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autori,
e riproduce fedelmente il volto di Gesù così come appare negli Annali dell'Akasha.
Chi erano?
Questa insolita testimonianza non soltanto permette al lettore di partecipare alla vita
quotidiana d’una comunità essena dei tempi di Gesù, ma getta nuova luce sugli incredibili
eventi che da 2.000 anni sono tenuti nascosti.
EDIZIONI AMRITA)
- VIAGGIO Α SHAMBHALLA
Casella Postale
10094 GIAVENO
Febbraio 1988
qui e altrove,
ci avete accompagnati.
Indice
Prefazione
Introduzione
LIBRO Ι
Capitolo Ι. - Zerah
Capitolo Χ. - Gerusalemme
LIBRO II
Capitolo Ι. - Il Battesimo
LIBRO ΙΙΙ
Capitolo Ι. - Ι ventidue
Viaggiare a ritroso nel tempo e rivivere il passato in maniera reale è stato, credo, il sogno
di molti. Questo libro ne è la testimonianza unica e soprattutto presenta un quadro
significativo e libero da ogni aggiunta fantastica di quella che era la vita in Palestina 2000
anni fa.
Anne e Daniel, con le loro quattro pubblicazioni (questa è la prima che viene tradotta per il
lettore italiano, e ci auguriamo che anche le altre tre possano tra breve approdare sul
nostro mercato) si sono imposti con un programma ben preciso, destinato a spaziare dagli
Esseni ai mistici di Shambala, per testimoniare un messaggio che uomini d'altri tempi e
d'altri luoghi hanno immerso nella fluttuante ed inattaccabile memoria del tempo, perché, a
loro volta, altri potessero recepirlo e farlo conoscere; l'universo l'ha mantenuto intatto e
gli autori, con la loro trascrizione letterale, ci hanno permesso di conoscerne ogni
particolare.
Bruno Portigliatti
Introduzione
Il nome "Esseni" è tornato alla ribalta in modo inquietante alla scoperta dei manoscritti del
Mar Morto, suscitando ovunque più interrogativi che risposte; tant'è che, malgrado il
lavoro degli archeologi e dei ricercatori, la storia ufficiale è ancora povera di informazioni
al loro riguardo.
C'è chi li ritiene una setta mistica, a cui talvolta si associa il nome di Gesù: ma chi furono
esattamente?
Non abbiamo elaborato nessuna tecnica di lavoro rivoluzionaria per ottenere i nostri
risultati, ma applicato un metodo le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Se, da un lato, la cultura razionale non ammette altro modo di investigare il passato se non
mediante i metodi tradizionali, dall'altro bisogna riconoscere che non è nemmeno razionale
porre dei limiti all'orizzonte umano proprio quando le frontiere dell'impossibile arretrano
di giorno in giorno.
Questo libro è il frutto di una lunga lettura degli Annali della Akasha, secondo una tecnica
nota agli antichi Egizi ed ai mistici dell'Himalaya; dire che questi Annali costituiscono la
Memoria Universale è piuttosto vago, per cui partiamo dal significato del termine sanscrito
Akasha, che designa un elemento base della natura, diverso dall'acqua, dal fuoco, dall'aria.
Secondo gli Antichi si tratta di una sostanza infinitamente sottile, una forma di energia in
cui è immerso l'Universo e che ha la proprietà di registrare la memoria visiva ed acustica di
ogni forma di vita: una specie di "lastra fotosensibile" dell'Universo, un gigantesco "nastro
magnetico" naturale in grado di rivelarci il passato a determinate condizioni.
Infatti gli Annali sono stati consultati al di là del mondo fisico, nel corso di viaggi astrali
fuori dal corpo. È un genere di lettura che non ha nulla a che fare con i cosiddetti
"fenomeni spontanei di visione", essendo il risultato di una tecnica acquisita con un lungo,
personale lavoro spirituale, una purificazione dei vari corpi fondata sull'amore e quindi non
sostituibile con una semplice "ricetta": la tecnica, da sola non basta.
D'altronde la lettura è fattibile solo se permessa dagli Esseri spirituali posti a guardia
degli Annali, che vagliano la purezza interiore e le capacità di assimilazione dei
"viaggiatori", le cui ricerche non dovranno mai avere uno scopo personale.
Il racconto che leggerete vi porterà in Palestina, circa duemila anni fa, tra gli Esseni:
rivivere il passato non è facile, e non sempre è stato piacevole parlare delle nostre persone,
che d'altronde rivestono un'importanza marginale.
Non vogliamo far colpo né con l'inedito, né pretendendo di svelare tutti i misteri, bensì
apporre un'altra pietra ad un edificio che si va costruendo, senza che siano fatte
rivelazioni prima del dovuto.
Ci siamo sforzati di essere fedeli al vissuto, cercando di ricordare addirittura parola per
parola.
