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Collana diretta da Massimo Temporelli
Che cosa fa la scienza? Che limiti ha la tecnologia? Come stanno
cambiando la società e il nostro mondo…? La collana Microscopi prova a
rispondere a queste e altre domande in modo brillante e non accademico.
Un taglio agile e disincantato, un linguaggio alla portata di tutti, autori
giovani e vicini al mondo della ricerca: ecco i tratti salienti di una collana
per informarsi in modo veloce ed efficace sui principali argomenti della
scienza e della tecnologia. Quelli che stanno sempre di più cambiando la
nostra vita.
I titoli della collana Microscopi si articolano in diversi filoni legati ai temi
della divulgazione scientifica, delle frontiere tecnologiche e delle sue
applicazioni, delle biografie di scienziati, inventori e movimenti, delle
idee e delle scoperte che hanno segnato la storia dell’umanità.

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Paolo Alessandrini

Matematica rock

Storie di musica e numeri dai Beatles ai Led


Zeppelin

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

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Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2019
via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy)
tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886
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Tutti i diritti sono riservati a norma di legge


e a norma delle convenzioni internazionali

ISBN EBOOK 978-88-203-9226-0

Progetto editoriale e realizzazione: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali (info@iltrio.it)


Copertina: Carlo Gaffoglio

Realizzazione digitale: Promedia, Torino

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Indice

Introduzione

Ringraziamenti

Parte prima. Aritmetica e algebra


1. Il rock’n’roll dell’orologio

2. Il battito dei numeri primi

3. Fibonacci superstar

4. X & Y

5. 2 + 2 = 5

Parte seconda. Calcolo combinatorio, probabilità e statistica


6. Errori alfabetici

7. Un movimento si compie in sei stadi

8. Nella vita di chi?

Parte terza. Geometria e topologia


9. Inafferrabile π

10. I nodi dei Led Zeppelin

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11. Un sogno dentro un sogno

Parte quarta. Analisi


12. C’è un δ per ogni ε

13. Il mistero dell’accordo di “A Hard Day’s Night”

14. La formula più bella del mondo

Riferimenti bibliografici
Riferimenti sitografici
Crediti delle immagini
Informazioni sul Libro
Circa l’autore

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Introduzione

Nel 2005, durante la trasmissione televisiva RockPolitik, Adriano


Celentano lanciò un tormentone: a ogni puntata un suo monologo
suddivideva le cose del mondo nelle due categorie del “rock” e del
“lento”.
Le polpette sono rock, l’hamburger è lento
La carbonara è rock, la minestrina è lenta
Paperino è rock, Topolino è lento…

Non mi risulta che il “Molleggiato”, nel corso delle quattro puntate del
programma, abbia mai trascinato la matematica nella sua furia
classificatoria. State tranquilli, non lo voglio fare nemmeno io. Il titolo di
questo libro non tragga in inganno. Non intendo sostenere che la
matematica, o parte di essa, sia rock nel senso proposto da Celentano: se
vi sembra lenta, probabilmente non sarò io a farvi cambiare idea.
Questo saggio nasce piuttosto da una strana scoperta che feci molti
anni fa: il mondo della musica rock è pieno di storie che, ognuna a suo
modo, richiamano argomenti matematici. Insomma, i numeri potranno
anche non sembrarvi rock: ma non possiamo negare che molti episodi
della storia del rock chiamino in causa fatti e misteri collegati alla
matematica.
Chiudete gli occhi. Siete nel 1955: sulle note di “Rock Around the
Clock” sta esplodendo la rivoluzione giovanile del rock’n’roll. È una
ribellione anche aritmetica, e vedremo perché. Ora la macchina del tempo
vi trasporta nel 1964: ovunque impazza la beatlemania e tra gli emblemi
del successo dei quattro di Liverpool vi sono brani come “A Hard Day’s
Night” e “I Feel Fine”. Ecco, questioni matematiche si nascondono anche
dietro le note iniziali di queste canzoni. Adesso vi trovate nel 1971, in

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compagnia dei Led Zeppelin che stanno scegliendo i simboli per firmare
quello che diventerà il loro disco più famoso: e qui c’entrano la geometria
e la topologia. La macchina ora vi spedisce nel 1975: i Queen stanno
girando il video del loro capolavoro, “Bohemian Rhapsody”. Due anni
dopo fanno battere le mani e i piedi a mezzo mondo sulle note di “We
Will Rock You”. E la matematica c’è in entrambi i casi. Potrei andare
avanti, ma mi fermo perché nel corso dei capitoli del libro vi svelerò i
dettagli di queste storie in cui i numeri si intrecciano alle note.
Non fraintendetemi, però. Quello che state sfogliando non è un
volume sulla storia del rock. Nonostante sia un appassionato, non sarei in
grado di scrivere qualcosa di meglio di quello che è stato già pubblicato
sul tema: ho scelto di raccontare certe storie e non altre perché sono
interessanti in sé, ma anche perché aprono la strada verso territori
matematici degni di essere esplorati. Ecco perché l’ordine che ho scelto
non è quello cronologico delle vicende musicali narrate, ma ha a che fare
con il filo logico degli argomenti matematici introdotti.
Questo non è nemmeno un saggio di matematica, o almeno non lo è in
senso tradizionale. Quindi non aspettatevi di imparare la matematica
leggendo queste pagine: per lo meno, spero che scoprirete alcuni lati
nuovi e sorprendenti di questa scienza, ma non troverete trattazioni
esaustive alla maniera di un testo scolastico. Quella sì che sarebbe stata
una matematica lenta: anzi, lentissima!
Questo, soprattutto, è un libro che racconta storie: storie di band che si
formano e si sciolgono, di canzoni famosissime nate da colpi di genio, di
testi enigmatici, di provini e di sessioni di registrazione passate alla storia,
di errori e di litigi, di rock star che sono anche geni matematici e di
professori di matematica che diventano pop star. Storie in cerca di un
finale e finali che arrivano grazie alla matematica.
Un’avvertenza: se parliamo di intersezioni tra note e numeri, magari vi
vengono in mente argomenti come la fisica e l’ingegneria del suono, il
ritmo, le scale musicali e gli accordi. Questi temi, tuttavia, hanno
attinenza con tutta la musica in generale e non soltanto con uno specifico
genere. Inoltre, sono già in circolazione ottimi libri che discutono questi
collegamenti. Sarebbe stato quindi banale e fuori luogo trattarli anche in
questo libro, e non l’ho fatto, se non per qualche accenno alle onde
sonore, alle armoniche, al concetto di battuta musicale, funzionale per
introdurre altri argomenti più centrali.

