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DIVORARE GLI DEI
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‘ Bruno Mondadori
Jan Kott

Divorare gli dei


Un’interpretazione della tragedia greca

@ Bruno Mondadori
Titolo originale:
The Eating of Gods

© Lidia Teresa Berger, Michael Hugo Kott

Traduzione dall’inglese di Ettore Capriolo

L’editore, esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti


di riproduzione, resta a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire.

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© 2005, Paravia Bruno Mondadori Editori

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Le riproduzioni ad uso differente da quello personale,
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non superiore al 15 % del presente volume,
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Progetto grafico: Massa & Marti, Milano

La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.

www.brunomondadori.com
Indice

Prefazione
Introduzione
\

17 L’'asse verticale o le ambiguità di Prometeo


59 Aliace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
100 Alcesti velata
134 “Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
218 Divorare dio, o Le baccanti

Appendici
273 Medea a Pescara
279 Oreste, Elettra, Amleto
306 Luciano in Cimbelino
Prefazione

Ho cominciato a scrivere questo libro a Varsavia nel 1966;


l’ho continuato a Yale e a Berkeley. e l'ho terminato a Stony
Brook. Ne ho discusso durante i seminari e devo molto agli
stimoli e alle critiche dei miei allievi. Ancor maggiore è il de-
bito che ho contratto con colleghi e amici che non mi hanno
mai risparmiato commenti severi o incoraggiamenti calorosi. Il
compianto Irving Ribner, un caro e intimo amico, ha sempre
messo a mia disposizione la sua infallibile erudizione. La sua
perdita è per me irreparabile. Ho trascorso un gran numero di
mattine e di serate con Ruby Cohn e Rose Zimbardo a parlare.
dei capitoli scritti e non scritti di questo libro. Kenneth Ca-
vander e Leif Sjòberg hanno rivisto il manoscritto, e io devo
loro gratitudine per avermi aiutato a evitare numerosi errori
nella mia lettura dei testi greci. Ma voglio soprattutto esprime-
re la mia gratitudine a Bernard M.W. Knox che ha rivisto gran
parte del libro, mi ha fatto eliminare sviste ed errori e mi ha
dato consigli e suggerimenti di inestimabile utilità.
Sin dal progetto iniziale del libro, Anne Freedgood se n’è ac-
cupata con calore e sollecitudine e ha atteso pazientemente
che venisse completato; è grazie alle sue fatiche editoriali che
Divorare gli dei ha raggiunto questa forma definitiva.
Il primo e più fedele lettore del libro, dal primo all’ultimo ca-
pitolo, è stato mio genero, Karol Berger; ho trovato in lui un
amico che mi ha aiutato a formulare le mie idee e a renderle
più chiare e precise.
Voglio anche esprimere la mia gratitudine al Council e al
Committee della Research Foundation della State University
di New York per l’aiuto concesso, che mi ha permesso di scri-
vere una parte del libro nell’estate del 1970.
Ho scritto questo libro in polacco, ma è difficile dire quando
e dove uscirà nella mia lingua. La versione inglese è la prima
edizione autorizzata.

Stony Brook, giugno 1972


Jan Kott

* La prima edizione in lingua polacca: Zjadanie bogéw. Szkice o tra-


gedii greckiej, WL, Krakéw 1986.

2
Introduzione

“Il campo ospita duecentocinquantamila dei milioni di profu-


ghi in file è file di tende...” Il “New York Times” pubblicò il
29 dicembre 1971 un articolo del suo inviato speciale a Ran-
gpur, nel Pakistan orientale (l’attuale Bangladesh), su un cam-
po per i profughi che, terminate le ostilità, erano tornati nei
loro luoghi natii. “Il signor Jodder”, scriveva il giornalista, “è
andato a casa della zia materna, una vedova tornata dopo aver
perso due figlie e un figlio per il colera. ’Siete venuti, figli
miei, per spartire la miseria? ‘ ha domandato lei. ‘Non credo
che Rangpur sarà mai più la stessa. Dicono che le persone che
muoiono prematuramente diventano fantasmi. To credo che il
villaggio sia pieno di fantasmi“”.
La vedova bengalese, che aveva perso tre figli, sembra aver for-
mulato, in quel campo profughi, il principio generale della tra-
gedia. Nel mondo tragico i morti ritornano. L’eroe tragico è
solo tra la gente, forse perché vive, come Antigone, nel mon-
do dei morti. Nel mondo di quelli che sono stati assassinati o
che lui stesso ha assassinato. 1 morti chiedono per prima cosa
di essere seppelliti, ma poi chiedono anche riparazione. L’ap-
parizione dello spettro di Banco al banchetto è la più sconvol-
gente esperienza di Macbeth. Soltanto allora capisce, per la
prima volta, che ammazzare non basta. I morti ritornano.
Soltanto tre fantasmi compaiono nella tragedia greca: Cliten-
nestra, ‘“la madre serpe”, cerca invano nelle Eumenidi di sve-
‘gliare le Furie addormentate; Dario nei Persiani torna per ap-
prendere la disfatta subita dal figlio e se ne va predicendo al-
tre catastrofi; Polidoro, assassinato e incompianto, chiede
nell’Ecuba di Euripide di essere sepolto dalla madre e predice
Divorare gli dei

la morte degli ultimi figli di Priamo. Spettri e cadaveri invoca-


no vendetta. L’altare al centro dell’orchestra, spesso trasforma-
to in tomba, o i cadaveri degli uccisi, stesi al proscenio, svol-
gono nelle tragedie greche la stessa funzione dei fantasmi. La
tomba di Agamennone è in scena nelle Coefore e, come lo
spettro del padre di Amleto, chiede che la sua morte sita ven-
dicata. L’enorme cadavere di Aiace, dalle cui narici sgorga an-
cora sangue, continua a minacciare i vivi nella seconda parte
della tragedia di Sofoctle.
Il ritorno dei morti e le loro caparbie richieste sono la forma
più evidente del destino nella tragedia greca come in quella
elisabettiana. Sino alla fine si rifiutano di morire; i vivi sono
ancora il loro supremo nutrimento. Le generazioni successive
devono soddisfare le richieste dei morti, dare un significato al-
la loro sconfitta, ristabilire la giustizia nel mondo. Ma questa
mediazione attraverso il tempoe la storia può finire solo in
tragedia, con nuovi cadaveri a riempire la scena. I morti man-
giano i vivi.

Un viaggiatore che arrivi a Troia da Pergamo all’inizio vede


soltanto il mare. Solo più tardi scopre i primi blocchi di pietra
sbozzata in un avvallamento coperto di vinchi tra due collinet-
te. E° possibile percorrere a piedi le rovine di Troia, da un
capo all’altro, in mezz’ora. Non c’è molto da vedere: fram-
menti di mura, fondamenta di case che assomigliano a una
scacchiera in pietra di straordinaria bellezza, fusti di colonne
cadute e un piccolo anfiteatro con non più di dieci file di se-
dili di pietra, dove i soli spettatori sono tre ulivi cresciuti tra i
massi. Anche con una carta, bisogna avere l’immaginazione e
l’esperienza di un archeologo per trovare i siti delle sette porte
e del palazzo di Priamo.
La poesia romana e rinascimentale ci ha lasciato due tipi di
riflessione sulla distruzione di Troia. Îl primo, limitato a un
verso, sembra la più concisa sintesi dell’Eneide: “Troia cadde
Introduzione

perché Roma potesse nascere”. La formula racchiude una fede


imperturbata nella funzione della storia: la storia come media-
zione.e come riparazione sufficiente per coloro che sono stati
uccisi. Nel secondo tipo di riflessione, comune da Orazio ai
poeti barocchi, Troia — cancellata dalla superficie della terra
— è un esempio della vanità di tutte le cose. Îl tempo non è
più storia, ma un immenso paio di mascelle che tutto divora.
Il secondo tipo di riflessione sembra più vicino alla nostra e-
spertenza. Ma non è ancora il più crudele. Un viaggiatore mo-
derno che visiti gli scavi di Troia scopre che di Troie ce ne
sono state sette, forse anche nove, sovrapposte l’una sull’altra.
Le migliata di pietre sbozzate estratte da un bacino che ha il
raggio di un miglio appartenevano a sette o nove città che non
esistono. più. Di queste sei o otto Troie, anteriori e posteriori
a quella di Omero, non sono stati tramandati neanche i nomi:
né del figlio del re, il cui corpo venne legato al carro e trasci-
nato sul campo di battaglia, né dell’eroe che lo aveva ucciso e
lo aveva fatto cosi trascinare, né del vecchio re che, andato a
riscattare il'corpo del figlio, mangiò e bevve con il suo ucciso-
re perché prima era troppo affranto per mangiare o per bere,
e poi, rassicurato, si sdraiò a dormire in un angolo della tenda,
mentre in un altro angolo una prigioniera dalle guance rosa
attendeva l’eroe su un letto di pelli di pecora.
La terza riflessione, che non ci è stata trasmessa dai poeti ro-
mani o rinascimentali, riguarda appunto queste Troie senza
nome. Un viaggiatore che visiti le rovine resta colpito più dai
papaveri che dalle pietre, perché i papaveri vi crescono nume-
rosi, patono -più grandi che altrovee hanno petali di un rosso
talmente scuro da sembrar quasi neri. 1 papaveri sono arsi dal
sole in questa Troia eterna “che brucia cosia lungo” (Il ratto
di Lucrezia, 1468).

La moschea di Omar a Gerusalemme, chiamata anche la Cupo-


la della roccia, è il terzo luogo santo dei musulmani dopo la
Divorare gli dei

Ka’ba della Mecca e la tomba del Profeta a Medina. È’ un va-


sto edificio a forma di ottagono regolare, con muri smaltati a
disegni blu e verdi, ed è coperta da una cupola dorata. Al cen-
tro del suo buio interno, proprio sotto la cupola, c’è una nuda
roccia incrinata che sale a un’altezza di circa un metro e ot-
tanta da sotto il pavimento coperto da un tappeto. E° la cima
del monte Moria. È’ la montagna dove, obbedendo a dio, A-
bramo condusse Isacco per sacrificarlo. E dalla vetta della stes-
sa montagna Maometto ascese al settimo cielo sul suo cavallo
alato. Sulla sua scia sorse una montagna, ma l’arcangelo Ga-
briele, che accompagnava il profeta, la fermò con una mano.
Si può ancora vedere sulla roccia l’impronta di questa mano.
Dalla sommità del monte Moria passa l’asse verticale; l’axis
mundi, sul quale la terra è tenuta sospesa per il suo centro
come un piatto. Una leggenda musulmana dice che ai tempi di
Salomone venne qui calata dal cielo una catena che potevano
afferrare soltanto i giusti. Qui si ergeva, per quasi quattrocen-
to anni, Ùl primo tempio costruito da Salomone e raso al suolo
da Nabucodonosor e dai caldei. Il secondo tempio, che era più
piccolo, venne ricostruito sulla stessa area da re Erode il Gran-
de che lo fece due volte più vasto di quello di Salomone. Fu
qui che il diavolo tentò Cristo, nella galleria di sud-est, chia-
mata galleria dei Re, che si eleva a un’altezza di circa novanta
metri sopra la valle di Kidron: “E lo pose sul culmine del
tempio e gli disse: ’Se sei il figlio di dio, gettati giu ‘’ {Vange-
lo di Matteo, 4, 5). All’alba, un attimo prima che sorga il sole,
la valle di Kidron, e anche il monte degli Olivi, risplendono di
una luce rosa come le rose di Sion. Del secondo tempio, è
ancora in piedi soltanto una parte del muro occidentale forti-
ficato, il muro del Pianto. Per secoli è rimasto quasi completa-
mente coperto da polvere e rifiuti. Lo hanno dissepolto e ri-
pulito soltanto dopo la guerra dei sei giorni. 1 dieci strati infe-
riori sono di pietra, tagliata a grandissimi blocchi prismatici
detti di Erode. La vetta del monte Moria, sotto la cupola do-
Introduzione

rata della moschea di Omar, non dista in linea retta più di


quattrocentocinguanta meîtri da una piccola e piatta altura
verso nord-est che in passaio aveva forse la forma di un cranio
e per questo era stata chiamata Golgota. Era il luogo delle ese-
cuzioni capitali, e fu li che si eressero le tre croci su cui ven-
nero -inchiodati Gesu e i due ladroni. Nella chiesa del Santo
Sepolcro si può vedere la nuda e incrinata roccia del Golgota
come si vede la cima del monte Moria nella moschea di Omar.
Un viaggiatore può facilmente girare Roma in ordine cronolo-
gico: la Roma della repubblica, dell’impero, delle catacombe
cristiane, del rinascimento, del barocco e degli ultimi due se-
coli. L’ordine degli stili segue lo schema storico e il viaggiatore
è portato a credere nella continuità e nella permanenza della
civiltà, nella necessità e nella razionalità del cambiamento —
anche se a volte è forse un po’ troppo drastico — e nella gene-
rale significanza della storia. A Gerusalemme invece tutti i
tempi storici sono fuori del tempo: in questa perfetta sincronia
esiste soltanto un tempo supremo nel quale dio manda suo
figlio alla passione e sottopone i profeti a prove continue. Un
viaggiatore che percorra a piedi la via crucis sente le campane
che richiamano la gente alla messa nella vicina chiesa della
Flagellazione, la nenia monotona che invita dai minareti alla
preghiera di mezzogiorno e, più lontano, il gemito gutturale di
uomini e donne sotto il muro del Pianto. I luoghi più sacri di
tre religioni sono raggruppati, l’uno intorno all’altro, in un
cerchio dal diametro di un chilometro e mezzo, come se dio
non avesse saputo trovare sulla terra altro luogo che la città
vecchia di Gerusalemme. Tombe e reliquie sono state profana-
te e dissacrate da tutta una serie di conquistatori, perché una
serie di profeti potesse distendersi a riposare esattamente nello
stesso punto. E° solo grazie alle successive profanazioni e con-
sacrazioni dei medesimi luoghi che gli archeologi possono sta-
bilire con tanta sicurezza la topografia di avvenimenti svoltisi
duemila anni fa.
Divorare gli dei

Tutti i luoghi santi di Gerusalemme sono fatti della stessa


pietra luminosa. Se Gerusalemme è un luogo particolare della
mediazione divina, sono soltanto le pietre che lo attestano.
Ogni anno, nell’anniversario della fondazione dello stato di Î-
sraele, gli ebrei ortodossi della setta dei naturae krata si co-
spargono il capo di cenere e si strappano i vestiti di dosso. E’
detto nella Cabala che lo stato di Israele risorgerà soltanto con
l’avvento del Messia. 1 naturae krata attendono ancora il Mes-
sia. A Roma al tramonto, sul Pincio e sull’Aventino, la luce è
dorata. A Gerusalemme, sulla collina biblica del “caitivo con-
siglio”’, la luce al tramonto è rossa, i raggi sono divisi e si con-
centrano, come un’aureola, intorno a una testa invisibile.
Tra i protagonisti della tragedia greca, tre sono i figli di dio,
Prometeo, Eracle e Dioniso. Îl Prometeo di Eschilo è un tita-
no nato dalla Terra; Eracle e Dioniso sono figli che Zeus ha
avuto da donne mortali. Sono tuiti e tre, nell’accezione più
consueta, personificazioni e strumenti di mediazione in un
universo scisso tra un sopra e un sotto. Prometeo ha offerto il
fuoco agli uomini e fornito loro una cieca speranza, creando
cosi l’uomo razionale e inculcandogli la dolorosa consapevo-
lezza della scissione. Eracle doveva porre riparo agli errori del-
la prima creazione e liberare la terra dai mostri. Dioniso, fatto
a pezzi che poi miracolosamente si nicomponevano, assicurava
la continuità del ciclo biologico e il germogliare in primavera
dei semi piantati in autunno. Ma nel teatro tragico, in Prome-
teo incatenato, il titano che è arrivato ad amare troppo gli uo-
mini, viene scaraventato in fondo al Tartaro con l’accompa-
gnamento di una celeste orchestra di tuoni e fulmini. Nelle
Trachinie di Sofocle, Eracle, che ha ucciso l’Idra, ne porta per
il mondo il veleno sulle proprie frecce e muore, fra atroci tor-
menti, di questo stesso veleno. Il mediatore, il figlio di dio, è
insieme infettivo e infettato. L’Eracle di Euripide, al suo ritor-
no dall’Ade, uccide la moglie e i figli in un-attacco di follia.
‘ Dopo di che accetta il proprio destino di uomo, rinuncia al
Introduzione

padre divino e sa soltanto una cosa: che deve seppellire i


propri figli. Nelle Baccanti di Euripide, Dioniso arriva a Tebe
per istituirviil proprio culto. Ha assunto forma umana e porta
una maschera dorata sulla quale è impresso un sorriso dolce-
amaro. Lo stesso sconcertante sorriso, chiamato anche ‘‘arcai-
co”, è arrivato sino a noi sulle statue di Apollo del VI secolo
a.C., dell’epoca in cui gli artisti greci imitavano ancora gli egi-
ziani. Dioniso chiede alle donne di lasciare la città, di salire
sulle montagne e, in una danza sacra, di mangiare la sua carne
e bere il suo sangue. Promette in cambio di liberarle dalla pau-
ra e di far loro conoscere un’estasi mistica, l’unità tra dio, na-
tura e uomo. D’ora in avanti gli uomini saranno innocenti co-
me animali. 1 fedeli conosceranno la teodicea. Ma quando,
nell’estasi, una madre ha fatto a pezzi il corpo del figlio, Dio-
niso se ne va con lo stesso sorriso dolce-amaro. Rimane in sce-
na il corpo di Penteo, lentamente ricomposto da vari piccoli
pezzi, capro espiatorio e insieme segno di dio. E’ il solo cada-
vere della tragedia greca che non venga portato via e che resti
insepolto.
Dio, madre, padre e l’unico figlio che sarà sacrificato: è proba-
bilmente uno degli archetipi più ricorrenti della tragedia. Le
riflessioni di Kierkegaard sul sacrificio di Abramo, in ‘Timore e
tremore, sono tra le più sorprendenti che siano mai state scrit-
te sulla tragedia e sulla fede. Abramo, in quanto eroe tragico,
può dire chiaramente a Isacco di aver deciso di ucciderlo per-
ché non dubiti di dio. O può compiere ciecamente il sacrificio
e perdere per sempre la fede.
Abramo per Kierkegaard non è però un eroe tragico, ‘“ma
qualcosa di molto diverso, un assassino o un credente”. L’eroe
tragico rinuncia alla propria volontà per svolgere il suo compi-
to. Per il cavaliere della fede, volontà e dovere coincidono, ma
gli si chiede di rinunciare a entrambi. L’Abramo di Kierke-
gaard, “il padre della fede”, testardo e cieco, impavido e as-
surdo, rinuncia alla ragionee alla certezza e si lascia dietro
Divorare gli dei

tutto ciò che è soltanio etica umana. “Non si può piangere su


Abramo”, scrive Kierkegaard in.'Timore e tremore. “Lo si ac-
costa con un horror religiosus come Israele s’accostò al monte
Sinai’”’. All’ultimo momento dio fermò la mano di Abramo le-
vata con il coltello. Ma se non lo avesse fatto? Nel mondo
tragico Abramo uccide.
Ifigenia fu offerta in sacrificio ad Artemide perché le navi po-
tessero salpare e Troia essere distrutta. Agamennone sacrificò
la figlia e Ifigenia fu uccisa davanti all’altare. In Ifigenia in
Aulide di Euripide, la vittima viene portata via e sull’altare
scorre soltanto il sangue di una cerva. E° la più shakespeariana
delle tragedie antiche: l’uccisione non è sufficiente, ciò che si
richiede è un’uccisione politica accompagnata da un miracolo,
al quale possano credere sia la madre sia l’esercito. Il finale dî
Ifigenia in Aulide è spurio. E° possibile che nel testo perduto
apparisse Artemide in persona, ex machina, per spiegare il vo-
lere divino.

Freud diede i nomi degli eroi della tragedia greca ai desideri


repressi dalla coscienza, a quelli che non si possono rivelare.
Jung scopri nell’inconscio collettivo gli archetipi divini, ani-
mus e anima. Euripide diede i nomi degli dèi all’eros deprava-
to, alle passioni contraddittorie che dilaniano i cuori umani e
alle trappole crudeli del fato. Questi dèL calano in una macchi-
na scenica e tfentano di spiegare l’inesplicabile. Euripide non
era un razionalista: la macchina con i suoi dèi.assurdi era per
lui... il nostro destino, il mondo nel quale viviamo.
Ho sperato a lungo di scoprire la più piccola unità strutturale
dell’opposizione tragica: il tragema, modellato, come il mite-
ma di Lévi-Strauss, sul fonema e sul morfema della linguistica.
Questo atomo del tragico sembra essere l’uccisione della ma-
dre per vendicare il padre assassinato, la sepoltura di un fratel
lo al prezzo della propria morte, un delitto involontario “im-
posto dal fato”, del quale ci si deve assumere la piena respon-

10
iIniroduzione

sabilità. To cercavo la linea di demarcazione, le situazioni-mo-


dello che si ripetono nel mondo della tragedia. Jaspers le defi-
niva lotta, rimorso, sofferenza e morte. Ma sembra che queste
situazioni siano assai più concrete: una madre uccide i suoi
figli, un figlio uccide sua madre, un padre uccide suo figlio,
una moglie uccide suo marito, un fratello uccide suo fratello,
un figlio va a letto con sua madre. Il re è il padre e l’unto del
Signore; il regicidio è insieme parricidio e deicidio. Sono delit-
ti che gridano vendetta al cielo. Ma nel mondo tragico è il
cielo che li ordisce o semplicemente li impone.
Non è tragico Abramo che uccide Isacco, ma Abramo che sa-
crifica Isacco per ordine di dio. Agamennone deve percorrere
il tappeto rosso prima di essere assassinato. Îl rigore tragico
non è che omicidio trasformato in rituale. Argo, Tebe e Troia
sono, come Gerusalemme, il laboratorio della giustizia divina.
‘“Spada di giustizia per altre vendette ancora, su altre coti, la
Moira affila” (Agamennone, 1535). Piùu tragica di Antigone è
Tebe punita dalla maledizione degli dèi. I cadaveri dei due }fi-
gli di Edipo, morti in una contesa fratricida, giacciono alle
porte della città. E’ nel terribile silenzio del popolo che Anti-
gone percorre le strade cittadine diretta al “sepolcro di roc-
cia”” dove s’impiccherà con la sua cintura. La moglie di Creon-
te si uccide con una spada. Creonte stesso porta in scena il
cadavere di suo figlio che si è ammazzato accanto al corpo di
Antigone. Non è tragico Edipo che ha ucciso suo padre ed è
andato a letto con sua madre. E° tragico il mondo nel quale
gli déèi hanno disposto che un padre venga ucciso dal proprio
figlio, il quale andrà poi a letto con sua madre. La storia di
Edipo è tragica dal principio alla fine: Edipo che risolve l’enig-
ma della Sfinge ed Edipo che si scopre parricida e figlio ince-
stuoso. E° tragica la conoscenza della condizione umana. È il
più tragico di tutti è Edipo, il vecchio tormentato, scacciato
dalle dimore umane come un cane rabbioso, che s’avvicina len-
tamente alla tomba, la quale diverrà per Atene un luogo sacro.

11
Divorare gli dei

L’eroe tragico è un capro espiatorio. E il capro espiatorio è un


segno, un simbolo e una figura di mediazione. L’opposizione
tragica è tra la sofferenza che non giustifica nulla e il mito
che giustifica tutto. In questa teofania mitica avviene una tra-
sformazione del dio crudele nel dio giusto e del tempo che
tutto divora nella storia che raggiunge i propri scopi. Nell’an-
tropologia tragica continuano a cambiare soltanto i nomi dei
capri espiatori: il mito della mediazione rimane identico. La
strada dall’esilio dal paradiso al nuovo paradiso, che è stato
promesso, è cosparsa di cadaveri. La tragedia è l’esibizione
spettacolare di questi cadaveri.
Non esiste tragedia senza mito, ma la tragedia ne è anche,
contemporaneamente, la distruzione. E° un appello alla media-
zione, e insieme una dimostrazione dell’impossibilità della me-
diazione. E’ questo il momento di lucidità dell’eroe tragico.
Atiace si getta sulla spada in pieno sole, a mezzogiorno. Filot-
tete si identifica con la propria ferita, che non si rimarginerà
mai e continua a secernere pus. Edipo s’accieca per rendere
visibile il proprio destino.
L’Erodione è una montagna simile a un grande cono dal. quale
sia stata rescissa la cima. Ciò venne fatto per ordine. di Erode
il grande che fece poi scavare la montagna per trasformarla in
fortezza. Un viaggiatore che ritorni dall’Erodione a Gerusalem-
me per la strada di Betlemme passa davanti a un villaggio be-
duino. Il governo israeliano è riuscito, dopo molti sforzi, a in-
sediare un gruppo di nomadi ai margini del deserto. Le case
sono pulite e spaziose, con tende multicolori alle finestre, e su
quasi tutii i tetti si vede un’antenna televisiva. Ma davanti a
ogni casa, nel giardinetto sabbioso, sotto una palma, un fico o
un arancio, è piantata una tenda di pelle di pecora biancae
nera. La tenda è li per ogni eventualità. Davanti a una di
queste tende c’erano dei bambini. Un ragazzetto dalla pelle
scura — non poteva avere più di otto anni — dormiva per la
prima volta in vita sua in una casa di pietra. “Non sono riusci-

12
Introduzione

to ad addormentarmi”, disse. “Come si può dormire in una


casa dove le pareti non si muovono?”
Il piccolo beduino aveva scoperto uno degli opposti del mon-
do tragico. Noi dormiamo in case dove le pareti si muovono.

Stony Brook, novembre 1973 Jan Kott

13
A Jerzy Stempowski
in memoriam
L’asse verticale
o le ambiguità di Prometeo

Gli dèi sono sopra, gli uomini sotto. Nella sua trilogia, Eschilo
colloca il supplizio di Prometeo su uno dei tetti del mondo,
una cima solitarìa e deserta sulle montagne del Caucaso. Pro-
meteo venne incatenato a una roccia e poi gettato nel fondo
del Tartaro, l’abisso sotto l’Ade. La caduta di Prometeo fu fi-
sica e spettacolare, tra rombi di tuono e bagliori di fulmini! .
Le rappresentazioni cominciavano alle prime luci dell’alba e gli
spettatori dovevano ancora rabbrividire dal freddo sui loro se-
dili quando, nel primo episodio, il dio Efesto annunciava che
per diecimila anni Prometeo avrebbe dovuto aspettare che il
sole del mattino sciogliesse il gelo sul suo corpo.
Al dramma di Eschilo partecipa l’intero cosmo: gli déi, gli uo-
mini e gli elementi. Questo cosmo ha una struttura verticale:
sopra, la sede degli dèi e del potere; sotto, il luogo dell’esilio e
del castigo. In mezzo il cerchio piatto della terra e il cerchio
piatto dell’orchestra, intorno al quale si snoda l’azione. Questa
struttura verticale del mondo, con le sue funzioni ben defini-
te, i suoi simboli, il suo destino, con il sopra e il sotto è uno
degli archetipi più universali e perenni. “L’inferno, il centro
della terra e la ’porta‘ del cielo si trovano quindi sul medesi-
mo asse e per mezzo di quest’asse si effettuava il passaggio da
una regione cosmica a un’altra”, scrive Eliade in Il mito dell’
eterno ritorno?.
Il Genesi si apre con la divisione tra il sopra e il sotto: “Nel
principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi, 1, 1). @ dio
dell’Antico Testamento parla ai profeti dall’alto e quando de-

17
Divorare gli dei

ve chieder loro un sacrificio o comunicare la sua volontà pre-


ferisce convocarli in cima a un monte. “Dopo queste cose Dio
mise alla prova Abramo e gli disse: ’Abramo! ‘ Ed egli disse:
’Eccomi! ‘’ (Genesi, 22, 1). 1 dieci comandamenti vengono
dati da dio a Mosè sulla cima di una montagna: “E il Signore
scese sul monte Sinai, in cima alla montagna; e il Signore
chiamò Mosè in cima alla montagna, e Mosè vi sali” (Esodo,
19, 20).
Il pilastro cosmico, l’axis mundi, compare con particolare
chiarezza nel sogno di Giacobbe:
Ed egli sognò che c’era una scala rizzata in terra la cui cima
arrivava al cielo; ed ecco che gli angeli di Dio salivano e scen-
devano su di essa. Ed ecco il Signore stava al disopra di essa.
Ed egli disse: “Io sono il Signore...”
' (Genesi, 28, 12-13)
] successivi ca;iitoli del dramma cosmico, nella tradizione giu-
daico-cristiana, si svolgono sull’asse verticale del mondo: dalla
creazione dell’uomo e dal precipitare degli angeli ribelli nell
abisso sino all’ascensione di Cristo e all’assunzione della Vergi-
ne®. Su questo stesso axis mundi si svolgerà anche il capitolo
finale che comprenderà la resurrezione dei morti e il giudizio
universale.
Anche nelle cosmogonie greche, all’inizio il caos primigenio
era diviso in un sopra e in un sotto. Nel mito pelasgico, la
Grande Madre di tutte le cose divideva i cieli dalle acque e si
librava nuda sopra i mari come lo Spirito di Dio nel Genesi.
Nella Teogonia diì Esiodo, la Madre Terra è la prima a emerge-
re dal Caos e nel sonno partorisce iîl Cielo:
Terra, da parte sua, generò dapprima un essere uguale a se
stessa. Cielo stellato, che la coprisse tutta quanta e fosse agli
dèi felici sicura dimora per sempre”.
L’Olimpo e il Tartaro, l’asse verticale di tutti i miti, premio,
punizione e mediazione, esistevano sin dall’inizio del mondo”.
Zeus, nell’Iiade, ammonisce gli dèi che, se gli disubbidiranno,

18
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

verranno gettati ‘“tanto al disotto dell’Ade quanto la terra di-


sta dal cielo” (VIII, 16)5. Di conseguenza l’axis mundi è divi-
so in tre settori uguali e la distanza dalla terra al fondo dell’
inferno è due volte superiore a quella tra la terra e il cielo.
Lo stesso topocosmo, termine introdotto da Theodore H. Ga-
ster in Thespis e usato da Northrop Frye per la sua analisi
delle strutture spaziali archetipe in poesia”, è presente nel fi-
nale della Repubblica, nell’Eneide, nella Divina commedia e
nel Paradiso perduto. Ma compare nella sua forma più pura in
pittura. Dal tardo medioevo alla fine del periodo barocco, dio
viene invariabilmente collocato nella parte alta del quadro.
Sotto ci sono la sacra famiglia e i cori discendenti dei serafini
e degli arcangeli. Nella parte centrale gli angeli aprono le tom-
bhe e aiutano coloro che sì sono salvati a salire. I diavoli spin-
gono in basso i dannati e l’ultimo dei nove cerchi dell’inferno
è sempre in fondo al quadro. _
La contrapposizione tra “sopra” e “sotto” è. passata dalla co-
smologia e dalla metafisica® al linguaggio della sociologia e
della retorica politica (classe superiore, media, inferiore), non-
ché della psicologia e della psicoanalisi (superego, ego e id).
La caduta ha due significati, uno letterale e uno simbolico.
Sono entrambi presenti nel resoconto biblico della caduta de-
gli angeli superbi nonché nella Caduta di Camus. L’archetipo
permane, ma i valori del segno (positivi quelli che appartengo-
no al “sopra”; negativi quellì che appartengono al “sotto”)
possono essere capovolti. Freud mise in epigrafe alla sua Inter-
pretazione dei sogni questi versi di Virgilio: “Flectere si ne-
queo superos, Acheronta movebo”. La lotta del sotto contro
il sopra è un’immagine di rivolta.
Marx vide nella Comune di Parigi ‘“un assalto ai cieli”. La
giustizia rivoluzionaria utilizza spesso l’immagine spaziale del
“livellamento” e non fu per caso che i puritani di Cromwell,
educati dalla Bibbia, che volevano imporre rapidamente e to-
talmente la giustizia, si chiamarono ‘“livellatori”’.

19
Divorare gli dei

Prometeo viene crocifisso dagli emissari degli dèi, venuti da


sopra a punirlo del suo eccessivo amore per gli uomini che
stanno sotto. Zeus non si vede, ma è a lui che Prometeo rivol-
ge i suoi rimproveri e le sue minacce, a lui e agli uomini che
costituiscono il pubblico. Dio e l’uomo partecipano entrambi
al dramma. Prometeo è l’accusato, ma l’accusato si trasforma
in accusatore, mentre nell’Edipo di Sofocle è l’accusatore che
diventa l’accusato. Sopra, si svolge un dramma politico e cam-
biano ì sovrani. Sotto, gli uomini sono emersi dalla loro condîì-
zione animale primigenia. Gli uomini cambiano, ma anche le
forze della natura e gli dèi. Col tempo il cosmo intero si muo-
ve, ma conserva sempre la sua struttura verticale con l’Olimpo,
il Tartaro e in mezzo il cerchio piatto (simile all’orchestra)
della terra. Col. tempo, un topocosmo si muove, ma è un tem-
po che scorre a velocità differenti per gli dèi e per gli uomini.
GH dèi sono immortali, gli uomini mortali, brotoi che muoio-
no solo una volta. Gli emissari degli dèi li chiamano sprezzan-
temente “‘“efemeri”: per un efemero, una libellula, un giorno è
tutto il tempo.

Prometeo afferma due volte che i suoi tormenti dureranno


diecimila anni. Il tempo reale della rappresentazione, dall’inca-
tenamento di Prometeo alle rocce del Caucaso al momento in
cui viene scaraventato nell’abisso, non era probabilmente supe-
riore a un’ora. Îl presente — diecimila anni per Prometeo, un’
ora per gli spettatori — sta tra il passato e il futuro. A livello
degli dèi, il passato cominciò con la divisione del cosmo in un
sopra e in un sotto; a livello degli uomini è antropologia e
storia della civiltà. Îl presente in Prometeo è il terzo capitolo
della teogonia, l’inizio del regno di Zeus:

20
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

Ho sentito cadere due sovrani.


Il terzo lo vedrò crollare presto
e con più obbrobrio,
(Prometeo, 957-59)?
1 due tiranni precedenti sono Urano e Crono. Crono, che ave-
va castrato suo padre UÙUrano, era stato a sua volta gettato nel
Tartaro dal figlio Zeus. Le teogonie di Esiodo e di Eschilo
non sembrano tanto diverse da una tragedia elisabettiana sui
re. Northrop Frye la chiama ‘“tragedia della caduta del princi-
pe” o “tragedia dell’ordine”. Tre sono gli attori: il re o padre,
l’usurpatore che lo uccide e il vendicatore che svolge la fun-
zione del fato.
Il personaggio-nemesi è in parte un vendicatore e în rparte un
rivendicatore. La sua ossessione prima è quella di uccidere il
personaggio-ribelle, ma ha anche la funzione secondaria di ri-
stabilire qualcosa dell’ordine precedente'°.
Le analogie sono però ingannevoli. Il concetto di ordine primi-
genio e di armonia della natura, le cui immagini medioevali e
rinascimentali erano il firmamento celeste e la musica delle
sfere, non esiste nella teogonia di Eschilo. Qui il crogiolo cam-
bia contemporaneamente ai suoi contenuti. La teogonia è an-
che cosmogonia. I data della natura e i facta della fortuna, per
citare le giustapposizioni di Frye, sono la medesima cosa. Il
cosmo non è ancora a posto, non è pronto; le forze della na-
tura sono progenie dei primi dèi e intervengono nelle loro lot-
te. Nella genealogia divina Prometeo era figlio di Gea e uno
dei Titani. Dalla madre Terra aveva ricevuto il dono di preve-
dere 1l futuro. Nel conflitto tra Zeus e Crono, si era dapprima
schierato con gli dèi della generazione più vecchia. Ma sua
madre gli disse che il tempo in cui si poteva vincere con la
violenza era finito e che il futuro apparteneva a chi imparava
a servirsi della scaltrezza: '
Non di forza e potenza c’è bisogno,
ma il primo per astuzia sarà il re.
(Prometeo, 215-17)

21
Divorare gli det

La teogonia di Eschilo è anche, e contemporaneamen*ìe una


storia, piuttosto amara, del potere. Il cosmo si perfeziona at-
traverso una successione di catastrofi, ma i tiranni continuano
a governare. Cronoè stato troppo stupido per seguire il con-
siglio di Prometeo; Zeus invece ha compreso la “necessità sto-
rica”, ma, appena conquistato il potere, ha regnato con cru-
deltà ancor maggiore. Potere e Forza, gli emissari di Zeus —
l’ironico alto funzionario dei servizi di sicurezza e il poliziotto
taciturno — osservano l’artigiano Efesto che svolge coscienzio-
samente il compito di incatenare Prometeo alla roccia. Del
trono celeste si è impadronito il terzo tiranno.
Se dunque qui non vale lo schema dell’ordine perduto e rista-
bilito, può forse applicarsi lo schema opposto, quella che Frye
chiama la tragedia della società malata. Le parti principali so-
no affidate agli stessi attori, solo che svolgono funzioni diffe-
renti. Îl re padre è il padre tiranno. Padre e tiranno sono le
due più frequenti definizioni di Zeus in Prometeo incatenato.
Non esiste un personaggio-ordine: il capo dello stato è malva-
gio come tutti gli altri, e l’unica azione con la quale siamo
decisamente portati a solidarizzare è quella della vendetta:
vendetta su di lui, di solito. In una società malvagia, crudele,
malata o repressiva, l’eroe rischia di essere schiacciato per il
solo fatto che è un eroe. Nelle tragedie dell’ordine, l’azione
s’accentra su un ribelle la cui fortuna è troppo grande per la
natura. Nelle tragedie di una società malata, il personaggio
centrale è spesso una vittima, e la natura della vittima è trop-
po grande per la sua fortuna.
Il ribelle è anche una vittima: muore per lasciare il posto a un
vendicatore che esegue la volontà del destino. Ma il destino è
beffardo: Frye parla di “nemesi del malgoverno”!!,
Le strutture “pure” della tragedia dell’ordine e di quella della
corruzione sono essenzialmente identiche. L’impiego di uno
schema o dell’altro, persino nel caso di Shakespeare, sembra
dipendere soltanto dall’interpretazione. Per diventare re, biso-

22
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

gna uccidere il re, o almeno i pretendenti al trono. Ma uccide-


re il re o i pretendenti al trono significa farsi poi ueccidere dai
loro figli o dai loro amici. In Re Giovanni, Riccardo II e Ric-
cardo III, il comportamento e il destino dei sovrani legittimi
non sono molto diversi da quelli degli usurpatori. ÎI loro suc-
cessori — Enrico II, Enrico IV e persino Richmond, il futuro
Enrico VII — sono ironici strumenti del “fato”” non meno del
pavido Edoardo II di Marlowe. La ruota della fortuna è azio-
nata dal vento della guerra civile. Se è la natura che fa girare
la giostra dei re, è solo la natura del potere e della forza. A
volte l’impiego del modello della tragedia dell’ordine,o di
quella dell’anarchia, dipende dalla scelta del momento iniziale.
Amleto è una tragedia dell’ordine, se riteniamo che l’avvelena-
mento di re Amleto da parte di Claudio sia il primo anello
della catena degli eventi. Il vecchio Amleto sarà allora il buon
re e il buon padre, Claudio l’usurpatore, il principe Amleto lo
strumento del destino. Se vediamo invece il primo anello della
catena nel duello tra il vecchio Amleto e il vecchio Fortebrac-
cio, l’ordine originario non è mai esistito. Claudio diviene allo-
ra il signore “del malgoverno”, Amleto il ribelle-vittima, il gio-
vane Fortebraccio il personaggio-nemesi. Per Ofelia e Laerte,
Amleto è l’assassino del loro padre; per Fortebraccio il figlio
di chi ha ucciso il suo. Di Fortebraccio non sappiamo quasi
nulla. Nemesi cammina sui cadaveri, è ambigua e beffarda.
Zeus è un tiranno, Prometeo un ribelle-vittima, mentre la figu-
ra del destino è il figlio, non ancora nato, di Zeus. Viene pre-
detto il futuro, ma si fanno due previsioni contraddittorie.
Non si parla di un unico figlio di Zeus non ancora nato, ma di
due. Il primo è la Nemesi dell’ordine ristabilito, il secondo la
Nemesi della vendetta. Nel prologo, Efesto dice a Prometeo:
“ ...e ti consumerà la pena onnipresente. Chi ti darà pace non
è nato” (25-27). Il figlio-liberatore fistabilirf_1 l’alleanza, ora
spezzata, tra Zeus e Prometeo; la sua venuta porrà fine all’era
del terrore. Il tiranno ridiventerà padre.

23
Divorare gli dei

[...] verrà incontro


ansioso. alla mia ansia,
vorrà con me legarsi d’amicizia.
(Prometeo, 193-95)
La prima predizione annuncia la soluzione del conflitto; l’altra
Ja ripetizione di un ciclo iniziato con il rovesciamento di Ura-
no da parte del figlio Crono. Unendosi a una donna, Zeus ge-
nererà un ‘“figlio più forte del padre”. La ruota del potere ri-
prenderà a girare. Zeus sarà gettato nel Tartaro dal proprio
figlio, come già suo padre e 1il padre di suo padre. Il tiranno
imparerà a conoscere la differenza tra potere e schiavità.
Corifea — Certo lo speri, e perciò ingiuri Zeus.
Prometeo — Questo sarà, se anche è grato dirlo.
Corifea — Uno verrà, signore sopra ZeusP?
Prometeo — Che avrà pene più gravi anche di queste.
' (Prometeo, 928-31)
Rimane però irrisolto il futuro del cosmo. L’azione drammati-
ca consiste nel rifiuto di Prometeo di rivelare a Zeus il nome
della donna che gli darà il figlio-vendicatore. La cosmogonia di
Eschilo è intensamente drammatica, come teatro e come filo-
sofia. Zeus è onnipotente, ma Prometeo conosce il futuro. Di-
pende dal prigioniero il futuro del tiranno. Questa opposizione
mette in azione il cosmo. La forza è limitata dalla mancanza
di conoscenza, la conoscenza dalla forza'? .
Chi è libero? Solo chi non ha nessun altro sopra di sé, dice
Potere, l’alto funzionario di polizia che assiste alla tortura di
Prometeo: “Tutto fu consumato, tranne il regno sugli dèi. E
soltanto Zeus è libero” (49 sgg.). Ma Zeus non ha potere sul
futuro. La necessità è più forte del più forte. “Bisogna che
sopporti la mia sorte, pazienti, riconosca che la forza del fato
non si vince” (101-3). La necessità è più forte sìa di colui che
reprime la ribellione sia di chi si ribella. “L’arte è troppo più
debole del fato” (3513), confessa Prometeo con amarezza. Te-
chne: vale sia arte sia tecnica, attività pratica, impronta della

24
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

mente sulla materia e quindi sul cambiamento del mondo. La


necessità è più forte dell’uomo che cambia il mondo come di
quello che sìi oppone al cambiamento, più forte di chi cambia
e della materia cambiata. Cos’è, allora, la necessità eschilea?
Corifea — E chi regge il timone del destino?
Prometeo — Le Motre triplici, le Erinni memori.
Corifea — Dunque Zeus è più debole di loro?
Prometeo — Non potrà mai sfuggire al fato, mai.
(Prometeo, 515-18)
Le tre Moire e le Erinni sembrano essere qualcosa di più che
mere figure mitologiche tradizionali. Nel cosmo eschileo, divi-
so in un sopra e in un sotto, un cosmo in flusso continuo, è
antitetico persino il destino. Le Moire tessono il filo del tem-
po; le Erinni sono la memoria, implacabile e inflessibile. Nel
topocosmo greco, le Moire erano situate al culmine della strut-
tura celeste; le Erinni erano le divinità degli Inferi. Moire ed
Erinni sembrano immagini di due ‘“necessità” differenti. Le
Erinni erano divinità della vendetta, dell’occhio per occhio,
del morte per morte, e quindì si preoccupavano che il ciclo sì
ripetesse. Le bianche Moire sono misure del tempo — moira
significa infatti “porzione”, “fase”. Esse non sono vincolate
né dalla memoria né dal dovere della vendetta. Sono conse-
guentemente libere dall’obbligo di ripetere il passato. “Il tem-
po invecchia, il tempo insegna tutto”, dice Prometeo (981).
Ma sembra che Moire ed Erinni rappresentino, per cosi dire,
due diverse concezioni del tempo: il tempo storico, che è uni-
dimensionale, e quello mitico, che è ciclieo. Nel Prometeo di
Eschilo coesistono entrambi!° ,
In questa cosmogonia realistica è incorporato, diciamo cosî, il
destino. All’interno della struttura, il movimento deriva dalla
scissione del cosmo in un sopra e in un sotto. La necessità
non è al disopra di Zeus e di Prometeo; è piuttosto, come a-
vrebbe detto Hegel, nella loro opposizione. E’ una necessità
paradossale, in quanto uno dei suoi elementi è la consapevo-

25
Divorare gli dei

lezza. La consapevolezza della necessità modifica la necessità.


La scelta della necessità dipende da Prometeo, ed è la sua scel-
ta tragica.
Îl tempo terrestre e il tempo degli dèi sono diversi e scorrono
a velocità differenti. Ma quando un dio siì unisce in un amples-
so a una donna e genera un figlio, i due tempi s’incrociano in
primo piano come su un teleschermo. Il figlio-liberatore dovrà
nascere dall’unione di Zeus con una donna della tredicesima
generazione della progenie di lo. Le tredici generazioni sono
misurate secondo il tempo umano. Ma prima che nasca il fi-
glio, tempo divino e tempo umano torneranno a incrociarsi.
Prometeo racconta a Oceano le crudeli vendette di Zeus suli
Titani sconfitti. Atlante è stato condannato a reggere sulle
spalle il firmamento celeste. Îl gigante Tifeo dalle cento teste,
dalle quali emetteva pietre e fuoco, è stato schiacciato sui
pendii dell’Etna. L’indomito titano tornerà però a ribellarsi e,
in collera con Zeus, erutterà torrenti di lava. I commentatori
hanno in genere affermato che la storia di Tifeo è un’esibizio-
ne superflua di virtuosismò poetico e un’interpolazione mito-
logica. Sembra tuttavia che Eschilo abbia voluto deliberata-
mente mescolare il tempo terrestre a quello degli dèi. La fa-
mosa eruzione dell’Etna era avvenuta nel 479 a.C., un anno
dopo la battaglia di Salamina e meno di venticinque anni pri-
ma che venisse rappresentato Prometeo. Eschilo insomma avvi-
cinava il tempo cosmico al presente degli spettatori.
ll ciclo di Prometeo, come l’Orestea di Eschilo, si conelude
alla soglia della storia ateniese. Nelle Eumenidi, l’ultima parte
dell’Orestea, tutti i conflitti sono risolti: tra dèi del cielo e dèi
degli Inferi, tra patriarcato e matriarcato, tra legge e vendetta,
tra polis e vincoli familiari. L’Orestea sì chiude con la convo-
cazione del tribunale all’Areopago e, tutto sommato, è una
‘“tragedia ottimistica”. Ma nella parte finale delle Eumenidi
non esiste più un dramma umano; la discussione è svolta da
idee vestite in costume. Forse è per questo che la tragedia pia-

26
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

ceva tanto a Hegel. La trilogia prometeica si chiudeva proba-


bilmente con la riconciliazione dei protagonisti e con l’istitu-
zione ad Atene del culto di Prometeo e di Eracle. Ma la prima
e la terza parte della trilogia sono andate perse. Il presente
della tortura di Prometeo è ancora il nostro tempo. l futuro
continua a essere bicorne come la mezzaluna turca. Sopra,
prosegue il tempo del terrore senza limiti; sotto, ancora, “l’ar-
te è troppo più debole del fato”’.

3.

Non esiste paradiso perduto a nessun livello del topocosmo e-


schileo o di qualsiasi altro della stessa epoca. Prometeo era
stato stimolato ad agire dalla pietà per la miseria degli uomini:
lì paragonava a formiche che strisciano nelle fessure della ter-
ra. Zeus, arrivato al potere, non fece niente per gli uomini;
progettò persino di sopprimerli, per sostituirli con una nuova
specie. Fu allora che Prometeo rubò il fuoco agli dèi, portan-
do i tizzoni ardenti in un gambo cavo di finocchio per non
bruciarsi le mani. Nelle isole greche ancora oggi i contadini
portano il fuoco nel midollo di un finocchio gigante. C’è una
cosa che val la pena sottolineare in questa rudimentale antro-
pologia progressista: l’emergere dallo stato naturale comincia
con la sollecitazione del latente pensiero razionale. “Ma udite
la miseria dei mortali, prima indifesi e muti come infanti, e a
cui diedi il pensiero e la coscienza” (442 sgg.). O meglio, in
una traduzione più precisa, “li trasforma in esseri razionali”,
distinguendo ennous (in grado di controllare le proprie fa-
coltà) da eike {con riferimento al caos antecedente alla ci-
viltà). Prima ‘“perduravano un tempo lungo e vago e confuso”,
‘“‘operavano sempre e non sapevano” (447, 453)!*.
La civiltà ha le sue origini nell’analisi delle percezioni, nella
scoperta di un codice auricolare e visivo. All’inizio gli uomini

27
Divorare gli dei

‘“avevano occhi e non vedevano, avevano le orecchie e non


udivano” (4435). Soltanto ora per- la prima volta sono in grado
di prevedere e scoprire il tempo delle stelle: erano infatti “‘i-
gnari di certi segni dell’inverno o della primavera che fioriva ©
dell’estate che portava i frutti [...] Finché indicai come sottil-
mente si conoscono il sorgere e il calare degli astri” (451
sgg.). L’astronomia è la prima consapevolezza del topocosmo
in movimento ciclico.
Ma più sorprendente è la fase successiva dell’educazione dell’
uomo. Prometeo insegnò agli uomini le cifre e le lettere‘5 : “E
inoltre scoprii il numerò, la più rilevante delle invenzioni in-
gegnose, è la combinazione delle lettere, la memoria di tutte
le cose, lo strumento della mente creativa” (Prometeo,
459-61).
Ciò che qui colpisce è la lucidissima consapevolezza della fun-
zione strumentale, operativa, dei numeri e delle lettere'®.
Sophismata sono mezzi e strumenti, trucchi ingegnosi ed espe-
dienti; grammaton syntheseis indica una sorta di teoria delle
combinazioni, l’arte di combinare parole partendo dalle singo-
le lettere. Prometeo inventa dunque il segno simbolico, o in
altri termini distingue il significante dal significato. Il sistema
numerico e l’alfabeto simbolico sono mneme hapanton, me-
moria di tutte le cose, che permette di ripetere il mondo e di
metterlo intellettualmente in ordine. Il discorso di Prometeo
sulle origini della civiltà appare sorprendentemente simile al
Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les
hommes (1776), pubblicato ventidue secoli dopo e definito da
Lévi-Strauss ‘“‘indubbiamente il primo trattato antropologico
della letteratura francese”!7. Per Rousseau come per Eschilo,
il passaggio da natura a cultura, dallo stato animale a quello
umano, è la nascita dell’intelletto. Lo stato della società è ‘“lo
stato del raziocinio”. Nel suo famoso Discours egli scrive:
Questa ripetuta applicazione dei diversi esseri a se stessi e de-
gli uni agli altri, deve aver naturalmente generato nella mente

28
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

dell’uomo la percezione di certi rapporti. Questi rapporti, che


noi esprimiamo con le parole grande e piccolo, forte e debole,
veloce e lento, pauroso e audace e altre idee simili che mettia-
mo a confronto quando è necessario e quasi senza pensarci,
produssero in lui col tempo una sorta di riflessione, o meglio
una prudenza meccanica che gli additava le precauzioni più
necessarie alla sua sicurezza!®. _
Nell’antropologia del Prometeo di Eschilo, l’osservazione degli
astri ha preceduto l’invenzione del sistema dei numeri naturali
e dell’alfabeto. Vengono soltanto in un secondo tempo le ca-
pacità pratiche e gli inizi della storia della cultura materiale:
l’allevamento e l’addestramento delle bestie da soma come i
buoi da giogo, l’attaccare ì cavalli a un carro, il varare navi per
solcare 1l mare. I carri dovevano essere preceduti dall’invenzio-
ne della ruota, la navigazione a vela da uno studio della dire-
zione dei venti; gli elementi dell’astronomia e della geometria
hanno, dunque, necessariamente origini più antiche dei carri e
delle navi.
Nel capitolo successivo della storia della civiltà, la medicina si
sarebbe associata all’arte della divinazione. Il Prometeo di E-
schilo insegna agli uomini a preparare farmaci con ‘benefiche
misture che tengono lontani tutti i morbi” e a predire il futu-
ro scrutando il colore delle viscere degli animali sacrificati.
““Svelai le oscure voci dei presagi, i profetici incontri sui cam-
mini, Distinsi chiaro i voli dei rapaci, quelli fausti e quelli
dell’augurio, il nutrimento di ciascuno, gli odi, il loro amare, il
loro dimorare” (488 sgg.). La divinazione era conoscenza pra-
tica, una sistematica basata sull’esperienza, una sorta di storia
naturale prescientifica. Prometeo (il cui nome significa letteral-
mente “colui che conosce in anticipo”, ‘“preveggenza”) in-
segnò agli uomini a prevedere le cose. La medicina e la divina-
zione erano parte integrante di una stessa arte della preveggen-
za, nel senso, quasi, delle moderne previsiponi meteorologi-
che!? . La storia del progresso è completata dalla scoperta del-

29
Divorare gli dei

la tecnologia dei metalli, della lavorazione del rame, del ferro,


dell’argento e dell’oro: “tutto ciò che gli uomini conoscono,
proviene da Prometeo” (506). Ma all’origine di tutto era il
fuoco, “maestro d’ogni arte” (111)?°.
Una domanda che viene in mente è perché Eschilo, in questa
esposizione antropologica, non abbia accennato al fatto che
Prometeo dovette insegnare agli uomini anche a cucinare. Pri-
ma della scoperta del fuoco, gli uomini conoscevano soltanto
cibi crudi. Dopo la grande mitologia culturale di Lévi-Strauss,
Il crudo e il cotto, non sì può non essere colpiti dalla grande
somiglianza tra il mito di Prometeo e i miti culinari conservati
dal “’pensiero selvaggio”: “D’une certaine manière, les mythes
se pensent entre eux” (nei miti i processi razionali avvenivano
nei loro riflessi su se stessi e nel loro reciproco rapporto), sceri-
ve Lévi-Strauss nella sua “Ouverture”?! , Nei miti sulla prepa-
razione del cibo degli indios del Sud America, particolarmente
in quelli dei gé e dei bororo, il giaguaro è presente come co-
gnato e amico dell’uomo al quale ha portato il fuoco. Anche.
qui, come nel mito prometeico, si collega al fuoco il passaggio
dalla natura alla cultura. Come Prometeo, 1il giaguaro è “colui
che dona le arti della civiltà”. Nella coscienza mitologica, pre-
parare un piatto è un’attività di “mediazione’”’. Nel senso lette-
rale, perché la cottura richiede la mediazione tra acqua e uten-
sile, mentre affumicare il cibo esige la mediazione dell’aria.
Nel senso simbolico, perché preparare piatti è ‘“un’attività di
mediazione tra cielo e terra, vita e morte, natura e società”.
La morte è putrefazione, ma la mediazione del fuoco salva il
cibo dalla putrefazione. 1 miti culinari gé e sherenté del Sud
America sono in realtà miti cosmologici, Questo metamito di-
ce: se il sole si allontanasse troppo dalla terra, il mondo intero
andrebbe in putrefazione; se si avvicinasse troppo brucerebbe.
Il mito culinario del giaguaro donatore del fuoco finisce per
essere un mito sui rapporti tra il sopra e il sotto nel topoco-
smo.

30
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

“Les mythes se pensent entre eux”. È’ possibile che le miste-


riose parole di Prometeo, ‘“cercai la scaturigine segreta del fuo-
co” (109), ricordino un frammento di uno strato perduto del
mito, a recuperare il quale può aiutarci il buon cognato dell’
uomo, cioè il giaguaro sudamericano. Nella Teogonia di Esio-
do c’è un anello del mito prometeico rifiutato da Eschilo. Pro-
meteo viene infatti punito non perché abbia rubato il fuoco
agli dèi per darlo agli uomini, ma per un diverso insulto fatto
a Zeus. Quando venne il momento di offrire un sacrificio, egli
infatti uccise un bue e lo divise in due parti. Poi mise le ossa
insieme e le copri abilmente con uno strato di bianchissimo
grasso. Infine staccò le parti migliori della carne che copri con
la membrana dello stomaco. Invitò poi Zeus a scegliere. E il
signore del cielo sì lasciò trarre in inganno: attratto. dal grasso,
sì prese le ossa. “Da allora agli immortali le generazioni degli
uomini sopra la terra bruciano bianche ossa sugli odorosi alta-
ri” (3556-57). Zeus adirato sottrasse il fuoco agli uomini. “Che
mangino la loro carne cruda! ” grida Zeus nell’ironico Drialo-
ghi degli dèi?°. Forse era giusta l’interpretazione di Luciano
del senso culinario del mito. Se, per punire gli uomini, Zeus lî
costringeva a mangiare carne cruda, significa che prima dove-
vano arrostirla o affumicarla.
Questa parte del mito pareva verosimilmente superflua, o forse
anche incomprensibile, a Eschilo. Ne rimane solo una traccia.
Nel discorso sulla medicina e la divinazione, Prometeo dice an-
che di aver insegnato agli uomini a riconoscere i colori delle
viscere graditi agli dèi e “la forma fausta e varia della bile e
del lobo” (494). Il Prometeo di Eschilo non solo insegna agli
uomini come sì sacrifichi agli dèi, ma introduce i sacrifici ani-
mali. Questa tradizione persiste, con grande evidenza, anche in
versionì suecessive del mito: “Prometheus bovem primus occì-
dii”, scrive Plinio nella Storia naturale (VII, 209). Prometeo,
il primo a uccidere il bue, insegnò agli uomini a mangiare la
carne?® . E quindi anche a prepararla.

31
Divorare gli dei

Come il giaguaro dei miti gé e bororo, Prometeo è dunque


coinvolto in operazioni culinarie. E, ancora come nella mitolo-
gia degli indios sudamericani, si mescolano qui tre elementi: il
dono del fuoco, la mediazione tra uomini e dèi, l’offerta dei
sacrifici e la cottura del cibo. E’ possibile che nella versione
perduta del mito ci fosse anche la contrapposizione tra crudo
e cotto, tra l’arrostire e l’affumicare, che per Lévi-Strauss è
fondamentale. Prometeo bruciò le ossa per sacrificarle agli dèi,
ma cosa fece della carne che diede agli uomini? Îl giaguaro
insegnò agli uomini anche ad affumicare la carne. È quando
poi venne a sua volta bruciato nel fuoco, il fumo servi a dìs-
seccare le foglie di tabacco.
Nelle Opere e i giorni di Esiodo, gli uomini avevano il fuoco
sin dagli inizi, ma Zeus glielo portò via per costringerli a lavo-
rare (42 spgg.). All’inizio era il paradiso. È il paradiso è una
dispensa piena’*. In questo poema realistico sulla vita e sulle
occupazioni dell’agricoltore e dell’allevatore di bestiame, poe-
ma ricco di insegnamenti assennati e pratici che norn lasciano
molto spazio all’immaginazione, c’è la strana immagine di un
remo appeso sopra un focolare fumante. Nell’Odissea agli ospi-
ti si offrono dapprima - una brocca d’acqua e un catino, poi
pane, formaggi di pecora affumicati e piatti pieni di earne, il
tutto portato dalla dispensa. La carne viene affumicata su lun-
ghi bastoni sospesi sopra il focolare. Si direbbe che nelle Ope-
re e i giorni sopravviva anche un altro frammento dell’origina-
rio mito culinario di Prometeo che, come il giaguaro sudameri-
cano, insegnò agli uomini ad affumicare la carne:
Presto avresti potuto appendere il tuo remo nel fumo del ca-
minetto e sarebbe stato abolito il lavoro che fanno i buoi e i
muli pazienti.
(Le opere e i giorni, 45-46)
‘“Les mythes se pensent entre eux”: “Perciò il Signore Iddio
mandò via l’uomo dal giardino dell’Eden per lavorare la terra
dalla quale era stato tolto. Egli cacciò dunque l’uomo; e a

32
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

oriente del giardino dell’Eden pose i cherubini con una spada


fiammeggiante che veniva rivolta in ogni direzione per sorve-
gliare l’accesso all’albero della vita” (Genesi, 3, 23-24). Espel-
lere dal paradiso equivale al portar via il fuoco che impedisce
al cibo di andare a male. Nelle Opere e i giorni, Prometeo por-
ta via il fuoco a Zeus e lo restituisce agli uomini. Ma, come
nella Bibbia, anche in Esiodo il paradiso è già stato perduto, e
per sempre. La versione di Esiodo del mito prometeico sem-
bra, almeno all’apparenza, in contraddizione con quella di E-
schilo. Nelle Opere e i giorni, il fatto che gli sia stato sottratto
il fuoco è all’origine delle fatiche dell’uomo, che da allora col-
tiverà sempre il suolo con il sudore della fronte. In Prometeo
tutte le invenzioni e i progressi della civiltà derivano dal dono
del fuoco. Come osserva Lévi-Strauss, i miti, anche quando so-
no apparentemente in contraddizione, si spiegano e si comple-
tano a vicenda; sono una stessa fondamentale esperienza uma-
na raccontata in maniere diverse e trasmessa a livelli differenti
di coscienza storica. In Esiodo come in Eschilo, il mito del
fuoco, rubato o donato, è collegato alla fine dello stato di na-
tura e all’inizio della cultura. Soltanto a questo punto possia-
mo porci la domanda più importante: che specie di civiltà de-
scrivono 1 miti?
L’antropologia distingue tra civiltà “fredde” e “calde”. Le ci-
viltà “fredde” non hanno storia o0, come scrive Lévi-Strauss,
sono ‘“storia senza storia”. In loro il tempo, che resiste a ogni
mutamento, è ciclico e sì misura con la successione del giorno
e della notte, con le stagioni e con ì movimenti delle stelle. In
Esiodo, come nei miti degli indios sudamericani, la costellazio-
ne delle Pleiadi preannuncia l’arrivo della siccità’* . Le civiltà
‘“calde” sono invece antagonistiche, divise tra governanti e go-
vernati; gli avvenimenti che in esse si verificano sono irreversi-
bili; il tempo è unidirezionale, “ammassa scoperte e invenzioni
per costruire grandi civiltà”°5 , 1 miti agisc@no, per cosi dire,
sull’asse verticale del topocosmo; sono una mediazione ciclica

33
Divorare gli dei

tra il sopra e il sotto, tra il cielo e la terra. Îl topocosmo di


Eschilo ha il suo sopra e il suo sotto, che agiscono però in un
tempo unidirezionale. Îl mito originario del ladro e del dona-
tore del fuoco continua ad agire sull’asse verticale del topoco-
smo, ma svolge contemporaneamente una funzione nuova ed è
immerso nella storia “calda”. Il Prometeo di Eschilo è ancora
un mito, ma è già una tragedia.
“Nella tragedia greca”, scrive Northrop Frye, “funzione degli
dèi è far rispettare quello che abbiamo chiamato il contratto
primario tra uomo e natura. Gli dèi sono per la società umana
ciò che nella società umana stessa è l’aristocrazia guerriera ri-
spetto ai lavoratori”. Gli dèi sono sopra, gli uomini sotto. Ma
contemporaneamente, nel topocosmo di Prometeo, il sopra è
l’ordine del potere, il sotto quello della civiltà. Sopra, i figli
privano i padri del trono e si dànno continuamente il cambio
nuovi tiranni. Sotto, un’invenzione segue all’altra e il progres-
so della civiltà è costante e ininterrotto. È’ un punto di vista
ragionevole e realistico: la techne, lo sviluppo delle capacità
umane, è cumulativa, unidirezionale e in evoluzione. Tuttii
sovrani sono simili e ogni potere contiene in sé il pericolo po-
tenziale della tirannide. Esiste progresso sotto, non sopra.
Nell’antropologia di Eschilo è un aspetto particolarmente inte-
ressante la caratteristica accelerazione (o meglio approssima-
zione) del tempo su entrambi i livelli, sopra e sotto, rispetto
al tempo presente del pubblico che assiste alla tragedia. Il
tempo mitologico diventa insomma tempo storico.
Nella storia della civiltà, come Prometeo la racconta al coro, sì
dà particolare rilievo al calcolo intelligente, nel quale si rico-
nosce in genere l’attributo particolare degli ateniesi. Gnome, la
capacità razionale di distinguere e di scegliere, era considerata
dalla maggior parte dei filosofi greci la qualità che distingue
l’uomo dall’animale. “Operavano sempre senza intelligenza”
(ater gnomes) (456), dice Prometeo delle formiche umane pri-
ma della scoperta del fuoco. E’ possibile che Aristotele pensas-

34
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

se a Prometeo quando propose di definire l’uomo “Ila creatura


che sa contare”*’, Il Prometeo di Eschilo ha l’acutezza e la
perfidia intellettuale dei filosofi della nuova generazione. Non
stupisce che, verso la fine della tragedia, Ermete lo rimproveri
di essere un sofista: “Tu, il primo dei sapienti, tu il più amaro
dei cuori amari, il peccatore” (944-46).
Il “sopra” era ancor più vicino ai greci del presente. Il ricordo
dei tiranni passati doveva essere ancor più vivo che ai tempi di
Furipide e gli ateniesi non cessarono mai di temere un ritorno
della tirannide. Lo stesso Eschilo del resto la conosceva per
esperienza personale, avendo trascorso quindici anni a Siracu-
sa, alla corte del tiranno siculo:
Nuovi signori regnano l’Olimpo,
Zeus domina con nuovi costumi,
oltre ogni legge:
e i prodigi di un tempo rende nulla.
(Prometeo, 148-51)
L’ormai classico studio su Prometeo di Thomson e quello più
recente di Podlecki hanno mostrato con precisione in quale
misura Eschilo presentasse l’Olimpo secondo le categorie e i
termini del pensiero politico del V secolo a.C.°3 ‘“Violenza e
orgoglio”, dice 1l coro di Edipo, re, “generano i tiranni”. Krato
e Bia, il controllore e il funzionario, come li chiama Have-
lock?? ,l assistono alla erocifissione di Prometeo. ‘“Potere e
Forza, l’ordine di Zeus per voi si compie”, dice loro Efesto.
Ma l’autorità di Zeus è recente: ha conquistato da poco il tro-
no di Crono. Ed Efesto aggiunge: “Ogni nuova potenza è sem-
pre dura” (35). Eschiîlo credeva che il tempo attutisse la seve-
rità del tiranno. Le nostre esperienze sono meno ottimistiche:
sappiamo benissimo che in vecchiaia egli diventa ancor più
sospettoso e crudele. Zeus era crudele e sospettoso fin da
quando assunse il potere. Si comportava seguendo i consigli
che Machiavelli avrebbe dato al principe quasi venti secoli do-
po. Zeus per prima cosa annientò i nemici, poi si rivolse con-

35
Divorare gli dei

tro gli amici che lo avevano aiutato ad abbattere il suo prede-


CESsSoTeE:
Perché è malanno d’ogni signoria
non essere fedeli a chi si amava.
(Prometeo, 224-26)
Îl tiranno si pone al disopra delle leggi e degli usì tradizionali.
Zeus governava mediante decreti emessi ad hoc, decreti che
Eschilo definisce ‘“legge personale”. Accusando i tiranni, il co-
ro parla come Erodoto:
E° questo il non invidiabile regno
di Zeus, signore nella sua legge,
che contro i vecchi dèi
mostra la lancia del suo trionfo.
(Prometeo, 402-5)
Sotto, c’è il popolo, sopra la corte del tiranno; nella fortezza
celestiale (“la rocca in cui abitate”’, 956)°° sono tutti parenti
tra loro, per nascita o per matrimonio. ÎI rapporti sono in par-
te familiari e in parte feudali. C’è il re padre, con i suoi figlì, i
suoi bastardi e i principi. Oceano è il suocero di Prometeo,
Efesto suo cugino. “Tremendo è il sangue e il vivere in comu-
ne” (39), spiega a Potere. In questa lettura “sociologica”, Pro-
meteo è un rappresentante ribelle dell’antica aristocrazia e co-
me tale viene annientato dal nuovo sovrano. L’aristocrazia del-
la polis greca costituiva l’opposizione più tenace ai tiranni e
gli aristocratici erano le loro prime vittime.
La forza di Eschilo è nel modo incomparabilmente concreto
in cui rappresenta la tirannide. L’atmosfera su quella desolata
roccia del Caucaso battuta dai venti è soffocante come in una
cella. E non mi sorprende che Jonathan Miller, mettendo in
scena Prometeo a Yale nella riduzione di Robert Lowell, lo
abbia ambientato nel cortile di un palazzo rinascimentale, un
cortile profondo come un pozzo. I muri del palazzo chiudeva-
no la scena da dietro e sopra c’era un colonnato pieno di sta-
tue di dèi. In questo regno del terrore, la paura paralizza tutti,

36
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

tranne Prometeo e il coro. Distrugge i legami di sangue e d’


amicizia. Î giovani principi come Ermete sono i fattorini e i
lacchè del sovrano. I vecchi principi come Oceano hanno ri-
nunciato da tempo a ogni forma di resistenza: cercano solo di
far credere a se stessi che, pur avendo perso ogni residuo di
dignità, hanno almeno conservato il loro ingegno; come politi-
ci screditati, credono nel compromesso, ma hanno paura di
tutto e sono-pronti a qualunque cosa pur di compiacere il ti-
ranno. Non è sufficiente obbedirgli: bisogna amarlo, anche
quando si è in prigione. Potere, l’alto funzionario di polizia, lo
spiega in termini pratici. Prometeo, dice, ‘“impari ad amare la
sovranità di Zeus” (10). E non basta punire i nemici del sovra-
no, bisogna anche odiare chiungue egli odii. Stavolta la lezio-
ne è per ÉEfesto: ‘“Non odii un dio che gli dèi maledicono? ”
(36). E ancora, poco più avanti: “Ma la disobbedienza a un
padre che è per te? ”” (40). 1 funzionari di polizia preferiscono
chiamare “padre” il tiranno.
1Il gran capo non si vede mai, ma si può sentire fisicamente la
sua presenza dall’inizio alla fine. Ogni parola pronunciata sulla
roccia solitaria viene riferita al padre, ogni parola è debitamen-
te ascoltata. Sopra, una serie di tiranni assume a turno il pote-
re, e prosegue ininterrotto il tempo della. “tortura illimitata”.
Sotto, le formiche hanno imparato a cucinare, a scrivere e a
contare, a costruire case, a varare navi, a fondere metalli. In
questa antropologia rudimentale, politica e techne — la storia
del potere e quella della cultura materiale — sono rigidamente
separate l’una dall’altra. Il progresso è irrevocabile, ma anche
la forza è inalterabile. l mito agisce sull’asse verticale del to-
pocosmo. Îl mito è la mediazione tra cielo e terra. In Prome-
teo incatenato, la mediazione non avviene. La tragedia finisce
con un terremoto.

37
Divorare gli dei

4.

Gli uomini hanno avuto il fuoco da Prometeo. Nel primo sta-


simo del coro di Antigone hanno invece imparato tutto da so-
lì: “La parola, il pensiero come il vento veloce, l’indole civile
apprese da solo”°!, Gli dèi, tranne la Terra, madre di ogni
cosa, non vengono nemmeno nominati. Qui invece la terra vie-
ne coltivata, anno dopo anno, dall’uomo che ha attaccato i
cavalli all’aratro: ‘“L’uomo passa e la Terra, santa madre, con
l’aratro affatica d’anno in anno e con la stirpe equina la rove-
scia” {(335 sgg.).
Sì è spesso insistito su un’opposizione tra le teogonie di Esio-
do e di Eschilo e. sul carattere antropocentrico dell’apologia
sofoclea dell’uomo. Qui l’uomo è solo, non ci sono dè: ed egli
deve tutto a se stesso: “La tenue prole degli uccelli o quella
selvaggia delle fiere o la progenie dei marini abissi con intrico
di reti a sé trascina insidioso l’uomo” (342 sgg.). Ma non è
l’antropocentrismo che qui sembra importante. In questo eo-
ro, che precede il momento in cui verrà trascinata in scena
Antigone, rea di aver gettato un pugno di terra sul nudo cada-
vere del fratello, all’esaltazione della grandezza dell’uomo s’ac-
compagna l’angoscia: “L’esistere del mondo è stupore e mera-
viglia, ma nulla è più stupendo e terribile dell’uomo” (332
sgg.)- Deina è un fenomeno meraviglioso e terribile (“‘stupore”
e “meraviglia” hanno entrambi questi significati); l’uomo è
deinotaton, straniero , estraneo, alienato. Essendo la più inge-
gnosa e la più forte delle creature, può essere ‘“alienato” dalla
natura che ha domato, e anche dalla città che ha costruito, e
persino da se stesso. Hypsipolis e apolis: “grande nella sua
città’” e ‘“senza patria”. La sua patria è terra di nessuno. La
sua rapacità è sconfinata: può cambiare il futuro.. Solo alla
morte non ha trovato un rimedio (efr. 355). Martin -Heidegger
fu il primo ad analizzare questa ansia dell’esistenza umana del
coro di Antigone come parte integrante della condizione dell’
uomo:

38
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

Fatto esperto di tutto, audace corre


al rischio del futuro, ma riparo
non avrà dalla morte, pur vincendo
l’assalto d’ogni morbo inaspettato®? .
Come assomiglia al monologo di Amleto:
Che capolavoro è l’uomo! Com’è nobile nell’intelletto! Illi-
mitato nelle capacità! preciso e ammirevole nella forma e nei
movimenti!?: Come assomiglia a un angelo nell’azione! a un
dio nell’intelligenza! E’ la bellezza del mondo! il più perfet-
to degli animali! E tuittavia per me cos’è se non quintessenza
di polvere? L’uomo non mi garba...
(Amleto, II, 2, 299-304) 33
Se la consapevolezza è ‘““una pecca dell’essere”, nel teatro della
crudeltà sofocleo la pecca distrugge sia l’essere sia se stessa.
Molte sono le cose strane, ma nulla è più strano dell’uomo.

L’antropologia realistica e storica, della cultura materiale e del


regno della forza, che vediamo in Prometeo, sembra estrema-
mente lontana dalla visione esistenziale della condizione uma-
na espressa nel primo stasimo di Antigone. Ma il fuoco era
solo 1l secondo dei doni di Prometeo agli uomini: il primo era
assal più misterioso. '
Prometeo — Spensi all’uomo la vista della morte.
Corifea-— Che farmaco trovasti a questo male?
Prometeo — Seminai la speranza che non vede.
Corifea — E molto li aiutasti col tuo dono.
' (Prometeo, 250-53)
Nella prefazione alla sua traduzione di Prometeo incatenato,
David Greene collega questa ‘“speranza che non vede” al mito
citato da Platone in Gorgia”* . Nei primi tempi del dominio di
Zeus, gli uomini conoscevano in anticipo il giorno della loro
morte, e quando si presentavano ai giudici erano ancora vivi,
interamente vestiti e in possesso di tutti i loro beni. Ma l’usan-
za conduceva a troppi abusi e Zeus l’aboli. Eschilo si serve di

39
Divorare gli dei

questo mito per 1 suoi fini. Gli animali conoscono l’ora della
loro morte. Prometeo ha tolto l’uomo dalla situazione anima-
le; gli ha sottratto la ragione animale per dargli la ragione
umana. Lo ha liberato dalla paura e gli ba dato la “speranza
che non vede”.
L’incertezza della morte è preferibile alla sua certezza. Lo san-
no tutti coloro cui è stato detto che hanno una malattia mor-
tale. L’interpretazione di Greene è umana e sottile, ma il Pro-
sa-
meteo eschileo, “quello che guarda avanti”, sapeva e voleva
pere:
Tutto il futuro conosco esatto e chiaro.
(Prometeo, 100-1)
Ha insegnato agli uomini a non aver paura, ma non al prezzo
dell’ignoranza. Quando lo avvicina lo, l’unico personaggio
mortale della tragedia, le rivela tutto ciò che le accadrà sino al
termine del suo itinerario terreno. Ha solo un attimo di esita-
zione, perché questa conoscenza gli pare troppo crudele, e al-
lora interviene la corifea: ‘“Parla, svela. E° conforto a chi è
malato sapere chiaro il male che rimane” (699 spgg.). Prometeo
riprende e completa la storia dei futuri tormenti di lo. Dopo
Prometeo, è Îo il personaggio più importante della tragedia.
L’episodio che la riguarda ne occupa la parte centrale e la
‘“‘speranza che non vede” sembra particolarmente adatta al suo
destino.
lo era figlia di Inaco, un pietroso ruscello nei pressi di Argo.
Questi dèi fluviali erano progenie di Oceano. Io era dunque la
nipote di Oceano, e Prometeo lo dice esplicitamente al coro.
Nel mito originario poteva essere un particolare importante:
l’acqua è l’archetipo della nascita e del sesso. Su un altro pia-
no, lo era la luna®° . La luna nuova era infatti collegata al sor-
gere delle acque e di tutti i liquidi. Io _ divenne l’amante di
Zeus, ma quando Era venne a saperlo tramutò la bella ragazza
in vacca e l’affidò alla custodia di Argo, il mostro dai cento
occhi. Zeus mandò allora ÉErmete- perché addormentasse il

40
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

mostro con il suo flauto e lo uccidesse liberando cosi lo. Ma


Era mandò un molesto tafano a perseguitarla e a punzecchiar-
la sino a farla morire dissanguata. I vagabondaggi di lo si con-
clusero in Egitto, dove Zeus le restitui la sua forma umana e
lei gli diede un figlio.
Eschilo purifica l’antico mito lunare e la- leggenda locale, eli-
minando l’elemento aneddotico. Nella sua versione, Argo viene
appena nominato in tutto il delirio di Io. La quale è persegui-
tata da Era, ma anche da una divina implacabilità per lei in-
comprensibile. Non è stata però Era a tramutarla in vacca; è
stato Zeus. În nessun’altra tragedia greca, prima delle Baccanti
di Euripide, si sono mostrate con tanta violenza e brutalità la
libidine e la forza cieca degli istinti. Io racconta di quando
ogniìi notte, nella sua casta cameretta, sognava di unirsi al dio:
Visioni mi apparivano la notte
vaganti nella stanza di fanciulla,
voci leggere, possenti parole:
“O beata tra tutte le fanciulle,
perché ti serbi così a lungo vergine?
Nozze grandi la sorte ti prepara:
desiderio di te ha ferito Zeus,
arde d’amore e vuole da te amore.
Non disprezzare il talamo di Zeus:
vai, esci ai prati profondi di Lerna,
ai pascoli, agli stazzi di tuo padre,
perche l’occhio di Zeus si sazi in te”’
Infelice ogni notte questi sogni
mi prendevano.
(Prometeo, 645-57)
lo sente la volontà del dio. È’ stata toccata dal dito, o meglio
dal membro, del dio. Ma non si unisce a Zeus. La sacra g10-
venca, la fanciulla con le corna, è inseguita dal tafano invisibi-
le, ii cui pungolo le fa girare la testa. Si precipita in scena
mugghiando e gemendo. Nel Prometeo allestito a Yale, Irene

41
Divorare gli dei

Worth non portava una maschera con corna di vacca. Faceva a


volte con la mano sinistra il gesto di allontanare l’invisibile in-
setto, come se agitasse una coda. Spostava con impazienza il
suo peso da un piede all’altro; un paio di volte scalciò con un
piede sul pavimento. Îl suo costume non aveva niente di stiliz-
zato, era soltanto un vestito lungo. Ma i suoi occhi erano gli
occhi grandi e immoti di una vacca. Ne avevo visto di simili
una volta, in Cina, a qualche migliaio di chilometri dal confine
tibetano. Avevano catturato nelle montagne una ragazza pro-
veniente da una tribù di aborigeni che si diceva ignorassero l
uso dei metalli. È la portarono a scuola. Non dimenticherò
mai i suoi occhi. Non c’era paura in loro. Non c’era niente.
FErano occhi blu scuro, umidiì e del tutto trasparenti. Come
due laghi. Occhi non contaminati dal pensiero. Gli occhi di
una vacca sacra. Prometeo è tutto consapevolezza, tutto intel-
ligenza; incatenato a una roccia, rimane immobile dalla prima
all’ultima scena. lo è tutta corpo; inseguita e sanguinante per
le punture del tafano invisibile, non riesce a star ferma un mo-
mento. Nei suoi vagabondaggi, ha già attraversato correndo un
quarto del mondo allora conosciuto.
Si è accusato Prometeo di essere un dramma intellettuale, pri-
vo di movimento e di azione. Ma Eschilo è sempre il più tea-
trale dei tragici greci. “Îl mio cuore è una danza di paura”,
dice il coro delle Coefore. E danza la sua danza di paura. Il
‘“nonverbale”, come il tappeto rosso sul quale Agamennone s°
avvia alla morte, è parte inscindibile di questo teatro e assume
quasi invariabilmente carattere di segno simbolico o di imma-
gine archetipa. Il cerchio piatto dell’orchestra raffigurava il
cerchio della terra circondata dall’oceano. Qui ‘“la fanciulla
con le corna di vacca” compiva il suo viaggio. “Quando andrai
oltre le onde che dividono due. continenti [Europa e Asia],
inòltrati all’oriente dietro il cammino fulgido del sole, varca
un mare sonoro e giungerai alle pianure gorgonee” (791 sgg.).
Nell’antropologia della civiltà e della tirannide, il tempo mito-

42
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

logico di Prometeo diviene tempo storico. Ora il topocosmo


mitologico diventa a sua volta la carta geografica del mondo. I
vagabondaggi di lIo, scrive Havelock, sembrano frammenti di
una guida turistica greca del V secolo a.C.
Il percorso di lo si basa sulla mappa circolare originaria del
mondo, divisa da un diametro d’acqua orizzontale in due con-
tinenti eguali e scissa verticalmente da un meridiano che coiîn-
cide con il Nilo e con il suo presunto prolungamento verso
sud. Îl mar Egeo costituisce, grosso modo, il centro della ruo-
ta; la circonferenza è formata dalle acque dell’Okeanos omeri-
co, collegate al sistema fluviale interno. Queste acque traspor-
tano lo dall’India alla foce del fiume “Etiope”’ e al remoto
sud dell’Africa {...] Compie dunque il periplo del quadrante
sudorientale e finisce di nuovo sul meridiano, che poi ripercor-
re per via d’acqua sino a tornare al delta del Nilo, esattamente
di fronte al luogo da cui era partita?® .
lTo, la ‘“sventurata, errabonda fanciulla”, correva probabilmente
intorno al semicerchio dell’orchestra rivolto a oriente. Nella
parte successiva della trilogia, lo spazio scenico era organizzato
nella stessa maniera, e nello stesso luogo Prometeo, incatenato
alla roccia, aspettava il suo salvatore. Eracle, se possiamo fi-
darciì della ricostruzione di Thomson, avrebbe raccontato a
Prometeo il suo viaggio sino ai limiti occidentali del mondo e
il suo ritorno in Europa dall’Africa passando per le Colonne
d’Ercole di Gibilterra. 1l cerchio piatto dell’orchestra-terra,
con i suoi perimetri orientale e occidentale, avrebbe illustrato
i suoi drammatici vagabondaggi, come già quelli della persegui-
tata lo.
lo esce di scena come vi era entrata, gemendo e piangendo. Il
tafano invisibile la pungola sempre più dolorosamente, il suo
cervello è annebbiato, ormai è soltanto un animale che sof-
fre... come gli uomini prima che ricevessero in dono il fuoco.
‘“Somigliavano a immagini di sogno”, li descrive Prometeo,
“perduravano un tempo lungo e vago e confuso” (446 sgg.).

