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foto di copertina:
cliché Anna Bettoni – Médiathèque Michel-Crépeau, La Rochelle, Charente Maritime, F
Bibliografia p. 39
Madame Bovary
Gustave Flaubert
(1821-1880)
Maestro di realismo, Gustave Flaubert (1821-1880) ha legato il suo capolavoro, il romanzo Madame
Bovary, alla cancellazione di ogni interferenza d’autore: identico e totalmente sovrapposto alla sua
eroina, l’autore era scomparso dal testo, non c’era, non poteva dar giudizi. Non guardava la storia
dall’esterno, poiché l’aveva lasciata allo sguardo e all’intimo sentire dei suoi personaggi. Era diventato
Emma e, per spiegare quest’estrema adesione alla sola realtà di Emma, senza che potesse esistere né
fosse pertinente la realtà dell’uomo Gustave Flaubert, aveva detto «Madame Bovary c’est moi».
Frase celebre, quasi aforistica, capace di scioccare il lettore borghese dell’epoca, come persino di
suscitare le reazioni della censura che, dalla letteratura, credeva di poter aspettarsi sempre una posizione
morale chiara, un giudizio esplicito. Emma, che con i suoi sogni costruisce sempre di più, lungo tutto il
romanzo, una personale indipendenza dalla morale comune, semplicemente spezza – come ha scritto
Göran Blix – quel ruolo di secondo piano che la società le aveva attribuito: ruolo di devota moglie del
medico del paese. Apparentemente scagliato contro l’ordine borghese, il suo adulterio nasce da un
silenzioso ascolto delle passioni, dalla percezione del «mormorio dell’anima» – come leggiamo nel
brano qui riportato in forma antologica. Il romanzo non ne fa il centro della storia, non lo racconta per
elaborare sentenze. Ma, per l’oscurantismo del Secondo Impero, Emma non avrebbe potuto aver solo i
suoi occhi per tutte le pagine del romanzo, e solo il suo cuore, e solo le sue aspirazioni. Era un
personaggio che sfuggiva alla presa dei buoni costumi.
Giovane di campagna, educata dalle Orsoline, dotata di maniere raffinate e di buoni presupposti di
cultura, sposata a un medico più anziano di lei, rinchiusa nelle abitudini piccolo-borghesi di una cittadina
che, nella realtà topografica francese era Ry, nella Seine-Maritime, e che diventa Yonville nelle pagine
del romanzo, Emma pare ricalcare il percorso tragico di una tale Adèle-Delphine Couturier, moglie di
un ufficiale sanitario della regione, morta a soli 27 anni nel 1848, sommersa dai debiti e ripetutamente
‘macchiata’ da amori adulteri. Eppure tutto la allontana da questa figura di partenza, probabile fonte
ispiratrice di Flaubert: Emma è un personaggio perfettamente emblematico. Qualsiasi lettrice, qualsiasi
lettore poteva trovare in lei un tratto che gli era famigliare, una caratteristica comune, un sentimento che
le o gli apparteneva, perché Emma era una sintesi di molti tratti, estremamente realistici. La ‘somma’
che Emma rappresentava era frutto di fantasia letteraria, personaggio-tipo inesistente nella realtà: ma i
tratti che la componevano erano ad uno ad uno pescati, con attenzione minuziosa, nella società di
provincia, nel mondo che gravitava attorno alle professioni mediche nella Normandia degli anni ’40
dell’Ottocento, nelle letture di cui si nutriva il pubblico femminile dell’epoca. Era facile trovare elementi
di adesione al testo, leggendo. Per questo Madame Bovary fu oggetto di un procedimento giudiziario,
accusato di oltraggio ai buoni costumi, oltraggio alla morale religiosa e oltraggio alla morale pubblica
dal Tribunale correzionale di Parigi.
Uscì inizialmente a puntate nella Revue de Paris, in sei numeri, dal 1° ottobre al 15 dicembre 1856. Ma,
avendo constatato la soppressione di alcuni passi di testo, evidentemente ritenuti scabrosi dalla
redazione della rivista, Flaubert rinnegò il valore d’insieme della pubblicazione con una celebre lettera
del 15 dicembre 1856. Il 24 dicembre cedeva quindi i diritti di edizione integrale del romanzo a Michel
Lévy, che lo pubblicò nell’aprile 1857, dopo la chiusura del processo cui Madame Bovary fu sottoposto.
Flaubert, il suo romanzo e l’editore furono infatti assolti, e senza spese, il 7 febbraio 1857, dopo che il
Tribunale ebbe riconosciuto il lavoro letterario dell’autore come lavoro serio, anche se «impregnato di
un realismo volgare», e ammesso che l’arte, per quanto finalizzata al bene, può non essere sempre «casta
e pura nell’espressione».
Madame Bovary fu anche ripetutamente illustrato, per l’edizione a stampa, dal 1878 ad oggi. Venne più
volte adattato per il teatro, e per esempio dal belga Paul Emond per la regia di Sandrine Molaro e Gilles-
Vincent Kapps nel 2015. Fu di grande ispirazione per il cinema, con risultati spesso molto convincenti,
come il film di Sophie Barthes (2014), con Mia Wasikowska e Ezra Miller.
illustrazione di Albert Fourié incisa per acquaforte da Eugène Abot, in Gustave Flaubert, Madame Bovary, mœurs de
province, avec 12 compositions par Albert Fourié gravées à l’eau-forte par Eugène Abot et Daniel Mordant, Paris, A.
Quantin, 1885, tavola f.t. fra p. 106 e p. 107, esemplare della Bibliothèque nationale de France, Réserve des livres rares,
RES P-Y2-1441, disponibile in https://gallica.bnf.fr
Nella storia della letteratura francese, Baudelaire viene definito come il padre della poesia moderna.
Con le parole di Erich Auerbach, potremmo precisare il suo ruolo come quello dell’artista che
costantemente ha lottato, passo dopo passo, nell’itinerario tracciato dalle sue Fleurs du Mal, per
qualcosa di assoluto. Coltivando il disprezzo della «realtà preformata dell’epoca in cui viveva»,
Baudelaire ha fatto della poesia l’emblema perfetto della ricerca, dell’aspirazione infinita verso questo
assoluto che, nei suoi versi, prende il nome di Ignoto, Nuovo, Altrove, Ideale, Abisso, Bene, Male:
«Inconnu», «nouveau», «Ailleurs», «Idéal», «abîme», «Bien», «Mal».
