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VIOLENZA DOMESTICA. UNA PERVERSIONE SOCIALE. – C.

SCAGLIOSO

CAPITOLO 1

(LEGGI-GIORNALISTI). La violenza domestica ed il conseguente femminicidio è la prima causa di morte delle donne in
Europa. È necessario sviluppare percorsi formativi di modo da evitare che i numeri di donne morte in quanto donne
crescano ulteriormente. È importante considerare le così dette “3 P”: Prevenzione, Protezione, Persecuzione;
prevenzione nei principali centri di formazione (scuole, università, famiglia) attraverso la sensibilizzazione sulle
tematiche della violenza di genere; protezione delle donne vittime di violenza e dei minori vittime di violenza assistita
attraverso il Piano di Protezione, i Centri antiviolenza e le case-rifugio per ridare autonomia e dignità alle vittime;
persecuzione degli abusanti attraverso la velocizzazione delle denunce riguardanti la violenza di genere e attraverso
una adeguata formazione dei professionisti della legge e delle forze dell’ordine. Da non dimenticare sono i Centri
Antiviolenza alla quale dobbiamo i primi dati sulla violenza sulle donne (2006) e il gran lavoro su tutto il territorio
attraverso iniziative di formazione e prevenzione, ma anche protezione e aiuto delle vittime; questi centri sono
garantiti dalla l.119/2013 art. 5 bis il quale garantisce la presenza di questi attraverso finanziamenti statali continuati.
(1992: coniato il termine femminicidio, diverso da omicidio) Nonostante il panorama legislativo italiano su questa
tematica sia abbastanza vasto, le informazioni sono troppe, poco accurate e non guardano all’ambiguità dei casi.
Nell’ottobre 2018 è stato presentato il disegno di legge Codice Rosso che apporta modifiche al Codice di Procedura
Penale (disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere) per intervenire sulla rapidità
di intervento sui casi: trattamento immediato delle denunce così che gli inquirenti possano organizzarsi per prevenire
reati più gravi con provvedimenti protettivi; attenzione alle forme sommerse di violenza; viene condannato l’uso
improprio di mediazione e riconciliazione nel caso di donne vittime; forze dell’ordine e professionisti della legge
devono intraprendere rapporti con centri antiviolenza e servizi sanitari e sociali per la tutela delle vittime; obbligo di
una corsia di preferenza per le denunce riguardanti violenza di genere dove l’incolumità della donna è a rischio;
obbligo della polizia giudiziaria di comunicare subito al PM le notizie del reato per maltrattamenti, violenza sessuale,
atti persecutori, lesioni in famiglia; ascolto della vittima da parte del PM entro 3 giorni dall’inizio del procedimento
giudiziario; obbligo della polizia giudiziaria a dare priorità allo svolgimento di indagini del PM senza valutazioni
discrezionali sull’urgenza; obbligo per le forze dell’ordine di formazione tramite frequenza a corsi che forniranno
competenze indispensabili per relazionarsi con le vittime e per la prevenzione e repressione. Oltre che sulle vittime
sono necessari interventi sostanziali sugli abusanti, che possono usufruire di Case di Rieducazione per Uomini
Violenti (quasi mai lo fanno di loro spontanea volontà, necessario obbligo del giudice) ed essere assistiti da tutor con
adeguata formazione (meglio se un uomo e una donna) per la presa delle proprie responsabilità e per il
riconoscimento del male causato (quali sono le motivazioni per cui l’hai fatto?). E’ importante ricordare che i
femminicidi sono soltanto l’ultima tessera di un complicato disegno creato nella mente dell’abusante, un disegno che
spesso parte dalla violenza psicologica per poi arrivare a quella fisica, ed infine come finale del piano di distruzione
ed annientamento il femminicidio, dovuto a reazioni degli uomini davanti alla ribellione o alla richiesta di autonomia
delle donne. NON E’ UN ATTO IMPREVEDIBILE. Il femminicidio ha 2 cosanti: 1) non è quasi mai commesso da un
uomo sconosciuto alla vittima; 2) viene commesso con ferocia brutale. I femminicidi accendono un allarme nella