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Per la verità, ho tralasciato anche altri territori di confine tra musica
rock e matematica, il più delle volte perché non si inserivano in modo
armonioso (appunto) nel discorso complessivo del libro. Per esempio,
nell’ambito del rock progressivo esiste il sottogenere del math rock,
ovvero rock matematico, così chiamato perché fa spesso uso di inconsueti
metri ritmici, per esempio 7/13, al posto del più rassicurante 4/4, e perché
le strutture delle composizioni sono molto articolate e sembrano poggiare
su complessi ragionamenti matematici. Ma approfondire questo e altri
potenziali punti di contatto avrebbe allontanato il lettore dalla linea
principale di sviluppo degli argomenti e quindi ho preferito non farlo.
Come dicevo, l’ordine dei capitoli è legato alla consequenzialità dei
temi matematici trattati. In questa prospettiva, ho pensato di suddividere il
libro in quattro parti. Non lasciatevi spaventare dai titoli di queste parti:
fanno solo riferimento alle branche della matematica cui appartengono i
temi affrontati nei vari capitoli, ma non c’è alcuna pretesa di completezza
o di sistematicità.
Ecco allora che i primi cinque capitoli raccontano vicende che
coinvolgono l’aritmetica e l’algebra: numeri, essenzialmente, ma anche
lettere. I capitoli dal sesto all’ottavo introducono argomenti che rientrano
in ambiti dai nomi altisonanti: calcolo combinatorio, teoria della
probabilità, statistica. Semplicemente qui si incontrano questioni in cui
domina l’incertezza e quindi occorre una matematica particolare per
descriverle. I successivi tre capitoli propongono altrettante escursioni (a
tempo di rock’n’roll, s’intende!) alla scoperta della geometria e di una sua
parente, che è la topologia. Infine, gli ultimi tre capitoli si avventurano,
grazie ad altrettanti spunti musicali, nell’universo dell’analisi matematica,
dove l’infinito è di casa.
Ogni capitolo tratta un argomento matematico specifico e
autosufficiente, ma se proprio non potete farne a meno vi consiglio di
seguire il normale ordine dei capitoli: può capitare che per comprendere
un concetto sia utile avere già letto una parte precedente del libro.

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Ringraziamenti

Prima di lasciarvi alla lettura, desidero ringraziare chi, a vario titolo, mi ha


aiutato nella stesura. Innanzitutto alcuni amici che hanno letto alcuni
passaggi della prima versione e mi hanno consigliato utili modifiche:
Roberto Natalini, matematico, divulgatore e direttore dell’IAC-CNR, mi
ha fornito preziosissimi consigli di carattere stilistico per rendere il libro
più comprensibile; Marco Soccol, matematico, docente e pianista, ha letto
il manoscritto con grande attenzione e mi ha dato alcuni suggerimenti
molto brillanti; Luca Bianchin, studioso di filosofia che sa usare le parole
come pochi, mi ha regalato alcune acutissime idee migliorative; Mattia
Codato e Stefano Zamuner, entrambi informatici ed esperti di rock, hanno
contribuito con utili riflessioni. Sono grato al professor Mark E. Glickman
dell’Università di Harvard, che ho contattato per avere delucidazioni sulla
ricerca descritta nel capitolo 8, e che mi ha risposto con grande gentilezza
fornendomi tutte le informazioni del caso.
Ringrazio di cuore anche le mie due sorelle musiciste, Roberta e
Flavia, che mi hanno aiutato a migliorare alcuni passaggi, soprattutto per
quanto riguarda le questioni musicali.
La mia più grande gratitudine va però a mia moglie Donata, per
avermi sempre sostenuto con il suo incondizionato amore in questa
avventura e per aver sopportato le mie frequenti assenze con una pazienza
incrollabile: senza di lei questo libro non avrebbe mai visto la luce.

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A mio padre

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Parte prima
ARITMETICA E ALGEBRA

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1

Il rock’n’roll dell’orologio

One, two, three o’clock, four o’clock, rock


Five, six, seven o’clock, eight o’clock, rock
Nine, ten, eleven o’clock, twelve o’clock, rock
We’re gonna rock around the clock tonight.
Max C. Freedman e James E. Myers,
“Rock Around the Clock”, 1954

Lunedì 12 aprile 1954. Un traghetto in viaggio tra Philadelphia e New


York rimase bloccato in una secca. A bordo c’era un cantante piuttosto
noto, Bill Haley, assieme alla sua band, i Comets. Avevano da poco
firmato un contratto con la Decca e quel giorno dovevano raggiungere il
Pythian Temple per registrare alcuni brani. Per loro era l’occasione della
vita, ma quell’inconveniente rischiava di mandare tutto all’aria.
In studio, il produttore Milt Gabler (zio del futuro attore Billy
Crystal), insofferente, meditava di dare il benservito alla band. Per loro
fortuna, i musicisti arrivarono, sia pure per un pelo, e, ancora col fiatone,
attaccarono “Thirteen Women (and Only One Man in Town)”, perché era
questa la canzone che Gabler aveva in mente di pubblicare.
Quasi tutta la session venne dedicata a questo pezzo. Solo negli ultimi
dieci minuti Bill Haley riuscì a convincere Gabler ad ascoltare una
canzone quasi sconosciuta, scritta due anni prima da Max C. Freedman,
un ex annunciatore radiofonico nato nel 1893 proprio a Philadelphia. Il
titolo del brano era “Rock Around the Clock”. Pochi giorni prima, il 20
marzo, la canzone era stata incisa dalla band italo-americana Sonny Dae
& His Knights con il titolo “We’re Gonna Rock Around the Clock
Tonight!”, passando totalmente inosservata.

