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dello stesso autore per elèuthera

David Graeber
Frammenti di antropologia anarchica

David Graeber
Critica della democrazia occidentale
nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta
David Graeber
Oltre il potere e la burocrazia
l’immaginazione contro la violenza,
l’ignoranza e la stupidità

prefazione di Adriano Favole

elèuthera
Titoli originali: Dead zones of the imagination (2006),
On The Phenomenology Of Giant Puppets (2012)
Traduzione dall’inglese di Alberto Prunetti

© David Graeber
© 2013 elèuthera
This work is licensed under the Creative Commons
Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0

Il saggio Dead zones of the imagination


è stato originariamente pubblicato dalla rivista
«HAU: Journal of Ethnographic Theory», n. 2, 2012

progetto grafico di Riccardo Falcinelli

il nostro sito è www.eleuthera.it


e-mail: eleuthera@eleuthera.it
Indice

Prefazione di Adriano Favole 7


Riferimenti bibliografici 15

prima parte
Le zone morte dell’immaginazione
su violenza, burocrazia e lavoro interpretativo 19
Riferimenti bibliografici 55

seconda parte
Fenomenologia dei mega-pupazzi 63
Prefazione
di Adriano Favole

La traduzione, in un solo anno, di ben quattro saggi di antro-


pologia scritti dallo stesso autore, è un evento raro e forse unico
nel panorama editoriale italiano. David Graeber [2012a, 2012b,
2012c, 2012d] si sta in effetti imponendo sulla scena interna-
zionale come uno degli antropologi di riferimento [González
Díez 2013]. Se la sua produzione etnografica dedicata ai Merina
del Madagascar era passata quasi del tutto inosservata [Graeber
1995, 2007], a rendere celebre il suo lavoro che unisce teoria e
attivismo politico è stata la sua antropologia impegnata all’interno
dei movimenti che in Italia sono noti come «no global» – una
definizione che Graeber (come molti altri) non ama affatto, pre-
ferendo espressioni come globalization movements o «movimenti
per una giustizia globale». Nonostante che, come lo stesso autore
non cessa di ricordare in molte delle sue pubblicazioni, ci sia un
legame stretto tra le esperienze di ricerca svolte nelle comunità
rurali del Madagascar e le sue riflessioni (e azioni) sui temi della
democrazia diretta, della critica anarchica al potere e allo Stato,
al neoliberismo e al capitalismo, sono le teorie e le etnografie dei

7
«movimenti» ad aver fatto presa nel pubblico americano e, più di
recente, italiano e internazionale.
Il primo dei due saggi pubblicati in questo libro è il frutto del-
la revisione e dell’approfondimento della prestigiosa Malinowski
Memorial Lecture, tenuta da Graeber nel 2006 [2012e]. Il secon-
do è una etnografia dei «movimenti» (pubblicata fino ad ora solo
online) costruita con uno sguardo da vicino e dall’interno, dedica-
ta in particolare agli aspetti simbolici dell’attività distruttiva dei
Black Bloc e dell’attività creativa dei realizzatori dei grandi pu-
pazzi esibiti nel corso delle manifestazioni (Seattle, Washington,
Miami…) contro il neoliberismo e la globalizzazione «selvaggia».
I due testi sollevano importanti questioni per gli antropologi e per
tutti coloro che lavorano per una democrazia diretta e partecipata.
Si tratta di sassi gettati nello stagno, senza particolari pretese di ap-
profondimento teorico e di completezza bibliografica, scritti con
l’obiettivo di creare perturbazioni, provocazioni e dibattiti attorno
a questioni di grande rilevanza per la società contemporanea.
L’opprimente peso della burocrazia, oggetto di interesse del
primo saggio, è una di queste. Perché la burocrazia è oggi co-
sì ossessivamente presente nei nostri lavori e nella nostra vita
quotidiana? Di recente, in una lettera aperta al nuovo ministro
dell’Università Maria Chiara Carrozza, il presidente del corso di
laurea in filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma, Giovanni
Salmeri, ha denunciato la «farragine burocratica», il «labirinto di
Cnosso», la «stupidità» e l’«arroganza», il «delirio burocratico»
che opprime coloro che oggi insegnano e lavorano nelle Univer-
sità italiane (lo stesso si potrebbe osservare per la scuola e per gran
parte dell’amministrazione pubblica). Le riforme universitarie
approvate dai governi precedenti hanno infatti introdotto sistemi
di autovalutazione e di accreditamento dei corsi di studio che,
senza rendere più chiara e agevole agli studenti la scelta del per-
corso universitario, obbligano i docenti a un costante e umiliante
lavoro di compilazione di enormi schede informative, spesso con
un linguaggio ermetico e incomprensibile. Invece di soddisfare

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le legittime esigenze degli studenti che chiedono ai docenti «un
incontro umano, un’esperienza, un consiglio, un orizzonte di vi-
ta», ci si trova a occupare il proprio tempo a «decifrare leggi fu-
mose e contraddittorie, a partecipare a interminabili riunioni di
indottrinamento amministrativo, a compilare moduli…»1. Può
l’antropologia aiutarci a comprendere il delirio burocratico in cui
siamo immersi e quindi a difenderci da esso?
Per Graeber, la chiave di volta va cercata nel nesso tra burocra-
zia e violenza strutturale. «Quel che intendo argomentare è che
le situazioni create dalla violenza – in particolare dalla violenza
strutturale, espressione con cui indico le forme diffuse di disegua-
glianza sociale che sono in ultima istanza sostenute dalla minaccia
di un’aggressione fisica – tendono invariabilmente a creare quel-
le forme di intenzionale cecità che normalmente associamo alle
procedure burocratiche». L’ipertrofia burocratica che attanaglia
molte società occidentali, sostiene l’antropologo americano, è una
forma di semplificazione e, insieme, di impoverimento estremo
della realtà sociale. L’imposizione di una burocrazia asfissiante si
radica in primo luogo nell’incapacità (o non volontà) di chi sta al
potere di impegnarsi in quello che Graeber chiama «lavoro inter-
pretativo» – è ciò che, nella vulgata mediatica, si definisce il «di-
stacco» della politica dalla realtà. Si tratta di una situazione niente
affatto inedita nella storia occidentale. Dallo schiavismo, al raz-
zismo, al sessismo, fino all’attuale «ossessione burocratica», è av-
venuto spesso che chi sta ai vertici delle catene del comando non
sia per nulla interessato a cogliere il punto di vista dei dominati.
Sono stati al contrario gli schiavi, le donne oppresse da sistemi
patriarcali, le minoranze etniche discriminate a cercare di «capire»
i dominanti e i loro punti di vista, e non viceversa. E anche oggi,
privi della volontà di immergersi nelle vite concrete delle persone
comuni – ridotte dalle statistiche e dai sondaggi a una collettiva
e anonima «opinione pubblica» – molti potenti affidano a norme
burocratiche spesso incomprensibili, o talmente ridondanti da ri-
sultare inapplicabili, il persistere del loro dominio.

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Il rispetto della burocrazia, dice Graeber – e qui la sua tesi
non mancherà di far discutere gli studiosi – non è però garan-
tito dall’interiorizzazione delle norme, da forme di egemonia o
dall’incorporazione di dispositivi di controllo e disciplina. In ul-
tima analisi, è invece la violenza strutturale, una violenza a vol-
te potenziale, ma «concreta» e «attiva», a garantire il rispetto di
regole burocratiche spesso inutili e dannose per gran parte del-
la popolazione. «Razzismo, sessismo e povertà non potrebbero
esistere se non in un ambiente definito dalla minaccia di una
concreta forza fisica. Insistere su questa distinzione avrebbe senso
solo se qualcuno volesse al tempo stesso insistere, per un qualche
motivo, sulla possibilità che sia esistito un sistema patriarcale che
abbia operato nell’assenza totale di violenza domestica o di episo-
di di aggressione sessuale. Ma un sistema del genere, a quanto mi
risulta, non è mai stato osservato». Se gli eccessi della burocrazia
nascondono strutture della diseguaglianza volte a mantenere (o
ad accrescere, come è avvenuto negli ultimi anni) il divario tra
ricchi e poveri, tutto ciò è garantito, in sostanza, dalla violenza
monopolizzata dallo Stato e affidata alle forze dell’ordine (da cui
la definizione dei poliziotti come «burocrati armati»).
L’analisi di Graeber, originale anche se a tratti poco circostanzia-
ta, prende le distanze sia dalla visione weberiana della burocrazia
intesa come tratto saliente (seppure «triste» e «grigio») della razio-
nalità moderna, sia dalla visione negativa e decostruttiva di Michel
Foucault. Weber e Foucault – è la provocatoria ipotesi dell’antro-
pologo – sono accomunati, in positivo il primo, in negativo il se-
condo, da una visione «razionale» ed «efficace» della burocrazia.
«Ritengo anche che non sia una coincidenza se questi autori a volte
sembrino le uniche due persone dotate di intelligenza che nella sto-
ria umana abbiano creduto onestamente che a caratterizzare la bu-
rocrazia sia il concetto di ‘efficacia’ […]. Attraverso concetti come
la governamentalità e il biopotere, le burocrazie statali finiscono
per plasmare i parametri dell’esistenza umana in forme molto più
invasive di quelle che Weber avrebbe mai potuto concepire».

10
Al contrario, secondo Graeber, le cifre essenziali della iper-bu-
rocrazia di alcuni Stati contemporanei sono invece la «stupidità»
e l’«inefficienza». Stupidità nel senso di ignoranza delle esigenze
e del punto di vista delle persone concrete; inefficienza nel senso
dell’incapacità di governare fenomeni complessi come le migra-
zioni e le varie forme di globalizzazione.
Prendendo decisamente le distanze dall’idea secondo cui l’an-
tropologia, nel corso della sua storia, avrebbe manifestato com-
plicità e compiacenze con i sistemi coloniali, Graeber esalta, al
contrario, il carattere rivoluzionario dell’etnografia. Da Broni-
slaw Malinowski a Edward Evans-Pritchard – per limitarci a due
antenati classici – il tentativo di «cogliere il punto di vista» dei
nativi si è posto decisamente contro i sistemi di violenza e domi-
nazione coloniale: «Gli imperi hanno poco, forse nessun interes-
se nella documentazione del materiale etnografico». L’etnogra-
fia, intesa come metodologia di ricerca che permette di cogliere
e immedesimarsi «nei punti di vista altrui», è, anche oggi, uno
strumento antiburocratico e antiimperialista, perché permette di
cogliere esperienze e significati «densi» che sono incastonati nel-
la concretezza delle relazioni umane. L’etnografia mette in moto
quel lavorìo di interpretazione e immedesimazione che la «fred-
da» burocrazia occulta e rende impossibile.
Forma di potere-senza-sapere – per riprendere l’espressione che
Keith Breckenridge [2008] utilizza a proposito del regime suda-
fricano coloniale – l’iper-burocrazia, con la sua pretesa di disci-
plinare e regolare tutte le relazioni umane, chiudendole in webe-
riane «gabbie di acciaio», uccide l’immaginazione, la creatività,
l’invenzione di nuove forme di socialità, politica ed economia.
Lungi dal garantire una equa distribuzione delle risorse, essa li-
mita fortemente la creatività (e, in definitiva, la libertà) – si pensi,
per rimanere in campo accademico, ai vincoli tematici e gestionali
che pongono molti progetti finanziati dalla Comunità europea o
da altri enti di ricerca –, creando quelle «zone morte dell’immagi-
nazione» che danno il titolo al primo saggio di Graeber.

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In un recente volume dedicato ai movimenti sociali, Amalia
Rossi e Alexander Koensler [2012] riflettono sul contributo che
l’antropologia può offrire allo studio delle mobilitazioni di «piaz-
za» [Dei, Aria 2010] e alle manifestazioni pubbliche del dissenso.
Da un punto di vista metodologico, l’etnografia e l’osservazione
partecipante appaiono strumenti importanti, come mostra la lo-
ro diffusione in diversi ambiti disciplinari; inoltre, visto il carat-
tere diffuso e internazionale dei movimenti, l’antropologia, con
il suo sguardo comparativo, permette di cogliere aspetti e nessi
che sfuggono all’occhio dello storico e del sociologo; infine, ed
è un punto centrale, occorre sottolineare la propensione degli
antropologi a indagare punti di vista e prospettive periferiche e
«altre», a insinuarsi negli interstizi dei sistemi globali attraverso lo
studio di gruppi o comunità che abitano ai margini. È in queste
periferie (interne ed esterne ai paesi dominanti) che oggi emer-
gono idee e pratiche resistenti e alternative rispetto ai sistemi do-
minanti. Per dirla con l’efficace ossimoro di Roberto Malighetti
[2012], è la «centralità dei margini» a fornire agli antropologi una
prospettiva ampia e profonda.
Il secondo saggio di David Graeber pubblicato in questo vo-
lume è una sorta di etnografia della comunicazione e delle im-
magini (o della «guerra delle immagini») relativa ad alcune delle
grandi manifestazioni e contestazioni new global, da Seattle a Wa-
shington, da Praga a Québec, fino a Genova e Miami. Al centro
dell’attenzione vi sono i gruppi Black Bloc, ben noti al pubblico
italiano dopo il G8 di Genova e i giganteschi pupazzi che hanno
animato numerosi forum di protesta in Nord America e altrove –
di cui le cronache mediatiche italiane si sono viceversa ben poco
occupate. Graeber ha partecipato ad alcune di queste manifesta-
zioni, occupandosi soprattutto di comunicazione con i media (e
finendo anche arrestato). Il saggio racchiude in effetti una rifles-
sione sulle potenzialità e sui limiti di una antropologia impegnata
all’interno dei movimenti. Perché proprio le immagini dei Black
Bloc che distruggono vetrine e quelle degli enormi pupazzi co-

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lorati raffiguranti i politici oggetto di derisione, oppure simboli
come la Liberazione, i Martiri di Chicago, la chiave inglese del
Fronte di Liberazione Animale, hanno colpito l’opinione pub-
blica americana? E perché la polizia è sembrata temere di più i
pupazzi dei Black Bloc?
Il blocco omogeneo e anonimo dei distruttori di ricchez-
za e i grandi pupazzi sempre diversi l’uno dall’altro, appaiono
a Graeber in «opposizione strutturale». I Black Bloc, attraverso
la distruzione della proprietà (facciate delle aziende e della ban-
che, ipermercati, edifici governativi), rappresentano la «società
potlatch» in cui siamo immersi. Una società e un’economia che
distruggono incessantemente ricchezza attraverso il consumo
sfrenato e l’ideologia di una crescita senza fine. Al contrario, i pu-
pazzi sembrano dar conto di quel bisogno di immaginare nuove
realtà, di dare libero corso a quella creatività sociale oggi bloccata
da quel mantra ripetuto senza sosta secondo cui «non ci sono
alternative» al sistema economico e sociale in cui viviamo.
Tentando un bilancio dei movimenti a più di dieci anni da
Seattle, Graeber sottolinea il successo nella denuncia delle po-
litiche liberiste degli anni Novanta. Se allora «negli Stati Uniti,
politici e giornalisti concordavano unanimemente che solo ra-
dicali ‘riforme di libero mercato’ avrebbero potuto garantire lo
sviluppo economico, sempre e comunque», già nel 2001 «era un
luogo comune vedere anche i giornali ufficiali, gli stessi che po-
chi mesi prima avevano denunciato i dimostranti come ragaz-
zetti ignoranti, dichiarare che avevamo vinto la battaglia delle
idee». Il grande lavoro che rimane da fare, tuttavia, è la messa a
punto e la diffusione di quelle pratiche di azione e democrazia
diretta, quella radicale riforma del processo decisionale, quella
«politica prefigurativa» che Graeber teorizza in molti dei suoi
lavori. Uscire dalle zone morte dell’immaginazione sostenute
dalla burocrazia e da chi ritiene che non ci sono alternative per
fabbricare nuove idee e pratiche di democrazia è il messaggio
forte dell’antropologia di Graeber.

13
Nota alla Prefazione

1. G. Salmeri, Moriremo di burocrazia? Lettera aperta al ministro Carrozza, www.


ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/6/11/UNIVERSITA-Moriremo-di-
burocrazia-Lettera-aperta-al-ministro-Carrozza/401999/, pubblicato il 6 giugno
2013.

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Riferimenti bibliografici

Aria Matteo, Dei Fabio, Memoria, rituali e politica: note per un’an-
tropologia storica delle piazze, «Religioni e Società», 66, 2010, pp.
41-53.
Breckenridge Keith, Power without knowledge. Three nineteenth century
colonialisms in South Africa, «Journal of Natal and Zulu History»,
26, 2008, pp. 3-31.
González Díez Javier, David Graeber, un’antropologia per la rivoluzio-
ne, «L’Indice dei Libri del Mese», 7/8, 2013, p. 14.
Graeber David, Dancing with corpses reconsidered: an interpretation of
famadihana (in Arivonimamo, Madagascar), «American Ethnologist»,
22, 1995, pp. 258-278.
Graeber David, Lost people. Magic and the legacy of slavery in Madaga-
scar, Indiana University Press, Bloomington, 2007.
Graeber David, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti,
crisi dello Stato, democrazia diretta, elèuthera, Milano, 2012a (ed.
or. 2007).
Graeber David, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano,
2012b (ed. or. 2011).

15
Graeber David, Rivoluzione: istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano,
2012c (ed. or. 2009).
Graeber David, La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del
capitalismo, Manni, San Cesario di Lecce, 2012d (ed. or. 2009).
Graeber David, Dead zones of imagination. On violence, bureaucracy
and interpretative labor, «HAU. Journal of Ethnographic Theory»,
2, 2012e, pp. 105-128.
Malighetti Roberto, Presentazione. La centralità dei margini, in A. Ko-
ensler e A. Rossi (cur.), Comprendere il dissenso. Etnografia e antro-
pologia dei movimenti sociali, Morlacchi Editore, Perugia, 2012, pp.
7-11.
Rossi Amalia, Koensler Alexander, Introduzione: comprendere il dissen-
so, in A. Koensler, A. Rossi (cur.), Comprendere il dissenso. Etnogra-
fia e antropologia dei movimenti sociali, Morlacchi Editore, Perugia,
2012, pp. 13-34.

16
prima parte
Vorrei ringraziare David Apter, Keith Breckenridge, Giovanni da
Col, Kryzstina Fevervary, Andrej Grubačić, Casey High, Matthew
Hull, Jennifer Jackson, Erica Lagalisse, Lauren Leve, Andrew Ma-
thews, Christina Moon, Stuart Rockefeller, Marina Sitrin, Steve
Cupid Theodore e Hylton White per i consigli, i suggerimenti e
l’incoraggiamento a proseguire il progetto.

Questo saggio è dedicato a mia madre, in omaggio al suo impegno


politico e morale, alla sua irriverenza, al suo buon senso.
Le zone morte dell’immaginazione
su violenza, burocrazia e lavoro interpretativo

1.

Questo saggio esplora alcuni ambiti della vita umana che metto-
no a disagio gli antropologi, ovvero quegli ambiti esistenziali, resi
possibili dalla violenza, che sono caratterizzati dalla rigidità, dalla
cialtroneria, dalla smemoratezza e dalla totale stupidità1.
Per «violenza» non intendo qui quegli atti occasionali e spetta-
colari che ci vengono in mente non appena viene evocata questa
parola, quanto piuttosto quelle forme noiose, monotone e on-
nipresenti di violenza strutturale che definiscono le condizioni
stesse della nostra esistenza; quelle minacce, più o meno velate,
di uso della forza fisica contenute nelle norme che determinano
dove è possibile sedersi, stare in piedi, mangiare o bere nei parchi
e negli altri spazi pubblici, fino alle minacce, alle intimidazioni
fisiche o alle aggressioni che puntellano l’imposizione di tacite
norme di genere.
Chiameremo questi ambiti – che hanno a che fare con qua-
si ogni aspetto delle nostre esistenze, anche se a nessuno piace
parlarne troppo – «aree di semplificazione violenta». A dire il ve-
ro, si potrebbe sostenere che quanti si occupano di teoria sociale

19
sembrano nutrire una particolare avversione per gli argomenti di
questo tipo, forse perché sollevano questioni irrisolte sullo sta-
tuto della teoria sociale stessa. Soprattutto gli antropologi non
amano dilungarsi su queste tematiche, perché più di tutti sono
attratti da quelle che si potrebbero definire «aree di ricchezza sim-
bolica o di densità di significato», in cui la «descrizione densa»
diventa possibile. Questa propensione è comprensibile, ma tende
a distorcere la nostra percezione di cosa sia veramente il potere
e di come operi, in modi che sono senza dubbio autoreferenziali
e che, al tempo stesso, non riconoscendo la cecità strutturale,
diventano di fatto essi stessi forme di cecità strutturale.
Comincerò con una breve storia per capire cosa sia la burocrazia.
Qualche anno fa mia madre ha una serie di infarti. Diventa
presto evidente che non può più vivere a casa senza assistenza.
Dal momento che la sua assicurazione sanitaria non copre l’as-
sistenza domestica, diversi operatori sociali ci consigliano di fare
domanda per Medicaid, il programma di sostegno sanitario per
persone di basso reddito. Per accedere a Medicaid, non bisogna
avere un reddito annuo superiore a seimila dollari. Ci siamo allo-
ra organizzati per spostare altrove i suoi risparmi: tecnicamente si
tratterebbe di una frode, ma è una piuttosto atipica dal momento
che il governo paga migliaia di operatori sociali per spiegare ai
cittadini come realizzarla. Poco dopo però mia madre ha un altro
infarto grave ed è costretta a seguire un programma di riabilita-
zione a lungo termine in una casa di cura. Quando termina quel
programma ha ormai bisogno di assistenza domestica continua,
ma c’è un problema: la pensione che percepisce le viene accre-
ditata sul conto in maniera automatica e lei non è quasi più in
grado di firmare, così, se io non mi procuro una delega sul suo
conto per saldare le spese mensili, quel denaro sarebbe presto au-
mentato e lei non avrebbe più potuto godere del programma so-
ciale Medicaid. E questo nonostante la montagna di moduli che
ho firmato per far andare a buon fine la pratica. Mi reco quindi
nella banca di mia madre, ritiro i moduli necessari e li porto nella

20
casa di cura. I documenti, però, devono essere autenticati davanti
a un notaio. L’infermiera al banco informazioni mi comunica che
c’è un notaio convenzionato con la casa di cura, con il quale è ne-
cessario fissare un appuntamento: solleva la cornetta del telefono
e mi mette in contatto con una voce incorporea, che infine mi
fa parlare con il notaio. Questi mi informa subito del fatto che
devo prima ottenere un’autorizzazione dal responsabile interno
addetto alla previdenza sociale. E riaggancia. Allora mi faccio da-
re il nome e il numero di stanza di questo responsabile interno,
prendo pazientemente l’ascensore e mi presento nel suo ufficio,
solo per scoprire che la voce incorporea con cui ho parlato pri-
ma al telefono altri non è che il responsabile. Che a quel punto
alza il telefono e dice: «Marjorie, sono io. Stai facendo impazzire
quest’uomo con tutte queste assurdità. Anzi, stai facendo impaz-
zire anche me». Dopodiché mi fissa un appuntamento per l’inizio
della settimana successiva.
Una settimana dopo il notaio arriva puntualissimo, mi ac-
compagna al piano di sopra, si accerta che io abbia riempito la
parte del modulo che spetta a me (come mi ripete più volte) e
poi, alla presenza di mia madre, comincia a riempire la parte
di sua competenza. Sono un po’ perplesso per il fatto che, oltre
a me, non chieda anche a mia madre di firmare, ma do per
scontato che sappia quel che sta facendo. Il giorno dopo vado
in banca con quel documento. La donna allo sportello gli dà
un’occhiata e mi chiede perché mia madre non l’abbia firmato.
Poi lo mostra al suo superiore, che mi dice di tornare indietro e
farlo firmare. Evidentemente il notaio non aveva la più pallida
idea di quel che stava facendo. Pertanto, prendo dei nuovi mo-
duli, compilo la mia parte e chiedo un nuovo appuntamento. Il
giorno fissato il notaio arriva sempre puntualissimo e dopo al-
cune imbarazzate considerazioni sulle difficoltà causate dal fat-
to che ogni banca ha moduli di delega completamente diversi,
ci spostiamo al piano di sopra. Io firmo, mia madre – con qual-
che difficoltà – firma e il giorno dopo torno in banca. Un’altra

21
impiegata, in uno sportello diverso da quello utilizzato la volta
precedente, esamina i moduli e mi chiede perché io abbia fir-
mato nello spazio in cui c’è scritto di scrivere il mio nome in
stampatello, mentre ho scritto il mio nome in stampatello nello
spazio in cui avrei dovuto firmare.
«Davvero? Ma ho fatto solo quello che mi ha detto il notaio».
«Però qui c’è scritto chiaramente ‘firma’».
«Eh, sì. Mi sa che mi ha detto una cosa sbagliata. Un’altra vol-
ta. In ogni caso, i dati ci sono tutti, no? Sono solo invertiti. Non
credo sia davvero un problema. Abbiamo abbastanza fretta e non
vorrei dover aspettare un altro appuntamento».
«Consideri che di norma non accettiamo questi moduli se le
firme non sono apposte di persona davanti a noi».
«Ma mia madre ha avuto un infarto ed è costretta a letto. Per
questo ho avuto bisogno di una delega notarile».
Mi dice che deve consultare il suo superiore e torna dopo die-
ci minuti, mentre il suo capo rimane a portata d’orecchio, per
annunciarmi che la banca non può accettare i moduli in quella
forma. E per giunta, anche nel caso in cui fossero stati riempiti
correttamente, avrei comunque dovuto portare una dichiarazio-
ne del medico di mia madre che certifichi la sua capacità di in-
tendere e di volere.
Le faccio allora presente che prima nessuno mi ha mai men-
zionato questa dichiarazione. «Che cosa?», interviene all’improv-
viso il superiore, «chi le ha dato questi moduli senza informarla
della dichiarazione medica?». Dal momento che l’impiegata col-
pevole era stata amichevole, eludo la domanda, facendo piuttosto
notare che sul libretto bancario di mia madre è riportata in modo
chiaro la dicitura «in custodia a David Graeber». Ovviamente mi
risponde che quello vale solo in caso di morte della titolare del
conto.
Come spesso accade in questi casi, il problema è diventato ben
presto un banale esercizio accademico, perché mia madre è morta
poche settimane dopo.

