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Archivio Kollontai ]

AMORE, MATRIMONIO, FAMIGLIA E
COMUNISMO
Alexandra Kollontai

 
Si ringrazia Santo Graziano per la trascrizione.

LA FINE DEL MATRIMONIO MONOGAMICO

L'AMORE E LA NUOVA MORALE

RAPPORTI TRA I SESSI E LOTTA DI CLASSE

RIVOLUZIONE NELLA VITA QUOTIDIANA

LA FINE DEL MATRIMONIO MONOGAMICO
 

Passiamo all'esame di un altro aspetto della questione femminile: il problema della famiglia. C'è
bisogno  di  dire  quale  importanza  assuma  ai  nostri  giorni,  per  l'emancipazione  reale  della  donna,  la
soluzione  di  questo  scottante  e  complesso  problema?  Va  da  sé  che  l'aspirazione  delle  donne
all'uguaglianza dei diritti non potrebbe essere pienamente soddisfatta dalla lotta per l'emancipazione
politica, per il conseguimento di una laurea, di altri attestati scientifici o di un salario uguale per un
uguale  lavoro.  Per  diventare  realmente  libera  la  donna  deve  sbarazzarsi  delle  catene  che  l'attuale
forma  della  famiglia,  sorpassata  e  costrittiva,  fa  pesare  su  di  lei.  Per  la  donna  la  soluzione  del
problema  familiare  non  è  meno  importante  della  conquista  dell'uguaglianza  politica  e  del
raggiungimento della sua piena indipendenza economica.

Le attuali forme della struttura familiare, stabilite dalla legge e dal costume, fanno sì che la donna
soffra  non  solo  come  essere  umano  ma  anche  come  sposa  e  madre.  Nella  maggior  parte  dei  paesi
civili,  il  codice  civile  pone  la  donna  in  una  situazione  di  maggiore  o  minore  dipendenza  rispetto
all'uomo e riconosce al marito non solo il diritto di disporre dei beni della moglie, ma anche quello di
dominarla moralmente e fisicamente. È sufficiente ricordare il Codice civile francese, secondo il quale,
dal  giorno  della  firma  del  contratto  matrimoniale,  la  donna  perde  ogni  capacità  civile.  I  suoi  beni
passano  sotto  l'amministrazione  del  marito;  ella  non  può  compiere  alcun  atto  giuridico  senza  il
consenso del coniuge; perfino affittare un appartamento esige un certificato del «signore e padrone»,
le leggi più severe proteggono il carattere sacro del focolare domestico, sanzionando  così  in  maniera
definitiva  una  doppia  morale:  l'adulterio  del  marito  ­  e  per  di  più  in  condizioni  particolari  ­  viene
punito dalla legge  con  una  semplice  ammenda,  mentre  per  la  donna  infrangere  la  fedeltà  coniugale
equivale  a  due  anni  di  prigione.  Sulla  donna  non  sposata  pesa  il  potere  paterno,  sebbene  non
sposandosi ella resti un po' più libera e indipendente. In  compenso  le  leggi  francesi  sorvegliano  con
vigilanza  la  sua  «verginità»  e  puniscono  duramente  la  ragazza­madre,  nel  senso  che  su  di  lei  sola
ricadono tutte le conseguenze del concubinaggio: come si sa, in base all'articolo 350 del Codice civile
francese, «è proibita la ricerca della paternità».
francese, «è proibita la ricerca della paternità».

Se in altri paesi le leggi sono meno severe nei confronti della donna, non di meno esse affermano,
in modo più o  meno  accentuato,  il  principio  della  subordinazione  legale  della  donna  al  suo  sposo  e
signore.  Da  noi,  in  Russia,  le  donne  sposate  non  possono  contrarre  un  prestito  personale  senza  il
consenso  del  marito.  Allo  stesso  modo,  le  cambiali  che  firmassero  senza  l'accordo  del  coniuge
sarebbero  dichiarate  senza  valore.  Secondo  le  nostre  leggi  la  moglie  deve  obbedire  al  marito  e
l'autorità  di  quest'ultimo  è  posta  al  di  sopra  di  quella  dei  genitori.  La  moglie  ha  anche  il  dovere  di
condividere  la  dimora  dello sposo e questi,  ancora  recentissimamente,  poteva  far  ricondurre  "manu
militari" la «sposa ribelle» che avesse voluto sottrarsi a lui perché essere odioso e a volte francamente
perfino detestabile.

Laddove  termina  l'asservimento  familiare  ufficiale  e  legalizzato  della  donna,  è  ­  come  dire  ­
l'«opinione pubblica» che comincia a esercitare i suoi diritti. Questa opinione pubblica viene creata e
mantenuta dalla borghesia allo scopo di proteggere la «sacra istituzione della proprietà». Essa serve a
sanzionare un'ipocrita «doppia morale».

La  società  borghese  stringe  la  donna  in  una  morsa  economica  insopportabile,  pagando  il  suo
lavoro  con  un  salario  irrisorio;  essa  la  priva  del  diritto,  che  ogni  cittadino  ha,  di  protestare  per
difendere i propri interessi calpestati e ha appena la bontà di offrirle questa scelta: o il giogo coniugale
oppure  la  stretta  della  prostituzione,  apertamente  disprezzata  e  condannata,  ma  segretamente
incoraggiata e appoggiata.

C'è bisogno di insistere ancora sugli aspetti tetri dell'odierna vita coniugale, sulle sofferenze della
donna,  strettamente  legate  alle  attuali  strutture  familiari?  Si  è  già  parlato  e  scritto  abbastanza  a
questo  proposito.  La  letteratura  è  piena  di  neri  quadri  del  nostro  disordine  coniugale  e  familiare.
Quante tragedie psicologiche sono cresciute su questo terreno, quante vite spezzate, quante esistenze
avvelenate! Per il momento, ci interessa rilevare soltanto che l'attuale struttura della famiglia opprime
le donne di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione. Le abitudini e le tradizioni perseguitano
la ragazza­madre alla stessa maniera, quale che sia lo strato della popolazione al quale appartenga; le
leggi pongono sotto la tutela del marito tanto la borghese quanto la proletaria e la contadina.

In fin dei conti non abbiamo trovato in questo modo un punto della questione femminile in base
al quale le donne di tutte le classi possono effettivamente tendersi la mano e lottare insieme contro le
condizioni  del  proprio  asservimento?  È  possibile  che  le  comuni  sofferenze  e  il  comune  dispiacere
eliminino il fossato dell'antagonismo di classe e creino una comunanza di aspirazioni e di compiti per
le donne dei diversi campi? È possibile che, sul terreno dei desideri e dei fini comuni, sia realizzabile
una  collaborazione  di  donne  borghesi  e  proletarie?  Dopo  tutto,  le  femministe  borghesi  lottano  al
tempo  stesso  per  forme  più  libere  di  matrimonio  e  per  il  «diritto  alla  maternità»:  esse  parlano  in
difesa  della  prostituta,  che  tutti  perseguitano.  Guardate  come  la  letteratura  femminista  è  ricca  di
ricerche  di  nuove  forme  di  unione  dell'uomo  e  della  donna  e  di  sforzi  audaci  per  l'«uguaglianza
morale»  dei  sessi.  Se,  infatti,  sul  terreno  della  liberazione  economica  le  borghesi  si  trascinano  alla
coda dell'esercito  di  milioni  di  proletari  che  nella  lotta  per  la  soluzione  del  problema  della  famiglia
aprono loro la via verso la «donna nuova», la palma non spetta alle militanti femministe?

Da noi, in Russia, le donne della media borghesia ­ vale a dire quell'esercito di donne che avevano
una  posizione  indipendente  e che negli  anni  sessanta  si  sono  trovate  d'un  colpo  gettate  sul  mercato
del  lavoro  ­  hanno  praticamente  risolto  da  lungo  tempo,  a  titolo  individuale,  molti  aspetti
ingarbugliati  della  questione  matrimoniale,  passando  audacemente  sopra  il  matrimonio  religioso
tradizionale  e  sostituendo  la  forma  consolidata  della  famiglia  con  un'unione  facile  da  rompere,  che
meglio corrisponde ai bisogni dello strato intellettuale, mobile, della popolazione.

Ma  le  soluzioni  individuali,  soggettive,  del  problema  non  mutano  affatto  la  questione  e  non
abbelliscono in nulla il fosco quadro della vita familiare. Se qualcosa può distruggere l'attuale  forma
della  famiglia,  non  sono  certo  gli  sforzi  titanici  di  personalità  più  o  meno  forti,  bensì  le  forze
della  famiglia,  non  sono  certo  gli  sforzi  titanici  di  personalità  più  o  meno  forti,  bensì  le  forze
produttive,  apparentemente  inerti  ma  tuttavia  potenti,  che  instancabilmente,  passo  passo,
ricostruiscono la vita su basi nuove...

Tentiamo allora di rispondere a questo punto a due domande fondamentali:

1)  grazie  agli  sforzi  di  chi  ­  proletarie  o  femministe  ­  la  donna si  libererà  progressivamente  dal
giogo della famiglia?

2) esiste effettivamente una comunanza di aspirazioni fra i proletari e le militanti femministe sul
terreno della questione familiare oppure, qui come su tutti gli altri terreni, esiste un antagonismo di
classe che divide nettamente le donne in due campi opposti, perfino ostili?

C'è  bisogno  inoltre  di  dimostrare  che  non  tutto  va  bene  nell'odierna  struttura  familiare,  che  la
forma  sedicente  monogamica  della  famiglia  risulta  costantemente  disgregata  e  distrutta  alla  radice
stessa?  Stabilita  e  fissata  nell'interesse  della  proprietà  borghese,  da  un  codice  civile  complesso,  la
famiglia  contemporanea  perde  giorno  dopo  giorno  la  sua  stabilità,  la  sua  antica  solidità.  I  legami
naturali, che al loro tempo univano la famiglia in una cellula sociale indivisibile, si indeboliscono e si
rompono,  mentre  muoiono  contemporaneamente  le  forme  economiche  che  li  avevano  generati.
Un'unione familiare solida, salda, indistruttibile, in cui tutto il potere apparteneva a colui che, da solo,
procurava il reddito ­ il marito e padre ­: tale era l'ideale di vita familiare che rispondeva ai bisogni del
terzo  stato  nascente.  Nell'epoca  in  cui  il  terzo  stato  cominciava  appena  a  compiere  la  sua  grande
missione ­ l'accumulazione di favolose ricchezze in  seno  alla  famiglia  ­  la  solidità  e  la  stabilità  delle
organizzazioni  familiari  erano  una  delle  condizioni  di  successo  della  borghesia  nella  lotta  per
l'esistenza  contro  gli  altri  strati  della  popolazione.  Non  è  senza  ragione  che  la  borghesia  dei  secoli
diciassettesimo  e  diciottesimo  si  gloriava  della  propria  moralità  e  opponeva,  compiacendosene,  le
proprie virtù familiari ai costumi di una nobiltà depravata e frivola che non aveva compreso il grande
segreto  dell'accumulazione  capitalistica  e  considerava  la  famiglia  non  come  la  custode  ma  come  la
dissipatrice  delle  ricchezze  accumulate.  Per  rafforzare  la  solidità  della  famiglia,  per  sollevare  più  in
alto il prestigio delle  virtù  familiari, il terzo stato  ha  fatto  tutto  ciò  che  da  esso  dipendeva.  Ha  fatto
intervenire  la  religione  che  predica  l'indissolubilità  del  sacramento  del  matrimonio;  la  legge,  che
punisce  l'adulterio  della  moglie;  la  morale,  che  esalta  il  carattere  «sacro  del  focolare  domestico».
Quando  la  borghesia  ebbe  conquistato  una  posizione  sociale  egemone,  quando  tutti  i  fili  della
produzione mondiale furono riuniti nelle sue mani, la  sua  morale,  le sue  regole  di  condotta  e  i  suoi
codici civili, che avevano il fine preciso di proteggere i suoi interessi di classe, divennero a poco a poco
la  legge  obbligatoria  anche  per  gli  altri  strati  della  popolazione.  La  morale  del  terzo  stato  fu
riconosciuta  come  la  morale  dell'intera  umanità.  Interessi  strettamente  materiali  e  di  classe
obbligarono la borghesia a preoccuparsi  della  «purezza»  del  letto  nuziale  e  a  dare  la  caccia  ai  «figli
illegittimi», vale a dire a coloro che non potevano né dovevano ereditare foss'anche un frammento dei
tesori  accumulati  dalla  famiglia;  questi  interessi  materiali  contribuirono  al  consolidamento  della
norma della «doppia morale» e all'istituzione di «severe» disposizioni di legge nel  campo  del  diritto
familiare. E noi tutti, educati secondo norme artificiali di morale sessuale, che avevano l'unico scopo
di proteggere gli interessi della borghesia, noi ci inchiniamo ancora davanti a questi principi di classe
come  davanti  a  categorie  altamente  ideologiche,  noi  siamo  pronti  a  riconoscerli  come  i  principi
normativi della vita morale!

Il  matrimonio  monogamico  venne  dichiarato  istituzione  sociale  permanente  e  intangibile,


mentre contemporaneamente il modo di produzione capitalistico fu proclamato forma definitiva ed
eterna della vita economica dell'umanità. Qualsiasi punto di vista evoluzionistico sul matrimonio  fu
perseguitato e condannato con lo stesso accanimento e lo stesso odio che si metteva nel contestare e
nel negare l'evoluzionismo nella  vita  economica  della  società.  La  proprietà  e  la  famiglia  sono  legate
troppo strettamente: se uno di questi pilastri del mondo borghese è stato scosso, la solidità dell'altro
diviene incerta. Per questo la borghesia ha difeso sempre così accuratamente le proprie basi familiari;
per  questo  essa  ha  difeso  e  continua  a  difendere  con  tale  alacrità  le  forme  vetuste  dell'odierna
struttura familiare.
struttura familiare.

Ma  l'evoluzione  economica  subita  dall'umanità  ­  declino  della  piccola  produzione  artigianale,
trionfo  del  lavoro  meccanicizzato,  crescita  colossale  delle  città,  ritmo  febbrile  della  loro  attività
industriale  e  commerciale  ­  non  poteva  non  riflettersi  sulle  forme  di  vita  della  famiglia  e  doveva
scuotere le basi, che si credevano incrollabili, della famiglia borghese.

Da un secolo ormai un dibattito ininterrotto oppone i difensori delle vecchie idee sulla  famiglia,
considerata  come  istituzione  sociale  intangibile,  e  i  sostenitori  delle  nuove  teorie;  secondo  i  quali
l'attuale  forma  della  vita  matrimoniale  è  solo  una  categoria  storica  transitoria.  Ancor  più  degli
esempi  storici  e  degli  studi  etnografici,  la  realtà  viva  conferma  di  giorno  in  giorno  l'instabilità  della
famiglia attuale e la sua ineluttabile disgregazione. Sempre più rare si fanno le voci per affermare che
la  famiglia  attuale  è  un'istituzione  intangibile  e  permanente,  e  il  dibattito  stesso  concernente  i
rapporti familiari si è ormai spostato su di un altro piano. Ora gli ideologi borghesi sono alle prese con
il  seguente  problema:  quali  «riforme»  permetteranno  di  conservare  nella  sua  integrità  la  cellula
familiare  borghese,  quali  misure  bisogna  mettere  in  opera  per  impedire  la  sua  futura
decomposizione?

Nulla  irrita  tanto  la  borghesia  quanto  l'affermazione  dei  seguaci  del  socialismo  scientifico,
secondo la quale nella vita familiare sono inevitabili dei cambiamenti radicali, in connessione  con  la
riorganizzazione  completa  della  vita  economica  della  società  su  basi  nuove,  collettivistiche.  Con
raddoppiato ardore, gli ideologi borghesi si mettono ora a gridare che la famiglia, qual è attualmente,
può adattarsi, conservando intatta la sua integrità, a qualsiasi riforma sociale e che un cambiamento
dei rapporti di produzione non comporta assolutamente la necessità di una rivoluzione nelle forme di
convivenza dei sessi. Le cose stanno realmente così?

Qualsiasi  forma  di  rapporti  sociali  fra  gli  uomini  esige,  per  essere  solida,  l'esistenza  di  cause
economiche che, al loro tempo, abbiano fatto nascere precisamente questa forma di rapporti sociali
e  non  un'altra.  Nell'epoca  in  cui  dominava  l'economia  naturale  la  famiglia  era  prima  di  tutto  una
cellula economica, produttrice di tutti i beni indispensabili al gruppo di persone che la componeva.

A mano a mano che si sviluppava e si rafforzava l'economia di scambio, i membri della famiglia
erano  sempre  maggiormente  in  grado  di  soddisfare  i  propri  bisogni  senza  l'aiuto  di  essa  in  quanto
cellula  economica;  non  di  meno,  fino  al  diciannovesimo  secolo,  fino  all'alba  cioè  della  grande
produzione  capitalistica,  la  famiglia  conservò  tutta  una  serie  di  piccole  funzioni  economiche,  che
recavano l'elemento materiale determinante e decisivo nella morale dell'unione matrimoniale. Finché
nella famiglia risiedeva, in misura più o meno grande,  un  valore  produttivo,  la  sua  esistenza  sociale
era assicurata; potenti legami vitali univano i suoi membri più solidamente di quanto non potessero
fare le leggi più severe e le norme morali più coercitive. Ma dal momento in cui la grande produzione
capitalistica  strappò  di  mano  alla  famiglia  le  sue  prerogative  economiche,  la  famiglia  perdette  il
proprio  valore  di  cellula  economica  necessaria  e  al  tempo  stesso  fu  condannata  a  una  lenta  ma
ineluttabile disgregazione.

Dove  sono  infatti,  oggi,  questi  solidi  legami  economici  che  rendevano  la  famiglia  così  tenace  e
così  stabile?  Tanto  per  cominciare  prendiamo  la  famiglia  borghese  e  vediamo  quali  sono,  tra  le
funzioni che da lunghi  secoli  le  competevano,  quelle  che  ha  conservato  al  suo  interno  fino  ai  giorni
nostri.

L'attività  produttrice  della  famiglia  nel  senso  della  fabbricazione  della  lunga  lista  di  oggetti  di
prima necessità, è ridotta al minimo; il campo dell'economia domestica si è ristretto fino a diventare
irriconoscibile.  Dove  trovereste  oggi  una  famiglia  borghese  che  si  occupi  di  fabbricare  le  proprie
candele, il sapone e la birra, il filo e il tessuto, di conservare i prodotti per l'inverno, di cuocere il pane,
di  cucire  i  vestiti?  Non  c'è  necessita  né  profitto  a  consumare  le  forze  dei  membri  della  famiglia  per
produrre  o  fabbricare  oggetti  ­  fossero  anche  di  prima  necessità  ­  che  ci  si  può  procurare  a  buon
mercato  in  qualsiasi  negozio.  Uno  dopo  l'altro  i  rami  della  produzione  sono  sfuggiti  di  mano
mercato  in  qualsiasi  negozio.  Uno  dopo  l'altro  i  rami  della  produzione  sono  sfuggiti  di  mano
all'economia domestica per diventare oggetti di speculazione industriale. Con lo  sviluppo  e  il  trionfo
della  grande  produzione  capitalistica  la  famiglia  perde  il  suo  antico  ruolo  di  cellula  produttrice  e,
cessando di svolgere un ruolo di unità economica indipendente perde poco a poco la sua importanza
nella vita economica della società.

Ma  se  all'interno  della  famiglia  sono  cessate  la  fabbricazione  e  la  produzione  di  oggetti  di  uso
corrente, la famiglia ha forse conservato, tuttavia, altre funzioni economiche? Perché, dopo tutto, nel
corso dei numerosi secoli della sua esistenza, la famiglia non è stata soltanto creatrice indipendente di
ricchezze ma anche la fedele custode di esse. La casa, la mobilia, il tesoro familiare: tutto era protetto
e conservato devotamente dalla famiglia. Poco mobile, attaccata alla proprietà, alla terra, alla casa, nel
recente  passato  la  famiglia  costituiva  lo  strumento  più  sicuro  per  la  conservazione  delle  ricchezze
familiari  e,  in  queste  condizioni,  la  solidità  dei  legami  familiari  era  strettamente  connessa  agli
interessi materiali della stirpe. Se la famiglia si fosse disgregata, le ricchezze familiari sarebbero state
disperse, dilapidate.

Oggi le cose vanno in altro modo: le banche e altri istituti di risparmio si sono assunti in maniera
totale l'incarico, che adempiva la famiglia, di conservare i beni, sono questi istituti ­ e non  le  unioni
morali e sessuali delle coppie ­ che si assumono la custodia e la conservazione delle ricchezze familiari
già accumulate. Inoltre, sempre più spesso queste ricchezze assumono la forma di titoli al portatore i
quali non esigono assolutamente nessun incarico particolare da parte dei membri della famiglia. Con
la  mobilità  continuamente  crescente  della  vita,  con  lo  sviluppo  dei  mezzi  di  comunicazione,  che
permette alle famiglie di traslocare più frequentemente, una mobilia voluminosa diventa un fardello;
in queste condizioni,  l'unica  forma  di  ricchezza  che  non  sia  onerosa  è  il  denaro  e  i  titoli.  È  così  che
l'antica,  abituale  funzione  della  famiglia  ­  la  conservazione  delle  ricchezze  familiari  accumulate  ­
sfugge al cerchio degli obblighi familiari.

Ma il consumo ­ questa condizione indispensabile della vita della famiglia ­ si pratica nella stessa
misura di un tempo in seno al focolare? Il focolare domestico ha ceduto il posto ai ristoranti, ai club,
alle case ammobiliate, agli hotel. L'alta borghesia ricca passa metà della sua vita andando a zonzo per
le  stazioni  eleganti  e  godendo  dei  servizi  degli  "hotels­palaces";  la  media  e  piccola  borghesia,  per
sbarazzarsi  delle  noiose  responsabilità  familiari  e  ridurre  le  spese  «domestiche»,  abita  nelle  case
ammobiliate, mangia nei ristoranti, lavora nelle biblioteche e nei laboratori pubblici, nei musei e nelle
gallerie nazionali.