società ma mai abbastanza forte da far applicare veramente dei percorsi ben strutturati di protezione delle donne in
ogni settore e di educazione degli uomini fin da piccoli. Il fatto che esistano vari tipi di violenza rende ancora più
complesso il panorama: si fatica a vedere la violenza fisica che lascia segni, figuriamoci quella psicologica che agisce
come violenza sommersa. Le donne vengono considerate corresponsabili del male subito, viste come ribelli che
potrebbero mettere in pericolo la dignità e il nome della famiglia, che non sanno stare al proprio posto perché “è
sempre funzionato così”, che potrebbero avere ragione ma non troppa perché se il marito reagisce in un determinato
modo “un motivo ci sarà”. Da sempre viste come figure di accudimento e cura, mai sopra le righe, mai volgari e
dedite completamente alla famiglia: ancora oggi in molte società questa è la visione che rende cieche le persone alla
vista dei maltrattamenti e delle violenze subite in quanto donne. Le iniziative in alcune parti del territorio vengono
svolte ma spesso le famiglie guardano con timore tutto ciò, con diffidenza: i bambini considerati da loro come troppo
piccoli e innocenti per vedere come va il mondo, oppure inutile perdere tempo su queste tematiche perché è sempre
funzionato così; insistono a chiudere i propri figli in bolle immaginarie dove niente può scalfirli. In Italia purtroppo ci
sono ancora molte disuguaglianze di genere in molti settori, in primis quello lavorativo: le lotte femministe degli anni
’70 hanno apportato cambiamenti, ma purtroppo non così definitivi (dobbiamo sempre difendere i nostri diritti, da
un momento all’altro possono portarceli via). La donna, vista solo come figura di cura e di sostegno per il Capo
Famiglia è da sempre sottovalutata, come sono da sempre state sottovalutate le sue emozioni ed il suo sviluppo: da
sempre repressa per essere ciò che gli altri vogliono, non si dedica mai allo sviluppo di un proprio Sé forte e coeso,
cosa necessaria per lo sviluppo di una personalità forte. Nella società odierna la superiorità maschile disgusta e non
viene tollerata, eppure ancora in molti settori viene manifestata con non chalance; i ruoli fissi e prestabiliti durante i
secoli per uomini e donne stanno cambiando, facendo posto a scambi di ruoli sempre più frequenti: uomini che
valorizzano e mostrano la propria sensibilità ed i propri sentimenti, donne che mostrano la propria forza,
l’intelligenza, la propria autonomia (grazie anche alle lotte femministe-omosex). Pensando a questa nuova ottica non
possiamo non nominare i rigidi modelli di genere imposti a bambini e bambine, con colori, giochi e sport imposti in
base al genere di appartenenza: la non conformazione attraverso ciò al proprio genere spesso porta all’esclusione
dalla famiglia e dal gruppo dei pari, con conseguente bullismo per la “devianza” del soggetto. Tutto ciò ha portato ad
una rigida ed inflessibile visione di uomini e donne in un binarismo ideale (ormai fallito) che mette in
contrapposizione i due creando più danni che benefici, soprattutto a causa della cultura sessista; le continue
dicotomie create fanno sì che si creino differenze idealizzate per la quale possono nascere violenze di ogni tipologia.
Necessario è parlare della rappresentazione della donna nei media e del filo sottilissimo che c’è tra la liberazione del
corpo delle donne e la mercificazione di esso: abbiamo assistito e assistiamo tutt’ora ad un’immagine della donna
creata per il soddisfacimento dei bisogni idealizzati dell’uomo, soprattutto a sfondo sessuale; ci sono stati leggeri
miglioramenti nei media e in molti spot pubblicitari, ma ciò non basta a cambiare la radicata mentalità delle persone.
Teorie recenti hanno esposto il problema della violenza e dei femminicidi in un’ottica diversa: essi nascerebbero dalla
reazione dell’uomo all’estrema femminilizzazione della società; l’uomo, vedendosi togliere il ruolo di capo famiglia, di
vir, e vedendo la donna prendere posti “tipicamente da uomo” reagirebbe attraverso scatti di rabbia e di violenza.
