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fernand braudel

L’Italia fuori d’Italia


Due secoli e tre Italie

Sommario
i. l’italia nelle sue grandezze 4
1. L’interazione dialettica dell’interno con l’esterno 5
2. Superare l’aneddotica 8

ii. come si vede il mondo verso il 1450 se si è un italiano? 15


1. Tre civiltà soggiogate 16
2. Bisanzio sfruttata fino all’osso 16
3. L’Islam, tenuto nelle suue coste, e talvolta attraversato 20
4. L’Occidente, inesauribile fortuna per l’Italia 22
5. L’Occidente accerchiato 24
6. A Venezia, le galere da mercato 25
7. Il nuovo sviluppo delle città-Stato 27
8. L’Italia, nel 1450, è alle soglie di una rivoluzione industriale? 29
9. Lontano contano solo i mercanti 32
10. L’ascesa dell’umanesimo italiano solo a partire dalla metà
del Quattrocento 34

iii.1450-1650: tre italie in due secoli 43


1. 1454-1494: tutto sembra chiaro, ma la spiegazione non è facile 46
2. L’alta società 50
3. 1494-1559: il vero peso delle guerre d’Italia 53
4. Una congiuntura favorevole 54
5. L’Atlantico nelle mani dei mercanti italiani 57
6. Il Rinascimento, un termine sempre da definire 61
7. L’Europa a scuola del Rinascimento italiano prima e
dopo il periodo 1520-30 64
8. Gli elementi decorativi rinascimentali arrivano in ordine sparso 65
9. La crisi del 1529 ha svolto la sua funzione? 68
10. I centri di accoglimento 69

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11. Le reazioni nazionali 73


12. Al di là del 1550 75
13. I turchi perdono di nuovo il Mediterraneo (1571-74) 77
14. Un’Italia prospera 79
15. Il ritorno del pepe e delle spezie nel Mediterraneo 87
16. L’Italia al massimo del suo irradiamento 90
17. Come vedere il Barocco? 94
18. La vista e l’udito 98
19. La commedia dell’arte 100
20. Il balletto e l’opera 108
21. Anche la poesia prende parte al viaggio 115
22. L’arte barocca a partire da Roma 122
23. Il Bernini arriva troppo tardi a Parigi 125
24. Il Barocco a partire da Venezia 129
25. La scienza, bilancia inadeguata 131

iv. quale bilancio è possibile fra il 1633 e il 1650? 143


1. Decadenza culturale e immaginazione barocca 144
2. L’ascesa dei paesi del Nord 146
3. Una storia «sincera» d’Italia verso la metà del Seicento 150
4. Spiegare il caso di Napoli 153

v. la decadenza italiana corrisponde a un processo visibile?


1. Curve per immagini 159
2. I mezzi della grandezza 161
3. Il dominio sul mare 163
4. Spazio e grandezza 166
5. Capitalismo ed economia settoriale 168
6. Grandezza e cultura 172

Da: Storia d’Italia, vol. 2**, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo xviii, Giulio Ei-
naudi Editore, Torino 1974.

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Dal 1450 al 1650, nel corso di due secoli particolarmente movimen-


tati, l’Italia ha irradiato la sua luce dai mille colori tutti splendenti ben
al di là dei suoi confini: questa luce, questa diffusione di un patrimonio
culturale formatosi nel suo seno, si presenta come la caratteristica di un
destino eccezionale, come una testimonianza che, per la sua ampiezza,
ha un peso reale di storia molteplice, i cui particolari, esaminati sul luo-
go, perfino in Italia, non si afferrano facilmente tanto sono stati diver-
si. Guardare l’Italia, le varie Italie, da lontano, come qui viene tentato,
significa raccogliere in un’unica visione una storia frammentata in trop-
pi racconti, fra troppi Stati e città-Stato. Significa compiere un insoli-
to bilancio, quasi un’operazione di verità, e comunque cercare un mo-
do particolare per comprendere la grandezza italiana e meglio renderle
giustizia.
Che uno storico non italiano – anche se da sempre attento alle sorti
dell’Italia – scriva queste pagine, indica chiaramente le intenzioni dei
responsabili di questa Storia d’Italia: affidandomi questo compito, gra-
devole e insieme difficile, hanno cercato un testimone del tutto estra-
neo al gioco nazionale – se esiste un gioco nazionale – in migliore con-
dizione, forse, di scorgere le grandezze dell’Italia con uno spirito quan-
to piú libero possibile. Certo, non potrò spogliarmi – nelle pagine che
seguono – di quella sincera simpatia che gli storici francesi, da Miche-
let (e anche prima di lui) in poi hanno sempre provato per l’Italia.
L’obiettività e l’imparzialità, verso cui tendo con tutte le mie forze, so-
no virtú cui ogni storico mira, senza mai pretendere di possederle anti-
cipatamente. In ogni caso, raccontando a mia volta un po’ da lontano e
con il desiderio di non vederne che un aspetto, questo lungo capitolo di
storia italiana, mi soffermerò soltanto su ciò che mi sembra essenziale,
senza esitare ogni volta a spingere sino in fondo il mio pensiero. Il che
è probabilmente quello che ci si attende da me.
Ma poiché ogni problema essenziale ne tira in campo un altro, e que-
sto a sua volta un altro ancora, sarò costretto a riesaminare tutti gli in-