Si rivivono le scene con assoluta nettezza, udendo le parole nella lingua dell'epoca, ma
comprendendole immediatamente; per noi la sensazione è stata tale da farci rivivere
emozioni e sensazioni estranee alla nostra personalità attuale.
Per alcuni, questo libro sarà un romanzo, per altri un delirio mistico... pazienza!
Noi l'abbiamo scritto col cuore nel corso di due anni di lettura, e lo affidiamo agli uomini di
cuore.
Certi sanno già di che si tratta, e col tempo si vedrà... se ci sarà tempo!
Sebbene alcune parti siano state scritte personalmente dall'uno o dall'altro di noi, quasi tutte le scene sono state rivissute da entrambi.
LIBRO 1
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CAPITOLO Ι
Zerah
Avevo appena compiuto quattro anni. Abitavo con i miei genitori in un piccolo villaggio della
Galilea, a due giorni di cammino da Jappa. Spesso, in piedi sul muretto della cinta della
nostra modesta casa, restavo a guardare la lunga fila di carovane di cammelli che andavano
a lenti passi verso Jappa, la "città", l'avventura.
Uno dei miei giochi preferiti era immaginare i mercanti che mettevano in mostra sulla
piazza il contenuto delle loro ceste: uno spettacolo che avevo potuto gustare solo una volta,
ma che mi era rimasto impresso e aveva eccitato la mia immaginazione. La vita insolita dei
vicoli soffocati dal calore, le botteghe di artigiani e mercanti, gli odori forti delle spezie, i
versi delle bestie, l'agitazione al porto, tutto era talmente in contrasto con la vita calma e
regolata del nostro villaggio...
Mio padre faceva il vasaio e anche quelle rare volte che si recava a Jappa si faceva pregare
per andarci, preferendo il ritmo tormentoso del tornio alle esortazioni dei mercanti.
Inconsciamente gliene facevo una colpa: possibile che a Jappa non ci fosse nient'altro da
fare che comprare le sementi una volta all'anno?
Mia madre, anch'essa pienamente avvezza alla vita dura e semplice della campagna, cercava
di farmi ragionare: come mio padre era sempre vissuta lì, con gli altri del "villaggio dei
fratelli", come dicevano a Jappa.
Di chi o di cosa fossimo fratelli non sapevo, ma mia madre e i vicini parlavano spesso di
questa fratellanza che andava rispettata; le mie domande non si spingevano mai oltre
perché, a parte quei momenti di curiosità inquieta tipica dei bambini, la nostra piccola
comunità mi infondeva una calorosa sicurezza. Eravamo 150 o 200, in quelle casette di
pietra e malta raggruppate su un poggio scosceso.
Intorno al villaggio c'era un semplice muretto di pietra grigia che però a me pareva una
fortificazione, pur non superando il metro di altezza se non in pochi punti: mio padre mi
ripeteva spesso, perché mi fosse ben chiaro, che quella era la "cinta sacra" e che tutto ciò
che esisteva e cresceva all'ombra di essa era protetto e benedetto.
Ogni casetta aveva intorno un piccolo appezzamento di terra bastante alle necessità
quotidiane; sotto, ai due lati della strada per Jappa, vi erano i campi comuni, più grandi,
dove lavoravamo insieme senza che mai qualcuno dicesse "qui è terra mia, la tua è quella".
Le discordie erano rare, perché ogni raccolto veniva subito equamente spartito: il villaggio
era dunque molto pacifico ed era per questo che lo amavo quanto amavo i Fratelli, fin dalla
mia prima infanzia.
Mi pareva che tra noi vigesse una legge sconosciuta ai mercanti e agli abitanti della città:
era una sensazione confusa che non sapevo spiegarmi.
Quando scendevo con mia madre lungo lo stretto sentiero che serpeggiava fra gli arbusti,
allontanandomi dal villaggio di poche centinaia di metri per riempire le brocche d'acqua,
perdevo di vista le case; se ne indovinavano solo più le forme cubiche grigie ed ocra dietro
al verde delle quercie e dei melograni. Un tempo c'era stata una sorgente proprio in mezzo
al villaggio, ma poi pareva che la natura avesse cambiato idea e più volte al giorno dovevamo
allontanarci dalla cinta sacra; accompagnare mia madre era una specie di gioco e ne
approfittavo per gironzolare nella vigna o sotto i fichi, a seconda delle stagioni.
Più in basso, vicino alla strada maestra, si aggrovigliavano le vaste fasce blu e oro dei campi
di lino e grano, verso i quali spesso lanciavo i sassi, come per provare la mia forza ed il mio
desiderio di poterci andare a seminare e a mietere. Così andare all'acqua si trasformava in
gioco senza che neppure sospettassi, allora, che qualche anno dopo sarei stato io a portare
la brocca invece di mia madre, giacché mio padre aveva sempre un gran bisogno d'acqua per
il suo lavoro e gli asini del villaggio erano pochi.