Altra ragione sarebbe la visione femminile della società: il consumo sopra la produzione, l’economia prima della
politica, la globalizzazione, l’importanza data alla sessualità, alle emozioni, alla cura di sé stessi e degli altri,
all’estetica. La concezione cattolica ovviamente non ha aiutato ha migliorare la visione della donna da parte della
società: dedita alla cura, alla famiglia, al sostegno sentimentale e sessuale del marito, al soddisfacimento dei
bisogni… non può permettersi altro. (ANIMUS E ANIMA). Importante dire che in noi esistono delle dicotomie: il bene
(pulsioni di vita) ed il male (pulsioni di morte); in ognuno di noi alberga una bestia feroce pronta ad uscire fuori, che
possiamo decidere di alimentare o trasformare: ma non è essa che fa violenza sulle donne, piuttosto è una bestia
educata al sessismo e alla misoginia. NON E’ IL MASCHILE AD ESSERE MALATTIA INCURABILE: E’ LA CONCEZIONE
RIGIDA DELLE NOSTRE IDENTITA’ CHE ALIMENTA LA LOTTA TRA QUELLO CHE SIAMO E QUELLO CHE VORREMMO
ESSERE, E CI RENDE CREATURE DISSOCIATE CHE NON ACCETTANO LA VULNERABILITA’. Diventa fondamentale a
questo punto parlare del potere delle parole: la pervasività della violenza sta nei flussi comunicativi che
contribuiscono a creare ideali condivisi; gli effetti della comunicazione modificano e modellano i nostri schemi di
rappresentazione e interpretazione: vengono trasfigurate espressioni quotidiane che inconsapevolmente divengono
classificazione e giudizio e concorrono a perpetuare relazioni di poter asimmetriche (parole capaci di azioni di magia
sociale). Nel nostro linguaggio permangono retaggi di un codice comunicativo che è stato ostile al femminile (donne
risultano ancora nei nostri linguaggi oggetti di dominio e non soggetti di diritto); la donna è collegata alle sfere
semantiche di cura e accudimento ma anche in altre e tra loro tendono ad escludersi (la moglie/madre in un luogo, la
puttana in un altro); queste categorie sono state interiorizzate attraverso il sistema linguistico presente nell’ambiente
dove siamo cresciuti e contribuiscono all’esercizio di un dominio simbolico che svaluta e denigra le donne rendendole
già vittime. (SISTEMA SPECCHIO).
CAPITOLO 2

Sia vittima che abusante non hanno un identikit “fisso”, ma sia nell’una che nell’altro è possibile riscontrare
caratteristiche per così dire standard: vittima → dedita alla cura della famiglia, molto empatica, forti valori morali,
ansia di perfezione comune a tutto il genere femminile; abusante → RIASSUNTO. Le vittime, oltre che soggette a
violenza da parte dell’uomo, sono vittime anche delle istituzioni e della società: questo viene chiamato
vittimizzazione secondaria, ovvero il processo attraverso il quale la vittima viene colpevolizzata, non creduta,
minimizzata, presa come corresponsabile delle violenze subite. Quando pensiamo alla violenza domestica non
dobbiamo credere che questa sia frutto di raptus momentanei, come spesso i media vogliono presentarci, ma anzi ha
forma perfettamente strutturata, ciclica e continuata (tanto da creare un vero e proprio clima per dissociare e
indebolire la vittima passo per passo), mirata all’annientamento e alla spersonalizzazione della vittima, per questo è
necessario il contributo di tutte le scienze per una visione d’insieme che attui programmi di prevenzione fin dalla
giovane età delle persone attraverso gli enti formativi. Altro tipo di violenza aberrante è la violenza psicologica,
peggiore di quella fisica per i danni che lascia, maggiori e persistenti: se ovviamente la violenza fisica lascia lesioni e
cicatrici abbastanza facilmente rimarginabili, quella psicologica lascia profonde cicatrici invisibili nel nostro cervello
(traumi) che possono portare a gravi conseguenze quali ansia, disturbo post traumatico da stress, depressione,