43
Divorare gli dei

Io non vede più niente, non sente niente; non fa che correre
inseguita dal tafano invisibile, è un mero corpo, punto sino a
dissanguarsi:
La vista si stravolge
l’ira, l’assurdo mi ruba via
la lingua non è più mia
la parola è melma che urta
le onde della mia maledizione.
(Prometeo, 884-87)
Le sofferenze di Îo sono immeritate. Come Pasifae, in una tra-
gedia perduta di cui abbiamo solo un frammento, potrebbe di-
‘“Dio mi ha colpito con la follia, e benché io soffra, il mio
peccato non era nato dal mio libero volere [...] Cosa avrò vi-
sto in un toro che potesse dare al mio cuore tanta sofferenza
e tanta vergogna? ” Îo, “la fanciulla con le corna di vacca”, è
stata scaraventata, come direbbe Camus, in un mondo in cui il
corpo desidera e viene desiderato. Non è più in grado di di-
stinguere se stessa dal suo desiderio. Dio desidera la sua carne
di vacca o forseè la sua carne di vacca che desidera dio. Ma
lei non ama se stessa. Verso se stessa, il suo corpo e il mondo,
la vacca umana prova solo disgusto, ribrezzo, nausée sartriana;
il tafano invisibile la terrorizza. L’indifesa lIo, la giovenca pun-
zecchiata, è l’immagine perfetta della cieca volontà cosmica di
Schopenhauer. Eros e Thanatos, la procreazione e la morte,
non sono scelte nostre: cì vengono scaraventate addosso. Rin-
corsa dal cieco istinto per mari e per continenti, lo rappresen-
ta il nero Eros del desiderio. “Ha ali e non oecchi, è il modello
della fretta scervellata”: l’Elena del Sogno di una notte di
mezza estate è punta dallo stesso tafano invisibile.
Ma è agli uomini, con la loro cieca volontà, che Prometeo ha
offerto “la speranza che non vede”. Eschilo è il solo dei gran-
di tragici che sappia conciliare la base razionale del mito con
la sua universalità, il suo significato terreno con la sua irrazio-
nale speranza cosmica. Alla fine dei suoi vagabondaggi, lo si

4,
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

unirà a Zeus e gli darà un figlio. 1 mito agisce sull’asse verti-


cale del cosmo come mediazione tra cielo e terra. Io è stata
scelta da dio; il tafano invisibile che non le dà requie è “il
flagelo mandato da dio”. Nell’immaginazione dei greci, reali-
stica o surrealistica, il rapporto con dio è sempre fisico. Per
unirsi a dio, bisogna per prima cosa essere un animale.
““Abétissez-vous”, scriveva Pascal. Diventare come un animale
è stata una delle più antiche esperienze mistiche, ed è ancora
una delle più ricorrenti. La “fanciulla con le corna di vacca” è
la sposa mistica di dio. Dall’unione di Zeus con lo nascerà,
alla tredicesima generazione, una donna con la quale Zeus tor-
nerà a unirsi. È questa donna gli darà un figlio, l’archetipo
della riconciliazione.
Questo figlio, il cui nome non viene citato nel Prometeo inca-
tenato, è Eracle. Alla fine della trilogia abbatterà con una
freccia scoccata dal suo arco l’aquila che, quando Prometeo
sarà di nuovo sottoposto a tortura, gli mangerà ogni mattina il
fegato che intanto si è rigenerato. Eracle, l’atteso, è nella trilo-
gia prometeica la figura della speranza. Ma il prezzo della ri-
conciliazione è stato fissato sin dall’inizio. Lo preannuncia a
Prometeo l’emissario di Zeus, Ermete:
E questa pena non avrà mai fine,
se non appaia un dio che ti succeda
nei tuoi dolori e che vorrà discendere
nell’Ade senza luci, nell’abisso
del Tartaro, ove è tenebra.
(Prometeo, 1026 sgg.)
Questo dio, anch’esso non nominato, è il centauro Chirone,
una delle figure più misteriose della mitologia greca. Apparte-
neva alla vecchia generazione degli dèi ed era forse figlio di
Crono. Era un sapiente e un pedagogo e fu il primo dei medi-
ci. Insegnò l’arte della medicina ad Asclepio, allevò Achille e
fu amico di Eracle. Venne accidentalmente ferito a una gamba
dalla sua freccia avvelenata. Era capace di curare chiunque e

45
Divorare gli dei

di risanare le ferite più gravi, ma non di guarire se stesso.


Stanco di una sofferenza interminabile, acconsenti a morire
per Prometeo”? .
I figli dégli dèi scendono sulla terra, soffrono, muoiono, scen-
dono all’inferno, ma poi risorgono. Chirone è il solo dio della
mitologia greca, e forse di tutte le mitologie, che sia sceso all’.
inferno, volontariamente e definitivamente. La riconciliazione
e il prezzo che viene per essa pagato avvengono sullo stesso
asse verticale del topocosmo. Dio il tiranno può ora diventare
dio il padre; Zeus il vendicatore si tramuta in Zeus il giusto.
Ma il prezzo del nuovo patto è la morte di un altro dio. La
‘“‘speranza ché non vede” è teofania, la conciliazione definitiva
tra il “sopra” e il “sotto”, ma il cosmo rimane per sempre
diviso tra Olimpo e Tartaro. Nell’economia divina, la somma
delle sofferenze del mondo rimane invariata, e la ferita incura-
bile di Chirone è il simbolo di una sofferenza che non ha fine
e non sarà mai ricompensata.

9.

Marx defini Prometeo “il più nobile santo e martire del calen-
dario filosofico”®® . “Il santo patrono del proletariato”, è in-
vece un giudizio contemporaneo citato da Thomson®’ . În nes-
sun’altra tragedia greca “il sopra”, nel duplice senso e signifi-
cato simbolico di dèi e di forza bruta, è stato attaccato con
tanta ferocia: “Odio tutti gli dèi cui feci bene e che mi han
reso male” (975). lo, la povera giovenca, odia il proprio perse-
cutore con tutto il suo corpo sanguinante. Entrambe le predi-
zioni la concernono, ma la sua sola speranza è colui che farà
cadere Zeus dal trono: il figlio come redentore è per lei il fi-
glio come vendicatore.
lo — Il potere di Zeus potrà cadere?
Prometeo — Gioiresti, credo, a questo grande evento.

46
l’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
/

Io — Certo: non è per Zeus che soffro tanto?


Prometeo — E dunque puoi saperlo: avverrà questo.
(Prometeo, 775-78)
Tutti odiano Zeus: Prometeo, Îo e le forze maltrattate della
natura. Tutti tranne i funzionari di polizia, l’intrigante politico
Oceano e 1l giovane fattorino Ermete. In Eschilo il coro non è
mai un semplice testimone e commentatore degli avvenimenti,
e Prometeo incatenato è l’unica tragedia in cuiì esso perisca in-
sieme con l’eroe. Il coro delle Oceanine, che rappresentano gli
elementi dell’acqua e dell’aria, è venuto per esprimere a Pro-
meteo la propria compassione. Terrorizzato all’inizio dalla sua
ribellione, apprende a poco a poco la dolorosa storia del mon-
do. Prometeo, che ha già insegnato il coraggio agli uomini, ri-
pete la stessa operazione tramite questo gruppo di ragazze e di
uccelli. Ha rivoluzionato il coro.
Ermete — Ma voi, che soffrite con le sue sventure,
subito fuggite via da questo luogo,
che non vi sperda la mente
il.muggito brutale del tuono.
Coro — {...] Perché ci inviti a essere vili?
Insieme a lui si deve patir tutto.
Imparammo a odiare chi tradisce.
. (Prometeo, 1058 sgg.)
Nella prospettiva cosmica, si può scegliere tra due figli di Zeus
non ancora nati: il figlio del nuovo patto e quello “piuà forte
del padre”. Nella prospettiva drammatica di Prometeo incate-
nato, la scelta è tra la fedeltà a se stessi e il tradimento, tra il
coraggio e la viltà, tra la determinazione inflessibile e la rasse-
gnazione. Nelle categorie politiche la scelta è tra un program-
ma rivoluzionario e il compromesso“’ , “E’ importante la ri-
bellione”, scrive Mao nel Libro delle guardie rosse. Le scelte
possibili per Prometeo sono quelle che si offrono a un prigio-
niero. “Tu hai amato gli uomini”, gli dice Efesto, “e questoè
il frutto. O dio che non ti pieghi all’ira degli dèi, hai onorato

47
Divorare gli dei

gli uomini come dèi contro la legge” (28 sgg.; lett. “più del
giusto”). Ma qual è la bilancia che ci permette di stabilire cosa
sia giusto e cosa sia abuso del giusto; cosa sia “dovuto” e cosa
più che dovuto nei rapporti tra guardia e prigioniero, tra 1i
sopra e il sotto? Prometeo, scriveva Marx, non voleva essere
‘“lo schiavo del tiranno, l’accolito del carnefice”. E nella stessa
introduzione alla sua tesi di laurea, datata “marzo 1841”, dice
ancora:
La confessione di Prometeo, ‘“lo sono il nemico di tutti gli
dèi”’, è una dichiarazione di fede nella filosofia, e la sua ideo-
logia è rivolta contro tutti gli dèi del cielo e della terra che
non riconoscono nella coscienza umana la divinità suprema,
Questa divinità non tollera rivali.
Questo manifesto marxiano del prometeismo sembra assai più
vicino agli scatenati e romantici Prometei di Goethe e di Shel-
ley che all’austera e realistica antropologia di Eschilo“’. Nel
mondo reale, scisso tra il sopra e il sotto, Eschilo dice che la
sola scelta è tra la riconciliazione e una nuova tirannide, tra il
compromesso e un nuovo figlio “più forte del padre”. Ma
‘“ogni nuova potenza è sempre dura”., A quanto pare, Eschilo
sapeva benissimo che il cielo non rimane mai a lungo vuoto e
che un nuovo dio occupa il posto di quello che è caduto.
I Prometei di Goethe, Byron e Shelley erano fratelli di Sata-
na*2 , Ma gli angeli sono caduti dal cielo per un peccato d’or-
goglio. Lucifero è il principe della ragione. L’ultima di tutte le
divinità, quella che ‘“non tollera rivali” e che sembra ancor più
crudele delle precedenti: è l’arroganza della ragione. Questa di-
vinità è convinta di aver domato il destino e di poterlo mutare
e ‘guidare. “La libertà è il riconoscimento della necessità”’, seri-
veva Marx. La realizzazione hegeliana del regno della ragione e
la ‘“necessità storica” di Marx sono tra le “speranze che non
vedono” offerte da Prometeo agli uomini“° .
‘“Cos’è la libertà di un uomo”, dice un prigioniero torturato in
Le temps du mépris di Malraux, “se non la coscienza e l’orga-

48
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

nizzazione dei suoi destini? ° ‘“Io liberai i mortali dall’essere


dispersi nella morte” (235), dice Prometeo nel primo episodio
della tragedia. E verso la fine, un attimo prima che lo gettino
nel Tartaro, proclama in tono di sfida: “Per me non c’è la
morte; di che tremo? ” (933). I martiri di tutte le fedi si sono
sempre proclamati immortali; i rivoluzionari sono sempre an-
dati a morire affermando che sarebbero stati loro a vincere ol-
tre la tomba. Nelle interpretazioni ottocentesche, Prometeo è
stato san Satana, san Carbonaro, san Proletario. Ha liberato lo
spirito o l’umanità. Fato, destino, necessità storica: ognuno ha
contribuito in maniera diversa al passaggio del tempo, all’ela-
borazione di una moralità, di una razionalità, di un sigpificat'o.
La teogonia si trasforma in teodicea. La conquista del paradi-
so, o della storia, avrebbe compensato tutte le sofferenze. Ma
se fossero speranze che non vedono anche quelle di Io punta
dal tafano invisibile e di Prometeo gettato nel Tartaro?
Corifea — Che è per Zeus il fato, se non regnare sempre?
Prometeo — Non puoi saperlo mai, non domandarlo.
Corifea — Dunque è mistero sacro che tu celi, '
(Prometeo, 519-21)
Poco prima della fine, Prometeo dice: “Il tempo invecchia, il
tempo insegna tutto” (981). Qualcosa di .molto simile dice an-
che il libro sacro iraniano Bundahisn: “Îl tempo è più potente
di due creazioni”44 , Ma che cosa insegna esattamente il tem-
po? L’ambiguità del Prometeo eschileo è nella coesistenza di
due tipi di tempo. C’è il tempo didattico della teofania, nel
quale cosmogonia e storia approderanno ad Atene e alla gran-
de conciliazione, come le tesi hegeliane allo stato prussiano; e
c’è un tempo senza speranza, nel quale Prometeo viene getta-
to, una volta per tutte, nel Tartaro, con accompagnamento di
fuochi d’artificio celesti. Per gli ottimisti poeti e filosofi dell’
ottocento, Prometeo alla fine avrebbe trionfatò e la sofferenza
era il prezzo del progresso. La tragedia di Prometeo era di es-
sere arrivato troppo presto. Ma più vicina alla nostra esperien-

490
Divorare gli dei

za è l’amara interpretazione di Camus: la grandezza di Prome-


teo è nella sua rivolta senza speranza:
Una rivoluzione si compie sempre coniro gli dèi, cominciando
da quella di Prometeo, il primo dei conquistatori moderni. Si
tratta di una rivendicazione dell’uomo contro il proprio desti-
no; la rivendicazione del povero è soltanto un pretesto [...] Sr,
l’uomo è fine a se stesso. Ed è anche il suo solo fine. Se vuol
essere qualche cosa, deve esserlo in questa vita [...] I conqui-
statori, a volte, parlano di vincere, di superare, ma è sempre
“superarsi’’ che essi intendono [...] Ogni uomo si è sentito pa-
ri a un dio, in certi momenti. E° così, almeno, che si dice. Ma
questo deriva dal fatto che, in un lampo, ha sentito la stupefa-
cente grandezza dello spirito umano. Conquistatori sono sol-
tanto quegli uomini che sono abbastanza coscienti della loro
forza per essere sicuri di vivere costantemente a tale altezza e
in piena coscienza della loro grandezza {[...] Qui trovano la
creatura mutilata, ma incontrano anche i soli valori che amano
e ammirano: l’uomo e il suo silenzio*5 .
Sì può esprimere lo stesso concetto anche in un altro modo.
La grandezza di Prometeo è disperazione speranzosa o speran-
za disperata. “Essere privati della speranza”, conclude Camus,
‘“non significa disperare”“ , Ma non è ancora l’interpretazione
più amara del destino di Prometeo.
Nel trattato di Cicerone che contiene uno dei pochi frammen-
tì rimastici delle due parti perdute della trilogia, Prometeo vie-
ne descritto come uomo talmente incapace di sopportare oltre
i suoi interminabili tormenti, da desiderare soltanto una morte
umana: ‘“amore mortis terminum anquirens mali” (cercando
appassionatamente la morte come fine delle sofferenze)’”, Il
tempo di durata di una vita umana è tempo di sofferenza e di
attesa della nostra morte.
C’è però anche un’altra conclusione per la tragedia del “ribelle
assurdo”., În una delle odi di Pindaro, collegata forse con-la
fine della tragedia di Prometeo, la guardia che sorveglia il tuo-

o0
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

no di Zeus sì addormenta al canto delle Muse accompagnate


dalla lira di Apollo. E’ l’aquila che ogni mattina vola alle roc-
ce del Caucaso per nutrirsi col fegato di Prometeo“® ,
[...] addormesi
sullo scettro di Zeus l’aquila; stanchi
piovono i vanni degli augelli al principe
ugualmente dai fianchi?° .
L’aquila s’addormenta al dolce suono della musica e la collera
si allontana dagli olimpici. E° la quarta e ultima forma di tem-
po, quello dell’oblio e del dissolversi nel nulla.
Kafka doveva conoscere sia il trattato di Cicerone sia l’ode di
Pindaro, perché annotò. nel suo taccuino le quattro leggende
di Prometeo”® :
Secondo la prima, fu inchiodato alla roccia perché aveva tradi-
to gli dèi a vantaggio degli uomini, e gli dèi mandarono aquile
a divorargli il fegato sempre ricrescente.
La seconda vuole che Prometeo, per il dolore procuratogli dai
colpi di becco, si sia addossato sempre più alla roccia sino a
diventare con essa una cosa sola.
La terza asserisce che nei millenni il suo tradimento fu dimen-
ticato; tutti dimenticarono: gli dèi, le aquile, egli stesso.
Secondo la gquarta, ci si stancò di lui che non aveva più moti-
vo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita — stanca — si chiu-
se. Rimase l’inspiegabile montagna rocciosa — la leggenda ten-
ta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di
verità, deve terminare nell’inspiegabilè.
Kafka, con la sua incomparabile intelligenza, aveva capito che,
quando il topocosmo ha perso il suo significato, tutto ciò che
può rimanerne sono le desolate montagne tra cielo e terra. Ma
il mito prometeico non finisce qui. Nell’intera storìa del dram-
ma, sono soltanto due le opere nelle quali il protagonista non
può mai abbandonare il suo posto, dall’inizio alla fine*!, La
prima è Prometeo incatenato. Nell’altra l’eroina è sepolta nella
terra, prima sino alla vita, poi sino al collo. Non esiste coro.

Sl
Divorare gli dei

C’è solo un uomo paralizzato che non può avvicinarsi. Del


mondo esterno degli oggetti rimangono soltanto un parasole e
una grande borsetta nera contenente oggetti da toilette e una
rivoltella. La donna bacia la rivoltella e la mette da parte; do-
po un po’ è troppo tardi: essa è ormai sepolta sino al collo,
con le mani sotto terra. Deve quindi vivere fin quando non
morrà. Îl tempo è scandito dalle campane. Il sopra e il sotto
continuano a esistere, ma la terra è solo un mucchio di sabbia
e 1il cielo è ‘vuoto, senza neanche una nube. La sola azione
consiste nell’immergersi nella terra, sempre più in profondîità.
E° questa la quinta forma del tempo: sprofondare nella terra,
che significa nient’altro che sprofondare nella terra.
Non c’è più bisogno di Zeus. Giorni felici di Beckett è la ver-
sione conclusiva del mito prometeico.

32
Note

1. La data di composizione del Prometeo incatenato è ancora tema di


discussioni, ma ora si dà generalmente per scontato che sia stata una del-
le ultime tragedie di Eschilo, posteriore forse anche all’Orestea (458
a.C.). Alla rappresentazione prendevano parte tre attori: la vecchia ipote-
si, secondo la quale nel prologo e nell’epilogo il titano era raffigurato da
un fantoccio, è ora respinta. La roccia sulla cima del Caucaso, scerive Pe-
ter Arnott, era “simboleggiata da un palo diritto al quale veniva legato
l’attore” (Greek Scenic Conventions in the Fifth Century. B.C., Oxford,
Clarendon Press, 1962; Appendix Î: “Prometheus Bond: The Final Sce-
ne”’, pp. 123 sgg.). Sembra dubbio che ci si servisse di una machina per
far scendere dall’alto il coro delle Oceanine. Ma il punto più discusso è
la soluzione scenica dell’epilogo. Tuoni e fulmini, naturalmente, erano
soltanto descritti a parole e illustrati con Ja musica. Îl terremoto veniva
visualizzato con i gesti del coro. Anche lo scaraventare Prometeo negli
abissi doveva avvenire — in quel teatro di gesti stilizzati — in maniera
simbolica. Arnott avanza l’ipotesi che il titano e il coro sì appiattissero
al suolo. Una caduta spettacolare sarebbe stata possibile solo se Prome-
teo si fosse trovato sul theologeion, cioè sul tetto della skene. În tal caso
l’attore poteva fare un salto di un paio di metri per finire dietro la vec-
chia orchestra. Il theologeion era riservato agli dè, ma Prometeo era un
titano e lo colpiva un fulmine scagliato direttamente dall’Olimpo.
2. Mircea Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, trad. di Giovanni Cantoni,
Torino, Borla, 1968, p. 28. Cfr. anche dello stesso, Îl sacro e il profano,
trad. di Edoardo Fadini, Torino, Boringhieri, 1967.
3. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, cit., p. 29: “Per i cristiani, il Gol-
gota si trovava al centro del mondo, poiché era la cima della montagna
cosmica, e contemporaneamente il luogo in cui Adamo era stato creato e
sepolto”.
4. Esiodo, Teogonia, 126-8; traduzione di Carlo F. Russo, in Quando gli
uomini creavano gli dèi, Barì, Laterza, 1954, p. 163.
5. Sia la genesi greca sia quella biblica hanno carattere di operazione
strutturale. Creare il mondo significava mettere ordine nel caos secondo
le opposizioni fondamentali: luce-tenebra, solido-fluido, freddo-caldo, a-
sciutto-bagnato. La più fondamentale è, però, l’opposizione spaziale tra

53
Divorare gli dei

“sopra” e “sotto”, “E dio fece il firmamento e separo le acque che sono


È cosi fu. E dio
sotto il firmamento da quelle che sono sopra di esso.
chiamò il firmamento cielo” (Genesi, 1, 7-8).
6. Tutti i brani citati dell’fliadepono nella traduzione di Rosa Calzecchi
Onesti, Torino, Éinaudi, 19683.
7. Northrop Frye, Fables and Identity: Studies in Poetic Mythology,
New York, Harcourt, 1963, pp. 58-66.
8, Erwin Panofsky, Studies in Jconology: Humanistic Themes in the Art
“{...] i
of Renaissance, New York, Harper Torchbooks, 1962, p. 203:
materia l mondo sot-
neoplatonici fiorentini chiamavano il regno della
fin quando è im-
terraneo e paragonavano l’esistenza dell’anima umana,
prigionata nel corpo, a una vita apud inferos”’,
di E.
9, Tutte le citazioni di Prometeo incatenato sono nella traduzione
Diano,
Mandruzzato, in Îl teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di Carlo
Firenze, Sausoni, 1970.
10. Northrop Frye, Fovls of Time: Studies in Shakespearian Tragedy,
17.
Toronto, University of Toronto Press, 1967, p.
11. Ibid., pp. 44 e 55.
in Greek
12. Cfr. Walljam Chase Greene, Moira: Fate, Good and Evil
Thought, Cambridge, Harvard University Press, 1944, p. 123: “All'inizio
ma
7eus aveva la forza, ma non l’intelligenza; Prometeo l’intelligenza,
non la forza. L’uomo non aveva nessuna delle due cose: solo una coali-
zione tra forza € intelligenza poteva portare al bene”.
Zeus diede la
13. Nella Teogonia di Esiodo: “[...] le Moire, alle quali
ai mor-
posizione suprema: sono Cloto, Lachesi e Atropo: distribuiscono
Furie nac-
tali ciò che essi hanno, nel bene e nel male” (903 sog.). Le
quero dal sangue 0 dallo sperma di Urano, quando Crono castrò il padre
e ne gettò via 1 penitali, che fecondarono la Terra (182 sgg.). Fu il primo
dei “trii””
esempio di fecondazione artificiale (e postuma). La divisione
al passag-
del destino in Moire e Furie (o Erinni) è probabilmente legata
gio dal matriarcato al patriarcato. Nell’Orestea le Erinni provvedono alla
della madre. Le Moire, custodi del destino e
vendetta per l’uccisione
apenti dell’inevitabilità, sono verosimilmente d’origine più tarda. In Esio-
do la divisione tra Moire e Furie non è ancora del tutto chiara.
Uni-
14. Cf. Bernard M.W. Knox, Oedipus at Thebes, New Haven, Yale
versity Press, 1957, pp. 125 e 145.
un’idea originale
]5. L’attribuire a Prometeo la scoperta dell’alfabeto fu
per un’antropologia intellet-
di Eschilo, che la riteneva forse necessaria
scoperta dell’al-
tuale del progresso. Le fonti mitologiche attribuiscono la
Îo. In questo contesto lo è la luna: il
fabeto alle tre Moire, a Ermete e a

o
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

primo alfabeto era legato al calendario lunare ed era un mistero religioso


delle sacerdotesse di Îo-luna; cfr. Robert Graves, 1 miti greci, trad. di
Elisa Morpurgo, Milano, Longanesi, 1963, pp. 225-8.
16. Per Prometeo, lettere e numeri erano media. Egli era cioè quasi un
precursore di Marshall MeLuhan, per il quale l’alfabeto simbolicoè stato
un mezzo decisivo per l’uniformazione dello spazio e del tempo, vale a
dire per il concetto visivo di “topocosmo”.
17. Claude Lévi-Strauss, Totemism, trad. ingl. di Rodney Needham, Bo-
ston, Beacon Press, 1963, p. 99.
18. Rousseau, Oeuvres choisies, Parigi, Garnier, 1962, pp. 67-8.
19. Knox, op. cit., p. 144: “Pronoia, ‘’prescienza‘, °’preveggenza‘, non è
soltanto la base delle profezie divine, ma anche la qualità che il medice,
negli scritti ippocratici, è sollecitato a coltivare più di ogni altra”,
20. In un brano di una tragedia perduta di Eschilo (A. Nauck, Tragico-
rum Graecorum fragmenta, Il ed., Hildesheim, G. Olms, 1964, frammen-
to 205), che potrebbe anche essere la prima parte della trilogia su Pro-
meteo, troviamo una specie di lezione sull’arte di accendere il fuoco: “E
sta bene attento a non farti colpire al viso da una scintilla; perché è assai
dolorosa, e scottano mortalmente i suoi vapori”. Carl Kerényi, in Pro-
metheus: Archetipal Image of Human Existence, New Yeork, Pantheon,
1963, pp. 70-1, avanza l’ipotesi che si tratti di istruzioni per far funmo-
nare una primitiva fornace per la fusione del ferro.
21. Claude Lévi-Strauss, Mythologiques: I: Le cru et le cuit, Parigi,
Plon, 1964, p. 20; e per i brani successivi, pp. 73 e 200 e l’intero capito-
lo “Cantate de la sarigue”.
22. Graves, op. cit., p. 178.
23. Con il suo straordinario intuito, Hegel fu il primo a cogliere nel mi-
to di Prometeo una combinazione tra la scoperta del fuoco, il primo sa-
crificio animale e la cottura della carne. Cfr. Hegel, Estetica, trad. di Ni-
colao Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967, pp. 518 sgg.
24. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, p. 120: “Infatti ì miti di numero-
sì popoli fanno allusione a un’epoca lontamssxma in cui gli uomini non
conoscevano né morte né lavoro né sofferenza e trovavano a portata di
mano un abbondante nutrimento [...] In seguito a una colpa rituale, le
comunicazioni tra cielo e terra sono state interrotte e gli dèi sì ritirarono
nei cieli più alti. Da allora gli uomini devono lavorare per nutrirsi e non
sono più immortali””.
25. Esiodo, Le opere e i giorni, 383-84: “Quando appaiono le Pleiadi,
figlie di Atlante, comincia il tuo raccolto e torna ad arare quando esse
scompaiono”’,
I
LA
Divorare gli dei

26. Claude Lévi-Strauss, Race et histoire, Parigi 1952, p. 19.


27. Knox, op. cit., p. 148.
28. George Thomson, Aeschylus, Prometheus Bound, New York, Mac-
millan, 1932; Anthony J. Podlecki, The Political Background of Ae-
schylean Tragedy, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1966, cap.
VI, “Prometheus Bound”.
29, Eric A. Havelock, Prometheus, Seattle, University of Washington
Press, 1968, p. 96.
30. Vale la pena paragonare la rocca eschilea dove dimorano gli déèi all’
immagine del cielo di bronzo e della cittadella divina di Pindaro (Nemee,
VI, 1-5):
Uno dei numi, un dei mortali è il genere;
ambi una madre crebbect,
ma parti di valor diverse forma,
che l’uno è nulla e immobile
sede in eterno il ciel di branzo sta.
Da Le odi e i frammenti, trad. di Giuseppe Fraccaroli, Milano, Istituto
Editoriale Italiano, s.a., II, p. 263.
31. Îl primo stasimo del coro (353 sgg.) di Antigone, nella traduzione di
E. Cetrangolo in Îl teatro greco..., cit.
32. Martin Heidegger, “The Ode on Man in Sophocles’ Antigone”, in An
Introduction to Metaphysics, trad. di Ralph Manheim, New Haven, Yale
University Press, 1959, p. 147.
33. Tutte le citazioni da drammi di Shakespeare sono nella traduzione
di Cesare Vico Lodovici, in Shakespeare, Teatro, Torino, Einaudi, 1960.
34. In The Complete Greek Tragedies, Aeschylus, Il, Chicago, University
of Chicago Press, 1956.
35. Jo è anche una mutazione dell’egiziana Iside. Luciano era un esperto
mitografo. Nei suoi Dialoghi degli dèi {III), Zeus ordina a Ermete: “Vola
giù nella selva Nemea dove è Argo bifolco e uccidilo; mena lo per mare
in Egitto e falla Iside; e d’ora in poi essa sia dea a quelle genti, e faccia
crescere il Nilo, e mandi i venti, e salvi 1 naviganti’. In 1 dialoghi e gli
epigrammi, trad. di Luigi Settembrini, a cura di Danilo Baccini, Roma,
Casini, 1962, p. 66.
36. Havelock, op. cit., pp. 60-1.
37. Cfr. Kerényi, op. cit., pp. 120-2, e dello stesso, Asklepios: Archet-
ypal Image of the Healers Existence, New York, Pantheon, 1955, pp.
95-100.
38. Nell’introduzione alla sua dissertazione di laurea: Marx-Engels, Wer-
ke, Berlino, Dietz-Verlag, 1968, vol. I, pp. 262 sgg.

96
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo

39. George Thomson, Aeschylus and Athens: A Study in the Social Ori-
gins of Drama, Londra, Lawrence & Wishart, 1941, p. 316.
40. Tipica è la prefazione di Shelley al suo Prometheus Unbound: “Ma
in realtà non mi piaceva una soluzione debole quale la riconciliazione tra
il campione e l’oppressore dell’umanità. L’interesse morale della favola,
vigorosamente rafforzato dalle sofferenze e dalla resistenza di Prometeo,
verrebbe meno se potessimo immaginarlo nell’atto di ritrattare le sue no-
bili parole e di umiliarsi davanti al suo vittorioso e perfido nemico”.
Shelley, Prometheus Unbound, a cura di Lawrence J. Zillman, Seattle,
University of Washington Press,:1969, p. 35.
41. Cfr. Kerényi, Prometheus, p. 17: “Hl Prometeo di Goethe non è un
dio, né un titano, né un uomo, ma lìimmortale prototipo dell’uomo, co-
me primo dei ribelli e assertore del proprio destino: l’abitante originario
della terra, visto come antidio, come signore della terra stessa”. Goethe
scriveva di sé: “Mi sono isolato dagli dèi come Prometeo”. Ed ecco co-
me finiva la sua celebre ode a Prometeo, scritta nel 1774:
Qui fermo io sto, formo a mia immagine uomini, una stirpe a me simile,
destinata a soffrire, piangere, godere e gioire, e a non curarsi di te come
faccio io. '
Marx, ovviamente, sapeva a memoria l’ode di Goethe.
42. Nella citata prefazione di Shelley: “Îl solo essere immaginario che
assomigli in qualche modo a Prometeo è Satana; ma Prometeo, a mio
parere, è più poetico di Satana, perché, a parte il coraggio, la maestà e
una salda e paziente opposizione a una forza onnipotente, può anche
essere descritto come esente dalle macchie dell’ambizione, dell’invidia,
dello spirito di vendetta e di un desiderio di esaltazione personale, che
rendono meno interessante l’eroe del Paradiso perduto”. Shelley, Pro-
metheus Unbound, pp. 35-7.
43. Cfr. Eliade, Il sacro e il profano, p. 159: “L’uomo areligioso moder-
no assume una situazione esistenziale nuova: egli si considera esclusiva-
mente il soggetto e l’operatore della storia, rifiutando qualsiasi richiamo
alla trascendenza [...] L’uomo si fa da sé e si fa tanto più completamen-
te in proporzione alla sua desacralizzazione e alla desacralizzazione del
mondo. Il sacro costituisce l’unico ostacolo alla sua libertà. Diverra se
stesso solo nel momento in cui sarà riuscito a demistificarsi completa-
mente. La sua libertà sarà completa nel momento in cui sarà riuscito a
uccidere l’ultimo dio”’.
44. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, p. 161.
45. Camus, Îl mito di Sisifo, trad. di Attilio Borelli, Milano, Bompiani,
1949,p. 120.

97
DNivorare gli dei

46. Sorprendentemente vicina a Camus è l'interpretazione che del mito


prometeico diedero i neoplatonici con Marsilio Ficino e con i famosi
pannelli di Piero di Cosimo. Panofsky, Studies in Îconology, pp. 50-1: “I
mitografi successivi, soprattutto Boccaccio, hanno sempre sostenuto che,
mentre Vulcano impersona l’ignis elementatus, cioè il fuoco fisico che
permette all’uomo di risolvere i suoi problemi pratici, la fiaccola di Pro-
meteo, accesa alle ruote del carro del sole — rota solis, id est de gremio
dei — porta il fuoco celeste che rappresenta la lucidità della conoscenza
infusa nel cuore dell’ipnorante‘ e che questa lucidità può essere raggiunta
solo a scapito della felicità e della pace dello spirito [...] Nei pannelli
strasburghesi di Piero, questa idea è mirabilmente espressa dal gesto
trionfale della statua, in netto contrasto con la torturata posizione di
Prometeo. La punizione di quest’ultimo simboleggia il prezzo che l’uma-
nità deve pagare per il proprio risveglio intellettuale, vale a dire {...] l’es-
sere tormentati dalla nostra meditazione profonda e riprenderci solo per
farci tormentare ancora”. È’ già un’interpretazione pre-esistenzialistica:
la tortura di Prometeo è “consapevolezza infelice”.
47. Cicerone, Tusculanae disputationes, ÎI, 10.
48. Cfr. John H. Finley jr, Pindar and Aeschylus, Martin Classical Lectu-
res, XIV, Cambridge, Harvard University Press, 1955, p. 231.
49, Pitiache, 1, 6-7. In Le odi e i frammenti, cit., II, p. 90.
50. Franz Kafka, in Racconti, trad. di Ervino Pocar, Milano, Mondadori,
1970, p. 430.
51. “Oppure si prenda Giorni felici di Beckett: c’era mai stata dopo il
Prometeo una stasi paragonabile, un paragonabile tipo d’azione? ”” Geor-
ge -Steiner, in risposta a un’inchiesta su ‘“The Classics and the Man of
Letters”, “Arion”, IM, inverno 1964, p. 82.

98
Aiace tre volte ingannato
o l’eroismo dell’assurdo

“Îl mio nome è Aiace: sofferenza è il suo significato”!, In


tutte le tragedie di Sofocle, eccetto l’ultima nella quale Edipo
vecchio sceglie il luogo della propria morte, gli eroi vengono
precipitati al livello più basso della condizione umana: li osser-
viamo in una situazione in cui sono divenuti estranei agli uo-
mini e al mondo. L’ultimo agone è l’agonia dell’eroe. Dopo
l’uccisione della madre e del suo amante, non arriveranno Îe
Frinni, non cì saranno né giudizio né purificazione. Il coro,
pronunciata la sua trita morale, si disperde. Oreste ed Elettra
restano solì con il loro delitto. Sono superflui per gli dèi, stra-
nierì nella propria città, estranei persino l’uno all’altra. Non
pronunceranno neanche una parola. Hanno vissuto per vendi-
care il padre. Dovere e odio sono due cadaveri. Mentre sgorga
lento il sangue dai corpi di Clitennestra e di Egisto, Oreste ed
Elettra perdono la propria ragione d’essere.
Nelle sue tragedie, Sofocle tende a preparare questo momento
fondamentale, nel quale il protagonista si rende finalmente
conto che gli hanno tolto il terreno di sotto i piedi e che gli
dèi tacciono. Soltanto allora, nella consapevolezza piena della
condizione umana, è possibile una scelta eroica: suicidarsi ©
continuare a vivere e, come Edipo dopo che si è cavato gli
occhi di sua mano, sfidare cosi l’assurdo del mondo. Nelle set-
te tragedie superstiti di Sofocle, cìi sono sei suicidi, un tentato
suicidio e due richieste
di affrettare la morte?. Ma solo in Aia-
ce il protagonista si ammazza sotto gli occhi degli spettatori,
in pieno giorno. È solo in Aiace il cadavere rimane sulla scena,

D9
Divorare gli dei

per tutta la lunga seconda parte della rappresentazione, sino al


termine della tragedia.
Sangue nero sgorga dalle narici di Aiace e la principessa prigio-
niera Tecmessa ne copre il cadavere con un manto. Ma Teu-
cro, il fratellastro di Aiace, scopre presto il corpo. Che rimarrà
sino alla fine il personaggio più importante della tragedia. Aia-
ce morto continua a odiare e a essere odiato. Dopo la morte
di. Achille, quando la sua armatura doveva essere data al più
valoroso dei greci, Aiace è stato ingannato. O l’elezione era
truccata o i giudici sì sono lasciati corrompere; fatto è che l°
armatura, forgiata dal dio fabbro Efesto, è stata assegnata a
Odisseo. L’indomani, all’alba, Aiace esce dalla sua tenda per
ammazzare i generali greci. Viene ingannato di nuovo. Atena
lo ha accecato con una nebbiolina rosso sangue® ed egli, an-
ziché uccidere Odisseo e i figli di Atreo, ha fatto strage di
buoi e di arieti. Non può sopravvivere a tanta vergogna.
La tragedia dovrebbe finire dopo il suicidio di Aiace. Ajiace si
è ammazzato, ma il mondo non ha cessato di esistere. Ma qual
è il mondo che Aiace è arrivatoa odiare?. Il suicidio di Aiace
può essere misurato soltanto sul metro del mondo reale. Ma
anche il mondo reale può essere misurato sul metro del suici-
dio di Aijace.
La seconda parte della tragedia è un processo ad Aiace. In es-
so il cadavere è anche l’accusatore’. Il crudele rapporto con il
mondo della prima metà sfocia qui in un rendimento di conti
politico e nell’ingiuria. 11 cadavere è ancora troppo ingombran-
te. Paragonati a lui, tutti gli altri, amici e nemici, persino
Odisseo grazie al quale alla fine Aiace verrà sepolto, appaiono
piccoli e insipidi.
Aiace è generalmente considerata la più omerica delle tragedie
di Sofocle; ma nel confronto inesorabile tra la leggenda di
Omero e un mondo privo di eroismo, gli eroi dell’Iliade vengo-
no degradati ancor più crudelmente che in Euripide. Bisogna
che Aiace sia spogliato di ogni grandezza ed eroismo, prima

60
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

che Sofocle gli conceda un momento di fredda lucidità e gli


restituisca una nera grandezza, tanto diversa da quella omeri-
ca, e un altro tipo di eroismo, assai più amaro.
L’enorme cadavere giace ancora sulla scena. Menelao, Agamen-
none e Odisseo se ne sono andati. Îl coro dei marinai e Teu-
cro rendono ad Aiace l’ultimo omaggio. Poi il cadavere viene
cerimoniosamente portato via in un corteo funebre. Ma quale
Aiace hannoe sepolto nella tragedia di Sofocle?

2.

Achille monta su tutte le furie quando apprende, al consiglio


di guerra, che Agamennone ha deciso di sottrargli Briseide, sua
prigioniera. Ha già sfilato la spada dal fodero e si accinge ad
aggredire il re, quando all’improvviso compare. dietro di lui
Atena e “per la chioma bionda prese il Pelide, a lui solo visibi-
le; degli altri nessuno la vide. Restò senza fiato Achille, si vol-
se, conobbe subito Pallade Atena: terribilmente gli lampeggia-
rono gli occhi e volgendosi a lei parlò parole fugaci: ‘°Perché
sei venuta, figlia di Zeus egioco, forse a veder la violenza d°
Agamennone Atride? Ma io ti dichiaro, e so che questo avrà
compimento: per i suoi atti arroganti perderà presto la vita‘. E
gli parlò la dea Atena occhio azzurro: ’lo venni a calmar la
tua ira, se tu mi obbedisci, dal cielo [...] Su, smetti il litigio,
non tirar con la mano la spada: ma ingiuria con parole [...]°”
(Iiade, 1, 197 sgg.).
Dopo che l’armatura di Achille è stata data a Odisseo, Aiace
infuriato si dirige in piena notte verso le tende dei figli di A-
treo. Atena gli sta dietro, come nell’Iliade. Ma Atena gli toglie
la ragione e gli confonde i sensi. Con la sua spada Aiace non
assale i generali, ma un armento di buoi e di arieti.
Briseide era ‘“guancia graziosa” e Achille dormiva con lei tutte
1è notti. L’armatura di Achille è stata forgiata da Efesto. Sia

61
DNivorare gli dei

Briseide sia l’armatura sono simboli. Briseide era bottino di


guerra di Achille; l’armatura, dopo la morte di Achille, doveva
essere data al più valoroso dei greci. Sono entrambi trofei, em-
blemi di coraggio, di una condizione di eroe®,
“Canta, o dea, l’ira d’Achille...” L’Achille di Omero e l’Aiace
di Sofocle sono posti in situazioni analoghe®. L’ordine eroico
è minacciato. Achille torna alla sua nave e aspetta. Ma dopo la
morte dell’amico Patroclo, torna in battaglia e uccide Ettore,
principe di Troia. La sua scelta è tra la gloria e una lunga vita.
Ha scelto la gloria. L’ordine eroico è salvo. În Aiace invece è
totalmente distrutto. “Il guerriero migliore era Aiace Telamo-
nio, fin che Achille fu irato...” (Itade, II, 768). “Li inzupperò
tutti nella merda”, scriveva Flaubert dei suoi personaggi. So-
focle immerge il più valoroso dei greci dopo Achille nel san-
gue di animali macellati. “Si trova dentro con la fronte sudata
e con le mani insanguinate” (Aiace 9). Anche nell’Iliade Aiace
suda moltissimo: “Sempre era in preda a un affanno terribile,
continuo il sudore colava abbondante da tutte le parti del cor-
po” (XVI, 108). Ma questo avveniva in battaglia, quando al-
lontanava i troiani dalle navi greche. In Sofocle il sudore di
Aiace è quello di un macellaio. Atena lo chiama in scena per
mostrarlo allo spaventato Odisseo.
Atena — E del figlio di Laerte che cosa ne hai fatto? In quale
sorte versa? O forse ti è sfuggito?
Aiace — Vuoi sapere dov’è quella volpe maledetta?
Atena — Appunto. Parlo di Odisseo, del tuo nemico.
Aiace — Lo tengo dentro incatenato per mia gioia, o regina.
Ancora non voglio che muota.
Atena — Ma prima di ucciderlo, che cosa vuoi farne a tua
gioia?
Aiace — Prima legato alla colonna della mia tenda...
Atena — Quale pena darai a quell’infelice?
Aiace — Sotto i colpi di frusta alla schiena perisca nel san-
gue!
(AiGCB, ].0]. Sgg.)

62
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Atena tortura Aiace che ha portato alla pazzia, come Aiace


tortura il bianco ariete cui ha legato le zampe con una fune.
Sino a epoca abbastanza recente i filologi classici considerava-
no le opere di Sofocle un esempio di teatro statuario, austero
e pio. Nel vero Sofocle, Eracle ulula dal dolore mentre lo bru-
ciano vivo, ulula Filottete per la sua ferita suppurante e ulula
Aiace”. Aiace è quello che ulula più forte. Il prologo di Aiace,
con Atena che istiga l’eroe, con lo spaventato Odisseo e coni
giganteschi arieti macellati fa venire in mente il dramma sati-
resco® o le parodie di Aristofane; lo spettatore moderno pensa
anche a Brecht. Il non ovvio diventa ovvio, l’ovvio non ovvio.
Uccidere ì propri nemici è eroico, torturare animali innocenti,
anziché uomini, non è eroico.
[...] e una parte di animali sgozzava a terra nella tenda; un’al-
{ra parte tagliava sui fianchi, li spaccava in due; e poi, sollevati
due arieti dai bianchi piedi, di uno troncò la testa e recise la
punta della lingua, e testa e lingua gettò via a terra; legato
l’altro presso una colonna, in alto, lo colpiva con doppia cor-
reggia di cuoio, grande, sonora, sibilante e scagliava parole o
traggiose, sconce, che un demone, non un mortale, gli suggert-
va. ‘
(Aiace, 234 s3gg.)
Odisseo parla dell’assassinio dei pastori che custodivano gli ar-
menti dell’esercito; Atena racconta del massacro dei buoi e
delle pecore; la prigioniera di Aiace, Tecmessa, riferisce come
ha tagliato la gola ai tori e spezzato la schiena ai cani da pa-
store, Le descrizioni sadiche e fastidiose degli animali torturati
si prolungano per tutto il prologo e per metà del primo episo-
djo. Durante questa lunga scena, mentre Tecmessa racconta
della follia di Aiace e si sentono le sue grida dalla tenda, il
coro descrive ‘“non verbalmente”, attraverso i gesti e i movi-
menti del corpo; la sua pazzia, la sua umiliazione e il suo tor-
mento. ‘“Se oggi siamo cosf incapaci di dare di Eschilo, di So-
focle, di Shakespeare un’idea degna di loro”, seriveva Artaud,

63
Divorare gli dei

“lo si deve molto verosimilmente all’aver smarrito il senso fisi-


co del loro teatro”®. Se al posto della danza stilizzata di un
coro vestito di chitoni, immaginiamo attori addestrati come
nel teatro di Grotowski, certo ci avvicineremo maggiormente
al teatro crudele di Sofoctle.
Ora i lembi della sua tenda sono aperti. Aiace siede su una
catasta di animali massacrati, come un macellaio nella sua bot-
tega. Sofocle, come Shakespeare e i grandi elisabettiani, non
aveva paura della vista del sangue e delle teste tagliate. L’es-
senziale per lui era la degradazione, fisica e spettacolare, dell’
eroe, Atena fa di Aiace l’oggetto di una lezione da impartire
sulla scena1° . “Ora ti mostro chiara la sua follia”, dice a Odis-
se0, “perché tu possa annunciare a tutti gli argivi di averla ve-
duta” (66 sg.).
Nell’Iliade i greci sono crudeli e il loro odio non conosce limi-
ti. Agamennone avverte che nessun troiano verrà lasciato in vi-
ta e che persino i nascituri saranno strappati dal ventre delle
loro madri; Achille trascina il cadavere di Ettore con i propri
cavalli e uccide dodici prigionieri troiani davanti al rogo fu-
nebre di Patroclo. Ma nel mondo di Omero non esiste tortura.
Uccidere è una cosa seria, da descrivere in modo oggettivo, a-
sciutto, preciso, come una difficile operazione chirurgica:
“[...] colse con esso [un masso] Enea sull’anca, dove la coscia
si curva a formar l’anca: lo chiamano cotilo. Gli fracassò il
cotilo e gli spezzò due tendini, la pietra scheggiata stracciò la
pelle; e l’eroe cadde e rimase in ginocchio puntando la mano
forte contro la terra; un’ombra buia gli copri gli occhi” (Ilia-
de, V, 305 sgg.). Uccidere richiede una conoscenza dell’anato-
mia umana; descrivere un’uccisione significa trasmettere questa
conoscenza. “D’asta Merione lo colse {...] tra le vergogne e il
bellico a metà, dov’è molto doloroso Ares per i mortali infeli-
cì” (Ikiade, XIII, 567 sgg.).
Il narratore è sempre imparziale e si mostra correttamente ri-
spettoso sia di chi uccide sia di chi viene ucciso. “Tutta copri-

64
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

van la pelle l’armi bronzee, bellissime, ch’Ettore aveva rapito,


uccisa la forza di Patroclo; là solo appariva, dove le clavicole
dividon le spalle dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo ucci-
der la vita. Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre in-
furiava; dritta corse la punta traverso al morbido collo; però il
faggio greve non gli tagliò la strozza, cosf che poteva parlare,
scambiando parole” (Iliade, XXII, 321 sgg.).
Omero fa sempre morire i suoi eroi con dignità. La morte è
parte integrante dell’ordine eroico: “[...] se noi ora, fuggendo
a questa battaglia, dovessimo vivere sempre, senza vecchiezza
né morte, 10 certo allora non lotterei fra i campioni, non spin-
gerei te alla guerra, gloria dei forti; ma di continuo ci stanno
intorno Chere di morte innumerevoli, né può fuggirle o evitar-
le i1 mortale” (Jkade, XII, 322 spg.).
E poiché bisogna comunque morire, è meglio essere un eroe.
Sia il vincitore sia il vinto sanno che moriranno!!. Forse per
questo a Omero interessava più la descrizione tecnica del col-
po che le sensazioni dei suoi eroi. “Il Fileide buona lancia,
venutogli a tiro, lo colse nel capo, alla nuca con l’asta puntu-
ta. Dritto fino ai denti la lingua il bronzo troncò; lui piombò nella
polvere, strinse il bronzo freddo coìi denti” (Iiade, V, 72 sgg.).
L’uomo non si divide in anima e corpo!? e non c’è neanche
una divisione tra nobile e volgare. La morte è parte dell’ordine
naturale come il pasto abbondante prima della battaglia e la
prigioniera che aspetta nella tenda dopo la battaglia. Persino
l’implacabile punzecchiatura di una mosca ostinata ha un suo
giusto posto in questo mondo eroico. “[...] gio{ la dea Atena
occhio azzurro che [Menelao] l’avesse invocata per prima di
tutti gli dèi; infuse forza nelle sue spalle, nelle ginocchia, gli
ispirò in cuore l’ardire della mosca, che, pur cacciata, molto
alla pelle dell’uomo s’attacca, per morderla” (Iiade, XVII,
067 sgg.). Nel libro- XII Atena e Apollo assumono l’aspetto di
avvoltoi e si godono lo spettacolo della battaglia dalla cima di
una quercia!3 ,
Divorare gli dei

La morte incombe a ogni svolta; e cosi gli dèi. Un dio può


deviare la freccia scoccata dal migliore degli arcieri in modo
che colpisca il punto dove s’incrociano spesse cinghie di cuoio
senza trafiggere il corpo. Gli dèi omerici sono il caso, la buona
o la cattiva fortuna che fa scivolare una spada lungo l’armatu-
ra o un piede in una pozza di viscido sangue. ‘“[...] sempre il
volere di Zeus val più di quello di un uomo; egli anche un
uomo gagliardo può mettere in fuga, e vittoria gli nega facil-
mente; a volte, invece, lo sprona egli stesso a combattere”
(Niade, XVI, 688 sgg.). A volte gli dèi, come Ate, sono sangue
resso che scorre sugli occhi nell’ira. Come la milza e il fegato,
gli dèi sono a volte soltanto un nome, una sede e una fonte di
passioni. .
Gli dèi sono vicini, coinvolti nelle vicende umane, ma tra gli
dèi, come tra gli uomini, ci sono i più deboli e i più forti.
Quando lIride si presenta ad Achille, il greco, prudente, le
chiede per prima cosa quale dio l’abbia inviata con un messag-
gio. Gli dèi sono coinvolti nelle vicende umane e proprio per
questo prendono partito. Atena suggeriscea Diomede di non
contare troppo sul suo aiuto: c’è il rischio che “un altro dio
[...] ridesti anche i teucri” (Iiade, X, 511).
Gli dèi di Omero hanno raramente compassione degli uomini,
ma non li trattano mai con disprezzo. Sono immortali e dalla
loro prospettiva li paragonano a foglie che un forte vento può
in un attimo scrollar via dall’albero. E’ difficile provare invidia
per foglie spinte dal vento e non c’è motivo di umiliarle o di-
sprezzarle. L’Atena dell’Aiace di Sofocle appartiene a un mon-
do ben diverso da quello omerico. Fa pensare ogni tanto a
una vecchia e invidiosa vivandiera di reggimento che, a forza
d’aggirarsi per l’accampamento, abbia finalmente trovato l’oc-
casione per strillare: “Io so oscurare anche la più brillante del-
le visioni” (85). E sibila di gioia al pensiero di poter umiliare
e denigrare Aiace: “C’è cosa più bella che ridere dei nemici? ”
(78)!4.

66
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Gli dè: di Omero non dànno lezioni di moralità agli uomini.


L’Atena di Sofocle fa parte di una cultura diversa, nella quale
la grandezza, o anche soltanto il successo, degli uomini appare
sospetta aglì occhi degli dèi.
A noi, per quanto brevi i giorni cadano,
sia nel presente che nel più loniano
futuro, come fu già nel passato,
una legge permane: alla grandezza
umana si accompagna la sventura.
(Antigone, 603 spg.)!5
L’umiliazione inflitta ad Aiace da Atena è una lezione par-
ticolarmente crudele; quasi grottesca, della nuova didattica
divina:
Vedi, Odisseo, la potenza degli dèi come è grande? C’era a
tuo giudizio un uomo più di lui prudente, più assennato, ©
pari a lui nelle azioni virili, a tempo giusto?
(Aiace, 118 sgg.)
Gli dèì di Omero vigilavano attentamente perché gli uomini
offrissero loro i sacrifici prescritti. Ma l’Atena di Sofocle non
bada più alle offerte. Quando lei lo chiama, Aiace, pur nella
sua follia, si ricorda di promettere doni d’oro massiccio per il
suo altare. Ma a questa Atena non interessano le offerte, sol-
tanto i principi. Atena che tormenta Aiace è una dea della
teologia.
E un’altra volta, mentre la divina Atena lo esortava nel mezzo
di una mischia a rivolgere il micidiale suo braccio contro i ne-
mici, rispose alla dea con parole terribili ed empie: “Regina,
avvicinati piuttosto agli altri argivi: qui dove son io schierato
col miei l’urto nemico s’infrangerà”.
' (Aiace, 774 sgg.)
Omero paragona Aiace a un asino caparbio. Non meno testar-
do è l’Aiace di Sofocle. Al padre che gli raccomanda di invo-
care sempre l’aiuto degli dèi, risponde infatti: “Padre, con l
aiuto divino potrebbe vincere anche un uomo da nulla. Îo so-

67
Divorare gli dei

no sicuro di riportare la gloria anche senza l’aiuto degli dèi”


(767 sgg.).
E° significativo che, tra tutti gli eroi dell’Iltade, Sofocle abbia
attribuito dubbi metafisici al solo Aiace. Su un vaso attico
della seconda metà del VI secolo a.C., Aiace, che sta giocando
a dadi con Achille, ha spalle due volte più larghe ed è parec-
chio più alto!$. l gigante omerico, ‘““alto sopra gli argivi della
testa e delle larghe spalle” (Iiade, II, 226), che butta già i
troiani da una nave brandendo ‘“in pugno una pertica enorme,
da lotta navale, di ventidue cubiti” (XV, 677), non pareva in-
cline alle riflessioni intellettuali. Aiace conosceva la propria
forza e voleva essere forte non solo ‘“in sé”, ma “per sé”.
Questo gigante che vuole improvvisamente essere responsabile
della propria vita dall’inizio alla fine e combatte in prima per-
sona il mondo, sembra il primo eroe moderno della tragedia
greca. E' l’Aiace che Sofocle ha trovato nell’Itade, ma leggen-
do, come sempre, Omero in modo virulento e drammatico,
con assoluta coerenza, si potrebbe dire.
Quando, battendosi per il corpo di Patroclo, i greci non rie-
scono a contenere l’attacco dei troiani, “prese a parlare tra lo-
_r0'iì grande Aiace Telamonio: ’Ohimè, anche chi fosse molto
sciocco ormai capirebbe che il padre Zeus aituta i troiani; i lo-
ro dardi colgono tutti, chiunque li lanci, vile o gagliardo; Zeus
continuamente li drizza. È invece a noi tutti cadono in terra,
cosf{, inutilmente. Ma su, pensiamo anche noi piano migliore
[...|‘” (Hiade, XVII, 628 sgg.).
Aiace non è arrogante: è raro che gli atleti lo siano. Non di-
sprezza gli dèi. E' solo che può fare a meno del loro aiuto. Ha
in sé, come dirà J.H. Finley, “la tacita forza della terra”!? .
Gli dèi di Omero rispettavano la torva ferocia di Aiace. L’
umiltà non era contemplata nel codice eroico degli dèi o degli
uomini. Solo l’Atena di Sofocle chiede umiltà ai mortali. Mon-
ta su tutte le furie perché — dice il messaggero riportando Îe
parole dell’indovino Calcante — le idee di Aiace ‘“escono dai

68
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

limiti umani”. F° lo stesso Calcante che aveva ordinato di sa-


crificare Ifigenia sull’altare di Artemide e che in tutta la tradi-
zione postomerica rappresenta la nuova “civiltà della colpa” ?

come la chiama Dodds, la cupa invidia degli dèi!® .


Tutte le opposizioni fondamentali sono già presenti nel prolo-
go. “Sempre ti scorgo intento”, dice Atena a Odisseo nel pri-
mo verso di Aiace, “a tramare insidie contro i nemici”. L’ani-
male non ha più via di scampo; tra poco la dea mostrerà a
Odisseo Aiace impazzito. Atena è spietata, mentre Odisseo ha
compassione di Aiace. Ma la sua compassione non fa riferi-
mento alla collera di Atena. È’ la compassione di un pio:
“Tutto può accadere se un dio usa le sue arti” (86). Il pio
uomo politico sa che, se gli dèi lo vogliono, si può fare a un
uomo qualsiasi cosa. Lo sa e lo accetta. “Vedo che noi tutti
che viviamo non siamo nient’altro che larve di sogni, ombre
vuote” (125 sgg.)!°.
ll pio uomo politico sa che l’uomo è niente; una manciata di
polvere nelle mani di esseri più forti di lui; e la polvere può
essere tolta con facilità. H pio uomo politico obbedisce agli
dèl. Per lui gli dèi arrivano sempre in tempo?° , Odisseo dice
ad Atena:
Tu giungi opportuna, e mi lascio guidare da te, come ho sem-
pre fatto e farò.
(Aiace, 34 sg.)
Fra quanti hanno scritto su Aiace, C. Whitman è forse il solo
ad aver capito che Atena e Odisseo rappresentano la stessa po-
litica e la stessa morale. Atena, egli scrive, “esprime una visio-
ne della vita che Odisseo accetta, ma che Aiace ha sempre ri-
fiutato e continua a rifiutare’”?! , L’eroico Aiace, il folle Aia-
ce, l’umiliato Aiace non vuole ammettere che l’uomo non è
altro che ombra.
Noi siam d’un giorno: che cos’è? che cosa
non è? Sogno d’un’ombra è l’uom. Ma dove
baglior divin gli piove,

69
Divorare gli dei

dolce è la vita e nella luce ei posa.


(Pitiche, VIII)?2
Sofocle precede Pindaro solo di una generazione, ma nelle sue
tragedie, quando appare un dio, non c’è luce e la vita non di-
venta dolce. Quando appare un dio, l’uomo è braccato a mor-.
te. Uscito dalla sua follia, Aiace grida: “La forte figlia di Zeus
fa strazio di me, rovinoso” (401).

3.

“O tenebre, che più del sole a me risplendete! ” (394), Come


Edipo dopo che sì è cavato gli occhi, Aiace, uscendo dalla fol
lia, vede per la prima volta il mondo qual è e se stesso nel
mondo. E’ caduto in una doppia trappola. Per i greci è l’Aiace
che voleva assassinare i capi della spedizione. Per se stesso è
l’Aiace che ha perso il suo prestigio di eroe. Nel mondo non
eroico morirebbe lapidato come un traditore. In guello eroico
si è reso ridicolo per sempre.
Guarda il coraggioso, il forte nei pericoli, l’uomo che in bat-
taglia non trema in faccia al nemico! Guarda come il braccio
è gagliardo, terribile contro bestie mansuete! Quali risa adesso
mi oltraggeranno!
(Aiace, 364 Sgg.)
Aiace è stato scaraventato nel fondo dell’abisso, è stato posto
nella situazione che è, secondo Sofocle, la sola vera condizio-
ne umana. Aiace, ingannato dagli dèi e dagli uomini, è stranie-
ro nel mondo; ma è straniero persino di fronte a se stesso,
perché l’Aiace che ha cessato di essere un eroe è un Aiace di-
verso. Questo nuovo Aiace è deinotaton, lo straniero, l’estra-
neo; l’estraniato.
E adesso che cosa devo fare? Visibilmente gli dèi mi odiano,
mi odia l’armata dell’Ellade, mi odia tutta la Troade, mi odia-
no questi campi intorno.
(Aiace, 457 Sgg.)

70
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Dal momento in cui esce dalla follia a quello in cui sìi ammaz-
za, l’intera azione consisterà, come nelle tragedie di Racine,
nel processo attraverso il quale l’eroe giungerà alla decisione
suprema. Quest’ultimo rendimento di conti con il mondo deve
avvenire nella piena consapevolezza. La morte sembra inevita-
bile. Ma ci sono diversi modi di morire. Ajace cerca disperata-
mente una morte eroica. Ma non c’è più spazio per essa. Il
mondo non è più diviso tra greci e troiani.
O forse devo correre all’assalto delle mura di Troia, azzuffan-
domi da solo a solo contro tutti e, dopo cosi bella e utile
impresa, finalmente morire? Potrei farlo, ma colmerei gli Atri-
di di gioia, come credo. Neppur questo è possibile.
(Aiace, 466 sgg.)
Offeso da Agamennone, Achille torna sulla sua nave a suonare
la lira e a guardare Patroclo. Aspetta. Ha persino annunciato
l’intenzione di salpare e di tornarsene nella nativa Ftia. Ma
Achille non è stato messo in ridicolo. Aiace non può andare
da nessuna parte. Ovunque vada sarà sempre l’Aiace che ha
fatto strage di animali. Il mondo eroico è come una trappola:
impossibile fuggirne. Egli sarà ovunque nudo come un verme
perché ha perso l’onore.
E quale viso mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendo-
gli davanti nella luce? Come resisterà a fissarmi negli occhi,
presentandomi a lui senza nulla, senza il premio del mio valo-
re {...]?
(Aiace, 463 sgg.)
Se non è possibile morire da eroe e se non esiste luogo nel
quale fuggire, non rimane che il suicidio. “Il tentativo di Aia-
ce di formulare un’alternativa al suicidio eroico”, serive Knox,
“lo convince della sua impossibilità”°3 . Ma il suicidio “eroi-
co” non è contemplato nel codice eroico. È’ un’invenzione di
epoche non eroiche. Îl mondo dell’Hiade non conosceva il sui-
cidio. Gli eroi potevano scegliere tra la viltà e ‘il coraggio e
avevano sempre a portata di mano la spada di qualcun altro. Il.

71
Divorare gli dei

suicidio di Aiace compare solo nel ciclo epico postomerico.


Uno scolio di un solo verso che ci è stato conservato dice:
‘““Secondo l’autore dell’Etiopide Aiace si uccise verso l’alba” 24
L’Aiace di Sofocle esamina le ragioni del suicidio in un
mondo dove improvvisamente non esiste più sistema di valori.
Ci sono molte maniere di morire. Anche il suicidio può essere
facile o difficile. Un uomo può gettarsi sulla propria spada,
continuando a illudersi di salvare il mondo dei valori eroici.
Ò vivere nobilmente o nobilmente morire: è questo il dovere
dei forti.
(Aiace, 479 sg.)
Aiace era pronto sin dall’inizio a una morte eroica, Sino a
questa scena, il mondo con ìl quale lottava e al quale si sco-
priva improvvisamente estraneo, il mondo della dea vendicati-
va, del subdolo Odisseo e degli odiosi figli di Atreo, era il
mondo di quelli che uccidono. Ma accanto a esso c’era un al-
tro mondo, quello di chi viene ammazzato,.
Atace, mio signore, non esiste per gli uomini male più grande
di una sventura imposta dal destino. lo nacqui da un padre
libero, potente per ricchezza come nessun altro mai dei frigi.
Ora sono schiava.
(Aiace, 485 sgg.)
Tecmessa era la prigioniera di Aiace e la madre di suo figlio.
“O vivere nobilmente o nobilmente morire” significa qualcosa
di ben diverso per i vincitori e per i vinti. L’eroica disfatta di
Aiace appare improvvisamente un’illusione orgogliosa e crudele
se messa a confronto con la vera sofferenza umana.
Tu distruggesti la mia patria in guerra e la fortuna avversa mi
strappò la madre e il padre, divenuti ora abitatori dell’Ade.
Chi altro potrebbe, all’infuori di te, sostituire la patria? Chi
altro la ricchezza? In te io vivo tutta. Abbi anche di me pen-
siero.
(Aiace 515 sgg.)
Tecmessa ripete le parole che Andromaca, la moglie di Ettore,

72
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

pronuncia dicendogli addio: ‘“Ettore, tu sei per me padre e


nobile madre e fratello, tu sei il mio sposo fiorente; ah, dun-
que, abbi pietà, rimani qui sulla torre; non fare orfano il fi-
glio, vedova la sposa” (Miade, VI, 429 sgg.). Ma ancora una
volta Sofocle legge Omero amaramente e drammaticamente?® .
Andromaca ha perduto, uccisi, il padre e sette fratelli, ma è
diventata la moglie di Ettore, il figlio del re di Troia. Tecmes-
sa è soltanto una prigioniera, ottenuta come bottino: “Quan-
do tu morirai e mi abbandonerai, io da quel giorno stesso, ra-
pita con violenza dagli argivi, insieme col figlio tuo dovrò per
sempre vivere da serva” (496 sgg.).
I] mondo eroico spicca come un’isola nel mare della sofferen-
za umana. În nessun’altra tragedia di Sofocle è cosi netto il
contrasto tra umano e inumano. Appena Aiace smette di ulu-
lare, le sue prime parole umane, nel tornare in senno, sono:
“O figlio, o figlio! ” Tecmessa gli porta il ragazzo. Aiace, che
ha vissuto l’esperienza di Achille offeso, dovrà ora, come Etto-
re, dire addio al bambino. Per Achille l’eroismo era un fatto
naturale; per Ettore un dovere che sì era imposto. Come se si
fosse costretto a un atteggiamento eroico cercando nello stes-
so tempo di sottrarglisi. Ettore conoscerà la paura e la solitu-
dine del morituro quando, fuggendo da Achille, farà quattro
volte di corsa il giro delle mura di Troia prima di fermarsi e
accettare la battaglia. Ma l’Ettore che diceva addio ad Astia-
natte era ancora un Ettore prima della prova finale.
Zeus e voi numi tutti, fate che cresca questo
mio figlio, cosi come io sono, distinto fra i teucri;
cosi gagliardo di forze, e regni su llio sovrano;
e un giorno dica qualcuno: “E° molto più forte del paudre”.
(Hiade, VI, 476 seg.)
L’Ajace di Sofocle è già stato sottoposto alla prova; ha vissuto
l’umiliazione; è arrivato al fondo. Sa che l’infanzia è assenza
di consapevolezza e di maturità, che è solo disperazione. Vuo-
le che il figlio sia come lui, odii come lui, ma sia più felice di

73
Divorare gli dei

lui. Vuole ancora l’impossibile. Ma la felicità non è più un


precetto eroico.
Già fin da ora ti ammiro con invidia, per questo almeno: che
non hai coscienza, che nulla sai di queste sciagure. La vita più
dolce infatti è quella che non sente nulla. Non sentir nulla è
un male privo di dolore, finché non saprai che cosa sia la gioia
e il dolore. Ma quando lo sapraîi un giorno, allora dovrai mo-
strare al nemico quello che tu sei e da quale padre sei nato.
(Aiace, 992 sgg.)
Nel famoso primo capitolo di Mimesis, Auerbach contrappo-
ne al mondo omerico, che si crogiola in una luce uniforme,
le storie del Vecchio Testamento, dove è netta la divisione
tra le sfere della luce e dell’ombra. Il mondo di Omero è
come un bassorilievo dove ogni particolare è stato trattato con
eguale attenzione, cura e rispetto: un bassorilievo non ha pro-
fondità. 1 personaggi sono invariabilmente in primo piano ed
esistono ‘“sempre e soltanto al presente”. Sempre uguali, “si
svegliano ogni mattina come se fosse il primo giorno della loro
vita”. Odisseo torna a Itaca dopo venti anni, come se fosse
stato via solo una notte. Per Auerbach i poemi omerici e il
Genesi rappresentano due diverse visioni del mondo e dell’uo-
mo. ‘“La molteplicità della vita psichica appare in Omero sol-
tanto nel succedersi e nell’alternarsi delle passioni, mentre agli
scrittori ebraici riesce di esprimere contemporaneamente strati
della coscienza sovrapposti l’uno all’altro e in conflitto fra di
essi”. Abramo, Isacco e Giacobbe emergono per un poco dall’
ombra, “luogo e tempo sono indefiniti e bisognosi di chiari-
mento; i pensieri e i sentimenti restano inespressi, vengono
suggeriti soltanto dal tacere e dal frammentario discorrere; l
insieme [...] rimane enigmatico e nello sfondo”’® ,
Forse una simile scia d’ombra segue anche Achille o, più anco-
ra, Ettore. Ma è solo con Sofocle che il mondo e gli uomini
emergono dall’oscurità e-inevitabilmente vi fanno ritorno.
Il tempo, grande e infinito, porta alla luce tutte le cose dall?

74
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

oscuro e nasconde quelle manifeste.


(Aiace, 646-8)
Aiace torna sulla scena. È’ uscito dalla tenda con una spada.
E° un Aiace che ha visto squarciarsi l mondo per un terremo-
to. Aveva fatto una volta un giuramento di fedeltà. Che cosa
ne è rimasto?
Anche il giuramento più terribile, l’animo più fermo, vacilla.
Îo stesso che prima duro resistevo, come ferro forgiato, nella
mia decisione, mi sono lasciato ammansire dalle parole di
questa donna. La pietà mi vieta di abbandonarla vedova îtra
nemici e orfano mio figlio.
(Aiace, 650 sgg.)
Îl mondo eroico è cerollato,. Aiace ha finalmente capito che
non riuscirà né a vivere né a morire eroicamente. Dovrebbe
allora venire a patti con il mondo? Ma che razza di mondo è
quello dove un eroe può diventare un macellaio? “Il tempo,
grande e infinito, porta alla luce tutte le cose dall’oscuro e
nasconde quelle manifeste; niente dungque c’è. d’inatteso”
(646-8). Non sì è al sicuro da nulla; l’instabilità è insita nelle
cose e dal mondo ci si può aspettare di tutto. Vivere significa
accettare il fatto che non c’è nulla di stabile. “Deve esistere
qualcosa di certo, deve esserciì! ” esclama nella Condizione
umana di Malraux il terrorista Chen, che uccide per un folle
bisogno d’affermazione e di certezza. Ma se non c’è nulla che
sì riesca ad afferrare, c’è pur sempre la terra: si può almeno
lasciare una buca nel terreno.
Poi cercherò un luogo solitario, senza orma umana, e là sca-
verò la terra e vi occulterò questa mia spada, affinché nessuno
la veda, odiosa arma: la guardino sotterra la notte e l’Ade.
(Aiace, 660 sgg.)
Davanti al coro sbalordito, che non capisce più nulla, Aiace
continua il suo sconcertante monologo sulle condizioni della
grande resa?’?,
În avvenire, dunque, cederemo agli dèi e impareremo a venera-
Divorare gli dei

re gli Atridi: essi comandano [...}


(Aiace, 665 sgg.)
Lo scoliasta era stupefatto di questa inattesa inversione stilisti-
ca. Aiace ha finalmente compreso che bisogna sempre arren-
dersi agli dèi senza condizioni. Nel monologo, ritorna, come
unm’eco, il tema di Atena che ha trasformato Aiace in un per-
sonaggio ridicolo. “Vedi la potenza degli dèi come è grande? ”
aveva detto a Odisseo. Ciò che conta alla fine è una sciocchez-
za: la rassegnazione al potere, a tutti i poteri: degli dèi, dei
sovrani, della natura. Sono loro i più forti, ma questa rasse-
gnazione deve essere imposta.
[...] e pertanto bisogna piegarsi: perché non dovrei? Anche le
potenze della natura, le più terribili, si piegano ai diritti giusti
e riconosciuti: l’inverno che cammina nella neve lascia il passo
all’estate piena di frutti; fugge lo stanco giro della notte da-
vanti al giorno che sorge coi suoi bianchi cavalli, perché riful-
ga la luce; il vento impetuoso cede al vento più mite e il mare
gemente si placa. Similmente il sonno ci lega e ci scioglie, né
sempre ci tiene in suo potere. E noi come non impareremo a
esser saggi?
(Aiace, 668 sgg.)”®
Îl tempo, “il grande divoratore”, sbriciola tutte le cose grandi,
e ì suoi cambiamenti si lumtano a una opposizione inesorabile.
tra forza e debolezza. Le nevi compatte dell’inverno devono
cedere il posto alla fertile estate, la notte ostinata è segufta
dal giorno luminoso, e cosi via. Le montagne sono state erose,
il mondo è divenuto piatto. Come si può vivere in un mondo
piatto? ‘‘Perché non dovrei piegarmi? Anche le più terribili
potenze della natura...
Uscito dalla sua follia, Aiace ruggisce come un toro ferito. l
toro viene condotto in una piatta arena. “Come non imparere-
mo a essere saggi? ” Aiace non vuole imparare la saggezza del
mondo piatto. Tutti i conti sono stati saldati. Ha ormai preso
la sua decisione.

76
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Io vado dove devo andare. Fate quello che vi ho detto. Forse


presto saprete che mi sarò liberato, anche se ora sono infelice.
(Aiace, 690 sgg.)
Aiace e Tecmessa escono, rimane solo il coro. I morbidi cotur-
ni battono sempre più in fretta sul suolo, il coro corre intorno
all’orchestra. “Intreccia in mezzo a noi le danze! ‘’ (698). La
tragedia di Ajìace si svolge in un mondo non eroico. Gli amici
più fedeli, i marinai di Salamina, fanno salti di gioia tra la sce-
na dell’ultimo rendimento dei conti di Aiace con il mondo e
quella del suo suicidio. La danza frenetica del coro, piena di
allegria e di grida gioiose, non è soltanto una stupefacente tro-
vata teatrale: porta un soffio improvviso di assurdo. “Intreccia
in mezzo a noi le danze! ’’2®
Poi l’orchestra finalmente si svuota. Per la prima volta Aiace è
solo. Ha piantato in profondità nel suolo la sua spada, con la
lama in alto. “La solida immobile spada”, come osserva Knox,
‘’sulla quale si uccide, è l’unico punto fisso in un mondo dove
mutamento e movimento sono i soli modì d’esistenza”., l suo-
lo sul quale cadrà il grosso corpo di Aiace è troiano; la spada
sulla quale si getta era un regalo di Ettore.
La spada è là, piantata diritta, salda, acuta, nel modo più ta-
gliente. Se posso indugiare a riflettere, a ricordare, essa è un
dono di kttore; il più aborrito dei miei ospiti, il più odioso
alla mia vista; ed è piantata in questo suolo di Troia, suolo
nemico [...]
(Aiace, 815 sgg.)
Aiace nomina due volte la spada riceévuta da Ettore e sul suo
cadavere Teucro ne racconta la storia. Dopo un duello rimasto
senza esito, Aiace ed Ettore si erano scambiati doni:
Proprio con quella cintura ricevuta in dono da Atiace, Ettore,
legato al carro, fu trascinato spietatamente sino a esalare la
vita; Aiace, che teneva questa spada, dono di Ettore, proprio
con questa si è ucciso, su questa è precipitato. Che forse que-
sto ferro non lo forgiò una Erinni? E non fu Ade, feroce ar-

77
Divorare gli dei

tefice, a fabbricare quella cintura? lo affermo dunque: gli dè


tramano sempre tutte le sciagure a danno degli uomini [...]
(Aiace, 1029 sgg.)
Nell’Iiade Ettore deve essere stato trascinato dalla stessa cin-
turà che aveva avuto da Aiace nel libro VII, ma Omero non lo
ritiene evidentemente un particolare rilevante e non ne fa al-
cun cenno. Îl mondo omerico non è manicheo: non ci sono
maledizioni che si estendono sino alla decima generazione, né
rossi tappeti che basta calpestare per attirare la collera. degli
dèi invidiosi. Il mondo non ha ancora assunto le sembianze di
una gigantesca trappola per topi, preparata per gli uomini sin
dagli inizi. Gli dèi, anche quando intervengono nelle faccende
umane, lo fanno casualmente, Zeus pone i destini sulla bilan-
cia o li getta, senza neanche guardarli, in due urne che conten-
gono il bene e il male. La spada di Ettore e la cintura di Aia-
ce, che portano sfortuna a chi le cinge, ricordano il nero sim-
bolismo di Eschilo e sono tra gli esempi più evidenti della “cì-
viltà della colpa” postomerica. Ma nell’Aiace di Sofocle il do-
no fatale della spada sembra svolgere anche un’altra funzione.
Nel mondo descritto da Omero, lo scambio di doni accompa-
gna la promessa e la conclusione di un matrimonio, l’elezione
del comandante di una spedizione bellica e la cerimoniosa sti-
pulazione di un trattato di pace. Assume spesso la' forma di
uno scambio di metallo: scambio, perché gli eroi non commer-
ciano. L’“‘amicizia per l’ospite’” era un sistema di legami socia-
li che assicurava un punto d’appoggio nei viaggi, sempre avven-
turosi, oltre le frontiere dell’oikos, cioè della famiglia e del
clan°° , Nel mondo dì Aiace lo scambio di doni è infausto e
foriero di morte. Il mondo eroico è crollato e tutte le sue isti-
tuzioni sono diventate improvvisamente assurde.
“Nell’Aiace di Sofocle””, osserva Arrowsmith, “ci viene mostra-
to [...] un simbolo dell’antico ethos aristocratico, colto in cir-
costanze diverse, e antieroiche, che lo degradano e lo rendono
ridicolo. Aiace, coerentemetite, preferisce il suicidio a una vita

78
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

assurda in un’epoca che gli è estranea”°*.


Prometeo era quello che “guardava avanti””; Aiace è in certo
qual modo il suo mitico fratello che “guarda indietro”. Pro-
meteo è arrivato troppo presto; Aiace, come un animale anti-
diluviano smarrito in un mondo a luì estraneo, è arrivato trop-
po tardi. Sono entrambi schiacciati da un’epoca che è loro o-
stile. “L’assurdo”, scrive Camus in Il mito di Sisifo, “dipende
tanto dall’uomo quanto dal mondo.” E ancora: ‘“L’assurdo è
essenzialmente un divorzio che non consiste nell’uno o nell’al-
tro degli elementi comparati, ma nasce dal loro confronto”° ,
‘“Si può vivere nell’assurdo”, dice Garine in ] conquistatori di
Malraux, ‘““ma non vivere accettando l’assurdo”. Aiace non
vuole accettare l’assurdo.
Che cosa gli rimane se non l’odio? Aliace era un eroe. Aiace
reso ridicolo non è più Aiace. Per riconquistare la sua condi-
zione di eroe, deve morire:
O vivere nobilmente o nobilmente morire: è questo il dovere
dei forti.
Ma non esiste più la dignità eroica e non si può più tornare al
mondo omerico. La spada è di Ettore, il suolo è troiano. Nel
mondo assurdo il suicidio è una parodia. Non si può più salva-
re nulla. “Nel mondo assurdo”’, scrive Camus, ‘“il valore di una
nozione o di una vita viene misurato in base alla sua infecon-
dità”. La scena è deserta e il mondo è divenuto disperatamen:
te vuoto. Rimane soltanto l’odio.
E invoco soccorritrici le vergini eterne che sempre vedonoî
fati dei mortali, le venerande Erinni dai lunghi passi [...] An-
date, o punitrici, rapide Erinni, alla vendetta! E non rispar-
miate il loro popolo, tutto il loro popolo!
_ (Aiace, 834 sgg.)
In La malattia mortale, Kierkegaard distingue due tipi di di-
sperazione. Îl primo, che chiama della femminilità o terreno, è
la disperazione su se stessi, sul fatto che non si riesce ad ac-
cettare se stessi, che si è “estranei” a se stessi. È’ la dispera-

79
Divorare gli dei

zione del non poter essere differenti e per Kierkegaard è un


segno di debolezza. Ma c’è anche una disperazione di tipo di-
verso, che Kierkegaard chiama della virilità. È’ la disperazione
perché non si può diventare se stessi. E’ quella che Camus ha
imparato da Kierkegaard. Il mondo vuole che io sia differente,
e quindi per rimanere me stesso, devo rifiutare il mondo. De-
vo presumere che il tempo non esista. È’ una disperazione pri-
va di speranze, nella totale solitudine, una disperazione che
non ha rimedio: “[...] piuttosto che chiedere aiuto, preferireb-
be, se dovesse essere cosf, essere se stesso con tutti i tormenti
dell’inferno””®3 , 1 grandi odiatori di Malraux conoscono bene
questa disperazione. “Colui che si uccide”, scrive in La voie
royale, “insegue un’immagine idealizzata che si è fatto di se
stesso: ci si ammazza solo per esistere”.
Aiace è passato per la prima disperazione ed è arrivato alla
seconda. Si è allora accorto che la resa dei conti definitiva
dovrà avvenire tra lui stesso e il mondo. Ha ormai accettato
tutti gli Aiace: Aiace l’eroe, Aiace il torturatore, Aiace ridico-
lizzato, Aiace cui è negata la morte eroica e che non avrà il
tempo di vendicarsi, Aiace che farà del figlio un orfano, Aiace
che degraderà Tecmessa a puttana per i generali greci. Kierke-
gaard scrive: “[...] ora vuole infuriare contro tutto, vuol essere
colui che è maltrattato da tutto il mondo, dall’esistenza; ora
l’essenziale per lui è badare di aver sempre a portata di mano
il suo tormento, l’essenziale è che nessuno glielo tolga — per-
ché altrimenti non può dimostrare, né convincere se stesso, di
aver ragione [...] Vuol essere se stesso, se stesso nel suo tor-
mento, per potere, con questo tormento, protestare contro
tutta l’esistenza’’* .
Kierkegaard sa che il suicidio non è soltanto disperazione, ma
rivolta. “Non sai che verso gli dèi non ho più doveri? ” (589).
Aiace ha chiuso con gli dè;, perché questo è il loro mondo, il
loro ordine, perché sono loro a volere che gli uomini siano le
loro ombre. Questa estrema rivolta ha come unico testimone

80
Atitace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

l’eternità: l’inalterabile. Il ‘“sopra” e il “sotto”, Zeus e Ade,


sono inalterabili.
Tu, Zeus, tu, primo [...]}
(Aiace, 825)
In Aiace, come in ogni vera tragedia, i miti e gli archetipi so-
no ancora vivi. “Le tenebre sono la mia luce”. Il bisnonno
dell’Aiace del mito era Zeus e suo nonno Éaco, uno dei tre
giudici infetnali con Radamanto e Minosse. Come la Fedra di
Racine®® , “la fille de Minos et de Pasiphaé”, dilaniata tra luce
e tenebre (“Soleil, je te viens voir pour la dernière fois”, I, 3,
172), Aiace dice addio alla luce ?$ ,
Ed ora te, splendore del giorno [...] saluto per l’ultima volta;
ché non piui potrò farlo {...]
(Aiace, 857 sgg.)
Si uccide a mezzogiorno, quando più breve è l’ombra della
spada piantata nel terreno??. Emerge dalle tenebre e torna
nelle tenebre. “Il resto lo dirò nell’Ade, ai morti” (865). Ri-
mane inflessibile sino alla fine, come il suo infernale nonno:
“L’Ade solo è implacabile e indomito, e per questo ai mortali
fra tutti ì numi è il più odioso” (Iliade, IX, 158-59).
Nel mondo assurdo l’unico eroismo ancora possibile è rifiutar-
si di accettarlo. Aiace rifiuta di accettare il mondo nel quale
tutto va perduto.

4.

La famosa frase di Malraux, “La morte cambia la vita in desti-


no”, può essere letta come un credo filosofico o come una
norma poetica. L’esistenza diviene essenza: Aiace non esiste
più ‘““per sé”; l’Aiace che poteva giudicare Aiace ha cessato di
esistere. Ora esiste solo “per gli altri””, è divenuto un oggetto e
di un oggetto si può fare qualsiasi cosa. Nella sua interpreta-
zione estetica, la formula di Malraux s_enibra avvicinarsi ad

831
Divorare gli det

Aristotele: la morte dell’eroe è la fine della tragedi'a. Viste nel-


la prospettiva del passato, vita e morte acquistano il marchio
della necessità. Una morte tragica avviene sempre per qualco-
sa: comporta una scelta e una riaffermazione dell’ordine dei
valori. La morte di Ettore e la scelta di una vita breve da par-
te di Achille confermano l’ordine eroico. Ma la morte di Aiace
non salva nulla. È’ un gesto eroico in un vuoto sterile, come
quello descritto da Camus. Aiace si uccide perché non vuole
accettare un mondo in cui tutto si è logorato; ma in un mon-
do dove tutto si è logorato, anche l’Aiace che si è ucciso. La
seconda parte della tragedia è un giudizio sul cadavere. ‘
Tutti quanti, dai primì scoliasti ai eritici dell’ultimo decennio,
hanno considerato la seconda parte di Aiace noliosa e insipida
o perlomeno artisticamente fallita. Questo ostinato non voler
riconoscere la funzione innovatrice di Sofocle non è dovuto
soltanto a un pregiudizio estetico per le unità tragiche. I filo-
logi perbene avevano paura del Sofocle nero, come gli studiosi
shakespeariani sì sono a lungo rifiutati di accettare uno Sha-
kespeare senza speranze, dove la morte di Cordelia e le soffe-
renze di Lear non ricevono alcuna remunerazione. Corneille,
uno dei pochi che abbiano capito Atiace sino in fondo, scrive-
va nel 1660 nel Discours sur le poème dramatique: “[...] quel-
le grdce a eu chez les Athéniens la contestation de Méndélas et
de Teucer pour la sépulture d’Ajax, que Sophocle fatt mourir
au quatrième acte”. Corneille non aveva gusti ‘“classicistici”
sapeva cosa significhi lottare per il potere. Assisteva con i
propri occhi alla fine di un’epoca. eroica.
In una tragedia che si chiudesse con il suicidio di Aiace sì po-
trebbero ancora leggere hybris e dike. Ma gli dè non parteci-
pano alle liti davanti al cadavere e non esistono né pietà né
paura. Le liti non sfociano in una catarsi. Non è un caso che
l’amarezza di Aiace sia stata compresa solo nelle epoche in cui
la gente conosce per esperienza diretta 1 cadaveri gettatì su cu-
muli d’immondizia, le eliminazioni frettolose e le riabilitazioni

32
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

invariabilmente tardive, collegate al culto di nuovi capi.


