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maèstro¹

Vocabolario on line TRECCANI

maèstro1 (o maéstro) s. m. [lat. magĭster, der. di magis «più»]. – 1. (f. -


a) a. In senso ampio, chi conosce pienamente una qualche disciplina
così da possederla e da poterla insegnare agli
altri: vero, insigne, grande, sommo, insuperabile m.; per antonomasia, il
M., il divino m., Gesù, soprattutto nella sua predicazione e nel suo
rapporto con gli apostoli e i discepoli; con locuz. dantesca, il m. di color
che sanno, Aristotele; avere, eleggersi, scegliersi un m.,
oppure qualcuno come maestro. Anche titolo di rispetto, riferito a chi,
nell’insegnamento, rivela particolari doti, soprattutto per vastità di
dottrina, efficace chiarezza didattica; perciò usato talvolta come
appellativo, in segno di venerazione o con tono adulatorio (anche scherz.
o iron.), rivolto a un docente che si desideri collocare al disopra del
comune livello. b. Chi eccelle in un’arte, in una scienza, in una
disciplina, o in singole forme d’arte e manifestazioni di cultura, così da
poter essere considerato una guida, un caposcuola: il Petrarca fu
considerato m. di stile; i m. della pittura fiamminga del Seicento; i
grandi m. del colore, dello scalpello; i m. del cinema neorealista. Per
estens. (anche nel femm. maestra), essere un m. d’eleganza, di sobrietà,
possedere tali qualità in modo da poter essere d’esempio ad altri; anche
nel male: m. d’errore, di falsità, di corruzione; è un m. nell’arte di
mentire, di fingere; e in frasi iron. o sarcastiche: sentiamo questo signor
m.!; darsi arie di m.; farla da m., di persona saccente e uggiosa. Cattivo
m., espressione usata per indicare polemicamente chi ha esercitato
un’influenza negativa sui giovani, grazie al proprio prestigio
intellettuale, con partic. riferimento ai capi spirituali del terrorismo. Con
sign. attenuato e più generico, di persona singolarmente abile e versata
in un’arte, una disciplina, un’attività pratica, senza riferimento
all’influsso che può esercitare su altri con l’insegnamento o l’esempio: è
m. nell’arte dell’arredamento; lascia fare a lui che è m.; è un lavoro da
m., perfetto; un colpo da m., di azione o impresa, ammirevole o
condannabile, eseguita con prontezza e abilità. Prov.: nessuno nasce m.,
o anche non si diventa m. in un giorno, la maestria è frutto di studio e di
esperienza; l’opera loda il m., solo dalle azioni e dai risultati si può
giudicare l’uomo. 2. (f. -a) a. In senso stretto, chi, in possesso del titolo
conseguito al termine di un corso di studî (in un istituto magistrale), si
dedica all’istruzione e all’educazione dei bambini nelle scuole
elementari: m. di scuola; il m. della prima, della
quinta; m. supplente; diploma di m.; al plur., il complesso degli
insegnanti elementari, maschi e femmine: un convegno di
maestri. b. Chi svolge un insegnamento speciale, privatamente o
pubblicamente: m. di ballo, di nuoto, di recitazione, di
scherma. c. Maestro d’arte, qualifica (con l’indicazione della
specializzazione: incisione sul corallo, lavorazione dei metalli, del
merletto, del libro, della ceramica, del cuoio, ecc.) a cui dà diritto il
diploma di licenza di un istituto d’arte. 3. a.Nell’organizzazione
scolastica del Medioevo e del Rinascimento, titolo di chi aveva ottenuto
il dottorato in una facoltà universitaria (in lat. magister artium, magister
gramatice, ecc.); riferito a un medico, poteva essere premesso al
nome: fu un grandissimo medico in cirugia, il cui nome fu m. Mazzeo
della Montagna (Boccaccio); o usato assol.: mandisi senza più indugio
per un m. (Boccaccio). b. Nella pratica musicale, titolo attribuito, fin dal
primo medioevo, all’istruttore e direttore di un insieme di cantori o di
strumentisti; così si disse magister puerorum l’istruttore dei fanciulli-
cantori nelle chiese, subordinato al m. di cappella(magister capellae),
responsabile dell’intero corpo musicale della chiesa o anche della
cappella d’una corte, d’una casa patrizia, ecc.; in seguito,
l’espressione m. di cappella designò il responsabile del corpo musicale
di istituzioni non chiesastiche (enti concertistici, teatrali e sim.), e tale
resta ancora nei paesi germanici (Kapellmeister, il direttore
d’orchestra). M. al cembalo si disse, soprattutto nel sec. 18°, lo
strumentista, di solito un clavicembalista, a cui era affidata l’esecuzione
del basso continuo; aveva anche il compito di coordinare l’esecuzione
dell’intera orchestra, con particolare riguardo per le parti vocali.
Attualmente, titolo dato al musicista di professione, spec. se diplomato,
e in alcuni paesi (tra i quali l’Italia) riservato ai soli diplomati di
conservatorî e di istituti pareggiati; m. dei cori, colui che istruisce e
prepara i cori per le esecuzioni sinfonico-corali o di opere
liriche; m. concertatore, quello che cura la concertazione; m. sostituto,
chi ha il compito, nei teatri operistici (più raramente nelle orchestre
sinfoniche stabili), di accompagnare e di concertare le parti vocali
solistiche impegnate in una rappresentazione scenico-musicale (pur
avendo una funzione ausiliaria e subordinata rispetto al direttore
principale, cura anche le prove a sezioni dell’orchestra, dirige i
complessi strumentali posti fuori della scena nelle rappresentazioni
operistiche e può anche, analogamente al m. di palcoscenico, indicare ai
cantanti, al coro e alle comparse il momento esatto in cui devono entrare
in scena); m. di palcoscenico, musicista a cui è affidato il compito,
durante le esecuzioni operistiche, di indicare ai cantanti, al coro, alle
comparse e ad altri eventuali partecipanti alla rappresentazione l’esatto
momento in cui devono entrare in scena. Maestri
cantori (ted. Meistersinger o Meistersänger), in Germania, dal sec. 14°,
denominazione dei componenti di corporazioni artigiane di musicisti-
poeti. c. Nel linguaggio degli storici dell’arte, pittore o scultore che sia a
capo di una bottega o scuola. Nell’attribuzione di opere figurative, il
nome, seguito da una determinazione riferentesi a un’opera d’arte,
indica l’anonimo autore di quell’opera, quando dai caratteri stilistici di
essa sia lecito individuare una personalità artistica ben definita a cui si
possano eventualmente attribuire altre opere: il M. dell’Annunciazione di
Aix; il M. dell’altare di San Bartolomeo; il M. della Santa Cecilia. Al
plur., denominazione di gruppi di scalpellini, marmorarî e sim. che nelle
loro opere, eseguite in collaborazione artigianale, raggiunsero un
notevole valore artistico: M. comacini (v. comacino, nel sign.
2); M. campionesi (v. campionese). d. Operaio specializzato che ha alle
sue dipendenze altri lavoranti non specializzati; in partic., nel linguaggio
corrente di marina, l’operaio specializzato di un cantiere navale. In
locuzioni fisse: m. muratore; m. di cazzuola, capomastro muratore; m. di
pennello, imbianchino, verniciatore; m. di stalla, sovrintendente al
governo dei cavalli; m. d’ascia, l’operaio abilitato alla costruzione di
navi e galleggianti di legno, fino a 50 t di stazza lorde. Prov.: vale più un
colpo del m. che cento del manovale, è infinitamente più utile e proficua
l’opera dei competenti che quella dei dilettanti. e. Nel gioco degli
scacchi, titolo che si consegue raggiungendo una determinata
percentuale di punti in uno o più tornei
qualificanti: m. nazionale, m. internazionale, grande
maestro. f. Nell’uso pop., vocativo che nel passato veniva talora rivolto
a persona umile, di cui s’ignorava il nome, per richiamarne
l’attenzione: scusate, m., dove porta questa strada? 4.Anticam., capo,
guida: Questi pareva a me m. e donno (Dante); la locuz. dantesca m. e
donno è ancor oggi usata in frasi scherzose. Come titolo e con il sign. di
capo, preposto, sovrintendente, la parola fu in uso già nel mondo latino
(magister equitum: v. magister), poi nel medioevo (m. di campo, il
direttore degli incontri nei tornei), e in epoche storiche successive: m. di
camera, il cortigiano prediletto del signore, o il suo più intimo
consigliere; maestri d’ostello, nella corte sabauda, ufficiali che
attendevano al governo della casa del principe; m. di palazzo, lo stesso
che maggiordomo, come carica storica. In partic., nell’ambito della corte
e della famiglia pontificia: m. di camera, alto prelato della famiglia
pontificia che sovrintendeva all’anticamera del pontefice, presiedeva
alle udienze pontificie e assisteva il papa dovunque egli si
recasse; M. del Sacro Ospizio, alto dignitario laico della famiglia
pontificia, con compiti diversi a seconda delle epoche, tra cui prevalse
quello di ricevere i capi di stato in visita al pontefice; M. del Sacro
Palazzo, prelato della famiglia pontificia, appartenente per tradizione
all’ordine dei domenicani, che ebbe incarichi varî per la difesa
dell’ortodossia. Attualmente è in uso nella formula Gran maestro, come
titolo di cariche e dignità particolari, e spec. per indicare la suprema
autorità nella gerarchia di ordini cavallereschi (v. gran maestro);
inoltre, m. generale, titolo del superiore generale dei domenicani e
dei mercedarî. 5. Con funzione di agg.: a. Di chi sa operare con grande
maestria, o di cosa fatta, eseguita, escogitata magistralmente, con grande
abilità o accortezza: lavoro eseguito con mano m.; colpo m., tiro
m.; que’ ritrovati m., quelle belle malizie, con le quali sono avvezzi a
vincere (Manzoni). b. Di cosa principale, importante, che esercita una
precisa o fondamentale funzione: strada m., la più larga e comoda: dolci
salici piangenti cingevano rustiche case coloniche, mentre
antiche, stupende ville si affacciavano alle strade m. prive di un
qualsiasi ornamento di verde (Romano Bilenchi); entrata m. o porta m.,
la principale di un palazzo o di una chiesa; ruota m., la più importante di
un ingranaggio, da cui sono mosse le altre; fosso, canale m., a cui
confluiscono i minori; vena m., la più larga e abbondante di una
sorgente; libro m., più com. libro mastro (v. mastro, nel sign.
2); barba, radice m., fittone principale di una pianta; penne m., le
remiganti primarie degli uccelli (locuz. usata quasi solo in senso fig.:
v. penna, n. 1 a). Nelle costruzioni civili, si dice di struttura (muro,
trave, ecc.) su cui grava la parte maggiore del carico applicato: muro
m.; longheroni maestri. Sezione m. di una struttura (ala di aeroplano,
nave, ecc.), la sezione trasversale di maggior superficie; nelle
costruzioni navali, costa m., l’ossatura della sezione maestra.
Nell’attrezzatura navale, albero m. o albero di maestra, l’albero
maggiore (v. maestra, nel sign. 2); vela m., la vela quadra, più grande, e
più bassa, dell’albero maestro. ◆ Dim. maestrino (in partic., era così
chiamato, nelle scuole di musica e nei conservatorî, lo studente dei corsi
superiori a cui venivano affidati, dal maestro titolare della cattedra,
incarichi di supplenza o di assistenza nell’insegnamento impartito agli
allievi dei corsi inferiori);
spreg. maestrùccio, maestruzzo, maestrùcolo; accr., raro, maestróne;
pegg. maestràccio.
gran maèstro (raro grammaèstro) s. m. (pl. gran maèstri,
raro grammaèstri). – 1. Titolo di alti ufficiali e funzionarî nelle antiche
corti: g. m. di Francia, capo della casa del re, che soprintendeva ai
servizî e agli approvvigionamenti; nella corte sabauda, g. m. d’ostello,
capo della organizzazione dei servizî di corte; attualmente si conserva,
presso alcune corti, la dignità di g. m. delle cerimonie. Designò in
passato anche cariche militari: g. m. dei balestrieri, carica istituita da
Luigi IX di Francia (sec. 13°); g. m. di artiglieria, carica con funzioni
ispettive istituita in Francia nel 1601. 2. Titolo del capo supremo di un
ordine cavalleresco. 3. Nella massoneria, il capo di una Gran loggia

