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Marta Gentili

Matricola 11765

A. Esposito, F. Franceschi e G. Piccinni

VIOLENZA ALLE DONNE


Una prospettiva medievale

Il libro raccoglie dei saggi incentrati sulle forme di violenza esercitate nel Medioevo contro le
donne.
Gli aspetti trattati riguardano le violenze fisiche, psicologiche e sessuali in ambito familiare, le
discriminazioni e sopraffazioni nel mondo del lavoro, i matrimoni combinati dalle famiglie, le
monacazioni forzate, la violenza sulle prostitute e le ingiurie contro le donne.
Soffermandosi soprattutto sul basso Medioevo italiano, è raccontato come iniziarono ad esistere i
comportamenti violenti contro le donne, parlando anche dei casi di violenza di donne contro altre
donne o la loro risposta nei confronti di chi le minacciava e aggrediva, il tutto basandosi sulle
testimonianze di documenti notarili, giudiziari e di Statuti comunali che si sono potuti conservare
fino ad oggi. Questi ci offrono una visione crudele e ci fanno capire che gli atti violenti molto di
rado trovavano la giusta condanna.
L’indipendenza delle donne è un concetto contemporaneo, non applicabile alle società medievali, le
quali non conoscevano l’individualismo femminile.
Oggi tutte queste forme di violenza continuano, purtroppo, ad esistere anche se la legislazione sulla
famiglia ha dotato le donne dei diritti a loro negati fino a poco tempo fa, ma la mentalità
maschilista–patriarcale non è stata ancora, in molti casi, eliminata.

La famiglia medievale era una societas fondata sulla supremazia dell’uomo, sulla divisione dei ruoli
e delle funzioni tra maschi e femmine e su una struttura rigidamente gerarchica e formalizzata.
Era comune che l’uomo comandasse sulla donna, tuttavia era difficile porre dei limiti tra l’esercizio
dei diritti correttivi di marito e la violenza gratuita sulle mogli. Per cui nel Medioevo la violenza
coniugale era molto diffusa, tanto da formare con il tempo un’emergenza sociale.
Molte donne tentavano la ribellione e si rivolgevano ai tribunali ecclesiastici. Il diritto della chiesa
inizialmente limitava le cause legittime di separazione all’adulterio; solo nel ‘400 i maltrattamenti
vennero inclusi tra i motivi legittimi di separazione, ma non tutti, solo quelli da provocare pericolo
di morte.
Le donne maltrattate dovevano produrre prove adeguate a testimoniare la violenza, cosa non sempre
facile trattandosi di reati spesso nascosti. Se in sede giudiziaria non venivano riscontrati pericoli per
la moglie, al marito veniva prescritto di non offenderla più e non essere più violento; al contrario
veniva attuata una sentenza di separazione. I tribunali tendevano a tutelare il favor matrimoni e i
diritti del marito.
Era nell’interesse dei mariti evitare di arrivare a una separazione per violenza, dato che avrebbe
comportato oneri di ordine economico (dote, alimenti, figli). Erano infatti molte le donne che
venivano minacciate per far ritirare le accuse.

Il matrimonio delle figlie doveva avere il consenso dal padre e doveva rispondere alle convenienze
sociali ed economiche, visto che era un evento che dava stabilità alle famiglie e rafforzava le reti
parentali e comunitarie. L’auto-determinazione delle giovani e la clandestinità dell’atto, permetteva
loro di sottrarsi a questi matrimoni.
Anche se era un diritto dei padri condizionare le loro scelte, queste non dovevano intaccare il
consenso matrimoniale. In caso di fratture tra le strategie matrimoniali dei padri e le inclinazioni
amorose delle figlie si determinavano scontri violenti sia fisici che psicologici.
I matrimoni forzati erano abbastanza standardizzati: la ragazza era spesso una minore, costretta ad
un matrimonio di convenienza prima di avere raggiunto l’età legittima per contrarre il sacramento
(12 anni). L’unica possibilità per la ragazza di sciogliere il vincolo matrimoniale era quello di
testimoniare il metus (intimorimento subito dalla famiglia) ai tribunali vescovili, di dimostrare di
aver palesato il proprio dissenso, di non aver consumato il matrimonio e di non aver vissuto per
tempo prolungato con il marito.