Questa discussione sulla sepoltura di un cadavere è una delle
più sconcertanti innovazioni drammatiche di Sofocle. Teucro e
i marinai di Salamina vogliono rendere ad Aiace gli ultimi
omaggi dovuti a un capo. Menelao e Agamennone vogliono ab-
bandonare 1il corpo del traditore ai cani e agli avvoltoi. Non
potendo vendicarsi su di lui, vogliono farlo sul suo cadavere. I
due generali, presuntuosi, codardi e arroganti, coprono d’insul-
ti Teucro, semplice arciere e figlio di una schiava.
[...] se un nulla come sei ti sollevi contro di noi a difesa di chi
è nulla ormai anch’esso.
(Aiace, 1231 sgg.)
Non si sa di preciso quando sia stato sceritto Aiace, e sono
molte le interpretazioni possibili del clima della seconda parte.
E° comunque indubbia la sua attualità. Glì anacronismi sono
voluti e il loro tono fa pensare a Euripide’® . Agamennone e
Menelao impersonano probabilmente non solo la spietatezza
degli autocrati spartani e il loro culto per la disciplina (“Le
leggi di uno stato non avrebbero mai efficacia se non fossero
protette dalla paura e dal rispetto”, 1073), ma anche la super-
bia e l’arroganza di Atene che offriva graziosamente ai suoi
alleati una scelta tra lo sterminio e la sottomissione totale. Ec-
co Menelao davanti al cadavere di Aiace:
[...] noi, convinti di condurre qui a Troia quest’uomo come
amico e alleato degli achei, lo abbiamo scoperto alla prova ne-
mico nostro, più dei troiani.
. (Aiace, 1052 sgg.)
La guerra di Troia è sempre stata, da Omero a Giraudoux, l
eterno prototipo della guerra, di qualunque guerra. In Aiace la
guerra è arrivata al suo decimo anno. La parola “troiani”” è
pronunciata per la prima volta da Menelao quando dice che
Aiace è più pericoloso dei nemici. Al comando supremo, gli,
intrighi e le ambizioni dei generali e degli ammiragli sono più
importanti della sorte della spedizione. A pagare interamente

83
Divorare gli dei

il prezzo della guerra sono soltanto i soldati, condotti in bran-


co da tutta la Grecia ale umide e afose paludi sulla costa
dell’Asia. Nell’ultimo canto del coro risuona ancora un Jlamen-
to euripideo. I marinai di Salamina non si fanno illusioni:
Quale sarà degli anni interminabili
l’ultimo che allontani la perpetua
sciagura della guerra su quest’ampio
fido di Troia, infamia degli achei?
Oh, scomparso nell’etere profondo
o nell’Ade, dimora a tutti aperta,
fosse colui che primo apprese agli elleni
il flagello dell’armi [...]
E dormo sotto il cielo coi capelli
bagnati dalla brina, e cosi devo
sempre fissare la mia mente a questa
terra di Troia che mi spinge al pianto.
(Aiace, 1189 sgg.)
La seconda parte di Aiace viene improvvisamente proiettata
nei tempi moderni. Diventa contemporanea degli spettatori. Di
tutti gli spettatori, non solo dei greci. ’ contemporanea di un
mondo non eroico. L’eroe positivo è Odisseo. Nel prologo ha
braccato Aiace come un animale. Ora sì è precipitato in scena,
instancabile e, come sempre, proprio al momento giusto. An-
cora lontano, già grida:
Che cosa accade, amici miei? Ho udito da lontano la voce al
ta degli Atridi presso il corpo morto di questo valoroso.
(Aiace, 1316 sgg.)
Nell’IHiade Aiace, “gigante, la rocca degli achei”, che avanza
‘shignando con viso tremendo” (VII, 211 sgg.), si contrappo-
ne a Odisseo, ‘“abilissimo” e ‘“pari a Zeus per saggezza”. Éra-
clito scriveva che carattere equivale a destino. Ma carattere
può anche equivalere a ideologia. L’assegnazione a Odisseo
dell’armatura di Achille, osserva acutamente Knox, è la fine
dell’epoca eroica; si svaluta la forza mentre aumenta di prezzo
l’astuzia”° .
84
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

E cieco ha il cuore il popolo


dei più. Poiché se il ver potean discernere,
per l’armi irato non avria l’acciar
confitto entro i precordi.
(Nemee, VII, 24-7)°
l nobile e taciturno Aiace di Pindaro finisce vittima della ce-
cità della folla. I segni sono capovolti: Aiace viene associato
alla luce, mentre il fatto che le armi siano assegnate a Odisseo
è accompagnato dalle tenebre di una nuova epoca. Pindaro
esalta le virtà aristocratiche e il suo Odisseo è un homo novus
della democrazia ateniese, dove soltanto l’astuzia garantisce il
SUCCESSO.
Invidia di chiacchiere si pasce e ai buoni apprendesi
e a° rei da lungi sta.
Essa consunse il figlio
di Telamone intorno al brando inflittosi.
Cosi è: l’uom non facondo
ma gagliardo di cuore, oblio nell’empia
lite lo coglie; e premio
sommo è proposto al lubrico mentir.
(Nemee, VIII, 22-9)41
Nella seconda metà del V secolo a.C. Odisseo è divenuto quasi
esclusivamente l’immagine del politico realistico, per il quale il
fine giustifica i mezzi e non esistono scrupoli. Tale è l’Odisseo
che Sofocle presenta in Filottete. Tale è l’Odisseo visto da
Aiace, ‘“quella volpe maledetta”, quello ‘“strumento di mali
abominevoli [...] il più abietto intrigante dell’esercito”; tale è.
l’Odisseo visto dal coro: ‘“nel suo animo nero quest’uomo du-
ro certo insolentisce”; persino per Agamennone è un esempio
della ‘“incostanza degli uomini”. Ma l’Odisseo del prologo e
dell’epilogo è un personaggio disegnato con assai maggiore
profondità. Sofocle conserva tutti gli opposti preesistenti:
quello fisico tra pesantezza e agilità; quello morale tra forza e
astuzia; _quèl.lo caratteriale tra inflessibilità e duttilità; quello

80
Divorare gli dei

storico tra epoca eroica e tempi non eroici; ma li mostra nella


prospettiva di una opposizione tragica tra chi rifiuta l’assurdità
della condizione umana e chi l’accetta. “Noi tutti che viviamo
non siamo nient’altro che larve di sogni, ombre vuote’”. Odis-
seo lo sa. Ma per lui è motivo di prudenza, non di disperazio-
ne.
Agamennone — Tu dunque mi esorti a seppellire quel morto?
Odisseo — Si, io: ché anch'io arriverò alla morte un giorno.
(Aiace, 1364 sgg.)
Per Teucro, per Menelao e per Agamennone, il cadavere di
Aiace è ancora Aiace-vivo. Soltanto Odisseo capisce che Aiace
non esiste più. Ajace fu.
Il corpo di Tersite vale quello di Aiace, quando non han più
vita né l’uno né l’altro.
(Cimbelino, 1V, 2, 252-3)“?
Tra il cadavere di un pazzo eroico che sfida il sistema e quello
di un pazzo cinico che lo deride non c’è differenza. Anche
Shakespeare vedeva il mondo dal punto di vista di Odisseo.
I cadaveri devono essere sepolti. Tutti, È quanto più un cada-
vere è grande, tanto più rapidamente ciò dovrebbe avvenire. I
cadaveri insepolti sono sempre forieri di guai. I marinai di Sa-
lamina si sono già stretti in cerchio intorno al corpo di Aiace.
E altri ne stanno arrivando. Un uomo politico pio sa chei
cadaveri insepolti sono un insulto agli dèi; un uomo politico
realistico sa che i cadaveri insepoltiì portano epidemie; un uo-
mo politico lungimirante sa che i cadaveri insepolti suggerisco-
no alla gente idee pezricolose. Perciò bisogna dare ai cadaveri
quanto è loro dovuto; anche gli onori. ““Non è giusto maltrat-
tare un prode morto, anche se lo odii nel modo più feroce”
(1344)*3 .
In tutta la tragedia Sofocle resta vicinissimo a Omero. Già una
volta Odisseo vivo aveva incontrato Aitace morto. Quando
Odisseo scende nell’Ade, viene circondato dalle ombre degli
eroi ansiosi di notizie dalla terra.

86
Aiuce tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

Soltanto l’anima di Aiace Telamonide


restava in disparte [...]
A lui con parole di miele tentai di parlare.
(Odissea, XI, 543 sgg.)*
Odisseo è persino disposto a cedere all’ombra le armi di Achil-
le; sa perfettamente che lui solo è vivo, che lui solo lascerà
l’Ade® .
‘““Aiace, figlio di Telamone perfetto, nemmeno morto potevi
perdonarmi il rancore per l’armi funeste?
[...] No, nessuno
n’ebbe colpa: Zeus, il campo dei danai armati di lancia
paurosamente odiava e t’avventò la Moira.
Ma vieni, signore, ascolta la mia parola, il mio dire [...}”?
Dicevo così, ma nulla rispose, fuggi via nell’Erebo.
(Odissea, XI, 553 sgg.)
Aiace si uccide perché non vuol essere uno spettro vivente,
un’ombra di Aiace. Ora è soltanto un’ombra, ma continua a
odiare. Ostinato come un mulo, Aiace rimane se stesso.
Un uomo morto, un’ombra {...]
(Aiace, 1257)
L’Aiace di Sofocle giace sulla sua bara“°. Forse, dopotutto,
aveva ragione Agamennone. Questo cadavere gigantesco, que-
sta ombra possente puzza ancora di odio. Bisogna seppellirlo.
Odisseo, come sempre, ha fretta. Vuole scavargli la tomba con
le proprie mani.
[...] lo aituterò a seppellire questo morto [...]
(Aiace, 1377)
Cosi Aiace viene sepolto grazie alla pietà di Odisseo. E viene
ingannato per la terza volta. Dopo aver finalmente capito che
in un mondoe assurdo è assurdo anche l’eroismo, è stato pro-
clamato eroe e la sua tomba è divenuta un santuario. Non po-
teva sapere che solo in epoche non eroiche sì erigono monu-
menti per il culto dell’eroe.
Nell’ultimo libro della Repubblica, Platone racconta la storia

07
Divorare gli dei

di Er, figlio di Armenio, e del luogo isolato e meraviglioso ai


confini della terra, dove vengono a incontrarsi le anime dei
morti che scendono dal cielo e quelle che salgono dagli inferi,
per iniziare “un altro periodo di generazione mortale, preludio
a nuova morte”. C’erano, continua Er, ‘“vari tipi di vita, in
numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano d’ogni gene-
re: vite di qualunque animale e anche ogni forma di vita uma-
na”. Le scelte di queste anime erano spesso sorprendenti: “La
maggior parte delle anime permutava mali con beni e beni con
mali” perché ‘“la maggioranza sceglieva secondo le abitudini
contratte nella vita precedente”’. Tra gli uomini invitati a sce-
gliersi una vita futura ci sono Aiace e Odisseo.
L’anima che era stata designata ventesima dalla sorte aveva
scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonto che
rifuggiva dal diventare uomo, ricordandosi del giudizio relativo
alle armi [...] per ostilità verso il genere umano, dovuta alle
sofferenze patite [...] S’era avanzata poi a scegliere l’anima di
Odisseo, cui il caso aveva riservato l’ultima sorte; ridotta senza
ambizioni dal ricordo dei precedenti travagli, se n’era andata a
lungo in giro cercando la vita di un privato individuo, schivo
d’ogni seccatura. E non senza pena l’aveva trovata, gettata in
un canto e negletta dalle altre anime; e al vederla aveva detto
che si sarebbe comportato nel medesimo modo anche se la
sorte l’avesse designata per prima, e se l’era presa tutta con-
tenta??
Questo è il giudizio più acuto che sia mai stato dato su Aiace
e su Odisseo. Nell’odierna “valle della trasformazione” quali
forme sceglierebbero? ‘$

88
Note

1. Tutte le citazioni da Aiace sono nella traduzione di È. Cetrangolo, in


Îl teatro greco. Tutte le tragedie, cit.
2. Cfr. Bernard Knox, The Heroic Temper: Studies on Sophoclean Tra-
gedy, Berkeley, University of California Press, 1964, p. 42: “IÎn tutte le
sette tragedie di Eschilo che ci sono rimaste, non ce n’è neanche uno
(anche se le Supplici minacciano il suicidio e se Aiace, in un’opera per-
duta, sicuramente si ammazzava); in tutte le tragedie superstiti di Euripi-
de ce ne sono soltanto quattro; ma nelle sette tragedie di Sofocle sono
non meno di sei — Aiace, Antigone, Emone, Euridice, Deianira e Gioca-
sta — e in più anche Filottete tenta il suicidio in scena, Edipo Tte‘ invoca
una spada per uccidersi ed Edipo ’a Colono‘ invoca la morte nella scena
iniziale della tragedia”. Anche Eracle supplica che si accorcino i suoi tor-
menti e chiede al figlio di bruciarlo vivo sul rogo.
3. Podalirio, figlio di Asclepio e medico al campo greco, “notò per pri-
mo gli occhi sfavillanti e la mente annebbiata di Aiace quando era in
collera”. Hesiod, The Homeric Hymns and Homerica, trad. di Hugh G.
Evelyn-White, Loeb Classical Library, Cambridge, Harvard University
Press, 1967, p. 525.
4. Northrop Frye, Fools of Time, pp. 81-2: “Il cadavere insepolto, ’bot-
tino dei cani e di tutti gli uccelli', per citare Omero, viene lasciato a
dissolversi nel fluire del tempo; l’inumazione è, almeno simbolicamente,
morte reale o liberazione dal tempo. Questa dimensione del tema compa-
re, in maniera discreta ma palese, in Antigone. Ma naturalmente c’era
ancora un’ombra che sopravviveva nel mondo sotterraneo, e quest’ombra
provava ancora tutte le emozioni tragiche dell’ostilità e della vendetta”.
5. William Sale, Achilles and Heroic Values, in “Arion”, IL n. 3, autun-
no 1963, p. 89: “Il concetto principale è geras, la remunerazione
dell’onore,' un oggetto — materiale o umano — che la società donava a
certi suoi membri come prova della loro areté, che nel mondo eroico
significava eccellenza nel combattere con spada, lanciae scudo. Briseide,
l’amante di Achille, è anche il suo geras, concessogli come simbolo di
valore [...] E poiché il geras viene dato dalla società come segno di areté
[...] ha anche funzioni di status symbol [...] di segno di timé, di onore.
Quando Agamennone s’impadroni del geras di Achille, Briseide, fece la

89
Divorare gli dei

peggior cosa che avrebbe potuto fare: distrusse cioè il sistema di valori
eroico”. Cfr. anche M.I. Finley, The World of Odysseus, New York, Vi-
king, 1954, pp. 125-29.
6. Cedric H. Whitman, Sophocles: A Study of Heroic Humanism, Cam-
bridge, Harvard University Press, 1951, p. 64: “Ajace è il primo ritratto
a figura intera di un eroe tragico nella letteratura occidentale, e non è
certo mera coincidenza che sia lui, sia Achille, il primo eroe epico, ven-
gano a trovarsi in situazioni identiche. Entrambi infatti sì 1is0lano nella
lotta con il proprio onore offeso”,
7, Walter Kaufmann, Tragedy and Philosophy, New York, Doubleday,
1968, p. 218: “Nelle Trachinie e in Filottete abbiamo non solo poetici
resoconti delle sofferenze di Filottete e di Eracle, ma il loro intollerabile
urlare. Il risultato è ben lungi da quanto ci si aspetterebbe dopo aver
letto Matthew Arnold, Nietzsche o Bradley”.
8. Cfr. J.C. Kamerbeck, The Plays of Sophocles, ], Commentaries, The
Ajax, Leida, 1963, p. 20: “Nl linguaggio e la scena ricordano il coro dei
satiri alla caccia negli Ichneutai”. Kamerbeck, ovviamente, parla soltanto
del linguaggio e dell’azione, non del tono,
9, Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, trad. di Ettore Capriolo,
Torino, Einaudi, 1968, p. 182.
10, Una parte delle rare informazioni di come veniva rappresentato Aia-
ce nell’antichità la dobbiamo a Luciano. In uno spettacolo, che doveva
essere più un balletto mimato che una rappresentazione recitata o canta-
ta — ma non è per niente certo — l’attore giunse a un autentico delirio
(Del ballo, 83): “Rappresentando una volta Aiace che, vinto nella gara,
impazzisce, esagerò tanto che parve a taluno non già di rappresentare
una pazzia, ma d’impazzire egli stesso. Ché a uno di quelli che battono
le nacchere col piede egli lacerò la veste; a uno dei flautisti che l’accom-
pagnavano, strappò di mano il flauto; e spaccò il capo a Odisseo, che gli
stava vicino tutto gonfio e pettoruto per la vittoria [...] Intanto tutto il
teatro era impazzito con Aiace, battevano i piedi, gridavano, sì straccia-
vano le vesti [...] Coi loro applausi anch’essi nascondevano la stoltezza
dello spettacolo, benché vedessero benissimo che quella non era la pazzia
di Aiace, ma dell’attore”. Luciano, ! dialoghi e gli epigrammi, p. 453,
Luciano era contrario agli eccessi espressivi nella danza e nel mimo, ma
ci ha lasciato anche un’osservazione importante: nelle rappresentazioni
tragiche del suo tempo, i membri del coro, quando dovevano mostrare
qualcosa di “virile, lo portano fino al selvatico e al feroce” (ibid.).
11. Frye, Fools of Time, p. 8: “[...] poiché è un uomo, la sua vita [di
Sarpedonte] è morte, e non c’è luogo nella vita che non sia un campo di
battaglia”.
90
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

12. Cfr. E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale, trad. di Virginia Vacca De


Bosis, Firenze, La Nuova lItalia, 1959, pp. 165-78. Cfr. anche Eric A.
Havelock, Preface to Plato, Cambridge, Harvard University Press, 1967,
pp- 197-99, e Kaufmann, ngedy and Philosophy, P- 150-51.
13. Kaufmann, 7Tragedy and Philosophy, p. 145: “In vaste regioni del
mondo occidentale oggi non si vedono più avvoltoi, e la morte, la malat-
tia e la vecchiaia vengono tenute nascoste. A Calcutta, gli avvoltoi stan-
no ancora appollaiati sugli alberi delle città ad aspettare quelli che mor-
ranno per le strade; e le malattie, le sofferenze e la disgregazione prodot-
ta dalla vecchiaia aggrediscono ovunque i sensi dell’osservatore. Ma è so-
lo in Omero che, mentre la morte è sempre presente nelle coscienze, gli
avvoltoi sull’albero sono visti come Atena e Apollo, intenti a godersi il
bello spettacolo di un mare di scudi, elmi e lance. In guesta visione la
morte non ha perso la sua forza, né la vita ha perduto la sua bellezza; gli
avvoltoi stessi non sono un rimprovero al mondo”. Sul “New York Ti-
mes” del 20 giugno 1970 ho letto questo resoconto di un’azione militare
in Cambogia: “Le mosche che sciamano nelle barcollanti baracche sem-
brano padrone della guarnigione militare in disgregazione di questa citta-
dina nel nordovest della Cambogia”. Neanche le mosche sono un rimpro-
vero al mondo.
14. Una tradizione che risale a Omero (Odissea, XI, 547) attribuiva ad
Atena una partecipazione attiva nel giudizio che avrebbe assegnato a
Odisseo le armi di Achille, Nei Dialoghi dei morti (XXIX) di Luciano,
Aiace vi allude esplicitamente: “Ricordo che giudicò contro di me, ma
non bisogna sparlare degli dèi. Rappaciarmi con Odisseo, no, o Agamen-
none, non potrei mai; neppure se me lo comandasse la stessa Atena”,
Luciano, 1 dialoghi e gli epigrammai, cit., p. 151.
15. l coro di Antigone nella traduzione citata di E. Cetrangolo.
16. E° opera di Exekias, un maestro nello stile a figure nere, pittore e
fabbricante di vasi. J.D. Beazley, Attic Black-Figure, New York, Oxford
University Press, 1928, pp. 20-1: “Non è per coincidenza che ci sono
almeno cinque immagini di Aiace nelle opere superstiti di Exekias. Egli
aveva infatti qualcosa di Aiace, e poteva quindi ammirare e comprendere
l’eroe lento, forte e, in fondo, tenero”, Cfr. anche nota 37.
17. Finley, Pindar and Aeschylus, p. 171.
18. Nel capitolo: “Dalla civiltà di vergogna alla civiltà di colpa”, p. 36,
Dodds (1 greci e l’irrazionale) cita Teognide che parla come Atena in
Aiace: “Nessuno, o Cirno, è responsabile della propria rovina o del pro-
prio successo: di ambedue sono datori gli dèi”. È commenta: ‘“La dottri-
na della completa dipendenza dell’uomo da una potenza arbitraria non è

i
Divorare gli dei

nuova, ma qui c’è un accento nuovo € disperato, un insistere, nuovo e


amaro, sulla futilità dei propositi umani. Siamo più vicini al mondo dell’
Edipo re che a quello dell’Miade. È’ pressappoco il caso del divino
phthònos, gelosia [...] Soltanto nel tardo periodo arcaico e nel primo pe-
riodo classico, l’idea del phthonos diventa una minaccia opprimente, fon-
te (o espressione) di angoscia religiosa”.
19. Verso chiave per la comprensione di Aiace. În greco, il verso 126
dice: “eidola hosoiper zomen e kouphen skian” — letteralmente “come
fantasmi noi viviamo o come ombre vuote”. Eidolon è una “figura di
sogno”, una “immagine”, un “fantasma”; skia un’““ombra””, un’“‘immagi-
ne riflessa nell’acqua”, uno “spettro”. Lo spettro di re Amleto sarebbe
skia. În Omero sia eidola sia skiai vengono spesso usati per descrivere le
figure sfumate delle anime dei morti. La madre di Odisseo fugge da lui
come una skia. Atena chiede agli uomini di riconoscere se stessi come
eidola e skiai anche quando sono ancora vivi. {“Noi siamo della stoffa di
cui son fatti i sogni, e la nostra piccola vita è cinta di sonno”, La tem-
pesta, IV, 1, 156-58). In Pindaro, Pitiche, VINI, citata più avanti, l’e-
spressione è la stessa: skias onar, “sogno di un’ombra”. Cfr. Kamerbeck,
op. cit., pp. 44 e 238; Dodds, op. cit., pp. 104 e 122.
20. Cfr. Filottete (133): “E ci sia buona guida Erme insidioso e la Polia-
de, dea delle vittorie, nostra salvezza in ogni tempo, Atena”.
21. Whitman, Sophocles, p. 70.
22, Pitiche, VIII, 95-9. Tn Pindaro, Le odi e i frammenti, cit., vol. IL, p.
149.
23, Bernard L.W. Knox, The Ajax of Sophocles, Harvard Studies in
Classical Philology, LXV, Cambridge, Harvard University Press.
24, Scolio a Pindaro, Istmiche, III, 53. In Hesiod, the Homeric Hymns
and Homerica, p. 509.
95, Cr. G.M. Kirkwood, Homer and Sophocles’ Ajax, Ithaca, Cornell
University Press, 1958, p. 57: “Come in Omero ÉEttore tende le braccia
verso il figlio (466), cosi chiede suo figlio l’Aiace di Sofocle (530). l
figlo di Ettore indietreggia vedendo ondeggiare il pennacchio dell’elmo
paterno (467-70). Il figlio di Aiace è stato allontanato dal pericolo della
follia paterna (531-33). Ettore prega che suo figlio sia gioia per il euore
della madre (481). Aiace ordina a Eurisace di dar gioia alla madre (559).
Infine, come Ettore conclude invitando Andromaca a tornarsene a casa e
al lavoro (490), cosi Aiace termina ordinando a Tecmessa di riportare il
bambino nella capanna (578-79). Abbiamo dunque non soltanto una ge-
nerica somiglianza con l’episodio omerico, ma una scena che ne trae un
certo numero di parl:icolarj e di locuzioni, il che significa, fuor d’ogni

92
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

dubbio, che il drammaturgo vuole attirare l’attenzione su questo fatto,


intende cioè che i suoi spettatori abbiano bene in mente il brano di
Omero come base per intendere il significato del suo”’,
26. Eric Auerbach, Mimesis: Îl realismo nella letteratura occidentale,
trad. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhauser, Torino, Einaudi, 1958,
“La cicatrice di- ‘Odisséèo”
; pp. 5-14.. Cfr. . George Steiner, “Homer and
the Scholars”, in Language and Silence, New York, Atheneum, 1970, p.
179: “Il poeta dell’Itade guarda il mondo con quegli occhi assenti e im-
passibili che ci fissano dalle feritoie degli elmi negli antichi vasi greci. La
sua visione è terrificante nella sua sobrietà, fredda come il sole d’inver-
no”.
27. Questa scena è tra le più discusse del teatro di Sofocle. La sua fun-
zione drammatica è dare l’illusione di un lieto fine, ma che cosa dice
realmente Aiace? Una delle due interpretazioni tradizionali è che si trat-
ti di “Trugrede””, che cioè Aiace inganni deliberatamente il coro e Tec-
messa; l’altra che Aiace abbia rinunciato al suicidio. Entrambe le inter-
pretazioni sono ingenue e ricordano molto le ipotesi ottocentesche su
ciò che aveva in mente Amleto nel monologo “Essere o non essere”, In-
vece di discutere se Aiace dice quello che intendeva dire, è assai più ra-
gionevole presumere che intendesse dire ciò che dice. Molti eminenti fi-
lologi sono come ì marinai di Salamina, che di quello che dice Aiace non
capiscono niente. Gli argomenti addotti da C.M. Bowra, in Sophoclean
Tragedy, New York, Oxford University Press, 1944, sono decisivi per
quanto concerne i fautori della “Trugrede”, e in fondo ha ragione Knox
quando sostiene che è il monologo di Aiace. Aiace ‘parla a se stesso””, o
meglio parla al pubblico. Gli spettatori non si lasciano ingannare: sanno
benissimo che Aiace non si arrende, ma vuole solo prendere in considera-
zione le condizioni e le conseguenze di una resa. Aiace ha imparato l’iro-
nia.
28. Cfr. Edipo a Colono, 609 sgg.: “Le altre cose confonde il tempo.
Languisce la fiducia, sorge la perfidia. Un sentimento non dura fermo né
tra uomini amici, né tra una gente e l’altra”. Trad. di E. Cetrangolo, in
Îl teatro greco. Tutte le tragedie, cit. '
29, Cfr. Georges Méautis, Sophocle: Essai sur le héros tragique, Parigi,
Albin Michel, 1957, p. 41: ‘“Le choeur [...] se lance en une danse
frénétique de joie, un hyporchème, dont l’effet de contraste avec les pa-
roles sinistres d’Ajax devait fatre passer un frisson dans l’auditoire”’. Ana-
logamente la gioiosa danza del coro precede nelle Trachinie l ritorno del
figlio con l’annuncio che Éracle sta morendo e in Edipo re la tragica
rivelazione del segreto della nascita del sovrano..

93
Divorare gli dei

30. M.I. Finley, The World of Odysseus, p. 103: “In un ambiente cosi
persistentemente ostile, si permetteva agli eroi di cercarsi degli alleati: il
loro codice d’onore nòn esigeva che si ergessero da soli contro il mondo.
Ma nel sistema sociale non c’era nulla che permettesse di stipulare un’al-
leanza tra due comunità. Erano possibili soltanto soluzioni personali, at-
traverso i canali della famiglia e della parentela”. È a p. 107: “B fore-
stiero che aveva uno xenos in un paese straniero [...] disponeva di qual-
cosa che poteva efficacemente sostituire 1 parenti, un protettore, un rap-
presentante, un alleato. Aveva un rifugio se era costretto a fuggire da
pcasa sua, un magazzino al quale attingere se era obbligato a viaggiare e
una fonte di uomini e di armi se chiamato a combattere”’,
31. William Arrowsmith, “A Greek Theatre of Ideas”, in Ideas in the
Drama, a cura di John Gassner, New York, Columbia University Press,
1964.
32. Camus, Il mito di Sisifo, p. 16; e, più avanti, pp. 37 e 100.
38. Sdren Kierkegaard, La malattia mortale, a cura di Meta Corssen, Mi-
lano, Edizioni di Comunità, 1947, p. 79; e, più avanti, pp. 80-2.
34, In La malattia mortale risuona un tono di confessione personale, co-
me strappata di gola. Kierkegaard non cita esempi letterari, ma dice:
‘“Questa specie di disperazione si vede di rado nel mondo; tali forme si
trovano veramente soltanto nei poeti, cioè nei veri poeti, i quali danno
sempre alle loro creazioni l’idealità ‘demoniaca', se si intende questa pa-
rola nell’originale senso greco” (p. 81).
35. Anche in Ippolito, naturalmente (178), ma la Fedra di Euripide è
trattata in maniera assai più realistica.
36. Un’altra interpretazione tragica dell’Iiade. Quando, durante la lotta
intorno al cadavere di Patroclo, Zeus sembra favorire i troiani e una fitta
nebbia limita la visibilità, Aiace esclama: “Zeus padre, libera tu dalla
nebbia i figli de_gli achei, sereno fa’ il cielo, fa’ che vediamo con gli oc-
chi; in piena luce, poi perdici, poiché ti piace cosi’’ (XVIÎI, 645-47).
37. Non sappiamo come venisse rappresentata la scena del suicidio. Se-
condo alcuni commentatori, una volta allontanatosi il coro, i1 pannelli di-
pinti che raffiguravano la tenda di Aiace venivano sostituiti da altri che
mostravano cespugli in un luogo “isolato”. Ma la cosa non è affatto cer-
ta, almeno per le rappresentazioni ai tempi di Sofocle. La scenografia
dipinta in maniera realistica non venne probabilmente introdotta prima
del IV secolo a.C. In ogni caso, ìl momento culminante della tragedia —
Aiace che si getta sulla propria spada — doveva essere a vista. A partire
dal VI secolo a.C. questo episodio era stato spesso raffigurato nella scul-
tura e sui vasi, ed è più che probabile che questa immagine visiva abbia

94
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

influito sull’immaginazione di Sofocle.


Beazley, dAttic Black-Figure, p. 20: “Un altro capolavoro di Exekias,
questo però non firmato, è un’anfora attualmente a Boulogne. Il tema è
la morte di Aiace [...] La morte di Aiace è un tema frequente dell’arte
arcaiìca: Aiace che si squarcia il petto con la spada o a terra vicino alla
spada stessa. Exekias, lui solo, non mostra l’eroe morto, e neanche il
momento della morte, ma la preparazione dell’atto finale: Aiace, presa la
sua decisione, conficca metodicamente la spada nel terreno. Ha dietro
una palma, davanti le armi: l’elmo, le lance, lo scudo famoso. Îl viso è
segnato dalla sofferenza”,
Ancor più caratteristica è una statuetta in bronzo del primo periodo
classico, ora al Museo archeologico di Firenze. Cfr. Gisela M.A. Richter,
The Sculpture and Sculptors of the Greeks, New Haven, Yale University
Press, 1970, p. 43 e figg. 133 e 134. Aiace è rappresentato nell’atto di
gettarsi sulla propria spada. La tiene con la mano sinistra sopra l’elsa,
posata al suolo. La spada è corta e rivolta verso il lato sinistro del suo
basso ventre. La gamba sinistra è piegata al ginocchio, il corpo è arcuato.
La spada sta per trafiggere la carne. Aiace tiene la mano destra alzata a
palmo aperto, come in un gesto d’addio. Guarda nello spazio. E° nudo.
Soltanto la testa è coperta da un pesante elmo chiodato. Nella tragedia
di Sofocle Tecmessa coprira più avanti il suo corpo nudo (915). Interes-
sante è anche il commento di uno scoliasta al verso 864: “Dobbiamo
prestumere che cada sulla sua spada; e occorre un attore possente per
trascinare il pubblico sino alla rivelazione di Aiace, come sembra facesse
Timoteo di Zacinto. Egli trascino gli spettatori e li eccitò talmente con
la sua interpretazione che venne soprannominato tagliagola”.
Peter Arnott, dal cui Greek Scenic Conventions ho tratto la citazione
dello scoliasta, nega che si utilizzasse l’enkyklema per portar via il cada-
vere di Aiace. Avanza l’ipotesi che il suicidio avvenisse in scena, con Aia-
ce inquadrato nella cornice della porta (pp. 131-33). Ma neanche questa
soluzione sembra probabile. L’attore avrebbe dovuto afferrare la spada
all’ultimo momento e nascondersi oltre la porta che si sarebbe chiusa
dietro di lui. Ciò avrebbe distrutto la tensione, con un effetto verosimil-
mente ridicolo.
La principale obiezione contro il suicidio commesso davanti al pubblico,
quella che insiste sulla difficoltà di portar via il cadavere, si fonda sul
principio dei tre attori. Secondo Gilbert Norwood — in Greek Tragedy,
Londra, 1920 e 1928, p. 136 — Aiace e Teucro erano interpretati dallo
stesso attore; il deuteragonista faceva Odisseo e Tecmessa; il tritagonista
Atena, il messaggero, Menelao e Agamennone. Nella scena del giudizio

95
Divorare gli dei

Aiace doveva essere un fantoccio portato sul palcoscenico. Edipo a Colo-


no — a giudizio generale — è l’unica tragedia la cui messinscena richie-
desse quattro attori. Può darsi che anche Aiace facesse eccezione alla re-
gola. In fondo, l’intera scena del suicidio è eccezionale in una tragedia
greca. Osservava lo scoliasta: “Queste sono cose rare negli antichi poeti:
di solito riferiscono quanto è accaduto per bocca dei messaggeri”. Perso-
nalmente, tendo a credere che la scena in cui Aiace si getta sulla spada
venisse recitata nell’orchestra, alla luce del sole, e che il cadavere rima-
nesse in vista,
Non è chiara neanche la presenza di Tecmessa nell’epilogo. Teucro la
marnda a prendere 1il figlio (985). Lei rientra con Eurisace (1168) e rima-
ne con lui sino alla fine. UÙUna sua partenza improvvisa sarebbe immotiva-
ta, perché non potrebbe lasciare li il bambino. Sarebbe l’unico altro
esempio di tutte le tragedie che conosciamo — il primo è in Alcesti — in
cui uno stesso personaggio veniva interpretato da un attore e da una
comparsa.
38. Aiace è quasi da tutti ritenuta Îa più antica delle tragedie superstiti
di Sofocle e si pensa che egli l’abbia scritta tra ì quaranta e i cinquanta
annì, cioè tra la morte di Cimone (449 a.C.) e Antigone (442 o 441
a.C.). Si adducono queste prove: la metrica delle odi del coro, e in parti-
colare la struttura arcaica del parodo; le immagini e le soluzioni sceniche
che ricordano quelle di Eschilo (‘“effetti sorprendenti e un che di eschi-
leo”, secondo Richard Claverhouse Jebb); la funzione attiva del coro e il
motivo. del cadavere insepolto, che ricorda Antigone. Ma già nel 1939
Kitto faceva notare quanto è ingannevole basare una cronolegia sulle sta-
tistiche metriche. Questi metodi vennero radicalmente revocati in dubbio
quando nel 1951 la pubblicazione di un papiro spostò in avanti la data
delle Supplici, da tutti ritenuta la più antica delle tragedie di Eschilo
superstiti, di almeno un quarto di secolo, cioè a dopo il 468 a.C. Se ci
fossero rimasti soltanto quattro drammi di Shakespeare, uno di Marlowe,
uno di Webster, più un centinaio di pagine degli scritti critici di Samuel
Johnson, la cronologia e le linee di sviluppo del dramma elisabettiano
sarebbero un grosso enigma. Le supplici era ritenuta la più antica delle
tragedie per l’importanza che aveva in essa il coro, in quanto si dava per
scontato che, con l’evolversi della tragedia, la sua funzione diminuisse,
Se non conoscessimo la data delle Baccanti, con lo stesso ragionamento
la considereremmo una delle prime tragedie di Euripide, perché ci sono
anche qui “un che di eschileo” ed “effetti sorprendenti”’.
Le teorie estetiche e le idee preconcette influiscono sulla datazione delle
opere d’arte assai più di quanto non appaia dalle argomentazioni presen-

96
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

tate. Aiace era considerata un’opera mancata, o almeno un’epera con


gravi pecche strutturali, e quindi doveva essere stata scritta da un autore
immaturo. Ésistono tuttavia argomenti altrettanto serì per spostare la da-
ta di Aiace a dopo il 430 a.C., cioè a dopo Edipo re, o forse a un perio-
do ancora successivo, quello che precede la stesura di Filottete. Si sono
spesso notate le somiglianze tra Aiace e Le trachinie. Ora, quest’ultima è.
considerata da alcuni la prima delle tragedie di Sofocle (nel 1958 Kir-
kwood la riteneva precedente ad Antigone, e nel 1962 Mazon e Dain la
dicevano anterioré ad Aiace), da altri una delle ultime (Kitto la datava
agli anni tra il 430 e il 420 a.C., Perrotta all’ultimo periodo della vita di
Sofocle).
Il coro di Aiace, trattato “realisticamente”’, è il più vicino al coro dei
mariìnai di Filottete. Ancor più importante è l’affinità dei contenuti: in
entrambe le tragedie, la visione antieroica del mondo omerico e un tono
parecchio diverso da quello di Antigone, assai più euripideo. Nel prolo-
go, afferma Kaufmann, Atena ha “qualcosa di euripideo”. Le allusioni
sprezzanti all’autocrazia spartana erano una delle ragioni che inducevano
a ritenere Aiace anteriore al 446 a.C., anno in cui venne stipulato con
Sparta un trattato di pace trentennale; ma Reinhardt (1933) aggiungeva
prudentemente: ‘“se si esclude la guerra del Peloponneso”, Ma non c’è
motivo di escludere la possibilità che Aiace sia stato scritto durante la
guerra del Peloponneso. E solo se lo si colloca nel clima politico degli
anni immediatamente precedenti il 420 a.C., Aiace diventa totalmente
intelligibile. Cfr. John Jones, “The Matter of a Date”, in On Aristotle
and Greek Tragedy, New York, Oxford University Press, 1962, pp.
65-72; Whitman, Sophocles, pp. 42-46; Kamerbeck, The Ajax, pp. 15-7.
39. Cfr. anche Knox, Heroic Temper, pp. 121-23: “I personaggi con-
trapposti di Odisseo e Achille erano divenuti, per gli ateniesi del V seco-
lo a.C., prototipi mitici e letterari di due mondi di pensiero e di senti-
mento interamente diversi [...] Nella letteratura greca il punto di vista
aristocratico (soprattutto in Pindaro, che non sa che farsene di O disseo)
è achilleo: un ideale di generosità guerriera, di un rigido codice d’onore,
di insistenza sulla timé, sul rispetto del mondo, il tutto accompagnato
all’ascetismo e alla bellezza fisica dell’atleta e ai suoi limiti intellettuali
sin troppo frequenti. Î} punto di vista democratico [...] è odisseico: un
ideale di versatilità, di adattabilità, di abilità diplomatica e di curiosità
intellettuale, e un'insistenza sul successo accompagnato alla gloria an-
ziché a essa sacrificato”’. .
40. Pindaro, Nemee, VII, 24-7, in Le odi e i frammenti, cit., II, p. 293.
41. Nemee, VIII, 22-9, ibid., p. 292.

97
Divorare gli dei

42. Qui Shakespeare parafrasa Luciano. Cfr. Appendice: “Luciano in


Cimbelino”.
43. Antigone (1030): “Quale prodezza. è uccidere una seconda volta un
morto? ”
44. Tutte le citazioni dall’Odissea sono nella traduzione di Rosa Calzec-
chi Onesti, Torino, Finaudi, 1963.
45. Cfr. Cedric H. Whitman, Homer and the Heroic Tradition, Cambrid-
ge, Harvard University Press, 1958, pp. 179-80. A proposito dell’incon-
tro tra Odisseo e Achille nell’Ade: “Achille insiste sul costo della gran-
dezza, sulla pena insanabile di essere Achille. Sta dicendo: lo ho sofferto
il peggio e con esso mi sono identificato; tu non hai fatto che sopravvi-
vere. È Odisseo, da parte sua, dice: Tu sei molto onorato, è vero, ma sei
morto; sono io che sto facendo qualcosa di veramente grande e difficile”.
L’incontro con Aiace ha un impatto incomparabilmente maggiore.
46. Cfr. nota 19. Ajace è un cadavere; Agamennone, riferendosi a lui,
usa la parola skia, Aiace è già una skia nell’Ade. È’ indubbio che per il
pubblico greco, che conosceva perfettamente Omero, questa era un'intro-
duzione alla scena successiva: l’incontro tra Odisseo e la skia di Aiace
nell’A de.
47. Traduzione di Franco Sartori, in Opere complete Bari, Laterza,
1951, vol. VI, pp. 345-53. Il fatto che nella storia di Platone Aiace scek-
ga la vita di un leone è certamente legato ai rapporti di Aiace con Éra-
cle. Lo scoliasta a Pindaro, Jstmiche, V, 53 (in Hesiod, p. 257): “La
storia è tratta dalle Grandi Eee: li infatti troviamo Eracle, ospite di Tela-
mone, che prega vestito con la pelle di leone, e troviamo anche l’aquila
mandata da Zeus, dalla quale Aiace trae il nome (Aietos)”. Finley, Pin-
dar and Aeschylus, p. 103, su Istemiche IV: “L’Aiace offeso dell’inizio è
divenuto il trionfante Eracle della fine”.
48. Di tutti gli eroì della guerra di Troia, Aiace è quello che è stato
maggiormente ridicolizzato nel tardo rinascimento. Un trattamento parti-
colarmente crudele gli venne riservato nell’Inghilterra elisabettiana. In
Troilo e Cressida, è soltanto “un ciuco recalcitrante”’, “goffo come un
orso, lento come un elefante”, e “una montagna di carne con un cervel-
lo di gallina”, “tutto muscoli e niente ingegno”, “tutto acchi e niente
vista”, E’ anche oggetto di giochi di parole scatologici: “Ajax” viene
pronunciato infatti “A-jakes” [una latrina]. È lo stesso Shakespeare non
si risparmia questa battuta piuttosto volgare: “Il vostro leone che regge
una scure da battaglia seduto sulla seggetta lo daremo ad Aiace”, giocan-
do sulla medesima assonanza (Pene d’amor perdute, V, 2, 580). Per
questo il detersivo probabilmente più reclamizzato negli Stati Uniti [e

98
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo

altrove] si chiama Ajax. Sino a poco tempo fa il suo contenitore in pla-


stica aveva forma di cavaliere e portava seritto lo slogan ‘“pulisce a fondo
e dappertutto”. E’ proprio vero che il carattere è destino. În un mondo
dove tutto finisce su un mucchio di rifiuti, l’unico. ruolo eroico che an-
cora rimanga è quello di essere il detersivo più potente.

99
Alcesti velata

La puoi dire viva e che è morta anche.


(Alcesti, 141)

Alcesti è morta per Admeto: Apollo, che aveva scontato un


anno di lavori forzati occupandosi del gregge di Admeto, re
della Tessaglia, gli aveva procurato, in segno di gratitudine per
il buon trattamento ricevuto, un privilegio eccezionale. Adme-
to sarebbe stato risparmiato nell’ora della morte, a patto di
trovare qualcuno disposto a morire per lui. Amici, padre e
madre hanno rifiutato. Ha accettato solo la moglie..È prima di
morire ha chiesto una sola cosa: che Admeto giurasse solenne-
mente di non più risposarsi.
Prima ancora che il cadavere venga sepolto, Eracle viene a tro-
vare Admeto. 1l quale, famoso in tutta la Grecia per la sua
ospitalità, nasconde all’amico il segreto della morte della mo-
glie, temendo che egli non voglia fermarsi in una casa in lutto.
Eracle viene accompagnato nelle stanze degli ospiti. Admeto
va al funerale. Eracle si ubriaca e si mette a cantare canzoni
allegre. Un vecchio servo del re, sdegnato, gli svela la triste
verità. Eracle, che è una brava persona, vergognandosi del suo
comportamento scorretto, decide allora di restituire Alcesti ad
Admeto. Il padrone di casa ha fatto appena in tempo a rien-
trare dal funerale che già Eracle è di ritorno, accompagnato da
una taciturna donna velata. Racconta ad Admeto di averla vin-
ta in una gara atletica e di avergliela portata per consolarlo. Il
fresco vedovo è estremamente restio ad accogliere una donna
giovane in casa propria. Ma Eracle, inflessibile, si richiama alle
leggi dell’ospitalità. L’ospitale Admeto cede. E nella muta stra-
niera riconosce Alcesti: “La fortuna mi arride e non lo nego”

100
Alcesti velata

(1158)!. Sono le ultime parole che pronuncia nella tragedia.


La fortuna gli arride veramente. Alcesti non può parlare per
tre giorni: deve prima compiere i riti purificatori. E non ci
saranno spiegazioni. ‘
E° una strana opera. Sembra a prima vista che si morda la co-
da. Tutto in essa — la sequenza degli avvenimenti, la descerizio-
ne dei personaggi, il dialogo, i miti evocati e soprattutto gli
effetti scenici — viene usato in modo da presentare come pa-
rodia crudele la resurrezione di Alcesti. Se è una tragedia, si
autoconsuma. Restano dunque solo due possibilità: o conside-
rare Alcesti un’opera mancata o giudicarla un dramma scanda-
loso, insolitamente ricco di veleni e di perfidia. Alcesti venne
rappresentata alle Dionisie come quarto testo, il posto solita-
mente occupato dal dramma satiresco. Ma-è radicalmente di-
versa dai drammi satireschi che conosciamo.
Nel prologo, Apollo si scontra con la morte; nell’epilogo si
scopre che la bella sconosciuta, velata e taciturna, è Alcesti
miracolosamente sottratta alla tomba. Ma in mezzo abbiamo
un testo dalla struttura sorprendentemente realistica. Alcesti
muore iìn scena e, come sì è da tempo osservato, è l’unica
morte naturale in tutta la tragedia greca. Non viene ammazza-
ta e non si uccide; si prepara alla morte con cura, in modo
pacato e sistematico.
Quando il giorno
senti ch’era venuto, il corpo bianco
lavò con l’acqua che le fu portata
dal fiume, e dalle sue arche di cedro
tolse una veste [...]
(Alcesti, 158 sgg.)
“Il legno di cedro”, annota A.M. Dale nella sua edizione critica
di Alcesti, “proteggeva gli abiti dall’umidità e dalle tarme”?.
E° un’annotazione 'I:ipiòamente femminile, ma sicuramente
esatta. Alcesti è soprattutto una buona massaia. Quando Ad-
meto rientra dal funerale, ciò che più lo turba non è tanto la

101
Divorare gli dei

vista del letto nuziale vuoto, ma ‘i mucchi della polvere per le


stanze” (946-47)?. Nelle tragedie greche i pavimenti sono
spesso macchiati di sangue, ma non era mai accaduto che fos-
sero sporchi perché non lavati. i
- Il realismo di Alcesti non è solo. psicologico, ma impregnato di
particolari concreti. Forse la definizione migliore è quella di
realismo ‘““domestico”. Questo termine, inventato da Bernard
Knox, s’addice ad Alcesti più ancora che al prologo dell’Elet-
tra dello stesso Euripide“. L’azione si svolge, ovviamente, da-
vanti al palazzo di Admeto, come vuole la convenzione, ma in
nessun altro testo greco sino a Menandro abbiamo una cosi
netta sensazione di trovarci all’interno della casa. Ne conoscia-
mo quasi la disposizione dei locali:
[...] Tu conducilo
dall’altra parte, dove son le stanze
dei forestieri. Aprile e ai servi
“che ne han la custodia da’ ordine
di provvederlo senza far risparmio
d’ogni vivanda. Voi andate a chiudere
all’interno le porte dei cortili.

(Alcesti, 546 sgg.)


Il fatto che Admeto ordini ai servi di-accompagnare Eracle
nelle stanze per gli ospiti, è una delle prove più spesso citate
da chi sostiene che nella parete anteriore della skene, oltre P
apertura centrale, ce n’erano altre due più piccole, a sinistra e
a destra. L’azione essenziale della tragedia si svolge però in ca-
mera da letto. Nella casa di Alcesti e di Admeto, come nel
loro dramma, è il letto il mobile più importante.
O letto [...] dove
del mio vergine corpo, e una fanciulla
ero, quest’uomo per cui do la vita
disciolse un giorno la cintura [...]
(Alcesti, 176 sgg.)
Alcesti non è ancora in scena. Il coro degli anziani è venuto
102
Alcesti velata

dalla città per sapere se la regina è già morta. In questo dram-


ma domestico l’ancella ha il ruolo che nella tragedia ha di soli-
to il messaggero. E’ lei che racconta al coro gli avvenimenti
della giornata, a cominciare dal mattino.
E cade sui ginocchi
e lo bacia {il letto] e dell’onda che di dentro
sale e l’urge la coltrice ne bagna.
k& pianse a lurigo. E quando ne fu sianca,
e prona il viso dal giaciglio in terra
s’era abbattuta, s’alza, va e più di una
volta all’uscir dal talamo si gira
e guarda e indietro ritorna e sul letto
si getta ancora.
(Alcesti, 183 sgg.)
Finalmente si aprono le porte del palazzo e Alcesti viene por-
tata fuori in lettiga. Dice addio per l’ultima volta al marito e
ai figli. In questa lunga scena di commiato, nessuno accenna
alla sua eroica decisione o all’insolito patto con la morte. Se
dobbiamo prendere il racconto alla lettera, questi avvenimenti
devono essere abbastanza recenti, poiché Apollo ha appena
Jasciato la casa di Admeto dopo un anno di servizio®.
In tutto il dramma l’unica scelta tragica è la decisione di Al-
cesti. Ma a Euripide non serve la scena nella quale una moglie
si sacrifica per il marito. Sta scrivendo un’altra cosa. Il patto
con la morte è stato stipulato nel passato, in un periodo tal-
mente lontano che Admeto lo ha persino dimenticato. Alcesti
deve addirittura ricordargli, nei suoi ultimi istanti, che sta mo-
rendo per lui.
Admeto — Con te prendimi, portami con te,
per gli dèi, sotto terra!
Alcesti — La mia vita
basta. Io muoio per te.
(Alcesti, 382 sgg.)
Kuripide è spietato: una morte eroica si trasforma in una mor-

103
Divorare gli dei

te qualsiasi; una morte deliberatamente scelta appate come na-


turale. La povera Alcesti deve convincere il marito che sta ef-
fettivamente per morire, qui e ora: “Io devo morire. È non
domani, non al terzo giorno del mese verrà questo male, ma
ancora un poco e non avrò più nome se non tra quelli che
non sono” (320 sgg.). Admeto preferisce però rifiutarsi sino
alla fine di credere che Alcesti stia morendo. Ancora all’ulti-
mo istante chiede: ‘“Che fai? Mi lasci? ” (391). Critici e stu-
diosi sono molto severi con Admeto: quasi senza eccezione
tacciano il suo comportamento di codardia®., Ci sono buoni
motivi per sostenerlo. Ogni parola di Admeto è stonata, o una
nota troppo alta o troppo bassa. Ma in realtà l’ironia di Euri-
pide è assai più spietata. Dopotutto, qualunque cosa si dice a
un moribondo è stonata. Morire adesso e dover morire in fu-
turo sono due cose diverse. Si può sopravvivere alla morte di
un altro, non alla propria.
Bisogna che la morte di Alcesti sia il più possibile reale se sì
vuole che possa essere il più possibile irreale la sua resurrezio-
ne. In tutta l’Alcesti c’è solo una scena da opera seria, tutte le
altre hanno un tono di opera buffa, Tanato (la morte) che,
armata di spadone, discute con Apollo nel prologo, è una figu-
ra grottesca, ma Alcesti vede davanti a sé un’altra morte, una
che non vuole aspettare: “Nei suoi occhi di nero acciaio ha
notte [...] alato” (261). Si pronuncia la parola Ade, sussurran-
dola sempre con paura. Soltanto Racine è riuscito a rendere la
fredda poesia di questi versi:
Je vois déjà la rame et la barque fatale;
j’entends le vieux nocher sur la rive infernale.
Impatient, il crie: “On t’attend ici-bas;
tout est prét, descends, viens, ne me retarde pas””.
Alcesti è un’eroina di tragedia, ma ha un marito che viene dal-
la commedia. Medea è in una posizione analoga e in entrambi
ì drammi c’è uno stesso tipo di dissonanza derivato da una
mescolanza ‘“diìi allegro e di tragico, di conciso e di prolisso”.

104
Alcesti velata

Prima ancora che entrino in scena marito e moglie, l’ancella


esprime abbastanza chiaramente l’ambiguità del rapporto tra
Admetoe la sposa morente: “Oh, se piange! E la moglie tra
le braccia tiene e la prega e dice che lasciarlo non deve, non
lo deve ora tradire” (201)5. Admeto implora Alcesti di non
tradirlo. Tradirlo con chi? Con la morte? “Non t’abbattere, su,
povera anima. E non tradirmi” (250). Admeto fa continui
lapsus linguae e sta già pensando al tradimento. “L'’idea di tra-
dimento e il problema di che cosa sia tradire”, osserva giusta-
mente Wesley D. Smith, ‘“diventano un tema del dramma e
saranno al centro della scena finale’”®, 1l mistero del sacrificio,
della morte e della miracolosa resurrezione di Alcesti si tra-
sforma nella commedia della moglie fedele e del marito inco-
stante. Alcesti, benché Admeto le abbia solennemente promes-
so di non pià risposarsi, si fa poche illusioni:
[...] io muoio. E un’altra donna
avrà ora, una che più fortunata
forse sarà di me, non più fedele.
(Alcesti, 181 sgg.)
E ancora poco prima di morire, cosf risponde ai giuramenti di
fedeltà:
Il tempo
ii darà pace: chi è morto è nulla.
(Alcesti, 381)
Sinora sono tutti straordinariamente discreti. La morte di AL-
cestì sembra naturale. Îl suo sacrificio non suscita né sorpresa
né ammirazione; è considerato un fatto normale sia dal coro,
sia da lei stessa, sia, ovviamente, da Admeto. Solo all’ancella,
Alcesti sembra eroica. Nei suoi lamenti, Admeto supplica Îa
moglie di aspettarlo, ma non gli viene mai in mente che avreb-
be potuto aspettarla lui nella tomba.
Ma ora, dopo che il cadavere di Alcesti è stato portato via, il
marito che aveva autorizzato la moglie a morire per lui s’in-
contra con il padre che non ha voluto morire per 1l figlio. Da

105
Divorare gli dei

Plauto alla commedia dell’arte e a Molière, nella migliore tra-


dizione comica, quando s’incontrano padîe e figlio è il padre
che viene svergognato e ridicolizzato, Lo si smaschera e lo si
castiga perché ha corteggiato una ragazza o perché ha proibito
al figlio ciò che ha concesso a se stesso. Euripide è molto più
cattivo.
Ferete — L’errore
era anche più grande se io fossi
morto per te.
Admeto — E non c’è differenza
tra la morte di un giovane e di un vecchio?
Ferete — Una è la vita, e noi con una sola
siamo in debito al mondo è non con due.
(Alcesti, 710 sgg.)
E’ dunque il figlio che viene deriso. Questo inatteso capovolgi-
mento sembra quasi una trovata brechtiana: il figlio è vigliac-
co ed egoista, come il padre; nessuno dei due vuole morire.
‘“La morte di Alcesti”’, scrive Kitto, ““è posta fra una presenta-
zione insolente della tetra figura di Tanato e una scena fra
Admeto e Ferete che non è mai lontana dalla commedia o
dalla satira”!° . l patto con la morte appare improvvisamente
moderno e irriverente. Tutto è d’un tratto capovolto. Îl sacri-
ficio di Alcesti, che pareva eroico e naturale, è ora assurdo e
sciocco. Il veechio Ferete dice chiaramente quello che pensa,
ma dobbiamo ammettere che ha ragione: “Lei lo aveva il pu-
dore. Era una pazza” (728)!* ,
l colloquio finisce a insulti e la scena è, Aristofane a parte, la
più brutale di tutto il teatro greco. Lo schema comico viene
capovolto: non è più il padre che disereda il figliol prodigo, è
il figlio che rinuncia al padre e alla madre e dichiara che non
farà loro neanche il funerale. Ma prima che la scena finisca, 1l
vecchio Ferete ha avuto modo di dire la sua: “Cercane molte
[donne] per farne morire quante più puoi” (721).
I morti li si dimentica in fretta. Alcesti fa appena in tempo a

106
Alcesti velata

chiudere gli occhi e già Admeto la ripudia. In un discorso am-


biguo e complesso, dice a Eracle, ed è una mezza verità, che
la morte non gli era “stretta di sangue”. E, vedendo che Era-
cle ha ancora qualche dubbio, aggiunge con disinvolta bruta-
hità: “Î morti soro morti. Entra” (541).
Prima che cada la notte e che termini il dramma, bisogna che
tutti 1 giuramenti di fedeltà vengano violati. Anziché restituire
Alcesti, salvata dalla tomba, al suo migliore amico, Eracle vuol
fargli uno scherzo. Il buon gigantesi comporta nell’epilogo co-
me un agente provocatore e mette Admeto alla prova:
Eracle — Una nobile
donna hai perduta! Chi potrà negarlo?
Admeto — Al punto ormai che l’uomo che iu vedi
non avrà gioia più d’essere al mondo.
Eracle — Il tempo addolcirà la pena. Ora
troppo giovane è il male.
' (Alcesti, 1083 sgg.)
Come se fosse stato presente all’ultimo colloguio di Alcesti
con Admeto, Eracle ripete le parole da lei pronunciate allora:
“Il tempo ti darà pace. Chi è morto è nulla” (381). Bisogna
compromettere Admeto sino in fondo. E’ ancora il letto il
mobtile principale.
Eracle — Ed hai deciso
di non sposarti più? Lascerai vuoto.
il tuo letto di vedovo?
Admeto — Non c’è
donna che possa stendersi al mio fianco.
kracle — E tu credi cosiì che la tua morta
se ne giovi di nulla?
Admeto — Îl mio dovere
è di renderle onore ovunque sia.
Eracle — Ed io ti lodo, ma non c’è nessuno
che non ti dica folle.
(Alcesti, 1089 sgg.)

107
Divorare gli dei

Non si tace nulla in questa perfida scena. La donna, con il


viso nascosto da uno spesso velo, se ne sta ad aspettare davan-
ti alla casa tra Eracle e Admeto. Admeto s’accorge subito che
è giovane e le sue curve gli ricordano Alcesti. Spiega a Eracle
che non può ospitarla negli alloggi degli uomini, sarebbe in pe-
ricolo. Rimane dungue una soluzione soltanto: portarla nel
letto vuoto di Alcesti. Ma in tal caso:
Due volte
ne verrei condannato e n’ho paura:
prima dalla mia gente, ove qualcuno
mi accusi — ed io non mi potrò difendere —
che tradendo la mia benefattrice
mi son precipitato sul giaciglio
di un’altra donna, e giovane l’ho scelta,
e lei poi, di lei devo nel mio cuore
aver riguardo [...]
(Alcesti, 1057 sgg.)
Il coro degli anziani, che a mezzogiorno, appena morta Alce-
sti, aveva minaccjato Admeto di dannazione eterna ‘“se un
nuovo letto volesse egli cercare, oh si che in orrore io lo a-
vrei” (464), diventa verso sera molto più filosofo. Dio ha tol-
to e dio ha dato:
Quale bene si possa dir di questa
nuova ventura, 10 per me non saprei,
Ma tu sei tu'e devi essere forte
ed accettare quanto il dio ti dona.
(Alcesti, 1070 sg.)
Alcesti può essere interpretata come un dramma che esalta l
ospitalità. Per compensare l’ospitalità ricevuta, Apollo grato ha
ottenuto dalle Moire un salvacondotto per Admeto nell’ora
della sua morte. Essendo uomo ospitale, Admeto costringe
Eracle ad alloggiare da lui il giorno della morte di Alcesti. Essen-
do molto ospitale, accoglie in casa propria la straniera muta e
velata, e la conseguenza è che riottiene la moglie. L’ospitalità

108
Alcesti velata

di Admeto è come il “carattere” dei personaggi di Plauto e di


Molière. Admeto è ospitale come Arpagone è avaro, Arnolfo
geloso e Argante ipocondriaco. Ma nella commedia di ‘“carat-
tere’’, 1 maniaci alla fine vengono sempre puniti. Admeto è in-
vece premiato per la sua ospitalità. Alcesti gli aveva chiesto
fedeltà coniugale in cambio del suo sacrificio. Admeto la riac-
quista con l’esserle infedele !? .
Agli eroi tragici, nel momento della loro scelta definitiva, è
concessa un’assoluta lucidità di visione. Gli eroi della comme-
dia di ‘““carattere” non solo vengono puniti, ma a volte li si
guarisce oppure — come Argante — rinsaviscono, sia pure per
breve tempo. Ma è guarito Admeto? ‘“Ora comprendo” (940),
dice tornando nella casa vuota dopo il funerale. Ma che cosa
ha capito? Che la casa è sporca, che i bambini piangono, che
lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo.
E allora, che vantaggio
ho di vivere, o amici, se il mio nome
sarà segno d’infamia e nello stato
in cui mi trovo sono un infelice?
(Alcesti, 960 sgg.)
Sì scopre che la sconosciuta è Alcesti. Admeto ha riottenuto
la moglie. Ma non è guarito e non è neanche rinato moralmen-
te. Alcesti fa venire in mente il prologo di una delle “comme-
die sgradevoli” di G.B. Shaw: la commedia comincerà fra tre
giorni, quando Alcesti riacquisterà la parola.
Solo il miracolo mette in difficoltà. Nella commedia di carat-
tere, in quelle di costume e in quelle psicologiche, non siamo
abituati ai miracoli. Forse il miracolo non c’è stato. Arthur W.
Verrall, un razionalista e un positivista cresciuto alla scuola
del teatro naturalistico e del melodrama vittoriano, sosteneva
che Euripide aveva scritto le sue tragedie in due modi: con
ironia per gli amici sofisti, e fingendo di credere negli dèi e
nei miracoli per accontentare la folla ateniese!° . Alcesti non è
realmente morta; Eracle l’ha solo svegliata dal letargo. Ha ra-

109
Divorare gli dei

gione Arrowsmith quando dice che non bisogna ignorare Ver-


rall!* , La resurrezione di Alcesti è carica d’ambiguità: il mira-
colo c’è e non c’è.
Ma non potrebbe esistere una terza possibilità? Eracle è un
buon amico, troppo forse. Ha fatto di tutto per consolare Ad-
meto nella sua sofferenza. Mettiamo che, una volta sollevato il
velo, la bella sconosciuta non sia la moglie di Admeto. Cosa
può fare a questo punto il povero marito? E'° stato messo con
le spalle al muro, è caduto nella sua stessa trappola. Proprio
quel mattino ha giurato ad Alcesti morente: “Lo dico ora e
quello che dico lo farò” (374). Ancora poco fa ha dichiarato
al coro dei cittadini di Fere: “Io muoia prima di tradirla, se
anche non è più” (1096). Ma già ha preso per mano la scono-
sciuta per condurla in casa propria. La donna è giovane e bel-
la: “Sappi che d’Alcesti hai la statura e in tutto le assomigli”
(1063). L’ospitale Admeto non può non riconoscere con Éra-
cle che questa è Alcesti. Le seconde mogli, pur essendo di so-
lito più giovani, assomigliano spesso alle prime.
O viso, o corpo
di te che amo, o donna mia; ti ho
che non t’avrei sperata, io che credevo
di non vederti più.
(Alcesti, 1132 sgg.)
La bella straniera tace e tacerà almeno per altri tre giorni. Q
per sempre. Alcesti è un’opera piena di enigmi che non voglio-
no svelare il loro segreto. La si è definita una commedia ro-
mantica, un melodrama, una tragicommedia, la figlia bastarda
della tragedia e del dramma satiresco, una romance, un grot-
tesco, un burlesque. Îl coro dei cittadini sapeva sin dall’inizio
che tutto era in dubbio:
E tu puoi dirlo? Parole
a tanto io non ho. La fiducia
di dove la prendi al tuo cuore?
(Alcesti, 95)

110
Alcesti velata

2.

La giovinezza di Alcesti è legata alla storia di Giasone e Me-


dea. Era ‘“una donna divina, Alcesti bellissima tra le figliuole
di Pelia” (Iliade, II, 714-15). La perfida Medea decise di ucci-
dere Pelia in maniera estremamente crudele. Promise di resti-
tuirgli la gioventà purché si lasciasse fare a pezzi dalle proprie
figlie e gettare in un calderone dove lei avrebbe messo a bolli-
re delle erbe magiche. Allora due delle figlie tagliarono a pezzi
il padre mentre dormiva, ma Alcesti rifiutò, essendo pia sin
dalla fanciullezza. Non è però la pietà che è importante, ma il
fatto che una delle sue prime esperienze concerne un delitto,
non una resurrezione.
In un altro gruppo di miti, probabilmente molto più antico,
Admeto, re di Fere, è parente di Apollo che è stato al suo
servizio per un anno a custodirgli armenti scontando cosi l’uc-
cisione dei Ciclopi. Apollo sì era vendicato su di loro, perché
avevano forgiato i fulmini con i quali Zeus aveva ucciso suo
figlio Asclepio. Il quale Asclepio era stato un miracoloso gua-
ritore che restituiva la vita ai morti. Per questo Zeus lo aveva
ridotto in cenere.
Di Asclepio Esiodo diceva: “E il padre degli uomini e degli.
dèi montò in collera e dall’Olimpo colpi il figlio di Latona
con un fulmine fiammeggiante, suscitando l’ira di Febo”!® .
Il coro di Alcesti racconta la storia del castigo di Asclepio cui
dà una conclusione disperata:
E ora per la sua vita
a quale speranza do ascolto?
(Alcesti, 130-31)
Cosi, in un altro resoconto delle precedenti vicendedi Alcesti
e Admeto, tutti i tentativi di restituire vita ai morti vengono
immediatamente puniti. La mistica Alcesti torna dall’Ade sol-
tanto una volta nel Simposio. Per Platone è un modello di sa-
crificio. Solo gli innamorati, serive, possono morire l’uno per

111
Divorare gli dei

l’altra. “Compiuto questo atto, esso parve così nobile, non so-
lo agli uomini ma anche agli dèi, che, mentre a pochissimi fra
i tanti che compiono atti stupendi gli dèi concessero il privile-
gio che l’anima risalisse dall’Ade, l’anima di costei, invece, fe-
cero ritornare alla luce, compiaciuti del suo gesto”!° .
Per Apollodoro, a differenza di Platone, la morale della storia
non ha niente di sentimentale: gli dèì non erano per nulla
contenti dell’atto di Alcesti. Persefone pensava che una moglie
non dovesse morire per il marito. Alcesti aveva agito male e 1il
suo esempio poteva essere dannoso: per questo venne riman-
data sulla terra!7. Ha ragione Kitto quando dice che l’Alcesti
di Euripide ‘“trae personalità dall’evidente sfiducia nel mari-
to”18, l sacrificio d’Alcesti diviene ripugnante con l’introdu-
zione di un Admeto infedele e la sua resurrezione grottesca
con la sostituzione agli dèi degli inferi di Eracle ubriaco.
In Alcesti Eracle viene ad alloggiare da Admeto mentre sta an-
dando a rubar cavalli. Per ordine di Euristeo di Tirinto, di cui
è al servizio, gli tocca catturare le famose cavalle di Diomede,
re della Tracia. ’ la sua ottava fatica. La discesa nell’Ade e la
presa per il collo di Cerbero sarà la dodicesima, ma nessuna
delle versioni canoniche del mito la collega alla liberazione di
Alcesti. Le cavalle di Diomede avevano fama di sputare fuoco
e di nutrirsi di carne umana. E’ raro che i ladri di cavalli cre-
dano nei miracoli; la loro professione richiede piuttosto abilità
e astuzia.
Coro — Non è tanto facile
mettere loro il morso.
Eracle — Se non soffiano
il fuoco dalle froge [...}
Coro — Basta solo
che un uomo le avvicini e lo maciullano
coi denti in un baleno.
Eracle — Non è certo
mangiare da cavalle, ma da fiere

112
Alcesti velata

della montagna.
(Alcesti, 492 sgg.)
l vecchio servo di Admeto non ha mai visto uno zotico simile
a palazzo reale. L’ospite non s’accontenta di quel che gli han-
no dato, ma continua a chiedere da mangiare e da bere. E una
volta ubriaco si mette a cantare e a ballare. Un Eracle ebbro è
raffigurato in una statuetta di bronzo venuta da Smirne e ora
al' Metropolitan Museum di New York. Eracle spinge in avanti
la gamba destra ed è piegato indietro con le mani sui fianchi.
Î suoi occhi guardano in basso, ma sembra che non vedano
nulla. L’Eracle della tradizione popolare però teneva più a
mangiare che a bere. Il suo piatto favorito — una passione che
aveva in comune con tutti i soldati — era la zuppa di piselli.
Ma, come eroe dorico, amava anche ‘le ciambelle d’orzo e ne
divorava tante [...] da indurre uno dei suoi mandriani a bor-
bottare ’basta! ‘’’19, Eracle si comporta sempre come un sol-
dato al bivacco. Ciò che importa è l’oggi, nessuno sa cosa ac-
cadrà domani: mangiamo dunque, beviamo e stiamo allegri.
L’evento non è cosa
che si mostri alla vista e non lo sai
quale via prenda. E non solo la scienza
non te lo insegna, ma neanche un’arte
abbiamo che riesca a premunircene.
Ora che mi hai sentito e io ti ho detto
questo e lo sai, pensa di stare allegro.
Bevi e fa’ questo conto, che la vita
è tua solo quel tanto che ne hai
giorno per giorno, il resto è dell’evento.
Tra le divinità rendi anche onore
a quella che di tutte è la più dolce
per gli uomini, a Cipride. E° una dea
che ci vuole bene.
(Alcesti, 785 sgg.)
Questo Eracle campagnolo che caracolla allegramente (rappre-

113
Divorare gli dei

sentato spesso nella scultura, soprattutto nel cosiddetto “tipo


Farnese” con orecchie appiattite e gonfie alle estremità, tipi-
che degli atleti)*° e che il servo chiama ‘““un predone forse, un
ladro, uno ch’è capace di tutto” (766), proviene dal dramma
satiresco e i suoi precetti assomigliano molto ai discorsi. che
Sileno fa a Odisseo nel Ciclope?!. Carpe diem e “domani mo-
riremo” costituiscono una medesima filosofia, espressa con pa-
role differenti. Gli eroi delle leggende popolari, i soldati e i
ladri sanno benissimo che nessuno sfuggirà alla morte e che sì
muore una volta sola.
] mortali hanno un debito,
ed è questo, che devono morire
tutti quanti, E nessuno dei mortali
può saperlo se il giorno di domani
sarà vivO.
L...]
se vuoi prendermi a giudice, la vita
non è vita davvero ma sciagura.
(Alcesti, 782-4, 801-82)
Non c’è niente che possa spaventare Eracle: il ladro di cavalli
è un buon amico ed è pronto persino a seguire Alcesti nell’
Ade per restituirla ad Admeto. Essendo uno a cui piace bere,
suppone che anche Tanato sia un ubriacone e che lo troverà
certamente “nei pressi della tomba, cheil sangue delle vittime
sarà venuto a bere” (845). In questa mitologia da beoni, Apol-
lo offrendo loro da bere piega persino le Moire implacabili
“con arte di frode” per riscattare Admeto dalla morte. La sto-
ria era nota a tutti. Già nelle Eumenidi di Eschilo le Erinni
rimproveravano Apollo:
Cosi facesti anche nella casa di Ferete, persuadendo le Moire a
rendere immortali i mortali”? .
I miracoli in Alcesti avvengono in uno stato di ebbrezza. An-
che quando Furipide rinuncia temporaneamente. al tono di
opera buffa, le sue allusioni al mito restano ironiche. In un

114
Alcesti velata

momento particolarmente solenne, poco prima della morte di


Alcesti, Admeto le assicura che se avesse la voce e la lira di
Orfeo non esiterebbe a scendere all’Ade con Îei:
[...} e non varrebbero a tenermi
né il cane di Plutone né Caronte
che sta al remo e le anime trasporta
prima che la tua vita io non l’avessi
ricondotta alla luce.
(Alcesti, 360 sgg.)
Anche il più ignorante degli spettatori di Alcesti doveva sapere
che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori degli Infe-
ri. Ade aveva accettato di lasciarla partire, a patto che Orfeo
non si voltasse a guardarla se non dopo aver visto la luce del
sole. Ma all’ultimo momento, proprio mentre stavano per la-
sciare le regioni sotterranee, Orfeo si era girato verso di lei;
non era sicuro che gli dèi non lo avessero ingannato e cosiî la
perdette. Nel Simposio Platone racconta come Alcesti venne
liberata dal regno dei morti come premio per il suo sacrificio
e come fall{ Orfeo, punito dagli dèi per la sua pusillanimità.
Ma Orfeo, figlio di Eagro, lo rimandarono dall’Ade a mani
vuote; gli mostrarono l’ombra della donna per la quale era di-
sceso, senza dargliela, perché parve loro un debole, proprio co-
me un citaredo, e che non avesse l’animo, come Alcesti, di
morire per amore, ma che escogitasse ogni via per penetrare
vivo nell’A de.
All’amore egoistico di Orfeo, un semplice musico preoccupato
di salvarsi la pelle in questa pericolosa spedizione, si contrap-
pone l’amore eroico di Alcesti. Noi non sappiamo se questa
versione didattica del mito sia stata inventata da Platone o se
esistesse anche prima. În questo secondo caso, Euripide è sta-
to straordinariamente perfido. Admeto, che vuol essere come
Orfeo, non soltanto dimentica che il cantore trace non è riu-
scito a ricuperare la moglie, ma non gli viene affatto in mente
di assomigliargli solo per la sua codardia”°.

115
Divorare gli dei

] miti in Alcesti si autodistruggono o si autoscherniscono. Nei


cataloghi greci dei morti tornati dall’Ade, accanto ad Alcesti si
cita sempre Protesilao°* . Era costui il primo greco morto sul
suolo troiano. Sua moglie, Laodamia, spinta dalla disperazio-
ne, mise sul proprio letto l’immagine del marito, in bronzo o,
secondo alcuni, in cera. Admeto vorrebbe comportarsi come
Laodamia. Promette ad Alcesti morente che ordinerà un suo
simulacro ai più valenti artigiani:
[...] nel mio letto
poserà steso, e prono sui ginocchi
lo avvolgerò con le braccia, e il tuo nome
io chiamerò, e mi parrà di averla
con me al mio petto la donna che amo,
anche se nòn l’avrò più. E di gelo
mi saprà quel piacere, ma più lieve
farà il peso dell’anima.
(Alcesti, 349 sgg.)
L’opera di Euripide su Protesilao e su Laodamia non ci è giun-
ta, e non sappiamo neanche se era una tragedia o una di quel-
le ‘“semicommedie” rivoluzionarie che pongono tanti problemi
agli studiosi della cultura classica. Di Protesilao restano solo
pochi frammenti che, nel tono e nell’atmosfera, sembrano ab-
bastanza vicini ad Alcesti. “Non posso tradire colui che amo,
anche se è morto” (frammento 657). Un altro frammento dice
che i morti non tornano: “I} suo destino è lo stesso che aspet-
ta voi: voi e tutti” (frammento 651). Il terzo frammento è il
più stupefacente: “Le relazioni con le donne dovrebbero esse-
re in comune” (frammento 655)°5.
Conosciamo la storia di Protesilao e di Laodamia .da molte
fonti. Luciano, grande dileggiatore di miti, ricostruisce le trat-
tative tra Protesilao e Plutone nei Dialoghi dei morti. É’ un
brano estremamente interessante, poiché attesta non solo la
sua profonda conoscenza di Alcesti, ma il fatto che la conside-
ra una commedia. Protesilao discute con Plutone come Apollo

116
Alcesti velata

con Tanato, e propone, in maniera molto simile, ragionevoli


condizioni per la propria liberazione dall’Ade.
Protesilao — lo la persuaderei a venirsene con me; e fu, invece
di uno, riavresti due morti.
Plutone — Non è lecita questa cosa, non è mai avvenuto.
Protesilao — Ricordati bene, o Plutone. A Orfeo per la stessa
cagione voi concedeste Euridice e deste la mia congiunta AL
cesti a Eracle molto graziosamente ? .
Protesilao viene liberato dall’Ade per tre ore. Compare nella
camera da letto di Laodamia e le parla dalle labbra di una sta-
tua. Quando scade il tempo concessogli, Laodamia si accoltella
e sì unisce al marito. In un’altra versione, essa trascorre con la
statua una serie di notti. Il suo entusiasmo doveva essere supe-
riore a quello di Admeto che dall’immagine di Alcesti si ripro-
metteva soltanto ‘“un piacere di gelo”. Ma accadde che, un
mattino di. buon’ora, un servo vide Laodamia a letto e, con-
vinto che vi nascondesse un amante, lo dicesse a suo padre. Il
padre trovò la statua e ordinò che venisse bruciata. Laodamia
si gettò allora tra le fiamme e mori.
Questa seconda versione ci sembra più moderna, e se non fos-
se stata annotata da Igino, ci sarebbe facile attribuirla a Girau-
doux. Ma la prima versione è più drammatica e, come modello
di resurrezione teatrale, verrà poi riproposta più volte. Nel
teatro barocco, che ha assorbito in maniera indipendente e ap-
profondita le tradizioni antiche, i morti ritornano e le statue
parlano. In Don Giovanni, la statua del commendatore prean-
nuncia al traditore il castigo divino. In Racconto d’inverno,
Ermione ricompare come statua al marito che, sedici anni pri-
ma, l’ha accusata d’infedeltà e l’ha condannata a morire. Il
tempo non tocca la bellezza della statua.
E° difficile dire che cosa sarebbe accaduto mettendo nella ca-
mera da letto un’immagine di Alcesti morta. Euripide, proba-
bilmente, non vuole ripetere Protesilao. L’aver rinunciato a
questa idea dimostra tuttavia che egli cercava una soluzione

147
Divorare gli dei

teatrale del ritorno di Alcesti dalla tomba. Come osserva Kit-


to, “la semplice restituzione di Alcesti da parte di Eracle [...]
sarebbe stata evidentemente piatta e anche (per mancanza d°
armonia) fastidiosa. In circostanze analoghe, Shakespeare man-
terrebbe l’atmosfera della tragicommedia fingendo che l’eroina
risorta sia una statua. Euripide è più abile. Aleesti è velata e,
per una ragione convenzionale (1144 sgg.), deve rimanere in
silenzio. Ciò permette a FEuripide di presentarci una delle sue
poche scene a tre personaggi [...}”°7,
TIl coro dei cittadini, nella sua ultima ode che precede di poco
lo scioglimento, ricorda ancora una volta che neppure Ascle-
pio guariva la gente dalla morte e che di fronte a essa erano
impotenti anche i seguaci dell’orfismo. Alla morte non c’è ri-
medio: Tanato è l’unico dio che non abbia altari e non possa
essere placato da un sacrificio o da un’offerta. Il coro di AL
cesti ripete, come Megara nell’Eracle dello stesso Euripide: “Il
nostro destino è di morire [...] E chi, una volta morto, è mai
tornato dall’Ade? ” (284 é 296).
ÉEsattamente a questo punto, appena il coro ha concluso la sua
ultima ode sull’inevitabilità della morte, compare Eracle con la
straniera velata. Lui sa benissimo di essere considerato un la-
dro e comincia subito dicendo che non l’ha rubata: “Ho fati-
cato molto per averla nelle mani” (1035-36). Soltanto alla fi-
ne, racconta di essere riuscito ad arrivare in tempo e di essersi
battuto con Tanato: ‘“Mi fu campo il luogo dov’era la sua
tomba. Iv stetti all’agguato e lo afferrai con le mie mani”
(1141-42). Tanato, talmente pesante da non poter correre lon-
tano dalla tomba, lo conosciamo dal prologo. Apollo lo incon-
tra quando viene a casa d’Admeto a cercare la sua vittima.
“Tanato è un vero personaggio”, serive W.D. Smith, “un ner-
voso gradasso che ha paura di battersi, un grottesco spaurac-
chio che pare uscito da una fiaba”?® , Il suo dialogo con Apol-
lo in Alcesti è unico nell’intero corpus del teatro greco e mol-
ti studiosi lo fanno derivare dalla tradizione della narrativa po-

118
Alcesti velata

polare. Il tema di un pattòo inteso a rinviare la morte, degli


scontri con la morte e dei tentativi d’ingannarla è frequente
nella narrativa popolare di molti paesi, ma la morte è inflessi-
bile e alla fine è sempre lei che vince’” . Le analogie dunque
non ci portano molto lontano. Assai più notevole è la sorpren-
dente somiglianza di questa prima morte, personaggio dì un
dramma, con tutti i suoi successivi duplicati del teatro me-
dioevale e della commedia del primo rinascimento.
La morte è stata rappresentata come uno scheletro armato di
falcetto o, più spesso, di falce. La falce o il falcetto, sostituiti
in seguito anche da una clessidra, erano stati attribuiti alla
morte medioevale come parte di un retaggio classico derivante
da Saturno®° . Nel prologo di Alcesti, Tanato porta una spada,
ma la usa per lo stesso scopo con il quale le mortiì medioevali
usavano la falce. “Io vado da lei per dare inizio al sacrificio
con la spada [...]” (73-4). Jan Kochanowski, nella prima tra-
duzione in volgare di Alcesti, fatta verso la metà del cinque-
cento, sostituisce ovviamente la falce alla spada e fonde mira-
bilmente la tradizione classica e la cristiana.
E quella donna ora andrà sotto terra
e i0 andrò a cancellarla con la mia falce.
Come posso infatti tagliare un capello dal suo capo
agli dèi della terra ora votato? !
Nell’“‘opera dei pupi” siciliana, che tra i teatri per marionette
è quello che conserva più antiche tradizioni e che rappresenta
tuttora storie cavalleresche assai simili alla Mélusine medioeva-
le, la morte è ancora uno scheletro di legno armato di falce.
Dedica molto tempo e molta attenzione al tagliare la testa ai
peccatori; dopo di che la testa cade dalla scena con un gran
baccano e rotola sino alla prima fila di platea. In una rappre-
sentazione polacca sulla Natività, la morte replica ridendo alle
invocazioni di pietà di re Erode e gli taglia la testa. Questa
testa è fatta con una rapa e la morte la taglia con una vera
falce, come una spiga matura nei campi°° .

