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Cultura Tedesca I
Cultura Tedesca I
Hinweis
1. Was ist Kulturkritik?.........................................................................................................1
1.2. Die Vordenker der Kulturkritik................................................................................4
1.2.1. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)..................................................................5
2. Kulturkritik und deutsche Kultur..................................................................................14
2.1. 17. Jahrhundert........................................................................................................16
2.2. 18. Jahrhundert........................................................................................................18
2.2.1. Deutsche Kultur und Französische Revolution..............................................23
2.3. 19. Jahrhundert........................................................................................................42
2.3.1. Die Romantik....................................................................................................48
2.3.2. Die Restauration (1815-1848)...........................................................................56
2.3.3. Frühindustrialisierung.....................................................................................60
2.3.4. Die Märzrevolution (1848-1849)......................................................................63
2.3.5. Die deutsche Einigung......................................................................................64
2.4. Die Wilhelminische Ära (1890-1918).......................................................................69
Da un punto di vista della storia delle idee, appare chiaro come il pensiero kulturkritisch
sia nato proprio con l’Illuminismo. Già Esiodo, nel poema Le Opere e i Giorni (VIII
Secolo a.C.), parlava di un’ipotetica età dell’oro passata nella quale gli uomini vivevano
perennemente giovani e morivano senza alcun dolore, ma la sua critica “manca [di]
coscienza della storia, la quale […] inizia a riflettere sul fatto che gli uomini fanno la
storia, ma senza poter disporre di essa”. 8 Tale coscienza rende possibile la
consapevolezza che ogni conoscenza umana è provvisoria e che, nel corso del tempo,
essa verrà sostituita da un’altra comprensione della realtà. A tal proposito, la critica dei
valori degli uomini dell’antichità può essere riassunta con la locuzione latina laudator
temporis acti9(lodatore del tempo passato): le vecchie generazioni guardano con
sguardo nostalgico il tempo passato e, facendo ciò, sono incapaci di cogliere le
innovazioni del presente e di adeguarsi al progresso. Al contrario, con l’illuminismo la
diagnosi dei problemi del tempo presente abbandonerà qualsiasi prospettiva apocalittica
(il futuro non sarà mai migliore del passato), in quanto si affermerà la visione della
storia come un disegno più ampio destinato al progresso sia dell’individuo che della
società nel suo insieme. Infatti, sia per Rousseau che per Schiller “la civiltà non viene
più intesa come il garante dell’autoperfezionamento”, tuttavia solo grazie alla civiltà “la
guarigione è possibile”.10 Il loro è un modello triadico, il quale presuppone la presenza
di un tempo presente peggiore, un passato migliore e una salvezza futura.
8
Bollenbeck, Georg, Eine Geschichte der Kulturkritik. Von Rousseau bis Günther Anders, Verlag C.H.
Beck, München, 2007, p. 25: “Geschichtsbewusstsein“.
9
Locuzione che si deve al poeta romano Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.), nella sua Ars Poetica (13
a.C.).
10
Bollenbeck, Georg, Eine Geschichte der Kulturkritik. Von Rousseau bis Günther Anders, Verlag C.H.
Beck, München, 2007, p. 27.
Come detto, il filosofo svizzero Rousseau può essere definito come il vero iniziatore del
pensiero kulturkritisch moderno. Di fatto,
ciò che Rousseau denuncia, come il potere della convenzione, la funzione corruttrice del
lusso oppure, in senso più generale, il decadimento morale, appartiene all’attrezzatura
mentale di un illuminismo sempre più autocritico. Però nel suo pensiero si può trovare una
critica generale alle condizioni del presente e un bilancio storiografico del processo di
incivilimento.11
11
Bollenbeck, Georg, Eine Geschichte der Kulturkritik. Von Rousseau bis Günther Anders, Verlag C.H.
Beck, München, 2007, p. 28.
Innanzitutto, va sottolineato come il pensiero di Rousseau fosse completamente libero
da ogni logica teleologica: per lui la storia non aveva alcun fine determinato, ma l’uomo
poteva scrivere la propria storia e, allo stesso tempo, era da considerare responsabile
della condizione del mondo in cui viveva. Il suo fu il tentativo di analizzare i
fondamenti della società e, per fare ciò, la dottrina storica era fondamentale: tuttavia, lo
studio della storia doveva servire per chiarire le contraddizioni del tempo presente. Per
lui il processo di civilizzazione appare come “un processo di socializzazione con
conseguenze nefaste”, ma allo stesso tempo con “delle possibilità per gli individui e la
loro convivenza”.12
Il suo pensiero è l’archetipo del pensiero kulturkritisch: egli inizialmente effettua una
diagnosi del decadimento del tempo presente e, in seguito, cerca di mostrare possibili
vie di fuga da questa realtà negativa. Da questo punto di vista, si può osservare come
Rousseau si considerasse un araldo della verità: egli non voleva essere messo sullo
stesso piano degli altri uomini in quanto si riteneva libero di poter esprimere il proprio
malcontento nei confronti della propria epoca, cosa che altri uomini, per paura, non
facevano. Tuttavia, è come se egli si trovasse in una situazione ambivalente: da un lato
egli vuole essere un intellettuale pubblico che si rivolge ai suoi contemporanei (non solo
a un popolo, ma all’intera umanità), ma che allo stesso tempo vuole distanziarsi
chiaramente dal pensiero della sua epoca. La stessa cosa vale per la filosofia: da un lato
egli considera i filosofi come dei ciarlatani, ma dall’altro lato si definiva egli stesso un
filosofo e, in particolar modo, faceva riferimento alla filosofia della Grecia antica (su
tutti a Socrate, Platone e Aristotele). Inoltre, e forse più importante, Rousseau è allo
stesso tempo illuminista, ma anche contrario al pensiero illuminista: egli sostiene
l’importanza della ragione, ma allo stesso tempo la sua è una filosofia che rivaluta il
sentimento e la sensibilità (Sinnlichkeit). La sua, tuttavia, non è una critica alla ragione
illuministica, ma “l’espressione di una filosofia del sentimento che, attraverso il
distacco dall’intelletto, permette un buon uso della ragione”. 13 Gli scritti di Rousseau
più influenti, da questo punto di vista, sono stati due discorsi (termine che nel 1700
indica il Saggio Breve, un testo con finalità analitiche):
12
Bollenbeck, Georg, Eine Geschichte der Kulturkritik. Von Rousseau bis Günther Anders, Verlag C.H.
Beck, München, 2007, p. 28.
13
Bollenbeck, Georg, Eine Geschichte der Kulturkritik. Von Rousseau bis Günther Anders, Verlag C.H.
Beck, München, 2007, p. 35.
1. Discours sur les sciences et les arts (1750) testo che permise a Rousseau
di vincere un concorso bandito dall’Académie de Dijon e che, per la prima
volta, gli conferì fama internazionale. Il saggio doveva rispondere a un tema
prettamente illuministico: se il risanamento delle scienze e delle arti abbia
contribuito a purificare o a corrompere i costumi. La risposta di Rousseau è,
tuttavia, contraria a quello che si potrebbe pensare: Rousseau riprende l’idea
che le scienze siano nate dall’orgoglio umano e la inserisce in una
dimensione sociopolitica, in quanto la cultura maschera l’oppressione a cui è
sottoposto l’individuo, all’interno della civiltà, soffoca il suo sentimento di
libertà, nasconde l’immoralità e l’ingiustizia su cui si fonda la società. Il
progresso scientifico, lungi dall’aumentare la felicità umana, ha incrementato
la corruzione ed in ogni epoca è stato direttamente proporzionale
all’indebolimento della virtù. La civilizzazione migliora le forme esterne
della vita dell’uomo, ma allo stesso tempo getta l’uomo in uno stato di
infelicità dovuto alla sua uscita dallo Stato di natura (Naturzustand): l’uomo
si comporta in maniera cortese, ma questa cortesia è solamente apparenza in
quanto egli vive in una società competitiva (ossia la società borghese). Nello
Stato di natura l’uomo è felice, è tutt’uno con sé stesso e non è turbato dalla
possibilità di contemplare diverse forme di vita. L’uomo nella civilizzazione
diventa straniero a sé stesso (Entfremdung) e perde l’equilibrio spirituale.
Per Rousseau non vi è possibilità di tornare indietro: l’uomo non può più
tornare allo Stato di natura.
Tuttavia, nonostante la sua critica si scagli contro il decadimento morale del
tempo presente, lo fa in una maniera non originale e quindi non si può
ancora parlare di nascita del pensiero kulturkritisch moderno. Egli, come
molti altri intellettuali in epoche passate, contrappone i popoli altamente
civilizzati, caratterizzati da una perdita dei valori, con i popoli non
civilizzati, ma allo stesso tempo più virtuosi: questa è una critica che era già
stata mossa, per esempio, verso il decadimento della società romana da parte
di intellettuali quali Posidonio (135-50 a.C.), Marco Tullio Cicerone (106-43
a.C.), Gaio Sallustio Crispo (86-34 a.C.), Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.),
Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.) e Publio Cornelio Tacito (55-120 d.C.),
il quale inoltre aveva lodato la virtù di un popolo ben più arretrato rispetto a
quello romano: i Germani. Gli argomenti portati da Rousseau erano, quindi,
perfettamente inscrivibili al pensiero di molti altri intellettuali del XVIII
Secolo.
2. Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes
(1755) così come il primo discorso, anche il secondo discorso nasce da un
concorso bandito dall’Accademia di Digione su un tema ben preciso: qual è
l'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini e se essa sia autorizzata dalla legge
naturale. Questo discorso rappresenta la nascita del pensiero kulturkritisch
moderno: il primo discorso era caratterizzato da “supposizioni
antropologiche vaghe […] e nessuna logica che mettesse le basi per uno
sviluppo [storico e fondato] della depravazione”. Al contrario, il secondo
discorso “formula un proprio notevole modo di porre un problema dal punto
di vista antropologico e della filosofia della storia, il quale comprende un
ampio orizzonte temporale e rende possibile [trattare] una grande varietà di
temi”. Infatti, nel secondo discorso Rousseau sfrutta una serie di fonti che
provengono da numerose discipline diverse: la filosofia dell’antichità, il
moderno giusnaturalismo, l’etnologia e le moderne scienze naturali.
Quest’espansione delle fonti, sia da un punto di vista temporale che
temporale, è fondamentale per creare un’analisi kulturkritisch. Tuttavia, va
fatto notare che Rousseau non cerca semplicemente di scrivere una storia
universale dell’uomo (il suo interesse non è nella storia in sé), ma piuttosto
che si interessa al passato per ottenere informazioni sulla condizione
originaria dell’uomo e comprendere/prevedere suoi possibili comportamenti
futuri. Egli cerca di capire come vivevano gli uomini nello Stato di natura e
non analizza il seguente sviluppo solo dal punto di vista dell’uomo borghese
e civilizzato.
Innanzitutto, Rousseau individua due tipi di diseguaglianze tra gli uomini:
14
Il pensiero di Hobbes (1588-1679), in estrema sintesi, può essere riassunto con la locuzione latina homo
homini lupus (‘l’uomo è lupo per l’altro uomo’): nel suo Stato di natura l’uomo è profondamente egoista e
cerca di sopraffare l’altro uomo. Solo se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, regolando i
loro rapporti con delle leggi, possono vivere in pace. Questa è una visione della società diametralmente
opposta a quella di Rousseau.
Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò
persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile.
Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al
genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse
gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti,
se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno. 15
15
Rousseau, Jean-Jacques, Discorso sull’origine e il fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini, 1795:
https://digilander.libero.it/bib.sangiuseppe/Sito%20biblioteca/sussidi_file/Rousseau_dialogo.pdf
A questa prima rivoluzione segue una seconda rivoluzione: la proprietà
privata causa la nascita dell'interdipendenza e della divisione del lavoro, in
quanto coloro che lavorano nell’agricoltura lo fanno in modo che altri
possano lavorare nella metallurgia, che a sua volta è fondamentale perché il
villaggio si difenda. A questo punto subentrano le differenze individuali, di
capacità e ingegno, che permettono ad alcuni di produrre di più e ad altri di
meno: nascono i poveri e i ricchi. Nasce, in seguito, anche la necessità di
apparire: si diventa schiavi degli altri e delle altrui opinioni, soggette tra
l'altro al mutare delle mode. La nascita di relazioni stabili (assenti nello Stato
di natura), inoltre, generano sentimenti quali l’amore e il rancore: si giunge
così al diritto del più forte, cioè a uno stato di guerra permanente. Per questo,
è necessaria la nascita del diritto, il quale, tuttavia, è uno specchietto per le
allodole creato e voluto dai più ricchi, poiché sono quest’ultimi che rischiano
di più dall'assenza di leggi, mentre i poveri non avrebbero nulla da perderci,
se non la libertà, che è il bene più prezioso. I potenti (i ricchi) si vedono
legittimare la loro proprietà (che fino a questo momento detenevano solo per
un atto di forza) e i deboli (ossia i poveri) si vedono togliere la loro
possibilità di annullare la diseguaglianza. L'esito finale è l'avvento del
dispotismo: alla fine di esso tutti gli uomini tornano uguali, come nello stato
di natura, con la differenza fondamentale che ora sono tutti privi di tutto,
obbligati a seguire non la propria volontà ma quella del despota, che a questo
punto governa solo in virtù della propria forza (vige la legge del più forte). A
questo punto, Rousseau intuisce il possibile corso degli eventi futuri: una
forza verrà contrastata da una forza contraria. Viene quindi contemplata la
possibilità che avvenga una rivoluzione: ora il contratto che regge il governo
può considerarsi sciolto, e i cittadini hanno il pieno diritto di rovesciare il
despota. Ciò nonostante, non possono più tornare indietro allo stato di
natura, dal momento che le passioni svegliate nel processo non possono più
essere assopite. Il selvaggio vive costantemente in sé stesso, mentre l'uomo
civile vive costantemente fuori di sé, all'interno dell'opinione altrui.
Tuttavia, se la società nel suo complesso è definitivamente corrotta, il
singolo individuo può trovare una via di fuga: il processo di civilizzazione
ha sì depravato l’uomo, ma non è stato in grado di distruggere le sue
caratteristiche innate. L’uomo, infatti, resta per natura buono, mentre la
malvagità è da ricondurre unicamente alla società.
Il pensiero di Rousseau si distingue da quello dei suoi predecessori in quanto egli mira
“non solo a smascherare e far ricredere, ma vuole mostrare anche delle conclusioni nel
campo della prassi”. Al momento di riflessione segue un momento di attività pratica:
dopo aver diagnosticato la malattia, il Kulturkritiker deve anche consigliare una terapia.
È così che Rousseau non si limita a mostrare la realtà pessimistica di un presente in
continua degenerazione, ma elabora dei modelli alternativi (Ersatzmodelle) che
migliorino la realtà. Poiché non è possibile tornare allo Stato di natura (che peraltro per
Rousseau era una finzione finalizzata a fornire un metro di valutazione della corruzione
dello stato presente), è indispensabile edificare uno Stato legittimo. Anche in questo
caso, due sono i testi fondamentali (che rappresentano, tuttavia, delle utopie):
Esiste una relazione continua di scambio tra ciò che succede nella prassi e ciò che
succede nella teoria: la teoria viene influenzata dalla prassi, ma a sua volta influenza la
prassi.
Importante è anche il pensiero del sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002), il
quale ha elaborato, a partire dai primi anni ’80, la cosiddetta teoria del campo culturale
(Feldtheorie). Egli propone un modo differente di osservare le trasformazioni storiche
rispetto alla logica diacronica. Una considerazione diacronica della storia colloca gli
eventi storici lungo un arco temporale basandosi su legami di successione (colloca i fatti
lungo un asse verticale), sfruttando delle categorie di periodizzazione (delle astrazioni e
semplificazioni) che semplifichino l’apprendimento della storia. A questa
considerazione, Bourdieu sostituisce una considerazione di tipo sincronico: essa non
studia i rapporti di successione, ma le relazioni di contemporaneità. Egli ricostruisce
grandi momenti di trasformazione nella storia della cultura posizionandoli su un’asse
orizzontale: esse sono come un campo di forze in contrasto tra loro e segnate dallo
sviluppo di strategie di patteggiamento. Ciò significa che non vi è un continuo
susseguirsi di culture/popoli, ma che nel campo culturale vi possono essere più concetti
ottenuti da un patteggiamento: le idee vecchie vengono assimilate e fatti propri dai
nuovi soggetti, i quali sottopongono queste idee a una parziale correzione di prospettiva
rendendo queste idee nuovamente efficaci e conformi ai bisogni di questi soggetti. Egli
legge la storia della cultura sulla base di un conflitto permanente tra soggetti egemoni
(che hanno il controllo del campo culturale) e soggetti portatori di bisogni differenti da
quelle dei soggetti egemoni (che lui definisce nuovi entranti): tuttavia, non è detto che a
ogni nuovo ingresso vi sia una rivoluzione nelle idee. Al contrario, avviene una
trattativa nelle zone di confine tra i bisogni di un gruppo e i bisogni di un altro gruppo:
qui le idee si mescolano e le esigenze si contaminano ed è proprio qui che vengono a
crearsi nuovi concetti. I nuovi entranti vogliono ottenere l’egemonia del campo culturale
(e della società nel suo insieme), in quanto per ottenere dominio materiale è necessario
avere anche forme ideologiche/simboliche per legittimare il proprio potere: la sovranità
ha necessità di forme di legittimazione che sono prettamente culturali.
Quest’ultimo concetto si lega al concetto di Gründungsmythen (miti di fondazione):
in occasione di un passaggio di egemonia, il nuovo gruppo egemone ha bisogno di
legittimare il proprio potere non solo attraverso l’esercizio materiale della forza, ma ha
bisogno di consolidare la propria egemonia anche sul piano culturale. Ciò avviene
attraverso dei miti, ossia delle forme di narrazione/racconti che permettano di presentare
sé stessi con una forma di continuità con la storia collettiva e i suoi elementi comuni
(tradizione condivisa): per esempio, in diversi momenti della storia tedesca si farà
spesso riferimento al termine Reich, in quanto esso segna una linea di continuità nella
storia tedesca e legittima la sovranità di chi, in quel momento, si richiama a tale
categoria, si agganciano a una tradizione e la costruiscono.
- Cuius regio eius religio principio già affermato con la pace di Augusta
(1555), ma i cui princìpi furono estesi anche ai calvinisti: indica l'obbligo del
suddito di conformarsi alla confessione del principe del suo Stato, sia essa
protestante o cattolica. Fu stabilito, inoltre, che i sovrani dovessero rispettare le
minoranze religiose e che, se un principe si fosse convertito ad altra religione,
non avrebbe più avuto alcun diritto sulle proprie terre. La pace di Vestfalia,
quindi, determinò la fine di un lungo periodo di guerre di religione.
