Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
— Fi —= — - : î
i i i i |\_\
Ra Yl
i i |
BHIC
DIVORARE GLI DEI
UAA EAO RA SE e
‘ Bruno Mondadori
Jan Kott
@ Bruno Mondadori
Titolo originale:
The Eating of Gods
www.brunomondadori.com
Indice
Prefazione
Introduzione
\
Appendici
273 Medea a Pescara
279 Oreste, Elettra, Amleto
306 Luciano in Cimbelino
Prefazione
2
Introduzione
10
iIniroduzione
11
Divorare gli dei
12
Introduzione
13
A Jerzy Stempowski
in memoriam
L’asse verticale
o le ambiguità di Prometeo
Gli dèi sono sopra, gli uomini sotto. Nella sua trilogia, Eschilo
colloca il supplizio di Prometeo su uno dei tetti del mondo,
una cima solitarìa e deserta sulle montagne del Caucaso. Pro-
meteo venne incatenato a una roccia e poi gettato nel fondo
del Tartaro, l’abisso sotto l’Ade. La caduta di Prometeo fu fi-
sica e spettacolare, tra rombi di tuono e bagliori di fulmini! .
Le rappresentazioni cominciavano alle prime luci dell’alba e gli
spettatori dovevano ancora rabbrividire dal freddo sui loro se-
dili quando, nel primo episodio, il dio Efesto annunciava che
per diecimila anni Prometeo avrebbe dovuto aspettare che il
sole del mattino sciogliesse il gelo sul suo corpo.
Al dramma di Eschilo partecipa l’intero cosmo: gli déi, gli uo-
mini e gli elementi. Questo cosmo ha una struttura verticale:
sopra, la sede degli dèi e del potere; sotto, il luogo dell’esilio e
del castigo. In mezzo il cerchio piatto della terra e il cerchio
piatto dell’orchestra, intorno al quale si snoda l’azione. Questa
struttura verticale del mondo, con le sue funzioni ben defini-
te, i suoi simboli, il suo destino, con il sopra e il sotto è uno
degli archetipi più universali e perenni. “L’inferno, il centro
della terra e la ’porta‘ del cielo si trovano quindi sul medesi-
mo asse e per mezzo di quest’asse si effettuava il passaggio da
una regione cosmica a un’altra”, scrive Eliade in Il mito dell’
eterno ritorno?.
Il Genesi si apre con la divisione tra il sopra e il sotto: “Nel
principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi, 1, 1). @ dio
dell’Antico Testamento parla ai profeti dall’alto e quando de-
17
Divorare gli dei
18
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
19
Divorare gli dei
20
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
21
Divorare gli det
22
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
23
Divorare gli dei
24
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
25
Divorare gli dei
26
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
3.
27
Divorare gli dei
28
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
29
Divorare gli dei
30
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
31
Divorare gli dei
32
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
33
Divorare gli dei
34
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
35
Divorare gli dei
36
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
37
Divorare gli dei
4.
38
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
39
Divorare gli dei
questo mito per 1 suoi fini. Gli animali conoscono l’ora della
loro morte. Prometeo ha tolto l’uomo dalla situazione anima-
le; gli ha sottratto la ragione animale per dargli la ragione
umana. Lo ha liberato dalla paura e gli ba dato la “speranza
che non vede”.
L’incertezza della morte è preferibile alla sua certezza. Lo san-
no tutti coloro cui è stato detto che hanno una malattia mor-
tale. L’interpretazione di Greene è umana e sottile, ma il Pro-
sa-
meteo eschileo, “quello che guarda avanti”, sapeva e voleva
pere:
Tutto il futuro conosco esatto e chiaro.
(Prometeo, 100-1)
Ha insegnato agli uomini a non aver paura, ma non al prezzo
dell’ignoranza. Quando lo avvicina lo, l’unico personaggio
mortale della tragedia, le rivela tutto ciò che le accadrà sino al
termine del suo itinerario terreno. Ha solo un attimo di esita-
zione, perché questa conoscenza gli pare troppo crudele, e al-
lora interviene la corifea: ‘“Parla, svela. E° conforto a chi è
malato sapere chiaro il male che rimane” (699 spgg.). Prometeo
riprende e completa la storia dei futuri tormenti di lo. Dopo
Prometeo, è Îo il personaggio più importante della tragedia.
L’episodio che la riguarda ne occupa la parte centrale e la
‘“‘speranza che non vede” sembra particolarmente adatta al suo
destino.
lo era figlia di Inaco, un pietroso ruscello nei pressi di Argo.
Questi dèi fluviali erano progenie di Oceano. Io era dunque la
nipote di Oceano, e Prometeo lo dice esplicitamente al coro.
Nel mito originario poteva essere un particolare importante:
l’acqua è l’archetipo della nascita e del sesso. Su un altro pia-
no, lo era la luna®° . La luna nuova era infatti collegata al sor-
gere delle acque e di tutti i liquidi. Io _ divenne l’amante di
Zeus, ma quando Era venne a saperlo tramutò la bella ragazza
in vacca e l’affidò alla custodia di Argo, il mostro dai cento
occhi. Zeus mandò allora ÉErmete- perché addormentasse il
40
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
41
Divorare gli dei
42
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
43
Divorare gli dei
Io non vede più niente, non sente niente; non fa che correre
inseguita dal tafano invisibile, è un mero corpo, punto sino a
dissanguarsi:
La vista si stravolge
l’ira, l’assurdo mi ruba via
la lingua non è più mia
la parola è melma che urta
le onde della mia maledizione.
(Prometeo, 884-87)
Le sofferenze di Îo sono immeritate. Come Pasifae, in una tra-
gedia perduta di cui abbiamo solo un frammento, potrebbe di-
‘“Dio mi ha colpito con la follia, e benché io soffra, il mio
peccato non era nato dal mio libero volere [...] Cosa avrò vi-
sto in un toro che potesse dare al mio cuore tanta sofferenza
e tanta vergogna? ” Îo, “la fanciulla con le corna di vacca”, è
stata scaraventata, come direbbe Camus, in un mondo in cui il
corpo desidera e viene desiderato. Non è più in grado di di-
stinguere se stessa dal suo desiderio. Dio desidera la sua carne
di vacca o forseè la sua carne di vacca che desidera dio. Ma
lei non ama se stessa. Verso se stessa, il suo corpo e il mondo,
la vacca umana prova solo disgusto, ribrezzo, nausée sartriana;
il tafano invisibile la terrorizza. L’indifesa lIo, la giovenca pun-
zecchiata, è l’immagine perfetta della cieca volontà cosmica di
Schopenhauer. Eros e Thanatos, la procreazione e la morte,
non sono scelte nostre: cì vengono scaraventate addosso. Rin-
corsa dal cieco istinto per mari e per continenti, lo rappresen-
ta il nero Eros del desiderio. “Ha ali e non oecchi, è il modello
della fretta scervellata”: l’Elena del Sogno di una notte di
mezza estate è punta dallo stesso tafano invisibile.
Ma è agli uomini, con la loro cieca volontà, che Prometeo ha
offerto “la speranza che non vede”. Eschilo è il solo dei gran-
di tragici che sappia conciliare la base razionale del mito con
la sua universalità, il suo significato terreno con la sua irrazio-
nale speranza cosmica. Alla fine dei suoi vagabondaggi, lo si
4,
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
45
Divorare gli dei
9.
Marx defini Prometeo “il più nobile santo e martire del calen-
dario filosofico”®® . “Il santo patrono del proletariato”, è in-
vece un giudizio contemporaneo citato da Thomson®’ . În nes-
sun’altra tragedia greca “il sopra”, nel duplice senso e signifi-
cato simbolico di dèi e di forza bruta, è stato attaccato con
tanta ferocia: “Odio tutti gli dèi cui feci bene e che mi han
reso male” (975). lo, la povera giovenca, odia il proprio perse-
cutore con tutto il suo corpo sanguinante. Entrambe le predi-
zioni la concernono, ma la sua sola speranza è colui che farà
cadere Zeus dal trono: il figlio come redentore è per lei il fi-
glio come vendicatore.
lo — Il potere di Zeus potrà cadere?
Prometeo — Gioiresti, credo, a questo grande evento.
46
l’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
/
47
Divorare gli dei
gli uomini come dèi contro la legge” (28 sgg.; lett. “più del
giusto”). Ma qual è la bilancia che ci permette di stabilire cosa
sia giusto e cosa sia abuso del giusto; cosa sia “dovuto” e cosa
più che dovuto nei rapporti tra guardia e prigioniero, tra 1i
sopra e il sotto? Prometeo, scriveva Marx, non voleva essere
‘“lo schiavo del tiranno, l’accolito del carnefice”. E nella stessa
introduzione alla sua tesi di laurea, datata “marzo 1841”, dice
ancora:
La confessione di Prometeo, ‘“lo sono il nemico di tutti gli
dèi”’, è una dichiarazione di fede nella filosofia, e la sua ideo-
logia è rivolta contro tutti gli dèi del cielo e della terra che
non riconoscono nella coscienza umana la divinità suprema,
Questa divinità non tollera rivali.
Questo manifesto marxiano del prometeismo sembra assai più
vicino agli scatenati e romantici Prometei di Goethe e di Shel-
ley che all’austera e realistica antropologia di Eschilo“’. Nel
mondo reale, scisso tra il sopra e il sotto, Eschilo dice che la
sola scelta è tra la riconciliazione e una nuova tirannide, tra il
compromesso e un nuovo figlio “più forte del padre”. Ma
‘“ogni nuova potenza è sempre dura”., A quanto pare, Eschilo
sapeva benissimo che il cielo non rimane mai a lungo vuoto e
che un nuovo dio occupa il posto di quello che è caduto.
I Prometei di Goethe, Byron e Shelley erano fratelli di Sata-
na*2 , Ma gli angeli sono caduti dal cielo per un peccato d’or-
goglio. Lucifero è il principe della ragione. L’ultima di tutte le
divinità, quella che ‘“non tollera rivali” e che sembra ancor più
crudele delle precedenti: è l’arroganza della ragione. Questa di-
vinità è convinta di aver domato il destino e di poterlo mutare
e ‘guidare. “La libertà è il riconoscimento della necessità”’, seri-
veva Marx. La realizzazione hegeliana del regno della ragione e
la ‘“necessità storica” di Marx sono tra le “speranze che non
vedono” offerte da Prometeo agli uomini“° .
‘“Cos’è la libertà di un uomo”, dice un prigioniero torturato in
Le temps du mépris di Malraux, “se non la coscienza e l’orga-
48
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
490
Divorare gli dei
o0
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
Sl
Divorare gli dei
32
Note
53
Divorare gli dei
o
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
96
L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo
39. George Thomson, Aeschylus and Athens: A Study in the Social Ori-
gins of Drama, Londra, Lawrence & Wishart, 1941, p. 316.
40. Tipica è la prefazione di Shelley al suo Prometheus Unbound: “Ma
in realtà non mi piaceva una soluzione debole quale la riconciliazione tra
il campione e l’oppressore dell’umanità. L’interesse morale della favola,
vigorosamente rafforzato dalle sofferenze e dalla resistenza di Prometeo,
verrebbe meno se potessimo immaginarlo nell’atto di ritrattare le sue no-
bili parole e di umiliarsi davanti al suo vittorioso e perfido nemico”.
