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Silvia Fazzo
APORIA E SISTEMA
La materia, la forma, il divino
nelle Quaestiones
di Alessandro di Afrodisia
Edizioni ETS
Pisa 2002
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 4
In memoria
di Adriano e Vincenzo Fazzo
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Sommario
1. Perché le Quaestiones? 9
2. Il contesto: le scuole 17
3. Alessandro, l’esegeta di Aristotele 18
4. L’aggiornamento 19
5. Il sistema 20
5.1. Le difficoltà del sistema 23
6. Il metodo dell’aporia nelle Quaestiones e nei commentari 25
6.1. La particella disgiuntiva ≥ nell’esordio delle soluzioni. 28
7. La specificità delle Quaestiones
come opuscoli di carattere aporetico 29
8. Fra dogmatismo e scetticismo 31
9. Il ruolo di Alessandro nella storia dell’aristotelismo 35
10. Sull’edizione di riferimento (Bruns, 1892) e sui criteri qui
adottati per la revisione del testo greco 37
Conspectus siglorum 42
Capitolo I:
“La materia e la forma” 43
1. Introduzione 43
1.1. Quaestiones sulla materia 43
1.2. Univocità del lessico 46
1.3. Omologazione delle strutture dottrinali 47
1.3.1 Il concetto di materia come strumento di soluzione delle aporie 47
1.3.2 Definizioni diverse di materia a confronto 49
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Capitolo II:
“La materia del divino”
1. Introduzione 113
2. La Quaestio I.10 114
2.1. Osservazioni preliminari 114
2.2. La posizione del problema (20.18 - 22) 115
2.3. Le aporie (20.23 - 32) 118
2.4. Soluzione (lÊsiw, 20.32-21.5) 124
2.5. Soluzione dell’¶nstasiw (21.5 - 11) 125
6
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Capitolo III:
“La dottrina della provvidenza e le sue fonti aristoteliche”
1. Introduzione 147
2. “La provvidenza arriva fino al cielo della luna” 148
3. La bipartizione del cosmo in relazione all’esercizio
della provvidenza (Quaestio II.19) 150
4. Il cielo come “dio” nella Quaestio II.6. 152
5. I due sensi del “provvedere” nella Quaestio I.25 154
6. La provvidenza come ye€a dÊnamiw 155
7. La provvidenza come attività esercitata dalle sfere
per il mantenimento delle specie 156
8. De generatione et corruptione II.10 158
9. Causalità per contatto: i Meteorologica e il De mundo 160
9.1. Causalità per contatto e per desiderio. 160
9.2. Continuità e causalità nei Meteorologica. 161
9.3. Dal lessico dei Meteorologica: sun°xeia e geitn€asiw. 162
9.4. Continuità (sun°xeia) fra le parti del cosmo e dÊnamiw
divina nel De mundo. 164
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Capitolo IV:
“La Quaestio II.3”
1. Introduzione 175
1.1. Il lessico della Quaestio II.3. Affinità significative con altri scritti
di Alessandro 176
1.2. Ye€a dÊnamiw e fÊsiw: la struttura generale della Quaestio 180
2. La posizione del problema nella Quaestio II.3 182
2.1. L’esordio (47.30-48.1) 182
2.2. La dÊnamiw divina come “altra natura” (48.1-5) 183
2.3. Trasmissione della dÊnamiw per gradi successivi dal fuoco
agli altri corpi semplici (48.5-18, cfr. De mundo, cap. 6) 184
3. L’aporia (48.18-22) 187
4. La prima soluzione (48.22-49.27) 191
4.1. Carattere parzialmente dialettico della prima soluzione 199
5. La ye€a dÊnamiw come causa eidopoietica
sulla materia informe (49.28-50.27) 201
6. Soluzioni multiple nella Quaestio II.3? 207
7. Il divino in tutte le cose:
la versione non stoica di una dottrina stoica 210
Bibliografia 233
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1 Questo libro costituisce la versione riveduta e ampliata della mia tesi di dottorato La mate-
ria e il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia (Università degli studi di Torino,
1997) della quale è stato relatore Mario Vegetti. Ampliamenti particolarmente consistenti ri-
guardano la relazione fra anima e corpo e sono inseriti nei §§ I.3 e I.4. Le Quaestiones sul-
la provvidenza (I.25, II.19, II.3 e II.21), che la tesi conteneva in appendice, sono state in-
cluse nel volume da me curato (Alessandro di Afrodisia, La provvidenza. Questioni sulla prov-
videnza, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli 1999) insieme all’edizione e alla traduzione
dall’arabo del trattato “Sulla provvidenza” ad opera di Mauro Zonta. Nell’introduzione di
quel volume si trovano altresì anticipati alcuni paragrafi e parti di paragrafi di questo libro
(cfr. Intr., § 2 ss.; cap. I, §§ 1.2, 1.3; cap. III, §§ 2, 3, 5, 6, 11; cap. IV, § 7) non senza ridu-
zioni e adattamenti in funzione del diverso contesto discorsivo. Il volume che ora presento
deve molto a chi seguì la redazione e la revisione della tesi, cioè a Mario Vegetti, Robert W.
Sharples e André Laks. Una precedente versione dei capp. I e III era stata sottoposta, nel-
l’ambito dello stesso dottorato torinese, a Pierluigi Donini e Giuseppe Cambiano. L’ultima
fase della revisione e la nuova stesura della nota conclusiva avvengono nell’ambito di una
borsa post-dottorato presso l’Università di Padova, per la quale è responsabile scientifico
Enrico Berti. Non potrei incorporare nella tesi un’edizione critica e una traduzione integrale
dei testi più difficili (Quaestiones I.10 e I.15 nel cap. II, Quaestio II.3 nel cap. IV) se non
avessi potuto discuterli, nei precedenti anni di formazione, con André Laks (che diresse i
miei studi dottorali presso l’Université de Lille) e Heinz Wismann (direttore del D.E.A. al-
l’Ecole des Hautes Etudes en Science Sociales di Parigi); e nella redazione finale con Carlo
Maria Mazzucchi (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano). A tutti sono enorme-
mente debirice. Difetti e imprecisioni si addebiteranno comunque a chi scrive.
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2 La raccolta consta di tre libri, detti Quaestiones naturales nell’editio princeps (Venezia, 1536).
A quest’edizione cinquecentesca risale dunque la denominazione corrente, instauratasi forse
sul portato di un’apparente, ma fuorviante, analogia con certe raccolte tardive di Quaestiones
et solutiones, dove gli argomenti in esame sono strutturati in forma di domande e risposte per
fini didattici (chi pone la questione, ha in realtà già in mente la soluzione). Quanto alla tradu-
zione greca, nel codex vetustissimus Venetus Marcianus 258 gli opuscoli sono indicati, con oscil-
lazione nell’attributo, fusika‹ sxolika‹ épor€ai ka‹ lÊseiw (“aporie e soluzioni scolasti-
che fisiche”, in testa al primo libro e dunque all’intera raccolta) o fusik«n sxol€vn épor€ai
ka‹ lÊseiw (“aporie e soluzioni di commenti fisici”, in testa al secondo e terzo libro). La pri-
ma delle due diciture è senz’altro più leggibile. Ma la seconda potrebbe essere più specifica,
in quanto qualunque raccolta tardo antica di questioni e soluzioni è, in linea di massima, per
uso “scolastico”, dunque questa dicitura potrebbe essere ridondante; mentre caratterizza me-
glio queste questioni, rispetto ad altre, il fatto di essere esegetiche, di porre cioè i problemi
non in senso assoluto, ma in riferimento stretto all’interpretazione dell’opera e del pensiero di
Aristotele. A questi tre libri, se ne aggiunge un quarto di Quaestiones morales (nell’edizione),
apparentemente il primo fra altri della stessa natura, a giudicare dal titolo, nel MS Ven. 258:
sxolik«n ±yik«n épori«n ka‹ lÊsevn a. Cfr. Bruns (1892) p. XV. In ogni caso, non è si-
curo che Alessandro abbia mai chiamato épor€ai ka‹ lÊseiw codesti suoi scritti: Alessandro
parla generalmente del “porre aporie” (tÚ épore›n) non in prima ma in terza persona, rife-
rendosi generalmente ad Aristotele, o alla figura impersonale di colui che ricerca su argomen-
to filosofico. È la scuola a riconoscere le aporie e l’indagine aporetica non solo in Aristotele
ma anche nel suo esegeta. Quanto all’assemblaggio della nostra raccolta, questo è con ogni
probabilità largamente posteriore ad Alessandro, come pure i titoli dei singoli opuscoli, al-
meno nella maggior parte dei casi. Sulla costituzione delle raccolte degli opuscoli alessandri-
sti, cfr. Sharples (1998).
3 In particolare, i commenti di Alessandro alle opere logiche e fisiche di Aristotele seguirono in
qualche modo la diffusione di quegli scritti e circolarono ampiamente fuori dalla scuola: dopo
Alessandro l’aristotelismo divenne, più che una scuola in senso stretto, un corpus dottrinale,
parti del quale, con i rispettivi commenti, potevano essere incorporati in una tradizione come
quella neoplatonica, diversa e divergente nella concezione dei principi primi.
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4 Tale eterogeneità si riscontra innanzitutto dal punto di vista formale: i testi che fanno parte del-
la raccolta vanno infatti dal frammento quasi casuale al breve trattato (più o meno compiuto),
al dialogo, all’esegesi di singoli lemmi di opere aristoteliche (sovente diversi rispetto all’esegesi
dello stesso passo contenuta nel rispettivo commentario), passando per le aporie in senso stret-
to. Cfr. l’introduzione di Sharples (1992) p. 4 s., alla prima parte della sua recente traduzione
inglese delle Quaestiones, completata con il volume dello stesso Sharples (1994). L’opera di Shar-
ples, con il suo apparato di note storiche, esegetiche e filologiche offre per la prima volta, oltre
che uno strumento di lettura, anche un aggancio fra i temi trattati in questi testi e la più ag-
giornata bibliografia su Aristotele, Alessandro e gli altri commentatori. Ad essa rinvio per tut-
ti i testi in esame, qui una volta per tutte.
5 Un caso di autenticità fortemente sospetta è invece quello della Quaestio II.21: nella mia nota
in Fazzo-Zonta (1999), p. 257-9 ne ho sottolineato aspetti di difformità rispetto ai testi più si-
curamente autentici di Alessandro. Intervenendo in proposito, Sharples (2000) ipotizza che la
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Quaestio II.21 sia stata scritta sì da Alessandro, ma come discussione preliminare, di carattere
dialettico, e questo giustificherebbe la divergenza da dottrine altrove sostenute dall’autore; tut-
tavia sarebbe stata scritta da Alessandro non prima, bensì dopo il trattato maggiore De provi-
dentia, e questo giustificherebbe il fatto che l’incipiente discussione rimandata a sede più am-
pia alla fine della Quaestio non si ritrovi proseguita come tale nel trattato: Alessandro dopo aver
scritto il De providentia avrebbe tentato di mettere il trattato in forma di dialogo, ma non es-
sendoci riuscito avrebbe abbandonato poi l’impresa a metà, e questo spiegherebbe il carattere
non-finito e non definito della Quaestio II.21 e della dottrina che vi si attesta. Nella seconda
parte del suo contributo, Sharples sperimenta sul problema in esame, senza conclusioni decisi-
ve, l’uso di un metodo statistico-quantitativo. Personalmente, non vedo ragione di non ribadi-
re i dubbi e le perplessità che ho espresse in quella mia nota (cfr. anche qui infra, n. 40 p. 33).
Ma certo l’intervento di Sharples ha ulteriormente evidenziato la difficoltà di provare in senso
stretto l’autenticità o meno dei singoli opuscoli, e dunque per converso la necessità di proce-
dere secondo finalità e criteri più operativi e meglio verificabili. Qualora comunque si intenda
procedere con metodi statistici auspicherei che si mantenesse un’attenzione specifica alla rego-
larità della relazione fra significante e significato nelle singole occorrenze delle locuzioni prese
in esame (il che non è consentito da un conteggio solo meccanico delle occorrenze risultanti
dall’indagine automatica sul TLG); e che d’altra parte ci si preoccupasse di presentare i dati in
modo significativo, mostrando per esempio, prima di giudicare sui casi dubbi, che determina-
ti valori sono costanti nei testi di sicura attribuzione, e che sono diversi invece, ancorché pre-
sumibilmente variabili, nella restante letteratura di scuola.
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6 Alex. De anima 3.8-9, 20 (cfr. infra, p. 55) identifica espressamente l’arte con la forma prodot-
ta dall’artista.
7 Non a caso, anche nei commenti ad Aristotele, là dove passi di interpretazione difficile dan-
no adito a diverse soluzioni interpretative, avviene ricorrentemente che l’ultima soluzione
sia giocata sulla relazione fra forma e materia, cfr. infra p. 45 n. 63. E proprio l’ultima solu-
zione è quella che suggeriremo essere tendenzialmente ultima anche nel tempo: non esclu-
siva delle altre, ma sovente rispetto ad esse riassuntiva, e più delle altre vicina all’autore che
scrive, cioè all’Esegeta medesimo, cfr. infra, pp. 199-201, 207-210; cfr anche p. 27 n. 29, p.
181 n. 409.
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Dal punto di vista del metodo, d’altronde, i primi due capitoli, pre-
valentemente dedicati alla “materia” e al suo rapporto con la forma, e i
secondi due, sul “divino”, risultano in qualche modo complementari. Mo-
strano cioè due aspetti fondamentali nel rapporto fra aporia ed esegesi,
che corrispondono a due situazioni fondamentali come causa del dubita-
re esegetico - e dunque del porre aporia.
Dubbio nasce, nel sistema dottrinale dell’esegeta, là dove le indica-
zioni aristoteliche sono numerose ma non coerenti e richiedono selezio-
ne, coordinamento, normalizzazione (così è dove si parla di materia e for-
ma, nei testi esaminati dai nostri capitoli I e II); ma nasce anche dove in-
vece le indicazioni di Aristotele scarseggiano, non sono esaurienti e de-
vono essere estrapolate dai testi in modo indiretto, a rischio di forzature
(come nei testi sulla provvidenza e sulla ye€a dÊnamiw, in esame nei ca-
pitoli III e IV).
Così, nei primi due capitoli, e in particolare nel capitolo I, che verte
sulla costituzione di concetti determinati e complementari di materia e di
forma (l’argomento del capitolo II, la materia dei corpi divini, poneva per
l’esegeta un problema di metodo a sé stante, e in quanto tale sarà esami-
nato a suo luogo) l’esegeta lavora su indicazioni ricche e numerose, ma
discontinue. In questo caso, l’interpretazione comporta riordino, selezio-
ne, normalizzazione di indicazioni che l’esegeta cerca di coordinare e ren-
dere quanto possibile compatibili.
Nei capitoli III e IV, invece, dove si trattano concetti assenti come ta-
li in Aristotele, si parla cioè di provvidenza divina (ye€a prÒnoia) e di
dÊnamiw attiva esercitata dal movimento del corpo celeste sul mondo su-
blunare (quella che Alessandro chiama ye€a dÊnamiw), gli elementi di-
sponibili in Aristotele sono scarsi e poco definitivi, così da rendere arduo
giustificare un’elaborazione sistematica sulla base dei testi del maestro.
L’esegeta deve allora valorizzare qualunque elemento si lasci interpretare
nel senso di una concezione provvidenziale, o più precisamente qualun-
que elemento sia tale che nulla impedisca di interpretarlo in tal senso, met-
tendo invece in sordina quei cenni e quelle indicazioni aristoteliche che
potrebbero essere più facilmente interpretati (seppure, anch’essi, indi-
rettamente) nella direzione contraria.
Tali sono le due fondamentali procedure, di segno in qualche modo
contrario e complementare, che consentono la costituzione, il completa-
mento e il consolidamento del sistema: selezione e omologazione dove le
indicazioni teoriche sono numerose ma non ben coordinate; reinterpre-
tazione e ampliamento dove le indicazioni invece scarseggiano e non con-
sentono una lettura immediata e inequivocabile, ma i materiali esistenti
lasciano una certa libertà di interpretazione e sono passibili di ricombi-
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2. Il contesto: le scuole
8 Come Donini (1994) p. 5038-9 ha sottolineato, “l’esegesi era divenuta la forma tipica della ri-
flessione”, in un’epoca nella quale la filosofia tendeva a vedere il proprio fine nello “sforzo di
riappropriarsi di un’eredità fissata ormai in modo definitivo”. Cfr. anche Cambiano (19872)
p. 118 ss. e, sul carattere antiquario del dibattito fra scuole in questo periodo, Vegetti (1989)
cap. 9, § 1, p. 301-4.
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4. L’aggiornamento
postellenistica cfr. Donini (1994), (1995). Da Donini (1995) cfr. fra l’altro pp. 110-113, dove il
principio implicito dell’esegesi Alessandrista, spiegare i passi oscuri attraverso altri passi dello
stesso Aristotele, è così formulato per estensione dall’ ÜOmhron §j ÑOmÆrou safhn€zein, teo-
rizzato da Porfirio Quaest. hom. p. 297,16 Schr. ma già in uso forse, a quanto si ritiene, tra i fi-
lologi alessandrini. Donini (1995) in part. p. 5042 cita Alessandro come esempio di un’inter-
pretazione che, pur formalmente fedele al maestro, riesce tuttavia ad incorporare valori di no-
vità e originalità, secondo modalità caratteristiche e peculiari di questo stile culturale. La bi-
bliografia finale di Donini (1994), pp. 5094 - 5100 amplia ed aggiorna, per quanto riguarda Ales-
sandro, quella di Sharples (1987) pp. 1226 - 1243. Quest’ultima altrimenti resta sinora la bi-
bliografia di riferimento generale per gli studi sul nostro autore; sarà presto integrata, se non
anzi interamente sostituita, da quella curata dallo stesso Sharples in Moraux (post.) Der Ari-
stotelismus bei den Griechen III, a c. di J. Wiesner.
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Già i commentatori dei primi due secoli d.C. dovevano avere avvertito
l’esigenza di aggiornare la dottrina del maestro, recentemente riscoperta nei
testi originali grazie all’edizione di Andronico. Molto del lavoro, tuttavia, è
ancora incompiuto all’epoca di Alessandro: questi appare impegnarsi in pri-
ma persona su temi importanti che Aristotele o non aveva trattato, come il
problema del fato, o aveva trattato in modo non del tutto chiaro, come quel-
lo dell’anima, o aveva considerato in modo incidentale e incompleto: per
esempio, la provvidenza, e più in generale, la connessione fra il cosmo e i
suoi princìpi, fra mondo sublunare e mondo celeste, e ancora fra mondo ce-
leste e motore o motori immobili. In questi e simili casi, l’esegeta si trova a
rielaborare spunti disparati, che in Aristotele non costituiscono una vera e
propria dottrina, per ricavarne una teoria compiuta che possa reggere il raf-
fronto con le dottrine rivali. L’esigenza di aggiornamento lo porta infatti a
prendere posizione in modo attivo e - nonostante il costante richiamo ad Ari-
stotele - originale nel quadro del dibattito contemporaneo.
Controparte importante, in tal senso, è lo stoicismo: una filosofia che
presenta, fra i suoi punti di forza e di vantaggio, l’elaborazione di teorie
specifiche su temi taciuti o trascurati dalle filosofie dell’età classica.
5. Il sistema
12 Cfr. Natali (1996) p. 8, che ravvisa nella sezione polemica del De fato di Alessandro un “esem-
pio da manuale” di una tale difficoltà di confronto e comunicazione fra dottrine filosofiche
diverse.
13 Attico, frgm. 8 rr 17-25 des Places. Una critica specifica di Attico agli aristotelici riguarda la
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14 Per esempio l’argomento di De prov. 126.6-134.5 (tr. 127.7-135.5) Zonta (trattato la cui edizio-
ne e traduzione, curate da Zonta, cito qui e in seguito dal nostro volume Fazzo-Zonta [1999])
sulla distanza e sul duplice movimento del sole e della luna, che garantiscono la generazione e
la sussistenza degli animali e delle piante, segue la falsariga di annotazioni già presenti in Ari-
stotele: la forma generale dell’argomentazione è analoga a quella di De caelo 291a 25 s. (“se il
movimento {scil.: degli astri] non avvenisse in questo modo, nessuna delle cose di quaggiù po-
trebbe essere nel modo in cui è”); negli argomenti addotti riecheggiano implicitamente, per
quanto riguarda il ruolo e la posizione del sole, De gen. et corr. 336a 31-b 19; per quello della
luna, De gen. anim., per es. II 4. 738a 16-22, IV. 2. 767a 1-7, IV. 10. 777b 24-30. Di più, il mo-
vimento risulta in qualche modo circolare: se da una parte il pensiero di Aristotele delinea la
struttura generale nella quale viene compresa la realtà, d’altra parte l’interpretazione del pen-
siero di Aristotele si determina in funzione di una comprensione della realtà che è storicamen-
te determinata.
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15 La prosa di Alessandro rientra infatti agevolmente nel quadro delle tendenze culturali caratte-
ristiche di quello che il Norden chiamava in senso lato atticismo, tali per cui, nota Norden
(19183), t. I, p. 401 (cfr. tr. it. t. I, p. 411), era possibile trovare arcaisti rigorosi che scrivevano
su comando in attico come Platone, o come Tucidide o come Demostene, o in ionico come Ero-
doto o anche come Ecateo.
16 Questa fedeltà nel lessico, infatti, non impedisce, almeno nel caso di Alessandro, che termini
già aristotelici possano essere impiegati in sensi inediti in Aristotele, mostrando così i chiari de-
biti di Alessandro dalla cultura dell’epoca, sulla cui terminologia filosofica grava pesante il la-
scito dello stoicismo; in tal senso sono tuttora valide, fra le altre, le osservazioni di Pohlenz e
Moraux ap. Sharples (1987), p. 1178 n. 11.
17 Le eccezioni confermano la regola perché sono avvertite come tali, cioé come potenziali devia-
zioni da una linea di condotta costante. Tale per esempio è il caso di ≤ eflmarm°nh, il “fato”,
termine assente da Aristotele: Alessandro preferirebbe usare un termine già aristotelico e non
avendone uno si adopera per argomentare che eflmarm°nh c’è anche in Aristotele, anche a co-
sto di forzare l’interpretazione di due occorrenze aristoteliche dell’aggettivo participiale
eflmarm°now, cfr. Mantissa XXV, 186.13-23. L’autenticità dell’opuscolo mi sembra evidente sia
dal punto di vista strutturale (l’esordio, 179.26-29, affronta il significato del termine e pone la
questione se sia o no un “nome vuoto”, come De fato 165.19-23 e come De providentia 96.10-
11 Zonta (tr. 97.13 s.); le citazioni di autorità a sostegno della dottrina esposta nel trattato so-
no collocate in fondo come nel De providentia 156.20 ss. Zonta (tr. 157.23 ss.) e come peraltro
già in Aristotele Metafisica XII.10. 1076a 4), sia dal punto di vista lessicale (come si è argo-
mentato in questa nota) e concettuale (come si vede dall’ampia concordanza con il De fato, al-
meno nelle parti di più chiara interpretazione di quest’ultimo testo).
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18 Teofrasto d’altronde è anche l’autore della Historia plantarum, ed è colui che più di altri aiutò
Aristotele nelle sue indagini di scienze naturali; non è dunque senza problematicità che egli an-
ticipa la tendenza, che sarà propria della scuola, a risolvere la nozione di natura in un sistema
in sé conchiuso di pensiero sulla natura. Cfr. a questo proposito l’introduzione di Laks in Laks-
Most (1993), con particolare riferimento agli aspetti che ho evidenziati nella relativa recensio-
ne (Fazzo [1995]). All’introduzione e alle note di Laks rinvio peraltro, ora una volta per tutte,
riguardo a tutti i passi della Metafisica di Teofrasto che verranno qui di seguito citati.
19 Cfr. tuttavia le perplessità espresse ancora oggi da Donini (1994) p. 5095 sulla tendenza a ge-
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ressi di Aristotele: questi si evolvono nel corso della sua vita, dagli anni gio-
vanili nei quali frequentava l’Accademia platonica a quelli della tarda ma-
turità (Alessandro, peraltro, come i suoi prosecutori, sembra ignorare una
tale evoluzione - e anche in questo il suo atteggiamento collima con la ten-
denza della sua epoca a dare all’autorità degli antichi un valore assoluto e
metatemporale). Ma anche a prescindere da questo, è insita nel pensiero
di Aristotele una componente costante di libera innovazione, tale per cui
il metodo e gli strumenti concettuali e lessicali impiegati si adattano ver-
satilmente, opera dopo opera, ai problemi di volta in volta affrontati. Co-
sì, sugli stessi problemi coesistono in Aristotele teorie diverse. Conse-
guentemente, non solo uno stesso termine può avere, come di fatto ha an-
che nel linguaggio comune, significati diversi in passi diversi (per esempio
fÊsiw, o Ïlh)20 ma più in generale uno stesso concetto, trattato all’inter-
no di problematiche diverse o da punti di vista diversi, può assumere con-
notazioni diverse e almeno apparentemente discordanti.21 Per giunta, non
necessariamente Aristotele si preoccupa di esprimersi con piena chiarez-
za: nelle opere destinate alla scuola, sulle quali Alessandro lavora, molti
passi sembrano più appunti sintetici che compiute delucidazioni.
Interni all’aristotelismo, questi e siffatti ostacoli ne intralciano il pro-
cesso di ricostruzione sistematica, rendono cioè difficile la costituzione di
una dottrina complessiva dottrinale dialetticamente difendibile e didatti-
camente trasmissibile. Una tale dottrina dovrebbe infatti dare a ogni pro-
blema una soluzione definita e priva di ambiguità, usando i termini in sen-
so univoco e chiaramente identificabile.22
Alessandro esplicita e discute tali difficoltà in modo specifico nelle
épor€ai ka‹ lÊseiw propriamente dette, che costituiscono il nucleo ca-
ratterizzante nell’eterogenea raccolta di opuscoli correntemente denomi-
nati Quaestiones.23
un terzo della totalità degli opuscoli. Cfr. anche Sharples (1992) p. 4. Bruns, ragionevolmente,
dissente da Freudenthal (1884) p. 13, che aveva considerato interamente inadeguato il titolo
della raccolta. Cfr. supra, n. 4.
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più semplice e in quanto tale implicitamente preferibile, così in Alessandro come già in Aristo-
tele. Donini (1996) p. 18-19 ha però obiettato che un tale principio non si trova affatto stabili-
to nei commentari. Il fatto è che Moraux non produce argomenti dettagliati, e dunque in effetti
è molto giustificata la perplessità di chi non accetti in proposito petizioni di principio. Il sug-
gerimento, credo, che emerge dalle indagini di questo libro va in qualche modo a favore di en-
trambe le posizioni, assumendo però un punto di vista diverso. Se è vero ciò che qui si ipotiz-
za (cfr. in part. infra cap. IV §§ 4.1 e 6) e cioè che le diverse soluzioni non siano contempora-
neamente pensate e prodotte da uno stesso esegeta, ma attestino piuttosto una stratificazione
storico-dottrinale, allora si conferma in effetti un privilegio dell’ultima soluzione. Ma il motivo
non sarà necessariamente quello che Moraux suggeriva per analogia con Aristotele. Non è che
infatti di regola Alessandro, come in qualche modo faceva Aristotele, presenti apposta le solu-
zioni diverse dalla propria come complicate o comunque insoddisfacenti, affinché l’ultima ap-
paia più semplice o comunque preferibile. Questo può avvenire in casi particolari (cfr. infra §
IV.4.1 sulla Quaestio II.3, con la possibile conferma paleografica menzionata infra, p. 38 n. 51);
ma in molti altri casi non lo si riscontra, e le diverse soluzioni appaiono semplici o complicate
alla stessa stregua. Ciò che suggerirei invece di tenere presente come ipotesi generale è che l’ul-
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tima soluzione sia opera di chi scrive, le precedenti possano invece essere pregresse. In quel ca-
so, chi scrive l’ultima può tenere conto anche delle precedenti, e trarne suggerimento, mentre
il contrario non è possibile. Non si tratterà allora di un criterio di valore assoluto, dal quale si
possa automaticamente desumere che le soluzioni precedenti la prima siano false mentre l’ulti-
ma è vera; ma senz’altro dal punto di vista di chi redige il testo esse devono essere considerate
perfettibili, o comunque tali che sia possibile affiancarle con altre, o integrarle in una soluzio-
ne più generale e comprensiva. Lo statuto cognitivo stesso che è proprio della letteratura ese-
getica non impone infatti di per sé l’univocità dell’interpretazione (a meno s’intende che non
abbiano valore ragioni particolare e diverse) ma lascia sussistere letture alternative o recipro-
camente riassuntive. Questo si può dire sia in filosofia che in altri ambiti, fra i quali vale la pe-
na di evocare quello giuridico, là dove sentenze diverse esprimono un diverso intendimento di
uno stesso principio, e le diverse sentenze che si succedono nel tempo si conservano e non si
sostituiscono reciprocamente, perché tutte insieme “fanno” giurisprudenza. Sulle interpreta-
zioni multiple in Filone di Alessandria, cfr. Calabi (1998) p. 109-21; più in generale sulla plu-
ralità delle interpretazioni valide nell’interpretazione biblica, mi limiterei qui a ricordare S. Ago-
stino, Conf. XII.31.
27 Altre formule equivalenti sono per esempio mÆpote oÔn mnhmoneÊei (sc.: Aristotele, in Alex.
troduce nei commentari, cfr. per es. in Met. 171.14-172.1: dÊnata€ tiw ékoËsai ka‹ kayo-
lik≈teron toË efirhm°nou ktl; Alex. ap. Simpl. in Phys. VIII.4, 255b 13-14, 1216.27-29: dÊ-
natai d°, fhs‹n ÉAl°jandrow (…) ka‹ kayÒlou (…) efir∞syai.
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29 Nel cap. IV (§§ 4.1 e 6; p.181 n. 409) sarà approfondita in riferimento alla Questio II.3 l’ipotesi
già menzionata nella n. 26, secondo la quale l’ultima soluzione prospettata da Alessandro per un
dato problema sarebbe quella formulata più recentemente, cui chi scrive in prima persona avreb-
be dato un contributo più diretto. Sembra infatti che ci sia una connessione fra il metodo delle
spiegazioni multiple e la compresenza, all’interno della scuola, di interpretazioni diverse di una
stessa dottrina, che lascerebbero traccia, una dopo l’altra, nella forma di soluzioni interpretative
relative a passi cruciali del testo di Aristotele. Tutte resterebbero accreditate, e l’ultima sarebbe
quella che il maestro proporrebbe in proprio, senza rompere con la tradizione precedente (di qui
il frequente uso di formule cautelative nell’introdurre l’ ultima soluzione). Anche Simplicio si com-
porta in modo analogo: propone l’esegesi o le esegesi prospettate da Alessandro (anche senza no-
minarlo), e infine ad esse fa seguire la propria, introdotta da mÆpote, cfr. Diels, “Praef.” in CAG
IX, p. V n. 1.
30 È questo uno dei caratteri che differenziano le vere aporie di Alessandro dal genere letterario
dei (problÆmata), fiorente soprattutto in età tardoantica, dove l’esposizione suddivisa in do-
manda e risposta tende a diventare un espediente meramente didattico: bene esemplificano ta-
le tendenza i Problemi falsamente attribuiti ad Alessandro, editi da J. L. Ideler (Physici et me-
dici graeci, Berlin 1841-’42, vol. I), di argomento prevalentemente medico. Parte dei Problema-
ta pseudo-aristotelici editi da Bekker (Aristotelis Opera, vol. II, pp. 859-967) sembra avere ca-
rattere più genuinamente aporetico; anch’essi tuttavia, come i problemi della Meccanica (ibid.,
pp. 847-858) sono quasi tutti introdotti dalla formula diå t€, che invece non è caratteristica del-
le Quaestiones. Con questa cominciano infatti solo tre degli opuscoli. Di questi, due si avvici-
nano alquanto a quelli delle raccolte ora menzionate (mentre risultano piuttosto isolati nella ti-
pologia delle Quaestiones): sono la Quaestio I.20 (pp. 33.24-34.29 Bruns: “Perché d’estate sia-
mo più portati al sonno, se il sonno è per compressione verso l’interno del nostro calore natu-
rale”) e la II.23 (pp. 72.9-74.30, “Sulla calamita, perché attragga il ferro”; cfr. infra, p. 160 n.
340). L’altra è la Quaestio II.9 (sulla cui discrepanza dottrinale dalla Quaestio I.8 riguardo al
problema della relazione fra forma e materia cfr. infra, p. 57 n. 93). Sulla Quaestio I.5, che pu-
re contiene tale locuzione all’interno del titolo, cfr. infra, p. 68 s.
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31 Molte delle Quaestiones si presentano come esegesi di un determinato lemma: I.16, I.24, II.2,
II.22, II.24, II.25, II.26, II.27. III.2, III.3, III.6, III.7, III.9.
32 A questa possibilità si possono avvicinare anche le Quaestiones I.11, II.6, IV.18, che pongono
pio gli Iatrika problemata falsamente attribuiti ad Alessandro ed editi da Ideler (vol. I, 1841, cfr.
supra, n. 30) la soluzione non è introdotta da ≥, bensì da una locuzione - quale frequentemen-
te è ˜ti - che direttamente si connette allo stilema di esordio, diå t€. Invece, e questo pone un
problema riguardo all’ipotesi qui presentata, la disgiunzione ≥ è presente nei Problemata pseu-
doaristotelici, che raccolgono materiale formulato almeno in parte in età ellenistica (almeno se-
condo Flashar [1962], il cui studio è a tutt’oggi di riferimento) e dunque necessariamente pri-
ma che si costituisse una tradizione esegetica quale ora si è descritta. Una possibile via d’usci-
ta, rispetto all’obiezione che la presenza della disgiunzione ≥ in tali testi costituisce, è ipotizza-
re che di quei testi, pur risalendo a età ellenistica una parte dei materiali costitutivi, la redazio-
ne in nostro possesso sia più tarda, e abbia potuto così incamerare in un secondo tempo un uso
- quello di ≥ come stilema introduttivo della soluzione - che nel frattempo era divenuto con-
sueto e convenzionale per quel genere di letteratura. Ringrazio Maurizio Ferraris per la discus-
sione sull’interrogativo affrontato in questo paragrafo. Si intende che la spiegazione qui pro-
posta è prospettata per via puramente ipotetica.
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34 Sull’uso dei tempi storici, cfr. Bruns (1889), Index, p. 223 s. v. tempus; Accattino-Donini (1996)
p. 119 (in De anima 9.16).
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38 Sullo scetticismo galenico, con specifico riferimento al De placitis Hippocratis et Platonis, cfr.
Vegetti (1986) p. 235: la filosofia speculativa viene declassata quasi al livello della retorica, in
quanto presenta come sicure opinioni non passibili di dimostrazione apodittica; cfr. inoltre con
Nutton (1987) i capp. 2-3 del trattato “Sulle proprie opinioni”, nel quale Galeno professava
agnosticismo su temi fondamentali di filosofia e teologia.
39 Cfr. De anima 2.4-5; l’espressione “più vera”, nella misura in cui evoca l’idea di una verità solo
parziale e non interamente raggiungibile, può rievocare l’esordio di Met. II, 993a 29-b 3, come
suggerito ad loc. (p. 105) dal commento di Accattino-Donini (1996) che resta qui in seguito di
riferimento anche per tutte le altre citazioni dal De anima.
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40 Sembra fare eccezione la Quaestio II.21, la cui autenticità può essere per altre ragioni essere
messa in discussione, cfr. supra, n. 5 p. 11 s.. Se i dubbi che ho espressi in proposito sono fon-
dati, l’eccezione conferma la regola.
41 Un uso diverso della molteplicità delle dottrine, considerate come tutte possibili, è quello di
Epicuro. Questi infatti, quando si pronuncia per esempio sui fenomeni meteorologici e astro-
nomici, ne prospetta diverse spiegazioni, come tutte utili a liberare l’animo dalla paura, ma tut-
te impossibili da verificare: sceglierne una sulle altre sarebbe arbitrario e metodologicamente
non corretto; cfr. Epistola a Pitocle, 87 s.: Isnardi Parente (1974) p. 29 s.