Guardarlo creare le sue forme con così poca terra e così tanta abilità era un altro gioco, un
gioco che mi incuriosiva perché nei gesti abituali dei piedi e delle mani vedevo una sorta di
magia, mentre il sorriso e la vivacità del suo sguardo mi dicevano che ce la stava mettendo
tutta per eseguire alla perfezione anche il più piccolo dei pezzi che andavano nascendogli
fra le mani: erano oggetti semplici, nobili e di uso corrente, come le ciotole del cibo, le
giare per la fermentazione del mosto e mille altre cose ancora.
Provvedeva così al fabbisogno della nostra piccola comunità, e di tanto in tanto un mercante
si fermava da noi a comprare qualche scodella o qualche brocca.
Se accadeva che a un Fratello del villaggio mancasse uno di questi oggetti mio padre glielo
forniva subito: l'altro, allora, andava ad occuparsi della nostra vigna o ci faceva qualche
lavoro di muratura o falegnameria: era uno scambio continuo di gentilezze che giovava a
tutti, come mi insegnavano allora i miei genitori. Mi dicevano che quella era la regola, e che
anche da essa derivava la nostra forza; anche questo contribuiva a risvegliare la vaga ma
potente sensazione della nostra "diversità".
Andando in giro con i miei coetanei per quei sentieri polverosi che erano le stradine del
villaggio, spesso vedevo gruppi di uomini e donne dal passo greve e dallo sguardo
curiosamente profondo, i cui volti però non mi erano tutti familiari; ne dedussi ben presto
che la nostra comunità doveva avere una qualche funzione di collegamento, accogliendo
Fratelli che venivano da fuori e che avevano viaggiato molto.
Il loro arrivo sul nostro fazzoletto di terra mi divertiva e mi incuriosiva sempre, ed era
diventato per me una piacevole abitudine, un rito che non volevo perdermi; eravamo noi
bambini ad accorrere per primi non appena un forestiero si presentava alle soglie del
villaggio con la fronte bruciata dal sole e la schiena curva su per la salita sassosa, ma
c'erano sempre una o due donne a disperderci per poter condurre lo sconosciuto in un
cortile ombreggiato da un muro di malta o da una vite vergine: gli toglievano allora i sandali
e gli lavavano i piedi con una pezza, poi gli offrivano un frutto in silenzio. Α volte erano gli
uomini ad occuparsene, perché nessun compito veniva considerato subalterno o
prettamente maschile o femminile, come compresi subito.
Una volta rinfrescatosi, il nuovo venuto spesso si prosternava a terra, con le braccia
incrociate, e pareva baciare più volte il suolo; poi, alzatosi, con il capo coperto da un'ampia
pezza di tela bianca, veniva scortato alla casa dei suoi ospiti.
Ai bambini era raramente consentito assistere alle conversazioni che seguivano l'arrivo di
un forestiero al villaggio: era una regola più che una proibizione, una faccenda scontata che
aveva le sue buone ragioni di essere e non andava discussa; ma siccome il frutto proibito si
gusta sempre con piacere, ricordo di essere riuscito a sgusciare nell'ombra di una porta,
dietro ad uno di quegli eterni viaggiatori che venivano da noi, e d'aver visto una volta mio
padre con un ginocchio a terra davanti a lui, con il braccio destro incrociato sul sinistro sul
petto, e il capo basso sul quale lo sconosciuto imponeva a lungo una mano.
Questo spettacolo mi aveva talmente colpito da farmi scappare via quasi subito, e
maldestro com'ero, se ne accorsero.
Quella sera mio padre venne a cercarmi al muretto, nel mio cantuccio privato, mentre un
vento fresco soffiava tra gli alberi di fico e faceva fremere le rare luci delle lampade ad
olio accese qua e là.
Ce la misi tutta a camminare adagio perché non mi andava di parlare con mio padre che
avevo colto, o così mi pareva confusamente, in un atteggiamento d'inferiorità, ma giunti a
casa mi issò su un enorme cofano di legno e fissandomi dritto negli occhi mi disse:
- Ascolta Simone: tra servo e padrone, secondo te, chi è più importante?
Ancora non capivo e dovette accorgersene perché mi abbracciò, prima di continuare con
voce più calda:
- Simone, è ora che tu impari a vivere. Domani ti porterò da Zerah, quello con la barba lunga
che abita vicino al vecchio pozzo: avrà molto da dirti e vedrai che resterai con la bocca
aperta.
Al di sopra della sua spalla vidi mia madre che mi guardava, accoccolata nella penombra su
una piccola stuoia, mentre preparava meccanicamente il pasto del giorno dopo: una focaccia
e poche olive.
