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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI


CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN FILOSOFIA

Tesi di laurea in Storia della filosofia moderna

Le prove dell’esistenza di Dio:


Descartes e le sue fonti.

Relatore: Canditato:
Chiar.mo Prof. F. Lomonaco Luigi Saggiomo
Matr. N58000501

ANNO ACCADEMICO 2012-2013


1
A mia sorella

Fausta

2
INTRODUZIONE

“L’argomento che Kant chiamerà ontologico è, in primo

luogo, un esercizio delle modalità e delle definizioni”

(Emanuela Maria Scribano)

La prova a priori dell’esistenza di Dio è uno degli argomenti che più mi ha


affascinato nell’arco dei miei studi. Il motivo principale del mio interesse sta nel
continuo cambiamento di paradigma con cui si è affrontato, in generale, il tema
dell’esistenza di Dio e, in particolare, le modifiche che ha subito l’argomento
ontologico. Quali metodi (se un metodo vi sia sempre stato) applicati e quali modalità
utilizzate dai relativi filosofi, a partire da Anselmo, considerato il suo <<fondatore>>. Il
mio intento, in questo studio, non sarà però di fare una storia dell’argomento
ontologico: vorrei trattarlo dal punto di vista di René Descartes.

Il “meditante” francese è un autore che ha suscitato sempre un grande interesse


in me. Descartes si è occupato della prova a priori dell’esistenza di Dio in vari scritti:
vorrei focalizzarmi su queste opere per vedere il contesto e l’approccio riguardo a tali
tematiche: le svolte che hanno modificato, trasformato e rilanciato l’antico argomento
di Anselmo, sono tutte operate all’interno della sua metafisica, e la critica che Kant
rivolgerà all’argomento ontologico è modellata sulla particolare forma che la prova a
priori assumerà nelle pagine cartesiane.

Abbiamo detto all’inizio che Anselmo è il «fondatore» della prova a priori. Ma


a priori e a posteriori sono termini lontani dall’orizzonte filosofico anselmiano.
Tommaso d’Aquino, uno dei primi critici di Anselmo, non avrebbe mai considerato
l’unum argumentum come una prova a priori. La cesura radicale passa tra il modo in cui
Tommaso pensava l’argomento anselmiano e il modo in cui lo riformula Descartes. Per
Tommaso, Anselmo è il teorico di una conoscenza immediata e non dimostrativa

3
dell’esistenza di Dio. L’inserimento di Tommaso nel discorso non è casuale:
parallelamente alla trattazione della prova a priori, confronterò questa con la sua antica
«rivale», la prova a posteriori (o cosmologica). Non credo si possa parlare della prova a
priori senza accennare alla prova a posteriori: le loro storie, lungi dall’essere
indipendenti, sono intrecciate fino a sembrare un’unica storia. Impossibile, allora, non
inserire nel discorso l’Aquinate e la tradizione tomista. Descartes, in seguito, ridurrà la
prova a posteriori di origine tomista nella prova a priori. Ecco perché, secondo
un’autorevole studiosa italiana, l’argomento ontologico «moderno» “nasce (…) vitale e
aggressivo”1 nelle Meditazioni. La nota teologia dell’Esodo tomista deve ancora
dimostrare che l’Ente necessario, la causa prima, siano il Dio infinito della teologia
giudaico-cristiana2. Per aspirare a dimostrare l’esistenza di Dio e non il primo principio
della filosofia naturale, la prova cosmologica deve sottomettersi alla logica della nuova
prova a priori cartesiana: il passaggio dalle modalità temporali e causali della
metafisica tomista alle modalità della nuova logica moderna. L’ente necessario, l’ente
della prova aristotelico-tomista era un ente che esiste in tutti i tempi; l’ente della prova
a priori, inaugurata da Descartes, è un ente la cui esistenza non può essere negata senza
cadere in contraddizione. Ciò sottolinea il significato della storia dell’argomento
ontologico come esercizio sul potere delle modalità e delle definizioni. La presenza
delle modalità temporali nell’argomento ontologico precartesiano era infatti indicativa
dell’egemonia della teologia a posteriori tomista, mentre il cambiamento di paradigma,
il passaggio di modalità, è sintomo di una nuova radicale rivoluzione teologica3. Questa
rivoluzione interesserà anche il pensiero ateo e materialista perché la metafisica, dopo
Descartes, ruota attorno alla ricerca di un ente di cui non si può negare senza
contraddizione l’esistenza necessaria, sia essa incarnata nello «spirito», sia essa intesa
come «occupazione» di un spazio fisico e materiale. Qui, vi è il segno della volontà di
Descartes di sostituire la gnoseologia di stampo aristotelico-tomista, quindi con la
filosofia scolastica insegnata ancora nei collegi e nelle università, con una teoria della
conoscenza e con una filosofia razionalista. Descartes, alla luce del suo sistema, pone
un’alternativa drammatica: o si può giustificare l’esistenza di Dio davanti al tribunale

1
E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Laterza, Roma-Bari,
1994, p. VI.
2
Su ciò, cfr., ivi, pp. VI-VII.
3
Tutto ciò che viene qui detto, deve essere inteso come una breve sintesi della tesi principale dello studio
della Scribano.

4
della ragione, o si deve rinunciare all’esistenza di Dio. Questa ragione spiega anche le
modifiche che l’unum argumentum anselmiano subisce: la scelta dell’argomento
ontologico cartesiano di presentarsi come una vera e propria dimostrazione, sul modello
delle verità matematiche e di rivendicare per essa una piena intelligibilità dell’idea di
Dio, vanno incontro all’esigenza di una nuova filosofia che pretende di dar conto del
come qualcosa come Dio possa esistere indubitabilmente. In seguito cercherò di
analizzare le problematiche uscite dalle Risposte alle Obbiezioni, ovvero se vi sia un
secondo argomento ontologico elaborato da Descartes nella Prime Risposte e perché
egli non accetti la formulazione data dagli autori delle Seconde Risposte, che
sembrerebbe compatibile invece con la prova a priori delle Meditazioni, ossia che Dio
deve esistere se la sua natura è possibile.

Quest’ultima affermazione, probabilmente, aprirebbe scenari leibniziani. Sarà


giusto ricordare, allora, che prima di Leibniz, vi sono tutti i filosofi (come Malebranche
e Spinoza) eredi della riflessione cartesiana. Tuttavia, non parlerò di nessuno di essi per
i motivi già espressi.

La prova a priori proposta da Leibniz è in linea con la sua visione contingente


del mondo: Dio per esistere deve essere possibile, ovvero la nozione di Dio non deve
implicare contraddizione. Leibniz ritiene l’argomento cartesiano formalmente valido,
ma esso dimostra che, posto Dio, Egli esiste, ma non era stato dimostrato che porre Dio
è un atto legittimo. L’argomento aveva sicuramente una valenza morale dimostrativa,
ma non aveva l’evidenza di una dimostrazione matematica. Non era, in ogni caso, un
paralogismo, ma restava comunque una dimostrazione imperfetta. In questo si
manifesta uno degli obbiettivi filosofici di Leibniz: la riabilitazione dell’uso matematico
in metafisica dopo l’ “abuso”4 per mano di Descartes e Spinoza. La bibliografia di
Leibniz è più vasta rispetto a quella di Descartes: egli affronta la prova a priori in
numerosi scritti e opuscoli, ma la sua continuità di pensiero (in verità non solo su questo
tema) è impressionante. Alla dimostrazione a priori, Leibniz unisce una prova a
posteriori riprendendo anche qui gli argomenti classici ma rinnovandoli, come già fatto
con la prova a priori, alla luce dei suoi principi. Per lui, non vi è alcuna conflittualità tra
le due prove, l’una non esclude l’altra. A priori e a posteriori sono solo due percorsi

4
Per questa idea dell’abuso che Descartes e Spinoza farebbero del metodo matematico in metafisica, si
confronti l’Introduzione di E. Boutroux a W. G. Leibniz, Monadologia, Fabbri, Milano, 1996, pp. 5-131,
in part., pp. 32-33.

5
intellettuali che hanno lo stesso oggetto, cioè Dio come ente necessario, il cui concetto
non implica contraddizione. Leibniz è il testimone consapevole e privilegiato
dell’alleanza tra le due prove. Vediamo come la conciliazione dei contrari, si dispieghi
in tutta la sua potenza nella ricerca della Monade Suprema. La natura di Essa è la causa
stessa della Sua esistenza. Siamo lontani da Tommaso e dalla teologia negativa del
Damasceno: è il quid sit, non il quid non sit, a prevalere. Colgo l’occasione per ribadire
che il mio studio non vuole essere né un’apologia né una denigrazione dell’argomento
ontologico. Essa vuole essere una ricerca dei metodi e delle prospettive con cui si è
affrontata la tematica della prova a priori dell’esistenza di Dio all’interno delle filosofie
di un autore della modernità, Descartes, il quale, ribadisco, ha avuto sui miei primi
studi una particolare influenza.

Alla luce di tutto quanto appena detto, vorrei esporre qui, in dettaglio, le linee
del mio studio. Il capitolo primo sarà dedicato, per così dire, ai presupposti della ricerca
stessa: si tratta di cogliere lo status quaestionis della dimostrazione a priori
dell’esistenza di Dio che di cui Descartes dovrà necessariamente tenere conto. Quindi si
concentrerà in particolare su Anselmo e sulle critiche di Gaunilone (Liber pro
insipiente) e di Tommaso; il capitolo secondo si concentrerà invece, in continuità con il
primo capitolo, sulle eredità medievali che è possibile reperire nelle pieghe del peraltro
nuovo argomentare cartesiano e affronterà la prova a priori: incomincerò, attraverso
l’analisi dei testi, con un piccolo excursus sui rapporti di Descartes con la Scolastica, le
eredità, i debiti ma soprattutto i punti di rottura con essa. Da qui, inizierò la trattazione
della prova a priori, focalizzandomi sulle Meditazioni Metafisiche e sulle Risposte; il
capitolo terzo affronterà direttamente la prova a posteriori in Descartes. In questo
capitolo dimostreremo che Descartes ha ridotto la prova a posteriori nella prova a
priori, ovvero che le modifiche più importanti per la prova a priori sono avvenute in un
contesto a posteriori.

6
CAPITOLO PRIMO

LE PREMESSE MEDIEVALI DELLA PROVA ONTOLOGICA: ANSELMO


E TOMMASO

1. Anselmo

La nostra storia ha inizio nell’undicesimo secolo, in pieno Medioevo, quando i libri


di Aristotele non circolavano ancora come invece faranno qualche secolo dopo, tranne
l’Organon5, e i luoghi di studio e di formazione erano ancora i monasteri perché le
università non si erano ancora formate. In uno di questi monasteri, quello del Bec in
Normandia, studiò e insegnò (divenendone anche priore) la mente speculativa più
importante dell’undicesimo secolo, Anselmo d’Aosta.

Anselmo è noto nella storia della filosofia soprattutto per la formulazione


dell’argomento del Proslogion. Il fatto non è del tutto ingiustificato perché esprime bene il
tipo di pensatore, amante del rigore logico e insieme profondamente religioso,
caratteristiche che non si sono mostrate soltanto nei tre famosi iniziali capitoli del
Proslogion, ma anche in tutti gli altri scritti anselmiani. I più importanti dal punto di vista
filosofico sono il Monologion, il Proslogion, appunto, il De veritate e la risposta alle
obbiezioni di Gaunilone. Nutrite del pensiero di Agostino, queste opere si presentano come
indicazione di alcune idee e concetti che si svilupperanno più tardi, andando ben al di là
del semplice argomento ontologico. In Anselmo è possibile trovare la conclusione usuale

5
L’importanza dell’Organon nei primi secoli del Medioevo fu di capitale importanza. Questo testo fu
tradotto dal greco al latino da Severino Boezio (morto nel 524 ca.), il cui programma di lavoro era di
tradurre e commentare tutte le opere di Aristotele e Platone per dimostrare la concordia di pensiero tra i
due «giganti» dell’Antichità. Egli riuscì solo a tradurre l’Organon, ma l’importanza del corpus logico
boeziano emerge anche su un piano strettamente epistemologico, dal fatto che esso propone, nei suoi
commenti, una sintesi di dottrine elaborate da varie scuole e correnti di pensiero dell’antichità.
Successivamente, grazie soprattutto all’incontro con la filosofia araba, incominceranno a circolare anche
gli altri scritti di Aristotele, con un flusso crescente che inizia dalla seconda metà del dodicesimo secolo e
prosegue per tutto il tredicesimo secolo.

Per approfondire vedere G. d’Onofrio, Storia del Pensiero Medievale, Città Nuova, Torino, 2011, in part.
pp. 58-67 e pp. 380-383.

7
che il dibattito tra dialettici e anti-dialettici doveva ricevere: contro i dialettici (come
Berengerio di Tours avversario del suo maestro, Lanfranco da Pavia), Anselmo afferma
che bisogna in primo luogo saldarsi nella fede. Essa è il dato da cui partire, e di
conseguenza non si devono sottomettere le Sacre Scritture alla dialettica; contro gli anti-
dialettici (come Pier Damiani, che paragonerà la filosofia a un vitello d’oro, in altre parole
a un idolo pagano) affermerà che non è vi è nulla di sbagliato nel chiedere il supporto della
dialettica in questioni teologiche6. Il metodo anselmiamo della sola ratio consiste proprio
nel mettere la fede tra parentesi per la comprensione delle verità della fede stessa, senza
mai contraddirla per aggiungere un qualcosa in più alla fede. Nel filosofo aostano, il credo
ut intelligam di agostiniana memoria «convive» con l’intelligo ut credam dei dialettici.
Due momenti distinti, ma che hanno un unico scopo: concedere all’intelligenza umana di
poter parlare di Dio, ossia di formulare le voces o i signa che devono esprimere fino in
fondo il modo di essere della res perfetta da cui derivano tutte le cose. Questo è il progetto
teologico-speculativo anselmiano, esposto nel Monologion e nel Proslogion. In altre
parole, la comprensione della rectitudo della parola Deus7. Il procedimento consiste in
entrambi i casi di prendere le mosse dalla percezione di una verità superiore, ossia dalla
nozione corrispondente al nome stesso di Dio, per passare dalla comprensione del suo
significato alla definizione di ulteriori conoscenze verità particolari da esso incluse o da
esso giustificate. Ora andiamo ad analizzare nel dettaglio i due opuscoli più importanti che
Anselmo ha lasciato alla tradizione.

6
Berengario di Tours sosteneva di tradurre le verità di fede in termini di ragione, considerando la dialettica
come il mezzo migliore per giungere alla verità. Ciò lo porto a negare perfino la transustanziazione e la
presenza reale; per Pier Damiani, invece, la sola cosa che importa è il conseguimento della salvezza,
quindi la filosofia è solo ozio, anzi, per la precisione, è un’invenzione del diavolo. Sulla diatriba tra
dialettici e anti-dialettici , e sulla soluzione di Anselmo, si confronti: E. Gilson, La filosofia nel Medioevo.
Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 281- 304; G.
d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, cit., pp.155-203.
7
Anselmo, in suo libretto intitolato De veritate, definisce il concetto stesso di verità: è «vero» per
Anselmo, ciò che gode di una rectitudo (retto) formale, che, quindi, vi sia una perfetta corrispondenza tra
ordo idearum, ordo verborum e ordo rerum. Un uomo è retto nella misura in cui segue la volontà di Dio,
una proposizione è retta nella misura in cui rappresenta la verità. La dialettica è dunque per Anselmo la
scienza della rectitudo in quanto aiuta e garantisce l’intelligenza per l’assoluta corrispondenza tra signa,
res e vox delle cose conosciute. Per approfondire questo punto, si consulti G. d’Onofrio, Storia del
pensiero medievale, cit., pp. 206-208.

8
1.1 Monologion

Nel 1076, Lanfranco da Pavia, arcivescovo di Canterbury, riceve dal suo migliore
allievo, che lo ha succeduto al monastero del Bec come priore8, uno scritto dal titolo
Exemplum meditandi de ratione fidei (Modello di meditazione sulle ragioni della fede).

Questo opuscolo speculativo fu accolto con molte reazioni preoccupanti da parte di


alcuni monaci del Bec e da Lanfranco. Quest’ultimo, memore della <<battaglia>>
condotta contro Berengario di Tours, si mostrò preoccupato per il riemergere di una
ragione dialettica che pretendeva di elaborare e di raggiungere le verità della fede senza il
supporto della auctoritas scritturale e patristica.

Anselmo replicò immediatamente alle accuse: invitò il maestro a bruciare il suo


opuscolo se necessario ma lo supplicò prima di farlo di controllare se ci fosse qualcosa che
non concordava con le verità della fede. Anselmo dimostrò grande intuizione su questo:
per prima cosa, un po’ per modestia, un po’ per furbizia, scrisse sempre opuscoli
nonostante il Medioevo sia l’età delle Summae9; poi, nel ‘Prologo’, giustificava il proprio
lavoro come richiesta da parte di alcuni monaci che gli imposero di scrivere tutte le
riflessioni uscite durante alcune loro conversazioni. L’ultima parte del Prologo è un
grandissimo esempio di retorica da parte di Anselmo:

Prego poi e scongiuro di cuore chi volesse trascrivere questo opuscolo di premettere ai
capitoli, in capo al libro, questa prefazione. Penso infatti che molto giovi alla comprensione di ciò
che vi leggerà il sapere con quale intenzione e in che modo è stato scritto. E credo anche che, se
uno vedrà prima questa prefazione, non giudicherà temerariamente se vi troverà qualcosa di
contrario alla sua opinione.10

Lanfranco non ordinò la distruzione dell’opuscolo a questo punto, anche su


consiglio del legato pontificio Ugo di Lione, per evitare fraintendimenti sul significato di
ratio fidei. Anselmo dovette solo cambiare il nome del’opuscolo in Monologion

8
Questo riferimento non è puramente nozionistico: gli anni del priorato (1063-1078), per Anselmo, sono
stati i più felici della sua vita, come lui spesso ricorderà nelle sue lettere (“molti, quasi tutti, veniste al Bec
perché c’ero io”). Ciò, probabilmente, ha avuto una forte influenza anche dal punto di vista speculativo,
perché sono di questo periodo il Monologion e il Proslogion. Su questo tema, si confronti Introduzione di
S. Vanni Rovighi a Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008, in particolare pp. IX-
XXX.
9
Ivi, pp. XXX-XXXI.
10
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 2008 pp. 5.

9
(<<riflessione interiore>>) e un suo secondo opuscolo si trasformerà da Fides quaerens
intellectum (La fede in cerca di intelligenza) in Proslogion (<<colloquio>>). Lanfranco
deve aver visto nei due opuscoli, più che la pretesa di assoggettare la fede all’intelligenza,
la genuinità del progetto anselmiano di poter condurre la mente a una sistemazione delle
verità teologiche senza l’ausilio della fede11, per poter parlare di Dio a persone che non
hanno mai sentito parlare di Dio o a persone che non hanno mai creduto.

Il Monologion si apre - come abbiamo detto - con il Prologo che invita a


considerare l’opuscola come delle riflessioni tra Anselmo e i suoi allievi, che gli hanno
chiesto di mettere per iscritto le conclusioni a cui sono giunti. Dal primo al quarto capitolo,
invece, vi è l’esposizione delle quattro prove del Monolgion (qualcuno parla di tre
prove12). Queste quattro prove sono state considerate da alcuni studiosi a posteriori da altri
a priori. Lo studioso Giulio d’Onofrio le considera a priori perché non vi è una partenza
dal contingente per arrivare all’assolutamente necessario, come in tutte le prove a
posteriori classiche, ma si sviluppano tutte partendo dalla nozione del divino, come è
recepibile dalla mente, per dimostrare quanto sia necessario ammettere l’esistenza di ciò
che essa ha significato13. La dimostrazione, che avviene con la sola ratio, quindi, consiste
nel passaggio dalla rappresentabilità della sua esistenza alla necessità di ammetterla. E ciò
può avvenire in molteplici modi14:

Il primo e il più semplice di tali modi consiste nel mostrare che la rectitudo della
nozione corrispondente all’esistenza di Dio sia il supremo oggetto del nostro desiderio. In
tutte le cose che desideriamo, infatti, noi non desideriamo le cose stesse ma il loro essere
buone. Dunque desideriamo ciò che le fa essere buone, e questo è il bene. Un cavallo forte
e veloce è buono, ma un ladro forte e veloce non è altrettanto buono. Ciò che fa essere

11
Sui problemi di natura tematica scaturiti dal Monologion e sulla reazione di Lanfranco, si consulti Giulio
d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 204-206
12
È il caso di É. Gilson, La filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, cit., pp 291-
304. Lo studioso francese, in sostanza, unisce la prima e la seconda prova, rendendo la seconda un
semplice corollario della prima, seguendo la linea di Anselmo. Con questo ragionamento, però, anche la
quarta si dovrebbe presentare come un corollario della terza, ma probabilmente Gilson non le presenta
come un corollario perché la terza è di stampo aristotelico, la quarta richiama, invece, una linea platonica.
13
G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma., 2011, pp. 208-213.
14
Il termine “modo” ribadisce probabilmente l’obiettivo e l’intenzione dello scritto di Anselmo. Da un
punto di vista epistemologico “modo” è meno forte di “prova”, anticipando anche quella che saranno le
cinque viae di Tommaso. Anselmo, infatti, chiamerà l’argomento del Proslogion unum argumentum
ribadendo la sua forza epistemologica rispetto ai “modi” del Monologion.