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terrogativi che questi due secoli di storia italiana pongono, come è d’al-
tronde destino d’ogni conclusione.

i.
l’italia nelle sue grandezze.

Nel corso dei secoli vi sono stati tre momenti di evidente, indiscuti-
bile grandezza italiana: i tempi remoti di Roma; il periodo dagli inizi del
secolo xii fino alla metà del secolo xiv, il primo Rinascimento, quello
vero, secondo Armando Sapori; e il secondo Rinascimento, nel senso
corrente e largo del termine, fiorito fra la metà del Quattrocento sino
al principio, o meglio sino alla metà del Seicento. C’è tuttavia da chie-
dersi se non ci sia stato, dal secolo xii al xvii, un solo e medesimo mo-
vimento.
Piú tardi, nel secolo xix e nel secolo xx, troviamo, importante ma di-
screto, quasi sperduto nel vociare artificioso della grande storia, il va-
sto dispendio umano dell’emigrazione italiana, senza che la penisola ab-
bia potuto ricavarne un brillante profitto. Ma questa emigrazione, a par-
tire dall’ultimo scorcio dell’Ottocento, ha validamente contribuito, col
rinnovarne la sostanza, al decollo umano delle Americhe: quella porto-
ghese, quella spagnola, quella anglosassone. Su scala mondiale non si è
trattato di un magro servizio. Semplice inizio? La questione rimane aper-
ta. Per parte mia, mi pongo fra coloro che sono colpiti dal vigore attua-
le dell’Italia, dalla sua spinta vitale in ascesa, in letteratura come in ar-
te o nel cinema. Ma è ancora troppo presto per poter dare un giudizio
valido a lunga scadenza. Né va dimenticato che la «grandezza» è una
misura molto particolare cui forse potrebbe aspirare l’Europa unita, ma
che non si addice né all’Italia, né alla Francia d’oggi, perché essa è le-
gittimata soltanto da un irradiamento di civiltà, da un primato verso al-
tri. Si tratta in questo campo di una relatività evidente e necessaria.
Nessun dubbio, peraltro, che uno studio delle grandezze italiane, dal
1450 al 1650, non sia da illustrare attraverso una seria comparazione
con altre esperienze realizzate nel corso di una storia plurisecolare, per
quanto esse possano essere diverse e lontane nel tempo. Per la verità,
quella che cosí verrebbe giudicata a proposito dell’Italia sarebbe la «gran-
dezza in sé», valore molteplice, vario, piú misterioso e complicato di
quel che possa apparire a prima vista, quantunque vi siano tanti esem-
pi moderni: la grandezza della Spagna del Cinquecento, quella dell’Olan-
da del Seicento, quelle dell’Inghilterra e della Francia del Settecento, e
cosí via, come ciascuno sa. In queste grandezze, la forza si incontra con

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lo spirito, la potenza con la cultura, fondendosi in complessi e insiemi


di civiltà che non sono mai gli stessi, né nelle loro cause, né nei loro ef-
fetti, e che nondimeno restano comparabili fra loro. E vigore di una so-
cietà, di un’economia, di una civiltà, di uno Stato vi si riassumono e vi
si esauriscono al tempo stesso. In effetti, trascorso un certo periodo, la
parola inevitabile della fine è sempre la «decadenza», una parola altret-
tanto complessa e non meno complessa che comoda. È una parola che
sembra concludere tutto, mentre la ruota della storia non smette inve-
ce di girare. Chi oserebbe ripetere con Gobineau: «Tutte le società uma-
ne hanno il loro declino e la loro caduta: tutte, dico»? Sarà vero: ma re-
stano sempre possibili dei Rinascimenti.