Dunque qualcosa sarebbe accaduto ed avrebbe forse scosso il mio "tran-tran" che aveva
tutta l'aria di tendere alla monotonia, tra il desiderio di seminare il lino e quello di correre
dietro alle carovane di Jappa: ebbi la sensazione furtiva di non aver mai capito ciò che
avevo visto, o che mi avessero nascosto tutto, prendendomi per un bambino mentre avevo
tutto il diritto di sapere...
Il giorno seguente, quando il ronzio caldo ed acuto delle prime api mi svegliò, mia madre era
già scesa a riempire le brocche e si stava lavando in cortile mentre il cigolio del tornio
rivelava che mio padre era già al lavoro.
Impaziente com'ero, non potei più aspettare, e poco dopo saltavo e correvo tra i cespugli e
gli ulivi per andare alla "casa del vecchio del pozzo".
Zerah era un vecchio con una lunga barba grigia che il sole e gli anni avevano sfumato di
rosso; l'avevo visto spesso quando giocavo, e sapevo che era ammirato e rispettato.
Aveva un volto incartapecorito e scavato da solchi profondi, con uno sguardo dolce e
penetrante allo stesso tempo, e le sue parole erano a volte enigmatiche ed a volte limpide;
era, insomma, uno di quei venerabili vecchi di cui raccontavano i mercanti.
- Pace a te, Joshé - disse a mio padre che mi spingeva avanti. Sapevo che non avresti
tardato a portarmelo, questo ragazzo. Avvolto in una lunga veste di lino d'un bianco
sbiadito, Zerah era in piedi sulla soglia e mi tendeva le braccia. Quando mi prese per mano
fui tanto colpito da quella sua grossa stretta callosa da non accorgermi neppure che mio
padre non era entrato nella casa fresca e ombrosa: sembrava essere ancora più povera
della nostra, dove tuttavia c'era solo il minimo indispensabile. Quell'unica stanza, illuminata
dalla luce calda e polverosa di una finestrella, conteneva solo due o tre stuoie e pochi
utensili posati sulla terra battuta; Zerah mi fece cenno di sedermi, e prese posto davanti a
me accoccolato su una stuoia.
Scorsi nella penombra in fondo alla stanza una specie di stella a otto punte eguali, e non me
ne stupii perché ce l'avevamo anche noi.
- Simone, ormai sei abbastanza grande per sapere cosa fai qui e chi siamo; dimmi: hai già
guardato le nostre vesti?
- Si, - risposi - sono bianche, non come quelle della gente di città, e poi pungono, ma mio
padre dice che va bene così e che passerà.
- Se pungono, pazienza! rispose il vecchio con un leggero sorriso. Il fatto è che sono diverse
da quelle degli uomini e delle donne che seguono la legge della città e che ne indossano di
blu, di gialle, di rosse, di tutti i colori. È bene che tu l'abbia notato, ma sai perché è così?
Perché la gente di Jappa non parla la nostra stessa lingua, la lingua dolce...
- Capisci le loro parole, ma non il loro cuore, e per raggiungerli dovrai penare, come
scoprirai presto. Ma non sei venuto per sentire parole amare, Simone, bensì per imparare a
guardare e a pensare.
Già da tempo sai che non viviamo come la gente di città e i mercanti delle carovane, ed è
ora che tu sappia il perché: immagina un enorme campo di lino diviso fra i membri di una
famiglia, ognuno dei quali si sposa ed ha molti bambini: ci sono quelli di Giuseppe, quelli di
Saul, quelli di Giacobbe e così via e sono così tanti che ad un certo punto non si riconoscono
più e cominciano a picchiarsi, cosicché quelli che perdono il loro pezzetto di terra, per
sopravvivere, devono chiedere asilo agli altri che li sopportano appena.
La Terra, vedi, è quel campo di lino, e noi di questo e di pochi altri villaggi siamo come i
sopravvissuti ad una antica guerra in cui abbiamo perso i beni materiali datici da nostro
padre, e siamo ora in esilio presso dei parenti dimentichi delle nostre comuni origini; siamo i
sopravvissuti di un tempo in cui il sole si vedeva meno ma riscaldava di più i cuori; siamo la
spina nel tallone del gigante, e non guardarmi con quella faccia: presto te ne renderai conto.
Zerah si interruppe un momento e, vista la mia perplessità, mi pose le sue manone sulle
spalle prima di continuare.
- Noi non siamo della stirpe di Abramo e di Giacobbe, Simone. Ι nostri padri si sono
ammazzati a vicenda tantissime lune fa, più di quante tu ne possa immaginare; guarda bene
quella stella, là in fondo: è un simbolo del nostro popolo e la troverai ovunque, da tutti quelli
che parlano con la mano sul cuore. È un segno che devi conoscere e ve ne sono molti altri
che imparerai più tardi.