119
Divorare gli dei

La morte è impudente e sicura di sé solo di fronte ai più de-


boli. Nel prologo di Alcesti, Tanato, arrogante all’inizio, cam-
bia presto tono quando Apollo, che l’ha sempre trattato con
disprezzo, lo prende scherzosamente di mira con il suo arco.
Apollo — Tu non temere. Ché se fai questione
di giustizia, essa è dalla mia parte
e ne ho di ragioni, e sono nobili.
Tanato — Dalla tua parte? E che ne fai dell’arco?
(Alcesti, 38 sgg.)
Tanato in Alcesti, come la morte nella danza di morte me-
dioevale e poi nelle “moralità”, è egualitario. Non ha rispetto
per la giovinezza, i meriti personali, le ricchezze o la condizio-
ne sociale.
Tanato — Quando muoiono giovani, la parte
ch’io ne traggo è più grande.
Apollo — Anche se muore vecchia, il funerale
sarà sontuoso.
Tanato — La tua legge, o Febo,
fa il vantaggio dei ricchi.
(Alcesti, 95 sgg.)
In Everyman la morte si comporta praticamente nella stessa
maniera. È’ ancora un’accanita sostenitrice dell’egualitarismo.
Quando Ognuno cerca di corromperla, si sdegna:
Ognuno, ciò non può essere in nessun modo. Non mi curo d’
oro, d’argento o di ricchezze, né di papa, imperatore, re, duca
o principe. Giacché se accettassi ricchi doni, tutto il mondo
potrei avere. Al tutto contrario è il mio costume ??
In Alcesti, come in tutto il teatro europeo successivo, la mor-
te è ingrata e spietata, completamente priva di chartis. In ogni
testo medioevale si parla della sua “bruttezza”. E’ potente, ma
anche goffa e ridicola; assume arie di superiorità, ma è volgare
e non molto astuta. Apollo deride apertamente Tanato: “An-
che sapiente? E io non lo sapevo” (58). Kitto traduce spirito-
samente: “Ma come? Sei anche tu un intellettuale? °°34

120
Alcesti velata

Cosa ancor più importante, Tanato, in questa prima fase, è un


personaggio comico. Molti studiosi non se ne sono accorti.
Con un profondo rispetto per l’establishment vittoriano (in
fondo, Tanato è un dio), ma con assoluta indifferenza per lo
stile teatrale di Alcesti, Alexander J. Tate scriveva: “Non sì
può che rammaricarsi del fatto che due personaggi cosi austeri
s’abbassino ai meschini giochi di parole e ai sofismi che Euri-
pide qui ci preseènta”°5 ,
Apollo predice a Tanato che incontrerà un’altra volta un esse-
re più forte di lui e sarà costretto a restituire le sue spoglie e
ad andarsene come era venuto con le sue maniere ‘“nemiche
agli uomini e abbominate dagli déèi” (62). Ma il prologo non si
limita a preannunciare lo scioglimento; nella struttura impec-
cabile di Alcesti il suo stile e la sua forma teatrale sìi ripeteran-
no nell’epilogo. L’opera inizia con una grande risata. La sce-
netta nella quale Apollo finge di puntare l’arco contro Tanato
che agita con arroganza una grossa spada assomiglia, per il suo
rozzo umorismo e per i gesti caricaturali, ad Aristofane. Nei
testi drammatici greci non esistono didascalie, ma nell’epilogo
ci sono due versi che sembrano quasi delle note di regia.
Eracle — Non aver paura,
tendi la mano, tocca la straniera.
Admeto — E sia! La tendo. È’ come se tagliassi
il capo alla Gorgone.
(Alcesti, 1117 sgg.)
Il gesto doveva essere molto noto, essendoci pervenuto anche
sui vasi greci’° . Poiché le Gorgoni uccidevano con lo sguardo,
Perseo volse la testa altrove e levò lo scudo; su di esso vedeva
l’immagine riflessa di Medea e poté cosi colpirla con la spada.
T gesti d’Admeto in questo particolare momento sono talmen-
te fuorì luogo che paiono venire da un’altra opera. Alcesti fi-
nisce come è cominciata: con una grande risata. Ma quando
Admeto riconosce nella straniera sua moglie, la risata cessa.
Sarebbe ora sbagliata come lo erano poco prima i gesti di Ad-

121
Divorare gli dei

meto. Tutto del resto è sbagliato. Noi non ci spaventiamo per-


ché non possiamo credere nel miracolo e perché non c’è nes-
suno su cui impietosircti.
1Il finale è sgradevole per tre ragioni: il sacrificio di Alcesti,
l’ospitalità di Admeto e il miracolo appena avvenuto sono sta-
ti oggetto di derisione. Kurt von Fritz lo definisce “dolce-ama-
ro”, John R. Wilson, più icasticamente, dice che “Admeto e
gli altri possono avere la botte piena e la moglie ubriaca”°”,
Il modo nel quale gli specialisti in letterature classiche affron-
tano l’enigma di Alcesti ricorda da vicino le insistenti doman-
de di Eracle e le risposte evasive di Admeto quando l’ospite si
presenta al palazzo di Fere nel momento più inopportuno.
Eracle — Non sarà morta Alcesti!
Admeto — Due discorsi
io posso fare su di lei.
Eracle — Di lei
morta, vuoi dire? O è ancora viva?
Admeto — E°
e non è più, e questo è il mio dolore.
{...]
Eracle — L’è e il nonè
si è soliti distinguerli.
(Alcestì, 518 sgg. e 528)
Îl semidio ha sicuramente ragione. Alla fine bisogna pur ri-
spondere alla domanda imbarazzante: Alcesti è realmente mor-
ta? Ed è realmente tornata? Ma cosa significa “realmente”?

3.

Anche il Don Giovanni di Molière supera i confini delle divi-


sioni classiche e si è tentato di definirlo una tragicommedia.
Nell’epilogo, il miscredente viene colpito da un fulmine sca-
gliato dal cielo e sotto di lui si spalanca la terra. Il peccatore è

122
Alcesti velata

stato punito da dio, ma il miracolo è un trucco scenico: il


tuono è prodotto da una macchina e Don Giovanni non spro-
fonda sotto terra, ma scende lentamente in una botola. Alce-
sti, come Don Giovanni è sorprendentemente moderna per la
sua mescolanza di stili. A volta lo sembra al punto che siamo
tentati di definirla un’antitragedia. Ma è un’antitragedia pensa-
ta per gli strumenti di cui disponeva il teatro greco, ed è solo
entro le convenzioni di questo teatro che si può capire e valu-
tare l’apporto innovatore di Euripide.
Alcesti — costruita come un dramma satiresco — consta di sei
agoni. Per recitarla bastavano due attori. Îl primo, come risul-
ta chiaramente dalla composizione delle scene, interpretava
successivamente Apollo, Admeto e il servo; il secondo Tanato,
l’ancella, Alcesti, Ferete ed Eracle. Nell’epilogo Admeto ed
Eracle sono contemporaneamente in scena. Chi recitava allora
la parte della bella straniera?
Nel teatro greco la persona e la maschera sono una cosa sola.
L’identificazione teatrale, cioè il segno della dramatis persona,
è nella maschera e nel costume. Una volta sollevato il velo,
Admeto vede la maschera d’Alcesti. Ma nell’epilogo la masche-
ra viene portata da una comparsa. Altro segno teatrale di un
personaggio è la voce, benché nel teatro greco l’articolazione
fosse con ogni probabilità artificiosa e gutturale come nel né
giapponese e nell’opera cinese. Comunque la bella straniera ri-
mane muta sino alla fine.
A parte l’epilogo di Alcesti, non c’è in tutto il teatro greco un
altro caso nel quale, almeno per quanto concerne le parti prin-
cipali, la maschera di un personaggio venga portata da un altro
attore®® , La straniera è Alcesti perché porta la sua maschera,
ma è Alcesti in un altro corpo. L’ambiguità dell’icona di que-
sta seconda Alcesti muta è un altro degli enigmi dell’opera.
Non sembra possibile rappresentare in un teatro moderno ’
ambiguità dell’Alcesti di Euripide. Se nell’epilogo compare Îa
stessa attrice che interpretava la prima Alcesti, il finale non è

123
Divorare gli dei

più ambiguo. Se la seconda viene impersonata da un’altra at-


trice, sparisce la conturbante ambiguità della moglie risorta; l°
opera può sembrare più moderna, ma è anche più piatta. Rap-
presentata alla maniera greca, da due attori mascherati, Alcesti
può essere soltanto una ricostruzione e, come tutte le ricostru-
zioni archeologiche, una cosa morta. Ma nel teatro contempo-
raneo, dopo Mejerch’old, Antonin Artaud e Brecht, la masche-
ra è di nuovo diventata un segno semantico. Mettiamo che Îa
straniera portata dal semidio sia interpretata da una bella ra-
gazza e che essa porti una maschera bianca con i lineamenti di
Alcesti.
Alcesti è tornata e non è tornata, la bella straniera è lei e non
è let. Parlando di Alcesti, l’ancella all’inizio del dramma dice-
va: ‘“La puoi dire viva e che è morta anche” (141)°° , L’ambi-
guità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura
teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano
ironicamente 1 miti che negano la resurrezione. Ma cosa signi-
fica ambiguità?
Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del se-
gno — la sua ‘““icona”, la sua “forma” — oppure il suo signifi-
cato, la sua sostanza, possono essere ambigui. La maschera di
Alcesti è ambigua se portata da un attore diverso da quello
che la portava prima, come quando, nella commedia dell’arte
e nelle commedie di Shakespeare, un ragazzo fa la parte di
una ragazza la quale si traveste da ragazzo. Ambiguo in manie-
ra diversa — a livello di significato — è il tappeto rosso sul
quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un
vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di
porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Aga-
mennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta.
Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che of-
fende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimo-
nia sacrificale non appena il celebrante sì trasforma in vittima.
Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo
dei segni teatrali.
124
Alcesti velata

L’Alcesti di Furipide sembra contenere ambedue i tipi di am-


biguità, Sembra a volte l’uniéo capolavoro manieristico di tut-
ta la storia del teatro. Come il quadro di un maestro italiano
nel quale il ritratto di un cavaliere o di una dama, quando ci
avviciniamo alla tela, si rivela all’improvviso un curioso am-
masso di mele, pere e uva o un gruppo, altrettanto ammassa-
to, ma disegnato con precisione, di navi con le vele spiegate, i
cannoni e i mortai. '
La tragedia e la commedia sono strutture significanti. Una tra-
gedia che potrebbe anche essere interpretata e rappresentata
come commedia e una commedia che potrebbe essere interpre-
tata e rappresentata tragicamente, hanno entrambe guesta am-
biguità interna in termini di struttura. Nel prologo dell’Anfi-
trione di Plauto, Mercurio cosf si rivolge al pubblico:
Come? Avete corrugato la fronte al sentir dire che questa saraà
una tragedia? Sono un dio e, se volete, io la trasformo subito
da tragedia in commedia, senza bisogno di toccare un solo ver-
so., Ne farò una miscela: sarà una tragicommedia.
(Anfitrione, 52 sgg.)“°
In questo brano, nel quale s’impiega per la prima volta, per
quanto se ne sappia, la parola “tragicommedia”, coesistono
due definizioni diverse. La prima è che la tragedia può essere
trasformata in commedia senza cambiare neanche una parola.
Mercurio è un dio, e per di più il dio dell’ingegnosità, e quindi
conosce ovviamente le operazioni strutturali: gli hbasta mutare
il codice per attribuire un diverso ‘“significato” al “significan-
te” (icona). Nella seconda definizione, “Faciam ut conmista
sitt tragicomoedia”, è fondamentale la mescolanza e l’unione di
dèi, re e schiavi in un’unica storia.
Dovremmo forse seguire Mercurio e la sua prima sorprendente
definizione e tentare una lettura conclusiva di Alcesti veden-
dola prima come tragedia, poi come commedia. À parte Le
baccanti (ed esiste una notevole affinità, anche se non è facile
indicarla con precisione, tra il primo e l’ultimo dei capolavori

125
Divorare gli dei

di Euripide), Alcesti è il solo dramma greco in cui si possa


riconoscere la struttura del rituale che, secondo la secuola an-
tropologica di Cambridge (Jane Harrison, Gilbert Murray), è
anche la “forma profonda” della tragedia“! . I sei agoni di AL
cesti corrispondono quasi esattamente ai sei elementi successi-
vi di questa “metaforma”: il primo, una contesa tra un dio e
il suo avversario (Apollo e Tanato nel prologo); il secondo,
pathos o sofferenza (l’addio di Alcesti al letto nuziale, aì figli
e ad Admeto e il suò terrore quando sente che Ade la chia-
ma); il terzo, un messaggero annunciatore di morte (il vecchio
servo che comunica a Eracle la dolorosa notizia); il quarto, il
treno (il lamento di Admeto al ritorno dal funerale); il quinto,
l’anagnorisis o capovolgimento (il riconoscimento di Alcesti
nella figura della straniera); il sesto, la teofania (il ritorno a
casa della moglie risorta). T.S. Eliot, che subi forse l’influenza
degli antropologi di Cambridge, interpretava cosi Alcesti in
The Cocktail Party:
[...] è cosa molto seria
portare alcuno qua dalla morte [...]
Ah, ma moriamo uno all’altro ogni giorno“” .
Ma nell’Alcesti di Euripide uno soltanto dei sei elementi della
“forma rituale’’ — la sofferenza e la morte dell’eroina — con-
serva la sua serietà tragica. Îl lamento di Admeto è trattato
con ironia, e altri due — l’agone di Apollo con Tanato e l’epi-
sodio nel quale il semidio ubriaco smaltisce la sbornia — sono
palesemente farseschi. Inoltre il prezzo del riconoscimento è il
tradimento e l’epilogo è soltanto una teofania beffarda. La
tragedia si muta in commedia e l’ultima scena ha di nuovo il
tono e i gesti del dramma satiresco. Îl paradosso di Maurice
Regnault si applica ad Alcesti come a nessun altro dramma:
“La commedia nasce dall’assenza della tragedia in un mondo
tragico ”. _
Mercurio ha già trasformato Alcesti, Leggiamola dunque come
commedia. Seguendo Northrop Frye, possiamo mostrare il suo

126
Alcesti velata

modello come la successione di tre periodi: il momento del


lutto e della separazione; il momento della confusione e della
temporanea perdita d’identità, “rappresentato di solito con il
trito espediente del travestimento impenetrabile”“3 ; e infine,
il momento del riconoscimento nel quale gli eroi trovano se
stessi e il loro nuovo posto nella rinata comunità. “Man mano
che l’eroe s’avvicina all’eroina e l’opposizione viene superata”,
scerive ancora Frye in The Argument of Comedy, “tutti i ben
pensanti si schierano dalla sua parte. Si forma cosi sulla scena
una nuova unità sociale, e il momento che cristallizza questa
unità sociale è il momento dello scioglimento comico”44 ,
Nella prima fase, che in termini liturgici corrisponde alla Qua-
resima, gli amanti sono separati e l’eroe e l’eroina subiscono
una morte “rituale”. Questa, fase è spesso dominata da leggi
crudeli, come la condizione inumana che impone ad Admeto
di trovarsi un sostituto disposto a morire per lui, Nella secon-
da fase, quella dell’identità perduta, non è soltanto Alcesti ad
aver assunto il “travestimento impenetrabile’’; anche Admeto,
tornato nella casa deserta dopo il funerale, ha perduto la sua
posizione sociale, e quindi se stesso. La terza fase, quella della
riconciliazione e del riprnistino, coincide, nella commedia, con
il ritrovarsi degli amanti e si conclude con le nozze.
Nella cerimonia nuziale greca, il momento più solenne era
quello in cui la sposa sollevava il suo velo, presenti il futuro
marito e gli invitati. Questo momento, l’anakalypteria, è rap-
presentato in modo particolarmente espressivo nelle sculture
delle metope di Selinunte: la sposa si toglie il velo con un ge-
sto cerimonioso.
Nell’epilogo di Alcesti, Eracle porta in scena una donna velata.
Poi il velo viene sollevato. Ma da chi? A questo punto Adme-
to tiene la straniera per mano, ma volge la testa altrove come
per evitare la vista di un’orribile Gorgone. È’ molto improba-
bile che avrebbe osato scoprirla. Si presume di solito che sia
Eracle a sollevare il velo. Ma se questa scena è davvero una

127
Divorare gli dei

ripetizione della cerimonia dell’anakalypteria, è la bella stra-


niera che deve togliersi il velo“*. In tal modo Alcesti sposa di
nuovo Admeto, ma come sua seconda moglie.
L’error in persona, nel quale la moglie sostituisce l’amante, di-
verrà in seguito un'’abituale situazione di commedia. L’errore
di Admeto verrà ripetuto dal conte d’Almaviva nel Matrimo-
nio di Figaro. Ma in Alcesti, in questa situazione di comme-
dia, c’è un elemento di terrore. È’il momento in cui la risata
sì spegne sulle nostre labbra. È a esso non segue né la riconci-
liazione né il rinnovamento. Îl matrimonio è infetto. Leggendo
Alcesti come una commedia, l’anagnorisis, ìl riconoscimento, è
quasi tragico. Nel prologo Tanato viene in cerca di Alcesti;
nell’epilogo Alcesti, risorta dalla tomba, viene in cerca di Ad-
meto. Si ripresenta in Alcesti il tema di Protesilao tornato a
prendere Laodamia. La muta donna velata è l’immagine della
morte. Ora soltanto possiamo capire perché Admeto era terro-
rizzato quando prese per mano la straniera. La sua mano era
gelata*6.
Letta come tragedia, Alcesti si chiude con una beffarda resur-
rezione; letta come commedia, con un matrimonio mortale.
‘“Non ho mai capito, per parte mia, la differenza che si ravvisa
tra il comico e il tragico”, serive lenesco in Expérience du
thédtre. “Îl comico [...] mi sembra più disperato del tragico. H
comico non offre vie d’uscita’’“7 .
Il velo che viene sollevato è un’allegoria della verità. “Nl tempo
che svela la verità” era, seguendo l’antico modello, un tema
frequente della scultura e della pittura nel rinascimento e nel
barocco, oltre che un adagio retorico: “[...] smascherare la fal-
sitàe portare Îa verità alla luce”, scrive Shakespeare (Il ratto
di Lucrezia, 940). Anche in Alcesti il velo che si solleva è il
momento della verità. Ma il gesto è ambiguo. Si è svelata la
straniera, ma è rimasta velata l’Alcesti.

128
Note

1. Tuttc le citazioni da Alcesti sono nella traduzione di Carlo Diano in


Il teatro greco. Tutte le tragedie, cit.
2. Euripides’ Alcestis, a cura e con introduzione e note di A.M. Dale,
New York, Oxford University Press, 1954.
3. John Jones, On Aristotle and Greek Tragedy, New York, Oxford Uni-
versity Press, 1962, p. 25.
4. Bernard M.W. Knox, ‘“Euripideen Comedy”, in Alan Cheuse e Ri-
chard Koffler, The Raver Action: Essays in Honor of Francis Fergusson,
New PBrunswick, Rutgers University Press, 1971, pp. 71 sgg. In questo.
lucido e acutissimo saggio, Knox analizza Elena, Ifigenia in Tauride e
soprattutto Jone come commedie che anticipano direttamente Menandro
e Plauto. Val la pena paragonare il pavimento sporco di Alcesti con i
capelli sporchi dell’Elettra euripidea: “Guarda i miei capelli, la polvere
ne ha fatto crosta, e cade a pezzi il mio peplo, guarda e dimmi se questo
è degno della figlia di un re, di Agamennone” (184 sgg.).
5. Îl tempo e le circostanze del patto con la morte non sono importanti
per Éuripide. Eracle sa da qualche tempo della decisione di Alcesti. Nelle
versioni del mito che noi conosciamo (di Apollodoro e di altri) è succes-
so tutto durante la notte di nozze. Admeto ha trascurato di offrire un
sacrificio ad Artemide; la dea gli predice una morte imminente; Apollo
fa un patto con le Moire e Alcesti accetta di morire per il marito il gior-
no fissato. Cfr. D.J. Conacher, Euripidean Drama: Myth, Theme and
Structure, Toronto, University of Toronto Press, 1967, pp. 327 sgg.
6. “{...] un uomo egocentrico, codardo e miope”: Wesley Smith, The
lIronic Structure in Alcestis, “The Phoenix”, XIV, 1960, p. 129; “Adme-
to si comporta, senza dubbio, come un mascalzone’”: Thomas G. Rosen-
meyer, The Masks of Tragedy: Essays on Six Greek Dramas, Austin,
University of Texas Press, 1963, p. 238. La sola difesa moderna di Ad-
meto è nel saggio di Anne Pippin Burnett, The Virtues of Admetus,
‘““Classical Philology”’, LX, 1965, pp. 240-55.
7. Nella prefazione a Iphigénie in Thédtre complet de Racine, a cura di
Maurice Rat, Parigi, Classigues Garnier, 1960, p. 477. Racine voleva scri-
vere una sua Alcesti, e forse anche la cominciò e distrusse poi il testo. E”
tuttavia interessante che in questa prefazione egli abbia difeso Admeto

129
Divorare gli dei

contro Pierre Perrault, il quale lo considerava non soltanto un codardo


ma uno che aspettava con impazienza la morte della moglie. Per Racine,
Admeto era un eroe tragico.
8. Smith, op. cit., p. 130., Contiene anche pagine di grande interesse sul
tema del tradimento in quest’opera.
9. Ibid., p. 131.
10. Humphrey D.F. Kitto, Greek Tragedy, I1 ed., New York, Barnes &
Noble, 1961, p. 31.
11. Rosenmeyer, The Masks of Tragedy,
p. 239.
12. Cfr. Smith, The Ironic Structure in Alcestis, p. 156: “Gli spettatori
sono indotti ad aspettarsi che la restituzione di Alcesti debba dipendere
da una dimostrazione di virtu da parte di Admeto. Ma con una bella
invenzione, Euripide fa s1 che la prova sia la restituzione stessa. Nel mo-
mento cruciale Admeto fallisce. Tende le mani alla cieca verso la scono-
sciuta e, nell’atto stesso con cui tradisce la moglie, la riottiene”.
13, A.W. Verrall, Euripides, the Rationalist, Cambridge, Cambridge Uni-
versity Press, 1895, pp. 120 sgg.
14. William Arrowsmith, “The Comedy of T.S. Eliot”, in English Stage
Comedy, New York 1955, pp. 148 sgg.
15. Esiodo, Cataloghi, 90, in Hesiod, p. 213. Secondo le fonti più atten-
dibili, Asclepio era figlio di Apollo e di Coronide, e quindi nipote, non
figlio, di Latona. '
16. Trad. di Piero Pueci, in Platone, Opere complete, vol. HI, pp. 161
spgo . .
17g. Apollodoro, Biblioteca, 1, 9, 15.
18. Kitto, Greek Tragedy, cit. p. 328.
19., Graves, I miti greci, cit., p. 568.
20. Richter, The Sculpture and Sculptors of the Greeks, p. 139.
21. Ciclope, 336 sgg. Cfr. Knox, “Euripidean Comedy”, cit., p. 74.
22. Eumenidi, 723 sgg. Trad. di Manara Valgimigli, in Îl teatro greco.
Tutte le tragedie, cit.
23. Ivan M. Linforth, The Art of Orpheus, Berkeley, University of Cali-
fornia Press, 1941, pp. 16 sgg., avanza l’ipotesi che esistesse una versione
del mito nella quale Orfeo ricuperava Euridice. Le prove sono assai fragi-
li e si basano su un'interpretazione piuttosto discutibile del famoso bas-
sorilievo di Napoli che raffigura Érmete, Euridice e Orfeo. Comunque il
paragone, ironico, che Admeto fa tra se stesso e Orfeo in Alcesti non
può in alcun modo essere considerato una conferma di questa versione
ottimistica del mito,
24, “[...] coloro che tornarono di laggiù. Alcesti e Protesilao di l'essa-

130
Alcesti velata

glia, Teseo figliolo di Egeo e l’Odisseo di Omero”. Luciano, “Del lutto”,


5, in ] dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 712.
25. Nauck, Tragoediae di Euripide, 1902, HI.
26. “Dialoghi dei morti””, 23, in I dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 144,
27. Kitto, Greek Tragedy, cit., p. 322.
28. Smith, “The Ironic Structure in Alcestis”’, cit., p. 140.
29. Cfr. Conacher, Euripidean Drama, p. 333: “Nella narrativa popolare,
nessuna esce mai vincitore dalla lotta con la morte; e la conclusione mo-
ralistica e un po’ troppo sentimentale scelta da Platone non corrisponde
al sinistro personaggio di Tanato nel dramma di Euripide”’. Cfr. anche'
Albin Lesky, Alkestis, der Myikus und das Drama, SB Wiener Ak.,
ph.-hist. KI, CCHI, 2, Vienna 1925.
30. Le più antiche fonti iconografiche risalgono all’inizio dell’XI secolo.
Cfr. Erwin Panofsky, Studies in Iconology, pp. 77 e 115. Anche uno
scrittore relativamente recente come Lessing, in Come gli antichi rappre-
sentavano la morte (1769), contrappone la morte dolce, indolore e digni-
tosa dell’antichità con le immagini che ne furono date nel medioevo e
nel periodo barocco. Schiller, seguendo Lessing, scrisse nel suo poema
famoso:
Poi.nessun macabro spettro al moribondo
orripilante apparve. Ma l’ultimo respiro
fu preso con un bacio da labbra appena tremule,
una fiaccola spenta dal dio della morte.
Cir. Eliza Marian Butler, The Tyranny of Greece over Germany, Iì ed.,
Boston, Beacon, 1958, p. 70. La visione winckelmanniana di una Grecia
monumentale, conosciuta soltanto. attraverso calchi in gesso, nascondeva
il vero Euripide. Dimenticarono tutti il grottesco Tanato bevitore di san-
gue di Alcesti. o
31. “Alcestis meza od $mierci zastapila”, 73 sgg., in Jan Kochanowski,
Dziela Polskie, vol. ÎII, Varsavia 1953, p. 200. Purtroppo Kochanowski
tradusse soltanto il prologo.
32. L’autore vuole esprimere i propri sinceri ringraziamenti a Zbigniew
Raszewski per le informazioni sulla morte nel teatro religioso.
33. La chiamata di ognuno, trad. di Stanislaus Joyce, in Teatro religioso
dal Medio Evo fuori d’Italia, a cura di Gianfranco Contini, Milano, Bom-
piani, 1949.
34. Kitto, Greek Tragedy, cit., p. 315.
35. Alexander J. Tate, The Alcestis of Euripides, Londra 1903, p. 54.
36. “Pan pittore”*, tav. 5 in Beazley, Attic Black-Figure. Cfr. anche il
commento di A.M. Dale al verso 1118 nella sua citata edizione di Alce-

131
Divorare gli dei

sti, oltre a Euripide, Troiane, 564, e Reso, 606. Pure l’interpretazione


freudiana della “testa della Gorgone” può aiutarci a comprendere questa
scena; sembra corrispondere in misura sorprendente alla situazione di
Admeto: “Il terrore della Medusa è quindi paura della castrazione, paura
legata alla vista di qualcosa [...] 1 capelli della testa della Medusa sono
spesso rappresentati, nelle opere d’arte, sotto forma di serpenti; e quest’
ultimi, ancora una volta, derivano dal complesso di castrazione. È’ note-
vole che, per quanto spaventevoli essi siano di per se stessi, in effetti
servono tuttavia a calmare l’orrore, poiché sostituiscono il pene la cui
assenza è causa della paura [...] La vista della Medusa terrorizza lo spet-
tatore, lo pietrifica [...]”” (da The Standard Edition al of S. Freud, Lon-
dra, Hogarth Press, 1964, p. 273).
37. Kurt von Fritz, “The Happy Ending of Alkestis”, in £uripides’ AL
cestis: Collection of Critical Essays, a cura di John R. Wilson, Engle-
wood-Cliffs, Prentice-Hall, 1968, p. 81. Vedi anche l’introduzione di
John R.. Wilson, p. 11.
38. Euripides’ Alcestis, a cura di Dale, nota al v. 1146: “L’Alcesti muta
era ovviamente interpretata da una comparsa, perché il suo interprete
precedente era adesso in scena come Éracle; ma non è necessario insiste-
re sulla perfetta funzionalità delle ragioni qui inventate e sul vantaggio
tratto, in termini drammatici, poetici e di buon gusto, da questa limita-
zione”, . |
39. Pippin Burnett, “The Virtues of Admetus”, cit., p. 250.
40. Anfitrione, trad. di Carlo Carena, in Plauto, Le commedie, Torino,
Einaudi, 1975, pp. 10-11. È’ interessante osservare che Hegel, nell’Esteti-
ca, riporta questa stessa citazione dopo aver parlato di Alcesti.
41. Vedi più avanti la nota 38 al saggio sulle Baccanti.
42. Eliot, The Cocktail Party, trad. di Salvatore Rosati, in Teatro, Mila-
no, Bompiani, 1958, pp. 75-6.
43. Northrop Frye, A Natural Perspective: The Development of Shake—
spearean Comedy and Romance, New York, Harcourt, 1965, pp. 76 sgg.
44. Northrop Frye, “The Argument of Comedy”, in English Institutio-
nal Essays, a cura di D.A. Robertson jr, New York, Columbia University
Press, 1944, p. 59.
A5. L’autore vuole esprimere i propri ringraziamenti più sinceri a Ber-
nard M.W. Knox che gli ha suggerito la possibilità di un collegamento tra
la scena in cui Alcesti si toglie il velo e la cerimonia dell’anakalypteria.
L’interpretazione di questa scena segue, quasi letteralmente, la lettera di
Knox all’autore.
46. E° anche possibile un’interpretazione freudiana. Alcesti può essere

132
Alcesti velata

un ‘“sogno” nel quale la stessa Alcesti realizza i propri desideri inconsci.


Infelice nella sua vita coniugale con Admeto, lo vorrebbe morto. Ma re-
prime questo suo desiderio. Sogna cosi di essersi sacrificata per Admeto
sino a morire per lui. Dopo di che torna dalla tomba in un “travestimen-
to impenetrabile”” e lo risposa come una ragazza. Ma questo matrimo-
nio-tradimento è la morte di Admeto. Assomiglierebbe, sul piano dram-
matico come su quello psicoanalitico, al ritorno di Donna Elvira in Don
Giovanni, anche lei velata, come messaggera di morte. Nel più antico Îi-
bro dei sogni greco che ci sia rimasto, scritto da Artemidoro nel II seco-
lo a.C., troviamo scritto (cito da Rosenmeyer, The Masks of Tragedy, p.
246): “Un matrimonio e una morte hanno il medesimo significato, per-
ché le cose che li accompagnano sono le medesime”. È’ strano che anche
Nietzsche, in La nascita della tragedia, interpretando Alcesti tormata co-
me una maschera di Dioniso, la veda come un’immagine di morte:
Figuriamoci Admeto in preda al profondo sentimento della sposa Alce-
sti, troppo precocemente perduta, consumarsi nel rievocarla in ispirito;
quando all’improvviso gli si fa innanzi una figura di donna che ha la stes-
sa statura e lo stesso portamento: figuriamoci il suo tremito repentino e
la sua perplessità, l’impetuoso confronto e la sua istintiva persuasione; e
abbiamo così qualcosa di analogo all’animo con cui lo spettatore, dioni-
siacamente eccitato, vedeva comparire sulla scena il dio, con le passioni
del quale era già divenuto tutt’uno. Egli involontariamente trasferiva su
quella. figura mascherata l’immagine del dio che, col suo incanto magico,
gli teneva l’anima tutta tremante, e risolveva, per così dire, in un'irrealtà
immaginativa la sua realtà.
Trad. di E. Ruta, riveduta da Paolo Chiarini, Bari, Laterza, 1967, p. 91.
47. Eugène lonesco, Note e contronote, trad. di Gian Renzo Morteo,
Torino, Einaudi, 1965, p. 30.

133
“Dov’è adesso quel famoso Eracle? ”

1. Le facce di Eracle

Nell’X1 libro dell’Odissea, in letteratura il primo viaggio nella


terra dei morti, l’episodio più stupefacente è l’incontro fra
Odisseo ed Eracle. Tutti i defunti — comuni mortali come la
madre di Odisseo, eroi come Achille .e Aiace, assassini e vitti-
me, canaglie e amanti terrene di Zeus — sono ombre confinate
nell’Ade per l’eternità. Soltanto Eracle fa caso a sé, risiedendo
contemporaneamente al verticee nel fondo del cosmo greco,
sull’Olimpo un immortale in compagnia degl dèi, nell’Ade un
fantasma. Odisseo, vedendolo, non nasconde il suo stupore:
E poi conobbi la grande forza d’Eracle,
ma la parvenza sola; lui tra i numi immortali
gode il banchetto, possiede Ebe caviglia bella,
figlia del grande Zeus e d’Era sandali d’oro.
(Odissea, XI, 601 sgg.)
Eracle è il solo uomo che sia divenuto immortale, ma ai tempi
omerici era difficile accettare la sua deificazione. Anche se la
strana teologia dell’Eracle diviso, quale appare nell’Odissea,
fosse un’interpolazione successiva, è comunque importante che
per Omero la vita terrena di Eracle si sia conclusa nella desola-
zione. L’inferno omerico assomiglia per un aspetto a tutti gli
inferni successivi: non vi esiste tempo, o ne esiste solo uno,
plusquam perfectum. Per i vivi, i morti sono fissi e immobili,
come un’impronta nel guscio calcificato di un insetto antidilu-
viano. Ma per i morti, nell’Ade di Omero, l’intero passato è il
loro presente: vivono in stasis, in se stessi e insieme fuori di se
stessi; possono anche vedere le loro vite. Nel passato raggelato

134
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

dell’Ade, tutti gli onori e le glorie terrene sono vanità. Achille,


confortato da Odisseo con la notizia che la Grecia tutta lo ve-
-nera come un dio, risponde:
Non lodarmi la morte, splendido Odisseo.
Vorrei esere bifolco, servire un padrone,
un diseredato che non avesse ricchezza,
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte.
(Odissea, X1, 487 sgg.)
Nell’Ade di Omero i morti hanno conservato il proprio corpo,
gli strumenti che adoperavano, le armature e i vestiti che in-
dossavano. Sono duplicati di se stessi, come le immagini di un
museo di statue di cera. In questo cimitero omerico degli eroi,
Eracle è l’immagine di un potere inutile e sprecato. S’aggira
per l’Ade come un pazzo in manicomio, dominato dalla pas-
sione di uccidere. Porta l’arco, tende la freccia, cerca qualcuno
da ammazzare. Ma ammazzare i morti è impossibile.
Intorno a lui stridio di morti come d’uccelli
dappertutto fuggenti; simili a notte buta,
nudo l’arco teneva, e il dardo sul nervo,.
terribilmente girando gli occhi, sempre pronto a scoccare.
(Odissea, XI, 605 sgg.)
Nel breve colloquio con Odisseo, Eracle ricorda la più ardua
delle sue fatiche, quando portò Cerbero fuori dell’Ade. Ma ora
domatore e cane da guardia sono nell’Ade per sempre La pa-
rola greca ponos ha due significati, ‘“fatica” e “sofferenza”!.
Scendere all’inferno quando si è ancora vivi, è sofferenza inu-
tile se poi si deve morire:
[...}a un uomo molto inferiore
dovevo servire, e m’ordinava penose fatiche.
Un giorno quaggiù mi mandò a prendergli il Cane; niente
pensava sarebbe mai stato più grave di questa fatica!
ma glielo portai, lo tirai fuori dell’Ade;
Ermete mi fu guida, e Atena occhio azzurro.
(Odissea, XI, 621 sgg.)

135
Divorare gli dei

A Omero interessano i momenti di scoramento.di Eracle, ‘‘sfi-


nito [...] dalle fatiche d’Euristeo” (IHiade, VIHI, 363). Eracle
alle porte dell’inferno urla a squarciagola, e Zeus deve affret-
tarsi a mandare Atena in suo aiuto. Hl divino Eracle è per Zeus
motivo di “un dolore incessante” (HMiade, XV, 24). I progetti
divini vengono sventati; Zeus, ingannato, deve stare in guardia
mentre l’amatissimo figlio, anziché regnare “su tutti 1 vicini”,
è costretto a “soffrire indegno travaglio sotto le prove di Eu-
risteo” (IHiade, XIX, 133).
Per Omero, Eracle è un eroe fallito; la sua potenza è troppo.
debole o troppo forte: “sciagurato assassino, che non tremava
di compiere delitti” (Iiade, V, 403). E questo sinistro Eracle,
eroe delle fatiche più sgradevoli, che tutto distrugge intorno a
sé e viene a sua volta distrutto dalla propria forza, per Omero
è un personaggio tragico. Non è un caso che Achille citì l°
esempio di Eracle, quando Tetide cerca dìi dissuaderlo dal tor-
nare alla guerra e gli predice che pagherà la gloria con la mor-
te:
[...] la Chera io pure l’accoglierò, quando
Zeus vorrà comprierla, e gli altri numi immortali.
Nemmeno la forza d’Eracle poté sfuggire la Chera,
eppure era carissimo al sire Zeus Cronide;
ma lo domò il destino [...]
(Iliade, XVIII, 115 sgg.)
Anche Eracle, il più forte tra gli uomini, dovette morire. Era
il figlio amatissimo di dio, ma eiò non lo salvò dalla distruzio-
ne: ‘“Pianto senza mai fine avevo”, dice a Odisseo nell’Ade
(Odissea, S1, 620).
Nella Teogonia di Esiodo, Eracle ripulisce la terra dai mostri.
L’elenco è monotono: uccide il gigante tricorpore Gerione
(289); uccide l’idra di Lerna “con la spada spietata” (317); e
uccide l’aquila “dal fiato lungo” che divorava il “fegato im-
mortale” di Prometeo (523)?. Ma la Teogontia si conclude con
un’apoteosi universale, con la concordia tra cielo e terra e con

136
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

un lungo elenco di dèi e dee che abbracciano affettuosamente


i loro amanti terreni. I figli di Zeus salgono sull’Olimpo e an-
che Eracle viene divinizzato. “Lui felice. Perché ha compiuto
la sua grande opera e vive fra gli dèi immortali tutti 1 suoi
giorni, senza preoccupazioni e senza invecchiare” (Teogonia,
953 sgg.). Ma l’immagine di Eracle è piena di contraddizioni.
Nei Cataloghi appare ancora come un assassino: “Uecise i no-
bilissimi figli -deî forte Neleo, undici di loro”. La sua vita si
chiude disastrosamente. “Essa {Deianira] fece una cosa terribi-
le [...] la veste avvelenata che apportava nera sciagura [...}”?
Termina qui, bruscamente, il manoscritto ritrovato.
La contrapposizione drammatica tra distruzione e apoteosi, tra
la vita in cui dominano sofferenze e atrocità e l’eterna beatitu-
dine del cielo, è soprattutto evidente nell’inno omerico A
Eracle cuor di leone:
lo voglio cantare Eracle, il figlio di Zeus e di gran lunga il più
possente uomo della terra. Alemena lo partori a Tebe, la città
delle belle danze, dopo che il figlio di Zeus, avvolto in cupe
nubi, si fu giaciuto con lei. Vagava un tempo per tratti ine-
splorati di terra e di mare per ordine di re Euristeo e compi
molte imprese violente e molto sopportò, ma ora vive felice
nella gloriosa casa dell’Olimpo nevoso e ha come moglie Ebe
dalla bella caviglia. Ave, o signore, figlio di Zeus! Concedimi
successo e prosperità.
Il mito di Eracle rimase scisso alla fine del periodo classico e
non venne più ricomposto nella sua interezza. Il tardo medioe-
vo e il rinascimento riscoprono le sue molte facce. Mille anni
dopo l’Ercole dei bassorilievi romani, che doma il cinghiale o
l’idra, egli diventa il modello di san Michele e di san Giorgio
che uccidono il drago“. Eracle il salvatore, che ha ripulito la
terra dai mostri saliti dagli inferi nei primi giorni della creazio-
ne, assomiglia sorprendentemente agli arcangeli che assaltano
le porte dell’inferno. I miti eraclei vengono incorporati nella
Bibbia: l’Eracle allegorico rappresenta Davide e Sansone. Ver-.

137
Divorare gli dei

so la fine del rinascimento, quando, sotto l’influenza del neo-


platonismo, i miti greci vengono adattati al simbolismo cristia-
no, Eracle, che scese nell’Ade e ne tornò vivo, diventa un’im-
magine di Cristo. Cristo viene addirittura chiamato “l’Ercole
cristiano”. În pittura Ercole viene raffigurato pressappoco co-
me Cristoforo, il gigante che portò Gesù bambino di là da un
fiume. Anche la filosofia lo cristianizza. Per i neoplatonici del
circolo di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, impersonava
la virtus heroica, il potere dello spirito che soggioga la bestia-
lità della natura, doma le passioni e rinuncia al piacere. Persi-
no la clava di Ercole divenne un simbolo di ragione e di mo-
derazione come nell’Iconologia di Cesare Ripa (1593)°. Dopo
tutto era fatta di legno d’ulivo. ,
Nella repubblica fiorentina, Ercole domava non soltanto 1
mostri, ma i tiranni. E, dopo il rinascimento, i primi romantici
fecero proprio questo Ercole. L’eroe che abbatté l’aquila nu-
trita col fegato di Prometeo, divenne a sua volta prometeico.
Adam Mickiewiez nella sua Ode alla giovinezza (1820), seritta
nello spirito di Schiller, diceva:
Infante nella sua culla tagliò la testa all’Idra,
questo giovane strangolerà centauri,
strapperà vittime all’inferno,
andrà in cielo per ottenere allori! ®
L’Ercole romantico non guida il carceriere ma i prigionieri, e
li porta fuori dall’inferno ad assaltare i cieli. Ma anche la tra-
dizione postelassica non dimentica mai l’Ercole ‘“nero”, insie-
me carnefice e vittima. Questo eroe del potere distruttivo è
l’Ercole furens. Ippocrate, che fu il primo, in Le malattie fem-
minili, a descrivere particolareggiatamente e con esattezza 1
sintomi dell’epilessia, la chiama ‘“il morbo erculeo”. Il termine
ricompare nei dizionari e nelle enciclopedie rinascimentali e
diventa popolare: “Perché tutti gli uomini che eccellono nella
filosofia, nella poesia o nelle arti sono melanconici, e alcuni in
misura tale da essere colpiti dalle malattie derivanti dalla nera

138
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

bile, come attesta, tra quelle degli eroi, la storia di Eracle?


Eracle infatti sembra avere avuto questa natura, e perciò gli
antichi chiamarono in suo onore l’epilessia ’malattia sacra‘”?.
Nel medioevo, l’epilessia era considerata sia uno stigma, sia un
dono profetico. Contrassegnava gli eletti del diavolo o di dio.
Nel periodo rinascimentale, quando all’espressione ‘‘sacra fol-
lia” si attribuiva un significato vicino a quello dei neoplatoni-
ci, erano i ‘sintomi fisici dell’epilessia a suscitare il maggiore
interesse. La melanconia era uno dei quattro umori. Îl “melan-
conico estatico” nel quale ardeva la bile nera, divenne l’eroe
della ‘“tragedia di vendetta” elisabettiana. Il vendicatore nero-
si paragonava spesso a Ercole®.
Nello splendido sincretismo shakespeariano sono rappresentate
tutte le facce di Ercole. Quando, nel Sogno di una notte di
mezza estate, Quince raduna la sua compagnia di zotici e co-
mincia a distribuire le parti, Bottom vorrebbe soprattutto in-
terpretare la parte del tiranno comico che fracassa e distrugge
tutto quello che gli sta attorno: “[...] però la mia vera voca-
zione è il tiranno. Vi rifaccio un Ercole che è una specialità.
Mi ci vorrebbe nella parte un gatto da sbranare, da fare uno
sconquasso” {I, 2, 22 sgg.)°. Nel Mercante di Venezia, Porzia
paragona Bassanio, che per conquistare la sua mano deve sce-
gliere lo serigno giusto, a Ercole il salvatore, che libera le vitti-
me innocenti dalle grinfie dei mostri:
E quello procede èon non minore baldanza forse, ma con mol-
to più slancio amoroso del giovane Ercole quando mosse a li-
berare la vergine offerta da Troia, con grandi ululi, in olocau-
sto al mostro del mare. Ecco: io sono la vittima; e quelle gio-'
vani donne, li in disparte, sono le donne di Dardano che, tut-
te in lacrime, assistono all’esito del rito. Va”’, Ercole. Vivo tu,
anch’io viva.
(Il mercante di Venezia, ÎII, 2, 52 sgg.)
L’Antonio di Shakespeare, che porta sull’armatura una pelle di
leone, si considera un discendente di Ercole, al quale è pari

139
Divorare gli dei

per valore e vigore. La notte precedente la battaglia che si


concluderà con la sua disfatta, i soldati lo vedono aggirarsi co-
me un Ercole per l’accampamento.
Terzo soldato — Zitti, perdio! Che cosa vorrà dire?
Secondo soldato — E’ il dio Ercole, l’idolo di Antonio, che
ora lo abbandona.
(Antonio e Cleopatra, IV, 3, 14 sgg.)
Antonio trova l’immagine di se stesso in Ercole dominatore.
Ma, nel momento della disperazione, quando Cleopatra lo ab-
bandona e la disfatta s’avvicina, si paragona a un altro Ercole,
che è forse la più straordinaria immagine shakespeariana del
semidio. Ercole diventa cioè un modello di autodistruzione e
nello stesso tempo distrugge il mondo, o almeno quella parte
di esso che può essere distrutta. Antonio desidera morire co-
me Ercole furens:
Mi sento nella camicia di Nesso: insegnami tu, Ercole, mio
avo, la tua collera; voglio scagliare Lica ai corni della luna e
con queste mie mani esperte della clave pesantissima, disirug-
gere la mia sostanza semidivina.
(Antonio e Cleopatra, IV, 12, 43 sgg.)
Thomas Heywood, un contemporaneo di Shakespeare, rico-
struisce la genealogia di Giulio Cesare sino a Ercole. Teseo
imitò Ercole, Achille Teseo, Alessandro Achille e Cesare Ales-
sandro: “Vedere, come io ho visto, Ercole cacciare il cinghia-
le, abbattere il toro, domare la cerva, battersi con l’Îdra, uceci-
dere Gerione, ammazzare Diomede, ferire le Stinfalidi, stermi-
nare i centauri, strangolareil leone, strozzare il drago, trasci-
nare Cerbero in catene e scrivere infine sulle sue alte Piramidi
Nihil ultra, oh, erano visioni tali da fare di un uomo un Ales-
sandro”!° , Ma anche in questo modello erculeo sono presenti
due segni opposti: la grandezza e la debolezza. Il Giulio Cesa-
re di Shakespeare, che pochi minuti prima della sua caduta sì
paragonava all’Olimpo incrollabile e alla stella polare, soffriva
di “mal caduco”, in altre parole di Herculanus morbus.

140
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

l rinascimento riscoprf questo Ercole in Seneca. Nelle due


tragedie che Seneca gli dedica, Furens e Oetaeus, Ercole è so-
prattutto un tiranno che con le sue malefatte, le sue pose e la
sua retorica sembra destare nel drammaturgo un particolare in-
teresse. Le crisì di follia dell’omicida sono descritte con pro-
fonda competenza, come se Seneca ne avesse studiato il mo-
dello in un’autopsia. In Furens Ercole rotea gli occhi e danza
come un isterico; in Oetaeus “riempie l’aria di urla spavento-
se’ (797)!!. Agli occhi di Deianira è uno stupratore le cui
voglie amorose non hanno misura né limite: “Va a cercare
prede d’amore: vergini da trascinare al suo talamo”. Ercole si
vanta di aver liberato la specie umana dalla paura, ma semina
terrore intorno a sé. L’uomo che ha assassinato la moglie e 1
figli, incolpa gli dèi dei propri delitti. Deianira si fa poche illu-
sioni: “Cosi Alcide si sbarazza delle sue spose e questi sono i
suoi ripudi, e non c’è modo di farlo apparire colpevole: è arri-
vato a far credere al mondo che la matrigna era la causa dei
suoi delitti” (432 sgg.).
Octavia, che è uno dei testi teatrali più curiosi dell’antichità e
la prima tragedia storica, assomiglia a tratti in maniera sor-
prendente alle Histories shakespeariane. 1 personaggi principali
sono Seneca e Nerone. H filosofo, che di Nerone è stato 1l
precettore, lo mette in guardia contro la collera degli dèi, do-
vesse egli uccidere i senatori contrari al suo nuovo matrimo-
nio. La risposta di Nerone è semplice:
Nerone — Sarei uno stolto ad aver paura degli dèi, to che ne
creo.
Seneca — Tanto più devi rispettarli, dato che ti è concesso an-
che questo.
Nerone — E’ la mia fortuna a permettermi tutto.
(Octavia, 450 sgg.)}?
Octavia, a lungo attribuita a Seneca, è stata evidentemente
scritta quando entrambi i personaggi erano morti. La cosa più
interessante è l’evidente somiglianza del Nerone di questo

141
Divorare gli dei

dramma con il mitologico Ercole senechiano. Nel prologo


dell’Oetaeus, non avendo trovato sulla terra nessuno che gli sia
pari, egli chiede a Giove una delle costellazioni: “E intanto,
padre, mi è ancora negato il cielo? [...] Tutti i mali che la
terra, il mare, il cielo e l’inferno possono generare, hanno ce-
duto di fronte a me” (12 sgg.). Questo Ercole, come 1 Cesari
romani, è pronto a deificarsi e a penetrare di forza nell’Olim-
po: “Prendimi per uno dei Giganti: non meno di loro, del re-
sto, avrei potuto reclamare il cielo per me” (1303).
Quasi tutti gli studiosi sostengono che in Seneca la retorica
prende il posto dell’azione tragica. Ma proclamarsi' dio è sem-
pre un atto retorico: di una retorica clamorosa, ma tuttavia
tradizionale. Quando. Filippo mosse guerra ai persiani, Îsocrate
gli scrisse: “Una volta che avrai costretto i barbari a servire la
Grecia [...] e chiesto al re dei re di obbedire ai tuoi ordini,
non ti resterà altro che diventare un dio”. Il primo dei greci
che divenne un dio fu Alessandro, figlio di Filippo. L’opposi-
zione alla divinizzazione di un sovrano nel periodo ellenistico
è chiaramente espressa in Plutarco che cita la risposta dell’ora-
colo quando Alessandro a esso si rivolge per ottenere la massi-
ma consacrazione: ‘“Poiché Alessandro vuol essere un dio, }°
oracolo risponde, sia pure un dio”. Alessandro diventa cosi
dio su richiesta. A Roma, il primo Augusto viene annoverato
fra gli dèì per decisione del senato. “Deus nobis haec otia fe-
cit”, scrive Virgilio (Egloghe, I, 6); Augusto che ayeva assicu-
rato la pace fu divinizzato per questo' , ma la sua canonizza-
zione avvenne dopo la morte. Î Cesari successivi chiesero inve-
ce di essere divinizzati in vita. Domiziano voleva essere chia-
mato dominus ac deus noster.
La retorica dell’Ercole senechiano è la retorica dei Cesari; il
Nerone storico non si limitava a identificarsi con dèi e semi-
dei, fi interpretava persino in teatro. “Cantò anche”, scrive
Svetonio, ‘“brani di tragedie, personificando eroi e dèi e anche
eroine e dee, e servendosi di maschere che riproducevano le

142
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

sue fattezze o quelle delle donne che in quel momento erano


le sue amanti. Cantò tra il resto Il parto di Canace, Oreste
matricida, Edipo cieco ed Ercole furioso”. Ercole doveva esse-
re il suo personaggio prediletto, dal momento che Svetonio
torna a citarlo: “Si afferma inoltre che fosse stato preparato
un leone che egli, standosene nudo in mezzo all’arena, in pre-
senza del popolo, avrebbe dovuto uccidere a colpi di clava o
soffocandolo nella stretta delle sue braccia” !,
Hercules QOetaeus, cosa che non accade in Sofoele, si chiude
con un’apoteosi. Come nell’Odissea, Ercole viene diviso dopo
la morte. Ma gli opposti sono assai diversi. Compare nell’epilo-
go sua madre, stringendosi al seno un’urna con le ceneri dell
eroe. L’epitaffio che essa gli dedica sarà ripetuto da Shake-
speare quasi parola per parola:
Cosi poca cenere è quello che rimane di Ercole. Fino a que-
sto, a questo nulla, s°è rimpicciolito quel gigante! Che mole
enorme, o Sole, è svanita!
(1777 sgg.)
A questo punto le risponde dal cielo la voce di Ercole o, in
caso di rappresentazione, compare in machina la sua ombra:
‘“Tutto ciò che v’era in me di mortale se l’è portato via il fuo-
co che ho soggiogato; la parte che era tua è stata data alle
fiamme; la parte che derivava da mio padre è stata assunta in
cielo” (1966 sgg.). Alcmena, che ha partorito il figlio di Gio-
ve, è la prefigurazione della Pietà, la madre del figlio che è
asceso al cielo. Le immagini e la poetica fanno pensare a un
mistero cristiano: le ceneri restano sulla terra e l’anima im-
mortale ritorna al padre, ma la vera opposizione è ancora stol-
ca: vacuità e fama:
ma quando verrà
l’ora estrema al finir dei nostri di
vi schiuderdà la gloria a dio la via.
(1487 sgg.)
L’epifania di Ercoleè profana. Alcmena si comporta come la

143
Divorare gli dei

madre di Cesare: “Quale sepolcro, o figlio, quale tumulo è


sufficiente per te? Tutto questo mondo sarà titolo di gloria
per te’’ (1826).
La scissione postuma di Eracle nell’Odisseàa non poteva ovvia-
mente sfuggire all’ironia di Luciano. Nei Dialoghi dei morti,
Diogene è piuttosto stupito d’incontrare Eracle nell’Ade: “E’
proprio lui: l’arco, la clava, la pelle del leone, la persona, tut-
to d’Eracle. Ed è morto lui figliuolo di Zeus? Dimmi, o gran
vincitore, sei tu un morto? Îo t’offrivo sacrifici sulla terra co-
me a un dio”!5 ,
Invano Eracle tenta di convincere Diogene di essere solo un’
ombra, perché il vero Eracle si gode la beatitudine eterna sull’
Olimpo. Diogene, implacabile, pensa che possa anche non esse-
re cosi: “Ma bada che non sia il contrario, che tu sei Eracle e
che l’ombra tua sposò Ebe fra gli dèi””. L’Eracle di Luciano,
dopo la sua morte, è stato diviso in tre:
Diogene — Ora tu sei un’ombra incorporea; onde tu corri pert-
colo d’aver fatto tre Eract.
Eracle — Come, tre? .
Diogene — Ecco qui: uno è in cielo, tu ombra fra noi, e il
corpo che già diventò polvere sull’Oeta. Ma bada di tro-
varti un terzo padre per il corpo.
Nella fredda passionalità della tragedia senechiana e nel beffar-
do cabaret intellettuale di Luciano, il mito di Eracle viene
scisso definitivamente e completamente. Rimangono due metà
dissimili, due Eracli differenti in luogo di un Eracle con due
facce. Il mito era già scisso sin dagli inizi; ma il suo aspetto
più palese è proprio la scissione, il' viluppo dei contrasti: la
sofferenza nelle fatiche, &l fallimento nella vittoria. Ha due
padri, un dio e un uomo; è luce e tenebre, tiranno e schiavo,
figlicida e redentore, l’eroe più esaltato e più umiliato.
Nelle speculazioni mistiche degli gnostici, quando la tradizione
greca sì mescola all’ebraica, all’orientale e a quella dei cristiani
primitivi, si citano tre grandi profeti, Mosè, Ercole e Gesùà. Ma

144
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Ercole è un profeta mancato, che sventa i piani di dio. Uecide


gli angel ribelli, ma finisce ‘a sua volta vinto avendo scambiato
la sua tunica con gquella della donna-serpente. I mostri nati da
Gea e da Urano sono trasformati in angeli ribelli. Onfale di-
venta il serpente biblico. Ma anche l’Ercole cabalistico è un
eroe della disfatta!° . Scisso il cosmo tra un sopra e un sotto,
Ercole venne inviato per rimediare agli errori della prima gene-
si, ma non riùsci a compiere la sua missione. 1 mostri si di-
mostrarono più forti e non avvenne la mediazione.
Nell’immagine mistica di Eracle si ripresentano tutti i segni ar-
chetipi del mediatore tra cielo e inferno. Eracle è figlio di dio
padre e di una mortale, scende all’inferno e dopo la morte sa-
le al cielo. “Di norma”, serive Northrop Frye, “l’eroe tragico
è in cima alla ruota della fortuna, a metà strada tra la società
umana sulla terra e qualcosa di più grande nei cieli. Prometeo,
Adamo e Cristo sono sospesi tra il cielo e la terra, tra un
mondo di libertà paradisiaca e un mondo di schiavità. Nel
paesaggio umano gli eroì tragici sono le punte più alte, che
diventano inevitabilmente 1i conduttori delle forze e delle ener-
gie vicine a loro, come grandi alberi che sono più facilmente
colpiti dal fulmine che non mucchietti d’erba’”!7 .
Frye non cita Eracle, forse perché nel teatro greco era soprat-
tutto eroe di drammi satireschi e di commedie. L’Eracle dori-
co era rozzo, ma nelle leggende tessaliche egli appare come un
eroe popolare. Per sedurre Alemena, sua madre, Zeus assume
le sembianze del marito, Anfitrione, dopo averlo appositamen-
te mandato alla guerra. Per godersela a letto, turba l’intero or-
dine naturale, fermando il sole e triplicando per l’occasione la
lunghezza della notte. Tutti in questa storia vengono presi in
giro: Anfitrione, Zeus e persino la pia e fedele Alemena; e da
Plauto a Giraudoux!8 , il concepimento di Eracle è stato uno
dei temi di commedia più duraturi. Neanche Kleist è riuscito a
dare al suo Anfitrione un’impronta tragica. Nelle leggende tes-
saliche, come in Omero, la nascita di Eracle è un’interminabile

145
Divorare gli dei

commedia degli errori. La levatrice mandata da Era s’accovaccia


a gambe incrociate davanti alla casa di Alemena, con i lembi
della veste annodati, per ritardare l’arrivo sulla terra del figlio
di Zeus. L’Eracle delle dodici fatiche appartiene quasi comple-
tamente alla commedia, da Aristofane a Plauto!” e all’Ercole
e le stalle d’Augia di Diirrenmatt.
Le ultime fatiche di Eracle furono spedizioni in paradiso e
all’inferno. L’albero dai frutti d’oro era un dono di nozze del-
la madre terra a Era, che lo piantò nel suo celebre frutteto
all’estremità occidentale del mondo, dove la notte s’incontra
con il giorno e Atlante porta sulle spalle la cupola celeste. OL
tre il monte Atlante, passa uno degli assi verticali del cosmo.
Il viaggio al vertice della terra è una prefigurazione dell’ascen-
sione. Ma Eracle va in paradiso per rubare le mele d’oro, come
poi entra all’inferno per impadronirsi di Cerbero. L’eroe delle
due spedizioni, nelle quali Atlante viene ingannato e Ade feri-
to, è l’Eracle dei drammi satireschi e delle pitture vascolari, un
gigante con la barba nera che agita freneticamente la clava,
Aristofane ricorda nelle Rane il grande urlo che scosse tutto
l’Ade: “Io, Eracle, il forte! ” I drammaìi satireschi e la comme-
(dia aristofanea deridono gli dèi, ed è forse per questo che il
comico Eracle compare nelle situazioni archetipe del figlio di
dio: dalla nascita ritardata e dai segni delle sue origini divine,
al viaggio sulla sommità della terra e alla discesa all’inferno.
Il tragico Eracle compare sulla scena greca dopo aver comple-
tato le sue dodici fatiche, al termine della vita e al punto più
basso della condizione umana. Nelle Trachinie di Sofocle bru-
cia vivo; nell’Eracle di Euripide si sveglia fra i cadaveri della
moglie e dei figli. La mediazione sfocia nella distruzione tota-
le. In Sofocle non c’è una parola che preannunci Ja sua apo-
teosi postuma. In Euripide Eracle rifiuta il suo ruolo di media-
tore e rinuncia al padre divino. Îl mondo è lacerato da cima a
fondo, ma il cielo non è il regno della “Hibertà paradisiaca” di
cui parla Frye; e non c’è speranza né in terra né in cielo. H

146
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

mondo umano è immerso in una crudeltà impenetrabile che


N

possiamo chiamare ““dèi”’, l’etere o l vuoto 20


In Filottete, Eracle compare per l’ultima volta ex machina per
convincere il testardo Filottete a partire per Troia. In questa
tragedia del rifiuto, l’Eracle della “gloria immortale” è già uno
strumento della storia che deve essere compiuta. Ma la vera
storia umana rivelata e predetta in Filottete è orribile e *sini-
stra.
“Con la tragedia il mito viene al suo contenuto più profondo,
alla sua forma più espressiva’’, scrive Nietzsche in La nascita
della tragedia. ‘“Esso si risolleva ancora una volta, come un
eroe ferito, e tutto il sopravanzo di forza, insieme con la paca-
tezza piena di sapienza del moribondo, gli accende negli occhi
il lume estremo, potente”?* . Il duplice mito di Eracle diventa
per Sofocle ed Euripide la tragedia di un mondo che non ha
più speranza in una mediazione”? .

2. Sofocle nero, o la circolazione dei veleni

a)
La tragedia di Sofocle Le trachinie sì svolge nel corso di una
lunga giornata al termine degli ultimi quindici mesi di assenza
di Eracle durante i suoi dodici anni di viaggi. È' l momento
in cui sinistre profezie prevedono una svolta nel suo destino.
All’alba Deianira manda il figlio a scoprire che cosa sia capita-
to a suo padre. Nella tarda mattinata l’araldo porta in scena le
donne prese prigioniere da Eracle dopo la conquista di Ecalia.
Deianira apprende cosi che tra loro c’è lole, la nuova donna
di suo marito. Eracle ha saccheggiato la città, massacrando
tutti gli uomini, quando il padre si era opposto a che lole an-
dasse a letto con lui. Nel tardo pomeriggio, Deianira invia al
marito, tramite lo stesso araldo, una tunica inzuppata nel san-
gue del centauro Nesso. Nelle prime ore della sera il figlio ri-

147
Divorare gli dei

torna e maledice la madre. Il filtro d’amore si è rivelato un


veleno mortale. Eracle sta morendo; la tunica nella quale è av-
volto versa veleno nelle sue viscere. Vive ancora, ma è in ago-
nia. A tarda sera Eracle viene riportato a Trachine.
La notte sembra appartenere a un’altra epoca, a un altro gior-
no, a una séttimana santa nella quale il “figlio di dio’” sta mo-
rendo sulla terra. Torturato da sofferenze insopportabili, il fi-
glio di Zeus giace su una portantina, Îl coro delle donne grida
terrorizzato: “Dolorante, in pene che mai non s’allontanano
da lui, ora, dicono, passa davanti alla sua casa. Indicibile og-
getto d’ansia attonita”” (953 sgg.)°3 .
Appena riprende i sensi, Eracle rivolge le sue prime parole al
padre: ‘“Zeus! Presso quali umani giaccio affaticato in conti-
nue doglie? Ahi, come posso io sostenerle ancora? ” (966). In
questo “El, El, lama sabachthani” eracleo, il lamento e il
rimprovero sono ancora più aspri: “Su quella pietra mai questi
occhi miei sì fossero posati, per abbassarsi poi sul fiorente vi-.
gore di quest’insania mia che non s’addorme” (996 sgg.).
l veleno gli è già penetrato nelle viscere e lo ha divorato sino
all’osso. Il figlio di Zeus urla di dolore ed è uno degli urli più
spaventosi di tutta la tragedia greca. Solo il Filottete di Sofo-
cle griderà piùà a lungo e in modo ancor più orribile. Eracle
invoca Zeus perché accorci le sue sofferenze con i fulmini e
Ade perché lo conduca insensibilmente al sonno eterno. Il suo
corpo, gonfio di dolore e consumato da un fuoco interno, è
ora il suo nemico peggiore. În questo teatro della crudeltà,
Eracle, dopo aver invocato gli dèi, si rivolge ora agli uomini e
fi prega di tagliargli la testa dal corpo torturato. Le sue sup-
pliche sono vane. L’uomo che ha salvato il mondo muore nel-
lo spaventoso silenzio dei cieli, solo tra gli uomini!
Voi dove siete ancora, iniqgui fra tutti gli elleni,
voi che per rendere liberi sopra una terra pura,
molto sul mare soffersi, molto per tutte le selve,
me logorando: e non sarà uno che a questo malato

148
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

ora fuoco accosti né ferro risanatore?


(Le trachinie, 1011 sgg.)
Sino a questo momento non è stata citata neanche una delle
dodici fatiche. Sofocle conosce Omero a memoria, ma, come
in Aiace, lo ilumina di una luce sinistra. Odisseo ricordava be-
ne il balteo d’oro che Eracle portava nell’Ade “dov’eran scol-
pite gesta tremende: orsi selvaggi e cinghiali, leoni occhi di
bragia, e mischie e battaglie e massacri d’eroi” (Odissea, AI,
610 sgg.). Ogni volta che nel dramma siì descrivono le sue
azioni, il “famoso” Eracle, “il più nobile degli uomini’”, ha as-
sassinato, ha stuprato o ha applicato la politica della terra bru-
ciata. Al servizio di orribili padroni, ha svolto per loro compiti
ancor più orrendi. Re FEuristeo, quando Eracle osa proporre ai
suoi figli una gara di tiro all’arco, lo tratta da “prostrato”, da
‘“schiavo”. Poi lo deride, si ubriaca e lo caccia dal suo palazzo.
Per vendicarsi Eracle attira lontano uno dei suoi figh e ‘‘dal
sommo della spianata lo spinge già” (273) a sangue freddo.
Come penitenza, viene venduto alla regina lida Onfale ed ese-
gue per lei servizi talmente infami che l’araldo, nel colloquio
con Deianira, preferisce passarli sotto silenzio ® .
Lo stesso araldo, che ignaro gli ha portato un dono di Deiani-
ra, viene poi ucciso da Eracle in modo particolarmente orribi-
le: “l’afferra per un piede, nel punto pitù flessibile dell’arto” —
Sofocle è sempre preciso nelle descrizioni anatomiche: soltan-
to da esse può prendere slancio — “e te lo scaglia contro un
masso cinto di flutti che sorge dal mare; e fa sprizzare la bian-
ca midolla [...] tra i frantumi sparsi del cranio e il sangue. E
levò un urlo — uno — la folla tutta: un alto gemito e per l’uo-
mo ammorbato e per il morto” (779 sgg.).
Soltanto ora vengono ricordate le famose fatiche, quando
Eracle urla dal dolore sdraiato su una portantina e il veleno
dell’idra gli scorre nelle vene. I mostri che ha ucciso sono en-
trati nel suo ecorpo. Sono il suo corpo: grandi braccia, collo
robusto, petto ampio, stomaco con muscoli nodosi. “Chi com-

149
Divorare gli dei

batte contro i draghi”, scriveva Nietzsche, ‘“diventa a sua volta


un drago”. La discesa nell’Ade e il viaggio ai confini della ter-
ra, sono ora soltanto le braccia che hanno rubato il cane e
domato il mostro:
O mani, o mani! O dorso, o petto, o braccia
mie! Vi riconoscete voi, le stesse
che domarono un giorno con la forza
il leone, tormento dei pastori,
il mostro di Nemea, l’inaccessibile
e chiuso a ogni amica voce, e l’idra
di Lerna ed il biforme, inconciliabile
esercito a cavallo dei centaurn,
delle fiere di buia violenza,
senza legge, di grande possa bruta;
la belva d’Erimanto, il cane d’Ade
che non si sfida, tricipite, nato
dall’Echidna tremenda, sotterraneo,
e quel drago sugli ultimi conftni
della terra, custode agli aurei pomti?
(Le trachinie, 1089 sgg.)
l mediatore, il salvatore è ridotto a mera carne, insieme mo-
struosa e impotente. Come il Lear di Shakespeare, l’amato f1-
glio di Zeus è ora “rudere di un capolavoro della natura”: “È
ora, cosi lacere le membra, le giunture spezzate [...] ora battu-
to, devastato vedermi” (1103). E’ “questa cosa a pezzi”: “Îo
sono un nulla”, ma in questo nulla “‘nemmeno buono da tra-
scinarmi un passo solo”?% (1107), rimane ancora l’odio. Alla
fine della tragedia si può dire di Eracle come di Macbeth che
“ogni cosa che si trova in lui si fa una colpa di essere dove si
trova” (V, 2, 24-25). Ordina al figlio di portargli sua madre:
vuole che lui guardi mentre la tortura. Îl mediatore distrutto
dal veleno vuol vedere con i propri occhi se il figlio sarà più
colpito dalle sofferenze del padre o dalle urla della madre tor-
turata. Vuole metterlo alla prova. Ma Deianira si è già uccisa
di sua mano.

150
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

b)
În questa tragedia Eracle e Deianira non s’incontrano mai.
Sembra che non possano incontrarsi: appartengono a due tem-
pi diversi e a due mondi differenti. Eracle è mitico e arcaico;
Deianira è contemporanea degli spettatori e assomiglia a tutte
le donne di Trachine che all’alba sono arrivate dal villaggio per
udire 1 suoi lamenti. Fracle percorre la terra da un capo all’al-
tro; Deianira‘è quella che aspetta sempre, quella che si prende
e si abbandona.
E figli avemmo: e li rivide ancora,
come colui che prese un campo arato
fuorimano, e lo visita soltanto
nell’ora che lo semina e lo miete.
(Le trachinie, 31 sgg.)
În questo primo lungo monologo di Deianira tornano conti-
nuamente 1il timore, la paura, il terrore. La prima cosa che ri-
corda è “una dolorosa ripugnanza di nozze” (7), quando i pri-
mi corteggiatori venivano a casa di suo padre. Poi ci furono la
paura del marito e la paura per 1l marito, la paura quando lui
c’erae la paura quando lui non c’era. La paura per la sua ca-
sa, la paura di fronte agli esuli, la paura per i figli e per la
loro sorte se dovessero rimanere soli. “Noi, che siamo salvi, lui
salvo, o ci perdiamo insieme” (85).
Quando Eracle è assente, la sorte di Deianira è triste, ma le
sue paure e i suoi timori appaiono normali, comuni. E’ figlia
di re, ma si lamenta della propria sorte come una contadina.
La litania delle sue pene non è diversa da quelle che si trova-
no nei canti popolari di tutte le nazioni:
{...] ma come si consumi un cuore
solo soffrendo impareresti. Oh, sempre
resta ignara così. La creatura
nuova cresce in recinti suoi lontani,
dove a turbarla né calor di sole
penetra mai, né pioggia o vento muove;

151
Divorare gli dei

ma tra le gioie intatta sempre innalza


la vita lieve, fin che un nome muta:
non più vergine, è donna; e tutta accoglie
in una notte la sua parte grave
di pensieri incessanti e di paure [...]
(Le trachinie, 142 sgg.)
Le notti di Deianira sono lunghe e piene di paure: “E notte
porta, notte rimuove il peso di quest’ansia” (30). Le sue notti
sono vuote. Nel parodo le donne di Trachine parlano delle sue
notti insonni e del suo letto vuoto: “Nel profondo dell’animo
fissa l’immagine del talamo deserto, s’estenua nell’attesa di
mala sorte” (104 sgg.). La storia d’amore ha un lento svilup-
po. Eracle non è fedele; Deianira lo sa da tempo: “Forse non
so che Eracle, mio unico uomo, ne amò moltissime già pri-
ma? ”” (459) Ma ora, per la prima volta, ha mandato a casa in
pieno giorno la sua nuova sposa. “E ora, come vedi, l’eroe ri-
torna a questa casa, e prima, non senza cure vigili, signora”,
ammette spietatamente l’araldo, “affidò ad altri e volle accom-
pagnata, non come schiava, fino alla sua casa lei che schiava
non è” (365 sgg.).
La ragazza che lei stessa accompagna sotto il proprio tetto e
che non risponde mai alle sue domande, è giovane e graziosa:
“Vedo una gioventà che sale ancora ed una che dilegua; ama
quel fiore l’occhio dell’uomo e coglierlo veloce” (547 sg.).
Deianira non si fa illusioni: sa cosa l’aspetta: “Ed oramai sia-
mo due donne sotto ad una coltre sola, in attesa dell’amples-
so” (539). Soltanto la Clitennestra di Euripide ripeterà la spu-
dorata violenza di questa immagine per il ritorno di Agamen-
none da Troia: “Ed egli tornò ad Argo, conducendo al suo
fianco una baccante folle e invasata, e sotto gli occhi miei se
la portò nel letto. Ed eravamo due spose ormai a dover convi-
vere in una stessa casa” (Elettra, 1032 sgg.)°‘. Il letto non
sarà più vuoto, ma d’ora in avanti lo occuperanno due donne
e un uomo: “Cosi dunque di me sarà domani [...]} solo di no-

152
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

me EÉracle sposo, e sarà veramente l’uomo della più giovane”


(350 sg.).
Un marito, una moglie che invecchia, una ragazza giovane: il
dramma di Deianira è comune e banale. “Potete vedere Eracle
e Deianira”, scrive Gilbert Murray in Greek Studies, ‘“quasi
tutti 1 lunedi mattina in un qualunque tribunale, come potete
vedere nel manicomio di Broadmoor Medee che hanno am-
mazzato 1 propri figli”?”7 , Professore a Oxford ed educato al
teatro naturalistico, Murray incontrava molti esempi di Medee,
di Eracli e di Deianire nelle cronache dei giornali. Una madre
getta i figli nel fuoco; un filtro d’amore preparato da una zin-
gara si rivela un veleno; una moglie versa dell’acido sul marito
infedele: il momento, in fondo, non è “sfavorevole”’.
Eracle sì sta avvicinando. Sta offrendo a Zeus il primo frutto
della terra sulle macerie della città distrutta. Ma la crudeltà è
ancora relativamente moderata. Il nunzio ha già raccontato
tutto a Delanira, ma perché lei continua a interrogarlo: “Dim-
mi tutto il vero” (453)? Che cosa vuole ancora sapere? “Il
non sapere, questa è la mia pena [...] ma invece sapere, che
cosa c’è d’orrendo? ” (458). Deianira è della stessa razza di
Edipo, che si è avviato alla propria perdita risolvendo l’indovi-
nello della Sfinge e che vuole, lui pure, disperatamente sapere.
“Se di me temi, non ha senso la tua trepidazione” (457). In
margine a una traduzione latina di Sofocle, Racine scrisse a
questo punto: “Admirable discours d’une jalouse qui veut ap-
prendre son malheur”?® . 1 veleni che lentamente s’accumula-
no nel cuore non sono meno mortali del sangue essiccato del
centauro conservato in un cofano d’ottone. Deianira ha già
fatto la sua scelta, ma non lo sa ancora.
Per la prima volta la scena si svuota. Rimane soltanto il coro,
nell’orchestra. Ora le donne di Trachine, che avevano ascoltato
in silenzio, dànno inizio alla danza e al canto sui mostri: il
fiume-dio e il figlio di Zeus si battono per la ragazza. Il primo
lamento di Deianira era cominciato con l’orrore per il suo

153
Divorare gli dei

mostruoso corteggiatore. Nelle isole greche e nell’Italia meri-


dionale, i pozzi dei villaggi hanno ancora teste di tritoni, di
leoni o .di vecchi; l’acqua sgorga dalle nere profondità passan-
do per grosse labbra e scorre su una lingua libidinosa per scen-
dere su una folta e ispida barba e su un torso dì pietra.
[...] Un fiume, intendi,
era mio pretendente: l’Acheloo,
e in tre aspetti mi chiedeva al padre.
Era quando veniva un toro nitido
oppure drago variegato, attorto,
oppure ancora sopra tronco umano
fronte bovina [...]
(Le trachinie, 9 sgg.)
Nei sogni erotici della ragazza gli uomini sono bagnati e sgorga
acqua dalle loro teste mostruose:
[...] sopra tronco umano
fronte bovina; e dalla folta barba
rivi fluivan d’acqua di sorgente.
(Le trachinie, 12 sgg.)
Î mostri nascono sempre da traumi, ma ora vengono rappre-
sentati sulla scena come se fossero divenuti carne e sangue.
Come nell’opera cinese, la danza frenetica del coro si muta d’
un tratto in pantomima’”. Due mostri si battono fra loro.
Hanno quattordici teste, quattordici ventri sporgenti, quattor-
dici paia di braccia gettate in aria con violenza, quattordici
paia di gambe aggrovigliate. Il ritmo diventa sempre più frene-
tico: “Allora di mani, d’archi tesi si leva fragore, e il cozzare.
taurino commisto e il ripetuto alterno gravare, sentirsi gravare,
allacciati, e il pulsare delle fronti, mortale, e l’alto rantolo che
li accomuna” (515 sgg.). Una delle ragazze si allontana dal co-
ro. Ha smesso di cantare. Il ritmo improvvisamente si allenta.
E il coro canta ora su di lei: “Intanto la delicata dai limpidi
occhi restava seduta discosto su poggio di largo orizzonte ed
aspettava, ferma, il proprio sposo” (323).
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

Deianira, che allora attendeva il futuro marito, inzuppa adesso


la sua tunica nel sangue nero del mostro. La tiene in mano.
Racconta alle donne del suo incontro con questo terzo mo-
stro. Quando Eracle la prese, “come una giovenca sottratta al-
la madre”, il fiume sìi pose sulla loro strada®° . Nella tragedia i
simboli sono sempre primordiali: luce e tenebra, fuoco e ac-
qua. Nesso, il centauro-traghettatore, sìi è offerto di portare in
braccio Deianira sull’altra riva. Ma in mezzo al fiume l’ha toc-
cata con libidine. Eracle sente un grido e, scoccata la freccia
che aveva avvelenato intingendola nel sangue dell’idra, trafigge
il petto del mostro. 1l centauro, prima di morire, ha appena il
tempo di dire a Deianira che estragga sangue dalla sua ferita:
‘“avrai l’incantamento per il cuore di Eracle {...}” (575).
Deianira consegna la tunica all’araldo, che se ne va con il do-
no nascosto in fondo a un cofano, perché la luce non possa
toccarlo nemmeno per un momento. Eracle continua ad avvi-
cinarsi. Adesso è al tempio di di Zeus sul Ceneo e prepara una
solenne ecatombe in onore del padre. Macellerà dodici giovani
tori e un altro centinaio di animali sotto gli ultimi raggi del
sole. Esteriormente, il mondo è ancora quello di sempre. Dalle
ceneri delle città decimate, dal sangue animale offerto a un
dio arcaico, dai mostri-traghettatori che violentano le donne,
dai veleni nei cuori e nei cofani, dall’amore che coincide con
l’odio, da tutte queste cose ci si può ancora rifugiare sulla li-
scia superficie materiale del mondo, che appare sicuro e razio-
nale nella sua immutabilità. Un gomitolo di lana è sempre un
gomitolo di lana. Cosa può esserci di minaccioso in un gomi-
tolo di lana?
“Quel pugno di lana [...] si è disciolto, cancellato; né dentro
lo divora intimo male delle proprie fibre. È tuttavia si macera
che pare masticato e svapora dalle pietre” (676 sgg.). Deianira
racconta alle donne del villaggio la scomparsa del gomitolo di
lana come se stesse descrivendo una reazione chimica. Il gomi-
tolo è stato consumato dalla luce. Il mondo è stato leso nella

155
Divorare gli dei

sua stessa struttura. ‘““Mi si scopre qualcosa che non può ragio-
ne umana spiegare, o almeno concepire’”’ (693).
In Macbeth le macchie di sangue che non si possono lavare
sono più spaventose dell’assassinio notturno del re. L’essenza
della storia non è il susseguirsi dei re, ma uno sconosciuto sol-
dato, insanguinato e seminudo (‘““Chi è quell’uomo coperto di
sangue? ”: Macbeth, 1, 2, 1), che appare solo per un attimo è,
come l’araldo greco, porta notizie dal campo di battaglia. Cibo
e sonno sono egualmente avvelenati. Le cose della terra sono
vischiose, viscide e incoerenti come in un sogno: “Nell’aria,
come fiato nel vento, si sono sfatte quelle che sembravano d’
impasto corporeo” (Macbeth, 1, 3, 81-2).
In quest’incubo si rivela la vera natura del mondo: “Ma dalla
terra dove rimaneva per un tempo alla luce, gonfie spume Ti-
bollono grumose: e tu ripensi a quando si diffonde sul terreno
il pingue succo della glauca uva colta al tralcio di Bacco” (701
sgg.).
Le sorelle fatali e il portiere infernale, che all’alba apre le por-
te del castello, sono in Macbeth creature reali come nelle
Trachinie i mostri e il veleno dell’idra. Îl mondo di Macbeth è
inquinato dal sangue come quello delle Trachinie è impregnato
di veleno:
Se attingerai con le tue mani il sangue
che si rapprende agli orli della piaga,
dove fondo s’immerse il dardo, nero
di fiele, dell’idra [...]}
(Le trachinie, 572 sgg.)
Il contagio è transitivo: l’infetto è anche colui che infetta.
Nelle Trachinie il contagio è la struttura e la teologia della
tragedia. Eracle il salvatore ha salvato Deianira dall’aggressione
della bestia, ma le sue frecce erano avvelenate. Il mediatore, 1l
figlio di Zeus, ha salvato il mondo dai mostri. Ma uccide i
mostri con il veleno di un mostro. La mediazione è dunque
una rinnovata infezione del mondo. Il portatore del contagio

156
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

viene contagiato: ‘“Si macera [...] insieme con l’incubo enorme


dell’idra” (836).
În questa batteriologia cosmica, il veleno primigenio dell’idra
ctonia viene trasmesso attraverso il sangue, come gli spirocheti
della sifilide. La magia è passaggio delle proprietà da una divi-
nità, da una persona o da un oggetto a un oggetto, una perso-
na o una divinità differenti. Le operazioni magiche esigono
una somiglianza simbolica o un contatto fisico: o l’identifica-
zione o una contiguità spaziale e temporale. Queste due opera-
zioni magiche corrispondono in linguistica, come ha osservato
Roman Jakobson, al principio della metafora o metonimia?° .
1l passaggio può avvenire su un fantoccio che simula una per-
sona o una divinità oppure mediante la raffigurazione della
persona o della divinità. Frazer definiva “imitativa” la prima
magia, ‘“contattuale”” la seconda. Tutti gli oggetti con il quale
il corpo è entrato in contatto — abiti, capelli o sangue — ne
sono parte integrante. L’operazione magica è un contagio. “Di
li vederlo venire, tutto desiderio, vinte le membra dal suaden-
te crisma come ci presagi l’uomo ferino” (680 sgg.)°° .
Nelle Trachinie si compiono tutte le operazioni della magia
‘“contattuale’”. Îl sangue del centauro è stato raccolto da Delia-
nira nel punto dell’infezione, ‘“dove s’immerse il dardo nero di
fiele d’Idra”; la tunica vi viene inzuppata; l’araldo la porta;
Eracle l’indossa sulla pelle nuda. In ognuna di queste operazio-
ni la struttura base del contagio rimane la stessa: l’infetto dì-
venta colui che infetta. Il cerchio si chiude e tutti i portatori
d’infezione finiscono col cedere alla distruzione: Nesso, Deta-
nira, l’araldo e alla fine anche Eracle.
Ma nelle Trachinie c’è anche un altro condotto nel quale cir-
colano ì veleni. lole, distrutta da Eracle e chiamata a distrug-
vere tutti quelli che le stanno attorno, è la muta portatrice di
questo secondo veleno: “La giovinetta dal triste destino, pur
non volendo, ha reso la sua patria distrutta e schiava” (465).
La ragazza incinta entra silenziosa nella casa di Deianira come
Divorare gli dei

un messaggero di sventura. Le donne di Trachine sanno già


tutto: “E’ nata, è nata alla casa nostra l’ha partorita la novella
sposa, grande: un’Erinni”” (893 sgg.).
Questo condotto ‘‘realistico”, attraverso il quale circola il vele-
no della passione, è parallelo e simmetrico a quello mitico, do-
ve il veleno dell’idra passa per il sangue. La circolazione dei
veleni nelle Trachinie può essere rappresentata da un rombo
(con una linea verticale tracciata nel senso della lunghezza), i
cui quattro vertici rappresentano, a turno, Eracile, il centauro
Nesso, Deianira e Îole:

è
DEIANIRA

Il veleno dell’Idra passa da Eracle a Deianira tramite Nesso.


