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Relatore: Canditato:
Chiar.mo Prof. F. Lomonaco Luigi Saggiomo
Matr. N58000501
Fausta
2
INTRODUZIONE
3
dell’esistenza di Dio. L’inserimento di Tommaso nel discorso non è casuale:
parallelamente alla trattazione della prova a priori, confronterò questa con la sua antica
«rivale», la prova a posteriori (o cosmologica). Non credo si possa parlare della prova a
priori senza accennare alla prova a posteriori: le loro storie, lungi dall’essere
indipendenti, sono intrecciate fino a sembrare un’unica storia. Impossibile, allora, non
inserire nel discorso l’Aquinate e la tradizione tomista. Descartes, in seguito, ridurrà la
prova a posteriori di origine tomista nella prova a priori. Ecco perché, secondo
un’autorevole studiosa italiana, l’argomento ontologico «moderno» “nasce (…) vitale e
aggressivo”1 nelle Meditazioni. La nota teologia dell’Esodo tomista deve ancora
dimostrare che l’Ente necessario, la causa prima, siano il Dio infinito della teologia
giudaico-cristiana2. Per aspirare a dimostrare l’esistenza di Dio e non il primo principio
della filosofia naturale, la prova cosmologica deve sottomettersi alla logica della nuova
prova a priori cartesiana: il passaggio dalle modalità temporali e causali della
metafisica tomista alle modalità della nuova logica moderna. L’ente necessario, l’ente
della prova aristotelico-tomista era un ente che esiste in tutti i tempi; l’ente della prova
a priori, inaugurata da Descartes, è un ente la cui esistenza non può essere negata senza
cadere in contraddizione. Ciò sottolinea il significato della storia dell’argomento
ontologico come esercizio sul potere delle modalità e delle definizioni. La presenza
delle modalità temporali nell’argomento ontologico precartesiano era infatti indicativa
dell’egemonia della teologia a posteriori tomista, mentre il cambiamento di paradigma,
il passaggio di modalità, è sintomo di una nuova radicale rivoluzione teologica3. Questa
rivoluzione interesserà anche il pensiero ateo e materialista perché la metafisica, dopo
Descartes, ruota attorno alla ricerca di un ente di cui non si può negare senza
contraddizione l’esistenza necessaria, sia essa incarnata nello «spirito», sia essa intesa
come «occupazione» di un spazio fisico e materiale. Qui, vi è il segno della volontà di
Descartes di sostituire la gnoseologia di stampo aristotelico-tomista, quindi con la
filosofia scolastica insegnata ancora nei collegi e nelle università, con una teoria della
conoscenza e con una filosofia razionalista. Descartes, alla luce del suo sistema, pone
un’alternativa drammatica: o si può giustificare l’esistenza di Dio davanti al tribunale
1
E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Laterza, Roma-Bari,
1994, p. VI.
2
Su ciò, cfr., ivi, pp. VI-VII.
3
Tutto ciò che viene qui detto, deve essere inteso come una breve sintesi della tesi principale dello studio
della Scribano.
4
della ragione, o si deve rinunciare all’esistenza di Dio. Questa ragione spiega anche le
modifiche che l’unum argumentum anselmiano subisce: la scelta dell’argomento
ontologico cartesiano di presentarsi come una vera e propria dimostrazione, sul modello
delle verità matematiche e di rivendicare per essa una piena intelligibilità dell’idea di
Dio, vanno incontro all’esigenza di una nuova filosofia che pretende di dar conto del
come qualcosa come Dio possa esistere indubitabilmente. In seguito cercherò di
analizzare le problematiche uscite dalle Risposte alle Obbiezioni, ovvero se vi sia un
secondo argomento ontologico elaborato da Descartes nella Prime Risposte e perché
egli non accetti la formulazione data dagli autori delle Seconde Risposte, che
sembrerebbe compatibile invece con la prova a priori delle Meditazioni, ossia che Dio
deve esistere se la sua natura è possibile.
4
Per questa idea dell’abuso che Descartes e Spinoza farebbero del metodo matematico in metafisica, si
confronti l’Introduzione di E. Boutroux a W. G. Leibniz, Monadologia, Fabbri, Milano, 1996, pp. 5-131,
in part., pp. 32-33.
5
intellettuali che hanno lo stesso oggetto, cioè Dio come ente necessario, il cui concetto
non implica contraddizione. Leibniz è il testimone consapevole e privilegiato
dell’alleanza tra le due prove. Vediamo come la conciliazione dei contrari, si dispieghi
in tutta la sua potenza nella ricerca della Monade Suprema. La natura di Essa è la causa
stessa della Sua esistenza. Siamo lontani da Tommaso e dalla teologia negativa del
Damasceno: è il quid sit, non il quid non sit, a prevalere. Colgo l’occasione per ribadire
che il mio studio non vuole essere né un’apologia né una denigrazione dell’argomento
ontologico. Essa vuole essere una ricerca dei metodi e delle prospettive con cui si è
affrontata la tematica della prova a priori dell’esistenza di Dio all’interno delle filosofie
di un autore della modernità, Descartes, il quale, ribadisco, ha avuto sui miei primi
studi una particolare influenza.
Alla luce di tutto quanto appena detto, vorrei esporre qui, in dettaglio, le linee
del mio studio. Il capitolo primo sarà dedicato, per così dire, ai presupposti della ricerca
stessa: si tratta di cogliere lo status quaestionis della dimostrazione a priori
dell’esistenza di Dio che di cui Descartes dovrà necessariamente tenere conto. Quindi si
concentrerà in particolare su Anselmo e sulle critiche di Gaunilone (Liber pro
insipiente) e di Tommaso; il capitolo secondo si concentrerà invece, in continuità con il
primo capitolo, sulle eredità medievali che è possibile reperire nelle pieghe del peraltro
nuovo argomentare cartesiano e affronterà la prova a priori: incomincerò, attraverso
l’analisi dei testi, con un piccolo excursus sui rapporti di Descartes con la Scolastica, le
eredità, i debiti ma soprattutto i punti di rottura con essa. Da qui, inizierò la trattazione
della prova a priori, focalizzandomi sulle Meditazioni Metafisiche e sulle Risposte; il
capitolo terzo affronterà direttamente la prova a posteriori in Descartes. In questo
capitolo dimostreremo che Descartes ha ridotto la prova a posteriori nella prova a
priori, ovvero che le modifiche più importanti per la prova a priori sono avvenute in un
contesto a posteriori.
6
CAPITOLO PRIMO
1. Anselmo
5
L’importanza dell’Organon nei primi secoli del Medioevo fu di capitale importanza. Questo testo fu
tradotto dal greco al latino da Severino Boezio (morto nel 524 ca.), il cui programma di lavoro era di
tradurre e commentare tutte le opere di Aristotele e Platone per dimostrare la concordia di pensiero tra i
due «giganti» dell’Antichità. Egli riuscì solo a tradurre l’Organon, ma l’importanza del corpus logico
boeziano emerge anche su un piano strettamente epistemologico, dal fatto che esso propone, nei suoi
commenti, una sintesi di dottrine elaborate da varie scuole e correnti di pensiero dell’antichità.
Successivamente, grazie soprattutto all’incontro con la filosofia araba, incominceranno a circolare anche
gli altri scritti di Aristotele, con un flusso crescente che inizia dalla seconda metà del dodicesimo secolo e
prosegue per tutto il tredicesimo secolo.
Per approfondire vedere G. d’Onofrio, Storia del Pensiero Medievale, Città Nuova, Torino, 2011, in part.
pp. 58-67 e pp. 380-383.
7
che il dibattito tra dialettici e anti-dialettici doveva ricevere: contro i dialettici (come
Berengerio di Tours avversario del suo maestro, Lanfranco da Pavia), Anselmo afferma
che bisogna in primo luogo saldarsi nella fede. Essa è il dato da cui partire, e di
conseguenza non si devono sottomettere le Sacre Scritture alla dialettica; contro gli anti-
dialettici (come Pier Damiani, che paragonerà la filosofia a un vitello d’oro, in altre parole
a un idolo pagano) affermerà che non è vi è nulla di sbagliato nel chiedere il supporto della
dialettica in questioni teologiche6. Il metodo anselmiamo della sola ratio consiste proprio
nel mettere la fede tra parentesi per la comprensione delle verità della fede stessa, senza
mai contraddirla per aggiungere un qualcosa in più alla fede. Nel filosofo aostano, il credo
ut intelligam di agostiniana memoria «convive» con l’intelligo ut credam dei dialettici.
Due momenti distinti, ma che hanno un unico scopo: concedere all’intelligenza umana di
poter parlare di Dio, ossia di formulare le voces o i signa che devono esprimere fino in
fondo il modo di essere della res perfetta da cui derivano tutte le cose. Questo è il progetto
teologico-speculativo anselmiano, esposto nel Monologion e nel Proslogion. In altre
parole, la comprensione della rectitudo della parola Deus7. Il procedimento consiste in
entrambi i casi di prendere le mosse dalla percezione di una verità superiore, ossia dalla
nozione corrispondente al nome stesso di Dio, per passare dalla comprensione del suo
significato alla definizione di ulteriori conoscenze verità particolari da esso incluse o da
esso giustificate. Ora andiamo ad analizzare nel dettaglio i due opuscoli più importanti che
Anselmo ha lasciato alla tradizione.
6
Berengario di Tours sosteneva di tradurre le verità di fede in termini di ragione, considerando la dialettica
come il mezzo migliore per giungere alla verità. Ciò lo porto a negare perfino la transustanziazione e la
presenza reale; per Pier Damiani, invece, la sola cosa che importa è il conseguimento della salvezza,
quindi la filosofia è solo ozio, anzi, per la precisione, è un’invenzione del diavolo. Sulla diatriba tra
dialettici e anti-dialettici , e sulla soluzione di Anselmo, si confronti: E. Gilson, La filosofia nel Medioevo.
Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 281- 304; G.
d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, cit., pp.155-203.
7
Anselmo, in suo libretto intitolato De veritate, definisce il concetto stesso di verità: è «vero» per
Anselmo, ciò che gode di una rectitudo (retto) formale, che, quindi, vi sia una perfetta corrispondenza tra
ordo idearum, ordo verborum e ordo rerum. Un uomo è retto nella misura in cui segue la volontà di Dio,
una proposizione è retta nella misura in cui rappresenta la verità. La dialettica è dunque per Anselmo la
scienza della rectitudo in quanto aiuta e garantisce l’intelligenza per l’assoluta corrispondenza tra signa,
res e vox delle cose conosciute. Per approfondire questo punto, si consulti G. d’Onofrio, Storia del
pensiero medievale, cit., pp. 206-208.
8
1.1 Monologion
Nel 1076, Lanfranco da Pavia, arcivescovo di Canterbury, riceve dal suo migliore
allievo, che lo ha succeduto al monastero del Bec come priore8, uno scritto dal titolo
Exemplum meditandi de ratione fidei (Modello di meditazione sulle ragioni della fede).
Prego poi e scongiuro di cuore chi volesse trascrivere questo opuscolo di premettere ai
capitoli, in capo al libro, questa prefazione. Penso infatti che molto giovi alla comprensione di ciò
che vi leggerà il sapere con quale intenzione e in che modo è stato scritto. E credo anche che, se
uno vedrà prima questa prefazione, non giudicherà temerariamente se vi troverà qualcosa di
contrario alla sua opinione.10
8
Questo riferimento non è puramente nozionistico: gli anni del priorato (1063-1078), per Anselmo, sono
stati i più felici della sua vita, come lui spesso ricorderà nelle sue lettere (“molti, quasi tutti, veniste al Bec
perché c’ero io”). Ciò, probabilmente, ha avuto una forte influenza anche dal punto di vista speculativo,
perché sono di questo periodo il Monologion e il Proslogion. Su questo tema, si confronti Introduzione di
S. Vanni Rovighi a Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008, in particolare pp. IX-
XXX.
9
Ivi, pp. XXX-XXXI.
10
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008 pp. 5.
9
(<<riflessione interiore>>) e un suo secondo opuscolo si trasformerà da Fides quaerens
intellectum (La fede in cerca di intelligenza) in Proslogion (<<colloquio>>). Lanfranco
deve aver visto nei due opuscoli, più che la pretesa di assoggettare la fede all’intelligenza,
la genuinità del progetto anselmiano di poter condurre la mente a una sistemazione delle
verità teologiche senza l’ausilio della fede11, per poter parlare di Dio a persone che non
hanno mai sentito parlare di Dio o a persone che non hanno mai creduto.
Il primo e il più semplice di tali modi consiste nel mostrare che la rectitudo della
nozione corrispondente all’esistenza di Dio sia il supremo oggetto del nostro desiderio. In
tutte le cose che desideriamo, infatti, noi non desideriamo le cose stesse ma il loro essere
buone. Dunque desideriamo ciò che le fa essere buone, e questo è il bene. Un cavallo forte
e veloce è buono, ma un ladro forte e veloce non è altrettanto buono. Ciò che fa essere
11
Sui problemi di natura tematica scaturiti dal Monologion e sulla reazione di Lanfranco, si consulti Giulio
d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 204-206
12
È il caso di É. Gilson, La filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, cit., pp 291-
304. Lo studioso francese, in sostanza, unisce la prima e la seconda prova, rendendo la seconda un
semplice corollario della prima, seguendo la linea di Anselmo. Con questo ragionamento, però, anche la
quarta si dovrebbe presentare come un corollario della terza, ma probabilmente Gilson non le presenta
come un corollario perché la terza è di stampo aristotelico, la quarta richiama, invece, una linea platonica.
13
G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma., 2011, pp. 208-213.
14
Il termine “modo” ribadisce probabilmente l’obiettivo e l’intenzione dello scritto di Anselmo. Da un
punto di vista epistemologico “modo” è meno forte di “prova”, anticipando anche quella che saranno le
cinque viae di Tommaso. Anselmo, infatti, chiamerà l’argomento del Proslogion unum argumentum
ribadendo la sua forza epistemologica rispetto ai “modi” del Monologion.