42 L’origine scettica di questo tipo di argomentazione è stata sottolineata da Mansfeld (1988), che ha
evidenziato al riguardo importanti analogie di struttura fra le sezioni introduttive di due trattati
di Alessandro conservati in greco, quali il De fato e il De mixtione, e quella del De providentia con-
servato in arabo pp. 96.6-124.25 Zonta (tr. 97.8-125.26). Alessandro d’altronde sembra, più in ge-
nerale, tenere presenti le critiche scettiche alle dottrine filosofiche sulla provvidenza, come mo-
stra il parallelo fra gli argomenti del De providentia di Alessandro e quelli di Sesto Empirico, Li-
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neamenti del pirronismo, come ho evidenziato in Fazzo-Zonta (1999), p. 35 s., n. 49: Alessandro
- a quanto appare dal parallelo - tiene presente la lezione dello scetticismo, ma se ne serve in po-
sitivo, per rafforzare la posizione aristotelica. Sulle differenze, peraltro, fra la diafvn€a scettica
e il procedimento confutatorio di Alessandro nel De fato, e sulle affinità di quest’ultimo con quel-
lo dei libri finali della Metafisica di Aristotele, in particolare Met. XIV, cfr. Natali (1996) p. 44 s.
43 Cfr. per es. la coppia sinonimica di Alessandro in Met. 16.3 tÚ zhte›n te ka‹ filosofe›n.
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colui che fa filosofia sulla base dei testi di Aristotele, e nel fare questo è
portato continuamente a interrogarsi sul loro significato. In particolare,
dove la ricerca incontra difficoltà, è compito fondamentale dell’esegeta
quello di porre aporie (épore›n o épor∞sai).
Tutto questo, beninteso, si trova in Alessandro sulla scorta di Ari-
stotele, anche se più marcatamente che in Aristotele. Ma è segnatamente
all’epoca di Alessandro che tale terminologia poteva o forse anzi doveva
inevitabilmente evocare una relazione con la scuola scettica, se è vero che
nell’antichità gli scettici erano noti, con meno che come skeptiko€, co-
me éporhtiko€ e come zhthtiko€.44
Naturalmente la comunione di strumenti e non è necessariamente co-
munione di intenti ed è interessante anche viceversa notare come in tut-
to il commento alla Metafisica, dove questi termini compaiono in innu-
merevoli occorrenze, non compaia invece nemmeno una volta la radice
skep- o skec-.45 Riconfermando come strumento privilegiato dell’inda-
gine filosofica la pratica della ricerca e dell’aporia, Alessandro sembra
contrapporsi implicitamente a un suo esproprio di parte scettica; riven-
dica cioè all’aristotelismo un uso specificamente non scettico della ricer-
ca e dell’aporia.
Il processo che, sulla base delle opere del maestro, costruisce l’aristo-
telismo come sistema compiuto aveva già richiesto, prima di Alessan-
dro, secoli di elaborazione. In esso, Alessandro costituisce una sorta di
spartiacque: è il primo esegeta la cui opera ci sia pervenuta in modo co-
sì consistente; riassume il magistero dei predecessori, la cui opera è qua-
si totalmente perduta,46 e ne sintetizza l’eredità; al tempo stesso, è uno
degli ultimi commentatori aristotelici di Aristotele: diversamente dai
suoi successori, egli è veramente ortodosso e fedele in tutto ad Aristo-
tele, e lo riconosce come unica autorità; mentre dopo di lui i commen-
tatori di Aristotele aderiranno per lo più, nonostante questa loro atti-
44 Diog. Laert. IX. 69-70; Sext. Emp. Pyrr. Hyp. I.7, dove Sesto contrappone il modo aporetico
del fare filosofia a quello dogmatico (cfr. anche Adv. Math. VII.30). Alessandro invece, pur mae-
stro dell’aporia, guarda positivamente la dogmãtvn kataskeuÆ, cfr. per es. De fato 165.1.
45 Compare invece, programmaticamente e non a caso, nell’esordio di Mantissa XXV (per‹ t∞w
eflmarm°nhw êjion §pisk°casyai, t€ t° §sti ka‹ §n t€ni t«n ˆntvn ktl, CAG, Suppl. Ar.
II.1. 179.25 s. Bruns): sul fato si deve indagare criticamente, per vedere che cosa sia, non per
negare che esista ma per circoscriverne il peso ed il raggio d’azione.
46 Questo rende più ardua la questione dell’autenticità degli scritti attribuiti ad Alessandro, cui si
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47 Temistio (IV sec. d. C.) appare il solo caso di commentatore posteriore ad Alessandro che fac-
cia professione di fedeltà al testo di Aristotele, contro le speculazioni dei neoplatonici e la loro
tendenza a interpretare Aristotele alla luce di Platone, cfr. Blumenthal (1990). Temistio tutta-
via è anche grande ammiratore di Platone, e usa elementi lessicali tipicamente neoplatonici; inol-
tre si distacca da Aristotele in più occasioni, talora apertamente, cfr. Blumenthal ibid., p. 122-
123. In ogni caso, Alessandro sembra erigersi alla fine di una tradizione specificamente peripa-
tetica, come nota Sharples (1990), p. 84, n. 8.
48 Cfr. per esempio il raffronto fra i commenti di Filopono e Averroé in De gen. et corr. II.2 e le
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Nei capitoli II, III, IV di questo libro si troverà tradotto e riportato inte-
gralmente il testo greco delle Quaestiones I.10, I.15, II.6, II.19 e II.3. Poi-
ché il testo dell’edizione di riferimento è stato verificato, e dove necessa-
rio riveduto (i luoghi problematici addensandosi nel cap. II sulla Quae-
stio I.15 e nel cap. IV sulla Quaestio II.3), i criteri e gli strumenti di tale
revisione meritano di essere fatti brevemente espliciti.
Fra coloro che si sono occupati specificatamente delle Quaestiones
non v’è alcuno - si può dire - che non abbia avvertito la necessità di rive-
dere l’edizione corrente, curata da Ivo Bruns (1892) per l’Accademia di
Berlino nell’ambito dell’edizione delle opere minori di Alessandro (Com-
mentaria in Aristotelem Graeca, Supplementum Aristotelicum II.2, pp. 1-
163). Fondamento di questa edizione è un manoscritto della fine del IX
secolo, il Marcianus Graecus Zanetti 258 (Biblioteca Marciana di Venezia,
“V” negli apparati), nel quale Bruns (“Praefatio”, pp. XV-XXVII) ravvi-
sò la fonte, non solo primaria, ma unica dell’intera tradizione manoscrit-
ta a lui conosciuta.49 Pertanto le lezioni di V sono registrate nell’appara-
to di Bruns con uno scrupolo particolare (ne orthographicis quidem ne-
glectis, com’egli stesso dice) anche quando non vengono seguite. In que-
sto, l’edizione di Bruns presenta un enorme progresso rispetto all’illeggi-
bile editio princeps veneziana del 1536 e a quella monacense di Spengel
del 1842. Tuttavia il testo dato alle stampe da Bruns è non di rado oscu-
ro, talora addirittura intraducibile, soprattutto a causa dello stato lacu-
noso e deteriorato della tradizione manoscritta.50
Questa, come già aveva notato Bruns, sembra effettivamente deri-
vare fondamentalmente dal MS Marc. gr. 258 (IX sec., “V” negli appa-
49 Il MS Veneto Marc. 258 (coll. 668), appartenente alla cosiddetta “collezione filosofica”, sem-
bra derivare esso stesso da un esemplare in onciale gravemente danneggiato, cfr. Bruns (1889),
p. V-X, in part. VII, (1892) p. XVI-XVIII, in part. XVIII. Sulla datazione del MS Ven. Marc.
258 nella parte finale del IX secolo, piuttosto che nel X secondo la stima di Bruns, cfr. Thillet
(1976); sull’archetipo e sul prearchetipo, Thillet (1982). Nel catalogo Mioni (1981) la descri-
zione si trova a p. 373 s.
50 Poco chiari ai copisti, i testi sono stati probabilmente inficiati da fraintendimenti e da lacune in
fase di trasmissione. Intorno ai passaggi più ostici e meno lineari, incompresi dai copisti, si ad-
densano infatti le più gravi corruttele, che a loro volta offuscano ulteriormente la comprensio-
ne del testo. Per rimediare a siffatte oscurità, aveva lavorato già il primo revisore del MS Ven.
Marc. 258 (il vetus corrector di cui Bruns [1892] p. VII, identico o coevo al copista medesimo);
e lavorò più tardi Bessarione, cui appartiene la seconda mano (V2 nell’apparato di Bruns) co-
me riconosciuto da Mioni (1976) e Thillet (1982), mentre Bruns (1889) p. VIII e (1892) p. XVIII
ipotizzava che si trattasse di un dotto bizantino del XII secolo.
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rati), la cui centralità non risulta veramente smentita dagli esiti dalle ri-
cerche più recenti.
Personalmente, nelle ricerche sinora compiute sulla tradizione ma-
noscritta ho potuto trovare un solo manoscritto delle Quaestiones indi-
pendente da V: il Veneto 194. Contiene solo le Quaestiones I.1, I.25, I.10,
I.15, II.23 e parte della Quaestio II.3.51
Un’altra importante fonte di varianti sono i marginalia apposti da eru-
diti del XVI secolo a margine di alcuni esemplari dell’editio princeps delle
Quaestiones (Venezia 1536, per i tipi di Bartolomeo Zanetti). Uno di questi
esemplari, appartenuto a uno dei più noti filologi del XVI secolo, il fioren-
tino Pietro Vettori, si trova ora nel fondo “vettoriano” di Monaco (Bayeri-
sche Staatsbibliothek, Res. A. gr. 27). Esso era noto anche all’editore Bruns
(1892), che ne fa ampio uso nel proprio apparato, così come Sharples (1992),
(1994). Per uniformità con l’uso corrente, ho conservato la sigla “Vict.” per
indicare tale serie monacense di annotazioni, benché per la maggior parte
esse non siano né di mano né di congettura del Vettori. La mano infatti (tran-
ne un’esigua minoranza di interventi, precedenti nel tempo, dove effettiva-
mente si distingue la grafia di Vettori) è quella di un collaboratore di Vetto-
ri. Questi d’altronde non sembra produrre egli stesso le note, ma le estrae
presumibilmente da una fonte manoscritta, forse da un’analoga serie di an-
notazioni.52 Esiste d’altronde almeno un’altra serie di annotazioni, più ric-
51 Anche il MS Ven. Marc. 194 (qui in seguito: T) appartenne, a quanto sembra, a Bessarione.
Questo il contenuto della sezione dedicata alle Quaestiones di Alessandro (ff. 426r 5-428v 7):
I.1 (f. 426r 6-426v 25); I.25 (ff. 426v 25-427r 18); I.10 (ff. 427r 19-427v 8); I.15 (ff.427v 8-428r
4); I.5 (f. 428r 5-28); II.23 (f. 428r 28-428v 15); II.3 (f. 428v 16-37). Il testo della Quaestio II.3
è incompleto: include solo 47.30-48.25, 48.27-29, 50.24-27 (una tale descrizione del MS Ven.
194 si trova, salvo poche rettifiche di dettaglio, nel catalogo Mioni [1981], p. 305 s.). In questo
libro presento l’ipotesi che le diverse soluzioni di uno stesso problema attestate in un unico te-
sto possano rappresentare stratificazioni storiche, cioè momenti successivi di riflessione, cfr. su-
pra, § 6, nn. 7, 26, 29 e infra, IV.4.1 e IV.6. Se l’ipotesi è plausibile, esiste forse la possibilità che
la redazione brevius in codice (come dice il catalogo Mioni) della Quaestio II.3 non derivi dal
testo integrale, quale noi lo conosciamo, sforbiciato più o meno casualmente per ragioni di spa-
zio (come peraltro la disposizione del testo nella pagina potrebbe lasciar sospettare); sembra in-
fatti che il MS Ven. Marc. 194 raccolga una redazione precedente della Quaestio stessa, prima
che ne fosse formulata la soluzione ultima. Il confronto fra il testo del MS Ven. Marc. 194 e
quello del MS Ven. Marc. 258 stampato da Bruns può mostrare che il redattore dell’ultima so-
luzione non si limita ad aggiungere una nuova sezione, ma lavora anche sulla redazione prece-
dente e sulla “soluzione” ivi attestata, che modifica nei dettagli per produrre un testo più coe-
so e una successione logica più efficace.
52 Lo suggerisce il confronto con le annotazioni, molto simili, ma non derivate da quelle vettoria-
ne, apposte dal bibliofilo genovese Giovanni Vincenzo Pinelli (1538-1601) sui margini di un al-
tro esemplare della stessa edizione del 1536 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S. R. 454) (per l’i-
dentificazione della mano di Pinelli, cfr. Bibl. Ambr. Inc. 374 1-12 con Fazzo [1999.2], p. 74).
Il carattere derivativo di buona parte delle note dette vettoriane sembra d’altronde conferma-
to dal confronto con le note braidensi, cfr. n. seg.
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53 Sulle note braidensi alle Quaestiones e sulla loro relazione con quelle vettoriane, cfr. Fazzo
(1999.2), in part. per l’identificazione della mano di Ottaviano Ferrari cfr. l’Addendum di p. 74
s. (cui fa riferimento l’errata corrige alle didascalie delle tavole 3.2a-b-c). Ottaviano Ferrari
(1508-1586) fu docente presso lo Studio di Pavia fra il 1545 e il 1548 in logica e fra il 1548 e il
1557 in filosofia, a quanto risulta dai ruoli dello Studio di Pavia (1531-1562), facoltà di arti e
medicina, pubblicati in Fazzo (1999.3). Per l’identificazione della mano di Ferrari sull’esem-
plare braidense delle Quaestiones, cfr. per es. la lettera firmata legata dopo il f. 209 nel volume
Bibl. Ambr. inc. 373/e. Ad un esame dettagliato, le note di Ottaviano Ferrari (variae lectiones e
loci paralleli soprattutto) risultano prodotte in varie riprese, e sembrano pertanto attestare una
riflessione sul testo protratta e reiterata nel tempo; ad esse si affiancano, stupefacentemente si-
mili, le note, anch’esse poste a più riprese, da una grafia diversa (per ora anonima), su di un al-
tro esemplare dell’editio princeps: Milano, Biblioteca Ambrosiana S. R. 456/2, come segnalato
in Fazzo (1999.2), p. 74.
54 Il codice B = Ven. Marc. 261 (coll. 725, XV sec., cfr. Mioni [1981], p. 376 s.) esce dallo scrip-
torium del Bessarione, che ne scrive egli stesso molte pagine (non però quelle contenenti le Quae-
stiones). Sembra derivare dal pure bessarioneo Ven. 258 in modo diretto, nonostante le per-
plessità di Bruns (1892) p. XIX. Queste riguardano un passo della Quaestio II.10, 55.14 s., che
in V è chiaramente corrotto, e viene corretto da V2, e poi ulteriormente da B. Bruns infatti ri-
tiene che la relazione fra V e B in quel passo escluda la derivazione diretta e presupponga un
intermediario. Se tuttavia si tiene presente ciò che Bruns non sapeva, cioè che la seconda serie
di correzioni su V - negli apparati, V2 - è di Bessarione, la relazione fra V e B su 55.14 s. si può
spiegare forse altrettanto bene con la volontà del copista di B (che lavorava al servizio del Bes-
sarione) di seguire nell’intendimento e di perfezionare l’intervento sul testo di V2, che è la ma-
no del Bessarione. Questo peraltro non esclude la contaminazione con altri codici, suggerita ta-
lora dalla concordanza con il MS Ven. 194, pure posseduto da Bessarione (cfr. per es. infra, §
II.3.5, in part. in Quaestio I.15. 27.14, e n. 268). Poiché non sono mancati studi sulla presenza
della mano del Bessarione nei manoscritti della Biblioteca Marciana (cfr. in part. Mioni [1976]
con l’intero volume nel quale tale contributo si trova incluso) merita di essere segnalato, come
apparentemente non rilevato sinora, che le note marginali su B (Ven. 261), che Thillet (1982)
riconosce come parzialmente derivative dalle note marginali su V, sono anch’esse della grafia
del Bessarione. Per quanto riguarda S = MS Ven. Marc. app. IV, 10 (coll. 833), cfr. Mioni (1972)
p. 204: datato da Mioni all’inizio del XVI secolo, da Thillet (1982) p. 49 al XV secolo, S sem-
bra derivato da V per via differente da quella di B, e in modo non diretto, come suggerisce la
parentela con altri descripti (G, F, L nell’edizione di Bruns). Calligrafico ma molto scorretto, S
condivide molti degli errori dell’editio princeps (1536). Nelle sue correzioni (S2) questo mano-
scritto tiene conto delle correzioni bessarionee su V (V2), che trascura invece, come nota Bruns,
nel corpo del testo. Se questo è vero, può essere indizio che la derivazione di S da V sia avve-
nuta, se pure indirettamente, prima dell’intervento di Bessarione su V (oppure bisogna ipotiz-
zare che la prima mano di S abbia deliberatamente ignorato V2). A differenza da V e B, d’al-
tronde, S non fa parte del fondo originario della Biblioteca Marciana, costituito dal lascito bes-
sarioneo, ma vi fu acquisito nel 1789 con la soppressione della biblioteca domenicana di SS.
Giovanni e Paolo in Venezia. Le indagini parziali sin qui svolte non smentiscano per ora la va-
lutazione di Bruns, almeno per quanto riguarda i codici noti che contengono l’intero corpus del-
le Quaestiones: nonostante qualche dubbio su B (cfr. n. seg. per il De fato, e la concordanza sal-
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rato di quest’ultimo55; ho fatto uso del codice Veneto Marciano 194, sfug-
gito all’attenzione dei precedenti editori; delle edizioni a stampa (Trinca-
velli 153656, Spengel 1842); delle due principali serie di annotazioni ma-
noscritte cinquecentesche, conservate in margine all’esemplare mona-
cense (“Vict.”) e all’esemplare milanese braidense (“Braid.”) dell’editio
princeps del 1536, che come accennato potrebbero conservare traccia, ol-
tre che di un’attenta revisione congetturale, di una tradizione manoscrit-
ta comune, forse indipendente da V
Sono stati utili inoltre gli studi specifici di Bruns e di quanti dopo Bruns
si sono occupati dei singoli testi. In particolare, già pochi anni dopo la com-
parsa dell’edizione di Bruns, dobbiamo a Otto Apelt (1894) una serie di
proposte di emendamento, asciutta nella presentazione (è proprio una sem-
plice lista), ma utile e talora geniale nel talento filologico. Compaiono in
Apelt per la prima volta, per questi testi, ipotesi esplicative della genesi del-
l’errore: alcuni errori importanti deriverebbero, come Apelt mostra con-
vincentemente, dalla copiatura in carattere minuscolo di testi precedente-
mente scritti in onciale maiuscolo (anteriori dunque al IX secolo), cioè in
caratteri maiuscoli scritti senza spiriti né accenti né divisione delle parole.
I suggerimenti di Apelt si trovano ripresi, insieme a proposte ulteriori, in
un articolo di Moraux (1967) sulla sola Quaestio II.3. Per l’intera raccolta,
tuaria con T per le Quaestiones), nulla ancora smentisce sostanzialmente la tesi che essi derivi-
no in qualche modo tutti interamente da V. Per quanto invece riguarda i pochi testi del Ven.
Marc. 194, e per quanto riguarda le diverse serie di marginalia, le quali potrebbero avere una
fonte comune, non è detto che si debbano escludere ipotesi diverse.
55 I manoscritti diversi da quelli veneti V, B, S e T consultati da Bruns sono stati qui citati solo
molto sporadicamente in quanto poveri di interesse autonomo, e in modo derivativo, cioè tra-
mite l’apparato del volume di Bruns (1892). Più in generale, l’edizione e la “Praefatio” di Bruns
de codicibus Quaestionum resta tuttora di riferimento nonostante le diverse ragioni che ne ri-
chiederebbero la revisione. Il succinto apparato di note con indice alfabetico qui infra presen-
tato in calce ai testi greci si limita comunque a segnalare, dove necessario (cap. II § 3, cap. IV),
gli interventi da noi operati rispetto all’edizione di Bruns e pochi altri casi specialmente dubbi
o controversi. Poiché molti dei codici che contengono le Quaestiones sono anche gli stessi che
contengono il De fato, è utile Thillet (1982). Fra i manoscritti greci, Thillet (che presta partico-
lare credito anche alla versione latina del De fato di Guglielmo di Moerbeke, come derivata da
un diverso archetipo in onciale) sembra riconoscere come realmente utili solo V e B (p. 56).
Non prende tuttavia partito in modo definitivo sul carattere derivativo di B da V (p. 29 ss.): pur
riconoscendo il carattere congetturale di molte varianti di B, vi reperisce anche tratti di paren-
tela con la versione di Guglielmo di Moerbeke. Sulla tradizione del De mixtione di Alessandro,
che pure presenta elementi di affinità con la tradizione delle Quaestiones, cfr. Montanari (1971).
56 L’editio princeps del 1536 (cfr. qui infra, “Conspectus siglorum”) è particolarmente vicina al co-
dice S, le cui correzioni di seconda mano (S2) sembrano integrarvisi con quelle di B (B2). Bruns
comunque tende a escludere una derivazione diretta dell’editio princeps da S. In ogni caso, Trin-
cavelli sembra essersi servito di codices descripti piuttosto che direttamente di V. Il testo così co-
stituito, sovente insostenibile, come evidenziato dai marginalia dei suoi primi fruitori (cfr. su-
pra, p. 38 s.) è di poca o nessuna utilità ai fini dell’edizione critica.
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Conspectus siglorum
Fonti manoscritte
V Venetus Marcianus 258
B Venetus Marcianus 261
F Neapolitanus III D 12
G Mutinensis Estensis III G 6
H Hauniensis Fabricianus 88
S Venetus Marcianus append. A. IV
T Venetus Marcianus 194
Braid. note manoscritte di Ottaviano Ferrari (Milano, 1508-1586) in margine all’esemplare del-
l’editio princeps di Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, B XVI 6.078
Vict. note manoscritte (sec. XVI) in margine all’esemplare dell’editio princeps di Munich,
Bayerische Staatsbibliothek , Res. A. gr. 27
Edizioni a stampa
a (editio princeps) Quaestiones Alexandri Aphrodisiensis naturales, de anima, morales (…)
[Venetiis in aedibus Bartholomaei Zanetti Casterzagensis, aere vero et diligentia I. F. Trin-
caveli mense Aprili] 1536
Spengel (ed.), München 1842
Bruns (ed.), Berlin 1892
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1. Introduzione
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II.12 (p. 57.7-30 Bruns): “Il fatto che i corpi possano contrarsi in se stes-
si non dimostra che i corpi possano compenetrarsi”;57
II.28 (pp. 77.31-79.18 Bruns): “La materia non è un genere”.
57 L’opuscolo ha come argomento centrale il fatto che la materia di per sé non si può contrarre,
cfr. 57.15 ss.
58 Arist. De anima, II.1. 412a 6-9.
60 ibid. II.1. 412b 26 s. Esordisce il breve testo: “Da questo passo si può mostrare ottimamente che l’a-
nima non è in un sostrato”. È evidente l’affinità di tema e di posizione con i testi discussi infra, § 4.
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61 ibid. II.2. 413a 20. L’opuscolo tratta dell’anima come sunamfÒteron di forma e materia, confor-
memente alla dottrina tenuta da Alessandro a questo riguardo negli altri testi esaminati infra, §§
3.2 ss.
62 Sul peso della concorrenza fra scuole e della rivalità fra correnti filosofiche nei trattati di Ales-
sandro, cenni supra, “Introduzione”, § 2 e in Fazzo-Zonta (1999), pp. 7 s., 18, 21 s., 25 s.
63 Il tema della relazione fra forma e materia percorre in senso trasversale l’opera di Alessandro.
Fra le numerose digressioni ad esso dedicate, la maggiore è quella introduttiva al De anima (2.25-
11.13, cfr. infra, § 2.1) che prepara e introduce il tema dell’anima come forma del corpo. Lo
stesso tema compare sovente anche nelle soluzioni finali delle aporie sia nelle Quaestiones (per
esempio, fra quelle qui esaminate, la Quaestio I.24 e nella Quaestio II.3) sia all’interno dei com-
mentari, per es. Alex. in Met. 159.9-26, 165.4-16, cfr. anche 31.1-5, (sovente, più in generale,
Alessandro introduce l’opposizione fra e‰dow e Ïlh là dove essa non compare in questi termi-
ni in Aristotele, cfr. per es. in Met. 42.20-43.9, 43.11-45.9, 157.23-7, 211.20-213.23, 214.23-29,
215.32-216.11, 308.1-10). Anche nel commento al libro Lambda, cap. 7 della Metafisica, com-
mentando il passaggio dove Aristotele dimostra le prerogative del motore immobile con un crip-
tico argomento per sustoix€a (1072a 30-b 3), Alessandro, come attesta Averroé (in Met., p.
1601-2 Bouyges, frammento 29 Freudenthal), dopo aver riportato tre interpretazioni, per quar-
ta ed ultima propone che la serie (sustoix€a) positiva di cui parla Aristotele sia quella della
forma, intellegibile in sé, contrapposta alla sustoix€a della materia, conoscibile soltanto in re-
lazione alla prima. Peraltro, se la nostra ipotesi sul metodo delle soluzioni multiple è corretta,
sembra che in questo caso la soluzione proposta da Alessandro fosse già preparata all’interno
della scuola, come si vede in particolare dalla terza e penultima interpretazione, secondo la qua-
le la serie o sustoix€a positiva sarebbe quella della forma, intesa come ciò cui non è mescola-
ta la privazione, contrapposta alla serie della privazione.
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scuno di essi affronta. Esiste infatti una specificità delle Quaestiones con-
cernenti la materia: percorre questi testi, ove più, ove meno distintamen-
te, una sorta di continuità e di convergenza nelle tendenze generali, che
riguarda i problemi, gli strumenti logici e linguistici, le soluzioni pro-
spettate e gli esiti che ne risultano.
64 Cfr. già Engel ap. Bonitz, s. v. Ïlh; Happ (1971) p. 276 s., Solmsen (1961).
65 Cfr. per esempio Met. VII.3. 1028b 36 s.
66 Cfr. e. g. Phys. I.3. 186a 19 ac saepe. Sul carattere funzionale dei concetti (incluso quello di ma-
teria) che esprimono i principi della fisica aristotelica, e sul peso dell’analisi linguistica nella lo-
ro formazione, cfr. Wieland (19702). Fra i modi per indicare la materia in Aristotele, si può an-
noverare anche tÚ dunãmei s«ma afisyhtÚn in De gen. corr. II.1.329a 34.
67 Cfr. infra, § 2.5.
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dovrà fare il cammino a ritroso, scomporre cioè una tale convergenza lessi-
cale distinguendo nei pollax«w legÒmena, come faceva Aristotele, i diver-
si sensi e modi nei quali si intende un unico termine (per esempio Ïlh come
sostrato della forma e della privazione o come sostrato dei contrari, come cau-
sa materiale o come ricettacolo).68 L’unità tuttavia si mantiene o comunque
si recupera prescegliendo e distinguendo fra tutti un significato principale e
prioritario, definito, di per sé, in modo univoco e non equivoco.
I problemi e gli ostacoli che una tale selezione comporta non sono
ancora risolti all’altezza cronologica di Alessandro, bensì si trovano di-
scussi e affrontati, per l’appunto, nelle Quaestiones. Già questo di per sé
potrebbe motivare che si trovino dedicati al problema della materia mol-
ti di questi opuscoli di scuola. Le Quaestiones attestano infatti nei detta-
gli quale travaglio abbia comportato l’intento di trovare in Aristotele, let-
to attraverso il secolare magistero esegetico dei peripatetici precedenti
Alessandro, una definizione precisa e un uso sistematico sia per il con-
cetto di materia sia per quelli ad esso più direttamente correlati.
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70 Già in Teofrasto, i cenni allusivi di Metafisica, 8a 8-20, che pure sembrano esprimere uno sta-
dio relativamente incoativo di questa riflessione, attestano comunque una coscienza già preci-
sa del carattere problematico del concetto filosofico di materia e soprattutto l’esigenza di con-
ciliare l’ Ípãrxein kat’ aÈtÆn della materia con l’assenza in essa di qualsiasi determinazione
formale, qualitativa e quantitativa. Anche in questo, Alessandro mostra di muoversi su di un
filone evolutivo che ha in Teofrasto un punto di riferimento importante. È questa stessa, ve-
rosimilmente, la difficoltà che porta gli aristotelici posteriori a introdurre la nozione di deÊ-
teron Ípoke€menon, cioè un sostrato per così dire penultimo; il quale, rispetto a quella no-
zione, totalmente negativa e indeterminata, di materia prima, trae una sua forma di consisten-
za e tangibilità dall’estendersi nelle tre dimensioni: tale deÊteron Ípoke€menon è detto anche
êpoion s«ma, cfr. Proclo, in Tim. I.387.5-17, Simpl. in De caelo 134.9 s. con De Haas (1995),
p. 108 s. e n. 151.
71 Su “Materia e sostrato” cfr. infra, § 4.1.
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Per converso, e per definizione, materia è allora ciò che, negli esseri
naturali, non è adatto ad essere conosciuto: è il residuo che resta, dopo
che per astrazione se ne sia separato ciò che è conoscibile - e questo, per
definizione, è la forma. Forma, evidentemente, si intende in un senso mol-
to comprensivo: ponendo la forma, per opposizione alla materia, come
intellegibile in senso proprio (kur€vw), si attribuiscono alla forma tutte
quelle determinazioni che sono passibili di essere conosciute in senso pro-
prio e che sono analizzate secondo la tradizione aristotelica nei termini
delle Categorie: oÈs€a, qualità, quantità e così via. Tutto questo - non so-
lo dunque la configurazione esteriore (sx∞ma), ma tutto ciò che può es-
sere conosciuto - è forma, non materia. Come dunque conoscere la ma-
teria, o anche semplicemente parlare di essa?
74 Quaestio I.25, 39.14-19; in part. 39.18-19: tÚ går pãshw Ïlhw ka‹ pãshw dunãmevw e‰dow kex-
vrism°non tª aÍtoË fÊsei nohtÒn §sti kur€vw, cfr. più diffusamente De anima 86.14-88.16, De
princ. §§ 101-104 Genequand; l’accordo reciproco dei passi di Alessandro che parlano della co-
noscenza mostra che in proposito l’esegeta dispone di una dottrina stabile, fondata su Arist. De ani-
ma III.4 (in part. 429a 10-29, 429b 23-430a 9) ma largamente precisata nei dettagli e nelle impli-
cazioni. L’elaborazione attestata in Alessandro, qui una volta di più, comporta un’accentuata cen-
tralità dell’opposizione fra forma e materia prima (cfr. supra, n. 63), ad ampio sviluppo della di-
stinzione di Aristotele 430a 3-9 fra enti sensibili ed enti senza materia.
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Infatti [la materia] può essere oggetto di opinione e non di scienza (doja-
stØ gãr §sti ka‹ oÈk §pisthtÆ). Come dice Platone, è conoscibile per un ra-
75 “Ibrido”: nÒyow, più letteralmente: “bastardo, adulterino”: non a caso, in Platone, il termine è
violentemente spregiativo; cfr. Tim. 52b 3, e per l’argomento più in generale 49a 2 ss. La me-
tafora della famiglia e del figlio adulterino è preparata in 50a 1-3: il ricettacolo, la forma e ciò
che si genera da entrambi si possono paragonare a madre, padre e figlio. Per questo il ragiona-
mento sul ricettacolo, che è madre senza padre, sarebbe un ragionamento in qualche modo “ba-
stardo”. Va tenuto presente tuttavia che Platone non chiama il recettacolo “materia”, Ïlh, ben-
sì ÍpodoxÆ - il termine Ïlh prende infatti questo significato soprattutto con Aristotele (cfr. su-
pra, § I.1.2); nondimeno il passo del Timeo 52b viene citato, in riferimento alla materia e al suo
non essere conoscibile in sé, in Alessandro (nei passi qui tradotti da Quaestio I.1 e dal com-
mento in Met. II.1) e già prima di Alessandro, per esempio in Alcinoo, Did. VIII, 162.32. La
stessa citazione dal Timeo con lo stesso significato si trova anche più tardi in Temistio, Paraphr.
in De anima, l. VI, p. 111.24-26 (in Arist. De anima III.6): “questa sarebbe la dottrina platoni-
ca riguardo alla materia: la (materia) si può afferrare per ragionamento ibrido (nÒyƒ logism“);
precisamente, è un atto ibrido dell’intelletto e della sensazione, quello che avviene non per at-
tribuzione ma per sottrazione di forma”; e in Filopono in An. Post. (CAG XIII.3) p. 332.13-15.
Sia il commento di Filopono, d’altronde, che la parafrasi di Temistio hanno in Alessandro una
fonte primaria (come si vede dagli indici dei nomi di entrambi i volumi del CAG). Non è per-
tanto inverosimile che in entrambi derivi da Alessandro la citazione del Timeo, con l’idea di una
conoscenza della materia per nÒyow logismÒw.
76 Quaestio I.1, 4. 9-11.
77 In realtà il passo di Aristotele è controverso e poco chiaro (cfr. ad loc. le perplessità di Bonitz,
Ross e Jaeger). Anche Alessandro testimonia in proposito più di una lezione e interpretazione,
e quella dei manoscritti stampata da Bekker, per l’appunto, éllå ka‹ tØn Ïlhn §n kinoum°nƒ
noe›n énãgkh, è da lui menzionata solo come un’alternativa possibile.
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gionamento ibrido. Come dice Aristotele, può essere oggetto di conoscenza per
analogia e di opinione (énalog€& gnvstØ ka‹ dojastÆ), come ha detto fra l’al-
tro nella Fisica.78
78 Alex. in Met. 164.20-22, in Arist. Met. 994b 25; il riferimento è a Fisica I.7.191a 7 s.. Secon-
do Simplicio in Phys. 227.18-22 entrambe le connotazioni che qui Alessandro attribuisce al
sapere sulla materia sulla scorta di Platone (“ragionamento ibrido”) e di Aristotele (“analo-
gia”) sarebbero di origine pitagorica: Platone le attribuisce infatti al pitagorico Timeo nell’o-
monimo dialogo.
79 Cfr. per es. il passo di Alcinoo citato supra, n. 75.
80 Aristotele chiama dojastikÒn la parte dell’anima preposta alla formazione di opinioni (cfr.
Bonitz, Index, s. v.); ma non usa dojastÒw in riferimento all’oggetto di opinione. Anche i les-
sici generali ignorano tale uso, che però è intuitivamente comprensibile, sul modello per esem-
pio di §pisthtÒw, “oggetto di scienza”. DojastÆ è, per Alessandro, la materia (sia qui, in
164.20, che supra sempre nel commento in Metafisica 148.12, in Arist. II.1. 993b 24) perché
l’opinione è l’unica forma di sapere che si possa avere del non-essere, e la materia è in qualche
modo non-essere: le inerisce infatti la privazione, che di per sé è non-essere (cfr. infra, § 2.4.2,
in Phys. I.8-9). Un uso così peculiare di dojastÒw mostra peraltro la cura di Alessandro nel
distinguere i diversi gradi e modi di conoscenza dei quali i diversi oggetti sono passibili.
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81 Cfr. Teofr. Met. 6. 8a 19-20 (a conclusione cioè della discussione di Met. 8a 8-20, sulla quale
cfr. supra, n. 70): in generale, la materia andrà conosciuta katÉ énalog€an §p‹ tåw t°xnaw ka‹
e‡ tiw ımoiÒthw êllh; sulla debolezza cognitiva dell’analogia, cfr. 9a 7: “ciò che è identico per
analogia si trova alla massima distanza” (diå ple€stou d¢ tÚ katÉ énalog€an) e può dunque
essere conosciuto con minor precisione.
82 Non solo nÒyow (cfr. supra, n. 75) è un termine spregiativo, ma anche il sostantivo derivato lo-
gismÒw sembra comportare in questo caso una sfumatura di debolezza, peggiorativa rispetto al
sostantivo primitivo lÒgow.
83 Per l’analisi dell’esordio e degli scopi generali del De anima ivi annunciati, cfr. Donini (1971),
Accattino (1995), Accattino-Donini (1996) p. 103 s. Poiché d’altronde in tale esordio Alessan-
dro sembra esprimere la propria posizione in termini alquanto generali, varrebbe la pena di ve-
rificarne la validità o l’applicabilità anche riguardo al complesso dei suoi scritti indipendenti.
Sull’interesse storico degli excursus, cfr. supra, “Intr.” p. 31 n. 35.