1. L’interazione dialettica dell’interno con l’esterno.

Lasciamo queste prospettive troppo vaste. Basti, qui, averle evocate


per collocarvi fin dall’inizio questo nostro studio particolare in una luce
appropriata. Fin dall’inizio, ed è importante rilevarlo, questa grandezza
non è stata un episodio unico. Anche nel periodo fra il 1450 e il 1650,
come ai tempi dell’antica Roma, si è trattato di un irradiamento di po-
tenza, di una presa di possesso attiva del Mediterraneo, il Mare Internum,
da parte di navigazioni, di traffici regolari, di un capitalismo mercanti-
le già agile e conquistatore, con colonie saldamente fondate. È esistito
perfino un Impero genovese, di tipo fenicio1, come è esistito un Impero
veneziano: questo destinato a durare piú a lungo (Cipro sarà perduta so-
lo nel 1571, Candia nel 1669), quello distrutto prima (Caffa, la seconda
Costantinopoli, come non ci si peritava di dire, è perduta nel 1475, e
Chio nel 1566). C’è stata anche, nei confronti di Bisanzio e dell’Islam,
e ancora piú nettamente nei confronti dell’Occidente, una supremazia
di lunga durata a vantaggio delle città e dei mercanti italiani.
Ci sono anche stati continui fenomeni migratori dall’Italia. Ma, sal-
vo eccezioni (penso ai soldati italiani, di cui cosí spesso ci si è serviti,
presenti a Mühlberg, sotto le bandiere del duca d’Alba, nel 1547; a Le-
panto, agli ordini di don Giovanni d’Austria, nel 1571; quelli che co-
stituiscono il cuore del pugnace esercito di Alessandro Farnese nei Pae-
si Bassi, e che combatteranno ancora tanto spesso, nel secolo xvii, al ser-
vizio del re di Spagna, sempre pronto, come è noto, a spremere senza
scrupoli uomini, viveri e denari dalla Sicilia, da Napoli e dal Milanese),

1 Cfr. a. sapori, Studi di storia economica (secoli xiii, xiv, xv), Firenze 1955, p. 933, nota 2.

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salvo eccezioni, non si trattò in generale di emigrazioni massicce. Era-


no pugni d’uomini, piuttosto, quasi tutti personaggi di qualità: inge-
gneri, operai specializzati, che portavano con sé il segreto di tecniche
sapienti, mercanti soprattutto, o uomini di Chiesa e, già allora, «tecno-
crati» della politica – da Concini a Mazzarino ad Alberoni –, umanisti
(professori o no), e artisti, infine, musicisti, architetti, pittori, scultori,
orefici, gente di teatro, ballerini, astrologi... Da sole queste emigrazio-
ni – di lusso, si potrebbe dire – sono la prova, quando fosse necessaria,
di una preminenza di lunga durata.
Insomma, si offre ai nostri sguardi un irradiamento complesso, sot-
to il segno, in pari tempo, dell’avventura, della cultura dalle mille sfac-
cettature e del denaro dalle innumerevoli astuzie. L’Italia di quel pe-
riodo piú che bisecolare rivela una prima modernità: qualcosa tra la Fran-
cia di ieri e gli Stati Uniti di oggi.
Gloria materiale: tale – a lungo efficace – la potenza di Firenze, o
quella di Venezia, di Milano, di Genova, che è forse, fra tutte, la piú
curiosa. Solo oggi si è arrivati a conoscere il predominio finanziario, tar-
do ma veramente fantastico, dei genovesi, a partire dalla seconda metà
del Cinquecento. C’è stato, all’incirca fra il 1550 e il 1650, un «secolo
dei banchieri genovesi», non meno brillante del «secolo dei Fugger». I
genovesi sono riusciti a dettare a lungo legge alle ricchezze dell’Europa
e quindi, oltre l’Europa, alle ricchezze del mondo intero.
Gloria del denaro, gloria dello spirito: questa ci seduce piú dell’al-
tra. Nell’esemplarità della sua vita, l’Italia offre per secoli lo spettacolo
delle sue affermazioni intellettuali, delle sue acrobazie, delle sue novità,
delle sue rivoluzioni culturali infinitamente contraddittorie: libertà poi
ordine, progresso poi rottura, luce poi crepuscolo. Sulla vasta scena le
luci continuano a mutare, a cambiare colore: Rinascimento, Manieri-
smo, Barocco. Nel complesso, una delle piú brillanti serie di spettacoli
d’intelligenza da che mondo è mondo.
La fiamma inventiva passa di città in città. Ognuna conosce il suo
momento, anche se l’inizio è dato dal primato «equilibratore» di Fi-
renze. In seguito, il movimento fiorisce brevemente nella Roma di Giu-
lio II e di Leone X, mentre piú tardi suona l’ora di Venezia e di Bolo-
gna. Finalmente tutto rifluisce su Roma, che, come un cuore esigente e
dispotico, attira a sé la vita sanguigna d’Italia e l’attenzione del mon-
do intero: si tratta di ricostituire, dopo il concilio di Trento, la civiltà
tradizionale sotto il segno del cattolicesimo trionfante, rendendola nuo-
vamente competitiva, dominatrice, grazie a nuovi modi di procedere e
di esprimersi. D’un solo colpo, questa civiltà ricopre quasi tutta l’Eu-
ropa, quella cattolica e, di scorcio, quella protestante. Strana prova