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Alla chitarra elettrica c’era Danny Cedrone, collaboratore saltuario di
Bill Haley: non avendo mai provato prima la canzone con il gruppo,
improvvisò un assolo, che diventò uno dei più famosi della storia.
Cedrone fu pagato 21 dollari per quella performance e un paio di mesi
dopo morì, a soli trentatré anni, cadendo dalle scale.
Al termine della registrazione, Milt Gabler decise di pubblicare un 45
giri con “Thirteen Women (and Only One Man in Town)” sul lato A e
“Rock Around the Clock” sul lato B. Con quel disco, uscito il 20 maggio,
ebbe inizio la storia del rock, o per meglio dire la fase esplosiva del
rock’n’roll come fenomeno planetario di ribellione giovanile. E il merito,
come potete immaginare, era tutto della canzone sul lato B.
L’anno successivo, infatti, “Rock Around the Clock” fu inserita nella
colonna sonora del film di Richard Brooks Blackboard Jungle (in Italia Il
seme della violenza). La pellicola raccontava la storia di un professore
d’inglese preso di mira da un gruppo di studenti ribelli. Fu la rivoluzione.
Il film venne accusato di suscitare atti di vandalismo e violenza da parte
dei teddy boys, dentro le sale cinematografiche e fuori. In particolare, fu
colpito dagli strali dei benpensanti proprio il brano di Freedman.
Il film incassò più di 8 milioni di dollari nel mondo e favorì il
successo straordinario di “Rock Around the Clock”: 25 milioni di copie
vendute e un posto irremovibile nella storia del Novecento.
“Rock Around the Clock” non fu certo la prima registrazione della
storia del rock’n’roll. Molti brani degli anni precedenti si contendono
questo primato: per esempio “That’s All Right, Mama” di Arthur “Big
Boy” Crudup (1946), “Good Rocking Tonight” di Roy Brown (1947),
“Rock the Joint” di Harry Crafton, Wendell “Don” Keane e Harry “Doc”
Bagby (1949), “The Fat Man” di Fats Domino (1949), “Rocket 88” di Ike
Turner, marito della più celebre Tina (1951). Ma il pezzo registrato da Bill
Haley conobbe a partire dal 1955 un successo commerciale di gran lunga
superiore, grazie al quale la rivoluzione poté finalmente prendere il volo.
Le armi di questa rivoluzione erano rullanti e chitarre elettriche,
brillantina e gonne svolazzanti, balli scatenati e voglia di sostituire il
ricordo di una guerra crudele con la musica e la spensieratezza.
Tra i versi della canzone si legge effettivamente un messaggio di
rivolta sociale: l’espressione inglese around the clock significa “a
oltranza”, “24 ore su 24”, “in modo continuativo”. Il verso We’re gonna
rock around the clock tonight potrebbe quindi essere letto non già come

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un innocente invito a partecipare a una festa notturna, ma come il
manifesto di un movimento giovanile gioioso e perpetuo, di
un’insurrezione a tempo di rock’n’roll.
E non può sfuggire il fatto che la canzone invita alla ribellione nel
segno dei numeri e della matematica. Il testo è infatti basato sulla
sequenza dei numeri da 1 a 12, corrispondenti alle ore sul quadrante
dell’orologio, ripetuta per due volte: la prima citazione è tutta nella prima
strofa, riportata a inizio capitolo, mentre la seconda è diluita nelle strofe
successive:
Put your glad rags on and join me, hon,
We’ll have some fun when the clock strikes one,
We’re gonna rock around the clock tonight,
We’re gonna rock, rock, rock, ’til broad daylight.
We’re gonna rock, gonna rock, around the clock tonight.

When the clock strikes two, three and four,


If the band slows down we’ll yell for more,
We’re gonna rock…

When the chimes ring five, six and seven,


We’ll be right in seventh heaven.
We’re gonna rock…

When it’s eight, nine, ten, eleven too,


I’ll be goin’ strong and so will you.
We’re gonna rock…

When the clock strikes twelve, we’ll cool off then,


Start a rockin’ round the clock again.
We’re gonna rock…

Il verso Start a rockin’ round the clock again, cantato subito dopo la
seconda occorrenza del 12, sottintende una nuova, terza ripetizione dei
numeri da 1 a 12. Questo rafforza l’espressione around the clock e dà
forma a un ciclo infinito di numeri del tipo:

1, 2, 3, …, 11, 12, 1, 2, 3, …, 11, 12, 1, 2, 3, …, 11, 12, 1, 2, 3, …

I numeri da 1 a 12 non servono soltanto per denotare le ore, ma più in


generale per contare. Tutti noi abbiamo imparato da piccoli a contare, per

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esempio fino a 10, dapprima ripetendo i primi numeri come una
filastrocca e successivamente associando a ciascuno di essi un concetto di
numerosità di un insieme di oggetti (un libro, due libri, tre libri ecc.).
L’alba della matematica, collocabile probabilmente già trecentomila
anni fa, è legata a una fondamentale intuizione. Un orso, una montagna e
un albero hanno in comune il fatto di essere oggetti singoli,
indipendentemente dalle loro nature differenti di orso, montagna e albero.
Questa proprietà comune si può indicare graficamente con un simbolo, il
numero 1 appunto. In modo analogo, due orsi, due montagne e due alberi
rappresentano coppie di oggetti diversi, ma accomunate dal fatto di essere
coppie: concetto che può essere rappresentato con un altro simbolo, il
numero 2. E così via.
I numeri così introdotti sono chiamati “naturali” dai matematici,
proprio perché corrispondono all’idea di quantità più intuitiva possibile.
“Dio creò i numeri naturali, tutto il resto è opera dell’uomo”, disse il
matematico tedesco Leopold Kronecker, vissuto nel XIX secolo. Come
dire: i numeri naturali erano già insiti nella natura delle cose e l’uomo li
ha estrapolati osservando la realtà. Le altre categorie numeriche, come i
numeri interi, i numeri razionali, i numeri reali, i numeri complessi, sono
state definite successivamente mediante procedimenti di estensione più
astratti e sofisticati.
Ma come fece Dio, se così possiamo dire, a creare i numeri naturali?
Una celebre risposta fu data nel 1889 da Giuseppe Peano, grande
matematico cuneese noto per la sua eccentricità oltre che per i suoi
brillanti contributi scientifici (si racconta che, perso nei suoi ragionamenti,
si dimenticasse regolarmente di presentarsi alle sessioni di esame dei suoi
studenti all’Università di Torino).
Il primo assioma di Peano stabilisce semplicemente che esiste un
numero naturale chiamato zero. Ecco che l’insieme viene inizialmente
popolato con un elemento del tutto speciale, lo zero appunto.
Curiosamente, questo numero così importante era sconosciuto
nell’antichità e fu introdotto in modo organico soltanto nel Medioevo. La
prima intuizione dello zero come numero si deve probabilmente allo
scienziato greco di epoca imperiale Tolomeo, che rielaborò precedenti
nozioni dell’astronomo greco Ipparco e degli antichi babilonesi. Furono i
matematici indiani, in particolare Brahmagupta, vissuto nel VII secolo
d.C., a recuperare le idee di Tolomeo e a costruire il primo sistema di

