina di Yves Boisset, che nel 1982 girò pure
l’analogo Allons z’enfants). Ma La Question di Laurent Heyenmann, basato su un’inchiesta del
giornalista Henri Alley, segnò una svolta nel 1977. Le testimonianze dei veterani sulla sale guerre
abbondano in un documentario televisivo del 2002 (L’ennemi intime, di Patrick Rotman);
Escadrons de la mort, école française (inchiesta giornalistica e poi film di Marie-Monique Robin)
denuncia l’addestramento francese dei militari argentini; La nuit noire di Alain Tasma (2005)
ricorda la strage di manifestanti nordafricani uccisi a Parigi dalla polizia il 17 ottobre 1961. La
nemesi della tortura è il tema di Mon colonel (Laurent Herbiet, 2006).
Gli altri film di Gillo Pontecorvo (1919-2006) sulla guerra rivoluzionaria
Fratello del celebre fisico Bruno Pontecorvo, cresciuto in una famiglia benestante di Pisa, esule in
Francia a seguito delle leggi razziali e formatosi nella cultura della Sinistra francese, comunista
militante, Gillo Pontecorvo tratta di guerra rivoluzionaria anche in altri due film, Queimada (1968,
con Marlon Brando) e Ogro (con Gian Maria Volonté). Il primo, pur essendo una storia di fantasia,
traccia un quadro preciso e penetrante della storia dell’America Latina, con le vecchie potenze
coloniali (Spagna e Portogallo) abilmente scalzate dall’Inghilterra in nome dell’“indipendenza” e
della “libertà” (in realtà manovrando come burattini la locale borghesia creola e usando gli schiavi
ribelli come carne da cannone). Ogro (“Orco”) racconta l’attentato all’ammiraglio spagnolo Carrero
Blanco, designato da Franco come suo successore e ucciso dai terroristi baschi dell’ETA nel 1973.
La sceneggiatura, basata su un libro che rivendicava ed esaltava l’uccisione dell’“Orco” fascista,
iniziò nel 1976, ma fu più volte rimaneggiata per le vicende politiche italiane e le contraddizioni
interne della Sinistra di fronte alle Brigate Rosse. Pontecorvo ebbe anche un contrasto con Ugo
Pirro circa l’opportunità di discostarsi dalle testimonianze dei terroristi per insinuare il sospetto che
fossero stati in realtà manovrati dai franchisti (lo stesso argomento usato dal PCI per screditare le
BR agli occhi delle proprie frange estremiste). Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte
delle BR (1978) fece slittare al 1980 l’uscita del film. L’autrice del libro lo accusò di
“moderatismo” per il pio sermone messo in bocca al capo terrorista (la violenza è giustificata contro
la dittatura, mentre diventa fanatismo quando ci sono gli strumenti democratici per realizzare i
propri ideali).

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