10
buono un cavallo forte e veloce e cattivo un ladro con le stesse qualità è il bene in sé, che
noi lo cerchiamo nelle cose perché esiste, ed esiste proprio in quanto fa essere buone le
cose e le fa desiderare. Il supremo bene, conoscibile proprio in quanto fa essere buone le
cose e non ha bisogno di altro per essere desiderato, è Dio.
Anselmo continua la sua ascesa intellettuale di Dio, con una seconda ricerca della
sua rectitudo fra le cose finite e conoscibili: tutte hanno una grandezza, quindi in tutte noi
conosciamo l’essere grande. Dunque conosciamo in ogni cosa qualcosa che fa essere
grandi le cose. Dunque conosciamo in ogni cosa qualcosa che le fa essere grandi le cose, e
questo qualcosa non è conoscibile come grande perché qualcosa lo fa essere grande ma è
la grandezza in sé. Essendo la grandezza che fa essere grande ogni cosa grande, è
necessariamente il più grande pensabile, ed è perciò il migliore fra tutti i pensabili. E allora
il sommo grande non è altro che il sommo bene che necessariamente esiste perché fa
essere grande tutto ciò che conosciamo come grande, e dunque è Dio.
Una quarta dimostrazione capace di condurci a Dio è quella che si fonda sui gradi
di perfezione che le cose possiedono. Nell’universo è possibile apprezzare diversi gradi di
dignità tra le cose. È una constatazione alla quale nessuno può sottrarsi. Ora, o vi sono
infiniti esseri e quindi non s’incontra mai un essere così perfetto, oppure che c’è un
numero finito di esseri, e di conseguenza un essere più perfetto di tutti. La prima ipotesi è
assurda perché contraria alla ragione. Bisogna concludere, quindi, che vi è una natura
superiore alle altre nella gerarchia universale. Ma questa natura non è racchiusa in più enti,
ma in uno solo, poiché se racchiudono la stessa essenza, sono in realtà la stessa cosa.
Esiste, dunque, un’unica natura superiore a tutte le altre, un grado massimo di perfezione
che orienta la gerarchia universale, la cui perfezione è la perfezione in sé, ed è Dio.
11
Queste prove suppongono l’ammissione di due principi: 1) le cose sono ineguali in
perfezione; 2) tutto ciò che possiede più o meno una perfezione ce l’ha dalla sua
partecipazione a questa perfezione, presa nella sua forma assoluta. Questi due principi
evidenziano l’impostazione platonica del procedimento mentale: il semplice fatto che il
soggetto riconosca negli oggetti finiti il germe del divino, gli impone di risalire all’origine
stessa di tale verità, alla rectitudo della loro rectitudo, che è la Verità in sé. Ma – come
abbiamo già detto – non è un procedimento a posteriori che passa da ciò che è
sperimentato a ciò che suppone lo sperimentato: l’intelligenza teologica anselmiana parte
invece dalla conoscibilità del finito per capire che tale conoscenza non sarebbe possibile
se non scaturisse da una certezza di una superiore verità, perfetta e necessaria dal punto di
vista deontologico15.
La rectitudo del concetto della parola Deus comporta dunque prima di ogni altra
verità quella dell’esistenza della parola Dio. Nel resto del Monologion, Anselmo, dopo
aver dimostrato l’esistenza del Sommo Ente, scopre tutti gli altri attributi in una natura
concepita come la più alta e la più perfetta di tutte. La mente procede spedita verso la
comprensione della realtà di Dio con ulteriori argomentazioni deduttive della ratio che a
poco a poco confermano le affermazioni della fides16.
1.2 Proslogion
15
Su ciò, cfr, ivi, pp 209-211.
16
Per approfondire le argomentazioni sulla natura di Dio a partire dalle dimostrazioni del Monologion, ivi,
pp. 211-213. Questo - come vedremo – sarà un altro punto di rottura con Tommaso.
17
Su ciò, cfr, p 209.
12
ricondurre tutto a un unico argomento, un’unica prova che sia autosufficiente da cui derivi
tutto il resto. La parola latina argumentum rinvia al greco tòpos, che corrisponde nei
trattati di dialettica a quei <<luoghi>> intuitivi della mente la cui percezione consente il
disvelamento persuasivo e intuitivo di una verità generale, che la ragione dianoetica deve
poi articolare in un processo argomentativo, o argumentatio, per renderne comprensibile in
forma discorsiva la sua necessità logica. Questa sua natura primordiale e intuitiva rende
complicato pervenire alla formulazione di questo argumentum18. Anselmo racconta di
intuirlo, di scrutarlo, intravede i contorni e l’evidenza logica, ma non appena cercava di
tradurlo in concetti e in passaggi mentali, tutto si appannava e diventava inafferrabile. Il
famoso argomento, che in età moderna sarà chiamato ontologico, esce dalle pagine del
Proslogion con la sua specificità medievale. In Anselmo, questa specificità risalta tutta
nella formula fides quarens intellectum, il titolo che il filosofo aostano aveva pensato per il
suo opuscolo, il quale conferma che è solo la fede a suggerire alla mente l’oggetto della
ricerca e che non è l’esito di un’invenzione umana e non dipende da informazioni
provenienti dall’esperienza19.
Nella solitudine della cella, nella solenne spiritualità della preghiera, è possibile
dimenticare tutto ciò che non è Dio. Ed ecco allora cosa la fede dice che Dio è, ma questo
qualcosa che la fede dice essere Dio necessariamente esiste:
Dunque, o Signore, che dai l’intelligenza della fede, concedimi di capire, per quanto sai
che possa giovarmi, che tu esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che
tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi più grande (aliquid quo nihil maius cogitari possit). O
forse non esiste una tale natura, poiché ‘lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste’? Ma certo quel
medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e cioè la frase ‘qualcosa di cui nulla può pensarsi più
grande’, intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli non
intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, altro intendere che la
cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto si
rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista
quell’opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non l’ha intelletto, ma
intende pure che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno
nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli intende questa frase
quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non si può
pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si
18
Su ciò, cfr, ivi pp 213-214.
19
Su ciò, cfr, ivi pp.214-216
13
potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui
non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è
ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche
cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.20
20
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 75-76
21
La teologia negativa del Proslogion risalta nella ricerca di cosa è Dio, a seguito della scoperta
dell’argomento ontologico. A differenza del Monologion, la mente procede per contraddizioni che sono un
alimento meraviglioso per la scoperta di Dio, e che scaturiscono tutte da un un’unica contraddizione: la
contraddizione che è necessario che sia ma che non sarà mai possibile comprendere. Cfr, G. d’Onofrio,
Storia del pensiero medievale, cit., pp. 218-219.
22
Su ciò, cfr, ivi, pp. 216-217.
23
Cfr, ivi, p. 217.
14
1.3 La formulazione del secondo argomento ontologico24
Il primo, come abbiamo visto, si trova in Proslogion II, e pretende per essere valido
di considerare l’esistenza una perfezione. Ma che l’esistenza sia una perfezione, è quanto
Malcolm, con Kant, ritiene impossibile da concedere, e per questo Malcolm ritiene
l’argomento anselmiano invalido. Ma, sostiene Malcolm, Anselmo riformula poco dopo il
suo argomento, in Proslogion III, in un altro modo , irriducibile al primo:
Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e
questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Onde se ciò di cui non si può
pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà più ciò di cui non si può
pensare il maggiore, il che è contradditorio. Dunque, ciò di cui non si può pensare il maggiore
esiste, in modo così vero, che non può neppure essere pensato non esistente.26
Stavolta la perfezione che non può essere negata a Dio è l’impossibilità logica
della non esistenza, ovvero, l’esistenza necessaria.
Questo secondo argomento ontologico per Malcolm, è una ripresa della formula
aristotelica In aeternis idem esse et posse, perché entrano in gioco i concetti di eternità e
d’indipendenza visti come perfezioni. E da questo che Anselmo – secondo Malcolm -
determina l’impossibilità logica della non esistenza di un ente di cui non si può pensare il
maggiore. Ma se l’esistenza necessaria deriva dall’eternità e dall’indipendenza dell’ente di
cui non si può pensare il maggiore, il secondo argomento che Malcolm attribuisce ad
Anselmo risulta identico a quello di Scoto e Lessius27. Se Dio non esiste, argomenta
Malcolm, non può incominciare a esistere. Se, infatti, cominciasse a esistere, la sua
esistenza sarebbe causata da altro, ed egli non sarebbe più l’ente di cui non può pensare il
E. M. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia dell’argomento ontologico da Descartes a Kant, Laterza, Roma-
24
15
maggiore ma un ente limitato. Se invece Dio esiste, la sua esistenza non può aver avuto
inizio. Per questo l’esistenza di Dio è impossibile o necessaria. Può essere impossibile solo
se il concetto di un tale ente è contradditorio. Se non lo è, ne segue che Dio esiste
necessariamente28.
Quanto alla tua opinione, che dal fatto che si intenda un ente, del quale non si può pensare
il maggiore non segua che quell’ente è nell’intelletto, e che, se è nell’intelletto, non segue che sia
in realtà, io dico con certezza: se può essere almeno pensato esistente, è necessario che esista.
Infatti, <<ciò di cui non si può pensare il maggiore>> deve essere pensato esistente senza
principio. Di ciò che invece si può pensare esistente, ma non è, si può pensare che l’essere abbia
inizio. Dunque <<ciò di cui non si può pensare il maggiore>> non può essere pensato esistente e
non esistere. Se dunque si può pensarlo esistente, necessariamente è.29
28
N. Malcolm, Anselm’s Ontological Argument, cit., pp. 49-50.
29
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 97.
30
Bisogna ricordare che questo argomento è stato spesso messo in analogia con l’argomento leibniziano,
anche a causa della forte analogia tra Scoto e Leibniz. Su questo punto mi viene in soccorso anche Sofia
Vanni Rovighi, che, nel passo citato prima, inserisce una nota che sottolinea la forte analogia con Leibniz.
16
Ricapitoliamo l’analisi condotta da Malcolm: 1) L’argomento che attribuisce a Dio
la sua esistenza necessaria a partire dalla sua eternità e indipendenza costituisce un
secondo argomento ontologico, irriducibile a quello che attribuisce a Dio la perfezione
dell’esistenza; 2) questo secondo argomento supera la critica kantiana.
Anselmo dovette subito confrontarsi con alcuni obiettori: il più noto tentativo di
confutazione dell’unum argumentum anselmiano fu da parte di Gaunilone, un monaco
benedettino del monastero di Marmoutier. Egli scrisse un libello polemico dal nome Quid
ad haec respondeat quidam pro insipiente (Risposta in favore dell’insipiente), in cui non
negava l’esistenza di Dio, ma sosteneva l’impossibilità della ragione umana di sfuggire al
dubbio, che deve essere una motivazione e un alimento, non un ostacolo per la fede.
Gaunilone obiettava che non ci si può fondare sull’esistenza del pensiero per concludere
all’esistenza fuori dal pensiero. Egli appartiene alla tendenza anti-platonizzante della
nuova teologia moderna, il cui capostipite fu Roscellino di Compiègne, che rifiutava la
possibilità di fissare una corrispondeza tra ordo rerum e ordo verborum. A illustrare che le
cose in intellectu non sono anche in re, Gaunilone illustra una serie di esempi per
dimostrare che Dio non è che una connotazione conoscitiva completamente astratta e
razionale che non potrà mai corrispondere a ciò che Dio è perché Egli non è oggetto di
intellezione quindi, non soltanto non è in re, ma neppure in intellectu33. Io posso avere
31
È il caso di Dieter Heinrich, La prova ontologica, Prismi, Napoli, 1983.
32
Cfr., E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia dell’argomento ontologico da Descartes a Kant, cit., p. 26.
33
G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 217-218.
17
l’idea di un’isola beata al di là dell’oceano, piena di ricchezze e con tutte le perfezioni
immaginabili, ma non è detto che questa isola esista per forza; come non è detto che
l’insipiens abbia la nozione di Dio, può avere la nozione di un uomo che non consoce,
perché sa che cos’è un uomo, quindi posso pensarlo secondo quella realtà generale a me
nota, perché ne ho esperienza34.
Anselmo replica a queste obiezioni con una Responsio da lui stesso posta in
appendice al Proslogion insieme al Liber di Gaunilone. Per Anselmo, Gaunilone non ha
intuito che il quo maius è una delle verità più importanti a cui la mente può giungere. La
nozione dell’isola dei beati, per quanto perfetta possa essere, non può essere paragonata
alla nozione di Dio. Infatti, Gaunilone sostituisce la formula dell’argomento anselmiano,
quo maius cogitari nequit possit, con maius omnibus, “la cosa più grande tra quelle che
sono”. È evidente che anche una creatura potrebbe apparire il massimo del suo genere e
che potrebbe essere pensata sempre qualche realtà superiore all’interno dello stesso genere.
Soltanto nel quo maius l’esistenza è necessariamente implicata, perché se non fosse
realmente esistente, non potrebbe neanche essere pensato.