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numerazione posizionale, nel quale lo zero recita un ruolo fondamentale.
In questo sistema la prima cifra da destra presente in un numero
rappresenta il numero delle unità, la seconda quello delle decine, la terza
quello delle centinaia, la quarta quello delle migliaia e così via. La cifra
zero viene usata per rappresentare i posti “vuoti” e diventa così un numero
a tutti gli effetti. I matematici arabi impararono il sistema posizionale
dagli indiani e a loro volta lo trasmisero in Europa intorno al XIII secolo
(in questo passaggio fu cruciale il contributo del matematico pisano
Fibonacci, protagonista del capitolo 3).
Il secondo assioma di Peano afferma che per ogni numero naturale ce
n’è sempre un altro che è il suo “successore”. Il terzo assioma chiarisce
meglio questa faccenda dei successori, precisando che numeri naturali
diversi hanno successori diversi. Il quarto assioma specifica che lo zero
non è successore di alcun numero naturale.
A questo punto, anche un alieno che non avesse mai sentito parlare di
numeri naturali dovrebbe essersi fatto un’idea abbastanza chiara di cosa ci
sia dentro questo insieme numerico: sicuramente c’è un numero speciale
che è lo zero, poi c’è il suo successore, quindi il successore del successore
e così via. Va da sé che alla parola “successore” dovrebbe essere attribuito
il suo significato concreto, ovvero quello di numero immediatamente
successivo, ottenuto aggiungendo un’unità al numero di partenza. Dove ci
conduce questa catena numerica? Grazie al terzo assioma siamo certi che i
numeri che via via incontreremo saranno sempre diversi. Inoltre, il quarto
assioma ci assicura che non potremo mai incontrare di nuovo lo zero. La
conseguenza logica è che questa successione ci porta, virtualmente, verso
l’infinito.
Per chiarire le modalità di questo avvicinamento progressivo, Peano
introdusse un quinto assioma, che afferma quanto segue. Supponiamo che
A sia un sottoinsieme dei numeri naturali contenente lo zero. Ipotizziamo
anche che A sia fatto in modo tale che se un certo numero naturale vi
appartiene, anche il suo successore ne faccia parte: allora A comprende
tutti i numeri naturali. Il quinto assioma è il celebre principio di induzione
applicato ai numeri naturali.
I numeri naturali, così ben definiti da Peano, rappresentano l’ideale
porta di ingresso del grande palazzo della matematica e a me pare
meravigliosamente significativo che, ad accoglierci, sia stata proprio la
canzone che ha simbolicamente dato avvio alla storia del rock: “Rock

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Around the Clock”, appunto. Tuttavia, la sequela di numeri naturali
snocciolati da Bill Haley non sembra seguire l’ordine suggerito dagli
assiomi di Peano. In questo elenco, infatti, il successore di 12 non è 13,
come avviene nell’usuale lista, ma 1. Questo rispetta in pieno il
comportamento delle lancette di un orologio, che sono soltanto dodici e
non ventiquattro, e meno che meno infinite.
Dai cinque assiomi di Peano possiamo derivare questa particolare
sequenza di numeri naturali che continua a “ciclare” all’infinito tra 1 e 12?
No di certo: se ci fate caso, il testo di “Rock Around the Clock” ignora
bellamente il primo assioma di Peano. Lo zero, infatti, non viene
adoperato e in sua assenza, senza infrangere alcun assioma, il numero 1
può tranquillamente giocare il ruolo di successore del 12, così da
“avvolgere” ripetutamente i numeri su loro stessi. Abbiamo scoperto,
quindi, che si possono creare sistemi formali del tutto coerenti che
rispettano solo una parte degli assiomi di Peano: il mondo aritmetico di
“Rock Around the Clock” è una perfetta incarnazione del secondo e del
terzo assioma.
Intendiamoci, non si tratta di un’invenzione di Max C. Freedman, ma
di un sistema aritmetico introdotto un secolo e mezzo prima e noto come
aritmetica modulare. Immaginate che in questo momento siano le ore 22
in Italia: che ora è a Tokyo, il cui fuso orario è 8 ore avanti rispetto
all’Italia?1 Calcolando la somma 22 + 8 si ottiene 30. A Tokyo sono
dunque le ore 30? Ovviamente no, direte voi, che discorsi sono? Sono le 6
del mattino, perché aggiungendo due ore alle 22 si arriva a mezzanotte e
aggiungendone altre sei si fanno le 6 del mattino. Ecco, magari senza
rendervene conto, avete eseguito un’addizione in aritmetica modulare.
Precisamente, avete calcolato quella somma “modulo 24” e in questa
modalità particolare 22 più 8 non fa 30, bensì 6. Più precisamente, si dice
che 30 è congruo a 6 modulo 24. Ciò equivale a dire che sia 30 che 6,
divisi per 24, danno lo stesso resto (nello specifico, 6).
Passando dal rock’n’roll alle canzoni per bambini, la popolarissima
“Quarantaquattro gatti”, vincitrice dello Zecchino d’Oro 1968,
sottolineava che 44 è congruo a 2 modulo 6: Quarantaquattro gatti […] in
fila per sei col resto di due […] Sei per sette quarantadue, più due
quarantaquattro.
Un caso molto speciale di aritmetica modulare è quella “modulo 9”: in
questo caso si tratta di calcolare il resto della divisione tra il numero

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iniziale e 9. Questo resto ha una proprietà davvero curiosa: può essere
calcolato senza eseguire la divisione, ma semplicemente sommando tra di
loro le cifre del numero iniziale e ripetendo la stessa operazione finché
non si ottiene un numero di una sola cifra, che rappresenta appunto il resto
desiderato.
Prendiamo il numero 197: si ottiene 1 + 9 + 7 = 17; 1 + 7 = 8. In
effetti il resto della divisione 197 : 9 è 8, cioè 197 e 8 sono congrui
modulo 9.
Il resto ottenuto in questo modo si chiama anche radice numerica del
numero iniziale.
Vi ricordate come funziona la prova del nove? Possiamo rinfrescarci
la memoria adesso. Si tratta di una tecnica per verificare la correttezza
delle operazioni aritmetiche, cioè di addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni
e divisioni. Supponiamo di aver svolto la moltiplicazione 3579 × 893 =
3.196.047 e di voler controllare che il risultato sia giusto. Ebbene, per
ognuno dei numeri in gioco calcoliamo la radice numerica:
3 + 5 + 7 + 9 = 24 2+4=6
8 + 9 + 3 = 20 2+0=2
3 + 1 + 9 + 6 + 0 + 4 + 7 = 30 3+0=3