- Sovranità nazionale fu riconosciuta ai prìncipi tedeschi la piena sovranità
territoriale e il diritto di stringere alleanze, purché non fossero contro
l'Imperatore e l'Impero, riconoscendo ufficialmente la struttura federale
dell'Impero. Dopo il 1648, quindi, gli Asburgo detennero sull’impero solo
un’autorità formale, mentre continuarono a esercitare una vera sovranità sui
propri domini diretti (Boemia, Ungheria e Austria).
Oltre a sancire questi due principi, la Pace di Vestfalia modificò la cartina dell’Europa:
Fu l’area germanica a subire più pesantemente il peso della guerra: il suo territorio, per
quasi trent’anni, era stato teatro del conflitto, aveva subito saccheggi e devastazioni. La
crisi demografica fu terrificante: si stima che in questo lasso di tempo la popolazione
dell’Impero calò del 40 % e in alcune aree addirittura arrivò al 70% (Pomerania,
Brandeburgo e Palatinato furono le più colpite). Alle devastazioni inflitte dalla guerra
vanno aggiunte le epidemie e le carestie che, nel corso del XVII Secolo, colpirono quasi
tutta l’Europa. In totale, si stima che la popolazione dell’Impero passò da circa 17
milioni prima della guerra a 10 milioni nel 1648. Ovviamente, il calo demografico e la
guerra furono seguiti da una depressione economica e da un calo degli scambi
commerciali: queste condizioni saranno la causa principale dell’arretratezza della
Germania nei confronti di altri paesi come Inghilterra, Francia e Paesi Bassi nel XVIII
Secolo.
Nella storiografia europea il Sacro Romano Impero “si prese la colpa [del fatto che] la
Germania fosse una nazione in ritardo”.16 Si dice spesso, infatti, che la Germania è una
verspätete Nation: questo perché rispetto ad altre nazioni (come Inghilterra e Francia)
essa ha una tradizione come Stato unitario molto più breve, nonostante almeno dal
XVIII Secolo si potesse riconoscere l’esistenza di una nazione culturale tedesca. Il
difficoltoso percorso della Germania verso la modernità fu una conseguenza indiretta
della difficoltà non solo da parte degli Asburgo, ma di qualsiasi principe o duca
dell’Impero, di creare uno Stato unitario e centralizzato. Dopo la Guerra dei Trent’anni
gli Stati tedeschi erano divisi in 350 stati indipendenti e sovrani. La mancanza di uno
Stato unitario fu una grave fattore di arretratezza, perché non permise la presenza di
alcuni elementi di modernità. Innanzitutto, data la presenza di tanti Stati di dimensioni
più o meno grandi e con sistemi giuridici differenti, non vi era una buona circolazione
delle merci: a ogni frontiera i signori locali richiedevano il pagamento di dazi. Inoltre,
l’assenza di uno Stato assoluto in grado di avere un saldo controllo sul proprio territorio
non favoriva la presenza di uno Stato di diritto. La mancanza di norme che favorissero
la certezza del diritto fu la causa principale del mancato sviluppo del capitalismo nella
Germania dell’epoca: mentre paesi come l’Inghilterra e i Paesi Bassi stavano
sviluppando il proprio capitalismo, la Germania aveva ancora un’economia basata
praticamente solo sull’agricoltura. Inoltre, in confronto all’Inghilterra, dove la nobiltà e
la borghesia avevano già preso parte alle decisioni politiche dello Stato, e alla Francia,
16
Wilson, Peter H., The Holy Roman Empire. A Thousand Years of Europe’s History, Penguin Books,
City of Westminster, 2016, p. 3.
dove la borghesia stava iniziando ad avere margini di attività politica che
raggiungeranno l’apice verso la fine del XVIII Secolo, la borghesia tedesca (o per lo
meno dell’area germanica) non aveva a disposizione lo spazio sociale per mettere in
pratica i propri principi e le proprie idee.
L’aristocrazia in Germania, dal punto di vista culturale, era troppo arretrata e quindi
non si poteva aggregare alla borghesia: questo perché gli Stati tedeschi, dalla pace di
Vestfalia in avanti, adotteranno l’Assolutismo dalla Francia. L’affermazione dello Stato
Assoluto trae le sue origini dalla filosofia di Thomas Hobbes (1588-1679), che
nell’opera Leviathan, or The Matter, Forme and Power of Common Wealth
Ecclesiastical and Civil (1651) affermava che l’uomo deve rinunciare al suo diritto
naturale su tutto, uscire dallo Stato di Natura ed accettare un contratto mediante il quale
ciascun individuo acconsentirà a sottomettersi ad un unico potere supremo, per
l’appunto il monarca, il cui potere era d’origine divina. In quanto l’esercizio del potere
gli veniva garantito da Dio, le uniche leggi che il Sovrano avrebbe dovuto seguire erano
quelle di successione e quelle divine: il Monarca Assoluto accentra su di sé tutti i poteri
dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) e non accetta più alcun corpo
intermedio tra lui e il popolo. Tra gli Stati tedeschi in cui la monarchia assoluta si
affermò vanno ricordati: lo Herzogtum di Sachsen-Weimar-Eisenach (1572-1809) con
Ernst August I. (1688-1748) della dinastia Wettin, il Kurfürstentum Bayern (1623-1806)
con Maximilian III. Joseph (1727-1777) della dinastia Wittelbach e l’Erzherzogtum
Österreich con Maria Theresa (1717-1789) della dinastia degli Asburgo. Tra questi,
tuttavia, la monarchia assoluta fu importante fu la Preußen.
Lo Herzogtum Preußen era dal 1526 uno Stato vassallo della corona polacca e il
primo duca di Prussia fu Albrecht von Hohenzollern (1490-1568): solo nel 1657 i
principi elettori Hohenzollern ne acquisirono la sovranità. Quest’ultimi, dal XIV Secolo,
erano anche Margravi del Kurfürstentum Brandeburg e nel 1618 unirono i loro
possedimenti in un’unione personale con il nome di Brandenburg-Preußen. Alla fine
della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) gli Hohenzollern riuscirono a rendere la loro
Prussia uno stato forte: annessero la Pomerania Orientale, il Ducato del Magdeburgo e
alcune zone della Renania. A gettare le basi future del potere della Prussia fu Friedrich
Wilhelm I. (1620-1688), in quanto egli fu in grado, grazie al supporto finanziario degli
Junker, di creare un piccolo esercito permanente per il suo regno e a istituire un
Generalkriegskommissariat: un organo incaricato di riscuotere in tutto lo stato le tasse
di guerra. Federico Guglielmo si preoccupò di risistemare l'economia del Brandeburgo
accogliendo i vari esuli delle nazioni confinanti (in particolare gli ugonotti) e
promuovendo la costruzione di nuove infrastrutture (industrie, strade, dighe, canali,
bonifica delle paludi). Suo figlio, Friedrich I. von Preußen (1657-1713), ottenne
dall’Imperatore il titolo di Re della Prussia e del Brandeburgo (1701) in cambio del suo
supporto nella Guerra di successione spagnola (1701-1714). Monarca interessato alla
cultura e alle arti, durante il suo regno la Prussia divenne un richiamo per molti artisti,
scienziati e letterati e fu proprio poco dopo la sua incoronazione che il Berliner Schloss
divenne una delle residenze più lussuose dell’epoca. Il figlio ed erede Friedrich
Wilhelm I. (1688-1740) fu un uomo totalmente diverso: egli cercò di costruire un
apparato statale centralizzato eliminando le autonomie cittadine e costringendo gli
aristocratici a rinunciare alla loro rappresentanza politica. In cambio, la nobiltà trovò
spazio nella carriera amministrativa e militare e ottenne un’ulteriore estensione della
servitù della gleba. Inoltre, egli istituì un sistema fiscale efficiente che andava a
finanziare l’esercito (che assorbiva due terzi delle rendite dello stato), il quale veniva
rifornito dall’istituzione della leva militare obbligatoria: gli aristocratici dovevano
iniziare la loro carriera nelle fila dell’esercito e i servi della gleba potevano liberarsi
diventando militari. Alla sua morte, il figlio Friedrich II. der Große (1712-1786) si
ritrovò uno Stato pronto a inserirsi nei conflitti geopolitici dell’Europa. Egli fu un vero e
proprio sovrano illuminato e favorì una serie di riforme politiche, culturali e militari che
resero la Prussia uno delle principali potenze d’Europa. Si riteneva un intellettuale e un
artista: parlava perfettamente il francese e si autoproclamava re filosofo, cosa che lo
fece entrare in contatto con molti filosofi illuminati suoi contemporanei (come
Voltaire). Nonostante il disprezzo per la guerra, Friedrich II. continuò l’opera del padre:
rafforzò l’apparato burocratico dello Stato e l’esercito, ora composto da veri e propri
professionisti. Guidò il suo esercito nella Österreichische Erbfolgekrieg (1740-1748),
attraverso la quale ottenne il controllo della Slesia, e riuscì, attraverso un’astuta strategia
diplomatica con Russia e Austria, a conquistare la Pomerania Occidentale (1772).
Inoltre, egli riuscì a conferire uno status di potenza alla Prussia attraverso la netta
vittoria contro la Sassonia nella Siebenjähriger Krieg (1756-1763). Alla sua morte, nel
1786, l’esercito prussiano contava 195.000 uomini (superando l’esercito francese) e la
Prussia era ormai riconosciuta come una potenza europea.
Da questo punto di vista, appare evidente come la borghesia fosse completamente
tagliata da qualunque decisione politica e non avesse alcun margine di azione: il
monarca, gli Junker e l’apparato militare erano i veri protagonisti della vita prussiana.