10
buono un cavallo forte e veloce e cattivo un ladro con le stesse qualità è il bene in sé, che
noi lo cerchiamo nelle cose perché esiste, ed esiste proprio in quanto fa essere buone le
cose e le fa desiderare. Il supremo bene, conoscibile proprio in quanto fa essere buone le
cose e non ha bisogno di altro per essere desiderato, è Dio.

Anselmo continua la sua ascesa intellettuale di Dio, con una seconda ricerca della
sua rectitudo fra le cose finite e conoscibili: tutte hanno una grandezza, quindi in tutte noi
conosciamo l’essere grande. Dunque conosciamo in ogni cosa qualcosa che fa essere
grandi le cose. Dunque conosciamo in ogni cosa qualcosa che le fa essere grandi le cose, e
questo qualcosa non è conoscibile come grande perché qualcosa lo fa essere grande ma è
la grandezza in sé. Essendo la grandezza che fa essere grande ogni cosa grande, è
necessariamente il più grande pensabile, ed è perciò il migliore fra tutti i pensabili. E allora
il sommo grande non è altro che il sommo bene che necessariamente esiste perché fa
essere grande tutto ciò che conosciamo come grande, e dunque è Dio.

Dopo aver analizzato la predicazione divina attraverso le prime due categorie


aristoteliche (qualità e quantità), la terza argomentazione si svilupperà attraverso la terza
categoria della sostanza, la relazione: ogni cosa conosciuta dalla mente è qualcosa che è.
Ma l’essere è predicabile o per aliud o per se. Ma solo Dio è predicabile per qualcosa che
è, che è l’essere in sé. Tutte le cose che non sono Dio sono allora in quanto sono in
relazione con l’essere in sé, che dunque è Dio. Le cose non esistono una in virtù dell’altro:
il padrone e il servo sono relativi l’uno all’altro, ma essi non esistono l’uno in virtù
dell’altro. L’unica ipotesi possibile è che tutto ciò che esiste, esiste in virtù di una causa
che è Dio (vis existendi), che esiste per sé, mentre tutte le altre cose esistono per aliud,
ossia in relazione a Dio.

Una quarta dimostrazione capace di condurci a Dio è quella che si fonda sui gradi
di perfezione che le cose possiedono. Nell’universo è possibile apprezzare diversi gradi di
dignità tra le cose. È una constatazione alla quale nessuno può sottrarsi. Ora, o vi sono
infiniti esseri e quindi non s’incontra mai un essere così perfetto, oppure che c’è un
numero finito di esseri, e di conseguenza un essere più perfetto di tutti. La prima ipotesi è
assurda perché contraria alla ragione. Bisogna concludere, quindi, che vi è una natura
superiore alle altre nella gerarchia universale. Ma questa natura non è racchiusa in più enti,
ma in uno solo, poiché se racchiudono la stessa essenza, sono in realtà la stessa cosa.
Esiste, dunque, un’unica natura superiore a tutte le altre, un grado massimo di perfezione
che orienta la gerarchia universale, la cui perfezione è la perfezione in sé, ed è Dio.

11
Queste prove suppongono l’ammissione di due principi: 1) le cose sono ineguali in
perfezione; 2) tutto ciò che possiede più o meno una perfezione ce l’ha dalla sua
partecipazione a questa perfezione, presa nella sua forma assoluta. Questi due principi
evidenziano l’impostazione platonica del procedimento mentale: il semplice fatto che il
soggetto riconosca negli oggetti finiti il germe del divino, gli impone di risalire all’origine
stessa di tale verità, alla rectitudo della loro rectitudo, che è la Verità in sé. Ma – come
abbiamo già detto – non è un procedimento a posteriori che passa da ciò che è
sperimentato a ciò che suppone lo sperimentato: l’intelligenza teologica anselmiana parte
invece dalla conoscibilità del finito per capire che tale conoscenza non sarebbe possibile
se non scaturisse da una certezza di una superiore verità, perfetta e necessaria dal punto di
vista deontologico15.

La rectitudo del concetto della parola Deus comporta dunque prima di ogni altra
verità quella dell’esistenza della parola Dio. Nel resto del Monologion, Anselmo, dopo
aver dimostrato l’esistenza del Sommo Ente, scopre tutti gli altri attributi in una natura
concepita come la più alta e la più perfetta di tutte. La mente procede spedita verso la
comprensione della realtà di Dio con ulteriori argomentazioni deduttive della ratio che a
poco a poco confermano le affermazioni della fides16.

1.2 Proslogion

I nomi dei due opuscoli, presi in considerazione, richiamano la differente


impostazione formale dei due trattati: una diretta esposizione di percorsi mentali nel
primo; la trascrizione di un dialogo spirituale tra l’autore e Dio nel secondo 17. Non
troviamo più un prologo come nel Monologion, ma - dopo il proemio - la famosa preghiera
Esortazione della mente a contemplare Dio, una delle pagine più belle della letteratura
altomedievale, dove Anselmo prega Dio, nella propria cella, di scoprire quell’unum
argumentum, di concedere l’intelligenza alla fede. Il titolo, che Anselmo aveva scelto per
il Proslogion, ribadisce che è la fede che suggerisce l’oggetto di ricerca all’intelligenza. Le
tre/quattro precedenti prove sono troppo complicate benché dimostrative: Anselmo vuole

15
Su ciò, cfr, ivi, pp 209-211.
16
Per approfondire le argomentazioni sulla natura di Dio a partire dalle dimostrazioni del Monologion, ivi,
pp. 211-213. Questo - come vedremo – sarà un altro punto di rottura con Tommaso.
17
Su ciò, cfr, p 209.

12
ricondurre tutto a un unico argomento, un’unica prova che sia autosufficiente da cui derivi
tutto il resto. La parola latina argumentum rinvia al greco tòpos, che corrisponde nei
trattati di dialettica a quei <<luoghi>> intuitivi della mente la cui percezione consente il
disvelamento persuasivo e intuitivo di una verità generale, che la ragione dianoetica deve
poi articolare in un processo argomentativo, o argumentatio, per renderne comprensibile in
forma discorsiva la sua necessità logica. Questa sua natura primordiale e intuitiva rende
complicato pervenire alla formulazione di questo argumentum18. Anselmo racconta di
intuirlo, di scrutarlo, intravede i contorni e l’evidenza logica, ma non appena cercava di
tradurlo in concetti e in passaggi mentali, tutto si appannava e diventava inafferrabile. Il
famoso argomento, che in età moderna sarà chiamato ontologico, esce dalle pagine del
Proslogion con la sua specificità medievale. In Anselmo, questa specificità risalta tutta
nella formula fides quarens intellectum, il titolo che il filosofo aostano aveva pensato per il
suo opuscolo, il quale conferma che è solo la fede a suggerire alla mente l’oggetto della
ricerca e che non è l’esito di un’invenzione umana e non dipende da informazioni
provenienti dall’esperienza19.

Nella solitudine della cella, nella solenne spiritualità della preghiera, è possibile
dimenticare tutto ciò che non è Dio. Ed ecco allora cosa la fede dice che Dio è, ma questo
qualcosa che la fede dice essere Dio necessariamente esiste:

Dunque, o Signore, che dai l’intelligenza della fede, concedimi di capire, per quanto sai
che possa giovarmi, che tu esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che
tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi più grande (aliquid quo nihil maius cogitari possit). O
forse non esiste una tale natura, poiché ‘lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste’? Ma certo quel
medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e cioè la frase ‘qualcosa di cui nulla può pensarsi più
grande’, intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli non
intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, altro intendere che la
cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto si
rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista
quell’opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non l’ha intelletto, ma
intende pure che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno
nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli intende questa frase
quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non si può
pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si

18
Su ciò, cfr, ivi pp 213-214.
19
Su ciò, cfr, ivi pp.214-216

13
potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui
non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è
ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche
cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.20

L’intero argomento si risolve nella semplicità dell’atto di pensiero con cui si


comprende la sua premessa, l’identità tra Deus e aliquid quo maius cogitari nequit possit:
il che equivale a comprendere con l’intelletto, con un atto unico e diretto, il significato
stesso della parola Deus, ossia la sua rectitudo. L’intuizione del significato
dell’espressione “aliquid quo nihil maius nequit possit” con il termine “Dio”, implica
l’esistenza stessa di Dio, perché altrimenti sarebbe pensabile qualcosa che è maggiore a
Dio, ma non si può pensare niente di maggiore a Dio. Quindi non solo nell’intelletto, ma
anche nella realtà, Dio esiste. I principi sui quali si poggia quest’argomentazione sono i
seguenti: 1) una nozione di Dio fornita dalla fede; 2) l’esistere del pensiero è già
veramente esistere; 3) l’esistenza della nozione di Dio nel pensiero esige logicamente che
si affermi nella realtà, perché l’esistenza nella realtà è superiore all’esistenza nel solo
pensiero. La dialettica astratta parte dalla fede per arrivare alla ragione, per concludere il
suo «viaggio» con il ritorno alla fede: l’idea di Dio è pienamente intellegibile. Anselmo ha
raggiunto lo scopo prefissato, cioè quello di trovare un unico argomento, autosufficiente e
intuitivo, il quale possa dimostrare l’esistenza di Dio, senza partire da alcuni predicabili
delle verità particolari come nel Monologion, nel quale la mente percorreva più vie
affermative per dire cosa è Dio, mentre nel Proslogion ha rapidamente imboccato il vertice
della via negativa (teologia negativa)21, per riconoscere che Dio, se è veramente Dio, non
può non esistere22. Infatti, uno dei migliori interpreti dell’argumentum in età medievale è
stato Bonaventura da Bagnoregio che lo semplificò con la famosa formula, accentuandone
l’immediatezza: “se Dio è Dio, Dio è”(si Deus est Deus, Deus est)23.

20
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 75-76
21
La teologia negativa del Proslogion risalta nella ricerca di cosa è Dio, a seguito della scoperta
dell’argomento ontologico. A differenza del Monologion, la mente procede per contraddizioni che sono un
alimento meraviglioso per la scoperta di Dio, e che scaturiscono tutte da un un’unica contraddizione: la
contraddizione che è necessario che sia ma che non sarà mai possibile comprendere. Cfr, G. d’Onofrio,
Storia del pensiero medievale, cit., pp. 218-219.
22
Su ciò, cfr, ivi, pp. 216-217.
23
Cfr, ivi, p. 217.

14
1.3 La formulazione del secondo argomento ontologico24

Lo studioso Norman Malcom, in un celebre articolo del 196025, poneva l’esistenza


di un duplice argomento ontologico uscito dalle pagine del Proslogion. Un primo
argomento, quello classico, a partire dalla definizione di Dio come ente perfettissimo, e un
secondo argomento, a partire dall’esistenza logicamente necessaria di Dio.

Il primo, come abbiamo visto, si trova in Proslogion II, e pretende per essere valido
di considerare l’esistenza una perfezione. Ma che l’esistenza sia una perfezione, è quanto
Malcolm, con Kant, ritiene impossibile da concedere, e per questo Malcolm ritiene
l’argomento anselmiano invalido. Ma, sostiene Malcolm, Anselmo riformula poco dopo il
suo argomento, in Proslogion III, in un altro modo , irriducibile al primo:

Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e
questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Onde se ciò di cui non si può
pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà più ciò di cui non si può
pensare il maggiore, il che è contradditorio. Dunque, ciò di cui non si può pensare il maggiore
esiste, in modo così vero, che non può neppure essere pensato non esistente.26

Stavolta la perfezione che non può essere negata a Dio è l’impossibilità logica
della non esistenza, ovvero, l’esistenza necessaria.

Questo secondo argomento ontologico per Malcolm, è una ripresa della formula
aristotelica In aeternis idem esse et posse, perché entrano in gioco i concetti di eternità e
d’indipendenza visti come perfezioni. E da questo che Anselmo – secondo Malcolm -
determina l’impossibilità logica della non esistenza di un ente di cui non si può pensare il
maggiore. Ma se l’esistenza necessaria deriva dall’eternità e dall’indipendenza dell’ente di
cui non si può pensare il maggiore, il secondo argomento che Malcolm attribuisce ad
Anselmo risulta identico a quello di Scoto e Lessius27. Se Dio non esiste, argomenta
Malcolm, non può incominciare a esistere. Se, infatti, cominciasse a esistere, la sua
esistenza sarebbe causata da altro, ed egli non sarebbe più l’ente di cui non può pensare il

E. M. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia dell’argomento ontologico da Descartes a Kant, Laterza, Roma-
24

Bari, 1994, pp. 20-26.


25
N. Malcolm, Anselm’s Ontological Argument, in <Philosophical Review>, LXIX (1960), pp. 41-62.
26
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, cit., p. 76.
27
Sulle analogie tra Scoto, Malcolm e Lessius, confrontare E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia
dell’argomento ontologico da Descartes a Kant, cit., pp. 9-26 .

15
maggiore ma un ente limitato. Se invece Dio esiste, la sua esistenza non può aver avuto
inizio. Per questo l’esistenza di Dio è impossibile o necessaria. Può essere impossibile solo
se il concetto di un tale ente è contradditorio. Se non lo è, ne segue che Dio esiste
necessariamente28.

Ma esiste questo “secondo argomento” in Anselmo? Da questo punto di vista, può


essere illuminante un passaggio contenuto nella risposta di Anselmo a Gaunilone:

Quanto alla tua opinione, che dal fatto che si intenda un ente, del quale non si può pensare
il maggiore non segua che quell’ente è nell’intelletto, e che, se è nell’intelletto, non segue che sia
in realtà, io dico con certezza: se può essere almeno pensato esistente, è necessario che esista.
Infatti, <<ciò di cui non si può pensare il maggiore>> deve essere pensato esistente senza
principio. Di ciò che invece si può pensare esistente, ma non è, si può pensare che l’essere abbia
inizio. Dunque <<ciò di cui non si può pensare il maggiore>> non può essere pensato esistente e
non esistere. Se dunque si può pensarlo esistente, necessariamente è.29

Il ragionamento che Anselmo sviluppa in questo luogo è di inferire dalla


pensabilità di un ente eterno la sua esistenza. Se un ente eterno non esistesse, non potrebbe
esistere mai, in altre parole non potrebbe essere pensato esistente. Esattamente lo stesso
giro argomentativo basato sull’equiestensione delle modalità temporali e logiche che
convincerà Scoto, Lessius e Malcolm30. Anselmo, come Malcolm, scambia la proposizione
<<implica contraddizione che un ente eterno incominci a esistere>>, con la proposizione
<<implica contraddizione che un ente eterno esista>>. E invece assai dubbio che Anselmo,
nel luogo citato da Malcolm (Proslogion III) intendesse ricondurre la necessità logica di
esistenza – l’impossibilità di essere pensato inesistente – all’eternità. Il saggio di Malcolm
fa risorgere nella contemporaneità un argomento costruito all’interno di una concezione
modale <<arcaica>>, sicuramente presente, ma del tutto incidentale in Anselmo. Ma
Malcolm sa degli enormi vantaggi provenienti da questo secondo argomento, se esso fosse
valido. Esso, non operando alcun passaggio dall’esistenza pensata all’esistenza fuori dal
pensiero, svierebbe le critiche di Tommaso e di Kant, perché rifiuta l’esistenza come un
predicato della perfezione.

28
N. Malcolm, Anselm’s Ontological Argument, cit., pp. 49-50.
29
Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 97.
30
Bisogna ricordare che questo argomento è stato spesso messo in analogia con l’argomento leibniziano,
anche a causa della forte analogia tra Scoto e Leibniz. Su questo punto mi viene in soccorso anche Sofia
Vanni Rovighi, che, nel passo citato prima, inserisce una nota che sottolinea la forte analogia con Leibniz.

16
Ricapitoliamo l’analisi condotta da Malcolm: 1) L’argomento che attribuisce a Dio
la sua esistenza necessaria a partire dalla sua eternità e indipendenza costituisce un
secondo argomento ontologico, irriducibile a quello che attribuisce a Dio la perfezione
dell’esistenza; 2) questo secondo argomento supera la critica kantiana.

Ho voluto aggiungere questo paragrafo, che può sembrare quasi fuorviante


all’interno di un lavoro che si focalizzerà su Descartes, perché proprio questo secondo
argomento di matrice anselmiana rimanda al secondo argomento a priori uscito dalle
pagine delle Risposte alle Obbiezioni di Descartes, secondo alcuni studiosi31. Questo
nuovo argomento, fondato sulla nozione di Dio come ente necessario, avrebbe retto per
oltre un secolo alle critiche, grazie alla sua maggiore forza teorica rispetto all’argomento
classico. Queste considerazioni legittimano un riesame dell’argomento cartesiano, per
verificare, se, eventualmente non si tratti dello stesso <<secondo>> argomento che
Malcolm aveva visto in Anselmo32.

1.4 Gaunilone e il Quid ad haec respondeat quidam pro insipiente

Anselmo dovette subito confrontarsi con alcuni obiettori: il più noto tentativo di
confutazione dell’unum argumentum anselmiano fu da parte di Gaunilone, un monaco
benedettino del monastero di Marmoutier. Egli scrisse un libello polemico dal nome Quid
ad haec respondeat quidam pro insipiente (Risposta in favore dell’insipiente), in cui non
negava l’esistenza di Dio, ma sosteneva l’impossibilità della ragione umana di sfuggire al
dubbio, che deve essere una motivazione e un alimento, non un ostacolo per la fede.
Gaunilone obiettava che non ci si può fondare sull’esistenza del pensiero per concludere
all’esistenza fuori dal pensiero. Egli appartiene alla tendenza anti-platonizzante della
nuova teologia moderna, il cui capostipite fu Roscellino di Compiègne, che rifiutava la
possibilità di fissare una corrispondeza tra ordo rerum e ordo verborum. A illustrare che le
cose in intellectu non sono anche in re, Gaunilone illustra una serie di esempi per
dimostrare che Dio non è che una connotazione conoscitiva completamente astratta e
razionale che non potrà mai corrispondere a ciò che Dio è perché Egli non è oggetto di
intellezione quindi, non soltanto non è in re, ma neppure in intellectu33. Io posso avere

31
È il caso di Dieter Heinrich, La prova ontologica, Prismi, Napoli, 1983.
32
Cfr., E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia dell’argomento ontologico da Descartes a Kant, cit., p. 26.
33
G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 217-218.

17
l’idea di un’isola beata al di là dell’oceano, piena di ricchezze e con tutte le perfezioni
immaginabili, ma non è detto che questa isola esista per forza; come non è detto che
l’insipiens abbia la nozione di Dio, può avere la nozione di un uomo che non consoce,
perché sa che cos’è un uomo, quindi posso pensarlo secondo quella realtà generale a me
nota, perché ne ho esperienza34.

Anselmo replica a queste obiezioni con una Responsio da lui stesso posta in
appendice al Proslogion insieme al Liber di Gaunilone. Per Anselmo, Gaunilone non ha
intuito che il quo maius è una delle verità più importanti a cui la mente può giungere. La
nozione dell’isola dei beati, per quanto perfetta possa essere, non può essere paragonata
alla nozione di Dio. Infatti, Gaunilone sostituisce la formula dell’argomento anselmiano,
quo maius cogitari nequit possit, con maius omnibus, “la cosa più grande tra quelle che
sono”. È evidente che anche una creatura potrebbe apparire il massimo del suo genere e
che potrebbe essere pensata sempre qualche realtà superiore all’interno dello stesso genere.
Soltanto nel quo maius l’esistenza è necessariamente implicata, perché se non fosse
realmente esistente, non potrebbe neanche essere pensato.

Anselmo richiama Gaunilone alla sua formazione intellettuale e al corretto


atteggiamento speculativo di chi crede. Gaunilone è cristiano e dovrebbe ammettere un
ordine della realtà, pensato e voluto da Dio nel suo Verbo e messo a disposizione
dell’intelligenza umana. Attraverso delle argumentationes, prevalentemente in forma
sillogistica, Anselmo obbliga il suo avversario a una raffica di conclusioni che lo portano
all’impossibilità di unire il termine <<Deus>> con il predicato <<non est>>.35

2. Tommaso d’Aquino

Gaunilone, nonostante la sua critica si fondi sullo stesso principio di quella


kantiana, è citato solo, nei manuali di filosofia, per l’obiezione posta all’argomento
ontologico. Merita sicuramente maggior spazio in questa ricerca un altro pensatore, che
non solo ha criticato l’argomento ontologico anselmiano, ma è considerato da tutti come il
primo teorizzatore della prova a posteriori e la maggior mente speculativa dell’Alto
Medioevo, Tommaso d’Aquino.