Per comporre le tappe della ricerca, Baudelaire ha dato forma a una raccolta poetica in termini
paradossalmente antologici. Le Fleurs del suo titolo sono un evidente accenno al greco ἄνϑη (ànthē),
fiori ‒ da cui ἀνϑολογία, scelta di fiori ‒ e presentano l’opera dunque come una scelta, operata a monte,
dall’autore: una scelta di poesie del Male, come fossero testi-campione, prelevati da tutto il Male
percepito dal poeta e fatto oggetto di elaborazione artistica. Inaugura, infatti, l’opera un significativo ex-
ergo di 6 versi, tratti dall’epopea cinquecentesca dei Tragiques di Agrippa d’Aubigné, il poeta-soldato
dell’epoca delle guerre di religione in Francia, che aveva conosciuto la violenza del Male: «On dit qu’il
faut couler les exécrables choses / Dans le puits de l’oubli et au sépulcre encloses, / Et que par les écrits
le mal ressuscité / Infectera les mœurs de la postérité; / Mais le vice n’a point pour mère la science, / Et
la vertu n’est pas fille de l’ignorance». Legittimando il Male come argomento di poesia, come oggetto
necessario all’uomo che vuole veramente vedere il percorso da compiere, Baudelaire rivendica con la
sua opera il potere di una verità artistica dura, violenta, esplicita nel disincanto. Questa verità, che solo
l’arte sa tenere in mano, crea nelle Fleurs du Mal un Uomo nuovo, a mille miglia di distanza dal
Romanticismo di inizio secolo: è il mezzo per dare a leggere, di fondo, molto di più di un percorso
esistenziale. Dà a leggere una metafisica.
Nell’edizione definitiva, sei sono le sezioni in cui è articolato il percorso, dopo la dedica Al Lettore,
letteralmente sedotto (condotto dentro al testo) come figura di ipocrita fratello del poeta, «Hypocrite
lecteur, ‒ mon semblable, ‒ mon frère!», che vorrebbe fingere di non conoscere la realtà opprimente e
preformata: non conoscere la Noia («l’Ennui!», «ce monstre délicat»). Le sezioni hanno titolo 1. «Spleen
et Idéal», 2. «Tableaux parisiens», 3. «Le vin», 4. «Fleurs du Mal», 5. «Révolte», 6. «La mort» e
costituiscono i sei momenti della ricerca dell’assoluto, come le sei tappe di un itinerario di cui l’io
poetante, emblema dell’Uomo, è protagonista. La ricerca inizia avendo come oggetto l’Ideale sulla terra,
in una lotta contro i vincoli concreti del Tempo, per poi fallire e cadere nell’avvilimento dello spleen,
‘coperchio’ metafisico, che opprime l’Uomo ed il suo anelito («Spleen et Idéal»). Viene tentata quindi
la via dell’immersione nella città («Tableaux parisiens»), in comunione con le persone che la abitano;
poi la via dell’artificio («Le vin»), quella delle depravazioni («Fleurs du Mal»), prima di arrivare alla
più amara rivolta («Révolte») e trovare via d’uscita solo nel viaggio verso l’Ignoto, scegliendo di
prendere la morte come unica fedele compagna («Mort») e soprattutto come capitano della nave che
attraverserà tutti i limiti, anche fino in fondo agli abissi, «Au fond de l’Inconnu, pour trouver du
nouveau».
La raccolta poetica delle Fleurs du Mal è dunque il luogo letterario (fatto di parole, suoni, strutture
stilistiche, trame lessicali, suggestioni di senso) in cui si svolge l’itinerario dell’Uomo alla ricerca
dell’assoluto. Il componimento che presentiamo qui, «Élévation», dà il senso di tutta l’ambiguità di tale
itinerario, sicuramente non assimilabile al sogno romantico di un viaggio verso cieli immaginari, mondi
eterei fatti di purissima libertà. Siamo all’inizio del percorso, «Élévation» è la terza poesia della raccolta.
Fa parte della sezione Spleen et Idéal. E, con le sue cinque quartine a rima incrociata, sembra indicare
la strada da seguire verso l’alto e come in volo, per giungere ‒ almeno in forma di auspicio, «Heureux
celui qui peut…» ‒ alla luce assoluta. In realtà, l’attenta lettura della poesia rivela come Baudelaire
componga con raffinata maestria canoni tradizionali antichissimi, per scardinare il sogno poetico del
volo verso luminose libertà. Riprende Lucrezio e i suoi «templa serena», spazi ritagliati nel cielo per il
Texte: 3. Élévation
Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées,
Des montagnes, des bois, des nuages, des mers,
Par-delà le soleil, par-delà les éthers,
Par-delà les confins des sphères étoilées,
Mon esprit, tu te meus avec agilité, 5
Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l’onde,
Tu sillonnes gaiement l’immensité profonde
Avec une indicible et mâle volupté.
Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides;
Va te purifier dans l’air supérieur, 10
Et bois, comme une pure et divine liqueur,
Le feu clair qui remplit les espaces limpides.
Derrière les ennuis et les vastes chagrins
Qui chargent de leur poids l’existence brumeuse,
Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse 15
S’élancer vers les champs lumineux et sereins;
Celui dont les pensers, comme des alouettes,
Vers les cieux le matin prennent un libre essor,
– Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
Le langage des fleurs et des choses muettes! 20
Testo: 3. Elevazione
In alto, sugli stagni, sulle valli,
sopra i boschi, oltre i monti, sulle nubi
e sui mari, oltre il sole e oltre l’etere,
al di là dei confini delle sfere
stellate, tu, mio spirito, ti muovi
agilmente: dividi la profonda
immensità, come un buon nuotatore
che gode in mezzo alle onde, gaiamente,
con virile e indicibile piacere.
Fuggi lontano da questi miasmi
ammorbanti, e nell’aria superiore
vola a purificarti e bevi come
un liquido divino e puro il fuoco
che colma, chiaro, le regioni limpide.
Fortunato colui che può con ala
vigorosa slanciarsi verso campi
sereni e luminosi, abbandonando
i vasti affanni ed i dolori, peso
gravante sopra la nebbiosa vita;
colui che lascia andare i suoi pensieri
come le lodolette verso i cieli,
nel mattino; colui che sulla vita
plana e, sicuro, intende la segreta
lingua dei fiori e delle cose mute.
Charles Baudelaire, I Fiori del Male, Les Fleurs du Mal, testo italiano/francese a fronte, traduzione di Luigi De
Nardis, con un saggio di Erich Auerbach, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 1977, p. 17
frontespizio della prima edizione delle Fleurs du Mal, con l’ex-ergo di Agrippa d’Aubigné (Charles Baudelaire, Les Fleurs
du Mal, Paris, Auguste Poulet-Malassis et Eugène de Broise Libraires-Éditeurs, 4, rue de Buci, 1857) esemplare della
Bibliothèque nationale de France, Réserve des livres rares, RES SMITH LESOUEF R-7443, disponibile in
https://gallica.bnf.fr
Edmond de Goncourt aveva vissuto per lunghissimi anni una forma eccezionale di comunione artistica
con il fratello, Jules de Goncourt (1830-1870). Romanzieri a quattro mani, solidali in tutti gli aspetti
della creazione letteraria, portavano nelle loro storie la ferma convinzione che scrivere fosse
documentare. Il romanzo era per loro il frutto di un’indagine metodica, minuziosa e vasta al tempo
stesso, sulla realtà che li circondava. Convinti della necessità letteraria del Naturalismo, inteso come
studio scrupoloso e non convenzionale dell’oggetto del narrare, che fosse ripugnante degrado o
profumata bellezza, si definivano « raconteurs du présent », così come gli storici potevano definirsi
«raconteurs du passé». Un romanzo come Sœur Philomène (1861) riusciva, per esempio, a rendere arte
la vita perfettamente documentata di una suora, infermiera in ospedale, fra malattie, medicina e fede,
entro spazi spesso sgradevoli e situazioni tristi. Un romanzo come Manette Salomon (1867) riusciva a
perseguire sempre questa ‘scrittura artistica’ nella storia perfettamente documentata di un pittore di
talento, rovinato dall’amore per la sua bellissima modella, entro il bel mondo che animava le grandi
mostre, l’École des Beaux-Arts, le grandi e piccole sale d’esposizione della capitale. Il Naturalismo era
per loro rigore descrittivo: non era una scelta di campo, fra il brutto e il bello del mondo, fra il disagio e
il privilegio sociale. Lo intendevano come una rivoluzione culturale, che superasse per sempre il rifugio
nell’immaginazione, caratteristico del Romanticismo di inizio secolo.
