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Il significato politico della Lectio di Regensburg

S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi

Vescovo di Trieste
Lezione tenuta alla Scuola di Dottrina sociale della Chiesa “Il posto di Dio nel mondo”
Venerdì 24 marzo 2023

Partecipo con grande piacere a questa Scuola nazionale di Dottrina sociale della Chiesa organizzata
dall’Osservatorio Cardinale Van Thuân e dalla Nuova Bussola Quotidiana. Ricordo di essere stato
proprio io, anni orsono, ad inaugurare questa tradizione annuale di formazione con una serie di
lezioni poi confluite nella pubblicazione del mio libro “Lezioni di Dottrina sociale della Chiesa”, edito
da Cantagalli. Lo faccio con maggior ragione in questa occasione, prendendo la parola dopo Sua
Eminenza il cardinale Müller, trattandosi si parlare di Benedetto XVI con il quale ho avuto il piacere
e l’nore di collaborare da Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e al quale
vanno la mia grande considerazione e il grato ricordo. Dovendo parlare questa sera pressoché
all’inizio della Scuola, ho ritenuto opportuno non occuparmi di un aspetto settoriale del suo
illuminante magistero sociale, ma delle sue indicazioni riguardanti il quadro generale in cui si
inserisce la Dottrina sociale della Chiesa. Per i miei doveri alla Santa Sede, ho seguito da vicino la
redazione della Caritas in veritate e di altri interventi di Benedetto XVI. Questa sera, però, eviterò di
entrare in un argomento specifico, perché ritengo che l’importanza dell’insegnamento sociale di
Benedetto XVI consista proprio in questo: egli ha fornito delle riflessioni fondamentali che hanno
reso possibile capire meglio e in via decisiva, in continuità con le importanti precisazioni di Giovanni
Paolo II, cosa sia la Dottrina sociale della Chiesa, quali siano le sue pretese, le sue esigenze e i suoi
fini. Per questo motivo, ho ritenuto opportuno esaminare insieme a voi la famosa Lectio magistralis
pronunciata da Benedetto XVI nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg il 12 settembre 2006,
durante il suo memorabile viaggio in Baviera, lezione che gli editori hanno poi titolato così: “Fede,
ragione, università. Ricordi e riflessioni”. Si tratta di un documento di eccezionale valore. A suo
tempo fu contestato, come ricorderete, ma intanto il testo è lì, rimane e continua a trasmetterci un
alto insegnamento che non dobbiamo perdere di vista. Vediamo allora di mostrare in che senso
quella famosa lezione abbia un significato “politico”.

*****

La vita sociale e politica esprime delle esigenze di ragione, è l’ambito dell’applicazione della ragione
naturale ai vari campi della cultura, l’economia, il lavoro, la famiglia. Chiamiamo, in sintesi, tutto ciò
con l’espressione “ragione politica”. Con essa entra in relazione la Rivelazione cristiana e anche la
Dottrina sociale della Chiesa, la quale è appunto l’incontro tra la fede nella rivelazione e le realtà
umane guidate dalla ragione politica. La Dottrina sociale annuncia Cristo a queste realtà e, proprio
per questo, deve entrare in relazione con le loro ragioni, ossia con la ragione politica. Le due devono
incontrarsi, altrimenti la Dottrina sociale della Chiesa cessa di esistere. Ora, per potersi incontrare
bisogna che le due dimensioni si richiamino l’un l’altra, che abbiano ambedue delle esigenze
“ragionevoli”, delle pretese veritative che trovano compimento nel loro incontro. Questo è
esattamente il punto di partenza della Lectio di Ratisbona e, come è facile capire, è di fondamentale
importanza per la Dottrina sociale della Chiesa che è fede e ragione (politica) interfacciate tra loro
nella vita.