34
Quest’ultimo esempio, contenuto in Pro Insipiente IV, rappresenta appieno il nominalismo di Gaunilone

35
G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma, 2011, pp. 218-219

18
L’Aquinate, passato alla storia come il Doctor Angelicus, gioca un ruolo
fondamentale nella storia dell’argomento ontologico. Egli, come Anselmo, si muove nella
distinzione tra ragione e fede e nella necessità del loro accordo. Ma – come citato prima –
si deve <<destreggiare>> in un orizzonte filosofico più ampio, poiché non può più rendere
conto del solo Organon ma di tutto il corpus aristotelico36. Quando Tommaso tratta di
fisica, fisiologia e meteore, infatti, non è che l’allievo di Aristotele; quando parla di Dio,
della genesi delle cose e del loro ritorno verso Dio, Tommaso è se stesso 37. Per l’Aquinate,
l’incontro della teologia cristiana con la metafisica arabo-peripatetica ha ormai prodotto i
suoi effetti rivoluzionari. Ormai per essere scienza la teologia deve dimostrare il suo
statuto epistemologico non perché sia fondata sulla fede, ma nonostante il fatto che sia
fondata sulla fede. Ma che sia necessariamente scienza è dimostrato dal fatto che abbia un
suo oggetto peculiare: Dio considerato come principio, ma non studiato a partire dai suoi
principiati come nella teologia naturale, ma studiata a partire dal suo essere principio.
Questo suo progetto speculativo si completa nella Summa contra Gentiles.

2.1 Summa contra Gentiles38

L’opera fu scritta per essere destinata alla formazione base dei frati nello studio
delle arti. Infatti, per Tommaso, il sapiens è colui che indaga le cause prime della verità,
dunque a un tempo il metafisico e il teologo, l’aristotelico e il cristiano. Si cercano le
necessarie rationes eterne che giustificano l’intera Rivelazione cristiana: la dimostrazione
dell’esistenza di Dio non è che la prima fondamentale verità dimostrabile per via razionale
concernente Dio secundum seipsum.

Nel tredicesimo capitolo del primo libro, sono presentate le rationes ad


demonstrandum Deus esse, le quali anticipano nella struttura più che nella formulazione

36
Secondo Étienne Gilson, in Tommaso vi è un uso più accorto della ragione filosofica nella teologia
rispetto ad Anselmo. Infatti, molti ritengono erroneamente che, nonostante le molte analogie, in Anselmo e
Abelardo vi è stato un uso più libero della ragione filosofica nell’analizzare le verità della fede, mentre ciò
non è avvenuto in Tommaso e Alberto Magno. Questo deriva proprio dal dover misurarsi per Tommaso e
Alberto in un orizzonte filosofico totalmente estraneo a una concezione cristiana dell’universo. Su ciò, cfr.,
di Étienne Gilson, La filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, La Nuova Italia,
Firenze, 1973, pp. 903-907.
37
Ivi, cit. p. 635
38
La mia fonte in questo caso è G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, cit., pp. 472-480.

19
quelle che diventeranno nella Summa Theologiae le cinque vie. Si insiste in particolare su
quella che sarà la prima via nell’altra Summa, ovvero Dio come motore primo.

Dopo queste dimostrazioni, con un impressionante parallelismo con il Monolgion,


si passa a un’indagine sulla natura di Dio, ma con una migliore base d’informazione
filosofica. Dalla considerazione di Dio come primum ens, sgorgano le varie concatenazioni
dimostrative che portano a riconoscere Dio semplicemente con la sua essenza.

Risulta evidente la ripresa della teologia negativa dello pseudo-Dionigi: Dio è


predicabile soltanto per via negativa (via remotionis). Sia la filosofia sia la teologia
possono parlare di Dio soltanto manipolando il valore semantico dei termini che
utilizzano. La predicazione divina non può essere né univoca, perché i termini non hanno
gli stessi significati adoperati a Dio, né equivoca, perché vi deve essere qualche
somiglianza tra Dio e le cose. Allora il discorso teologico è sempre e soltanto di valenza
analogica.

L’analogia è il viatico con cui l’uomo, secondo Tommaso, può parlare di Dio. Essa
implica la possibilità, secondo la logica aristotelica, di predicare uno stesso nome per
ragioni diverse ma riconducibili a un fine semantico comune. L’introduzione dell’analogia
prepara il terreno per l’incontro della filosofia con teologia, perché consente un impiego
più proficuo degli strumenti filosofici per predicare la realtà divina39.

2.2. La critica all’unum argumentum anselmiano40

Proprio lo strumento dell’analogia <<sovverte>> l’architettura della prova di


Anselmo: l’Aquinate ritiene che l’intelletto umano si serva solo di nomina per parlare di
Dio. Tommaso non nega che il significato della parola Deus implichi l’esistenza, ma nega
che sia legittimo passare dal significato della parola ‘Dio’ all’esistenza dell’ente stesso.
Questa critica, conosciuta con il nome di <<critica logica>>, è indicata con il generico
divieto di passare dall’esistenza pensata all’esistenza fuori del pensiero ( Dio esiste de
iure, non de facto). Per dimostrare questo passaggio, Tommaso dice che l’argomento
sarebbe valido nel caso in cui avessimo deciso “sottobanco” l’esistenza di Dio. 41 Per

39
Su ciò, ivi, in part., pp. 478-480
40
Per un approfondimento sul tema, E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., pp. 41-57; 72-85.
41
Su questo si baserà il parere della Chiesa.

20
chiarire l’argomentazione tomistica: io potrei dire che, se esiste un quadrato d’oro nel
Partenone di Atene , esso deve avere quattro lati. Il problema è proprio capire se esiste o
meno questo quadrato.

Poiché noi, l’esistenza di Dio, l’asseriamo da un nomen, l’argomento cade, perché


il nomen non corrisponde all’essenza di Dio, ossia quando siamo di fronte a una
definizione reale di Dio, che è inconoscibile al nostro intelletto42. Secondo questa logica, la
prova anselmiana non è ritenuta una prova a priori dell’esistenza di Dio, pur rimanendo
un’esemplificazione di proposizione di per sé nota ex terminis. Per confutare Anselmo,
visto come il teorico di una conoscenza immediata e non dimostrativa dell’esistenza
divina, non c’è alcun bisogno di invocare l’assenza di causa, ma basta insistere
sull’impossibilità da parte dell’intelletto umano di apprendere l’essenza di Dio.

L’esistenza di Dio, afferma Tommaso, è una verità in se per sé nota, ma non per sé
nota quaod nos, ossia è ben vero che l’esistenza è una di quelle proprietà appartenenti
all’essenza di Dio, ma l’uomo, finito e decaduto, non può conoscere l’essenza di Dio. La
prova a priori, ovvero propter quid, è una prova dell’esistenza di qualcosa che dà ragione
del perché qualcosa è: si pretende di dimostrare “cosa essa sia prima” del “se essa sia una
cosa”. La prova cade nel momento in cui Dio, non avendo causa, è indimostrabile a
priori43: l’esistenza di Dio risulta evidente come avviene nei primi principi di
dimostrazione44, ma non dimostrabile, proprio come i principi. Ma Tommaso, proprio
come Avicenna, non ritiene che “l’esistenza di Dio non sia in alcun modo dimostrabile”45.
Abbiamo detto che l’esistenza di Dio è colta solo intuitivamente dall’uomo, anche colui
che conoscesse l’essenza di Dio, ma all’uomo non è dato conoscere l’essenza di Dio, per
questo l’espressione <<Dio esiste>>, pur evidente in sé, non lo è per l’intelletto umano.
Per queste ragioni la suddetta proposizione <<Dio esiste>> è dimostrabile per l’intelletto
42
Sulla differenza tra definizione nominale e definizione reale si baserà Cartesio, anche se Tommaso in
alcuni luoghi spiegherà l’impossibilità della dimostrazione di Dio partendo solo dalla sua definizione
nominale, in altri, invece, negherà che anche da una definizione reale non si può inferire a un esistenza
fuori dal pensiero dal momento che “la realtà che deriva come logica conseguenza non può essere
superiore al valore del termine”, e una definizione reale ha pur sempre una realtà mentale. Su ciò,
Scribano, L’esistenza di Dio, pp. 42 - 44
43
La tesi di Tommaso va letta come una ripresa di Avicenna secondo la quale, poiché Dio non ha causa,
allora Dio non è passibile di dimostrazione: “Ne si dà di lui dimostrazione perché non ha causa.
Similmente non si chiede di lui il perché”. Avicenna, Liber de philosofia prima sive scientia divina, tract,
VIII, cap. 4
44
Summa Theologiae, I, q.2, a.1, in corp.
45
Summa contra Gentiles, I, X.

21
umano a partire da ciò che è noto all’uomo, ovvero dagli effetti, dal finito, quindi è
dimostrabile a posteriori:

Vi è una duplice dimostrazione: l’una procede dalla causa, ed è chiamata propter quid, e
questa si muove da ciò che precede in senso assoluto (est per priora simpliciter). L’altra parte dagli
effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che precedono soltanto rispetto a noi:
ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa.
[…] Dunque l’esistenza di Dio, non essendo nota rispetto a noi (secundum quod non est per notum
quoad nos), si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.46

La dimostrazione a posteriori, ovvero quia, si accontenta di dimostrare che


qualcosa esista. Essa è una scelta obbligata quando si ignora il fondamento di ciò di cui si
vuole dimostrare l’esistenza. La prova a priori assume come premessa e come medio
l’essenza divina quale in sé, quindi parte dalla causa, ma Dio, causa ultima, non causa né
può essere causa di sé stesso, perché è un’idea così contraria alla ragione 47. Quindi
l’esistenza di Dio sarebbe dipendente da qualcosa, ma Dio non può essere dipendente da
qualcosa.

La filosofia è soprattutto in grado di dimostrare l’esistenza di Dio con un percorso


a posteriori, e in questo senso, Tommaso formula le famose cinque viae per scolpire nella
mente un’asserzione conoscibile soltanto tramite i suoi effetti. Tale esposizione avviene
nell’opera più importante di Tommaso, la Summa Theologiae.

2.3 Summa Theologiae48

L’opera risponde perfettamente all’indicazione del suo nome: una sintesi


dettagliata e rigorosa nell’ambito di studio e di ricerca preso in considerazione. In essa,
l’armonizzarsi di evidenza filosofica e veridicità della fede è particolarmente manifestata
soprattutto nelle prime questioni della prima parte, che affrontano le problematiche alla
natura di Dio. Nel respondeo al terzo articolo della quaestio <<utrum Deus sit>>,

46
Summa Theologiae, I,q.2., a.2.
47
Il rifiuto di Tommaso per l’auto-causalità si spiega con l’anti-platonismo dilagante tra i teologi. Cartesio
cercherà di giustificare la prova a priori proprio con il concetto di causa sui.
48
G. d’Onofrio, Storia del pensiero Medievale, pp. 485- 491.

22
Tommaso elenca i cinque percorsi che, prendendo le mosse da dati di partenza diversi,
ossia assunti in prospettive diverse, sono distinti e non riconducibili l’uno all’altro. Il
metodo, invece, è lo stesso: ciò che appare alla mente come un effetto non è concepibile
come assoluto, il principio di casualità impone di riconoscere l’esistenza di un primum,
che per essere tale deve essere trascendente. Tutte le prove tomiste, riassumendo, giocano
con due elementi: 1)la constatazione di una realtà sensibile che richiede una spiegazione;
2) l’affermazione di una serie causale di cui questa realtà è la base di Dio49.

La prima via, la più evidente (manifestior), su cui si insisteva anche nella Summa
contra Gentiles, parte dalla nozione di motus: nell’universo vi è del movimento, perché
ogni cosa passa dalla potenza all’atto, quindi ogni cosa non può essere mossa da sé, ma
sempre da qualcosa che è in atto; dunque nulla, in relazione a un medesimo divenire, può
essere a tempo motore e mosso; di motore in motore non si può procedere all’infinito
perché se non ci fosse un primo motore, non vi sarebbe neanche un secondo motore, e cosi
via. Bisogna dunque ammettere che o la serie delle cause è infinita e non ha un primo
termine, ma allora non si spiegherebbe il movimento, o la serie è finita e c’è un primo
motore, che non può essere mosso da altro, ma sempre in atto, e tale è Dio. Su questo
argomento utilizzato per la prima volta nella scolastica latina da Abelardo di Bath, vi
avevano poi insistito Maimonide e Alberto Magno.

La seconda via, quella della ratio o della cause efficiente: tutte le cose non solo
si muovono, ma prima di muoversi, esse esistono. Quindi il discorso fatto per le cause del
movimento si può applicare anche per le cause in generale. Niente può essere causa
efficiente di sé stesso, perché, per prodursi, dovrebbe essere causa efficiente del suo
effetto, il che è contradditorio. Anche qui è escluso un rinvio all’infinito, perché se non ci
fosse una prima causa non ci sarebbe neanche una seconda. Occorre dunque una prima
causa della serie perché ce ne sia una di mezzo e un’ultima, ed esse deve essere Dio.
Questa via, desunta da Aristotele, era stata ripresa da Avicenna.

La terza via, del possibile e del necessario: nell’universo tutte le cose sono o
possibili o necessarie. Ma se fossero tutte possibili, vi potrebbe anche non esserci niente.
Allora vi è del necessario. Ora questo necessario esigerà una causa, o una serie di cause

49
É. Gilson, La filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, cit. p. 636.

23
che non sia infinita, e l’essere necessario per sé, causa di tutti gli esseri che gi devono la
loro necessità, non può essere altro che Dio. Questa prova è presa da Avicenna.

La quarta via, dei gradi di dignità delle cose: tutte le cose che noi osserviamo
presentano più o meno perfezione. Ora il più o il meno suppongono sempre un termine di
paragone che è l’assoluto stesso. Questo bene in sé, che è in fondo l’essere in sé, è la causa
di tutti gli altri essere e che noi chiamiamo Dio. Questa prova di origine platonica, è
ripresa da Aristotele.

La quinta via, dell’ordine delle cose: tutte le cose create tendono a un fine, anche
quelle prive di conoscenza. La regolarità con cui ci arrivano dimostra che non arrivano per
caso al loro scopo. Allora questa regolarità deve essere intenzionale e voluta. Poiché essi
non la conoscono, bisogna che qualcuno per loro ordini le loro azioni, e questa intelligenza
ordinatrice della finalità delle cose che noi chiamiamo Dio. In questa prova, che è la più
antica e venerabile di tutte50, l’esposizione tomistica segue, probabilmente Giovanni
Damasceno e Averroè.

Tommaso ha così raggiunto Dio con la ragione, visto come una potenza assoluta,
motrice, ordinatrice, governatrice dell’intera realtà. Questo è il massimo della speculazione
che può compiere la ragione con le sue sole forze, ma ancora non è la conoscenza del quid
del divino, ossia di ciò che Dio è. Mediante la compenetrazione di via remotionis e di
analogia già indicate nella Contra Gentiles questa nozione di sommo ens può essere
completata, ma il metafisico raggiunge questa principale verità sulla natura di Dio: Dio è
colui che è (“Ego sum qui sum”51).

La formulazione tomista (teologia dell’Esodo) afferma l’essere divino come


l’esistere stesso, privo di qualificazioni o determinazioni che altrimenti lo limiterebbero. In
lui essenza ed esistenza coincidono, a differenza degli altri esseri. Se è il puro esistere,
vuol dire che è pienezza di essere, ed è quindi infinito. Ma le nostre menti finite non
possono conoscere e comprendere un essere infinito; di conseguenza, dobbiamo cogliere di
Lui tante prospettive quante potremo, senza mai pretendere di esaurirne il contenuto. Ed
ecco, allora, che la via remotionis e l’analogia aiutano in questa ricerca. Grazie alla
seconda, è possibile rendere conto delle somiglianze che esistono tra lui e le cose. Proprio
definendo Dio causa efficiente degli enti, e sapendo che vi è un rapporto di somiglianza tra
50
N. Abbagnano, Itinerari di Filosofia, Paravia, Milano, 2002, volume 1B, cit. p. 606.
51
Esodo, III, 13

24
causa ed effetto, l’analogia è possibile anche quando la causa è infinita e l’effetto è finito.
In questo senso, noi attribuiremo a Dio, ma traducendole all’infinito, tutto ciò che è
presente nelle creature in maniera imperfetta. Così diremo che Dio è perfetto,
supremamente buono, unico, intelligente, onnisciente, volitivo, libero ed onnipotente, che
non sono altro che attributi, quindi aspetti, dell’atto puro di esistere che è Dio.

25
CAPITOLO SECONDO

DESCARTES, RAPPORTI CON LA SCOLASTICA E PROVA A PRIORI.

1. Descartes, fondatore della modernità

Prima di arrivare al cuore dell’oggetto di questo lavoro, devo soffermarmi su una


questione che ha tenuto occupati molti studiosi cartesiani, in particolare del secolo
scorso52.

Nell’Introduzione, ho parlato di una cesura radicale tra il modo di intendere


l’argomento ontologico da parte di Tommaso e la rielaborazione di Descartes dello stesso
argomento nelle Meditazioni metafisiche. Ma, nonostante questo <<taglio>>, la genesi
della prova a priori cartesiana ha senso solo confrontandola con le teorie medievali. Ed è
per queste ragioni che ho voluto esporre le argomentazioni di Anselmo e Tommaso nel
capitolo precedente. Il problema è capire se Descartes abbia completamente <<rotto i
ponti>> con la Scolastica o se le differenze tra il “francese di Poitou” e il tomismo53 siano
meno profonde di quello che si pensi. In altre parole: Cartesio è il fondatore della filosofia
moderna, come comunemente viene presentato, oppure non ha fatto altro che sostituire,
come l’accusavano Huygens e Gassendi, la Scolastica con un’altra Scolastica54? La visione
classica di Descartes è quella del fondatore della filosofia moderna, nemico giurato della
Scolastica, ovvero la corrente di pensiero ancora dominante nelle università e nei collegi
(con cui era stato educato e di cui si era sentito insoddisfatto), e dalle cui riflessioni avrà
origine quel <<percorso>> della storia delle idee che si concluderà con la filosofia
trascendentale kantiana55.

52
Per approfondire questo tema ho utilizzato diverse fonti: John Cottingham, Cartesio, Il Mulino,
Bologna, 1986; G. Rodis-Lewis, Cartesio, una biografia, Editori Riuniti, Roma, 1997; Eugenio Garin,
Vita e opere di Cartesio, Universale Laterza, Roma-Bari, 1993; Emanuela Scribano, Angeli e Beati,
Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Laterza, Roma-Bari, 2006; Giovanni Crapulli, Introduzione
a Descartes, Laterza, Roma-Bari, 1988.
53
Intendo per tomismo qui come Scolastica in generale e non come il pensiero di Tommaso in particolare.
54
Cfr. E. Garin, Vita e opere di Cartesio, , cit., p. 17, nota 27.
55
Per una lettura trascendentale di Cartesio, si cfr. R. Lauth, Cartesio. La concezione del sistema della
filosofia, Guerrini, Roma, 2000, e, probabilmente, anche A. Masullo, Metafisica. Storia di un’idea,

26
Questa visione molto manualistica (mi rendo conto anche troppo generale e
<<volgare>>) non è più sostenibile dopo le riflessioni avvenute nel secolo scorso 56: i
debiti di Descartes con la Scolastica sono sotto gli occhi di tutti. Nessuno dubita ormai più
che le radici di Descartes affondino nel pensiero della tarda scolastica (in Suarez
soprattutto), che il suo linguaggio, le sue definizioni, il suo quadro teorico di riferimento
siano costruiti in larga parte dai testi che il giovane Descartes aveva studiato a La Flèche,
anche se il dissenso è aperto nel valutare il significato e il peso di quelle radici nella
costruzione della filosofia cartesiana. Nonostante ciò, agli occhi dei suoi contemporanei,
“Descartes apparve un innovatore che si accingeva a sovvertire il pensiero tradizionale”57:
basti pensare al teologo Caterus che, nelle Prime Obbiezioni, rimanda sempre Descartes
“all’autorità di Tommaso” o alla condanna che la filosofica cartesiana ebbe dal Senato
dell’università di Utrecht dove le lezioni del discepolo Regio avevano provocato l’ostilità
delle autorità. In particolare, per essi la filosofia cartesiana “è contraria alla filosofia
tradizionale che è stata finora insegnata e ne distrugge le fondamenta”. Descartes si
presenterà sempre nelle sue intenzioni come l’alternativa al vecchio sistema filosofico, il
suo intento era una formulazione globale del sapere. Descartes, però, si dovette misurare
con un formidabile sistema filosofico, di considerevole raffinatezza e potenza. Un sistema
onnicomprensivo che cercava di rendere conto di tutta la realtà e dello scibile umano. Ed
ecco che viene a cadere un altro luogo comune, ovvero quello che dipingeva la Scolastica
come un pensiero sterile e banale, dogmatico e poco allettante dal punto di vista
intellettuale58.
Descartes, quindi, si formò nel collegio di La Flèche con l’ordinamento
tradizionale: dei nove anni trascorsi in collegio conserverà sempre un bel ricordo. “E devo
rendere quest’onore ai miei maestri, di dire che non c’è luogo al mondo in cui io giudichi

Donzelli Editore, Roma, 2006, in part. pp. 127-130, paragrafo L’identificazione del pensiero umano con
l’idea di Dio: la tendenza trascendentale della nuova metafisica, può considerarsi, se non un interprete
trascendentale a tutti gli effetti, certo una lettura ben esperta di Fichte e di tutta la tradizione critico-
trascendentale.
56
In particolare le riflessioni di Etienne Gilson volevano dimostrare la presenza di Tommaso nella
filosofia cartesiana. Successivamente altri studi hanno sottolineato invece le analogie del pensiero di
Descartes con quello scotista. Si cfr. Scribano, Angeli e Beati, p.119 nota 1.
57
John Cottingham, Cartesio, cit. p. 13.
58
Per una rivalutazione della Scolastica si cfr. J. Cottingham, Cartesio, cit., pp. 12-17 e É. Gilson, La
filosofia nel medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 903-
913.