Moltiplicando tra di loro le radici numeriche dei fattori ed estraendo la


radice numerica del risultato si trova 6 × 2 = 12; 1 + 2 = 3, che
corrisponde alla radice numerica del risultato che avevamo inizialmente
calcolato. Questa uguaglianza tra radici numeriche non ci assicura che il
nostro calcolo sia giusto: d’altra parte, se avessimo trovato
un’incongruenza avremmo avuto la certezza della presenza di un errore
(in altri termini, sono possibili falsi positivi, ma non falsi negativi). Un
procedimento analogo può essere impiegato anche per verificare la
correttezza di addizioni, sottrazioni e divisioni.
L’aritmetica modulare fu ideata dal grande matematico tedesco Carl
Friedrich Gauss, che la descrisse nel suo trattato Disquisitiones
arithmeticae del 1801 [1.1]. Non a caso lo stesso Gauss suggerì l’idea di
una “aritmetica dell’orologio”, alludendo all’evidente utilizzo nel campo
delle ore della giornata.
Dobbiamo fare una distinzione: in alcuni paesi come Regno Unito,
Stati Uniti, Canada (eccetto il Québec), Australia, India, Filippine, il
formato dell’ora è a 12 ore e si utilizza implicitamente un’aritmetica

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modulo 12 per gestire le ore.
Altrove si utilizza, invece, almeno nella comunicazione formale, il
modulo 24. Spesso (anche in Italia) accade però che nel linguaggio parlato
si faccia comunque riferimento al formato a 12 ore: questo è
probabilmente dovuto al fatto che gli orologi presentano 12 tacche per le
ore e non 24. Il sistema aritmetico di “Rock Around the Clock”, quindi,
figlio del secondo e del terzo assioma di Peano, rispecchia perfettamente
l’aritmetica modulo 12.
Se “Rock Around the Clock” si fonda sulla strana aritmetica
dell’orologio di Gauss, altri brani invece sembrano descrivere mondi
numerici più “ortodossi”, basati su ordinarie catene di numeri naturali.
Per esempio, le due canzoni dei Beatles “All Together Now”
(contenuta in Yellow Submarine del 1969) e “You Never Give Me Your
Money” (inclusa in Abbey Road dello stesso anno) contengono altrettanti
esempi di “conte” infantili:

One two three four,


Can I have a little more?
Five six seven eight nine ten,
I love you.

One, two, three, four, five, six, seven,


All good children go to heaven.

Questo secondo frammento beatlesiano riprende una conta popolare che


Percy B. Green incluse nel suo celebre History of Nursery Rhymes,
pubblicato a Londra nel 1899 [1.2]. In generale, le conte (in inglese
counting rhymes o counting songs) sono spesso utilizzate dai bambini a
mo’ di filastrocca, o per decidere il turno nei giochi. Talvolta gli adulti vi
ricorrono perché i bambini imparino a contare o apprendano alcuni
semplici concetti aritmetici.
Probabilmente la canzone che contiene la più lunga sequenza
crescente di numeri naturali è “107 Steps”, che la cantautrice islandese
Björk scrisse e interpretò per la colonna sonora del film Dancer in the
Dark di Lars von Trier e incluse nell’album intitolato SelmaSongs. Nel
film, Selma è un’operaia cecoslovacca immigrata negli States e
gravemente ammalata agli occhi. Con enormi sacrifici Selma riesce a
raccogliere la somma necessaria per curare se stessa e il figlio, affetto

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dallo stesso male, ma un amico poliziotto le ruba tutti i risparmi. “107
Steps” si ascolta alla fine della pellicola, quando Björk/Selma è condotta
all’impiccagione per aver assassinato il poliziotto. I numeri nel testo sono
i passi verso il patibolo:
[Brenda, una carceriera:]
Five, six, seven, eight, nine, ten,
Eleven, twelve, thirteen, fourteen,
Fifteen, sixteen, seventeen, eighteen, nineteen,
Twenty, twenty one, twenty two, twenty three,
Twenty four, twenty five, twenty six, twenty seven,
Twenty eight, twenty nine, thirty…

[Selma, la condannata:]
Thirty one, thirty five, thirty eight, forty two,
forty eight, fifty one, fifty four, fifty eight,
Sixty four, sixty eight, sixty nine, seventy five,
Seventy nine, eighty three, eighty six, eighty nine, ninety three,
One hundred steps.

Ci sono molti altri pezzi rock, più o meno famosi, che includono
elencazioni di numeri naturali. In alcuni casi si tratta di sequenze
numeriche di attacco o di sostegno ritmico, in altri i numeri assumono un
valore semantico più profondo, oppure controverso, come in questo
frammento tratto da “The Red and the Number”, brano del duo scozzese
Marmaduke Duke del 2005:

1, 7, 3, 4, 6, 2, 9, 8, 1, 7, 3, 4, 6, 7
5, 8, 5, 1, 2, 3, 4, 6, 7, 9, 8, 5, 7, 3, 2
And 1, 2 and 7 and 6 and 5, 1
And 7 and 3 and 6, 4 and 2 and 9 and 1.

Un esempio molto più celebre, in cui la sequenza è decrescente perché


rappresenta il conto alla rovescia prima del lancio di un razzo, si trova in
“Space Oddity” di David Bowie. Il singolo uscì l’11 luglio 1969, in un
momento di grande interesse per le missioni spaziali: soltanto cinque
giorni dopo sarebbe stato lanciato l’Apollo 11 e altri quattro giorni dopo
Neil Armstrong avrebbe posato il suo piede sul suolo lunare:
Ground Control to Major Tom.
Ground Control to Major Tom.

23
Take your protein pills and put your helmet on.
Ground Control to Major Tom (ten, nine, eight, seven, six).
Commencing countdown, engines on (five, four, three).
Check ignition and may God’s love be with you (two, one, liftoff).

Naturalmente, i numeri naturali non si adoperano soltanto per contare ma


anche per fare calcoli, cioè per eseguire operazioni. L’aggancio pop più
curioso ci viene offerto dal cantautore britannico Ed Sheeran. Se
trascuriamo i suoi due primi album, pubblicati da adolescente e passati
quasi inosservati, i titoli dei suoi tre lavori successivi corrispondono ad
altrettanti simboli di operazioni aritmetiche: + (noto anche come Plus,
uscito nel 2011), × (Multiply, 2014) e ÷ (Divide, 2017). È un peccato che
il suo quarto album, No. 6 Collaborations Project, abbia interrotto la serie
e non sia stato intitolato all’operazione rimasta esclusa, la sottrazione.
A proposito di operazioni, anche in questo caso ci tornano utili due
esempi beatlesiani. In un verso di “Come Together”, celebre brano che il
quartetto di Liverpool incluse in Abbey Road del 1969, viene eseguita una
semplice operazione aritmetica:
He say one and one and one is three.

