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A cura di:

Laura Pomicino

ADOLESCENTI E VIOLENZA
ALL’INTERNO DELLE GIOVANI COPPIE.
STRUMENTI PER CONTRASTARLA

MODULO 1 - Violenza di genere online: qualcosa di nuovo?


2
MODULO 1
VIOLENZA DI GENERE ONLINE: QUALCOSA DI NUOVO?

INDICE

Introduzione 4

Autovalutazione 7

1.1 Conoscere per capire: di cosa stiamo parlando? 9


1.2 La violenza online: qualcosa di diverso? 22
1.3 Siamo ancora qui: perché? 34
1.4 Dimensioni del fenomeno 40
1.5 La violenza nuoce gravemente alla salute 46
1.6 Conclusioni 54

Appendice 1 - Quali passi compiere? Un’ipotesi di lavoro 56

Riferimenti bibliografici 60

3
INTRODUZIONE

Negli ultimi anni il tema della violenza di genere e della sua espressione ultima e più
cruenta, il femmicidio1, sono divenuti argomento di discussione sempre più diffuso tanto
da arrivare ad occupare anche i palinsesti televisivi con trasmissioni dedicate2.
Tuttavia, a questa maggiore divulgazione non corrisponde sempre un’adeguata analisi
del fenomeno in questione. Comprenderlo è radicalmente diverso dal parlarne. Implica
doverne esplorare le fondamenta, che richiamano a quella matrice culturale in cui tutti
e tutte ci troviamo ad essere immersi/e, che portiamo dentro e agiamo, più o meno
consapevolmente.
Prenderne atto ci obbliga ad assumere un ruolo, a scegliere da che parte schierarsi, ad
esercitare quella responsabilità sociale che ogni individuo ha, o dovrebbe avere, nei
confronti di sé e della società tutta.
Ci spinge di fronte ad un invisibile specchio che ci invita a divenire, o meno, motore,
parte attiva e imprescindibile, del cambiamento possibile e necessario per non solo
contrastare la violenza contro le donne, ma prevenirla, proprio come affermato dalla
Convenzione di Istanbul (2011). Questo documento internazionale è stato il primo che,
basandosi sulle evidenze scientifiche disponibili fino al momento della sua stesura, ha
delineato un quadro normativo a garanzia e tutela delle donne che hanno subito o
stanno subendo violenza, identificando nelle adeguate misure di prevenzione e in
politiche integrate efficaci due dei quattro Pilastri3 atti a raggiungere l’obiettivo di
eliminare ogni forma di discriminazione prima e di violenza poi contro ogni soggetto di
sesso femminile.
L’Italia ha ratificato questo documento nel 2013, facendolo divenire legge dello Stato a
partire dal primo agosto del 2014.
La particolare rilevanza di questo testo deriva dal riconoscimento, sancito
giuridicamente, che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di
forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne
e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena
emancipazione, come a dire che questo è ciò che va modificato e corretto per poter
mettere in atto il cambiamento auspicato.
E aggiungendo poi che si tratta di un fenomeno che non può essere affrontato in
maniera esclusivamente emergenziale, rispondendo al qui ed ora delle singole storie o
degli specifici fatti di cronaca, ma specificando la natura strutturale della violenza contro
le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì ̀ che la violenza contro le

1
Il termine, già in uso nell’Ottocento per indicare l’omicidio di una donna in quanto donna, è stato ripreso nel
1976 dalla sociologa e attivista femminista Diana E. H. Russell che lo ha definito the killing of females by males
because they are female ovvero l’uccisione di donne ad opera di uomini perché sono donne*
Accanto a questo, ne troviamo un altro, femminicidio, oggi usato in modo interscambiabile con il precedente ma
in realtà contenente presupposti più ampi. Inizialmente coniato dall’antropologa messicana Marcela Lagarde nel
1997 per descrivere la silente strage di migliaia di donne scomparse nella città di Ciudad Juarez, è poi divenuto il
termine attraverso cui riferirsi all’estremo epilogo di un’ampia gamma di azioni violente perpetrate ai danni di
donne in quanto tali (per un approfondimento, vd. https://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-
femminicidio-2/)

*dove non altrimenti specificato, le traduzioni si intendono a cura dell’autrice


2
Ne è un esempio Amore Criminale, trasmissione più volte contestata perché ritenuta troppo incentrata sui
dettagli connessi gli omicidi ricostruiti, favorendo una potenziale emulazione degli stessi.
3
Gli altri due sono rispettivamente Protezione e sostegno delle vittime e Punizione dei colpevoli.

4
donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette
in una posizione subordinata rispetto agli uomini.
Risulta allora imprescindibile un cambio di assetto complessivo, che ci vede tutti e tutte
coinvolti/e, nei rispettivi e reciproci ruoli quotidianamente giocati. Ecco allora che ogni
gesto, ogni azione, ogni singolo pensiero prodotto o taciuto comporta delle più o meno
significative implicazioni.

Perché questa introduzione come incipit di un corso in autoapprendimento centrato sul


tema mai così attuale della violenza all’interno delle giovani coppie e degli strumenti atti
a contrastarla?
Il motivo è duplice.
Da un lato, per evidenziare che questo tipo di violenza si colloca e prende avvio dalla
stessa matrice culturale da cui origina la violenza contro le donne esercitata all’interno
delle coppie adulte, come avremo modo di approfondire nel primo modulo.
Dall’altro, per mettere ogni partecipante al centro del percorso stesso. Si tratta di un
tema talmente pregnante il nostro vivere, il nostro agire quotidiano, che se non
partiamo da questa riflessione, divenendone consapevoli, interrogandoci onestamente
sui significati che attribuiamo alla violenza, su come noi abbiamo appreso e incarniamo
gli stereotipi di genere, che dettaglieremo meglio in seguito, su che effetto ci fa ascoltare
determinate storie e quali sono i primi pensieri che arrivano alla nostra mente, riduttiva
sarà l’acquisizione dei contenuti proposti.
E questo non vale solo per quanto concerne il nostro operato ma anche per la ricaduta
applicativa, ad esempio educativa, delle informazioni acquisite. Ogni individuo conta e
può fare la differenza ma solo se si impegna per farsi sentire, proprio come ogni
microscopico abitante della terra dei Chi illustrata dal genio statunitense del Dr. Seuss,
pseudonimo del fumettista statunitense Theodor Seuss Geisel.
Nel testo ‘Ortone e i piccoli Chi’ (Dr. Seuss, 2002) si narra la storia di un elefante che una
mattina, mentre sta facendo il bagno, sente un debole grido d’aiuto provenire da un
granello di sabbia. Inizialmente non capisce poi si rende conto che su quel granello di
sabbia ci sono i Chi, dei piccolissimi esseri che abitano la Città di Chi non So. Lui si
impegna a mettere in salvo tutta la popolazione che vive in questo luogo, a lui invisibile
agli occhi, ma dovrà fare i conti con la malefica Cangura che non crede a quanto lui
sostiene perché non riesce a sentire nulla. Ortone allora chiede al Sinda-Chi di far
emettere suoni ad ogni abitante della città affinché la Cangura possa sentirli e credere a
quanto raccontato dall’elefante. Malgrado tutti e tutte si stiano impegnando a fare
rumore, ancora non basta. Ad un certo punto, girando di casa in casa, il Sinda-Chi scopre
che un piccolo abitante era in silenzio. Quando finalmente inizia a fare rumore, la
Cangura sente e promette di aiutare Ortone a salvare i Chi.
Anche una voce, per quanto piccola, può fare la differenza.

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AUTOVALUTAZIONE

Leggi il brano che segue e completa la tabella secondo le indicazioni in essa contenute.
Non c’è una unica modalità corretta. Rispondi nel modo più onesto possibile.

Silvia ha 15 anni e frequenta la terza superiore del liceo scientifico della sua città. Da
qualche mese si è presa una cotta per Andrea, suo compagno di classe, che non sembra
ricambiare le sue attenzioni. Una sera però riceve un messaggio Whatsapp da lui:
-Ehi domattina con Lele e Chiara abbiamo deciso di non andare a scuola. Ci troviamo
dietro scuola alle 8 e poi, suonata la campanella, torniamo a casa mia. Vuoi venire?
Silvia non crede ai suoi occhi. Legge e rilegge il messaggio. La sta invitando ad uscire??
Lele e Chiara stanno insieme, quindi…
-Ehi grazie, ok. Ci vediamo domattina.
-A domani.
La mattina dopo Silvia si sveglia mezzo’ora prima del solito, non sa cosa mettersi, si sente
agitata e confusa. Non ha detto niente a nessuno, neppure alla sua migliore amica per
paura che le dicesse di non andare. Non si sente tranquilla, non le piace troppo mentire,
ma in fondo è per una ottima causa no?
Arrivata a scuola, vede i tre amici che la aspettano. Andrea le fa un cenno e le sorride.
Lei si avvicina e lui le mette un braccio intorno al collo, la tira a sé e le dà un bacio.
Silvia è felicissima ma cerca di simulare normalità.
Suonata la campanella, si avviano verso casa di Andrea. Appena arrivati, mettono un pò
di musica, ridono, scherzano.
Poi i ragazzi tirano fuori un pò di marjuana. Lei non ha mai provato ma non se la sente
di rifiutare, è tutto troppo bello. Cosa mai potrà succedere?
Ad un certo punto, Andrea si alza, le tende la mano e poi la porta via con sé, in un’altra
stanza, nella camera da letto dei suoi genitori. La fa sedere sul letto, poi si sdraia al suo
fianco. Inizia ad accarezzarla e a baciarla. All’inizio è piacevole ma poi Silvia inizia a non
sentirsi più a suo agio. Lo invita a fermarsi, lui insiste ancora, lei riesce a divincolarsi,
corre fuori dalla stanza piangendo, prende le sue cose e va via.

Nella tabella che segue, indica sotto ciascun nome i primi cinque pensieri che ti sono
arrivati alla mente leggendo il testo appena presentato. Cerca di non riflettere ma di
ascoltare quanto spontaneamente ti ha suscitato.

Silvia Andrea

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1.1 CONOSCERE PER CAPIRE: DI COSA STIAMO PARLANDO?

L’art.3 della Convenzione di Instabul definisce la violenza nei confronti delle donne come
una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne,
comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono
suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o
economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione
arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata.
Dall’indagine realizzata dall’European Union Agency for Fundamental Rights (FRA, 2014)
su un campione di 42.000 donne di età compresa fra i 18 e i 74 anni emerge che il 33%
ha subito violenza fisica e/o sessuale dopo i 15 anni e fino al momento dell’intervista,
l’8% ne riferisce l’occorrenza negli ultimi 12 mesi. In Italia, uno dei 28 Paesi EU aderente
alla ricerca, la percentuale nell’arco di vita è di poco inferiore, 27%, peraltro molto simile
a quanto rilevato nell’inchiesta sulla ‘Sicurezza delle donne’ pubblicata dall’Istat nel
2016 (periodo di riferimento: anno 2014): in questo caso, fra le 25.000 donne fra i 16 e
i 70 anni contattate, il 31.5% riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica
e/o sessuale nel corso della propria vita, il 21,5% comportamenti persecutori ad opera
di un ex-partner.
Le rilevazioni effettuate durante l’attuale pandemia hanno permesso di registrare
l’acuirsi di questo fenomeno e di confermarne in modo inconfutabile alcuni aspetti già
peraltro evidenti ma spesso discussi.
Dall’audizione della dr.ssa Linda Laura Sabbatini in rappresentanza dell’Istat (2022)
emerge che i femmicidi, esempio di violenza estrema agita sulle donne, sono rimasti
stabili (p.8):

I dati provenienti dal database sugli omicidi evidenziano una complessiva stabilità della
violenza estrema a danno delle donne (0,36 il tasso di donne uccise per 100mila donne
nel 2019 e 0,38 nel 2020), mentre continua a mostrare una diminuzione il tasso di
omicidio degli uomini (0,70 per 100mila uomini nel 2019 e 0,59 nel 2020).

L’ambiente domestico, il contesto familiare, rappresentano gli ambiti più pericolosi per
le donne: nel 2020 il 77.6% dei femmicidi è stato commesso da una persona nota, un
familiare, un partner o ex partner mentre gli uomini, assassinati in numero assoluto in
misura maggiore, risultano per lo più uccisi per mano di altri uomini, spesso sconosciuti
e in contesti di criminalità o marginalità sociale.
Spesso viene sottolineata la necessità di prestare la medesima attenzione rivolta al
fenomeno della violenza di genere anche alle azioni violente esercitate da donne nei
confronti dei propri partner o ex partner o di altri uomini familiari e non. Malgrado la
stessa Convenzione di Istanbul non neghi la sussistenza di forme di violenza subita anche
da soggetti di sesso maschile, frequentemente questa viene agita da altri uomini e
categorizzata come riti di iniziazione, goliardia, fratellanza (Beltramini, 2020).
E’ inoltre evidente che si tratti di due fenomeni di portata largamente differente.
Malgrado le violenze delle donne sugli uomini possano risultare sottostimate dato lo
stigma sociale derivante dal dichiarare, da parte di un uomo, di essere vittima di violenza
ad opera di una donna, è tuttavia obiettivabile che ne derivano conseguenze diverse: le
donne muoiono, gli uomini no, o quasi.

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Nei mesi di marzo e aprile 2020, in concomitanza con il primo e più rigido lockdown, la
percentuale di donne uccise da partner o parenti ha raggiunto rispettivamente il 90,9%
e l’85,7%.
Nel mese di novembre 2020, tutte le donne di cui si è registrata l’uccisione sono state
vittime di un familiare (40%) o di un partner (60%).
Colpisce constatare che per gli uomini marzo e novembre 2020 sono coincisi con il
principale picco negativo di omicidi (Istat, 2021a; 2022).
La richiesta di aiuto è cresciuta in modo esponenziale durante i primi mesi
dell’insorgenza del Covid-19: nel 2020 i contatti, via chat o telefono, del numero 1522 di
pubblica utilità contro la violenza e lo stalking sono aumentate del 79.5% se confrontate
con l’anno precedente. Il punto apicale è stato raggiunto nei mesi di aprile (+176.9%
rispetto ad aprile 2019) e maggio (+182.2%, maggio 2019). Analoga crescita significativa
si è poi registrata intorno al 25 novembre, Giornata dedicata alla celebrazione del
contrasto e dell’eliminazione della violenza di genere: confrontando 2019 e 2020, nella
settimana dal 23 al 29 novembre si è verificato un incremento dei contatti del 114.1%
nella seconda annualità rispetto alla prima.
I Centri AntiViolenza (CAV) hanno dovuto individuare nuove strategie per poter
affiancare e supportare le donne ma questo ha permesso loro di accoglierne la richiesta
di aiuto di 20525 solo nei primi 5 mesi del 2020. La convivenza forzata, il dover far fronte
talvolta a problematiche economiche conseguenti la situazione pandemica e le chiusure
obbligate, la perdita del lavoro dell’uomo e/o della donna sono spesso state riferite
come alla base delle aggressioni subite, di natura fisica (47.9% dei casi giunti al 1522) ma
anche psicologica (50.5%). È necessario evidenziare che, come di consueto, raramente
si tratta di un episodio isolato né di una sola forma di violenza: gli abusi risultano multipli
e ripetuti (Istat, 2021, 2021a). Nel 2020 sono solo il 16,3% quelle che hanno subito un
unico tipo di violenza mentre il 10,5% ne ha subite più di quattro (p. 3, Istat, 2021a).
Essere confinate a casa ha aumentato il numero di donne che ha segnalato violenze da
partner nel 2020 mentre l’allentamento delle misure restrittive fatto registrare nel 2021
ha visto il riemergere di richieste di aiuto per maltrattamenti e aggressioni subite da
parte anche di ex partner, altri familiari o persone esterne alla sfera più intima (Istat,
2021a).

L’analisi di queste evidenze ci mostra chiaramente la portata di questo fenomeno, che


non è certo iniziato con la pandemia da Covid-19 ma che in questo frangente ha reso più
chiare alcune delle dinamiche che lo caratterizzano.

Durante questi mesi sono aumentate anche le richieste di aiuto delle giovanissime fino
a 24 anni di età (11.8% contro il 9.8% del 2019 - Istat, 2021a). Tuttavia, scarsa o nulla è
stata l’attenzione rivolta in questo periodo alla specificità della violenza presente
all’interno delle coppie di adolescenti e giovani adulti/e, per indagarne il manifestarsi e
l’essere o meno influenzata dall’insorgenza della pandemia.

Si tratta di un fenomeno analogo alla violenza nelle coppie adulte o possono essere
identificate delle differenze? E se si, quali?

Da anni ormai è stato introdotto nella letteratura scientifica il termine Teen Dating
Violence (TDV), spesso sintetizzato in Dating Violence (DV) in modo da sottolineare

10
l’aspetto che più caratterizza questa forma di violenza, ovvero il verificarsi all’interno di
coppie che non sono legate da vincoli strutturali ma che si incontrano, si frequentano,
senza convivere e senza essere coniugati (Pomicino, 2018).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha descritta genericamente come una forma di
violenza che avviene in coppie giovani, che può variare in durata e intensità e che non
implica la coabitazione (WHO, 2013).
Si parla poi di Adolescent Dating Violence (ADV), definita come qualsiasi atto
intenzionale di abuso psicologico/emotivo, fisico o sessuale che avviene fra due persone
coinvolte in una relazione di tipo romantico (Taquette & Monteiro, 2019) con differenti
livelli di ‘formalità’ e che ha inizio fra la prima adolescenza (10 anni) e l’ingresso nell’età
adulta (fino ai 30 anni) (Gracia-Leva et al., 2020).
Viene talvolta preferita questa dicitura, ADV, proprio per includere anche quelle
situazioni che precedono e/o seguono la fascia di età a cui sarebbe più corretto fare
riferimento usando il termine Teen (Miller et al., 2018).
Sempre più spesso, negli articoli scientifici più recenti, si trova indicata questa forma di
violenza con l’acronimo ODV, ovvero Offline Dating Violence, per distinguerla da tutti
quegli agiti che vengono invece veicolati attraverso la rete e a cui si fa spesso riferimento
con il termine di Cyber Dating Violence, CDV, come vedremo meglio in seguito.
È interessante quanto emerso da uno studio qualitativo condotto da Taylor et al. (2017)
con un campione di trenta adolescenti di età compresa fra i 14 e i 19 anni in una cittadina
del Midwest. Attraverso delle interviste semistrutturate, le autrici hanno indagato la
costruzione di ragazzi e ragazze rispetto alla DV: come la definiscono, cosa rappresenta
per loro, quali fattori identificano come protettivi o a rischio per il manifestarsi di questo
fenomeno, cosa fare con vittime e autori, quali interventi di prevenzione reputano più
adeguati.
Appare significativo evidenziare le differenze di genere rilevate nel definire cosa si
intende con violenza nelle giovani coppie. I ragazzi rappresentano la propria
comprensione della DV attraverso la descrizione degli atti in sé e le conseguenze che ne
derivano di fatto concentrandosi quasi esclusivamente sulla violenza fisica. Usano
termini come colpire, schiaffeggiare, controllare, ricattare, soffermandosi sull’azione
stessa e mostrando di riflettere raramente su come queste azioni fanno ‘sentire’:

È qualcosa tipo, hai presente, forzare qualcuno a fare qualcosa che non vuole, gridargli
contro, abuso emotivo, abuso fisico, abuso verbale…insomma, qualsiasi cosa non sia
giusta
(p.9)

Al contrario, le ragazze definiscono la DV riferendosi ai sentimenti di chi ne è vittima,


mostrando come tema centrale e comune quello dell’impotenza che appare come parte
integrante del loro linguaggio riferito al fenomeno. Adottano termini come essere piena
di paura o forzata per fare riferimento alle esperienze di violenza. Questo ha portato le
autrici a concludere che le partecipanti riconoscono il dolore emotivo causato dalla
violenza subita.