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d’unità di un universo diviso, forse falsamente diviso contro se stesso.


In termini di civiltà, l’Italia che dobbiamo esaminare va da un Rinasci-
mento già delineato al Barocco trionfante. Si tratta almeno di un dop-
pio o triplice irradiamento, forse di una sola e medesima superiorità.
Tutto questo, qualunque sia l’immagine o la parola cui ricorre, per
mancanza di meglio, il nostro ragionamento (diffusione, irradiamento,
magistero, lumi), tratteggia un solo problema: è abbastanza evidente,
ma, nel corso dell’analisi, si complica immediatamente. Troppi punti di
riferimento vi sono, e troppo fragili, mentre appaiono insufficienti le
conclusioni chiare, sicure, perentorie. Generazioni di storici entusiasti
hanno studiato minuziosamente ogni fatto, ogni avvenimento, ma ognu-
no di essi illumina soltanto un frammento della scena, dell’immenso si-
stema in cui fiorisce il destino eccezionale d’Italia.
Questo destino è, di fatto, prigioniero di una sorta di «struttura»
esterna, lenta a trasformarsi, quantunque alla lunga si trasformi poten-
temente. Occorre passare continuamente dal particolare all’insieme, e
piú esattamente rimettere sempre in causa l’incontro dialettico dell’ester-
na e dell’interna, cercando una sola verità unificatrice. In effetti, que-
sta scena esterna, che la vita italiana riesce a raggiungere tanto lontano,
non ha senso se non viene messa a confronto, in ogni momento, con
quello che avviene all’interno del paese, nel cuore del sistema. La luce
gettata sui fenomeni marginali è la migliore, si suole dire, come ogni te-
st capace di spiegare un insieme, colto cosí al suo «limite». È possibile,
anzi è probabile; ma due geometrie, due realtà – il centro e la periferia
– ci sollecitano e restano da confrontare. I loro contrasti, i loro accor-
di, e ancor piú le loro sfasature sono la ragione stessa del dibattito che
vorremmo aprire. Ma attraverso l’enorme massa di storia offerta a que-
sta duplice valutazione, quante difficoltà e quanti dilemmi. Le sponde
e le contrade dell’Islam e di Bisanzio non hanno riservato all’Italia sol-
tanto semplici avventure. Quanto all’Occidente privilegiato, in cui es-
sa gioca la sua partita piú importante, esso è molteplice, frammentato,
travagliato dalla spinta degli Stati territoriali. È un mondo contrastato
e vigoroso, con potenti originalità, che offrono ad ogni istante lo spun-
to a storici nazionalisti di difendere ancora oggi i diritti delle loro ri-
spettive patrie contro il proclamato primato d’Italia. Cosí, Louis Cou-
rajod (1841-96), un grande storico dell’arte, arrivava addirittura a por-
re in Francia le origini del Rinascimento2. Fortunatamente questa guerra
libresca, di carattere storiografico, comincia ormai a disarmare.
2 f. simone, Il Rinascimento francese. Studi e ricerche, Torino 1965, p. 7; l. courajod, Leçons
professées à l’école du Louvre, II: Origines de la Renaissance, Paris 1901, pp. 25-28; l. hautecceur,
Histoire de l’architecture classique en France, I: La Renaissance, Paris 1943, p. 77.

