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VITA. Della vita di Agostino siamo informati in primo luogo dalle sue opere, in particolare dalle
Confessioni, che arrivano fino al 387. Per il periodo successivo di fondamentale importanza è la
biografia scritta dal suo discepolo Possidio intorno al 432.
Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una cittadina della Numidia. Il padre Patrizio, un
piccolo proprietario terriero, era ancora legato al paganesimo e si convertì solo alla fine della
vita, mentre la madre Monica era una fervente cristiana. Agostino studiò prima a Tagaste e a
Madaura, quindi, grazie all’aiuto di un amico del padre, poté completare gli studi di retorica a
Cartagine (370/371). La sua formazione culturale si basò interamente su autori latini, in
particolare su Cicerone, mentre la sua conoscenza del greco fu superficiale.
Poiché nel sec. IV il retore aveva ormai perso il suo antico ruolo antico politico, Agostino si
dovette dedicare all’insegnamento, prima a Tagaste (374) e poi a Cartagine (375-383). Nel
384 si trasferì a Roma e poi, grazie all’appoggio dei Manichei, cui era allora legato, a Milano,
dove ottenne la carica di maestro di retorica. Qui fra il 384 e il 386 attraversò una profonda
crisi spirituale, che lo riavvicinò al Cristianesimo. Si dimise pertanto dall’incarico e si ritirò a
Cassiciaco, in una villa di campagna, dove condusse una vita in comune con alcuni amici, la
madre, il fratello e il figlio Adeodato. Nel 387 ricevette il battesimo dal vescovo Ambrogio, che
aveva avuto un ruolo determinante nella sua conversione, e decise di tornare in Africa, che
raggiunse solo l’anno successivo, perché, sulla via del ritorno, ad Ostia, morì la madre Monica.
Tornato a Tagaste, Agostino vendette i suoi beni e fondò una comunità religiosa, ma nel 391,
mentre si trovava ad Ippona, su pressione dei fedeli, fu ordinato sacerdote dal vescovo Valerio.
Nel 395 fu consacrato vescovo, e, nel 396, alla morte di Valerio, ne divenne il successore.
Restò a Ippona fino alla morte, che lo colse nel 430, mentre i Vandali assediavano la città.
FORMAZIONE CULTURALE. Nelle Confessioni Agostino ripercorre le tappe fondamentali della sua
giovinezza, presentando le personalità, che hanno esercitato un influsso sul suo pensiero:
in primo luogo vi fu la madre Monica, una donna di modesta cultura, ma di grande fede,
che con la sua appassionata testimonianza di vita cristiana gettò le basi della futura
conversione del figlio, che le rimase sempre molto legato;
quindi vi fu Cicerone, incontrato a Cartagine, grazie alla lettura dell’Hortensius, un dialogo
ora perduto, in cui la filosofia veniva presentata come saggezza e arte del vivere che dona
felicità: “quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse
che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto
ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile
ardore di cuore” (III,4,7); unico motivo di disappunto era l’assenza nell’opera del nome di
Cristo, che Agostino aveva succhiato “nel latte stesso della madre” (III,4,8);
l’incontro con la Bibbia, fu inizialmente deludente, sia per lo stile rozzo, così lontano dalla
raffinatezza della prosa ciceroniana, sia per l’immagine antropomorfica di Dio, che essa
veicolava: “quell’opera invece è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi
piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande” (III,5,9);
Nella sua attività di predicatore Agostino tiene sempre conto del livello culturale dei fedeli, per
cui nei sermoni privilegia l’interpretazione spirituale del Nuovo Testamento, testo considerato
di più facile comprensione e più adatto all’edificazione, e adotta un linguaggio più semplice e
conciso nelle omelie tenute nei giorni festivi, dove maggiore è la presenza del popolo, mentre
quando predica di fronte a un uditorio più selezionato, come nei giorni feriali o a Cartagine, usa
dilungarsi maggiormente, affrontando anche questioni più impegnative.
All’interpretazione della Scrittura Agostino ha dedicato quattro differenti tipi di opere:
commenti sistematici del testo biblico di carattere dottrinale, tra cui si devono segnalare
due trattati di esegesi dei primi tre capitoli della Genesi, il De Genesi contra Manicheos in 2
libri, in cui per risolvere le obiezioni avanzate dai manichei, privilegia l’interpretazione
allegorica, confessando di ammirare chi sia in grado di interpretare il testo in modo letterale
e in conformità con la fede cattolica, ma riconoscendo che in molti casi si vede costretto a
ritenere ritiene che “non ci sia alcuna possibilità d’intendere le affermazioni della Scrittura in
un senso conforme alla fede e in un modo degno di Dio, se non credendole presentate sotto
forma simbolica ed enigmatica” (II,2,3), e il De Genesi ad litteram in 12 libri, in cui domina
un’interpretazione letterale volta ad ancorare al testo biblico la sua antropologia e la sua
soteriologia, e in cui gli antropomorfismi vengono risolti affermando che quanto Dio ha fatto
o detto ad Adamo ed Eva “significationis gratia factum est, sed tamen factum” (XI, 39,52);
soluzioni di problemi interpretativi, tra cui si segnalano per l’Antico Testamento le
Locutiones in Heptateuchum e le Quaestiones in Heptateuchum, entrambe in 7 libri, in cui
prevale l’interpretazione letterale, a cui si sovrappone talvolta la tradizionale lettura in senso
cristologico, e in cui, nella seconda opera vengono chiarite e tradotte in un latino migliore
espressioni di difficile comprensione in virtù dell’eccessiva aderenza al testo greco o ebraico,
e per il Nuovo Testamento il De consensu evangelistarum in 4 libri, in cui vengono risolte
attraverso una lettura letterale del testo le contraddizioni che sorgono dal confronto tra i
quattro vangeli, e le Quaestiones evangeliorum in 2 libri, di minor impegno dottrinale;
cicli di omelie volte ad interpretare in modo continuativo un testo biblico, di cui non tutte
effettivamente predicate: le Enarrationes in Psalmos, che commentano l’intero salterio, in cui
in genere il valore storico dei salmi non viene negato, ma prevale l’interpretazione spirituale
riferita a Cristo e alla Chiesa, soprattutto in riferimento ai titoli e alle rubriche premesse ai
salmi, le 124 omelie del Tractatus in Ioannis evangelium, in cui la volontà di cogliere il
significato profondo del testo si traduce in una allegoresi molto spinta, che non disdegna la
simbologia numerica ed etimologica, e le 10 omelie del Tractatus in epistolam Ioannis ad
Parthos, incentrate sul tema dell’amore e in cui domina l’interpretazione letterale del testo;
OPERE. La produzione di Agostino è molto abbondante: l’opera omnia con traduzione italiana
curata dalla Nuova Biblioteca Agostiniana comprende 38 volumi in 65 tomi, ma ancora di
recente, nel 2007, sono state ritrovati a Erfurt in Germania 6 sermoni di cui si in precedenza si
ignorava l’esistenza, mentre altri 26 erano stati scoperti a Parigi nel 1996. Pertanto non si può
escludere che in futuro si possano rinvenire altri testi.
