Sei sulla pagina 1di 31

Agostino d’Ippona

VITA. Della vita di Agostino siamo informati in primo luogo dalle sue opere, in particolare dalle
Confessioni, che arrivano fino al 387. Per il periodo successivo di fondamentale importanza è la
biografia scritta dal suo discepolo Possidio intorno al 432.
Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una cittadina della Numidia. Il padre Patrizio, un
piccolo proprietario terriero, era ancora legato al paganesimo e si convertì solo alla fine della
vita, mentre la madre Monica era una fervente cristiana. Agostino studiò prima a Tagaste e a
Madaura, quindi, grazie all’aiuto di un amico del padre, poté completare gli studi di retorica a
Cartagine (370/371). La sua formazione culturale si basò interamente su autori latini, in
particolare su Cicerone, mentre la sua conoscenza del greco fu superficiale.
Poiché nel sec. IV il retore aveva ormai perso il suo antico ruolo antico politico, Agostino si
dovette dedicare all’insegnamento, prima a Tagaste (374) e poi a Cartagine (375-383). Nel
384 si trasferì a Roma e poi, grazie all’appoggio dei Manichei, cui era allora legato, a Milano,
dove ottenne la carica di maestro di retorica. Qui fra il 384 e il 386 attraversò una profonda
crisi spirituale, che lo riavvicinò al Cristianesimo. Si dimise pertanto dall’incarico e si ritirò a
Cassiciaco, in una villa di campagna, dove condusse una vita in comune con alcuni amici, la
madre, il fratello e il figlio Adeodato. Nel 387 ricevette il battesimo dal vescovo Ambrogio, che
aveva avuto un ruolo determinante nella sua conversione, e decise di tornare in Africa, che
raggiunse solo l’anno successivo, perché, sulla via del ritorno, ad Ostia, morì la madre Monica.
Tornato a Tagaste, Agostino vendette i suoi beni e fondò una comunità religiosa, ma nel 391,
mentre si trovava ad Ippona, su pressione dei fedeli, fu ordinato sacerdote dal vescovo Valerio.
Nel 395 fu consacrato vescovo, e, nel 396, alla morte di Valerio, ne divenne il successore.
Restò a Ippona fino alla morte, che lo colse nel 430, mentre i Vandali assediavano la città.

FORMAZIONE CULTURALE. Nelle Confessioni Agostino ripercorre le tappe fondamentali della sua
giovinezza, presentando le personalità, che hanno esercitato un influsso sul suo pensiero:
 in primo luogo vi fu la madre Monica, una donna di modesta cultura, ma di grande fede,
che con la sua appassionata testimonianza di vita cristiana gettò le basi della futura
conversione del figlio, che le rimase sempre molto legato;
 quindi vi fu Cicerone, incontrato a Cartagine, grazie alla lettura dell’Hortensius, un dialogo
ora perduto, in cui la filosofia veniva presentata come saggezza e arte del vivere che dona
felicità: “quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse
che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto
ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile
ardore di cuore” (III,4,7); unico motivo di disappunto era l’assenza nell’opera del nome di
Cristo, che Agostino aveva succhiato “nel latte stesso della madre” (III,4,8);
 l’incontro con la Bibbia, fu inizialmente deludente, sia per lo stile rozzo, così lontano dalla
raffinatezza della prosa ciceroniana, sia per l’immagine antropomorfica di Dio, che essa
veicolava: “quell’opera invece è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi
piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande” (III,5,9);

Agostino d’Ippona - pag. 1


 l’incontro con il Manicheismo, avvenuto nel 373, quando aveva 19 anni, in un primo
momento gli offrì la possibilità di spiegare in modo razionale la rivelazione, permettendogli in
particolare di risolvere il problema dell’esistenza del male, attraverso l’affermazione di un
radicale dualismo, tuttavia lo stesso razionalismo di questa dottrina, che in ultima analisi
comportava l’eliminazione stessa della fede, non poteva accontentarlo: la crisi esplose in
seguito all’incontro con il massimo esponente della setta in Africa, il vescovo Fausto, che si
rivelò incapace di risolvere i dubbi che tormentavano il giovane Agostino, che tuttavia non
giuste inizialmente a ripudiarne il materialismo e il dualismo;
 la lettura delle Categorie di Aristotele, testo di difficile comprensione, che lo portò a cercare
di applicare le categorie anche all’ “essere mirabilmente semplice e immutabile” (IV,16,29);
 la delusione subentrata all’iniziale entusiasmo per la filosofia portò Agostino ad avvicinarsi
agli Accademici scettici, “in quanto avevano affermato che bisogna dubitare di ogni cosa,
e avevano sentenziato che all’uomo la verità è totalmente inconoscibile” (V,10,19), tuttavia
la sua adesione allo scetticismo non fu totale, perché non arrivò mai a dubitare dell’esistenza
di Dio e della provvidenza;
 l’incontro con il vescovo di Milano, Ambrogio gli insegnò il modo corretto di affrontare la
Scrittura, superando il letteralismo: inizialmente Agostino gli si era avvicinato mosso da un
interesse professionale, per verificare “se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva”,
per questo “stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m’interessavo al contenuto”
(V,13,23), tuttavia “mentre aprivo il cuore per accogliere la sua predicazione feconda, vi
entrava pure la verità che predicava, sia pure per gradi […] e ben presto mi convinsi che non
era temerario sostenere la fede cattolica, benché fino ad allora fossi stato persuaso che
nessun argomento si potesse opporre agli attacchi dei manichei” (V,14,24);
 l’incontro con il Neoplatonismo, attraverso la lettura delle opere di Plotino e Porfirio nella
traduzione di Mario Vittorino, gli permise di risolvere le difficoltà di carattere ontologico che
fino ad allora l’avevano tormentato: in essi trovò l’affermazione dell’incorporeo e del
soprasensibile, la dimostrazione che il male è semplice privazione, numerose tangenze con la
Sacra Scrittura, in questo modo “fui certo che esisti, che sei infinito senza estenderti tuttavia
attraverso spazi finiti o infiniti, e che sei veramente, perché sei sempre il medesimo, anziché
divenire un altro o cambiare in qualche parte o per qualche moto; mentre tutte le altre cose
sono derivate da te” (VII,20,26), tuttavia, anche qui mancava l’elemento essenziale, cioè
l’incarnazione di Cristo e la redenzione da Lui ottenuta a prezzo della morte in croce;
 la lettura delle lettere di San Paolo gli permise di comprendere fino in fondo la figura di
Cristo, che fino ad allora aveva considerato semplicemente “un uomo straordinariamente
sapiente e senza pari” (VII,19,25): “scomparvero ai miei occhi le ambiguità, ove mi era
sembrato che il testo del suo discorso fosse talora incoerente e contrastante con le
testimonianze della Legge e dei Profeti” (VII,21,27);
 infine l’esperienza della conversione di Mario Vittorino e la lettura della Vita Anthonii di
Atanasio di Alessandria lo spinsero a fare l’ultimo passo verso la conversione e lo
portarono al battesimo, ricevuto dalle mani di Ambrogio durante la veglia pasquale del 387.

Agostino d’Ippona - pag. 2


LA LOTTA ALL’ERESIA. L’ultima fase della vita di Agostino fu caratterizzata dalla lotta all’eresia:
 tra il 388 e il 404 Agostino si rivolse contro i Manichei, di cui confuta le tesi fondamentali:
a) il dualismo, secondo cui esisterebbero “due principi diversi e contrari e, in pari tempo,
eterni e coeterni […], due nature e, più precisamente, sostanze, cioè quella del bene e
quella del male” (Haer. 46,2) in lotta tra loro: in realtà Dio è il sommo bene e “ogni
natura, cioè ogni spirito e ogni corpo, sono naturalmente buoni” (Nat. boni 2), perché
derivano tutti da Dio, “il male non è altro che corruzione” (4), per cui “il peccato non
consiste nel desiderio di una natura cattiva, ma nell’abbandono di quella migliore” (36);
b) il docetismo, per cui Cristo “non esistette in una vera carne, ma ostentò una parvenza
di carne, per trarre in inganno i sensi umani, e in tal modo poter simulare non solo la
morte, ma anche la resurrezione” (Haer. 46,15): in realtà “Gesù Cristo, vero e verace
Figlio di Dio e vero e verace figlio dell’uomo - due realtà di entrambe le quali egli dà
testimonianza partendo dalla sua persona - ha tratto da Dio l’eternità di ciò che è divino
e dall’uomo l’origine carnale” (Contra Faustum II,4);
c) il rifiuto dell’Antico Testamento, considerato in contrasto con il Nuovo, in quanto “il
Dio, che, per mezzo di Mosè, dette la Legge e parlò nei Profeti, non è il vero Dio, ma uno
dei principi delle tenebre” (Haer. 46, 15): in realtà esiste una profonda continuità tra le
due parti della Bibbia, per cui “chi legge con occhio devoto, trova anche nel Nuovo
Testamento ciò che costoro disapprovano nell’Antico e nell’Antico ciò che apprezzano nel
Nuovo” (Contra Adimantum 27);
d) la negazione del libero arbitrio, in quanto “ due anime o due menti, l’una buona l’altra
cattiva, sono in conflitto tra loro in ogni singolo uomo, allorché la carne si erge con i suoi
appetiti contro lo spirito, e lo spirito contro la carne” (Haer. 46, 19): in realtà le anime
sono buone per natura, perché provengono tutte da Dio e sono malvagie non per natura,
ma per volontà, infatti “non si pecca se non mediante la volontà” (Duab. an. 10,14);
 in seguito, a partire dal 391, Agostino fu impegnato in prevalenza contro i Donatisti, che
sostenevano la necessità di non riammettere nella comunità quanti durante le persecuzioni
avevano ceduto, apostatando o sacrificando agli idoli, e sostenevano la non validità dei
sacramenti amministrati da vescovi o preti che si fossero macchiati di tali colpe: a questa
eresia Agostino rispose in numerosi scritti sottolineando
a) la validità del sacramento non dipende dalla purezza di chi lo impartisce, ma dalla grazia
di Dio, perciò il battesimo imprime un marchio indelebile in chi lo riceve, in quanto è
unicamente Cristo ad amministrarlo, servendosi dell’opera dei suoi servi, quindi “il
battesimo di Cristo non può violarlo nessuna perversità dell’uomo, né di chi lo dà, né di
chi lo riceve” (Bapt. VI, 1,);
b) Cristo stesso è il garante della santità della Chiesa, che non è intaccata dal fatto che i
suoi membri possano essere dei peccatori, per questo “la Chiesa è una sola ed è quella
che i nostri antenati chiamarono ‘cattolica’, per dimostrare, perfino nel nome che essa è
dappertutto” (Unit. Eccl. 2,2);

Agostino d’Ippona - pag. 3


 a partire dal 412, Agostino dovette far fronte ai Pelagiani, che sostenevano che per
ottenere la salvezza all’uomo non serviva la grazia, perché bastavano la buona volontà e le
opere, per cui Cristo si riduceva a un semplice modello da imitare: in realtà se l’uomo si
salvasse unicamente grazie alla sua volontà, la morte di Cristo in croce sarebbe del tutto
inutile, pertanto la grazia, che viene donata incondizionatamente e liberamente da Dio è
necessaria alla salvezza, anche se Dio non salva senza meriti e non condanna senza colpa
(in alcune opere Agostino si avvicina pericolosamente alla dottrina della predestinazione);
 infine, a partire del 416, in seguito all’incalzare di popoli germanici converti all’Arianesimo,
Agostino fu costretto a confutare anche le concezioni degli Ariani, riesponendo la dottrina
definita dai concili di Nicea e Costantinopoli e ampiamente sviluppata nel De Trinitate.

L’ESEGESI BIBLICA. Agostino ha dedicato al problema dell’interpretazione della Sacra Scrittura


un’intera opera, il De doctrina christiana in 4 libri. Egli afferma che Dio ha voluto che il testo
biblico fosse di difficile comprensione, “affinché con la fatica fosse domata la superbia umana e
l’intelletto fosse sottratto alla noia, dal momento che il più delle volte le cose che esso scopre
facilmente le considera di poco conto” II,6,7). Poiché ci si deve accostare alla Scrittura per
accrescere l’amore (dilectio) per Dio e per il prossimo, l’amore rappresenta il criterio per
giudicare il valore di una interpretazione, al punto tale che una lettura che promuova l’amore
va adottata anche nel caso in cui non colga le intenzioni dell’agiografo.
L’esegeta deve conoscere non il greco e l’ebraico, ma anche la storia, “la geografia, la natura
degli animali, delle piante, delle erbe, delle pietre e di altri corpi” (II,29,45), l’astronomia e
tutte le arti relative alle attività umane, tra cui in primo luogo la dialettica.
L’ambiguità della Scrittura dipende dal fatto che al suo interno si utilizza sia il linguaggio
proprio che quello figurato (translatum), che non sono sempre facili da distinguere. In generale
“tutto ciò che, se preso propriamente non si può riferire all'onestà della condotta e alla verità
della fede, lo devi ritenere come figurato” (III,10,14). Poiché però i criteri con cui gli uomini
valutano il bene e il male variano, nell’interpretare il linguaggio figurato si deve procedere “fino
a quando […] l’interpretazione non raggiunga i confini del regno della carità. Se un tal regno
risuona già nel linguaggio proprio, non si supponga alcun senso figurato” (III,15,23).
Alcuni passi ammettono solo un’interpretazione letterale, come quelli relativi alla resurrezione
di Cristo, altri solo una simbolica, come Sl. 117,22, dove la pietra scartata è Cristo e l’angolo è
la Chiesa, altri consentono un duplice livello di lettura. I fatti storici dell’Antico Testamento e i
costumi incompatibili con la morale cristiana, come la poligamia dei patriarchi, possono essere
interpretati historice ac proprie, ma anche figurate ac prophetice, perché solo così se ne può
trarre un insegnamento spirituale, in quanto “molte di quelle cose che in quei tempi furono
compiute per dovere ora non le si potrebbe ripetere se non per passione” (III,22,32).
Di grande utilità è la conoscenza dei tropi, cioè i vari modi locutiones individuati dai grammatici
e codificati dal donatista Ticonio in sette regole, che però non bastano da sole a risolvere tutte
le difficoltà. Talvolta si può dare più interpretazioni dello stesso testo, purché esse si fondino
su altri passi della Scrittura, in modo tale che ciò che è chiaro illumini ciò che è oscuro.