È come sentirsi in trappola. Voglio dire, tutte le cose che ti succedono e che tu conosci e
riconosci, non è che puoi semplicemente interromperle e cambiare, qualcosa tipo ‘Non
voglio stare con te a causa della DV’. È qualcosa di più simile a ‘Non so cosa fare. Non

11
so come affrontare tutto questo. So solo che non valgo niente e mi sento
completamente fregata’
(p.10)

Invece di soffermarsi a descrivere cosa accade alla vittima, come ad esempio essere
colpita o abusata, le adolescenti intervistate si concentrano sui sentimenti provati da
quella persona in seguito a ciò che ha subito. Anche quando fanno riferimento ad
un’azione concreta., immediatamente passano a parlare di come la persona si può
essere sentita. Le ricercatrici portano ad esempio una ragazza che racconta la sua
esperienza di essere insultata dal suo ex ragazzo di fronte ai suoi amici: immediatamente
passa dalla narrazione di ciò che avveniva a come questo l’aveva fatta sentire:

Il mio ex ragazzo mi insultava con degli appellativi sgradevoli di fronte ai miei amici e io
semplicemente cercavo di nasconderlo e comportarmi come se niente fosse. Come se io
fossi felice mentre non lo ero affatto. Era una tale schifezza dover affrontare questa
cosa ogni cinque minuti. Io sentivo di dover comportarmi come se tutto fosse okay
mentre non lo era per niente. Semplicemente, recitavo una parte.
(p.10)

Il Centers for Disease Control and Prevention (CDC, 2021) identifica quattro distinte
forme di violenza che possono essere fatte rientrare nel novero della più ampia
categoria della TDV, dettagliandola.
In particolare:
• Violenza fisica: quando una persona ferisce o cerca di ferire un/a partner colpendolo/a,
prendendolo/a a calci o usando un altro tipo di forza fisica
• Violenza sessuale: quando si forza o cerca di forzare il/la partner a prendere parte in
un rapporto sessuale o in un contatto sessuale senza che possa o voglia esprimere il
proprio consenso. Questa forma di violenza comprende anche comportamenti inerenti
la sessualità che non implicano qualcosa di fisico come ad esempio postare o
condividere immagini a sfondo sessuale o comunque intime del/la partner senza il suo
consenso o fare sexting4 con qualcuno senza il suo consenso
• Aggressione psicologica: si riferisce all’uso della comunicazione verbale e non verbale
con l’intento di ferire il/la partner dal punto di vista psicologico ed emotivo ed
esercitare un controllo su di lei/lui.
• Stalking: è un insieme di attenzioni e contatti non desiderati e ripetuti da parte di un/a
partner che provocano paura e preoccupazione per la sicurezza della persona e/o di
qualcuno a lei vicino.

Beltramini (2020) sottolinea con maggiore attenzione l’aspetto dei comportamenti di


dominazione e controllo molto caratteristici dell’età in cui questo tipo di relazioni hanno
luogo, altamente lesivi nelle ricadute a livello di salute psicologica e fisica per chi li
subisce e difficilmente identificabili immediatamente come forme di violenza. Essere
gelosi della persona alla quale vogliamo bene, considerarla di nostra proprietà, adottare

4
Con questo termine si indica lo scambio di immagini o messaggi sessualmente espliciti e la creazione, diffusione
e inoltro di immagini che ritraggono una persona nuda o seminuda attraverso i telefoni mobili o internet (p.67,
Scarcelli, 2018)

12
termini come ‘mia/mio’, possono facilmente essere confusi con la manifestazione di un
attaccamento molto forte e quindi, in ultimo, di un amore autentico.
Proprio per questo alcune forme di controllo anche molto ‘concreto’ che vengono
esercitate sul/la partner non vengono riconosciute come tali come ad esempio
monitorare il cellulare dell’altro/a, prescrivere come vestirsi, con chi e quando è
permesso uscire, manipolare l’uso del contraccettivo ad esempio costringendo a non
farne uso (Miller et al., 2018).
Galende et al. (2020) aggiungono che gli e le adolescenti presentano una sorta di
mispercezione rispetto all’amore che può indurli/le ad accettare e normalizzare
atteggiamenti e comportamenti che dovrebbero invece rappresentare chiari segni di
allerta rispetto al possibile rischio di trovarsi coinvolti in una relazione di coppia violenta.
Per fare un esempio, gli autori citano il fatto che rivelare al/la proprio/a partner la
password del proprio cellulare o dei propri account sui social rappresenti una prova di
amore anziché indicare un campanello di allarme a cui prestare attenzione. Questo
porta gli studiosi a concludere che si tratta di un fenomeno molto delicato da trattare in
quanto coinvolge una categoria di persone, i ragazzi e le ragazze, particolarmente
vulnerabili rispetto a questi aspetti chiave della dinamica della violenza.
L’esclusività dei rapporti inoltre caratterizza l’adolescenza e questo rende ancora più
complesso decodificare ciò che sta avvenendo, sia per quanto concerne chi osserva che
per chi si trova a vivere in prima persona quella esperienza.
Questo appare particolarmente evidente nel contesto clinico. Raramente le richieste di
intervento psicoterapeutico sono esplicitamente e immediatamente riconducibili alle
violenze in atto o subite. Molto più frequentemente la domanda nasce dai sintomi che
derivano dalla ripetuta esposizione ad agiti violenti e al protrarsi della situazione anche
per tempi molto lunghi. E’ la manifestazione del malessere legato ad esempio a disturbi
del comportamento alimentare o ad atti autolesionistici che porta all’attenzione del
clinico la ragazza o il ragazzo e solo successivamente è possibile identificare un nesso di
causalità, o quantomeno, una qualche associazione esistente fra l’essere all’interno di
una relazione violenta e stare male.
Molto spesso questo passaggio di assunzione di consapevolezza è molto difficile perché
doloroso: implica infatti il prendere atto che la persona che abbiamo scelto e che
sentiamo di amare e che dice, spesso, di amarci a sua volta, coincide con chi ci sta
arrecando una sofferenza a volte molto profonda e persistente.

E questo è uno dei punti di contatto con la violenza presente nelle coppie adulte. Come
ben evidenziato da Sousa (1999), molte sono infatti le comunanze fra questi due
fenomeni, di fatto riconducibili alla stessa matrice.
Primo fra tutte, il fatto che la violenza abbia luogo nel contesto di un legame affettivo,
quindi uno spazio all’interno del quale ci si aspetta di trovare protezione e cura.
Il tema della fiducia appare particolarmente saliente all’interno dei percorsi terapeutici
sia con persone adulte che con adolescenti/giovani: spesso il/la paziente incontra una
fatica indicibile nel trovarsi di fronte alla scelta di dover riconoscere la perdita di quel
rapporto di confidenza, di quel sentirsi di potersi affidare all’altro/a, condizione tuttavia
imprescindibile per poter riconoscere la violenza subita. Altrimenti, il rischio è rimanere
fermi/e su quanto detto/ripetuto/urlato/sussurrato da chi quella violenza l’ha
esercitata, ovvero che la colpa è della vittima.

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Se infatti la persona che mi sta accanto mi fa del male, mi ferisce, mi fa sentire una
nullità, o io riesco ad abbandonare l’idea che abbia ragione, smettendo di fidarmi di
lui/lei e salvando la mia persona, oppure, viceversa, devo necessariamente sacrificarmi
adeguandomi e facendo propri gesti e parole che mi descrivono senza in realtà
appartenermi, come una voce narrante esterna che guida i miei passi senza che io possa
decidere alcunché.
Ancora, come per gli adulti così per le coppie giovani, la violenza è trasversale: può
accadere a chiunque in ogni dove, senza alcuna specifica in base a stato socioeconomico,
livello di istruzione, posizione professionale, etnia, credo o stile di vita.
Adolescenti e giovani vittime di violenza si trovano immersi nella stessa spirale propria
di ogni storia caratterizzata da maltrattamenti e abuso. Il cosiddetto ‘ciclo della violenza’
teorizzato e reso celebre dalla psicologa americana Leonore Walker (1989), prevede tre
differenti fasi:
1. La costruzione della tensione: la percezione della vittima è di trovarsi di fronte ad
un cielo che sembra rabbuiarsi di colpo, carico di tensione, senza aver chiaro se
scoppierà o meno un temporale. Possono esserci scenate di gelosia,
comportamenti aggressivi, nervosismo tangibile, agiti controllanti. Questa
condizione può protrarsi per diverso tempo, a fasi alterne, più o meno intense, e
può manifestarsi fin dall’inizio della relazione oppure prendere avvio nel tempo,
strutturandosi man mano sempre di più.
2. L’episodio violento: la tensione si scarica, si manifesta un agito. Può essere di vario
tipo, verbale, fisico, sessuale, o più azioni congiuntamente. La vittima, malgrado
abbia attraversato la fase preparativa precedente, riferisce spesso di sentirsi
completamente sconvolta da quanto accaduto, confusa, talvolta talmente sotto
shock da manifestare sintomi di freeizing5 o un vero e proprio stato dissociativo.
3. La luna di miele: solitamente, dopo l’episodio violento, la persona che lo ha agito
chiede scusa, promette che non succederà mai più, che si impegnerà per cambiare
e questo si traduce in un momentaneo stato di tregua, spesso caratterizzato da
regali, momenti e condivisioni piacevoli, premure e attenzioni.
Questo, fino all’inizio della fase successiva, in una spirale che si ripete uguale a se stessa
ancora e ancora. Non è stata identificata una durata perché l’intero ciclo giunga a
compimento ma i tempi tendono a ridursi man mano che la relazione prosegue e si
struttura. Gli episodi violenti si verificano sempre più spesso, più ravvicinati l’uno
all’altro, l’intervallo della luna di miele si riduce, la tensione diventa costante
accompagnamento della quotidianità. Gli atti solitamente si intensificano non solo in
termini di frequenza ma anche di gravità.
Quest’ultima rappresenta un’altra caratteristica che, secondo Sousa (1999), accomuna
grandi e piccoli: gradualmente, mentre la relazione diventa più solida, la violenza vi si
insinua dentro come una pianta rampicante, di fatto avvolgendola e soffocandola. E
come per le persone adulte, così per adolescenti e giovani, il momento più pericoloso è
proprio quello in cui, all’apice della sofferenza esperita, la vittima sceglie di

5
Con questo termine si identifica una risposta di difesa di fronte ad un pericolo che consiste in una reazione di
bradicardia e di immobilizzazione, di totale o parziale “congelamento” dei movimenti da parte della persona che
sta vivendo la situazione d’emergenza e può avere una durata compresa tra pochi secondi e 30 minuti (Leach,
2004).

14
interrompere il rapporto. È questo il momento in cui la vita della donna6 risulta essere
effettivamente e concretamente a rischio. Basti pensare alla moltitudine di casi di
cronaca che su base pressoché quotidiana ci informano di partner che, non sapendo
accettare la fine della relazione, si sono ritenuti in diritto di porre fine alla vita della
propria ex compagna o ex moglie.
Solo a titolo di esempio, basti pensare a come è stato rappresentato il femmicidio di
Emanuela Urso, 44 anni, ad opera del suo ex compagno, Gianfranco Trafficante, 48 anni,
avvenuto il 31 luglio 2020. Dopo una relazione durata circa dieci anni, la donna comunica
di voler interrompere il rapporto. Un mese dopo, lui le spara e poi si toglie la vita a sua
volta. I giornali parlano dell’ennesimo caso in cui si verifica un femmicidio a causa della
fine di un amore.7Il problema è proprio questo: di separazione non si muore, è l’uomo
che vive la donna come una sua proprietà, come un suo bene, che non può accettare
che si sottragga al suo controllo e quindi sceglie di eliminarla.
E questo, purtroppo, non è un rischio presente solo nelle coppie adulte. I femmicidi
vedono come vittime anche ragazze molto giovani, private della vita da coetanei ai quali
erano legate da rapporti affettivi più o meno duraturi e che hanno deciso di porre fine
alla loro vita a seguito della minaccia di chiudere il rapporto.
Ricordiamo la giovane Roberta Siracusa, 17enne, che il 24 gennaio 2021 ha trovato la
morte per mano del suo ex fidanzato Pietro Morreale, 19enne. A seguito di una violenta
litigata, il ragazzo l’avrebbe cosparsa di benzina per poi lasciarla bruciare viva.

Se tutto questo accomuna la violenza di genere agita nelle coppie adulte con quanto
accade nelle relazioni di adolescenti e giovani, vanno sottolineati dei distinguo molto
importanti. Primo fra tutti, la fase del ciclo di vita in cui la persona si trova. Si tratta di
un momento in cui si va costruendo l’idea di sé come di un individuo strutturato e
distinto dalla propria famiglia di origine. Cambiano le competenze cognitive, emerge un
pensiero astratto che permette di formulare anticipazioni, individuare nessi causali,
trarre conclusioni.
E’ un momento in cui l’individuo ‘apprende per riprodurre’ e inizia concretamente a
farlo, a sperimentare nel mondo ciò che giorno dopo giorno ha osservato, ricevuto come
stimolo, sollecitato a ripetere. Se le sue prime esperienze di relazione sono fallimentari
o addirittura lesive, il rischio concreto è duplice: chi agisce violenza continuerà a farlo
credendo di stare facendo qualcosa di assolutamente legittimo, soprattutto se ai suoi
agiti non segue punizione alcuna, e chi la subisce potrebbe costruire un’idea di relazione
basata su falsi presupposti ovvero che all’interno di una relazione sia tollerabile
sostenere quanto si è trovata a subire.
Molti studi hanno infatti ormai evidenziato come la DV costituisca uno dei principali e
più forti antecedenti per fare esperienza di violenza all’interno delle proprie relazioni
adulte, a meno che non intervenga un’azione incisiva e capace di ristabilire adeguati
equilibri fra le parti e a proporre modalità di rapporto più sane e nutrienti per entrambi
i membri della coppia (Joppa, 2020; Taquette & Monteiro, 2019)

6
La scelta del solo genere femminile in questo caso è deliberata stante quanto in precedenza affermato rispetto
alle morti di donne rispetto alle uccisioni di uomini.
7
https://www.lastampa.it/torino/2020/07/31/news/omicidio-suicidio-a-vinovo-guardia-giurata-uccide-la-
compagna-e-si-spara-1.39144352/

15
Inoltre, la violenza stessa può minare l’immagine dell’individuo che si sta formando,
intaccando in modo profondo la sua autostima e il suo senso di controllo su se stesso/a
e sul mondo.
Talvolta, poi, le strategie messe in atto per esercitare violenza possono divenire esse
stesse maggiormente dannose se rivolte a un/una adolescente. Ad esempio privare una
giovane donna della sua socialità può essere particolarmente invalidante perché non
permette un adeguato sviluppo e la possibilità di seguire le consuete e corrette
traiettorie evolutive.
Il gruppo inoltre è un elemento particolarmente rilevante in questa fase della vita se
confrontato con l’età adulta: è molto forte il bisogno di perdersi appartenendo, di poter
cioè affermare la propria identità attraverso il confronto e il riconoscimento con i pari.
Questo può anche influenzare il modo in cui le relazioni vengono lette e codificate,
influenzando in modo significativo il sistema di valori e le attitudini del singolo tanto da
poter persino arrivare a normalizzare comportamenti potenzialmente lesivi (Cybersafe
Group, 2017).
Si tratta poi questa di una età in cui si sperimenta il possibile, ci si sente capaci di poter
fare qualsiasi cosa, di poter affrontare ogni evenienza, per quanto complessa e articolata
possa essere. Se in questo momento mi imbatto in una storia caratterizzata da violenza,
mi trovo davanti a due opzioni: o la riconosco, la accetto come tale e identifico nell’altro
il mio aggressore, oppure faccio una esperienza fallimentare della mia persona, incapace
di controllare questo aspetto della propria vita e vivendo quindi un grande senso di
colpa.

Ma chi è l’adolescente che subisce violenza? Cosa devo aspettarmi di osservare? E’


possibile delineare una sorta di identikit che permetta di riconoscere chi sta vivendo una
esperienza simile? O chi la sta agendo?
Questo è forse uno degli aspetti più spinosi da trattare quando si affronta questo
argomento. Il desiderio, il bisogno, in certi casi l’urgenza di poter avere linee guida
precise, inconfutabili, ineccepibili, può spingerci a costruire dei modelli univoci che poco
corrispondono, per definizione, alla moltitudine del reale. Se è vero infatti quanto già
sottolineato, ovvero che esiste una trasversalità della violenza che ne rende il verificarsi
ubiquitario, ne segue ragionevolmente che non sia possibile delineare delle coordinate
precise quali criteri di inclusione o esclusione di determinati individui sia nella categoria
di chi agisce che di chi è vittima di maltrattamento.
L’unica indicazione utile, quindi, è tenere a mente che qualsiasi adolescente io possa
incontrare può rientrare in una delle due categorie e persino, talvolta, in entrambe
contemporaneamente. Quest’ultimo risulta essere un ulteriore aspetto distintivo della
violenza all’interno di coppie giovani se confrontate con quelle adulte: soprattutto
quando si tratta di minorenni, potrebbe verificarsi la coesistenza di violenza esercitata
dal/la partner e maltrattamenti subiti in famiglia ad opera di uno o entrambi i genitori
e/o di altro familiare. Analogamente, un autore o autrice di comportamenti aggressivi
potrebbe al contempo subirne o essere esposta/o8 agli stessi dentro casa.

8
In questo caso si parla di violenza assistita, definita dal Coordinamento Italiano dei Servizi contro il
Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI, 2017) l esperire da parte della/del bambina/o e
adolescente qualsiasi forma di maltratta- mento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale,
psico- logica, sessuale, economica e atti persecutori (c.d. stalking) su figure di riferimento o su altre

16
Potremmo quindi trovarci di fronte un ragazzo o una ragazza che dentro casa fa
esperienza di una relazione violenta, direttamente o indirettamente, subendola o ‘solo’
assistendovi, e fuori, all’interno della comunità in cui è inserito/a, la riproduce o ne è
vittima nel contesto dei suoi primi legami affettivi. Abitare un ambiente violento non
solo aumenta l’impatto lesivo di quanto vissuto all’esterno, ma ne riduce o quantomeno
rallenta la possibilità di riconoscimento.
Se chi mi sta accanto parla un inglese scorretto, io riprodurrò qualcosa di simile con la
convinzione che sia giusto e con più difficoltà mi accorgerò degli errori commessi da
altri/e intorno a me.
Analogamente, se all’interno del contesto della famiglia, principale agenzia educativa
nell’infanzia e nell’adolescenza, mi è stato proposto un modello di relazione fondato
sulla disparità fra le parti, in cui le aggressioni, verbali e non, sono consuete o perlomeno
tali da creare in me l’aspettativa che si possano verificare, è più probabile che la mia
soglia di tolleranza di determinati comportamenti, sia agiti che subiti, sia molto più alta.
Potrei quindi accettare di buon grado un insulto ricevuto dalla mia ragazza oppure non
riconoscere come sbagliato e inammissibile uno schiaffo dal mio ragazzo perché si è
ingelosito nel vedermi parlare con un amico.
Quest’ultimo aspetto richiama un nodo critico in ogni forma di violenza di genere, a
prescindere dall’età in cui viene subita o agita: la difficoltà di ‘darle un nome’, sia da
parte della vittima ma anche delle persone che le ruotano attorno, in un circolo che
spesso si autoalimenta. Se chi si trova esposto a una qualche forma di violenza da
partner incontra il diniego, la non credibilità, il giudizio dell’altro, è probabile che ritorni
sui propri passi non solo nei termini della scelta di sporgere o meno denuncia ma anche
e soprattutto nel fidarsi del proprio sentire, iniziando a dubitare di sé e della propria
lettura di ciò che sta accadendo.
Questo si può acuire ancor di più tanto più la persona è giovane e, quindi, con meno
esperienza di vita e con una definizione di sé ancora in via di costruzione.
Identificarsi con il ruolo della vittima, infatti, è un processo che richiede uno sforzo
enorme implicando il collocare la persona alla quale ci si sente legati, che sentiamo
persino di amare, nella posizione dell’aggressore, del carnefice. L’alternativa, ovvero
ricondurre a sé la causa degli agiti violenti trovandone spiegazione in presunte
mancanze oppure in comportamenti che sarebbe stato più opportuno evitare, rende
spesso meno insopportabile sostenere quanto accaduto. Colpevolizzando se stessi,
viene salvato l’altro e la relazione può proseguire senza necessità di operare alcun
cambiamento.
Un processo analogo viene messo in atto da chi si trova ad essere spettatore/trice di un
rapporto violento: qualsiasi spiegazione alternativa che non determini la necessità di
riconoscere e quindi vedere e fare propria la violenza appare spesso più sostenibile.

figure affettivamente significative, adulte o minorenni. Di particolare gravità è la condizione degli or-
fani denominati speciali, vittime di violenza assistita da omicidio, omicidi plurimi, omicidio-suicidio. Il/la
bambino/a o l adolescente può farne esperienza direttamente (quando la violenza/omicidio avviene
nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il/la minorenne è o viene a conoscenza della
violenza/omicidio), e/o percependone gli effetti acuti e cronici, fisici e psicologici. La violenza assistita
include l assistere a violenze di minorenni su altri minorenni e/o su altri membri della famiglia e ad
abbandoni e maltrattamenti ai danni degli animali domestici e da allevamento.