Un’addizione ancora più semplice viene ripetutamente eseguita in “One


and One Is Two”, una canzone a firma Lennon-McCartney incisa nel 1964
dall’oscuro gruppo The Strangers with Mike Shannon. Il brano è forse
uno dei peggiori scritti dai due grandi songwriters, cosicché non deve
sorprendere la totale indifferenza con cui venne accolto dal pubblico:
One and one is two
What am I to do
Now that I’m in love with you?

A voi sembrerà scontato che uno più uno faccia due. Eppure, qualche
anno dopo, nel 1971, un’altra grande band inglese, gli Who, propose nella
canzone “Bargain” un risultato alternativo per la stessa operazione:
And like one and one don’t make two,
one and one make one.

La stessa addizione, ma con il risultato ortodosso, compare in un pezzo


molto più vecchio di “One and One Is Two” e persino anche di “Rock

24
Around the Clock”: “That’s All Right, Mama”, scritta e interpretata dal
cantante e chitarrista blues Arthur “Big Boy” Crudup, è probabilmente la
canzone che più di ogni altra merita l’appellativo di “primo brano
rock’n’roll della storia”. Pubblicata il 6 settembre 1946 per la RCA con il
titolo “That’s All Right”, la canzone riprendeva parte del testo del blues
tradizionale “That Black Snake Moan”, composto nel 1926 da “Blind”
Lemon Jefferson, ma aggiungeva, tra gli altri, i seguenti versi
“matematici”:

Baby, one an’ one is two


Two an two is fo’
I love that woman
But I got to let her go.

Il singolo non riscosse il successo sperato. Nemmeno la riedizione del


marzo 1949, con il nuovo formato RCA a 45 giri, con il titolo “That’s All
Right, Mama”, modificò di molto la situazione. Il successo mondiale
arrivò nel luglio 1954, un mese e mezzo dopo l’uscita di “Rock Around
the Clock”, grazie alla cover di Elvis Presley. Il testo cantato da Elvis era
più corto di quello originale di Crudup e in particolare non c’era più la
strofa con le addizioni. A proposito della pubblicazione di questa cover, il
critico musicale statunitense Chris Willman scrisse:
Possiamo ben sostenere che lo spirito del rock’n’roll fu inventato con questo
singolo. O che Elvis inventò se stesso in quella sessione di registrazione. E anche
che il rock, abbandonato nelle mani di figure prive di richiamo mediatico globale,
sarebbe rimasto una moda dalla vita breve se Presley e i suoi compagni avessero
ceduto all’umidità di Memphis e lasciato lo studio un’ora prima del previsto, la
notte in cui per la prima volta suonarono “That’s All Right”. [1.3]

Abbiamo insomma due ottimi motivi per considerare “That’s All Right,
Mama” come una canzone fondamentale nella storia della nascita del
rock: lo status della versione originale di Crudup come probabile prima
registrazione rock’n’roll della storia e l’importanza epocale riconosciuta
all’interpretazione di Elvis di otto anni dopo.
A conclusione di questo capitolo, un fatto emerge in modo
sorprendente: entrambi i pezzi più importanti dei primordi del rock’n’roll,
appunto “That’s All Right, Mama” e “Rock Around the Clock”,
contengono nel loro testo riferimenti all’aritmetica e ai numeri naturali. È

25
una coincidenza, direte voi. Sono d’accordo, lo è. Tuttavia, mi piace
fantasticare che i pionieri del rock abbiano intenzionalmente citato gli
elementi fondamentali dell’aritmetica per mostrare che con i loro pezzi
stavano gettando le basi di un nuovo genere musicale: libero, affascinante
e pieno di creatività, proprio come la matematica.

1.Questo vale nel periodo in cui in Italia non è in vigore l’ora legale, perché in Giappone
l’ora legale non esiste. Nei mesi con l’ora legale, la differenza di fuso orario è di sette ore.

26
2

Il battito dei numeri primi

Così cominciammo a battere i piedi. Ma, essendo io un fisico,


dissi: “Immaginate che ci siano mille persone che battano i piedi
in questo modo: che cosa succederebbe?”
Brian May, chitarrista dei Queen [2.1]

Il 29 maggio 1977, al termine di un concerto dei Queen alla Bingley Hall


di Stafford, il pubblico salutò i musicisti cantando l’inno della squadra di
calcio del Liverpool, “You’ll Never Walk Alone”. Tornato a casa, il
chitarrista Brian May si domandò: “Che cosa potrei chiedere al pubblico
di fare durante un live? Sono tutti là ammassati”, rifletté, “però possono
battere le mani e i piedi e possono cantare.”
La notte portò consiglio. Al risveglio, infatti, May aveva in testa l’idea
centrale di “We Will Rock You”: il celebre battito di piedi e mani
(“stomp-stomp-clap”), basato sulla ripetizione ostinata della seguente
cellula ritmica:

Figura 2.1Il famoso "stomp-stomp-clap" di "We Will Rock You".

Era un ritmo semplicissimo ma contagioso, perfetto per coinvolgere


attivamente il pubblico durante le esibizioni del gruppo. La canzone fu
pubblicata il 7 ottobre di quell’anno come lato B del singolo “We Are the
Champions” e tre settimane dopo uscì come prima traccia dell’album
News of the World. Divenne subito uno degli inni più amati dai fan e un