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Come nella natura tutta c’è qualche cosa che ha funzione di materia per ogni
genere di cose (e questo è ciò che è in potenza tutte quelle cose) e qualche co-
s’altro che è causa attiva, perché le produce tutte, come l’arte nei confronti del-
la materia, così è necessario che ci siano queste differenze anche nell’anima.85
84 Solmsen (1961).
85 Aristotele, De anima III.5, 430a 10-14.
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86 Alex. De anima 2.25 - 3.15. Alessandro, come già Aristotele (Met. VII.9, 1034a 24; cfr. an-
che XII.3, 1070a 14 s.) identifica qui l’arte con la forma prodotta dall’artista, preparando co-
sì, in forza dell’analogia fra arte e natura, l’identificazione della natura stessa con la forma dei
corpi naturali. Tale identità sarà infatti affermata poco più oltre: “Come la forma che si pro-
duce in un sostrato è arte, così in ciò che si genera per natura la forma che così si genera è la
natura” (De anima 3.20-21).
87 Alex. De anima 3.15-16.
88 Cfr. Arist. Phys. II.2. 194a 21: Aristotele critica a questo riguardo la dottrina platonica del Ti-
meo, dove il creatore del mondo è un demiurgo, un artigiano, che prende le idee come un mo-
dello. Questo tipo di implicazione critica è presente in qualche modo anche in Alessandro, nei
passi dove l’Esegeta mette a confronto arte e natura (per esempio il De anima qui citato, e più
palesemente in Met. 104.3-10). In questo senso, la precisazione “l’arte imita la natura e non la
natura l’arte” non solo ribadisce ma anche delimita in qualche modo e circoscrive l’analogia fra
generazione naturale e produzione artistica.
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È impossibile che forma e materia siano l’una senza l’altra, poiché esse si
definiscono una in relazione all’altra (prÚw êllhla, 19.1); e le cose che si defi-
niscono l’una in relazione all’altra, per natura, esistono contemporaneamente se
davvero relativo a qualcosa è ciò la cui essenza non è altro che l’essere in una cer-
ta relazione con quella cosa.93
satilità anche come categorie concettuali applicabili in contesti diversi e particolari. Un esem-
pio è quello, nel De anima stesso di Alessandro, della ripartizione dell’intelletto e dell’identi-
ficazione di una parte di esso come intelletto materiale (noËw ÍlikÒw). Cfr. Alex. De anima
81.22-26 “L’intelletto in potenza, che abbiamo dalla nascita (…), si chiama ed è ‘intelletto ma-
teriale’. Infatti tutto ciò che è recettivo di qualche cosa è materia di quella cosa. Invece, forma
e entelechia di tale intelletto è l’intelletto che si ingenera in esso in virtù dell’insegnamento e
della consuetudine”. È qui rilevabile, rispetto ad Aristotele De anima III.5, una diversa carat-
terizzazione del concetto di materia: in Aristotele è centrale, per definire tale concetto, la no-
zione di potenzialità, qui lo è piuttosto la nozione di recettività. In questo senso, non sono iden-
tiche la spiegazione che qui si dà di come una parte dell’intelletto possa dirsi “materiale”, e
quella, più vicina ad Aristotele, nell’incipit di Alex. (?) Mant. II, per‹ noË = De intellectu, p.
106.19-23, dove “materiale”, in riferimento all’intelletto, è sinonimo di “in potenza”: “L’in-
telletto, secondo Aristotele, si dice ed è in tre sensi. Uno è l’intelletto materiale. E dico mate-
riale non perché sia un sostrato come la materia - chiamo infatti materia un sostrato che, per
la presenza di una forma, possa divenire qualche cosa di determinato - bensì, poiché l’essenza
della materia è nella potenzialità verso tutte le cose, ciò in cui vi è la potenzialità, e l’ ‘in-po-
tenza’ stesso in quanto tale, sono materiali”. Più oltre in questo capitolo sarà esaminata la Quae-
stio I.24, dove Alessandro, a esegesi di un passo difficile di Aristotele Fisica I.8, mette in rela-
zione e a confronto potenzialità e recettività come modi possibili di concepire il ruolo della
materia nel processo di generazione naturale (§ 2.4.2).
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mente, Quaestio II.7. 52.23 s., 53.29; sulla materia êpoiow in Quaestio I.15. 27.4 cfr. infra, p.
127.
99 Quaestio I.10. 21.2 e infra, p. 124.
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Esordisce la Questio:
Materia, se dalla privazione ha l’essere priva di qualità e di configurazione,
e dalla forma ha l’esser determinata qualitativamente e configurata, per sua defi-
nizione che cosa sarà?100
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105 Quaestio II.27. 78.20, De mixt. 223.2-3; cfr. anche, ma con il verbo essere all’ottativo, quindi
con valore assertorio indebolito, Quaestio II.7. 53.10.
106 “Giunsero infatti - dice Aristotele - fino a questo punto: che bisogna che esista in natura un
sostrato; e però sostengono che esso è uno solo. Se anche qualcuno infatti ne fa una diade,
dicendo che è il grande e il piccolo, tuttavia ne fa un’unica cosa: non ha tenuto infatti conto
dell’altra (natura): infatti il sostrato per natura [i.e. la materia] è concausa insieme alla morfÆ,
come la madre: mentre l’altra parte dell’opposizione [i.e. la privazione] spesso è rappresen-
tata, da chi guarda solo la componente cattiva di essa, come se non esistesse affatto” (Fisica
I.9, 192a 9-16).
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107 Quaestio I.24. 37.14- 39.7 Bruns. I manoscritti la intitolano: Esegesi del passo del primo libro
della Fisica di Aristotele, verso la fine, nel quale dice che, una volta trovata la materia, si risol-
vono anche le aporie degli antichi. I frammenti sono conservati da Simplicio in Phys. 236.15-
238.22, che deriva espressamente da Alessandro, cfr. 238. 6-8.
108 In entrambi i casi, il problema della generazione dell’ente dal non-ente si pone in termini mol-
to diversi nel vero Alessandro rispetto all’ “Alessandro Arabo”, in particolare all’opuscolo crea-
zionista n. 16 nella lista di Dietrich (1964) conservato in arabo sotto il nome di Alessandro ma
derivato in realtà dai cap. IX 8 e 11 del De aeternitate mundi di Filopono. Cfr. Fazzo (1997)
(atti del convegno della SIHSPAI, Parigi 1993) per la prima menzione di un “Alessandro Ara-
bo”, per un confronto fra l’opuscolo D[ietrich] 16 e il vero Alessandro, per la conseguente ate-
tesi dell’opuscolo e inoltre per la sua identificazione con una parte dell’opuscolo D[ietrich]
27; Hasnawi (1994) pp. 76-92 per la derivazione da Filopono.
109 Gli Eleati e Parmenide.
110 L’épeir€a degli antichi (191a 26-27) consisterebbe nell’aver trascurato l’evidenza dei fatti a
favore del principio (che Aristotele stesso intende rispettare) che “tutto o è o non è”, cfr. 191b
26 s., con Berti (1989), pp. 60-69, in part. 63.
111 Aristotele, Fisica I.8. 191a 24-31.
112 “Questa natura, se l’avessero osservata, avrebbe dissolto la loro ignoranza” (191b 33-34).
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119 Cfr. Bonitz, Index Aristotelicus, s. v. g°now 152a 8-11, s. v. Ïlh 787a 19-22. In Aristotele il rap-
porto fra genere e forme è in termini di definizione, mentre Alessandro è anche in termini di
esistenza. Si può confrontare ciò che essi dicono a questo proposito nella rassegna dei possi-
bili sensi dell’ “essere-in-qualcosa”. Se ne tratta rispettivamente in Aristotele Fisica IV.3. 210a
17-20 e Alessandro De anima 13.12-15. In un certo senso - secondo quanto scrive Aristotele -
il genere è nella specie, perché il genere è presente nella definizione di specie (per esempio la
definizione di uomo comprende la nozione di animale); per Alessandro, che pure prende chia-
ramente a modello quel passo di Aristotele (cfr. infra, pp. 95, 97), il genere è nella specie per-
ché ha nella specie la sua esistenza. Non che ci sia in Alessandro, rispetto ad Aristotele, un
maggior interesse per la concretezza e un minor interesse per le definizioni; nell’esegeta, al con-
trario, il livello delle definizioni costituisce (e sostituisce) già in partenza il livello dell’esisten-
za all’interno del discorso filosofico. Interpreterei così anche il fatto che mentre Aristotele so-
vente discuteva in che senso ogni cosa “si dica”, cioè si intenda (l°getai), Alessandro discu-
te in che senso ogni cosa “si dice ed è” (l°geta€ te ka‹ ¶stin), anche qui sovrapponendo il
piano del discorso e quello della realtà.
120 Sull’opposizione fra prçgma come realtà concreta e puro nome, cfr. Plat. Cratilo, 391b, 436a.
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Invece il genere è qualche cosa che si aggiunge a ciò che esiste in virtù di
un’operazione intellettuale.121
Di più, la materia è “incorruttibile per numero”. Il genere invece è
eterno solo nel perpetuarsi della generazione secondo la specie, e non per
numero, perché il suo kay’ ßkaston, l’individuo cioè nel quale il genere
trova esistenza, è corruttibile.122 Il genere pertanto potrebbe corromper-
si, quando andassero distrutti tutti gli individui che lo rappresentano. Es-
so infatti non ha esistenza separata. La materia, invece, è immortale, per-
ché è separata dalla forma per definizione (pur essendo inseparabile dal-
la forma nella sussistenza), dunque “si salva” (s≈zetai) al momento del-
la corruzione del sunamfÒteron forma-materia del quale è parte.
La materia infatti - come altrove dice Alessandro123- “si salva” nel
processo di generazione. Cosicché si può dire che la materia è sostrato
della generazione e della corruzione, intendendo propriamente come so-
strato ciò che preesiste e sussiste nel corso di tali processi.
121 Quaestio II.28. 79. 14-18. La posizione nominalista tradizionalmente attribuita ad Alessandro
sugli universali trova così, riguardo al g°now, la sua giustificazione e formulazione più esplici-
ta. Cfr., anche per la bibliografia, “Forms and Universals” in Sharples (1987), pp. 1199-1202.
122 “Mentre la materia è incorruttibile secondo il numero, il genere ha incorruttibilità attra-
verso la specie e attraverso la successione ininterrotta degli individui che si generano”
(Quaestio II.28. 78. 20-21). Come si vede, Alessandro attribuisce anche al genere la stessa
proprietà di perpetuarsi tramite l’infinita successione degli individui che attribuisce cor-
rentemente alla specie. Cfr. Arist. De anima II.4. 415a 26-b 7.
123 Cfr. Quaestio I.24. 38.32-39.1.
124 Che Alessandro parli qui degli omeomeri aristotelici in quanto distinti dagli “anomoiomeri”
(tå énomoiomer∞, sott.: m°rh) secondo la dottrina espressa da Aristotele nelle opere biologi-
che (passim, per es. Hist. anim. I.1. 486a 14 ss., cfr. Bonitz Index s. v. ımoiomerÆw, 510b) è con-
fermato e reso esplicito da un passo parallelo in Alex. De mixt. 234.34 ss., in part. 235.4 s.:
ımoiomer∞ d¢ sãrj te ka‹ Ùstç, mËw te ka‹ a‰ma ka‹ fl°c, ka‹ ˜lvw œn tå mor€a to›w
˜loiw §st‹ sun≈numa. Anche la definizione qui riportata, secondo la quale sono omeomeri
quelli le cui parti si chiamano allo stesso modo dell’intero, viene da Aristotele, cfr. per es. De
part. anim. II.9. 655b 6.
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127 Plut. De comm. not. 44, 1083a = SVF II.762 p. 214; cfr. anche Sesto Empirico, Adv. Math. X.332 s.
128 Philop. In De gen. et corr., CAG XIV.2, p. 106.3-17 Vitelli. Sul debito di Filipono da Alessan-
dro cfr. Fazzo (2002).
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129 Della Quaestio I.5 è stata identificata una versione araba molto libera, cfr. Ruland (1981), Shar-
ples (1992) p. 36 s. nn. 85 s., 88. Per un prospetto della relazione fra le Quaestiones e le tra-
duzioni arabe delle liste di Dietrich e van Ess, cfr. Sharples (1987) pp. 1190 s., 1193, (1992);
fra gli aggiornamenti, Fazzo (1997), Hasnawi (1994), Zimmermann (1994); inoltre Goulet-
Aouad (1989).
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132 Cfr. per esempio Aristotele, De anima 417a 10-12 (dove si contrappongono ciò che è in po-
tenza e ciò che “ormai” è in atto) e così anche 417a 28, 417b 18, 418a 4; ibid. 420b 16 (la na-
tura si serve degli animali che “ormai” respirano); e ancora 428b 25 (si distingue ciò che è si-
curo da ciò che lo è meno e da ciò su cui “ormai si può sbagliare”) e così 430a 28; ibid. 434a 8
(si contrappongono l’opera del desiderio irrazionale e l’opera della ragione).
133 Cfr. per es. i contesti dove, dopo aver parlato dei corpi semplici, Alessandro passa ai com-
posti, dicendo che “ormai (≥dh) si formano come corpi composti” (Quaestio II.3.50.18 s.):
ad essi “non soggiace più (mhk°ti), come prossima, la materia prima e propriamente detta”
(Quaestio II.24. 75.7 s.); similmente cfr. Alex., De anima 37.5 (ci sono cose che si possono
dire delle piante ma non più degli animali), 53.15-18 (notevole per l’uso interconnesso di
mhd°pv, oÈk°ti, ≥dh, sempre in senso astratto) etc. Analogamente, cfr. anche ≥dh in Quae-
stio II.24. 76.5.
134 Oltre a questo e più spesso ancora, peraltro, l’uso astratto di ≥dh introduce l’apodosi di un
particolare tipo di periodo ipotetico di senso negativo, che è frequente e caratteristico in Ales-
sandro, il periodo ipotetico cioè nel quale si nega che una certa protasi, introdotta da oÈk efi
o da locuzioni equipollenti, comporti necessariamente (≥dh) una certa apodosi: per esempio,
non perché un animale ha facoltà sensitiva, per questo ha (necessariamente) anche la facoltà
di muoversi nello spazio (cfr. Alex. De anima 29.22): in alcuni casi sì, in altri no. Non sono d’al-
tronde irrelati questi due usi così idiomatici e caratterizzanti, nelle scansioni cioè di una serie
dove ogni successivo elemento presuppone tutti gli elementi precedenti ma non è ancora pre-
sente in alcuno di essi, e nell’apodosi di un periodo ipotetico la cui validità sia complessiva-
mente negata. In effetti, entrambi rientrano nel quadro di una funzione eminentemente logi-
ca della temporalità: nella progressiva complessità dei livelli dell’essere, ciò che è più sempli-
ce e che in tal senso viene prima è condizione necessaria di ciò che è più complesso e che in
tal senso viene dopo; e d’altra parte Alessandro negando in determinati contesti tale connes-
sione (nella struttura oÈk e‡... ≥dh ka€...) nega la presenza di una concatenazione causale ne-
cessaria, sufficiente e determinante, nega cioè che una certa condizione (quella preceduta da
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Aristotele aveva dato l’avvio e il modello per l’uso di ≥dh nelle scan-
sioni di una serie ordinata, ma non per le facoltà dell’anima: aveva usato
≥dh per annoverare i diversi sensi di oÈs€a in ordine di progressiva de-
terminazione. Così nel De anima Aristotele distingue e scandisce con ≥dh
i diversi sensi di oÈs€a:
la materia, che di per sé non è nulla di determinato; la figura e forma, che
si dice già (≥dh) come qualche cosa di determinato; e come terzo ciò che è costi-
tuito di materia e forma. (De anima, II.1. 412a 7-9)
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Negli altri casi fa largo uso dei plurali neutri sostantivati, spesso in locuzioni
composte semplicemente con l’articolo, come quando indica i prodotti del-
le arti (tå t°xn˙) e li contrappone a quelli naturali (tå fÊsei).
In questo senso non sono corpi composti né i composti artificiali, per
esempio i farmaci, né i composti naturali inorganici, quali minerali com-
posti e metalli. Non che Alessandro ne misconosca l’esistenza; al contra-
rio, fa riferimento egli stesso al fatto che in essi c’è, a differenza che in al-
tri, una vera combinazione o temperamento di componenti diverse (quel-
lo dei farmaci è per lui un esempio importante di come la combinazione
di elementi diversi possa dare luogo a proprietà assenti in ciascuno di es-
si singolarmente). Ma a quanto pare non li considera corpi.
La prerogativa caratterizzante del corpo è infatti l’avere una sua for-
ma, e cioè una sua natura - “natura” definita all’inizio della Quaestio II.3
come “principio del movimento e della quiete nel corpo cui appartiene
in sé e non per accidente”. Ciò che dunque caratterizza il corpo, secon-
do la selettiva accezione alessandrista, è l’avere un suo principio di movi-
mento, che nei corpi composti è diverso, più compiuto e complesso ri-
spetto a quello degli elementi che li compongono.
Se le cose stanno così, gli unici corpi propriamente detti risultano es-
sere i corpi semplici e i corpi animati. In questo senso potremmo am-
mettere che per Alessandro non esistono corpi composti che non siano
animati, senza per questo supporre che l’esegeta consideri semplici giu-
stapposizioni tutte le combinazioni chimiche fra elementi.
Una tale spiegazione, se pure rende più sostenibile una posizione che
altrimenti potrebbe sembrare del tutto paradossale, non ne dice però le
ragioni di fondo. Perché una scansione così distanziata? Perché Alessan-
dro passa direttamente dai corpi semplici a quelli animati? Lo fa - peral-
tro - senza dire nulla di preciso a questo proposito, né nella Quaestio II.3
né altrove. Forse non è un silenzio casuale. Forse davvero non aveva nul-
la di preciso da dire - o meglio, forse sapeva di non poter rendere ade-
guatamente ragione delle trasformazioni degli elementi e del loro com-
plesso, reciproco interagire (fenomeni complessi e certo in parte miste-
riosi, cui tuttavia Alessandro sembra alludere in De anima 24.23 s., dove
fa ricorso all’esempio dei farmaci) attraverso la sola, nitida ma rudimen-
tale dottrina delle due coppie di “contrarietà tangibili” del De generatio-
ne et corruptione.
Sembra d’altronde, almeno nei testi qui esaminati, che i corpi sem-
plici si caratterizzino rispetto a quelli composti sia perché sono semplici
e non mescolati, sia al tempo stesso perché sono “semplicemente corpi”,
cioè sono privi di anima. Non a caso, Alessandro li chiama non solo tå
èplç s≈mata, ma anche, all’occorrenza, tå èpl«w s≈mata, un’espres-
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sione che ricorre frequente nella Quaestio II.3 e che non sempre è stata
interamente compresa.139
A rigore comunque il testo della Quaestio II.3 non dice né lascia in-
tendere con chiarezza se gli ambiti di significati delle due espressioni (tå
èplç s≈mata, tå èpl«w s≈mata) si ricoprano interamente oppure no
(né dunque se di mezzo esistano almeno virtualmente altri tipi di corpi
oppure no); ma mostra perlomeno che in determinati contesti esse sono
intercambiabili. Il problema, se pure così lo si può chiamare – visto che
Alessandro non lo affronta come tale - resta in sospeso.
In qualche modo, è un’assenza, una sospensione del giudizio signifi-
cativa. In effetti, l’uso stesso dell’espressione tå èpl«w s≈mata, non
esclude di per sé la possibilità di annoverare, fra siffatti costituenti, corpi
che senza essere animati non siano però corpi semplici. In ogni caso, l’e-
segeta descrive i corpi animati come corpi formati da corpi “semplice-
mente corpi” (tå èpl«w s≈mata) e formula la sua dottrina senza pren-
dere a quel proposito alcuna posizione definita.
Sappiamo d’altronde che Alessandro nel ristrutturare ed ampliare il
bagaglio dottrinale della scuola lavora in un clima di stretta concorrenza
con le altre scuole. Quello che egli scrive è difficilmente comprensibile al
di fuori di quel contesto.
È un contesto complesso, nel quale alcune voci sembrano avere un
peso maggiore e più percepibile di altre su singoli problemi o su temi ge-
nerali. Lo si vede nel caso del De anima: l’esordio risponde in modo al-
quanto diretto a posizioni platoniche e medioplatoniche.140 Questo però
non impedisce la presenza di fondo di riferimenti precisi, ancorché im-
pliciti, alle posizioni assunte da altre scuole sia sull’anima stessa sia sulle
teorie fisiche che sono alla base della teoria dell’anima. Di qui la frequente
configurazione negativa di molti aspetti della dottrina di Alessandro: in
primo piano è l’errore degli avversari, da refutare; o una precedente dot-
trina della scuola, da rivedere per far fronte alle critiche degli avversari.
Di qui l’insistenza di Alessandro sul rapporto fra anima e corpo e sul-
la costituzione del corpo stesso che ha l’anima, dunque sul mescolamen-
to, sul temperamento e sull’accrescimento del corpo organico.
Ne tratta in modo specifico il trattato di Alessandro per‹ krãsevw
ka‹ aÈj°sevw, detto De mixtione, nei cui argomenti ha un ruolo costi-
tutivo, per l’appunto, il raffronto negativo con le tesi avversarie. La dot-
trina stoica della mistione totale vi è infatti espressamente controbattuta
139 Donde l’emendamento di èpl«w in èpl«n introdotto da Bruns (1892) in 48.3, cfr. qui in-
fra, 183 n. 413.
140 Cfr. il commento di Accattino-Donini (1996) p. 103-5; Accattino (1995).
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anche nelle sue implicazioni per la dottrina dell’anima; viene inoltre con-
futata la dottrina di Democrito, secondo la quale, come riferisce lo stes-
so Alessandro, non esisterebbe alcun tipo di vero temperamento, ma tut-
ti i mescolamenti sarebbero in realtà giustapposizione, così che le com-
ponenti resterebbero distinte e conserverebbero ciascuna la propria na-
tura. Tale dottrina si trova rievocata indirettamente (e negativamente) da
Alessandro tutte le volte che distingue fra giustapposizione e tempera-
mento asserendo esattamente il contrario.141
Rivedendo d’altronde l’esordio del De anima di Alessandro, dove più
forte si vede l’intento di controbattere le posizioni medioplatoniche 142 - si
può ora constatare come tutta la dottrina sin qui esposta sia funzionale agli
scopi generali del trattato: le facoltà e le attività dell’anima possono sembrare
più divine e superiori rispetto a qualunque facoltà corporea; ma quando si
sia guardata la struttura (kataskeuÆ) del corpo che ha anima non sembrerà
più così incredibile che l’anima, appartenendo a un corpo così mirabilmen-
te costituito, abbia in sé tanti principi di movimento (De anima, 2.17 - 25).
Le facoltà dell’anima in effetti trovano almeno in parte spiegazio-
ne nella mirabile costituzione di ciò che all’anima fa da sostrato: il cor-
po che, considerato in questa prospettiva, non è semplicemente, ponia-
mo, per l’anima razionale, il corpo inanimato, bensì un corpo già de-
terminato secondo il livello di complessità e perfezione corrispondente
all’anima nutritiva e sensitiva; mentre per l’anima sensitiva fa da sostra-
to il corpo la cui complessità già presuppone la presenza dell’anima nu-
tritiva; analogamente, all’intelletto “in abito” si è visto fare da materia
l’intelletto naturale, che è presente nella costituzione fisica dell’uomo e
che proprio per questa sua funzione viene detto “materiale” (noËw
ÍlikÒw). In base a questa lettura, che potremmo chiamare relazionale,
del rapporto fra forma e materia, è chiaro che la funzione di materia vie-
ne svolta di volta in volta da corpi che, per poter offrire sostrato a una
determinata facoltà (o come dice Alessandro: per poterne essere recet-
tivi) devono disporre essi stessi di una certa determinazione formale,
che nel caso delle facoltà superiori è già molto complessa; e in quella de-
terminazione formale è già presente una specifica compiutezza (per
esempio quella che corrisponde all’anima vegetativa), compiutezza che
141 Con lo stesso argomento, Alessandro controbatte all’occorrenza la dottrina stoica del mesco-
lamento dell’anima nel corpo: in tale m›jiw, secondo gli stoici, l’anima manterrebbe tuttavia la
propria natura, cfr. De mixt. 217.33-35. e il commento di Accattino-Donini (1996) p. 123 s. in
Alex. De anima, 12.4.
142 Cfr. in Accattino (1995), p. 183, il parallelo con Attico (frgm. 7.57-63 des Places), là dove que-
sti asserisce, contro Aristotele, che le facoltà dell’anima sono diverse dal corpo e non gli ap-
partengono.
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È il momento - per così dire - originario, nel quale tanto la forma che
la materia per la prima volta divengono un tÒde ti (secondo la dicitura, per
esempio, di Quaestio II.24, p. 75.7-10): un qualcosa di determinato, dotato
di esistenza separata e sussistenza autonoma (Ïparjiw, ÍpÒstasiw).144
143 Quaestio II. 11. 56. 27 s., 30. Questi due punti sono chiari; ma il passaggio intermedio, 56.28
s., è quasi sicuramente corrotto, lì dove fa riferimento, in apposizione alle “forme” (e‡dh)
dei corpi semplici, alle prime contrarietà: t«n goËn pr≈tvn §j aÈt∞w (i. e.: §k t∞w Ïlhw)
ginom°nvn svmãtvn e‡dh dÊo, afl pr«tai t«n afit€vn §nanti≈sevn, yermÒthtow ka‹
cuxrÒthtow, ka‹ jhrÒthtow ka‹ ÍgrÒthtow, ka‹ toÊtoiw ır€zetai tå èplç s≈mata. In
particolare lascia perplessi afl pr«tai t«n afit€vn §nanti≈sevn (“the expression is odd”,
nota anche Sharples [1992] ad loc.). Una soluzione molto probabile è suggerita dalla tra-
duzione araba di questo passo, tradotta da Zimmermann (1994) p. 18, che porta in quel
luogo la dicitura “contrarietà tangibili”. Ora, non è affatto improbabile che l’aggettivo
APTVN, poco consueto per i copisti e in quanto tale facilmente oggetto di corruttela, sia
stato travisato, in scrittura onciale maiuscola in AITIVN, che è ciò che si legge nel testo gre-
co della Quaestio II.11. 56.28; cfr. anche infra, cap. IV, nn. (w) e 468 sul caso, parzialmen-
te analogo, di Quaestio II.3. 50.13. Ma il senso generale è chiaro, tanto più che è conforta-
to da altri passi paralleli negli opuscoli stessi di Alessandro, per es. Mantissa 127.3-7, Quae-
stio II.3. 49.33-50.17.
144 I due termini Ïparjiw e ÍpÒstasiw si trovano usati quasi sinonimi in Quaestio I.17. 30.5-6;
Quaestio III.12. 106.6; Alex. De anima 90.4.
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supra, n. 143. Che le quattro forme semplici costituiscano due §nanti≈seiw - e che dunque ≤
§nant€vsiw per Alessandro non sia sinonimo di tÚ §nant€on, ma consti a sua volta di due
§nant€a, si vede chiaramente in Quaestio II.3. 50.13-14, su cui cfr. infra p. 204 nn. 466, 468.
È vero che l’uso aristotelico del termine §nant€vsiw è sufficientemente indefinito da non la-
sciare sempre stabilire se esso comprenda in sé uno solo o entrambi i contrari. Ma non man-
cano passi che depongono espressamente, già in Aristotele, per la soluzione adottata da Ales-
sandro, indicando con §nant€vsiw la coppia di opposti, per es. De anima 411a 3-4.
151 De gen. et corr. II.2. 329b 8-10.
152 De gen. et corr. II.1. 329a 9-10. Nessun sensibile è tale in assenza di contrari, dice Aristotele
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bile che la materia sia qualche cosa di corporeo senza essere specificata
da alcuna contrarietà.153 Con l’occasione, Aristotele critica anche la teo-
ria del pandex°w (“ricettacolo di tutto”) consegnata nel Timeo di Plato-
ne, perché “non specifica in modo sicuro (saf«w) se il pandex°w sia se-
parabile o meno dagli elementi”.154 In realtà, come si vede, Aristotele
identifica il pandex°w di Platone con il proprio concetto di materia; e vo-
lendo però affermare risolutamente, a differenza dei suoi predecessori,
che la materia non esiste separatamente, rimprovera a Platone di non aver
fatto altrettanto: Platone avrebbe dovuto dire esplicitamente ciò che il Ti-
meo lascia presumere solo indirettamente, e cioè che il pandex°w in que-
stione non è separabile dagli elementi;155 solo così - dice Aristotele - ciò
che dice il Timeo sarebbe stato - per l’appunto - saf°w.
Una volta però rivisitato in questo senso e con questa riserva, si può
vedere il pandex°w platonico all’origine della nozione di materia come tÚ
dektikÒn, che in Alessandro diverrà ricorrente e consueta.
Naturalmente il riferimento intermedio fra Platone e Alessandro, è,
anche qui, Aristotele, che nel secondo libro De generatione et corruptio-
ne aveva specificato il concetto di recettività in modo preciso. Ricordia-
mone brevemente le movenze argomentative.
Aristotele inizia la propria trattazione positiva dicendo che la mate-
ria è ricettacolo perché è recettiva dei contrari.
Noi affermiamo che esiste una materia dei corpi sensibili; e che però que-
sta non può sussistere separata, bensì è sempre unita con una contrarietà. Da es-
sa si generano i cosiddetti elementi.156
153 Testo greco e interpretazione di De gen. et corr. II.1. 329a 10-11, al cui senso generale faccio
qui riferimento, sono peraltro controversi, cfr. ad loc. Joachim, p. 194.
154 De gen. et corr. II.1. 329a 14-15.
155 De gen. et. corr. II.1. 329a 8-15. In effetti il Timeo stesso suggerisce, seppure implicitamente,
che il pandex°w, il “Ricettacolo”, non possa esistere separatamente. Se anche infatti si inter-
preta quel mito letteralmente, cioè nel senso di una creazione del cosmo nel tempo, tuttavia
non vi è menzionato alcun processo precedente, nel quale gli elementi si siano venuti a for-
mare prima della costituzione del cosmo, e questo sembra implicare che essi siano stati sem-
pre presenti, dunque che la materia non sia preesistita ad essi. Questo vale poi a fortiori nel ca-
so di una lettura allegorica e non-creazionista, secondo la quale tutto ciò che il demiurgo crea
sarebbe stato, in realtà, sempre presente. In ogni caso, tracce degli elementi sarebbero state
presenti nel pandex°w anche senza azione divina, cfr. 52d-53b (ringrazio R. W. Sharples per la
discussione relativa a questa nota).
156 De gen. et corr. II.1. 329a 24-6. In questo modo, si può dire, Aristotele corregge il pandex°w
platonico in funzione della propria dottrina, secondo la quale la materia ultima non esiste se-
parata da contrarietà ed elementi. Più tardi, si assisterà ad un processo inverso: commentatori
neoplatonici, per esempio Simplicio, estrapoleranno forzatamente da Aristotele una dottrina
della prima materia, perché leggeranno Aristotele alla luce della teoria platonica del pandex°w,
quasi equiparando le due dottrine. Cfr. in proposito le osservazioni di King (1956), p. 388 s.;
Happ (1971) p. 122 s.
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160 Si noti l’uso di diaforã nel senso di e‰dow semplice o §nant€on, più tardi adottato da Ales-
sandro. L’uso aristotelico, anche in questo caso, prevede una gamma più sfumata di possibi-
lità, cfr. Bonitz s. v.
161 Arist. De gen. et corr. II.2. 330a 24-29.
162 Come fonte della dottrina alessandrista qui in esame, cfr. in part. il commento di Filopono ai
capp. De gen. et corr. II.2-4 con Fazzo (2001). La testimonianza di Filopono su Alessandro è
corroborata e in alcuni punti ampliata da quella di Averroé, Commento medio al De genera-
tione et corruptione, tr. e nn. Kurland (1958) ad loc. Sugli ampi frammenti in arabo da Alex. in
De gen. et corr. II.2-5 presso Ja–bir nell’inedito MS arabo parigino 5699 cfr. Gannagé (1998),
Fazzo (1999.1); id. (2001).
163 Alex. ap. Philop. in De gen. et corr. 214.22-30.
164 Alex. ap. Philop. ibid. 223.9-13, in Arist. II.2. 330a 24-29.
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165 Alessandro chiama caldo, freddo, secco e umido talora “differenze” (diafora€) in quanto di-
stinguono ciascuna un corpo semplice da un altro; talora anche e‡dh, impiegando qui il ter-
mine nel senso di fattore formalmente qualificante. Talora inoltre egli condensa i due concet-
ti nell’espressione, pure caratteristica del lessico di scuola, efidopoioËsai diafora€, sulla qua-
le cfr. anche infra, cap. II, §§ 2.5, 3.3, 3.5.
166 Essendo due le coppie di “forme” contrarie fondamentali (afl pr«tai §nanti≈seiw), ed es-
sendo due le “forme” in ogni elemento, sono possibili quattro combinazioni, dunque quattro
elementi: quattro “perché le combinazioni di caldo, freddo, secco e umido sono quattro”, co-
me ci ricorda anche Mantissa VIII. 127.13. Lo schema è condotto sulla traccia aristotelica, cfr.
in particolare Arist., De gen. et corr. II.3. 330a 33-b 5.
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atto e potenza, attivo e passivo, in termini di forma e materia (cioè sostrato recettivo della for-
ma), secondo la tendenza generale delineata supra, “Introduzione”, § 1.3 p. 47; n. 63 p. 45.
170 Vale anche a questo riguardo l’osservazione della nota precedente.
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stiva e meno riduttiva di quella che gli avversari, soprattutto di parte pla-
tonica, solevano attribuire alla dottrina aristotelica dell’anima.171
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175 Diverso è il caso della materia celeste, che, differente da quella sublunare (cfr. Quaestio I.15),
non è recettiva dei contrari, né, dunque, della privazione (cfr. Quaestio I.10, e su entrambi i
testi infra, cap. II). Nel passo ora citato, una volta di più, sembra intendersi e‰dow come forma
semplice, cioè come contrario.
176 Quaestio II.11. 57.1-6. “Il sostrato” sembra detto qui come sinonimo di materia.
177 t«n prÒw ti ≤ Ïlh: êllƒ går e‡dei êllh Ïlh (Arist., Phys. II.2. 194b 9).
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terra e fuoco. A tutti i corpi diversi dai corpi semplici, invece, “soggiace
da vicino” qualcosa che è già a sua volta un sunamfÒteron, ovvero una
sunamfÒterow oÈs€a di forma e materia.
Alessandro infatti, secondo l’uso corrente, considera corpi semplici
il fuoco e gli altri cosiddetti elementi. Eppure, in essi si possono distin-
guere, almeno concettualmente, forma e materia come componenti di-
verse.178 Dove è importante evitare equivoci, Alessandro non dice per-
tanto che essi siano sÊnyeta, “composti”, bensì che sono sunamfÒte-
ra: partecipano infatti di forma e di materia.179
Le due distinzioni, quella tra materia prima e materia prossima e
quella tra corpi semplici e corpi composti, si intersecano l’una con l’altra,
in conformità ad un implicito criterio di economia concettuale e di reci-
proca funzionalità.