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2. Superare l’aneddotica.

Questa massa di studi e di conoscenze può risultare alla fine fasti-


diosa. Troppi particolari si accumulano, che è necessario superare, pon-
derare, ricondurre al loro significato, quando ne abbiano. Troppi parti-
colari, ossia fatti di cronaca, avvenimenti anche notevoli, biografie an-
che esemplari. Perché solitamente un’erudizione attiva ma frammentaria
ci offre proprio questo tipo di fatti alla rinfusa. Ogni particolare resti-
tuisce a suo modo, ma solo per un istante, uno spazio, un tempo che bi-
sognerebbe padroneggiare con precisione.
Si vedano, ad esempio, i primi mercanti italiani insediati in Lingua-
doca, ed eccoci agli inizi delle crociate. Rilevare poi la presenza di Pe-
trarca ad Avignone, nel momento del suo primo soggiorno nel 1326 –
Petrarca che parla con Cicerone e con Virgilio come se fossero suoi in-
terlocutori in carne ed ossa – significa segnalare l’inizio di un influsso
che saprà rinvigorire, se non addirittura trasformare, l’umanesimo fran-
cese. Contiamo gli italiani che Carlo VIII riconduce con sé dalla sua ra-
pida incursione su Napoli, ed eccoci al 1495; fra questi, i tagliatori di
marmo di Carrara o i rivenditori genovesi sono probabilmente piú atti-
vi dei veri artisti, architetti o scultori. Forse si ingrandiscono troppo le
meraviglie del «viaggio d’Italia»? Ma vediamo altri particolari: quando
Jacopo dei Barbari, questo tipico figlio di Venezia, incontra Albrecht
Dürer, siamo probabilmente intorno al 1490; viene nominato pittore
imperiale da Massimiliano d’Austria l’8 aprile 1500; poi passa al servi-
zio del duca di Sassonia, dell’elettore di Brandeburgo, arriva a Fran-
coforte sull’Oder e finalmente parte per i Paesi Bassi al seguito di Mar-
gherita d’Austria nel 15103. È forse per segnare, cosí, sotto i nostri oc-
chi, il tracciato decisivo di quell’asse del Rinascimento, che, partendo
dall’Italia, raggiunge l’altro polo d’Europa, i Paesi Bassi, dove sta cre-
scendo Carlo di Gand, il futuro Carlo V? Quando Leonardo da Vinci si
insedia nel castello di Cloux, invitato da Francesco I, recando nei suoi
bagagli la Gioconda, il San Giovanni Battista e la Sant’Anna, siamo nel
1516, agli albori della Francia italianizzata...
Tutto ciò è chiaro, ben noto, controllabile. Ma non altrettanto age-
vole sarà situare nel tempo e nello spazio il vigoroso influsso di Ma-
chiavelli4. Di là dagli anni ’40 del Cinquecento, che vedono, dopo la sua

3 e. lavagnino, Gli artisti italiani in Germania, in L’opera del genio italiano all’estero, Roma
1943, III, p. 13.
4 g. procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965.

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F. Braudel - L’Italia fuori d’Italia 1 9