27
pezzo obbligato in ogni concerto, quasi sempre eseguito nella parte finale
del live e immancabilmente accoppiato a “We Are the Champions”.
Tutti conoscono questa base ritmica, ma pochi sanno che la sua
fortuna deve moltissimo alla matematica. D’altra parte Brian May, oltre a
essere uno dei più grandi chitarristi della storia del rock, possiede anche
una laurea e un dottorato in astrofisica: non deve più di tanto stupire,
allora, che nel 1977, per registrare al meglio “We Will Rock You”, abbia
messo a frutto le sue profonde conoscenze scientifiche e matematiche.
Brian May nacque il 19 luglio 1947 a Hampton, alla periferia di
Londra. Da bambino era un grande appassionato di musica e di scienza. A
dieci anni cominciò a suonare il pianoforte, ma ben presto passò alla
chitarra. Poiché la sua famiglia non disponeva di fondi sufficienti per
acquistare una costosa chitarra elettrica, il giovane Brian decise di
costruirsene una in casa. Fu così che tra il 1963 e il 1965, con l’aiuto del
padre, ingegnere elettronico appassionato di modellismo, il ragazzo
realizzò con materiale di riciclo la sua celebre “Red Special”. Nel 1965
Brian si diplomò alla prestigiosa Hampton School, riportando voti
eccezionali in matematica e fisica. Si iscrisse al programma di astrofisica
del London Imperial College, dove nel 1968 si laureò col massimo dei
voti e due anni dopo intraprese un percorso di dottorato. Sul fronte
musicale, nel 1968 May aveva formato il gruppo degli Smile, con Tim
Staffel alla voce e al basso e Roger Taylor alla batteria. Nel 1970 Staffell
lasciò la band e venne sostituito nella veste di cantante dall’amico Farrokh
Bulsara, studente nato a Zanzibar da genitori parsi e cresciuto in
Inghilterra. Farrokh, che aveva adottato lo pseudonimo Freddie Mercury,
convinse i compagni a cambiare il nome del gruppo in “Queen”. Nel
febbraio dell’anno successivo, con l’ingresso del bassista John Deacon, la
formazione assunse la sua struttura definitiva. Nel corso dell’anno,
l’intensificarsi delle esibizioni live costrinse Brian May a interrompere il
suo dottorato (che peraltro riprese più di trent’anni dopo per conseguire il
titolo nel 2007). Ciò nonostante, i Queen sono una delle rock band più
“istruite” di sempre, visto che anche gli altri tre possono vantare un titolo
accademico: Freddie Mercury si laureò in grafica e design nel 1969,
Roger Taylor in biologia nel 1971, John Deacon in elettronica nel 1972.
Nel 1973 i Queen firmarono un contratto con la EMI e pubblicarono il
loro primo album, intitolato semplicemente Queen: un disco di sapore
heavy metal e progressive rock, che non ebbe particolare fortuna. L’anno

28
successivo uscirono addirittura due album, Queen II e Sheer Heart Attack,
con i quali il gruppo poté finalmente gustare il successo a lungo inseguito
e nei quali appariva ormai maturo il sound distintivo della band: lunghi e
virtuosistici episodi strumentali, armonie vocali complesse, testi ricercati,
generi musicali diversi fusi in un unicum di originalità e innovazione. Con
il 1975 arrivò il capolavoro, l’album A Night at the Opera: al suo interno
brillava uno dei vertici assoluti del rock di ogni epoca, la celeberrima
“Bohemian Rhapsody”, che sarà tra i protagonisti del capitolo 11. Nel
1976 il gruppo pubblicò A Day at the Races: una delle canzoni incluse,
“Somebody to Love”, gospel dalle intricate armonizzazioni, divenne un
altro classico della band. Tuttavia, l’album non riscosse il successo
sperato e fu anche disapprovato da alcuni critici. I Queen entrarono nel
1977 all’apice della fama ma al tempo stesso con la necessità di offrire
qualcosa di innovativo e convincente: “We Will Rock You” fu decisiva
per il raggiungimento di questo obiettivo.
Dopo aver ideato la base ritmica e abbozzato la melodia della canzone,
May pensò che, per rendere il brano ancora più trascinante, lo “stomp-
stomp-clap” registrato sul disco doveva suonare simile al battito di piedi e
di mani eseguito da migliaia di persone, proprio come il pubblico di un
concerto dei Queen. Il chitarrista si domandò allora come uno spettatore
qualsiasi avrebbe percepito l’effetto sonoro complessivo. Sicuramente
ogni “stomp” e ogni “clap” non sarebbe stato avvertito come un battito
netto e isolato nel tempo, ma come un suono sfilacciato e prolungato.
Questo per due ragioni principali: nel contesto di un’audience così grande,
molti spettatori avrebbero inevitabilmente battuto mani e piedi fuori
tempo; inoltre le distanze sarebbero diventate significative e il suono degli
spettatori più lontani sarebbe giunto in ritardo. Ottenere questo effetto sul
disco non era cosa banale, perché i Queen erano solo in quattro e quattro
persone che battono ritmicamente piedi e mani suonano molto
diversamente da mille persone che fanno la stessa cosa. Certo, si poteva
sfruttare la tecnica della sovraincisione: ma come, esattamente? May ebbe
a questo punto due intuizioni fondamentali.
La prima fu che sul disco si sarebbe dovuto riprodurre un effetto di
riverbero. Per capire di che cosa si tratti, dobbiamo partire dal concetto di
onda sonora. Un’onda sonora è generata dalla vibrazione di un corpo, per
esempio la corda di uno strumento musicale, che si trasmette a sua volta
alle particelle di un mezzo materiale, per esempio l’aria. La vibrazione di

29
queste particelle si manifesta come un’alternanza ritmica di rarefazioni e
di compressioni che si allarga in modo concentrico dalla sorgente in tutte
le direzioni. Quando l’onda colpisce il nostro timpano, un segnale viene
inviato alla corteccia cerebrale determinando la sensazione sonora. Lo
spostamento delle molecole del mezzo rispetto a una posizione di
equilibrio dipende dallo spazio e dal tempo. Se da una posizione fissa
nello spazio osserviamo come varia nel tempo l’ampiezza degli
spostamenti del mezzo, possiamo ottenere, nel caso più semplice, un
diagramma come quello riportato nella figura 2.2 (se invece dello spazio
fissassimo il tempo e fotografassimo l’onda come si fa con le onde del
mare, otterremmo un grafico con la stessa forma: solo che sull’asse
orizzontale ci sarebbe lo spazio anziché il tempo).
Le creste del grafico possono corrispondere agli istanti di massima
compressione del mezzo e le valli agli istanti di massima rarefazione.
Il numero di creste che l’onda presenta nell’intervallo orizzontale di
un secondo è la frequenza dell’onda stessa, misurata in hertz (Hz). La
frequenza determina l’altezza del suono emesso: più alta è la frequenza e
più acuto viene percepito il suono. Per esempio, un’onda di 110 Hz
presenta 110 creste nell’arco di un secondo e corrisponde alla frequenza di
un La. Il periodo equivale invece alla durata dell’intervallo temporale
compreso tra due creste vicine. Il periodo si calcola come l’inverso della
frequenza. Per esempio, in un’onda sonora di frequenza pari a 110 Hz il
periodo è uguale a 1:110 secondi, cioè circa 9,09 ms (millisecondi).
L’intensità del suono è invece legata all’ampiezza delle vibrazioni che lo
determinano.