Ma facciamo un altro piccolo passo in avanti. La ragione politica può aver dimenticato di essere
ragione, può aver “ristretto” la propria idea di ragione, oppure può addirittura averla eliminata,
ritenendo ormai che la ragione non possa conoscere nulla. In questo caso è facile capire che essa
non esprimerà alcuna pretesa o richiesta di incontro con una religione, come quella cattolica, che
esprime delle esigenze di ragionevoli verità. La ragione politica, in questo caso, rifiuta il rapporto
con la fede cattolica e non c’è più spazio per la Dottrina sociale della Chiesa. Secondo Benedetto XVI
questa è, purtroppo, la situazione di oggi. La politica ha rotto le relazioni con una ragione fondante,
ritenuta capace di conoscere un ordine naturale e finalistico della realtà a cui uniformare l’etica
pubblica. La ragione politica è diventata sempre meno ragione e sempre più prassi, tecnica,
ideologia, espressione di scelte immotivate, riconoscimento giuridico e politico di desideri. Oggi la
ragione politica ritiene che tutte le relazioni umane siano convenzionali, frutto di scelte che
potrebbero essere anche diverse o contrarie. La vita, la famiglia, la procreazione …, ma anche le
politiche ambientali o economiche, l’istruzione e l’educazione hanno perduto i loro caratteri naturali
e tra virtualità e realtà la differenza ormai è irrisoria. Questa ragione politica indebolita ed esausta
non esprime più esigenze veritative e quindi non è più interessata al dialogo con la fede, oppure può
esservi interessata ma solo verso fedi a propria immagine, ossia miti e non una religione con pretese
di verità. Questa ragione politica esangue è molto pericolosa perché dà vita ad una tolleranza
intollerante, ossia alla dittatura del relativismo.

Abbiamo fatto queste osservazioni partendo dalla ragione politica. Si può anche partire dalla
religione. Non tutte le religioni sono uguali quanto alle proprie esigenze di verità. La religione
cattolica ha una sua unicità in questo senso. Essa contiene in sé delle nozioni e delle esigenze
veritative che trasferisce per via religiosa alla ragione, sicché non può andare d’accordo con tutte le
forme di ragione politica, ma solo con quelle che a loro volta ammettono la possibilità di conoscere
un ordine naturale e finalistico. Altre religioni, invece – e su questo dovrò ritornare – non richiedono
di avere come partner una ragione naturale capace di verità, non fanno nessun appello alla ragione
umana, non sono interessate ad irrobustirla o ad allargarla. Queste religioni ottengono due esiti
opposti: a) o separano la fede interiore dalla vita pubblica, non essendoci alcuna logica a fare da
ponte e da interfaccia; b) oppure impongono alla pubblica piazza il proprio credo senza nessuna
mediazione da parte della ragione politica, dando vita ad un sistema di integralismo religioso. Il
primo caso è quello del protestantesimo, il secondo è quello dell’Islam. Ambedue i casi sono stati
trattati da Benedetto XVI nella Lectio di Ratisbona e tornerò tra poco su di essi.

Siamo così giunti al punto centrale della Lectio, quando Benedetto XVI, citando l’imperatore
Manuele II Paleologo, indica in una frase la possibilità dell’incontro tra ragione politica da un lato e
fede religiosa dall’altro: “non agire secondo ragione, è contrario alla natura di Dio”. Una fede
religiosa che pensi così può stabilire una relazione con la ragione politica, perché Dio stesso lo
richiede: alla ragione politica viene chiesto di “agire secondo ragione” e, nello stesso tempo, “agire
secondo ragione” è conforme alla natura di Dio. La religione esprime qui delle esigenze di verità e
le trasmette alla ragione politica, la quale, rimanendo se stessa e senza diventare fede,
approfondisce la propria natura e illumina le proprie scelte alla luce del diritto naturale. La ragione
non diventa fede (fideismo), la fede non diventa ragione (razionalismo), le due collaborano, nel
primato della fede perché il fondamento ultimo è la “natura di Dio”.