Tra le molte genti che vivono in questo paese non voglio dire che siamo i migliori, ma il
nostro Padre spirituale ci ha dato una parola che abbiamo conservato intatta, senza
aggiungere o togliere una virgola. Per la gloria Sua e dei fratelli umani, dovrai saperla
ascoltare e ripetere: allora, come gli altri del villaggio potrai indossare la veste bianca e
parlerai la lingua dolce ...e per mezzo di essa guarirai.
- Guarirò?
- Si, come molti di noi che hanno prestato giuramento. Ma non ti limiterai a guarire i corpi
che soffrono, vorrai guarire le anime...
- L'anima, Simone, è...è una grande forza che abita in te e che ti fa dire ogni giorno cose
come "io sono io", e "mi chiamo Simone"; è una fiamma che ogni notte esce da te per
percorrere un paese dal quale ti porterà i sogni e non soltanto. È il paese senza frontiere,
dove...
Sebbene capissi a malapena quanto mi stava dicendo Zerah con voce calda e ovattata, avevo
l'impressione confusa che mi si stessero aprendo molte e molte porte...
- Ma, Zerah, come fa una fiammella ad ammalarsi? Chiesi spalancando gli occhi.
- Si ammala quando si allontana un po' troppo dal fuoco che l'ha generata, ricordalo,
Simone. Allora non scalda più, ma brucia tutto ciò che tocca. È una cosa molto semplice,
siamo noi che complichiamo tutto.
Poi, con gesti infinitamente precisi, il vecchio mi annodò al polso sinistro una sottile
cordicella nera, segno di quanto mi era stato affidato, prima pietra di un futuro edificio.
segue da pag. 23
CAPITOLO II
Il Purím*
Il vecchio della "casa del pozzo" sembrava avermi preso sotto la sua protezione e non mi
parlava più da maestro ma come un nonno; incontrarlo era diventata una necessità e la sua
umile stanza era per me come una seconda casa.
Ι miei mi vedevano entrare da lontano, ma non me ne parlavano mai; dai loro sguardi sapevo
però che ne erano contenti.
Mio padre prese ad intrattenermi meno del lavoro dei campi ma insistette perché andassi
spesso a vederlo modellare e plasmare la terra a cui dava vita; mia madre invece decise che
non sarei più entrato in casa senza essermi lavato mani e piedi con l'acqua della brocca
appositamente messa in cortile.
Non recalcitrai davanti a questa esigenza che trovai anzi lusinghiera, dal momento che mio
padre, i suoi amici, i forestieri, il vecchio Zerah e tutti coloro che indossavano la lunga
veste bianca lo facevano sempre. Con quel nuovo obbligo mi pareva di essere stato ammesso
tra gli adulti e di condividere un vero e proprio segreto, cosicché non ne parlai mai ai miei
compagni di gioco.
Per anni dunque il mio tempo trascorse tra Zerah, il tornio di mio padre ed i mandorli che
crescevano e fiorivano da una stagione all'altra sotto i miei occhi.
Non so per quale ragione partecipai sempre meno ai giochi dei miei coetanei; solo Myriam, la
figlia del tessitore, divideva i miei sogni ad occhi aperti sotto una pianta di limoni che
prediligevo ………………………
segue da pag. 24
ultimo capitolo, riprende da pag.346
CAPITOLO III
Ι giardini d'Ιesse
Un profondo torpore seguì la dipartita di Myriam per diverse settimane, durante le quali
cercai d'isolarmi completamente. Combattevo contro me stesso, contro quella parte di me
che me la faceva cercare egoisticamente, benché sapessi che ora era felice. Mi rivedo solo,
come nell'oscuro labirinto del Krmel, in cerca d'una sorgente d'aria e di luce.
La scomparsa di Myriam era la mia trappola e lo sapevo, era come uno spesso velo per
mezzo del quale una forza insidiosa cercava di soffocare ciò che era stato risvegliato.
Rimasi dunque in meditazione vicino alla capanna per qualche settimana; avrei anche potuto
chiamarla o proiettare il mio corpo fino a lei, ma sapevo che non bisognava: ognuno ha il suo
ruolo e se questo non ci piace non è la Fortuna che deve essere accusata. Siamo noi il
nostro proprio Destino.
Nella mia mente ancora confusa non riuscivo più a riordinare le idee, e mi ricordo che allora
chiesi un segno con tutta la forza del mio corpo. Chiamai il Maestro, chiamai tutte le
energie che sentivo presenti e crudelmente mute, finché un mattino, per tutta risposta, un
grido risuonò in montagna: era proprio come se puntasse su di me a tutta forza. Mi stavano
chiamando.