suicidio; da non dimenticare è soprattutto la visione che la società e le istituzioni hanno della violenza psicologica:
spesso fatichiamo a riconoscere quella fisica, figuriamoci a riconoscere una tipologia di violenza che lascia segni
invisibili e di alta ambiguità per essere subito riconosciuti. Nel nostro sistema legislativo sono state introdotte leggi
che tutelano e cercano di proteggere le vittime anche dalle forme di violenza sommersa, ma sono difficili da applicare
a causa del carattere perverso delle azioni e dalle reazioni delle vittime (ritorno dal partner, tattiche di coping,
negazione della violenza): servono prove importanti, video, registrazioni audio, foto, testimonianze dirette di persone
che hanno visto e sentito ma 1) ciò significa che la vittima non potrà essere protetta perché per avere le prove dovrà
continuare a subire violenza 2) le violenze avvengono in ambiente privato, l’abusante con astuzia lascia la sua ferocia
tra le mura di casa per non destare sospetti e ciò rende quasi impossibile avere testimonianze esterne, per non
parlare del deserto relazionale che lascia intorno alla vittima in modo da non avere intralci. Ciò significa denunciare la
violenza e non poterla provare; oltretutto in un processo penale è ammessa la testimonianza della sola offesa per
provare la colpevolezza dell’abusante, che deve essere credibile secondo l’apprezzamento del giudice. Altra cosa da
ricordare è che purtroppo le donne continuano ad essere le peggiori nemiche delle donne, in quanto preimpostano la
propria visione rigida del genere femminile in ruoli di cura e accudimento e ciò porta a dare sfiducia alle donne
vittime, viste come troppo martiri o esibizioniste in un mondo dove è sempre funzionato così. Spesso pensiamo che
le donne vittime siano persone poco acculturate, con bassi livelli di studio e con lavori di basso rango, ci sbagliamo: la
maggior parte delle vittime è ben acculturata con almeno diploma e quasi sempre la laurea, quasi mai disoccupata;
anche l’abusante non è mai poco acculturato, anzi, presenta alti livelli di acculturazione e scaltra intelligenza (ciò
dimostra come attua le violenze in modo astuto e disumanizzante). Più alto è il rango di appartenenza della vittima e
più essa se ne vergogna cadendo in un silenzio di vergogna, vittimizzazione e colpevolizzazione, accerchiato da un
silenzio ancora più assordante del mondo che circonda la coppia abusante/vittima, mondo testimone e allo stesso
tempo impassibile (e quindi complice) delle violenze perpetrate. Concetto importante è quello di sudditanza
psicologica: la vittima viene isolata dalle proprie relazioni (amici, parenti), viene spersonalizzata e denigrata
continuamente attraverso la tattica del gaslighting di modo da toglierle ogni percezione delle violenze subite; essa nel
frattempo attende un cambiamento da parte del partner, crede che potrà cambiare e che infondo sono soltanto
momenti passeggeri di conflitto che però lei non sa gestire: così facendo si colpevolizza e prova vergogna e disprezzo
per sé stessa, da una parte perché crede sia colpa sua e dall’altra perché non riesce ad uscire dalla situazione di
abuso; completamente isolata dal resto del mondo non è più in grado di chiedere aiuto, quando ne è in grado si
vergogna o ha paura di non essere creduta: questo riporta ad una sudditanza psicologica nei confronti del partner
abusante che attraverso tutte queste tattiche riesce a diventare l’unico punto di riferimento forzato della vittima che
continua a ritornare fra le sue braccia; oltretutto la donna è sempre stata educata a dare seconde possibilità (quindi è
una richiesta culturale), siamo state educate a non recidere vincoli relazionali e non siamo state alfabetizzate
adeguatamente alla relazione e ai sentimenti. Questo ciclo di violenze e abusi si può spezzare: attraverso interventi