Una situazione simile, anche se con risultati meno eclatanti, si poteva riscontrare in tutto
l’Impero. La borghesia, di conseguenza, doveva ricorrere a un’alternativa non potendo
affermare sé stessa come stava avvenendo in altri paesi occidentali: in Germania la
borghesia doveva riversare i propri bisogni/aspirazioni nel campo della cultura, la quale
svolgeva una funzione di compensazione, di riequilibrio rispetto al desiderio di
riformare la società e di agire nella società. Si può così affermare che la cultura tedesca
del ‘700 fosse una cultura borghese e lo era in relazione a tutti i soggetti attivi nei
processi di produzione e consumo di cultura: i produttori della cultura tedesca del 1700
appartenevano alla borghesia e alla borghesia apparteneva la maggioranza dei riceventi i
prodotti culturali.
La produzione della cultura nelle mani della borghesia venne favorita dalla Crisi del
Sistema di Protezione Mecenatistica: tra il 1500 e il 1600, in pieno clima di umanesimo,
era comune che i soggetti egemoni appartenenti alla grande aristocrazia e al clero
investissero ingenti capitali nella promozione, nel sostegno e nella tutela di attività
intellettuali. In cambio del loro supporto questi mecenati richiedevano qualcosa in
cambio: l’intellettuale avrebbe dovuto dare in cambio una contropartita, non materiale,
ma simbolica, un sostegno di natura ideologica che alimentasse il potere e l’immagine
del mecenate in questione. Tra fine ‘600 e fine ‘700 questo sistema iniziò a sgretolarsi:
gli intellettuali iniziarono a richiedere spazi sempre più ampi di indipendenza, cosa non
possibile in un regime di libertà condizionata come quello mecenatistico. La fonte di
sostentamento dell’intellettuale cambiò: non più il sostegno del mecenate, ma il
gradimento del pubblico. La finalità dell’intellettuale, così, non coincideva più con
l’appagamento del committente, ma dipendeva dalla capacità dell’individuo di
soddisfare il pubblico e di orientare e anticipare gli interessi del pubblico. Nel 1700 il
campo culturale si ridefinisce e si plasma sugli interessi della borghesia del tempo:
borghesi gli autori, borghesi i destinatari e borghesi i contenuti.
Il luogo in cui i borghesi possono dare vita alle loro idee divenne il teatro, che
tuttavia non era moderno come quello inglese o francese: non vi sono compagnie di
attori professionisti e strutture che ospitano le rappresentazioni teatrali. Le
rappresentazioni teatrali della Germania del 1600 avvenivano in fiere, feste cittadine
con compagnie di attori dilettanti e trattavano temi popolari. Le altre possibilità in cui
poter effettuare delle rappresentazioni teatrali erano rappresentate dalle corti dei diversi
aristocratici degli Stati tedeschi o nei luoghi del clero: ovviamente qui le
rappresentazioni teatrali erano rivolte a pubblici molto più ristrette ed erano vincolate ai
mecenati di turno. Tutto ciò cambiò nel 1700: vennero, infatti, costruiti i primi edifici
adibiti alle rappresentazioni teatrali (per l’appunto i teatri). Esemplare, a tal proposito, la
Französische Komödienhaus (1774-1802) a Berlin.
Parallelamente nacquero anche le prime case editrici moderne: non più officine di
artigiani in grado di produrre libri concepiti per essere oggetti estetici/d’arte, ma
moderne case editrici che non miravano più alla produzione di oggetti unici, ma a
produrre oggetti (libri) in quantità industriale che potessero circolare velocemente sul
mercato. Mercato che allo stesso tempo era sempre più ampio: la quantità di copie
vendute divenne l’indicatore del successo di un autore. Per raggiungere un pubblico più
ampio l’industria editoriale moderna cambiò completamente il suo modo di essere:
produrre oggetti di pronto consumo da vendere immediatamente, con un particolare
occhio al rapporto tra il prezzo di vendita e i materiali di produzione. Cambia la
concezione dell’editore: non più un artista accanto a un artista, ma un imprenditore con
lo scopo di realizzare il massimo profitto. Nella Germania del 1700 vi era una richiesta
pressante di libri: la lettura divenne una pratica non più elitaria e limitata a pochi
individui, ma un atto comune e quotidiano che riguardava un pubblico più vasto.
Cominciarono a formarsi anche le prime biblioteche pubbliche e gli appartamenti
borghesi iniziarono a presentare anche biblioteche domestiche. Importante divenne
anche il mezzo delle riviste: in un secolo di lettura, le riviste divennero lo strumento
attraverso le quali gli intellettuali ritenevano di poter intervenire in maniera immediata
(le riviste hanno cadenza settimanale o mensile solitamente) sugli argomenti e i temi più
importanti del loro tempo. Cambiò anche il modo in cui gli autori si dovevano
esprimere: un trattato è lungo e segue un modello stabilito, mentre l’articolo è molto più
snello e richiede meno impegno da parte dell’autore.
Tutto ciò influisce sul modo in cui gli intellettuali si ricollocano nei confronti della
società e il modo in cui riescono, o provano, a influenzarla: questo perché solo il campo
della cultura, nella Germania del tempo, era un campo aperto in cui la borghesia poteva
provare ad agire e a esprimere il proprio desiderio di cambiare. Il campo della cultura è
l’unico campo nel quale la Germania non è arretrato rispetto ai paesi più avanzati
dell’epoca (Inghilterra e Francia). Le riviste riescono anche a favorire lo sviluppo della
mediazione culturale. Nonostante non vi siano i supporti tecnologici di oggi, le riviste
del tempo riescono a permettere un transfer culturale (Kulturtransfer) tra le più
importanti culture del tempo: vi sono sezioni dedicate all’esposizione di recensioni di
libri o alla pubblicazione di saggi/opere di altre culture in lingua tedesca. Ovviamente,
perché ciò avvenga è necessario che vi sia un personale altamente qualificato. Per
questo, nel 1700 nasce la moderna figura del traduttore: si traduce continuamente, con
avidità, si cerca di avere notizie continue su ciò che sta avvenendo in altre culture. Da
questo punto di vista, il ‘700 può essere considerato il secolo della mediazione culturale
e della traduzione: non solo si traduce/media, ma vi è anche una riflessione
metalinguistica sulla traduzione stessa. Persino nelle università inizia a diffondersi
l’insegnamento delle lingue: vengono reclutati dei professionisti qualificati che
conoscano lingue e culture d’interesse e gli si assegna delle cattedre universitarie.
L’atteggiamento degli intellettuali tedeschi del ‘700 nei confronti della società tedesca
dell’epoca può essere riassunta con il concetto di deutsche Misere: per gli intellettuali,
la società tedesca appare continuamente in crisi, come rimanente in una condizione di
perenne provincialismo e chiusura nei confronti dei mutamenti sociali della modernità.
Gli intellettuali usano questa retorica della crisi per prendere distanza dal loro tempo,
ma essa è sempre spinta da una tensione verso la ricerca di soluzioni e modi con cui
risolvere questa situazione. L’intellettuale rimane in una collocazione marginale rispetto
al campo della prassi, ma allo stesso tempo guarda in due direzioni: da un lato
l’intellettuale è colui che è in grado di diagnosticare i problemi della società tedesca, ma
allo stesso tempo è come un profeta che punta il dito verso i propri concittadini per
mostrar loro le possibili vie che porteranno un cambiamento.