Le opere di Agostino possono essere suddivise nei seguenti gruppi:
a) autobiografiche: le Confessiones, suddivise in due parti, di cui la prima (I-IX), ripercorre
le tappe fondamentali della sua vita fino alla conversione e alla morte della madre, mentre
la seconda (X-XIII) presenta la sua condizione all’epoca in cui scrive, “lodano il Dio giusto e
buono per le azioni buone e cattive che ho compiuto e volgono a Dio la mente e il cuore
dell’uomo” (Retract. II, 6) e le Retractationes, un’opera tarda, offrono brevi informazioni
sulle opere composte fino al 427, insieme a correzioni e aggiunte;
b) filosofiche, sono dialoghi risalenti perlopiù al periodo di Cassiciaco: Contra Academicos,
De vita beata, De Ordine, Soliloquia, De immortalitate animae (composto a Milano), De
quantitate animae (scritto a Roma), De magistro e De musica (redatti a Tagaste);
c) apologetiche: De vera religione (390), in cui si mostra che la Chiesa cattolica è la custode
integrale della verità e che Dio guida gli uomini alla salvezza tramite la forza della ragione e
l’autorità della fede; De civitate Dei (413-427), alcuni brevi opuscoli sulla fede;
d) dogmatiche: De Trinitate (399-420) in 15 libri, numerose opere di esposizione della fede
(il simbolo, le virtù teologali, il culto dei morti, la visione di Dio, i riti della Chiesa) e di
soluzione di questioni di carattere dogmatico, esegetico e filosofico;
e) esegetiche: De doctrina christiana (396-426), ampia opera di carattere generale in 4 libri,
e numerosi commenti a testi scritturistici, tra cui i più importanti sono De Genesi ad
litteram (401-414), In evangelium Ioannis (414-417), Enarrationes in Psalmos (392-416);
f) pastorali: De catechizandis rudibus, un manuale di istruzione catechetica, ricco di idee
pedagogiche, e una dozzina di opuscoli su matrimonio, verginità e vita monastica;
g) polemiche: De haeresibus, un ampio catalogo di 88 eresie, da Simon Mago a Pelagio, e
numerose opere rivolte contro Manichei, Donatisti, Pelagiani, Ariani e Giudei;
h) omiletiche: oltre 400 sermoni di vario argomento;
i) epistole: circa 300 lettere.
Nel suo esame della filosofia pagana Agostino non prende in considerazione né gli Epicurei né
gli Stoici, perché hanno una concezione inadeguata di Dio, ed accorda la preminenza a Platone,
che ha unito la morale socratica alla fisica pitagorica, aggiungendovi la dialettica. La superiorità
dei Platonici deriva dal fatto che “con la conoscenza di Dio trovarono l’essere in cui è la causa
dell’origine dell’universo, la luce per conoscere con certezza la verità e la sorgente in cui
dissetarsi con la felicità” (Civit. VIII, 10,12). Si può addirittura dire che “se quei grandi uomini
potessero di nuovo vivere con noi, di certo si renderebbero conto qual è l’autorità che più
facilmente provvede all’umanità e, operato qualche cambiamento nel linguaggio e nel modo di
pensare, diventerebbero cristiani, come hanno fatto la maggior parte dei Platonici dell’epoca
più recente e della nostra” (Vera rel. 4,7).
L’ammirazione per i platonici, non impedisce però ad Agostino di riconoscerne i limiti, al punto
da considerarli “pensatori rei d’empietà” (Retract. I, 1,4), in quanto alcune loro dottrine sono
pericolose per la vera fede. Per questo “io non ritengo Platone né un dio né un semidio e non lo
metto alla pari né con un angelo del sommo Dio né con un profeta veritiero né con un apostolo
né con un martire del Cristo né con un qualsiasi cristiano” (Civit. II, 14,2).
Ai Platonici rivolge la stessa accusa che muove ai Giudei: essi hanno intravisto la verità, ma si
sono rifiutati di vedere in Cristo la via per raggiungerla. “Essi riuscirono a vedere ciò che è, ma
videro da lontano. Non vollero aggrapparsi all’umiltà di Cristo, cioè a quella nave che poteva
condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve ai loro occhi spregevole” (In Io. 2,4).
In generale da Agostino “sono accettate le seguenti dottrine ‘pagane’: la filosofia intesa come
amore per la sapienza; l’attenzione per Dio e l’anima nella ricerca filosofica; intendere Dio
come causa delle cose che sono, luce del conoscere ordine del bene. Sono invece confutati: la
pratica dei culti pagani e la credenza in divinità inferiori, come i demoni intesi in senso di
indipendenti esseri divini, e non creature; l’idea del mondo come necessaria emanazione o
processione dal principio, quindi la necessità della creazione, l’eternità della creazione e anche
l’eternità della singola anima; la possibilità della metempsicosi e la dottrina che considera il
corpo come una punizione per l’anima […], mentre la pre-esistenza delle anime è una possibile
ipotesi sulla loro origine, mai sconfessata, ma nemmeno mai sostenuta apertamente o
dimostrata tramite le Scritture o la filosofia” (BETTETINI, Introduzione…, p. ).
La fede non elimina la ragione, ma la stimola e la promuove. La fede, infatti, è un cogitare cum
assensione e non sarebbe neppure possibile senza il pensiero: “infatti non ognuno che pensa
crede, dato che parecchi pensano proprio per non credere; ma ognuno che crede pensa, pensa
con il credere e crede con il pensare” […] perché la fede, se non è oggetto di pensiero, non è
fede” (Praed. Sanct. 2,5). Allo stesso modo la ragione non elimina la fede, ma la chiarifica: la
fede è utile anche al filosofo, perché costituisce la medicina che guarisce l’occhio dello spirito,
permettendogli di fissarsi con purezza sulla “verità permanente e indefettibile” (Conf. VI,4,6).
Agostino sviluppa questo tema rispondendo a un certo Consenzio, che riteneva che alla verità
si dovesse giungere con la fede e non con la ragione, perché “se la dottrina della santa Chiesa
potesse comprendersi con la ragione e non col sentimento religioso della fede, nessuno,
all’infuori dei filosofi e dei professori, arriverebbe al possesso della felicità” (Ep. 120,1,2).
Agostino precisa che “non si tratta di rigettare la fede, ma di percepire con la luce della ragione
le verità che già credi con la ferma fede”. Infatti la ragione è ciò che rende superiore l’uomo
agli animali, per cui è impensabile che Dio la disprezzi: per quanto riguarda la dottrina della
salvezza, ciò che non siamo in grado di comprendere ora, lo capiremo nell’altra vita, in questa
la fede deve aprire la strada alla ragione, purificandola e indirizzandola alla verità.
“Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della quale ci
ha creati superiori agli altri esseri animati. Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di
trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non
potremmo neppure credere, se non avessimo un’anima razionale. Quando perciò si tratta di
verità concernenti la dottrina della salvezza, che non possiamo ancora comprendere con la
ragione (ma lo potremo un giorno), alla ragione deve precedere la fede; essa purifica la mente
e la rende capace di percepire e sostenere la luce della suprema ragione divina” (Ep. 120,1,3).
CRISTIANESIMO E FILOSOFIA. La filosofia cristiana, che nasce propriamente solo con Agostino, si
caratterizza quindi come un filosofare nella fede, che può attingere alla riflessione dei
pagani, ma si muove in un altro orizzonte, perché “nessuno può attraversare il mare di questo
secolo, se non è portato dalla croce di Cristo” (In Io. 2,2). È certo possibile “cercare il Creatore
attraverso le creature”, come attesta l’apostolo Paolo (Rm. 1,20), ma, si corre il rischio di
diventare preda dell’orgoglio, come è accaduto ad alcuni filosofi antichi, che “avevano visto
dove bisognava andare, ma, ingrati verso colui che aveva loro concesso questa visione,
attribuirono a se stessi ciò che avevano visto; diventati superbi, si smarrirono, e si rivolsero
agli idoli, ai simulacri, ai culti demoniaci, giungendo ad adorare la creatura e a disprezzare il
Creatore”. Nei loro libri si poteva persino incontrare l’affermazione che “Dio ha un unico figlio
per mezzo del quale furono fatte tutte le cose” (In Io. 2,3), tuttavia, ritenendosi sapienti, essi
non lo riconobbero e non lo adorarono come Dio. Cristo stesso si è fatto la via che conduce alla
verità (Gv. 14,20), facendosi crocefiggere per insegnare all’uomo l’umiltà.
Quanto al contenuto, la filosofia agostiniana ha come unico oggetto Dio e l’anima (cfr. Sol.
I,2,7), nella convinzione che unica è la strada che conduce a entrambe le mete, perché cercare
l’anima significa cercare Dio, dal momento che “ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa
finché non riposa in te” (fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te:
Conf. I,1,1). Di conseguenza l’oggetto ultimo della ricerca filosofica non è il mondo, ma l’uomo,
visto però non in astratto, come avveniva nella filosofia greca, che si interrogava sull’essenza
dell’uomo in generale, bensì nella sua singolarità irripetibile e nella sua originaria apertura a
Dio. Per questo Agostino parla continuamente di sé, della propria vita e delle persone a lui
care, rivolgendo costantemente la sua indagine su se stesso: “io stesso ero diventato per me
un grande enigma” (factus eram ipse mihi magna quaestio: Conf. IV,4,9).
LA RICERCA DELLA VERITÀ. Nel procedere alla ricerca della verità, occorre in primo luogo
sbarazzarsi delle obiezioni avanzate dagli Accademici, che con il loro scetticismo negavano la
possibilità stessa di arrivare alla verità. Ricollegandosi direttamente agli Academica ciceroniani,
Agostino afferma che il dubbio scettico rovescia se medesimo, e, nel momento stesso in
cui pretenderebbe di negare la verità, la riafferma: infatti quantomeno della nostra esistenza
non possiamo dubitare, perché per dubitare devo pensare e quindi esistere.
“Se m’inganno, esisto. Chi non esiste, non si può neanche ingannare e per questo esisto se
m’inganno. E poiché esisto se m’inganno, non posso ingannarmi d’esistere, se è certo che
esisto perché m’inganno. Poiché dunque, se m’ingannassi, esisterei, anche se m’ingannassi,
senza dubbio non m’inganno nel fatto che ho coscienza di esistere” (Civ. Dei XI, 26).
Il si enim fallor, sum agostiniano, costituisce un’indubbia anticipazione del cogito ergo sum
cartesiano, anche se è diretto a uno scopo profondamente diverso.
Inoltre per dubitare della verità, occorre già trovarsi in qualche modo all’interno della verità.
“Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di
dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo […] Chiunque comprende
che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero.
Ciò vuol dire che chiunque dubita dell’esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non
può dubitarne. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità
chi ha potuto dubitare per qualche motivo” (Vera rel. 39,73).
DIO E LA VERITÀ. Esiste un rapporto originario tra l’uomo e la verità. Tuttavia, pur essendo da
sempre nella verità, l’uomo comprende di non essere egli stesso la verità, perché si scopre
imperfetto e mutevole, mentre la verità è assoluta e immutabile. Ne consegue che la verità
non può che coincidere con Dio: la dimostrazione dell’esistenza della verità si riduce così alla
dimostrazione dell’esistenza di Dio, che in sostanza si articola nei seguenti passaggi:
a) dall’esteriorità delle cose sensibili si passa all’interiorità dell’animo umano;
b) dalla verità che è presente nella coscienza si risale a Dio come principio di ogni verità.
“Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che
la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso,
che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della
ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la
verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la
ragione. Vedi in ciò un’armonia insuperabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa.
Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei
giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della
mente, in modo che l’uomo interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel
basso piacere della carne, ma in quello supremo dello spirito” (Vera rel. 39, 72).
A questo proposito, Agostino modifica la dottrina platonica delle Idee in due punti:
1. come Filone, Plotino e alcuni Padri greci, considera le Idee i pensieri di Dio, da sempre
presenti nel suo intelletto, che nel loro insieme costituiscono il “mondo intellegibile”, cioè “la
stessa eterna e immutabile ragione con la quale Dio ha creato il mondo” (Retr. I,3,2);
2. respinge la dottrina dell’anamnesi, trasformandola nella teoria dell’illuminazione: con la
creazione Dio, che, in quanto puro essere, partecipa l’essere alle creature, in quanto somma
verità, partecipa alle cose la capacità di manifestare alla mente la verità che è in esse e alla
mente la capacità di riconoscere la verità presente nelle cose; pertanto l’anima non ricorda,
ma scopre in sé la luce della verità comunicatagli da Dio.
L’uomo può arrivare a conoscere la verità solo perché Dio, che è “autore di tutti gli esseri,
datore dell’intelligenza e animatore dell’amore” (Civit. XI, 25) illumina la sua mente. Pertanto
l’illuminazione non implica alcuna forma di misticismo, in quanto rappresenta uno strumento
presente per natura nell’anima umana: anche l’ateo riconosce che le verità matematiche sono
immutabile ed eterne, anche se poi non è in grado di riconoscere in Dio il loro fondamento.
Alla conoscenza delle Idee può arrivare solo la mens, cioè la parte più elevata dell’anima, ma
“non si deve ritenere idonea a questa visione ogni e qualsiasi anima, ma solo quella che è
santa e pura, quella cioè che ha l’occhio integro, sincero, sereno e assimilato alle realtà che
desidera vedere, e con il quale le vede” (Div. quaest. 46,2). Riprendendo riflessioni sulla
purificazione e l’assimilazione a Dio sviluppate in ambito platonico e rileggendole alla luce delle
considerazioni evangeliche sulla buona volontà e la santità, Agostino arriva così ad affermare
che la purezza dell’anima costituisce una condizione necessaria per la visione della Verità.