sostanziali e necessari sia da parte della legge che da parte di enti come centri antiviolenza o case rifugio è possibile
uscire dal dominio dell’uomo sessista e misogino e rinascere diventando agente attivo e non più passivo: ritorna
conscia del suo Sé, cerca insieme a tutor ben formati e professionali di rafforzarlo e farlo diventare coeso per
ritrovare la propria autonomia, le proprie passioni, i propri interessi, la propria identità; la donna rinasce ed esce dal
senso di colpa, riconoscendo le proprie ferite e fragilità per renderle degne di far parte di sé. Ogni donna inoltre ha i
propri tempi di reazione, ma il percorso che porta a troncare la relazione è complesso e non lineare. (REAZIONE
CONSERVATIVA-AZIONE DESTRUTTURANTE). (TRAUMA). Fattore importante dell’atteggiamento di abusante e vittima
può essere il tipo di attaccamento diadico avuto, molto influente: un attaccamento disorganizzato o insicuro può
avere conseguenze sulla personalità dei soggetti. Altra influenza può essere quella data dall’ambiente relazionale dei
soggetti vittime: da sempre creduto come fonte di crescita emozionale, non fa altro che patologizzare le vittime
piuttosto che ascoltarsi e guardarsi allo specchio, dove potrebbe vedere immagini che ne mettono in crisi istituzioni e
tabù. Convinzioni negative rafforzano e sviluppano le proprie radici nella violenza domestica, dove nelle azioni fisiche
e nelle azioni-parole degli abusanti risuonano gli echi di una cultura di sopraffazione. È necessario che la donna si
liberi dal senso di colpa per impossessarsi della propria sofferenza ed elaborarla, di modo da capire le motivazioni
autobiografiche che hanno permesso l’inizio, la continuazione ed il ritorno nella relazione distruttiva. NARCISISTI
PERVERSI POSTIT – RELAZIONE NARCISISTICO PERVERSA POSTIT – VITTIMA DEL NARCISISTA POSTIT.

CAPITOLO 3

(DI COSA E’ FRUTTO LA VIOLENZA DOMESTICA). È possibile discendere dalla ferocia che provoca la violenza attraverso
l’educazione, su ogni piano, soprattutto quello emotivo attraverso strategie formative che potrebbero essere
utilizzate nel recupero-cura di abusanti e vittime e per educazione-antidoto, preventiva dell’abuso e per la
costruzione di Sé solidi e coesi, in modo da non dare vita ad un’agnosia emotiva collettiva; è ancora sulle fondamenta
di un attaccamento insicuro e di una costruzione del Sé inadeguata che si definiscono soggetto abusante e soggetto
abusato, feroce l’uno e dimissionaria l’altra. Parlando di narcisismo è necessario spiegare come questo sia ormai
paradigma dei nostri tempi a causa della nostra mania di esibizionismo e controllo degli altri attraverso le nuove
tecnologie: ciò sembra aver causato un aumento dei disturbi della personalità che non sono più visti come patologie,
non sempre per lo meno, ma come metodi di adattamento alle mutazioni della società e della cultura, quindi
evoluzioni. (NORMOSI). Altro grave problema delle nuove generazione è l’assenza di progettualità: vogliamo sempre
più dimenticare il nostro passato spesso ricco di traumi e disavventure, ma allo stesso tempo il futuro non ci fa
promesse in grado di sviluppare adeguati progetti di vita; viviamo il presente soltanto per il godimento immediato dei
bisogni, che vengono subito sostituiti da altri bisogni che dobbiamo o che gli altri devono essere pronti a soddisfare
subito; mancano l’esplorazione ed il rischio, i giovani preferiscono adagiarsi nella propria comfort-zone senza andare
oltre per paura di scalfire il Sé vulnerabile o per paura di delusione e fallimento. I contatti diventano sempre più fluidi
attraverso i social e ci adagiamo nelle esperienze precarie e già vissute, che però ci infondono quel senso di sicurezza
dato dall’adagiamento in un ambiente che già conosciamo (es. tornare più volte nella stessa relazione per non
