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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO CARLO BO

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI

CORSO DI LAUREA:

LETTERE MODERNE

DA “I BENANDANTI” A “STORIA NOTTURNA”:


CARLO GINZBURG E GLI STRATI SOMMERSI
DELLA STORIA

Relatore: Chiar.mo prof. Tesi di laurea di:


GUIDO DALL’OLIO LUCA CANTARUTTI

ANNO ACCADEMICO 2019-20


A mio padre Piergiorgio

2
INDICE

INTRODUZIONE
Il Friuli e Ginzburg: alle origini de “I benandanti” p. 6
Struttura della tesi p. 10

PARTE PRIMA
CAP. I- I BENANDANTI
Prefazione p. 12
Le battaglie notturne p. 14
Le processioni dei morti p. 19
I benandanti tra inquisitori e streghe p. 25
I benandanti al Sabba p. 28

CAP. II- LA RICEZIONE DE “I BENANDANTI”


Sintesi p. 36
“Una nuova ricerca sulla stregoneria” di A. Tenenti (1967) p. 39
§ La replica di Ginzburg p. 42
“Being a benandante” di A. Pagden (1984) p. 42
§ La replica di Ginzburg p. 46
§ La contro-replica di Pagden p. 49
La recensione di H.C.E. Midelfort (1986) p. 50
“Shamanism and witchcraft” di G. Klaniczay (2006) p. 53
“Benandanti e inquisitori nel Friuli del Seicento” di Nardon- Del Col (1999) p. 55

CAP. III- DA “I BENANDANTI” A “STORIA NOTTURNA” p. 59

3
PARTE SECONDA
CAP. IV- STORIA NOTTURNA
Introduzione p. 64
Lebbrosi, ebrei, musulmani p. 67
Ebrei, eretici, streghe p. 69
Al seguito della dea p. 73
Anomalie p. 77
Combattere in estasi p. 81
Mascherarsi da animali p. 83
Congetture eurasiatiche p. 85
Ossa e pelli p. 87
Conclusione p. 93

CAP. V- LA RICEZIONE DI “STORIA NOTTURNA”


Sintesi p. 96
“The return of the Sabbat” di W. De Blecourt (2007) p. 98
§ La replica di Ginzburg p. 103
“Witchcraft” di P. Anderson (1990) p. 104
§ La replica di Ginzburg p. 108
§ La contro-replica di Anderson p. 111
“Journeys to the world of the dead” di J. Martin (1992) p. 112
Il contributo di G. Henningsen (2008) p. 116
§ La replica di Ginzburg p. 119
“Invariant cultural forms in Carlo Ginzburg’s Ecstasies” di D. Ermacora
(2017) p. 119

CAP. VI- THIESS


Thiess secondo Höfler p. 124
Thiess secondo Ginzburg p. 125

4
Thiess secondo Lincoln p. 127
La replica di Ginzburg p. 131
La contro-replica di Lincoln p. 132

CONSIDERAZIONI FINALI
Il metodo di Ginzburg e la sua attualità p. 136

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA p. 145

RINGRAZIAMENTI p. 151

5
INTRODUZIONE

Il Friuli e Ginzburg: alle origini de “I benandanti”

Il Friuli, in Italia, ha una posizione marginale da molti punti di vista (geograficamente,


storicamente, culturalmente) ed un carattere schivo, con tendenza all’understatement, un
termine inglese difficilmente traducibile che si riferisce ad un atteggiamento volutamente
alieno da enfasi e retorica. Nell’immaginario dell’italiano medio questa regione diventa una
sorta di succursale del Veneto, tanto che nelle rare fiction ambientate in Friuli i personaggi
autoctoni vengono sovente fatti esprimere con un’improbabile parlata “mediana” di nord-est,
che poco c’entra con l’idioma locale. Gli stessi friulani, che pure hanno a cuore il
riconoscimento esterno della propria identità, ci mettono del loro: infatti il maggiore giornale
quotidiano regionale si chiama Messaggero Veneto. Io vivo in Gran Bretagna da ormai
quattordici anni: se mi chiedono da quale parte d’Italia vengo e rispondo “Friuli”,
l’interlocutore strabuzza gli occhi smarriti e si orienta vagamente solo quando completo la
risposta con un generico “near Venice”: “Oh, Venice is beautiful!”.
Ma il Friuli si prende la sua piccola rivincita se spostiamo il punto di osservazione un po’ più
lontano dalla nostra immaginaria carta geografica. Nel corso di questo processo di
distanziamento (termine che ci è ormai familiare per altre ragioni), la sua posizione, periferica
se rapportata alla nostra nazione, assume un’improvvisa e inaspettata centralità, in quanto area
d’incrocio tra le tre macro-culture dell’Europa continentale: la latina, la germanica e la slava.
Si tratta di una caratteristica pressoché unica, magnificamente simboleggiata dal
quadrilinguismo (italiano, tedesco, sloveno, friulano) di alcune sparute comunità della val
Canale, nei pressi di Tarvisio e da un luogo fisico, un cocuzzolo erboso che segna il confine
tra Italia, Austria, Slovenia, di conseguenza conosciuto con tre nomi differenti: rispettivamente
Forno, Dreiländereck, Peč.

Per un caso del tutto fortuito il Friuli riveste un’importanza centrale anche nella parabola
intellettuale di Carlo Ginzburg: egli ne fa il fulcro di una trama sconfinata, nello spazio e nel
tempo, e tuttavia molto discussa proprio per la sua estensione, che da un punto di vista
storiografico può essere considerata temeraria.
La straordinaria documentazione friulana rinvenuta da Ginzburg e oggetto de I benandanti
(1966), è dallo stesso interpretata come traccia di un arcaico culto agrario, assimilato alla
stregoneria tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Tali credenze sarebbero riconducibili
a un ancora più remoto strato sciamanico eurasiatico, di cui lo studioso cerca di ricostruire il
6
millenario ordito in Storia notturna (1989). Questa affascinante ricostruzione e le svariate
critiche che ha ricevuto, a causa delle sue poco ortodosse coordinate metodologiche,
costituiscono il grosso dell’argomento di questa tesi.
L’apparentemente irrilevante cappello sul rapporto tra marginalità e centralità, sul
cambiamento di prospettiva che illumina di luce nuova dettagli a prima vista insignificanti, è
funzionale a introdurre la chiave di comprensione del controverso metodo di ricerca di
Ginzburg, di cui nel corso di questa tesi (e, in particolare, nelle “considerazioni finali”), si
cercherà di fissare gli aspetti essenziali.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ripercorrere le tappe che hanno segnato la formazione
del grande storico torinese.

Lui stesso ci informa che risale al 1958, periodo in cui era studente alla Scuola Normale di
Pisa, la triplice decisione di diventare uno storico, di occuparsi principalmente dei processi di
stregoneria, di concentrare la propria attenzione non sulla persecuzione in quanto tale ma sulle
vittime, ossia sugli uomini e sulle donne accusati di stregoneria. Ginzburg sottolinea l’influsso
operato su questa scelta da sue letture giovanili: Il mondo magico di Ernesto De Martino, Cristo
si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, I quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Molti anni
dopo, tuttavia, riflettendo retrospettivamente sul proprio itinerario formativo, prende
consapevolezza dell’influenza di un altro elemento, rimosso per tanto tempo e poi riconosciuto
come fondamentale nel proprio percorso di studioso e di uomo: la condizione di perseguitato
sua (ovvero dell’allora bambino) e della sua famiglia, in quanto ebrei, che avrebbe portato
all’incarcerazione, alla tortura e alla morte del padre Leone, nel 1944.
Gli inizi dell’attività di studioso di Ginzburg, come egli stesso ammette, sono condizionati da
una prospettiva fortemente politicizzata, in senso gramsciano: «mi proposi di studiare i processi
di stregoneria del Cinquecento come documenti di lotta di classe a un livello elementare»1.
Questa primissima fase culmina con la pubblicazione del saggio Stregoneria e pietà popolare2
che tratta di un processo indetto nel 1519 contro Chiara Signorini, una contadina modenese
accusata di avere gettato un maleficio contro la padrona che l’aveva cacciata dal podere dove
lavorava. La conferma piuttosto lineare dell’ipotesi iniziale delude in parte Ginzburg che,
tuttavia, rimane colpito da un aspetto del processo: la distanza tra le aspettative dell’inquisitore

1
Scuola Normale Superiore, I benandanti 50 anni dopo, 10 maggio 2017 [video file]
< https://www.youtube.com/watch?v=_lgrZ-218AE> (ultima consultazione 13 luglio 2020).
2
Stregoneria e pietà popolare. Note a proposito di un processo modenese del 1519, in «Annali della Scuola
Normale Superiore di Pisa. Lettere, storia, filosofia», II, XXX (1961), pp. 269-287.

7
e le risposte della contadina, uno scarto colmato solo attraverso il ricorso alla tortura. In un
primo tempo Chiara aveva, infatti, raccontato di aver gettato il maleficio contro la padrona
perché glielo aveva ordinato la Beata Vergine, ma, dopo essere stata sottoposta a tortura,
confessò che chi le era apparso era stato il diavolo. Questa ancora vaga nozione di scarto si
rivelerà particolarmente feconda per il delinearsi del metodo storiografico di Ginzburg ma, per
il momento, il giovane storico decide di lasciar da parte aspettative e orientamenti prestabiliti.
Si affida dunque al caso quando, nel 1963, opta per girare l’Italia alla ricerca di processi
inquisitoriali.
È nell’Archivio di Stato di Venezia che si verifica la svolta decisiva per la carriera del poco più
che ventenne studioso. Con vivo senso dell’aneddoto, nelle numerose conferenze alle quali
viene invitato3, egli stesso, sovente, racconta come nelle austere sale dell’archivio veneziano
fosse solito richiedere le grandi buste (contrassegnate da un numero d’inventario) che
contenevano gli atti dei processi, associandole a delle cifre casuali. È attraverso questo sistema,
da lui scherzosamente definito «roulette veneziana»4, che si imbatte negli atti del processo
(1591) a un certo Menichino da Latisana, bovaro friulano che qualcuno aveva denunciato in
quanto «benandante». Si tratta di un termine sconosciuto allo studioso ma la cosa più
straordinaria è che questa sua “ignoranza” lo accomuna all’inquisitore che infatti aveva chiesto
a Menichino il significato della parola «benandante». Questi, dopo avere un po’ tergiversato,
aveva raccontato che tre volte l’anno andava in spirito «nel campo di Josafat […] et havevo
paura, et mi parve andare in uno prato largo, grande, bello, […] combattevamo con le gambe
di finochio […] per la fede contro le streghe, […] quando i beneandanti vincevano era segno
di buon raccolto»5. Il giovane Ginzburg si rende conto di trovarsi di fronte a un documento
eccezionale, tanto che, racconta, per l’emozione deve uscire dall’archivio a fumare,
passeggiando avanti e indietro per l’eccitazione, accanto alla vicina Chiesa dei Frari. Anni
dopo, riflettendo a mente fredda su quella scoperta, ne avrebbe sottolineato due aspetti
significativi: da un lato, la contiguità intellettuale tra il proprio atteggiamento di sorpresa e
quello dell’inquisitore, impossibilitato a ricondurre un frammento di cultura contadina a lui
ignota entro le proprie aspettative, i propri stereotipi6; dall’altro la valenza del caso nel lavoro

3
Vd. ad es. Scuola Normale Superiore, I benandanti 50 anni dopo, 10 maggio 2017 [video file]
<https://www.youtube.com/watch?v=_lgrZ-218AE> (ultima consultazione 13 luglio 2020)
4
C. Ginzburg, Streghe e sciamani, in Il filo e le tracce: vero falso finto, Milano 2006, p. 287
5
C. Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, edizione riveduta e ampliata
con l’aggiunta di un post-scriptum, Torino 1972, cap. III § 3
6
Le riflessioni sarebbero poi state raccolte nel saggio L’inquisitore come antropologo, in Studi in onore di
Armando Saitta dei suoi allievi pisani, a cura di R. Pozzi e A. Prosperi, Pisa 1989 pp. 23-33.

8
dello storico, che tuttavia non esclude, anzi valorizza il ruolo attivo di quest’ultimo nel
riconoscimento dell’importanza di documenti apparentemente marginali o poco significativi.
Il ritrovamento degli atti del processo a Menichino spinge Ginzburg a cercarne di analoghi
presso l’archivio della curia arcivescovile di Udine, fino ad allora inaccessibile: in tre anni di
ricerca riesce a setacciare, tra gli oltre mille atti registrati dal Tribunale del S.Uffizio del Friuli,
una cinquantina di processi a benandanti, ricostruendo un presunto antico culto agrario di cui
si era persa la memoria: l’Inquisizione l’aveva infatti pian piano fagocitato, assimilandolo nel
corso di cinquant’anni allo stereotipo del sabba stregonesco (questa, per lo meno, la teoria di
Ginzburg che, come vedremo, diversi storici non condividono).
La straordinarietà della documentazione introduce, dunque, nel campo degli studi sulla
stregoneria, un tema di ricerca mai affrontato in precedenza e, per giunta, secondo Ginzburg,
con modalità relativamente libere dal filtro e dal pregiudizio degli inquisitori: lo certificherebbe
il gap tra le loro domande e le risposte degli accusati, tra le aspettative degli uni e le
dichiarazioni, spesso anche l’ostinazione degli altri. Eppure, lo storico è convinto di trovarsi di
fronte alla fortuita emersione della punta di un enorme iceberg sommerso e non un fenomeno
locale e circoscritto: fuor di metafora, un remoto ed esteso strato di cultura popolare sepolto
sotto secoli di cristianizzazione. Lo mettono su questa strada soprattutto due elementi: da un
lato le suggestioni de Il mondo magico di De Martino e, in particolare, una lunga citazione, ivi
contenuta, dell’antropologo russo Shirokogroff, autore di una delle maggiori opere sugli
sciamani siberiani7; dall’altro gli atti di un processo, svoltosi a Jurgesburg, sul mar Baltico, nel
1692 ai danni dell’ottuagenario lupo mannaro Thiess (di cui Ginzburg viene a conoscenza poco
prima della stesura definitiva de I benandanti), che presenterebbe sconcertanti analogie con le
testimonianze friulane. In base a tali presupposti Ginzburg ritiene che l’esistenza di una
connessione tra benandanti e sciamani sia «indubitabile»8, riservandosi tuttavia di approfondire
la questione in altra sede.
Già nella prefazione de I benandanti si possono perciò riconoscere i semi di Storia notturna,
opera monumentale che vedrà la luce solo ventitré anni dopo, al termine di un processo non
semplice di definizione delle proprie coordinate metodologiche da parte dello storico torinese.
Egli è consapevole che il tentativo di inserire i benandanti friulani in un contesto spaziale e
temporale vastissimo si innesti in una prospettiva storiografica non convenzionale, che suscita
molte più domande di quante siano quelle a cui risponde. In virtù di tale consapevolezza

7
S.M. Shirokogoroff, Psychomental complex of the Tungus, London 1935
8
I benandanti, cit., prefazione, § 4.

9
Ginzburg non si sottrae mai al confronto: è soprattutto attorno a questa dialettica tra la sua
posizione e quella dei suoi critici e recensori che si articola la mia tesi, di cui nel prossimo
paragrafo illustrerò la struttura.

Struttura della tesi

L’elaborato è suddiviso in due parti principali, grosso modo della stessa estensione, dedicate
rispettivamente a I benandanti e a Storia notturna: la prima rende conto di come Ginzburg
ricostruisca la vicenda dei benandanti gettando nuova luce sul problema generale della
stregoneria e portando a galla uno strato di cultura popolare ancora vivo al di sotto
dell’interpretazione dotta degli inquisitori.
La seconda estende la lente di osservazione, cercando di ricomporre i diversi elementi che
portano alla cristallizzazione dello stereotipo del sabba, in cui Ginzburg riconosce una
«formazione culturale di compromesso»9: l’intreccio tra un tratto erudito, le cui origini sono
rintracciabili nell’ossessione di un complotto contro la società, attribuito a gruppi via via
diversi (lebbrosi, ebrei, musulmani, eretici e streghe) ed uno di genesi chiaramente popolare,
che affonda le proprie radici in un remoto strato di matrice sciamanica. La ricognizione sulle
origini di tale strato porta lo storico a un allargamento a dismisura dello scenario di ricerca, sia
in senso spaziale (abbracciando questo un immenso spazio eurasiatico) che cronologico
(Ginzburg si spinge all’indietro nel tempo per millenni).
I titoli dei paragrafi relativi ai capitoli I e IV, quelli dedicati alla lettura critica delle due opere
esaminate, riproducono, per comodità di riferimento, gli stessi usati a suo tempo da Ginzburg.
Ciascuna delle due parti presenta una corposa sezione dedicata alle critiche che le
rivoluzionarie tesi di Ginzburg hanno suscitato. Più in dettaglio, a una breve ed inevitabilmente
incompleta sintesi della ricezione farà seguito una selezione di cinque recensioni (per ciascuna
delle due opere) da me giudicate particolarmente significative in quanto rappresentative di
posizioni discordanti, espresse soprattutto da storici di formazione anglosassone, rispetto alle
interpretazioni proposte dallo studioso torinese. Alcune di queste recensioni hanno suscitato un
vivace dibattito tra Ginzburg e i suoi critici e anche di questa interessante dialettica ho cercato
di render conto. I titoli delle recensioni riproducono i titoli originali dei contributi.

9
C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Milano 2017, p. XXV

10
A fare da cerniera tra le due parti principali in cui è articolata questa tesi sarà una breve sezione
in cui illustrerò il graduale e non scontato processo di acquisizione degli strumenti
metodologici a monte della genesi di Storia notturna.
Un capitolo a sé sarà dedicato a una documentazione, quella relativa al lupo mannaro della
Livonia, Thiess, alla quale Ginzburg dà particolare importanza, citandola, oltre che nelle opere
già menzionate, in numerosi altri suoi saggi ed interventi in conferenze. Anche qui la sua
interpretazione della vicenda ha fornito lo spunto per un acceso dibattito (in questo caso con lo
storico delle religioni statunitense Bruce Lincoln), le cui varie tappe sono confluite in un libro
di recente pubblicazione10.
Nelle “considerazioni finali” cercherò di illustrare quali siano, secondo Ginzburg, gli strumenti
indispensabili al mestiere di storico, con il contributo di alcune riflessioni personali circa
l’attualità del pensiero e del metodo del grande intellettuale.

10
C. Ginzburg; B. Lincoln, Old Thiess, a Livonian Werewolf, Chicago 2020

11
PARTE PRIMA

CAP. I- I BENANDANTI

Prefazione

Ginzburg introduce la sua opera ricordando come il quadro tradizionale della stregoneria
diabolica si sia delineato a partire dalle preziose ricerche di J. Hansen11. Lo studioso tedesco
opera una sintesi fondamentale dei precedenti orientamenti in materia, nella quale attribuisce
il diffondersi del fenomeno alla sovrapposizione di due schemi: uno colto (e dominante)
elaborato nell’arco di circa due secoli da teologi ed inquisitori attraverso trattati e prediche;
l’altro, popolare, consistente in uno strato preesistente di generiche superstizioni. Tale
sovrapposizione avrebbe portato alla fine del Quattrocento a una vera e propria codificazione
del sabba diabolico con la pubblicazione del Malleus malleficarum.

La documentazione rinvenuta da Ginzburg negli archivi della Curia Arcivescovile di Udine ci


consente di dare concretezza a un culto dalle caratteristiche nettamente popolari, quello dei
benandanti. Lo studioso sottolinea come il filtro tipico dei processi per stregoneria, in cui le
pressioni esercitate dai giudici e le minacce (o addirittura la pratica) della tortura tolgono
spontaneità alle deposizioni degli imputati, appaia di molto ridotto nel caso dei benandanti
(almeno nella prima fase del loro culto): anche in questa immediatezza, oltre che nel loro
carattere di novità assoluta, consisterebbe dunque la straordinarietà degli atti di quei processi.
Ginzburg evidenzia come vi sia uno scarto significativo tra le deposizioni degli inquisiti e le
aspettative degli inquisitori, spesso smarriti e perplessi di fronte ai racconti che ascoltano: tale
sorpresa è peraltro condivisa dallo stesso storico, il primo a mettere mano a quelle carte dopo
secoli di oblìo.
Tuttavia, nell’arco di circa settant’anni anche i benandanti cederanno progressivamente alle
pressioni a cui verranno sottoposti dagli inquisitori e le loro pratiche finiranno per assumere i
lineamenti della stregoneria tradizionale.

11
I benandanti, cit., prefazione, § 2

12
In passato l’interesse degli storici si focalizzò sugli inquisitori, allo scopo di mettere in luce il
meccanismo e la barbarie della persecuzione, tralasciando di prendere in considerazione come
fonte attendibile le credenze delle presunte streghe. Fu Margaret Murray, all’inizio del XX
secolo, a rovesciare questa impostazione, ritenendo reali i convegni descritti dalle imputate e
attribuendoli al perpetuarsi nel tempo di un antico rito di fertilità. In questa ipotesi della
Murray, Ginzburg ravvisa un elemento di verosimiglianza a patto di depurarla dalle
affermazioni più arrischiate e da alcune forzature metodologiche.
Un’obiezione che venne mossa alla storica britannica fu di non discriminare, nel prendere in
considerazione le confessioni delle streghe, l’elemento colto, di suggestione inquisitoriale, da
quello di provenienza popolare. Tuttavia, alcuni studiosi (come, ad esempio J. Marx e più di
recente L. Weiser-Aal12) misero in evidenza come esistessero dei punti di contatto tra i due
livelli: uno di essi consiste nella condivisa credenza, testimoniata a partire dal X secolo, in voli
notturni da parte delle presunte streghe. Le fonti popolari affermano che tali voli avrebbero
come destinazione convegni presieduti da una misteriosa divinità femminile, chiamata ora
Diana, ora Holda o Perchta, ora Erodiade, la cui presenza ricondurrebbe verosimilmente a culti
di fertilità estranei alla vulgata del sabba diabolico.
Un’ulteriore osservazione che venne fatta alla ricostruzione della Murray e di altri studiosi (ad
esempio A. Mayer13) si riferisce alla contraddizione tra la partecipazione delle streghe a tali riti
di fertilità e la loro reputazione, impostasi sin quasi da subito nell’ambito dei processi, di
nemiche e distruttrici dei raccolti.
Ginzburg afferma che la sua ricerca potrebbe fornire una chiave di lettura per ovviare a questo
scarto: in Friuli la stregoneria diabolica si diffonde come deformazione, operata dalla crescente
pressione degli inquisitori, di un precedente culto agrario nel contesto del quale i benandanti si
presentano come difensori della comunità, dei raccolti, della fertilità.
Dal momento che indizi di culti simili si ritrovano in altre zone d’Europa (anche molto lontane
dal Friuli, come l’area baltica), lo storico ipotizza una comune evoluzione derivante
dall’interazione tra lo schema popolare (rappresentato in concreto dagli antichi riti agrari) e
quello inquisitoriale.
In questa prima fase Ginzburg si dimostra tuttavia scettico verso l’attendibilità di una
comparazione che non sia strettamente storiografica, secondo la classificazione proposta da
Marc Bloch 14 : lo storico francese distingueva una comparazione di tipo etnologico-

12
Ivi, prefazione, § 3
13
Ibid.
14
Ivi, prefazione, § 4

13
antropologico tra società che presentavano tratti in comune ma che non avevano avuto alcuna
relazione tra loro ed una, appunto, di tipo storiografico, tra popoli magari distanti
geograficamente ma che avevano conosciuto una qualche forma di relazione reciproca.

Le battaglie notturne

Le prime testimonianze dell’attività dei Benandanti risalgono al 1575, anno in cui un certo
Paolo Gasparutto da Iassico riferisce al parroco di un paese vicino, don Bartolomeo Sgabarizza,
di partecipare a periodici raduni notturni che si tengono «il giovedì de tutte le quattro
tempore»15: in essi lui e altri suoi compagni, detti benandanti, combattono, armati di canne di
finocchio, contro degli strigoni armati a loro volta di canne di sorgo.
Il parroco viene ascoltato dall’inquisitore della diocesi di Concordia ed Aquileia, fra’ Giulio
d’Assisi, presso il convento di San Francesco a Cividale dove le sue affermazioni vengono
corroborate da quelle di un altro testimone, Pietro Rotaro: costui, pensando che la grave
malattia di un suo figlioletto fosse opera delle streghe, si era rivolto al Gasparutto conoscendo
la sua fama di benandante e dunque sperava che egli potesse togliere la fattura al bimbo ormai
morente. Al Rotaro, Paolo aveva sostanzialmente confermato le parole dette al parroco,
aggiungendo, tra altri dettagli, che questi convegni avvenivano «in spirito» e che i partecipanti
vi si recavano «a cavallo di vari animali, come lepri, gatti e così via»16.
Un terzo testimone, il nobile Troiano da Attimis, parla di un altro individuo, Battista Moduco,
il quale gli aveva raccontato di essere anche lui un benandante, di partecipare a convegni
notturni, caratterizzati da attività quali «far nozze, ballate, magnar e bevere»17 . I raduni si
tenevano di giovedì e lui ci andava assieme ad altri suoi compagni e a strigoni. Questi ultimi,
chiamati anche «mali andanti»18, al ritorno si fermavano nelle case e guastavano il vino, dopo
averne bevuto, orinando nelle botti e solo l’intervento benefico dei benandanti poteva porvi
rimedio.
Le testimonianze, tutte indirette come s’è visto, e invero piuttosto confuse, vengono liquidate
come fantasie di poco conto e si deve attendere cinque anni per assistere a un’inchiesta vera e
propria.

15
Ivi, cap. I, § 1
16
Ibid.
17
Ibid.
18
Ibid.

14
Ginzburg nota come questi racconti siano sconcertanti poiché, al di là del nucleo dei raduni
notturni che evocano l’immagine del sabba, nondimeno presentano differenze evidenti con la
vulgata del sabba diabolico, non essendoci nelle testimonianze alcun riferimento ad attività
contrarie all’ortodossia cristiana. Inoltre, dagli atti sembra trasparire un’ambiguità di fondo
nella percezione popolare della funzione morale di questi personaggi che si dicono antagonisti
degli strigoni ma non possono farne il nome né dire in dettaglio ciò che succede in questi
convegni notturni in spirito, sotto pena di essere bastonati. Tale ambiguità affiora nel lessico
usato dal Rotaro e dallo Sgabarizza, che parlano di «stregoni benandanti»19, denominazione
che li fa apparire in una luce contraddittoria.
Nel 1580 il nuovo inquisitore, fra’ Felice da Montefalco, riprende la causa contro Gasparutto
e Moduco. Se il primo nega ostinatamente quanto affermato cinque anni prima, il secondo,
interrogato nello stesso giorno (il 27 giugno), rilascia una serie di dichiarazioni che chiariscono
in modo completo funzioni, tempi, modalità della sua attività di benandante. Egli sottolinea il
carattere periodico delle battaglie estatiche notturne («vo co li altri a combattere quattro volte
l’anno, cioè le quattro tempora»20) e la contrapposizione morale tra benandanti e strigoni: i
primi, armati di mazze di finocchio, combattono «in favor di Christo» 21 e della fertilità, i
secondi con canne di sorgo, in favore del diavolo e per contrastare il buon andamento del
raccolto. Infatti, dall’esito della battaglia dipende quello dell’annata (abbondanza o carestia)
per quanto riguarda un determinato frutto o coltivazione. A questo rito di fertilità prendono
parte, in spirito, tutti quelli che «sonno nati vestiti»22, ovvero, fuor di metafora, i nati avvolti
nel sacco amniotico. Questi iniziati, a un certo punto della loro vita, intorno ai vent’anni, si
sentono chiamati a questo ruolo («a guisa del tamburo che chiama li soldati»23) e aggiungono
che si tratta di un impulso irresistibile su cui la volontà non ha alcun potere. Su imbeccata
dell’inquisitore, che vorrebbe ricondurre l’interrogatorio entro coordinate a lui familiari e
dunque si aspetta riferimenti a elementi ultraterreni (Dio, angeli, demonio), Moduco precisa:
colui che sollecita i benandanti alle battaglie notturne è «homo come noi»24 (seppure in spirito);
essi devono restare nella compagnia, che pare assumere le caratteristiche di una vera e propria
brigata militare con tanto di insegne, fino al compimento dei quarant’anni, dopo di che se ne
possono disimpegnare. L’inquisito, uomo di mezza età, infatti ne è fuori da otto ma ciò

19
Ivi, cap. I, § 2
20
Ivi, cap. I, § 4
21
Ibid.
22
Ibid.
23
Ibid.
24
Ibid.

15
nonostante non può fare i nomi dei suoi compagni né quelli degli strigoni: la conseguenza di
una tale delazione sarebbe l’essere bastonato o addirittura punito con la morte.
La notte porta consiglio, così il giorno dopo, il 28 giugno, Gasparutto ammette di far parte
anche lui dei benandanti, ribadendo la finalità del rito, ovvero garantire la prosperità dei raccolti
(«voglio venire per amore delle biave»25). Egli conferma sostanzialmente le dichiarazioni di
Moduco, se non per un piccolo ma significativo particolare che si riferisce all’arma usata nelle
battaglie notturne: «combattiamo con paugnia, cioè con quella bachetta che portiamo dreto le
croci nelle processioni delle Rogationi» 26 . Il quasi assoluto parallelismo tra i racconti del
Gasparutto e quelli del Moduco si interrompe nella successiva sessione inquisitoria che si tiene
a Udine nel settembre 1580: in questa occasione il primo introduce un elemento nuovo,
raccontando di essere stato chiamato a «combattere per le biade» da un «angelo del cielo»27.
Invenzione estemporanea o elemento volutamente taciuto nei precedenti interrogatori? Quale
che sia la spiegazione (Ginzburg propende comunque per la seconda ipotesi), l’accenno
all’angelo basta per rendere più aggressiva la strategia inquisitoria di fra’ Felice, che martella
il Gasparutto con domande serrate allo scopo di farne aderire la confessione allo schema
codificato del sabba diabolico. Di fronte all’incalzare del frate, Gasparutto finisce per
ammettere che probabilmente l’angelo non era altro che il demonio sotto false spoglie.
Anche con Moduco l’inquisitore orienta l’interrogatorio in modo da forzarlo a riconoscere nei
convegni dei benandanti il sabba delle streghe. Sebbene l’inquisito, attaccato frontalmente, sia
costretto ad ammettere a denti stretti che il rito da lui descritto possa essere un’opera diabolica,
insiste d’altra parte sulla sua completa buona fede, nel senso religioso del termine. Secondo lui
si tratta di atti dal carattere ortodosso, anzi persino pio tanto che parla di promesse fattegli dal
capitano della sua compagnia circa un destino ultraterreno celeste qualora avesse adempiuto al
suo dovere.
La sentenza nei confronti di Gasparutto e Moduco arriva a fine 1581: in un primo tempo i due
sono condannati a sei mesi di carcere, successivamente condonati a patto che non si allontanino
dalla città per 15 giorni e abiurino coram populo i loro errori.
In questa prima fase delle testimonianze i benandanti sembrano una vera e propria setta
paramilitare organizzata attorno alla figura di un capitano, i cui membri sono tenuti a rispettare
un vincolo di segretezza (che peraltro viene infranto piuttosto disinvoltamente). Li accomuna

25
Ivi, cap. I, § 5
26
Ibid.
27
Ivi, cap. I, § 6

16
un elemento: l’essere «nati con la camicia»28 , ovvero avvolti nel sacco amniotico, ritenuto
oggetto dalle virtù magiche. In particolare, segna la sorte degli individui nati entro di esso,
destinandoli a diventare benandanti.
L’iniziazione avviene a cavallo dei vent’anni (ma Gasparutto parla di ventotto) e non giunge
imprevista in quanto la madre dell’aspirante benandante, come avviene nel caso dello stesso
Gasparutto, lo informa preventivamente del suo futuro ruolo.
Malgrado i due inquisiti affermino di recarsi «in spirito» ai convegni notturni, non ne mettono
mai in dubbio la realtà, atteggiamento che li accomuna a streghe processate in altre parti
d’Italia. Questo «andare in spirito» è preceduto, in accordo con varie testimonianze, dalla
caduta in uno stato di catalessi che si è cercato di interpretare in due modi: effetto di malattie
nervose (come l’epilessia) oppure di allucinazioni legate all’uso di unguenti. Sebbene la
spiegazione scientifica del fenomeno esuli dagli interessi di Ginzburg, egli non si mostra
convinto da nessuna di queste due ipotesi per il semplice fatto che gli atti dei processi non ne
fanno menzione se non in rarissimi casi. Ciò che colpisce lo storico è la sfera collettiva di
queste manifestazioni, il loro carattere di religiosità popolare.
La condizione di perdita dei sensi (che accomuna streghe e benandanti) viene interpretata come
una separazione dello spirito dal corpo, un evento denso di pericoli, potenzialmente mortale:
durante questa dipartita temporanea dell’anima, infatti, il corpo inerme non va smosso o
voltato, pena il mancato rientro in esso del soffio vitale.
L’animale (spesso identificato in un «sorzetto»29) è la forma, concreta e tangibile, in cui viene
vissuta la fuoriuscita dal corpo, credenza popolare diffusa anche al di là della cerchia di streghe
e benandanti. L’esperienza di un tale evento è angosciante: chi lo subisce cerca di
razionalizzarlo secondo coordinate di pensiero tipicamente contadine, parlando di topi o altri
animali come vettori dello spirito fuori dal corpo.
Il vero nocciolo tematico dei convegni notturni consiste nel compimento di un culto agrario
vissuto emotivamente in maniera molto intensa. Nel complesso di testimonianze trasmesseci
dagli atti dei processi non emerge tuttavia alcuna analogia con il sabba: tutto ruota attorno ai
campi, alla prosperità o miseria che ne può derivare, che possono fare la differenza tra la vita
e la morte. La scansione temporale del culto segue l’avvicendarsi delle stagioni, i ritmi della
semina e della crescita. Le battaglie notturne hanno una funzione propiziatoria in momenti
dell’anno delicati, di transizione tra una stagione e l’altra e si sovrappongono a cerimonie dal

28
Ivi, cap. I, § 9
29
Ivi, cap. I, § 11

17
significato analogo promosse dalla Chiesa cattolica: si tratta delle Rogazioni, processioni fatte
intorno ai campi, di solito nei tre giorni precedenti l’Ascensione. Questa commistione cristiano-
pagano è peraltro evidente nella testimonianza di Gasparutto circa l’uso del viburno o
«paugnia» come una delle armi nei combattimenti contro gli strigoni (l’altra è costruita da rami
di finocchio, a cui era attribuito il potere di tenere lontane le streghe) e nelle ripetute
affermazioni di combattere per la «fede in Christo» oltre che «per le biave».
Ginzburg interpreta questi combattimenti in spirito da un lato come l’evoluzione in direzione
di una dimensione onirica-allucinatoria (ma pur sempre collettiva) di un più antico rito di
fertilità «in cui due schiere di giovani, impersonanti rispettivamente i demoni propizi della
fertilità e quelli malefici della distruzione, si battevano simbolicamente sulle reni con rami di
finocchio e di sorgo per stimolare il proprio potere generativo e, per analogia, la fertilità dei
campi della comunità»30.
Dall’altro egli ipotizza che essi possano simboleggiare una contesa rituale tra inverno ed estate
(o inverno e primavera) nonostante presentino una drammaticità sconosciuta al placido
avvicendarsi delle stagioni.
Lo storico si chiede il motivo di questa cristianizzazione del fenomeno e formula tre ipotesi:

1. una maschera per occultare agli occhi della Chiesa pratiche poco ortodosse
2. l’unificazione di due buone cause (fertilità dei campi e fede in Cristo) in nome di un
atteggiamento sincretico tipico della religiosità popolare
3. l’identificazione con la causa della fede va di pari passo con la progressiva
assimilazione di elementi diabolici da parte dei nemici stregoni.

Qualunque sia la spiegazione, la dimensione agraria del culto non viene compresa dagli
inquisitori, quella cristiana rifiutata, per cui inevitabilmente la pratica finisce per essere
assimilata alla stregoneria.
Riguardo gli avversari dei benandanti nelle loro battaglie notturne, ovvero streghe e stregoni,
per molto tempo negli atti dei processi la loro attività risulta scevra di elementi teologicamente
rilevanti: ciò che li caratterizza è l’azione distruttrice nei confronti dei raccolti, dunque
apportatrice di carestia, e quella malefica nei confronti dei bambini. Solo dopo molti anni si
registrano nei processi descrizioni che virano verso il sabba diabolico tradizionale (la prima di
siffatte testimonianze è del 1634).

30
Ivi, cap. I, § 13

18
Il rito agrario che sottintende all’attività notturna dei benandanti presenta alcune straordinarie
analogie con gli atti di un processo che si tiene in Livonia, sul Baltico, nel 1692. Vi è imputato
un ottuagenario di nome Thiess che dichiara di essere un licantropo e di essersi recato con altri
suoi simili all’inferno per recuperare il bottino derivante da un furto operato dalle forze del
male (gli stregoni) e consistente in bestiame, grano, sementi e altri frutti della terra.
L’attività di Thiess, come quella dei benandanti, ha luogo in periodi ben specifici dell’anno.
Dalla lotta tra le due fazioni dipende o meno la bontà del raccolto ed anche le modalità della
contesa echeggiano il contesto nostrano (la lotta a colpi di bastone con il dettaglio significativo
dell’arma degli stregoni, un manico di scopa che richiama i rami di sorgo, o saggina, di cui
sono forniti i loro omologhi friulani). Come Moduco, Thiess nega ostinatamente di essere al
servizio del male; anzi, nonostante le pressioni dell’inquisitore, afferma di operare in difesa di
Dio e della prosperità dei raccolti. Infine, in entrambi i casi Dio promette il paradiso alle anime
di coloro che prendono parte a questi combattimenti per garantire la prosperità.
Le analogie tra due fenomeni così distanti geograficamente sono, secondo Ginzburg, troppo
sospette per essere il frutto di coincidenze. Egli ritiene che ci si trovi di fronte a «un unico culto
agrario […] diffuso anticamente in un’area ben più vasta, forse nell’intera Europa centrale»31.
La vicenda di Thiess ricalca quella dei benandanti anche nella reazione dell’autorità giudicante
che in entrambi i casi, dopo l’iniziale incredulità, cerca di fare pressioni sugli imputati allo
scopo di assimilare le loro pratiche allo schema tradizionale della stregoneria. Anche i lupi
mannari sono oggetto di un progressivo deterioramento della loro immagine e della loro
funzione sotto la suggestione esercitata dai giudici: da protettori a devastatori dei raccolti e
degli armenti.

Le processioni dei morti

Tra la fine del 1581 e l’inizio del 1582 viene inquisita presso il S. Uffizio Anna la Rossa,
un’udinese che afferma di vedere i morti e parlare con loro. La donna, che dice di fare da
medium tra i defunti e i loro congiunti viventi, ricava da questa attività piccole ricompense per
alleviare la miseria sua e quella della sua famiglia. Chi si rivolge ad Anna, come Lucia Peltrara
che ha perso la figlia, riceve tramite lei indicazioni sul destino ultraterreno dei propri morti e
sulle loro estreme volontà (ad esempio compiere pellegrinaggi in santuari per abbreviare le
pene del trapassato).

31
Ivi, cap. I, § 16

19
Il quadro, fin qui apparentemente lineare, si complica alla luce di ulteriori testimonianze che
avvicinano la figura di Anna la Rossa ai benandanti:
1. Anna, periodicamente, cade in uno stato di catalessi affermando di uscire in spirito dal
corpo.
2. Ad Anna è proibito raccontare ciò che ha visto o sentito durante le sue esperienze
ultraterrene, pena l’essere battuta dai defunti stessi con canne di sorgo (qui
corrispondono con le testimonianze dei benandanti sia il dettaglio della proibizione che
quello dell’arma).
3. I morti, così come i «mali andanti» entrano nelle case in determinati giorni per ristorarsi
e riposarsi.

Per ragioni non del tutto chiare, ad un certo punto il processo si arresta, nonostante il rinvio a
giudizio di Anna la Rossa da parte dell’inquisitore (probabilmente lo stesso fra’ Felice da
Montefalco che aveva interrogato Moduco e Gasparutto). Anche fra’ Evangelista Sforza,
successore di fra’ Felice, malgrado l’iniziale proposito di riprendere il procedimento, pare
lasciare cadere la faccenda, le cui ultime tracce si perdono nel 1585.
Un’altra donna di Udine, Aquilina, è inquisita nel 1582: di lei si dice che vede i morti, oltre a
curare malattie con rimedi e scongiuri che sconfinano nella superstizione. Nel corso degli
interrogatori, pur negando di essere lei stessa in grado di farlo, collega la prerogativa di entrare
in contatto coi defunti all’«esser nata vestita» 32 , cioè all’essere benandante. Tutto ciò in
riferimento a una donna di Pasiano (con cui era entrata in contatto durante la sua attività di
guaritrice) la quale tuttavia considera questa sua facoltà come una sorta di maledizione,
dolendosene con Aquilina.
Un ulteriore tassello si aggiunge nello stesso anno: Caterina la Guercia da Cividale, rimasta
vedova e inquisita per maleficas artes, afferma che il suo defunto marito, Andrea da Orsaria,
andava in «procession con li morti»33. La donna ritiene che, in virtù di ciò, suo marito fosse un
benandante e riferisce come questi viaggi del congiunto avvenissero in spirito, mentre il corpo
cadeva in una catalessi durante la quale smuoverlo poteva essere pericoloso «sin tanto che
ritornava dalla processione» 34 . Egli, inoltre, si rifiutava di raccontare ciò che aveva visto
durante quelle processioni per paura di essere battuto.
Una caratteristica di ineluttabilità sembra trasparire circa due prerogative dei benandanti:

32
Ivi, cap. II, § 2
33
Ivi, cap. II, § 3
34
Ibid.

20
1. il potere di vedere i morti, sentito talvolta come una grazia, talaltra (è il caso della donna
di Pasiano) come una croce da portare.
2. L’uscita dal corpo per andare a combattere contro gli stregoni, a proposito di cui
Gasparutto afferma trattarsi di un’arte che non si può imparare poiché discende dalla
volontà divina.
Ginzburg ritiene che entrambe le caratteristiche siano ramificazioni di una medesima credenza,
viste tutte le analogie che le accomunano (predestinazione, impossibilità di apprendere tali
funzioni, proibizioni circa il raccontare l’esperienza).

Diverse fonti, la più antica delle quali risale al X secolo, fanno riferimento a voli notturni svolti
(soprattutto) da donne al seguito di una divinità femminile chiamata di volta in volta con nomi
diversi (Holda, Perchta, Diana, Abundia, Satia). La credenza presenta elementi di ambiguità
poiché questa divinità popolare viene percepita allo stesso tempo da un lato come apportatrice
di vita, prosperità e dall’altro come foriera di morte e distruzione.
Secondo Ginzburg, le cavalcate notturne delle seguaci di Diana sono una variante della caccia
selvaggia o esercito furioso, la schiera dei morti anzitempo che percorre di notte le vie dei
villaggi, terrorizzandone gli abitanti (alcuni elementi di questa raffigurazione confluiranno
nella tipica rappresentazione del sabba diabolico). A loro volta i racconti sulle schiere notturne
vaganti presentano delle varianti che le avvicinano ai racconti dei benandanti. Ad esempio, in
un passo di Guglielmo d’Alvernia (m. 1249) si accenna a offerte di cibi e bevande lasciate a
disposizione di Abundia e dei suoi seguaci durante le loro scorribande notturne allo scopo di
propiziarsene il favore (consistente in abbondanza e prosperità per gli abitanti della casa). Allo
stesso modo cibi, bevande e giacigli ristorano da un lato chi torna dalle battaglie notturne (nelle
testimonianze dei benandanti “agrari”) dall’altro i morti (nei racconti delle benandanti
“funebri”).
In un altro passo, tratto dal Roman de la Rose, il carattere di ineluttabilità che sembra trasparire
dalle parole dei benandanti si ritrova nell’attività notturna dei «terzogeniti», costretti ad
infestare in spirito le case dei vicini al seguito di dame Abonde. Anche il particolare del viaggio
compiuto con la sola anima accomuna i seguaci di dame Abonde ai benandanti, financo nel
divieto di voltare il corpo esanime, pena il mancato ritorno dell’anima in esso.
A rafforzare il legame tra il complesso di racconti relativo a Diana/Perchta/Abondia e quelli
gravitanti intorno ai benandanti giungono ulteriori indizi, datati XV e XVI secolo, provenienti
dall’area germanica. Queste fonti riprendono credenze popolari in cui si accenna a misteriosi
viaggi effettuati, soprattutto da donne, e con il solo spirito, durante le quattro tempora.
21
Tuttavia, il mito originario della caccia selvaggia, in cui i morti sono visti come mero oggetto
di terrore, era stato edulcorato relativamente presto da tentativi di cristianizzazione, come
quello operato da Orderico Vitale: in un passo della sua Storia ecclesiastica (che si riferisce
all’anno 1091) i defunti sono inseriti nella cornice dell’aldilà cristiano e assumono la funzione
di ammaestrare e ammonire i viventi, sebbene il quadro mantenga tracce evidenti dell’antica
credenza pagana.