L’Editto di Rotari obbligava le donne a vivere con una tutela maschile, ma dava loro la capacità
patrimoniale, anche se non autonome nella sua gestione. Con ciò si intendeva tutelarle da una
possibile violenza verso i loro beni e le loro rendite.
Una giusta indipendenza economica garantiva una buona vita alle donne sole. Fu così che nel XII
secolo, soprattutto a Pisa e Genova, la quarta (dono matrimoniale del marito alla moglie) venne
sostituita dalla donatio propter nuptias, la quale, insieme alla dote paterna, costituiva il fondo in
caso di vedovanza, era una quota divisa del patrimonio del marito.
La concorrenza tra genitori e figli per usare i patrimoni era molto frequente. L’eliminazione della
quarta puntava ad evitare questi contrasti, rendendo l’intero patrimonio familiare disponibile agli
eredi maschi. Tuttavia, le donne cominciarono ad assumere un ruolo decisivo nella trasmissione del
patrimonio domestico e fu così che i contrasti con le madri vedove si innescarono anche con le
figlie femmine.
Le donne durante il Medioevo hanno dato un contributo importante all’economia sia familiare o di
autoconsumo sia a quella del mercato.
La manifattura tessile era il settore in cui la presenza femminile era più massiccia, oltre che il più
importante comparto produttivo dell’economia italiana tardo-medievale.
Le condizioni di impiego e l’organizzazione del lavoro variavano nelle differenti realtà produttive.
Un elemento comune era però il carattere domestico dell’attività svolta. Spesso le lavoratrici non
venivano accentrate in grandi fabbriche, ma operavano in piccole unità parzialmente indipendenti
collegate dall’iniziativa di un organizzatore della produzione.
Nel settore laniero, le filatrici percepivano uno stipendio molto basso a causa delle prevaricazioni
dei loro datori di lavoro, però non potevano ribellarsi sennò perdevano l’impiego. Spesso le filatrici
venivano truffate attraverso pagamenti in natura e un aumento del lavoro non retribuito.
L’intervento legislativo era vano in quanto poteva essere facilmente aggirato.

Per la tessitura c’era una maggiore strutturazione, qualificazione e retribuzione rispetto al mestiere
delle filatrici. Neanche loro sfuggivano alle sopraffazioni perpetrate dagli uomini che conoscevano
durante l’attività produttiva. Una forma di discriminazione diffusa era quella di considerare la
manodopera femminile come “aggiuntiva” rispetto a quella maschile e dunque sostituibile a
seconda delle esigenze.
Un altro terreno di disparità era quello delle retribuzioni, diverse in base al sesso anche se la
mansione era la stessa.
Tuttavia, la causa della bassa paga delle tessitrici è da rintracciare nella maggiore saltuarietà della
loro occupazione e nel loro impiego in operazioni produttive di minor livello tecnico.

A tutto questo potevano aggiungersi maltrattamenti ammessi dallo ius corrigendi. Scappare era
l'unica via per la salvezza, ma poche servitrici avevano la forza e la determinazione per costruirsi
un’alternativa.

Meno consuete, ma possibili, erano le molestie sessuali rivolte alle proprie domestiche, che spesso
restavano incinte del proprio padrone, il quale spesso le allontanava dalla propria dimora per poi
farle tornare a patto di abbandonare il bambino. A questa violenza poteva aggiungersi lo
sfruttamento, dato che avevano appena partorito potevano servire come balie. La loro retribuzione
andava ai padroni.
Il metodo più comune che le schiave e le serve usavano per vendicarsi dei soprusi ricevuti era
l’avvelenamento. Le reazioni a questi delitti erano spietate, così le donne venivano colpevolizzate di
veneficium e venivano torturate per ottenere la confessione e poi giustiziate.