Agostino d’Ippona - pag. 4


La ricchezza di significato presente nel testo biblico è voluta da Dio, perché “scoprendo una
verità occulta ma suscettibile d’essere intesa in più modi, gli uomini ne sarebbero risultati più
istruiti che non trovando una verità manifesta e quindi univoca” (Enarr. 126,11). Il significato
della Scrittura è sempre spirituale, anche se talvolta parla in modo carnale perché chi è ancora
carnale possa comprenderla e, progredendo per suo tramite, diventare spirituale.

Nella sua attività di predicatore Agostino tiene sempre conto del livello culturale dei fedeli, per
cui nei sermoni privilegia l’interpretazione spirituale del Nuovo Testamento, testo considerato
di più facile comprensione e più adatto all’edificazione, e adotta un linguaggio più semplice e
conciso nelle omelie tenute nei giorni festivi, dove maggiore è la presenza del popolo, mentre
quando predica di fronte a un uditorio più selezionato, come nei giorni feriali o a Cartagine, usa
dilungarsi maggiormente, affrontando anche questioni più impegnative.
All’interpretazione della Scrittura Agostino ha dedicato quattro differenti tipi di opere:
 commenti sistematici del testo biblico di carattere dottrinale, tra cui si devono segnalare
due trattati di esegesi dei primi tre capitoli della Genesi, il De Genesi contra Manicheos in 2
libri, in cui per risolvere le obiezioni avanzate dai manichei, privilegia l’interpretazione
allegorica, confessando di ammirare chi sia in grado di interpretare il testo in modo letterale
e in conformità con la fede cattolica, ma riconoscendo che in molti casi si vede costretto a
ritenere ritiene che “non ci sia alcuna possibilità d’intendere le affermazioni della Scrittura in
un senso conforme alla fede e in un modo degno di Dio, se non credendole presentate sotto
forma simbolica ed enigmatica” (II,2,3), e il De Genesi ad litteram in 12 libri, in cui domina
un’interpretazione letterale volta ad ancorare al testo biblico la sua antropologia e la sua
soteriologia, e in cui gli antropomorfismi vengono risolti affermando che quanto Dio ha fatto
o detto ad Adamo ed Eva “significationis gratia factum est, sed tamen factum” (XI, 39,52);
 soluzioni di problemi interpretativi, tra cui si segnalano per l’Antico Testamento le
Locutiones in Heptateuchum e le Quaestiones in Heptateuchum, entrambe in 7 libri, in cui
prevale l’interpretazione letterale, a cui si sovrappone talvolta la tradizionale lettura in senso
cristologico, e in cui, nella seconda opera vengono chiarite e tradotte in un latino migliore
espressioni di difficile comprensione in virtù dell’eccessiva aderenza al testo greco o ebraico,
e per il Nuovo Testamento il De consensu evangelistarum in 4 libri, in cui vengono risolte
attraverso una lettura letterale del testo le contraddizioni che sorgono dal confronto tra i
quattro vangeli, e le Quaestiones evangeliorum in 2 libri, di minor impegno dottrinale;
 cicli di omelie volte ad interpretare in modo continuativo un testo biblico, di cui non tutte
effettivamente predicate: le Enarrationes in Psalmos, che commentano l’intero salterio, in cui
in genere il valore storico dei salmi non viene negato, ma prevale l’interpretazione spirituale
riferita a Cristo e alla Chiesa, soprattutto in riferimento ai titoli e alle rubriche premesse ai
salmi, le 124 omelie del Tractatus in Ioannis evangelium, in cui la volontà di cogliere il
significato profondo del testo si traduce in una allegoresi molto spinta, che non disdegna la
simbologia numerica ed etimologica, e le 10 omelie del Tractatus in epistolam Ioannis ad
Parthos, incentrate sul tema dell’amore e in cui domina l’interpretazione letterale del testo;

Agostino d’Ippona - pag. 5


 sermoni che interpretano un singolo passo della Bibbia, generalmente tratto dalla liturgia
del giorno: quelli relativi all’Antico Testamento sono brevi, di carattere didascalico e in
genere presentano uno sviluppo attualizzante di tipo morale e parenetico, mentre la
tradizionale interpretazione tipologica è quasi assente, quelle, molto più numerose, relative
al Nuovo Testamento, delle lettere di Paolo si limitano a esporre l’insegnamento morale in
modo letterale, mentre dei passi evangelici riportano l’interpretazione allegorica tradizionale.
In conclusione Agostino si pone a metà strada tra letteralisti e allegoristi, presentandosi, per le
sue finalità prevalentemente pastorali e per inclinazione personale, come “un esegeta spirituale
pronto all’apertura allegorizzante, ma con moderazione” (SIMONETTI, Lettera…, p. 354).

OPERE. La produzione di Agostino è molto abbondante: l’opera omnia con traduzione italiana
curata dalla Nuova Biblioteca Agostiniana comprende 38 volumi in 65 tomi, ma ancora di
recente, nel 2007, sono state ritrovati a Erfurt in Germania 6 sermoni di cui si in precedenza si
ignorava l’esistenza, mentre altri 26 erano stati scoperti a Parigi nel 1996. Pertanto non si può
escludere che in futuro si possano rinvenire altri testi.
Le opere di Agostino possono essere suddivise nei seguenti gruppi:
a) autobiografiche: le Confessiones, suddivise in due parti, di cui la prima (I-IX), ripercorre
le tappe fondamentali della sua vita fino alla conversione e alla morte della madre, mentre
la seconda (X-XIII) presenta la sua condizione all’epoca in cui scrive, “lodano il Dio giusto e
buono per le azioni buone e cattive che ho compiuto e volgono a Dio la mente e il cuore
dell’uomo” (Retract. II, 6) e le Retractationes, un’opera tarda, offrono brevi informazioni
sulle opere composte fino al 427, insieme a correzioni e aggiunte;
b) filosofiche, sono dialoghi risalenti perlopiù al periodo di Cassiciaco: Contra Academicos,
De vita beata, De Ordine, Soliloquia, De immortalitate animae (composto a Milano), De
quantitate animae (scritto a Roma), De magistro e De musica (redatti a Tagaste);
c) apologetiche: De vera religione (390), in cui si mostra che la Chiesa cattolica è la custode
integrale della verità e che Dio guida gli uomini alla salvezza tramite la forza della ragione e
l’autorità della fede; De civitate Dei (413-427), alcuni brevi opuscoli sulla fede;
d) dogmatiche: De Trinitate (399-420) in 15 libri, numerose opere di esposizione della fede
(il simbolo, le virtù teologali, il culto dei morti, la visione di Dio, i riti della Chiesa) e di
soluzione di questioni di carattere dogmatico, esegetico e filosofico;
e) esegetiche: De doctrina christiana (396-426), ampia opera di carattere generale in 4 libri,
e numerosi commenti a testi scritturistici, tra cui i più importanti sono De Genesi ad
litteram (401-414), In evangelium Ioannis (414-417), Enarrationes in Psalmos (392-416);
f) pastorali: De catechizandis rudibus, un manuale di istruzione catechetica, ricco di idee
pedagogiche, e una dozzina di opuscoli su matrimonio, verginità e vita monastica;
g) polemiche: De haeresibus, un ampio catalogo di 88 eresie, da Simon Mago a Pelagio, e
numerose opere rivolte contro Manichei, Donatisti, Pelagiani, Ariani e Giudei;
h) omiletiche: oltre 400 sermoni di vario argomento;
i) epistole: circa 300 lettere.

Agostino d’Ippona - pag. 6


La concezione della filosofia

LA FILOSOFIA PAGANA. Le conoscenze filosofiche di Agostino sono quasi tutte indirette e si


basano essenzialmente sulle opere filosofiche di Cicerone e sulle opere di erudizione di
Terenzio Varrone, a cui si aggiungono le Opinioni dei filosofi di un certo Celso, le Notti
attiche di Aulo Gellio e gli scritti di Apuleio. Per quanto riguarda i greci, di Aristotele,
giudicato oscuro (Util. cred. 6,13), conosce solo le Categorie e di Platone, di cui pure cita,
sempre a memoria, alcuni passi, ricordando in particolare la dottrina della reminiscenza, ha
letto solo il Timeo nella traduzione di Cicerone. Più ampia è la conoscenza del Neoplatonismo,
ottenuta grazie alla traduzione latina di Mario Vittorino di alcuni scritti di Plotino e Porfirio.

Nel suo esame della filosofia pagana Agostino non prende in considerazione né gli Epicurei né
gli Stoici, perché hanno una concezione inadeguata di Dio, ed accorda la preminenza a Platone,
che ha unito la morale socratica alla fisica pitagorica, aggiungendovi la dialettica. La superiorità
dei Platonici deriva dal fatto che “con la conoscenza di Dio trovarono l’essere in cui è la causa
dell’origine dell’universo, la luce per conoscere con certezza la verità e la sorgente in cui
dissetarsi con la felicità” (Civit. VIII, 10,12). Si può addirittura dire che “se quei grandi uomini
potessero di nuovo vivere con noi, di certo si renderebbero conto qual è l’autorità che più
facilmente provvede all’umanità e, operato qualche cambiamento nel linguaggio e nel modo di
pensare, diventerebbero cristiani, come hanno fatto la maggior parte dei Platonici dell’epoca
più recente e della nostra” (Vera rel. 4,7).
L’ammirazione per i platonici, non impedisce però ad Agostino di riconoscerne i limiti, al punto
da considerarli “pensatori rei d’empietà” (Retract. I, 1,4), in quanto alcune loro dottrine sono
pericolose per la vera fede. Per questo “io non ritengo Platone né un dio né un semidio e non lo
metto alla pari né con un angelo del sommo Dio né con un profeta veritiero né con un apostolo
né con un martire del Cristo né con un qualsiasi cristiano” (Civit. II, 14,2).
Ai Platonici rivolge la stessa accusa che muove ai Giudei: essi hanno intravisto la verità, ma si
sono rifiutati di vedere in Cristo la via per raggiungerla. “Essi riuscirono a vedere ciò che è, ma
videro da lontano. Non vollero aggrapparsi all’umiltà di Cristo, cioè a quella nave che poteva
condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve ai loro occhi spregevole” (In Io. 2,4).

In generale da Agostino “sono accettate le seguenti dottrine ‘pagane’: la filosofia intesa come
amore per la sapienza; l’attenzione per Dio e l’anima nella ricerca filosofica; intendere Dio
come causa delle cose che sono, luce del conoscere ordine del bene. Sono invece confutati: la
pratica dei culti pagani e la credenza in divinità inferiori, come i demoni intesi in senso di
indipendenti esseri divini, e non creature; l’idea del mondo come necessaria emanazione o
processione dal principio, quindi la necessità della creazione, l’eternità della creazione e anche
l’eternità della singola anima; la possibilità della metempsicosi e la dottrina che considera il
corpo come una punizione per l’anima […], mentre la pre-esistenza delle anime è una possibile
ipotesi sulla loro origine, mai sconfessata, ma nemmeno mai sostenuta apertamente o
dimostrata tramite le Scritture o la filosofia” (BETTETINI, Introduzione…, p. ).

Agostino d’Ippona - pag. 7


FEDE E RAGIONE. Nell’affrontare il problema del rapporto tra fede ragione Agostino inizialmente
si ispirò al razionalismo dei Manichei, i quali, promettendo di arrivare fino a Dio senza fare
ricorso alla rivelazione, di fatto finivano con il rifiutare la fede per seguire solo la ragione.
Con la conversione maturò in lui la convinzione che la risposta non stava nello scegliere tra
fede e ragione, ma nel servirsi di entrambe per arrivare alla verità. “All’apprendimento siamo
condotti necessariamente in maniera doppia: dall’autorità e dalla ragione. In ordine di tempo
viene prima l’autorità, nei fatti la ragione” (Ord. II,9,26). Infatti “l’autorità richiede la fede e
prepara l’uomo alla ragione; la ragione conduce alla comprensione e alla conoscenza” (Vera
rel. 24,45), indicandoci in particolare a chi si debba credere.