Di questa rielaborazione in senso confessionale a cui viene sottoposta l’immagine dell’esercito


furioso emergono due testimonianze. La prima si riferisce a una donna tirolese, Wiprat Musin,
processata per superstizioni il 27 dicembre 1525. Il suo racconto echeggia molte delle
prerogative attribuite ai benandanti: il fatto di uscire in spirito durante le tempora; la
partecipazione a processioni in cui vede i morti, i quali ammoniscono i viventi che vi prendono
parte a essere virtuosi e fare elemosine; il carattere di ineluttabilità legato a un destino
congenito; il ruolo di guida attribuito a un personaggio cui viene dato il nome di Fraw Selga.
La seconda, del 1586, proviene dall’area bavarese e concerne un processo celebrato ai danni di
un mandriano, Chonradt Stocklin: costui dichiara di appartenere a una schiera di individui che,
durante le tempora, nottetempo, intraprendono viaggi col solo spirito nel corso dei quali sono
in grado di stabilire contatti coi defunti. Questi ultimi, nel corso di tali contatti, lo avevano
invitato a perseverare in comportamenti cristianamente meritori, come dir preghiere, andare a
messa, venerare i sacramenti. Stocklin afferma che mentre l’anima è fuori dal corpo, questo
non deve essere rivoltato, altrimenti il rientro in esso diventa doloroso e difficile. Oltre a ciò
l’inquisito asserisce di essere in grado di guarire uomini e animali dai malefici delle streghe, di
cui conosce i misfatti. Il destino di Stocklin è tuttavia molto peggiore di quello toccato ai suoi
omologhi friulani: infatti, a causa delle suggestioni dei giudici e del probabile ricorso alla
tortura, è costretto a confessare di avere partecipato al sabba diabolico, di avere rinnegato Dio
e i santi e viene perciò condannato al rogo assieme a varie donne da lui denunciate come
streghe.
Secondo Ginzburg, un ulteriore gruppo di credenze ci permette di aggiungere un altro tassello
per collegare le prerogative agrarie di Gasparutto e Moduco ai racconti sulla divinità
accompagnata dalla schiera delle anime, in cui finora l’abbondanza e la prosperità erano un
corredo generico della narrazione e non facevano specifici riferimenti alla fertilità dei campi. I
clerici vagantes, operanti in Svevia, di cui ci parla il Crusius nei suoi Annales Svevici (1544),
presentano tratti che li accomunano ai benandanti. Tra le loro prerogative spiccano da un lato
la capacità di evocare durante le tempora le schiere dei morti anzitempo (che li connette al
22
filone funebre friulano); dall’altro quello di procurare ricchezza ai contadini attraverso un
singolare rito: seppellire una corda nei terreni dove vengono coltivati la vite e il frumento
(agendo non tanto sulla fertilità dei campi quanto sui prezzi dei prodotti agricoli). Questa
seconda abilità li lega in qualche modo al filone agrario di cui fanno parte Gasparutto e
Moduco.
Il Venusberg, luogo magico, sede delle pratiche occulte dei clerici, torna nelle testimonianze
relative al processo di Diel Breull, celebrato in Assia nel 1630: l’uomo, una sorta di incantatore,
riferisce di essersi misteriosamente ritrovato sulla «montagna di Venere» dopo essere caduto
in una specie di letargo, e di avere avuto contatti con l’aldilà attraverso la mediazione di Fraw
Holt, la divinità del luogo. In seguito, ogni volta che vi fosse ritornato durante le tempora,
avrebbe propiziato degli ottimi risultati per i raccolti dell’annata.
Se in questi ultimi due casi troviamo riscontri che collegano le due categorie di benandanti
friulani, ciò nondimeno non ci sono accenni ai combattimenti notturni descritti da Gasparutto
e Moduco. Circa il motivo delle battaglie per la prosperità dei raccolti, Ginzburg ipotizza un
legame con il mondo slavo per la presenza di analoghi fenomeni nell’area baltica (come si è
visto) e in Dalmazia (come si vedrà). Viceversa, per il tema delle processioni dei morti lo
storico ritiene, con ragionevole certezza (in base a considerazioni di ordine cronologico), che
esso provenga dall’area germanica. I due filoni si sarebbero fusi, quindi, nel complesso di
credenze relative ai benandanti del Friuli, terra che rappresenta un trait d’union tra l’area slava
e quella germanica.
Ginzburg, a questo punto, da un lato sottolinea come la tematica dei benandanti funebri si
ponga su una linea di continuità con la narrazione rielaborata da Orderico (dai caratteri
composti e conformi alla tradizione cristiana) mentre, viceversa, le battaglie notturne
conserverebbero maggiormente i tratti violenti del mito arcaico (la caccia selvaggia).
Dall’altro, tuttavia, si focalizza sull’identità profonda che ritiene esistere tra i «morti vaganti»
e gli stregoni dei combattimenti notturni: dell’una e dell’altra schiera fanno parte quelli che i
clerici vagantes chiamano «ecstatici»35, ovvero le anime di coloro che non hanno fatto ritorno
nel loro corpo e vagano senza requie sulla terra (da Gasparutto detti «mali andanti»); inoltre
morti anzitempo e stregoni sono accomunati dall’uso di canne di sorgo con cui bastonano i
benandanti che infrangono i segreti delle processioni e delle battaglie notturne.

35
Ivi, cap. II, § 11

23
Questa credenza nelle anime dei morti che si rifanno sui vivi, bastonandoli, si ritrova anche
negli atti dei processi alle streghe, come, ad esempio, in quello celebrato dall’Inquisizione di
Modena ai danni di Grana di Villa Marzana nel 1601.
In questo panorama di attività liminare tra vita e morte, corpo e anima, si delinea la funzione
della camicia, il sacco amniotico che certifica congenitamente il destino del benandante e che
costui deve portare sempre con sé: un ponte di passaggio, un varco tra le due dimensioni.
Lo storico mette in evidenza una straordinaria caratteristica dei benandanti: il superamento
dell’apparente contraddizione tra un’attività psichica legata a visioni, proiezioni extra corporee
(tipiche di una sfera individuale) e il loro ruolo collettivo di difensori della comunità di cui
fanno parte, figure che convogliano in sé «le speranze e i bisogni legati alla vita associata»36.

Tra il 1599 e il 1601 viene inquisita dal Sant’Uffizio di Udine Donna Florida, moglie del notaio
Alessandro Basili, che a sua volta cura malattie con orazioni. Sebbene all’inizio sia reticente e
dichiari di avere svolto certe pratiche per burla o per ricavarne un guadagno, le testimonianze
che si accumulano nei suoi confronti ne delineano il ruolo all’interno della comunità di cui fa
parte: quello di costituire un collegamento tra i morti e i vivi ai quali comunicherebbe le
reazioni del tutto terrene dei defunti una volta venuti a contatto coll’oltretomba. D’altra parte,
la stessa Florida, in confidenze fatte a conoscenti, avrebbe ammesso di essere benandante,
asserendo di difendere i bambini dalle insidie degli stregoni. L’aspetto singolare di questa
vicenda, tuttavia, è il fatto che, rispetto a quest’ultima prerogativa, la donna venga percepita
dalla sua comunità in maniera diametralmente opposta: ella ha «mal occhio» ovvero toglie «il
latte alle donne che lattano» 37 e nuoce agli infanti. Ginzburg rileva questa lampante
contraddizione aggiungendo che si tratta solo del primo isolato esempio di un atteggiamento
che diverrà diffuso. Nonostante i procedimenti dell’Inquisizione nei confronti di Florida, le
denunce non portano a una condanna, così come succede nello stesso anno (1601) a Gasperina,
abitante in borgo Grazzano. La vicenda di costei, cieca, ma che afferma di vedere, per grazia
di Dio, i morti in processione e di portare con sé una «cameciuola […] benedetta dal Papa»38,
è interessante per un motivo: chi la accusa, un frate domenicano di nome Giorgio de’ Longhi,
afferma di essersi persuaso che Gasperina fosse una benandante dalla lettura di alcuni libri.
Questa osservazione dimostra come, nonostante gli inquisitori abbiano mostrato finora un

36
Ivi, cap. II, § 14
37
Ivi, cap. II, § 15
38
Ivi, cap. II, § 16

24
atteggiamento tutto sommato clemente, l’interesse del clero per le credenze connesse ai
benandanti stia via via crescendo.
Dei due filoni di cui si è finora parlato, quello che mostra maggiore diffusione e persistenza è
quello agrario della lotta per i raccolti contro gli stregoni e le streghe. Il mito delle processioni
dei morti tende, invece, a svuotarsi man mano del suo originario significato di illustrazione
delle pene dei peccatori ai fini di un ammaestramento morale e religioso (tipico della
raffigurazione di Orderico da Vitale), lasciando nelle testimonianze una traccia puramente
figurativa, esteriore.

I benandanti tra inquisitori e streghe

Ci spostiamo ora a est dell’Isonzo, al di fuori dei confini naturali del Friuli, con il processo
indetto nel 1583 ai danni di Toffolo di Buri, un «armentaro» di Pieris. La sua testimonianza ci
mostra il carattere popolare del culto dei benandanti, sottoposto a varianti locali che ne
dimostrano la vitalità e l’attualità (a differenza della codificazione che avrebbe interessato una
tradizione colta). L’inquisito in questione da un lato conferma molti tratti del culto già messi
in luce nel cividalese, dall’altro introduce un elemento nuovo e molto singolare: afferma che
non solo i benandanti combattono contro streghe e stregoni ma lo fanno (in separata sede)
anche Turchi, Ebrei ed eretici. In considerazione di ciò, egli ha la sensazione che questa pratica
sia eterodossa e tuttavia non può fare a meno di prendervi parte. Questa consapevolezza gli
causa sensi di colpa e turbamento a tal punto che vorrebbe essere “esentato” da questo suo
destino (allo stesso modo della donna di Pasiano, citata da Aquilina). Così come altri processi,
anche questo finisce in un nulla di fatto. Ginzburg ipotizza che i conflitti di potere tra la
giurisdizione laica veneziana e il Sant’Uffizio (la prima tendeva a difendere le proprie
competenze in materia di superstizione dalle invasioni di campo del secondo) abbiano
contribuito a proteggere i benandanti dalle persecuzioni. Per diversi anni, in ogni caso, almeno
fino al 1620, gli interrogatori si svolgono all’insegna di una sostanziale scollatura tra giudici e
inquisiti: manca, da parte dei primi, la comprensione del contesto contadino sullo sfondo del
quale si stagliano le credenze. Nel momento in cui agli inquisitori difettano gli appigli per farle
rientrare nel loro schema precostituito, essi tendono a mostrarsi indifferenti.
Un’altra testimonianza relativa alla zona del monfalconese mette in luce due caratteristiche
interessanti: nel processo contro l’ostetrica Caterina Domenatta affiora un elemento alternativo

25
di predestinazione del benandante, ovvero il fatto di nascere «coi piedi avanti»39; inoltre la
prerogativa di difesa della fede, così sentita da Moduco e Gasparutto, qui è assente (come lo
era nel processo a Toffolo di Buri che anzi teme di avventurarsi nel terreno minato dell’eresia).
La professione di ortodossia tuttavia ritorna, con forza, nella deposizione di Menichino della
Nota, bovaro di Latisana (area diversa, ai confini con l’attuale Veneto), resa nell’ottobre 1591
davanti al commissario generale dell’Inquisizione di Venezia, fra’ Vincenzo Arrigoni da
Brescia. L’elemento più notevole della deposizione di Menichino si riferisce alla sua
iniziazione, compiuta da un uomo in carne ed ossa, Giambattista Tamburlino, in una
circostanza del tutto ordinaria come una serata trascorsa a far baldoria nel paese vicino. Ciò
differenzia questa esperienza da quella di Gasparutto e Moduco, che parlano, rispettivamente,
di un angelo e di un benandante apparso in spirito. Un’altra particolarità si riferisce al fatto che
Menichino fa il nome di un compagno, Domenico Rodaro, per cui Ginzburg si chiede se questo
possa essere un indizio (per ora isolato) di una dimensione collettiva fisica del culto, consistente
in «confidenze, incontri, reali riunioni di tipo settario» 40 . Le domande tendenziose
dell’inquisitore non scalfiscono la monolitica ortodossia di Menichino e del Rodaro: né l’uno
né l’altro danno modo all’interrogante di trovare pretesti per accusarli di stregoneria e dunque
vengono entrambi rilasciati.
Ginzburg nota come la prerogativa di difesa dei raccolti, da lui e probabilmente dagli stessi
benandanti avvertita come il nucleo centrale del culto, sia rimasta in secondo piano nella
percezione della comunità di riferimento. Sono altre le caratteristiche che, agli occhi di
quest’ultima, contribuiscono a definire la funzione di benandante: la capacità di curare le
vittime delle malie e quella di riconoscere le streghe. Mentre la seconda presuppone
logicamente una contrapposizione con le streghe, la prima si presta a una pericolosa
assimilazione con esse, dal momento che presentano tratti analoghi: infatti la facoltà di guarire
individui affatturati era considerata indizio di stregoneria.
Sono due deposizioni rese nel 1600 dalla «magnifica domina» Maddalena Busetto di
Valvasone all’inquisitore fra’ Francesco Cummo a fornire indizi riguardo l’ambigua
reputazione dei benandanti come guaritori: nel caso in questione si tratta di due donne di
Moruzzis, nei pressi di Aquileia, la seconda delle quali, Narda Peressut, afferma di essere
costretta ad esercitare la sua attività di guaritrice a Grado (dove evidentemente ha meno
conoscenze compromettenti), per timore di essere perseguita. Un’altra serie di testimonianze

39
Ivi, cap. III, § 2
40
Ivi, cap. III, § 3

26
che coprono un arco temporale piuttosto ampio (1600-1620 circa) mostra una progressiva
assimilazione lessicale: i (le) benandanti tendono sempre più a essere identificati come streghe
sebbene, in realtà, la gente si rivolga a loro proprio perché li ritiene in grado di individuare le
streghe e castigarle.
Un esempio della prima prerogativa è l’attività di un certo Piero, detto «stregon»41, a cui si
affida nel 1616 una contadina accusata di stregoneria affinché egli, attraverso la sua autorità,
certifichi che l’etichetta le è stata erroneamente affibbiata. Fama di “castiga streghe” ha invece
una donna che tuttavia viene chiamata a sua volta «strega di Ghiai»42 dalla persona che le aveva
chiesto di levarle il malocchio. In questi e in altri casi l’atteggiamento dei benandanti chiamati
in giudizio va verso il tentativo di dare legittimità confessionale alle pratiche esercitate, citando
autorità e oggetti religiosi quasi a garanzia, come fa ad esempio un certo Donato della Mora
(considerato da tutti «strigone, che riconosce gli stregati»43 ): costui afferma di non temere
ripercussioni «havendo egli massima autorità da monsignor vicario da Porto Gruaro»44.
Al nucleo centrale del culto, ovvero la lotta agraria tra benandanti e stregoni per la fertilità (o
meno) dei campi ci riporta un processo svoltosi a Palmanova nel 1606: vi è implicato un tal
Gasparo, sospettato di avere a che fare con la malia di cui era caduta vittima una donna di nome
Marta Valento. In realtà la sua deposizione conferma l’ortodossia della sua attività di
benandante nonostante le numerose forzature dell’inquisitore. Un aspetto curioso consiste nelle
variazioni sul tema che emergono dal racconto di Gasparo, segno, come detto poco sopra, di
vitalità del culto: ad esempio il pittoresco particolare dell’insegna, trasportata dal capitano,
consistente in un grosso ramo di finocchio; oppure l’indicazione riguardo la periodicità
dell’«andar fuori» (non più quattro volte all’anno ma una volta sola — sempre, però, durante
le tempora — ogni cinque anni).
Ginzburg sottolinea come, da un certo punto in poi, l’Inquisizione e la sensibilità popolare
siano accomunate da una medesima tendenza ad assimilare le pratiche di streghe e benandanti,
tanto che questi si trovano quasi tra l’incudine e il martello. Inoltre, lo strato alto di questa
pressione non è costituito solo dagli inquisitori: la testimonianza di Marchetto (cittadino
udinese di condizione agiata), riportata in una sorta di memoriale inviato all’Inquisizione nel
1621, rivela l’esistenza di dinamiche relazionali simili a quelle tra gli inquisiti e il Sant’Uffizio.
Egli convoca a casa propria un pastore di nome Giovanni che ha appunto fama di essere

41
Ivi, cap. III, § 6
42
Ibid.
43
Ibid.
44
Ibid.

27
benandante, affinché liberi un cugino da una presunta fattura (ormai la funzione dei benandanti
si riassume in quella di conoscitori di streghe e delle loro malie). Di fronte alla resistenza
manifestata da Giovanni alla sua richiesta di rivelargli se il parente sia davvero ammaliato
(teme di essere bastonato dalle streghe), Marchetto prorompe in un violento sfogo: in esso egli
esprime con un moto di indignazione le proprie credenze, modellate sullo schema colto degli
inquisitori, in cui sono escluse pratiche non dettate dal libero arbitrio, come quella di
combattere in spirito per le biave. Dall’altra parte, invece, Giovanni è portavoce di una cultura
schiettamente popolare legata a temi e motivi che esulano dal retroterra teologico di Marchetto,
proprio della classe dominante. Quest’ultimo, perciò, si sente in diritto di usare la sopraffazione
contro il pastore, strappandogli così la confessione che il cugino è effettivamente affatturato.
L’esito di questa e altre vicende relative alla zona del cividalese spinge Ginzburg a formulare
la seguente ipotesi: la duplice pressione (dall’alto e dal basso) a cui sono sottoposti i
benandanti, rappresentanti di un culto troppo eccentrico per essere ricondotto in uno schema
riconoscibile, li costringerebbe a un certo punto ad un aut-aut: ammettere di essere stregoni e
di partecipare al sabba o riconoscere che i loro racconti dei convegni notturni sono pure
fandonie.

I benandanti al sabba

Un momento molto importante dell’evoluzione del culto dei benandanti è rappresentato dalle
deposizioni (1619) di una donna di Latisana, Maria Panzona, che presentano un decorso
piuttosto complesso. La vicenda si divide in due fasi: l’imputata, sospettata di uso di mezzi
diabolici per la guarigione dei malati, viene sentita in un primo momento a Latisana. Qui, da
un lato conferma gli aspetti più tipici del culto, come li avevamo appresi, ad esempio, dal suo
compaesano Menichino (entrambi parlano di un «prato di Josafat»45 come luogo deputato alle
battaglie in spirito contro le streghe). Dall’altro Maria introduce due elementi nuovi, in maniera
spontanea, ovvero senza alcuna sollecitazione o suggestione da parte dei giudici: la presenza,
nel racconto, del demonio sotto false spoglie (una donna che chiama «badessa»46) e la rinuncia
alla fede da lei (Maria) compiuta trent’anni prima attraverso un complesso rituale. Tuttavia,
quella che sembrerebbe un’assimilazione ormai avvenuta dello schema colto del sabba da parte
dei benandanti è complicata da ulteriori particolari aggiunti dall’imputata. Essi non permettono

45
Ivi, cap. III, § 3; cap. IV, § 1.
46
Ivi, cap. IV, § 1.

28
di trarre conclusioni univoche sul suo schieramento dall’una o dall’altra parte. Maria sembra
infatti alludere a un ruolo ambivalente dello stesso diavolo che si sarebbe prestato a fornire
rimedi contro i malefici delle streghe, ponendosi quasi a garante dell’attività di guaritrice
dell’inquisita. Ella, inoltre, a differenza delle streghe da lei accusate, si sarebbe data al diavolo
«per suo gusto»47 e non per suggellare un patto maligno e nuocere a chicchessia. Nonostante
queste precisazioni, che agli occhi dello storico (ma non dell’inquisitore) sfumano di molto la
sua posizione, Maria Panzona è rinviata a giudizio presso il Sant’Uffizio di Venezia. Qui, però,
la donna (che, tra l’altro, ha una crisi epilettica durante uno degli interrogatori) fa un inaspettato
dietrofront: rinnega quanto affermato a Latisana e torna a vestire i panni classici della
benandante, che difende i raccolti e la fede contro streghe e stregoni. La sentenza viene
pronunciata a metà 1619 e condanna l’accusata a tre anni di carcere con l’obbligo di esilio
perpetuo da Latisana.
Ginzburg sottolinea la discordanza profonda tra le due fasi delle testimonianze ma rinuncia a
spiegarle all’interno di coordinate razionali, che non possono applicarsi alla complessa
esperienza psichica ed emotiva alla base delle estasi dei benandanti. L’elemento fondamentale
della vicenda è per lui il colpo di piccone dato metaforicamente e inconsapevolmente da Maria
Panzona, con la sua prima deposizione, alla “purezza” del nucleo originario del culto (le
battaglie per le biave e per la fede): si tratta del primo segno evidente di un’inesorabile
disgregazione del complesso di miti così come li avevamo appresi dai racconti di Gasparutto e
Moduco.
Il successivo processo analizzato da Ginzburg, celebratosi a Cividale nel 1634 ai danni di
Giovanni Sion, un giovane di Moimacco, costituisce la prova dell’ormai avvenuta
assimilazione dei benandanti agli stregoni. I due indizi alla base di questa evoluzione del culto
verso l’adesione allo schema codificato della stregoneria sono: l’ammissione di avere
partecipato al sabba e di averlo fatto non in spirito o in sogno ma in carne ed ossa. A prova di
quest’ultima affermazione, Giovanni mostra una cicatrice sulla coscia che gli sarebbe stata
procurata dal diavolo nelle mentite spoglie di un suo conoscente (Girolamo di Villalta, suo
iniziatore a questo tipo di pratiche). Costui lo avrebbe marchiato («bollato»48, dice lui) un po’
come si fa con il bestiame. Tuttavia, dai racconti dell’inquisito emerge come lo strato più
arcaico del culto dia ancora tenui segni di vita: i benandanti avrebbero assistito ma non
partecipato alle orge delle streghe e degli stregoni, non si sarebbero lasciati sedurre dalle

47
Ibid.
48
Ivi, cap. IV, § 3

29
tentazioni loro proposte (sia sessuali che di altro genere materiale) facendo, in un certo senso,
gruppo a sé stante. In nome della sua antica vocazione, il Sion fa il nome di alcune streghe che
accusa di terribili misfatti. Per dimostrare la veridicità delle sue parole, ammette di conoscere
gli unguenti con cui esse nuocciono alle persone che prendono di mira e gli antidoti necessari
per togliere le malie; in questo modo, però, conferma indirettamente una comune matrice
diabolica delle pratiche di streghe e benandanti. La successiva fase degli interrogatori presenta,
pur tra le molte contraddizioni manifestate dal Sion, un’ancora più marcata diabolicità dei riti
descritti: la riverenza a Satana, il calpestamento della croce, il vituperio e la parodia delle
cerimonie ecclesiastiche. Potrebbero sembrare elementi destinati a portare ad un’inevitabile e
dura condanna, malgrado le dichiarazioni di pentimento espresse dall’imputato. Eppure, il
Sant’Uffizio manifesta nei suoi confronti una singolare indulgenza e anzi il processo (che
comprende anche il filone delle indagini sulle streghe accusate dal Sion), su richiesta del Doge,
passa nell’agosto 1634 dalle mani dell’Inquisizione a quelle della giustizia secolare. Ginzburg
non si sa spiegare quest’evoluzione inaspettata proprio nell’unico caso in cui sembrerebbe più
lampante il crimine di apostasia e di abuso di cose sacramentali, tutte, in teoria, materie di
competenza del Sant’Uffizio.
Poco più avanti tuttavia formulerà un’ipotesi nell’ambito delle considerazioni attorno al
processo di Michele Soppe, (contadino di Santa Maria la Longa) iniziato nel 1649 dopo una
lunga sequenza di accuse e denunce di «stregarie»49. La vicenda del Soppe conferma alcuni
elementi emersi nei precedenti casi e ne introduce di nuovi. Il Soppe vanta la duplice facoltà di
individuare le streghe e rimediare alle loro malie ma lo fa per lucro e, senza porsi molti scrupoli,
rinuncia a operare qualora chi gli si rivolge non è in grado di pagarlo. Questo atteggiamento
non gli attira certo le simpatie dei contadini che lo assimilano in tutto e per tutto agli stregoni.
L’attività di guaritore (e questo è un elemento nuovo) lo mette in concorrenza con quella degli
esorcisti: il clero, infatti, diffida la popolazione dal rivolgersi a lui intimandogli, nel contempo,
di sospendere le sue pratiche. Una spia dell’atteggiamento popolare nei confronti dei
benandanti, ormai orientato verso un’aperta ostilità, è data dalla decisione dell’inquisitore, fra’
Giulio Missini, di risparmiare al Soppe la pubblica gogna in occasione del suo trasporto dalle
carceri al tribunale del Sant’Uffizio. Un altro aspetto di novità del processo consiste
nell’aggiungersi di un’ulteriore barriera (oltre a quelle sociali, mentali, culturali) all’interazione
tra inquisitore e inquisito: infatti c’è bisogno di un traduttore che medii tra il friulano di Soppe
e l’italiano di fra’ Giulio Missini.

49
Ivi, cap. IV, § 6.

30
Nonostante la tendenza che, in questi anni, si registra a livello europeo verso un atteggiamento
più razionale e scientifico nei confronti dei fenomeni stregoneschi, l’approccio in una realtà
periferica come il Friuli rimane improntato al più rigido tradizionalismo. Lo dimostra lo sfogo
registrato nella deposizione del domenicano Pio Porta (agli atti di questo processo): costui,
esorcista e priore del convento di San Pietro Martire in Udine, lamenta il diffondersi
esponenziale di «stregarie» e la carenza di esorcisti atti ad occuparsene.
Gli interrogatori di fra’ Giulio Missini a Michele Soppe sono paradigmatici di come in questa
fase la pressione degli inquisitori abbia gioco facile nei confronti dei benandanti, per i quali è
quasi fisiologico cadere in contraddizione: ciò a causa della problematica interazione tra lo
strato arcaico delle loro credenze, che agisce ormai solo a livello inconscio, e lo schema, infine
affermatosi, del sabba diabolico.
Michele tenta disperatamente di giustificare la sua presenza al sabba, sostenendo un ruolo
diverso dei benandanti rispetto agli stregoni e alle streghe: i primi si limitano a presenziare il
rito mentre i secondi compiono una serie di atti di sottomissione nei confronti del diavolo.
Afferma, altresì, che sono le stesse streghe che hanno causato una fattura ad essere anche in
grado di toglierla; lui si limita ad agire da intermediario, chiedendo loro di «disfare le malie»50
a beneficio delle persone che gli si rivolgono. Talvolta questa richiesta si trasforma in un vero
e proprio ricatto per le minacce di denuncia all’Inquisizione da parte di Soppe. Qua e là
riaffiorano lacerti del vecchio culto (come la predestinazione del ruolo legato alla nascita nel
sacco amniotico) ma si tratta di immagini nebbiose, confuse e scollegate dalla realtà. Gli
argomenti dell’accusato sono poco convincenti agli occhi dell’inquisitore: l’ammissione di
avere rapporti periodici con streghe e demonio nell’ambito di un rituale diabolico è un elemento
altamente compromettente. Sotto assedio, l’imputato crolla e confessa ciò che fra’ Giulio
Missini vuole sentirsi dire: non c’è nessuna differenza tra i benandanti e gli stregoni, gli uni e
gli altri sono adoratori del diavolo e hanno rinnegato Gesù Cristo e la sua santa fede. È
significativa la descrizione dettagliata degli atti che accompagnano l’apostasia: consistono nel
calpestare la croce, fatta di paugna, ovvero lo stesso legno di cui erano fatte le bacchette che i
benandanti usavano nelle loro battaglie per i raccolti, secondo la testimonianza di Gasparutto.
Con questa cerimonia diabolica essi non rinnegano, quindi, solo la fede cristiana ma anche
l’antico rito di fertilità e, in un certo senso, la loro stessa identità. L’accusato è ormai un fiume
in piena: oltre a tre infanticidi, tra cui quello di un suo nipote, confessa di avere avuto rapporti

50
Ivi, cap. IV § 7.

31
diretti con il diavolo allo scopo di «guastar la malia»51 delle streghe. Nel confuso racconto
riemerge un elemento proprio del vecchio culto: l’immagine del ramo di finocchio, che là aveva
funzione di tenere lontani i simboli del male (diavolo, streghe, miseria) viene qui rielaborata e,
in un contesto completamente mutato, diventa tramite tra i benandanti e il demonio.
A fine 1649 gli elementi raccolti da fra’ Missini sembrano più che sufficienti a produrre una
sentenza ma da Roma giunge l’ingiunzione di riaprire il caso e approfondire le indagini: è
l’effetto di un mutato atteggiamento dell’Inquisizione Romana nei confronti della stregoneria
che si era concretizzato a partire dal 1620 con la redazione e la successiva circolazione
manoscritta dell’Instructio pro formandis processibus in causis strigum maleficiorum et
sortilegiorum, documento poi pubblicato a stampa nel 1655. Si tratta di un importante testo di
carattere normativo e giuridico che cambia la storia dei processi di stregoneria, scendendo sul
terreno delle prove procedurali con l’obbligo di produrre un corpus delicti nei casi, come
questo, di infanticidio. A questo scritto il cardinale Barberini si rifà quando invita, via lettera,
fra’ Missini a «interrogare medici, familiari di bambini che il Soppe asseriva di avere ucciso,
individui da lui curati, per accertare la veridicità dei fatti emersi dal processo»52. L’influenza
dell’Instructio e di analoghe pressioni esercitate da Roma potrebbero essere, secondo
Ginzburg, le cause dell’andamento del processo precedentemente esaminato contro Giovanni
Sion, ripreso a un certo punto dall’inizio e poi abbandonato al tribunale secolare.
Nei primi mesi del 1650 la causa del povero Soppe, che nel frattempo languisce in carcere in
condizioni di salute precarie, viene riesaminata e nuovamente sottoposta all’attenzione del
pontefice e del Sant’Uffizio romano. I tempi lunghi di questa corrispondenza, tuttavia, non
consentono di produrre un verdetto prima della morte dell’imputato, che sopravviene il 20
novembre 1650.
Ginzburg aveva in precedenza accennato alla possibilità che dietro i racconti dei benandanti ci
fossero delle reali occasioni di incontro, in carne ed ossa, di tipo settario. Viene in soccorso a
questa sua ipotesi la convergenza quasi totale tra le testimonianze del Soppe e quelle di un altro
imputato, Bastiano Menos: costui dichiara che il Soppe lo ha iniziato ai raduni notturni (i quali
si tenevano in un prato a Santa Caterina, presso Udine), e che a questi incontri i due andavano
in groppa ad animali, circostanze confermate sostanzialmente dall’altro. Si tratta di
testimonianze convergenti ma indipendenti, nel senso che i due non possono avere concordato
una linea comune, non avendo avuto rapporti dopo l’arresto di Soppe. Quello che colpisce

51
Ivi, cap. IV § 11.
52
Ivi, cap. IV, § 12.

32
Ginzburg è, tuttavia, un altro elemento: se collimano i dettagli esteriori delle due deposizioni,
esse divergono riguardo la percezione interiore dell’esperienza da parte degli imputati. Menos
è in grado di distinguere, nell’ambito del sabba, un antagonismo benandanti-streghe, senza
peraltro fare alcun riferimento alle antiche lotte per la fertilità di cui si è persa la memoria.
D’altro canto, Soppe assimila totalmente stregoni e benandanti, tanto che il ramo di finocchio
che questi brandiscono ha ormai perso ogni simbologia identificativa, diventando un orpello
puramente decorativo.
Lo storico è consapevole del rapporto problematico tra soggettività e oggettività nelle
deposizioni: i due piani paiono spesso intersecarsi ed è difficile distinguerli. Inoltre, avendo gli
imputati in questi processi un retroterra comune di miti, credenze, aspettative, le loro
interpretazioni possono esserne pesantemente contaminate. Per questo Ginzburg va alla ricerca
di qualche testimonianza asettica, scevra di incrostazioni culturali o dettate da condizionamenti
esterni. Gli pare di rinvenire questi criteri in una deposizione del 1668 registrata dal
Sant’Uffizio di Aquileia: da una parente vengono riportate le parole di una bambina, Angiola,
di soli otto anni, la quale afferma che la madre soleva portarla ad incontri con gruppi di persone,
capeggiati da un «signore grande»53. Nell’ambito di tali raduni il comportamento sessuale era
piuttosto licenzioso ed essa stessa era stata oggetto di pesanti attenzioni. Si tratta di una realtà
che ricalca le descrizioni classiche del sabba ma in nessuna parte della testimonianza la
bambina accenna alla presenza del diavolo o di streghe. Liberata da queste sovrastrutture, la
realtà si rivela essere «meschina, addirittura banale: un raduno di gente, accompagnato da balli
e promiscuità sessuali»54. Ginzburg ipotizza che anche i raduni dei benandanti possano avere
celato, sotto i vari strati accavallatisi nella loro più che decennale storia, una simile realtà.
A questo punto l’autore propone un’interessante congettura di tipo psicologico: in alcuni casi
lo schema colto della stregoneria, proprio perché estraneo alla modesta realtà a cui gli
inquisitori vogliono applicarlo, finisce per costituire una forte attrattiva, con la sua promessa
di piaceri e ricchezze, per contadini miserabili o persone emarginate. In casi estremi, l’adozione
di atteggiamenti e comportamenti limite, rientranti nella casistica stregonesca, è il frutto della
frustrazione e dell’infelicità derivanti da situazioni esistenziali insopportabili: è il caso di
Menega (1648), giovane donna abbandonata sin da piccola e costretta a vivere di elemosina.
Essa proietta su due streghe, probabilmente nemmeno figure reali, la sua ansia di ribellione per
un sistema che l’ha rifiutata: le due figure, Giacoma e Sabbata, sono quindi l’esteriorizzazione

53
Ivi, cap. IV, § 13.
54
Ibid.

33
della sua protesta verso i cardini di tale sistema (Dio e i genitori) e della sua adesione a un
ordine di cose capovolto in cui le streghe e il diavolo sostituiscono rispettivamente la famiglia
e Dio.
Dopo questa digressione sulla stregoneria in generale, Ginzburg torna ad analizzare la realtà
specifica dei benandanti e in particolare la questione della sincerità dei loro racconti, in
quest’ultimo periodo contraddistinti da pesanti interferenze degli inquisitori. È evidente la
differenza con la fase arcaica del culto, in cui lo scarto tra le deposizioni e le aspettative dei
rappresentanti del Sant’Uffizio era una garanzia della loro genuinità. Ormai, conclude
Ginzburg, i benandanti non possono più vantare un nucleo di credenze e riti propri su cui
fondare un culto autonomo. Tali credenze sopravvivono nella loro percezione come confusi
relitti di un passato che in nessun modo riescono a ricostruire. Essi devono, quindi, cercare di
integrarle nella realtà presente, spesso a prezzo di clamorose contraddizioni. Il problema è che
la realtà presente è costituita da uno schema, proveniente dall’esterno, che li vuole assimilare
a streghe e stregoni e porli al servizio del diavolo. A fronte di una tale pressione essi non hanno
armi per difendersi: vanno, per così dire, in corto circuito e finiscono per ammettere come vero
ciò che è unicamente nella mente degli inquisitori.
Un caso emblematico è quello di Olivo Caldo (1644-45), che si salva perché il suo processo si
svolge ormai in un’epoca in cui si fa sentire l’onda lunga dell’approccio razionalistico
dell’Instructio. Questo mutato clima obbliga i giudici a ripensare alla legittimità del loro
operato: le loro suggestioni, infatti, avevano costretto l’imputato, confuso e intimorito, a
confessare una serie di colpe, tra cui quattro infanticidi, per le quali non vi era alcun riscontro
oggettivo.
Con questi ultimi processi esaminati da Ginzburg cala idealmente il sipario sulla vicenda dei
benandanti. Malgrado le denunce nei loro confronti si susseguano ancora per diversi anni, non
vi è quasi più traccia delle vecchie credenze. Anche la stessa interpretazione del termine
‘benandante’ risulta ondivaga e staccata dalle radici originarie del rito.
Detto rito, nei caratteri che lo contraddistinguevano all’inizio, e come affermato in precedenza,
presenta sostanziali analogie con credenze diffuse nei Balcani, a esempio quelle relativa ai
Kresniki, «individui misteriosamente legati a divinità arboree e vegetali, come le “Vile” (e
perciò chiamati anche “viljenaci”), che nella notte di San Giovanni si armano di pali e
combattono con le streghe»55.

55
Ivi, cap. IV, § 16.

34
Ginzburg si riserva di approfondire queste analogie in una fase successiva, durante la quale
scenderà sul terreno della comparazione su una scala spazio-temporale molto estesa: sarà
questo l’argomento di Storia Notturna.

35
CAP. II- LA RICEZIONE DE “I BENANDANTI”

Sintesi

Nella prefazione all’edizione inglese de I benandanti del 1983, nota con il titolo di The Night
battles 56 , Ginzburg ci offre un piccolo sunto della reazione della comunità degli storici a
quest’opera rivoluzionaria. E.W. Monter, uno dei pochi studiosi di formazione anglosassone a
comprendere l’italiano, contribuisce con alcuni suoi interventi tra il 1969 e il 1972 a diffondere
l’interesse per questa monografia che apre la via a un campo di studi, quello sulle radici
popolari della stregoneria, rimasto fino ad allora in secondo piano.
Nella sua prima recensione57 Monter afferma che la documentazione fornita da Ginzburg sulle
battaglie agrarie estatiche fornisce un importante e inaspettato sostegno alla datata (e screditata)
tesi di M. Murray che ipotizzava un antico culto pagano della fertilità come nucleo fondante
della moderna stregoneria58.
Successivamente lo storico americano si corregge parzialmente sostenendo che I benandanti
dimostrano solo una parte delle teorie di Murray59: è Ginzburg stesso a chiarire questo punto
sia in questa sede che nella prefazione a Storia notturna. La studiosa britannica asseriva che:
a. la stregoneria aveva le proprie radici in un antico culto della fertilità;
b. i sabba descritti nei processi erano eventi reali.
Ginzburg sostiene che il contributo de I benandanti si limita a confermare il primo assunto
mentre, per quanto riguarda la realtà dei sabba, egli ritiene che la Murray confonda miti e riti,
arrivando persino a manipolazioni testuali nell’intento di dimostrare la propria tesi.
Secondo lo storico torinese, la conoscenza di seconda mano del suo saggio ha messo fuori
strada alcuni recensori che da un lato lo hanno interpretato come la dimostrazione più evidente
dell’esistenza della stregoneria (J.B. Russell60), oppure come l’unica prova documentata della
sussistenza di un vero e proprio culto stregonesco (H.C. Erik Midelfort61); dall’altro ne hanno

56
C. Ginzburg, The night battles, Witchcraft and agrarian cults in the sixteenth and seventeenth centuries, London
1983.
57
E.W. Monter, Trois historiens actuels de la sorcellerie, in «Bibliotèque d’Humanisme et Renaissance», T. 31,
no. 1 (1969), pp. 205-7
58
M. Murray, The witch cult in western Europe, Oxford 1921; trad. it. Le streghe nell’Europa occidentale,
Milano 2012
59
E.W. Monter, The historiography of European witchcraft: progress and prospect, in «The journal of
interdisciplinary history», vol. 2, no. 4 (1972), pp. 443-4
60
J.B. Russell, Witchcraft in the middle ages, New York 1972, pp. 41-2
61
H.C. Erik Midelfort, Were they really witches? in R.M. Kingdon, ed., Transition and revolution: problems and
issues of European Renaissance and Reformation history, Minneapolis 1974, pp. 203-4

36
sottolineato l’inconsistenza in quanto le esperienze descritte nei processi sarebbero tutte
avvenute in uno stato di trance (N. Cohn62).
Per Ginzburg né l’uno né l’altro di questi due schieramenti si focalizza sul vero nocciolo della
questione che non è, a suo parere, l’esistenza o meno di una setta organizzata di streghe
nell’Europa dal XV al XVII secolo. La vera chiave interpretativa sarebbe lo scarto («gap») tra
le domande poste dai giudici e le risposte offerte dagli accusati, ridottosi gradualmente solo
dopo decenni di “lavoro ai fianchi” da parte degli inquisitori che porta all’assimilazione del
culto allo stereotipo stregonesco. Tale scarto sarebbe, a suo parere, un importante indizio della
reale sussistenza di un culto della fertilità all’origine delle battaglie estatiche dei benandanti.
Che Ginzburg non sia insensibile ai commenti alle sue opere è dimostrato dall’accesa dialettica
spesso esistente tra lui ed i suoi interlocutori, peraltro non priva di ripensamenti, precisazioni,
spunti autocritici. Ne è un esempio il post-scriptum all’edizione del 1972 de I benandanti in
cui l’autore fa un evidente riferimento a due aspetti che alcuni recensori della prima edizione
avevano segnalato.
Il primo consiste nell’ «insufficiente attenzione prestata agli inquisitori e al loro atteggiamento
verso la stregoneria»63 (osservazione mossa da Tenenti64, poi ripresa da Berengo65). Ginzburg
spiega questo squilibrio con l’orientamento anticonformista che ha voluto dare alla sua opera,
indirizzato a prendere in considerazione le credenze dei perseguitati piuttosto che
l’atteggiamento persecutorio di inquisitori e demonologi. In questo senso lo storico torinese
sottolinea il proprio debito nei confronti di De Martino, Bloch ma soprattutto di Gramsci e
della sua teorizzazione del concetto di «classe subalterna»66.
L’altro appunto critico a cui Ginzburg dedica una considerazione nel suo post-scriptum
riguarda il rapporto tra «mentalità collettiva» e «atteggiamenti individuali» 67 di cui aveva
parlato nella prefazione alla prima edizione: in quella sede egli aveva enfatizzato la
contrapposizione tra questi due aspetti, quasi che il primo fosse una costruzione astratta che
avrebbe delegittimato la concretezza del secondo. Ancora Tenenti e Anne Jacobson Schutte68
hanno sottolineato l’artificiosità di questa dicotomia mentre Marcello Mustè ha recentemente
notato come in realtà «l’oggetto della critica di Ginzburg (la mentalità collettiva) era penetrato

62
N. Cohn, Europe’s inner demons: an inquiry inspired by the great witch-hunt, London 1975, p. 223; trad. it. I
demoni dentro. Le origini del sabba e la grande caccia alle streghe, Trezzano S/N 2003
63
I benandanti, cit., post-scriptum 1972
64
A. Tenenti, Una nuova ricerca sulla stregoneria, in «Studi storici», anno 8, vol. 2, (apr-giu 1967), pp. 385-390
65
M. Berengo, Il Cinquecento, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, Atti del Convegno, Milano 1970,
§4
66
A. Gramsci, Quaderni del carcere; volume terzo, Quaderni 12-29 (1932-35), Torino 2001, pp. 2286-2288
67
I benandanti, cit., prefazione, § 1
68
A. Jacobson Schutte, Carlo Ginzburg, in «The journal of modern history», vol. 48, no. 2 (Jun. 1976), p. 305

37
nell’analisi più di quanto l’autore fosse disposto a riconoscere» nel momento in cui egli
scriveva che «dove ci aspetteremmo di trovare l’individuo nella sua presunta astorica
immediatezza troviamo la forza delle tradizioni della comunità, le speranze e i bisogni legati
alla vita associata» 69 . Pur riconoscendo l’ingenuità di questa contrapposizione, Ginzburg è
chiaramente refrattario a una visione omogenea della società di un certo periodo storico,
preferendo sottolinearne la natura conflittuale, non più tuttavia nel rapporto tra comunità ed
individuo, quanto nel contrasto di classe, in questo caso tra benandanti e inquisitori.
Un punto fondamentale delle discussioni riguarda l’attendibilità della tesi di Ginzburg riguardo
l’esistenza di una connessione tra i benandanti e un antichissimo sostrato di matrice sciamanica,
che egli nella prefazione definisce «non analogica ma reale»70. Tra gli studiosi a sostenere
questa tesi, i più autorevoli sono M. Eliade71 e G. Klaniczay72 (vd. pag. 51) mentre in genere
la posizione attrae scetticismo dalla comunità degli storici di formazione anglosassone,
maggiormente propensi ad analizzare i fenomeni della stregoneria nei loro specifici contesti
sincronici.
La pubblicazione dell’edizione in inglese consente dunque a costoro di precisare e talvolta
riformulare il giudizio critico sull’opera: è il caso di H.C.E. Midelfort73 (vd. pag. 48) secondo
il quale Ginzburg opera delle forzature metodologiche attribuendo, in maniera arbitraria, un
significato universale alla vicenda dei benandanti sulla base di analogie con altri fenomeni, non
sostenute da evidenze storiche.
Sullo stesso solco si colloca A. Pagden74 (vd. pag. 40) con il quale Ginzburg dà vita a un vivace
scambio di opinioni che ha il proprio fulcro nel concetto di setta: si tratta di un termine che,
secondo il recensore, non si può applicare ai benandanti, dei quali mette in luce l’eterogeneità
e l’estemporaneità dei comportamenti più che la loro presunta coesione.
Tra i contributi di storici italiani ho preso in considerazione per un approfondimento due autori:
il già citato Tenenti75 (vd. pag. 37) in un’articolata recensione si mostra scettico rispetto al

69
M.Mustè, La via alla storia di Carlo Ginzburg, in C. Presezzi (a cura di), Streghe, sciamani, visionari, Roma
2019, p. 365
70
I benandanti, cit., cap. I, § 16
71
M. Eliade, Some observations on European witchcraft, in «History of religions» vol. 14, no. 3 (Feb. 1975), p.
157
72
G. Klaniczay, Shamanism and witchcraft, in «Magic, ritual and witchcraft», (Winter 2006), pp. 214-221
73
H.C. Erik Midelfort, The night battles (book review), in «The catholic historical review», vol. 72, no. 4 (Oct.
1986), pp. 648-650
74
A. Pagden, Being a benandante, review of “The night battles”, in «London review of books», vol. 6, no. 2 (Feb.
1984), pp. 6-8
75
A. Tenenti, Una nuova ricerca sulla stregoneria, cit.

38
concetto di «scarto» tra gli atteggiamenti dei giudici e quelli dei benandanti come elemento
qualificante della genuinità delle testimonianze.
Infine, Del Col76 (vd. pag. 53) ritiene che Ginzburg, evitando di prendere in considerazione
variabili importanti legate ad aspetti legali e giuridici, sia giunto a conclusioni affrettate circa
l’assimilazione dei benandanti allo stereotipo inquisitoriale.

“Una nuova ricerca sulla stregoneria” di A. Tenenti (1967)

All’esordio della sua recensione de I benandanti, Alberto Tenenti sottolinea come il proposito
espresso da Ginzburg nella prefazione (inquadrare il problema «in una prospettiva di ricerca
dichiaratamente storica»77) lo abbia forse fatto concentrare eccessivamente sui casi concreti,
individuali, dispensandolo dall’ «entrare nel campo della mentalità e della psicologia
collettiva». Il recensore ritiene, tra le righe, che lo storico torinese esageri la dicotomia tra la
consistenza dei singoli casi e la presunta astrazione di un concetto come «mentalità collettiva»,
anche perché l’oggetto della sua ricerca è proprio la mentalità di una società contadina, con la
sua trama concreta di credenze. Di conseguenza, a causa di questo pregiudizio di fondo,
Ginzburg si orienta verso un’analisi qualitativa delle fonti che, a parere di Tenenti, è
strumentalmente funzionale alla conferma della sua ipotesi (l’assimilazione del culto dei
benandanti alla stregoneria diabolica). Viceversa, un approccio quantitativo (dettato anche
dall’influenza sullo studioso della storiografia francese) avrebbe permesso di «verificare
l’ipotesi o il postulato adottati, raggruppando i dati secondo criteri diversi, per ricercarne
l’eventuale riprova» 78 : in concreto ciò avrebbe significato analizzare la documentazione
rinvenuta attraverso «il ricorso ad uno o più quadri statistici»79 (età, sesso, professione… di
ciascun benandante) e il rilevamento della distribuzione geografica dei casi secondo
procedimenti convenzionali, forse triti ma indispensabili per ogni ricerca storica che si voglia
attribuire una patente di scientificità.
Tenenti riconosce l’eccezionalità del materiale documentario rinvenuto da Ginzburg. Tuttavia,
per quanto esso sia prezioso, non bisogna fare l’errore di confondere la realtà che emerge dalla
lettura di quelle carte processuali con la realtà tout court: si tratta di un’accortezza per ovviare
agli inconvenienti derivanti dagli inevitabili filtri, tipici di fonti, come queste, tutt’altro che

76
A. Del Col, Prefazione, in F. Nardon, Benandanti e inquisitori nel Friuli del Seicento, Trieste 1999
77
I benandanti, cit., prefazione, § 4
78
Una nuova ricerca sulla stregoneria, cit., p. 386
79
Ibid.