Lo vediamo meglio che altrove nella Quaestio II.24. L’opuscolo, già
qui sopra citato, si presenta come un’esegesi del lemma del De anima ari-
stotelico che tratta della oÈs€a nel senso della materia: “in uno dei suoi
178 Sul carattere intellettuale della distinzione, cfr Alex. De anima 2.25 - 3.2.
179 L’aggettivo sunamfÒterow è meno aristotelico (nonostante De gen. et corr. I.6.322a 21) che pla-
tonico: fra le varie occorrenze platoniche, Alessandro potrebbe aver tenuto presente quella di
Plat. Alc. I, 130a, che si riferisce all’insieme di anima e corpo (cfr. anche Conv. 209b; e Alcinoo,
Did. c. 33, 187.31). In quel caso si avrebbe un’ulteriore ragione di ritenere che chiamando in
quel modo l’insieme di forma e materia, Alessandro pensi questo insieme in funzione della re-
lazione di anima e corpo. Di fatto, il termine è corrente in Alessandro, talora, al neutro so-
stantivato, tÚ sunamfÒteron (De anima 13.25, 78.3, 25); più spesso, come aggettivo su-
namfÒterow oÈs€a (ibid. 13.8, 17.34, 42.12, 13, 75.27, 30, 34, 76.5, 7, 77.4, 5). Un possibile
sinonimo è tÚ sugke€menon, cfr. Alex. in Met. 422.6 s., dove l’espressione tÚ sugke€menon §j
e‡douw te ka‹ Ïlhw ricorre a poche righe di distanza da tÚ sunamfÒteron §j e‡douw ka‹
Ïlhw (422.13) e con lo stesso significato. Entrambe sostituiscono tÚ sÊnyeton §k t∞w Ïlhw
ka‹ t∞w morf∞w nel testo di Aristotele 1023a 31 s. Come esempio dei problemi che possono
essere connessi all’uso del termine “composto” per i corpi semplici e che la cautela di Ales-
sandro consente invece di evitare, si vedano le critiche mosse da King (1956), p. 373 e 377, nei
confronti di Joachim, che nelle sue note in Arist. De gen. et corr. chiama i quattro elementi “so-
stanze composte”. In effetti, distinguendo più da vicino, bisognerebbe dire che sono in gioco
due sensi differenti della parola “composto”. È verosimilmente per questo che, consapevole
dell’ambiguità, Alessandro tiene ben separati, nei suoi usi lessicali costanti, il sunamfÒteron
(o più precisamente la sunamfÒterow oÈs€a) cioè l’insieme di forma e materia, e il sÊnyeton,
il composto di più corpi semplici. Per una chiara distinzione, cfr. Quaestio II.24, 76.3-5 (la di-
stinzione non è invece presente in Mantissa I. 101. 17-22, che chiama ripetutamente sÊnyeton
l’unione di forma e materia). Qui e più oltre, traduco sÊnyeton con “composto”, mentre per
sunamfÒteron mantengo il termine greco. Potremmo anche tradurre sunamfÒteron con “si-
nolo”, sulla scorta della traduzione scolastica, ma questo rischierebbe di aumentare la confu-
sione. Infatti sÊnolon in Aristotele non è solo il sunamfÒteron, bensì ricopre altri sensi (il
tutto rispetto alle parti, la miscela rispetto ai componenti: sensi che, come meglio vedremo nel
§ 4.1.2 qui infra, Alessandro nega si possano riferire all’insieme di forma e materia). Alessan-
dro stesso mostra di ritenere sÊnolon un termine ambiguo, cfr. in Met. 178. 24-32, a com-
mento di Arist. Met. 995b 34 s.
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Per questo, come già sopra si è visto, la materia del corpo composto,
diversamente da quella del corpo semplice, ha una sua forma, che non
sarà però responsabile, come precisa subito Alessandro, della forma del
composto stesso.182 È ora utile osservare come la “materia prima e pro-
priamente detta” (≤ pr≈th ka‹ kur€vw Ïlh) venga in qualche modo po-
stulata come sostrato al di là dei corpi semplici: reciprocamente, infatti,
si definiscono come semplici quei corpi cui non soggiace altro che la ma-
teria prima, e che devono esistere, altrimenti i corpi composti non sareb-
bero composti.183 Scrive infatti Alessandro nel De anima:
Poiché i corpi naturali si distinguono in semplici e composti, la materia che
è sostrato ai corpi composti è anch’essa un corpo naturale, fatto di forma e mate-
ria - tutti i corpi infatti sono composti da queste due; invece i corpi semplici non
hanno più un sostrato composto, altrimenti anch’essi come corpi sarebbero com-
posti; e se il loro sostrato non è composto, non è nemmeno un corpo, se davvero
tutti i corpi sono composti di forma e materia. La materia che è sostrato ai corpi
semplici sarà allora una natura semplice e senza forma, priva per sua definizione
di figura, forma e configurazione, a causa della quale, poiché è e si dice essere pri-
va di forma, si chiama forma ciò che, producendosi in essa vi fa cessare la suddetta
privazione. Una tale natura si può chiamare materia in senso principale.184
180 Arist., De anima II.1. 412a 6. Chiaramente, tuttavia materia è in Aristotele un’accezione non
primaria del concetto di oÈs€a (cfr. p er es. Met. VII.3. 1028b 33-36, dove è il quarto fra quat-
tro sensi diversi).
181 Quaestio II.24. 75.5-10.
182 Quaestio II.24. 75.10-26. Come qui si vede, è mediante tale uso relazionale e analogico della
coppia forma-materia, che Alessandro, sulla scorta di Aristotele, trova il modo di sviluppare la
dottrina dell’anima come e‰dow del corpo. Tale implicazione, cui era direttamente funzionale
la parte qui esaminata della Quaestio II.24, si fa esplicita nelle righe che seguono, 75.29 ss.
183 Il carattere funzionale di tali definizioni è particolarmente evidente se si considera che in realtà
per Aristotele i corpi che stanno al centro del cosmo sono tutti misti, composti cioè di tutti e
quattro gli elementi. Cfr. De gen. et corr. II.8. 334b 31-335a 23. C’è dunque uno scarto fra realtà
concrete ed elementi: questi ultimi sono come dei postulati teorici, nel senso che non si dan-
no mai concretamente nell’esperienza sensibile.
184 Alex. De anima 3.21 - 4.4. Come Accattino-Donini (1996), traduco 3.26 secondo la congettu-
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Tale materia prima, postulata come materia delle diverse materie dei
corpi composti, costituisce in qualche modo il rovesciamento speculare
della definizione di anima nel De anima stesso di Alessandro: “forma del-
le forme”. E cioè: se l’anima, come dice Alessandro, è forma di forme, e
se dunque materia dell’anima sono forme, o perlomeno sono corpi for-
mati, la materia di queste forme o di questi corpi formati che fungono da
materia sarà, rispetto all’anima, materia di materie. Precisamente, sarà ma-
teria dei corpi semplici, che a loro volta fanno da materia ai corpi com-
posti. Per questo la sua è un’esistenza virtuale: la si ricava analiticamente
dalla distinzione fra corpi composti e corpi semplici. D’altronde anche
l’esistenza stessa dei corpi semplici si ricava così, analiticamente, dalla no-
zione stessa di corpo composto. Di fatto, né la materia prima, né i corpi
assolutamente semplici esistono mai in atto di per sé, né cadono di per sé
sotto la percezione dei sensi. Anzi, se questo vale per i corpi semplici, va-
le a fortiori per la materia, che li precede: la materia prima non esiste sen-
za aver subito l’azione “eidopoietica” dei contrari, e precisamente di quei
contrari (caldo, freddo, secco, umido e i loro derivati) che sono percepi-
bili ai sensi. Sono le contrarietà tangibili a fare di essa un corpo in atto.185
Il verbo che usa Alessandro a questo proposito, cioè per indicare
l’azione dei contrari sulla materia, è molto specifico: efidopoi°v.186 Lo
troviamo ordinariamente costruito al passivo con il dativo delle “diffe-
renze” (diafora€)187 o “contrarietà tangibili”, e delle loro suzug€ai o
sumploka€ (combinazioni cioè di due a due). Tali differenze che si
combinano in suzug€ai sono cause efficienti di determinazione for-
male: per questo si costruiscono al dativo con efidopoi°v al passivo, e
si caratterizzano (mediante il corrispondente aggettivo verbale) come
efidopoio€.188
Troveremo tuttavia anche, almeno in un caso, efidopoi°v con ÍpÒ e il
genitivo, per indicare, quasi si trattasse di un agente animato, la possibile
causa efficiente ultima, della quale a suo luogo andremo a parlare.189
185 Cfr. per es. Quaestio II.3. 49.32, letto come qui infra, ad loc., secondo l’emendamento di Mo-
raux (1967.1) p. 167: §nerge€& s«mã §sti. Cioè: determinata dalle prime contrarietà, la ma-
teria è corpo in atto. Ma, si potrebbe precisare, la sua è ancora un’esistenza virtuale (come lo
è l’esistenza dei corpi semplici), e tale resta finché non diventa materia dei corpi composti (la
cronologia, come si è detto, è logica e non temporale).
186 In Aristotele non si trova il verbo efidopoi°v, ma compare, un paio di volte, l’aggettivo efido-
poiÒw, riferito in particolare alla diaforã: Cfr. Top. VI.6. 143b 7 s., dove la diaforã è efido-
poiÒw toË g°nouw.
187 Cfr. Quaestio I.10.21.8 ss. sulle efidopoio‹ diafora€ in virtù delle quali un unico sostrato può
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190 PrÚw tÚ mØ e‰nai tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ, Quaestio I.8, p. 17.7-18.15 Bruns;
ÜOti mØ tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ, Quaestio I.17, p. 29.30 - 30.22 Bruns.
191 Cfr. la dicitura shmeivt°on (Mantissa 120.33 e qui infra § 4.2.1): nel lavoro sui testi, come
segnala lo Stephanos, TGL VII.189D s., questo verbo, che è di per sé vox media, può esse-
re usato specificamente per indicare ciò che risulta strano, inatteso o comunque fuori dal-
l’ordinario.
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rie 3a 7 s. è citato da Alex. ap. Simpl. In De Caelo 279.11, cfr. qui infra, p. 96.
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strano gli esempi stessi che Aristotele adduce, non sono infatti in un so-
strato né l’universale (“l’uomo”, 1a 21 s., 3a 10 ss;) né la sostanza indivi-
duale (“un certo uomo”, 1b 3 s.); mentre gli accidenti, per Alessandro co-
me già per Aristotele, sono “in un sostrato”.
Tali presupposti sono presenti come punti di riferimento costan-
te, esplicito o implicito, nella discussione qui in esame. Il punto criti-
co, infatti, negli opuscoli di Alessandro dedicati a questo tema, è che
porre forma nella materia come sostrato significherebbe fare della for-
ma un attributo accidentale della materia. In tal caso, la forma non po-
trebbe concorrere all’ oÈs€a del sunamfÒteron. Il sunamfÒteron re-
sterebbe definito dalla sola, indefinita, materia, contro la teoria gene-
rale del rapporto fra forma e materia, secondo la quale è per definizio-
ne la forma, non la materia, a sussumere in sé tutti gli aspetti di carat-
terizzazione essenziale.
Pertanto, sebbene Alessandro conceda alla materia, secondo l’uso
corrente, il ruolo di sostrato per la forma, evita però di dire che la mate-
ria è un sostrato “nel quale” si trova la forma. Evita cioè di contaminare
il concetto di forma con quell’implicazione di contingenza che ciò che di-
ce Aristotele nelle Categorie rischia di far connettere alla nozione di “es-
sere-in-un-sostrato”.
Si comprendono in questa prospettiva testi come Quaestio I.8 (PrÚw
tÚ mØ e‰nai tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ), Quaestio I.17 (ÜOti
mØ tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ), Quaestio I.26 (P«w tÚ e‰dow
§n tª Ïl˙, pÒteron kay’ aÍtÚ μ katå sumbebhkÒw). Faticosamente,
questi opuscoli cercano di rendere compatibile la definizione del rapporto
fra forma e materia con le maglie classificatorie delle Categorie aristoteli-
che, assunte come canone propedeutico e grammatica di base del lin-
guaggio filosofico.
Il tema era arduo ed importante.
Arduo, perché il problema non aveva avuto modo di porsi con la stes-
sa urgenza ed esigenza in Aristotele, in assenza di un simile approfondi-
mento delle nozioni di materia e di forma considerate in assoluto (a pre-
scindere cioè dall’analisi del processo causale). Importante, soprattutto per-
ché secondo la relazione forma-materia si configura anche la relazione ani-
ma-corpo, la seconda essendo pensata come caso particolare della prima.
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lettività di Alessandro rispetto all’elenco di Aristotele Met. V.24. Trattandosi di ¶k tinvn e non
di ¶k tinow, resta esclusa già in partenza la possibilità che l’espressione in esame indichi la deri-
vazione da qualcosa di unico, per esempio da una causa motrice (Arist. 1023a 29-31) o da un tut-
to al modo in cui ne derivano le parti (Arist. 1023a 31-33) nonché il senso cronologico dell’¶k
tinow e‰nai (è il modo delle feste Targelie che si celebrano “dalle Dionisiache”, cioè dopo le Dio-
nisiache, cfr. Arist. 1023b 5-11). Commentano ad loc. Accattino-Donini (p. 123, in 11.15) che
Alessandro trae il senso in cui il vivente, secondo lui, è fatto di forma e materia dal senso in cui
secondo Aristotele dal tutto derivano le parti (Arist. 1023a 31 s.: ßna d’ [ scil.: ßna d¢ trÒpon]
§k toË suny°tou §k t∞w Ïlhw ka‹ t∞w morf∞w, Àsper §k toË ˜lou tå m°rh ktl). Forse si do-
vrebbe precisare che Alessandro trae quel suo senso di ¶k tinvn e‰nai non dal significato an-
noverato da Aristotele, bensì dal concetto di sÊnyeton che Aristotele in quel contesto introdu-
ce per descrivere quel significato e per distinguerlo dal modo in cui qualcosa può derivare dalla
sola materia (1023a 26-29). La differenza è che mentre Aristotele parla del modo in cui i matto-
ni derivano dalla casa, Alessandro parla del modo in cui la casa deriva dai mattoni.
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resterà che sia in esso come forma, se è vero che forma di ciascuna cosa è
ciò per cui la cosa è ciò che è, ed è per l’anima che l’animale è animale.200
197 Sul modo nel quale Alessandro argomenta e motiva che il genere sia nella specie, diverso ri-
spetto al modo di Aristotele, cfr. supra, p. 64 n.119.
198 Enumerando i vari significati, Alessandro accorpa il recipiente e il luogo come un’unica voce,
come si vede dalla disposizione alternata degli esempi; più oltre (14.23 s.) distinguerà il con-
tenitore come una specie di luogo: “anche il contenitore è luogo di ciò che sta in esso ed è dif-
ferente dal luogo (diãforon toË tÒpou) solo per il fatto di essere trasportabile insieme al suo
contenuto”. La definizione del contenitore come “luogo trasportabile” deriva da Aristotele,
Fisica IV.4.212a 14-18, come notano Accattino e Donini (1996) ad loc. Questi considerano luo-
go e recipiente due significati diversi (cfr. p. 126 in 13.19-20) ma prendono in considerazione
anche la possibilità che il recipiente sia un tipo di luogo (p. 127 in 14.20-22). A quanto posso
vedere, Alessandro in 14.24 considera il recipiente come differenziato rispetto al luogo nel mo-
do in cui ciò che è più specifico si differenzia da ciò che è più generale e cioè per mezzo di una
differenza specifica, che per l’appunto è la trasportabilità; per questo Alessandro precisa che
anche il recipiente è un luogo (14.23): altrimenti non potrebbe essere un “luogo trasportabi-
le” (questo tipo di subordinazione di uno o più concetti a uno più generale è consueto in Ales-
sandro, che lo esprime altrove come un essere ÍpÒ + accusativo, o §n + dativo, oppure con il
verbo Ípãrxv + dativo).
199 Cfr. Accattino-Donini in 13.9-15.29, pp. 125-9.
200 Alex. De anima 13.9 - 15.29, in part.15.28 ss.: le€poit’ ín tÚ e‰nai aÈtØn §n aÈt“ …w e‰dow,
e‡ ge e‰dow m¢n •kãstou, kay’ ˜ §sti toËto ˜ §sti, katå tØn cuxØn tÚ z“Òn §sti toËto ˜
§sti; tr. it. Accattino-Donini (1996) p. 16.
201 Notiamo peraltro, a conferma della derivazione, che Alessandro, come Aristotele in quel con-
testo, omette di menzionare il senso cronologico dell’ “essere in qualcosa” (un’assenza sulla
quale si sofferma Simplicio in Phys. IV.3, CAG 9, p. 553. 1-8 in relazione a quel passo di Ari-
stotele, mettendolo a confronto con i sensi dell’essere-in-qualcosa nelle Categorie).
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4.1.3. Le implicazioni del rapporto fra forma e materia per la dottrina del-
l’anima
202 Simpl. In De caelo 279.5 ss. in, part. 9-12, in riferimento a Cat. 5. 3a 7-9, come notato supra, p.
92. Il passo è segnalato da Sharples, (1987), p. 1201 n. 63 e da Accattino-Donini (1996) p. 128.
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ciò che sia causa dell’esistere e sia insito in siffatte sostanze che non si di-
cono di un sostrato, e che sia dunque tale, quale è l’anima per l’animale.203
Anche qui è naturale per Alessandro ad loc. parafrasare oÈs€a con e‰dow
e far coincidere la definizione di oÈs€a con la definizione di e‰dow. Eviden-
temente dunque intende l’espressione “causa dell’essere” (a‡tion toË e‰nai,
1017b 15) come se Aristotele avesse detto che è oÈs€a ciò che è causa per i
corpi dell’essere ciò che sono: questa infatti è la sua più completa definizione
di forma.204 In questa prospettiva, visto che Aristotele aveva preso l’anima
come esempio di questo significato di oÈs€a, è naturale che Alessandro co-
me esempio di forma porti subito l’anima.
Commenta infatti a questo proposito:
sembra che [Aristotele] stia parlando delle forme dei corpi costituiti per na-
tura, cioè delle forme naturali e materiate, quale è l’anima negli animali (e‡h d’ ín
l°gvn tå t«n fÊsei sunest≈tvn e‡dh, taËta d° §sti tå fusikå ka‹ ¶nula e‡dh,
ıpo›Òn §stin §n to›w z–oiw ≤ cuxÆ).205
203 Arist. Met. V.8. 1017b 15 s. “Siffatte sostanze” (tå toiaËta, 1017b 15) si riferisce ai corpi sem-
plici e a quelli composti dai corpi semplici, per esempio gli animali e gli esseri divini (tå
daimÒnia), dice, e le loro parti (1017b 11-13); precisandosi qui però che si tratta di sostanze
“che non si dicono di un sostrato”, bisognerà pensare, fra le sostanze composte, a quelle indi-
viduali, come un certo uomo, un certo cavallo, secondo le indicazioni di Categorie 2. 1b 3-5 su
ciò che non è mai kay’ Ípokeim°nou.
204 Cfr. per es. Alex. De anima 6.28 s. “In virtù della forma ciascuno dei corpi è ciò che è”.
206 …w ≤ Íg€eia §n yermo›w ka‹ cuxro›w ka‹ ˜lvw tÚ e‰dow §n tª Ïl˙, Arist. Phys. IV.3. 210a 20
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207 Con la stessa funzione di contrasto compare nella lista di Alessandro - unica vera aggiunta ri-
spetto a quella di Aristotele - il senso di essere in qualcosa “come il mescolato nel mescola-
mento” (Alex. De anima 13.21-23). In questo caso è dalla dottrina stoica della mistione totale
che Alessandro intende prendere le distanze: cita dunque questa possibilità esplicitamente, per
poterla altrettanto esplicitamente scartare.
208 L’espressione “qualcosa che è costituito da qualcosa” (ti ¶k tinvn ˆn) vale a circoscrivere l’am-
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anima spiegando in che senso vada inteso il rapporto fra forma e ma-
teria. In effetti, notoriamente, l’esegeta fa uso costante e sistematico
della definizione aristotelica di anima come forma di corpo naturale che
ha la vita in potenza.210
Anche questa dicitura però, rispetto ad Aristotele, subisce preci-
sazioni significative: Alessandro la integra sia con l’aggettivo “organi-
co” (tratto dall’altra dicitura e definizione di anima, pure aristotelica,
secondo la quale l’anima è “entelechia di corpo organico naturale”211)
sia con l’addizione dell’aggettivo “materiata” - della quale fra breve mo-
streremo l’importanza.212 Si ottiene così la corrente e quasi formulare
definizione alessandrista di anima come “forma materiata di corpo or-
ganico naturale”.
Se dunque in natura la forma fosse davvero un accidente del corpo,
come sembrerebbe suggerire l’analogia con le arti (il legno è infatti legno
anche senza la forma del letto) allora l’anima sarebbe un accidente del
corpo. Il che è proprio ciò che Alessandro non vuole lasciare dedurre dal-
la definizione aristotelica dell’anima. Per questo “la forma non è nella ma-
teria come in un sostrato”.
Un tale assunto, fondamentalmente negativo, è argomentato nelle
Quaestiones I.8 e I.17. Queste pongono cioè che la materia, benché sia
sostrato della generazione - nel senso che da essa la generazione avvie-
ne ed essa permane anche dopo che la generazione è avvenuta - tutta-
via non è sostrato alla forma: altrimenti dovrebbe avere sussistenza an-
che separatamente. Invece, forma e materia non sono separabili se non
col pensiero.
Fin qui, tutto è chiaro, compreso il riferimento - seppur negativo -
alla definizione “essere in un sostrato” nelle Categorie, cap. 2, dove si di-
ce “in un sostrato” l’accidente (per esempio una certa bianchezza che si
trova in un determinato corpo); mentre la sostanza (oÈs€a), come si con-
ferma ibid., cap. 5, non è mai in un sostrato. Questa esclusione infatti si
applica anche alla forma, perché la forma è uno dei sensi nei quali si può
intendere la sostanza.213
I problemi più intricati arrivano invece allorché la speculazione ten-
ta di approfondirsi e precisarsi in una risposta positiva: come definire,
senza contraddizioni, in che modo la forma stia nella materia, e in che mo-
do, analogamente, l’anima stia nel corpo?
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216 Dal punto di vista, pur ristretto, della definizione e dei suoi elementi, ritroviamo qui ravvici-
nati e posti in analogia materia e genere (cfr. supra, § 2.5, pp. 63-65): la materia sta nella defi-
nizione di “forma materiata” come il genere “numero” è compreso nella definizione di “nu-
mero dispari”.
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217 Bruns (1892) p. V ss.; Sharples (1987) p. 1194, (1992) p. 4 s. A quanto pare, l’opuscolo è sta-
to conservato in quello che i manoscritti impropriamente chiamano De anima liber alter cioè
nella raccolta degli opuscoli sull’anima (da Bruns soprannominata Mantissa e pubblicata do-
po il De anima in C.A.G., Suppl. Ar. II.1, Berlin 1889) in ragione del suo argomento. Questo
criterio ha prevalso su quello formale, secondo il quale l’opuscolo avrebbe potuto annoverar-
si fra le épor€ai ka‹ lÊseiw (le cosiddette Quaestiones) a miglior titolo di molti che sono con-
servati in quest’ultima raccolta ma non sono propriamente aporetici (come già notato da Bruns
ibid. e Sharples, ibid.).
218 Mantissa V. 120.14-17. Nel caso della pesantezza si vede particolarmente bene che il concetto
di forma per Alessandro non è necessariamente connesso a quello di configurazione, cfr. su-
pra, p. 78; sulla pesantezza come esempio di e‰dow nel De anima, cfr. Donini (1971), Accatti-
no (1995) p. 186-190.
219 Cfr. in part. infra, cap. II, § 4.2 p. 135 s.
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A prima vista, per la verità, il senso delle due citazioni non è esatta-
mente perspicuo. Con ogni probabilità, esse presuppongono l’esame dei
rispettivi testi già in sede di commento; sono state qui rievocate per non
lasciare inesplorata e irrisolta la loro potenziale contradittorietà rispetto
alla dottrina alessandrista del rapporto fra anima e corpo.
Questa loro potenziale contradittorietà è evidenziata dalla locuzione
introduttiva, cioè dall’aggettivo verbale neutro shmeivt°on.223 Come so-
vente avviene nella letteratura esegetica, shmeivt°on non è una dicitura
del tutto neutrale. Porta infatti l’attenzione su qualche cosa che non so-
lo, genericamente, è degno di nota, ma lo è perché inatteso, strano o in
altro modo fonte di perplessità, al modo per esempio delle eccezioni a una
data regola generale.
Qui l’origine della perplessità è evidente e dichiarata. Mentre l’opu-
scolo, come gli altri sinora esaminati, argomenta che la forma non è nella ma-
teria come in un sostrato; e mentre l’esegeta tiene come punto di riferimen-
to la dottrina estratta da Categorie 2, secondo la quale nessuna sostanza è
mai in un sostrato, il testo di Aristotele dice che la natura (≤ fÊsiw, che Ales-
sandro intende regolarmente come la forma di ciò che esiste per natura, co-
me se fosse tÚ e‰dow t«n fÊsei ˆntvn) è sempre in un sostrato.
La perplessità viene espressa ma non viene risolta; Alessandro con-
tinua invece citando e commentando un altro passo che crea problema a
questo riguardo: “il corpo non è fra le cose che si dicono di un sostrato”
(Arist. De anima II.1. 412a 17 s.).
ritagliata in modo fuorviante nel testo dell’opuscolo: mancando il soggetto della prima frase,
che nel testo di Aristotele è “ciò che ha natura”, sembrano riferirsi al termine “natura” en-
trambi i predicati. Senza il raffronto col testo originale si tradurrebbe cioè “la natura è sem-
pre un sostrato e in un sostrato”. Nella traduzione è indispensabile integrare la comprensio-
ne del testo di Alessandro sulla base del testo di Aristotele.
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Oppure può dire ora kay’ Ípokeim°nou non ciò che è in un sostrato (§n
Ípokeim°nƒ), ma ciò che per esistere ha bisogno di un sostrato. Tale è anche la
condizione della forma che è nella materia. (Mantissa V, 121.5-7)
227 “È da notare, dice Alessandro, che [Aristotele] intende la forma nella materia in un senso più
generale, come (qualcosa) che ha bisogno di un sostrato. Abituale è infatti (questo) uso per lui”
(Alex. ap. Simpl. in De caelo 279.6-8, in Arist. De caelo 278a 23, cfr. supra, § 4.1.3, p. 96).
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siderare riferite a un sostrato (kay’ Ípokeim°nou) nel senso che hanno bi-
sogno del sostrato (la materia, il corpo) per esistere e sussistere.
Trattasi, evidentemente, di forme materiate: è la forma degli esseri
materiati che non può esistere senza materia, come l’anima del corpo ani-
mato non può esistere senza il corpo.
Questo non esclude in assoluto la possibilità di forme che siano in-
vece immateriate, o in assoluto - come nel caso del motore immobile - o
per astrazione.
Queste ultime sono rilevanti per gli scopi presenti: le consideriamo
come immateriate, ma nella realtà sono materiate; si ricavano cioè quando
si siano idealmente separati e sottratti alle sostanze la materia, il movimento
e tutti gli accidenti legati alla materia. Restano così gli enti matematici: for-
me astratte, che esistono solo nel pensiero e proprio per questo ci dicono
qualche cosa di importante, sia pure in negativo, su quale sia il contribu-
to della materia nella relazione composita di forma e materia.
Così, esaminare sommariamente quale sia, per Alessandro, lo statu-
to teorico degli enti matematici sarà utile a completare con un elemento
di contrasto la presente rassegna sul ruolo e sulle funzioni del concetto di
materia nel sistema dottrinale dell’esegeta.
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può essersi già attestata in precedenza, all’interno della scuola): essa tenderà allora ad espri-
mere le vedute di Alessandro stesso. In questo caso invece la seconda proposta esegetica è sì
più esatta ed accurata, migliore dunque della precedente; ma, proprio perché è esegesi più esat-
ta della posizione platonica, si allontana in qualche modo dalla posizione dottrinale di Ales-
sandro come aristotelico. Il perfezionamento dell’esegesi comporta in questo caso non tanto
un perfezionamento della proposta dottrinale quanto una più lucida consapevolezza delle dif-
ferenze fra Aristotele e Platone.
232 Cfr. Bonitz, index, s. v. mathmatikÒw. A quanto pare, di nessuno dei passi aristotelici qui cita-
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Di per sé dunque gli enti matematici quando sono simili non sono
molti: quanti di essi hanno la stessa forma, fanno tutt’uno di numero.
234 ibid. 90.20-22. Anche il noËw yÊrayen come forma pensata è presente all’interno dell’anima
umana solo transitoriamente; nell’atto di pensarlo e di identificarsi con esso l’intelletto uma-
no attinge l’immortalità; ma solo temporaneamente, secondo il paradosso messo in evidenza
da Donini-Accattino (1994).
235 ibid. 90.9-10.
236 Alex. in Met. 52.16-17. Nel commentario si parla di separazione (compare infatti il verbo
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Le reciproche differenze tra gli individui della stessa specie, per le quali So-
crate e Platone sono diversi nella sostanza, non sono di tipo primario, bensì solo
accidenti dovuti alla materia che fa da sostrato a questi individui.238
anima, è quello della distinzione fra l’assoluta identità dell’intelletto con la forma dell’oggetto
pensato nel caso della prima sostanza in quanto essa è intelletto che pensa se stesso, e l’iden-
tità che si crea fra l’intelletto e l’oggetto del pensiero nell’ordinario processo di intellezione,
quello inerente cioè gli enti materiati. Con gli enti materiati non vi può essere infatti che iden-
tità nella forma, mentre l’identità nel numero si dà solo fra le forme che sono immateriate per
natura e non per astrazione.
238 De providentia p. 156.11-15, tr. 157.14-18.
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239 Ne tratta il De principiis, cfr. in part. § 92; miriservo di discutere altrove l’interpretazione di-
versa di Geneguand (2001) ad loc.
240 Cfr. Simpl. in Phys. 219.22-221.18, in Arist. Phys. I.7.191a 3-5, che cita in proposito anche Met.
1044a 32 ss.
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1. Introduzione
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to ciò che la scuola può trovare agevole sottintendere, sia come pre-
supposti, sia come passaggi argomentativi. Le forme stesse dell’argo-
mentazione procedono sui binari di griglie e partizioni consuete alla
scuola, ma non sempre oggettivamente evidenti o direttamente giusti-
ficate dai testi di Aristotele.
Tali caratteristiche, sebbene in generale possano valere per la gene-
ralità degli opuscoli alessandristi, risultano particolarmente gravi e ac-
centuate nel caso di questi due testi, in virtù del loro peculiare argomen-
to, difficile in se stesso e scarsamente attingibile. Anche in ragione di ta-
le difficoltà d’indagine, la struttura argomentativa è composita e lo svol-
gimento non è sempre lineare; né peraltro è sicuro che essi siano stati in-
teramente progettati e scritti come opuscoli unitari e conclusi. Vedremo
inoltre che le difficoltà generali ora prospettate sembrano aver pesato ne-
gativamente sulla tradizione manoscritta.243
D’altra parte, anche le oscurità stesse e le opacità possono essere un
indizio per indagare quale sia stata la specifica modalità di elaborazione
di questi testi all’interno della scuola.
Non dunque per appiattire queste difficoltà, ma per tenerne conto,
sarà utile discutere nel dettaglio le scelte testuali e interpretative che lo
studio di questi opuscoli comporta. Di qui l’opportunità di procedere in
primo luogo ad un nuovo esame del testo greco e ad una traduzione com-
mentata delle due Quaestiones, scanditi in sezioni secondo le unità argo-
mentative fondamentali. Trascureremo invece i titoli, i quali, probabil-
mente inautentici, possono anzi essere fuorvianti, come avremo modo di
osservare nel caso della Quaestio I.10.
2. La Quaestio I.10
2.1. Osservazioni preliminari
Non a torto, la Quaestio è stata classificata da Bruns fra le aporie pro-
priamente dette. Può essere tuttavia utile osservare come la struttura non
si presenti semplicemente bipartita, divisa cioè in “aporia-e-soluzione”.
Esiste infatti un problema di partenza relativo alla fisicità del corpo cele-
ste, che già di per sé non è semplice (ci si domanda al tempo stesso se il
corpo celeste sia o non sia corpo naturale e se sia o non sia corpo mate-
riale). Da una delle risposte possibili a questo problema (cioè da quella
duplicemente positiva: sì, è naturale ed è materiale) per la quale Alessan-
dro mostra di propendere, sorgono una serie di aporie, una delle quali
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viene poi affrontata in modo più specifico: se sono naturali, come va con-
cepita la presenza in essi della materia, quale sembra essere postulata dal-
la teoria delle quattro cause? Sono dunque diversi il problema di parten-
za e l’aporia: secondo una modalità reperibile anche altrove244, le aporie
- che in questo caso sono più di una - sono sollevate in relazione a quel-
la, fra le possibili risposte al problema, per la quale propende l’autore.
La soluzione (lÊsiw, 20.32 ss.) si riferirà direttamente non al pro-
blema, non dunque all’esordio del testo, ma all’aporia. È la parte più chia-
ra del testo, sia per struttura discorsiva che per stato di conservazione.
In questa, a costo di recuperare una definizione di materia alquanto
marginale nel testo di Aristotele, Alessandro lavora sulla possibilità di de-
finire la materia in termini sempre aristotelici, ma più comprensivi, adatti
anche al sostrato dei corpi non soggetti a mutamento, cioè ai corpi celesti.
La prima parte dell’opuscolo, invece, che pone interrogativi più ge-
nerali sulla fisicità dei corpi celesti, menziona le possibili risposte ed evo-
ca le conseguenti aporie, è molto meno chiara nel suo svolgimento: paio-
no accumularvisi e compendiarvisi appunti annotati per uso scolastico,
possibilmente in tempi successivi e in fasi di elaborazione diverse. Acco-
muna queste annotazioni il procedimento diairetico, che più di ogni al-
tro denuncia una procedura e uno stile tipicamente scolastici di elabora-
zione. Nel suo applicarsi alla ricerca sulla regione dei principi, tuttavia,
quest’uso della diairesi non risulterà scevro di un interesse particolare.
[20.18] Se principio ed elementi dei corpi naturali sono quelli dei quali ha
parlato Aristotele nelle Lezioni di Fisica, cioè materia, forma, causa efficiente e
causa finale, il corpo dal moto circolare o non sarà un corpo naturale, o sarà ma-
teria anche il suo sostrato; oppure [Aristotele] non avrà menzionato tutti i prin-
cipi dei corpi fisici: di quel corpo, infatti, qual’è il sostrato?
Il problema della fisicità o meno del corpo celeste è qui posto e af-
frontato in connessione con quello della materialità del corpo celeste stes-
244 Per il caso particolare della Quaestio II.3, dove l’aporia è sviluppata in relazione a una possibi-
lità già privilegiata in precedenza all’interno della scuola, cfr. infra, cap. IV, in part. p. 187 ss.
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245 Alex. in Met. 22.2 - 3 Hayduck (in Arist. 983a 29); 169.18 - 19 (in Arist. 995a 17); 375.37 - 376.2
(in Arist. 1017b 19 ss.). Cfr. Dooley (1989) p. 44 n. 90, Sharples (1992) p. 59 n. 169. Le prime
due testimonianze alessandriste dicono che il concetto di sostrato è più largo di quello di ma-
teria, in quanto i corpi celesti hanno sostrato ma non materia. Il terzo, sembra spiegare perché
tale sia la posizione di Alessandro: la forma è separabile con il pensiero dalla materia nella mi-
sura in cui si trova solo transitoriamente nella materia, in quanto il corpo è corruttibile. Ma la
forma del corpo divino non è materiata, nel senso che non può separarsi dal suo sostrato né
nella realtà, per corruzione, né ad opera del pensiero: in questo senso, non è materiata.
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246 Il termine “cause” sarà comunque sottinteso, come conferma il parallelo (segnalatomi da Andrea
Falcon, Università di Padova) con Aristotele, Fisica I.1. 184a 11, dove dice: érxa‹ μ a‡tia μ
stoixe›a. Poiché d’altronde in quest’ultimo passo Aristotele parla di “principi” al plurale, resta
come ragione di perplessità, perché mai Alessandro invece parli qui di “principio” al singolare.
Una possibile ipotesi è che si trovi qui evocata la distinzione di Met. XII.4. 1070b 22-26 fra “ele-
menti” (stoixe›a) intrinseci alla cosa, e “principio” (érxÆ infatti, in uno dei suoi sensi possibi-
li, cfr. Met. V. 1013a 7, si intende come esterno a ciò di cui è principio); e in forza di tale distin-
zione venga isolata al singolare, fra le quattro cause, la causa efficiente, come “principio” nel-
l’altro da sé, distinta in quanto tale dagli stoixe›a. È una distinzione che gli stoici, già con Ze-
none, praticarono in modo più sistematico, come ricorda Isnardi Parente (1993) p. 21 s.
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[20.23] éllå mØn fusikÚn s«ma kéke›no. pçn går s«ma μ fusikÚn μ
mayhmatikÒn, oÈk ¶sti d¢ mayhmatikÚn §ke›no, §pe‹ pçn tÚ §n kinÆsei tª §j
aÍtoË s«ma fusikÒn, §n kinÆsei d¢ §ke›no, e‡ ge ka‹ éeik€nhton ka‹ tØn
afit€an t∞w kinÆsevw ¶xon §n •aut“.