La fede non elimina la ragione, ma la stimola e la promuove. La fede, infatti, è un cogitare cum
assensione e non sarebbe neppure possibile senza il pensiero: “infatti non ognuno che pensa
crede, dato che parecchi pensano proprio per non credere; ma ognuno che crede pensa, pensa
con il credere e crede con il pensare” […] perché la fede, se non è oggetto di pensiero, non è
fede” (Praed. Sanct. 2,5). Allo stesso modo la ragione non elimina la fede, ma la chiarifica: la
fede è utile anche al filosofo, perché costituisce la medicina che guarisce l’occhio dello spirito,
permettendogli di fissarsi con purezza sulla “verità permanente e indefettibile” (Conf. VI,4,6).
Agostino sviluppa questo tema rispondendo a un certo Consenzio, che riteneva che alla verità
si dovesse giungere con la fede e non con la ragione, perché “se la dottrina della santa Chiesa
potesse comprendersi con la ragione e non col sentimento religioso della fede, nessuno,
all’infuori dei filosofi e dei professori, arriverebbe al possesso della felicità” (Ep. 120,1,2).
Agostino precisa che “non si tratta di rigettare la fede, ma di percepire con la luce della ragione
le verità che già credi con la ferma fede”. Infatti la ragione è ciò che rende superiore l’uomo
agli animali, per cui è impensabile che Dio la disprezzi: per quanto riguarda la dottrina della
salvezza, ciò che non siamo in grado di comprendere ora, lo capiremo nell’altra vita, in questa
la fede deve aprire la strada alla ragione, purificandola e indirizzandola alla verità.
“Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, in virtù della quale ci
ha creati superiori agli altri esseri animati. Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di
trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non
potremmo neppure credere, se non avessimo un’anima razionale. Quando perciò si tratta di
verità concernenti la dottrina della salvezza, che non possiamo ancora comprendere con la
ragione (ma lo potremo un giorno), alla ragione deve precedere la fede; essa purifica la mente
e la rende capace di percepire e sostenere la luce della suprema ragione divina” (Ep. 120,1,3).

Agostino sostiene dunque la complementarità di fede e ragione, anticipando una posizione


che verrà poi sintetizzata nella formula “credo ut intelligam e intelligo ut credam”, la cui
origine si trova nella traduzione dei Settanta di un brano del profeta Isaia “se non crederete
non comprenderete” (Is. 7,9 cfr. Lumen Fidei 23). Agostino sottolinea che “l’intelligenza infatti
è la ricompensa della fede” (intellectus est enim merces fidei: In Io. 29,6).

Agostino d’Ippona - pag. 8


Questa posizione emerge con particolare chiarezza nell’ultimo libro del De Trinitate: “la fede
cerca, l’intelligenza trova [fides quaerit, intellectus invenit]; per questo il Profeta dice: ‘Se non
crederete, non comprenderete’ (Is. 7,9). E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha
trovato [et rursus intellectus eum quem invenit adhuc quaerit]; perché ‘Dio guarda sui figli
dell’uomo’, come si canta nel Salmo ispirato, ‘per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca
Dio’ (Sl. 13,2). Dunque per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio” (XV,2,2).
Si realizza così una sorta di circolarità in cui fede e ragione s’illuminano e si sostengono a
vicenda, anche se il punto di partenza è costituito dalla fede: “la fede è infatti il gradino che
porta ad intendere” (Serm. 126,1). Da qui nasce il programma filosofico di Agostino,
lucidamente esposto nel giovanile Contra Academicos: “Tutti sanno che noi siamo stimolati alla
conoscenza dal duplice peso dell’autorità e della ragione. Io ritengo dunque come certo
definitivamente di non dovermi allontanare dall’autorità di Cristo perché non ne trovo altra più
valida. Riguardo poi a ciò che si deve raggiungere col pensiero filosofico, ho fiducia di trovare
frattanto, nei platonici, temi che non ripugnano alla parola sacra. Tale è infatti la mia attuale
disposizione che desidero di apprendere senza indugio le ragioni del vero non solo con la fede
ma anche con l’intelligenza” (III, 20,43).

CRISTIANESIMO E FILOSOFIA. La filosofia cristiana, che nasce propriamente solo con Agostino, si
caratterizza quindi come un filosofare nella fede, che può attingere alla riflessione dei
pagani, ma si muove in un altro orizzonte, perché “nessuno può attraversare il mare di questo
secolo, se non è portato dalla croce di Cristo” (In Io. 2,2). È certo possibile “cercare il Creatore
attraverso le creature”, come attesta l’apostolo Paolo (Rm. 1,20), ma, si corre il rischio di
diventare preda dell’orgoglio, come è accaduto ad alcuni filosofi antichi, che “avevano visto
dove bisognava andare, ma, ingrati verso colui che aveva loro concesso questa visione,
attribuirono a se stessi ciò che avevano visto; diventati superbi, si smarrirono, e si rivolsero
agli idoli, ai simulacri, ai culti demoniaci, giungendo ad adorare la creatura e a disprezzare il
Creatore”. Nei loro libri si poteva persino incontrare l’affermazione che “Dio ha un unico figlio
per mezzo del quale furono fatte tutte le cose” (In Io. 2,3), tuttavia, ritenendosi sapienti, essi
non lo riconobbero e non lo adorarono come Dio. Cristo stesso si è fatto la via che conduce alla
verità (Gv. 14,20), facendosi crocefiggere per insegnare all’uomo l’umiltà.

Quanto al contenuto, la filosofia agostiniana ha come unico oggetto Dio e l’anima (cfr. Sol.
I,2,7), nella convinzione che unica è la strada che conduce a entrambe le mete, perché cercare
l’anima significa cercare Dio, dal momento che “ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa
finché non riposa in te” (fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te:
Conf. I,1,1). Di conseguenza l’oggetto ultimo della ricerca filosofica non è il mondo, ma l’uomo,
visto però non in astratto, come avveniva nella filosofia greca, che si interrogava sull’essenza
dell’uomo in generale, bensì nella sua singolarità irripetibile e nella sua originaria apertura a
Dio. Per questo Agostino parla continuamente di sé, della propria vita e delle persone a lui
care, rivolgendo costantemente la sua indagine su se stesso: “io stesso ero diventato per me
un grande enigma” (factus eram ipse mihi magna quaestio: Conf. IV,4,9).

Agostino d’Ippona - pag. 9


La dottrina della conoscenza

LA RICERCA DELLA VERITÀ. Nel procedere alla ricerca della verità, occorre in primo luogo
sbarazzarsi delle obiezioni avanzate dagli Accademici, che con il loro scetticismo negavano la
possibilità stessa di arrivare alla verità. Ricollegandosi direttamente agli Academica ciceroniani,
Agostino afferma che il dubbio scettico rovescia se medesimo, e, nel momento stesso in
cui pretenderebbe di negare la verità, la riafferma: infatti quantomeno della nostra esistenza
non possiamo dubitare, perché per dubitare devo pensare e quindi esistere.
“Se m’inganno, esisto. Chi non esiste, non si può neanche ingannare e per questo esisto se
m’inganno. E poiché esisto se m’inganno, non posso ingannarmi d’esistere, se è certo che
esisto perché m’inganno. Poiché dunque, se m’ingannassi, esisterei, anche se m’ingannassi,
senza dubbio non m’inganno nel fatto che ho coscienza di esistere” (Civ. Dei XI, 26).
Il si enim fallor, sum agostiniano, costituisce un’indubbia anticipazione del cogito ergo sum
cartesiano, anche se è diretto a uno scopo profondamente diverso.
Inoltre per dubitare della verità, occorre già trovarsi in qualche modo all’interno della verità.
“Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di
dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo […] Chiunque comprende
che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero.
Ciò vuol dire che chiunque dubita dell’esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non
può dubitarne. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità
chi ha potuto dubitare per qualche motivo” (Vera rel. 39,73).

DIO E LA VERITÀ. Esiste un rapporto originario tra l’uomo e la verità. Tuttavia, pur essendo da
sempre nella verità, l’uomo comprende di non essere egli stesso la verità, perché si scopre
imperfetto e mutevole, mentre la verità è assoluta e immutabile. Ne consegue che la verità
non può che coincidere con Dio: la dimostrazione dell’esistenza della verità si riduce così alla
dimostrazione dell’esistenza di Dio, che in sostanza si articola nei seguenti passaggi:
a) dall’esteriorità delle cose sensibili si passa all’interiorità dell’animo umano;
b) dalla verità che è presente nella coscienza si risale a Dio come principio di ogni verità.

“Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che
la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso,
che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della
ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la
verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la
ragione. Vedi in ciò un’armonia insuperabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa.
Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei
giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della
mente, in modo che l’uomo interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non nel
basso piacere della carne, ma in quello supremo dello spirito” (Vera rel. 39, 72).

Agostino d’Ippona - pag. 10


LA CONOSCENZA DELLA VERITÀ. Agostino interpreta il processo conoscitivo nel modo seguente:
1. la sensazione, come per Plotino, non è un’affezione dell’anima, ma dal corpo, tuttavia tale
affezione corporea non sfugge all’anima, che trae dall’interno di sé quella rappresentazione
dell’oggetto che chiamiamo sensazione: nella sensazione il corpo è passivo, l’anima è attiva;
2. il giudizio è il momento in cui l’anima manifesta la sua spontaneità e la sua autonomia
rispetto alle cose corporee, in quanto le giudica in base a criteri che contengono un plus
rispetto ad essi: le cose sono mutevoli e imperfette, i criteri sono immutabili e perfetti;
3. i criteri di giudizio di cui l’anima si serve, benché superiori alle cose e rivenuti dall’anima
al proprio interno, non sono prodotti dall’anima stessa, perché anch’essa è mutevole,
mentre questi criteri sono immutabili e necessari, bisogna quindi concludere che al di sopra
della nostra mente vi è una legge, che chiamiamo verità: esiste pertanto natura immutabile,
superiore all’anima umana che è misura di tutte le cose e che l’intelletto scopre come
qualcosa che gli è superiore, con esso cui giudica ogni cosa, ma da cui viene giudicato;
4. la verità immutabile colta dall’intelletto è costituita dalle Idee, “le ragioni intellegibili e
incorporee” (intelligibiles incorporalesque rationes: Conf. XII,14,23), sono il parametro
secondo cui è fatta ogni cosa, che Platone ha introdotto, ma anche gli altri filosofi avevano
in qualche modo intravisto, dal momento il loro valore Idee è tale che nessuno può essere
un vero filosofo, se ne arriva a conoscerne l’esistenza
.

A questo proposito, Agostino modifica la dottrina platonica delle Idee in due punti:
1. come Filone, Plotino e alcuni Padri greci, considera le Idee i pensieri di Dio, da sempre
presenti nel suo intelletto, che nel loro insieme costituiscono il “mondo intellegibile”, cioè “la
stessa eterna e immutabile ragione con la quale Dio ha creato il mondo” (Retr. I,3,2);
2. respinge la dottrina dell’anamnesi, trasformandola nella teoria dell’illuminazione: con la
creazione Dio, che, in quanto puro essere, partecipa l’essere alle creature, in quanto somma
verità, partecipa alle cose la capacità di manifestare alla mente la verità che è in esse e alla
mente la capacità di riconoscere la verità presente nelle cose; pertanto l’anima non ricorda,
ma scopre in sé la luce della verità comunicatagli da Dio.

L’uomo può arrivare a conoscere la verità solo perché Dio, che è “autore di tutti gli esseri,
datore dell’intelligenza e animatore dell’amore” (Civit. XI, 25) illumina la sua mente. Pertanto
l’illuminazione non implica alcuna forma di misticismo, in quanto rappresenta uno strumento
presente per natura nell’anima umana: anche l’ateo riconosce che le verità matematiche sono
immutabile ed eterne, anche se poi non è in grado di riconoscere in Dio il loro fondamento.
Alla conoscenza delle Idee può arrivare solo la mens, cioè la parte più elevata dell’anima, ma
“non si deve ritenere idonea a questa visione ogni e qualsiasi anima, ma solo quella che è
santa e pura, quella cioè che ha l’occhio integro, sincero, sereno e assimilato alle realtà che
desidera vedere, e con il quale le vede” (Div. quaest. 46,2). Riprendendo riflessioni sulla
purificazione e l’assimilazione a Dio sviluppate in ambito platonico e rileggendole alla luce delle
considerazioni evangeliche sulla buona volontà e la santità, Agostino arriva così ad affermare
che la purezza dell’anima costituisce una condizione necessaria per la visione della Verità.

Agostino d’Ippona - pag. 11


Dio

L’ESISTENZA DI DIO. Agostino affronta il problema dell’esistenza di Dio in modo diverso da


come Aristotele era giunto a postulare il Motore Immobile: per lui non si tratta semplicemente
di risolvere un problema teoretico, volto a spiegare l’origine del movimento e quindi a
giustificare la realtà sensibile, ma di fruire di Dio, cioè di arrivare ad amarlo, così da porre fine
all’inquietudine del cuore e godere della felicità per quanto è possibile in questa vita.
Agostino ha offerto diversi argomenti in favore dell’esistenza di Dio, che si fondano tutte su un
procedimento che consiste nel rivolgere l’anima “dall’esterno all’interno, dalle cose esteriori a
quelle superiori” (En.in Ps. 145,5), così da riconoscere il Creatore al di là delle creature.