LA NON DUALITÀ DI MAESTRO E


DISCEPOLO

In qualsiasi campo, una persona che aiuta


un’altra a crescere e a evolversi può essere
considerata un maestro. Nel Buddismo, che si
occupa della felicità e dello sviluppo dell’essere
umano, la relazione maestro-discepolo è
essenziale. Il fondamento di questa relazione si
trova nell’impegno condiviso a collaborare per la
felicità delle persone, allo scopo di liberarle dalla
sofferenza.
Il Sutra del Loto, la scrittura su cui si basa il
Buddismo di Nichiren Daishonin, contiene una
vivida descrizione allegorica del momento in cui i
discepoli del Budda si assumono quest’impegno.
Il sutra descrive come, mentre il Budda
Shakyamuni sta predicando, la terra si apra e da
essa emerga una moltitudine di splendidi
bodhisattva (individui che hanno scelto l’agire
compassionevole a fondamento del loro essere).
Questi cosiddetti “Bodhisattva della Terra” sono
fermamente risoluti a mantenere vivi gli
insegnamenti di Shakyamuni dopo la sua morte,
nella difficile e corrotta epoca a venire. Essi
fanno voto di dedicare la vita a salvare le persone
dalla sofferenza in un’epoca di forti conflitti
sociali e spirituali, affrontando a testa alta
qualsiasi avversità possano incontrare.
Questa superba descrizione, quasi
cinematografica, ritrae la profondità dell’impegno,
condiviso dal maestro e dal discepolo, di lavorare
sempre, in ogni tempo per la felicità della gente.
È una metafora della trasformazione dei discepoli
del Budda da ricettori passivi dell’insegnamento a
persone impegnate ad avanzare lungo il cammino
dell’agire compassionevole di cui il Budda è stato
pioniere.
Definire il cammino
Il Buddismo è una filosofia che ha come finalità
l’empowerment (risvegliare le persone alla loro
dignità, al loro potenziale alla speranza). La sua
premessa centrale è che ognuno possiede la
capacità innata di trionfare su qualsivoglia
circostanza avversa, di superare qualsiasi fonte
di sofferenza, trasformandola in una sorgente di
forza e di crescita. È una filosofia basata sulla
convinzione che nella vita di ognuno, in qualsiasi
istante, esista un’inesauribile riserva di coraggio,
saggezza e forza vitale creativa.
Il maestro mira a rendere consapevoli i suoi
discepoli, siano essi uomini o donne, del loro
potenziale, infondendo loro fiducia nelle infinite
potenzialità che non riescono a riconoscere in se
stessi. È la stessa vita del maestro, e non
soltanto il suo insegnamento, che fornisce
l’ispirazione. L’ideale astratto dell’Illuminazione
diviene tangibile nel carattere e nelle azioni del
maestro.
La vita stessa del maestro s’incentra
sull’empowerment degli altri, diventando un
modello del fatto che tutti possiamo realizzare il
massimo potenziale di felicità attraverso le
nostre azioni per gli altri. Come scrive il
presidente della SGI Daisaku Ikeda: «La felicità e
l’Illuminazione per sé e per gli altri: un vero
maestro nel Buddismo è colui che ci consente di
tenere sempre presente questa aspirazione». Il
sentiero tracciato dal Buddismo per sviluppare la
propria umanità – il cammino dell’Illuminazione –
sta nel difficile equilibrio fra la lotta per crescere
e svilupparsi come individui, confrontandosi
coraggiosamente con le proprie sfide e,
contemporaneamente, l’agire per il bene degli
altri. In un momento critico d’indecisione,
pensare all’esempio del maestro può farci
intraprendere un passo coraggioso e quindi
superare i nostri limiti. L’insegnamento e
l’esempio del maestro aiuta il discepolo a
continuare a progredire sul difficile cammino
dell’Illuminazione – difficile per via delle spinte
fortemente destabilizzanti del cuore umano verso
l’autocompiacimento, la paura, l’arroganza e la
pigrizia. Il presidente Ikeda commenta: «Un
maestro ci fa rendere conto delle nostre
debolezze e ci aiuta ad affrontarle con coraggio».
Il fatto che il maestro rappresenti un modello di
come si pratica il Buddismo non significa che il
discepolo debba sforzarsi di imitarne la persona,
quanto piuttosto che impari dal suo esempio, o
dal suo modo di vivere, adottando quell’approccio
alla vita nella propria specifica situazione
esprimendosi attraverso le proprie peculiari
caratteristiche. È interiorizzando lo spirito del
maestro che il discepolo cresce e si sviluppa al di
là dei limiti che sente di avere.
La relazione tra maestro e discepolo nel
Buddismo è un coraggioso cammino di scoperta
di sé e non di imitazione o adulazione. Nel
Buddismo la responsabilità ultima è del
discepolo. Il maestro è sempre pronto, è il
discepolo che deve decidere di sforzarsi
d’imparare, e si svilupperà nella misura in cui si
impegnerà per assimilare e mettere in pratica gli
insegnamenti del maestro.
Un vero maestro
Con quale criterio si distingue un vero maestro
nel Buddismo? Prima di tutto è fondamentale il
suo orientamento o motivazione, l’ideale al quale
ha dedicato la sua vita. L’ideale più alto e nobile è
l’impegno di rendere tutti, senza eccezione, in
grado di superare le sofferenze e diventare felici.
Inoltre, un vero maestro è colui che si sforza per
tutta la vita di ricercare la verità e sviluppare
saggezza. Questo atteggiamento è in netto
contrasto con quello di chi crede di aver già
imparato tutto ciò che c’è da sapere, e vuole solo
dispensare la sua conoscenza in un rapporto a
senso unico. Quel genere di maestro,
verosimilmente, cerca anche di accrescere il
proprio prestigio, oscurando la verità e
trasformando la conoscenza in un privilegio,
piuttosto che renderla liberamente accessibile a
tutti.
Il desiderio finale di un vero maestro è di essere
superato dai suoi discepoli. Questo infinito
processo di crescita e successione è ciò che
permette a una tradizione vivente di evolvere e
adattarsi al mutare dei tempi. Nel Sutra del Loto
ciò è simboleggiato dal fatto che i Bodhisattva
della Terra sono di aspetto persino più splendido
dello stesso Shakyamuni.
Per definire le rispettive funzioni del maestro e
del discepolo si potrebbe dire che il ruolo del
maestro è di puntare verso un obiettivo e
mostrare i mezzi più efficaci per raggiungerlo,
mentre quello del discepolo è lottare per
realizzare questo ideale, su una scala ancora
maggiore di quella realizzata dal maestro. L’aver
condiviso un ideale e aver lottato insieme per
realizzarlo crea una profonda vicinanza nelle loro
vite – ciò che il Buddismo descrive come non
dualità di maestro e discepolo. Questa è la linfa
vitale del Buddismo e il mezzo grazie al quale si
sviluppa e si trasmette, da una generazione
all’altra, l’aspirazione a vivere vite pienamente
realizzate rendendo gli altri in grado di fare la
stessa cosa. In assenza di quest’impegno
condiviso e dello sforzo, da parte del discepolo, di
lottare con lo stesso spirito del maestro, il
maestro diventerebbe semplicemente un oggetto
di venerazione e il Buddismo perderebbe il suo
potere di trasformazione.
Crescita e continuità
Il profondo legame fra maestro e discepolo, e in
particolare la relazione fra i primi tre presidenti
della Soka Gakkai, è ciò che ha sostenuto lo
sviluppo dell’organizzazione. Ogni presidente che
è succeduto ha ampliato la visione del suo
predecessore, sviluppando con cura un
movimento in grado di raggiungere e abbracciare
le persone più diverse contribuendo al
loro empowerment. Daisaku Ikeda, il presidente
della SGI in carica, nel secondo dopoguerra
lavorò a stretto contatto col secondo presidente
Josei Toda (1900-58) per l’empowerment di milioni
di giapponesi affinché potessero trasformare
positivamente la loro situazione. Toda stesso fu
imprigionato insieme al suo maestro, il presidente
fondatore Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944),
per aver rifiutato di compromettere l’integrità
degli insegnamenti buddisti, sotto la pressione
del governo militarista giapponese. Ikeda ha
ampliato e internazionalizzato la visione
dell’empowerment ereditata da questi maestri,
portandola ben oltre lo scopo di un’organizzazione
religiosa, sviluppando un movimento globale per
la promozione della pace, della cultura e
dell’educazione. Ogni sua azione è stata ispirata
dal desiderio di infondere negli altri la
consapevolezza di quanto si può realizzare sulla
base dello spirito di maestro e discepolo.
Ha espresso frequentemente la sua
determinazione ad aprire nuove strade di
maggiore impegno in questioni sociali e globali
che potranno essere pienamente sviluppate dalle
generazioni future. «La relazione maestro
discepolo – scrive – può essere paragonata a
quella fra l’ago ed il filo: il maestro è l’ago e il
discepolo è il filo. Nel cucire l’ago fa strada
attraverso la stoffa, ma alla fine non è più
necessario, ed è il filo che rimane a tenere
insieme il tutto». L’impegno per la felicità di tutte
le persone è il cuore del Buddismo, ma è
attraverso la relazione maestro discepolo,
attraverso i legami da vita a vita, quando il
desiderio di uno accende quello di un altro, che
questo ideale esce dal regno della pura teoria e
diventa realtà nella vita della gente.
novembre 13, 2014

di Francesco Geracitano

La relazione maestro-discepolo, agli occhi di qualcuno, potrebbe apparire


un po’ idealista, ma in realtà è quasi impossibile vivere e svilupparsi senza
di essa. I nostri primi maestri sono i genitori, poi gli insegnanti a scuola,
poi chi ci trasmette la sua esperienza in campo lavorativo, artistico o
sportivo. In altre parole impariamo sempre da chi ne sa più di noi e,
usando la loro saggezza e conoscenza, aumentiamo le nostre capacità. Più il
nostro maestro è saggio e compassionevole, più impariamo. In Lettera a
Misawa Nichiren Daishonin afferma: «Benché uno studi il Buddismo, è
difficile che riesca a praticarlo correttamente, o per la stupidità della sua
mente, oppure, anche se è intelligente, perché non si accorge che la sua
mente è fuorviata dal maestro». C’è bisogno di una grande consapevolezza
nella scelta del maestro. Chi in questo momento sta seguendo Abe Nikken
pensa – naturalmente – di stare nel giusto e, molto probabilmente, lo fa
anche in buona fede. Ma, non seguendo un buon maestro, neanche quella
buona fede può evitargli di avere risultati negativi. Anche chi seguiva in
buona fede Shoko Asahara – il guru dell’Aum Shinrikyo (la setta del gas
nervino) – ha subìto gli effetti negativi delle azioni di quel personaggio. Da
tutto questo emerge l’enorme importanza del maestro e la nostra grande
fortuna – in quanto membri della Soka Gakkai – di averne incontrato uno
veramente all’altezza!

Dovremmo perciò riconsiderare questa fortuna anche semplicemente


ricordando l’inizio della nostra pratica buddista. Avevamo sofferenze,
domande esistenziali, problemi e un amico ci ha spinto a recitare Daimoku.
Poi abbiamo iniziato a leggere il Gosho, ma comprenderlo – almeno nella
mia esperienza – non era cosa facile. Continuando a praticare, leggendo le
spiegazioni del presidente Ikeda, studiando la Rivoluzione umana e
incoraggiati dai nostri responsabili, il Gosho diventava più chiaro e anche i
nostri scopi si chiarivano. Tutto questo avveniva (inconsapevolmente per
noi), perché c’era un maestro che insegnava correttamente il Buddismo di
Nichiren Daishonin.
Il presidente Ikeda, discepolo di Josei Toda a sua volta cresciuto sotto la
guida di Makiguchi, sta ancora oggi realizzando gli scopi del suo maestro.
Proprio il legame maestro-discepolo gli ha permesso di svilupparsi
straordinariamente come essere umano. «In ogni campo – scrive Ikeda –
una persona che ha la stessa mente del proprio maestro e lo segue
sinceramente non vacilla mai, qualunque cosa accada. Il cuore di una
persona del genere è infinitamente prezioso e bello. Il cuore di chi è
arrogante è sempre brutto, disonesto e oscuro».
Il nostro compito di discepoli è quello di seguire la guida del maestro,
questa è la chiave fondamentale per praticare correttamente il Buddismo:
«Nella Soka Gakkai – scrive Ikeda – la relazione tra maestro e discepolo ha
sempre avuto una grande importanza. Basti pensare a quella fra Toda e
Makiguchi, oppure a quella tra Toda e me. Sono convinto che è proprio
grazie all’esistenza di questi forti legami che l’organizzazione ha potuto
diventare quello che è oggi. I tempi cambiano, ma questo spirito dovrà
rimanere sempre un punto fermo della Gakkai, a dispetto di qualsiasi
critica o problema. Non scordatevene mai. Trascurando questo principio,
non riuscirete mai a comprendere la fede, la pratica e il movimento di
kosen-rufu, diventerete egoisti e finirete per pensare solo ai vostri
interessi». Dal momento che esiste questo grande pericolo, allora bisogna
essere molto severi e non interrompere mai questa corrente. Il presidente
Ikeda riporta queste parole di Nichijun Shonin, sessantacinquesimo
patriarca e grande amico della Gakkai: «La relazione più importante che
esiste al mondo è quella che esiste tra una persona che insegna e una che
apprende […] Dobbiamo sempre tener presente questo principio, qualsiasi
cosa accada. Nella vita tutto, in un modo o nell’altro, ha a che fare con la
relazione tra maestro e discepolo. Ho sempre apprezzato il fatto che nella
Soka Gakkai sia data tanta importanza a questa relazione e venga così
messo in pratica lo spirito del Sutra del Loto […] Il discepolo segue il
maestro e il maestro insegna al discepolo. Seguendo questo principio tutta
la vita comprenderete sicuramente il Buddismo».
Oggi abbiamo la fortuna di praticare sotto la guida del presidente Ikeda.
Questo può sembrare normale, ma non è così: probabilmente, ciò sarà più
evidente dopo la sua scomparsa. Noi dovremo trasmettere le sue idee e i
suoi ideali ai membri che verranno, quindi, se oggi non seguiamo bene il
nostro maestro, nel futuro faremo grossi errori. Bisogna dunque essere
molto severi con se stessi su questo argomento: «La mente di una persona
arrogante – chiarisce Ikeda – priva di un maestro nella vita, è sempre
titubante e inconcludente. Dato che questa persona è egocentrica, sarà
sempre controllata dai tempi e dall’ambiente. La sua mente sarà sviata
facilmente e cambierà sempre, ed egli non sarà mai in grado di costruire
uno stato di vita saldo e profondo».
Cosa rimarrà dopo il presidente Ikeda? Rimarrà la Soka Gakkai, dove
scorre la linfa vitale della fede e dove i membri si incoraggiano l’un l’altro.
In un certo senso la Soka Gakkai svolge la funzione del maestro, ci
permette di trasformare gli aspetti negativi della vita, di vincere
sull’egoismo e sull’arroganza. Ci sono numerose possibilità per chi è dentro
la Gakkai. Dobbiamo curare i nostri gruppi, settori, valorizzare sempre più
le riunioni e incoraggiare chi ci è vicino, mettendo in pratica nella vita
quotidiana ciò che il maestro ci insegna. È questo il nostro vero campo
d’azione.

(dal Nuovo Rinascimento del novembre 1998) (foto di Silvano Bottaro)


L’importanza di chiamarsi “maestro”

di Aida Dattola

In un mondo in rapida evoluzione è normale che anche certe parole vengano fagocitate dai processi
innovativi ed accantonate come “desuete”. Dov’era finito il maestro di quella che, in un tempo non
tanto lontano, si chiamava scuola elementare? Soppiantato dalla nuova figura del docente, cioè di
colui che insegna…Eppure è bastato un recente decreto ministeriale per farlo tornare alla ribalta e
per animare un acceso dibattito sulle future prospettive della scuola legate alla sua “riesumazione”.
L’explicatio terminorum è fondamentale per ridefinirne ruolo e professionalità: analizzando
l’etimologia del termine “maestro” dovremmo, noi che apparteniamo alla categoria, sentirci
orgogliosi di esserlo. “Maestro” deriva, infatti, dal latino “magister” (da magis, di più); in ebraico
maestro è “rabbi”, che significa “grande” ed in sanscrito “guru”, pesante di dignità e prestigio…
Il maestro è, dunque, colui che guida, spiana il cammino; un compito delicato il suo, caratterizzato
dalla piena condivisione di ciò che insegna. Il vero maestro, infatti, è colui che dapprima cerca di
migliorare se stesso e poi indirizza il proprio intervento sugli altri.
La storia della pedagogia ci insegna che i veri maestri sono coloro che sanno instaurare un rapporto
relazionale significativo con l’alunno e rappresentano per lui un valido modello di riferimento. Per
essere maestri occorre, quindi, avere un ideale di vita e, attraverso l’insegnamento e l’esempio,
produrre nell’alunno il desiderio di condividerlo. Perché nessun maestro può imporre, ma nel
rispetto della libertà individuale, deve solo condurre per mano l’allievo sui sentieri della vita,
indirizzare e non coercizzare, condividere e non imporre. Il maestro unico, che ha lasciato una
traccia indelebile nella storia della scuola italiana, oggi ritorna, ma, a mio avviso, non può essere
considerato un nostalgico ricordo del passato: gli si deve restituire la dignità e la professionalità che
ha sempre avuto e perché ciò sia possibile è necessario che siano chiare le mete da raggiungere,
tenendo conto delle mutate esigenze sociali e, soprattutto, delle richieste educative, urgenti, del
bambino.
Chi vive nella scuola e viene a contatto con un’infanzia sempre più problematica e indifesa
comprende i cambiamenti che si sono verificati e sa che il modo di “fare scuola “ non può essere
simile a quello del passato. Una scuola al passo con i tempi deve necessariamente considerare che,
accanto ai cosiddetti “saperi tradizionali”sono necessari lo studio delle lingue, dell’informatica e
delle scienze, che l’educazione civica deve avere un ruolo determinante per formare
“persone”capaci di vivere in modo positivo nella società e che il sapere non può essere disgiunto dal
“saper fare”…
Per garantire percorsi formativi idonei non è più sufficiente il maestro unico “tuttologo”: occorre
affiancargli i cosiddetti “specialisti”, che mettano al servizio dell’alunno le loro specifiche
competenze. La scuola del “leggere, scrivere e far di conto”, delineata dai programmi del 1955, era
valida per quella società ed è lapalissiano affermare che in mezzo secolo di storia la ricerca
pedagogico-didattica ha raggiunto nuove acquisizioni. Questo non significa negare la validità del
maestro unico, soprattutto nelle prime classi: se ben preparato, egli consente quel processo di
identificazione necessario ai bambini per cominciare a rispettare delle regole e per sentirsi
affettivamente protetti.
Sono convinta che i maestri che possono fregiarsi di tale titolo esistono ancora e che, anzi, oggi più
che mai sono in grado di incidere positivamente sulla formazione della personalità dei bambini.
Fondamentale è sempre la relazione educativa e la trasmissione del cosiddetto “curricolo implicito”,
che è il patrimonio personale di ogni insegnante, più o meno inconsciamente proposto agli alunni.
Vivere il mondo della scuola con passione, cercando di tenere ben saldi i punti cardine del proprio
operare, è la premessa indispensabile per sentirsi maestri a pieno titolo. Avvertire l’entusiasmo del
coinvolgimento, la consapevolezza che spesso i bambini ti guardano per scrutare il tuo
comportamento e tu non puoi tradirli perché faresti del male a te stesso e a loro; comprendere che
anche una parola fuori posto può ferire un alunno ed aver coscienza del fatto che nelle gioie e nelle
fatiche di ogni giorno di scuola si realizza un incontro tra anime: questi sono i nostri delicati ed
autorevoli compiti. Rappresentiamo dei modelli di riferimento e non dobbiamo mai dimenticarlo: è
questa la grandezza del nostro ruolo e l’impegno che ci deve animare è quello di cercare di
migliorare sempre noi stessi per rendere migliori i nostri alunni.
La fase critica che investe la nostra scuola rende necessaria una rivalutazione del ruolo insegnante:
maestri si può diventare con l’impegno costante, la ricerca e soprattutto la chiarezza degli obiettivi
che si vogliono perseguire. Le motivazioni pedagogiche che stanno alla base della rivalutazione del
maestro unico non sono state, forse, opportunamente definite, ma chi ogni giorno si impegna nella
scuola sa che le ripetute presunte innovazioni hanno demotivato tanti maestri.
Da maestra che opera nella scuola da più di vent’anni e che è nata come maestra unica per poi
vivere tutte le novità nella scuola con l’entusiasmo della neofita e a volte la delusione per i risultati
non corrispondenti alle aspettative, posso solo augurarmi che questo ritorno al passato sia vissuto
alla luce delle esigenze dei bambini. Il nostro ruolo è determinante ai fini della formazione della
personalità degli alunni e noi non possiamo prescindere dall’ascolto, dal rispetto dei tempi, dei ritmi
e dei modi di apprendimento di ciascun alunno: garantire una presenza stabile è anche utile per
creare un clima sociale positivo e disteso, nel quale sia data ad ognuno la possibilità di esprimersi e
di sentirsi compreso. La scuola, per espletare al meglio il suo compito, ha bisogno di maestri che lo
siano anche di vita, che aiutino il bambino a fare del sapere il mezzo per vivere meglio con se stessi
e con gli altri, per costruire una società più giusta e più a misura d’uomo,sempre orientati da alti
valori. Più è tempestivo l’intervento, più immediati saranno i risultati. I maestri della scuola
elementare, non solo quella di deamicisiana memoria, ma anche quelli di più recente generazione
(cito, fra tutti, il maestro Gianni Rodari) sono quelli che insegnano agli alunni a vivere
semplicemente con il loro esempio e la loro gioia. Non dimentichiamo che i bambini, anche se sono
cambiati, sono sempre bambini e riescono ancora a stupirsi e a fantasticare: non dobbiamo
uccidere i loro sogni, la loro voglia di crescere e di imparare, di scoprire e di fare…non dobbiamo
dimenticare che le loro tappe evolutive devono essere rispettate senza inutili “bombardamenti
culturali”.
La scuola primaria è la scuola dell’accoglienza e del dialogo, dell’approccio al sapere intenzionale e
motivato, della socializzazione e della creatività; ha bisogno di guide serene e motivate, che
riaffermino la loro dignità nell’azione sinergica con le famiglie, che tanto più ci apprezzano quanto
più siamo capaci di far comprendere la dignità del nostro ruolo e il rispetto per il nostro operato.
La storia è maestra di vita e ciò che di positivo ci ha offerto il passato deve essere rivisto alla luce
dei cambiamenti sociali con gli opportuni adeguamenti, ma con la precisa consapevolezza che i
bambini hanno bisogno di saldi punti di riferimento. L’importanza di chiamarsi “maestro” è, dunque,
motivo di orgoglio per chi ancora crede in questo ruolo.