17
Ascoltare e accogliere storie di violenza è infatti un processo particolarmente faticoso,
che richiede esperienza ed abilità specifiche oltre che una buona conoscenza di sé e di
come le proprie istanze rispondono ad un certo tipo di narrazione.
Quanto mi risuona dentro sentire raccontare da Serena9, 15 anni, che il suo ragazzo, 16
anni, l’ha minacciata di postare su Facebook alcune foto in cui è seminuda se lei si rifiuta
di avere un rapporto con lui?
Quanto sforzo devo compiere per poter accettare che Marco, 17 anni, sia solito
spegnere le proprie sigarette sull’avambraccio di Cinzia, la sua giovane compagna
quindicenne, senza motivo alcuno?
Il bisogno di trovare una ragione che permetta di sanare quella dissonanza cognitiva che
viviamo dentro che non riesce a tenere insieme il concetto di relazione con quello di
violenza, può portarci a negare la seconda per poter salvare e continuare a dare un senso
alla prima.
Ecco che allora poter individuare cause esterne come l’abuso di sostanze legali, come
l’alcol, o illegali, come gli stupefacenti, può divenire un agevole alibi per poter
giustificare, rendere più sostenibili e dare spiegazione di agiti violenti di un uomo
altrimenti riferito ‘mite’.
Malgrado siano state riscontrate delle associazioni fra uso di sostanze, in particolare
alcool, e violenza esercitata nella coppia (FRA, 2014; Bennet & Bland, 2008), studi recenti
hanno evidenziato come sia indispensabile tenere conto degli effetti di mediazione di
altri fattori che possono intervenire a modulare questo legame. Non si spiegherebbero
altrimenti evidenze di senso comune ma che vengono confermate anche da dati di
letteratura: non tutti gli uomini violenti fanno abuso di alcol o sono alcolisti, non tutti gli
alcolisti o quanti abusano di alcol sono uomini violenti. Ad esempio, in una ricerca ormai
datata ma eloquente da questo punto di vista, è stato riscontrato che, su 6000 situazioni
analizzate, nel 76% dei casi l’alcol non era implicato negli episodi di violenza verificatisi
(Kantor & Straus, 1987).
Lynch & Renzetti (2017) hanno indagato a lungo questo aspetto con l’obiettivo di
chiarirlo meglio. In una ricerca da loro realizzata somministrando un questionario online
a 255 uomini in relazione stabile da almeno un anno, hanno esplorato le associazioni
esistenti fra tre variabili (consumo di alcol10, sessismo ostile11 e proprio rapporto con la
religione12) e il perpetrare violenza psicologica e fisica nei confronti della propria
partner.
Ne emerge un quadro che mette in luce la complessità delle interazioni che possono
concorrere al manifestarsi di comportamenti maltrattanti.

9
Tutti i riferimenti ad esempi concreti derivano dall’attività clinica della scrivente. I nomi adottati sono di
fantasia.
10
Misurato su tre livelli di consumo: scarso, moderato, elevato
11
Il sessismo è comunemente definito come un insieme di pregiudizi e discriminazioni, frequentemente rivolte
nei confronti delle donne, fatti sulla base del sesso. Alcuni teorici hanno introdotto la specificazione di sessismo
ostile e sessismo benevolo. Mentre il primo si riferisce ad una generalizzata antipatia nei confronti delle donne
che vengono descritte come usurpatrici del potere e del predominio maschile, il secondo identifica un sistema di
pensiero concepito soggettivamente come positivo e cavalleresco che offre protezione e affetto a quelle donne
che si conformano ai ruoli tradizionali (Lynch & Renzetti, 2017).
12
Distinguendo fra un sistema di credenze fortemente introiettato sulla base di un diktat morale, ovvero di un
dover essere, cosiddetto introJected self-regulation, contrapponendolo a un approccio più intimo e autoriferito,
identifica self-regulation, che spinge la persona ad agire o meno in un dato momento sulla base del proprio
sentire e non perchè si sente spinta dall’esterno a farlo (Lynch & Renzetti, 2017).

18
In particolare, viene evidenziato come in presenza di alta identified religious e basso
sessismo ostile, consumare un’alta quantità di alcol riduce il rischio di agire violenza
mentre un basso uso lo amplifica.
D’altronde, durante i colloqui clinici con la donna vittima di violenza, emerge
chiaramente come i comportamenti maltrattanti non avvengano solo quando il partner
è alterato dall’assunzione di sostanze ma caratterizzano spesso il quotidiano, in linea
con il ciclo delle violenze sopra descritto.
Una metanalisi molto interessante realizzata recentemente da Angela Neal e Katie
Edwards (2015) ha passato in rassegna 50 studi che a vario titolo hanno indagato le
percezioni di autori e vittime rispetto alla violenza di genere con l’obiettivo di esplorare
a cosa gli uni e le altre la attribuissero.
E’ curioso rilevare come emerga che entrambe le parti forniscono una visione
ampiamente sovrapponibile di quanto accade: gli aggressori citano temi come la rabbia,
il controllo, l’autodifesa, il bisogno di ricevere attenzioni e una generica incapacità ad
esprimere verbalmente il proprio sentire come motivazioni alla base dei maltrattamenti
psicologici e fisici che mettono in atto, le vittime aggiungono il richiamo all’uso di
sostanze e/o alcol, la gelosia, il deteriorarsi della relazione e le caratteristiche di
personalità dell’uomo.
Viene evidenziata tuttavia una sostanziale differenza nel modo in cui chi agisce e chi
subisce tenta di spiegare la violenza sessuale: mentre i primi richiamano temi legati alla
dominanza e all’edonismo, riferendosi quindi rispettivamente a potere e pura ricerca
del proprio piacere, le seconde sostengono che l’uomo eserciti quel tipo di azione
convinto che la propria partner lo desideri, oppure perché si trova sotto l’effetto di
sostanze legali o illegali e, ancora, che lo fa per amore.
Si intravede la necessità di trovare una spiegazione che nascondi l’aberrazione di
quell’atto, che celi l’usurpazione esercitata sul corpo dell’altra sotto il manto di una
incontrollabile passione mossa da un sentimento tanto intenso da non poter essere
modulato nella sua espressione.
Perché?
Perché questo salva l’aggressore trasformandolo in altro e rendendo temporaneo
qualcosa che invece è strutturale all’interno di quella specifica relazione di coppia.
Inoltre, se la violenza viene spazzata via dalla scena, edulcorata attraverso colori che la
dipingono come un qualcosa che può accadere, qualcosa per cui è possibile individuare
delle spiegazioni razionali e, come tale, in un qualche modo giustificarla, allora scompare
anche il ruolo della vittima, rendendo tutto apparentemente normale. Perché chiedere
aiuto, allora? Per cosa? Non sta accadendo nulla di grave. Niente che necessiti di un
intervento esterno.
Salvi. Salve. Tutti e tutte. Compresi noi spettatori e spettatrici, inermi: se mi identifico in
questa lettura del fenomeno, non posso riconoscerne la portata e l’impatto lesivo su
ogni parte coinvolta, non lo vedo neppure. È una forte tentazione: posso sentirmi
autorizzato/a a pensare che la violenza di genere sia in realtà un fenomeno molto più
marginale di quanto venga rappresentato e che, soprattutto, non riguardi me né
tantomeno le persone a me care.

Proviamo a tornare a pensare alle coppie giovani, a ragazzi e ragazze poco più che
adolescenti che si affacciano alle loro prime relazioni affettive e che si trovano ad
affrontare una storia di violenza. Gli studi che analizzano questi aspetti nell’ambito

19
specifico della DV sono molto scarsi soprattutto in Italia ma quanto emerge appare
assolutamente in linea con quanto fino a questo punto discusso.
Ne sono un esempio le testimonianze raccolte da Romito, Paci e Beltramini (2007) in
uno studio realizzato in Friuli Venezia Giulia coinvolgendo, nella parte qualitativa, 40
ragazzi e ragazze fra i 15 e i 18 anni. Dalle loro parole emerge la tendenza a minimizzare
le violenze fisiche subite riconducendole ad esempio a momenti di nervosismo del
partner e a identificare le pressioni ad avere rapporti sessuali non desiderati come
espressione di amore e coinvolgimento dell’altro, a cui, quindi, non ci si può e non ci si
deve sottrarre (Beltramini, 2020).

Tutti questi aspetti possono incidere significativamente sulla difficoltà connessa al


rivelare ciò che sta accadendo. Il timore di non essere credute, la paura di dover passare
attraverso una vittimizzazione secondaria ovvero divenire colpevoli del reato di fatto
subito, possono agire come potente disincentivo per una donna come per una ragazza
a raccontare la propria storia e cercare aiuto all’esterno.
Le ricerche condotte fino ad oggi mostrano una similarità in questo senso fra coppie
adulte e relazioni più giovani. Nel primo come nel secondo caso il numero di donne che
riferisce della propria situazione è limitato. Malgrado i dati risultino in miglioramento
rispetto all’indagine precedente (Istat, 2007), dall’ultima rilevazione Istat (2015) sulla
violenza e i maltrattamenti in famiglia risulta che il 23% non ne ha parlato con nessuno
e solo il 5% si è rivolta a centri/servizi/sportelli antiviolenza.
Analogamente, poco più della metà dei ragazzi e delle ragazze che riferiscono violenza
da partner ne parlano solo con amici e amiche mentre una percentuale molto ridotta,
fra il 3 e l’11%, ne riferisce a figure adulte come genitori, educatori/trici, insegnanti,
anche quando si tratta di maltrattamenti o abusi di particolare gravità (Jackson et al.,
2000; Molidor & Tolman, 1998), evidenziando tra l’altro la necessità di predisporre
interventi specifici di peer education13 che forniscano strumenti ai e alle giovani per
poter fornire non solo un buon supporto emotivo ma anche indicazioni adeguate su
come chiedere aiuto e provare ad uscire dalla storia di violenza (Fry et al., 2013).
In linea con le riflessioni condivise in precedenza, emerge che la probabilità di rivelazione
si riduce in presenza di consumo di alcol, come a dire che questa è una giustificazione
sufficientemente valida per circoscrivere gli avvenimenti ad una situazione contingente,
ad una causa esterna e non a elementi stabili e duraturi (Rickert et al., 2005).
Questo diventa dirimente perché l’assenza di un confronto riduce la possibilità di
affrontare il problema e di sottrarsi agli effetti lesivi che la violenza esercita su chi la
subisce, sempre. Tanto più la relazione dura nel tempo, tanto più si riduce la possibilità
che la violenza venga rilevata (Rickert et al., 2005) sia per l’acuirsi dei danni sia per un
meccanismo di abituazione che rende ancor meno riconoscibile ciò che sta avvenendo
come qualcosa di sbagliato che va interrotto.
Le motivazioni addotte per restare in coppia con chi agisce violenza sono molto simili a
quanto riferito dalle donne adulte: il timore di ripercussioni, la vergogna e l’imbarazzo
nel dover raccontare ciò che sta accadendo, un generale senso di lealtà e amore verso
la persona amata, lo stigma sociale e/o religioso associato, la confusione nel definire
chiaramente quello che si sta vivendo e ciò che si prova, la convinzione che si tratti di
qualcosa che non è comune, frequente, ma che ha luogo solo nella propria relazione.

13
Con questo termine si intende una metodologia di trasmissione di informazioni, conoscenze ed esperienze fra
i membri di un gruppo di pari, solitamente della stessa età e di analogo stato sociale.

20
Non ricevere adeguato supporto, infine, limita la possibilità degli effetti positivi che
questo implica, come più bassi livelli di ansia e depressione, una maggiore propensione
e fiducia in successive richieste di aiuto e una riduzione del rischio di trovarsi
nuovamente in situazioni analoghe in relazioni successive (Fry et al., 2013).

Conoscere chiaramente di cosa stiamo parlando e implementare azioni di


sensibilizzazione scientificamente fondate appare ora più che mai urgente.

21
22
1.2 LA VIOLENZA ONLINE: QUALCOSA DI DIVERSO?

La rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni ha radicalmente cambiato il modo in cui


ci relazioniamo e comunichiamo all’interno della nostra società. Il mondo digitale, i
social networks, il contesto più generale del mondo online è divenuto gradualmente uno
dei palcoscenici più significativi in cui rappresentiamo la nostra realtà quotidiana:
facciamo acquisti, organizziamo vacanze, svolgiamo pratiche burocratiche, ci
informiamo, approfondiamo temi di nostro interesse, scopriamo nuovi contenuti ed
esploriamo mondi lontani.
Il virtuale è divenuto sempre più anche teatro di relazioni: online ci si incontra, ci si
conosce, ci si ‘frequenta’, persino si dà avvio a relazioni affettive talvolta ancora prima
di avere avuto la possibilità di un incontro di persona, o offline come ormai si usa dire.
Questo è vero per gli adulti ma anche per bambini e bambine, adolescenti. Basti pensare
che le app di ‘incontri’ rivolte a minori come Yellow e MyLOL sono costruite e funzionano
in modo molto simile a Tinder, una delle più diffuse e frequentate app per appuntamenti
fra le persone adulte. Anche in queste app, proprio come Tinder, ci si sceglie in base a
foto e caratteristiche che vengono inserite per descriversi. In molti casi, viene richiesta
l’attivazione della geolocalizzazione per poter individuare i/le potenziali partner più
vicini a sé. Con tutti i rischi a questo connessi (Telefono Azzurro & DoxaKids, 2018).
In una indagine realizzata in Italia da Telefono Azzurro e DoxaKids nel 2018 mediante
interviste CAWI (Computer Assisted Web Interviewing) rivolte a 1200 ragazzi e ragazze
fra gli 8 e i 18 anni è emerso che il 15% degli intervistati adolescenti (12-18 anni) conosce
almeno un coetaneo o una coetanea iscritto/a a un sito o una app di incontri.
Questo dato appare del tutto in linea con quanto rilevato in precedenza da Telefono
Azzurro & DoxaKids (2014) contattando 1553 adolescenti fra i 12 e i 18 anni: il 13% era
iscritto/a o aveva usufruito di questi canali per cercare un/a partner.
Le conoscenze effettuate non si esauriscono poi al livello online: il 15% dei/delle giovani
coinvolte nella ricerca dell’anno successivo ha raccontato di aver conosciuto online il/la
proprio/a partner (Telefono Azzurro & Doxa Kids, 2016).
Questo ci deve far riflettere su vari aspetti.
Il primo è che, come e forse più che per noi adulti, per i e le giovani il mondo dell’online
e quello dell’offline non vengono percepiti come due contesti separati ma in continuum,
senza confini, con un passaggio fluido dall’uno all’altro e viceversa.
Il secondo, più centrale per la tematica qui discussa, è cosa ‘aggiunge’ e cosa ‘toglie’
l’incontro e la relazione online rispetto a quella offline. La dimensione online limita
pesantemente la possibilità di esercizio di quel sistema di autoregolazione che può
contribuire a farci percepire un disagio, una sensazione di non meglio spiegato
imbarazzo, sufficiente talvolta però per interrogarci su cosa sta accadendo in quella
relazione e, magari, riuscire a riconoscere eventuali pericoli a cui ci stiamo esponendo.
Potendo comunicare stando ‘al sicuro’, nella propria stanza, in classe, per strada in
mezzo alla gente, ovunque, ma lontano dalla fonte della potenziale minaccia, potremmo
essere tutti e tutte meno reattivi nel riconoscerla, a maggior ragione un/a teenager.
Non stupisce quindi che dati di ricerca sempre più evidenzino forme di violenza agite
online, oggi definita spesso cyberviolence.

23
L’Unione Europea ha finanziato un progetto, CYBERSAFE, che prevede lo sviluppo e la
promozione di un programma educativo di prevenzione, il toolkit CYBERSAFE da parte
dei nove partner coinvolti, fra cui figura anche l’Italia, nel triennio 2019-2021 (30 mesi)14.
L’obiettivo ultimo è promuovere relazioni sane e parità di genere nel mondo online
attraverso la costruzione di materiale ludico-educativo digitale rivolto ad adolescenti fra
i 13 e i 16 anni attraverso cui informare e sensibilizzare in classe sul tema della violenza
online e digitale contro le donne e le giovani donne.
Iniziative come queste sono divenute sempre più urgenti negli ultimi anni dato il dilagare
di forme di violenza online espressamente rivolte a donne e ragazze. Le ricerche
scientifiche sembrano infatti evidenziare che queste siano divenute l’obiettivo
principale di questa tipologia di violenza.
Dal 2007 Plan International, un’organizzazione umanitaria che si occupa di garantire i
diritti delle ragazze e delle giovani donne e promuoverne l’uguaglianza, pubblica un
report annuale su ‘Le condizioni delle ragazze nel mondo’. Nel 2020 ha dedicato questo
dossier alle esperienze dell’essere online sui social media fatte dalle ragazze nel mondo.
Per raggiungere questo obiettivo è stata svolta un’indagine che ha previsto il
coinvolgimento di 14071 ragazze fra i 15 e i 25 anni presenti in 22 differenti Stati
distribuiti nei diversi continenti15 alle quali è stata somministrata una intervista
telefonica. Questi dati sono stati integrati con 18 interviste in profondità rivolte a giovani
donne attiviste di età compresa fra i 15 e i 24 anni provenienti da 16 differenti Stati16.
Ne è emerso un quadro allarmante: più della metà delle partecipanti riferisce di aver
subito molestie e abusi online e una su quattro fra queste ha dichiarato di sentirsi
fisicamente in pericolo, non al sicuro, come esito di quanto esperito. E’ apparso chiaro
come le molestie ricevute online, spingendo le ragazze ad avere timore di qualsiasi cosa
pubblichino, di fatto ne limita la libera espressione, spesso costringendole al silenzio.
L’aspetto peggiore è il riconoscimento dell’evidenza che nella maggior parte dei casi
divengono vittime di questo tipo di aggressioni ‘semplicemente’ perché sono donne e in
quanto tali oppure perché si espongono scrivendo ciò che pensano in relazione a
tematiche per loro rilevanti.
Non si percepiscono mai al sicuro e per molte di loro la violenza subita online che le
raggiunge fino a dentro le proprie abitazioni e che invade i loro cuori e le loro menti,
viene riconosciuta tanto spaventosa, fisicamente ed emotivamente, quanto lo sono le
molestie ricevute direttamente per strada.