Shelley, Prometheus Unbound, a cura di Lawrence J. Zillman, Seattle,
University of Washington Press,:1969, p. 35.
41. Cfr. Kerényi, Prometheus, p. 17: “Hl Prometeo di Goethe non è un
dio, né un titano, né un uomo, ma lìimmortale prototipo dell’uomo, co-
me primo dei ribelli e assertore del proprio destino: l’abitante originario
della terra, visto come antidio, come signore della terra stessa”. Goethe
scriveva di sé: “Mi sono isolato dagli dèi come Prometeo”. Ed ecco co-
me finiva la sua celebre ode a Prometeo, scritta nel 1774:
Qui fermo io sto, formo a mia immagine uomini, una stirpe a me simile,
destinata a soffrire, piangere, godere e gioire, e a non curarsi di te come
faccio io. '
Marx, ovviamente, sapeva a memoria l’ode di Goethe.
42. Nella citata prefazione di Shelley: “Îl solo essere immaginario che
assomigli in qualche modo a Prometeo è Satana; ma Prometeo, a mio
parere, è più poetico di Satana, perché, a parte il coraggio, la maestà e
una salda e paziente opposizione a una forza onnipotente, può anche
essere descritto come esente dalle macchie dell’ambizione, dell’invidia,
dello spirito di vendetta e di un desiderio di esaltazione personale, che
rendono meno interessante l’eroe del Paradiso perduto”. Shelley, Pro-
metheus Unbound, pp. 35-7.
43. Cfr. Eliade, Il sacro e il profano, p. 159: “L’uomo areligioso moder-
no assume una situazione esistenziale nuova: egli si considera esclusiva-
mente il soggetto e l’operatore della storia, rifiutando qualsiasi richiamo
alla trascendenza [...] L’uomo si fa da sé e si fa tanto più completamen-
te in proporzione alla sua desacralizzazione e alla desacralizzazione del
mondo. Il sacro costituisce l’unico ostacolo alla sua libertà. Diverra se
stesso solo nel momento in cui sarà riuscito a demistificarsi completa-
mente. La sua libertà sarà completa nel momento in cui sarà riuscito a
uccidere l’ultimo dio”’.
44. Eliade, Îl mito dell’eterno ritorno, p. 161.
45. Camus, Îl mito di Sisifo, trad. di Attilio Borelli, Milano, Bompiani,
1949,p. 120.
97
DNivorare gli dei
98
Aiace tre volte ingannato
o l’eroismo dell’assurdo
D9
Divorare gli dei
60
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
2.
61
DNivorare gli dei
62
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
63
Divorare gli dei
64
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
66
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
67
Divorare gli dei
68
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
69
Divorare gli dei
3.
70
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
Dal momento in cui esce dalla follia a quello in cui sìi ammaz-
za, l’intera azione consisterà, come nelle tragedie di Racine,
nel processo attraverso il quale l’eroe giungerà alla decisione
suprema. Quest’ultimo rendimento di conti con il mondo deve
avvenire nella piena consapevolezza. La morte sembra inevita-
bile. Ma ci sono diversi modi di morire. Ajace cerca disperata-
mente una morte eroica. Ma non c’è più spazio per essa. Il
mondo non è più diviso tra greci e troiani.
O forse devo correre all’assalto delle mura di Troia, azzuffan-
domi da solo a solo contro tutti e, dopo cosi bella e utile
impresa, finalmente morire? Potrei farlo, ma colmerei gli Atri-
di di gioia, come credo. Neppur questo è possibile.
(Aiace, 466 sgg.)
Offeso da Agamennone, Achille torna sulla sua nave a suonare
la lira e a guardare Patroclo. Aspetta. Ha persino annunciato
l’intenzione di salpare e di tornarsene nella nativa Ftia. Ma
Achille non è stato messo in ridicolo. Aiace non può andare
da nessuna parte. Ovunque vada sarà sempre l’Aiace che ha
fatto strage di animali. Il mondo eroico è come una trappola:
impossibile fuggirne. Egli sarà ovunque nudo come un verme
perché ha perso l’onore.
E quale viso mostrerò a mio padre, a Telamone, comparendo-
gli davanti nella luce? Come resisterà a fissarmi negli occhi,
presentandomi a lui senza nulla, senza il premio del mio valo-
re {...]?
(Aiace, 463 sgg.)
Se non è possibile morire da eroe e se non esiste luogo nel
quale fuggire, non rimane che il suicidio. “Il tentativo di Aia-
ce di formulare un’alternativa al suicidio eroico”, serive Knox,
“lo convince della sua impossibilità”°3 . Ma il suicidio “eroi-
co” non è contemplato nel codice eroico. È’ un’invenzione di
epoche non eroiche. Îl mondo dell’Hiade non conosceva il sui-
cidio. Gli eroi potevano scegliere tra la viltà e ‘il coraggio e
avevano sempre a portata di mano la spada di qualcun altro. Il.
71
Divorare gli dei
72
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
73
Divorare gli dei
74
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
76
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
77
Divorare gli dei
78
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
79
Divorare gli dei
80
Atitace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
4.
831
Divorare gli det
32
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
83
Divorare gli dei
80
Divorare gli dei
86
Aiuce tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
07
Divorare gli dei
88
Note
89
Divorare gli dei
peggior cosa che avrebbe potuto fare: distrusse cioè il sistema di valori
eroico”. Cfr. anche M.I. Finley, The World of Odysseus, New York, Vi-
king, 1954, pp. 125-29.
6. Cedric H. Whitman, Sophocles: A Study of Heroic Humanism, Cam-
bridge, Harvard University Press, 1951, p. 64: “Ajace è il primo ritratto
a figura intera di un eroe tragico nella letteratura occidentale, e non è
certo mera coincidenza che sia lui, sia Achille, il primo eroe epico, ven-
gano a trovarsi in situazioni identiche. Entrambi infatti sì 1is0lano nella
lotta con il proprio onore offeso”,
7, Walter Kaufmann, Tragedy and Philosophy, New York, Doubleday,
1968, p. 218: “Nelle Trachinie e in Filottete abbiamo non solo poetici
resoconti delle sofferenze di Filottete e di Eracle, ma il loro intollerabile
urlare. Il risultato è ben lungi da quanto ci si aspetterebbe dopo aver
letto Matthew Arnold, Nietzsche o Bradley”.
8. Cfr. J.C. Kamerbeck, The Plays of Sophocles, ], Commentaries, The
Ajax, Leida, 1963, p. 20: “Nl linguaggio e la scena ricordano il coro dei
satiri alla caccia negli Ichneutai”. Kamerbeck, ovviamente, parla soltanto
del linguaggio e dell’azione, non del tono,
9, Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, trad. di Ettore Capriolo,
Torino, Einaudi, 1968, p. 182.
10, Una parte delle rare informazioni di come veniva rappresentato Aia-
ce nell’antichità la dobbiamo a Luciano. In uno spettacolo, che doveva
essere più un balletto mimato che una rappresentazione recitata o canta-
ta — ma non è per niente certo — l’attore giunse a un autentico delirio
(Del ballo, 83): “Rappresentando una volta Aiace che, vinto nella gara,
impazzisce, esagerò tanto che parve a taluno non già di rappresentare
una pazzia, ma d’impazzire egli stesso. Ché a uno di quelli che battono
le nacchere col piede egli lacerò la veste; a uno dei flautisti che l’accom-
pagnavano, strappò di mano il flauto; e spaccò il capo a Odisseo, che gli
stava vicino tutto gonfio e pettoruto per la vittoria [...] Intanto tutto il
teatro era impazzito con Aiace, battevano i piedi, gridavano, sì straccia-
vano le vesti [...] Coi loro applausi anch’essi nascondevano la stoltezza
dello spettacolo, benché vedessero benissimo che quella non era la pazzia
di Aiace, ma dell’attore”. Luciano, ! dialoghi e gli epigrammi, p. 453,
Luciano era contrario agli eccessi espressivi nella danza e nel mimo, ma
ci ha lasciato anche un’osservazione importante: nelle rappresentazioni
tragiche del suo tempo, i membri del coro, quando dovevano mostrare
qualcosa di “virile, lo portano fino al selvatico e al feroce” (ibid.).
11. Frye, Fools of Time, p. 8: “[...] poiché è un uomo, la sua vita [di
Sarpedonte] è morte, e non c’è luogo nella vita che non sia un campo di
battaglia”.
90
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
i
Divorare gli dei
92
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
93
Divorare gli dei
30. M.I. Finley, The World of Odysseus, p. 103: “In un ambiente cosi
persistentemente ostile, si permetteva agli eroi di cercarsi degli alleati: il
loro codice d’onore nòn esigeva che si ergessero da soli contro il mondo.
Ma nel sistema sociale non c’era nulla che permettesse di stipulare un’al-
leanza tra due comunità. Erano possibili soltanto soluzioni personali, at-
traverso i canali della famiglia e della parentela”. È a p. 107: “B fore-
stiero che aveva uno xenos in un paese straniero [...] disponeva di qual-
cosa che poteva efficacemente sostituire 1 parenti, un protettore, un rap-
presentante, un alleato. Aveva un rifugio se era costretto a fuggire da
pcasa sua, un magazzino al quale attingere se era obbligato a viaggiare e
una fonte di uomini e di armi se chiamato a combattere”’,
31. William Arrowsmith, “A Greek Theatre of Ideas”, in Ideas in the
Drama, a cura di John Gassner, New York, Columbia University Press,
1964.
32. Camus, Il mito di Sisifo, p. 16; e, più avanti, pp. 37 e 100.
38. Sdren Kierkegaard, La malattia mortale, a cura di Meta Corssen, Mi-
lano, Edizioni di Comunità, 1947, p. 79; e, più avanti, pp. 80-2.
34, In La malattia mortale risuona un tono di confessione personale, co-
me strappata di gola. Kierkegaard non cita esempi letterari, ma dice:
‘“Questa specie di disperazione si vede di rado nel mondo; tali forme si
trovano veramente soltanto nei poeti, cioè nei veri poeti, i quali danno
sempre alle loro creazioni l’idealità ‘demoniaca', se si intende questa pa-
rola nell’originale senso greco” (p. 81).
35. Anche in Ippolito, naturalmente (178), ma la Fedra di Euripide è
trattata in maniera assai più realistica.
36. Un’altra interpretazione tragica dell’Iiade. Quando, durante la lotta
intorno al cadavere di Patroclo, Zeus sembra favorire i troiani e una fitta
nebbia limita la visibilità, Aiace esclama: “Zeus padre, libera tu dalla
nebbia i figli de_gli achei, sereno fa’ il cielo, fa’ che vediamo con gli oc-
chi; in piena luce, poi perdici, poiché ti piace cosi’’ (XVIÎI, 645-47).