39
asettiche. Inoltre, la complessità del fenomeno della stregoneria, di cui i procedimenti giudiziari
costituiscono solo una, seppur importante, sfaccettatura, richiede un accostamento da più fronti,
ad esempio un’analisi dello sfondo sociale, che Ginzburg ha sostanzialmente evitato.
Il recensore si sofferma sul concetto di scarto «tra l’immagine proposta dai giudici negli
interrogatori e quella fornita dagli accusati» 80 individuato da Ginzburg come marchio di
genuinità delle testimonianze. Gli atti, dunque, soprattutto quelli relativi ai primi processi
costituirebbero, a parere dello storico torinese, una cartina di tornasole piuttosto affidabile delle
credenze dei benandanti.
Tenenti si mostra in disaccordo con Ginzburg circa questo punto, soprattutto se si confronta
l’interpretazione dell’autore con il testo dei fascicoli processuali, pubblicati in appendice. Dalla
lettura di questi ultimi il critico pone in evidenza come la discrepanza, intravista da Ginzburg,
si collochi in realtà all’interno «di un unico, vasto mondo di credenze»81 e dunque c’è una base
comunicativa di partenza: inquisiti ed inquisitori, sebbene siedano ai lati opposti di un banco
processuale, si muovono «entro l’orizzonte di un patrimonio magico-religioso sufficientemente
omogeneo»82. Lo storico torinese avrebbe quindi esagerato l’aspetto dell’incomprensione che,
al di là di equivoci legati al gap riguardante i contesti culturali e linguistici di giudici e imputati,
«non deve mascherare la sostanziale solidarietà dei rispettivi loro contatti con il soprannaturale
e l’interazione secolare tra le forme popolari di essi e quelle teoriche» 83 . Non si deve poi
dimenticare che l’Inquisizione stessa non rappresenta un ente granitico e immutabile, date le
varianti diacroniche e diatopiche che hanno interessato l’espressione delle posizioni
demonologiche. Insomma, benandanti e inquisitori agiscono e si esprimono «in modo
conforme ai propri interessi concreti e al proprio grado di cultura»84 ma sono ben lungi dal
rappresentare due universi paralleli: essi battono un terreno comune di credenze condivise. Per
la storica americana A. Jacobson Schutte, l’interpretazione di Ginzburg è influenzata dalla
lettura giovanile di Gramsci che porta lo storico torinese a considerare il contrasto interclassista
come un processo irriducibile, privo di un’osmosi che non sia imposta dall’alto85.
Secondo Tenenti, Ginzburg ha enfatizzato anche la distinzione tra benandanti e stregoni «per
poter concludere che l’opera degli inquisitori ha finito poi per assimilarli»86. Si tratterebbe
invece di elementi che sono entrambi parti costitutive di un sostrato comune legato alle

80
Ivi, p. 387
81
Ibid.
82
Ivi, p. 387-388
83
Ivi, p. 388
84
Ivi, p. 387
85
A. Jacobson Schutte, Carlo Ginzburg, cit., p. 305
86
A. Tenenti, Una ricerca sulla stregoneria, cit., p. 388

40
credenze magiche popolari sulla fertilità dei campi, di cui si ha ampia testimonianza anche al
di fuori dell’area geografica evidenziata da Ginzburg (ad esempio in Spagna). Ancora una volta
Tenenti fa riferimento a un rapporto simbiotico piuttosto che dicotomico, segno di una realtà
complessa che vede il saldarsi del liturgico e del diabolico, all’insegna di un equilibrio, seppur
precario, tra religione e magia.
La tesi di Ginzburg secondo cui l’evoluzione del culto dei benandanti in direzione dello
stereotipo inquisitoriale rappresenta «una tendenza alla razionalizzazione»87 è particolarmente
contestata da Tenenti. È credibile questa etichetta di razionalità imposta da Ginzburg ai
benandanti, conseguenza della loro presunta attrazione nell’orbita stregonesca? Tenenti
evidenzia come un culto concreto, legato alla terra, contraddistinto da «uno stretto interscambio
di elementi liturgici, diabolici e magari anche pagani» non possa essere derubricato, come ha
fatto Ginzburg, a un mito popolare sganciato da «una qualsiasi tradizione colta e pertanto non
influenzato da fattori di unificazione e omogeneità»88.
Da ultimo, il recensore ritiene che le credenze dei benandanti fossero molto meno sconosciute
agli inquisitori di quanto sostenga Ginzburg. Di conseguenza l’atteggiamento, di pigrizia o
indifferenza, che lo storico torinese attribuisce all’incapacità, da parte dei giudici, di
classificare le credenze degli imputati, deriverebbe in realtà da modus operandi suggeriti dai
trattati demonologici: «gli inquisitori dovevano lasciar da parte e non perseguire le forme da
loro considerate più lievi di stregoneria»89 tra le quali erano già stati catalogati riti simili a
quelli dei benandanti.
Tenenti conclude il proprio intervento rimarcando come Ginzburg abbia dato alle credenze
contadine friulane un’interpretazione già minata in partenza da un suo preconcetto: in base ad
esso i benandanti si dovrebbero considerare solo in rapporto all’ottica dei giudici, che ne
avrebbe snaturato il culto in direzione di una deriva demonologica. Viceversa, il recensore
considera tale ottica un elemento «meno determinante»90 di quanto Ginzburg affermi. Sarebbe
stato opportuno, inoltre, allargare il campo d’indagine, sia in senso orizzontale (il contesto
sociale) che verticale (la scala temporale) «per fornire una trascrizione accurata del
fenomeno»91.

87
Il termine «razionalizzazione», presente nell’edizione del 1966 de I benandanti (p. 106), è sostituito
nell’edizione del 1972 da «semplificazione» (cap. III, § 10)
88
A. Tenenti, Una nuova ricerca sulla stregoneria, cit., p. 389
89
Ivi, p. 390
90
Ibid.
91
Ibid.

41
La replica di Ginzburg

La recensione non passa inosservata agli occhi di Ginzburg che, infatti, nel post-scriptum alla
prefazione dell’edizione del 1972, dedica una riflessione alla contrapposizione tra il piano
collettivo e quello individuale partendo da un’affermazione di Tenenti: il riferimento è al già
citato sfondo di credenze che accomuna benandanti e inquisitori per cui Ginzburg, secondo il
recensore, avrebbe dovuto cercare di tenere presente «la sostanziale solidarietà dei rispettivi
[…] contatti con il soprannaturale»92. Si tratta di una parziale correzione del tiro, consistente
nel riconoscimento da parte di Ginzburg dell’ingenuità della «contrapposizione tra mentalità
collettiva e atteggiamenti individuali» 93 . In sostanza, però, lo storico torinese, poco oltre,
mostra la propria idiosincrasia per un’«indifferenziata, interclassistica mentalità collettiva»94
che egli non vede come punto di partenza dell’analisi storica ma come punto di arrivo di un
processo «intimamente coercitivo e in quanto tale violento»95.
A. Jacobson Schutte ha considerato questa precisazione come pretestuosa, osservando che non
è certo la separazione arbitraria tra i piani individuale e collettivo a liberare l’analisi storica dai
rischi di astrattezza o scollamento dalla realtà: secondo la studiosa statunitense, l’applicazione
ai benandanti di tecniche di indagine proprie delle scienze sociali (dal momento che essi
costituiscono di fatto un gruppo di persone accomunate dalle medesime credenze) avrebbe
permesso di far maggior luce sulla loro parabola storica, senza per questo sminuire la rilevanza
dei casi individuali96.

“Being a benandante” di A. Pagden (1984)

In questa datata recensione, risalente al 1984, Pagden esordisce sottolineando la grande


reputazione internazionale conseguita da Ginzburg, da lui ritenuto uno dei più autorevoli storici
della cultura popolare. Tra i suoi meriti è da annoverare l’interesse per un mondo umile, in
genere ignorato dagli studiosi e che dunque risulta ancora una sorta di terra vergine della
ricerca. Lo storico torinese è riuscito a farci pervenire la voce, dispersa nell’oblio dei secoli,
delle classi subalterne di una regione periferica (il Friuli), attraverso l’analisi di una

92
Ivi, p. 388
93
I benandanti, cit., post-scriptum 1972
94
Ibid.
95
Ibid.
96
A. Jacobson Schutte, Carlo Ginzburg, cit., p. 306

42
documentazione straordinaria, quella relativa ai processi sui benandanti tra la fine del
Cinquecento e la prima metà del Seicento.
Il suo lodevole tentativo di ricostruzione di quella realtà, nobilitato da un talento narrativo
notevole, evidentemente ereditato dalla madre, non può tuttavia nascondere problematiche che
minano la credibilità della sua tesi, consistente in due punti fondamentali:

1. Le esperienze dei benandanti sono da collegare alla persistenza di un remoto culto della
fertilità, di cui essi costituiscono un’evidenza che, tuttavia, sarebbe solo la punta di un
iceberg molto più esteso
2. Sotto la pressione dell’Inquisizione essi, in un primo momento difensori in spirito dei
raccolti, in nome di Cristo e in favore della fertilità, dalla minaccia di streghe e stregoni,
vengono progressivamente costretti ad ammettere di essere tutt’uno con questi ultimi.

La prima osservazione critica che muove Pagden riguarda l’attendibilità delle testimonianze.
Tutto ciò che sappiamo della vita dei contadini, per lo meno fino alla fine del XVIII secolo,
proviene da fonti inevitabilmente parziali, ovvero i processi dell’Inquisizione: si tratta infatti
del punto di vista di un’élite dominante, disinteressata a quella realtà contadina in quanto tale,
se non per gli aspetti che riguardano la deviazione dall’ortodossia. Nel caso dei benandanti
questi potenziali deragliamenti sono costituiti dall’affermazione di agire in nome di Dio e di
lasciare il corpo sotto forma di spirito. A loro volta gli inquisiti hanno la percezione della
posizione pericolosa in cui si trovano e sanno, a un certo punto, che l’unica via d’uscita consiste
nell’ammettere di avere fatto ciò di cui i giudici li accusano.
Ginzburg mette in luce una progressiva evoluzione delle reazioni dei benandanti rispetto alla
pressione dell’Inquisizione: nei primi processi essi mostrano una resilienza notevole, legata,
secondo lui, alla consapevolezza della loro funzione agraria, legittimamente esercitata entro gli
argini dell’ortodossia; negli ultimi processi di questo strato non rimane nella loro memoria che
qualche confuso frammento e dunque i benandanti, a partire dal 1620 circa, non avrebbero più
gli strumenti per opporsi al martellamento dei giudici. L’esito di tale evoluzione consisterebbe
in una progressiva assimilazione del culto alla stregoneria.
Secondo Pagden è un’ipotesi che non si regge in piedi poiché implicherebbe un’organizzazione
settaria che giustifichi la costante e coesa rimodulazione, sotto gli stimoli dell’Inquisizione,
delle credenze dei benandanti lungo l’arco temporale considerato da Ginzburg. Di questa
organizzazione tuttavia non c’è prova alcuna, così come dell’auto-percezione del benandante
come appartenente a un gruppo, se non nelle battaglie notturne sotto forma di spirito.
43
Inoltre, gli inquisiti, messi alle strette nei processi, mostrano comportamenti ondivaghi ed
estemporanei, che variano da individuo a individuo: l’unica costante è il disperato tentativo di
afferrare un qualsiasi appiglio per sfuggire alla pressione psicologica e fisica
dell’interrogatorio, compreso il riconoscere come vere le stereotipate accuse mosse dai giudici.
Una significativa differenza tra i primi processi e gli ultimi su cui Ginzburg, a parere di Pagden,
non si è sufficientemente soffermato, consiste nella percezione che i benandanti hanno del
proprio ruolo e in quella della comunità nei loro confronti. Gasparutto e Moduco mettono in
evidenza la loro funzione di difensori notturni, in spirito, dei raccolti dalla minaccia di streghe
e stregoni: è una prerogativa che, per quanto i loro racconti presentino un margine d’ambiguità,
li fa percepire dalla comunità come personaggi eccentrici ma non certo una minaccia, data
l’assenza di implicazioni sociali nelle loro attività estatiche notturne.
Viceversa, la qualifica di benandante di Michele Soppe è legata alla sua reputazione di
guaritore di malie imposte dalle streghe, con le quali, dunque, persiste una forma di
antagonismo. Tuttavia, se prima questo antagonismo interessava attività che si svolgevano di
notte e sotto forma di spirito, ora (cioè ai tempi del processo a Soppe) si situa nella zona grigia
di superstizione e magia, pratiche abituali che implicano concrete interrelazioni sociali: dunque
basta poco perché la figura del benandante venga accostata a quella delle loro nemiche, con
tutte le spiacevoli conseguenze che ne possono derivare.
Pagden mette in luce l’eterogeneità degli atteggiamenti dei benandanti, che ritiene in qualche
modo fisiologica: infatti, a suo parere, la distanza temporale tra i processi a Gasparutto e
Moduco e quello a Soppe non è motivo sufficiente per dedurre che un cambiamento così
radicale sia dovuto alla pressione dell’Inquisizione. Dunque, i benandanti sarebbero delle
individualità accomunate da alcuni generici tratti in comune (tra cui la necessità di sfruttare la
loro ambigua reputazione come guaritori per guadagnarsi da vivere) piuttosto che membri di
un culto organico e coeso.
Il recensore esprime dubbi sull’attendibilità della tesi di Ginzburg secondo cui l’attività dei
benandanti costituirebbe la prova della sopravvivenza di un remoto culto della fertilità,
connesso ad altri simili in varie zone dell’Europa centro-orientale. Si tratta, peraltro, di una
rimodulazione di una delle due famosi tesi di Margaret Murray, (l’altra si riferisce alla realtà
fisica dei raduni notturni) a proposito della quale Ginzburg scrive che essa contiene un
«nocciolo di verità»97. Certo, Pagden ammette, ci sono tenui connessioni tra le prerogative
agrarie dei benandanti, le credenze germaniche in Diana (Holda), considerata divinità legata

97
I benandanti, cit. prefazione § 3

44
sia al mondo dei morti che alla fertilità, e la vicenda del lupo mannaro livone Thiess. Tuttavia,
egli ritiene queste analogie non abbastanza significative per ipotizzare un’origine comune: si
tratterebbe, allora, di somiglianze superficiali dovute al fatto che le società che hanno prodotto
questi fenomeni sono accomunate da strutture, condizioni e bisogni molto simili.
Il critico crede nella buona fede di Ginzburg, alle prese con testimonianze spesso ondivaghe,
difficilmente interpretabili con le moderne categorie di pensiero. Nelle affermazioni tranchant
dello storico, però, rinviene forzature metodologiche che elevano le credenze di un gruppo
marginale di individui a cartina di tornasole dell’atteggiamento dell’intera comunità: l’abito
confezionato da Ginzburg sui benandanti sarebbe dunque irrealistico poiché Pagden non vede
in loro i depositari di una mentalità popolare (caratterizzata da riti e atti codificati) in grado di
contrapporsi alla cultura dominante. Essi infatti non possiedono gli strumenti intellettuali per
rivestire un simile ruolo, anche perché hanno un’idea nebulosa della stessa dottrina cristiana:
lo dimostra la sorpresa manifestata da alcuni di loro nell’apprendere che affermazioni circa la
momentanea dipartita dell’anima dal corpo possono essere imputabili di eresia. Le pratiche dei
benandanti si situano su un terreno fertile caratterizzato da ignoranza e “superstizione” (legate
alla mancanza di una vera e propria educazione cristiana) ma non sono in grado di accreditarli
di un ruolo privilegiato negli ambienti sociali di cui fanno parte, piuttosto accade il contrario,
dal momento che rimangono costantemente ai margini della comunità.
La scarsa attendibilità dell’analisi di Ginzburg è confermata dall’atteggiamento degli
inquisitori i quali non vedono i benandanti come una reale minaccia all’ortodossia: lo certifica
l’esito dei processi, molti dei quali non portati a termine o conclusisi con condanne lievi. Ciò
dimostra che neanche la percezione dell’élite religiosa collimerebbe con le conclusioni di
Ginzburg sul loro presunto ruolo di portatori di fermenti collettivi, una sorta di coscienza di
classe contadina.
D’altra parte, escludere che i benandanti siano portavoce di una coscienza collettiva non
significa, secondo Pagden, derubricare le loro esperienze a segni di una condizione semiferina.
Egli vede nelle loro credenze e nei loro atti la manifestazione di un sentimento religioso nel
senso più profondo e puro del termine, sostanzialmente scevro di sovrastrutture confessionali.
Il loro è un tentativo di cercare una risposta, attraverso una mimesi estatica quasi teatrale (per
cui un ordinario torrente può diventare il confine tra due dimensioni e un prato di campagna la
biblica valle di Josaphat) alle eterne domande che l’uomo si pone attorno a se stesso e al proprio
destino, al rapporto tra corpo e anima, tra vita e morte. Si tratta di questioni che la Chiesa,
fondata sull’acritica accettazione, da parte del fedele, di regole e riti esteriori, affronta in modo
insoddisfacente. Pagden critica Ginzburg (accomunandolo ai cosiddetti storici della mentalità)
45
per il fatto di considerare i benandanti passivi depositari di credenze che vivono soltanto a
livello inconscio e ritiene che il loro livello di consapevolezza individuale sia molto maggiore
rispetto a quello ipotizzato dallo storico torinese.

La replica di Ginzburg98

Nell’incipit della sua replica Ginzburg richiama le obiezioni di Pagden circa l’organicità delle
credenze dei benandanti. Secondo il critico, le analogie tra le loro prerogative sono troppo
vaghe per convalidare l’ipotesi di un’evoluzione di massa del culto sotto la pressione
dell’Inquisizione che viceversa, a parere di Pagden, suscita reazioni modulate individualmente
dagli imputati. Dunque, questo fatto mal si accorderebbe con una supposta percezione dei
benandanti di se stessi come appartenenti a un gruppo (o setta). La parola setta viene usata da
Ginzburg in maniera piuttosto generica, poiché egli è conscio di avere a che fare con personaggi
dai tratti non comuni, che vivono una dicotomia estasi-realtà, spirito-materia, notte-giorno.
Eppure, come si evince dalla testimonianza relativa all’iniziazione di Menichino da Latisana
da parte di Tamburlino, è plausibile che i membri di questa setta abbiano dei contatti concreti
nella vita ordinaria che rendono possibile un’interazione tra due livelli altrimenti scollati.
Ulteriori indizi, come l’invito della benandante Narda Peresut, rivolto a una “cliente”, ad
evitare di parlare della sua attività di guaritrice «perché vedete in che modo hanno strusciato
una detta la Cappona de Cervignan in Udene»99 suggeriscono una percezione identitaria, di
appartenenza a un gruppo di persone accomunate dalle medesime prerogative. Si tratta dunque
di segnali che fanno supporre una rete di contatti sufficiente a motivare un progressivo
mutamento del culto in direzione di un’assimilazione allo stereotipo inquisitoriale.
Ginzburg contesta l’uso, da parte di Pagden, di aggettivi come «vaghe» e «dubbie»100 per
descrivere le credenze dei benandanti. Una tale posizione è palesemente smentita dalla
ricorrenza di tratti altamente specifici che caratterizzano le loro esperienze: il destino comune
legato alla nascita nell’amnio, le trance estatiche, le battaglie notturne solo in determinati giorni
(le tempora), l’uso del finocchio o del sorgo come armi.
L’altra tesi di Pagden, riguardo la presunta eterogeneità delle reazioni dei benandanti in sede
processuale, è contraddetta, secondo Ginzburg, da un’evidenza che traspare chiaramente dagli
atti: solo dopo mezzo secolo dai primi processi si comincia a registrare una transizione delle

98
C. Ginzburg, Letter, in «London Review of books», vol. 6 no. 7 (19 aprile 1984)
99
I benandanti, cit., cap. I, § 5
100
Vague e uncertain nel testo originale

46
testimonianze dallo scenario delle battaglie per la fertilità a quello del sabba diabolico, peraltro
non esente dalla persistenza di lacerti del culto originario nonostante le forti pressioni
inquisitoriali. Lo storico torinese ritiene che mezzo secolo di resilienza, tenendo conto della
disparità intellettuale delle forze in campo, sia un lasso di tempo significativo che dimostra la
coesione del culto piuttosto che la sua supposta disorganicità.
L’aspetto più significativo di questa progressiva evoluzione riguarda la percezione che i
benandanti hanno di se stessi all’inizio dei singoli processi. I primi atti, nel momento in cui
l’imputato si presenta dinanzi al giudice, registrano un suo deciso antagonismo nei confronti
di streghe e stregoni; a partire dal 1620 circa, l’approccio iniziale tra inquisiti e inquisitori è
segnato invece da un’autoconsapevolezza dei primi molto meno netta rispetto al proprio ruolo.
Sono gli indizi di una transizione verso una vera e propria identificazione con le streghe indotta,
a parere dello storico, dalla dialettica tra due forze complementari: una esterna, data dalla
manipolazione psicologica alla quale i benandanti sono sottoposti dai giudici, e una interna,
che consiste nel progressivo rimodellamento, a livello inconscio, delle loro credenze.
La replica di Ginzburg all’osservazione di Pagden circa la scarsa consistenza dei legami tra i
fenomeni friulani, germanici e baltici si allarga a considerazioni di carattere metodologico. Lo
storico infatti sottolinea la mancanza di coerenza nell’approccio del recensore che da un lato
considera scarsamente significative ricorrenze circostanziate e dettagliate, dall’altro sostiene la
propria tesi (società simili originano fenomeni simili) partendo da un assunto che pecca di
determinismo. Non si sa bene in base a quale analisi, infatti, Pagden ritenga che quelle di
Dalmazia, Svizzera, Bavaria, Livonia e Friuli siano società accomunate da bisogni, condizioni,
strutture economiche e religiose simili.
Nella sua recensione Pagden aveva criticato la disinvoltura con cui, a sua detta, Ginzburg si
sarebbe contraddetto nel definire tout court Anna la Rossa una benandante poche pagine dopo
avere scritto, a proposito degli atti del processo che la riguardano, che «non viene detto che
Anna la Rossa sia una benandante, anzi il termine non viene neppure pronunciato»101. A questo
proposito lo storico torinese fa notare come la seconda affermazione sia in realtà l’esito di una
serie di indizi concentrici provenienti da altre testimonianze (quelle di Aquilina e di Caterina
la Guercia) che egli riporta tra i due brani citati da Pagden. Tali indizi, evidentemente sfuggiti
al recensore, rafforzano, a parere di Ginzburg, il legame tra la prerogativa, propria di Anna, di
«vedere i morti»102 dopo essere caduta in una sorta di letargo, e la sua identificazione come

101
I benandanti, cit. cap. II, § 1
102
Ibid.

47
benandante: essa è suffragata dalla dichiarazione di Aquilina secondo cui la facoltà di vedere i
morti è riservata a coloro che nascono con la camicia e da quella di Caterina, la quale afferma
che suo marito, benandante, va «in procession con li morti»103. Anche le connessioni tra i
benandanti e la narrativa riguardante Diana e la sua schiera notturna si fondano su collegamenti
intermedi di questo tipo, «Zwischenglieder»104 per citare Wittgenstein, la cui autorità Ginzburg
chiama a convalidare la legittimità del proprio metodo.
Pagden, per smentire l’ipotesi di Ginzburg riguardo il ruolo dei benandanti come depositari
delle tradizioni, delle speranze e dei bisogni legati alla vita quotidiana delle comunità, ne
sottolinea la (presunta) marginalità basandosi su due affermazioni discutibili che lo storico
contesta: la prima, circa il fatto che pochi di loro sembrino rivestire una posizione di rilievo
all’interno delle comunità di riferimento, è indimostrabile; la seconda collega i concetti di
indigenza e marginalità ma lo fa chiaramente in maniera pretestuosa perché la povertà è una
condizione che accomuna gran parte delle persone che fanno parte di quell’ambiente: dunque,
piuttosto, sarebbe un puntello all’ipotesi di Ginzburg.
L’unica conclusione possibile è che la progressiva marginalità sociale, di cui sono vittime i
benandanti lungo il periodo esaminato, sia il risultato dell’azione coercitiva degli inquisitori.
È Pagden stesso, in realtà, con le sue ultime osservazioni a contraddirsi: infatti come si può
conciliare la precedente affermazione sulla mancanza di coesione delle credenze dei benandanti
con l’importante funzione attribuita loro dal recensore come alternativa, molto più concreta e
profonda, alla stantia dottrina della chiesa cattolica? Di nuovo, pare una critica che, più che
smentire, sostiene la posizione dello storico torinese.
Da ultimo Ginzburg si dichiara d’accordo con Pagden sulla necessità di approfondire
ulteriormente il significato delle testimonianze rese dai benandanti, fondate su un culto arcano
che ci giunge filtrato da un linguaggio spiazzante, non facilmente decodificabile. Lo storico
tuttavia rigetta le accuse, mossegli dal critico, di avere trascurato la capacità di rielaborazione
dei benandanti, come gruppo o come singoli individui, delle loro credenze rispetto al
condizionamento omologante di una «mentalità collettiva». O meglio, è sì convinto che il
nucleo di tali credenze si fondi su un sistema, una struttura non creata da loro poiché affonda
le proprie radici in un passato remoto; d’altra parte, però, tra questa struttura e le loro esperienze
corre lo stesso rapporto che c’è, in linguistica, tra la langue (la lingua come sistema), e la parole

103
Ivi, cap. II, § 3
104
L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, trad. it., Milano 1975, pp. 28-29

48
(l’ esecuzione del singolo parlante): la presenza del primo non condiziona le seconde a tal punto
da negare la possibilità di innovazioni, articolazioni individuali, trasformazioni.

La contro-replica di Pagden105

Il recensore precisa che le sue lodi del talento di Ginzburg come scrittore non intendono
sminuire il valore storico della sua ricerca, quasi che un aspetto escluda necessariamente l’altro.
Anzi, sottolinea come sia un antico ma diffuso pregiudizio quello secondo cui gli storici, per
risultare credibili, debbano ricorrere ad uno stile piatto e scarsamente avvincente.
Sul concetto di setta, che pare costituire il principale motivo di disaccordo tra i due storici,
Pagden non recede dalla propria posizione poiché le argomentazioni di Ginzburg gli appaiono
scarsamente significative: in aggiunta alle osservazioni già fatte sulla mancanza di coesione
funzionale tra i vari membri, il critico sottolinea come una setta dovrebbe essere caratterizzata
da una struttura rituale concreta, non surrogabile da esperienze vissute in stato onirico o
estatico.
Scarsamente credibile, inoltre, è la ricostruzione di Ginzburg secondo cui le credenze dei
benandanti si modificano progressivamente in direzione di un’assimilazione alla stregoneria,
senza che essi se ne rendano nemmeno conto.
In ogni caso, le testimonianze che dovrebbero comprovare una transizione collettiva del culto
in quella direzione rimangono troppo frammentarie, troppo imprecise per costituire un insieme
di prove attendibili.
Pagden richiama ora la differenza di vedute sulla presenza di tratti cultuali analoghi in società
lontane tra loro: Ginzburg li ricollega all’esistenza di una struttura originaria comune (concetto
mutuato dalla linguistica di Chomsky e dall’antropologia strutturale di Levi-Strauss) mentre il
recensore li derubrica a somiglianze superficiali dovuta ad un altrettanto generica somiglianza
tra le società in cui questi fenomeni si sono verificati.
Secondo Pagden, Ginzburg si infila in un vicolo cieco nel tentativo di argomentare la propria
posizione: se queste società, come afferma Ginzburg, sono caratterizzate da bisogni sociali e
spirituali diversi, l’elemento comune che dovrebbe rispondere a questi bisogni è offerto da
quell’insieme di credenze che lo storico vede come criterio fondamentale per attribuire ai
benandanti la definizione di setta, rifiutata però dal critico in base alle considerazioni fatte in

105
A. Pagden, Reply to Ginzburg’s letter, in «London review of books», vol. 6 no. 7 (19 aprile 1984)

49
precedenza. Pagden, di conseguenza, afferma che questo (falso) sillogismo non costituisce una
prova.
Il critico mette in rilievo la debolezza delle argomentazioni di Ginzburg per attribuire la
qualifica di benandante. Qui egli si riferisce alla querelle su Anna la Rossa sottolineando, la
scarsa tenuta degli anelli intermedi della catena logica delineata da Ginzburg. Ad esempio, se
è vero che Caterina la Guercia parla di suo marito come benandante e riferisce che egli «andava
in processione con li morti», è anche vero che, in base agli indizi che emergono dagli atti, sono
pochi i benandanti ad affermare di andare in processione coi morti. Dunque, non si tratta di un
indizio così probante per validare l’ipotesi che Anna la Rossa sia una benandante.
L’ultimo punto, sul quale il recensore rimarca con forza la sua posizione, riguarda la presunta
centralità delle credenze dei benandanti all’interno delle loro comunità, di cui essi sarebbero i
depositari di bisogni e speranze. Pagden sottolinea l’incompatibilità tra l’ipotesi di Ginzburg e
la reputazione piuttosto ambigua dei benandanti, in virtù della loro fama di guaritori e della
contiguità col mondo della superstizione e della magia: essi devono muoversi in una sorta di
terreno minato, in cui un passo sbagliato (una guarigione promessa ma non avvenuta, oppure
una richiesta eccessiva di ricompense per i loro servizi) può portare all’accusa di truffa e la
messa al bando da parte del consesso sociale. È dunque davvero poco plausibile che questa
marginalità dei benandanti sia legata alla crescente pressione dell’Inquisizione a meno che la
maggior parte della comunità non condividesse con l’élite religiosa i sospetti di eterodossia che
circondavano le loro pratiche; quest’ultimo assunto, tuttavia, striderebbe con l’immagine cucita
loro addosso da Ginzburg di depositari «delle tradizioni della comunità»106.
Pagden conclude ribadendo la sua perplessità sull’ipotesi di una trasformazione del culto
avvenuta a livello inconscio, poiché chiunque, sia esso un filosofo o un contadino, deve avere
una ragione per credere (ove il termine ragione evidentemente si riferisce a un processo mentale
consapevole, una precisa scelta) ed esprime la speranza che molti degli interrogativi da lui posti
nella sua critica trovino una risposta in Storia notturna (non ancora pubblicato all’epoca di
questa recensione).

La recensione di H.C. Erik Midelfort (1986)

Come fa notare Ginzburg nella prefazione all’edizione in inglese de I benandanti, uscita nel
1983 con il titolo The night battles, Midelfort è uno di quei critici che prima di allora, avendo
avuto della versione italiana solo notizie di seconda mano, ne aveva dato un’interpretazione

106
I benandanti, cit., cap II, § 1

50
distorta107. Infatti, egli aveva ritenuto che i benandanti costituissero l’unica prova, offerta fino
ad allora, dell’esistenza di un vero e proprio culto stregonesco all’inizio dell’era europea
moderna 108 . Lo storico torinese sottolinea che si tratta di un giudizio fuorviante qualora
sottintenda l’esistenza concreta di un gruppo dotato di un’organizzazione settaria e comunque,
aggiunge, la chiave interpretativa dell’opera non risiede in questo dettaglio.
Dopo la pubblicazione della versione inglese, Midelfort aggiorna il proprio giudizio
ammettendo che il nucleo tematico consiste, da un lato, nell’evidenza, sostenuta dall’autore,
dell’esistenza di un culto agrario di origine precristiana praticato dai benandanti, ancora
straordinariamente vivo in Friuli alla fine del XVI secolo; dall’altro di come le credenze di
costoro si siano, a parere di Ginzburg, progressivamente modificate sotto la pressione
dell’Inquisizione. Il critico, tuttavia, ritiene che entrambi questi aspetti evidenziati dallo storico
torinese si prestino a considerazioni critiche.
Midelfort innanzitutto si dichiara scettico sulla pretesa di ricondurre l’emergere di alcuni
sparuti indizi (il riferimento è alla vicenda del lupo mannaro livone Thiess) alla presunta
esistenza di un culto della fertilità dalle caratteristiche omogenee, universali. Si tratta, a suo
parere, di un atteggiamento prevenuto, analogo a quello degli inquisitori che deducevano
l’esistenza di una vera e propria cospirazione dal fatto che le confessioni delle presunte streghe
fossero conformi allo schema demonologico da loro stessi imposto. Dunque, Ginzburg
vorrebbe attribuire un arbitrario significato universale a un culto dalle caratteristiche locali
senza prove concrete (storiche) di questa connessione.
Un’altra perplessità nasce dall’uso degli atti dei processi come strumento esclusivo di
ricostruzione storica, senza considerare altri elementi (ad esempio deducibili da ricerche
etnografiche) che avrebbero permesso di collocare i fenomeni descritti all’interno di un
contesto concreto oppure di ripercorrere le circostanze che portarono i benandanti al cospetto
dell’Inquisizione. Il lettore ne riporterebbe una sensazione di staticità, di vaghezza, per cui non
si riesce a percepire la realtà sociale che fa da sfondo alla vicenda: i benandanti (e i loro giudici)
si muovono alla stregua di attori su un palcoscenico privo di scenografia e questa
indeterminatezza richiama anche l’opportunità di definire o meno le loro pratiche un vero e
proprio culto. Sebbene Ginzburg paia suggerire il contrario, non emerge alcuna prova che essi
si riunissero fisicamente per celebrare dei riti notturni e dunque l’unico aspetto pseudo-settario

107
The night battles, cit., p. XVII

108
H.C.E. Midelfort, Were they really witches? cit., p. 203-04

51
dei fenomeni analizzati riposa su basi molto labili, consistendo in esperienze non corporee (che
si vogliano chiamare estasi o sogni).
Un altro appunto che Midelfort muove nei confronti della ricostruzione di Ginzburg riguarda
la consistenza dell’attrazione dei benandanti nell’orbita dello stereotipo demonologico. Il punto
di partenza, condiviso, è l’ortodossia da loro ostinatamente professata all’inizio dei processi,
nel 1575. Dagli atti traspare una considerazione complementare, sincretica della fede in Dio e
del culto della fertilità: gli inquisiti, con genuina naturalezza, non vedono perché uno dei due
aspetti dovrebbe escludere l’altro. È sugli effetti della pressione degli inquisitori che Midelfort
ha una visione diversa rispetto a Ginzburg: il critico nota come un solo benandante, Michele
Soppe, ammetta di aver fatto parte del consesso delle streghe e di avere abiurato la fede
cristiana e comunque si chiede quanto tale confessione sia veritiera o rifletta l’effetto degli
interrogatori sulla psiche dell’imputato. Viceversa, in numerosi altri casi, nonostante la
situazione di estrema difficoltà psicologica che li costringe a parziali cedimenti, i benandanti
mostrerebbero una sostanziale aderenza alla percezione di se stessi come benevoli avversari
delle streghe. Si tratta di una considerazione che metterebbe, dunque, in crisi l’intero impianto
della tesi conclusiva di Ginzburg, ovvero l’assimilazione pressoché completa dei benandanti
allo stereotipo inquisitoriale già a partire dalla metà del XVII secolo.
Midelfort pare suggerire che il punto di vista di Ginzburg sia condizionato dalla sua lettura
giovanile di Gramsci, in particolare dal concetto di egemonia culturale: la classe dominante
imporrebbe, attraverso un processo di forzata manipolazione, il proprio modello culturale alla
maggioranza della popolazione, che non ha gli strumenti intellettuali per difendersi. Si
tratterebbe dunque, sempre, «di un processo intimamente coercitivo e in quanto tale
violento»109 che nega un’osmosi non forzata tra i due livelli in direzione alto-basso. È una tesi
che viene contestata anche da Paola Zambelli in relazione al caso del mugnaio Menocchio,
protagonista di un’altra fortunata opera di Ginzburg, Il formaggio e i vermi110. La studiosa
ritiene che «tutto l'essenziale delle idee di Menocchio abbia un rapporto vivace e critico, ma
innegabile con alcune tendenze avanzate dell'alta cultura contemporanea»111.
Nonostante gli appunti mossi, Midelfort riconosce a I benandanti un ruolo fondamentale nel
disvelamento di uno strato, fino allora trascurato, di cultura popolare attraverso l’attenta lettura

109
I benandanti, cit. post-scriptum 1972
110
C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino 1976
111
P. Zambelli, Uno, due, tre, mille Menocchio? In «Archivio Storico Italiano», vol. 137, no. 1 (1979), pp. 51-90

52
degli atti giudiziari. In particolare, riveste una funzione basilare l’individuazione degli scarti
tra le convinzioni stereotipate dei giudici e le credenze degli inquisiti: ciò consente allo storico
di ricostruire mentalità e convinzioni degli imputati in maniera sufficientemente esente da
incrostazioni erudite. Un esito esemplare di tale operazione è la scoperta della concretezza,
sconfinante quasi nel materialismo, della nozione di “anima” propria di quei contadini friulani.
Il critico conclude sottolineando la valenza pionieristica dell’opera e l’acume con cui Ginzburg
riporta a galla frammenti di cultura popolare dispersi nelle nebbie del tempo, attraverso un
originale procedimento: un ideale contro-interrogatorio in cui gli inquisitori diventano
inquisiti, lasciando filtrare nella maniera meno inquinata possibile lo strato di credenze oggetto
dell’interesse dell’autore.

“Shamanism and witchcraft” di G. Klaniczay (2006)

Gabor Klaniczay, ungherese, è uno dei primi storici ad avere focalizzato la propria attenzione
sul rapporto tra sciamanesimo e stregoneria, un settore di ricerca molto fiorente, specialmente
negli anni ottanta del XX secolo. Egli ritiene che la scoperta della documentazione sui
benandanti sia stato l’evento chiave per alimentare l’attenzione sull’argomento e che la
discussione sia stata ulteriormente sollecitata dall’affascinante ipotesi proposta da Ginzburg: i
tratti riscontrati dalle testimonianze dei benandanti (la nascita nel sacco amniotico,
l’iniziazione onirica, le battaglie notturne in spirito mentre il corpo giace immobile in trance,
la prerogativa di comunicare coi morti) «si compongono in un quadro coerente che richiama
immediatamente i culti degli sciamani» 112 . In questo contributo Klaniczay analizza le
straordinarie somiglianze tra i benandanti e gli ungheresi taltos, sia per quanto riguarda la
presenza di tratti sciamanici che per il modo attraverso cui questi culti sono stati attratti
nell’orbita inquisitoriale.
Lo studioso ritiene che i taltos siano i più autentici discendenti europei degli sciamani siberiani:
la documentazione che li riguarda si compone di testimonianze derivanti da ricerche folcloriche
ed etnografiche risalenti al XIX e XX secolo e dagli atti dei processi ungheresi per stregoneria.
Così come i benandanti, essi sono distinti da un marchio congenito (nel loro caso denti od ossa
in eccesso), hanno esperienze iniziatiche adolescenziali, costituite da visioni che prefigurano il
loro ruolo, combattono i nemici della comunità nel corso di viaggi estatici notturni (spesso in

112
I benandanti, cit. cap. I, § 15

53
forma di animali, come cavalli o tori) mentre il loro corpo si trova in uno stato di completa
immobilità.
Secondo Klaniczay, benandanti e taltos sono due elementi di una rete estesa, costituita da figure
che, analogamente a loro, presidiano con le loro pratiche magiche la zona grigia situata tra il
mondo terreno e l’aldilà: altri esempi di questo contesto sciamanico sarebbero costituiti dai
croati kresnik, dai serbi zduhač, dai romeni strigoi (importante in quest’ultimo caso l’apporto
di Mircea Eliade nell’individuazione del parallelismo con i benandanti113); ulteriori analogie
sarebbero riscontrabili nelle credenze diffuse nel mondo slavo circa i lupi mannari:
particolarmente rilevante, in questo contesto, la vicenda dell’ottuagenario Thiess, già
menzionata in più circostanze dallo stesso Ginzburg.
Una fondamentale domanda, a cui Klaniczay tenta di dare una risposta, riguarda il grado di
aderenza di questi culti europei dai tratti sciamanici all’originale modello siberiano. Balza
all’occhio una fondamentale differenza: i viaggi estatici di figure come i benandanti e simili
non hanno le caratteristiche del rito pubblico tipiche dello sciamanesimo classico. La
sostanziale segretezza delle loro pratiche, per cui il ruolo di benandante rimane nascosto alla
maggioranza dei membri della comunità, è il segno di un fenomeno, un tempo probabilmente
molto più vitale, in fase di avanzata disgregazione già all’inizio dell’era moderna. Circa la
relazione con credenze di tipo stregonesco, Klaniczay osserva come una caratteristica
accomuni benandanti, taltos e kresnik: la loro auto-identificazione come nemici delle streghe e
la reputazione di guaritori da malie da queste imposte. I taltos, tuttavia, seguono una parabola
simile a quella dei benandanti per cui il loro coinvolgimento in un’area di pratiche ambigue,
liminari, seppur volte a combattere la stregoneria, basta ad attirare su di loro i sospetti
dell’Inquisizione.
Importanti contributi riguardo il tessuto connettivo di questo sostrato folclorico convergente
verso il (discusso) concetto di sciamanesimo europeo sono stati forniti, secondo Klaniczay,
dalla sua connazionale Eva Pocs 114 . Interessante, in particolare, l’accostamento tra le due
ramificazioni individuate da Ginzburg e caratterizzate da specializzazione di genere (i
benandanti agrari maschi e le benandanti funebri femmine) e la dualità che contraddistingue,
secondo Pocs, le credenze mitologiche relative all’area baltico-slava: il dio Perun, che la
studiosa lega al concetto della fertilità dei campi e la sua controparte Veles (o Volos), dalla
forma di serpente o drago, associato all’idea di una comunicazione con il mondo dei morti.

113
M. Eliade, Some observations on European witchcraft, cit.
114
E. Pocs, Shamanism, witchcraft and Christianity in early modern Europe, in Studies in folklore and popular
religion, 3 (1999), pp. 111-35

54
L’individuazione di un sistema di credenze dai tratti sciamanici ha contribuito, a parere di
Klaniczay, ad allargare le prospettive sulla natura delle confessioni riguardanti il sabba
stregonesco, a lungo considerate prodotto di erudizione, derivante unicamente dallo stereotipo
imposto dagli inquisitori. Al di là dell’analisi dei singoli aspetti che caratterizzano questo
sostrato arcaico, è interessante operare un confronto tipologico con la stregoneria che a un certo
punto gli si sovrappone: lo sciamanesimo si configura come un modo per difendere una
comunità dall’aggressione di un nemico esterno, con il conferimento di un ruolo fondamentale
di protezione a un individuo (lo sciamano) dalle caratteristiche congenite soprannaturali: non
c’è pericolo di “contaminazione”, i ruoli sono ben definiti. Viceversa la stregoneria prevede
una lotta contro un nemico interno alla comunità, dunque nelle società caratterizzate dalla
compresenza di questi due insiemi di credenze, il ruolo che un tempo era dello sciamano viene
declassato a guaritore da malie imposte da streghe. Si tratta di una reinterpretazione della
funzione originaria che sfocia però in una percezione ambigua da parte della comunità di
riferimento: infatti combattere le malie delle streghe significa calcarne lo stesso territorio, fatto
di pratiche magiche che implicano il contatto costante con forze maligne, demoniache. È un
processo che, a lungo andare, porta allo sfaldamento delle credenze arcaiche, come ben
testimonia la documentazione reperita da Ginzburg.