Nella Lectio, Benedetto XVI sostiene che il cristianesimo – ma, come vedremo, non tutto il
cristianesimo - è la Religio vera, in quanto fondata sul Dio vero e non più sugli dei del mito.
Convergono qui l’antico testamento, soprattutto i Profeti, l’assunzione della metafisica greca fin dai
primi momenti della vita della Chiesa, la proclamazione del Prologo di San Giovanni secondo cui “In
principio era il Logos”, ossia la Sapienza, la Parola, la Verità. Non mi dilungo a illustrare questi
passaggi che, come è noto, costituiscono gli assi portanti della teologia di Ratzinger/Benedetto XVI,
mi limito solo a far notare che l’esigenza di ampliare la ragione è sì una esigenza della ragione stessa,
se vuole mantenere fede alla propria natura e al proprio compito, ma è prima di tutto un’esigenza
della fede cristiana, la quale, ritenendo se stessa come fondata sul Logos, interpella poi anche la
ragione naturale, affinché si liberi dai miti che la tengono prigioniera e soprattutto dal mito della
gnosi. La fede cristiana libera la ragione politica, evita che essa si restringa e perda fiducia in se
stessa, la apre alla conoscenza dell’ordine finalistico delle cose le quali, in fondo, sono frutto di una
Sapienza creatrice e non del caso né della necessità. Permettetemi di ricordare quanto Benedetto
disse non nella Lectio che stiamo esaminando ma all’Islinger Feld, durante il medesimo viaggio in
Baviera e nello stesso giorno del 12 settembre 2006: “In fin dei conti resta l’alternativa: che cosa
resta all’origine? La Ragione creatrice, lo Spirito Creatore che opera tutto e suscita lo sviluppo, o
l’Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo
matematico e anche l’uomo, la sua ragione?”.

Lo sfinimento della ragione politica nel relativismo di oggi è conseguenza di un progressivo


“restringimento” della ragione che ha due motivi. Il primo è di tipo razionale in quanto è stata la
ragione stessa a voler ridurre la propria portata. Benedetto XVI nella Lectio parla di “auto-
restringimento” della ragione. La propria limitazione sarebbe stata “auto-decretata”. Se oggi la
politica ha ridotto il concetto di bene comune a qualcosa di quantitativo o a quanto imposto dal
potere con le sue narrazioni artificiali, ha ridotto la verità all’esito di un voto per testa spesso
manipolato e condizionato, ha eliminato i legami delle società naturali che precedono e fondano
l’autorità politica facendo della persona una unità numerica in una massa indistinta oggetto delle
pianificazioni dei poteri palesi o occulti … è perché essa, la ragione politica stessa, si è auto-ristretta.
Questo processo di auto-restringimento è stato lungo. Nella Lectio di Ratisbona Benedetto risale
indietro fino al XIV secolo e si sofferma, seppure fugacemente, su Kant che, nel processo di
restringimento delle capacità conoscitive della ragione (anche politica) occupa senz’altro un posto
fondamentale. La ragione ha perso la convinzione di essere in grado di conoscere il mondo reale
nelle sue strutture universali e finalistiche e si è ridotta alla semplice constatazione di singole
situazioni esistenziali, sicché la sua capacità di giudizio si è arrestata.

Il secondo motivo è di tipo religioso ed è da collegarsi al protestantesimo che ha avuto un ruolo


formidabile nella limitazione della ragione politica. Col protestantesimo il restringimento auto-
decretato della ragione politica e quello postulato dalla nuova religione riformata si uniscono
insieme in un unico filone. Si può vedere come stanno le cose esaminando la posizione di Kant,
filosofo protestante di corrente pietista. Egli riduce la religione alla morale e poi riduce la morale
alla coscienza. In questo modo la religione non ha più delle esigenze veritative da lanciare alla
ragione, è piuttosto la ragione morale che riassume in sé la religione presentando Cristo come
l’uomo perfetto. Il fondamento della morale politica non si fonda più sull’ordine finalistico del creato
ma sulla legge stabilita dalla coscienza. Nel protestantesimo la fede religiosa viene separata dalla
ragione politica e privatizzata. La ragione cessa di poter conoscere il diritto naturale o qualsiasi
finalità naturale nelle cose e nella società, il potere cessa di essere orientato al bene comune e
diventa una pura forza atta a tenere a bada con il bastone gli uomini corrotti irrimediabilmente dal
peccato.