2. Tommaso d’Aquino
34
Quest’ultimo esempio, contenuto in Pro Insipiente IV, rappresenta appieno il nominalismo di Gaunilone
35
G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 218-219
18
L’Aquinate, passato alla storia come il Doctor Angelicus, gioca un ruolo
fondamentale nella storia dell’argomento ontologico. Egli, come Anselmo, si muove nella
distinzione tra ragione e fede e nella necessità del loro accordo. Ma – come citato prima –
si deve <<destreggiare>> in un orizzonte filosofico più ampio, poiché non può più rendere
conto del solo Organon ma di tutto il corpus aristotelico36. Quando Tommaso tratta di
fisica, fisiologia e meteore, infatti, non è che l’allievo di Aristotele; quando parla di Dio,
della genesi delle cose e del loro ritorno verso Dio, Tommaso è se stesso 37. Per l’Aquinate,
l’incontro della teologia cristiana con la metafisica arabo-peripatetica ha ormai prodotto i
suoi effetti rivoluzionari. Ormai per essere scienza la teologia deve dimostrare il suo
statuto epistemologico non perché sia fondata sulla fede, ma nonostante il fatto che sia
fondata sulla fede. Ma che sia necessariamente scienza è dimostrato dal fatto che abbia un
suo oggetto peculiare: Dio considerato come principio, ma non studiato a partire dai suoi
principiati come nella teologia naturale, ma studiata a partire dal suo essere principio.
Questo suo progetto speculativo si completa nella Summa contra Gentiles.
L’opera fu scritta per essere destinata alla formazione base dei frati nello studio
delle arti. Infatti, per Tommaso, il sapiens è colui che indaga le cause prime della verità,
dunque a un tempo il metafisico e il teologo, l’aristotelico e il cristiano. Si cercano le
necessarie rationes eterne che giustificano l’intera Rivelazione cristiana: la dimostrazione
dell’esistenza di Dio non è che la prima fondamentale verità dimostrabile per via razionale
concernente Dio secundum seipsum.
36
Secondo Étienne Gilson, in Tommaso vi è un uso più accorto della ragione filosofica nella teologia
rispetto ad Anselmo. Infatti, molti ritengono erroneamente che, nonostante le molte analogie, in Anselmo e
Abelardo vi è stato un uso più libero della ragione filosofica nell’analizzare le verità della fede, mentre ciò
non è avvenuto in Tommaso e Alberto Magno. Questo deriva proprio dal dover misurarsi per Tommaso e
Alberto in un orizzonte filosofico totalmente estraneo a una concezione cristiana dell’universo. Su ciò, cfr.,
di Étienne Gilson, La filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, La Nuova Italia,
Firenze, 1973, pp. 903-907.
37
Ivi, cit. p. 635
38
La mia fonte in questo caso è G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, cit., pp. 472-480.
19
quelle che diventeranno nella Summa Theologiae le cinque vie. Si insiste in particolare su
quella che sarà la prima via nell’altra Summa, ovvero Dio come motore primo.
L’analogia è il viatico con cui l’uomo, secondo Tommaso, può parlare di Dio. Essa
implica la possibilità, secondo la logica aristotelica, di predicare uno stesso nome per
ragioni diverse ma riconducibili a un fine semantico comune. L’introduzione dell’analogia
prepara il terreno per l’incontro della filosofia con teologia, perché consente un impiego
più proficuo degli strumenti filosofici per predicare la realtà divina39.
39
Su ciò, ivi, in part., pp. 478-480
40
Per un approfondimento sul tema, E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., pp. 41-57; 72-85.
41
Su questo si baserà il parere della Chiesa.
20
chiarire l’argomentazione tomistica: io potrei dire che, se esiste un quadrato d’oro nel
Partenone di Atene , esso deve avere quattro lati. Il problema è proprio capire se esiste o
meno questo quadrato.
L’esistenza di Dio, afferma Tommaso, è una verità in se per sé nota, ma non per sé
nota quaod nos, ossia è ben vero che l’esistenza è una di quelle proprietà appartenenti
all’essenza di Dio, ma l’uomo, finito e decaduto, non può conoscere l’essenza di Dio. La
prova a priori, ovvero propter quid, è una prova dell’esistenza di qualcosa che dà ragione
del perché qualcosa è: si pretende di dimostrare “cosa essa sia prima” del “se essa sia una
cosa”. La prova cade nel momento in cui Dio, non avendo causa, è indimostrabile a
priori43: l’esistenza di Dio risulta evidente come avviene nei primi principi di
dimostrazione44, ma non dimostrabile, proprio come i principi. Ma Tommaso, proprio
come Avicenna, non ritiene che “l’esistenza di Dio non sia in alcun modo dimostrabile”45.
Abbiamo detto che l’esistenza di Dio è colta solo intuitivamente dall’uomo, anche colui
che conoscesse l’essenza di Dio, ma all’uomo non è dato conoscere l’essenza di Dio, per
questo l’espressione <<Dio esiste>>, pur evidente in sé, non lo è per l’intelletto umano.
Per queste ragioni la suddetta proposizione <<Dio esiste>> è dimostrabile per l’intelletto
42
Sulla differenza tra definizione nominale e definizione reale si baserà Cartesio, anche se Tommaso in
alcuni luoghi spiegherà l’impossibilità della dimostrazione di Dio partendo solo dalla sua definizione
nominale, in altri, invece, negherà che anche da una definizione reale non si può inferire a un esistenza
fuori dal pensiero dal momento che “la realtà che deriva come logica conseguenza non può essere
superiore al valore del termine”, e una definizione reale ha pur sempre una realtà mentale. Su ciò,
Scribano, L’esistenza di Dio, pp. 42 - 44
43
La tesi di Tommaso va letta come una ripresa di Avicenna secondo la quale, poiché Dio non ha causa,
allora Dio non è passibile di dimostrazione: “Ne si dà di lui dimostrazione perché non ha causa.
Similmente non si chiede di lui il perché”. Avicenna, Liber de philosofia prima sive scientia divina, tract,
VIII, cap. 4
44
Summa Theologiae, I, q.2, a.1, in corp.
45
Summa contra Gentiles, I, X.
21
umano a partire da ciò che è noto all’uomo, ovvero dagli effetti, dal finito, quindi è
dimostrabile a posteriori:
Vi è una duplice dimostrazione: l’una procede dalla causa, ed è chiamata propter quid, e
questa si muove da ciò che precede in senso assoluto (est per priora simpliciter). L’altra parte dagli
effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che precedono soltanto rispetto a noi:
ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa.
[…] Dunque l’esistenza di Dio, non essendo nota rispetto a noi (secundum quod non est per notum
quoad nos), si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.46
46
Summa Theologiae, I,q.2., a.2.
47
Il rifiuto di Tommaso per l’auto-causalità si spiega con l’anti-platonismo dilagante tra i teologi. Cartesio
cercherà di giustificare la prova a priori proprio con il concetto di causa sui.
48
G. d’Onofrio, Storia del pensiero Medievale, pp. 485- 491.
22
Tommaso elenca i cinque percorsi che, prendendo le mosse da dati di partenza diversi,
ossia assunti in prospettive diverse, sono distinti e non riconducibili l’uno all’altro. Il
metodo, invece, è lo stesso: ciò che appare alla mente come un effetto non è concepibile
come assoluto, il principio di casualità impone di riconoscere l’esistenza di un primum,
che per essere tale deve essere trascendente. Tutte le prove tomiste, riassumendo, giocano
con due elementi: 1)la constatazione di una realtà sensibile che richiede una spiegazione;
2) l’affermazione di una serie causale di cui questa realtà è la base di Dio49.
La prima via, la più evidente (manifestior), su cui si insisteva anche nella Summa
contra Gentiles, parte dalla nozione di motus: nell’universo vi è del movimento, perché
ogni cosa passa dalla potenza all’atto, quindi ogni cosa non può essere mossa da sé, ma
sempre da qualcosa che è in atto; dunque nulla, in relazione a un medesimo divenire, può
essere a tempo motore e mosso; di motore in motore non si può procedere all’infinito
perché se non ci fosse un primo motore, non vi sarebbe neanche un secondo motore, e cosi
via. Bisogna dunque ammettere che o la serie delle cause è infinita e non ha un primo
termine, ma allora non si spiegherebbe il movimento, o la serie è finita e c’è un primo
motore, che non può essere mosso da altro, ma sempre in atto, e tale è Dio. Su questo
argomento utilizzato per la prima volta nella scolastica latina da Abelardo di Bath, vi
avevano poi insistito Maimonide e Alberto Magno.
La seconda via, quella della ratio o della cause efficiente: tutte le cose non solo
si muovono, ma prima di muoversi, esse esistono. Quindi il discorso fatto per le cause del
movimento si può applicare anche per le cause in generale. Niente può essere causa
efficiente di sé stesso, perché, per prodursi, dovrebbe essere causa efficiente del suo
effetto, il che è contradditorio. Anche qui è escluso un rinvio all’infinito, perché se non ci
fosse una prima causa non ci sarebbe neanche una seconda. Occorre dunque una prima
causa della serie perché ce ne sia una di mezzo e un’ultima, ed esse deve essere Dio.
Questa via, desunta da Aristotele, era stata ripresa da Avicenna.
La terza via, del possibile e del necessario: nell’universo tutte le cose sono o
possibili o necessarie. Ma se fossero tutte possibili, vi potrebbe anche non esserci niente.
Allora vi è del necessario. Ora questo necessario esigerà una causa, o una serie di cause
49
É. Gilson, La filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, cit. p. 636.
23
che non sia infinita, e l’essere necessario per sé, causa di tutti gli esseri che gi devono la
loro necessità, non può essere altro che Dio. Questa prova è presa da Avicenna.
La quarta via, dei gradi di dignità delle cose: tutte le cose che noi osserviamo
presentano più o meno perfezione. Ora il più o il meno suppongono sempre un termine di
paragone che è l’assoluto stesso. Questo bene in sé, che è in fondo l’essere in sé, è la causa
di tutti gli altri essere e che noi chiamiamo Dio. Questa prova di origine platonica, è
ripresa da Aristotele.
La quinta via, dell’ordine delle cose: tutte le cose create tendono a un fine, anche
quelle prive di conoscenza. La regolarità con cui ci arrivano dimostra che non arrivano per
caso al loro scopo. Allora questa regolarità deve essere intenzionale e voluta. Poiché essi
non la conoscono, bisogna che qualcuno per loro ordini le loro azioni, e questa intelligenza
ordinatrice della finalità delle cose che noi chiamiamo Dio. In questa prova, che è la più
antica e venerabile di tutte50, l’esposizione tomistica segue, probabilmente Giovanni
Damasceno e Averroè.
Tommaso ha così raggiunto Dio con la ragione, visto come una potenza assoluta,
motrice, ordinatrice, governatrice dell’intera realtà. Questo è il massimo della speculazione
che può compiere la ragione con le sue sole forze, ma ancora non è la conoscenza del quid
del divino, ossia di ciò che Dio è. Mediante la compenetrazione di via remotionis e di
analogia già indicate nella Contra Gentiles questa nozione di sommo ens può essere
completata, ma il metafisico raggiunge questa principale verità sulla natura di Dio: Dio è
colui che è (“Ego sum qui sum”51).
24
causa ed effetto, l’analogia è possibile anche quando la causa è infinita e l’effetto è finito.
In questo senso, noi attribuiremo a Dio, ma traducendole all’infinito, tutto ciò che è
presente nelle creature in maniera imperfetta. Così diremo che Dio è perfetto,
supremamente buono, unico, intelligente, onnisciente, volitivo, libero ed onnipotente, che
non sono altro che attributi, quindi aspetti, dell’atto puro di esistere che è Dio.
25
CAPITOLO SECONDO
52
Per approfondire questo tema ho utilizzato diverse fonti: John Cottingham, Cartesio, Il Mulino,
Bologna, 1986; G. Rodis-Lewis, Cartesio, una biografia, Editori Riuniti, Roma, 1997; Eugenio Garin,
Vita e opere di Cartesio, Universale Laterza, Roma-Bari, 1993; Emanuela Scribano, Angeli e Beati,
Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Laterza, Roma-Bari, 2006; Giovanni Crapulli, Introduzione
a Descartes, Laterza, Roma-Bari, 1988.
53
Intendo per tomismo qui come Scolastica in generale e non come il pensiero di Tommaso in particolare.
54
Cfr. E. Garin, Vita e opere di Cartesio, , cit., p. 17, nota 27.
55
Per una lettura trascendentale di Cartesio, si cfr. R. Lauth, Cartesio. La concezione del sistema della
filosofia, Guerrini, Roma, 2000, e, probabilmente, anche A. Masullo, Metafisica. Storia di un’idea,
26
Questa visione molto manualistica (mi rendo conto anche troppo generale e
<<volgare>>) non è più sostenibile dopo le riflessioni avvenute nel secolo scorso 56: i
debiti di Descartes con la Scolastica sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno dubita ormai più
che le radici di Descartes affondino nel pensiero della tarda scolastica (in Suarez
soprattutto), che il suo linguaggio, le sue definizioni, il suo quadro teorico di riferimento
siano costruiti in larga parte dai testi che il giovane Descartes aveva studiato a La Flèche,
anche se il dissenso è aperto nel valutare il significato e il peso di quelle radici nella
costruzione della filosofia cartesiana. Nonostante ciò, agli occhi dei suoi contemporanei,
“Descartes apparve un innovatore che si accingeva a sovvertire il pensiero tradizionale”57:
basti pensare al teologo Caterus che, nelle Prime Obbiezioni, rimanda sempre Descartes
“all’autorità di Tommaso” o alla condanna che la filosofica cartesiana ebbe dal Senato
dell’università di Utrecht dove le lezioni del discepolo Regio avevano provocato l’ostilità
delle autorità. In particolare, per essi la filosofia cartesiana “è contraria alla filosofia
tradizionale che è stata finora insegnata e ne distrugge le fondamenta”. Descartes si
presenterà sempre nelle sue intenzioni come l’alternativa al vecchio sistema filosofico, il
suo intento era una formulazione globale del sapere. Descartes, però, si dovette misurare
con un formidabile sistema filosofico, di considerevole raffinatezza e potenza. Un sistema
onnicomprensivo che cercava di rendere conto di tutta la realtà e dello scibile umano. Ed
ecco che viene a cadere un altro luogo comune, ovvero quello che dipingeva la Scolastica
come un pensiero sterile e banale, dogmatico e poco allettante dal punto di vista
intellettuale58.