[20.26] μ efi ≤ fÊsiw kat’ aÈtÚn érxØ kinÆsevw ka‹ stãsevw, §n oÂw §sti
pr≈tvw ka‹ oÈ katå sumbebhkÒw, oÈk ¶xei d¢ §ke›no érxØn stãsevw §n
•aut“, oÈd’ ín fÊsin ¶xoi. efi d¢ mØ fÊsin ¶xoi, oÈd’ ín fusikÚn s«ma e‡h.
[20.29] éll’ efi mØ fusikÒn, po›Òn ti; oÈ går dØ mayhmatikÒn, §pe‹
¶mcuxÒn §sti, pçn d¢ s«ma ¶mcuxon fusikÒn.
[20.30] ~ fusikÚna d’ ¯n s«ma oÈk ¶xei tÚ Ípoke€menon Ïlhn e‡ ge ≤ Ïlh
tÚ parå m°row t«n §nant€vn dektikÒn.
[20.23] Ma, invero, è anch’esso un corpo naturale. I corpi, infatti, sono tut-
ti o naturali o matematici, e quello non è matematico, perché tutto ciò che si muo-
ve di movimento proprio è un corpo naturale, e quel corpo è in movimento, se è
vero che si muove eternamente e ha in sé la causa del movimento.
[20.26] Oppure: se la natura, a suo avviso, è principio di movimento e di
quiete per i corpi nei quali si trova primariamente e non per accidente, e però
quel corpo non ha in sé principio di quiete, esso non dovrebbe avere natura. E
se non avesse natura, non sarebbe un corpo naturale.
[20.29] Ma se non fosse un corpo naturale, che corpo potrebbe essere? Cer-
to, infatti, non è un corpo matematico, visto che è animato, e tutti i corpi anima-
ti sono corpi naturali.
[20.30] D’altronde, pur essendo un corpo naturale, non ha come sostra-
to una materia, se davvero la materia è ciò che di volta in volta è recettivo dei
contrari.247
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248 Per una lucida distinzione fra fisica, matematica e teologia o filosofia prima, pochi decenni pri-
ma di Alessandro, cfr. il proemio (cap. I.1 p. 5.7-10) della MayhmatikØ sÊntajiw (il cosid-
detto Almagesto) di Tolomeo (2a metà del II sec. d. C.).
249 Sulla compiutezza dei prodotti dell’arte, cfr. per es. Alex. in Met. 422.14-16 (in Arist. 1023a
34): ˜ti går ka‹ taËta (scil. e. g. ≤ ofik€a) ˜la te ka‹ t°leia, ka‹ oÈ mÒnon tå fusikã te
ka‹ sunex∞, de€knusi di’ œn prot€yhsi l°gvn t°low m¢n gãr §stin ≤ morfÆ, t°leion d¢
tÚ ¶xon t°low.
250 Per i prodotti artificiali come corpi, cfr. l’esempio della scure in Arist. De anima 412b 11-15;
per le parti di corpo, cfr. Bonitz, Index Aristotelicus, s. v. s«ma. Sulle limitazioni che la nozio-
ne di “corpo” subisce fra Aristotele e Alessandro cfr. anche supra, pp. 73-75.
251 Alex. De anima 90.9-10, in Met. 52.16-17 e supra, cap. I § 5, p. 106 ss.
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za mai essere argomentati. Uno è che gli astri siano animati.252 L’al-
tro è che, come dice Aristotele in un passo del De anima, è dei corpi
naturali che l’anima è anima.253
In tutto questo, ciò di cui non si vede direttamente l’utilità, come si
è accennato, è l’opposizione fisico/matematico: apparentemente, gli ar-
gomenti (a) e (b) contengono ciascuno le premesse di un sillogismo in da-
rii della prima figura254: potrebbero semplicemente concludere, invece
che “dunque non è un corpo matematico”, “dunque è un corpo natura-
le”, che per l’appunto è ciò che si voleva dimostrare. Che utilità c’è nel ri-
cordare che ogni corpo o è naturale o è matematico, e che se è matema-
tico è per definizione un’astrazione priva di movimento? Senza avere una
risposta definita a questo riguardo, suppongo che la cosa vada comunque
sottolineata: in un contesto la cui conoscenza è così frammentaria posso-
no avere rilievo anche i residui argomentativi che restano disattivati e le
opzioni dottrinali che restano scartate. Questi infatti giovano se non altro
a ricostruire la rete di partizioni e di opposizioni che costituisce lo sfon-
do della discussione.
In questa rete, questo perlomeno è chiaro: che il corpo celeste sten-
ta a trovare una collocazione. Poiché ha principio di movimento, esso sem-
bra naturale; ma poiché non ha principio di quiete, non sembra naturale;
non essendo naturale, poi, non sarebbe nemmeno animato, visto che per
essere animato deve comunque essere naturale.
Aristotele infatti non solo aveva ristretto la definizione di anima al
corpo naturale, ma aveva proprio aggiunto “che ha in sé il principio del
movimento e della quiete”:255 una precisazione, quest’ultima, che - come
Alessandro osserva - escluderebbe i corpi celesti dal novero dei corpi na-
turali animati, qualora non si trovasse un modo diverso di intendere tan-
to la loro natura quanto la loro anima.
252 Che gli astri siano animati per Alessandro è un punto fermo, una di quelle convinzioni diffu-
se la cui validità è garantita dal comune consenso; essa è già attestata come tale in Platone, in
un passo delle Leggi (X 898d ss.) cui Alessandro almeno in un caso sembra fare preciso riferi-
mento, cfr. De providentia tr. Zonta in Fazzo-Zonta (1999), p. 134. 11-16, tr. 135.11-15. La pos-
sibilità che il corpo celeste non sia animato non è presa considerazione né nella Quaestio I.10
né, che io veda, in alcun’altra opera di Alessandro.
253 II.1. 412b 15-16.
254 [P] pçn tÚ §n kinÆsei tª §j aÍtoË s«ma fusikÒn [p] §n kinÆsei d¢ §ke›no (20.24-25); [p]
finizione, ma del corpo naturale che ha in sé il principio del movimento e della quiete” (oÈ
går toioÊtou s≈matow tÚ t€ ∑n e‰nai ka‹ ı lÒgow ≤ cuxÆ, éllå fusikoË toioud‹ ¶xon-
tow érxØn kinÆsevw ka‹ stãsevw §n •aut“, Arist. De anima II.1. 412b 15-17); cfr infra,
p. 140 s.
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256 Non è un caso isolato. Al corpus delle Quaestiones si trova appostanel codice V, fra le righe o in
margine, tutta una serie di particelle atte a scandire l’articolazione logica dell’argomentazione,
cfr. Bruns (1889) p. VI, (1892) p. XV, con le osservazioni qui infra, p. 122.
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257 Cfr. Sharples, tr. cit. (1992) p. 48 con la relativa nota al testo. L’espunzione dell’avverbio ne-
gativo oÈ sembra già suggerita dall’emendator Braidensis, cioè da Ottaviano Ferrari, revisore
(cfr. supra, p. 39) cinquecentesco dell’esemplare dell’editio princeps delle Quaestiones attual-
mente conservata nella Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (segnatura B 6.078, f. 6v):
sottolinea infatti la negazione, e questo è uno dei modi in cui si usava suggerire l’espunzione
di una o più parole da un passaggio che venisse ritenuto interpolato.
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uguali senza avere differenze fra loro? Nemmeno l’¶nstasiw, peraltro, si tro-
va qui espressa per intero. Evocata solo implicitamente, la si ricava dal ten-
tativo di soluzione che essa di fatto riceve nella parte finale della Quaestio,
dove costituisce - ciò che per l’appunto è caratteristico dell’¶nstasiw - una
sorta di ulteriore aporia nell’aporia. Sarà fatta esplicita, non più come ¶nsta-
siw, ma come aporia indipendente, nella Quaestio I.15 (26.7 - 8).
[21.5] Se sono diverse tra loro le materie, la materia cioè che è sostrato del
corpo divino e quella dei corpi soggetti a generazione e corruzione, non per que-
sto saranno composte. Se infatti avessero un sostrato unico, dovrebbero avere dif-
ferenze, in virtù delle quali siano specificate e differiscano una dall’altra, pur aven-
do lo stesso sostrato. Se invece sono diverse non è affatto necessario che differi-
scano l’una dall’altra per mezzo di qualche differenza specifica. Infatti nemme-
no la forma e la materia, per il fatto di essere diverse fra loro, sono per questo
composte.
Alessandro stabilisce ora il principio generale che due entità, nella fat-
tispecie due lai, possano differire anche senza differenze specifiche: il
differire - sostiene - è concetto più largo che non l’avere differenza, ed inol-
tre il concetto di differenza è più ampio che non quello di differenza spe-
cifica. Il principio, affermato dapprima in generale, è poi corroborato da
un solo esempio: quello del differire fra forma e materia (la casistica esem-
plificativa verrà ampliata - come vedremo - nella Quaestio I.15). Peraltro,
i termini dei quali l’autore si serve nel presentare l’esempio sono indicati-
vi di quali aporie il principio generale che qui viene enunciato comporti.
Alessandro non dice infatti che materia e forma differiscano senza diffe-
renze specifiche, bensì dice che esse sono “altre” (ßtera, 21.11) pur sen-
za essere composte (sÊnyeta). La preoccupazione, evidentemente, è quel-
la che la semplicità che caratterizza la materia prima come concetto asso-
luto possa venir meno per il suo divenire sÊnyetow, per il suo comporsi
cioè con una differenza, qualunque essa sia.
La Quaestio I.15 risponde a questa aporia, innanzitutto prospettan-
do l’ipotesi di un differire senza differenze.
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3. La Quaestio I.15
3.1. Osservazioni preliminari
Si tratta ora di come due lai possano essere diverse, pur senza avere in
sé differenze specifiche. In questo senso, la Quaestio I.15 costituisce la lo-
gica continuazione della Quaestio I.10.
Anche il metodo - come vedremo - è molto simile: entrambe le Quae-
stiones che indagano sulla materialità dei corpi celesti cercano soluzioni
di un’aporia concernente l’universo fisico intervenendo sulla definizione
dei concetti messi in opera.
260 De caelo I.12. 283a 29 - b 5. La formula oÂw tÚ dunãmei ÍpÒkeitai, taËta fyartã, nella qua-
le Alessandro in 26.30 - 31 sintetizza l’argomentazione aristotelica, sembra qualche cosa di già
formalizzato in precedenza ad uso della scuola (e non è l’unico caso nel quale una dottrina
riformulata, seppur su basi aristoteliche, all’interno della scuola viene introdotta dalla locu-
zione, in qualche modo cautelativa, e‡ ge, cfr. in part. Quaestio I.10. 20.31 - 32 e le nostre os-
servazioni ad loc.) cfr. anche Simplicio ad loc., p. 354.1-355.15 Diels, in part. 355.4 ss. L’ipote-
si che l’analisi di Simplicio si valga qui del commento perduto di Alessandro sembra avvalo-
rata dal ricorso di Simplicio all’analisi sillogistica, particolarmente presente nei commenti di
Alessandro (cfr. il riferimento alla seconda figura in 354.19-22).
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logia e nello stile diairetico e classificatorio caratteristici della scuola: per esem-
pio, la locuzione tÚ dunãmei non compare affatto nel De caelo, ma è la scuo-
la ad associarla al concetto di materia: sia ≤ Ïlh che tÚ dunãmei indicano il
sostrato di “ciò che è possibile” e di “ciò che può essere e non essere”.
La possibilità che i corpi celesti abbiano la stessa materia di quelli
corruttibili, e siano pertanto anch’essi corruttibili, qui evocata in apertu-
ra (26.20), non viene più ripresa in seguito. La sua esclusione era proba-
bilmente così ovvia da potere essere sottintesa.261
L’aporia qui sollevata è duplice (oÈd’ ín êpoiow ¶ti e‡h oÈd’ èpl∞).
Duplice sarà anche la riflessione risolutiva, che si dividerà infatti in due
parti, una dedicata al problema della semplicità, una a quello dell’assenza
di qualità nelle due materie diverse. Per quanto riguarda la semplicità del-
la materia, l’aporia coincide con quella che nella Quaestio I.10 costituiva
l’¶nstasiw, cioè l’obiezione alla lÊsiw dell’aporia: un’obiezione lì evoca-
ta, ma non espressamente menzionata, cui rispondevano le righe finali del-
l’opuscolo. Qui e lì, infatti, si tratta di evitare che la materia si configuri
come sÊnyetow (Quaestio I.10. 21.7, 11) ovvero, che è lo stesso, di pre-
servarne la semplicità (Quaestio I.15. 7.3 - 4).
L’altro aspetto in discussione è quello dell’assenza di qualità: se la
materia si differenziasse in qualche modo, e la differenza fra una materia
e l’altra fosse una differenza qualitativa, la materia non sarebbe più priva
di qualità (êpoiow). Non meno del primo, anche questo è un problema
eminentemente scolastico. Nasce dall’incontro fra due definizioni - la dif-
ferenza specifica è differenza di qualità, la materia è êpoiow per defini-
zione - cui Alessandro stesso mostra peraltro anche altrove di non accor-
dare un valore assoluto.262 A questo aspetto dell’aporia si rivolgerà la se-
conda parte della soluzione (27.10 ss.).
261 La possibilità che anche ciò che è divino sia corruttibile viene esclusa espressamente da Ari-
stotele in Met. XII, 1071b 4-6, cfr. Alex. Quaestio I.1, 2.20-22.
262 Sull’inadeguatezza della definizione (stoica) di materia come êpoiow, cfr. Quaestio II.7 e su-
pra, p. 59 s.: se fosse tale per sua essenza, la materia si distruggerebbe nel momento in cui vie-
ne qualitativamente determinata. Come qui illustrato nel cap. I, d’altronde, il concetto di ma-
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[27.4] Oppure, non tutto ciò che è differente, differisce per una differen-
za, se davvero esiste la differenza in senso proprio, in virtù della quale il genere
si divide nelle rispettive specie: in effetti il non-ente differisce dall’ente, ma non
perché abbia differenza; ma neppure perché differisce da qualcosa, proprio per
questo è composto.263
[27.8] Ma neppure gli enti, poiché differiscono tra loro secondo le cate-
gorie, hanno per questo delle differenze a distinguerli: perché i dieci generi
non rientrano in un genere comune. Infatti, come si è mostrato, l’ente non è
un genere.
teria, si trova stabilmente in opposizione funzionale con quello di forma. Sulla differenza fra
forma, e‰dow, della quale la differenza specifica (efidopoiÚw diaforã) è significativa, e
poiÒthw si pronunciano concordemente De anima 6.2-6 e Quaestio I.21. 35.5 s.: l’e‰dow è
poiÒthw nei prodotti dell’arte, ma la forma essenziale nei corpi naturali è oÈs€a. Cfr. infra,
p. 131 in Quaestio I.15, 27.16 s.
263 Con Sharples, elimino le parentesi apposte da Bruns in 27.6 - 7 (tÚ goËn ...diå toËto g€netai).
264 Una tale distinzione è aristotelica, perché ricalca quella fra diaforã e •terÒthw, sulla quale
cfr. Arist. Met. X. 1054b 23. Alessandro infatti dice che le due materie sono ßterai, cfr. Quae-
stio I.10 21.5 s., Quaestio I.15. 26.30.
265 Come si vede nelle Categorie, in part. cap. 1, Aristotele, a differenza di Platone, asserisce che
l’essere non è univoco, bensì c’è la prima categoria, l’oÈs€a (sostanza), che è l’essere primo, e
poi ci sono le altre nove: tutto ciò che vi rientra, in certo modo, è, anche se in modi diversi.
Però le categorie, in quanto modalità dell’essere, non sono specie di un unico genere; un tale
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3.5. Soluzione, parte II: una differenza che non è qualità (27.10 - 29)
genere che le riassumesse tutte dovrebbe essere l’oÈs€a; ma Aristotele ha mostrato che l’ ˆn
non è un genere, come Alessandro ricorda in 27.9 s., riferendosi per esempio - come nota Bruns
- a Metafisica III.3. 998b 22-27. È evocata implicitamente, per opposizione, anche la posizio-
ne degli stoici: per costoro tÚ ˆn e tÚ mØ ˆn appartengono infatti uno stesso genere, in quan-
to li sussume il genere comune del “qualche cosa” (ti).
a 27.13 oÈ går efi VTB1S1: efi går ≤ B2S2a Bruns
b 27.14 ≥dh TB: efi d¢ V1S1 efi dh S2a e‡dh V2 Vict. Braid. Bruns
c 27.15 toËto ˜ V1S1 Braid. : toÊtƒ o V2BT toËto o S2 Sharples toÊtƒ ˜ Bruns
d 27.23 t“ V B T: tÚ Sa Bruns
e 27.24 poiÒthw G L Braid. Sharples: poiÒthtow V Bruns
f 27.28 ¶xein V
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[27.10] Inoltre, molti enti per non avere qualche cosa differiscono da altri
che ce l’hanno, come il non avere capelli, per esempio, o mani, o qualcos’altro
del genere. Ma il non avere qualcosa, l’esserne privo, non è una qualità.
[27.12] D’altronde, non tutte le differenze sono qualità.266 Infatti, non per-
ché è differenza ciò che distingue fra loro (le specie) dello stesso genere,267 la dif-
ferenza dev’essere indicativa della specie di ogni cosa della quale è differenza,268
specie in virtù della quale (ogni cosa) è ciò che è.269
[27.15] D’altra parte, in tutti gli esseri che sono costituiti per natura, per i
quali non è sostanza solo la materia, ma anche la forma, la differenza dovrebbe
essere indicativa di una determinata sostanza, non di una qualità, e gli esseri che
differiscono fra loro per tali differenze dovrebbero differire per sostanza, ma non
per qualità.
[27.19] Cosicché, essendo la materia, in quanto è recettiva dei contrari, so-
stanza nella sostanza, chi dice che in questo una certa materia differisce da un’al-
tra, non potrebbe dire che (ne) differisce per qualità.
[27.21] Poiché coloro che pongono che la materia sia recettiva dei contra-
ri dicono che essa è priva di qualità, è chiaro che non le attribuiscono una qua-
lità per il fatto che è recettiva dei contrari. E se questo non è una qualità della ma-
teria, anche coloro che dicono che la materia (che costituisce) il sostrato ai corpi
soggetti al divenire differisce per questa prerogativa dal sostrato dei (corpi) divi-
ni non diranno che essa differisce per qualità.
[27.26] Se infatti ciò che è recettivo dei contrari in quanto è tale ha una qua-
lità, la materia che ha una qualità l’avrà non perché differisce da quella che ne è
priva, ma perché la ha nella propria natura, e la conserva necessariamente, che
differisca da qualcosa oppure no.
266 La distinzione fra differenza e qualità è sottolineata anche da Alex. ap. Simpl. in Cat. 99.19-
31, a esegesi di Arist. Categorie 5, p. 3a 7 ss. Cfr. supra, p. 92 n. 194.
267 Top. VI.6. 143a 29 ss.
268 Così stabilito - cfr. supra, nn. (a) e (b) in 27.13 e 27.14 - il testo della frase presenta una strut-
sui margini dall’emendator braidensis nella forma elisa toËt’ ˜ §sti, sulla scorta di un paralle-
lo in De anima 7.5.
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270 Le lezioni adottate da Bruns nella sezione qui in esame danno un senso poco convincente e si
discostano a più riprese dalle lezioni di V (MS Ven. Marc. 258, codex vetustissimus), di B (MS
Ven. Marc. 261) e di T (MS Ven. Marc. 194) che ho qui reintrodotte come paleograficamente
più autorevoli. Nemmeno così, invero, il testo è di facilissima interpretazione, ma risulta nel
complesso più coerente. Si riscontra peraltro una certa concordanza di B con la tradizione in-
dipendente attestata da T, e questo potrebbe far riflettere sull’opportunità di rivalutare alme-
no in parte il ruolo di B. B infatti era considerato da Bruns (1892, p. XIX) un mero codex de-
scriptus da V, così che ogni peculiarità significativa veniva interpretata come intervento con-
getturale del copista o del revisore sulla base di V.
271 Cfr. supra, cap. I, § 3.1 p. 77 s.
272 Questa è dottrina stabile in Alessandro, sulla scorta per es. di Aristotele De anima II.1. 412a 6
s. Il valore assertivo del passo 27.15-17 risulta evidente dal parallelismo con il passo di Alex.
De anima 6.2-3, che si trova in un contesto assolutamente non aporetico, come sottolineato su-
pra, cap. I, § 2.1, p. 53.
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così, vuol dire che essere recettiva dei contrari non è una qualità; l’essere
dunque o il non essere recettiva dei contrari non è una differenza di qua-
lità (27.21-26).
L’ultimo argomento, un po’ dissonante rispetto al precedente, pone
invece che la materia abbia come qualità l’essere recettiva dei contrari:
questa qualità - dice - sta in assoluto nella sua natura, e non le deriva dal
suo differire dalla materia dei corpi celesti; dunque permane sempre, che
differisca da qualcosa oppure no.
Nel complesso, si vede, la parte risolutiva della Quaestio I.15 sem-
bra raccogliere, in entrambe le sue due sezioni, argomenti che potreb-
bero essere stati formulati indipendentemente e in tempi diversi in rela-
zione più o meno diretta con l’aporia in esame. Ad accrescere la diffi-
coltà di reperire il filo logico, c’è ora l’intersecarsi di due indagini: quel-
la sulla distinzione fra le due materie e quella sulla distinzione fra diffe-
rire, avere differenza specifica e avere qualità, il cui approfondimento
sembra in qualche modo andare oltre alle finalità specifiche dell’aporia
in esame (27.4-10, 10-19).273
273 La differenza fra efidopoioËsa diaforã e poiÒthw è fondamentale per l’assunto ampiamen-
te argomentato da Alessandro (cfr. supra, cap. I, § 4.1) secondo il quale la forma non è nella
materia come in un sostrato: la materia infatti non è un sostrato indipendente, cui si possano
attribuire delle qualità.
274 Alla pratica del cumulo argomentativo Alessandro ricorre per esempio nel De fato, dove criti-
care la tesi determinista, e nel De providentia, dove confuta la tesi stoica della presenza del di-
vino in tutte le cose.
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275 Il testo non è conservato solo come primo opuscolo nella raccolta delle Quaestiones, ma è an-
che incluso nel commento trasmesso sotto il nome di Alessandro in Met. 685.28-687.22 all’e-
sordio del cap. Met. XII.6 (1071b 3 ss.). Che tuttavia l’opuscolo sia davvero alessandrista è
confermato da paralleli importanti con il De principiis (per es. 4.4-7 Bruns con De princ. § 2
G.). Nondimeno, anche nel commento in Met. l’opuscolo potrebbe essere stato introdotto in
un secondo tempo: di fatto, esso raddoppia la sezione di commento a 1071b 3, che si trova im-
mediatamente dopo (p. 687.25 ss.), ad opera presumibilmente dello stesso [Alessandro].
276 Quaestio I.1, 4.4-7. Per Aristotele, analitico è il metodo delle matematiche. In Alessandro, a
quanto pare, è solo nella Quaestio I.1 che il metodo dell’indagine sui principi viene espressa-
mente chiamato analitico, con una terminologia che sarà propria degli aristotelici più tardi, per
esempio Zabarella, sul quale cfr. Berti (1983).
277 A tale relazione causale sono dedicati i capitoli III e IV di questo libro.
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ché non del tutto agevolmente, come si è visto sinora - anche sotto il
metodo della fisica.
La diairesi è dunque strumento per l’argomentazione sia in senso ana-
litico (nell’argomentazione per assurdo) che in senso sintetico (nel sillo-
gismo dimostrativo). La diairesi richiede classificazione e la classificazio-
ne richiede, nei suoi aspetti più problematici, un’indagine, una discus-
sione aporetica che si dirime infine con una soluzione argomentativa-
mente sostenuta. Fine implicito è la costituzione di un sistema dottrinale
compatto e coerente, all’interno del quale tutte le parti risultino rigoro-
samente compatibili.
Questo richiede che l’esegeta lavori sui testi del maestro e sulla tra-
dizione dottrinale della scuola dal di dentro, intervenendo sulle connes-
sioni, sulle diairesi, sulle argomentazioni e inoltre su quelle definizioni dei
singoli termini, che della diairesi, dell’argomentazione e della classifica-
zione sono elementi costitutivi, sia quando sono assunte come stabili, sia
quando sono considerate passibili di revisione.
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In Fisica I.9, 193a 9-11 Aristotele cita l’opinione di Antifonte e di altri, se-
condo la quale la natura, intesa nel senso dell’essenza dei corpi naturali
(≤ fÊsiw ka‹ ≤ oÈs€a t«n fÊsei ˆntvn) è tÚ pr«ton §nupãrxon •kã-
stƒ, érrÊymiston kay’ •autÒ (per esempio: del letto, il legno, della sta-
tua, il bronzo) e questa, per Aristotele (193a 29) sarebbe identica a ≤
pr≈th •kãstƒ Ípokeim°nh Ïlh. Questo è il passo di Aristotele che si av-
vicina di più alla definizione di materia nella Quaestio I.10 di Alessandro
(¶sxaton Ípoke€menon érrÊymiston kay’ aÍtÒ, 21.2). Si nota però che
Aristotele, nel citare l’opinione di Antifonte, non con questo l’approva.
Vero è che nemmeno la confuta o la disapprova espressamente. Questo è
importante perché ci dice qualcosa su come Alessandro intenda la legit-
timità o meno di un’opinione reperibile in Aristotele. Tale è l’autorevo-
lezza del testo di Aristotele, che è sufficiente che una dottrina vi sia men-
zionata senza condanna, perché possa essere annoverata, all’occorrenza,
fra le ipotesi possibili.
Nella definizione di materia come ¶sxaton Ípoke€menon érrÊymi-
ston kay’ aÍtÒ notiamo inoltre quale versatilità il materiale concettuale
reperibile in Aristotele assuma nella rielaborazione di scuola: in Aristote-
le quella di érrÊymiston kay’ •autÒ è la definizione proposta da An-
tifonte per fÊsiw, mentre Alessandro la trasferisce alla materia.282 Per
questo Alessandro attribuisce la locuzione aristotelica érrÊymiston kay’
•autÒ al sostantivo Ípoke€menon, piuttosto che al più generico
§nupãrxon che si leggeva in Aristotele. Inoltre, come già si è avuto mo-
do di osservare, Alessandro parla non di pr«ton, ma di ¶sxaton
Ípoke€menon, spostando così il punto di vista da quello dell’oggetto co-
nosciuto a quello del soggetto conoscente.
282 Questo presuppone evidentemente un’esegesi del passo della Fisica del tipo di quella che Ales-
sandro stesso riporta nel proprio commento a Metafisica V nell’ambito della definizione dei
sensi di fÊsiw (Alex. in Met. 357.13-19, in Arist. 1014b 26-35.): fÊsiw si intenderà anche nel
senso di Ïlh, tanto è vero che secondo Antifonte la materia è natura, come Aristotele ha det-
to nel primo libro della Fisica.
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“È chiaro che nessuno di essi [sc. gli esseri che si muovono per natura] si
muove da sé, ma hanno principio di movimento, non [nel senso] del muovere
e dell’agire, ma [nel senso] dell’essere mossi e del patire” (Fisica VIII.4. 255b
29-31).
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Alessandro commentando questo passo ricerca come il corpo dal moto cir-
colare sarà ancora corpo naturale, se ciò che è naturale, come dice Aristotele, ha
un principio di passività, mentre il corpo dal moto circolare è impassibile.
Risolve (il problema) prima, dicendo che anche se il corpo dal moto circo-
lare è sempre in movimento, tuttavia ha in sé una componente di potenzialità per-
ché si muove in un certo momento da un punto a un altro, e in un altro momen-
to da un altro ad un altro ancora. E, nella misura in cui partecipa della potenzia-
lità, è in qualche modo passivo. Infatti, tutto ciò che è in potenza è, in qualche
modo, materiale. Dunque anche quel (corpo) ha in sé un principio di movimen-
to nel senso dell’essere mosso, e per questo è naturale.
291 Secondo Simplicio (in Phys. 1217.11-17), questa conclusione è solo in parte coerente con quan-
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“Noi tenteremo di mostrare che nel corpo divino non sono di-
verse la natura e l’anima, bensì sono (entrambe) come la pesantezza
per la terra e la leggerezza per il fuoco.”
E, poco oltre:
“Quale altra è la sua natura? L’anima, infatti, è una natura più
perfetta. Ed è ragionevole che, del corpo divino, anche la natura sia
più perfetta.”
È questo che dice anche ora, quando dice che il movimento del cielo se-
condo natura è come quello degli esseri che si muovono in virtù dell’anima. Ed
è chiaro che dice queste cose in accordo con la sua dottrina, secondo la quale l’a-
nima è l’entelechia dei corpi, inseparabile da essi, ritenendo che l’anima sia tale,
quale è anche la natura (ıpo€a t€w §sti ka‹ ≤ fÊsiw).295
sti “dèi”: ≤ går t«n ye«n cuxÆ, efi ka‹ taÊthn de› cuxØn kale›n, ımonÊmvw ín taÊt˙
cuxØ l°goito. Cfr. ad loc. Accattino (1992).
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pio del movimento verso di esso); per quei corpi invece che sono ingenerabili e
perfetti di loro natura e che sono nel luogo che è loro naturale, la natura, cioè il
principio del movimento che è in essi, non contribuisce al mutamento dall’im-
perfezione alla perfezione, né al loro portarsi nel luogo che è loro naturale (sono
infatti perfetti, e non si spostano mai dal luogo che è loro naturale) ma contri-
buisce al loro farsi simili, con l’attività che svolgono nel loro luogo, al migliore
degli esseri, imitando, nel movimento eterno, continuo e regolare, il dover esse-
re sempre in atto di quello, il suo stare immobile, la sua quiete.298
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1. Introduzione
Abbiamo visto nelle Quaestiones I.10 e I.15 ciò che già frammenti dai
commentari perduti suggeriscono, e cioè che Alessandro aveva posto con
rinnovata energia il problema della fisicità e dunque della materialità dei
corpi celesti. Considerandosi le sfere celesti come parte divina del cosmo,
e dandosi d’altronde per stabilita tale loro fisicità e materialità, restava co-
me problema aperto, per Alessandro e per gli aristotelici in generale, qua-
le relazione sussistesse fra di essi e la parte del cosmo soggetta a genera-
zione e corruzione.
L’interrelazione fra mondo celeste e mondo sublunare è un ambito
di ricerca impegnativo e complesso, che Alessandro trova ancora larga-
mente da definire. La sua elaborazione costituisce il maggior contributo
di Alessandro all’ampliamento e alla ridefinizione del sistema fisico nel-
l’ambito dell’aristotelismo di scuola.
Con questo tipo di speculazione Alessandro va a colmare un’insuffi-
cienza che gli osservatori critici dell’aristotelismo avevano efficacemente
messo in rilievo: l’assenza in Aristotele di una vera e propria dottrina del-
la provvidenza; e le carenze di quella dottrina della provvidenza che, ben-
ché assente in quanto tale in Aristotele, aveva potuto essergli tardivamente
attribuita.
Di per sé infatti Aristotele, nei testi dei quali si ha notizia, non par-
la mai di provvidenza divina apertis verbis; e la concezione aristotelica,
dove la si può ricavare come implicita, non è mai abbastanza chiara e
puntualizzata da dare appoggio diretto e inequivocabile a una tale dot-
trina. Né mancano, sempre in Aristotele, indicazioni di segno opposto:
la funzione del primo motore immobile come origine del movimento e
del divenire per l’universo non comporta, di per sé, alcuna componen-
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301 In quel libro, peraltro, Aristotele non qualifica come “dio” il primo motore, cosa che invece fa
in Metafisica XII (1072b 25). Non a caso, nel De providentia Alessandro non sembra fare al-
cun riferimento diretto ai capitoli sul motore immobile di Fisica VIII, che pure tiene ben pre-
senti nel De principiis, quando dimostra l’esistenza del motore immobile (cfr. in part. De prin-
cipiis, §§ 29-44 Genequand con Fisica VIII.5, che vi funge da modello sia nei contenuti che nel
metodo dell’argomentazione).
302 Cfr. Sharples (1982), p. 198-199 e nn. 10 e 11, e le fonti ivi evidenziate: Aetius, Placita, 2.3.4;
Adrasto di Afrodisia ap. Teone di Smirne, Expos. rer. math. 149.14 s. Hiller, che attribuiscono
ad Aristotele una dottrina secondo la quale la buona disposizione del mondo sublunare è so-
lo un effetto accidentale dell’ordine celeste.
303 L’eccezione più nota ed importante è il Timeo di Platone, dove la prÒnoia toË yeoË è rap-
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essa rifletta e sintetizzi una presa di posizione della scuola piuttosto che
una dottrina originale del maestro.
Le testimonianze di quella tesi, nella letteratura filosofica precedente
Alessandro, sono - per l’appunto - relative alla scuola; e cioè, in parte in-
terne alla scuola,304 in parte esterne e critiche nei confronti della scuola.305
Anche nelle opere stesse di Alessandro, non mancano indizi che pos-
sono essere interpretati in questo senso, come una traccia di una teoria
peripatetica pregressa, secondo la quale la provvidenza si limiterebbe al
rapporto fra motore immobile e sfere celesti.306 È una visione molto di-
versa da quella che sarà sostenuta da Alessandro, cui certo dovevano es-
sere note le critiche che una concezione così restrittiva aveva generato.
Tuttavia l’esegeta, piuttosto che contrastarla e contraddirla apertamente,
trova modo di approdare a una dottrina quasi opposta, reinterpretando
quella stessa frase.
Dice infatti nel De providentia:
304 Cfr. per esempio la testimonianza di Aspasio, in Eth. Nic., CAG XIX, 71.25-31 (prima metà
del II sec. d. C.), che chiama “provvidenza” il rapporto secondo il quale i cieli sono mossi, per
necessità e secondo natura al tempo stesso, dal primo motore, che di tale provvidenza è dun-
que - si desume - l’agente.
305 La dottrina aristotelica della divinità - arrivò a dire il medioplatonico Attico (seconda metà II sec.
d. C.) - è equiparabile alla totale assenza di provvidenza che gli epicurei sono accusati di profes-
sare: entrambi infatti sottraggono agli uomini quella “fede nella provvidenza che è il mezzo più
grande ed importante per conseguire la felicità” (Attico, frgm. 3r. 9 s. des Places). Anzi, la dot-
trina aristotelica sembra più empia di quella epicurea: almeno, nota Attico, gli dèi di Epicuro vi-
vono in mondi separati, non vedono ciò che avviene quaggiù; mentre quelli di Aristotele, essen-
do parte di uno stesso cosmo, hanno gli affari umani sotto gli occhi, e tuttavia non se ne curano
(Id., frgm. 3r. 75-89 des Places). Cfr. anche Epitteto, Diss. I.12.2-6; Happ (1968) pp. 79-83.
306 Uno di questi indizi può essere la prima delle due definizioni di “provvedere”, presentata prov-
visoriamente in Quaestio I.25 (41.4-8). Secondo questa, sarebbe oggetto di provvidenza tutto
ciò che da altro trae movimento e mutamento, così che “ogni sostanza corporea, sia eterna, sia
soggetta a generazione e corruzione, sarebbe disposta con provvidenza dalla sostanza prima
ed eterna, immobile e incorporea”: è qui evidente che l’agente di provvidenza è il primo mo-
tore, diversamente che nella soluzione successiva e finale, dove l’agente di provvidenza sono
le sfere celesti (41.8-19 Bruns). Ancora, nel De providentia (p. 158.5-9 Zonta, tr. it. p. 159.4-9)
Alessandro, per argomentare la presenza di una teoria della provvidenza in Aristotele, cita Me-
tafisica XII.7 (1072b 3-4), leggendo il passo secondo la lezione kinoum°nƒ in 1072b 3, e cioè
“(il motore immobile) muove come ciò che è amato, e tramite il mosso (i. e.: il cielo) muove le
altre cose” (cfr. infra, p. 172 n. 388). Come mai - ci si potrebbe chiedere - Alessandro cita que-
sto passo, se poi esclude (sia pure implicitamente) il rapporto tra primo motore e sfere celesti
dall’ambito dell’azione provvidenziale propriamente detta? Una tale citazione sembra sugge-
rire che il riferimento a quest’ultimo passo di Aristotele facesse già parte della tradizione di
scuola prima di Alessandro.