rischiare con altre persone). Nasce così una diffusa apatia esistenziale, difficile da sradicare per quanto cementificata
nella nostra mentalità e nelle nostre identità, tanto da portarci a creare dei falsi Sé per proteggere il nostro verso Sé
troppo vulnerabile e poco coeso; dilaga il disimpegno emotivo (scelta per tenersi fuori da impegni emotivi per evitare
le delusioni) e l’etica della sopravvivenza che diventa sinonimo dell’etica dell’aggressività, per questo giustificata dalla
società. L’uomo agirebbe con la violenza per sopravvivere ad una società che lo schiaccia, rifacendosela con chi è
sempre stato più ostile a lui. Siamo diventati esibizionisti sociali attraverso i social, sempre pronti con le nostre
identità fittizie a mostrarci per quello che vorremo essere o per quello che gli altri pensano che noi siamo, vengono
così a mancare i valori, l’autorità e i ruoli fondamentali che causano un forte smarrimento in tutti noi. Sfruttiamo
l’altro per il soddisfacimento dei propri bisogni, senza impegno e lealtà. (KLEIN AMORE E ODIO-DIMENSIONE
DELL’INCONTRO/INVIDIA). Detto ciò, è importante definire cosa è la relazione: è un patto, un insieme di compromessi
con l’altro, ma soprattutto un patto con noi stessi; la perversione dei nostri tempi sta nel desiderio degli oggetti e
nella realizzazione di tale desiderio a tutti i costi, sta nella convinzione che ognuno possa creare da sé e magicamente
possedere il proprio oggetto, assicurandosene la presenza. Ci troviamo di fronte ad un diffuso analfabetismo emotivo
accompagnato da alessitimia (RIASSUNTO) che impedirebbe al violento di identificare e percepire il dolore inflitto.
Diventiamo prigionieri delle nostre emozioni, e l’emozione del prigioniero è rabbia tradotta in aggressione. Il nostro
universo relazionale è disgregato e riprende voce attraverso un insieme di sintomi somatici e psichici. Per queste
motivazioni è necessario liberare l’affettività maschile e le emozioni, viste come mine vaganti nei confronti della
virilità e della misoginia; anche gli uomini possono combattere contro il sessismo e farsi portavoce di un genere che
non ha come caratteristiche l’aggressività e la violenza, è sbagliato identificare la violenza o la perversione con il
genere maschile. Un lavoro strutturato andrebbe fatto anche sull’emotività femminile, da sempre mal curata dato che
le donne sono state abituate da sempre a negare, nascondere e assimilare le loro emozioni per non essere fuori dalle
righe. L’empatia ha bisogno di azione, è necessaria per far sì che il soggetto riconosca le proprie emozioni e quelle
dell’altro, imparando a leggerle e facendo entrare l’altro nel nostro spazio peripersonale: una cultura fondata su
schemi sessisti rigidi non permette empatia tra i generi, ma nemmeno all’interno dello stesso genere se al soggetto
empatizzante manca la coscienza di sé. L’avvento delle nuove tecnologie ha portato cambiamenti sostanziali nella
società odierna, tanto che il rapporto persona-macchina ha apportato una drastica semplificazione ed un nuovo
senso dello spazio e del contatto; il nostro narcisismo ha raggiunto alti livelli a causa della nostra mania di
esibizionismo e al nostro bisogno di visibilità, tanto che entriamo in comunità virtuali prive di vera socialità. Il
contatto tra i corpi viene a mancare, e così le emozioni che si formano nelle relazioni con gli altri, negando quindi
ogni tipo di relazione reale (NEGAZIONE DELLA RELAZIONE POSTIT). Soffriamo di un deficit da lettura delle emozioni
mancando di empatia proprio per colpa del web: vogliamo un’immediatezza nel soddisfacimento dei nostri bisogni,
non accettiamo le non risposte degli altri, li vogliamo sempre a nostra disposizione e quando ciò non avviene
cadiamo nello sconforto e nelle nostre insicurezze pensando di non essere abbastanza per gli altri e per noi stessi.