27
che la filosofia s’insegni meglio che a La Flèche”59. Con tutto ciò Descartes sarà anche
nelle intenzioni sempre fermissimo nel respingere in blocco tutta quella filosofia come
inutile, pedantesca e vuota. Vi è, comunque, una differenza tra il periodo giovanile e il
periodo della maturità. Nel primo periodo, Descartes rompe in maniera più netta con la
Scolastica; nel secondo, il buon Renè, al di là delle intenzioni, utilizzerà molte delle
modalità e degli approcci scolastici, in special misura – e ciò riguarda direttamente la mia
ricerca – per quel che concerne le prove dell’esistenza di Dio.

2. Scritti giovanili

La rottura epistemologica, quindi, si manifesta in particolare nelle prime opere


degne di nota di Cartesio, entrambe incomplete, ovvero La ricerca della verità mediante il
lume naturale e Regole per la guida dell’intelligenza.

La Ricerca della verità è un’opera postuma di difficile datazione60, in cui Descartes


muove i primi passi verso quella riforma del sapere che voleva attuare. L’impostazione
dialogica attua una via poietica, ovvero <<il piacere della scoperta>> che ricorda tanto i
dialoghi platonici, in cui Eudosso, rappresentante del buon senso e alter-ego di Descartes,
porta Poliandro, giovane che ha dovuto scegliere la carriera militare tralasciando gli studi,
alla scoperta di alcune verità prime come il cogito. Il <<rivale>> di Eudosso è Epistemone
che “sa tutto ciò che si può imparare nelle scuole”61. Il contrasto con la Scolastica è netto:
non c’è bisogno di leggere tutti i libri degli antichi per arrivare ad alcune verità prime, e
tutti sono in grado, grazie al lume naturale che è presente in tutti noi.

59
Dalla lettera indirizzata probabilmente a Florimond Debeaune. Notevole è anche il giudizio sulle
abitudini delle scuole dei Gesuiti (“l’eguaglianza che i Gesuiti mantengono tra gli allievi è un invenzione
ottima”). Su gli anni di Descartes a La Flèche, si cfr. E. Garin, Vita e opere di Cartesio, cit., pp. 3-19 e G.
Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, cit., pp. 23-40.
60
La maggior parte degli studiosi colloca il dialogo tra il 1622 e il 1628 mentre altri sono più propensi
per gli ultimi anni di vita di Cartesio. Quest’ultima ipotesi vede il dialogo come un dono di Cartesio
per la regina Cristina. Su ciò, Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, pp. 247- 253. E. Cassirer,
Cassirer, E., Descartes’ Dialog ‘Recherche de la vérité par la lumière naturelle’ und seine Stellung im
Ganzen der cartesischen Philosophie. Ein Interpretation-Versuch (1939), in Ernst Cassirer
Gesammelte Werke, Hrsg. B. Recki, Hamburger Ausgabe, vol. 20, Hamburg, Meiner, 2008; tr. it., Il
dialogo di Descartes “Recerche de la Veritè par la lumiere naturelle”, a cura e con Appendice di A.
d’Atri, Rubettino, Soveria Mannelli, 1998.
61
R. Descartes, La ricerca della verità, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, voll. I-IV, Bari, Laterza,
2009, qui, vol. I, p. 99.

28
Strettamente collegate alla La ricerca della verità sono le Regole62: quest’opera
conclude il periodo giovanile di Descartes, e in essa vi sono sia elementi che ritorneranno
in seguito nelle opere della maturità, sia quegli argomenti che Descartes lascerà cadere. Al
secondo gruppo rientra il tema delle naturae simplices e la certezza che è possibile
risolvere qualunque problema rintracciandone la struttura formale. Temi che passeranno
nella maturità sono l’intuitus, il metodo fondativo sia della scienza sia della filosofia, la
matematizzazione del mondo fisico e la predominanza del punto di vista soggettivo in
filosofia. Grande assente nell’opera è la metafisica: questo è quello che distingue le Regole
dalle opere della maturità: il segno della maturità cartesiana è dato dalla percezione che
l’epistemologia richiede una fondazione ontologica e ciò avrà un’espressione scritta nel
Discorso del Metodo in poi. Paradossalmente, questa <<assenza>> della metafisica sarà un
ulteriore motivo di discordia con la Scolastica, proprio perché il trentenne Descartes ritiene
che il solo intuitus basti per fondare una nuova gnoseologia, mentre per gli scolastici la
gnoseologia dipende sempre dalla metafisica. L’epistemologia delineata da Descartes ha il
pregio di non dipendere dai dati sensoriali e per questo riesce a <<parare>> meglio le
critiche provenienti dagli scettici. Successivamente si accorgerà che questa epistemologia
è ancora incompiuta e la garanzia della sua Mathesis universalis dovrà essere cercata su un
piano metafisico. Il motivo dipanante delle Regole resta comunque la nuova concezione
che Descartes vuole dare alle scienze: già in un frammento giovanile, lo Studium bonae
mentis, Descartes propone una nuova divisione delle scienze in tre classi (cardinali,
sperimentali e liberali), mentre nelle Prima Regola, Descartes si distacca dalla Scolastica
che poneva sullo stesso piano di partenza arte e scienza, ovvero l’esperienza e la loro
distinzione verteva sull’oggetto. Descartes, invece, nega che le scienze vadano distinte in
base al loro oggetto, come invece è lecito fare per le arti. E ciò perché, egli dice, “tutte le
scienze non sono altro che sapere umano, che rimane sempre uno e identico”63. Nonostante
la differenza che intercorre tra lo Studium bonae mentis e le Regole, entrambe pongono lo
spostamento della riflessione filosofica dall’oggetto al soggetto: poiché le scienze sono
concatenate tra loro, per indagare la verità delle cose basterà aumentare il naturale lume di
ragione perché l’intelletto possa chiarire alla volontà che cosa convenga scegliere nella
vita64.

62
Per discutere sulle Regole, mi sono servito dell’Introduzione di L. Urbana Ulivi a Descartes, Regole per
la guida dell’intelligenza, Fabbri Editori, Milano,1995, pp. 7- 126
63
R. Descartes, Regole per la guida dell’intelligenza, Fabbri Editori, Milano, 2000, cit. p. 141.
64
Sul rapporto tra Studio bonae mentis e Regulae, cfr. E. Garin, Vita e opere di Cartesio, cit., pp. 57-78.

29
In conclusione, Descartes arriva a un primo abbozzo di rottura epistemologica in
questi scritti giovanili con la Scolastica. Un nuovo approccio gnoseologico si affaccia nelle
discussioni tra i dotti del tempo, dove il sistema tradizionale dominante era ancora la
Scolastica. I dati sensibili sembrano non garantire una conoscenza certa e le verità prime
sono raggiungibili da qualsiasi uomo dotato di lume naturale. Le uniche affinità con la
Scolastica sono il tentativo di costituire un sistema olistico e il titolo delle Regole che
rientra in quel programma formativo e didattico della filosofia a lui contemporanea e
quindi risponde a un’esigenza generale cara anche alla Tarda Scolastica65.

3. Scritti della maturità

La situazione si fa più intricata quando si parla delle opere della maturità: è in


dubbio che Descartes vuole rompere del tutto con la <<tradizione>>, ma il problema si
viene a porre quando si tratta di capire quanto profonda sia la rottura.

Prima di iniziare la mia analisi, sarà giusto fare una precisione bibliografica: in
questa sessione parlerò di quelle opere più strettamente filosofiche, in cui sono presenti le
prove dell’esistenza di Dio, quindi Discorso sul metodo, Meditazioni di prima filosofia
(con relative Obbiezioni e Risposte) e I principi di filosofia. Sono escluse tutte le opere
pertinenti alle altre scienze come Il mondo o trattato della luce, La diottrica, La
geometria, Le meteore, L’uomo e Le passioni dell’anima. Ciò risponde a un’esigenza più
pratica che epistemologica, dal momento che per Descartes, come abbiamo già detto,
“tutte le scienze non sono altro che sapere umano che rimane uno e identico, per diversi
che siano gli oggetti a cui viene applicato”66.

Il Discorso sul metodo fu pensato inizialmente come prefazione per tre saggi67
scientifici per spiegare il metodo da lui adottato nelle indagini scientifiche. ‘Discorso’ e
non ‘Trattato’, in quanto lui vuole informare del metodo, non discuterne in maniera
sistematica. Esso si divide in sei parti e del metodo in senso stretto Descartes ne parla solo
nella seconda parte, in cui espone i famosi quattro precetti del metodo, invece, nel resto

65
Sulle ragioni del titolo Regulae ad directionem ingenii , si cfr. l’Introduzione della Ulivi a Descartes,
Regole per la guida dell’intelligenza, cit., p.20.
66
Cfr., supra, nota 64, p. 28.
67
La diottrica, La geometria e Le meteore.

30
dell’opera, Descartes esprime una considerazione concernenti le scienze (prima parte),
tratta di morale (terza parte), metafisica (quarta parte), fisica e anatomia (quinta parte)68, e
infine un appello per la ricerca (sesta parte). Definirei, quindi, il Discorso come il
manifesto o come l’introduzione alla filosofia cartesiana.

Il Discorso è presentato da Descartes come un’opera rivoluzionaria, in antitesi alla


filosofia scolastica, quindi opposta in blocco alle teorie dominanti e non come una mera
critica alle teorie dominanti. Sia nella Prima che nella Sesta Parte, Descartes polemizza
apertamente con il sistema scolastico, lamentandosi anche del fatto di non aver potuto
pubblicare Il mondo69. Nello stesso stile compositivo del libro, si possono trovare due
cambiamenti di paradigma radicali e, per l’epoca, rivoluzionari: 1) lo scrivere in prima
persona (tecnica che utilizzerà anche nelle Meditazioni); 2) il latino, che è ancora la lingua
dei dotti, viene sostituita dal francese affinché tutte le persone anche quelle meno dotte,
possano avere la possibilità di cimentarsi nella sua filosofia. Riprenderà il latino nelle sue
opere più sistematiche, ovvero le Meditazioni e i Principi70. L’utilizzo del Latino, in
particolare nei Principi71, è da ricondursi a diversi fattori, uno dei quali è sicuramente
voler sostituire la sua filosofia alla Scolastica.

La metafisica del Discorso è solo un <<assaggio>> della metafisica compiuta delle


Meditazioni, “in cui avrebbe sviluppato l’analisi di alcuni passaggi dell’iter meditativo”72.
Nella Quarta Parte, Descartes utilizza molti termini ed espressioni scolastiche (“userò,
qui, se vi piace, liberamente dei termini della Scuola”) come sostanza, accidente, essere
partecipe di (parteciper de), avere da sé. Il problema, che ritornerà nelle Meditazioni, è che

68
In questa parte, con la sua descrizione del corpo umano tenta di esibire il successo ottenuto con il banco
di conferma della bontà del suo metodo.
69
La condanna di Galilei ha distolto Descartes dalla pubblicazione del Mondo, nonostante lui non trovasse
niente che “potessi immaginare pregiudizievole alla religione o allo Stato…”.
70
Lucia Urbana Ulivi analizza molto bene le relazioni bibliografiche ed epistemologiche che intercorrono
tra il Discorso e le Meditazioni, nella sua Introduzione a Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani,
Milano, 2001, in part. pp. 7-23.
71
I Principi di presentano come un vero è proprio manuale alternativo alle Summae medievali. Nella
Prefazione(Lettera all’Abate Picot), Descartes spiega che ha iniziato dalle cose più semplici come “che
significa pensare?” o “il significato della parola filosofia”, proprio perché il fine dell’opera è di essere di
supporto nelle Scuola.
72
Su ciò, cfr. G. Crapulli, Introduzione a Descartes, cit. p.103. Crapulli, in questo passo propende per
quest’ipotesi rispetto alle due tesi estreme di alcuni critici cartesiani: l’una, convinta che nella IV Parte del
Discorso sono già presenti tutti gli elementi delle Meditazioni; l’altra che non intercorre nessuna relazione
tra le due opere.

31
il meditante, <<il ricercatore della verità>>, è una persona dotta, rappresentante del senso
comune di stampo aristotelico. Ergo, di un sistema filosofico raffinato di cui Descartes
utilizza alcuni termini ed espressioni in una nuova luce nella sua <<moderna filosofia>>.

Nel Discorso sul Metodo sono presenti le prime dimostrazioni dell’esistenza di


Dio: le due prove a posteriori73 e la prova a priori. Ma, per i motivi citati prima, parlerò di
esse quando parleremo delle Meditazioni. In definitiva, il Discorso sul metodo si presenta
come una prefazione alle opere scientifiche di Descartes. Le dimostrazioni dell’esistenza
di Dio, quindi non sono casuali, poiché Dio è il garante del mondo, anche delle verità
matematiche, e ciò che mi assicura che ho delle idee chiare e distinte.

Ora, entriamo nel cuore della nostra tematica, perché le Meditazioni (e le


conseguenti Obbiezioni e Risposte) sono il testo cardine della nostra riflessione e della
nostra ricerca. Come vedremo, attraverso anche l’uso di criptocitazioni, Descartes continua
ad utilizzare strumenti e nozioni scolastiche all’interno della sua metafisica e della sua
epistemologia. Ciò non toglie che li utilizzi in una luce tutta nuova, tenendo conto della
rivoluzione scientifica che si stava tenendo proprio in quel tempo.

3.1 Meditazioni di prima filosofia e Principi della filosofia

Le Meditazioni sono il testo cardine della riflessione metafisica cartesiana e l’opera


che più di ogni altra, forse, ha sancito la nascita della filosofia moderna. Il titolo in latino
della prima edizione era Meditationes de prima philosophia, in qua Dei existentia et
animae immortalis demonstratur74. Già il termine ‘Meditazione’ esprime una rottura con il
passato di stampo pragmatico75: Descartes intende rompere tutte le consuetudini
filosofiche , che nella Scolastica esprimevano d’abitudine titoli quali ‘trattati’ o ‘dispute’, e
sottolinea la rivoluzione filosofica anche con l’innovazione terminologica. Ma vi sono
anche motivi di natura più propriamente retorici e filosofici: il percorso riflessivo, che

73
Le due prove a posteriori sono due facce della stessa medaglia: raggiungo l’esistenza di Dio, partendo
dai suoi effetti, ma la prima si muove sul piano delle idee (piano logico), l’altra dell’essere (piano
ontologico).
74
Nella seconda edizione, Descartes, scontento, cambiò il nome in Meditationes de prima philosophia, in
quibus Dei existentia, et animae humanae a corpore distinctio demonstrantur, in cui non è più menzionata
l’approvazione della Sorbona.
75
Cfr. L. Urbani Ulivi in Introduzione a Meditazioni metafisiche, cit., pp.14-15.

32
porta il lettore a una identificazione intellettuale con l’autore, utilizza la via analitica76,
ovvero poietica77, che ha in sé il piacere della scoperta. Descartes, seguendo la via
analitica, sottolinea la logica della scoperta filosofica e quindi si trasforma la riflessione in
una vera e propria scoperta delle verità prime.

La Prima philosophia è, nel lessico della Scolastica, la scienza che si occupa delle
cose che esistono separate dai corpi, mentre la metafisica ha per oggetto in senso stretto
l’esistenza di Dio e l’anima. Descartes, in tal guisa, sottolinea che oggetto dell’opera non è
solo Dio e l’anima, ma anche “tutte le prime cose che si possono conoscere filosofando
con ordine”78.

3.2 L’albero del sapere

Così tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la
fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre
principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta perfetta morale che
presupponendo un’intera conoscenza delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza. Ora,
come non è dalle radici, né dal tronco degli alberi che si colgono i frutti, ma solo dalle estremità
dei loro rami, così la principale utilità della filosofia dipende da quello delle sue parti, che non si
possono imparare che per ultime.79

Questo è un estratto dalla Lettera all’Abate Picot, che oggi è utilizzata come
prefazione alla seconda edizione dei Principi della filosofia, in cui Descartes esprime la
sua concezione delle scienze. Egli paragona la conoscenza a un albero, dove appunto la
metafisica sono le radici, base di tutto il sapere, la fisica è il tronco e i rami le altre scienze.
Se prendiamo in esame il percorso intellettuale di Descartes, possiamo fare alcune
considerazioni di stampo epistemologico: le riflessioni metafisiche avvengono dopo gli
studi scientifici. Questo perché Descartes si rese conto che le sue nuove concezioni fisico-
matematiche, una volta <<distrutto>> il sistema scolastico, avevano bisogno di un

76
La via analitica, come già ricordato nel Discorso, si oppone alla via sintetica, tipica della geometria, che
espone per prima i principi da cui susseguono le altre verità dipendenti dai primi principi.
77
È l’espressione utilizzata da L. Urbana Ulivi nella sua Introduzione alle Meditazioni.
78
Lettera a Mersenne, A.T., III, p.239.
79
Lettera all’Abate Picot in Descartes, I principi della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1995, cit., pp. 15-16.

33
<<garante>>, di un elemento che fondasse e reggesse il suo nuovo apparato scientifico80.
Una volta negato il finito, questo garante, quest’idea che regge e conserva il mondo,
poteva provenire solo dal piano del meta-sensibile. L’idea che può reggere il mondo e lo
riesce a conservare è Dio. La creazione non è l’atto produttivo di questa o di quella cosa
ma del tutto: “il rapporto creativo lega il mondo a Dio come il picciolo lega il frutto alla
pianta: se il picciolo resiste, il frutto intero resta attaccato, se il picciolo è reciso (..),
l’intero frutto, caduto, marcisce, si annienta; ma fin quando è attaccato alla pianta, non una
delle sole leggi che regolano nel suo interno la vita delle sue parti può cambiare. La
creazione contraddirebbe se stessa”81.

Per dimostrare l’esistenza di Dio, vi sono due modi: l’uno completamente


logicamente decidibile, ovvero a priori; l’altro, attraverso il riscontro dell’esperienza,
attraverso gli effetti per giungere alla causa, ovvero a posteriori.

Stiamo per entrare nel cuore del nostro oggetto di tesi. Parlerò prima della prova a
priori e successivamente di quella a posteriori, seguendo lo stesso iter tematico della
Scribano nel suo testo di riferimento, che nei capitoli dedicati a Descartes ha dimostrato
che i cambiamenti più significativi non vanno ricercati tanto nella Quinta Meditazione ma
nella Terza: ed è qui, e non nelle Risposte alle Obbiezioni82 che nasce il <<secondo>>
argomento ontologico, ovvero dalle trasformazioni che subisce la prova a posteriori, che
lungi dall’essere alternativo alla prova priori, è piuttosto un solidale alleato e sostegno.
Ciò, come abbiamo già detto83, aprirà a Leibniz.