Eracle avvelena Deianira con l’eros nero tramite lole. Eracle e
Deianira comunicano soltanto tramite l’araldo e il figlio. L’
araldo ha portato lole e si porta via il filtro fatale. “A mani
vuote, non è giusto che ci ritorni, dopo che venisti con una
scorta di doni magnifica” (495 sg.). Il figho reca alla madre Ja
notizia delle atroci sofferenze paterne e al padre quella del
suicidio materno. Il filtro d’amore e il sangue contaminato del
centauro sono, strutturalmente e teologicamente, un unico è
medesimo veleno:

158
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

J’ai revu l’ennemi que j’avais éloigné:


ma blessure trop vive aussitòt a saigne.
Ce n’est plus une ardeur dans mes veines cachée:
c’est Vénus tout entière èà sa proie attachée.
(Phèdre, 1, 3)
Racine è stato il primo a scorgere l’unità dei veleni nelle Tra-
chinie: la sua Fedra viene distrutta dall’implacabile Venere-A-
frodite, e nelle sue vene scorre il veleno dell’idra°* .
Afrodite è citata per la prima volta nelle Trachinie come unica
arbitra della battaglia tra i mostri. È’ citata per la seconda vol-
ta quando la tunica avvelenata s’appiccica alla carne di Eracle,
e lo assiste in silenzio, come l’aiutante di un carnefice: “E in-
torno a tutti la Venere muta [...] che si scopre in fragranza di
delitto” (859 sgg.).
Entrambi i veleni restano a lungo celati. “Il morbo che mi ro-
de implacabile, mai sazio” (1104), dice Eracle. “EÉ quale por-
tatrice occulta di dolore ho ricevuto sotto il mio tetto? ” si
domanda Deianira (375). Come nella Fedra, la tragedia comin-
cia quando i veleni vengono portati dalle tenebre alla luce e
chiamati per nome: “Voglio raccontarvi d’un certo lavoro, fat-
to da me, con le mie stesse mani” (533). Le mani di Deianira
non hanno commesso sbaglio. Hanno scelto ciò che lei voleva
scegliere. Quando torna il figlio con l’atroce notizia, Deianira
esce senza dire una parola. E’ già stato detto tutto.
Nelle sette tragedie di Sofocle che ci sono rimaste, sei sono ì
suicidi, ma due soltanto, quelli di Aiace e di Deianira, sono
descritti con minuzia di particolari, come in un verbale giudi-
ziario. Di Antigone sappiamo solo che si è impiccata con una
cintura nel buio di una grotta, di Emone che si è gettato su
una spada, di Euridice che si è uccisa anch’essa con una spada
e di Giocasta che si è impiccata. Ma Aiace si getta su una spa-
da in pieno giorno sotto il sole splendente, davanti agli spetta-
tori. Sì uccide perché disprezza il mondo, dove non valeé la
pena vivere. Deianira, che il mondo ha schiacciato, si ammazza

159
Divorare gli dei

fuori scena, nel buio della casa. Ma la sua nutrice la segue pas-
so passo come una cinepresa: “nascosta nell’ombra, la seguivo
con l’occhio di continuo” (914). “Gettandosi in un grido sugli
altari, li pianse abbandonati; e avvilita gemeva nel toccare qua-
lunque oggetto di quelli che prima usava sempre [...]” (904.
sgg.). }
Deianira, come l’Alcesti di Euripide, dice addio al letto che ha
diviso con il marito. Îl letto è l’altare sul quale sacrificherà la
propria carne: “Vedo la donna gettare le coltri sopra il talamo
d’Eracle, salirvi d’un balzo, e poi sedervisi, nel mezzo [...]”
(914 sgg.).
La biancheria da letto, alla quale tanto tenevano le donne
greche, Deianira l’accatasta al centro del letto, poi vi s’inginoc-
chia sopra, come su una pira. Stacca la spilla d’oro, affibbiata
al suo peplo, e lascia cadere l’indumento dal braccio sinistro,
scoprendosi il seno e lo stomaco. La competenza di Sofocle in
fatto di ferite è profonda come quella di Omero: Deianira tie-
ne la lama nella mano destra e si squarcia lo stomaco, facendo
partire il colpo dal fianco sinistro. “Trafitto il fianco da lama
vibrata due volte, sotto il cuore e sotto il fegato” (930 sg.).
Deianira sì apre lo stomaco seduta sulle lenzuola e con le gam-
be incrociate (altrimenti non sarebbe possibile), secondo le re-
gole del harakiri. La spada è a doppio taglio: perché il seppu-
ku sia mortale sono necessari due tagli in diagonale, da sinistra
a destra e poi di nuovo verso sinistra in basso. Il suicidio, che
è un sacrificio, deve essere compiuto come un rituale.
Ora la tragedia s’avvicina alla conelusione. Sulla spiaggia da-
vanti alla casa di Deianira, dove l’araldo aveva portato lole e
le prigioniere, Eracle, sdraiato su una portantina, urla il suo
strazio. Dalla casa arriva il figlio Ilo, ancora una volta messag-
gero di sventura tra la madre e il padre.
Illo — Parlo. Non vive più, da poco. Uccisa.
[...] Da sé sola
mentre sul posto non c’era nessuno.

160
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

Eracle — Ah, prima d’esser morta di mia mano,


com’era santo dovesse morire!
(Le trachinie, 1132 sgg.)
Eracle ha gettato via le lenzuola che lo ricoprivano. Vuole
mostrare 1il suo corpo consumato dal veleno:
[...] e guarda il male che mi fa patire,
l’avvilimento. Mostrare lo devo
tutto scoperto — vedilo, guardate,
o tutti voi — questo povero corpo [...]”
(Le trachinie, 1077 sgg.)
Deianira nuda, con lo stomaco squarciato, giace in casa sul let-
to nuziale. Anche Eracle è nudo.

c)
In Edipo re, quando per un attimo sembra che le profezie
possano sbagliarsi e che le maledizioni degli dèi non si concere-
tino, il coro sì ribella e non vuol più assistere alla cerimonia:
‘“Perché dovrei partecipare alla danza sacra? ” Il coro di Edipo
capisce l’essenza della tragedia. Se parricidio e incesto non so-
no annunciati in anticipo, se non costituiscono il misterioso
ordine metafisico dell’universo, se non sono parti integranti
della giustizia divina, allora non sono altro che caso, uno dei
tanti accidenti negli annali delle vicende comuni. Camus scri-
veva nel Mito di Sisifo:
In un’opera tragica il destino risalta sempre di più sotto l’a-
spetto della logica e del naturale [...] Tutto lo sforzo del
dramma sta nel mostrare il sistema logico che, di deduzione in
deduzione, porrà in atto la sciagura dell’eroe. Darci soltanto
l’annuncio di questo insolito destino non è orribile, in quanto
è inverosimile, ma se la necessità ci viene dimostrata dall’insie-
me della vita quotidiana, della società, dello stato, delle agita-
zioni familiari, allora l’orrore è consacrato. Nella rivolta che
agita l’uomo e gli fa dire: “Questo non è possibile”, si trova
già una disperata certezza che “questo” invece lo è°5.

161
Divorare gli dei

Forse Camus non ha ragione. Forse la crudeltà accidentale è


assurda. Ma la crudeltà arricchita del rigore divino dell’inevita-
bilità è intollerabile.
Nelle Trachinie ci sono tre profezie sulla sorte di Eracle. Le
prime due sembrano predizioni di una zingara: “Egli tornerà o
non tornerà”; “Tutto finirà bene o peggio”. Sono pronostici
che s’avverano sempre, solo che nelle Trachinie si fissa loro
una scadenza, “dopo dodici anni”, “dopo quindici mesi”. La
tragedia deve essere rappresentata in un tempo determinato.
Nella terza profezia c’è invece un elemento di consapevole
perfidia. Come in Macbeth, sembra annunciare l’impossibile” .
“A me da lungo tempo era predetto dal padre questo: il non
dover morire per l’opera d’un vivo che respiri tra i vivi, ma di
un morto [...}” (1159 sgg.).
Un mondo nel quale il più forte tra gli uomini, l’eroe di tutta
la Grecia, muore a causa di una donna, è stupido. Un mondo
nel quale il figlio di dio muore avvelenato da un mostro da lui
stesso ucciso è assurdo. Ma se è stato prestabilito che media-
zione e mediatore siano contaminati, la crudeltà diviene la leg-
ge del cosmo e l’assurdo ritrova la sua logica scandalosa. Éra-
cle cessa di urlare dal dolore. Le profezie si sono avverate:
[...] what
SPLENDOUR,
IT ALL CORERES.
(1174 sg.)??
Nello spazio simbolico delle Trachinie, sopra il teatro e sopra
il mondo, sorge il sacro monte Eta, che mai aratro ha solcato
e le cui balze sono percosse dai fulmini. Aiace, cosiì simile a
Eracle per la forza brutale e la cupa ostinazione, disprezzava il
mondo, che si sbriciola come una montagna, e gli dèi, che an-
ch’essi si sbriciolano. Nelle Trachinie il monte Eta rimane sal-
do ed' ’ Eracle accetta la crudeltà immutabile del mondo. Il
tempo della mediazione è finito, non ci saranno nuove fatiche
di Eracle: “I morti la fatica non li raggiunge” (1173). L’idra è

162
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

stata uccisa, ma la sua ombra spaventosa tiene Eracle nelle


proprie grinfie. Cala sulla scena, che è il mondo intero, l’om-
bra nera dell’idra.
Dio è una montagna silenziosa, ma le profezie si stanno avve-
rando. Contaminato dal veleno, il figlio di Zeus è. pronto ad
accettare “la teologia dell’inganno, della perfidia, della gioia si-
nistra’’°® , “quale splendore, tutto diventa logico”. Le profezie
sì avverano; si può quindi trovare diritto e ragione nell’ingiu-
stizia e nell’assurdità del cosmo. ‘“Ciò che costituisce la vo-
luttà della tragedia è la crudeltà”, scriveva Nietzsche in Di là
dal bene e dal male®° , Eracle scopre ora il fascino sinistro del-
la crudeltà.
Se non si può essere il figlio umano di dio, si può sempre es-
sere un superuomo. Se la mediazione non esiste, non è mai
esistita e non esisterà mai, se la crudeltà è la regola dell’uni-
verso, lo si può confermare anche con la propria sofferenza.
Se dio non è altro che una montagna muta, sembra fin troppo
giusto accendere un rogo sulla sua vetta e bruciare vivi. Ma la
distruzione deve essere portata sino in fondo. Come in Mac-
beth (V, 8, 2-3): “Fino a che vedo vivi, gli sgarri, meglio sulla
loro pelle”. Eracle chiede che il figlio lo porti sulla vetta roc-
ciosa del monte Eta, prepari un rogo e appicchi il fuoco con
le sue stesse mani.
Illo — [...] a quali
atti mi chiami: a farmi l’uccisore
tuo, dalla morte tua contaminato.
Eracle — Non a questo, non io; ma a te soltanto
affidando la cura dei miei mali,
ad essere mio solo guaritore.
(Le trachinie, 1206 sgg.)
Nella logica dell’assurdo, si capovolgono tutti i valori: la mor-
te è una cura, l’assassinio un rimedio. Îl miasma era la cosa
che più spaventava i greci: chi ne era infetto veniva messo al
bando della comunità. Ma ora tutte le leggi divinee umane

163
Divorare gli dei

devono essere violate.


Rimane intatto soltanto il più arcaico degli obblighi, la cieca
devozione al padre. Nei progetti del padre divino, come atte-
stano le profezie, era inclusa la contaminazione di Eracle; a
sua volta Eracle deve ora infettare 1il proprio figlio. Hlo ha giu-
rato sugli dèi di essere pronto a fare tutto quello che suo pa-
dre comanda, tranne che toccare il rogo con le proprie mani.
Ma Eracle insiste su questo “piccolo favore”” (1217). Nelle pa-
role “piccolo favore” ci sono “la perfidia e la gioia sinistra”
degli dèi. Illo deve prendere in moglie lIole. Liberamente e di
sua volontà, senza ricorrere a sinistre profezie, Eracle grava 1l
figlio dei delitti di Edipo, parricidio e incesto“°. L’incesto
non è solo formale — Eracle ha mandato a casa Iole come sua
sposa — e non è solo simbolico — il figlio che lole avrà da
Eracle sarà, come in Edipo, insieme figlio e fratello di Illo.
Due soli rimangono vivi, Illo e Iole. Bisogna quindi che venga-
no rovinati entrambi.
La portantina sulla quale giace Eracle viene sollevata; tra poco
il corteo si metterà in cammino per la montagna:
Or con l’Egioco
del supremo piacer godendo egli abita,
ed onorato egli è
dai numi, e d’Era poscia ch’Ebe ottenne
ei genero divenne
nell’auree case e re. .
- (Pindaro, Istmiche III 75 sgg.)°!
Nelle Trachinie non c’è ascensione e non ci sarà teofania. L’
Eracle di Sofoele ha offerto sacrifici a Zeus sulle macerie delle
città saccheggiate; ora deve sacrificare se stesso. Ma a chi?
Sacrificio significa mediazione: la ripetizione del martirio dei
figli di dio, tormentati a morte sulla terra, o la richiesta per-
ché scendano nuovamente sulla terra stessa; il sacrificio è una
maniera di placare o di ringraziare; un pagamento o una forma
di corruzione, ma dall’altra parte deve esserci sempre qualcuno

164
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

o qualcosa. Nelle tragedie di Sofocle, a eccezione dell’ultima,


Edipo a Colono, la mediazione non esiste: dio non è inumano,
è al di là dell’umano, come la montagna incolta che appartie-
ne a Zeus.
Il sacrificio è offerto alla montagna silenziosa. Eracle rimane
muto sino alla fine: “O dura anima mia, metti alla mia bocca
morso d’acciaio, saldato di pietra e contieni l’urlo” (12359
sgg.). Il saerificio finale di Eracle è soltanto autodistruzione.
Come una pietra è solo una pietra: non c’è differenza fra il
significante e il significato. Il rituale è soltanto forma. Ma
questa forma è vuota. Quando un rito deve permanere come
forma pura, bisogna che tutte le norme vengano rigorosamente
applicate. L’olocausto avverrà sul roccioso pendio di una mon-
tagna, 1l rogo sarà fatto di legni consacrati a Zeus — quercia e
ulivo selvatico — il fuoco verrà appiccato di notte. Come nel
suicidio di Deianira, il rigore è crudeltà trasformata in cerimo-
nia. _
Il fuoco non è purificazione. Nel rigido simbolismo della tra-
gedia, significa soltanto distruzione. Quando il fuoco del vele-
no -bruciò 1l gomitolo di lana, dalla polvere che cadde al suolo
rimase soltanto una sporca schiuma, come una muffa.
Portano via Eracle. Alla fine della tragedia, gli dèi vengono fi-
nalmente giudicati dagli uomini. E' il figlio a formulare il mes-
saggio:
[...] ché impassibili ai nostri accadimenti
voi sapete invece
gli esseri divini
i quali generarono
e si dissero padri
e cosi ancora vogliono chiamarsi
mentre immoti guardano
tanto soffrire.
Pure, nessuno sguardo
i giorni da venire

165
Divorare gli dei

penetra; ma sì vive
l’oggi, per noi tristezza,
per essi disonore.
(Le trachinie, 1266 sgg.)
Di tutte le tragedie di Sofocle, Le trachinie contiene la più
disperata interpretazione possibile del destino umano. Eracle,
che ha salvato Deianira, è stato da lei distrutto. Ma è stato
distrutto anche da lole, causa prima di tutte le sventure. E°
morto per il veleno contenuto nel sangue del centauro, ma
quel veleno era il veleno dell’idra. L’idra ha ucciso Eracle, che
aveva ucciso l’idra. Eros è veleno ed è veleno il filtro d’amore.
La carne degli uomini, e persino degli dèi, è infettata da eros
e dal veleno. Era ha nutrito al seno l’idra mitologica, sorella di
Cerbero e zia della Sfinge, nata dall’unione incestuosa tra
madre e figlio: le frecce di Eracle, inzuppate nel suo veleno,
hanno inflitto a Era una ferita incurabile. E non c’è “nulla di
questo in cui non si conosca Zeus” (1278).
Da lontano si riescono a vedere soltanto gli spasmi dei corpi
nella libidine e nella sofferenza, avvelenati da eros e dal vele-
no. I corpi sono tutti simili. Quello di Deianira eccita la lussu-
ria dei mostri, ed è questo il suo destino. Quello di lole eccita
la lussuria di Eracle, e anche per lei è questa la sorte. “La mia
bellezza mi portava dolore” (25), dice Deianira all’inizio della
tragedia. “La sua bellezza ha rovinato la sua vita” (464), dice
più avanti di lole. Il corpo di Eracle, il più forte degli uomini,
s’indebolisce: “Tanto soffrendo, mi ritrovo femmina”
(1075)“° .
Uno stesso attore interpretava Eracle e Deianira. La maschera
nel teatro greco rappresentava la persona, ma nel labirinto di
simboli e permutazioni delle Trachinie, si direbbe che l’aver
affidato due personaggi, Deianira ed Eracle, a un solo attore,
sia stato un segno intenzionale‘?, E non c’è ‘“nulla di questo
in cui non sìi conosca Zeus”.
Sopra l’orchestra e sopra il monte Eta, continua a girare in

166
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

tondo l’Orsa maggiore, portando di volta in volta letizia e an-


goscia. Questa obligua rotazione dell’Orsa maggiore, che nel
suo ciclo annuale s’alza e s’abbassa sopra la terra, viene para-
gonata alla ruota della fortuna, dove lo zenit annuncia il na-
dir, il nuovo inizio°* . Ma nelle Trachinie la ruota della fortu-
na assomiglia piuttosto alla ‘“ruota di fuoco” sulla quale si
spezza Lear.
Eracle definisce il dono di Deianira “un tessuto che le Erinni
ordirono in rete”” (1052). Hl coro paragona lole, che entra nel-
la casa di Deianira con un figlio di Eracle in grembo, a una
Furia. L’immagine e lo stile vengono da Eschilo. Ma nell’Ore-
stea, le Erinni, affamate di sangue e persecutrici implacabili
degli assassini, diventano i cani da guardia della città. Da Mice-
ne e da Tebe, torturate per tre generazioni da matricidi, parri-
cidi e fratricidi, sorge alla fine Atene, in alleanza con la figlia
di Zeus. Ma in Sofocle non c’è mediazione tra umano e sovru-
mano., né tra la crudeltà del caso e la necessità divina. La vita
umana viene vissuta una volta soltanto e la redenzione non
esiste.
La teologia di Sofocle, nella quale gli dèi restano muti e le
profezie s’avverano, appare sorprendentemente (e angosciosa-
mente) simile al gioco del caso e della necessità, recentemente
descritto dai più brillanti biologi contemporanei. Dai miliardi
di giri della roulette cosmica, emerse una volta la vita di eui
noi siamo parte. 1 campi magnetici o termici cambiarono e, in
seguito a una nuova situazione biochimica, avvenne una muta-
zione, e una goccia di vita, che deve sempre ripetersi, ripeterà
all’infinito questo stesso cambiamento, finché non si avrà una
nuova mutazione. Nel cosmo non c’è nulla di intenzionale.
Dai miliardi di mutazioni, emerse imprevedibilmente la strana
spirale Dna che può essere paragonata all’antica idra dalle mil-
le teste*° e che è il codice del gene umano. Il gene sì ripete e
dai miliardi di giri ciechi della roulette, si rigenerano, secondo
le legge della probabilità, i mostri. Tutte le profezie che s’av-

167
Divorare gli dei

verano provengono dal Dna. Tanto tempo fa il macrocosmo


divenne ‘‘eterno silenzio di spazi infiniti oltre l’umano”. An-
che il nuovo microcosmo della biologia è oltre l’umano. Le
mutazioni delle particelle vitali non hanno né direzione né
scopo. Cosi parlò Zarathustra:
“Per caso”: è questa la più antica nobiltà del mondo, e questa
i0 ho restituito a tutte le cose; le ho liberate dalla loro schia-
vitùu al fine. Questa libertà e questa gaiezza paradisiaca le ho
poste al disopra di tutte le cose, come un azzurro inferno,
quando ho insegnato che su di loro e attraverso di loro nulla
può nessuna ‘“volontà eterna”. Ho messo questa beffarda follia
al posto di quella volontà, quando ho insegnato: “In ogni cosa
una sola cosa è impossibile: la razionalità’’% .
Questa strana spirale brulicante di noduli è l’unica in tutto il
microcosmo e il macrocosmo che sia pienamente conscia della
propria esistenza e cosciente del suo soffrire.
E tu non t’accasciare,
fanciulla, nella casa,
tu che vedesti le recenti morti,
le grandi pene mai prima sofferte:
nulla di questo, in cui
non sì conosca Zeus.
(Le trachinie, 1275 sgg.)*7
Il corteo segue la portantina. lole, uscita di casa, sì è unita al
coro. Eracle le ha ammazzato il padre e i fratelli, l’ha messa
incinta e ha ordinato al figlio di prendersela in moglie. Lei
non ha detto una parola in tutta la tragedia’® . Non sappiamo
nulla di lei. Nemmeno se ha cominciato a odiare o ad amare
Eracle quando lui se l’è portata nella propria tenda, un’ora do-
po aver raso al suolo la città. Iole attraversa la scena soltanto
‘ due volte. La prima volta sì stacca dal gruppo delle prigioniere
e Deianira capisce che è diversa dalle altre. Soltanto Iole sop-
porta il suo destino con dignità. Iole affronta nel silenzio la
crudeltà umana e sovrumana. E’ la sola scelta eroica che le

168
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

rimanga: è il personaggio più sofocleo delle Trachinte.


L’étoile a pleuré rose au coeur de tes oreilles,
l’infini roulé blanc de ta nugue à tes reins;
la mer a perlé rousse à tes mammes vermetilles,
et l’homme saigné noir èà ton flanc souverain.
(Rimbaud, Quatrain)
Rosa la stella ha pianto al cuore del tuo orecchio,
bianco l’infinito è sceso dalla tua nuca ai reni;
rossastro il mare imperlò i tuoi vermigli seni,
nero l’uomo sanguinò al tuo sovrano fianco“? .

3. “Ah, cambiarmi qui in sasso! ”

Come agnelli condotti al macello, i bambini portano corone


sulle spalle: Megara li ha vestiti di lenzuoli funebri. Tra qual-
che istante i carnefici del tiranno trascineranno lei, i figli di
Eracle e il vecchio Anfitrione nel luogo delle esecuzioni. An-
fitrione ha già levato le mani al cielo per invocare da Zeus un
aiuto immediato. Ma dice a Megara di rivolgere le sue preghie-
re non ‘“in alto”, ma ‘““in basso”, all’Ade. E° l{ che è sceso
Fracle. Ma ora è tornato.
Nell’Eracle di Euripide, l’eroe torna due volte dalle tenebre e
saluta la luce splendente: “Che gioia rivedervi tornato alla lu-
ce! ” (524)°° . E, dopo il suo secondo ritorno: “Vedo le cose
che mi circondano, la terra e il cielo e i dardi scintillanti del
sole”, La prima volta torna dall’Ade, la seconda da un altro
inferno e da altre tenebre. Dopo il primo ritorno salva 1i fighi,
la moglie Megara e 1il padre da morte imminente. Îl secondo è
invece un ritorno dalla follia, durante la quale ha ucciso la
moglie e i figli. Nel primo ritorno porta i consueti arnesi mito-
logici, arco, clava e faretra. Ma quando ricompare è seminudo
e legato con funi a una colonna in rovina del palazzo.
În questo straordinario dramma, apparentemente commedia e

169
Divorare gli dei

tragedia insieme,i due ritorni di Eracle hanno significati diver-


sì e differiscono anche per stile e intensità drammatica. Gli
studiosi in genere considerano la prima parte piatta, conven-
zionale, noiosa e ineguale, mentre sono altrettanto unanimi
nel giudicare la seconda un capolavoro°!, Ma se il dramma
sembra spezzato in due è perché si era spezzato il mito. Con
testarda consapevolezza, Euripide assegna alle due metà del
mito una comune esperienza umana, valendosi di tutti gli stru-
menti del teatro greco. L’Eracle delle dodici fatiche, salvatore
e mediatore, torna dall’Ade mentre infuria la guerra del Pelo-
ponneso. Eracle, figlio di Zeus e di Anfitrione, perseguitato da
Era, semidio e martire, abbattuto dalla sofferenza, accetta la
sua condizione umana e dei due padri sceglie il mortale.
Eracle è una “moralità” in due “atti”. Il primo è ironico e
didattico. Vi si mescolano due tempi, il mitico e lo storico. IL
passato mitico è divenuto l presente. Da questa diacronia bal-
ziamo improvvisamente a una sincronia.
Chi non conosce quest’uomo che divise con Zeus il letto co-
niugale? Sono l’argivo Anfitrione [...]
. (Eracle, 1 sgg.)
Anfitrione, cacciato da Argo per aver ucciso il suocero, ha tro-
vato rifugio a Tebe. Per riscattarlo e per permettergli di torna-
re ad Argo, Eracle si era messo al servizio di Euristeo. Il suo
compito era di civilizzare il mondo. Ma a Tebe scoppia una
rivoluzione, seguita da una guerra civile. Creonte, sovrano di
Tebe e discendente dalla generazione degli uomini nati 1à dove
erano stati seminati 1 denti del drago, è morto ammazzato Îa
sera precedente l’inizio del dramma. Anfitrione, che un tempo
spartiva la moglie con Zeus, è stato buttato giù dal letto dal
nuovo tiranno ancor prima dell’alba. La famiglia di Eracle è
fuggita terrorizzata dal palazzo reale e si è rifugiata presso l’al-
tare di Zeus. All’inizio del dramma sono tutti seduti, Anfitrio-
ne, Megara e i bambini, “mancando di tutto, di cibo d’acqua
di panni” (51 sg.).

170
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

La rivolta, avvenuta nella mitica Tebe nel corso di una notte,


è sorprendentemente simile alle rivoluzioni e alle sommosse
della guerra del Peloponneso. Accadeva spesso che nel corso di
una notte, quando avanzava l’esercito spartano, cadessero i go-
verni democratici delle colonie greche, 0, quando s’avvicinava
la flotta ateniese, venissero abbattuti i governi oligarchici. Hl
massacro di Corcira era avvenuto almeno tre anni prima della
data più antica che si può proporre per Eracle5’ , Tucidide lo
descrive nel suo solito stile scarno, ma rendendosi perfetta-
mente conto che esso preannuncia la fine della civiltà ellenica:
Per sette giorni, quanto durò la permanenza di Eurimedonte
[il comandante della flotta ateniese], che era venuto con ses-
santa navi, i corciresi si sbarazzarono di quelli che ritenevano
nemici: Îi accusavano di voler abbattere il regime democratico;
ma alcuni furono anche soppressi per privati rancori e altri uc-
cisi, per denari loro dovuti, da quelli che li avevano ricevuti.
Ogni genere di morte fu escogitato e tutto ciò che suole suc-
cedere in tali frangenti e anche peggio. Poiché il padre uccide-
va il figlio, e dai templi venivano a forza strappati i supplici,
che presso i templi stessi venivano sgozzati; alcuni, anzi, furo-
no addirittura murati vivi nel sacro recinto di Dioniso.
(La guerra del Peloponneso, II, 81)°?
L’azione del primo “atto” di Eracle è tracciata a larghe pen-
nellate. AÌl momento opportuno, il tiranno schizza fuori come
da una scatola a sorpresa, ma semplicità e schematismo sono
voluti e. la' parabola mitica, come in Brecht e in Dirrenmatt,
ha radici evidenti nella realtà. Tutti i particolari sono tipici.
dei disordini di Tebe, doma
Lico, lo straniero, approfittando
la folla, si schiera con gli aristocratici rovinati, uccide Creonte
e sì proclama re. Decide anche di ammazzare Megara, Anfitrio-
ne e i figlioletti di Eracle. Ha paura che, una volta cresciuti,
vogliano vendicare la morte del nonno. Inoltre, è sempre pid
prudente ammazzare tutti in una volta. Egli però rispetta la
tradizione e non vuole trascinare via i fuggiaschi dall’altare di

171
Divorare gli dei

Zeus. Ordina ai soldati di portare legna e di preparare roghi.


Se i profughi non lasceranno volontariamente il sacro asilo, Éi
brucerà vivi: “Voi siete schiavi del mio potere” (252).
Eracle è ancora nell’Ade. Ma nel dramma ci sono due Adi dif-
ferenti, come ci sono due differenti tempi, il mitico e lo stori-
co. Uno è l’Ade dal quale nessun mortale ritorna. “S’è mai
veduto un estinto risalire dall’Ade? ” domanda Megara (297).
l secondo è il luogo dove è sceso Eracle per catturare il cane
a tre teste, 1 ragionamenti di Verrall e dei razionalisti sono
sorprendentemente simili a quelli del tiranno Lico, quando
chiede a Megara: ‘“Credete che il padre di questi bambini, se-
polto nell’Ade, ritorni? ” (145 sg.). Persino Anfitrione, invec-
chiato e rimbambito, ha qualche dubbio, e consiglia a Megara
di tener quieti i figli raccontando loro. delle fiabe: “Confortali
e, se pure ti costa, ingannali con qualche fola” (99 sg.). 1 figli
di Eracle non crederanno mai che il loro padre è sceso nell’
Ade per prendere un cane. E dopo il ritorno di Eracle, Anfi-
trione vuole ancora assicurarsene:
Anfitrione — Sei davvero giunto sino alle case dell’Ade, fiî-
glio?
Eracle — Si, e ne trassi alla luce la fiera con tre teste.
Anfitrione — Vi riuscisti con la lotta o per grazia della dea?
Eracle — Con la lotta. Fortuna però che avevo visto i misteri.
(Eracle, 610 sgg.)
Questo breve dialogo ’preannuncia i sovversivi Dialoghi degli
dèi di Luciano. L’ironia non è soltanto verbale. I drammi di
Euripide devono essere visti come fatti teatrali. Questa è una
moralità, con canzoni, danze e pantomime. E, come in Brecht,
tutti .gli strumenti teatrali sono controllati dal cervello del
drammaturgo e adoperati per dimostrare una tesi. ÎI vecchi di
‘Tebe sono il coro. Soltanto i vecchi sono rimasti fedeli a Era-
cle quando il tiranno ha preso il potere. Ora salgono le scale
che portano all’altare di Zeus:
Non stancate anzitempo

172
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

il piede e il grave fianco,


come spingendo a un’erta
un puledro aggiogato
che regga il peso di corrente cocchio.
Prendi la mano e il peplo
di chi malfermo indugia.
(Eracle, 119 sgg.)
La prima ode del coro sull’inefficienza della vecchiaia è piena
di note di regia. I vecchi cadono allungando la mano per tirar-
si a vicenda su per la scala. Il coro delle donne di Trachine
danza la battaglia dei due mostruosi corteggiatori della giovane
Deianira. Il coro dei vecchi danza le dodici fatiche di Eracle. I
vecchi tremanti con lunghe barbe bianche s’appoggiano ai ba-
stoni perché fanno fatica a camminare. Ma corrono come
Eracle dietro la cerva veloce, spezzano il collo a un leone, ta-
gliano le teste dell’idra e inseguono le cavalle che si nutrono
di carne umana. La pantomima più ridicola è quella di Eracle
che sorregge la volta celeste®? _ ] vecchi alzano le mani tremu-
le, allargano le dita irrigidite e tendono le spalle.
Eracle voleva civilizzare il mondo. Ha combattuto i draghi.
“Poi scese. in fondo agli abissi del mare”, canta il coro, “e
quietò l’onde ai remi dei mortali” (401). I mostri sono da
tempo scomparsi. “Sono io il vostro padrone”, dice il tiranno
Lico (142) e ride delle leggendarie fatiche di Eracle. Come i
nostri leader contemporanei, disprezza l’eroismo. Le grandi fa-
tiche di Eracle sono ridicole come il balletto dei veechi. Eracle
che ritorna nella. Tebe contemporanea dopo essere sceso nell’
Ade è insieme tragico e comico. În questo nuovo “splendido”
mondo il suo eroismo antidiluviano è inutile. “Chi ha più di-
ritto al mio aiuto che la moglie, i figli e il vecchio padre?
Addio fatiche, compiute inutilmente prima di queste! ” (574
Sg.).
L’Eracle d’Euripide viene d’un tratto ad assomigliare in manie-
ra sorprendente a un mercenario rinascimentale che sì congeda

173
Divorare gli dei

per sempre dal mondo dell’avventura e della cavalleria:


Addio, schiere piumate, addio, grandi battaglie che fanno
dell’ambizione un merito! Oh, addio! Addio, cavalli nitrenti
e trombe squillanti e tamburi incitanti e laceranti pifferi, alti
stendardi, ricchezza, pompa, orgoglio, riti, gloria della guerra,
addio; e voi, macchine della morte che con le vostre ruvide
gole emulate i fragori spaventosi dell’immortale Giove, addio:
la giornata d’Otello finisce qui..
(Otello, IIL, 3, 3853-61)
I ragazzi corrono dal padre, s’avvinghiano alle sue gambe, s’ag-
prappano alla pelle di leone. L’eroe abbraccia ì figli: ha messo
da parte arco, clava e faretra; la sua attrezzatura mitologica è
posata a terra.
O quale scusa mi darò se, venuto alle prese con l’idra e il leo-
ne per mandato di Euristeo, non cerco di scongiurare la morte
dei miei bambini? Nessuno mi chiamerà più, come in passato,
Eracle il vittorioso.
(Eracle, 978 sgg.)
La prima parte di Eracle potrebbe avere come titolo “Îl ritor-
no del padre”. L’Eracle dorico che purificò la terra dai mostri,
il popolare gigante tessalico, il viaggiatore instancabile, si tra-
sforma in figlio affettuoso, marito fedele e padre preoccupato.
Îl mutamento avviene anche a livello linguistico: Anfitrione
viene ora chiamato padre, Megara moglie, Eracle figlio, padre
e marito. La parabola mitica si chiude nei toni di una tragi-
commedia domestica: Eracle torna dall’Ade agli abbracci dei
familiari: “Tutti amano 1 figli”” (636).
Îl tirannq ricompare, solo per farsi uccidere: il suo ultimo gri-
do d’aiuto giunge da fuori scena. Finisce il primo atto. In
questo momento un cocchio sul quale viaggiano Iride e Lissa
(Pazzia), mandate da Era, scende sul tetto del palazzo. Îl se-
condo atto inizia con Eracle che uccide moglie e figli.
La strage avviene fuori scena. Le buie potenze della tragedia,
scriveva Hegel, attaccano all’improvviso. L’ignoto è il nemico e

174
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

proprio per questo è terrificante. E 1l nemico è in noi e insie-


me fuori di noi. Nel teatro di Euripide ci sono due tempi, due
Adi e due follie. La prima follia è una donna, con maschera
da Gorgone e serpenti tra i capelli, che tiene in mano una
frusta. La seconda è in Eracle.
Può sembrare a prima vista che Euripide usi il metodo omeri-
co della doppia motivazione. Alle spalle dell’eroe c’è un dio
che guida la freccia verso il bersaglio e devia la lancia scagliata
dalla sua rotta. Ate copre gli occhi dell’eroe di una nebbiolina
di sangue; Apollo rafforza 1 suoi languidi arti; Atena gli resti-
tuisce chiarezza di visione. Ma in Euripide i due emissari cele-
sti che arrivano su un cocchio nero hanno una funzione diver-
sa: Îride e Lissa s’imbarcano in una discussione intellettuale
nella quale viene formulata la teologia di un dio invidioso,
‘“dell’imbroglio, della perfidia e della gioia sinistra”. Iride dice:
“Conosca la collera di Era e anche la mia impari. O, lasciato
lui impunito, gli dèij non saranno più nulla e grande, invece, la
stirpe dei mortali”* (840 sgg.).
Le mansioni delle emissarie divine di Era sono chiaramente di-
vise: come quelle dei funzionari della polizia segreta: Iride è la
propagandista e il controllore; Lissa svolge l’ingrata fatica. A
volte 1 carnefici hanno ancora qualche scrupolo. Sanno che ì
superiori lì disprezzano e, a modo loro, amano le proprie vitti-
me. ‘“Io adempio uffici ingrati, né mi dà gioia visitare gli uo-
mini che mì sono cari” (845 sg.). Lissa vorrebbe salvare Eracle
da una sorte palesemente ingiusta. Iride la richiama all’ordine:
“Ch’io sappia, la moglie di Zeus non ti spedi qua a sfoggiare
saggezza”” {(857). Qui l’ironia è spietata. Lissa, figlia della not-
te, invoca il sole: “Chiamo il sole a testimone che agisco mio
malgrado” (838). I carnefici hanno qualche scrupolo, ma sono
obbedienti. Lissa è già saltata dal tetto su Eracle.
Le dee hanno esposto la teologia della follia; ora il messaggero
ne descrive la fisiologia. L’accurata precisione del suo rapporto
ha sorpreso gli psichiatri: “Eracle non era più lui: sfigurato,

1735
Divorare gli dei

aveva gli occhi stravolti, sbarrati, rossi di strie sanguigne; e ba-


va gli colava giù dalla barba folta. Parlò con riso demente”
(931 sgg.).
Il ‘“distruttore invisibile”’ di Sofocle, che s’apposta nelle tene-
bre e attacca all’improvviso, è in Eracle e contemporaneamen-
te fuori di lui. Îl “nemico sovrumano”, munito di maschera
terrificante, balza ex machina sugli uomini, accompagnato da
un gemito di flauti. Îl nemico interno, che diventa invisibile
come una scheggia conficcatasi nella pelle, viene descritto con
precisione assoluta. Aiace impazzito faceva a pezzi le pecore a
mani nude e torturava i suoi cani scambiandoli per comandan-
ti greci. Eracle impazzito uccide i suoi figli con le frecce e
spacca loro la testa con la clava perché li scambia per i figli di
Furisteo:
Eracle — Chi li ha trucidati?
Anfitrione — Tu e il tuo arco e il nume che n’è la causa.
(Eracle, 1134 sg.)
Per Goethe e per Hegel, come per Marx, Nietzsche e Freud,
Prometeo ed Edipo erano nella tragedia greca la raffigurazione
più pura della condizione umana®®. La stupefacente moder-
nità di Euripide è il tentativo di rivalutare il mitico Eracle im-
pazzito mettendolo a confronto con la situazione di Prometeo
e di Edipo. Egli ricorre, volutamente, agli stessi effetti scenici.
Eracle compare legato con funi a una colonna del palazzo, co-
me Prometeo alla rupe. Lissa e Iride, scese ex machina in un
cocchio nero, assomigliano a Potere, Forza ed Efesto, mandati
da Zeus a torturare Prometeo., e simile è la divisione dei loro
ruoli: il fabbro Efesto, lavoratore manuale, ha pietà del titano;
Potere, un-apparatchik d’alto rango, difende il capo. Prometeo
viene punito perché ama sfrenatamente l’umanità. Teseo defi-
nisce Eracle ‘“il benefattore degli uomini, il loro grande ami-
co” (1252). Le sue grandi fatiche vengono ridicolizzate nella
prima parte del dramma: non sono riuscite a civilizzare il
mondo. Ma hanno suscitato l’invidia degli dèi. Eracle, come

176
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Prometeo, è un salvatore per volontà propria e contro il volere


degli dèi. Ha superato i limiti dell’umano, ed è proprio per
questo che deve essere umiliato. In fin dei conti ciò che gli
dèi chiedono è un atto di contrizione.
“Odio tutti gli dèi, cui feci bene e mi hanno reso male”, dice
il Prometeo di Eschilo (975 sg.). Se l’inferno esiste, è ragione
sufficiente per odiare il cielo. L’Eracle d’Euripide, che ha as-
sassinato moglie e figli ed è sceso due volte all’inferno, lancia
agli dèi la seconda sfida della tragedia greca:
Teseo — La tua infelicità giunge sino al ctielo.
Eracle — Ebbene, sono preparato alla morte.
Teseo — Credi che agli dèi importi della tua sfida?
Eracle — Gli dèi sono sprezzanti con me e io lo sono con lo-
rO.
(Eracle, 1240 sgg.)
C’è in Eracle una duplice critica della teologia, dai punti di
vista della ragion pura e della ragion pratica: “Io non credo
che gli dèiî approvino unioni illecite, e neanche s’addice loro
gettarsi in catene e prevalere l’uno sull’altro: non saprò mai
persuadermene. Il dio, se è veramente tale, va esente da ogni
passione”” (1341 sgg.). Alla luce della ragion pura, se dio esi-
ste, deve essere perfetto”‘ , Gli dèi in forma umana sono, co-
me dice Eracle, bugie di poeti. Ma alla luce della ragion prati-
ca, dio, se esiste, è responsabile dei mali del mondo. Un dio
giusto è in contraddizione con l’intera esperienza umana. Il
dio, che ha inquinato sia la mediazione sia il mediatore e che
tortura l’umanità con continue epidemie, è crudele e invidio-
so. “Pianto senza mai fine avevo”, dice Eracle a Odisseo nell’
Ade. Euripide conosceva Omero a memoria: “Ti spiegherò co-
me la vita per me è intollerabile ora e lo era anche prima”.
Eracle è la pietra di paragone dell’ingiustizia degli dè: e della
crudeltà del mondo: ‘“Innanzi tutto nacqui da quest’uomo che
uceìse il vecchio padre di mia madre e, macchiato di quel san-
gue, sposò Alcmena, la quale mi diede alla luce [...] Zeus,

177
Divorare gli dei

chiunque esso sia, mi generò esponendomi all’odio di Era”


(1256 sgg.)°’ .
Il destino è “il nemico”., O è questo o è una necessità dell’i-
gnoto. “Stimolato da Era o alla mercé del proprio destino”,
dice Anfitrionedi Eracle all’inizio del dramma. Euripide non è
un nominalista. “Era” e “destino” sono soltanto nomi del
‘“’nemico invisibile”. Il fato è non consapevolezza. Eracle, sen-
za saperlo, ha ucciso i propri figli, come Edipo, senza saperlo,
ha ucciso suo padre. Il “nemico’” ha aspettato a lungo e la
trappola era pronta ancor prima.che Edipo nascesse. Solo una
volta si è trovato a un incrocio: arrivavano carri da Tebe ed
egli rifiutò di lasciarli passare, alzò la mano e uccise suo pa-
dre. Fu cosf che cadde nella trappola.
La trappola è preparata dagli dèi o è dentro di noi. Nati da
una madre e da un padre, siamo condannati a desiderare la
nostra madre e a sognare la morte di nostro padre. “Ciò che è
fatale nessuno mai potrà fare che fatale non sia” (311). Anco-
ra una volta Euripide ripete le parole del Prometeo eschileo:
“Bisogna che [...] riconosca che la forza del fato non si vince”
(105 sgg.). Ma lo stesso Edipo che uecise suo padre e andò a
letto con sua madre, risolse l’enigma della Sfinge”® . Prometeo
impara a conoscere il futuro. Edipo impara a conoscere il
proprio passato. Îl “nemico” è sopra o sotto il livello della
consapevolezza umana. Prometeo ed Edipo fanno conoscere l°
ignoto.
Nella parabola di Er, figlio di Armenio, che chiude la Repub-
blica di Platone, Lachesi accoglie le anime dei morti scese nel-
la “valle della trasformazione” per scegliersi una nuova vita:
“La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile”.
Lachesi, una delle tre Moire, è figlia della necessità. Il libero
arbitrio è consapevolezza della necessità.
L’Edipo di Sofocle si svolge nell’ora della scelta. Era stato pre-
detto che Edipo avrebbe ucciso suo padre e sarebbe andato a
letto con sua madre. Ma ora egli è davanti al coro, nella città

178
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

dove infuria una epidemia micidiale. Tutto è già accaduto ed


egli deve. solo emettere il verdetto. È’ insieme giudice, accusa-
tore e imputato nel processo al proprio destino. Il giudice
emette la sentenza, l’aceusatore la esegue: Ediposi strappa gli
occhi con le proprie mani.
La scelta suprema dell’imputato è proclamarsi colpevole o non
colpevole. Edipo non si dichiara colpevole, ma accetta la re-
sponsabilità del proprio destino; fa suo il destino che gli è sta-
to imposto. “Il fato è come la consapevolezza del proprio io,
ma di se stesso in quanto nemico”, scriveva Hegel. Ora il di-
fensore accusa l’accusatore. Edipo, che si è cavato gli occhi,
rende visibile il proprio destino. “Forse il buon re Edipo aveva
un occhio di troppo” °° , Edipo, che non si è dichiarato colpe-
vole, decide di vivere per essere testimone della condizione
umana‘° , '
“Dal momento in cui lo sa”, scrive Camus nel Mito di Sisifo,
‘“ha inizio la sua tragedia, ma, nello stesso istante, cieco e di-
sperato, egli capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al
mondo, è la fresca mano di una giovinetta”‘! , S{, ma questo
è Edipo a Colono, andato in scena solo dopo la morte di Euri-
pide. Edipo è fuggito da Tebe, che ha finalmente salvato dalla
peste, dopo essersi a sua volta infettato. S’aggira, monito e in-
sieme minaccia, per strade lontane da ogni abitato umano.
Quando Eracle si sveglia tra i cadaveri assassinati dei figli e
.della moglie, un amico gli porge una mano:
Eracle — Temo di lasciare macchie di sangue sul tuo mantello.
Teseo — Asciuga quanto vuoi quel sangue: non mi ripugna.
{Eracle, 1399 sg,)
Nei raggi del sole al tramonto che cadono sull’arena, Teseo di-
ce a Eracle di stare eretto: “QOh, non contaminerai tu, morta-
le, gli dèi! ” (1232). L’amicizia e la luce del giorno sono più
forti del contagio. “La stella del mattino”, scriveva Eluard in
una delle sue più belle poesie, “disperde i mostri.” Eracle, nel-
le Trachinie, contaminato dal veleno dell’idra, vorrebbe infet-

179
Divorare gli dei

tare il figlio e tutti quelli che ancora vivono. Sia lui sia Deiani-
ra sono alla disperàta ricerca di un ultimo gesto che possa da-
re un senso alla loro distruzione. Questo gesto è il suicidio ce-
rimoniale di Deianira, ed è il rogo sul monte Eta, sul quale
Eracle vuole bruciare vivo. Il rituale è la mediazione estrema
tra un dio crudele e la disfatta umana.
Nell’Eracle di Euripide il .rituale viene rifiutato. La follia di
Eracle inizia con un lavaggio di. mani ritualistico dopo l’ucci-
sione del tiranno Lico. E' un momento che per Euripide dove-'
va essere particolarmente importante: è citato infatti due vol-
te, prima dal messaggero, poi quando Eracle riprende cono-
scenza:
Eracle — Dove mi colse, dove mi perdé il furore?
Anfitrione — Presso l’altare mentre purificavi al fuoco le mani.
(Eracle, 1144 sg.)
l rituale è per Euripide, ricorrendo ancora una volta alla ter-
minologia hegeliana, un’alienazione, una pseudosoluzione della
contraddizione tra umano e non umano, tra conoscenza e non
conoscenza, tra oggetto e soggetto, tra natura e libertà, tra 1il
- interno. L’unica vera fine del-
nemico fuori di noi e il nemico
la follia è la libertà dalla paura del contagio magico. “Nessuna
maledizione viene dagli amici agli amici” (1234). Eracle torna
nel mondo umano, dove, benché non ci sia speranza, la dispe-
razione deve essere controllata dalla ragione.
“Un mondo come quello di questo romanzo”, scrive Malraux
nella prefazione a Temps du mépris, “un mondo di tragedia, è
sempre un mondo antico: uomo, folla, elementi, donna, desti-
no. Lo si può ridurre a due forze attive: l’eroe e il significato
che egli dà alla propria vita”. Per i personaggi di Sofocle, la
vita è un disastro e la loro scelta eroica consiste nel dare un
significato alla propria disfatta. Îl coro di Edipo a Colono di-
ce: “Non nascere,è il mio pensiero più dolce”. Antigone,
Deianira e Giocasta si uccidono per disperazione; Aiace sì get-
ta sulla propria spada in segno di disprezzo per il mondo. Ma

180
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

Edipo sceglie di vivere per dare un significato alla propria di-


sfatta. Nello stesso modo Teseo dice a Eracle: “L’Ellade non
ti permetterebbe una morte inconsulta” (1254).
‘“Non è importante”, serive Sartre, “quello che ci viene fatto;
è importante solo ciò che abbiamo fatto noi di ciò che ci vie-
ne fatto”. La scelta eroica di Eracle e di Edipo consiste nel
vivere dopo essere stati distrutti‘?. “Ah, cambiarmi qui in sas-
so! ” (1397). Il sasso è essenza pura. Ma Eracle sa già che
all’uomo non è permesso cambiarsi in sasso. Sa che l’assassino
dei figli e della moglie è lo stesso Eracle che ha liberato la
terra dai mostri. Riprende la clava, l’arco e le frecce. “Ma ora
devo sottostare al destino” (1357). Questo nuovo ‘“destino” è
però diverso dalla danza di Era invidiosa che usa “battere il
piede sul pavimento divino dell’Olimpo” (1304). Eracle accet-
ta se stesso e la sua condizione umana:
Teseo — Dov’è adesso quel famoso Eracle?
Eracle — E tu, dimmi, com’eri laggiùu quando soffrivi?
Teseo — Come coraggio, inferiore a chiunque altro.
(Eracle, 1414 sgg.)
In-questo dialogo finale, il regno sotterraneo dell’Ade è soltan-
to un ‘‘sentiero d’ombra” che ogni umano deve percorrere per
poter crescere. Eracle accetta la sua condizione umana con gli
occhi pieni di lacrime. “Sciagure tali che anche un dio ne
piangerebbe” (1115)°° , osserva Anfitrione. Ma Eracle sa che
solo gli uomini piangono, non gli dèi. Accetta la condizione
umana con ragionevole disperazione. Sa che anche il più forte
può essere spezzato e che follia e vergogna sono comuni all’in-
tera umanità.
L’uomo deve aspettare con pazienza il suo momento d’andar-
sene dal mondo come aspetta l momento per entrarci. Matu-
razione è tutto.
(Re Lear, V, 2, 9-11)
Eracle andrà con Teseo ad Atene per attendervi la morte, Ma
seppellire 1 nostri cari che sono morti prima di noi è un altro

181
Divorare gli dei

aspetto della condizione umana. “1 figlioli sono cari a tutti”.


Îl rogo aspetta. È’ stato preparato dai carnefici del tiranno per
bruciare vivi i figli di Eracle. Aspetta sempre le sue vittime e
non aspetta mai invano.
Eracle — Seppellisci, come ho detto, i bambini.
Anfitrione — E a me chi darà sepoltura?
Eracle — lÎo.
Anfitrione — Quando verrai?
Eracle — Quando avrai sepolto i miei figli.
(Eracle, 1419 sgg.)
Rispondendo all’enigma della Sfinge, Edipo aveva detto: “L’
uomo”. In Eracle il tema dei due padri ritorna ben sei vol-
te‘ _ Due volte lo tocca Anfitrione, una Lico, tre il coro. Per
conoscere il proprio destino, Edipo ha dovuto scoprire chi era
suo padre‘”. Al termine della tragedia, Eracle sceglie delibera-
tamente suo padre: “Îo reputo te, non Zeus, mio padre”
(1265). Accettare la condizione umana comporta scegliersi un
padre umano. Ma questa scelta è anche un ripudio del padre
celeste. Nell’Eracle di Euripide, Prometeo ed Edipo finalmente
si congiungono.

4. Filottete o il rifiuto

a).
Nel Filottete di Sofocle, come nella Tempesta, il pubblico è
un mare e la scena un’isola. Pochi istanti prima che inizi la
tragedia, Odisseoe Neottolemo, figlio di Achille, sono sbarcati
sulla rocciosa spiaggia di Lemno. Odisseo era già stato a Lem-
-no: dieci anni prima, quando la flotta greca, diretta a Troia, vi
aveva gettato l’ancora e aveva abbandonato sull’isola Filottete,
che dormiva in una grotta, perché, morso da un serpe nell’iso-
la di Crise, dava molto fastidio ai compagni di bordo. La sua
ferita puzzava e i suoi gemiti erano talmente forti da disturba-

182
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

re 1 compagni nelle preghiere.


Odisseo ricorda che dalla spiaggia si giunge a un ripido e roc-
cioso precipizio sul quale si apre una grotta con due uscite.
Neottolemo attraversa il cerchio piatto dell’orchestra e giunge
alla scala che porta alla skene:
Neottolemo — [...] ecco mi pare
scorgere un antro come tu dicevi. _
Odisseo — Soapra o sotto di te? Non vedo chiaro.
Neottolemo — În alto. Questo. Eco di passi tace.
Odisseo — Guarda se là non sia, nel sonno quieto.
Neottolemo — E’ una casa deserta, in abbandono,
(Filottete, 27 sgg.)
°$
La scenografia immaginaria viene creata sin dai primi versi: il
mare, la costa piatta, il muro di montagne che cinge la spiag-
gia. La scena corrisponde con precisione all’architettura dei
teatri’ greci. L’antro “con due bocche” (16) è la struttura in
legno della skene, con una porta centrale chiusa da una tenda
e due porte laterali aperte: “Vedi la casa dalla doppia soglia,
giaciglio nella pietra” (159 sgg.). Ma verso la fine del dramma
le due aperture della grotta vengono chiamate più semplice-
mente porte: “Caverna dalla duplice porta {...}” (952). L’isola
con la grotta tra le roece è ormai ben presente nell’immagina-
zione.
‘“Non aver paura. L’isola è piena di rumori [...|” (La tempesta,
1II, 2, 129). l coro dei marinai, in piedi sulla piatta orche-
stra-spiaggia, guarda con'spavento la grotta deserta: “[...]} stra-
niero su terra straniera {...]” (136). Poi dalle profondità dell’
isola, rimbalzato dalle rocee e ripetuto dagli echi, arriva un ge-
mito: “Proruppe un suono pulsante d’umano [...] la voce di
chi la fatica d’un triste cammino trascina [...] il grido che ge-
ma da membra corrose’” (205 spgg.). 1 marinai hanno l’orecchio
fino; si odono sempre più chiaramente dei passi. Ma fanno
uno strano suono: l’uomo che s’avvicina trascina un piede. So-
no 1 passi di uno zoppo.

183
Divorare gli dei

[...] guidava Filottete, esperto dell’arco, sette navi [...]


Ma quello giaceva in un'’isola, soffrendo violenti dolori
in Lemno divina, dove lo lasciarono i figli degli achei,
che spasimava per piaga maligna di serpe funesto.
[...] ma presto dovevano ricordarsi
gli argivi, presso le navi, del sire Filottete.
(Iiade, ÎL, 718 sgg.)
Î tre segni simbolici delle successive tragedie su Filottete esi-
stono già tutti in questi sette versi di Omero: l’isola, la ferita
e l’arco. Ma solo Sofocle, fra i tre tragici, fa di Lemno un’iso-
la deserta: “Lido di terra [...] inabitata da mortali”” (3). Su
quest’isola desolata, sì svolgerà un capitolo della storia del
mondo nel quale sono coinvolti gli dèi. Sul monte Eta, Filot-
tete ha dato fuoco al rogo sul quale è bruciato vivo ÉEracle. In
compenso, ha ereditato l’arco e le frecce di Eracle. Abbando-
nato su Lemno, ha tenuto ben stretto in pugno l’arco. E’ l’ar-
co dal quale verrà scoccata la freccia che ucciderà Paride e
porrà fine alla guerra di Troia. Nell’epilogo Eracle in persona
scenderà ex machina per convincere il testardo Filottete a par-
tire per Troia: “Non è segnata su nessuna carta; non lo sono
mai i luoghi veri”’ ?. _
Lemno è segnata su tutte le carte e, con il vento a favore, è a
un solo giorno da Sciro dove Odisseo è andato a prendere
Neottolemo. Gli archeologi hanno persino individuato la grot-
ta di Filottete sulla costa nordorientale di un’isola dove il di-
rupo sale direttamente dalla spiaggia rocciosa del monte Er-
meo, che è la fonte dei riverberi dei gemiti dell’esule® e il
luogo dove più tardi, conquistata Troia, s’accenderà un faro
per mandare dal monte Ida ad Argo l’annuncio della vitto-
ria°, Ma Lemno è anche uno dei “luoghi veri” dove, secondo
Melville, si svolge la storia mitica del mondo. Efesto era stato
scaraventato su Lemno dall’Olimpo e aveva installato la sua
fucina nel cratere di Mosiclo, 1 cui brulli versanti sono ora visi-
bili sulla costa occidentale dell’isola, a sud del monte Ermeo.

184
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

Filottete, sentendo avvicinarsi un nuovo attacco del suo insop-


portabile male, cosi supplica Neottolemo: “Tu, creatura gene-
rosa, prendimi: sul gran rogo vulcanico di Lemno ardimi”
(800). Quando Prometeo rubò il fuoco all’Olimpo, lo portò a
Lemno, oppure, secondo un’altra versione del mito, lo sottras-
se, sempre a Lemno, alla fucina di Efesto ° . Filottete, come i
primi uomini che .avevano imparato da Prometeo, fa scaturire
il fuoco dalle pietre: “E poi mancava il fuoco. Pure schiudevo,
con lunga fatica, la chiusa fiamma, da pietra su pietra confri-
cata e percossa” (294 sgg.).
Su questa Lemno, mitica e reale, la prima isola disabitata nella
storia della letteratura, l’esule ha trascorso nove anni di vita.
Nella grotta, che lo ripara dal freddo della notte e dal calore
implacabile del giorno, Neottolemo trova “un giaciglio di fron-
de” (33) e ‘“una ciotola in legno, d’inesperto lavoro” (35 sg.).
Il primo Robinson Crusoe non ha cominciato a coltivare la
terra della sua isola deserta e non si è neanche messo ad alle-
vare. bestiame. Ha placato la sete con l’acqua della sorgente
che è ancor oggi, proprio come la ricordava Odisseo, a sinistra
della grotta; ha placato la fame con uccelli e piccola selvaggina
abbattuti con l’arco. Nell’Elettra di Sofocle, Oreste, che arriva
ad Argo alle prime luci dell’alba, ode il canto degli uccelli.
Sull’isola di Filottete essi non cantano mai. Fiori e alberi non
dànno profumi. C’è soltanto un odore: il fetore della sua feri-
ta: ‘“tesi ad asciugare dei cenci intrisi d’un putrido umore”
(38 sg.). '
L’odore nauseante del pus, che chiunque abbia trascorso an-
che un breve periodo in un ospedale militare durante una
guerra non dimenticherà mai, accompagna Filottete dal primo
all’ultimo verso della tragedia. “Lo zoppo fetido” si definisce
egli stesso (1032). La ferita, che ogni tanto cola sangue e pus,
viene descritta in tutta la sua repellenza: si parla del “rauco
grido della triste piaga cruenta edace” e del “caldo flusso delle
ferite stillanti d’un crudele arto” (699 sg.).

185
Divorare gli dei

In Aiace colano sangue e bava dalle narici del cadavere. In


Edipo re, il messaggero racconta al coro il modo esatto in cui
Edipo ha tagliato il cappio dal quale penzolava Giocasta e poi,
quando il cadavere è caduto al suolo, ha strappato le spille
d’oro che lei portava sul peplo e si è cavato gli occhi. L’Edipo
di Edipo a Colono, nonostante le cure affettuose di Antigone,
è un vecchio sporco e ripugnante: ‘“Una veste logora, squalli-
da, invecchiata con lui. Îl volto senza sguardo. ÎI capelli, un
groviglio ventilato. E il suo cibo è come la sua veste” (1258
sgg.). Sofocle, il più crudele dei tragici greci, non ha mai pau-
ra dell’immagine fisica della sofferenza”! ; i suoi eroi sono co-
me statue, ma queste statue spargono sangue vero e per di più
stillano nero pus. “Il corpo è madido, nera dal piede sanguino-
sa vena fluisce aperta” (Filottete, 823 sgg.).
Filottete è stato morso da un serpe a Crise, mentre andava a
Troia. Crise era un’isoletta a ovest di Lemno, sparita sotto il
mare come l’Atlantide. “E’ stata inghiottita dal mare”, scrive
Pausania. La sua sparizione era stata predetta, se dobbiamo
credere a Erodoto, da una profezia di Onomacrito. Su Crise,
isola insieme reale e mitica come Lemno, Giasone offri sacrifi-
ci quando gli Argonauti cercavano il vello d’oro, e lo stesso
fece Eracle mentre andava a Troia. Filottete ha attraversato il
sacro recinto di Crise e, come Edipo a Colono, si è fermato
nel santuario dedicato agli dèi dell’A de.
Una scena, raffigurata su un vaso del V secolo a.C., ci mostra
Filottete morso da un serpe che è il guardiano del santuario.
Una sacerdotessa alza le braccia, come se fosse spaventata o
stesse impartendo una benedizione. Sul suo abito ci sono due
file di cerchi, che simboleggiano una scala; e sul suo capo, un
cappello a strisce, calathos, che ha la forma di un piccolo ci-
lindro e sembra indicare un legame con il mondo sotterra-
neo ”? . Filottete, morso da un serpe, strascicherà d’ora innanzi
il piede come uno zoppo. Edipo ha le orbite trafitte; Laio,
suo padre, una gamba inferma; Labdaco, suo nonno, zoppica-

186
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

va. Glì studiosi di religioni e gli antropologi considerano una


ferita alla gamba e le difficoltà di ambulazione segni di un
rapporto con le divinità ctonie 3 .
Naturalmente per un serpente mordere un uomo alla gambaè
più facile. Ma la ferita che non sì risana è una figura e un
segno. În un’altra versione del mito, forse la più antica, Filot-
tete si ferisce con una freccia avvelenata, ereditata da Eracle
insieme con.l’arco. E’ la sua punizione per aver rivelato il se-
greto della tomba di Eracle. La freccia è schizzata dalla faretra
e gli ha trapassato il piede”* , Anche il centauro Chirone è sta-
to ferito a un piede dalle frecce di Eracle immerse nel veleno
dell’idra. Chirone, il maestro di Asclepio, che risanava uomini
e.dèi, non ha saputo guarire se stesso. Torturato da sofferenze
insopportabili, ha preferito morire, benché fosse immortale, e
ha accettato di scendere nel Tartaro come riscatto per il per-
dono di Prometeo. Come dice Kerényi, “questo guaritore è
strisciato con il proprio dolore nel buio della sua grotta come
un animale malato e ha desiderato morire” ” . Il Chirone di
Kerényi è un’immagine non intenzionale del Filottete di So-
focle.
Sofocle cita Chirone una volta soltanto, nelle Trachinie: “IHl
dardo che colpi Nesso nel fianco, un giorno so che fece anche
soffrire molto Chirone, ed era pure un dio” (714 sgg.). In Fi
lottete sì nomina tre volte un’erba miracolosa che allevia il do-
lore. Quando Neottolemo trova vuota la grotta, suppone che
lo zoppo sia andato a cercare l’erba analgesica (44). Quando
Filottete si prepara a lasciare Lemno, vuol portare con sé sol-
tanto “’un’erba che addormenta la mia piaga” (650). Il coro
ha compassione di Filottete perché non aveva nessuno che “‘al
caldo flusso delle ferite stillanti d’un crudele arto con miti er-
be donasse quiete; che, ad ogni assalto nuovo, dalla terra fera-
ce gliene cogliesse ancora” (699 sgg.). Sui pendii del monte
Pelio, nella valle di Peletronio, dove Chirone, tormentato dal
dolore, sì era rifugiato in una grotta, cresceva un’erba capace

187
Divorare gli dei

di risanare le ferite prodotte da morsi di serpenti o da frecce


avvelenate. Plinio la chiama kentaureion o chironion’°. A
Lemno Filottete applica l’erba di Chirone sulle proprie ferite.
Questa ferita incurabile è anche una ferita sacra ”7 . l serpente
è un archetipo dell’invisibile divenuto visibile. Filottete diven-
ta per la gente una specie di lebbroso perché è stato scelto
dagli dèi a svolgere una determinata funzione: “[...] dall’alto
muovono [...] i dolori antichi che dall’aspra Crise su di lui di-
scesero. E la sua fatica d’oggi, il suo soffrire d’ogni cura privo,
senza il disegno d’un Iddio non vedo: impedire che vibri egli
quei divini- dardi inevitabili contro HMio, prima che per Troia il
tempo già fissato venga d’essere soggiogata da sue frecce”
(193 sgg.). Il giovane Neottolemo non . ha il minimo. dubbio
che Filottete sia stato morso da un serpente per uno speciale
volere degli dèi. Ma a Filottete gli dèi non ne hanno parlato.
Il serpente che ha fatto di lui uno zoppo è per lui “il mio
peggior nemico” (631). Se lo hanno mandato gli dèi, è perché
lo disprezzavano: “Sono un nulla, ormai [...] il più odiato da-
gli dèi tra gli uomini” (1030 sg.).
Iì Filottete di Sofocle, come il suo Eracle, è uno strumento in
mano a dè distruttori. “Ecco, sopporto”, dice ÉEracle nelle
Trachinie, “da cieco colpo d’Ate, ora battuto devastato veder-
mi” (1104). Eracle viene bruciato vivo, distrutto dal veleno
dell’idra, dopo aver compiuto le dodici fatiche. Molto tempo
fa, il serpente ha morso Filottete perché un giorno egli potes-
se andare a Troia e compiere la sua missione. Nella teologia di
Sofocle essere scelti dagli dèiì è una tragedia; il mediatore è
per gli altri un reietto. Lo stigma è una fetida ferita.
La ferita di Chirone era insanabile. “Dal grave morbo tregua
tu certo non avrai”, dice Neottolemo a Filottete alla fine del
dramma umano, poco prima dell’apparizione di Eracle ex ma-
china. Îl mondo tragico è insanabile’”® . La coscienza, per gli
esistenzialisti, è un buco nell’essere. La coscienza tragica è co-
me una piaga ulcerosa che non si risana più. “Dal grave morbo

188
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

tregua tu certo non avrai”, sembra una battuta di Camus. La


ferita insanabile è un segno duplice: degli uomini scelti dagli
dèi come mediatori e di quelli che rifiutano di sottomettersi
agli dèi, alla storia e all’ordine. La guarigione è sempre un
compenso della sottomissione.
Il serpente che morde Filottete è l’emblema di Asclepio, i cui
figli dovranno risanare Filottete. I figli del dio sono medici
militari nel campo greco. Ma l’ostinato Filottete è un mediato-
re che non vuol essere curato. ‘“Si{ ch’io m’induca a veder
Troia? Mai” (1392).

b)
Filottete è stato bandito dalla comunità umana, che lo ha ab-
bandonato con un mucchio di cenci e una manciata di cibo. Î
marinai, sbarcati a Lemno in questi nove lunghi anni, gli han-
no lasciato altri mucchi di stracci e brandelli di provviste. Ci
sono soltanto l’ancoraggio deserto e il mare vuoto. Le urla e-
cheggiate dalle rocce raggiungono solo le onde che si rifrango-
no sulla spiaggia deserta. “Qui senza moto attese, solitario, !
escluso, senza un compagno di dolore a lato” (691 sgg.). Fi-
lottete viene scaraventato al fondo della condizione umana:
‘““giace nel deserto senza doni d’una vita senza umani solo”,
dice il coro, “[...] nei congiunti spasimi del morbo e della fa-
me” (182 sgg.). Come i paralitici di Beckett, è tormentato dal-
la fame, dalla sete e dalle sofferenze. “Tutto scrutare, né pre-
senza alcuna, se non quella d’angoscia, mai discernere; ma d’
angoscia una facile ricchezza [...]” (283 sg.).
Questo straccio umano, guesto “morto tra i vivi”’, è ancora il
proprietario dell’arco invincibile. Odisseo, che si è scelto come
compagno il giovane figlio di Achille, deve portare Filottete a
Troia. Senza quest’arco e senza quest’uomo è impossibile vin-
cere la guerra. Ancora una volta c’è bisogno di lui. E bisogna
consegnarlo vivo: con l’inganno, con la forza o con la persua-
sione. Îl paria deve diventare il salvatore, il lebbroso un eroe

189
Divorare gli dei

nazionale. Gli dèi, l’assemblea dei greci, persino la storia, che


deve essere compiuta, invocano il ritorno di Filottete. À que-
sta triplice pressione, egli può opporre soltanto la sua ferita,
testimone dell’ingiustizia divina e umana. “Ogni altro tranne
me solo a ricevere negli occhi tutto questo anche a guardare
non avrebbe durato” (636 sg.). Filottete è una ferita non sa-
nata. La ferita è la sua forza.
Sull’isola deserta sìi svolge ora un brutale dramma potitico. Il
Filottete di Sofocle è opera amaramente e sorprendentemente
realistica per chi conosce, per esperienza propria o altrui, co-
me si possano far crollare prigionieri politici 1 cui nomi siano
di nuovo sfruttabili, o come si trattino i deportati le cui capa-
cità possano essere ancora utili o come si prema sugli emigrati
divenuti improvvisamente necessari in patria.
Neottolemo — Che cos’altro comandi, oltre al mentire?
Odisseo — Prendere Filottete con la frode.
Neottolemo — Perché l’inganno e non la persuasione?
Odisseo — Non si convince; e a forza non lo domi.
(Filottete, 100 sgg.)
L’inganno è il metodo più semplice. E° un vecchio trucco de-
gli inquirenti promettere ai prigionieri di far loro rivedere la
propria famiglia. Neottolemo dà la sua parola a Filottete che
lo riporterà alla sua casa di Eta e gli farà rivedere il vecchio
padre. Filottete gli crede e gli cede l’arco. Ora l’arco di Eracle
è nelle mani di Odisseo. Ma proprio allora, il giovane figlio di
Achille, che per la prima volta in vita sua ha conosciuto l°
ipocerisia, viene turbato dall’immagine della sventura umana.
Svela la verità a Filottete: lo porteranno al campo greco. Già 1
‘marinai lo hanno preso per le braccia. Ma il cadavere vivente
preferirebbe fracassarsi sulle rocce.
Mauai! Se ogni male dovessi patire,
mai, finché avrò su questa terra il margine
alto di questo baratro scosceso.
(Filottete, 099 sgg,.)

190
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Î marinai si sono staccati da Filottete. Odisseo, vecchio prag-


matista, ha capito sin dall’inizio che l’arco infallibile è più im-
portante del suo fetido proprietario, improvvisamente favorito
dagli dèi; e trasformato da loro in salvatore della nazione. Se
insiste, rimanga pure l{, ma senza l’arco. Filottete sa che cosa
significa. L’isola è piena d’uccelli. “‘Morendo, offrirò io misera-
mente pasto a quelli stessi di cui mi nutrivo” (956 sg.). Ritro-
veremo la. medesima aspra ironia nelle parole di Amleto, quan-
do Claudio gli chiede dov’è. Polonio: “A cena [...] Non dove
mangia, ma dove è mangiato” (IV, 3, 18-20). L’immagine di
Filottete divorato dagli uccelli verrà ripetuta più avanti:
[...] Da chi da dove
un alimento di speranza mai
riceverò dolente?
Scendessero dall’etere
col penetrante sibilo del vento
gli uccelli a divorarmi! lo non resisto.
(Filottete, 1090 sgg.)
In alto, il cielo nascosto dalle nubi; sotto, il mare deserto: lo
zoppo diverrà cibo per gli uccelli, come Prometeo incatenato
alla rupe del Caucaso. Lemno è l’isola di tutti i miti.
La frode e la forza falliscono: Neottolemo restituisce l’arco a
Filottete. Non resta che la persuasione. I delegati dell’autorità
cominciano sempre parlando delle necessità supreme:
Neottolemo — L’impone, sai, necessità fatale:
e tu solo ad udirla non sdegnarti.
Filottete — E’ la mia triste fine [...] è il tradimento.
(Filottete, 92 sgg.)
Se un prigioniero crede nella necessità suprema, è definitiva-
mente perduto ”° . Filottete è perfettamente consapevole che
esistono due necessità diverse, quella degli oppressori e quella
degli oppressi: “Ed io, costretto fra tristi cose, anche ad amar-
le appresi’” (538). Si dice che questa necessità suprema sia det-
tata dagli dè:. Ma gli dèi sono sempre dalla parte degli oppres-

191
Divorare gli det

sori. In nessun’altra tragedia di Sofocle sì nominano cosiì spes-


so gli dèi. Come in Aiace, anche in Filottete Odisseo è un pio
uomo politico il quale sa benissimo che il nome di dio non
viene mai nominato invano. Gli dèi aiutano chi li aiuta. L’ulti-
mo anno della guerra di Troia, che per Sofocle è un’immagine
della guerra del Peloponneso, ha mutato il nuovo Odisseo in
un cinico politicante. Adesso è pronto<ad affermare persino in
pubblico che, per legge di natura, gli dèi sono sempre dalla
parte dei più forti.
Melo era una piccola isola vicino al mar di Creta che cercava
di mantenersi neutrale nella guerra tra Atene e Sparta. Atene
chiese la capitolazione dell’isola, chiamandola “alleanza”. Gli
isolani, riferisce Tucidide, invocarono gli dèi: “Abbiamo ferma
fiducia che, per quanto riguarda la fortuna, che procede dagli.
dèi, non dovremmo avere la peggio perché [...] insorgiamo in
armi contro l’ingiusto sopruso”. Replicarono gli ateniesi: “Gli
dèi, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli uomini, come
chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura,
a dominare ovunque prevalgano per forze [...] Da parte degli
dèi, dunque, com’è naturale, non temiamo di essere in posizio-
ne d’inferiorità rispetto a voi” (La guerra del Peloponneso, Y,
104-5)5° , Trentotto navi, loro e dei loro alleati, accompagna-
vano gli inviati di Atene, con tremila oplitiì e oltre trecento
arcieri. Gli abitanti di Melo non cedettero. Gli ateniìesi uccise-
ro allora tutti gli uomini adulti e vendettero donne e bambini
come schiavi. Questo accadeva nel sedicesimo anno della guer-
ra del Peloponneso, sette anni prima che Filottete venisse rap-
presentato ad Atene.
Odisseo — E’ Zeus, sappi, è Zeus che qui domina,
è Zeus che decreta: ed io lo servo.
Filottete — Essere odioso, che dici, che inventi?
Gli dè: citando, li rendi falsari.
Odisseo — No, veraci. Il viaggio va compiuto.
(Filottete,, 989 sgg.)
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

Neottolemo invoca gli dèi ventidue volte. “Io vorrei che agli
dèi [...] tu ti affidassi” (1374 sg.). Tutto quello che accade,
sino al più piccolo incidente, è, a suo avviso, una manifesta-
zione della “volontà divina”, di un ‘“piano divino”, di un
“decreto divino”, dalla ferita di Filottete alla sua spedizione a
Lemno, alla vittoria di cui spartirà la gloria con Filottete stes-
so. Le sofferenze vengono remunerate e la storia attua una
teodicea, per di più nel corso di un solo decennio. Agli dèi del
sistema di Odisseo e agli dèi della pronta giustizia di Neottole-
mo, Filottete può opporre soltanto le proprie sofferenze. Gli
dèi che lui conosce sono sordi. “Se lodo l’opera divina [...]
trovo gli dèi malvagi” (451 sg.). Per la terza volta ritorna su
Lemno il tema di Prometeo che sfida gli dèî:
Non mai, non mai, tieni ben fermo questo,
neppure se l’iddio che porta e vibra
la fiamma della folgore m'avvampi
nell’incendio d’un tuono tutto luce.
Îlio rovini e sotto le sue torri
quanti son oggi, poiché tutti osarono
in quel giorno respingere
questo mio piede infermo.
(Filottete, 1197 seg.)
E° il terzo ‘“no” di Filottete. Ma la sua resistenza crollerà alla
fine del dramma. Non funzionando i discorsi sulla necessità
suprema e sulla provvidenza, non resta che la ragione pratica.
‘“Tu, esasperato, respingi i consigli” (1321). Filottete insiste
sulla propria tragedia. Neottolemo trova la sua ostinazione
fuori della misura umana. ‘“Non inasprirti anche se soffri”
(1378). Ma qual è la misura umana? ‘La sventura ha forse un
limite, ha forse una misura? ” chiede l’Elettra di Sofocle
(236). È ia misura di che? Della sventura o dell’ostinazione?
“E più dolenti e deboli quanto meno mediocri, o genti o vi-
te! ” (178 sg.), dice il coro. In fatto di misura umana e inu-
mana, i semplici marinai ne sanno più di Prometeo: “Altri

193
Divorare gli dei

non so [...] che subisse tra gli uomini più accanito destino”
(680 e 682).
La coscienza di Filottete è la sua fetida ferita. 1 suoi amici di
un tempo, come in Aiace, si rivelano delle canaglie. Puzzava
allora quando offrivano le loro preghiere, ma adesso lo voglio-
no seduto accanto mentre ne offrono di nuove. Gli prometto-
no una partecipazione alla gioria della disfatta di Troia e un
posto d’onore nell’assemblea dei greci. “Di nuovo, di nuovo,
rammenti l’antico dolore” (1170). Sino alla fine Neottolemo
non capisce l’ostinazione di Filottete. La ferita è la sua di-
gnità. L’unica che gli rimanga. E ora vorrebbero che la rinne-
pgasse. “E voi, pupille mie che troppo vedeste, questo ancora
sopporterete voi? Ch’io muova al fianco di quei figli d’Atreo
che mi distrussero? ” (1335). Glì promettono in compenso
una cura. Per nove anni, sull’isola deserta, ha sognato una cura
per la sua ferita. Ma era una cura di carattere diverso: “Se
costoro vedessì morti, mi parrebbe ancora d’essere liberato dal
mio male” (1043 sg.)}.
Il rifiuto di Filottete è definitivo e Neottolemo non ha altra
scelta che mantenere la promessa e riportarlo a casa.
Neottolemo — Come, come sfuggire
alla condanna da parte degli achei?
Filottete — Tu non pensarci.
Neottolemo — Se dovessero invader la mia terra
e depredarla?
Filottete — Con la mia presenza.
Neottolemo — Quale aiuto darai?
Filottete — Coi dardi d’Eracle.
- (Filottete, 1403 sgg.)
Come Lemno deserta e la ferita insanabile, l’arco, dono di
Apollo, è insieme mitico e reale. Neottolemo lo guarda con
superstiziosa venerazione: “Potrei, dimmi, ammirario da vicino
e toccarlo e baciarlo come sacro? ”’ (657 sg.). L’arco è per lui
theos. Nel mito gli oggetti si portano dietro le proprietà dei

194
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

loro padroni. Con quest’arco, Eracle ha purificato terra e marì


dei mostriì, ma quando ne ha inzuppato le frecce nel veleno
dell’idra, il suo contagio si è nuovamente diffuso nel mondo.
I] centauro Chirone è stato ferito da una freccia avvelenata
scoccata da questo arco. Achille, figlio adottivo di Chirone e
padre di Neottolemo, è stato colpito mortalmente al piede
dallo stesso arco, che Paride aveva avuto per breve tempo in
prestito. E.Paride a sua volta verrà poi ferito al ginocchio da
una freccia che Filottete scoccherà dall’arco di Eracle. Nella
teologia mitica l’arco è sempre lo stesso: le frecce feriscono gli
eroi alle gambe: cosi si svolge la storia umana. Sembra che gli
dèi abbiano un solo arco per abbattere gli uomini.
Filottete e Neottolemo scendono lentamente la scala che dalla
skene porta alla spiaggia rocciosa. Filottete si ferma un mo-
mento. Ha in mano l’arco di Eraele, l’arco strappato agli dèi.
In questo breve istante, prima che Eracle compaia ex machina
sul tetto della grotta, l’eroe scelto dagli dèi per compiere una
missione storica sì leva al disopra del proprio destino. Per un.
attimo l’arco viene sottratto alla sua sinistra vocazione. Troia
non cadrà®! ,
Neottolemo — Adesso, avanti,
con passo fermo.
Filottete — Se ne avrò la forza.
(Filottete, 1403 sg.)

c)
Nella tradizione postomerica, è Diomede che va a Lemno a
cercare Filottete. Nella tragedia, perduta, di Eschilo è Odisseo
che riesce finalmente a convincere Filottete a venire con lui a
Troia. În quella di Euripide, per non essere riconosciuto, O dis-
seo si traveste da fuggiasco da Troia e si porta appresso Dio-
mede nel caso ìn cui occorresse ricorrere alla forza. Staccando-
si dalla tradizione, Sofocle sceglie Neottolemo come accom-
pagnatore di Odisseo. Può valer la pena chiedersi perché, L’

195
Divorare gli dei

eroico Achille e l’astuto Odisseo sono due eterni opposti, le


esemplificazioni di due atteggiamenti e di due strutture carat-
teriali; ma nell’Atene del V secolo a.C., divisa in due classi e
due partiti, questi opposti psicologici e morali di Omero di-
ventano improvvisamente concreti e politici®*, Achille che
vuole la gloria a qualsiasi prezzo e Odisseo che vuole a qualsia-
si prezzo il successo prendono a significare la scelta tra l’incal-
lito tradizionalismo dei leader aristocratici e la cupidigia priva
di scrupoli dei politici e dei mercanti democratici.
La missione di Neottolemo dà alla tragedia una pertinenza in-
tellettuale e permette a Sofocle di arricchire l’azione coinvol-
gendo il figlio L’Achille nell’inganno e nel ricatto e di risolver-
la con il suo drammatico rifiuto della politica di Odisseo. Per
molti critici, Neottolemo è l’eroe di Filottete e uno dei più
bei personaggi della tragedia greca. Come ha scritto Kitto, ‘“la
parte di Neottolemo ha un registro assai superiore a quello di
tutte le altre delle tragedie greche rimasteci [...] Di fatto, la
maggior parte del dramma, dal momento in cui Neottolemo si
lega a Odisseo, può essere ragionevolmente definita una lunga
e inesorabile pressione su di lui e sulla sua falsa posizione.
Nella misura in cui può dirsi che un dramma greco mostra lo
sviluppo di un personaggio, il personaggio è questo”®3 ,
Ma questo Neottolemo che evolve sul piano morale e che mo-
difica il proprio carattere, esiste solo nella lettura che Kitto fa
della tragedia. Gli eroi tragici greci, e soprattutto quelli di So-
focle, non cambiano e quelli dell’intreccio secondario non sal-
gono ad altezze tragiche. Dall’inizio alla fine, il Neottolemo di
Sofocle è un giovane divorato dall’ambizione; il cui unico trat-
to caratteriale costante è l’instabilità. ‘“Carattere è destino”,
scriveva Eraclito. Degli eroi di Sofocle si potrebbe invece dire
che il destino è il loro carattere. Il destino attribuisce a Neot-
tolemo un ruolo di criminale di guerra in Troia espugnata.
Dalla Piccola Iiade in poi, in tutte le versioni del mito, nell’
epica come nella tragedia, è lui che trascina per i capelli Pria-

196
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

mo dall’altare di Zeus e lo ammazza all’ingresso del suo palaz-


zo o, secondo un’altra versione, ai piedi dell’altare. Neottole-
mo uccide. anche Astianatte, il figlioletto di Ettore e Andro-
maca; come i boia hitleriani nel ghetto di Varsavia, lo prende
per le gambe e lo scaraventa contro un muro. În un’altra ver-
sione, lo butta da una torre®* . Nelle Troiane di Euripide, rap-
presentate nel 415 a.C., e quindi sei anni prima di Filottete,
Neottolemo non permette neanche ad Andromaca, riferisce l
araldo Taltibio, di compiere-“i riti per la sepoltura del figlio-
letto”.
Polissena, figlia di Ecuba e di Priamo, viene offerta al cadavere
di Achille in modo che, anche morto, egli possa avere la sua
parte nella distribuzione dei prigionieri. “Tutta l’armata greca”,
racconta lo stesso araldo Taltibio nell’Ecuba di Euripide,
‘“‘era schierata 1à davanti. La prese per la mano il figliolo d’A-
chille, collocandola sopra il rialzo [della tomba]” (521 sgg.).
““Lui voleva e disvoleva, vinto da pietà”, continua l’araldo (le
titubanze e le incertezze di Neottolemo, che sono aspetti per-
manenti del suo “carattere” e che vengono cosi chiaramente
indicate in Filottete, meritano di essere sottolineate anche
qui), e poi “fende col ferro i tramiti del fiato, ne sgorgavano
fiotti’” (566 sgg.)5®° , La crudeltà di Neottolemo doveva essere
saldamente stabilita dalla tradizione, poiché Priamo nell’Enei-
de ‘“non seppe frenare l’emozione e la collera: ’[...] Achille,
quell’Achille del quale a torto tu ti dici nato, non fu crudele
come te‘” (II, 655 sgg.). È Andromaca, che egli ha preso pri-
gioniera, confessa con amarezza: ‘“Ho partorito in schiavità,
‘ ho sopportato la sdegnosa superbia di Pirro, figlio di Achille”
(III, 401 sgg.)®6 .
Ingloriosa è anche la fine di Neottolemo. Tornato in Grecia,
va a Delfi a chiedere soddisfazione per la morte del padre ad
Apollo, che ha prestato il suo arco a Paride o lo ha forse im-
personato nel momento di tirare: “Ferito d’arco da un dio,
non da un uomo, dicon cadesse prostrato da Febo” (Filottete,

197
Divorare gli dei

334 sg.). Non ottenendo risposta, monta su tutte le fune, dà


fuoco al tempio e lo distrugge. Subisce per questo una severa
punizione: muore a Delfi, ucciso da un sacerdote con un col-
tello sacro. Secondo un’altra versione, viene invece ammazzato
da Oreste 57.
In tutte le grandi tragedie, e in particolare in quelle di Sofocle
e di Shakespeare, i personaggi portano in sé il loro futuro e la
propria morte (‘“la morte trasforma la vita in destino”). Il “fa.
to” è parte integrante del ‘“carattere”; in altri termini, il “ca-
rattere’ non è che biografia. In Filottete Neottolemo viene
presentato coscientemente, e con'arte sorprendente, in una
triplice prospettiva: è il figho di un padre glorioso, vissuto in
un’epoca eroica, ed è ansioso di rimanere fedele alla sua me-
moria; è un giovane immaturo che anela alla fama in un’epoca
già diventata non eroica; ed è il tormentatore implacabile di
Troia.
‘“Preferirei cadere per il bene che per il male vincere”, dice
Neottolemo a Odisseo nel prologo (95), quando sente i suoi
progetti. Ma pochi secondi dopo, quando Odisseo, il grande
manipolatore, lo seduce prospettandogli la possibilità che sia
lui il conquistatore di Troia, il prezzo non gli sembra più tan-
to alto: “E vada per l’azione, senza scrupoli” (120). A _Filotte-
te, che lo supplica di restituirgli l’arco, risponde, rifiutando:
“L’utile e il giusto vogliono che obbedisca a chi sta in alto”
(925). La grande ironia sofoclea è nell’includere in un’unica
frase i doveri e i profitti. “Con vili inganni e trame un eroe
strinsi”’, dice a Odisseo, dopo aver “cambiato idea” (1228).
“Ignobile figlio del più nobile dei padri”, lo chiama Filottete
(1284). “La fede sul volto e in fondo all’animo Îa frode”
(1272). E, verso la fine del dramma, quando Neottolemo gli
promette cure in cambio del viaggio a Troia e della riconcilia-
zione con Agamennone e Menelao, dà di lui una definizione
ancora più terribile: ““Tremendo è il tuo consiglio” (1380).
Il futuro viene predetto tre volte. Filottete dice a Neottolemo,

198
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

che già una volta è venuto meno alla sua parola: “La morte a
te [...] Ma no. Ch’io sappia prima se forse ancora muterai pen-
siero; se no, ti colga la morte del vile” ‘(961 sg.)55 . Ma la
chiave della teologia di Sofocle è la prima profezia, quando
Filottete, prima di essere colto da un nuovo accesso di dolore,
affidaà a Neottolemo arco e faretra: “[...] e pronuncia uno
scongiuro umile: che pesanti di dolore a te non siano, come a
me già furono e a chi prima di me li possedeva” (776). L’ar-
co, segno di mediazione, dono degli dèi, porta sofferenze e
sventure. È’ un arco di distruzione. Eracle, che è stato il pri-
mo a riceverlo, pronuncia la terza e ultima profezia nell’epilo-
go.
Filottete e Neottolemo sono già scesi dalla skene nella piatta
arena. Filottete ha posato arco e frecce e s’inginocchia per ba-
ciare la terra, prima di lasciare l’isola. D’improvviso s’ode una
VvOce:
[...] d’Eracle
questa voce che tu senti
col tuo stesso orecchio, d’Eracle
sappi il volto che tu scorgi.
Per te lascio le celesti sedi.
(Filottete, 1410 sgg.)
Eracle, che è sceso lentamente dal tetto della grotta, pronun-
cia un giudizio sulla propria vita, che sembra un epitaffio: “Îo
voglio prima i miei destini aprirti: quanti pesi non seppì e
quante vie di fatiche e d’angosce non percorsi, per aver pre-
mio nella forza eterna che vedi in me” (1418 sgg.). Le grandi
fatiche di Eracle hanno comportato sofferenze continue®®.
Nel discorso dal tetto della skene la parola ‘“angoscia”, o i
suoi sinonimi, viene ripetuta tre volte. Come nelle Trachinie e
nell’Eracle di Euripide, è ancora il tragico Eracle venuto dall’
Ade di Omero dove aveva detto a Odisseo: “Pianto senza mai
fine avevo”. Nella teologia e nella struttura di Filottete, il
proprietario dell’arco è il doppio di Eracle. Nelle Trachinie

199
Divorare gli dei

Eracle invoca urlando una rapida morte mentre sta bruciando


vivo per il veleno dell’idra. Filottete, tra pene insopportabili,
prega Neottolemo d’infliggergli un colpo mortale, taghandogli
il piede.
Eracle scende ex machina per comunicare a Filottete la vo-
lontà di Zeus: “Tu pure avrai, sii certo, questo compenso [alle
tue sofferenze]: dai travagli emergere a luminosa vita” (1418
sgg.). Filottete non finisce in una gioiosa epifania. La gloria
immortale, ma non l’immortalità, è il compenso della sofferen-
za. ‘“Ma devo dunque cedere? ” si era chiesto Filottete solo un
momento prima. “Andrai con l’uomo che ti è vicino a
Troîaî ” è l’ordine di Eracle (1425). Filottete è l’unico degli
ero1 tragici di Sofocle che venga domato.
Troia è già stata conquistata, ma deve esserlo una seconda vol-
ta. Tutte le Troie devono essere continuamente rase al suolo
sino alla fine del mondo. Un attimo prima di tornare in cielo,
Fracle pronuncia il suo ultimo monito:
[...] E sempre ricordate,
devastandone i campi [ di Troiaj], di serbare
la pietà degli dèi, ché Giove padre
più dimentico è forse d’ogni cosa
che non di questa. La pietà non muore
con i mortali. Vivan essi, o stano
corpi sepolti, non va mai dissolta.
- (Filottete, 1440 sgg.)
Il Filottete di Sofocle è stato seritto nel 409 a,C. Quattro an-
ni prima, nel 413 a.C., diciannovesimo anno della guerra del
Peloponneso, la spedizione della flotta ateniese contro la Sicì-
lia si concluse con una spaventosa catastrofe. Tucidide, sempre
imparziale, descrivendola non cerca di nascondere il proprio
orrore:
Quelli [i prigionieri] che erano nelle latomie furono nei primi
tempi trattati dai siracusani con grande durezza. Gettati in
quella cava dirupata, molti in così breve spazio, prima soffrt-

200
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”

vano enormemente per il sole e il caldo soffocante, così allo


scoperto com’erano; poi sopravvennero le notti autunnali che,
al contrario, erano fredde; e i cambiamenti di temperatura
provocarono nuove malattie. Costretti dalla mancanza di spa-
zio a soddisfare tutte le necessità in quel luogo ristretto, e per
di più con i cadaveri che li, l’uno sull’altro, s’accumulavano,
di chi moriva per le ferite o per gli sbalzi di temperatura, o
per altre consimili cause, si sprigionavano fetori insopportabili.
Erano poi tormentati dalla fame, insieme, e dalla sete; poiché,
durante otto mesi, i siracusani non passavano loro che una co-
tila, circa un quarto di litro, d’acqua e due di grano al giorno
per ciascuno. Insomma, di tutte le sofferenze che si possono
immaginare per uomini caduti in quella tomba, nessuna fu ri-
sparmiata. Eppure per settanta giorni circa essi vissero cosi
ammucchiati; pot, ad eccezione degli ateniesi e di quei pochi
di Sicilia o d’Italia che avevano partecipato alla spedizione,
tutti gli altri furono venduti. Benché sia difficile stabilirlo con
esattezza, tuttavia i prigionieri furono non meno di settemila.
Certo fu il disastro più grave che sia mai capitato ai greci du-
rante questa guerra; anzi, a parer mio e da quanto sappiamo
per tradizione, fra tutti gli avvenimenti in Grecia fu questo il
più glorioso per i vincitori, il più miserevole per i vinti. La
disfatta degli ateniesi era stata completa sotto tutti i riguardi,
le sofferenze tutte portate al parossismo: nell’annientamento
totale, come si suol dire, la fanteria, la flotta, tutto era andato
in rovina. Solo pochi, di cosi numeroso esercito, poterono ri-
tornare in. patria.
(La guerra del Peloponneso, VII, 87)°°
Durante la seconda guerra mondiale, il libro più popolare
nell’Europa centrale occupata era Guerra e pace di Tolstoj.
Questa immagine fatalistica della guerra, crudele come l’inver-
no russo, contrappone la crudeltà e la stupidità dei comandan-
ti alle forze della natura, che alla fine sembrano trionfare degli
invasori. Guerra e pace insegna la pazienza, ma non toglie ai

201
Divorare gli dei

lettori la speranza. Sembra che, analogamente, durante la guer-


ra del Peloponneso, e soprattutto nel secondo e terzo decen-
nio, le descrizioni della guerra di Troia contenute nell’Iliade e
nel ciclo postomerico fossero divenute vicine alle esperienze
comurni. Ma nella nuova immagine che ne derivò, non rimane-
va nulla di eroico: vincitori e vinti si distruggono a vicenda; la
vittoria è distruzione; e gli agenti principali della nuova ‘“ne-
cessità storica” sono Odisseo e Neottolemo.
Ahimè, due nomi, che meno degli altri
avrei voluto udire tra gli estinti.
Ah, squallore, squallore: agli occhi nostri
quale speranza più se ci abbandonano
uomini tali, ed Odisseo qui resta, “
dove attendevo di sentire il grido
della morte di lui, non della loro?
{Filottete, 426 sgg.)
Le tragedie di Sofocle non sono parabole storiche, ma la loro
contemporaneità, anche sè nascosta, è tuttavia significante.
Come La tempesta di Shakespeare, Filottete sembra una testi-
monianza personale, ma l’aspetto autobiografico, che si può
cogliere a tratti in sfoghi e confessioni amare, è la totalità
dell’esperienza umana. Quando scrisse Filottete, Sofocle aveva
ottantacinque anni. Éra sopravvissuto a Pericle, Nicia e De-
mostene. Ironicamente, Odisseo e Tersite sono ancora vivi.
Nel 420 a.C., quando si diffuse ad Atene il culto di Asclepio,
Sofocle teneva in casa il serpente sacro, immagine del dio, e
forse ogni mattina lo nutriva con le proprie mani di uova fre-
sche e di topi°! . Nel 413 a.C., dopo il disastro della Sicilia, fu
uno dei dieci cittadini chiamati a far parte del comitato di sa-
lute pubblica ed ebbe modo di rimpiangerlo amaramente. A
quanto pare, si rendeva perfettamente conto dell’imminenza
della disfatta. Mori nel 406 a.C., due anni prima della caduta
di Atene.
Lascia nel distacco

202
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

ch*io saluti ormai


questa terra. O antro,
vigile compagno
di mie notti, addio.
E voi pure, o ninfe
roride dei prati [...]
(Filottete, 1452 sgg.) ”?
L’isola deserta sulla quale per nove anni erano risuonati sol-
tanto i gemiti dell’esule e si era sentito soltanto il fetore della
sua piaga, si trasforma ora in una terra incantata e popolata di
ninfe. Su Lemno inospitale, dove per nove anni Filottete ha
sofferto fame e sete, ora mormorano acque di ruscelli pietrosi
e la grotta inospitale si è trasformata in riparo. L’isola era un
rifugio dalla crudeltà della storia è Filottete, prima di partire,
ne bacia due volte la terra.
Salve, o cinta d’onde,
tu, piana di Lemno,
con sereno viaggio
voglia tu sospingermi [...]
. (Filottete, 1464 sgg.) °?
L’addio di Filottete all’isola ha la stessa straziante tristezza
dell’epilogo della Tempesta e la medesima consapevolezza
dell’inevitabilità delle umane sorti. Non si può sfuggire alla
storia; ogni cosa dovrà ripetersi ancora una volta. “Disperata è
la mia sorte [...]” (Tempesta, Epilogo, 15).
Delle centinaia di sculture e di immagini vascolari di Eracle—
giovani snelli e muscolosi atleti nel fiore degli anni, barbuti,
g].abri, calvi?* , quasi femminei; ubriachi; pensosi; in lotta con
i mostri; nudi; con un elmo in testa; con la pelle di leone;
sofferetti e trionfanti; in compagnia di Atena, di Prometeo, di
EKfesto — quale di questi Eracli è arrivato sull’isola deserta di
Filottete? Secondo la mia immaginazione, l’Eracle della meto-
pa del tempio di Zeus a Olimpia. Sorregge la volta celeste, ha
il cranio nudo e un braccio sbriciolato. Si vede ancora il baci-

203
Divorare gli dei

no; dall’inguine in già restano solo tracce delle gambe, ma in


esse si può ancora scorgere la tensione. Îl suo petto è squarcia-
to, i muscoli dello stomaco sono tesi. Ha le orbite gonfie e
vuote.