Nel ‘300 la prostituzione comincia a diventare un fenomeno rilevante in tutta Europa e all'inizio del
‘400 il meretricio si trasforma in un’attività regolata e spazialmente ridotta in costruzioni
(postribolo) in cui vivevano e lavoravano le “donne pubbliche”.
Esisteva anche una prostituzione segreta, in dimore private, che sfuggiva alle costrizioni.
Le prostitute venivano sottoposte ad un'esistenza violenta, la quale si manifesta in diverse forme:
fisiche, civili, legislative, religiose, economiche, sociali.
La prima violenza a cui le donne pubbliche vengono sottoposte è quella dell'avvio alla prostituzione
(reclutamento).
La violenza carnale precede spesso lo sfruttamento della donna, in genere di umili condizioni,
poiché il suo stupro incorreva in sanzioni meno gravi.
Dopo essere stata stuprata la donna andava incontro a un processo di diffamazione sociale, per cui
la sua condotta diventava discutibile e disonorevole, e non era più considerata meritevole di
contrarre matrimonio; la sua vita era per sempre segnata.
La donna-prostituta è solo un soggetto passivo che compie una scelta influenzata dal suo vissuto.
Anche il marito può cercare di vendere il corpo della propria moglie.
Meretrici pubbliche, dunque, ci si diventa per povertà, per stupro subito, per induzione da parte di
un familiare, a causa della nascita da una madre prostituta, per la cattiva fama diffusa nel vicinato.
In molti si sentivano in diritto di accanirsi sul corpo delle prostitute. Per quanto sanzionati, gli autori
di violenza trovavano il modo di sottrarsi alla pena, magari accusando le donne di averli provocati.
La legislazione medievale presenta alcune diversità in merito allo stupro delle meretrici; la violenza
riguarda anche le meretrici stesse, le quali tendevano a rapportarsi tra loro con le stesse forme
violente a cui erano state abituate dai tenutari e clienti.
La disciplina in forma legalizzata della prostituzione non era riuscita a mettere fine ai crimini e ai
disordini sociali, ma aveva solo arginato la violenza nei quartieri e nelle aree riservate.

Il più ricorrente dei reati a danno delle donne emergente dagli Statuti comunali è lo stupro, talvolta
abbinato all'adulterio e al rapimento. La preoccupazione principale è l'offesa arrecata agli uomini
della famiglia, che avevano il controllo sui corpi e sulla sessualità delle donne.
Spesso all'inizio c'è un rapimento, per poi arrivare al posto in cui consumare la violenza.
Nei reati di stupro l'inchiesta sarà incentrata sulla fama della donna abusata: se diffamata, il
colpevole non sarà perseguito né condannato (si legittima lo stupro come strumento correttivo nei
confronti delle donne “anormali”).
La violenza sessuale si accompagna quasi sempre a percosse che possono costituire un reato a parte.
Ingiurie verbali e fisiche non mancavano dentro le pareti domestiche, ma la violenza privata
rientrava tra i doveri del capo di casa, sempre dentro i limiti legittimi.
Il matrimonio è usato come soluzione a chiusura dello scompiglio provocato da un'azione violenta,
in cui si prevedeva la costituzione della dote da parte del violentatore. La dote doveva essere
proporzionata al livello sociale della donna che aveva subito violenza, dunque della famiglia.

Lo studio delle ingiurie offre elementi che aiutano a ricostruire i caratteri edificanti delle società
passate. Per far ciò si farà riferimento agli statuti e gli atti giudiziari.
Tutti gli statuti comunali o signorili hanno delle norme specifiche che proibiscono e puniscono i
reati dell'ingiuria e degli impropri. Sono presenti però delle differenze in merito all'entità delle pene,
alle pratiche repressive, alla procedura penale e al grado di intollerabilità di certe parole.
Alcuni statuti hanno un elenco con le ingiurie proibite, altri si limitano a riportare un vocabolo per
ogni tipo di ingiuria. Le ingiurie di genere femminile sono meno rispetto al totale e il campo
semantico di quelle più ricorrenti si riferisce all'immoralità sessuale. L'immagine che ne risulta va
da quella di donna, a lupanara, a mera bestia che si concede a tutti.
Altre ingiurie sono quelle di pretatia (amante di un prete), di legittimità sessuale, di infedeltà
coniugale, di prossenetismo e quelle concernenti le pratiche magiche (stregoneria).
Altre infamie erano quelle di essere assassina, dissoluta, truffatrice, ladra e serva.
In base al luogo gli statuti davano pesi diversi alle ingiurie e questo sta a dimostrazione del
particolarismo che vigeva in Italia nell’ultima parte del Medioevo.
Anche in questo caso per stabilire l'entità della pena era necessario verificare la qualità della donna
offesa: se sposata, nubile o femmina di cattiva fama.