37. Non sappiamo come venisse rappresentata la scena del suicidio. Se-
condo alcuni commentatori, una volta allontanatosi il coro, i1 pannelli di-
pinti che raffiguravano la tenda di Aiace venivano sostituiti da altri che
mostravano cespugli in un luogo “isolato”. Ma la cosa non è affatto cer-
ta, almeno per le rappresentazioni ai tempi di Sofocle. La scenografia
dipinta in maniera realistica non venne probabilmente introdotta prima
del IV secolo a.C. In ogni caso, ìl momento culminante della tragedia —
Aiace che si getta sulla propria spada — doveva essere a vista. A partire
dal VI secolo a.C. questo episodio era stato spesso raffigurato nella scul-
tura e sui vasi, ed è più che probabile che questa immagine visiva abbia
94
Atiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
95
Divorare gli dei
96
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
97
Divorare gli dei
98
Aiace tre volte ingannato o l’eroismo dell’assurdo
99
Alcesti velata
100
Alcesti velata
101
Divorare gli dei
103
Divorare gli dei
104
Alcesti velata
105
Divorare gli dei
106
Alcesti velata
107
Divorare gli dei
108
Alcesti velata
109
Divorare gli dei
110
Alcesti velata
2.
111
Divorare gli dei
l’altra. “Compiuto questo atto, esso parve così nobile, non so-
lo agli uomini ma anche agli dèi, che, mentre a pochissimi fra
i tanti che compiono atti stupendi gli dèi concessero il privile-
gio che l’anima risalisse dall’Ade, l’anima di costei, invece, fe-
cero ritornare alla luce, compiaciuti del suo gesto”!° .
Per Apollodoro, a differenza di Platone, la morale della storia
non ha niente di sentimentale: gli dèì non erano per nulla
contenti dell’atto di Alcesti. Persefone pensava che una moglie
non dovesse morire per il marito. Alcesti aveva agito male e 1il
suo esempio poteva essere dannoso: per questo venne riman-
data sulla terra!7. Ha ragione Kitto quando dice che l’Alcesti
di Euripide ‘“trae personalità dall’evidente sfiducia nel mari-
to”18, l sacrificio d’Alcesti diviene ripugnante con l’introdu-
zione di un Admeto infedele e la sua resurrezione grottesca
con la sostituzione agli dèi degli inferi di Eracle ubriaco.
In Alcesti Eracle viene ad alloggiare da Admeto mentre sta an-
dando a rubar cavalli. Per ordine di Euristeo di Tirinto, di cui
è al servizio, gli tocca catturare le famose cavalle di Diomede,
re della Tracia. ’ la sua ottava fatica. La discesa nell’Ade e la
presa per il collo di Cerbero sarà la dodicesima, ma nessuna
delle versioni canoniche del mito la collega alla liberazione di
Alcesti. Le cavalle di Diomede avevano fama di sputare fuoco
e di nutrirsi di carne umana. E’ raro che i ladri di cavalli cre-
dano nei miracoli; la loro professione richiede piuttosto abilità
e astuzia.
Coro — Non è tanto facile
mettere loro il morso.
Eracle — Se non soffiano
il fuoco dalle froge [...}
Coro — Basta solo
che un uomo le avvicini e lo maciullano
coi denti in un baleno.
Eracle — Non è certo
mangiare da cavalle, ma da fiere
112
Alcesti velata
della montagna.
(Alcesti, 492 sgg.)
l vecchio servo di Admeto non ha mai visto uno zotico simile
a palazzo reale. L’ospite non s’accontenta di quel che gli han-
no dato, ma continua a chiedere da mangiare e da bere. E una
volta ubriaco si mette a cantare e a ballare. Un Eracle ebbro è
raffigurato in una statuetta di bronzo venuta da Smirne e ora
al' Metropolitan Museum di New York. Eracle spinge in avanti
la gamba destra ed è piegato indietro con le mani sui fianchi.
Î suoi occhi guardano in basso, ma sembra che non vedano
nulla. L’Eracle della tradizione popolare però teneva più a
mangiare che a bere. Il suo piatto favorito — una passione che
aveva in comune con tutti i soldati — era la zuppa di piselli.
Ma, come eroe dorico, amava anche ‘le ciambelle d’orzo e ne
divorava tante [...] da indurre uno dei suoi mandriani a bor-
bottare ’basta! ‘’’19, Eracle si comporta sempre come un sol-
dato al bivacco. Ciò che importa è l’oggi, nessuno sa cosa ac-
cadrà domani: mangiamo dunque, beviamo e stiamo allegri.
L’evento non è cosa
che si mostri alla vista e non lo sai
quale via prenda. E non solo la scienza
non te lo insegna, ma neanche un’arte
abbiamo che riesca a premunircene.
Ora che mi hai sentito e io ti ho detto
questo e lo sai, pensa di stare allegro.
Bevi e fa’ questo conto, che la vita
è tua solo quel tanto che ne hai
giorno per giorno, il resto è dell’evento.
Tra le divinità rendi anche onore
a quella che di tutte è la più dolce
per gli uomini, a Cipride. E° una dea
che ci vuole bene.
(Alcesti, 785 sgg.)
Questo Eracle campagnolo che caracolla allegramente (rappre-
113
Divorare gli dei
114
Alcesti velata
115
Divorare gli dei
116
Alcesti velata
147
Divorare gli dei
118
Alcesti velata
119
Divorare gli dei
120
Alcesti velata
121
Divorare gli dei
3.
122
Alcesti velata
123
Divorare gli dei
125
Divorare gli dei
126
Alcesti velata
127
Divorare gli dei
128
Note
129
Divorare gli dei
130
Alcesti velata
131
Divorare gli dei
132
Alcesti velata
133
“Dov’è adesso quel famoso Eracle? ”
1. Le facce di Eracle
134
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”
135
Divorare gli dei
136
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
137
Divorare gli dei
138
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
139
Divorare gli dei
140
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”
141
Divorare gli dei
142
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
143
Divorare gli dei
144
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
145
Divorare gli dei
146
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
a)
La tragedia di Sofocle Le trachinie sì svolge nel corso di una
lunga giornata al termine degli ultimi quindici mesi di assenza
di Eracle durante i suoi dodici anni di viaggi. È' l momento
in cui sinistre profezie prevedono una svolta nel suo destino.
All’alba Deianira manda il figlio a scoprire che cosa sia capita-
to a suo padre. Nella tarda mattinata l’araldo porta in scena le
donne prese prigioniere da Eracle dopo la conquista di Ecalia.
Deianira apprende cosi che tra loro c’è lole, la nuova donna
di suo marito. Eracle ha saccheggiato la città, massacrando
tutti gli uomini, quando il padre si era opposto a che lole an-
dasse a letto con lui. Nel tardo pomeriggio, Deianira invia al
marito, tramite lo stesso araldo, una tunica inzuppata nel san-
gue del centauro Nesso. Nelle prime ore della sera il figlio ri-
147
Divorare gli dei
148
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
149
Divorare gli dei
150
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”
b)
În questa tragedia Eracle e Deianira non s’incontrano mai.
Sembra che non possano incontrarsi: appartengono a due tem-
pi diversi e a due mondi differenti. Eracle è mitico e arcaico;
Deianira è contemporanea degli spettatori e assomiglia a tutte
le donne di Trachine che all’alba sono arrivate dal villaggio per
udire 1 suoi lamenti. Fracle percorre la terra da un capo all’al-
tro; Deianira‘è quella che aspetta sempre, quella che si prende
e si abbandona.
E figli avemmo: e li rivide ancora,
come colui che prese un campo arato
fuorimano, e lo visita soltanto
nell’ora che lo semina e lo miete.
(Le trachinie, 31 sgg.)
În questo primo lungo monologo di Deianira tornano conti-
nuamente 1il timore, la paura, il terrore. La prima cosa che ri-
corda è “una dolorosa ripugnanza di nozze” (7), quando i pri-
mi corteggiatori venivano a casa di suo padre. Poi ci furono la
paura del marito e la paura per 1l marito, la paura quando lui
c’erae la paura quando lui non c’era. La paura per la sua ca-
sa, la paura di fronte agli esuli, la paura per i figli e per la
loro sorte se dovessero rimanere soli. “Noi, che siamo salvi, lui
salvo, o ci perdiamo insieme” (85).
Quando Eracle è assente, la sorte di Deianira è triste, ma le
sue paure e i suoi timori appaiono normali, comuni. E’ figlia
di re, ma si lamenta della propria sorte come una contadina.
La litania delle sue pene non è diversa da quelle che si trova-
no nei canti popolari di tutte le nazioni:
{...] ma come si consumi un cuore
solo soffrendo impareresti. Oh, sempre
resta ignara così. La creatura
nuova cresce in recinti suoi lontani,
dove a turbarla né calor di sole
penetra mai, né pioggia o vento muove;
151
Divorare gli dei
152
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”
153
Divorare gli dei
155
Divorare gli dei
sua stessa struttura. ‘““Mi si scopre qualcosa che non può ragio-
ne umana spiegare, o almeno concepire’”’ (693).
In Macbeth le macchie di sangue che non si possono lavare
sono più spaventose dell’assassinio notturno del re. L’essenza
della storia non è il susseguirsi dei re, ma uno sconosciuto sol-
dato, insanguinato e seminudo (‘““Chi è quell’uomo coperto di
sangue? ”: Macbeth, 1, 2, 1), che appare solo per un attimo è,
come l’araldo greco, porta notizie dal campo di battaglia. Cibo
e sonno sono egualmente avvelenati. Le cose della terra sono
vischiose, viscide e incoerenti come in un sogno: “Nell’aria,
come fiato nel vento, si sono sfatte quelle che sembravano d’
impasto corporeo” (Macbeth, 1, 3, 81-2).
In quest’incubo si rivela la vera natura del mondo: “Ma dalla
terra dove rimaneva per un tempo alla luce, gonfie spume Ti-
bollono grumose: e tu ripensi a quando si diffonde sul terreno
il pingue succo della glauca uva colta al tralcio di Bacco” (701
sgg.).
Le sorelle fatali e il portiere infernale, che all’alba apre le por-
te del castello, sono in Macbeth creature reali come nelle
Trachinie i mostri e il veleno dell’idra. Îl mondo di Macbeth è
inquinato dal sangue come quello delle Trachinie è impregnato
di veleno:
Se attingerai con le tue mani il sangue
che si rapprende agli orli della piaga,
dove fondo s’immerse il dardo, nero
di fiele, dell’idra [...]}
(Le trachinie, 572 sgg.)
Il contagio è transitivo: l’infetto è anche colui che infetta.
Nelle Trachinie il contagio è la struttura e la teologia della
tragedia. Eracle il salvatore ha salvato Deianira dall’aggressione
della bestia, ma le sue frecce erano avvelenate. Il mediatore, 1l
figlio di Zeus, ha salvato il mondo dai mostri. Ma uccide i
mostri con il veleno di un mostro. La mediazione è dunque
una rinnovata infezione del mondo. Il portatore del contagio
156
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”
è
DEIANIRA
158
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
159
Divorare gli dei
fuori scena, nel buio della casa. Ma la sua nutrice la segue pas-
so passo come una cinepresa: “nascosta nell’ombra, la seguivo
con l’occhio di continuo” (914). “Gettandosi in un grido sugli
altari, li pianse abbandonati; e avvilita gemeva nel toccare qua-
lunque oggetto di quelli che prima usava sempre [...]” (904.
sgg.). }
Deianira, come l’Alcesti di Euripide, dice addio al letto che ha
diviso con il marito. Îl letto è l’altare sul quale sacrificherà la
propria carne: “Vedo la donna gettare le coltri sopra il talamo
d’Eracle, salirvi d’un balzo, e poi sedervisi, nel mezzo [...]”
(914 sgg.).