22
All’epoca, questa esperienza mi è apparsa molto sconcertante.
Dal momento che la mia vita è stata sempre relativamente lon-
tana da questo tipo di problemi, mi sono ritrovato a chiedere in
continuazione ai miei amici: ma è questa la vita quotidiana per
la maggior parte delle persone? Per lo più le risposte sono state
affermative. Certo, l’incompetenza del notaio era fuori dalla nor-
ma. Tuttavia, qualche tempo dopo ho dovuto dedicare un mese
della mia vita a risolvere le intricate conseguenze dovute dappri-
ma all’errore di un impiegato dell’ufficio motorizzazione dello
Stato di New York che aveva registrato il mio nome come «Daid»,
e poi all’errore di un funzionario di una società di telefonia che
aveva registrato il contratto a nome «Grueber». Per qualche ra-
gione storica, le burocrazie del settore pubblico e privato sono
organizzate di modo da garantire che una significativa porzione
degli attori in gioco non sia capace di eseguire i propri compiti
come auspicato. Ma questi casi esemplificano bene quella che
definirei una forma utopica di pratica, grazie alla quale coloro
che gestiscono un sistema, quando scoprono che esso produrrà
regolarmente taluni specifici fallimenti, arrivano alla conclusione
che il problema non sta nel sistema ma nell’incapacità degli esseri
umani che ne fanno parte (o dell’umanità in genere).
Da intellettuale, la cosa più fastidiosa è stata probabilmente il
fatto che avere a che fare con quei moduli bancari ha contribuito
a far diventare stupido anche me. Come ho fatto a non rendermi
conto che stavo scrivendo in stampatello il mio nome dove c’era
scritto di firmare, e questo nonostante stessi investendo un muc-
chio di energia mentale ed emotiva in quella faccenda? Come ho
capito poi, il problema stava nel fatto che gran parte di quell’e-
nergia era spesa nel tentativo di comprendere e influenzare chi, in
quel momento, sembrava avere un potere burocratico su di me,
mentre quel che serviva era un’interpretazione accurata di una o
due parole di origine latina e un’esecuzione corretta di alcune fun-
zioni assolutamente meccaniche. L’aver dedicato così tanto tempo
a ingegnarmi per non rinfacciare brutalmente al notaio la sua in-

23
competenza, o per ottenere la comprensione di qualche funziona-
rio di banca, ha avuto come risultato quello di farmi abbassare la
guardia quando mi chiedevano qualcosa che rasentava l’idiozia.
Insomma, era una strategia errata perché, nonostante chiunque
possa fare uno strappo alla regola, le persone che mi trovavo di
fronte ne erano invece incapaci; oltretutto, mi avevano fatto ca-
pire che, se mi fossi intestardito a sfidarli, le mie recriminazioni,
anche su un’assurdità totale, sarebbero servite soltanto a mettere
nei guai qualche funzionario di basso livello.
Da antropologo, la cosa probabilmente più curiosa per me era
il fatto che tutto questo lasciasse poche tracce nella letteratura et-
nografica. Dopotutto, noi antropologi ci siamo specializzati nei
rituali che hanno a che fare con la nascita, il matrimonio, la mor-
te e altri riti di passaggio. Ci interessiamo in maniera particolare
dei gesti rituali che risultano efficaci da un punto di vista sociale,
quando l’atto stesso di dire o fare qualcosa lo rende socialmen-
te vero. Eppure, in molte società contemporanee sono proprio
le scartoffie, più di qualsiasi altra forma rituale, a risultare social-
mente efficaci. Per esempio, mia madre ha lasciato disposizioni
di essere cremata senza alcuna cerimonia. Ciononostante, il mio
ricordo più forte del funerale domestico è quello dell’impiegato
grassottello e cordiale che mi ha assistito nella compilazione di un
documento di quattordici pagine necessario per ottenere il cer-
tificato di morte, che ho scritto con una biro su carta copiativa,
così da essere emesso in tre copie. «Quante ore passi al giorno a
riempire moduli del genere?», gli ho chiesto. «Non faccio altro»,
mi ha risposto con un lungo sospiro mentre sollevava una mano
bendata per una forma incipiente di sindrome del tunnel carpale.
Ma senza quei moduli, mia madre non sarebbe legalmente – e
quindi socialmente – morta.
Perché allora non c’è una profusione di tomi etnografici sui
riti di passaggio britannici o nordamericani, con lunghi capitoli
dedicati alla modulistica e alle scartoffie? La risposta è sconta-
ta: le scartoffie sono noiose. Si possono descrivere i rituali che

24
le circondano. Si possono osservare i modi in cui le persone ne
parlano, o i modi in cui reagiscono. Ma per quanto riguarda i
documenti cartacei in sé, non ci sono molte cose interessanti da
dire al riguardo.
Gli antropologi sono irresistibilmente attratti dalle aree di den-
sità. Gli strumenti interpretativi che abbiamo a disposizione sono
più adatti a guidarci attraverso trame complesse di significanti
e significati, così da comprendere intricati simbolismi rituali,
rappresentazioni sociali, forme poetiche o reti di parentela. Ciò
che accomuna tutto questo è la tendenza a essere infinitamente
ricco e, al tempo stesso, aperto. Se uno si impegna ad analizzare
in maniera esaustiva ogni significato, ogni motivazione, ogni as-
sociazione simbolica presente in un rituale Swazi iNcwala, o in
un combattimento di galli balinese, o in un’accusa di stregone-
ria Zande, o in una saga familiare messicana, può riempire una
vita intera. O magari più d’una, se si prova a intrecciare questo
ventaglio di relazioni con gli altri elementi individuati nei cam-
pi sociali o simbolici che questi lavori di ricerca invariabilmente
fanno emergere.
Al contrario, i documenti cartacei sono pensati per essere
estremamente semplici e autoreferenziali. Anche quando la lo-
ro struttura è complessa, talvolta in maniera assolutamente fru-
strante, lo è attraverso un incessante accumulo di componenti
estremamente semplici e tuttavia apparentemente contraddittori.
Proprio come un labirinto, non si aprono su niente al di fuori
di se stesse. Pertanto, non c’è davvero molto da interpretare. Per
esempio, una «descrizione densa» alla maniera di Clifford Geertz
sulla richiesta di un mutuo ipotecario non sarebbe possibile, non
importa quanto denso sia il documento. E se qualche spirito spa-
valdo volesse comunque cimentarsi nell’impresa per provarne la
fattibilità, sarebbe ancora più difficile immaginare che qualcuno
sia poi disposto a leggerne il resoconto.

25
2.

Spesso i romanzieri riescono a trasformare in grande lettera-


tura il vuoto, la circolarità, se non addirittura l’idiozia, che con-
trassegnano la burocrazia. E ci riescono facendoli propri, ovvero
realizzando opere letterarie che riproducono quella stessa forma
labirintica priva di senso. Pertanto, gran parte della migliore
letteratura su questo tema prende la forma di una commedia
dell’orrore. In questo senso, Il Processo di Franz Kafka è senza
dubbio un’opera paradigmatica, ma se ne possono citare mol-
te altre, da Memorie trovate in una vasca da bagno di Stanislaw
Lem, che richiama molto Kafka, fino a Il Palazzo dei sogni di
Ismail Kadarè, o a Tutti i nomi di José Saramago. Per non parlare
poi di opere che sono pervase da questo spirito burocratico, co-
me quasi tutta l’opera di Jorge Luis Borges, oppure Comma 22,
sulle burocrazie militari, e È successo qualcosa, sulle burocrazie
aziendali, di Joseph Heller (considerati due capolavori contem-
poranei del genere), fino a Il re pallido di David Foster Wallace,
una fantasiosa meditazione sulla natura della noia ambientata in
un ufficio dell’Agenzia delle Entrate nel Midwest. È interessante
osservare che quasi tutte queste opere di narrativa non si limita-
no a mettere in evidenza la comica assurdità della vita burocrati-
ca, ma la miscelano con un sottofondo di violenza, ossia danno
rilievo a quegli aspetti che molto probabilmente la letteratura
sociale scientifica metterebbe da parte.
È indubbiamente vero che ci sono opere di antropologia che
affrontano in parte queste tematiche: pensiamo per esempio alle
riflessioni di Jack Goody sull’idea di lista in L’addomesticamento
del pensiero selvaggio, che si concentrano sulla autoreferenzialità
dei sistemi burocratici di classificazione, o a quelle di Roland Bar-
thes in Sade, Fourier e Loyola, che si concentrano sul momento in
cui questa logica viene applicata, almeno a livello immaginario,
a quasi ogni aspetto corporeo della vita umana: le passioni, gli
atti sessuali, la devozione religiosa. Nondimeno, la maggior parte

26
di questi lavori non si occupa di burocrazia in maniera esplicita.
Ci sono, nella letteratura antropologica, opere che riprendono
quelle modalità dell’assurdo così ben evidenziate nei testi lette-
rari, come l’opera di Matthew Hull sulle scartoffie come rituale
[2008, 2010, 2012], il recente Red Tape [2012] di Akhil Gupta,
che affronta i fallimenti della burocrazia indiana nei programmi
di riduzione della povertà, o l’opera di Andrew Mathews sul cor-
po forestale messicano [2005, 2011]. Sono però opere fuori dalla
norma. Il cuore della letteratura antropologica sulla burocrazia,
anche all’apice della «svolta letteraria», ha preso una direzione
completamente diversa, interrogandosi non sul perché la buro-
crazia produca risultati assurdi, ma sul perché così tante persone
lo pensino.
L’opera antropologica più conosciuta sulla burocrazia è The
Social Production of Indifference di Michael Herzfeld [1992], che
inquadra il problema in questo modo:

In molte democrazie industriali, dove si ritiene che lo Stato rispetti


le persone, la gente si lamenta in modo facilmente prevedibile dei mali
della burocrazia. Non importa che il loro sdegno sia spesso ingiustifi-
cato: quel che conta è la loro capacità di attingere a un’immagine pre-
costituita di mal funzionamento. Se non ci si potesse lamentare della
burocrazia, la burocrazia non esisterebbe: la burocrazia e le lamentele
stereotipe contro la burocrazia sono entrambe parti di un più vasto
universo che potremmo molto semplicemente chiamare l’ideologia e la
pratica della responsabilità [1992, 3].

Per comprendere questo sistema in termini culturali – va-


le a dire per individuare le aree di ricchezza simbolica, diffuse
nell’analisi antropologica, in cui le vittime possono per esempio
rappresentare se stesse come dei «poveri cristi» e immaginare i
funzionari locali come incarnazioni del dispotismo orientale –
bisogna uscire dagli uffici ed entrare nei bar.

27
Le radici simboliche della burocrazia occidentale non vanno cer-
cate, in prima battuta, nelle forme ufficiali della burocrazia, anche se
in essa se ne possono trovare tracce significative. Queste sussistono
soprattutto nelle reazioni popolari alla burocrazia, nei modi in cui la
gente comune in realtà gestisce e concettualizza le relazioni burocrati-
che [1992, 8] 2 .

Con questo non si può dire che Herzfeld e altri che lo hanno
seguito su questa scia, per esempio Navaro-Yashin [2002], rifiu-
tino esplicitamente l’idea che è proprio questo calarsi nei codici
burocratici e nei regolamenti a far agire le persone in modi che,
in qualsiasi altro contesto, sarebbero considerati idioti. Ognuno
è ben consapevole, per esperienza propria, che le cose stanno di
norma così. Ma ai fini dell’analisi culturale, di rado la verità è
considerata una spiegazione adeguata. Al più ci si può aspettare
un «sì, ma…», dando per assodato che quel «ma» introduce tutto
ciò che è davvero rilevante: per esempio, il fatto che le lamentele
sull’idiozia agiscano in modo sottile per re-inscrivere i soggetti
delle lamentele all’interno dello stesso campo morale della re-
sponsabilità abitato dai burocrati, o il fatto che questo concorre a
creare un certo concetto di nazione, e così via.
Non appena ci allontaniamo dall’etnografia ed entriamo nei
domini più rarefatti della teoria sociale, sappiamo che verrà meno
anche quel «sì, ma…». A dire il vero, c’è spesso una forte empatia
– oserei dire un’affinità elettiva – tra gli studiosi, che in genere so-
no anche burocrati dell’accademia, e i burocrati oggetto dei loro
studi. Consideriamo il ruolo egemonico svolto nella teoria socia-
le statunitense da Max Weber negli anni Cinquanta e Sessanta e
da Michel Foucault a partire dagli anni Settanta. Senza dubbio
la loro popolarità aveva molto a che fare con la facilità con cui
entrambi questi autori potevano essere adottati come pensatori
anti-Marx: le loro teorie venivano infatti utilizzate, spesso in for-
me estremamente semplificate, per sostenere che il potere non è
solo o soprattutto un modo per controllare la produzione quanto

28
piuttosto un elemento pervasivo, inevitabile e sfaccettato di ogni
società. Ritengo anche che non sia una coincidenza se questi au-
tori a volte sembrino le uniche due persone dotate di intelligenza
che nella storia umana abbiano creduto onestamente che a carat-
terizzare la burocrazia sia il concetto di «efficacia». Weber ha visto
le forme burocratiche di organizzazione, pubbliche e private, co-
me l’incarnazione stessa della razionalità impersonale, talmente
superiori a ogni altra possibile forma di organizzazione da poter
inglobare ogni cosa, chiudendo l’umanità in una «gabbia di ac-
ciaio» priva di qualunque gioia, spirito o carisma [1958, 181].
Foucault era più sovversivo, ma in un modo che paradossalmente
rendeva il potere burocratico più (e non meno) efficace. Nelle sue
ricerche su manicomi, ospedali, prigioni e altro ancora, i corpi,
i soggetti, la stessa verità diventano tutti il prodotto di discorsi
amministrativi. Attraverso concetti come la governamentalità e il
biopotere, le burocrazie statali finiscono per plasmare i parametri
dell’esistenza umana in forme molto più invasive di quelle che
Weber avrebbe mai potuto concepire.
È difficile evitare la conclusione che, in entrambi i casi, la loro
popolarità sia in gran parte dovuta al fatto che il sistema univer-
sitario americano in quel periodo si è esso stesso trasformato in
un’istituzione sempre più finalizzata a produrre funzionari per un
apparato amministrativo imperiale su scala globale. Durante la
Guerra Fredda, tutto questa era abbastanza esplicito, specialmen-
te nei primi anni, quando boasiani come Margaret Mead e Ruth
Benedict e weberiani come Clifford Geertz si sono spesso ritro-
vati a operare all’interno degli apparati di intelligence militare o
addirittura a essere finanziati con fondi della cia [Ross, 1998]3.
Gradualmente, nel corso delle mobilitazioni studentesche
contro la guerra in Vietnam, questa sorta di complicità è stata
messa in questione. Max Weber – o, per essere più precisi, la
versione di Weber promossa da sociologi come Talcott Parsons
ed Edward Shils [1951], che è poi diventata la base per la Moder-
nization Theory del Dipartimento di Stato americano – è arrivato

29
a essere considerato l’incarnazione di tutto ciò che i radicali vo-
levano rifiutare. Non molto tempo dopo, Foucault, prelevato dal
suo ritiro in Tunisia e insediato nel Collège de France grazie alla
rivolta del Maggio ’68, ha preso il posto lasciato libero da Weber.
Si potrebbe persino ipotizzare la graduale ascesa di una sorta di
divisione del lavoro all’interno delle università americane, con
il lato ottimistico affidato a Weber, reinventato (in una forma
ancor più semplificata) per addestrare i burocrati sotto l’etichetta
della «teoria della scelta razionale», e il lato pessimistico affidato
ai foucaultiani. L’influenza di Foucault, a sua volta, si dispiegava
proprio all’interno di alcuni ambiti accademici che erano diven-
tati il paradiso degli ex pensatori politici radicali, anche se ormai
avevano perso qualsiasi tipo di accesso al potere politico e aveva-
no sempre meno ascendente sui movimenti sociali. Il che confe-
riva un particolare appeal all’enfasi messa da Foucault sul nesso
potere/sapere, cioè all’affermazione che le forme di conoscenza
sono sempre anche forme di potere sociale, forse addirittura le
forme di potere sociali più importanti.
Senza dubbio, un compendio storico così condensato non può
che apparire caricaturale e ingiusto, eppure ritengo che ci sia una
profonda verità in questo discorso. Non siamo solo attratti verso
le aree di densità, dove utilizziamo al meglio le nostre capacità
interpretative. Abbiamo anche l’abitudine di identificare quel che
è interessante con quello che è importante e diamo per scontato
che i luoghi di densità siano anche luoghi di potere. Il potere
della burocrazia dimostra che spesso questo non è vero.
Questo saggio, tuttavia, non ha a che fare in prima istanza con
la burocrazia (e neanche con le ragioni per cui questa sia trascu-
rata in antropologia e nelle discipline affini), ma con la violenza.
Quel che intendo argomentare è che le situazioni create dalla vio-
lenza – in particolare dalla violenza strutturale, espressione con
cui indico le forme diffuse di diseguaglianza sociale che sono in
ultima istanza sostenute dalla minaccia di un’aggressione fisica
– tendono invariabilmente a creare quelle forme di intenzionale

30
cecità che normalmente associamo alle procedure burocratiche.
Per dirla in maniera più grossolana: il problema non è tanto che
le procedure burocratiche siano di per sé stupide o inclini a pro-
durre comportamenti che esse stesse definirebbero stupidi, quan-
to che servono a gestire situazioni sociali che sono già insensate
perché si fondano sulla violenza strutturale. Questo approccio
ci consente di penetrare in profondità in argomenti che sono al
tempo stesso interessanti e importanti: per esempio, l’effettiva re-
lazione tra le forme di semplificazione tipiche della teoria sociale
e quelle tipiche delle procedure amministrative.

3.

Non siamo abituati a considerare le case di riposo, le banche


o le strutture sanitarie come istituzioni violente, se non forse in
un’accezione molto astratta e metaforica. Ma la violenza a cui
mi riferisco in queste righe non è epistemica, è concreta. Queste
sono tutte istituzioni che hanno a che fare con la distribuzione
delle risorse all’interno di un sistema di diritti di proprietà rego-
lati e garantiti dai governi, all’interno di un sistema che in ultima
istanza si basa sulla minaccia dell’uso della forza. «Forza», a sua
volta, è un modo eufemistico per dire «violenza».
Tutto questo è abbastanza ovvio. Ma ciò che risulta interes-
sante da un punto di vista etnografico è rilevare quanto poco i
cittadini delle democrazie industriali riflettano su questo feno-
meno, o come cerchino, quasi in modo istintuale, di diminuirne
l’importanza. Per fare un esempio, è proprio questo che permette
agli studenti universitari di trascorrere intere giornate tra gli scaf-
fali delle biblioteche, tutti assorbiti dai trattati teorici sul declino
della coercizione come fattore rilevante della vita moderna, senza
mai riflettere sul fatto che se provassero a far valere il loro diritto
di entrare in biblioteca senza mostrare un documento d’identità
valido, degli uomini armati interverrebbero subito per espellerli

31
fisicamente da quei locali, usando tutta la forza necessaria. Sem-
bra quasi che più permettiamo ad alcuni aspetti della nostra vita
quotidiana di cadere sotto il dominio delle regole burocratiche,
più tutti coloro che vi sono implicati concordino nel minimizza-
re il fatto (perfettamente ovvio a chi gestisce il sistema) che alla
base di tutto questo c’è la minaccia della forza fisica.
A dire il vero, si può estendere lo stesso ragionamento al mo-
do in cui viene utilizzata l’espressione «violenza strutturale» nella
teoria sociale contemporanea, dato che il modo in cui la utilizzo
qui è decisamente poco convenzionale. Il termine risale al dibat-
tito sviluppatosi intorno agli «studi sulla pace» degli anni Sessan-
ta e viene coniato da Johann Galtung [1969, 1975; cfr. Lawler,
1995] per rispondere all’accusa che definire «pace» una semplice
assenza di atti di aggressione fisica significa trascurare l’esistenza
di strutture di sfruttamento umano molto più insidiose. Galtung
percepisce che il termine «sfruttamento» è troppo gravato dalla
sua identificazione con il marxismo e propone in alternativa l’e-
spressione «violenza strutturale», che rimanda a ogni apparato
istituzionale la cui azione produce di per sé e regolarmente danni
fisici o psicologici a una parte della popolazione o impone limiti
alla loro libertà. La violenza strutturale può pertanto essere di-
stinta sia dalla «violenza personale» (cioè la violenza riconducibile
a un agente umano identificabile), sia dalla «violenza culturale»
(cioè quelle credenze e quelle visioni del mondo che giustificano
i danni inflitti). Peraltro, il termine è stato adottato nella lette-
ratura antropologica proprio in questa accezione [cfr. Bourgois
2001, Farmer 2004 e 2005, Gupta 2012]. Secondo Paul Farmer,
antropologo e medico, l’espressione è adeguata per descrivere le
sofferenze e la mortalità precoce di molti contadini haitiani po-
veri tra i quali ha lavorato:

[…] perché questa sofferenza è «strutturata» da processi e forze


storicamente determinate (e spesso economicamente dirette) che con-
corrono a vincolare la capacità di azione, sia attraverso le abitudini e

32
i rituali, sia attraverso, come più spesso accade, le asperità della vita.
Per molti, inclusa la gran parte dei miei pazienti e informatori, tanto
le grandi quanto le piccole scelte della vita sono limitate da razzismo,
sessismo, violenza politica e devastante povertà [2002, 40].

In tutte queste formulazioni, la «violenza strutturale» è consi-


derata alla stregua delle strutture che producono effetti violenti,
al di là del fatto che ci siano o meno atti di violenza fisica. Si trat-
ta in realtà di una formulazione piuttosto diversa dalla mia, più
in linea con la tradizione femminista [Scheper-Hughes, 1992;
Nordstrom e Martin 1992], che considera questi aspetti come
vere e proprie strutture di violenza, dal momento che a renderli
possibili e a permettere loro di avere effetti violenti è solo la paura
costante della violenza fisica. Razzismo, sessismo e povertà non
potrebbero esistere se non in un ambiente definito dalla minac-
cia di una concreta forza fisica. Insistere su questa distinzione
avrebbe senso solo se qualcuno volesse al tempo stesso insistere,
per un qualche motivo, sulla possibilità che sia esistito un sistema
patriarcale che abbia operato nell’assenza totale di violenza do-
mestica o di episodi di aggressione sessuale. Ma un sistema del
genere, a quanto mi risulta, non è mai stato osservato.
Per come è fatto il mondo oggi, quella formulazione non ha
senso. Se ammettessimo l’esistenza di un luogo in cui le donne
siano escluse da certi spazi per paura di un’aggressione fisica o
sessuale, che cosa otterremmo esattamente distinguendo tra gli
attacchi fisici veri e propri, la paura ispirata da questi attacchi,
i presupposti che hanno portato gli uomini a portare a termine
queste aggressioni o la polizia a pensare che quelle donne «se la
sono cercata», e la convinzione indotta in buona parte delle don-
ne che in quegli spazi una donna non ci dovrebbe proprio anda-
re? O ancora distinguendo tutti quei fenomeni dalle conseguenze
«economiche» sulle donne, che proprio a causa di tutto ciò non
possono essere assunte in certi tipi di lavori? In realtà tutto questo
costituisce una sola struttura di violenza4.

33
Il problema principale con l’approccio di Galtung, come os-
serva Catia Confortini [2006], è che considera le strutture come
entità astratte, fluttuanti, mentre qui abbiamo a che fare con pro-
cessi materiali in cui la violenza e la minaccia della violenza gioca-
no un ruolo costitutivo cruciale. In effetti, si potrebbe sostenere
che sia proprio questa tendenza all’astrazione a lasciar credere, a
chi ne è coinvolto, che la violenza che puntella il sistema non sia
responsabile dei propri effetti violenti.
Gli antropologi, però, farebbero bene a non commettere que-
sto stesso errore.
Tutto diventa più chiaro quando si volge l’attenzione al ruolo
del governo. In molte delle comunità rurali con le quali gli an-
tropologi hanno più familiarità, comunità in cui le moderne tec-
niche amministrative sono apertamente considerate imposizioni
esterne, queste connessioni sono più semplici da vedere. Nel Ma-
dagascar rurale dove ho fatto la mia ricerca sul campo, per esem-
pio, si dà per scontato che i governi operino in primo luogo attra-
verso la paura. Al tempo stesso, data l’assenza di una significativa
interferenza governativa nelle minuzie della vita quotidiana (vedi
le normative sull’edilizia, la regolamentazione del trasporto nau-
tico, l’immatricolazione e l’assicurazione obbligatoria dei veicoli,
eccetera), appare ben evidente che lo scopo principale della buro-
crazia statale è la registrazione delle proprietà tassabili. All’epoca
della mia ricerca, uno dei risultati più curiosi è stato che questo
tipo di informazioni sull’area da me studiata – dati dettagliati
sulle dimensioni di ogni famiglia e del suo patrimonio in termini
di terra, animali e, per i periodi più antichi, schiavi – era esatta-
mente quello che si reperiva negli archivi malgasci relativi al xix
e al principio del xx secolo. Viceversa, per tutto il tempo che ho
vissuto in quella comunità rurale non sono riuscito a ottenere
in loco queste stesse informazioni, probabilmente perché molti
sospettavano che fossero proprio le informazioni alle quali era
interessato uno straniero arrivato dalla capitale e dunque erano
poco propensi a svelargliele.

34
Oltretutto, l’esperienza coloniale ha avuto come conseguenza
di associare le relazioni di comando – sostanzialmente una rela-
zione duratura in cui un adulto fa di un altro un’estensione del-
la propria volontà – alla schiavitù e di identificare la schiavitù
con l’essenza dello Stato. Nella comunità che ho studiato, queste
associazioni venivano più facilmente alla luce quando la gente
parlava delle grandi famiglie schiaviste del xix secolo, i cui figli
erano diventati l’élite amministrativa dell’era coloniale, in gran
parte (come veniva sempre rimarcato) grazie alla loro fissazione
per l’istruzione e alla loro capacità di cavarsela con le scartoffie.
In altri contesti, le relazioni di comando, soprattutto in ambienti
burocratici, erano codificate linguisticamente, cioè strettamente
identificate con il francese. Il malgascio, al contrario, era visto co-
me il linguaggio adatto per le discussioni, per le spiegazioni e per
le scelte consensuali. Ma gli stessi funzionari di livello inferiore,
quando volevano imporre delle norme in maniera arbitraria, quasi
sempre cominciavano a parlare in francese. Ricordo in particolare
un’occasione in cui un funzionario, che aveva parlato molte volte
con me in malgascio e non sapeva che io capissi il francese, rimase
spiazzato quando un giorno mi presentai nel suo ufficio proprio
quando tutti avevano deciso di andarsene via prima. «L’ufficio è
chiuso», mi disse in francese, «se ha qualche pratica da espletare
deve tornare domattina alle otto». Feci finta di essere confuso e
sostenni in malgascio di non capire il francese, ma questi si guar-
dò bene dal ripetere la frase nella lingua locale e continuò a ripete-
re quelle parole in francese. Altri in seguito mi confermarono quel
che sospettavo: parlando in malgascio, avrebbe poi dovuto spiega-
re perché l’ufficio chiudeva in anticipo. E in effetti, in malgascio
si considera il francese «la lingua del comando», cioè la lingua
appropriata per i contesti in cui le spiegazioni, le discussioni e in
ultima analisi il consenso non sono richiesti, dato che alla base di
quel tipo di discorso c’è la minaccia della violenza5.
In Madagascar, il potere burocratico in certo modo si riscatta
agli occhi della popolazione per il suo legame con l’istruzione, te-

35
nuta in grande considerazione in modo quasi universale. Tuttavia,
l’analisi comparativa suggerisce l’esistenza di una relazione diretta
tra il livello di violenza adottato da un sistema burocratico e il
livello di assurdità che produce. Keith Breckenridge [2008], per
esempio, ha ampiamente documentato i regimi di «potere senza
sapere» tipici del Sud Africa coloniale, in cui la coercizione e le
scartoffie hanno in gran parte preso il sopravvento sulla necessi-
tà di comprendere i soggetti africani. Il sistema dell’apartheid,
in funzione a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, era
stato preannunciato da un nuovo sistema di pass progettato per
semplificare le precedenti regole che obbligavano i lavoratori afri-
cani a portare con sé la corposa documentazione relativa ai con-
tratti di lavoro, poi sostituita con un singolo libretto di identità
che riportava «nome, residenza, impronte digitali, dati fiscali e il
‘diritto’ ufficiale di vivere e lavorare in determinate aree urbane»
[Breckenridge 2005, 84]. Nient’altro. I funzionari governativi
apprezzarono il nuovo sistema in quanto snelliva i controlli am-
ministrativi, e così fecero anche i poliziotti sollevati dall’incom-
benza di dover parlare con i lavoratori africani (che li chiamavano
universalmente dompas, cioè «stupidi pass», proprio per questa
ragione). Similmente, la brillante etnografia sul servizio foresta-
le messicano nello Stato di Oaxaca, scritta da Andrew Mathews
[2005, 2011], dimostra che è proprio la diseguaglianza strutturale
di potere tra funzionari governativi e contadini locali a permettere
alle guardie forestali di rimanere in una sorta di bolla ideologica
che consente loro di attenersi a idee inoppugnabili, come quelle
sugli incendi delle foreste che li rendono gli unici nello Stato di
Oaxaca a non capire gli effetti provocati dalle loro procedure.
Ci sono tracce della relazione tra coercizione e assurdità anche
nei termini usati in inglese per riferirsi alla burocrazia. In parti-
colare va notato che molti dei termini colloquiali che rimandano
alla follia burocratica – per esempio SNAFU, Catch-22 e termini
simili – di fatto derivano dal gergo militare. Più in generale, i
politologi hanno da tempo osservato una «correlazione negati-

36
va», come sostiene David Apter [1965, 1971], tra coercizione e
informazione. In altre parole, se nei regimi relativamente demo-
cratici il rischio è di essere travolti da un eccesso di informazione,
dato che le autorità politiche vengono bombardate da continue
richieste di delucidazioni, nei regimi autoritari più questi sono
repressivi, meno le persone hanno qualcosa da dire (e non a caso
questi regimi sono costretti ad affidarsi in modo rilevante a spie,
servizi d’intelligence e polizia segreta).