4. La prova a priori nella Quinta meditazione e il problema dell’innatismo

Il luogo cartesiano per eccellenza dell’argomento ontologico è la Quinta


Meditazione, il cui titolo è emblematico: Sull’essenza delle cose materiali; e di nuovo su
Dio e sulla sua esistenza. Descartes, nella sua quinta giornata meditativa, si appresta a

80
Quella che ora sto per scrivere è una riflessione personale, ma mi sembra che Descartes possa essere
paragonato a Marx, perché quest’ultimo si servi di una riflessione economica per giustificare il suo
programma politico.
81
A. Masullo, Metafisica. Storia di un’idea, cit., p. 123.
82
Come abbiamo detto, questa è la tesi di Dieter Henrich nel saggio La prova ontologica. Vedi, supra,
p.15, nota 31.
83
Vedi Introduzione.

34
dimostrare <<l’anticamera>> dell’esistenza delle cose materiali: la loro essenza. Per la
filosofia scolastica è possibile distinguere nelle cose create l’essenza (ciò per cui una cosa
è quello che è) dall’esistenza ( l’attuale darsi della cosa). Descartes riprende questi concetti
e li elabora alla luce della sua nuova filosofia84. In consonanza con la Scolastica (in
particolare con Duns Scoto), la domanda sulla natura della cosa precede quella sulla
esistenza85. Ancora: Descartes si allontana ancora di più da Tommaso sostenendo che un
oggetto infinito possa essere <<catturato>> da un concetto finito.

La concezione della matematica nella Quinta Meditazione può aiutarci a


comprendere meglio il discorso di Descartes. Egli opta per una matematica di stampo
platonico: mentre nella prima era ancora ancorato a una matematica aristotelico-tomista.
La differenza sostanziale tra le due tipologie sta che nella prima gli enti matematici sono
enti già da sé, hanno delle proprietà e gli viene riconosciuta una propria essenza, ovvero
delle proprietà immutabili che non possono essere cambiate né modificate da noi; mentre
nella seconda, gli enti matematici hanno senso solo in relazione al mondo empirico86.

Questa concezione matematica di stampo platonico ha bisogno di due condizioni


per essere valida: 1) una teoria innatistica della conoscenza e 2) un garante dell’esistenza
degli enti matematici, ovvero Dio87.

Il meditante si accorge di poter solo ricordare le idee matematiche che “quando


inizio a scoprirli, non mi sembra tanto di apprendere qualcosa di nuovo, quanto di
ricordarmi di cose che in precedenza conoscevo già, oppure di accorgermi di cose, che
invero da tempo erano in me, per quanto in precedenza non vi avessi rivolto l’occhio della
mente”88. Anche se il triangolo non esiste da nessuna parte al di fuori del pensiero(e in
realtà dal punto di vista ontologico un triangolo non esiste perché è una figura
bidimensionale), tuttavia risulta qualcosa perché vi è una sua determinata natura ed

84
Si cfr. Descartes, Meditazioni Metafisiche, Bompiani, p. 306, nota 73.
85
E. Scribano insiste molto su questa analogia tra Descartes e la Scolastica: Descartes, costretto da un
riferimento esplicito di Caterus a Suarez, abbia dovuto chiedere a Mersenne di correggere una sua frase in
cui rivendicava come una sua invenzione originale questa tesi. Si cfr., E. Scribano, Angeli e Beati. Modelli
di conoscenza da Tommaso a Spinoza, cit., p.126, nota 18.
86
Su ciò, ivi, pp. 168-175.
87
E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, cit., pp. 41-57.
88
Descartes, Meditazione metafisiche, Bompiani, cit., p.241

35
essenza che non dipende dall’uomo: non è quindi un’idea fattizia89, ovvero non è un’idea
che proviene da me, perché posso dimostrare tutte le sue proprietà che risultano chiare e
distinte.

Il triangolo sia che esita o che non esista risulta, quindi, avere determinate
proprietà, tipo che consta di tre lati, che la somma dei suoi angoli risulta essere 180° 90, etc.
Ora, Descartes si chiede, se di un triangolo o di una qualsiasi altra idea di una certa cosa
posso trovare delle proprietà che appartengono chiaramente e distintamente a quella cosa,
non si potrebbe forse avere da qui un argomento anche per provare l’esistenza di Dio91? La
formulazione della prova a priori può essere strutturata in questo modo, secondo la
Scribano92:
1. Dio è l’ente perfettissimo
2. L’esistenza risulta essere una perfezione
3. “pensare a un Dio (cioè l’ente sommamente perfetto) a cui manchi l’esistenza (cioè a cui
manchi una perfezione ) è una contraddizione non minore di quanto lo è pensare un monte
a cui manchi una vallata”93.

Descartes si pone subito un’obbiezione: dal fatto che non esista un monte senza una
valle non deriva che il monte e la valle vi siano, allo stesso modo dal fatto che penso Dio
come esistente, segua che egli esista. Ed egli paragona l’idea di Dio ha un’idea fattizia, il
cavallo alato. Viene quasi in mente il confronto tra Anselmo e Gaunilone: ma Descartes
evade l’obbiezione sostenendo che l’esistenza è inseparabile da Dio, e non posso pensarlo
non esistente, perché la necessità della cosa stessa, l’esistenza di Dio, induce il lume

89
Descartes, come vedremo, distingue le idee in tre categorie: quelle che ritrovo in me ma non dipendono
da me, innate; quelle che rappresentano qualcosa che proviene da “fuori”, avventizie; quelle che
provengono da me, fattizie. Questa distinzione è importante perché Descartes avrà problemi a chiarire se
Dio è un idea innata oppure fattizia.
90
Oggi, nelle geometrie non-euclidee, non si è più sicuri che la somma dei tre angoli interni di un
triangolo sia 180° <<precisi>>. La somma degli angoli interni del triangolo può essere superiore all'angolo
piatto (geometria di Riemann) o inferiore (geometria di Lobacevski).
91
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., p.243.
92
E. Scribano, L’esistenza di Dio, p. 27.

93
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., p. 245.

36
naturale a pensare ciò: non ho la libertà di pensare diversamente. Mentre, ho la libertà di
pensare un cavallo sia con le ali che senza94.

Il nodo si presenta in maniera più netta subito dopo, scorrendo le righe della
Quinta meditazione, quando Descartes paragona l’idea di Dio a un’idea fattizia matematica
per superare un’eventuale obbiezione di petito principii: l’iscrizione di tutti i quadrilateri
in una circonferenza. L’ipotetico avversario ritiene valido l’argomento cartesiano ma
sostiene che si può anche non pensarlo affatto, perché non vi è necessità. La necessità di
parlare di Dio come esistente è subordinata al pensare Dio: se io penso un’affermazione
matematica, ad esempio “tutte le figure di quattro lati sono inscrivibili in una
circonferenza”, segue che anche il rombo sia inscrivibile, anche se ciò è palesemente
falso95. Da ciò evinciamo la non garanzia di considerare una conseguenza necessaria che
derivi da una certa premessa, poiché quest’ultima potrebbe essere falsa, ovvero un’idea
fattizia. Dunque anche se l’argomento ontologico risulta vero, ciò non garantisce la verità
della premessa. Descartes prova a superare l’obbiezione concedendo che è possibile
compiere un’affermazione falsa in geometria, e quindi affermare una premessa sbagliata,
ma ciò è impossibile quando si parla di Dio, poiché è l’ente primo e sommo e la sua
essenza mi si presenta in maniera chiara ed evidente da non poter non concludere la sua
esistenza, “infatti, che cosa vi è di più manifesto che il sommo ente, o Dio, alla cui solo
essenza compete l’esistenza, esista?”96.

La peculiarità cartesiana è che sia la prova sia la discussione sono costruiti a


partire dal confronto con le idee matematiche; la relazione tra Dio e gli enti matematici è
così insita, intrecciata, che occorre chiedersene la ragione: gli enti geometrici erano usciti

94
Mi rendo conto di aver adoperato alcune parole chiavi del glossario cartesiano, come immaginazione,
libertà (intesa come volontà, capacità di giudizio) e lume naturale. Il cavallo, oggetto di conoscenza del
mondo esterno , è strettamente connesso all’immaginazione, intesa alla maniera scolastica, come capacità
di astrarre le cose corporee. Per la sua connessione col mondo sensibile non fa parte della mia essenza. La
libertà è intesa in maniera duplice da Descartes: nel prima, la libertà è il potere di fare o non fare una cosa,
quindi come possibilità di scegliere; nella seconda, la libertà è l’assenso dato a ciò che l’intelletto ci
presenta. Ontologicamente essa è illimitata ed è la facoltà che formalmente ci avvicina a Dio. In essa però
si annida l’errore, o meglio, l’errore è situato nello scarto tra l’intelletto (limitato) e la volontà (illimitata).
Il lume naturale, invece, è il nous medievale, l’intelletto staccato dai sensi che si rivolge a un oggetto e ne
garantisce la verità e la realtà di ciò che si guarda. Su ciò, cfr. la sezione Parole chiavi di Cartesio,
Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., pp. 311-327.
95
Mentre ogni triangolo è inscrivibile in una circonferenza, per ogni quadrilatero vale questo teorema: un
quadrilatero è inscrivibile in una circonferenza se e solo se gli angoli opposti sono supplementari. Questa
condizione non si realizza nel caso del rombo.
96
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Bompiani, cit., p. 251.

37
indenni dal primo e dal secondo livello di dubbio97, e si erano arrestate solo davanti
all’ipotesi del Dio ingannatore. Ciò accadeva nella Prima Meditazione; ma nella Quinta
Meditazione, Descartes può utilizzare quanto acquisito nelle precedenti giornate
98
meditative, in particolare che Dio esiste e che non può ingannarmi , e dimostrare che le
verità matematiche hanno una natura immutabile e non dipendono da me. Esse sono delle
idee innate e di conseguenza non fattizie. Ed ecco qui, il senso profondo dell’introduzione
dei due esempi del cavallo alato e dell’esempio matematico dei quadrilateri inseriti in una
circonferenza: Descartes deve dimostrare che l’idea di Dio non è un’idea fattizia ma
un’idea innata. La differenza sostanziale tra le due tipologie è che nelle idee fattizie si
risolve tutto in una tautologia, ossia ritrovo nella conclusione solo quello che era già
esplicitamente posto nella premessa, in definitiva sono dei sistemi chiusi. Infatti, tra le
critiche che Kant rivolgerà alla prova ontologica, una sola sarebbe stata seriamente
avvertita da Descartes: ammesso e non concesso che l’esistenza sia una perfezione,
l’argomento è una prova apparente; in realtà non si tratta altro che di una tautologia99.

Affinché un’idea risulti innata ha bisogno di due condizioni basilari: 1)gli


elementi che compongono un’idea innata non devono essere separabili; 2)le conclusioni
che si traggono dall’idea di un ente non devono far parte esplicitamente della definizione
di quell’ ente. L’idea di Dio per essere dichiarata innata dovrebbe superare entrambi questi
criteri.

Per quanto riguarda il primo criterio, l’esistenza fa effettivamente parte


dell’essenza di Dio e non è possibile separare da essa l’esistenza dal concetto di Dio,
invece – ritornando sull’esempio del cavallo alato- è possibile separare le ali dal cavallo.
In realtà, il paragone con il cavallo alato, però, secondo la Scribano 100, risulta male
impostato. Il paragone corretto avrebbe dovuto concernere tra l’esistenza e l’insieme di

97
L. Urbana Ulivi, nella sua già citata Introduzione, classifica tre livelli di dubbio: 1) il dubbio dei sensi;
2) il dubbio del sogno; 3)Il Dio ingannatore e il genio maligno. Vedi Introduzione, pp. 24-32.
98
Per l’ipotesi del Dio ingannatore, Descartes verrà accusato di blasfemia da parte di Jacobus Triglandius,
primo teologo della Facoltà di Teologia di Utrecht. Descartes riuscì a superare l’accusa dimostrando che il
Dio ingannatore era solo un’ipotesi e in seguito, all’interno sempre delle Meditazioni, aveva dimostrato
che Dio non è ingannatore ma nella sua immensa bontà non ci inganna mai. Cfr., G. Crapulli, Introduzione
a Descartes, cit., pp. 166-170.
99
I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 379-384 (Dell’impossibilità di una
prova ontologica dell’esistenza di Dio).
100
La quale, a sua volta, rimanda a S. Werenfels, Judicium de Argumento Cartesii pro existentia Dei petito
ab ejus idea, in Opuscola theologica. Su ciò, cfr., E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., p. 53, nota 51.

38
perfezioni da un lato e dall’altro le ali e il cavallo alato dall’altro mentre Descartes
pretende di confrontare la relazione che intercorre tra l’esistenza e tutte le perfezioni a
quella che esiste tra le ali e il cavallo senza ali, poiché è impossibile negare che le ali
appartengono a un cavallo alato e di conseguenza l’idea di cavallo alato diverrebbe un’idea
innata. È dunque grazie a un paragone mal costruito che Descartes supera per l’idea di Dio
l’esame dell’innatismo.

Il secondo criterio è quello maggiormente connesso al problema della tautologia


ma, anche in questo caso, Descartes si serve di un esempio che non risolve l’aporia: egli
avrebbe dovuto mostrare la differenza tra l’idea di Dio e un’idea fattizia, mentre qui
paragona l’idea di Dio ad un’ipotesi falsa (che tutte le figure di quattro lati sono
inscrivibili in una circonferenza), un’implicita ammissione della difficoltà di distinguere
efficacemente l’idea di Dio dalle idee fattizie. Ciò dimostra che Descartes è perfettamente
consapevole delle difficoltà logiche – a dispetto di Anselmo e di Bonaventura - che
l’inferenza di esistenza può creare: bisognerebbe ammettere che vi siano isole
perfettissime, mondi perfettissimi, corpi perfettissimi etc. E riconoscere una moltitudine di
argomenti ontologici101.

Ma c’è di più: la dimostrazione dell’esistenza di Dio non rispetta quell’analogia


con le dimostrazioni della geometria che Descartes aveva preannunciato in apertura della
Quinta meditazione: per il primo criterio, il legame necessario richiesto non dovrebbe
riguardare le proprietà e l’insieme delle proprietà del definito, invece, si dovrebbe
articolare su una proprietà e tutte le altre , considerate dimostrabili partire dalla prima; per
il secondo criterio, la dimostrazione di un teorema del triangolo consiste nel collegamento
tra due concetti. Ciò avviene grazie a teoremi e assiomi che non sono presenti nella
costruzione della prova a priori. Ne risulta che le dimostrazioni dei teoremi del triangolo e
la dimostrazione dell’esistenza di Dio non siano strutturate in mondo analogo e le
dimostrazioni matematiche hanno maggiori opportunità di riuscire a differenziarsi dalle
idee fattizie rispetto all’idea del sommo ente102.

Su questo terreno, a partire dalle critiche di Caterus, nascerà <<la seconda>>


prova a priori nelle pagine delle Obbiezioni e Risposte, dove Descartes decide di lavorare

101
La Scribano rimanda a Russell che insisterà molto su questo punto. Cfr., On denoting <<Mind>>, XIV
(1905), pp. 479-493
102
La Scribano, in questa maniera, dimostra l’inconsistenza dell’analogia su cui si fonda la prova a priori
cartesiana nella Quinta meditazione.

39
seriamente sull’analogia tra la dimostrazione dell’equivalenza dei tre angoli di un triangolo
a due angoli retti e l’esistenza di Dio: è in gioco non solo la prova a priori e la sua
metafisica ma anche la sua gnoseologia.

4.1 La seconda prova a priori

Nelle prime obbiezioni, Caterus103 obbietta con argomentazioni tipicamente


tomiste. Infatti, per la prova della Quinta meditazione, sulla <<strada>> già percorsa da
Tommaso , ricorda a Descartes che “anche se si conceda che l’essere sovranamente
perfetto, in forza del suo proprio nome, importi l’esistenza, tuttavia non segue che questa
stessa esistenza sia nella natura qualche cosa in atto, ma solo che il concetto dell’esistenza
è inseparabilmente congiunto con il concetto, o con la nozione dell’essere perfetto. Dal
che voi non potete inferire che l’esistenza di Dio sia qualche cosa in atto, se non supponete
che quest’essere sovranamente perfetto esista già in atto; poiché allora esso conterrà
attualmente tutte le perfezioni, ed anche quella di una esistenza reale”104.

Caterus rivendica, in nome dell’ortodossia tomista, l’impossibilità di passare da


un’esistenza pensata a un’esistenza reale105, proprio sulle stesse basi della critica di
Tommaso ad Anselmo. Ma Descartes respinge questa obbiezione:

Ma il mio argomento è stato un altro: ciò che noi concepiamo chiaramente e distintamente
appartenere alla natura o alla essenza, o alla forma immutabile e vera di qualche cosa può esser
detto o affermato con verità di questa cosa; ma dopo che noi abbiamo con sufficiente accuratezza
ricercato ciò che è Dio, concepiamo chiaramente e distintamente che alla sua vera ed immutabile
natura appartiene di esistere; dunque, allora, noi possiamo affermare con verità che egli esiste.

Qui, Descartes sottolinea la distanza tra la sua prova a priori e l’unum


argumentum anselmiano. Per Descartes, l’esistenza di Dio è dedotta da una vera essenza e

103
Descartes, appena terminò le Meditazioni, desideroso di aver subito il parere dei teologi intorno alla sua
opera, si rivolse da prima a due preti cattolici di Harlem: Bannius e Bloemerat , ma essi si occupavano -
nonostante la licenza in teologia – più di musica. Quindi, indirizzarono Descartes a un loro confratello,
Johan de Kater (latinizzato Caterus), un dotto teologo , che era veramente un acuto spirito filosofico.
104
Descartes, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, a cura di E. Garin, voll. I-IV, Laterza, Roma-
Bari, 2006, qui vol. III, p. 277.
105
Ivi., p. 292.

40
non da un puro nomen come nel caso di Anselmo106. Il passaggio dal pensiero all’essere107
è impossibile nel caso in cui la definizione di Dio a partire dalla quale si intende
dimostrarne l’esistenza sia un mero nomen, una definizione convenzionale, ma non quando
la definizione di Dio ne descriva correttamente l’essenza, ossia quando siamo di fronte ad
una definizione reale. Secondo il Tommaso letto da Descartes, Anselmo si sarebbe servito
di una definizione nominale, una flauto vocis, e perciò il suo argomento è fallace. In parole
cartesiane, l’idea di Dio non è un’idea fattizia ma un’idea innata.

E quindi, come abbiamo già potuto constatare108, la difficoltà sta nel dimostrare che
all’idea di un ente perfettissimo cui compete l’esistenza non è un’idea arbitraria.

Nel tentativo di dimostrare che l’esistenza appartiene alla vera natura di Dio,
Descartes elabora una vera e nuova prova a priori dell’esistenza di Dio, costruita a partire
dall’onnipotenza invece che dalla somma perfezione. Così suona la nuova prova:

Ma se esamineremo accuratamente se l’esistenza convenga all’ente sovranamente potente,


qual sorta di esistenza, potremo chiaramente e distintamente conoscere in primo luogo che almeno
l’esistenza possibile gli conviene, come avviene a tutte le altre cose di cui abbiamo in noi qualche
idea distinta: anche a quelle che sono composte dalle finzioni dell’intelletto. In seguito, poiché non
possiamo pensare che la sua esistenza è possibile senza che, in pari tempo, facendo attenzione alla
sua potenza infinita, non conosciamo poter egli esistere per la sua propria forza, concluderemo di
là che egli realmente esiste, e che è esistito da tutta l’eternità. Poiché è manifestissimo, per la luce
naturale, che ciò che può esistere per la sua propria forza esiste sempre.109

Nella storiografia cartesiana, il valore di questa prova, sia all’interno del


cartesianesimo stesso sia in relazione alla storia dell’argomento ontologico, è stato molto
dibattuto110. Anche la strutta argomentativa di questa prova è stata molto dibattuta, poiché
Descartes avrebbe cambiato la prova nella sua prima formulazione, giunta a Mersenne.

106
Ed è per questo che quella di Anselmo, secondo Tommaso, non è neanche una prova a priori. Vedi
sopra, p.
107
Secondo Aldo Masullo, in Descartes vi è quel ripristino e quel rispetto per il divieto parmenideo. Cfr.,
A. Masullo, Metafisica. Storia di un’idea, cit., pp.113-132
108
Vedi, supra, pp.20-22.
109
Descartes, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, cit., pp. 294-295.
110
Si va dalla assoluta sottovalutazione di Lachièze-Rey, all’alta considerazione che ne hanno avuto
Gilson e Gouhier, mentre Henrich ne fa addirittura il perno di un rilancio più che secolare dell’argomento
ontologico. Cfr., E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., p. 29, nota 7.

41
Andando a schematizzare la prova nella sua definitiva formulazione, si articolerebbe
così111:
1. All’ente potentissimo compete l’esistenza possibile.
2. L’ente potentissimo può esistere per forza propria.
3. Ciò che può esistere per forza propria, esiste sempre.
4. L’ente potentissimo esiste.