Rimasto solo, dopo la morte di Jules, Edmond conservò intatto tale progetto narrativo, continuando ad
esser romanziere, oltre che generoso anfitrione, dedito all’accoglienza di letterati e artisti nel suo salotto
di Auteuil. Con uno dei romanzi più significativi dell’epoca, Les Frères Zemganno (1879), rese onore
al rapporto fraterno, alla sintonia nel vivere e nel sentire che intimamente lega tra loro i fratelli,
scegliendo come protagonisti due fratelli, clown e acrobati, entro quel mondo di purissima arte – distante
dalla vita comune – che è il circo. Emblema della fiducia reciproca, l’acrobata è colui che tesse con il
suo doppio, con colui che tende le mani dal trapezio sul lato opposto, con colui che raggiunge la
posizione di presa o di appoggio a terra, l’intesa più totale che si possa immaginare: la sincronia dei
corpi e della mente, fra vuoti, salti, distanze aeree da attraversare con volteggi che, senza intesa,
porterebbero alla rovina, e anche alla morte. Così legati e così fratelli, i due protagonisti, Gianni e Nello,
sono, nel romanzo, alla ricerca dell’impresa acrobatica straordinaria, mai vista prima: alla ricerca di una
creazione artistica completamente nuova, che finirà per dar loro un cognome nuovo, Zemganno, mai
avuto prima. Giungendo alla realizzazione di un numero circense di smisurata audacia – un salto di
Nello in verticale per 14 piedi di altezza, che finisca sulle spalle di Gianni, in piedi in equilibrio sul
bordo di una botte –, i fratelli che avevano infine scelto di chiamarsi Zemganno puntavano alla più alta
libertà: liberi dalle leggi di natura, liberi dalla forza di gravità, persino liberi dalle emozioni dell’essere
umano. Il nuovo cognome faceva di loro degli zigani, o tzigani, o zingari bohémiens, come bohémienne
e di origine nomade era stata la loro mamma, liberi di creare un’arte unica, svincolata da regole
precedenti. Metafora perfetta di qualsiasi creazione artistica, quindi anche della creazione letteraria, la
loro impresa aveva i colori del circo, il belletto ed il costume del pagliaccio, l’aura del saltimbanco.
Mostrava con perfetta evidenza che l’arte era elitaria e paradossale al tempo stesso: acquisita al caro
prezzo della fatica e della malinconia, dello sforzo fisico e dell’impossibilità di lasciar trasparire – mai!
– qualsiasi vena di tristezza, qualsiasi ripensamento, o il sentimento della propria diversità. È grazie a
questa sensibilità nella corrispondenza metaforica fra le arti, che il documento naturalista perde qui ogni
pesantezza: l’indagine di Edmond de Goncourt nel mondo circense era stata impeccabile, e minuziosa è
l’attenzione che, nel romanzo, viene dedicata ad ogni singolo elemento del circo, ai suoi attori, ai gesti,
alle abitudini, agli spazi, agli oggetti, agli animali. Ma, come ha scritto Jacques Noiray, Les Frères
Zemganno sono il romanzo che raggiunge la leggerezza – che è poi la leggerezza tragica del grande salto
nel vuoto dell’acrobata che, per un assurdo destino, non trova il punto d’appoggio finale – con l’eleganza
documentaria, con la fantasia circense scelta quale sublime documento per la creazione letteraria.
illustrazioni di Appeles Mestres, in Edmond de Goncourt, Les Frères Zemganno, illustrations de Apeles Mestres, Madrid-
Paris, La España Editorial-Georges Charpentier et Eugène Fasquelle, 1891, pp. 215, 285, esemplare della Bibliothèque
nationale de France, département Littérature et Art, 8-Y2-46985, disponibile in https://gallica.bnf.fr
Grande innovatore del genere romanzesco, Marcel Proust seppe creare con La Recherche du temps
perdu un vero e proprio sistema narrativo, gigantesco e perfettamente coerente, per il recupero del tempo
tramite la scrittura. Operatore del ‘sistema’ è la memoria, che può far sorgere immagini del passato in
modo del tutto involontario, come può essere l’effetto di uno sforzo mentale, per una ricostruzione
volontaria di pagine di vita vissuta. Nei due casi, involontaria e sicuramente più potente, o volontaria e
quindi razionale, la memoria opera per la narrazione, è all’origine della scrittura, permette di dare una
forma concreta al tempo che apparentemente scivola o è già scivolato via: la forma letteraria. Sette sono
i diversi romanzi che organizzano tale recupero di un tempo che prende forma: Du côté de chez Swann
(1913), À l’ombre des jeunes-filles en fleur (1919, premio Goncourt), Du côté des Guermantes (1920-
1921), Sodome et Gomorre (1922), ed i postumi La prisonnière (1923), Albertine disparue (1925) e Le
temps retrouvé (1927). Un solo “io” narrativo li anima: è la prima persona singolare di una sorta di alter-
ego dell’autore, che cerca un senso, lungo fasi di una storia non ordinata cronologicamente e
lontanissima dall’idea di autobiografia, lungo tappe di vita che sorgono nel testo per flash-back, per
immagini pescate dal presente, dal passato recente o dal passato antico, dall’età adulta, dalla giovinezza
o dall’infanzia. L’“io” narrante cerca con totale urgenza, pagina dopo pagina, un oggetto, che gli dia
senso. Pagina dopo pagina cerca la propria vita passata, la trova a tratti, la racconta, fino a giungere, nel
Temps retrouvé, alla scoperta di una volontà, che è di fondo una vocazione: la volontà di scrivere.
Scrivere lungamente, scrivere un libro immenso che sappia concretizzare il tempo, e che sappia collocare
nel tempo le vite raccontate. Così, alla domanda che pongono le ultime righe della Recherche – «Mais
était-il encore temps pour moi?», «Ma era ancora tempo per me?» – non è certo necessario che l’“io”
narrante risponda: poiché il tempo della vita è stato ben utilizzato e il libro immenso che il protagonista
scopre di voler scrivere per vivere la “vera vita” è il libro che, con quelle righe, si conclude, e che il
lettore ha dunque appena finito di leggere.
L’urgenza di scrivere è stata infatti la caratteristica più evidente dell’autore Marcel Proust, nato in un
contesto borghese e parigino nel 1871, toccato dalla malattia ‒ l’asma ‒ fin dai primissimi anni ’80, alla
fine della fanciullezza, iper-protetto dall’ambiente famigliare anche per questo, formatosi presso il
prestigioso Lycée Condorcet e poi frequentando negli anni ’90 l’École libre de sciences politiques, la
mondanità culturale della capitale, le conferenze del filosofo Henri Bergson, suo cugino acquisito. Già
autore di Matière et mémoire (1896), Bergson venne accolto al Collège de France il 6 dicembre 1901
proprio con una lezione inaugurale sul ‘pensare’ dell’uomo come possibilità di fissare il tempo.