204
Note

1. Cfr. Bernard M.W. Knox, The Heroic Temper, cit., p. 140.


2. ‘“Canali, gallerie o condotti sotterranei, furono spesso descritti come
opera di Eracle”, scrive Robert Graves, I miti greci, cit., p. 608. E nel
dialogo di Luciano “Vendita di vite all’incanto”, si svolge questo scam-
bio di battute tra il compratore e Diogene mentre Zeus ed Ermete ven-
dono i filosofi:
Compratore — Di chi sei seguace?
Diogene — Di Eracle.
Compratore — E perché non vesti anche la pelle del leone. La clava l’hai
come lui.
Diogene — Questo mantello è per me pelle di leone. Come Eracle, fo
guerra ai piaceri; come lui, ma da me, ho preso il compito di purgare la
vita umana.
Luciano, I dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 186.
3. Le citazioni da Esiodo e dagli Inni omerici sono tratte da Hesiod,
The Homeric Hymns and Homerica, translated by Hugh G. Evelyn-Whi-
te, Loeb Classical Library, Cambridge, Mass., Harvard University Press,
1967.
4. Erwin Panofsky, Studies in lconology, p. 19: “[...] mentre il bassori-
lievo romano rappresenta Ercole che porta il cinghiale di Erimanto a re
Euristeo, il maestro medioevale, sostituendo fluttuanti drappeggi alla pel-
le di leone, un drago al re spaventato e un cervo al cinghiale, trasformò
la storia mitologica in un’allegoria della salvezza [...] il tipo dell’Ercole
che trascina Cerbero fuori dell’Ade venne usato per raffigurare Cristo
che strappa Adamo al limbo”, Cfr. anche Panofsky, Hercules am Schei-
dewege, und andere antike Bildstoffe in der neuren Kunst, Lipsia 1930;
e Jean Seznec, The Survival of the Pagan Gods: The Mythological Tradi-
tion and Îts Place in Renaissance Humanism and Art, New York, Harper,
1961, pp. 30, 118, 155, 211.
5. Eugene M. Waith, The Herculean Hero in Marlowe, Chapman, Shake-
speare and Dryden, New York, Columbia University Press, pp. 40 sgg.
6. Ode alla giovinezza, trad. ingl. di E.J. Czerwinski.
7. Anonimo, Problemata, opera attribuita ad Aristotele durante il rina-
scimento. Citazione da Rolf Soellner, The Madness of Hercules and the

205
Divorare gli dei

Elizabethans, “Comparative Literature’”, X, 1958, p. 312.


8. Nell’Orlando furioso di Robert Greene (1594), l’eroe torna in scena
agitando come una clava la gamba che ha strappato alla sua vittima. Cre-
de di essere Ercole:
Carogna, fammi subito avere una pelle di leone;
hai ben visto che ora saono il potente Eracle;
guarda la clava pesante che porto al collo.
9, Bottom ricorda, forse del Plauto letto a scuola, come nelle Bacchidi il
giovane Pistoclero minacciava il suo precettore, dicendo che lo ammaz-
zerà senza cerimonie:
Lino — Îl discepolo minaccia il maestro?
Pistoclero — Îo sarò Ercole, penso, e tu Lino.
În Plauto Le commedie, cit., p. 162. Gli eroi di Plauto giurano assai
spesso su Ercole, soprattutto quando qualcuno perde improvvisamente la
ragione: “Si, perché tu, Menecmo, non sei sano di sicuro, per Ercole”
(Menecmi, 313, ivi, p. 453). Bottom chiama qui “Ercole” “Ercles”, ri-
cordando certamente, sempre dagli anni della scuola, che l’imprecazione
“per Ercole” in latino è “Hercle”.
10. Thomas Heywood, in Apology for Actors, verosimilmente scritta tra
il 1607 e il 1608 e pubblicata nel 1612. Citata in Waith, The Herculean
Hero, cit., p. 53.
11. Seneca, Tragedie, trad. di Ettore Paratore, Roma, Casini, 1956.
12. Îbid.
13. A.J. Festugiere, De l’essence de la tragédie grecque, Paris, Aubier-
Montaigne, 1969, p. 90. '
14. “Nerone”, 21, 53,in Svetonio, I dodici Cesari, trad. di Felice Dessi,
Milano, Rizzoli, 1968, pp. 289 e 314.
15. “Dialoghi dei morti”, XVI, in Luciano, Î dialoghi e gli epigrammi,
cit., pp. 135 sg.
16. Dalla Confutazione di tutte le eresie di. Ippolito: “Infine Elohim
scelse un profeta tra i non circoncisì, Eracle, e lo mandò a lottare con i
dodici angeli dell’Eden e a liberare lo spirito del Padre dai dodici angeli
della creazione. Sono queste le dodici fatiche di Eracle, nelle quali Era-
cle si batté, nell’ordine, dalla prima all’ultima, con il leone e l’idra e il
cinghiale e il resto; perché questi sono i nomi delle nazioni conferiti dal
potere degli angeli materni. È poiché sembrava vittorioso, Onfale (Babe-
le-Afrodite) lo attaccò e lo sedusse e gli tolse il suo potere, i comanda-
menti di Baruch ordinati da Elohim, e gli fece indossare la propria veste,
il potere dell’Eden che è il potere sotterraneo. Cosi la profezia di Eracle
e le sue fatiche risultarono vane”’. “Baruch by Justin”, in Gnosticism: A

206
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”

Source Book of Heretical Writings from the Early Christian Period, a cu-
ra di Robert M. Grant, New York, Harper, 1961, p. 98.
17. Northrop Frye, Anatomia della critica, trad. di P. Rosa-Clot e San-
dro Stratta, Torino, Finaudi, 1969, p. 276.
18. “[...] per garantire la nascita di Ercole, bisognava che lei [Alcmena]
venisse ingannata. Non sarebbe bastata a tentarla la promessa dell’immor-
talità o della deificazione” (Laurent Le Sage, Jean Giraudoux: His Life
and Works, University Park, Pennsylvania State University Press, 1959,
p. 69).
19. Nei Menecmi, il gemello di Epidauro cita l’esempio di Ercole quan-
do ruba un vestito alla moglie per offrirlo a una cortigiana: “Ho corso
un bel rischio oggi a rubarlo! Penso che quando Ercole tolse la cintura
a Ippolita non rischiò altrettanto” (199 sgg.), in Le commedie, cit., p.
448.
20. Cfr. FEuripide: “Oh ragazza, nata da Étere, che l’umanità chiama
Zeus” (Nauck, frammento 869).
21. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 104.
22. Îl fallimento metafisico del mitico Eracle appare con molta chiarez-
za nell’interpretazione di Hegel. Cfr. Hegel, Estetica, p. 910.
23. Tutte je citazioni delle Trachinie sono nella traduzione di Giuseppi-
na Lombardo Radice, in Sofocle, Le tragedie, Torino, Einaudi, 1967.
24, Luciano si è evidentemente ricordato di Eracle servo e prigioniero.
Quando KEracle chiede un posto più onorato al banchetto degli dèi, A-
sclepio risponde bruscamente: “Îo almeno non fui servo come te, non
filai lana in Lidìa, vestito di porpora e battuto da Onfale col sandalo
ricamato d’oro; io non mai venni in tanto furore da uccidere figlioli e
moglie”’. “Dialoghi degli dèi”, XII, in! dialoghi e gli epigrammi, cit., p.
78.
25. L’‘Io sono un nulla, nemmeno buono di trascinarmi un passo solo”’
regge al confronto con il “É niente è, se non quello che non è” di Mac-
beth (1, 3, 141).
26. Euripide, Eletîtra, trad. di Carlo Diano, in Îl teatro greco. Tutte le
tragedie, cit.
27. Gilbert Murray, Greek Studies, Oxford, Clarendon Press, 1946, p.
126.
28. Racine scrisse le sue note sulla traduzione latina del filologo tedesco
Joachim Camerarius. Paul Estienne le pubblicò nel commento alla pro-
pria edizione di Sofocle (1803). La copia di Camerarius già appartenuta
a Racine è ora nella biblioteca di Tolosa. Cfr. Racine, Thédtre complet,
a cura di Maurice Rat, Parigi, GClassiques Garnier, 1960, p. 723.

207
Divorare gli dei

29. Luciano in “Del ballo” (50) cita tra le danze dell’Etolia, che sicura-
mente dovevano essere delle specie di pantomime, “la lotta del fiume e
di Eracle”, in ] dialoghi e gli epigrammi, cit. p. 447.
30. Éra un ruscello pietroso che apparve all’improvviso, sgorgando dal
versante occidentale del monte Eta di Zeus. Îl nome del centauro Nesso
significava letteralmente “il ruggito del torrente rabbioso” (Jebb, The
Trachiniae, Cambridge 1892, commento al verso 557).
31. Cfr. Herbert Musurillo, The Light and the Darkness: Studies in the
Dramatic Poetry of Sophocles, Leida, Brill, 1967: “Man mano che il sole
divien caldo nel cielo, il fiocco di lana si disintegra in una sorta di polve-
re farinosa; ma poi, quando esso è del tutto scomparso, dalla terra nuda
scaturiscono 1 grumi spumosi simili a sangue che tanto spaventano Deia-
nira (701 sgg.). În Eschilo (Coefore, 69-70), il sangue sul terreno che
non sì lascia assorbire indica un atto sanguinoso non ancora vendicato.
Qui i granelli di sangue che la terra trasuda rappresentano la morte in-
vendicata dell’infido Nesso; sono un segno dell’oracolo che Eracle rice-
vette un giorno da Zeus, secondo il quale sarebbe emerso dall’Ade un
potere per distruggerlo. Cosi il sangue gorgogliante diventa per Deianira
un presagio oracolistico, anche se lei non può comprénderne tutto il si-
gnificato”* (p. 72).
32. Roman Jakobson e Morris Halle, Fundamentals of Language, L’Aia,
Mouton, 1956. Soprattutto il capitolo “Two Aspects of Language”.
33. Sono versi quasi intraducibili. Musurillo (The Light and the Dar-
kness) traduce: ‘“Lascia che egli venga, il sommamente desiderato, addol-
cito dall’azione dello stratagemma della bestia”. E Jebb (The Complete
‘Plays of Sophocles, New York, Bantam Books, 1967): “Di li egli possa
venire, pieno di desiderio, impregnato d’amore dallo specioso artificio della
tunica, sulla quale Persuasione ha speso il suo sovrano incantesimo”.
04. Georges Méautis, in Sophocle, è stato il primo, nel capitolo sulle
Trachinie, a ricordare questi versi famosi: la Venere “iout entière è sa
protie attachée” di Racine è quasi una trascrizione letterale dell’immagine
euripidea “[...} vi si era inzuppata l’idra, orribile e mostruosa”. Nella
Fedra di Racine si possono trovare molti versi sorprendentemente simili
a quelli delle Trachinie, ma la dipendenza non è solo a livello di testo.
E’ nella sua ‘“struttura profonda” che Fedra sembra più vicina alle Tra-
chinie che all’Ippolito di Euripide. All’inizio del primo stasimo, il coro
parla del dio-sole. Eracle, sul piano teologico come su quello strutturale,
è dilaniato tra l’idra e Zeus, tra il cielo e le potenze ctonie, come la
Fedra raciniana, “la_fille de Minos etf de Pasiphaé”, è contesa tra una
nera Venere e il dio sole. Questa corrispondenza sembra sia passata sino-

208
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

ra inosservata: la somiglianza strutturale tra Le trachinie e Fedra attende


ancora il suo Barthes per ulteriori indagini.
35. Camus, Îl mito di Sisifo, p. 173.
36. In Macbeth le predizioni che Macbeth non morirà per mano di uo-
mo nato da donna e che regnerà “finché il bosco di Bimam non avanzi
su Dunsinane” (V, 5, 44-5) si avverano, ma con un cambiamento di cli-
ma, dal ‘“sovrannaturale”” al “realistico’”. Îl mondo è tornato al suo ordi-
ne naturale e legale. Un erede del re assassinato diventa il nuovo unto
del Signore: “{vi] invitiamo a vederci incoronare a Scone” (V, 8, 75).
37. Letteralmente: ‘“quale splendore, tutto diventa logico”. Ezra Pound,
Women of Trachis, New York, New Directions, :1957. Nel commento a
questo verso Pound scrive: “E”’ questa la frase chiave per la quale la tra-
gedia esiste’’. I] “tauta oun epeide lampra sumbanei” di Sofocleè tradot-
to letteralmente da Michael Jameson (The Complete Greek Tragedies,
Sophocles II, Chicago, University of Chicago Press, 1957): “Poiché tutto
questo così chiaramente s’avvera”. {E da G. Lombardo Radice: ‘“Se, co-
me par chiaro, sì saldano con l’oggi, oggi s’inverano le voci”.] La versio-
ne poundiana delle Trachinie sembra a volte, nel tono, più vicina a Wa-
gner che a Sofocle. Ma molti brani sono tradotti con brillante intuito e
Sofocle suona finalmente in inglese come grande poesia. Per esempio
questo verso quasi intraducibile [1259 sgg. Lombardo Radice: “E metti
alla mia bocca morso d’acciaio saldato di pietra”]: “And put some ce-
ment in your face, reinforced concrete...° [Letteralmente: “E metti sul
viso un po' di cemento, cemento armato”.] |
38. Gerhard Nebel in Weltangst und Gòtterzorn. Citato in Jean-Marie
Domenach, Le retour du tragique, Parigi, Seuil, 1967. '
39. The Portable Nietzsche, trad. ingl. di Walter Kaufmann, New York,
Viking, 1954, p. 299.
40. Cfr. Walter Kaufmann, ngedy and Philosophy, New York, Double-
day, 1968, p. 226.
41. Le odi di Pindaro, cit., p. 370.
42. Eracle strilla come una ragazza: “Pietà di me, cui già si volse pietà
di molti, ché con alte srida piango come una fancmlla” (1070 sgg.). Ma
Tole non piange mai e anche Deianiraè più dura di lui. Cfr. Leo Aylen,
Greek Tragedy and Modern World,. Londra, Methuen, 1964, p. 90:
“Deianira ed Eracle sono lo stesso attore. La sventatezza femminile e
l’arroganza maschile finiscono. per diventare una cosa sola. L’uomo bru-
tale è amato, proprio per la sua brutalità, dalla donna di cuore tenero.
Così vanno le cose. Ma Deianira affronta la sventura con silenzioso co-
raggio, Eracle con lacrime femminee.É’ un altro paradosso che ciì viene

209
Divorare gli dei

presentato, anche se non siamo in grado di parafrasarlo”.


43. Almeno in tre delle tragedie rimasteci sembra degno di considerazio-
ne lo speciale rapporto tra due personaggi interpretati dal medesimo at-
tore: Deianira-Eracle, Antigone-Tiresia e Penteo-Agave. Sulla stessa ma-
schera portata da due attori diversi: vedi al eapitolo “Alcesti velata”,
sottocapitolo 3, e nota 38. '
44. Cfr. John Jones, On Aristotle and Greek Tragedy, p. 175: “Ii fatto
che Sofocle colga senza forzature l’hic et nunc umano nel tono dell’Orsa
la stacca dall’immagine stellare ben nota della trascendenza [...] e nello
stesso tempo distinguiamo il ruotare dell’Orsa dalla classica ruota della
fortuna, a causa della sostanziale banalità di quest’ultima (la ruota è solo
uno schema grafico dell’alternarsi tra prosperità e avversità constatate
nelle vicende umane) e del fatto che la ruota si muove su un asse per-
pendicolare: la prosperità che sta in alto si oppone antiteticamente alla
avversità che sta in basso — di qui la lunga e stretta associazione della
ruota con la tradizione della caduta dei principi nella teoria e nella prati-
ca tragica. L’Orsa è invece una realtà che tutti possiamo vedere in cielo,
un potere vivente come lo erano per i greci tutte le stelle, che contri-
buisce attivamente all’avvento delle stagioni invece di limitarsi ad andare
e venire con loro [...]”
45. L’idra era un drago acquatico, simile al Leviatano della Bibbia:
“Potrai tirar fuori il Leviatano con l’amo o premergli la lingua con una
corda? Potrai infilargli una fune nel naso o forargli le mascelle con un
uncino? ” (Giobbe, 41, 1-2). L’idra di Lerna era un mostro d’acqua dol-
ce. Viveva nei pressi di Lerna, non lontano da Argo, dove esistevano va-
ste paludi. Aveva centinaia di teste. “La cagna dalle mille teste insaziabi-
le di stragi bruciò, l’idra di Lerna” (Euripide, Eracle, trad. di Alceste
Angelini, Torino, Einaudi, 1965).
46. Thus Spoke Zarathustra in The Portable Nietzsche cit., p. 278.
47. Chi pronunci l’ultimo anapesto è da tempo oggetto di discussione
tra i curatori delle Trachinie. Cfr. il commento di Jebhb a questi versi e
quello, più recente, di Musurillo (p. 79). La logica drammatica e la ma-
niera in cui si chiudona altre tragedie sofoclee impongono di attribuire
questi versi alla coriìfea. Sono sorprendentemente simili all’ultimo mes-
saggio di Orazio: “E sentirete allora di atti carnali, sanguinosi e snatura-
ti; di castighi temerari e di uccisioni casuali; e di altre, preparate d’astu-
zia o per necessità [...]” (Amleto, V, 2, 372-3). Altro motivo di discus-
sione è a chi siano dirette le ultime parole. Alle donne del coro? O a
Tole? La muta Îole è il personaggio più tragico dell’opera e la coda del
dramma è nella sua presenza al corteo funebre.

210
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

48. Nell’Hercules QOetaeus di Seneca, lole non è un personaggio muto:


parla, ma la tensione viene immediatamente distrutta e tutto d’un tratto
s’appiattisce.
49. Arthur Rimbaud, Poeste, trad. di Gian Piero Bona, Torino, Kinaudi,
1973, p. 203.
SO0. Tutte le citazioni di Eracle nella trad. di Alceste Angelini, Torino,
Finaudi, 1965. '
S1. Murray, Greek Studies, p. 112: “Non voglio dire che ritengo l’Eracle
di Euripide una grandissima opera d’arte. Non lo penso. E’ sconnessa e
troppo intrisa di retorica convenzionale; ma per l’elevatezza assoluta del
tono tragico dell’ultimo atto, dopo il risveglio di Eracle [...] può reggere
al contfronto con qualunque dramma dell’antichità”. Kitto, Greek Tra-
gedy, p. 237: “E’ fuor di dubbio che si tratta dell’opera più potente di
questo genere che mai Euripide abbia seritto, e che l’ultima parte sia, in
maniera molto diversa, egualmente impressionante, ma qual è il significa-
to del dramma nel suo insieme? È’ un insieme? [{...] L’unità drammatica
manca. Tra i pericoli che corrono i familiari di Eracle [...] e la follia [...]
non c’è connessione ma giustapposizione e l’ultima scena [...] non ha
uno stretto legame causale con la precedente””. Soltanto William Arrow-
smith, nella sua meravigliosa introduzione (The Complete Greek Trage-
dies, Euripides II, Chicago, Chicago University Press, 1956), che è il pri-
mo tentativo di vedere in Eracle un’unità di struttura drammatica e di
propositi, coglie 1l perché l’opera sia stata spezzata in due parti stilistica-
mente differenti: “In tutta la tragedia, acquistando slancio per contrasto,
scorre il ritmo dei suoi termini minori: prima la disperazione, poi la spe-
ranza, poi ancora la disperazione, infine una tolleranza che va più in pro-
fondità di entrambe: vecchiaia e giovinezza, debolezza e forza, le due
antitesi sono risolte in una condizione che ne fa una cosa sola. Schemati-
ca, brillante, ferocemente incoerente, Eracle è una tragedia di grande po-
tenza e [...] il tour de force più strutturale del teatro greco” (p. 45). Ma
della prima parte serive: “[...] la convenzione è visibile ovunque. Îl per-
sonaggio è sostanzialmente statico e l’azione nel suo insieme manca di
movimento tragico. Sì tirano tutti i fili emotivi di una situazione melo-
drammatica [...] Se l’azione non è del tutto trita, è almeno consueta e
prevedibile, talmente prevedibile da poter essere considerata una parodia
di un vero movimento tragico” (p. 48). '
52. Léon Parmentier sostiene che Eracle è stato scritto nel 424 a.C.; Ar-
rowsmith propone una data più tarda: intorno al 418 a.C.
93. Tucidide, La guerra del Peloponneso, trad. di Luigi Annibaletto, Mi-
lano, Mondadori, 1952, vol. I, p. 234. '

211
Divorare gli dei

o4. Cfr. Aylen, Greek Tragedy and Modern World, p. 128: “Non è una
delle più grandi liriche di Euripide, ma sospetto che non fosse necessa-
rio. Era presumibilmente una grande esibizione mimica. Ciò dovrebbe
aver equilibrato l’opera nei punti che ai critici moderni paiono manche-
voli, e aver fatto capire che era la storia di un grande uomo. Leggendo
l’ode nel testo, rischiamo di non intenderne l’equilibrio”.
90. Su Prometeo ed Edipo come simboli della tragicità delle “cose uma-
ne”, cfr. Maria Janion, Edyp i Prometeusz, in “Dialog’’, Varsavia, n. 8,
1971, pp. 94-109.
o6. “Egli [dio] era buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per
nessuna cosa”. Platone, Timeo, 29, e 1 sg., in Opere complete, trad. di
Cesare Giarratano, cit., p. 377.
57. Cfr. Euripide, Melanippo: “Zeus? Chiè Zeus? Lo conosco solo per
sentito dire”” {Nauck, frammento 483).
.58. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 95: “{...] l’atroce triplicità
del destino di Edipo: lo stesso uomo che scioglie l’enigma della natura,
vale a dire della Sfinge bifronte, deve anche infrangere le più sacre leggi
naturali, come uccisore del padre e marito della madre”.
A Questo visionario verso su Edipo nella poesia Nell’incantevole azzur-
ro di Holderlin è stato citato e discusso da Heidegger in Introduzione
alla metafisica. André Green ne ha tratto il titolo del suo studio psicoa-
nalitico sul complesso di Edipo nella tragedia greca: Un oeil en trop,
Parigi, Editions de Minuit, 1969.
60. In Edipo a Colono egli dice: ‘““Mi rinfacci omicidi e nozze e lutti che
non avevo voluto, tu con la tua bocca. Glì dei cosi stabilirono [...}”
(962 sgg.). É ancora: “Purtroppo io caddi in questi mali come sì precipi-
ta in un baratro, trascinato dagli dèi”” (998). Trad. di ÈE. Cetrangolo,
in Il
teatro greco. Tutte le tragedie, cit.
61. Camus, Îl mito di Sisifo, cit., p. 162.
62. Nellintroduzione di Arrowsmrth p. 57 “[...] il coraggio con il qua-
le l’eroe affronta il proprio destino e afferma un ordine morale superiore
alla propria esperienza è tragico e significante quanto quello di Edipo”.
63. În IJppolito, Artemide dice a Ippolito morente: “{...] gli occhi dei
celesti non conoscono il pianto” (1396).
64. Cfr. vv. 2, 148 sgg., 344 sgg., 353 sgg., 696, 798 sgg.
65. André Green, Un oeil en trop, cit., p. 228: “Car le mythe d’Oedipe
est le mythe exemplaire, puisqu'il est celui qui lie la question du ‘qui
suis-je? ‘ avec celle du ’De qui le fils? De qui le père? “”
66. Tutte le citazioni da Filottete nella traduzione di Giuseppina Lom-
bardo Radice in Sofocle, Le tragedie, cit.

212
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

67. Herman Melville, Moby Dick.


68. Cfr. R.C. Jebb, The Philoctetes, Amsterdam 1966°, commento ai
vv. 2, 302, 800, 100, 1455.
69. Cfr. Eschilo, Agamennone, 283.
70. Cicerone, (Tuscolanae, 2, 10, 23):; “Quomodo fert apud eum Pro-
metheus dolorem, quem excipit ob furtum Lemnium? ”. Cfr. Kerényi,
Prometheus, New York, Pantheon, 1963, p. 80.
71. Cfr. Knox, Heroic Temper, p. 145.
72. Cfr. Jebb, The Philoctetes, cit., pp. XXXVIII sgg. Quale fosse esatta-
mente il culto praticato a Crise e chi fosse Crise che diede il suo nome
all’isola è ancora questione insoluta. Forse Crise era una figlia di Pallade
Atena, ed ebbe da Ares, dio della guerra, Flegia e Issione. La figlia di
Flegia, Coronide, ebbe poi Asclepio da Apollo, mentre dall’unione di Is-
sione con una nuvola foggiata in sembianza di Era, nacque, secondo una
delle versioni mitologiche, il centauro Chirone. Filottete, collegato miti-
camente a Chirone dalla sua insanabile ferita, viene guarito da Asclepio o
dai suoi due figli, rispettivamente medico e chirurgo della spedizione gre-
ca a Troia. In questa infrastruttura mitica c’è-posto anche per Neottole-
mo: che è, come Flegia, una figura anti-apollinea. Entrambi, in fondo,
diedero fuoco a un tempio di Apollo.
73. Cfr. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. di Paolo Ca-
ruso, Milano, Il Saggiatore, 1966.
74. Robert Graves, I miti greci, cit., pp. 855 sgg. Il luogo archetipo di
queste ferite alla gamba è piuttosto interessante. În The White Goddess,
ed. riv.;, New York, Farrar-Straus, 1966, lo stesso Graves scrive: “In qua-
le punto preciso del tallone o del piede sono stati feriti a morte Talo,
Bran, Achille, Mopso, Chirone e tutti gli altri? Ci mettono sulla strada
giusta i miti di Achille e di Llew Llaw. Quando Tetide prende per un
piede il piccolo Achille e lo immerge nel calderone dell’immortalità, ri-
mane asciutta, e quindi vulnerabile, la parte coperta dal pollice e dall in-
dice. Era presumibilmente la zona tra il tendine d’Achille e l’astragalo,
dove, come ho osservato nel mio King Jesus, veniva conficcato il chiodo
per fissare il piede del condannato alla crocefissione nel rituale che i ro-
mani avevano attinto dai cartaginesi cananei; poiché vittima della croci-
fissione era in origine il re sacro annuale” (pp. 317 sgg.).
75. Carl Kerényi, Prometheus, p. 122. È’ sorprendente che Kerényi, che
pure si è occupato a fondo degli dèi feriti e della ferita insanabilè di
Chirone, non abbia notato la somiglianza tra questo personaggio e Pro-
meteo.
76. Carl Kerényi, Asklepios, New York, Pantheon, 1959, p. 98.

213
Divorare gli dei

77. André Gide è stato forse il primo che ha visto nella ferita di Filotte-
te la chiave per la comprensione della tragedia. Îl suo adattamento di
Philoctète (Parigi, Gallimard, 1947), pubblicato per la prima volta dalla
“Revue blanche”, nel 1898, aveva come sottotitolo “Traité de l’immon-
de blessure’’, La ferita, isolando Filottete dalla gente, lo trasforma in ar-
tista. Sull’isola deserta i suoi gemiti diventano canti. “Mais depuis que je
ne m’en sers plus pour manifester ma souffrance, ma plainte est devenue
très belle, èà ce point que j’en suis consolé! ” (Ma da quando ho smesso
di servirmene per manifestare la mia sofferenza, il mio lamento è divenu-
to bellissimo, al punto che ne traggo consolazione! ), p. 159. Questo Fi-
lottete modernistico della fine. ottocento è un poeta disinteressato che
ha trovato nel degserto la bellezza, la saggezza e infine la propria intima
individualità, “Je m’exprime mieux depuis que je ne parle aux hommes.
Mon occupation, entre la chasse et le sommeil, est la pensée” (Mì espri-
mo meglio da quando nori parlo più con la gente. Tra la caccia e il son-
no, occupo il mio tempo pensando), p. 160. H Filottete di Gide conse-
gna spontaneamente l’arco e rimane solo sull’isola glaciale. Dal dramma
di Gide prende l’avvio un brillante saggio su Filottete, pubblicato da Ed-
mund Wilson nel volume La ferita e l’arco, trad. di Nemi dAgostmo,
Milano, Garzanti, 1973, 2 éd.: “Con Gide, arriviamo assai vicino a un
altro soprasenso, che anche Gide non sviluppa in pieno, ma che certo
viene in mente al lettore moderno: l’idea che genio e malattia, come for-
za e invalidità, possono essere inestricabilmente fusi insieme”” (p. 312).
Le. idee di Wilson sulla mailattia come fonte di forza morale e sull’inte-
resse di Sofocle per gli squilibri psicologici (“un Sofocle clinico”) sem-
brano interessanti, ma sembra gli sfugga il fatto che la ferita di Filottete
è mitica.
78. Cfr. Bernard M.W. Knox, “Euripidean Comedy”, cit., p. 75.
79. Scrive Nadezhda Mandelstam nelle sue memorie: “Tutti noi eravamo
presi dalla sensazione che non fosse più possibile tornare indietro, sensa-
zione dettata dalla nosira esperlenza del passato, dai nostri presentimenti
sul futuro e dalla nostra trance ipnotica nel presente. Sostengo che tutti
noi — specie se vivevamo nelle città — eravamo in uno stato simile a una
trance ipnotica. Ci avevano realmente convinti che eravamo entrati in
un’epoca nuova e -che non ci restava altra scelta se non la sottomissione
all’inevitabilità storica, che era comunque soltanto un sinonimo dei sogni
di quanti avevano sinora combattuto per la felicità umana. La propagan-
da per il determinismo storico ci aveva privati della nostra volonta e del-
la capacità di giudicare con la nostra testa {...}” (Hope Against Hope,
trad. di Max Hayward, New York, Atheneum, 1970, p. 44).

214
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

80. Tucidide, La guerra del Peloponneso, cit., vol. IL, p. 70.


81. Cfr. Knox, Heroic Temper, pp. 138-9: “Filottete ha vinto. La vo-
lontà eroica ottiene qui una vittoria che eclissa tutte quelle che abbiamo
visto nelle altre tragedie. L’ostinazione di un solo uomo ha sconfitto non
solo l’intero esercito greco, ma la profezia di Eleno e la volontà di Zeus,
che è il disegno della storia. È’-un momento straordinario nel teatro di
Dioniso, e noi sappiamo, dalle descrizioni rimasteci dei Filotteti di Eschi-
lo e di Euripide, che per il pubblico doveva anche essere stato assoluta-
mente inatteso, É’ un tour de force teatrale, ma appena ne sentiamo lo
choc ci rendiamo conto che la tragedìa non può finire cost. La vittoria
di Filottete è infatti una terribile disfatta. Egli andrà a casa, vittima an-
cora della mostruosa sofferenza della sua infermità, per marcire nell’ozio,
a Eta come a Lemno. Sappiamo inoltre che Troiaè caduta e che a Tr01a
in un modo o nell’altro dovrà pure andare”. Knox cita anche Kitto,
Form and Meaning in Drama, New York, Barnes & Noble, 1957: “E’ un
caso nel quale la storia non è filosofica come la. poesia: Troia è caduta”.
Stupisce che, per quasi tutti i critici, questo momento in cui la storia
rimane sospesa preceda un lieto fine determinato dall’intervento. di Era-
cle. Wilson (La ferita e l’arco) scrive per esempio: “Invece dì tirarsi il
reietto dalla propria parte, Neottolemo ha bandito anche se stesso, in un
momento in cui i greci hanno disperatamente bisogno sia del giovane che
dell’invalido. Eppure nell’esporre la propria causa al rischio cheè implici-
to nel riconoscimento di una affinità umana con il malato, nel rifiutarsi
di venir meno alla propria parola, egli spezza l’ostinazione d1 Filottete, e
cosi lo guarisce e lo libera, e nello stesso tempo salva le sorti della cam-
pagna”” (p. 318). Persino Knox, che pure definisce gli eroi tragici di So-
focle uomini “recalcitranti” e “non disposti a cooperare”’, ma costretti a
scegliere tra “sfida e perdita d’identità” e caparbiamente inflessibili sino
alla fine, serive: “E’ una tragedia che, per quanto siano drammatici e
dolorosi i suoi episodi, è destinata a un lieto fine [...] Nella vera tragedia
non può esistere il successo e noi in realtà non lo vogliamo: seguiamo il
fatale itinerario di un eroe condannato alla sconfitta dalla propria ostina-
zione, ma non vorremmo vederlo arrendersi. Quando guardiame Antigo-
ne, Aiace o Edipo, le nostre emozioni più profonde ci fanno sperare che
il compromesso offerto all’eroe non venga accettato; in Filottete sappia-
mo invece che in un modo o nell’altro dovranno farcela e ce la faranno”
(p. 118). Soltanto William W. Flint jr, The Use of Myth to Create Su-
spense in Extant Greek Tragedy, New York, Easkell, 1966, p. 16, defi-
nisce “l’unica soluzione umana” il ritorno in patria di Filottete con
Neottolemo; e Frye (Anatomia della critica, p. 276) sente che Filottete

215
Divorare gli dei

si chiude ‘“in un’atmosfera ambigua, difficile da definire””.


82. Cfr. Knox, Heroic Temper, pp. 121-2; e al capitolo “Aiace tre voìte
ingannato”, nota 39.
83. Kitto, Greek Tragedy, p. 299. Tipico della sua pia lettura di Sofocle
è anche questo giudizio su Filottete in Form and Meaning in Drama, p.
135: “L'’idea che Filottete si opponga alla volonta degli dèi comporta
comunque numerosi inconvenienti. ÙUno è che Filottete è personaggio
cosi totalmente simpatico che non ci è facile vederlo nelle vesti di oppo-
sitore degli dei che hanno bisogno di una lezione di modestia”’.
84. La piecola Miade, citata da Tzetze, Su Licofrone 1268: “Poi lo
splendido figlio dell’ardito Achille condusse la moglie di Ettore alle navi,
ma il figlio lo strappò al seno della nutrice dalla ricca chioma, lo prese
‘ per un piede e lo gettò da una torre”
85. ÉEcuba, trad. di F.M. Pontani, inIl teatro greco. Tutte le tragedie,
cit.
86. Eneide, trad. di Cesare Vivaldi, Torino, Edisco, s.a.
87. Cfr. Euripide, Oreste: “Neottolemo che crede di doverla sposare [Er-
mione] non l’avrà. È’ destino che egli muoia ucciso dalle spade dei delfi
quando un giorno egli verrà a chiedermi ragione della morte del padre
Achille” (1655 sgg.), trad. di Carlo Diano, in Îl teatro greco. Tutte le
tragedie, cit.
88. Knox, Heroic Temper,p. 133.
89, Ibid., p. 140, Cfr. anche “Le facce di Eracle””, nota 1.
90. Tucidide, La guerra del Peloponneso, cit., vol. IL, pp. 214-5.
91. Cfr. Jane Harrison, Prolegomena in the Study of Greek Religion,
Cambridge 1922, p. 345; e William Scott Ferguson, The Attic Orgeones,
in “Harvard Theological Review”, XXXVII, 2, 1944, p. 90: “Sofocle
[...] di cui era ben noto l’interesse per Asclepio — compose infatti un
peana in suo onore [...] — accolse il serpe nella propria.casa [...] È’ un
particolare prezioso che ci mostra l’idolo degli ateniesi, allora un anziano
signore affabile, sereno e dignitoso, immerso, sebbene lucidamente, nelle
contraddizioni etiche e religiose della sua grande epoca, nell’atto di offri-
re uova a un serpente sacro e di sacrificare galli ad Asclepio su un altare
domestico”. Di fatto sembra che il serpente sacro di Asclepio si nutrisse
soprattutto di topi. Cfr. anche Kerényi, Asklepios, pp. 102 sgg.: “I re-
perti di Vollgraff ci mostrano come i topi venivano dati ai serpenti che li
avrebbero divorati. Un esempio rivela con chiarezza che il topo poteva
anche essere attaccato per la coda”,
92. Knox, Heroic Temper, p. 141.
93. Ibid., p _ 142.

216
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”

94. Cfr. Luciano: “I celti danno a Eracle il nome di Ogmio in lingua


loro, e dipingono l’immagine di questo dio assai strana. Per essi è un
vecchione con la fronte calva, e tutto canuto negli altri capelli che gli
rimangono, la pelle rugosa, arsa e nera, come l’hanno i vecchi marinai”’
(“Diceria, o Ercole”’, in ] dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 755).

217
Divorare dio, o Le baccanti

Îl cadavere di Penteo, dilaniato sul monte Citerone da sua


madre, Agave, dalle sue sorellee dalle donne di Tebe, viene
ricomposto e portato in sceena da suo nonno Cadmo, ex re di
Tebe. Manca soltanto la testa. Poco tempo prima, Agave ha
danzato tenendola in mano. Poi la testa viene finalmente ac-
costata al corpo. I disiecta membra sono cosi riuniti. Dioniso,
che porta una maschera con un sorriso immoto, viene solleva-
to da una macchina in alto, sopra il tetto della scena. “Da
molto tempo Zeus, il mio padre, ha stabilito queste cose”
(1349)!. Cadmo e Agave vanno in esilio. Le baccanti recitano
la morale conclusiva: “E per le cose che erano inattese, il dio
ha trovato una via” (1391). Se ne vanno senza danzare, a ca-
po chino. Nell’arena deserta rimane soltanto il cadavere.
Î personaggi principali della tragedia di Furipide, Le baccanti,
sono Dioniso e Penteo, il dio e l’uomo, il re e lo straniero.
Sono venuto qui io, figlio di Zeus, in questa terra dei tebani,
io Dioniso, partorito un giorno dalla figlia di Cadmo
{...] . .
ho lasciato la mia forma divina, ho assunto una forma mor-
tale.
ì (Le baccanti, 1-2, 9-6)
Assunta la forma di un giovane, che sembra una ragazza per ì
capelli lunghi che gli cadono sulle spalle, Dioniso arriva a Tebe
dall’Asia con un seguito di donne che battono tamburi, danza-
no e cantano. Indossano fluenti pelli di cerbiatto e agitano i
sacri tirsi, Junghi bastoni intrecciati di edera e sormontati da

218
Divorare dio, o “Le baccanti”

pigne. Sulla scena si vede la tomba di Semele, la madre di


Dioniso: nel cortile davanti al palazzo reale ne sprigiona, gior-
no e notte, un fumo bianco. Nessun membro della famiglia
reale crede che Semele sia stata posseduta dal padre degli dòi
e gli abbia dato un figlio. La sospettano di aver avuto un
amante terreno. Per questo Dioniso ha fatto impazzire le don-
ne di Tebe, che ora hanno lasciato la città e sono fuggite sulle
montagne per celebrare il rituale dionisiaco: tutte quante, per-
sino le sorelle di Semele, Ino, Autonoe e Agave, madre di Pen-
teo.
La parte centrale della tragedia contiene due agoni simmetrici:
il re incontra due volte lo straniero. Penteo dice ai soldati di
trovargli 1l disturbatore della quiete e di portarglielo in catene.
Penteo — Intanto, io ti taglierò queste tue morbide ciocche.
Dioniso — I miei riccioli sono sacri: io li coltivo per il mio dio.
(Le baccanti, 492 sgg.)
Penteo ignora l’esistenza di un dio che ritiene sacri i capelli
lunghi e ordina alle donne diì danzare sulle montagne. A Tebe
non c’è mai stato un dio del genere.
[...]è arrivato qui uno straniero,
uno stregone, un incantatore, dalla ierra della Lidia,
con i riccioli biondi, e la chioma profumata,
con la faccia colore del vino, e le grazie di Afrodite negli
occhi:
passa con le ragazze i suoi giorni e le sue notti,
e le seduce, con l’aiuto dei suoi misteri gioiost.
(Le baccanti, 233 sgg.)
Penteo guarda lo straniero come uno sceriffo dell’Arizona cui
sì presentasse un barbuto guru che ha invaso la città con una
squadra di sbrindellate ragazze. Contrappone all’arroganza del
misticismo quella della ragione pragmatica, taglia le trecce allo
straniero e dà ordine che venga rinchiuso in una stalla. Il dio è
stato offeso. Il sacrilegio è stato commesso. Îl coro grida ven-
detta al cielo.

219
Divorare gli dei

Appena le baccanti hanno concluso la trenodia, trema la terra,


divampano fiamme dalla tomba di Semele e crolla un’intera
ala del palazzo reale. Il dio è emerso dalle tenebre alla luce. E'
tornato dalle sue donne. Che gli toccano le mani dalle quali
sono caduti i ceppi. È’ vivo.
Nel secondo agone, Penteo ha perso tutta la sua sicurezza. Lo
straniero lo ha intrappolato prima ancora di condurlo al luogo
dell’esecuzione. Penteo vuole vedere le donne sul Citerone.
Anche lui è stato liberato da Dioniso. “Tu non avevi la mente
sana, prima: ma adesso, invece, hai il senno che tu devi avere”
(947). Penteo è pronto a tutto.
Dioniso — lo stesso ti vestirò, entrando dentro le tue case.
Penteo — Con quale veste? con una veste femminile? la ver-
gogna mi prende.
(Le baccanti, 827 sgg.)
Ma la vergogna gli dà uno strano piacere. Indossa un vistoso
indumento fatto con una pelle di cerbiatto che gli arriva alle
caviglie. Sì mette in capo una parrucca di lunghe trecce bion-
de. Canta, danza in maniera convulsa e fa dondolare la testa
da una parte all’altra. Quando lo straniero gli accomoda la
parrucca, rabbrividisce per l’eecitazione: “Eeco: fammi bello
tu: siamo nelle tue mani” (932).
Dioniso conduce Penteo fuori Tebe, come vi aveva condotto
le donne. Arrivano sui pendii del Citerone e, poiché Penteo
ancora non riesce a vedere le baccanti, gli propone di arrampi-
carsi su un albero dove avrà una vista migliore. Dioniso piega
un alto abete fino a fargli toccare terra con la cima, ci mette
sopra Penteo e lo lascia poi andare con Penteo avvinghiato alla
cima. Il simbolismo sessuale di questa immagine è evidente.
Ma Penteo non si godrà a lungo lo spettacolo. Le donne in
delirio si sono già accorte della sua presenza. Non sarà dunque
uno spettatore, ma la vittima del sacramento. “E subito dan-
zerà tutta questa terra” (114). La danza sulla radura montana,
con il battito incessante dei cimbali e il gemito lacerante dei

220
Divorare dio, o “Le baccanti”

flauti frigi, porta queste donne all’estasi:


con la fame della carne viva
[...]
il dio dello strepito è la nostra guida, euòi!
(Le baccanti, 139, 141)
1ì culmine del rito dionisiaco è nelle Baccanti di Éuripide lo
sparagmos e l’omofagia, il fare a pezzi gli animali selvatici e il
consumare cruda la loro carne, ancora intiepidita dal sangue?”.
[...] ma quelle, con mani che non impugnano il ferro,
si gettarono sopra le vacche che pascolavano l’erba:
e potevi vedere una che stringeva nelle sue mani una giovenca
muggente
gonfia nelle mammelle, e la spezzava in due pezzi:
e altre che laceravano a brani le vitelle;
potevi vedere fianchi di buoi, zampe con lo zoccolo bifido,
gettati in alto e in basso; e pendevano sotto i rami degli abeti
e gocciolavano, luridi di sangue.
(Le baccanti, 735 sgg.)
Nella struttura drammatica delle Baccanti cì sono un prean-
nuncio, una preparazione e una prova generale dello sparag-
mos, dove lo stesso Penteo diventa 1il capro espiatorio. Le don-
ne, nella loro mistica frenesia, lo scambiano per un animale
nascosto tra i pini. Cercano di farlo scendere gettandogli pie-
tre, poi sradicano l’albero, tirandone con forza i rami. Agave
non riconosce il figlio neanche quando Penteo sì toglie la par-
rucca di trecce bionde. “E per prima la madre, come sacerdo-
tessa, incominciò lo strazio, e sì butta sopra di lui [...|”
(1114).
Questo racconto del messaggero, arrivato di corsa dalle mon-
tagne, si visualizza quando Cadmo porta in scena i dilaniati
frammenti del corpo di Penteo; ne segue la più crudele scena
di riconoscimento del teatro greco. Agave entra con una testa
tagliata e impalata su un tirso. Sono presenti tutti 1 personag-
gi. Sul tetto c’è Dioniso, un toro sorridente. Îl coro delle bac-

221
Divorare gli dei

canti, che poco prima danzava estatico e sì voltolava nell’or-


chestra per esaltare la vittoria di Dioniso, è ora immobile. Sol-
tanto Agave continua a danzare. Non è ancora uscita dalla sa-
cra estasi. E’ fiera della sua preda. Cieca com’è, crede d’aver
ucciso un leone e di portar seco la sua testa tagliata. Vuole
che il coro svolga il rituale dell’omofagia e consumi la carne
viva.
Agave — E ora, partecipa al banchetto!
Coro — A che cosa partecipo, sventurata?
(Le baccanti, 1184 sg.) 3
Il rituale ha comportato un figlicidio. Agave riconosce nella
testa del leone la testa di Penteo. Perché del leone? Risponde-
re a questa domanda significa cominciare ad affrontare l’inter-
pretazione sia del rituale sia della tragedia. Con il toro e il
serpente, il leone era uno dei tre emblemi di Dioniso. Ma per-
ché, nell’ora della sua agonia, si è voluto dare a Penteo un
emblema del dio?
Il parallelismo tra i due agoni delle Baccanti corrisponde alla
simmetria strutturale tra la prima e la seconda metà della tra-
gedia, ma è un curioso parallelismo e una curiosa simmetria,
in quanto indicano un fondamentale capovolgimento simboli-
co di situazione, ruolo e segno tra i due protagonisti, Dioniso
e Penteo*.
Hanno entrambi la stessa età. Sono figli di due sorelle. Hanno
in comune un nonno, Cadmo®. Davanti al giovane in armatu-
ra, fiero della propria virilità da poco raggiunta, sta il femmi-
neo straniero. Dioniso è sempre stato una divinità bisessuale.
Nel frammento di una perduta tragedia di Eschilo, il suo a-
spetto provoca stupore: “Da dove vieii, uomo-donna, e dov’è
la tua casa? Che significa il tuo abbigliamento? ” In Ovidio, e
poi in Seneca, ha il viso di una vergine. Penteo lo definisce un
effeminato, ma nella seconda metà si veste lui stesso da bac-
cante. Impara dallo straniero come sì muove una donna; an-
cheggia come un travestito. Contemporaneamente, anche lo

222
Divorare dio, o “Le baccanti”

straniero cambia. Non è più un ragazzo-fanciulla dolce e indi-


feso.
Penteo — E tu mi sembri un toro, tu che ci conduci, che cam-
mini davanti a noi;
e a te, nella tua testa, sono nate le corna:
ma tu eri una belva, tu, un giorno? tu che sei un toro, ades-
so?
Dioniso — E' il dio che ci accompagna f{...]
(Le baccanti, 920 sgg.)
Penteo vede nello straniero il toro divino. Anche il coro con-
stata la metamorfosi: ‘“si travesti con una veste femminile [...]
lui che ha avuto un toro come guida alla rovina” (1156 e
1159). Ora le baccanti chiedono l’apoteosi. È’ venuta l’ora del
dio visibile, visibile in tutti i suoi attributi. Viene preannuncia-
ta l’epifania: “E tu, manifestati in forma di toro, o di drago
dalle molte teste, o di leone fiammeggiante’”” (1016 sg.).
Dioniso arriva a Tebe come uno straniero; Penteo la lascia co-
me uno straniero. Voleva essere spettatore di una sacra orgia,
ma è Dioniso che alla fine diventa il grande voyeur. Îl re divi-
no ha gettato lo straniero nella stalla del palazzo, e ora lo
straniero, trasformato in dio, guarda il regale cadavere dall’alto
tetto della scena in tutta la sua gloria. Il persecutore diventail
perseguitato, il braccato diventa il giustiziere, e questi scambi
di ruolo sono paralleli. Penteo manda i suoi soldati, come una
muta dì cani, a rintracciare lo straniero. “Ci hai mandato a
caccia e abbiamo cacciato: ecco la preda: non l’abbiamo cer-
cata inutilmente; questa è una belva docile [...]” (435 sg.). Ma
è Penteo che viene braccato e dilaniato come una bestia da
una muta di donne: ‘“Beata preda” (1171). Il cacciatore è di-
venuto la belva.
Penteo si trasforma in capro espiatorio. Il capro espiatorio è
un surrogato che deve assomigliare a colui che sostituisce: in
un antico rituale, all’ariete condotto al sacrificio s’indoravano
le corna e s’appendeva al collo una ghirlanda. Îl capro espiato-

223
Divorare gli dei

rio è l’immagine di colui al quale viene sacrificato. Îl rituale è


una ripetizione del sacrificio divino. Penteo viene fatto a pezzi
perché anche l’altro è stato fatto a pezzi. Îl corpo di Penteo
viene ricomposto con i suoi frammenti dilaniati, perché erano
stati ricongiunti anche i frammenti smembrati dell’altro. “Da
molto tempo Zeus, mio padre, ha stabilito queste cose”.

2.

I resoconti dei miti dionisiaciì, qualunque siano le'fonti, 1 ca-


ratteri e le date, s’assomigliano in maniera sorprendente. È in
ogni occasione viene descritto lo stesso evento. Cambiano sol-
tanto i nomi degli antagonisti e dei luoghi.
Zeus, o Persefone per suo ordine, fa allevare il neonato Dioni-
so da Atamante, re di Orcomeno, e da sua moglie Ino, sorella
di Semele, Autonoe e Agave. Era punisce la coppia regale fà-
cendola impazzire; essi uccidono cosi il figlio scambiandolo
per un cervo. Quando Dioniso arriva in Tracia, dopo un lungo
viaggio iniziato sul mitico monte Nisa (““albero”) e con tappe
successive a Creta, in Egitto e in India, re Licurgo gli si oppo-
ne. È Dioniso gli fa perdere la ragione: secondo una versione,
Licurgo scambia il ' proprio figlio per un arbusto e lo abbatte
con una scure. Per questo delitto, viene poi portato sulle mon-
tagne e. squartato da cavalli selvatici. Dopo di che, a Orcome-
no, quando vi torna Dioniso, le tre figlie del re si rifiutano di
partecipare aì misteri. Le ha invitate personalmente Dioniso,
travestito da ragazza. Adirato, egli si trasforma allora in leone,
in tòro, in pantera. Le sorelle impazziscono: la maggiore fa a
pezzi il proprio figlio e tutte tre insieme se lo mangiano. Ver-
so la fine del viaggio, ad Argo, quando 1il re non vuol credere
alle sue origini divine, Dioniso fa impazzire tutte le donne del-
la città, che fanno a pezzi i propri figli e se li mangiano cru-
diÉ.

224
Divorare dio, o “Le baccanti”

Se sovrapponiamo tutte queste storie come sagome ritaglate,


ne emergono alcuni elementi comuni. È precisamente: la fol-
lia, o frenesia divina, provocata in genere da Dioniso; l’assassi-
nio di un figlio, solitamente maschio; l’assassinio che avviene
facendolo a pezzi (sparagmos) ed è collegato al mangiare le
carni della vittima (il coro delle Baccanti esalta “la fame della
carne viva”); il figlio dilaniato e divorato dalla madre. Questo
schema, nellàa sua nuda struttura, non è un mito e neanche

come si è spesso affermato — un raggruppamento di leggende
del periodo in eui ci si opponeva all’invasione del culto dioni-
siaco. E° un’immagine di uno stesso rituale, che ripete e com-
memora avvenimenti accaduti, per citare Mircea Eliade, “all’
inizio dei tempi, in illo tempore”. Come ha seritto Dodds:
‘“La storia indubbiamente si ripete, ma è solo il rituale che si
ripete esattamente’”’. L’offerta sacrale è la ripetizione del pri-
mo sacrificio. Esso ci viene raccontato nell’ur-mito, nel mito
dionisiaco originario, con il quale sono collegati altri due miti
“jindirettì’”’, forse varianti del primo. Essi ci porteranno avanti
di un passo nell’interpretazione delle Baccanti.
1l primo è la storia di Atteone. Aveva visto Artemide bagnarsi
in un ruscello di montagna. La dea offesa lo trasformò in cer-
vo e gli scatenò contro i suoi stessi cani. Atteone s’arrampicò
su un albero, ma i cani lo raggiunsero e lo sbranarono. I cin-
quanta cani che — per intervento della dea — non riescono a
riconoscere il loro padrone sono come le donne impazzite di
Tebe che fanno a pezZ_ì il proprio re. Tre volte nelle Baccanti
FEuripide evoca la. storia di Atteone. “I cani infuriati”, serive
G.S. Kirk nel suo commento, ‘“vengono definiti carnivori o
mangiatori di cibo crudo, richiamando alla mente la fame di
carne viva”*; Atteone era figlio di Autonoe, sorella di Semele
e di Agave e quindi cugino primo di Dioniso e di Penteo. Tut-
to continua ad aecadere nella stessa famiglia: sono tutti e tre
nipoti di Cadmo, e Atteone è re come Penteo. Îl suo massacro
avviene nello stesso luogo, sul Citerone. È’ anche lui, come

225
Divorare gli dei

Penteo, un capro espiatorio. Anche in questo sparagmos la vit-


tima rituale è un giovane e il suo corpo viene dilaniato da una
donna?”. _
Agave — Dove è morto {Penteo]? Nella casa? In quale luo-
go?
Cadmo — Là dove i cani, un giorno, sbranarono Atteone.
(Le baccanti, 1290 sgg.)
Anche Orfeo viene ricordato nelle Baccanti. In tutte le leggen-
de, egli è collegato. a Dioniso, come suo profeta, originatore
del suo culto, iniziatore dei suoi misteri. È’ una delle figure di
Dioniso e il suo alter ego, come Giovanni Battista per Cristo.
“Orfeo”, seriveva Proclo, ‘“aveva una parte di capitale impor-
tanza nei riti dionisiaci e si dice abbia subito la medesima sor-
te del dio” '° . Orfeo viene fatto a pezzi dalle Menadi, istigate
da Dioniso. Gli dèi ne salvano soltanto il capo e la lira'!. E°
dunque lui pure un capro espiatorio: il surrogato che si fa as-
somigliare a colui che rappresenta. Anche il suo sparagmos
non è che una ripetizione del primo sacrificio, in illo tempore.
“1 sacerdoti orfici successivi, che indossavano costumi egizi”,
osserva Graves, “chiamavano Dioniso il dio di cui mangiavano
cruda la carne di toro”. Anche in questo culto, la comunione
rituale, il pasto del dio vivente, è collegato allo sparagmos.
Il mito dionisiaco fondamentale, presente con grande evidenza
nella tradizione orfica, narra la passione, la morte e la resurre-
zione del fanciullo divino. Îl figlio neonato di Zeus, chiamato
Dioniso o, secondo altre fonti, Zagreo, viene rapito dai Titani.
Cerca di sfuggire ai rapitori, o di confonderli, assumendo suc-
cessivamente la forma di un caprone, di un leone, di un ser-
pente, di una tigre e di un toro. Quando assume quest’ultimo
travestimento, i Titani lo fanno a pezzi e ne mangiano eruda
la carne. Zeus uccide allora i Titani con il fulmine e con le
ceneri che restano di quel fuoco vengono creati gli uomini.
Poi Atena e Rea salvano la testa di Dioniso, e i suoi frammen-
tiì smembrati, ì disiecta membra, vengono miracolosamente ri-

220
Divorare dio, o “Le baccanti”

congiunti; Dioniso risorge'’. In un frammento della perduta


tragedia Le cretesi, Euripide scrive: “Noi viviamo una vita pu-
ra da quando siamo stati iniziati ai misteri di Zeus e di Ida;
noi mesciamo libagioni in onore di Zagreo, che ama i riti not-
turni; noi partecipiamo ai banchetti d’omofagia accendendo
fiaccole sulle montag:rie‘ in omaggio alla Grande Madre”
(Nauck, frammento 475).
Il mito di: Dioniso è insieme genetico e cosmico. Î primi esseri
umani crebbero dalla terra come piante. 1 Titani erano imma-
gini di forze sotterranee (ctonie). Nell’interpretazione platoni-
ca e neoplatonica, il mito esprime la duplice natura dell’uomo.
L’uomo sorge dalle ceneri dei Titani. Ma i Titani, prima di es-
sere inceneritì, avevano mangiato Dioniso.
Di qui espressioni proverbiali come “la forza di un titano”,
‘“la natura titanica dell’uomo”. L’anima imprigionata nel cor-
po era, nella dottrina orfica e nel misticismo neoplatonico,
una sostanza dionisiaca sopravvissuta nelle ceneri dei Titani.
Dioniso risorto scese nell’Ade per liberare la madre morta, Se-
mele. Poi salf all’Olimpo con lei e fu ammesso a far parte de-
gli immortali. Semele divenne Persefone che, all’avvento dell’
inverno, scende nel mondo sotterraneo per poi lasciarlo verso
la fine della stagione e unirsi al primaverile Dioniso. Lo smem-
bramento e la riunificazione di Dioniso sono il mito cosmico
dell’eterno rinnovamento, della morte e della rinascita, del
caos e del cosmo. Plutarco, nel famoso trattato De E Delphi-
co, considera gli opposti contenuti in questo mito e il loro
significato quasi come un moderno antropologo strutturale: -
Basti udire i teologi che, in versi o in prosa, inneggiano e in-
segnano che il dio è si per natura incorruttibile ed eterno, ep-
pure è soggetto, in forza di una fatalità e di una legge inelut-
tabile, a trasformare se stesso; a volte arde in fuoco la sua es-
senza e assimila tra loro "tutte le cose; alire volte entra nel di-
venire, trasformandosi in forme…l d’ogni sorta, in condizioni e
potenze diverse — ed è l’attuale situazione — e allora si chia-

227
Divorare gli dei

ma ‘“mondo”, per usare il termine notissimo. Ma i saggi, per


nascondere alla folla il loro pensiero, dànno al fenomeno della
trasformazione in fuoco il nome di Apollo per la sua unicità e
il nome di Febo per la sua purezza e incorruttibilità; ma quan-
do il mutamento del dio trapassa in aria e acqua e terra e stel
le e nascita di piante e di animali, e si esprime in ordinamento
cosmico, i saggi parlano per enigmi di questo accadimento e
cambiamento come di un certo spasimo e smembramento; e
fanno i nomi di Dioniso, di Zagreo, di Nietelio e Isodaite per
esprimere questo divenire; e parlano di morti e sparizioni, e
poi di resurrezioni e rinascite; tutti veli e favole che celano la
suddetta trasformazione ® .
All’elenco degli dèi dionisiaci steso da Plutarco possiamo oggi
aggiungere molti nomi nuovi. Il mito nel quale gli inizi della
fertilità della natura e il suo rinnovamento sono collegati all°
avvento di un dio sulla terra, alla sua uccisione e resurrezione,
è tra ì più diffusi e persistenti; lo si ritrova in civiltà tra loro
assai remote come la mediterranea e la polinesiana, tra 1 maya
e tra i cannibali uitoto. “La creazione non può avvenire se
non partendo da un essere vivente che vitene immolato”, scrive
Eliade in termini assai simili a quelli di Plutarco. ““Quest’unico
essere sì trasforma in cosmo o rinasce, moltiplicato, nelle spe-
cie vegetali e nelle diverse razze umane. Una totalità vivente
esplode in frammenti e si disperde in una moltitudine di for-
me animate. In altre parole, ritroviamo qui il ben noto schema
cosmogonico della totalità primordiale, spezzata e frammenta-
ta dall’atto della creazione”.
Nella prospettiva antropologica, soprattutto dopo gli studi di
Jensen e di Eliade, si pòssono definire con estrema precisione
la struttura di questo mito e i suoi elementi comuni. Ddpo la
creazione, la fertilità viene soltanto da una nuova unione tra
cielo e terra. Ne nascono uno o più figli di dio padre. La ma-
dre è la terra, o una mortale che diventerà poi la Grande Ma-
dre. Il figlio di dio viene ucciso e fatto a pezzi, e il suo corpo

228
Divorare dio, o “Le baccanti”’

diviene cibo. Poi i suoi frammenti dispersì si riuniscono ed egli


risorge; visita il regno dei morti ed entra con sua madre in
paradiso. La ripetizione della passione e del sacrificio del figlio
di dio, nonché l’uccisione, lo smembramento e la consumazio-
ne del suo cadavere, garantiscono abbondanza, fertilità e rin-
novamento, e in religioni più spirituali una forma di partecipa-
zione alla storia sacra del mondo e una promessa di salvez-
zals.
La pianta commestibile non è data nella natura: è il prodotto
di un assassinio, perché cosi è stata creata agli albori dei tem-
pi {...] Il cannibalismo non è un comportamento “naturale”
dell’uomo primitivo [...] ma un comportamento culturale, ba-
sato su una visione religiosa della vita. Perché il mondo vegeta-
le possa perpetuarsi, l’uomo deve uccidere e farsi uccidere; de-
ve inoltre assumersi la sessualità sino ai limiti estremi dell’or-
gia. Lo proclama una canzone abissina: “Colei che non ha an-
cora generato, che generi; colui che non ha ancora ucciso, che
uccida! ” E’ un modo per dire che i due sessi sono condannati
ad assumersi il proprio destino'° .
În questi miti e in questi riti di sparagmos, sono sacerdotesse
le donne. Sono loro che fanno a pezzi ì corpi e ne divorano
crude le carni. La vittima sacrificale è sempre un maschio: un
bambino, un giovane, un ariete, un caprone o un toro.
Coro — Chi lo ha colpito per prima?
Agave — E° mia questa gloria.
Mi chiamano, nelle processioni, la beata Agave.
(Le baccanti, 1179 sgg.)
l cannibalismo sacrale trova nei miti dionisiaci la sua espres-
sione più crudele e drammatica. Nella cultura greca arcaica è
già presente il senso della tragedia: la madre uccide, dilania e
consuma il proprio figlio; il corpo del figlio è il corpo tormen-
tato di un dio, nutrimento terrestre e comunione.
Antropologi e psicoanalisti non hanno ancora dedicato atten-
zione sufficiente a questo che è il più nero dei rituali. L’omo-

229
Divorare gli dei

fagia del figlio da parte della madre assomiglia all’incesto, ma


ne è anche contemporaneamente il capovolgimento strutturale.
În un rapporto incestuoso con la madre, il figlio è il surrogato
del padre, e quindi l’uccisione sacrale del re padre è legata all
incesto sacrale. Nei simboli del rito dionisiaco non viene fatto
a pezzi il dio padre, ma il dio figlio; è l’annientamento della
genesi, il ritorno alle origini. La madre che sì ciba del figlio è
il capovolgimento del parto e dell’allattamento; è la negazione
della successione, poiché è il re figlio che viene mangiato; è la
negazione del tempo, poiché è un ritorno al punto da cuì tut-
to-è cominciato. Il figlicidio che è insieme regicidio e deicidio
è l’estremo eompletamento del ciclo. Il cosmo è ridivenuto
caos perché tutto possa ricominciare da capo. “Îl ritorno sim-
bolico al caos”, scerive Eliade, “è indispensabile a ogni nuova
creazione”’!° , La fertilità viene mortalmente ferita per potersi
rinnovare.
Beato chi ha la fortuna
di conoscere i misteri divini
e vive religiosamente
e si entusiasma nell’anima.
(Le baccanti, 73 sgg.)

3.

Lo sparagmos sacrale e lo strazio di Penteo avvengono, nelle


Baccanti, fuori scena e lo spettatore ne viene informato dai
messaggeri. Ma il coro delle baccanti è in scena dall’inizio alla
fine. Come in Eschilo, non si limita ad assistere agli eventi, ma
vi partecipa. È’ un coro di credenti, simile a una congregazio-
ne riunita per partecipare al sacrificio. È’ stato toccato dalla
mano del dio vivente che nell’epifania apparirà nella sua forma
animale. Îl coro invoca il suo avvento, esalta la sua gloria, la-
menta il suo imprigionamento, esulta quando viene abbattuto

230
Divorare dio, o “Le baccanti”

il suo avversario. Îl nome del dio viene ripetuto finché le voci


non s’arrochiscono e non si strozzano. Le nenie sono canti re--
ligiosi, straordinariamente simili, per i loro fervidi appelli all’
avvento del salvatore, alle profezie di Isaia e agli inni medioe-
vali cantati nelle chiese cristiane durante la settimana santa.
Iì coro canta nel primo stasimo:
O Tebe, tu che hai nutrito Semele,
incorònati di edera;
infiòrati, infibrati con il verde smilace
dai bei frutti;
festeggia i baccanali
con rami di quercia o di abete!
(Le baccanti, 105 sgg.)
Lo si confronti con Isaia (92, 1):
Risvégliati, risvégliati; rivèstiti della tua gloria, o Sion; rivèstiti
degli abiti della tua magnificenza, o Gerusalemme, città santa;
perciocché l’incirconciso e l’immondo non entreranno più in
te d’ara innanzi.
Baccanti:
[Beato chi] partecipa sopra è monti
alla purificazione bacchica;
e compie le orge di Cibele,
la Grande Madre,
e scuote alto il suo tirso,
e $’incorona con l’edera,
come servo di Dioniso.
(Le baccanti, 76 sgg.)
Il canto diventa danza. “Perché dovrei partecipare alla danza
sacra? ” grida il corifeo di Edipo re quando per un po’ sembra
che l’uomo possa essere più forte della maledizione degli dèi.
“Il mio cuore è una danza di paura”, cantano le Coefore
quando lo straniero versa le libagioni sulla tomba di Agamen-
none. “Quale danza danzerò per la morte? ” si chiede il coro
degli anziani di Tebe quando Eracle uccide moglie e figli. Dio-

231
Divorare gli dei

niso è un dio che entra nel corpo attraverso la danza. “Sì


propizio, o ispiratore della donna invasata! ” dice l’Inno ome-
rico a Dioniso. “Noi ti cantiamo prima iniziando e concluden-
do un’aria, e nessuno che ti dimentichi può ricordarsi di un
canto sacro”!7 .
Il coro delle baccanti della Lidia danza la follia con la quale
Dioniso ha colpito le donne di Tebe. Dioniso è una divinità
che si beve!® . Essere possedute significa essere possedute da
dio. La danza sacrale e il sacro eros sono preghiere del corpo.
‘“Un seguace di Bacco, con i suoi riti orgiastici, imita ìl dram-
ma patetico di Dioniso; un orfico, con il suo cerimoniale 1ni-
ziatico, ripete i gesti originali di Orfeo [...] Una danza imita
sempre un gesto archetipo o commemora un momento miti-
co”! .
Negli spirituals negri, dio viene esaltato in ritmi che sono il
segno e il simbolo del sesso. Cantori in cotta colorata lodano
il Signore con voci profonde. Agitano le braccia, saltano, bat-
tono le mani, gridano cento, mille volte, come se ancora non
potessero credere che dio è nato, che libererà gli eletti dalla
cattività, che è un dio vivente; che lo si può toecare, che è
cibo e bevanda. La gioia della buona notizia agita i corpi.
Gambe, mani, ventri, seni si mettono a danzare. Come quello
delle baccanti, il misticismo degli spirituals negri è fisico. Seri-
veva Luciano in Del ballo: “Chi assiste a una danza deve esse-
re in grado di comprendere il muto e udire il taciturno”. Più
avanti, nello stesso trattato, racconta di un principe barbaro
che, invitato a teatro da Nerone, disse al primo ballerino dopo
lo spettacolo: “Non sapevo che tu, o valentuomo, avessi un
corpo solo e molte anime’”’?° .
Nelle Baccanti il rito dionisiaco si svolge fuori scena. Il suo
medium è il corpo del coro. Anche il sacro ha la sua tecnolo-
gia. ‘“Per i primitivi come per i civilizzati”’, scrive Eliade, “la
vita religiosa determina, in una forma o nell’altra, una valoriz-
zazione. religiosa della sensibilità. Si può dire grosso modo che

232
Divorare dio, o “Le baccanti”

non esista esperienza religiosa senza l’intervento dei sensi


(...|°?* Artaud trasformò il “long, immense et raisonné dérè-
glement de tous les sens” di Rimbaud in un metodo: ‘“E’ at-
traverso la pelle che dobbiamo far rientrare la metafisica nella
nostra mente”.
La danza, ritmata dai tamburi e punteggiata dai gemiti dei
flauti e dai toni acuti dei pifferi, porta a un’esaltazione sacra.
Quando, al culmine della tragedia, il messaggero racconta del
corpo dilaniato di Penteo, la danza diventa spasmo. Le danze
della tribà uitoto, descritte da Eliade, “consistono nella reite-
razione di ogni evento mitico, e quindi anche del primo omiet-
dio seguito dal primo caso di antropofagia”. Îl eoro delle Bac-
canti, come in un rito iniziatico, scopre il tremendum, la “rì-
velazione quasi simultanea del sacro, della morte e della ses-
sualità”22 ,
Nessun’altra delle tragedie greche superstiti è permeata d’im-
magini religiose come Le baccanti. Un attimo prima dello spa-
ragmos, ì pendii del Citerone sgorgano latte e vino, scorre ac-
qua dalle rocce, colano fiumi di miele dai bastoncini ornati
d’alloro. Il culto di Dioniso si fuse con gli antichi riti agricoli
della morte e della resurrezione delle divinità della natura. Îl
Bacco romano era quasi esclusivamente il dio del vino, ma il
Dioniso greco incarna tutti ì fluidi vitali, acqua, latte, vino e
sperma. ‘“IÎl miracolo del vino a Cana era la medesima cosa del
miracolo nel. tempio di Dioniso, e ha un significato profondo
che, nel calice di Damasco, Cristo appaia sul trono circondato
da viticci come lo stesso Dioniso”?° . Il miracolo di Cana dio-
nisiaco sui pendii del Citerone avviene fuori scena, ma Le bac-
canti è una delle pochissime tragedie nelle quali un miracolo è
parte integrante dell’azione scenica. La terra trema, crolla un’
ala del palazzo reale, cadono i ceppi dalle mani di Dioniso.
Verrall e i razionalisti sostengono che il miracolo è un’illusio-
ne del coro. Interpreti successivi ritenevano che il teatro greco
fosse provvisto di macchine in grado di creare effetti spettaco-

233
Divorare gli dei

lari; questi ‘““irrazionalisti’’, educati dal teatro naturalistico ot-


tocentesco, credevano che solo cosi fosse possibile un miraco-
lo ‘“reale” e visibile. Sembra che Verrall, nonostante la sua
grettezza positivistica, fosse più vicino al vero. Su un palcosce-
nico nudo, greco o moderno, il tremito della terra lo sì rap-
presenta col tremito dei corpi. Non occorre la pirotecnica per
i miracoli dei misteri** .
Nelle Baccanti non viene messo in moto soltanto l’apparato
mitologico. In nessun’altra tragedia, tranne forse il Prometeo
di Eschilo, le immagini evocate sono cosf vicine agli archetipi
religiosi fondamentali. Quando Semele sta per partorire, Zeus
va a trovarla in una colonna di fuoco. Le fiamme distruggono
Semele, ma Dioniso viene salvato da Zeus che se lo cuce nella
coscia. “Io [...] partorito un giorno dalla figlia di Cadmo, da
Semele, che ebbe per levatrice la fiamma del lampo”, dice
Dioniso (3 sgg.). Nell’antropologia dei segni religiosi, essere
colpiti dal fulmine significa essere assurti tra gli eletti del dio,
attraverso una morte mistica e una promessa di resurrezio-
ne”°, L’ultimo evento soprannaturale evocato nelle Baccanti è
Dioniso che piega un altissimo pino:
E da quel momento, ormai, io vedo i miracoli dello straniero:
prese la cima, alta nel cielo, del ramo di un abete,
e la spingeva giù [...]
facendo cose che non sono l’opera d’un uomo;
colloca Penteo sopra le fronde dell’abete,
e lo lascia andare, via dalle sue mani, il ramo, in alto, diritto,
adagio, facendo attenzione, che quello non sia disarcionato
giù:
era diritto l’abete, nell’aria, diritto,
e teneva il mio padrone sospeso, sopra il suo dorso.
(Le baccanti, 1063-65, 1069-74)
Prima che si compia definitivamente il sacrificio, abbiamo il
solenne gestus liturgico dell’elevazione. Il volo di Penteo verso
il cielo è una levitazione estatica, simile a quelle che conoscia-

234
Divorare dio, o “Le baccanti’ :

mo dai racconti degli sciamani e dalle esperienze dei mistici


cristiani. L’imprigionamento di Dioniso nelle tenebre, la sua
morte simbolica preannunciano la morte reale di Penteo. E il
volo di Penteo verso il cielo prefigura a sua volta l’ascensione
finale di Dioniso.
1l corpo fatto a brani di Penteo viene rimesso assieme, come
erano state ricomposte le membra del corpo dilaniato di Dio-
niso. Agave, la sacerdotessa, ne tiene ancora in mano la testa.
Io sono felice:
grandi cose, grandi cose e luminose,
sono siate compiute, per questa nostra terra.
(Le baccanti, 1198 sgg.)
Nel teatro greco, la maschera è la persona; l’emblema rituale
indica il dio. Agave entra in scena correndo con una maschera
impalata su un tirso. La conoscenza dei teatri orientali — il n&
giapponese, l’opera cinese e il sacro teatro indà — può essere
importante per la comprensione della tragedia greca quanto i
reperti archeologici e la pittura vascolare. Sono tutti teatri di
segni simbolici.
Dai monti, in questé stanze,
riportiamo, beata preda,
l’edera tenera, appena tagliata.
(Le baccanti, 1169 sg.) 2°
Agave ha tolto la maschera dal tirso. Ancora ebbra, continua a
vedere in essa la testa di un animale ucciso. Accarezza la mor-
bida eriniera. Ma che specie di maschera è? Il viticcio, fissato
al tirso, simile a un arricciato germoglio d’edera, non è una
testa di leone, ma una parrucca di trecce lunghe. _ '
Nel primo agone, Penteo ha strappato la parrucca dalla testa
dello straniero. Quando si veste da baccante, si mette la stessa
parrucca di lunghi capelli biondi. È proprio lo straniero gli ac-
comoda un ricciolo andato fuori posto. Quando le Menadi fre-
netiche lo trascinano lontano dall’albero, egli cerca invano,
toghiendosi la parrucca, di farsi riconoscere dalla madre. Poi

235
Divorare gli dei

Agave entra con la parrucca legata al suo tirso in luogo delle


foglie d’alloro. Quando l’uomo-dio si trasforma, nell’epifania
finale, in un dio-animale, il suo emblema, la chioma di Dioni-
so, è sul corpo del suo surrogato al posto della testa. “I miei
riccioli sono sacri. Io li coltivo per il mio dio”. Le peregrina-
zioni della parrucca dalle lunghe trecce bionde costituiscono
probabilmente il più brillante impiego di un attrezzo scenico
in tutta la storia del teatro.
Nelle Baccanti, i segni rituali non compaiono solo nelle meta-
fore e al livello verbale del dramma, ma sono segni teatrali vi-
sibili. Il mito e il rito non sono soltanto topos e intreccio, ma
affondano in profondità le proprie radici nella struttura della
rappresentazione. L’uomo e il dio, il re e lo straniero, il surro-
gato e il modello si scambiano continuamente di ruolo; come
in uno schema della teoria combinatoria, si capovolgono l’uno
dopo l’altro tutti i segni e si esauriscono tutte le permutazio-
ni. Dei segni simbolici :delle Baccanti è tuttavia possibile dare
una duplice lettura, come se appartenessero a due differenti
sistemi, a due differenti linguaggi, a due diversi codici, e signi-
ficassero ogni volta qualcosa di diverso. Le icone rituali, l
“significante”’, hanno due “significati’’ separati, il sacro e il
profano. Segni che agiscono su due livelli differenti sono, per
esempio, la “divina’” parrucca di trecce bionde e l’albero che
porta Penteo: c’è in entrambi un doppio simbolismo, mistico
e sessuale. Nelle Baccanti coesistono dunque due strutture se-
parate e contraddittorie. Il cibarsi del dio, il rito della morte e
del rinnovamento, diventano alla fine la crudele uccisione di
un figlio a opera della madre. Il rituale si trasforma in delitto
rituale. Scriveva Brecht nel PBreviario di estetica teatrale:
““Quando si dice che il teatro ha la sua origine nel culto, si
dice appunto che divenne teatro per selezione; dei misteri non
si appropriò la missione culturale, ma 1l puro e semplice piace-
re che procuravano” ?.