CAPITOLO 4

Per creare un Sé coeso e forte è necessario fare i conti con le nostre fragilità, assumendoci la responsabilità della
nostra condizione umana. Le scienze pedagogiche possono apportare un sostanzioso contributo, partendo dalla
consapevolezza della non lineare realtà del nostro Sé, dallo smantellamento di immaginari che considerano la sfera
del possesso e del successo come garante di buona vita e dell’appagamento: è una dimensione in cui fluidità,
mutevolezza e l’imprevisto entrano a far parte del nostro vivere e della nostra storia. Per quanto riguarda la
ri-educazione, non rientrano nell’interesse pedagogico i soggetti patologicamente perversi: per essi servono 1)
l’identificazione, 2) una terapia clinica obbligatoria; possono esserci esiti positivi, ma forse non definitivi. L’abusante
dovrà essere in possesso di determinate competenze per far sì che la rieducazione funzioni, competenze
precedentemente smarrite nella perversione che verranno riscoperte attraverso il lavoro dei tutor che metteranno in
pratica processi di riconoscimento del male causato, riconoscimento della colpa, presa di coscienza di tutti gli
avvenimenti. Il lavoro sulla vittima invece sarà di decondizionamento attraverso il riconoscimento del trauma e la
presa di consapevolezza attraverso narrazioni; le ferite verranno rielaborate e riconosciute come degne di stima, per
evadere dal senso di colpa per essersi fatte trattare così. Sarà necessario educare agli strumenti che ci permettono di
costruire la nostra vita interiore e di accedere ad abitudini di pensiero svincolate da condizionamenti ideologici, libere
dal conformismo e critiche verso la rigidità per prenderci cura del nostro Sé in modo da essere in grado di prenderci
cura dell’altro. È necessario un sovvertimento che metta in moto le nostre risorse rispettando i diversi stili cognitivi e
la nostra vocazione narrativa in ogni ordine e grado della formazione; abbiamo bisogno di essere comunità, di offerte
e di riconoscerci come narrazioni vive in modelli relazionali significativi all’interno dei quali i problemi di genere siano
problemi di tutti, e i timori e i dolori vengano esorcizzati nella condivisione concreta. (PSICOTERAPIA+EDUCAZIONE).
È importante educare all’intelligenza emotiva, necessario per dare vita alla propria vita emotiva: non basta
riconoscere i sentimenti e nominarli, è necessario ammettere le proprie fragilità e amare la sua dimensione creativa
condividendola con gli altri. Ovviamente la considerazione da parte la società verso le emozioni non ha aiutato:
considerate come disturbi, sono invece orientatori esistenziali che costruiscono la nostra coscienza; è nella relazione
col mondo che troviamo fonte di senso permanente, e la nostra coscienza si forma nella continua negoziazione tra
interno ed esterno. Negli ultimi anni è sempre più utilizzato il termine “disagio” per descrivere qualsiasi tipo di
disturbo, ansia o timore: andrebbe visto più come una richiesta d’aiuto da parte delle nuove generazioni, smarrite in
un vasto senso di apatia sociale: serve rispondere attraverso l’educazione alle emozioni grazie alle narrazioni in
comunità reali, non virtuali. Narrando la propria autobiografia il Sé si rafforza rendendoci più forti anche nel contesto
sociale dove viviamo, ci rende pronti ad affrontare gli ostacoli della vita. Per far sì che nelle nuove generazioni ci sia
più sicurezza e condivisione concreta è importante un’alfabetizzazione di tutti i linguaggi esistenti, di modo che le
narrazioni diventino nutrimento dell’intelligenza emotiva. (IMPORTANZA DIMENSIONE CORPOREA). Diventa lecito
parlare anche di cultura visiva: il testo verbale non attira più i soggetti, a meno che questo non abbia uno slogan
particolarmente accattivante; leggiamo sempre meno e questo tipo di cultura non educa alle emozioni. (UTILITA’
LINGUAGGIO). Altra necessità fondamentale è quella di togliere l’uomo dalla posizione centrale che ha nell’universo,