Certo, tanto negativo quanto se mi fosse successo nella vita reale. Sai, non è qualcosa
che tu vuoi vedere quando tu ricevi improvvisamente una brutta immagine o ti viene
chiesto di fare qualcosa che non vuoi. È davvero fastidioso.
Giovane donna, 20 anni, Sudan

Il mio stalker era una persona inizialmente davvero interessata a me dato che tutte le
molestie sono iniziate proprio dopo che io mio rifiutato di uscire con lui. Io credo che
spesso le aggressioni verbali che avvengono per strada spesso hanno un’escalation

14
https://www.stoponlineviolence.eu
15
Australia, Benin, Brazil, Canada, Colombia, Dominican Republic, Ecuador, Germany, Ghana, Guinea, India,
Indonesia, Japan, Kenya, Netherlands, Nigeria, Norway, Philippines, Spain, Thailand, USA, Zambia.
16
Canada, Chile, Ecuador, El Salvador, Guinea, Indonesia, Malawi, Myanmar, Nepal, Peru, Philippines, South
Sudan, Spain, Sudan, Tanzania and USA.

24
proprio a seguito di un rifiuto e questo è lo schema che ho osservato nella mia storia e
ho sentito ripetersi in molte altre. Credo che ci siano schemi simili in entrambi i
comportamenti forse proprio a causa del rifiuto ricevuto. È un modo di continuare a
esercitare potere sull’altra.
Giovane donna, 23 anni, USA

Mi sentivo talmente male, malata. Mi sembrava di non riuscire neppure a mangiare,


non potevo mangiare niente. La mattina dopo...Sono dovuta andare dal dottore e lì mi
hanno fatto dei test e mi hanno detto che stavo bene ma che avevo…sai, qualcosa che
non avevo mai avuto prima. Quindi si, mi ha causato una profonda sofferenza, ha
avuto su di me davvero un impatto negativo molto significativo.
Giovane donna, 20 anni, Sudan.

Dalle interviste raccolte emerge una sensazione pervasiva di essere continuamente


minacciate senza avere mezzi per difendersi. Si tratta in molti casi di persone
sconosciute, che quindi appaiono come prive di identità e la percezione è che non
possano essere fermate in alcun modo. Anche quando si tratta di uomini noti, il mezzo
digitale permette di camuffarsi e diventare altro da sé, riducendo per le ragazze la
possibilità di proteggersi.
E’ interessante rilevare che nella maggior parte dei casi in cui il genere è stato condiviso,
si trattava di uomini o giovani uomini e la percezione era la stessa anche quando non
c’erano elementi espliciti per poterlo affermare con certezza.

Io credo che chiunque agisca delle molestie sulle giovani donne come me sia un ragazzo
o un uomo; ci possono essere stati dei commenti di donne che non approvavano il
progetto, ma quando si inizia a parlare di sessualizzazione e oggettificazione, io sono
certa che si tratti di uomini e ragazzi.
Giovane donna, 23 anni, USA

A me dispiace perché si tratta principalmente di maschi. Si, sono principalmente


giovani uomini. Ma anche adulti che fanno i commenti di cui ti ho parlato cercando di
invalidare giovani donne.
Giovane donna, 22 anni, Cile

La diversa esperienza nell’uso dei social e delle molestie subite attraverso questo canale
in quanto ragazze rispetto ai ragazzi emerge anche dallo studio multimetodo realizzato
nel 2018 da Save the Children attraverso da un lato, una rielaborazione dei dati fino a
quel momento disponibili relativamente all’uso del digitale fra gli adolescenti e i rischi a
questo connessi e, dall’altro, la conduzione di 27 interviste di gruppo a 27 ragazze e 13
ragazzi di età compresa fra i 12 e 14 anni.
Le ragazze coinvolte riferiscono di sentirsi frequentemente ‘a rischio’ di subire
aggressioni online o comunque comportamenti non desiderati per il solo fatto di essere
femmine. Riferiscono anche di quanto sia evidente una disparità nel valutare alcuni
comportamenti se agiti da un adolescente oppure da una sua coetanea. Mostrare il
petto nudo, ad esempio, viene sottolineato come un atto criticabile e immediatamente
giudicato come inappropriato quando agito da una ragazza e assolutamente innocuo se
a farlo è un ragazzo.

25
Sono anche i maschi ad affermare che loro corrono meno rischi online rispetto alle
coetanee.
Dalla stessa ricerca emerge quanto spesso ragazze anche molto giovani si trovino a
dover far fronte a tentativi di contatto inopportuni da parte di uomini adulti e/o alla
ricezione di insulti quasi sempre a sfondo sessista. Nella maggior parte dei casi le
intervistate riferiscono di chiedere aiuto ad amici/che e solo in casi reputati
particolarmente gravi ad adulti di riferimento come i genitori o, ancor più raramente,
alla Polizia Postale.

L’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) ha realizzato nel 2017 una rassegna
bibliografica per indagare gli studi ad oggi esistenti sulla violenza contro donne e ragazze
agita nel contesto virtuale.
Dall’indagine del FRA (2014) emerge che una donna su dieci ha subito una qualche forma
di violenza online dall’età di 15 anni, 20% per la fascia 18-29 anni, e che la maggior parte
(77%) di quante hanno subito molestie online hanno subito congiuntamente anche
almeno una forma di violenza sessuale e/o fisica da un partner così come il 70% delle
vittime di cyberstalking.
Dalle limitate ricerche specifiche sull’argomento rinvenute dall’EIGE emerge inoltre che
confrontando maschi e femmine, le seconde sono sproporzionatamente più a rischio di
subire violenze online rispetto ai primi.
Stringendo l’obiettivo per definire meglio di cosa stiamo parlando, si apre un mondo
molto complesso e articolato in cui viene adottata una molteplicità di terminologie per
indicare cosa può accadere online.
Il gruppo CyberSafe identifica nel termine ‘violenza online’ o ‘cyberviolenza’ una
etichetta che funge da contenitore per indicare tutte le tipologie di violenza o molestie
che accadono attraverso il tramite o l’uso di strumenti digitali. Può esplicitarsi in molte
forme differenti che vanno dalle molestie online, dallo stalking vero e proprio fino ad
arrivare al bullismo, alle cosiddette ‘parole d’odio’, al trolling online17, al furto d’identità
e alle attività di hackeraggio.
Passa poi a specificare quelle forme di violenza più strettamente connesse alla violenza
di genere e quindi dirette esclusivamente a donne e ragazze.
E’ necessario qui soffermarsi ad operare un imprescindibile distinguo per non rischiare
di generalizzare e omologare tutti i fenomeni agiti per mezzo delle nuove tecnologie
come se fossero sovrapponibili e interscambiabili, ovvero come se prendessero avvio
dai medesimi presupposti. Non è così. Più avanti avremo modo di approfondire la
matrice culturale e sociale che determina il perdurare di ogni forma di violenza di
genere, ma basti qui ricordare che questa cornice è ciò che la distingue e la differenzia
da ogni altra azione violenta. Questo aspetto è centrale per non confondere azioni come
il bullismo con la DV, nel mondo offline, al pari del cyberbullismo o dell’haute speech
con le molestie online agite all’interno di una giovane relazione di coppia. Il rischio,
altrimenti, è di fornire risposte inadeguate non solo a contrastare questo fenomeno ma
anche e soprattutto per raggiungere l’ambizioso obiettivo di prevenirlo.
Nel report di Cybersafe (2021) vengono identificate quattro forme di cyberviolenza che
sono inerenti la violenza contro donne e minori nello specifico ambito della sfera della
sessualità.

17
Con questo termine solitamente ci si riferisce a persone che deliberatamente adottano messaggi provocatori
e denigranti online.

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E in particolare:
• Distribuzione di immagini non consensuale, che possono andare dal postare
immagini senza il consenso dell’altra persona a quello che viene definito revenge porn,
ovvero il rendere pubbliche foto in atteggiamento intimo di una donna con il preciso
intento di danneggiarla per vendetta, spesso pubblicandole in siti dedicati e
aggiungendo anche i riferimenti personali in modo che possa essere raggiunta e
bombardata, letteralmente, di richieste, insulti, commenti.18 Rientrano in questa
tipologia anche il fare foto o video senza che l’altra persona ne sia consapevole e abbia
quindi potuto o meno esprimere il proprio consenso, oppure lo abbia espresso alla
realizzazione della foto ma non alla sua diffusione. Infine, qui vengono fatti rientrare
anche atti consensuali di natura sessuale non consenzienti, come lo stupro, registrati
digitalmente e purtroppo spesso oggetto di notizie di cronaca19.

• Sfruttamento, coercizione e minacce: la persona riceve minacce a sfondo sessuale,


viene costretta ad agiti di varia natura ma sempre a sfondo sessuale online o viene
ricattata. La vittima può essere spinta a condividere immagini a sfondo sessuale o ad
agire comportamenti sessuali online o offline. Può venire poi minacciata della
pubblicazione di questi materiali online se non ne fornisce ulteriori, in una spirale che
stringe sempre di più la vittima senza lasciarle scampo. Infine, può comprendere
anche l’incitamento ad agire violenza sessuale e poi a condividerne l’evidenza.

• Sessualizazione indesiderata, che si verifica ogniqualvolta una persona riceve


richieste sessuali, commenti e contenuti indesiderati. Può accadere quindi che
vengano espresse opinioni a sfondo sessuale sulle foto pubblicate oppure possono
essere inviati contenuti a sfondo sessuale contro la propria volontà o ancora possono
essere espressi punteggi sull’attrattività o l’attività sessuale dei propri compagni e
delle proprie compagne. Infine, possono venire modificate delle foto per evidenziarne
aspetti legati alla sessualità.

• Pornografia non richiesta, ovvero ricevere contenuti sessuali espliciti non


desiderandolo.

• Cyberstalking, ovvero attuare atti persecutori per il tramite del digitale quindi
attraverso invio di email, di messaggi di testo (SMS) o messaggi istantanei con tono
offensivo o minaccioso. Come nella dimensione offline, anche in quella online talvolta

18
La legge 69/19 ha introdotto anche in Italia nel Codice Penale (art. 612-ter) il reato di revenge porn: Salvo che
il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna cede, pubblica o
diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati,
senza il consenso delle persone rappresentate, è punti con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5000 a
15000 euro.
È interessante rilevare che lo stesso reato è esteso anche a chi riceve immagini filmati e contribuisce a sua volta
alla diffusione illecita: La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video,
li invia, consegna, cede, pubblica, o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro
nocumento.
19
Si riporta a titolo di esempio il caso di una violenza sessuale avvenuta fra novembre 2019 e maggio 2021 da
quattro ragazzi fra i 20 e i 21 anni e di un sedicenne ai danni di una coetanea in provincia di Catania. I quattro
avevano violentato la ragazza riprendendola con il cellulare contro la sua volontà all’interno di un garage. Il video
era stato poi inviato ad altri e usato come minaccia di ritorsione per la giovane vittima.

27
i singoli atti possono di per sé apparire persino innocui ma combinati insieme arrivano
a minare il senso di sicurezza dell’individuo causando stress, paura e stato di perenne
attivazione. Oltre all’invio di messaggi possono esser postati online commenti
offensivi sulla persona o possono essere condivisi foto o video della vittima sul web o
attraverso il cellulare. La peculiarità di questa tipologia di violenza online è
rappresentata dal fatto che, per poter essere considerata tale, deve essere ripetuta
nel tempo ed essere agita sempre dalla medesima persona, proprio come avviene nel
caso dello stalking agito offline.

• Slut-shaming, che consiste nel criticare una persona, sopratutto se di sesso femminile,
per aver tradito le aspettative di comportamento e apparenza legate alla sessualità,
violando una sorta di norma implicita.

• Cyber dating abuse (CDA): usare la tecnologia per monitorare e controllare i


comportamenti del partner; usare le password del/al proprio/a partner senza il suo
permesso per accedere alle sue email e ai suoi account social; installare sistemi di
geolocalizzazione per controllare i movimenti del/la partner; perpetrare aggressioni e
minacce verbali attraverso il canale digitale durante una relazione o dopo che si è
conclusa.

Nel 2015 il Centro di ricerche contro i crimini a danni di minori attivo presso l’Università
del New Hampshire, in partnership con Thorn, un’azienda americana nata con l’intento
di sviluppare nuove tecnologie atte a difendere i bambini e le bambine da ogni forma di
abuso sessuale, ha realizzato una prima indagine conoscitiva per esplorare e
comprendere più approfonditamente il fenomeno emergente del cosiddetto sextortion,
neologismo derivato dalla contrazione fra i termini sex, sesso, e extortion, estorsione per
indicare tutte quelle situazioni in cui una persona viene minacciata di vedere pubblicata
una sua immagine a sfondo sessuale per costringerla a compiere determinati gesti
oppure per vendetta o umiliazione (Wolak & Finkelhor, 2016).
Alle persone che completavano online la propria intervista, di età compresa fra i 18 e i
25, veniva chiesto di riferire della propria esperienza. Il campione finale era composto
in prevalenza da femmine (83%) e di età compresa fra i 18 e i 19 anni.

Dall’analisi dei dati raccolti sono emersi alcuni punti chiave:


• Per quanto le situazioni descritte fossero molto variegate, complessivamente
potevano essere classificate in due grandi categorie, ovvero quella dell’offline, in cui
rientravano il 60% dei/lle partecipanti e che comprendeva quanti/e conoscevano il
proprio aggressore anche nella vita ‘reale’, e l’online, il restante 40%, i cui unici
contatti con la persona violenta erano avvenuti in modo virtuale. Le tipologie di
minaccia agita e gli obiettivi risultavano essere differenti: nel primo caso le pressioni
sembravano orientate principalmente a cercare di far tornare indietro la vittima sui
propri passi per riprendere la relazione interrotta oppure per cercare di umiliarla; nel
secondo, invece, le minacce erano più orientate ad acquisire immagini intime della
vittima e a stabilire un incontro a sfondo sessuale di persona.
• Per quasi la metà dei partecipanti le minacce si erano tradotte poi in atti
effettivamente verificatisi, andando a costituire un tangibile danno per la vittima. La
minaccia più comune era quella di ricevere azioni di stalking sia online che offline, che

28
alcune immagini ‘esplicite’ fossero inviate a familiari e/o amici oppure postate online,
e vere e proprie aggressioni fisiche. In alcuni casi, seppur non frequentemente, i/le
rispondenti riferivano di aver subito una estorsione a sfondo pecuniario, con richiesta
di soldi.
• Le aggressioni avvenivano nella maggior parte dei casi (45%) su più piattaforme
contemporaneamente, frequentemente su social media (54%) ma anche su app di
messaggistica (41%) e su piattaforme per videochiamate (23%). Meno
frequentemente via email, su siti per appuntamenti o su piattaforme per giocare.
• Circa un terzo delle vittime non ne ha parlato con nessuno per imbarazzo e vergogna
anche se circa metà ne ha discusso con familiari e amici. Uno su cinque ha segnalato
l’accaduto alle piattaforme di riferimento, ai responsabili dei social network e il 16%
alle Forze dell’Ordine (FFOO). Tuttavia, le risposte ricevute in questi ultimi due casi
sono state riferite come fortemente deludenti e frustranti.

Nel 2017, Thorn ha deciso di replicare questa indagine apportando alcune modifiche. La
prima è stata quella di ampliare la fascia di età delle persone da intervistare: data
l’evidenza, infatti, di un campione molto giovane nella precedente ondata che riferiva,
peraltro, che le minacce erano iniziate prima dei 18 anni, l’azienda ha stabilito di
contattare ragazzi e ragazze fra i 13 e i 25 anni.
Molti dati sono apparsi in linea con quanto precedentemente rilevato: in parte contatti
solo online e in parte anche offline; in questo secondo caso spesso era presente in
precedenza una relazione romantica fra le due persone, poi interrotta; chi ha incontrato
il proprio aggressore solo online lo ha fatto tramite social media come Kik, Facebook,
Snapchat, oltre a Instagram, Skype, Gmail, Messenger e Tinder.
Il digitale ha rappresentato in tutti i casi il canale attraverso cui il comportamento
violento veniva agito, ovvero per perseguitare, adescare, minacciare.
E’ rilevante evidenziare che nel gruppo degli offline, quindi quando era presente anche
un contatto diretto con l’aggressore, questi era quasi sempre un maschio. Purtroppo il
dato non è identificabile per il gruppo solo online in quanto molto spesso l’offender
tiene celata la propria identità.
Un quarto dei e delle rispondenti ha riferito che gli atti lesivi ricevuti avevano preso avvio
quando avevano meno di 13 anni. Le vittime più giovani più frequentemente rientrano
nel gruppo dell’online e più spesso sono state minacciate al fine di ricevere immagini
sessualizzate ed esplicite.
I e le partecipanti hanno riferito inoltre che gli agiti violenti avvenivano su base
quotidiana, in un quarto dei casi fino a 20 e più volte al giorno, per una durata che in
alcuni casi ha raggiunto i 3 mesi o più.
Chi si trova implicato in queste situazioni si sente in trappola perché sembra non potersi
sottrarre alle minacce e alla persecuzione del suo aggressore:

L’ho bloccato in ogni modo possibile l’ho persino segnalato online ma lui ha continuato
a creare profili fasulli per rendere la mia vita un inferno.
17 anni, femmina, aggressore offline

Purtroppo, quando alcune vittime si sono riferite alle FFOO oppure hanno segnalato il
caso alle autorità garanti per le diverse piattaforme social, le risposte ricevute sono state
molto insoddisfacenti o per ritardi e mancati feedback alle richieste effettuate, o perché

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hanno contribuito ad acuire l’imbarazzo e la vergogna già presenti, come se quanto
accaduto fosse responsabilità della vittima e non dell’aggressore.

Mi hanno fatto sentire davvero come se fossi io l’aggressore e non la vittima. Questo è
un problema enorme per i teenagers come me. Noi siamo le vittime! Dopo il
coinvolgimento della polizia e a seguito di come sono andate le cose, ho sviluppato
ansia, depressione e Disturbo da Stress Post-traumatico (PTSD). Questo non è giusto.
Mi hanno fatto sentire in imbarazzo e spaventato.
13 anni, femmina, aggressore online

Malgrado non sempre questo tipo di cyberviolenza abbia luogo all’interno di relazioni di
coppia, è molto frequente che ne rappresenti una delle modalità di espressione,
andando a costituire uno degli elementi che contraddistinguono la cosiddetta Cyber
Dating Violence (CDV), definita come quell’insieme di comportamenti ripetuti atti a
controllare, denigrare, arrecare danno ad un/a partner o ex partner, e che include azioni
come visitare ripetutamente il suo profilo sui social networks, inviare al/la proprio/a
partner/ex partner messaggi di insulti o di minacce o postare contenuti lesivi che lo/la
riguardano, diffondere informazioni negative sul suo conto, rubare o manipolare le sue
password, postare foto, e molti altri (Galende et al., 2020; Caridade et al., 2020).
Studi recenti hanno ormai chiarito che non sia da definire come una tipologia di violenza
differente dalla DV ma semplicemente agita attraverso canali diversi, una sorta di sua
estensione. E’ stato infatti evidenziato come spesso queste due forme di violenza si
manifestino associate l’una all’altra: la CDV si sovrappone così a stalking e DV
psicologica, fisica e sessuale.
In alcuni casi è stata definita come una forma di violenza psicologica agita attraverso il
tramite del digitale (Caridade et al., 2020).
Zweig et al. (2013) hanno realizzato un ampio studio coinvolgendo 3745 ragazzi e
ragazze frequentanti dieci diverse high school per indagare la loro esperienza di CDV
all’interno delle proprie relazioni di coppia. Un quarto dei/delle rispondenti ha riferito
di aver subito una qualche forma di vittimizzazione mediante il canale digitale, le giovani
più dei loro coetanei maschi, soprattutto per quanto atteneva alla componente sessuale
della CDV. Chi dichiarava di aver subito questo tipo di violenza presentava un rischio
sette volte più elevato di aver subito anche una qualche forma di coercizione sessuale
nella vita offline rispetto a chi non presentava questo tipo di esperienza. È stato rilevato
un rischio ancora più pronunciato per chi affermava di avere esercitato CDV a sfondo
sessuale: il rischio di aver agito una forma simile di violenza oltre lo schermo era 17 volte
più alto.
Tuttavia, l’espressione di questa tipologia di violenza differisce in parte dalla DV proprio
per i mezzi attraverso cui è espletata e per le caratteristiche che da questi derivano. Se
è vero infatti che la CDV ha un ambito di applicazione molto più esteso e maggiore
visibilità, avviene per certi versi in una modalità più riservata e, quindi, può anche essere
meno suscettibile di essere identificata all’esterno accrescendo il rischio che non venga
riconosciuta e rivelata. D’altronde le vittime sono esposte a una più alta probabilità di
vittimizzazione ripetuta dal momento che i social networks vengono aggiornati in modo
permanente. Infine, e connesso a questo, la CDV espone le vittime a livello mediatico
non solo mentre la relazione è in atto ma anche successivamente (Cybersafe Group,
2021).