Proust conobbe presto il lutto, per la perdita del padre e poi della madre, nel 1903 e nel 1905, fu autore
di articoli in riviste di ambito simbolista, ed avviò un romanzo autobiografico che resterà per sempre
incompiuto, Jean Santeuil. Cominciò a dar corpo al progetto della Recherche du temps perdu nel 1909,
mentre le crisi d’asma si facevano più frequenti, più gravi, ed il tempo a disposizione sembrava non
essere lunghissimo. I contatti preliminari per una pubblicazione del primo volume dell’opera, Du côté
de chez Swann, avvennero in quegli anni, con editori quali Fasquelle ed il grande Gaston Gallimard, che
rifiutarono entrambi l’edizione. Du côté de chez Swann uscì presso Bernard Grasset il 14 novembre
1913, con una grossa partecipazione di Proust stesso alle spese: partecipazione che non fu assolutamente
più necessaria in seguito, quando, dopo la conclusione della Prima guerra mondiale e la ripresa delle
attività culturali, l’editore Gallimard si rese conto dell’errore del suo rifiuto e prese in carico l’insieme
dell’opera dall’Ombre des jeunes-filles en fleur fino ai volumi postumi.
Il passo che proponiamo qui, sempre considerato come altamente rappresentativo del procedere
narrativo della Recherche e famosissimo ‒ è il passo ‘della petite madeleine’ ‒, dimostra come il ricordo
possa sorgere per via del tutto involontaria, grazie ad un abbandono dello sforzo razionale per ritrovarlo,
e, una volta identificato nel pozzo profondo del tempo perduto, funzioni da ‘esca’ e calamita del
movimento narrativo, come ha scritto Gérard Genette. Il ricordo diventa un punto, recuperato dal
passato, capace di dar vita a un’infinita reazione a catena, di altri ricordi che ad esso si associano, come
fotografia attuale (2022) della “Maison de tante Léonie” a Illiers-Combray, 19, rue de Chartres,
sede delle collezioni museali della Société des Amis de Marcel Proust
Vol de nuit
Antoine de Saint-Exupéry
(1900-1944)
L’opera celeberrima di Saint-Exupéry, Le Petit Prince, uscì per la prima volta durante la Seconda guerra
mondiale, il 6 aprile 1943, negli Stati Uniti, a New York, dove l’autore era stato inviato con funzioni
diplomatiche. Nel suo ruolo di aviatore, pilota militare, rappresentante delle forze dell’Armée de l’Air
contro l’occupazione nazista, Antoine de Saint-Exupéry collaborava all’organizzazione della missione
Béthouart, destinata a prevedere l’aiuto americano, il riarmo dell’esercito francese e soprattutto
l’auspicato sbarco degli Alleati in Provenza. Ma a quell’epoca l’aviatore e diplomatico già chiamato da
tutti “Saint-Ex” (come lo sarà nel film del 1996 con Bruno Ganz) era già uno scrittore di prestigio, con
al suo attivo romanzi di altissimo spessore morale, di seduttiva e raffinata narrazione. Le Petit Prince,
tradotto, ad oggi, in 553 lingue e dialetti nel mondo e venduto in milioni e milioni di copie, presente
ormai in una sorta di immaginario collettivo, quale simbolo del fanciullo che opera con la sua saggia
meraviglia entro l’animo di ogni uomo, era in quel 1943 un semplice tassello di un già ricco percorso
d’autore. Prima di esso, L’Aviateur (1926), Courrier Sud (1929), Vol de nuit (1931), il grande puzzle di
riflessioni e avventure in sintonia con un pianeta da rispettare e proteggere, Terre des hommes (1939),
e poi Pilote de guerre (1942) avevano già creato il mito del pilota-scrittore, dell’animo gentile
dell’aristocratico Saint-Exupéry, votato alla difesa del mondo e degli uomini dall’alto dei cieli che
attraversava in mille occasioni, per incarichi di guerra e incarichi di pace, e dal ‘basso’ di una fantasia
letteraria, fecondissima e pacata al tempo stesso.
Vol de nuit fa parte di questo percorso d’autore e di questo mito, biografico e letterario. È il romanzo
sorprendentemente documentario dell’esorcizzazione della paura grazie alla meraviglia. Racconta
l’azione reale, documentata dall’esperienza concretamente vissuta dai piloti di voli aeropostali, agli
albori dell’aviazione, al servizio di compagnie come la Latécoère, che era stata fondata col nome di
Aeroposta Argentina e fu attiva in Sud America, Marocco e Francia fra il 1926 e il 1931. Ma il romanzo
racconta l’azione quale eroismo, come il normale eroismo di chi ha scelto il rischio per lavoro: volare
in cieli notturni con biplani dalla strumentazione ancora primordiale, per trasportare materiale postale.
E la racconta come il grande, seppur normale eroismo, vissuto da un animo sensibile, capace di cogliere
la poesia del mondo, e affrontato dal coraggio di un pilota rimasto bambino. Come Peter Pan, che certo
non ha paura di volare ed è il fedele compagno delle stelle, il protagonista di Vol de nuit, assoluto doppio
del suo autore, vive fino in fondo l’azione che è suo dovere compiere, assume tutta la responsabilità del
volo, della vita del co-pilota e sua, non smette un solo istante di mettere a frutto la sua profonda
competenza professionale e resta fedele al sogno che lo abita, al fanciullo che è dentro di lui: le immagini
dell’ombra dell’uragano che avvolge l’aereo, l’oscurità della terra o del mare sotto di lui, la minaccia
apparente della morte sanno essere esorcizzate dalla fantasia fatata dell’infanzia, per lui. Ed esorcizzate,
per il lettore, dalla più elevata – in senso di nobiltà letteraria – immaginazione poetica, contro ogni paura.