intorno alla quale girano sessismo feroce e misoginia, serve più parità in ogni ambito sociale, per rendere la donna
degna come qualsiasi essere vivente. Negli ultimi anni è possibile notare anche come siano cambiati i rapporti
uomo-animale e uomo-natura: il narcisismo dell’uomo è stato in grado assoggettarli, distruggendo il rapporto con la
natura per la propria sete di possesso, capitalistica e sovranista, ma anche quello con gli animali dandogli
caratteristiche umane e assoggettandoli al proprio volere e ai propri bisogni, facendogli prendere il posto di figlio,
fratello o compagno di giochi, scordandoci la sua dimensione selvatica e animalesca. Sarebbe importante invece
ritrovare un rapporto con gli animali dalla quale possiamo apprendere qualcosa di molto importante: accettare le
diversità dell’altro, apprezzandole per quello che sono, senza cercare di cambiare le cose a proprio piacimento per
renderlo simile a noi. Sarebbe importante considerare il linguaggio animale, degno di studi quanto il linguaggio
umano e tutti gli altri tipi di linguaggio. Dopo tutto ciò diventa fondamentale spiegare l’importanza delle narrazioni,
per accettare e conoscere meglio il nostro Sé e quello altrui, per accettare le nostre fragilità, i nostri difetti e le nostre
ferite, di modo da creare un Sé compatto e resistente alle esperienze traumatiche della vita. (AUTOBIOGRAFIA). Per
questo la giusta cura delle vittime di violenza può essere proprio la narrazione dei propri traumi, della propria vita:
attraverso la riabilitazione narrativa si riesce a superare il trauma; non si cancella, ma si impara a conviverci
esorcizzandolo. La narrazione per essere efficace non deve avvenire solo tra paziente e terapeuta, ma è meglio se
condivisa all’interno di un gruppo di persone con simili esperienze a quelle della paziente, di modo che i membri della
nuova comunità vengano viste come compagne di sventura e che si sviluppi la giusta dimensione comunitaria e
cooperativa che strappa le vittime dalla colpevolizzazione. Attraverso il proprio racconto e quello delle altre
impariamo ad ascoltare e ascoltarci, impariamo a nominare emozioni e sentimenti e diamo vita alla nostra vita
emotiva sommersa dalla violenza che ci aveva dissociate dalla realtà. Argomento importante a questo punto è il
perdono: non è impossibile che una vittima perdoni il suo aguzzino, ma molto improbabile e raro dato che la
rappresentazione del passato dovrà essere su una memoria pacificata; per far sì che avvenga, prima di tutto, ad esso
dovrà essere riconosciuto il reato commesso e dovrà scontare una pena dove, ovviamente, si dovrà rendere conto
delle proprie responsabilità. Una vittima potrà perdonare, quelle poche volte, solo se ci sarà giustizia e il debito viene
pagato.

ULTIMO CAPITOLO

Ci troviamo davanti ad un’eccessiva normalizzazione della perversione relazionale. La finalità del percorso formativo è
sostenere le inclinazioni e favorire nel soggetto i presupposti perché egli possa costruirsi una vita piena e degna,
responsabile: tutto sta nelle nostre capacità di creare le condizioni etiche per lavorare sugli impulsi costruttivi dati da
amore e gratitudine, che rafforzano e arricchiscono la personalità. Gli impulsi distruttivi si possono controbilanciare
mobilitando sentimenti di amore: un amore senza buonismo retorico, ma come risorsa consapevole e sofferta che
permette di rinunciare all’odio nonostante l’odio subito o provato, è un tipo di amore che può essere appreso. Teorie
e metodi non devono ingessare il nostro lavoro in regole immutabili, ma devono orientare le nostre azioni che
devono fare sempre i conti con la spontaneità intuitiva sostenuta dall’attenzione. L’attenzione è un
sentimento-strumento fatto di rispetto, empatia, accoglienza e ci permette di controllare e valutare il processo
formativo con autenticità e apertura, ci protegge dalle nostre sicurezze che potrebbero dare tutto per scontato (i
risultati, il percorso e l’altro).

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