A mano a mano che, in seguito alla domanda crescente di forza­lavoro a buon mercato in tutti i
campi,  la  donna  viene  attirata  fuori  della  sua  stretta  cellula  familiare  e  congiunta  al  fiume  della
popolazione  attiva,  questo  genere  di  vita  si  diffonde  sempre  di  più.  Finché  l'unico  che  nutriva  la
famiglia era il marito, finché con il suo salario egli era il solo a portare in casa i beni  accessibili  alla
famiglia, finché il benessere della moglie  e  dei  figli  dipendeva  essenzialmente  da  lui,  la  famiglia  era
serrata e strettamente unita da un tessuto di legami che sono spesso completamente sconosciuti  alle
famiglie  d'oggi.  Adesso,  nella  piccola  e  anche  nella  media  borghesia,  la  donna  copre  sempre  più
spesso, grazie al suo salario, una parte dei bisogni domestici; la dipendenza della moglie nei confronti
del marito e  della  figlia nei  confronti del padre ne risulta  distrutta  alla  radice  e,  uno  dopo  l'altro,  si
rompono i potenti legami che un tempo stringevano i membri della famiglia borghese fra di loro.

Che  cosa  resta  alla  famiglia,  ai  giorni  nostri?  Quali  funzioni  le  spettano  ancora,  quali  legami
stringono ancora i suoi membri? Forse l'educazione dei figli? Ma dove sono le madri e i padri borghesi
che si occupano loro stessi dell'educazione e dell'istruzione della propria prole? Non solo la piccola e
media borghesia, ma anche l'alta borghesia non disdegna più gli istituti di insegnamento pubblico. Le
scuole materne e primarie conoscono un'espansione senza precedenti, per non parlare degli istituti di
insegnamento secondario e superiore. La funzione dell'educazione  ­  esattamente  come  gli  altri  ruoli
della famiglia ­ è uscita fuori della cellula familiare per passare a carico della società e dello Stato.

Che  resta  dopo  di  ciò  alla  famiglia?  Qual  è  il  suo  compito  nella  struttura  individualistica  e  di
Che  resta  dopo  di  ciò  alla  famiglia?  Qual  è  il  suo  compito  nella  struttura  individualistica  e  di
classe  della  società  contemporanea?  Unicamente  la  trasmissione  in  linea  diretta  del  patrimonio
acquisito. I molteplici ostacoli attualmente opposti al divorzio hanno il fine di favorire l'adempimento
di  quest'unico  compito  della  famiglia  d'oggi  ­  famiglia  che  non  è  al  servizio  dei  bisogni  morali  della
persona,  ma  a  quello  degli  interessi  della  proprietà.  L'intera  cronistoria  del  matrimonio
contemporaneo ci mostra solo che questa istituzione è stata messa sotto i piedi per ragioni puramente
utilitaristiche  e  che  solo  in  rari  casi,  dovuti  a  una  combinazione  particolarmente  felice,  vi  si  è
introdotto un elemento morale sotto forma di affetto reciproco degli sposi.

Una  volta  affermato  il  suo  potere,  la  borghesia  ha  lasciato  cadere  la  maschera  dell'ipocrisia  e
apertamente  ha  messo  in  mostra  i  suoi  matrimoni  come  una  sorta  di  transazioni  commerciali,  di
«fruttuosi» affari. In luogo di quell'unione di «due  cuori  amanti»,  che gli ideologi  della  borghesia  si
dilettano  a  descrivere,  il  matrimonio  diventa  sempre  più  spesso,  nelle  condizioni  attuali,  un  cinico
acquisto di dote o vendita dei titoli di nobiltà. I matrimoni realizzati attraverso  piccoli  annunci  sono
diventati un fatto così corrente che il senso morale del più esigente borghese non si sogna  affatto  di
turbarsene. Quanto all'esito felice di simili «matrimoni ragionevoli», il numero senza sosta crescente
dei divorzi è sufficiente  a  testimoniarne.  Le  domande  di  scioglimento  di  matrimonio  sono diventate
così  numerose  che  un  giudice  viennese  ha  esclamato  con  disperazione:  «Presto  le  denunce  per  le
rotture matrimoniali saranno altrettanto frequenti delle denunce per vetri rotti».

Le  statistiche  non  sono  ancora  in  grado  di  fornire  un  quadro  esatto  del  numero  delle  rotture
matrimoniali, per il fatto che un numero grandissimo di sposi che si separano non ha fatto ricorso alle
formalità del divorzio. Non bisogna nemmeno dimenticare che le leggi di tutti gli Stati ostacolano con
tutti i mezzi lo scioglimento dei matrimoni, e in questo modo, impedendo con la forza la separazione
degli  sposi,  evitano  spesso  la  rottura  di  unioni  utili  come  quella  dei  milioni con i  titoli  di  nobiltà,  o
quella della terra con il capitale...

Se, tuttavia, nella classe borghese la famiglia si disgrega ineluttabilmente, se giorno dopo giorno
scompaiono  i  legami  che  assicuravano  la  sua  vitalità,  ciò  significa  che  in  tutti  gli  altri  strati  della
popolazione  si  compie  lo  stesso  inevitabile  processo  di  declino  della  famiglia?  Sappiamo  che,  a  suo
tempo,  la  famiglia  della  nobiltà  feudale  cadde  in  completa  decadenza  e  si  disgregò  nel  modo  più
palese e irrimediabile; in quella stessa epoca, però, il terzo stato nascente vegliava devotamente sulle
tradizioni familiari, vedendo giustamente nell'integrità del principio della famiglia un baluardo sicuro
per proteggere la propria crescente potenza sociale. Forse che anche oggi è soltanto la famiglia della
media e alta borghesia a disgregarsi, mentre invece nella  piccola  borghesia  ­  la  classe  contadina  per
esempio ­ i principi familiari sono rimasti vivi?

Senza parlare della classe contadina dell'Europa  occidentale,  che  subisce  completamente  quegli


influssi sotto la cui azione la famiglia si disgrega presso gli altri strati della popolazione, anche  nella
nostra «retrograda» classe contadina russa, si assiste a una brutale evoluzione dei rapporti familiari.
Il solo fatto del passaggio dalla «grande» famiglia ­ il clan ­ alla «piccola» famiglia, il solo fatto delle
numerosissime spartizioni della proprietà costituisce già una prova evidente della disgregazione delle
antiche forme della struttura familiare contadina. La «piccola» famiglia, come si sa, è fondata su basi
economiche  assolutamente  diverse;  in  essa  la  donna  riceve  all'improvviso  una  maggiore  libertà
d'azione e la possibilità di conquistare una situazione indipendente di «padrona», di governante della
casa.  Nella  «grande»  famiglia  ­  il  clan  ­  la  donna  è  soltanto  uno  dei  numerosissimi  esecutori
meccanici della volontà altrui, quella del capo di famiglia; in assenza di una ben definita divisione del
lavoro non le spetta alcuna iniziativa; avrà un bell'affaticarsi nel lavoro: non c'è alcuna possibilità di
valutare  quantitativamente  il  suo  apporto  alle  ricchezze  dell'economia  familiare.  Da  ciò  deriva  la
devalorizzazione del suo lavoro, il suo stato di totale dipendenza.

Nella «piccola» famiglia, la donna non lavora di meno, talvolta anzi lavora di più, in cambio però
è lei ad avere la direzione di questo o quel campo della produzione familiare e la qualità e la quantità
del suo lavoro possono essere facilmente valutate. Su di lei poggia l'economia domestica, nel senso più
ampio  del  termine  compresa  la  filatura,  la  tessitura,  la  cura  del  bestiame  e  la  vendita  stessa  dei
ampio  del  termine  compresa  la  filatura,  la  tessitura,  la  cura  del  bestiame  e  la  vendita  stessa  dei
risultati della produzione, è unicamente nei periodi di punta che la moglie è soltanto l'aiutante di suo
marito  nei  lavori  dei  campi.  D'altra  parte,  il  marito  non  si  ritiene  in  diritto  di  immischiarsi  nella
gestione di sua moglie. «Nella Piccola Russia ­ nota Aleksandra Efimenko ­ dove, come  conseguenza
di costumi e condizioni storiche particolari la famiglia­clan si è dispersa molto più in fretta che nella
Grande Russia, questa divisione del lavoro, dei doveri e dei diritti. ha raggiunto un grado notevole. Il
marito non si immischia mai nell'attività di sua moglie, lasciandola libera di giudicare e di agire come
crede:  "Son  fatti  di  donna",  dicono  i  piccoli­russi».  Giustamente,  però,  nella  Piccola  Russia  la  vita
quotidiana  della  contadina  è  molto  più  sopportabile  che  nella  Grande  Russia,  dove  regna  ancora  il
vecchio principio familiare.

Questa  indipendenza  relativamente  grande  di  cui  gode  la donna  nella  «piccola»  famiglia,  ne  fa
naturalmente  una  partigiana  accanita  di  questa  forma  di  rapporti  familiari  e  spinge  la  contadina  a
usare  tutti  i  mezzi  di  cui  può  disporre  per  ottenere  la  divisione;  allora  entrano  in  gioco  tanto  la
calunnia quanto l'adulazione o la selvatichezza. «Il popolo ­ afferma Aleksandra Efimenko ­  presso  i
grandi­russi come presso  gli  altri  slavi,  non  nasconde  che  la  donna è  un  pericoloso  avversario  della
vita comunitaria del clan e ritiene che ella sia la causa principale della decadenza dell'antico ordine di
cose».  Se  quest'affermazione  non  è  completamente  esatta,  nondimeno  essa  è  caratteristica;  è  certo
che  esistono  cause  più  profonde  della  decadenza  della  vita  del  clan  che  non  la  «selvatichezza»  o
l'«umore bisbetico» delle donne. Anche prima le comari si bisticciavano; non è questo tuttavia che ha
condotto alla generalizzazione della divisione e al passaggio dalla «grande» alla «piccola» famiglia.

È  un  fatto  ben  noto  che  laddove  la  classe  contadina  non  è  stata  ancora  attirata  nella  corrente
mondiale  degli  scambi  commerciali,  laddove  domina  ancora  l'antica  economia  chiusa,  naturale,  la
vecchia forma della famiglia patriarcale si conserva in tutta la sua arcaica immunità. In questo caso, la
famiglia  resta  anzitutto  una  cellula  economica,  produttrice  di  tutti  i  beni  necessari  alla  vita,  una
cellula importantissima e addirittura indispensabile per ciascuno dei suoi membri. I legami economici
che  uniscono  la  famiglia  contadina  garantiscono  la  sua  stabilità  e  la  sua  vitalità;  in  questo  caso,  il
divorzio  è  fuori  discussione.  È  vero  che  qui  il  matrimonio  non  è  un  '«unione  morale»  ma  poggia
interamente sulla base reale dei rapporti di produzione. La nostra famiglia contadina russa ­ il clan ­
con tutte  le  sue  mostruose  vestigia  del  passato,  con  la  sua  condanna  senza  appello  della  donna  alla
schiavitù, con il suo potere illimitato del «padrone» su tutta la famiglia, ha potuto sopravvivere senza
cambiamenti  fino  ai  nostri  giorni  grazie  unicamente  al  fatto  che  la  nostra  classe  contadina  ha
conservato  fino  al  diciannovesimo  secolo  le  antiche  forme  di  rapporti  economici,  da  lungo  tempo
superate e abbandonate dagli altri popoli.

Tuttavia le vecchie norme congelate della vita patriarcale perdono la loro stabilità, dal momento
in  cui  l'economia  contadina  è  stata  trascinata  nella  corrente  generale  degli  scambi  mondiali  delle
merci.  I  principi  morali  della  vita  familiare,  che  sembravano  così  intangibili  e  immutabili  ancora
qualche  decina  di  anni  fa, diventano  sempre  meno  imperativi  e  tanto  desueti  quanto  la  tessitura  in
casa delle camicie di lino e la fabbricazione dell'aratro.

Il passaggio dalla «grande» alla «piccola» famiglia contadina ­ passaggio le cui cause economiche
abbiamo  indicato  ­  non  fa  che  accelerare  il  processo  del  futuro  smembramento  della  famiglia.  I
costumi popolari hanno un bel trasportare nel seno della «piccola» famiglia i principi che privano la
donna di ogni diritto e la fanno dipendere dal capofamiglia, la pratica della vita entra brutalmente in
contraddizione  con  questi  principi.  Le  condizioni  economiche  stesse  della  «piccola»  famiglia
assicurano  alla  donna  una  certa  indipendenza  economica  e  generano  negli  strati  più  oscuri  della
classe  contadina  un  conflitto  fra  gli  antiquati  costumi  e  i  rapporti  reali  della  vita.  Già  questo  è  un
primo passo verso la comparsa della «questione femminile» nell'ambiente contadino.

Il  considerevole  moltiplicarsi  dei  voti  monastici  femminili  testimonia  che  il  malcontento  delle
donne della classe contadina cresce con l'evoluzione delle forme familiari. Nel 1855 si contavano 7091
novizie;  nel  1902  se  ne  contavano  ormai  32029.  Incontestabilmente,  l'attrazione  verso  il  convento
esprime  per  le  contadine  (è  principalmente  fra  di  loro  che  si  reclutano  le  novizie)  il  desiderio
esprime  per  le  contadine  (è  principalmente  fra  di  loro  che  si  reclutano  le  novizie)  il  desiderio
crescente di sfuggire ai pesi della vita familiare contadina, con la sua perpetua precarietà economica e
il suo opprimente  lavoro.  La  preferenza  per  il  «velo»,  quale  si  diffonde  tra  le  ragazze  di  campagna,
testimonia del medesimo fenomeno.  Le  future  religiose,  facendo  ufficialmente  voto  di  celibato,  non
rifiutano tuttavia l'amore;  al  contrario,  avendo  conquistato  una  certa  indipendenza  nella  famiglia  (i
loro  guadagni  sono  considerati  sacri  e  nessuno  oserebbe  toccarli),  esse  godono  ugualmente  della
propria  libertà  nel  campo  dei  sentimenti.  Quest'aspirazione  alla  vita  monastica,  alla  religione,  così
come  il  desiderio  di  andare  in  città,  nel  centro  industriale  per  «guadagnarsi  la  vita»,  esprime  lo
sviluppo  della  coscienza  delle  contadine  che  cominciano  ad  averne  «fin  sui  capelli»,  del  loro
asservimento  familiare.  Lo  smembramento  della  famiglia  contadina  è  particolarmente  sensibile  da
noi, in Russia, nelle località che gettano donne in abbondanza sul mercato del lavoro agricolo.

La  donna  che  se  ne  va  a  centinaia  di  verste,  che  cambia  provincia  per  guadagnare  un  salario
agricolo,  la  donna  che  prende  parte  ai  lavori  stagionali  è  già  un  nuovo  tipo  di  contadina,  la  cui
psicologia ricorda piuttosto  quella  dell'operaia  di  fabbrica  che  quella della  «comare»  rassegnata  del
villaggio,  la  quale  docilmente  si  carica  di  tutte  le  fatiche  della  vita  domestica,  consacrate  dalla
tradizione  della  vita  patriarcale.  In  queste  circostanze  la  famiglia  stessa  assume  un  altro  aspetto,
perde  il  suo  carattere  chiuso  e  fossilizzato  per  diventare  mobile,  tesa  e  di  conseguenza  più  atta  a
rompersi.  Penetrando  negli  angoli  più  remoti  della  campagna,  i  nuovi  rapporti  di  produzione
sottomettono a sé e modificano le antiche forme di coabitazione sociale. Introducendosi nel villaggio,
invadendo tutti i rapporti  agrari  locali,  il  capitalismo  non  solo  modifica  la  fisionomia  della  famiglia
contadina  dell'Europa  occidentale,  ma  assesta  dei  colpi  decisivi  ai  costumi  patriarcali  della  nostra
classe  contadina  russa.  Lentamente  ma  costantemente,  vediamo  compiersi  nella  famiglia  contadina
una serie di profondi cambiamenti, i quali distruggono la sua secolare e incrollabile stabilità...

Resta  lo  strato  più  numeroso  della  società  contemporanea  ­  la  classe  dei  proletari.  Come  si
presenta la questione della famiglia in questa classe della popolazione? Non troveremo, almeno  qui,
condizioni  tali  da  assicurare  la  vitalità  dell'attuale  struttura  familiare?  D'altra  parte,  si  può  porre
seriamente questa domanda? Dov'è la famiglia per l'operaio moderno, per colui che vende la propria
forza­lavoro?  L'alba  spunta  appena  quando  marito  e  moglie  si  affrettano  a  lasciare  il  loro  stretto  e
povero  alloggio  per  obbedire  docilmente  all'appello  della  sirena  della  fabbrica  e  sottomettersi  con
rassegnazione al potere del loro padrone senz'anima ma onnipotente ­ la macchina. Gli sposi restano
fuori casa fino a una tarda ora della serata; i figli sono affidati alle cure del buon dio; nel migliore dei
casi è una vicina anziana oppure una  che  ha  perduto  la  capacità  di  lavoro  ad  occuparsi  di  loro...  La
strada, la strada rumorosa, sporca, depravata: ecco la loro educatrice, ecco la prima scuola dei figli dei
proletari... Se l'officina è lontana dalla casa i genitori, all'ora di pranzo, non hanno il tempo di andare
a dare un'occhiata alla loro abitazione abbandonata a se stessa. Gli inquilini, uomini e donne, i malati,
gli  alcolizzati,  i  vecchi  e  i  bambini,  tutti  gli  intrusi  e  gli  estranei  distruggono  l'ultima  illusione
dell'isolamento  familiare.  La  miseria,  ossessionante,  bussa  alla  finestra  e  spia  con  occhi  avidi  la
disgrazia  improvvisa  ­  malattia,  disoccupazione,  morte  di  un  membro  della  famiglia,  nascita  di  un
figlio ­ per conficcare le sue unghie uncinate nella famiglia proletaria, per dilaniarla e disperderla da
qualche  parte...  In  tali  condizioni  il  matrimonio,  quand'anche  sia  il  risultato  di  una  reciproca
inclinazione,  si  trasforma  ben  presto  in  un  giogo  intollerabile,  che  ciascuno  dal  canto  suo  cerca  di
dimenticare nella vodka...

Il basso salario del marito, la domanda continua, da parte del capitale, di mani femminili a buon
mercato  spingono  la  moglie  nelle  grandi  braccia  aperte  della  produzione  capitalistica.  Ma  dal
momento in cui le porte della fabbrica si sono richiuse sulla donna lavoratrice la sorte della famiglia
proletaria è decisa. Lentamente ma inesorabilmente la vita familiare dell'operaio va verso la  propria
rovina. Il focolare si spegne e cessa di essere il centro d'unione dei membri della famiglia.

Quale  beffa,  quale  bestemmia  in  tutte  quelle  esclamazioni  sentimentali  della  borghesia  sul
«carattere sacro» del «focolare domestico» e della «maternità», quando milioni, decine di milioni di
madri  non  sono  neppure  in  grado  di  adempiere  ai  propri  obblighi  più  elementari.  All'appello
imperativo del capitale le madri strappano dal proprio seno il figlio, che ancora non distingue il giorno
imperativo del capitale le madri strappano dal proprio seno il figlio, che ancora non distingue il giorno
dalla  notte,  e  docilmente  vanno  a  bussare  alle  porte  della  fabbrica.  I  difensori  borghesi  del
matrimonio e della maternità sanno perfettamente come, nel ventre  stesso  della  madre,  i  figli  siano
deformati o storpiati dalle emanazioni dei gas nocivi (1); come milioni di bambini muoiono per  aver
assorbito sostanze tossiche insieme al latte materno; come, nelle isbe del bosco, nei periodi di punta,
centinaia di bambini abbandonati al loro destino muoiono carbonizzati; come delle madri avvelenino
con  l'oppio  i  propri  figli,  affinché  i  loro  pianti  non  impediscano  loro  di  portare  a  termine  qualche
commissione urgente. Ma l'ipocrisia della borghesia non ha limiti. Che importanza può avere per essa
che  i  figli  delle  operaie  impiegate  nelle  fabbriche  di  fiammiferi  o  di  mercurio,  nelle  vetrerie  o  nelle
fabbriche di bianco di cerussa, nascano  con  lo  scheletro  deformato,  una  debole  attività  vitale,  o  che
nascano solo per morire tra dolorose convulsioni? Che importanza può avere per essa il fatto che gli
aborti e i figli nati morti siano l'inevitabile risultato del rivoltante sistema di sfruttamento  del  lavoro
delle donne nell'industria? Che importanza può avere per essa il fatto che, spinte al furore dalla fame
e dalla miseria, le madri si sbarazzino dei propri figli presso le «mammane», che le statistiche rivelino
la  crescita  continua  degli  aborti  e  che,  tra  queste  «madri  criminali»,  si  contino  non  solo  ragazze
abbandonate  dai  propri  fidanzati,  ma  anche  mogli  legittime  di  proletari,  rispettabili  madri  di
famiglia?

Malgrado  tutto  l'orrore  lampante  di  questi  fatti  quotidiani,  gli  ipocriti  difensori  borghesi  della
famiglia attuale continuano a cantare, con un entusiasmo che non cala di tono, l'inno della «funzione
sacra  della  madre»  e  partono  in  guerra  contro  il  lavoro  delle  donne  come  professione  (soltanto  a
parole,  naturalmente),  il  quale  allontana  la  madre  dalla  culla  del  neonato.  «Il  sacro  dovere  della
maternità»! Ma come può manifestarsi questa funzione della donna, nella classe operaia, tenuto conto
delle  attuali  condizioni  del  lavoro  salariato  femminile?  Dov'è  la  cura  indispensabile  alla  salute  del
bambino? Dov'è quel minimo di condizioni igieniche necessarie a salvaguardare la vita del neonato?
La  mortalità  infantile,  soprattutto  durante  il  primo  anno  di  vita,  raggiunge  nel  proletariato
proporzioni  sbalorditive.  «Quando,  durante  il  primo  anno  di  vita,  muore  l'8%  dei  figli  della  classe
borghese ­ dice Lily Braun ­ muore quasi il 30% dei figli degli operai della medesima età. Nei quartieri
ricchi di Friedrichstadt, a Berlino, su 1000 neonati ne muoiono 148. Nel quartiere povero di Wedding,
su 1000 ne muoiono 348! [...] La mortalità infantile nei centri industriali dimostra la stretta relazione
che esiste tra questa mortalità e lo sviluppo del lavoro femminile» (2).