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È interessante evidenziare la scelta fatta da Reed et al. (2016) nel loro studio che ha visto
coinvolti 365 studenti/esse di college. Gli autori hanno preferito utilizzare il termine
Digital Dating Abuse (DDA) in luogo del più generico CDV per sottolineare un aspetto
ritenuto centrale e caratteristico di questa forma di violenza agita nel contesto di una
relazione di coppia. Riprendendo quanto presente nella letteratura sul cyberbullismo,
che si occupa di analizzare comportamenti dannosi per la persona ma agiti al di fuori di
un contesto relazionale, ricordano che in quell’ambito si fa riferimento ad una
comunicazione digitale che è aggressiva, intenzionale, ripetuta e che implica un
disequilibrio di potere fra la vittima e il bullo a favore di quest’ultimo. Gli studiosi
evidenziano che, malgrado anche nella loro concettualizzazione questi aspetti siano
considerati centrali, tuttavia la parte virtuale della violenza nella DDA viene da loro
intesa come uno dei tanti aspetti che entra in gioco nella costellazione delle tattiche
agite per esercitare DV. Ritengono quindi fondamentale parlare di abuso perché anche
un solo atto e seppur non agito con il cosciente ed esplicito intento di ledere l’altro può
risultare abusivo e deve essere riconosciuto come tale.
La letteratura scientifica degli ultimi anni evidenzia uno sforzo continuo per identificare
e definire diverse tipologie di CDV. Si parla ad esempio di controllo e monitoraggio
digitale (che si traduce ad esempio nel voler conoscere in ogni istante gli spostamenti
del/la proprio/a partner), molestie digitali (come chiamate ripetute e invadenti) e
aggressioni psicologiche digitali (sotto forma di insulti, minacce ed umiliazioni)20.
Più frequentemente, la classificazione si riduce a due diverse forme di CDV, ovvero una
che prevede aggressioni dirette e che include comportamenti che colpiscono con
attacchi espliciti la vittima, insultandola, minacciandola o disseminando informazioni
private, e l’altra che è relativa ad un’azione di controllo sul/la persona che implica
monitorare ogni tipo di comportamento che viene da questi agito mediante l’uso di tutti
i canali digitali, come cellulari, social networks, app. Questa seconda forma appare
essere di gran lunga la più frequentemente riportata negli studi che si occupano di
questo tema (Caridade et al., 2020, Cava et al., 2020).
In un recente studio qualitativo Baker e Carreño (2016) hanno intervistato 39
adolescenti frequentanti l’High School coinvolti in una relazione sentimentale
problematica nel corso dell’ultimo anno. L’obiettivo era indagare il loro uso della
tecnologia nell’ambito della costruzione di nuovi rapporti affettivi e durante il loro
decorso. E’ emerso che spesso usano la tecnologia per iniziare o concludere le proprie
storie, frequentemente attraverso messaggi di testo oppure posts sui social network. Il
digitale viene utilizzato anche per controllare il/la partner e isolarlo/a dagli altri, oltre
che per essere a propria volta controllati/e. Adottano un mix di diverse tecnologie:
chiamate col cellulare, messaggi di testo, post contenenti testo o immagini sulle pagine
personali del/la partner. Talvolta lo spazio virtuale risulta accrescere i sentimenti di
gelosia, dando adito a scontri e agiti violenti all’interno delle coppie.
Diversa inoltre la percezione dell’uso di questo canale da parte delle ragazze rispetto ai
ragazzi. Le prime lo vedono come un modo per poter entrare in contatto con un ragazzo
prima di conoscerlo, per esserne così rassicurate. I secondi, invece, come una barriera
che li tutela dal ricevere un rifiuto faccia a faccia sperimentando un senso di vergogna e
di imbarazzo.
Il digitale usato quindi come supporto per far fronte anche alle proprie difficoltà e per
gestire le proprie insicurezze.

20
Digitale è il termine scelto per tradurre il corrispettivo inglese di cyber.

31
Ma il digitale nasconde profonde insidie proprio perché sfida la nostra consueta
modalità di interazione con l’altro da noi. Vengono meno i confini spaziali e temporali, i
riferimenti comunemente usati per orientarci nel quotidiano vivere nella società in cui
siamo inseriti. Traslando questo nel contesto delle relazioni violente, emergono
chiaramente due rischi. Il primo e forse più saliente è una ancor più ridotta possibilità,
per la vittima, di sottrarsi al proprio aggressore che può agire senza alcun limite: può
conoscere i miei spostamenti con la geolocalizzazione, vedere cosa faccio monitorando
le mie storie su Instagram, sapere cosa penso o cosa mi accade istantaneamente
leggendo i miei post su Facebook, verificare se sono online controllando la chat su
Whatsapp, con chi sto interagendo verificando chi mi segue sui miei social. Certo, potrei
scegliere di rimanere silente su qualsiasi supporto o contesto digitale, ma questo,
all’interno della cornice di una dinamica di violenza, potrebbe comportare ripercussioni
ancora peggiori del subire il controllo e il monitoraggio costante.
E allora Silvia, 15 anni, preferisce rispondere ai messaggi Whatsapp che il suo ragazzo di
17 le scrive ogni notte alle 3 piuttosto che rischiare di farlo arrabbiare e doverne pagare
le conseguenze il giorno dopo.
Scompaiono aree di sicurezza, in cui poter trovare sollievo. Paradossalmente, ci si trova
ad essere soli ma completamente ‘nudi’ e scoperti, in balia delle molestie che possiamo
ricevere da chi ci sta agendo violenza. Se è vero infatti che nessuno può vedere, che
l’interazione fra me e l’altro/a avviene in un contesto online ma privato, come la chat di
Messenger o di Instagram, tuttavia la percezione è che tutto sia pubblico perché tale
può divenire in un istante, con solo la pressione di un dito sulla tastiera.
Questo diviene tanto più importante quando ci si addentra nel contesto insidioso della
DV. Ricordiamo che i comportamenti violenti vengono agiti all’interno di una relazione
di coppia caratterizzata quindi da un rapporto di fiducia, intimità, confidenza. Questo,
unito alla consuetudine dell’accesso online e all’utilizzo del digitale come canale di
comunicazione per eccellenza, può facilitare l’instaurarsi di dinamiche poi molto difficili
da disinnescare se non attraverso la richiesta di aiuto ed intervento esterno.
Dall’indagine già citata realizzata da Save the Children (2018) emerge chiaramente
questo aspetto. Ragazzi e ragazze riferiscono ad esempio la diffusa consuetudine a
inviarsi e scambiarsi immagini con riferimenti sessuali o espliciti così come affermano
che non sia inusuale attivare su richiesta la webcam nudi o seminudi ad esempio in
cambio di denaro sotto forma di una ricarica cellulare. Sembra poco presente la
consapevolezza dei rischi connessi a questo genere di comportamenti e questo deriva
dal fatto che, nel momento in cui vengono agiti, effettivamente non ci sono pericoli
concreti ma solo aspetti positivi derivanti dall’aver soddisfatto una richiesta, aver
allentato una pressione insistente o semplicemente dall’aver ottenuto un vantaggio
economico.
È dopo, semmai, che possono emergere implicazioni fortemente lesive, quando ad
esempio quelle immagini vengono fatte circolare senza il permesso della persona che le
ha inviate. Oppure vengono utilizzate come strumento di ricatto per poter fare ulteriori
richieste, in un circolo che può apparire interminabile e senza scampo.
D’altronde, il cosiddetto sexting, ovvero l’invio o lo scambio di immagini a sfondo
sessuale, è una pratica oggi molto diffusa fra ragazzi e ragazze che riferiscono
principalmente di agire questi comportamenti per divertimento, perché lo fanno tutti/e
e per essere accettati/e dal gruppo, per far colpo su qualcuno che gli/le piace, perché
dietro uno schermo è più facile vincere la timidezza (Telefono Azzurro, 2018).

32
Da una panoramica realizzata nell’ambito del progetto EU Kids Online è emerso che nei
25 Paesi coinvolti in Europa la media dei e delle adolescenti fra gli 11 e i 16 anni
intervistati/e a domicilio che riportavano di aver ricevuto immagini e/o messaggi
sessualmente espliciti era dell’15%. È ragionevole ipotizzare che si tratti di una ampia
sottostima stante la diffusa reticenza di ragazzi e ragazze nel riferire di esperienze simili
agli adulti di riferimento.
Questa pratica diffusa può rendere accettabile e legittimo agire questi comportamenti,
sottovalutandone le ricadute possibili. Ecco che allora risulta coerente il dato emerso
dalla citata ricerca di Save the Children secondo cui alla domanda ‘condividere materiale
intimo e riservato destinato a restare in una cerchia ristretta…è sicuro?’ più di una
ragazza su quattro risponde affermativamente proprio alla luce della diffusione di quel
comportamento fra coetanei/e. Più di una su tre ritiene che sia necessario restringere
l’invio selezionando solo le persone delle quali ti fidi anche se non le conosci di persona.
Quest’ultimo aspetto è eloquente rispetto alla dispercezione che può essere presente
in ragazzi e ragazze rispetto alla propria capacità di distinguere situazioni a rischio e non
senza avere acquisito sufficienti elementi per poterlo fare. Il 31% delle ragazze afferma
che è sicuro se ti fai promettere che non sarà diffuso’, denotando uno degli aspetti chiave
alla base della complessità della DV e della sua forma online, la CDV, ovvero l’esistenza
di un rapporto affettivo che influenza alterandola la possibilità di identificare
rapidamente segnali di allarme anche evidenti. Infine, un dato allarmante e da valutare
nella scelta dei programmi di prevenzione da implementare per contrastare questi
fenomeni: il 40% delle ragazze e il 46% dei ragazzi afferma che, pur non essendo
d’accordo, non possono farne a meno, non hai scelta, mostrando chiaramente quanto
la pressione del gruppo dei pari eserciti un potere fortissimo sullo spazio di autonomia
decisionale di ciascuno. Per attuare un cambiamento sostanziale quindi è necessario non
lavorare solo a livello di singoli o coppie, quando il problema è presente ed urge
intervenire, ma anche e soprattutto a livello di comunità, per costruire un differente
linguaggio che educhi alla libertà di fare ciò che si ritiene opportuno e sostenibile per sé
senza che questo implichi un rifiuto da parte del proprio gruppo di appartenenza in
quanto non corrispondente ai dettami sociali presenti nel contesto in cui si è inseriti.

33
34
1.3 SIAMO ANCORA QUI: PERCHÈ?

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad innumerevoli cambiamenti in relazione al tema


della violenza di genere che hanno portato ad una maggiore definizione e comprensione
del fenomeno. Basti pensare alla terminologia oggi più frequentemente adottata per
parlarne: si fa riferimento sempre più spesso al concetto di violenza di genere per
specificare che si tratta di una forma di violenza agita contro le donne in quanto donne,
come sancito dalla già citata Convenzione di Istanbul.
E’ divenuto un tema discusso a livello nazionale e internazionale, sono stati realizzati
innumerevoli studi anche di ampissimo spettro per analizzarlo più approfonditamente,
sono state messe in campo risorse per contrastarlo.
In Italia, sono cambiate le leggi: sono stati abrogati, come vedremo, alcuni articoli del
Codice Rocco e sono state varate nuove norme a tutela delle donne vittime di violenza.
Basti pensare all’introduzione della Legge 66/9621 che ha affermato il principio secondo
cui lo stupro costituisce un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica.
O ancora, la Legge 119/201322, cosiddetta ‘Legge sul femmicidio’, specificamente
pensata per il contrasto alla violenza di genere e la tutela delle vittime di femmicidio
puntando sulla repressione dei cosiddetti delitti spia o reati sentinella, ovvero quegli atti
che possono segnalare una situazione che può sfociare nell’uccisione della donna, come
il reato di percosse e lesioni23 o lo stalking24
Poi, il cosiddetto ‘Codice Rosso’, sancito dall’entrata in vigore della Legge 69/2019
recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in
materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (GU del 25 luglio 2019,
in vigore dal 9 agosto), che ha previsto la riduzione dei tempi procedurali in caso di reati
come maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale.
E infine la recente riforma del processo prevista con l’attuazione della legge
134/2021recante Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in
materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti
giudiziari.
Eppure, ancora oggi, moltissime donne sono vittime di violenza da partner o ex partner.
Eppure, ancora oggi, un numero enorme di donne ogni anno viene uccisa di solito per
mano di qualcuno che conosceva e al quale era, o era stata, legata affettivamente. E
questo dato non cambia, come ci mostrano i dati sugli Omicidi prodotti dall’Istat su
elaborazione dati del Ministero degli Interni25
Eppure, la violenza nella coppia prende avvio già nelle prime esperienze di relazione.
Perché?
Cosa non siamo ancora stati/e in grado di modificare?

21
Legge 15 febbraio 1996, n. 66, Norme contro la violenza sessuale (in GU Serie Generale n.42 del 20.02.1996 -
in vigore dal 6 marzo 1996)
22
Legge 15 ottobre 2013, n. 119 (in G.U. n. 242 del 15 ottobre 2013 - in vigore dal 16 ottobre 2013) - Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di
sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento
delle province.
23
Art. 581 Codice Penale - Percosse
Art. 582 Codice Penale - Lesione personale
24
Art. 612 bis Codice Penale - Atti persecutori.
25
https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne

35
Ciò che stenta a cambiare è la parte meno evidente, più silente ma che ogni giorno
alimenta il perpetrarsi della violenza legittimandola.
Prima che un femminicidio avvenga, prima che una donna subisca una qualche forma di
violenza o delle molestie, prima ancora dei commenti sessisti, c’è una base, un punto di
partenza, che determina e sancisce i rapporti fra maschile e femminile, posizionano la
donna al di sotto della linea su cui invece viene collocato l’uomo, arbitrariamente. Finché
la disparità di potere che questa discriminazione genera non verrà ‘corretta’, nessun
reale e duraturo cambiamento potrà essere prodotto.

Nel 2014 Ipsos ha realizzato la prima indagine italiana sugli stereotipi e la percezione
della violenza di genere rivolgendosi a uomini e donne dai 18 ai 65 anni. L’analisi dei
dati, contenuta nel Report curato da WeWorld Rosa shocking. Violenza, stereotipi
e…altre questioni del genere, ha istituito una fotografia di una Italia in evoluzione ma
sempre ancorata ad una immagine del femminile tradizionalmente costruita, dove la
donna è descritta prevalentemente in un ruolo di accudimento e cura, in qualche modo
subordinato all’uomo.
L’anno successivo è stata riproposta una indagine analoga elaborando i dati già raccolti
e aggiungendo una parte qualitativa per esplorare e comprendere meglio il fenomeno
(WeWorld, 2015).
Uno dei principali obiettivi era rileggere i dati precedenti sotto la lente delle differenti
fasce di età dei e delle rispondenti per verificare la sussistenza, o meno, di eventuali
cambiamenti generazionali in atto. Individuati 12 atteggiamenti particolarmente
suscettibili all’effetto dell’età, è stata riprodotta la medesima indagine concentrata su
questi elementi ad un campione rappresentativo di 1000 uomini e donne di età
compresa fra i 18 e i 65 anni di età.
L’analisi dei dati così raccolti ha portato alla suddivisione dei e delle rispondenti in tre
gruppi:
• Dalla parte delle donne senza se e senza ma (45%), a cui afferiscono tutte le persone
che ritengono che la responsabilità della violenza non può essere mai attribuita alla
donna che la subisce;
• Fra moglie e marito non mettere il dito (35%), che esprime soprattutto cautela
nell’intervenire in caso di situazioni in cui è presente violenza, riconducendola ad una
sfera strettamente privata;
• Il maschio incolpevole (20%), in cui la violenza viene vista come un atto agito in risposta
ad un impulso generato da una provocazione: l’uomo viene deresponsabilizzato
mentre la donna si fa carico della colpa di generare la reazione poi agita.

La parte qualitativa, realizzata mediante interviste individuali, ha contribuito a far luce


sui contenuti sottesi alle affermazioni prodotte. Ne emerge in taluni casi un solido
ancoraggio a schemi precostituiti che impongono il mantenimento dello status quo
veicolandolo come una sorta di verità assoluta che non può essere messa in discussione.
Basti, a titolo di esempio, il seguente commento:

L’amore vero, puro, è quello che nasce a 15 o 16 anni e dura tutta la vita dove oggi per
fortuna uomo e donna hanno apri ruolo, perché è giusto che la donna abbia tutta la
sua autonomia decisionale…anche se nella coppia c’è sempre un leder e questo per me

36
deve essere l’uomo…la donna è consigliera ma l’uomo può a volte anche fare a meno
del consiglio.

Nel novembre 2019 l’Istat ha prodotto un report su dati 2018 relativi agli stereotipi di
genere con particolare riferimento alla violenza sessuale. Ne emerge una immagine
ancora piuttosto stereotipata dei ruoli maschili e femminili, che vede il 32% della
popolazione affermare che è più importante per l’uomo rispetto alla donna avere
successo nel lavoro mentre il 31% si dichiara d’accordo con il fatto che gli uomini non
sappiano occuparsi delle faccende domestiche.
Ancora più significativo è il dato relativo alla percezione della violenza sessuale. Il 39%
del campione intervistato sostiene che una donna può sottrarsi ad un rapporto sessuale
se davvero lo vuole e il 24% che la responsabilità della violenza subita è da ricondurre
alla donna qualora fosse vestita in modo troppo provocante.
E’ rilevante sottolineare anche il dato relativo alle motivazioni che vengono riconosciute
alla base della violenza maschile agita: il 64% dei e delle partecipanti riconduce i
maltrattamenti esercitati sulle donne ad esperienze che l’aggressore ha subito durante
la propria infanzia in famiglia mentre il 63% afferma che questi siano generati
dall’incapacità dei maschi di riconoscere, accogliere ed accettare l’emancipazione
femminile. Minore è il numero di chi individua delle motivazioni di carattere religioso, il
34% dei casi.