Premiato con il Prix Femina il 4 dicembre 1931, Vol de nuit ebbe e continua ad avere un successo
enorme, fu tradotto in inglese fin dal 1932 con il titolo di Night Flight. Nel 1933 la Metro Goldwyn
Meyer ne acquistò i diritti per il film che fu in sala nel 1934, con Clark Gable: un successo di pubblico
ugualmente enorme. E tutto questo, senza che Antoine de Saint-Exupéry si facesse mai un vanto, né
della celebrità, né del ruolo che poteva avere all’epoca nel panorama letterario come negli impegni civili
o militari nell’aviazione. Era conte, appartenente ad una delle più antiche casate nobiliari francesi, e
figlio della contessa Marie Boyer de Fonscolombe, artista fervida e indipendente. Aveva avuto
un’infanzia spumeggiante, seppur orfano di padre dall’età di quattro anni, con fratelli e sorelle, fra il
decadente castello di Saint-Maurice de Rémens ed il palazzo di famiglia a Lione. E poi una vita intensa,
fatta di insuccessi, successi e continue sfide, di grandi relazioni di amicizia e impegno in tutti i sensi,
sempre al limite di personali e famigliari ristrettezze economiche (di cui in realtà non si curava),
attraversando l’Europa, l’Africa e l’America, fino all’ultima missione di ricognizione aerea, partita il 31
luglio 1944 dalla base dell’Armée de l’Air di Alto, in Corsica, teoricamente diretta verso Grenoble-
Ambérieu-Annecy e conclusasi con la menzione a registro aeronautico di: «pilota non rientrato”». Il suo
celebre scatto di Roger Viollet (1° gennaio 1929), per Getty Images (©gettyimages):
Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), a sinistra, con Henri Guillaumet (1902-1940), all’epoca collega nell’Aeropostale
Latécoère, poi anch’egli pilota di ricognizione agli inizi della Seconda guerra mondiale
Originario della piccola cittadina di Bellac, nella Haute-Vienne, non lontano da Limoges, Jean
Giraudoux fu studente liceale a Sceaux e poi universitario a Parigi, dove, nel 1903, venne ammesso
all’École Normale Supérieure. La sua disciplina di predilezione fu la letteratura tedesca e, dopo la
Laurea, visse un lungo periodo in Germania, prima di intraprendere la carriera diplomatica ed entrare al
Ministero degli esteri dal 1910. Chiamato alle armi nel 1914 e ferito nel corso della Prima guerra
mondiale, fu incaricato dal Ministero di importanti missioni in Portogallo e negli Stati Uniti, quale alto
funzionario di Stato, particolarmente stimato per capacità di relazione, competenza e saggezza.
All’inizio della Seconda guerra mondiale, nel 1939, era presidente del Conseil supérieur de
l’Information, istituzione creata per informare e documentare gli organi di Stato ed assistere il Ministro
degli esteri. Dopo aver seguito il governo a Bordeaux nel giugno 1940 ed essersi poi trasferito a casa
della madre a Vichy, visse in modo apparentemente contrastante gli anni dell’Occupazione nazista.
Condannò subito il procedere del Maresciallo Pétain, ma fu tra i pochissimi a conservare la passione per
la cultura tedesca, con la quale vedeva perduto ogni contatto per il permanere della guerra e delle sue
atrocità. E non poté vedere la fine, di quella guerra, né dunque la Liberazione, poiché morì il 31 gennaio
1944, a Parigi, per malattia. Per noi, che leggiamo le sue opere, la sua biografia disegna innanzitutto una
figura profondamente impegnata: scrittore di romanzi, di saggi e soprattutto di testi teatrali, Giraudoux
rappresenta il genio artistico che opera in parallelo ad un credo sociale, al servizio di un mondo migliore,
se non semplicemente al servizio delle Nazioni, per scambi fra politiche e Stati diversi, per una
condivisione di prospettive (anche grazie alla conoscenza delle lingue straniere), sempre contro ogni
tipo di disumanità. Autore originale fin dal suo primo libro, Les provinciales (1909), pubblicò numerose
opere narrative: delicati studi di psicologia femminile (L’école des indifférents, 1911; Simon le
pathétique, 1918; Adorable Clio, 1929; Suzanne et le Pacifique, 1921; Églantine, 1927) e romanzi di
argomento politico (Siegfried et le Limousin, 1922; Bella, 1926). Ma è nel teatro che trasparì ai massimi
livelli la sua genialità: la genialità dell’intellettuale che assume tutta la responsabilità della sua parola e
sa mettere su una scena teatrale i ‘grandi ignobili’, i cosiddetti ‘fabbricanti di tragedie’. Sul palco, a
teatro, l’agire dei fabbricanti di tragedie mostra in modo esplicito come l’atrocità, la guerra, la tragedia
non esisterebbero affatto se predominasse la semplice buona volontà degli uomini. Alla base del
pensiero di Giraudoux e della sua creazione teatrale c’è questa convinzione che possiamo definire
‘minima’: la buona volontà, così come Giraudoux poteva leggerla nella filosofia del Rinascimento e
soprattutto negli Essais di Michel de Montaigne (1533-1592). Egli fa sua la formula secondo cui «Il
n’est rien si beau et légitime que de faire bien l’homme et dûment» (Montaigne, Les Essais, III, 13:
«Non c’è nulla di tanto bello e legittimo, quanto fare l’uomo, bene e debitamente»). Il suo teatro
rappresenta tutti gli ostacoli ‒ spesso stupidamente banali ‒ che si intromettono contro la buona volontà
o che la offuscano: per citare qualche esempio, il dramma Siegfried (1928) pone il problema franco-
tedesco in termini di valore permanente; Judith (1932) traspone in una scena modernissima l’assedio di
Betulia e l’impresa di Giuditta contro il generale assiro, Oloferne; La guerre de Troie n’aura pas lieu
(1935) rende esplicita la volontà completamente malsana di chi sobilla una nazione affinché entri in
guerra, contro il buon senso e la disperata voglia di pace di grandi personaggi come Ettore, da un lato,
o Ulisse, da parte avversa; Pleins pouvoirs (1939) sarà un lucido e poetico bilancio della Francia alla
vigilia della catastrofe nella Seconda guerra mondiale.
Del dramma più celebre, La guerre de Troie n’aura pas lieu, scegliamo qui un passo tratto dal secondo
Atto. È la scena in cui, obbligato a celebrare con un discorso i soldati morti in una guerra appena
conclusa e fermo nella sua intenzione di non intraprendere mai più altre guerre, Ettore ‒ che è un
condottiero ed è figlio del re di Troia ‒ costruisce con profonda ironia la condanna di qualsiasi tipo di
conflitto sanguinario: guerre, battaglie, uccisioni… Il suo pacifismo è potente e la sua posizione, nella
gerarchia monarchica e militare di Troia, gli avrebbe conferito tutti gli elementi per sventare la nuova
guerra che si profilava all’orizzonte: quella con i Greci, che accusavano Troia (e Paride, in primis) di
Texte, d’après l’Acte II, scène 5 – personnages : le Géomètre, Hector, Priam, Demokos, la Petite
Polyxène, Hécube, le Garde
[…] LE GEOMETRE
Prononce en tout cas le discours aux morts, Hector. Cela te fera réfléchir...
HECTOR
Il n’y aura pas de discours aux morts.
PRIAM
La cérémonie le comporte. Le général victorieux doit rendre hommage aux morts quand les portes se
ferment.
HECTOR
Un discours aux morts de la guerre, c’est un plaidoyer hypocrite pour les vivants, une demande
d’acquittement. C’est la spécialité des avocats. Je ne suis pas assez sûr de mon innocence...
DEMOKOS
Le commandement est irresponsable.
HECTOR
Hélas, tout le monde l’est, les dieux aussi ! D’ailleurs, je l’ai fait déjà, mon discours aux morts. Je le
leur ai fait à leur dernière minute de vie, alors qu’adossés un peu de biais aux oliviers du champ de
bataille, ils disposaient d’un reste d’ouïe et de regard. Et je peux vous répéter ce que je leur ai dit. Et à
l’éventré, dont les prunelles tournaient déjà, j’ai dit : « Eh bien, mon vieux, ça ne va pas si mal que
ça... » Et à celui dont la massue avait ouvert en deux le crâne : « Ce que tu peux être laid avec ce nez
fendu ! » Et à mon petit écuyer, dont le bras gauche pendait et dont fuyait le dernier sang : « Tu as de la
chance de t’en tirer avec le bras gauche... » Et je suis heureux de leur avoir fait boire à chacun une
suprême goutte à la gourde de la vie. C’était tout ce qu’ils réclamaient, ils sont morts en la suçant... Et
je n’ajouterai pas un mot. Fermez les portes.