Questo atteggiamento, tipico della Kulturkritik, è evidente in un momento di rottura
della società tardo settecentesca: la Rivoluzione Francese (1789). Alla fine del 1700 la
Francia era lo Stato europeo che più di tutti presentava le caratteristiche di una società
di Ancien Régime: una monarchia assoluto guidata dal Borbone Louis XVI (1754-
1793), il quale governava per diritto divino e concentrava su di sé tutti i poteri, e la
società era rigidamente divisa in ordini (clero, nobiltà e terzo stato), i quali anche al loro
interno erano molto eterogenei. La situazione economica della Francia nella seconda
metà del ‘700 era disastrosa: lo Stato si trovava in una situazione di deficit finanziario
dovuta al costo delle spese militari e del mantenimento della corte reale, cosa che spinse
i monarchi a inasprire la politica fiscale sempre di più. Il problema, tuttavia, era che
clero e nobiltà (gli ordini più importanti) godevano del privilegio di essere esentati dalle
tasse: la pressione fiscale, quindi, veniva riversata completamente sul terzo stato, che
rappresentava il 98% della popolazione francese. La situazione raggiunse un punto di
non ritorno durante il regno di Luigi XVI: il monarca si trovò costretto a dover
estendere la tassazione anche ai ceti privilegiati. Cosa che incontrò la resistenza di
quest’ultimi e la convocazione degli Stati generali: l’assemblea composta dai
rappresentanti dei tre ordini. Attraverso questa assemblea si arrivò all’istituzione di
un’Assemblea Nazionale Costituente (9 luglio 1789), ma ormai era tardi. Il 14 luglio, il
popolo assalì e distrusse la Bastiglia, il carcere politico e simbolo dell’antico regime: la
rivoluzione era iniziata. Parallelamente, nelle campagne i contadini iniziarono a
ribellarsi e ad attaccare i castelli dei nobili. Il risultato fu che venne abolita la servitù
della gleba (che persisterà in forma minore fino al 1792) e vennero proclamati i diritti
inviolabili e naturali di ogni uomo. Luigi XVI riuscì a mantenere il suo status non più
come Re di Francia, ma come Re dei Francesi. Quest’ultimo, nel 1791, cercò di fuggire
per riunirsi a un gruppo di nobili francesi che stavano cercando supporto nelle corti
d’Europa per organizzare un esercito antirivoluzionario. Crebbe la tensione nei
rivoluzionari, in particolare nelle fazioni politiche dei foglianti e dei girondini, i quali
decisero di dichiarare guerra all’Austria (supportata dalla Prussia). L’esercito
rivoluzionario, estremamente disorganizzato, subì inizialmente una serie di sconfitte, ma
riuscì a respingere l’esercito austro-prussiano a Valmy (20 settembre 1792): questa
vittoria diede nuova forza all’ideale rivoluzionario e creò il clima per convincere la
Convenzione Nazionale ad abolire la monarchia. Il re, ormai spoglio di ogni potere,
venne sottoposto a processo e ghigliottinato il 21 gennaio 1793. Pochi mesi dopo, il 24
giugno 1793 venne proclamata la nascita della Repubblica. La rivoluzione entrò nella
sua fase più radicale: si diffuse l’ideale di esportare la rivoluzione ai paesi che erano
ancora oppressi dalla tirannide attraverso la guerra. Questa presa di posizione alienò ai
Francesi la simpatia di numerosi intellettuali dell’epoca e diede iniziò al periodo del
terrore: in questo frangente crebbe il ruolo del giacobino Maximilien-François-Marie-
Isidore de Robespierre (1758-1794), il quale adottò delle misure fortemente repressive
nei confronti dei suoi oppositori. La vittoria della Francia contro la prima coalizione
antifrancese, avvenuta con la vittoria di Fleures (26 giugno 1794), dimostrò al popolo
francese che la Francia non correva più pericoli immediati e che, quindi, la politica del
terrore non era più necessaria: il colpo di Stato del 9 termidoro sancì la fine del governo
giacobino e la fine di Robespierre. Nell’agosto del 1975 venne emanata una nuova
Costituzione (la Costituzione dell’Anno III) e iniziò così il governo del Direttorio
(1795-1799). Nel frattempo, continuava la guerra con l’Austria: le truppe vennero
affidate al giovane generale Napoleone Bonaparte (1769-1821). Egli guidò la campagna
d’Italia, dove fondò una serie di repubbliche filofrancesi (le repubbliche sorelle):
Inoltre, la campagna d’Italia doveva servire a Napoleone per ottenere delle carte da
usare nelle trattative di pace con l’Austria: infatti, con il trattato di Campoformio (17
ottobre 1797), il territorio della Repubblica di Venezia, precedentemente conquistato da
Napoleone, divenne parte integrante dell’Austria. Nel frattempo, tuttavia, l’Impero
Britannico organizzò la seconda coalizione antifrancese (1798), cui aderirono Austria,
Russia, il Regno di Napoli e l’Impero Ottomano (preoccupata dell’interesse francese
sull’Egitto, parte del suo territorio). Le offensive inglesi, russe e austriache furono
respinte dalle armate francesi, ma l'Italia fu in gran parte persa e i risultati della
campagna di Bonaparte resi vani. Era ormai chiaro che il popolo francese cercava un
nuovo uomo forte per difendere le sorti della Repubblica poiché il Direttorio era
inesorabilmente corrotto e cominciava a tramare con Louis XVIII (1755-1824) per
restaurare il trono dei Borbone. Allarmato da queste notizie e conscio che la sua ora era
giunta, Napoleone tornò dall'Egitto e assunse il comando del complotto che mirava a
rovesciare il Direttorio: con il Colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) il
governo venne affidato a un triumvirato, di cui Napoleone era il leader indiscusso. Ebbe
così fine la Rivoluzione Francese.
Seppur questo fenomeno non colpì direttamente la società tedesca, essa catturò
l’attenzione degli intellettuali tedeschi (convinti che la società tedesca avesse bisogno di
un cambiamento) e rimasero in attesa di vederne gli sviluppi futuri su ciò che era la
società francese. Dopo un iniziale momento d’interesse, tuttavia, vi fu un momento di
rifiuto nei confronti della rivoluzione: a causa della sua progressiva radicalizzazione, la
Rivoluzione non era adatta per cambiare definitivamente la società tedesca. In particolar
modo, portatori di questa opinione saranno i membri del movimento del Classicismo di
Weimar (Weimarer Klassik). Il nome deriva dal toponimo del luogo in cui questo
movimento nacque: il Ducato di Sachsen-Weimar-Eisenach. I regnanti di questo
Herzogtum, constatata la non possibilità di poter emergere come potenza politica e
militare, decisero di rendere Weimar la capitale culturale dell’allora Sacro Romano
Impero. Nel giro di pochi anni, infatti, vennero invitate una serie di personalità di
spicco:
Nel giro di pochi anni Weimar divenne uno dei più importanti centri culturali del tempo:
il progetto verrà avviato, in particolar modo, dalla Herzogin Anna Amalia von
Braunschweig-Wolfenbüttel (1739-1807). Nel frattempo, a non più di 20 chilometri da
Weimar, a Jena vennero poste le premesse per la nascita dell’altro grande movimento
artistico e culturale destinato ad avere un’influenza mondiale: die Romantik. È curioso
notare come questi grandi movimenti nacquero in un contesto (Weimar e Jena) privo del
benché minimo peso politico.
Gli intellettuali del Weimarer Klassik sentono un forte legame con l’antico, in
particolare con il mondo della Grecia Antica. Dal rapporto tra presente e passato, gli
intellettuali ricavano un modello presente: la finalità non è meramente storiografica, ma
è data dalla necessità che il presente non possa prescindere dal proprio rapporto con
l’antico. L’antichità legittima il presente e lo definisce: si tratta di prendere una
posizione forte sui quesiti del presente sulla base della relazione con l’antichità. Al
contrario, la cultura latina non viene presa in considerazione, o meglio viene considerata
antitetica a quella tedesca, in quanto fu proprio Napoleone, principale rivale del Sacro
Romano Impero agli inizi del 1800, a ispirarsi volontariamente alla cultura romana: egli
si riteneva un novello augusto, l’uomo destinato dal fato a ripristinare i fasti dell’Impero
Romano. La riscoperta dell’arte greca, nel campo culturale tedesco, verrà favorita dagli
studi dello storico dell’arte e archeologo Johan Joachim Winckelmann (1717-1768).
Inizialmente interessati all’ideale della Rivoluzione, sia Goethe che Schiller
elaboreranno un pensiero di aspra critica progressiva che si accentuerà soprattutto con
l’inizio del periodo del terrore. Per entrambi, la Rivoluzione come era avvenuta in
Francia era inadeguata alla società tedesca per una serie di ragioni:
Queste concezioni giustificano il culto nato nella cultura tedesca della seconda metà del
1700 per le opere di William Shakespeare (1564-1616), il genio per eccellenza. Egli,
infatti, era già considerato dai suoi contemporanei come un artista che rompeva con la
tradizione classicista: già nelle sue opere non vi era alcuna traccia della regola
aristotelica della divisione nelle tre unità di tempo, spazio e azione. Egli, nell’ottica
degli Sturm und Dränger, è l’esempio eclatante di come le regole non rispecchino un
principio di verità assoluta, ma siano l’espressione dello spirito di una determinata
epoca storica.
La Natur non è solo una concezione del mondo, ma è anche un motivo letterario portato
avanti con fermezza e costanza dagli Sturm und Dränger. Attraverso la sua stessa opera
l’artista è in grado di tirarsi fuori, almeno a livello spirituale, dalla civilizzazione, di
tornare allo stato di natura e purificarsi. Queste stesse opere sono natura, non hanno
elementi normativi che li costringono alla civilizzazione. Queste opere non coincidono
con la norma di una sola epoca, ma sono in grado di parlare a ogni individuo in ogni
epoca al di là della conoscenza di condizioni storiche specifiche. Questo perché
traggono la loro stessa esistenza da un principio che, per definizione, non è transitorio:
proprio la natura. Non è un caso che una delle opere classiche dello Sturm und Drang è
la prima stesura del Faust (opera che occuperà tutta la vita dell’autore e avrà una
conclusione forzata dovuta alla fine della vita dell’autore stesso) di Goethe: un
individuo che è mosso dal bisogno continuo e atavico di continuare ad aggregare
conoscenza. Tanto più Faust conosce tutto, tanto più Faust non riesce a conoscere il
senso della vita: il nesso che tiene insieme tutto ciò che egli conosce. La sua è una
conoscenza frammentaria, ma non riesce a risalire a una totalità organica.
Ganymed (1774)
Deutsch Italiano
1. Kritik der reinen Vernunft (1781-1787) Alla base del pensiero di Kant vi è
l’idea che l’oggetto della filosofia non coincida con i grandi concetti legati
all’esistenza dell’uomo (la metafisica: la natura di Dio e dell’Uomo), concezione
che risaliva ai tempi di Aristotele. Kant fa piazza pulita: la conoscenza filosofica
deve concentrarsi solamente sui dati a disposizione della sensibilità umana, tutto
ciò che non è percepibile attraverso i sensi non ha, di per sé, interessi di natura
filosofica (ma ricade nel campo della Teologia). Il compito del filosofo consiste
innanzitutto nel chiarire quali sono i processi di conoscenza che portano il
filosofo a sviluppare una certa concezione della realtà: noi conosciamo
solamente ciò che siamo abilitati a conoscere attraverso le nostre capacità
sensoriali e intellettive.
2. Kritik der praktischen Venrunft (1788) in quest’opera Kant affronta il
problema della morale: egli non vuole definire quali precetti etici debbano essere
seguiti dall'uomo, bensì come quest'ultimo debba comportarsi per compiere
un'azione autenticamente morale, e quindi in cosa consiste realmente la morale.