A  questo  proposito,  l'industria  del  tabacco  è  uno  dei  rami  più  nocivi:  è  tra  gli  operai  di  questa
industria che si trova il maggior numero di bambini nati morti e, quand'anche il bambino nasca vivo,
egli deve attendersi un lento avvelenamento attraverso il latte della madre, impregnato di nicotina. La
mortalità  infantile  è  ugualmente  enorme  quando  le  madri  lavorano  nell'industria  della  carta;  in
Germania essa raggiunge il 48%. I figli degli operai del settore tessile sono votati allo stesso destino;
in Inghilterra, tra le madri impiegate nel trattamento delle materie fibrose, la mortalità dei bambini di
età inferiore a un anno è del 22%; in Germania del 38%.

Quand'anche i bambini delle famiglie proletarie siano riusciti a sfuggire a tutti i  pericoli  mortali


disseminati  a  piene  mani  sulla  loro  strada,  prima  e  dopo  la  nascita,  che  cosa  li  aspetta?  La  fame,  il
freddo,  la  miseria,  i  rabbuffi  collerici,  le  botte  di  una  mano  stanca,  il  desiderio  causato  dalla
disperazione:  «Potessi  crepare!»;  poi  gli  anni  cupi  dell'apprendistato  e  dell'officina  e,  nelle  ore  di
tempo libero, la strada, le risse, i tafferugli, e molte, molte botte... Ecco ciò che nella società attuale si
chiama l'educazione «sotto l'occhio vigile della madre»!

No,  le  teneri  mamme  della  borghesia  avranno  un  bel  chiudere  gli  occhi  sulla  futura  società
collettivistica, con i suoi principi di educazione sociale; avranno un bell'accusare i socialisti di essere
«senz'anima» e di voler barbaramente togliere loro  quei  «piccoli  cari»; comunque,  si  può  prevedere
che qualsiasi forma di educazione, purché sia differente dalla forma attuale, salverà milioni di giovani
vite...  Perlomeno  non  ci  saranno  più  quei  disgraziati  bambini  che  le  madri  legano  al  letto  prima  di
andare a lavorare, né quel martirologio, cui siamo abituati, dovuto a tragici incidenti ­ il tale bambino
è stato schiacciato da una macchina, oppure è caduto dalla finestra, oppure  è  annegato in  una  vasca
d'acqua...
d'acqua...

La vita dei figli dei proletari è così ripugnante, così piena di barbare privazioni e di sofferenze che
non sono della loro età, che per loro perdere i propri genitori o la propria famiglia è spesso un bene.
Gli orfanotrofi, costruiti da filantropi o dallo Stato, malgrado i loro enormi difetti sono molto spesso la
via della salvezza per i figli dei proletari.

Le  teneri  mamme  borghesi  che  s'indignano  contro  i  socialisti  con  il  pretesto  che  essi  vogliono
«strappare i piccoli dalle braccia delle loro madri» confessino  sinceramente  quante  madri  proletarie
possono,  oggi,  nella  società  borghese,  restare  accanto  alla  culla  del  neonato.  È  impossibile,  infatti,
chiudere  gli  occhi  sulla  crescita  incessante  del  lavoro  delle  donne  sposate.  In  Germania,  in  dodici
anni, il numero delle operaie sposate è cresciuto di 300 mila; nel 1882 c'erano in Germania, su 1000
operaie, 173 sposate; nel 1895 ce n'erano 215. In base alle ultime stime, su  1000  operaie  ce  ne sono
450 sposate in Austria, quasi 220 in Germania, circa 200 in Francia; nei fatti le cifre sono molto più
alte,  perché  le  statistiche  fanno  entrare  nella  categoria  di  donne  sposate  soltanto  quelle  il  cui
matrimonio  è  stato  consacrato  dalla  legge  e  dalla  Chiesa,  mentre  tra  i  proletari  sono  sempre  più
frequenti le libere unioni, in cui la donna ­ in quanto moglie e madre ­ ha a suo carico tutti gli abituali
obblighi familiari.

L'insicurezza materiale della  famiglia  proletaria  spinge  la  donna  sposata  al  lavoro  di  fabbrica  e
finché  esisterà  il  sistema  del  lavoro  salariato,  finché  il  capitale  avrà  interesse  ad  attirare  nella
produzione  una  manodopera  più  a  buon  mercato,  non  ci  sarà  alcuna  ragione  di  sperare  in  una
diminuzione del lavoro in fabbrica tra le proletarie sposate.

Secondo le testimonianze raccolte dagli ispettori del lavoro in Alsazia­Lorena, l'82% delle operaie
sposate  si  sono  fatte  assumere  nell'industria  per  mancanza  di  altri  mezzi  di  sussistenza;  a  Aix­la­
Chapelle la proporzione di donne sposate, spinte verso la fabbrica da una miseria senza sbocchi, era
ancora più alta: l'88%; nello Schleswig essa raggiunge il 96%! I signori imprenditori, che spesso sono
gli avversari più accaniti dell'emancipazione della donna e della sua indipendenza, quando si tratta di
donne  della  propria  classe,  riconoscono  con  cinica  franchezza  che  la  donna  sposata  è  l'oggetto  di
sfruttamento  più  caro  al  loro  cuore.  Come  no!  Che  cosa  non  sopporterebbe  l'operaia  madre  di
famiglia, che cosa non sarebbe pronta ad accettare, quali condizioni di lavoro, quando anche fossero
le  più  draconiane  e  le  più  ripugnanti,  non  sopporterebbe,  purché  soltanto  non  rientri  a  casa  con  le
mani vuote, purché non senta più quei gridi dei figli affamati che straziano il cuore!... Le ragazze, per i
gusti  del  padrone,  sono  troppo  indipendenti,  troppo  audaci  e  insolenti,  e  per  di  più  si  lasciano
influenzare dalla propaganda delle idee perniciose  molto  più  facilmente  delle  donne  sposate,  con  la
famiglia  a  carico.  Niente  di  stupefacente,  dunque,  nel  fatto  che  i  padroni  facciano  tutto  ciò  che  è  in
loro  potere  per  attirare  nelle  loro  imprese  le  operaie  sposate.  In  questa  situazione,  quando  da  una
parte  la  necessità  economica  spinge  la  donna  ad  andarsi  a  guadagnare  la  vita,  e  quando  dall'altra
l'impresa  capitalistica  l'accoglie  a  braccia  aperte,  non  ci  si  potrebbe  stupire  affatto  se  la  famiglia
proletaria andasse rapidamente e irresistibilmente verso la disgregazione completa.

Così  la  borghesia  avrà  un  bel  gridare  che  i  principi  familiari  sono  immutabili  e  intangibili;  la
famiglia  ­  la  famiglia  attuale,  chiusa,  autarchica  e  strettamente  individualistica  ­  è  condannata  allo
smembramento e alla morte. Agli occhi del mondo intero il focolare domestico si spegne presso tutte
le classi e tutti gli strati della popolazione e, beninteso, nessuna misura artificiale potrà rianimare la
sua fiamma morente...

L'AMORE E LA NUOVA MORALE
 
 

Verso il 1910, quando l'interesse  della  Russia  era  diretto  verso  i  problemi sessuali, comparve  in


Germania uno studio psicologico di Greta Meisel­Hess, "La crisi sessuale".

Questo  libro  non  ebbe  successo  presso  il  vasto  pubblico:  il  romanzo  di  Karin  Michaelis,  "L'età
pericolosa",  privo  di  grande  valore  artistico  e  la  cui  audacia  non  andava  al  di  là  dei  limiti  permessi
dalle  convenienze  delle  «belle  maniere»  letterarie,  sommerse  con  immeritato  scalpore  l'opera  di
Meisel­Hess,  comparsa  poco  prima.  «Il  libro  è  scritto  con  talento,  ma  non  è  scientifico»:  tale  fu  il
giudizio. Soltanto sulle vette intellettuali, nella «crema» della società tedesca, questo libro fu salutato
dagli applausi entusiastici degli uni, dai fischi e dall'indignazione degli altri. Destino comune a ogni
sincero ricercatore della verità.

Il fatto che il libro di Meisel­Hess sia privo di tutta una serie di qualità scientifiche ­ un metodo di
analisi, un procedimento sistematico ­: che il suo pensiero scivoli e vacilli, tornando spesso su cose già
dette, non diminuisce assolutamente il valore del suo lavoro. Un soffio di freschezza si alza dal libro,
la  ricerca  della  verità  infonde  di  sé  l'esposizione  viva  e  ardente,  nella  quale  si  riflette  una  fremente
anima di donna, ricca di conoscenza della vita. Le idee di Meisel­Hess non sono nuove, nel senso che
esse fluttuano nell'aria, che l'intera nostra atmosfera morale ne è satura.

Ciascuno, da parte sua, ha meditato, ha dolorosamente vissuto i problemi che ella esamina; ogni
uomo che abbia riflettuto è giunto, per una via o per l'altra, alle conclusioni che sono stampate sulle
pagine della "Crisi sessuale", ma, obbedienti all'ipocrisia che c'è dentro di noi, continuiamo ancora a
inchinarci pubblicamente davanti al vecchio idolo morto: la morale borghese. Il merito di Meisel­Hess
è il  medesimo  di  quello  del  figlio  del  conte  di  Andersen:  ella  ha  osato gridare  con  coraggiosa  calma
alla  società  che  «il  re  non  porta  la  camicia»,  che  la  morale  sessuale  contemporanea  non  è  che  una
"vuota finzione".

Infatti,  le  norme  morali,  che  regolano  la  vita  sessuale  dell'uomo,  possono  avere  soltanto  due
scopi, due destinazioni:

1)  assicurare  all'umanità  una  discendenza  sana,  normalmente  sviluppata,  favorire  la  selezione
sessuale nell'interesse della razza,

2) contribuire affinché la psicologia umana si raffini, si arricchisca di sentimenti di solidarietà, di
cameratismo, di collettività.

L'attuale morale, che  serve  unicamente  gli  interessi  della  proprietà,  non  adempie  né  all'uno  né
all'altro  di  questi  compiti.  Tutto  il  complicato  codice  della  morale  sessuale  contemporanea,  con  il
matrimonio  monogamico  indissolubile,  che  solo  raramente  ha  come  base  l'amore,  con  l'istituzione
largamente diffusa della prostituzione, non solo non contribuisce al risanamento e al miglioramento
della  razza,  ma  favorisce  addirittura  la  «selezione  sessuale  in  senso  inverso».  La  morale
contemporanea conduce l'umanità sulla via di una continua e lenta degenerazione.

I  matrimoni  tardivi  e  i  riflussi  forzati  dal  periodo  più  favorevole  per  il  parto;  il  ricorso  alla
prostituzione, «inutile» dal punto di vista della razza; l'assenza, nel  matrimonio  di  convenienza,  nel
matrimonio legale indissolubile, del fattore, così importante per la discendenza, dell'«estasi d'amore»;
la sottrazione degli «esemplari femminili più belli», i più capaci di produrre le emozioni erotiche degli
uomini,  riservati  alla  sterile  prostituzione;  la  condanna  a  morte  per  i  «figli  dell'amore»,  questi
prodotti illegali della razza, spesso i più preziosi, i più sani e i più floridi, eccetera: di tal genere sono i
diretti risultati della morale corrente, che porta all'abbrutimento, all'avvilimento, alla degenerazione
fisica  e  morale  della  razza  umana.  Il  tentativo  di  Meisel­Hess  di  accordare  la  morale  sessuale  con  i
compiti dell'«igiene della razza» merita la massima attenzione, tentativo particolarmente interessante
per  i  fautori  della  concezione  materialistica  della  storia.  La  difesa  della  giovane  generazione
lavoratrice,  la  protezione  della  maternità  e  dell'infanzia,  la  lotta  contro  la  prostituzione  e  le  altre
lavoratrice,  la  protezione  della  maternità  e  dell'infanzia,  la  lotta  contro  la  prostituzione  e  le  altre
rivendicazioni  dei  programmi  socialisti  perseguono  fondamentalmente  l'«igiene  della  razza»,  nel
senso  più  ampio.  Strappare  alla  morale  sessuale  l'aureola  dell'inviolabile  «imperativo  categorico»,
accordarla  con  i  bisogni  pratici  vitali  e  con  le  esigenze  dell'avanguardia  dell'umanità:  questo  è  il
compito all'ordine del giorno ed esso reclama imperiosamente l'attenzione meditata e consapevole di
tutti i socialisti.

Per  quanto  su  questo  problema  le  idee  di  Meisel­Hess  siano  preziose,  dedicarsi  all'analisi  di
questa  parte  specifica  del  suo  lavoro  significherebbe  uscir  fuori  dal  quadro  di  un  breve  schizzo.  Ci
limiteremo perciò all'esame dell'altro aspetto del problema sessuale, studiando le risposte di  Meisel­
Hess,  non  meno  preziose  e  interessanti,  alla  domanda:  le  attuali  forme  della  morale  sessuale
adempiono almeno al secondo compito che incombe loro; sono utili come fonte di arricchimento della
psicologia umana, quanto a sentimenti di solidarietà, di cameratismo?

Dopo aver sottoposto a un'analisi sistematica le tre forme fondamentali dell'unione tra i sessi ­ il
matrimonio  legale,  la  libera  unione  e  la  prostituzione  ­  Meisel­Hess  giunge  alla  pessimistica  ma
inevitabile  conclusione  che  nell'ordine  capitalistico  tutte  queste  forme,  l'una  al  pari  dell'altra,
insudiciano e deformano l'anima umana, spezzando ogni speranza in una felicità solida e durevole, in
una  comunanza  spirituale  profondamente  umana.  Nella  situazione  invariabile,  stazionaria,  della
psicologia umana contemporanea, non c'è via d'uscita per la crisi sessuale.

Soltanto  una  trasformazione  fondamentale  della  psicologia  umana,  il  suo  arricchimento  di
«potenziale  d'amore»  può  aprire  la  porta  proibita  che  conduce  all'aria  aperta,  a  rapporti  tra  i  sessi
impregnati  di  maggior  amore,  di  reale  parentela  e,  di  conseguenza,  più  felici.  Ciò  però  esige
inevitabilmente  una  trasformazione  fondamentale  dei  rapporti  socio­economici,  in  altre  parole  il
passaggio al comunismo.

Quali  sono  le  principali  imperfezioni,  gli  aspetti  foschi  del  "matrimonio  legale"?  Alla  base  del
matrimonio  legale  si  trovano due principi  ugualmente  falsi:  da  una  parte  l'indissolubilità;  dall'altra,
l'idea della «proprietà», del possesso assoluto, l'uno dell'altro, degli sposi.

L'indissolubilità  del  matrimonio  si  fonda  sull'idea,  contraria  a  tutta  la  scienza  psicologica,
dell'invariabilità  della  psicologia  umana  nel  corso  di  una  lunga  vita.  La  morale  contemporanea
impone  all'uomo  di  trovare  a  ogni  costo  «la  propria  felicità»;  essa  lo  costringe  a  scoprire  in  un  sol
colpo  e  senza  ingannarsi,  tra  i  milioni  di  esseri  a  lui contemporanei, l'anima in armonia con la sua,
questo secondo «io», il quale soltanto assicura la felicità nel matrimonio.

Se un essere umano, una donna soprattutto, vaga brancolando alla ricerca dell'ideale, straziando
il  suo  cuore  con  le  aguzze  spine  della  delusione,  la  società,  deformata  dalla  morale  contemporanea,
invece di soccorrere il suo sfortunato membro si mette a perseguitarlo, come una furia  vendicatrice,
con  la  sua  condanna.  «La  felicità  oggetto  della  "costrizione"  sociale»:  ecco  il  fior  fiore  della  nostra
morale  sessuale.  «Un  leale  cambiamento  d'unione  amorosa  viene  considerato  dalla  società  attuale,
preoccupata degli interessi della proprietà (e non della specie o della felicità individuale), come la più
grande offesa che possa esserle inflitta». «Tuttavia ­ osserva giustamente Meisel­Hess ­ il matrimonio
è  simile  a  un  appartamento:  i  suoi  aspetti  brutti  appaiono  soltanto  nel  corso  dell'occupazione.
Naturalmente,  è  una  specie  di  'persecuzione  della  sorte'  dover  lasciare  di  frequente  appartamenti
scomodi  e  imperfetti,  ma  la  situazione  è  ancora  peggiore  se  si  è  nella  necessità  di  restare  in  un
insediamento  difettoso».  «Il  cambiamento  delle  unioni  nel  corso  di  una  lunga  vita  umana  ­  dice  ­
rientra  nel  processo  di  evoluzione  di  un'individualità,  è  un  fatto  che  deve  essere  riconosciuto  dalla
società come qualcosa di normale e di inevitabile».

«L'  indissolubilità»  diventa  ancora  più  assurda  se  si  pensa  che  la  maggioranza  dei  matrimoni
legali  avviene  nelle  «tenebre»,  che  le  parti  contraenti  hanno  solo  una  confusissima  idea  l'una
dell'altra.  Non  solo  l'una  non  sa  nulla  della  natura  psicologica  dell'altra,  ma  c'è  di  più:  tutte  e  due
ignorano  se  tra  di  loro  esiste  quella  parentela  fisica,  quella  consonanza  dei  corpi,  senza  la  quale  la
ignorano  se  tra  di  loro  esiste  quella  parentela  fisica,  quella  consonanza  dei  corpi,  senza  la  quale  la
felicità è irrealizzabile. «Le  notti  di  prova  ­  dice  Meisel­Hess  ­  ampiamente  praticate  nel  Medioevo,
sono lontane dall'essere un'assurdità sconveniente; in condizioni sociali diverse, possono avere diritto
di cittadinanza, nell'interesse della razza, per assicurare la felicità degli individui».

L'idea  della  proprietà,  dei  diritti  di  «possesso  assoluto»  degli  sposi  l'uno  sull'altro  è  il  secondo
fattore che avvelena il matrimonio legale. In realtà si giunge al più grande non senso: due esseri, le cui
anime non si sfiorano che in rari punti, sono «costretti» ad adattarsi l'uno all'altro, in tutti gli aspetti
del  loro  molteplice  «io».  L'assolutismo  del  possesso  conduce  a  una  continua  presenza  dell'uno
accanto all'altro, disagevole per tutti e due. Non c'è più «tempo per sé», non c'è più volontà propria, e
spesso, sotto la pressione della dipendenza economica, non c'è più neppure un «cantuccio per sé». La
presenza  costante,  «le  esigenze»  inevitabili  nei  confronti  dell'oggetto  «posseduto»  trasformano  in
indifferenza persino un  amore  ardente,  comportano  attriti  meschini  e  insopportabili.  Infatti,  non  si
può  non  essere  d'accordo  con  Meisel­  Hess  sul  fatto  che  una  vita  in  comune  troppo  ristretta  faccia
perire il delicato fiore primaverile dell'affetto più puro; quanta «precauzione» per l'anima di un altro e
quali  immense  riserve  di  caldo  affetto  non  sono  necessarie  per  poter  sperare  di  cogliere  verso
l'autunno i frutti saporiti di un profondo, indissolubile affetto dell'anima?

I  fattori  dell'indissolubilità  e  della  proprietà  nel  matrimonio  legale  hanno  un  effetto  nocivo
sull'anima  umana,  perché  essi  non  richiedono  che  pochi  sforzi  psichici  per  conservare  l'affetto  del
proprio compagno di vita, legato da catene esterne. L'attuale forma del matrimonio legale impoverisce
l'anima e non contribuisce in alcun modo all'accumulazione nell'umanità delle riserve di quel «grande
amore», che fu la profonda nostalgia di Tolstoj.

Ma  la  psicologia  umana  è  ancora  più  deformata  da  un  altro  aspetto  dell'unione  sessuale:  "la
prostituzione".

«L'atto d'amore abbassato al livello di una professione: che cosa può esserci di più mostruoso?».

Lasciando  da  parte  tutte  le  miserie  sociali  legate  alla  prostituzione,  le  sofferenze  fisiche,  le
malattie, le deformità e la degenerazione della razza, fermiamoci soltanto sul problema dell'influenza
della prostituzione sulla psicologia umana. Nulla inaridisce maggiormente l'anima quanto il vendere
forzatamente e comprare carezze estranee. La prostituzione spegne l'amore nei cuori.

Essa deforma le idee normali degli uomini, impoverisce e avvelena l'anima, toglie loro la cosa più
preziosa:  la  capacità  di  un  sentimento  di  amore  appassionato,  il  quale  espanda  e  arricchisca  la
personalità con l'apporto dei sentimenti vissuti. Essa deforma le nostre nozioni, portandoci a vedere
in  uno  dei  fattori  essenziali  della  vita  umana,  l'atto  d'amore  ­  questo  finale  comporsi  di  molteplici
sensazioni psichiche ­ qualcosa di vergognoso, di basso, di volgarmente bestiale. Il vuoto psicologico
delle sensazioni nella compera delle carezze ha ripercussioni particolarmente infelici sulla psicologia
maschile:  l'uomo  abituato  alla  prostituzione,  dove  mancano  tutti  i  fattori  psicologici  che  nobilitano
con  la  vera  estasi  erotica,  impara  ad  accostarsi  alla  donna  soltanto  con  bisogni  «ridotti»,  con  una
psicologia  semplicistica  e  scolorita.  Abituato  a  carezze  sottomesse  e  forzate,  egli  non  cerca  più  di
comprendere  le  molteplici  sfumature  che  vengono  alla  luce  nell'anima  della  donna;  egli  cessa  di
«ascoltare»  i  suoi  sentimenti  e  di  coglierne  le  sfumature.  Quanti  drammi  femminili  sono  nati  da
questa  psicologia  semplicistica  degli  uomini,  formatasi  nelle  case  di  tolleranza!  La  prostituzione
estende inevitabilmente le sue fosche ali sulla testa della donna «liberamente amata» come su quella
della sposa candidamente innamorata, e perciò intuitiva ed esigente. Essa avvelena implacabilmente
le  gioie  d'amore  delle  donne  che  cercano  nell'atto  sessuale  la  composizione  finale  di  una  passione
armoniosa e onnipotente.