Descartes, quindi, si formò nel collegio di La Flèche con l’ordinamento
tradizionale: dei nove anni trascorsi in collegio conserverà sempre un bel ricordo. “E devo
rendere quest’onore ai miei maestri, di dire che non c’è luogo al mondo in cui io giudichi
Donzelli Editore, Roma, 2006, in part. pp. 127-130, paragrafo L’identificazione del pensiero umano con
l’idea di Dio: la tendenza trascendentale della nuova metafisica, può considerarsi, se non un interprete
trascendentale a tutti gli effetti, certo una lettura ben esperta di Fichte e di tutta la tradizione critico-
trascendentale.
56
In particolare le riflessioni di Etienne Gilson volevano dimostrare la presenza di Tommaso nella
filosofia cartesiana. Successivamente altri studi hanno sottolineato invece le analogie del pensiero di
Descartes con quello scotista. Si cfr. Scribano, Angeli e Beati, p.119 nota 1.
57
John Cottingham, Cartesio, cit. p. 13.
58
Per una rivalutazione della Scolastica si cfr. J. Cottingham, Cartesio, cit., pp. 12-17 e É. Gilson, La
filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 903-
913.
27
che la filosofia s’insegni meglio che a La Flèche”59. Con tutto ciò Descartes sarà anche
nelle intenzioni sempre fermissimo nel respingere in blocco tutta quella filosofia come
inutile, pedantesca e vuota. Vi è, comunque, una differenza tra il periodo giovanile e il
periodo della maturità. Nel primo periodo, Descartes rompe in maniera più netta con la
Scolastica; nel secondo, il buon Renè, al di là delle intenzioni, utilizzerà molte delle
modalità e degli approcci scolastici, in special misura – e ciò riguarda direttamente la mia
ricerca – per quel che concerne le prove dell’esistenza di Dio.
2. Scritti giovanili
59
Dalla lettera indirizzata probabilmente a Florimond Debeaune. Notevole è anche il giudizio sulle
abitudini delle scuole dei Gesuiti (“l’eguaglianza che i Gesuiti mantengono tra gli allievi è un invenzione
ottima”). Su gli anni di Descartes a La Flèche, si cfr. E. Garin, Vita e opere di Cartesio, cit., pp. 3-19 e G.
Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, cit., pp. 23-40.
60
La maggior parte degli studiosi colloca il dialogo tra il 1622 e il 1628 mentre altri sono più propensi
per gli ultimi anni di vita di Cartesio. Quest’ultima ipotesi vede il dialogo come un dono di Cartesio
per la regina Cristina. Su ciò, Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, pp. 247- 253. E. Cassirer,
Cassirer, E., Descartes’ Dialog ‘Recherche de la vérité par la lumière naturelle’ und seine Stellung im
Ganzen der cartesischen Philosophie. Ein Interpretation-Versuch (1939), in Ernst Cassirer
Gesammelte Werke, Hrsg. B. Recki, Hamburger Ausgabe, vol. 20, Hamburg, Meiner, 2008; tr. it., Il
dialogo di Descartes “Recerche de la Veritè par la lumiere naturelle”, a cura e con Appendice di A.
d’Atri, Rubettino, Soveria Mannelli, 1998.
61
R. Descartes, La ricerca della verità, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, voll. I-IV, Bari, Laterza,
2009, qui, vol. I, p. 99.
28
Strettamente collegate alla La ricerca della verità sono le Regole62: quest’opera
conclude il periodo giovanile di Descartes, e in essa vi sono sia elementi che ritorneranno
in seguito nelle opere della maturità, sia quegli argomenti che Descartes lascerà cadere. Al
secondo gruppo rientra il tema delle naturae simplices e la certezza che è possibile
risolvere qualunque problema rintracciandone la struttura formale. Temi che passeranno
nella maturità sono l’intuitus, il metodo fondativo sia della scienza sia della filosofia, la
matematizzazione del mondo fisico e la predominanza del punto di vista soggettivo in
filosofia. Grande assente nell’opera è la metafisica: questo è quello che distingue le Regole
dalle opere della maturità: il segno della maturità cartesiana è dato dalla percezione che
l’epistemologia richiede una fondazione ontologica e ciò avrà un’espressione scritta nel
Discorso del Metodo in poi. Paradossalmente, questa <<assenza>> della metafisica sarà un
ulteriore motivo di discordia con la Scolastica, proprio perché il trentenne Descartes ritiene
che il solo intuitus basti per fondare una nuova gnoseologia, mentre per gli scolastici la
gnoseologia dipende sempre dalla metafisica. L’epistemologia delineata da Descartes ha il
pregio di non dipendere dai dati sensoriali e per questo riesce a <<parare>> meglio le
critiche provenienti dagli scettici. Successivamente si accorgerà che questa epistemologia
è ancora incompiuta e la garanzia della sua Mathesis universalis dovrà essere cercata su un
piano metafisico. Il motivo dipanante delle Regole resta comunque la nuova concezione
che Descartes vuole dare alle scienze: già in un frammento giovanile, lo Studium bonae
mentis, Descartes propone una nuova divisione delle scienze in tre classi (cardinali,
sperimentali e liberali), mentre nelle Prima Regola, Descartes si distacca dalla Scolastica
che poneva sullo stesso piano di partenza arte e scienza, ovvero l’esperienza e la loro
distinzione verteva sull’oggetto. Descartes, invece, nega che le scienze vadano distinte in
base al loro oggetto, come invece è lecito fare per le arti. E ciò perché, egli dice, “tutte le
scienze non sono altro che sapere umano, che rimane sempre uno e identico”63. Nonostante
la differenza che intercorre tra lo Studium bonae mentis e le Regole, entrambe pongono lo
spostamento della riflessione filosofica dall’oggetto al soggetto: poiché le scienze sono
concatenate tra loro, per indagare la verità delle cose basterà aumentare il naturale lume di
ragione perché l’intelletto possa chiarire alla volontà che cosa convenga scegliere nella
vita64.
62
Per discutere sulle Regole, mi sono servito dell’Introduzione di L. Urbana Ulivi a Descartes, Regole per
la guida dell’intelligenza, Fabbri Editori, Milano,1995, pp. 7- 126
63
R. Descartes, Regole per la guida dell’intelligenza, Fabbri Editori, Milano, 2000, cit. p. 141.
64
Sul rapporto tra Studio bonae mentis e Regulae, cfr. E. Garin, Vita e opere di Cartesio, cit., pp. 57-78.
29
In conclusione, Descartes arriva a un primo abbozzo di rottura epistemologica in
questi scritti giovanili con la Scolastica. Un nuovo approccio gnoseologico si affaccia nelle
discussioni tra i dotti del tempo, dove il sistema tradizionale dominante era ancora la
Scolastica. I dati sensibili sembrano non garantire una conoscenza certa e le verità prime
sono raggiungibili da qualsiasi uomo dotato di lume naturale. Le uniche affinità con la
Scolastica sono il tentativo di costituire un sistema olistico e il titolo delle Regole che
rientra in quel programma formativo e didattico della filosofia a lui contemporanea e
quindi risponde a un’esigenza generale cara anche alla Tarda Scolastica65.
Prima di iniziare la mia analisi, sarà giusto fare una precisione bibliografica: in
questa sessione parlerò di quelle opere più strettamente filosofiche, in cui sono presenti le
prove dell’esistenza di Dio, quindi Discorso sul metodo, Meditazioni di prima filosofia
(con relative Obbiezioni e Risposte) e I principi di filosofia. Sono escluse tutte le opere
pertinenti alle altre scienze come Il mondo o trattato della luce, La diottrica, La
geometria, Le meteore, L’uomo e Le passioni dell’anima. Ciò risponde a un’esigenza più
pratica che epistemologica, dal momento che per Descartes, come abbiamo già detto,
“tutte le scienze non sono altro che sapere umano che rimane uno e identico, per diversi
che siano gli oggetti a cui viene applicato”66.
Il Discorso sul metodo fu pensato inizialmente come prefazione per tre saggi67
scientifici per spiegare il metodo da lui adottato nelle indagini scientifiche. ‘Discorso’ e
non ‘Trattato’, in quanto lui vuole informare del metodo, non discuterne in maniera
sistematica. Esso si divide in sei parti e del metodo in senso stretto Descartes ne parla solo
nella seconda parte, in cui espone i famosi quattro precetti del metodo, invece, nel resto
65
Sulle ragioni del titolo Regulae ad directionem ingenii , si cfr. l’Introduzione della Ulivi a Descartes,
Regole per la guida dell’intelligenza, cit., p.20.
66
Cfr., supra, nota 64, p. 28.
67
La diottrica, La geometria e Le meteore.
30
dell’opera, Descartes esprime una considerazione concernenti le scienze (prima parte),
tratta di morale (terza parte), metafisica (quarta parte), fisica e anatomia (quinta parte)68, e
infine un appello per la ricerca (sesta parte). Definirei, quindi, il Discorso come il
manifesto o come l’introduzione alla filosofia cartesiana.
68
In questa parte, con la sua descrizione del corpo umano tenta di esibire il successo ottenuto con il banco
di conferma della bontà del suo metodo.
69
La condanna di Galilei ha distolto Descartes dalla pubblicazione del Mondo, nonostante lui non trovasse
niente che “potessi immaginare pregiudizievole alla religione o allo Stato…”.
70
Lucia Urbana Ulivi analizza molto bene le relazioni bibliografiche ed epistemologiche che intercorrono
tra il Discorso e le Meditazioni, nella sua Introduzione a Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani,
Milano, 2001, in part. pp. 7-23.
71
I Principi di presentano come un vero è proprio manuale alternativo alle Summae medievali. Nella
Prefazione(Lettera all’Abate Picot), Descartes spiega che ha iniziato dalle cose più semplici come “che
significa pensare?” o “il significato della parola filosofia”, proprio perché il fine dell’opera è di essere di
supporto nelle Scuola.
72
Su ciò, cfr. G. Crapulli, Introduzione a Descartes, cit. p.103. Crapulli, in questo passo propende per
quest’ipotesi rispetto alle due tesi estreme di alcuni critici cartesiani: l’una, convinta che nella IV Parte del
Discorso sono già presenti tutti gli elementi delle Meditazioni; l’altra che non intercorre nessuna relazione
tra le due opere.
31
il meditante, <<il ricercatore della verità>>, è una persona dotta, rappresentante del senso
comune di stampo aristotelico. Ergo, di un sistema filosofico raffinato di cui Descartes
utilizza alcuni termini ed espressioni in una nuova luce nella sua <<moderna filosofia>>.
73
Le due prove a posteriori sono due facce della stessa medaglia: raggiungo l’esistenza di Dio, partendo
dai suoi effetti, ma la prima si muove sul piano delle idee (piano logico), l’altra dell’essere (piano
ontologico).
74
Nella seconda edizione, Descartes, scontento, cambiò il nome in Meditationes de prima philosophia, in
quibus Dei existentia, et animae humanae a corpore distinctio demonstrantur, in cui non è più menzionata
l’approvazione della Sorbona.
75
Cfr. L. Urbani Ulivi in Introduzione a Meditazioni metafisiche, cit., pp.14-15.
32
porta il lettore a una identificazione intellettuale con l’autore, utilizza la via analitica76,
ovvero poietica77, che ha in sé il piacere della scoperta. Descartes, seguendo la via
analitica, sottolinea la logica della scoperta filosofica e quindi si trasforma la riflessione in
una vera e propria scoperta delle verità prime.
La Prima philosophia è, nel lessico della Scolastica, la scienza che si occupa delle
cose che esistono separate dai corpi, mentre la metafisica ha per oggetto in senso stretto
l’esistenza di Dio e l’anima. Descartes, in tal guisa, sottolinea che oggetto dell’opera non è
solo Dio e l’anima, ma anche “tutte le prime cose che si possono conoscere filosofando
con ordine”78.
Così tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la
fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre
principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta perfetta morale che
presupponendo un’intera conoscenza delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza. Ora,
come non è dalle radici, né dal tronco degli alberi che si colgono i frutti, ma solo dalle estremità
dei loro rami, così la principale utilità della filosofia dipende da quello delle sue parti, che non si
possono imparare che per ultime.79
Questo è un estratto dalla Lettera all’Abate Picot, che oggi è utilizzata come
prefazione alla seconda edizione dei Principi della filosofia, in cui Descartes esprime la
sua concezione delle scienze. Egli paragona la conoscenza a un albero, dove appunto la
metafisica sono le radici, base di tutto il sapere, la fisica è il tronco e i rami le altre scienze.
Se prendiamo in esame il percorso intellettuale di Descartes, possiamo fare alcune
considerazioni di stampo epistemologico: le riflessioni metafisiche avvengono dopo gli
studi scientifici. Questo perché Descartes si rese conto che le sue nuove concezioni fisico-
matematiche, una volta <<distrutto>> il sistema scolastico, avevano bisogno di un
76
La via analitica, come già ricordato nel Discorso, si oppone alla via sintetica, tipica della geometria, che
espone per prima i principi da cui susseguono le altre verità dipendenti dai primi principi.
77
È l’espressione utilizzata da L. Urbana Ulivi nella sua Introduzione alle Meditazioni.
78
Lettera a Mersenne, A.T., III, p.239.
79
Lettera all’Abate Picot in Descartes, I principi della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1995, cit., pp. 15-16.
33
<<garante>>, di un elemento che fondasse e reggesse il suo nuovo apparato scientifico80.
Una volta negato il finito, questo garante, quest’idea che regge e conserva il mondo,
poteva provenire solo dal piano del meta-sensibile. L’idea che può reggere il mondo e lo
riesce a conservare è Dio. La creazione non è l’atto produttivo di questa o di quella cosa
ma del tutto: “il rapporto creativo lega il mondo a Dio come il picciolo lega il frutto alla
pianta: se il picciolo resiste, il frutto intero resta attaccato, se il picciolo è reciso (..),
l’intero frutto, caduto, marcisce, si annienta; ma fin quando è attaccato alla pianta, non una
delle sole leggi che regolano nel suo interno la vita delle sue parti può cambiare. La
creazione contraddirebbe se stessa”81.