La biancheria da letto, alla quale tanto tenevano le donne
greche, Deianira l’accatasta al centro del letto, poi vi s’inginoc-
chia sopra, come su una pira. Stacca la spilla d’oro, affibbiata
al suo peplo, e lascia cadere l’indumento dal braccio sinistro,
scoprendosi il seno e lo stomaco. La competenza di Sofocle in
fatto di ferite è profonda come quella di Omero: Deianira tie-
ne la lama nella mano destra e si squarcia lo stomaco, facendo
partire il colpo dal fianco sinistro. “Trafitto il fianco da lama
vibrata due volte, sotto il cuore e sotto il fegato” (930 sg.).
Deianira sì apre lo stomaco seduta sulle lenzuola e con le gam-
be incrociate (altrimenti non sarebbe possibile), secondo le re-
gole del harakiri. La spada è a doppio taglio: perché il seppu-
ku sia mortale sono necessari due tagli in diagonale, da sinistra
a destra e poi di nuovo verso sinistra in basso. Il suicidio, che
è un sacrificio, deve essere compiuto come un rituale.
Ora la tragedia s’avvicina alla conelusione. Sulla spiaggia da-
vanti alla casa di Deianira, dove l’araldo aveva portato lole e
le prigioniere, Eracle, sdraiato su una portantina, urla il suo
strazio. Dalla casa arriva il figlio Ilo, ancora una volta messag-
gero di sventura tra la madre e il padre.
Illo — Parlo. Non vive più, da poco. Uccisa.
[...] Da sé sola
mentre sul posto non c’era nessuno.
160
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”
c)
In Edipo re, quando per un attimo sembra che le profezie
possano sbagliarsi e che le maledizioni degli dèi non si concere-
tino, il coro sì ribella e non vuol più assistere alla cerimonia:
‘“Perché dovrei partecipare alla danza sacra? ” Il coro di Edipo
capisce l’essenza della tragedia. Se parricidio e incesto non so-
no annunciati in anticipo, se non costituiscono il misterioso
ordine metafisico dell’universo, se non sono parti integranti
della giustizia divina, allora non sono altro che caso, uno dei
tanti accidenti negli annali delle vicende comuni. Camus scri-
veva nel Mito di Sisifo:
In un’opera tragica il destino risalta sempre di più sotto l’a-
spetto della logica e del naturale [...] Tutto lo sforzo del
dramma sta nel mostrare il sistema logico che, di deduzione in
deduzione, porrà in atto la sciagura dell’eroe. Darci soltanto
l’annuncio di questo insolito destino non è orribile, in quanto
è inverosimile, ma se la necessità ci viene dimostrata dall’insie-
me della vita quotidiana, della società, dello stato, delle agita-
zioni familiari, allora l’orrore è consacrato. Nella rivolta che
agita l’uomo e gli fa dire: “Questo non è possibile”, si trova
già una disperata certezza che “questo” invece lo è°5.
161
Divorare gli dei
162
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
163
Divorare gli dei
164
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
165
Divorare gli dei
penetra; ma sì vive
l’oggi, per noi tristezza,
per essi disonore.
(Le trachinie, 1266 sgg.)
Di tutte le tragedie di Sofocle, Le trachinie contiene la più
disperata interpretazione possibile del destino umano. Eracle,
che ha salvato Deianira, è stato da lei distrutto. Ma è stato
distrutto anche da lole, causa prima di tutte le sventure. E°
morto per il veleno contenuto nel sangue del centauro, ma
quel veleno era il veleno dell’idra. L’idra ha ucciso Eracle, che
aveva ucciso l’idra. Eros è veleno ed è veleno il filtro d’amore.
La carne degli uomini, e persino degli dèi, è infettata da eros
e dal veleno. Era ha nutrito al seno l’idra mitologica, sorella di
Cerbero e zia della Sfinge, nata dall’unione incestuosa tra
madre e figlio: le frecce di Eracle, inzuppate nel suo veleno,
hanno inflitto a Era una ferita incurabile. E non c’è “nulla di
questo in cui non si conosca Zeus” (1278).
Da lontano si riescono a vedere soltanto gli spasmi dei corpi
nella libidine e nella sofferenza, avvelenati da eros e dal vele-
no. I corpi sono tutti simili. Quello di Deianira eccita la lussu-
ria dei mostri, ed è questo il suo destino. Quello di lole eccita
la lussuria di Eracle, e anche per lei è questa la sorte. “La mia
bellezza mi portava dolore” (25), dice Deianira all’inizio della
tragedia. “La sua bellezza ha rovinato la sua vita” (464), dice
più avanti di lole. Il corpo di Eracle, il più forte degli uomini,
s’indebolisce: “Tanto soffrendo, mi ritrovo femmina”
(1075)“° .
Uno stesso attore interpretava Eracle e Deianira. La maschera
nel teatro greco rappresentava la persona, ma nel labirinto di
simboli e permutazioni delle Trachinie, si direbbe che l’aver
affidato due personaggi, Deianira ed Eracle, a un solo attore,
sia stato un segno intenzionale‘?, E non c’è ‘“nulla di questo
in cui non sìi conosca Zeus”.
Sopra l’orchestra e sopra il monte Eta, continua a girare in
166
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
167
Divorare gli dei
168
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”
169
Divorare gli dei
170
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
171
Divorare gli dei
172
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
173
Divorare gli dei
174
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
1735
Divorare gli dei
176
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
177
Divorare gli dei
178
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
179
Divorare gli dei
tare il figlio e tutti quelli che ancora vivono. Sia lui sia Deiani-
ra sono alla disperàta ricerca di un ultimo gesto che possa da-
re un senso alla loro distruzione. Questo gesto è il suicidio ce-
rimoniale di Deianira, ed è il rogo sul monte Eta, sul quale
Eracle vuole bruciare vivo. Il rituale è la mediazione estrema
tra un dio crudele e la disfatta umana.
Nell’Eracle di Euripide il .rituale viene rifiutato. La follia di
Eracle inizia con un lavaggio di. mani ritualistico dopo l’ucci-
sione del tiranno Lico. E' un momento che per Euripide dove-'
va essere particolarmente importante: è citato infatti due vol-
te, prima dal messaggero, poi quando Eracle riprende cono-
scenza:
Eracle — Dove mi colse, dove mi perdé il furore?
Anfitrione — Presso l’altare mentre purificavi al fuoco le mani.
(Eracle, 1144 sg.)
l rituale è per Euripide, ricorrendo ancora una volta alla ter-
minologia hegeliana, un’alienazione, una pseudosoluzione della
contraddizione tra umano e non umano, tra conoscenza e non
conoscenza, tra oggetto e soggetto, tra natura e libertà, tra 1il
- interno. L’unica vera fine del-
nemico fuori di noi e il nemico
la follia è la libertà dalla paura del contagio magico. “Nessuna
maledizione viene dagli amici agli amici” (1234). Eracle torna
nel mondo umano, dove, benché non ci sia speranza, la dispe-
razione deve essere controllata dalla ragione.
“Un mondo come quello di questo romanzo”, scrive Malraux
nella prefazione a Temps du mépris, “un mondo di tragedia, è
sempre un mondo antico: uomo, folla, elementi, donna, desti-
no. Lo si può ridurre a due forze attive: l’eroe e il significato
che egli dà alla propria vita”. Per i personaggi di Sofocle, la
vita è un disastro e la loro scelta eroica consiste nel dare un
significato alla propria disfatta. Îl coro di Edipo a Colono di-
ce: “Non nascere,è il mio pensiero più dolce”. Antigone,
Deianira e Giocasta si uccidono per disperazione; Aiace sì get-
ta sulla propria spada in segno di disprezzo per il mondo. Ma
180
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”
181
Divorare gli dei
4. Filottete o il rifiuto
a).
Nel Filottete di Sofocle, come nella Tempesta, il pubblico è
un mare e la scena un’isola. Pochi istanti prima che inizi la
tragedia, Odisseoe Neottolemo, figlio di Achille, sono sbarcati
sulla rocciosa spiaggia di Lemno. Odisseo era già stato a Lem-
-no: dieci anni prima, quando la flotta greca, diretta a Troia, vi
aveva gettato l’ancora e aveva abbandonato sull’isola Filottete,
che dormiva in una grotta, perché, morso da un serpe nell’iso-
la di Crise, dava molto fastidio ai compagni di bordo. La sua
ferita puzzava e i suoi gemiti erano talmente forti da disturba-
182
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
183
Divorare gli dei
184
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”
185
Divorare gli dei
186
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
187
Divorare gli dei
188
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
b)
Filottete è stato bandito dalla comunità umana, che lo ha ab-
bandonato con un mucchio di cenci e una manciata di cibo. Î
marinai, sbarcati a Lemno in questi nove lunghi anni, gli han-
no lasciato altri mucchi di stracci e brandelli di provviste. Ci
sono soltanto l’ancoraggio deserto e il mare vuoto. Le urla e-
cheggiate dalle rocce raggiungono solo le onde che si rifrango-
no sulla spiaggia deserta. “Qui senza moto attese, solitario, !
escluso, senza un compagno di dolore a lato” (691 sgg.). Fi-
lottete viene scaraventato al fondo della condizione umana:
‘““giace nel deserto senza doni d’una vita senza umani solo”,
dice il coro, “[...] nei congiunti spasimi del morbo e della fa-
me” (182 sgg.). Come i paralitici di Beckett, è tormentato dal-
la fame, dalla sete e dalle sofferenze. “Tutto scrutare, né pre-
senza alcuna, se non quella d’angoscia, mai discernere; ma d’
angoscia una facile ricchezza [...]” (283 sg.).
Questo straccio umano, guesto “morto tra i vivi”’, è ancora il
proprietario dell’arco invincibile. Odisseo, che si è scelto come
compagno il giovane figlio di Achille, deve portare Filottete a
Troia. Senza quest’arco e senza quest’uomo è impossibile vin-
cere la guerra. Ancora una volta c’è bisogno di lui. E bisogna
consegnarlo vivo: con l’inganno, con la forza o con la persua-
sione. Îl paria deve diventare il salvatore, il lebbroso un eroe
189
Divorare gli dei
190
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
191
Divorare gli det
Neottolemo invoca gli dèi ventidue volte. “Io vorrei che agli
dèi [...] tu ti affidassi” (1374 sg.). Tutto quello che accade,
sino al più piccolo incidente, è, a suo avviso, una manifesta-
zione della “volontà divina”, di un ‘“piano divino”, di un
“decreto divino”, dalla ferita di Filottete alla sua spedizione a
Lemno, alla vittoria di cui spartirà la gloria con Filottete stes-
so. Le sofferenze vengono remunerate e la storia attua una
teodicea, per di più nel corso di un solo decennio. Agli dèi del
sistema di Odisseo e agli dèi della pronta giustizia di Neottole-
mo, Filottete può opporre soltanto le proprie sofferenze. Gli
dèi che lui conosce sono sordi. “Se lodo l’opera divina [...]
trovo gli dèi malvagi” (451 sg.). Per la terza volta ritorna su
Lemno il tema di Prometeo che sfida gli dèî:
Non mai, non mai, tieni ben fermo questo,
neppure se l’iddio che porta e vibra
la fiamma della folgore m'avvampi
nell’incendio d’un tuono tutto luce.
Îlio rovini e sotto le sue torri
quanti son oggi, poiché tutti osarono
in quel giorno respingere
questo mio piede infermo.
(Filottete, 1197 seg.)