4.

La qualità intrinseca della violenza di portare a decisioni ar-


bitrarie, evitando le discussioni, i chiarimenti e le negoziazioni
tipiche delle relazioni sociali più egualitarie, è appunto ciò che
consente alle sue vittime di ritenere stupide o irragionevoli le
procedure create a partire dalla violenza. Si potrebbe dire che
chi opera affidandosi alla paura che incute l’uso della forza non è
obbligato a impegnarsi granché nel lavoro interpretativo, e infatti
in genere non lo fa.
Si tratta di un aspetto che non ha ricevuto una grande atten-
zione nell’emergente letteratura sulla «antropologia della violen-
za». Anzi, quest’ultima si è mossa nella direzione opposta, met-
tendo piuttosto in evidenza i modi in cui gli atti di violenza pos-
sono diventare significativi e comunicativi. Neil L. Whitehead,
per esempio, in un’antologia intitolata semplicemente Violence,
si spinge a sostenere che gli antropologi dovrebbero indagare le
ragioni per cui le persone sono così propense a parlare di «violen-
za insensata». La violenza, suggerisce, si comprende meglio se la
si paragona alla poesia:

Le azioni violente, non meno di qualsiasi altra forma comportamen-


tale, sono profondamente impregnate di significati culturali e sono l’e-
spressione di una capacità agente individuale all’interno di modelli di

37
comportamento storicamente radicati. La capacità agente individuale,
utilizzando simboli, icone e altre forme culturali esistenti, può quindi
essere considerata «poetica» per il sostrato saturo di regole che la sot-
tende e per la maniera in cui questo sostrato è declinato, che consente
l’emergere di nuovi significati e di nuove forme di espressione culturale
[Whitehead, 2004, 9-10].

Quando metto in discussione l’enfasi posta sulla natura si-


gnificativa della violenza, non sto suggerendo che questo punto
fondamentale non sia in certo modo veritiero. Sarebbe assurdo
sostenere che gli atti di violenza non siano intesi come atti di
comunicazione oppure negare che siano contornati da simboli
o capaci di generare miti. Tuttavia ritengo che, come nel caso
della burocrazia, questa sia un’area in cui gli antropologi sono
particolarmente inclini a confondere la profondità interpretativa
con la significatività sociale, ovvero a dare per scontato che gli
aspetti più interessanti della violenza siano anche, necessariamen-
te, quelli più importanti. Dunque, sì, gli atti violenti tendono ad
avere un elemento comunicativo, ma questo è vero per qualsiasi
altra forma di azione umana. Anzi, secondo me, quel che è vera-
mente rilevante nel ricorso alla violenza è che è forse la sola forma
di azione umana che persiste anche di fronte alla possibilità di
avere effetti sociali in assenza di comunicazione.
Per essere più precisi, la violenza potrebbe anche essere la sola
forma di azione umana grazie alla quale è possibile ottenere ef-
fetti relativamente prevedibili dalle azioni di persone delle quali
si ignora tutto. Per influenzare le azioni degli altri in qualsiasi
altro modo hai bisogno di sapere almeno qualcosa di queste per-
sone: chi pensano di essere, chi pensano che sei tu, che cosa si
aspettano da una certa situazione, a cosa sono favorevoli, a cosa
sono contrari. Ma se li prendi a bastonate in testa, tutte queste
domande diventano irrilevanti.
Se è vero che gli effetti che si possono produrre menomando o
uccidendo qualcuno sono molto limitati, nondimeno sono reali e

38
possono essere criticamente conosciuti in anticipo con una certa
precisione. Una qualsiasi forma alternativa di azione, che non
rimandi a conoscenze o significati condivisi, non ha invece al-
cun effetto prevedibile. Non solo, ma se i tentativi di influenzare
gli altri con la minaccia della violenza richiedono comunque un
certo livello di conoscenza condivisa, questa può essere minima.
Molte relazioni umane – in particolare quelle durature, sia che
si tratti di amici o di nemici – sono estremamente complicate,
dense di esperienze e significati. Mantenerle richiede un costante
e spesso ingegnoso lavoro di interpretazione, un infinito lavorio
di immedesimazione nei punti di vista altrui. Minacciare gli altri
con un’aggressione fisica permette di dare un taglio netto a tutti
questi problemi. Rende possibili relazioni di tipo molto più sche-
matico, del tipo «supera questa linea e ti sparo». Per questo la
violenza è molto spesso l’arma preferita degli stupidi. Si potrebbe
anche dire che una delle tragedie dell’esistenza umana è il fatto
che la violenza sia una forma di stupidità alla quale è molto diffi-
cile replicare con una risposta intelligente.
È però necessario fare qui una precisazione cruciale. Se due
parti si affrontano in un contesto violento in maniera relativa-
mente equa, come per esempio due generali alla testa di due eser-
citi nemici, questi hanno buone ragioni per cercare di entrare
nella testa degli altri. È solo quando una parte detiene un vantag-
gio schiacciante nella propria capacità di infliggere un danno fisi-
co che queste ragioni vengono meno. Ma questo ha ripercussioni
profonde perché implica che la caratteristica più peculiare della
violenza – la sua capacità di ignorare quello che chiamo lavoro
interpretativo – diventa più rilevante proprio quando la violenza
è meno visibile, ovvero quando gli atti spettacolari di violenza
fisica hanno meno probabilità di verificarsi. Sono queste le si-
tuazioni a cui mi riferivo quando parlavo di violenza strutturale,
rifacendomi all’ipotesi che le diseguaglianze sistemiche sostenute
dalla minaccia della forza possono essere considerate di per sé
forme di violenza. Per questa ragione, le situazioni di violenza

39
strutturale producono invariabilmente strutture altamente asim-
metriche di identificazione immaginativa.
Questi effetti sono più visibili quando le strutture di dise-
guaglianza assumono forme profondamente interiorizzate. Un
classico delle situation-comedy americane degli anni Cinquan-
ta giocava scherzosamente con l’impossibilità di comprendere le
donne. Le battute (fatte sempre da uomini) rappresentavano la
logica femminile come sostanzialmente estranea e incomprensi-
bile. Allo stesso tempo, non si aveva mai l’impressione che le
donne oggetto di quelle battute avessero problemi a capire gli
uomini. E per ovvie ragioni: le donne non avevano altra scelta se
non capire gli uomini. Questa era la consolidata immagine della
famiglia patriarcale, quando le donne, prive di accesso a fonti
autonome di sussistenza, non avevano altra scelta che dedicare
tutto il loro tempo e le loro energie a comprendere quel che pas-
sava nella testa degli uomini. Per fortuna, ai nostri giorni non
devo più spiegare che le configurazioni patriarcali di questo tipo
sono esempi primari di violenza strutturale, retti da norme che
rimandano direttamente alla minaccia della forza fisica, in forme
più o meno sottili.
Questo tipo di retorica sui misteri del sesso femminile sembra
essere un tratto perenne del patriarcato. Generazioni di scrittrici,
a cominciare da Virginia Woolf [1927], ne hanno documentato
anche l’altra faccia: i continui sforzi delle donne per controllare,
contenere e correggere l’ego di uomini pieni di sé e smemorati,
un lavoro continuo di identificazione immaginativa, o in altre
parole di lavoro interpretativo. E questo accade a ogni livello. Si
dà sempre per scontato che le donne siano capaci di immaginare
come funzionano le cose dal punto di vista maschile, ma la stessa
cosa non vale per i maschi. Questo modello comportamentale è
così interiorizzato dagli uomini che molti reagiscono all’idea di
fare altrimenti come se questa fosse un atto di violenza. Un eser-
cizio molto popolare tra gli insegnanti di scrittura creativa nelle
scuole superiori americane consiste nel chiedere agli studenti di

40
immaginare di essere trasformati per un giorno in una persona
dell’altro sesso. A quel punto devono descrivere la loro giorna-
ta. A quanto pare i risultati sono straordinariamente omogenei.
Tutte le ragazze scrivono testi lunghi e dettagliati che dimostrano
chiaramente come abbiano dedicato parecchio tempo a riflettere
sul tema. Una buona parte dei ragazzi, invece, si rifiuta spesso di
portare a termine il saggio proposto. Chi di loro riesce ad arrivare
fino in fondo, dà in genere prova di non avere la minima idea di
cosa significhi essere una ragazza adolescente, mostrandosi oltre-
tutto risentito per aver dovuto riflettere su quel genere di cose6.
Niente di quello che sto dicendo risulta sorprendente per chi
conosce la teoria femminista o i Critical Race Studies. E infatti
queste mie riflessioni si sono ispirate a un brano della scrittrice
nota con lo pseudonimo di bell hooks:

Sebbene non sia mai esistito un insieme ufficiale di [studiosi] neri


che si siano riuniti in quanto antropologi e/o etnografi per studiare la
«bianchitudine», la gente di colore, dalla schiavitù in poi, ha condivi-
so nelle reciproche conversazioni una conoscenza «speciale» di que-
sta bianchitudine, ottenuta attraverso un’osservazione ravvicinata dei
bianchi. Ed è «speciale» perché non è una forma di conoscenza che è
stata pienamente registrata nella forma dei documenti scritti: il suo
scopo era aiutare il popolo nero a tirare avanti e sopravvivere in una
società a supremazia bianca. Per anni i domestici neri, che lavoravano
nelle case dei bianchi, hanno agito come informatori che restituivano
conoscenza alle comunità segregate, fornendo dettagli, fatti, letture
psicoanalitiche sull’«Altro» bianco [hooks, 1992, 165].

Se c’è un difetto nella letteratura femminista, direi che è quello


di avere troppo concentrato l’attenzione sull’oppresso piuttosto
che sulla cecità e l’idiozia del suo oppressore7.
Si può quindi sviluppare una teoria generale del lavoro inter-
pretativo? Il punto di inizio è verosimilmente quello di riconosce-
re che ci sono due elementi cruciali che, sebbene collegati, hanno

41
bisogno di essere formalmente distinti. Il primo è il processo di
identificazione immaginativa come forma di conoscenza, cioè il
fatto che all’interno delle relazioni di dominio sono in genere i
subordinati quelli a cui tocca il lavoro di comprendere effetti-
vamente come funzionino le relazioni sociali. Chiunque abbia
lavorato nella cucina di un ristorante, per esempio, sa che se qual-
cosa va male e spunta il padrone arrabbiato per capire che cosa
è successo, è molto improbabile che questi conduca un’indagine
approfondita o che addirittura presti attenzione ai lavoratori che
si agitano per spiegare la loro versione. È più facile che dica loro
di starsene tutti zitti e poi imporre in modo arbitrario una storia
che consenta un giudizio immediato, del tipo «sei quello nuovo
e hai già fatto casino: continua così e sei licenziato». Sono quelli
che non hanno il potere di assumere e licenziare che devono poi
farsi carico di capire che cosa è andato storto per evitare che acca-
da di nuovo. Lo stesso accade nelle relazioni durature: tutti sanno
che i domestici sono ben informati sulle famiglie dei loro datori
di lavoro, ma l’opposto non succede quasi mai.
Il secondo elemento è un modello comportamentale che de-
riva dall’identificazione empatica. È curioso che sia stato Adam
Smith il primo a osservare, nella sua Teoria dei sentimenti morali
(1762), il fenomeno che oggi chiamiamo «affaticamento com-
passionevole». Gli esseri umani, suggeriva, sono normalmente
inclini a identificarsi a livello immaginario con i loro simili e di
conseguenza a sentire come proprie le gioie e i dolori altrui. I
poveri, tuttavia, sono così sventurati che quegli stessi osservatori
che in altri casi mostrerebbero una sensibilità empatica nei loro
confronti devono affrontare la tacita scelta tra rimanere comple-
tamente sconvolti o cancellare l’idea della loro esistenza. Il ri-
sultato è che chi sta in fondo alla scala sociale dedica parecchio
tempo a immaginare le possibili prospettive di chi sta in cima
(preoccupandosene sinceramente), mentre il caso opposto si dà
molto raramente.
Che si tratti di padroni e servi, di uomini e donne, di datori di

42
lavoro e manodopera, di ricchi e poveri, la diseguaglianza struttu-
rale – ciò che ho chiamato la violenza strutturale – crea strutture
immaginarie altamente asimmetriche. Dal momento che ritengo
che Smith fosse nel giusto quando osservava che l’immaginazione
porta all’empatia, ne deriva che le vittime della violenza strut-
turale sono inclini a preoccuparsi di chi ne è beneficiario più di
quanto i beneficiari di questa violenza sono inclini a preoccuparsi
delle loro vittime. E questa è, dopo la violenza diretta, la forza
più potente che perpetua le relazioni asimmetriche.

5.

Ritengo che tutto questo abbia delle interessanti implicazio-


ni teoretiche.
Nelle democrazie industriali dei nostri giorni, l’amministra-
zione legittima della violenza rimanda a ciò che con un eufemi-
smo è stata definita «l’applicazione della legge». Rimanda cioè a
funzionari di polizia il cui vero ruolo, come hanno ripetutamen-
te messo in evidenza diversi studi sociologici sulle forze dell’or-
dine [per esempio Bittner 1970 e 1985; Waddington 1999, Ne-
ocleous 2000], ha più a che fare con l’applicazione scientifica
della forza fisica per risolvere i problemi amministrativi di tut-
ti i giorni che con l’applicazione della legge contro il crimine.
Sostanzialmente, i poliziotti sono burocrati armati. Allo stesso
tempo, però, sono diventati nel corso degli ultimi cinquant’anni
un elemento ossessivamente presente nell’identificazione imma-
ginativa della cultura popolare. Siamo arrivati al punto che è
diventato normale per il cittadino di una democrazia industria-
lizzata contemporanea trascorrere varie ore al giorno intento a
leggere libri, guardare film o seguire spettacoli televisivi che ti
invitano a guardare il mondo dal punto di vista di un poliziotto,
partecipando in maniera vicaria alle gesta della polizia. Se non
altro, tutto ciò getta un’ombra sulle infauste profezie di Weber a

43
proposito della gabbia di ferro: come si è scoperto, le burocrazie
impersonali sono in grado di produrre a getto continuo eroi cari-
smatici di un qualche tipo, in un assortimento infinito di mitici
detective, spie e ufficiali di polizia, tutte figure il cui impiego
non a caso consiste nell’operare lì dove le strutture burocratiche
destinate a mettere ordine nell’informazione incontrano e fanno
appello a una concreta violenza fisica.
Ancora più sorprendenti sono, a mio avviso, le implicazioni
sullo stesso statuto della teoria.
Il sapere burocratico ha principalmente a che fare con la sche-
matizzazione. In pratica, la procedura burocratica ignora le sot-
tigliezze dell’esistenza sociale reale e riduce ogni cosa a formule
preconcette di tipo statistico o meccanico. Che si tratti di modu-
li, regolamenti, statistiche o questionari, si tratta sempre di una
semplificazione. Di fatto, non è poi tanto differente dal padrone
che si aggira arrabbiato per la cucina e prende decisioni affrettate
e arbitrarie riguardo a quel che è andato storto: in ogni caso si
tratta di applicare modelli preesistenti molto semplici a situazioni
complesse e spesso ambigue. Così, chi è costretto a relazionarsi
con l’amministrazione burocratica rimane con l’impressione di
avere a che fare con persone che per qualche strana ragione han-
no deciso di indossare occhiali che permettono di vedere solo il 2
percento della realtà.
Ma qualcosa di simile non accade anche nella teoria sociale?
Una descrizione etnografica, anche una molto buona, cattura nel
migliore dei casi il 2 percento di quello che accade in una faida
Nuer o in un combattimento di galli balinese. Un’opera di rifles-
sione teorica di norma riesce a mettere a fuoco solo una piccola
parte della realtà, cogliendo forse la tessitura di un paio di fili in
un tessuto di circostanze umane infinitamente complesso, che
poi userà come linee guida per compiere alcune generalizzazio-
ni, magari sulle dinamiche del conflitto sociale, sulla natura dei
comportamenti o sul principio gerarchico. Non sto dicendo che
ci sia qualcosa di sbagliato in questo tipo di riduzione teoretica.

44
Al contrario, sono convinto che un processo di questo tipo sia
necessario se si vuole dire qualcosa di clamorosamente nuovo sul
mondo.
Consideriamo il ruolo dell’analisi strutturale, notoriamente
avallata da Edmund Leach, circa cinquant’anni fa (1959), nella
prima Malinowski Memorial Lecture. Ai nostri giorni l’analisi
strutturale è considerata un procedimento decisamente passé così
come l’opera complessiva di Claude Lévi-Strauss è considerata
vagamente irrilevante. A me questo sembra inopportuno. Se è
stata giustamente abbandonata l’idea che lo strutturalismo forni-
sca una sorta di chiave genetica per svelare i misteri della cultura
umana, abbandonare al contempo anche la pratica dell’analisi
strutturale significa a mio parere farsi derubare di uno strumento
davvero ingegnoso. Perché il grande merito dell’analisi strutturale
è quello di fornire una tecnica quasi a prova di imbecille per fare
quel che dovrebbe fare qualsiasi buona teoria, ossia semplificare e
schematizzare un materiale complesso in un modo tale da poter
arrivare a dire qualcosa di inaspettato.
Detto per inciso, è così che sono arrivato al precedente ragio-
namento su Weber e gli eroi prodotti a gettito continuo dalla bu-
rocrazia. È cominciato tutto con un esperimento volto a spiegare
l’analisi strutturale agli studenti di un seminario che ho tenuto
a Yale: avevo appena spiegato, grazie a una tabella, che i vampi-
ri potevano essere concepiti come inversioni strutturali dei lupi
mannari (ma anche di Frankenstein o della Mummia), quando
qualcuno mi suggerì di applicare lo stesso principio ad altri casi.
Mi resi velocemente conto, con mia grande soddisfazione, che
anche James Bond poteva essere concepito come un’inversione
strutturale di Sherlock Holmes (vedi Figura 1).

45
Sherlock Holmes James Bond
Dilettante Professionista
Asessuato (uso di droghe) Erotomane
Alla ricerca di informazioni Alla ricerca di informazioni
su atti di violenza passati su atti di violenza futuri

Eliot Ness Philip Marlowe

Poliziotti televisivi

Inversione negativa

La Mummia Frankenstein
Una domanda inappropriata Una domanda inappropriata
di conoscenza sul passato di conoscenza sul futuro
conduce alla violenza conduce alla violenza

Figura 1: James Bond come inversione strutturale di Sherlock Holmes

È stato proprio mentre abbozzavo questa mappa che mi è di-


ventato evidente, una volta enunciata l’opposizione iniziale, co-
me tutto fosse organizzato esattamente attorno alla relazione tra
informazione e violenza, come appunto ci si aspetterebbe per gli
eroi dell’era burocratica.
Da parte mia, preferisco considerare una figura eroica qual-
cuno come Lévi-Strauss, un uomo con il coraggio intellettua-
le necessario per portare avanti il suo modello fino alle estreme
conseguenze, non importa quanto assurde queste potessero tal-

46
volta rivelarsi (o, se preferite, quanto dovesse violentare la real-
tà per applicarlo). Ciò che intendo è che, fin quando si rimane
nell’ambito della teoria, la semplificazione può essere una forma
di intelligenza. I problemi arrivano quando la violenza non è più
metaforica.
Lasciatemi passare adesso dai poliziotti immaginari a quelli
reali. Un ex funzionario della polizia di Los Angeles, convertitosi
poi in sociologo [Cooper, 1991], ha rilevato che una schiacciante
maggioranza delle persone pestate dalla polizia non sono succes-
sivamente giudicate colpevoli di alcun reato. «I poliziotti non pe-
stano gli scassinatori», osserva, e la ragione è semplice: la maniera
migliore per scatenare una reazione violenta da parte della polizia
è mettere in discussione il suo diritto di «definire la situazione». Se
quel che ho detto finora è vero, questo è proprio ciò che dovrem-
mo aspettarci: il manganello della polizia è il punto esatto in cui
si incontrano l’imperativo burocratico dello Stato teso a imporre
uno schema amministrativo semplificato e la sua pretesa al mono-
polio della forza coercitiva. È quindi sensato ritenere che la violen-
za burocratica sia soprattutto rivolta contro coloro che sostengono
schemi o interpretazioni alternative. Al tempo stesso, se si accetta
la nota definizione di Jean Piaget [1936] dell’intelligenza matura
come capacità di coordinarsi tra multiple prospettive (attuali e
potenziali), si può vedere qui come il potere burocratico, nel mo-
mento in cui si rivolge alla violenza, si trasforma letteralmente in
una forma di stupidità infantile.
Non è questo il contesto per approfondire alcuni aspetti speci-
fici, ma mi sarebbe piaciuto argomentare perché ritengo che que-
sto approccio possa suggerire maniere nuove per affrontare pro-
blemi vecchi. Da una prospettiva marxista, per esempio, si po-
trebbe osservare che la mia nozione di lavoro interpretativo, che
lascia fluire senza intoppi la vita sociale, implica una distinzione
fondamentale tra l’ambito della produzione sociale (la produzio-
ne di persone e di relazioni sociali), dove il lavoro immaginativo
è relegato alle persone in fondo alla scala sociale, e l’ambito della

47
produzione di merci, dove gli aspetti creativi del lavoro sono de-
legati a chi sta ai vertici della scala sociale. In entrambi i casi, le
strutture della diseguaglianza producono strutture immaginarie
asimmetriche. Un altro aspetto da approfondire rimanda a ciò
che siamo soliti chiamare alienazione, che in gran parte risulta es-
sere l’esperienza soggettiva di vivere all’interno di queste strutture
asimmetriche. Il che a sua volta comporta un certo numero di
implicazioni per qualsiasi politica di liberazione8. Ai nostri fini,
tuttavia, sarà sufficiente richiamare l’attenzione su alcune delle
implicazioni in campo antropologico.
La prima è che molte delle tecniche interpretative che appli-
chiamo sono state storicamente le armi del debole piuttosto che
gli strumenti del potere. In un saggio contenuto in Writing Cul-
ture, Renato Rosaldo [1986] propone la sua ben nota tesi: Evans-
Pritchard, irritato perché nessuno voleva parlare con lui, si è ritro-
vato a fissare l’insediamento Nuer di Muot Dit «dalla soglia della
sua tenda» e a quel punto lo ha trasformato nell’equivalente del
Panopticon foucaultiano. La logica di questo ragionamento vuole
che ogni conoscenza raccolta in situazioni asimmetriche sia al ser-
vizio di una funzione disciplinare. Per me, questa è un’assurdità.
Il Panopticon benthamiano era una prigione. C’erano le guardie.
I prigionieri sopportavano quello sguardo fisso e ne interiorizza-
vano i dettami, perché se provavano a fuggire o a resistere poteva-
no essere puniti, o addirittura uccisi9. In assenza di un apparato
coercitivo, un’osservazione così attenta è invece l’equivalente dei
pettegolezzi di vicinato, privo oltretutto di qualsiasi sanzione da
parte della pubblica opinione.
Al di sotto di questa analogia si cela, a mio avviso, il presuppo-
sto che una conoscenza ampia di questo tipo sia inerente a qual-
sivoglia progetto imperiale. Tuttavia, anche il più veloce scruti-
nio della documentazione storica rende evidente che gli imperi
hanno scarso o nullo interesse a raccogliere e studiare il materiale
etnografico. Sono piuttosto interessati alle questioni che toccano
la legge e i modi di amministrare. Per le informazioni su aspetti

48
esotici come costumi, usanze matrimoniali o riti funebri, bisogna
inevitabilmente fare ricorso ai resoconti di viaggio, come quelli
di Erodoto, Ibn Battuta o Zhang Qian, ovvero alle descrizioni di
quei territori che cadono al di fuori della giurisdizione degli Stati
ai quali appartiene il viaggiatore10.
La ricerca storica ha poi rivelato che gli abitanti di Muot Dit,
in gran parte ex seguaci di un profeta chiamato Gwek, l’anno pre-
cedente avevano subìto alcuni bombardamenti della raf ed erano
stati costretti a dislocarsi [Johnson 1979, 1982, 1994]: tutta la
vicenda era di fatto il risultato della tipica stupidità burocratica,
sostanzialmente un’incomprensione sulla natura del potere nelle
società Nuer, unita al tentativo di separare le popolazioni Nuer e
Dinka, che avevano convissuto per generazioni. Quando Evans-
Pritchard fece la sua comparsa, i Nuer erano ancora sottoposti ai
raid punitivi delle autorità britanniche. Queste avevano addirittu-
ra chiesto all’antropologo di andare nella terra dei Nuer in qualità
di loro spia. Sulle prime Evans-Pritchard aveva rifiutato, poi si era
detto d’accordo (precisando, a posteriori, di averlo fatto «perché
era dispiaciuto per loro»). Sembra in effetti che abbia evitato con
cura di raccogliere le informazioni specifiche alle quali erano inte-
ressate le autorità britanniche (soprattutto quelle sui profeti, che
erano ritenuti i leader della resistenza) e che abbia fatto del suo
meglio, grazie alle competenze acquisite sul funzionamento della
società Nuer, per scoraggiare gli abusi più idioti e «umanizzare» le
autorità [Johnson 1982, 245]. Da etnografo, si è ritrovato a fare
qualcosa simile al tradizionale lavoro delle donne: salvare il siste-
ma dal disastro con interventi avveduti, volti a proteggere quegli
uomini al potere, pieni di sé e smemorati, dalle conseguenze della
loro cecità.
Sarebbe stato meglio rimanere con le mani pulite? È una do-
manda che attiene alla coscienza individuale. Ma ho il sospetto
che i più insidiosi rischi etici si pongano su un livello completa-
mente differente. A mio avviso, il problema cruciale sta nel capire
se il nostro lavoro teorico sia in ultima istanza orientato a sman-

49
tellare o disarticolare alcuni effetti di queste strutture immagi-
narie asimmetriche o se, come è facile che accada quando anche
le nostre migliori idee sono sorrette dalla violenza burocratica,
finisca di fatto per rinforzarle.

6.