Fondamentalmente Agostino si serve di tre vie convergenti, che si articolano secondo la forma
triadica che è propria dello spirito umano:
1. la via dell’essere, che va dal mutevole all’immutabile, era già nota alla filosofia greca e
consiste nell’esaminare la realtà alla ricerca di un essere che sia immutabile, in quanto
“essere è nome indicante immutabilità” e “il vero essere, il genuino essere, il puro essere
non ce l’ha se non chi non muta” (Ser. 7,7): dal momento che sia le realtà corporee, che
l’anima si rivelano mutevoli si deve concludere che l’unica realtà che non diviene è Dio;
2. la via della verità, che parte dall’interiorità della coscienza, è quella più propriamente
agostiniana, in quanto si fonda sulla dottrina dell’illuminazione, e consiste nel risalire a Dio a
partire dalle verità necessarie ed eterne che l’anima, in sé mutevole, scopre in sé stessa:
dal momento che l’anima non può essere l’origine di tali verità;
3. la via dell’amore, si presenta in due differenti forme che si fondano:
a) sulla constatazione che nella realtà è presente una graduazione di beni, che, in quanto
tali, suppongono un sommo bene, per partecipazione al quale le singole cose si dicono
buone: “questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il
bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la sua bontà da un altro bene, ma
è il Bene di ogni bene” (Trin. 8,3,4);
b) sulle aspirazioni che sono presenti nel cuore dell’uomo, che è per natura insoddisfatto e
inquieto finché non aderisce al sommo bene: se questo non esistesse, questa aspirazione
resterebbe insoddisfatta e l’uomo sarebbe un essere privo di senso.

Tutte queste vie termina con una delle tre nozioni fondamentali con cui concepiamo Dio e che
troviamo impresse nella nostra anima: essere, verità e amore. Per questo è pressoché
impossibile non riconoscere l’esistenza di Dio: “tale infatti è l’evidenza della vera divinità, che
essa non può rimanere del tutto nascosta alla creatura razionale che sia ormai capace di
ragionare”. Pertanto Agostino accetta anche l’argomento, anch’esso già noto ai filosofi pagani,
del consensum gentium: infatti “fatta eccezione di pochi, nei quali la natura è troppo
depravata, tutto il genere umano riconosce Dio come autore di questo mondo”. Per questo
“come creatore di questo mondo che si offre al nostro sguardo in cielo e sulla terra, Dio era
noto a tutte le genti, anche prima che abbracciassero la fede di Cristo” (In Io. 106,4).

Agostino d’Ippona - pag. 12


LA CONOSCENZA DI DIO. Essere, Verità e Amore sono attributi essenziali di Dio, ma non vanno
intesi come proprietà del soggetto divino, bensì come coincidenti con l’essenza stessa di Dio.
In particolare per quanto riguarda il primo termine Agostino ricollega con grande efficacia
l’ontologia greca, secondo cui Dio, in quanto sostanza prima, è l’essere supremo, con la
rivelazione biblica, in cui Dio si rivela a Mosè affermando: “Ego sum qui sum” (Es. 3,14).
Tuttavia Agostino è anche consapevole che l’uomo non è in grado di conoscere Dio così come
Egli è: “Deus scitur melios nesciendo” (Ord. II,16,44), in quanto “l’eccellenza sopraeminente
della divinità trascende la capacità del linguaggio abituale. Quando si tratta di Dio il pensiero è
più vero della parola e la realtà più vera del pensiero” (Trin. VII,4,7).
Davanti a Dio ciò che più si addice all’uomo è il silenzio dell’adorazione, tuttavia, se si vuole in
qualche modo parlare di Dio la cosa migliore è servirsi della teologia apofatica, che afferma
di Dio attributi positivi presenti nella realtà creata, negando nel contempo il negativo della
finitudine categoriale che ad essi si accompagna: “concepiamo dunque Dio, se possiamo, per
quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità, al
primo posto senza collocazione, contenente tutte le cose ma senza esteriorità, ‘tutto presente
dappertutto senza luogo’ (Sl. 33,2), sempiterno senza tempo, autore delle cose mutevoli pur
restando assolutamente immutabile ed estraneo ad ogni passività” (Trin. V,1,2).

LA TRINITÀ. La riflessione sul mistero trinitario viene sviluppata nel De Trinitate, un testo che
ha esercitato un’influenza decisiva sulla teologia occidentale. L’opera venne stesa in due tempi:
i primi dodici libri, pubblicati senza il consenso dell’autore, furono composti tra il 399-412, i
restanti tre e la redazione finale del testo risalgono al 420.
La struttura dell’opera è sostanzialmente la seguente:
I-IV : teologia biblica della Trinità;
V-VII : teologia speculativa e difesa del dogma trinitario;
VIII : la conoscenza di Dio attraverso la verità, il bene, la giustizia e l’amore;
IX-XIV : l’immagine della Trinità nell’uomo;
XV : ricapitolazione, testimonianze della Scrittura sull’origine del Figlio e dello Spirito Santo.

I Greci per esprimere concettualmente la Trinità parlano di “una essentia, tres substantiae”,
mentre i Latini di “una essentia vel substantia, tres Persones”, dato che per loro essentia e
substantia sono sinonimi, ma, al di là di questa differenza terminologica, entrambi intendono
dire la stessa cosa (VII,4,7). Secondo questa concezione Padre, Figlio e Spirito Santo hanno
un’uguaglianza sostanziale: l’aequalitas personarum si fonda sull’unitas essentiae, per cui la
Trinità si presenta come “Dio unico e solo, buono, grande, eterno, onnipotente” (V,11,12).
“Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo con la loro assoluta parità in una sola e medesima sostanza
mostrano l’unità divina e pertanto non sono tre dei, ma un Dio solo, benché il Padre abbia
generato il Figlio e quindi non sia Figlio colui che è Padre; benché il Figlio sia stato generato dal
Padre e quindi non sia Padre colui che è Figlio; benché lo Spirito Santo, non sia né Padre né
Figlio ma solo lo Spirito del Padre e del Figlio, pari anch’egli al Padre e al Figlio, appartenente
con essi all’unità della Trinità” (I,4,7).

Agostino d’Ippona - pag. 13


La distinzione delle persone viene spiegata sulla base del concetto di relazione, per cui ogni
persona è distinta dalle altre, ma non differisce a livello ontologico, gerarchico o di funzione.
Questo non significa, però, che la differenza sia puramente accidentale, in quanto non si tratta
di attributi mutevoli, ma di distinzioni che si collocano nella dimensione dell’eternità.
Il Padre è colui che genera, il Figlio è colui che è generato, mentre lo Spirito non è figlio,
perché non è generato, ma donato. Lo spirito Santo, infatti, procede dal Padre e dal Figlio
come da un unico principio, ma in prima istanza (principaliter) ha la sua origine nel Padre,
perché il Padre, che è “il principio di tutta la divinità, o, con espressione più esatta, di tutta la
deità” (IV,20,29) ha dato al Figlio di spirare lo Spirito, “in modo che il loro dono comune
procedesse anche dal Figlio e che lo Spirito Santo fosse lo spirito di ambedue” (XV,17,29).

L’elemento più caratteristico della dottrina trinitaria di Agostino consiste nelle analogie
triadiche che egli scopre nel creato, che, da semplici vestigia della Trinità quali sono nelle cose
e nell’uomo esteriore, nell’anima umana diventano vera immagine della Trinità medesima, dato
che, parlando della creazione dell’uomo, la Scrittura afferma che “Dio disse: facciamo l’uomo a
nostra immagine e somiglianza” (Gn. 1,26). Poiché infatti “veniva fatto ad immagine della
Trinità, per questo si ha l’espressione: ad immagine nostra” (XII,6,6).
A un primo livello, poiché tutte le realtà create, sia i corpi materiali, che le anime incorporee,
presentano essere, forma e ordine e poiché dalla creatura è possibile risalire al creatore, si
può ritenere che questi caratteri siano vestigia che la Trinità ha impresso nella sua opera, così
come misura, numero e peso nelle realtà sensibili (cfr. Sp. 11,20).
A un livello più alto, l’immagine della Trinità è inscritta nella natura stessa dell’uomo, in quanto
la sua mente presenta una struttura trinitaria, perché è anch’essa una e trina, in quanto è
spirito, conosce ed ama, esattamente come Dio è Essere (il Padre), Intelligenza (il Figlio) e
Amore (lo Spirito). Inoltre essa, pur essendo una, è costituita da tre facoltà, la memoria, cioè
la presenza dell’anima a se stessa (in termini moderni diremmo autocoscienza), l’intelligenza
e la volontà, che corrispondono anch’esse alle tre persone divine.

LA CREAZIONE. Il problema metafisico che aveva travagliato maggiormente i filosofi antichi era
quello della derivazione del molteplice dall’Uno: tuttavia essi non erano arrivati all’idea di
creazione, che è di origine biblica, perché erano rimasti legati al principio che nulla deriva dal
nulla. Il filosofo che più si era avvicinato all’idea di creazione era stato Platone, per il quale
però l’attività del Demiurgo si limitava a plasmare la materia eterna in base al modello eterno
delle Idee. Questa concezione venne lasciata cadere già dall’antica Accademia, che aveva
eliminato la figura del Demiurgo, affermando che la narrazione del Timeo non doveva essere
interpretata in modo letterale, mentre Plotino aveva finito con il dedurre le Idee e la stessa
materia dall’Uno, attribuendo l’opera di ordinamento del cosmo all’Anima del mondo.
Per Agostino la soluzione creazionistica, che è ad un tempo verità di fede e di ragione, viene
presentata con chiarezza esemplare: la creazione delle cose è dal nulla, nel senso che esse
non derivano né dalla sostanza di Dio (Plotino), né da qualcosa di preesistente (Platone):
“creatio est productio rei ex nihilo sui et subiecti”, come dirà Tommaso (STh. I, 45, 1).

Agostino d’Ippona - pag. 14


Infatti una realtà può derivare da un’altra in tre modi differenti (Contra Felicem 2,18):
1. per generazione quando deriva dalla sostanza stessa del generante, come il figlio deriva
dal padre, e costituisce qualcosa di identico al generante;
2. per fabbricazione quando deriva da qualcosa che preesiste al di fuori dell’artefice (da una
materia), come avviene in tutte le cose che l’uomo produce;
3. per creazione dal nulla, ossia non dalla propria sostanza e non da una sostanza esterna.
L’uomo sa generare e produrre, ma non è in grado di creare, perché è un essere finito. Dio,
invece, genera dalla propria sostanza il Figlio, che è pertanto identico al Padre, mentre crea il
mondo dal nulla. La creazione, a differenza della generazione suppone il venire all’essere di ciò
che assolutamente non era, in virtù di un atto gratuito. La realtà, pertanto, è puro dono divino,
dovuto alla bontà, alla potenza infinita e alla libera volontà di Dio.
La creazione non avviene nel tempo, perché non può esserci tempo prima dell’esistenza di
una realtà mutevole, bensì con il tempo, perché il tempo è strutturalmente connesso al
movimento e non vi è movimento prima del mondo bensì solo col mondo. All’obiezione dei
filosofi pagani, secondo cui l’idea di creazione contraddiceva il principio dell’immutabilità di Dio,
Agostino ribatte che il prima e il poi riguardano le creature e non il Creatore: “in Dio non si
ebbe un volere successivo che mutò o sostituì il volere antecedente, ma un solo medesimo
eterno immutabile atto della volontà fece sì che le cose create non esistessero finché non
esistettero e che poi esistessero quando cominciarono ad esistere” (Civ. Dei. XII, 17,2).
Dire che il mondo è esistito da sempre, significa solo affermare che il tempo è esistito da
sempre, ma non che il mondo è eterno, perché l’eternità non è un tempo che si distende
all’infinito nel passato. Tra Dio e le creature, anche quelle che esistono da sempre come gli
angeli, esiste una differenza ontologica, che impedisce di attribuire ad entrambi la stessa
forma di durata. Il tempo, per quanto infinito nel passato e nel futuro, presuppone sempre il
mutamento e pertanto resta estraneo all’immutabilità propria di Dio: “Egli infatti è sempre
esistito per non diveniente eternità […] il tempo invece, dato che trascorre col divenire, non
può essere coeterno all’eternità che non diviene” (Civ. Dei XII, 15,2).

IL TEMPO. Nelle Confessioni Agostino ha dedicato un’ampia trattazione al problema della natura
del tempo, arrivando a elaborare una soluzione, che in parte era già stata anticipata da
Aristotele, ma che viene da lui sviluppata in senso marcatamente spirituale.
Il tempo, benché ci appaia cosa “nota e familiare” (XI,14,17), costituisce “un complicatissimo
enigma” (XI,22,28). L’unica cosa certa è che è strettamente legato al movimento, perché
“senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non
esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente”. Non
appena però cerchiamo di comprenderne la natura esso ci sfugge di mano, infatti il passato
non è più, il futuro non è ancora e il presente è un continuo a cessare di essere, perché “se
fosse sempre e non trascorresse nel passato, non sarebbe più tempo, ma eternità”.
La conclusione è sconfortante: “non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non
in quanto tende a non esistere (XI,14,17).

Agostino d’Ippona - pag. 15


Tuttavia il tempo non è nulla, perché siamo in grado di misurarlo e parliamo di tempi brevi o
lungi solo in relazione al passato e al futuro: “ma come possiamo misurare ciò che non è?”
(XI,15,18). Come Aristotele, Agostino esclude che il tempo il moto degli astri o, più in
generale, il moto dei corpi, poiché il moto si misura col tempo e quindi lo presuppone.
La soluzione viene trovata rivolgendosi dalle cose esteriori all’interiorità dell’uomo. Noi non
possiamo misurare il passato, perché non è più, né il futuro, perché non è ancora e neppure il
presente, perché è privo di durata e trapassa in un istante, però conserviamo nella memoria il
ricordo delle cose passate, anticipiamo nell’attesa l’avvento le cose future e conserviamo nella
nostra anima l’intuizione delle cose presenti. Il tempo è una distensione (distensio = διάστασις,
cfr. PLOTINO, Enn. III,7,11) dell’anima, che ricorda, intuisce e attende. Pertanto l’eternità viene
definita, sempre in termini plotiniani, assenza di estensione (Enn. III,7,6).
Il tempo, pertanto, esiste solo nell’anima dell’uomo, perché è nell’anima che si mantengono
presenti il passato, il presente e il futuro, al punto che “forse sarebbe esatto dire che i tempi
sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro” (XI,20,26).
Di conseguenza il tempo viene misurato nell’anima, attraverso la memoria e l’attesa: “il futuro,
inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l’attesa lunga di un futuro; così non è lungo il
passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato” (XI,28,37).
Partito dalla ricerca della realtà oggettiva del tempo Agostino arriva così a chiarirne la
soggettività: anche in questo caso la soluzione di un problema fondamentale viene trovata
attraverso un ripiegarsi della coscienza su se stessa.