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blunare. Afferma infatti che “a far nascere l’uomo sono l’uomo e il sole”.307 Se-
condo lui, in effetti, il buon ordine delle cose di quaggiù corrisponde nel suo
complesso al buon ordine del movimento dei corpi celesti. Dire che la provvi-
denza è sino alla sfera della luna significa che la provvidenza si trova là. Il sen-
so di questa affermazione è che la provvidenza si trova in quella cosa, dalla qua-
le proviene.308
307 Sulla citazione da Phys. II.2, 194b 13, cfr. infra, p. 171.
308 De prov., 138.14-25, tr. 139.17-29.
309 De prov. 122.3 s., tr. 123.2 s. La provvidenza è infatti una dÊnamiw attiva, cioè un principio di
mutamento che si esercita su di un ente diverso da quello che lo possiede, diverso cioè dal cor-
po celeste, cfr. Arist. Metafisica V. 12. 1019a 15-20 e ad loc. Alex. in Met. 389. 9-18 Hayduck.
310 Cfr. supra, n. 305.
311 Delle Quaestiones sulla provvidenza II.19 e II.3 esistono versioni, o per meglio dire, riadattamenti
-
in lingua araba ad opera della cerchia di al-Kindi , rispettivamente i nn. 33 e 34 nella lista di van
Ess (1966) (correntemente: vE). Tali riadattamenti sono stati esaminati in Fazzo-Wiesner (1993),
dove H. Wiesner ne ha prodotto una traduzione inglese, la prima in lingua moderna.
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[63.12] efi d¢ toËto, oÎte prÚw tÚ e‰nai oÎte prÚw tØn tãjin ∂n ¶xei d°oit’
ín toË pronoÆsantow. éllå mØn pçn tÚ pronooËn μ toË e‰nai <tÚ> pronooÊ-
menon pronoe› μ toË eÔ e‰nai, œn prÚw mhd°teron deÒmenow toË pronoÆson-
tow ı kÒsmow oÈd’ ín pronoo›to ˜lvw.
[63.10] Se il cosmo è eterno per sua natura, e l’essenza del cosmo è di es-
sere in una certa disposizione ordinata,312 anche la disposizione ordinata do-
vrebbe essergli propria per natura.
[63.12] Ma se fosse così, non avrebbe bisogno dell’ente che provvede, né
per esistere, né per essere nella disposizione ordinata in cui si trova. D’altronde
tutto ciò che provvede, provvede o all’esistenza o alla buona disposizione di ciò
cui provvede; e il cosmo, non avendo bisogno dell’ente che provveda per nessu-
na di queste due cose, non sarebbe affatto oggetto di provvidenza.
[63.15] il cosmo nel suo insieme non ha bisogno di un ente che provveda
né alla sua esistenza, né al suo benessere, ma la provvidenza che agisce nel cosmo
si esercita in modo che una parte del cosmo provvede, un’altra invece è oggetto
di provvidenza.314
[63.18] ˜son m¢n går aÈtoË s«ma ég°nhtÒn te ka‹ êfyartÒn §sti, ka‹
ée‹ katå tØn aÍtoË fÊsin te ka‹ cuxØn tetagm°non, ka‹ tØn aÍtoË k€nhsin
kinoÊmenon §f°sei mimÆsevw toË pr≈tou yeoË, toËt’ oÈd¢n de›tai toË pro-
noÆsontow, §n tª ofike€& fÊsei tÆn te katå tÚ e‰nai ka‹ tØn katå tÚ eÔ e‰nai
teleiÒthta ¶xon.
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[63.22] ˜son d¢ aÈtoË genhtÒn te ka‹ fyartÚn ka‹ t∞w par’ êllou
bohye€aw deÒmenon prÒw te tÚ e‰nai ka‹ prÚw tØn diå t∞w eÈtãktou meta-
bol∞w kat’ e‰dow éidiÒthta, toËt’ §st‹ tÚ pronooÊmenon ÍpÚ t∞w toË ye€ou
m°rouw toË kÒsmou kinÆsevw eÈtãktou ka‹ poiçw sx°sevw prÚw aÈtÚ ku-
bern≈menon: ∏w, §f’ ˜son §nd°xetai ynhtÒn ti ˆn, met°xon tãjevw, par’
§ke€nvn aÈt∞w tugxãnon fulãssei di’ aÈt∞w tØn kat’ e‰dow éfyars€an.
[63.18] Infatti quella parte del cosmo che è corpo incorruttibile e non ge-
nerato e si trova sempre in una disposizione ordinata in virtù della propria natu-
ra e anima315 e si muove del proprio moto per desiderio di farsi simile al dio pri-
mo, non ha alcun bisogno dell’ente che provveda, avendo già nella sua natura la
perfezione sia quanto all’essere sia quanto alla buona disposizione.
[63.22] Invece quella parte del cosmo che è generata e corruttibile e che ha
bisogno dell’aiuto di un altro ente sia per esistere sia per conservarsi eterna se-
condo la specie con il mutamento ben ordinato,316 è oggetto di provvidenza in
quanto è governata317 dal movimento ben ordinato della parte divina del cosmo
e dalla qualità della disposizione [che questa assume] nei suoi confronti: [questa
parte del cosmo] si conserva incorruttibile secondo la specie, perché partecipa di
tale disposizione ordinata, ricevendola dagli enti divini, nella misura in cui que-
sto è possibile a un ente mortale.
315 La natura, nei corpi celesti, è lo stesso che l’anima. Cfr. le testimonianze citate da Accattino
(1992).
316 Arist. De gen. et corr. II.10. 336b 31-337a 1: la natura sublunare si mantiene eterna in virtù del-
l’azione ciclica dei corpi celesti, così che alla morte e corruzione si avvicendano sempre la na-
scita e generazione.
317 Sull’uso del verbo kubernãv, cfr. Quaestio I.25, 41.3-4 e qui infra p. 157 n. 329, p. 167.
318 Cfr. Met. XII.7.1072b3-4, citato in De prov. 158.7-9 Zonta.
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[52.11] Come può essere immobile, per Aristotele, il primo motore, se dav-
vero, come egli dice, “tutto ciò che esercita un’operazione esiste in vista dell’o-
perazione, e l’atto del dio è l’immortalità, cioè la vita eterna - sicché è necessario
che a dio appartenga un moto eterno”?
[52.15] Forse quello non rientra fra gli esseri che hanno un effetto, se per ef-
fetto si intende l’attività che è come un fine, mentre quello non ha un fine. Infatti
la sua essenza è atto, ma non qualche cos’altro, e poi atto. Questo è chiaro dalle pa-
role che ha aggiunto: “e poiché il cielo è così, esso dunque è un corpo divino.” 320
Quello, infatti, non è tale.
319 Arist. De caelo, II.3. 286a 8-12: ÜEkastÒn §stin, œn §stin ¶rgon, ßneka toË ¶rgou. YeoË d’
§n°rgeia éyanas€a: toËto d’ §st‹ zvØ é˝diow. Àst’ énãgkh t“ ye“ k€nhsin é˝dion
Ípãrxein. ÉEpe‹ d’ ı oÈranÚw toioËtow, s«ma gãr ti ye›on, diå toËto ¶xei tÚ §gkÊklion
s«ma, ˘ fÊsei kine›tai kÊklƒ ée€.
320 Nella citazione da Aristotele si nota, come sovente in Alessandro, una certa libertà per quan-
to riguarda le particelle e i connettivi sintattici: cfr.52.18-19, s«ma êra ye›on, con De caelo,
loc. cit.: s«ma gãr ti ye›on.
321 Arist. Met. XII.6. 1071b 19 s.: de› êra e‰nai érxØn toiaÊthn ∏w ≤ oÈs€a §n°rgeia. Cfr. su-
pra, p. 98 n. 208.
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322 Analisi in Fazzo-Zonta p. 183. Si parte dalla prima sostanza, cioè dal primo motore, del quale
si illustrano gli attributi sulla scorta di Aristotele, Metafisica XII.6, 7 e 9: è forma immateriale
e separata, atto puro e intelletto in atto (39.9 - 40.9); si passa poi al “corpo divino”, che viene
considerato nella sua relazione con la prima sostanza dalla quale è mosso (40.9 - 23); quindi
nel suo rapporto con i motori che muovono le diverse sfere delle quali è composto (40.23 - 30);
infine nella sua relazione con il mondo sublunare, sul quale esso esercita una funzione prov-
videnziale (40.30 - 41.4, sezione riportata qui infra, p. 157.
323 “Secondo movimento” è qui (41.14) quello dei pianeti sul circolo dell’eclittica. Sopra (40.29),
“secondo movimento” era quello che le sfere planetarie compiono trascinate da quella delle
stelle fisse. La dicitura non ha dunque valore assoluto: si rapporta lì alle sfere e alla loro natu-
ra di anime desideranti, rispetto alla quale è primario il moto sull’eclittica; qui, invece, alla ge-
rarchia dei movimenti nell’ordine cosmico, nella quale il moto del cielo delle stelle fisse è per
natura primario. Intende così anche Bodnár (1997).
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6. La provvidenza come y e € a d Ê n a m i w
324 Per quest’ultima sezione della Quaestio I.25 (41.15-19) cfr. Metafisica XII.6. 1072a 9-18. Il pas-
so non è di facile interpretazione, cfr. ad loc. Berti (2000) 198-200.
325 Cfr. infra, p. 164.
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326 Cfr. Metafisica IX.1. 1046a 9-11; più diffusamente, Metafisica V. 12. 1019a 15-20 e ad loc. Alex.
in Met. 389. 9-18 Hayduck.
327 Cfr. p. 140.14 s. Zonta, tr. 141.15-17.
328 Cfr. Met. XII.7.1072b3-4, citato in De prov. 158.7-9.
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Causa del doppio movimento di questi corpi è la necessità che esista, ol-
tre al corpo eterno e divino, anche un altro corpo, soggetto alla generazione e
alla corruzione, poiché anche questo corpo contribuisce al moto di eterna ri-
voluzione delle sfere; e d’altronde non sarebbe possibile che un tale corpo re-
stasse eterno secondo la specie, se quelle non lo governassero329 con moti va-
riati.330
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il dio portò a perfezione l’universo nell’unico modo che restava, cioè renden-
do continua la generazione. Questo è il modo migliore per tenere unito l’esistente,
perché la generazione perpetua è quanto di più vicino esista alla sostanza. La causa,
come già detto più volte, è il moto circolare, poiché è l’unico che sia continuo.334
come provvidenza né come legge naturale: è sì natura, ma in senso individuale. In questo sen-
so diverso, come costituzione naturale di ogni individuo, la natura è identificata da Alessan-
dro con ciò che correntemente si chiama destino o fato (≤ efimarm°nh): il fato infatti per Ales-
sandro è fondamentalmente una predisposizione costituzionale a un certo genere di vita, la
quale deriva dal temperamento individuale e determina nella maggior parte dei casi il corso
degli eventi. Anche questa predisposizione, anche il fato dunque, deriva in qualche modo dal-
le sfere celesti, e cioè dalla configurazione dei cieli al momento del venire ad essere dell’indi-
viduo, cfr. Fazzo (1988). Fra gli scritti sul fato, come in quelli sulla provvidenza, un trattato
maggiore è affiancato da opuscoli di più breve respiro. Più spinoso e controverso, il problema
del fato si interseca con quello della libertà morale e sconfina per alcuni aspetti nell’etica. Il De
fato è forse l’opera più studiata in tempi recenti, con diverse traduzioni in varie lingue e nu-
merosi articoli, dei quali cfr. la rassegna fino al 1987 in Sharples (1987) e inoltre la traduzione
italiana di Natali e Tetamo a c. di Natali (1996) e quella di C. Magris (1996). Per quanto ri-
guarda la natura inanimata, la parte conclusiva della Quaestio II.3, 49.28 ss., prospetta l’ipo-
tesi che dalla configurazione dei cieli tragga la propria natura la materia stessa dei corpi sem-
plici e composti, che non solo si trasformerebbero (come in Arist. De gen. et corr. II.10. 337a
1-4) ma anche si formerebbero dalla materia per effetto delle configurazioni celesti.
334 De gen. et corr., 336b 31-337a 1. Moto circolare, naturalmente, è quello dei cieli.
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343 L’anima degli astri è omonima ma diversa da quella degli altri viventi, cfr. supra, § II.7.3 p.
144 n. 297.
344 Teofrasto, Metafisica, 5a 14 - 6a 10. L’interrogativo che Teofrasto solleva in 5a 14 ss. (che cosa
le sfere vogliano ottenere, nel loro desiderare) non è più un problema in Alessandro, come si
vede nei testi citati qui supra, n. 341.
345 Le due diciture sono abbinate quasi in coppia sinonimica: t“ geitni«nti aÈt“ ynht“ te ka‹
§n gen°sei s≈mati (47.30 s., dove aÈt“ si riferisce al corpo celeste).
346 Alex. De prov., 146.11-22, tr. 147.11-26; in Meteor. 6.1-3. Sulla continuità fra le parti dell’univer-
so in Aristotele, cfr. per es. Metafisica XII.10. 1075a 17-19 e indirettamente 1075b 37-1076a 1.
347 Alex. in Meteor. 6.3-6. Significativamente, passi dello stesso commento in Meteor. (p. 5.24, 5.27,
6.3-12, 83.5-9, l’ultimo dei quali è riportato due volte) sono stati trovati da S. Kapetanaki nel
MS Paris BN ancien gr. 1865, sotto il titolo di “De providentia” attribuito ad Alessandro. Rin-
grazio R. W. Sharples e S. Kapetanaki per la segnalazione.
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348 Così il testo greco di 339a 22-3: sunexØw otow ta›w ênv fora›w, Àste pçsan aÈtoË tØn
dÊnamin kubernçsyai §ke›yen. Cfr. infra, p. 167.
349 Arist. Meteor. I.2. 339a21-4.
350 Forse Aristotele stesso sentì di doverlo smussare con un pvw. Manoscritti che Alessandro po-
teva ancora leggere (cfr. in Meteor. 5.29-6.1), scrivevano infatti in 339a 22 sunexÆw pvw.
351 Fra le analisi del prologo dei Meteorologica, cfr. Vegetti (1998).
352 Arist. Meteor. I. 338a 25 - 338b 22.
353 Altrimenti, in greco, il senso più corrente di geitn€asiw è quello di vicinanza fra zone geogra-
fiche e gruppi umani limitrofi. Come tale è attestato anche in varie opere di Aristotele e con
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senso del termine nei due autori, rilevando se ci sia qualche differenza. In
Aristotele, la presenza del superlativo (si parla de “il luogo più geitni«n”)
mostra la possibilità di pensare gradi diversi di geitn€asiw. Non si tratta
dunque necessariamente di adiacenza, contatto in senso stretto, ma più
genericamente di prossimità.
Al tempo stesso, proprio perché Aristotele parla del luogo “più geit-
ni«n”, il riferimento esplicito non è a tutto il mondo sublunare, ma solo
alla sua parte più alta. In Alessandro, specificamente nella Quaestio II.3,
si trova anche un uso di questo tipo, riferito alla parte alta dell’atmosfe-
ra, tale da implicare la possibilità di una pluralità di gradi nel rapporto di
geitn€asiw.354
A quest’uso però si affianca, fin dall’apertura della Quaestio, un uso
più forte e distintivo, tale per cui non solo, come si è detto, il corpo “mor-
tale e soggetto al divenire” è qualificato nel suo complesso come “il cor-
po geitni«n” rispetto al corpo divino, ma anzi in tale dicitura si trova qua-
si racchiuso il senso generale, il problema di fondo della Quaestio II.3:
quali sono gli effetti di tale geitn€asiw?
Ecco qui un’altra peculiarità nell’uso del verbo geitniãv e dei suoi
derivati: in nessuna delle occorrenze aristoteliche l’idea di geitn€asiw fra
due corpi sembra comportare di per sé quella di una loro interazione; idea
che invece era ben presente nel passo (citato sopra, a p. 162) di Me-
teor. I.339a 21 ss., dove Aristotele usa sunexÆw. In linea generale, si può
dire che Aristotele usa geitn€asiw (e gli altri derivati dalla stessa radice
del verbo geitniãv) per parlare di contiguità semplice, senza implicazio-
ni causali, o anche di semplice prossimità (infatti non in tutti i contesti
d’uso è necessario che tutto ciò che è in geitn€asiw sia in diretto contat-
to); usa invece sun°xeia e altri derivati dalla stessa radice (che nel lin-
guaggio corrente indica anche la continuità in senso geometrico) quando
sottolinea l’interagire fra le due parti in contatto. A quanto sembra, dun-
que, geitn€asiw per Aristotele non solo non implica, ma nemmeno suffi-
cientemente suggerisce interazione causale
particolare frequenza nella Politica. Non difforme da questo è l’uso di tale radice nei Meteo-
rologica, dove in geitn€asiw sono le diverse zone dell’atmosfera e i venti ed esalazioni che se
ne producono. Il passo ora citato ha l’interesse peculiare di riferirsi specificamente al rappor-
to fra il corpo celeste e quello sublunare.
354 In Quaestio II.3. 48.1 (efi t“ geitni«nti aÈt“ g€netai s≈mati), non è chiaro se tÚ geitni«n
s«ma sia l’intero corpo sublunare o la sola sfera del fuoco, del quale in effetti Alessandro va
a trattare in prima analisi (cfr. 48.5: e‡h te ín oÏtv pr«ton épolaËon tÚ pËr ktl.); in 49.33-
50.1, tÚ geitni«n (sott. s«ma) è sicuramente il fuoco. Sulla sfera superiore del corpo sublu-
nare, come la prima che riceva la dÊnamiw, cfr. anche De prov. 148.3-5 Zonta, tr. 149.4-7.
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9.4. Continuità (sun°xeia) fra le parti del cosmo e dÊnamiw divina nel
De mundo.
È sun°xeia, non geitn€asiw, che troviamo anche nel De mundo (392a
33) dove la tradizione postaristotelica sviluppa ulteriormente, ben prima
che lo faccia Alessandro, l’idea di una continuità fra le parti del cosmo, e
di una loro conseguente interrelazione.
Nel capitolo 6 del De mundo, troviamo peraltro anche il termine dÊ-
namiw, che vi indica il potere attivo, la capacità cioè di agire, di esercita-
re un effetto - senso stesso in cui stabilmente lo userà Alessandro. L’idea
è che il divino con il suo trono sia installato in cielo: il verbo è fldrËsyai
(398a 3), termine che il De mundo a sua volta riprende dal De caelo.355 Da
quella sede, si esercita la dÊnamiw della natura divina sul mondo di quag-
giù:
Così anche la natura divina impartisce la sua dÊnamiw da un movimento
semplice del primo (cielo) su ciò con cui è in continuità (tå sunex∞), e da qui di
nuovo sugli esseri più distanti, fino a penetrare in tutto l’universo.356
355 Cfr. Arist. De caelo I. 9, 278b 14-15: efi≈yamen går tÚ ¶sxaton ka‹ tÚ ênv mãlista kale›n
oÈranÒn, §n ⁄ ka‹ tÚ ye›on pçn fldrËsya€ famen.
356 De mundo, 6. 398b 20-22.
357 Cfr. 398a 11-14: TÚ <går> KambÊsou J°rjou te ka‹ Dare€ou prÒsxhma efiw semnÒthtow
ka‹ Íperox∞w Ïcow megaloprep«w diekekÒsmhto: aÈtÚw m¢n gãr, …w lÒgow, ·druto §n
SoÊsoiw μ ÉEkbatãnoiw, pant‹ éÒratow ktl.
358 De mundo, 6. 398a 7-9. In questo modo, già l’autore del De mundo sembra voler correggere
l’idea, di origine stoica, secondo la quale dio è in tutte le cose: questo non è totalmente errato
- precisa l’anonimo autore - purché lo si dica non riguardo dell’essenza (oÈs€a) del divino, ma
riguardo alla sua dÊnamiw (ibid., 397b 19 s.).
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362 Cfr. per es. Phys. VI.1. 231a 22: sunex∞ m¢n œn tå ¶sxata ßn.
363 Alessandro critica infatti apertamente il concetto stoico di supãyeia. Cfr. De mixt. 12. 227.8 s.
364 Cfr. Alex., De prov. 122.3 s., tr. 123.2 s. e qui supra, p. 150 e n. 309.
365 Cfr. in part. Meteor. I.339a 21-23, 31-32, dove si accostano a distanza ravvicinata due sensi po-
larmente opposti del termine dÊnamiw, come potenzialità passiva, in 339a23, e come potere
attivo, in 339a32.
366 Cfr. De mundo, 6. 398b 20-22, cit. supra, p. 164; Quaestio II.3.50.7-9. L’uso del concetto di dÊ-
namiw nelle opere di Alessandro conservate in greco, in particolare nella Quaestio II.3, cui è
interamente dedicato infra il cap. IV (ma anche in Mantissa XXIII, cfr. ibid. p. 190) conforta
interamente l’autenticità della dottrina della “forza spirituale” che ricorre anche nel trattato
De principiis § 128, come già osserva Sharples (1987) p. 1188.
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9.6. Altri indizi lessicali della presenza dei Meteorologica e del De mundo
367 È diffuso in età ellenistica un uso filosofico della metafora del nocchiere (kubernÆthw), spe-
cialmente in ambito stoico, ma non solo. Per il sec. II d. C. è eloquente un esempio segnalato-
mi da R. W. Sharples, quello di Numenio fr. 18, che paragona a un nocchiere il Demiurgo.
368 Alex. in Meteor. 6.3-9.
369 L’espressione ˜yen går ≤ t∞w kinÆsevw érxØ è ripresa poco oltre, dove si parla di “causa nel
senso del principio del movimento”: tÚ d’ oÏtvw a‡tion ˜yen ≤ t∞w kinÆsevw érxÆ, tØn t«n
ée‹ kinoum°nvn afitiat°on dÊnamin (Meteor. I. 339a 30-2).
370 Fisica II.192b 12-14, pãnta d¢ taËta fa€netai diaf°ronta prÚw tå mØ fÊsei sunest«ta.
toÊtvn m¢n går ßkaston §n •aut“ érxØn ¶xei kinÆsevw ka‹ stãsevw, e passim.
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La riflessione, che informa la Quaestio II.3, su quale sia l’azione della ye€a
dÊnamiw nella formazione dei viventi trova riscontri in Aristotele in un
371 Cfr. Arist. Phys. VIII.255b 30-1: éllå kinÆsevw érxØn ¶xei, oÈ toË kine›n oÈd¢ toË poie›n, él-
lå toË pãsxein, e ad loc. Simpl. e Alex. ap. Simpl. 1218.20-1219.11; supra, pp.141-4.
372 Cfr. ≤ toË ˜lou fÊsiw in Arist. Metafisica XII.10. 1075a 11.
373 Il parallelo è stato evidenziato da Moraux (1967.1), p. 162 s.
374 Cfr. infra, pp. 184-6.
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Ciò che qui importa avere evidenziato, è che l’attenzione con la qua-
le Alessandro lesse ed elaborò i testi di Aristotele e della tradizione ari-
stotelica sopra citati è testimoniata, nelle Quaestiones sulla provviden-
za, non tanto da aperte citazioni, ma da implicite, ancorché precise, trac-
ce lessicali.
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divino, e non ne è separata” (notiamo peraltro che “è connessa” è detto sun∞ptai, non a caso
dalla stessa radice di sunafÆ, che pure si riferisce al rapporto fra mondo sublunare e regione
dei principi in Teofrasto, Metafisica, 4a 9-10). Il preciso peso teorico che come si vede Alessan-
dro accordava a questa frase rende ragione, con tutta probabilità, della sua presenza anche in
chiusura del commento di Averroé, largamente ed espressamente derivato da quello di Ales-
sandro, ora perduto, in Metafisica XII 1072b 30: “il principio di ciò che è generato dal proprio
simile non è solo il suo simile, ma anche il sole, e l’eclittica. È per questo che Aristotele dice che
l’uomo è generato dall’uomo e dal sole” (Averr. in Met. XII, c. t. 40, 1625.8 s. Bouyges).
386 De caelo, I.9.279a 28-30. La citazione si trova in De prov. p. 158.2 s., tr. 159.1-3 Zonta.
387 Cfr. p. es. Quaestio II.3. 47.28, 30, 50.23-4, Quaestio II.19. 63.25, Quaestio I.25. 41.15; cfr. inol-
tre De intellectu = Mantissa 113.8 s.
388 Met. XII.7.1072b 3-4, citato da Alex., De prov., p. 158.7-9 Zonta. Come già osservato da Ru-
land (1976) ad loc., l’espressione “tramite questo mosso” conforta il dativo neutro kinoum°nƒ
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Intende che questo primo motore, senza essere mosso, impartisce movi-
mento al primo oggetto da esso mosso, così come l’amato muove il suo amante
senza che l’amato si muova; a ciò che sta sotto al primo corpo che egli muove,
impartisce movimento per mezzo del primo mosso. Per primo mosso, intende il
corpo celeste; per tutti gli altri mossi, ciò che sta sotto il primo corpo, cioè tutte
le altre sfere e ciò che è soggetto a generazione e corruzione. Infatti il primo cie-
lo è mosso da questo motore per mezzo del desiderio che ha per esso, di farsi si-
mile a lui secondo la sua capacità così come l’amante è mosso ad imitare389 il suo
amato. Gli altri corpi celesti sono mossi dal loro desiderio per il movimento del
primo corpo. È per questo che tutti gli astri390 hanno un doppio movimento: da
est a ovest e da ovest a est. Quanto ai corpi che stanno sotto di essi, cioè sotto le
sfere, (il motore) li muove per mezzo di questi movimenti. Produce generazione
e corruzione per mezzo dei doppi movimenti391 opposti che si trovano in essi e
continuità per mezzo del movimento unico eterno.392
che è la lezione meglio attestata nei manoscritti (E, A, J, T) vs. Bekker (kinoÊmenon), e vs. Ross
(seguito da Tredennick) il quale, emendandolo in kinoÊmena (e intendendo tîlla come sog-
getto) elimina lo specifico riferimento al corpo celeste.
389 Oppure, secondo un manoscritto, “è mosso verso l’amato”, cfr. Genequand (1984) ad loc., che
segue tale lezione.
390 La dicitura lascia perplessi. Ci si attende infatti che si dica che non tutti gli astri, ma solo i set-
te astri erranti hanno doppio movimento.
391 Cfr. diplØ k€nhsiw in Alex. Quaestio I.25. 40.30 - 31, cit. supra, p. 157.
392 Averr. in Met. XII, c. t. 37, 1606.8-1607.2. Il commento di Averroé al testo 37 dipende molto
strettamente da quello di Alessandro, come appare espressamente in 1601-2, 1605 Bouyges
(frammenti Freudenthal nn. 29 e 30).
393 Cfr. Filop. in De gen et corr. 291.19 s.; Quaestio I.25. 40.23-41.4; supra, p. 159.
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Da questo viene la provvidenza di Dio per tutti gli enti. Egli li conosce per
specie, perché non c’è in essi la possibilità di conoscerli per numero. Quanto a
coloro che ritengono che la provvidenza di Dio si estenda su ogni singolo indivi-
duo, la loro opinione in un senso è corretta, in un altro non è corretta. È corret-
ta in quanto nessuno in effetti ha una condizione sua peculiare, che non appar-
tenga a una classe di questa specie. E se è così, in questo senso è corretto dire che
Dio provvede agli individui; ma la provvidenza per un individuo, della quale nes-
sun altro partecipi, è qualcosa che non pertiene alla bontà divina.394
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1. Introduzione395
395 Sulla Quaestio II.3 cfr. anche quanto già osservato qui supra, §§ I.3 e III.9.1; Fazzo (1988) (re-
dazione italiana del “Mémoire” di D.E.A., Paris, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Socia-
les, 1988, rel. H. Wismann, cui si accompagnava una prima riedizione del testo greco), Fazzo-
Wiesner (1993), Fazzo-Zonta (1999) ad loc. Citerò in questo capitolo gli articoli monografici
di Donini (1996), Moraux (1967), Bruns (1890) e la traduzione annotata di Sharples (1992).
Quello di Donini non solo è il saggio più recente sulla Quaestio, ma è l’unico sinora che abbia
posto in modo approfondito e globale il problema dell’interpretazione della Quaestio e delle
sue articolazioni (non solo dunque della sua comprensione letterale, cui prevalentemente era-
no dedicati gli studi di Bruns [1890] e Moraux [1967.1]). L’interpretazione fondamentalmen-
te diversa che qui si propone del testo e delle sue successive soluzioni, in particolare dell’ulti-
ma, è comunque in qualche parte debitrice delle perplessità che da Donini in quell’ambito so-
no state sollevate.
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1.1. Il lessico della Quaestio II.3. Affinità significative con altri scritti di
Alessandro.
La peculiare terminologia adottata merita qualche considerazione.
Nella Quaestio Alessandro chiama “divino” (tÚ ye›on s«ma) il
corpo celeste, cioè l’insieme delle sfere celesti,396 mentre altrove e più
spesso lo chiama “corpo dal moto circolare” (tÚ kukloforhtikÚn
s«ma). Questo non è casuale. Alessandro indaga sugli effetti del cor-
po celeste in quanto esso è “divino” e in quanto la sua stessa dÊnamiw
è “divina”: la causalità che ne deriva sul mondo sublunare si connota
come provvidenziale, identificandosi con l’operato della ye€a
prÒnoia (48.22).
Il corpo sublunare, per contrasto, è detto “corpo soggetto a generazio-
ne e corruzione”, e insieme è detto tÚ geitni«n aÈt“ s«ma, letteralmente:
corpo “adiacente ad esso”, “limitrofo ad esso”, cioè al corpo divino. Ci si ri-
ferisce innanzitutto alla parte alta dell’atmosfera - la sfera del fuoco dei Me-
teorologica di Aristotele - che più direttamente viene condizionata dai feno-
meni celesti; ma per estensione si riferisce all’intero corpo sublunare, sep-
pur in gradi diversi secondo la prossimità (katå tØn geitn€asin, 49.1). Il
termine geitni«n, che Alessandro riprende per l’appunto dall’esordio dei
Meteorologica, implica un riferimento al presupposto di fondo di quel trat-
tato: le due parti del cosmo, essendo limitrofe e confinanti, possano agire
una sull’altra.397 Dunque la nozione di geitn€asiw è importante perché fisi-
camente consente alla dÊnamiw della parte inalterabile del cosmo di eserci-
tarsi sulla parte inferiore e alterabile del cosmo.
Centrale pertanto è il ruolo della dÊnamiw, la cui azione tiene unite
e fa sussistere le due parti.398 Espresso o sottinteso, il termine dÊnamiw è
soggetto logico, e spesso anche grammaticale, di buona parte della Quae-
stio. In tutte queste sue occorrenze, va inteso in senso attivo, come pote-
396 Anche le sfere individualmente intese (otto, secondo Quaestio I.25.40.23-26) sono “corpi di-
vini” (tå ye›a s≈mata); di qui la possibilità di trovare l’espressione sia al singolare che al plu-
rale (tÚ ye›on s«ma, tå ye›a s≈mata). In entrambi i casi il sostantivo può essere sottinteso
(tÚ ye›on, tå ye›a). Sul carattere divino del corpo celeste, cfr. per es. Aristotele, De caelo, I.3.
270b 5-9, Met. XII.8. 1074b 8-10.
397 Cfr. in part. Meteor. 338b 21 e qui supra, p. 162 s. Cfr. anche De prov. 146.16-19 Zonta (tr.
147.17-20): “il corpo materiale soggetto al divenire (…) si altera e muta, perché è in qualche
modo contiguo per natura al corpo celeste: infatti non vi è spazio vuoto tra di essi.”
398 Cfr. supra, p. 155 s. e n. 330 p. 157.
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402 De prov. 146.11-150.3, tr. 147.11-151.3; anche il rapporto fra le facoltà dell’anima, e fra queste e
la costituzione fisica del corpo è descritto in modo molto simile fra Quaestio II.3. 48.15-18, 49.4
ss. e De prov. 154.2-15, tr. 155.4-17.
403 Cfr. De prov., 138.19; supra, p. 171; infra p. 193 n. 432.
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fuori” (De generatione animalium II.3 436b 19, 28). Il concetto di noËw
yÊrayen infatti, proprio per la sua concretezza (letteralmente: “da fuo-
ri della porta”), è evidentemente metaforico e dunque elusivo (tanto è
vero che Alessandro in questi contesti usa ¶jv o ¶jvyen, sia nel De ani-
ma che nella Quaestio II.3). Non è dunque strano che nel De anima
Alessandro non approfondisca in che modo l’anima e le sue facoltà si
“generino dentro” e si aggiungano, né dica di dove vengano, anche se
non solo noËw yÊrayen ma tutte quante le espressioni menzionate
(prosg€nomai, §pig€nomai, gennãv §p€...) evocano una provenienza
da fuori. Un collegamento troppo diretto fra il trattato e la parte cen-
trale della Quaestio potrebbe essere arbitrario. Ma la vicinanza lessica-
le fra i due scritti, l’uso simile che essi fanno dei composti di g€gnomai
per descrivere il sopraggiungere, l’uno della dÊnamiw celeste, l’altro
dell’anima, non può essere casuale, tanto più che come vedremo l’uni-
co vero desideratum di scuola che vincola Alessandro nello svolgimen-
to della Quaestio è l’esigenza di far provenire l’anima e in particolare
l’intelletto dall’azione, in qualche modo esterna o proveniente dall’e-
sterno, della ye€a dÊnamiw.
È altresì da notare che invece nella sezione finale, dove si prospetta
la possibilità di identificare dÊnamiw e fÊsiw, il verbo che ha per sogget-
to la dÊnamiw non è più un verbo composto, bensì il semplice verbo g€gno-
mai nel senso predicativo di “divenire”: la dÊnamiw diviene infatti la na-
tura stessa e la forma dei corpi, perché è causa del loro generarsi e del-
l’essere ciò che sono.
Stando così le cose, diventa particolarmente importante non sempli-
ficare la traduzione dei verbi composti, né alterarla senza far caso ai pre-
fissi, né a fortiori, intervenire sul testo greco senza necessità, manomet-
tendo nel dettato o anche solo nel senso dettagli che l’autore sembra ave-
re così attentamente calibrato.
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409 Potrebbe non essere casuale, se è così, che nella redazione breve della Quaestio II.3, attestata
nel MS Ven. 194, dove non compare la soluzione finale, manchi anche la fine della soluzione
precedente, a partire da 48.29, cfr. supra, “Introduzione”, p. 38 n. 51.
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[47.30] T€w ≤ épÚ t∞w kinÆsevw toË ye€ou s≈matow ginom°nh dÊnamiw
t“ geitni«nti aÈt“ ynht“ te ka‹ §n gen°sei s≈mati;
[47.30] Quale potere si genera dal movimento del corpo divino nel corpo
mortale e soggetto a generazione ad esso adiacente?
[47.31] îrã ge êllh t€w §stin aÏth fÊsiw parå tØn ofike€an •kãstou
t«n fusik«n svmãtvn, ∂n érxØn kinÆse≈w te ka‹ ±rem€aw fam°n, ⁄ Ípãrxei
pr≈tƒ kay’ aÍtÚ ka‹ mØ katå sumbebhkÒw;
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[47.31] Ma è davvero (îrã ge) questa (sc.: la ye€a dÊnamiw) un’altra natu-
ra, diversa dalla natura che è propria a ciascuno dei corpi fisici, che definiamo
“principio del movimento e della quiete per il corpo cui appartiene primaria-
mente, di per sé e non per accidente”?
[48.1] ka‹ går efi t“ geitni«nti aÈt“ g€netai s≈mati, ≥dh ín e‡h toË-
to ¶xon ofike€an fÊsin ˆn te §nerge€& s«ma: pçn går s«ma §nerge€& ¯n μ
t«n a èpl«w b t€ §stin μ §k toÊtvn sÊnyetÒn te ka‹ miktÒn, toÊtvn d¢ ßka-
ston ofike€an ¶xei tinå fÊsin μ ka‹ di’ §ke€nhn §st‹n §nerge€& toioËton.c
[48.1] E infatti se411 [il potere divino] si produce nel corpo adiacente ad es-
so, tale corpo si troverebbe ad avere già una propria natura e di essere corpo in
atto. Infatti ogni corpo esistente in atto412 o è uno dei corpi semplici413 o è com-
posto e misto di essi e ciascuno di questi possiede una propria natura, oppure an-
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2.3. Trasmissione della dÊnamiw per gradi successivi dal fuoco agli altri
corpi semplici (48.5-18, cfr. De mundo, cap. 6)
Di qui, sarà tratta fra breve la prima, provvisoria conclusione: la provvi-
denza divina interverrebbe sui corpi unicamente a posteriori, quando so-
no già formati.