Autore: Aida Dattola, insegnante nella scuola primaria, laureata in Pedagogia.


Maestro e discepolo: un incontro di anime

Amato Maestro,
sei stato mio zio, quello prediletto, e mio padre, la mia levatrice, un bambino che ride, il mio
migliore amico, un vecchio saggio, il mio cantastorie preferito, e il mio Maestro... il mio primo
pensiero all’alba e l’ultima alla sera...
Sei stato due caldi occhi scuri, una mano gentile, piedi per la mia testa; un formicolio per il corpo...
a volte un silenzio, altre un canto...
Sei stato una scossa, un bagliore, una presenza, una assenza; giorno e notte, estate e inverno... un
uomo per ogni stagione; la promessa di una realizzazione, la sola speranza, il supremo distruttore di
ogni mio sogno; il solo rifugio, e colui che ho cercato di evitare; un mago, e un semplice essere
umano, un uomo qualunque.
Eri un enigma, eri me stesso. Eri la luna, le stelle e tutto ciò che intorno a loro si muove. Eri il
verde e il colore della terra, l’azzurro e l’oro della mia terra. Eri il tutto e il nulla. Sempre, eri
amore.
Osho, per favore, puoi parlare dell’evoluzione del rapporto tra Maestro e discepolo?

Esiste rapporto e rapporto, ma nessuno è paragonabile al rapporto che esiste tra Maestro e discepolo.
Tutti gli altri rapporti, perfino il migliore, sono soggetti a condizioni.
Ad esempio, un rapporto d’amore pretende sempre qualcosa. Il solo rapporto libero da condizioni, da
pretese, da richieste, è quello che esiste tra Maestro e discepolo.
Di fatto è un fenomeno così raro e unico, che non dovrebbe essere inserito nella stessa categoria
degli altri rapporti. Solo la povertà del linguaggio ci porta a parlare di rapporto. È una fusione, è un
incontro senza alcuna ragione.
Il discepolo non chiede nulla e il Maestro non promette nulla; tuttavia nel discepolo esiste una sete e
nel Maestro esiste una promessa.
È un’intimità nella quale nessuno è superiore e nessuno è inferiore... il discepolo è sempre e
comunque femminile, perché il discepolo non è altro che disponibilità, un grembo aperto, pronto a
ricevere: è ricettività. E il Maestro è sempre maschile, perché il Maestro non è altro che dare, un
donarsi, per l’unico e semplice motivo che il tutto da lui straripa. Deve dare: è una nube carica di
pioggia.
Come il discepolo è alla ricerca, alla ricerca è il Maestro. Il discepolo cerca un luogo in cui potersi
aprire senza alcuna paura, senza alcuna resistenza, senza doversi trattenere. Un totale abbandono.
E anche il Maestro ricerca un essere umano capace di accogliere il mistero, pronto a lasciarsi
fecondare dal mistero, pronto a rinascere. Esistono molti insegnanti, e ci sono molti allievi. Gli
insegnanti hanno acquisito un sapere, e possono essere molto dotti, colti, ma nel loro cuore regnano
le tenebre; la loro istruzione maschera la loro ignoranza. Ed esistono studenti alla ricerca di quelle
conoscenze.
Maestro e discepolo sono un fenomeno completamente diverso.
Il Maestro non dà conoscenze, condivide il proprio essere.
E il discepolo non è alla ricerca di conoscenze, è alla ricerca dell’essere: è, ma non sa chi è. Vuole
riconoscersi, vuole mettersi a nudo davanti a se stesso.
Il Maestro può fare una cosa molto semplice: creare fiducia. Tutto il resto accade. Nel momento in
cui il Maestro riesce a creare fiducia, il discepolo abbandona le sue difese, i suoi abiti, ciò che
conosce. Di nuovo torna ad essere un bambino: innocente, sveglio, vivo. È un nuovo inizio.
Tuo padre e tua madre hanno dato vita al tuo corpo: è una vita che si concluderà con la morte. I tuoi
genitori sono responsabili della tua nascita e della tua morte. Anche il Maestro ti dà una nuova
nascita, ma è la nascita della consapevolezza, e questa non ha mai fine.
Occorre solo un’atmosfera di assoluta fiducia; e in quella fiducia le cose iniziano ad accadere da
sole; né il discepolo né il Maestro fanno qualcosa. Il discepolo accoglie ciò che accade. Il Maestro è il
veicolo delle forze universali: è simile ad un bambù cavo, che può diventare un flauto. Ma il suono
non è del bambù. Al bambù può andare solo il merito di non distruggere quel canto, di lasciarlo
fluire.
Il Maestro è un medium della consapevolezza universale. Se tu sei disponibile, all’improvviso la
consapevolezza universale scuote la consapevolezza assopita, la consapevolezza addormentata che
esiste in te. Il Maestro non ha fatto nulla. Tutto accade!
Vale la pena ricordare ciò che accadeva nell’antichità: i ricercatori passavano da centinaia di
insegnanti, fino a quando arrivavano alla presenza di un uomo che, all’improvviso, risvegliava in loro
la fiducia; erano arrivati... e anche i Maestri viaggiavano... ricordo un episodio... Gautama il Buddha
giunse in una città. Tutti erano accorsi per ascoltarlo, ma Buddha continuava ad aspettare guardando
di continuo la strada... e questo perché una ragazzina, di non più di tredici anni, lo aveva incontrato
e gli aveva detto: “Aspettami, porto questo cibo a mio padre, nei campi, e sarò di ritorno in tempo...
ma non scordarti di aspettarmi.”
Dopo poco, gli anziani della città chiesero a Buddha: “Chi aspetti? Tutte le persone importanti sono
presenti, inizia il tuo discorso.” Buddha ribatté: “Manca ancora la persona per la quale sono venuto
fin qui, e devo aspettare.”
La ragazzina arrivò e disse: “Sono un po’ in ritardo, ma tu hai mantenuto la promessa. Sapevo che
l’avresti fatto, dovevi farlo, perché ti sto aspettando dal giorno in cui sono diventata consapevole...
avevo forse quattro anni quando ho sentito il tuo nome per la prima volta. E il solo suono del tuo
nome ha fatto risuonare qualcosa nel mio cuore. E da allora è passato tanto tempo, sono forse dieci
anni che aspetto...” Buddha le rispose: “Non hai atteso invano. Sei tu che mi hai attirato in questo
villaggio.”
E iniziò a parlare. La ragazza fu l’unica ad avvicinarsi chiedendogli l’iniziazione: “Ho atteso a
sufficienza, ora voglio stare con te.” Buddha: “Devi venire con me, perché la tua città è così lontana
da ogni percorso e io non posso continuare a venire fin qui. Il cammino è lungo e io sto
invecchiando.”
In città nessun altro, ad eccezione di quella ragazzina, si presentò a chiedere di essere iniziato.
Nella notte, prima di coricarsi, Ananda, il primo discepolo di Buddha, gli chiese: “Prima di coricarti
vorrei farti una domanda: tu senti un’attrazione verso un certo luogo, come se si trattasse di
magnetismo?”
Buddha rispose: “Hai ragione. È così che decido dove andare. Quando sento che qualcuno ha sete,
che è così assetato che senza di me non ha alternativa alcuna, mi incammino in quella direzione.”
Il Maestro si sposta verso il discepolo.
Il discepolo si incammina verso il Maestro.
Prima o poi si incontreranno, è inevitabile.
Non è un incontro fisico, né un incontro mentale. È un incontro di anime, come se all’improvviso
avessi avvicinato due candele accese: le candele restano separate, ma le loro fiamme si uniscono, e
diventano una sola.
Quando l’anima è una sola, è difficilissimo dire che tra due corpi esiste un rapporto. Non è vero, ma
non esiste altra parola: il linguaggio è molto povero.
Si tratta di una unione di essenze.

(da “The Rajneesh Upanishad”, settembre 1986)

Amato Maestro,
se un discepolo non è d’accordo con alcune delle cose che il Maestro dice, è un discepolo?

Il discepolo è assolutamente libero di essere o non essere d’accordo con ciò che il Maestro dice. Ma
quello che il Maestro non dice, non può creare disaccordo nel discepolo! In quel caso c’è una totale
armonia.
Ciò che il Maestro dice non è altro che un gioco di parole privo di importanza. Il Maestro non è un
filosofo, non sta affatto insegnando un sistema di pensiero. Non ti chiede di essere o non essere
concorde...
Puoi non convenire con tutto ciò che dice, ma essere in accordo col Maestro.
Il problema è essere in armonia con il suo essere. Quando sei in accordo con l’essere del Maestro, non
ti preoccupi di contestare le sue parole.

(da “The Rajneesh Upanishad”, settembre 1986)

Il mio approccio alla vostra crescita è fondamentalmente quello di rendervi indipendenti da me. Ogni
tipo di dipendenza è una schiavitù, e la dipendenza spirituale è la peggiore di tutte. Ho fatto ogni
sforzo possibile per rendervi consapevoli della vostra individualità, della vostra libertà, della vostra
assoluta capacità di crescere senza l’aiuto di nessuno. La crescita è qualcosa di intrinseco al vostro
essere. Non viene dall’esterno: non è un imposizione, è uno schiudersi, una rivelazione.
Tutte le tecniche di meditazione che vi ho dato non dipendono da me; la mia presenza o assenza non
fa alcuna differenza: tutto dipende da voi. Non è la mia presenza, ma la vostra a essere necessaria
perché le tecniche possano funzionare.
Non è il mio essere qui ma il vostro essere qui, il vostro essere nel presente, il vostro essere svegli e
consapevoli che servirà a qualcosa. In realtà, nessuno può salvare nessun altro; sarebbe contrario alla
verità basilare della libertà individuale.
Per quel che mi riguarda, sto solo facendo ogni sforzo per liberarvi da tutti, me incluso, e per
lasciarvi soli nel cammino della ricerca.
L’esistenza rispetta colui che ha il coraggio di essere in solitudine nella ricerca della verità. Gli
schiavi non godono del rispetto dell’esistenza. Non si rispettano loro stessi, come possono aspettarsi
che l’esistenza mostri loro rispetto?
Perciò ricordate, quando me ne sarò andato, non perderete nulla. Al contrario è possibile che
guadagnate qualcosa di cui non siete affatto consapevoli. In questo momento sono disponibile nel
mio corpo, imprigionato in una forma definita. Quando me ne andrò, dove potrò andare? Sarò qui nel
vento, nell’oceano; e se mi avrete amato, se avrete avuto fiducia in me, mi sentirete in mille modi:
nei vostri momenti di silenzio, improvvisamente sentirete la mia presenza. Una volta libero dal
corpo, la mia consapevolezza sarà universale. Adesso dovete venire da me. Allora non avrete bisogno
di venire a cercarmi.
Dovunque siate... la vostra sete, il vostro amore... e mi troverete nel profondo del vostro cuore, nel
suo stesso battito.

(da “Beyond Enlightenment”, ottobre 1986)

Io credo e confido assolutamente nell’esistenza. Se c’è qualcosa di vero in ciò che dico, sopravvivrà.
Coloro che sono interessati al mio lavoro porteranno semplicemente la fiaccola, ma non imporranno
niente a nessuno, né con la spada, né con il ricatto del pane. Resterò una fonte di ispirazione per la
mia gente e questo è ciò che sentirà la maggior parte dei sannyasin. Voglio che coltivino per conto
loro qualità come l’amore, intorno a cui non è possibile creare alcuna chiesa, come la
consapevolezza, che non è monopolio di nessuno, come la celebrazione, la capacità di essere felici,
di mantenere lo sguardo fresco di un bambino. Voglio che la mia gente conosca se stessa, non che si
adegui alle idee di qualcun altro. E la strada è entrare dentro se stessi.

(intervista rilasciata a Enzo Biagi, estate 1989)

– da “Operazione Socrate. Il caso Osho Rajneesh” –

“Si dovrebbe accogliere la morte con gioia... è uno dei più grandi eventi della vita. Nella vita,
esistono solo tre grandi eventi: la nascita, l’amore e la morte. La nascita, per tutti voi, è già
accaduta: non potete farci più nulla. L’amore è una cosa del tutto eccezionale... accade solo a
pochissime persone, e non lo si può prevedere affatto.
Ma la morte, accade a tutti quanti: non la si può evitare. È la sola certezza che abbiamo; quindi,
accettala, gioiscine, celebrala, godila nella sua pienezza.
La morte è semplice svanire nella fonte. La morte è andare nel regno di ciò che non è manifesto: è
addormentarsi in Dio.
Di nuovo tornerai a fiorire. Di nuovo rivedrai il sole e la luna, e di nuovo e ancora... fino a quando
non diventi un Buddha, fino a quando non riuscirai a morire in piena coscienza; fino a quando non
sarai in grado di rilassarti in Dio consciamente, con consapevolezza.
Solo allora, non esiste ritorno: quella è una morte assoluta, è la morte suprema.”

“Se mi hai amato, per te, io vivrò per sempre. Vivrò nel tuo amore. Se mi hai amato, il mio corpo
scomparirà, ma per te, io non potrò mai morire. Anche quando me ne sarò andato, so che tu mi
verrai a cercare. Certo, ho fiducia che tu verrai a cercarmi in ogni pietra e in ogni fiore e in ogni
sguardo e in tutte le stelle. Posso prometterti una cosa: se mi verrai a cercare, mi troverai... in ogni
stella e in ogni sguardo... perché se hai veramente amato un Maestro, con lui sei entrato nel Regno
dell’Eterno. Non è una relazione nel tempo, dimora nell’assoluta atemporalità.
Non ci sarà morte alcuna. Il mio corpo scomparirà, il tuo corpo scomparirà, ma questo non farà una
gran differenza. Se la scomparsa del corpo creasse una pur minima differenza, dimostrerebbe
soltanto che tra noi non è accaduto l’amore.”