Fondamentalmente Agostino si serve di tre vie convergenti, che si articolano secondo la forma
triadica che è propria dello spirito umano:
1. la via dell’essere, che va dal mutevole all’immutabile, era già nota alla filosofia greca e
consiste nell’esaminare la realtà alla ricerca di un essere che sia immutabile, in quanto
“essere è nome indicante immutabilità” e “il vero essere, il genuino essere, il puro essere
non ce l’ha se non chi non muta” (Ser. 7,7): dal momento che sia le realtà corporee, che
l’anima si rivelano mutevoli si deve concludere che l’unica realtà che non diviene è Dio;
2. la via della verità, che parte dall’interiorità della coscienza, è quella più propriamente
agostiniana, in quanto si fonda sulla dottrina dell’illuminazione, e consiste nel risalire a Dio a
partire dalle verità necessarie ed eterne che l’anima, in sé mutevole, scopre in sé stessa:
dal momento che l’anima non può essere l’origine di tali verità;
3. la via dell’amore, si presenta in due differenti forme che si fondano:
a) sulla constatazione che nella realtà è presente una graduazione di beni, che, in quanto
tali, suppongono un sommo bene, per partecipazione al quale le singole cose si dicono
buone: “questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il
bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la sua bontà da un altro bene, ma
è il Bene di ogni bene” (Trin. 8,3,4);
b) sulle aspirazioni che sono presenti nel cuore dell’uomo, che è per natura insoddisfatto e
inquieto finché non aderisce al sommo bene: se questo non esistesse, questa aspirazione
resterebbe insoddisfatta e l’uomo sarebbe un essere privo di senso.
Tutte queste vie termina con una delle tre nozioni fondamentali con cui concepiamo Dio e che
troviamo impresse nella nostra anima: essere, verità e amore. Per questo è pressoché
impossibile non riconoscere l’esistenza di Dio: “tale infatti è l’evidenza della vera divinità, che
essa non può rimanere del tutto nascosta alla creatura razionale che sia ormai capace di
ragionare”. Pertanto Agostino accetta anche l’argomento, anch’esso già noto ai filosofi pagani,
del consensum gentium: infatti “fatta eccezione di pochi, nei quali la natura è troppo
depravata, tutto il genere umano riconosce Dio come autore di questo mondo”. Per questo
“come creatore di questo mondo che si offre al nostro sguardo in cielo e sulla terra, Dio era
noto a tutte le genti, anche prima che abbracciassero la fede di Cristo” (In Io. 106,4).
LA TRINITÀ. La riflessione sul mistero trinitario viene sviluppata nel De Trinitate, un testo che
ha esercitato un’influenza decisiva sulla teologia occidentale. L’opera venne stesa in due tempi:
i primi dodici libri, pubblicati senza il consenso dell’autore, furono composti tra il 399-412, i
restanti tre e la redazione finale del testo risalgono al 420.
La struttura dell’opera è sostanzialmente la seguente:
I-IV : teologia biblica della Trinità;
V-VII : teologia speculativa e difesa del dogma trinitario;
VIII : la conoscenza di Dio attraverso la verità, il bene, la giustizia e l’amore;
IX-XIV : l’immagine della Trinità nell’uomo;
XV : ricapitolazione, testimonianze della Scrittura sull’origine del Figlio e dello Spirito Santo.
I Greci per esprimere concettualmente la Trinità parlano di “una essentia, tres substantiae”,
mentre i Latini di “una essentia vel substantia, tres Persones”, dato che per loro essentia e
substantia sono sinonimi, ma, al di là di questa differenza terminologica, entrambi intendono
dire la stessa cosa (VII,4,7). Secondo questa concezione Padre, Figlio e Spirito Santo hanno
un’uguaglianza sostanziale: l’aequalitas personarum si fonda sull’unitas essentiae, per cui la
Trinità si presenta come “Dio unico e solo, buono, grande, eterno, onnipotente” (V,11,12).
“Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo con la loro assoluta parità in una sola e medesima sostanza
mostrano l’unità divina e pertanto non sono tre dei, ma un Dio solo, benché il Padre abbia
generato il Figlio e quindi non sia Figlio colui che è Padre; benché il Figlio sia stato generato dal
Padre e quindi non sia Padre colui che è Figlio; benché lo Spirito Santo, non sia né Padre né
Figlio ma solo lo Spirito del Padre e del Figlio, pari anch’egli al Padre e al Figlio, appartenente
con essi all’unità della Trinità” (I,4,7).
L’elemento più caratteristico della dottrina trinitaria di Agostino consiste nelle analogie
triadiche che egli scopre nel creato, che, da semplici vestigia della Trinità quali sono nelle cose
e nell’uomo esteriore, nell’anima umana diventano vera immagine della Trinità medesima, dato
che, parlando della creazione dell’uomo, la Scrittura afferma che “Dio disse: facciamo l’uomo a
nostra immagine e somiglianza” (Gn. 1,26). Poiché infatti “veniva fatto ad immagine della
Trinità, per questo si ha l’espressione: ad immagine nostra” (XII,6,6).
A un primo livello, poiché tutte le realtà create, sia i corpi materiali, che le anime incorporee,
presentano essere, forma e ordine e poiché dalla creatura è possibile risalire al creatore, si
può ritenere che questi caratteri siano vestigia che la Trinità ha impresso nella sua opera, così
come misura, numero e peso nelle realtà sensibili (cfr. Sp. 11,20).
A un livello più alto, l’immagine della Trinità è inscritta nella natura stessa dell’uomo, in quanto
la sua mente presenta una struttura trinitaria, perché è anch’essa una e trina, in quanto è
spirito, conosce ed ama, esattamente come Dio è Essere (il Padre), Intelligenza (il Figlio) e
Amore (lo Spirito). Inoltre essa, pur essendo una, è costituita da tre facoltà, la memoria, cioè
la presenza dell’anima a se stessa (in termini moderni diremmo autocoscienza), l’intelligenza
e la volontà, che corrispondono anch’esse alle tre persone divine.
LA CREAZIONE. Il problema metafisico che aveva travagliato maggiormente i filosofi antichi era
quello della derivazione del molteplice dall’Uno: tuttavia essi non erano arrivati all’idea di
creazione, che è di origine biblica, perché erano rimasti legati al principio che nulla deriva dal
nulla. Il filosofo che più si era avvicinato all’idea di creazione era stato Platone, per il quale
però l’attività del Demiurgo si limitava a plasmare la materia eterna in base al modello eterno
delle Idee. Questa concezione venne lasciata cadere già dall’antica Accademia, che aveva
eliminato la figura del Demiurgo, affermando che la narrazione del Timeo non doveva essere
interpretata in modo letterale, mentre Plotino aveva finito con il dedurre le Idee e la stessa
materia dall’Uno, attribuendo l’opera di ordinamento del cosmo all’Anima del mondo.