LA PETITE POLYXENE
Il est mort aussi, le petit écuyer ?
HECTOR
Oui, mon chat. Il est mort. Il a soulevé la main droite. Quelqu’un que je ne voyais pas le prenait par sa
main valide. Et il est mort.
DEMOKOS
Notre général semble confondre paroles aux mourants et discours aux morts.
PRIAM
Ne t’obstine pas, Hector.
HECTOR
Très bien, très bien, je leur parle... (Il se place au pied des portes). Ô vous qui ne nous entendez pas, qui
ne nous voyez pas, écoutez ces paroles, voyez ce cortège. Nous sommes les vainqueurs. Cela vous est
bien égal, n’est-ce pas ? Vous aussi vous l’êtes. Mais, nous, nous sommes les vainqueurs vivants. C’est
ici que commence la différence. C’est ici que j’ai honte. Je ne sais si dans la foule des morts on distingue
les morts vainqueurs par une cocarde. Les vivants, vainqueurs ou non, ont la vraie cocarde, la double
cocarde. Ce sont leurs yeux. Nous, nous avons deux yeux, mes pauvres amis. Nous voyons le soleil.
Nous faisons tout ce qui se fait dans le soleil. Nous mangeons. Nous buvons... Et dans le clair de lune !
... Nous couchons avec nos femmes... Avec les vôtres aussi...
DEMOKOS
Tu insultes les morts, maintenant ?
Testo tratto dall’Atto II, scena 5 – personaggi: il Geometra, Ettore, Priamo, Demokos, la piccola
Polissena, Ecuba, la Guardia
[…] IL GEOMETRA: Pronuncia comunque il tuo discorso ai morti Ettore, ti farà riflettere…
ETTORE: Non ci sarà nessun discorso ai morti.
PRIAMO: Lo richiede il cerimoniale. Quando si chiudono le porte, il generale vittorioso deve rendere
omaggio ai morti.
ETTORE: Un discorso ai morti della guerra è un’arringa difensiva per i vivi, una domanda d’assoluzione.
Una specialità degli avvocati. Io non sono così sicuro della mia innocenza…
DEMOKOS: Il comando è irresponsabile.
ETTORE: Ahimé, tutti sono irresponsabili, anche gli dei! D’altronde l’ho già fatto il mio discorso ai
morti. Gliel’ho fatto nel loro ultimo minuto di vita, quando appoggiati un po’ di sbieco agli ulivi del
campo di battaglia, disponevano ancora d’un rimasuglio di udito e di vista. Posso ripetervi quello che
ho detto loro. A uno squartato i cui occhi già si socchiudevano ho detto: “E allora vecchio mio, non ti
va poi così male…” E a quello cui la mazza aveva spaccato il cranio: ”Non ti dona affatto il naso rotto!
Sei bruttissimo!” E al piccolo scudiero cui pendeva solo il braccio sinistro, mentre perdeva l’ultimo
sangue: “T’è andata bene di cavartela col sinistro…” E sono felice di aver fatto bere loro, a ciascuno, la
suprema ultima goccia dalla borraccia della vita. Era tutto quello che volevano, e sono morti
sorseggiandosela. Non aggiungerò una parola. Chiudete le porte.
LA PICCOLA POLISSENA
È morto anche lui, il piccolo scudiero?
La guerre de Troie n’aura pas lieu, regia teatrale e direzione artistica di Raymond Gérôme, fotografie di Daniel Cande,
Paris, Comédie-Française, 9 gennaio 1988, disponibile in gallica.bnf.fr
La Chute
Albert Camus
(1913-1960)
La Chute, romanzo uscito nel 1956 nella prestigiosa Collana della Nouvelle Revue Française (nrf) di
Gallimard, è la confessione di tutta un’esistenza. Viene presentata dalla trama narrativa nella sua durata
di cinque giorni e nel contesto, prima, di un bar del porto di Amsterdam, poi dei suoi dintorni, ed anche
a bordo di un battello che solca le acque dello Zuiderzee, il mare interno della capitale olandese. A
parlare, confessandosi, è un ex-avvocato parigino, ritiratosi nelle nebbie del Nord, nella città dei canali
e fra la gente del porto, a sèguito di un evento traumatico accaduto molti anni prima, a Parigi. Ad
ascoltarlo è un interlocutore silenzioso, di cui non abbiamo altre notizie se non quelle che lo stesso
protagonista fornisce, parlandogli: si scopre, pagina dopo pagina, che si tratta di un suo connazionale,
francese e parigino, di professione avvocato, di passaggio ad Amsterdam per i cinque giorni della
narrazione. Ma questi non prende mai la parola. Stilisticamente, il romanzo è costruito senza il minimo
intervento dialogico: è la storia di un percorso esistenziale, raccontata in prima persona (alla prima
persona singolare: «je», «io») a un «vous» (in italiano: a un «Lei») di cui si registrano le reazioni e le
curiosità, senza che questo secondo personaggio del racconto assuma alcuna figura. Il protagonista,
invece, nel corso della sua lunga confessione, assume con sempre maggiore precisione la figura
dell’uomo che ha scoperto di non amare la sua vita: ha avuto l’esperienza traumatica della propria
vigliaccheria, testimone inerte del suicidio di una giovane donna gettatasi nella Senna, e da allora vive,
in piena consapevolezza, la vergogna di se stesso. Si racconta dalla sua posizione di uomo molto, troppo
maturo, come colui che ritiene di aver perso la luce, l’innocenza, il respiro del mattino, e pian piano
trova nel suo interlocutore quella forma di solidarietà che gli permette, alla fine del romanzo, di usare
la prima persona plurale, un «nous» anziché un «je» («Oui, nous avons perdu la lumière, les matins, la
sainte innocence de celui qui se pardonne lui-même»).
Nascendo da riflessioni profondamente radicate nella filosofia dell’Esistenzialismo – corrente di
pensiero di cui Camus fu uno dei massimi esponenti, insieme a Jean-Paul Sartre –, La Chute crea dunque
una finzione narrativa dell’ignominia, caratteristica dell’uomo e ugualmente possibile nell’azione come
nell’inerzia: l’assurdo dell’esistenza risiede qui nella volontà disperata del protagonista, che vorrebbe
dimenticare e dimenticarsi, e verifica quotidianamente di non poterlo fare.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1957, morto in un incidente stradale, sull’auto guidata da Michel
Gallimard, di ritorno dal Capodanno del 1960, Albert Camus era nato in Algeria, a Mondovi, nel 1913.