È tristemente interessante rilevare che dati assolutamente analoghi sono emersi da una
recentissima indagine realizzata da Ipsos per Save the Children (2020) coinvolgendo un
campione di adolescenti italiani. Il 76% del campione, il 75% dei maschi e il 795 delle
femmine, si è dichiarato d’accordo con l’affermazione ‘Una ragazza può sottrarsi a un
rapporto sessuale se davvero lo vuole’ e il 15% del totale, il 21% dei ragazzi e il 9% delle
ragazze, ritiene che la violenza sessuale possa essere provocata dalle vittime con il loro
modo di pensare. Al pari degli adulti, poi, persiste l’idea che uno sbocco professionale
sia più importante per un maschio rispetto a una femmina (40% dei maschi, 21% delle
femmine) così come una ragazza su dieci e un ragazzo su cinque pensano sia più
importante per un ragazzo che per una ragazza.

Decostruire uno stereotipo è un percorso molto lento e difficile, ma divine


imprescindibile per poter avviare il cambiamento sperato.
Perché è tanto importante? Quale effetto detrimente gioca la presenza di simili visioni
rigide e apparentemente difficilmente mutabili?
La ricercatrice Camilla Gaiaschi spiega in modo semplice ed eloquente come agiscono gli
stereotipi e, soprattutto, che effetto possono avere quelli di genere sul percorso di
uomini e donne con particolare riferimento agli aspetti professionali.26 La giovane
studiosa introduce il tema del pregiudizio partendo dal concetto di schema, ovvero quei
frameworks cognitivi che ci guidano nel nostro quotidiano permettendoci di
categorizzare gli oggetti, le situazioni, ciò che ci accade in categorie più ampie. E’
qualcosa di molto utile, essenziale per muoverci nel mondo decodificandolo. Da questo
deriva la costruzione di stereotipi, ovvero delle informazioni distorte che a loro volta ci

26

https://www.ted.com/talks/camilla_gaiaschi_fare_e_disfare_il_genere_oltre_gli_stereotipi_e_le_disuguaglianz
e

37
accompagnano nel nostro abitare il quotidiano. Infine, arrivano i pregiudizi, che vengono
definiti come stereotipi agiti, ovvero come valutazioni che si basano sugli stereotipi.
Quali ne sono le implicazioni?
Basti pensare ad uno degli esempi riportati dalla ricercatrice: a seguito dell’introduzione
della cosiddetta blind audition, ovvero una tenda nera che separasse reclutatori/trici e
musicisti/e durante le audizioni, la probabilità di essere assunte da parte delle donne è
aumentata del 50%.
Questa semplice evidenza, estendibile a una moltitudine di situazioni simili, rende chiara
quanto forte sia l’influenza degli stereotipi sulla vita di uomini e donne, dal punto di vista
professionale e personale e, di conseguenza, anche nelle interazioni reciproche.
Collocare l’altro in una posizione di inferiorità predeterminata rischia infatti di favorirne
la svalutazione, l’oggettificazione e, di conseguenza, la violenza.
Gli interventi necessari per eliminare la violenza dovrebbero quindi esser orientati al
contrasto degli stereotipi di genere già a partire dalla prima infanzia, prima che si
delineino.
Tuttavia, la resistenza è fortissima e viene esercitata in modo da rendere superfluo
l’intervento come se il problema non sussistesse.

Questo è eloquentemente descritto nel prezioso contributo di Romito (2011) sui


meccanismi di occultamento della violenza e sulle tattiche messe in atto per realizzarli.
L’autrice identifica due strategie prevalenti, quella della legittimazione della violenza e
quella della negazione della stessa, che diviene tanto più indispensabile quando la prima
diviene difficile da poter essere sostenuta.
Nel primo caso, la violenza viene identificata ma trasformata in un’azione legittima. Ne
sono esempi alcune norme oggi abrogate come quella del cosiddetto Delitto d’onore27,
strettamente legata al Matrimonio riparatore2829. Essere parte di uno Stato che
riconosce nell’onore esclusivamente maschile un’attenuante sufficiente a ridurre
drasticamente la pena prevista per un reato efferato come quello di un omicidio o che
legittima che un uomo possa essere assolto dopo aver commesso uno stupro, senza che
di questo nessuna traccia resti sulla sua fedina penale, né su quella di chi ha concorso a

27
Art. 587 del Codice Penale ‘Rocco’ in vigore dal 19 gennaio 1930 al 5 agosto 1981 (Abrogato dall’art.1, Legge
442/81) - Omicidio e lesione personale a causa d’onore: Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o
della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa
recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi,
nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la
figlia o con la sorella.
28
Art. 544 del Codice Penale ‘Rocco’ in vigore dal 19 gennaio 1930 al 5 agosto 1981 (Abrogato dall’art. 1, Legge
442/81) - Causa speciale di estinzione di reato: Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530 [come lo
stupro, n.d.r.] il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche
riguardo a coloro che sono concorsi nel rato medesimo; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli
effetti penali.
29
È tristemente nota la storia di Franca Viola, prima giovane donna che nel 1965, ad Alcamo, a soli 17
anni e dopo una segregazione e sevizie durate otto giorni ad opera di Filippo Melodia, rifiutò di sposarlo
opponendosi di fatto all’applicazione della norma prevista dal matrimonio riparatore e avviando quindi
il processo dei suoi aguzzini. In Tribunale la ragazza, supportata da suo padre, affermò: Io non sono
proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto. L’onore lo
perde chi fa certe cose, non chi le subisce.
Per un approfondimento, Monroy (2012).

38
quell’atto, implica affermare che agire violenza nei confronti delle donne sia un’azione
non solo possibile ma che può persino esserne individuata una sua ragion d’essere.
Nel secondo caso, la violenza viene negata: non esiste, non c’è. Ne è un esempio ritenere
false le denunce in caso di stupro, rifiutando quindi di riconoscere la presenza di un
problema di salute pubblica di portata enorme.
Romito delinea poi le tattiche attraverso cui la violenza viene occultata: attraverso la
colpevolizzazione delle vittime, a conferma di questo sopra riportato a proposito degli
stereotipi sulla violenza sessuale; l’eufemizzazione, definendo ad esempio conflitto
un’aggressione violenta; la psicologizzazione, riconducendo ad una problematica della
vittima quanto le sta accadendo, come le teorie sul masochismo in voga fino a pochi
anni fa per spiegare come mai una donna restava con un uomo violento; la separazione,
che porta a ridurre il fenomeno in fette più piccole rendendolo così meno visibile e,
come tale, meno impattante; la naturalizzazione, ovvero ricondurre un agito a qualcosa
che è ‘normale’ che accada, come quando si fa riferimento ad un non meglio precisato
istinto atavico che spingerebbe l’uomo a non riuscire a controllare i propri impulsi e ad
agire quindi una violenza sessuale.

Finché non verranno indossati occhiali adeguati a poter vedere la base della piramide al
cui vertice è collocato il più efferato degli atti di violenza, ovvero il femminicidio, darà
difficile poter realmente evitare che la violenza di genere si verifichi.

39
40
1.4 DIMENSIONI DEL FENOMENO

È oggi un dato ormai indiscusso che la DV esiste e interessa un numero elevato di ragazzi
e ragazze.
Non è chiara, tuttavia, l’effettiva estensione del fenomeno. Le diverse ricerche condotte
a livello internazionale riportano infatti percentuali con ampio margine di variazione. Ciò
è dovuto a una molteplicità di fattori: il campione scelto, gli strumenti adottati per la
rilevazione, lo spazio temporale indagato, il luogo in cui lo studio è stato realizzato
(Oyarzun et al., 2021).
Inoltre, la mancanza di una univoca definizione di DV incide significativamente sulla
rilevazione della sua effettiva estensione. In questo senso, può divenire alto il rischio di
sottovalutare e minimizzare alcuni comportamenti ed agiti, in un certo senso
rispondendo alla necessità di ridurre la portata del fenomeno per non vederlo nella sua
interezza e quindi doversi ‘fare carico’ di ciò che ne consegue.
Nel 2015 il Centro Nazionale di Prevenzione e Controllo americano, con sede ad Atlanta,
ha sentito l’esigenza di rivedere le raccomandazioni precedentemente pubblicate (1999)
rispetto alla terminologia usata e alle modalità di raccolta dati nell’ambito specifico della
cosiddetta Intimate Partner Violence (IPV) ovvero la violenza agita da un partner con il
quale siamo in una relazione affettiva.
L’obiettivo era proprio quello di promuovere una coerenza interna rispetto a questi
aspetti fra quanti e quante si occupano di questo fenomeno nei diversi contesti.
In questo documento, derivato da un’ampia consultazione della letteratura esistente e
dal confronto fra specialisti del settore, viene fatto un riferimento esplicito
all’emergente campo della Teen Dating Violence e viene indicato che, sebbene questo
documento non sia dedicato specificamente a questo argomento, può essere usato
come traccia per ricercare una maggiore consistenza nell’affrontare il tema. La
mancanza tuttavia di qualcosa di analogo ma diretto in modo esclusivo alla DV è
testimoniato dalla presenza, come visto, di molteplici diciture e acronimi che
contribuiscono ad incidere su una non precisa rilevazione del fenomeno (Breiding et al.,
2015).

In una recente metanalisi condotta su 35 studi da Taquette & Monteiro (2019) emerge
un tasso di prevalenza che varia dal 28% and 71%, con una buona parte di studi che
indica un valore maggiore del 50%.
Nel 2014 è stata realizzata in americana la prima indagine nazionale (National Survey on
Teen Relationships and Intimate Partner Violence, STRiV) sulla DV, anche se gli autori
preferiscono definirla Adolescent Relationship Abus (ARA) che ha visto coinvolta una
coorte di 1804 ragazzi e ragazze di età compresa fra i 12 e i 18 anni. Ne è emerso che il
69% dei e delle rispondenti riferiva di aver subito violenza all’interno della coppia nel
69% . La forma più frequentemente riferita era la violenza psicologica, presente in più
del 60% dei casi, accanto ad abuso sessuale (18%) e fisico (18%).
Molti dei dati a disposizione provengono da contesti americani o di matrice
anglosassone.
Per ovviare a questo, Tomazweska & Schuster (2021) hanno provveduto a raccogliere
tutte le evidenze sulla DV concentrandosi esclusivamente sui dati europei. In base ai
criteri di inclusione ed esclusioni adottati, le due autrici hanno selezionato 34 articoli di

41
matrice europea. Sulla base dell’analisi dei dati raccolti negli studi indicati, emerge che
la prevalenza di violenza psicologica varia fra il 6% e il 95%, con percentuali simili fra
maschi e femmine mentre i maltrattamenti fisici si verificano dall’1% dei casi fino al 33%,
con una tendenza a una maggiore vittimizzazione delle ragazze rispetto ai ragazzi
(rispettivamente, fino al 333%. Fino al 30%). Per quanto concerne gli abusi sessuali, il
range riscontrato dalla metanalisi rileva una variabilità che va dal 5% al 41%, di nuovo
con una lieve differenza a danno delle femmine (rispettivamente 41% vs 39%.
In uno studio realizzato in Spagna e appena pubblicato sono stati contattati 248
studenti/esse del corso di laurea in infermieristica ed è stato chiesto loro di compilare
un questionario online. Fra i partecipanti, per la maggior parte donne (87%) un totale
del 53% riferisce di aver subito e/o agito una qualche forma di DV (Barroso-Corroto et
al., 2022).
Nell’indagine realizzata da Oyarzun et al. (2021) con un ampio campione di 1105 ragazzi
e ragazze di età compresa fra i 12 e i 17 anni, la percentuale di violenza subita variava
fra il 2% e il 34% in relazione alle diverse popolazioni di cui facevano parte, con la
percentuale più alta fra gli adolescenti provenienti dai centri dedicati alla giustizia
minorile.

I dati italiani sono molto scarsi, soprattutto quelli su scala nazionale.


Dalla già citata indagine di Telefono Azzurro & DoxaKids (2014) emerge che al 23% del
campione è capitato di ricevere urla dal/la proprio/a partner mentre il 14% dichiara di
essere stato vittima di insulti. L’8% dichiara inoltre di essere stato/a minacciato/a dal/la
partner se non avesse seguito l’indicazione di fare ciò che gli/le veniva proposto.
Vengono riferite anche violenze fisiche: al 6% del campione è successo di ricevere
aggressioni fisiche dal/la proprio/a partner. Infine, il 6% del campione dichiara di essere
stato forzato ad avere approcci o rapporti sessuali non desiderati.
Appare rilevante e indicativo sottolineare la discrepanza fra quanto viene dichiarato
rispetto a se stessi/e e quanto viene attribuito ad altre persone note: le percentuali di
quanti/e hanno assistito o hanno ricevuto notizia di violenze fisiche, psicologiche e
sessuali da amici e amiche è sempre significativamente più alta rispetto a quelle
autoriferite. A titolo di esempio, sale al 38% la percentuale di quanti/e riferiscono di
conoscere qualcuno/a che è stato/a oggetto di urla dal/la proprio/a partner, al 33% in
riferimento agli insulti, al 23% per quanto concerne le minacce, al 15% per le aggressioni
a sfondo sessuale.
Questa evidenza spinge a riflettere su quanto siano più difficilmente riconoscibili e
verbalizzabili gli atti di violenza quando direttamente subiti e dovrebbe aprire una
riflessione rispetto al modo di accogliere eventuali rivelazioni ricevute da ragazzi e
ragazze, tenendo conto della chiara difficoltà di questo delicato passaggio, sia in
riferimento a sé che in relazione alla persona scelta per confidarsi.

Nello studio multimetodo realizzato in Friuli Venezia Giulia da Romito et al. (2007) sono
stati somministrati questionari a circa 700 ragazzi e ragazze dell’ultimo anno delle scuole
secondarie di secondo grado. Dall’analisi emerge che, fra quanti avevano già fatto
esperienza di relazione di coppia, il 16% delle intervistate e l’8% degli intervistati si è
dichiarato vittima di comportamenti di dominazione e controllo da parte del/la partner,
il 14% delle ragazze e l’8% dei ragazzi ha subito violenze o molestie sessuali; nel
complesso, più di un/a partecipante su dieci ha subito aggressioni fisiche.

42
Più recentemente è stato condotto uno studio che ha coinvolto 859 adolescenti di età
compresa fra i 16 e i 18 anni e residenti in Piemonte e Lombardia. Dallo studio emerge
che la quasi totalità di quanti/e avevano fatto una esperienza di relazione di coppia
aveva anche sperimentato almeno un episodio di abuso verbale/emotivo mentre il 32%
era stato/a vittima di violenza fisica. E’ interessante quanto sottolineato dagli autori che
evidenziano come gli stessi ragazzi e le stesse ragazze identificassero come importanti e
significative quelle relazioni in cui, però, si era verificato almeno un comportamento
abusante (Cuccì et a., 2020).

Per quanto concerne la CDV, come e più che per la DV, i tassi di prevalenza riscontrati
nei diversi studi differiscono notevolmente gli uni dagli altri in relazione alle variabili
considerate, agli strumenti utilizzati, alle popolazioni di riferimento considerate.
Thulin et al. in uno studio non ancora pubblicato hanno indagato l’andamento del
fenomeno della CDV seguendo due coorti di ragazzi e ragazze di età compresa
rispettivamente fra i 12 e i 15 anni e fra i 15 e i 18 seguendoli per quattro anni, dal 2013
al 2017, con la somministrazione di un questionario su base annuale. Hanno identificato
un’andamento che vede una crescita del fenomeno fino al raggiungimento di un picco
intorno ai 16-17 anni per poi tornare a decrescere.
Nella rassegna di 21 studi curata da Stonard et al. (2017) emerge che la prevalenza di
questa forma di violenza varia dal 12% al 56%.
Da una recente metanalisi condotta su 101 studi relativi alla DV è stato rilevato un tasso
di prevalenza che variava dall’1% al 61% per quanto concerneva la violenza fisica e
dall’1% al 54% per quella sessuale. In media, quindi, veniva registrato un tasso di
violenza fisica del 20% e di violenza sessuale del 9% (Wincentak et al., 2017). Anche in
questo caso come in altri studi simili, la violenza psicologica sembra essere la forma di
maltrattamento più frequentemente agita nell’ambito della DV (Leen et al., 2013).
Fra gli studenti/esse dello studio di Barroso-Corroto et al. (2022), il 18% dei maschi e il
20% delle femmine riferivano di aver subito una qualche forma di CDV nell’arco
dell’ultimo anno.
Cava et al. (2020) hanno realizzato uno studio in Spagna coinvolgendo 604 ragazzi e
ragazze di età compresa fra i 12 e 17 anni e che si trovavano in una relazione di coppia
o ne avevano fatto esperienza negli ultimi 12 mesi. L’obiettivo era indagare la prevalenza
di CDV nel campione selezionato analizzandone la frequenza (se occasionale o ripetuta)
e il tipo (se prevalentemente cyber control o cyber aggression) ed esplorando il nesso
esistente con la vittimizzazione derivante da atti di cyberbullismo diretto o indiretto.
Nel primo caso di fa riferimento a quelle situazioni che includono atti in cui la vittima
riceve attacchi diretti da uno o più aggressori. Ne sono un esempio l’invio di messaggi di
testo o la pubblicazione di post sui social network contenenti minacce oppure
l’eliminazione della vittima da chat di gruppo o similari e quindi di fatto producendone
l’isolamento dal suo contesto di appartenenza.
Per cyberbullismo indiretto invece si intendono tutte quelle azioni che sono tali da
causare un danno non direttamente rilevabile nella vittima, come creare dei falsi profili,
hackerare i suoi account personali o condividere informazioni personali con altri come
ad esempio postare messaggi e immagini personali del ragazzo o della ragazza in contesti
pubblici.

43
I dati rilevati indicano che quasi la metà dei/delle partecipanti (44%) riferivano di aver
subito almeno un atto di cybercontrollo da parte del proprio o della propria partner. Fra
questi/e, il 30% riferiva di essere stato/a vittima occasionale di cyberbullismo, il 14% di
comportamenti ripetuti rientranti in questa definizione. Malgrado la frequenza di agiti
di cyberaggressione fosse minore, è risultato tuttavia che il 12% del campione ne era
stato oggetto all’interno della propria relazione di coppia. Si trattava di eventi
occasionali per il 4% dei casi, ripetuti nel 7%. È stata inoltre riscontrata una forte
associazione fra CDV e vittimizzazione derivante da cyberbullismo sia per le ragazze che
per i ragazzi, anche se più accentuata per le prime rispetto ai secondi.

I dati italiani relativamente alla diffusione della specifica forma della CDV sono ancora
molto scarsi.
Dal progetto europeo Stir it Up a cui ha preso parte anche l’Italia e che era teso ad
indagare sia l’incidenza che diversi fattori associati alla violenza offline e online nelle
giovani relazioni di coppia, è emerso che il 40% dei ragazzi e delle ragazze partecipanti
ha dichiarato di aver subito una qualche forma di violenza online, con monitoraggio e
controllo riferiti come comportamenti più frequenti. L’Italia risultava fra gli Stati con la
percentuale più alta. Spesso inoltre le aggressioni subite non si esauriscono solo nel
contesto online ma sono associate al mondo dell’offline (cfr. Save the Children, 2018).
Dall’indagine Telefono Azzurro e DoxaKids (2014) già più volte citata emerge che il 10%
degli/delle adolescenti intervistati/e conosce qualcuno che ha ricevuto delle minacce
dal/la proprio/a partner relativamente al postare in rete foto e video privati senza il suo
consenso.