Rispetto agli statuti in cui si usava la pratica della censura, gli atti giudiziari tengono a riportare
integralmente in modo dettagliato le frasi ingiuriose o le invettive.
Si passa dalla teoria normativa, alla realtà del tempo ricca di squarci di violenza.
Gli episodi di ingiurie, accompagnati quasi sempre da percosse, non finivano quasi mai con atti
giudiziari.
Si evince che il sesso e l'aspetto fisico sono le principali materie delle aggressioni verbali verso le
donne, seguite dalle accuse di reati e di altre colpe comportamentali, mentre le intimidazioni si
basano sulla vera o presunta debolezza della vittima, considerata incapace di reagire per tutte le
circostanze che possono renderla succube, dall'inferiorità fisica a quella sociale.
Le donne che denunciano le ingiurie sono, invece, in grado di reagire.

Da simbolo di seduzione, i capelli femminili diventano, nel Medioevo, strumento di violenza.


La presa per i capelli, ricorrente nelle fonti giudiziarie corrisponde a un gesto ritualizzato, a
significare la ripresa di possesso sulla donna da parte di un maschio che si sente proprietario.
Dato che dietro alla violenza c’era la passione erotica, vista come un’attenuante e non come
un’aggravante, la violenza non otteneva nessuna forma di giustizia. Inoltre, quando è una donna ad
essere offesa, per la società non è prioritario difenderne la libertà, bensì il valore economico della
sua integrità sessuale nel mercato matrimoniale. La donna abusata diventa così doppiamente
vittima: di violenza sessuale e di discriminazione sociale, dato che con la perdita del sigillo
verginale non può garantire la legittimità della prole.

La violenza contro le donne poteva assumere aspetti diversi in società a struttura patriarcale.
Nel primo Medioevo le famiglie nobili permettevano solo a una o due figlie di sposarsi, mentre una
terza veniva sistemata in un convento per non affrontare eccessive spese matrimoniali oltre che per
indurla a rinunciare all'eredità familiare. Per la fanciulla esistevano poche vie per potersi ribellare,
tra queste spiccano le suppliche della penitenziaria. Infatti, a un'azione legale contro l'obbligo di
entrare in un istituto religioso, rispondeva il principio della libera volontà da sempre difesa dalla
Chiesa, senza il quale non si poteva ottenere la validità giuridica. Tuttavia, le donne che erano
obbligate alla monacazione, non si arrendevano con facilità.
L'età che aveva la ragazza quando entrava in convento, era importante sul piano giuridico. Nel caso
in cui la professione fosse stata emessa prima dei 14 anni o ancora durante l’anno di prova
obbligatorio, doveva essere riconfermata espressamente e volontariamente dopo quella data. Perciò
le ragazze sottolineavano che la riconferma non era avvenuta e che erano contrarie.
I conventi venivano usati come luoghi di formazione delle figlie non sposate, ma in molti casi
l'istruzione era solo un pretesto per farle entrare in convento dove poi sarebbero dovute rimanere.
La monacazione forzata veniva utilizzata anche per bloccare matrimoni indesiderati.
Quando ci si scontrava con un rapporto tra la propria figlia e un uomo non gradito, si faceva tutto il
possibile per costringerla a prendere gli ordini religiosi. I principi del diritto matrimoniale della
Chiesa garantivano sì, sulla carta, la libera scelta del partner della donna, ma le regole di diritto
canonico erano sfavorevoli per le donne. Un caso frequente era la promessa di nozze infranta
dall'uomo dopo che la donna gli si era concessa, l'unione non sarebbe stata riconosciuta valida.
Diffusi erano i concubinati pluriennali e le monache erano comodi oggetti di pratiche sessuali per i
chierici. Quando un chierico aveva un bambino veniva condannato del tribunale vescovile a pagare
un indennizzo, mantenendo però la sua carica.