Per Agostino la soluzione creazionistica, che è ad un tempo verità di fede e di ragione, viene
presentata con chiarezza esemplare: la creazione delle cose è dal nulla, nel senso che esse
non derivano né dalla sostanza di Dio (Plotino), né da qualcosa di preesistente (Platone):
“creatio est productio rei ex nihilo sui et subiecti”, come dirà Tommaso (STh. I, 45, 1).
IL TEMPO. Nelle Confessioni Agostino ha dedicato un’ampia trattazione al problema della natura
del tempo, arrivando a elaborare una soluzione, che in parte era già stata anticipata da
Aristotele, ma che viene da lui sviluppata in senso marcatamente spirituale.
Il tempo, benché ci appaia cosa “nota e familiare” (XI,14,17), costituisce “un complicatissimo
enigma” (XI,22,28). L’unica cosa certa è che è strettamente legato al movimento, perché
“senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non
esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente”. Non
appena però cerchiamo di comprenderne la natura esso ci sfugge di mano, infatti il passato
non è più, il futuro non è ancora e il presente è un continuo a cessare di essere, perché “se
fosse sempre e non trascorresse nel passato, non sarebbe più tempo, ma eternità”.
La conclusione è sconfortante: “non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non
in quanto tende a non esistere (XI,14,17).
LE RAGIONI ETERNE. Dio crea il mondo attraverso la sua parola, ma questa parola di cui parla la
Scrittura (Gn. 1), non è una parola sensibile, bensì il Verbo di Dio, che ha in sé le Idee o
ragioni immutabili di tutte le cose. Tali Idee hanno un ruolo essenziale nella creazione, perché
Dio ha creato il mondo secondo ragione, producendo ogni cosa in base a un modello che Egli
stesso ha prodotto come suo pensiero. Le Idee (formae, species, rationes) sono appunto i
modelli ideali di cui Egli si è servito per creare il mondo. Esse sono eterne e immutabili e
costituiscono la vera realtà delle cose create, che esistono in quanto ad esse partecipano.
Tuttavia non sono paradigmi assoluti superiori al Creatore, ma esistono nella mente divina e
vengono concepite come pensieri di Dio, o come il Verbo di Dio e la Somma Sapienza.
Per piegare la creazione, Agostino si serve, oltre che delle Idee, anche delle ragioni seminali,
(rationes seminales), introdotte dagli Stoici e successivamente rielaborate in chiave metafisica
da Plotino. La creazione del mondo avviene in maniera simultanea, ma Dio non crea la totalità
delle cose possibili come già attuate, ma immette nel creato i “semi” o “germi” di tutte le cose
possibili, che poi, nel corso del tempo, si perfezionano in vario modo, assicurando al mondo
l’ordine e lo sviluppo del cosmo, agendo come cause seconde dell’azione divina.
Dio ha creato la materia, che perde così quel carattere di negatività che la filosofia greca le
aveva sempre attribuito, ponendo virtualmente in essa le ragioni seminali, cioè tutte le sue
possibili modalità di attuazione. L’evoluzione del mondo nel corso del tempo costituisce così il
progressivo attuarsi di tali potenzialità e, quindi, la prosecuzione dell’azione creatrice di Dio.
LA NATURA UMANA. Per definire l’uomo Agostino si avvale ancora di formule platoniche, come
quella secondo cui è “un’anima razionale che si serve di un corpo mortale e terreno” (Mor.
Eccl. Cath. I,27,52). Tuttavia, in lui le nozioni di anima e di corpo vengono ad assumere un
significato del tutto nuovo in virtù del concetto di creazione, della dottrina della resurrezione
della carne e, soprattutto, del dogma dell’incarnazione del Cristo. In questo modo il corpo
acquista una positività che nella filosofia greca non aveva mai avuto, diventando qualcosa di
ben più importante di quel “vano simulacro” di cui Plotino si vergognava (PORF. Vita Plotini, 1).
L’uomo è “l’unione [mixtura] di anima e corpo” (Ep. 137,3,11) o, per usare una definizione che
risale a Cicerone (Fin. bon. et mal. 5,12,34), “una sostanza razionale che consta di anima e di
corpo” (Trin. XV,7,11). Il corpo appartiene per natura all’uomo: “è pazzo dunque chi vuol
considerare estraneo alla natura umana il corpo” (An. et eius or. IV,2,3). Pertanto non può
essere considerato il carcere dell’anima: “non il corpo ma il corpo soggetto a corruzione è un
peso per l’anima” (Civ. Dei XIII,6 cfr. Sp. 9,15) e il corpo è diventato tale a causa del peccato
commesso dalla volontà libera. Il corpo, o, come dice la Bibbia, la carne non è l’origine di ogni
male, “perché nel suo genere e ordine essa è buona” (Civ. Dei XIV,5), tutto dipende dalla
volontà dell’uomo: “se è perversa avrà inclinazioni perverse, se è retta non solo saranno
immuni da colpa ma anche degne di lode” (Civ. Dei XIV,6). Al dualismo ontologico di Platone,
Agostino contrappone quello che possiamo chiamare un dualismo morale.
In che modo poi l’anima si unisca al corpo così da formare un’unica realtà, è problema che
Agostino non si sente in grado di risolvere: “il modo, con cui gli esseri spirituali si congiungono
al corpo e diventano esseri animati, è assolutamente meravigliosa [omnino mirus] e non può
essere compresa dall’uomo” (Civ. Dei XXI,10).
A favore dell’immortalità dell’anima Agostino avanza varie prove, in parte di origine platonica:
1. la somiglianza che intercorre tra l’anima umana e il suo Creatore: “se essa è stata
fatta ‘ad immagine di Dio’ (Gn. 1,27), nel senso che può far uso della ragione e
dell’intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che, dal momento in cui ha
incominciato ad esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine
sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che
sia chiara e bella, non cessa di essere” (Trin. XIV, 4,6);
ORIGINE DELL’ANIMA. Agostino affermò sempre con chiarezza che l’anima è creata da Dio, ma
non riuscì mai a pronunciarsi risolutamente a favore di una delle tesi relative alla modalità di
generazione delle singole anime, che all’epoca si riducevano alle seguenti:
preesistenza delle anime
origine per una caduta dovuta a una colpa originaria,
creazione diretta di ogni singola anima da parte di Dio,
origine per discendenza (traducianesimo).
Se nelle opere della maturità arrivò a riconoscere che le prime due ipotesi erano incompatibili
con la Scrittura, tuttavia non riuscì mai a vincere le sue perplessità sulle ultime due:
se l’anima è creata direttamente da Dio non si capisce come possa trasmettersi il peccato
originale, perché è impossibile che da Dio provenga qualcosa di contaminato;
se l’anima si trasmette di padre in figlio, non si riesce a comprendere come il germe
incorporeo dell’anima possa passare nella madre al momento del concepimento.