Scorsi allora alcuni uomini in cima a una roccia grigiastra che si sbracciavano venendo verso
di me. Per la prima volta dopo tanto tempo, mi parve proprio che il mio nome risuonasse di
nuovo tra le colline, e avanzai un poco. Intanto, quattro uomini con larghi calzoni e lunghe
tuniche strette in vita emersero lentamente da un avvallamento del terreno.
- Sei Simone? Riprese uno degli uomini, uno che aveva un volto noto. Ti abbiamo cercato
dappertutto, per giorni e giorni, non speravamo più di trovarti. Vieni, ci sono troppi
ammalati da noi, i nostri sacerdoti hanno detto che dovresti venire con colei che ti
accompagna.
Era una domanda autoritaria, che non ammetteva tentennamenti, pronunciata con voce
rauca e melodiosa ad un tempo. Ci scambiammo rapidamente un'occhiata e nei suoi occhi
vidi la risposta al mio appello. Era un ordine, il segno della mia partenza. Non dissi parola, e
mi accontentai di sorridere. Presi ciò che rimaneva della mia sacca e feci cenno di sì con il
capo.
Quel giorno fu segnato da un'altra partenza, un nuovo sole... non ero più andato verso gli
altri e gli altri erano venuti da me. Rimuginavo quel pensiero tra me e me, che venne presto
chiarito da una riflessione di Kristos: "Gli altri? Come potete parlare degli altri? Dovete
parlare di voi in altri luoghi, con altri volti! Non vedete come siete legati? La chiarezza del
vostro cuore completa quella di colui che chiamate “altro”. Siate “gli altri” e sarete ovunque
ad un tempo. In tutte le menti voi sarete ciò che Io Sono, ovvero voi stessi!"
Quel giorno mi sentii scaturire una fiamma ardente nel petto, simile ad un verde raggio
fresco e acquietante in cui vedevo la forza di Myriam aggiungersi alla mia, operando anche
nei miei minimi gesti e con assoluta precisione.
Dovetti dunque ripercorrere quella contrada ancora una volta, di borgata in borgata,
unendo il mio sapere a quello dei sacerdoti locali. Α volte mi parlavano di un altro Fratello
visto a qualche miglio da lì, però non sentivo la necessità di andarci; mi bastava sapere che
lavorava anche lui per la Grande Coscienza Cosmica ancora addormentata su questa Terra.
Α quell'epoca tentai vari contatti con quelli di Mosé che si erano stabiliti da tempo in quella
regione, ma non ebbi successo, anzi i cuori e le vite di quegli uomini mi parvero stranamente
chiusi. Il loro Mosé non era quello che conoscevo e mi sembrò che in essi vibrasse soltanto
la Lettera: temevano il Padre più di quelli del Gran Tempio di Gerusalemme... Timorosi,
chiusero dunque la porta alle parole del Maestro che aveva bandito il timore dal nostro
cuore. Comprendo oggi che la loro reazione, la loro storia non era quella di un popolo, di una
casta definita, ma quella di qualsiasi uomo che rifiuta di guardare altro che non sia ciò che
gli è sempre stato mostrato o insegnato.
"La mente immobile ha l'aspetto della mente sonnolenta, mentre la mente in movimento
passa spesso per la scomodità e talvolta per lo scandalo, ma bisogna scegliere: La Forza del
Due appartiene a colui che calpesta e martella il suolo con passo duale", aveva detto il
Maestro... "Quella del Tre si proietta in avanti attraverso tutti i rischi, è in cerca
dell'onnipresenza e si identifica con l'energia dell'Uno".
Molti degli uomini che vennero da me e, come seppi, dagli altri Fratelli, appartenevano a
famiglie di guerrieri, possedevano delle tenute e avevano domestici al loro servizio,
vivevano in una relativa intesa con Roma e si erano abituati a vedere i suoi eserciti
controllare la regione. Le loro personalità, la loro posizione sociale all'inizio mi
disorientarono: quegli uomini si presentavano sempre bardati di cuoio, di pelli e di metalli
con costosi coltellacci appesi alla cintura. Ne rivedo alcuni offrirmi ospitalità nelle loro
grandi dimore di legno fortificate... Ascoltavano parole che per me erano di libertà e di
pace, e i loro cuori mi seguivano rapidamente, senza che capissi come avessi fatto! Doveva
pur esserci un filo conduttore che li portasse lì in un dato momento... perché ascoltassero!
Contro tutte le mie speranze non abbandonarono le armi, né il potere che esercitavano sui
loro possedimenti, che per me era eccessivo, tuttavia capii che avevano ragione, le loro
ragioni.
Nessuno di noi poteva formare dei Fratelli completi: esseni si nasceva, e questo era un
insegnamento ancestrale; ma il ceppo era destinato ad estinguersi per trasformarsi in un
altro di cui ignoravamo il volto.