LE RAGIONI ETERNE. Dio crea il mondo attraverso la sua parola, ma questa parola di cui parla la
Scrittura (Gn. 1), non è una parola sensibile, bensì il Verbo di Dio, che ha in sé le Idee o
ragioni immutabili di tutte le cose. Tali Idee hanno un ruolo essenziale nella creazione, perché
Dio ha creato il mondo secondo ragione, producendo ogni cosa in base a un modello che Egli
stesso ha prodotto come suo pensiero. Le Idee (formae, species, rationes) sono appunto i
modelli ideali di cui Egli si è servito per creare il mondo. Esse sono eterne e immutabili e
costituiscono la vera realtà delle cose create, che esistono in quanto ad esse partecipano.
Tuttavia non sono paradigmi assoluti superiori al Creatore, ma esistono nella mente divina e
vengono concepite come pensieri di Dio, o come il Verbo di Dio e la Somma Sapienza.

Per piegare la creazione, Agostino si serve, oltre che delle Idee, anche delle ragioni seminali,
(rationes seminales), introdotte dagli Stoici e successivamente rielaborate in chiave metafisica
da Plotino. La creazione del mondo avviene in maniera simultanea, ma Dio non crea la totalità
delle cose possibili come già attuate, ma immette nel creato i “semi” o “germi” di tutte le cose
possibili, che poi, nel corso del tempo, si perfezionano in vario modo, assicurando al mondo
l’ordine e lo sviluppo del cosmo, agendo come cause seconde dell’azione divina.
Dio ha creato la materia, che perde così quel carattere di negatività che la filosofia greca le
aveva sempre attribuito, ponendo virtualmente in essa le ragioni seminali, cioè tutte le sue
possibili modalità di attuazione. L’evoluzione del mondo nel corso del tempo costituisce così il
progressivo attuarsi di tali potenzialità e, quindi, la prosecuzione dell’azione creatrice di Dio.

Agostino d’Ippona - pag. 16


LA BELLEZZA. All’interno dell’ordine che permea l’intera realtà, Agostino attribuisce un ruolo
particolare alla bellezza (pulchritudo) che si manifesta nelle forme sensibili, ma alla cui base
sta la natura intellegibile del numero: senza le strutture numeriche impresse dalla divina
Sapienza nel creato, nessuna cosa mutevole potrebbe essere conosciuta come bella e buona.
Nulla turba la bellezza dell’universo, perché nella loro varietà le cose sensibili manifestano
l’armonia del tutto, così che “in certo qual modo la bellezza di tutte quante le cose è plasmata
dai contrari come da antitesi” (Ord. I,7,18 – trad. BETTETINI).
Attraverso la ricerca del bello, l’uomo, scoprendo il numero eterno presente nelle forme
sensibili, può risalire fino a Dio, perché “è nella Trinità infatti che si trova la fonte suprema di
tutte le cose, la bellezza perfetta, il gaudio completo” (Trin. VI,10,12). Riprendendo concezioni
platoniche Agostino afferma che vi è una bellezza dell’anima, una bellezza della virtù e una
bellezza della verità e della sapienza, ma sottolinea tutte traggono origine dal Figlio, che è
forma dell’immagine del Padre a causa della bellezza.

CRISTOLOGIA. La riflessione cristologica di Agostino precede la sistemazione dogmatica operata


dai concili di Efeso (431) e Calcedonia (451), ma ne anticipa in larga misura gli esiti.
Cristo è definito “una persona in utraque naturae” (Serm. 294,9), perché si è fatto uomo,
assumendo un’anima umana e un corpo umano, così da salvare l’uomo nella sua interezza.
Per questo Egli è “uomo e insieme Dio; è Dio e insieme uomo: senza confusione della natura,
ma nell’unità della persona [non confusione naturae, sed unitate personae]” (Serm. 186,1).
Egli è “totus Deus et totus homo” (Serm. 293,7), un’espressione che anticipa il “totus in suis et
totus in nostris” del Tomo a Flaviano di Leone Magno (COD, p. 78).
“In Cristo vi sono certo due le nature [substantiae], quella di Dio e quella dell’uomo, ma una
sola persona, così che sussista la Trinità e non risulti una quaternità, in seguito
all’Incarnazione” (Serm. 130,2*). Quest’unione è ineffabile e non può essere pienamente colta
dalla ragione umana. Per cercare di comprenderla si può pensare all’unione, altrettanto
misteriosa, dell’anima con il corpo: “come qualsiasi uomo è una sola persona, cioè anima
razionale e carne, così è una sola persona anche Cristo, Verbo e uomo” (Ench. 11,36).
In Agostino è presente anche la communicatio idiomatum, per cui le proprietà del Verbo
possono essere attribuite anche all’uomo Gesù e viceversa: “per l’unità della persona il Figlio di
Dio è sulla terra, per la medesima unità della persona […] il Figlio dell’uomo è in cielo” (Serm.
294,9). Pertanto, benché, propriamente parlando, Dio non sia nato e sia non morto, in virtù
dell’uomo che è stato assunto, è possibile attribuirgli entrambe queste espressioni.
Cristo è il mediatore tra Dio e l’uomo (cfr. 1 Tm. 2,5): se non fosse vero uomo e vero Dio non
avrebbe potuto compiere l’opera della redenzione. Attraverso la sua opera di mediazione
l’umanità da massa perditionis diventa massa redempta, perché attraverso il suo sacrificio Egli
ha riconciliato l’uomo con Dio. Se la superbia è stata la causa del peccato di Adamo, la causa
della sua salvezza sta nell’umiliazione di Cristo, che con la sua incarnazione ha fatto discendere
Dio fino all’uomo e nel contempo ha innalzato l’uomo fino a Dio.

Agostino d’Ippona - pag. 17


L’uomo

LA NATURA UMANA. Per definire l’uomo Agostino si avvale ancora di formule platoniche, come
quella secondo cui è “un’anima razionale che si serve di un corpo mortale e terreno” (Mor.
Eccl. Cath. I,27,52). Tuttavia, in lui le nozioni di anima e di corpo vengono ad assumere un
significato del tutto nuovo in virtù del concetto di creazione, della dottrina della resurrezione
della carne e, soprattutto, del dogma dell’incarnazione del Cristo. In questo modo il corpo
acquista una positività che nella filosofia greca non aveva mai avuto, diventando qualcosa di
ben più importante di quel “vano simulacro” di cui Plotino si vergognava (PORF. Vita Plotini, 1).
L’uomo è “l’unione [mixtura] di anima e corpo” (Ep. 137,3,11) o, per usare una definizione che
risale a Cicerone (Fin. bon. et mal. 5,12,34), “una sostanza razionale che consta di anima e di
corpo” (Trin. XV,7,11). Il corpo appartiene per natura all’uomo: “è pazzo dunque chi vuol
considerare estraneo alla natura umana il corpo” (An. et eius or. IV,2,3). Pertanto non può
essere considerato il carcere dell’anima: “non il corpo ma il corpo soggetto a corruzione è un
peso per l’anima” (Civ. Dei XIII,6 cfr. Sp. 9,15) e il corpo è diventato tale a causa del peccato
commesso dalla volontà libera. Il corpo, o, come dice la Bibbia, la carne non è l’origine di ogni
male, “perché nel suo genere e ordine essa è buona” (Civ. Dei XIV,5), tutto dipende dalla
volontà dell’uomo: “se è perversa avrà inclinazioni perverse, se è retta non solo saranno
immuni da colpa ma anche degne di lode” (Civ. Dei XIV,6). Al dualismo ontologico di Platone,
Agostino contrappone quello che possiamo chiamare un dualismo morale.
In che modo poi l’anima si unisca al corpo così da formare un’unica realtà, è problema che
Agostino non si sente in grado di risolvere: “il modo, con cui gli esseri spirituali si congiungono
al corpo e diventano esseri animati, è assolutamente meravigliosa [omnino mirus] e non può
essere compresa dall’uomo” (Civ. Dei XXI,10).

L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA. Benché finito e mutevole, l’uomo è strutturalmente incorruttibile


almeno per quanto riguarda la sua parte più nobile, l’anima, mentre resta intrinsecamente
corruttibile relativamente al corpo. Infatti, mentre il corpo è composto dai quattro elementi,
l’anima è spirituale e incorporea. Tuttavia anche il corpo, in quanto appartiene all’uomo per
natura, è destinato alla beatitudine eterna, in quanto “la fede, appoggiandosi non su argomenti
umani, ma sull’autorità divina, promette che l’uomo tutto intero [totum hominem], l’uomo
composto di anima e di corpo, sarà immortale e dunque veramente beato” (Trin. XIII,9,12).

A favore dell’immortalità dell’anima Agostino avanza varie prove, in parte di origine platonica:
1. la somiglianza che intercorre tra l’anima umana e il suo Creatore: “se essa è stata
fatta ‘ad immagine di Dio’ (Gn. 1,27), nel senso che può far uso della ragione e
dell’intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che, dal momento in cui ha
incominciato ad esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine
sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che
sia chiara e bella, non cessa di essere” (Trin. XIV, 4,6);

Agostino d’Ippona - pag. 18


2. l’autonomia dell’anima rispetto al corpo, che emerge con chiarezza dal fatto che essa
conosce principi e leggi universali: “se infatti nell’animo persiste qualcosa d’immutabile, che
non può esistere senza la vita, è anzi necessario che all’animo sia riservata una vita perenne
[…] Chi infatti oserebbe dire (e tralascio altre cose) che il rapporto fra i numeri è mutevole,
o che un’arte qualsiasi non si fonda su tale rapporto? (Imm. an. 4,5 – trad. CATAPANO);
3. il desiderio naturale che tutti gli uomini hanno dell’immortalità: “tutti gli uomini
vogliono essere beati, se lo vogliono veramente, vogliono di certo essere anche immortali”,
perché “solo vivendo possono essere beati: dunque non vogliono che perisca la loro vita […]
Ma non vive beatamente colui che non ha ciò che vuole; non vi sarà dunque in nessun modo
vita veramente beata che non sia eterna” (Trin. XIII, 8,11);
4. il legame indissolubile che unisce l’anima alla verità: nulla infatti può separare l’anima
dalla verità, non il corpo che non può nulla contro lo spirito, non l’anima stessa, a cui è
connaturale il desiderio di essere sempre, non Dio, che ha dato all’anima la sua natura e che
conserva ogni cosa secondo la natura che le è propria” (cfr. Imm. an. 6,11).

ORIGINE DELL’ANIMA. Agostino affermò sempre con chiarezza che l’anima è creata da Dio, ma
non riuscì mai a pronunciarsi risolutamente a favore di una delle tesi relative alla modalità di
generazione delle singole anime, che all’epoca si riducevano alle seguenti:
 preesistenza delle anime
 origine per una caduta dovuta a una colpa originaria,
 creazione diretta di ogni singola anima da parte di Dio,
 origine per discendenza (traducianesimo).
Se nelle opere della maturità arrivò a riconoscere che le prime due ipotesi erano incompatibili
con la Scrittura, tuttavia non riuscì mai a vincere le sue perplessità sulle ultime due:
 se l’anima è creata direttamente da Dio non si capisce come possa trasmettersi il peccato
originale, perché è impossibile che da Dio provenga qualcosa di contaminato;
 se l’anima si trasmette di padre in figlio, non si riesce a comprendere come il germe
incorporeo dell’anima possa passare nella madre al momento del concepimento.

IL MALE. Un problema che tormentò Agostino per tutta la vita è quello dell’origine del male,
efficacemente sintetizzato dall’interrogativo boeziano “si Deus quidem est, unde mala? bona
vero unde, si non est?” (Cons. phil. I,4,30 cfr. Conf. VII, 5,7). Inizialmente egli rimase vittima
della spiegazione dualistica manichea, poi, con la conversione si avvicinò alla soluzione data da
Plotino, secondo cui il male non è sostanza, bensì privazione di essere.

In generale il problema del male può essere prospettato a tre livelli.


A] A livello metafisico il male non esiste, esistono solo gradi inferiori di essere rispetto a Dio,
gradi che dipendono dalla finitudine delle cose create e dal grado di perfezione del loro essere:
ciò che ad una considerazione superficiale può apparire un difetto, e quindi un male, nell’ottica
complessiva dell’universo, acquista un valore, perché, misurata secondo il metro dell’intero,
anche la cosa più insignificante, ha un suo senso e, quindi, costituisce un qualcosa di positivo.