Nella prima formulazione, invece, l’argomento risuonava diversamente:

In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile, senza, in pari
tempo, pensare che possa darsi una potenza in forza della quale egli esista, e quella potenza non è
intellegibile in nessun altro se non nello stesso ente sommamente potente, concluderemo senz’altro
che egli può esistere per la sua propria forza, ecc.112

In questa prima versione la prova era così articolata:


1. All’ente potentissimo compete l’esistenza possibile.
2. Può darsi una potenza in forza della quale l’ente potentissimo esiste
3. Quella potenza può trovarsi solo nell’ente potentissimo.
4. L’ente potentissimo può esistere per forza propria.
5. Ciò che può esistere per forza propria esiste sempre.
6. L’ente potentissimo esiste.
La 2 è inferita dalla 1 e la 4 dalla 3.
Alla richiesta di sostituzione, Descartes aggiungeva la raccomandazione di porre
molta attenzione a che nessuno potesse decifrare le righe soppresse , per evitare che
qualcuno potesse respingere l’intero argomento.

Gli interpreti sono stavolta unanimi: la modifica sarebbe da attribuirsi alla volontà
di nascondere il più possibile il richiamo alla causalità positiva che la potenza divina
eserciterebbe rispetto all’esistenza di Dio, una potenza in forza della quale egli esista, ossia
a quella interpretazione positiva della aseitas. L’argomento, quindi, poteva essere
bersaglio di attacchi da parte dei professionisti della teologia.

Sia la schematizzazione della prova definitiva, sia della prima, sono tratte da E. Scribano, L’esistenza di
111

Dio, cit., p. 30
112
In corsivo la parte modificata da Descartes rispetto alla versione definitiva.

42
Tuttavia, Descartes cambierà opinione e rifiuterà la versione che i secondi
obbiettori gli proporranno, la quale si basava proprio su questa seconda prova: in questa
seconda prova Descartes deduce dunque la possibilità di una causa che porti
all’esistenza un ente dalla non contraddittorietà della definizione di quell’ente. Ma
proprio questa deduzione lo stesso Descartes riconoscerà fallace quando se la vedrà di
proporre dai secondi obbiettori. Questi prendono atto della nuova formulazione con la
quale Descartes ripropone la prova della Quinta meditazione contro l’obiezione tomista
ripresa da Caterus: ciò che intendiamo chiaramente e distintamente appartenere alla
natura di una cosa può essere affermato con verità di quella cosa, e poiché intendiamo
chiaramente che alla vera e immutabile natura di Dio appartiene l’esistenza, possiamo
affermare con verità che alla sua vera e immutabile natura appartiene di esistere. Ma,
secondo gli obbiettori, non segue che Dio esista realmente. A questo punto, gli
obbiettori propongono di emendare (in guisa del quale sembra anticipare la proposta
leibniziana) l’argomento nel seguente modo:

Donde non segue che Dio esista di fatto, ma solo che deve esistere, se la sua natura è
possibile o non ripugna; cioè che la natura o l’essenza di Dio non può essere concepita senza
esistenza, di guisa che, se questa essenza è, egli esiste realmente. Il che si richiama a
quell’argomento che altri propongono con queste parole: se non è impossibile che Dio esista, è
certo che egli esiste; ma non è impossibile che esista. Ma si disputa della premessa minore, e
cioè <<non è impossibile che esista>>, la verità della quale i nostri avversario dicono di porre
in dubbio o negano.113

Questa formulazione (che sembra anticipare quella leibniziana) viene respinta da


Descartes. Egli la ritiene fallace dal momento che appaiono due accezioni diverse di
possibile: nella premessa maggiore si intende il possibile come ciò che ha una causa che
lo porta ad esistere, e nella minore come ciò che non implica contraddizione:

Per ciò che riguarda l’argomento che voi paragonate col mio, e cioè <<Se non è
impossibile che Dio esista, è certo che egli esiste; ma non è impossibile, dunque, ecc.>>:
materialmente parlando è vero, ma formalmente è un sofisma. Poiché nella premessa maggiore,
la frase è impossibile si riferisce al concetto della causa per mezzo della quale Dio può esistere;
mentre nella minore si riferisce al solo concetto dell’esistenza e della natura di Dio. Come
appare dal fatto che, se si nega la maggiore, bisognerà provarla così: <<Se Dio non esiste
ancora, è impossibile che esista, perché non può darsi una causa sufficiente per produrlo; ma

113
Cartesio, Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e Risposte, cit., pp.303-304.

43
non è impossibile che egli esista come è stato assunto; dunque, ecc.>> Se invece si nega la
premessa minore, bisognerò provarla così:<< Quella cosa non è impossibile, nel concetto
formale della qual non v’è nulla che implichi contraddizione; ma non concetto formale
dell’esistenza o della natura divina non v’è nulla che implichi contraddizione, dunque, ecc.>>Le
due accezioni sono molto diverse. Infatti può essere che non si concepisca nulla in qualche
cosa, che le impedisca di esistere, e che, tuttavia, si concepisca qualcosa da parte della causa
che impedisce che essa sia prodotta.114

Nonostante Leibniz non commetterà, dal punto di vista cartesiano, la fallacia che lo
stesso Descartes scorge, il <<Lipsiano>> avrebbe tranquillamente sottoscritto la
formulazione dei secondi obbiettori. A questo punto, viene da chiedersi, perché Descartes
ritiene fallace la prova delle seconde obbiezioni. Descartes aveva capito che i secondi
obbiettori volevano spostare lo <<scontro>> su un terreno a loro familiare, ovvero su un
campo aristotelico: gli obbiettori avevano intuito che Descartes aveva utilizzato nella
risposta alle prime obbiezioni l’argomento alla “Scoto”115 e quindi erano indotti a ritenere
che anche Descartes continuasse a usare categorie di stampo scolastico.

La differenza tra la prima versione dell’argomento di Descartes e quello di Scoto è


solo nella circostanza: Descartes ammette la nozione di causa sui, mentre Scoto la rifiuta.
Entrambi accettano che si possa passare dalla possibilità logica alla esistenza in qualche
tempo ma per Descartes l’esistenza possibile implica in ogni caso il darsi di una causa:
laddove la causa è interna, quest’ente esiste sempre; Scoto, invece, rifiuta il concetto di
causa sui, e limita il passaggio dalla possibilità ad una causa solo agli enti subordinati. Il
passaggio dalla possibilità alla esistenza, nel caso della causa prima, è ottenuto senza
ricorrere ad una causa, ma, al contrario, sostenendo che, proprio perché la causa prima è
incausabile, e quindi nessuna causa può portarla all’esistenza, allora essa deve esistere

114
Ivi., p. 323.
115
Scoto si distacca dalla tradizione tomista e ammette la possibilità di una prova a priori dell’esistenza di
Dio: egli formulò la famosa coloratio Anselmi. L’essere infinito è veramente infinito, se si dimostra la sua
pensabilità come veramente infinito, quindi deve risultare non-contradditorio. In questo consiste la
“colorazione” dell’unum argumentum, ovvero nel sottoporre l’argomento a un perfezionamento formale:
esiste se non implica contraddizione. Scoto, contro Tommaso, ritiene che un elemento finito e inadeguato,
ovvero un concetto, possa rappresentare in maniera parziale ma veritiera, attraverso l’astrazione, l’infinito,
ovvero Dio. La finitezza del concetto determinerà solo una limitata comprensione dell’infinito, ma non
l’incapacità di rappresentarlo in quanto infinito. Vi è la rottura del paradigma della rappresentazione per
somiglianza che consente a Scoto di rappresentare l’infinito. Per approfondire il discorso sull’argomento
ontologico in Scoto, cfr., G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, cit., pp. 589-595; per approfondire,
invece, il discorso sulla gnoseologia scotista e il suo contrasto con il tomismo, si cfr., E. Scribano, Angeli e
Beati, cit., pp. 68-118.

44
sempre, se è possibile. Descartes si rende conto che, se l’argomento rimane con la
possibilità logica dell’esistenza di Dio, l’ente potentissimo potrebbe anche non esistere
mai, nonostante non vi sia la fallacia dello spostamento dalla modalità logiche alle
modalità causali. Una volta stabilito che si dà di fatto, ovvero che la sua esistenza è
possibile in qualche tempo, che si debba dare, il passaggio dalla non contraddittorietà
dell’ente potentissimo alla sua esistenza risulta plausibilmente argomentato. Da questo si
spiega la puntualizzazione di Descartes a Mersenne, di cambiare la versione
dell’argomento nelle prime risposte: quel passo indebolisce la prova con una fallacia, che
scompare nella seconda formulazione. Quindi non è solo la volontà di attenuare il
riferimento alla causa sui, ma anche il voler eliminare la fallacia del passaggio dalle
modalità logiche alle modalità causali.

La prova, nelle intenzioni di Descartes, può essere riproposta prescindendo dalla


dimostrazione che deve darsi una causa per cui Dio esiste. La causa dell’esistenza di Dio
non è più dedotta dalla non contraddittorietà della sua essenza, ma vista nella sua essenza,
dal momento che nessuno potrà negare che nel concetto di Dio sia compresa
l’onnipotenza. Nella versione finale, la prova si regge perciò esclusivamente sulla
evidenza del principio che ciò che può esistere per forza propria esiste sempre, mentre il
darsi di una causa dell’esistenza di Dio non è dedotto da altro. Possiamo quindi, con
un’operazione già adottata prima, riportare la schematizzazione che la Scribano ha messo
nel suo libro116:
1) Se Dio non esistesse, la sua esistenza sarebbe (causalmente) impossibile perché
nessuna causa sarebbe sufficiente a produrlo.

2) Nel concetto di Dio v’è una causa sufficiente per produrlo, e dunque è (possibile)
causalmente che Dio esista.

3) Dunque Dio esiste.

E poiché la causa dell’esistenza di Dio è interna a Dio stesso (può esistere per forza
propria), Dio esiste sempre: In aeternis idem esse et posse.

Si capisce così anche perché Descartes ritenga che la riformulazione della prova a
priori compiuta dai secondi obbiettori sia formalmente falsa, ma materialmente vera; essa
può infatti essere rielaborata in modo da evitare la fallacia modale: se l’esistenza di Dio è

116
E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., p. 38.

45
(casualmente) possibile, Dio esiste, ma che l’esistenza di Dio sia (casualmente) possibile
va provato con la seconda premessa (nel concetto di Dio v’è una causa sufficiente per
produrlo), l’unica in cui compaia la nozione di causa, e non con la non contraddittorietà
del concetto di Dio, come presumibilmente i secondi obbiettori, sulla scia della prima
formulazione cartesiana, intendevano.

Paradossalmente, secondo la Scribano117, l’argomento appare più valido da un


punto di vista teorico nella prima formulazione grazie alla nozione di causa sui: proprio
inserendo questa nozione nel quadro della prova a priori, ci si assicura il passaggio dal
pensiero all’essere. Insomma, nella sua prima versione la prova era costruita su un
ragionamento fallace, ma, grazie a quella fallacia, il passaggio dal pensiero all’essere
appariva plausibile, mentre nella versione definitiva questo passaggio dal piano logico al
piano ontologico sembra privo di qualunque giustificazione.

La rinuncia allo slittamento modale rende ancor più evidente l’origine aristotelica e
a posteriori del secondo argomento cartesiano: sarebbe valido solo se assumesse
l’esistenza di un ente causa sui. Qui, non si dimostra l’esistenza dell’ente in questione ma
la sua eternità118. Descartes si è illuso di poter respingere la fallacia modale e il principio
di pienezza, e, nonostante ciò, di poter mantenere in piedi un argomento a priori tutto
costruito nella logica di quel principio. Il secondo argomento ontologico, che non riesce
neanche a superare l’esame dell’innatismo, si rileva una via senza sblocco. Ed è per questo
che Descartes, accorgendosi del suo fallimento, chiede scusa a Caterus in coda alla
risposta119 e, nell’appendice alle seconde obbiezioni, in cui trascrive le meditazioni
“secondo l’ordine dei geometri” (in una maniera che sembra quasi sottolineare la
possibilità di dimostrare solo a posteriori l’esistenza di Dio), scrive sconsolato:

E questo sillogismo è lo stesso di cui mi sono servito nella mia risposta al sesto articolo
di queste obbiezioni; e la sua conclusione può essere conosciuta senza prova da quelli che sono
liberi da tutti i pregiudizi, come è stato detto nel quinto postulato. Ma poiché non è facile
pervenire ad una sì grande chiarezza di spirito, cercheremo di provare per mezzo di altre vie.120

117
Ivi, pp. 39-41
118
Nel primo capitolo, abbiamo parlato di Malcolm, e della sua riflessione sul <<secondo>> argomento
anselmiano. Anche Descartes, costruisce un secondo argomento, con l’intenzione di dimostrare l’esistenza
dell’ente potentissimo, ma finisce per inferirne l’eternità.
119
R. Descartes, Meditazioni metafisiche e Obbiezioni e Risposte, cit., p. 295
120
Ivi, pp. 335-336.

46
4.2 Appendice delle Risposte alle seconde obbiezioni e Principi della filosofia

Il passo che abbiamo scelto per chiudere il paragrafo precedente è tratto


dall’appendice che si trova alla fine delle Risposte alle seconde obbiezioni che
Descartes scrive per esaudire una richiesta dei secondi obbiettori che gli chiedevano di
scrivere tutto “secondo l’ordine dei geometri”. Abbiamo già puntualizzato prima121
sulle modalità di scrittura adottate da Descartes nelle Meditazioni. Infatti prima di
mettere tutto <<sotto forma di teorema matematico>>, Descartes giustifica l’utilizzo
della via analitica in metafisica:

Per conto mio, ho seguito solamente la via analitica nelle mie meditazioni, perché
essa mi sembra la più vera e la più acconcia per insegnare; ma quanto alla sintesi, che senza
dubbio è quella che voi desiderate qui da me, benché, riguardo alle cose che si trattano nella
geometria possa utilmente esser messa dopo l’analisi essa non conviene, tuttavia, così bene alle
materie che appartengono alla metafisica. Poiché v’ha questa differenza: che le prime nozioni
che sono supposte per dimostrare le proposizioni geometriche essendo d’accordo con i sensi,
sono ammesse facilmente da ognuno; per la qual cosa non v’è là nessuna difficoltà se non di
ben trarre le conseguenze, il che può esser fatto da ogni sorta di persona, anche dalle meno
attente, purché soltanto si ricordino delle cose precedenti; (…) Ma, al contrario, riguardo alle
questioni che appartengono alla metafisica, la principale difficoltà è di concepire chiaramente e
distintamente le prime nozioni. Poiché, sebbene di loro natura esse non siano meno chiare di
quelle considerate dai geometri, tuttavia, poiché sembra che non si accordino con parecchi
pregiudizi che abbiamo ricevuti per mezzo dei sensi, ed ai quali siamo abituati sin dalla nostra
infanzia, non sono perfettamente comprese se non da quelli che sono attentissimi, e che si
studiano di staccare, per quanto possono, il loro spirito dal commercio dei sensi; ecco perché, se
fossero proposte da sole, sarebbero facilmente negate da quelli che hanno lo spirito incline alla
contraddizione.122

Da questo punto, inizia la trattazione di Descartes, con alcune definizioni, poi i


postulati, gli assiomi123 e le proposizioni con relative dimostrazioni. La prima proposizione
è appunto quella della prova a priori che recita124:

121
Vedi, supra, pp. 30-31.

122
Cartesio, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, cit., pp. 327-328.

123
L’assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché
fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento.

47
L’esistenza di Dio si conosce dalla sola considerazione della sua natura

Dimostrazione:

Dire che qualche attributo è contenuto nella natura o nel concetto della cosa, è lo stesso che dire
quest’attributo è vero di questa cosa, e si può asserire che è in essa (per la definizione nona125).

Ora l’esistenza necessaria è contenuta nella natura o nel concetto di Dio (per l’assioma decimo126).
Dunque, è vero dire che l’esistenza necessaria è in Dio, oppure che Dio esiste.

Le proposizioni seguenti, invece, riportano le due prove a posteriori dell’esistenza


di Dio contenute nella Terza meditazione, mentre la quarta proposizione sancisce la
distinzione dell’anima dal corpo127. In questa nuova modalità di scrittura, prima viene
riportata la prova a priori e poi le due a posteriori, perché qui Descartes deve partire dalle
cause e non procedere dagli effetti, proprio come in geometria, dove da assiomi e nozioni
primitive si crea una consequenzialità logica che porta alla dimostrazione dei teoremi e alla
risoluzione di problemi. Ed ecco che il <<teorema>> dell’esistenza di Dio si dispiega
tramite un sillogismo dove l’esistenza di Dio è dedotta da una definizione e da un assioma
evidenti per sé stessi.

Nei Principi, l’iter è lo stesso, ovvero prima troviamo la trattazione della prova a
priori e poi quella della prova a posteriori. Il termine trattazione, come abbiamo già
ricordato sopra128, non è casuale: l’intenzione di Descartes è proprio quella di scrivere un
trattato e di voler sostituire il suo con le Summae usate nelle scuole.

Descartes, nel quattordicesimo articolo, introduce la prova a priori dopo aver parlato
dell’impossibilità di trarre una conoscenza certa dalle cose sensibili. Nei Principi, vi è un

Un postulato si differenzia da un assioma in quanto è introdotto per dimostrare proposizioni che altrimenti non
potrebbero essere dimostrate. In altri termini si può definire come una semplicissima "teoria ad hoc", accettata
grazie alla sua utilità.

124
Ivi, pp. 335-336.

125
“Quando diciamo che qualche attributo è contenuto nella natura o nel concetto di una cosa, è lo stesso
che se dicessimo che quell’attributo è vero di quella cosa , e che si può asserire che è in essa.” Cfr, ivi, p. 331.

126
“Nell’idea o nel concetto di ogni cosa l’esistenza è contenuta perché noi non possiamo nulla concepire se
non sotto la forma di una cosa che esiste; ma con questa differenza: che nel concetto di una cosa limitata è
contenuta soltanto l’esistenza possibile o contingente, e nel concetto di un essere sovranamente perfetto è
compresa quella perfetta e necessaria.” Cfr., ivi., p.335.

127
Nel inserire prima le prove dell’esistenza di Dio e poi la distinzione dell’anima dal corpo, Descartes segue
l’iter delle Meditazioni. Mentre nei Principi, Descartes si rifà ai trattati in uso all’epoca nelle scuole come le
Disputationes metaphysicae di Suarez.

128
Vedi, supra, nota 71, p. 30.

48
balzo dalla Prima meditazione alla Sesta per poi procedere a ritroso nella Quinta: il punto di
partenza è sempre quello, ovvero <<distruggere>> la gnoseologia scolastica, però in questo
caso dimostra prima la reale distinzione dell’anima dal corpo (mentre nell’Appendice alle
Risposte delle Seconde Obbiezioni si trovava dopo le prove dell’esistenza di Dio129) e poi
introduce la prova a priori dopo aver detto che la conoscenza delle altre cose dipende dalla
conoscenza di Dio, perché bisogna conoscere bene l’autore delle cose per non poterne
dubitare più. In questa prova, Descartes utilizza sia la somma potenza sia la somma
perfezione e ne inferisce l’esistenza necessaria ed eterna:

Considerando poi che fa le diverse idee che presso di sé, ve n’è una di un essere sommamente
intelligente, sommamente potente e sommamente perfetto, che è di gran lunga la più importante di
tutte; arriva a conoscere in essa l’esistenza, non soltanto possibile e contingente come nelle idee di
tutte le altre cose, che percepisce distintamente, ma del tutto necessaria ed eterna. E come, per
esempio, dacché percepisce nell’idea del triangolo è necessariamente contenuto che i suoi tre angoli
sono uguali a due retti; così dal solo fatto che percepisce, che l’esistenza necessaria ed eterna è
contenuta nell’idea di ente sommamente perfetto esiste.130

In essa, possiamo quasi scorgere l’iter che la prova ha dovuto subire: Descartes
ritorna alla prova della Quinta meditazione, perché si rende conto della fallacia commessa
nelle obbiezioni nelle Risposte a Caterus. Anzi, tenta una <<sintesi>> tra la somma
perfezione e la somma potenza di Dio. Una sintesi che si può definire quasi hegeliana, dove
la “somma perfezione” ha, però, il sopravvento sulla “somma potenza”. Descartes si rende
conto che la prova <<più forte>> rimane quella della Quinta meditazione, nonostante gli
evidenti limiti strutturali.

129
La scelta di Descartes è ovvia: nell’Appendice,deve riprodurre l’iter delle Meditazioni per filo e per segno come da
richiesta degli obbiettori.

130
R. Descartes, I principi della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp.80-81, art. 14 - Dacchè l’esistenza
necessaria è contenuta nel nostro concetto di Dio, si conclude rettamente che Dio esiste.