Benandanti e inquisitori nel Friuli del Seicento (1999)

Franco Nardon è l’autore di un importante volume pubblicato nel 1999 (Benandanti e


inquisitori nel Friuli del ‘600) che, attraverso un’analisi delle fonti maggiormente orientata in
senso quantitativo, giunge a conclusioni molto diverse da quelle di Ginzburg circa l’evoluzione
del culto dei benandanti.
L’interessante prefazione di Andrea del Col parte dalla constatazione che l’autorità, acquisita
dallo storico torinese con la pubblicazione della sua pietra miliare nel 1966, ha suscitato negli
studiosi una sorta di eccessiva reverenza tanto che, dopo l’indagine sulle fonti primarie da parte
dell’autore, pochissimi hanno osato mettere di nuovo piede nell’Archivio della Curia
Arcivescovile di Udine: l’opera, di conseguenza, ha assunto i connotati di una vulgata
sull’argomento, fatto che, però, ha comportato un effetto negativo, consistente nell’ibernazione
dell’analisi diretta sui documenti.
Del Col non nasconde i meriti di Ginzburg, che riassume in tre motivi principali:

55
1. L’autore opera un ribaltamento di prospettiva rispetto all’approccio della storiografia
tradizionale
2. I benandanti segna l’apertura di un vivace dibattito sul rapporto tra cultura popolare e
stregoneria
3. La pubblicazione si inserisce in un contesto culturale e sociale in evoluzione, verso un
maggiore interesse per le problematiche delle classi subordinate (siamo alla vigilia del
Sessantotto)

L’aspetto più immediatamente innovativo dell’opera consiste nel porsi nei panni degli inquisiti,
nel tentativo di ricostruire le loro credenze, mentre l’approccio della storiografia tradizionale
aveva fino a quel momento considerato solo l’analisi della repressione. A Ginzburg pare di
individuare nell’incomunicabilità tra inquisitori ed inquisiti un elemento di novità, una sorta di
marchio di originalità delle confessioni, non deformate dalle aspettative dei giudici. A questa
novità egli si accosta con criteri sperimentali di analisi che privilegiano di gran lunga
l’approfondimento qualitativo, con particolare attenzione dunque per le singolarità, le
anomalie, le crepe nella documentazione. È una lettura che porta a galla strati, fino a quel
momento sommersi, di cultura popolare, operazione nella quale giocano un ruolo importante
anche le domande degli inquisitori che, secondo Ginzburg, fanno le veci di antropologhi ante-
litteram. Sono, questi, gli ingredienti di base che accomunano I benandanti all’altra grande
opera dello storico torinese, Il formaggio e i vermi, edita nel 1976: entrambe, per temi affrontati
e metodi adottati, costituiscono importanti contributi che rispondono alle «esigenze diffuse di
svecchiamento di oggetti, metodi, modi espositivi della ricerca storica in un clima critico verso
la tradizione ed il potere»115.
Il libro di Nardon affronta un paio di questioni fondamentali, lasciate inevase da Ginzburg: la
prima concerne la ricognizione sugli atti dei processi relativi alla seconda metà del Seicento,
non affrontata da Ginzburg in quanto, in riferimento alla tesi da lui sostenuta, la parabola dei
benandanti poteva dirsi conclusa verso il 1650 circa. La seconda problematica ruota attorno al
contesto sociale e culturale dei benandanti e soprattutto al loro ruolo, ignorato da Ginzburg ma
documentato nel XVII secolo, di guaritori in funzione anti-stregonica.
È proprio in riferimento a quest’ultimo punto che, secondo Del Col, la ricerca di Nardon mette
in crisi la ricostruzione ginzburghiana, che dà per scontata l’assimilazione dei benandanti allo

115
A. Del Col, Prefazione, cit. p. 8

56
schema inquisitoriale quando, ancora nel tardo Seicento, la vitalità del loro impianto di
credenze e funzioni pare suggerire l’ipotesi opposta.
Del Col ritiene che la decisione di Ginzburg di privilegiare, nell’ambito del complesso di miti
e credenze relative ai benandanti, alcuni aspetti (la componente agraria) piuttosto che altri (la
componente funebre o la funzione anti-stregonica di guaritori), sia per l’appunto una scelta
arbitraria: si tratterebbe, dunque, di un’operazione soggettiva legata a una discutibile
interpretazione ma non giustificata da motivi intrinseci al fenomeno studiato. La conclusione
di Ginzburg sarebbe talmente affrettata che egli non si sarebbe nemmeno accorto che persino
alla fine del XVII secolo «emergono cenni precisi alla persistenza delle battaglie notturne per
la fertilità»116.
A parere di Del Col ciò è legato anche a una concezione troppo monolitica dell’Inquisizione
da parte di Ginzburg: egli, cioè, avrebbe data per scontata un’identità corporativa
dell’istituzione senza considerare che anche i giudici erano uomini, con le loro personali
convinzioni; inoltre anche l’Inquisizione è stata interessata, col passar del tempo, da
un’evoluzione delle sue prerogative e delle sue funzioni. Di conseguenza il filtro delle carte
processuali sarebbe molto più complesso e mutevole rispetto a quanto evidenziato dall’analisi
di Ginzburg che Del Col giudica semplicistica.
Questi si trova in disaccordo con lo storico torinese soprattutto in relazione alla valutazione del
ruolo svolto dagli inquisitori che, come accennato in precedenza, nel caso dei benandanti
Ginzburg accosta a quello dell’antropologo. Si tratta, secondo Del Col, di un’interpretazione
fuorviante poiché troppo influenzata da una prospettiva soggettiva dello storico, le cui
aspettative proiettano sulla figura dell’inquisitore una luce che ne deforma il profilo: a
differenza dell’antropologo, infatti, che cerca di astrarsi dal suo oggetto di analisi, evitando di
sovrapporre la propria cultura alla cultura che studia, «il giudice di fede valuta le idee e i
comportamenti degli imputati con i criteri della propria teologia»117. Dunque, l’affermazione
di Ginzburg secondo cui «le voci di questi contadini ci giungono direttamente» 118 è molto
lontana dall’essere attendibile. È sufficiente a certificarlo un atto di immedesimazione emotiva
rispettivamente nei ruoli dell’imputato di fronte al giudice e dell’intervistato di fronte
all’antropologo: questo non rischia nulla di suo, quello può anche essere condannato a morte.
Del Col ritiene che, per ovviare alla fuorviante identificazione dell’inquisitore come
antropologo, lo storico debba, a sua volta, porsi nei confronti del giudice come farebbe un

116
A. Del Col, Prefazione, cit. p. 9
117
Ivi, p. 14
118
I benandanti, cit. prefazione, § 1

57
antropologo: operare un distacco emotivo che gli consenta di distinguere chiaramente i propri
criteri da quelli dell’inquisitore.
La transizione delle credenze e dei miti dei benandanti verso lo stereotipo del sabba sarebbe
dunque solo apparente. In realtà, afferma Del Col, a essere oggetto di un’evoluzione sono state
«le idee dei singoli giudici, la rosa dei delitti perseguiti, le procedure adottate» 119 . Nella
valutazione di Nardon e Del Col entrano in gioco fattori legati ad aspetti giuridici e anche alla
personalità dei singoli giudici, tanto che il periodo 1634-1650, individuato dallo storico
torinese come la fase della metamorfosi giudiziaria e culturale subita dai benandanti, coincide
con l’attività di inquisitori (soprattutto fra’ Missini) attenti più dei loro predecessori e
successori al reato di stregoneria.
Tra le variabili non considerate da Ginzburg, Del Col cita anche contrasti di giurisdizione tra
l’inquisitore che interrogò i primi benandanti e il giudice ecclesiastico ordinario, il vicario
patriarcale. Il commissario del Sant’Uffizio di Roma era maggiormente interessato alla
descrizione delle battaglie notturne, e non delle pratiche terapeutiche, in funzione dell’obiettivo
che intendeva perseguire: dimostrare il carattere ereticale dell’attività dei benandanti per
difendere le proprie prerogative giuridiche. Attribuire a questi casi particolari di conflitto
giurisdizionale un valore di esemplarità è, a parere di Del Col, metodologicamente scorretto.
Un ulteriore importante elemento che getta ombra sulla valutazione dell’Inquisizione come
soggetto collettivo, rigido e unitario, è l’adozione di una nuova procedura giuridica, l’istituto
della spontanea comparizione, a partire dalla seconda metà del Seicento. Conseguenza di ciò
è, oltre a uno snellimento dei processi, che diventano quasi un’estensione del confessionale, la
concentrazione dell’interesse dei giudici su «crimini individuali (operazioni magiche, malefici,
abuso di sacramenti, patto con il diavolo) piuttosto che su fenomeni collettivi quali erano il
sabba e le battaglie mitiche dei benandanti»120.
Il libro di Nardon si concentra in particolar modo sull’attività terapeutica ed anti-stregonica dei
benandanti, componente particolarmente significativa nella seconda metà del Seicento,
evidenza che, secondo l’autore, smentirebbe la loro assimilazione nello stereotipo del sabba
diabolico. Le credenze effettive dei benandanti continuarono dunque ad essere «vive nella
comunità ed espressione di una funzione sociale (la contro-stregoneria)»121.

119
A. Del Col, Prefazione, cit. p. 10
120
Ivi, p. 11
121
Ivi, p. 13

58
CAP. III- DA “I BENANDANTI” A “STORIA NOTTURNA”

Sebbene Ginzburg si dichiari restio a individuare un filo conduttore nella sua parabola di
ricerca storica, preferendo considerarla «una partita a scacchi in cui i pezzi, anziché essere
distribuiti all’inizio, vengono introdotti via via nel corso del gioco» 122 , ciò non di meno
possiamo affermare che esiste un evidente legame tra I benandanti e Storia Notturna.
Quest’ultima, infatti, costituisce l’ambizioso tentativo di offrire un’articolata risposta a una
questione fondamentale espressa già nella prefazione all’opera del 1966: «la connessione,
indubitabile, esistente tra benandanti e sciamani»123, affermazione forse temeraria ma che si
basava sulle evidenti analogie riscontrate da Ginzburg tra il caso friulano e la vicenda del lupo
mannaro livone Thiess, scoperta casualmente appena prima della pubblicazione de I
benandanti. In quel contesto l’autore, facendo riferimento alla distinzione tra comparazione
storiografica e tipologica teorizzata da Bloch, si mostrava cauto circa «un uso più largo del
metodo comparativo»124. Tuttavia, i ventitré anni che intercorrono tra le due pubblicazioni
consentono a Ginzburg di mettere a punto gli strumenti metodologici per affrontare la titanica
impresa di inserire i benandanti in un contesto globale, dalla profondità e dall’ampiezza
inusitate per le possibilità di un approccio tradizionale. Cercheremo ora di ripercorrere gli
aspetti chiave di quest’evoluzione, pur nella consapevolezza che questa sintesi non può dar
conto della ricchezza e della complessità delle tematiche affrontate da Ginzburg nell’intervallo
di tempo considerato.

Per I benandanti e ancor di più per Il formaggio e i vermi, altra pietra miliare della bibliografia
di Ginzburg, si è spesso fatto riferimento alla microstoria come sfondo integratore delle due
monografie: per sgombrare il campo dagli equivoci che tale termine può suscitare, lo storico
torinese precisa che esso si riferisce, più che alle dimensioni dell’oggetto di studio, a una
riduzione della scala di osservazione simile a quella operata dallo scienziato che analizza i
tessuti di un organismo al microscopio. Si tratta di un approccio che tuttavia non esclude, anzi
auspica, la contestualizzazione di quel frammento di realtà locale (i benandanti, Menocchio e
successivamente le numerose declinazioni del culto sciamanico individuate in Storia notturna)

122
C. Ginzburg, Qualche domanda a me stesso, in Carlo Ginzburg premio Balzan 2010 per la storia d’Europa,
Milano 2010, pp. 9-17
123
I benandanti, cit., prefazione, § 4
124
Ibid.

59
in una prospettiva universale: «microhistory and macrohistory, close analysis and global
perspective, far from being mutually exclusive, reinforce each other»125.

Strettamente correlata a quest’orientamento è l’attenzione che Ginzburg dimostra, sin dagli


inizi della sua carriera di storico, per lo scarto, l’anomalia quali elementi rivelatori di una realtà
non immediatamente percepibile. L’incontro con uno di questi dati apparentemente marginali,
gli atti del processo a Menichino da Latisana, in cui Ginzburg si imbatte casualmente
nell’archivio di Stato di Venezia, è la scintilla che fa scaturire il fuoco de I benandanti ma è
alcuni anni dopo, in Spie. Radici di un paradigma indiziario126 che egli specifica meglio le sue
coordinate metodologiche. In quel contesto individua delle stringenti analogie tra il modo di
operare di tre personaggi (uno dei quali fittizio) appartenenti a contesti diversi: si tratta di
Sigmund Freud, di Giovanni Morelli (storico dell’arte) e di Sherlock Holmes che, ciascuno nel
proprio campo di competenza, seguono un metodo d’indagine che ha in comune l’attenzione
per le «tracce, magari infinitesimali, che consentono di cogliere una realtà più profonda,
altrimenti inattingibile. Tracce: più precisamente, sintomi (nel caso di Freud), indizi (nel caso
di Sherlock Holmes), segni pittorici (nel caso di Morelli)»127.
Ginzburg rinviene nella comune formazione medica di Freud, Morelli e Conan Doyle (creatore
del personaggio di Sherlock Holmes) l’elemento unificante della triade, in particolare «il
modello della semeiotica medica: la disciplina che consente di diagnosticare le malattie,
inaccessibili all’osservazione diretta, sulla base di sintomi superficiali, talvolta irrilevanti agli
occhi del profano» 128 . Siamo in presenza, dunque, di un modello di indagine qualitativo
affermatosi verso la fine dell’800 nel campo delle scienze umane ma che ha radici molto più
antiche, legate al patrimonio trasmessoci dai nostri antenati cacciatori consistente nell’abilità
«di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili) lasciate dalla preda, una serie coerente di
eventi»129.
Questa spasmodica attenzione per gli indizi rivelatori in grado di accomunare elementi
appartenenti a contesti storici e geografici estremamente eterogenei caratterizza l’ambizioso
tentativo, rappresentato da Storia notturna, di rintracciare un remotissimo strato di matrice
sciamanica alla radice di fenomeni dispersi nello spazio e nel tempo.

125
C. Ginzburg, Microhistory and world history, in J.H. Bentley, S. Subrahmanyam, E. Wiesner-Hanks (a cura
di), The Cambridge world history, VI: the construction of a global world, 1400-1800 CE, part 2: patterns of
change, Cambridge 2015, p. 472
126
C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in id., Miti, emblemi, spie, Torino 1986, pp. 158-193
127
Ivi, cap. I, § 5
128
Ibid.
129
Ivi, cap. II, § 1

60
Come abbiamo visto in precedenza, ne I benandanti Ginzburg aveva manifestato cautela circa
l’apertura metodologica verso scenari non legittimati da una consistenza storiografica. Quando,
verso la metà degli anni settanta, l’autore cerca di riordinare le idee per affrontare la questione
chiave rimasta inevasa nei benandanti, si accorge che gli strumenti consueti a disposizione
dello storico non gli bastano. A proposito del lungo periodo di elaborazione di Storia notturna,
durato quasi un quindicennio, egli ricorda come l’opera sia stato il travagliato frutto di due
pressioni contraddittorie: «da un lato, non ero più disposto a lasciar fuori dalla mia ricerca
eventuali connessioni astoriche. Dall’altro, non ero più così certo che la connessione tra
benandanti e sciamani fosse di natura puramente tipologica» 130 . Si tratta di istanze
apparentemente contraddittorie che portano Ginzburg su un territorio scarsamente praticato
dagli storici.131
Lo studioso torinese si butta nella rischiosa impresa ma sente di aver bisogno di una
legittimazione teorica che gli consenta di sdoganare l’adozione di un approccio morfologico
complementare a quello storiografico. Fondamentale, a questo proposito, risulta il filtro di
Wittgenstein, autore di una serie di postille (note) alla grande opera di Frazer (Il ramo d’oro)
attraverso cui il mondo erudito occidentale aveva preso ufficialmente atto della cultura dei
popoli primitivi. Le riflessioni del filosofo tedesco convincono Ginzburg che «è ugualmente
possibile vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in un’immagine generale che
non abbia la forma di uno sviluppo cronologico»132.
Tuttavia, Ginzburg avverte che non è possibile applicare pedissequamente alla storia un
modello di cui Wittgenstein si serve per descrivere rapporti di tipo geometrico: «La storia
umana non si svolge nel mondo delle idee, ma nel mondo sublunare in cui gli individui
irreversibilmente nascono, infliggono sofferenza o la subiscono, muoiono»133.
Lo storico, dunque, adatta Wittgenstein alle proprie esigenze proponendosi di usare la
morfologia come «una sonda per scandagliare uno strato profondo, altrimenti inattingibile»134,
un modo per sollecitare la ricostruzione storica, soprattutto in aree o periodi poco o male
documentati. Si tratta di una posizione profondamente influenzata dalle riflessioni di Propp135,
secondo il quale l’analisi morfologica costituisce uno strumento funzionale alla ricerca storica,

130
C. Ginzburg, Streghe e sciamani, cit., p. 291, § 3
131
Illuminante, a questo proposito, la metafora di W.Doniger: «Ginzburg […] knows when is on thin ice, but he
skates on anyhow. Sometimes he falls in» in W.Doniger, Sympathy for the devil, in «New York Times book
review», Ney York 1991, p. 3
132
Note sul ramo d’oro di Frazer, cit., pp. 28-29
133
Storia Notturna, cit., pp. XXX-XXXI, § 15
134
Ivi, p. XXXI
135
V. Propp, Morfologia della fiaba, 1928; trad. it. Torino 1966

61
complementare ad essa, non una sua alternativa: «attraverso la comparazione, bisognava
cercare di tradurre in termini storici la distribuzione dei dati, presentati fino ad allora sulla base
di affinità interne, formali. Sarebbe stata la morfologia, dunque, benché acronica, a fondare,
sull’esempio di Propp, la diacronia»136.
Un terzo referente di questa gestazione di Storia Notturna è Levi-Strauss che, dopo avere
formulato il rapporto tra antropologia e storia in termini dilemmatici, in una fase tarda del suo
pensiero ammette che percorrere «una via intermedia tra il livello della struttura e quello
dell’evento»137 possa costituire un fecondo itinerario di ricerca per chi si occupa di scienze
umane.
I punti di riferimento intellettuali di Ginzburg durante questo periodo testimoniano di un
apporto significativo dello strutturalismo all’evoluzione del suo metodo. In riferimento al clima
intellettuale che caratterizza la fase iniziale della sua carriera, lo storico torinese cita spesso
Momigliano: questi sottolinea le mutate tendenze della storiografia nel quindicennio che va dal
1961 al 1976, sia da un punto di vista dell’oggetto della ricerca («gruppi oppressi e/o minoritari
nell’interno delle civiltà più avanzate») che da un punto di vista degli strumenti («dispiegarsi
di interpretazioni strutturaliste acroniche accanto alla tradizionale storiografia diacronica»)138.
Si tratta di caratteristiche che sono confluite in Storia notturna, il cui progetto, come Ginzburg
stesso sottolinea, consiste nel «mettere una morfologia anonima e acronica al servizio della
storia, per proporre in via congetturale connessioni storiche sepolte»139.
La personalità eclettica e i vastissimi interessi consentono a Ginzburg sconfinamenti in campi
diversi tra cui lo studio delle immagini e le tecniche dell’attribuzione degli storici dell’arte140.
Molto importanti in questo senso sono le figure del già citato Morelli e di Roberto Longhi che
gli offrono lo spunto per stabilire un significativo parallelismo: i dati formali di un’opera d’arte,
la cui analisi consente di ricostruire una «personalità stilistica che corrisponde, di norma, a una
personalità anagrafica»141, possono richiamare il complesso di miti, morfologicamente simili
ai benandanti, riconducibili a «connessioni storiche specifiche»142.

136
Ivi, p. XXXI
137
Storia notturna, cit., p. XXXVII
138
A. Momigliano, Linee per una valutazione della storiografia del quindicennio 1961-1976 in id., Sesto
contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, Roma 1980, p. 377
139
Qualche domanda a me stesso, cit., p. 16, § 7
140
Le riflessioni di Ginzburg sull’argomento approdano alla pubblicazione di Indagini su Piero. Il Battesimo, il
ciclo d’Arezzo, la Flagellazione di Urbino, Torino 1981
141
Qualche domanda a me stesso, cit., p. 15 § 7
142
Id., p. 16, § 7

62
È, quello dell’arte, un solco fecondo in cui si colloca il debito di Ginzburg verso Aby Warburg,
del cui metodo sottolinea l’ampiezza di visione, la ricchezza di strumenti analitici e l’approccio
interdisciplinare143.
Sintetizzando, il rapporto tra storia e morfologia, del quale molti critici hanno evidenziato la
problematicità, si colloca in un più ampio quadro di fondazione di coordinate metodologiche
dalle caratteristiche spiccatamente sperimentali. D’altra parte, come scrive Cora Presezzi,
quest’esplorazione dei limiti della storiografia coinvolge anche il livello della «scrittura,
ovvero delle tecniche e degli espedienti narrativi, della costruzione argomentativa, delle
convenzioni retoriche impiegate»144.

143
Indagini su Piero, cit., p. XX
144
C. Presezzi, Rileggere ‘Storia notturna’, in id. (a cura di), Streghe, sciamani, visionari, Roma 2019, p. 22

63
PARTE SECONDA

CAP. IV- STORIA NOTTURNA

Introduzione

Nonostante negli ultimi due decenni prima della pubblicazione di quest’opera (1989) la
storiografia abbia dimostrato interesse per tematiche relative a «comportamenti e atteggiamenti
di gruppi subalterni»145, Ginzburg nota come le ricerche in materia di stregoneria siano state
caratterizzate da un approccio sbilanciato: infatti tutti, o quasi, gli storici hanno focalizzato la
loro attenzione sull’analisi dei «meccanismi ideologici che agevolarono la persecuzione della
stregoneria in Europa»146, ovvero su quello che in precedenza abbiamo definito lo strato colto,
codificato dai trattati demonologici; viceversa pochi si sono concentrati sugli atteggiamenti e i
comportamenti dei perseguitati, sovente derubricati a bizzarrie, fantasticherie, disturbi di
natura psicosomatica, isteria femminile.
Questo tipo di approccio accomuna molti dei saggi pubblicati sull’argomento da parte di
studiosi di formazione anglosassone. H.R. Trevor Roper, autore di un’opera molto nota147,
sottolinea la differenza tra «witch-beliefs» e «witch-craze» 148 , ovvero rispettivamente la
credenza, popolare e tutto sommato innocente, in fenomeni inerenti magia e superstizione e la
deformazione cui questi vengono sottoposti da inquisitori e demonologi. La sovrapposizione
del secondo strato sul primo avrebbe trasformato una congerie eterogenea di credenze popolari
in un «bizzarro ma coerente sistema intellettuale»149 , di conseguenza solo lo strato erudito
sarebbe, secondo Trevor-Roper, meritevole di analisi.
Non si discosta di molto da questa posizione A. Macfarlane150, nonostante opti per una ricerca
«regionale e comparata» e disponga di una base di partenza documentaria molto interessante,
i processi celebrati nell’Essex nel 1645. Ginzburg rileva due difetti nell’approccio di
Macfarlane: il primo consiste in un’analisi meramente esteriore dei dati documentari,
caratterizzati invece da una serie di elementi abnormi (peraltro riconosciuti dall’autore), che

145
C. Ginzburg, Storia notturna, Milano 2017, p. XIV
146
Ibid.
147
H.R. Trevor-Roper, The European Witch-craze of the 16th and 17th century, London 1967
148
Storia notturna, cit., p. XV
149
Ibid.
150
A. Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England, London 1970

64
avrebbero meritato un approfondimento ben maggiore. Lo storico britannico, cioè, evita di
soffermarsi sulle credenze delle vittime della superstizione, vittima, egli stesso, del pregiudizio
di una superiorità culturale nei confronti degli imputati di stregoneria che lo accomuna a
Trevor-Roper. Il secondo difetto a cui accenna Ginzburg è la mancata applicazione dell’analisi
comparativa a un contesto significativo, quello europeo, che avrebbe certamente chiarito la
portata dell’«influsso [sui giudici, evidentemente] di idee provenienti dal Continente»151 sulle
testimonianze rese in questi processi inglesi.
Su un medesimo solco si colloca il pensiero di K. Thomas152 che pur riconosce come «talvolta
s’incontrino nei processi elementi troppo stravaganti (unconventional) per essere attribuiti alla
suggestione»153. Ciò nonostante, egli non si sofferma sull’analisi di quello strato popolare, dal
forte valore simbolico, sottolineandone la precarietà e la frammentarietà rispetto alla
concretezza che, secondo lui, un approccio davvero storicistico richiederebbe. In un saggio
successivo 154 , stimolato dalle critiche di C. Geertz, Thomas riformula parzialmente la sua
posizione, ma solo per reinterpretare il sabba in termini di rovesciamento simbolico dei valori
fondanti della società, scartando l’indagine sulle «strutture mentali invisibili della magia
popolare»155.
Eppure, è proprio in area anglosassone che Margaret Murray, in un suo famoso saggio156, aveva
ipotizzato la connessione tra il sabba e un culto precristiano della fertilità che, secondo lei,
affondava le sue radici in un passato remotissimo ed era in qualche modo sopravvissuto in
Europa fino all’età moderna. Già nella prefazione a I benandanti, Ginzburg aveva riconosciuto
in questa posizione della Murray un «nocciolo di verità»157, attirandosi le critiche della corrente
razionalista degli storici e un’etichetta di Murrayista tout court.
Oltre alla confusione tra miti e riti, un altro punto debole dello studio della Murray consiste,
secondo Ginzburg, nel non aver considerato la sovrapposizione di strati diversi nella
formazione dello stereotipo del sabba: è nella sua versione ormai consolidata che esso viene da
lei assunto acriticamente come base interpretativa.

151
Storia notturna, cit., p. XVII
152
K. Thomas, Religion and the decline of magic, London 1971
153
Storia notturna, cit., p. XVIII
154
K. Thomas, An anthropology of religion and magic, II, in «The Journal of interdisciplinary history», VI (1975),
pp. 91-109
155
Ivi, p. 106
156
The witch-cult in western Europe, cit.
157
I benandanti, cit., prefazione § 3

65
Anche i lavori di R. Kieckhefer 158 e N. Cohn 159 contribuiscono a consolidare l’idea
dell’inconsistenza delle radici popolari del sabba e a gettare discredito sulla vecchia tesi della
Murray, ma in questo modo, secondo Ginzburg, buttano via il bambino (la giusta intuizione sul
perpetuarsi di un antico culto della fertilità) assieme all’acqua sporca (le forzature
metodologiche operate dalla storica britannica).

La consapevolezza della diffusione di un pregiudizio di fondo sulle origini della stregoneria,


per cui gran parte della ricerca si concentra solo sull’analisi dello schema dotto, dà a Ginzburg
l’occasione per sottolineare, ancora una volta, la straordinaria importanza della scoperta degli
atti processuali sui benandanti: la caratteristica più significativa di quelle carte consiste nel gap
comunicativo tra giudici ed inquisiti, elemento che ci consente di cogliere la genuinità di «uno
strato profondo di miti contadini»160. Vent’anni dopo I benandanti, Storia notturna colloca
quelle preziose testimonianze in un quadro più ampio, cercando di rinvenirne le radici in un
profondissimo strato mitico e rituale, che affiora in contesti spazio-temporali disparati: questo
tentativo, condotto attraverso un metodo dichiaratamente morfologico, costituisce il nucleo
centrale dell’opera, mentre nella prima parte l’autore (ispirato da I re taumaturghi di M. Bloch)
si sofferma sulla ricorrenza dello schema del complotto come chiave di interpretazione per «la
nascita dell’immagine inquisitoriale del sabba» 161 . La terza e ultima parte (a partire da
Congetture eurasiatiche) tenta di dare legittimità storica ad alcune delle connessioni formali
individuate da Ginzburg, sebbene la scarsità della documentazione non escluda il ricorso a
congetture: il campo di indagine si restringe (ma solo tematicamente) prendendo in
considerazione elementi circoscritti, quali la zoppaggine rituale e la raccolta delle ossa degli
animali uccisi.
Ginzburg sottolinea l’importanza della prospettiva comparata, sostanzialmente ignorata da
Macfarlane e Thomas, come cardine metodologico. Egli è consapevole che un obiettivo
ambizioso come il suo comporti un allargamento smisurato del campo di indagine e di
conseguenza «la rinuncia ad alcuni tra i postulati essenziali alla ricerca storica»162. Da qui il
ricorso alla morfologia, elemento acronico, come integrazione o supporto alla ricostruzione
storica tout court.

158
R. Kieckhefer, European witch-trials. Their foundation in popular and learned culture, 1300-1500, Berkeley
1976
159
N. Cohn, Europe’s inner demons, cit.
160
Storia notturna, cit., p. XXIV
161
Ivi, p. XXVI
162
Ivi, p. XXIX

66
Nella terza parte dell’opera lo studioso individua una serie di miti, riti, leggende, favole che
presentano un elevato grado di isomorfismo, in quanto lo stesso elemento (ad esempio la
zoppaggine rituale) vi ricorre in maniera costante. Questo filo conduttore che unisce le singole
unità della serie (contraddistinta da straordinaria ampiezza spazio-temporale) non è passato
inosservato tanto che diversi studiosi hanno cercato di spiegare il fenomeno. In ciascuna delle
ipotesi proposte Ginzburg trova dei limiti legati di volta in volta a un approccio eccessivamente
schematico: o diacronico, sbilanciato dunque verso l’evento, il dato empirico; o sincronico,
teso cioè a cogliere la struttura, il sistema. Di conseguenza nessuna di queste ipotesi prese
separatamente è in grado di arrivare, secondo lui, a conclusioni soddisfacenti.
Si tratta, dunque, sul solco delle ricerche di R. Jakobson in campo linguistico e di Levi-Strauss
in quello sociale, storico e antropologico, di aprire «una via intermedia tra il livello della
struttura e quello dell’evento»163 nella consapevolezza che «i miti si incarnano, si trasmettono
e agiscono in situazioni sociali concrete, attraverso individui in carne ed ossa»164: è attraverso
l’osmosi tra queste due dimensioni (sincronia e diacronia) che siamo in grado di dare un
significato primario (il viaggio del vivente nel mondo dei morti) a fenomeni apparentemente
scollati da qualsiasi logica, come le estasi dei benandanti.

Lebbrosi, ebrei, musulmani

La società francese nel 1321 è interessata da una persecuzione di massa ordinata dal re Filippo
V ai danni dei lebbrosi: accusati di voler attentare alla salute pubblica avvelenando pozzi,
sorgenti, fontane, molti di essi vengono bruciati se rei confessi. La tortura viene usata in
maniera diffusa per facilitarne il cedimento mentre chi, nonostante tutto, proclama la propria
innocenza viene costretto a vivere segregato e separato dai propri cari. Le cronache di quegli
anni, che Ginzburg si appresta ad esaminare, indicano come corresponsabili di questo presunto
complotto accanto ai lebbrosi, in misura varia a seconda delle fonti, musulmani ed ebrei. Anzi,
questi due gruppi avrebbero responsabilità maggiori in quanto “mandanti” della congiura,
rispetto a cui i lebbrosi fungerebbero da veri e propri “sicari”. In realtà l’ondata persecutoria è
la conseguenza di una macchinazione ordita dai referenti politici locali di un ceto mercantile
particolarmente aggressivo e senza scrupoli, che persegue la sola logica del profitto.

163
Storia notturna, cit., p. XXXVII
164
Ivi, p. XXXIX

67
Si tratta di manovre che hanno lo scopo di orientare in una determinata direzione una serie di
tensioni già in atto, legate allo stigma d’infamia che accomuna ebrei e lebbrosi sin
dall’antichità. È un atteggiamento alimentato dall’etichetta di marginalità associata a questi
gruppi, non disgiunta, peraltro, da un’ambiguità di fondo: infatti la considerazione
dell’opinione pubblica nei loro confronti oscilla tra santità e disprezzo.
Lo storico individua l’atto iniziale di tale macchinazione in una lettera inviata alla fine del 1320
dai consoli di Carcassonne al re di Francia: vi si accusano lebbrosi ed ebrei di attentare alla
salute, spirituale e fisica, dei cittadini «con veleni, pozioni pestifere e sortilegi»165. Lo scopo
della protesta è dichiarato nella missiva con chiarezza brutale: «liberarsi definitivamente dal
monopolio del credito esercitato dagli ebrei; amministrare le ricche rendite godute dai
lebbrosari»166.
Da Carcassonne la notizia dell’imminente complotto si diffonde e la tensione tracima nella
Pasqua del 1321, in particolare nell’area sud-occidentale del Paese: da quel momento e per
tutta l’estate i lebbrosi, sospettati di avvelenare pozzi e fontane, vengono interrogati dalle
autorità secolari, torturati e in gran parte sterminati. L’effetto domino interessa tutta la Francia
estendendosi fino a Parigi.
Negli atti di un processo dell’Inquisizione celebrato di lì a poco, come ideatore e mandante di
una congiura ai danni dei cristiani viene invece indicato il re di Granada: un tale scenario è
delineato dalla confessione di Guillaume Agassa, responsabile del lebbrosario di Lestang, sotto
la pressione del vescovo di Pamiers e dopo essere stato sottoposto a tortura. L’abiura a cui
Agassa è costretto riguarda, tuttavia, solo i crimini commessi contro la fede: l’avvelenamento
delle acque, pur confessato dall’imputato, non viene menzionato.
Le comunità ebraiche in un primo momento riescono a scampare alla persecuzione a prezzo di
un esorbitante ricatto finanziario (giugno 1321) imposto loro da Filippo V ma un’altra lettera,
inviata questa volta da Filippo di Valois, conte d’Angiò, a papa Giovanni XXII, getta nuova
benzina sul fuoco: si tratta, in realtà, di un falso creato ad arte per denunciare un inesistente
complotto ai danni della cristianità, ordito dalla triade ebrei- musulmani- lebbrosi con i primi
nelle vesti delle menti della cospirazione. Essa sarebbe consistita nell’avvelenamento delle
fonti idriche che avrebbe portato allo sterminio dei cristiani e ad un patto tra ebrei e saraceni
per la spartizione dei rispettivi domini, vecchi e acquisiti: ai primi sarebbe toccata la terra santa,
ai secondi il regno di Francia, mentre i lebbrosi avrebbero riscosso laute ricompense in denaro.

165
Storia notturna, cit., p. 10
166
Ibid.

68
Questa cospirazione, dice la lettera, fallì perché i lebbrosi si dimostrarono l’anello debole della
catena. Malgrado negli anni precedenti si fosse mostrato benevolente nei confronti delle
comunità ebraiche, il papa crede al disegno cospiratorio prospettato dalla missiva poiché nel
1322 espelle tutti gli ebrei dai propri domini.
Altre prove false sono fabbricate con lo scopo di mettere pressione a Filippo V affinché denunci
pubblicamente la partecipazione degli ebrei al complotto. Tale denuncia arriva con una lettera
datata 26 luglio 1321 e indirizzata tra gli altri al siniscalco di Carcassonne, città da cui erano
arrivate le prime accuse: il cerchio, dunque, si chiude e la persecuzione degli ebrei, che solo un
mese prima era stata surrogata da una multa esorbitante, può avere inizio.
Lo schema delle false accuse contro ebrei, lebbrosi e musulmani non è una novità: le troviamo
formulate nelle cronache fin dal secolo precedente. Ogni qual volta un avvenimento minacci la
coesione della cristianità, c’è la necessità di trovare dei capri espiatori che consentano di fornire
una valvola di sfogo alle tensioni sociali. È un quadro che ricorre più volte con le medesime
modalità: un mandante, nelle vesti di un sovrano o capo musulmano, si rivolge ad una “mente”
in grado di organizzare e pianificare il complotto su larga scala. Ricoprono questo ruolo
individui o gruppi (es. gli ebrei), marginali dal punto di vista etnico-religioso, che da tempo la
narrativa popolare caratterizza come sospetti, ostili all’ordine sociale. L’ultimo anello della
catena è rappresentato da altri gruppi (es. i lebbrosi) considerati facilmente manipolabili o
corruttibili, per la qual ragione si presterebbero ai peggiori misfatti.
Nonostante di lì a poco emerga che lo schema della cospirazione ha scarsa consistenza, le
accuse cadono solo nei confronti dei lebbrosi fino ad arrivare nel 1338 ad una completa
assoluzione retrospettiva di questi da parte dei loro stessi persecutori (papa Benedetto XII alias
Jacques Fournier, ex vescovo ed inquisitore della diocesi di Pamiers). Gli ebrei, viceversa, non
si vedono mai formalmente ritirare le accuse formulate ai loro danni: molti di coloro che erano
scampati alle persecuzioni vengono espulsi dalla Francia e di lì a poco diverranno vittime di
nuove manovre ai loro danni.

Ebrei, eretici, streghe

L’impalcatura del complotto si ripresenta quasi trent’anni dopo, in occasione dell’epidemia di


peste del 1348. Se nel 1321 era bastata la paura di essere contagiati dalla lebbra a venire usata
come pretesto per scatenare la persecuzione, in questa nuova circostanza le accuse si
accompagnano a una diffusione drammatica e irrefrenabile del contagio. Ancora una volta

69
Carcassonne e le città limitrofe si segnalano come centri di propagazione della cospirazione.
Essa, in un primo tempo, ha come bersaglio i mendicanti, sostituiti di lì a pochissimo dagli
ebrei (aprile-maggio), stretti in una morsa accusatoria che vede confluire le solite tensioni
popolari e la legittimazione legale di queste da parte delle autorità locali.
Ginzburg sottolinea le analogie tra le due ondate persecutorie del 1321 e 1348, caratterizzate
da un andamento simile:

1. Le voci di complotto si diramano in entrambi i casi dalla Francia sud-occidentale


2. Colpiscono gli ebrei solo in un secondo tempo (nel primo caso essi si affiancano ai
lebbrosi, nel secondo sostituiscono i mendicanti)
3. Le persecuzioni presentano un dinamismo spaziale, allargandosi verso nord e verso est
nel 1321, verso est (in particolare Savoia e Delfinato) nel 1348

Accanto a queste analogie, lo studioso pone in evidenza delle differenze: nel 1348 l’ossessione
del complotto è maggiormente sbilanciata verso il basso, essendosi ormai sedimentata nella
mentalità popolare. Le voci di dissenso, presenti anche all’interno delle stesse istituzioni
territoriali (ne è un esempio il borgomastro di Strasburgo), fino ad arrivare a papa Clemente VI
(sostenitore di una posizione basata sulla ragione e sul buon senso), nulla possono contro la
ferocia della violenza popolare, avallata dagli atti dell’autorità giudiziaria.
In riferimento alla precedente ondata, invece, lo storico aveva dato maggiore importanza alla
“regìa” delle autorità politiche e religiose che avevano orientato le ostilità latenti della
popolazione verso bersagli precisi (lebbrosi prima, ebrei poi).

Più di mezzo secolo dopo, nel 1409, una bolla redatta da papa Alessandro V inviata
all’inquisitore Ponce Fougeyron ci informa della diffusione di nuove sette e riti contrari alla
religione cristiana nell’area di giurisdizione del prelato (corrispondente alle attuali Francia sud-
orientale e Svizzera occidentale). Dalle testimonianze che possiamo ricavare dal Formicarius,
testo della letteratura demonologica, scritto tra il 1435 e il 1437 da Johannes Nider,
apprendiamo che le pratiche di queste sette presentano già molti degli elementi che
contraddistingueranno il sabba: «l’omaggio al demonio, l’abiura di Cristo e della fede, la
profanazione della croce, l’unguento magico, i bambini divorati»167. Sebbene altri elementi
manchino (il volo magico e i raduni notturni) o siano presenti soltanto in forma embrionale (le

167
Ivi, p. 50

70
metamorfosi), il dado è tratto: si affaccia la «nozione di una setta minacciosa di streghe e
stregoni»168 il cui principale collante è costituito dall’adorazione del diavolo. Il Formicarius
colloca al 1375 circa l’inizio di queste pratiche di stregoneria collettiva, opera di gruppi di
uomini e donne anziché di individui isolati. Si tratta di una datazione convergente con quella
proposta dal posteriore Tractatus de strigibus (inizi del Cinquecento).
L’immagine ossessiva del complotto ordito contro la società è l’elemento unificatore delle tre
ondate persecutorie che, nell’arco di circa un secolo, colpiscono a intervalli più o meno
regolari, gruppi marginali (lebbrosi, ebrei, streghe) in una regione comprendente la Francia
meridionale, la Savoia e il Delfinato. In queste ultime due aree la convivenza forzata tra
cristiani ed ebrei espulsi dalla Francia causa dinamiche particolari che fanno emergere nuove
sette in cui le due componenti si mescolano. Un altro elemento di contiguità è fornito dalla
convinzione che ci sia un nemico esterno ad ispirare la cospirazione: prima gli infedeli, i re
musulmani, poi il nemico della cristianità per eccellenza, il diavolo. Il concetto di marginalità,
che unisce trasversalmente i tre gruppi in questione, è simbolicamente rappresentato dal
marchio cucito sul vestito di lebbrosi ed ebrei e sul segno identificativo del patto diabolico
impresso dal demonio sui corpi di streghe e stregoni.
Ulteriori testimonianze risalenti al 1435-1440 vengono a completare quello che per 250 anni
sarà lo stereotipo del sabba: compaiono qui gli elementi della metamorfosi, dei voli e dei raduni
notturni che il Nider ignorava o aveva menzionato solo di sfuggita.
Un aspetto interessante è costituito da una duplice progressione nell’evoluzione della teoria del
complotto (dai lebbrosi agli ebrei, per terminare alle streghe): la prima riguarda l’ampiezza dei
gruppi accusati, da uno relativamente circoscritto il cui tratto unificante è la malattia (i
lebbrosi), ad un altro individuabile etnicamente e religiosamente (gli ebrei) per terminare con
le streghe. La seconda concerne il ventaglio delle accuse e la progressione della loro gravità
che, per quanto riguarda le streghe, giunge all’apostasia della fede e al patto col diavolo.
Ginzburg è in parziale disaccordo con la teoria di Cohn, secondo cui «il sabba sarebbe il punto
d’arrivo di uno stereotipo ostile, proiettato successivamente, lungo l’arco di un millennio e
mezzo, su ebrei, cristiani, eretici medievali e streghe»169. Sin dal II secolo d.C. i gruppi citati
dal Cohn, minoritari rispetto alle società di cui facevano parte e per la cui coesione costituivano
una minaccia, sono stati via via accusati dei peggiori misfatti: idolatria, antropofagia, pratiche
sessuali abnormi come l’incesto, adorazione del demonio. Questi tratti, dopo l’anno mille e

168
Ibid.
169
Ivi, p. 53

71
solo in occidente, confluiscono e trovano una sorta di sintesi nell’immagine della cerimonia
notturna che comincia a dar vita alla vulgata del sabba. In questo complesso processo di
progressiva coagulazione, alcuni elementi si modificano, altri perdono consistenza, altri ancora
acquistano maggior rilevanza: questo a seconda della loro interazione con un contesto
cronologico, geografico, culturale dai connotati specifici, che si potrebbe definire, mutuando
una definizione proveniente dalla filologia, una contaminazione orizzontale. È secondo questo
aspetto che Ginzburg si scosta dalla visione di Cohn, maggiormente orientata verso un modello
di trasmissione per così dire verticale, automatica. L’immagine del sabba, dunque, si modella
attraverso la sovrapposizione di uno strato di origine antica ma venuto a sedimentarsi sotto
forma di stereotipo nelle convinzioni di inquisitori e giudici, su uno che Ginzburg definisce
«folclorico».
Lo storico cita il caso dei Valdesi che nella seconda metà del Trecento sono oggetto di una vera
e propria offensiva degli inquisitori: le loro confessioni sono il risultato della rielaborazione
degli stereotipi inquisitoriali attraverso il filtro della cultura popolare locale. Questa
commistione, ad esempio, è evidente nella testimonianza offerta nel 1387 dall’imputato
Antonio Galosna relativa a un’orgia a cui avrebbe partecipato ventidue anni prima: in
quell’occasione «una certa Billia la Castagna aveva dato a tutti i partecipanti un liquido di
aspetto ripugnante: chi lo beveva una volta non poteva più abbandonare la setta. Si diceva che
il liquido fosse stato confezionato con lo sterco di un grosso rospo che Billia nutriva sotto il
letto con carne, pane, formaggio»170.
Ginzburg afferma che più un elemento affiorante dalle confessioni si allontana dagli stereotipi
demonologici, più è verosimile che si riferisca a uno strato culturale immune dalle proiezioni
e dalle deformazioni dei giudici: abbiamo già citato come un caso esemplare in questo senso
gli atti dei processi ai benandanti Moduco e Gasparutto.
Lo storico ritiene che a partire dalla fine del XIV secolo gruppi ereticali, come i valdesi o i
catari, in un primo momento rimasti distinti dalla «setta stregonesca» di cui parla il Nider,
vengano progressivamente assimilati a quest’ultima da parte degli inquisitori, grazie ad una
convergenza di motivi eterodossi, dualistici e folclorici. Tale processo di assimilazione è
riscontrabile anche nel lessico che testimonia come gli insulti vaudoy (che richiama il nome
francese di Valdo) ed herejoz (dispregiativo per “eretico”) siano usati per designare i
partecipanti al sabba.

170
Ivi, p. 58

72
Alla vulgata del sabba, che si è in gran parte delineata grazie alla codificazione di decenni di
attività inquisitoriale, mancano ancora un paio di elementi che saranno il fulcro dei prossimi
capitoli: il volo verso i raduni notturni e le metamorfosi animalesche.