Forse che quei rudi guerrieri che ora maneggiavano concetti di pace e d'amore sarebbero
stati i nostri successori sulla terra di Κal? Questa domanda mi tormentò il cuore per intere
sere... potevo mettere tutto nelle mani di quegli uomini? Giuseppe e gli altri, stavano
facendo la stessa cosa? Il cuore diceva di sì, ma la ragione si rifiutava di dargli ascolto.
Una sera, nella ricca dimora di legno scolpito di un guerriero che mi ospitava, decisi di fare
ricorso ad un vecchio metodo della nostra gente. La stanza che mi avevano messo a
disposizione era vasta, con i tramezzi e il soffitto di tronchi di piccole conifere, alcuni dei
quali, abilmente lavorati, rappresentavano dei volti che facevano pensare alle forze della
Natura. Mi avevano dato una sedia larga, un oggetto che per me era inusuale, e un letto
basso con dei cuscini, e avevo fatto togliere tutte le pelli che ornavano il pavimento e il
muro al mio arrivo, perché il loro irradiamento eterico nuoce alla purezza di un lavoro
psichico, a parte certi casi ben precisi.
Per fortuna il mio ospite aveva delle resine che potevano sostituire l'incenso; ne bruciai
qualche presa ai quattro angoli della stanza e disposi su di un vassoio di metallo un po' della
terra sabbiosa dei dintorni. Alla luce di una torcia, vi disegnai col dito una croce con le
braccia uguali ed una spirale regolare che partiva dal centro della croce verso la periferia
del vassoio, dopo di che mi immersi nella pronuncia del suono Μ tipica della Fratellanza, e mi
sdraiai con la mente vuota.
Il mattino seguente, al mio risveglio, mi attendeva la desiderata risposta: la spirale
tracciata il giorno prima era scomparsa, accuratamente cancellata da una sorta di alito che
aveva risparmiato
la croce. Secondo il codice definito dalla Fratellanza al Krmel, questo significava "Sì".
Sì, dovevo dunque dare fiducia ai rudi capi di quella terra; potevo affidar loro il contenuto
del mio cuore. La risposta era netta, tanto più chiara in quanto non c'era niente di magico in
essa: gli Esseni non amavano manipolare forze esterne ad essi e al Grande Agente
Universale... Ero stato io, a proiettare il mio corpo luminoso sulla terra del vassoio. Non ci
sono interrogativi di cui non conosciamo la risposta inconsciamente e saremmo molto meno
ciechi se comprendessimo che ogni notte ci abbeveriamo ad una chiara fonte. Dobbiamo
tutti ricollegarci a ciò che siamo, alla nostra forza prima se vogliamo sapere e potere...
È così semplice... La nostra mancanza di fede distrugge tutto! Così affidai l'intera parola di
Kristos, la vita del Maestro, i metodi esseni, l'esistenza dei Fratelli delle stelle, ad alcuni
fieri signori di Κal, e così fecero i nostri altrove. Come aveva detto Giuseppe, stringemmo
con loro un patto simbolico, e i capi iniziati al nostro insegnamento si impegnarono a portare
i capelli lunghi, in memoria di un altro patto molto più antico...*
Dopo, tutto avvenne con molta rapidità, e mi scorrono ancora davanti agli occhi dell'anima
le immagini di quegli uomini rudi, aureolati di un fuoco argenteo, che parlavano ai loro
gruppetti di guerrieri e di servitori di un grande Maestro di Giustizia, vissuto al di là dei
mari, raccontando la vita di colui che aveva albergato Kristos provando dunque che tutti
erano atti a riceverlo a loro volta... Ι sacerdoti che conoscevano il cammino dei cicli ben
presto si associarono al loro movimento, e vidi formarsi delle assemblee sulle piazze dei
villaggi, nei mercati. Si parlò di abbandonare le catene, di indipendenza e dell'unione di
tutti gli esseri.
Ma per Roma gli esseri erano solo corpi, volontà da spezzare! Le riunioni pubbliche furono
viste come una minaccia, e ancora una volta rividi le stesse immagini di bancarelle
rovesciate, di folle disperse, con la legione romana armata di lancia che imponeva la sua
legge diffidando di tutti...