IL MALE. Un problema che tormentò Agostino per tutta la vita è quello dell’origine del male,
efficacemente sintetizzato dall’interrogativo boeziano “si Deus quidem est, unde mala? bona
vero unde, si non est?” (Cons. phil. I,4,30 cfr. Conf. VII, 5,7). Inizialmente egli rimase vittima
della spiegazione dualistica manichea, poi, con la conversione si avvicinò alla soluzione data da
Plotino, secondo cui il male non è sostanza, bensì privazione di essere.
In conclusione l’ordine universale, avendo come principio il sommo bene, non può che essere
buono, quanto vi si introduce di male è frutto di una volontà intelligente (l’uomo o i demoni),
che, in quanto realtà subordinata, non può mai intaccare veramente quell’ordine, anzi finisce
con il renderlo ancora più stupefacente, facendo risaltare ancora di più, per contrasto, il bene e
l’ordine presenti nel creato. “Nulla può avvenire fuori dell’ordinamento divino [Dei ordinem]. Il
male stesso, in quanto all’origine, l’ha avuta fuori dell’ordinamento divino, ma la giustizia
divina non ha lasciato che rimanesse fuori dell’ordinamento e l’ha ricondotto e costretto a
rientrare nella legge che gli è competente” (Ord. II,7,23).
IL PECCATO E LA GRAZIA. Di fronte a Pelagio, secondo cui l’uomo anche dopo il peccato originale
può operare secondo virtù senza bisogno del soccorso straordinario della grazia elargita da Dio,
Agostino fu costretto ad approfondire il problema del rapporto tra grazia e libero arbitrio.
Egli ritiene che, se non si vuole vanificare l’opera redentrice di Cristo, bisogna riconoscere che
l’uomo non è in grado di salvarsi con le sue sole forze. In Adamo tutta l’umanità ha peccato,
per cui l’intero genere umano è una massa perditionis (Corr. et gratia 7,12) che non può
sottrarsi alla giusta punizione, se non in virtù della misericordia di Dio. La volontà, infatti, è
veramente libera quando non è asservita al peccato e, nella condizione attuale solo la grazia
divina può restituire all’uomo la libertà nella sua integra purezza.
Nel De correptione et gratia, Agostino distingue due livelli nella libertà, minor in Adamo, e
maior nei beati (12,33), a cui si aggiunge la condizione dell’uomo nello stato presente.
In Adamo il libero arbitrio consisteva nel “poter non peccare” (posse non peccare), ma, dopo la
colpa originaria, l’uomo si trova a “non poter non peccare” (non posse recte agere: Contra Iul.
VI,10), per cui può vincere il peccato solo con l’aiuto della grazia concessa da Dio per i meriti
di Cristo. Ai beati, invece, Dio concederà la libertà di “non poter peccare” (non posse peccare),
che non appartiene in alcun modo alla natura umana ed è puro dono divino, grazie alla quale
l’uomo parteciperà dell’impeccabilità che è propria solo di Dio.
IL RITORNO A DIO. Secondo Agostino, l’uomo porta impressa nella propria natura l’immagine
della Trinità, in virtù delle tre facoltà che lo caratterizzano, memoria, intelligenza e amore, e
che costituiscono un’unica vivente realtà. “Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so
di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà
e siano un’unica vita, un’unica intelligenza [mens] e un’unica essenza, come infine non si
possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può” (Conf. XIII, 11,12).
È in virtù di questa struttura che l’uomo, che da Dio proviene, può ritornare al suo creatore,
secondo quel duplice processo di πρόοδος ed ἐπιστροφή, che aveva caratterizzato la filosofia di
Plotino. Tuttavia questa intima somiglianza con Dio che l’anima scopre in se stessa offre solo la
possibilità di rapportarsi a Dio, ma non garantisce in alcun modo la sua realizzazione. L’ultima
parola spetta alla volontà, che può indirizzarsi al sommo bene o rivolgersi alle creature.
Nel De quantitate animae Agostino precisa che l’ascesa dell’anima fino a Dio si realizza in sette
tappe: le prime tre, ispirate probabilmente a Varrone, sono l’anima cosmica, che l’uomo ha in
comune con le piante, l’anima sensibile, che lo accomuna agli animali, l’anima razionale, che è
propria solo dell’uomo; le altre quattro desunte da Plotino forse attraverso le Sentenze sugli
intelleggibili di Porfirio sono l’anima che si purifica, l’anima purificata, il desiderio dell’anima di
contemplare le realtà che sono in sommo grado e infine la visione della Verità (33,70-76).
Agostino distingue tra l’uomo vecchio, esteriore e carnale, che nasce, cresce e muore come
ogni altra creatura, e l’uomo nuovo, interiore e spirituale, in grado di rinascere, progredire
spiritualmente e ricongiungersi a Dio. Tra i due l’uomo è chiamato a una scelta radicale:
l’uomo vecchio, cioè Adamo, appartiene alla menzogna; l’uomo nuovo, figlio dell’uomo, cioè
Cristo Dio, appartiene alla verità. Se abbandoni la menzogna, spogliati di Adamo; se la tua
parola è secondo verità, rivesti Cristo” (Serm. 166,2).
Pertanto l’uomo può decidere di vivere:
secondo la carne, restando tenacemente attaccato alle realtà create e immergendosi
sempre più nel peccato e nella menzogna, così da divenire simile al diavolo;
secondo lo spirito, amando il suo creatore e rafforzando il suo rapporto con Lui, così da
prepararsi a partecipare della sua eternità nella vita beata.
L’unica scelta autentica è però la seconda, perché con essa l’uomo decide di aderire all’essere,
e quindi a Dio, perché “quando l’uomo vive secondo la verità, non vive secondo se stesso ma
secondo Dio”, mentre se “vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo, non secondo Dio,
certamente vive secondo menzogna” (Civ. Dei XIV,4,1). Per essere se stesso, gli uomini così
come gli angeli, devono vivere secondo Dio, da cui hanno ricevuto “il principio dell’essere, la
verità del sapere e la felicità del vivere” (Civ. Dei VIII,9).
L’ORDINE DELL’AMORE. Dio è amore e l’uomo è chiamato a partecipare all’amore di Dio. Per
Agostino, a differenza della filosofia greca, l’uomo buono non è quello che è in grado di
contemplare il bene, ma quello che ama ciò che deve amare: quando l’amore è diretto verso
Dio è charitas, quando è diretto verso sé e verso i beni mondani, diventa cupiditas.