3. Kritik der Urteilskraft (1790) in quest’opera Kant si concentra sul tema della
conoscenza sensibile: quali meccanismi e reazioni si dischiudono nell’uomo
attraverso la percezione sensibile. Secondo Kant, la conoscenza attraverso l’arte
(il contatto con opere d’arte) rappresenta la più alta forma possibile di
conoscenza attraverso i sensi. Il contatto con l’arte non presuppone l’utilizzo
dell’intelletto, ma può essere raggiunta anche solo con i sensi. L’Arte è la forma
di conoscenza sensibile più alta dell’uomo, in quanto nell’incontro con l’opera
d’arte l’uomo viene a contatto con un oggetto dal quale l’artista ha già definito la
forma. Quando facciamo esperienza del mondo esso ci appare come un ordine
caotico di cui non riusciamo a riconoscere una forma, mentre l’opera d’arte ha
già subito questo processo di formazione: ci si presenta in una forma giù
strutturata cosicché l’uomo non deve riordinare i dati acquisiti attraverso i sensi.
Nel fare esperienza sensibile del mondo, ossia nel conoscere la realtà senza
mediazione razionale, l’uomo si ritrova in una condizione di libertà dal fine.
Kant afferma che nell’incontro con l’arte l’uomo può ritrovarsi in uno stato di
Interesselosigkeit (mancanza di interesse/indeterminatezza): ossia indipendenza
da una finalità specifica/libertà dal perseguimento di un obiettivo determinato.
Schiller riprende in particolar modo le idee espresse nella Critica del Giudizio: l’Arte ha
la funzione di liberare l’uomo dalle condizioni di vincolo della modernità e liberandone
il potenziale inespresso. L’arte non ha fine e non ha alcuna utilità pratica: essa non è
vincolata ad alcuna realizzazione materiale e non deve produrre nulla. Per questo
colloca l’uomo in una dimensione di gratuità e di mancanza di fine, permettendogli così,
almeno per un momento, di liberarsi dalle convenzioni del moderno e dalla civiltà.
Schiller indica l’attività estetica con il termine Spielen, verbo che in tedesco è
polivalente (significa sia giocare che rappresentare) e afferma che alla base dell’opera
d’arte vi è un certo Spieltrieb (Impulso Ludico): in entrambi i campi dell’attività umana
vi è l’esigenza di emanciparsi da tutto ciò che vincola e restringe e di poter coltivare,
senza ostacoli, la propria umanità/totalità. Questo impulso è alla base sia dell’esistenza
del bambino che dell’esistenza dell’artista: entrambi caratterizzati dalla mancanza di
fine e di una specifica funzionalità. Esse sono attività del tutto simboliche e non
producono alcunché di concreto: sono le attività prive di utilità per eccellenza.
Si può affermare che con la definizione di Stato Estetico Schiller descriva un’utopia:
la rigenerazione e la liberazione non solo del singolo individuo, ma dell’intero ordine
sociale. Tuttavia, va sottolineato che Schiller non intendeva delineare un programma
politico, ma si limita a descrivere delle categorie che sono, per questa ragione, delle
utopie. Schiller ammette di non avere alcuna idea di come queste categorie si possano
applicare alla realtà dei fatti. Per riferirsi alla condizione ipotetica di un’umanità libera
dalle logiche di sfruttamento della modernizzazione Schiller utilizza un’altra categoria:
l’idillio (Idyll). Egli ricava questo concetto dalla contraddizione tra due categorie:
- Das Naive (l’ingenuo) termine che riassume la poesia e l’identità dei Greci:
indica la capacità dell’uomo greco di sentirsi parte del tutto e si riferisce alla sua
capacità di sentire sé stesso in una condizione di continuità con il mondo. Egli
non percepisce sé stesso come un soggetto distinto dal mondo circostanze, ma si
concepisce come sostanza tra le cose. Non riflette sulla sua condizione, ma si
limita a godere di questo sentimento d’autonomia.
- Das Sentimentalische (il sentimentale) qualità che caratterizza la poesia
moderna: si tratta di una poesia riflessa, dove l’armonia con gli elementi naturali
non è più immediata, ma va cercata e costruita. Questo termine indica “una
sensazione interiore perfezionata basato su fenomeni che mettono in agitazione
il sentimento”.17 L’uomo moderno, al contrario dell’uomo greco, ha sviluppato
una riflessione critica su sé stesso e quindi si è separato dalla natura: non gode
più di quello stato di armonia ingenuo, ma idealizza e anela a tornare a quella
condizione.
Queste due categorie saranno superate, in un futuro non precisato, da un terzo stato:
proprio quello dell’idillio. Questa condizione di felicità ripristinata farà riemergere lo
spirito di quella condizione primordiale, ma in una forma nuova e conforme ai bisogni
spirituali di uomini che, per forza di cose, sono portatori di un’identità molto più
complessa/ingenua rispetto all’uomo greco. Schiller usa una metafora: l’individuo sano
e l’individuo che ha riacquistato la salute dopo averla persa, se li si considera allo stato
attuale delle cose, sono entrambi sani. Tuttavia, hanno una sostanziale differenza: quello
che l’ha ritrovata l’apprezza di più perché ne conosce il vero valore. La differenza
consiste nel livello di consapevolezza. L’uomo sano è l’uomo greco, che gode di una
condizione di benessere senza essersela meritata/averla cercata; l’uomo che è stato
malato e ha riacquisito la salute è l’uomo del futuro, colui che sarà riuscito a rigenerarsi.
Quest’ultimo avrà un valore aggiunto rispetto all’uomo greco: la consapevolezza dello
sforzo fatto per ripristinare la condizione di salute. Gli effetti di natura sociale e politica
saranno solo la conseguenza della rigenerazione spirituale attraverso il contatto con il
bello e l’arte.
Nella sua opera, Schiller rappresenta la situazione delle classi sociali della sua epoca:
da un lato, vi sono le classi popolari, dominate da una concezione materiale
dell’esistenza e le quali tendono al soddisfacimento immediato di bisogni di
sopravvivenza, dall’altro vi sono le classi dominanti (zivilizierte Klassen), la cui
condizione è ancora più disgustosa. Questo perché la cultura stessa è l’origine della loro
depravazione: le classi aristocratiche avrebbero le risorse per migliorare la società nel
suo complesso, ma sono troppo concentrati sul loro profitto. Il modello positivo rispetto
al presente è il mondo greco: essi sono superiori all’uomo moderno in ogni campo, non
solo nelle loro caratteristiche tipiche (sentirsi cosa fra le cose), ma in quanto essi sono
spesso i nostri modelli in quelle stesse virtù con le quali noi siamo soliti consolarci per
17
Bollenbeck, Georg, Eine Geschichte der Kulturkritik. Von Rousseau bis Günther Anders, Verlag C.H.
Beck, München, 2007, p. 104.
l’innaturalezza/l’artificiosità dei nostri costumi. Wie ganz anders bei uns Neuern18:
come è diversa la situazione di noi moderni. La crisi del presente si esprime nella
perdita della totalità: tutte quelle capacità dei greci si esprimono, nella modernità, in
tanti frammenti.
Infine, Schiller usa due metafore per indicare il funzionamento dello Stato greco e di
quello tedesco:
Nel mondo greco lo Stato è un organismo naturale nelle quali le parti partecipano in
maniera attiva al tutto, mentre lo Stato moderno è come un meccanismo nel quale ogni
singolo pezzo svolge una funzione. I cittadini dello Stato moderno sono tali in quanto
portatori di una funzione, non condividono alcuno spirito di totalità e organicità proprio
dello Stato. Nello Stato presente lo Stato e la Chiesa, le Leggi e i Costumi, il Godimento
e il Lavoro, il Mezzo e il Fine, la Fatica e il Premio sono state separate l’una dall’altra.
L’uomo, legato eternamente a un singolo frammento del tutto, si sviluppa come
frammento. Eternamente con nelle orecchie il rumore uniforme della ruota non arriva
mai a sviluppare l’armonia della sua natura: così facendo l’uomo diventa il calco/la
copia della sua conoscenza e del suo lavoro.
Dalle ceneri della Rivoluzione Francese emergerà una figura fondamentale per il futuro
della Francia: Napoleone Bonaparte, il quale reintrodurrà quel principio di
concentrazione dei poteri che la Rivoluzione aveva cercato di sradicare. Napoleone
18
Riedel, Wolfgang, Friedrich Schiller Sämtliche Werke Band 5: Erzählungen, Theoretische Schriften,
Carl Hanser Verlag, 2004, p. 582.
riscriverà la cartina dell’Europa del suo tempo e, in un certo senso, favorirà un certo
processo di semplificazione territoriale e dell’apparato amministrativo: per la prima
volta territori che non erano mai stati uniti (Italia e Germania su tutti) diventano
uniformi da un punto di vista giuridico e amministrativo. La sua conquista dell’Europa
partirà con la sconfitta della seconda coalizione antifrancese (1802), cosa che gli
permise di ottenere, tramite un plebiscito, il titolo di console a vita: a tutti effetti la
Francia era diventata una dittatura. Due anni più tardi, nel 1804, egli fu eletto come
Imperatore dei Francesi: l’età napoleonica aveva inizio. Divenuto Imperatore,
Napoleone sferrò il suo attacco all’Europa:
L’avvio del dominio Napoleone pose gli intellettuali tedeschi di fronte a problemi
totalmente nuovi. Questo perché in Germania, il dominio Napoleonico raggiungerà il
suo apice nel 1806, anno in cui, quasi 1000 anni dopo la sua istituzione, venne dissolto
il Sacro Romano Impero Germanico. Dopo aver sconfitto Austria e Russia, Napoleone
impose alle due potenze la Friede von Pressenburg (26 dicembre 1805): l'Austria fu
obbligata a riconoscere Napoleone come imperatore e a riconoscere la sovranità dei
nuovi re di Baviera e del Württemberg, nonché del granduca del Baden. Inoltre, dovette
dare il suo assenso preventivo alla costituzione della Rheinbund (1806-1814), un nuovo
stato creato da Napoleone grazie all'alleanza tra vari principi tedeschi. Il 12 luglio 1806
16 principi tedeschi (tra i quali proprio i principi di Baviera, Baden e Württemberg)
ratificarono il Rheinbundakte lasciando di fatto l’impero e sancendo la nascita della
Confederazione del Reno. Preoccupato che Napoleone potesse conquistare l’impero e
mettere le mani anche sui suoi possedimenti, l’Imperatore Franz II. (1768-1835)
proclamò ufficialmente lo scioglimento del Sacro Romano Impero. L’esercito
Prussiano, l’unico Stato tedesco in grado di poter provare a far fronte alla potenza
francese, venne completamente sbaragliato nella Schlacht bei Jena (14 ottobre 1806).