OSHO
MAI NATO
MAI MORTO
HA SOLO VISITATO
QUESTO PIANETA TERRA
11.12.1931
19.01.1990

l'Archetipo del Maestro e del


Discepolo In evidenza

Scritto da Luca Ferretti

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Ad un primo pensiero, si potrebbe dire che questo archetipo non


interessi tutti e che ora siamo abituati piuttosto ad un procedere
individualistico che escluda l'antico rapporto di discepolato.
Come tutte le forme sin qui esplorate, però, essa offre i suoi
effetti anche nella nostra società.

Questa figura è presente sia in occidente che in oriente con varie gradazioni e
sfumature ma mantenendo un nucleo consistente ed identico.

Il rapporto insegnante ed allievo, è visto come uno dei processi principali


attraverso il quale la conoscenza viene trasmessa e, che sia frutto di tradizione
orale quanto di interpretazione ed approfondimento di regole tecniche, esso
costituisce il collante che permette il passaggio di informazioni ed esperienza.

Potremmo anche richiamare la figura dell'artigiano che ha con sé degli apprendisti


ai quali trasmettere l'arte che ora si ripropone in forma moderna in ogni ufficio.

Quindi in questo processo non vi sarebbe squilibrio, poiché attraverso questo


passaggio non vengono date solo le nozioni, su una particolare arte o materia, ma
lo stile e “quel qualcosa in più” che costituisce la quintessenza del lavoro stesso,
della ricerca e della sperimentazione sino a quel momento sviluppata.
Potremmo dilungarci nel fare esempi di diverse tipologie di insegnanti e sistemi di
trasmissione, da quello che prediliga le parole a colui che insegni nel silenzio, da
quello che rimane nella quiete della contemplazione a colui che insegna nel
movimento, dai rapporti improntanti su una ferrea disciplina e sottomissione a
quelli con caratteristiche più morbide. Infiniti aspetti, infiniti approcci, infiniti
metodi di trasmissione che rispecchiano, ognuno, la specifica individualità del
maestro stesso.

L'archetipo, quindi, ci descrive una metodica, un rapporto ed un vantaggio nel


procedere accompagnandosi a vicenda lungo le vie della conoscenza di sé e di ciò
che appare esterno a sé.

Si potrebbe anche pensare che questa sia l'unica modalità valida, nella ricerca di
qualcosa di importante, come se tutto fosse già scoperto e che semmai si proceda
ad una sua ri-scoperta.

Questo in parte può essere vero ma è anche frutto di una visione limitata di ciò che
si manifesta nelle nostre vite.

In effetti nello sviluppo dell'esperienza umana e nella progressiva estensione della


conoscenza accumulata nell'umanità, possiamo osservare come alcune idee
irrompano come fulmine nel lento fluire della prevedibilità.

Possiamo assistere all'allievo che ad un certo punto riesca ad afferrare quel


qualcosa che lo faccia trasformare in qualcosa di diverso: la trasmutazione
dell'allievo nel maestro.

Nella nostra osservazione questo viene poco sottolineato ed approfondito, dediti


alla ricerca del maestro “giusto” per avere il premio di questa scoperta.

Come se la scoperta non fossimo noi stessi ma un altro: una deformazione della
ricerca che ci porta all'esterno piuttosto che dentro noi stessi e la realtà che
viviamo.

Questa ricerca del maestro può avere varie spiegazioni tra le quali la funzione
vivificante e stimolante che la frequentazione di certe persone può apportare alla
nostra interiorità.

Quando però individuiamo nel maestro una persona che sia irraggiungibile nelle
vette che ha già scalato, ecco che si innesca un processo limitativo delle nostre
potenzialità.

Il maestro non diventa più lo stimolo ma, invece, viene trasformato nell'ostacolo.

Non intendo dire che sia il maestro o l'insegnante che volontariamente freni il
proprio allievo e studente, anche se questo può accadere, ma è proprio una errata
percezione da parte di chi si considera allievo verso chi considera maestro, che
crea l'ostacolo.

Tutto è nella considerazione reciproca perchè allievi e maestri non esistono, nella
maniera classica con la quale si usano questi termini, poiché siamo tutti esseri di
Coscienza.

Potremmo riutilizzare queste parole come funzioni temporanee ma non come ruoli
stabili poiché il ruolo, il giudizio, la staticità è l'ostacolo sul quale ora mi
concentrerò.
FUNZIONE DELL'INSEGNARE E RUOLO DELL'INSEGNANTE NELLA NOSTRA
SOCIETA'

Questo tipo di rapporto che è strettamente connesso all'espressione di autorità,


seppur non sempre in forme chiare ma anche molto più sottili ed efficienti, lo si
riscontra negli ambienti più disparati ed, oggi, è visibile sia in alcune dinamiche
lavorative, dove si miscela e nasconde nelle pieghe del rapporto subordinato o di
collaborazione, ed anche nell'approccio con vari ambiti di ricerca relativi allo
sviluppo delle potenzialità personali.

Nella suddivisione dei ruoli e nella specializzazione così presente nella costruzione
sociale di cui facciamo parte, alcune persone sono indicate e riconosciute quali
depositarie di specifiche verità (questo se a torto o ragione non modifica la
tipologia di rapporto che poi si viene a creare) e si assiste a questo fenomeno della
formazione che diviene conformazione.

Avere innescato dentro di noi l'atteggiamento di voler “cercare all'esterno la


soluzione”, ci proietta verso i nostri simili con l'aspettativa che la maggiore
capacità ed esperienza espressa dagli altri, possa trasformarci in maniera
definitiva.

Assistiamo quindi ad una rinuncia della nostra personale capacità di ascolto e


comprensione al fine di delegare la ricerca e l'attuazione delle soluzioni agli altri.

Seppur in maniera sfumata, dentro questa dinamica si vede operare questo


archetipo che stabilisce, con chiarezza, una differenza tra coloro che sono
considerati maestri e gli altri che non lo sono.

L'aspetto limitante, infatti, non risulta nell'esistenza di maestri che, in quanto


funzione, possono essere riscontrati in tutti gli ambiti della nostra espressione
umana ma vi è poi un passaggio che dalla funzione conduce al ruolo che, in
maniera spesso erronea, cristallizza nella “personificazione della verità”.

La verità è una illusione, se la si concepisce come unica e statica, mentre può


essere un concetto stimolante, se la si intende come espressione in movimento di
un punto di vista.

Cristallizzare una presunta verità in una persona, alla quale si fa costantemente


riferimento per poi decidere il proprio operato, è una forma di deviazione del
rapporto maestro-discepolo o insegnante-allievo, che sostiene una espressione
gerarchica e piramidale molto difficile da individuare come squilibrata, per chi la
viva, ma altamente condizionante.

E' un'altissima forma di de-resposabilizzazione e de-potenziamento personale


poiché ci si preclude, per chi ne è immerso, l'espressione pieno delle proprie
capacità ed unicità.

Quindi in una forma diversa da quella percepita inizialmente, possiamo vedere


come questo archetipo, assieme a quello relativo all'obbedienza e la piramide,
creano un “sistema” che conduce ad una realizzazione nella propria vita, di rapporti
e scelte, che allontanano dall'espressione di sé stessi.

Tanto più efficace quanto più invisibile agli occhi di chi lo viva.
Chi si trova imbrigliato in questa dinamica, si percepisce esso stesso come
portatore di verità e maestri per gli altri, riproducendo “a valle” ciò che subiscono
“a monte” da colui che hanno individuato come proprio maestro.

Nelle sue forme più estreme, tale tipo di strutturazione si manifesta in ciò che è
definito settarismo che non è solo fenomeno all'interno dei credi ma in ogni ambito,
anche quello più orientato verso lo sviluppo di benessere materiale.

Distinguere tra funzione e ruolo, quindi, alimentando la prima ed osservando il


secondo nella sua espressione squilibrata, è di fondamentale importanza per chi
voglia coltivare una espressione personale libera ed autonoma.

GLI EFFETTI DELL'ARCHETIPO NELLA PROPRIA PERCEZIONE E CAPACITA'


ESPRESSIVA

Ho accennato che l'attivazione e l'accoglimento di questo tipo di funzionamento,


rapporto e tendenza crea una grande limitazione nella propria espressione
personale.

Questa limitazione, però, non si risolve solo nella dimensione delle scelte e
dell'azione, che possano andare contro un precetto od insegnamento ricevuto, ma
è molto più profonda.

E' evidente, e non mi soffermerò su questo, che se una figura di autorità, di


maestro o di insegnante induce negli altri od obbliga coloro che sono sui
sottoposti, ad evitare un certo comportamento, sentimento o modo di pensare,
questi ultimi saranno limitati nel loro modo di essere e se decidessero comunque di
contravvenire, interiormente si attivano dei conflitti spesso distruttivi per la
persona.

Anche qui, sono processi non sempre consapevolizzati, perchè semmai ci si sente
liberi nel contravvenire ma a livello più profondo vi è comunque una dinamica non
libera, che potrebbe condizionare senza che il livello consapevole ne possa
percepire gli effetti.

Quando riceviamo un ordine, una indicazione e un insegnamento possono accadere


tante cose che sono molto più complesse di ciò che accogliamo a livello
consapevole.

Questo è uno dei motivi per il quale ho intrapreso questa esplorazione degli
archetipi.

Ciò che ora voglio sottolineare è l'effetto destabilizzante e depotenziante che


questa modalità di rapporto crea nella persona.

L'aspetto più danneggiato è la “fiducia in sé”, nella sua accezione più ampia di
“capacità di farcela, di esser adeguato, di poter creare ed evolvere”.

Persino coloro che trasmettono metodi di crescita personale possono creare nei
loro allievi questo tipo di ostacolo: tutto opera sotto il livello della consapevolezza
dei protagonisti del rapporto stesso.

Questo tipo di limite si attiva nella persona che riceve un insegnamento, di


qualsiasi genere, che crea una propria immagine interiore della persona che offre
l'insegnamento.
Vi possono essere diverse motivazioni perchè questo avvenga ed è connesso
all'affidamento, come se in qualche maniera per poter accogliere un suggerimento,
la fonte debba essere di una natura tale da riconoscerla come superiore.

Ciò è espressione dell'incapacità di accogliere suggerimenti ed insegnamenti dagli


altri, poiché ci si reputa persino superiori, sino a che questa visione di sé non
possa reggere di fronte a qualcuno che manifesta capacità ritenute irraggiungibili.

E' interessante come unitamente alla devozione per un maestro-insegnante, si


possa nascondere in sé una considerazione degli altri, in generale, come non
adeguati, incapaci, stolti.

Questa doppia relazione di dipendenza/soggezione per il maestro e


disprezzo/incomprensione per gli altri, richiama immediatamente un sentimento
interiore di non accettazione degli altri.

La struttura piramidale ed il discepolato, nella sua versione più deleteria, ha le


proprie radici nella volontà di differenziarsi dalla “massa” e da coloro che si ritiene
indegni e non possessori di qualità.

In questa modalità, potrete notare quanta intransigenza possa essere espressa da


coloro che seguono un certo tipo di insegnamento, sia in ambito lavorativo quanto
filosofico, rispetto a coloro che hanno opinioni diverse.

L'intransigenza, inoltre, non va solo osservata nei comportamenti esterni ed in


quello che si dice ma anche nei sentimenti che si manifestano nella persona e
quale intimo atteggiamento ha per la vita ed i propri simili.

Il gruppo, inteso come aggregazione di persone connesse tra loro da uno scopo,
attività, interesse, può esprimere un rifiuto per gli altri che non si conformano a
certi principi base.

L'intolleranza si annida, quindi, dentro le persone anche se professano o seguono


strutture che appaiono volte alla crescita globale: tutto sta nel capire che tipo di
crescita si intenda.

Verso di sé, per coloro che fanno parte di questa dinamica in funzione di
allievo/seguace/dipendente questo pensiero ed atteggiamento crea degli ostacoli
molto grandi alla propria espressione ed alla scoperta di sé stessi.

Ho notato durante la mia attività, nella mia vita personale ed approfondendo vari
ambiti della crescita personale, che è molto difficile prendere in mano la propria
vita e trasformarla.

Alcuni ci riescono e molti lo fanno in parte ma un ostacolo molto ampio è il


ritenersi allievo e “non all'altezza”.

Questo tipo di percezione, di auto-percezione, può avere varie radici ed una di


queste risiede nella forma-archetipo di cui parliamo.

Poiché si ritiene in maestro-insegnante possessore di qualità, doti e capacità


irraggiungibili, ci si ferma nella percezione di sé stessi come incapaci di
raggiungere “tali vette”.

Nella creazione della nostra vita, la fiducia in sé riveste un ruolo centrale perchè
quando equilibrata esprime, direttamente, il nostro essere libero ed autonomo.
Il dubbio sulle proprie capacità, quando è una forma di paura di mettersi in gioco, è
quell'elemento che blocca il passaggio rapido all'autonomia.

Per molti, quindi, in vario modo si crea una situazione di sottile dipendenza
dall'altro, quale essere straordinario, la quale impedisce di percepire la propria
bellezza e forza interiore.

Questo, all'estremo, crea persino un'attività di copia (clone) con la quale l'allievo
si trasforma in una riproduzione del maestro-insegnante, assumendone
comportamenti, modi di parlare, espressioni non verbali, tipo di abbigliamento.

La negazione di sé stessi è tanto ampia che si sostituisce la propria unicità con


quella espressa dall'altro.

Qui siamo nei casi estremi ma che potrete osservare in molti ambiti della vostra
vita.

Quanto avete copiato voi i comportamenti di un altro?

Domanda difficile, poiché viviamo in una società con una contraddizione enorme:
un forte individualismo unito ad una forte tendenza ad acquisire modelli di
riferimento.

Si creano tanti cloni che pensano di essere unici: una grande illusione.

Difatti ricordo che la forma di imprigionamento più efficiente è quella che fa


credere al vincolato di essere libero: attraverso i modelli che vengono proposti si
ha il controllo sui comportamenti di vaste aree della società.

Alcuni parlano di una “necessità di modelli positivi” non accorgendosi che, spesso,
questa affermazione nasconde lo squilibrio che è alla base dell'attuale sistema.

I modelli sono utili ma senza una profonda riscoperta dell'individualità e dignità


personale, si trasformano nelle gabbie “dorate” ed invisibili.

Dorate perchè offrono una serie di vantaggi, che il singolo percepisce come
importanti, ed invisibili poiché non ci si rende conto del vincolo.

Per tornare all'effetto in noi di questa dinamica, il percepire il maestro-insegnante


quale essere superiore, possessore di qualità straordinarie, unita ad una
percezione di sé stessi come inadeguati ed incapaci, non permette di assimilare
davvero l'insegnamento che ci viene proposto ma semmai crearne una copia, una
riproduzione, non flessibile e meno efficace.

Uno dei motivi per il quale si percepisce come l'allievo non riesca ad offrire un
aiuto od una prestazione come il maestro, è dovuta a questo “stallo” che è dentro
l'allievo che ancora non gli permette di integrare l'insegnamento all'interno della
propria originalità.

L'allievo supera il maestro, invece, quando beneficiando dell'insegnamento questo


viene messo al servizio di sé, della propria essenza ed unicità, per creare qualcosa
di nuovo rispetto a ciò che il maestro-insegnante trasmetteva e viveva.

Poiché non è possibile copiare efficacemente un'altra persona, ed al più ci si limita


ad elementi esterni, il vero salto di qualità verso una capacità di risoluzione dei
propri problemi passa attraverso la ri-scoperta di sé.
I maestri-insegnanti sono utili a questo ma non nel tramandare modelli
cristallizzati.

Nel passaggio ogni modello si modifica perchè il modello in sè è una illusione, ciò
che è concreto è quanto le persone creano nella propria vita.

In alcuni ambiti si pronuncia una espressione del genere “quanto il discepolo è


pronto, appare il maestro”.