Alessandro fa riferimento innanzitutto ai corpi semplici, e non a caso:
una dottrina importante, dopo Aristotele, era stata formulata proprio a que-
sto riguardo, e con riferimento specifico ai corpi semplici, nel cap. 6 del De
mundo. Tenendo ben presente quel capitolo, continua dunque Alessandro:
[48.5] e‡h d¢ d ín oÏtv pr«ton épolaËon tÚ pËr t∞w toiaÊthw §k toË
verte in questo contesto sui corpi semplici non tanto come tali e cioè non mescolati fra loro, ma
piuttosto come semplicemente corpi, privi cioè di una perfezione superiore, quale è l’anima dei
corpi organici, la quale deriva dalla ye€a dÊnamiw. Quando invece parla più precisamente dei
quattro corpi semplici - fuoco, aria, acqua e terra - in quanto tali e in quanto non mescolati fra
loro, Alessandro si serve della comune espressione tå èplç s≈mata (cfr. 48.15, 49.5, 49.28,
50.16, dove trattasi chiaramente dei quattro corpi semplici). In considerazione di questa sotti-
le ma sensibile differenza fra le due locuzioni, che non sono precisamente equivalenti, sembra
più prudente evitare la correzione di Bruns, che sostituisce una all’altra nel testo tradito. In ogni
caso, si vede in questo che Alessandro tende a trascurare, se si escludono i veloci cenni di 48.16
e 49.3, i corpi composti e inanimati, focalizzando invece l’attenzione sulla differenza fra corpi
semplici e corpi composti organici. È la formazione di questi ultimi, già in Aristotele, a essere
problematica, risultando carente la teoria di Empedocle, cfr. Arist., De gen. et corr. II.7 334a 18-
b2, b23-26, dove gli unici composti menzionati sono carne, midollo, ossa, e in generale le so-
stanze cui è connessa la facoltà nutritiva (cfr. II.8. 335a 9-10): l’opposizione è cioè fra corpi com-
posti organici e corpi semplici, e non vengono presi in considerazione quei corpi, composti da
più corpi semplici, ma inorganici, per es. rocce e metalli, dei quali Aristotele parla nei Meteo-
rologica, cfr. III.6. 378a 21-28, IV.7. 384b 14, IV.10. 388a 13 s. Nota Donini (1996) p. 14 che
anche nel De anima Alessandro manifesta la stessa tendenza ora rilevata nella Quaestio II.3 “a
confrontare direttamente i corpi elementari e semplici con i corpi animati, saltando per così di-
re lo stadio intermedio dei composti inorganici”. Ma il severo giudizio di Donini (1996) su ta-
le negligenza (passim e in part. p. 17) può essere attenuato, se si ammette che Alessandro non
negasse l’esistenza dei composti inorganici, bensì limitasse deliberatamente la sua trattazione ad
“alcuni” dei composti (secondo l’interpretazione qui proposta di tina in 49.3, cfr. infra la no-
ta ad loc.), interessandosi specificamente a quelli dotati di anima
414 48.4-5, cfr. n. (c) ad. loc.: Il testo tradito ha lasciato perplesso l’editore Bruns (1890),(1892),
che espungerebbe l’intero passaggio μ ka‹ di’ §ke€nhn §st‹n §nerge€& toioËton come
glossa posteriore, riferita a 49.28 ss. Interverrebbe sul testo anche Moraux (1967.1), anche
se per espungere il solo μ, considerandolo raddoppiamento del ka€, e riferendo di’ §ke€nhn
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ye€ou dunãmevw, ¶peita to›w met’ aÈtÚ diadidÚn aÈtÆn, …w pãnta tå s≈ma-
ta tª toiaÊt˙ diadÒsei metalambãnein aÈt∞w, tå m¢n ple›on tå d¢ ¶lat-
ton.
[48.5] Il fuoco sarebbe così il primo a trarre vantaggio da tale potere pro-
veniente dal divino, e lo trasmetterebbe poi ai corpi dopo di lui, in modo che
per tale trasmissione tutti i corpi partecipino di questo potere, quali più, qua-
li meno.
Il passo più vicino a questo nel De mundo è nel cap. 6, dove l’autore
parla della dÊnamiw divina e della distribuzione degli elementi sublunari
- fuoco, aria, acqua, terra - in strati successivi intorno al centro dell’uni-
verso: il fuoco, avendo il suo luogo naturale direttamente adiacente al cor-
po celeste, parteciperebbe massimamente del potere divino. Gli altri cor-
pi semplici, l’uno contiguo all’altro, parteciperebbero dello stesso potere
in misura decrescente:
della sua (divina) dÊnamiw trae vantaggio più di tutti il corpo che è più vi-
cino a Dio, e poi quello ad esso successivo, e così di seguito fino alle nostre re-
gioni (mãlista d° pvw aÈtoË t∞w dunãmevw épolaÊei tÚ plhs€on aÈtoË
s«ma, ka‹ ¶peita tÚ met’ §ke›no, ka‹ §fej∞w oÏtvw êxri t«n kay’ ≤mçw
tÒpvn, De mundo, cap. 6, 397b 27-30).415
a ofike€an ... tinå fÊsin. Ma possibile, ed anzi, mi sembra, preferibile lasciare il testo co-
sì com’è: §ke€nhn si riferisce allora a aÏth fÊsiw (47.32) che a sua volta si riferisce alla dÊ-
namiw del corpo divino (47.30). Poiché il riferimento va recuperato all’indietro nel testo,
proprio per questo c’è §ke€nhn e non per esempio taÊthn, come ci si attenderebbe se il
dimostrativo si riferisse a ofike€an ... tinå fÊsin come vuole Moraux (1967.1): cfr. la tra-
duzione qui proposta a p. 184. La sezione finale (49.28 ss.) spiega bene la motivazione di
questa insistenza sull’essere corpo “in atto”: tutta la materia è corpo in potenza, ma diven-
ta corpo in atto in modo differenziato e ci si chiede (qui è il punto della Quaestio) se quel-
la (§ke€nh) dÊnamiw e natura proveniente dagli astri abbia un ruolo o no nel fare del cor-
po ciò che è in atto, e se sì, quale sia questo ruolo.
d 48.5 d¢ Moraux: te V
415 Il parallelo con il De mundo è abbastanza stretto da far supporre una relazione diretta fra i due
testi. È difficile tuttavia escludere la possibilità di un intermediario, o di una fonte comune che
soggiaccia ad entrambi.
416 Moraux (1967.1), p. 162-3. Lo stesso termine si ritrova più tardi in Simplicio, in De caelo 65.15-
16, 20, dove potrebbe derivare dal commento di Alessandro ad loc.
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417 Dal fatto che nel seguito della Quaestio la teoria derivata dal De mundo viene abbandonata (49.28
ss., cfr. infra, §§ 4.1, 5) si nota che il De mundo è trattato da Alessandro come un’opera della scuo-
la aristotelica, la cui dottrina è sì degna di considerazione, ma, diversamente da quella attestata
nelle opere di Aristotele, non è vincolante.
418 Su questo periodo ipotetico misto cfr. supra, n. 411.
419 Tale implicazione è confermata poco oltre dall’autore del De mundo, dove dice (cap. 6. 398b24-
399a1) che anche se tutti i corpi traggono impulso al movimento dalla dÊnamiw, “tuttavia cia-
scuno si muoverà secondo la propria forma.”
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3. L’aporia (48.18-22)
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[48.18] aÏth d’ ¶keito t∞w kat’ aÈtåw diaforçw ¶xein tØn afit€an:
diå går taÊthw t∞w dunãmevw prÒnoia ¶keito logikÚn z“on tÚn ênyrv-
pon poioËsa, ka‹ diå toËto §l°geto pãnta, ˜sa diå tÚn lÒgon te ka‹ tÚn
noËn oÂã te Ípãrxein t“ ényr≈pƒ, taËt’ aÈtÚn ¶xein f parå t∞w ye€aw
prono€aw.
[48.18] Invece, si era posto che questa (dÊnamiw) abbia la causa delle dif-
ferenze delle anime: si era posto infatti che per mezzo di questa dÊnamiw la prov-
videnza faccia dell’uomo un animale razionale. E per questo si diceva che tutte
le cose che possono appartenere all’uomo mediante la ragione e l’intelletto, egli
le ha dalla provvidenza divina.
ne. I punti salienti della teoria sono ricordati nelle righe seguenti (48.18 - 22), introdotte dal-
le voci verbali al passato “si era stabilito” (¶keito) e “si diceva” (§l°geto). Cfr. qui infra la di-
scussione in 48.18.
f 48.21-22 taËt’ aÈtÚn ¶xein Bruns (1890): taÈtÚn ¶xei V taËta ¶xein Braid. Vict.
422 Cito solo pochi esempi - molti altri se ne potrebbero portare - tratti dagli Opera minora: De
anima 16.13, 50.12, Mantissa 103.4, 108.31, 112.20, 152.17, 168.22, Quaestiones I.7. 16.31, De
fato 167.21; con verbi non di dire Mantissa 113.27, 141.30, Quaestiones IV.8. 128.20, De fato
164.13; esempi contrari: Quaest. II.21. 71.1, IV.22. 142.29, Mixt. 228.8, 233.2 (non con verbo
di dire), De fato 166.23 (non con verbo di dire). Soprattutto, parlare di Aristotele al presente
è prassi costante nei commentari e nei contesti di tipo esegetico.
423 Cfr. anche supra, “Introduzione”, p. 30 e n. 34.
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424 Non condividerei tuttavia l’ottimismo di Moraux (1967.2) quanto alla possibilità di identifi-
care il maestro cui Alessandro farebbe qui riferimento. L’intera questione dell’identificazione
in Alessandro di tracce della dottrina di Aristotele di Mitilene merita a mio avviso di essere ri-
presa radicalmente in considerazione. Mi limito per ora a obiettare che la testimonianza di Ci-
rillo d’Alessandria, Contra Julianum (Patrologia Graeca, vol. 76, p. 596a, dove Alessandro è
detto “allievo di Aristotele”: ÉAl°jandrow ı ÉAristot°louw mayhtÆw) non può valere come
prova di un discepolato diretto fra Alessandro e un maestro di nome Aristotele. Non deriva
infatti da una conoscenza storica precisa ma da una vulgata generica, associata a un uso delle
fonti classiche prevalentemente indiretto e di repertorio: cfr. in proposito Fazzo (2000), in part.
p. 415 n. 41.
425 Cfr. Fazzo (1988) 646 n. 23, Fazzo-Wiesner (1993) 125.
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Fra gli esseri generati e costituiti dalla dÊnamiw divina che si ingenera a par-
tire dalla contiguità con il corpo divino nel corpo soggetto a generazione - dÊ-
namiw divina, che chiamiamo anche “natura” - l’uomo è il più nobile.427
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[48.22] mÆpot’ g oÔn xrØ l°gein to›w m¢n èpl«w s≈masi pro#pãrxou-
si tÆnde tØn dÊnamin §gg€nesya€ te ka‹ prosg€nesyai; di’ ∂n afit€an aÈtå
m¢n oÈd°n ti ye›on §n aÍto›w h ¶xei pvw: toioËto går ≤ cuxÆ,<∏w> §stini
êmoira pantãpasin, ˜ti mØ j ¶stin aÈt«n §n tª oÈs€& ≤ toiãde dÊnamiw,
¶jvyen aÈto›w ka‹ pro#pãrxousi prosginom°nh, éll ’ ¶stin èpl«w
s≈mata:
[48.22] Forse dunque bisogna dire che nei corpi che preesistono sempli-
ci questa dÊnamiw si ingenera ed aggiunge in più? Per la qual causa in un cer-
to senso430 essi non hanno in sé nulla di divino (tale infatti sarebbe l’anima, del-
la quale essi sono completamente privi,431 perché tale dÊnamiw, aggiungendo-
si ad essi dall’esterno e quando già esistono, non è nella loro sostanza) bensì so-
no corpi semplici.
429 48.22. La lezione mÆpot’ (per mÆt’ di V, cfr n. (g) ad loc.) riposa su un suggerimento di Vict. e
Braid., accettato anche da Bruns. Su mÆpote cfr. supra, p. 26.
g 48.22 mÆpot’ Vict. Braid: mÆt’ V Bruns
h 48.24 <§n> aÍto›w Spengel: aÈtoÁw V
i 48.25 <∏w> §stin Bruns (1890)
j 48.25 mÆ suspectum
430 48.24. L’avverbio pvw (qui: “in un certo senso”) ha subito tentativi di emendamento da parte
sia di Bruns 1890 (che suggerisce l’interrogativo ka‹ p«w;) sia di Moraux (1967.1) (che sugge-
risce pãntvw). Ma la frase ha senso compiuto anche senza emendamento: nella proposta dot-
trinale che qui Alessandro si accinge a formulare, i corpi semplici in un certo senso non hanno
in sé nulla di divino, ma in un certo altro senso, sì. La dÊnamiw agisce infatti sui corpi semplici
ed è presente in essi; ma assume la funzione di impartire la forma specifica solo in uno stadio
successivo, al momento cioè della formazione dei corpi composti. Il pvw ha dunque piena ra-
gione d’essere. Si noti il peso significativo di pvw anche infra, 49.20 (cfr. n. ad loc.), e in Quae-
stio I.25. 39.27 (dove Alessandro stesso si sofferma sul senso dell’avverbio).
431 48.25, cfr. n. (i) ad. loc.: l’emendamento proposto da Bruns (1890) sulla base di una nota di
Vict. si trova confermato, notiamo, in un parallelo con De mixt. 217.36, dove “ privo di ani-
ma” si dice cux∞w êmoiron.
432 La questione dell’origine dell’anima secondo Alessandro è controversa. Gli studi di Donini
(1971), (1996) e Accattino (1988), (1995) hanno mostrato l’insostenibilità della tesi del giova-
ne Moraux (1942): la tesi cioè che, da una lettura non del tutto approfondita di alcuni passi
tratti soprattutto dal De anima e dalla Quaestio II.3, arrivava ad attribuire ad Alessandro l’in-
sostenibile dottrina che la materia si dia da sé la propria organizzazione e perfezione e con que-
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ste anche l’anima; ne conseguiva, da parte di Moraux, l’accusa rivolta ad Alessandro di mate-
rialismo e di tradimento dell’aristotelismo. Ma anche confutata la linea interpretativa dell’Er-
stlingsarbeit di Moraux (come Moraux stesso chiamava nel [1967] il libro del [1942], quasi a
giustificarvi la presenza di giudizi passibili di revisione), la dottrina di fondo accreditata (più
che argomentativamente sostenuta) nella Quaestio II.3, espressa più ampiamente nel De pro-
videntia (148.9-24, tr. 149.11-28 e passim), continua a suscitare perplessità. Questi testi con-
nettono infatti la presenza dell’anima nei viventi e nell’uomo alla provvidenza, identificata con
la ye€a dÊnamiw; mentre, come sottolinea fra l’altro Donini (1996), il De anima di Alessandro
non accenna affatto a una tale derivazione. D’altronde, è difficile fare valere e silentio questo
argomento contro l’attribuzione di tale dottrina ad Alessandro. Il De anima di Alessandro, co-
me hanno mostrato Accattino e Donini (1996) è strutturato sulla falsariga del De anima ari-
stotelico, e quest’ultimo non tratta affatto dell’origine dell’anima (anche se evoca a più ripre-
se la possibilità di una componente divina nella sua facoltà superiore dell’anima, l’intelletto).
Nulla di strano dunque se il De anima di Alessandro non contiene alcuna dottrina specifica
sulla generazione dell’anima (cosa che emerge anche, vuoi espressamente, vuoi fra le righe, dal-
l’argomentazione con la quale Accattino [1995] contrasta la lettura di Moraux). Si può im-
maginare dunque, sulla scorta delle osservazioni di Accattino (1995) e Accattino-Donini (1996)
che Alessandro abbia deliberatamente lasciato fuori dal De anima, in ragione del carattere re-
lativamente divulgativo del trattato, quegli aspetti e problemi sui quali la scuola non era an-
cora pervenuta ad una dottrina definita. D’altronde sia Alessandro che Aristotele oscillavano
nell’evidenziare o meno una componente celeste nell’origine dell’anima. Basti confrontare la
forma breve e più ricorrente dell’aforisma, ênyrvpow ênyrvpon gennò, che Alessandro cita
come tale nel commento ai Meteorologica (226.23), con la sua forma allargata, che Aristotele
attesta solo in Fisica II.2.194b 13 (ênyrvpow går ênyrvpon gennò ka‹ ¥liow) che Alessan-
dro cita nel De providentia, e citava forse anche nel perduto commento a Metafisica XII, cfr.
supra, cap. III, § 11, p. 171 e nn. 384 s.
433 Cfr. supra, cap. I, § 3 pp. 69-72.
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ma tÚ ple›on ka‹ diå tØn t∞w sustãsevw paxÊthta), diãforon ka‹ aÈtØ
g€netai. ˜sa m¢n går t«n suny°tvn svmãtvn tÚ ple›ston g∞w ¶xei, taËt’
Ùl€ghwl tinÚw koinvne› cuxik∞w dunãmevw t“ ka‹ tÚ tØn ple€sthn mo›ran
t∞w oÈs€aw aÈt«n s«ma ¶latton t∞w ye€aw metalambãneinm dunãmevw:
˜sa d¢ ple›on §n aÍto›w ¶xei t∞w pur≈douw te ka‹ yerm∞w oÈs€aw, taËta
cux∞w teleiot°raw metalambãnein t“ tÚ pleonãzon s«ma §n aÈto›w §p‹
pl°on t∞w ye€aw metalambãnein dunãmevw.
[48.27] Quanto invece ai corpi che si formano da quelli semplici per mi-
stione e temperamento naturale,434 questi è la dÊnamiw divina, che è natura, a
renderli migliori e più perfetti,435 essendo disseminata nella loro formazione, e
anche i corpi semplici stessi portano come contributo alla generazione dei corpi
che di essi si compongono anche la dÊnamiw divina, della quale essi partecipano
secondo la vicinanza.436
[49.1] In virtù di tale potere, questi [composti] non hanno più437 in sé
principio del solo movimento secondo la tendenza naturale, ma438 hanno pre-
so in aggiunta anche un principio psichico, che ha principio e origine dal po-
plici, ha la propria perfezione, la quale è diversa per ogni specie a seconda della forma propria
di ciascuna specie (cfr. infra, 50.19-20). Ne esistono diversi gradi: la perfezione è maggiore ne-
gli organismi composti e più complessi, soprattutto in quelli animati (49.29, 50.19). Cfr. De
gen. anim. II.1. 733b 1, e inoltre 733a 2, IV.1. 763b 21, dove anche Aristotele distingue nelle
specie viventi diversi gradi di perfezione.
436 48.27-49.1. Il passo è stilisticamente faticoso e di ostica interpretazione. La triplice reiterazio-
ne del ka€ avverbiale (“anche”, in 48.27, 48.30, 49.1), che appesantisce il periodo, riflette una
grave difficoltà dell’elaborazione concettuale, che si confronta qui con l’arduo problema del-
la generazione dell’anima nei corpi composti organici. Alessandro cerca una soluzione artico-
lando su diversi piani l’attività della dÊnamiw a questo riguardo: la dÊnamiw divina, dalla qua-
le proviene la superiore perfezione dei corpi animati, è presente sia “disseminata” e attiva nel
processo stesso della generazione, sia per una sorta di trasporto passivo, in quanto ne parteci-
pano i corpi inanimati dai quali si formano i corpi composti. suneisferÒntvn in 48.29 avrà
così valore addizionale rispetto a kataspeirom°nhn in 48.28, come suggerisce la presenza del
ka€ in 48.30 e come d’altronde sembra intenderlo anche Moraux (1967.1) p. 164, e non espli-
cativo, come mostra invece di intenderlo Bruns (1890). Cfr. anche 49.14-18: è la dÊnamiw di-
vina a produrre il composto animato; invece nei composti solo apparenti, formati per mera
giustapposizione (49.25-28), la dÊnamiw è presente solo nel secondo modo, per trasporto pas-
sivo, senza agire ulteriormente al momento della generazione.
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tere divino.
[49.4] Tale natura, che è anima, diviene anch’essa un che di diverso, a seconda
della quantità dei corpi semplici dei quali è composto il corpo che la possiede439 -
corpi semplici dei quali l’uno partecipa maggiormente del potere divino perché è
più vicino al corpo divino, sottile nelle sue parti e più puro, mentre un altro ne par-
437 49.2. Qui come infra, in 49.23, oÈk°ti, letteralmente: “non più”, ha valore logico, non pro-
priamente temporale: i diversi corpi che si formano a partire da quelli semplici sono infatti
considerati, in senso figurato, secondo un ordine solo idealmente cronologico. Sull’uso di par-
ticelle di natura temporale in senso logico, cfr. supra, pp. 70-72.
438 49.3. Sembra trovarsi qui accennata la distinzione fra l’insieme dei corpi composti e alcuni
di essi, s’intende quelli organici, che sono dotati di anima; cfr. supra, p. 183 s. n. 413. Il pas-
so è stato però diversamente interpretato e tradotto da Sharples (1992) e Donini (1996), che
intendono l’indefinito non come un nominativo neutro plurale riferito ai corpi (taËta, sc.:
tå s≈mata in 49.2), ma come un aggettivo indefinito accusativo femminile singolare riferi-
to a un sostantivo sottinteso, lo stesso cui si riferirebbero sia cuxikØn (di qui l’assunzione
che si tratti di un femminile) sia, più oltre, il participio ¶xousan, dal quale a sua volta di-
penderebbero tØn érxØn ka‹ tØn g°nesin. Benché sull’identificazione del sostantivo Shar-
ples e Donini dissentano (Donini sottintende érxÆn nonostante la ripetizione - durissima,
come nota Donini stesso - che giungerebbe subito con tØn érxÆn, che sarebbe complemento
oggetto del participio avente come soggetto érxÆn; Sharples invece opta per k€nhsin) que-
ste due interpretazioni comportano entrambe un intendimento della frase, secondo il quale
comunque non ci sarebbe spazio, nella teoria di Alessandro, per composti inanimati, in quan-
to la differenza fra viventi e non viventi sarebbe che solo in quelli e non in questi c’è un ve-
ro e proprio “temperamento”. Sui problemi teorici che questo comporterebbe cfr. Donini
(1996). Come che si intenda il testo, d’altronde, si nota il disinteresse di Alessandro per i
composti inanimati: l’esegeta sembra persino evitare di chiamarli “corpi”, riservando que-
sta dicitura, oltre che ai corpi semplici, a quei composti che presentano un grado superiore
di perfezione e complessità formale (quale per l’appunto si riscontra nel passaggio dai non-
viventi ai viventi), come osservato supra, pp. 73-75. Tornando ora alla traduzione: secondo
l’interpretazione del passo qui proposta non ci sono sostantivi sottintesi (peraltro, il fatto
stesso che ci sia dissenso nell’identificare il sostantivo mostra a mio avviso che la situazione
non è quella in cui un esegeta come Alessandro possa agevolmente sottintendere un sostan-
tivo), e c’è invece deliberata anastrofe, e precisamente anticipazione dell’aggettivo cuxikÆn
in posizione fortemente rilevata, rispetto al sostantivo tØn érxÆn. Dunque cuxikÆn si rife-
rirebbe sì al sostantivo érxÆn ma senza bisogno di sottintenderlo, bensì avendolo presente
ed espresso nella frase, determinato dall’articolo. Certo, costruito così, il periodo presenta
un mutamento di soggetto fra la prima e la seconda proposizione: il soggetto cambia da taË-
ta (“questi”, cioè i corpi composti in generale) a tina (alcuni di corpi composti), come d’al-
tronde cambia anche il predicato, da ¶xei a prose€lhfe. Più oltre, in chiusura di frase, Ales-
sandro, quasi accorgendosi che il periodo, così suddiviso, lascia nell’ombra la connessione,
centrale e in qualche modo imprescindibile, fra l’érxØ cuxikÆ e la dÊnamiw divina, aggiunge
ka‹ tØn g°nesin ¶xousan épÚ t∞w ye€aw dunãmevw: quell’érxÆ è psichica e ha la (sua) ori-
gine dalla provvidenza divina. Con questa aggiunta, il senso della disquisizione nel quadro
nell’opuscolo si fa più chiaro, anche a costo di aggiungere un elemento di asimmetria nel
corpo del periodo - i due attributi di érxÆ congiunti dal ka€ non si costruiscono infatti in
parallelo, bensì uno, cuxikÆn, è un semplice aggettivo, anticipato dall’anastrofe in posizio-
ne di forte rilievo, l’altro, tØn g°nesin ¶xousan épÚ t∞w ye€aw dunãmevw, un intero co-
strutto participiale. Quanto considerato sinora vale, naturalmente, solo nel caso che il testo
non soffra, qui come già riscontrato altrove, di lacune o guasti di conservazione - ipotesi che
non solo è impossibile da scartare, ma, tutto sommato, non è nemmeno del tutto improba-
bile. Se tuttavia il testo è correttamente conservato, gli scarti sinora rilevati, e in particolare
quella sorta di anacoluto fra le due parti del periodo, non costituiscono a mio avviso un osta-
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tecipa meno perché la sua distanza è maggiore e la sua costituzione è densa. Quan-
ti infatti fra i corpi composti hanno una prevalenza di terra partecipano di una fa-
coltà psichica limitata,440 poiché anche il corpo che costituisce la massima parte del-
la loro sostanza partecipa meno del potere divino; quanti invece hanno una com-
ponente maggiore di sostanza focosa e calda partecipano dell’anima più compiuta,
perché il corpo in essi prevalente partecipa maggiormente del potere divino.
Così la ye€a dÊnamiw, senza contribuire alla formazione dei corpi sem-
plici, ma aggiungendosi loro dall’esterno, quando sono già formati, agireb-
be al momento della formazione dei composti, al modo dell’artigiano. In-
vero, il termine t°xnh, forse non a caso, non compare (si può vedere anche
nel commento alla Metafisica, 104.3-10, che per Alessandro il paragone fra
arte e natura va trattato con precauzione) ma il tipo di rappresentazione che
qui Alessandro propone è vistosamente derivato dall’analogia con le arti,
come si vede dall’uso del concetto di materia in 49.15-18. Ivi infatti si leg-
ge che la ye€a dÊnamiw “si servirebbe dei semplici corpi naturali come di
una materia per generare corpi più compiuti”.441
Di questi ultimi corpi pertanto la ye€a dÊnamiw costituirebbe la na-
tura, agendo come natura “seconda”, ulteriore rispetto a quella primaria
ed elementare:
colo grave per l’interpretazione qui proposta. Simili scarti sono infatti tutt’altro che rari e
inaspettati in Alessandro. In questo caso, d’altronde, per il passaggio da una costruzione al-
l’altra si potrebbe anche immaginare una ragione d’esistere. Una volta di più, Alessandro sta
evitando di affrontare da vicino il problema dell’origine dell’anima. Non ne parla negli altri
suoi scritti; la ascrive qui (probabilmente sulla scorta, come ho inteso argomentare, della
scuola) alla dÊnamiw divina. Ma non fa interamente proprio tale terreno di speculazione, ed
elude la questione, che qui si potrebbe sollevare, di perché alcuni dei corpi composti siano
animati, e di perché lo siano solo alcuni. Persino l’innalzamento del registro stilistico, qua-
le deriva dal ricorso all’anastrofe, potrebbe essere un mezzo, più o meno consapevole, per
sviare l’attenzione da questo problema (e questo potrebbe suggerire, almeno indirettamen-
te, che non è senza imbarazzo che Alessandro attesta e difende la dottrina, costituitasi nella
tradizione che l’aveva preceduto, di una connessione diretta fra l’intelletto umano e quella
dÊnamiw).
439 49.4-9. La costruzione del passo è faticosa, trovandosi soggetto (“tale natura, che è anima”) e
predicato (“diviene anch’essa un che di diverso”) separati da un lungo inciso, che l’editore
Bruns mette fra parentesi, evidentemente per agevolare la lettura.
440 49.10. Nella tradizione manoscritta e nell’edizione di Bruns, il passo è corrotto. Dobbiamo un
emendamento brillante e risolutivo, cfr. cfr. n. (l) ad. loc., ad Apelt (1894), p. 70. Da un punto
di vista paleografico, la genesi dell’errore si spiega facilmente, secondo quanto nota Apelt, co-
me svista di lettura da TAUTOLIGHS a TAUTON GHS. Stranamente, Moraux (1967.1) p. 165
propone lo stesso emendamento e la stessa spiegazione della genesi dell’errore, senza però se-
gnalare che già Apelt lo aveva fatto prima di lui.
441 Si intende che “il ricevere una qualche forma fungendo da materia equivale a divenire diret-
tamente materia dell’affezione”, come dice lo stesso Alessandro in De anima 83.23-84.1, tr. Ac-
cattino-Donini (1996). Sul paragone fra arte e natura secondo Alessandro in Metafisica p.
104.3-10, cfr. supra, p. 177 n. 401.
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posti il potere divino non contribuisce, restando in ciascuno di essi quale era pri-
ma della loro reciproca composizione.447
in più, rispetto ai corpi semplici. A questi ultimi, una qualche partecipazione intrinseca al di-
vino è comunque attribuita nella sezione finale, 49.28 ss., mentre secondo l’ipotesi di 48.22-27
essi riceverebbero la dÊnamiw divina solo in modo esteriore.
445 49.23. “Non sono più”: per l’uso di oÈk°ti in senso logico e non propriamente temporale, cfr.
la differenza fra composti reali (prodotti per krçsiw, temperamento dei componenti) e
composti apparenti (prodotti per mera giustapposizione, parãyesiw), dall’altra, polemi-
camente, alla teoria stoica della mistione totale. Alessandro infatti descrive qui la mistione
apparente, che si produce per semplice giustapposizione, in termini molto simili a quelli
nei quali altrove riferisce ciò che Crisippo aveva sostenuto riguardo al vero e proprio tem-
peramento, cfr. Alex. De mixt. 213.2 s., 5 s. (dove anche la struttura del periodare è forte-
mente parallela a queste righe della Quaestio II.3): come a dire che Crisippo non aveva di-
stinto debitamente temperamento e giustapposizione. Inoltre, Alessandro propone qui che
i due tipi di composti, reali e apparenti, si differenzino per il fatto che solo nel vero e pro-
prio temperamento la dÊnamiw divina interverrebbe e contribuirebbe alla composizione.
In particolare, tale intervento spiegherebbe la presenza in alcuni corpi di una facoltà su-
periore, quale l’anima dei corpi organici.
447 49.28-29, cfr. nn. (o) e (p) ad. loc.: la cesura forte fra 49.27 e 49.28, che nel testo stampato da
Bruns divide il testo della Quaestio II.3 in due sezioni, è voluta dall’editore (cfr. anche id. in
Bruns (1890), p. 143), sulla scorta di due codices descripti, G e F. Il testo che risulta da tale di-
visione non è sostenibile, nemmeno dopo l’intervento proposto dallo stesso Bruns, che espun-
ge ka‹ t∞w in 49.28, e connette così t∞w prÚw êllhla (49.28) a gen°sevw (49.29). Per questo
Moraux (1967.1) p. 166 s., respingendo l’emendamento di Bruns e mantenendo tuttavia la ce-
sura, propone invece un’inserzione di diaforçw dopo prÚw êllhla. Ma nessuna congettura
è necessaria, se si prescinde dalla artificiosa cesura di Bruns. In 49.28, dove Bruns legge la di-
sgiunzione μ, l’archetipo V porta ∑w, con un punto sotto w, aggiunto dal revisore. Sovente in-
fatti il più antico revisore (quello che Bruns chiama “v. c.”, vetus corrector) ha apposto punti so-
pra o sotto singole lettere o sillabe, non solo per suggerire espunzione ma anche per segnalare
dubbi e perplessità (cfr. Bruns [1892] p. XVI). A ragione, gli emendatori cinquecenteschi (Braid.
e Vict.) suggeriscono di leggere ∑n (“era”), il che si accorda peraltro con l’accento di V, del qua-
le Bruns comprensibilmente si stupiva. Così il testo è leggibilissimo purché, rispetto all’edizio-
ne di Bruns, si sposti il punto fermo, e con esso la fine del periodo precedente, a dopo prÚw êl-
lhla. La frase iniziata in 49.25 dirà che, secondo la prima lÊsiw proposta, il potere divino pre-
sente nella generazione dei corpi composti non contribuisce alla loro oÈs€a, ma “resta ciò che
era prima della loro composizione gli uni con gli altri”. Quanto alla frase successiva, questa si
legge senza problemi (nonostante l’asindeto, che G, F e Bruns intendevano presumibilmente
evitare, ma che per Alessandro è regolarissimo in siffatto contesto: lo si trova in tutti i luoghi
paralleli citati per questo passo a p. 26), purché non si tenga conto dell’emendamento di Bruns
in 49.28 (né, evidentemente, di quello di Moraux [1967.1] ad loc.).
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448 Possono essere significative in tale senso le differenze fra questa parte della Quaestio e la cor-
rispondente sezione della versione breve della Quaestio II.3 conservate nel MS Ven. Marc. 194,
cfr. supra, p. 38 n. 51.
449 Alessandro sembra qui avere in mente la dottrina di Aristotele De generatione animalium, cfr.
supra, Cap. III, § 10 p. 169 s.
450 Cfr. Alex. De anima, 2.16-18, 23-4.
451 Il passo in questione, 49.1-5, in part. 49.3, è di interpretazione difficile e controversa, cfr. su-
pra la nota 438 ad loc. In ogni caso, è evidente che Alessandro non si sofferma qui su di una
differenza fra composti animati e composti inanimati. Distingue infatti fra composti appa-
renti (nei quali i componenti sono solo giustapposti) e composti reali (nei quali c’è stata una
vera crasi), e considera senz’altro questi ultimi come passibili di un qualche livello di ani-
mazione.
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Così Alessandro, senza dire nulla di esplicito sul valore di questa teo-
ria,456 propone però nella sezione finale, introdotta da dÊnata€ tiw
l°gein ka€ (49.28 ss.) e condotta interamente all’indicativo, un passo
più in là: estende ulteriormente la presenza della dÊnamiw nella forma-
zione dei corpi, fino a farle dare conto della formazione dei corpi natu-
452 Spunti in questa direzione possono tuttavia essere i cenni aristotelici all’origine non corporea
dell’intelletto, cfr. supra, cap. III, § 10 p. 169.
453 Cfr. infra, p. 209 n. 484.
454 Moraux (1942), p. 36 s. L’osservazione, mi sembra, è corretta, purché non venga estesa come
principio generale a tutte le discussioni di Alessandro a soluzioni multiple, cfr. supra, “Intro-
duzione”, p. 25 s., n. 26.
455 Sulle differenze fra il testo qui adottato in 49.28 ripristinandolo fondamentalmente dai mano-
scritti, rispetto sia all’edizione di Bruns sia alla proposta di emendamento di Moraux, cfr. su-
pra, p. 198 n. 447 ad loc.
456 Sul rapporto fra la soluzione qui discussa dell’aporia, e la possibilità finale, cfr. infra, § 6, p. 208 s.
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[49.28] dÊnata€ tiw l°gein ka‹ t∞wq t«n èpl«n svmãtvn gen°sevw tØn
épÚ t«n ye€vn dÊnamin afit€an e‰nai aÈtØn ginom°nhn aÈt«n e‰dÒw te ka‹
fÊsin.
[49.30] ≤ går Ïlh katår tÚn •aut∞w lÒgon êpoiÒw te oÔsa ka‹ ésxhmã-
tistow ÍpÚ t∞w épÚ t«ns ye€vn svmãtvn dunãmevw ginom°nhw §n aÈtª §ner-
ge€&t s«ma ¶sti te ka‹ g€netai, efidopoie›ta€ te ka‹ sxhmat€zetai: …w tÚ m¢n
prÚw t“ ye€ƒ s≈mati aÈt∞w, ka‹ geitni«n §ke€nƒ, ple€onow t∞w ye€aw meta-
lambãnon dunãmevw, efidopoie›syai yermÒthti ka‹ jhrÒthti (taËta går tå
pr«ta t«n ép’ §ke€nvn §n to›w ynhto›w pãyh):
[50.3] tÚ d¢ ple›on éfestÚw t«n taÊthw t∞w metabol∞w te
ka‹ gen°sevw afit€vn aÈtª ye€vn svmãtvn, μ pãnt˙ to›w toÊtvn
§nant€oiw u efidopoie›syai, μ tÚ m°n ti toÊtvn, tÚ d° ti t«n toÊtvn v
§nant€vn e‰dÒw te ka‹ pãyow lambãnein katå tØn §ke€nvn êllote él-
lo€an prÚw tå tªde sx°sin, diå tØn §p‹ toË toioÊtou k€nhsin kÊklou
diafÒrvw efidopoioÊmenon.