Di grande importanza sono le osservazioni di Benedetto XVI sulle sorti della metafisica.
L’autolimitazione della ragione effettuata tramite un auto-decreto ha comportato l’abbandono della
metafisica, che era stata il lascito della migliore filosofia greca e una esigenza fondamentale della
religione cattolica. Non dimentichiamo che nella Lectio, Benedetto torna sulla convinzione che
l’incontro tra metafisica greca e religione cristiana sia stato “provvidenziale”, come sembra
testimoniare San Paolo, supplicato da un Macedone di attraversare il Bosforo: “Passa in Macedonia
e aiutaci” (At 16, 6-10). L’abbandono della metafisica è stato di gravissimo danno per la ragione
politica perché ha progressivamente impedito l’intesa con le esigenze della rivelazione cristiana
applicate alla vita sociale e quindi con la Dottrina sociale della Chiesa. Se il bene comune non
corrisponde più ad un ordine naturale che rimane sconosciuto, l’autorità politica rimane senza
fondamento e viene meno il concetto di “indisponibilità”: tutto diventa a disposizione di chi ha il
potere. Benedetto nella Lectio lamenta quindi il processo di “de-ellenizzazione” del Cristianesimo,
processo portato avanti sia autonomamente dalla ragione moderna, sia dalla svolta della riforma
protestante che ha influenzato notevolmente su questo punto la teologia cattolica, sicché si può
ormai ben dire che anche la teologia cattolica contemporanea abbia fatto proprio il processo di de-
ellenizzazione, che è un processo di emancipazione dalla metafisica, intesa come la sovrapposizione
alla fede cristiana di categorie non naturali né universali ma proprie di una cultura particolare, quella
appunto della grecità. Mi soffermo a far notare l’ampiezza dello sguardo di Benedetto XVI e come
la sua valutazione del momento attuale si nutra di una visuale di vasta portata che gli permette di
andare in profondità. Dobbiamo riconoscere di avere una grande nostalgia per questi voli d’aquila
dell’intelligenza della fede.

Abbiamo già avuto modo di notare che la Lectio di Regensburg riguarda l’universo della ragione, il
sistema del sapere, con il quale deve rapportarsi la Dottrina sociale della Chiesa in quanto
espressione della fede cristiana e dell’annuncio di Cristo nelle realtà temporali, secondo la ben nota
definizione di Giovanni Paolo II nella Centesimus annus. Però abbiamo anche dovuto notare che essa
parla delle religioni: del cattolicesimo, del protestantesimo e dell’Islam. Implicitamente, quindi,
stabilisce in modo chiaro delle differenze sostanziali tra queste tre religioni, evidenziando come una
sola di esse, la religione cattolica, possa essere la Religio vera. Il criterio rimane la frase
dell’Imperatore: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. È Dio, infatti, il primo ad
agire secondo Ragione. Se si dimentica questo, anche l’agire umano diventa possibile fuori della
ragione, anzi la ragione, come abbiamo visto, perde la convinzione di poter dirigere l’agire umano
verso il vero e verso il bene. Abbiamo già visto come il protestantesimo non rispetti questa regola
aurea. La questione è di notevole importanza per la Dottrina sociale della Chiesa la quale, nel
protestantesimo non c’è e non può esserci. Non solo perché non c’è la Chiesa, come soggetto della
propria dottrina sociale, ma soprattutto perché viene separata la ragione dalla fede, viene accettata
la tesi della doppia verità, e diventa possibile agire nella società non secondo ragione e comunque
ritenersi in comunione con Dio sul piano della fede soggettiva. Questa divisione tra cittadino e
credente, propria del protestantesimo, non risponde alle esigenze né della ragione né della fede
cristiana. Oggi, però, è un modo di pensare diffuso, sicché si ritiene possibile favorire le leggi che
prevedono l’aborto, contraddicendo quindi Dio creatore, e nello stesso tempo essere graditi a Dio
Salvatore. Non sottovaluterei le osservazioni di Benedetto XVI sulla religione riformata contenute
nella Lectio di Regensburg, perché chiariscono molte cose rispetto ad un eventuale dialogo con i
protestanti sui temi di giustizia e della pace cari alla Dottrina sociale della Chiesa.