Questo tipo di espressione può essere fonte di fraintendimenti: dal punto di vista di
quello che si sta evidenziando, possiamo dire che discepolo e maestro si incontrato
perchè avvicinati dalla comune necessità di compiere un passaggio, nel quale la
funzione dell'insegnante è di entrambe le parti.

Il maestro impara dall'allievo e viceversa, i ruoli sono sociali ma non effettivi.

Tutti siamo maestri e tutti siamo allievi.

PERCHE' E' IMPORTANTE RICONOSCERE LA PROPRIA UNICITA' ED ALIMENTARE


LA MAESTRIA INTERIORE

Cosa differenzia una persona che esprime sé stessa da un'altra che decide di
copiare un'altra?

Ognuno di noi è un cosmo che possiede in sé immense risorse di rinnovamento e


creatività.

Accade però che a seguito di molteplici fattori, blocchiamo questa capacità


creativa ed espressiva.

Le motivazioni possono essere tante e di solito questo è un tipo di esplorazione che


conduco durante le proposte e gli incontri che svolgo.

E' evidente come, però, sia davvero portentoso l'apparato di freni, paure, dubbi che
impediscono di ascoltarsi e seguire ciò che emerge dal profondo.

Si ha timore che da questo nostro scrigno possano emergere mostruosità: così si


trascorre la vita nella mediocrità che crea la copia e riproduzione di altrui
comportamenti.

Ritenere che ci sia un'altra persona che abbi attributi di superiorità tale da
oscurare la propria essenza, è un grande errore che però possiamo osservare
frequentemente.

Tutta l'attenzione che viene posta verso persone che diventano delle “icone”, che
già in questa parola spesso usata richiama un misto di staticità e religiosità, o
modello di riferimento va a conformare la nostra evoluzione verso questo “sistema
di copia ed incolla”.

Così come accade per un testo, la funzione “copia ed incolla” presente nei nostri
software di scrittura produce, spesso, qualcosa che non ha una propria armonia.

Si può anche far riferimento all'antica simbologia racchiusa nella storia di


Frankenstein, che tanto è installata in noi, e che richiama proprio l'unione
innaturale di parti differenti, per creare qualcosa che abbia una parvenza di vita.

Su questa figura si potrebbe parlare molto, quale specchio di molte tendenze


attuali, ma nel caso che ci interessa essa ci ricorda come l'unire “parti” che siano
comportamentali, di atteggiamento di pensiero ed emozionali osservate in altri,
come se queste “strategie” fossero separabili dal loro originario autore, per poi
costruire un nostro nuovo modo d'essere crea, infine, uno squilibrio.

Quando copiamo una strategia in un altro, ad esempio, potremmo anche divenire


più efficaci nel raggiungimento di un obiettivo ma essa è una parte “morta” che
sovrapponiamo alla nostra vita.

Se è vero che gli altri sono di stimolo, è altrettanto importante ricordare che la
nostra originalità aspetta di essere ascoltata: coprirla con pesanti fardelli,
acquistati spesso a caro prezzo, nel lungo periodo non porta la felicità.

Il passaggio che resta difficile per molti è proprio quello di utilizzare quanto
appreso e riformularlo nel proprio modo.

Molte tecniche e procedure falliscono perchè seppur permettono un miglioramento


nei risultati raggiungibili, se nella tecnica e nella procedura stessa sono contenute
espressioni del modo di essere del creatore ed un certo modo di vedere “la vita”,
non sempre si possono adattare a tutti.

Ho osservato molti eventi miracolosi e posso comprendere come l'aver fiducia


nell'altro sia un componente importante dell'effetto positivo.

Risulta però difficile ai più comprendere che vi è stata una cooperazione, certo, ma
che la propria parte è stata fondamentale.

Questa parte è il seme che potrebbe generare la libertà personale ma molti si


fermano ad osannare colui che ha operato il prodigio come essere speciale ed
unico.

Si rimarca la percezione che ciò che è avvenuto sia fuori dalla propria portata e ci
si preclude la possibilità di scoprire il modo di accedere a quella forza generatrice
di miracoli.

Molti ricercatori in quello che è lo sviluppo personale, non sono soddisfatti di ciò
che apprendono ed intraprendono un circuito di formazione, attraverso diversi
insegnanti, senza però trovare questo centrale aspetto.

Anche coloro che insegnano, difatti, sono vittime di questa illusione-credenza


poiché essi stessi possono aver vissuto la fase maestro-discepolo senza, però,
essersi liberati dal vincolo ma diventando trasmettitori dello schema.

Questi scritti, relativi agli archetipi, così come il mio restante lavoro, è dedicato a
coloro che vogliono davvero compiere un passo di liberazione ed espressione
personale.

Non tutti possono accogliere questo tipo di visione perchè è così ampia la
riconoscenza verso coloro che hanno contribuito al proprio percorso, che si
percepisce quasi come una offesa la demolizione del piedistallo sul quale si è
posta una determinata figura.

Ciò, confido, potrà essere superato con il tempo ma non per tutti è immediato.

Accade che si scopra che il proprio idolo non sia perfetto come lo si immaginava,
vivendo una grande delusione.

Attraverso questo processo alle volte avviene un distacco molto repentino da colui
o colei che aveva assunto il ruolo di maestro.
Purtroppo nel far questo alle volte si rigetta tutto l'insegnamento ricevuto, senza
riuscire a trattenere quanto di utile e valido nel proprio modo di procedere.

Se rimaniamo centrati dentro la nostra percezione di come ognuno di noi esprime


una realtà di un'altissima dignità e potenzialità, e che non esiste qualcuno che sia
più meritevole di altri di rispetto ma che, anzi, in ognuno ci possiamo rispecchiare,
ritengo produca frutti molto positivi e possono far superare agilmente i rischi di una
“santificazione” di colui che insegna.

Se volessimo usare una forma poetica, potremmo dire che “il mondo non ha
bisogno di maestri quanto piuttosto di allievi liberi: siamo tutti allievi per tutta la
vita, di noi stessi.”
Quanto detto non vuole demolire quanto di splendido si sia creato grazie a strutture
sociali che ruotano attorno a leader, maestri ed insegnanti.

Rammentiamo che un certo funzionamento appare nella società perchè risponde


alle richieste dei singoli, anche quando questo funzionamento porta enormi
squilibri agli stessi.

La maestria interiore e la libertà di esprimersi non è attitudine alla quale siamo


abituati, che ci viene insegnata e che possa essere di facile applicazione.

E' un processo di crescita personale che impegna in maniera intensa ma che aiuta
davvero nel raggiungimento di una stato ampliato di esistenza.

A molti potrebbe apparire sicuramente molto più semplice dare la responsabilità e


persino i meriti agli altri: si rimane sullo sfondo senza prendere parte al fluire della
vita.

Se non ci si espone, non si viene giudicati per gli errori.

Questo tipo di atteggiamento, però, impedisce di far emergere le proprie doti che
spesso ci accorgiamo di avere solo nei momenti di emergenza.

Quando crolla il sistema di riferimento, siamo “lanciati in campo” e quindi costretti


ad operare scelte di responsabilità.

In alcuni casi questa è una modalità che porta successo ma è un modo di crescere
molto traumatico.

Se si accoglie lo stimolo altrui ma lo si trasforma in qualcosa di proprio,


prendendosi pienamente la responsabilità di quanto si compia e senza cedere il
proprio potere creativo agli altri, potremmo emergere come esseri nuovi,
espandendo la propria luce interiore nella quotidianità e nei rapporti che viviamo,
senza dover vivere pesanti traumi.

Tutto lo studio delle malattie psicosomatiche, ad esempio, ci ha fatto comprendere


come molti disturbi di carattere fisico derivino da questa forzatura che noi
operiamo su noi stessi.

Un essere che si esprime è un essere sano ed equilibrato, viceversa obbligarsi ad


operare in un recinto va a danneggiare tutti i nostri aspetti sino a quello fisico.

PARLARE DI EVOLUZIONE ED ESSERE L'EVOLUZIONE

Apprendere degli insegnamenti e riprodurli non è una vera evoluzione.


Nozioni, tecniche, metodi, strategie ed anche i successi che si ottengono grazie a
questi sono piccola cosa nel confronto della vera evoluzione personale.

Certo questi passaggi costituiscono alle volte delle tappe obbligate ma ad un certo
punto si rende necessario il recuperò della propria autonomia, qualora la si sia
persa nel seguire certi percorsi.

Difatti l'essere umano che sta emergendo in questi anni, ricchi di sfide ma davvero
di opportunità uniche, possiede l'attributo dell'autonomia e della responsabilità
dell'uso del proprio potere.

La dinamica piramidale, obbediente e gestita come gruppo-gregge ha mostrato


tutta la propria incapacità di creare un mondo ed una convivenza sociale che porti
armonia.

Nonostante tutti i vari squilibri presenti nella società, però, è più forte l'amore e
l'armonia che trova sempre spazi per manifestarsi.

La piramide non è riuscita a demolire l'animo umano e l'omologazione, seppur


tentata con formidabili mezzi, non ha raggiunto il suo scopo e non si è realizzata.

Siamo costantemente bombardati da questo tipo di condizionamenti ma non è stato


ancora possibile eliminare la capacità di risveglio che ora si sta manifestando in
maniera sempre più ampia.

Stiamo osservando tutti, ma mano, lo scoprirsi dei vecchi giochi e ci prepariamo a


transitare verso una nuova modalità di esistenza.

Questo passaggio, però, è come tutti quelli fondamentali nel nostro percorso, da
compiersi individualmente.

“L'essere l'evoluzione” è l'avventura più grande che ci possa coinvolgere e man


mano il vuoto “parlare di evoluzione” sarà superato come passaggio.

L'archetipo del Maestro e del Discepolo potrà essere riscritto avendo ben presente
quanta maestria sia custodita in ognuno di noi che convive con l'essere sempre in
evoluzione e quindi discepolo della vita e di sé stessi.

Si tratta, quindi, di ridefinire i ruoli e togliere energia a visioni molto rigide per
riappropriarci della funzione che è quella che ci sostiene e ci stimola.

I ruoli cadranno, se li intendiamo come espressioni mitizzate di funzioni, per lasciar


spazio al fluire di ognuno.

Chiudo aggiungendo un ulteriore elemento: nella dinamica tra Maestro e


Discepolo, chi ha meno possibilità di evolvere?

Alcuni potrebbero rispondere il discepolo ma dalla sua parte, ha la possibilità di


disilludersi del maestro e liberarsi.

Colui che realmente è più imprigionato nel ruolo è il maestro: egli ha barattato la
sua possibilità di evolvere per il mantenimento di un ascendente sugli altri e
posizioni di utilità.

Il maestro spesso non può cambiare idea e perde la fluidità di dire “oggi mi va
così”, perchè sa che vi sono persone che si attendono da lui certi comportamenti.
Questo archetipo, quindi, costituisce una grande trappola anche per gli esseri più
evoluti, poiché su di essi cala una colata di cemento che li ferma in una statua
senza vera vita.

Luca Ferretti

www.trasformazioneconsapevole.it

L'intimitá del discepolo con il Maestro


“MAESTRO, INSEGNACI A PREGARE” - GIM2, 2 NOVEMBRE 2013

• Canto: Beatitudine

•Introduzione

Esercizio di meditazione:

• Consapevolezza (esserci= stabilità- quiete/far entrare l'eternità in se, come la


montagna)

• Orientamento/Energia (colonna vertebrale dritta ma flessibile, cercare la Luce come il


papavero)

• Respiro profondo e regolare (i pensieri vanno e vengono ma nel profondo si rimane


stabili, come l'oceano)

• Il canto interiore/meditazione (lasciar salire, come l'uccello, quel canto che viene dal
cuore invocando il nome di Dio, scegli una tua invocazione: es: “la tua tenerezza sia su di
me e su tutti” “il tuo Nome sia benedetto” “Gesù, ti amo” “insegnami ad amare”)

• Distaccarsi da se stessi/abbandonarsi al Padre (come Abramo, spogliarsi di ciò che


hai di più caro perché solo Dio basti nella propria vita. Tutto appartiene a Lui)
• Diventare Figlio/a (pregare come Gesù è avere con il nostro Padre la stessa relazione
d' intimità che aveva Lui e questa è opera dello Spirito Santo. Invocalo, Egli ti ricorderà
tutto ciò che Gesù ha detto).

Storia del giovane filosofo che voleva imparare a pregare

Allorché un giovane filosofo francese, arrivò al Monte Athos, aveva già letto un certo
numero di libri sulla spiritualità ortodossa, in particolare la Piccola Filocalia della preghiera
del cuore e i Racconti di un pellegrino russo. Ne era stato sedotto senza esserne
veramente convinto. Un giorno ha aveva sentito il desiderio di trascorrere qualche giorno
al Monte Athos, in occasione di una vacanza in Grecia, per saperne un po’ di più sulla
preghiera e il metodo di orazione degli esicasti, questi uomini silenziosi in cerca di
"esichia", ossia di pace interiore.

Sarebbe troppo lungo raccontare dettagliatamente come giunse ad incontrare il padre


Serafino, che viveva in un eremitaggio. Diciamo solo che il giovane filosofo era un po'
infastidito. Non trovava i monaci "all' altezza" dei suoi libri.

Diciamo pure che, se aveva letto parecchio sulla meditazione e la preghiera, non aveva
ancora pregato veramente, né aveva praticato una qualche particolare forma di
meditazione e, in fondo, ciò che egli chiedeva non era un discorso ulteriore sulla preghiera
o sulla meditazione, ma una "iniziazione" che gli permettesse di viverle e conoscerle dal
di dentro, per esperienza e non per sentito dire. Padre Serafino aveva una reputazione
ambigua presso i monaci vicini. Alcuni lo consideravano un contadino ignorante, altri un
autentico staretz (maestro e istitutore di Dio) ispirato dallo Spirito Santo, capace di dare
consigli profondi e di leggere nei cuori. Egli parlava, ovviamente, dello Spirito Santo e della
sua discesa più o meno profonda nell'uomo. Qualche volta nella testa, ma non sempre nel
cuore o nelle viscere. Giudicava così la santità di qualcuno, dal grado di incarnazione dello
Spirito. Per lui, l'uomo perfetto, l' uomo trasfigurato, era quello interamente abitato dalla
Presenza dello Spirito Santo, dalla testa ai piedi.

Il giovane filosofo era ben lontano da tali traguardi: in lui lo Spirito Santo si era fermato, o
piuttosto non aveva trovato passaggio che "fino al mento". Quando chiese a Padre
Serafino di parlargli della preghiera del cuore e dell'orazione pura secondo Evagrio
(monaco asceta e scrittore cristiano), Padre Serafino gli disse: "Prima di parlare di
preghiera del cuore, impara a meditare come una montagna..." e gli indicò un'enorme
roccia. "Chiedile come fa a pregare. Poi torna da me".

Meditare come una montagna


Cominciò così per il giovane filosofo una vera iniziazione al metodo dell'orazione di
meditazione. La prima indicazione che gli venne data concerneva la stabilità. Un buon
abbarbicamento al suolo. Effettivamente, il primo consiglio da darsi a chi vuole meditare
non è di ordine spirituale, ma fisico: siediti !

Sedersi come una montagna vuol dire anche prendere peso: essere pesante di
presenza. I primi giorni, il giovane faceva fatica a rimanere così, immobile, le gambe
incrociate, il bacino leggermente più alto delle ginocchia (è in tale posizione che
aveva trovato maggiore stabilità).

Una mattina sentì realmente che cosa voleva dire "meditare come una montagna". Era là
con tutto il suo peso, immobile. Silenzioso, sotto il sole, era una cosa sola con la
montagna. La sua nozione del tempo era completamente cambiata. Le montagne hanno
un altro tempo, un altro ritmo. Essere seduto come una montagna è avere l'eternità
davanti a sé e l'atteggiamento giusto per colui che vuole entrare nella meditazione;
sapere che c’é l'eternità dietro, dentro e davanti a sé. Prima di costruire una chiesa,
doveva essere pietra, e su questa pietra (questa imperturbabile solidità della roccia) Dio
poteva costruire la sua chiesa e del corpo dell'uomo fare il suo tempio. É così che
comprendeva il senso della parola evangelica: "Tu sei pietra e su questa pietra edificherò
la mia chiesa". Rimase così parecchie settimane.