Stiamo per entrare nel cuore del nostro oggetto di tesi. Parlerò prima della prova a
priori e successivamente di quella a posteriori, seguendo lo stesso iter tematico della
Scribano nel suo testo di riferimento, che nei capitoli dedicati a Descartes ha dimostrato
che i cambiamenti più significativi non vanno ricercati tanto nella Quinta Meditazione ma
nella Terza: ed è qui, e non nelle Risposte alle Obbiezioni82 che nasce il <<secondo>>
argomento ontologico, ovvero dalle trasformazioni che subisce la prova a posteriori, che
lungi dall’essere alternativo alla prova priori, è piuttosto un solidale alleato e sostegno.
Ciò, come abbiamo già detto83, aprirà a Leibniz.
80
Quella che ora sto per scrivere è una riflessione personale, ma mi sembra che Descartes possa essere
paragonato a Marx, perché quest’ultimo si servi di una riflessione economica per giustificare il suo
programma politico.
81
A. Masullo, Metafisica. Storia di un’idea, cit., p. 123.
82
Come abbiamo detto, questa è la tesi di Dieter Henrich nel saggio La prova ontologica. Vedi, supra,
p.15, nota 31.
83
Vedi Introduzione.
34
dimostrare <<l’anticamera>> dell’esistenza delle cose materiali: la loro essenza. Per la
filosofia scolastica è possibile distinguere nelle cose create l’essenza (ciò per cui una cosa
è quello che è) dall’esistenza ( l’attuale darsi della cosa). Descartes riprende questi concetti
e li elabora alla luce della sua nuova filosofia84. In consonanza con la Scolastica (in
particolare con Duns Scoto), la domanda sulla natura della cosa precede quella sulla
esistenza85. Ancora: Descartes si allontana ancora di più da Tommaso sostenendo che un
oggetto infinito possa essere <<catturato>> da un concetto finito.
84
Si cfr. Descartes, Meditazioni Metafisiche, Bompiani, p. 306, nota 73.
85
E. Scribano insiste molto su questa analogia tra Descartes e la Scolastica: Descartes, costretto da un
riferimento esplicito di Caterus a Suarez, abbia dovuto chiedere a Mersenne di correggere una sua frase in
cui rivendicava come una sua invenzione originale questa tesi. Si cfr., E. Scribano, Angeli e Beati. Modelli
di conoscenza da Tommaso a Spinoza, cit., p.126, nota 18.
86
Su ciò, ivi, pp. 168-175.
87
E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, cit., pp. 41-57.
88
Descartes, Meditazione metafisiche, Bompiani, cit., p.241
35
essenza che non dipende dall’uomo: non è quindi un’idea fattizia89, ovvero non è un’idea
che proviene da me, perché posso dimostrare tutte le sue proprietà che risultano chiare e
distinte.
Il triangolo sia che esita o che non esista risulta, quindi, avere determinate
proprietà, tipo che consta di tre lati, che la somma dei suoi angoli risulta essere 180° 90, etc.
Ora, Descartes si chiede, se di un triangolo o di una qualsiasi altra idea di una certa cosa
posso trovare delle proprietà che appartengono chiaramente e distintamente a quella cosa,
non si potrebbe forse avere da qui un argomento anche per provare l’esistenza di Dio91? La
formulazione della prova a priori può essere strutturata in questo modo, secondo la
Scribano92:
1. Dio è l’ente perfettissimo
2. L’esistenza risulta essere una perfezione
3. “pensare a un Dio (cioè l’ente sommamente perfetto) a cui manchi l’esistenza (cioè a cui
manchi una perfezione ) è una contraddizione non minore di quanto lo è pensare un monte
a cui manchi una vallata”93.
Descartes si pone subito un’obbiezione: dal fatto che non esista un monte senza una
valle non deriva che il monte e la valle vi siano, allo stesso modo dal fatto che penso Dio
come esistente, segua che egli esista. Ed egli paragona l’idea di Dio ha un’idea fattizia, il
cavallo alato. Viene quasi in mente il confronto tra Anselmo e Gaunilone: ma Descartes
evade l’obbiezione sostenendo che l’esistenza è inseparabile da Dio, e non posso pensarlo
non esistente, perché la necessità della cosa stessa, l’esistenza di Dio, induce il lume
89
Descartes, come vedremo, distingue le idee in tre categorie: quelle che ritrovo in me ma non dipendono
da me, innate; quelle che rappresentano qualcosa che proviene da “fuori”, avventizie; quelle che
provengono da me, fattizie. Questa distinzione è importante perché Descartes avrà problemi a chiarire se
Dio è un idea innata oppure fattizia.
90
Oggi, nelle geometrie non-euclidee, non si è più sicuri che la somma dei tre angoli interni di un
triangolo sia 180° <<precisi>>. La somma degli angoli interni del triangolo può essere superiore all'angolo
piatto (geometria di Riemann) o inferiore (geometria di Lobacevski).
91
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., p.243.
92
E. Scribano, L’esistenza di Dio, p. 27.
93
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., p. 245.
36
naturale a pensare ciò: non ho la libertà di pensare diversamente. Mentre, ho la libertà di
pensare un cavallo sia con le ali che senza94.
Il nodo si presenta in maniera più netta subito dopo, scorrendo le righe della
Quinta meditazione, quando Descartes paragona l’idea di Dio a un’idea fattizia matematica
per superare un’eventuale obbiezione di petito principii: l’iscrizione di tutti i quadrilateri
in una circonferenza. L’ipotetico avversario ritiene valido l’argomento cartesiano ma
sostiene che si può anche non pensarlo affatto, perché non vi è necessità. La necessità di
parlare di Dio come esistente è subordinata al pensare Dio: se io penso un’affermazione
matematica, ad esempio “tutte le figure di quattro lati sono inscrivibili in una
circonferenza”, segue che anche il rombo sia inscrivibile, anche se ciò è palesemente
falso95. Da ciò evinciamo la non garanzia di considerare una conseguenza necessaria che
derivi da una certa premessa, poiché quest’ultima potrebbe essere falsa, ovvero un’idea
fattizia. Dunque anche se l’argomento ontologico risulta vero, ciò non garantisce la verità
della premessa. Descartes prova a superare l’obbiezione concedendo che è possibile
compiere un’affermazione falsa in geometria, e quindi affermare una premessa sbagliata,
ma ciò è impossibile quando si parla di Dio, poiché è l’ente primo e sommo e la sua
essenza mi si presenta in maniera chiara ed evidente da non poter non concludere la sua
esistenza, “infatti, che cosa vi è di più manifesto che il sommo ente, o Dio, alla cui solo
essenza compete l’esistenza, esista?”96.
94
Mi rendo conto di aver adoperato alcune parole chiavi del glossario cartesiano, come immaginazione,
libertà (intesa come volontà, capacità di giudizio) e lume naturale. Il cavallo, oggetto di conoscenza del
mondo esterno , è strettamente connesso all’immaginazione, intesa alla maniera scolastica, come capacità
di astrarre le cose corporee. Per la sua connessione col mondo sensibile non fa parte della mia essenza. La
libertà è intesa in maniera duplice da Descartes: nel prima, la libertà è il potere di fare o non fare una cosa,
quindi come possibilità di scegliere; nella seconda, la libertà è l’assenso dato a ciò che l’intelletto ci
presenta. Ontologicamente essa è illimitata ed è la facoltà che formalmente ci avvicina a Dio. In essa però
si annida l’errore, o meglio, l’errore è situato nello scarto tra l’intelletto (limitato) e la volontà (illimitata).
Il lume naturale, invece, è il nous medievale, l’intelletto staccato dai sensi che si rivolge a un oggetto e ne
garantisce la verità e la realtà di ciò che si guarda. Su ciò, cfr. la sezione Parole chiavi di Cartesio,
Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., pp. 311-327.
95
Mentre ogni triangolo è inscrivibile in una circonferenza, per ogni quadrilatero vale questo teorema: un
quadrilatero è inscrivibile in una circonferenza se e solo se gli angoli opposti sono supplementari. Questa
condizione non si realizza nel caso del rombo.
96
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., p. 251.
37
indenni dal primo e dal secondo livello di dubbio97, e si erano arrestate solo davanti
all’ipotesi del Dio ingannatore. Ciò accadeva nella Prima Meditazione; ma nella Quinta
Meditazione, Descartes può utilizzare quanto acquisito nelle precedenti giornate
98
meditative, in particolare che Dio esiste e che non può ingannarmi , e dimostrare che le
verità matematiche hanno una natura immutabile e non dipendono da me. Esse sono delle
idee innate e di conseguenza non fattizie. Ed ecco qui, il senso profondo dell’introduzione
dei due esempi del cavallo alato e dell’esempio matematico dei quadrilateri inseriti in una
circonferenza: Descartes deve dimostrare che l’idea di Dio non è un’idea fattizia ma
un’idea innata. La differenza sostanziale tra le due tipologie è che nelle idee fattizie si
risolve tutto in una tautologia, ossia ritrovo nella conclusione solo quello che era già
esplicitamente posto nella premessa, in definitiva sono dei sistemi chiusi. Infatti, tra le
critiche che Kant rivolgerà alla prova ontologica, una sola sarebbe stata seriamente
avvertita da Descartes: ammesso e non concesso che l’esistenza sia una perfezione,
l’argomento è una prova apparente; in realtà non si tratta altro che di una tautologia99.
97
L. Urbana Ulivi, nella sua già citata Introduzione, classifica tre livelli di dubbio: 1) il dubbio dei sensi;
2) il dubbio del sogno; 3)Il Dio ingannatore e il genio maligno. Vedi Introduzione, pp. 24-32.
98
Per l’ipotesi del Dio ingannatore, Descartes verrà accusato di blasfemia da parte di Jacobus Triglandius,
primo teologo della Facoltà di Teologia di Utrecht. Descartes riuscì a superare l’accusa dimostrando che il
Dio ingannatore era solo un’ipotesi e in seguito, all’interno sempre delle Meditazioni, aveva dimostrato
che Dio non è ingannatore ma nella sua immensa bontà non ci inganna mai. Cfr., G. Crapulli, Introduzione
a Descartes, cit., pp. 166-170.
99
I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 379-384 (Dell’impossibilità di una
prova ontologica dell’esistenza di Dio).
100
La quale, a sua volta, rimanda a S. Werenfels, Judicium de Argumento Cartesii pro existentia Dei petito
ab ejus idea, in Opuscola theologica. Su ciò, cfr., E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., p. 53, nota 51.
38
perfezioni da un lato e dall’altro le ali e il cavallo alato dall’altro mentre Descartes
pretende di confrontare la relazione che intercorre tra l’esistenza e tutte le perfezioni a
quella che esiste tra le ali e il cavallo senza ali, poiché è impossibile negare che le ali
appartengono a un cavallo alato e di conseguenza l’idea di cavallo alato diverrebbe un’idea
innata. È dunque grazie a un paragone mal costruito che Descartes supera per l’idea di Dio
l’esame dell’innatismo.
101
La Scribano rimanda a Russell che insisterà molto su questo punto. Cfr., On denoting <<Mind>>, XIV
(1905), pp. 479-493
102
La Scribano, in questa maniera, dimostra l’inconsistenza dell’analogia su cui si fonda la prova a priori
cartesiana nella Quinta meditazione.
39
seriamente sull’analogia tra la dimostrazione dell’equivalenza dei tre angoli di un triangolo
a due angoli retti e l’esistenza di Dio: è in gioco non solo la prova a priori e la sua
metafisica ma anche la sua gnoseologia.
Ma il mio argomento è stato un altro: ciò che noi concepiamo chiaramente e distintamente
appartenere alla natura o alla essenza, o alla forma immutabile e vera di qualche cosa può esser
detto o affermato con verità di questa cosa; ma dopo che noi abbiamo con sufficiente accuratezza
ricercato ciò che è Dio, concepiamo chiaramente e distintamente che alla sua vera ed immutabile
natura appartiene di esistere; dunque, allora, noi possiamo affermare con verità che egli esiste.
103
Descartes, appena terminò le Meditazioni, desideroso di aver subito il parere dei teologi intorno alla sua
opera, si rivolse da prima a due preti cattolici di Harlem: Bannius e Bloemerat , ma essi si occupavano -
nonostante la licenza in teologia – più di musica. Quindi, indirizzarono Descartes a un loro confratello,
Johan de Kater (latinizzato Caterus), un dotto teologo , che era veramente un acuto spirito filosofico.
104
Descartes, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, a cura di E. Garin, voll. I-IV, Laterza, Roma-
Bari, 2006, qui vol. III, p. 277.
105
Ivi., p. 292.
40
non da un puro nomen come nel caso di Anselmo106. Il passaggio dal pensiero all’essere107
è impossibile nel caso in cui la definizione di Dio a partire dalla quale si intende
dimostrarne l’esistenza sia un mero nomen, una definizione convenzionale, ma non quando
la definizione di Dio ne descriva correttamente l’essenza, ossia quando siamo di fronte ad
una definizione reale. Secondo il Tommaso letto da Descartes, Anselmo si sarebbe servito
di una definizione nominale, una flauto vocis, e perciò il suo argomento è fallace. In parole
cartesiane, l’idea di Dio non è un’idea fattizia ma un’idea innata.
E quindi, come abbiamo già potuto constatare108, la difficoltà sta nel dimostrare che
all’idea di un ente perfettissimo cui compete l’esistenza non è un’idea arbitraria.