Poi Benedetto XVI parla anche dell’Islam ed anche a questo proposito fa delle affermazioni di grande
portata. Il criterio è sempre la frase dell’Imperatore che l’Islam non rispetta, per esempio quando
parla della violenza nell’affermare la propria fede. Usare la violenza è contro la ragione e quindi
contro la volontà di Dio, ma nell’Islam essa è ammessa e, forse, richiesta. Benedetto affronta il
problema con grande delicatezza, però le sue affermazioni cono incontrovertibili. È vero che nel
Corano, come egli stesso fa notare, ci sono anche sure contrarie alla violenza, ma non va dimenticato
né che ce ne sono altre a favore della violenza e che le fonti dell’islam sono due, il Corano e i fatti e
i detti di Maometto che senza ombra di dubbio legittimano la violenza. Ma perché l’islam non
accetta la frase dell’Imperatore? Qual è il motivo ultimo? Il motivo ultimo è che il Dio dell’islam è
pura e sovrana Volontà, sovrapposta a tutto, compresa la verità. La tesi sintetica di Benedetto nella
Lectio è confermata dai grandi studiosi dell’islam. Il Dio dell’Islam pronuncia decreti che chiedono
obbedienza, non parla alla coscienza dotata di una propria saggezza naturale, non ammette un
diritto naturale né parla di una teologia razionale strettamente intesa, ma semmai di una teologia
giuridica che legge e interpreta le disposizioni divine. Ne consegue che non c’è distinzione tra
religione e politica, tra autorità religiosa e autorità politica, tra legge islamica e legge civile ed anche
gli elementi della vita sociale, che apparentemente potrebbero essere ricondotti ad un diritto
naturale, come il matrimonio e la famiglia, in realtà sono tali per disposizione di Dio e non perché
abbiamo una intrinseca verità di ragione. Anche il Dio dell’islam è creatore dell’universo, ma non
secondo una qualche verità e senza aver depositato nell’ordine naturale una sua propria verità con
una legittima autonomia a quel livello.

La Lectio di Regensburg si conclude con l’appello di Benedetto XVI ad “allargare la ragione”. Ciò vale
anche per la ragione politica e concerne il compito della Dottrina sociale della Chiesa. Quanto un
tempo erano evidenze naturali ora sono solo convenzioni usa e getta. Quanto un tempo non c’era
nemmeno bisogno di dimostrare, ora non si inizia nemmeno a tentare di dimostrarlo. L’irrealtà viene
oggi imposta senza più nemmeno il tentativo di farla sembrare realtà. Bisogna allargare la ragione e
farle riprendere fiducia in se stessa. Ma a questo scopo non tutte le religioni sono utili allo stesso
modo. Non è sufficiente parlare di una ragione “aperta” alla trascendenza, perché della
trascendenza ci sono molte versioni sbagliate. Non è sufficiente una apertura ad una vaga religione
dell’umanità, o del “nuovo umanesimo” neo-globalista, o del nuovo ecologismo. La ragione deve
ritrovare la capacità di distinguere tra le religioni, perché molte di esse non possono allargarla, ma
necessariamente la restringono. È qui che la Lectio ripropone, senza dirlo espressamente, il
cattolicesimo come la Religio vera. Solo aprendosi alla Religio vera, la ragione potrà ritrovare i motivi
di un proprio allargamento. Per la Dottrina sociale della Chiesa questo è di grande importanza: ne
va della sua stessa vita. Ecco perché, come dicevo all’inizio, la Lectio di Ratisbona costituisce un
esempio del compito di Benedetto XVI a proposito della Dottrina sociale della Chiesa: ristabilirne i
fondamenti e garantire il suo futuro.

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