La  donna  normale  cerca  nell'unione  amorosa  la  pienezza  e  l'armonia;  l'uomo  invece,  formato
dalla prostituzione, che sopprime la vibrazione molteplice delle sensazioni amorose, cede solo al  suo
pallido e uniforme desiderio fisico, non lasciando altro, da una parte come dall'altra, che la sensazione
dell'insoddisfazione e della fame psichica. L'incomprensione reciproca aumenta  e  quanto  più  forte  è
dell'insoddisfazione e della fame psichica. L'incomprensione reciproca aumenta  e  quanto  più  forte  è
l'individualità  della  donna,  tanto  più  acuta  è  la  crisi  sessuale.  La  prostituzione  è  pericolosa
precisamente per il fatto che la sua influenza si estende ben al di là del suo campo specifico.

Bisogna  pensare  inoltre  al  fattore  psicologico,  che  offusca  gli  impulsi  morali,  insudiciando  e
deformando  la  coscienza  erotica  e  facendo  sì  che  l'uomo  e  la  donna  si  capiscano  sempre  meno,
sappiano  sempre  meno  amarsi  reciprocamente,  senza  abusare  l'uno  dell'altro;  per  non  parlare  poi
della questione della degenerazione fisiologica dell'umanità, dice Meisel­Hess, delle malattie veneree,
dell'indebolimento fisico della razza.

Ma la terza forma, la libera unione, comporta anch'essa numerosi aspetti oscuri. Le imperfezioni
di questa forma di unione sono caratteri  riflessi:  l'uomo  moderno  introduce  nella  libera  unione  una
psicologia  già  deformata  da  una  morale  falsa,  malsana,  frutto  del  matrimonio  legale  da  una  parte,
dell'abisso  buio  della  prostituzione  dall'altra.  Il  libero  amore  urta  contro  due  ostacoli  inevitabili:
"l'impotenza  in  amore",  che  è  l'essenza  del  nostro  mondo  individualista,  e  la  mancanza  di  tempo
indispensabile a veri godimenti morali.

L'uomo moderno non ha il tempo di «amare».

Una  società  fondata  sul  principio  della  concorrenza,  della  durissima  lotta  per  l'esistenza,
dell'implacabile inseguimento sia di un semplice pezzo di pane, sia del profitto o della carriera, non ha
posto per il culto dell'esigente e delicato Eros.

La povera Aspasia, oggi, attenderebbe invano, sul suo letto cosparso di rose, i «compagni» delle
sue gioie d'amore: certamente ella non acconsentirebbe a dividere il suo letto con un uomo volgare, il
cui  livello  morale  sarebbe  indegno  di  lei,  e un  uomo  «moralmente  nobile»  non  avrebbe  il  tempo  di
passare le proprie serate da Aspasia.

Meisel­Hess  osserva  giustamente  un  fatto  diffuso:  l'uomo  moderno  considera  l'amore­passione
come  la  «massima  disgrazia»  che  possa  capitargli,  come  un  ostacolo  alla  realizzazione  dei  compiti
essenziali:  la  conquista  di  una  posizione,  di  un  capitale,  di  un  posto  sicuro,  della  gloria  eccetera.
L'uomo teme i legami di un amore forte e sincero che potrebbe distrarlo dalla cosa «principale» della
vita. Tuttavia la libera unione, nell'assoluta complicazione della vita circostante, esige un dispendio di
tempo  e  di  forze  morali  infinitamente  maggiori  che  in  un  matrimonio  legale  o  nella  compera  di
carezze fuggitive.

I soli appuntamenti assorbono tante ore preziose per gli «affari»! Migliaia di demoni minacciano
la coppia unita esclusivamente dai legami  dell'amore:  basta  un caso, un  disaccordo  momentaneo  ed
ecco la rottura. Il libero amore, nelle attuali condizioni, si conclude sia con la separazione, sia sotto la
forma del matrimonio legale. L'uomo forte e consapevole, capace di integrare l'amore nell'insieme dei
propri compiti vitali, non è ancora apparso ­ pensa Meisel­Hess. È per questo che gli uomini d'oggi,
assorbiti da faticosi lavori, preferiscono aprire il portafoglio e mantenere un'amante oppure sdebitarsi
con una donna offrendole il proprio «nome», assumendosi il peso di una famiglia legale, piuttosto che
perdere il proprio tempo «prezioso», la propria energia in ore d'amore...

Anche le donne, però, soprattutto quelle che vivono con un lavoro indipendente (e ce ne sono dal
30  al  40%  nei  paesi  civilizzati),  vengono  poste  davanti  al  medesimo  dilemma:  l'amore  o  la
professione?  La  situazione  della  donna  lavoratrice  si  complica  ulteriormente  a  causa  di  un  fattore
supplementare:  la  maternità.  Basta  infatti  ripercorrere  la  biografia  delle  donne  di  valore  per
convincersi  dell'inevitabile  conflitto  tra  l'amore  e  la  maternità  da  una  parte,  la  professione  e  la
vocazione dall'altra. Forse è proprio perché la donna nubile e indipendente depone sulla bilancia della
felicità del libero amore non solo la propria anima ma altresì il lavoro amato, che le sue esigenze nei
confronti  dell'uomo  aumentano;  in  cambio  ella  aspetta  da  lui  un  ampio  compenso,  «il  dono  più
ricco», la sua anima.
La  libera  unione  soffre  per  l'assenza  del  fattore  morale  della  coscienza  del  «dovere  interiore»:
nello stato complicato dei rapporti sociali, non c'è motivo di pensare che questa forma di unione farà
uscire l'umanità dall'impasse della crisi sessuale, come credono gli adepti del libero amore. L'uscita è
possibile  solo  alla  condizione di una fondamentale rieducazione  della  psicologia,  rieducazione  che  è
realizzabile  solo  attraverso  la  trasformazione  dell'intera  base  sociale  che  condiziona  il  contenuto
morale dell'umanità.

Tutte  le  misure  e  le  riforme  nel  campo  della  politica  sociale  indicate  da  Meisel­Hess  non
presentano  nulla  di  essenzialmente  nuovo.  Esse  corrispondono  interamente  alle  rivendicazioni  del
programma  socialista:  indipendenza  economica  della  donna,  vasta  protezione  e  sicurezza  della
maternità  e  dell'infanzia,  lotta  sul  terreno  economico  contro  la  prostituzione,  soppressione  della
nozione stessa di figli legittimi e illegittimi, sostituzione  del  matrimonio  religioso  con  il  matrimonio
civile  facilmente  annullabile,  ricostruzione  dalle  fondamenta  della  società  su  base  comunista.  Il
merito  di  Meisel­Hess  non  consiste  in  queste  rivendicazioni  sociopolitiche,  analoghe  a  quelle  dei
socialisti.  È  molto  più  essenziale  il  fatto  che  nella  sua  attenta  ricerca  della  verità  sessuale  ella  sia
sboccata  inconsapevolmente,  senza  essere  una  socialista  militante,  sull'unica  via  della  possibile
soluzione del problema sessuale. Tutte le riforme sociali ­ condizioni indispensabili di nuovi rapporti
tra i sessi ­ sono incapaci di risolvere la crisi sessuale, se al tempo stesso non cresce una potente forza
creatrice  che  porti  all'aumento  del  «potenziale  d'amore»  nell'umanità.  Meisel­Hess,  grazie  al  suo
talento  penetrante,  è  giunta  intuitivamente  alla  medesima  conclusione.  Ella  ha  capito  che  tutta
l'attenzione della società, riguardo all'educazione e alla formazione spirituale nel campo  dei  rapporti
sessuali,  deve  essere  volta  da  questa  parte.  L'unione  dei  sessi  nel  senso  di  Meisel­Hess  ­  unione
fondata  su  una  profonda  compenetrazione  reciproca,  sull'armoniosa  consonanza  delle  anime  e  dei
corpi  ­  resterà  anche  l'ideale  dell'umanità  futura.  Ma  nel  matrimonio  fondato  su  di  un  «grande
amore»  non  bisogna  dimenticare  che  il  grande  amore  è  un  dono  raro  del  destino,  il  quale  tocca  in
sorte solo a qualche eletto; il potente incantatore, il grande amore che inonda dei suoi raggi luminosi
la nostra vita, tocca solo pochi cuori con la sua bacchetta magica; milioni  di  uomini  non  hanno  mai
conosciuto l'onnipotenza dei suoi incantesimi. Che ne è di questi diseredati? Saranno votati ai freddi
amplessi  del  matrimonio  senza  amore?  Alla  prostituzione?  Verranno  posti  ­  come  nella  presente
società ­ davanti al crudele dilemma: un grande amore o la fame sessuale?

Meisel­Hess  cerca  di  scoprire  un'altra  strada:  laddove  manchi  il  grande  amore,  esso  viene
sostituito  dall'«amore­gioco».  Perché  il  grande  amore  divenga  parte  dell'intera  umanità  bisogna
passare attraverso una difficile ma nobilitante «scuola dell'amore».

L'amore­  gioco  è  anche  una  scuola,  un  mezzo  di  accumulazione,  nella  psicologia  umana,  del
«potenziale d'amore».

Che cos'è dunque questo amore­gioco su cui Meisel­Hess fonda  così  grandi  speranze?  L'amore­


gioco, nelle sue diverse forme, è  stato  presente  in  tutto  il  corso  della  storia  umana.  Nei rapporti tra
l'antica etera e il suo «amico», nell'amore galante tra la cortigiana  dell'epoca  rinascimentale  e  il  suo
«amante­protettore», nell'amicizia erotica tra la "grisette", libera e incosciente come l'uccello, e il suo
«compagno» ­ lo studente ­ è facile ritrovare gli elementi principali di questo sentimento. Non è l'Eros
travolgente,  dal  volto  tragico,  il  quale  esige  il  possesso,  pieno  e  assoluto,  ma  non  è  neppure  la
sessualità  brutale,  ridotta  all'atto  fisiologico.  L'amore,  nei  limiti  di  una  psicofisiologia  semplicistica,
non sarebbe l'amore­gioco quale lo dipinge Meisel­Hess.

L'amore­gioco  è  esigente:  esseri  che  si  avvicinino  unicamente  sulla  base  di  una  simpatia
reciproca,  che  si  aspettano  l'uno  dall'altro  soltanto  i  sorrisi  della  vita,  non  permetterebbero  che  si
torturasse impunemente la loro anima, non  ammetterebbero  che  si  trascurasse  la  loro personalità o
che si ignorasse il loro mondo interiore. L'amore­ gioco, che esige un atteggiamento molto più attento,
delicato,  meditato,  dell'uno  nei  confronti  dell'altro,  farebbe  disimparare  gradualmente  agli  uomini
l'egoismo senza fondo che oggi è il marchio di tutti i sentimenti d'amore. «Un atteggiamento attento
dell'uno nei confronti dell'altro, mentre stimola i sentimenti di simpatia sviluppa pure l'intuizione, la
sensibilità,  la  delicatezza».  In  terzo  luogo  l'amore­gioco,  non  partendo  dal  principio  del  possesso
sensibilità,  la  delicatezza».  In  terzo  luogo  l'amore­gioco,  non  partendo  dal  principio  del  possesso
assoluto, abitua gli uomini a dare solo quella parte del loro «io» che non è di peso all'altra, ma che, al
contrario, contribuisce a rendere più luminosa la vita.

Questo  inizierebbe  gli  uomini,  pensa  Meisel­Hess,  a  una  verginità  superiore:  non  darsi
completamente che in presenza della profondità e della costanza del sentimento. Attualmente siamo
tutti troppo inclini, «fin dal primo bacio», ad attentare  all'intera  personalità  dell'altro,  a  caricarla  di
«tutto» il nostro  cuore,  nel  momento  in  cui  quell'altro  non  ne  prova  ancora  alcun  bisogno.  Bisogna
ricordarsi che solo il sacramento del grande amore dà dei «diritti».

L'amore­gioco,  o  l'amicizia  erotica,  ha  ancora  altri  vantaggi:  preserva  dalle  caratteristiche
micidiali  dell'amore,  insegna  agli  uomini  a  resistere  alla  passione  che  asserve  e  che  schiaccia
l'individuo.  Contribuisce  più  di  ogni  altra  forma  d'amore  alla  conservazione  dell'individuo,  dice
Meisel­Hess. L'atto orribile, che chiamiamo penetrazione violenta nell'«io» altrui, in questo caso non
ha luogo. «L'amore­gioco esclude il massimo peccato: la perdita della propria personalità tra  i  flussi
della  passione.  L'umanità  contemporanea  vive  sotto  il  segno  fosco  della  passione,  sempre  avida  di
inghiottire l'altro 'io'». Rispondendo alle pretese amorose, che le venivano rivolte  dall'abitante  della
Terra, un'abitante di Marte (romanzo di Lasswitz) dice: «Bisognerebbe che io cadessi dal gioco  alato
dei sentimenti sotto il potere della passione che rende schiavi: perdere la mia libertà e scendere con te
sulla Terra. [...] La vostra Terra è forse più grande e più bella, ma io morirei nella sua greve atmosfera.
Pesanti come la vostra aria sono i vostri cuori. E io, io sono solo Numa».

La  nostra  epoca  si  distingue  per  l'assenza  dell'«arte  di  amare».  Gli  uomini  ignorano
assolutamente l'arte di intrattenere relazioni limpide, luminose, ariose; non conoscono tutto il valore
dell'amicizia  amorosa.  L'amore  è  una  tragedia  che  strazia  l'anima  oppure  un  banale  "vaudeville".
Bisogna  far  uscire  l'umanità  da  questa  impasse,  bisogna  abituare  gli  uomini  a  vivere  ore  belle,
luminose,  senza  pesanti  preoccupazioni.  Soltanto  dopo  essere  passata  attraverso  la  scuola
dell'amicizia amorosa, la psicologia dell'uomo sarà adatta ad accogliere il grande amore, purificato dai
suoi  aspetti  foschi.  Ogni  amore  (naturalmente  non  si  tratta  dell'atto  fisiologico  brutale)  non
impoverisce  ma  al  contrario  arricchisce  l'anima  umana.  Un  cuore  umano  sano  e  ricco,  dice  Meisel­
Hess, capace di amare non è un pezzo di pane che diminuisce man mano che lo si mangia. «L'amore è
una  forza  che  cresce  man  mano  che  la  si  consuma.  Amare  sempre  più  profondamente,  sempre  più
spesso, con sempre maggiore abnegazione: tale è il cammino ardente di ogni grande cuore». L'amore
è di per sé una grande forza creatrice; esso espande e arricchisce l'anima di chi lo prova come quella di
chi l'ispira.

Senza  l'amore  l'umanità  si  sentirebbe  derubata,  diseredata,  miserabile.  Senza  alcun  dubbio
l'amore sarà il culto dell'umanità futura. Già oggi l'uomo, per lottare, per vivere, per lavorare e creare
ha bisogno di sentirsi «affermato», «riconosciuto». Chi si sente amato si sente anche riconosciuto. Da
questa consapevolezza nasce la suprema gioia di vivere. Ma proprio questo riconoscimento dell'«io» e
questa  vittoria  sul  fantasma  che  perpetuamente  minaccia  di  brutale  solitudine,  si  ottengono  solo
tramite  la  brutale  soddisfazione  del  desiderio  psicologico.  «Soltanto  il  sentimento  di  un'armonia
piena  con  l'essere  amato  può  estinguere  questa  sete».  Solo  il  grande  amore  offre  la  soddisfazione
piena.  Tanto  più  acuta  è  la  crisi  amorosa,  quanto  minori  sono  le  riserve  di  potenziale  d'amore
nell'anima  umana,  quanto  più  limitati  sono  i  legami  sociali,  quanto  più  povera  di  sentimenti  di
solidarietà è la psicologia umana.

Accrescere quel potenziale d'amore, educare, preparare la psicologia umana a ricevere il grande
amore: tale è il compito che compete all'amicizia amorosa.

L'amore­gioco,  evidentemente,  è  solo  un  sostituto  del  grande  amore,  «insufficiente»  diranno
taluni. In questo caso, risponde Meisel­Hess, gettino intorno a loro uno sguardo e vedano da che cosa
è sostituito oggi l'amore: dalla prostituzione travestita da grande amore! Quale ipocrisia senza fondo,
quale riserva di menzogne sessuali s'accumula su questo terreno! Prendiamo un esempio tratto a caso
dalla vita. Due fidanzati sono posseduti da un medesimo desiderio, ma la severa morale grida: «Non
dalla vita. Due fidanzati sono posseduti da un medesimo desiderio, ma la severa morale grida: «Non
ancora!». Allora il fidanzato va dalla prostituta, che non desidera affatto le sue carezze  ma  che  deve
darsi  a  lui  mentre  la  fidanzata,  che  lo  ama,  è  costretta  ad  aspettare  l'autorizzazione  legale.  Quanto
sarebbe  più  naturale  e  "morale"  se  questi  due  esseri,  spinti  dal  medesimo  desiderio,  cercassero
soddisfazione  l'uno  nell'altro  invece  di  votare  al  servizio  della  loro  carne  una  terza  persona,
completamente  estranea  a  questa  situazione.  Oltre  a  fondamentali  elementi  economico­sociali,  la
prostituzione comporta un fattore psicologico che la determina, profondamente  impresso  nell'anima
umana: la soddisfazione del bisogno erotico senza la necessità di pagarla con la libertà della propria
anima,  del  proprio  futuro,  senza  dover  mettere  ai  piedi  dell'essere  interiormente  estraneo  tutto  il
proprio  «io».  Bisogna  lasciar  passare  questo  istinto  naturale.  Non  si  può  gettare  al  collo  di  ogni
innamorato maldestro la briglia del matrimonio. L'amore­gioco indica la strada cercata. «Se si vuole
essere  sinceri,  se  si  rifiuta  l'ipocrisia  della  morale  e  la  menzogna  sessuale,  non  c'è  alcun  motivo  di
negare la possibilità di tale esito per l'umanità, situata a un grado superiore dell'evoluzione culturale»,
dice Meisel­Hess. Infatti, alla presenza di una serie di riforme sociali (Meisel­Hess le sottolinea come
la  condizione  indispensabile  di  tutte  le  sue  conclusioni  morali),  che  c'è  di  criminale  nel  fatto  che
l'estasi erotica getti due esseri l'uno nelle braccia dell'altro?

Infine,  i  limiti  dell'amicizia  erotica  sono  molto  elastici.  È  possibilissimo  che  due  esseri,  che  si
siano avvicinati sulla base di una attrazione, di una libera simpatia, si «trovino» l'un l'altro: che dal
gioco nasca  un grande amore. Si  tratta  solo  di  creare  per  esso  le  possibilità oggettive. Quali  sono  le
conclusioni e le rivendicazioni pratiche di Meisel­Hess? Assolutamente in primo luogo, la società deve
imparare a riconoscere tutte le forme di unione tra i sessi, quali che siano i contorni insoliti che esse
possano presentare, a due condizioni: che esse non nuocciano alla razza e non siano determinate dal
giogo del fattore economico.

L'ideale resta l'unione monogamica, fondata su un grande amore,  ma  non  «invariabile»  e  fissa.


Più  è  molteplice  la  psicologia  di  un  uomo,  più  è  inevitabile  il  cambiamento.  Il  «concubinato»  o  la
«monogamia succedentesi»: tale è la forma fondamentale del matrimonio. Ma, accanto, c'è un'intera
gamma di aspetti differenti di unione amorosa, nei limiti dell'amicizia erotica.

La seconda esigenza è il riconoscimento, non solo a parole ma nei fatti, del carattere sacro della
maternità.  La  società  ha  l'obbligo  di  costruire  sulla  strada  della  vita  della  donna,  in  tutte  le  forme
possibili,  dei  «posti  di  pronto  soccorso»  allo  scopo  di  sostenerla  moralmente  e  materialmente  nel
periodo più pesante della sua vita.

Infine,  perché  dei  rapporti  più  liberi  non  comportino  per  la  donna  «lo  spavento  del  crollo»,  è
indispensabile rivedere  tutto  il  bagaglio  morale  di  cui  si  fornisce  la  ragazza  che  si  affaccia  alla  vita.
Tutta l'educazione contemporanea della donna tende a rinchiudere la sua vita nei sentimenti d'amore.

Di qui i «cuori spezzati», le figure di donne disperate,  abbattute  dalla  prima  tempesta.  Bisogna


aprire dinanzi alla donna le ampie porte della vita molteplice, indurire il suo  cuore,  temprare  la  sua
volontà. È tempo di insegnare alla donna a considerare l'amore solo come un gradino, come un mezzo
per  rivelare  il  suo  «io»  e  non  come  la  base  della  sua  vita.  Che  apprenda  anche  lei,  come  l'uomo,  a
uscire da un conflitto d'amore senza le ali spiegazzate, ma con l'anima più forte.

«Saper respingere il passato al momento opportuno e accogliere la vita come se fossimo appena
nati»: era la massima di Goethe. Già risplende la luce, già si delineano tipi femminili nuovi, le «donne
nubili», per  le  quali  i  tesori  della  vita  non  si  limitano  all'amore.  Sul  terreno  dei  sentimenti  d'amore
esse  non  permettono  ai  flutti  della  passione  di  dirigere  la  loro  barca:  il  timone  è  nelle  mani  di  un
pilota esperto, la loro volontà si tempra nella lotta della vita. L'esclamazione: «Ha un passato!» viene
parafrasata dalla donna nubile: «Non ha un passato! Che strano destino!».

Certamente, queste donne non saranno così presto un fatto normale, non sarà certo domani che
comincerà la nuova era sessuale, frutto di una più perfetta organizzazione sociale, e l'opprimente crisi
sessuale non si risolverà d'un sol colpo, cedendo il posto alla morale del futuro, la strada però è stata
sessuale non si risolverà d'un sol colpo, cedendo il posto alla morale del futuro, la strada però è stata
trovata: in lontananza risplende, spalancata, la porta desiderata. Il libro di Meisel­Hess ci offre il filo
di  Arianna  nel  complesso  labirinto  dei  rapporti  sessuali  e  dei  drammi  psicologici.  Non  resta  che
mettere in corrispondenza le sue conclusioni con i  compiti  essenziali  della  classe  in  ascesa,  rifiutare
alcuni dettagli, eliminare delle piccole inesattezze e tentare di distinguere anche su questo terreno ­ il
terreno dei rapporti tra i sessi, della psicologia dell'amore ­ i germi della nuova cultura in marcia, il
cui trionfo è inevitabile: "la cultura proletaria".  