morte (1527), la grande diffusione della sua opera, Machiavelli verrà let-
to, riletto e interpretato senza fine, secondo il gusto dei lettori e degli
utilizzatori. Ciò che l’inquietante fiorentino offre agli uni e agli altri è
uno strumento, un mezzo per agire, per tentare fortuna: una certa
«virtú», quella forza che porta al potere, qualunque esso sia. Lo spa-
gnolo Ginès de Sepúlveda definiva la «virtú»: «Vis enim seu facultas
insita ad finem qualemcumque propositum perveniendi, virtus solet ap-
pellari»5. Oggi chiameremmo «ragion di Stato» questo modo d’agire,
quasi nient’altro esistesse fuorché l’interesse del principe; ma non fu
Machiavelli che fissò questa espressione destinata al successo: fu, piú
tardi, un altro italiano, Giovanni Della Casa, in un discorso a Carlo V
del 15476. In ogni caso, soltanto l’Italia, con le sue evolute forme poli-
tiche tanto differenziate, con le complicazioni e le lezioni tratte dalla
sua storia, poteva elevarsi a questa raffinatezza politica sulla soglia del-
la prima modernità del mondo. E proprio a questa maturità si deve la
fortuna di tanti famosi italiani sul piano politico: come spiegare, altri-
menti, il fatto che essi abbiano tante volte salito i gradini del potere in
paesi stranieri? Vale la pena almeno di ricordare la breve carriera di Con-
cini, il maresciallo d’Ancre, quel Mazzarino non riuscito, e arriverem-
mo al 24 aprile 1617, giorno del suo assassinio. Cosí pure, le date dei
successi splendidi, inverosimili, quasi scandalosi di Mazzarino offrono
punti di riferimento non trascurabili: quando scompare nel 1661, anche
per le colonie di mercanti italiani in Francia è l’ora della fine. È il tra-
monto della «Toscana francese»7. Ben presto comincerà altrove, piú fol-
gorante e altrettanto sorprendente, la carriera di Alberoni (1664-1752),
il figlio di un semplice ortolano di Parma, che governò la Spagna di Fi-
lippo V e dell’inquieta e inquietante Elisabetta Farnese: una prova, se
ce ne fosse bisogno, del fatto che la penisola iberica, in questo inizio del
secolo xviii, rimane nonostante tutto aperta agli influssi e alle avventu-
re provenienti d’Italia.
E ancora, sarebbe senza dubbio necessario individuare, cartografa-
re la diffusione della stessa lingua italiana, questo elemento persistente
di ogni cultura europea. Chi mai avrà la pazienza di mettere uno accanto
all’altro migliaia di minuscoli indizi, di rapide immagini, peraltro tutte

5 Citato da j. a. maravall, Fragmento sobre Maquiavelo y el estado moderno, in «Boletín infor-


mativo de ciencia política», 1969, 2, p. 5 dell’estratto.
6 g. dflla casa, Oratione a Carlo Quinto imperatore intorno alla restitutione della città di Pia-
cenza, Firenze 1561, f. 60v. Cfr. f. meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Fi-
renze 1942, vol. I, p. 69.
7 j. b. l’hermite de soliers (tristan), La Toscane françoise, Paris 1661.

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significative? Nel modo piú naturale del mondo, in un giorno di prima-


vera del 1536 Francesco I s’intrattiene in italiano con gli ambasciatori
di Venezia, esprimendo loro la sua soddisfazione nel vederli e le sue in-
quietudini, il suo rancore sempre rinfocolato verso «Cesare». Anche En-
rico III capisce bene l’italiano, poiché, appassionato di dissertazioni let-
terarie e desideroso che alla sua tavola, alla fine d’anno del 1576, che
egli crede pacifica, non gli si rintroni piú la testa con discussioni politi-
che, dà volentieri la parola al medico italiano della regina madre, Filip-
po Cavriana, uomo di vasto sapere, che pronunzia un’orazione nella sua
lingua8. E bisogna pure – cosa anche piú sintomatica – che a Vienna, a
Londra, a Parigi il pubblico comprenda qualcosa, quando assiste a quel-
la «commedia dell’arte», che le compagnie italiane recitano e improv-
visano9. Certo, le parti sono sempre le stesse, stereotipate, i gesti e i laz-
zi aiutano a capire le parole, che tuttavia bisogna pur afferrare di tanto
in tanto. Ultimo particolare che citeremo di sfuggita: la signora di Séví-
gné, il 16 luglio 1672, in viaggio verso Grignan, si distrae nella tappa
d’Auxerre leggendo l’Eneide nella traduzione italiana di Annibal Caro10.
Se ci si dedicasse – e sarebbe assai utile – a una caccia sistematica al
mercante italiano all’estero, bisognerebbe, per riuscirvi, mobilitare tut-
ti gli eruditi e tutti gli storici del mondo. Infatti non si smette mai di sco-
prire, sfogliando a caso libri o carte d’archivio, qualcuno di questi stra-
ni, tenaci, intelligenti personaggi, spesso detestati, sempre sospetti e in-
dispensabili. Le piú belle cose del mondo non sono infatti nella sua
bottega? Non dispone forse di misteriosi mezzi? Un semplice foglio di
carta, una penna e invia il suo denaro lontano, poi miracolosamente ne
permette il ritorno nelle sue mani o in quelle di chi si rivolge ai suoi ser-
vigi dietro un onesto compenso11. Sí, il personaggio è davvero sorpren-
dente e le sue tecniche lo privilegiano assai oltre il secolo xvi. Ancora do-
po la metà del Seicento il suo regno non è finito: la sua superiorità ri-
mane intatta, ad esempio, nell’Europa centrale e orientale. Cosí, in