Tutte le passioni si riducono all’amore, ma l’amore è buono o cattivo a seconda dell’ordine
delle cose, che è tale in quanto è conforme alla legge eterna. La virtù diventa così l’ordo
amoris, (Civ. Dei XV,22), cioè amare se stessi, gli altri e le cose secondo il giudizio di Dio e
quindi secondo la dignità ontologica che è propria di ogni cosa. Le stesse virtù cardinali si
riducono a diverse modalità dell’amore: “la virtù non è altro che amare ciò che si deve amare:
sceglierlo è prudenza, non esserne distaccati da nessuna molestia è fortezza, da nessuna
lusinga è temperanza, da nessun sentimento di superbia è giustizia” (Ep. 155,4,13).
OCCASIONE. Il 24 agosto 410 i Visigoti di Alarico entravano a Roma e per tre giorni la
saccheggiarono, dandola alle fiamme e commettendo ogni sorta di efferatezza. L’episodio ebbe
vastissima risonanza e lasciò in uno stato di esterrefatto stupore il mondo, perché Roma,
benché ormai priva di effettivo ruolo politico costituiva ancora un mitico punto di riferimento.
Di fronte al crollo di un ideale politico, religioso e culturale, l’élite pagana reagì inasprendo le
accuse contro i cristiani, colpevoli di aver introdotto una dottrina impotente sul piano politico,
incompatibile con la morale tradizionale e alla mercé di decisioni divine arbitrarie e mutevoli.
Anche molti cristiani restarono profondamente turbati, perché, dopo l’editto di Costantino del
313, avevano iniziato a vedere nell’Urbe la nuova capitale religiosa del mondo. Girolamo arrivò
addirittura ad esclamare che “la fiaccola del mondo s’è spenta […] e nella rovina di una sola
città tutto il genere umano perisce” (In Ezechielem, I, praef.).
Questa serie di avvenimenti indusse Agostito a scrivere, tra il 412 e il 426, i 22 libri del De
Civitate Dei contra paganos. Non si tratta però di un’opera di carattere puramente occasionale,
ma di una grande apologia del Cristianesimo, in cui confluiscono e vengono sviluppate
concezioni che da tempo egli andava maturando e che con ogni probabilità avrebbe elaborato
anche se il sacco di Roma non fosse mai avvenuto.
STRUTTURA DELL’OPERA. Il piano generale in cui si articola la Città di Dio è presentato dallo
stesso Agostino in Retractationes II,43 e in una lettera al presbitero Firmo (Ep. 212/A), che era
stato incaricato della pubblicazione e della diffusione dell’opera:
Pars destruens: confutazione degli errori dei pagani
I-V: la pretesa del politeismo di garantire all’uomo fortuna e prosperità sul piano temporale;
VI-X: la pretesa del politeismo di assicurare all’uomo la beatitudine e salvezza dopo la morte;
Pars costruens: lo scontro tra città di Dio e città del mondo
XI-XIV: la genesi delle due città a partire da una interiore scelta religiosa;
XV-XVIII: lo sviluppo delle due città attraverso il tempo e la storia;
XIX-XXII: la sorte escatologica delle due città.
METODO. Il metodo adottato da Agostino “si articola in tre momenti essenziali: 1) affermazione
aperta e fiera della dottrina cristiana; 2) ricupero diligente e attento della dottrina antica nella
parte che essa possiede di vero e di valido; 3) dimostrazione serrata, quasi puntigliosa, che la
dottrina cristiana non nega, ma perfeziona questa stessa parte sublimandola in una visione
divina della storia che offre una soluzione a molti problemi che la ragione umana pone – e i
filosofi pagani avevano posto – ma non sa risolvere o risolve male” (TRAPÈ, p. XVII).
La critica di Agostino non mira, quindi, a distruggere l’avversario, ma intende introdurlo alla
vera fede, dissipando nel contempo i dubbi che agitavano gli stessi cristiani. Si tratta, infatti, di
recuperare la religiosità autentica nel cuore dell’uomo, liberandola dall’apparato mitico e
superstizioso che la stravolge, così da aprirla alla prospettiva universale e liberante della fede
in Cristo, unico vero mediatore tra Dio e gli uomini.
LE DUE CITTÀ. Esaurita la confutazione del paganesimo, Agostino sviluppa nella seconda parte
del De civitate Dei una vera propria teologia della storia, fondata su un duplice presupposto:
1. la concezione lineare del tempo: la creazione, l’incarnazione e la παρουσία segnano in modo
irreversibile il corso del tempo, liberando l’uomo “dai futili e insignificanti giri ciclici dei
miscredenti” (XII,20,3) per aprirgli un futuro di speranza e di salvezza;
2. il legame che unisce tutti gli uomini in virtù dell’origine e del destino che li accomuna rende
possibile concepire l’idea di una storia universale condivisa da tutti i popoli, che, grazie
all’azione della provvidenza divina, non si riduce a una successione casuale di eventi senza
senso, ma costituisce una totalità organica dotata di un significato e di uno scopo.
In particolare Agostino fonda la sua interpretazione della storia sulla contrapposizione tra due
città. Infatti la Scrittura ci testimonia “che esiste una città di Dio”, di cui “abbiamo desiderato
essere cittadini con quell’amore che ci ha ispirato il suo fondatore”, al quale “i cittadini della
città terrena antepongono i propri dei” (XI,1). Si tratta di due opposte comunità di culto,
fondate l’una sull’amore e l’altra sulla libido dominandi, la sete di potere (I, praef.).
L’ORIGINE. Nella prima parte Agostino si sofferma sulla genesi delle due città, partendo dalla
creazione del mondo e degli angeli, che sono la prima componente della città edificata da Dio
stesso, a cui si contrappone, in seguito alla ribellione di una parte delle schiere angeliche, una
seconda città, il cui è autore il diavolo. Si costituiscono così due società contrapposte: “la
natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura
dal peccato genera i cittadini della città celeste” (XV,2).
I FINI. Infine Agostino presenta il destino escatologico delle due città, “di cui una è destinata
a regnare eternamente con Dio, l’altra a subire un eterno tormento col diavolo” (XV, 1,1).
Si tratta di “due società umane”, ma, se la città terrena, che “ha in questo mondo il suo ideale”
(XV,4) rifiuta l’eternità rinchiudendosi in se stessa, la città celeste, che è pellegrina sulla terra,
ha nella condizione eterna il suo status più proprio, a cui tende mentre è ancora nel tempo.
“La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino
finché giunga il tempo del suo regno. Allora radunerà tutti i risorti con il loro corpo, quando
sarà loro dato il regno dove regneranno senza limite di tempo con il loro fondatore” (XV,1,2).
Nell’esaminare i “debiti fines” (XIX,1) delle due città, Agostino affronta due problemi di
particolare importanza: la definizione del fine ultimo e il significato della resurrezione.