Agostino d’Ippona - pag. 19


B] A livello morale il male sta il peccato, che dipende dalla cattiva volontà, la quale non è
mossa da una causa efficiente, bensì da una “causa deficiente” (Civ. Dei XII,7): la volontà, per
sua natura, dovrebbe tendere al sommo bene, ma, poiché esistono molti beni finiti, la volontà
può rivolgersi ad essi, preferendo la creatura al Creatore. Pertanto il male morale è sempre
una aversio a Deo et conversio ad creaturam (STh. I-II, 87, 4), che consiste “nel volgersi in
senso contrario al bene non diveniente e nel volgersi a beni divenienti” (Lib. arb. II,19,53) e
dipende dal fatto che in natura non vi è un unico bene. La volontà pur avendo la facoltà di
compiere il male, in sé è un bene, anzi è per l’uomo il bene di gran lunga più grande, perché è
la condizione della moralità, il male sta solo nel cattivo uso di questo bene: “i miei beni sono
opere tue e doni tuoi, i miei mali colpe mie e condanne tue” (Conf. X,4,5). La volontà cattiva
sorge perché l’uomo è creato dal nulla ed è attratto dal nulla.
C] A livello fisico il male è costituito dalle malattie, le sofferenze, la morte, che sono solo la
conseguenza del peccato originale, cioè del male morale. Tuttavia, nell’economia della salvezza
anch’essi acquistano un significato positivo.

In conclusione l’ordine universale, avendo come principio il sommo bene, non può che essere
buono, quanto vi si introduce di male è frutto di una volontà intelligente (l’uomo o i demoni),
che, in quanto realtà subordinata, non può mai intaccare veramente quell’ordine, anzi finisce
con il renderlo ancora più stupefacente, facendo risaltare ancora di più, per contrasto, il bene e
l’ordine presenti nel creato. “Nulla può avvenire fuori dell’ordinamento divino [Dei ordinem]. Il
male stesso, in quanto all’origine, l’ha avuta fuori dell’ordinamento divino, ma la giustizia
divina non ha lasciato che rimanesse fuori dell’ordinamento e l’ha ricondotto e costretto a
rientrare nella legge che gli è competente” (Ord. II,7,23).

IL PECCATO E LA GRAZIA. Di fronte a Pelagio, secondo cui l’uomo anche dopo il peccato originale
può operare secondo virtù senza bisogno del soccorso straordinario della grazia elargita da Dio,
Agostino fu costretto ad approfondire il problema del rapporto tra grazia e libero arbitrio.
Egli ritiene che, se non si vuole vanificare l’opera redentrice di Cristo, bisogna riconoscere che
l’uomo non è in grado di salvarsi con le sue sole forze. In Adamo tutta l’umanità ha peccato,
per cui l’intero genere umano è una massa perditionis (Corr. et gratia 7,12) che non può
sottrarsi alla giusta punizione, se non in virtù della misericordia di Dio. La volontà, infatti, è
veramente libera quando non è asservita al peccato e, nella condizione attuale solo la grazia
divina può restituire all’uomo la libertà nella sua integra purezza.
Nel De correptione et gratia, Agostino distingue due livelli nella libertà, minor in Adamo, e
maior nei beati (12,33), a cui si aggiunge la condizione dell’uomo nello stato presente.
In Adamo il libero arbitrio consisteva nel “poter non peccare” (posse non peccare), ma, dopo la
colpa originaria, l’uomo si trova a “non poter non peccare” (non posse recte agere: Contra Iul.
VI,10), per cui può vincere il peccato solo con l’aiuto della grazia concessa da Dio per i meriti
di Cristo. Ai beati, invece, Dio concederà la libertà di “non poter peccare” (non posse peccare),
che non appartiene in alcun modo alla natura umana ed è puro dono divino, grazie alla quale
l’uomo parteciperà dell’impeccabilità che è propria solo di Dio.

Agostino d’Ippona - pag. 20


Nel corso della polemica con i Pelagiani Agostino giunse ad accentuare a tal punto il ruolo della
grazia per la salvezza dell’uomo da avvicinarsi pericolosamente all’idea di predestinazione.
Il problema si pone in relazione a due esigenze opposte:
 da una parte l’amore di Dio per tutti gli uomini, in virtù del quale Dio dovrebbe concedere a
ogni uomo la grazia necessaria alla salvezza, pur lasciando a tutti la possibilità di perdersi:
 dall’altra la gratuità del dono di Dio, che, proprio in quanto tale, dovrebbe essere riservato
solo ad alcune anime elette dalla prescienza divina.
La grazia e la giustificazione sono dono gratuito di Dio, ma Dio dispone fin dall’eternità di dare
i suoi doni nel tempo, e darli a chi vuole: qui sta il mistero della predestinazione. “Questa è la
predestinazione dei santi, nient’altro: cioè la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio,
con i quali indubbiamente sono liberati tutti quelli che sono liberati” (Dono pers. 14.35).
Il piano di Dio è infallibile: nessuno degli eletti perirà, ma si tratta di un’elezione totalmente
gratuita, perché è Dio che distingue gli eletti dai dannati. Il nostro stesso merito è un dono
gratuito di Dio: “quando Dio premia i nostri meriti non fa altro che premiare i suoi benefici”
(Ep. 194,5.19). Ma predestinazione e riprovazione non sono sullo stesso piano: il peccato non
è oggetto della predestinazione, ma solo della prescienza di Dio, che permette quel peccato
che porterà infallibilmente alla dannazione.
Ma se le cose stanno così e se Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla
conoscenza della verità” (1Tm. 2,4), perché non a tutti è concessa la salvezza? In particolare
perché non è concessa ai bambini che muoiono senza battesimo? Di fronte a questo mistero,
Agostino riconosce la propria ignoranza: “voler scrutare ciò che è inscrutabile e percorrere ciò
che è impervio è come voler vedere l’invisibile e parlare di ciò che è ineffabile” (Serm. 27,7).

IL RITORNO A DIO. Secondo Agostino, l’uomo porta impressa nella propria natura l’immagine
della Trinità, in virtù delle tre facoltà che lo caratterizzano, memoria, intelligenza e amore, e
che costituiscono un’unica vivente realtà. “Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so
di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà
e siano un’unica vita, un’unica intelligenza [mens] e un’unica essenza, come infine non si
possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può” (Conf. XIII, 11,12).
È in virtù di questa struttura che l’uomo, che da Dio proviene, può ritornare al suo creatore,
secondo quel duplice processo di πρόοδος ed ἐπιστροφή, che aveva caratterizzato la filosofia di
Plotino. Tuttavia questa intima somiglianza con Dio che l’anima scopre in se stessa offre solo la
possibilità di rapportarsi a Dio, ma non garantisce in alcun modo la sua realizzazione. L’ultima
parola spetta alla volontà, che può indirizzarsi al sommo bene o rivolgersi alle creature.
Nel De quantitate animae Agostino precisa che l’ascesa dell’anima fino a Dio si realizza in sette
tappe: le prime tre, ispirate probabilmente a Varrone, sono l’anima cosmica, che l’uomo ha in
comune con le piante, l’anima sensibile, che lo accomuna agli animali, l’anima razionale, che è
propria solo dell’uomo; le altre quattro desunte da Plotino forse attraverso le Sentenze sugli
intelleggibili di Porfirio sono l’anima che si purifica, l’anima purificata, il desiderio dell’anima di
contemplare le realtà che sono in sommo grado e infine la visione della Verità (33,70-76).

Agostino d’Ippona - pag. 21


Come per Plotino, anche per Agostino è possibile unirsi a Dio già in questa vita attraverso
l’esperienza estatica, descritta in termini neoplatonici nell’episodio dell’estasi di Ostia (Conf.
IX,10,23-25). Si tratta di un’intuizione rapida e folgorante, che, pur nella sua transitorietà,
offre un’esperienza diretta di Dio: “abbiamo potuto scorgere qualcosa di immutabile con
l’occhio della mente, anche se per un momento solo e di sfuggita” (En. in ps. 41,10).
Essa avviene nel silenzio interiore, quando tacciono il tumulto della carne, le immagini del
mondo, la stessa voce dell’anima con le sue fantasie e si caratterizza come una visione di Dio,
e quindi come un atto dell’intelletto, che però può avvenire solo attraverso la fede. Mentre per
Plotino l’estasi è qualcosa di puramente razionale possibile solo al filosofo, per Agostino essa è
impossibile senza la mediazione di Cristo, uomo e Dio, ma, proprio perché si realizza solo
perché Dio si fa incontro all’uomo, non è, in linea di principio, preclusa a nessun credente.

Agostino distingue tra l’uomo vecchio, esteriore e carnale, che nasce, cresce e muore come
ogni altra creatura, e l’uomo nuovo, interiore e spirituale, in grado di rinascere, progredire
spiritualmente e ricongiungersi a Dio. Tra i due l’uomo è chiamato a una scelta radicale:
l’uomo vecchio, cioè Adamo, appartiene alla menzogna; l’uomo nuovo, figlio dell’uomo, cioè
Cristo Dio, appartiene alla verità. Se abbandoni la menzogna, spogliati di Adamo; se la tua
parola è secondo verità, rivesti Cristo” (Serm. 166,2).
Pertanto l’uomo può decidere di vivere:
 secondo la carne, restando tenacemente attaccato alle realtà create e immergendosi
sempre più nel peccato e nella menzogna, così da divenire simile al diavolo;
 secondo lo spirito, amando il suo creatore e rafforzando il suo rapporto con Lui, così da
prepararsi a partecipare della sua eternità nella vita beata.
L’unica scelta autentica è però la seconda, perché con essa l’uomo decide di aderire all’essere,
e quindi a Dio, perché “quando l’uomo vive secondo la verità, non vive secondo se stesso ma
secondo Dio”, mentre se “vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo, non secondo Dio,
certamente vive secondo menzogna” (Civ. Dei XIV,4,1). Per essere se stesso, gli uomini così
come gli angeli, devono vivere secondo Dio, da cui hanno ricevuto “il principio dell’essere, la
verità del sapere e la felicità del vivere” (Civ. Dei VIII,9).

L’ORDINE DELL’AMORE. Dio è amore e l’uomo è chiamato a partecipare all’amore di Dio. Per
Agostino, a differenza della filosofia greca, l’uomo buono non è quello che è in grado di
contemplare il bene, ma quello che ama ciò che deve amare: quando l’amore è diretto verso
Dio è charitas, quando è diretto verso sé e verso i beni mondani, diventa cupiditas.
Tutte le passioni si riducono all’amore, ma l’amore è buono o cattivo a seconda dell’ordine
delle cose, che è tale in quanto è conforme alla legge eterna. La virtù diventa così l’ordo
amoris, (Civ. Dei XV,22), cioè amare se stessi, gli altri e le cose secondo il giudizio di Dio e
quindi secondo la dignità ontologica che è propria di ogni cosa. Le stesse virtù cardinali si
riducono a diverse modalità dell’amore: “la virtù non è altro che amare ciò che si deve amare:
sceglierlo è prudenza, non esserne distaccati da nessuna molestia è fortezza, da nessuna
lusinga è temperanza, da nessun sentimento di superbia è giustizia” (Ep. 155,4,13).

Agostino d’Ippona - pag. 22


Dalla conformità all’ordine deriva la pace, che è la tranquillitas ordini (Civ. Dei XIX,13), dal suo
capovolgimento nascono divisioni e conflitti. Dio è, infatti, il bene comune e non vivere
secondo Dio significa aderire a un bene particolare, privandosi della comunione con i fratelli.
A questo proposito Agostino introduce una sorta di norma o criterio dell’amore attraverso la
distinzione tra uti e frui, che permette di individuare le cose di cui ci si deve servire, amandole
come mezzi o strumenti, e le cose di cui si deve godere, amandole come fine, conseguendo il
quale si placa l’irrequietezza del cuore: i beni finiti devono essere usati come mezzi e non
vanno trasformati in oggetto di fruizione come se fossero fini.
Le azioni acquistano un valore diverso a seconda dell’intenzione con cui sono compiute: per
questo è essenziale porre a fondamento del nostro agire l’amore per Dio e per il prossimo,
perché in questo modo ogni nostra azione diventerà un atto d’amore: “ama e fa’ ciò che vuoi
[dilige et quod vis fac]; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia
che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice
dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (In Io. ep. 7,9).

Agostino d’Ippona - pag. 23


De civitate Dei

OCCASIONE. Il 24 agosto 410 i Visigoti di Alarico entravano a Roma e per tre giorni la
saccheggiarono, dandola alle fiamme e commettendo ogni sorta di efferatezza. L’episodio ebbe
vastissima risonanza e lasciò in uno stato di esterrefatto stupore il mondo, perché Roma,
benché ormai priva di effettivo ruolo politico costituiva ancora un mitico punto di riferimento.
Di fronte al crollo di un ideale politico, religioso e culturale, l’élite pagana reagì inasprendo le
accuse contro i cristiani, colpevoli di aver introdotto una dottrina impotente sul piano politico,
incompatibile con la morale tradizionale e alla mercé di decisioni divine arbitrarie e mutevoli.
Anche molti cristiani restarono profondamente turbati, perché, dopo l’editto di Costantino del
313, avevano iniziato a vedere nell’Urbe la nuova capitale religiosa del mondo. Girolamo arrivò
addirittura ad esclamare che “la fiaccola del mondo s’è spenta […] e nella rovina di una sola
città tutto il genere umano perisce” (In Ezechielem, I, praef.).
Questa serie di avvenimenti indusse Agostito a scrivere, tra il 412 e il 426, i 22 libri del De
Civitate Dei contra paganos. Non si tratta però di un’opera di carattere puramente occasionale,
ma di una grande apologia del Cristianesimo, in cui confluiscono e vengono sviluppate
concezioni che da tempo egli andava maturando e che con ogni probabilità avrebbe elaborato
anche se il sacco di Roma non fosse mai avvenuto.