Venne infine il giorno in cui avrei dovuto girare una delle grandi pagine del mio libro. Dovevo
parlare ad una folla eterogenea, sul mercato di un piccolo villaggio della costa. Quella gente
mi conosceva perché mi avevano visto tante volte insieme ai loro signori, e ancora le
immagini di quei momenti mi riempiono di emozione, di una strana sensazione. Mi avevano
fatto posto su un tavolo di legno e uomini e donne cominciavano a riunirsi rumorosamente
sotto un sole pallido, ma prima ancora che potessi aprir bocca, un gruppo d'uomini armati
fece irruzione all'angolo della strada... Erano legionari romani, e avanzavano a passo di
carica con la lancia appoggiata al fianco destro, sollevando nuvole di polvere. La loro rapida
e silenziosa avanzata sul suolo sabbioso scatenò il panico, e i presenti furono dispersi senza
troppi complimenti in un batter d'occhio. Rivedo ancora le ceste rovesciate, le giare in
frantumi, le bancarelle con il loro carico di pesci calpestato o abbandonato. Non so perché
restai lì senza reagire... era forse il ricordo del Maestro a Magdala? Non avevo paura,
nemmeno un po' di timore. Semplicemente ero fiducioso o forse avevo una certa
prescienza!
Mi trovai con venti lance puntate al petto in attesa che qualcuno desse un ordine, poi un
centurione venne a dire poche brevi frasi con voce calma, mi legarono i polsi e mi portarono
fuori dal villaggio. Non sapevo dove mi stessero conducendo, nessuno mi aveva chiesto
niente e neppure rivolto la parola. Camminavo dunque in silenzio, con le catene strettamente
legate al collo di un cavallo. Percorremmo qualche miglio nella campagna piatta e paludosa,
mentre in lontananza emergeva dalla calda bruma la linea delle basse montagne azzurrine:
le contemplai pensando a una capanna, forse ancora spazzata dal vento...
Ad un tratto la mia scorta si fermò vicino ad un gruppo d'alberi esili, dai tronchi nodosi,
sulla nostra sinistra. Fui rudemente spinto da due legionari e una profonda sensazione di
freddo si impadronì di me, senza alcuna ragione. Non ebbi neppure il tempo di chiedermi
cosa stesse accadendo e mi girai d'un tratto verso i soldati. Allora vidi qualcosa come un
braccio lanciarmisi contro, e un lampo lacerante... sentii come un rumore sordo, un colpo in
mezzo al petto. Poi più niente... più niente per un attimo; fuggevole sensazione di vertigine...
Scaturì un'immagine immersa in uno strano chiarore, e mi riconobbi infine disteso sotto ad
un albero, con una pesante e corta lancia piantata nel torace. Non vi fu né terrore né
dolore, e tutto si cancellò.
Lentamente l'immagine del mio corpo senza vita venne soffiata via da una brezza bianca, e
dissolta in quel dolce alito; mi abbandonai ad una forma di torpore, preso dalla freschezza
di una miriade di lingue di fuoco turbinanti.
Rividi ancora il mio corpo come tra i due lembi di una tenda scostata: i soldati lo avevano
spostato e lo stavano rapidamente ricoprendo di rami e pietre.
Fu una breve visione, poi mi sentii aspirare verso una forza, verso un'energia che non
riuscivo a localizzare. Come descrivere ciò che avvenne allora? Come non trovare ridicole le
parole di fronte a ciò che ho vissuto?
Vidi un mondo bianco, più bianco ancora di tutte le nevi dei nostri sogni, vidi il suo biancore
prender vita ed emanare tutti i colori dell'arcobaleno, vidi montagne e foreste, alberi e
calici multicolori, e mari e rive di diamante, vidi la Pace, la Pace che non era quella degli
uomini.
Fu così che i giardini d'Iesse mi aprirono le porte. Mi svegliavo e le immagini della mia vita
sulla terra si precipitavano in me con tutta la forza dell'amore che avevo ricercato. Erano
le case del mio villaggio, le rive di Cafarnao, gli occhi del Maestro, il sorriso di Myriam, i
miei errori, le mie gioie...
Guardai la goccia d'acqua che avevamo tentato di aggiungere al grande Oceano che tutti i
cuori cercano. Pensavo ... poi sentii sotto i piedi un'erba rugiadosa: la terra delle anime!
Allora una voce cristallina mi colmò, più gaia di tutte quelle che avevo conosciuto.
Non so oggi da dove venisse esattamente, e cosa mi abbia a lungo istillato, ma so che non
era di nessuno. La forza che l'abitava apparteneva al Tanto Desiderato, era quella che non
scrive mai la parola fine da nessuna parte. Aveva un nome, uno solo, simile a mille soli:
AMORE.
Il Maestro Gesù continuò ad insegnare in segreto al Krmel fino a tarda età, quando giunse !
a sua ora, lasciò il corpo di sua propria volontà e i suoi discepoli videro !a sua forma di luce
risplendente e di una densità tale da parere un corpo fisico elevarsi lentamente al di sopra
del Krmel.
Invece il suo corpo di carne, in perfetto stato di incorruttibilità, restò nel monastero per
molti secoli ancora, e poi venne trasportato con l'aiuto dei Fratelli delle stelle... più a Est.
F i n e
* Festa del 12° mese dell'anno; si commemora Ester che liberò i Giudei.