La teoria sociale può essere considerata una sorta di semplifi-


cazione radicale, una forma di ignoranza calcolata, volta a rivelare
modelli che altrimenti non potrebbero essere visti. Il che vale per
questo saggio, come per qualsiasi altro. Se questo saggio ha in
gran parte schivato la letteratura antropologica esistente su buro-
crazia, violenza e ignoranza11, non è perché io ritenga che questa
letteratura non sia illuminante ma solo perché volevo capire quali
diversi spunti critici si potessero ottenere guardando le cose con
lenti diverse (o forse si potrebbe dire con paraocchi diversi).
Non si creda, però, che i paraocchi non possano avere effetti
diversi gli uni dagli altri. Ho cominciato questo saggio con le
scartoffie sulla malattia e la morte di mia madre per affermare
una tesi. Ci sono zone morte che infestano le nostre esistenze,
aree talmente svuotate di ogni possibile profondità interpretativa
che sembrano respingere qualsiasi tentativo di dare loro valore o
significato. Sono spazi, come ho scoperto, in cui il lavoro inter-
pretativo non funziona più. Non sorprende dunque che non ci
piaccia parlarne. Sono spazi che respingono la capacità immagi-
nativa. Ma se li ignoriamo, rischiamo di diventare complici di
quella violenza che li ha creati.
Infatti, una cosa è affermare che un padrone che frusta una
schiava attua una forma di azione comunicativa dotata di senso,
attraverso la quale veicola l’esigenza di un’indiscussa obbedienza,
creando al tempo stesso la terrificante e mitica immagine di un
potere assoluto e arbitrario (cosa certamente vera). Ma altra cosa
è pretendere che sia tutto qui quel che accade, o che sia questo ciò

50
di cui si deve parlare. Tutto sommato, se non proviamo ad andare
avanti a esplorare che cosa davvero voglia dire «indiscussa» – la
capacità del padrone di ignorare completamente la capacità della
schiava di interpretare ogni situazione, l’incapacità della schiava
di dire qualcosa anche quando è consapevole delle evidenti crepe
nel ragionamento del padrone, le forme di cecità e di stupidità
che ne derivano, il fatto che queste obblighino la schiava a spen-
dere ancora più energie per comprendere e anticipare le confuse
percezioni del padrone – allora, non stiamo forse facendo, pur se
in scala minore, lo stesso lavoro della frusta? Proprio per questa
ragione Elaine Scarry [1985, 28] ha definito la tortura una forma
di «stupidità». Non serve in realtà a far parlare le proprie vittime.
Anzi, in definitiva, è proprio l’opposto.
C’è però un altro motivo se ho iniziato il saggio con la storia
di mia madre. Come la mia apparentemente inesplicabile confu-
sione sulle firme nella delega notarile rende chiaro, queste zone
morte dell’immaginazione possono, almeno temporaneamente,
rendere chiunque un idiota. Ed è appunto quello che ho nuova-
mente riscontrato quando il mio essere un accademico di sesso
maschile mi ha portato a scrivere una prima bozza di questo sag-
gio senza rendermi conto che molti dei miei ragionamenti ripro-
ducevano alcuni punti chiave delle idee femministe. Tutte queste
forme di cecità derivano in ultima analisi dal tentativo di farsi
strada attraverso situazioni definite dalla violenza strutturale. Ci
vorrà un’enorme quantità di lavoro per cominciare a rimuovere
queste zone morte dal nostro cammino. Ma riconoscerne l’esi-
stenza è il primo passo necessario.

51
Note alla prima parte

1. Questo saggio si basa sulla relazione presentata alla Malinowski Memorial


Lecture del 2006, intitolata Beyond Power/Knowledge: An Exploration of the re-
lation of power, ignorance and stupidity. Si tratta di una versione rivista in modo
sostanziale del saggio che per alcuni anni è rimasto disponibile online sul sito
web della London School of Economics and Political Sciences.
2. Per una valida sintesi aggiornata della letteratura antropologica sulla buro-
crazia, rimando a Colin Hoag [2011].
3. Giusto per capire questi collegamenti va detto che Geertz è stato uno stu-
dente di Clyde Kluckhohn a Harvard, il quale non solo è stato «un tramite
importante per il finanziamento degli studi che interessavano la cia» [Ross,
1998] ma ha anche collaborato alla parte antropologica del famoso manifesto
weberiano per le scienze sociali di Parsons e Shils [1951]. Kluckhohn ha inoltre
messo in contatto Geertz con il Center for International Studies del mit, allora
diretto dall’ex responsabile della sezione Ricerche economiche della cia, che a
sua volta lo ha convinto a lavorare sullo sviluppo dell’Indonesia. Il Center for
International Studies aveva tra i suoi fini dichiarati l’elaborazione di «un’alter-
nativa al marxismo», in gran parte attraverso quella che sarebbe stata conosciuta
come la Modernization Theory [White, 2007], anch’essa su basi weberiane.
4. Le femministe ribadiscono spesso che «la violenza contro le donne è strut-
turale» [per esempio, Fregoso, 2010, 141; World March of Women, 2009],
nel senso che le minacce e le aggressioni fisiche sottendono quelle istituzioni e
configurazioni che a causa dei loro effetti possono essere descritte come forme
di «violenza strutturale». Allo stesso modo, Catia Confortini [2006, 350] so-
stiene che quando si comprendono le «strutture» come processi materiali si può
vedere non solo che «la violenza diretta è uno strumento usato per costruire,
alimentare e riprodurre la violenza strutturale», ma che questa rende possibili
le stesse categorie di mascolinità e femminilità. Nancy Hartsock [1989] ricorre
ad argomenti simili nella sua critica di Foucault.
5. Giusto per essere chiari, chi usa l’espressione «violenza strutturale» dando
per supposto che tali strutture non siano effettivamente fondate sulla violenza
fisica, lo fa perché si attiene a una definizione tipicamente liberale di «violenza»
(nel senso di aggressione fisica verso gli altri), o a una definizione tipicamente

52
conservatrice (nel senso di danno illegittimo a beni o persone). Dissimili dun-
que dalla definizione tipicamente radicale che include anche la minaccia di
aggressione fisica [Coady, 1986; cfr Graeber, 2009, 448-49].
6. La ragione più immediata per cui i ragazzi adolescenti sono contrari a im-
maginare se stessi nei panni delle ragazze è ovviamente l’omofobia. A questo
punto bisogna chiedersi perché l’omofobia sia tanto potente e perché assuma
queste forme. Tutto sommato, molte ragazze adolescenti sono altrettanto
omofobiche, ma questo non impedisce loro di immaginare se stesse nei panni
dei ragazzi.
7. I testi chiave della Standpoint Theory femminista, scritti da Patricia Hill
Collins, Donna Haraway, Sandra Harding, Nancy Hartsock e altri, sono
raccolti in un’antologia curata da Harding [2004]. Aggiungerei che anche la
storia di questo saggio fornisce un esempio significativo della smemoratezza di
genere di cui parlo. Quando ho inquadrato per la prima volta il problema, non
avevo ben individuato questo filone di ricerca, sebbene il mio ragionamento ne
fosse stato evidentemente influenzato in maniera indiretta: solo l’intervento di
un’amica femminista, Erica Lagalisse, mi ha reso consapevole di quale fosse la
fonte effettiva di queste idee.
8. Ho esplorato alcune di queste implicazioni in maniera più dettagliata (a
proposito di alienazione e di politiche di liberazione) in un saggio intitolato
Revolution in reverse [Graeber, 2011].
9. Di fatto, il modo in cui l’immagine del Panoptico è stata adottata dall’ac-
cademia, ovvero come un argomento contro il primato della violenza nelle
forme contemporanee di potere, è un esempio perfetto di come gli accademici
possano diventare complici di quei processi grazie ai quali le strutture fondate
sulla violenza si rappresentano come qualcosa di diverso.
10. Sarebbe interessante documentare gli alti e bassi dell’interesse verso l’etno-
grafia nei differenti imperi storici per vedere se esistono dei modelli ricorrenti.
Per quanto mi risulta, il primo grande impero ad aver raccolto una documen-
tazione sistematica di tipo etnografico, culinario e medico all’interno dei propri
domini è stato l’impero mongolo.
11. C’è stato di recente un piccolo boom di studi antropologici sull’ignoranza
[per esempio, Gershon, Raj, 2000; Scott, 2000; Dilley, 2010; High, Kelly,
Mair, 2012], e alcuni degli esempi più recenti hanno preso in considerazione

53
anche alcune delle tesi presenti nella versione originaria di questa Malinowski
Memorial Lecture. Ma anche qui si può osservare almeno una piccola sbandata
nella direzione opposta, per esempio quando High, Kelly e Mair sostengono,
nella loro introduzione, che se un approccio di critica politica al soggetto è
comunque valido, la peculiarità di un «approccio etnografico» consisterebbe
nel considerare l’ignoranza non in termini puramente negativi, come assenza
di sapere, ma «come un fenomeno concreto con una propria storia», di cui
pertanto bisogna comprendere la «produttività» [2012, 15-16]. Il che richiama
molto il discorso foucaultiano sul potere. L’etnografia detesta il vuoto. Ma il
vuoto esiste.

54
Riferimenti bibliografici

Apter David, The Politics of Modernization, University of Chicago


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59
seconda parte
Fenomenologia dei mega-pupazzi

Quello che segue è un saggio interpretativo che esplora le forme


dell’azione diretta, così come si sono affermate in Nord America,
e le mobilitazioni di massa organizzate dal cosiddetto movimen-
to antiglobalizzazione, insieme alla guerra delle immagini che le
hanno accompagnate. Questa indagine inizia con una sempli-
ce osservazione: dell’insieme di questo movimento il cittadino
medio conosce giusto un paio di cose, e cioè innanzi tutto che
ci sono frequentemente persone vestite di nero che rompono le
vetrine e poi che spesso compaiono sulla scena dei giganteschi
pupazzi colorati. La prima cosa che intendo fare è capire perché
proprio queste immagini hanno colpito tanto l’immaginazione
popolare. Ma voglio anche cercare di capire perché la polizia,
tra le due immagini, sembra avercela di più con i pupazzi. So-
no infatti molti gli attivisti che hanno rilevato questa profonda
avversione verso i mega-pupazzi da parte delle forze dell’ordine.
Le strategie di prevenzione attuate dalla polizia mirano spesso a
sequestrare o a distruggere questi pupazzi prima ancora che fac-
ciano la loro comparsa sulle strade. E infatti una delle principali

63
preoccupazioni degli attivisti che progettano azioni di questo ti-
po è quella di nasconderli affinché non siano intercettati e di-
strutti dalla polizia prima della manifestazione. Anche perché per
molti agenti l’avversione verso i pupazzi non è soltanto di tipo
strategico ma proprio personale, addirittura viscerale. I poliziotti
odiano i pupazzi, e gli attivisti si scervellano per capire il perché
di tanto odio.
Questo saggio deriva appunto da una constatazione così scon-
certante ed è scritto dal punto di vista di un attivista. Faccio parte
da anni del movimento per una giustizia globale1 e ho parteci-
pato attivamente ad azioni grandi e piccole, cercando in tutto
questo tempo di dare una risposta al quesito appena sollevato.
Se questo fosse soltanto un saggio sulla psicologia della polizia,
il mio coinvolgimento mi metterebbe in una situazione preca-
ria, dal momento che renderebbe difficile ottenere dai poliziotti
delle interviste approfondite. È scontato che, essendo attivo nel
movimento, ho avuto frequenti occasioni per scambi casuali con
i poliziotti, ma questi scambi verbali non sono in genere così
illuminanti. Del resto, l’unica conversazione prolungata che io
abbia avuto con un poliziotto sul tema dei pupazzi è avvenuta
mentre ero ammanettato, cosa che se non altro rende molto dif-
ficile prendere appunti. A ogni modo, questo saggio non scende
nello specifico psicologico del poliziotto, o dell’attivista, ma in
quello che gli Annales delle discipline storiche amano chiamare la
«struttura della congiuntura»: quella peculiare e sempre mutevole
interazione simbolica tra Stato, capitale, mass media e movimen-
ti di opposizione che la globalizzazione ha fatto esplodere.
Dal momento che ogni pianificazione strategica deve comin-
ciare da una comprensione di questi elementi, chi è coinvolto in
tali azioni finisce per ritrovarsi in mezzo a discussioni infinite sul-
lo stato effettivo di quella congiuntura. Ritengo dunque che que-
sto saggio sia un contributo all’incessante dibattito in corso, un
contributo che è al tempo stesso necessariamente estetico, critico,
etico e politico. E sono inoltre convinto che in definitiva servirà

64
a perseguire i propositi e le ispirazioni del movimento seppure in
un’altra forma.
Perché i pupazzi? Perché le vetrine? Perché queste immagini
paiono avere un potere mitico? Perché i rappresentanti dello Sta-
to reagiscono in questo modo? Qual è la percezione della gente
comune? Chi è la «gente comune»? Come è possibile trasformare
in qualcos’altro la «gente comune»? Porsi queste domande signi-
fica cominciare a mettere assieme le tacite regole che sottendono
il gioco della guerra simbolica, dai suoi presupposti di base fino
ai dettagli del modo in cui le regole d’ingaggio sono negoziate in
ogni specifica azione, per riuscire infine a comprendere la posta
in gioco nelle nuove forme di politica rivoluzionaria. Sono perso-
nalmente convinto che le implicazioni di questi processi conosci-
tivi siano di per sé rivoluzionarie.
Da qui deriva la struttura non convenzionale di questo saggio,
che parte da un’analisi del simbolismo dei mega-pupazzi, per poi
passare a una discussione sulle strategie comunicative della poli-
zia e infine arrivare a una riflessione sulla natura della violenza e
sullo stato della politica internazionale. Si tratta, in altre parole,
del tentativo di comprendere un momento storico dalla prospet-
tiva di chi è situato al suo interno.

Ridefinizione di una problematica

Secondo un’opinione diffusa, gli eventi che hanno avuto luo-


go a Seattle nel novembre 1999, attorno al Summit dell’Orga-
nizzazione Mondiale del Commercio (wto), avrebbero segnato
la nascita di un nuovo movimento in Nord America. In realtà,
sarebbe meglio dire che Seattle ha segnato il momento in cui
un movimento globale, molto più ampio, ha fatto la sua prima
comparsa sulle sponde nordamericane, un movimento che risale
almeno alla rivolta zapatista del 1994. Nondimeno, le manifesta-
zioni di Seattle sono state considerate una vittoria spettacolare e

65
sono state seguite a breve da una serie di mobilitazioni simili tra
il 2000 e il 2001 – a Washington, Praga, Québec City e Genova
– in un crescendo di dimensioni ma anche di livelli di repressione
statale. L’11 settembre 2001 e la successiva «guerra al terrorismo»
hanno cambiato le regole del gioco, consentendo ai governi di in-
tensificare rapidamente la repressione. In America, questo è stato
subito evidente a Miami nel novembre 2003, durante il Summit
per l’Area di Libero Commercio delle Americhe, per la violenza
inusuale adottata dalla polizia contro i dimostranti.
Tuttavia, lo sbandamento che questo ha comportato tra le fila
del movimento non è stato provocato solo dai livelli più alti di
repressione. Bisogna considerare anche un’altra spiegazione, per
quanto paradossale possa apparire: il movimento ha raggiunto
molto velocemente i suoi scopi più immediati. Dopo Seattle, l’o-
perazione messa in cantiere dal wto si è impantanata e non è mai
stata rimessa davvero in carreggiata. I più ambiziosi programmi
di commercio globale erano stati mandati a monte. Le conse-
guenze sul dibattito politico sono state ancora più straordinarie.
Di fatto, l’impatto è stato talmente sensazionale che per molti
è diventato difficile anche solo ricordarsi quali erano i toni del
discorso pubblico prima di Seattle. Alla fine degli anni Novanta
il Washinghton consensus, come si diceva allora, non aveva oppo-
sitori di rilievo. Negli Stati Uniti, politici e giornalisti concorda-
vano unanimemente che solo radicali «riforme di libero mercato»
avrebbero potuto garantire lo sviluppo economico, sempre e co-
munque. Nei media ufficiali, chi provava a mettere in discussione
i dogmi di questa fede veniva trattato come se fosse uscito di
senno. Essendo diventato politicamente attivo proprio nei pri-
mi mesi del 2000, posso affermare che, nonostante l’entusiasmo
per quel che era accaduto a Seattle, a quell’epoca ritenevamo che
sarebbero stati necessari cinque o dieci anni per incrinare quella
visione. Di fatto ne sono bastati due, o anche meno. Alla fine del
2001 era un luogo comune vedere anche i giornali ufficiali, gli
stessi che pochi mesi prima avevano denunciato i dimostranti co-

66
me ragazzetti ignoranti, dichiarare che avevamo vinto la battaglia
delle idee. Proprio come era avvenuto in gran parte del movi-
mento antinucleare negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta,
ci si è resi conto che il metodo dell’azione diretta è così efficace
da raggiungere gli scopi a breve termine in tempi molto rapidi,
obbligando così gli attivisti a darsi da fare per ridefinire la natura
del movimento. Presto sono sorte divisioni tra chi era solo «con-
tro le multinazionali» e chi «contro il capitalismo». Via via che le
idee e le forme di organizzazione anarchiche diventavano sempre
più importanti, i sindacati e le ong hanno cominciato a fare mar-
cia indietro. Ai nostri fini, l’aspetto cruciale è che tutto questo è
diventato un problema perché il movimento sin dal principio ha
lanciato il suo messaggio in maniera efficace.
Tuttavia, devo qui introdurre una precisazione cruciale: il
successo ha riguardato solo il messaggio negativo del movimen-
to, ovvero ciò contro cui lottavamo. È stato relativamente facile
far passare il messaggio che organismi come il Fondo Monetario
Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio o la
Banca Mondiale erano antidemocratici e irresponsabili, o che le
politiche neoliberali stavano devastando il pianeta, spingendo mi-
lioni di esseri umani verso la morte, la miseria e la disperazione.
Se i media ufficiali non avevano inizialmente alcuna intenzione di
citare i nostri portavoce o di pubblicare i nostri comunicati, non
passò molto tempo prima che gli intellettuali e le «teste d’uovo»
accreditati (incoraggiati da economisti che avevano saltato il fosso,
come Joseph Stiglitz) cominciassero a ripetere quelle stesse cose
come se le avessero scoperte loro. Certo, i maggiori editorialisti
americani si guardavano bene dal riportare tutti gli argomenti sol-
levati dal movimento, soprattutto quelli che identificavano la ra-
dice dei problemi nella natura stessa dello Stato e del capitalismo,
ma in ogni caso il senso del messaggio riuscì a essere veicolato.
La stessa cosa però non è avvenuta per quanto riguardava il
messaggio positivo del movimento, ovvero ciò per cui lottavamo.
Se si può identificare una fonte di ispirazione primaria nel movi-

67
mento per una giustizia globale, questo è il principio dell’azione
diretta. Si tratta di un concetto che sta al cuore della tradizione
anarchica e di fatto, nel corso del tempo, molti degli organizzatori
del movimento sono arrivati a considerarsi anarchici o almeno
fortemente influenzati dalle idee anarchiche. E hanno cominciato
a vedere le manifestazioni di massa non solo come occasioni per
mettere in evidenza la natura antidemocratica e illegittima delle
istituzioni esistenti, ma anche come strategia per illustrare queste
idee in forme che dimostrassero di per sé come tali istituzioni non
siano necessarie, fornendo così un esempio vivente e genuino di
democrazia diretta.
In questo contesto, la parola chiave diventa «processo», nel sen-
so di «processo decisionale». Quando i membri della Direct Action
Network o di gruppi simili devono decidere se lavorare con qual-
che altro gruppo, la prima domanda che si pongono è «che tipo di
processo decisionale usano?». O, in altri termini, praticano la de-
mocrazia interna? Votano a maggioranza o usano una forma con-
sensuale? Esiste una leadership formale? Questioni del genere sono
considerate più rilevanti delle prese di posizione ideologiche2. Allo
stesso modo, se parlate con qualcuno che è appena stato in una
manifestazione importante e gli chiedete che cosa ha trovato di
nuovo ed emozionante in quell’esperienza, probabilmente ascol-
terete lunghe descrizioni sull’organizzazione dei gruppi di affinità,
sui metodi di coordinamento, sulla gestione di blocchi e presidi,
sulla comunicazione assembleare verso l’esterno o sull’apparente
miracolo di un processo decisionale consensuale in cui migliaia di
persone coordinano le proprie azioni senza alcuna struttura for-
male di leadership. C’è un termine tecnico per descrivere tutto
questo: «politica prefigurativa». L’azione diretta è una forma di
resistenza che, nella sua stessa struttura, intende prefigurare la so-
cietà libera che si desidera creare. L’azione rivoluzionaria non è una
forma di immolazione, un’arcigna consacrazione a fare tutto ciò
che è necessario per raggiungere un mondo futuro finalmente libe-
ro. È piuttosto la sfida costante ad agire come se si fosse già liberi.

68
Il messaggio positivo era quindi una nuova visione della de-
mocrazia. Tuttavia, il movimento ha platealmente fallito nel suo
tentativo di convogliare questo messaggio a un più largo pubbli-
co. I gruppi come il Direct Action Network sono stati piuttosto
efficaci nel disseminare i loro modelli decisionali all’interno dei
circuiti militanti (anche perché questi modelli funzionano molto
bene), ma al di là di questi circuiti non hanno avuto una grande
fortuna. I primi tentativi di innescare un dibattito pubblico sulla
natura della democrazia sono stati completamente ignorati dai
media ufficiali. E lo stesso è accaduto per le nuove forme di orga-
nizzazione: i lettori dei giornali ufficiali o gli spettatori della tele-
visione, anche quelli che seguivano le vicende del movimento in
maniera assidua, non hanno avuto modo di venirne a conoscenza.

Immagini mediatiche

Non voglio però lasciare al lettore l’impressione che chi fa parte


del movimento per una giustizia globale si ponga come obiettivo
prioritario quello di far passare i propri messaggi attraverso i me-
dia. Anzi, uno degli aspetti insoliti che caratterizzano molti attivisti
di questo nuovo movimento è proprio il fatto di essere apertamen-
te ostili a ogni tentativo di influenzare ciò che chiamano «il siste-
ma mediatico», o addirittura, in certi casi, di averci qualcosa a che
fare. A loro avviso, società come la cnn o la Associated Press sono
imprese capitaliste e dunque sarebbe infantile pensare che siano di-
sposte a offrire un’amichevole vetrina a chi si oppone attivamente
al capitalismo, per non parlare della possibilità di veicolare messag-
gi apertamente anticapitalisti ai loro utenti. Una buona parte degli
attivisti ritiene che l’apparato mediatico, in quanto elemento chia-
ve della struttura di potere, dovrebbe essere considerato di per sé
uno dei possibili obiettivi dell’azione diretta. In effetti, tra i risultati
più importanti del movimento c’è quello di aver sviluppato una
rete internazionale di media completamente nuovi e alternativi,

69
un progetto mediatico basato sulla partecipazione e realizzato dagli
stessi attivisti per lo più su Internet, che da Seattle in avanti ha
dato copertura in tempo reale alle grandi mobilitazioni con diverse
modalità comunicative: video, radio, carta stampata, email.
Tutto questo rientra molto bene nello spirito dell’azione diret-
ta. Tuttavia, continuano a esserci attivisti, anche anarchici, che
sono disposti a interagire con i media tradizionali. Io stesso posso
essere considerato uno di questi. Durante svariate mobilitazioni,
mi sono ritrovato a passare molto del mio tempo a organizzare
conferenze stampa, preparare comunicati e rispondere alle inter-
viste telefoniche dei giornalisti. E questo ovviamente spiega il se-
vero disprezzo di cui sono stato oggetto da parte di alcuni circoli
anarchici hardcore. Nondimeno, sono anch’io convinto che la cri-
tica anarchica sia in gran parte corretta, soprattutto nel caso de-
gli Stati Uniti. Nella mia esperienza, molti opinionisti e un certo
numero di reporter diffidano delle manifestazioni di protesta, che
non considerano come vere «notizie», ma come eventi artificiali
orditi per influenzarli3. A quanto pare, sono disposti a coprire me-
diaticamente gli eventi artificiali solo quando sono preparati dalle
autorità riconosciute. Ma se devono coprire gli eventi organizzati
dagli attivisti, allora diventano acutamente consci del rischio che
corrono di essere manipolati, soprattutto nel caso di manifesta-
zioni di protesta che reputano «violente». Dal punto di vista di
un giornalista, si tratta di un dilemma, perché la violenza di per
sé è già notizia. Una manifestazione «violenta» ha molte più pro-
babilità di avere una copertura mediatica. Ma proprio per questa
ragione, l’ultima cosa che i giornalisti vorrebbero pensare di se
stessi è di aver permesso a manifestanti violenti di «sequestrare» i
media per veicolare il loro messaggio. La faccenda è ulteriormente
complicata dal fatto che i giornalisti usano una definizione piut-
tosto stravagante di «violenza», qualcosa tipo «un danno a perso-
ne o cose non autorizzato dalle autorità costituite». Pertanto, se
anche un solo manifestante danneggia una vetrina di Starbucks,
in quel caso si può parlare di «proteste violente», ma se la polizia

70
parte all’attacco di chiunque sia presente con manganelli, taser e
proiettili di plastica, la scena non può essere descritta come un at-
to di violenza. In simili circostanze, non sorprende che sia la rete
di media anarchici a dover fare la valutazione dei danni.
Si comincia allora a comprendere perché nella copertura dei
media prevalgano le immagini dei Black Bloc che mandano in
frantumi le vetrine assieme a quelle dei pupazzi colorati. Veicolare
il reale «messaggio» è di fatto escluso. Quasi tutte le manifestazio-
ni più importanti sono state accompagnate da giornate di semina-
ri pubblici in cui intellettuali radicali analizzavano le politiche del
Fondo Monetario Internazionale o dei paesi del G8, discutendo
possibili alternative. Per quel che ne so io, nessuno di questi semi-
nari è mai stato coperto dalla stampa ufficiale. È indubbiamen-
te difficile e complicato visualizzare un «processo» e oltretutto i
meeting sono in genere off limits per i giornalisti. Nondimeno,
è difficile spiegare la relativa mancanza di attenzione dei media
ufficiali verso i blocchi stradali o gli happening di strada, i raduni
della critical mass o l’esposizione di striscioni. Sono tutti eventi
spettacolari, pubblici e spesso di grande impatto visivo. Dal mo-
mento che è quasi impossibile descrivere come un violento chi si
impegna in simili tattiche, il fatto che molto spesso questi attivi-
sti finiscano pestati, gasati, spruzzati con gli urticanti, colpiti con
proiettili di plastica o ammanettati dalla polizia, pone un ovvio
dilemma narrativo al quale molti giornalisti cercano di sottrarsi4.
Ma tutto questo, da solo, non sembra fornire una spiegazione
adeguata al fenomeno5.
Torniamo allora alla mia osservazione iniziale, e cioè che esiste
una spinta irresistibile ad associare le immagini dei manifestanti
in nero che infrangono le vetrine con quelle dei mega-pupazzi
colorati. Perché questo avviene?
Se non altro, le due immagini palesano una netta opposizione
strutturale. Gli anarchici del Black Bloc vogliono rendersi anoni-
mi e intercambiabili, identificabili solo grazie alla loro affinità po-
litica, alla loro volontà di impegnarsi in azioni militanti e alla loro

71
mutua solidarietà. Di qui l’uniforme nera composta da magliette,
cappucci e bandane indossate come una maschera. Al contrario,
i pupazzi di cartapesta usati nelle azioni sono unici e individuali:
pur essendo tutti dipinti a colori vivaci, variano ampiamente per
forma, dimensione e ideazione. Così, da un lato abbiamo figure
anonime, senza volto, in nero, molto simili tra loro, dall’altro
troviamo divinità policrome con le sembianze di uccelli, maiali e
politici. I primi sono una massa anonima, distruttiva, tremenda-
mente seria; i secondi sono un insieme molteplice che mette in
scena una creatività eccentrica.
Se l’accostamento delle due immagini risulta di forte impatto,
è perché questa giustapposizione dice qualcosa di importante sugli
obiettivi perseguiti dall’azione diretta. Cominciamo a prendere in
esame la distruzione della proprietà. Atti del genere sono tutt’altro
che casuali e seguono severe linee guida di tipo etico: è vietato
danneggiare beni personali, per esempio, e ogni attività commer-
ciale che provveda al sostentamento diretto del suo proprietario.
Bisogna inoltre prendere ogni precauzione per evitare di ferire gli
esseri umani. Gli obiettivi, spesso oggetto di attente ricerche che
anticipano l’azione, sono le facciate delle grandi aziende, delle
banche, degli ipermercati, così come quelle degli edifici governa-
tivi o di altri simboli del potere statale. Quando descrivono le loro
tattiche, gli anarchici fanno spesso riferimento al situazionismo
(Guy Debord e Raoul Vaneigem sono gli autori francesi più dif-
fusi nelle librerie anarchiche). Il consumismo capitalista ci rende
infatti spettatori passivi e isolati, in relazione l’uno con l’altro so-
lo attraverso una comune fascinazione verso un gioco infinito di
immagini che sono, in definitiva, rappresentazioni di quel senso
di appartenenza e di comunità che abbiamo perso. La distruzione
della proprietà è quindi un tentativo di «rompere l’incantesimo»,
di deviare e ridefinire una situazione. È un assalto diretto allo
Spettacolo. Prendiamo in esame le parole del famoso comunicato
rilasciato il 30 novembre 1999 dai Black Bloc di Seattle, in parti-
colare il paragrafo intitolato Sulla violenza contro la proprietà:

72
Quando rompiamo una vetrina, noi aspiriamo a distruggere la sot-
tile maschera di legittimità dietro cui si celano i diritti di proprietà pri-
vata. Al contempo, intendiamo esorcizzare quel tipo di relazioni sociali
violente e distruttive di cui sono ormai impregnate tutte le cose che ci
circondano. «Distruggendo» la proprietà privata, noi convertiamo il
suo limitato valore di scambio in un esteso valore d’uso. La vetrata di
un megastore diventa una fessura attraverso la quale passa una ventata
di aria fresca nell’atmosfera opprimente di un ipermercato (almeno
fino a quando la polizia non decide di sparare i lacrimogeni vicino alla
barricata che blocca la strada). Un distributore automatico di giornali
diventa l’attrezzo con cui creare questa fessura, o con cui costruire una
piccola barricata per reclamare lo spazio pubblico, o ancora la pedana
su cui salire per avere una visione più favorevole. Un cassonetto diventa
l’ostacolo frapposto all’avanzata di un plotone di sbirri antisommossa
e una fonte di luce e di calore. La facciata di un palazzo diventa una
bacheca su cui apporre messaggi capaci di veicolare il ribollire di idee
per un mondo migliore.