La cosa più dura era passare ore e ore "a far niente". Bisognava imparare di nuovo
ad essere, semplicemente ad essere, senza scopo ne motivo. Meditare come una
montagna era la meditazione stessa dell'Essere, "del semplice fatto di essere", prima di
ogni pensiero, di ogni piacere e di ogni dolore.

Padre Serafino lo andava a trovare ogni giorno, condividendo con lui i suoi pomodori e
qualche oliva. Malgrado questo regime così frugale, il giovane sembrava aver preso
peso. La sua andatura era più tranquilla. Pareva che la montagna gli fosse entrata
nella pelle. Sapeva prendere tempo, accogliere le stagioni, mantenersi tranquillo e
silenzioso come una terra a volte arida e dura, ma anche, certe volte, come un
versante di collina che attende il raccolto.

Parimenti, meditare come una montagna aveva modificato il ritmo dei suoi
pensieri. Aveva imparato a "vedere" senza giudicare, come se avesse dato a tutto ciò che
cresce sulla montagna il "diritto di esistere".

Un giorno, alcuni pellegrini, impressionati dalla qualità della sua presenza, scambiandolo
per un monaco gli chiesero una benedizione. Egli non rispose, imperturbabile come la
pietra. Avendolo saputo, la sera stessa Padre Serafino comincio a bastonarlo di santa
ragione... Allora il giovane cominciò a lamentarsi. "Ti credevo diventato stupido come i
ciottoli della strada... La meditazione esicastica ha il radicamento, stabilità della montagna,
ma il suo fine non è di fare di te un ceppo morto bensì un uomo vivo". Prese il giovane
uomo per il braccio e lo condusse al fondo del giardino dove fra le erbe selvagge si poteva
vedere qualche fiore. "Ora, non si tratta più di meditare come una montagna sterile.
Impara a meditare come un papavero, ma non dimenticare per questo la montagna..."

Meditare come un papavero

É così che il giovane imparò a fiorire... La meditazione e innanzi tutto un mettersi


tranquillo, immobile, ed è ciò che la montagna gli aveva insegnato.

Ma la meditazione e anche un "orientamento", ed è ciò che gli insegnava ora il


papavero. Volgersi verso il sole, volgersi dal più profondo di se verso la luce. Farne l'
aspirazione di tutto il proprio sangue, di tutta la propria linfa. Questo orientarsi verso il
bello, verso la luce lo faceva talvolta diventare rosso come un papavero.

Come se la "bella luce" fosse quella di uno sguardo che gli sorridesse e da lui attendesse
qualche profumo... Dal papavero apprese ugualmente che, per persistere nel suo
orientamento il fiore deve avere "lo stelo eretto".

Cominciò allora a raddrizzare la colonna vertebrale. Questo gli procurò qualche


difficoltà, perché in certi testi della Filocalia aveva letto che il monaco doveva disporsi
leggermente curvo. Qualche volta perfino con dolore. Lo sguardo volto verso il cuore e le
viscere. Chiese spiegazioni al Padre Serafino. Gli occhi dello staretz lo guardarono con
malizia: "Questo valeva per i robustissimi uomini di una volta. Erano pieni di energia e
occorreva riportarli un poco all'umiltà della loro condizione umana. Curvarsi un po' nel
tempo della meditazione non gli faceva mica male... Tu piuttosto, avendo bisogno di
energia, nel momento della meditazione raddrizzati, sii vigile, tieniti diritto verso la
luce, ma sii senza orgoglio... D'altronde, se osservi bene il papavero, esso
t'insegnerà non soltanto la dirittura dello stelo , ma anche una certa flessibilità sotto
le ispirazioni del vento e poi anche una certa umiltà..."

In effetti, l'insegnamento del papavero si trovava anche nella sua fugacità e fragilità.
Bisognava imparare a fiorire, ma anche a appassire. Il giovane comprese meglio le
parole del profeta: "Ogni uomo è come l'erba, e tutta la sua gloria è come un fiore del
campo. Secca l'erba, appassisce il fiore... Le nazioni sono come una goccia di un
secchio... I signori della terra sono appena piantati, appena i loro steli hanno messo radici
nella terra... seccano e l'uragano li strappa via come paglia" (Is 40). La montagna gli aveva
dato il senso dell'eternità, il papavero gli insegnava la fragilità del tempo: meditare e
conoscere l'Eterno nella fugacità dell'istante, un istante diritto, bene orientato. In altre
parole, fiorire il tempo che ci è dato di fiorire, amare il tempo che ci e dato di amare,
gratuitamente, senza perché, senza per chi. Per che cosa fioriscono, i papaveri?

Imparò così a meditare "senza scopo nè interesse", per il piacere d'essere e di


amare la luce: "L'amore è ricompensa a se stesso", diceva san Bernardo. "La rosa
fiorisce perché fiorisce, senza perché", diceva ancora Angelo Silesio. "É la montagna che
fiorisce nel papavero, pensava il giovane. É tutto l'universo che medita in me. Possa io
arrossire di gioia per tutta la durata della mia vita".

Senza dubbio questo era troppo. Padre Serafino cominciò a scuotere il filosofo e di nuovo
lo prese per un braccio. Lo trascinò per un sentiero scosceso fin sulla riva del mare, in una
piccola insenatura deserta. "Smettila di ruminare come una mucca il buon significato dei
papaveri. Abbi anche il cuore marino. Impara a meditare come l'oceano".

Meditare come l'oceano

Il giovane si avvicinò al mare. Aveva acquisito un buon modo di stare seduto ed un


portamento eretto. Era in buona positura. Che cosa gli mancava? Che cosa poteva
insegnargli lo sciacquio delle onde? Si alzò il vento. Il flusso e il riflusso del mare si fecero
più profondi e ciò risvegliò in lui il ricordo dell'oceano. In effetti, il vecchio monaco gli aveva
pur consigliato di meditare "come l'oceano" e non come il mare. Come aveva fatto ad
indovinare che il giovane aveva passato lunghe ore in riva all'Atlantico, soprattutto la notte,
e che già conosceva l' arte di accordare il proprio respiro al grande respiro delle
onde? Inspiro, espiro... poi: sono inspirato, sono espirato. Mi lascio portare dal
respiro, come ci si lascia portare dalle onde... Così, faceva il morto portato dal ritmo
della respirazione oceanica. Ciò l'aveva condotto talvolta sull'orlo di strani deliqui, ma la
goccia d'acqua che una volta "si dileguava nel mare" oggi custodiva la propria forma, la
propria coscienza. Era l'effetto della positura? Del suo radicamento nella terra? Non era
più portato dal ritmo profondo della respirazione. La goccia d'acqua conservava la propria
identità e tuttavia sapeva di "essere una" con l'oceano. É così che il giovane uomo
imparò che meditare è respirare profondamente, è abbandonare al suo corso il
flusso e riflusso del respiro.

Apprese ugualmente che, se vi erano delle onde in superficie, il fondo dell'oceano


rimaneva tranquillo. I pensieri vanno e vengono come schiuma, ma il fondo
dell'essere rimane immobile.

Meditare a partire dalle onde che siamo per lasciarsi annegare e mettere radici nel fondo
dell'oceano. Tutto ciò diventava in lui ogni giorno un poco più vitale, ed egli ricordava le
parole di un poeta che l'avevano segnato al tempo della sua adolescenza: "L'esistenza e
un mare pieno di onde. Di questo mare la gente comune non percepisce che le onde.
Guarda come dalle profondità del mare innumerevoli onde salgono in superficie, mentre il
mare rimane nascosto nelle onde". Oggi il mare gli sembrava meno "nascosto nelle onde",
l'unicità di tutte le cose gli pareva più evidente, e ciò non aboliva la molteplicità. Egli aveva
minor bisogno di contrapporre il fondo e la forma, il visibile e l’invisibile. Tutto costituiva
l'oceano unico della vita. Nel fondo del suo respiro non c'era forse la "Ruah"? Il "pneuma"?
Il grande respiro di Dio? "Colui che ascolta attentamente la sua respirazione, gli disse
allora il vecchio monaco Serafino, non è lontano da Dio. Ascolta chi giace al limite della
tua aspirazione. Ascolta chi si trova al principio della tua inspirazione". Effettivamente
c'erano al principio e alla fine di ogni respiro alcuni secondi di silenzio, più profondi del
flusso e riflusso delle onde, c'era qualcosa che l'oceano sembrava portare...

Meditare come un uccello

"Essere in una buona positura, avere un portamento eretto verso la luce, respirare
come l'oceano non è ancora la preghiera esicastica, gli disse Padre Serafino. Tu devi
imparare ora a meditare come un uccello", e lo condusse in una piccola cella accanto al
suo remitaggio dove vivevano due tortore. Il tubare di quelle bestioline gli parve dapprima
incantevole, ma, dopo poco, cominciò a infastidirlo. In effetti sceglievano sempre il
momento in cui cadeva dal sonno per tubare le più tenere effusioni. Chiese al vecchio
monaco che cosa significava tutto ciò e se quel la commedia doveva durare ancora a
lungo. La montagna, l'oceano, il papavero li aveva accettati suo malgrado (per quanto si
chiedesse che cosa vi fosse di cristiano in tutto ciò), ma proporgli adesso questo languido
volatile come maestro di meditazione, era proprio troppo!

Padre Serafino gli spiegò che nell'Antico Testamento la meditazione è espressa con dei
termini della radice "haga", reso più sovente in greco da mélété meletan, e in latino da
meditari -meditatio. Nel suo senso primitivo la radice di questo termine significa
"mormorare a mezza voce". É usata parimenti per designare grida d' animali, ad esempio
il ruggito del leone (Is 31, 4), il pigolio della rondine e il canto della colomba (Is 38, 14), ma
anche il brontolio dell'orso. "Al monte Athos non ci sono orsi. É per questo che ti ho
condotto dalle tortore, ma l'insegnamento è il medesimo. Bisogna meditare con la gola,
non soltanto per accogliere il respiro, ma anche per mormorare, giorno e notte, il nome
di Dio....

Quando sei felice, canterelli, quasi senza accorgertene qualche volta mormori parole
senza significato, e quel mormorio fa vibrare tutto il tuo corpo di gioia semplice e
serena. Meditare e mormorare come la tortora, lasciar salire in te quel canto che
viene dal cuore, così come hai imparato a lasciar salire in te il profumo che viene dal
fiore...

Meditare, è respirare cantando


Senza troppo soffermarti per il momento al suo significato, ti propongo di ripetere,
mormorare, canticchiare ciò che è nel cuore di tutti i monaci dell'Athos: "Kyrie eleison,
Kyrie eleison...". Ciò non piaceva troppo al giovane filosofo. In occasione di certe messe di
matrimonio o di funerale aveva già sentito quell'invocazione, tradotta con "Signore pietà".

Il monaco Serafino sorrise: "Sì, questo e uno dei significati di tale invocazione, ma ve ne
sono ben altri. Vuol dire anche: "Signore, manda il tuo Spirito...! Che la tua tenerezza
sia su di me e su tutti, che il tuo Nome sia benedetto", ecc. Ma non cercare troppo di
impadronirti del significato di questa invocazione, esso ti si rivelerà da sé.

Per il momento sii sensibile e attento alla vibrazione che essa suscita nel tuo corpo e
nel tuo cuore. Cerca di armonizzarla quietamente con il ritmo del tuo respiro.
Quando i pensieri ti tormentano, ritorna dolcemente a quell'invocazione, respira più
profondamente , tieniti diritto e immobile e incomincerai a conoscere un inizio della
pace che Dio dà senza lesinare a coloro che lo amano".

A capo di alcuni giorni il "Kyrie eleison" gli divenne un poco più familiare. Lo
accompagnava come il ronzio accompagna l'ape quando fa il miele. Non sempre lo
ripeteva con le labbra. Allora il ronzio diventava più interiore e la sua vibrazione più
profonda. Il "Kyrie eleison", di cui aveva rinunziato a "cogliere" il senso, lo conduceva
talvolta in un silenzio sconosciuto. Si ritrovava nello stato d'animo dell'apostolo Tommaso
quando vide il Cristo risorto: "Kyrie eleison" "mio Signore e mio Dio".

L’invocazione lo immergeva poco a poco in un clima di rispetto intenso verso tutto


ciò che esiste, ed anche di adorazione per ciò che è nascosto e si trova alla radice
di ogni esistenza. Padre Serafino allora gli disse : "Adesso non sei lontano dal meditare
come un uomo. Debbo insegnarti la meditazione di Abramo".

Meditare come Abramo

Fin qui l'insegnamento dello staretz era di ordine naturale e terapeutico. Gli antichi
monaci, secondo la testimonianza di Filone Alessandrino, erano in effetti dei "terapeuti". Il
loro ruolo, prima di condurre all'illuminazione, era di guarire la natura, di metterla nelle
migliori condizioni per poter ricevere la grazia, poiché la grazia non contraddice la natura,
ma la reintegra e la completa. É ciò che faceva il vecchio monaco con il giovane filosofo
insegnandogli un metodo di meditazione che certi avrebbero potuto considerare come
"puramente naturale". La montagna, il papavero, l'oceano, l'uccello. Altrettanti elementi
della natura che ricordano all'uomo che, prima di andare lontano, deve cogliere i diversi
livelli dell'essere, o meglio i diversi regni di cui e composto il macrocosmo. Il regno
minerale, il regno vegetale, il regno animale... L'uomo ha perso il contatto con il cosmo,
con la roccia, con gli animali e questo non senza provocare in lui ogni sorta di malesseri:
malattie, insicurezza, ansietà. Egli si sente "di troppo", estraneo al mondo. Meditare e
innanzi tutto entrare nella meditazione e nella lode dell'universo, perché, dicevano i padri,
"tutte queste cose sanno pregare prima di noi". L'uomo è il luogo dove la preghiera del
mondo prende coscienza di se stessa. L' uomo esiste per dare un nome a ciò che le
creature lodano balbettando... Con la meditazione di Abramo, noi entriamo in una
nuova e più alta coscienza che si chiama fede, ossia l'adesione dell'intelligenza e
del cuore a quel "Tu" che É, che traspare nella molteplice intimità di tutti gli
esseri. Tali sono l'esperienza e la meditazione di Abramo: dietro il fremito delle stelle vi è
qualcosa di più che le stelle, una Presenza difficile da nominare, che nessuno può
chiamare per nome e che tuttavia ha tutti i nomi....

É qualcosa di più dell'universo e che tuttavia non può essere compreso se non
nell'universo. La differenza fra Dio e la natura è la differenza che vi è fra l'azzurro del cielo
e l'azzurro di uno sguardo...

Al di là di tutti gli azzurri Abramo era alla ricerca di quello sguardo... Dopo avere appreso
la positura tranquilla e immobile, l'abbarbicamento, il positivo orientamento verso la
luce, il respiro degli oceani, il canto interiore, il giovane era in tal modo invitato ad
un risveglio del cuore. "Ecco, tutt'un tratto sei qualcuno". É proprio del cuore,
effettivamente, personalizzare ogni cosa e, in questo caso, personalizzare l'Assoluto, la
Sorgente di tutto ciò che vive e respira, darle un nome, chiamarla "Mio Dio, Mio Creatore"
e camminare alla sua presenza.

Per Abramo meditare è mantenere il contatto con questa Presenza sotto le


apparenze più svariate. Questa forma di meditazione entra nei dettagli concreti della
vita di ogni giorno. L'episodio della quercia di Mamre ci mostra Abramo "seduto
all'entrata della tenda, nell'ora più calda del giorno", e là accoglie tre stranieri che si
rivelano essere degli inviati di Dio "Meditare come Abramo, diceva Padre Serafino, è
praticare l'ospitalità; il bicchiere d'acqua che dai a colui che ha sete non ti allontana dal
silenzio ti avvicina alla sorgente".

"Meditare come Abramo non soltanto risveglia in te la pace e la luce, ma anche


l'Amore per tutti gli uomini". E Padre Serafino gli lesse quel famoso passo dal libro della
Genesi. dove si parla dell'intercessione di Abramo. Abramo stava davanti a YHWH, "Colui
che è -che era -che sarà" Gli si avvicinò e disse: "Davvero sterminerai il giusto con
l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non
perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?..." Poco a poco
Abramo dovette ridurre il numero dei giusti perché Sodoma non venisse distrutta. "Non si
adiri il mio Signore se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci..."
(Gen18, 23).
Meditare come Abramo vuol dire intercedere per la vita dell'umanità, non ignorare
nulla della loro putredine e tuttavia "mai disperare della misericordia di Dio". Questo
genere di meditazione libera il cuore da ogni giudizio e da ogni condanna, sempre e
ovunque; pur di fronte a infiniti orrori egli chiede sempre perdono e benedizione.
Meditare come Abramo conduce ancora più lontano.