In Francia, negli anni ’30 e poi durante la Seconda Guerra mondiale, fu antifascista e membro al partito
comunista, partecipò alla Resistenza e fu giornalista e direttore della rivista Combat (1944-48). Opere
famosissime come L’Étranger (1942), La Peste (1947) ed il saggio sull’assurdo Le mythe de Sisyphe
(1944) mettono in luce il destino dell’uomo entro una realtà ineluttabile, in cui possono esistere il delitto
involontario o la beffa dell’equivoco. La reazione dell’individuo, nel pensiero di Camus, sfocia quasi
ottimisticamente nella rivolta, intesa come vera e propria morale: l’uomo che si rivolta è colui che,
rifiutando ogni conformismo, riesce, nella solidarietà con i suoi simili, a salvare i grandi ideali di libertà,
giustizia, verità, bellezza.
Il passo della Chute che riportiamo qui, centrale nel romanzo, racconta l’evento traumatico che è
all’origine della svolta esistenziale del protagonista. Molto celebre, è la perfetta rappresentazione
narrativa dello scarto che può verificarsi fra il pensiero e l’azione: racconta la tragedia dell’incongruenza
– possibile in ogni momento della vita di un uomo – fra la volontà (intellettuale) ed il gesto che dovrebbe
derivarne. Racconta la situazione non capita, l’intenzione non còlta, e poi il gesto ineluttabilmente non
compiuto: vista la giovane donna in procinto di gettarsi nella Senna, il protagonista era passato oltre,
senza provare ad avere un contatto con lei, distratto o vigliacco o incapace di comprendere. E, una volta
udito il tonfo del corpo caduto nel fiume, non si era voltato, non era tornato indietro, non si era tuffato
nelle acque della Senna improvvisandosi soccorritore, non aveva nemmeno avvertito nessuno, poi. Tutta
una serie di negativi, e una serie quindi di inerzie che, sul momento, poterono essere in contraddizione
Albert Camus, La Chute, Paris, nrf Gallimard, 1956, edizione originale, esemplare venduto da Artcurial,
7, rond-point des Champs-Élysées Marcel Dassault, Paris VIIIe, nel 2018, lotto n. 93
L’Ignorant
Philippe Jaccottet
(1925-2021)
Dando lettura delle motivazioni che avevano portato all’attribuzione a Philippe Jaccottet del Premio
internazionale Cino del Duca, il 30 maggio 2018, la segretaria dell’Académie française, N.D. Hélène
Carrère d’Encausse, fornì in pochi minuti di parola la più chiara presentazione del poeta premiato e della
sua opera. Con un discorso semplice e profondo, Carrère d’Encausse identificava una sorta di ‘motto’,
valido a titolo omnicomprensivo per il mondo di Jaccottet, nel primo verso dell’ultima quatrina di «Que
la fin nous illumine» (L’Ignorant, pp. 50-51): «L’effacement soit ma façon de resplendir», ‘la
cancellazione sia il mio modo di risplendere’. L’umiltà di un passo sempre indietro è il gesto-chiave di
questo poeta, un grandissimo della nostra epoca, capace sempre di fondere nella parola poetica
l’accoglienza, con il suo sguardo, del mondo circostante. Accoglienza è sempre stata per lui sinonimo
di verginità nel sentire, ignoranza nell’apprendere, innocenza nel capire: lontano dalle certezze, incapace
di pregiudizi, il poeta pone sicuramente un quesito sul mondo, perché questo è il ruolo dell’intellettuale.
Ma nulla è più lontano da Jaccottet dalla pretesa di ottenere risposte, e tanto meno risposte certe. La
poesia non cerca mai – come ha detto Hélène Carrère d’Encausse – il tratto meraviglioso, abbagliante,
straordinario, il grande stile («l’éclatant, le clinquant, le grand style»), ma fa in modo che a brillare sia
sempre e solo la semplicità dell’evidenza, l’istante di una piccola verità umana, accettata con tutte le sue
– anche e serenamente incomprensibili – zone d’ombra. Quale meditazione sui limiti della parola, quale
ricerca scrupolosa della precisione formale, nella consapevolezza che i significati del mondo vengono
compresi solo in piccola parte, la poesia di Jaccottet è profondamente «leale», come ha scritto Jean
Starobinski. Non rende la realtà né magnifica, né miserabile. Crede invece che possa esistere un patto
fra il vero e la parola poetica. È, di fondo, una poesia etica.
Nato nel 1925 a Moudon, nel cantone di Vaud, nella Svizzera francofona, e stabilitosi nel 1953 a
Grignan, nella Drôme, nel sud della Francia, Philippe Jaccottet aveva una formazione universitaria in
filosofia, in filologia greca e filologia tedesca. La sua laurea, all’Università di Losanna, è del 1946.
Aveva tessuto legami intellettuali molto forti con poeti quali Gustave Roud e Charles Ferdinand Ramuz,
nella sua Svizzera natale, mentre a Parigi, dove soggiornò come collaboratore dell’editore Henry-Louis
Mermod, si legò in particolare a Francis Ponge. Fu un celebre e raffinato traduttore, in particolare
dell’Odissea, e poi di Thomas Mann, di Rilke, di Friedrich Hölderlin, di Robert Musil, di Leopardi ed
Ungaretti. Scrisse racconti, diari, saggi critici, e soprattutto poesia: qui studiamo un componimento tratto
da L’Ignorant (1958), ma ricordiamo almeno Airs (1967), Leçons (1969), Après beaucoup d’années
(1994), Cahier de verdure (2003), oltre all’insieme della sua opera poetica, uscita nella prestigiosa
collana della Pléiade di Gallimard nel 2014.
«Le travail du poète» (L’Ignorant, p. 37-38), che presentiamo qui, è una poesia in tre tempi, a strofe
libere (tipograficamente strutturata in due), dotata di un forte impatto narrativo, che viene sostenuto
dalla ricchezza degli enjambements e dall’irregolarità degli alessandrini. Il primo tempo (vv. 1-4) si
sofferma sul lavoro del poeta, pastore attento che ha il còmpito di vegliare. Il secondo tempo (vv. 5-19)
introduce il lungo ed incerto lavoro della memoria, nel tentativo di disegnare la figura di un’anziana
signora morta da poco, ben conosciuta dall’io poetante ed evidentemente a lui cara. Il terzo tempo (vv.
20-27) torna ciclicamente sul lavoro del poeta, soggetto definito con un verbo di divenire, nel campo
lessicale della povertà: non tanto il ‘povero’, ma colui che si è impoverito, l’«appauvri» (v. 25). Il suo
compito, qui conclusivo, è simile a quello d’apertura, importantissimo nella sua piccolezza: tener acceso
un fuoco, che rischia ad ogni istante di spegnersi, per il vento, come per la poca legna di cui egli dispone.