Un dato molto dibattuto è legato alla equivalenza o meno della DV e della CDV fra ragazzi
e ragazze. Sebbene diversi studi citati, sia nazionali che internazionali, sembrino
confermare una maggiore simmetria nelle azioni violente esercitate da adolescenti di
sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile, tuttavia il tema è oggetto di molte
riflessioni. Diversi sono gli aspetti presi in esame: la tipologia di violenza agita (più spesso
sono le ragazze a riferire violenze sessuali, ad esempio), la frequenza (un caso isolato
verso agiti ripesti e protratti nel tempo), le motivazioni sottese (autodifesa vs attacco),
le conseguenze sofferte (riferite come più gravi e durature fra le ragazze), la
legittimazione della violenza (più forte se agita da maschi che da femmine) (cfr.
Beltramini, 2020; Joppa et al., 2020).
Hébert et al. (2017) hanno condotto uno studio in Canada per indagare la presenza o
meno di differenze di genere rispetto sia al subire DV e sia alla percezione dell’impatto
di queste esperienze.
Sono stati raggiunti 8194 studenti/esse di età compresa fra i 14 e i 18 anni ed è stato
loro somministrato un questionario per verificare una potenziale vittimizzazione negli
ultimi 12 mesi e valutarne l’impatto percepito. I dati emersi hanno messo in luce che,
ancora una volta, la violenza psicologica risulta essere la forma di violenza più
frequentemente riportata. Le ragazze hanno riferito più spesso dei ragazzi esperienze di
violenza psicologica e fisica nonché minacce e violenze sessuali. Esplorando gli indicatori
prescelti per rilevare la gravità dell’impatto dei maltrattamenti subiti sulla qualità della
salute psicologica di ragazzi e ragazze, ovvero paura, distress e sintomi di disturbo da
stress post-traumatico, è emerso che le ragazze risultano più vulnerabili rispetto ai
ragazzi nel sostenere i comportamenti particolarmente dannosi.

44
E’ doveroso aggiungere che, qui si al pari che nelle coppie adulte, mentre purtroppo
numerosi sono i casi di femminicidio agiti ai danni di ragazze anche molto giovani,
rarissimi sono i casi contrari, dove la vittima di sesso maschile, un po’ a sostegno se non
altro della teoria che vedrete le ragazze esposte a danni maggiori (Taquette & Monteiro,
2019).
Malgrado la discussione sia oggi ancora aperta relativamente a questi aspetti, risulta
evidente dai dati fin qui raccolti che si tratta di qualcosa che riguarda anche le ragazze e
su cui pertanto risulta imprescindibile continuare a interrogarsi per costruire risposte
adeguate ed efficaci soprattutto in un’ottica di prevenzione primaria, promuovendo
modelli di relazione che siano nutrienti anziché dannosi.

45
46
1.5 LA VIOLENZA NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE

La violenza fa male. Chiunque la agisca, chiunque la riceva. Lascia segni tangibili seppur
spesso non visibili in qualsiasi soggetto ne sia vittima, in ogni sua forma.
Malgrado questa possa apparire una premessa superflua in quanto scontata, appare
doverosa data la tendenza a sminuire, minimizzare, parcellizzare, circoscrivere
temporalmente gli effetti che subire maltrattamenti esercita su chi si trova a doverli
affrontare.
Questo diviene tanto più vero nel contesto specifico oggetto di questo corso. Quando
ad agire violenza è un giovane ragazzo di 14 anni e a riceverla la sua compagna di classe,
di pochi mesi più piccola, risulta spesso più difficile coglierne la gravità e valutarne
adeguatamente le possibili conseguenze a breve, medio e lungo termine.
Questo è dovuto a tutti gli aspetti fin qui discussi. Dare un nome ad agiti aggressivi di un
ragazzino inquadrandoli nel contesto culturale che abbiamo visto legittimarli e in una
cultura ancora fortemente fondata su una deleteria discriminazione fra i generi
implicherebbe identificare in lui un perpetratore di violenza, in lei una vittima di
maltrattamenti. Riferirsi alla stessa situazione in termini di conflitto fra ragazzi che si
frequentano, senza attribuire particolare rilevanza al contesto in cui si verificano in
quanto si tratta di un rapporto che sembra esagerato definire relazione di coppia limita
pesantemente la possibilità di inquadrare correttamente ciò che sta avvenendo e fornire
quindi risposte adeguate all’uno come all’altra. Entrambi, infatti, proprio a ragione della
loro giovane età, necessitano di un intervento che permetta di dare un nome chiaro alla
dinamica in atto in modo da contrastarla e prevenirne il ripetersi.
Se è vero che la violenza di genere prende le mosse da punti comuni e si sviluppa
attraverso traiettorie e con modalità molto simili nelle coppie giovani come in quelle
adulte, molti sono i distinguo presenti fra queste due espressioni dello stesso fenomeno,
come già discusso in precedenza.
Questo riguarda anche e soprattutto le conseguenze che derivano dal vivere esperienze
di questo tipo in età adolescenziale.
Proviamo a fare un esempio concreto, per tradurre in elementi di realtà delle
affermazioni altrimenti che potrebbero risultare troppo teoriche.
Conosco Monica in una stanza che non è quella del mio studio, non mi appartiene. Come
lei, non mi sento proprio a mio agio, anche se per motivi diversi. Io sono stata chiamata
a presenziare la sua audizione protetta30 in quanto la Procura presso il Tribunale dei
Minorenni ha ricevuto una segnalazione da parte di una vicina di casa, amica della
mamma della ragazzina, rispetto ad una situazione di presunto pregiudizio per la
minore.

30
Con la Legge 172/2012 l’Italia ha ratificato e resa esecutiva la Convenzione del Consiglio d’Europa per la
protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale redatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007. In essa
all’art.5, comma d., viene specificato che Nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 351, comma 1‐ter, il
pubblico ministero, quando deve assumere informazioni da persone minori, si avvale dell’ausilio di un esperto in
psicologia o in psichiatria infantile.
Questo implica che, ogni qualvolta, nell’ambito delle indagini preliminari, sia necessario che il Pubblico Ministero
o, più spesso, la Polizia Giudiziaria che ne ha ricevuto la delega, debba raccogliere le Sommarie Informazioni
Testimoniali (SIT), ovvero le informazioni possedute, da un o una minorenne, deve avvalersi del supporto di
uno/una specialista in psicologia o psichiatria infantile nell’ambito di quella che viene, appunto, definita
audizione protetta.

47
Monica ha 14 anni. Una felpa di due taglie più grandi, i jeans strappati anche se siamo in
pieno inverno, le unghie con uno smalto nero. Lo sguardo basso, risponde con un filo di
voce ai tentativi miei e della collega poliziotta di provare a stabilire un primo contatto.
Arriva accompagnata dalla madre alla quale spieghiamo quello che accadrà e che
invitiamo ad aspettare fuori.
Ci sediamo. Iniziamo a presentarci, a descrivere chi siamo e perché ci troviamo lì
insieme, motiviamo la presenza di una telecamera puntata su di lei e su di me, che sono
sulla sedia accanto a lei.
Monica ascolta in silenzio, annuisce col capo.
Parliamo della scuola, delle materie che le abbiamo fatto perdere questa mattina per
venire da noi, degli sport che pratica, dei suoi amici e delle sue amiche.
Piano piano arriviamo al momento in cui dobbiamo davvero iniziare a raccogliere la sua
testimonianza.
Monica sa perché si trova qui, in questa stanza al piano terra di un Tribunale, davanti a
due estranee. Sa che Stefania, l’amica della mamma che abita sul suo stesso
pianerottolo, ha visto una litigata fra lei e il suo ragazzo.
Minimizza, Monica. Ripete che non era niente di grave, che era capitato altre volte, che
è normale discutere quando si sta insieme.
Lentamente, una parola alla volta, emerge che Federico si arrabbia facilmente, ma è
colpa mia, sono io che mi comporto male. Quella mattina, ad esempio, si era messa una
catenina che le aveva regalato una sua amica che a lui proprio non va giù perché dice
che gliela mette contro.
Federico quando è arrabbiato le dice che non capisce niente, che non sa perché continua
a stare con lei che non è neppure così carina, che farebbe meglio a trovarsene un’altra.
Stanno insieme da cinque mesi.
Cos’altro succede quando Federico si arrabbia?
Ma niente, non succede niente. Come te lo devo dire? Non succede niente di grave. Posso
andare ora?
Non è può più Monica. È stanca delle mie domande, è stanca di dover rivivere tutto quel
dolore quotidiano, la paura costante di dire o fare la cosa sbagliata e doverne pagare le
conseguenze.
È sfinita dal dover nascondere quanto fa male, prima di tutto a se stessa. Perché quel
ragazzo è anche dolcissimo, per San Valentino per esempio siamo andati sul ponte quello
che c’è in centro e abbiamo attaccato un lucchetto che mi ha regalato lui a forma di
cuore con sopra le nostre iniziali.
È preoccupata, Monica. Non vuole che accada niente di male a Federico. Gli vuole bene.
Ha paura che finisca in carcere.
Con estrema fatica, questa giovane ragazza, poco più che bambina, riesce a condividere
tanti piccoli episodi che costellano le sue giornate: qualche tirata di capelli se si ferma a
parlare con Matteo, il suo ex; i primi approcci alla sessualità che non sempre le piacciono
ma che se lei rifiuta lui poi non le parla per giorni; le bugie che deve dire per poter vedere
quell’amica alla quale vuole bene ma che lui detesta; i tagli, che qualche volta si fa sulle
braccai e sulle cosce, quando proprio non ce la fa più.
I tagli, uno dei modi con cui ragazzi e ragazze esprimono la loro sofferenza. Oppure
smettendo di mangiare o abbuffandosi, abusando di alcol e di droghe, esponendosi a
rischi anche molto elevati agendo una sessualità non controllata, promiscua.

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La situazione peggiora se il maltrattamento resta sommerso, non viene riconosciuto e la
vittima si trova sola ad affrontarlo, ancor più se si prolunga a lungo. Non è infatti solo
l’intensità momentanea del danno ma anche la sua ricorsività a determinarne l’impatto
sulla salute psicofisica di chi ne è vittima.
Si assiste talvolta allo strutturassi di una sorta di impotenza appresa: all’inizio provo a
cambiare le cose, a parlare, a spiegare, a capire. Poi, non riuscendoci e assistendo al
ripetersi sempre uguale a se stesso di uno stesso copione, se niente interviene a
ostacolare il muoversi di quella ruota, bloccandola, può esserci la resa che porta
l’individuo semplicemente ad apprendere come ottenere il danno minore. Si assiste così
a ragazzine che si riconoscono esperte decodificatrici di segnali di nervosismo nel
proprio fidanzato e che intervengono prima che questo si possa trasformare in qualcosa
di più grave e difficile da sostenere, in uno stato di continua allerta.
Se il contesto familiare e sociale non riconosce ciò che sta accadendo, i danni possono
essere maggiori: la vittima si interroga sulla bontà delle proprie percezioni e spesso
tende a sottovalutarle, a non fidarsi più perché resta l’unica che riconosce nella persona
al suo fianco qualcuno del quale avere paura.
Martina ha da poco compiuto 15 anni quando succede la prima volta. È la festa
dell’anniversario dei genitori del suo ragazzo, che ha 5 anni più di lei. L’hanno invitata a
passare da casa, ormai è una di famiglia, sta con Mattia da due anni. Mentre tutti
brindano, lui la invita a salire in camera. Mi racconta che oggi, a distanza di cinque anni,
non se lo ricorda il tragitto fino alla camera. È come se le mancassero dei fotogrammi di
un film. Si rivede in camera e poi la scena dopo è sul letto, lui sopra di lei. Sono ancora
vestiti. Poi altra scena, lei ora è nuda ma non si vede per intero. Anche lui è nudo, ma di
entrambi non riesce a vedere i volti. Solo parti del corpo. Le sue, quelle di lui. E poi le
mani. Ricorda le sue mani che si muovono, le sembra che ne avesse più di due ora che
ci pensa. Le sembra di sentire ancora quella pelle sulla sua mentre è nella mia stanza, da
sola, con me. Lontana e al sicuro.
È così che si inizia a curare un trauma come questo. Si riparte da quella relazione che è
stata violata, dalla fiducia che si è persa, da quel senso di sicurezza in sé e nelle proprie
scelte che si è distrutto in pochi istanti, mentre piangendo Martina è rimasta immobile,
sentendosi incapace di alcun movimento, di emettere un suono, come se fosse fuori da
sé, dissociata da una realtà divenuta insostenibile.
Spesso, dopo, mancano le parole per raccontare, per descrivere, per chiedere aiuto. E’
il corpo che parla, spesso. Manifestando quella sofferenza che non riesce a trovare un
canale per fuoriuscire e, finalmente, placarsi.
Lui diceva di amarmi…voleva fare l’amore con me perché mi amava…sono io che sono
fatta strana…
Sei strana?
Si...è colpa mia...stavamo insieme da un sacco di tempo…voglio dire, è normale no? Lui
è più grande, era già stato con tante altre ragazze…invece io…
Invece tu semplicemente non volevi…era un tuo diritto dire di no…lo sarebbe stato
sempre…lo sarebbe anche oggi, che ormai sei adulta…lo sarebbe stato anche dopo quella
prima volta…
Il senso di colpa spesso accompagna e caratterizza i racconti delle vittime che si sentono
sporche, sbagliate, arrivando persino a provare disgusto per il proprio corpo, per la
propria persona. Il senso di inadeguatezza frequentemente fa da sfondo alle storie di
maltrattamento, incentivato quasi sempre dalla dinamica stessa della violenza che vede

49
la vittima al centro e colpevolizzata dall’aggressore per quanto lui ha, di fatto scelto di
fare: vedi cosa mi fai fare?
È questo forse il passaggio più difficile quando si lavora con chi si è trovato o si trova a
vivere un’esperienza simile: riuscire a rendere visibile a chi ci sta seduto di fronte che
qualsiasi gesto fatto o non fatto, qualsiasi frase pronunciata o meno è una scelta che
l’altro/a ha deciso di prendere e che, come tale, è sua esclusiva responsabilità.
Il contesto in cui quella vittima è immersa, però, non facilita questo passaggio ma, anzi,
lo rende ostico, come un cunicolo stretto e buio difficile da attraversare, che spaventa
persino perché non si riesce a guardare oltre, non se ne intravede la fine.
Non ne ha parlato con nessuno Martina. Sono passati anni, è riuscita a trovare la forza
e il coraggio di interrompere quella relazione, ma questa è la prima volta che ne parla,
la prima volta che dà voce all’incubo che ha vissuto.
Giorno dopo giorno, colloquio dopo colloquio, la sua storia prende forma, le parole
iniziano a fluire, i pezzi del puzzle vengono ritrovati e il tutto assume un quadro più
chiaro, visibile anche a me che, così, posso restituirlo a lei in una forma che lei possa
prima sostenere e poi accogliere e fare propria.
Come incollare i frammenti di un vaso che era caduto a terra, si era spaccato in mille
parti e che a lungo è rimasto così, scomposto, senza più una sua identità.
Si ha la sensazione di aver perso qualcosa, qualcosa che non potrà più essere ritrovato
e che ha lasciato dentro un vuoto enorme, come una sorta di buco nero che risucchia
tutto ciò che lo circonda annientandolo.
Il lavoro di ricostruzione è tanto più lungo e faticoso quanto meno è stato presente un
supporto intorno, quanto meno quella ragazza ha ricevuto ascolto, accoglienza,
qualcuno capace di dare voce ai suoi bisogni, ai suoi perché quando lei non era ancora
pronta a farlo.
Quando l’ho lasciato l’ho detto a mia madre…non sapeva niente…per lei lui era un bravo
ragazzo che mi voleva molto bene…mi ha detto ‘Sei sicura? Io credo che non troverai mai
più un uomo che ti ami tanto quanto lui’. Ci credi se ti dico che ogni tanto queste parole
mi arrivano in mente, così, dal nulla, e mi manca il respiro, mi sembra per un istante di
non riuscire a respirare? E sai la cosa buffa? Che quando poi gli ho detto cosa era
successo, anni dopo, lei non ha detto niente. Niente. Neppure una parola. Mi ha solo
raccontato che ora sta con una tipa che lo tradisce e che tutti lo sanno in paese…poi più
nulla…in tutti questi anni non ne abbiamo mai più parlato…
La rivelazione è un momento particolarmente delicato proprio per questo motivo, come
uno spartiacque che determina, in larga misura, il prosieguo, la direzione che quella
storia prenderà. Saper comprendere ciò che l’altro mi sta raccontando può essere molto
arduo: spesso i ragazzi e le ragazze condividono un pezzetto alla volta, lasciano ‘indizi’
che devono essere intercettati e decodificati, come quando viene dimenticato il diario
aperto proprio su quella pagina o il temperamatite smontato e la piccola lama sporca di
sangue poggiata sulla scrivania.
Questo tradisce il desiderio e il bisogno di venire scoperte, trascinate fuori da
quell’angolo buio in cui si è scivolate, tratte in salvo da quel pozzo dalle pareti troppo
alte e troppo lisce per riuscire ad uscirne da sole.

La letteratura scientifica offre innumerevoli testimonianze di quanto lesivo sia per


ragazzi e ragazze subire violenza. Questo vale sia per il contesto online che per quello

50
offline che si collocano spesso in una dinamica di continuità, come precedentemente
condiviso, amplificando e acuendo i danni l’una dell’altra.
Cava et al. (2020) ricordano che il contesto della CDV, per le sue caratteristiche
intrinseche, può però risultare più dannoso in relazione all’assenza di confini geografici
e temporali che ne limitano l’espressione e che trasmettono un senso di maggiore
prigionia a chi ne è vittima. Inoltre, la permanenza online delle informazioni, che può
ampliare l’effetto deleterio dell’umiliazione già subita a livello privato, la possibilità che
l’aggressione passi da una dimensione di coppia a quella di un pubblico più ampio,
passaggio che appare essere non contenibile e non controllabile, la facilità con cui
possono essere recuperate per via digitale e facilmente condivise con una vasta platea
informazioni personali, immagini, pettegolezzi e commenti svilenti può rendere ancora
più gravoso l’impatto di questo canale attraverso cui veicolare agiti violenti contro il/la
proprio/a partner o ex-partner.
Come si usa dire in questo ambito, Internet registra ogni cosa e non dimentica nulla:
qualsiasi contenuto venga postato sul web, non importa dove, si trasforma in una
componente permanente dell’identità virtuale di quell’individuo (in Cybersafe, 2021).
Dallo studio di Cava et al. (2020) era emerso che ragazzi e ragazze vittime di CDV
manifestavano sintomi depressivi e senso di solitudine maggiore rispetto a chi non si
trovava a dover sostenere esperienze simili. Trattandosi di dati correlazionali, non è
possibile chiarire con certezza la direzione dell’associazione: mi sento sola/o a causa
della storia di violenza che sto vivendo oppure, dal momento che mi sento isolata/o dal
mio contesto di appartenenza, dal gruppo dei pari, allora è più probabile che mi trovi
vincolata in una relazione abitata dalla violenza da cui fatico ad uscire?
Nel report del gruppo CyberSafe (2021) vengono passate in rassegna diverse ricerche
che mettono in luce e confermano la particolare complessità del mondo dell’online e
delle conseguenze che derivano dal subire violenza esclusivamente o anche in questo
contesto.
Viene in particolare sottolineato che la vittimizzazione che avviene mediante il digitale
è un fenomeno unico che si distingue da ogni altra esperienza simile e che ha una
ricaduta psicologica, sociale, fisica ed economica.
Jessica West (2014) ne delinea i contorni allargando lo sguardo dalla vittima fino alla
società in cui è inserita. Nel suo lavoro di analisi della letteratura a favore del Battered
Women’s Support Services (BWSS) riporta gli innumerevoli casi di cronaca che hanno
visto come protagoniste principali giovani donne vittime di diverse forme di
cyberviolenza, dall’essere riprese con il cellulare mentre venivano aggredite
sessualmente all’aver subito la diffusione delle proprie foto in atteggiamenti
sessualmente espliciti senza averne dato il consenso.
La riflessione che viene proposta risulta particolarmente interessante per quanto
concerne le conseguenze che le vittime di simili esperienze si trovano a subire. L’autrice
rende evidente a chi legge il paradosso di fronte a cui ci troviamo: viviamo in un contesto
socioculturale che promuove da un lato, una immagine di femminile che continua ad
essere oggettificata, sessualizzata molto precocemente, privata di una carta d’identità
che possa permettere di conoscere e andare al di là di un corpo che deve essere perfetto
e appetibile e, dall’altra, l’idea di uomo che deve essere sempre sessualmente attivo e
pronto, forte e inarrestabile. All’interno di questa cornice, emerge poi lo stupore di
fronte a storie di ragazzine che scelgono, nel privato della propria stanza e quindi
sentendosi ragionevolmente al sicuro, di mostrarsi a chi dice loro che vuole vederle, che

51
sono belle e irresistibili, trasmettendo quindi un desiderio a loro apparentemente
unicamente diretto e dedicato. Non è questo forse in linea con quanto fuori da quella
stanza viene comunicato? Soprattutto quando si tratta di una ragazza giovane o quando
quelle azioni avvengono all’interno di un contesto di relazione di coppia, che, come già
condiviso, ci si aspetta basato sulla fiducia e sull’attesa di una protezione e non certo di
un danno.
La West pone poi l’accento su ‘chi guarda’, spettatore/trice di fatti che vengono
considerati deprecabili ma per cui non si interviene se non a commentarli, a posteriori.
Il non esercitare l’azione diretta, non essere colui o colei che agisce quella specifica
violenza non implica però non esserne coinvolti se, avendola vista, non viene compiuto
nessun tentativo di porvi fine.