RAPPORTI TRA I SESSI E LOTTA DI CLASSE
 

Tra i molteplici problemi che turbano oggi l'intelligenza ed il cuore dell'umanità, uno dei primi in
ordine di importanza è senza dubbio quello sessuale. Non vi sono paesi, né popoli, esclusi i leggendari
«insulari»,  nei  quali  la  questione  sessuale  non  abbia  assunto  un  carattere  sempre  più  scottante  e
doloroso. L'umanità odierna attraversa una crisi sessuale non solo acuta nelle sue forme, ma (il che è
molto peggio e forse maggiormente pericoloso) che si prolunga nel tempo.

Forse,  lungo  tutto  l'arco  della  storia  dell'umanità  non  si  troverà  un'epoca  in  cui  i  problemi
sessuali abbiano rivestito nella vita sociale un ruolo così centrale, in cui i rapporti tra i sessi abbiano
catalizzato  su  di  sé,  come  per  magia,  gli  sguardi  tormentati  di  milioni  di  uomini,  in  cui  i  drammi
sessuali  abbiano  costituito  a  tal  punto  una  fonte  inestinguibile  d'ispirazione  per  i  rappresentanti  di
tutti i generi e di tutte le forme d'arte.

Quanto  più  la  crisi  si  prolunga,  quanto  più  assume  carattere  cronico,  tanto  più  la  presente
situazione sembra senza sbocchi e tanto più ardentemente l'umanità si getta su tutti i possibili mezzi
di risoluzione di questa «dannata questione». Ma, ad ogni nuovo tentativo, la complessa matassa dei
rapporti  sessuali  non  fa  che  aggrovigliarsi  ulteriormente  e  sembra  che  il  filo,  grazie  al  quale  si
riuscirebbe a sciogliere il nodo ostinato, resti invisibile. L'umanità spaventata oscilla disperatamente
tra un estremo e l'altro ma il cerchio magico della questione sessuale resta sempre chiuso.

«Occorre  tornare  ai  vecchi  tempi,  ristabilire  le  antiche  norme  familiari,  rinforzare  le  regole
tradizionali  della  morale»,  decide  la  parte  conservatrice  dell'umanità.  «Occorre  distruggere  tutte  le
ipocrite  difese  dell'antiquato  codice  della  morale  sessuale;  è  giunta  l'ora  di  gettare  alle  ortiche
quest'anticaglia  inutile  e  fastidiosa  [...].  La  coscienza  individuale,  la  volontà  individuale  di  ognuno,
ecco  l'unico  legislatore  in  questa  sfera  intima»,  si  sente  dire  da  parte  dell'individualismo  borghese.
«La  soluzione  dei  problemi  sessuali  si  avrà  con  l'istituzione  di  un  ordine  economico  e  sociale
totalmente  riformato»,  assicurano  i  socialisti;  ma  questo  rinviare  al  futuro  non  indica  forse  che
neppure noi abbiamo in mano il filo conduttore?

Esiste  la  possibilità  di  scoprire  già  oggi  o  almeno  di  indicare,  il  filo  magico  che  permetta  di
sciogliere il nodo?

Il  metodo  per  affrontare  questa  ricerca  ci  è  dato  dalla  storia  stessa  della  società  umana,  storia
della ininterrotta lotta di classi e di gruppi sociali diversi, opposti gli uni agli altri dai loro interessi e
dalle loro tendenze. Non è la prima volta che l'umanità attraversa un periodo di crisi sessuale  acuta;
non è la prima volta che la precisione e la chiarezza dei precetti morali correnti nel campo dell'unione
sessuale vengono meno sotto il frangersi dell'ondata di nuovi ideali morali. L'umanità ha vissuto una
crisi sessuale particolarmente acuta all'epoca del Rinascimento e della Riforma, nel momento  in  cui
un  imponente  spostamento  sociale  fece  indietreggiare  l'aristocrazia  feudale,  fiera  della  sua  nobiltà,
abituata  al  dominio  incontrastato,  e  spianò  il  terreno  all'avvento  di  una  nuova  potenza  sociale,
crescente  in  numero  ed  in  forze:  la  borghesia  in  ascesa.  Il  codice  della  morale  sessuale  del  mondo
crescente  in  numero  ed  in  forze:  la  borghesia  in  ascesa.  Il  codice  della  morale  sessuale  del  mondo
feudale, nato dal seno della vita aristocratica, con la sua economia comune, i suoi autoritari principi di
casta,  si  trovò  di  fronte  il  nuovo,  avverso  codice  della  morale  sessuale  della  classe  borghese  in
formazione.  La  morale  sessuale  della  borghesia  discendeva  da  principi  radicalmente  opposti  ai
principi  morali  essenziali  del  codice  feudale;  invece  del  principio  di  casta,  appariva  una  severa
"individualizzazione", i limiti chiusi della famiglia nucleare; al  posto  del  fattore di  «collaborazione»,
caratteristico  tanto  dell'economia  comune  quanto  dell'economia  regionale,  appariva  quello  della
"concorrenza".  Le  ultime  vestigia  delle  idee  comuniste,  proprie  a  livelli  diversi  di  tutte  le  tappe
evolutive  della  vita  di  casta,  furono  travolte  dal  principio  trionfante  della  "proprietà  privata"
individualizzata,  isolata.  L'umanità  disorientata  oscillò  per  secoli  tra  i  due  codici  sessuali,  così
differenti  nello  spirito  informatore,  cercando  di  adattarsi  alla  situazione,  fino  al  momento  in  cui  la
complessa fucina della vita non ebbe fuso le norme antiche  nello  stampo  nuovo  e  raggiunto  almeno
un'armonia di forme.

Ma, in quest'epoca di sconvolgimenti, vivace e policroma, la crisi sessuale, malgrado tutta la sua
acutezza, non presentava il carattere minaccioso che ha assunto oggi. La causa è da ricercarsi nel fatto
che nei grandi giorni del Rinascimento, in  questo  secolo  nuovo  in cui i luminosi  raggi  di  una  nuova
cultura spirituale riempirono di vivi colori la vita povera di contenuti del mondo medievale in agonia,
solo una parte relativamente ristretta della società risentiva della crisi della morale sessuale. Lo strato
quantitativamente più esteso della popolazione del tempo, il mondo contadino, non ne veniva toccato
che  indirettamente,  solamente  nella  misura  in  cui,  attraverso  un  lento  processo  secolare,  la
trasformazione delle basi economiche avveniva anche lì, nella misura in cui cioè i rapporti economici
si evolvevano.

Ai vertici più alti della scala sociale, al contrario, s'ingaggiava una dura lotta tra due mondi sociali
dalle  tendenze  opposte;  lì,  gli  ideali  e  le  norme  delle  due  concezioni  avverse  lottavano;  lì,  la  crisi
sessuale  crescente  e  minacciosa  mieteva  le  sue  vittime.  Il  mondo  contadino,  ostile  alle  innovazioni,
dalla  base  stabile,  continuava  a  essere  attaccato  saldamente  ai  collaudati  pilastri  delle  tradizioni
ancestrali, modificando, diluendo ed adattando alle innovate condizioni della propria vita economica
il  codice  fisso  della  morale  sessuale  tradizionale.  La  crisi  sessuale,  nell'epoca  della  dura  lotta  tra
mondo borghese e mondo feudale, non toccava lo «strato tributario» e quanto più le vecchie forme si
spezzavano  ai  vertici,  tanto  più  solidamente,  in  apparenza,  il  mondo  contadino  restava  legato  alle
proprie  tradizioni  ancestrali.  Malgrado  le  tempeste  che  passavano  sulla  loro  testa  e  scuotevano  il
suolo  anche  sotto  i  loro  piedi,  i  contadini  ed  in  particolar  modo  i  contadini  russi,  riuscirono  a
conservare,  per  secoli  interi,  i  principi  essenziali  del  loro  codice  di  morale  sessuale  allo  stato
primitivo.

Il  quadro  di  oggi  è  ben  diverso.  Questa  volta  la  crisi  sessuale  non  risparmia  neppure  il  mondo
contadino.  Come  una  malattia  infettiva,  non  riconoscendo  «né  gradi  né  rango»,  essa  si  sposta  dai
palazzi e dalle ville ai popolosi quartieri operai, penetra nelle placide abitazioni borghesi, si fa strada
nel solitario villaggio russo, scegliendo le sue prede tanto nella villa del borghese europeo quanto nelle
cantine  umide  della  famiglia  operaia  e  nella  capanna  piena  di  fieno  del  contadino.  Contro  la  crisi
sessuale,  non  vi  sono  «né  difese,  né  catenacci».  Sarebbe  un  grave  errore  ritenere  che  solo  i
rappresentanti degli strati sociali dall'esistenza materialmente sicura ne siano colpiti. I vaghi disordini
della  crisi  sessuale  varcano  sempre  più  di  frequente  la  soglia  delle  abitazioni  operaie,  creandovi
drammi  che  per  la  loro  dolorosa  acutezza non sono  certo  inferiori  ai  conflitti  psicologici  del  mondo
raffinato della borghesia.

Ma proprio  perché  la  crisi  sessuale  non  tocca  solamente  gli  interessi  dei «possidenti», perché  i
problemi  sessuali  investono  allo  stesso  modo  uno  strato  sociale  così  considerevole  come  l'odierno
proletariato, è  incomprensibile  e  imperdonabile  che  questa  essenziale  e  dolorosa  questione  incontri
una simile indifferenza. Tra i molteplici e numerosi compiti che incombono alla classe operaia nella
sua offensiva per costruire l'avvenire si trova anche, senza alcun dubbio, il compito dell'edificazione di
più sani e più felici rapporti tra i sessi.
Da  dove  viene  la  nostra  imperdonabile  indifferenza  nei  confronti  di  uno  dei  compiti  essenziali
della  classe  operaia?  Come  spiegarsi  l'ipocrita  collocazione  del  problema  sessuale  nel  cassetto  degli
«affari di famiglia», sottratto alla  necessita  di  uno  sforzo  collettivo?  Come  se  i  rapporti  tra  i  sessi  e
l'elaborazione di un nuovo codice morale regolatore di questi rapporti non apparissero in tutto il corso
della storia come fattori invariabili della lotta sociale; come se i rapporti tra i sessi, nell'ambito di un
gruppo  sociale  determinato,  non  avessero  un'influenza  fondamentale  sull'esito  della  lotta  tra  classi
sociali antagoniste.

Il  dramma  dell'umanità  odierna  consiste  non  solo  nel  fatto  che,  davanti  ai  nostri  occhi,  si
spezzano le usuali forme di unione tra i sessi ed i principi che le regolano, ma anche nel fatto che dai
bassifondi  della  società  esalano  i  freschi  profumi  sconosciuti  di  una  nuova  forma  di  vita,  che
riempiono  l'animo  umano  di  desiderio  di  ideali  futuri,  ancora  irrealizzabili  al  giorno  d'oggi.  Noi,
uomini di un secolo caratterizzato dalla proprietà capitalistica, di un secolo di aspre lotte di classe e di
morale individualistica, viviamo e pensiamo ancora sotto il funesto segno di un'inevitabile solitudine
morale.  Questa  solitudine  in  mezzo  ad  immense  città  popolose,  tentatrici  e  rumorose,  questa
solitudine,  anche  tra  amici  e  compagni,  conduce  l'uomo  d'oggi  ad  aggrapparsi  con  malsana  avidità
all'illusione  dell'«anima  gemella»,  dell'anima  appartenente  ad  un  essere  dell'altro  sesso,  in  quanto
solo  l'amore  possiede  il  magico  potere  di  scacciare,  almeno  per  un  certo  periodo,  le  tenebre  della
solitudine.

Mai forse, in nessuna epoca, la solitudine morale è stata avvertita con una così dolorosa acutezza
e  una  tale  persistenza  come  oggi.  È  impossibile  che  sia  altrimenti.  La  notte  sembra  molto  più
impenetrabile  quando  un  lumicino  brilla  in  lontananza.  E  davanti  agli  occhi  degli  individualisti
contemporanei che sono ancora labilmente legati alla collettività, ad altri individui, brilla una nuova
luce: la trasformazione dei rapporti tra i sessi in cui il fattore cieco, fisiologico, cede il passo al fattore
creatore: la solidarietà tra compagni.

La  morale  della  proprietà  individualistica  odierna  comincia  a  sembrare  particolarmente


soffocante.  Nella  sua  critica  dei  rapporti  sessuali,  l'uomo  moderno  giunge  molto  più  lontano  della
semplice  negazione  delle  antiquate  forme  esteriori  e  del  codice  della  morale  corrente.  Il  suo  animo
solitario cerca la rigenerazione dell'essenza stessa di questi rapporti, desidera ardentemente il grande
amore,  forza  calda  e  creatrice  che  sola  ha  il  potere  di  scacciare  il  freddo  fantasma  della  solitudine
morale che tormenta gli individualisti contemporanei. Se la crisi sessuale è per tre quarti condizionata
da rapporti esterni di natura socioeconomica, un quarto della sua  gravità  è  sicuramente  dovuto  alla
nostra  raffinata  psicologia  individualistica,  coltivata  con  tanta  cura  dall'ideologia  borghese
dominante.

L' umanità contemporanea è effettivamente, come dice la scrittrice  tedesca  Meisel­Hess,  povera


in  «potenziale  d'amore».  I  rappresentanti  dei  due  sessi  si  cercano  vicendevolmente,  ciascuno  nel
desiderio di ricevere "dall'altro, tramite l'altro", la maggior  parte  di  godimenti  spirituali  e  fisici  solo
"per se stesso". L'amante o il fidanzato si curano molto poco dei sentimenti, del travaglio in atto nella
donna amata.

Il  grezzo  individualismo  che  contraddistingue  il  nostro  secolo  si  esprime  molto  chiaramente
nell'ambito dei rapporti tra i sessi, come forse in nessun altro settore. L'uomo, fuggendo la solitudine
morale,  crede  candidamente  che  sia  sufficiente  amare,  rivendicare  i  propri  "diritti  su"  di  un'altra
anima,  per  riscaldarsi  nei  raggi  di  una  rara  felicità,  l'affinità  morale  e  la  comprensione.  Noi,
individualisti, dall'animo reso grossolano  dal  costante  culto  del  nostro  «io»,  crediamo  di  cogliere  la
felicità  totale,  il  grande  amore  in  noi  e  nei  nostri  simili,  senza  dare  in  cambio  i  tesori  della  nostra
anima!

Pretendiamo sempre la totalità indivisa dell'essere amato, e noi stessi siamo incapaci di rispettare
la più elementare norma dell'amore: avvicinare l'animo altrui con il massimo rispetto. Questa norma
ci sarà gradualmente inculcata dai nuovi rapporti che già si delineano tra  i  sessi,  rapporti fondati su
ci sarà gradualmente inculcata dai nuovi rapporti che già si delineano tra  i  sessi,  rapporti fondati su
due  nuovi  principi:  piena  libertà,  uguaglianza  e  autentica  solidarietà  tra  compagni.  Ma,  per  il
momento, l'umanità sente ancora il gelo della solitudine morale e non può che sognare questo secolo
migliore,  in  cui  tutti  i  rapporti  umani  saranno  penetrati  da  sentimenti  di  solidarietà,  generati  da
nuove  condizioni  di  vita.  La  crisi  sessuale  è  irresolubile  senza  una  riforma  fondamentale  della
psicologia  umana,  senza  l'accrescimento  del  «potenziale  d'amore».  Ma  questa  riforma  della  psiche
dipende interamente dalla riorganizzazione fondamentale dei nostri rapporti socioeconomici  su  basi
comuniste. Al di fuori di questa «vecchia verità», non c'è via d'uscita.

Infatti,  malgrado  tutte  le  forme  di  unione  tentate  dall'umanità  odierna,  la  crisi  sessuale  non  si
attenua minimamente. La storia non ha mai conosciuto una simile molteplicità di forme di unione: il
matrimonio indissolubile con la famiglia stabile e, accanto, la libera unione passeggera; l'adulterio in
segreto  nel  matrimonio  e  la  vita  in  comune  della  giovane  con  il  suo  amante,  il  matrimonio
«selvaggio», il matrimonio a due ed il matrimonio a tre, e anche la forma complicata del matrimonio a
quattro,  per  non  parlare  delle  molteplici  varianti  della  prostituzione.  E  l'una  accanto  all'altra,  nel
contadino e nel piccolo borghese, troviamo (residui dei vecchi costumi di casta mescolati ai principi in
decomposizione  della  famiglia  borghese  individualistica)  la  vergogna  dell'adulterio  e  la  vita
matrimoniale tra il suocero e la propria nuora, la libertà per la giovanetta, e sempre la stessa «doppia
morale».

Le forme attuali di unione sono contraddittorie e problematiche, e non possiamo fare a meno di
chiederci  come  l'uomo,  che  ha  conservato  nel  suo  intimo  la  fede  nella  fermezza dei  principi  morali,
riesca  a  ritrovarsi  in  queste  contraddizioni  e  a  destreggiarsi  fra  tutti  questi  precetti  i  morali
inconciliabili che si distruggono l'un l'altro. Persino la solita giustificazione:  «Vivo  secondo  la  nuova
morale» non regge, in quanto questa «nuova morale» si trova ancora nella sua fase di formazione. Il
compito consiste precisamente nel mettere infine in evidenza questa morale in embrione, nel cogliere,
nel  caos  delle  contraddittorie  norme  sessuali  odierne,  i  contorni  dei  principi  corrispondenti  allo
spirito della classe rivoluzionaria in ascesa.

Oltre che  a  causa  del  difetto  fondamentale  della  psicologia  attuale  (l'estremo  individualismo,  il
culto dell'egocentrismo), la crisi sessuale si aggrava ulteriormente per la presenza di due altri fattori
tipici della psicologia contemporanea: l'idea dei diritti di "proprietà" di un essere sull'altro e il secolare
pregiudizio circa l'ineguaglianza dei sessi in tutte le sfere della vita, compresa la sfera sessuale. L

'idea della proprietà inviolabile degli sposi è stata accuratamente coltivata dal codice morale della
classe  borghese,  con  il  suo  ideale  di  famiglia  individualistica  ripiegata  su  se  stessa,  interamente
costruita sulle basi della proprietà privata. Nell'inoculazione di quest'idea nella psicologia umana,  la
borghesia  ha  raggiunto  la  perfezione.  La  concezione  della  proprietà  nel  matrimonio  è  attualmente
molto più estesa di quanto non fosse nel codice aristocratico dei rapporti sessuali. Nel corso del lungo
periodo storico svoltosi sotto il segno del principio di casta, l'idea del possesso della donna da parte
del marito (la donna, da parte sua, non aveva diritti assoluti di proprietà sul marito) non si estendeva
al  di  là  del  mero  possesso  fisico.  La  sposa  doveva  essere  fisicamente  fedele  al  marito,  mentre  il  suo
animo le apparteneva ancora.

Anche i signori riconoscevano alle loro spose il diritto di avere degli amanti platonici e di ricevere
l'«adorazione» dei cavalieri e dei menestrelli. L'ideale del possesso assoluto, non solo dell'«io» fisico,
ma  anche  dell'«io»  spirituale  di  uno  sposo,  l'ideale  che  ammette  una  rivendicazione  di  diritti  di
proprietà  sul  mondo  spirituale  e  morale  dell'essere  amato,  è  un  ideale  che  è  stato  interamente
formato,  coltivato  dalla  classe  borghese  allo  scopo  di  rinforzare  le  fondamenta  familiari  che
assicuravano la sua stabilità e la sua forza durante il periodo di lotta per l'egemonia sociale. E non solo
abbiamo  ereditato  quest'ideale,  ma  siamo  persino  pronti  a  considerarlo  un  «assoluto»  morale
incrollabile!

L'idea  della  proprietà  si  estende  ben  di  là  dei  confini  del  matrimonio  legale;  essa  è  un  fattore
inevitabile, che si insinua persino nell'unione amorosa più «libera». Gli attuali amanti dei due sessi,
inevitabile, che si insinua persino nell'unione amorosa più «libera». Gli attuali amanti dei due sessi,
malgrado  tutto  il  loro  rispetto  «teorico»  della  libertà,  non  si  contenterebbero  minimamente  della
mera  fedeltà  fisiologica  della  persona  amata.  Per  scacciare  da  noi  il  fantasma  minaccioso  della
solitudine,  penetriamo  brutalmente,  con  una  crudeltà  ed  un'indelicatezza  che  saranno
incomprensibili  all'umanità  futura,  nell'animo  dell'essere  amato  e  rivendichiamo  i  nostri  diritti  sul
suo più segreto «io» interiore. L'amante contemporaneo perdonerà con molta più facilità un'infedeltà
fisica  che  non  una  morale,  e  ogni  particella  d'animo,  prodigata  al  di  là  dei  limiti  della  "sua"  libera
unione,  gli  appare  come  un  furto  imperdonabile,  commesso  ai  suoi  danni,  dei  tesori  di  cui  è  unico
proprietario.

Per  non  parlare  poi  dell'ingenua  e  costante  indelicatezza,  a  questo  proposito,  degli  amanti  nei
confronti di un terzo! Ciascuno di noi ha senza dubbio potuto osservare un fatto curioso: due amanti,
che  hanno  appena  avuto  il  tempo  di  conoscersi  passabilmente  l'un  l'altro,  si  affrettano  ognuno  a
stabilire i propri diritti sulle relazioni personali antecedenti dell'altro, ad intervenire nella sua vita più
intima, più sacra. Due esseri, estranei fino a ieri, legati unicamente da sensazioni erotiche comuni, si
affrettano a mettere le mani sull'animo dell'altro, a  disporre  di  quest'animo  sconosciuto,  misterioso,
in cui il passato ha scolpito immagini incancellabili, a stabilirvisi infine come a casa propria.