È, questo, un testo altamente rappresentativo della precisione costante che il poeta dedica al mondo che
lo circonda e che scorre accanto a lui, come se dovesse fondervisi per non perderne le tracce, cancellarsi
per essere più attento all’oggetto del suo sguardo e del suo sentire. Lontano dall’immagine heideggeriana
del ‘pastore dell’essere’, questo pastore («un berger», v. 3) dei versi di Jaccottet vigila sì, ma in tutta
umiltà, affidandosi, come ha scritto Charles-Olivier Stiker-Métral, alla fragilità della sua osservazione
Philippe Jaccottet sul terrazzo della sua casa a Grignan. Fotografia di Erling Mandelmann, 1991 © R. & B. Mandelmann,
Collezioni del Musée historique de Lausanne – Dizionario Storico della Svizzera DSS / SAGW / ASSH
La Vie devant soi è il romanzo che semplicemente conferma, come ha scritto Jean-François Hangouët,
la premonizione di Mina (o Nina) Owczyńska Kacew, madre di Romain Gary, convinta che il figlio
sarebbe diventato «un titan de la littérature». Uscito con lo pseudonimo di Émile Ajar nel 1975 presso
il Mercure de France, La Vie devant soi fu insignito del prestigioso Premio Goncourt, che Romain Gary
aveva già ricevuto nel 1956 per Les Racines du ciel e che, per normativa del Premio, non avrebbe in
nessun modo potuto ricevere una seconda volta. Firmandosi con lo pseudonimo e senza specificare
motivi, egli fece infatti arrivare al presidente dell’Accademia Goncourt un cortese rifiuto, che
semplicemente non fu accolto, poiché il Premio veniva attribuito a un libro, non a un autore che potesse
poi decidere se accettare o meno il riconoscimento. Il velo che copriva l’identità di Ajar restò
impenetrabile e così rimase fino a dopo la morte di Gary. Solo una scrittrice di origine ungherese,
Christine Arnothy, anch’essa esule e naturalizzata francese, ebbe l’intuizione di una somiglianza
assoluta fra la scrittura di Émile Ajar e quella di una specie di «Gogol de la rive gauche, le Pouchkine
des ténèbres de Paris» (D. Bona, p. 361). Pur rimanendo quasi del tutto inosservata, la sua intuizione si
fondava su quel misto di umorismo ebraico, tristezza est-europea, sorridente disincanto e rispetto per
l’umanità, che costituiscono lo spirito di fondo della Vie devant soi e che Christine Arnothy rilevava già
nel 1974, nel primo romanzo firmato da Gary con lo pseudonimo di Ajar, Gros-Câlin.
Il sogno di poter dar vita a un ‘romanzo totale’ si realizzava per Gary con La Vie devant soi: c’è un
romanzo del personaggio letterario e un romanzo, dunque, dell’autore che lo crea.
Il personaggio, qui, è il giovane Momo, adolescente clandestino di origine magrebina, orfano di una
prostituta, con la sua alterità rispetto alla Parigi borghese, la sua vita nel condominio di periferia insieme
agli altri figli di prostitute che Madame Rosa, ebrea, sopravvissuta ad Auschwitz, accoglie e cresce in
casa sua, dietro una piccola remunerazione. L’autore sarebbe stato in origine – nell’idea di Gary – un
vagabondo, medico ma mezzo criminale, esule senza radici, troppo facilmente sospettabile come un
prestanome: divenne quindi un personaggio in carne ed ossa, quando, per completare la totalità
romanzesca, Gary architettò la messa in scena di una attribuzione dell’opera al nipote Paul Pavlowitch,
figlio di una cugina. Mentre La Vie devant soi veniva accolto come il romanzo della modernità assoluta
e Pavlowitch riconosciuto come uno strampalato genio, per qualche anno si vide in Romain Gary il
romanziere di un’epoca conclusa, il grande autore di Éducation européenne (1945), che aveva saputo
tessere la trama narrativa meravigliosa di una solidarietà fra popoli, contro qualsiasi tipo di stato
sovrano, di razzismo, di oppressione: ma che, alla fine degli anni ’70, ormai aveva poco da dire. Anche
per questo, quando con la pubblicazione postuma della Vie et mort d’Émile Ajar (1981) si seppe che
Émile Ajar era Gary, una luce completamente nuova illuminò la sua figura, la sua arte, il suo genio
assoluto.
Con La Vie devant soi, Gary aveva completamente rivoluzionato la prospettiva di lettura: nelle pagine
del romanzo, ci si trova condotti per mano dalla voce in prima persona del narratore Momo,
costantemente presente in primo piano nella trama e responsabile di una visione del mondo autentica e
paradossale al tempo stesso. Quello che Momo vede, la Francia che è al di là di un confine invisibile,
oltre il quartiere popolare di Belleville in cui risiedono lui e gli altri personaggi di una multietnica realtà
anni ’70, le abitudini di una varia umanità segnata dall’emarginazione sono il filo solidissimo di una
narrazione comica, patetica, troppo reale, e reale soprattutto per i suoi occhi. La costituiscono ‒ lungo il
percorso di una crescita individuale che fa del ragazzino delle prime pagine un quindicenne di
sorprendente saggezza ‒ ingenuità linguistiche, trasgressioni sintattiche, improprietà lessicali, che sono
il mezzo perfetto per denunciare.
Denuncia delicata e commovente, la voce di Momo ci porta dentro a una logica incontestabile, come
nella ribellione, per esempio, contro le leggi di Natura, che causano sofferenza all’anziana e amatissima
Madame Rosa, dato che le persone anziane «sont attaquées par la nature, qui peut être une belle salope
et qui les fait crever à petit feu». Oppure nella ribellione contro l’attaccamento alla vita, se ai suoi occhi
L’attore Gabriel Jabbour (1922-1987) nel ruolo di Monsieur Hamil, in Madame Rosa, film di Moshé Mizrahi, 1977, Oscar
for best foreign-language film, 1978
Rouge Brésil
Jean-Christophe Rufin
(1952-)
Jean de Léry, Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil, autrement dite Amérique, [Genève], Antoine Chuppin, 1578, p.
[121] e p. [121, particolare], esemplare della Bibliothèque nationale de France, département de l’Arsenal, rue Sully, 8-H-
1573, disponibile in https://gallica.bnf.fr
1956, La Chute
● Albert Camus, La Chute, Paris, Gallimard – Folio, 1984
● trad. it.: Albert Camus, La caduta, traduzione di Yasmina Melaouah, Milano, Bompiani – Tascabili
narrativa, 2019
1958, L’Ignorant
● Philippe Jaccottet, L’Ignorant. Poèmes 1952-1956, Paris, Gallimard, 1958
● trad. it.: Philippe Jaccottet, Il barbagianni. L’ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, a cura di Fabio
Pusterla, Torino, Einaudi, 1992
● riferimenti critici: Jean Starobinski, «Parler avec la voix du jour », préface à Philippe Jaccottet, Poésie, 1946-1967,
Paris, Gallimard, 1971, coll. ‘Poésie’, pp. 7-22 (trad. it. a cura di Daniela Vianello, «Parlare con la voce della luce»,
in Idra, Cagiallo, Genova, n° 1, 1990, pp. 230-242, riedita in Philippe Jaccottet, Il barbagianni. L’ignorante, con un
saggio di Jean Starobinski, a cura di Fabio Pusterla, Torino, Einaudi, 1992, pp. 171-180); Gérard Farasse (dir.),
Jaccottet en filigrane, Revue des Sciences Humaines, n° 255, juillet/septembre 1999, 236pp.; Renée Ventresque (dir.),
Philippe Jaccottet. La mémoire et la faille, Publications de l’Université Paul-Valéry, Montpellier 3, 2002; Charles-
Olivier Stiker-Métral, «Philippe Jaccottet, la poésie de l’effacement», Esprit, n. 414, mai 2015, pp. 99-108