8 Bibliothèque Nationale, Fonds Italien, Paris 1714.


9 a. baschet, Les comédiens italiens à la cour de France sous Charles IX, Henri III, Henri IV et
Louis XIII, Paris 1882, pp. 66-67.
10 h. baudin, L’italianisme dans les lettres de Madame de Sévigné, in L’italianisme en France au
xviie siècle, supplemento a «Studi francesi», n. 35, maggio-agosto 1968, p. 113.
11 «Les marchans ou bancquiers estrangers, qui de longue main sçavent la pratique desdictz
changes ont amassé... grosses sommes de deniers... , sans avoir apportè esdictz pays lors qu’ilz sont
arrivez aultre chose que leurs personnes avec ung petit de credit la plume encore et papier, en-
semble l’industrie de sçavoir... remuer et destourner lesdictz changes d’ung pays en aultre... avec
mille revolture et embroillemens» (ßibliothèque Nationale, Fonds Français, Paris, 2086, ff. 60v,
e 61v).

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Polonia lo ritroviamo allora attivo, pieno di risorse, frequentatore di fie-


re, venditore di stoffe di Lucca, di Firenze, di Milano o anche di Vene-
zia12: una prova che l’industria non è ancora finita in quelle famose città
e che il commercio italiano può ancora vivere in questo settore ritarda-
tario d’Europa. Né si può fare a meno di notare che questo irradiamen-
to mercantile si svolge contemporaneamente a quello dell’arte e gli ar-
chitetti: gli artisti, gli scrittori italiani pullulano nell’Europa orientale del
Seicento e del Settecento. Limitiamoci al caso piú famoso: Metastasio
(1698-1782), chiamato alla corte di Vienna nel 1730, dove rimarrà come
poeta ufficiale fino alla morte. Per l’Italia il quadrante nord - nord-est
della sua rosa dei venti rimane a lungo un’apertura valida sul mondo ester-
no. Eppure la storia generale pensa che in quest’età inoltrata l’Italia ab-
bia ormai cessato di vivere, o almeno di occuparsi del vasto mondo.
Come sarà mai possibile formare un quadro coerente di queste mi-
gliaia di particolari, di questi fenomeni di «risonanza» con i loro conti-
nui andirivieni, le cui correnti si mescolano, si intrecciano, si urtano sen-
za posa? E soprattutto in che modo, muovendo da questi particolari, ar-
rischiare una diagnosi, individuare una storia significativa in quella
successione di rapide immagini, che a volte sembrano soltanto un gioco
di specchi?
Per cercare di capire la portata, la natura, la potenza, la durata dell’ir-
radiamento italiano, la soluzione può essere nel procedere per spaccati
cronologici successivi, in date piú o meno lontane fra loro. Questa serie
di carte dell’Italia «esterna», confrontate fra loro, delineeranno a gran
tratti una storia d’Italia fuori d’Italia entro uno spazio assai piú vasto
di quello della penisola. La grandezza italiana è stata una dimensione
del mondo: è opportuno dirlo e ripeterlo.
Successivamente bisognerà analizzare, scomporre queste grandezze
successive. Hanno ubbidito a un destino interno? Costituiscono una se-
quenza logica? Vedremo cosí che potenza e cultura non si mescolano
sempre in parti eguali, non si affiancano con regolarità, né l’irradiamento
dell’Italia avviene, dal principio alla fine, sotto il segno della semplice
diffusione di soli beni preziosi. È questa una verità che reca testimo-
nianza sia sul particolare destino dell’Italia in quei secoli della prima mo-
dernità, sia su altri casi in cui si possono riconoscere altre grandezze ana-
loghe alla sua.

12 Archivio di Cracovia, Tt. 382. Cfr. f. braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di
Filippo II, Torino 1976, I, p. 203, nota 8.Cit, da c. barbagallo, Storia universale, Torino 1938,
vol. IV, p. 232.

Storia d’Italia Einaudi

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