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I grandi rappresentanti della traduttologia francese : Henri Meschonnic

Un approccio non solo speculativo, ma volto a individuare la traduzione come prassi concreta e a analizzare
dunque la traduzione testuale da un punto di vista empirico, non più unicamente teorico, verrà da Henri
Meschonnic, illustre teorico e traduttore della Bibbia: all’inizio degli anni ’70, in una serie di saggi intitolati
Pour la poétique, Meschonnic propone di avviare una ricerca traduttologica che non sia solo “astratta” o
“metafisica” ma che tenda invece a incanalarsi nei binari di una “prassi”.

• Importanza del ritmo: Meschonnic, come anche il suo precedessore e padre della traduttologia Nida, si
muove fondamentalmente nel campo della traduzione biblica. Dunque al centro delle preoccupazioni di
Meschonnic vi è la «ritmica»: di qui l’importanza che questo fattore assume nell’ambito della pratica
traduttiva. Secondo il teorico della Poétique, la traduzione non deve privare l’opera delle sue caratteristiche
prosodiche e sintattiche originali. Nel testo sacro più che altrove diverrebbe infatti evidente quella stretta
correlazione tra semantica e ritmica che caratterizza, invero, ogni testo letterario e poetico. Dunque per
Meschonnic una teoria della traduzione non può prescindere da una teoria del ritmo: ma salvaguardare il
ritmo originale di un testo non significa produrre un semplice rispecchiamento metrico, o un’arbitraria e
goffa poétisation. Per Meschonnic, la traduzione non si riduce a un semplice rispecchiamento, ma deve più
che altro corrispondere a un movimento dinamico, creativo, produttivo.

Uno studioso di tutt’altra ispirazione, in parte lontano, cioè, da quella che era l’impostazione ancora
strettamente linguistica di Mounin: Henri Meschonnic. Insieme a Léon Robel, Meschonnic è in effetti uno
dei rari studiosi francesi ad aver proposto una metodologia per la traduzione in ambito poetico.

La traduzione poetica sarebbe cioè possibile solo attraverso una riscrittura altrettanto poetica: campo
dunque d’azione unicamente dei poeti e dei poeti-traduttori. Nella misura in cui la traduzione appare come
un’operazione trans-linguistica, per Meschonnic essa deve esser posta allo stesso livello della “scrittura” di
un testo, e considerata come tale.

Nella serie di saggi intitolati Pour la poétique, Meschonnic stabilisce dunque una “tipologia”, una
catalogazione delle traduzioni che mette il traduttore allo stesso livello dello scrittore, la traduzione
acquisendo appunto lo stesso “rango” riservato tradizionalmente alla scrittura creativa.

Meschonnic insiste, si diceva, sul carattere intrinsecamente “letterario” della traduzione, considerata sia nei
suoi aspetti “poetici” che nei suoi aspetti “sociali”. Dunque si tratta innanzitutto di considerare la traduzione
non più come un prodotto secondario, ma invece come un prodotto di eguale valore rispetto al testo fonte.
Il traduttore, secondo Meschonnic, non deve nascondersi dietro l’originale, ma assumere in pieno il ruolo e
la funzione di “creatore”.

Quello che Meschonnic intende per “trasparenza” si avvicina in qualche modo alla definizione che dello
stesso concetto fornisce Mounin, secondo una traduzione è “trasparente” se non dà l’impressione di essere,
in effetti, una traduzione. Meschonnic più che di trasparenza, parlerà a questo proposito di décentrement:
«Le décentrement est un rapport textuel entre deux textes dans deux langues-cultures jusque dans la
structure linguistique de la langue, cette structure linguistique étant valeur dans le système du texte». In
caso contrario, secondo Meschonnic, ci troveremmo in una posizione d’illusoria naturalezza, d’illusorio
addomesticamento, che lo studioso designa con il termine di annexion. Dunque, più schematicamente,
diremmo che, per Meschonnic, le forme possibili della “ré-énonciation” sono due: le décentrement e
l’annexion e quest’ultima rimanderebbe addirittura a una nozione politica, “etnocentrica”, legata alla
questione del cosiddetto imperialismo culturale. Scrive Meschonnic: «Un impérialisme culturel tend à
oublier son histoire, donc à méconnaître le rôle historique de la traduction et des emprunts dans sa
culture» (1973).
Meschonnic fornisce due forme comuni, nella pratica della traduzione, che dimostrano l’esistenza e la
diffusione di questo “imperialismo culturale”, l’uno è la poétisation e l’altro la récriture : «La poétisation (ou
littérarisation), choix d’éléments décoratifs selon l’écriture collective d’une société donnée à un moment
donné, est une des pratiques les plus courantes de cette domination esthétisante. De même la récriture :
première traduction mot à mot par un qui sait la langue de départ mais qui ne parle pas le texte, puis rajout
de la poésie par un qui parle le texte mais pas la langue» (1973).

Di contro alla domination esthétisante, di contro al diktat dell’eleganza letteraria, Meschonnic propone di
superare le “cattive pratiche” costituite da riscrittura e “poetizzazione”, per costruire una traduction-écriture
che debba tenere conto del nesso omogeneo, insopprimibile, tra lingua poetica e pratica della scrittura. Se
la traduzione è una “creazione” allo stesso livello del testo originale, essa dovrà mantenere gli stessi
rapporti tra ciò che è marqué, “marcato” nell’originale, e ciò che è marqué, “marcato” nella lingua d’arrivo.

In un saggio molto più recente, che data al 2007, Ethique et politique du traduire, Meschonnic ritorna sui
nessi “ideologici” forti che irrorano la sua teoria della traduzione. Il teorico sviluppava in questo testo tre
concetti fondamentali, quelli di poétique, éthique e politique, che avrebbero tutti gioco in una teoria
globale del linguaggio, in cui la traduzione rivestirebbe un ruolo di primo piano.

Per Meschonnic, la traduzione diventa atto etico perché in essa viene a cortocircuitarsi, in definitiva,
l’opposizione tradizionale tra identità e alterità: concetto questo che ritroveremo in Berman, teorico in
parte fortemente influenzato dal pensiero di Meschonnic.

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