> Lo sfondamento della vetrina di un caffè Starbucks a Seattle, 1999.

73
Dopo il 30 novembre, molte persone non guarderanno più una ve-
trina o un martello nello stesso modo in cui li guardavano prima. Gli
usi potenziali dell’intero arredo urbano sono enormemente aumentati.
Il numero delle vetrine infrante impallidisce di fronte al numero degli
incantesimi che abbiamo rotto, incantesimi che ci vengono imposti
dall’egemonia delle grandi aziende per farci stare buoni, per non farci
pensare a tutte le violenze perpetrate in nome della proprietà privata,
a tutte le potenzialità di una società senza di loro. Le vetrine infrante
possono essere chiuse con assi di legno (sprecando gli alberi delle no-
stre foreste) e infine sostituite, ma la frantumazione delle idee domi-
nanti auspicabilmente persisterà per molto tempo a venire6.

Distruggere la proprietà significa dunque infrangere un pano-


rama urbano segnato dalle infinite facciate del potere economico
e dal suo rutilante immaginario, che pare monumentale, eterno
e immutabile,per dimostrarne invece l’effettiva fragilità. Significa
letteralmente mandare in frantumi le illusioni che alimenta.
Che dire allora dei pupazzi?
Di nuovo, questi sembrano perfettamente complementari
all’altra immagine. I mega-pupazzi di cartapesta sono infatti cre-
ati con i materiali più effimeri – fantasia, carta e fil di ferro – e
trasformati in qualcosa di simile a un monumento (pur se in mo-
do caricaturale). Un mega-pupazzo è la derisione dell’idea stessa
di monumento7 e di tutto ciò che i monumenti rappresentano:
l’incolmabile distanza, la monocroma solennità e soprattutto la
sottintesa stabilità, il tentativo da parte dello Stato di trasformare
la propria storia e i propri principi in verità eterne. Se l’altra im-
magine si propone di mandare in frantumi lo Spettacolo dell’e-
sistente, questa mi sembra suggerire la capacità di produrne di
nuovi a gettito continuo.
Di fatto, dal punto di vista degli attivisti la questione fon-
damentale è ancora il «processo» (in questo caso il processo di
creazione). Ci sono riunioni in cui ci si scambiano le idee per
escogitare soggetti e forme, ma per la maggior parte del tempo

74
> Un laboratorio per la costruzione dei mega-pupazzi.

le reti e le intelaiature giacciono per giorni al suolo in garage,


cortili, magazzini o capannoni semi-industriali, insieme a secchi
di vernice e attrezzi di vario tipo, mentre piccole squadre si ag-
girano tra tutto questo materiale, impegnate a modellare, fuma-
re, dipingere, mangiare, suonare musica, gironzolare e discutere
animatamente. Ogni cosa è progettata per essere comunitaria,
egualitaria e significativa. E non ci si aspetta che gli oggetti du-
rino. Sono in gran parte costituiti di materiali deperibili e pochi
reggerebbero a un acquazzone. Alcuni sono deliberatamente di-
strutti o dati alle fiamme nel corso delle azioni. E in ogni caso,
in assenza di un deposito adeguato, di solito cominciano rapi-
damente a sfaldarsi.
Quanto alle raffigurazioni vere e proprie, sono chiaramente fi-
nalizzate a racchiudere, e quindi esprimere, una sorta di universo.
Di solito i costruttori di pupazzi – o puppetistas, come talvolta si
definiscono – mirano a una sorta di equilibrio tra immagini ne-
gative e positive. Così, da un lato ci può essere il Grande Maiale
che rappresenta la Banca Mondiale e dall’altro il mega-pupazzo

75
> Dall’alto in basso, in senso orario: il mega-pupazzo della Democrazia diretta realizzato dalla
School of Americas Protest; le Tartarughe marine di Seattle (30 novembre 1999); le raffigurazio-
ni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale
del Commercio (16 aprile 2000); le raffigurazioni delle Multinazionali realizzate in occasione
della Convention per le primarie del partito democratico (Los Angeles, 2000).

76
che rappresenta la Liberazione, le cui enormi braccia possono
bloccare un’intera autostrada. La maggior parte delle raffigura-
zioni più famose identificano gli attivisti impegnati nell’azione
in corso e le cose che indossano o trasportano. Per esempio, un
mega-pupazzo a forma di uccello, che ha sfilato nelle manifesta-
zioni contro la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazio-
nale del 16 aprile 2000 a Washington, era replicato da centinaia
di piccoli uccelli collocati sui cartelli distribuiti a tutti i parteci-
panti. Allo stesso modo, i mega-pupazzi raffiguranti i Martiri di
Chicago, gli Zapatisti, la Statua della Libertà o la chiave inglese
del Fronte di Liberazione Animale erano riprodotti identici sugli
emblemi, sugli adesivi o sulle magliette di chi prendeva parte a
queste manifestazioni.
Tuttavia, le immagini che colpiscono di più sono quelle ne-
gative: i mega-pupazzi che raffigurano il controllo sulla società
da parte delle multinazionali, fatti sfilare durante la Convention
dei democratici nel 2000, con George W. Bush e Al Gore che si
muovono come marionette; o il gigantesco poliziotto antisom-
mossa che spruzza spray urticante; o la serie infinita di effigi che
sono servite a ridicolizzare il potere.
Ovviamente, la derisione e la distruzione delle effigi è una delle
forme di protesta politica più antiche e diffuse. Il crollo dei regi-
mi è spesso segnato dalla distruzione delle statue. L’abbattimento
della statua di Saddam Hussein a Baghdad – a quanto pare una
messa in scena organizzata – ha rappresentato, nella mente di
tanti, il momento esatto in cui il regime è finito. Analogamente,
durante la visita di George W. Bush in Gran Bretagna, nel 2004,
i dimostranti hanno eretto innumerevoli statue, grandi e piccole,
del presidente americano al solo fine di abbatterle.
Tuttavia le immagini positive sono trattate con più rispetto
delle effigi. Di seguito riporto un brano da alcune mie riflessioni
scritte a caldo sul tema, annotate in fretta e furia (e in parte rivi-
ste) subito dopo essere stato nel laboratorio di pupazzi di Filadel-
fia, poco prima della Convention repubblicana del 2000.

77
Appunti dal mio diario di strada, 31 giugno 2000
La domanda che continuo a pormi è: perché li chiamano «pupazzi»?
Normalmente si pensa ai pupazzi come a figure che si muovono in
funzione dei movimenti di un qualche burattinaio. Ma questi pupazzi
hanno poche parti mobili, quasi nessuna. Sono più che altro statue
mobili, a volte trasportate di peso, a volte indossate da un attivista. Ma
allora in che senso sono pupazzi?
I pupazzi sono grandi e molto visibili, ma anche delicati ed effi-
meri. Di solito vanno a pezzi alla fine di una singola manifestazione.
La combinazione tra grandi dimensioni e leggerezza li rende ai miei
occhi un ponte tra parole e realtà. Sono forme di transizione: rappre-
sentano la capacità di rendere reali le idee, di far loro assumere forme
concrete, di trasformare la nostra visione del mondo in qualcosa che
abbia un impatto fisico equivalente e una forza spettacolare maggiore
della macchina che muove la violenza di Stato, con la quale devono
confrontarsi. L’idea che siano estensioni delle nostre menti e delle
nostre parole contribuisce a spiegare l’uso del termine «pupazzi»,
«marionette». Non si muovono per estensione di una volontà indivi-
duale, e se lo facessero contraddirebbero l’importanza della creatività
collettiva. Se sono i personaggi di una rappresentazione, questa rap-
presentazione ha un autore collettivo; se sono manipolati, lo sono da
tutti coloro che partecipano a quei cortei, spesso passando di mano
in mano da un attivista all’altro. Sono, in definitiva, l’emanazione
di un immaginario collettivo. Pertanto, sarebbe contraddittorio se
diventassero pienamente solidi o se fossero manipolati da un solo
individuo.

I pupazzi possono anche essere indossati come costumi e nelle


grandi manifestazioni in effetti si trasformano in costumi identi-
ficativi. Ogni grande mobilitazione ha un proprio totem (a vol-
te anche più di uno): le famose tartarughe marine a Seattle nel
1999, gli uccelli e gli squali a Washington nel 2000, la Danza
macabra degli scheletri alla Convention repubblicana di Filadelfia
nel 2000, il caribù per l’insediamento di Bush o i frammenti

78
> Effige di George W. Bush abbattuta in Gran Bretagna nel 2004.

della Guernica di Picasso per le manifestazioni di protesta contro


l’imminente invasione dell’Iraq nel 2003, costruiti in modo da
poter essere scomposti e poi riassemblati.
In effetti, di solito non c’è una chiara linea divisoria tra pupaz-
zi, costumi, striscioni, simboli e altri oggetti scenici. Ognuno di
questi è progettato per combinarsi con gli altri, per rafforzarsi a
vicenda. I pupazzi in genere sono circondati da un Carnival Bloc,
da un «blocco carnevalesco» esteso, formato da clown, trampo-
lieri, mangiafuoco, giocolieri, ciclisti su velocipedi, cheerleaders
sovversive e spesso intere bande musicali militanti, come la Infer-
nal Noise Brigade della Bay Area californiana o la Hungry March
Band di New York, specializzate in musica Klezmer o circense,
oltre agli onnipresenti tamburi e fischietti.
La metafora circense sembra particolarmente adatta allo spiri-
to anarchico, probabilmente perché i circhi sono comunità tradi-

79
zionalmente composte da individualità forti, impegnate tuttavia
in un’impresa estremamente cooperativa che ha tra i propri fini la
trasgressione dei limiti. La famosa battuta di Tony Blair del 2004,
quando disse che non avrebbe fatto marcia indietro «per colpa di
un circo anarchico itinerante», per molti non fu un insulto. Di
fatto, c’è un numero consistente di gruppi circensi esplicitamente
anarchici e il loro numero non è inferiore negli Stati Uniti a quel-
lo dei tanti predicatori ciarlatani. Il riferimento non è casuale: al
momento, infatti, ogni manifestazione ha la sua frangia circense
che si muove tra i grandi blocchi stradali per sollevare gli animi
(attraverso il teatro di strada) e cercare, con spirito critico, di
sdrammatizzare i momenti di maggiore tensione o di potenzia-
le conflitto. Quest’ultimo aspetto è di cruciale importanza. Dal
momento che l’azione diretta, al contrario delle manifestazioni
autorizzate, evita scrupolosamente i servizi d’ordine o i mediatori
formali (che spesso la polizia cerca di cooptare), queste squadre
circensi, insieme ai puppetistas, svolgono di fatto la stessa funzio-
ne mediatrice. Ecco un resoconto di prima mano dei membri di
un gruppo di affinità di Chapel Hill (Paper Hand Puppet Inter-
vention), che spiega come le cose funzionino in pratica:

Due anni fa Burger e Zimmerman hanno portato alcuni pupazzi a


Seattle durante le violente proteste contro il wto, e a un certo punto si
sono uniti a un gruppo che stava assediando l’edificio in cui si teneva
l’incontro. «I manifestanti avevano fatto cordone incrociando le braccia
tra di loro», racconta Zimmerman, «e la polizia li aveva prima spruzzati
con lo spray urticante e poi li aveva pestati. Adesso minacciava di tor-
nare all’attacco nel giro di cinque minuti». Ma i manifestanti tenevano
la posizione con le braccia unite e gli occhi che lacrimavano a causa
dello spray urticante. Burger, Zimmerman e i loro amici arrivarono con
i trampoli, i clown, un pupazzo alto dodici metri e una danzatrice del
ventre. Camminavano avanti e indietro lungo la linea dei dimostranti,
invitandoli a cantare. Quando i poliziotti tornarono, si trovarono a do-
ver prima fronteggiare l’enorme pupazzo. In qualche modo, quel circo

80
variopinto riuscì a contenere la situazione. «Non potevano spingersi fino
ad attaccare un gruppo di persone che stavano cantando», racconta Zim-
merman, spiegando che immettere un po’ di umorismo e festosità in un
contesto pesante è il fine ultimo di un intervento con i pupazzi8.

Secondo coloro che costruiscono e portano in piazza i mega-pu-


pazzi, tra le varie strategie circensi questa è la più efficace. «I pupaz-
zi non sono graziosi, come i Muppets», sostiene Peter Schumann,
direttore del Bread and Puppet Theater, il gruppo teatrale che ha
reso popolari i pupazzi nelle proteste politiche degli anni Sessanta.
«Sono effigi, sono divinità, sono creature dotate di significato»9. A
volte in maniera letterale, come nel caso delle divinità Maya che
hanno accolto a Cancún i delegati del wto nel settembre 2003.
Tuttavia, se mantengono una sorta di qualità divina, sono
palesemente divinità folli, bizzarre, ridicole. Sembra quasi che
il processo di creare ed esibire questi pupazzi sia un modo per
impadronirsi del potere di creare dèi, ma al contempo prendersi

> Divinità Maya costruita per il Summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Cancún, 2003.

81
gioco di quel potere. Qui ci si trova di fronte a una sensibilità
profondamente anarchica. Nell’anarchismo ci si imbatte in un
impulso simile ogni volta che ci si avvicina a un processo di signi-
ficazione fortemente mitico. Lo si vede nelle dottrine dei seguaci
di John Zerzan e in altri primitivisti, i quali creano consapevol-
mente nuovi miti (la loro versione del Giardino dell’Eden, della
Caduta, della prossima Apocalisse) che sembrano implicare non
solo l’accettazione di un’ecatombe umana come effetto collaterale
di un auspicato collasso industriale di dimensioni planetarie, ma
anche l’abolizione dell’agricoltura e addirittura del linguaggio,
per poi frenare davanti all’idea che tutto questo accada davvero. È
un impulso chiaramente presente anche nell’opera di Peter Lam-
born Wilson, le cui meditazioni sul ruolo del sacro nell’azione
rivoluzionaria sono scritte sotto il nom de plume di un folle poeta
ismailita pederasta, ovvero Hakim Bey. È ancora più evidente tra
i gruppi anarchici di ispirazione pagana, come Reclaiming, che a
partire dal movimento antinucleare degli anni Ottanta10 si sono
specializzati nell’inscenare stravaganti satire di rituali pagani, che
nondimeno loro percepiscono come riti non solo reali ma anche
efficaci. Anzi, ai loro occhi questi rappresentano le più profonde
verità spirituali sul mondo11.
I pupazzi si limitano a spingere questa logica al suo estremo.
La loro sacralità è il potere stesso della creatività, dell’immagi-
nazione, o più precisamente il potere di trasformare l’immagi-
nazione in realtà. Si tratta, tutto sommato, dell’ideale ultimo
di ogni pratica rivoluzionaria, come recita il famoso slogan del
Maggio ’68: «L’immaginazione al potere». Ma al tempo stesso
sembra quasi dire che la democratizzazione del sacro possa av-
venire solo nelle modalità burlesque. Di qui deriva una costante
autoderisione che non è però volta a diminuire l’importanza e la
serietà di quel che si afferma, quanto piuttosto a riconoscere che
in ultima istanza, pur essendo una creazione umana, la divinità
rimane comunque tale e che prendere troppo sul serio la sacrali-
tà può diventare pericoloso.

82
La guerra simbolica della polizia

Come ho evidenziato, gli anarchici evitano di costruire le pro-


prie strategie attorno ai media, ma non si può dire lo stesso per
la polizia.
È ovvio che gli eventi del 30 novembre 1999 a Seattle sono
stati una sorpresa per il governo americano. La polizia locale era
chiaramente impreparata alle tattiche sofisticate adottate da cen-
tinaia di gruppi di affinità che circondavano l’hotel dove si teneva
la riunione e che, almeno per il primo giorno, sono in effetti
riusciti a bloccare gli incontri istituzionali. Il primo impulso del
comando di polizia è stato quello di rispettare la non violenza
delle azioni12. Ma dopo le ore 13,00 del 30 novembre, quando
Madeleine Albright telefona al governatore dello Stato dall’inter-
no dell’hotel dicendogli di fare tutto quello che è necessario per
rompere l’assedio13, la polizia intraprende un assalto in grande
stile con gas lacrimogeni, spray urticante e bombe assordanti.
Anche allora molti poliziotti esitano, mentre altri si gettano nella
mischia con furia selvaggia, aggredendo e arrestando gruppi di
ignari cittadini che stavano facendo shopping nel distretto com-
merciale di Seattle. Alla fine il governatore si è visto obbligato
a chiamare la Guardia Nazionale. Anche se i media si sono af-
frettati a rappresentare le azioni della polizia come una doverosa
risposta alle azioni dei Black Bloc, che sono invece iniziate molto
dopo, il ricorso alle truppe federali è stata una sconfitta simbolica
plateale e innegabile. E infatti, immediatamente dopo Seattle, gli
apparati di polizia, a livello nazionale e internazionale, hanno in-
trapreso delle iniziative concertate per sviluppare una nuova stra-
tegia. Ovviamente, i dettagli di queste decisioni non sono di pub-
blico dominio, ma a giudicare dagli eventi successivi sembra che
la loro (non sorprendente) conclusione sia stata che la polizia di
Seattle non sia ricorsa alla violenza con la necessaria rapidità. La
nuova strategia, presto messa in pratica a Washington, Windsor,
Filadelfia, Los Angeles e Québec City, si configura come una sorta

83
di violenza preventiva. Il problema che si pone è come giustificare
tutto questo a fronte di un movimento che è in larga parte non
violento, impegnato in azioni che nella stragrande maggioranza
dei casi non possono essere definite criminali14, un movimento,
oltretutto, il cui messaggio sembra avere, almeno potenzialmente,
un forte richiamo pubblico.
Possiamo anche riformulare così il problema: i summit e gli
altri eventi che sono diventati gli obiettivi del movimento (in-
contri commerciali, Convention politiche, meeting del Fondo
Monetario Internazionale) erano eventi sostanzialmente simbo-
lici. In gran parte non servivano a prendere decisioni politiche
formali, ma erano piuttosto occasioni di incontro, rituali auto-
celebratori, scampagnate per gli uomini più ricchi e potenti del
pianeta. Di norma, le azioni intraprese non pretendevano tanto
di annullare i meeting quanto di creare la sensazione di essere
assediati in chi vi partecipava. Non si voleva mettere nessuno in
pericolo. Le catapulte potevano scagliare soltanto pupazzetti di
peluche, come a Québec City. Lo scopo era quello di mettere
sotto assedio questi incontri con una folla rumorosa, grazie alla
quale i partecipanti dovevano spostarsi scortati da forze di sicu-
rezza pesantemente armate, i cocktail party venivano annullati
e le auto-celebrazioni fallivano miseramente. Niente poteva es-
sere più efficace per mandare in frantumi quell’aurea di trionfo
che aveva circondato questo tipo di incontri internazionali negli
anni Novanta.
Tutto sommato, l’idea che in un contesto del genere le «forze
dell’ordine» non avrebbero reagito in maniera aggressiva era in-
genua. Ai loro occhi, la non violenza di chi faceva blocchi e pic-
chetti era del tutto irrilevante; o meglio, era una questione sensi-
bile solo perché avrebbe potuto creare problemi nella percezione
pubblica. Anzi, da questo punto di vista era un problema serio:
come rappresentare i manifestanti nelle vesti di una minaccia per
l’ordine pubblico, cosa che avrebbe giustificato misure estreme,
se non aggredivano mai fisicamente qualcuno?

84
Per rispondere a questa domanda basterebbe lasciar parlare gli
eventi. Se si guarda a quel che è successo nei mesi immediatamente
successivi a Seattle, la prima cosa che balza evidente è la serie di
attacchi preventivi per reagire a minacce che, proprio come le armi
di distruzioni di massa in Iraq, non si sono mai materializzate.

Aprile 2000, Washington


Qualche ora prima che le manifestazioni di protesta contro il Fon-
do Monetario Internazionale e la Banca Mondiale abbiano inizio, la
polizia arresta preventivamente seicento persone e chiude il Converger
Center verso il quale confluiscono i partecipanti. Il capo della polizia
Charles Ramsey dichiara a gran voce di aver scoperto al suo interno un
laboratorio per la produzione di bombe molotov e di spray urticante
fatto in casa. La polizia di Washington ammetterà in seguito che un
simile laboratorio non esisteva affatto (avevano in realtà trovato del
diluente usato per progetti artistici e alcuni peperoni necessari a cu-
cinare un gazpacho). In ogni caso il centro rimane chiuso, mentre le
installazioni artistiche e gran parte dei pupazzi sono sequestrati.

Luglio 2000, Minneapolis


A pochi giorni da una protesta in programma contro la Internatio-
nal Society of Animal Geneticists, la polizia locale afferma che gli at-
tivisti hanno fatto esplodere una bomba al cianuro in un McDonald’s
del posto e potrebbero essere implicati nel furto di alcuni esplosivi.
Il giorno dopo la dea perquisisce una casa usata dagli organizzatori,
ne trascina fuori gli abitanti tutti insanguinati e sequestra i loro com-
puter e alcune scatole piene di materiale propagandistico. In seguito
la polizia ammetterà che non c’è mai stata un’esplosione al cianuro e
che non c’è ragione di pensare che gli attivisti detenessero esplosivo di
alcun tipo.

Agosto 2000, Filadelfia


Poche ore prima delle proteste contro la Convention repubblicana,
la polizia, sostenendo di aver ricevuto una soffiata, perquisisce il la-

85
boratorio in cui si stanno preparando striscioni, pupazzi e altre elabo-
razioni artistiche, arrestando settantacinque attivisti che si trovavano
all’interno dell’edificio. Il capo della polizia, John Timoney, dichiara
di aver scoperto nel laboratorio esplosivi C4 e palloni pieni di acido
cloridrico. In seguito la polizia ammetterà che non sono stati trovati né
acido né esplosivi. Tuttavia, fino alla fine della manifestazione i fermati
non saranno rilasciati, mentre i pupazzi, gli striscioni, le opere d’arte e
i volantini preparati per la protesta saranno sistematicamente distrutti.

Pur essendo possibile che ci si trovi di fronte a una serie im-


pressionante di errori fatti in buona fede, mi sembra più realisti-
co pensare che questi siano attacchi premeditati al materiale che
gli attivisti avevano intenzione di usare per diffondere il loro mes-
saggio (e ovviamente è questa seconda ipotesi quella sostenuta
dagli attivisti, soprattutto dopo Filadelfia). Non a caso, gli orga-
nizzatori che stavano progettando in parallelo le proteste contro
la Convention dei democratici a Los Angeles hanno chiesto e otte-
nuto che fosse impedito alla polizia di attaccare preventivamente
il loro centro logistico. Ma da allora, nelle settimane che precedo-
no le mobilitazioni più importanti, la preoccupazione principale
è stata quella di nascondere e proteggere i pupazzi.
Dopo Filadelfia era anche evidente che la polizia aveva adot-
tato una precisa strategia mediatica. I suoi portavoce apparivano
ogni giorno in vivaci conferenze stampa durante le quali lancia-
vano accuse selvagge contro i manifestanti, ben consapevoli che
i giornalisti incaricati di coprire quegli eventi (gli stessi che per
svolgere il loro lavoro hanno bisogno di mantenere buone re-
lazioni con la polizia) avrebbero fatto passare tutto quello che
veniva detto in modo acritico, pubblicando di rado una smentita
se la notizia si rivelava poi falsa. In quegli anni ho spesso lavorato
nei collettivi che si occupavano della comunicazione con i me-
dia e posso testimoniare che gran parte di quel che facevamo era
ribattere a quella che chiamavamo «la bugia del giorno». Il pri-
mo giorno la polizia annunciava il sequestro di un camion pieno

86
di rettili velenosi che gli attivisti intendevano liberare nel centro
della città, per essere poi costretti ad ammettere che il camion
apparteneva a un negozio di animali e non aveva niente a che fare
con i manifestanti. Il secondo giorno la polizia dichiarava che gli
anarchici avevano gettato dell’acido in faccia a un loro agente,
così abbiamo cercato di capire cosa fosse realmente successo. La
storia è stata subito abbandonata, ma se mai qualcosa era arrivato
addosso a un poliziotto, era probabilmente semplice vernice rossa
lanciata contro un muro. Il terzo giorno la polizia ci accusava
di aver disseminato «bombe al ghiaccio secco» per tutta la città.
Per prima cosa abbiamo cercato di capire cosa mai fossero queste
«bombe al ghiaccio secco», e saltò fuori che la polizia aveva ri-
preso questa idea da un celebre «ricettario anarchico», l’Anarchist
Cookbook. Quel che è interessante in merito a quest’ultima vicen-
da, è che non divenne mai una notizia: ormai anche i giornalisti
si erano stufati di riportare le storie roboanti inventate dalle au-
torità. Ma il problema è che non era diventata una notizia nem-
meno il fatto che le prime due dichiarazioni dell’ufficio stampa
della polizia fossero false, insieme alle affermazioni sull’acido e gli
esplosivi rinvenuti nel laboratorio dei pupazzi o al fatto che il ca-
po della polizia mentisse intenzionalmente alla stampa. I media
non riportarono neanche la vera ragione delle proteste, ovvero
che gli attivisti cercavano di richiamare l’attenzione sul problema
delle carceri e del «complesso detentivo-industriale» che gli stava
dietro, una frase che abbiamo ripetuto all’infinito ma che non è
mai comparsa in alcun articolo (probabilmente perché era con-
trario all’etica del giornalismo permettere ad alcuni manifestanti
violenti di «sequestrare» i media per i loro scopi).
Nello stesso periodo sono cominciati a comparire resoconti
sempre più bizzarri su quel che era accaduto a Seattle. Durante le
proteste per il wto nessuno, neanche la polizia di Seattle, aveva
accusato gli anarchici di niente di più di qualche vetrina rotta:
era la fine di novembre del 1999. Nel marzo 2000, appena tre
mesi dopo, il «Boston Herald» riferiva che, in preparazione di un

87
convegno sulle biotecnologie, alcuni poliziotti di Seattle erano
arrivati a Boston per insegnare agli agenti della polizia locale co-
me affrontare le «tattiche di Seattle», volte ad attaccare la polizia
«con blocchi di cemento, armi ad aria compressa, fionde e grandi
pistole ad acqua riempite con candeggina e urina»15. A giugno,
la giornalista del «New York Times» Nichole Christian, a quanto
pare sulla base di fonti interne alla polizia di Detroit, scriveva che
i manifestanti di Seattle avevano «lanciato molotov, sassi ed escre-
menti contro delegati e poliziotti». In risposta a questo articolo
il Direct Action Network di New York aveva organizzato un pic-
chetto di fronte alla sede del «New York Times» e il giornale era
stato costretto a ritrattare, ammettendo che le autorità di Seattle
confermavano che nessun oggetto era stato lanciato contro esseri
umani16. Eppure, questo tipo di articoli diventavano la norma.
Anzi, ogni volta che veniva lanciata una nuova mobilitazione,
sui giornali locali appariva la solita lista di «tattiche di Seattle»
(che a quanto pare è stata riprodotta anche nei manuali di ad-
destramento dei poliziotti di pattuglia). Prima del Summit delle
Americhe del 2003, per esempio, le circolari distribuite agli uo-
mini d’affari del posto e ai gruppi civici elencavano le «tattiche di
Seattle» che bisognava aspettarsi di vedere in strada dopo la calata
degli anarchici:

Fionde da caccia: grandi fionde usate per scagliare bulloni o sfere di


acciaio: un’arma pericolosa e letale.
Bombe molotov: un fitto lancio era già avvenuto a Seattle e a
Québec City, producendo danni ingenti.
Piedi di porco: utilizzati per spaccare vetrine, automobili, ecc., ma
anche per rimuovere pietre dal marciapiede e lanciarle contro gli agenti
di polizia, com’era stato fatto ripetutamente a Seattle.
Pistole ad acqua: caricate con acido o urina17.