L'idea del possesso reciproco da parte dei componenti della coppia è così estesa che non siamo
quasi  più  colpiti  da  fatti  anomali  come  questo:  due  giovani  sposi  vivevano  fino  a  ieri  ciascuno  la
propria  vita;  oggi,  ognuno  di  loro  apre  senza  scrupoli la  corrispondenza  dell'altro,  e  le  lettere  di  un
terzo, vicino solo ad uno dei coniugi, divengono così di proprietà comune. Una simile «intimità» non
può essere acquisita che al prezzo di una vera e propria unione di anime nel corso di una lunga vita di
comune amicizia  a  tutta  prova.  Ma,  in  genere,  ciò  che  avviene  è  la  più  sleale  sostituzione  di  questa
intimità, una sostituzione prodotta dall'idea erronea che l'intimità fisica tra due esseri sia una ragione
sufficiente per estendere il diritto di proprietà anche sull'essere morale.

Il  secondo  fattore  che  deforma  la  mentalità  dell'uomo  contemporaneo  e  che  accresce  la  crisi
sessuale è la concezione dell'ineguaglianza dei sessi,  ineguaglianza  dei  loro  diritti,  ineguaglianza del
valore  delle  loro  sensazioni  psico­fisiologiche.  La  doppia  morale,  propria  del  codice  borghese  e  di
quello aristocratico, ha così avvelenato da tanti secoli la psicologia degli uomini e delle donne  che  è
ancora  più  difficile  sbarazzarsi  del  suo  veleno  che  delle  idee  ereditate  dall'ideologia  borghese  a
proposito della proprietà degli sposi.

La  concezione  dell'ineguaglianza  dei  sessi,  anche  nel  campo  della  psico­fisiologia,  obbliga
costantemente  a  usare  misure  diverse  per  un  atto  identico,  a  seconda  del  sesso  che  lo  compie.  E
persino  l'uomo  «più  evoluto»  della  classe  borghese,  che  ha  superato  da  molto  tempo  i  precetti  del
codice della morale corrente, potrà agevolmente constatare che su questo punto egli mette un diverso
giudizio, a seconda che si tratti della condotta di un uomo o di una donna. Un  esempio  brutale  sarà
sufficiente: immaginate che un intellettuale borghese, uno scienziato, un politico, un uomo che svolge
una  rilevante  attività  sociale,  in  una  parola  una  «personalità»,  si  leghi  con  la  sua  cameriera  (fatto
abbastanza comune) e giunga fino a sposarsi  con  lei.  Questo  fatto  modificherà  l'atteggiamento  della
società borghese nei confronti della «personalità» in questione,  getterà  forse  la  minima  ombra  sulle
sue qualità morali? Naturalmente no! Ora immaginate un altro caso: una  donna  borghese  rispettata
(professoressa,  medico,  scrittrice)  si  lega  con  un  lacchè  e,  per  completare  lo  «scandalo»,  consolida
quest'unione  con  un  matrimonio  legale.  Quale  sarà  l'atteggiamento  della  società  borghese  nei
confronti dell'atto della persona fino ad ora rispettata? Naturalmente, la colpirà col suo «disprezzo».
E notate bene: se per sventura suo marito, il lacchè, possiede un gradevole aspetto o altre «notevoli
caratteristiche fisiche»,  il  fatto  sarà  ancora  più  grave!  «Com'è  caduta  in  basso  quella  donna!»,  sarà
allora il giudizio dell'ipocrita borghesia.

La  società  borghese  non  perdona  alla  donna  di  fare  delle  scelte  di  carattere  spiccatamente
individuale. Si  tratta  di  una  sorta  di  atavismo;  secondo  la  tradizione  ereditata  dai  costumi  di  casta,
questa  società  vuole  ancora  che  la  donna  tenga  conto,  nelle  sue  scelte,  dei  gradi  e  dei  ranghi,  delle
prescrizioni  della  famiglia  e  degli  interessi  di  questa.  Essa  non  sa  liberare  la  donna  dalla  cellula
prescrizioni  della  famiglia  e  degli  interessi  di  questa.  Essa  non  sa  liberare  la  donna  dalla  cellula
familiare  e  considerarla  come  un'individualità,  al  di  fuori  del  circolo  chiuso  delle  virtù  e  dei  doveri
familiari.

Nella  sua  tutela  della  donna,  la  società  contemporanea  si  spinge  anche  più  lontano  del  vecchio
ordine, le prescrive non solo di sposarsi, ma anche di amare unicamente degli uomini «degni» di lei.
Incontriamo  ad  ogni  passo  uomini  di  elevato  livello  morale  ed  intellettuale  che  hanno  scelto  come
compagna di vita un essere insignificante e vuoto, assolutamente  non  corrispondente  al  valore  dello
sposo. Consideriamo questi fatti come cose normali, senza nemmeno prestarvi attenzione; tutt'al più
succede  che  «gli  amici  compatiscano  qualche  Ivan  o  Boris  per  aver  sposato  una  donna  così
insopportabile». Ma  nel  caso  della  donna,  esclamiamo  con  aria  di  rimprovero:  «Come  ha  fatto  una
donna  così  notevole  come  X  O  Y  ad  amare  una  simile  nullità.  C'è  veramente  da  dubitare
dell'intelligenza di questa X o Y!».

Donde viene questo  doppio  criterio?  Cos'è  che  lo  determina?  Esso è certamente  dovuto  al  fatto
che  l'idea  della  ineguaglianza  dei  valori  tra  i  due  sessi,  inoculata  per  secoli  nell'umanità,  è  entrata
organicamente a far parte della nostra mentalità. Ci siamo abituati a valutare la donna non come una
"personalità",  con  delle  qualità  e  dei  difetti  propri,  indipendenti  dalle  sue  sensazioni  psico­
fisiologiche, bensì unicamente come un accessorio dell'uomo. L'uomo, il  marito  o  l'amante,  proietta
sulla donna la sua luce riflessa; è lui, e non lei stessa, che consideriamo come l'elemento determinante
della  struttura  spirituale  e  morale  della  donna.  Nella  valutazione  che  la  società  compie  della
personalità dell'uomo, si fa sempre astrazione dei suoi atti collegati alla sfera sessuale. La personalità
della donna, al contrario, si evolve in stretto collegamento con la sua vita sessuale. Questo genere di
apprezzamento discende dal ruolo svolto dalla donna nel corso dei secoli, e soltanto per gradi si fa, o
meglio "si indica", la revisione dei valori in questo ambito essenziale. Solo la trasformazione del ruolo
economico  della  donna,  il  suo  ingresso  nella  vita  del  lavoro  indipendente  contribuiranno
all'attenuazione di queste false ed ipocrite concezioni.

Quei  tre  fattori  fondamentali  che  deformano  la  psicologia  contemporanea  (un  estremo
egocentrismo, l'idea dei reciproci diritti di proprietà  degli  sposi,  la  concezione  dell'ineguaglianza  dei
sessi nella  sfera  psico­fisiologica)  sbarrano la strada che  porta  alla  soluzione  del  problema  sessuale.
L'umanità  potrà  trovare  la  chiave  per  aprire  questo  cerchio  magico  unicamente  quando  avrà
accumulato nella propria psicologia sufficienti riserve di sensazioni, quando il «potenziale d'amore» si
sarà  accresciuto  nel  suo  animo,  quando  la  concezione  della  libertà  nel  matrimonio  e  nella  libera
unione si sarà di fatto  consolidata,  quando  il  principio  della  solidarietà  tra  compagni  avrà  trionfato
sulle tradizionali concezioni dell'ineguaglianza e della subordinazione nelle relazioni tra i sessi. Senza
una rieducazione fondamentale della nostra psicologia il problema sessuale è irresolubile.

Ma una simile condizione preliminare non è forse una utopia senza basi concrete, e non bisogna
forse  abbandonarla  a  dei  sognatori  idealisti?  Infatti,  provate  un  po'  ad  accrescere  il  «potenziale
d'amore» dell'umanità! I saggi di tutte le epoche non si sono forse dedicati a questo compito sin dai
tempi più antichi, da Budda a Confucio fino a Cristo? E ciononostante chi oserà dire che il potenziale
d'amore  si  è  accresciuto in seno  all'umanità?  Ridurre  la  questione  della  crisi  sessuale  a  simili  sogni
pieni di buone intenzioni non significa forse confessare la propria impotenza e rinunciare alla ricerca
della  chiave  magica?  Ma  è  proprio  così?  La  rieducazione  fondamentale  della  nostra  psicologia  nel
campo dei rapporti sessuali è veramente così irrealizzabile, così lontana dalla pratica della vita?  Non
si  osservano,  al  contrario,  proprio  nell'ora  presente,  proprio  nel  momento  in  cui  si  verifica  un
possente spostamento, sociale ed economico, condizioni nuove nel campo dei sentimenti, in  accordo
con le esigenze indicate più sopra?

Detronizzando  la  borghesia  e  la  sua  ideologia  di  classe,  il  suo  codice  individualistico  di  morale
sessuale,  un'altra  classe,  un  nuovo  gruppo  sociale  avanza.  Questa  classe  in  ascesa,  d'avanguardia,
porta  necessariamente  in  sé  i  germi  di  nuovi  rapporti  tra  i  sessi,  strettamente  collegati  con  i  suoi
compiti sociali di classe.
La  complessa  evoluzione  dei  rapporti  economico­sociali  che  avviene  sotto  i  nostri  occhi,  che
sconvolge tutte le nostre concezioni circa il ruolo della donna nella vita sociale e spezza tutte le basi
della morale sessuale borghese, ha come conseguenza due fatti apparentemente contraddittori. Da un
lato,  osserviamo  gli  sforzi  indefessi  dell'umanità  che  tenta  di  adattarsi  alle  nuove  condizioni  della
economia  sociale,  sforzi  tendenti  sia  alla  conservazione  delle  vecchie  forme,  riempite  di  nuovi
contenuti  (il  mantenimento  della  forma  esteriore  del  matrimonio  indissolubile,  severamente
monogamico,  pur  riconoscendo  di  fatto  la  libertà  degli  sposi),  sia,  al  contrario,  all'accettazione  di
forme nuove comportanti però tutti gli elementi del codice morale del matrimonio borghese (l'unione
libera, in  cui  il  principio  dei  diritti  di  proprietà  degli  sposi  «liberi»  l'uno  sull'altro  ha  un'estensione
maggiore  che  non  nel  matrimonio  legale).  Dall'altro  lato,  constatiamo  la  lenta  ma  invincibile
apparizione di nuove forme di unione tra i sessi: nuove non tanto esteriormente, quanto per lo spirito
informatore  delle  loro  norme  basilari.  L'umanità  sonda  con  esitazione  questi  nuovi  ideali,  ma  basta
esaminarli da vicino per riconoscere in loro, malgrado l'assenza di contorni netti, i tratti caratteristici
che li collegano strettamente con i compiti della classe operaia, cui incombe la conquista della fortezza
dell'avvenire.  Colui  che  intende,  nel  labirinto  di  norme  sessuali  contraddittorie,  trovare  i  germi  di
rapporti futuri più sani tra i sessi, di rapporti che promettano di liberare l'umanità dalla crisi sessuale,
deve  abbandonare  i  quartieri  «colti»  con  la  loro  raffinata  psicologia  individualistica  e  gettare  uno
sguardo  nelle  anguste  abitazioni  degli  operai  in  cui,  malgrado  l'oscurità  e  l'orrore  prodotti  dal
capitalismo, malgrado le lacrime e le imprecazioni, cominciano a sgorgare sorgenti di acqua pura.

Proprio lì in seno  alla  classe  operaia,  sotto  la  pressione  di  dure  condizioni  economiche,  sotto  il
giogo  dell'implacabile  sfruttamento  del  capitale,  si  nota  questo  doppio  processo  di  cui  abbiamo
appena  parlato:  il  processo  di  adattamento  passivo  e  di  resistenza  attiva  alla  realtà  presente.  La
influenza distruttrice del capitalismo, spezzando tutte le fondamenta della famiglia operaia, obbliga il
proletariato ad adattarsi istintivamente alle condizioni ambientali e provoca, nel campo delle relazioni
tra  i  sessi,  tutta  una  serie  di  fatti  analoghi  a  quelli  che  avvengono  nelle  altre  classi  sociali.  Sotto  la
spinta dei bassi salari, l'età del matrimonio dell'operaio aumenta  continuamente  ed  inevitabilmente.
Se vent'anni fa l'età media del matrimonio dell'operaio oscillava tra i ventidue ed i venticinque  anni,
oggi il proletario forma una famiglia soltanto verso i trent'anni. E quanto più sviluppati sono i bisogni
culturali dell'operaio, quanto più egli apprezza la possibilità di seguire il ritmo della vita culturale, di
frequentare  teatri,  conferenze,  di  leggere  i  giornali,  di  dedicare  il  proprio  tempo  libero  alla  lotta
sindacale, alla politica o ad un lavoro preferito (arte, lettura, eccetera) tanto più l'età del matrimonio
dell'operaio si fa alta. Ma i bisogni fisiologici non tengono  conto  delle  condizioni  della  borsa:  non  si
lasciano  dimenticare.  L'operaio  celibe,  così  come  lo  scapolo  borghese,  si  rivolge  alla  prostituzione.
Questo  tipo  di  cose  può  essere  fatto  rientrare  nell'adattamento  passivo  della  classe  operaia  alle
condizioni sfavorevoli della propria esistenza. Altro esempio: un operaio si sposa. Ma sempre lo stesso
ostacolo, il basso livello dei salari obbliga la famiglia operaia a regolare la questione delle nascite così
come fanno le famiglie borghesi.

L'aumento  degli  infanticidi,  la  crescita  della  prostituzione  sono  fatti  che  appartengono  al
medesimo  ordine:  si  tratta  dei  mezzi  di  adattamento  "passivo"  all'infernale  realtà  che  circonda
l'operaio. Ma, in questo processo, non v'è nulla di peculiare al proletariato: un simile adattamento è
egualmente proprio di tutte le altre classi e strati sociali che fanno parte del processo mondiale della
evoluzione capitalistica. La linea di demarcazione comincia laddove i "principi attivi, creatori" entrano
in gioco: laddove si ha non più un adattamento ma una reazione contro la realtà opprimente, laddove
nuovi  ideali  nascono  e  si  esprimono,  laddove  si  delineano  timidi  tentativi  di  rapporti  sessuali
informati ad uno spirito nuovo. "Questo processo di reazione attiva ha luogo unicamente nella classe
operaia".

Ciò non significa che le altre classi e strati sociali (gli intellettuali  borghesi  in  particolare,  che  si


trovano  più  vicini  alla  classe  operaia  a  causa  delle  condizioni  della  loro  esistenza  sociale)  non
riprendano questi elementi nuovi che la classe operaia in ascesa crea e sviluppa nel suo seno. Spinta
dall'istintivo desiderio di infondere nuova linfa nelle sue forme morenti, e quindi impotenti, di unione
tra i sessi, la borghesia si appropria delle forze nuove che il proletariato porta in sé. Ma né gli ideali né
tra i sessi, la borghesia si appropria delle forze nuove che il proletariato porta in sé. Ma né gli ideali né
il  codice  di  morale  sessuale  gradualmente  elaborati  dal  proletariato  corrispondono  alle  esigenze
borghesi di classe. Mentre la morale sessuale, nascente dai bisogni della classe  operaia,  diviene  uno
strumento nuovo di lotta sociale per questa classe, le «novità» riprese dalla borghesia non fanno che
distruggere definitivamente le basi del suo dominio sociale. Facciamo un esempio di quanto abbiamo
detto.

Il tentativo  degli  intellettuali  borghesi  di  sostituire  il  matrimonio  indissolubile  con  i  vincoli  più
liberi,  più  facilmente  risolvibili  del  matrimonio  civile  scuote  le  fondamenta  indispensabili  della
stabilità  sociale  della  borghesia:  la  famiglia  monogamo­proprietaria.  Al  contrario,  per  la  classe
operaia,  una  maggiore  elasticità,  un  consolidamento  minimale  dell'unione  dei  sessi  concordano
completamente  e  discendono  persino  direttamente  dai  compiti  fondamentali  di  questa  classe.  La
negazione del fattore di subordinazione nel matrimonio rompe anche gli ultimi vincoli artificiali della
famiglia  borghese.  Al  contrario,  il  fattore  della  subordinazione  di  un  membro  di  una  classe  ad  un
altro, così come il fattore proprietà, è di per sé contrario alla psicologia del proletariato. Non è negli
interessi  della  classe  rivoluzionaria  vincolare  uno  dei  suoi  membri,  un  suo  rappresentante
indipendente, al quale incombe innanzi tutto il dovere di servire gli interessi della propria classe e non
quelli di una cellula familiare separata ed isolata. I frequenti conflitti tra gli interessi della famiglia e
quelli della classe (negli scioperi, ad esempio, nella partecipazione alla lotta) e la misura morale che il
proletariato  applica  in  questi  casi  caratterizzano  con  sufficiente  chiarezza  la  base  della  nuova
ideologia proletaria.

Immaginatevi un finanziere rispettato che ritira dagli affari il suo capitale, in un momento critico
per l'impresa, nell'interesse della propria famiglia. È chiaro che la morale borghese apprezzerà il suo
gesto. «Gli interessi della famiglia» sono in primo piano. Ponete ora, come paragone con questo modo
di  vedere,  l'atteggiamento  degli  operai  nei  confronti  di  un  crumiro,  che  va  al  lavoro  durante  uno
sciopero, contro i suoi compagni per salvare la propria famiglia dalla fame. Gli interessi della "classe"
sono qui in primo piano. Pensate ora ad un marito borghese che è riuscito, con il suo amore e la sua
abnegazione verso la famiglia, ad allontanare sua moglie da tutti gli interessi al di fuori di quelli della
casa ed a legarla definitivamente alla cura dei bambini e della cucina. «Un marito ideale che ha saputo
creare una famiglia ideale», sarà il giudizio borghese. Ma quale sarà l'atteggiamento  degli  operai  nei
confronti di un membro cosciente della loro classe che tentasse di distogliere la propria moglie dalla
lotta sociale? A spese della  felicità  individuale,  a  spese  della  famiglia,  la  morale  della  classe  operaia
esigerà la partecipazione della donna alla vita  al  di  fuori  delle  mura  di  casa.  Vincolare  la  donna  alla
casa,  mettere  in  primo  piano  gli  interessi  della  famiglia,  propagare  l'idea  dei  diritti  assoluti  di
proprietà di uno sposo sull'altro, sono azioni che violano il principio fondamentale dell'ideologia della
classe  operaia,  della  solidarietà  tra  compagni,  che  rompono  la  catena  che  vincola  alla  classe.  La
concezione  del  possesso  di  una  individualità  da  parte  di  un'altra,  l'idea  della  subordinazione  e
dell'ineguaglianza  dei  membri  di  una  sola  e  medesima  classe  sono  contrari  all'essenza  del  principio
proletario fondamentale: la solidarietà tra compagni. Questo principio, base dell'ideologia della classe
in  ascesa,  colora  e  determina  il  nuovo  codice  in  formazione  della  morale  sessuale  del  proletariato,
grazie al quale la psicologia dell'umanità si trasforma nel senso dell'accumulazione  dei  sentimenti  di
solidarietà, di libertà in luogo dei sentimenti di proprietà; dei sentimenti di solidarietà tra  compagni
in  luogo  della  ineguaglianza  e  della  subordinazione.  È  una  vecchia  verità  che  ogni  nuova  classe  in
ascesa,  nata  da  una  cultura  materiale  distinta  da  quella  dello  stadio  precedente  dell'evoluzione
economica, arricchisce "l'intera umanità" d'una ideologia nuova, propria di questa classe.

Il  codice  della  morale  sessuale  è  parte  integrante  di  ogni  ideologia.  Ciononostante,  basta
pronunciare  i  termini  «etica  proletaria»  e  «morale  sessuale  proletaria»  per  scontrarsi  con  la  solita
replica banale: la morale sessuale proletaria è una mera sovrastruttura: finché tutta la base economica
non è trasformata, non può esservi posto per essa. Come se l'ideologia di qualsiasi classe si formasse
solo  quando  si  è  già  prodotto  lo  sconvolgimento  nei  rapporti  socio­economici,  che  assicurano  il
dominio di questa classe! Tutta l'esperienza della storia ci insegna che l'elaborazione dell'ideologia di
un gruppo sociale, e di conseguenza anche della morale sessuale, si fa "nel processo stesso" della lotta
di quel gruppo contro le forze sociali antagoniste.
di quel gruppo contro le forze sociali antagoniste.

Soltanto con l'ausilio dei nuovi valori spirituali creati nel suo intimo, rispondenti ai compiti della
classe in ascesa, una classe in lotta può rafforzare le proprie posizioni sociali; è unicamente attraverso
norme e ideali nuovi che essa può conquistare trionfalmente il potere sui gruppi sociali avversari. Il
compito che incombe agli ideologi della classe operaia è di ricercare il criterio morale fondamentale,
prodotto dagli interessi specifici di questa classe, e di accordare con esso le nascenti norme sessuali.

È  tempo  di  capire  che  unicamente  dopo  aver  riconosciuto  il  processo  creatore  che  avviene  nel
profondo della società e che genera nuovi bisogni, nuovi ideali e nuove forme, che unicamente dopo
aver messo a punto le basi della morale sessuale  della  classe  d'avanguardia  in  ascesa,  sarà  possibile
distinguere  il  cammino  che  essa  deve  compiere  nel  caos  contraddittorio  dei  rapporti  tra  i  sessi  e
sciogliere la matassa ingarbugliata del problema sessuale.

È ora di ricordarsi che il codice della morale sessuale, accordato con i nuovi compiti della classe
in  ascesa,  può  divenire  un  potente  strumento  per  rafforzare  la  posizione  di  combattimento  della
classe. L'esperienza della storia ce lo insegna. Perché non servirsi di questo strumento nell'interesse
della  classe  operaia,  in  lotta  per  l'ordine  comunista  e  per  rapporti  nuovi,  migliori  e  più  felici,  tra  i
sessi?

RIVOLUZIONE NELLA VITA QUOTIDIANA
 

[...] Allo stesso modo, il nuovo sistema economico nel suo complesso ha giocato un ruolo, durante
gli anni del comunismo di guerra, nella modificazione della vita quotidiana, dei costumi, delle idee e
delle opinioni delle persone.