Anche l’ultimo speranza di salvare l’Impero era perduta: il mito del Reich, tuttavia,
continuerà a persistere nella memoria di molti intellettuali tedeschi fino alla prima metà
del XX Secolo.
Come detto, Napoleone introdurrà una serie di riforme all’interno dei territori
occupati: in particolar modo verranno introdotte nuove forme di governo, politiche e di
amministrazione. L’influenza francese in Germania consentì di inserire l’economia
tedesca in un contesto europeo, di rendere più efficiente il sistema fiscale e
l’organizzazione amministrativa, di riorganizzare l’istruzione: Napoleone, pur
conquistando l’Europa, liberò diversi paesi dall’Ancien Régime contribuendo a
svecchiare e modernizzare quelle società. Inoltre, le truppe napoleoniche esportarono i
valori democratici e liberali della Rivoluzione e l’idea della nazione, la quale si sarebbe
sviluppata per tutto il XIX Secolo dando vita ai diversi movimenti patriottici e
nazionalistici europei.
L’età Napoleonica aveva sancito un momento di strappo con la società dell’Ancien
Régime: nulla sarebbe tornato come prima, anche se gli Stati usciti vittoriosi dalle
guerre napoleoniche speravano di poter tornare allo status quo ante bellum. Ciò fu
ancora più chiaro con il Wiener Kongress (1° novembre 1814-9 giugno 1815), nel quale
si riunirono le principali potenze del tempo per ripristinare l’assetto prenapoleonico:
l’Impero Britannico, il Kaisertum Österreich, il Königreich Preußen, l’Impero e la
sconfitta Francia. Accanto a queste potenze, che di fatto furono le principali
protagoniste del congresso, vi furono rappresentanti dei Regni di Spagna, Portogallo,
Svezia, il Königreich Hannover (1814-1866), Bayern (1806-1918), Württemberg (1806-
1918) e lo Stato Pontificio, il Regno di Sardegna e di Napoli. A distinguersi fu la figura
del Primo Ministro austriaco Klemens Wenzel Lothar principe di Metternich (1773-
1859). Il congresso stabilì due principi:
- Equilibrio era necessario bilanciare il rapporto di forza tra i diversi Stati
europei onde evitare situazioni di egemonia come era successo con la Francia
napoleonica.
- Legittimità riassegnare il trono ai legittimi sovrani deposti durante il periodo
napoleonico: venne così ripristinata la monarchia, anche se Costituzionale.
Questo principio non venne sempre adottato, come nel caso della Repubblica di
Venezia.
I primi decenni dell’Ottocento furono caratterizzate dalla diffusione delle idee del
Romanticismo: movimento sorto in Germania negli ultimi decenni del 1700, da dopo la
Restaurazione si diffuse in tutta Europa assumendo dei caratteri nazionali. La principale
caratteristica del Romanticismo è l’esaltazione della spontaneità dei sentimenti e il
completo rifiuto del razionalismo dell’Illuminismo.
2.3.1.1. Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg ‘Novalis‘ (1772-1801)
Essi fondarono una rivista: Athenäum, che per tre anni sarà il ‘luogo’ nel quale esporre
le loro opere funzionali, ma anche i manifesti teorici del loro movimento. Questo primo
romanticismo si differenzia dallo Spätromantik in quanto non vi è quella importanza che
gli autori della seconda generazione avrà la questione nazionale. In questa prima fase è
importante il concetto di synphilosophieren: il filosofare insieme. Le idee di un autore
influenzano gli altri e finiscono con l’ibridarsi tra di loro.
Dove il classicismo di Weimar puntava a trattazioni schematiche, nel Primo
Romanticismo si tende a presentare i concetti in saggi brevi e si predilige la forma
dell’aforismo così da poter suggestionare il lettore. Tuttavia, entrambi hanno una
posizione comune: non hanno interesse nella questione nazionale. Il loro obiettivo non
era trovare dei modelli sostitutivi che riguardassero una comunità ristretta (ossia quella
nazionale), ma per l’umanità nel suo complesso. Il punto focale è cercare una strategia
per favorire la rigenerazione dell’umanità e strapparla da uno Stato di crisi
indipendentemente dagli aspetti contingenti della loro identità. La crisi che cercano di
scacciare è quella della civiltà.
I secondi romantici, come Clemens Maria Brentano (1778-1842), invece vedranno gli
aspetti della crisi in un’ottica di comunità nazionale: essi dovranno far fronte alle
invasioni napoleoniche e inizieranno a chiedersi come poter salvare la comunità tedesca.
Inizialmente, anche i romantici furono interessati alla Rivoluzione Francese, ma quando
essa si tramutò nel terrore la rifiutarono completamente. La situazione peggiorò
ulteriormente quando, nel 1806, le forze napoleoniche invasero il Sacro Romano Impero
(di fatto sancendone la sua fine) e imposero su di essa la propria sovranità. La questione
per i romantici non era più fornire un’opzione a un modello di governo inefficiente, ma
una contromossa per poter contrastare la minaccia data dalla possibilità di un destino di
sottomissione (o addirittura di estinzione, data l’invasione francese). Si trattava, quindi,
di elaborare un modello culturale che fosse in grado di dare voce a un’identità collettiva
e di contrastare l’egemonia politica, militare e culturale della Francia. La battaglia,
ancora una volta, andava combattuta nel campo culturale in quanto era evidente
all’epoca come gli Stati Tedeschi non rappresentassero alcuna minaccia militare per la
Francia. La questione che si posero gli intellettuali era la seguente: come si costruisce
un modello identitario di cultura tedesca che possa essere contrapposta a quello
francese. Inizierà quindi a delinearsi il problema della questione nazionale (deutsche
Frage): la Kulturnation deve essere sostenuta da una Staatsnation e quindi, per la prima
volta, sorse il problema di come raggiungere un’unificazione di tutti i territori abitati da
popolazioni di lingua tedesca. Se per gli intellettuali del Classicismo la questione
nazionale non rappresentava una necessità immediata, per gli intellettuali del
Romanticismo essa divenne preponderante a causa dell’occupazione francese. Il
confronto con la Francia era impari su diversi livelli:
- Militare l’esercito appare imbattibile: in qualche mese conquisterà l’Europa
- Politico-amministrativa in Francia vi è una secolare cultura politica che
permette di esercitare un controllo efficacie ed effettivo sul proprio territorio e sui
territori successivamente conquistati.
L’unico campo in cui era possibile combattere ad armi pari era quello culturale. Per
tutelare l’identità tedesca è necessario creare un modello identitario contrario a quello
francese:
- Una più morbida effettuata su opere già pubblicate: vengono ritirate le copie
e vengono rivendute in una nuova edizione rivisitata.
- Una più dura Quest’ultima colpisce le opere ancora da pubblicare e quindi
limita la libertà di stampa.
È curioso notare come questi due autori verranno colpiti da una risoluzione del
Bundestag (1835), che vieterà la pubblicazione di qualsiasi opera di questi autori
in quanto li taccerà di far parte di un gruppo rivoluzionario noto come la Junges
Deutschland: quest’ultima fu una totale invenzione del governo tedesco
filoaustriaco in quanto entrambi gli autori si distanziarono sempre da tale
movimento. Per questo sia Heine che Büchner scriveranno le loro opere in esilio,
il primo a Parigi e il secondo in Svizzera. Essi ritengono che il compito degli
intellettuali e della cultura non sia solo l’espressione del bello, ma consista nel
chiarimento delle relazioni tra la realtà sociale e la politica. Relazioni che non
devono essere passivamente accettate, ma devono essere superate, modificate,
trasformate.
Dalla sua scrittura, il Canto dei Tedeschi è stato riutilizzato e reinterpretato in diversi
modi dai diversi governi tedeschi che si sono susseguiti dal 1848 in poi. Questa strofa
indica tre parole che deve seguire lo Stato Tedesco:
- Einigkeit subito viene identificato il problema della mancata unità degli Stati
tedeschi.
- Recht qui il riferimento è alla mancanza di uno Stato di Diritto e si attacca in
particolar modo la politica di repressione e di censura dell’Impero Asburgico
- Freiheit tali diritti corrispondono e sono la base per la libertà dell’individuo.