Tuttavia, secondo gli stessi resoconti della polizia locale, nes-


suna arma o tattica di questo genere è stata utilizzata a Seattle e

88
nessuno ha mai provato che siano state usate nelle mobilitazioni
successive che hanno avuto luogo negli Stati Uniti18. A Miami, il
risultato prevedibile è stato la chiusura e lo svuotamento di gran
parte del centro cittadino appena i primi manifestanti hanno co-
minciato a muoversi.
La manifestazione di Miami, la prima convocata nel nuovo
clima securitario seguito all’11 settembre, segna il picco di que-
sta strategia che combina una disinformazione aggressiva con gli
attacchi preventivi contro i manifestanti. Durante le azioni, il
capo della polizia – ancora una volta John Timoney – spinge i
suoi agenti a diffondere un’infinità di accuse contro gli attivisti,
come il lancio di sassi, di bottiglie, di contenitori pieni di urina
e feci contro gli agenti. Ma al solito, nonostante l’onnipresenza
delle telecamere e le centinaia di arresti, nessun giornalista è riu-
scito a produrre un’immagine in cui si vede un’azione del genere
e nessun attivista è mai stato incriminato e condannato per aver
aggredito un poliziotto con una di queste sostanze. Da parte sua,
la strategia della polizia consisteva per lo più in perquisizioni e
aggressioni preventive contro i manifestanti, ricorrendo all’ar-
senale completo delle vecchie e nuove armi «non letali» (taser,
spray urticanti, proiettili di plastica, di gomma, di legno, gas la-
crimogeni e così via) e con regole d’ingaggio che permettevano di
sparare contro chiunque.
Anche qui i pupazzi occupavano il centro della scena. Nei me-
si precedenti il Summit, il consiglio municipale di Miami aveva
tentato di far passare una legge che rendeva illegale l’utilizzo dei
pupazzi, sulla base del fatto che potevano essere usati per nascon-
dere bombe o altre armi19. Quel tentativo fallì perché era mani-
festamente anticostituzionale, ma il messaggio era arrivato. Così,
a Miami i Black Bloc hanno dedicato gran parte del loro tempo
e delle loro energie a proteggere i pupazzi. Anzi, questa manife-
stazione fornisce l’esempio più lampante dell’animosità che molti
poliziotti nutrono contro questi grandi simulacri di cartapesta.
Secondo un testimone oculare, dopo che la polizia è riuscita a

89
> La raffigurazione del Sole creata per le manifestazioni di protesta contro il Summit dell’Area
di Libero Commercio delle Americhe nel 2003. Tutti i pupazzi di Miami sono stati distrutti
dalla polizia.

respingere i manifestanti dalla Seaside Plaza, costringendoli ad


abbandonare i loro pupazzi, nella mezz’ora successiva gli agen-
ti hanno passato il loro tempo a distruggere sistematicamente i
pupazzi, colpendoli, prendendoli a calci e facendoli a pezzi. Un
poliziotto è arrivato al punto di caricare un pupazzo sull’auto
di servizio con la testa che usciva dal finestrino e poi guidare in
modo da spappolarla contro i cartelli stradali e i paletti che deli-
mitavano la carreggiata.

Radunare le truppe

L’esempio di Boston è particolarmente significativo perché


prova come alcuni elementi della polizia di Seattle abbiano adde-
strato altri poliziotti a rispondere a tattiche violente che secondo
i portavoce della stessa polizia di Seattle non sono state utilizzate.

90
Anche se è difficile capire cosa ci sia dietro o chi siano davvero
queste «fonti d’intelligence della polizia» continuamente citate (si
entra qui in una zona grigia in cui le informazioni sono raccolte,
incrociate e scambiate tra le varie forze di sicurezza pubbliche
e private, talvolta collegate agli stessi think tanks conservatori,
attivando modalità circolari che rinforzano quelle informazioni
tanto che alla fine nessuno è più sicuro di cosa sia vero e cosa
sia falso), è però facile rendersi conto che una delle principali
preoccupazioni subito dopo Seattle sia stata quella di garantire
l’affidabilità delle truppe. A Seattle, i funzionari hanno scoperto
che gli agenti si considerano i guardiani della sicurezza pubblica e
che proprio per questo sono apparsi poco risoluti, o quanto me-
no titubanti, quando è stato loro ordinato di caricare un gruppo
di ragazzine sedicenni (bianche) che manifestavano in modo non
violento. Tutto sommato, si trattava proprio del tipo di persone
che in genere suppongono di dover proteggere e dunque quelle
immagini non potevano non colpire direttamente la sensibilità
del poliziotto di strada.
Questo spiegherebbe l’enfasi particolare sui fluidi corporei: le
pistole a spruzzo piene di candeggina e urina o i pretesi lanci di
escrementi contro gli agenti. In realtà si tratta di un’ossessione
poliziesca che non ha niente a che fare con la sensibilità anarchi-
ca. Quando ho chiesto agli attivisti quale fosse l’origine di que-
ste fandonie, molti hanno ammesso di non averne alcuna idea.
C’è chi ha suggerito che forse, nella difesa di un centro sociale
occupato messo sotto assedio dalla polizia, un secchio pieno di
deiezioni è l’unica arma disponibile da poter scagliare, ma nes-
suno ha mai sentito o visto qualcuno trasportare escrementi in
una manifestazione per lanciarli contro la polizia, né si spiegano
perché qualcuno lo vorrebbe fare. C’è chi ha sottolineato che un
mattone probabilmente non ferirà un agente in assetto antisom-
mossa, però lo rallenterà. Ma che senso avrebbe lanciargli contro
dell’urina? Tuttavia, immagini del genere riemergono ogni volta
che la polizia cerca di giustificare un attacco preventivo contro i

91
dimostranti. A volte nelle conferenze stampa la polizia arriva a
mostrare sacchetti di escrementi e barattoli pieni di urina che a
sentir loro avrebbero scoperto negli zaini o nei centri operativi
degli attivisti20. Sono dichiarazioni che hanno senso solo all’in-
terno di quella particolare visione dell’onore tipica delle istituzio-
ni che, come la polizia, operano in base a un ethos militare. Agli
occhi degli agenti, la giustificazione che più legittima il ricorso
alla violenza è la salvaguardia della dignità personale. Coprire una
persona di escrementi e urina è il più grave sfregio all’onore che
possano concepire. Qui c’è un chiaro rimando a quella immagine
degli anni Sessanta che vedeva i contestatori dell’epoca pronti a
«sputare sui soldati in uniforme» di ritorno dal Vietnam: questa
immagine, il cui effetto mitico continua fino ai nostri giorni (e
non solo nei circoli di destra), è ancora ben vivida nonostante il
fatto che ci siano scarse prove sulla sua veridicità21. È come se
qualcuno avesse pensato: se sputare contro un’uniforme è già un
insulto, cosa può esserci di peggio?
Che in tutto questo ci sia stata una qualche forma di coordi-
namento si può dedurre dal fatto che al tempo delle Convention
dei democratici e dei repubblicani, nell’estate del 2000, i sindaci
e i capi della polizia di tutta l’America cominciarono a dichiara-
re con regolarità, spesso in termini sorprendentemente simili (e
senza uno straccio di prova), che gli anarchici sono in realtà un
mucchio di figli-di-papà che si coprono il volto mentre rompono
le vetrine per non farsi riconoscere in televisione dai loro ricchi
genitori. Questa accusa fu ben presto ripresa come un’ovvia ve-
rità dai conduttori dei talk show conservatori e dagli esperti di
sicurezza di tutta l’America22. Il palese messaggio lanciato agli
agenti di strada era: «Smettetela di pensare che la vostra missio-
ne sia quella di proteggere una banda di banchieri e politici che
vi disprezzano da manifestanti di cui magari condividete le idee
sull’economia. Piuttosto, approfittate di questa possibilità per pe-
stare i figli di quei banchieri e di quei politici». In un certo senso,
si potrebbe dire che il messaggio era perfettamente calibrato per il

92
livello di repressione richiesto, dal momento che si lasciava inten-
dere che l’uso della forza era appropriato, ma non fino al punto
di ammazzare qualcuno: ammazzare o mutilare un manifestante,
con il rischio che fosse il figlio o la figlia di un senatore o di un
amministratore delegato, avrebbe probabilmente provocato uno
scandalo.
Uno degli allarmi regolarmente lanciati dalla polizia è che i
pupazzi potrebbero essere usati per nascondere armi o esplosivi23.
Se intervistati sul loro atteggiamento verso i pupazzi, questa è la
risposta tipica, che tuttavia non basta a spiegare le vette di astio
vendicativo viste a Miami o in altre azioni (che tra l’altro provano
come la polizia sia ben consapevole che non c’è niente di esplo-
sivo nascosto lì dentro, altrimenti non li farebbero a pezzi con
tanta furia). Questa antipatia sembra avere ragioni più profonde
e molti attivisti hanno avanzato delle ipotesi al proposito:

L’opinione di David Corston-Knowles


Bisogna tenere a mente che queste persone sono addestrate a essere
paranoiche. Devono veramente chiedersi se un oggetto tanto grande,
non ispezionabile, possa contenere esplosivi, anche se questa idea può
sembrare assurda agli occhi di un manifestante non violento. Il po-
liziotto pensa che il suo lavoro non sia solo quello di far rispettare la
legge, ma anche di mantenere l’ordine. E questo lavoro lo prende sul
serio: le grandi manifestazioni e i mega-pupazzi non sono ordinati,
servono a creare qualcosa – una società diversa, un modo diverso di
vedere le cose – e la creatività è l’antitesi dello status quo.

L’opinione di Daniel Lang


Be’, circola questa teoria: ai poliziotti non piace trovarsi di fronte a
uno spettacolo più imponente del loro. In fondo, di norma lo spettaco-
lo sono loro: con le tenute antisommossa, gli elicotteri, i cavalli e le file
di motociclette lucide. Quindi forse si scocciano se qualcuno gli ruba
la scena con qualcosa di più spettacolare, qualcosa che colpisce di più
visivamente. Vogliono battere i concorrenti.

93
L’opinione di Yvonne Liu
È perché sono tanto grandi e ai poliziotti non piace qualunque cosa
li sovrasti. Per questo vogliono andare a cavallo. E poi i pupazzi sono
buffi, strambi e rotondi. Hai mai fatto caso a quanto i poliziotti ami-
no le linee rette? Stanno sempre schierati in fila, ti vogliono costrin-
gere a stare in fila… credo che trovino scandalose le cose irregolari e
rotonde.

L’opinione di Max Uhlenbeck


Li odiano perché guardandoli si ricordano di come anche loro siano
dei pupazzi.

Tornerò a breve su questa questione.

Analisi I: il principio hollywoodiano dei film

Per le forze di sicurezza, radunare le truppe è stata probabil-


mente la cosa più facile da fare. Il problema vero era come affron-
tare il fatto che una buona fetta dell’opinione pubblica americana
si rifiutasse di considerare il movimento per una giustizia globale
come una minaccia. L’unico sondaggio sul tema di cui ho notizia
(condotto da Zogby America tra gli spettatori televisivi all’epo-
ca della Convention repubblicana del 2000) appurò che circa un
terzo degli intervistati si dichiarava «orgoglioso» quando vedeva
le proteste in televisione e che meno del 16 percento aveva una
reazione negativa non meglio qualificata24. Colpisce il fatto che
il campione fosse costituito da spettatori televisivi, dal momento
che la copertura televisiva degli eventi durante la Convention era
estremamente negativa verso i manifestanti e trattava le proteste
come una minaccia alla sicurezza.
C’è una spiegazione semplice che chiamerei «il principio hol-
lywoodiano dei film». Gran parte degli americani, quando vede
uno scontro drammatico in televisione, si chiede: «Se questo fos-

94
> Una tipica immagine delle forze di polizia durante le proteste di Seattle nel novembre 1999.

se un film di Hollywood, chi sarebbero i buoni?». Di fronte a una


sfida tra un gruppo di giovani idealisti che non fanno male a nes-
suno e un gruppo di poliziotti in assetto antisommossa schierati
in difesa dei tecno-burocrati, la risposta è ovvia. Singoli poliziotti
fuori dagli schemi possono anche diventare degli eroi, ma i poli-
ziotti antisommossa non lo diventeranno mai. In effetti, nei film
di Hollywood i poliziotti antisommossa non compaiono. Chi più
li ricorda sono le truppe d’assalto imperiali di Guerre stellari, che
con il loro leader Darth Fener incarnano nella cultura popolare
americana uno dei più noti archetipi del male. Il punto non è
sfuggito agli anarchici, che da alcuni anni a questa parte trasmet-
tono dai loro altoparlanti la marcia delle truppe d’assalto impe-
riali quando le unità antisommossa cominciano ad avanzare.
A questo punto, il problema per le forze dell’ordine è diven-
tato: come fare a invertire questa percezione? Come mettere i
manifestanti nei panni dei cattivi?

95
Subito dopo Seattle l’attenzione è stata portata sulle vetrine
rotte. Come abbiamo visto, questa immagine ha avuto una sua
utilità, ma per sostenere la necessità di misure più drastiche, i
danni materiali alla proprietà privata non sono stati sufficienti.
Cosa prevedibile, nei termini della mia analisi: infatti, nell’eco-
nomia morale di Hollywood, la distruzione della proprietà priva-
ta è un peccato veniale. Anzi, la popolarità di film come Termi-
nator, Arma letale o Die Hard dimostra come molti americani ap-
prezzino la distruzione della proprietà privata. Se non provassero
una gioia nascosta all’idea che qualcuno faccia a pezzi la filiale
della loro banca o il McDonald’s all’angolo (per non parlare delle
auto della polizia, dei centri commerciali e delle mega-macchine
edili), sarebbe difficile spiegarsi perché siano disposti a pagare re-
golarmente il biglietto per guardare un’infinità di volte i loro eroi
idealisti distruggere tutto questo, ma facendo sempre in modo –
grazie alla magia del cinema, ma anche grazie ai metodi dei Black
Bloc – che gli innocenti passanti rimangano incolumi. È dunque
molto verosimile che un gran numero di americani abbia, prima
o poi, accarezzato la fantasia di fare a pezzi la propria banca. Nella
terra dei demolition derby e dei monster trucks, si potrebbe dire
che i Black Bloc anarchici abbiano portato alla luce un risvolto
nascosto del sogno americano.
Ovviamente sono solo fantasie. Molti americani della classe la-
voratrice non approvano apertamente che si distruggano le vetrine
di uno Starbucks, anche se, al contrario dei ceti intellettuali, non
considerano queste azioni una minaccia per la nazione, né tanto
meno qualcosa che richieda una repressione in stile militare.

Analisi II : la distruzione creativa e la privatizzazione del


desiderio

Si potrebbe arrivare ad affermare che i Black Bloc siano gli


ultimi eredi di una tradizione artistico-rivoluzionaria che passa

96
per i dadaisti, i surrealisti e i situazionisti (molto presenti, que-
sti ultimi, nelle librerie anarchiche), una tradizione che cerca di
mettere il capitalismo di fronte alle sue contraddizioni per rivol-
gergli contro le sue stesse forze distruttive. Le società capitaliste
(quella americana in particolare) sono essenzialmente società pot-
latch, ovvero società costruite attorno a una distruzione spettaco-
lare di beni di consumo25. Le fondamenta sulle quali poggiano
rimandano a ciò che viene definito «economia», che a sua volta
rimanda al nesso tra «produzione» e «consumo», in base al quale
nuovi prodotti vengono continuamente vomitati per poi essere
continuamente distrutti. Tutto si fonda sull’infinita espansione
della produzione industriale, il principio contro cui si scagliano
con veemenza i Black Bloc anarchici, quasi tutti anticapitalisti
e con una forte coscienza ecologica. Ma un meccanismo come
quello descritto comporta anche il rischio di inculcare una pas-
sione molto particolare: il desiderio di distruggere, di fare a pezzi
la proprietà privata, che può facilmente diventare il piacere di fa-
re a pezzi anche le strutture relazionali che rendono il capitalismo
possibile. È in definitiva un sistema che può rinnovarsi solo col-
tivando il piacere segreto di prospettare la propria distruzione26.
In realtà, si potrebbe sostenere l’esistenza di due diverse cor-
renti nel pensiero artistico-rivoluzionario del ventesimo secolo,
entrambe rimaste imbrigliate nell’immagine ambivalente del pot-
latch. Negli anni Trenta del Novecento, per esempio, Georges Ba-
taille rimase affascinato dalla descrizione di Marcel Mauss della
spettacolare distruzione di beni che aveva luogo nei potlatch dei
Kwakiutl, che in seguito sarebbe diventata la base della sua teoria
della dépense, del dispendio, ovvero della creazione di significati
attraverso la distruzione, che a suo dire stava venendo meno nel
moderno capitalismo (e su questo punto si potrebbe ironizzare
a lungo). Tuttavia, quello su cui Bataille e altri autori dopo di
lui si sono concentrati non era il potlatch vero e proprio ma un
ridotto numero di potlatch inusuali che avevano avuto luogo alla
fine del xix secolo, in un momento segnato dal rapido declino

97
della popolazione Kwakiutl e da un piccolo boom economico che
aveva inondato la regione con una quantità di beni di consumo
senza precedenti. I potlatch generalmente non implicavano affat-
to la distruzione di beni di consumo: erano solo il modo in cui i
membri più ricchi redistribuivano una parte della loro ricchezza
alla comunità. In altre parole, se l’immagine degli indiani che
danno fuoco a migliaia di coperte e ad altri beni risulta di forte
impatto, non è perché rappresenta una verità fondamentale sul-
la società umana che il capitalismo consumista ha dimenticato,
ma perché riflette la verità ultima di quello stesso capitalismo.
Nel 1937 Bataille, assieme a Roger Callois, fondava un gruppo
chiamato Collegio di sociologia, che avrebbe approfondito le sue
intuizioni fino ad arrivare a una teoria generale della festa, in cui
si sosteneva che una vera azione rivoluzionaria è possibile solo
rivendicando il principio del sacro e il potere del mito incarnato
nelle feste popolari. Idee simili sono state sviluppate negli anni
Cinquanta da Henri Lefebvre e dal gruppo dell’Internazionale
Lettrista, il cui giornale, curato da Guy Debord, si chiamava ap-
punto «Potlatch»27. C’è qui ovviamente una linea diretta che par-
te dai situazionisti, per i quali l’arte è una forma di azione diretta
rivoluzionaria, e che arriva al movimento punk e all’anarchismo
contemporaneo.
Se i Black Bloc incarnano una delle due tradizioni, ovvero la
fascinazione per la distruzione consumista incoraggiata dal capi-
talismo che può, in ultima analisi, essergli ritorta contro, i pupaz-
zi rappresentano sicuramente l’altra, ovvero il recupero del sacro
e di un’esperienza non alienata della festa collettiva. Chi oggi, nei
movimenti radicali, costruisce questi pupazzi è ben consapevole
che la sua arte risale fino ai giganti e ai draghi, ai Gargantua e ai
Pantagruel delle feste medievali. Anche chi non ha letto François
Rabelais o Michail Bachtin conosce verosimilmente la nozione
di «carnevalesco»28. I raduni del movimento sono spesso descritti
come «carnevali anticapitalisti» o «feste resistenti». Il riferimen-
to di base sembra il mondo tardomedievale che ha preceduto

98
l’avvento del capitalismo, in particolare il periodo successivo al-
la Peste nera, quando l’improvviso calo demografico ha messo
nelle mani delle classi lavoratrici una quantità di denaro senza
precedenti. In gran parte quel denaro è finito in feste popolari
di ogni sorta, che si sono moltiplicate fino a occupare molte date
del calendario annuale. Oggi li avremmo chiamati «momenti di
consumo collettivo», celebrazioni della carnalità, dei piaceri tur-
bolenti, e taciti attacchi – se dobbiamo credere a Bachtin – del
principio stesso di gerarchia. Si potrebbe sostenere che la prima
fase del capitalismo, quella «puritana», come viene talvolta de-
scritta, sia cominciata con un assalto concertato a questo mondo,
condannato dai proprietari terrieri in ascesa e dai nuovi capi-
talisti come pagano, immorale e deleterio per la disciplina del
lavoro. Ovviamente, un movimento che aspirava a bandire ogni
momento di festività pubblica non poteva durare a lungo: il re-
gno di Cromwell in Inghilterra è vituperato ancora oggi per aver
dichiarato illegale il Natale. Ma ancora più importante è il fatto
che il capitalismo delle origini, una volta eliminate le occasioni
di consumo festivo e collettivo, dovette risolvere il problema di
come vendere i suoi prodotti, alla luce del bisogno di espandere
continuamente la produzione. Il risultato finale è quello che mi
piace chiamare un processo di privatizzazione del desiderio, la
creazione di forme di consumo assolutamente individuali, o fa-
miliari, e semi-furtive, nessuna delle quali, come ci viene sempre
ricordato, deve soddisfare pienamente, altrimenti l’intera logica
dell’espansione incessante smette di funzionare. Se è alquanto
difficile pensare che gli strateghi della polizia siano a conoscenza
di queste dinamiche, l’esistenza stessa della polizia rimanda però
a una cosmologia politica che considera disordinate le forme di
consumo collettivo, sempre suscettibili, come i carnevali medie-
vali, di trasformarsi in insurrezioni violente. «Ordine» significa
che i cittadini devono starsene a casa a guardare la televisione29.
Per la polizia, dunque, quello che i rivoluzionari considerano
l’eruzione del sacro attraverso una rinata festività popolare, non è

99
altro che «un assembramento disordinato», ovvero una di quelle
occorrenze che sono programmati a disperdere. Tuttavia, poiché
questa idea della festa come minaccia non sembrava far presa su
vasti settori del pubblico televisivo, la polizia è stata costretta a
cambiare la sceneggiatura. E abbiamo così assistito a una guerra
simbolica attentamente programmata, con la quale si è cercato di
eliminare le immagini fluttuanti dei pupazzi colorati, sostituendole
con quelle delle bombe e dell’acido cloridrico: le sostanze che, nelle
fantasie dei poliziotti, si celano sotto lo strato di cartapesta.

Analisi III: le leggi di guerra

Per capire fino in fondo il ruolo dei mega-pupazzi, bisogna


affrontare anche la questione delle regole d’ingaggio. Ho già toc-
cato indirettamente questo argomento quando ho suggerito che
i politici, affermando che i manifestanti erano figli-di-papà ricchi
e viziati, hanno lasciato intendere ai poliziotti che potevano usa-
re metodi brutali, senza però ammazzare o menomare nessuno,
e che dunque le tattiche messe in campo dovevano attenersi a
questa indicazione. Da una prospettiva etnografica, una delle co-
se più interessanti a proposito dell’azione diretta è comprendere
come si negoziano in pratica le regole. È ovvio che delle regole
esistono: ci sono linee che la polizia non può oltrepassare senza
rischiare uno scandalo e ci sono infinite linee che è meglio per
gli attivisti non oltrepassare. In ognuna delle due parti si agisce
come se il singolo fosse impegnato in un gioco le cui regole sem-
brano essere state elaborate da processi decisionali propri, senza
consultarsi con gli altri giocatori. Ma alla fine le cose non stanno
così. Ho cominciato a riflettere su queste faccende durante la
Convention repubblicana a Filadelfia nell’estate del 2000. Avevo
lavorato soprattutto nel gruppo che si occupava di comunicazio-
ne, ma il giorno dell’azione il mio compito era quello di girare
per le strade e prendere appunti su cosa stava accadendo. Mi sono

100
ritrovato ad accompagnare una colonna di Black Bloc che doveva
fare un’azione diversiva per allontanare i poliziotti da un blocco
stradale e portarli verso un’altra parte della città. Ma la polizia
non ha abboccato e in breve il Bloc si è ritrovato a girare in tondo
nel centro di Filadelfia.

Appunti dal mio diario di strada, 1 agosto 2000


… davanti a una colonna di settecento anarchici, in rapido movi-
mento, sbucati fuori dal nulla, piccole squadre di poliziotti abbando-
nano le loro auto, che poi gli anarchici coprono di scritte con la vernice
spray o fanno a pezzi. In un’ora sono colpite un paio di dozzine di auto
della polizia, una lunga limousine e numerosi edifici istituzionali. Alla
fine arrivano di rinforzo alcune unità di poliziotti in bicicletta e in bre-
ve le forze in campo si equivalgono. A questo punto, quel che segue si
può descrivere come un episodio di guerra non violenta. Alcuni ragazzi
del Black Bloc tentano di bloccare un bus trafficando con le valvole
poste sul retro, ma una squadra di poliziotti in bicicletta li atterra e li
ammanetta, disponendo le loro biciclette a formare una piccola for-
tezza dentro cui tenerli prigionieri. Un folto gruppo di manifestanti
spunta da un’altra direzione e i poliziotti si ritrovano assediati nel lo-
ro ciclo-fortino, circondati da Black Bloc che urlano insulti, lanciano
contenitori pieni di vernice, fanno tutto quel che si può tranne attac-
carli fisicamente. In questo caso il Bloc non è così forte da poter libera-
re i compagni arrestati prima dell’arrivo dei rinforzi; girano però voci
di casi in cui il «dis-arresto» è riuscito. In questa occasione la polizia ha
almeno un «ferito»: un poliziotto grasso, travolto dalla tensione e dal
caldo, sviene e deve essere allontanato e rianimato con i sali.
Appare evidente che entrambe le parti hanno regole d’ingaggio ben
precise. Gli attivisti tendono a definire in anticipo i principi ai qua-
li attenersi. Ci sono sicuramente differenze tra chi adotta le classiche
regole non violente della disobbedienza civile e gli anarchici più mili-
tanti fra i quali mi trovo adesso, ma tutti concordano sulla necessità
di non aggredire direttamente gli esseri umani e di non danneggiare
la proprietà privata personale o gli esercizi a conduzione familiare. Da

101
parte sua, la polizia può invece aggredire i manifestanti quando lo ri-
tiene necessario, ma almeno in questa occasione sembra consapevole
di doversi comportare in modo che nessuno venga ammazzato e che
solo una sparuta minoranza finisca in ospedale, cosa che, in assenza di
un addestramento specifico e di tecnologie appropriate, richiede una
notevole dose di controllo.
Queste regole di base sono state applicate dappertutto, anche se le
situazioni sono state estremamente mutevoli nel corso della giornata:
se gli scontri con i Black Bloc sono stati intensi e pieni di rabbia, talu-
ne aree della protesta sono state scosse solo dal suono dei tamburi che
accompagna i rituali e le danze pagane, e altre infine hanno inscenato
un chiassoso e grottesco carnevale. La colonna di Black Bloc che stavo
accompagnando alla fine si è unita con altri manifestanti, occupan-
do insieme il centro della città. L’ufficio del Procuratore distrettuale
è stato completamente ricoperto di vernice e molte auto della polizia
sono state distrutte. Tutto è avvenuto velocemente, ma nel frattempo
sempre più unità di poliziotti in bicicletta hanno cominciato a seguirci
da vicino, minacciando di dividere il Bloc e di isolare gruppi più pic-
coli per poterli poi arrestare. Così, ci siamo messi a correre sempre più
veloci, rimbalzando tra vicoli e parcheggi.
Alla fine il gruppo più numeroso è arrivato in una piazza dove si
teneva una manifestazione autorizzata: un posto ritenuto sicuro, quin-
di. Ma le cose non sono andate così. In breve gli agenti antisommossa
hanno circondato la piazza bloccandone ogni uscita, mostrando l’in-
tenzione di voler eseguire arresti di massa. Sono cose che in genere
si riducono a una questione di numeri: per fare un arresto di massa,
servono due agenti sul campo per ogni manifestante da arrestare, o an-
che tre se le vittime provano a resistere e sanno come comportarsi (per
esempio, incrociando le braccia e stringendosi in una fila compatta). In
una situazione del genere si può presumere che i ragazzi del Black Bloc
sappiano esattamente cosa fare; gli altri, che pensavano di partecipare
a un evento sicuro, sono invece del tutto impreparati, anche se possono
comunque guardarsi intorno per capire come muoversi. Ma di fatto
sono intrappolati, non hanno modo di ricevere aiuto dall’esterno e la

102
polizia continua ad arrestarne un gran numero. C’è tensione nell’aria.
Gli attivisti che fino a quel momento si stavano occupando di carcere
e del «complesso detentivo-industriale» si aggirano disorientati attorno
a un enorme cartellone, mentre il Black Bloc, ridotto ora a duecen-
to persone con cappucci neri e maschere antigas, si ricompatta in un
mini-consiglio e poi si raccoglie di fronte ai cordoni della polizia in due
distinti punti della piazza, cercando una breccia nelle loro linee (di solito
ci sono quando cominciano a schierarsi). Ma non serve.
Rimango nella piazza e scambio qualche battuta con un ami-
co, Brad, che si lamenta di aver perso lo zaino, con tutte le sue cose,
durante un attacco della polizia al laboratorio dei pupazzi, avvenuto
quella stessa mattina. Ci mangiamo una mela (nessuno di noi ha an-
cora mangiato) e guardiamo quattro artisti di strada in bicicletta, che
indossano enormi teste di capra in cartapesta e innalzano cartelli con
su scritto «capre con diritto di voto». Le «capre» fanno uno slalom tra
le fila della polizia cantando un brano acapella rap. «Vedi cosa puoi
fare con i pupazzi?», mi dice ridendo Brad. «Nessun altro riuscirebbe
a farla franca».
Le «capre» sono solo l’avanguardia. Dieci minuti dopo parte
l’«attacco dei pupazzi», che in questo caso non sono veri pupazzi (tutti
distrutti nel raid mattutino contro il laboratorio, durante il quale sono
stati arrestati anche i musicisti). Si tratta del Revolutionary Anarchist
Clown Bloc, guidato da due tipi su bici gigantesche, che al suono di
pifferi e trombette distribuisce confetti e stelle filanti. Al loro fianco
si schierano i «Milionari per Bush (o Gore)», vestiti in smoking e abiti
da sera. In tutto saranno trenta o quaranta, ma riescono a cambiare
l’atmosfera generale, rendendo tutto più caotico. I Milionari comin-
ciano a distribuire banconote false alla polizia («come forma di ringra-
ziamento per aver soppresso il dissenso»), e allora i clown iniziano a
picchiare i Milionari con rumorosi martellini di gomma. A quel punto
arrivano anche i monocicli e i mangiafuoco. Nella confusione che se-
gue, si creano delle fratture tra le fila dei poliziotti e la gente in piazza
ne approfitta per incunearsi e uscire dall’assedio, verso la salvezza, con
il Black Bloc davanti a tutti.