Chiunque  sappia  vedere  e  osservare  riconosce  che  la  vita  quotidiana  si  modifica  sotto  i  nostri
occhi. In pochi anni, da quando gli operai sono  i  padroni,  le radici stesse dell'asservimento  secolare
della donna sono state estirpate. Da una parte la repubblica dei lavoratori fa partecipare la donna al
lavoro  produttivo  e  dall'altra  essa  si  sforza  di  organizzare  la  vita  quotidiana  sulle  basi  nuove  che
pongono i fondamenti del comunismo, essa inculca nelle persone abitudini, punti di vista e concezioni
collettivistiche.

La  modificazione  della  vita  quotidiana  si  è  manifestata,  in  modo  particolarmente  chiaro,  nei
primi anni della rivoluzione, durante il periodo del comunismo di guerra. I  fondamenti  degli  antichi
costumi dell'antico modo di vita, sono andati in frantumi e, sotto il fragore delle scariche di fucileria,
sui  fronti  della  guerra  civile,  sotto  il  peso  della  disorganizzazione  senza  posa  crescente  dell'intera
economia  del  paese,  si  è  visto  costituirsi  con  straordinaria  chiarezza  un  modo  di  vita  adeguato  ai
germi della futura società comunista.

Una delle basi del  nuovo  sistema  di  produzione  comunista  è  l'organizzazione  e  il  controllo  non
solo della produzione stessa ma altresì  del  consumo.  Sottoporre  a  regolamento  il  consumo  significa
tener conto dei consumatori, non tanto nel senso di una ripartizione uniforme di tutti i prodotti  e  le
ricchezze del paese, quanto nel senso di un'organizzazione del consumo su basi nuove: comuniste.

La prima preoccupazione dello Stato operaio è stata quella di mettere in piedi un'organizzazione
del  consumo  il  più  possibile  sensata  e  razionale,  rigorosa  ed  economa.  L'instaurazione
dell'alimentazione "collettiva" rispondeva, in primo luogo, a questo scopo.

Unicamente con questo mezzo, riportando cioè il consumo  a  forme  sociali collettive si è potuto,


almeno in una certa misura, tenuto conto della nostra miseria attuale e della nostra carenza di riserve,
almeno in una certa misura, tenuto conto della nostra miseria attuale e della nostra carenza di riserve,
lottare contro il generale impoverimento e contro la carestia.

È  a  partire  dalla  primavera  del  1918  che,  sotto  la  pressione  della  necessità,  la  repubblica  dei
lavoratori ha adottato in tutte le città il principio dell'"alimentazione collettiva". Le mense municipali
e i pasti gratuiti per i ragazzi hanno soppiantato l'economia familiare. Beninteso, la nostra povertà, la
nostra  penuria  di  prodotti  alimentari  hanno  ostacolato  lo  sviluppo  dell'alimentazione  collettiva  e
impedito che essa fosse ampiamente introdotta. Si sono create le apparecchiature, si sono approntati i
canali  attraverso  i  quali  il  centro  poteva  distribuire  i  rifornimenti  popolari,  mancavano,  però,  i
prodotti che si sarebbe potuto introdurvi...

Il paese era ridotto alla miseria, regnava la carestia. Inoltre il blocco persistente  e  pieno  di  odio


delle  potenze  imperialistiche  impediva  che  le  merci  degli  altri  paesi  arrivassero  fino  ai  depositi
popolari  centrali.  Tuttavia,  malgrado  tutti  i  suoi  difetti,  malgrado  la  penosa  qualità  delle  nostre
mense,  malgrado  la  carenza  di  derrate  e  la  cattiva  utilizzazione  di  quelle  che  esistevano,
l'alimentazione  collettiva  ha  preso  posto  nella  mente  della  popolazione  della  città  come  fattore
indispensabile della vita quotidiana. A Pietrogrado, nel 1919­20, quasi il 90% degli abitanti era iscritto
all'alimentazione  collettiva.  A  Mosca  più  del  60%  della  popolazione  frequentava  regolarmente  le
mense; nel 1920 gli organismi di alimentazione collettiva servirono, in un modo o nell'altro, 12 milioni
di  cittadini,  compresi  i  bambini.  Va  da  sé  che  questo  solo  fatto  ha  comportato  un  notevole
cambiamento  nella  «vita  quotidiana»,  nelle  condizioni  di  esistenza  della  donna.  La  cucina,  per  la
donna ancor più vincolante della maternità, cessava di essere una condizione necessaria dell'esistenza
della famiglia. Certamente, essa giocò inoltre  un  ruolo  importante  durante  il  periodo  di  transizione,
quando c'erano ancora da porre i punti­base sulla strada del  comunismo,  quando  le  forme  borghesi
della vita comune non erano ancora completamente eliminate e le basi dell'economia non erano state
ancora  modificate  in  modo  radicale.  Perfino  in  questo  periodo  di  transizione,  però,  il  focolare
domestico  cominciò  a  essere  relegato  in  secondo  piano:  esso  non  fu  più  che  un  appoggio,  un
complemento  dell'alimentazione  collettiva,  nella  misura  in  cui  la  povertà,  la  disorganizzazione  e  la
carestia  non  ci  permettevano  di  elevare  le  mense  municipali  al  livello  desiderato.  Ogni  operaia
cominciò a rendersi conto del numero di ore che le faceva risparmiare il pasto già pronto della mensa
e,  se  ella  protestava,  era  contro  l'insufficienza  e  il  basso  valore  nutritivo  di  questi  pasti,  i  quali
costringevano,  volenti  o  nolenti,  a  integrarli,  a  «cucinare  dei  supplementi».  Se  l'alimentazione
collettiva fosse stata migliore, è dubbio che si sarebbero trovate molte donne desiderose di rimettersi
davanti ai loro fornelli. Del resto, se nella società capitalistica la donna si preoccupava a tal punto di
preparare il pranzo al suo sposo­ balia, ciò avveniva perché egli era effettivamente la sua «balia».

Al contrario, nello Stato operaio, dove la donna è riconosciuta in quanto persona indipendente e
cittadina, è poco probabile che si possano trovare molte donne inclini ad affaccendarsi per ore davanti
ai fornelli, al fine di meritarsi la benevolenza del marito. Che dunque gli uomini imparino ad amare e
ad apprezzare la propria moglie non per la sua capacità di lavorare bene la pasta, ma per quel che ella
ha di prezioso dentro di sé, per le sue qualità personali, per il suo io umano... La «separazione della
cucina  e  del  matrimonio»  ecco  una  grande  riforma,  non  meno  importante  della  separazione  della
Chiesa e dello Stato, almeno nel destino storico della donna. Certamente negli anni del comunismo di
guerra questa separazione ha appena preso forma, ma è già importante il fatto che la repubblica dei
lavoratori,  mettendo  alla  prova  la  linea  generale  di  sviluppo  delle  nuove  forme  economiche,  abbia
dovuto far ricorso all'alimentazione collettiva quale forma di consumo più economica e più razionale,
la quale esige meno dispendio di lavoro, di  combustibile  e  di  prodotti  alimentari.  Più difficile era  la
situazione  economica  della  repubblica,  più  pressante  si  rivelava  la  necessità  di  organizzare
l'alimentazione collettiva.

La  trasformazione  della  vita  quotidiana  e,  di  conseguenza,  delle  condizioni  di  esistenza  della
donna  fu,  allo  stesso  modo,  influenzata  dalle  nuove  condizioni  di  abitazione  che  la  repubblica  dei
lavoratori  instaurò.  L'appartamento  comunitario  ­  la  casa  comune  per  famiglie  e  soprattutto  per
persone sole ­ è ampiamente diffuso da noi. In nessun paese ci sono  tanti  focolari  comunitari  come
nella repubblica dei lavoratori. Ognuno aspira a installarsi in una casa comune. Non per «principio»,
nella repubblica dei lavoratori. Ognuno aspira a installarsi in una casa comune. Non per «principio»,
evidentemente, non per convinzione, come facevano gli utopisti della prima metà del diciannovesimo
secolo,  i  quali,  seguendo  i  precetti  di  Fourier,  organizzavano  dei  «falansteri»  artificiali  e  non
suscettibili di sviluppo, ma semplicemente perché è molto più facile e più comodo vivere in una casa
comune.

Le case comuni sono sempre meglio attrezzate degli appartamenti privati; luce e combustibile vi
sono assicurati. Non è raro che vi si trovi una riserva  di  acqua  calda,  una  cucina  centrale.  La  pulizia
viene fatta da lavoratrici di professione. In talune case c'è una lavanderia centrale, in altre un nido o
un  giardino  d'infanzia.  Più  si  facevano  sentire  con  acutezza  l'alto  costo  della  vita,  la  penuria  di
combustibile  e  la  disorganizzazione,  più  si  faceva  insistente  il  desiderio  di  installarsi  in  una  casa
comune,  in  un  focolare  comunitario.  Quelli  che  vivevano  in  appartamenti  privati  invidiavano  gli
abitanti  delle  case  comuni.  La  lista  dei  candidati  ai  focolari  comunitari  si  allungava  costantemente.
Certamente,  le  case  comuni  sono  ancora  lontane  dall'aver  soppiantato  gli  appartamenti  privati;  la
grandissima  maggioranza  della  popolazione  delle  città  si  contenta  ancora  di  vivere  nelle  condizioni
dell'installazione individuale e dell'economia domestica. Ma è già un gran passo in avanti il fatto che
l'economia  domestica  abbia  cessato  di  essere  l'unica  norma  di  vita.  Sebbene  sia  sotto  la  pressione
delle  condizioni  economiche  che  le  famiglie  e  le  persone  sole  vogliono  installarsi  nei  focolari
comunitari, quel che importa a questo punto è la consapevolezza che, se perfino nelle circostanze più
sfavorevoli la casa comune presenta una serie di vantaggi, allora naturalmente, quando la produzione
avrà  spiccato  il  volo,  quando  i  focolari  comunitari  potranno  raggiungere  un  livello  elevato,  essi
sosterranno  facilmente  la  concorrenza  con  l'economia  familiare  privata,  poco  economica,  la  quale
esige un grande dispendio di lavoro femminile.

Sono soprattutto le donne ­ tutte quelle che sono costrette a conciliare il lavoro con la famiglia ­
che hanno pienamente coscienza dei vantaggi del focolare comunitario. Per queste donne lavoratrici
la  casa  comune  è  il  massimo  beneficio,  è  la  salvezza.  La  donna  economizza  le  sue  forze  grazie  alle
domestiche di professione, alla cucina comune, alla lavanderia centrale e grazie al fatto che la casa  è
provvista  di  luce,  di  combustibile  e  di  acqua  calda.  Oggi,  ogni  donna  che  lavori  non  desidererebbe
altro  che  questo:  che  tali  case  fossero  le  più  numerose  possibile  e  che  esse  includessero
definitivamente tutti gli aspetti dell'estenuante e infruttuosa economia domestica. Beninteso,  ancora
oggi  ci  sono  donne  che  si  abbarbicano  ostinatamente  al  passato:  è  quel  tipo  abituale  di  «donna  alla
mano»  per  la  quale  l'intera  esistenza  è  concentrata  intorno  ai  fornelli.  Perfino  nelle  case  comuni
queste mogli legittimamente mantenute dai loro mariti si sforzano di votare la loro vita al culto delle
pentole  e  dei  tegami...  Il  futuro  non  sta,  però,  dalla  loro  parte.  Inutili  per  la  collettività  lavoratrice,
questi esseri sono condannati dalla storia a un'inevitabile scomparsa, nella misura in cui sull'insieme
del fronte economico si consoliderà l'edificazione del modo di vita comunista.

L'esperienza della nostra rivoluzione conferma che le case comuni non solo sono la soluzione più
razionale, ma incontestabilmente facilitano anche la vita delle donne che lavorano, creando condizioni
tali  che  la  donna  può,  nell'attuale  periodo  di  transizione,  conciliare  la  famiglia  e  il  lavoro  come
professione.  Nella  misura  in  cui  aumenterà  il  numero  dei  focolari  comunitari,  di  vario  tipo  e
rispondenti  a  bisogni  e  gusti  diversi,  è  naturale  e  inevitabile  che  l'economia  familiare  si  atrofizzi  e
scompaia;  e  la  scomparsa  di  questa  economia  individuale,  chiusa  nel  quadro  degli  appartamenti
privati  avrà  come  conseguenza  l'indebolimento  dei  legami  fondamentali  dell'attuale  famiglia
borghese.

Avendo cessato di essere un'unità di consumo, la famiglia non potrà più esistere nella sua forma
attuale... Essa si disgregherà, svanirà. Questa affermazione, tuttavia, non faccia paura ai fautori della
famiglia borghese, con la sua economia individuale, il suo piccolo mondo chiuso ed egoista: ci manca
ancora  un  bel  po',  sfortunatamente,  alla  vittoria  del  modo  di  consumo  comunista.  Nel  periodo  di
passaggio dal capitalismo al comunismo, all'epoca della dittatura della classe operaia, ha luogo ancora
una lotta aspra tra le forme di consumo sociale e le economie familiari private. Quanto ad accelerare
la vittoria del primo, questo lo può fare solo, affrontando consapevolmente il problema, quella parte
della popolazione che è più direttamente interessata: le donne lavoratrici.
della popolazione che è più direttamente interessata: le donne lavoratrici.

Le statistiche dell'URSS sono ancora poverissime di dati concernenti la questione dell'abitazione
e le sue soluzioni. Tuttavia già durante il periodo del comunismo di guerra le cifre testimoniavano che
le case comuni giocavano un ruolo notevole nella nostra economia urbana, almeno nelle grandi città.
Così nel 1920 a Mosca su 23000 case si contavano più di 8000 focolari e case comuni; ciò significa
che quasi il 40% delle case era composto di focolari comunitari. Dunque, fin dai primi anni della sua
esistenza  la  repubblica  dei  lavoratori,  trasformando  radicalmente  il  sistema  di  produzione  e
l'economia, ha creato le condizioni necessarie affinché, gradualmente  ma  ineluttabilmente,  la  donna
venga affrancata dai compiti domestici improduttivi.

Ma la riduzione del lavoro improduttivo  della  donna  nell'economia  domestica  è  solo  un  aspetto


del problema della liberazione della donna. Ella è altresì inchiodata alla casa, asservita alla famiglia da
un  fardello  non  minore:  la  cura  e  l'educazione  dei  figli.  Il  potere  dei  soviet  con  la  sua  politica  nel
campo della protezione della maternità  e  dell'educazione  sociale  alleggerisce  notevolmente  la  donna
da questo fardello incaricandone la collettività, lo Stato operaio. Nella sua ricerca di  nuove  forme  di
vita  e  di  economia,  capaci  di  rispondere  ai  bisogni  del  proletariato,  la  repubblica  sovietica  ha
inevitabilmente commesso una serie di errori, essa ha dovuto più di una volta modificare e correggere
la sua linea. Ma nel campo dell'educazione sociale e della protezione della maternità la repubblica dei
lavoratori ha di primo acchito scelto la strada giusta. È appunto in questo campo che oggi si compie la
più grande e la più profonda  rivoluzione  dei  costumi  e  delle  opinioni.  Problemi  che  erano  insolubili
nel regime borghese sono stati risolti in modo semplice e naturale in un paese in cui tutta la politica è
dettata dalla volontà di elevare il livello economico e di rafforzare le strutture socialiste.

La Russia sovietica ha affrontato il problema della protezione della maternità, partendo dal punto
di  vista  del  compito  fondamentale  della  repubblica dei lavoratori:  lo  sviluppo  delle  forze  produttive
del  paese,  l'aumento  e  il  progresso  della  produzione.  Per  realizzare  questo  compito  in  primo  luogo
bisogna liberare  il  maggior  numero  possibile  di  forza­lavoro  da  una  attività  improduttiva,  utilizzare
razionalmente  tutte  le  braccia  disponibili  per  assicurare  la  riproduzione  economica  e,  in  secondo
luogo per garantire in futuro alla repubblica dei lavoratori un afflusso costante di nuove forze operaie,
cioè un normale aumento della popolazione.

Dal momento in cui si parte da questo punto di vista, la questione della protezione razionale della
maternità si risolve di per sé. Lo Stato operaio formula un principio completamente nuovo: la cura dei
figli, per la generazione che viene su, non è un problema privato, familiare, bensì un problema sociale,
una  questione  di  Stato.  La  maternità  deve  essere  salvaguardata  e  protetta  non  solo  nell'interesse
stesso della donna, ma inoltre  a  partire  dai  compiti  dell'economia  nazionale, all'epoca  del  passaggio
alla  società  del  lavoro:  la  donna  non  deve  più  fare  uso  delle  sue  forze  per  la  famiglia,  perché  è
improduttivo, ma deve poterle utilizzare in modo più efficace per la collettività; necessario proteggere
la  sua  salute  garantendo  così  per  il  futuro,  alla  repubblica  dei  lavoratori,  un  afflusso  di  operai  che
stiano bene.

Nello Stato borghese questo modo di porre il problema è inconcepibile; ad esso sono di ostacolo
le  contraddizioni  di  classe,  l'assenza  di  unità  tra  gli  interessi  economici  privati  e  gli  interessi
economici  di  tutto  il  popolo.  Al  contrario  nella  repubblica  dei  lavoratori,  dove  nella  misura  in  cui
progredisce l'edificazione del socialismo gli interessi economici individuali devono sciogliersi a poco a
poco negli interessi economici generali, quella soluzione del problema della maternità è dettata dalla
necessità della vita stessa.

La repubblica dei lavoratori considera la  donna  anzitutto  come  una  forza­lavoro,  come un'unità


di  lavoro  vivente;  essa  considera  la  funzione  materna  come  un  compito  importantissimo  ma
complementare e inoltre non soltanto privato, familiare, ma anche "sociale".

«Ciò che guida la nostra politica di protezione della maternità e dell'infanzia  ­  dice  giustamente


Vera  Pavlovna  Lebedeva  ­  è  il  fatto  che  noi  abbiamo  sempre  presente  la  donna  nel  quadro  del
Vera  Pavlovna  Lebedeva  ­  è  il  fatto  che  noi  abbiamo  sempre  presente  la  donna  nel  quadro  del
processo lavorativo».

Ma  per  dare  alla  donna  la  possibilità  di  partecipare  al  lavoro  produttivo  senza  violentare  la
propria  natura,  senza  obbligarla  a  rompere  con  la  maternità,  bisognava  fare  un  secondo  passo:
togliere dalle spalle della donna tutte le preoccupazioni connesse alla maternità e caricarle sulle spalle
della collettività, accettando appunto in questo modo il fatto che l'educazione dei figli esca fuori dal
quadro della struttura familiare per diventare un'istituzione sociale, una faccenda dello Stato.

La  maternità  comincia  a  essere  considerata  da  un  nuovo  punto  di  vista:  il  potere  dei  soviet
riconosce che essa costituisce un problema sociale. Partendo  da  questo  principio  il  potere  dei  soviet
sta  prendendo  una  serie  di  misure  destinate  a  sgravare  la  donna  dal  fardello  della  maternità  per
trasmetterlo  allo  Stato.  La  cura  dell'infanzia,  la  protezione  materiale  dei  fanciulli,  una  giusta
organizzazione  dell'educazione  sociale:  il  potere  sovietico  si  incarica  di  tutto  ciò  attraverso  la
sottosezione  della  Protezione  della  maternità  e  dell'infanzia  e  attraverso  il  settore  dell'Educazione
sociale del Commissariato del popolo per l'educazione. Sgravare la donna dalla croce della maternità e
lasciarle solo il sorriso di gioia che genera in lei il contatto personale con suo figlio: tale è il principio
adottato dal potere dei soviet per risolvere il problema della maternità.

Beninteso, questo principio è lungi dall'essere  completamente  realizzato.  Nella  pratica  siamo  in


ritardo  rispetto  alle  nostre  intenzioni.  Nella  costruzione  di  nuove  forme  di  vita,  suscettibili  di
affrancare  la  donna  lavoratrice  dagli  obblighi  familiari,  noi  urtiamo  sempre  contro  il  medesimo
ostacolo:  il  nostro  ritardo  economico,  la  nostra  sottoproduzione.  Ma  le  fondamenta  sono  gettate,  i
punti  basilari  che  indicano  la  strada  che  conduce  alla  soluzione  del  problema  della  maternità  sono
stati fissati, non resta che impegnarsi fermamente e risolutamente sul cammino tracciato.

La  repubblica  dei  lavoratori  non  si  limita  a  una  protezione  finanziaria  della  maternità,  al
versamento  dei  sussidi  alle  madri.  Essa  si  sforza  anzitutto  di  cambiare  la  vita,  di  trasformare  le
condizioni  di  esistenza  in  modo  tale  che  la  donna  sia  pienamente  in  grado  di  assumersi  la
responsabilità  della  propria  maternità,  proteggendo  al  tempo  stesso  il  ragazzo  per  il  bene  della
repubblica, circondandolo di tutte le cure necessarie.

Fin  dai  primi  mesi  di  esistenza  della  dittatura  del  proletariato  in  Russia,  il  potere  operaio  e
contadino  si  è  impegnato  a  ricoprire  la  repubblica  dei  lavoratori  con  una  rete  di  organismi  per  la
protezione della maternità e l'educazione sociale. Madre e figlio sono diventati oggetto di particolare
cura per la politica sovietica. Nei primi mesi della rivoluzione il compito principale del Commissariato
del popolo alla previdenza sociale ­ allora Commissariato del popolo all'assistenza pubblica ­ è stato di
tracciare la strada sulla quale doveva svilupparsi la politica della repubblica dei lavoratori nel campo
della protezione degli interessi della donna, in quanto al tempo stesso lavoratrice e madre.

Dal mese di gennaio 1918 al Commissariato del popolo per la previdenza sociale è stata formata
una  commissione  incaricata  della  protezione  della  maternità  ed  è  stata  messa  in  cantiere  la
costruzione  di  un  esemplare  palazzo  della  maternità.  Da  allora,  sotto  l'energica  direzione  della
compagna Vera Pavlovna Lebedeva, la protezione della maternità ha messo solidamente le radici e si è
sviluppata.