236
Divorare dio, o “Le bàccanti”

4.

La liturgia cristiana è una ripetizione simbolica della nascita,


della vita, della passione, della morte e della resurrezione del
figlio di dio. In essa coesistono e si mescolano tre tipi di tem-
po: due sono “terrestri”’, il tempo circolare del calendario an-
nuale e quello lineare degli eventi storici; il terzo è cosmico o
“divino”. L’anno liturgico dispone gli avvenimenti della vita di
Cristo nel ciclo dell’anno solare. Cambia tutto: i salmi citati
nella messa, i brani della Scrittura letti nelle lezioni, il colore
della pianeta che porta il celebrante. La liturgia dell’avvento e
della settimana santa, soprattutto nelle chiese cattolica e orto-
dossa, comporta un aggiornamento, nell’accezione più ampia
del termine, della cronologia degli avvenimenti della storia sa-
cra. La vigilia di Natale e il venerdi santo, le ore terrene ripe-
tono ogni anno l’ora della natività e le tre dell’agonia.
Il canone della messa rimane immutato. EÈ’ la rappresentazione
o, come dicono i teologi, la “ri-creazione” di eventi svoltisi
nel tempo, ma fuori del tempo. L’offertorio, l’elevazione e la
consacrazione sono ogni volta la ripetizione del sacrificio del
figlio di dio e la transustanziazione del pane e del vino nel suo
corpo e nel suo sangue. “Cristo è in agonia sino alla fine del
mondo”, scriveva Pascal.
Nella messa, Cristo è presente nel tempo e fuori del tempo. E°
contemporaneamente 1il sacrificatore e il sacrificato. Pronuncia
in prima persona le parole in cui transustanzia se stesso, attra-
verso le labbra del prete: “Hoc est enim corpus meum”, “Hic
est enim calix sanguinis mei”. Questo mysterium fidei venne
formulato da Tertulliano nel suo preagostiniano credo quia ab-
surdum: “E il figlio di Dio è morto, cosa in cui si deve crede-
re perché è assurda. E dopo essere stato sepolto, risorse, cosa
che è certa perché è impossibile”. Jung, che cita Tertulliano,
mostra anche una delle strutture più universali del sacrificio
rituale:

237
Divorare gli dei

Il duplice aspeitto della messa trova espressione non solo nel


contrasto tra azione divina e umana, ma anche nel duplice a-
spetto di dio e dell’uomo-dio che, pur essendo per natura un’
unità, costituiscono iuttavia una dualità nel dramma nrituale.
Senza questa “dicotomia di dio”, se mi è lecito usare una si
mile espressione, l’intero atto sacrificale sarebbe inconcepibile
e privo di realtà°® .
In un rituale che è ri-creazione della morte e della risurrezione
di un dio, tempo cosmico e tempo storico si identificano. Il
surrogato e colui che è stato sostituito, il sacrificato e il sacri-
ficatore, il dio-uomo e il dio creatore, il figlio di dio e il dio
padre sono figure, situazioni, opposti di un’unica persona.
Credetemi che io sono nel Padre e che il Padre è in me; oppu-
re credetemi per queste opere [...] Fra un po’ di tempo, il
mondo non mi vedrà più, ma voi mi vedrete; perché io vivo, e
voi ancora vivrete.
- (Giovanni, 14, 11 e 19-20)
O.B. Hardison, nel suo eccellente studio ormai classico, Chri-
sttan Rite and Christian Drama in the Middle Ages, mostra il
rigoroso e astratto simbolismo della liturgia, visibile con parti-
colare chiarezza nella messa solenne romana del IX secolo. Il
lato destro e sinistro dell’altare, i livelli superiori e inferiori,
gli spazi chiusi e aperti sono segni simbolici. Come nei quadri
del giudizio finale (dove alla destra di dio gli angeli scendono
incontro ai salvati che sorgono dalle loro tombe, mentre a si-
nistra 1 diavoli spingono ì dannati negli abissi infernali), il lato
destro dell’altare è quello della salvezza — del paradiso, del
cielo, della grazia, degìi eletti e dei fedeli — il sinistro quello
della dannazione — del mondo temporale, della collera divina,
degli ebrei e dell’inferno. În questo “simbolismo posizionale
dello spazio liturgico”, come lo definisce. Hardison, i due pia-
ni, o “palcoscenici”, separati sono il presbiterio — “il piano
dell’eternità, dal quale Cristo, asceso al cielo, guarda dall’alto
l’umanità sofferente”” — e l’altare — “il piano o palcoscenico

2568
Divorare dio, o “Le baccanti”

della storia sul quale, in mezzo alla plebaglia di Gerusalemme


e fra i discepoli dolenti, il Cristo incarnato viene cerocifisso e
muore”.
A questo simbolismo dello spazio — strutturale nelle sue op-
posizioni significanti — corrisponde il simbolismo commutati-
vo (“proteico” lo chiama Hardison) delle persone e degli og-
getti, degli attori e delle cose necessarie nel rito della messa.
‘“Cristo emerge dall’eterno, muore e ascende al cielo nella figu-
ra del vescovo. Riemerge nella figura del celebrante. Alla fine
della messa, quando il vescovo si alza per dare la benedizione,
il celebrante è ancora avvolto in un mondo di là dal tempo. In
questa interpretazione, siamo vicini alle grandi astrazioni dell’
arte bizantina [...|°°°° , Insieme con l’ostia, croce e altare sono
icone liturgiche di Cristo, e l’altare è insieme la tomba e la
tavola dell’ultima cena. .
La passione, morte e resurrezione del figlio di dio è l’evento
centrale nel circolo chiuso del tempo cosmico, che inizia con
la genesi e si chiude con il giudizio finale. Nella messa, vengo-
no evocate prefigurazioni del sacrificio di Cristo, tra le quali,
con particolare chiarezza, il sacrificio di Îsacce, l’unico figlio
di Abramo, e quello dell’agnello nell’Esodo. “Nella liturgia del
venerdi-santo”, serive Hardison, “Cristo emerge come esempio
supremo di vittima divina, come l’agnello condotto al macello
della Pasqua originaria. L’agone delle settimane precedenti sfo-
cia, con rituale inevitabilità, in maltrattamenti, profanazioni,
tortura e distruzione, è l’incarnazione cristiana dello sparag-
mos della religione pagana”®®
Nell’Exultet, forse il più drammatico inno della chiesa latina
tra il VII e l’VIII secolo, e che ancorasi canta durante il Mat-
tutino, Cristo l’agnello, lo sparagmos e l’omofagia compaione
con straordinaria evidenza: “Perché questo è. il banchetto pa-
squale, nel quale venne ucciso il vero agnello e col suo sangue
sono consacrate le porte dei fedeli”. Cabasilas, arcivescovo di
Salonicco nella prima metà del XIV secolo, descrive lo stesso

239
Divorare gli dei

rito simbolico nella chiesa ortodossa greca:


Il prete taglia una fetta di pane, recitando la frase “Come un
agnello, egli venne condotto al macello”. Poi, posandola sulla
tavola, dice: “L’agnello di dio è stato trucidato”. Poi traccia
un segno della croce sul pane e conficca in esso una piccola
lancia dicendo: “E uno dei soldati con una lancia gli trafisse il
fianco e ne sgorgarono sangue e acqua”. Con queste parole, si
mescolano acqua e vino nel calice che viene posato accanto al
pane°! ,
Giovanni Crisostomo, morto nel 407, scrisse che nell’eucare-
stia Cristo beve il proprio sangue. Nel XVI secolo, la teoria
barocca della mattazione parlava della “carneficina mistica” di
Cristo sull’altare. La messa è una ripetizione e un rinnovamen-
to del sacrificio del figlio di dio, ma il rituale ‘“’massacro dell’
agnello” è simboleggiato nella liturgia solo dai gesti archetipi
dell’Offertorio. Il segno simbolico della morte di Cristo sulla
croce è l’elevazione e la consacrazione e anche, secondo un’al-
tra interpretazione, la fractio, cioè la divisione dell’ostia in tre
parti sopra il calice®? . '
Anche pane e vino, cioè le sostanze della transustanziazione,
hanno un loro simbolismo archetipo: incarnano infatti gli op-
posti della natura e della cultura, della morte e della vita, e il
loro superamento. La natura produce grano e vite, che devono
però essere coltivati. l chieco e il grappolo sono sostanze pu-
re, ‘“naturali”’, ma per diventare farina e succo d’uva bisogna
che prima vengano tagliati, spremuti da mani d’uomo e smem-
brati. Dopo di che farina e succo d’uva fermentano. Ma la fer-
mentazione è putrefazione, e quindi decomposizione e morte
naturale. È’ però anche un processo di coltivazione: farina e
succo — materie morte — acquistano vita, si trasformano in
cibo e bevanda*° .
Tl passaggio dal sacrum al profanum inizia con un cambiamen-
to di segni e di tempi. Il simbolismo profondo — archetipo e
strutturale, proteico e posizionale — si muta in segni letterali e

240
Divorare dio, a “Le baccanti’

rappresentativi. Îl tempo sacrale si attualizza in tempo terre-


stre. Nelle cerimonie che facevano parte della liturgia della set-
timana santa nell’VIII e nel IX secolo, Hardison sottolinea la
teatralità del rituale che precede l’inizio del primo dialogo del-
la passione. La congregazione entra in processione in chiesa
nelle prime ore del mattino di Pasqua; le luci sono state spen-
te e la chiesa è al buio. Hl diacono, invisibile dietro l’altare o il
battistero, accende la prima candela: Lumen Christi°*. Come
segno visibile della resurrezione, mostra ai fedeli il drappo fu-
nebre che copre il calice o il panno dell’altare, simboli del su-
dario rimasto nella tomba vuota dopo che Cristo è risorto. I
celebranti svolgono ognuno la propria parte. Il tempo è terre-
no: è l’ora dello sgomento e della speranza. Perché nasca il
dramma, bastano solo una domanda e una risposta.
Quem quaeritis in sepulchro, o Christocolae?
Ihesum Nazareneum crocifixum, o celicolae.
Non est hic, surrexit sicut ipse dixtt; ite nunciate quia surre-
xit°.
Dall’unione tra cerimonia e tropo, nacque il primo dramma
sulla resurrezione, Visitatio sepulchri, che fissò nelle linee ge-
nerali lo schema e la forma del teatro religioso medioevale.I
celebranti non hanno soltanto delle parti ma sono, grazie a es-
se, dei personaggi. I chierici in cotta bianca che cantano il pri-
mo versetto “Quem qguuaeritis...” sono gli angeli che montano
la guardia alla tomba; i tre chierici che rispondono sono le tre
Marie. Del rito della messa, che è una ripetizione del sacrificio
del figlio di dio e della comunione, è la resurrezione che viene
drammatizzata. Con il Quem quaeritis se ne trova anche il
simbolo terreno e spettacolare, la tomba vuota.
L’azione drammatica del dialogo è, come osserva Hardison, la
prova visibile. Nel più antico testo che ci sia rimasto, che risa-
le all’inizio del IX secolo, le tre Marie in visita alla tomba so-
no chiamate Christocolae, seguaci di Cristo. Due secoli dopo,
nel testo attribuito ad Aquilea, sono ‘“tremulae mulieres, in

24]
Divorare gli dei

hoc tumulo ‘plorantes”, donne spaventate che piangono davan-


ti a questa tomba. In questa Visitatio dell’XI secolo c’è una
motivazione psicologica: la liturgia viene calata sulla terra,
trasposta in una situazione totalmente umana: le Marie sono
divenute madriì piangenti.
Il dramma medioevale sulla resurrezione nacque con l’aggiunta
di nuovi episodi alla Visitatio sepulchri. Ora vengono alla tom-
ba anche due apostoli, Pietro e Giovanni. Le tre Marie annun-
ciano loro la buona novella e mostrano i lenzuoli funebri ab-
bandonati. Il mistero finisce con l’apparizione di Cristo ai pel-
legrini sulla strada di Emmaus e a Maria Maddalena nel giardi-
no. La tomba vuota non è più un segno sufficiente: per la
prima volta appare sulla scena l’uomo-dio risorto dalla tomba
ed è rappresentato da un attore.
Un nuovo episodio introdotto in un manoscritto di Ripoli del
X secolo sembra particolarmente importante nel processo della
trasformazione del rituale in teatro. Îl dramma comincia con
la visita delle tre Marie a uno speziale:
Andiamo a comprare mirra e unguento profumato cosi potre-
mo ungere il corpo datoci da seppellire.
Îl mercante replica:
Datemi retta, donne. Questo unguento, se lo volete comprare,
ha una straordinaria potenza, perché se con esso ungete un
corpo, esso non potrà più decomporsi oltre, né i vermi potran-
no mangiarlo. Ma se volete veramente questo unguento, dove-
te darmi un talento d’oro, perché se no non lo avrete”®
La crocifissione, il seppellimento e l’apparizione di Cristo a
Maria Maddalena avvengono simultaneamente mille anni fa a
Gerusalemme e hic et nunc, dav3…n*i:1 alla basilica mmamca di
San Gallo, sulla piazza della cattedrale di Praga e nei chiostri
dell’abbazia benedettina di Winchester. Il tempo storico nel
quale è stato trasposto il mistero della morte e della resurre-
zione del figlio di dio è anche il tempo moderno nel quale
avviene la rappresentazione. E per questo tempo anacronistico

242
Divorare dio, o “Le baccanti”

occorrono gesti, costumi, attrezzìi, scene.


I manoscritti miniati del medioevo mostrano le tre Marie in
visita alla bancarella dove il mercante, seduto dietro il banco,
pesa le spezie. În un dramma sulla resurrezione leggermente
posteriore, esse discutono con lui i prezzi della mirra, dell’aloe
è degli oli profumati. Il sacro si mescola al profano. ‘“In un’ot-
tica razionalistica’”, dice Hardison, ‘“il dramma medioevale è
un tessuto d’impossibilità cucite su un’assurda parodia d’in-
treccio e allestite con una bizzarra miscela d’improvvisazione e
di rozzo realismo”?? .
Le Visitationes sepulchri, come tutte le passioni, i cicli della
Natività, gli spettacoli del Corpus Domini, 1 misteri e i miraco-
li modellati sullo stesso schema, hanno conservato — direbbero
gli antropologi — una profonda struttura rituale. Essa venne
formulata, dal punto di vista della tragedia greca, da Gilbert
Murray nel suo famoso “Excursus’’°® ,
La metaforma rituale della tragedia sì conclude con la rinasci-
ta del dio-re, rinnovamento gioioso dell’alleanza tra cielo e ter-
ra.
Surrexit Dominus de sepulchro.
“Il tema della fertilità e della rinascita””, suggerisce Hardison,
“può essere considerato un analogo, anziché un equivalente
camuffato, dell’archetipo cristiano’’°° . Nel rito della messa, la
ricreazione della morte e della resurrezione termina con la co-
munione, cioè con il cibarsi del dio vivente, che è rinascita
spirituale e promessa di salvezza“°. Nei tre versetti del primo
testo di Quem quaeritis, c'è il medesimo passaggio da tristia a
gaudium; dal pathos della sofferenza, attraverso il momento
culminante del capovolgimento e del riconoscimento, sino alla
teofania e alla buona novella: “Egli non è qui, è risorto come
aveva detto, andate ad annunciare che è risorto”, Il dramma
della passione termina con un gioioso alleluia.
L’aggiornamento ingenuo, scoperto e spesso volgare del tempo
storico nel teatro religioso medioevale è straordinariamente si-

243
Divorare gli dei

mile all’aggiornamento del tempo cosmico nella liturgia. Il fi-


glio di dio nasce ogni notte di Natale. Muore ogni venerdi san-
to e risorge alla Pasqua di ogni anno. Il Mattutino di Pasqua
comincia con l’Exultet:
Questa è la notte in cui Cristo spezzò le catene dellà morte e
si levò vincitore dagli inferi,
la notte in cui le cose celesti si accoppiano a quelle della terra
e il divino all’umano*!.
La teofania del rituale e del dramma religioso è la medesima.
E’ il momento di mediazione tra cielo e terra in un cosmo
scisso. É’ il momento in cui tutte le corrispondenze diventano
la corrispondenza. È’ la riconciliazione tra dio, uomo e natura.

ò.

Nella sua famosa introduzione alle Baccanti, Dodds le ha defi-


nite una ‘“passione”’ dionisiaca. Le sofferenze del dio comin-
ciano quando viene catturato dai soldati di Penteo, ed è allora
che avviene il primo miracolo; le catene si staccano dai piedi
del prigioniero.
Penteo — Dove li hai imparati questi misteri che porti qui
nell’Ellade ?
Dioniso — Mi ha iniziato Dioniso, il figlio di Zeus.
(Le baccanti, 464 sgg.)
La legge e l’ordine dello stato si fondano su miracoli accaduti
in passato; ma quelli che avvengono nel presente sono la nega-
zione di qualsiasi ordine: L’avvento del dio vivente è un’offesa
alla ragione, un’offesa al re e una bestemmia. '
“Se tu sei il Cristo, diccelo”. Ma egli disse loro: “Se ve lo
dicessi, non mi credereste; e se vi facessi qualche domanda,
non rispondereste. Ma d’ora innanzi il figlio dell’uomo siederà
alla destra della potenza del Padre”. Ed essi tutti dissero: “Sei
tu dunque il figlio di dio? ”” Ed egli disse loro: “Voi dite che
lo sono”. (Luca,. 22, 67-70)

244
Divorare dio, o “Le baccanti”

I drammi rituali si ripetono. Nel primo agone delle Baccanti si


fanno le stesse domande e si dànno quasi le stesse risposte:
Penteo — Tu dici di averlo visto bene il dio; e com’era?
Dioniso — Come piacque a lui; non l’ho deciso io.
[...]
Penteo — Dov’è? Non si manifesta infatti ai miei occhi.
Dioniso — E? accanto a me: ma tu, che sei empio, non lo
vedi.
(Le baccanti, 476 sg., 500 sg.)
Per Penteo è Dioniso che bestemmia. Il dio, vivente è uno
scandalo pubblico e un sacrilegio. Per credere in un dio, biso-
gna vederlo, ma si può credere soltanto negli dèi che non si.
possono vedere. Dioniso viene imprigionato come bestemmia-
tore e corruttore. L’incarcerazione nelle tenebre è una morte
simbolica. A questo punto il coro inizia il suo lamento. Le
baccanti della Lidia stanno davanti al palazzo reale come le
tre Marie della Visitatio sepulchri, “le donne spaventate che
piangono davanti a questa tomba”. Invocano il dio in cielo
perché liberi il dio imprigionato sulla terra e punisca il suo
oppressore:
Le vedi tu queste cose, Dioniso, figlio di Zeus?
i tuoi ministri
lottano nella stretta del male.
Discendi qui dall’alto OQlimpo, o signore.
(Le baccanti, 550 sgg.)
Nelle Baccanti il segno simbolico della resurrezione del dio è
quello stesso di tutte le “passioni” medioevali: l’emergere dal
buio della tomba. La morte rituale e la resurrezione del diò
sono accompagnate dagli stessi segni archetipi: terremoto, e-
‘clisse e tuono“?. Secondo Luca, quando Cristo stava morendo,
‘“sìi fecero tenebre su tutta la terra, sino all’ora nona” (23,
44). Secondo Matteo, quando Cristo risorse da morte, “ci fu
un gran terremoto, perché un angelo del Signore, sceso dal
cielo, venne e fece rotolare la pietra del sepolero” (28, 2).

245
Divorare gli dei

Nell’antifona della messa del venerdi santo, il coro canta: “ILl


velo del tempio si strappò in due parti, si aprirono le tombe, e
la terra tremò perché il mondo gridava di non poter sopporta-
re la morte del figlio di dio”** .
Îl coro delle Baccanti non ha ancora concluso il suo lamento,
quando la scena viene scossa dalla voce tonante del dio:
“Scuotilo il suolo di questa terra, o terremoto santo! ” (5895).
È, come avviene nei drammi medioevali sulla resurrezione
quando Cristo si rivela a- Maria Maddalena e agli apostoli, cosi,
quando Dioniso si mostra alle dolenti donne di Lidia, esse lo
toccano per convincersi che sia vivo: “O donné barbare, per-
cosse dalla paura, voi siete cadute, cost, per terra? [...j Ma
via, alzate i vostri corpi! coraggio [...]|” (604 sgg.).
Nella prima parte delle Baccanti, quasi esattamente a metà del
testo‘* , si verificano i tre elementi della profonda “forma ri-
tuale” citate da Murray nel suo ‘“Excursus’: lo scontro tra il
dio e il suo antagonista terreno, la sofferenza e la morte sim-
bolica del dio, il capovolgimento culminante della situazione e
la gioiosa teofania. Il dramma passa da tristia a gaudium e fi-
nisce come un dramma medioevale: “Il Signore è risorto dalla
tomba”. Le baccanti gridano lo stesso alleluia: ‘“Già viene il
signore, il figlio di Zeus, a rovesciare questo palazzo” (602).
La teofania che chiude la prima parte della tragedia è ancora
un sacro rinnovamento dell’alleanza tra cielo e terra.
Coro — O. nostra somma luce dei misteri bacchici,
con quanta gioia io ti vedo, nel mio solitario abbandono!
(Le baccanti, 608 sg.)
Nel medioevo le tragedie di Euripide dovevano essere interpre-
tate come misteri e miracoli, dal momento che un poeta lati-
no del XII secolo utilizzò un frammento delle Baccanti per
descrivere il seppellimento di Cristo. Il testo delle Baccanti ci
è giunto in un manoscritto mutilo ed è solo grazie all’anonimo
poema Christus patiens che possiamo colmare una lacuna néll’
epilogo della tragedia:

246
Divorare dio, o “Le baccanti”

Vieni, vecchio, lasciaci mettere nel modo giusto la testa dell’


uomo tre volte sventurato e ricostruire l’intero corpo i più
armoniosamente possibile. O viso carissimo, o giovani guance,
guarda, con questa coperta ti nascondo il capo e gli arti segna-.
ti e sanguinolenti°®.
Îl corpo martoriato al quale il poeta medioevale paragona il
corpo di Cristo non è quello di Dioniso, ma dello smembrato
Penteo. Se la seconda parte della tragedia è una passione, lo è
di Penteo non di Dioniso. La morte e la resurrezione del dio
sono nelle Baccanti un segno simbolico, mentre sono reali lo
strazio e la morte dell’uomo. Lo sparagmos degli animali sui
pendii del Citerone è descritto come un rito e una liturgia. I
tori abbassano umilmente ia testa quando s’avvicinano le Me-
nadi per farli a pezzi. Ma Penteo disperato urla: ‘“Io sono tuo
figlio, madre, io sono Penteo! ” La passione e la morte di
Penteo sono volutamente presentate in tutto il loro brutale
realismo:
{...] e una portava un braccio
e un’altra un piede, insieme con il calzare:
e i suoi fianchi erano spogliati, così sbranati via:
e quelle, con le mani insanguinate, si palleggiavano la carne di
Penteo.
(Le baccanti, 1133 sgg.)
In un piede strappato insieme con la scarpa, non rimane più
nulla dell’offerta sacrale. Il rituale è divenuto macellazione.
“’L’agnello condotto alla carneficina” era una prefigurazione
del sacrificio di Cristo, ma ora questo simbolico agnello è un
uomo disperato. Dio stesso ha condotto la vittima nel luogo
del massacro e, con un immoto sorriso, ha assistito all’esecu-
zione. Euripide utilizza, con totale consapevolezza artistica, la
“forma profonda” del rituale e il suo proteico simbolismo
strutturale, ma solo per farcene prendere coscienza, per de-
nunciarla e per distruggerla.
In /figenia in Aulide, un’altra delle sue ultime tragedie, l’offer-

2477
Divorare gli dei

ta sacrale è presentata come un delitto politico. Nelle Baccan-


ti, il rituale della morte e della resurrezione del dio-anno,
eniautos-daimon, sì trasforma in omicidio rituale. Îl sostituto,
fatto a immagine e somiglianza del sostituito, deve morire nel-
lo stesso modo di colui che sostituisce. Penteo però non viene
trasformato simbolicamente in Dioniso; è stato soltanto deri-
soriamente travestito da baccante, con la parrucca di Dioniso
in testa. Dioniso è stato fatto a pezzi in illo tempore, nel tem-
po cosmico, ma lo smembramento di Penteo viene spostato
nel tempo storico ed è reso visibile in un violento primo pia-
no. Le sue membra fatte a brani vengono portate sulla- scena,
da Cadmo. Îl mito è stato tragicamente e ironicamente aggior-
nato.
T segni e la struttura del rituale sono capovolti. La seconda
metà delle Baccanti procede da gaudium a tristia. Quando il
messaggero racconta lo strazio di Penteo, il coro è al colmo
della gioia; l’avversario è stato finalmente sconfitto:
Celebriamo Bacco con le nostre danze:
celebriamo con le nostre grida la rovina di Penteo,
che nacque dal drago!
C (Le baccanti, 1153 sgg.)“®
Ma è l’ultimo gaudium delle PBaccanti. Quando Agave entra in
scena con la testa della vittima conficcata nel tirso, il coro ri-
mane senza parola. Agave stacca la testa dal tirso e con essa
danza come Salomè con la testa di Giovanni Battista. Poi la
offre al coro: “E ora partecipa al banchetto! ” Ma la comunione
non avviene. 1 segni simbolici dell’agnello e dell’ostia sono
una testa tagliata e i brandelli di un corpo umano. “A che
cosa partecipo, sventurata? ” {(1184 sg.).
L’incanto dionisiaco si è spezzato. Le baccanti si svegliano co-
me da un sonno ipnotico. Îl riconoscimento è tragico e dupli-
ce: Agave riconosce la testa di Penteo e il rituale dionisiaco
viene riconosciuto come omicidio. Sul tetto il dio ha fretta di
andarsene: ‘“Perché esitate di fronte a queste cose fatali? ” Ha

248
Divorare dio, o “Le baccanti’ ?

appena il tempo di condannare Agave e Cadmo all’esilio. I


frammenti dilaniati, del corpo di Penteo vengono ricomposti,
come un tempo i disiecta membra di Dioniso. Ma non ci sarà
resurrezione e nessuno canterà, come nella liturgia di Pasqua:
Alla cena dell’agnello,
avvolti in bianche vesti,
attraversato il mar Rosso,
cantiamo a Cristo Signore“’ .
Non c’è teofania nell’epilogo delle Baccanti. Cielo e terra sono
stati definitivamente separati e non ci sarà riconciliazione tra
uomo, natura e dio. Dioniso, sorridente e terribile sul tetto
della scena, ““il dio mutato in terribile leone” degli inni omeri-
ci, è al di sopra e al di sotto delle sorti umane. Tutti i segni
del rituale sono stati definitivamente capovolti“® . Dioniso, ve-
nuto a Tebe come lo straniero, è diventato soltanto ora, nella
sua epifania insieme divina e animale, il dio straniato. Cadmo
e Agave, la figlicida, sono ora stranieri. È straniere alla città
sono anche le frenetiche tebane che fuggirono sulle montagne
e fecero a pezzi il loro re. Le baccanti, venute a Tebe con
Dioniso dalla Lidia asiatica, se ne sono già andate. Erano stra-
niere sin dall’inizio. Ma è il corpo massacrato di Penteo, bef.
fardamente: coperto dalla parrucca di lunghe trecce bionde che
portava il dio al suo ingresso in Tebe, è questo corpo che è
soprattutto estraneo agli dèi e agli uomini.
‘“Morte non sarà più; morte, tu morirai”, scriveva Donne. Ci-
barsi degli dèi — il rituale dionisiaco e il rito della Pasqua — è
la vittoria della vita sulla morte, un trionfale banchetto di ri-
nascita, di fertilità e di abbondanza. Le baccanti si chiudono
con la sconfitta dell’ordine e della vita a opera della sterilità,
della negazione e della putrefazione. La teofania si trasforma
in antiteofania. Dio se n’è andato. Tebe è vuota. Rimane sol-
tanto il cadavere insepolto del re.

249
Divorare gli dei

6.

Penteo è il solo grande cadavere insepolto della tragedia greca.


Nelle Baccanti, scritte verso la fine del più grande ciclo di
drammi di tutti i tempi, ritorna il tema principale della trage-
dia greca — lo scontro tra sacro e. profano — pronto, se cosi si
può dire, per la soluzione finale. Prometeo ha tolto l’umanità
dalla fase animalesca donandole il fuoco e la cieca speranza:
“Soltanto l’animale è veramente innocente”, scriveva Hegel
all’inizio delle Lezioni sulla filosofia della storia. Îl profano —°
la rivolta e l’uscita dall’innocenza naturale — comportava,una.
cieca, persistente ed eroica speranza di trovare la teofania ek
la storia. Nei cicli drammatici di Eschilo, il tempo umano è
scritto nel tempo divino. Il percorrere il tappeto rosso trasfor-
ma il carnefice in vittima. Grazie a questo cambiamento, in
ogni generazione si attua sempre nella storia, sul medesimo
tappeto rosso, il piano divino. E il punto d’arrivo è Atene. ‘ Il
tempo, nel suo corso secolare, insegna ogni cosa”. Il sacro ha
cessato di essere cieca crudeltà; il profano, cieca rivolta. Sa-
crum e profanum sì sono riconciliati.
Le tragiche scelte di Antigone, Elettra ed Edipo avvengono nel
confronto tra sacro e profano. Il cadavere viene restituito alla
famiglia perché lo seppellisca, ma il corpo appartiene ancora
allo stato. Îl cadavere era un figlio, un marito e un fratello,
ma era anche un difensore o un traditore della sua città. Lo
stato vuol conservare la propria autorità anche sui cadaveri. Il
culto dell’eroe, l’abbandonare agli avvoltoi i cadaveri dei nemi-
ci, le esumazioni cerimoniose degli ex traditori tornati in gra-
zia sono tra i più antichi e permanenti privilegi dei governanti.
l potere si perpetua estendendo il proprio dominio al passato.
Il giudizio sui morti è l’usurpazione del sacro a opera del pro-
fano.
Nella filosofia hegeliana della storia e nella sua terminologia, il
sacrum e il profanum di Sofocle sono le ragioni particolari e

250
Divorare dio, o “Le baccanti”

la volontà di una comunità dilaniata da contraddizioni e da


doverì equipollenti nei confronti della famiglia e della polis.
Non esiste più l’universalità del dovere morale. Quando Anti-
gone viene condotta nel luogo dove dovrà morire d’inedia, le
strade di Tebe sono deserte. La sua fedeltà ai morti l’ha alie-
nata dalla comunità dei vivi. Nell’epilogo della tragedia, Creon-
te entra in scena con il cadavere del figlio tra le braccia. Tra
poco sua moglie si ucciderà. Gli argomenti della ragion pratica
lo hanno alienato da tutti i vincoli di sangue. La Tebe di Edi-
po e dei figli di Creonte è ora vuota come quella di re Penteo
al termine delle Baccanti. Ma sacro e profano conservano an-
cora validità e grandezza.
În una tragedia che si svolge dall’alba al tramonto, gli eroi di
Sofocle hanno sempre un’ora di preavviso, un’ora di dispera-
zione, un’ora di presa di coscienza e un’ora di scelta. În que-
sto groviglio inestricabile di contraddizioni, il sacro appare co-
me iun imperscrutabile piano cosmico al quale è ancorata la
vita umana. Ma il profano ha ancora il potere di dire di no.
L’uomo può rifiutarsi di accettare il mondo quando non val
più la pena viverci o guardarlo. Antigone s’impicca con la sua
cintura; Edipo — imputato, accusatore e giudice nel processo
intentato contro la condizione umana — fugge da Tebe dopo
essersi cavato gli occhi.
Agli eroi di Euripide, Eracle eccettuato, non sono concesse le
quattro ore della tragedia di Sofocle. Non hanno scelta. In Ip-
polito, Elettra, Medea, sacro e profano sono egualmente letali
e si distruggono a vicenda.. La scenografia di Ippolito consiste
di due statue di marmo — Artemide e Afrodite — ai due lati
della scena. Nel prologo sono entrambe inghirlandate di fiorì.
Ma quando le dee di marmo diventano personaggi, è chiaro
che, come scriveva Hegel, ‘“solo cosi acquistano un vero signi-
ficato quegli dèi che solo nell’Olimpo celeste della fantasia e
della rappresentazione religiosa regnano nella loro pacifica cal-
ma e unità, ma che quando vengono realmente a vita come

251
Divorare gli dei

ora, in quanto pathos determinato da um’individualità umana,


nonostante ogni legittimità, conducono alla colpa e al torto
mediante la loro particolarità determinata e la sua opposizione
contro altri”‘° , Medea, maga, e amante, personificazione dell°
eros nero, straniera a Corinto come le baccanti di Lidia a Te-
be, viene sollevata in aria dal tetto della scena esattamente co-
me Dioniso. In Medea il sacro ha ancora una sua sinistra gran-
dezza; il profano è sinistramente piatto.
Nelle Baccanti, dopo l’arrivo di Dioniso, tutte le donne fuggo-
no da Tebe. In Sofocle le donne rappresentano il sacro, l’e-
thos del dovere e della fedeltà ai morti. In Éuripide imperso-
nano il richiamo del sangue, la physis che insorge contro 1 vin-
coli del nomos, l’id in rivolta contro il superego. Le baccanti
sembrano fortemente permeate di erotismo. Ma uomini e don-
ne sono stati separati prima che inizi la tragedia. Il sesso è
sterile, come lo era nella Tebe di Edipo dopo l’incestuosa
unione del figlio con la madre. L’arrivo di Dioniso;, dio della
fertilità, è la distruzione della procreazione. Eros viene distor-
to nella Tebe della legge e dell’ordine come sui verdi pendii
del Citerone dove regna Dioniso. Eros represso ed eros libera-
to sono egualmente sterili. Eros è sempre sospetto in un siste-
ma tirannico. Îl tiranno puritano è un voyeur, per la sua “libi
dinosa spectandorum secretorum cupido”, come osservava
molto tempo fa un commentatore latino5° .
A Tebe tutte le forze vitali sì sono inaridite. Tiresia, esperto
in sofistica scolastica‘! , contrappone i cibi asciutti che offre
Demetra ai cibi liquidi di Dioniso. Cadmo e Tiresia — il pater-
familias e il prete — rappresentano la depravazione della vec-
chiaia, della filosofia e della religione. Due vecchi, uno cieco e
l’altro che cammina a stento, in lunghe vesti di pelli multico-
lori,si dimenano nella danza bacchica, agitando rami d’alloro
e d’abete. Cadmo, nel suo pragmatismo volgare, sostiene che
prova sufficiente della divinità di Dioniso è lo splendore che
avvolgerà l’intera sua famiglia, quando si saprà che sua figlia è

252
Divorare dio, o “Le baccanti”

la madre di un dio. Tiresia, in un aggiornamento tipicamente


euripideo dell’azione, è un sofista ateniese, che si umilia da-
vanti ai giovani, impaziente di novità e di eccitazioni metafi-
siche; e si sforza di persuadere se stesso e quanti gli stanno
attorno che il delirio è utile e salutare. Il vecchio zoppo ac-
compagna il cieco alle danze.
Cadmo — [...}] E io non sarò mai stanco, né di notte né di
giorno,
di battere la terra con il mio tirso:
è bello dimenticare di essere vecchi.
Tiresia — Ti senti come mi sento to, allora;
anch’io mi sento giovane e mi metterò a danzare.
(Le baccanti, 187 sgg.)
Dioniso promette spontaneità; il coro esalta 1l dio che permet-
te agli uomini di essere se stessi e insieme parte di un cosmo
in mutamento. Dioniso promette un paradiso immediato nel
quale si mescolano tutti i tempi — passato, presente e futuro
— e ‘“io0” e ‘“non io0”, uomò, natura e dio sono una sola cosa.
E’ un’apocalisse che William Blake conosceva bene:
L’apocalisse della Bibbia è un mondo nel quale si identificano
tutte le forze umane, come dice Blake alla fine di Jerusalem.
Ciò significa che tutte le forze vengono identificate come
umane. Città e giardini, sole, luna e stelle, fiumi e pietre, albe-
ri e corpi umani, sono tutti egualmente vivi, egualmente parte
di uno stesso corpo infinito che è insieme il corpo di Dio e
dell’uomo risorto. ‘“Ogni identità è eterna” perché “nell’eter-
nità una cosa non si muta mai in un’altra”°° .
La cosa più stupefacente delle Baccanti è la presentazione sil-
multanea di due apocalissi dionisiache. La prima è un ritorno
al paradiso perduto, dove latte e vino zampillano dalla terra e
il miele sporga dagli alberi** e tutti saranno di nuovo nudi e
innocenti.
{...] Altre
che avevano partorito da poco, e avevano lasciato i loro figli,

253
Divorare gli dei

e avevano le mammelle ancora gonfie, tenevano tra le braccia


un cerbiatto ,
o i cuccioli selvaggi dei lupi e gli davano il loro latte bianco;
e altre si ponevano in testa corone di edera,
di quercia e di smilace fiorito.
(Le baccanti, 698 sgg.)
La prima apocalisse dionisiaca sono “i verdi piaceri del prato”
(867). Per un po’, nella Tempesta, l’isola di Prospero appare a
Gonzalo un ritorno al paradiso perduto: “Oh, come l’erba ap-
pare fresca e rigogliosa! Come è verde! ” Ma su questa stessa
erba verde, un attimo dopo, si tenta un omicidio. La seconda
apocalisse dionisiaca è sempre mortale. Îl tirso, sormontato da
una pigna, simbolo del sesso e della fertilità, agitato dalle bac-
canti nella danza rituale, infligge ferite. I verdi pendii del Cite-
rone sono macchiati di sangue. Il secondo richiamo dì Dioniso
è un fremitodi morte. Penteo è indifeso di fronte alla tenta-
zione di un ritorno all’utero.
Dioniso — Quando tornerai, ti porteranno.
Penteo — Tu dici dolcezze per me.
Dioniso — Ti porteranno le mani di tua madre.
(Le baccanti, 968 sgg.)
Prima di soccombere alla pazzia incurabile, Nietzsche firmò le
sue ultime lettere leggibili “Dioniso” e “Il erocifisso”. Nel
gennaio 1889, vedendo un cocchiere picchiare un cavallo, si
precipitò ad abbracciare il cavallo. In seguito, recuperata per
breve tempo la ragione, inviò a un amico una lettera con una
sola frase: “Cantami una nuova canzone. Îl mondo è trasfigu-
rato e tutti i cieli sono pieni di gioia”5%. In questo grido di-
sperato di Nietzsche c’è una visione di quella stessa apocalisse
che le Menadi di Euripide avevano visto sul Citerone. Ma a
essa fece seguito l’altra apocalisse dionisiaca: l’omofagia, prima
degli animali, poi di un uomo. _
Andare in estasi per l’assoluto è un’esperienza pericolosa. 1
tamburi si dànno il cambio perché il corpo non interrompa
Divorare dio, o “Le baccanti”

neanche per un istante la sua danza bacchica. Ma le Ìecnologié


di tutti i misticismi sono sempre uguali; si paga l’intensifica-
zione di tutti i sensi con la perdita del controllo. Entrambi i
richiami dionisiaci erano ben noti agli eroi di Joseph Conrad:
“Segui un sogno e ancora segui un sogno [...] e cosi via [...]
ewig [...] usque ad finem [...1” e ‘“immergiti nell’elemento di-
struttivo [...|” l primo comando, per il quale Conrad ha do-
vuto servirsi di tre lingue, è la tentazione di Lord Jim; il se-
condo risuona nelle orecchie di Kurtz alla fine del Cuore di
tenebra. Dissolversi nel cosmo è un modo folle di affermare il
proprio io. Dioniso promette liberazione dall’alienazione e L-
bertà da ogni vincolo, ma concede soltanto una libertà supre-
ma, quella di uccidere. Le ragazze inghirlandate di fiori siì tra-
sformano in belle assassine ”..
Le baccanti vennero rappresentate per la prima volta ad Atene
alle Dionisie del 406 o del 405 a.C., dopo la morte di Euripi-
de. Al centro della prima fila di spettatori c’era il famoso tro-
no di Dioniso, il posto riservato al dio. In altri teatri, alle An-
testerie e per le Lenee, si appendeva la maschera del dio alle
colonne del proscenio ”‘ . Dioniso era uno spettatore delle Bac-
canti.
Jean Genet esige che a ogni rappresentazione dei Negri assista
almeno un bianco, uomo o donna. Questo spettatore, che in-
dossa ‘““un costume da cerimonia”, viene accolto con solennità
e fatto sedere ‘“di preferenza al centro della prima fila di pot-
trone. Si reciterà per lui”., Se non ci saranno spettatori bian-
chi, bisognerà distribuire maschere bianche al pubblico nero ©
portare in platea un manichino bianco. Nei Negri, come nelle
Baccanti, viene commesso fuori scena un delitto, che è poi re-
citato e danzato, estaticamente, sul palcoscenico da attori mu-
niti di maschere, in tutta la sua bellezza e crudeltà. I negn,
come Le baccanti, è un rituale nero. “Ma che cos’è un nero?
É tanto per cominciare, qual è il suo colore? °°
Per i registi che, quando devono mettere in scena Le baccanti,

200
Divorare gli dei

cercano rituali esistenti e inesistenti sui cinque continenti, po-


trebbe essere utile un esame dei Negri di Genet. In tutta la
storia del dramma, è il solo testo che abbia una struttura simi-
le a quella delle Baccanti: il rituale viene messo a nudo e di-
strutto attraverso la sua realizzazione sulla scena. Quei registi
che pensano, mettendo in scena Le baccanti, di poter dimenti-
care la disciplina della tragedia, dovrebbero riflettere con at-
tenzione su questa battuta dei Negri: “Tragedia greca è pudi-
ca, mia cara. Il gesto definitivo viene compiuto tra le
quinte’’ ?,
L’antico culto di Dioniso si era trasformato in banchetti popo-
lari e in festa ufficiale molto tempo prima di Euripide. În
qualche isola remota, in occasione delle feste dionisiache, veni-
va però ancora flagellato un ragazzo per commemorare l’antica
tradizione; alle Lenee si portavano in giro anfore di vino e
nell’Attica si svolgevano processioni falliche. Ma in Grecia il
culto di Dioniso aveva cessato da tempo di essere un’orgia sa-
cra. Ed Euripide non rimproverava a Dioniso — ormai salda-
mente accettato tra le divinità dell’Olimpo — il suo passato.
Le baccanti è stata scritta nel terzo decennio della guerra del
Peloponneso: meno di due anni dopo la sua prima rappresen-
tazione, Atene sarebbe caduta. La storia, come diceva il mio
vecchio maestro Jerzy Stempowski, era stata sguinzagliata. La
civiltà greca stava subendo il maggiore dei suoi sovvertimenti,
dal quale non si sarebbe mai del tutto riavuta. Le baccanti è
la tragedia della follia della Grecia, follia dei governanti e del
popolo”®. “Dolorosamente tu deliri: non c’è medicina nella
tua malattia: nella tua malattia c’è il veleno” (326 sgg.). In
questa occasione Tiresia, miserabile cieco, ha urlato la verità.
In Ifigenia in Aulide, scritta nello stesso periodo, viene fatta,
in termini più brutali, la medesima diagnosi:
Agamennone — La Grecia, insieme a te, è malata per l’opera
di un dio.
(Ifigenia in Aulide, 412 sg.)°°

200
Divorare dio, o “Le baccanti”

Nei periodi di follia, compaiono sempre dèi folli e profeti an-


cora più folli. All’epoca della guerra del Peloponneso arrivaro-
no dall’oriente dal sud e dal nord nuovi dèi arcani, che esige-
vano culti orgiastici e sacrifici di sangue: Attis, Sabazio e Ado-
ne, Bendis, Cibele e l’egizia Iside con le corna di mucca. Per
secoli sìi continuò ad appendere la maschera di Dioniso alle co-
lonne del proscenio. Ma venne poi il tempo in cui, secondo
Plutarco, Le baccanti fu rappresentata davanti a Irode, re dei
parti, e fu portata sulla scena una vera testa tagliata, quella di
Crasso.
Le tavole erano state sparecchiate e un attore tragico, a nome
Giasone di Tralle, stava cantando quel brano delle Baccanti di
KEunripide che precede l’ingresso di Agave. Scoppiarono gli ap-
plausi, ed ecco apparire sulla soglia Sillace, che s’inginocchiò
davanti al re e gettò in mezzo alla sala la testa di Crasso. I
parti si alzarono in piedi, battendo le mani e gridando di
gioia, mentre, a un cenno del re, gli inservienti facevano sede-
re a mensa Sillace. Giasone, consegnato a uno del coro il co-
stume di Penteo, prese la testa di Crasso e imitò il delirio del-
la regina, cantando, con voce d’invasato, quei celebri versi:
“Portiamo dal monte al palazzo edera or ora tagliata, caccia
fortunata”. Tutti i presenti ne ebbero piacere. Quando poi fu
cantato il successivo dialogo, tra Agave e il coro — “Chi l’ucei-
se? ” “Mio è l’onore” — Pomassatre, che si trovava per caso
tra i commensali, balzò in piedi e strappò la testa a Giasone,
come se convenisse più a lui che all’attore pronunziare quelle
parole, e il re, divertito, assegnò a Pomassatre i doni che si
regalano abitualmente ai teatranti, a Giasone un talento. Con
una farsa simile fini, dicono, la spedizione di Crasso: come o-
gni tragedia ° .
Anche in questa occasione fu la storia a scrivere l’interpreta-
zione definitiva delle Baccanti.

257
Note

1. Tutte le citazioni dalle Baccanti nella traduzione di Edoardo Sangui-


neti, Genova, Edizioni del Teatro Stabile di Genova, 1968.
2. E.R. Dodds, nell’introduzione alla sua edizione di The Bacchae, Ox-
ford, Clarendon Press, 1944, divenuta una pietra miliare della moderna
critica euripidea, è stato il primo a dimostrare in modo decisivo l’impor-
tanza del mito dionisiaco, e in particolare dello sparagmos e dell’omofa-
gia per comprendere Le baccanti e il ruolo delle baccanti nella cultura
greca. Ma, nonostante la sua sensibilità, la sua acutezza intellettuale e la
sua conoscenza del freudismo e della nuova antropologia, Dodds è rima-
sto un positivista sino alla fine. Le baccanti erano per lui la rappresenta-
zione storica e sociologica di un autentico rituale e di un’autentica psico-
si di massa. Poiché nel testo il coro parla di una festa che avviene “ogni
due anni”, e risulta che ogni due anni si svolgevano effettivamente, a
metà inverno, feste dionisiache di carattere orgiastico, Dodds ipotizza
che il rito descritto nella tragedia sia un rito invernale e come tale distin-
to dai riti di fertilità del dio morente e rinato che si compivano in pri--
mavera (“Menadismo”, in ! greci e l’irrazionale, pp. 319-35). Ma benche
utilizzi in maniera straordinaria tutto il materiale disponibile, la tesi di
Dodds non convince. Nelle Baccanti il rito dionisiaco è mostrato sincreti-
camente ed è soggetto ai rigori di una costruzione artistica. “Le baccan-
ti”, scrive William Arrowsmith nell’introduzione alla sua traduzione (The
Complete Greek Tragedies, Euripides V, Chicago, University of Chicago
Press, 1952, p. 144), “non sono né uno studio del cultus dicnisiaco né
un saggio ammonitore sugli effetti dell’isterismo religioso; e neppure, se
è per questo, anche se lo hieros logos o il sacro mito del rituale dionisia-
co può esservi presentato con la massima fedeltà, conviene leggerle come
una passione antropologica del capro espiatorio mitico o del dio-anno”.
3. E° uno dei versi chiave per l’interpretazione della tragedia. Kenneth
Cavender lo traduce con estrema brutalitàa: “Vieni con me adesso Î...} a
mangiare [...}” La traduzione di Cavender, tuttora inedita,è stata usata
nella messinscena delle Baccanti allo Yale Repertory Theatre nel 1969.
4. Geoffrey 5. Kirk, nell’introduzione alla sua traduzione (The Bacchae,
Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1970), sottolinea il capovolgimento di
ruoli e di situazioni: “Il potere temporale di Penteo si rivela a poco a

208
Divorare dio, o “Le baccanti”

poco come impotenza di fronte alla rivelata potenza del dio; e poiché re
e dio sono in conflitto diretto, ne consegue che la vittima diventa l’ag-
gressore, il cacciato il cacciatore e viceversa””. Ma Kirk, benché insista sul
fatto che i due protagonisti sono coetanei e cugini, e mostri con molta
precisione la trasformazione del cacciatore in cacciato, si affretta però a
evitare il rischio di attribuire un’importanza essenziale a questi punti.
“Teniamo dunque conto di queste corrispondenze, ma non sopravvalutia-
mone il significato. Non bastano da sole a suggerire che Penteo fosse un
aspetto o un doppio. pervertito del dio [...]” E poche righe più avanti:
“C’è molta sottigliezza e complessità, oltre che una grande ironia, nella
descrizione euripidea dei due avversari e del loro rapporto; ma, benche sì
possa pensare a un Penteo offerto a Dioniso come sua vittima per il fat-
to che gli si fa indossare la veste rituale delle seguaci del dio, ci sono
poche prove concrete che lo indichino come una sorta di aberrante in-
carnazione del potere e della personalità dello stesso Dioniso”” (il corsivo
è mio, pp. 14-5).
5. Penteo, osserva Arrowsmith nell’introduzione citata, p. 147, è ancora
imberbe al momento della morte, e non può guindi avere più di sedici o
diciassette anni.
6. Fonti fondamentali per la storia di Licurgo sono Omero, ÎNliade, VI,
130 sgg., e Apollodoro, 3, 5, 7; per le tre figlie di Minia di Orcomeno,
Plutarco, Quaestiones Graecae, 38; per la frenesia delle donne di Argo,
Apollodoro, 2, 2, 2. Vedi anche Dodds, The Bacchae, “Introduzione”, p.
XXIII, e Graves, ] miti greci, pp. 105 sgg. Cfr., poi, J.G. Frazer, l ramao
d’oro, trad. di Lauro De Bosis, Torino, Boringhieri, 1965, p. 492: “Il
sospetto che questo harbaro costume non cadesse affatto in disuso nep-
pure nei tempi posteriori è rafforzato da un caso di sacrificio umano che
avvenne ai tempi di Plutarco a Oreomeno, un’antichissima città della
Beozia, distante solamente poche miglia dal paese natio dello storico [...]
Opgni anno alla festa delle Agrigonie il sacerdote di Dioniso inseguiva cer-
te donne con una spada e se ne raggiungeva qualcuna aveva diritto di
ucciderla. Durante la vita di Plutarco questo diritto fu realmente eserci-
tato da un sacerdote chiamato Zoilo. La famiglia cosi soggetta a fornire
almeno una vittima umana ogni anno era di discendenza reale perche fa-
ceva risalire la sua stirpe a Minia, il famoso antico re di Orcomeno [...]
Vuole la tradizione che le tre figlie del re avessero a lungo disprezzato le
altre donne del paese perché si davano alle frenesie bacchiche, e rimanes-
sero nella casa paterna a filare orgogliosamente la rocca e a tessere, men-
tre le altre, adornate di fiori, con le chiome scarmigliate al vento, errava-
no in estasi sulle aride montagne che s’innalzano sopra Orcomeno, riem-

2059
Divorare gli dei

piendo la solitudine delle colline con l’eco della selvaggia musica dei
cembali e dei tamburini. Ma col tempo la furia divina arse anche le don-
zelle reali nelle loro tranquille dimore: furono prese da una feroce brama
di mangiare carne umana e tirarono a sorte tra loro per vedere chi doves-
se dare il proprio figlio per fornire il cannibalesco banchetto”.
7. Dodds sembra sia stato il primo a contestare la cosiddetta “teoria del-
la resistenza” che vedeva in questi racconti un riflesso dell’invasione sto-
rica della Grecia a opera del culto dionisiaco. Egli scrive: “[...] sono sem-
pre le figlie del re che impazziscono; sono sempre tre [...] e ammazzano
regolarmente i propri figli o il figlio di una di loro [...]” (The Bacchae,
‘““Introduzione”’, p. XXIV).
8. Kirk, The Bacchae, cit., p. 54, commento al v. 340.
9. Graves, I miti greci, cit., pp. 105-6, paragona l’Artemide di questo
mito alla “signora della selvaggina”” di Creta, il cui culto era di tipo or-
giastico. Ma probabilmente sbaglia quando scrive: “Le ninfe si bagnavano
per purificarsi, dopo e non prima dell’eccidio”. E° forse meglio fidarsi
del mito. Il bagno rituale era una purificazione della sacerdotessa prima
della cerimonia sacrificale. Le baccanti di Euripide iniziano i sacri riti
con ‘“la purificazione bacchica” (77). Nell’Odissea, II, 439 sgg., “{...]
Areto il lavacro in un lebete fiorato venne a portar dalle stanze, e con
l’altra mano portava ì chicchi d’orzo in un cesto [...] e Nestore, il vec-
chio guidatore di carri, cominciò col lavacro e coi chicchi e molto Atena
pregava offrendo le primizie e gettando i peli del capo nel fuoco”. Nell’
Elettra di Euripide, il messaggero riferisce sul sacrificio che Egisto ha of.-
ferto agli dèi. Pur essendo un assassino e un adultero, compie la cerimo-
nia secorido il rito: prima sì lava le mani in acqua di fonte, poi ammazza
il toro (800 sgg.). In Ifigenia in Aulide, Achille, che si è finalmente con-
vinto della necessità di ammazzare Ifigenia, afferra la ciotola già piena di
acqua lustrale e corre tenendola in mano intorno all’altare per spruzzar-
ne i guerrieri (1568 sgg.).
10. Proclo, Commentario alla Politica di Platonae, citato da Graves, op.
cit., vol.I, p. 114.
11. Il simbolo della testa salvata, presente nei miti di Orfeo e di Dioni-
so, merita un più attento esame. La testa di Orfeo, gettata dalle Menadi
in un fiume, non affonda ma continua a cantare finché non arriva al
mare, dove le onde la portano a Lesbo insieme con la lira: “[...] la sua
testa parlante e galleggiante presso la lira” (Luciano, “Del ballo”, in 1
dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 447). Secondo un’altra versione, la testa
di Orfeo venne depositata nel tempio di Dioniso ad Antissa, dove conti-
nuò a parlare giorno e notte, prevedendo l’avvenire, finché Apollo non la

260
Divorare dio, o “Le baccanti”

ridusse al silenzio, irritato perchéè faceva concorrenza ad altri oracoli. La


lira, per intercessione delle Muse, venne poi posta in cielo da Apollo co-
me costellazione. L’opposizione tra testa dionisiaca e lira apollinea sem-
bra un’interpretazione assai tarda.
Secondo Graves, il mito racconta l’uccisione sacrale di un re: “Il re sacro
doveva per forza sottoporsi al supplizio dello smembramento e può darsi
che i traci seguissero l’usanza dei dayak -iban e dei moderni sarawak.
Quando gli uomini rientrano dopo una fruttuosa spedizione di caccia, le
donne iban si servono della testa della vittima più cospicua per fertilizza-
re i campi di riso. Tale testa dovrebbe cantare, piangere e rispondere alle
domande; viene cullata teneramente in grembo finche consente a entrare
in un tempio dove dà consigli in ogni circostanza importante [...]” @I
miti greci, cit., p. 142).
La “testa tagliata” sembra appartenere a due riti differenti: per assicura-
re messi e fertilità e per prevedere il futuro. Scrive Jung in “Transforma-
tion Symbolism in the Mass’”, in Psyche and Symbol, a cura di Violet S.
de Lazlo, Garden City, Doubleday, 1958: “Il culto del teschio è assai
diffuso tra i primitivi. În Melanesia e in Polinesia sì venerano soprattutto
i teschi degli antenati, perché mettono in contatto con gli spiriti o fun-
gono da divinità tutelari, come la testa di Osiride in Egitto. } teschi han-
no anche una notevole importanza come sacre reliquie [...] Nello stesso
modo, la testa o le sue parti (cervello, eec.) possono essere vivanda magi-
ca o mezzo per accrescere la fertilità del suolo” (p. 193). Jung ricorda
qui il mito di Osiride, che i greci spesso identificavano con Dioniso e che
risorse egli pure da morte dopo essere stato fatto a pezzi. Come Dioniso,
Osiride, dio delle messi e delle fertilità, è collegato al vino, agli alberì e
all’acqua (le piene del Nilo).
Interessante è anche la presenza del simbolo della testa tagliata nella tra-
dizione ebraica. Jung cita la leggenda del XII secolo pubblicata da Bin
Gorion in Die Sagen der Juden: “1 teraphim erano idoli e venivano fatti
in questa maniera. Si tagliava la testa di un uomo, che doveva essere un
primogenito, e se ne estirpavano i capelli. Dopo di che la testa veniva
unta d’olio e cosparsa di sale; e si incideva su una targhetta di rame o di
oro il nome di un idolo, per poi metterla sotto la lingua della testa deca-
pitata. Infine si sistemava la testa in una stanza, le si accendevano davan-
ti delle candele e la gente veniva a renderle omaggio. È se qualcuno le si
prostrava davanti, la testa si metteva a parlare e rispondeva a tutte le
domande che le venivano fatte” (p. 190),
In questa ampia prospettiva antropologica, la testa tagliata di Giovanni
Battista viene improvvisamente ad assoimigliare a quella di Orfeo: erano

261
Divorare gli dei

entrambi profeti e “doppi” di un uomo-dio.


C’è anche un’altra, e più moderna, interpretazione della testa tagliata che
merita attenzione. “Onians {in The Origins of European Thought, New
Yeork, Cambridge University Press, 19511”, scrive Jung, “sottolinea giu-
stamente il fatto che la psiche, la quale aveva sede nella testa, corrispon-
de al moderno ’inconscio° e che in questa fase dello sviluppo si identifi-
cava la coscienza con thymos (cuore) e phrenes (polmoni) e la si situava
nella zona del petto e del cuore. Di conseguenza, l’espressione usata da
Pindaro per definire l’anima — eionos eidolon (immagine del mondo) —
è straordinariamente azzeccata, in quanto l’inconscio collettivo non si li--
mita a rivelare ’oracoli' ma rappresenta sempre il microcosmo (cioè la
forma di un uomo fisico che si rispecchia nel cosmo)” (p. 193). Tornia-
mo così al simbolo del cosmo che muore e si dissolve per potersi rigene-
rare un’altra volta.
12. Fonti fondamentali per lo sparagmos di Dioniso-Zagreo sono: Dio-
doro, 1, 96; Firmico Materno, De errore profanarum religionum, 6; Cle-
mente Alessandrino, Protrepticus, 2, 18. Per un’analisi critica di tutte le
versioni del mito, cfr. Linforth, The Art of Orpheus, e in particolare il
capitolo “Myth of the Dismemberment of Dionysus”, pp. 307 sgg.
13. Plutarco, “La É Delfica”, in Diatriba isiaca e Dialoghi delfici, a cura
di Vincenzo Cilento, Firenze, Sansoni, 1962, p. 173. E. Rohde, in
Psyche, trad. di E. Codignola e M. Oberdorfer, Bari, Laterza, 1916, so-
stiene che era un mito sull’unità e la multigeneità del cosmo.
14. Frazer, Îl ramo d’oro, cit., p. 776: “Ora è facile comprendere per-
ché un selvaggio desideri mangiare la carne di un animale o di un uomo
che considera divino: eglì crede cosi di partecipare agli attributi e ai po-
teri della divinità [...] Pertanto il bere vino nei riti dî una divinità della
vite, come Dioniso, non è una gozzoviglia ma un sacramento solenne”.
15. Mircea Eliade, Mythes, réves et mystères, Parigi, Gallimard, 1957,
pp. 47 e 244-6. Nello stesso volume, Eliade descrive il rito sanguinario
dei khond indiani, che assomiglia allo sparagmos dionisiaco: “Il meriah
era una vittima volontaria, comprata dalla comunitaà: lo si Îasciava vivere
per anni, e poteva anche sposarsi e avere figli. Pochi giorni prima del
sacrificio, il meriah veniva consacrato, cioè identificato con la divinità
cui sarebbe stato sacrificato: la gente danzava intorno a lui e lo venera-
va. Dopo di che si rivolgeva alla terra: ’O dea, noi ti offriamo questo
sacrificio; dacci buoni raccolti, buone stagioni e una buona salute! “ É siì
aggiungeva, voltandosi verso la vittima: ’Noi ti abbiamo comprato e non
ti abbiamo preso con la forza; ora ti sacrifichiamo secondo il nostro co-
stume e che nessun peccato ricada su di noì! ‘ La cerimonia comprende-

262
Divorare dio, o “Le baccanti”

va anche un’orgia che durava parecchi giorni. Infine il meriah veniva dro-
gato con l’oppio e, dopo averlo strangolato, lo tagliavano a pezzi. Ogni
villaggio riceveva un frammento del suo corpo, che veniva sepolto nei
campi. Îl resto lo si bruciava e se ne spargevano le ceneri sulle terre cob-
tivate. Come si vede, questo rito sanguinario corrisponde al mito dello
smembramento di una divinità primordiale” (pp. 250-1).
Jung (op. cit.), cita una descrizione che del “mangiare il dio” (teoqualo)
fece Bernardino de Sahagin, un prete spagnolo che andò missionario tra
gli aztechi sei anni dopo la conquista del Messico da parte di Cortes. In
questo rito, sì foggia una statua del dio Huitzilopochtli con pasta di se-
me di papavero spinoso.
E l’indomani mori il corpo di Huitzilepochtli.
E colui che lo uccise era il sacerdote noto come Quetzalcoatl.
E l’arma con la quale lo uecise era un dardo, appuntito con una selce,
che gli scoccò nel cuore. '
Ed egli era morto, e allora fecero a pezzi il suo corpo di [...] pasta. l
cuore venne dato a Moctesuma.
E il resto delle sue membra, fatte a imitazione delle sue ossa, fu dzstrv
buito e diviso tra tutti {...] Ogni anno {...}] lo mangiavano [...] E divide-
vano tra loro il suo corpo fatto di [...] pasta, che veniva spezzato in
frammenti estremamente piccoli e assai fini, come piccoli semi. Lo man-
giavano i giovani.
E di ciò che mangiavano si diceva: “Il dio viene mangiato”. E di quelli
che lo mangiavano si diceva: ‘‘Essi custodisconoil dio” (p. 170).
Alfred Métraux descrive in Tupinamba: War and Cannibalism, New York
1955, il rituale del cannibalismo tra gli indiani d’America: “I tupinamba
limitavano il loro cannibalismo ai prigionieri catturati proprio con questo
scopo. Una volta preso, e condotto nella comunità dei suoi catturatori, il
prigioniero poteva andare in giro, relativamente libero, nelle settimane o
nei mesi che precedevano il suo sacrificio [...] Nel corso del suo soggior-
no veniva, di volta in volta, canzonato, adulato, insultato e onorato. E-
gli, dal canto suo, contraccambiava trattando il più villanamente possibi-
le-i suoi catturatori, gettando loro noci, frutti e pietre quando danzava-
‘no, predicendo la loro royvina o vantandosi del proprio coraggio. Le feste
che accompagnavano il suo saerificio duravano da tre a cinque giorni
Dopo di che egli veniva messo a morte dal suo carnefice, di solito lo
stesso che lo aveva toccato per primo nel momento della sua cattura, ed
era una faccenda piuttosto macabra, perché la cosa veniva fatta basto-
nandolo a morte [...] Quando finalmente cadeva morto con iìl cranio
spaccato, il suo corpo veniva immediatamente squartato e arrostito, e i

263
Divorare gli dei

pezzi più saporiti venivano distribuiti tra gli allegri convitati. La moglie
del prigioniero, dopo aver sparso qualche lacrima, si univa al banchetto
[...] Él carnefice invece s’allontanava di corsa dal luogo del sacrificio [...]
Gli. era assolutamente proibito mangiare la carne del prigioniero. È per
un certo periodo gli si vietava anche di partecipare pienamente alla vita
della comunità, gli si imponeva una dieta particolare e lo si obbligava a
starsene solo. Il suo ritorno alla tribù, dopo il periodo stabilito, veniva
festeggiato con una grande bevuta, durante la quale si tatuava il corpo,
tagliuzzandoselo. Usciva da questa esperienza con un cospicuo aumento
del suo prestigio all’interno della comunità” (pp. 151-5). (L’autore è gra-
to a Sasha Weitman che ha attirato la sua attenzione su questo testo).
16. Eliade, Mythes, réves et mystères, cit., p. 1009.
17. Hesiod, The Homeric Hymns and Homerica, translated by Hugh G.
Evelyn-White, Loeb Classical Lybrary, Cambridge, Mass., Harvard Univer-
sity Press, 1967, p. 289,
18. Dodds, The Bacchae, cit., “Introduzione”, p. XI: ‘“In tal modo il
vino acquista un valore religioso: colui che lo beve diventa entheos: ha
bevuto la divinità””.
19. Eliade, l mito dell’eterno ritorno, pp. 21 e 28.
20. Luciano, 1 dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 449.
21. Eliade, Mythes, réves et mystères, cit., p. 100.
22. Ibid., pp. 47 e 262. Sui riti d’iniziazione nelle cerimonie dionisiache,
cfr. H. Jeanmaire, Dionysus, Parigi 1951. Vedi anche Kirk, The Bacchae,
cit., commento ai vv. 11 e 857-60.
23. Jung, “Transformation Symbolism in the Mass”, p. 203. Cfr., anche,
R. Eisler, Orpheus — the Fisher, Londra 1923, pp. 280 sgg.
24. Amnott, in Greek Scenic Conventions, scrive a proposito di tre scene
di terremoto — in Prometeo, Eracle e Le baccanti —: “Queste tre scene
di terremoto si servono dello stesso metodo e seguono lo stesso schema:
promessa, elaborazione e anticipazione, dichiarazione. Si minaccia l’effet-
to, si prevede, con abbondanza di particolari, il risultato, lo si annuncia
infine come in atto di accadere, In Eracle si punta sulla follia di Eracle e
sul terremoto come fenomeno naturale, ma la tecnica è la stessa. În’un
teatro senza scenografia realistica, non c’è altro modo per attuare questo
effetto. La skene non può sbriciolarsi, essendo partè* pérmanente del
teatro, ma quando il coro dice che si sbriciola, allora secondo tutte Îe
regole della convenzione teatrale il pubblico deve accettare queste parole
come verità. È, accompagnate da movimenti di danza evocativi, dovreb-
bhero essere sufficienti. Jean-Louis Barrault una volta allesti la scena a
bordo della galera di Pompeo in Antonio e Cleopatra con una fila di

264
Divorare dio, o “Le baccanti”

rematori che, sul fondo del palcoscenico, dondolavano ritmicamente


avanti e indietro; e questo, con le parole dei personaggi, dava perfetta-
mente una sensazione di movimento nell’acqua, anche senza altrì elemen-
ti scenici. Dobbiamo qui immaginare qualcosa di simile: il coro turbina
vorticosamente per illustrare i suoi frenetici versi, fornendo cosi un ac-
compagnamento ballettistico all’azione”” (pp. 124-5).
25. Sul fulmine come segno mistico, efr. Éliade, Myithes, réves et
mystères, cit.,; pp- 109 sgg.; sul simbolismo della levitazione, ibid., pp.
119 spg. ,
26. Kirk, The Bacchae, cit., scrive nel suo commento (p. 120): “la paro-
la greca indica ogni cosa a forma di spirale, e qui probabilmente un ar-
ricciato germoglio d’edera. La ’testa di leone' che Agave porta sulla pun-
ta del suo tirso (1141 sgg.) con la relativa ‘molle criniera‘ (1186), viene
descritta come se fosse l’edera che veniva abitualmente legata alla punta
del tirso. Se si tratti di metafora o di illusione rimane ambiguo”.
27. Brecht, “Breviario di estetica teatrale”, trad. di Renata Mertens, in
Scritti teatrali, vol. ÎL, p. 157, Torino, Einaudi, 1975.
28. Jung, op. cit., p. 200.
29. O.B. Hardison ir, Christian Rite and Christian Drama in the Middle
Ages: Essays in the Origin and Early History of Modern Drama, Baltimo-
ra, Johns Hopkins University Press, 1965, p. 55. Cfr. anche pp. 47, 63,
70, Per le citazioni successive, vedi pp. 130, 148.
30. “Emil Forrer (in Actes du XXème Congrès international des orienta-
listes, Lovanio 1940, pp. 124-28) ha ipotizzato che l’antica usanza ittita
di bere, in certi riti, da un recipiente teriomorfico (chiamato bibru) fosse
una sopravvivenza o un'attenuazione di una libagione originaria del san-
gue o dell’essenza divina, paragonabile alla comunione cristiana. Cfr. an-
che Crisostomo, Homilectus in Joannem: ’Egli [Cristo] ha concesso a co-
loro che lo desiderano [...] di affondare ì denti nella Sua carne‘” (dalle
Note aggiunte a Frazer, The Golden Bough, a cura di Theodore G. Ga-
ster, New York, Mentor Books, 1964, pp. 586 sgg.).
31. Cito da Jung, op. cit., p. 162.
32. Cfr. ibid., pp. 161 sp, sulla teoria della “mattazione”’ e del “massa-
cro” simbolico di Cristo; p. 165 sul simbolismo della fractio. Hardison,
in conformità con la tradizione medioevale, collega la fractio al simboli-
smo della resurrezione (Christian Rite and Christian Drama, cit., pp- 45
e 70 sg.).
33. Jung dà un’interpretazione diversa del simbolismo archetipo del pa-
ne e del vino: “Grano e vino hanno qualcosa della natura di un’anima,
uno specifico principio vitale che ne fa simboli appropriati non soltanto

265
Divorare gli dei

dei successi culturali dell’uomo, ma del dio che muore e risorge a ogni
stagione e che e il loro spirito vitale. I simboli non sono mai semplici: lo
sono soltanto i segni e le allegorie. Il simbolo si riferisce sempre a una
situazione complicata che è talmente di là dalla portata del linguaggio da
non poter essere assolutamente espressa in termini non ambigui. Cosi i
simboli del grano e del vino hanno quattro strati di significato: 1. come
prodotti agricoli; 2. come prodotti che richiedono una particolare lavora-
zione (pane dal grano, vino dall’uva); 3. come espressione di conquiste
psicologiche (lavoro, operosità, pazienza, dedizione, ecc.) e più general-
mente della vitalità umana; 4. come manifestazione del mana o demone
della vegetazione” (“Transformation Symbolism in the Mass”, pp.
-203-4).
34. Hardison, Christian Rite and Christian Drama, cit., pp. 145-6, 217.
Inoltre: “La chiesa riconosceva il carattere culminante della messa della
vigilia e la collocava nella più splendida delle ambientazioni liturgiche.
Le cerimonie extraliturgiche, rappresentative, commemorative e pura-
mente mimetiche si svolgevano in questa occasione più che in qualunque
altro giorno dell’anno. Comportavano quasi tutte il simbolismo della
morte e della rinascita e molte si collegavano in parte al Quem quaeritis,
per gli abiti bianchi, Ìa sepoltura e il simbolismo della tomba, per citare
soltanto i segni più ovvi” (p. 163).
3D. Cosa cercate nella tomba, seguaci di Cristo?
Gesùu di Nazaret che è stato crocifisso, o abitanti del cielo.
Non è qui; è risorto come aveva predetto; andate ad annunciare che è
risorto.
(1l testo del più antico manoscritto in Hardison, ibid., pp. 178-9.)
36. Îbid., p. 302.
37. Ibid., p. 252. Non fu soltanto il dramma religioso che divenne sem-
pre più spettacolo: anche la messa diventò teatro. “Nel XII secolo Ael-
red, abate di Rievaulx, lamentava, nel suo Speculum charitatis, i canti
che imitavano voci femminee, i sospiri, gli improvvisi drammatici silenzi,
le imitazioni vocali delle pene dei moribondi e dei sofferenti e i preti
‘che contorcono tutto il corpo con gesti istrionici. Sono usi, commenta,
che ’sbalordiscono la gente comune‘, ma s’addicono ’al teatro, non -all’
oratorio‘”* (ibid., pp. 78 sg.).
38. Gilbert Murray, “Excursions on the Ritual Forms Preserved in
Greek Tragedy”, in Jane Harrison, Themis, Cambridge 1912, p. 363:
“All’inizio ricompare qualcosa che assomiglia all’antico ierofante, alla fi-
ne qualcosa che ricorda l’antico dio risorto; e, come abbiamo visto, è
nelle tragedie di Euripide, soprattutto nelle ultime, che troviamo più per-

266
Divorare dio, o “Le baccanti”

. fettamente e chiaramente delineata l’intera sequenza contesa-lacerazione-


messaggero-lamentazione-scoperta-resurrezione che compone il mistero
dionisiaco originario”. Cfr. anche Herbert Weisinger, “Ritual Origins of
Drama”, in The Reader's Encyelopaedia of World Drama, a cura di John
Gassner ed Edward Quinn, New York, Crowell, 1969.
39. Hardison, Christian Rite and Christian Drama, p. 291. Cfr. anche
Kerényì, Prometheus, p. 43: “Da quando l’azione di Cristo durante l’ul-
tima cena assunse il significato di un atto rituale prototipico, divenne un
sacrificio basilare, il grande sacrificio che permise la creazione del mondo
della salvezza”,
40. Intorno al 1100 Onono di Autun scriveva in Gemma animae: “Com-
pletato il sacrificio, il celebrante dà al popolo pace e comunione. Questo
perche, una volta che il nostro accusatore è stato distrutto nella lotta dal
nostro campione, il giudice annuncia la pace al popolo e lo invita a un
banchetto” (Hardison, ibid., p. 40).
41. Tbid., p. 148.
42. Anche se il “banchetto totemico”, cioè il pasto rituale nel quale il
dio padre viene mangiato da un gruppo di primitivi, che egli descrive in
Totem e tabt, è una fantasia antropologica o — come dice Eliade — “un
remanzo gotico””, Freud ebbe una straordinaria intuizione quando per-
cepi il legame tra rito dionisiaco e dramma religioso medioevale: “Consi-
derando che nella tragedia greca lo spettacolo verteva principalmente sui
dolori del capro divino, Dioniso, e sul compianto del seguito di capri che
s’identificava con lui, è facile capire come la rappresentazione drammati-
ca, già estinta, rinacque di nuovo nel medioevo con la passione di Cri-
sto” (trad. di Silvano Daniele, Torino, Boringhieri, 1969, p. 210).
43. Hardison, Christian Rite and Christian Drama, p. 133.
44. Il testo delle Baccanti che noi conosciamo comprende circa 1400
versi; il discorso trionfale di Dioniso al coro dopo essere emerso dalla
prigione finisce con il v. 642. '
45. Christus patiens, 1466 sgg. dal commento di Kirk (The Bacchae, p.
131). Cfr. anche Dodds, The Bacchae, “Introduzione”’, pp. Li-LII.
46. C’è nelle Baccanti un altro strato mitico che merita anch’esso un più
attento esame. Gli uomini’sono nati dai denti del drago seminati da Cad-
mo. Uno di loro era Echione, padre di Penteo. Dopo che Penteo ha im-
prigionato Dioniso, il coro dice: “Si rivela figlio della terra Penteo, che è
stirpe del drago, che fu generato da Echione, antico, figlio della terra:
dal mostro con occhi feroci, non uomo mortale [...]” (538 sgg.). Nell’
epilogo Dioniso predice che Cadmo e sua moglie Armonia saranno. tra-
sformati, per punizione, in serpenti. Euripide amava sfoggiare la sua eru-

2607
Divorare gli dei

dizione mitologica, ma nelle Baccanti insiste un po’ troppo sulle origini


‘“ctonie” di Penteo perché si tratti soltanto di un abbellimento super-
fluo. l nemico archetipo del dio creatore è sempre un serpente o un
drago. “Ora il serpente era astuto più di qualunque altra creatura selvag-
gia che il Signore Dio avesse creato” (Genesi, I11, 1).
47. Prima stanza dell’inno pasquale Ad coenam agni, attribuita ad Am-
brogio. La traduzione è quella attualmente usata nel rituale liturgico.
48. The Second Shepherd’s Play, del ciclo di Wakefield, che è il più sor-
prendente e forse il più brillante dramma del tardo medioevo (inizio del
XV secolo), ha una struttura che è un capovolgimento totale delle Bac-
canti. La prima parte è ironica, la seconda un tradizionale spettacolo sul-
la natività con i pastori in viaggio verso la stalla. La nascita del Salvatore
è preceduta dalla morte di un mitico “ragazzo con le corna”, in realtà di
una pecora rubata. Questa pecora, in una parodia della natività, viene
deposta nella mangiatoia. È prima, in un’altra versione del dramma, c’è
un banchetto di pastori con sanguinacci e altri cibi simulati in quella che
sembra la parodia di uno sparagmos. La prima parte è quasi blasfema: si
potrebbe definirla un anti-miracolo. Ma la teofania, dopo essere stata pa-
rodiata, viene mostrata nella seconda parte in maniera ingenua, piena di
anacronismi. (L’autore vuole esprimere i propri ringraziamenti a Martin
Stevens, che ha indicato nella Second Shepherd’s Play l’opposto struttu-
rale delle Baccanti.)
49.° Hegel, Estetica, p. 1338.
o0. Hartung, più di un secolo fa. Cfr. Dodds, The Bacchae, “Introduzio-
ne”, p. LI. _
o1. Nei “Dialoghi degli dei” (XXVIII) di Luciano, Menippo dice a Tire-
sia: “E ancora con le bugie, Tiresia! Già, tu non puoi mancare alla na-
tura degli indovini: voi non usate parlar mai con maledetto senno”. I
dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 150.
92. Northrop Frye, “Blake after two centuries”, in Fables of Identity:
Studies in Poetic Mythology, New York, Harcourt, 1963, p. 143.
53. Dopo il secondo volume di Mythologiques di Claude Lévi-Strauss,
Du miel aux cendres, è venuto il momento di esaminare il ruolo del mie-
le nei miti greci, e soprattutto in quelli dionisiaci. Sul monte Nisa, le
ninfe nutrono Dioniso salvato con il miele, ed è per questo che Zeus le
trasforma poi nella costellazione delle Iadi. Nell’apocalisse delle Baccanti
zampilla miele dai tirsi. Nel medioevo, si offriva miele e latte ai catecu-
meni e ai bambini dopo la.veglia pasquale. Nell’Exultet c’è un brano che
elogia le api per aver fornito cera per la candela pasquale: ‘“Perché è
alimentata dalla cera fusa che l’ape regina ha fatto per la sostanza della

208
Divorare dio, o “Le baccanti”

preziosa face”. Hardison, Christian Rite and Christian Drama, p. 149, ri-
porta integralmente il testo latino, che ha un interesse straordinario per
quanto concerne ì riferimenti al miele nella mitologia antica e cristiana.
Sul rapporto mitico tra Orfeo, Euridice e Aristeo, l’allevatore d’api, cfr.
M. Detienne, Orphée au miel, ‘“Quaderni urbinati di cultura classica”, n
12, 1971, pp. 7-23.
94, Lettera del 4 gennaio 1889 “A] mio maestro Piero” . in The Portable
Nietzsche, p. 685.
99. Cfr. i_ resoconti del “New York Times” (1 e 14 agosto e 2 dicembre
1970) del processo intentato contro Charles Manson per l’assassinio di
Sharon Tate e di altre seì persone.
CINQUE RAGAZZE VEGLIANO PER TRE MESI AL PROCESSO TATE
Due delle ragazze sono a piedi nudi. Alcune hanno tra un occhio e l’al-
tro cicatrici a forma di croce. Se le sono fatte con cacciaviti arroventati
dopo che Manson e gli altri imputati si erano incisi croci sulla fronte
all’inizio del processo.
Ogni tanto le ragazze cantano una canzone composta quando la famiglia
Manson viveva qui in un ranch. Le parole dicono:
Oh, amore, i0 amo la verità che ho conosciuto.
Tu sei il re.
Amore mio, ti porto questa parola,
Ora tu sai che puoi essere libero.
Guarda la tua anima e vieni da me.
TESTIMONE CHIAVE DICE DI AVEB.E UN TEMPO
CONSIDERATO MANSON UN “MESSIA”
La signora Kasabian ha detto che Manson le parlò a lungo della sua filo-
sofia. “Sentivo che era il Messia tornato sulla terra; sapete, il secondo
avvento di Cristo”, ha detto. “Pensauo che fosse un altro Gesùu Cristo”,
Dopo aver a lungo interrogato la signora Kasabian per il secondo giorno
[...] il signor Hughes, un omone con la barba bionda e i capelli lunghi, le
ha chiesto: “Ha mai pensato che qualcun altro, a parte il signor Manson,
fosse Gesù Cristo? ”
“Il Gesù Cristo della Bibbia”, ha risposto lei,
“E ha mai incontrato Gesu Cristo [...] a parte il signor Manson? ”
“No”, ha detto la signora Kasabian.
56. T.B.L. Webster, Greek Art and Literature, 700-530 B.C., New York,
Ryerson Press, 1959, p. 66.
57. Jean Genet, Les Nègres. Clownerie, Décines, Barbezat, 1960, pp. 7 e
122.
98. Arrowsmith, nell’introduzione alla sua traduzione delle Baccanti,

269
Divorare gli dei

scrive (p. 148): “[...] la tragedia utilizza Dioniso, Penteo e il loro conflit-
to come immagine amara di Atene e dell’Ellade terribilmente dilaniata
tra le forze che, secondo Euripide, contribuirono più di ogni altra cosa
alla loro distruzione: da un lato la tradizione conservatrice al gradò e-
stremo della corruzione, che camuffava l’avidità di potere con nobili atti
di fede nelle aretai tradizionali, che affrontava ogni opposizione con la
tirannia terribile. della religiosità popolare e che rivelava nei suoi atti l’in-
sensibilità e la crudeltà raffinata di una civilizzata barbarie; dall’altro l’in-
dividuo eccezionale, egoista ed egocentrico, insofferente della tradizione
come del pubblico benessere, testardo, demagogico ed egualmente bruta-
le nell’azione”’.
99, Ifigenia in Aulide, trad. di G. Paduano, in Îl teatro greco. Tutte le
tragedie.
60. Plutarco, “Crasso”, in Vite parallele, trad. di Carlo Carena, Torino,
Einaudi, 1958, vol. I, pp. 596-7.