103
Soffermiamoci un istante su questa idea di guerra non violenta.
Si potrebbe sostenere che qui non ci sia nulla di metaforico. A
dispetto di Clausewitz, la guerra non è mai stata una semplice
prova di forze priva di regole. Quasi tutti i conflitti armati hanno
visto la presenza di accordi complessi e dettagliati tra le parti in
lotta. Quando avviene una guerra totale, priva di regole, colui
che la perpetra, che sia Attila o Cortés, rimane indelebilmente
impresso nella memoria storica anche per mille anni. Ci sono
sempre delle regole. Come osserva lo storico militare israeliano
Martin Van Creveld, in ogni conflitto armato devono di norma
esserci regole accettate dalle parti nei seguenti casi:

– per concordare tregue e intavolare negoziati (per esempio garanten-


do l’inviolabilità dei negoziatori);
– per trattare la resa e la gestione dei prigionieri;
– per identificare i non combattenti e determinare le loro prerogative
(per esempio, il personale medico);
– per stabilire quali siano i tipi e i livelli di forza consentiti tra com-
battenti, ovvero quali siano le armi e le tattiche disonorevoli o ille-
gittime (per esempio, né Hitler né Stalin hanno cercato di assassi-
narsi a vicenda o hanno fatto ricorso ad armi chimiche) 30.

Secondo Van Creveld, queste regole sono necessarie per un


uso efficace della forza. Infatti, per far funzionare un esercito, bi-
sogna non solo tenere vivo un certo senso dell’onore e della disci-
plina, ma anche poter continuare a pensare di essere «i buoni». In
altre parole, senza regole sarebbe impossibile mantenere un com-
portamento morale e una struttura di comando. Un esercito che
non obbedisce alle regole degenera in una banda di predoni, e di
fronte a un vero esercito una banda di predoni è sconfitta. Van
Creveld sostiene che ci sono altre ragioni che rendono necessarie
delle regole, per esempio il fatto che la violenza è così terrificante
che gli esseri umani la circondano immediatamente di regole. Ma
una delle cose più interessanti, che fa capire quanto il campo di

104
battaglia sia un’estensione del campo della politica, è il fatto che
senza regole non si capisce chi ha vinto, dato che in ultima analisi
su questo punto serve il consenso di entrambe le parti.
Torniamo adesso al caso della polizia. Sicuramente i poliziotti
si considerano una sorta di soldati. Ma pur combattendo una
guerra («la guerra contro il crimine»), sanno di essere coinvolti
in un conflitto in cui la vittoria è, per definizione, impossibile.
Quali sono dunque le conseguenze di questo ragionamento
sulle regole d’ingaggio? In parte la risposta è scontata. Quando si
tratta di usare la forza – quali tipi di armi e tattiche usare a seconda
delle circostanze – la polizia opera sotto vincoli molto più severi
dell’esercito. Alcuni di questi vincoli rimangono sottintesi, altri
sono legali ed espliciti. Indubbiamente, ogni volta che un poliziot-
to spara deve esserci un’indagine, ed è appunto questo il motivo
per cui esiste una serie infinita di armi «non letali» (taser, proiettili
di gomma, spray urticanti e via dicendo) usate per controllare gli
assembramenti, armi che non sottostanno agli stessi vincoli. Ma
in parte, quando la polizia conduce un’azione in cui non si ritiene
necessario l’uso letale della forza e in cui non è implicato l’even-
tuale arresto di un sospetto, non esistono quasi limiti a quello che
può fare (almeno limiti che si possano far rispettare)31.
Se dunque nelle categorie segnalate da Van Creveld ci sono
infiniti vincoli, chiunque sia stato coinvolto nei movimenti di
azione diretta può testimoniare che in tutti gli altri campi la poli-
zia viola sistematicamente le supposte regole, anzi ricorre regolar-
mente a pratiche che in guerra sarebbero considerate scandalose
e disonorevoli. La polizia arresta regolarmente i mediatori. Se i
membri di un gruppo di affinità occupano un edificio, e qualcu-
no non entra nell’edificio ma fa da intermediario con la polizia,
può accadere che l’intermediario sia l’unico a essere arrestato. Se
si negozia un accordo, quasi sempre la polizia lo disattende. La
polizia spesso attacca o arresta le persone a cui promette un sal-
vacondotto e regolarmente coinvolge il personale sanitario negli
scontri. Se chi compie un’azione in una parte della città prova a

105
creare una «zona verde», sicura, in un’altra parte della città, cioè
prova a delimitare un’area in cui tutti sono d’accordo a non pro-
vocare le autorità e a non infrangere la legge, in modo da distin-
guere tra combattenti e non combattenti, la polizia sicuramente
attaccherà questa «zona verde». Perché? Le ragioni sono tante. Al-
cune sono banalmente pragmatiche: non devi trovare un accordo
su come trattare i prigionieri se tu puoi arrestare i manifestanti,
ma i manifestanti non possono arrestare te. In senso più ampio,
un comportamento del genere implica il rifiuto di ogni idea di
equivalenza, che invece varrebbe se due eserciti si fronteggiasse-
ro in una guerra convenzionale. Invece la polizia rappresenta lo
Stato e lo Stato ha il monopolio dell’uso della violenza all’interno
dei propri confini. Pertanto, in quel territorio la polizia è per
definizione incommensurabile con gli altri cittadini.
Questo è essenziale per comprendere la natura della polizia. Al-
cuni studi di sociologia sostengono che un poliziotto dedica solo
il 6 percento del suo tempo a quello che può essere considerato,
anche alla lontana, «lotta al crimine». I poliziotti non sono altro
che un gruppo di burocrati governativi di basso profilo, armati e
addestrati ad applicare la forza fisica per contribuire alla risoluzio-
ne di problemi amministrativi. Sono burocrati con la pistola sia
quando si occupano di bambini smarriti, sia quando si occupano
di ubriachi rissosi o di concerti non autorizzati nei parchi pubblici:
il solo elemento comune in tutte queste situazioni è la possibilità
di imporre «soluzioni non negoziabili sostenute dall’uso potenziale
della forza»32. Il termine chiave credo sia «non negoziabile». La
polizia non negozia, almeno sulle questioni importanti, perché ne-
goziare implica un’equivalenza. E quando è obbligata a negoziare,
in genere poi non rispetta l’impegno preso33.
In altre parole, la polizia si trova in una situazione paradossale.
Il suo lavoro incarna il monopolio della forza coercitiva da par-
te dello Stato, eppure nell’applicare quella forza la sua libertà è
molto limitata. Rifiutandosi di considerare la controparte un av-
versario degno di rispetto (e pertanto un proprio pari), i rappre-

106
sentanti dello Stato si attengono al principio dell’assoluta incom-
mensurabilità, che per definizione devono mantenere. Per questo
i risultati sono catastrofici quando vengono rimosse le restrizioni
sull’uso della forza da parte della polizia. E non è un caso se ogni
volta che una guerra viola le regole, infliggendo terribili atrocità
ai civili, viene invariabilmente definita «un’azione di polizia».
È ovvio che niente di tutto questo risponde veramente alla do-
manda su come siano negoziate le regole d’ingaggio, ma almeno
contribuisce a chiarire perché la negoziazione non si può fare di-
rettamente nel corso delle azioni. Questo sembra particolarmen-
te vero negli Stati Uniti: in altri paesi, dall’Italia al Madagascar,
le regole della resistenza civile possono essere elaborate piuttosto
esplicitamente e le manifestazioni di protesta finiscono per essere
una sorta di gioco in cui le regole sono chiaramente comprese
da entrambe le parti. Un buon esempio sono le tattiche adottate
dalle «tute bianche» italiane tra il 1999 e il 2001: i manifestanti
si coprivano con strati di imbottiture spugnose e camere d’aria
gonfiate e si lanciavano contro gli sbarramenti, impegnandosi al
tempo stesso a non aggredire fisicamente nessun essere umano.
Come mi hanno detto i dimostranti, le regole erano in gran parte
negoziate in anticipo: «Pestateci quanto vi pare fin tanto che col-
pite l’imbottitura; noi non picchieremo ma cercheremo di scaval-
care gli sbarramenti. Vediamo chi vince!». In effetti, la situazione
era tale che una negoziazione era diventata inevitabile, ma prima
degli incontri del G8 a Genova, il governo italiano aveva optato
per una politica di repressione violenta, tanto che aveva chiesto
la consulenza della polizia di Los Angeles per addestrare le forze
italiane a non interagire con i manifestanti, di modo che nessuna
delle due parti si umanizzasse agli occhi dell’altra34. Negli Stati
Uniti, infatti, la polizia si oppone per principio a queste negozia-
zioni (tranne i casi in cui gli stessi manifestanti cerchino di farsi
arrestare, provando a negoziare i termini dell’arresto).
È però ovvio che, a un qualche livello, le negoziazioni devono
avere luogo. O meglio, qualunque sia questo livello, lì c’è il pote-

107
re, dal momento che, come avviene in politica, il vero potere non
è vincere in una data situazione, ma definirne le regole e fissarne
i paletti; non è vincere una disputa, ma determinare l’oggetto del
contendere. È chiaro che il potere non sta tutto da una parte.
Potremmo sostenere che anni di lotta politica e morale hanno
creato una situazione in cui la polizia, di norma, deve accetta-
re forti restrizioni nell’uso della forza. Questo è ovviamente più
vero quando si ha a che fare con persone definite «bianche», ma
di fatto esiste un limite reale alla loro capacità di reprimere il dis-
senso. Il problema per chi agisce in base al principio dell’azione
diretta è che queste regole d’ingaggio (soprattutto riguardo l’uso
della forza) sono in continua rinegoziazione, ma all’interno di
istituzioni verso cui gli anarchici nutrono, per principio, forti
riserve. In genere, si ricorre a parole come «diritto» e «brutalità
poliziesca», per sostenere le proprie ragioni, nelle aule di tribu-
nale, magari con il supporto di politici aperti e di organizzazioni
liberal, ma in realtà bisogna dare battaglia «nel tribunale dell’opi-
nione pubblica». Questo significa usare i media ufficiali, perché
il pubblico in questo caso è un po’ più vasto dei propri simpa-
tizzanti. E ovviamente, il fatto stesso che gli esseri umani siano
organizzati in un «pubblico», siano ridotti a spettatori atomizzati,
per un anarchico è di per sé un problema. La soluzione proposta
è l’autorganizzazione: gli anarchici vorrebbero vedere il pubblico,
abbandonato il ruolo di spettatore, organizzarsi in un insieme
infinito di comunità e associazioni volontarie basate sulla demo-
crazia diretta e interconnesse. Tuttavia, nel linguaggio condiviso
da media e politici, quando un «pubblico» mette in atto un pro-
cesso di questo tipo, cioè si autorganizza in qualche modo (ma-
gari formando associazioni politiche o sindacali), smette di essere
un «pubblico» e diventa un «gruppo con interessi specifici». Agli
occhi di media e politici, per definizione questo crea una con-
trapposizione con il pubblico interesse (il che spiega come mai
anche coloro che partecipano pacificamente alle manifestazioni
autorizzate, esprimendo punti di vista condivisi dalla maggioran-

108
za degli americani, non siano mai descritti come parte integrante
dell’«opinione pubblica»).
Le negoziazioni si svolgono quindi in maniera indiretta. Ogni
parte sostiene le proprie ragioni attraverso i media, mettendo in
atto quella guerra simbolica attentamente programmata che la
polizia porta avanti in maniera aggressiva, ma che gli attivisti,
in particolar modo gli anarchici, non hanno nessuna voglia di
condurre. Anzi, cercano in larga parte di eludere questo gioco e
in parte ci riescono creando i propri media. Ma provano anche a
usare i media ufficiali per veicolare scenari che, se probabilmente
li priveranno del favore delle classi medie suburbane, potranno
però galvanizzare i sostenitori potenzialmente rivoluzionari: le
minoranze oppresse, gli adolescenti alienati, i lavoratori poveri.
Per questo molti Black Bloc erano decisamente soddisfatti, dopo
Seattle, vedendo che i media avevano «sensazionalizzato» la di-
struzione della proprietà. Inoltre, si cerca di eludere il gioco deci-
so dalle autorità provando a riprendersi il potere di rinegoziare le
regole d’ingaggio sul campo di battaglia. Ed è appunto questa la
cosa che la polizia considera del tutto inaccettabile.

Perché dunque i poliziotti odiano i pupazzi?

Torniamo allora al concetto di lotta attraverso i pupazzi.


A Filadelfia, subito dopo le proteste, abbiamo organizzato
una conferenza stampa in cui l’attenzione principale è stata fatta
convergere su uno dei pochi puppetistas sfuggiti agli arresti del
mattino. Durante la conferenza stampa e nel dibattito successivo
con i giornalisti, abbiamo sottolineato come i puppetistas fossero
di fatto i nostri peacekeepers: il loro scopo principale era appunto
di allentare la tensione nelle situazioni potenzialmente violente.
Se l’interesse primario della polizia fosse davvero quello di man-
tenere l’ordine pubblico, come dicono, sarebbe allora assurdo at-
taccare preventivamente proprio i «pacificatori».

109
A questo punto dovrebbe essere facile capire perché la polizia
non vede le cose nello stesso modo. Avevamo tutte le ragioni
per sostenere che l’attacco contro il laboratorio dei pupazzi non
era giustificato dal desiderio di proteggere il pubblico, bensì da
ragioni politiche35. Era del tutto ovvio. Ma quei proclami de-
menziali su acidi ed esplosivi erano parte di una guerra simbolica.
Oltretutto, le modalità con cui i pupazzi sono usati per allen-
tare la tensione in una situazione potenziale violenta sono com-
pletamente diverse da quelle adottate dai protest marshall, ovvero
i responsabili dei servizi d’ordine dei manifestanti. I poliziotti
apprezzano la presenza dei protest marshall, perché questi sono
organizzati in una catena di comando che la polizia tende im-
mediatamente a trattare come se fosse una semplice estensione
della propria (cosa che spesso si dimostra vera). Al contrario dei
protest marshall, i pupazzi non possono essere usati per trasmette-
re ordini. Piuttosto, come i clown o le caricature dei «Milionari»,
il loro scopo è influenzare e ridefinire le situazioni di potenziale
conflitto.
Può essere utile a questo punto riflettere sulla natura della vio-
lenza – o, se preferite, della «forza» – rappresentata dalla polizia.
Come ho già detto prima, un ex ufficiale della polizia di Los
Angeles, scrivendo a proposito del caso Rodney King, ha rilevato
che in molti casi di pestaggio da parte della polizia risulta poi che
la vittima non aveva commesso alcun reato. Infatti, i poliziotti
non pestano ladri e scippatori. Se volete far diventare violento
un poliziotto, la maniera più semplice è mettere in discussione il
suo diritto a definire la situazione, qualcosa che un ladro o uno
scippatore tendenzialmente non fa36. Tutto questo ha senso se
teniamo a mente che i poliziotti sono sostanzialmente dei bu-
rocrati con la pistola e che le procedure burocratiche altro non
sono che le modalità con cui definire le situazioni. O, per essere
più precisi, le procedure burocratiche sono l’imposizione di una
gamma ristretta di schemi prestabiliti a una realtà sociale che è
infinitamente più complessa: una folla può essere al tempo stes-

110
so ordinata e disordinata; un cittadino può essere bianco, nero,
ispanico o polinesiano; chi fa una petizione può avere o non avere
con sé una valida foto identificativa. Ci sono semplificazioni che
si possono mantenere solo in assenza di un dialogo: pertanto,
la quintessenza della violenza burocratica prende la forma di un
manganello saldamente impugnato non appena qualcuno «ribat-
te» a un agente.
Ho cominciato questo saggio sostenendo che era un tentativo
di interpretazione. Di fatto, è stato più che altro un saggio su-
gli esiti frustranti di questo tentativo, o in altre parole sui limiti
dell’interpretazione. In definitiva, credo che questa frustrazione
si possa far risalire alla natura stessa della violenza, sia o meno di
tipo burocratico. La violenza è un fenomeno unico tra le forme
di azione umana in quanto può avere ricadute dirette sull’atti-
vità di persone che non si conoscono affatto. Se si vogliono in-
fluenzare in un modo o nell’altro le azioni di qualcuno, bisogna
in genere avere un’idea di come questa persona si veda, di cosa
voglia, di cosa pensi stia accadendo. Serve insomma un lavoro di
interpretazione, cosa che richiede a sua volta un certo grado di
identificazione immaginativa. Ma se dai una botta in testa a qual-
cuno, tutto questo lavoro diventa irrilevante. Ovviamente, se due
contendenti in un contesto violento hanno forze equivalenti, en-
trambi faranno di tutto per entrare nella mente dell’altro, ma se
l’accesso alla violenza è estremamente squilibrato, questo bisogno
interpretativo viene meno. E, come abbiamo già visto, è appunto
questo il tratto principale delle situazioni di violenza strutturale,
cioè quelle fondate su una diseguaglianza diffusa che viene in
ultima analisi puntellata dalla minaccia della forza. I dettagli del
lavoro interpretativo messo in campo contro la violenza struttu-
rale sono infinitamente complessi e non è questo il contesto per
sviscerarli in tutte le loro ramificazioni. Ma vanno qui evidenziati
almeno due punti cruciali.
Il primo è che la fila di poliziotti in tenuta antisommossa è il
punto preciso in cui la violenza strutturale si fa concreta e per-

111
tanto funziona come una sorta di muro che blocca l’identifica-
zione immaginativa. L’addestramento alla non violenza si basa
per l’appunto sul tentativo di fare una breccia in quella barriera,
insegnando agli attivisti a tenere costantemente in mente quello
che i poliziotti stanno verosimilmente pensando. Ma anche qui,
abbiamo a che fare con concetti molto elementari, quasi a livel-
lo animale («un poliziotto andrà nel panico se viene messo con
le spalle al muro», «non far nulla che possa essere interpretato
come un tentativo di raggiungere la sua pistola»). Per molti anar-
chici, l’esistenza di quel muro immaginativo è frustrante, perché
la moralità anarchica si basa sull’imperativo dell’identificazione
immaginativa37. In molte occasioni ho visto i consulenti lega-
li ricordare agli attivisti che, qualunque sia la loro inclinazione,
non devono parlare con i poliziotti che li stanno arrestando, non
importa quanto aperti o interessati possano apparire, perché di
norma stanno solo carpendo informazioni che saranno poi usate
in sede processuale a carico dell’arrestato. Anche durante le pro-
teste ci sono infinite speculazioni su quel che stanno pensando i
poliziotti mentre usano i lacrimogeni o i manganelli contro citta-
dini non violenti, ma dal tenore di queste speculazioni si capisce
che in realtà nessuno ne ha la più pallida idea. E invece il ruolo
della polizia è proprio quello. La disciplina militare è finalizzata
a rendere i sentimenti e le opinioni dei singoli agenti non solo
impenetrabili ma anche assolutamente irrilevanti.
Ovviamente nessun muro è completamente impenetrabile: con
la giusta pressione, prima o poi cederà. Chi organizza le azioni di
massa è consapevole che esistono momenti nella storia, quando
le campagne di resistenza civile fanno crollare i governi, quando
gli anarchici sono vittoriosi, in cui la polizia si rifiuta di aprire il
fuoco contro i manifestanti. Per questo l’immagine dei poliziotti
che piangono dietro le loro maschere antigas a Seattle è stata così
importante per loro. Ma anche i funzionari addetti alla sicurezza
conoscono bene questo principio, e infatti hanno dedicato molte
energie, nei mesi successivi a Seattle, a radunare le loro truppe.

112
Il primo punto è dunque questo muro che blocca l’identifica-
zione immaginativa.
Il secondo punto rimanda invece al fatto che la giustapposi-
zione tra immaginazione e violenza riflette un conflitto più vasto
tra due principi dell’azione politica, o meglio tra due concezioni
della realtà politica. La prima – chiamiamola «ontologia politica
della violenza» – sostiene che la realtà ultima è definita dalla for-
za, dove «forza» è un eufemismo per indicare varie tecnologie di
coercizione fisica. Essere «realisti» nelle relazioni internazionali,
per esempio, non significa riconoscere le realtà materiali (peraltro
trasformate negli «interessi» di quelle entità immaginarie chia-
mate «nazioni»), ma essere disponibili ad accettare la realtà della
violenza. Gli Stati-nazione sono reali perché possono ammaz-
zarti. E qui la violenza è l’elemento che definisce veramente le
situazioni. La seconda concezione potrebbe essere descritta come
una «ontologia politica dell’immaginazione». Non si tratta tanto
di mettere «l’immaginazione al potere» quanto di riconoscere che
l’immaginazione – l’immaginario – è all’origine del potere (e qui
va notato che, dopo i situazionisti, il teorico francese più presente
nelle librerie anarchiche è Cornelius Castoriadis)38. Non sorpren-
de dunque che la capacità immaginativa sia sempre stata pervasa
da un senso di sacralità. Quel che gli anarchici cercano di fare è
sfidare sistematicamente il diritto della polizia e delle autorità in
genere a «definire la situazione». E lo fanno proponendo infiniti
scenari alternativi o, più precisamente, insistendo sul potere di
cambiare uno scenario ogni volta che lo si desideri. I pupazzi
sono l’incarnazione stessa di quella sfida.
Questo implica che sulla strada, durante le manifestazioni, gli
attivisti cercano di riportare l’effettivo processo politico di nego-
ziazione nelle strutture stesse dell’azione. Ma per vincere la com-
petizione devono continuamente cambiare la definizione di qual
è il campo da gioco, quali ne sono le regole, quali i limiti. E tutto
questo avviene in diretta, sul campo39. Una situazione nata come
una guerra non violenta si trasforma in una situazione circense, o

113
in una performance teatrale, o in un rituale religioso, e altrettan-
to facilmente può tornare alla fase precedente. Ovviamente, dal
punto di vista della polizia tutto questo è solo un raggiro. Per loro
i manifestanti che alternano il lancio di barattoli di vernice con
numeri di danza e canto non stanno combattendo in maniera
corretta, anzi violano tutte le regole del combattimento, rom-
pono tutti gli accordi. Le autorità devono sostenere questo pun-
to per una questione di principio, perché altrimenti dovrebbero
ammettere l’esistenza di una situazione di potere duale, negando
quindi l’assoluta incommensurabilità dello Stato.
In certo modo, ci troviamo qui di fronte al ben noto paradosso
che riguarda il potere costituente. Come molti pensatori italiani e
tedeschi amano ricordare, dal momento che nessun sistema crea
se stesso (detto altrimenti, nessun dio capace di istituire un ordine
morale è poi tenuto a rispettare quella stessa morale), anche ogni
ordine politico e giuridico può essere creato solo da una forza che
è poi estranea a quella legalità40. Nella moderna storia euro-ame-
ricana, la legittimità delle costituzioni viene fatta risalire fonda-
mentalmente a una qualche rivoluzione popolare, ovvero al punto
preciso in cui, nei miei termini, la politica della forza incontra la
politica dell’immaginazione. Di fatto, la rivoluzione è proprio ciò
a cui aspirano i costruttori di pupazzi, anche se cercano di avvici-
narsi a questo obiettivo usando una quantità minima di violenza
reale. Ma a scatenare le reazioni violente delle forze dell’ordine è
a mio avviso proprio il loro tentativo di far emergere il potere co-
stituente (il potere dell’immaginazione popolare, capace di creare
nuove forme istituzionali) non in brevi momenti, ma in maniera
permanente, sfidando così la capacità delle autorità di definire
la situazione. Pretendere che le regole d’ingaggio possano esse-
re costantemente rinegoziate sul campo di battaglia, che si possa
sempre cambiare la narrazione nel mezzo del racconto, è parte di
un fenomeno più esteso che spiega anche perché gli anarchici non
vogliono affidarsi ai buoni uffici delle organizzazioni progressiste
o dei media più aperti. Spiega insomma la loro ostilità verso quei

114
supposti benefattori che di fatto chiedono, come prerequisito per
il loro aiuto, il diritto di collocare gli anarchici all’interno della
loro cornice narrativa predeterminata. Ma l’azione diretta è, per
definizione, non mediata. Vuole far piazza pulita di queste cornici
predeterminate e portare il potere di definire le situazioni nelle
strade. Ovviamente, in condizioni ordinarie, vale a dire al di fuori
di quei momenti magici in cui la polizia rifiuta di sparare, questo
si può fare in maniera molto limitata. Nel frattempo, la lotta po-
litica e morale «nei tribunali dell’opinione pubblica» (e anche in
quelli della legge) sembra inevitabile. Alcuni anarchici sono con-
trari, altri accettano di malavoglia. Tutti concordano che l’azione
diretta è l’aspirazione ideale.
Questo ci aiuta a capire perché i mega-pupazzi, straordina-
riamente creativi ma al tempo stesso intenzionalmente effimeri,
costruiti per ridicolizzare quell’idea di verità eterna rappresentata
dai monumenti, possono diventare il simbolo di questo tentativo
di riconquistare il potere della creatività sociale41, il potere di ri-
creare e ridefinire le istituzioni. Di fatto, riescono a rappresentare
tutti quei fenomeni, come le nuove forme di organizzazione o
l’enfasi sui processi decisionali – che scompaiono nelle descrizio-
ni del movimento fatte dai media ufficiali. I pupazzi incarnano
la permanenza della rivoluzione. Agli occhi delle «forze dell’or-
dine», è proprio questo a renderli ridicoli e al tempo stesso quasi
demoniaci. Agli occhi di molti anarchici, è proprio questo a ren-
derli ridicoli e al tempo stesso quasi divini42.