Il potere dei soviet viene in aiuto alle donne lavoratrici fin dal momento in cui sono  incinte.  Gli


ambulatori medici per le donne incinte e per i neonati sono diffusi in tutta la repubblica; nella Russia
zarista se ne contavano appena sei, mentre adesso ce ne sono migliaia; altrettanto vale per i centri di
allattamento.

Va  da  sé,  però,  che  il  compito  principale  consiste  nello  sgravare  la  donna  che  lavora
dall'improduttiva fatica costituita dalle cure fisiche praticate ai figli. La maternità non consiste affatto
nella necessità di lavare da sé il proprio figlio, di cambiarlo, di starsene inchiodata alla culla. Il dovere
sociale  della  maternità  consiste  prima  di  tutto  nel  mettere  al  mondo  figli  sani  e  pieni  di  vita.  Per
sociale  della  maternità  consiste  prima  di  tutto  nel  mettere  al  mondo  figli  sani  e  pieni  di  vita.  Per
questo la società dei lavoratori deve porre la donna incinta nelle condizioni più favorevoli, e la donna,
dal canto suo, deve osservare tutte le regole igieniche  prescritte  durante  la  gravidanza,  ricordandosi
che per nove mesi cessa di appartenere a se stessa, che è al servizio della collettività, che «produce»,
con la propria carne e con il proprio sangue, un nuovo lavoratore, un nuovo membro della repubblica
del lavoro.

Il  secondo  dovere  della  donna  dal  punto  di  vista  del  compito  sociale  della  maternità,  consiste
nell'allattare lei stessa suo  figlio.  Soltanto  la  donna,  membro  della  collettività  lavoratrice,  che  abbia
allattato  lei  stessa  suo  figlio,  ha  il  diritto  di  dire  di  aver  compiuto  il  proprio  dovere  sociale  nei  suoi
confronti.  Le  altre  cure  richieste  dalla  nuova  generazione  possono  essere  messe  a  carico  della
collettività. Certamente l'istinto materno è forte, non bisogna lasciare che esso si dilegui.  Ma  perché
questo  istinto  dovrebbe  limitarsi  strettamente  all'amore  e  alle  cure  praticate  unicamente  al  proprio
figlio?  Perché  non  dare  a  questo  istinto,  prezioso  per  l'umanità  lavoratrice,  la  possibilità  di
germogliare abbondantemente e di fiorire fino al suo stadio superiore: la cura dei figli che non sono i
propri ma che sono altrettanto bisognosi, le tenere carezze per i figli altrui?

La parola d'ordine: «sii una  madre  non  solo  per  tuo  figlio  ma  per  tutti  i  figli  degli  operai  e  dei
contadini»  deve  insegnare  alle  donne  lavoratrici  una  maniera  nuova  di  concepire  la  maternità.  È
ammissibile per esempio che una madre spesso perfino comunista, rifiuti il proprio seno a un bimbo
che deperisce per mancanza di latte unicamente perché non è suo figlio? L'umanità futura, comunista
nelle  sue  concezioni  e  nei  suoi  sentimenti,  sarà  altrettanto  stupefatta  da  un  tale  atto  di  egoismo
antisociale quanto lo siamo noi stessi quando leggiamo che una selvaggia la quale amava teneramente
suo figlio, mangiava con appetito i figli delle donne di un'altra tribù.

Altra  anomalia:  è  ammissibile  che  una  madre  privi  suo  figlio  del  latte  del  suo  seno  per  non
prendersi  questo  incarico?  In  URSS  è  un  fatto  evidente  che  il  numero  dei  trovatelli  è  ancora
grandissimo. Certamente questo  fenomeno  è  dovuto  al  fatto  che  da  noi  il  problema  della  maternità
non è ancora risolto, ma in via di risoluzione. Nel nostro difficile periodo  di  transizione centinaia  di
migliaia di donne sono oppresse da questo duplice fardello: il lavoro salariato e la  maternità.  Non  ci
sono abbastanza nidi d'infanzia, case per bambini, case di maternità, i sussidi in denaro non seguono
l'ascesa  dei  prezzi  sul  mercato,  e  tutto  ciò  costringe  l'operaia  e  l'impiegata  a  temere  il  fardello  della
maternità, obbliga parecchie madri ad «abbandonare» allo Stato i propri figli. Ma questo aumento del
numero  dei  bambini  abbandonati  testimonia  altresì  il  fatto  che  le  donne  della  repubblica  dei
lavoratori  non  hanno  ancora  preso  coscienza,  in modo fermo, del fatto  che  la  maternità  "non  è  una
faccenda privala bensì un dovere sociale".

I  compagni  che  militano  tra  le  donne  dovranno  concentrare  la  loro  attenzione  su  questo
problema: bisognerà che spieghino alle operaie, alle contadine, alle impiegate quali sono i doveri che
comporta  la  maternità  nella  nuova  situazione  della  nostra  repubblica.  Al  tempo  stesso,  però,
bisognerà  rafforzare  il  lavoro  di  sviluppo  della  rete  per  la  protezione  della  maternità  e  l'educazione
sociale.  Più  facilmente  le  madri  potranno  conciliare  il  lavoro  e  la  maternità,  meno  fanciulli
abbandonati  ci  saranno.  La maternità non significa affatto che  il  figlio  debba  restare  costantemente
accanto  alla  madre,  che  sia  lei  a  consacrarsi  alla  sua  educazione  fisica  e  morale.  Mettere  i  bambini
nelle condizioni più normali e più sane per la loro crescita e il loro sviluppo: di tal genere è la giusta
concezione dei doveri della madre nei confronti dell'infanzia.

In quale classe della società borghese si trovano i bambini più sani, i più floridi? Nella classe dei
benestanti,  ma  in  qualche  caso  in  quella  dei  poveri.  A  che  cosa  è  dovuto  ciò?  Al  fatto  che  le  madri
borghesi  si  sono  completamente  consacrate  all'educazione  dei  loro  figli?  Niente  affatto.  Le  mamme
borghesi  scaricano  volentieri  le  cure  per  i  figli  sulla  forza­lavoro  salariata:  balie,  bambinaie
governanti. È solo nelle famiglie prive di denaro che le madri portano tutto il peso della maternità, ma
allora i figli sono generalmente abbandonati a se stessi, i loro educatori sono il caso e la strada. Nella
classe  operaia  e  in  generale  negli  stati  poveri  della  popolazione  dei  paesi  borghesi,  i  figli  restano
accanto  alla  madre  ma  muoiono  come  mosche;  quanto  a  una  educazione  normale,  non  se  ne  parla
accanto  alla  madre  ma  muoiono  come  mosche;  quanto  a  una  educazione  normale,  non  se  ne  parla
neppure. Perfino nella società  borghese  una  madre  cosciente  e  progressista  si  affretta  a  trasmettere
alla società almeno una parte delle cure per il figlio: lo  manda al giardino  d'infanzia,  a scuola, nella
colonia estiva. Una madre cosciente comprende che l'educazione sociale offre al figlio proprio ciò che
non può dargli l'amore più esclusivo, l'amore materno. Negli strati  ricchi  della  società  borghese, nei
quali  si  attribuisce  un  grande  valore  all'educazione  normale  dei  bambini  ­  beninteso  nello  spirito
borghese ­ i genitori affidano i loro figli nelle mani di bambinaie specializzate, infermiere, pedagoghi,
igienisti.  Persone  salariate  hanno  sostituito  la  madre  nelle  cure  fisiche  e  nell'educazione  morale
fornita  ai  bambini;  in  realtà  le  madri  hanno  conservato  un  unico  obbligo,  naturale  e  inevitabile:
mettere i figli al mondo.

La repubblica dei lavoratori non strappa con la forza i figli alle madri  ­  come  asserivano  al  loro


tempo  i  paesi  borghesi  quando  descrivevano  gli  orrori  del  regime  bolscevico  ­  ma  essa  si  sforza  di
creare istituzioni che diano, non solo alle donne ricche ma a tutte le madri, la possibilità di educare i
loro figli in condizioni sane, normali, felici per loro. Invece del fatto che la madre scarichi la cura dei
figli su una balia salariata, la repubblica dei soviet vuole che ogni madre, operaia o  contadina,  possa
andare al lavoro serenamente, sapendo che il suo piccolo è al nido d' infanzia, alla scuola materna o
all'asilo­nido.

Nell'atmosfera sana degli istituti di educazione sociale ­ educazione che in URSS va  dalla  prima


infanzia fino all'età di sedici anni ­ sotto la direzione di pedagoghi e di medici e sotto il controllo delle
madri stesse (c'è l'obbligo, nei nidi d'infanzia, di un periodo di  permanenza  della  madre),  i  fanciulli
crescono  nelle  condizioni  necessarie  alla  formazione  dell'uomo  nuovo.  I  costumi  e  l'atmosfera  che
regnano  nei  nidi,  nelle  case  e  nei  giardini  d'infanzia  inculcano  loro  gli  aspetti  del  carattere  e  le
abitudini  che  saranno  necessarie  ai  costruttori  del  comunismo.  L'uomo  formato  in  questi  istituti  di
educazione sarà decisamente più adatto a vivere in una comunità di lavoratori di chi  ha  trascorso  la
sua infanzia nella chiusa sfera delle egoistiche abitudini della famiglia.

I bambini che, fin dai primi anni della rivoluzione, sono stati messi nei nidi e nelle case d'infanzia
non assomigliano a quelli che sono stati educati da una mamma individualista e traboccante d'amore.
Nei primi le abitudini collettive sono solidamente introdotte: essi sono anzitutto esseri le cui strutture
mentali sono strutture «di gruppo». Scenetta  ­  abituale  in  una  casa  d'infanzia:  il  «nuovo»  rifiuta  di
fare  quello  che  fa  il  gruppo  cui  appartiene;  il  gruppo  circonda  il  «nuovo»,  gli  fornisce  delle
spiegazioni. Si può non andare a passeggio quando tutto «il nostro gruppo» ci va? Ci si può rifiutare
di pulire e di rassettare quando «il nostro gruppo» è di servizio? Si può far rumore quando «il nostro
gruppo» lavora? Non  si  sviluppa  in  loro  il  senso  della  proprietà.  «Da  noi  non  esiste  il  tuo  e  il  mio:
tutto è di tutti», spiega con aria seria un marmocchio di  quattro  anni.  In  cambio,  un  atteggiamento
economico  verso  chi  appartiene  al  «gruppo»  è  una  regola  fondamentale  della  vita  dei  bambini.  E  i
bambini puniscono da se stessi quelli che sperperano i «nostri» beni, i beni della casa d'infanzia.

Allo  scopo  di  proteggere  la  donna  in  quanto  generatrice  di  discendenza,  la  repubblica  dei
lavoratori ha creato fin dai primi anni della rivoluzione delle case di maternità in ogni luogo in cui se
ne sentiva bisogno in modo acuto. Queste case di maternità permettono non solo alla donna sola di
trovare un rifugio nel periodo più difficile della sua vita, ma anche alle donne che hanno una famiglia,
durante gli ultimi mesi di gravidanza e i primi mesi di vita del bambino, di sfuggire per qualche tempo
alla casa, alla famiglia, alle sue inevitabili,  meschine  preoccupazioni, per  consacrarsi  completamente
al ristabilimento delle proprie forze e all'attenzione per il bimbo durante le  prime  settimane  ­  le  più
importanti ­ della sua esistenza. Più tardi gli occhi della madre contano molto meno ma  sembra  che
durante  le  prime  settimane  esista  ancora  tra  madre  e  figlio  una  specie  di  legame  fisiologico,  e,  in
questo periodo, non è razionale separarli.

Per  le  madri  operaie  e  impiegate  ci  sono  nidi  d'infanzia  organizzati  dall'azienda  e
dall'amministrazione,  o  semplicemente  nidi  d'infanzia  municipali,  di  quartiere.  Inutile  sottolineare
che questi nidi arrecano alle donne che lavorano un sollievo considerevole. Per nostra disgrazia, non
ne abbiamo abbastanza, non possiamo soddisfare neppure la decima parte dei bisogni delle madri con
ne abbiamo abbastanza, non possiamo soddisfare neppure la decima parte dei bisogni delle madri con
istituzioni di aiuto di questo tipo.

Oltre  ai  nidi  e  alle  case  d'infanzia  ­  dove  sono  allevati  gli  orfani  e  i  fanciulli  abbandonati  fino
all'età  di  tre  anni  ­  la  rete  di  educazione  sociale,  destinata  ad  alleggerire  le  madri  di  opprimenti
preoccupazioni, comprende ancora: i giardini d'infanzia per bambini dai tre ai sette anni, i pensionati
per l'infanzia per fanciulli in età prescolastica, i club per l'infanzia e infine le case comuni e le colonie
di lavoro per i giovani. Rientrano in questa rete di educazione sociale, destinata a trasferire la cura dei
bambini  dai  genitori  allo  Stato,  anche  le  mense  gratuite  per  scolari  e  fanciulli  in  età  prescolastica,
delle  quali  fu  l'anima  la  compagna  Vera  Velitchkina,  morta  nel  1919  al  suo  posto  di  rivoluzionaria.
Questa  misura  ci  ha  molto  aiutati  nei  duri  anni  della  guerra  civile,  e  ha  salvato  non  pochi  figli  di
proletari dall'inedia e dalla morte. La sollecitudine dello Stato nei confronti  dell'infanzia  si  completa
inoltre  con  le  distribuzioni  gratuite  di  latte,  l'assegnazione  di  razioni  supplementari  ai  bambini,  la
fornitura di vestiti e di scarpe a quelli che più ne hanno bisogno.

Evidentemente,  tutte  queste  imprese  sono  lungi  dall'essere  state  portate  a  termine  in  pratica;
finora non abbiamo toccato che un cerchio molto ristretto della popolazione. In quel che facciamo per
alleggerire  la  coppia  del  pesante  compito  di  educare  i  figli,  la  nostra  principale  insufficienza  non
deriva dal fatto che abbiamo scelto una via sbagliata, ma dal fatto che non siamo in grado, data l'ancor
considerevole  mancanza  di  organizzazione  della  nostra  economia,  di  realizzare  completamente  il
piano  di  educazione  sociale  tracciato  dal  potere  dei  soviet.  La  linea  definita  dalla  repubblica  dei
lavoratori per risolvere il problema della maternità è giusta. Ma la condizione delle nostre risorse è di
ostacolo alla sua realizzazione.

Per il momento si tratta solo di esperimenti di modesta ampiezza. Tuttavia essi hanno già fornito
dei risultati. Queste misure hanno rivoluzionato il modo di vita familiare e apportato un cambiamento
radicale nelle relazioni tra i sessi.

Così, uno dei compiti del potere sovietico consiste nel porre la donna in condizioni tali che la sua
attività  non  sia  assorbita  da  un  lavoro  improduttivo  di  mantenimento  della  casa  e  dei  figli,  ma  sia
consacrata alla creazione di nuove ricchezze, allo  Stato,  alla  collettività  lavoratrice  Nel  tempo  stesso
bisognava salvaguardare gli interessi della donna e la vita dei figli, dando alla donna la possibilità di
conciliare  il  lavoro  e  la  maternità.  Fin  dai  primi  giorni  della  rivoluzione  il  potere  dei  soviet  si  è
sforzato di creare condizioni di vita tali che in ogni caso la moglie non si trovi incatenata a un marito ­
divenutole odioso ­ semplicemente perché con i figli sulle braccia non ha posto in cui andare, e tali che
la madre nubile non debba più temere di perdere suo figlio e di morire lei stessa solo perché non  sa
dove  sbattere  la  testa.  Nella  nostra  repubblica  non  spetta  né  ai  filantropi  né  all'umiliante  carità  di
aiutare  la  donna  che  lavora,  ma  sono  i  suoi  compagni  che  lottano  per  la  creazione  di  una  società
nuova, gli operai e i contadini che devono sforzarsi di alleviare la donna del fardello della maternità.
La donna, che porta allo stesso modo dell'uomo il peso del riassestamento economico, la donna che ha
preso parte alla guerra civile, ha il diritto di esigere a sua volta dalla repubblica dei lavoratori che in
un grave momento della sua vita ­ nel momento in cui sta per dare un nuovo membro alla società ­ la
collettività si prenda l'incarico della sua salute e del futuro del suo piccolo cittadino. Di tal genere è la
nostra  politica  nel  campo  della  protezione  delle  madri.  Evidentemente  però,  nella  pratica,  siamo
ancora fortemente in ritardo rispetto all'ideale.

Nondimeno,  le  attività  e  le  realizzazioni  del  servizio  di  protezione  della  maternità  e  del  settore
dell'educazione  sociale  aumentano  e  si  ampliano.  Ma  non  è  ancora  abbastanza.  Il  periodo  di
transizione  della  dittatura  del  proletariato  pone  la  donna  in  condizioni  particolarmente  difficili:
l'antico è distrutto, ma il nuovo è ancora solo in via di creazione. Il partito e il potere dei soviet devono
accordare  doppia  attenzione  al  problema  e  ai  mezzi  per  risolverlo.  Se  esso  sarà  risolto  nella  giusta
maniera  non  sarà  solo  la  donna  a  guadagnarci,  ma  la  produzione  intera  della  repubblica,  tutta
l'economia nazionale.

Restano da dire alcune  parole  a  proposito  di  una  questione  strettamente  connessa  al  problema
Restano da dire alcune  parole  a  proposito  di  una  questione  strettamente  connessa  al  problema
della maternità, vale a dire l'atteggiamento della repubblica sovietica nei confronti dell'aborto. Con la
legge del 20 novembre 1920 la repubblica dei lavoratori ha riconosciuto che l'aborto non è un delitto.
Questa  legge  è  stata  promulgata  grazie  all'iniziativa  e  all'ardente  partecipazione  della  sezione
femminile. Qual è la motivazione di tale atteggiamento in questa questione? Riconosciamo che l'URSS
non  soffre  certo  per  sovrabbondanza  di  forza­  lavoro,  ma  piuttosto  per  scarsità.  L'URSS  non  è  un
paese sovrappopolato, bensì sottopopolato. Da noi la forza­lavoro è contata. Come si è potuto, allora,
decretare che l'aborto non era condannabile? Nella sua politica il proletariato non ama l'ipocrisia, né
la  tartuferia.  L'aborto  è  un  fenomeno  connesso  al  problema  della  maternità,  è  conseguenza  della
precaria situazione delle donne (non parliamo della classe borghese, in cui l'aborto ha cause diverse:
disgusto  di  «dividere  l'eredità»,  disgusto,  da  parte  di  donne  avide  di  un'esistenza  senza
preoccupazioni, di  sopportare  le  sofferenze  della  maternità,  di  sfigurare  la  loro  silhouette,  di  essere
tenute in disparte, per qualche mese, da una «stagione di piaceri» eccetera).

L'aborto  esiste  e  prospera  in  tutti  i  paesi,  e  né  leggi,  né  misure  di  repressione  hanno  potuto
estirparlo. Esistono sempre dei mezzi per aggirare la legge. Ma  l'«aiuto  clandestino»  finisce  solo  col
mutilare le donne, col farne per lungo tempo un peso per lo Stato dei lavoratori, e col diminuire in fin
dei conti la quantità di forza­ lavoro. Un  aborto  praticato  nelle  condizioni  di  un  normale  intervento
chirurgico  è  molto  meno  nocivo,  molto  meno  pericoloso.  La  donna  può,  in  questo  caso,  tornare
rapidamente al suo lavoro. Il  potere  dei  soviet, consapevole  che  l'aborto  scomparirà  solo  quando  da
una  parte  la  repubblica  disporrà  di  un'ampia  rete  di  istituti  di  protezione  della  maternità  e  di
educazione sociale e dall'altra le donne saranno ben ancorate all'idea che mettere al mondo un figlio
sano  è  per  loro  un  dovere  sociale,  ha  quindi  ammesso  la  pratica  dell'aborto  alla  luce  del  sole,  in
condizioni cliniche sane. La necessità dell'aborto sarà egualmente diminuita dalle misure igieniche di
regolamentazione delle nascite.

Il  compito  della  repubblica  dei  lavoratori  consiste  nel  consolidare  nelle  donne,  attraverso  un
ampio sviluppo della protezione della maternità, un sano istinto materno, nel rendere compatibile la
maternità con il lavoro per la collettività. eliminando così la necessità dell'aborto. Tale è il modo in cui
la repubblica dei lavoratori ha affrontato la soluzione di questo problema, che ancora si pone, in tutta
la sua ampiezza, alle donne dei paesi borghesi.

Le  donne  degli  Stati  borghesi  si  dibattono  nella  penosa  situazione  generata  dalla  guerra
mondiale, soccombono sotto un duplice fardello: il lavoro salariato per il capitale e la maternità. Nella
Russia dei lavoratori, al contrario, l'operaia e la contadina, aiutando il partito comunista a costruire le
basi di una nuova economia, distruggono il vecchio modo di vita che faceva della donna una schiava.
Dal  momento  in  cui  la  donna  sarà  diventata,  dal  punto  di  vista  dell'economia  nazionale,
un'indispensabile  individualità  lavoratrice,  sarà  trovata  la  chiave  che  permetterà  di  risolvere  le
complesse  e  fondamentali  questioni  della  sua  esistenza.  Nella  società  borghese,  in  cui  l'economia
domestica è parte integrante del sistema economico capitalistico, in cui la proprietà privata genera la
stabilità del chiuso quadro familiare, le donne che lavorano non hanno via d'uscita.

La liberazione della  donna  non  può  compiersi  che  attraverso  una  trasformazione  radicale  della
vita  quotidiana.  E  la  vita  quotidiana  stessa  non  sarà  trasformata  che  attraverso  una  ricostruzione
radicale di tutta la produzione, sulle nuove basi dell'economia comunista.

Una rivoluzione nella vita quotidiana si sta effettuando sotto i nostri  occhi:  essa  si  espande  e  si


approfondisce, e con essa vediamo entrare nella vita, nella pratica, la liberazione della donna.

Note
1.  Nei  feti  abortiti  dei  proletari  si  trovano  spesso  tracce  di  piombo,  mercurio,  radio,  fosforo,
nicotina e altri veleni.

2. L. Braun, "Professione e maternità".

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Ultima modifica 18.05.2010

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