49
CAPITOLO TERZO

LA PROVA A POSTERIORI E LA NOZIONE DI CAUSA SUI

Il contributo che Descartes ha dato alla prova a priori è stato così rilevante da
segnare un punto di non ritorno, ma il luogo, nel quale questo contributo dispiega tutte
le sue forze, non va cercato nella Quinta meditazione, ma nella Terza. Precisamente,
nelle modifiche che Descartes imprimeva alla seconda prova a posteriori della Terza
meditazione nelle pagine di risposta a Caterus.

Abbiamo detto che, nella prova ontologica, per rispettare le esigenze


dell’innatismo, il legame analitico tra l’essenza di Dio e l’esistenza si risolveva in un
rapporto causa-effetto tra potenza ed esistenza, assumendo quelle categorie tipiche di
una prova a posteriori. Altre esigenze, invece, comandavano il processo simmetrico e
contrario nella prova a posteriori, costruita sul modello della prova causale di
Tommaso: Descartes propose di intendere la causa prima come causa sui, ossia di
attribuirle un rapporto di causalità rispetto a se stessa. Poi, nel corso dello scambio di
obbiezioni e risposte con Caterus e con Arnauld, Descartes trasformava quel rapporto di
causa-effetto in un’implicazione logica dell’essenza divina, ritrovando così la logica
della deduzione dell’esistenza di Dio dalla sua idea qual era stata formulata nella
Quinta meditazione.

Nella Terza meditazione, troviamo le due prove a posteriori dell’esistenza di


Dio cartesiane. La prima si muove su un terreno logico (da dove deriva l’idea di Dio?);
la seconda, invece, si dispiega su un piano ontologico (da dove trarrei il mio essere?).

La prima è portatrice di un concetto rivoluzionario131, ovvero quello che c’è


maggior realtà nella causa che nell’effetto. Ed è questa la prova cartesiana per
eccellenza, incentrata com’è sulla ricerca della causa dell’idea dell’infinito. Un concetto

131
Ed è questa la tesi della Scribano: cfr., L’esistenza di Dio, cit., pp. 85-95. Mentre la Ulivi, propende per
una maggiore analogia tra Descartes e la Scolastica su questo punto, dal momento che Descartes introduce
il principio di causalità, caro alla Scolastica, e applica alcuni termini come accidente e sostanza all’interno
della costruzione della prova. Cfr., Introduzione a Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., pp. 45-64.

50
estraneo anche alla logica scolastica, tant’è vero che i secondi obbiettori lo
criticheranno:

Ma, dite voi, l’effetto non può avere grado alcuno di perfezione, o di realtà che non
sia strato prima nella sua causa. Ma (oltre che noi vediamo tutti i giorni che le mosche e
parecchi altri animali, come anche le piante, sono prodotti dal sole, dalla pioggia e dalla terra,
nei quali non vi è vita come in quegli animali, la qual vita è più nobile di ogni altro grado
puramente corporeo; onde deriva che l’effetto trae qualche realtà dalla sua causa, che,
nondimeno, non era nella sua causa); ma, dico, questa idea non è altro che un essere di ragione,
che non è più nobile del vostro spirito che la concepisce.132

Alla quale obbiezione, Descartes ricorderà che “dal nulla nulla procede”133, e
che, quindi, se vi fosse maggior realtà nell’effetto rispetto alla causa, questa realtà
nascerebbe dal nulla. Inoltre, per quanto riguarda l’esempio delle mosche e degli
animali, Descartes sottolineerà il fatto, che in quel luogo delle Meditazioni, non si
muoveva ancora su un piano sensibile ma solo sul piano del pensiero.

Questa prova è anche strettamente connessa con la teoria delle idee cartesiane:
proprio perché si muove su un piano strettamente logico, Descartes introduce questa
prova dopo aver elencato ciò che è presente nel pensiero: i pensieri di cose,
propriamente chiamati idee; gli atti di volontà; i giudizi. Come abbiamo già ricordato134,
le idee si possono dividere in innate, fattizie e avventizie. Tramite la riflessione sulle
idee avventizie, Descartes non riesce ancora a stabilire una connessione tra idee e
mondo esterno, perciò, introduce un’altra classificazione delle idee: le idee possono
avere sia realtà formale sia realtà oggettiva. La realtà formale di un’idea, detta anche
attuale o materiale, è l’idea intesa come un’operazione dell’intelletto; sotto questo punto
di vista, ovvero nel loro essere delle cose, le idee sono tutte uguali. La realtà oggettiva
si riferisce invece a ciò che viene rappresentato, e, in tal senso, le idee risultano diverse
tra di loro. Proprio analizzando le idee rispetto alla loro realtà oggettiva, Descartes
giunge alla conclusione che l’idea di Dio, in quanto rappresentante qualcosa d’infinito,
ha maggior realtà oggettiva dell’idea di qualcosa di finito. Descartes è vicino alla
soluzione dell’uscita dal solipsismo, ovvero è vicino a trovare un’idea che mi dimostri

132
R. Descartes, Meditazioni metafisiche-Obbiezioni e Risposte, cit., p. 300
133
Ivi, p. 310.
134
Cfr., supra, p. 33, nota 89.

51
che io non sia solo al mondo. A questo punto, passa in rassegna tutte le idee in base alla
loro realtà oggettiva e si rende conto di avere quattro tipi d’idee sotto questa
classificazione:

- Idea di me stesso

- Idea di Dio

- Idee che rappresentano cose inanimate, o corporee. In esse si distinguono le qualità


secondarie che appaiono a Descartes più confuse e oscure, mentre le qualità primarie,
tipo l’estensione o l’essere una sostanza, sono più chiare ed evidenti.

- Idee che rappresentano cose animate, quali uomini, animali o angeli.

L’origine delle idee 1,3 e 4 è ricondotta da Descartes all’interno del mio pensiero.
Rimane, quindi, da esaminare solo l’idea di Dio:

Descartes dà di Dio una definizione classica, attinta dalla Scolastica: “una certa
sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, e dalla
quale tanto io stesso, quanto tutto il resto che esiste – se dell’altro esiste- è stato
creato”135. Prendendo in attento esame tale idea, non gli sembra di poterne essere
l’autore, quindi tale idea deve avere come sua causa Dio stesso. Ed ecco che la scoperta
di Dio, avviene per pura e semplice intuizione e non sistematicamente. Dopo aver
dimostrato l’esistenza di Dio, Descartes si pone alcune obbiezioni sulla prima prova a
posteriori136:

- Prima obbiezione. Descartes aveva dimostrato, per le cose inanimate, che l’essere
sostanze di queste cose poteva derivare dal fatto che egli fosse una sostanza, appunto.
Ciò, quindi, potrebbe valere anche per l’idea di Dio, ma da me, essere finito, non può
procedere una sostanza infinita.

- Seconda obbiezione. L’idea d’infinito non è una vera idea ma è costruita negando il
finito. Descartes supera l’obbiezione muovendosi sul terreno della Scolastica,
ricordando che c’è maggior realtà in una sostanza infinita che in una finita, perciò la

135
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., p.203.
136
Per le auto-obbiezioni sulla prima prova a posteriori, ho seguito lo schema della Ulivi nella sua
Introduzione, cit., pp.57-61.

52
conoscenza del finito, e quindi anche di me, viene costruita per confronto con l’idea di
un ente infinto137, perfetto, che deve precederla.

- Terza obbiezione. L’idea di Dio è materialmente falsa, ovvero non rappresenta


qualcosa di reale. Per esempio, l’idea di freddo è materialmente falsa perché non mi
rappresenta niente di reale ma, in verità, è soltanto negazione del caldo. Quindi, anche
l’idea di Dio potrebbe rappresentarmi nulla di reale ma potrebbe essere costruita
negando l’idea di finito. Descartes ne approfitta per ribadire la sua distanza dalla
gnoseologia di stampo tomista: il primum di conoscenza non è il finito ma l’infinito. Gli
scolastici sostenevano che un’idea fosse falsa nel momento in cui non le corrispondesse
nulla di reale138, mentre Descartes usa il termine <<reale>> non intendendo ciò che
esiste fuori dal soggetto, ma ciò che è pensabile chiaramente e distintamente.
Ricapitolando, Descartes respinge l’ipotesi che l’idea di Dio sia falsa per due motivi: 1)
perché essa resiste al vaglio mentale, e risulta massimamente chiara e distinta; 2) perché
ciò che essa rappresenta, l’infinito, è il massimo grado di realtà, quindi di verità, che
un’idea può avere. Nelle Quarte obbiezioni, Arnauld scrive che Descartes confonde il
giudizio con l’idea. Per il teologo giansenista, le idee sono tutte materialmente vere e
nel secondo passaggio, tramite il giudizio, che posso decidere in base alla verità o alla
falsità oggettiva dell’idea. Inoltre, per Arnauld, bisogna concludere che l’essere
negativo oggettivo di questa idea in particolare, proviene da me, “in quanto partecipo
del nulla”, ma ciò è palesemente in contraddizione con i principi cartesiani. Descartes
risponderà sempre sulla linea della chiarezza e della distinzione dell’idea di Dio rispetto
a un’idea che risulta formalmente falsa come quella di freddo.

- Quarta obbiezione. Noi potremmo non comprendere l’idea d’infinito. Descartes, per
uscire da questa possibile aporia, ritratta la caratteristica principale delle idee chiare e
distinte, ovvero la possibilità di conoscerle in un solo atto immediato, l’intuizione.
L’idea di Dio può essere conosciuta anche tramite la mediazione di un giudizio, ovvero
attraverso l’analisi delle sue perfezioni prese una alla volta. Anche questa volta, le idee

137
Descartes arriverà a dire, nei Principi, che solo a Dio spetta l’attributo di infinito, perchè nel suo
universo matematico, il concetto di infinito attuale assume un’importanza vitale. Da qualsiasi lato
consideriamo Dio, non arriviamo a conoscere nessun limite, ma intendiamo questa cosa la prendiamo
positivamente Mentre il concetto di indefinito attiene a quelle cose che manchino di limiti, ma presi
negativamente. Si cfr., Descartes, I principi della filosofia, cit., pp. 86-87.
138
La verità materiale (detta ontologica da san Tommaso) è quella per cui una cosa corrisponde al suo
progetto; ad esempio, una casa è vera se realizza il disegno del suo architetto.

53
matematiche possono venirci incontro: nella Sesta meditazione, Descartes usa una
figura geometrica di mille lati, il chiliogono: essa non può essere abbracciata da un solo
atto dall’intelletto come il triangolo, perciò l’uomo, per conoscerla, deve attuare un
processo di apprendimento mediato139. Questa è sicuramente una delle obbiezioni più
insidiose e abusate in ambiente scolastico140.

- Quinta obbiezione. L’ultima obbiezione, che si può presentare, si può immaginare


essere proposta da un pensatore più cartesiano di Descartes, disposto cioè a portare alle
estreme conseguenze la posizione cartesiana. Costui potrebbe sostenere che, visto che
ho l’idea d’infinito, sono io stesso l’infinito, un Dio io stesso, a me ignoto per il
momento. Ma questa ipotesi non è possibile dal momento che in Dio non vi è esistenza
potenziale, ma solo esistenza attuale: Dio è sempre in atto, essendo il primo ente141.

Consapevole della dirompente novità della prima prova, Descartes ne formulava


una che aveva bisogno di meno tensione spirituale rispetto alla prima, poiché costruita
in analogia con la seconda via tomista: Descartes, sul modello di Tommaso, ricerca la
causa non più sull’idea d’infinito, ma di un effetto finito, l’io in possesso dell’idea di
Dio. La domanda è, quindi: <<se Dio non esistesse, da chi allora trarrei il mio
essere?>>. Si prefigurano tre risposte: da me, da qualcun altro meno perfetto di Dio, dai
miei genitori.

Come già dimostrato prima, io non posso essere Dio, perché altrimenti mi sarei
dato tutte quelle perfezioni di cui ora manco. Descartes, però, non contento saggia
<<l’ipotesi del Dio minore>>142, ovvero di un Dio è sempre esistito che, però, ha solo
l’eternità come perfezione disponibile. Non avendo però consapevolezza di tale forza,
l’obbiezione, per Descartes, è spazzata via, anche se alcuni dubbi rimangono, in quanto
questa forza io la posso usare anche inconsciamente.

139
Leibniz parlerà, in questo caso, di conoscenza simbolica.
140
L’incapacità dell’intelletto umano di non poter conoscere Dio è uno dei punti fondamentali della
filosofia di Tommaso. Intendo per intelletto umano quello del viator e non quello del beato, che ha la
possibilità di conoscere Dio tramite la visione dell’essenza di Dio stesso.
141
Anche in questo caso, Descartes utilizza una distinzione tipicamente scolastica, ovvero quella tra
esistenza attuale e esistenza potenziale per uscire dall’obbiezione.
142
Introduzione a Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., pp. 61-62.

54
Si potrebbe, quindi, ipotizzare che io sia creato da una causa meno perfetta di
Dio. Descartes respinge tale eventualità facendo leva su due asserzioni già note e
accettate: primo che in causa deve esserci tanta realtà quanta ce n’è nell’effetto;
secondo, che possiedo l’idea di Dio come ente dotato di ogni perfezione. Dunque,
considerando come effetto me, che sono una cosa pensante e che penso Dio, la mia
causa dovrà essere pensante e avere la realtà della mia idea di Dio, deve cioè essere
Dio.

Detto questo, non possono essere nemmeno i miei genitori, in quanto è vero
tutto ciò che è stato detto su di loro, ma essi compiono solo un’azione sulla parte
materiale del soggetto.

L’esistenza di Dio si può considerare dimostrata dal momento in cui si è escluso


che potessi derivare la mia esistenza da altre cause. Io possiedo la sua idea poiché essa è
innata, come <<il marchio dell’artefice>> dentro di me.

Nonostante il calco operato sulla prova tomista, Descartes introduce nella sua
prova delle varianti, alcune delle quali furono rilevate da Caterus, e Descartes tentò di
giustificare. In primo luogo, per qual motivo l’indagine si svolge sulla conservazione
attuale dell’io e non sulla successione delle cause efficienti nel tempo passato? Perché il
regresso all’infinito, benché incomprensibile per il nostro intelletto finito, sia tuttavia in
sé possibile, e dunque, se si seguisse la concatenazione delle cause prime nel passato,
non si perverrebbe mai a una causa prima. Nel presente, invece, <<non c’è tempo>> per
il regresso all’infinito. E poi, perché cercare la causa dell’io in possesso dell’idea di Dio
e non semplicemente dell’io? Descartes ricorda che la presenza dell’idea di Dio
risponde a tre precise esigenze: 1) mi fa conoscere ciò che è Dio, in quanto bisogna
chiedersi prima che cosa essa è prima di chiedersi se essa è; 2) mi impone di escludere
che sia io la causa del mio essere; 3) mi insegna che non solo vi è una causa del mio
essere ma che essa contiene ogni sorta di perfezione, e pertanto è Dio. Ciò dimostra che
Tommaso, ammesso e non concesso sia riuscito a dimostrare l’esistenza di causa prima
tramite regresso all’infinito, non sia riuscito a compiere il passo successivo, ovvero il
passaggio dell’identificazione della causa prima col’ente perfettissimo143.

143
Descartes non era stato il primo a rivolgere a Tommaso questa obbiezione. L’antecedente della
posizione anti-tomista, qui assunta da Descartes, si trova nelle pagine di F. Suarez dedicate alle riprese
delle prove a posterori di Tommaso. Quest’ultimo si era attenuto alla regola aristotelica secondo la quale
si deve ricercare in primo luogo se una cosa sia, ovvero esista (an sit) e poi quale sia la sua natura (quid

55
Ma le novità non si fermano qui: la rivoluzione più importante della teologia
cartesiana è appunto l’introduzione della nozione di causa sui. In poche parole,
Descartes pretende che chi abbia sufficiente forza per causare la propria esistenza, ne
abbia anche per darsi tutte le perfezioni di cui ha l’idea e per questo sia Dio. Questa è
un’interpretazione positiva dell’aseitas della causa prima, estranea alla logica tomista.
Infatti, Caterus lo nota immediatamente e subito ricorda a Descartes l’insostenibilità di
questa nozione:

Poiché questa espressione per sé è intesa in due modi. Nel primo positivamente, e cioè:
per se stesso come per una causa; e così ciò che fosse per se stesso, e desse l’essere a se stesso,
se per una scelta prevista e premeditata si desse ciò che volesse, senza dubbio si darebbe tutto, e
pertanto sarebbe Dio. Nel secondo, l’espressione per sé è presa negativamente, ed ha lo stesso
significato che da se stesso o non per opera d’altri e in tal guisa, se ben ricordo, è intesa da tutti.
E adesso, se qualche cosa è per sé, cioè non per opera d’altrui, come proverete voi per questo
che essa comprende tutto, e che è infinita.144

Come si vede, Caterus non si attarda a confutare direttamente la nozione di


causa sui, ma si limita a rilevare come l’accezione positiva dell’aseitas sia strettamente
indispensabile per la prova cartesiana. In questo modo, Caterus pensava <<di aver
messo all’angolo>> Descartes, il quale, però, reagì lanciandosi in una difesa puntigliosa
della legittimità di tale nozione. In sintonia con l’obbiezione di Caterus si può notare
che una prova a posteriori, che motivi solo con l’impossibilità del regresso all’infinito il
darsi di una causa prima, non può dire che questa – almeno in prima istanza –
sennonché essa è una causa ultima, ossia che non è a sua volta un effetto. Nel confronto
con Caterus, Descartes è chiamato non solo a difendere la legittimità della nozione di
causa sui, come accadrà poi anche con Arnauld, ma anche a mostrare che a essa è
indispensabile arrivare in un contesto a posteriori.

La prima motivazione dell’uso positivo dell’aseitas consiste in quello che poi,


nelle seconde risposte diverrà un assioma, ovvero che tutto ha una causa. Se una causa è
prima, essa deve essere una causa sui, altrimenti si avrebbe un regresso all’infinito che
non porterebbe a nessuna causa prima. Questa motivazione ricalca lo schema con cui

sit). Questa procedura, nel caso della teologia negativa, è ancor di più obbligatoria poiché di Dio possiamo
solo sapere quid non sit. Sembra che, però, percorrendo questa strada non si possa dimostrare a
prescindere l’esistenza di Dio poiché mancherebbe il termine medio per qualsiasi dimostrazione, ossia la
definizione di Dio.
144
Cartesio, Meditazioni metafisiche- Obbiezioni e Risposte, cit., p.273.

56
Tommaso deduceva l’indistinzione di essenza ed esistenza per l’analisi della nozione di
causa prima. Se non fosse così, quella causa non sarebbe più causa prima, e quindi non
si sarebbe arrestato il regresso all’infinito. Proprio l’analogia, però, con l’analisi tomista
mostra la debolezza dell’argomento proposto da Descartes per giustificare la nozione di
causa sui: l’indistinzione di essenza ed esistenza, ricavata per analisi della nozione di
un ente incausato, sembrava infatti rispondere a sufficienza alla domanda sul perché la
causa prima non necessiti di ulteriori cause, e costituiva un argine sufficiente contro una
ripresa del regresso all’infinito, come Arnauld ricorderà opportunamente. La risposta di
Descartes non offre alcun reale vantaggio rispetto alla risposta di Tommaso, non ne
colma alcuna lacuna argomentativa.

Descartes tenta anche altre strade. Si può motivare la nozione positiva della
aseitas o attraverso la considerazione dell’infinita potenza contenuta nell’idea di Dio,
oppure a posteriori, abbondando però, stavolta, lo schema tomista. Nel primo caso, si
rinvia direttamente all’indagine interna della natura di Dio la scoperta della ragione per
la quale egli è, appunto, causa prima:

(…) quando noi diciamo che Dio è per sé, possiamo anche, a dire il vero, intendere ciò
negativamente, e non avere altro pensiero, se non che non v’è causa alcuna della sua esistenza;
ma se abbiamo prima ricercato la causa per cui esso è, o per la quale non cessa di essere, e,
considerando l’immensa e incomprensibile potenza che è contenuta nella sua idea, l’abbiamo
riconosciuta sì piena e sì abbondante, che, in effetti, essa è la causa per cui egli non cessa di
essere, e non può essercene altra che quella, noi diciamo che Dio è per sé, non più
negativamente, ma, al contrario, nel modo più positivo.145

In questo modo, Descartes rimanda alla formulazione della prova a priori


contenuta nelle stesse risposte a Caterus. Per questa via, peraltro, si perderebbe ogni
traccia del carattere a posteriori della prova di partenza, dal momento che si
apprenderebbe direttamente dall’analisi dell’essenza divina che essa è causa sui. Ma
Descartes ritiene di poter inserire la nozione di causa sui in un contesto a posteriori e,
per farlo, è costretto a inserire un’argomentazione del tutto nuova alla vecchia tesi
secondo la quale solo la ricerca di una causa conservatrice nel tempo presente permette
di rintracciare una causa prima:

145
Cartesio, Meditazioni metafisiche- Obbiezioni e Risposte, cit., p. 287.

57
È anche lecito a ciascuno interrogare se stesso per sapere se in questo stesso senso egli
è per sé; e quando non trovi in sé potenza alcuna capace di conservarlo per un momento
solamente, concluderà con ragione che esiste per opera di un altro e anzi di un altro che è per sé,
essendo, qui, infatti questione del tempo presente , e non già del passato o del futuro, il
progresso non può essere continuato all’infinito146. Anzi, aggiungerò di più (ciò che, tuttavia
non ho scritto altrove) che non si può neppure andare soltanto fino ad una causa seconda,
poiché quella che ha tanta potenza da conservare una cosa che è fuori di sé, conserva a più forte
ragione se stessa con la propria potenza, e così è per sé.147

La nuova giustificazione data in questo luogo per motivare il passaggio da un


ente causato ad un ente causa sui rovescia radicalmente l’impostazione del problema
della Terza meditazione. Se l’esistenza di un ente causato rimanda direttamente a una
causa sui, si dovrà dire che, siccome deve esserci una causa sui, allora non ci può
essere regresso all’infinito, e non, come si diceva nella Terza meditazione, siccome è
impossibile il regresso all’infinito, allora deve darsi una causa sui: il nuovo argomento
esclude che di cause ve ne possano essere più di una.