STRUTTURA DELL’OPERA. Il piano generale in cui si articola la Città di Dio è presentato dallo
stesso Agostino in Retractationes II,43 e in una lettera al presbitero Firmo (Ep. 212/A), che era
stato incaricato della pubblicazione e della diffusione dell’opera:
Pars destruens: confutazione degli errori dei pagani
I-V: la pretesa del politeismo di garantire all’uomo fortuna e prosperità sul piano temporale;
VI-X: la pretesa del politeismo di assicurare all’uomo la beatitudine e salvezza dopo la morte;
Pars costruens: lo scontro tra città di Dio e città del mondo
XI-XIV: la genesi delle due città a partire da una interiore scelta religiosa;
XV-XVIII: lo sviluppo delle due città attraverso il tempo e la storia;
XIX-XXII: la sorte escatologica delle due città.

METODO. Il metodo adottato da Agostino “si articola in tre momenti essenziali: 1) affermazione
aperta e fiera della dottrina cristiana; 2) ricupero diligente e attento della dottrina antica nella
parte che essa possiede di vero e di valido; 3) dimostrazione serrata, quasi puntigliosa, che la
dottrina cristiana non nega, ma perfeziona questa stessa parte sublimandola in una visione
divina della storia che offre una soluzione a molti problemi che la ragione umana pone – e i
filosofi pagani avevano posto – ma non sa risolvere o risolve male” (TRAPÈ, p. XVII).
La critica di Agostino non mira, quindi, a distruggere l’avversario, ma intende introdurlo alla
vera fede, dissipando nel contempo i dubbi che agitavano gli stessi cristiani. Si tratta, infatti, di
recuperare la religiosità autentica nel cuore dell’uomo, liberandola dall’apparato mitico e
superstizioso che la stravolge, così da aprirla alla prospettiva universale e liberante della fede
in Cristo, unico vero mediatore tra Dio e gli uomini.

Agostino d’Ippona - pag. 24


LA CONDANNA DEL PAGANESIMO. Il punto di partenza di Agostino è la critica del politeismo, che,
pur presentandosi come religione di salvezza, si rivela in realtà del tutto incapace di risolvere il
problema della felicità terrena e ultraterrena dell’uomo. Ciò che Agostino rifiuta è l’essenza
stessa del paganesimo, ma questo rifiuto coinvolge in misura più o meno ampia la cultura, la
società e le istituzioni del mondo greco-romano.
Non basta però limitarsi a confutare la religione politeistica per sostituirla con il monoteismo,
ma occorre rovesciare la mentalità che è alla base del paganesimo e che si traduce in un culto,
una morale e una organizzazione sociale e politica funzionali all’orgoglio del singolo e a una
ideologia di potere e di prevaricazione. Si tratta di “convincere i superbi che è molto grande la
virtù dell’umiltà” e di proporre loro una “grandezza non accampata dalla presunzione umana
ma donata dalla grazia di Dio”, perché solo così è possibile “difendere la gloriosissima città di
Dio contro coloro che ritengono i propri dei superiori al suo fondatore” (I, praef.).

Di fronte al sacco di Roma e al crollo dell’impero, Agostino intende innanzitutto a difendere il


valore sociale della religione cristiana, precisando che:
 i mali che hanno colpito l’impero non dipendono dal Cristianesimo, come dimostra la
serie infinita di mali che ha afflitto l’umanità prima della venuta di Cristo, il quale, peraltro,
non ha assicurato ai suoi fedeli la felicità temporale, ma la beatitudine eterna;
 il politeismo non può produrre il bene dello stato a causa dei riti immorali e osceni che esso
comporta e che sono aperto contrasto non solo col Vangelo, la cui autorità i pagani rifiutano,
ma anche con l’esempio di saggezza e virtù offerto dagli antichi romani e dalle loro leggi;
 la morale cristiana, se accettata e seguita, è in grado di assicurare la salvezza dello stato
e il benessere terreno: se infatti l’umanità osservasse il duplice precetto dell’amore verso Dio
e verso il prossimo, “lo stato abbellirebbe col proprio benessere la piattezza della vita
presente e scalerebbe la vetta della vita eterna per regnare in una perfetta felicità” (II,19);
 la grandezza dell’impero non è dipesa dal culto degli dei o dal fato, ma dalla provvidenza
divina che “ha concesso, quando ha voluto e nella misura in cui ha voluto, l’impero ai
Romani” (V,21), così come in precedenza l’aveva concesso agli Assiri e ai Persiani;
 la decadenza dell’impero dipende esclusivamente dalla corruzione dei costumi che ha
preso il posto delle antiche virtù civili, come gli stessi scrittori pagani riconoscono: la
prosperità dei Romani era infatti la ricompensa temporale accordata da Dio al loro amore per
la gloria e la libertà, perseguito con eroica abnegazione e senza arroganza.
Particolarmente importante per Agostino è mostrare che l’unico vero Dio, in virtù della sua
onnipotenza, può intervenire direttamente nella storia senza per questo limitare in alcun modo
la libertà dell’uomo: “sosteniamo che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano e che noi
facciamo con la nostra volontà tutte le azioni che abbiamo coscienza e conoscenza di fare
soltanto perché lo vogliamo” (V,9,3). Nessun evento si verifica fatalmente: certo alcune cose
non sono in nostro potere, come la necessità della morte, ma molte altre dipendono
esclusivamente dalla nostra libertà e la prescienza di Dio non le determina in alcun modo.

Agostino d’Ippona - pag. 25


Agostino passa poi a difendere il valore spirituale del Cristianesimo, attraverso un puntuale
confronto con la teologia pagana, condotto sulla base delle Antiquitates rerum humanarum et
divinarum di Marco Terenzio Varrone, che distingueva tre forme di teologia:
 la teologia mitica o favolosa, contenente i racconti dei poeti, va condannata senza appello,
perché ha inventato cose indegne degli Dei;
 la teologia civile, praticata dai sacerdoti nei templi o nei riti misterici, va anch’essa rifiutata
perché caratterizzata, come riconosceva anche Seneca, da pratiche assurde e superstiziose;
 la teologia naturale, propria dei filosofi, l’unica che i saggi pagani consideravano degna di
considerazione, presenta interessanti punti contatto con il Cristianesimo, particolarmente
significativi nel caso del Platonismo, ma se pure è in grado di additare all’uomo la meta da
raggiungere, non è in grado di indicargli la via da seguire: di fronte alla trascendenza divina
essi introducono come mediatori i demoni o ricorrono alla magia.
Di fronte alle assurdità della demonologia platonica e all’ambigua valutazione che gli stessi
filosofi pagani come Apuleio e Porfirio danno della teurgia, Agostino presenta Cristo come
l’unico vero mediatore tra Dio e gli uomini. Mentre infatti i demoni, “smaniosi di fare il male,
completamente alieni dalla giustizia, tronfi di superbia, lividi d’invidia, astuti nell’inganno”
(VIII,22), non possono essere considerati mediatori di salvezza, Cristo, in quanto vero uomo e
vero Dio, è in grado di togliere all’uomo i due mali che li affliggono, il peccato e la morte, e di
renderli partecipi dei beni che sono propri di Dio, la giustizia e l’immortalità.

LE DUE CITTÀ. Esaurita la confutazione del paganesimo, Agostino sviluppa nella seconda parte
del De civitate Dei una vera propria teologia della storia, fondata su un duplice presupposto:
1. la concezione lineare del tempo: la creazione, l’incarnazione e la παρουσία segnano in modo
irreversibile il corso del tempo, liberando l’uomo “dai futili e insignificanti giri ciclici dei
miscredenti” (XII,20,3) per aprirgli un futuro di speranza e di salvezza;
2. il legame che unisce tutti gli uomini in virtù dell’origine e del destino che li accomuna rende
possibile concepire l’idea di una storia universale condivisa da tutti i popoli, che, grazie
all’azione della provvidenza divina, non si riduce a una successione casuale di eventi senza
senso, ma costituisce una totalità organica dotata di un significato e di uno scopo.
In particolare Agostino fonda la sua interpretazione della storia sulla contrapposizione tra due
città. Infatti la Scrittura ci testimonia “che esiste una città di Dio”, di cui “abbiamo desiderato
essere cittadini con quell’amore che ci ha ispirato il suo fondatore”, al quale “i cittadini della
città terrena antepongono i propri dei” (XI,1). Si tratta di due opposte comunità di culto,
fondate l’una sull’amore e l’altra sulla libido dominandi, la sete di potere (I, praef.).

L’ORIGINE. Nella prima parte Agostino si sofferma sulla genesi delle due città, partendo dalla
creazione del mondo e degli angeli, che sono la prima componente della città edificata da Dio
stesso, a cui si contrappone, in seguito alla ribellione di una parte delle schiere angeliche, una
seconda città, il cui è autore il diavolo. Si costituiscono così due società contrapposte: “la
natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura
dal peccato genera i cittadini della città celeste” (XV,2).

Agostino d’Ippona - pag. 26


L’appartenenza alle due città è dovuta a un atto libero, perché Dio crea sia gli angeli che gli
uomini dotandoli di una volontà buona, ma non priva della libertà di scelta, che implica anche
la possibilità di ribellarsi al creatore. Il male, quindi, non deriva da Dio, ma da un atto libero e
comporta l’ingresso nella storia della morte e della concupiscenza.
Per quanto concerne la morte Agostino distingue la seconda morte di cui parla Scrittura e che
consiste nella separazione dell’anima da Dio, che “nulli bona est” (XIII,2), dalla morte
corporale, che invece è un male per i cattivi, ma un bene per i buoni. “Le anime dei buoni
separate dal corpo sono infatti nella pace e quelle dei cattivi subiscono la pena, fino a che il
corpo delle prime risorga alla vita eterna e quello delle altre alla morte eterna che è
considerata la seconda morte” (XIII,8). La morte può anche diventare occasione di merito,
come avviene nel caso dei martiri: “la morte che qualsiasi persona, anche senza aver ricevuto
il lavaggio di rigenerazione, subisce per rendere testimonianza a Cristo, ha efficacia per la
remissione dei peccati come se fossero rimessi al fonte battesimale” (XIII,7).
Quanto alla concupiscenza, per Agostino un male solo in quanto spinge l’uomo a preferire i
beni materiali a quelli eterni. In origine le passioni erano sottomesse alla ragione e garantivano
la pace tra gli uomini, con il peccato di Adamo esse sono state sottratte al suo dominio e sono
diventate causa di guerra: “per dirla in breve, come pena di quella disobbedienza fu data in
cambio soltanto la disobbedienza” (XIV, 15,2), per cui alla ribellione della ragione a Dio è
seguita la ribellione della sensibilità alla ragione.
In seguito al peccato originale l’intera umanità sarebbe dovuta sprofondare nell’abisso della
seconda morte, perché con esso “furono trasmessi anche ai posteri la soggezione al peccato e
il destino della morte”, tuttavia la grazia di Dio è intervenuta a liberare molti uomini. Sorgono
così due città, “una è degli uomini che intendono vivere secondo la carne, l’altra di coloro che
intendono vivere secondo lo spirito, ciascuna nella pace del proprio stile di vita; e quando
conseguono il fine a cui tendono, vivono, ciascuna, nella pace del proprio stile di vita” (XIV,1).
“Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per
Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé” (XIV, 28), tuttavia la depravazione
dei peccatori non costituisce un’obiezione alla prescienza e all’onnipotenza di Dio: “è temerario
credere o pensare che Dio non avesse la possibilità d’impedire che l’angelo e l’uomo cadessero
nel peccato, ma ha preferito non sottrarre la decisione alla loro possibilità e così mostrare
quanto male comportasse la loro superbia, quanto bene la sua grazia” (XIV,27).
L’antitesi tra questi due amori in De Genesi ad litteram XI,15,20 viene considerata anche nella
sua dimensione comunitaria, come contrapposizione tra:
 l’amore privato, cioè l’amore di parte che priva l’individuo della comunione con Dio e i
fratelli, generando divisioni e contrasti, alimentando l’orgoglio, la cupidigia e l’avarizia;
 l’amore sociale, cioè la carità, l’amore del bene comune che unisce gli uomini e crea la
comunione, che a sua volta che crea l’unità, che è la vera causa della felicità: poiché il bene
comune è Dio l’amore sociale è l’amore di Dio, di sé ordinato Dio e dei fratelli in Dio.
Questi amori fondano la città dei giusti e dei cattivi, “mescolate in un certo senso nel tempo”
(De Gen. ad litt. XI,15,20) finché si svolge la vita presente, ma separate nel giudizio finale.