E° il terzo ‘“no” di Filottete. Ma la sua resistenza crollerà alla
fine del dramma. Non funzionando i discorsi sulla necessità
suprema e sulla provvidenza, non resta che la ragione pratica.
‘“Tu, esasperato, respingi i consigli” (1321). Filottete insiste
sulla propria tragedia. Neottolemo trova la sua ostinazione
fuori della misura umana. ‘“Non inasprirti anche se soffri”
(1378). Ma qual è la misura umana? ‘La sventura ha forse un
limite, ha forse una misura? ” chiede l’Elettra di Sofocle
(236). È ia misura di che? Della sventura o dell’ostinazione?
“E più dolenti e deboli quanto meno mediocri, o genti o vi-
te! ” (178 sg.), dice il coro. In fatto di misura umana e inu-
mana, i semplici marinai ne sanno più di Prometeo: “Altri
193
Divorare gli dei
non so [...] che subisse tra gli uomini più accanito destino”
(680 e 682).
La coscienza di Filottete è la sua fetida ferita. 1 suoi amici di
un tempo, come in Aiace, si rivelano delle canaglie. Puzzava
allora quando offrivano le loro preghiere, ma adesso lo voglio-
no seduto accanto mentre ne offrono di nuove. Gli prometto-
no una partecipazione alla gioria della disfatta di Troia e un
posto d’onore nell’assemblea dei greci. “Di nuovo, di nuovo,
rammenti l’antico dolore” (1170). Sino alla fine Neottolemo
non capisce l’ostinazione di Filottete. La ferita è la sua di-
gnità. L’unica che gli rimanga. E ora vorrebbero che la rinne-
pgasse. “E voi, pupille mie che troppo vedeste, questo ancora
sopporterete voi? Ch’io muova al fianco di quei figli d’Atreo
che mi distrussero? ” (1335). Glì promettono in compenso
una cura. Per nove anni, sull’isola deserta, ha sognato una cura
per la sua ferita. Ma era una cura di carattere diverso: “Se
costoro vedessì morti, mi parrebbe ancora d’essere liberato dal
mio male” (1043 sg.)}.
Il rifiuto di Filottete è definitivo e Neottolemo non ha altra
scelta che mantenere la promessa e riportarlo a casa.
Neottolemo — Come, come sfuggire
alla condanna da parte degli achei?
Filottete — Tu non pensarci.
Neottolemo — Se dovessero invader la mia terra
e depredarla?
Filottete — Con la mia presenza.
Neottolemo — Quale aiuto darai?
Filottete — Coi dardi d’Eracle.
- (Filottete, 1403 sgg.)
Come Lemno deserta e la ferita insanabile, l’arco, dono di
Apollo, è insieme mitico e reale. Neottolemo lo guarda con
superstiziosa venerazione: “Potrei, dimmi, ammirario da vicino
e toccarlo e baciarlo come sacro? ”’ (657 sg.). L’arco è per lui
theos. Nel mito gli oggetti si portano dietro le proprietà dei
194
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
c)
Nella tradizione postomerica, è Diomede che va a Lemno a
cercare Filottete. Nella tragedia, perduta, di Eschilo è Odisseo
che riesce finalmente a convincere Filottete a venire con lui a
Troia. În quella di Euripide, per non essere riconosciuto, O dis-
seo si traveste da fuggiasco da Troia e si porta appresso Dio-
mede nel caso ìn cui occorresse ricorrere alla forza. Staccando-
si dalla tradizione, Sofocle sceglie Neottolemo come accom-
pagnatore di Odisseo. Può valer la pena chiedersi perché, L’
195
Divorare gli dei
196
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
197
Divorare gli dei
198
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
che già una volta è venuto meno alla sua parola: “La morte a
te [...] Ma no. Ch’io sappia prima se forse ancora muterai pen-
siero; se no, ti colga la morte del vile” ‘(961 sg.)55 . Ma la
chiave della teologia di Sofocle è la prima profezia, quando
Filottete, prima di essere colto da un nuovo accesso di dolore,
affidaà a Neottolemo arco e faretra: “[...] e pronuncia uno
scongiuro umile: che pesanti di dolore a te non siano, come a
me già furono e a chi prima di me li possedeva” (776). L’ar-
co, segno di mediazione, dono degli dèi, porta sofferenze e
sventure. È’ un arco di distruzione. Eracle, che è stato il pri-
mo a riceverlo, pronuncia la terza e ultima profezia nell’epilo-
go.
Filottete e Neottolemo sono già scesi dalla skene nella piatta
arena. Filottete ha posato arco e frecce e s’inginocchia per ba-
ciare la terra, prima di lasciare l’isola. D’improvviso s’ode una
VvOce:
[...] d’Eracle
questa voce che tu senti
col tuo stesso orecchio, d’Eracle
sappi il volto che tu scorgi.
Per te lascio le celesti sedi.
(Filottete, 1410 sgg.)
Eracle, che è sceso lentamente dal tetto della grotta, pronun-
cia un giudizio sulla propria vita, che sembra un epitaffio: “Îo
voglio prima i miei destini aprirti: quanti pesi non seppì e
quante vie di fatiche e d’angosce non percorsi, per aver pre-
mio nella forza eterna che vedi in me” (1418 sgg.). Le grandi
fatiche di Eracle hanno comportato sofferenze continue®®.
Nel discorso dal tetto della skene la parola ‘“angoscia”, o i
suoi sinonimi, viene ripetuta tre volte. Come nelle Trachinie e
nell’Eracle di Euripide, è ancora il tragico Eracle venuto dall’
Ade di Omero dove aveva detto a Odisseo: “Pianto senza mai
fine avevo”. Nella teologia e nella struttura di Filottete, il
proprietario dell’arco è il doppio di Eracle. Nelle Trachinie
199
Divorare gli dei
200
“Dov'è adesso quel famoso Eracle?”
201
Divorare gli dei
202
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
203
Divorare gli dei
204
Note
205
Divorare gli dei
206
“Dov'’è adesso quel famoso Eracle?”
Source Book of Heretical Writings from the Early Christian Period, a cu-
ra di Robert M. Grant, New York, Harper, 1961, p. 98.
17. Northrop Frye, Anatomia della critica, trad. di P. Rosa-Clot e San-
dro Stratta, Torino, Finaudi, 1969, p. 276.
18. “[...] per garantire la nascita di Ercole, bisognava che lei [Alcmena]
venisse ingannata. Non sarebbe bastata a tentarla la promessa dell’immor-
talità o della deificazione” (Laurent Le Sage, Jean Giraudoux: His Life
and Works, University Park, Pennsylvania State University Press, 1959,
p. 69).
19. Nei Menecmi, il gemello di Epidauro cita l’esempio di Ercole quan-
do ruba un vestito alla moglie per offrirlo a una cortigiana: “Ho corso
un bel rischio oggi a rubarlo! Penso che quando Ercole tolse la cintura
a Ippolita non rischiò altrettanto” (199 sgg.), in Le commedie, cit., p.
448.
20. Cfr. FEuripide: “Oh ragazza, nata da Étere, che l’umanità chiama
Zeus” (Nauck, frammento 869).
21. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 104.
22. Îl fallimento metafisico del mitico Eracle appare con molta chiarez-
za nell’interpretazione di Hegel. Cfr. Hegel, Estetica, p. 910.
23. Tutte je citazioni delle Trachinie sono nella traduzione di Giuseppi-
na Lombardo Radice, in Sofocle, Le tragedie, Torino, Einaudi, 1967.
24, Luciano si è evidentemente ricordato di Eracle servo e prigioniero.
Quando KEracle chiede un posto più onorato al banchetto degli dèi, A-
sclepio risponde bruscamente: “Îo almeno non fui servo come te, non
filai lana in Lidìa, vestito di porpora e battuto da Onfale col sandalo
ricamato d’oro; io non mai venni in tanto furore da uccidere figlioli e
moglie”’. “Dialoghi degli dèi”, XII, in! dialoghi e gli epigrammi, cit., p.
78.
25. L’‘Io sono un nulla, nemmeno buono di trascinarmi un passo solo”’
regge al confronto con il “É niente è, se non quello che non è” di Mac-
beth (1, 3, 141).
26. Euripide, Eletîtra, trad. di Carlo Diano, in Îl teatro greco. Tutte le
tragedie, cit.
27. Gilbert Murray, Greek Studies, Oxford, Clarendon Press, 1946, p.
126.
28. Racine scrisse le sue note sulla traduzione latina del filologo tedesco
Joachim Camerarius. Paul Estienne le pubblicò nel commento alla pro-
pria edizione di Sofocle (1803). La copia di Camerarius già appartenuta
a Racine è ora nella biblioteca di Tolosa. Cfr. Racine, Thédtre complet,
a cura di Maurice Rat, Parigi, GClassiques Garnier, 1960, p. 723.
207
Divorare gli dei
29. Luciano in “Del ballo” (50) cita tra le danze dell’Etolia, che sicura-
mente dovevano essere delle specie di pantomime, “la lotta del fiume e
di Eracle”, in ] dialoghi e gli epigrammi, cit. p. 447.
30. Éra un ruscello pietroso che apparve all’improvviso, sgorgando dal
versante occidentale del monte Eta di Zeus. Îl nome del centauro Nesso
significava letteralmente “il ruggito del torrente rabbioso” (Jebb, The
Trachiniae, Cambridge 1892, commento al verso 557).
31. Cfr. Herbert Musurillo, The Light and the Darkness: Studies in the
Dramatic Poetry of Sophocles, Leida, Brill, 1967: “Man mano che il sole
divien caldo nel cielo, il fiocco di lana si disintegra in una sorta di polve-
re farinosa; ma poi, quando esso è del tutto scomparso, dalla terra nuda
scaturiscono 1 grumi spumosi simili a sangue che tanto spaventano Deia-
nira (701 sgg.). În Eschilo (Coefore, 69-70), il sangue sul terreno che
non sì lascia assorbire indica un atto sanguinoso non ancora vendicato.
Qui i granelli di sangue che la terra trasuda rappresentano la morte in-
vendicata dell’infido Nesso; sono un segno dell’oracolo che Eracle rice-
vette un giorno da Zeus, secondo il quale sarebbe emerso dall’Ade un
potere per distruggerlo. Cosi il sangue gorgogliante diventa per Deianira
un presagio oracolistico, anche se lei non può comprénderne tutto il si-
gnificato”* (p. 72).
32. Roman Jakobson e Morris Halle, Fundamentals of Language, L’Aia,
Mouton, 1956. Soprattutto il capitolo “Two Aspects of Language”.
33. Sono versi quasi intraducibili. Musurillo (The Light and the Dar-
kness) traduce: ‘“Lascia che egli venga, il sommamente desiderato, addol-
cito dall’azione dello stratagemma della bestia”. E Jebb (The Complete
‘Plays of Sophocles, New York, Bantam Books, 1967): “Di li egli possa
venire, pieno di desiderio, impregnato d’amore dallo specioso artificio della
tunica, sulla quale Persuasione ha speso il suo sovrano incantesimo”.
04. Georges Méautis, in Sophocle, è stato il primo, nel capitolo sulle
Trachinie, a ricordare questi versi famosi: la Venere “iout entière è sa
protie attachée” di Racine è quasi una trascrizione letterale dell’immagine
euripidea “[...} vi si era inzuppata l’idra, orribile e mostruosa”. Nella
Fedra di Racine si possono trovare molti versi sorprendentemente simili
a quelli delle Trachinie, ma la dipendenza non è solo a livello di testo.