[50.7] toiaÊth går ≤ toË zƒdiakoË diãyesiw, §f’ o kinoÊmena ¥liÒw
te ka‹ selÆnh ka‹ tå êlla tå plançsyai t«n ést°rvn legÒmena t“ m°n
tini t∞w Ïlhw m°rei, ⁄ mçllon μ ka‹ §ggut°rv prÒseisin •kãstƒ,
yermÒthtÒw te ka‹ jhrÒthtow a‡tia g€netai, §n oÂw tÚ e‰nai t“ pur€: t“ d¢
yermÒthtÒw te ka‹ ÍgrÒthtow, ¥tiw fÊsiw é°row: t“ d’ ÍgrÒthtÒw te ka‹
cuxrÒthtow, ¥ §stin Ïdatow fÊsiw: t“ d¢ t∞w ¶ti kataleipom°nhw §k t«n
202
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[49.28] Si può dire che la dÊnamiw che si genera dai corpi divini è causa
anche della generazione dei corpi semplici, divenendone esso stesso forma e
natura.457
[49.30] La materia, infatti, che per sua definizione è priva di qualità e di
configurazione, è e diviene corpo in atto, prende forma e figura per effetto del
potere generato in essa dai corpi divini. Cosicché quella parte di essa (che è) vi-
cina al corpo divino e adiacente ad esso, partecipando di maggior dÊnamiw divi-
na prende forma dal caldo e dal secco (queste infatti sono le prime affezioni che
derivano da quei corpi nei corpi mortali);458
[50.3] invece, la parte di materia più distante dai corpi divini, che per essa
sono causa459 di questa trasformazione e generazione, o prende forma in tutto
dalle affezioni contrarie a queste [prime],460 o prende forma e affezione ora da
queste, ora da quelle ad esse contrarie461 secondo il rapporto di volta in volta di-
203
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462 50.6. L’espressione êllote éllo€an prÚw tå tªde sx°siw descrive il mutare della configu-
razione degli astri. Si ripete quasi formulare anche in Alex. De mixt. 223.12-13 e 225.32-33.
Per un’espressione aristotelica non dissimile, in analogo contesto, cfr. Phys. VIII.6.260a 7: diå
tÚ êllvw ka‹ êllvw ¶xein prÚw tå prãgmata; e per un analogo concetto, ma diversamen-
te espresso, Arist. De gen. et corr. 336a 31-b19; Met. XII.6. 1072a 10-12.
463 Per l’uso di toioËtow (“tale”, 50.7) in riferimento a quel tipo particolare di obliquità che è pro-
pria al circolo dell’eclittica, cfr. subito dopo toiaÊth (ibid.), e anche Quaestio I.25. 40.29 t“
tØn y°sin te ka‹ tãjin toiaÊthn ¶xein. Si noterà che la tematica è già aristotelica (De gen.
et corr. 336a 31-b 19), salvo che Aristotele pone l’obliquità del circolo solo come causa del-
l’alternanza di generazione e corruzione nei viventi, mentre Alessandro estende lo stesso prin-
cipio, articolandolo maggiormente, a causa della varietà delle forme (e‡dh) nei corpi semplici
e inorganici.
464 Letteralmente: “il sole, la luna e gli altri astri che sono detti vagare” (tå plançsyai t«n
ést°rvn legÒmena, 50.9). La lingua greca chiama “vaganti”, “erranti” tutti gli altri astri che
si muovono sull’eclittica, cioè il sole, la luna e i cinque pianeti fino ad allora noti (che chia-
miamo ancora pianeti dalla radice del verbo planãomai, “errare, vagare”). Ma l’astronomia,
almeno da Platone in poi, muove dal presupposto che l’irregolarità del loro moto, nella qua-
le consisterebbe il loro “vagare”, sia puramente apparente (cfr. Simpl. in De caelo 488.18 - 24).
Per questo Alessandro non chiama tali astri semplicemente “vaganti”, “erranti”, nonostante
l’uso invalso, bensì, più precisamente, “astri che sono detti vagare”.
465 50.9 - 11. La costruzione, se il testo greco è correttamente conservato, comporta una specie di
anacoluto: a una determinazione particolare della singola parte di materia si aggiunge una sor-
ta di generalizzazione. Letteralmente: “per una certa parte di materia, per ognuna cui mag-
giormente si avvicinino, divengono causa” etc. Rispetto all’edizione di Bruns, la virgola che
precedeva •kãstƒ è stata spostata dopo tale pronome.
466 50.14, cfr. n. (x): il testo tradito è insoddisfacente e richiede un’integrazione: manca la parola
che indichi abbinamento, combinazione, così che la costruzione della frase resta claudicante.
Tale abbinamento è detto sÊzeujiw da Aristotele (De gen. et corr. II.3. 330a31 - 34) e suzug€a
da Alessandro in Mantissa 127.14 s. In quest’ultimo passo, l’esegeta spiega perché l’aria sia
calda, procede per esclusione, e dice che “poiché le combinazioni di caldo, freddo, secco e
umido sono quattro, e tre danno forma agli altri elementi, è ragionevole che l’abbinamento re-
stante [≤ kataleipom°nh suzug€a, sc. umido e caldo] dia forma all’aria” (cfr. supra, p. 77 s.).
Questa espressione, ≤ kataleipom°nh suzug€a, detta a proposito delle combinazioni possi-
bili delle contrarietà tangibili, presenta un parallelismo quasi formulare con quello qui in esa-
me della Quaestio II.3, così da suggerire che anche in questo la dÊnamiw sia detta causa t∞w
¶ti kataleipom°nhw §k t«n èpl«n t«n pr≈tvn dÊo §nanti≈sevn <suzug€aw>, ¥per §st‹
cuxrÒthw te ka‹ jhrÒthw, ktl.
467 Alessandro annovera due - e non quattro - contrarietà prime, intendendo che ciascuna sia co-
stituita a sua volta di due contrari, uno appartenente alla coppia caldo e freddo, l’altro appar-
tenente alla coppia secco e umido Cfr. supra, p. 78 s. n. 150.
468 50.13, cfr. n. (w) ad. loc.: il testo tradito parla di “contrarietà semplici”, èpla› §nanti≈seiw:
un’espressione poco significativa e anzi tautologica (visto che tutte le contrarietà, di per sé, so-
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cioè di freddo e secco, che costituiscono la natura della terra. E tali sono le for-
me provenienti dal potere divino nella materia, forme semplici e prime che di-
vengono causa della sostanza e della natura dei corpi semplici.
[50.17] I corpi invece che si formano dal mescolamento e temperamento di
questi [corpi semplici] in quanto partecipano di più poteri e di corpi differenti
sono ormai corpi composti e più compiuti e la loro perfezione, che è forma,469
diventa diversa a seconda della differenza della quale si è detto in precedenza fra
i corpi presenti nei composti per mescolamento.470
[50.21] Alcuni di questi composti sono infatti più sottili e attivi: tali sono
quelli che stanno più vicini al movimento dei corpi divini; altri invece sono più
densi e più passivi, quelli cioè che sono più distanti dal movimento di quei corpi.
[50.24] Quanti infatti dei composti per mescolamento e temperamento
hanno maggior quantità dei corpi più sottili e più puri, hanno una forma più
perfetta, mentre quelli che hanno in sé una quantità minore di tale corpo, e in-
vece una prevalenza di quello passivo e più denso, hanno anche una forma me-
no compiuta.
no semplici), entrata probabilmente nella tradizione manoscritta come lectio facilior rispetto
alla precisa e caratteristica espressione aristotelica e alessandrista “contrarietà tangibili” èp-
ta‹ §nanti≈seiw (cfr. Arist. De gen. et corr. II.2 329b 11; Alex. De anima 40.24, 58.27; qui su-
pra, pp. 79-81).
469 50.19. Come in quasi tutte le precedenti coppie sinonimiche incontrate in questo testo (cfr. su-
pra, n. 420 p. 187 in 48.8), anche qui i due termini sono connessi da te ka€, nella tradizione
manoscritta. Di qui l’inopportunità dell’intervento di Bruns, cfr. n. (y) ad. loc.
470 Lascia perplessi nel testo greco la presenza del te in 50.20: ci si aspetterebbe il ka€ corrispon-
dente dopo diaforãn. È possibile che tutto ciò che segue, da 50.21 alla fine, sia un inciso, da
pensare come fra parentesi? In tal caso dovremmo presumere che il testo originale non termi-
nasse qui ma continuasse, e che ciò che è in nostro possesso ne costituisca solo una parte.
471 Si parla di materia prima, che in realtà non esiste mai di per sé - di qui l’assoluta idealità del feno-
meno di generazione. In realtà, la formazione è sempre trasformazione: un certo corpo semplice,
sotto l’azione della dÊnamiw, si muta in un altro, abbandonando la sua forma precedente.
472 Vediamo così che e‰dow per Alessandro non è solo la forma compiuta dell’oÈs€a, ma è anche
il più semplice elemento di determinazione che tolga alla materia il suo essere assolutamente
indeterminata. Cfr. supra, cap. I, § 4, in part. p. 78.
473 Fa autorità, in questo, presumibilmente, l’affermazione dei Meteorologica, secondo la quale la
parte del mondo sublunare che è più direttamente a contatto col corpo divino, è la sfera del
fuoco. Più precisamente, anzi, Aristotele dice “una specie di fuoco” (oÂon pËr, Meteor. I.3.
340b 32) o “ciò che per abitudine chiamiamo fuoco, ma non è fuoco” (˘ diå sunÆyeian ka-
loËmen pËr, oÈk ¶sti d¢ pËr, ibid. 340b 22); ma nei contesti qui in esame Alessandro parla
di fuoco tout-court. Poiché d’altronde in un passo di poco precedente (339a 21-24, cfr. su-
pra, cap. III, p. 162) Aristotele dice che la materia di quaggiù è governata dalle rivoluzioni ce-
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infatti sono le prime affezioni che derivano da quei corpi nei corpi mor-
tali”.474 Inoltre, secondo il principio aristotelico per il quale “dei con-
trari sono causa i contrari”475, la stessa dÊnamiw produce, nella parte di
materia più lontana, le “forme” opposte, cioè freddo e umido. Nelle par-
ti intermedie produce freddo e secco, o caldo e umido. I corpi sempli-
ci si formano dall’abbinamento a due a due di queste “forme” semplici
o contrarietà tangibili che la ye€a dÊnamiw provoca nella materia.
Come si vede, la formulazione di tale teoria, assente di per sé in
Aristotele, si inserisce tuttavia, per quanto possibile, nelle griglie teo-
riche della fisica aristotelica. Nel descrivere la formazione dei corpi
semplici, Alessandro prende infatti a fondamento, sulla scorta di Ari-
stotele, le prime “contrarietà tangibili”, e cioè le due coppie di affe-
zioni (pãyh) contrarie: caldo e freddo, secco e umido (cfr. De gen. et
corr. II.2-3). Innestando tale embrionale alchimia degli elementi sulla
cosmologia, dei Meteorologica, che pone la sfera del fuoco al limite su-
periore del mondo sublunare, direttamente in contatto con il corpo ce-
leste, Alessandro può dire che caldo e secco, che caratterizzano il fuo-
co, “sono le prime affezioni che derivano ai corpi mortali” dalla dÊ-
namiw dei corpi celesti.476
E poiché “dei contrari sono causa i contrari”477, quella stessa dÊ-
namiw, nelle parti più lontane, produrrà - dice Alessandro - o le affezioni
opposte, freddo e umido, e allora darà luogo all’acqua; o caldo e umi-
do, che costituiscono la forma e natura dell’aria; o freddo e secco, che
sono forma e natura della terra.478
lesti, Alessandro sembra radunare le due indicazioni, istituendo fra questo governo e la pre-
senza del fuoco nella sfera superiore un rapporto come fra causa e effetto.
474 Quaestio II.3. 50.2-3.
475 Cfr. per esempio, proprio in questo tipo di contesto, De gen. et corr. II.10. 336b 9; inoltre Me-
teor. IV.6. 383b 16 s.; Phys. II.3. 195a 11-14.
476 Quaestio II.3. 50. 2-3.
477 Cfr. n. 475. Nella Quaestio II.3 il principio viene evocato implicitamente, cfr. 50.9-15.
478 Quaestio II.3. 50.9-12. L’argomentazione è strutturata sulla falsariga di De gen. et corr. II.10,
dove Aristotele dice, non però degli astri in generale, ma del sole in particolare, che “se, avvi-
cinandosi ed essendo vicino, è causa di generazione, allontanandosi ed essendo lontano è cau-
sa di corruzione: dei contrari infatti sono causa i contrari”. Che tale teoria si presti a fare da
tramite fra un certo tipo di speculazioni astrologiche, che vi trovano implicito fondamento, e
la scienza degli elementi, non era sfuggito a Duhem (1914), p. 344-359. Lo conferma l’impor-
tanza che essa riveste per l’alchimia di Ja– bir, nel cui corpus la teoria alessandrista degli elementi,
quale si trovava espressa nell’ora perduto commento di Alessandro in De gen. et corr., capp.
II.2-5, ha ruolo di base teorica, cfr. Kraus (1942), p. 322-323. L’ipotesi di Kraus, che Ja–bir uti-
lizzi Alessandro, è risultata corretta alla luce dell’esame comparato fra le testimonianze super-
stiti in greco, in part. ap. Filopono in De gen. et corr., e il MS Paris 5099, che conserva l’opera
–
Kita– b al-Tasrif di Ja– bir , cfr. Gannagé (1998) e Fazzo (1999.1), (2002).
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479 Ibid. 49.28 ss., cfr. De prov. 148.9-24, tr. 149.11 - 28 e passim.
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480 Cfr. supra, “Introduzione”, p. 26 e i luoghi ivi citati. In questi si verifica che, non ponendosi in
antitesi alla soluzione precedente, dÊnata€ tiw non è preceduto dalla disgiunzione (come in-
vece sarebbe secondo l’edizione di Bruns in 49.28) ed è sovente seguito da ka€ avverbiale (cfr.
in Met. 141.21-2, 171.14, 375.9, in An. Pr. 392.32).
481 Donini (1996) p. 18.
482 Donini (1996), ibid.
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483 Questo è valido a maggior ragione per gli incisi e brevi excursus di carattere esplicativo, intro-
dotti da gãr, presenti nella Quaestio, che sono regolarmente, secondo l’uso di Alessandro, al-
l’indicativo (48.2-4, 48.9-11, 48.24-25, 49.9-14, 49.25-27), cfr. anche supra p. 186.
484 Donini (1996) pp. 25-6 e nn. 27-29 in Galeno De usu partium, II.446.12-13, 447.8, 12 Helm-
reich. A differenza di Alessandro nella Quaestio, Galeno parla solo dell’intelletto. Così d’al-
tronde, almeno esplicitamente, anche Alessandro in De providentia 160.23 ss., tr. 161.26 ss.
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evitato ogni riferimento al divino - così onnipresente per gli stoici - e alla
sua dÊnamiw. Lo scopo, evidentemente, è di accentuare la sua distanza
dalle tesi degli avversari. Se ne vede bene la ragione, da come usa il ter-
mine dÊnamiw nell’esposizione della dottrina degli avversari:
Riguardo ai corpi che si generano per natura, dicono che è la dÊnamiw nel-
la materia a dare loro forma e a generarli (§p‹ d¢ t«n ginom°nvn fÊsei §n tª
Ïl˙ e‰nai tØn dÊnamin tØn morfoËsãn te ka‹ genn«san aÈtã). Tuttavia ve-
diamo che questo non si accorda con ciò che avviene.487
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Considerazioni conclusive
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Berti, E.m61 n. 110, 134 n. 276, 155 n. 324, 160 Jaeger, W.m51 n. 77
n. 341 Joachim, H. J.m80 n. 153, 87 n. 179
Blumenthal, H. J.m36 n. 47
Bodnár, I. M.m154 n. 323 King, H. R.m80 n. 156, 87 n. 179
Bonitz, H.m24 n. 20, 46 n. 64, 51 n. 77, 52 n. Kraus, P.m206 n. 478
80, 64 n. 119, 65 n. 124, 82 n. 160, 109 n.
232, 119 n. 250, 177 n. 400 Laks, A.m23 n. 18, 160 n. 341
Broadie, S.m161 n. 341
Bruns, I.m10 n. 2, 24 n. 23, 30 n. 34, 37 e nn. Magris, A.m158 n. 333
49 s., 39 n. 54, 40 n. 56, 75 n. 139, 88 n. 184, Mansfeld, J.m33 n. 42, 212 n. 493
102 s. e n. 217, 114, 121 n. 256, 122, 128 n. Mioni, E.m37 nn. 49 s., 38 n. 51, 39 n. 54
263, 129 n. 265; 130 n. 268, 131 n. 270, n. Montanari, E.m40 n. 55
295, 175 e n. 395, 183 n. 413, 184 n. 414, 190 Moraux, P.m19 n. 9, 25 n. 26, 40, 89 n. 185, 113
n. 427, 191, 192 nn. 428 s., 192 nn. 430 s., n. 241, 139 n. 283, 168 n. 373, 171 n. 383,
194 n. 436, 205 n. 469. 175 n. 395, 179 n. 407, 181 n. 409, 183 n.
413, 184 s. n. 414, 185 n. 416, 189 e n. 424,
Calabi, F.m26 n. 26 192 n. 430, 192 s. n. 432, 194 n. 436, 196 n.
Cambiano, G.m17 n. 8 440, 198 n. 447, 201 e nn. 454 s., 210 n. 485
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Wieland, W.m46 n. 66
Wiesner, H.m150 n. 311, 175 n. 395, 189 n. 425
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Index locorum
(Il corsivo evidenzia le pagine dove il passo indicato si trova specificamente discusso.)
Aetius
Placita (Diels)
330.1-4 148 n. 302
Agostino,
Confessiones
XII.31 (42) 26 n. 26
Alcinoo
Didaskalikos
8 162.32 51 n. 75, 52 n. 79
33 187.31 87 n. 179
Alessandro di Afrodisia
De anima
192 s. n. 432
2.4 s. 32 n. 39
2.16-18, 23 s. 200 n. 450
2.17 s. 179
2.25-11.13 27 n. 30, 31 n. 35, 45 n. 63, 53-56, 87 n. 178
3.8 s. 14 n. 6
3.20 s. 14 n. 6, 55 n. 86
3.21-4.4 88
4.1 58 n. 97
4.3 56 n. 91
6.2-6 128 n. 262, 131 n. 272
6.28 s. 58 n. 95, 97 n. 204
7.4 s. 58 n. 95, 130 n. 269
8.8-12 170 n. 380
11.14-15.29 94-98
16.13 188 n. 422
28.27 144
29.22 70 n. 134
37.5 70 n. 133
50.12 188 n. 422
53.15-18 70 n. 133
79.7 s. 160 n. 340
81.15 s. 72
81.22-26 57 n. 94
83.23-84.1 196 n. 441
86.14-88.16 50 n. 74
88.17-90.22 109 s.
90.4 77 n. 144
90.20 s., 91.2 169 e n. 377
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De fato
17 n. 22, 20 n. 12, 33 s. n. 42, 40 n. 55, 132 n. 274, 158 n. 333
1 164.13 188 n. 422
165.1 35 n. 44
2 212 n. 493
165.19-23 17 n. 22
3 166.23 188 n. 422
167.2-16 179
4 167.21 188 n. 422
31 203.11 157 n. 332
De mixtione
33 e n. 42, 75 s.
213.2 s., 5 s. 198 n. 446
217.33-35 76 n. 141
217.36 192 n. 431
223.2 s. 60 n. 105
223.12 s. 204 n. 462
225.26-226.14 204 n. 462, 210 s.
226.15 58 n. 96
226.34-227.12 165 n. 361, 166 n. 363
228.5 ss. 194 n. 434
234.34-235.5 65 n. 124
De principiis (Genequand)
2 134 n. 275
21-23 160 n. 341
29-44 148 n. 301
76-8 160 n. 341
92 112 n. 239
101-104 50 n. 74
128 166 n. 366
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in Metaphysica I-V
16.3 in Ar. I.2. 982b 11 ss. 34 n. 43
22.2 s. in Ar. I.3. 983a 29 s. 116 n. 245, 123
31.1-5 in Ar. I.3. 984b 1 ss. 45 n. 63
42.20-43.9 in Ar. I.5. 986b 8 ss. 45 n. 63
43.11-45.9 in Ar. I.5. 986b 17 ss. 45 n. 63
52.10-25 in Ar. I.6. 987b 14-18 107 s., 110 n. 236, 119 n. 251
104.3-10 in Ar. I.9. 991a 23 ss. 55 n. 88, 177 n. 401, 196
141.14 in Ar. II.1, 993b 6 s. 26
141.21-2 in Ar. II.1. 993b 4 ss. 26, 208 n. 480
148.12 in Ar. II.1. 993b 24 52 n. 80
157.23-7 in Ar. II.2. 994a 30 ss. 45 n. 63
159.9-26 in Ar. II.2. 994b 6 ss. 45 n. 63
164.20-22 in Ar. II.2. 994b 25 ss. 51 s.
165.4-16 in Ar. II.2. 994b 25 ss. 45 n. 63
168.18 s. in Ar. II.3. 995a 17 116 n. 245
171.14 s. in Ar. III.1. 995a 24 ss. 26 e n. 28, 208 n. 480
172.10-13 in Ar. III.1. 995a 24 ss. 25 n. 24
178. 24-32 in Ar. III.1. 995b 34 s. 87 n. 179
211.21-213.23 in Ar. III.4. 999a 32 ss. 45 n. 63
214.23-29 in Ar. III.4. 999b 12 ss. 45 n. 63
215.32-216.11 in Ar. III.4. 999b 20 ss. 45 n. 63
255.19 ss. in Ar. IV.2. 1004a 22 ss. 26
289.37 in Ar. IV.4. 1007a 33 s. 26
308.1-10 in Ar. IV.5. 1009b 12 s. 45 n. 63
327.16-22 in Ar. IV.6. 1011b 15 ss. 85 n. 374
357.13-19 in Ar. V.4. 1014b 26-35 138 n. 282
373.22-24 in Ar. V.7. 1017b 15 s. 97
375.9 in Ar. V.8. 1017b 10 ss. 26, 208 n. 480
375.37-376.2 in Ar. V.8. 1017b 19 ss. 116 n. 245
389.9-18 in Ar. V.12. 1019a 15-20 150 n. 309, 156 n. 326
390.16 in Ar. V.12. 1019a 20-26 26 n. 27
400.8 s. in Ar. V.14. 1020a 33 ss. 26 e n. 27
422.6 s., 13 in Ar. V.24. 1023a 26 ss. 87 n. 179
422.14-16 in Ar. V.24. 1023a 34 s. 119 n. 249
424.14 s. in Ar. V.25. 1023b 12 ss. 26
in Meteorologica
5.24, 5.27, 6.3-12 in Ar. I.2. 339a 21 ss. 161 n. 347
6.1-3 in Ar. I.2. 339a 21 ss. 161 n. 346
6.3-6 in Ar. I.2. 339a 21 ss. 161 n. 347
83.5-9 in Ar. II.3. 357b 1 ss. 161 n. 347
226.23 in Ar. IV.12. 384b 22 ss. 193 n. 432
221
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 222
Quaestiones
I.1 (pp. 2.19-4.26 Bruns)
38
2.20-22 127 n. 261
4.1-3 160 n. 341
4.4-7 134
4.9-11 51
I.5 (p. 13.9-32 Bruns)
43, 68
13.22, 26, 28 66 n. 125
I.6 (pp. 14.1-15.22 Bruns)
14.24, 15.2 89 n.188
I.7 (pp. 15.23-17.6 Bruns)
16.31 188 n. 422
I.8 (pp. 17.7-19.15 Bruns)
43, 48, 90 s., 93, 99-101, 105
18.35-19.2 57
I.10 (pp. 20.16-21.11 Bruns)
38, 43, 48, 49, 86 n. 175, 113-125, 132-8, 140 s., 143, 147
20.31 s. 126 n. 260
222
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 223
21.2 58 n. 99
21.4 s. 136
21.5 s. 128 n. 264
21.8 ss. 89 n. 187
I.15 (pp. 26.28-27.29 Bruns)
38, 43, 86 n. 175, 125-36, 140, 147
26.30 128 n. 264
27.4 58 n. 98
27.16 s. 128 n. 262
I.17 (pp. 29.30-30.22 Bruns)
43, 48, 90 s., 93, 99 s.
30.5 s. 77 n. 144
I.20 (pp. 33.24-34.29 Bruns)
27 n. 30
I.21 (pp. 34.30-35.15 Bruns)
35.5 s. 128 n. 262
I.22 (pp. 35.16-36.16 Bruns)
36.1 182 n. 410
I.24 (pp. 37.14-39.7 Bruns)
43, 49, 61-3
38.32-39.1 65 n. 123
I.25 (pp. 39.8-41.19 Bruns)
38, 154 s., 156 s.
39.13-31 50
39.20 183 n. 411
39.27 192 n. 430
40.3-8 110
40.17-23 160 n. 341
40.23-26 176 n. 396
40.23-41.4 159, 173 n. 393
40.29 204 n. 463
40.30 s. 173 n. 391
41.2-4 152 n. 317, 167
41.3, 12, 18 159 n. 338
41.4-8 149 n. 306
41.4-19 154 s.
41.15 172 n. 387
I.26 (pp. 41.20-43.17 Bruns)
43, 48, 90, 93, 94, 100, 105
II.3 (pp. 47.28-50.27 Bruns)
26, 38, 40, 45 n. 63, 69, 73-5, 150 n. 311, 161-3, 165 n. 360,
168-170, 175-212
47.28, 30 172 n. 387
47.30 s. 161 n. 345
48.1, 5 163 n. 354
48.9, 48.14 169 n. 376
48.18-22 170 n. 379
48.23 169 n. 376
48.23-49.14 170 n. 380
49.15 169 n. 376
223
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224
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 225
[Alessandro di Afrodisia]
in Metaphysica VI-XIV
685.28-687.22, 25 ss. in Ar. XII.6. 1071b 3 ss. 134
Aristotele
Categoriae
128 n. 265
2 1a 24 s. 92
1b 3-5 97 n. 203
5 3a 7 ss. 92 n. 194, 96 n. 202, 130 n. 266
7 6a 36-b 4, 7b 15 s. 57
Analytica posteriora
I.4 73a 34 ss. 100
Topica
VI.6 143a 29 ss. 130 n. 267
143b 7 s. 89 n. 186
Physica
I.3 186a 19 46 n. 66
I.7 190b 27-191a 7 47 n. 69
191a 7 s. 52 n. 78
I.8 191a 24-31 61 e nn. 110 s.
191b 26 s. 61
191b 33 s. 61 e n. 112
225
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 226
De caelo
I.3 270b 5-9 176 n. 396
I.3 270b 11 113 n. 242
I. 9 278b 14-15 164 e n. 355
I.9 279a 28-30 172
I.12 283a 29-b 5 126 e n. 260
II.2 284b 32-4, 285a 29 160 n. 342
II.3 286a 8-12 152 s.
II.3 286a 8 ss. 98 n. 208
II.3 286a 12-b 9 157 n. 330
II.4 287a 3, 291b 32 113 n. 242
II.12 291a 25 s. 21 n. 14
II.14 296a 33 s. 151 n. 312
III.8 306b 17 58 n. 96
De generatione et corruptione
I.5 66
I.6 322a 21 87 n. 179
II.1-2 79-81
II.1-4 77-84
II.2-3 206
II.1 329a 8-15 80 e n. 155
329a 9-11 79 s., 81 n. 158
329a 24-6 47 n. 69, 80 e n. 156
329a 34 46 n. 66
329a 34-36 71 e n. 135
329b 3-6 80 s.
II.2 329b 3-13, 16-18 80 s.
329b 8-10 79
329b 11 205 n. 468
330a 24-9 81 s.
II.3 330a31-34 204 n. 466
330a 33-b 5 78 e n. 145, 83 n. 166
II.4 83
II.7 334a 18-b 2, b 23-26 184 n. 413
226
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 227
Meteorologica
I.1 338a 25-338b 22 162 s., 176
I.2 339a21-24 161-3, 166 n. 365, 167, 205 s. n. 473
339a 30-32 166 n. 365, 167 n. 369
I.3 340a 20 113 n. 242
340b 22, 32 205 n. 473
III.6 378a 21-8 184 n. 413
IV. 6 383b 16 s. 206 n. 475
IV.7 384b 14 184 n. 413
IV.10 388a 13 s. 184 n. 413
De anima
I.5 411a 3 s. 79 n. 150
II.1 412a 6-9 44, 71, 87 s., 99, 131 n. 272
412b 15-17 44, 120, 140 s.
412a 17 s. 103-5
412a 19-21 99
412b 5 s. 99
412b 15-17 120, 140
412b 11-15 119 n. 250
412b 26 s. 44
II.4 415a 26-b 7 65 n. 122
II.5 417a 10-12, 28, b 18
418a 4 70 e n. 132
II.8 420b 16 70 e n. 132
III.3 428b 25 70 e n. 132
III.4 429a 10-29
429b 23-430a 9 50 n. 74
III.5 57 n. 94
430a 10-14 54
III.6 430a 28 70 e n. 132
III.11 434a 8 70 e n. 132
De sensu et sensibili
4 442b 17 s. 79 n. 152
Historia animalium
I.1 486a 13 s. 65 n. 124
De partibus animalium
II.9 655b 6 65 n. 124
227
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 228
De generatione animalium
200 n. 449
II.1 733a 2, b 1 194 n. 435
II.3 736b 16-28 169 n. 376, 180
II.4 736b 35-737a 1 169 n. 375
738a 16-22 21 n. 14
IV.1 763b 21 194 n. 435
IV.2 767a 1-7 21 n. 14
IV.10 777b 24-30 21 n. 14
Metaphysica
I.6 987b 7-18. 107
II.1 993a 30-b 3 32 n. 39
III.3 998b 22-27 129 n. 265
V 24 n. 21
V.1 1013a 7 117 n. 246
V.4 1014b 16-1015a 19 177 n. 400
1015a 8 137 n. 280
V.8 1017b 10-16 96 s.
V.12 1019a 15-20 150 n. 309, 156 n. 326
V.24 1023a 29-33, b 5-11 94 n. 196
VII.3 1028b 33-36 88 n. 180
1028b 36 46 n. 65
VII.9 1034a 24 55 n. 86
VIII.4 1044a 15-23 137 n. 280
1044a 32 ss. 112 n. 240
1044b 8 143
IX.1 1046a 9-11 156 e n. 326
IX.7 1049a 25 s. 137 n. 280
X.3 1054b 23 128 n. 264
XII.3 1070a 14 s. 55 n. 86
XII.4 1070b 11-21 47 n. 69
1070b 22-26 117 n. 246
XII.6, 7 e 9 154 n. 322
XII.6 1071b 4-6 127 n. 261
1071b 19 s. 153 e n. 321
1072a 9-18 155 n. 324
1072a 10-12 204 n. 462
XII.7 1072a 30-b 3 45 n 63
1072b 3 s. 149 n. 306, 152 n. 318, 156 n. 328, 172 e n. 388
1072b 25 148 n. 301
XII.8 1074b 8-10 176 n. 396
XII.10 1075a 11 168 n. 372
1075a 11-25 170 n. 380
1075a 17-19, 5b 37-6a 1 161 n. 346
1076a 3 s. 22 n. 17, 170 n. 380
vedi anche: Alessandro di Afrodisia in Metaphysica
[Aristotele]
De mundo (Lorimer)
2 392a 33 164
6 164-168, 170 n. 380, 184-6, 212
397b 19 s. 164 n. 358, 212 n. 492
228
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 229
Aspasio
in Ethicam Nicomacheam
71.25-31 in Ar. III.5. 1112a 17 ss. 149 n. 304
Cirillo d’Alessandria
Contra Julianum
PG 76. 596a 189 n. 424
Diogene Laerzio
Vitae
IX.69 s. 35 n. 44
X.87 s. = Epicuro, Epistola a Pitocle 33 n. 41
Epicuro
vedi: Diogene Laerzio, Plutarco
Epitteto
Dissertationes
I.12.2-6 149 n. 305
229
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 230
Filopono
De aeternitate mundi contra Proclum
IX.8, 11 61 n. 108
in Analytica Posteriora
332.13-15 in Ar. I.33. 89b 7 s. 51 n. 75
in De generatione et corruptione
106.3-7 in Ar. I.5. 321b 10 ss. 67 s.
in Ar. II.2-4 82 n. 162
214.22-30 in Ar. II.2. 329b 7-10 82 n. 163
223.9-13 in Ar. II.2. 330a 24-29 82 n. 164
291.19 s. in Ar. II.10. 336b 2-5 173 n. 393
Galeno
De placitis Hippocratis et Platonis
32 n. 38
De praenotione ad Posthumum (Kuhn)
5. vol. XIV p. 627 s. 31 n. 37
Ja–bir b. Hayya–n
–
Kita–b al-Tas·ri f (MS Paris. ar. 5099)
82 n. 162, 206 n. 478
Platone
Timeo
55 n. 88
30c 148 n. 303
49a-52d 49 s., 51 n. 75
52b 51 n. 75, 52 n. 78, 53
52d-53b 80 n. 155
Alcibiade I
130a 87 n. 179
Convivio
209b 87 n. 179
Cratilo
391b, 436a 64 n. 120
Leggi
X 898d ss. 120 n. 252, 160 n. 342
899d ss. 160 n. 342
230
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Plutarco
Adversus Colotem (Pohlenz)
8 1111b p. 181
(Epicuro frgm. 368. 546. 299 Usener) 157 n. 332
Porfirio
Quaestionum Homericarum ad Iliadem pertinentium reliquiae (Schrader)
297.16 19 n. 11
Proclo
in Timaeum (Diehl)
I.387.5-17 in Plat. 30a 3-6 48 n. 70
Sesto Empirico
Adversus Mathematicos
VII (= Adversus Logicos I)
30 8.24 s. 35 n. 44
X (= Adversus Physicos II)
332 s. 67 n. 127
Simplicio
in Categorias
99.19-32 in Ar. 5. 3a 7 92 n. 194, 130 n. 266
in Aristotelis Physicam
219.22-221.18 in Ar. I.7. 191a 3-5 112 n. 240
227.18-22 in Ar. I.7.191a 7 ss. 52 n. 78
236.15-238.22 in Ar. I.8. 191a 34-b 26 61 s.
306.30-307.8 in Ar. II.2. 194b 13 171 n. 384
307.9-12 in Ar. II.2. 194b 13 171 s. n. 385
392.20-23 in Ar. II.9. 200b 4 ss. 56 n. 90
552.18-24 in Ar. IV.3. 210a 20 s. 97 n. 206
553.1-8 in Ar. IV.3. 210a 14 ss. 95 n. 201
1216.27-29 in Ar. VIII.4. 255b 13-14 26 n. 28
1217.11-17 in Ar. VIII.4. 255b 24 ss. 142 n. 291
1218.20-1219.11 in Ar. VIII.4. 255b 29-31 141-4, 168 n. 371
in Aristotelis De caelo
65.15 s., 20 in Ar. I.3. 270a 3 ss. 185 n. 416
231
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 232
Temistio
in libros Aristotelis De anima Paraphrasis
111.24-26 in Ar. De anima III.6 51 n. 75
Teofrasto
Metafisica
18, 23, 139 s.
4a 2 s. 139
4a 9 s. 172 n. 385
5a 14-6a 10 161
5a 23-b 10 139
6a 1-12 140, 170 n. 380
8a 3 ss. 170 n. 380
8a 8-20 48 n. 70, 53 n. 81
9a 7 53 n. 81
Teone di Smirne
Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium (Hiller)
149.14 s. 148 n. 302
Tolomeo
Apotelesmatica (Tetrabiblos syntaxis) (Hübner)
I.1.2 4.1-7 31 n. 37
I.2.15 s. 10.12-11.7 31 n. 37
232
FAZZO 28 12 2007 13:55 Pagina 233
Bibliografia
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