L’uxoricidio era un delitto dal quale si poteva essere assolti solo dal Papa che perdonava
l’assassino, ma gli proibiva di risposarsi. Chierici colpevoli di uccisione o di violenza nei confronti
di una donna dovevano chiedere una dispensa per continuare a esercitare e a beneficiare
dell’ufficio.
Il motivo principale degli uxoricidi era il tradimento del marito da parte della moglie.

Nel Medioevo era molto diffusa la concezione della donna come soggetto debole per cui risultava
conveniente esercitare un controllo su di lei da parte di un uomo, che in questo modo tutelava gli
onori e gli interessi familiari il cui potere era considerato quasi assoluto. Le mura domestiche,
dunque, diventavano luogo di molte violenze. Sebbene ad essere più attestata è la violenza fisica,
non mancano testimonianze anche di quella psicologica.
Il fenomeno della violenza coniugale è rivelato non solo dai registi processuali, ma anche dalle fonti
notarili, soprattutto testamentarie. Donne maltrattate, al momento di redigere il proprio testamento,
non mancavano di far presente al notaio la loro triste condizione, magari escludendo i propri
prestatori dei propri lasciti. In più l'omicidio di una donna adultera era giustificato perché reazione
del marito al diritto all'esclusività sessuale.
Diversi sono i casi relativi a donne malmaritate, abbandonate dal coniuge, prive di appoggi e non
accolte insieme alla famiglia di origine, che per sopravvivere si affidavano ad una confraternita
ospedaliera.
Anche le fonti iconografiche (ex voto, rappresentazioni di eventi miracolosi) sono utili per mostrare
le violenze sulle donne. Molte sono le securitates sottoscritte da mariti violenti per convincere le
mogli, scappate da casa, a tornare, con l'impegno di non fargli più del male e garantendo la loro
parola con una cauzione.
Nella documentazione notarile è attestata anche la violenza domestica, soprattutto sulle serve,
ancelle e schiave che venivano maltrattate dal padrone di casa e utilizzate come concubine. A
perpetuare poi questi abusi non era soltanto il pater familias, ma anche altri uomini del nucleo
familiare.

Come nel mondo cristiano, anche in quello ebraico, caratterizzato dalla sottomissione della donna
all’uomo, la violenza tra coniugi non era rara.
Nel mondo ebraico era riconosciuto il potere del pater familias di cui la donna era tenuta
all'obbedienza. La violenza perpetrata ai danni delle donne all'interno delle famiglie ebraiche non
si limitava solo a quella fisica, ma si concretizzava in una violenza psicologica, che spesso
affondava le proprie radici nella gestione economica dei beni familiari. La donna, che nel mondo
ebraico era tenuta a controllare e gestire la casa, era spesso impegnata lavorativamente fuori dalle
mura domestiche ed era costretta per motivi matrimoniali a lasciare la città d’origine; questa
poteva essere la causa della nascita di dissidi e contrasti coniugali che avrebbero portato al
divorzio. Erano sempre gli elementi maschili della famiglia ad occuparsi degli accordi
matrimoniali, predisposti per agevolare gli interessi familiari, le donne erano costrette ad accettare
le condizioni a loro imposte.
Le donne ebree potevano essere anche oggetto di malfattori che, attratti dalle loro doti, cercavano
di convolare a nozze.
La violenza domestica poteva essere inserita pienamente nelle richieste di divorzio, che le donne
potevano avanzare ai tribunali rabbinici. In più, nel Medioevo, la parte femminile ottenne la
possibilità di risposarsi. I divorzi sembrano essere stati comunque rari, mentre erano più frequenti i
casi di seconde nozze delle vedove.
L'esito delle crisi matrimoniali poteva raggiungere anche qui l’uxoricidio spesso preceduto dalle
violenze e maltrattamenti, i quali possono essere desunti dagli atti di ultima volontà.
Le donne potevano utilizzare il testamento per riequilibrare le scelte fatte negli anni precedenti,
che venivano poi messe in discussione per dissapori e tensioni createsi all'interno della famiglia.
La violenza poteva inoltre colpire le donne nell'esercizio del loro lavoro, se i clienti erano
insoddisfatti.

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