Le parole facevano fatica a uscire dalla gola del Padre Serafino, come se questi avesse
voluto risparmiare al giovane un'esperienza attraverso la quale lui stesso era stato
costretto a passare e che ridestava nella sua memoria un sottile tremore: "Ci può condurre
fino al Sacrificio..." egli citò il passo della Genesi in cui Abramo si mostra pronto a
sacrificare il proprio figlio Isacco. "Tutto appartiene a Dio, continuò in un mormorio Padre
Serafino. Tutto è suo, viene da lui ed è per lui"; meditare come Abramo ti conduce alla
totale spoliazione di te stesso e di ciò che hai di più caro... qual cosa a cui tieni
particolarmente, con cui identifichi il tuo io"...

Per Abramo si trattava del suo unico figlio; se tu sei capace di questo dono, di
questo totale abbandono, di questa infinita fiducia in Colui che trascende ogni
ragione e ogni buon senso, tutto ti sarà reso al centuplo: "Dio provvederà".
Meditare come Abramo e avere nel cuore e nella coscienza "nient'altro che Lui".
Quando salì in cima alla montagna Abramo pensava solo a suo figlio. Quando
ridiscese non pensava che a Dio.

Passare attraverso la vetta del sacrificio è scoprire che niente appartiene all’"io". Tutto
appartiene a Dio. É la morte dell'ego e la scoperta del "Sé". Meditare come Abramo è
aderire con la fede a Colui che trascende l'universo, è praticare l'ospitalità è intercedere
per la salvezza di tutti gli uomini. É dimenticare se stessi è spezzare i legami, anche i più
legittimi, per scoprire se stessi, il nostro prossimo e tutto l'universo abitato dalla presenza
infinita di "Colui che, solo É".

Meditare come Gesù

Padre Serafino si mostrava sempre più discreto. Sentiva i progressi che il giovane faceva
nella meditazione e nella preghiera. Parecchie volte lo aveva sorpreso, il viso bagnato di
lacrime, a meditare come Abramo, intercedendo per tutti gli uomini, "Mio Dio, mia
misericordia che cosa sarà dei peccatori...?"

Il giovane un giorno venne a lui e gli chiese: "Padre, perché non mi parlate mai di Gesù?
Qual era la sua preghiera personale, la sua forma di meditazione? Nella liturgia, nei
sermoni non si parla che di Lui. Nella preghiera del cuore, quale se ne parla nella Filocalia,
occorre invocare il suo nome. Perché non me ne dite nulla?" Padre Serafino sembrò
turbato. Come se il giovane gli domandasse qualcosa di indecente, come se fosse
costretto a rivelargli il suo segreto. Più grande è la rivelazione che si è ricevuta, più grande
dev'essere l'umiltà per trasmetterla. Indubbiamente egli non si sentiva abbastanza umile:
"Questo, soltanto lo Spirito Santo può insegnartelo”. "Nessuno sa chi è il Figlio se non il
Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Lc l0,22).

Devi diventare figlio per pregare come il Figlio e avere con Colui che Egli chiama
suo e nostro Padre le stesse relazioni d' intimità, e questa è opera dello Spirito
Santo. Egli ti ricorderà tutto ciò che Gesù ha detto.

Il Vangelo diventerà vivo in te e ti insegnerà a pregare nel modo giusto" Il giovane insiste:
"Ditemi ancora qualcosa".

Il vecchio gli sorrise "Ora, disse, farei meglio a latrare. Ma tu prenderesti ancora questo
come un segno di santità.

É meglio che io ti dica le cose semplicemente. "Meditare come Gesù è ricapitolare tutte
le forme di meditazione che ti ho insegnato fino ad ora. Gesù è l'uomo cosmico.
Sapeva meditare come la montagna, come il papavero, come l'oceano, come la tortora.
Sapeva anche meditare come Abramo. Il suo cuore senza limiti amava persino i suoi
nemici, i suoi carnefici: "Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno".
Praticava l'ospitalità verso malati, peccatori, paralizzati, prostitute... La notte si
ritirava a pregare, nel segreto, e là mormorava come un bambino "Abbà" che vuol
dire "papà"... Ti potrà sembrare irriverente chiamare "papà" il Dio trascendente, infinito,
innominabile! Ti potrà sembrare quasi puerile, eppure questa era la preghiera di Gesù, e in
questa semplice parola "Abbà" era detto tutto. Il cielo e la terra diventavano terribilmente
vicini. Dio e l'uomo formavano una cosa sola... bisogna forse aver chiamato nella notte
"papà" o “mamma” per capire... Ma può darsi che, oggi, queste intime relazioni di un padre
e di una madre con il loro figlio non dicano più niente. Forse è una cattiva immagine... É
per questo che preferirei non dirti nulla, non usare immagini e aspettare che lo Spirito
Santo metta in te i sentimenti e la conoscenza che erano in Cristo Gesù e che
questo "Abbà" non rimanga a fior di labbra ma venga dal profondo del cuore. Quel
giorno comincerai a comprendere che cosa è la preghiera e la meditazione degli esicasti".

Ed ora, va' !

Il giovane rimase ancora alcuni mesi sul Monte Athos. La preghiera di Gesù lo trasportava
negli abissi, talvolta al limite di una certa "follia". "Non più io vivo, è Cristo che vive in me",
poteva dire con san Paolo. Delirio di umiltà, d'intercessione, di desiderio "che tutti gli
uomini siano salvi e giungano alla piena conoscenza della verità".

Diventava Amore, diventava fuoco. Il roveto ardente non era più, per lui, una metafora ma
realtà: "Ardeva eppure non si consumava".
Questa volta padre Serafino gli intimò di lasciare l'Athos e di ritornare a casa; là avrebbe
visto che cosa restava delle sue belle meditazioni esicastiche.

Il giovane partì. Ritornò in Francia.

Lo trovarono piuttosto smagrito e non videro niente di molto spirituale nella sua barba
sporca e nella sua aria trasandata... Ma la vita della città non gli fece dimenticare
l'insegnamento dello staretz.

Quando si sentiva troppo agitato per la tirannia del tempo, andava a sedersi come
una montagna sulla terrazza di un caffè. Quando sentiva in se l'orgoglio, la vanità, si
ricordava del papavero, "ogni fiore appassisce", e nuovamente il suo cuore si
volgeva verso la luce che non muore. Quando la tristezza, la collera, il disgusto
invadevano la sua anima, respirava profondamente, come un oceano, riprendeva
fiato nel respiro di Dio, invocava il suo Nome e mormorava: "Kyrie eleison..." Quando
notava la sofferenza degli uomini, la loro cattiveria, e sentiva la propria impotenza a
cambiare le cose, si ricordava della meditazione di Abramo. Quando era calunniato
e di lui si diceva ogni sorta di malignità, era felice di meditare come Cristo...
Esteriormente, era un uomo come gli altri. Non cercava di avere "l'aria di un santo"...
Aveva perfino dimenticato di praticare il metodo d'orazione esicastica, semplicemente
cercava di amare Dio, istante per istante, e di camminare alla sua Presenza...

IL RUOLO DEL MAESTRO VENERABILE

Prima di parlare del ruolo del Maestro Venerabile ritengo opportuno intrattenermi sulla figura del Maestro in
genere, della quale la massima autorità della Loggia costituisce uno degli aspetti. Diceva Francesco Brunelli, che
per l’appunto è stato uno dei nostri fratelli più impegnati nella ricerca, che “I Maestri esistono nella psiche come
idee e come simboli”. Ciò fa parte di quel meccanismo psichico per cui ogni essere umano, per fare l’esperienza
della propria identità rispondendo alle tre domande fondamentali che da sempre ciascuno si pone, ha bisogno di
un punto di riferimento, di un modello, in altre parole di un Maestro. E più è valido il Maestro, tanto più completa
e migliore sarà la formazione dell’IO.

Da quanto sopra detto derivano due conseguenze fondamentali: la prima, che il rapporto con il Maestro o con i
maestri che si succedono nella vita di una persona assume connotazioni diversissime a seconda del grado di
evoluzione di colui che chiameremo discepolo; la seconda, che il Maestro, anche se esistente in carne ed ossa,
vive, insegna e muore essenzialmente dentro di noi. Perciò anticipando quella che sarà la conclusione di questo
lavoro si può dire che l’uccisione del Maestro, che simbolicamente si ripete più volte nel corso della vita di
ciascun uomo, non è altro che la fine di un suo stato di coscienza per pervenire ad uno stato di coscienza
superiore, è la morte di ciò che di vecchio e superato esiste in ciascuno di noi, nel corso di quel costante divenire
che è la vita e la crescita interiore.

Dobbiamo prima di tutto tener presente che nella mente umana ogni cosa od evento viene vissuto, al di là della
cosa o del fatto in sé, anche come simbolo di una realtà che trascende il singolo oggetto o circostanza: ed il
simbolo è forse il miglior strumento di apprendimento e di crescita, perché la conoscenza si acquista
essenzialmente per mezzo delle analogie. L’insegnamento è tale quando non resta in superficie ma scende ad
influenzare profondamente la psiche del soggetto, a livello cosciente ma soprattutto a livello inconscio,
producendo dei cambiamenti spesso radicali. Perciò Maestro è colui che favorisce lo sviluppo delle potenzialità
del soggetto con suggerimenti idonei e che è capace di influenzare i suoi processi psichici più profondi,
modificandone sia l’atteggiamento che il comportamento.

Come si è visto, il Maestro esiste nella psiche di ogni uomo come idea e come simbolo e viene percepito in
maniera diversa a seconda del diverso livello evolutivo del discepolo: questa differenza emerge soprattutto al
momento della ricerca. Infatti vi è chi si mostra decisamente refrattario a certi tipi di insegnamento o per sua
natura è sempre all’opposizione, e chi non muove un passo se prima non si è consigliato con qualcuno; chi tende a
porsi come leader nel gruppo di appartenenza e chi mostra sempre un istinto gregario, e così via. Perciò il rapporto
Maestro-discepolo non può essere correttamente inquadrato e studiato se non avendo ben presente la struttura
della psiche umana ed in particolare quell’importantissima funzione psicologica che chiamiamo volontà e dal cui
sviluppo dipende il grado evolutivo di ciascun individuo.

Infatti l’uomo non evoluto, il cui comportamento è di mera reazione a stimoli interni ed esterni, cercherà una
guida solo per ciò che concerne i suoi problemi pratici di sopravvivenza, non si porrà problemi esistenziali e non
cercherà la risposta alle tre domande fondamentali che sono fuori della sua portata. L’uomo che si risveglia e
l’uomo in evoluzione, che si trovano invece in una delicatissima fase di transizione e di momentaneo squilibrio,
cercheranno maestri ovunque e saranno facile preda di pericolose illusioni, anelando all’esperienza transpersonale
senza aver prima armonizzato la loro personalità.

Infine l’uomo evoluto, che ha sviluppato la volontà come componente del suo IO ed è in grado di tenere un
comportamento attivo, cercherà il Maestro interiore avendo “ucciso” quelli esterni, ed avvicinandosi all’ideale
utopico dell’uomo totale, dell’uomo realizzato, sarà in grado di porsi come Maestro favorendo l’evoluzione altrui.
Tuttavia, anche al di fuori di questa gerarchia ben precisa, ognuno in determinate circostanze può essere Maestro o
discepolo, perché ogni rapporto umano – ed anche il rapporto dell’uomo con il contesto che lo circonda, con il
grande Libro della Natura – è sempre fonte di insegnamento e di apprendimento.

Vi sono poi, nella vita di ogni essere umano, figure più o meno idealizzate cui egli attribuisce particolare
importanza in quanto hanno avuto un’influenza determinante su una parte della sua esistenza: e qui bisogna
distinguere se si è trattato veramente di maestri, magari a loro insaputa o loro malgrado, perché hanno offerto un
valido insegnamento, o si è trattato di persone che hanno formato oggetto di proiezioni inutili o dannose ai fini
della crescita dell’individuo. La tematica del Maestro come simbolo è ricorrente in tutte le culture: dal mitico
Chitone, maestro di Dei e Semidei, al mago Merlino, maestro di Artù nell’epoca di passaggio dalla civiltà druidica
all’era cristiana, dal Dragone di Saggezza dei cinesi, al Serpente che iniziò Adamo ed Eva alla scienza del bene e
del male.

Il Maestro è colui che dà al discepolo il potere di trovare il tesoro nascosto o la spada che gli consente la
conquista del regno: da un punto di vista psicologico possiamo dire che ci è maestro chi ci consente di scoprire i
tesori nascosti dentro di noi e di conquistare il potere su noi stessi e da questo punto di vista possiamo riconoscere
chi veramente ci è stato maestro di vita e liberarci da eventuali situazioni di dipendenza da chi maestro non è. Non
dobbiamo dimenticare che l’oggetto di qualsiasi ricerca è sempre la propria identità: “Chi sono Io” è la domanda
costante che ogni uomo rivolge a se stesso e rivolge a colui nel quale crede di ravvisare un Maestro in grado di
dargli una risposta, dal padre che con la sua sola presenza consente al bambino la prima conquista del senso di
identità, fino al Padre celeste in cui si identifica il mistico.

Nella molteplicità delle esperienze che ogni individuo compie nel suo processo di crescita interiore, ravvisiamo
una serie ininterrotta di scelte di modelli che dopo un po’ di tempo vengono superati, creandosi così la necessità di
nuove scelte. E poiché sappiamo che ogni scelta è sempre ansiogena, è facile comprendere come questo processo,
anche ridotto al minimo come ambizioni personali ed elevatezza di mète e di ideali, si svolga non senza una buona
dose di sofferenza e di stress: e non è detto che l’anelito del mistico che cerca il contatto con la Divinità sia meno
sofferto di una banalissima arrampicata sociale, perché in ogni caso ciò che viene messo in gioco è la propria
identità.
La scomparsa del Maestro corrisponde al raggiungimento dell’autonomia da parte del discepolo. Il Maestro
scompare perché muore fisicamente, o interrompe volontariamente il rapporto, o perché è il discepolo stesso che
“lo uccide”, sia abbandonandolo, sia mutando la natura del rapporto. E quando ciò accade senza che vi sia la
scelta di un nuovo Maestro, due sono le possibilità: o il discepolo è cresciuto e si è liberato da ogni dipendenza
psicologica, se non affettiva, e non ha bisogno di altri Maestri perché si sente tale egli stesso, avendo ormai
sperimentato il rapporto con il Maestro interiore, con il suo SE’; o vi è una inflazione dell’IO, per cui l’individuo
si sente onnipotente, perde il senso della misura, dei giusti rapporti umani, ed entra in una spirale involutiva dalla
quale difficilmente potrà uscire senza l’aiuto di un vero Maestro.

Di questi ultimi esempi purtroppo ne vediamo tanti, nella vita di ogni giorno ed anche in Istituzioni dove
costituiscono un vero anacronismo, che non occorre dilungarsi. Vediamo piuttosto qual è l’eredità che riceviamo
dai nostri Maestri. Se interpelliamo un certo numero di persone, sentiremo che ognuna serba un ricordo reverente
e riconoscente di coloro che nel suo vissuto si sono poste come Maestri, e ognuna racconterà esperienze diverse,
facenti parte dell’immenso caleidoscopio dei rapporti umani. In realtà l’eredità del Maestro è sempre e soltanto
una, perchè unico è l’oggetto della ricerca e ciò che il discepolo trova al termine del cammino altro non è che se
stesso.