Questi tre valori sono valori nutriti e nati dalla cultura giusnaturalistica/liberale tipica
del 1700: lo Stato viene presentato come il garante dei diritti collettivi, sociali e
fondamentali. Non vi è alcun riferimento a una natura marziale dello Stato e a nessun
conflitto con altre nazioni. Viene esaltato il fatto che lo Stato deve essere una casa, un
focolare, una patria per il proprio popolo. La prima strofa (Deutschland über alles) non
venne concepita da Hoffman in chiave esclusiva, ossia come la superiorità dei tedeschi
su ogni altro popolo, ma fa riferimento allo stato politico della Germania degli anni ’40
del 1800: l’obiettivo che deve precedere qualsiasi altro è quello di creare uno Stato
tedesco. Sopra ogni altro obiettivo deve esserci l’obiettivo di costituire una Germania,
non più solo come Kulturnation, ma anche come soggetto politico, ossia come
Staatsnation. Si potrebbe tradurre come: ‘Germania sopra ogni pensiero’. La prima
strofa è intrisa dei valori universali di diritti e libertà da attribuire a ogni individuo tipici
del 1848: dopo il fallimento della Rivoluzione apparirà chiaro anche agli intellettuali
tedeschi che il corso della storia sta procedendo su un’altra via. Sfortunatamente, questa
formula è stata reinterpretata in chiave nazionalistica dalla seconda metà del 1800 (in
particolar modo dal 1871) in chiave di politica di potenza: la Germania, ormai una
nazione, deve competere e prevalere sulle altre nazioni. Peraltro, la nascita di una
nazione tedesca sarà caratterizzata dall’assenza di una partecipazione da parte degli
intellettuali tedeschi e dall’assenza di quelle spinte liberali da esse foraggiate.
Ciò che è storico è, per sua natura, reversibile attraverso dei processi tipici della
storia. Heine esordisce in ambito letterario affermando che con la sua generazione inizia
una nuova epoca: Goethe e Schiller erano esponenti di movimenti letterari privi di
qualsiasi aggancio alla realtà sociale. Infatti, alla morte di Goethe, Heine proclamerà
che con la morte di quest’ultimo ha luogo das Ende der Kunstperiode: la fine del
periodo estetico. D’ora in avanti, secondo Heine, gli intellettuali dovranno rivolgersi
con spirito critico alla realtà in vista di una correzione degli aspetti arretrati/sbagliati
individuati: al contrario, tutti i movimenti precedenti avevano avuto solo una finalità del
bello/estetica. Classicismo e Romanticismo sono diversissimi, ma Heine li individua
come la stessa cosa. Tuttavia, Goethe e Schiller, al contrario di ciò che pensava Heine,
ritenevano di essere strettamente legati alla loro realtà storica: la posizione di Heine è
estrema, ma è giustificata dal fatto che con la sua generazione cambiarono i modi di
rapportarsi con il potere. Tuttavia, tutti gli intellettuali che vengono ricondotte al
Vormärz sono ancora profondamente influenzati da quell’atteggiamento universalistico
che è retaggio diretto dell’Illuminismo settecentesco.
2.3.3. Frühindustrialisierung
L’unificazione tedesca fu portata avanti dal più potente tra gli Stati tedeschi: la Prussia.
Nel 1861 morì Friedrich Wilhelm IV. e salì al trono suo fratello, Wilhelm I. (1797-
1888), il quale come prima scelta politica decise di nominare un nuovo Kanzler: Otto
von Bismarck (1815-1898), che passerà alla storia come l’Eiserner Kanzler (il
cancelliere di ferro). Quest’ultimo era fermamente convinto che dovesse essere la
Prussia a guidare il processo di unificazione tedesca con l’unico strumento che la guerra
mette a disposizione in questi casi, la guerra:
“Nicht auf Preußens Liberalismus sieht Deutschland, sondern auf seine Macht; […] nicht
durch Reden und Majoritätsbeschlüsse werden die großen Fragen der Zeit entschieden – das
ist der große Fehler von 1848 und 1849 gewesen –, sondern durch Eisen und Blut.“
(Otto von Bismarck, Berlino, 20 settembre 1962)
La Rivoluzione non può venire dal basso, ma può solo essere guidata dall’alto. Nel giro
di dieci anni, Bismarck riuscirà a realizzare ciò che nessun altro era riuscito a fare nei
secoli precedenti: l’unificazione della Germania. Ciò avverrà attraverso tre guerre (che
nella storiografia tedesca vengono ricordate come deutsche Einigungskriege):
Il nuovo Stato riprese a grandi linee quella che era stata la Costituzione della Germania
del Nord del 1866. La Germania divenne quindi una monarchia costituzionale:
- Gesetzgebung era esercitato dal Reichstag, eletto direttamente con suffragio
maschile ogni cinque anni, le quali leggi diventavano esecutive previa
approvazione del Bundesrat, il consiglio federale dei deputati degli Stati.
- Exekutive Il potere esecutivo era investito dall'Imperatore, il Kaiser, che
nominava il Reichskanzler e i suoi segretari di Stato, i quali, di conseguenza,
dipendevano unicamente dall’Imperatore.
Mentre gli Stati minori mantenevano i loro governi, le forze armate erano controllate del
Governo federale. In totale, l'Impero era una federazione di 25 Stati sovrani e del
territorio del Reichsland Elsaß-Lothringen sotto il governo del re di Prussia: come
capitale venne scelta la città di Berlino, per sottolineare l’importanza del Regno di
Prussia nell’unificazione.
La Germania si era unificata, ma non su quelle spinte liberali che avevano permesso
la nascita di altri Stati in Europa (il Regno d’Italia) o nuovi governi democratici
(Francia e Impero Britannico). La nazione tedesca nacque ‘meramente’ dalla forza
materiale di esercitare il proprio dominio e non sugli ideali illuministici. I principi
dell’Illuminismo si manifestarono definitivamente come immateriali e astratti, mentre il
mondo della politica appariva come qualcosa orientato da valori materiali propri. Il ’71
pose fine alle aspirazioni secolari degli intellettuali: lo Stato era nato, ma si era costruito
su principi diametralmente opposti. Da quel momento in avanti, l’atteggiamento degli
intellettuali tedeschi sarà di disimpegno e di depoliticizzazione: il Biedermeier diventa
l’atteggiamento universalmente accettato e condiviso dagli intellettuali tedeschi.
La seconda metà del 1800, dal punto di vista culturale, sarà importante per la
riscoperta della filosofia di un intellettuale fino a quel momento dimenticato: Arthur
Schopenhauer (1788-1860), con la sua celeberrima opera Die Welt als Wille und
Vorstellung (1818). Egli, quasi 30 anni prima, era giunto alla conclusione, similmente a
quello che pensava Leopardi, che ogni individuo fosse mosso dalla volontà/desiderio,
dalla quale noi siamo prederminati ad agire, di voler raggiungere un determinato
oggetto, ma, nel momento in cui lo raggiungiamo, non proviamo alcuna soddisfazione.
Il circolo in seguito ricomincia, portando l’individuo a sperimentare quella sensazione
che è la noia. È il nostro destino di specie, la nostra legge biologica e noi, in quanto
viventi, non possiamo liberarcene. La filosofia consiste nella cura da questa volontà: è
necessario reprimere questa volontà di vita per poter migliorare la propria vita. Il suo
obiettivo è ricavare una filosofia di vita. Per liberarsi dal dominio della volontà,
Schopenhauer individua tre modi:
Bismarck perse quindi la sua popolarità e, con la morte di Wilhelm I. avvenuta nel
1888, la Germania si avviava verso un nuovo corso politico: il nuovo sovrano, Wilhelm
II. (1859-1941), mirava a creare un governo personale che perseguisse una Weltpolitik e
così, nel 1890, convinse Bismarck alle dimissioni. Il periodo compreso tra le dimissioni
di Bismarck e l’abdicazione di Wilhelm II. (10 novembre 1918) viene comunemente
chiamato Wilhelminische Ära (Era Guglielmina). Globalmente il termine
wilhelminismus viene considerato sinonimo di modernizzazione: ancora dopo il 1871
l’unico Stato tedesco che si poteva ritenere moderno era la Prussia, ma nel giro di pochi
anni la situazione cambiò radicalmente. Tuttavia, la conseguenza diretta fu che si
vennero a creare delle diseguaglianze estese nella popolazione. La Germania doveva
recuperare quel gap che si era venuto a creare già dalla prima metà del 1800, in
particolar modo con quelle potenze occidentali come Impero Britannico, Francia e USA
che vevano avviato un processo di rapidissima industrializzazione. Il Kaiserreich
doveva attraversare un processo di Prussianizzazione. Il processo di industrializzazione
che l’Impero sarà tanto veloce quanto traumatico.
Tipico di questo periodo è il fenomeno delle Binnenwanderungen: già solo tra 1850 e
il 1860 migrarono all’incirca 1,1 milioni di persone dalle campagne alla città, dove
entrarono a far parte di quella classe sociale conosciuta come Proletariato. La regione
più interessata da questo fenomeno fu il Bacino della Ruhr: città come Düsseldorf, Köln
e Duisburg saranno il luogo in cui nascerà la Germania del futuro. A questo periodo
risalgono anche i primi partiti di massa che nasceranno per rispondere alla cosiddetta
questione sociale: le condizioni di vita miserabili in cui vivevano le migliaia di persone
che, a causa dell’industrializzazione, si trasferivano dalla campagna e si inurbavano.
Questi partiti furono:
Solo con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) molti intellettuali
riterrano fosse giunto il momento in cui tornare ad avere quella funzione di guida della
collettività che avevano perso definitivamente nel 1848.
Herder, Ancora Una Filosofia Della Storia Per L'educazione Dell'umanità | PDF (scribd.com)