E’ nella sua ‘“struttura profonda” che Fedra sembra più vicina alle Tra-
chinie che all’Ippolito di Euripide. All’inizio del primo stasimo, il coro
parla del dio-sole. Eracle, sul piano teologico come su quello strutturale,
è dilaniato tra l’idra e Zeus, tra il cielo e le potenze ctonie, come la
Fedra raciniana, “la_fille de Minos etf de Pasiphaé”, è contesa tra una
nera Venere e il dio sole. Questa corrispondenza sembra sia passata sino-
208
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
209
Divorare gli dei
210
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
211
Divorare gli dei
o4. Cfr. Aylen, Greek Tragedy and Modern World, p. 128: “Non è una
delle più grandi liriche di Euripide, ma sospetto che non fosse necessa-
rio. Era presumibilmente una grande esibizione mimica. Ciò dovrebbe
aver equilibrato l’opera nei punti che ai critici moderni paiono manche-
voli, e aver fatto capire che era la storia di un grande uomo. Leggendo
l’ode nel testo, rischiamo di non intenderne l’equilibrio”.
90. Su Prometeo ed Edipo come simboli della tragicità delle “cose uma-
ne”, cfr. Maria Janion, Edyp i Prometeusz, in “Dialog’’, Varsavia, n. 8,
1971, pp. 94-109.
o6. “Egli [dio] era buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per
nessuna cosa”. Platone, Timeo, 29, e 1 sg., in Opere complete, trad. di
Cesare Giarratano, cit., p. 377.
57. Cfr. Euripide, Melanippo: “Zeus? Chiè Zeus? Lo conosco solo per
sentito dire”” {Nauck, frammento 483).
.58. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 95: “{...] l’atroce triplicità
del destino di Edipo: lo stesso uomo che scioglie l’enigma della natura,
vale a dire della Sfinge bifronte, deve anche infrangere le più sacre leggi
naturali, come uccisore del padre e marito della madre”.
A Questo visionario verso su Edipo nella poesia Nell’incantevole azzur-
ro di Holderlin è stato citato e discusso da Heidegger in Introduzione
alla metafisica. André Green ne ha tratto il titolo del suo studio psicoa-
nalitico sul complesso di Edipo nella tragedia greca: Un oeil en trop,
Parigi, Editions de Minuit, 1969.
60. In Edipo a Colono egli dice: ‘““Mi rinfacci omicidi e nozze e lutti che
non avevo voluto, tu con la tua bocca. Glì dei cosi stabilirono [...}”
(962 sgg.). É ancora: “Purtroppo io caddi in questi mali come sì precipi-
ta in un baratro, trascinato dagli dèi”” (998). Trad. di ÈE. Cetrangolo,
in Il
teatro greco. Tutte le tragedie, cit.
61. Camus, Îl mito di Sisifo, cit., p. 162.
62. Nellintroduzione di Arrowsmrth p. 57 “[...] il coraggio con il qua-
le l’eroe affronta il proprio destino e afferma un ordine morale superiore
alla propria esperienza è tragico e significante quanto quello di Edipo”.
63. În IJppolito, Artemide dice a Ippolito morente: “{...] gli occhi dei
celesti non conoscono il pianto” (1396).
64. Cfr. vv. 2, 148 sgg., 344 sgg., 353 sgg., 696, 798 sgg.
65. André Green, Un oeil en trop, cit., p. 228: “Car le mythe d’Oedipe
est le mythe exemplaire, puisqu'il est celui qui lie la question du ‘qui
suis-je? ‘ avec celle du ’De qui le fils? De qui le père? “”
66. Tutte le citazioni da Filottete nella traduzione di Giuseppina Lom-
bardo Radice in Sofocle, Le tragedie, cit.
212
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
213
Divorare gli dei
77. André Gide è stato forse il primo che ha visto nella ferita di Filotte-
te la chiave per la comprensione della tragedia. Îl suo adattamento di
Philoctète (Parigi, Gallimard, 1947), pubblicato per la prima volta dalla
“Revue blanche”, nel 1898, aveva come sottotitolo “Traité de l’immon-
de blessure’’, La ferita, isolando Filottete dalla gente, lo trasforma in ar-
tista. Sull’isola deserta i suoi gemiti diventano canti. “Mais depuis que je
ne m’en sers plus pour manifester ma souffrance, ma plainte est devenue
très belle, èà ce point que j’en suis consolé! ” (Ma da quando ho smesso
di servirmene per manifestare la mia sofferenza, il mio lamento è divenu-
to bellissimo, al punto che ne traggo consolazione! ), p. 159. Questo Fi-
lottete modernistico della fine. ottocento è un poeta disinteressato che
ha trovato nel degserto la bellezza, la saggezza e infine la propria intima
individualità, “Je m’exprime mieux depuis que je ne parle aux hommes.
Mon occupation, entre la chasse et le sommeil, est la pensée” (Mì espri-
mo meglio da quando nori parlo più con la gente. Tra la caccia e il son-
no, occupo il mio tempo pensando), p. 160. H Filottete di Gide conse-
gna spontaneamente l’arco e rimane solo sull’isola glaciale. Dal dramma
di Gide prende l’avvio un brillante saggio su Filottete, pubblicato da Ed-
mund Wilson nel volume La ferita e l’arco, trad. di Nemi dAgostmo,
Milano, Garzanti, 1973, 2 éd.: “Con Gide, arriviamo assai vicino a un
altro soprasenso, che anche Gide non sviluppa in pieno, ma che certo
viene in mente al lettore moderno: l’idea che genio e malattia, come for-
za e invalidità, possono essere inestricabilmente fusi insieme”” (p. 312).
Le. idee di Wilson sulla mailattia come fonte di forza morale e sull’inte-
resse di Sofocle per gli squilibri psicologici (“un Sofocle clinico”) sem-
brano interessanti, ma sembra gli sfugga il fatto che la ferita di Filottete
è mitica.
78. Cfr. Bernard M.W. Knox, “Euripidean Comedy”, cit., p. 75.
79. Scrive Nadezhda Mandelstam nelle sue memorie: “Tutti noi eravamo
presi dalla sensazione che non fosse più possibile tornare indietro, sensa-
zione dettata dalla nosira esperlenza del passato, dai nostri presentimenti
sul futuro e dalla nostra trance ipnotica nel presente. Sostengo che tutti
noi — specie se vivevamo nelle città — eravamo in uno stato simile a una
trance ipnotica. Ci avevano realmente convinti che eravamo entrati in
un’epoca nuova e -che non ci restava altra scelta se non la sottomissione
all’inevitabilità storica, che era comunque soltanto un sinonimo dei sogni
di quanti avevano sinora combattuto per la felicità umana. La propagan-
da per il determinismo storico ci aveva privati della nostra volonta e del-
la capacità di giudicare con la nostra testa {...}” (Hope Against Hope,
trad. di Max Hayward, New York, Atheneum, 1970, p. 44).
214
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
215
Divorare gli dei
216
“Dov’è adesso quel famoso Eracle?”
217
Divorare dio, o Le baccanti
218
Divorare dio, o “Le baccanti”
219
Divorare gli dei
220
Divorare dio, o “Le baccanti”
221
Divorare gli dei
222
Divorare dio, o “Le baccanti”
223
Divorare gli dei
2.
224
Divorare dio, o “Le baccanti”
225
Divorare gli dei
220
Divorare dio, o “Le baccanti”
227
Divorare gli dei
228
Divorare dio, o “Le baccanti”’
229
Divorare gli dei
3.
230
Divorare dio, o “Le baccanti”
231
Divorare gli dei
232
Divorare dio, o “Le baccanti”
233
Divorare gli dei
234
Divorare dio, o “Le baccanti’ :
235
Divorare gli dei
236
Divorare dio, o “Le bàccanti”
4.
237
Divorare gli dei
2568
Divorare dio, o “Le baccanti”
239
Divorare gli dei
240
Divorare dio, a “Le baccanti’
”
24]
Divorare gli dei
242
Divorare dio, o “Le baccanti”
243
Divorare gli dei
ò.
244
Divorare dio, o “Le baccanti”
245
Divorare gli dei
246
Divorare dio, o “Le baccanti”
2477
Divorare gli dei
248
Divorare dio, o “Le baccanti’ ?
249
Divorare gli dei
6.
250
Divorare dio, o “Le baccanti”
251
Divorare gli dei
252
Divorare dio, o “Le baccanti”
253
Divorare gli dei
200
Divorare gli dei
200
Divorare dio, o “Le baccanti”
257
Note
208
Divorare dio, o “Le baccanti”
poco come impotenza di fronte alla rivelata potenza del dio; e poiché re
e dio sono in conflitto diretto, ne consegue che la vittima diventa l’ag-
gressore, il cacciato il cacciatore e viceversa””. Ma Kirk, benché insista sul
fatto che i due protagonisti sono coetanei e cugini, e mostri con molta
precisione la trasformazione del cacciatore in cacciato, si affretta però a
evitare il rischio di attribuire un’importanza essenziale a questi punti.
“Teniamo dunque conto di queste corrispondenze, ma non sopravvalutia-
mone il significato. Non bastano da sole a suggerire che Penteo fosse un
aspetto o un doppio. pervertito del dio [...]” E poche righe più avanti:
“C’è molta sottigliezza e complessità, oltre che una grande ironia, nella
descrizione euripidea dei due avversari e del loro rapporto; ma, benche sì
possa pensare a un Penteo offerto a Dioniso come sua vittima per il fat-
to che gli si fa indossare la veste rituale delle seguaci del dio, ci sono
poche prove concrete che lo indichino come una sorta di aberrante in-
carnazione del potere e della personalità dello stesso Dioniso”” (il corsivo
è mio, pp. 14-5).
5. Penteo, osserva Arrowsmith nell’introduzione citata, p. 147, è ancora
imberbe al momento della morte, e non può guindi avere più di sedici o
diciassette anni.
6. Fonti fondamentali per la storia di Licurgo sono Omero, ÎNliade, VI,
130 sgg., e Apollodoro, 3, 5, 7; per le tre figlie di Minia di Orcomeno,
Plutarco, Quaestiones Graecae, 38; per la frenesia delle donne di Argo,
Apollodoro, 2, 2, 2. Vedi anche Dodds, The Bacchae, “Introduzione”, p.
XXIII, e Graves, ] miti greci, pp. 105 sgg. Cfr., poi, J.G. Frazer, l ramao
d’oro, trad. di Lauro De Bosis, Torino, Boringhieri, 1965, p. 492: “Il
sospetto che questo harbaro costume non cadesse affatto in disuso nep-
pure nei tempi posteriori è rafforzato da un caso di sacrificio umano che
avvenne ai tempi di Plutarco a Oreomeno, un’antichissima città della
Beozia, distante solamente poche miglia dal paese natio dello storico [...]
Opgni anno alla festa delle Agrigonie il sacerdote di Dioniso inseguiva cer-
te donne con una spada e se ne raggiungeva qualcuna aveva diritto di
ucciderla. Durante la vita di Plutarco questo diritto fu realmente eserci-
tato da un sacerdote chiamato Zoilo. La famiglia cosi soggetta a fornire
almeno una vittima umana ogni anno era di discendenza reale perche fa-
ceva risalire la sua stirpe a Minia, il famoso antico re di Orcomeno [...]