Come ho già detto, ciò che da sempre l’uomo va cercando è la propria identità, la risposta alla più intima e
pressante delle domande “Chi sono Io“, ed ogni crisi esistenziale è sempre una crisi di identità, perché ci siamo
sperduti nel mondo delle apparenze, ci siamo lasciati trascinare nella folle danza di Maya ed abbiamo perso o non
abbiamo raggiunto il nostro IO. Allora, come foglie al vento, abbiamo avuto bisogno di qualcuno che ci afferrasse
e ci trattenesse, inducendoci a guardare nell’interno di noi stessi dopo che per tanto tempo avevamo vissuto rivolti
all’esterno; di qualcuno che, come uno specchio terso e fedele, ci facesse conoscere la nostra vera faccia facendoci
prendere coscienza del nostro vero essere e aiutandoci a divenire consapevoli della nostra essenziale unicità di
corpo, mente e spirito. Ma poi, una volta acquisita questa consapevolezza, divenuti consci delle nostre potenzialità
per averle riconosciute nel Maestro che ci faceva da specchio, non resta altro da fare che riappropriarci di tutto ciò
che è nostro e che avevamo proiettato fuori di noi, proprio sul Maestro: ecco perché possiamo dire che in sostanza
l’eredità del Maestro è la stessa per tutti gli uomini, la conoscenza e l’amore del proprio SE’.

Da questa panoramica si evincono anche quelle che sono le peculiarità del ruolo del Maestro Venerabile, la cui
figura costituisce uno degli aspetti del simbolo del Maestro in generale. A sua volta, il Maestro Venerabile è
circondato da simboli che lo rappresentano: siede all’Oriente, da cui tradizionalmente proviene la Luce, e sul suo
scranno si trovano una statua di Minerva, la spada fiammeggiante ed un candelabro a tre luci. Quanto a Minerva, o
Athena, la mitologia narra che nacque adulta e armata balzando fuori dalla testa di Giove: essa rappresenta la
saggezza, di cui fanno parte la discriminazione, la comprensione e la compassione, qualità che il M.V. deve
sforzarsi di evocare dall’animo degli adepti, soprattutto durante quel delicatissimo compito che è l’istruzione degli
Apprendisti. A questo termine preferisco quello di “formazione”, perché è importante che l’uomo di desiderio,
avviatosi a diventare uomo di volontà, impari non solo le regole del rituale massonico, ma anche e soprattutto le
regole dei retti rapporti umani, per le quali è indispensabile lo sviluppo di determinate qualità.

Quindi, oltre al trinomio che campeggia sulla parete del Tempio, il Maestro Venerabile deve indicare come mèta
da perseguire un ampliamento delle coscienze tale da rendere naturale in ciascuno dei Fratelli l’esercizio della
tolleranza e delle altre qualità sopra accennate. Quanto al simbolo della spada fiammeggiante, essa si distingue
dalla spada usata in altri tipi di iniziazione perché rappresenta al tempo stesso sia il fuoco che distrugge l’uomo
vecchio per dar vita all’iniziato, sia la fiamma perenne dell’amore che è alla base di ogni valido rapporto umano.
Quindi non un amore possessivo od ablativo, ma un amore radiante come quello che ha dato origine alla
Creazione. Infine, per ciò che concerne le tre luci, mi sia consentita una interpretazione personale riguardante i tre
requisiti che consentono alla volontà umana di adeguarsi e armonizzarsi con la Volontà Cosmica: infatti la
volontà, che insieme alla coscienza è l’energia vitale dell’uomo, deve essere non solo forte – per mantenere la
tensione verso la mèta -, ma anche saggia – per ottenere il miglior risultato con il minor dispendio energetico -, e
soprattutto buona, cioè orientata positivamente per il bene proprio e dell’umanità.

Questo a mio avviso è il ruolo del Maestro Venerabile, che implica una grande responsabilità, prima di tutto
verso se stesso per non venir meno al proprio compito di guida morale e spirituale della Loggia: ma questo
compito è reso meno gravoso e soprattutto pieno di gioia se egli è a sua volta inserito nell’armonia universale.
Ottavio Gallego
Il Maestro Massone
Dettagli

Scritto da Super User

Categoria: IL MONDO DEI MASSONI

 massoneria,

 maestro massone,

Gli strumenti del Maestro Massone sono: skirret, matita


e bussola.
Lo skirret è un attrezzo appuntito che agisce su un perno centrale, da
dove viene disegnata una linea retta per circoscrivere il piano terra della
struttura prevista. Metaforicamente si concentra al comportamento ed al
modo dei maestri massoni. Le lezioni delle proprie credenze religiose
dovrebbero essere utilizzate con le norme della Massoneria. La matita
il simbolismo: un architetto o costruttore può utilizzarla nella
progettazione di un edificio, serve anche per appuntare le azioni di un
singolo massone. Il Maestro Massone dovrebbe tenere in mente che le
sue azioni verso un suo compagno massone sono giudicate da Dio. La
bussola il significato: è uno strumento utilizzato per i calcoli complessi.
Rappresenta quindi il ruolo del giudice Supremo ultimo del genere umano. La cerimonia del
Maestro Massone può essere vista come una rappresentazione della terza fase della vita umana.
L'alunno è un simbolo dell'infanzia e dell'inizio. L’assistente simboleggia la maturità e la
maggioranza.

Il Maestro Massone rappresenta la mortalità ma accompagnato dalla


convinzione confortante nell'immortalità dell'anima umana.

La cerimonia del terzo grado di Maestro Massone ha anche una serie di immagini diverse e motivi
simbolici il cui significato viene spiegato al candidato dal Maestro venerabile. Una tazza con l'incenso
rappresenta un individuo con il cuore puro. La purezza è un sacrificio a Dio, una cosa vera. Dalla
narrazione biblica in cui Mosèricevette dal Signore l’ordine di costruire un altare speciale riservato
all’incenso e legato al culto divino.
“Farai un altare sul quale bruciare l’incenso: lo farai di legno di acacia (...). Rivestirai d’oro puro il
suo piano, i suoi lati, i suoi corni e gli farai intorno un bordo d’oro (...). Porrai l’altare davanti al velo
che nasconde l’arca della Testimonianza, di fronte al coperchio che è sopra la testimonianza, dove io
ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando
riordinerà le lampade e lo brucerà anche al tramonto, quando Aronne riempirà le lampade: incenso
perenne davanti al Signore per le vostre generazioni (...). È cosa santissima per il Signore” (Es 30,1-
10).
Il massone viene a sapere che la tazzina con l'incenso, dovrebbe illuminare e bruciare come
gratitudine a Dio per la sua vita e le sue benedizioni. La raffigurazione dell'alveare rappresenta
solidarietà della Massoneria e il massone viene a sapere che l’alveare simboleggia il duro lavoro,
l’applicazione e l'importanza della dedizione al proprio lavoro. Il motivo dell’alveare ricorda ai
massoni la carità, sostenere ed assistere quelli che hanno bisogno.
Ai Massoni viene insegnato di essere cauti nel discutere le questioni private della massoneria e di
prestare attenzione a ciò che dicono. Il simbolo del cuore con una spada che punta al cuore nudo,
rappresenta il giudice divino che sa tutto e vede tutte le nostre azioni e la nostra volontà, sulla base di
premio o di punizione. Il simbolo dell'arco è tratto dalla storia di Noè e simboleggia una vita che è
fondata.
Al candidato verrà insegnato il teorema di Pitagora che ricorda ai Massoni l'importanza della
scienza e dell'arte. Il maestro venerabile chiede al candidato l'emblema della vita, proprio come la
sabbia nella clessidra, che scorre finchè non finisce.
La nostra vita è breve e dobbiamo apprezzare e fare buon uso del nostro tempo. Allo stesso modo, la
falce è un promemoria che ogni vita umana cresce ed è tagliata.
Ma le immagini tenebrose della morte e della mortalità, seguita dal simbolo dell’acacia ricorda al
Massone che la nostra anima vive e sopravvive, mentre il nostro fisico può morire ed essere perduto

vibrisse, bollettino
di letture e scritture a cura di giulio mozzi

« Conversazione sull’esordio

Gilda Policastro: tutta l’intervista su “Cella” »

Guida in dieci punti al buon uso di un


apprendista (di scrittura, ma anche no)
By Giulio Mozzi

Se volete capire che diavolo c’entri Shania Twain con questo articolo, dovete leggere l’articolo

di giuliomozzi

[Vedi anche la Guida in dieci punti al buon uso di un maestro (di scrittura, ma anche no)].

1. L’apprendista può essere più bravo del maestro. Può essere


più giovane, meno esperto, meno determinato, meno convinto,
meno istruito, meno socialmente inserito, meno danaroso,
eccetera eccetera, può essere meno questo o meno quello, ma
può essere più bravo del maestro. Il maestro deve
accorgersene e agire di conseguenza.
2. Quando incontra un apprendista più bravo di lui, il maestro
deve riconoscerlo. Troverà dunque il modo, sufficientemente
cerimoniale e impressionante, per dire a questo apprendista:
tu sei più bravo di me, non sto scherzando, non è un
complimento, è che proprio tu sei più bravo di me. Se
l’apprendista sarà colto da vanità, il maestro avrà sbagliato. Se
l’apprendista si sentirà pieno di responsabilità, il maestro (per
questa volta) l’avrà fatta giusta.

3. L’apprendista può non essere abbastanza bravo. In quel


caso il maestro può scegliere tra rigettare l’apprendista, dargli
una formazione sommaria, o attirarlo in un apprendistato
interminabile. La terza scelta è ignobile, la seconda può avere
una sua decenza, la prima va agita con attenzione: certi rifiuti
ammazzano o fanno virare all’isteria.

4. Il maestro e l’apprendista devono mettersi d’accordo su che


cosa l’apprendista vuole e che cosa l’apprendista può
apprendere, su che cosa il maestro vuole insegnare e che cosa
il maestro può insegnare. C’è chi si iscrive a un corso di nuoto
per imparare a nuotare e chi per diventare una Pellegrini: sono
cose molto, molto diverse. Un legno destinato a essere violino
non può essere ammesso a un corso per diventare sedie, e
viceversa.

5. L’apprendista non è una massa di Pongo. Il maestro non può


plasmarlo a suo piacimento (e tantomeno a immagine di sé). Il
maestro i cui allievi diventano simili a lui è sicuramente un
prevaricatore (magari inconsapevole: ma conta ciò che accade,
non le intenzioni).

6. In quanto tecnico, il maestro dev’essere inappuntabile (non


“perfetto” o “onnisciente”: “inappuntabile”). In quanto
maestro, dev’essere pronto a riconoscere i propri errori: è
l’unico modo per insegnare agli apprendisti a riconoscere i
propri errori.

7. Ci si può infatuare – càpita – di un allievo o di un’allieva (e


non parlo solo dei casi di infatuazione intellettuale, che pure
sono frequenti). L’infatuazione non è un buon motivo per
trattare quell’allievo o allieva diversamente dagli altri. Per le
eventuali dichiarazioni, aspettare il giorno successivo alla
conclusione del corso (così magari intanto l’infatuazione
passa).

8. E’ possibile provare antipatia per un allievo o un’allieva.


L’antipatia non è un buon motivo per trattare quell’allievo o
allieva diversamente dagli altri. In particolare, il senso di colpa
per l’antipatia provata non è un buon motivo per trattare
quell’allievo o allieva come se valesse più di quello che
effettivamente vale.

9. E’ un luogo comune quello che dice: Dagli allievi si impara


più di quanto si insegni. Se questo luogo comune fosse vero, a
chi spetterebbe il dovere di pagare le quote di iscrizione al
corso? E: se un altro comune dice che Si impara soprattutto
dagli errori, la combinazione dei due luoghi comuni è micidiale.

10. E’ comunque vero che dagli allievi, o apprendisti come li si


chiama qui, si impara. Le dichiarazioni di gratitudine non sono
una remunerazione sufficiente per questo insegnamento.

E se non avete ancora capito cosa c’entri Shania Twain con questo articolo, ascoltatevi la canzone.

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Tag: Shania Twain

This entry was posted on 26 novembre 2015 at 15:52 and is filed under Teoria e
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8 Risposte to “Guida in dieci punti al buon uso di un


apprendista (di scrittura, ma anche no)”
1. Ma.Ma. Says:
26 novembre 2015 alle 18:22

Il punto tre fa paura.

2. antoniolamalfa Says:
26 novembre 2015 alle 18:49

L’apprendista ambizioso
L’apprendista ambizioso fa domande di cui sa già la risposta, e lo
fa solo per mettersi in evidenza agli occhi
dell’insegnante(generalmente l’insegnante ci casca e dice: “bravo,
bella domanda).
L’apprendista ambizioso cerca di mettersi accanto all’insegnante
durante la pausa pranzo, e dice all’insegnante che il primo libro
scritto dall’insegnante gli ha cambiato la vita(l’insegnante è quasi
sempre molto legato al suo primo libro, e ci casca).
L’apprendista ambizioso all’ultimo incontro del corso dice
all’insegnante che questo corso gli ha cambiato la vita, il modo di
organizzare la scrittura, la trama, il periodo. Anche la tecnica di
spazzolamento dei denti.
L’apprendista ambizioso ci prova con l’insegnante. Non importa di
che sesso sia l’insegnante. L’apprendista si spaccerà per
eterosessuale, omosessuale, bisex. Alla bisogna, l’apprendista
ambizioso confesserà che questo corso e l’insegnante hanno
cambiato il suo orientamento sessuale.
L’apprendista ambizioso porta sempre con sé il suo dattiloscritto:
nello zaino, dentro la giacca, sotto la cintura dei pantaloni.
L’apprendista ambizioso cerca il momento di particolare debolezza
o stanchezza dell’insegnante per rifilargli il dattiloscritto. In genere
il dattiloscritto viene consegnato nelle mani dell’insegnante senza
che l’insegnante se ne accorga.

3. enrico ernst Says:


27 novembre 2015 alle 10:50

Aggiungerei un elemento: se si vuole un apprendista consapevole


dei suoi limiti e delle sue potenzialità, il docente deve essere (farsi)
consapevole dei propri limiti e delle proprie potenzialità. Anche con
i bambini: le parole contano meno del comportamento, della
“dirittura” (rafforzo qualcosa che Giulio dice molto bene)…
(Intorno al punto 3) ci sono dimensioni dell’esplorazione delle
proprie potenzialità espressive (non solo nel campo della scrittura,
penso), in cui l’essere bravo o meno non conta assolutamente
NULLA… dannosissimi (e sovente del tutto ingiusti) i confronti
“stretti” tra apprendista e apprendista sotto il rispetto del talento e
della bravura…

4. enrico ernst Says:


27 novembre 2015 alle 15:46

Antonio, mi sento un seriosone… ma direi ci sono due allievi


“ambiziosi”: uno che proprio mosso dall’ambizione vuole imparare
e lavora tantissimo, anche con una buona dose di umiltà,
motivato… e l’altro invece (probabilmente quello che delinei) è un
tale o una tale che l’ultima cosa che vuole è imparare, perché – in
fondo – è già arrivato/a, e ha bisogno solo (a volte in maniera
straziante) di un riconoscimento… ah il secondo/la seconda non è
un apprendista (un’apprendista): non può ma soprattutto non
vuole esserlo. Va fatto/a consapevole che – forse – ha sbagliato
via e numero civico…

5. sergio trapanotto Says:


29 novembre 2015 alle 01:26

Lo scrittore che era amato dalle donne.


Tu sei uno scrittore,
tu sei altruista:
la toglierai dalla strada sterrata e fangosa.
Tu sei uno scrittore,
tu sei benevolo:
la porterai sul tuo sentiero fiorito.
Tu sei uno scrittore,
tu sai cos’è bene e cos’è male:
le spiegherai che deve cambiare.
Tu sei uno scrittore:
tu sai cos’è giusto e cos’è sbagliato:
le insegnerai a essere imparziale.
Tu sei uno scrittore…
tu sei un figlio di puttana!
me la riconsegnerai pulita e perfetta
e io sarò solo un verme da schiacciare.

6. Pasquon Paolo Umberto Says:


3 dicembre 2015 alle 17:29

La strada per l’inferno è percorsa dai cattivi maestri che portano al


guinzaglio legioni di bravi apprendisti al solo scopo di farli
diventare come loro, dei cattivi maestri. Il distacco è necessario, il
contatto malsano rende vana ogni fatica. Il buon maestro sa
quando dire al buon apprendista “ora vai il mio lavoro e svolto, da
ora in avanti cerca un buon apprendista e, un giorno, se vorrai,
narragli chi ero è un buon modo per non perdersi negli echi di ieri”

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