Al seguito della dea

Ginzburg focalizza la propria attenzione su due documenti, rispettivamente del X e dell’XI


secolo, che ci tramandano un nucleo di credenze da cui emerge il culto di una dea. Nel primo
di questi testi, il De Synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis libri duo di Reginone di
Prüm, essa è identificata come Diana, dea dei pagani. Nel secondo, generalmente noto come
Canon Episcopi, di Burcardo, vescovo di Worms, al nome di Diana si affianca quello di
Erodiade. Al centro di entrambe le testimonianze è l’immagine del volo notturno, effettuato in
groppa ad animali, da un corteo di donne al seguito della dea, che le costringe a diventare sue
adepte con la complicità dell’opera di seduzione da parte di demòni.
Queste cavalcate notturne hanno come scopo la celebrazione di riti sacrileghi di carattere
violento o addirittura antropofago, nonché atti di magia nera. Reginone e Burcardo bollano
questi racconti come fantasie diaboliche, meritevoli di punizioni relativamente blande, ma la
percezione cambia nel progressivo travaso di queste immagini dal volo notturno allo stereotipo
del sabba: agli inizi del Quattrocento, teologi e inquisitori vedono il sabba come un evento
reale, un crimine punibile col rogo.
Nei secoli successivi troviamo ulteriori testimonianze di culti simili, provenienti da diversi
luoghi. In esse la dea assume denominazioni diverse a seconda della cultura che le produce: lo
strato folclorico ci parla di Bensozia, Perchta, Holda e vari altri nomi mentre i filtri attivati da
canonisti, vescovi ed inquisitori continuano ad identificarla come Diana, dea dei pagani,
secondo un meccanismo che viene definito Interpretatio Romana, «una lente deformante
derivata dalla religione antica»171.
Un esempio molto interessante di tali testimonianze è costituito dagli atti di due processi
celebrati a Milano verso la fine del XIV secolo a distanza di sei anni l’uno dall’altro (1384 e
1390) nei confronti di due donne, Sibillia e Pierina. I loro racconti echeggiano a quattro secoli
di distanza molti dettagli del Canon Episcopi: entrambe dicono di far parte di una «società»172
di seguaci di Madona Horiente (Diana, secondo i filtri inquisitoriali), figura cui obbediscono

171
Ivi, p. 76
172
Ivi, p. 77

73
come fosse una padrona, seguendola e servendola in notti determinate, di solito il giovedì.
Durante queste scorribande il corteo compie atti quali depredare case di cibi e bevande o
l’uccisione rituale di animali (in particolare buoi) a cui la dea è tuttavia in grado di ridonare la
vita toccandone con una bacchetta le ossa, rinchiuse nelle pelli. Alcuni scarti con il racconto
tramandatoci dal Canon Episcopi, come il ruolo, non funzionale al trasporto, degli animali,
schierati a coppie, che affiancano la dea, nonché il nome con cui le sue adepte la identificano,
assumono secondo Ginzburg un’importanza fondamentale: sono infatti il segno della genuinità
delle testimonianze, che esclude l’adeguamento totale a uno schema preesistente.
La breve distanza temporale tra i due processi è nondimeno significativa alla luce del loro
differente esito. Sul solco del Canon episcopi l’inquisitore fra’ Ruggero da Casale interpreta i
racconti di Sibillia come il risultato di sogni ed illusioni. Sei anni dopo tutto cambia: il suo
successore, fra’ Beltramino, abbandona i criteri interpretativi del Canon episcopi e, ritenendo
la testimonianza di Pierina frutto di esperienze reali, la forza in modo che si adatti allo schema
del sabba che proprio in quegli anni comincia a cristallizzarsi. La conseguenza di un tale
cambio di atteggiamento è la condanna a morte dell’imputata: Pierina confessa, probabilmente
sotto tortura, un patto con uno spirito diabolico dal quale si sarebbe fatta condurre al «gioco»173
(così o col termine alternativo di «società» le seguaci di Madona Oriente definiscono i loro
convegni notturni).
Un’altra variante di questo culto ci porta in val di Fassa e ad un processo che nel 1457 vede
imputate due vecchie. Gli atti di questo processo sono ricostruibili attraverso le parole di una
predica, pronunciata da Niccolò Cusano nello stesso anno. Il filosofo, vescovo e inquisitore a
Bressanone, aveva interrogato le due donne, venendo a sapere che esse veneravano il demonio
(questa, almeno, la sua interpretazione) presentatosi sotto forma di una dea che chiamavano
Richella. Il racconto rispecchia i precedenti in molti particolari: il volo notturno al seguito della
dea, vissuto come un evento ineluttabile, l’assoluta devozione e obbedienza accompagnata dal
diniego della fede cristiana, la partecipazione delle imputate a riti abnormi (con elementi
orgiastici e antropofagi) che si tengono in determinati periodi (le tempora).
Nonostante l’erudizione di cui Cusano ricopre i racconti, allo scopo di ricondurli entro le
coordinate codificate dell’inganno diabolico, siamo in grado di individuare uno strato
sottostante di origine folclorica. Il suo riconoscimento da parte dello studioso moderno è
direttamente proporzionale al grado di incomunicabilità tra gli interlocutori: più questo è

173
Ivi, p. 78

74
elevato, maggiore è la possibilità di testimonianze non contaminate dagli stereotipi
inquisitoriali.
«La circolazione europea dei trattati di demonologia, basati sugli stereotipi che si erano venuti
cristallizzando nelle Alpi occidentali tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 favoriscono
un’interpretazione convergente delle varie testimonianze da parte dei giudici» 174 . Questa
osservazione vale anche per un’area periferica come la Scozia in cui, tuttavia, sotto la crosta di
confessioni ottenute probabilmente con la tortura, affiora uno strato di credenze molto antiche:
tra le maglie degli atti di processi ai danni di presunte streghe emergono figure come la «regina
delle fate» oppure «la regina degli elfi»175, dai tratti simili a quelli delle dee alpine poc’anzi
citate.
Gli esempi prodotti fanno dunque emergere un nucleo di credenze ruotanti intorno a misteriose
figure femminili venerate soprattutto da donne. Si tratta di un culto che Ginzburg connette
strettamente al mondo dei morti, in base ad una serie di considerazioni.

1. Gli appellativi riservati alla dea e alla sua «società» contengono in molti casi l’aggettivo
buona/buon. Ad esempio, le vecchie della val di Fassa si rivolgono a Richella
chiamandola «Buona Signora»176 ma non è che una delle numerose ricorrenze di simili
epiteti. L’autore ipotizza un filo conduttore che parte dall’antichità, in cui appellativi
come «bona dea» erano riservati a Ecate, la divinità funebre strettamente connessa ad
Artemide.
2. La seconda considerazione si fonda sull’esperienza estatica che Ginzburg intravede alla
base dei voli notturni, a cui già si alludeva nel Corrector di Burcardo da Worms, poi
echeggiata più o meno esplicitamente da altre testimonianze (ad esempio le
benandanti). L’estasi è vista come anticamera della morte, stato che consente di gettare
un ponte tra il mondo terreno e l’aldilà.
3. Le offerte propiziatorie lasciate nelle case a disposizione della dea e delle sue seguaci
richiamano la consuetudine di «lasciare in determinati giorni dell’acqua per i morti
affinché si dissetino»177.

174
Ivi, p. 84
175
Ibid.
176
Ivi, p. 85
177
Ivi, p. 86

75
Questo antichissimo tema del volo notturno costituisce, secondo l’autore, il nucleo folclorico
dello stereotipo del sabba, all’interno del quale, tuttavia, la funzione originaria del mito diviene
pressoché irriconoscibile per la deriva demonologica a cui è sottoposta dalle deformazioni dei
giudici.
Ginzburg mostra come il culto estatico delle notturne divinità femminili si stagli rispetto ad un
filone analogo, tramandatoci da numerose fonti letterarie dal sec XI in poi, quello
dell’apparizione minacciosa di schiere di morti implacati (definite «esercito selvaggio» o
«caccia selvaggia»178). Esse si manifestano quasi esclusivamente a uomini e vanno a comporre
una serie documentaria distinta da quella che si riferisce ai cortei delle donne estatiche, sebbene
i due fenomeni scaturiscano da un fondo di credenze comuni. Con questa puntualizzazione
l’autore precisa meglio i termini della questione rispetto a I benandanti, in cui non fa accenno
a una «divisione sessuale di ruoli che sembra regolare questi rapporti con l’aldilà»179. Una sua
interessante considerazione di tipo lessicale ci mostra come a questa divisione di ruoli
corrispondano anche termini diversi: da un lato «caccia», «esercito»; dall’altro «società»,
«gioco», anche se non sempre il confine è ben definito nelle varie fonti (ad esempio il termine
«società» è talvolta usato anche per definire le apparizioni dei morti).
Le spesso straordinarie analogie riguardanti il culto delle divinità femminili, le cui
testimonianze sono distribuite in aree eterogenee (arrivando a nord fino alla Scozia, ad est alla
Romania) spingono Ginzburg a rintracciare una radice comune di tutti questi fenomeni: egli la
individua nella vitalità di credenze religiose legate alle tracce della presenza dei Celti in tutte
queste aree. Peraltro, lo stesso Canon episcopi «è il punto di arrivo di una serie documentaria
che implica, più che un fenomeno di sostrato, una vera e propria continuità con fenomeni
religiosi celtici» 180 . Districandosi tra le maglie della romanizzazione, per cui Diana si era
sovrapposta a una o più divinità celtiche, lo storico riesce a portare in superficie una serie di
testimonianze che affiorano qua e là lungo un arco temporale molto ampio (a partire dal V
secolo): Hera, Epona, le Matronae sono tutte figure dell’enigmatico mondo religioso celtico,
da un lato connesse con l’idea di prosperità, abbondanza, dall’altro legate al mondo dei morti,
particolarità quest’ultima corroborata dal carattere estatico dei loro culti. Questo complesso di
credenze è il filo conduttore che unisce, in maniera quasi sconcertante, fenomeni molto distanti
sia dal punto di vista spaziale che da quello temporale. Nel VI secolo Procopio di Cesarea ci
parla dei viaggi notturni degli abitanti della Bretagna, spinti nel cuore della notte da una forza

178
Ivi, p. 87
179
Ivi, p. 89
180
Ivi, p. 90

76
misteriosa a traghettare le anime dei morti all’isola di Brittia. Una simile esperienza, vissuta
sotto forma di estasi, e il relativo senso di ineluttabilità si ritrovano più di un millennio dopo
nei racconti dei benandanti Moduco e Gasparutto. La presenza di tematiche analoghe nei
romanzi arturiani (il viaggio dell’eroe verso il mondo dei morti e l’affinità tra Morgana e le
antiche dee celtiche) testimonia la contiguità tra rielaborazioni letterarie e credenze folcloriche
imperniate sulla comunicazione con l’aldilà.
La sedimentazione di cultura celtica, evidente nelle testimonianze relative alle esperienze
estatiche dei voli notturni e a canali di comunicazione col mondo dei morti, costituisce, secondo
Ginzburg, lo strato folclorico dell’immagine del sabba. L’interazione tra questo elemento e gli
altri fenomeni analizzati in precedenza (la presenza di gruppi ereticali in fase di disgregazione
e la diffusione della paura del complotto), unita agli effetti sull’insieme della rielaborazione
inquisitoriale, hanno come effetto la cristallizzazione dello stereotipo del sabba. Il suo centro
di propagazione corrisponde a un’area relativamente ristretta, tra Delfinato, Savoia, Svizzera
romanda, Lombardia e Piemonte.

Anomalie

L’ipotesi di Ginzburg attribuisce un ruolo chiave alla vitalità sotterranea, nel tempo e nello
spazio, di antichi culti celtici, per spiegare la diffusione europea di una religione estatica
prevalentemente femminile. Questo impianto è messo in crisi dalle testimonianze relative a una
serie di processi condotti dal S. Uffizio in Sicilia a partire dalla seconda metà del Cinquecento.
Dai racconti delle imputate traspare la credenza nelle «donne di fuora»181, dai tratti in comune
coi culti presi in esame nel precedente capitolo: il volo notturno in stato di estasi di donne dalla
natura semi-bestiale (rivelate da zampe irsute o zoccoli di cavallo) verso luoghi misteriosi e
opulenti e la presenza di una divinità femminile come figura di riferimento costituiscono le
analogie più evidenti. Il problema è che si tratta di tradizioni specificamente siciliane che solo
a prezzo di congetture molto forzate potrebbero essere integrate nello schema sopra proposto.
L’autore, allora, prova a risalire indietro nel tempo, ipotizzando una comune matrice pre-greca
alla base dei culti celtici e di quelli siculi. Seguendo in particolare due testimonianze, una di
Posidonio di Apamea (attraverso la mediazione di Plutarco) e l’altra di Diodoro Siculo,
Ginzburg ci dà notizia dell’esistenza di un culto delle «dee Madri» nella Sicilia del III secolo

181
Ivi, p. 113

77
a.C. 182 : esso aveva come centro il tempio di Engyon (l’odierna Troina) e presentava
caratteristiche che richiamano i racconti delle «donne di fuora». L’anello di congiunzione più
evidente consiste nello stato di estasi in cui piombavano gli individui ai quali queste divinità,
procacciatrici di prosperità ai privati e allo Stato, si manifestavano.
Diodoro ci informa di come quello relativo alle Madri fosse in realtà un credo importato in
Sicilia da Creta, ragione per cui Ginzburg decide di scavare ancora più a fondo per cercare di
scoprirne le origini e il significato. Alle radici di queste credenze individua miti cretesi
antichissimi secondo i quali Zeus, neonato, sarebbe stato allevato da due orse che l’avrebbero
sottratto alla furia di Crono. La figura dell’orsa, contaminata da elementi locali, affiora anche
nei miti arcadici relativi ad Artemide, strato al di sotto del quale Ginzburg intravede un più
antico e più stretto rapporto di identificazione: «il culto, vivo già nel II millennio, in età minoica
di una dea nutrice dall’aspetto ursino, una lontana antenata delle madri di Engyon»183 . Lo
storico riserva a questa figura, della quale congettura la funzione ma la cui identità non ci è
tramandata, l’appellativo di «signora degli animali». L’epiteto nell’Iliade è riservato ad
Artemide, mettendone in risalto, da un lato, la prerogativa di vergine cacciatrice, al confine tra
la città e la selva informe, tra l’umano e il bestiale, uno stato liminare che richiama
simbolicamente il passaggio tra vita e morte; dall’altro il ruolo complementare di «nutrice di
fanciulli e protettrice di giovani ragazze»184.
Il nesso dea ursina- dea nutrice si ritrova anche in testimonianze epigrafiche e figurative
risalenti al II-III secolo d.C. che fanno affiorare la figura di una divinità celtica, Artio, il cui
nome richiama il vocabolo che designa l’orso nelle antiche lingue anglo-sassoni (Art). Balza,
peraltro, all’occhio anche l’assonanza Artio- Artemide, seppure Ginzburg si dichiari non in
grado di provare un rapporto linguistico, e quindi storico, tra i due termini.
La digressione è servita all’autore a mettere in luce come la convergenza di simboli,
indipendentemente dai contesti storico-culturali, sia in realtà un fenomeno che fa delle «donne
di fuora» un culto meno anomalo di quanto fosse sembrato in un primo momento.
Relitti di questo strato antichissimo affiorano dalle confessioni delle seguaci della dea notturna.
Le vecchie della val di Fassa, descrivendo Richella, dicono che la sua mano è pelosa; da lei
ricevono carezze affettuose e promesse di ricchezza, caratteristiche che richiamano Artio,
Artemide e la «signora degli animali». Il filo che congiunge tutte queste ricorrenze dei
medesimi simboli non è sempre facile da dipanare, incrostato com’è dalle reinterpretazioni dei

182
Ivi, p. 115
183
Ivi, p. 119
184
Ivi, p. 120

78
vari culti locali. Si può comunque ragionevolmente asserire questo: la contiguità con gli
animali, che caratterizza tutte le figure di cui Ginzburg ha trattato, appare il residuo, modulato
nelle sue inevitabili variazioni, di un identico tema mitico, quello della «signora degli animali».
Ginzburg precisa che si tratta di congetture morfologiche, non basate su evidenze di contatti
storici.
Tuttavia, viene in soccorso di questa ipotesi una serie di considerazioni intorno ad un’altra
prerogativa delle numerose declinazioni della dea notturna. Varie testimonianze relative a
processi celebrati tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento in un’area compresa tra la pianura
padana e le Alpi orientali, concordano nell’affermare che lo sguardo della dea appare
“schermato”: essa infatti o tiene il capo chino o indossa una sorta di orpello che le copre gli
occhi. Questi particolari segnano una continuità funzionale con l’antica «attribuzione di un
potere, spesso letale, allo sguardo della divinità»185, prerogativa a cui la stessa Artemide non si
sottrae.
Duemila anni separano queste testimonianze dalla datazione di un
manufatto conosciuto come «la dama di Elche» (v. fig. 1),
risalente al IV-V secolo a.C. Si tratta di una statuetta che ritrae una
figura femminile dall’acconciatura particolare, straordinariamente
somigliante alla descrizione resa due millenni dopo da alcune
contadine della val di Fiemme a proposito della «donna del bon
zogo», una delle numerose varianti locali della dea notturna: «una
ligatura negra a torno el capo con doi taiere per parte»186. Alla
stessa epoca della dama di Elche risalgono ornamenti simili
Fig. 1 - La dama di Elche
rinvenuti nell’area dell’odierna Ucraina.
(immagine da internet)

Una medesima serie di indizi convergenti caratterizza la diffusione spazio-temporale di miti e


riti imperniati sulla raccolta delle ossa degli animali uccisi allo scopo di farli rivivere. Abbiamo
visto come questa prerogativa sia propria di «Madona Oriente» alla fine del Trecento ma si
ritrova anche in testimonianze più antiche provenienti da fonti celtiche cristianizzate e
germaniche precristiane, nonché da culture e territori periferici come la Lapponia e la Siberia
orientale187. Ciò fa supporre a Ginzburg la derivazione di tutte queste varianti da uno strato

185
Ivi, p. 123
186
Ivi, p. 126
187
Ivi, p. 126-127

79
ancora più profondo, un remoto passato eurasiatico in cui la credenza in una divinità generatrice
e resuscitatrice di animali si diffonde a partire da culture di cacciatori.
Questo antico sostrato eurasiatico sembra giocare un ruolo chiave anche nella ricorrenza di un
altro elemento: «le estasi delle seguaci della dea richiamano irresistibilmente quelle degli
sciamani – uomini e donne – della Siberia o della Lapponia»188. Persino un feroce persecutore
di streghe del primo Seicento, Pierre de Lancre, nonostante il filtro dei pregiudizi legati al suo
ruolo, intravede nell’estasi «l’elemento che unifica i vari culti idolatri ispirati dal diavolo:
primo fra tutti, il sabba»189. Poco più di cinquant’ anni dopo, quando la persecuzione della
stregoneria inizia ad attenuarsi, lo strato folclorico che si celava sotto lo stereotipo del sabba
comincia a delinearsi con maggior nettezza all’analisi di studiosi ed eruditi, meno condizionati
da pregiudizi ed incrostazioni confessionali.
All’estasi, come elemento unificatore delle credenze pagane confluite poi nella stregoneria
diabolica, dedica alcuni interessanti spunti Jacob Grimm nel XIX secolo. Egli riprende un
racconto di Paolo Diacono (VIII secolo) secondo cui dalla bocca del re Burgundo Guntram,
che dormiva vigilato da uno scudiero, uscì d’improvviso un serpentello. Arrivato nei pressi di
un rio il rettile cercò di passare dall’altra parte ma vi riuscì solo quando lo scudiero mise di
traverso la sua spada in modo da collegare le due sponde. Allo stesso modo tornò indietro e
quando rientrò nella bocca del re, questi si svegliò, raccontando di aver sognato di attraversare
un ponte di ferro, entrando poi nella montagna dov’era conservato un tesoro. Altre versioni
della storia parlano di una donnola, un gatto, un topo. Elementi simili si ritrovano in numerose
altre testimonianze, relative a esperienze estatiche, distribuite nel tempo e nello spazio, non
ultima quella relativa ai benandanti friulani la cui anima, durante la loro catalessi, esce dai corpi
sotto forma di «sorzetto»190.
Ginzburg conclude il capitolo sottolineando la necessità di integrare in uno sfondo generatore
comune elementi finora analizzati separatamente dai vari studiosi, quali «estasi, metamorfosi
animalesche, viaggi mitici verso l’aldilà, riti e credenze connesse alle processioni dei morti»191.

188
Ivi, p. 129
189
Ivi, p. 130
190
I benandanti, cit., cap. I, § 11
191
Storia notturna, cit., p. 133

80
Combattere in estasi

Già ne I benandanti Ginzburg aveva segnalato il caso del vecchio Thiess, un ottuagenario di
Jurgensburg, in Livonia, che nel 1692 confessa di essere un lupo mannaro192. I suoi racconti,
imperniati sul tema della lotta per la fertilità contro diavoli e stregoni, sconcertano i giudici
imbevuti dello stereotipo aggressivo confluito nell’immagine del sabba: in base ad esso, i lupi
mannari sono una minaccia alle messi e al bestiame, piuttosto che figure protettrici dei raccolti.
Sull’onda di tale narrativa, nel tentativo di spiegarne la funzione, essi sono stati
successivamente inseriti in una cornice mitica ugualmente bellicosa, collegata al tema
dell’«esercito dei morti»193.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che la perseveranza con cui Thiess dichiara di essere schierato
dalla parte di Dio, contro le forze del male, non possa dare agli inquirenti alcun appiglio formale
per accusarlo di stregoneria.
Eppure, lo stereotipo feroce riguardante i lupi mannari si era diffuso relativamente tardi, nel
XV secolo, facendo progressivamente sfumare l’alone contraddittorio che li circondava: essi,
infatti, nei testi letterari medievali erano raffigurati come esseri ambigui, se non addirittura
benefici. Questo strato folclorico, peraltro, non affiora solo durante il processo di Thiess ma è
confermato da altre testimonianze, relative all’area baltica, che smentiscono l’immagine ostile
dei lupi mannari194.
Lo storico aveva in precedenza sottolineato le straordinarie analogie che accomunano i racconti
di Thiess a quelli dei benandanti “agrari”. La più importante riguarda il nucleo centrale del
culto, ovvero le battaglie periodiche per la fertilità contro dei nemici che rappresentano, a un
tempo, una minaccia nei confronti della prosperità e della fede. A ciò si aggiunga che nel
mondo slavo una credenza vuole che i nati avvolti nel sacco amniotico siano destinati a
diventare lupi mannari. Inoltre, sebbene Thiess non faccia parola di estasi o catalessi, dai toni
del suo racconto filtra «il tentativo di esprimere un’esperienza estatica percepita come reale»195.
Ginzburg nota come «credenze analoghe sui lupi mannari siano presenti in aree culturali
eterogenee (mediterranea, celtica, slava) entro un lunghissimo arco di tempo»196. Ritiene altresì
che tutte queste credenze siano accomunate dal valore altamente simbolico dei miti che vi si
rintracciano, tutti connessi al mondo dei morti o all’idea del passaggio tra vita e morte. Ad

192
I benandanti, cit., cap. I, § 16
193
V. pag. 122
194
Storia notturna, cit., p. 154-56 § 4
195
Ivi, p. 154
196
Ivi, p. 156

81
esempio, la trasformazione in animale esprime l’allontanamento dell’anima dal corpo esanime,
altra caratteristica che unisce Thiess ai benandanti.
Lo sconcerto legato alla distanza spaziale e temporale tra miti dai tratti così simili viene
parzialmente ad attenuarsi se li inseriamo in una cornice di ampio respiro geografico che va
dalle Alpi al Caucaso. In quest’area piuttosto estesa Ginzburg rinviene testimonianze di almeno
tre credenze che, al netto di alcune varianti locali, presentano un nocciolo analogo a quello dei
benandanti e dei racconti livoni. Si tratta, in progressivo allontanamento dal Friuli in direzione
est, dei kresniki croati, dei taltos ungheresi e dei burkudzauta caucasici. Il nocciolo in questione
è costituito dalla ricorrenza, in ciascuno dei componenti di questa serie, di alcuni elementi o
tratti distintivi: «a) le battaglie periodiche b) combattute in estasi c) per la fertilità d) contro
streghe o stregoni (o le loro controfigure, i morti)»197. Altri elementi compaiono in due o più
di queste credenze ma non in tutte: ad esempio, tutti, tranne i burkudzauta, sono predestinati
all’estasi da qualche contrassegno congenito. Un altro tratto che accomuna questi individui è
costituito dall’ambivalenza con cui essi sono percepiti nell’ambito delle loro comunità di
riferimento: personaggi che si muovono in una zona grigia, tra bene e male, dal potere a volte
rispettato e ricercato, altre temuto e vituperato.
Ulteriori credenze affioranti qui e là in un’area ancora più vasta (dalla Corsica alla Circassia,
passando per la Grecia e la Romania) presentano caratteristiche simili a quelle appena
menzionate, ad esempio il legame con il mondo dei morti o particolarità fisiche legate alla
nascita e alla capacità di trasformarsi in animali, con l’esclusione, tuttavia, del nucleo
fondamentale dell’estasi e delle battaglie per la fertilità.

Così come aveva fatto per le credenze relative alla dea notturna, Ginzburg ipotizza un
sottofondo sciamanico anche per i culti inseribili nel filone dei benandanti agrari, non presi
isolatamente ma nel loro complesso. I due elementi che ne costituiscono il nucleo sono, infatti,
prerogative degli sciamani eurasiatici: le estasi di questi ultimi, «stati di morte temporanea»198
come ci risulta da fonti lapponi datate XIII e XV secolo199, sono simili a quelle dei benandanti.
Non solo: anche le estasi sciamaniche sono popolate di battaglie la cui funzione è di procurare
prosperità ai membri delle varie comunità nomadiche. I loro rappresentanti, gli sciamani, si
battono contro omologhi di comunità avversarie, per una posta in gioco propria di una cultura

197
Ivi, p. 159
198
Ivi, p. 171
199
Ivi, p. 172

82
di cacciatori, in cui il bene primario è rappresentato dalle renne (e non già dai raccolti, tipici di
culture contadine).
È interessante, nota Ginzburg, come le estasi degli sciamani eurasiatici abbiano i connotati di
una spettacolare cerimonia pubblica ma conducano al compimento di duelli isolati. Viceversa
«durante le loro catalessi private, i loro colleghi europei partecipano a vere e proprie
battaglie»200.
Miti simili, diffusi in contesti culturali così profondamente diversi, sono legati per le loro
caratteristiche estatiche al tema di un canale di comunicazione con il mondo dei morti,
simboleggiato dalle metamorfosi e dalle cavalcate in groppa ad animali. Questi elementi
ritornano, seppure in forma distorta, nei primi processi per stregoneria e poi in innumerevoli
altre confessioni di streghe e stregoni da un capo all’altro d’Europa. Il tema delle battaglie per
la fertilità, invece, a parte le eccezioni già viste, solo in rari casi affiora attraverso i filtri dello
stereotipo inquisitoriale e per di più trasfigurato e dunque arduo da individuare.

Mascherarsi da animali

Una cronaca di fine Seicento ci fornisce una scarna testimonianza circa una consuetudine
annuale invalsa a Francoforte: gruppi di giovani conducono la sera, di porta in porta, un grosso
carro ricoperto di fronde con l’accompagnamento di canzoni e vaticini. Poiché la fonte
specifica che il volgo è consapevole della funzione della cerimonia (riconoscendola come una
rappresentazione dell’«esercito furioso») Ginzburg ne esclude un’origine erudita: si tratta
invece di una preziosa testimonianza della sopravvivenza alla persecuzione della stregoneria
dei miti popolari sulle schiere dei morti. La vitalità sotterranea di tali miti emerge quindi nella
traduzione in immagini e atti simbolici che costituiscono l’essenza dei rispettivi riti, con i quali,
afferma lo storico, hanno un rapporto di isomorfismo.
Seppur carente di molti dettagli (ad esempio il periodo dell’anno in cui avviene) il racconto
riguardo la cerimonia di Francoforte richiama una serie di riti analoghi, diffusi a partire dal V
secolo in un’area eurasiatica molto ampia, i «giri di questua»201: gruppi di giovani, in periodi
determinati (generalmente tra Natale e l’Epifania), mascherati da animali, si recano di casa in
casa chiedendo offerte di cibo e denaro in cambio di canti augurali di prosperità ma
minacciando ritorsioni in caso di rifiuto. Il carattere per lo più giocoso che il rito ha assunto,

200
Ibid.
201
Ivi, p. 191

83
anche nelle sue varianti moderne, cela uno strato più profondo: l’identificazione dei questuanti
con i morti; il carattere di ambivalenza che li contraddistingue, tipico dei rapporti tra i vivi e i
defunti, oscillante tra paura e devozione; il mascheramento come correlativo-oggettivo delle
metamorfosi e delle cavalcate estatiche che, abbiamo visto, rappresentano un mutamento di
stato, un ponte tra vita e morte.
Inoltre, le offerte di cibo richiamano con evidenza quelle lasciate alla dea, a un tempo della
prosperità e dei morti, in occasione delle scorribande notturne sue e delle sue seguaci.
«Questue infantili, tavole apparecchiate per le divinità notturne e travestimenti animaleschi
rappresentano modi diversi di entrare in contatto con i morti, ambigui dispensatori di
prosperità, nel periodo in cui l’anno vecchio finisce e quello nuovo comincia»202.
Nella penisola balcanica Ginzburg rinviene numerose declinazioni locali delle cerimonie che
accompagnano l’avvicendamento tra vecchio e nuovo anno. A volte le varianti interessano il
periodo dell’anno in cui si svolgono (i riti dei čalusari romeni, ad esempio, sono legati alla
Pentecoste). Al netto di inevitabili sfumature lo storico individua una correlazione tra tali
consuetudini e il sostrato mitico ad esse sotteso: i travestimenti animaleschi sono
personificazioni dei morti e al tempo stesso un modo per entrare in contatto con l’aldilà.
Quest’ultimo ruolo, che avevamo già visto essere proprio delle benandanti, si ritrova in
testimonianze relative all’area moldavo-rumena sin da metà Seicento. Vi si racconta di gruppi,
soprattutto donne (chiamate «rusalii»203), che cadono preda di estasi, come le loro omologhe
friulane, con la differenza che ciò avviene nell’ambito di un evento pubblico, legato a un tempo
e un luogo specifici. La funzione del rito è tuttavia simile: portare notizie dall’aldilà, dare
informazioni sui morti della comunità.
I miti rivissuti dai benandanti “agrari” nelle loro estasi trovano invece i loro corrispettivi rituali
nei čalusari rumeni: l’aspetto più importante di questa correlazione è, secondo Ginzburg,
l’immedesimazione con i morti, rispettivamente mitica (le metamorfosi in animali) e rituale (i
travestimenti animaleschi). La dimensione della morte è inoltre evocata simbolicamente dal
carattere iniziatico delle società di cui benandanti e čalusari fanno parte.
L’aura mortuaria delle molteplici attività dei čalusari è ulteriormente confermata dal fatto che
esse si svolgono sotto la protezione di una mitica imperatrice alla quale rendono omaggio, il
cui nome (Irodeasa o Arada) echeggia quello della divinità notturna che in occidente guida le

202
Ibid.
203
Ivi, p. 194

84
schiere dei morti (Erodiade o Diana). Una figura simile era filtrata, seppur confusamente, dai
racconti della benandante di Latisana Maria Panzona, che l’aveva denominata «badessa»204.
Manca invece nei čalusari un corrispettivo rituale ben preciso delle battaglie per la fertilità che
si ritrova invece in un rito praticato all’inizio del Cinquecento in alcune valli dei Grigioni:
«uomini mascherati detti “stopfer” o “punchiadurs” (letteralmente “pungitori”), armati di
grossi bastoni, giravano da un villaggio all’altro, facendo salti altissimi e urtandosi
violentemente» 205 . Ancora una volta lo scarto tra la viva voce dei protagonisti di queste
cerimonie, secondo i quali il fine è procurarsi un raccolto di grano più abbondante, e
l’interpretazione semplicistica degli eruditi che ne raccolgono le testimonianze, certifica
l’autenticità del rito: esso risulta scevro di una reinterpretazione in senso colto.
La testimonianza sui «punchiadurs» costituisce un corrispettivo rituale di una rete di miti i cui
snodi si possono riconoscere nei benandanti, nei kresniki, nei taltos, nei lupi mannari baltici e
nei burkudzauta caucasici.
Altri riti presenti nell’area caucasica e relativi all’avvicendamento tra un anno e il successivo
consistono in notturni furti simbolici perpetrati da questuanti, con la complicità degli stessi
padroni, in case dove sottraggono un po’ di carne e del liquore. Come non riconoscere dietro
queste controfigure le incursioni notturne dei benandanti e degli stregoni nelle cantine, di
ritorno dalle loro battaglie notturne?
Come accennato in precedenza Ginzburg precisa che, finora, sono stati criteri morfologici ad
orientarlo nell’individuazione di una serie documentaria compatta, sullo sfondo della quale si
staglia il duplice filone dei miti sulle schiere delle anime e sulle battaglie per la fertilità.
Nell’ultima parte del libro lo storico si propone di saggiare una possibilità non ancora presa in
esame e cioè che l’omogeneità morfologica dei dati, contrapposta a una tale eterogeneità di
contesti, sia dovuta a connessioni di carattere storico.

Congetture eurasiatiche

Partendo dalla testimonianza di Erodoto, Ginzburg mette in rilievo il ruolo importante che
potrebbero avere avuto gli Sciti nella diffusione in varie parti d’Europa di una cultura di tipo
sciamanico. Con il nome Sciti i greci definivano un insieme di popolazioni nomadi e semi-
nomadi con cui erano entrati in contatto nella zona del mar Nero a partire dall’ VIII secolo a.C.

204
I benandanti, cit. cap. IV, § 1
205
Storia notturna, cit. p. 199

85
Erodoto ci rende conto di pratiche scite, volte ad ottenere l’estasi e legate al culto dei morti,
molto simili a quelle che viaggiatori ed etnografi, in tempi moderni, riferiscono a proposito
degli sciamani siberiani.
In effetti la migrazione di queste popolazioni nomadi in direzione sud-ovest parte proprio dalle
steppe dell’Asia centrale dove essi, in epoche ancora più remote, potrebbero avere avuto
contatti con società dai tratti sciamanici.
Tratti simili affiorano, a loro volta, in fonti relative alle colonie greche insediatesi sulle rive del
mar Nero sin dal VII secolo a.C.: a una figura leggendaria, Aristea di Proconneso, sono
attribuiti poteri straordinari come la capacità di compiere viaggi estatici (spesso sotto forma di
animale), divinazioni e resurrezioni, indizi tali da far pensare che vi sia stato un travaso di
elementi sciamanici dalla cultura scita a quella greca.
In seguito ad un’ulteriore migrazione verso occidente nel VI secolo a.C., nuclei consistenti di
Sciti si stanziano in Tracia dove vengono a contatto con le popolazioni autoctone e, due secoli
dopo, con gruppi di celti in espansione verso oriente. Una tale convergenza di apporti culturali
potrebbe, secondo Ginzburg, fornire una chiave di interpretazione dei vari strati relativi alla
dea notturna, di cui ai precedenti capitoli: essa, infatti, pur presentando connotati
sostanzialmente omogenei, assume denominazioni diverse a seconda della cultura entro la
quale troviamo il riferimento: alla Diana dei penitenziali alto medievali corrispondono le
celtiche Matres ed Epona, la tracia Bendis, la greca Artemide. Tuttavia, lo strato considerato
da Ginzburg più remoto si riferisce a una divinità che egli chiama «signora degli animali», i
cui attributi confluiscono nell’Artemide omerica: una figura simile, dall’aspetto semi-ferino,
era venerata proprio dagli Sciti nell’VIII secolo a.C., probabile eredità di popoli delle steppe
con cui erano venuti in contatto in precedenza.
L’osmosi tra Sciti e Celti nella zona del basso Danubio e ulteriori spostamenti di questi popoli
verso ovest e verso nord spiegherebbe la presenza di elementi sciamanici in miti di matrice
celtica, nonché le convergenze tra le credenze, così eterogeneamente distribuite, riguardo le
battaglie combattute in estasi per la fertilità.
Se nel precedente capitolo l’ipotesi di un continuum eurasiatico era stata formulata sulla base
di criteri morfologici, ora Ginzburg ritiene di dare fondamenta più solide al suo costrutto con
la sequenza cronologica nomadi siberiani- Sciti- Traci- Celti. A puntellarne l’impalcatura
interviene la comparazione tra i prodotti della cosiddetta arte animalistica, provenienti da un
ambito geografico compreso tra la Cina e la penisola scandinava all’incirca tra il 1000 a.C. e il
1000 d.C.

86
L’autore nota come all’eterogeneità dell’area in questione corrisponda una quasi sconcertante
omogeneità degli esiti sia dal punto di vista stilistico che da quello iconografico. Egli attribuisce
agli Sciti una funzione di ponte tra Asia ed Europa, per cui elementi dell’arte delle steppe si
ritroverebbero nei manufatti prodotti in occidente. La catena ipotizzata per la trasmissione delle
credenze sciamaniche verrebbe quindi avvalorata da un analogo continuum per spiegare la
diffusione dei temi e delle forme dell’arte animalistica. Inoltre, trattandosi di oggetti, non
presentano il possibile inconveniente della sovrapposizione di schemi interpretativi fuorvianti
(come quelli dei processi inquisitori).
Ginzburg ha dunque fatto un deciso salto indietro nel tempo per rintracciare le remote origini
degli elementi che costituiscono il nucleo folclorico del sabba. Di fronte a convergenze
culturali dall’ampiezza estesissima egli si chiede quali possano essere le spiegazioni di un tale
fenomeno. Ne individua tre tecnicamente possibili:

a) Diffusione
b) Derivazione da una fonte comune
c) Derivazione da caratteristiche strutturali della mente umana

L’autore mette in rilievo i limiti relativi alla possibilità di validare le prime due ipotesi: ciascuna
di esse, infatti, per trovare una conferma dovrebbe potersi fondare su dati storici molto più
sostanziali di quelli che, a causa dell’orizzonte remoto preso in esame, abbiamo a disposizione.
In passato alcuni storici sono stati portati a surrogare la mancanza di documentazione certa e
univoca con avventurose congetture secondo un metodo, sostanzialmente a-scientifico,
analogo a quello della linguistica comparata ottocentesca che voleva illusoriamente ricostruire
la protolingua indoeuropea.
Ecco, dunque, che Ginzburg si propone nell’ultima parte del libro di «integrare nell’analisi i
dati storici esterni e le caratteristiche interne, strutturali del fenomeno trasmesso»206.

Ossa e pelli

Ginzburg vuole analizzare un altro elemento che sembra comparire in diversi tempi e diversi
luoghi: si tratta della zoppaggine mitico-rituale, connessa, come si vedrà, al mondo dei morti e

206
Ivi, p. 229

87
riguardo la cui diffusione l’autore si propone di cercare di capire quanto c’è di storico e quanto
di strutturale.
Identifica come punto di partenza il mito di Edipo, il cui nome («piede gonfio»207) richiama
una mutilazione inflittagli ai piedi da neonato. Questo elemento narrativo era già presente,
secondo Ginzburg, nel nucleo più antico del mito, al quale si sono poi sovrapposte le varie
rielaborazioni in funzione della rappresentazione teatrale, attenuando l’importanza del
dettaglio.
I piedi traforati di Edipo, l’infanzia trascorsa tra i pastori, la lotta contro la Sfinge sarebbero le
tappe di un’iniziazione che echeggia simbolicamente un viaggio nell’aldilà in base all’assunto
che ogni iniziazione sarebbe una morte simbolica seguita da rinascita. Ciò farebbe di Edipo un
«eroe ctonio, associato a divinità infernali, come le Erinni, ambigue portatrici di prosperità e
morte»208.
Applicando alla storia di Edipo un’analisi di tipo proppiano, Ginzburg rileva come la sua
struttura si possa rinvenire in saghe e miti analoghi: un re, avvertito da un oracolo che il proprio
figlio è destinato a ucciderlo per succedergli, lo espone ma questi, cresciuto e tornato in patria
dopo avere superato una serie di prove, compie la profezia e sposa la moglie del re (e dunque
la sua stessa madre).
Diverse varianti possono interessare il rapporto di parentela tra i personaggi (ad esempio zio-
nipote invece che padre-figlio) e attenuare la gravità di certi comportamenti (ad esempio
l’uccisione e l’incesto possono essere involontari come nel caso di Edipo).
Tra tutte queste rassomiglianze ne spicca una: molti dei protagonisti di questa serie mitica sono,
come Edipo, caratterizzati da particolarità legate alla deambulazione. Alcuni di questi miti
prevedono una funzione centrale dei sandali calzati dai personaggi quali strumenti magici per
superare una serie di prove, spesso connesse con viaggi nell’aldilà: ad esempio, alla zoppia di
Edipo corrisponde un’analoga perturbazione del normale incedere, individuabile nell’unico
sandalo indossato da Giasone e Perseo, entrambi personaggi legati, per le loro imprese, al
mondo dei morti.
In Achille, Ginzburg individua una figura paradigmatica di questa «triplice connessione tra
bambino fatale, particolarità legate alla deambulazione e mondo dei morti»209. Emergono due
testimonianze interessanti correlate alla sua figura: la prima ci porta in un remotissimo passato
e lega Achille, eroe per antonomasia, a una possibile origine scita. La seconda si colloca in un

207
Ivi, p. 242
208
Ivi, p. 244
209
Ivi, p. 247

88
tempo di molto posteriore e ci racconta di un rituale diffuso nel Seicento sull’isola di Chio:
l’usanza di scottare i piedi ai bambini nati tra Natale e l’Epifania affinché non diventino spiriti
deformi (kallikantzaroi) echeggia una versione del mito di Achille secondo cui la madre Teti
l’avrebbe immerso nel fuoco (e non nello Stige) per renderlo invulnerabile.
Particolarità legate alla deambulazione emergono anche in testimonianze figurative relative al
culto di Eleusi, caratterizzate da mono-sandalismo, situazione rituale simbolicamente connessa
al mondo dei morti, confermata anche da passi letterari inerenti Didone e Medea: esse sono
accomunate dal compimento di un atto apparentemente inspiegabile, quello di togliersi un
sandalo, in situazioni di analoga tensione verso una dimensione ultraterrena.
Tra le altre storie caratterizzate da mono-sandalismo spicca il riferimento a Caeculus, mitico
fondatore di Preneste, a capo di milizie formate da soldati che hanno il piede sinistro nudo e il
cui aspetto ricorda una schiera di morti. Caeculus stesso è una sorta di dio funebre e la sua
vicenda ricalca lo schema mitico ricorrente del bambino esposto per impedire la realizzazione
della profezia sulla sciagura del sovrano regnante.
Ginzburg rileva nell’iniziazione come morte simbolica il filo conduttore comune tra i miti presi
in considerazione: in diversi di essi le prove cui devono sottostare i protagonisti consistono in
furti di armenti, situazione che richiama il topos del viaggio nell’aldilà per rubare il bestiame
posseduto da un essere mostruoso. Si tratta di una struttura mitica nata presumibilmente in una
società di cacciatori e che è echeggiata, seppure in maniera modulata secondo le varianti locali
(società contadine in cui i frutti della terra fanno le veci degli armenti), nelle gesta notturna dei
benandanti, dei lupi mannari, dei burduzkauta caucasici. «È significativo che Eracle, il
principale protagonista di questo ciclo di miti sul suolo greco, risulti connesso in più modi al
mondo scita»210, che, come avevamo visto, potrebbe essere all’origine del filone delle battaglie
combattute in estasi per la fertilità.
In questa complessa rete di rimandi simbolici, altre figure mitiche sono accostabili a Edipo,
lungo le coordinate dello squilibrio ambulatorio. Tra le altre, Ginzburg associa questo tratto a
Dioniso, che punisce Telefo, re della Misia, colpevole di non tributargli i dovuti onori,
facendolo inciampare in un tralcio di vite e cadere rovinosamente. D’altra parte, Dioniso è
anche un dio legato al mondo sotterraneo in virtù del suo matrimonio con Arianna, signora del
labirinto e probabile dea funebre.
Torna, dunque, numerose volte l’accostamento simbolico tra asimmetria deambulatoria e
mondo dei morti. Questo stesso binomio è significativamente presente in contesti spazio-

210
Ivi, p. 253

89
temporali molto diversi: essi spaziano dalla Cina del IV secolo a.C. a miti e riti europei di quasi
due millenni dopo, relativi all’avvicendamento tra il vecchio e il nuovo anno, periodo in cui si
crede che le anime dei morti si aggirino tra i viventi. In due di queste credenze, quelle sui lupi
mannari livoni e sui kallikantzaroi greci, un personaggio zoppo riveste il ruolo di guida
iniziatica.
Nel tentativo di spiegare una diffusione così ampia di questo schema ricorrente, Ginzburg si
addentra in un’analisi strutturale, in base a cui la zoppaggine e il mono-sandalismo, alterando
la percezione simmetrica che l’uomo ha del proprio corpo, rappresenterebbero «un’esperienza
oltre i limiti dell’umano: il viaggio nel mondo dei morti, compiuto in estasi o attraverso riti di
iniziazione»211. Egli postula un’attività categoriale della mente umana che rielabori in forma
simbolica le esperienze concrete, tra cui c’è quella che chiama «l’esperienza di grado zero: la
morte» 212 . È proprio il viaggio verso il mondo dei morti che costituisce il riferimento
metaforico ricorrente in tutti i miti e i riti analizzati da Ginzburg per chiarire la dimensione
folclorica del sabba.
In questa rete complessa di affinità Ginzburg inserisce anche le fiabe di magia, ma non in base
al semplicistico assunto per cui le confessioni degli imputati nei processi per stregoneria
sarebbero un’inconscia rielaborazione di fiabe o racconti appresi durante l’infanzia. Lo storico
intravede un legame più profondo, che cerca di mettere in luce prendendo in esame una fiaba
esemplare, Cenerentola. In una variante molto diffusa la funzione dell’aiutante magico è
rivestita da un animale, protetto dall’eroina, che viene ucciso dalla matrigna. Le ossa di
quest’animale (a seconda delle culture vacca, pecora, agnello, toro) vengono seppellite ed
innaffiate dalla protagonista secondo un rituale funzionale ad ottenere i doni magici utili a
superare il divieto impostole dalla matrigna. In tre versioni «l’animale […] resuscita dalle ossa
e consegna all’eroina i doni magici»213. Nonostante la casistica rara, Ginzburg ipotizza che
questa sia la versione originaria della fiaba in base all’analogia con «miti e riti documentati in
culture svariatissime che descrivono gli espedienti usati per assicurare la resurrezione più o
meno perfetta di animali ed esseri umani» 214 . In due delle tre versioni che prevedono la
resurrezione, entrambe provenienti dalla Scozia, l’animale a cui è stata restituita la vita zoppica,
particolare che riprende il tema dell’asimmetria deambulatoria di chi va o torna dall’altro

211
Ivi, p. 259
212
Ivi, p. 260
213
Ivi, p. 264
214
Ivi, p. 264-265

90
mondo; inoltre segna una continuità tematica con la successiva perdita della scarpetta da parte
di Cenerentola.
Queste prerogative di Cenerentola la accostano alla «signora degli animali», antica divinità
rispetto alla quale Ginzburg aveva riconosciuto una controfigura in Madona Oriente, in grado
di ridare la vita con un colpo della sua bacchetta alle ossa di buoi morti. Un’analoga funzione
ricopre il martello del dio celtico-germanico Thor e della sua variante lappone Horogalles.
Un’altra versione della fiaba prevede la sostituzione di un osso mancante dell’animale morto
con un surrogato costituito, ad esempio, da un pezzo di legno o da un altro osso. L’aspetto
interessante è la distribuzione geografica di questa variante: essa infatti risulta presente in
un’area molto ampia, con la significativa esclusione dell’Africa continentale. Secondo
Ginzburg, la raccolta delle ossa e la sostituzione dell’osso mancante sarebbero la metafora del
dominio ottenuto sulla dimensione dell’aldilà a prezzo dell’esperienza traumatizzante di una
scomposizione seguita da una ricomposizione. Tale dominio sugli spiriti è una prerogativa
degli sciamani eurasiatici, mentre in Africa continentale troviamo fenomeni di possessione in
cui «colui che è posseduto è in balia degli spiriti, ne viene dominato»215.
Alcuni miti greci, come ad esempio quelli relativi a Pelope, Dioniso bambino e Prometeo
presentano analoghe situazioni di uccisione-smembramento-ricomposizione delle ossa-
risurrezione. Ginzburg ritiene che essi possano essere la rielaborazione di antichi riti eurasiatici
in cui «le ossa degli animali uccisi venivano offerte agli dei perché li riportassero in vita»216.
Ritorna il ruolo chiave dell’interazione tra cultura greca e scita nell’area del mar Nero, a partire
dal VII secolo a.C.: tale osmosi avrebbe consentito il travaso di elementi e suggestioni a loro
volta provenienti dalle società nomadiche dell’Asia centrale, con cui gli Sciti erano entrati in
contatto in precedenza.
Questo complesso mitico-rituale, in cui i due tratti più evidenti sono la resurrezione delle ossa
e la zoppaggine, echeggia, secondo l’autore, figure e temi sciamanici di provenienza
eurasiatica. Il secondo di questi tratti è evocato in due racconti pressoché analoghi, appartenenti
alla tradizione folclorica di due aree lontanissime: il Caucaso ed il mantovano. In entrambi il
protagonista, rispettivamente Amirani e Sbadilon, coinvolto in cruciali imprese sotterranee,
viene riportato in superficie da un’aquila che nutre, durante l’ascesa, con un pezzo di carne
tagliata dal proprio calcagno. Al compimento del viaggio l’aquila guarisce miracolosamente la
ferita prodotta dalla mutilazione. I calcagni tagliati sono il contrassegno di chi ha compiuto il

215
Ivi, p. 267-268
216
Ivi, p. 269

91
viaggio sotterraneo nel mondo dei morti: un connotato simile, per Ginzburg, doveva essere
verosimilmente presente in una versione non pervenutaci del mito di Prometeo, un dio che
agisce come mediatore tra Zeus e gli uomini e di cui Amirani è la controfigura caucasica.
Lo strato sotterraneo di mitologia eurasiatica unitaria, emerso dall’analisi di miti e riti
imperniati sull’asimmetria ambulatoria, è ben documentato in tutto il folclore dell’Europa
medievale, fino a lasciare tracce evidenti nell’iconografia demonologica, nell’immagine del
diavolo zoppo o dallo zoccolo equino.
Tornando al rito della raccolta delle ossa degli animali morti, proprio di società di cacciatori in
tempi molto remoti (forse addirittura risalenti al paleolitico), Ginzburg ne dà una spiegazione
che tira in ballo le caratteristiche strutturali della mente umana. Egli ritiene che il significato
del gesto consista nel mettere in comunicazione il visibile (ovvero l’esperienza sensibile
dominata dalla scarsità) con l’invisibile (il mondo al di là dell’orizzonte, popolato di animali).
Ciascun animale che si affaccia all’orizzonte è l’animale resuscitato attraverso il rito. La
dimensione di ciò che non è immediatamente percepibile con i sensi, ovvero l’alterità,
rappresenta simbolicamente l’aldilà così come vi è un’identificazione profonda tra animali e
morti.
La connessione tra animali e aldilà riemerge in molti dei miti e riti evocativi di una dimensione
funebre analizzati da Ginzburg: dalle varie declinazioni medievali della «signora degli
animali», alle sembianze animalesche dei lupi mannari livoni, alla fuoriuscita dell’anima sotto
forma di topo o farfalla nelle estasi dei benandanti.
L’opposizione simbolica morti-vivi è riconoscibile anche nella struttura dualistica propria di
numerose società in varie parti del mondo, secondo una distribuzione spaziale e temporale
molto ampia. È la stessa opposizione che abbiamo visto essere alla base di miti come quelli dei
benandanti: essi combattono gli stregoni, controfigure dei morti, dei quali però gli stessi
benandanti sono controfigure. L’elemento chiave di quest’ambivalenza è l’estasi, morte
simulata che permette loro di stabilire un canale di comunicazione con i loro avversari-alter
ego. Allo stesso tempo li fa percepire in maniera ambigua nell’ambito della loro comunità di
riferimento, proprio come oscilla tra paura e devozione la percezione che i vivi hanno dei
defunti.
Il viaggio di Ginzburg nel complesso mondo dei miti e dei riti, che si collocano nella zona
grigia tra vita e morte, si conclude con un’altra metafora: il destino particolare di coloro che
nascono avvolti nel sacco amniotico li pone a contatto, attraverso l’estasi, con l’esperienza
della dipartita. Quest’idea dell’avvolgere, racchiudere, coprire ritorna in vari riti legati alla
morte, presenti in culture disparate: l’uso antico degli abitanti della Colchide di avviluppare i
92
defunti in una pelle di bue; l’estasi cercata dagli sciamani islandesi tramite un panno che copre
il volto; l’usanza di coprire il viso ai morti, di cui si rinvengono tracce embrionali nell’antichità
classica; infine l’associazione pressoché universale tra maschere e spiriti dei morti. «Nei miti
e nei riti che si riferiscono alla morte ritorna, in maniera insistente, l’idea di tornare in vita, di
rinascere. Termini come avvolgere o nascondere esprimono l’annullamento attraverso
metafore uterine» 217 all’insegna di una contiguità tra morte e vita, due facce della stessa
medaglia.
Riguardo alla questione chiave del rapporto tra morfologia e storia, Ginzburg ritiene di avere
dimostrato, «al di là di ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di una sotterranea unità mitologica
eurasiatica, frutto di rapporti culturali sedimentati nei millenni»218. Quale sia, entro questo
quadro, l’influenza di elementi strutturali della mente umana legati all’inconscio (come la
metafora) è un dato oggettivamente difficilmente quantificabile. Infatti, è per definizione
impossibile affermare con certezza che l’emersione di un mito analogo in due culture diverse
non derivi da connessioni storiche. «Non rimane che postulare, dietro i fenomeni di
convergenza culturale che abbiamo indagato, un intreccio di morfologia e storia»219.