Descartes, però, non intende ammettere il contrasto tra l’argomento elaborato


nella Terza meditazione per giungere a una causa ultima, nonostante il contrasto sia
palese e inevitabile sulla questione del regresso all’infinito: se la nozione di causa sui è
ricavabile direttamente e non immediatamente dalla esistenza di un ente causato da
altro, tutta la drammatizzazione sul creare particolari condizioni che quel regresso
inibiscano, e che Descartes aveva opposto a Tommaso, non ha alcun senso. In poche
parole, bastava che Descartes si accontentasse della semplice indistinzione tomista di
essenza ed esistenza, senza che difendesse tenacemente la nozione di causa sui.

Vi sono due differenti interpretazioni su questa questione cartesiana: la prima è


di Gilson148, che pone la nozione di causa sui al centro della metafisica cartesiana dal
momento che tutto, nel sistema cartesiano, deve avere una causa; la seconda è di
Marion149, la quale si basa sulla centralità della nozione di causa sui in un progetto

146
Argomento della Terza meditazione.
147
Ivi, p. 288.
148
La Scribano rimanda a E. Gilson, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du
système cartésien, Vrin,, 1930.
149
La Scribano rimanda, in questo caso, a J. L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes, Paris,
pp. 246 sgg. e la comunicazione ** Entre analogie et principe de raison: la causa sui, presentata al
convegno Méditer et répondre, Paris Sorbone 3-6 oct. 1992.

58
metafisico complessivo, sottolineando che l’introduzione del concetto di autocausalità
implichi una duplice scelta, ovvero la sottomissione di Dio alle leggi dell’intelletto
umano e l’opposizione per una dimostrazione a priori in senso proprio dell’esistenza di
Dio. Sostenere che Dio è causa di sé stesso vuol dire proprio <<aprire le porte>> alla
dimostrazione a priori. Gli scolastici rifiutavano la dimostrazione a priori proprio
perché Dio, causa prima, non poteva avere una causa. Perciò, in realtà, questa prova a
posteriori, ovvero una prova che faccia riferimento a causa dell’esistenza di Dio, è una
prova a priori.

Come abbiamo già detto150, la nozione di causa sui inserisce Descartes in una
linea scotista, ovvero in una linea di pensiero che ammette una prova a priori
dell’esistenza dell’ente perfettissimo. Rispetto a Scoto, ammette la nozione di causa sui
e in tal modo inserisce la nozione che rende possibile una prova a priori all’interno
della sua prova a posteriori, costruita a calco della prova tomista. In poche parole, con
Descartes si ribaltano i ruoli: la prova a posteriori è subalterna alla prova a priori. Il
trionfo del razionalismo.

1. Problematiche con Arnauld: nozione di causa sive ratio.

Descartes riesce a parare abbastanza bene le obbiezioni pervenute da Caterus,


riuscendo a giustificare in modo soddisfacente l’utilizzo della nozione di causa sui
rispetto alla prova della Terza meditazione, dove l’uso di tale nozione non era per niente
giustificato.

Caterus, seguace del tomismo ortodosso, poneva in dubbio l’autocausalità di un


ente dal momento che, se la causa deve precedere l’effetto, un ente non può precedere
sé stesso. Il problema nacque con le obbiezioni di Arnauld151, dove si ha l’impressione
di una vera e propria marcia indietro. Secondo Arnauld, perché si possa di rapporto
causa-effetto tra due enti, è necessario che questi si distinguano tra di loro, e ciò basta a
escludere che possa esserci un rapporto di causalità di un ente nei confronti di se stesso.

150
Vedi, supra, p.43.
151
Antonie Arnauld, che il secolo chiamerà <<il grande Arnauld>>, è una delle menti più geniali del
diciassettesimo secolo. Giansenista, fu il maggior esponente del monastero di Port Royal, e, per questo, fu
perseguitato a lungo dalla Chiesa cattolica. In filosofia, Arnauld è un cartesiano, e, come tale, distingue
recisamente teologia e filosofia, fede e ragione. Le sue obbiezioni (le quarte) furono le migliori secondo
Descartes, che sì sentì, obbligato a rispondere, data la fama del personaggio.

59
Così Descartes, al posto della causa sui, accetta di parlare di “una ragione per la
mancanza di una causa”:

E là queste parole, <<causa di se stesso>> non possono in nessun modo esser intese
come dette della causa efficiente, ma solo nel senso che la potenza inesauribile di Dio è la causa
o la ragione per la quale egli non ha bisogno di causa.

E poiché questa potenza inesauribile, o immensità d’essenza, è del tutto positiva, per
questo ho detto che la ragione o la causa, potrebbe dirsi in egual modo di nessuna cosa finita,
anche se fosse perfettissima nel suo genere.

(...) E così in tutti gli altri luoghi ho paragonato la causa formale, o la ragione attinta
dall’essenza di Dio, per la quale egli non ha bisogno di causa per esistere, né per essere
conservato, con la causa efficiente, senza la quale le cose finite non possono esistere, che
dappertutto è facile conoscere dai miei propri termini ch’essa è affatto diversa dalla causa
efficiente.152

Dio è causa sui nel senso che la sua essenza è causa formale della sua esistenza.
Grazie alla trasformazione della causa efficiente in causa formale, della causa in ratio,
la necessità causale con cui Dio produce la propria esistenza si trasforma in
un’implicazione logica della esistenza nella essenza, e l’essenza stessa diviene la
premessa – il medio – da cui l’esistenza è deducibile. Dio si dà tutte le perfezioni, nel
senso che è impossibile che un ente necessario non sia anche un ente perfettissimo. La
causalità formale era stata esclusa per la possibilità dall’esistenza possibile all’esistenza
in atto da Scoto. Descartes, in questo caso, segue le orme di Enrico di Gand che aveva
escluso la causa materiale e la causa efficiente in favore della causa formale nel
rapporto tra l’essenza e l’esistenza di Dio.

In questa scelta vi è una certa furbizia di Descartes che approfitta anche del
modo con cui Arnauld aveva osservato che la causa efficiente riguarda solo l’esistenza
e non l’essenza di un ente, paragonando ciò ai ragionamenti dei matematici.
Quest’ultimi, appunto, si servono della causa formale per spiegare le proprietà di un
ente. L’esistenza, in questo caso, non è più prodotta ma dedotta da una premessa, come
nella Quinta meditazione, ovvero dalla definizione di Dio, ente perfettissimo.

Ora, affinché le due prove combaciano, ovvero la prova costruita tramite la


nozione di causa sui e la prova della Quinta meditazione, la prima deve rispondere ai
152
R. Descartes, Meditazioni metafisiche – Obbiezioni e Risposte, cit., p. 406.

60
criteri d’innatismo: 1) dell’essenza di Dio abbiamo, per l’appunto, un’idea chiara e
distinta come delle essenze degli enti matematici, e 2); la dimostrazione dell’esistenza
di Dio è costruita in esplicita analogia alla dimostrazione dei teoremi della geometria.

Essa è una dimostrazione cui anche l’intelletto finito può entrare in possesso del
termine medio di questa dimostrazione, l’essenza di Dio. L’unum argumentum di
Anselmo è diventato una vera e propria dimostrazione a priori, e, per l’appunto,
ontologico, nel modo in cui Descartes rivendica l’intelligibilità dell’idea di Dio.

Descartes è riuscito a trovare il medio per la dimostrazione, ovvero l’essenza di


Dio. L’essenza non viene dedotta quindi ex terminis com’era stato per Anselmo ma da
una vera e propria aseitas. La tesi cartesiana è anche il punto di arrivo del ragionamento
di Scoto: il Dottor Sottile aveva diviso la dimostrazione dell’esistenza di Dio tra una
conoscenza in ogni senso adeguato di Dio e una conoscenza che utilizzi di Dio una
definizione accessibile all’intelletto umano: verità per sé nota e verità dimostrabile
devono coesistere in sé e per noi.

Ora Descartes può riprendere la formula che segnala la presenza di una


dimostrazione a priori, e la traducibilità piena della causa efficiente nella causa
formale: causa sive ratio. La traduzione della causa efficiente nella causa formale non
tradisce le intenzioni della nozione di causa sui, e, nel contempo, rende chiara le
implicazione della struttura argomentativa che Descartes ha dato alla prova della Quinta
meditazione153. La causa sui è la categoria con la quale può essere pensato a priori un
argomento, come la seconda via tomista, costruito su una relazione di causa-effetto,
mentre la ratio sui è la categoria con la quale può essere reso a priori un argomento,
come quello anselmiano, basato sulla implicazione logica. Questa trasformazione,
quindi, non è né illegittima né ardua. Spinoza sarà il notaio delle scelte cartesiane,
registrandone i due nodi fondamentali:

1) la causa sui si definisce attraverso l’implicazione dell’esistenza nell’essenza;

2) Dio è pienamente intellegibile poiché ne abbiamo un’idea adeguata. Il problema


viene a porsi con le espressioni con le quali è attribuita alla causa prima la forza di darsi
tutte le perfezioni: Descartes pare ancora ancorato a una causa efficiente in questo caso,

153
Samuel Clarke sarà un testimone di questo cambiamento di paradigma.

61
mentre Spinoza traduce con sicurezza questo rapporto tra essenza e perfezioni in un
rapporto d’implicazione formale.

2. La prevaricazione della prova a priori sulla prova a posteriori

Le condizioni per rendere accessibile all’intelletto umano una dimostrazione a


priori, sono inserite da Descartes in un contesto a posteriori, ossia all’interno della
riformulazione della prova causale tomista. Che ha senso questa scelta?

Caterus aveva subito fatto notare, polemicamente, che la riformulazione


cartesiana della prova tomista necessitava della nozione antitomista di causa sui:
Descartes ha bisogno di dare un’interpretazione positiva della aseitas per fondare il
passaggio dalla causa prima all’ente perfettissimo, quale appare nel testo della Terza
meditazione. Il teologo olandese aveva visto giusto e Descartes glielo riconosce. Ma
questo riconoscimento è provocatorio da parte di Descartes: se cadesse la nozione di
causa sui, l’intero argomento a posteriori diverrebbe fallace, mentre per Caterus solo la
nozione di autocausalità è fallace. Senza di essa non si può dimostrare che la causa
prima è Dio. La prova tomista, in quanto è una prova a posteriori, non può dimostrare
l’esistenza di Dio.

Descartes ritorce contro il tomismo quella difficoltà che, nell’intenzione di


Caterus, era solo di Descartes. Perché? Come abbiamo già detto 154, Suarez aveva già
criticato le prove tomiste. Per il gesuita spagnolo, le prove tomiste dimostravano solo
l’esistenza di primo motore o un ens necessarium, ma non dimostravano che questo
ente fosse Dio. Si potrà dimostrare che Dio esiste nel momento in cui troveremo le
caratteristiche appartenenti all’essenza di Dio. Ciò è possibile farlo in due modi: o a
posteriori, attraverso l’osservazione dell’ordine e dell’armonia, ovvero la quinta via
tomista (quello che Kant chiamerà prova teleologica, fondata su presupposti
platonici155); oppure a priori, ossia deducendo, anche qui, sul modello tomista, gli
attributi di Dio dall’attributo, dimostrato a posteriori, dell’esistenza incausata. Suarez si
cimenta immediatamente sulla via a priori, la prima concezione cui perviene è che,
sulla via scotista, in qualche modo è possibile dimostrare l’esistenza di Dio. Dopo

154
Vedi, supra, nota 133.
155
Anche qui, Suarez farà un passo indietro, dicendo che la prova teleologica dimostra al massimo
l’esistenza dell’ordinatore di una materia preesistente e non del suo creatore.

62
un’iniziale e doverosa esclusione della possibilità in sé di dimostrare a priori l’esistenza
di Dio, perché Dio non ha causa – in sintonia con la tesi dominante nel tomismo –
Suarez inverte il cammino: la dimostrazione a priori risulta in via ipotetica possibile ma
quod nos impraticabile a causa della finitezza dell’intelletto umano. Però, è possibile
raggiungere una definizione adeguata dell’esistenza di Dio. In che modo? Essendovi
l’indistinzione di essenza ed esistenza in Dio, una volta dimostrato un attributo di Dio a
posteriori, è possibile costruire una dimostrazione a priori di Dio. Per Tommaso,
l’esistenza che compare nel giudizio, ovvero nella prova a posteriori, non ha niente a
che vedere con l’atto di esistere indistinto dall’essenza divina, mentre per Suarez è
possibile raggiungere una nozione adeguata della quidditas divina. L’audace scelta di
Suarez è del resto organica a un progetto complessivo già compiutamente precartesiano
e antitomista: egli compie una scelta radicale a favore di Scoto, ovvero che l’esistenza
sia dimostrabile a priori, attraverso i principi da cui quell’esistenza dipende. Suarez,
però, ipotizza che Dio abbia in sé una causa o un principio da cui la sua esistenza
dipende, e che, quindi, l’esistenza di Dio sia in se dimostrabile a priori all’interno della
prova causale tomista, come sosterrà Descartes in seguito. L’uomo può, quindi,
dimostrare l’esistenza di Dio a priori, anche nella sua condizione di viator.

Il processo innescato da Suarez è compiuto da Descartes: per quest’ultimo non


si deve mai chiedere di una cosa an sit finché non si sa il quid sit. Ed è per questo,
spiega Descartes a Caterus, che ha ricercato la causa dell’io in possesso dell’idea di
Dio, e non semplicemente dell’io, perché, appunto, quest’idea mi fa conoscere ciò che è
Dio. Questa violazione del precetto tomista è giustificata da una ragione ontologica in
Suarez: poiché in Dio essenza ed esistenza sono indistinte, non ha grande importanza se
l’indagine parte dall’essenza invece che dall’esistenza. Lo stesso accade in Descartes: la
conoscenza della quidditas deve precedere la conoscenza dell’esse perché la prima è la
causa della seconda.

Per Suarez, inoltre, non si può dimostrare l’infinità di Dio tramite i suoi effetti
finiti, dal momento che vi è una proposizione tra Dio e i suoi effetti. Quindi, con le
prove a posteriori tomiste possiamo dimostrare solo il primo ens, ma manca la
concezione dell’infinita, prerogativa del teismo cristiano. Tommaso liquidò
rapidamente l’obbiezione: da effetti proporzionati alla causa, non si può avere una
conoscenza perfetta della causa; tuttavia da qualsiasi effetto possiamo avere manifesta
dimostrazione che la causa esiste . E così dagli effetti si può dimostrare che Dio esiste,

63
benché per mezzo di quelli non possiamo conoscerlo. L’infinità viene presupposta
senza essere dimostrata.

Suarez e Descartes <<colgono la palla al balzo>> per stravolgere l’impianto


della prova tomista: per affermare che l’ens a se è Dio si deve dimostrare che l’infinità
e la somma delle perfezioni sono le condizioni necessarie dell’esistenza indipendente.
Solo se si può dimostrare che l’esistenza incausata dipende dalla somma delle
perfezioni, si sarà dimostrato che la causa prima è Dio. Per questo, Suarez prima e
Descartes dopo insistono sulla necessità di dare una conclusione a priori alla prova
causale tomista, e di porre a Dio la domanda proibita da Avicenna sul perché della sua
esistenza: o si riesce a sostenere la conoscibilità dell’essenza divina indipendentemente
dall’esperienza finita o non si riuscirà mai a dimostrare l’esistenza di Dio. Lo stesso
principio di causalità, che impone di attribuire alla causa tanta realtà quanta è presente
nell’effetto, vieta infatti di inferire dall’effetto una realtà superiore a quella necessaria a
produrlo. È di qui, il privilegio della prima prova della Terza meditazione che, con
assoluta innovazione, rispetto alla tradizione, ricerca la causa di un effetto infinito,
l’idea di Dio. La seconda prova, invece, proprio perché, come quella di Tommaso,
ricerca la causa di un ente finito, può raggiungere Dio solo grazie alla interpretazione
positiva dell’aseitas.

Si capisce perché Descartes difenda strenuamente la nozione di causa sui


nonostante gli autorevoli richiami di Arnauld: perché è tramite essa che si crea la
possibilità di costruire una prova che assumesse come premessa un ente finito.

Lo stravolgimento della teologia tomista è radicale: non si tratta più di una


teologia negativa, da cui viene strappata la prova a posteriori. Viene rivendicata una
conoscenza chiara e distinta della quidditas divina, sulla cui soglia anche Suarez aveva
esitato per il divieto di Dionigi e del Damasceno. Non si tratta più di affiancare una
prova a posteriori a una prova a priori, ma di trasformare una prova a posteriori in una
prova a priori.

La scelta cartesiana offre lo spettacolo del formarsi e del liberarsi di una


versione metafisica della prova a posteriori da una prova fisica della stessa156. Non si
tratta più di partire da un ente finito, come accadeva per una versione fisica della prova,

156
Per un approfondimento su questo punto, ovvero la differenza tra prova fisica e prova metafisica, cfr.,
E. Scribano, L’esistenza di Dio, cit., pp.114-122.

64
ma di partire da un’altra prospettiva. Bisogna trovare un ente che abbia in sé la ragione
del proprio esistere. Attraverso la distinzione di essenza ed esistenza, entrano in gioco
le modalità logiche rispetto alle modalità temporali e causali, tipiche dell’aristotelismo:
quindi, mentre in Tommaso, parlando di enti contingenti, si poteva cadere in
contraddizione, ciò non è possibile in Descartes, dove, appunto, le modalità logiche la
fanno da padrone. È il trionfo delle modalità logiche sulle modalità temporali e causali,
della prova a priori su quella a posteriori, del razionalismo sull’aristotelismo – tomista,
di Descartes sulla Scolastica.

65
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68
INDICE

Introduzione……………………………………………………..………p. 3

Capitolo primo: Le premesse medievali della prova ontologica:

Anselmo e Tommaso………………………………………………………p. 7
1. Anselmo………………………………………………………………………….......p. 7

1.1 Monologion………………………………………………………………….....p. 9

1.2 Proslogion……………………………………………………………………...p. 12

1.3 La formulazione del secondo argomento ontologico……………………....….p. 15

1.4 Gaunilone e il Quid ad haec respondeat quidam pro insipiente………….......p. 17

2. Tommaso d’Aquino………………………………………………………….……....p. 18

2.1 Summa contra Gentiles……………………………………………………..….p. 19

2.2 La critica all’unum argumentum anselmiano……………………………..…..p. 20

2.3 Summa Theologiae…………………………………………………………….p.22

Capitolo secondo: Descartes: rapporti con la Scolastica e prova a

priori………………………………………………………………………p. 26

1. Descartes fondatore della modernità ………………………………………..p. 26

2. Scritti giovanili.…………………………………………………………...p. 28

3. Scritti della maturità………………………………………………………….……..p. 30

3.1 Meditazioni di prima filosofia e Principi di filosofia ………………...………..p. 32

3.2 L’albero del sapere………………………………………………...…..p. 33

4. La prova a priori della Quinta meditazione e il problema dell’innatismo………….p. 34

69
4.1 La seconda prova a priori…………………………………...…………p. 40

4.2 Appendice delle Risposte alle seconde obbiezioni e Principi della filosofia…..p. 47

Capitolo terzo: La prova a posteriori e la nozione di causa sui……...….p. 50

1. Problematiche con Arnauld: nozione di causa sive ratio……………………....p. 59

2. La prevaricazione della prova a priori sulla prova a posteriori…………………....p. 62

Bibliografia……………………………………………………………….p. 66

70

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