Nel tentativo di dimostrare che l’esistenza appartiene alla vera natura di Dio,
Descartes elabora una vera e nuova prova a priori dell’esistenza di Dio, costruita a partire
dall’onnipotenza invece che dalla somma perfezione. Così suona la nuova prova:
106
Ed è per questo che quella di Anselmo, secondo Tommaso, non è neanche una prova a priori. Vedi
sopra, p.
107
Secondo Aldo Masullo, in Descartes vi è quel ripristino e quel rispetto per il divieto parmenideo. Cfr.,
A. Masullo, Metafisica. Storia di un’idea, cit., pp.113-132
108
Vedi, supra, pp.20-22.
109
Descartes, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, cit., pp. 294-295.
110
Si va dalla assoluta sottovalutazione di Lachièze-Rey, all’alta considerazione che ne hanno avuto
Gilson e Gouhier, mentre Henrich ne fa addirittura il perno di un rilancio più che secolare dell’argomento
ontologico. Cfr., E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., p. 29, nota 7.
41
Andando a schematizzare la prova nella sua definitiva formulazione, si articolerebbe
così111:
1. All’ente potentissimo compete l’esistenza possibile.
2. L’ente potentissimo può esistere per forza propria.
3. Ciò che può esistere per forza propria, esiste sempre.
4. L’ente potentissimo esiste.
In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile, senza, in pari
tempo, pensare che possa darsi una potenza in forza della quale egli esista, e quella potenza non è
intellegibile in nessun altro se non nello stesso ente sommamente potente, concluderemo senz’altro
che egli può esistere per la sua propria forza, ecc.112
Gli interpreti sono stavolta unanimi: la modifica sarebbe da attribuirsi alla volontà
di nascondere il più possibile il richiamo alla causalità positiva che la potenza divina
eserciterebbe rispetto all’esistenza di Dio, una potenza in forza della quale egli esista, ossia
a quella interpretazione positiva della aseitas. L’argomento, quindi, poteva essere
bersaglio di attacchi da parte dei professionisti della teologia.
Sia la schematizzazione della prova definitiva, sia della prima, sono tratte da E. Scribano, L’esistenza di
111
Dio, cit., p. 30
112
In corsivo la parte modificata da Descartes rispetto alla versione definitiva.
42
Tuttavia, Descartes cambierà opinione e rifiuterà la versione che i secondi
obbiettori gli proporranno, la quale si basava proprio su questa seconda prova: in questa
seconda prova Descartes deduce dunque la possibilità di una causa che porti
all’esistenza un ente dalla non contraddittorietà della definizione di quell’ente. Ma
proprio questa deduzione lo stesso Descartes riconoscerà fallace quando se la vedrà di
proporre dai secondi obbiettori. Questi prendono atto della nuova formulazione con la
quale Descartes ripropone la prova della Quinta meditazione contro l’obiezione tomista
ripresa da Caterus: ciò che intendiamo chiaramente e distintamente appartenere alla
natura di una cosa può essere affermato con verità di quella cosa, e poiché intendiamo
chiaramente che alla vera e immutabile natura di Dio appartiene l’esistenza, possiamo
affermare con verità che alla sua vera e immutabile natura appartiene di esistere. Ma,
secondo gli obbiettori, non segue che Dio esista realmente. A questo punto, gli
obbiettori propongono di emendare (in guisa del quale sembra anticipare la proposta
leibniziana) l’argomento nel seguente modo:
Donde non segue che Dio esista di fatto, ma solo che deve esistere, se la sua natura è
possibile o non ripugna; cioè che la natura o l’essenza di Dio non può essere concepita senza
esistenza, di guisa che, se questa essenza è, egli esiste realmente. Il che si richiama a
quell’argomento che altri propongono con queste parole: se non è impossibile che Dio esista, è
certo che egli esiste; ma non è impossibile che esista. Ma si disputa della premessa minore, e
cioè <<non è impossibile che esista>>, la verità della quale i nostri avversario dicono di porre
in dubbio o negano.113
Per ciò che riguarda l’argomento che voi paragonate col mio, e cioè <<Se non è
impossibile che Dio esista, è certo che egli esiste; ma non è impossibile, dunque, ecc.>>:
materialmente parlando è vero, ma formalmente è un sofisma. Poiché nella premessa maggiore,
la frase è impossibile si riferisce al concetto della causa per mezzo della quale Dio può esistere;
mentre nella minore si riferisce al solo concetto dell’esistenza e della natura di Dio. Come
appare dal fatto che, se si nega la maggiore, bisognerà provarla così: <<Se Dio non esiste
ancora, è impossibile che esista, perché non può darsi una causa sufficiente per produrlo; ma
113
Cartesio, Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e Risposte, cit., pp.303-304.
43
non è impossibile che egli esista come è stato assunto; dunque, ecc.>> Se invece si nega la
premessa minore, bisognerò provarla così:<< Quella cosa non è impossibile, nel concetto
formale della qual non v’è nulla che implichi contraddizione; ma non concetto formale
dell’esistenza o della natura divina non v’è nulla che implichi contraddizione, dunque, ecc.>>Le
due accezioni sono molto diverse. Infatti può essere che non si concepisca nulla in qualche
cosa, che le impedisca di esistere, e che, tuttavia, si concepisca qualcosa da parte della causa
che impedisce che essa sia prodotta.114
Nonostante Leibniz non commetterà, dal punto di vista cartesiano, la fallacia che lo
stesso Descartes scorge, il <<Lipsiano>> avrebbe tranquillamente sottoscritto la
formulazione dei secondi obbiettori. A questo punto, viene da chiedersi, perché Descartes
ritiene fallace la prova delle seconde obbiezioni. Descartes aveva capito che i secondi
obbiettori volevano spostare lo <<scontro>> su un terreno a loro familiare, ovvero su un
campo aristotelico: gli obbiettori avevano intuito che Descartes aveva utilizzato nella
risposta alle prime obbiezioni l’argomento alla “Scoto”115 e quindi erano indotti a ritenere
che anche Descartes continuasse a usare categorie di stampo scolastico.
114
Ivi., p. 323.
115
Scoto si distacca dalla tradizione tomista e ammette la possibilità di una prova a priori dell’esistenza di
Dio: egli formulò la famosa coloratio Anselmi. L’essere infinito è veramente infinito, se si dimostra la sua
pensabilità come veramente infinito, quindi deve risultare non-contradditorio. In questo consiste la
“colorazione” dell’unum argumentum, ovvero nel sottoporre l’argomento a un perfezionamento formale:
esiste se non implica contraddizione. Scoto, contro Tommaso, ritiene che un elemento finito e inadeguato,
ovvero un concetto, possa rappresentare in maniera parziale ma veritiera, attraverso l’astrazione, l’infinito,
ovvero Dio. La finitezza del concetto determinerà solo una limitata comprensione dell’infinito, ma non
l’incapacità di rappresentarlo in quanto infinito. Vi è la rottura del paradigma della rappresentazione per
somiglianza che consente a Scoto di rappresentare l’infinito. Per approfondire il discorso sull’argomento
ontologico in Scoto, cfr., G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, cit., pp. 589-595; per approfondire,
invece, il discorso sulla gnoseologia scotista e il suo contrasto con il tomismo, si cfr., E. Scribano, Angeli e
Beati, cit., pp. 68-118.
44
sempre, se è possibile. Descartes si rende conto che, se l’argomento rimane con la
possibilità logica dell’esistenza di Dio, l’ente potentissimo potrebbe anche non esistere
mai, nonostante non vi sia la fallacia dello spostamento dalla modalità logiche alle
modalità causali. Una volta stabilito che si dà di fatto, ovvero che la sua esistenza è
possibile in qualche tempo, che si debba dare, il passaggio dalla non contraddittorietà
dell’ente potentissimo alla sua esistenza risulta plausibilmente argomentato. Da questo si
spiega la puntualizzazione di Descartes a Mersenne, di cambiare la versione
dell’argomento nelle prime risposte: quel passo indebolisce la prova con una fallacia, che
scompare nella seconda formulazione. Quindi non è solo la volontà di attenuare il
riferimento alla causa sui, ma anche il voler eliminare la fallacia del passaggio dalle
modalità logiche alle modalità causali.
2) Nel concetto di Dio v’è una causa sufficiente per produrlo, e dunque è (possibile)
causalmente che Dio esista.
E poiché la causa dell’esistenza di Dio è interna a Dio stesso (può esistere per forza
propria), Dio esiste sempre: In aeternis idem esse et posse.
Si capisce così anche perché Descartes ritenga che la riformulazione della prova a
priori compiuta dai secondi obbiettori sia formalmente falsa, ma materialmente vera; essa
può infatti essere rielaborata in modo da evitare la fallacia modale: se l’esistenza di Dio è
116
E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., p. 38.
45
(casualmente) possibile, Dio esiste, ma che l’esistenza di Dio sia (casualmente) possibile
va provato con la seconda premessa (nel concetto di Dio v’è una causa sufficiente per
produrlo), l’unica in cui compaia la nozione di causa, e non con la non contraddittorietà
del concetto di Dio, come presumibilmente i secondi obbiettori, sulla scia della prima
formulazione cartesiana, intendevano.
La rinuncia allo slittamento modale rende ancor più evidente l’origine aristotelica e
a posteriori del secondo argomento cartesiano: sarebbe valido solo se assumesse
l’esistenza di un ente causa sui. Qui, non si dimostra l’esistenza dell’ente in questione ma
la sua eternità118. Descartes si è illuso di poter respingere la fallacia modale e il principio
di pienezza, e, nonostante ciò, di poter mantenere in piedi un argomento a priori tutto
costruito nella logica di quel principio. Il secondo argomento ontologico, che non riesce
neanche a superare l’esame dell’innatismo, si rileva una via senza sblocco. Ed è per questo
che Descartes, accorgendosi del suo fallimento, chiede scusa a Caterus in coda alla
risposta119 e, nell’appendice alle seconde obbiezioni, in cui trascrive le meditazioni
“secondo l’ordine dei geometri” (in una maniera che sembra quasi sottolineare la
possibilità di dimostrare solo a posteriori l’esistenza di Dio), scrive sconsolato:
E questo sillogismo è lo stesso di cui mi sono servito nella mia risposta al sesto articolo
di queste obbiezioni; e la sua conclusione può essere conosciuta senza prova da quelli che sono
liberi da tutti i pregiudizi, come è stato detto nel quinto postulato. Ma poiché non è facile
pervenire ad una sì grande chiarezza di spirito, cercheremo di provare per mezzo di altre vie.120
117
Ivi, pp. 39-41
118
Nel primo capitolo, abbiamo parlato di Malcolm, e della sua riflessione sul <<secondo>> argomento
anselmiano. Anche Descartes, costruisce un secondo argomento, con l’intenzione di dimostrare l’esistenza
dell’ente potentissimo, ma finisce per inferirne l’eternità.
119
R. Descartes, Meditazioni metafisiche e Obbiezioni e Risposte, cit., p. 295
120
Ivi, pp. 335-336.
46
4.2 Appendice delle Risposte alle seconde obbiezioni e Principi della filosofia
Per conto mio, ho seguito solamente la via analitica nelle mie meditazioni, perché
essa mi sembra la più vera e la più acconcia per insegnare; ma quanto alla sintesi, che senza
dubbio è quella che voi desiderate qui da me, benché, riguardo alle cose che si trattano nella
geometria possa utilmente esser messa dopo l’analisi essa non conviene, tuttavia, così bene alle
materie che appartengono alla metafisica. Poiché v’ha questa differenza: che le prime nozioni
che sono supposte per dimostrare le proposizioni geometriche essendo d’accordo con i sensi,
sono ammesse facilmente da ognuno; per la qual cosa non v’è là nessuna difficoltà se non di
ben trarre le conseguenze, il che può esser fatto da ogni sorta di persona, anche dalle meno
attente, purché soltanto si ricordino delle cose precedenti; (…) Ma, al contrario, riguardo alle
questioni che appartengono alla metafisica, la principale difficoltà è di concepire chiaramente e
distintamente le prime nozioni. Poiché, sebbene di loro natura esse non siano meno chiare di
quelle considerate dai geometri, tuttavia, poiché sembra che non si accordino con parecchi
pregiudizi che abbiamo ricevuti per mezzo dei sensi, ed ai quali siamo abituati sin dalla nostra
infanzia, non sono perfettamente comprese se non da quelli che sono attentissimi, e che si
studiano di staccare, per quanto possono, il loro spirito dal commercio dei sensi; ecco perché, se
fossero proposte da sole, sarebbero facilmente negate da quelli che hanno lo spirito incline alla
contraddizione.122
121
Vedi, supra, pp. 30-31.
122
Cartesio, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, cit., pp. 327-328.
123
L’assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché
fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento.
47
L’esistenza di Dio si conosce dalla sola considerazione della sua natura
Dimostrazione:
Dire che qualche attributo è contenuto nella natura o nel concetto della cosa, è lo stesso che dire
quest’attributo è vero di questa cosa, e si può asserire che è in essa (per la definizione nona125).
Ora l’esistenza necessaria è contenuta nella natura o nel concetto di Dio (per l’assioma decimo126).
Dunque, è vero dire che l’esistenza necessaria è in Dio, oppure che Dio esiste.
Nei Principi, l’iter è lo stesso, ovvero prima troviamo la trattazione della prova a
priori e poi quella della prova a posteriori. Il termine trattazione, come abbiamo già
ricordato sopra128, non è casuale: l’intenzione di Descartes è proprio quella di scrivere un
trattato e di voler sostituire il suo con le Summae usate nelle scuole.
Descartes, nel quattordicesimo articolo, introduce la prova a priori dopo aver parlato
dell’impossibilità di trarre una conoscenza certa dalle cose sensibili. Nei Principi, vi è un
Un postulato si differenzia da un assioma in quanto è introdotto per dimostrare proposizioni che altrimenti non
potrebbero essere dimostrate. In altri termini si può definire come una semplicissima "teoria ad hoc", accettata
grazie alla sua utilità.
124
Ivi, pp. 335-336.