Dio è nel contempo il fine dell’esistenza umana e la via per raggiungerlo, perché è la fonte
dell’ordine morale (ordo vivendi), a cui l’uomo deve conformare la propria vita per ottenere la
piena felicità. Tuttavia il fine ultimo dell’uomo consiste non solo nella vita eterna, ma anche
nella pace, la tranquillitas ordinis (XIX,13,1). Entrambe le città, ciascuna a suo modo, aspirano
ad essa, ma la vera pace è raggiunta solo dalla città celeste, perché i suoi cittadini ne godono
in comunione con Dio, nel tempo per mezzo della fede e nella vita eterna attraverso la visione.
La resurrezione della carne è attestata dalla Scrittura (1 Ts. 4,13-17; Is. 66, 1-16) e non
può essere messa in dubbio, perché l’anima non può godere di una perfetta beatitudine se non
è unita al corpo. Ai filosofi pagani che la ritengono impossibile Agostino oppone l’onnipotenza
di Dio. Del resto molti, dotti e ignoranti, hanno creduto che Cristo è risorto e che il suo corpo è
stato elevato al cielo: ora “se hanno creduto una cosa credibile, riflettano quanto sono stolti
quelli che non credono; se invece è stata creduta una cosa incredibile, anche questo è
incredibile, che sia stato creduto ciò che è incredibile” (XX,5). Con la resurrezione il corpo sarà
spirituale, ma rimarrà corpo, “caro spiritalis, tamen caro, non spiritus” (XXII,21).
Le pene dei dannati sono eterne, perché non hanno carattere emendatorio, ma servono a
ristabilire l’ordine che i peccatori hanno leso, infatti “la giustizia divina vuole [...] che, se uno
ha perduto volontariamente un bene che avrebbe dovuto amare, soffra la pena d’aver perduto
il bene da lui amato” (De Gen. ad litt. VIII,14,31).
La beatitudine celeste consiste nel riposo dell’uomo in Dio, che implica l’assenza di ogni
male, la cessazione di ogni fatica e il compimento di ogni desiderio e si traduce nella visione,
nell’amore e nella lode incessante di Dio. “Vi sarà dunque nella città dell’alto una sola libera
volontà in tutti e inseparabile in ognuno, resa libera da ogni male e ripiena di ogni bene, che
gode senza fine della dolcezza delle gioie eterne, immemore delle colpe, immemore delle pene,
ma non della sua liberazione affinché non sia ingrata al suo liberatore” (XXII,30,4).
Agostino non mostra un interesse specifico per la politica, che non ha per lui parte alcuna
nell’itinerario che porta a Dio: “per quanto attiene alla vita di individui destinati a morire, la
quale in pochi giorni si svolge e giunge alla fine, che differenza fa il potere della persona, alla
quale un individuo che deve morire vive soggetto, se i governanti non costringono ad azioni
empie ed ingiuste?” (Civ. Dei V,17,1). Tuttavia nella sue opere è possibile rintracciare degli
accenni a una teoria politica, sia pure non inseriti in una visione organica.
LO STATO. Nell’ordine naturale previsto dalla creazione, l’uomo avrebbe potuto vivere in piena
autonomia, senza essere soggetto a nessuno, perché Dio “volle che l’essere ragionevole,
creato a sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli” (XIX, 15). Tuttavia
in seguito al peccato originale la sua condizione mutò radicalmente e si trovò costretto a
cercare di realizzare una comunità che gli garantisse almeno la sopravvivenza.
Infatti “gli uomini, con le loro cupidigie perverse e disordinate, divengono come i pesci che si
divorano a vicenda” (En. in Ps. 64,9), e tocca allo stato, che si pone tra il disordine che è
proprio dell’uomo e l’ordine che proprio di Dio, garantire una convivenza pacifica. Il ruolo dello
stato è così importante che “Dio non permetterà che periscano con Babilonia, avendoli
predestinati ad essere cittadini di Gerusalemme” (En. in Ps. 136,2), quanti all’interno della
città terrena operano lealmente per la pace temporale, affrontando per essa gravi fatiche.
Di conseguenza anche la Chiesa nel corso del suo pellegrinaggio terreno, pur aspirando al
cielo, “non dubita di sottomettersi alle leggi della città terrena, con le quali sono amministrati i
beni messi a disposizione della vita che è nel divenire” (Civ. Dei XIX,17).
L’uomo è un essere sociale, è la sua stessa natura a spingerlo ad associarsi agli altri uomini
per contrastare la discordia a cui le passioni lo indirizzano: “l’uomo è indotto in certo senso
dalle leggi della propria natura a stringere un vincolo e a raggiungere la pace con tutti gli
uomini per quanto dipende da lui” (XIX, 12,3). Questo desiderio di concordia non può essere in
eliminato, anche se può talvolta esprimersi in modo distorto. Nato per garantire la pace, lo
stato costituisce, infatti, anche il luogo privilegiato del manifestarsi delle passioni e della
cupiditas dei beni terreni: dominio, ricchezza, onori, gloria.
LA FAMIGLIA. La socialità umana si esprime a tre livelli: la famiglia, lo stato e l’intera umanità.
All’origine dello stato (civitas vel urbs) vi è la famiglia: “l’unione di maschio e femmina, per
quanto attiene al genere umano, è il vivaio [seminarium] della città” (XV,16,3). Infatti Caino
ha fondato la prima città solo quando la sua famiglia è cresciuta tanto da diventare un popolo.
IL POPOLO. Per spiegare cosa sia un popolo Agostino si serve in primo luogo della definizione di
Cicerone (De rep. I,25,39): “popolo non è un qualsiasi gruppo d’individui, ma un gruppo
associato dalla universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi” (II, 21,2).
In questa ottica ciò che costituisce la res publica è la concordia tra quanti la compongono, al
punto che senza giustizia non vi può essere né popolo né stato: “se non è rispettata la
giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri [magna latrocinia]?” (IV,4).
L’UMANITÀ. Il terzo livello dell’umana convivenza è costituita dalla societas mortalium, che, pur
essendo disseminata sulla terra, “è tuttavia legata da una determinata comunanza d’un
medesimo istinto naturale poiché tutti si assicurano l’utile e il dilettevole” (XVIII,2,1). L’unità
profonda di tutti gli uomini si fonda sulla discendenza da un unico capostipite, che è
testimoniata dalla Scrittura. Infatti Dio ha voluto che la socialità umana nascesse “non solo
dalla somiglianza della natura ma anche dal sentimento della comune origine” (XII,21).
Tuttavia l’umanità è spesso profondamente divisa al suo interno, come mostrano le numerose
guerre che la affliggono. Accade così accade che alcuni popoli vengano oppressi e altri siano
oppressori, perché i vinti, pur di conservare la loro vita, sono disposti a sacrificare la libertà.
Agostino riconosce che alcune guerre sono legittime, perché “è infatti l’ingiustizia del nemico
che obbliga il saggio ad accettare guerre giuste” (XIX,7), ma il vero obiettivo del cristiano non
è di contrapporre la guerra giusta a quella ingiusta, ma di eliminare dal proprio cuore quella
cupiditas dei beni terreni che genera l’iniquitas e alimenta i conflitti tra i popoli.