Conclusione

Il concetto di marginalità si applica a molti dei gruppi, analizzati da Ginzburg, i cui atti, miti e
riti, rielaborati in senso demonologico, sono entrati a far parte dello stereotipo del sabba. Si
tratta quasi sempre di persone che si muovono su un territorio liminare, tra una zona di luce e
una d’ombra: convivenza sociale e reclusione, santità e stigma, vita e morte. Il loro presidio di
questa “terra di frontiera” ne fa i candidati più credibili non solo a comunicare con i morti ma
anche a diventare temporaneamente loro controfigure. L’innesto, seppur graduale, dello
schema colto inquisitoriale su questo strato di credenze folcloriche dà concretezza fisica agli
eventi da loro vissuti in stati di trance estatica: nei processi inquisitoriali il sabba diventa un
fatto reale, le streghe sono donne in carne ed ossa, strumenti consapevoli del demonio.
All’interno di tale schema la donna (e soprattutto la donna sola) rappresenta l’elemento
marginale per eccellenza, il capro espiatorio più comodo, senza referenti politici né sociali. È

217
Ivi, p. 286-287
218
Ivi, p. 288
219
Ibid.

93
d’altra parte una marginalità che riflette «la percezione di una contiguità tra chi genera la vita
e il mondo informe dei morti e dei non nati»220.
Nel Cinquecento scienziati come Cardano e Della Porta derubricano la concretezza che emerge
dalle testimonianze dei processi inquisitoriali a effetto di allucinazioni provocate da sostanze
vegetali. Ginzburg ribadisce con forza che la ripetizione così codificata delle esperienze
estatiche, poi confluite, in misura più o meno filtrata, nello stereotipo, deve necessariamente
trarre la propria origine da un retroterra mitico che si perde in un remoto passato. Tuttavia, non
nasconde l’importanza del ruolo che possono avere avuto sostanze psicotrope nell’attivazione
di quei fenomeni.
L’autore esplora due ipotesi. La prima riguarda gli effetti allucinogeni di un fungo, la claviceps
purpurea, che si deposita sulla segale cornuta, un tipo di cereale diffuso durante il medioevo
nell’Europa centro-settentrionale. Emergono concordanze folcloriche e linguistiche tra i miti e
i riti di cui Ginzburg ha trattato in precedenza e i termini con cui viene indicato questo cereale:
ad esempio il tedesco Tollkorn (grano pazzo) sembra indicare un’antica consapevolezza del
potere racchiuso nella pianta. Il lupo mannaro, secondo il folclore tedesco, «se ne sta seduto in
mezzo al grano»221 mentre ai bambini dell’800 si parlava di esseri spaventosi come il lupo o il
cane della segale.
La seconda ipotesi formulata da Ginzburg concerne l’uso dell’Amanita muscaria, testimoniato
sin da epoche antichissime, quale mezzo per ottenere l’estasi da parte degli sciamani siberiani.
Anche qui lo storico intravede analogie linguistiche di ampio respiro, notando come la radice
del termine indicante questo fungo in sanscrito sia simile alla parola che in quella lingua traduce
“zoppo”. Considerazioni analoghe si possono fare per la lingua francese dove abbiamo una
triplice convergenza: la radice “bot” si ritrova in tre termini: “fungo” (provvisto di lamelle),
“zoppo” e “rospo”. Quest’ultimo termine, in particolare, si ritrova nelle denominazioni
popolari di alcuni funghi in italiano e in altre lingue, facendo emergere la possibile
appartenenza del rospo al medesimo retroterra mitico folclorico relativo al passaggio visibile-
invisibile, vita-morte. L’ipotesi trova una possibile validazione nell’associazione, riscontrabile
in diverse culture popolari, tra il rospo e figure liminari come fata, strega, mago.

Al termine di questa complessa ricognizione sui miti confluiti nel sabba, Ginzburg arriva alla
constatazione che «tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà»222.

220
Ivi, p. 329
221
Ivi, p. 333
222
Ivi, p. 336

94
Si tratta di una struttura di fondo che, al netto delle numerose varianti locali, egli giudica un
tratto distintivo della specie umana, in quanto metafora della potenza evocativa del racconto:

Raccontare significa parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati (letteralmente
o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla
sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della
specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti ma la matrice
di tutti i racconti possibili223.

Sono, queste, le parole conclusive della monumentale ricerca di Ginzburg, che, rimanendo
inevitabilmente scolpite nella mente del lettore, tendono a condensare in maniera forse
eccessivamente sintetica il senso di un’opera molto più complessa.

223
Ibid.

95
CAP. V- LA RICEZIONE DI “STORIA NOTTURNA”

Sintesi

Era inevitabile che un libro così complesso e dall’approccio metodologico non convenzionale
come Storia notturna attirasse le critiche della comunità degli storici. Universalmente lodata
per la straordinaria erudizione dimostrata dall’autore nei suoi excursus nello spazio e nel tempo
e per la sua capacità di affabulazione, l’opera ha tuttavia lasciato perplessi molti commentatori
riguardo alcuni aspetti che cercherò di sintetizzare di seguito.
In Storia notturna si assiste a una deflagrazione delle tematiche abbozzate ne I benandanti circa
la legittimità della generalizzazione del caso friulano (in apparenza unico o quanto meno
eccezionale) all’interno di un amplissimo orizzonte mitico-rituale (sia dal punto di vista
geografico che temporale). L’ambizioso tentativo di Ginzburg di dimostrare l’esistenza di un
sostrato sciamanico antichissimo all’origine del culto della fertilità dei benandanti, deformatosi
nello stereotipo del sabba stregonesco, si scontra in un primo momento con la difficoltà di
reperire evidenze storiograficamente significative: ciò proprio a causa dello scenario ampliatosi
a dismisura rispetto alla realtà friulana. Da qui la decisione di Ginzburg, maturata attraverso
una lunga riflessione, di fare ricorso alla morfologia che egli definisce un mezzo di indagine
non alternativo ma complementare rispetto alla storia, «una sonda per scandagliare uno strato
inattingibile agli strumenti consueti della ricerca storica»224.
Un tale allargamento di prospettive non è privo di rischi e attira le critiche di diversi recensori.
Ad esempio, R. Hutton 225 da un lato elogia Storia Notturna per la portata rivoluzionaria
dell’indagine consistente nel tentativo di individuare, al di sotto dello stereotipo diabolico della
stregoneria, una rete di antiche credenze popolari; dall’altro sottolinea i limiti della ricerca di
Ginzburg, che approda a conclusioni approssimative, in modo direttamente proporzionale
all’ampiezza dello scenario considerato.
Sullo stesso solco si colloca De Blecourt226 (v. pag. 96) che, anzi, rincara la dose, sottolineando
l’arbitrarietà delle conclusioni di Ginzburg circa il valore paradigmatico di cui egli riveste la
parabola processuale dei benandanti, declassati dal recensore a fenomeno di rilevanza locale.
Un altro significativo appunto che lo storico olandese muove a Ginzburg consiste nell’avere
considerato lo stereotipo del sabba come un elemento rigido, immune da varianti locali o da

224
Ivi, p. XXXI
225
R. Hutton, The triumph of the moon, Oxford 1999, p. 378
226
W. De Blecourt, The return of the sabbat: mental archaelogies, conjectural histories or political
mythologies? in J. Barry, O. Davies (eds.), Palgrave advances in witchcraft historiography, New York 2007,
pp. 125-145

96
evoluzioni nel tempo: questa valutazione, a suo parere, costituisce una premessa che già in
partenza non contribuisce a gettare solide basi per la ricerca dello storico torinese.
La critica alla logica classificatoria sulla quale Ginzburg fonda il proprio metodo comparativo
di tipo morfologico accomuna i commenti di De Blecourt a quelli di P. Anderson227 (v. pag.
102). Questi intravede, dietro le «somiglianze di famiglia» individuate dall’autore di Storia
notturna, l’applicazione di una categorizzazione politetica che il critico ritiene sostanzialmente
priva di oggettività e quindi di valore scientifico. L’analisi di Ginzburg tenderebbe dunque a
una selezione qualitativa delle evidenze in direzione della validazione della tesi, già espressa
tempo addietro nella prefazione a I Benandanti, riguardo la persistenza e l’influenza di un
antico strato folclorico di matrice sciamanica. Tali conclusioni, secondo il recensore, sarebbero
il risultato di congetture arbitrarie, conseguenza di un’idealizzazione della cultura popolare
operata da Ginzburg. Si tratta di una posizione condivisa dallo storico delle religioni B.
Lincoln 228 in merito al processo di Thiess (v. pag. 125), ampiamente analizzato in Storia
notturna, cui lo storico torinese attribuisce un’importanza fondamentale quale indizio di «una
connessione non analogica ma reale tra benandanti e sciamani». Nel processo al lupo mannaro
livone, viceversa, lo storico americano vede una vicenda emblematica del conflitto sociale tra
i contadini baltici e l’élite tedesca che governava la Livonia attuando una politica di confische
agrarie.
J. Martin 229 (v. pag. 110) considera rivoluzionario il tentativo, operato da Ginzburg, di
ribaltamento di una prospettiva storiografica trita, basata sulla predilezione per testimonianze
prodotte dalla cultura egemone. Tuttavia, il recensore rileva, come già Tenenti e Del Col
avevano fatto a proposito de I benandanti, la refrattarietà dimostrata da Ginzburg a inserire i
fenomeni analizzati nel loro specifico contesto sociale. Inoltre, per quanto ammiri l’abilità
dimostrata da Ginzburg di seguire fili logici imprevedibili, ritiene che quest’impostazione
finisca, soprattutto nella terza parte, per disperdere l’analisi in un tessuto difficilmente
riconoscibile: ciò porta l’autore al di fuori del solco segnato dall’obiettivo dell’indagine (le
radici popolari dello stereotipo del sabba) e a una fiducia eccessiva nella propria erudizione
quale strumento per dominare le numerose sfumature interdisciplinari della ricerca.

227
P. Anderson, Witchcraft in «London review of books», vol. 12, no. 21 (8 Nov. 1990), pp. 6-11
228
C. Ginzburg; B. Lincoln, Old Thiess, cit.
229
J. Martin, Journeys to the world of dead: the work of Carlo Ginzburg in «Journal of social history», vol. 25,
no. 3 (Spring 1992), pp. 613-626

97
La problematicità del contesto sciamanico individuato in Storia notturna è l’oggetto del
commento di G. Henningsen230 (v. pag. 115): lo storico danese mette in luce cinque differenze
tra lo sciamanesimo classico e i fenomeni europei (benandanti, kresniki, taltos, lupi mannari)
inseriti da Ginzburg in questa categoria. Tra esse la più significativa riguarda la capacità degli
sciamani di padroneggiare la propria trance mentre i benandanti non hanno nessun controllo
sulla loro. Henningsen, inoltre, giudica infondato l’inserimento delle donne di fuora siciliane
(a cui ha dedicato un saggio 231 ) nell’ampio scenario di fenomeni estatici individuato da
Ginzburg.
Infine, il recente saggio di D. Ermacora232 (v. pag. 118) offre una panoramica trentennale sulla
ricezione di Storia notturna, rilevando l’accusa ricorrente al presunto carattere neo-frazeriano
dell’opera circa l’uso su larga scala del metodo comparativo233.
Oltre ad analizzare molti aspetti della combattuta ricezione, l’autore, studioso del folclore,
mette in luce come all’erudizione dimostrata da Ginzburg nell’escursione in campi non
strettamente di sua competenza, talvolta non faccia riscontro l’utilizzo di strumenti di analisi
adeguati.

“The return of the Sabbat” di W. De Blecourt (2007)

De Blecourt definisce Ginzburg l’enfant terrible della comunità degli storici per la sua tendenza
a cimentarsi in sfide intellettuali al limite della temerarietà e la sua non comune erudizione che
lo porta a frequenti sortite al di fuori del campo specialistico di studioso dell’inizio dell’era
moderna.
Il suo primo libro, I Benandanti (1966), fece scalpore e fu considerato da molti una conferma
delle tesi di Margaret Murray, dal momento che forniva una ricca documentazione
sull’esistenza di un culto agrario, funzionale alla fertilità, connesso alla stregoneria.
Fu solo dopo la traduzione in inglese del 1983234, seguita al successo de Il formaggio e i vermi,
che divenne chiaro che la tesi chiave di Ginzburg consisteva nel graduale processo di
interiorizzazione, da parte dei benandanti, dell’interpretazione erudita che gli inquisitori
fornivano ai loro racconti.

230
G. Henningsen, Round table discussion with C. Ginzburg, E.Pocs, G.Pizza and G.Klaniczay in G. Klaniczay,
E. Pocs, (a cura di) Witchcraft mythologies and persecutions, Budapest 2008, pp. 35-37
231
G. Henningsen, The ladies form outside: an archaic pattern of the witches’ sabbath, Oxford 1990
232
D. Ermacora, Invariant cultural forms in Carlo Ginzburg’s “Ecstasies”: a thirty-year retrospective in
«Historia religionum», no. 9, 2017, pp. 69-94
233
James Frazer (1854-1941), antropologo e storico delle religioni britannico, nella sua opera principale, Il ramo
d’oro (titolo originale The golden bough), utilizza un metodo di comparativismo estremo
234
The night battles, cit.

98
Nel lungo intervallo tra l’uscita de I benandanti e la pubblicazione di Storia notturna (1989),
Ginzburg ha continuato a mantenere vivo l’interesse per la stregoneria scrivendo numerosi
articoli sull’argomento (o comunque su problematiche affini ad esso) che hanno stimolato il
dibattito.
Storia notturna ha riscosso un’accoglienza variegata, ma la comunità degli storici ha riservato
all’opera più critiche che consensi. Lo storico torinese si è lamentato che i suoi recensori, nei
loro rilievi, abbiano fatto riferimento a singole parti e non al libro nel suo complesso. De
Blecourt, tuttavia, sottolinea come tale risposta frammentata non sia altro che la conseguenza
dell’enorme dispersione della documentazione dispiegata dall’autore, che spazia in maniera
considerevole geograficamente, temporalmente e per tipologia delle fonti. Inoltre, pur essendo
presentata come una ricerca delle radici popolari del sabba, l’opera finisce per eccedere di gran
lunga il proposito originario. Secondo De Blecourt, al di là della straordinaria ricchezza della
documentazione, sono i criteri discutibili che Ginzburg adotta per collegare tra loro i vari
fenomeni analizzati a lasciare perplessi gli storici.
I due nuclei tematici, oggetto dello studio di Ginzburg nella seconda parte (ovvero i viaggi
estatici notturni al seguito di una dea e le battaglie agrarie per la prosperità dei raccolti)
rappresenterebbero il primo strato di cultura popolare riconoscibile al di sotto delle
incrostazioni erudite prodotte dall’Inquisizione. Quasi fosse un archeologo, tuttavia, l’autore
non si ferma e scava ulteriormente fino a rinvenire livelli sempre più profondi che lo conducono
all’individuazione di una connessione con un remoto substrato sciamanico eurasiatico. Tutti i
fenomeni analizzati sarebbero accomunati, quindi, da un significato ultimo comune, che filtra
attraverso una complessa rete di riferimenti simbolici: si tratta del viaggio verso il mondo dei
morti, che, dunque, costituirebbe le radici del sabba stregonesco. Questi esiti a lunghissima
gittata della ricerca di Ginzburg sono basati su un’analisi che De Blecourt stenta a definire
storica: tutt’al più è strutturale, solo apparentemente morfologica, selettiva e non seriale,
nonché priva di adeguata contestualizzazione; le connessioni che ne derivano sono arbitrarie
poiché basate su rassomiglianze superficiali.
Il critico ritiene che, poiché nella figura dei benandanti convergono i filoni della dea notturna
e del culto agrario, siano questi (e non il sabba) a costituire il vero cuore tematico di Storia
notturna anche perché nei processi inquisitoriali non c’è quasi traccia delle battaglie per la
fertilità, sebbene Ginzburg tenti di giustificarne l’assenza con argomenti poco credibili. Si ha
quindi l’impressione che l’analisi dello storico torinese sia minata in partenza dall’ossessione
di accumulare indizi per convalidare una tesi preconcetta, quella del valore paradigmatico

99
attribuito ai benandanti come prova di una connessione con un remoto strato sciamanico
confluito nell’immagine del sabba.
Storia notturna si configura come il tentativo, intrapreso su larghissima scala, di legittimare le
posizioni espresse dall’autore ne I benandanti, in cui Ginzburg aveva già fornito alcuni esempi
di quello che sarebbe diventato un suo mantra metodologico: l’accostamento arbitrario di
elementi o motivi che, ad esempio, lo porta a concludere, senza tema di smentita, che la
«badessa» citata nella testimonianza di Maria Panzona sia una declinazione della «multiforme
divinità femminile» e di conseguenza rientrerebbe nel complesso mitologico della «caccia
selvaggia»235.
De Blecourt è particolarmente critico circa la pretesa, da parte di Ginzburg, di legittimare
236
teoricamente il suo approccio, chiamando a sostegno l’autorità di Wittgenstein e
Needham237: lo valuta un atteggiamento incoerente rispetto al programmatico intento di farci
pervenire le voci dei testimoni in modo tale da essere davvero rappresentative della cultura
popolare a cui appartengono. Che cos’è, infatti, il richiamarsi a una particolare teoria per
giustificare le proprie ipotesi se non la sovrapposizione di un ulteriore strato dotto a un
orizzonte documentario già di per sé inquinato dai filtri apposti da inquisitori e demonologi?
De Blecourt riconosce l’importanza de I benandanti per il rivoluzionario rovesciamento di
prospettiva che ne fa un’opera a tutt’oggi unica nel panorama della stregoneria, ma ne
sottolinea i punti deboli tra cui quello che riguarda la tesi principale esposta da Ginzburg. Il
critico ritiene che la progressiva assimilazione alla posizione degli inquisitori, che secondo
Ginzburg si palesa attraverso le testimonianze, sia un’evidenza tutt’altro che acclarata: infatti
non sappiamo in che misura tale transizione sia autentica o solo di facciata in quanto legata alle
pressioni psicologiche imposte dai giudici, anche perché l’autore non ha portato a sostegno
della propria ipotesi un’analisi del contesto sociale extra-processuale.
Un altro rilievo che De Blecourt muove nei confronti di Ginzburg consiste nell’aver
considerato solo alcune prerogative dei benandanti (le battaglie notturne in spirito per la
fertilità), a scapito di altre (la loro reputazione come guaritori, esperti di medicina popolare e
di rimedi anti-stregoneschi) e dunque la sua analisi risentirebbe di un approccio inevitabilmente
parziale. Soprattutto a partire dalla seconda metà del Seicento, periodo ignorato da Ginzburg,
i benandanti vengono processati non in quanto potenziali streghe ma in funzione di controllo
delle loro pratiche curative: ciò dimostrerebbe che le loro credenze erano ancora vive nella

235
I benandanti, cit., cap. II, § 10; cap. IV, § 1
236
Note al ramo d’oro di Frazer, cit.; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. Torino 1967, pp. 46 sgg.
237
R. Needham, Polythetic classification, in «Man», Nuova serie, 10 (1975), pp. 349-369

100
comunità ed espressione di una funzione sociale (la contro-stregoneria), dunque
l’assimilazione allo stereotipo del sabba diabolico, ipotizzata dallo storico torinese, è un’ipotesi
poco fondata. Di conseguenza, il legame tra le radici popolari del sabba e le vicende dei
benandanti viene messo in discussione da De Blecourt.
Circa l’etichetta di benandante attribuita da Ginzburg anche a donne, De Blecourt mette in
evidenza come essa sia il risultato di una forzatura metodologica. Emblematico è il caso di
Anna la Rossa dalla cui testimonianza si apprende che è in grado di vedere i morti e comunicare
con loro. Negli atti, tuttavia, non viene mai menzionata la parola benandante in riferimento ad
Anna 238 . Qualche pagina dopo, però, Ginzburg la incorpora nella categoria in base alla
testimonianza di una certa Caterina la Guercia la quale dichiara che il suo defunto marito era
un benandante e che andava in processione con i morti239. Si tratta di una conclusione, secondo
De Blecourt, alquanto arbitraria in quanto non fornisce nessuna prova del fatto che donne in
grado di comunicare con i defunti siano benandanti.
Tornando a Storia notturna, De Blecourt mette in evidenza come l’autore apra l’opera con una
descrizione di quella che secondo lui, senza sostanziali modifiche sin dal 1430, è l’immagine
tipica del sabba, i cui elementi fondamentali sarebbero il volo notturno verso raduni che si
tengono in luoghi solitari, le metamorfosi, la profanazione dei riti cristiani in presenza del
diavolo. Tuttavia, nota il critico, adottare questo stereotipo come punto di partenza della ricerca
costituisce una premessa claudicante. Vari altri studiosi (tra i quali Richard Van Dülmen240)
sono concordi nel ritenerlo molto meno omogeneo sia dal punto di vista diacronico che
diatopico: infatti la sua evoluzione si sarebbe arrestata solo nel 1600 e, soprattutto, le varianti
locali sarebbero state tante e tali da mettere in crisi la nozione stessa di stereotipo. Ad esempio,
da alcune testimonianze emerge che le sedi dei raduni, a cui le partecipanti si recavano a piedi,
fossero tutt’altro che remote; le metamorfosi sono raramente menzionate mentre le differenze
regionali farebbero pensare a un elevato grado di polimorfismo piuttosto che alla diffusione di
un’immagine uniforme (tanto che confrontando le cerimonie sabbatiche basche e danesi si ha
quasi l’impressione di essere di fronte a eventi di diversa natura).
Rispetto a quelle individuate per rilasciare la patente di benandante a donne che vedono i morti,
lo stesso labile grado di attendibilità hanno, a parere del critico, le connessioni che Ginzburg
individua in Storia notturna tra fenomeni candidati a entrare nel suo orizzonte probatorio di
tipo morfologico. L’esempio più eclatante dell’applicazione di questa valutazione preconcetta

238
I benandanti, cit. cap. II, § 1
239
Ivi, cap. II, § 3
240
The return of the Sabbat, cit. p. 131

101
si può rilevare nei miti e nelle credenze che Ginzburg riconduce al motivo del viaggio
nell’aldilà, confluito, secondo lui, nello schema del sabba stregonesco. De Blecourt obietta che
miti come la resurrezione di bovini a partire dalla raccolta delle loro ossa, le battaglie per la
fertilità, la caccia selvaggia hanno poco o nulla contribuito alla formazione dello stereotipo,
anche nelle sue varianti locali (che Ginzburg peraltro si ostina a non voler considerare). D’altra
parte, seguendo la logica classificatoria applicata dallo storico torinese, saremmo in grado di
far confluire nel piatto da lui preparato numerosi altri ingredienti, che tuttavia sarebbe molto
più interessante studiare in relazione alla possibile presenza di tracce di sciamanesimo piuttosto
che come elementi da infilare a forza nello schema del sabba diabolico.
Di conseguenza, De Blecourt ridimensiona l’importanza dei benandanti, considerati da
Ginzburg chiave interpretativa fondamentale, derubricandoli a fenomeno locale senza alcun
ruolo nella costituzione dell’immagine del sabba. La loro eccezionalità sarebbe dunque un
tratto da prendere alla lettera a differenza di quanto afferma Ginzburg, che vede nel fenomeno
friulano la punta (emersa casualmente grazie alla scoperta degli atti dei loro processi) di un
iceberg sommerso (un culto precristiano della fertilità diffuso in un’area molto vasta).
Secondo De Blecourt, Ginzburg, di fronte ad anomalie che rischiano di mettere in crisi
l’impianto generale (come la presenza delle donne di fuora nel folclore siciliano), forza il suo
metodo di ricerca verso una sorta di deriva diffusionista che lo legittima ad individuare
connessioni arbitrarie tra fenomeni lontanissimi nel tempo. Nell’esempio appena accennato,
l’ipotetico legame è tra le donne di fuora e la venerazione, congetturata, di un’innominata
divinità in età minoica, mediata storicamente dal culto delle Madri sicule.
Tale deriva raggiungerebbe i suoi estremi nell’ultima parte del libro in cui Ginzburg, nel
tentativo di trovare un’origine comune ai fenomeni da lui analizzati, compirebbe a parere del
suo critico, veri e propri salti mortali intellettuali.
L’ultima tematica a cui De Blecourt dedica un’analisi nel suo saggio è l’orizzonte sciamanico
individuato da Ginzburg come passe-partout interpretativo. L’argomentazione del critico pare
suggerire che, nel delineare il quadro folclorico di riferimento di Storia notturna, l’autore abbia
deliberatamente sminuito gli elementi germanici, rinnegando il debito verso gli studiosi di
lingua tedesca, operanti nel periodo interbellico, che risultarono fondamentali per la sua
formazione, poiché condizionato dal suo orientamento ideologico. Eppure, in Storia notturna
la centralità di un argomento come il mondo dei morti è strettamente collegato, secondo De
Blecourt, ai modelli poi sconfessati, (in particolare Otto Höfler241) e a una visione del folclore,

241
O. Höfler, Kultische Geheimbünde der Germanen, Frankfurt 1934

102
in quanto disciplina che si affianca alla storia per spiegare gli aspetti culturali della stregoneria,
pesantemente condizionata dalla temperie nazionalista di quegli anni.
Alla stessa logica strumentale risponderebbe l’adozione del modello interpretativo sciamanico,
derivata, a parere di De Blecourt, da una scelta ideologica quasi istintiva in virtù della
connotazione politica che ha assunto la figura dello sciamano una volta uscita dall’ambito
nordico e venuta a contatto con le diverse culture europee.

La replica di Ginzburg

Ginzburg risponde alla dura analisi in un saggio intitolato Viaggiare in spirito, dal Friuli alla
Siberia242 in cui argomenta la propria replica partendo da alcune critiche che De Blecourt aveva
mosso non solo a Storia notturna ma più in generale al suo intero impianto metodologico. Una
di queste critiche riguardava l’attendibilità delle connessioni morfologiche, basate, secondo De
Blecourt, su «rassomiglianze superficiali» 243 : questo assunto gli faceva concludere che i
benandanti, in quanto fenomeno isolato, avevano una rilevanza molto minore di quella che le
attribuiva Ginzburg.
Questi cita due testimonianze che, a suo parere, dimostrerebbero il contrario: la prima riguarda
le straordinarie analogie tra i benandanti e la vicenda di Thiess, il lupo mannaro livone che
dichiarava di recarsi tre volte l’anno al di là del mare, all’inferno, per combattere, in nome di
dio e per la prosperità dei raccolti, contro le streghe e i diavoli. Si tratta di una raffigurazione
del lupo mannaro come campione della fede e della fertilità che sembra ricalcare quasi
pedissequamente analoghe prerogative dei benandanti.
Questo già di per sé prezioso documento è integrato dal caso dell’uomo dei lupi244, portato alla
luce da Freud, un cui paziente russo, nato, come i benandanti, avvolto nel sacco amniotico,
raccontava di un traumatico sogno infantile in cui alcuni lupi lo fissavano attraverso la finestra,
seduti su un albero poco fuori dalla sua camera. Il caso viene sì interpretato da Ginzburg con
gli strumenti della psicanalisi ma egli approda a conclusioni diverse rispetto a quelle cui era
giunto Freud: secondo lo storico, infatti, sarebbero state le fiabe raccontate dalla njanja (la
bambinaia), donna imbevuta di cultura contadina, ad avere avuto un’influenza così profonda
sull’inconscio del paziente.

242
C. Ginzburg, Viaggiare in spirito, dal Friuli alla Siberia, in C. Presezzi (a cura di), Streghe, sciamani,
visionari. In margine a Storia Notturna di Carlo Ginzburg, Roma 2019, pp. 45-63
243
The return of the Sabbath, cit. p. 129
244
S. Freud, L’uomo dei lupi. Dalla storia di una nevrosi infantile, (trad. it.) Torino 2014

103
Si tratta, dunque, di convergenze tutt’altro che superficiali che contribuiscono a collocare i
benandanti su un solco molto meno isolato di quanto l’unicità della documentazione che li
riguarda potrebbe far supporre.
Un’altra critica di De Blecourt si riferisce al procedere selettivo, anziché seriale, nella raccolta
delle fonti. Ginzburg coglie l’occasione per rimarcare l’approccio sperimentale del suo metodo,
basato sull’esame di indizi opportunamente scelti anziché su serie documentarie, evidenziando,
nel contempo, come le testimonianze sul contesto non facessero parte dell’esperimento, ovvero
non fossero funzionali all’oggetto della sua ricerca.
Da ultimo Ginzburg rigetta le accuse circa il fatto che la sua ricerca sarebbe pesantemente
condizionata dal proprio orientamento ideologico pur essendo ben conscio che il mestiere dello
storico, soprattutto quando tocca certi argomenti, può dover fare i conti con «implicazioni
pericolose ed inquietanti»245.

“Witchcraft” di P. Anderson (1990)

Pur riconoscendo lo straordinario talento scrittorio di Ginzburg e la sua enciclopedica


erudizione che gli consente di destreggiarsi con eguale disinvoltura tra fonti eterogenee dal
punto di vista tipologico, geografico, temporale, Perry Anderson ritiene che Storia notturna
presenti diverse falle come opera storica. Le sue critiche si concentrano su tre aspetti: il metodo
di Ginzburg, le conclusioni a cui approda e la sua interpretazione globale del fenomeno della
stregoneria.
Il critico britannico parte dall’analisi della classificazione politetica come criterio fondante
dell’approccio morfologico scelto dallo storico torinese. In questo metodo egli vede due difetti:
il primo consiste in un eccesso di flessibilità, per cui gli elementi che fanno parte di una
determinata classe condividono soltanto alcuni tratti (e mai uno comune a tutti) venendo così
a definire «somiglianze di famiglia» troppo annacquate per risultare credibili. Al contrario una
classificazione monotetica richiede la presenza di almeno un tratto in comune tra tutti gli
elementi che entrano a far parte dell’insieme. Il secondo difetto riguarda l’applicazione
pedissequa della classificazione politetica (la cui nozione nasce nell’ambito delle scienze
naturalistiche) alle scienze sociali e al concetto di mito: laddove in natura la presenza di
elementi discreti, segmentati, consente l’adozione di un approccio tassonomico, quest’ultimo
non è applicabile alle scienze sociali e al mito, fenomeni troppo complessi, fluidi, che non si
prestano a categorizzazioni così disinvolte. Secondo Anderson, Ginzburg presta eccessiva fede

245
Viaggiare in spirito, cit., p. 63

104
nell’insindacabile investitura a distanza di Wittgenstein, della cui autorità si serve per
legittimare la sua scelta, finendo così per adottare un approccio sfocato, senza criteri precisi ed
obiettivi che definiscano il concetto di classe di appartenenza. Il recensore, ad esempio, ritiene
pretestuosamente arbitrarie le connessioni formulate da Ginzburg riguardo la zoppaggine
rituale, così come valuta forzata e preconcetta l’interpretazione sciamanica della favola di
Cenerentola: tra tutte le innumerevoli varianti della storia, infatti, lo storico torinese avrebbe
privilegiato solo le pochissime che potevano convalidare la sua tesi.
Storia notturna rappresenta il campo pratico di applicazione di alcuni criteri metodologici
teorici illustrati da Ginzburg in Spie. Radici di un paradigma indiziario246: in questo saggio
egli sottolinea l’importanza della valutazione, spesso trascurata dagli storici, di indizi
apparentemente insignificanti, tracce infinitesimali, anomalie che tuttavia potrebbero fare
emergere una verità nascosta. L’autore applica questa procedura, che definisce «paradigma
indiziario» e che paragona alla medicina diagnostica, anche alle scienze sociali ma Anderson
obietta che il modello a cui queste ultime si rifanno è molto più simile a quello di una disciplina
«quantitativa», e dunque anche riguardo questo punto Ginzburg peccherebbe di imprecisione
e superficialità. La critica è ulteriormente avvalorata, secondo il recensore, dall’applicazione
indiscriminata di tale metodo a campi estremamente eterogenei, tra i quali Ginzburg rintraccia
arbitrari isomorfismi, a tal punto da individuare una struttura mitica come fondamento
costitutivo della psicanalisi e delle altre scienze umane. Anderson ritiene che la posizione di
Ginzburg consista in una semplicistica trasposizione (dall’ambito della fiaba a quello della
storia) degli esiti strutturalisti a cui è approdato Propp, contestando allo storico torinese la poco
credibile riduzione di tutta l’enorme mole di materiale da lui analizzato a un’unica
fondamentale metafora: il motivo del viaggio verso l’aldilà, trasmessoci attraverso la
persistenza, sotto traccia, di un remotissimo strato folclorico sciamanico, sopravvissuto allo
scorrere del tempo e al sovrapporsi della religione cristiana.
Un altro appunto che Anderson muove a Ginzburg riguarda il corto circuito logico in cui lo
storico si incarta nel tentativo di conciliare morfologia e storia: egli infatti oscilla tra il modello
della diffusione culturale e quello dell’influenza di categorie strutturali della mente umana,
senza decidersi per l’uno o per l’altro. Tuttavia, l’affermazione dell’esistenza di una distinzione
tra sciamanesimo e possessione, quest’ultima identificata come una prerogativa delle culture
tribali subsahariane, esclude necessariamente e logicamente, secondo il critico britannico,

246
Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit.

105
l’ipotesi strutturale come modello interpretativo della connessione tra i fenomeni estatici
indoeuropei ed uralo-altaici.
Anche prescindendo da questa dimostrazione, che sembrerebbe evidenziare un’insanabile
contraddizione, lo strutturalismo di Ginzburg si fonda, a parere di Anderson, su un’arbitraria
valutazione del bipedismo come caratteristica strutturale della natura umana: dunque la
zoppaggine verrebbe percepita dalle categorie universali della nostra mente come
un’asimmetria, tratto che richiama simbolicamente un’alterità, e dunque un aldilà. Il recensore
fa notare come il linguaggio umano (con tutte le anomalie ad esso collegate) avrebbe posseduto
migliori requisiti per essere investito del ruolo fondante affidato, invece, al bipedismo.
La connessione storica (e logica) tra zoppaggine e sabba risulta dunque piuttosto labile così
come l’elezione dell’elemento di origine folclorica a nucleo costitutivo del sabba. Anderson
ritiene, sulla scorta di quanto affermato in precedenza, che Ginzburg non espliciti i criteri in
base ai quali determinare il peso relativo dello strato popolare rispetto a quello colto e gli
contrappone quella che ritiene un’interpretazione molto più credibile: si tratta del filo che lega
le posizioni di H.Trevor-Roper, K.Thomas e N.Cohn, (tutti criticati da Ginzburg per il loro
approccio etnocentrico), secondo i quali l’elemento fondante dell’immagine del sabba sarebbe
la costruzione teologica da parte delle élite, nella quale confluiscono frammenti di cultura
popolare, rappresentati soprattutto dall’universo dei maleficia: questa credenza nel maleficium,
secondo Anderson, rappresenterebbe dunque l’humus popolare della stregoneria, di cui tuttavia
non costituisce il vero e proprio nucleo ma un fattore secondario rispetto allo strato erudito,
vero principio attivo del composto. Gli elementi visti da Ginzburg come il nucleo folclorico
del sabba (il volo notturno e le metamorfosi animalesche) sono invece declassati da Anderson
a orpelli di minore importanza.
Il recensore continua nella sua analisi critica, evidenziando alcuni difetti formali dell’opera:
l’inizio ex abrupto della narrazione della teoria del complotto (che, a sua detta, non rende conto
del contesto storico da cui essa trae origine) e la sequenza narrativa, strutturata per corti
paragrafi, che offre un senso di scarsa coesione, per quanto l’autore compensi tali mancanze
con una capacità di affabulazione davvero magistrale. Anderson ipotizza che l’assenza di
riferimenti ai contesti sociali dei fenomeni presi in considerazione abbia la funzione, di
carattere letterario, di non appesantire la narrazione, ma in un’opera storica un’analisi di questo
tipo non può essere omessa con tale disinvoltura.
Inoltre, Ginzburg avrebbe intenzionalmente omesso di elencare, tra i fattori che avrebbero
portato al coagularsi dell’immagine del sabba, un fatto storico rilevante come lo sterminio dei
Templari, ordinato da Filippo IV nel 1307: questo perché, secondo Anderson, una tale
106
menzione mal si integrerebbe alla visione precostituita dello storico torinese, validando,
viceversa, la prospettiva dello stereotipo anti-eretico sostenuta da Cohn.
A tutte queste mancanze di carattere strutturale e formale si aggiunge una ricostruzione
cronologica imperfetta che anticipa di circa un secolo la cristallizzazione dello stereotipo e che
non rende conto, se non in maniera generica e superficiale, delle cause dell’acuirsi della crisi.
Anderson aggiunge a questo punto un’interessante considerazione: per quanto, presa
isolatamente, la tesi di Ginzburg sulla persistenza del nucleo folclorico-sciamanico del sabba
possa essere accettata, diversa è la valutazione di quanto tale persistenza possa ancora essere
significativa. Lo storico torinese, cioè, non considera l’erosione di significato operata dalla
storia su credenze una volta attive e poi ridotte a semplici fossili: riti e credenze sciamaniche,
nel passaggio dalle società in cui si originarono a contesti completamente diversi, non possono
avere mantenuto la stessa pregnanza. Legato a questa tematica è l’atteggiamento
pressapochistico di Ginzburg che, a parere di Anderson, sottovaluta le modifiche radicali a cui
è sottoposto il mito nel passaggio da evento pubblico a fenomeno vissuto in una sfera privata
e a livello inconscio: questa considerazione segna una differenza sostanziale tra le estasi degli
sciamani eurasiatici e quelle dei benandanti. Anche i miti, dunque, allo stesso modo delle
parole, possono sopravvivere come forma evolvendosi però verso significati diversi rispetto a
quello originario o addirittura essere sottoposti a uno svuotamento di significato. Rifacendosi
ad argomenti usati da Wittgenstein247, Ginzburg rigetta l’idea che l’approdo alla scienza abbia
avuto come conseguenza un cambiamento della sensibilità umana e ritiene che il linguaggio
nasconda un immutato sostrato mitologico. Viceversa, Anderson sottolinea la debolezza di una
tale argomentazione poiché, a sua detta, essa non considera il cambiamento, l’evoluzione come
tratti costituenti i fenomeni umani, linguaggio incluso: la continuità ipotizzata da Ginzburg
deriverebbe, quindi, da una visione ideologica, preconcetta. Di questa presunta influenza di un
sostrato mitologico millenario, lo storico non porta alcuna prova mentre l’affermata continuità
culturale delle forme in cui esso si svelerebbe è smentita dalla grande varietà delle sue
manifestazioni, in cui è arduo riconoscere tratti in comune.
Per il critico inglese, una prova empirica del legame arbitrario tra sabba e credenze dei
benandanti è costituita dal fatto che praticamente nessuno dei processi a loro carico si concluse
con una condanna significativa. Dunque, l’analisi di Ginzburg è condizionata e falsata dalla
sua ideologia (così come Ginzburg stesso aveva osservato a proposito di Dumezil 248 ed

247
In Note al Ramo d’oro di Frazer, cit., Wittgenstein scrive: «A whole mythology is deposited in our language»
248
C. Ginzburg, Mitologia germanica e nazismo: su un vecchio libro di Georges Dumézil, in «Quaderni storici,
Nuova serie», vol. 19, no. 57 (dic. 1984), pp. 857-882

107
Eliade249): in particolare egli opera un’idealizzazione della cultura popolare come elemento in
grado di sopravvivere al cambiamento storico, sedimentandosi nella mente umana e
diventandone quasi parte integrante. Il fatto curioso, continua Anderson, è che il primo
Ginzburg metteva in guardia contro i pericoli di una tale idealizzazione, ritenendo i culti
popolari una sorta di mistificazione che aveva la funzione di alienare chi li praticava da una
realtà spesso miserabile250.
Tuttavia, senza una posizione ideologica definita, probabilmente Ginzburg non avrebbe avuto
uno stimolo sufficiente alle sue ricerche: dunque saremmo privi di Storia notturna che
Anderson considera comunque un ricco contributo al dibattito sulla stregoneria.