Nello studio già citato di Barroso-Corroto et al. (2022) il 26% dei/delle partecipanti
soffriva di sintomi ansiosi e il 7% di depressione, con un’associazione significativa con il
fatto di aver subito violenza nella coppia, sia online che offline.
Dalla metanalisi realizzata da Taquette & Monteiro (2019) relativamente alle cause e
alle conseguenze connesse alla DV, emerge che gli effetti più frequentemente registrati
nelle diverse ricerche prese in esame comprendono bassa autostima, sintomi depressivi,
disordini psichiatrici, abuso di droga, comportamenti sessuali a rischio e scarso
rendimento scolastico. Viene confermato inoltre quanto precedentemente affermato
ovvero che più intensa è la violenza subita, più grandi sono i danni prodotti, in
particolare più alta è la prevalenza di disturbi psichiatrici fra gli e le adolescenti.
Joppa (2020) mette in luce un aspetto poco dibattuto in letteratura rispetto alle
conseguenze della DV ma particolarmente significativo dato che permette di assumere
un’ottica a lungo termine. La riflessione che l’autrice propone attraverso una puntuale
analisi della letteratura è relativa agli effetti sulla sessualità conseguenti l’aver subito
abusi sessuali nelle ragazze. Questo tipo di violenza vede in misura preponderante le
ragazze come vittime e può impattare in modo significativo sulla loro successiva salute
sessuale. Adolescenti con una storia in cui sono state forzate ad avere rapporti sessuali
non desiderati presentano una più alta probabilità di mettere in atto comportamenti a
rischio per la propria salute, inclusi quelli in ambito sessuale. Si può così innescare un
ciclo di rischio: vivere esperienze di violenza e di esercizio della forza all’interno delle
prime relazioni di coppia può aumentare il rischio che queste ragazze mettano in atto
comportamenti sessuali promiscui, pericolosi, esponendosi ad ulteriori situazioni
potenzialmente dannose. Questo appare in linea con quanto riscontrato nella
letteratura relativa alle coppie adulte. Le donne vittime di violenza da partner risultano
maggiormente esposte al rischio di trovarsi in situazioni in cui viene usata la forza per
ottenere ciò che si desidera dal punto di vista sessuale ma non solo, anche nella sfera
riproduttiva. Possono così essere donne che vengono private del controllo sulla
contraccezione, trovandosi come possibile conseguenza a dover affrontare gravidanze
indesiderate.
La ricercatrice cita molti studi che hanno permesso di evidenziare la stretta connessione
esistente fra il fare esperienza di violenza sessuale come forma di DV in adolescenza e
un maggiore ricorso all’uso di sostanze, oltre che una frequente manifestazione di
sintomi esternalizzanti31 e l’agire comportamenti sessuali a rischio come ad esempio

31
Con questo termine si indica solitamente un insieme di condotte caratterizzate da aggressività, impulsività,
tendenza all’atto, iperattività, scarsa capacità di sostenere l’attenzione.

52
avere un alto numero di partner sessuali, rapporti frequenti, limitato uso di preservativi
e gravidanze indesiderate. Questi, a a loro volta, costituiscono importanti fattori di
rischio associati alla DV, di fatto riattivando il medesimo circolo.
La ricercatrice conclude presentando diversi programmi di prevenzione per adolescenti
ma soprattutto sottolineando la necessità che chi si occupa della salute ginecologica
delle ragazze sia specificatamente formato su questa tematica in modo da poter
riconoscere e identificare correttamente i segnali di allarme e fornire indicazioni e
supporto adeguati.
I risultati dello studio spagnolo condotto da Gracia-Leiva et al. (2020) mostrano quanto
estremo possa essere talvolta il danno arrecato dalla DV e/o dalla CDV. Gli autori hanno
infatti rilevato una significativa correlazione fra aver subito aggressioni online e/o offline
e aver sviluppato ideazioni suicidarie fino a veri e propri tentativi. Appare
particolarmente interessante evidenziare che i ricercatori hanno verificato come la
qualità dell’attaccamento con i propri genitori e la presenza di una rete amicale supporti
possano fungere da positivi fattori di mediazione fra causa, violenza agita, e
conseguenze, rischio suicidio, spingendoci a riflettere sul ruolo che ciascuno può giocare
nel prevenire o quantomeno arginare gli effetti deleteri dei maltrattamenti subiti da
ragazzi e ragazze a noi vicini.
In un interessante studio qualitativo realizzato alle Hawaii (Baker et al., 2015) è stata
indagata la relazione esistente fra comportamenti autolesivi e DV attraverso focus group
con 39 ragazzi e ragazze frequentanti l’high school. Ne è emerso che questo tipo di
azioni, di solito concretizzatisi nell’atto di tagliarsi, hanno avuto luogo in situazioni in cui
era presente un consumo di alcol e droghe ma anche che spesso di verificavano in
occasione di una fase di interruzione della relazione con il/la proprio/a partner. Si tratta
di un tema davvero importante da approfondire data l’altissima incidenza di
autolesionismo fra i e le giovanissimi/e e la frequente minaccia di farsi male riportata
frequentemente da partner di ragazzi e uomini al momento della comunicazione della
volontà di chiudere il rapporto.
Il tema del rischio suicidio ritorna anche nel lavoro di Romito et al. (2007): le ragazze
vittime di violenza nella coppia corrono un rischio due volte più grande delle coetanee
che ne sono esenti di sviluppare pensieri suicidare oltre che di manifestare disturbi del
comportamento alimentare, soffrire di attacchi di panico e di sintomi depressivi.
Analoga tendenza è stata registrata, seppur in misura ridotta, fra i ragazzi.
Da questo studio emerge poi un dato interessante: mentre le ragazze riferiscono
reazioni di rabbia, paura, senso di umiliazione, dolore di fronte alla violenza subita, i
ragazzi si dichiarano più spesso indifferenti, talvolta arrabbiati e nel 52% dei casi divertiti
(percentuale quasi doppia rispetto alle ragazze, 25%).
Questo aspetto ha fatto a lungo riflettere le ricercatrici che si sono interrogate circa il
significato di un simile dato sicuramente inaspettato.
L’ipotesi più plausibile richiama il modello di maschile ancora oggi fortemente
valorizzato a livello sociale che, come tale, incarnando un ideale di forza e potere, non
può certo essere associato al dolore o alla paura.

53
54
1.6 CONCLUSIONI

La violenza abita le coppie di adolescenti, fin dalle loro primissime esperienze di


relazione. E lo fa in un modo subdolo, nascosto, duraturo e pervasivo anche attraverso i
canali digitali, oggi sempre più dominanti nella vita di tutti e tutte noi, ancora di più per
le nuove generazioni.
Per quanto fino ad ora descritto appare quasi che si tratti di un fenomeno che non sia
possibile eradicare, tanto profondamente risulta ancorato all’interno degli strati più
profondi della nostra società. Questo fortunatamente non corrisponde al vero. La
Convenzione di Istanbul, come già ricordato, afferma che, agendo nei modi indicati, è
possibile prevenire ogni forma di violenza all’interno delle coppie.
Ma il nodo è proprio qui. Agendo nei modi indicati. Impegnandosi per operare un
cambiamento. Sentendosi tutti e tutte parte attiva della possibilità di porvi rimedio
oppure no. E, quindi, ne consegue, tutti e tutte responsabili del fatto che questo non si
sia ancora verificato.
Negli ultimi anni sono stati sviluppati molti programmi di prevenzione, spesso orientati
al contesto scolastico, ma manca una visione strutturale del fenomeno che sottenda la
necessità di implementare simili azioni a livello continuativo e non puntuale ed
estemporaneo. Per poter modificare qualcosa di così profondo e connaturato al nostro
stesso stare come gli stereotipi di genere, tanto presenti in noi da non riuscire talvolta a
distinguerli dalla realtà obiettiva, è necessario intervenire in modo regolare e su ampia
scala.
In Italia questo tipo di approccio è quasi totalmente assente malgrado tante siano le
indicazioni provenienti da più parti, prima fra tutte la Convenzione di Istanbul che indica
proprio in questo tipo di interventi uno dei pilastri principali per l’eliminazione della
violenza di genere.
I programmi di educazione all’affettività e all’emotività, che promuovono il rispetto
reciproco e mirano, talvolta, a decostruire gli stereotipi di genere vengono attuati su
iniziativa locale e spesso non vengono sottoposti ad un’adeguata valutazione che ne
permetterebbe di rilevare l’effettiva efficacia.
Galende et al. (2020) inoltre pone l’accento sul limitato sviluppo, e conseguente quasi
assente implementazione, di programmi di prevenzione e intervento specificamente
dedicati alla CDV. Date le caratteristiche peculiari di questa tipologia di violenza, gli
studiosi ritengono necessario dare avvio a percorsi orientati a questo.
Pe operare un reale cambiamento, tuttavia, è soprattutto necessario un monitoraggio
continuo, di noi stessi e noi stesse come di chi ci sta a fianco, promuovendo un senso di
comunità che sembra sempre più caduto in disuso, deteriorato e talvolta persino
dimenticato. Ognuno e ognuna sono parti di un tutto che può trasformarsi solo se
ciascuno e ciascuna fa sentire la propria voce, proprio come nel mondo dei Chi.

55
56
APPENDICE 1 - QUALI PASSI COMPIERE? UN’IPOTESI DI LAVORO

Nel corso degli ultimi anni, come accennato nel testo, molte sono state le proposte di
intervento per il contrasto e la prevenzione della DV, molto spesso circoscritte ad uno
specifico contesto e ad una determinata finestra temporale. Spesso i progetti sviluppati
e implementati si sono focalizzati sulla promozione di quelle abilità che sono alla base
della costruzione di rapporti sani, nutrienti, non violenti, frequentemente cercando di
operare una decostruzione di quegli stereotipi di genere che, invece, abbiamo visto
costituire il presupposto fondante ogni forma di violenza agita all’interno delle relazioni
di coppia, da quelle adolescenziali fino all’età adulta.
Apprendere ad ascoltare le proprie ed altrui emozioni, nominarle, imparare ad
esprimerle sono solo alcuni degli elementi chiave spesso presenti in questi percorsi, di
volta in volta declinati in modo differente a seconda delle molteplici variabili che entrano
in gioco, dall’età e dal numero dei soggetti a cui vengono rivolti, alla tempistica a
disposizione per realizzarli, allo specifico contesto in cui vengono di fatto svolti.
Come già sottolineato, raramente questi lavori vengono sottoposti ad opportuna
valutazione e non è quindi dato di conoscerne l’effettivo impatto e gli esiti a lungo
termine. Spesso poi si tratta di interventi che non hanno uno sviluppo longitudinale,
quindi protratto nel tempo, limitando così la possibilità di verificare la tenuta dei risultati
eventualmente raggiunti.
L’investimento, in termini di prevenzione, è ad oggi un tema ampiamente discusso.
Un’indagine realizzata da weWorld nel 2013 ha cercato di contabilizzare quanto costa la
violenza in termini monetari partendo dall’assunto che la mancanza di importanti
investimenti, in azioni di prevenzione e in attività di sostegno e cura verso le donne
vittime di violenza, causa un enorme danno economico e sociale (p.6).
Da questa ricerca, che prende avvio dall’idea che si può migliorare solo ciò che si è in
grado di misurare (p.6), emerge che il totale dei costi diretti32 (costi dei servizi pari a 1,8
miliardi di Euro) e gli effetti moltiplicatori economici (mancata produttività pari a 604
milioni di Euro) della violenza contro le donne è stato stimato in 2,37 miliardi di Euro
(p.13) mentre il costo non monetario33 della violenza contro le donne è stato stimato in
14,3 miliardi di Euro. A fronte di questo, la stima delle contromisure prodotte dalla
società a titolo di contrasto e prevenzione, sotto forma di investimenti in capitale umano
è di 6,3 milioni di Euro (p.14).
Pochissima prevenzione, quindi, a fronte dell’urgenza di ridurre gli elevatissimi costi che
la violenza contro le donne comporta. E la stima appena considerata non riguarda

32
I costi diretti e gli effetti moltiplicatori economici sono le tipologie di costo che configurano dei costi immediati
per il sistema. Si tratta dei costi dei vari servizi, pubblici e privati, che lo Stato, le stesse vittime e le aziende devono
sostenere a seguito degli episodi di violenza contro le donne, ovvero i costi relativi alla salute (cure sanitarie,
terapie psicologiche, acquisto di farmaci), alla sicurezza (spese giudiziarie, legali, legate agli interventi delle
FFOO), costi relativi all’assistenza delle vittime e dei loro familiari (fondi a sostegno dei centri antiviolenza che
accolgono le vittime, costi dei Servizi Sociali che si occupano del sostegno agli adulti e ai/alle minori coinvolti/e),
costi derivanti dalle perdite del sistema economico e sociale (tutto ciò che deriva dalle assenze delle donne
riconducibili alla violenza subita, come ad esempio i periodi di malattia e quindi più o meno prolungata assenza
dal lavoro) (p.12).
33
I costi non monetari e gli effetti moltiplicatori sociali rappresentano una simulazione del costo umano, emotivo
ed esistenziale sostenuto dalle vittime, dai loro figli e familiari, come ad esempio le ricadute sui bambini e le
bambine, gli e le adolescenti eventualmente coinvolte e che subiscono a loro volta i danni diretti e indiretti della
violenza agita sulla madre (p.13).

57
specificatamente ciò di cui stiamo parlando, non comprende la DV né tantomeno la CDV,
temi questi oggi ancora troppo considerati.
Quanto ‘costa’ investire in termini di prevenzione primaria rivolta a bambini/e e
adolescenti? Quanto costano questi progetti? Questo è un dato che manca, totalmente.
Sarebbe essenziale per rendere evidente il risparmio economico e sociale che ne
deriverebbe.
A titolo esemplificativo, si ritiene utile condividere un’esperienza molto recente
realizzata in Friuli Venezia Giulia grazie al contributo del Comune di Trieste, il progetto
‘Lotto con te: per arrivare in cima siamo necessari entrambi’.
L’Associazione Clic Trieste - Psicologia e Psicomotricità, in collaborazione con la Scuola
di Alpinismo ‘Emilio Comici’ della Società Alpina delle Giulie del CAI di Trieste ha
realizzato due workshop di quattro ore ciascuno rivolti a ragazzi e ragazze dai 14 ai 18
anni con l’obiettivo di promuovere relazioni nutrienti. L’idea fondante è stata quella di
utilizzare i principi base dell’arrampicata sportiva per tradurre in esperienza concreta,
quindi vivibile, i concetti ritenuti chiave per garantire l’esistenza di un rapporto
soddisfacente e sano per entrambi i membri di una coppia.
Sono stati coinvolti in tutto 27 ragazzi e ragazze, in due sessioni rispettivamente da 17 e
10 componenti. In entrambi i casi erano presenti istruttori e istruttrici del CAI in un
rapporto di almeno uno ogni due.
Gli incontri hanno visto un alternarsi di momenti in circle time, di discussione nel gruppo
allargato, durante i quali le due psicologhe che guidavano le giornate condividevano
spunti di riflessione da cui partire per poi passare all’esperienza concreta, prima a corpo
libero, poi su pannelli senza corda e infine su pannelli con corda.
Ogni passaggio teorico, astratto, ha quindi trovato una sua evidenza concreta all’interno
del contesto della palestra di arrampicata indoor dove gli incontri hanno avuto luogo.
Si è potuto quindi parlare di incontro con l’altro/a costruendo le cordate, ovvero
effettuando gli abbinamenti casuali delle coppie che avrebbero condiviso il singolo
workshop. Si è passati poi a discutere di fiducia facendo l’esperienza dapprima di
lasciarsi andare, di spalle, ascoltando le emozioni derivanti dall’attesa che il/la proprio/a
compagno/a ci accogliesse, per poi salire sui pannelli e provare a sperimentare e
sperimentarsi, nell’ascolto di sé e dell’altro, riconoscendo le differenze nel muoversi,
osare, preferire scendere a terra in funzione non solo di se stessi ma anche di chi, alle
proprie spalle, garantiva la ‘parata’, ovvero avrebbe dovuto tenerci in caso di eventuale
caduta.
Fino ad arrivare ad esplorare i materiali per poter arrampicare in cordata, paragonandoli
a quanto ‘portiamo’ nella relazione. Si è potuto così riflettere sul fatto che ci sono alcune
cose imprescindibili, come la corda, gli strumenti di assicurazione, l’imbrago, e altri
invece che ognuno può scegliere di avere o meno, utili ma non indispensabili. E così si è
potuto argomentare che lo stesso accade nella relazione: non si può prescindere dal
rispetto reciproco, dall’ascolto di sé e dell’altro mentre si può desiderare condividere o
meno le proprie passioni: per alcuni importante, per altri meno.
Infine, legarsi l’uno all’altra per raggiungere la catena, arrivare in cima. L’idea di squadra,
la consapevolezza che ciascuno dei due è parte integrante di quel tutto che può
funzionare solo se ognuno/a tiene conto anche di ciò che sta accadendo nel qui ed ora
all’altro/a: ha paura? È stanco/a? È arrabbiato/a? Cosa posso fare io per contribuire
affinché non molli, non si arrenda, arrivi in cima?

58
Trasmettere l’idea che l’obiettivo è comune e solo se condiviso può essere raggiunto. E
allora è stato possibile discutere dell’importanza di comunicare e di imparare a farlo nel
modo più funzionale a quella cordata. Di sapere aspettare i tempi dell’altro/a, che non
necessariamente corrispondono ai propri. Di sentire la responsabilità di ciò che sto
facendo, della mia parte, del mio nodo sull’imbrago, ma anche della parte dell’altro/a:
se ha infilato male l’imbrago, se non ha fatto passare correttamente la corda
nell’assicuratore, se ha dimenticato di mettere un rinvio, è responsabilità anche mia,
non solo sua.
Alla fine, un momento di riflessione condivisa in cui ragazzi e ragazze hanno potuto
esprimere le proprie personali considerazioni sull’esperienza appena fatta. Ciò che ne è
emerso ha superato le aspettative di chi aveva pensato il progetto. Soprattutto i più
grandi ne hanno colto l’essenza e restituito il valore.
Il passaggio successivo, ora, sarà quello di testare i materiali, ovvero sottoporre ad
adeguata valutazione, puntuale e nel tempo, dell’esperienza svolta.

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