Vuole la tradizione che le tre figlie del re avessero a lungo disprezzato le
altre donne del paese perché si davano alle frenesie bacchiche, e rimanes-
sero nella casa paterna a filare orgogliosamente la rocca e a tessere, men-
tre le altre, adornate di fiori, con le chiome scarmigliate al vento, errava-
no in estasi sulle aride montagne che s’innalzano sopra Orcomeno, riem-
2059
Divorare gli dei
piendo la solitudine delle colline con l’eco della selvaggia musica dei
cembali e dei tamburini. Ma col tempo la furia divina arse anche le don-
zelle reali nelle loro tranquille dimore: furono prese da una feroce brama
di mangiare carne umana e tirarono a sorte tra loro per vedere chi doves-
se dare il proprio figlio per fornire il cannibalesco banchetto”.
7. Dodds sembra sia stato il primo a contestare la cosiddetta “teoria del-
la resistenza” che vedeva in questi racconti un riflesso dell’invasione sto-
rica della Grecia a opera del culto dionisiaco. Egli scrive: “[...] sono sem-
pre le figlie del re che impazziscono; sono sempre tre [...] e ammazzano
regolarmente i propri figli o il figlio di una di loro [...]” (The Bacchae,
‘““Introduzione”’, p. XXIV).
8. Kirk, The Bacchae, cit., p. 54, commento al v. 340.
9. Graves, I miti greci, cit., pp. 105-6, paragona l’Artemide di questo
mito alla “signora della selvaggina”” di Creta, il cui culto era di tipo or-
giastico. Ma probabilmente sbaglia quando scrive: “Le ninfe si bagnavano
per purificarsi, dopo e non prima dell’eccidio”. E° forse meglio fidarsi
del mito. Il bagno rituale era una purificazione della sacerdotessa prima
della cerimonia sacrificale. Le baccanti di Euripide iniziano i sacri riti
con ‘“la purificazione bacchica” (77). Nell’Odissea, II, 439 sgg., “{...]
Areto il lavacro in un lebete fiorato venne a portar dalle stanze, e con
l’altra mano portava ì chicchi d’orzo in un cesto [...] e Nestore, il vec-
chio guidatore di carri, cominciò col lavacro e coi chicchi e molto Atena
pregava offrendo le primizie e gettando i peli del capo nel fuoco”. Nell’
Elettra di Euripide, il messaggero riferisce sul sacrificio che Egisto ha of.-
ferto agli dèi. Pur essendo un assassino e un adultero, compie la cerimo-
nia secorido il rito: prima sì lava le mani in acqua di fonte, poi ammazza
il toro (800 sgg.). In Ifigenia in Aulide, Achille, che si è finalmente con-
vinto della necessità di ammazzare Ifigenia, afferra la ciotola già piena di
acqua lustrale e corre tenendola in mano intorno all’altare per spruzzar-
ne i guerrieri (1568 sgg.).
10. Proclo, Commentario alla Politica di Platonae, citato da Graves, op.
cit., vol.I, p. 114.
11. Il simbolo della testa salvata, presente nei miti di Orfeo e di Dioni-
so, merita un più attento esame. La testa di Orfeo, gettata dalle Menadi
in un fiume, non affonda ma continua a cantare finché non arriva al
mare, dove le onde la portano a Lesbo insieme con la lira: “[...] la sua
testa parlante e galleggiante presso la lira” (Luciano, “Del ballo”, in 1
dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 447). Secondo un’altra versione, la testa
di Orfeo venne depositata nel tempio di Dioniso ad Antissa, dove conti-
nuò a parlare giorno e notte, prevedendo l’avvenire, finché Apollo non la
260
Divorare dio, o “Le baccanti”
261
Divorare gli dei
262
Divorare dio, o “Le baccanti”
va anche un’orgia che durava parecchi giorni. Infine il meriah veniva dro-
gato con l’oppio e, dopo averlo strangolato, lo tagliavano a pezzi. Ogni
villaggio riceveva un frammento del suo corpo, che veniva sepolto nei
campi. Îl resto lo si bruciava e se ne spargevano le ceneri sulle terre cob-
tivate. Come si vede, questo rito sanguinario corrisponde al mito dello
smembramento di una divinità primordiale” (pp. 250-1).
Jung (op. cit.), cita una descrizione che del “mangiare il dio” (teoqualo)
fece Bernardino de Sahagin, un prete spagnolo che andò missionario tra
gli aztechi sei anni dopo la conquista del Messico da parte di Cortes. In
questo rito, sì foggia una statua del dio Huitzilopochtli con pasta di se-
me di papavero spinoso.
E l’indomani mori il corpo di Huitzilepochtli.
E colui che lo uccise era il sacerdote noto come Quetzalcoatl.
E l’arma con la quale lo uecise era un dardo, appuntito con una selce,
che gli scoccò nel cuore. '
Ed egli era morto, e allora fecero a pezzi il suo corpo di [...] pasta. l
cuore venne dato a Moctesuma.
E il resto delle sue membra, fatte a imitazione delle sue ossa, fu dzstrv
buito e diviso tra tutti {...] Ogni anno {...}] lo mangiavano [...] E divide-
vano tra loro il suo corpo fatto di [...] pasta, che veniva spezzato in
frammenti estremamente piccoli e assai fini, come piccoli semi. Lo man-
giavano i giovani.
E di ciò che mangiavano si diceva: “Il dio viene mangiato”. E di quelli
che lo mangiavano si diceva: ‘‘Essi custodisconoil dio” (p. 170).
Alfred Métraux descrive in Tupinamba: War and Cannibalism, New York
1955, il rituale del cannibalismo tra gli indiani d’America: “I tupinamba
limitavano il loro cannibalismo ai prigionieri catturati proprio con questo
scopo. Una volta preso, e condotto nella comunità dei suoi catturatori, il
prigioniero poteva andare in giro, relativamente libero, nelle settimane o
nei mesi che precedevano il suo sacrificio [...] Nel corso del suo soggior-
no veniva, di volta in volta, canzonato, adulato, insultato e onorato. E-
gli, dal canto suo, contraccambiava trattando il più villanamente possibi-
le-i suoi catturatori, gettando loro noci, frutti e pietre quando danzava-
‘no, predicendo la loro royvina o vantandosi del proprio coraggio. Le feste
che accompagnavano il suo saerificio duravano da tre a cinque giorni
Dopo di che egli veniva messo a morte dal suo carnefice, di solito lo
stesso che lo aveva toccato per primo nel momento della sua cattura, ed
era una faccenda piuttosto macabra, perché la cosa veniva fatta basto-
nandolo a morte [...] Quando finalmente cadeva morto con iìl cranio
spaccato, il suo corpo veniva immediatamente squartato e arrostito, e i
263
Divorare gli dei
pezzi più saporiti venivano distribuiti tra gli allegri convitati. La moglie
del prigioniero, dopo aver sparso qualche lacrima, si univa al banchetto
[...] Él carnefice invece s’allontanava di corsa dal luogo del sacrificio [...]
Gli. era assolutamente proibito mangiare la carne del prigioniero. È per
un certo periodo gli si vietava anche di partecipare pienamente alla vita
della comunità, gli si imponeva una dieta particolare e lo si obbligava a
starsene solo. Il suo ritorno alla tribù, dopo il periodo stabilito, veniva
festeggiato con una grande bevuta, durante la quale si tatuava il corpo,
tagliuzzandoselo. Usciva da questa esperienza con un cospicuo aumento
del suo prestigio all’interno della comunità” (pp. 151-5). (L’autore è gra-
to a Sasha Weitman che ha attirato la sua attenzione su questo testo).
16. Eliade, Mythes, réves et mystères, cit., p. 1009.
17. Hesiod, The Homeric Hymns and Homerica, translated by Hugh G.
Evelyn-White, Loeb Classical Lybrary, Cambridge, Mass., Harvard Univer-
sity Press, 1967, p. 289,
18. Dodds, The Bacchae, cit., “Introduzione”, p. XI: ‘“In tal modo il
vino acquista un valore religioso: colui che lo beve diventa entheos: ha
bevuto la divinità””.
19. Eliade, l mito dell’eterno ritorno, pp. 21 e 28.
20. Luciano, 1 dialoghi e gli epigrammi, cit., p. 449.
21. Eliade, Mythes, réves et mystères, cit., p. 100.
22. Ibid., pp. 47 e 262. Sui riti d’iniziazione nelle cerimonie dionisiache,
cfr. H. Jeanmaire, Dionysus, Parigi 1951. Vedi anche Kirk, The Bacchae,
cit., commento ai vv. 11 e 857-60.
23. Jung, “Transformation Symbolism in the Mass”, p. 203. Cfr., anche,
R. Eisler, Orpheus — the Fisher, Londra 1923, pp. 280 sgg.
24. Amnott, in Greek Scenic Conventions, scrive a proposito di tre scene
di terremoto — in Prometeo, Eracle e Le baccanti —: “Queste tre scene
di terremoto si servono dello stesso metodo e seguono lo stesso schema:
promessa, elaborazione e anticipazione, dichiarazione. Si minaccia l’effet-
to, si prevede, con abbondanza di particolari, il risultato, lo si annuncia
infine come in atto di accadere, In Eracle si punta sulla follia di Eracle e
sul terremoto come fenomeno naturale, ma la tecnica è la stessa. În’un
teatro senza scenografia realistica, non c’è altro modo per attuare questo
effetto. La skene non può sbriciolarsi, essendo partè* pérmanente del
teatro, ma quando il coro dice che si sbriciola, allora secondo tutte Îe
regole della convenzione teatrale il pubblico deve accettare queste parole
come verità. È, accompagnate da movimenti di danza evocativi, dovreb-
bhero essere sufficienti. Jean-Louis Barrault una volta allesti la scena a
bordo della galera di Pompeo in Antonio e Cleopatra con una fila di
264
Divorare dio, o “Le baccanti”
265
Divorare gli dei
dei successi culturali dell’uomo, ma del dio che muore e risorge a ogni
stagione e che e il loro spirito vitale. I simboli non sono mai semplici: lo
sono soltanto i segni e le allegorie. Il simbolo si riferisce sempre a una
situazione complicata che è talmente di là dalla portata del linguaggio da
non poter essere assolutamente espressa in termini non ambigui. Cosi i
simboli del grano e del vino hanno quattro strati di significato: 1. come
prodotti agricoli; 2. come prodotti che richiedono una particolare lavora-
zione (pane dal grano, vino dall’uva); 3. come espressione di conquiste
psicologiche (lavoro, operosità, pazienza, dedizione, ecc.) e più general-
mente della vitalità umana; 4. come manifestazione del mana o demone
della vegetazione” (“Transformation Symbolism in the Mass”, pp.
-203-4).
34. Hardison, Christian Rite and Christian Drama, cit., pp. 145-6, 217.
Inoltre: “La chiesa riconosceva il carattere culminante della messa della
vigilia e la collocava nella più splendida delle ambientazioni liturgiche.