Agostino d’Ippona - pag. 27


LA STORIA. Agostino delinea poi lo sviluppo storico delle due città, articolandolo secondo lo
schema biblico dei sei giorni della creazione e collegandone epoche alle età della vita umana:
1. infantia: da Adamo fino al diluvio universale;
2. pueritia: dal diluvio ad Abramo;
3. adulescentia: da Abramo a Davide;
4. iuventus: da Davide alla cattività babilonese;
5. gravitas: dalla cattività babilonese alla nascita di Cristo;
6. senectus: dall’incarnazione fino alla seconda venuta di Cristo.
Le due città cominciano la loro storia con i figli di Adamo, Caino e Abele, che rappresentano
rispettivamente il prototipo della città terrena e il prototipo della città celeste, proseguendola
con i discendenti di Caino e di Seth, che possono essere considerati i padri delle due città,
“perché nei loro figli [...] cominciarono a manifestarsi con maggiore evidenza i caratteri delle
due città nell’umana discendenza” (XV,17).
Con Abramo la città di Dio inizia a manifestarsi con evidenza, perché allora nasce il popolo
ebraico, portatore delle sue promesse e sua “figura profetica” (XV,2). Nel suo interno, infatti, è
presente un Israele carnale che non appartiene alla città di Dio, ma esso, come popolo,
costituisce come una profezia della Città di Dio. Parallelamente alla sua storia, delineata a
partire dalla Scrittura, Agostino ripercorre la storia della città terrena, basandosi sugli storici
pagani e concentrando la sua attenzione sui regni degli Assiri e dei Romani. Roma è infatti
vista come la “Babilonia d’Occidente” (XVIII,27): anche alla sua origine vi è un fratricidio,
quello di Romolo, che riproduce quello di Caino, da cui aveva avuto origine la città terrena.
Con la venuta di Cristo e la fondazione della Chiesa la città di Dio manifesta la sua presenza
non più solo spiritualmente o profeticamente, ma anche socialmente e istituzionalmente. Ora
non vi è più un popolo eletto che incarna, sia pure in modo profetico, la città di Dio, ma questa
si apre a tutti popoli senza distinzione. Viene così meno la barriera che separava le due città,
che ora convivono rapportandosi costantemente a vicenda La città terrena si sviluppa quindi
ora aiutando ora combattendo la città terrena: nel primo caso le procura i beni terreni, in
particolare la pace, nel secondo caso suscita al suo interno persecuzioni, scismi ed eresie.
Nel loro sviluppo storico le due città sono “confuse [permixtae] dall’inizio fino alla fine” e
condividono gli stessi beni e gli stessi mali: “tutte e due usano ugualmente i beni temporali e
sono colpite dai mali con diversa fede, diversa speranza, diverso amore, fino a che siano
separate dal giudizio finale e raggiunga ognuna il proprio fine che non ha fine” (XVIII,54,2).
Nessun contrassegno esteriore permette di distinguerle, perché esse dipendono solo da ciò che
ogni uomo decide di essere: è solo interrogando se stesso che ognuno può capire a quale città
appartiene. In particolare non è possibile identificarle con istituzioni storicamente date: la città
terrena non coincide con lo stato, né la città celeste con la Chiesa.
Infatti la Chiesa, pur essendo “il regno di Cristo nel tempo” (XX,9,2) non comprende tutti i
cittadini della città celeste, in quanto quest’ultima riunisce anche gli angeli e la comunità
celeste dei santi, mentre contiene in sé anche coloro che “sebbene sono nella Chiesa [...],
tuttavia vi cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo” (XX,9,1).

Agostino d’Ippona - pag. 28


Allo stesso modo lo stato non può identificarsi con la città terrena, perché ha la sua origine in
un evento di ordine materiale (lo sviluppo naturale delle famiglie) e non spirituale (il peccato di
Caino), comprende al suo interno anche i buoni e costituisce un’istituzione di cui i buoni si
possono servire in senso buono come un mezzo, e i cattivi in senso cattivo come un fine.
Tuttavia Agostino tende spesso a vedere in Roma e Babilonia l’incarnazione della città terrena.

I FINI. Infine Agostino presenta il destino escatologico delle due città, “di cui una è destinata
a regnare eternamente con Dio, l’altra a subire un eterno tormento col diavolo” (XV, 1,1).
Si tratta di “due società umane”, ma, se la città terrena, che “ha in questo mondo il suo ideale”
(XV,4) rifiuta l’eternità rinchiudendosi in se stessa, la città celeste, che è pellegrina sulla terra,
ha nella condizione eterna il suo status più proprio, a cui tende mentre è ancora nel tempo.
“La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino
finché giunga il tempo del suo regno. Allora radunerà tutti i risorti con il loro corpo, quando
sarà loro dato il regno dove regneranno senza limite di tempo con il loro fondatore” (XV,1,2).
Nell’esaminare i “debiti fines” (XIX,1) delle due città, Agostino affronta due problemi di
particolare importanza: la definizione del fine ultimo e il significato della resurrezione.
Dio è nel contempo il fine dell’esistenza umana e la via per raggiungerlo, perché è la fonte
dell’ordine morale (ordo vivendi), a cui l’uomo deve conformare la propria vita per ottenere la
piena felicità. Tuttavia il fine ultimo dell’uomo consiste non solo nella vita eterna, ma anche
nella pace, la tranquillitas ordinis (XIX,13,1). Entrambe le città, ciascuna a suo modo, aspirano
ad essa, ma la vera pace è raggiunta solo dalla città celeste, perché i suoi cittadini ne godono
in comunione con Dio, nel tempo per mezzo della fede e nella vita eterna attraverso la visione.
La resurrezione della carne è attestata dalla Scrittura (1 Ts. 4,13-17; Is. 66, 1-16) e non
può essere messa in dubbio, perché l’anima non può godere di una perfetta beatitudine se non
è unita al corpo. Ai filosofi pagani che la ritengono impossibile Agostino oppone l’onnipotenza
di Dio. Del resto molti, dotti e ignoranti, hanno creduto che Cristo è risorto e che il suo corpo è
stato elevato al cielo: ora “se hanno creduto una cosa credibile, riflettano quanto sono stolti
quelli che non credono; se invece è stata creduta una cosa incredibile, anche questo è
incredibile, che sia stato creduto ciò che è incredibile” (XX,5). Con la resurrezione il corpo sarà
spirituale, ma rimarrà corpo, “caro spiritalis, tamen caro, non spiritus” (XXII,21).
Le pene dei dannati sono eterne, perché non hanno carattere emendatorio, ma servono a
ristabilire l’ordine che i peccatori hanno leso, infatti “la giustizia divina vuole [...] che, se uno
ha perduto volontariamente un bene che avrebbe dovuto amare, soffra la pena d’aver perduto
il bene da lui amato” (De Gen. ad litt. VIII,14,31).
La beatitudine celeste consiste nel riposo dell’uomo in Dio, che implica l’assenza di ogni
male, la cessazione di ogni fatica e il compimento di ogni desiderio e si traduce nella visione,
nell’amore e nella lode incessante di Dio. “Vi sarà dunque nella città dell’alto una sola libera
volontà in tutti e inseparabile in ognuno, resa libera da ogni male e ripiena di ogni bene, che
gode senza fine della dolcezza delle gioie eterne, immemore delle colpe, immemore delle pene,
ma non della sua liberazione affinché non sia ingrata al suo liberatore” (XXII,30,4).

Agostino d’Ippona - pag. 29


Il pensiero politico

Agostino non mostra un interesse specifico per la politica, che non ha per lui parte alcuna
nell’itinerario che porta a Dio: “per quanto attiene alla vita di individui destinati a morire, la
quale in pochi giorni si svolge e giunge alla fine, che differenza fa il potere della persona, alla
quale un individuo che deve morire vive soggetto, se i governanti non costringono ad azioni
empie ed ingiuste?” (Civ. Dei V,17,1). Tuttavia nella sue opere è possibile rintracciare degli
accenni a una teoria politica, sia pure non inseriti in una visione organica.

LO STATO. Nell’ordine naturale previsto dalla creazione, l’uomo avrebbe potuto vivere in piena
autonomia, senza essere soggetto a nessuno, perché Dio “volle che l’essere ragionevole,
creato a sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli” (XIX, 15). Tuttavia
in seguito al peccato originale la sua condizione mutò radicalmente e si trovò costretto a
cercare di realizzare una comunità che gli garantisse almeno la sopravvivenza.
Infatti “gli uomini, con le loro cupidigie perverse e disordinate, divengono come i pesci che si
divorano a vicenda” (En. in Ps. 64,9), e tocca allo stato, che si pone tra il disordine che è
proprio dell’uomo e l’ordine che proprio di Dio, garantire una convivenza pacifica. Il ruolo dello
stato è così importante che “Dio non permetterà che periscano con Babilonia, avendoli
predestinati ad essere cittadini di Gerusalemme” (En. in Ps. 136,2), quanti all’interno della
città terrena operano lealmente per la pace temporale, affrontando per essa gravi fatiche.
Di conseguenza anche la Chiesa nel corso del suo pellegrinaggio terreno, pur aspirando al
cielo, “non dubita di sottomettersi alle leggi della città terrena, con le quali sono amministrati i
beni messi a disposizione della vita che è nel divenire” (Civ. Dei XIX,17).
L’uomo è un essere sociale, è la sua stessa natura a spingerlo ad associarsi agli altri uomini
per contrastare la discordia a cui le passioni lo indirizzano: “l’uomo è indotto in certo senso
dalle leggi della propria natura a stringere un vincolo e a raggiungere la pace con tutti gli
uomini per quanto dipende da lui” (XIX, 12,3). Questo desiderio di concordia non può essere in
eliminato, anche se può talvolta esprimersi in modo distorto. Nato per garantire la pace, lo
stato costituisce, infatti, anche il luogo privilegiato del manifestarsi delle passioni e della
cupiditas dei beni terreni: dominio, ricchezza, onori, gloria.

LA FAMIGLIA. La socialità umana si esprime a tre livelli: la famiglia, lo stato e l’intera umanità.
All’origine dello stato (civitas vel urbs) vi è la famiglia: “l’unione di maschio e femmina, per
quanto attiene al genere umano, è il vivaio [seminarium] della città” (XV,16,3). Infatti Caino
ha fondato la prima città solo quando la sua famiglia è cresciuta tanto da diventare un popolo.

IL POPOLO. Per spiegare cosa sia un popolo Agostino si serve in primo luogo della definizione di
Cicerone (De rep. I,25,39): “popolo non è un qualsiasi gruppo d’individui, ma un gruppo
associato dalla universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi” (II, 21,2).
In questa ottica ciò che costituisce la res publica è la concordia tra quanti la compongono, al
punto che senza giustizia non vi può essere né popolo né stato: “se non è rispettata la
giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri [magna latrocinia]?” (IV,4).

Agostino d’Ippona - pag. 30


Tuttavia anche una associazione a delinquere per essere tale deve essere concorde al proprio
interno, deve cioè essere giusta in sé per poter essere ingiusta verso gli altri, come mostra
chiaramente la storia di Roma. Si può pertanto concludere che “la vera giustizia si ebbe
soltanto nella società, di cui Cristo è fondatore e sovrano” (II,21,4). Poiché infatti “la giustizia
infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo” (XIX,21,1), non può esservi vera giustizia là
dove l’uomo non rende a Dio il culto che gli è dovuto, ma si sottomette a falsi dei. “L’unica
vera res publica è la Città di Dio, che non è di questo mondo, mentre gli stati terreni non sono
affatto delle res publicae” (COTTA, p. CXLV).
Agostino propone però anche una seconda definizione di popolo, che sostituisce allo iuris
consensus la concors dilectio: “il popolo è l’unione di un certo numero d’individui ragionevoli
associati dalla concorde partecipazione degli interessi che persegue” (XIX,24). In questo caso
le comunità politiche si caratterizzano a partire dai beni che i loro cittadini prediligono, anche
indipendentemente dal fatto di riconoscere Cristo come loro conditor rectorque.
Agostino può allora concludere che “secondo questa nostra definizione il popolo romano è un
popolo e il suo è senz’altro uno Stato” (XIX, 24), anche se non si può negare che un popolo è
tanto più civile quanto migliore è il bene a cui concordemente aspira. Così l’amore politico che
ha portato i Romani a preferire il bene comune all’interesse particolare è stato la causa della
loro grandezza, una grandezza terrena, “secundum hominum extimationem” (V,12,1).
L’individuazione della dilectio quale elemento definitorio del popolo se corrisponde in pieno
all’idea secondo cui la città celeste e la città terrena sono nate da due opposte specie di amore,
permette anche di definire lo scopo dell’attività politica indipendentemente dalla fede religiosa,
riservandole il compito conseguire il bene comune terreno. Infatti Paolo esorta i cristiani a
pregare “per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita
calma e tranquilla con tutta pietà e dignità” (1 Tm. 2,2). Tuttavia con l’affermazione del
Cristianesimo anche i re devono servire Dio emanando leggi giuste che proibiscano ogni forma
di empietà e intervenendo contro gli eretici anche con l’uso della forza.

L’UMANITÀ. Il terzo livello dell’umana convivenza è costituita dalla societas mortalium, che, pur
essendo disseminata sulla terra, “è tuttavia legata da una determinata comunanza d’un
medesimo istinto naturale poiché tutti si assicurano l’utile e il dilettevole” (XVIII,2,1). L’unità
profonda di tutti gli uomini si fonda sulla discendenza da un unico capostipite, che è
testimoniata dalla Scrittura. Infatti Dio ha voluto che la socialità umana nascesse “non solo
dalla somiglianza della natura ma anche dal sentimento della comune origine” (XII,21).
Tuttavia l’umanità è spesso profondamente divisa al suo interno, come mostrano le numerose
guerre che la affliggono. Accade così accade che alcuni popoli vengano oppressi e altri siano
oppressori, perché i vinti, pur di conservare la loro vita, sono disposti a sacrificare la libertà.
Agostino riconosce che alcune guerre sono legittime, perché “è infatti l’ingiustizia del nemico
che obbliga il saggio ad accettare guerre giuste” (XIX,7), ma il vero obiettivo del cristiano non
è di contrapporre la guerra giusta a quella ingiusta, ma di eliminare dal proprio cuore quella
cupiditas dei beni terreni che genera l’iniquitas e alimenta i conflitti tra i popoli.

Agostino d’Ippona - pag. 31

Potrebbero piacerti anche