La replica di Ginzburg251

Due mesi dopo la pubblicazione dell’articolata recensione di Perry Anderson, Ginzburg fa


pervenire al London review of books una lettera in cui controbatte i punti salienti della critica.
La prima questione che affronta riguarda gli appunti mossi dal recensore agli aspetti narrativi
dell’opera: innanzitutto afferma di non avere approfondito la persecuzione dei Templari (pur
avendola citata) avendo valutato tale evento non pertinente all’argomento del primo capitolo
di Storia notturna, ovvero la teoria del complotto di uno specifico gruppo contro l’intera
società, poiché riteneva che i Templari non fossero considerati una minaccia in tal senso.
Riguardo l’esordio ex abrupto, di cui Anderson sottolinea la teatralità, la carenza di una cornice
sociopolitica di riferimento e l’imprecisione cronologica, Ginzburg precisa che il 1321, data
d’inizio della sua ricognizione storica, è un anno chiave in funzione della tesi che vuole
dimostrare: dunque non l’inizio tout-court (peraltro Anderson non aveva precisato cosa
intendesse con questo termine) ma l’inizio della presunta cospirazione dei lebbrosi e degli
ebrei. Questi due particolari mostrano come lo storico abbia scartato dalla sua analisi alcuni
avvenimenti non perché temesse che avrebbero smentito la sua tesi ma semplicemente perché
riteneva che l’avrebbero condotto fuori strada, non considerandoli funzionali alla sua
trattazione. Si tratta in sostanza di un comune processo di selezione delle evidenze, tipico del
modo moderno di fare storia (qualitativo), che si oppone all’accumulo indiscriminato di quanto

249
C. Ginzburg, Mircea Eliade’s ambivalent legacy, in Hermeneutics, politics, and the history of religions: the
contested legacies of Joachim Wach and Mircea Eliade, Oxford 2010, pp. 307-323
250
Il commento di Ginzburg, riportato da Anderson, si riferisce al Culto del Glorioso Alberto, fenomeno di
devozione popolare sorto in provincia di Salerno alla fine degli anni ’50 a proposito di cui lo storico torinese
scrive: «In wretched and disintegrated conditions, religion helps men and women to bear a little better a life in
itself intolerable. […] Such popular cults are in the end a mystification: to overvalue them in populist fashion is
absurd and dangerous».
251
C. Ginzburg, Letter in «London Review of books», vol 13, no. 1 (10 Jan. 1991)

108
più materiale possibile, prerogativa della storiografia classica e in particolare greca (secondo
una prospettiva quantitativa).
Anderson aveva criticato il carattere romanzesco della prosa di Ginzburg e la struttura
eccessivamente frammentata per paragrafi piuttosto brevi, entrambe caratteristiche che
pregiudicherebbero il valore cognitivo dell’opera. Nel controbattere questo punto, l’autore di
Storia notturna sottolinea come anche alla forma si possa attribuire pregnanza contenutistica,
persino quando essa consiste letteralmente in un «vuoto»: a questo proposito Ginzburg porta a
sostegno della propria argomentazione l’autorità di Proust, che in un famoso commento
all’Èducation Sentimentale di Flaubert, sottolinea come la parte più significativa dell’opera sia,
a suo parere, uno spazio bianco apposto dall’autore tra due capitoli, a segnare un salto di circa
vent’anni nella vita del protagonista252.
Ginzburg passa ora a replicare alle critiche di Anderson circa l’arbitrarietà della connessione
simbolica tra nucleo folclorico del sabba e viaggio nel mondo dei morti. Lo storico contesta al
recensore l’uso di un termine inappropriato per definire le conclusioni a cui giunge: il vocabolo
“incriminato” è «paucity»253 (scarsità, povertà) e si riferisce all’eccesso di semplificazione a
cui, secondo Anderson, Ginzburg fa ricorso nel ridurre tutti i fenomeni da lui analizzati ad un
unico grande macro-significato mitico. Quello che per il critico è un difetto (scarsità) è
dall’autore considerato una virtù (semplicità) anche in virtù dell’obiettivo principale che deve
porsi la storia per attenersi a criteri di scientificità: la riduzione dal complesso al semplice.
Circa le accuse di a-storicità e di mancanza di una cronologia lineare, Ginzburg ammette che
l’orizzonte smisurato di Storia Notturna non gli ha consentito di applicare gli stessi criteri
storiografici di analisi delle fonti che avevano caratterizzato I benandanti. Il ricorso alla
morfologia è stato dettato, dunque, dall’esigenza di trovare connessioni formali tra vari
fenomeni dispersi nel tempo e nello spazio, integrando in questo modo la ricognizione storica
vera e propria (in effetti molti critici notano come la prima parte sia l’unica convenzionale da
un punto di vista metodologico).
Anderson considera l’approccio di Ginzburg un po’ troppo avventuroso riguardo la sua
tendenza a scavare sotto la superficie dei miti per rintracciare simboli non immediatamente
evidenti. D’altra parte, lo storico torinese valuta la visione del suo critico riduttiva ed incoerente
poiché quest’ultimo da un lato ritiene i miti impermeabili ad un’analisi approfondita a causa
della loro complessità, dall’altro ne accetta pedissequamente l’interpretazione vulgata (così ad

252
M. Proust, À propos du style de Flaubert, in «La nouvelle revue française» 1920, pp. 72-90
253
Witchcraft, cit., p. 8

109
esempio Edipo richiama il macro-tema della famiglia, Prometeo quello della conoscenza e così
via).
Secondo Ginzburg i miti, per le loro caratteristiche intrinseche, devono la loro esistenza (e
persistenza) al coagularsi di elementi eterogenei, non sono interpretabili in modo univoco ed
anzi possono presentare una struttura complessa, a più strati, che lo studioso attento deve sapere
esplorare.
Alle critiche mosse dal recensore circa l’interpretazione, a sua detta, arbitraria della favola di
Cenerentola, l’autore ribatte in questo modo: la posizione di Anderson, secondo cui ciò che è
testimoniato con maggiore frequenza corrisponde necessariamente al vero, gli sembra ingenua
ed è continuamente smentita dall’esperienza quotidiana: quante volte, infatti, in mezzo ad un
mare di silenzi ed omissioni, la verità è emersa attraverso le parole di un unico, isolato
testimone?
Ginzburg precisa di non avere mai sostenuto la superiorità dell’approccio morfologico su
quello storico, come il critico pretestuosamente vuole far credere: la morfologia è una «sonda
acronica» che ha la funzione di esplorare uno strato altrimenti inattingibile ma si tratta solo di
un primo passo da integrare con la ricerca di connessioni validabili diacronicamente.
Riguardo la connessione tra lo stereotipo del sabba e zoppaggine rituale, considerata da
Anderson come poco plausibile, Ginzburg ritiene invece che essa sia avvalorata dall’altissimo
numero di ricorrenze di figure come diavoli zoppi o con zampe di animali in trattati
demonologici e atti di processi inquisitoriali.
La replica dell’autore si sofferma ora sui rilievi mossigli dal critico circa l’avere evitato di
fornire precise coordinate geografico-cronologiche della persecuzione, precisando che essi non
lo toccano per un semplice motivo: la persecuzione, cioè il fenomeno della stregoneria visto
con gli occhi dei carnefici («witch-craze»), non è l’oggetto della sua ricerca. L’atteggiamento
di Anderson, secondo Ginzburg, è paragonabile a quello degli inquisitori che interrogarono i
benandanti: mancanza completa di interesse e curiosità, legata a una visione etnocentrica e
stereotipata. La lode di Anderson al saggio di Trevor-Roper confermerebbe questa posizione
di superiorità intellettuale nei confronti dei fenomeni analizzati da Ginzburg.
Questi biasima la tendenza degli storici a cercare regolarità escludendo dalla loro analisi le
anomalie, i dettagli abnormi: un tale approccio conduce ad una ricostruzione basata su
un’artificiale omogeneità ma rischia di offrire un quadro distorto delle società di una
determinata epoca. Contro la visione “normalizzatrice” di Anderson, Ginzburg rivendica il
diritto all’adozione di un metodo sperimentale, certamente più rischioso ma anche più
stimolante, in quanto non parte da una posizione stereotipata o fondata sulla presunta
110
superiorità di un atteggiamento etnocentrico. L’approccio dello storico torinese è ispirato da
un motto di Bertolt Brecht: «Non dobbiamo partire dalle buone vecchie cose ma dalle cattive
cose nuove»254.

La contro-replica di Anderson255

Anderson esordisce precisando che le sue critiche non sono ispirate da un atteggiamento
conservatore e ostile ad ogni approccio sperimentale, tuttavia lo sperimentalismo non deve
derogare dal perseguire criteri probanti.
Conferma le sue perplessità circa l’adozione di una classificazione politetica da parte di
Ginzburg, caratterizzata a suo parere dall’assenza di coordinate logiche e obiettive per stabilire
l’appartenenza di determinati elementi alla medesima classe. La nebulosità di questo metodo
consente di estendere a dismisura l’arbitrarietà della valutazione: ad esempio, se è vero che
zampe di animali sono frequentemente associate al diavolo, è anche vero che non sono una sua
prerogativa esclusiva (basti pensare ai satiri dell’antichità classica).
Inoltre, la presenza della zoppaggine nell’iconografia diabolica è occasionale e, quando appare,
scarsamente significativa in funzione del simbolismo che le assegna Ginzburg; anzi, è
caratterizzata da un che di grottesco o addirittura comico, quanto di più lontano ci possa essere
dalle immagini, terrorizzanti e misteriose, del sabba o del viaggio nell’aldilà.
Riguardo l’accusa di snobismo etnocentrico rivoltegli da Ginzburg per avere lodato il lavoro
di Trevor-Roper, Anderson ritiene che sia risibilmente pretestuosa. Infatti, se si applicasse il
metodo della classificazione politetica a valutazioni o termini, isolati dal contesto, presenti in
saggi di vari autori, tra cui lo stesso Ginzburg, le accuse di etnocentrismo si potrebbero persino
ritorcere contro quest’ultimo. Evidenziare, come ha fatto Anderson, un merito di Trevor-Roper
non vuol dire essere d’accordo indiscriminatamente con tutto ciò che questi ha scritto, dunque
il sillogismo di Ginzburg (Trevor-Roper ha un approccio etnocentrico, Anderson loda Trevor
Roper per un determinato aspetto della sua ricerca, ergo Anderson ha un atteggiamento di
superiorità etnocentrica) pecca di consequenzialità logica. Riguardo il motto di Brecht eletto
da Ginzburg a sua fonte d’ispirazione, il recensore intravede in esso un corto circuito logico
perché costringe ad una scelta dicotomica («le vecchie buone cose» vs. «le cattive nuove cose»)
che non ha ragione d’essere. Perché dunque non «le buone nuove cose»?

254
Si tratta di una frase pronunciata da Brecht nel 1934, nel corso di una conversazione con l’intellettuale W.
Benjamin, suo connazionale e compagno di esilio in Danimarca, in seguito all’ascesa al potere di Hitler
255
P. Anderson, Letter in «London Review of books» vol. 13, no. 3 (7 Feb. 1991)

111
“Journeys to the world of the dead” di J.Martin (1992)

Martin sottolinea la grande valenza dell’opera di Ginzburg sui benandanti non solo per la
straordinarietà della documentazione, che farebbe la fortuna di qualsiasi storico, ma anche per
l’approccio non convenzionale in materia di stregoneria. Lo studioso torinese infatti rovescia
la prospettiva storiografica sin lì affermatasi, analizzando quello strato di credenze popolari
che diversi studiosi prima di lui, soprattutto di formazione anglosassone, avevano sminuito a
favore di un’interpretazione colta. Si tratta, ovviamente, di un lavoro complesso che consiste
nello scremare un livello dall’altro nell’analisi di fonti notoriamente inquinate dai filtri
interpretativi inquisitoriali.
Martin è particolarmente colpito dalla convinzione, evidenziata da Ginzburg sin dalle prime
pagine de I benandanti, che essi costituiscano il tassello locale di un puzzle molto più ampio.
Tale convinzione sarebbe suffragata dal rinvenimento di straordinarie somiglianze tra i
fenomeni che li vedono protagonisti e gli atti del processo al lupo mannaro livone Thiess: in
base ad esse Ginzburg afferma la forte possibilità dell’esistenza di una «connessione non
analogica ma reale»256, tra benandanti, Thiess e sciamani. Ovviamente la dimostrazione di una
tale ipotesi l’avrebbe condotto a battere strade troppo tortuose nella monografia sui benandanti
ma egli si riserva di tornarci su e lo fa in Storia notturna, opera monumentale che lo vede
impegnato per quasi due decenni.
Nonostante Ginzburg definisca il sabba «formazione culturale di compromesso» 257 tra
l’ossessione di un complotto ordito contro la società e credenze legate a strati profondi della
cultura popolare, Martin ha la sensazione che l’analisi sia sbilanciata a favore del secondo
elemento.
Lo studioso britannico mette in rilievo l’influenza di Propp sull’approccio sotteso in Storia
notturna e peraltro è lo stesso storico torinese che, in uno dei suoi numerosi saggi dedicati al
metodo258, sottolinea il suo debito verso la Morfologia della fiaba. Tutta la seconda parte di
Storia notturna, in effetti, segue i criteri di una classificazione morfologica di tipo proppiano,
con lo scopo di individuare una struttura di fondo comune tra fenomeni dispersi nello spazio e
nel tempo. Tuttavia, quest’analisi morfologica costituisce soltanto una fase preliminare, seppur
molto corposa, rispetto a una successiva validazione attraverso più convenzionali criteri
storiografici (ma non scevri di congetture a causa della nebulosità delle fonti).

256
I benandanti, cit., cap. I, § 16
257
Storia notturna, cit., p. XXV
258
C. Ginzburg, Prefazione, in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino 1986

112
Il raffronto tra fenomeni distribuiti su un’area molto ampia (dalla Corsica al Caucaso) evidenzia
la ricorrenza di tratti comuni quali la caduta in stato di trance o estasi, la presenza di prerogative
congenite, ad esempio l’essere nati avvolti nel sacco amniotico, il volo spirituale, spesso in
forma (o in groppa) di animale. La classificazione operata anni prima da Mircea Eliade259 e il
più intuitivo approccio di Ginzburg (che si basa soprattutto sulla suggestione di sue letture
giovanili260) farebbero rientrare tutte queste manifestazioni nella categoria dello sciamanesimo.
Tuttavia, l’approccio sciamanistico di Ginzburg, osserva Martin, presenta a monte problemi di
definizione e rischia di compromettere le basi della sua ricerca. Lo studioso italiano, in linea
con lo stesso Eliade e altri studiosi, distingue i fenomeni di sciamanesimo da quelli di
possessione: in base a tale assunto, egli esclude dal mirino della sua analisi l’America e l’Africa
continentale, contraddistinte da occorrenze del secondo tipo. Il problema è che questa
classificazione è giudicata arbitraria da diversi studiosi che tendono a evidenziare come
dominio sul mondo degli spiriti e possessione siano fenomeni dai confini non così facilmente
definibili261: di conseguenza l’orizzonte della ricerca, che da un punto di vista diacronico e
diatopico risulta estesissimo, in base ad una prospettiva antropologica non rigidamente
classificatoria rischia di essere persino insufficiente.
Nel tentativo di trovare una spiegazione plausibile agli isomorfismi rinvenuti nella seconda
parte del libro, Ginzburg esclude l’ipotesi dell’archetipo, di matrice junghiana, come
manifestazione primordiale dell’inconscio collettivo, cercando una strada di compromesso tra
storia e struttura. Nonostante i molti richiami a Levi-Strauss, Martin ritiene che sia Propp il
vero ispiratore dell’approccio morfologico di Ginzburg a causa del suo carattere sintagmatico
(mentre quello di Levi-Strauss sarebbe uno strutturalismo di tipo paradigmatico262).
L’ipotesi morfologica, che costituisce il nucleo centrale dell’opera, è dunque integrata e
rinforzata da congetture, fondate stavolta sull’autorità di una fonte storica importante, Erodoto:
Ginzburg intravede un continuum eurasiatico (nomadi siberiani-Sciti-Traci-Celti) che completa
l’analisi morfologica offrendo al quadro coordinate cronologiche e un punto di partenza. Tale
continuum sarebbe suffragato dagli esiti dell’arte animalistica, i cui prodotti presentano

259
M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaïque de l’extase, Paris 1951
260
E. De Martino, Il mondo magico, Torino 1948
261
Si veda ad esempio P. Clemente, F. Dei, C. Grottanelli, A. Simonicca, Discussione su Storia notturna di
Carlo Ginzburg, in «Quaderni di storia», XVII, 34, 1991, pp. 103-130, in particolare pp. 107-108
262
Cfr. Journeys to the world of dead, cit., nota 27: «Like Propp’s, Ginzburg structuralism tend to be syntagmatic
and does little to relate the morphology to the particular context(s) in which it is found. Lévi-Strauss’ structuralism,
by contrast, is paradigmatic and seeks to relate the underlying structures of myths to the societies of which they
are fundamental constituents»

113
straordinarie analogie estetiche e formali, nonostante l’eterogeneità dell’orizzonte spazio-
temporale.
Nella terza parte del libro, Ginzburg si spinge ad analizzare le ricorrenze, per lo più indiziarie
e talvolta quasi impercettibili, che collegano un insieme apparentemente slegato di storie, miti,
riti, fiabe ad un remotissimo sostrato sciamanico eurasiatico. Martin, pur affascinato dall’abilità
dimostrata dall’autore, di rintracciare tracce e fili quasi imprevedibili, ritiene che egli si sia
spinto troppo in là nella sua analisi e che abbia perso di vista la questione fondamentale
dell’opera (rintracciare le radici popolari del sabba). Non solo: il recensore ha la sensazione
che Ginzburg si sia lasciato trasportare dalla sua pur notevole erudizione finendo per rompere
il delicato equilibrio su cui si fonda il ricorso all’interdisciplinarietà, operando, dunque,
un’invasione nel campo di altre discipline.
L’accusa di dispersione è controbilanciata dal riconoscimento di alcune doti notevoli: la
capacità di analizzare fonti di provenienza, tipo, collocazione temporale diverse; l’abilità nel
valorizzare persino l’indizio più insignificante, illuminandolo di luce nuova; la competenza sul
piano teorico e metodologico; last but not least, il talento scrittorio purissimo, quasi letterario.
Martin, tuttavia, si sorprende di come, nonostante il dichiarato intento di mettere sotto la luce
dei riflettori lo strato di cultura popolare, elevandolo a un ruolo storicamente attivo, Ginzburg
rifugga in genere dal mettere in relazione i fenomeni analizzati con il loro specifico contesto
socioculturale. In conseguenza di ciò figure come i benandanti o i lupi mannari baltici difettano
di una qualsiasi caratterizzazione sociale, muovendosi sulla scena quasi alla stregua di
fantasmi.
I meriti di Ginzburg, prosegue Martin, sono inequivocabili per avere egli promosso un
rovesciamento di prospettiva rispetto al ruolo della cultura popolare e per avere portato alla
luce tracce della sua persistenza dall’oblio in cui era stata relegata dal sovrapporsi di strati
eruditi. Nel far ciò, però, lo storico torinese avrebbe un atteggiamento troppo rigido a causa
della sua scarsa o nulla considerazione di una possibile interazione tra questi due livelli, che
Martin etichetta, semplificando, come «struttura» ed «evento» 263 . Secondo il recensore,
sarebbe interessante esplorare maggiormente come l’improvviso emergere dello stereotipo del
sabba modelli le percezioni dei benandanti oppure, viceversa, se e in quale modo le credenze
degli accusati influenzino i giudizi degli inquisitori. Invece Ginzburg tende a mantenere distinti
questi due livelli, anzi riconoscendo nello “scarto” un valore aggiunto che, per la tesi che vuole
dimostrare, si configura quasi come un certificato di qualità.

263
Journeys to the world of dead, cit. p. 621

114
Ciò non di meno, Storia notturna costituisce un’opera che ha contribuito a liberare la
storiografia da una visione epistemologica limitata, scendendo in profondità alla ricerca di
filoni di cultura folclorica che spesso non superano filtri legati a difetti metodologici (l’analisi
superficiale della documentazione oppure l’arbitraria esclusione di fonti non scritte) o
ideologici (la predilezione per testimonianze prodotte dalla cultura egemone).
Di carattere sostanzialmente ideologico è anche l’antitesi tra razionale e irrazionale, due
dimensioni che Ginzburg non vede così nettamente separate, secondo una visione che
dall’Illuminismo in poi ha pervaso la cultura occidentale. Egli ritiene, invece, che dietro la
maschera della modernità, il valore e la forza del mito siano ancora elementi costitutivi del
sentire umano.
Emblematica in questo senso la valutazione di un caso clinico affrontato da Freud, noto come
«L’uomo dei lupi»264. Il paziente in questione è vittima di un disturbo depressivo la cui origine
viene ricondotta da Freud a un sogno infantile: in esso alcuni lupi bianchi osservano l’allora
bambino dai rami di un noce attraverso la finestra della sua cameretta. Freud intravede in
quest’incubo i segni di una nevrosi infantile mentre l’interpretazione di Ginzburg verte sul
ruolo che la njanja (la bambinaia) del paziente avrebbe avuto con racconti, legati alla propria
origine contadina, nel sedimentare nell’inconscio di costui uno strato di cultura popolare e
sciamanica. Da qui la chiosa: «Siamo noi a creare i miti o sono i miti a creare noi?»265. Questo
è solo un esempio, osserva Martin, di come Ginzburg, in Storia notturna e nei suoi numerosi
saggi, consideri inadeguata un’analisi dei fenomeni storici basata solo sulla ricognizione
sincronica di dati evidenti, superficiali: bisogna invece scavare a fondo, perché è quello strato
mitologico nascosto, inconscio che il più delle volte può offrire una chiave per l’interpretazione
di fenomeni individuali (come il caso dell’uomo dei lupi) o collettivi (ad esempio l’ascesa del
nazismo, considerata da Ginzburg inesplicabile sul piano propriamente storiografico266).
Tra gli scritti che Ginzburg dedica al metodo dell’indagine storica, Martin si sofferma su uno
che ritiene particolarmente brillante ma di cui non condivide le conclusioni. Si tratta di Spie.
Radici di un paradigma indiziario267 in cui l’autore esplicita la sua visione congetturale delle
discipline storiche che, per il loro metodo di analisi, sarebbero molto più vicine all’opera di un
medico piuttosto che quella di un fisico. Medicina e storia infatti si occupano di casi concreti
e fanno spesso affidamento sul rinvenimento e la valutazione di indizi non immediatamente

264
L’uomo dei lupi, cit.
265
C. Ginzburg, Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari in id., Miti, emblemi, spie, cit., pp. 251
266
Mitologia germanica e nazismo, cit.
267
Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit.

115
evidenti. Tuttavia, obietta Martin, se è vero che un medico deve spesso dimostrare abilità
congetturali simili a quelle di un detective, non può prescindere da un’analisi oggettiva dei dati
del paziente che solo una disciplina esatta (come ad esempio l’ematologia) può offrire. Allo
stesso modo lo storico, sempre secondo il recensore, dovrebbe aprirsi all’apporto di discipline
quantitative, ad esempio le scienze sociali, che possono fornire strumenti utili per
un’interpretazione a tutto tondo della realtà.
La valutazione conclusiva di Martin sull’opera di Ginzburg è comunque lusinghiera: lo storico
torinese ha stimolato il dibattito con il suo approccio anticonformista, teso a sottolineare la
rilevanza di un sostrato folclorico millenario in un ambito di studi orientato tradizionalmente
verso l’esame di un livello superficiale colto, immediatamente percepibile e più facilmente
analizzabile con gli strumenti offerti dalle scienze sociali.
Inoltre, ha fatto del culto agrario dei benandanti, che la maggior parte degli altri studiosi
avrebbe considerato una trascurabile anomalia, il fulcro di una rivoluzionaria interpretazione
della stregoneria, portando a sostegno della propria tesi una mole di indizi sparsi nello spazio
e nel tempo dei quali ha ricostruito, con argomentazioni spesso seducenti, la trama nascosta di
relazioni.

Il contributo di G. Henningsen (2008)

Questo contributo dello storico e antropologo danese Gustav Henningsen è tratto da una tavola
rotonda a cui egli ha partecipato nel 2008 per discutere di Storia notturna con altri studiosi, tra
i quali lo stesso Ginzburg268.
Henningsen apre il dibattito richiamando un suo precedente intervento in cui aveva messo in
luce le differenze tra la definizione classica di sciamanesimo e gli svariati culti europei tra loro
omologhi (benandanti, kresnik, taltos…) che alcuni studiosi, non escluso l’autore di Storia
notturna, inseriscono tout court in quella categoria. A suo parere queste differenze si possono
riassumere in cinque punti:

1. Mentre lo sciamano padroneggia la propria trance, benandanti e simili la subiscono,


non avendo nessun controllo sulle circostanze e i tempi della loro catalessi.
2. La caduta in trance dello sciamano è un evento collettivo, viceversa i suoi omologhi
europei vivono la stessa esperienza in condizione di solitudine, se non per il fatto che il

268
Round table discussion, cit.

116
loro corpo è talvolta vegliato dalla moglie o da altri membri della famiglia: si rimane
comunque in una dimensione privata.
3. Il rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva si ribalta nel corso
dell’esperienza estatica: lo sciamano la vive quasi sempre in solitudine mentre le sue
controfigure europee dichiarano di incontrare molti altri loro simili (o antagonisti)
durante la (presunta) dipartita dell’anima dal corpo.
4. Lo sciamano ha una riconosciuta reputazione come protettore della comunità, un ruolo
pubblico indiscusso. In Europa chi vive esperienze di tipo estatico tende a nasconderle,
a meno che non ne faccia parola, per ingenua vanteria, ad una ristretta cerchia di
conoscenti: si tratta comunque di circostanze che escludono un qualsivoglia
riconoscimento pubblico, alla luce del sole, di queste prerogative.
5. Infine, Henningsen derubrica i presunti fenomeni di trance relativi ai casi europei a un
profondo sonno letargico durante il quale l’individuo fa dei sogni particolarmente
vividi.
Lo storico danese si sofferma successivamente su una sezione ben precisa di Storia notturna,
corrispondente ai primi due capitoli della seconda parte intitolati rispettivamente «Al seguito
della dea» ed «Anomalie»269. Nel primo Ginzburg individua un sostrato mitologico celtico,
comune alle varie declinazioni locali di una divinità notturna, menzionata in numerose
testimonianze dalle adepte di questo culto. Nel capitolo successivo, tuttavia, ammette che si
tratta di «un’ipotesi forse discutibile […] perché incapace di spiegare i motivi di una continuità
così vischiosa»270 in un arco di tempo più che millenario. Il principale motivo di perplessità,
tuttavia, deriva da altre considerazioni che coinvolgono direttamente Henningsen, in quanto
autore di un saggio sulle «donne di fuora», culto siculo della seconda metà del Cinquecento
che, a parere di Ginzburg presenta caratteristiche estatiche simili a quelle proprie del filone
della «dea notturna». Lo storico torinese non riesce a rintracciare tracce di una presenza celtica
in Sicilia che giustifichino con sufficiente attendibilità l’inserimento di questa documentazione
nella cornice etnografica da lui individuata e dunque la etichetta come «un fenomeno anomalo,
decisamente incompatibile con l’ipotesi storica che abbiamo formulato»271.
A questo punto Ginzburg si spinge molto indietro nel tempo per cercare di rinvenire delle
connessioni che giustifichino la sua ipotesi, citando un episodio (riportato da Plutarco) che a
suo parere collega le «donne di fuora» a un antico culto di origine cretese, ma esportato in

269
Storia notturna, cit. pp. 73-150
270
Ivi, p. 113
271
Ivi, p. 114

117
Sicilia, quello delle «madri di Engyon»: esso affonderebbe le proprie radici in uno strato
eurasiatico ancora più remoto, origine comune delle credenze sicule e celtiche. Tuttavia, non è
tanto su questa ricognizione a ritroso, e a oltranza, nel tempo che si sofferma Henningsen
quanto sulla presunta sotterranea continuità tra «Madri di Engyon» e «donne di fuora», ipotesi
che Ginzburg definisce «inevitabile» 272 . Fulcro della discussione è l’episodio riportato da
Plutarco in cui la natura del fenomeno religioso ci viene svelata in maniera, per così dire,
obliqua273: le «Madri» sono al centro di un culto pubblico, di tipo estatico, nell’ambito del
quale gli individui colpiti dal deliquio sono in una condizione di non controllo del proprio stato
alterato.
Dove Ginzburg intravede un’analogia con le «donne di fuora», Henningsen rileva invece
discontinuità poiché le sue ricerche evidenziano come i fenomeni siciliani (di cui egli ha
rinvenuto tracce persino in epoca contemporanea) siano da ricondurre a esperienze oniriche
particolarmente intense e non a veri e propri stati di trance. Un’attenta rilettura de I benandanti
lo ha orientato a inserire anche questi ultimi nella categoria che chiama «dream cult»274.

carattere ruolo del praticante


sciamanesimo pubblico attivo
culto estatico (ecstatic cult) pubblico passivo
culto onirico (dream cult) privato passivo

La chiosa finale di Henningsen invita a riflettere sull’improbabilità che relitti o echi di


fenomeni riconducibili a un sostrato sciamanico o estatico abbiano potuto mantenersi vivi per
un arco di tempo così esteso. Si tratta dunque di adoperare i criteri di categorizzazione in
maniera più stringente evitando etichette fuorvianti qualora la documentazione non presenti
prove tangibili in tal senso: è necessario partire dall’analisi di elementi evidenti che ci consenta
di formulare delle ipotesi per comprendere le cause della persistenza nel tempo di tali credenze
popolari.

272
Ivi, p. 117
273
Ivi, p. 115
274
Round table discussion, cit., p. 37

118
La replica di Ginzburg 275

Lo storico torinese si mostra d’accordo con Henningsen sulla distinzione pubblico/privato


riguardante rispettivamente gli sciamani siberiani e i loro omologhi europei. Si tratta, peraltro,
di una puntualizzazione che egli stesso aveva fatto in Storia notturna276. Nutre invece delle
perplessità circa la definizione di «dream cult» (culto onirico) usata da Henningsen come
categoria di classificazione dei fenomeni analizzati: la ragione di tale perplessità è legata alla
difficoltà di immedesimarsi in un contesto totalmente avulso dall’esperienza concreta che noi
moderni viviamo quotidianamente, per cui sfugge alla nostra comprensione la nozione di sogni
caratterizzati dalla ricorrenza di situazioni e motivi di matrice culturale.
Circa il concetto di sciamanesimo in funzione classificatoria, egli ne propone un utilizzo come
“macro-categoria” che consenta di focalizzarsi sulle analogie tra i vari fenomeni a prescindere
dalle fisiologiche variazioni individuali. Infine, enfatizza la nozione di «analogia» come
strumento indispensabile allo storico ma inevitabilmente imperfetto, caratteristica tuttavia
auspicabile poiché stimola il dibattito.

“Invariant cultural forms in Carlo Ginzburg’s ecstasies” di D. Ermacora (2017)

Storia notturna pone sul piatto questioni complesse come il rapporto tra categorie primarie
della mente umana e modelli trasmissibili storicamente; la presenza di costanti culturali, la cui
origine sembra perdersi in un tempo remoto, rinvenibili in una sconfinata area eurasiatica; la
complessa correlazione tra cultura e natura, tra struttura e storicismo. Consapevole
dell’approccio non convenzionale della sua ricerca e delle discussioni che avrebbe suscitato,
Ginzburg per tutti gli anni che sono seguiti alla pubblicazione di Storia Notturna non ha tuttavia
lesinato la riflessione retrospettiva sull’opera, cercando di fornire le coordinate teoriche per
l’interpretazione e la legittimazione del suo metodo.
La critica ha in genere manifestato un atteggiamento di ambivalenza nei confronti di questo
libro. Se da un lato è stata riconosciuta a Ginzburg un’erudizione quasi virtuosistica per la quale
è pressoché impossibile non provare ammirazione, dall’altro la sua interpretazione dei
fenomeni descritti ha destato perplessità in molti commentatori: essi ritengono che lo storico
torinese cerchi di avvalorare una tesi preconcetta, quella della persistenza e dell’occasionale

275
Round table discussion, cit., p. 47
276
Storia notturna, cit., p.172

119
emersione di uno strato millenario di cultura popolare in fenomeni eterogenei, forzando le
presunte analogie attraverso un approccio comparativo che richiama l’ormai superato metodo
di James Frazer277. Tra i critici più risoluti, Willelm De Blecourt si concentra soprattutto sugli
atti del processo a Thiess, contestando a Ginzburg di avere male interpretato le fonti e
affermando che esse non parlano esplicitamente di trance estatiche, né di battaglie per la
fertilità contro streghe e diavoli278. Due indizi tuttavia smentirebbero, secondo Ermacora, le
conclusioni di De Blecourt: il primo si riferisce alla presenza nel folclore europeo, a partire dal
medio evo, di racconti circa separazioni tra il corpo e l’anima, che assumerebbe forma di lupo;
il secondo riguarda una testimonianza, precedente al processo a Thiess e proveniente sempre
dall’area baltica, che conferma come fosse già attestata, e dunque conosciuta, l’immagine
apparentemente atipica del lupo mannaro nemico di streghe e diavoli279.
Su un medesimo piano si collocano anche le critiche di una buona fetta di studiosi dell’inizio
dell’era moderna in Europa. Secondo loro, Ginzburg ignora l’analisi degli aspetti sociali,
politici, giuridici dei problemi in questione, concentrandosi su una rete di analogie superficiali:
il suo metodo comparativo non sarebbe quindi supportato da una documentazione lineare e
cronologicamente consistente280.
Peraltro, Ginzburg, riguardo Storia Notturna, si è sempre dichiarato consapevole dei limiti del
suo approccio che considera sostanzialmente sperimentale: egli giustifica l’adozione del
metodo morfologico come un mezzo necessario per integrare una documentazione ricca ma
estremamente dispersa nello spazio e nel tempo e dunque inadatta ad avvalorare la sua tesi
secondo criteri esclusivamente storiografici.

Nonostante il carattere locale e periferico della ricerca sui benandanti, lo storico ha sempre
avvertito che il caso friulano fosse soltanto la punta di un iceberg e che rivestisse, dunque, un
valore paradigmatico. L’interesse per lo scarto, l’anomalia, i particolari che sembrano
insignificanti lo porta a delineare un metodo di indagine storica che definisce «paradigma
indiziario»: esso consiste in un procedimento induttivo che parte dalla considerazione degli
indizi rivelatori offerti dai dati marginali. In questo caso le estasi dei benandanti sarebbero la
labile traccia di un millenario nucleo di credenze di radice sciamanica, la scheggia
apparentemente impazzita ricondotta ad un quadro d’insieme in cui essa trova una collocazione

277
Si veda, ad esempio, W.Doniger, Sympathy for the devil, cit., p. 3
278
W. De Blecourt, A journey to hell: reconsidering the Livonian werewolf, in «Magic, ritual and witchcraft», 2,
2007, pp. 49-67
279
Invariant cultural forms in Carlo Ginzburg’s “Ecstasies”, cit., p. 75
280
Ivi, p. 75-76

120
logica. Questo è possibile grazie all’abilità di analisi minuta da parte dello storico, assimilabile
all’opera di un detective, il quale scopre l’autore di un delitto sulla base di indizi impercettibili
ai più.
Una parte della critica ha considerato questo punto di vista dello storico torinese come
inquinato da un pregiudizio di fondo, consistente nell’ostinazione a voler avvalorare l’ipotesi
di partenza senza tenere in debito conto elementi che avrebbero complicato il quadro. Altri
studi sono giunti, infatti, a conclusioni diametralmente opposte a quelle di Ginzburg
analizzando variabili da lui non considerate, come ad esempio il ruolo meno monolitico degli
inquisitori nell’interpretazione e nell’orientamento delle confessioni oppure fornendo
un’analisi più approfondita del contesto sociale a cui gli imputati appartengono281.
Storia Notturna trasporta il modello del paradigma indiziario lungo coordinate spazio-
temporali sconfinate, suscitando lo scetticismo di quegli storici che vedono il sabba delle
streghe come uno stereotipo molto meno omogeneo di quanto venga considerato da
Ginzburg282.

Gli storici del folclore sottolineano come Ginzburg, nel suo tentativo di dimostrare che la
somiglianza formale di miti e schemi narrativi deriverebbe da una comune radice eurasiatica,
parta da premesse metodologicamente poco accurate. Ermacora fa l’esempio di due racconti
“gemelli”, la fiaba mantovana con protagonista Sbadilon e la leggenda caucasica su Amirani.
In entrambi l’eroe, dopo un’avventura nel mondo sotterraneo, viene riportato in superficie da
un’aquila gigante che nutre durante il volo con pezzi di carne tagliata dal proprio calcagno.
Ginzburg si sorprende che due storie presenti nelle culture popolari di aree così lontane
mostrino un’affinità così evidente e tenta di ricostruirne la causa, congetturando una comune
origine sciamanica eurasiatica. Tuttavia, Ermacora fa notare, lo schema narrativo di questi due
racconti è presente in centinaia di altre fiabe relative alle culture più svariate (anche al di fuori
dell’orizzonte sciamanico delimitato da Ginzburg), tanto da essere catalogato dagli storici del
folclore. Questo per evidenziare come una base documentaria di due soli indizi sia troppo labile
per trarre conclusioni che avrebbero potuto essere avvalorate (o meno) da un’analisi più
approfondita della casistica già disponibile.

281
F. Nardon, Benandanti e inquisitori nel Friuli del Seicento, cit.
282
Oltre al già citato De Blecourt, si veda anche R. Kieckhefer, Mythologies of witchcraft in the fifteenth
century, in «Magic, ritual and witchcraft», 1, 2006, pp. 79-108

121
Un altro punto su cui Ginzburg è contestato riguarda l’eccessiva fiducia riposta nella nozione
di sciamanesimo come chiave interpretativa per antonomasia. Da un lato queste critiche si
concentrano sul fatto che lo storico torinese, come egli stesso ammette, non è mai stato
testimone di fenomeni sciamanici, traendo le proprie conclusioni sotto la suggestione di letture
che lo hanno profondamente influenzato, forse anche inconsciamente, in età giovanile.
Dall’altro studiosi come G. Charuty, G. Pizza e R. Hutton, pongono sul tavolo un problema di
definizione, ritenendo che il termine sciamanesimo sia il prodotto di un’operazione
intellettualistica da parte degli studiosi occidentali, un modo di semplificare eccessivamente un
fenomeno molto più complesso283. In tal senso esso sarebbe usato in maniera un po’ troppo
disinvolta da Ginzburg con il pericolo di scartare in partenza possibili interpretazioni
alternative, storicamente più fondate.
Ginzburg enfatizza i temi dell’esperienza estatica e del conseguente viaggio dell’anima al di
fuori del corpo ponendoli in simbolica relazione con il regno dei morti. Considera questi tratti
come tipicamente sciamanici e li elegge a costituenti fondamentali del nucleo folclorico del
sabba. Alcuni storici (ad esempio Henningsen e Burke284), tuttavia, sono molto cauti riguardo
l’attribuzione di caratteri sciamanici a tali fenomeni, cercando una spiegazione nella rilevanza
data al sogno come strumento inconscio di rielaborazione di stimoli culturali esterni e
modellatore a sua volta di credenze e di atteggiamenti religiosi a livello conscio.

Diversi studiosi evidenziano analogie tra gli esiti di Storia Notturna e le conclusioni a cui era
giunto più di trent’anni prima Mircea Eliade nel suo classico Le Chamanisme et les techniques
archaiques de l’extase: allo sciamano viene attribuita la capacità di muoversi tra due diverse
dimensioni, quella relativa alla sfera del visibile, dell’ordinario e quella inerente il mondo
spirituale, per accedere alla quale bisogna essere forniti di speciali poteri. In virtù di questi
poteri lo sciamano è in grado di esercitare il pieno dominio sul passaggio tra le due dimensioni,
a differenza di chi cade preda di possessione spiritica (tratto tipico delle culture africane). Altri
elementi che accomunano Ginzburg ed Eliade sono la valutazione delle esperienze estatiche
degli sciamani come una morte simbolica e del prestigioso ruolo sociale da loro rivestito nella
comunità come mediatori tra le due dimensioni della vita e della morte.
Tuttavia, Ginzburg rifiuta l’accostamento tout court a Eliade a cui contesta l’approccio teorico
fondato sull’autonomia dei fenomeni religiosi, la cui origine viene dallo studioso romeno

283
Invariant cultural…, cit., p. 84, nota 4
284
Ivi, p. 88, note 4-6

122
ricondotta all’azione di categorie simboliche archetipiche, universali: una concezione del sacro
come struttura della coscienza umana.

Ermacora ritiene che a Ginzburg debbano essere attribuiti evidenti meriti: lo storico torinese
porta alla luce e analizza con un approccio multidisciplinare una documentazione amplissima
relativa alle costanti folcloriche che a suo parere costituiscono uno dei due elementi di quella
che chiama «formazione di compromesso» (l’altro è rappresentato dall’ossessione di un
complotto ordito contro la società).
Tuttavia, Ginzburg, a parere di Ermacora, avrebbe colpevolmente disconosciuto l’influenza di
altre figure, come la strega precristiana, dai tratti oppressivi e vampireschi, presenti da tempi
remoti nell’immaginario collettivo di molte culture, anche non eurasiatiche. Dunque, ancora
una volta saremmo in presenza di fenomeni eccedenti gli argini dello sciamanesimo,
considerato dallo storico torinese una sorta di passe-partout interpretativo.
Accanto a queste riserve Ermacora sottolinea come lo storico torinese, nel suo pur meritorio
approccio interdisciplinare, abbia sostanzialmente ignorato l’apporto che discipline non
umanistiche, come la biologia o la psicologia, avrebbero potuto offrire nell’analizzare il
complesso rapporto tra categorie strutturali della mente umana e conoscenze acquisite.

123
CAP. VI- THIESS

Thiess secondo Höfler

Il processo a Thiess, ottuagenario della Livonia (regione storica corrispondente a parti delle
attuali Lettonia ed Estonia) si tiene a Jürgensburg (oggi Zaube) nel 1691 ma per più di due
secoli i suoi atti giacciono, ignorati, negli archivi della corte giudiziaria di Dorpat (Tartu) finchè
nel 1924 vengono riscoperti dallo storico Hermann von Bruiningk285.
Abbiamo già visto come Ginzburg faccia di Thiess un proprio cavallo di battaglia in quanto la
sua testimonianza costituirebbe un importante indizio della sopravvivenza di un remoto strato
culturale di origine sciamanica che ne accomuna la vicenda a quella dei benandanti. Prima di
lui, tuttavia, Otto Höfler aveva inserito i lupi mannari in un’antica cornice mitica legata alla
narrativa delle cosiddette Mannerbünde, società maschili a carattere iniziatico-religioso che
per il loro carattere di coesione e valore guerresco sarebbero state le cellule originarie dello
stato tedesco286. Nell’ambito delle Mannerbünde un posto di rilievo hanno i Berserkir, gruppo
di guerrieri scelti per le loro doti di coraggio e aggressività, i quali, secondo le credenze, sono
in grado assumere una duplice identità (esseri umani e bestie feroci, in genere lupi od orsi),
prerogativa che costituirebbe un importante anello di congiunzione con il mito dei Werwölfe287.
Höfler vede nei lupi mannari e nei motivi che ne accompagnano le gesta (la furia distruttrice
contro gli armenti, l’irruzione nelle case per bere dalle cantine) una rielaborazione del mito
delle schiere dei morti: è una tematica importante poiché rappresenta una connessione ideale
con l’oltretomba dei defunti antenati che sono alle radici dello spirito guerriero teutonico. Si
tratta, come si può ben vedere, di una ricostruzione pesantemente condizionata da una precisa
visione politica, funzionale all’esaltazione dello spirito nazionalistico tedesco. L’irruzione del
caso Thiess in quest’orizzonte ideologico rischia tuttavia di sconquassarne le fondamenta per
due motivi ben precisi: pur presentando una serie di elementi che si accordano allo stereotipo
del licantropo aggressivo, le testimonianze dell’ottuagenario evidenziano la funzione
meramente agraria delle battaglie rituali a cui lui e i suoi simili partecipano, inoltre menzionano
la presenza di donne nei combattimenti. Nel tentativo di preservare lo schema guerresco e virile
della sua ricostruzione, Höfler svilisce questi aspetti della testimonianza attribuendoli a un

285
H. von Bruiningk, Der wervolf in Livland, in «Mitteilungen aus der livländische Geschichte», no. 22 (1924),
pp. 163-220
286
O. Höfler, Kultische Geheimbünde der Germanen, Frankfurt 1934
287
Si veda anche L. Weiser-Aal, Altgermanische Jünglingsweihen und Mannerbünde, Baden 1927. A proposito
del contributo della studiosa Ginzburg, tuttavia, nota: «Dietro le associazioni guerriere germaniche [Weiser-Aal]
intravedeva qualcosa di più vasto e complicato non specificamente guerriero né specificamente tedesco» (da
Mitologia germanica e nazismo, cit., p. 870)

124
coacervo di frammenti di miti mescolati a momenti di vita vissuta, sottolineando nel contempo
il legame tra le Mannerbünde (in particolare modo la loro componente aggressiva,
rappresentata dai berserkir) e i caratteri dominanti dello stato tedesco moderno. Ginzburg,
tuttavia fa notare come nel periodo in cui esce Kultische Geheimbünde der Germanen (1934)
il nazismo attraversi una fase di consolidamento del proprio potere che vede in una figura più
moderata, custode delle virtù tradizionali all’insegna della misura, un modello di vita
esemplare. L’esaltazione di forze irrazionali, come quelle che caratterizzano l’epopea dei
Berserkir, si rivela dunque anacronistica, seppur di poco, rispetto all’evoluzione della
macchina propagandistica del Terzo Reich.
Dopo Höfler, l’interpretazione sciamanica del caso Thiess, proposta da Ginzburg, non
costituisce l’unico tentativo di decifrare quest’enigmatica vicenda. Tra gli altri contributi un
particolare interesse riveste quello dello storico delle religioni statunitense Bruce Lincoln,
protagonista, a colpi di saggi sull’argomento raccolti in un testo di recente pubblicazione288, di
un’appassionante tenzone interpretativa con lo storico torinese, della quale nei successivi
paragrafi si cercherà di sintetizzare i punti salienti.

Thiess secondo Ginzburg

Ginzburg viene a conoscenza della vicenda processuale di Thiess quasi in concomitanza con
la pubblicazione della prima edizione de I benandanti (1966) e solo all’ultimo minuto riesce a
integrare la bozza inserendo una parte riguardante l’ottuagenario livone. La tempistica non
consente all’autore un approfondimento in questo contesto ma nel primo capitolo del libro
un’affermazione quasi temeraria ci fa capire quanta importanza egli attribuisca a questo caso:
«sulla base di questo sorprendente parallelo lituano289, è lecito affermare l’esistenza di una
connessione, non analogica ma reale, tra benandanti e sciamani»290.
Nel corso degli anni Ginzburg tornerà più volte sull’argomento in numerosi saggi e, soprattutto,
in Storia notturna, in cui Thiess e i benandanti, da casi (quasi) isolati, diverranno le maglie di
una rete interpretativa molto estesa nel tempo e nello spazio. Ciò che lo storico torinese cerca
di fare nel corso della sua lunga carriera consiste infatti nel ricostruire un contesto in cui queste
apparenti anomalie possano essere inserite in modo plausibile.
Nell’introduzione al volume di recente pubblicazione sopra citato, Ginzburg oltre a ricordare
l’esistenza di testimonianze livoni che, a suo parere, corroborano le credenze sui lupi mannari

288
Old Thiess, a Livonian werewolf, cit.
289
In realtà la sede del processo a Thiess si trova nell’odierna Lettonia
290
I benandanti, cit., cap. I, § 16

125
«nemici delle streghe», cita un caso basco, riportato dall’inquisitore De Lancre riguardante un
ragazzo poco più che adolescente di nome Jean Grenier: costui dichiara di essere stato, fino a
poco tempo prima del suo processo (svoltosi nel 1603), un lupo mannaro al servizio di un «re
della foresta», nemico di streghe e stregoni. De Lancre che è a conoscenza delle credenze sui
lupi mannari nell’area baltica, non può fare a meno di sottolineare l’analogia tra questi ultimi
e Grenier. Così fa Ginzburg, che nota nel caso basco straordinarie somiglianze con gli atti del
processo a Thiess, e considera entrambi indizi di uno strato comune di credenze poi assimilate
dallo schema inquisitoriale291.