270
Appendici
Medea a Pescara

E° arrivato con Medea il teatro greco del Pireo. Sono andato a


vederlo a Pescara, dopo un giro tortuoso per Roccaraso e Pale-
na, costeggiando la Maiella, il più alto gruppo montuoso dell’
Abruzzo, da est e da sud.
Palena mi è apparsa con il colore dei chicchi di caffè arrostiti.
Era deserta, come se l’avesse distrutta il fuoco. In Abruzzo, le
piccole città sembrano nidi di rondini, o meglio di vespe. O-
gnuna è come un alveare spalmato sulla roccia. Anche in Um-
bria e in Provenza le piccole città paiono fuse assieme con i
loro contrafforti; le mura a picco, le chiese e il castello dànno
l’impressione di essere appiccicati l’uno sull’altro sulla cima.
Ma in Umbria i villaggi e le cittadine si arrampicano sui pendii
di dolci colline, immerse nel verde; e le colline diventano vi-
gneti e uliveti. Qui invece le città sono lavate dalla pioggia e
spazzate dai venti. Sono parte integrante di questo paesaggio
deserto, ma nello stesso tempo vi mettono un po’ d’ordine e
forniscono alimento all’immaginazione. La loro bellezza è au-
stera, hanno i colori protettivi del terreno e della pietra, giallo
e grigio. Spesso si fondono, quasi impercettibilmente, in una
grande e liscia parete roceiosa o in cumuli di sabbia gialla. E
queste mura rocciose; questi grandi cumuli di pietre e di sab-
bia, queste brumose cime montane, queste vaste e piatte pia-
nure, simili a enormi vassol, contribuiscono a creare l’effetto
affascinante di una terra desolata, di un paesaggio deserto. Gli
uomini e gli animali si vedono appena. Le cittadine paiono ab-
bandonate. Solo ogni tanto si scorge qualche asino che s’ar-
rampica lento sui ripidi seritieri con il suo pesante carico di
fascine. Li guidano vecchie vestite di nero, con i panni am-

273
Appendici

mucchiati sulla testa.


L’anfiteatro di Pescara è nuovo, ma è fuori città, e negli im-
mediati dintorni non c’è nulla. Soltanto il mare è vicino. La
sera che ci sono stato io, dal mare soffiava un vento freddo,
mentre dalle montagne continuava ad arrivare aria calda. La
scena consisteva di larghi gradini di pietra. In alto c’era il por-
tico dorico della casa di Medea con una grande porta chiusa.
Sopra il portico splendeva la luna, abbastanza bassa e tagliata
a metà. Si copri di nubi nella seconda metà dello spettacolo,
subito dopo, o quasi, l’annuncio di Medea della sua intenzione
di assassinare i figli e la rivale.
A volte la scenografia naturale crea effetti inattesi, quando,
per esempio, il cielo o gli uccelli cominciano improvvisamente
a recitare la loro parte. Ho visto una volta Amleto nel cortile
del castello di Elsinore. Durante il primo grande monologo,
dei gabbiani sfiorarono la testa di Amleto e due di loro s’acco-
vacciarono d’un tratto ai suoi piedi.
Nei teatri chiusi non c’è spazio per il coro, neanche quando lo
scenografo prolunga l’avanscena sino alle prime file della pla-
tea. L’ingresso del coro è artificioso. Non si sa mai se tenerlo
li. o farlo entrare e uscire in continuazione. In tutte le rappre-
sentazioni di tragedie greche che io ho visto il coro è sempre
stato un balletto camuffato. Ma in Sofocle e in Euripide non
è un intermezzo danzato o un commento intellettuale. Non è
esteriore o aggiunto alla tragedia; non ha bisogno diì giustifica-
zioni. Îl coro è semplicemente il popolo. Quattordici ragazze
si fermarono sui gradini di pietra. Frano entrate come entrano
le contadine, come le ragazze di Pescocostanzo quando, la se-
ra, si riuniscono nella piazza del paese-vicino alla fontana. Per
tutta la giornata si sono concentrate sul tombolo, un pesante
cuscino imbottito di fieno e di segatura, sul quale sìi appunta
un merletto appena cominciato. Il merletto viene fatto con la
difficile e paziente manipolazione di piccoli rocchetti dì legno
con fili. Questi rocchetti qui si chiamano ‘“fazzoletti”. Lo stes-

274
Medea a Pescara

so tipo di merletto viene fatto nella stessa maniera in Polonia,


da Zywiec a Zawoja, in tutti i poveri villaggi di montagna sot-
to la Babia e la Barania Géra.
Non so quale impressione faccia Medea nell’anfiteatro di mar-
mo in Grecia. Forse sembra monumentale e remota. Qui a
Pescara, sin dalla prima scena, Medea e il coro delle ragazze
parevano parte integrante del terreno, del paesaggio. Medea
portava i coturni, forse perché era interpretata da un’attrice
minuscola, Era una Medea quotidiana, umanamente infelice e
umanamente vendicativa: assomigliava a quelle contadine che
camminano erette e impettite sotto il carico di venti chili che
sì portano in testa, esauste ma sempre piene di dignità. Inoltre
c’era in lei anche qualcosa di quella notte, in cui il mare sof-
fiava vento freddo che si alternava all’aria afosa proveniente
dalla Maiella.
L’azione della Medea di Euripide si svolge dalle prime ore del
mattino a sera tarda. Ma qui il tempo reale coincideva con il
tempo della rappresentazione. Poche ore di una notte come
quella erano sufficienti a compiere folli imprese che sarebbero
parse impossibilìi di giorno. La luce del sole avrebbe disperso la
follia come le nebbie che inondano Pescocostanzo al mattino.
Non era condensato soltanto il tempo. Altrettanto naturale
sembrava l’unità di luogo: non aveva nulla che facesse pensare
a una poetica artificiosa. Ricordo ancora quanto mi sorprese,
la prima volta che andai a Roma, accorgermi che il Foro ro-
mano era cosi piccolo. Poche centinaia di passi dal Campido-
glio e dalla rupe Tarpea all’arco di Tito. Girai intorno a
quest’arco, a una certa distanza, e sputai come un ebreo orto-
dosso. Re, patrizi, plebei, repubblicani; tutti ì tribuni e tutti i
consoli; le idi di marzo, Nerone e Caligola: quel quadrato tra
due colline era servito da sfondo a quasi tutta la storia di Ro-
ma. Un solo ambiente. L’Acropoli era ancora più piccola del
Foro romano. Corinto non era certamente più grande di Pe-
scocostanzo.

275
Appendici

Nella piazzetta davanti alla casa di Medea sì potevano udire ì


gemiti di Glauca bruciata viva. Nell’ultima scena, Giasone ar-
rivò sfiatato: aveva salito di corsa 1 cento scalini dal palazzo
reale. Prima ancora era apparso Egeo; veniva direttamente da
un porticciolo dove aveva lasciato la barca. Questo porto di
pescatori era quasi visibile dalla casa di Medea. In quasi tutte
le tragedie, c’è una nave che aspetta in porto con le vele spie-
gate. La nave significa fuga. Ma i veri eroì sono chiusi nel pa-
lazzo. Che è insieme prigione e rifugio. Non possono andar
via. Se lo potessero, non ci sarebbe più tragedia. Solo i loro
confidenti sono liberi di andarsene. La Berenice di Racine è la
sola che parta. Ma la sua partenza è un equivalente della mor-
te. Possiamo chiamarla una morte bianca, in una tragedia che
è una tragedia bianca. La partenza di Berenice è di fatto una
morte ritardata, come una mina a scoppio ritardato.
A me, in un teatro coperto, l’unità di luogoè sempre parsa
artificiosa. Qui però era tutto a portata di mano. Nella Medea
di Pescara, la notte era veramente notte, i gradini di pietra
gradini di pietra, il mare vicino un mare vicino. Lo stesso av-
veniva con Amleto a Elsinore, che sì rivelava all’improvviso
nella sua architettura. Amleto lLevitava a Elsinore, non solo
perché Shakespeare aveva ambientato li{ il dramma, ma anche
perché la rappresentazione cominciava al tramonto; nella se-
conda metà il raggio di un faro posto su una torre del castello
percorreva con la sua luce, ora gialla e ora rossa, l’immpalcatura
eretta nel cortile. Lo spettro del padre di Amleto compariva
su autentici spaltie la sua voce arrivava di Î{ al pubblico.
Medea non sì rivolge agli dèi. Per lei non esistono, come non
esiste l mondo e non esistono i suoi figli. Per lei sono figli di
Giasone. Peggio, sono Giasone. Li uccide non per vendicarsi d1
lui, ma perché non può uccidere Giasone: è Giasone che ucci-
de in loro. Ma in realtà per Medea neanche Giasone esiste.
Esiste soltanto lei; lei e la sua disfatta. Neanche per un mo-
mento riesce a parlare d’altro o a pensare ad altro. E’ chiusa

276
Medea a Pescara

in se stessa con la propria sventura, come in un uovo. La folle


monomania di Medea è certo, una scoperta di Euripide. La
monomania la isola, separandola e staccandola dal mondo rea-
le. Grazie alla sua monomania, Medea è sola. Gli eroi tragici
devono essere soli.
Ma il coro delle donne è di questo mondo. Sono venute dal
villaggio, dal porticciolo che è anche un villaggio. Sono venute
per condividere il dolore di Medea. Medea è stata abbandonata
dal marito ed esse vogliono portarle via i figli. Nelle prime odi
il coro lamenta l’ingiustizia del destino umano e dice che è
amara la vita di una ragazza che rimane nubile e amara quella
di una donna che si sposa. Le donne sono dalla parte di Me-
dea e lo saranno sino alla fine. Ma a poco a poco appaiono
sempre più spaventate, non solo dai progetti di Medea ma dai
tormenti che gli dèi le hanno inflitto. 1 loro gesti diventano
sempre più liturgici. Cadono in ginocchio, cominciano a im-
petrare pietà e misericordia, ma non per se stesse. Impetrano
misericordia al dio che si vendica su Medea, Giasone e Creon-
te; sui figli per le malefatte dei genitori; e sui nipoti per quelle
dei nonni.
Mi parve d’un tratto che le donne, salite in cima alla gradinata
sino alla porta chiusa della casa di Medea, si fossero messe a
recitare le litanie della Vergine o del Sacro Cuore. Stavano di
fatto pregando e la loro preghiera era un lungo gemito.
Qualche giorno prima, rientrando dalla mia passeggiata serale,
sui gradini di pietra davanti alla collegiata di Santa Maria del
Colle, avevo notato un gruppo di donne, vestite di nero, che
salmodiavano una litania. E avevo udito lo stesso tipo di gemi-
to. Le parole “abbi pietà di noi” erano state urlate quasi co-
me un grido di disperazione. La porta di Santa Maria del Colle
era rimasta chiusa. Dio vi si era letteralmente sprangato den-
tro.
1l giorno dopo la rappresentazione di Medea, visitai il vecchio
porto peschereccio di Pescara. Nella piazza, accanto al portone

277
Appendici

di una casetta, s’ergeva un’alta colonna con la statua della


Vergine. Colonna e statua erano brutte. Erano state erette
negli anni tra le due guerre. La colonna portava questa iscri-
zione: “Maria, regina del cielo, Maria che regnì sui tuoni, non
uccidere i figli di Pescara”. A Pescocostanzo pioveva a dirotto
da due settimane. Îl raccolto era ormai fradicio e non si era
potuto andare a raccogliere il fieno. Ieri e il giorno prima ave-
vano suonato a stormo le campane di tutte le chiese. Suonaro-
no per due ore, dalle sette alle otto del mattino e dalle tre
alle quattro del pomeriggio: le sette campane della quattrocen-
tesca Santa Maria del Colle, splendidamente indorata; le due
piccole e stridule della nuova chiesa sulla rocca, Sant’Antonio
Abate e, più rumorose di tutte, le quattro del convento dei
frati, con ìl loro suono monotono e sinistro. Suonavano per-
ché Dio s’impietosisse e allontanasse da Pescocostanzo la cala-
mità della pioggia. Avrebbero suonato anche oggi e domani e
dopodomani.
Questo scampanio insistente, lugubre e feroce, avrebbe potuto
concludere la travgedia greca con la quale il teatro greco del
Pireo era. venuto a Pescara. Le campane di Pescocostanzo ave-
vano suonato per placare quello stesso dio che aveva punito
Medea e la famiglia di Giasone. Perché la colpa è sempre degli
uomini, mai di dio. Qui, in tremila anni, dio non è cambiato.

1962

2768
Oreste, Elettra, Amleto

Edipo è un uomo al guale hanno detto che ha ucciso suo pa-


dre e sposato sua madre. Deve rendere conto di un passato
che è il suo, anche se gli piomba addosso come se fosse quello
di un altro. Antigone, per poter gettare una manciata di terra
sul cadavere del fratello, deve violare le leggi della città-stato.
Sceglie cioè uri gesto che la legge punisce con la morte. Ore-
ste, per vendicare il padre, deve uccidere la madre e l’amante
dì lei.
Quasi tutte le grandi tragedie si possono raccontare in due o
tre frasi. Sono, anzitutto e soprattutto, delle situazioni, nell’
accezione esatta che si dà a questa parola in teatro. Situazione
è un rapporto tra l’eroe e il mondo, tra l’eroe e altri personag-
gi. Esiste sempre al presente.
La tragedia di Edipo inizia quando è già successo tutto. Edipo
dovrà venire a conoscenza del proprio passato e soltanto allora
deciderà cosa dovrà fare a se stesso. La tragedia di Antigone
inizia con la sua decisione di seppellire il fratello. È’ di fronte
a una scelta. La tragedia di Oreste inizia con il suo arrivo a
Micene. Sì trova di fronte al proprio compito: al delitto altru:
che diventerà il suo delitto. Nella tragedia la situazione è al
presente, ma ha un passato che la definisce e un futuro che è
già stato predetto. È’ indipendente dal carattere dell’eroe; gli
viene data, per cosf dire, dall’esterno. E° la situazione che de-
finisce la tragedia, non il personaggio di Antigone, di Edipo o
di Oreste. È’ anche indipendente al dialogo, che si limita a
informarcene. La situazione precede la tragedia: ogni tragedia

279
Appendici

sembra essere soltanto una delle sue attuazioni drammatiche


possibili.
Le situazioni tragiche sono, in un certo senso, definitive ed
esemplari. Si può ridurle a un numero definito e limitato di
schemi che possiamo chiamare strutture o modelli basilari. Le
tragedie scritte sono attuazioni differenti di questi modelli.
Non si può capire un mito attraverso l’analisi linguistica dei
documenti storici; non si può interpretarlo a livello di fonemi,
morfemi o anche di unità semantiche superiori. Esiste fuori di
esse, o meglio al disopra, come la tragedia esiste al di fuori, o
al disopra, del dialogo. “Una tragedia greca senza parole”, os-
serva giustamente Kitto!, ‘“se ciò fosse possibile, sarebbe
egualmente tragica, perché il significato è insito nella struttura
stessa”. I miti hanno un tempo storico e un tempo metastori:
co; un tempo in cui hanno avuto origine e la loro validità uni-
versale fuori del tempo. Sono intelligibili anche trasposti, da
una lingua a un’altra, da una civiltà a un’altra, da un sistema
religioso a un altro. Anche una situazione tragicà ha un dupli-
ce tempo: il suo tempo storico e la sua validità universale. L’
analisi strutturale ha una sua disciplina: impone di limitare ?
interpretazione e di rinunciare ad assunti metafisici prestabili-
ti. E° un tentativo di costruire il modello e di definirne le va-
riabili.
“Tutto ciò che deve essere, sarà”. Quasi tutti i teorici della
tragedia hanno usato parole come ‘‘fato”, ‘“destino”, “sorte”.
Hanno parlato della ‘“necessità” come di un fattore costante
della tragedia. E° indubbio che in quasi tutte le tragedie gre-
che, come in quelle di Shakespeare e di Racine, il futuro, o
più semplicemente lo scioglimento dell’azione, è sempre, in un
certo senso, preannunciato, o direttamente — con i canti del
coro, i presagi, gli oracoli e i sogni profétici — o indirettamen-
te, impostando il conflitto in modo da farcene prevedere la
soluzione. Il futuro incombe sugli eroi della tragedia, che ne
sono consapevoli più che gli eroi di altre forme drammatiche.

280
Oreste, Elettra, Amleto

Mi propongo di chiamare questa predizione del futuro una


‘“previsione””, che è un concetto neutro. ] meteorologi preve-
dono il sole o la pioggia, ìl libeccio o la tramontana. Una pre-
visione è una congettura; può avverarsi o non avverarsi. Predîi-
ce con un certo grado, calcolabile, di probabilità. Può avere
qualsiasi valore da “zero” a “uno”, Una previsione sbagliata è
ancora una previsione. Definiamo necessità una previsione con
una probabilità uguale o vicina a “uno”. Improbabilità una
previsione con valore ‘‘zero” o vicino a “zero”. Nella tragedia,
le previsioni s’avverano, o non s’avverano, in maniera diversa
da quella che ci aspettiamo.,
Ogni tragedia può essere considerata in termini di insiemi: per-
sonaggi, azioni, avvenimenti. In qualunque momento è possibi-
le scegliere un particolare elemento di questo msieme, e a
questo punto tutti gli elementi rimanenti costituiscono, per
usare un termine matematico, un ‘insieme complementare’”;
sono cioè ‘““altri” rispetto a Oreste, Elettra o Amleto.
“Il destino”, scrive Gyòdrgy Lukdcs in Il dramma moderno, “è
ciò che arriva all’uomo dall’esterno”. L’insieme complementa-
re è il destino dell’eroe. La sua libertà è tale solo rispetto all’
insieme complementare, gli ‘“altri”’. È’ una decisione, gesto o
azione, autonoma e indipendente dall’azione degli altri. “Lì-
bertà”” e ‘“necessità”” esauriscono il rapporto tra l’eroe e Pinsie-
me complementare, Se in una tragedia ci sono gli dèi, fanno
parte anche loro di questo insieme complementare. Se invece
non ci sono, se la tragedia si svolge sotto un cielo vuoto, per
insieme complementare s’intendono solo le persone e i loro at-
ti. E l’insieme complementare non si dà soltanto per il prota-
gonista della tragedia. Gli “‘altri” non esistono solo per Amle-
to, Oreste o Edipo, ma per Ofelia, Clitennestra o Creonte. So-
no anche 1il loro destino drammatico. .
Ne segue la possibilità di almeno due previsioni differenti: una
per l’insieme nella sua totalità, l’altra per l’eroe, i protagonisti
e persino per le comparse. Le previsioni possono essere diffe-

281
Appendici

renti o addirittura contraddittorie. In fisica si fa una distinzio-


ne precisa tra la predizione per l’insieme e quella per un solo.
elemento, tra quella per una serie di eventi o per un singolo
evento. Quando un soldato getta una bomba a mano, possia-
mo calcolare il diametro del cerchio coperto dalle sue schegge,
ma non prevedere dove cadrà ogni singola scheggia. Nello stes-
so modo possiamo prevedere il tasso di mortalità di una regio-
ne, ma non il momento preciso della morte di un singolo indi-
viduo. În un microcosmo la predizione per una serie è certa,
mentre quella per un singolo elettrone — cioè della sua posi-
zione e del momento in cui verrà a trovarsi in un punto deter-
minato — ha probabilità di poco superiori allo zero.
Per dare un esempio ancora più semplice, nella roulette le pro-
babilità che la pallina si fermi sul rosso o sul nero sono del
cinquanta per cento in ogni giro. Ma nella storia della roulette
di Montecarlo non è mai accaduto che la pallina finisse diciot-
to volte consecutive sul rosso. E’ tuttavia possibile calcolare la
probabilità di questa serie, che è esattamente pari a quella di
qualsiasi altra serie alternativa di rosso e di nero.
Immaginiamo che un giocatore punti il suo denaro sul nero
diciassette volte di. fila e che la pallina finisca ogni volta sul
rosso. Al diciottesimo giro, il giocatore punta ancora sul nero
e la pallina finisce ancora sul rosso. In questo, secondo le leggi
della probabilità, non c’è nulla d’insolito; prima o- poi questa
serie doveva pur uscire. Ma il giocatore? É’ successo a lui, a
lui solo, a nessun altro che a lui, in una breve serie di diciotto
giri. È’ stato 1il primo cui sia mai capitato a Montecarlo. AlP
apparenza ha tutte le ragioni se si lamenta di una particolare
perfidia del destino. _
Se non è un matematico, sarà molto difficile convincerlo che
si sono contemporaneamente attuate tre predizioni differenti.
La prima che dopo diciassette rossi uscirà di nuovo il rosso; la
seconda che uscirà una serie calcolabile di diciotto rossi; la
terza e ultima che proprio lui, giocando a Montecarlo, punterà

282
Oreste, Elettra, Amleto

diciotto volte sul nero perdendo diciotto volte. L’ultima predi-


zione ha, ovviamente, probabilità minime di realizzarsi. La
“perfidia del destino” in questo caso non è che lo scontro tra
due serie differenti di probabilità: una che riguarda il mecca-
nismo e il giocatore, l’altra il mondo e l’eroe tragico.
Facciamo un altro esempio. Se c’è una guerra e se nella guerra
muore gente, qualcuno deve pur essere l’ultimo a morire. Noi
in genere. consideriamo particolarmente tragica la morte dell®
ultimo soldato. Ora la predizione sulla guerra contempla la
morte del primo soldato come dell’ultimo. Ma per 1il singolo
soldato la predizione che lo vuole l’ultimo a morire ha una
probabilità d’attuazione infinitesimale. Di qui la tragicità del
suo caso, come se con lui il destino fosse stato particolarmen-
te perfido. Ancora una volta si sono scontrate due serie di
probabilità differenti: quella riferita alla guerra e quella con-
cernente un individuo con un nome e un cognome. È’ una si-
tuazione tragica e insieme un’opposizione tragica.

2.

Le tragedie greche su Oreste e quelle elisabettiane su Amleto


furono precedute da versioni anteriori dei medesimi intrecci?.
La storia di Agamennone, Clitennestra, Egisto, Oreste è citata
da Omero nell’Odissea; la saga danese, scritta da Saxo Gram-
maticus all’inizio del duecento, è la prima versione che si co-
nosca della storia di Amleto. Il raffronto tra questi due testi è
significativo: cambiano i nomi dei personaggi, ma lo: sviluppo
dell’azione e gli elementi fondamentali del dramma sono iden-
tici.
Nell’Odissea, Agamennone, partendo per la guerra di Troia,
lascia a Micene la moglie Clitennestra. Egisto, suo nipote e
vassallo, torna dall’esilio e s’impadronisce del trono e della re-
gina. Alla fine della guerra, Agamennone rimpatria e viene uc-

283
Appendici

ciso da Egisto e dalla sua guardia del corpo. Trascorrono sette


anni. Torna dall’esilio il figlio di Agamennone, Oreste, e ucci-
de Egisto. Quale sia la sorte di Clitennestra non è chiaro, ma
il banchetto funebre viene celebrato sia per Égisto sia per lei.
‘““Oreste glorioso [...] ammazzò l’assassino del padre [..:] E do-
po averlo ammazzato, cena funebre celebrò con gli argivi, per
la madre. odiosa e per l’imbelle Egisto” (Odissea, HI, 306
sgg.). Quando poi Menelao ritorna con la flotta e con il botti-
no raccolto a Troia, a Micene si ristabiliscono l’ordine e la ric-
chezza. Nessuno contesta l’impresa di Oreste. Omero la defi-
nisce ‘“divina” e Nestore, nell’Odissea, porta Oreste a esemptio
a Telemaco: “Sii forte [come lui] che ci sia chi ti lodi ancora
fra i tardi nipoti” (Odissea, IIl, 200). Oreste eredita il trono.
Nella saga danese il prode vichingo Horwendil uccide il re di
Norvegia e sposa la figlia del re di Danimarca, che gli dà un
figlio, Amleth. Horwendil viene poi proditoriamente assassina-
to dal fratello Fengo, che s’impadronisce del trono e sposa la
sua vedova. Il giovane principe Amleth viene mandato n esì-
lio. Fengo dà ordine di ucciderlo, Ma Amleth sfugge alla mor-
te, ritorna e uccide Fengo. Diventa re e per qualche tempo si
ristabiliscono in Danimarca l’ordine e la ricchezza. Quale sia
stata la sorte della madre di Amleth, Geruth, il cronista non
lo dice; la ignora come Omero ignora la sorte di Clitennestra.
Clitennestra divenne per la prima volta un personaggio dram-
matico tra il VIH e il VI secolo a.C., nelle liriche collegate all’
oracolo di Delfi. În esse partecipa all’assassinio di Agamenno-
ne, o è lei stessa a ucciderlo, e viene a sua volta ammazzata da
Oreste. Il quale Oreste non è più solo: compare accanto a lui
la sorella Klettra. Egli diventa dunque un matricida. E deve
essere punito. Esistono versioni diverse di queste Orestee, ma
in ognuna compaiono le Erinni. Oreste è difeso da Apollo e
perseguitato dalle Furie. Ne sarà tormentato sino al termine
dei suoi giorni o finirà purificato. Ma non regnerà mai a Mice-
ne.

284
Oreste, Elettra, Amleto

Nella versione delfica dell’Orestea viene indicata per la prima


volta l’opposizione tragica. Prima c’era soltanto una sequenza
indiscussa e ininterrotta di vendette familiari. Oreste ereditava
il trono e la storia finiva li. D’ora in avanti le storie sono due:
quella della vendetta per la morte di un padre e quella della
responsabilità. La situazione di Oreste diventa centrale e assu-
me un’importanza determinante.
L’epica e la Hlirica hanno soltanto un tempo: il passato. Sono
una storia raccontata, una storia che è già avvenuta. La trage-
dia ha inizio dalla divisione dell’Orestea in due tempi: quello
che è stato e quello che è. Oreste arriva a Micene all’alba e.
uccide Clitennestra ed Egisto al tramonto dello stesso giorno.
La roulette gira costantemente: ha un passato, un futuro e un
presente. La tragedia è al presente,
Tutte le opere drammatiche esistono al presente, ma la trage-
dia, in più, ricorda il passato e predice il futuro. È’ un presen-
te sospeso tra un passato definito e un futuro definito.
L’Orestea di Eschilo è una trilogia (Agamennone, Le coefore,
Le Eumenidi) e ha quindi tre presenti: la situazione di Cliten-
nestra prima dell’uccisione di Agamennone, la situazione di
Qreste prima di compiere la vendetta e la situazione dello stes-
so Oreste dopo questo atto. Ogni parte della trilogia predice la
suecessiva. Le Erinni perseguitano Oreste per l’assassirtio della
madre. Nelle Coefore è solo Oreste che le vede. Ma non sono
parti della sua immaginazione. “Non vani fantasmi mi strazia-
no: le rapide cagne di mia madre sono queste: le vedo” (10583
sg.)°. Nelle Eumenidi sono fisicamente presenti sulla scena e
puzzano di sangue. In Sofocle e’è soltanto un presente, la vita
di Oreste ed Elettra, che resteranno per sempre a guardare il
cadavere della madre. Le Furie non occorrono. Non c’è conti-
nuazione. Alla fine dell’Alettra di Euripide, in luogo delle
Erinni, ci sono i dioscuri, Castore e Polluce, che appaiono in
un canestro. È raccontano ai matricidi terrorizzati che sono
stati vittime di un errote; Zeus non voleva che il delitto venìis-

285
Appendici

se commesso. È’ stato tutto uno sbaglio, un malinteso, sin


dall’inizio. Gli dèi si fanno gioco degli uomini. La guerra di
Troia non era necessaria, perché Elena non ha mai messo pie-
de a Troia: gli dèi l’hanno portata in Egitto, dove è rimasta ad
attendere il ritorno di Menelao. Ifigenia, la figlia maggiore di
Agamennone, non è stata sacrificata ad Artemide: gli dèi, all’
ultimo momento, l’hanno salvata e se la sono portata via. L’
Orestea viene cosi investita d’ironia e svuotata di mistero.
La predizione tuttavia si compie: Oreste ha uecciso e, secondo
ciò che preannunciano Castore e Polluce, sarà tormentato dal-
le Furie, finché il consiglio dell’Areopago, come in Eschilo,
non lo monderà d’ogni colpa. Predizione significa informazio-
ne. Abbiamo dunque, come sempre, un trasmittente, un rice-
vente e un messaggio comunicato. Solo che in questa tragedia
la situazione è eccezionale: il ricevente agisce in buona fede, il
messaggio comunicatoè vero, ma il trasmittente si rivela falso.
‘“E’ stato un demone nelle forme del dio che mi ha parlato? ”
si chiede Oreste in un improvviso accesso di dubbio (979)“. In
ogni caso Apollo non aveva il diritto di spingere i figli di Aga-
mennone a un nuovo omicidio. Nell’epilogo Castore dichiara
autorevolmente. dal suo canestro, in nome di entrambi ì dio-
scuri: “E’ su Febo che faccio ricadere la colpa di quest’opera
di sangue” (1296). È’ un esempio di divina ironia, tradotta nel
linguaggio della teoria delle comunicazioni.
Anche nel trattamento di Shakespeare, tutte le pred1z1om s’av-
verano, ma per la prima volta Oreste-Amleto muore. l ciclo
della vendetta sì è chiuso. Come Menelao nell’Odissea, Forte-
braccio arriva a Elsinore e vede i cadaveri. Ma il suo arrivo
significa che nella Micene danese verranno ristabiliti l’ordine e
la giustizia? Questo non lo sappiamo.
Per il momento, comunque, asteniamoci da qualsiasi interpre-
tazione. Dobbiamo prima estrapolare gli. elementi che restano
invariati nelle diverse versioni dell’Odissea, vale a dire la sua
struttura basilare? C’è la catena dei tre morti, Agamennone,

206
Oreste, Elettra, Amleto

Clitennestra ed Egisto, ai quali corrispondono il vecchio Amle-


to, Gertrude e Claudio., In Shakespeare la morte di Gertrude è
casuale, forse un suicidio, ma la natura della sua morte non ne
modifica il carattere strutturale. La situazione basilare dell’uo-
mo è il fatto che deve morire. Îl tipo di morte non muta la
natura essenziale dell’esistenza umana; in ultima analisi, non è
importante. Ciò che conta è che dobbiamo morire, non la ma-
niera in cui moriremo. '
E’ tuttavia importante l’ordine in cui avvengono le morti. In
FEschilo, viene ucciso prima Egisto, poi Clitennestra; in Sofo-
cle, prima Clitennestra, poi Egisto; in Euripide, prima Egisto,
poi Clitennestra; in Shakespeare, muore prima Gertrude, poi
Claudio. L’assassinio di un usurpatore chiude il ciclo della ven-
detta familiare, ma l’uccisione della madre come seconda vitti-
ma, alla fine della tragedia, acquista una particolare crudeltà.
L’assassinio di Egisto chiude le tragedie dominate dal motivo
della vendetta per il padre; quello di Clitennestra bolla Oreste
anche di matricidio. In questo modello di tragedia due sono i
conflitti e due i temi.
Altro elemento della struttura è la divisione tra ciò che è stato
e ciò che è. L’azione drammatica della parte centrale della tri-
logia di Eschilo su Oreste, delle due Elettre e dell’Amleto di
Shakespeare inizia col ritorno di Oreste-Amleto. Ciò che è sta-
to è la storia della famiglia, la catena dei delitti che si sono
susseguiti da una generazione all’altra, la storia dei re che am-
mazzano e vengono ammazzati. În Eschilo la storia inizia con
gli dèi e con i loro discendenti umani. È’ una teodicea che
diviene storia, cominciando con il delitto di Tantalo e finendo
con la convocazione dell’Areopago. Îl passato è predizione
dell’intero insieme e del destino drammatico di Oreste. Ma la
situazione di Oreste contiene un’altra predizione, quella della
responsabilità e del castigo. Siamo nel presente ed è quindi
una situazione di scelta: uccidere o non uccidere. Ueccidere è
la predizione dell’insieme. Tutto il resto, tutti i rapporti tra

287
Appendici

Oreste-Amleto e il mondo, tra Oreste-Amleto e gli altri, è mo-


dificabile.
A differenza del Partenone, Micene non era di marmo bianco.
Il palazzo reale della maledetta stirpe d’Atreo era fatto di
enormi blocchi di pietra grigia e rossa e sorgeva in cima a una
montagna oggi brulla; non ci sono né alberi né cespugli, ma
solo ciuffi d’erba gialla bruciata dal sole. Anche nelle prime
ore del mattino, le pietre fumano come forni roventi. L’at-
mosfera è opprimente. La tomba di Agamennone è sotto, pa-
recchie centinaia di gradini. È’ una camera sormontata da una
grande cupola a forma di cono. La voce riverbera sulle pareti
e ritorna con echi molteplici. Vi si entra come nella notte.
In tutte queste tragedie il padre è presente. Oreste sacrifica
una ciocca di capelli sulla tomba di Agamennone. Clitennestra
ha paura della tomba. In Euripide, Egisto la odia e la prende a
sassate. In Eschilo la tomba, in forma di tumulo, è parte in-
tegrante della scena. Se il fato è “ciò che arriva dall’esterno”,
è il padre che occupa, sia in Eschilo che in Shakespeare, il
primo posto nell’insieme complementare. In Amleto è addirit-
tura un personaggio che interviene due volte nell’azione. “O
terra, riportami su il padre a dirigere la battaglia! ” (Le coefo-
re, 489). Anche il più antico degli Amleti vuol passare al pa-
dre il fardello delle responsabilità.
In termini drammatici, il destino è una pressione esercitata
sull’eroe. Nelle Coefore il coro incita Oreste ed Elettra sin dal-
la prima scena:
Coro — E contro i colpevoli dell’uccisione... ricordati, ricorda-
ti...
Elettra — Che debbo dire? Istruiscimi, io non so, guidami.
Coro — Che contro costoro qualcuno venga, o dio o mortale.
Elettra — Giudice, dico, o giustiziere?
Coro — Ah; dillo senza ambagi: uno che ricambi morte con
morte.
(Le coefore, 117 sgg.)

206
Oreste, Elettra, Amleto

Gli eroi esistono sempre al presente, ma in Éschilo il coro in-


corpora tutti i tre tempi: presente, passato e futuro. E° la .me-
moria del passato tuttora viva sulla scena: una memoria che
evoca costantemente tutti gli anelli della catena del delitto e
predice la ripetizione del ciclo della vendetta. În Sofocle e in
Euripide lo compongono le amiche di Elettra e le donne di
Micene; in Eschilo le prigioniere troiane. Il loro odio per Cli-
tennestra e per Egisto ha una motivazione drammatica: ricor-
dano la distruzione di Troia, perché è il loro passato. La dì-
struzione della casa di Atreo sarà la loro vittoria.
In Eschilo il coro è un attore della tragedia; in entrambe le
Elettre è soltanto un testimone e un commentatore. In Sofo-
cle ha ancora paura del tiranno: è fatto di contadine spaventa-
te e quasi reali. In Euripide è più lirico. I suoi canti, come
quelli di Brecht, si pongono a un altro livello, fuori dell’azio-
ne.
Nella tragedia deve essere presente il passato. Il praesens dì
‘Oreste dura dall’alba al tramonto: con Clitennestra ha soltanto
un incontro, nella scena in cui la uecide. La funzione del coro
- è ora svolta da un nuovo personaggio. E° Elettra che ne sarà la
presenza viva sulla scena. Oreste è colui che uccide. L’Elettra
di Sofocle è colei che ricorda e non può uccidere.
Elettra — O donne, io mi vergogno se vi sembro troppo impa-
ziente con i miei continui lamenti. Ma, comprendetemi, è la
necessità che mi costringe. Come può una donna di nobile
cuore comportarsi altrimenti, quando vede l’offesa dolorosa a
suo padre morto perpetuarsi di giorno e di notte, offesa che
aumenta, fiorisce invece di languire? Mia madre, quella che
mi generò, è la mia nemica peggiore. Con lei ho rapporti di
odio; devo vivere, in casa mia, con gli assassini di mio padre.
Essi mi comandano, essi mi dànno, essi mi tolgono. E poi,
quali giorni mai pensi che io trascorra, vedendo lui, Egisto, as-
siso sul trono, il trono di mio padre? quali giorni quando lo
vedo che sparge libagioni davanti al focolare, nella sala dove lo

209
Appendici

uccise? Quando vedo l’oltraggio supremo: giacere ogni notte


nel letto di mio padre il suo uccisore a fianco di mia madre
sciagurata, se madre può chiamarsi costei che si distende ac-
canto a quell’uomo?
(Elettra, 254 sgg.)®
Elettra è figlia di re, ma privata di tutti i privilegi della sua
nascita e della sua condizione. In Sofocle l’hanno costretta a
restare zitella. In Euripide l’hanno degradata dalla posizione
sociale che le spetta, l’hanno obbligata a sposare un uomo che
le è inferiore, l’hanno insomma alienata, nell’accezione lettera-
le, fisica del termine. ÈE’ stata posta in una situazione obbliga-
ta, costretta com’è alla scelta fondamentale tra l’accettazione
totale e il rifiuto totale: accettare cioè la propria sorte o rifiu-
tarla; accettare un mondo in cui sua madre ha ammazzato suo
padre o respingere questo mondo, con tutte le conseguenze
che una tale decisione comporta. Nella discussione di Elettra
con la sorella Crisotemide, come in quella di Antigone con la
sorella Îsmene, vengono alla luce tutte le grandì opposizioni:
la fedeltà ai morti e la fedeltà ai vivi, la rivolta contro l’auto-
rità e l’obbedienza a chi detiene il potere, la rinuncia e il com-
promesso. Si chiede a Elettra di dimenticare, ma è lei quella
che ricorda. La memoria di Elettra è la presenza del passato e
la predizione della vendetta.
Non è solo che Elettra incita Oreste alla vendetta: è la sua
situazione che fornisce il movente psicologico di quel gesto.
L’azione drammatica di ogni tragedia consiste nel procrastina-
re il momento dell’uccisione; l’introduzione del personaggio di
Elettra crea la necessaria suspense. Sì può individuare con
esattezza il punto in cui, nell’Amleto di Shakespeare, inizia la
vera azione di Oreste. E° alla fine della prima scena del V at-
to, quando Amleto salta nella tomba di Ofelia. Elettra è “ap-
parentemente viva”, Oreste è “apparentemente morto”S. An-
che Amleto è apparentemente morto: il suo balzo nella tomba
di Ofelia, come la discesa di Laerte nella stessa tomba, non

290
Oreste, Elettra, Amleto

sono soltanto una situazione teatrale; sono il segno teatrale di


una morte apparente e il preannuncio di una morte reale. A
partire da quella scena, Shakespeare mantiene l’unità di tempo
e di luogo. La previsione si avvera. Accadrà presente tutta la
corte, che, come un coro greco, svolge la funzione di un testi-
mone. La previsione si avvera in modo solenne, accompagnata
dal cerimoniale di corte, con il rituale di un duello e la litur-
gia di un funerale di re, con squilli di trombe e rulli di tambu-
ri. I1 cadavere di Amleto viene portato via, quelli di Claudio e
Gertrude restano sulla scena, come in una tragedia greca.
La costruzione’ drammatica di Amleto si basa, alla maniera
greca, sul principio del ritardamento. Secondo le interpretazio-
ni classiche, sono le esitazioni di Amleto che creano la suspen-
se drammatica; Amleto è troppo debole per assumersi il peso
dell’azione. Ma questa interpretazione tradizionale sembra in-
sufficiente. Le ‘‘esitazioni” di Amleto non derivano dal suo
carattere, ma dalla sua situazione. Dalla fine della prima scena
del quinto atto, Amleto è nella situazione di Oreste, mentre
nei primi quattro atti era stato nella situazione di Elettra: pri-
vato dei propri diritti, soggetto all’assassino di suo padre, mi-
nacciato, come lei, di esilio o di morte. In Sofocle: ‘“Essi han-
no intenzione, se non la smetti con i tuoi lamenti, di richiu-
derti in un luogo dove non vedrai più la luce del giorno” (379
Sgg.).
Le somiglianze non sono soltanto al livello esteriore dell’azio-
ne. La sostanza psicologica di entrambe le Elettre — Sofocle
ed. Euripide — è il conflitto tra figlia e madre, il rifiuto di
accettare una madre che è stata complice di un delitto e ha
tradito il padre. Il dramma di Amleto si svolge allo stesso li-
vello di rapporto con la madre. Ad Amleto, come a Elettra, la
madre chiede di dimenticare, ma Amleto, come Elettra, è tut-
to memoria . ostinata. L’Elettra di Sofoele sì lamenta della-
madre con il coro: “Costei, nobile a parole, mi getta ingiurie
gridando: ’O créeatura odiata dagli dèi, sei forse tu la sola cui

291
Appendici

sia morto il padre? Non ci sono forse altri mortali in lutto? ‘’


(287 sgg.). Analogamente in Shakespeare:
Gertrude — Amleto caro, smetti quel colore di notte e volgi
un occhio amico al re di Danimarca. Non cercare sempre, con
quel tuo sguardo a terra, il tuo degno padre nella polvere. E,
lo sai bene, legge comune che ogni cosa viva muoia: passando
per la natura all’eternità.
Amleto — Difatti, signora mia, è molto comune.
{...]
Claudio — [...] tutto ciò è un insulto al cielo, insulto al morto,
insulto alla ragione, a cui è quotidiano argomento la morte dei
padri [...]
(Amleto, I, 2, 68-74, 101-4)
Amleto, come kKlettra, non intende accettare un mondo nel
quale un usurpatore e un àssassino occupa il trono e il letto di
suo padre. “Un atto sanguinario, si! Quasi, mia buona madre,
quanto uccidere un re e sposarne il fratello! ” (III, 4, 28 sg.).
Entrambe le Elettre, la tragica eroina di Sofocle, ermeticamen-
te imprigionata nel suo odio, e la piccola criminale di Euripi-
de, nevrotica e sessualmente frustrata,si considerano figlie so-
lo del loro padre. Ed entrambe le Clitennestre lo capiscono
benissimo. In Sofocle: “Tuo padre, nient’altro, è il tuo prete-
sto eterno”. (526). In Euripide: ‘“Figlia, il tuo cuore è sempre
con tuo padre. Sei nata cosî. È’ una cosa che accade spesso.
Certi tengono dalla parte del padre [...]” (1102).
Entrambe le Elettre, come Amleto, sono perennemente tor-
mentate e umiliate non tanto dall’uccisione di un padre quan-
to dall’immagine di una madre che va a letto con un altro uo-
mo. L’Elettra di Sofocle grida in faccia a Clitennestra: “Spie-
gami, se ti piace, perché ti comporti cosf ignobilmente, tu che
dormi con l’uomo che tì aiutò a uccidere mio padre” (585).
Quella di Euripide urla la sua protesta alle donne del villaggio:
“E io ora nella casa di uno che lavora con le mani [...] passo i
miei giorni e sento la vita che a poco a poco sì sfa. Mia madre

292
Oreste, Elettra, Anì…léfò

ha come sposo un. drudo nel letto dell’assassinio” (207. sg ,


211 sg.). Amleto, nella scena del salotto, le chiede alla fine
una cosa sola: “Buonanotte. Ma non andate nel letto di mio
zio [...] Fate astinenza questa notte” (III, 4, 153, 165). L’
Flettra di Sofocle s’identifica cosi completamente con il padre
che per lei la madre non è più madre: “Îo vedo in te una
padrona più che una madre” (597). Amleto ripete quasi alla
lettera -le sue parole: “Voi siete la regina. La moglie del fratel-
lo di vostro marito. È anche — cosiî non fosse — mia madre! ”
(III, 4, 15 sg.)? .
Alla situazione di rifiuto, comune a Elettra e Amleto, conse-
gue la scelta successiva, tra suicidio e vendetta. Anche questa
è una scelta forzata, imposta, per cosf dire, dall’esterno. L’or-
dine morale è stato violato: bisogna ristabilirlo o congedarsi
da questo mondo. E’ una scelta cui nei primi quattro atti
Elettra e Amleto sono impari. Incombe su di loro, ma essi la
evitano. Sì sentono troppo deboli. “Chi vive tra 1 mali altri
mali commette” (Sofocle, Elettra, 308) ricorda la famosa frase
di Amleto a conclusione del primo atto: “E non è una danna-
ta beffa che proprio io avessi da nascere per rimetterli in se-
sto! ”
In nessun’altra delle grandi tragedie shakespeariane il monolo-
go è cosi essenziale. La ragione è che la scelta concerne la pre-
sa di coscienza non l’azione. Amleto può discuterne solo con
se stesso; l’Elettra di Sofocle parla al coro, ma in realtà si ri-
volge a se stessa anche lei. Il lamento all’annuncio della pre-
sunta morte di Oreste ricorda nel tono, nel tema e persino
nello stile uno dei maggiori monologhi di Amleto:
Sono sola. Né tu ci sei, né mio padre. Dovrò ancora servire a
questi nemici che .uccisero mio padre. Questa è la mia dolce
sorte! Non più, non piùu voglio entrare qui dentro a vivere
con loro [...] Bene mi faranno se mi uccidono, male se vivo.
Di vivere non ho più desiderio.
(Elettra, 813 sgg., 821 sg.)

2903
Appendici

Nei primi quattro atti Amleto è nella situazione di Elettra e


gli si presentano le scelte che Elettra non ha fatto. Ma che
accade in questo modello di tragedia allo spazio vuoto che
Flettra aveva occupato? Oreste-Amleto agisce al livello della
grande. predizione; Elettra — ripetiamolo — fornisce al suo at-
to un movente drammatico e psicologico. Gli “altri’”” per Ore-
ste sono, anzitutto e soprattutto, Elettra; per Amleto, anzitut-
to e soprattutto, Ofelia. Che, come Elettra, è figlia di un pa-
dre assassinato. Ofelia è un’Elettra che è passata per la pazzia
e ha scelto il suicidio.
Le opposizioni — Oreste-Elettra, Amleto-Ofelia — sono sogget-
te a modifiche, pur conservando gli stessi segni contrapposti.
Amleto è apparentemente morto, Ofelia muore davvero; Amle-
to è apparentemente pazzo, Ofelia impazzisce realmente. In
Eschilo e in Euripide, Oreste impazzisce dopo il delitto; in So-
focle abbiamo, come dice Duvignaud, un Oreste sonnambulo
che uccide come se fosse in trance®. L’Amleto di Shakespeare
e ì suoi predecessori delle saghe nordiche fingono di essere
pazzi e a volte lo sono veramente.
Naturalmente, la parola e il concetto di pazzia possono appli-
carsi a stati e situazioni differenti. Per i greci sembra che la
pazzia fosse soprattutto un segno rituale o liturgico collegato
agli dèi. Ce n’erano due tipi diversi: uno mandato da Apollo,
l’altro dalle Furie. La stessa distinzione ricompare nel medioe-
vo e la si può ritrovare anche nella tradizione rinascimentale:
ai pazzi di dio si contrappongono quelli posseduti dal diavolo.
Ma pazzia ha anche un terzo significato. Non è solo Elettra
che è e vuol essere pazza: “Oh sf, questo furore mio non i-
gnoro. Ma finché vita mi tiene, nella sventura mia non voglio
porre fine all’affanno” (221 sgg.). Anche Antigone è conside-
rata pazza e il Prometeo di Eschilo replica a Ermete che lo ha
trattato da pazzo: “Si, se odiare i nemici è una pazzia”” (978).
Chi si ribella all’autorità, ai re, chi antepone la fedeltà ai mor-
ti aì doveri verso i vivi, chi non vuole accettare il mondo, è

294
Oreste, Elettra, Amleto

pazzo. Pazzia dunque può significare una di queste tre cose:


consacrazione, punizione, ribellione. Anche il fool è pazzo. La
tragedia greca, tranne qualche eccezione in Euripide, non co-
nosceva il personaggio del buffone tragico; è stato Shakespeare
a introdurlo nella tragedia. In Amleto non esiste il buffone di
corte, ma Amleto stesso assume davanti agli altri il ruolo del
tragico fool e vede se stesso nello specchio del clown.
La pazza Elettra è la sorella di Oreste; la pazza Ofelia è la
sorella di Laerte. Nel sistema speculare di Shakespeare, Laerte
è il riflesso o il doppio di Amleto. Anche lui vendica la morte
del padre, ed è per mano sua che muore Amleto, trafitto da
una spada avvelenata. Il rapporto tra Ofelia e Amleto è sessua-
le, ma nelle saghe nordiche — come ha notato per primo Gil-
bert Murray — l’amante di Amleto era anche la sua sorella di
latte. Nei miti e nelle tragedie accade spesso che le coppie sia-
no legate da questo duplice rapporto, che siano amanti e insie-
me fratello e sorella. L’Elettra di Sofocle è per il fratello più
di una madre, più di una nutrice, forse anche più di una soreîl-
la: “Mai tu non fosti alla madre più caro che a me; e non altri
di casa, ma io ti nutrivo, io ti allevavo e sempre mi chiamavi
sorella” (1146 sgg.). Il suo atteggiamento nei confronti di
Oreste è quasi erotico. “Quale funesto cammino fu il tuo che
ti ha condotto fin qui a distruggermi, o amatissimo fratello.
Tu che sei nulla ricevi ora nella tua urna anche me che son
nulla, nel nulla; ad abitare con te sottoterra per sempre. Quan-
do stavi quassù, era comune, eguale la nostra sorte. Cosf desi-
dero di giacerti vicino ora nella tomba, anch’io morta” (1163
Sgg.).
L’indicazione di un incesto mai consumato che incombe sui
due personaggi è ancor più evidente in Euripide, dal primo in-
contro, nel quale Elettra, non avendo riconosciuto Oreste, te-
me senza ragione che lo straniero intenda violentarla, sino all’
addio conclusivo prima di separarsi per sempre da lui: “Ab-
bracciami, avvicina il tuo cuore al mio cuore, fratello. amato.

295
Appendici

La maledizione del sangue della madre cìi allontana dalle case


paterne” (1321 sgg.).
Oreste ed Elettra possono essere uniti solo nella morte comu-
ne o nel comune spargimento di sangue. Tuttavia l’ambiguità
del loro rapporto sembra intenzionale. In Eschilo, nel momen-
to decisivo, quando Oreste esita a uccidere la madre, per la
prima e unica volta prende la parola Pilade, chiedendogli di
colpire in nome dell’obbedienza alla volontà degli dèi. In So-
focle, quando Oreste ha un analogo momento di esitazione e
si odono le urla di terrore di Clitennestra, è Elettra che urla,
al culmine del suo delirio: ‘Colpisci ancora, se puoi! ”
(14135). Sì unisce cosi a Oreste con il sangue della madre, an-
ziché con il proprio.

Ma il delitto di Micene non è soltanto un affare di famiglhia: la


vittima è un re, un sovrano. Di conseguenza non è solo una
violazione dei vincoli familiari, ma la conquista del trono da
parte di un usurpatore. Nella tragedia, le situazioni esemplifi-
cano sia opposizioni morali sia conflitti politici, nel senso let-
terale della polis greca, città e stato. Per questo Tebe viene
colpita da una pestilenza per ì delitti di Edipo e Micene è con-
dannata per i delitti della casa di Atreo e “c’è qualcosa di
marcio nel regno - di Danimarca”, dopo l’assassinio del padre di
Amleto. La figura del re sovrano è caratterizzata da una dupli-
ce contraddizione. Fa parte della comunità, ma nello stesso
tempo ne è al di fuori; è un uomo come gli altri, ma è anche
una figura sacra. 1 re delle tragedie greche fanno risalire agli
dè; le origini della loro schiatta; i re eristiani sono gli unti del
Signore. E anche una volta smontata la sacralità del potere re-
gio, resta la trascendenza della storia. 1 delitti compiuti a livel-
lo del trono comportano non solo una violazione dell’ordine

296
Oreste, Elettra; Amleto
: ;

morale, ma una catastrofe per lo stato. Nelle' due Elettre Eg'l-


sto è un tiranno; dopo il delitto di Elsinore, “la.Danimarcaè — ::
una prigione”. _
Quando, nelle Coefore, dopo l’uccisione di Egisto, Glitennestra
sale di corsa le scale del palazzo, invoca a gran voce una scure.
Vuole difendersi. Vuole la stessa scure che le è servita per am-
mazzare Agamennone. Nella trilogia di Eschilo, la scure è un
segno teatrale del ciclo delittuoso. Io ho visto scuri dell’epoca
della guerra di Troia nel museo di Eraclio. Sono doppie scuri
di bronzo pesante, simili alle alabarde medioevali. Con un filo
di lama di una di queste armi si uccide, con l’altro si viene
uccisi. Clitennestra è la prima personificazione dell’unità tragi-
ca tra carnefice e vittima.
Nell’Elettra di Euripide l’azione, per la prima volta, non si
svolge davanti al palazzo di Atreo, ma in un villaggio alle por-
te di Micene, davanti al misero tugurio del marito di Elettra.
Gli eroi non sono eroici. Qreste è un vagabondo qualunque;
Elettra è stata data in moglie a un povero contadino perché
non possa generare principi. Tutte le motivazioni sono dirette,
psicologiche, realistiche. FElettra odia la madre non tanto per
la morte del padre quanto per le umiliazioni che ha subito.
Questo odio cancella tutto il resto. Chtennestra è invece mol-
to umana. Si lamenta delle passate infedeltà di Agamennone e
parla delle infedeltà di Egisto. Ha paura dell’amante, ma ha
ancor più paura del- ritorno di Oreste. Yuole soltanto vivere.
Le illustri origini e l’oracolo di Delfo sono qui molto più in-
dietro, prima che abbia inizio l’azione, cioè fuori della trage-
dia vera e propria. Il “destino” di Oreste è il ruolo che gli è
stato imposto. Deve uccidere perché si chiama Oreste. Quando
Elettra impone il delitto, rabbrividisce. Vuole soltanto farla fi-
nita al più presto. In seguito diventano due ragazzini spaventa-
ti. Hanno ammazzato la madre, ma non sanno bene perché.
La predizione si è avverata, ma il suo senso, la sua validità, la
sua necessità vacillano prima ancora che glìi ironici dioscuri,

297
Appendici

Castore e Polluce, calino in un paniere dal tetto del palazzo.


In Shakespeare, come nelld tragedia greca, tutte le predizioni
si avverano. Come quelle di Eschilo e di Euripide, le sue trage-
die si chiudono con un ritorno alla legalità, ma ‘“necessità”,
‘“destino” e persino ‘“legalità’” vengono revocati in dubbio.
La predizione di Amleto è fatta dallo spettro di suo padre. La
predizione dell’insieme, di tutti gli: avvenimenti, è già nel rac-
conto di Orazio nella prima scena del primo atto. Il veechio
Amleto, re di Danimarca, ha ucciso in duello-# vecchio For-
tebraccio, re di Norvegia, per risolvere una questione.di fron-
tiere. Successivamente Claudio ha avvelenato il vecchio Amle-
to, ha sposato la sua vedova ed è salito sul trono danese. Cosa
possiamo aspettarci? Evidentemente la prognosi è un ciclo di
vendette feudalì che comprenderà l’uccisione di Claudio e Ger-
trude per mano di Amleto. Anche il giovane Fortebraccio ha
dei conti da regolare. La stessa prognosi prevede dunque l’uc-
cisione di Amleto per mano del figlio del vecchio re di Norve-
gia ammazzato in duello. Il giovane Fortebraccio deve diventa-
re re di Danimarca. E’ questa la sovrastruttura dell’azione
nell’Amleto di Shakespeare.
In questa prognosi, soltanto l’ordine delle morti è esatto. Il
regno del giovane Fortebraccio dovrà essere preceduto da
quattro cadaveri. Il vecchio Amleto è stato ammazzato prima
che cominci l’azione. Quando il rullo dei tamburi annuncia }°
arrivo di Fortebraccio, ci sono altri tre cadaveri in scena. Le
morti di Claudio e Gertrude sono una ripetizione della struttu-
ra immutabile della tragedia di Oreste. Amleto è però sin dall’
inizio la storia di un ciclo di vendette e della sua conclusione.
Ma perché il ciclo di vendette si possa chiudere, bisogna che il
giovane Fortebraccio salga sul trono danese senza spargimento
di sangue. E perché questo accada bisogna che Amleto muoia
senza che sia stato Fortebraccio a uecciderlo. Prima di morire,
Amleto deve vendicare il padre, ma senza macchiarsi di matri-
cidio o anche di un delitto consapevolmente premeditato.

298
Oreste, Elettra, Amleto

Qual è la scelta che gli si prospetta? Si può dare una risposta


apparentemente semplice: può uccidere o non uccidere, vendi-
care suo padre o andarsene da Ejsinore. Nel Breviario di esteti-
ca teatrale Brecht dice che Amleto non riesce ad applicare ‘“la
nuova logica appresa all’università di Wittenberg. Essa non fa
che intralciarlo negli intrighi feudali ai quali è ritornato. Di
fronte a una prassi illogica, la sua logica è del tutto priva di
senso pratico. E della contraddizione fra un talé raziocinio e
un’azione cosî diversa, egli cade tragicamente vittima”’°.
Îl ragionamento di Brecht è giusto solo in parte. La vera scelta
che Amleto deve fare è un po’ diversa. Può e deve scegliere
tra l’Amleto che ucciderà e quello che non ueciderà. È’ in una
situazione coatta, che comporta due possibilità, entrambe im-
poste dall’esterno. Nessuna gli appare accettabile. Lo aliene-
rebbero entrambe dalla società, o come uomo che ha ucciso o
come figlio che non ha vendicato la morte del padre. L’Oreste
di Euripide formula con precisione questa contraddizione tra 1
doveri, come se avesse letto Hegel: “Che dovevo fare? Opponi
due ragioni a due altre”” (551 sg.)'° .
Amleto non può né accettare di scegliere né andarsene. Non
potrà mai più essere di nuovo se stesso, cioè l’Amleto che era
prima, che non era costretto a una scelta impossibile. Di qui
l’idea del suicidio come unica via d’uscita. Nessuna delle parti
che gli sono imposte è sufficientemente giustificata, nessuna è
autentica. La sua libertà è illusoria, nel senso che può si deci-
dere di non ammazzare, ma ciò significherebbe comunque
scegliere una delle parti impostegli. A differenza di Oreste,
Amleto non accetta di scegliere. Sarà tuttavia costretto a far-
lo: costretto dagli ‘“altri”. “IL destino è ciò che arriva dall’e-
sterno.”. Il ‘“destino” che obbligherà Amleto a vendicare il
padre è uno scambio di spade, una delle quali è stata avvelena-
ta. Îl vino avvelenato destinato ad Amleto è anche il ““desti-
no” di Gertrude. La ‘“necessità” è qui una serie di fatti casua-
li, dai quali è esclusa la trascendenza. Di tutte le predizioni

299
Appendici

possibili, quella che Amleto morirà e vendicherà il padre in


questo modo sembrerebbe la meno probabile.
A Stratford, nell’autunno del 1965, David Warner ha interpre-
tato Amleto con la regia di Peter Hall. Quando tutto è chiari-
to — quando cioè è finito il duello, è morta Gertrude e Laerte
ha scoperto l’inganno di Claudio — Amleto afferra il re, lo
butta per terra, gli getta in faccia il vino avvelenato e poi, len-
tamente, gli versa nell’orecchio 1il rimanente del veleno. Secon-
do questa interpretazione, uccidendo Claudio esattamente nel-
lo stesso modo in cui Claudio aveva ucciso suo padre, Amleto
attua la predizione in maniera rituale. In Eschilo, dopo aver
ucciso Clitennestra, Oreste mostra al coro la rete insanguinata
che essa aveva gettato su Agamennone al momento di ammaz-
zarlo. In Sofocle, Oreste trascina Egisto nel luogo dove è mor-
to Agamennone ed è li che lo uecide.
Amleto muore. Aveva preparato una trappola per sorci nella
quale voleva prendere l’assassino del re. Ma è il mondo, ‘‘gli
altri”, che si è rivelato la vera trappola. Ed è lui che è stato
intrappolato. Non poteva evitare di scegliere: è stato preso in
trappola suo malgrado. Nello spettacolo di Hall, pronuncia le
sue ultime parole e ride. Ride a lungo. Gli è rimasta soltanto
questa terribile risata. Risata che mostra il suo rifiuto di iden-
tificarsi con la parte di Oreste; quella che gli è stata imposta:
l’Amleto che ha ucciso perché cosi prevedeva la grande predij-
zione.
Nella versione di Shakespeare, perdono tutti. Claudio agisce
secondo il principio della massima efficienza: tenta prima di
conquistare Amleto, poi di levarlo di mezzo, infine di uccider-
lo. È muore. Polonio segue la stessa procedura: vuole sondare
le intenzioni di Amleto, renderlo innocuo, forse anche dargli
la figlia in moglie. E muore anche lui. Gertrude vuole evitare
il cataclisma, salvare sia il marito sia il figlio. Ma non riesce a
salvare nessuno, neanche se stessa. L’insieme complementare,
gli “altri”, il “destino che arriva dall’esterno”, la predizione

300
Oreste, Elettra, Amleto

per tutto l’insieme si rivelano più forti dei più saggi consigli e
delle azioni apparentemente più valide.
Fortebraccio rimane estraneo all’azione. Arriva, letteralmente,
per riempire un vuoto. Îl ritorno alla legalità non ha alcuna
motivazione, gli manca persino un’apparenza di necessità,. Non
significa nulla. Deriva dalla logica della struttura, senza nessu-
na giustificazione e senza alcun riferimento a una qualunque
gerarchia di valori. “‘Non mi sarebbe troppo piaciuto vivere 1in
una Danimarca governata da Fortebraccio”’, ha dichiarato Pe-
ter Hall, esponendo le sue idee su Amleto.

4.

1 modelli di tragedia hanno due serie di riferimenti e due tem-


pi: il tempo storico e il tempo metastorico. Nell’Orestea di E-
schilo, come su un pendio montano scoperto dall’erosione, gli
studiosi hanno visto un’opposizione drammatica tra le conce-
zioni patrilineare e matrilineare dei rapporti familiari, tra la
legge del taglione e quella del riscatto, tra la purificazione reli-
giosa dell’assassino a opera dei sacerdoti del tempio e la sua
assoluzione da parte del tribunale di Atene. In Amleto, il ciclo
delle vendette di famiglia rappresenta, senza dubbio, il grande
meccanismo del massacro feudale che Shakespeare aveva tante
volte sceneggiato nelle sue Histories. L’arrivo di Fortebraccio
assomiglia all’avvento della fredda legalità dei Tudor. Amleto
fu recitato per la prima volta l’anno stesso della esecuzione di
Essex. Nel mondo reale, il principe di Danimarca, con il suo
Montaigne in mano, non aveva alcuna possibilità di salire al
trono. Non poteva accettare nessuna scelta storica. Poteva solo
Mmorire.
Le opposizioni contenute nei modelli di tragedia sono anche
fuori del tempo. Le interpretazioni storiche, anziché arricchir-
le, le impoveriscono. Il conflitto di Antigone con Creonte e il

301
Appendici

suo gesto di gettare una manciata di polvere sul cadavere del


fratello contengono tutte le antinomie tra autorità e moralità,
o più precisamente tra l’ordine dell’azione che ha come misura
l’efficacia e l’ordine dei valori nel quale conta ogni gesto, e un
gesto pagato con la morte dà un senso alla effimera esistenza
umana. Îl modello drammatico di Amleto-Oreste contiene tut-
te le situazioni umane nelle quali la scelta è dettata’ dal passa-
to, ma deve essere fatta sulla propria responsabilità e per
proprio conto.
La tragedia è però qualcosa di più della realizzazione dramma-
tica di un modello astratto. È’ una forma visiva, ed è anche
teatro. Direi anzi che è soprattutto teatro. E in teatro il pre-
sente degli eroi tragici è anche il presente degli spettatori. Tut-
ti ì tempi acquistano concretezza. Îl passato è ciò che è stato,
il futuro è ciò che può accadere, che è stato predetto. In tutte
le grandi rappresentazioni di Amleto che sono divenute parte
della storia del teatro — da Garrick a Kean a Barrault, Gielgud
e Olivier — il principe di Danimarca ha assunto i lineamenti e
i gesti della generazione dell’attore. Lo stesso doveva avvenire
per Oreste nell’antichità. Î greci conoscevano 1 personaggi, l’in-
treccio e lo scioglimento dell’azione: ogni nuova versione del
vecchio intreccio era dunque un riaffrontare da capo il dibatti-
to su Oreste ed Elettra. Uno stesso modello di tragedia non
comporta svolgimenti simili o giudizi identici, e lo dimostrano
con chiarezza le due Elettre, di Sofocle e di Euripide.
L’Elettra di Euripide è una polemica violenta con Eschilo e
Sofocle. Nonostante l’introspezione psicologica e la tendenza
al particolare realistico, è in realtà una parabola o una mora-
lità; su due poveri ragazzi costretti a commettere un delitto da
una vecchia superstizione. Come in Brecht, la moralità razio-
nalistica è accompagnata da canti e musiche; come nell’Anima
buona di Seciuan, gli dèi ironici che compaiono verso la fine
del dramma, potrebbero dire: “L’uomo tende più al bene che
al male, ma le circostanze sono contro di lui”.

302
Oreste, FElettra, Amleto

Nella precedente Elettra di Sofocle, i vivi sono affascinati dai


morti. Qui tutto è liturgia e rituale. Oreste offre un sacrificio
alla tomba del padre; Elettra proibisce a Crisotemide di offrire
un sacrificio sacrilego e la marda alla stessa tomba con una
ciocca dei suoi capelli e con la sua cintura di vergine. Permane
il fascino della morte. Elettra sopravvive alla morte del fratello
e pronuncia il suo lamento funebre tenendo in mano l’urna
con le sue presunte ceneri. Anche il delitto è un sacrificio li-
turgico, ritualmente offerto. Di tutte le tragedie orestee, quel-
la di Sofocle è la più monotematica. Dal prologo all’esodo è
solo una preparazione e una visualizzazione del delitto. Îl ma-
tricidio è un archetipo tragico dell’assassinio. Non c’è pietà in
Sofocle, soltanto terrore. Oreste ed Elettra s’infettano a vicen-
da di odio. Il sogno orribile sì avvera, accompagnato dalle urla
della vittima assassinata e dagli strilli frenetici di Elettra.
Glì eroi non si svegliano dal loro sogno omicida. Non com-
paiono le Furie, e Oreste, commesso l’ultimo delitto, non dice
più nulla. Ancor pit singolare è il silenzio di Elettra. Le prime
parole che pronuncia sono un grido proveniente dal palazzo:
‘“Ahimè! Ahimè, infelice! ” Le ultime: ‘“Uccidilo subito e
getta il suo corpo ai cani, suoi degni seppellitori. Stia lontano
dai nostri sguardi. Non c’è altro mezzo che possa liberarmi
dagli affanni antichi” (1486 sgg.). Non dice altro. Rimane sola
sul palcoscenico vuoto, lontana dal coro. Cos’altro avrebbe po-
tuto dire? Forse, come Amleto, ‘“‘il resto è silenzio”.
Consapevolezza significa distanza dalla propria parte. ‘ Amleto è
qualcosa di pià del semplice Amleto che ha ueciso. L’Oreste greco
conosce soltanto due o tre momenti di dubbio. E’ l’Oreste che de-
ve uccidere. Ma, oltre che un’Elettra, Euripide ha scritto anche un
Oreste. Sì svolge tutto dopo il delitto. Oreste è pazzo ed Elettra lo
assiste. Arriva Menelao e gli chiede: “Cosa ti distrugge? ” Oreste
risponde: “La mia mente: il fatto che io so e ho coscienza di quel-
lo che ho compiuto, ed era orrendo”. Sono parole che anche Am-
leto potrebbe ripetere. Le Furie sono le fitte della coscienza.

303
Note

1. Kitto, Greek Tragedy, New York, Barnes & Noble, 1961, p. 361.
2. l pnmo grecista che si sia occupato della som1ghanza tra Amleto e
Oreste è stato Tadeusz Zielinski, in Sofokles i jego twérezos$é tragicana
(Sofocle e le sue opere tragiche), pubblicato in russo nel 1914-15, in
polacco nel 1928. A Zielinski interessava soprattutto l’evoluzione e le
trasformazioni del concetto di vendetta e la sua traduzione cristiana in
Shakespeare.
Îl saggio di Prosser Hall Frye “Shakespeare and Sophocles’”’, nel volume
Romance and Tragedy (Boston 1922; nuova ed. Lincoln, University of
Nebraska Press, 1961), si basa su un parallelo tra Shakespeare e Sofocle.
L’attenzione di Frye si concentra sulle differenze di Weltanschauung e di
metodo artistico tra i due grandi scrittori tragici. H.D.F. Kitto ha fatto
un’analisi minuziosa di Amleto come dramma soprattutto religioso e lo
ha paragonato con la tragedia greca in Form and Meaning in Drama.
Îl trattamento più importante e più particolareggiato di questo tema è
stato, tuttavia, l’ottimo saggio di Gilbert Murray “Hamlet and Orestes’”,
in The (Classical Tradition in Poetry, Cambridge, Harvard University
Press, 1927. Murray non si occupa soltanto dell’Orestea e delle due Elet-
tre, ma studia anche Andromaca, Ifigenia in Tauride e Oreste di Euripide.
E° stato il primo a tener conto, nello studio della storia del mito di Oreste,
della Historia Danica: Gesta Danorum di Saxo Grammaticus e della sa-
ga islandese su Ambales. È’ stato anche il primo, per quanto mi risulta, a
paragonare Ofelia ed Elettra, Orazio e Pilade. Le sue conclusioni concer-
nono l’universalità e la rigenerazione dei miti.
3. Tutte le citazioni dell’Orestea (Agamennone, Le coefore, Le Eumenti-
di) nella trad. di Manara Valgimigli, in Î! teatro greco. Tutte le tragedie.
4. Tutte le citazioni dell’Elettra di Euripide nella trad. di Carlo Diano,
in II teatro greco. Tutte le tragedie.
5. Tutte le citazioni dell’Elettra di Sofocle nella trad. di Enzo Cetrango-
lo, in Il teatro greco. Tutte le tragedie.
6. Cfr. Jacques Lacarrière, Sophocle, Parigi, L’Arche, 1960, pp. 89 sgg.
7. Îl complesso di Edipo in Amleto e in Oreste è stato abbondantemen-
te analizzato dalla critica moderna. Presentano particolare interesse: Ér-
nest Jones, Amleto ed Edipo (1949), trad. di M. Caruso de Vidovich,

304
Oreste, E lettra"-,-f"Afr'iliè"t'òî..f-

Milano, Îl Formichiere, 1975; e Maud Bodkin, Archetypd Patterns inÉ".;:î


Poetry, New York, Oxford University Press, 1934, specie per 1l cap1toloîf
dal titolo “Examination of the Oedipus complex as a pattern determ:--.'_'f
ning our imaginative experience of Hamlet”. C’è poi stato, di recente, un
brillante studio di André Green, influenzato da Lacan e dagli strutturali-
sti, dal titolo Un oeil en trop: Le complexe d’Oedipe dans la tragédie. È’
curioso che tutti questi studi trascurino la palese similarità tra i rapporti
di Elettra e di Amleto con le rispettive madri. Elettra ha, naturalmente,
un ‘“complesso edipico negativo”, ma non mi sembra che l’interpretazio-
ne psicoanalitica ci abbia portati molto avanti nella comprensione degli
elementi variabili e costanti nei modelli di tragedia.
8. Jean Duvignaud, Sociologie du thédtre: Essaîs sur les ombres collecti-
ves, Parigi, Presses Universitaires de France, 1965, pp. 242 sgg.
9, Brecht, “Breviario di estetica teatrale”, cit., p. 182.
10. Tutte le citazioni dell’Oreste di Euripide sono nella traduzione di
Carlo Diano, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, cit.

305
Luciano in Cimbelino

La possibile conoscenza da parte di Shakespeare dei Dialoghi


di Luciano è da tempo oggetto di dibattiti. Si sa da un pezzo
che Luciano era molto letto nelle scuole elisabettiane, soprat-
tutto in traduzioni latine!, Sappiamo anche che fu elogiato e
citato da Thomas Nashe?, Gabriel Harvey (Four Lectures),
Thomas Dekker (News from Hell e Devil Let Loose), Ben Jon-
son (Volpone)® e John Webster (The White Devil)‘. Qualcuno
ha anche avanzato l’ipotesi che Luciano possa aver influito
sulla scena dei becchini di Amleto® e persino su alcune battu-
te scherzose di Berowne in Pene d’amor perdute (IV, 3,
166-70)5. Ma l’argomento più solido a favore del fatto che
Shakespeare conoscesse Luciano è la possibilità che egli sia
stato una delle fonti del Timone d’Atene, anche se non si è
mai potuto stabilirlo con sicurezza.
Un debito, che sinora sembra passato inosservato, di Cimbeli-
no nei confronti del Caronte di Luciano può servire per riapri-
re il discorso sull’influenza di Luciano su Shakespeare. Guide-
rio dice su quello che crede sia il cadavere di Imogene:
Il corpo di Tersite vale quello di Aiace, quando non han più
vita né l’uno né l’altro.
(Cimbelino, IV, 2, 252-53)
Sono versi basati direttamente su Caronte o gli osservaton
(22) di Luciano:
Tersite e il figlio della bella Teti
tutti son morti, dispolpati teschi’.
1 versi di Cimbelino, in misura ancor più evidente, mostrano 1l
debito nei confronti di Luciano, se guardiamo il discorso di
Guiderio alla luce della precedente battuta di Belario:

306
22
Luciano in “Cimbelino

[...] Umili e potenti sono soggetti alla stessa decomposizione e


a ridursi alla stessa polvere, ma il senso della riverenza — ange-
lo del mondo — distingue i gradi più alti dagli inferiori. Îl no-
stro nemico era un principe, e se gli avete tolto la vita come a
un nemico, seppellitelo ora da principe,
Guiderio — Per favore, portatelo qui. Il corpo di Tersite vale
quello di Aiace quando non han più vita né l’uno né l’altro.
‘ (Cimbelino, IV, 2, 247-54)
Shakespeare ha sostituito Aiace al ‘“figlio della bella Teti”
(Achille) di Luciano, perché questa scena di Cimbelino s’im-
pernia sul problema del seppellire un nemico come nell’Artace
di Sofoele. Che Shakespeare conoscesse la storia di Aiace co-
me è raccontata nella tragedia sofoclea, lo dimostra con evi-
denza un brano del Tito Andronico nel quale si accenna alla
. richiesta di Ulisse per seppellire il corpo di Aiace:
] greci, fatto consiglio, seppellirono Aiace, che pure di sua ma-
no si era dato la morte; il saggio figlio di Laerte ne chiese con
generoso impeto il funerale.
(Tito Andronico, I, 1, 379-81)
C’è poi una palese allusione al prologo dell’Atace di Sofocle
nel Ratto di Lucrezia:
Rotavano negli occhi di Aiace rabbia aperta e rigore, ma lo
sguardo gentile che gli rivolse l’astuto Ulisse mostrava un pro-
fondo rispetto e un sorridente comportamento.
(Il ratto di Lucrezia, 1400 sgg.)
Il particolare che Ulisse chieda di seppellire Aiace non compa-
re in nessuna storia su Aiace nota ai tempi di Shakespeare, a
parte la tragedia di Sofocle, anche se è possibile che fosse cita-
to nel dramma universitario, ora perduto, Ajax Flageliter®, del
cui contenuto purtroppo non sappiamo nulla. È' noto anche
che in Troilo e Cresszda Shakespeare aveva descritto Achille
come un codardo effemmato e di conseguenza la forza sini-
stra di Aiace era un constrasto più adatto per la debole sven-
tatezza di un Tersite. L’allusione di Cimbelino può fornire ul-

S07
Appendici

teriori prove del fatto che Shakespeare conoscesse Sofocle, il


quale, come Luciano, era letto nelle scuole elementari elisabet-
tiane’. Nel citato testo di Luciano, inoltre, Ermete fa subito
dopo il nome di Aiace: ‘“Ma giacché me ne fai sovvenire, vo-
glio mostrarti la tomba di Achille. La vedì là sul mare? Quel-
lo è il Sigeo troiano. Quella di Ajace è dirimpetto, sulla spon-
da del Reteo”.
Che Shakespeare possa aver letto Luciano in greco è estrema-
mente improbabile; aveva però a disposizione diverse traduzio-
ni latine. Quella di Erasmo da Rotterdam (1506), comprende-
va il dialogo di Timone, ma non Caronte dal quale deriva il
brano di Cimbelino. Caronte fu stampato in una raccolta di
traduzioni ‘“di mani diverse”, Clarissimi Luciani Philosophia
Cora, pubblicata a Venezia nel 1494 e ristampata nel 1497 a
Milano da Uldericus Scinzeler. In questa versione il brano cita-
to appare costi:
Nil inkhumatus eo differt qui rite sepultus:
atqui eadem Atridae et Fortuna binominis Hyri:
non est deformi Thersite maior Achilles:
aeque imbecillum miseris caput omnibus: aeque
nudi omnes; arent herbosa ut prata calore.
(edizione 1494, sig. M3")
Un’altra
_ edizione, preparata da Erasmo, Melantone e Tomma-
so Moro, fu pubblicata nel 1538 a Francoforte, nel 1546 a
Parigi e nel 1563 a Basilea. Fu poi più volte ristampata (a
Londra nel 1664 e nel 1694). Ecco come vi è tradotto il bra-
no in questione:
Mortuus est aeque, tumuli qui nescit honorem,
et qui sortitur spectandi funera saxiî;
atque honor unus adest et regi Agamemnoni et Îro,
Thersitae, et similis Thetidos formosus Achilles.
Umbrae nam pariter siccae nudaeque; pererrent
asphodeli campos, confracto vertice cunctae.
(Parigi 1546, folio 58Yv}

308
Luciano in “Cimbelino”

Un attento confronto linguistico fa apparire probabile che


Shakespeare si sia valso, per il brano di Cimbelino, della prima
di queste versioni. Ma è anche possibile che avesse letto Ca-
ronte, in una delle traduzioni italiane o in una traduzione
francese delle opere di Luciano firmata da Filbert Bertin e
pubblicata nel 1582. La prima raccolta di Luciano in inglese,
tradotta da Francis Hickes (1566-1631), fu pubblicata postu-
ma da suo figlio, Thomas Hickes, nel 1634 (ristampata a Ox-
ford rnel 1664). Comprendeva anche Menippo e Caronte*°. I
versì di Caronte erano così tradotti:
No difference is, but all is one
whether they have tombes or none,
poore lrus of as great a birth
as Agamemnon under earth:
Thersites hath as good a feature
as Thetis sonne that comely creature.
All emptie skulls naked and drie
in asphodelus medows lie.
(p. 105)
‘ Questa nuova prova del debito di Shakespeare nei confronti di
Luciano in Cimbelino pone altri importanti problemi. In tutte
le edizioni latine di Luciano, a partire dal 1494, il dialogo di
Timone segue Menippo e Caronte. Questi tre dialoghi sono gli
scritti di Luciano più frequentemente citati dagli autori del
cinquecento. Ciò dovrebbe bastare a considerare il Timone di
Luciano una fonte del Timone d’Atene di Shakespeare, forse
importante quanto il brano di Plutarco al quale egli certamen-
te attinse. Sembra ora probabile che Timone d’'Atene e Cimbe-
lino siano stati scritti a poca distanza l’uno dall’altro, anche se
è impossibile stabilire con esattezza la data di composizione
dei due drammi.

309
Note

1. W.T. Baldwin, William Shakespeare’s Small Latine and Lesse Greeke,


2 voll., Urbana, University of IÎlinois Press, 1944, vol. 1, pp. 103, 216,
374, 982, 734.
2. The Works of Thomas Nashe, a cura di Ronald McKerrow, II ed. riv.
da F.P. Wilson, Oxford, Blackwell, 1958, vol. I, pp. 283, 285; vol. II,
pp- 120, 126.
3. F.G. Allinson, Lucian: Satirist and Artist, New York, Cooper Square,
1963, pp. 156-58.
4. Baldwin, William Shakespeare’s Small Latine, p. 732.
5. B.L. Gildersleeve, Essays and Studies, Baltimora 1890, p. 343; W.S.
Fox, “Lucian in the Gravescene of Hamlet”, Transactions of the Royal
Society of Canada, XVII, 1923, pp. 71-80,
6. Baldwin, Shakespeare’s Small Latine, p. 732.
7. Luciano, I dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 174. Le irriverenti freddu-
re di Caronte sono parte di un centone composto con brani dell’Iliade
(IX, 319-20) e dell’Odissea (X, 521 e XI, 539).
8. F.S. Boas, University Drama in the Tudor Age, Oxford 1914, pp. 18
SE8- Ì |
9. Baldwin, Shakespeare’s Small Latine, I, p. 457; 11, p. 648.
10. Sono però curiosamente omessi in una descrizione del volume degli
Hickes in Hardin Craig, “Dryden’s Lucian”, Classical Philology, XVI,
1921, pp- 141-63. “Menippo o la negromanzia” fu tradotto in inglese,
per uso scolastico, intorno al 1530 (Baldwin, Shakespeare’s Small Latine,
vol. I, p. 734). Nella terza traduzione inglese di Thomas Heywood
(1637) il dialogo su Caronte non compare.

310
Kott, Jan,
Divorare gli dei: un’interpretazione della tragedia greca / Jan Kott — [Milano] :
Bruno Mondadori, (2005].
320 p.;21 cm. — {(Economica).
Tit. orig.: The Eating of Gods.
ISBN 88-424-9672-3.
1. Tragedia greca
882,01009

Scheda catalografica a cura di CAeB, Milano.

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Stampato per conto della casa editrice


presso Grafiche 2emme (Milano)
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’_ lettuale del Novecento, armato delle conoscenze che la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la storia
IOE ROT TTT eE SSS
RICT LOSE [0 o OTT aT AESTC aS
teatro dell'assurdo in una serie di arbitrarietà apparenti, il cui valore d'uso si dimostra immediato.
Dietro il grande canovaccio di regia c'è tutto Jan Kott, con i libri che ha letto e le idee che gli sono servite
EI aiT o TTT TO
| dalla presenza di un potere imperscrutabile; c'è soprattutto l'uomo di teatro portato a trasferire sulla -
S:SOE lascnam quidare dalle sollecitazioni visive che la sua
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eAO OGT SeAO RA EA OoT o
SICT IOAT ORT e aZOEC
Milano 1992) e Kaddish. Pagine su Tadeusz Kantor (Libri Scheiwiller, Milano 2001).
AD Massa & Marti

ISBN 88-424-9672-3

9 “788842 496724

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