Le cerimonie extraliturgiche, rappresentative, commemorative e pura-
mente mimetiche si svolgevano in questa occasione più che in qualunque
altro giorno dell’anno. Comportavano quasi tutte il simbolismo della
morte e della rinascita e molte si collegavano in parte al Quem quaeritis,
per gli abiti bianchi, Ìa sepoltura e il simbolismo della tomba, per citare
soltanto i segni più ovvi” (p. 163).
3D. Cosa cercate nella tomba, seguaci di Cristo?
Gesùu di Nazaret che è stato crocifisso, o abitanti del cielo.
Non è qui; è risorto come aveva predetto; andate ad annunciare che è
risorto.
(1l testo del più antico manoscritto in Hardison, ibid., pp. 178-9.)
36. Îbid., p. 302.
37. Ibid., p. 252. Non fu soltanto il dramma religioso che divenne sem-
pre più spettacolo: anche la messa diventò teatro. “Nel XII secolo Ael-
red, abate di Rievaulx, lamentava, nel suo Speculum charitatis, i canti
che imitavano voci femminee, i sospiri, gli improvvisi drammatici silenzi,
le imitazioni vocali delle pene dei moribondi e dei sofferenti e i preti
‘che contorcono tutto il corpo con gesti istrionici. Sono usi, commenta,
che ’sbalordiscono la gente comune‘, ma s’addicono ’al teatro, non -all’
oratorio‘”* (ibid., pp. 78 sg.).
38. Gilbert Murray, “Excursions on the Ritual Forms Preserved in
Greek Tragedy”, in Jane Harrison, Themis, Cambridge 1912, p. 363:
“All’inizio ricompare qualcosa che assomiglia all’antico ierofante, alla fi-
ne qualcosa che ricorda l’antico dio risorto; e, come abbiamo visto, è
nelle tragedie di Euripide, soprattutto nelle ultime, che troviamo più per-
266
Divorare dio, o “Le baccanti”
2607
Divorare gli dei
208
Divorare dio, o “Le baccanti”
preziosa face”. Hardison, Christian Rite and Christian Drama, p. 149, ri-
porta integralmente il testo latino, che ha un interesse straordinario per
quanto concerne ì riferimenti al miele nella mitologia antica e cristiana.
Sul rapporto mitico tra Orfeo, Euridice e Aristeo, l’allevatore d’api, cfr.
M. Detienne, Orphée au miel, ‘“Quaderni urbinati di cultura classica”, n
12, 1971, pp. 7-23.
94, Lettera del 4 gennaio 1889 “A] mio maestro Piero” . in The Portable
Nietzsche, p. 685.
99. Cfr. i_ resoconti del “New York Times” (1 e 14 agosto e 2 dicembre
1970) del processo intentato contro Charles Manson per l’assassinio di
Sharon Tate e di altre seì persone.
CINQUE RAGAZZE VEGLIANO PER TRE MESI AL PROCESSO TATE
Due delle ragazze sono a piedi nudi. Alcune hanno tra un occhio e l’al-
tro cicatrici a forma di croce. Se le sono fatte con cacciaviti arroventati
dopo che Manson e gli altri imputati si erano incisi croci sulla fronte
all’inizio del processo.
Ogni tanto le ragazze cantano una canzone composta quando la famiglia
Manson viveva qui in un ranch. Le parole dicono:
Oh, amore, i0 amo la verità che ho conosciuto.
Tu sei il re.
Amore mio, ti porto questa parola,
Ora tu sai che puoi essere libero.
Guarda la tua anima e vieni da me.
TESTIMONE CHIAVE DICE DI AVEB.E UN TEMPO
CONSIDERATO MANSON UN “MESSIA”
La signora Kasabian ha detto che Manson le parlò a lungo della sua filo-
sofia. “Sentivo che era il Messia tornato sulla terra; sapete, il secondo
avvento di Cristo”, ha detto. “Pensauo che fosse un altro Gesùu Cristo”,
Dopo aver a lungo interrogato la signora Kasabian per il secondo giorno
[...] il signor Hughes, un omone con la barba bionda e i capelli lunghi, le
ha chiesto: “Ha mai pensato che qualcun altro, a parte il signor Manson,
fosse Gesù Cristo? ”
“Il Gesù Cristo della Bibbia”, ha risposto lei,
“E ha mai incontrato Gesu Cristo [...] a parte il signor Manson? ”
“No”, ha detto la signora Kasabian.
56. T.B.L. Webster, Greek Art and Literature, 700-530 B.C., New York,
Ryerson Press, 1959, p. 66.
57. Jean Genet, Les Nègres. Clownerie, Décines, Barbezat, 1960, pp. 7 e
122.
98. Arrowsmith, nell’introduzione alla sua traduzione delle Baccanti,
269
Divorare gli dei
scrive (p. 148): “[...] la tragedia utilizza Dioniso, Penteo e il loro conflit-
to come immagine amara di Atene e dell’Ellade terribilmente dilaniata
tra le forze che, secondo Euripide, contribuirono più di ogni altra cosa
alla loro distruzione: da un lato la tradizione conservatrice al gradò e-
stremo della corruzione, che camuffava l’avidità di potere con nobili atti
di fede nelle aretai tradizionali, che affrontava ogni opposizione con la
tirannia terribile. della religiosità popolare e che rivelava nei suoi atti l’in-
sensibilità e la crudeltà raffinata di una civilizzata barbarie; dall’altro l’in-
dividuo eccezionale, egoista ed egocentrico, insofferente della tradizione
come del pubblico benessere, testardo, demagogico ed egualmente bruta-
le nell’azione”’.
99, Ifigenia in Aulide, trad. di G. Paduano, in Îl teatro greco. Tutte le
tragedie.
60. Plutarco, “Crasso”, in Vite parallele, trad. di Carlo Carena, Torino,
Einaudi, 1958, vol. I, pp. 596-7.
270
Appendici
Medea a Pescara
273
Appendici
274
Medea a Pescara
275
Appendici
276
Medea a Pescara
277
Appendici
1962
2768
Oreste, Elettra, Amleto
279
Appendici
280
Oreste, Elettra, Amleto
281
Appendici
282
Oreste, Elettra, Amleto
2.
283
Appendici
284
Oreste, Elettra, Amleto
285
Appendici
206
Oreste, Elettra, Amleto
287
Appendici
206
Oreste, Elettra, Amleto
209
Appendici
290
Oreste, Elettra, Amleto
291
Appendici
292
Oreste, Elettra, Anì…léfò
2903
Appendici
294
Oreste, Elettra, Amleto
295
Appendici
296
Oreste, Elettra; Amleto
: ;
297
Appendici
298
Oreste, Elettra, Amleto
299
Appendici
300
Oreste, Elettra, Amleto
per tutto l’insieme si rivelano più forti dei più saggi consigli e
delle azioni apparentemente più valide.
Fortebraccio rimane estraneo all’azione. Arriva, letteralmente,
per riempire un vuoto. Îl ritorno alla legalità non ha alcuna
motivazione, gli manca persino un’apparenza di necessità,. Non
significa nulla. Deriva dalla logica della struttura, senza nessu-
na giustificazione e senza alcun riferimento a una qualunque
gerarchia di valori. “‘Non mi sarebbe troppo piaciuto vivere 1in
una Danimarca governata da Fortebraccio”’, ha dichiarato Pe-
ter Hall, esponendo le sue idee su Amleto.
4.
301
Appendici
302
Oreste, FElettra, Amleto
303
Note
1. Kitto, Greek Tragedy, New York, Barnes & Noble, 1961, p. 361.
2. l pnmo grecista che si sia occupato della som1ghanza tra Amleto e
Oreste è stato Tadeusz Zielinski, in Sofokles i jego twérezos$é tragicana
(Sofocle e le sue opere tragiche), pubblicato in russo nel 1914-15, in
polacco nel 1928. A Zielinski interessava soprattutto l’evoluzione e le
trasformazioni del concetto di vendetta e la sua traduzione cristiana in
Shakespeare.
Îl saggio di Prosser Hall Frye “Shakespeare and Sophocles’”’, nel volume
Romance and Tragedy (Boston 1922; nuova ed. Lincoln, University of
Nebraska Press, 1961), si basa su un parallelo tra Shakespeare e Sofocle.
L’attenzione di Frye si concentra sulle differenze di Weltanschauung e di
metodo artistico tra i due grandi scrittori tragici. H.D.F. Kitto ha fatto
un’analisi minuziosa di Amleto come dramma soprattutto religioso e lo
ha paragonato con la tragedia greca in Form and Meaning in Drama.
Îl trattamento più importante e più particolareggiato di questo tema è
stato, tuttavia, l’ottimo saggio di Gilbert Murray “Hamlet and Orestes’”,
in The (Classical Tradition in Poetry, Cambridge, Harvard University
Press, 1927. Murray non si occupa soltanto dell’Orestea e delle due Elet-
tre, ma studia anche Andromaca, Ifigenia in Tauride e Oreste di Euripide.
E° stato il primo a tener conto, nello studio della storia del mito di Oreste,
della Historia Danica: Gesta Danorum di Saxo Grammaticus e della sa-
ga islandese su Ambales. È’ stato anche il primo, per quanto mi risulta, a
paragonare Ofelia ed Elettra, Orazio e Pilade. Le sue conclusioni concer-
nono l’universalità e la rigenerazione dei miti.
3. Tutte le citazioni dell’Orestea (Agamennone, Le coefore, Le Eumenti-
di) nella trad. di Manara Valgimigli, in Î! teatro greco. Tutte le tragedie.
4. Tutte le citazioni dell’Elettra di Euripide nella trad. di Carlo Diano,
in II teatro greco. Tutte le tragedie.
5. Tutte le citazioni dell’Elettra di Sofocle nella trad. di Enzo Cetrango-
lo, in Il teatro greco. Tutte le tragedie.
6. Cfr. Jacques Lacarrière, Sophocle, Parigi, L’Arche, 1960, pp. 89 sgg.
7. Îl complesso di Edipo in Amleto e in Oreste è stato abbondantemen-
te analizzato dalla critica moderna. Presentano particolare interesse: Ér-
nest Jones, Amleto ed Edipo (1949), trad. di M. Caruso de Vidovich,
304
Oreste, E lettra"-,-f"Afr'iliè"t'òî..f-
305
Luciano in Cimbelino
306
22
Luciano in “Cimbelino
S07
Appendici
308
Luciano in “Cimbelino”
309
Note
310
Kott, Jan,
Divorare gli dei: un’interpretazione della tragedia greca / Jan Kott — [Milano] :
Bruno Mondadori, (2005].
320 p.;21 cm. — {(Economica).
Tit. orig.: The Eating of Gods.
ISBN 88-424-9672-3.
1. Tragedia greca
882,01009
Ristampa Anno
01234 05 060708
4LNA 140T
’_ lettuale del Novecento, armato delle conoscenze che la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la storia
IOE ROT TTT eE SSS
RICT LOSE [0 o OTT aT AESTC aS
teatro dell'assurdo in una serie di arbitrarietà apparenti, il cui valore d'uso si dimostra immediato.
Dietro il grande canovaccio di regia c'è tutto Jan Kott, con i libri che ha letto e le idee che gli sono servite
EI aiT o TTT TO
| dalla presenza di un potere imperscrutabile; c'è soprattutto l'uomo di teatro portato a trasferire sulla -
S:SOE lascnam quidare dalle sollecitazioni visive che la sua
LL Lar:to LAT TO eS
== _-
ISBN 88-424-9672-3
9 “788842 496724