In un saggio pubblicato nel 1947 da R. Jakobson e M. Szeftel292, lo storico italiano individua


un altro elemento che contribuirebbe a cementare la sua ipotesi: si tratta della credenza, relativa
al mondo slavo, secondo cui «chi fosse nato con la camicia sarebbe stato destinato a diventare
lupo mannaro»293. È, questa, una caratteristica che accomuna benandanti e lupi mannari la cui
straordinarietà si manifesta nell’estasi e nella metamorfosi, elementi, così come il sacco
amniotico, dal forte simbolismo che richiama l’area grigia di passaggio tra le dimensioni della
vita e della morte: una situazione di trapasso che gli antichi sciamani eurasiatici erano in grado
di controllare e di cui ci sono rimasti questi relitti millenari in esperienze come quelle di Thiess
e dei benandanti.

Un altro caso assume straordinaria importanza nell’orizzonte probatorio di Ginzburg: si tratta


del già citato uomo dei lupi, al secolo Sergej Pankëev, il paziente russo di Freud il cui
traumatico sogno infantile viene interpretato dallo psicanalista (erroneamente secondo
Ginzburg) come rielaborazione di una «scena primaria» (Urszene) 294 . Avevamo già
menzionato in precedenza come lo storico torinese ritenesse invece fondamentale l’influenza
di elementi di cultura popolare, originati probabilmente dai racconti della governante del
paziente e poi coagulatisi nel sogno, vissuto dall’allora bambino in maniera traumatica. In
questo contesto è tuttavia importante ricordare come Pankëev riunisca in sé tre caratteristiche
che ne indicano, secondo Ginzburg, l’appartenenza a quella ristretta cerchia di individui di cui
farebbero parte anche Thiess e i vari benandanti: è russo, è nato con la camicia e per giunta il
giorno di Natale, nel cuore di un periodo considerato particolarmente propizio per il genere di

291
Old Thiess, cit., pp. 9-12
292
R. Jakobson e M. Szeftel, The Vseslas Epos, in «Memoirs of the American folklore society», no. 42 (1947),
pp. 13-86
293
Storia notturna, cit., p. 153
294
L’uomo dei lupi, cit.

126
attività borderline (estasi, metamorfosi, battaglie rituali, viaggio nel mondo dei morti) oggetto
dell’analisi.
Ginzburg sottolinea il carattere fortemente simbolico del sogno di Pankëev, collocandolo nello
stesso retroterra mitico dei sogni iniziatici attraverso cui benandanti e taltos, sin dalla loro
infanzia o adolescenza, acquisiscono consapevolezza del loro destino. Nel caso del paziente
russo si tratta di una situazione conflittuale, sottoposta a pressioni provenienti da due strati
culturali incompatibili: quello colto, relativo al grado sociale elevato della sua famiglia si
sovrappone a quello popolare, rappresentato dalle fiabe della njanja. Tale discrasia è, secondo
Ginzburg, la chiave interpretativa della nevrosi di Pankëev.

In Storia notturna (p. 158, § 6) Ginzburg evidenzia un’altra analogia tra benandanti e lupi
mannari, che si riferisce alla comune tendenza (su un piano mitico piuttosto che rituale e
dunque puramente immaginario) a depredare le cantine lasciando le botti vuote,
rispettivamente di vino e birra. È l’eco di un motivo antichissimo, quello della sete
inestinguibile dei morti, che contribuisce a rafforzare l’ipotesi dell’appartenenza di questi
fenomeni estatici a uno scenario simbolico funebre.
Tornando nello specifico contesto del processo a Thiess, Ginzburg ritiene che la riemersione
di un antico strato di credenze per cui i lupi mannari erano visti come entità benefiche (o
quantomeno ambivalenti), poi soppiantato dalla sovrapposizione dello stereotipo inquisitoriale
aggressivo, sia stata favorita dall’abbandono della pratica della tortura in Livonia alla fine del
XVII secolo. La tempistica dell’evoluzione in negativo dell’immagine dei lupi mannari farebbe
pensare che la reputazione quali «difensori dei raccolti e del bestiame», riemersa con Thiess,
sia molto più datata rispetto all’epoca del suo processo, anche in considerazione del fatto che
esistono indizi in tal senso risalenti alla metà del secolo precedente.295

Thiess secondo Lincoln296

Per Lincoln il concetto di resistenza richiama una varietà di strategie messe in atto da un
soggetto in posizione di debolezza ed inferiorità rispetto ad un altro dominante e simbolo di un
potere oppressivo. Si tratta, dunque, di una relazione asimmetrica in cui la religione può giocare
un ruolo importante (sia in un senso che nell’altro) in quanto eleva la posta in gioco: chi si

295
Cfr. Storia notturna, cit., p. 154-156, § 4
296
B. Lincoln, Comparison of Old Thiess to learned descriptions and stereotypes of Livonian werewolves and to
the benandanti in Old Thiess, cit., pp. 88-108

127
sente investito di una missione religiosa è spesso disposto a lottare in maniera più tenace
rispetto al perseguimento di fini meramente personali poiché il suo operato si iscrive in un
piano più ampio, comprendente principi sacri e verità rivelate.
Nell’introdurre il caso di Thiess, Lincoln sottolinea come la Livonia, oltre ad essere una delle
ultime terre cristianizzate d’Europa, era famosa all’inizio dell’era moderna per essere la
“patria” dei lupi mannari. A questo proposito egli cita due testimonianze297 in cui essi sono
raffigurati come terribili minacce a coltivazioni, armenti ed esseri umani, secondo lo stereotipo
aggressivo arrivato fino ai giorni nostri.
Il processo a Thiess comincia quasi per caso quando egli, chiamato a deporre in un altro
procedimento, viene riconosciuto come lupo mannaro da uno dei testimoni. La rivelazione
attira l’attenzione dei giudici su di lui: da questi interrogato, il vecchio conferma senza batter
ciglio la sua natura confessando una serie di attività rituali (assalti di gruppo a bestiame, lo
smembramento delle carni di cui si ciba insieme ai suoi simili) che corroborano lo stereotipo
aggressivo del lupo mannaro. Su un punto, tuttavia, la testimonianza di Thiess è discordante
rispetto alle aspettative degli inquisitori: egli, infatti, dichiara di essere un fedele «cane di
Dio»298, nemico di diavoli, streghe e stregoni, e di andare all’inferno ogni anno per recuperare
sementi ed armenti da questi rubati. Qualora questa missione fosse stata coronata da successo,
il raccolto dell’annata sarebbe risultato prospero. Gli argomenti eruditi che gli inquisitori
mettono in campo per controbattere le affermazioni di Thiess e dimostrare i connotati diabolici
della sua attività hanno scarsa presa sull’ostinazione dell’imputato. Solo un capo d’accusa
secondario, concernente il suo operato come guaritore, consente di arrivare al pronunciamento
di una sentenza di condanna, tuttavia relativamente lieve.
Lincoln apre un inciso per sottolineare come, nonostante l’angolatura ideologica antitetica, le
interpretazioni della vicenda fornite da Höfler e Ginzburg abbiano un elemento in comune:
entrambi sono concordi nel riconoscere l’influsso sulle credenze di Thiess di un antichissimo
retroterra culturale precristiano che li spinge a inserire l’ottuagenario in un quadro di fenomeni
analoghi (ad esempio i Berserkir per Höfler, i benandanti per Ginzburg). Un simile approccio
comparativo, in cui la profondità diacronica è così accentuata, presenta inevitabilmente,
secondo Lincoln, rischi legati alla labilità delle fonti e di conseguenza all’attendibilità della
loro interpretazione.

297
Ivi, pp. 90-91
298
Ivi, p. 92

128
Il motivo centrale dell’analisi dello storico statunitense consiste, viceversa, nel focalizzarsi sul
processo stesso e sul suo contesto sociale in cui le due categorie della resistenza e della
religione giocano un ruolo fondamentale anche e soprattutto nella loro reciproca relazione.
Innanzitutto, Lincoln nota come ben otto delle dieci autorità (giudiziarie e religiose) chiamate
a pronunciarsi sul caso facciano parte dell’élite tedesca che detiene il potere politico ed
economico sulla regione, sebbene questa sia formalmente passata alla corona svedese dal 1629.
Dall’altra parte del banco giudiziale, la pletora di testimoni, le persone citate nelle deposizioni
e l’imputato stesso appartengono a classi sociali di origine autoctona, umili e subordinate
rispetto all’establishment teutonico. A differenza dei rappresentanti di quest’ultimo, il cui
cognome è preceduto da uno o più titoli onorifici, i locali sono quasi sempre menzionati negli
atti col solo nome di battesimo. L’identità religiosa cristiana è concepita dalla classe dominante
come un marchio di distinzione sociale e gerarchica rispetto alla popolazione indigena. Questa
è brutalmente bollata come Undeutsche dai dominatori tedeschi che ne sottolineano il carattere
propenso alla superstizione e al patto diabolico, nonostante la conversione dell’area al
Cristianesimo sia avvenuta da ormai tre secoli.
Il frequente accenno ai tratti bestiali dei costumi indigeni è, per l’élite, strumentale alla
legittimazione religiosa del proprio dominio, spesso accompagnata da un accentuato
paternalismo. A tale legittimazione concorrono i numerosi processi contro presunti lupi
mannari e streghe, nel corso dei quali l’uso della tortura può costituire un efficace strumento
di persuasione. Tuttavia, nel 1686, ovvero cinque anni prima dell’evento di cui ci stiamo
occupando, un provvedimento del re di Svezia abolisce l’uso della tortura: la circostanza è
considerata da Lincoln importante poiché permette a Thiess di imbastire una strategia difensiva
molto risoluta, persino caustica per certi versi, in cui l’imputato risponde colpo su colpo alle
accuse dei giudici.
Ad esempio, mentre la corte ritiene già compromettente di per sé l’ammissione fatta da Thiess
di andare regolarmente all’inferno, questi opera un distinguo. Da un lato ci sono coloro, come
il diavolo o le streghe, che considerano gli inferi loro sede naturale (quello) od elettiva (queste,
avendo scelto la strada del male); dall’altro chi, come lui e gli altri lupi mannari, combattono
contro queste oscure forze, legittimati in ciò dal volere celeste, al nobile scopo di restituire il
maltolto (semi, frutti, armenti) ai loro legittimi proprietari (i contadini livoni).
L’autore nota come concretezza e precisione topografica caratterizzino la testimonianza di
Thiess. Infatti, egli, in maniera molto significativa, colloca quello che chiama inferno quasi in
corrispondenza dei possedimenti del suo principale accusatore; inoltre la descrizione di

129
quell’oltremondo richiama in maniera sin troppo sospetta i depositi di approvvigionamento di
una grande casa padronale.
Mentre gli inquisitori sono irrigiditi sullo stereotipo confessionale che vede il diavolo come
ladro e corruttore di anime, il punto di vista di Thiess è caratterizzato da una materialità tutta
contadina: il demonio e i suoi affiliati sono visti come ladri tout court dei proventi del lavoro
di gente umile e onesta. Considerando che, in processi analoghi a questo, lo stesso diavolo
viene descritto come «vestito di nero, alla moda tedesca»299, le allusioni di Thiess assumono il
significato di un atto d’accusa, nemmeno tanto velato, nei confronti della classe dominante
proveniente dalla Germania e della sua politica di confische agrarie.
Lo scarto tra inquisitori e imputati, che Ginzburg aveva sottolineato a proposito dei benandanti,
si fa, nel caso di Thiess, ancora più stridente. Vero è che le parti in causa concordano
implicitamente sulla natura ibrida dei lupi mannari. Da un lato, però, i giudici ne evidenziano
strumentalmente la bestialità e la disumanità, tratti che riproducono lo stereotipo aggressivo di
cui sono imbevuti. Dall’altro, invece, Thiess ne mette in evidenza le prerogative umane, nel
senso più elevato del termine: l’impegno proprio e degli altri suoi simili a restituire agli onesti
contadini i beni indispensabili per la loro sopravvivenza fa dei lupi mannari degli autentici
campioni di giustizia.
Lincoln, dunque, ritiene che la strategia difensiva di Thiess sia molto più attiva e consapevole
di quanto emerga dalla valutazione di Ginzburg: si tratterebbe di una vera e propria
rivendicazione dei diritti delle classi subalterne nei confronti dell’azione oppressiva dei
dominatori stranieri. Lo storico delle religioni statunitense evidenzia la sottigliezza retorica
dell’ottuagenario quando questi, alla domanda se vi siano lupi mannari tedeschi, risponde che
essi «hanno il loro proprio inferno»300. Una tale affermazione conterrebbe, secondo Lincoln,
un velato ma pesante giudizio morale nei confronti dei Deutsche che traspare dall’utilizzo del
verbo avere. L’inferno, dunque, sarebbe il posto più consono agli oppressori germanici ma essi,
nella loro ottusità, non colgono l’allusione.
In definitiva l’analisi di Lincoln prende in considerazione (alla stregua di Nardon per i
benandanti) elementi legati al concreto contesto sociale e politico: la sua ricostruzione vede il
processo a Thiess come una metafora dell’aspra dialettica tra Deutsche e Undeutsche, in cui
l’accusato, nonostante venga formalmente condannato, risulta il vincitore morale del
confronto.

299
Ivi, p. 103 e n. 62, p. 247, in cui è riportata la citazione originale («in schwartzen Teutsschen Kleidern»)
300
Ivi, p. 105 e n. 69, p. 248 («Die Deutschen […] hätten eine sonderliche hölle»)

130
La replica di Ginzburg301

Nel ricordare le analogie tra i processi ai benandanti e quello a Thiess, Ginzburg, che pure è
convinto di una comune discendenza di questi fenomeni da un antichissimo sostrato comune,
si mostra nel contempo frustrato per non poterla dimostrare storicamente. Ne consegue il suo
progressivo orientamento verso un metodo morfologico, considerato come complementare,
non alternativo, a quello storico: uno strumento, dunque, che consenta di compensare la carenza
di prove documentali circa l’esistenza di contatti reali tra fenomeni analoghi.
Lo studioso è consapevole che si tratti di un approccio non convenzionale nella sua a-cronicità
ma è allo stesso tempo persuaso che le grandi conquiste in campo storico debbano passare
anche attraverso qualche concessione a metodologie di ricerca “rischiose”, non propriamente
ortodosse.
Ginzburg evidenzia le conclusioni diametralmente opposte cui lui e Lincoln sono giunti
riguardo la vicenda di Thiess. Come abbiamo visto poco sopra, lo storico delle religioni
statunitense ritiene che quanto emerge dagli atti non sia sufficiente a sostenerne la collocazione
nel contesto sciamanico fortemente sostenuto da Ginzburg. Piuttosto, tutta la vicenda sarebbe
un atto di ribellione individuale da parte di un uomo che, al tramonto dei suoi giorni e senza
nulla da perdere, rovescia contro l’élite tedesca lo stereotipo aggressivo, da essa stessa
inventato (o quanto meno strumentalizzato) per stigmatizzare la popolazione autoctona. Lo
studioso torinese si oppone a questa ricostruzione ricordando che ci sono prove di almeno un
altro caso livone (risalente al secolo precedente a Thiess) che testimonierebbe l’esistenza di
uno strato antico di credenze sulla valenza “benevola” dei lupi mannari come nemici delle
streghe.
Si tratterebbe peraltro di un indizio non isolato poiché di lupi mannari si hanno testimonianze
sin dall’antichità classica, con risvolti simbolici e rituali che possono essere accostati a Thiess
e ai benandanti. Ginzburg si sofferma sull’analogia tra la parola latina versipellis, con la quale
veniva indicato chi, grazie ai suoi poteri, era in grado di mutar natura (da uomo ad animale e
viceversa), e la valenza metaforica del sacco amniotico che avvolge alla nascita i benandanti e,
in base a credenze diffuse nel mondo slavo, i lupi mannari come Thiess. Entrambi gli elementi
sarebbero elementi collocabili in un’area di transizione tra le dimensioni della vita e della morte
(o non vita).

301
C. Ginzburg, Conjunctive anomalies. A reflection on werewolves, in «Revista de Estudios sociales» (Bogotà),
60 (2017), pp. 110-118 saggio poi confluito in Old Thiess, cit. pp. 109-126

131
Con l’intento di legittimare il proprio approccio metodologico, Ginzburg paragona la
trasmissione di credenze riguardanti i lupi mannari alla tradizione di un testo scritto
ricostruibile con gli strumenti offerti dalla filologia: in quel campo gli errori congiuntivi
consentono di determinare l’appartenenza di due o più manoscritti alla stessa famiglia
permettendo di ricomporre con ragionevole attendibilità il testo di un archetipo andato perduto.
Allo stesso modo l’individuazione di anomalie congiuntive sarebbe la chiave di volta per
collocare nella stessa famiglia la narrativa riguardante i benandanti, Thiess e gli altri lupi
mannari. Ginzburg ne ipotizza la comune origine da uno strato antico, indicato, come
l’archetipo filologico, da un asterisco (v. fig. 2) i cui tratti, tuttavia, sono ricostruibili
genericamente ma non nella loro specificità.

Fig. 2 (tratta da Old


Thiess, cit., p. 126)

La contro-replica di Lincoln

Lincoln non è contrario a un’analisi comparativa di tipo morfologico ma ritiene che, laddove
essa non sia validata da prove storicamente verificabili, le debba essere attribuito, né più né
meno, lo stesso peso di una tra le tante ipotesi. Tra queste anche l’assenza di una qualsiasi
relazione storica tra eventi originatisi indipendentemente ma simili perché simili sono i contesti
che li hanno generati.
Circa l’albero genealogico ricostruito da Ginzburg, lo studioso americano obietta che sia troppo
sbilanciato, attribuendo ai benandanti una specificità culturale e storica omessa invece per
Thiess e i lupi mannari. Lincoln, di conseguenza, ricalibra il diagramma, individuando
un’interrelazione logica che configura un triangolo equilatero i cui lati sono costituiti da un
singolo dettaglio in comune tra i fenomeni in questione (v. fig. 3).

132
Fig. 3 (tratta da
Old Thiess, cit.,
p. 129)

L’obiezione forte che Lincoln muove a questo punto riguarda la nozione di lupo mannaro: a
suo parere non si tratta di uno status, un ruolo fisso, ma di un concetto fluido che si presta ad
essere strumentalizzato a seconda degli interessi e degli obiettivi delle parti in causa. Lo
studioso ritiene che l’élite tedesca, dominante in Livonia, se ne sia appropriata, in qualità di
“arma giuridica”, per caratterizzare come bestiale la popolazione autoctona, probabilmente con
il pretesto di qualche furto di bestiame a danno dei possidenti teutonici. L’attribuzione di questo
stereotipo aggressivo avrebbe giustificato l’atteggiamento oppressivo nei confronti dei
contadini livoni. Tale stereotipo si sarebbe cristallizzato attraverso l’uso della tortura nei
procedimenti giudiziari con qualche sporadico caso di resistenza analoga a quella di Thiess.302
Infine, l’evento chiave dell’abolizione della tortura avrebbe consentito a Thiess di trovare in sé
le risorse per elaborare un rovesciamento dello stereotipo a propria difesa e, nel contempo,
collocare simbolicamente i suoi accusatori sul banco degli imputati.
Alla luce di una tale ricostruzione anche gli atteggiamenti registrati nei processi ai benandanti
assumerebbero i contorni di una strategia difensiva alimentata dalla drammatica condizione di
asimmetria culturale e di potere rispetto ai loro inquisitori. Lincoln tende dunque a sminuire
l’ipotesi dell’influenza di uno strato mitico comune tra i due fenomeni, configurati viceversa
come risposte parallele a situazioni simili303.
Un’ulteriore critica mossa da Lincoln a Ginzburg riguarda l’attendibilità della documentazione
che collega, relativamente al mondo slavo, la natura di lupi mannari e la loro «nascita nella

302
Cfr. il processo a Tomas Igund, Old Thiess, cit., p. 130-132
303
Ivi, p. 133: «parallel response of indipendent actors defending themselves against similar charges advanced
by similar institutions in similarly asymmetric relations of knowledge and power»

133
camicia». Il riferimento è al già citato saggio del 1947304, i cui autori, Jakobson e Szeftel, hanno
tentato di agglomerare in una discutibile organicità una narrativa mitica proveniente in realtà
da tre diverse fonti russe305 riguardanti l’epopea di Vseslav. Di costui, un principe dell’XI
secolo, esse riportano descrizioni che, accanto ad altri tratti meno aggressivi, ne mettono in
luce la potenza, la sanguinarietà, e i poteri magici quali l’abilità di trasformarsi in animali.
Tuttavia, secondo Lincoln, che si trattasse di un lupo mannaro assetato di sangue,
contraddistinto dalla nascita nel sacco amniotico, sarebbe una conclusione arbitraria da parte
degli autori che riuniscono insieme frammenti, spesso vaghi, provenienti indipendentemente
da ciascuna delle tre tradizioni. Tale forzatura sarebbe dovuta a un’interpretazione (forse
inconsciamente) tendenziosa di Vseslav come una controfigura di Stalin, alla luce della
contingente situazione politica.
Un tale tipo di approccio è, a parere di Lincoln, viziato dalla tendenza a compensare una
situazione caratterizzata da carenza o precarietà di fonti storiche, postulando l’esistenza di una
condizione organica originaria. Il pericolo è dunque quello di proiettare nella ricostruzione
(morfologica, non storica) la propria soggettività, rappresentata da timori, desideri, ideologia.
È questo un atteggiamento che Lincoln rinviene negli studi comparativi di Jacobson-Szeftel, di
Ginzburg e di Höfler: ognuno di essi sarebbe caratterizzato dalla distorsione poc’anzi
evidenziata. Nel primo caso essa assume i contorni di una critica alla deriva autoritaria dello
Stato; nel secondo l’idealizzazione di uno strato di cultura popolare precristiano; nel terzo
l’idealizzazione, di segno opposto, di uno stato forte, autoritario con pesanti implicazioni
razziali (v. fig. 4).

Fig. 4 (tratta da Old


Thiess, cit., p. 141)

304
The Vseslas Epos, cit.
305
Old Thiess, cit., p. 134

134
Il rimedio a questa deformazione in senso soggettivo della ricerca storica consiste, per Lincoln,
in un atteggiamento meno pretenzioso dello storico, che dovrebbe concentrarsi su un orizzonte
più ristretto: andrebbe privilegiata una limitazione numerica dei casi da porre in comparazione,
senza sottovalutare l’analisi del contesto concreto. Infine, lo studioso non si dovrebbe lasciar
sedurre da ipotesi suggestive ma prive di fondamento storico, attribuendo egual peso alla
possibilità di un’origine indipendente dei fenomeni oggetto di comparazione.

135
CONSIDERAZIONI FINALI

Il metodo di Ginzburg e la sua attualità

Questa tesi di laurea ha visto la luce in tempi bui (mi si perdoni il banale gioco di parole) che
curiosamente sembravano a un certo punto echeggiare i testi analizzati in fase di raccolta delle
fonti. Ad esempio, mi sono ritrovato a leggere la prima parte di Storia Notturna, in cui rivestono
un importante ruolo le epidemie di lebbra e peste del XIV secolo, proprio mentre in Italia il
Presidente del Consiglio annunciava lo storico lockdown anti Covid 19 (tale misura sarebbe
stata replicata a due settimane di distanza qui nel Regno Unito, dove sto scrivendo queste
righe). Così, le fake news sulla pandemia richiamavano le voci messe strumentalmente in giro
da esponenti senza scrupoli del ceto mercantile francese sul presunto complotto ebraico ai
danni della società dell’epoca in occasione dell’epidemia di lebbra del 1321.

Si tratta naturalmente di un caso, ma abbiamo già visto come Ginzburg attribuisca a questa
categoria (nella duplice accezione di chance/hazarde e case/cas) un’importanza fondamentale.
Da un lato, infatti, il caso (in quanto chance/hazarde) può scombussolare i presupposti, spesso
ideologici, da cui una data ricerca era partita, ravvivandola, sottraendola al pericolo sempre
incombente della sterilità, della conferma troppo immediata dell’ipotesi di partenza. A questo
proposito vale la pena citare una tappa importante della formazione di Carlo Ginzburg, ovvero
Giochi di pazienza306, un saggio scritto a quattro mani con Adriano Prosperi come resoconto
finale di un seminario condotto con gli studenti dell’Università di Bologna sul testo religioso
più famoso e discusso del Cinquecento italiano, Il Beneficio di Cristo. Al di là dell’argomento,
già di per se stesso particolarmente stimolante, l’interesse di questa operazione condotta da
Ginzburg e Prosperi, passata all’epoca quasi sotto silenzio, consiste nel disvelamento del modo
di procedere nella ricerca: un percorso tutt’altro che lineare, anzi contraddistinto da un’
intricata matassa di ipotesi e contro-ipotesi, in cui gioca un ruolo fondamentale l’intervento di
elementi imprevisti che tendono a scompigliare l’armonia quasi preordinata tra presupposti di
partenza e fonti. Alla tendenza centripeta di un atteggiamento quasi naturale, che consiste nel
privilegiare fonti che confermino la propria ipotesi, lo storico intellettualmente onesto deve
sapere contrapporre una tendenza centrifuga, raccogliendo e rendendo costruttiva la
“provocazione” della documentazione non prevista. La dialettica tra questi due atteggiamenti
diventa feconda quando lo studioso è in grado di applicare il proprio rigore filologico anche a

306
C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza, un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino 1975.

136
queste schegge apparentemente impazzite (operazione complicata che richiede, per l’appunto,
pazienza).
Come si può notare Ginzburg mostra una certa predilezione, non solo nei suoi numerosi saggi
ma anche nelle grandi monografie, per una continua e, per certi versi, mai compiuta riflessione
sul metodo, che spesso si intreccia al contenuto vero e proprio della ricerca, interagendovi in
maniera stimolante e profonda. A tale proposito egli sottolinea come sia stata per lui
fondamentale la lettura giovanile di alcuni grandi classici della letteratura novecentesca in cui
è particolarmente evidente l’impianto metanarrativo. Il debito di riconoscenza è nei confronti
di Brecht, Queneau e soprattutto Proust, la cui Recherche, costellata di riflessioni su come
richiamare, indagare e rappresentare il passato, è importante per chiunque si interroghi su cosa
sia il lavoro dello storico.

D’altro canto, il caso (stavolta nel significato di case/cas) può fornire, attraverso un’analisi
densa, che si avvale di una lettura lenta e meticolosa, una chiave interpretativa di una realtà
molto più ampia: è questo il modo tipico di procedere della microstoria, etichetta che Ginzburg
tende ad evitare perché il vocabolo in sé si presta facilmente ad essere frainteso. Lo studioso
insiste sulla valenza metodologica dell’approccio microstorico, che tende a concentrarsi su un
particolare rivelatore da cui emerge, grazie ad un’analisi filologica quasi maniacale, un quadro
d’insieme.
Non a caso due modelli che Ginzburg cita spesso come fondamentali per la sua formazione
sono Auerbach (con Mimesis) e Marc Bloch (con I re taumaturghi e Apologia della storia).
Entrambi teorizzano (e praticano) un approccio alla fonte tutt’altro che monolitico, spesso
soffermandosi su ciò che il testo lascia trapelare tra le righe, a prescindere dalle intenzioni di
chi lo ha prodotto. «Ciò che il testo ci dice non costituisce più l’oggetto preferito della nostra
attenzione […]. Quel che c’è nella storia di più profondo potrebbe essere anche quel che c’è di
più sicuro»307. In un tale orizzonte metodologico anche racconti di finzione possono essere
analizzati, come ha fatto Auerbach con brani di Voltaire308 e Stendhal309, non come documenti
storici ma in qualità di testi impregnati di storia: «la finzione, nutrita dalla storia, diventa
materia di riflessione storica»310.

307
M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1998, pp. 50-51 e 80
308
E. Auerbach, Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Torino 2000, II, pp. 162-175
309
Ivi, pp. 220-235
310
Il filo e le tracce, cit., p. 11

137
Attenzione, però: non si tratta, Ginzburg ci avverte, di rinunciare a perseguire una realtà storica,
come ha teorizzato nel XX secolo il postmodernismo, corrente portavoce di uno scetticismo
radicale che sfuma «il confine tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche in nome
dell’elemento costruttivo che le accomuna» 311 . Piuttosto, lo storico torinese propone di
considerare il rapporto tra le une e le altre come «una contesa per la rappresentazione della
realtà»312.
D’altra parte, però, Ginzburg si colloca in modo equidistante anche da una visione storiografica
che fa dell’oggettività il proprio mantra supremo. O meglio: all’oggettività si deve poter
tendere ma sempre con la consapevolezza dell’esistenza di innumerevoli variabili che fanno da
filtro tra la voce dello storico, che interroga i documenti, e quella di chi quei documenti ha
prodotto o comunque il punto di vista degli attori sociali: due elementi che Ginzburg, citando
il linguista e antropologo K.L. Pike313, definisce rispettivamente (phon) etic e (phon) emic314.
Si tratta di termini presi a prestito dalla linguistica nel cui contesto la discriminante tra l’uno e
l’altro è l’attribuzione di significato che si dà al secondo rispetto al primo, considerato nella
sua mera natura di suono.
In questo senso lo storico torinese pare sottintendere che il vero obiettivo della ricerca storica
non sia tanto la verità in sé quanto lo spostamento dell’onere della prova su un ipotetico
avversario da lui definito, con un’azzeccata metafora, avvocato del diavolo, figura, divenuta
col tempo proverbiale, che, nel diritto canonico, metteva in discussione, con opportune contro
argomentazioni, la santità di un candidato315. A un’analisi superficiale il metodo di Ginzburg
sembrerebbe peccare di carenza di scientificità ma è uno dei colossi del pensiero novecentesco,
Karl Popper, a legittimarne la posizione proponendo la falsificabilità come criterio di
demarcazione tra scienza e non scienza316.
Il destino dello storico, sembra suggerire Ginzburg, è quello di diventare obsoleto col passare
del tempo perché prima o poi queste contro-prove saranno trovate: dunque egli non deve mai
accontentarsi ma considerare il suo percorso come una parabola senza fine. A mio giudizio si
tratta di una concezione dinamica e moderna della ricerca storica, sempre aperta a mettersi in

311
Ivi, quarta di copertina
312
Ibid.
313
K.L. Pike, Language in relation to a unified theory of the structure of human behaviour, Glendale, 1954
314
C. Ginzburg, Our words and theirs, a reflection on the historian’s craft today, in «Cromohs», 18/2013, pp. 97-
114, § 7
315
Cfr. ad es. Il caso, i casi, A proposito di Nondimanco, in «Doppiozero», 12 aprile 2019,
<https://www.doppiozero.com/materiali/il-caso-i-casi>
316
K. Popper, Logica della scoperta scientifica [1934], Torino 1970

138
gioco, ad accogliere anche critiche e stroncature come momenti inevitabili di dialettica, talvolta
aspra ma spesso feconda.

I tanti avvocati del diavolo con cui Ginzburg si è trovato a discutere nella sua lunga carriera di
storico hanno sottolineato come in qualche circostanza egli, nonostante la programmatica
ricerca di un equilibrio tra le tendenze centripeta e centrifuga di cui si è detto sopra, si sia
lasciato tentare dalle sirene dell’ideologia. In sostanza l’accusa, non priva di qualche ragione,
mossa a Ginzburg è quella di un’analisi tendenziosa delle fonti per privilegiare, quasi
inconsciamente, i propri presupposti di partenza. Un esempio significativo di questa divergenza
di opinioni, che contrappone Ginzburg soprattutto agli studiosi di formazione anglo-sassone,
si può rintracciare nell’intervento dello storico delle religioni Bruce Lincoln sul caso Thiess.
Lincoln ritiene che lo studioso torinese, nell’analizzare la vicenda processuale
dell’ottuagenario livone, abbia artificiosamente permeato i racconti dell’imputato di un’aura
mitica che sarebbe smentita da un’analisi meno superficiale dei documenti. Secondo Ginzburg,
Thiess definisce inferno «alla fine del mare»317 il luogo in cui lui e i suoi compagni combattono
le battaglie per il recupero dei semi e degli armenti sottratti ai contadini dai presunti diavoli:
un’interpretazione dunque, che mostrerebbe un’inquietante somiglianza con le testimonianze
dei benandanti friulani. L’obiezione di Lincoln si focalizza attorno a due vocaboli ben precisi
usati dall’imputato e registrati da chi ha verbalizzato i processi: il primo è See, che Ginzburg
interpreta come “mare” mentre Lincoln gli attribuisce il significato di “lago”318 . Entrambe
traduzioni legittime dal tedesco ma, in questo caso, Lincoln opta per un’interpretazione più
realistica, in quanto c’era effettivamente un lago a pochi chilometri dal luogo di residenza di
Thiess e prossimo a quella del giudice teutonico che aveva istituito il processo. La seconda
parola su cui Lincoln richiama l’attenzione è Hölle, tradotto da Ginzburg come “inferno”. Di
questo termine lo storico delle religioni americano dà, di nuovo, una spiegazione molto più
prosaica e topograficamente ben localizzata, identificandolo con depositi sotterranei di raccolta
del grano sottratto e ipotizzando che ci possa essere stato un equivoco in sede di trascrizione
degli atti, data l’assonanza con Höhle (grotta)319.
È interessante dunque constatare come le diverse interpretazioni, entrambe con il loro bagaglio
di legittimità, di due singoli vocaboli da parte dei due storici contribuisca a tracciare una coppia
di scenari agli antipodi: uno (quello di Ginzburg) in cui prevale l’influenza di un remoto e

317
I benandanti, cit. cap. I, § 16
318
Old Thiess, cit., p. 173
319
Ivi, pp. 100-101

139
inconscio strato di cultura popolare, l’altro (quello di Lincoln) che dà maggior rilievo al
contesto sociale contemporaneo, segnato dal conflitto tra il ceto dominante tedesco e
l’elemento autoctono, in posizione subalterna.

A proposito di contesto contemporaneo: di recente, nell’ambito di una serie di incontri online


organizzati, durante il periodo del lockdown totale, dall’Università Sapienza di Roma, proprio
sul tema della crisi globale causata dalla pandemia, Ginzburg ha fornito un interessante
contributo320. Il suo intervento verteva sulle implicazioni profonde dell’espressione «immunità
di gregge» («herd immunity»), usata dal Primo Ministro britannico Boris Johnson come
possibile strumento per far fronte al diffondersi del contagio. Ginzburg fa notare come tutte le
volte che la parola herd compare nelle edizioni in inglese della Bibbia essa sia collegata a un
contesto sacrificale. Dunque, Ginzburg ipotizza che per Johnson, inconsciamente influenzato
dall’improvviso riemergere di quello strato di matrice religiosa, sedimentatosi nel tempo, il
sacrificio della vita di migliaia di persone fosse un costo sopportabile per la salvezza della
comunità nella sua globalità. Si tratterebbe, dunque, di un ulteriore indizio, seppur congetturale,
di una visione della storia come un sovrapporsi di strati, in cui tuttavia, i livelli più profondi
tendono a tornare a galla in corrispondenza di periodi di crisi.
Balza subito all’occhio come, nella visione di Ginzburg lo strato scritturale giacente in
profondità nell’inconscio culturale di Boris Johnson, costituisse, invece, per i benandanti una
sorta di crosta superficiale al di sotto della quale si annidavano pulsioni più profonde e più
autentiche, collegate a un sostrato di cultura popolare e in particolar modo contadino: un mondo
continuamente in lotta per la sopravvivenza in cui i periodi di crisi, di cambiamento legati
all’avvicendarsi delle stagioni (le tempora) costituivano l’innesco per riportare in superficie i
moti inconsci che davano vita alle loro esperienze estatiche.

Quella di Ginzburg pare dunque essere una visione stratificata della storia, in cui però il vero
motore delle azioni umane giace sempre al di sotto della superficie, spesso in grande profondità
e spesso invisibile se non a un’attenta analisi che si fissa sul particolare rivelatore di quella
parte sommersa. Il suo lavoro di scavo tuttavia non si ferma, non sospende il giudizio quando
l’orizzonte documentario si fa lacunoso: abbiamo già visto come il suo metodo tenda ad andare
oltre, o, meglio, ancora più a fondo, a varcare i confini che costituiscono lo statuto della

320
Labs Saras (Sapienza Università Roma), Discorsi della crisi. Incontri in stato d’eccezione – Carlo Ginzburg,
15 giugno 2020 [video file] < https://www.youtube.com/watch?v=-tQ_67_eBjo> (ultima consultazione 21 ottobre
2020)

140
disciplina, cercando una via mediana tra morfologia e storia in cui il ricorso alla congettura è
inversamente proporzionale alla disponibilità delle fonti. Per questo motivo, molti lettori di
Ginzburg hanno individuato nel suo pensiero un afflato filosofico, confermato indirettamente
dalla scelta di alcuni titoli delle sue opere, centrati su termini che richiamano vere e proprie
categorie speculative (Vero falso finto oppure Paura reverenza terrore321)
La domanda che sorge spontanea, soprattutto dopo la lettura di Storia Notturna, è la seguente:
alla luce di questo incessante tentativo di riportare alla coscienza strati sommersi, ritiene forse
Ginzburg che a un certo punto lo scavo si debba arrestare nel momento in cui il metaforico
piccone dello storico venga a urtare un nucleo strutturale innato, che in fin dei conti orienta
l’azione di tutti gli uomini, di tutte le società in tutti i tempi? Esiste un equivalente storico di
quello che Chomsky, in linguistica, definisce “Language Acquisition Device” (L.A.D.), ovvero
un dispositivo innato di acquisizione di qualsiasi lingua? Naturalmente una risposta certa a
questa domanda non viene data, mancando la prova definitiva, ma Ginzburg, tra le righe,
sembra, a mio parere, tendere verso questa visione innatista. Lo fa individuando nella congenita
propensione dell’uomo all’uso di simboli, di metafore un indizio forte dell’esistenza di un
nocciolo duro, irriducibile. In concreto Ginzburg pare suggerire che l’idea della morte sia una
presenza costante nella psiche umana, seppur sepolta sotto strati di coscienza, e che riemerga
attraverso immagini, simboli, non sempre di immediata decodificazione, soprattutto in
corrispondenza di periodi di crisi: è il caso dei benandanti le cui esperienze estatiche, in bilico
tra due dimensioni, sembrano simboleggiare la precarietà di un’esistenza legata a eventi sì
rituali ma incontrollabili, come le tempora, avvertite come delicati momenti di transizione. Per
Ginzburg l’ombra del sacrificio, e dunque della morte, si affaccerebbe inconsciamente anche
nell’uso dell’espressione «herd immunity» usata da Boris Johnson. Tuttavia, il Primo Ministro
britannico è stato anche molto diretto nel momento in cui, rivolgendosi alla nazione in diretta
tv all’inizio della pandemia, ha affermato: «Many families are going to lose loved ones before
their times».

Peraltro, quest’idea opprimente della morte entra subito nell’orizzonte formativo dello stesso
Carlo Ginzburg, con la carcerazione, la tortura e l’uccisione del padre Leone, quando lo storico
aveva solo cinque anni, e la persecuzione che lui stesso e il resto della sua famiglia hanno
sofferto. Com’egli ammette, si tratta di uno strato che, seppure rimasto per tanto tempo al di
sotto del livello della coscienza, ha comunque giocato un ruolo decisivo per orientare le sue

321
C. Ginzburg, Paura reverenza terrore, Milano 2015

141
scelte, soprattutto quella di concentrarsi sulle vittime dell’inquisizione. Eppure, nonostante
possa avere parecchie ragioni personali e giustificazioni per ricorrervi, Ginzburg sfugge
recisamente dal considerare il concetto di identità come categoria analitica. Egli ritiene che si
tratti invece di un termine artificiale: la realtà dei fatti ci dice, infatti, che un individuo, una
società, uno Stato non possono essere semplicisticamente definiti in base alla loro identità,
essendo questa la complessa risultante del sovrapporsi di strati diversi. Prendendo come
campione se stesso, Ginzburg afferma che non c’è alcuna ragione per affermare che il tratto
“ebreo” che confluisce nella sua identità debba essere considerato più o meno caratterizzante
rispetto, ad esempio, ai tratti “accademico” o “appartenente al genere maschile”322. La scelta
di privilegiare un tratto rispetto a un altro nasconde sempre intenti di strumentalizzazione
politica o, peggio, come la storia ci insegna, di affermazione della superiorità genetica di un
popolo rispetto ad un altro. Si tratta di una trappola in cui, a mio parere, sono caduti, seppure
con esiti innocui, quanti hanno cercato di rielaborare le vicende dei benandanti e di Menocchio
in funzione dell’affermazione di un’identità friulana, sconquassata dal sisma del 1976 (lo stesso
anno in cui viene pubblicato Il formaggio e i vermi)323. Viceversa, a me piace pensare il Friuli
come una replica spaziale dell’idea di storia di Ginzburg, una realtà stratificata la cui
complessità e profondità sono testimoniate, ad esempio, dalla presenza nella lingua friulana di
numerosi termini che costituiscono l’eredità delle molteplici invasioni che questa terra ha
subito nel corso dei secoli (cfr. il termine di origine longobarda “bleon”= lenzuolo o quello di
radice celtica “grave”= ghiaia).

In un panorama contemporaneo caratterizzato dall’affermazione di nazionalismi e sovranismi


vari, il rifiuto da parte di Ginzburg della strumentalizzazione della categoria di identità si
configura come un baluardo di resistenza etica. Tuttavia, non è, a mio parere, l’unica lezione
che possiamo ricavare da un’analisi del suo pensiero. Spicca il ricorso all’argomentazione,
come strumento per sostenere o eventualmente confutare una certa “verità storica”: si tratta di
una concezione aperta, dinamica della ricerca ma non relativista, poiché l’argomentazione deve
sempre essere accompagnata da solidità filologica. A questo proposito, è interessante
constatare come, in coerenza col suo pensiero, egli non invochi leggi restrittive nei confronti
dei negazionisti dell’Olocausto, poiché a suo parere la loro posizione è già stata ampiamente

322
ÈStoria, ÈStoria 2019 – Carlo Ginzburg riceve il Premio ÈStoria2019, 19 giugno 2019, [video file]
<http://www.youtube.com/watch?v=-B0p-wb-z10> (ultima consultazione 21 ottobre 2020)
323
G. Gri, La cultura popolare in Friuli dopo ‘I benandanti’, in «Atti dell’Accademia “San Marco” di
Pordenone», 18 (2016), p. 359-385

142
confutata e quindi essi si delegittimano da soli nel momento in cui continuano a sostenerla324.
Ginzburg è pienamente consapevole di essere portavoce di visioni non propriamente ortodosse
su varie questioni (in primis il suo campo principale di ricerca, la stregoneria), eppure non si
sottrae mai al confronto, evitando la facile tentazione del ricorso a semplificazioni. Egli, anzi
si sofferma su categorie fondamentali per una lettura proficua del complesso mondo
contemporaneo, come il “finto”, che insinuandosi tra il “vero” e il “falso”, dovrebbe costituire
motivo di riflessione per quanti, ad esempio, diffondono bufale sui social network senza
nemmeno prendersi la briga di controllarne l’attendibilità. Il suo è un elogio dello scavo in
profondità, che implica spesso fatica e complicazioni, laddove la tendenza della società
moderna è quella di rimanere comodamente in superficie.

Mi viene in mente un’ultima, agrodolce considerazione: dall’alto della sua sconfinata ed


eclettica erudizione, Ginzburg avrebbe, forse, qualche alibi per spacciare come inattaccabile
una certa tesi da lui sostenuta. Invece il suo atteggiamento indica una grande disponibilità
all’ascolto e all’accoglienza di posizioni diverse dalla sua, come dimostra il libro scritto a
quattro mani con Bruce Lincoln sul caso Thiess. È un’immagine speculare rispetto al prototipo
odierno dell’utente medio-basso di Facebook che basa le proprie granitiche certezze su
fondamenta culturali inesistenti. Si tratta, a mio parere, di una grande lezione di umiltà
proveniente da un uomo che considera la cultura (e la curiosità che la alimenta) come un circolo
virtuoso in cui le domande che ci si pone non generano tanto risposte definitive, quanto altre
domande: l’imparare è dunque un processo infinito che dura tutta la vita. «Aún aprendo»
(«imparo ancora») è la scritta che campeggia su un disegno di Goya, raffigurante un vecchio
con una lunga barba bianca che si regge a stento in piedi, sorretto da due bastoni. Questa
massima, citata dallo stesso Ginzburg alla cerimonia di consegna del “Premio Balzan 2010 per
la storia d’Europa 1400-1700”325, sintetizza nel migliore dei modi il suo straordinario impegno
intellettuale.

324
ÈStoria 2019, cit.
325
C. Ginzburg, Discorso di ringraziamento, in Carlo Ginzburg premio Balzan 2010 per la storia d’Europa 1400-
1700, Milano 2010, p. 7

143
Fig. 5 - F. de Goya, Aún aprendo, in «Àlbum de
Burdeos I» o «Àlbum G», no. 54, 1825-1828,
disegno a matita, Museo del Prado (Madrid)

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Labs Saras (Sapienza Università Roma), Discorsi della crisi. Incontri in stato d’eccezione –
Carlo Ginzburg, 15 giugno 2020 [video file] < https://www.youtube.com/watch?v=-
tQ_67_eBjo> (ultima consultazione 21 ottobre 2020)

*ordine alfabetico; cronologico crescente nel caso di contributi del medesimo autore
**ordine cronologico crescente

150
RINGRAZIAMENTI

Alla mia famiglia per esserci sempre, nonostante la lontananza


A mia moglie, per la pazienza e il sostegno
Al prof. Guido Dall’Olio, per la competenza, la gentilezza e la disponibilità

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