125
“Quando diciamo che qualche attributo è contenuto nella natura o nel concetto di una cosa, è lo stesso
che se dicessimo che quell’attributo è vero di quella cosa , e che si può asserire che è in essa.” Cfr, ivi, p. 331.
126
“Nell’idea o nel concetto di ogni cosa l’esistenza è contenuta perché noi non possiamo nulla concepire se
non sotto la forma di una cosa che esiste; ma con questa differenza: che nel concetto di una cosa limitata è
contenuta soltanto l’esistenza possibile o contingente, e nel concetto di un essere sovranamente perfetto è
compresa quella perfetta e necessaria.” Cfr., ivi., p.335.
127
Nel inserire prima le prove dell’esistenza di Dio e poi la distinzione dell’anima dal corpo, Descartes segue
l’iter delle Meditazioni. Mentre nei Principi, Descartes si rifà ai trattati in uso all’epoca nelle scuole come le
Disputationes metaphysicae di Suarez.
128
Vedi, supra, nota 71, p. 30.
48
balzo dalla Prima meditazione alla Sesta per poi procedere a ritroso nella Quinta: il punto di
partenza è sempre quello, ovvero <<distruggere>> la gnoseologia scolastica, però in questo
caso dimostra prima la reale distinzione dell’anima dal corpo (mentre nell’Appendice alle
Risposte delle Seconde Obbiezioni si trovava dopo le prove dell’esistenza di Dio129) e poi
introduce la prova a priori dopo aver detto che la conoscenza delle altre cose dipende dalla
conoscenza di Dio, perché bisogna conoscere bene l’autore delle cose per non poterne
dubitare più. In questa prova, Descartes utilizza sia la somma potenza sia la somma
perfezione e ne inferisce l’esistenza necessaria ed eterna:
Considerando poi che fa le diverse idee che presso di sé, ve n’è una di un essere sommamente
intelligente, sommamente potente e sommamente perfetto, che è di gran lunga la più importante di
tutte; arriva a conoscere in essa l’esistenza, non soltanto possibile e contingente come nelle idee di
tutte le altre cose, che percepisce distintamente, ma del tutto necessaria ed eterna. E come, per
esempio, dacché percepisce nell’idea del triangolo è necessariamente contenuto che i suoi tre angoli
sono uguali a due retti; così dal solo fatto che percepisce, che l’esistenza necessaria ed eterna è
contenuta nell’idea di ente sommamente perfetto esiste.130
In essa, possiamo quasi scorgere l’iter che la prova ha dovuto subire: Descartes
ritorna alla prova della Quinta meditazione, perché si rende conto della fallacia commessa
nelle obbiezioni nelle Risposte a Caterus. Anzi, tenta una <<sintesi>> tra la somma
perfezione e la somma potenza di Dio. Una sintesi che si può definire quasi hegeliana, dove
la “somma perfezione” ha, però, il sopravvento sulla “somma potenza”. Descartes si rende
conto che la prova <<più forte>> rimane quella della Quinta meditazione, nonostante gli
evidenti limiti strutturali.
129
La scelta di Descartes è ovvia: nell’Appendice,deve riprodurre l’iter delle Meditazioni per filo e per segno come da
richiesta degli obbiettori.
130
R. Descartes, I principi della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp.80-81, art. 14 - Dacchè l’esistenza
necessaria è contenuta nel nostro concetto di Dio, si conclude rettamente che Dio esiste.
49
CAPITOLO TERZO
Il contributo che Descartes ha dato alla prova a priori è stato così rilevante da
segnare un punto di non ritorno, ma il luogo, nel quale questo contributo dispiega tutte
le sue forze, non va cercato nella Quinta meditazione, ma nella Terza. Precisamente,
nelle modifiche che Descartes imprimeva alla seconda prova a posteriori della Terza
meditazione nelle pagine di risposta a Caterus.
131
Ed è questa la tesi della Scribano: cfr., L’esistenza di Dio, cit., pp. 85-95. Mentre la Ulivi, propende per
una maggiore analogia tra Descartes e la Scolastica su questo punto, dal momento che Descartes introduce
il principio di causalità, caro alla Scolastica, e applica alcuni termini come accidente e sostanza all’interno
della costruzione della prova. Cfr., Introduzione a Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., pp. 45-64.
50
estraneo anche alla logica scolastica, tant’è vero che i secondi obbiettori lo
criticheranno:
Ma, dite voi, l’effetto non può avere grado alcuno di perfezione, o di realtà che non
sia strato prima nella sua causa. Ma (oltre che noi vediamo tutti i giorni che le mosche e
parecchi altri animali, come anche le piante, sono prodotti dal sole, dalla pioggia e dalla terra,
nei quali non vi è vita come in quegli animali, la qual vita è più nobile di ogni altro grado
puramente corporeo; onde deriva che l’effetto trae qualche realtà dalla sua causa, che,
nondimeno, non era nella sua causa); ma, dico, questa idea non è altro che un essere di ragione,
che non è più nobile del vostro spirito che la concepisce.132
Alla quale obbiezione, Descartes ricorderà che “dal nulla nulla procede”133, e
che, quindi, se vi fosse maggior realtà nell’effetto rispetto alla causa, questa realtà
nascerebbe dal nulla. Inoltre, per quanto riguarda l’esempio delle mosche e degli
animali, Descartes sottolineerà il fatto, che in quel luogo delle Meditazioni, non si
muoveva ancora su un piano sensibile ma solo sul piano del pensiero.
Questa prova è anche strettamente connessa con la teoria delle idee cartesiane:
proprio perché si muove su un piano strettamente logico, Descartes introduce questa
prova dopo aver elencato ciò che è presente nel pensiero: i pensieri di cose,
propriamente chiamati idee; gli atti di volontà; i giudizi. Come abbiamo già ricordato134,
le idee si possono dividere in innate, fattizie e avventizie. Tramite la riflessione sulle
idee avventizie, Descartes non riesce ancora a stabilire una connessione tra idee e
mondo esterno, perciò, introduce un’altra classificazione delle idee: le idee possono
avere sia realtà formale sia realtà oggettiva. La realtà formale di un’idea, detta anche
attuale o materiale, è l’idea intesa come un’operazione dell’intelletto; sotto questo punto
di vista, ovvero nel loro essere delle cose, le idee sono tutte uguali. La realtà oggettiva
si riferisce invece a ciò che viene rappresentato, e, in tal senso, le idee risultano diverse
tra di loro. Proprio analizzando le idee rispetto alla loro realtà oggettiva, Descartes
giunge alla conclusione che l’idea di Dio, in quanto rappresentante qualcosa d’infinito,
ha maggior realtà oggettiva dell’idea di qualcosa di finito. Descartes è vicino alla
soluzione dell’uscita dal solipsismo, ovvero è vicino a trovare un’idea che mi dimostri
132
R. Descartes, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, cit., p. 300
133
Ivi, p. 310.
134
Cfr., supra, p. 33, nota 89.
51
che io non sia solo al mondo. A questo punto, passa in rassegna tutte le idee in base alla
loro realtà oggettiva e si rende conto di avere quattro tipi d’idee sotto questa
classificazione:
- Idea di me stesso
- Idea di Dio
L’origine delle idee 1,3 e 4 è ricondotta da Descartes all’interno del mio pensiero.
Rimane, quindi, da esaminare solo l’idea di Dio:
Descartes dà di Dio una definizione classica, attinta dalla Scolastica: “una certa
sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, e dalla
quale tanto io stesso, quanto tutto il resto che esiste – se dell’altro esiste- è stato
creato”135. Prendendo in attento esame tale idea, non gli sembra di poterne essere
l’autore, quindi tale idea deve avere come sua causa Dio stesso. Ed ecco che la scoperta
di Dio, avviene per pura e semplice intuizione e non sistematicamente. Dopo aver
dimostrato l’esistenza di Dio, Descartes si pone alcune obbiezioni sulla prima prova a
posteriori136:
- Prima obbiezione. Descartes aveva dimostrato, per le cose inanimate, che l’essere
sostanze di queste cose poteva derivare dal fatto che egli fosse una sostanza, appunto.
Ciò, quindi, potrebbe valere anche per l’idea di Dio, ma da me, essere finito, non può
procedere una sostanza infinita.
- Seconda obbiezione. L’idea d’infinito non è una vera idea ma è costruita negando il
finito. Descartes supera l’obbiezione muovendosi sul terreno della Scolastica,
ricordando che c’è maggior realtà in una sostanza infinita che in una finita, perciò la
135
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., p.203.
136
Per le auto-obbiezioni sulla prima prova a posteriori, ho seguito lo schema della Ulivi nella sua
Introduzione, cit., pp.57-61.
52
conoscenza del finito, e quindi anche di me, viene costruita per confronto con l’idea di
un ente infinto137, perfetto, che deve precederla.
- Quarta obbiezione. Noi potremmo non comprendere l’idea d’infinito. Descartes, per
uscire da questa possibile aporia, ritratta la caratteristica principale delle idee chiare e
distinte, ovvero la possibilità di conoscerle in un solo atto immediato, l’intuizione.
L’idea di Dio può essere conosciuta anche tramite la mediazione di un giudizio, ovvero
attraverso l’analisi delle sue perfezioni prese una alla volta. Anche questa volta, le idee
137
Descartes arriverà a dire, nei Principi, che solo a Dio spetta l’attributo di infinito, perchè nel suo
universo matematico, il concetto di infinito attuale assume un’importanza vitale. Da qualsiasi lato
consideriamo Dio, non arriviamo a conoscere nessun limite, ma intendiamo questa cosa la prendiamo
positivamente Mentre il concetto di indefinito attiene a quelle cose che manchino di limiti, ma presi
negativamente. Si cfr., Descartes, I principi della filosofia, cit., pp. 86-87.
138
La verità materiale (detta ontologica da san Tommaso) è quella per cui una cosa corrisponde al suo
progetto; ad esempio, una casa è vera se realizza il disegno del suo architetto.
53
matematiche possono venirci incontro: nella Sesta meditazione, Descartes usa una
figura geometrica di mille lati, il chiliogono: essa non può essere abbracciata da un solo
atto dall’intelletto come il triangolo, perciò l’uomo, per conoscerla, deve attuare un
processo di apprendimento mediato139. Questa è sicuramente una delle obbiezioni più
insidiose e abusate in ambiente scolastico140.
Come già dimostrato prima, io non posso essere Dio, perché altrimenti mi sarei
dato tutte quelle perfezioni di cui ora manco. Descartes, però, non contento saggia
<<l’ipotesi del Dio minore>>142, ovvero di un Dio è sempre esistito che, però, ha solo
l’eternità come perfezione disponibile. Non avendo però consapevolezza di tale forza,
l’obbiezione, per Descartes, è spazzata via, anche se alcuni dubbi rimangono, in quanto
questa forza io la posso usare anche inconsciamente.
139
Leibniz parlerà, in questo caso, di conoscenza simbolica.
140
L’incapacità dell’intelletto umano di non poter conoscere Dio è uno dei punti fondamentali della
filosofia di Tommaso. Intendo per intelletto umano quello del viator e non quello del beato, che ha la
possibilità di conoscere Dio tramite la visione dell’essenza di Dio stesso.
141
Anche in questo caso, Descartes utilizza una distinzione tipicamente scolastica, ovvero quella tra
esistenza attuale e esistenza potenziale per uscire dall’obbiezione.
142
Introduzione a Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., pp. 61-62.
54
Si potrebbe, quindi, ipotizzare che io sia creato da una causa meno perfetta di
Dio. Descartes respinge tale eventualità facendo leva su due asserzioni già note e
accettate: primo che in causa deve esserci tanta realtà quanta ce n’è nell’effetto;
secondo, che possiedo l’idea di Dio come ente dotato di ogni perfezione. Dunque,
considerando come effetto me, che sono una cosa pensante e che penso Dio, la mia
causa dovrà essere pensante e avere la realtà della mia idea di Dio, deve cioè essere
Dio.
Detto questo, non possono essere nemmeno i miei genitori, in quanto è vero
tutto ciò che è stato detto su di loro, ma essi compiono solo un’azione sulla parte
materiale del soggetto.
Nonostante il calco operato sulla prova tomista, Descartes introduce nella sua
prova delle varianti, alcune delle quali furono rilevate da Caterus, e Descartes tentò di
giustificare. In primo luogo, per qual motivo l’indagine si svolge sulla conservazione
attuale dell’io e non sulla successione delle cause efficienti nel tempo passato? Perché il
regresso all’infinito, benché incomprensibile per il nostro intelletto finito, sia tuttavia in
sé possibile, e dunque, se si seguisse la concatenazione delle cause prime nel passato,
non si perverrebbe mai a una causa prima. Nel presente, invece, <<non c’è tempo>> per
il regresso all’infinito. E poi, perché cercare la causa dell’io in possesso dell’idea di Dio
e non semplicemente dell’io? Descartes ricorda che la presenza dell’idea di Dio
risponde a tre precise esigenze: 1) mi fa conoscere ciò che è Dio, in quanto bisogna
chiedersi prima che cosa essa è prima di chiedersi se essa è; 2) mi impone di escludere
che sia io la causa del mio essere; 3) mi insegna che non solo vi è una causa del mio
essere ma che essa contiene ogni sorta di perfezione, e pertanto è Dio. Ciò dimostra che
Tommaso, ammesso e non concesso sia riuscito a dimostrare l’esistenza di causa prima
tramite regresso all’infinito, non sia riuscito a compiere il passo successivo, ovvero il
passaggio dell’identificazione della causa prima col’ente perfettissimo143.