Alcune labili conclusioni

Questo saggio finisce così là dove avrebbe dovuto cominciare,


dalla necessità di ripensare completamente l’idea di «rivoluzio-
ne». Se quanti sono impegnati nelle politiche di azione diretta si
percepiscono, in vario modo, come «rivoluzionari», pochi però
operano all’interno della classica visione rivoluzionaria secondo

115
la quale la nuova società viene costruita attraverso uno scontro
violento e apocalittico con lo Stato. Ancor meno sono coloro
che vogliono arrivare alla rivoluzione attraverso la conquista del
potere statale, per trasformare la società attraverso i suoi stessi
meccanismi. D’altro canto, un gran numero di attivisti non è
neanche interessato a una «ritirata strategica» (come nell’«esodo»
rivoluzionario di Virno) o alla costituzione di nuove comunità
autonome43. Si potrebbe dire che le politiche di azione diretta,
con il loro tentativo di creare forme di organizzazione alternati-
ve ai margini del potere statale, stanno cercando di esplorare un
territorio intermedio che sta proprio nello spazio tra queste due
alternative. Una sintesi che non è ancora stata colta in tutta la
sua rilevanza.
Se non altro, alcuni degli scenari teorici delineati in questo
saggio forniscono un punto di vantaggio nella comprensione del
momento storico attuale. Consideriamo il concetto di «guerra
contro il terrorismo». Molti hanno parlato con costernazione del
concetto di «guerra permanente», che oggi appare banalizzato. In
effetti, se il xx secolo può essere definito come un secolo di guerra
permanente (quasi l’intero periodo tra il 1914 e il 1991 è stato
dedicato a combattere o a preparare una guerra di qualche tipo),
non è chiaro se il xxi secolo possa essere descritto negli stessi
termini. A mio avviso, quella che gli Stati Uniti stanno tentan-
do di imporre al mondo non è affatto una guerra. A causa della
diffusione delle armi nucleari, è ormai un truismo affermare che
le guerre aperte tra gli Stati non scoppiano più e tutti i conflitti
vengono rubricati come «azioni di polizia». Bisogna però tenere
a mente che anche le «azioni di polizia» hanno i loro tratti di-
stintivi: i poliziotti ritengono di essere impegnati in una guerra
largamente priva di regole, contro un nemico senza onore (verso
il quale pertanto non si è obbligati ad agire onorevolmente) e in
un contesto in cui la vittoria definitiva è impossibile.
Gli Stati hanno una forte tendenza a definire le relazioni con la
propria popolazione nei termini di una guerra invincibile di qual-

116
che tipo. Da questo punto di vista, lo Stato americano è stato uno
dei più espliciti: negli ultimi decenni abbiamo visto degenerare
una guerra contro la povertà in una guerra contro il crimine, poi
contro le droghe (la prima a estendersi a livello internazionale), e
infine contro il terrorismo. Ma come ben illustra questa sequenza,
l’ultima non è affatto una guerra ma il tentativo di estendere al re-
sto del pianeta una propria logica interna. Il tentativo di instaurare
uno Stato di polizia diffuso e globale. In definitiva, ho il sospetto
che la reazione di panico da parte dello Stato sia stata più una
reazione al successo di un rivolta anticapitalista permanente, per
quanto contenuta, che una risposta alla minaccia rappresentata da
un Osama bin Laden (il quale ha indubbiamente fornito un utile
pretesto). E questo perché, anche su scala globale, la lotta politica
e morale ha creato nuove regole d’ingaggio che per gli Stati Uniti
rendono molto difficile colpire direttamente quelli contro cui que-
ste sono rivolte44.
Per farla breve: se la struttura della violenza più appropriata
per un’ontologia politica dell’immaginazione è la rivoluzione, la
struttura immaginaria più appropriata per un’ontologia politica
della violenza è proprio il terrorismo. Si potrebbe dire che sotto
questo aspetto i Bush e i bin Laden lavorano in sinergia (ed è si-
gnificativo che se al-Qaeda nutre una qualche gigantesca visione
utopica – la riunificazione della diaspora islamica dell’Oceano
Indiano? la ricostituzione del Califfato? – non è che ne abbia
parlato granché).
Certo, questo è un po’ semplicistico. Per comprendere il re-
gime americano in quanto struttura globale e al tempo stesso
comprenderne le contraddizioni, credo che si debba tornare al
ruolo cosmologico della polizia nella cultura americana. Si tratta
di una caratteristica tipica della vita negli Stati Uniti: molti cit-
tadini americani, che nel corso della loro giornata evitano ogni
circostanza che possa portarli a contatto con la polizia, appena
tornano a casa passano delle ore a guardare film che li invitano a
considerare il mondo dal punto di vista di un poliziotto. Non è

117
stato sempre così. È difficile trovare un film americano preceden-
te al 1960 in cui il ruolo dell’eroe sia incarnato da un poliziotto.
Nel corso degli anni Sessanta, tuttavia, la polizia ha preso all’im-
provviso il posto che nell’industria dell’intrattenimento america-
na prima apparteneva ai cowboy45. Non si può dire che la scelta
fosse casuale, come non è casuale il fatto che l’esportazione in
ogni angolo del pianeta delle immagini televisive e cinematogra-
fiche dei poliziotti americani abbia seguito i ritmi di espansione
dei loro omologhi in carne e ossa. Quel che vorrei piuttosto sot-
tolineare è che entrambi sono caratterizzati (nella fiction e nella
realtà) da un’impunità extra-legale e che, paradossalmente, que-
sto li rende capaci di impersonificare un potere costituente rivol-
to contro se stesso. Il poliziotto hollywoodiano, come il cowboy,
è un eroe solitario che va contro tutte le regole (il che è accetta-
bile, anzi necessario, dal momento che i suoi antagonisti sono
gente senza onore). Di fatto, è proprio il poliziotto-eroe-solitario
quello che si dà più da fare per distruggere sistematicamente le
proprietà altrui, un aspetto che piace molto agli spettatori dei
film d’azione. In altre parole, i poliziotti possono apparire come
eroi in questi film soprattutto perché sono gli unici a poter viola-
re la legge. È il potere costituente che si rivolge contro se stesso,
perché i poliziotti, sugli schermi e nella realtà, non provano a
creare (o a istituire) alcunché. Mantengono solo lo status quo.
In un certo senso, si tratta di uno slittamento ideologico molto
intelligente, il complemento perfetto di quella privatizzazione del
desiderio (del consumatore) prima citata. Fintanto che l’idea di
una festività popolare perdura, lo slittamento avverrà nell’ambi-
to della fiction, con il ruolo di capo-potlatch attribuito a quella
stessa figura che, nella vita reale, ha l’incarico di sopprimere vio-
lentemente ogni autentica eruzione di festività popolare. Tutta-
via, al pari di ogni altra, anche questa formulazione ideologica è
fortemente instabile e irta di contraddizioni, come dimostrano le
iniziali difficoltà della polizia americana a soffocare il movimento
per una giustizia globale. A mio avviso, va piuttosto vista come

118
un modo per gestire una situazione di estrema alienazione e insi-
curezza che può essere mantenuta solo con una sistematica coer-
cizione. Di fronte a qualsiasi cosa che mostri anche remotamente
i tratti di un’esperienza creativa non alienata, un simile approccio
tende a sembrare grottesco come la pubblicità di un deodorante
durante un disastro nazionale. Ma ovviamente io sono un anar-
chico. E il problema degli anarchici rimane quello di capire come
portare quel tipo di esperienza – e il potere immaginativo che c’è
dietro – nelle vite quotidiane di tutti coloro che stanno all’ester-
no delle piccole bolle autonome che sono riusciti a creare. È un
problema che continua a porsi, ma ci sono ragioni per credere
che prima o poi il potere cosmologico poliziesco, e con questo il
potere stesso della polizia, semplicemente svanirà.

119
Note alla seconda parte

1. Sto utilizzando l’espressione più comunemente adottata dagli attivisti in


Nord America, mentre respingo fermamente il termine «antiglobalizzazione»
per definire questo movimento. In passato ho proposto di introdurre il termine
globalization movement, ma alcuni ritengono che non sia abbastanza chiaro. In
Europa si usa spesso il termine «altermondialista» o «globalizzazione alternativa»,
ma nessuna di queste formule è entrata nell’uso comune negli Stati Uniti.
2. Ovviamente, si dà per scontato che i gruppi in questione siano sostanzial-
mente affini: di fronte a un gruppo apertamente razzista o sessista, nessuno si
interrogherebbe sulle sue pratiche decisionali interne. La questione di fondo
è che le modalità del processo decisionale sono molto più importanti delle
affiliazioni settarie che hanno dominato la politica radicale in passato, del tipo
anarcosindacalisti contro ecologisti radicali o piattaformisti, e così via. A volte
questi fattori giocano ancora un loro ruolo, ma anche in questo caso è probabi-
le che le obiezioni siano sollevate in termini di processo decisionale.
3. Un giornalista come Bill Borders, senior editor del «New York Times», rias-
sume bene questa politica. Messo alle strette dalla fair, un’associazione che si
occupa di monitorare i media, sulle ragioni per cui il suo giornale non aveva
coperto le manifestazioni di protesta per l’insediamento di Bush (le seconde
per partecipazione numerica contro un insediamento presidenziale in tutta la
storia americana), ha risposto di non considerarle delle notizie autentiche, ma
«eventi messi in scena», «al solo scopo di essere coperti dai media» (cfr. Activism
Update: «New York Times» Responds on Inaugurational Criticism, 22 febbraio
2001). La fair ha allora ribattuto chiedendo perché la parata ufficiale dell’in-
sediamento non sia stata giudicata con la stessa ottica.
4. Un effetto della peculiare definizione di violenza adottata dai media america-
ni è la convinzione che le tattiche gandhiane, in linea di massima, non funzio-
nino negli Stati Uniti. Tra gli scopi della disobbedienza civile non violenta c’è
quello di mettere in luce la violenza insita nello Stato, dimostrando che è pronto
a brutalizzare anche quei dissidenti che non sono nelle condizioni di infliggere
danni fisici. Ma dagli anni Sessanta i media americani si sono decisamente rifiu-
tati di rappresentare come violente le attività autorizzate delle forze di polizia.
Negli anni immediatamente successivi a Seattle, per esempio, gli attivisti della

120
costa occidentale che si battono per difendere le foreste hanno sviluppato tecni-
che per «fare blocco», immobilizzando le loro braccia con tubi di pvc rinforzati
con il cemento, che li rendono inoffensivi e difficili da spostare. Si tratta di una
classica strategia gandhiana. La risposta della polizia è stata l’elaborazione di
quelle che possono essere considerate tecniche di tortura: spray urticanti spruz-
zati negli occhi di attivisti che non possono muoversi. Dato che anche questo
non ha provocato il clamore dei media (e in effetti i tribunali hanno sostenuto
la legittimità di questa pratica), in molti hanno concluso che in America le pra-
tiche gandhiane non funzionano. È significativo che a Seattle molti dei Black
Bloc che hanno deciso di non ricorrere alla strategia del «fare blocco», optando
per strategie più mobili e aggressive, provenisse proprio dalle fila dei movimenti
per la difesa delle foreste, gli stessi che in passato avevano utilizzato tecniche
non violente come il tree-sit [sedersi sugli alberi per evitarne il taglio, N.d.T.].
5. Gli attivisti che trasportano i pupazzi in manifestazione sono stati attaccati
e arrestati dalle forze dell’ordine numerose volte, ma per quanto mi risulta i
media ufficiali non ne hanno mai parlato.
6. Da David e X of the Green Mountain Anarchist Collective (eds.), The Black
Bloc Papers, Black Clover Press, Baltimore, 2002, p. 53. Il riferimento alla
trasformazione del valore di scambio in valore d’uso è chiaramente ispirato ai
testi situazionisti.
7. Devo questa frase a Ilana Gershon.
8. Da Puppet Masters: Paper Hand Puppet Intervention brings its brand of poli-
tical theater back to Chapel Hill, «Independent Online», 8 agosto 2001, http://
www.indyweek.com/indyweek/puppet-masters/Content?oid=1184299.
9. Temi simili ricorrono in molte interviste ai puppetistas. Ecco le parole di
Mattyboy dello Spiral Q Puppet Theater di Filadelfia: «Ho 23 anni e ho perso
tredici amici per colpa dell’aids. È una guerra, una pestilenza. Questo è l’unico
modo che ho per farci i conti. Con i pupazzi creo la mia mitologia. Li riporto in
vita come divinità»; Daisy Freid, The Puppets are coming, «Philadelphia Citypa-
per», 16-23 gennaio 1997. Segnalo un libro illustrato sull’attività del Bread and
Puppet Theater: Ronald T. Simon, Marc Estrin (eds.), Rehearsing with Gods:
photographs and essays on the Bread & Puppet Theater, Chelsea Green Pub. Co.,
White River Junction (VT), 2004.
10. Barbara Epstein, Political Protest and Cultural Revolution: Non-violent Direct

121
Action in the 1970s and 1980s, University of California Press, Berkeley,1991.
11. Il Pagan Bloc è sempre stato presente nelle azioni più importanti da Seattle
in avanti e, al contrario dei Quaccheri o di altri sostenitori cristiani della di-
sobbedienza civile, ha dichiarato di riconoscere le pratiche dei Black Bloc come
una forma di non violenza, arrivando talvolta a stringere una tacita alleanza.
12. Il primo giorno delle proteste di Seattle i videomaker hanno registrato
alcuni capi della polizia mentre rassicuravano gli attivisti sul fatto che la polizia
di Seattle «non ha mai attaccato i manifestanti non violenti e mai li attaccherà».
Poche ore dopo le stesse persone hanno cambiato completamente idea.
13. La miglior fonte che ho trovato su questi eventi è The Costs of Global Go-
vernance: Security and International Meetings since WTO Seattle di Joseph Boski,
una relazione presentata alla Cyber Conference, Globalization: Governance and
Inequality, tenutasi a Ventura, California, il 31 maggio-1 giugno 2002.
14. Bloccare una strada tecnicamente non è un reato, ma una «infrazione»
o «violazione», vale a dire l’equivalente legale del mancato pagamento di un
parcheggio o dell’attraversamento pedonale fuori dalle strisce. Se si violano
queste ordinanze per ragioni non politiche, ci si può aspettare di ricevere una
multa, non di essere portati a forza in una stazione di polizia e passare una
notte agli arresti.
15. José Martinez, Police prep for protests over biotech conference at Hynes, «Bo-
ston Herald», 4 marzo 2000.
16. Corrections, «New York Times», 6 giugno, p. A2. Il titolo originale dell’ar-
ticolo di Nichole Christian era, significativamente, Detroit Defends Get-Tough
Stance (Detroit difende il pugno di ferro), «New York Times», 4 giugno 2000,
p. A6. Nella correzione si legge: «Un articolo pubblicato domenica a proposito
delle proteste in programma a Detroit e a Windsor, nell’Ontario, contro un
Summit interamericano previsto a Windsor in questi giorni, riportava notizie
errate sulle proteste dello scorso novembre al Summit dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio a Seattle. Le manifestazioni di Seattle sono state
in larga misura pacifiche. Le autorità hanno dichiarato che gli oggetti lanciati
erano indirizzati contro la proprietà privata e non contro le persone. Nessun
attivista è stato accusato di aver lanciato oggetti di alcun tipo contro i delegati
o i poliziotti, tanto meno pietre e bombe molotov».
17. All’epoca, la trascrizione di questo documento circolava ampiamente nelle

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mailing list degli attivisti. Secondo un articolo del «Miami Herald» (Joan Flei-
schman, Trade protesters mean business, analyst warns, 1 ottobre 2003), l’autore
di queste righe era «l’agente in pensione della dea Tom Cash, 63 anni, oggi
direttore generale di Kroll Inc., un’impresa di consulenza internazionale in
materia di sicurezza e affari. A sua volta Cash ha sostenuto di aver avuto le sue
informazioni da «fonti d’intelligence della polizia».
18. Un certo numero di molotov è stato lanciato a Québec City, a quanto pare
da attivisti del posto. Ma il Canada francofono ha una tradizione militante
molto peculiare.
19. Si veda per esempio Brendan I. Koerner, Can Miami Really Ban Giant
Puppets?, «Slate», 12 novembre 2003.
20. Viene da chiedersi dove li abbiano effettivamente presi. Nella mia espe-
rienza un esempio tipico è quello delle proteste avvenute a New York contro
il World Economic Forum all’inizio del 2002. La polizia a un certo punto ha
attaccato alcuni manifestanti che facevano parte di una folla in attesa che il
corteo autorizzato si muovesse: li avevano infatti visti distribuire dei grandi
cartelli di plexiglass da piegare e usare anche come scudi. Alcuni sono stati
trascinati via e arrestati. In seguito la polizia ha fatto circolare differenti versioni
sui motivi dell’attacco, ma quella che alla fine è stata data per buona sosteneva
che gli arrestati fossero in procinto di attaccare il vicino Plaza Hotel. La polizia
dichiarava di aver trovato addosso agli arrestati «tubi e contenitori pieni di uri-
na», ma in questo caso non hanno mai esibito le prove. Si tratta di un episodio
di cui ho conoscenza diretta, dato che non solo conoscevo gli arrestati ma mi
trovavo a pochi passi da loro al momento dell’arresto. Erano alcuni studenti
di una piccola università liberal del New England che avevano concordato di
farsi riprendere da una troupe televisiva del programma abc Nightline mentre
si preparavano per la manifestazione (sfortunatamente la troupe non era sul
posto al momento dell’arresto). Sarebbe arduo immaginarsi un gruppo meno
criminale di loro. Inutile dire quanto fossero confusi e sbigottiti di fronte
all’accusa della polizia di essere venuti alla manifestazione con una dotazione
di contenitori pieni di urina. In casi del genere, quando la polizia parla di urina
o escrementi, gli attivisti danno per certo che la polizia ha piazzato prove false.
21. Non è provato che i contestatori degli anni Sessanta sputassero contro i
soldati, proprio come non lo è che le prime femministe bruciassero veramente

123
i loro reggiseni, o almeno nessuno è riuscito a trovare un riscontro concreto su
questi episodi. La storia sembra nascere alla fine degli anni Settanta o all’inizio
degli Ottanta e, come ha ben dimostrato il documentario Sir! No Sir!, l’unico
veterano che ha sostenuto pubblicamente che un episodio del genere gli era
veramente accaduto stava verosimilmente mentendo.
22. Non sono riuscito a determinare con certezza chi sia stato il primo a mettere
in giro queste voci a livello pubblico, anche se mi pare di ricordare che furono
lanciate simultaneamente dall’allora sindaco repubblicano di Los Angeles Ri-
chard Riordan e da un portavoce del partito democratico di Filadelfia durante
i preparativi per le rispettive primarie in quelle città. L’affermazione rispondeva
soprattutto agli stereotipi conservatori sulla cultura liberal da sempre accusata
di essere «elitaria», ma ha avuto una diffusione sorprendentemente ampia.
Come ha fatto notare Steven Shukaitis, è stata ripresa anche da ambienti che
invece guardavano con simpatia a questi movimenti (cfr. Space, Imagination //
Rupture: The Cognitive Architecture of Utopian Political Thought in the Global
Justice Movement, «Journal of Contemporary History», University of Sussex, 8,
2005). Pur non avendo fatto, nel corso delle mie ricerche, un’analisi sistematica
del background socio-economico degli anarchici, posso però basarmi sui sei
anni di esperienza personale per affermare che i figli-di-papà nel movimento
sono estremamente rari. Ce ne saranno uno o due nelle città più grandi, spesso
noti proprio perché riescono a mettere a disposizione più risorse, ma io stesso
conosco per ogni figlio-di-papà almeno due o tre anarchici che provengono
invece da famiglie di militari.
23. Una delle maggiori preoccupazioni è il fatto che i perni in legno usati nella
costruzione dei pupazzi possano essere estratti e usati come bastoni oppure
impiegati per rompere le vetrine.
24. Reuters/Zogby, Convention Protests Bring Mixed Reactions, 21 agosto 2000.
«In un sondaggio di Zogby America su 1.004 adulti, il 32,9 percento si è dichia-
rato orgoglioso dei manifestanti, mentre il 31,2 percento si è dichiarato diffiden-
te. Un altro 13,2 percento si è dichiarato vicino alle ragioni dei manifestanti, a
fronte di un 15,7 percento che si è dichiarato irritato e un 6,9 percento che si è
dichiarato incerto». Considerando la prevalente ostilità della copertura mediatica,
il fatto che un terzo degli intervistati fosse comunque «orgoglioso» e che meno
di uno su sei fosse certo di avere una reazione negativa, è un risultato rilevante.

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25. Probabilmente anche intorno alla distruzione della capacità produttiva, che
deve rinnovarsi all’infinito.
26. Può essere significativo che le principali esportazioni statunitensi siano
costituite a) da film d’azione hollywoodiani e b) da personal computer. Ri-
flettendoci, possono essere visti come una coppia complementare alla coppia
mattone-contro-vetrina/mega-pupazzo prima descritta; o forse la coppia
mattone/pupazzo può essere considerata un riflesso de-sublimato e sovversivo
dell’altra coppia, in cui il primo termine rappresenta un peana alla distruzione
della proprietà e il secondo l’incessante capacità di creare nuove ed effimere
immagini al posto di quelle più vecchie e permanenti.
27. Una parte di questa storia viene ripresa, e portata avanti fino all’esperienza
di Reclaim the Streets e ai carnevali anticapitalisti contemporanei, nel saggio di
Gavin Grindon, The Breath of the Possible, in David Graeber, Steven Shukaitis
(eds.), Constituent Imagination, AK Press, Oakland, 2006.
28. Un buon testo su queste tematiche è History of Radical Puppetry del Wise
Fool Puppet Collective (www.zeitgeist.net/wfca/radpup.htm), che fa risalire
l’arte dei pupazzi non alle feste bensì ai drammi misterici del Medio Evo, for-
nendo comunque un’interessante prospettiva storica.
29. Così oltretutto si sintonizzano sui programmi che adottano il punto di vista
della polizia, la stessa che preferisce tenerli lontani dalle strade. Torneremo su
questo punto.
30. Martin Van Creveld, The Transformation of War, Free Press, New York,
1991.
31. Cfr. Egon Bittner, Aspects of Police Work, Northeastern University Press,
Boston, 1990, per una buona rassegna sociologica sulle procedure di polizia
e più generale sul tema della «discrezionalità». Molti americani, supponendo
che la polizia sia normalmente impegnata a prevenire o investigare i crimini,
pensano che la sua condotta sia vincolata da un’infinità di norme burocratiche.
Di fatto, una delle maggiori scoperte della ricerca sociologica sulla polizia è che
dedica una percentuale sorprendentemente ridotta del proprio tempo ai reati
veri e propri.
32. La citazione è di Bittner. Vedi anche Mark Neocleus, The Fabrication of
Social Order: A Critical Theory of Police Power, Pluto Press, London, 2000.
33. Si tenga presente che i «negoziatori della polizia» sono utilizzati in genere

125
nelle situazioni in cui ci sono degli ostaggi. In altre parole, per costringere la
polizia a negoziare bisogna letteralmente puntare una pistola contro la testa di
qualcuno. Ma anche in queste situazioni non ci si può aspettare che la polizia
mantenga le sue promesse: in effetti, potrebbe facilmente sostenere di essere
moralmente obbligata a non mantenerle.
34. Gli organizzatori delle manifestazioni di Genova affermano unanimemente
di essere rimasti scioccati quando, una volta iniziate le azioni, i poliziotti di cui
avevano i numeri di telefono si rifiutarono all’improvviso di rispondere alle
loro chiamate.
35. Devo ancora venire a conoscenza di un qualunque passante che sia stato
ferito da una turbolenta azione anarchica, mentre in ogni operazione su larga
scala è del tutto normale che i passanti finiscano intossicati, feriti o addirittura
arrestati dai poliziotti.
36. Marc Cooper, Dum Da Dum-Dum, «Village Voice», 16 aprile 1991, pp.
28-33.
37. Pëtr Kropotkin, forse il pensatore anarchico che più ha sviluppato una
teoria etica esplicita, sosteneva che ogni forma di moralità si basa sull’immagi-
nazione. Molti anarchici contemporanei sembrano concordare, quanto meno
implicitamente, su questo punto.
38. In particolare la sua opera più nota: L’istituzione immaginaria della società.
La storia del pensiero di sinistra (un tema che non posso sviluppare qui piena-
mente) gira, già dalla fine del xviii secolo, intorno al presupposto che creatività
e immaginazione fossero i principi ontologici fondamentali. Questo è palese nel
Romanticismo, ma vale anche per Marx, che nel suo famoso paragone tra l’ape
e l’architetto identifica nel ruolo dell’immaginazione nella produzione ciò che
rende gli umani differenti dagli animali. A sua volta Marx rifletteva a partire da
prospettive già diffuse nel movimento operaio dei suoi giorni. Credo che questo
aiuti a spiegare la ben nota affinità che gli artisti d’avanguardia hanno sempre
provato verso le politiche rivoluzionarie. Il pensiero di destra ha sempre accusa-
to la sinistra di ingenuità per il suo rifiuto di riconoscere l’importanza dei «mez-
zi di distruzione», sostenendo che ignorare il ruolo fondamentale della violenza
nella definizione delle relazioni umane può solo produrre effetti perniciosi.
39. Si può fare qui un’analogia con la disarticolazione delle modalità operative
innescata dal processo decisionale consensuale. Da un certo punto di vista,

126
si può considerare il processo decisionale consensuale come un tentativo di
fondere insieme il processo deliberativo con quello esecutivo. Se non esiste
un meccanismo separato di coercizione che possa obbligare una minoranza
a conformarsi alle decisioni della maggioranza, il voto maggioritario perde la
sua efficacia. D’altronde, il processo di ricerca del consenso è volto a produrre
risultati che non necessitano di un meccanismo separato per essere messi in
pratica perché l’accordo tra le parti è già stato realizzato all’interno del processo
decisionale stesso.
40. Mi riferisco qui ovviamente alle opere di Carl Schmitt e Walter Benjamin
e a quelle più recenti di Toni Negri e Giorgio Agamben.
41. La maglietta del collettivo Arts in Action, che realizza gran parte dei pu-
pazzi, riporta una citazione di Bertolt Brecht: «L’arte non è uno specchio per
riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma».
42. È interessante notare come esista una lunga tradizione nel pensiero nor-
damericano che considera la creatività intrinsecamente antisociale e pertanto
demoniaca. Si tratta di una concezione che emerge con forza nelle ideologie
razziste, ma un tema come questo meriterebbe un saggio a sé.
43. Cfr. Paolo Virno, Michael Hardt (eds.), Radical Thought in Italy: a Poten-
tial Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1996.
44. Mi sembra molto significativo il fatto che i principali protagonisti della
repressione delle proteste negli Stati Uniti siano poi andati a Baghdad nei
panni di «consulenti alla difesa» dopo la conquista americana dell’Iraq. Ovvia-
mente si sono resi rapidamente conto che le loro abituali tattiche non erano
particolarmente efficaci contro antagonisti davvero violenti, i cui contatti con i
rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale si
riducevano a farli saltare in aria.
45. Il miglior esempio di questa trasformazione lo fornisce senza dubbio Clint
Eastwood, passato dagli spaghetti western alla serie dell’ispettore Callaghan.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2013
presso Grafiche Speed 2000, Peschiera Borromeo (MI)
per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano

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