143
Descartes non era stato il primo a rivolgere a Tommaso questa obbiezione. L’antecedente della
posizione anti-tomista, qui assunta da Descartes, si trova nelle pagine di F. Suarez dedicate alle riprese
delle prove a posterori di Tommaso. Quest’ultimo si era attenuto alla regola aristotelica secondo la quale
si deve ricercare in primo luogo se una cosa sia, ovvero esista (an sit) e poi quale sia la sua natura (quid
55
Ma le novità non si fermano qui: la rivoluzione più importante della teologia
cartesiana è appunto l’introduzione della nozione di causa sui. In poche parole,
Descartes pretende che chi abbia sufficiente forza per causare la propria esistenza, ne
abbia anche per darsi tutte le perfezioni di cui ha l’idea e per questo sia Dio. Questa è
un’interpretazione positiva dell’aseitas della causa prima, estranea alla logica tomista.
Infatti, Caterus lo nota immediatamente e subito ricorda a Descartes l’insostenibilità di
questa nozione:
Poiché questa espressione per sé è intesa in due modi. Nel primo positivamente, e cioè:
per se stesso come per una causa; e così ciò che fosse per se stesso, e desse l’essere a se stesso,
se per una scelta prevista e premeditata si desse ciò che volesse, senza dubbio si darebbe tutto, e
pertanto sarebbe Dio. Nel secondo, l’espressione per sé è presa negativamente, ed ha lo stesso
significato che da se stesso o non per opera d’altri e in tal guisa, se ben ricordo, è intesa da tutti.
E adesso, se qualche cosa è per sé, cioè non per opera d’altrui, come proverete voi per questo
che essa comprende tutto, e che è infinita.144
sit). Questa procedura, nel caso della teologia negativa, è ancor di più obbligatoria poiché di Dio possiamo
solo sapere quid non sit. Sembra che, però, percorrendo questa strada non si possa dimostrare a
prescindere l’esistenza di Dio poiché mancherebbe il termine medio per qualsiasi dimostrazione, ossia la
definizione di Dio.
144
Cartesio, Meditazioni metafisiche- Obbiezioni e Risposte, cit., p.273.
56
Tommaso deduceva l’indistinzione di essenza ed esistenza per l’analisi della nozione di
causa prima. Se non fosse così, quella causa non sarebbe più causa prima, e quindi non
si sarebbe arrestato il regresso all’infinito. Proprio l’analogia, però, con l’analisi tomista
mostra la debolezza dell’argomento proposto da Descartes per giustificare la nozione di
causa sui: l’indistinzione di essenza ed esistenza, ricavata per analisi della nozione di
un ente incausato, sembrava infatti rispondere a sufficienza alla domanda sul perché la
causa prima non necessiti di ulteriori cause, e costituiva un argine sufficiente contro una
ripresa del regresso all’infinito, come Arnauld ricorderà opportunamente. La risposta di
Descartes non offre alcun reale vantaggio rispetto alla risposta di Tommaso, non ne
colma alcuna lacuna argomentativa.
Descartes tenta anche altre strade. Si può motivare la nozione positiva della
aseitas o attraverso la considerazione dell’infinita potenza contenuta nell’idea di Dio,
oppure a posteriori, abbondando però, stavolta, lo schema tomista. Nel primo caso, si
rinvia direttamente all’indagine interna della natura di Dio la scoperta della ragione per
la quale egli è, appunto, causa prima:
(…) quando noi diciamo che Dio è per sé, possiamo anche, a dire il vero, intendere ciò
negativamente, e non avere altro pensiero, se non che non v’è causa alcuna della sua esistenza;
ma se abbiamo prima ricercato la causa per cui esso è, o per la quale non cessa di essere, e,
considerando l’immensa e incomprensibile potenza che è contenuta nella sua idea, l’abbiamo
riconosciuta sì piena e sì abbondante, che, in effetti, essa è la causa per cui egli non cessa di
essere, e non può essercene altra che quella, noi diciamo che Dio è per sé, non più
negativamente, ma, al contrario, nel modo più positivo.145
145
Cartesio, Meditazioni metafisiche- Obbiezioni e Risposte, cit., p. 287.
57
È anche lecito a ciascuno interrogare se stesso per sapere se in questo stesso senso egli
è per sé; e quando non trovi in sé potenza alcuna capace di conservarlo per un momento
solamente, concluderà con ragione che esiste per opera di un altro e anzi di un altro che è per sé,
essendo, qui, infatti questione del tempo presente , e non già del passato o del futuro, il
progresso non può essere continuato all’infinito146. Anzi, aggiungerò di più (ciò che, tuttavia
non ho scritto altrove) che non si può neppure andare soltanto fino ad una causa seconda,
poiché quella che ha tanta potenza da conservare una cosa che è fuori di sé, conserva a più forte
ragione se stessa con la propria potenza, e così è per sé.147
146
Argomento della Terza meditazione.
147
Ivi, p. 288.
148
La Scribano rimanda a E. Gilson, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du
système cartésien, Vrin,, 1930.
149
La Scribano rimanda, in questo caso, a J. L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes, Paris,
pp. 246 sgg. e la comunicazione ** Entre analogie et principe de raison: la causa sui, presentata al
convegno Méditer et répondre, Paris Sorbone 3-6 oct. 1992.
58
metafisico complessivo, sottolineando che l’introduzione del concetto di autocausalità
implichi una duplice scelta, ovvero la sottomissione di Dio alle leggi dell’intelletto
umano e l’opposizione per una dimostrazione a priori in senso proprio dell’esistenza di
Dio. Sostenere che Dio è causa di sé stesso vuol dire proprio <<aprire le porte>> alla
dimostrazione a priori. Gli scolastici rifiutavano la dimostrazione a priori proprio
perché Dio, causa prima, non poteva avere una causa. Perciò, in realtà, questa prova a
posteriori, ovvero una prova che faccia riferimento a causa dell’esistenza di Dio, è una
prova a priori.
Come abbiamo già detto150, la nozione di causa sui inserisce Descartes in una
linea scotista, ovvero in una linea di pensiero che ammette una prova a priori
dell’esistenza dell’ente perfettissimo. Rispetto a Scoto, ammette la nozione di causa sui
e in tal modo inserisce la nozione che rende possibile una prova a priori all’interno
della sua prova a posteriori, costruita a calco della prova tomista. In poche parole, con
Descartes si ribaltano i ruoli: la prova a posteriori è subalterna alla prova a priori. Il
trionfo del razionalismo.
150
Vedi, supra, p.43.
151
Antonie Arnauld, che il secolo chiamerà <<il grande Arnauld>>, è una delle menti più geniali del
diciassettesimo secolo. Giansenista, fu il maggior esponente del monastero di Port Royal, e, per questo, fu
perseguitato a lungo dalla Chiesa cattolica. In filosofia, Arnauld è un cartesiano, e, come tale, distingue
recisamente teologia e filosofia, fede e ragione. Le sue obbiezioni (le quarte) furono le migliori secondo
Descartes, che sì sentì, obbligato a rispondere, data la fama del personaggio.
59
Così Descartes, al posto della causa sui, accetta di parlare di “una ragione per la
mancanza di una causa”:
E là queste parole, <<causa di se stesso>> non possono in nessun modo esser intese
come dette della causa efficiente, ma solo nel senso che la potenza inesauribile di Dio è la causa
o la ragione per la quale egli non ha bisogno di causa.
E poiché questa potenza inesauribile, o immensità d’essenza, è del tutto positiva, per
questo ho detto che la ragione o la causa, potrebbe dirsi in egual modo di nessuna cosa finita,
anche se fosse perfettissima nel suo genere.
(...) E così in tutti gli altri luoghi ho paragonato la causa formale, o la ragione attinta
dall’essenza di Dio, per la quale egli non ha bisogno di causa per esistere, né per essere
conservato, con la causa efficiente, senza la quale le cose finite non possono esistere, che
dappertutto è facile conoscere dai miei propri termini ch’essa è affatto diversa dalla causa
efficiente.152
Dio è causa sui nel senso che la sua essenza è causa formale della sua esistenza.
Grazie alla trasformazione della causa efficiente in causa formale, della causa in ratio,
la necessità causale con cui Dio produce la propria esistenza si trasforma in
un’implicazione logica della esistenza nella essenza, e l’essenza stessa diviene la
premessa – il medio – da cui l’esistenza è deducibile. Dio si dà tutte le perfezioni, nel
senso che è impossibile che un ente necessario non sia anche un ente perfettissimo. La
causalità formale era stata esclusa per la possibilità dall’esistenza possibile all’esistenza
in atto da Scoto. Descartes, in questo caso, segue le orme di Enrico di Gand che aveva
escluso la causa materiale e la causa efficiente in favore della causa formale nel
rapporto tra l’essenza e l’esistenza di Dio.
In questa scelta vi è una certa furbizia di Descartes che approfitta anche del
modo con cui Arnauld aveva osservato che la causa efficiente riguarda solo l’esistenza
e non l’essenza di un ente, paragonando ciò ai ragionamenti dei matematici.
Quest’ultimi, appunto, si servono della causa formale per spiegare le proprietà di un
ente. L’esistenza, in questo caso, non è più prodotta ma dedotta da una premessa, come
nella Quinta meditazione, ovvero dalla definizione di Dio, ente perfettissimo.
60
criteri d’innatismo: 1) dell’essenza di Dio abbiamo, per l’appunto, un’idea chiara e
distinta come delle essenze degli enti matematici, e 2); la dimostrazione dell’esistenza
di Dio è costruita in esplicita analogia alla dimostrazione dei teoremi della geometria.
Essa è una dimostrazione cui anche l’intelletto finito può entrare in possesso del
termine medio di questa dimostrazione, l’essenza di Dio. L’unum argumentum di
Anselmo è diventato una vera e propria dimostrazione a priori, e, per l’appunto,
ontologico, nel modo in cui Descartes rivendica l’intelligibilità dell’idea di Dio.
153
Samuel Clarke sarà un testimone di questo cambiamento di paradigma.
61
mentre Spinoza traduce con sicurezza questo rapporto tra essenza e perfezioni in un
rapporto d’implicazione formale.
154
Vedi, supra, nota 133.
155
Anche qui, Suarez farà un passo indietro, dicendo che la prova teleologica dimostra al massimo
l’esistenza dell’ordinatore di una materia preesistente e non del suo creatore.
62
un’iniziale e doverosa esclusione della possibilità in sé di dimostrare a priori l’esistenza
di Dio, perché Dio non ha causa – in sintonia con la tesi dominante nel tomismo –
Suarez inverte il cammino: la dimostrazione a priori risulta in via ipotetica possibile ma
quod nos impraticabile a causa della finitezza dell’intelletto umano. Però, è possibile
raggiungere una definizione adeguata dell’esistenza di Dio. In che modo? Essendovi
l’indistinzione di essenza ed esistenza in Dio, una volta dimostrato un attributo di Dio a
posteriori, è possibile costruire una dimostrazione a priori di Dio. Per Tommaso,
l’esistenza che compare nel giudizio, ovvero nella prova a posteriori, non ha niente a
che vedere con l’atto di esistere indistinto dall’essenza divina, mentre per Suarez è
possibile raggiungere una nozione adeguata della quidditas divina. L’audace scelta di
Suarez è del resto organica a un progetto complessivo già compiutamente precartesiano
e antitomista: egli compie una scelta radicale a favore di Scoto, ovvero che l’esistenza
sia dimostrabile a priori, attraverso i principi da cui quell’esistenza dipende. Suarez,
però, ipotizza che Dio abbia in sé una causa o un principio da cui la sua esistenza
dipende, e che, quindi, l’esistenza di Dio sia in se dimostrabile a priori all’interno della
prova causale tomista, come sosterrà Descartes in seguito. L’uomo può, quindi,
dimostrare l’esistenza di Dio a priori, anche nella sua condizione di viator.
Per Suarez, inoltre, non si può dimostrare l’infinità di Dio tramite i suoi effetti
finiti, dal momento che vi è una proposizione tra Dio e i suoi effetti. Quindi, con le
prove a posteriori tomiste possiamo dimostrare solo il primo ens, ma manca la
concezione dell’infinita, prerogativa del teismo cristiano. Tommaso liquidò
rapidamente l’obbiezione: da effetti proporzionati alla causa, non si può avere una
conoscenza perfetta della causa; tuttavia da qualsiasi effetto possiamo avere manifesta
dimostrazione che la causa esiste . E così dagli effetti si può dimostrare che Dio esiste,
63
benché per mezzo di quelli non possiamo conoscerlo. L’infinità viene presupposta
senza essere dimostrata.
156
Per un approfondimento su questo punto, ovvero la differenza tra prova fisica e prova metafisica, cfr.,
E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., pp.114-122.
64
ma di partire da un’altra prospettiva. Bisogna trovare un ente che abbia in sé la ragione
del proprio esistere. Attraverso la distinzione di essenza ed esistenza, entrano in gioco
le modalità logiche rispetto alle modalità temporali e causali, tipiche dell’aristotelismo:
quindi, mentre in Tommaso, parlando di enti contingenti, si poteva cadere in
contraddizione, ciò non è possibile in Descartes, dove, appunto, le modalità logiche la
fanno da padrone. È il trionfo delle modalità logiche sulle modalità temporali e causali,
della prova a priori su quella a posteriori, del razionalismo sull’aristotelismo – tomista,
di Descartes sulla Scolastica.
65
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Opuscola theologica, Amsterdam, 1718.
68
INDICE
Introduzione……………………………………………………..………p. 3
Anselmo e Tommaso………………………………………………………p. 7
1. Anselmo………………………………………………………………………….......p. 7
1.1 Monologion………………………………………………………………….....p. 9
1.2 Proslogion……………………………………………………………………...p. 12
2. Tommaso d’Aquino………………………………………………………….……....p. 18
priori………………………………………………………………………p. 26
2. Scritti giovanili.…………………………………………………………...p. 28
69
4.1 La seconda prova a priori…………………………………...…………p. 40
4.2 Appendice delle Risposte alle seconde obbiezioni e Principi della filosofia…..p. 47
Bibliografia……………………………………………………………….p. 66
70