30
Figura 2.2Rappresentazione grafica di un’onda sonora.

Il riverbero è un fenomeno che si verifica quando un’onda sonora viene


riflessa, anche più volte, da superfici poste lungo il proprio cammino, con
il risultato che chi ascolta percepisce non soltanto l’onda sonora
originaria, ma una miscela formata da questa e dalle varie onde riflesse. Il
riverbero diventa particolarmente significativo all’interno di spazi chiusi,
dove tipicamente il suono rimbalza molte volte sulle pareti creando un
sistema complesso di riflessioni ripetute. Se immaginiamo che
l’ascoltatore si trovi nei pressi del punto in cui viene emesso il suono, il
presupposto essenziale per lo stabilirsi del riverbero è che il primo
ostacolo si trovi a meno di 17 metri dalla fonte sonora: in questo modo
l’onda impiega meno di 100 ms per percorrere il tragitto di andata e
ritorno e l’ascoltatore non riesce ad apprezzare la separazione tra il suono
originale e la sua prima riflessione. Se invece la distanza dell’ostacolo è
maggiore di 17 metri, i due suoni risultano distinti: in questo caso, anziché
di riverbero, si parla di eco.

31
Figura 2.3Due schemi di riverbero artificiale.

Il riverbero è un fenomeno del tutto naturale e in qualche misura quasi


sempre presente, anche quando ci si trova in spazi esterni: è praticamente
impossibile che un suono sia del tutto privo di onde secondarie riflesse
che si sommano a quella principale. D’altra parte, un suono senza
riverbero apparirebbe asciutto, sottile, vuoto, innaturale: è il riverbero a
dargli colore, corpo e profondità spaziale. È per questo che i musicisti
sono così esigenti verso l’acustica dei luoghi in cui suonano e prediligono
quelli le cui caratteristiche geometriche producono un livello di riverbero
significativo ma non eccessivo. Gli interni delle chiese soddisfano spesso
questi requisiti. E non a caso i Queen, per rivestire di riverbero lo “stomp-
stomp-clap”, decisero di registrarlo in una chiesa sconsacrata a nord di
Londra. Là dentro trovarono alcune vecchie assi di legno abbandonate e
scoprirono che erano l’ideale per batterci i piedi sopra.

32
Tuttavia, May constatò che il riverbero naturale della chiesa non era
certo sufficiente a far risuonare lo “stomp-stomp-clap” come se fosse stato
eseguito da migliaia di persone. Era necessario aggiungere artificialmente
altro riverbero. La figura 2.3 mostra i due schemi più semplici che
possono essere implementati (oggi tramite dispositivi elettronici) per
arricchire un suono con un effetto artificiale di riverbero.
Nel primo schema (Simple delay) il segnale sonoro in ingresso viene
fatto passare attraverso un dispositivo che introduce un ritardo (delay): il
risultato è lo stesso suono che entra, ma differito di qualche millisecondo,
in modo da simulare l’effetto del rimbalzo su una superficie riflettente. Il
suono ritardato attraversa poi un blocco che ne attenua l’intensità e il
risultato (grazie al blocco contrassegnato con il simbolo “+”) viene infine
mescolato al suono originale. Il secondo schema (Multitap delay) funziona
in modo simile, ma invece di avere un solo blocco di delay ce ne sono
molti in parallelo, ognuno caratterizzato da un intervallo temporale
diverso e seguito da un’attenuazione di entità diversa: tutte le linee
parallele vengono poi sommate e contribuiscono all’impasto sonoro
finale. May scelse il secondo schema, ovvero decise che ogni “stomp” e
ogni “clap” sarebbe stato sovrainciso più volte, collocando ciascuna
ripetizione a una diversa distanza temporale dall’istante del battito
originario.
A questo punto, May ebbe la seconda intuizione: decise di utilizzare
deliberatamente, come distanze temporali espresse in millisecondi, numeri
primi fra loro. Primi fra loro? Che cosa significa? C’entrano i numeri
primi, naturalmente. Ma cos’hanno a che vedere i numeri con il riverbero
artificiale? Per quale ragione proprio i numeri primi permisero di far
suonare lo “stomp-stomp-clap” come il battito di migliaia di persone?
Andiamo per gradi. Nel capitolo 1 abbiamo fatto la conoscenza dei
numeri naturali e abbiamo visto alcuni semplici esempi di addizioni che
possono essere eseguite con questi numeri. Com’è noto, sommando più
volte un numero a se stesso si ottiene una moltiplicazione. Ora, se un
numero naturale a è il risultato della moltiplicazione tra due numeri
naturali b e c, allora possiamo dire che a è divisibile per b e anche per c.
Per esempio, 24 è divisibile per 3 perché 24 = 3 ∙ 8. Detto altrimenti, 24 è
divisibile per 3 perché se avete 24 mele più o meno grandi uguali le potete
disporre in un rettangolo formato da 3 file senza lasciare buchi.
Alcuni numeri, però, non sono divisibili per alcun altro numero, se

33
non per se stessi e per 1. Se scorriamo la sequenza dei numeri naturali
partendo dopo l’1, scopriamo che questi elementi speciali, che sono
chiamati numeri primi, sono 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 29 e così via
(sarà chiaro tra poco perché l’1 non viene compreso tra i numeri primi).
Per esempio, se avete 17 mele, provate voi, se ne siete capaci, a sistemarle
in un rettangolo senza buchi, come avete fatto prima con 24. Come dite, ci
siete riusciti? Avete ragione: ci si riesce se il rettangolo è formato da una
sola fila, oppure da 17 file!
Però così non vale. Parlando di divisibilità di questi numeri, ho infatti
specificato “se non per se stessi e per 1”: senza questa precisazione,
nessun numero sarebbe un numero primo, perché ogni numero naturale,
nessuno escluso, è divisibile almeno per se stesso e per l’unità.
Tutti noi abbiamo imparato a scuola a conoscere i numeri primi, ma
non a tutti è chiaro perché queste quantità siano così importanti. Eppure,
devono esserlo davvero, dato che la nozione di numero primo era nota agli
uomini addirittura già nella preistoria. Ne è una prova l’osso di Ishango,
un perone di babbuino risalente al Paleolitico superiore (circa ventimila
anni fa) ricoperto di scalfitture che rappresentano, tra le altre cose, anche
numeri primi (in particolare 11, 13, 17 e 19).
Un fatto preliminare che rende notevoli i numeri primi è che
costituiscono, per così dire, i mattoni elementari con i quali possiamo
costruire qualsiasi numero naturale. Esiste un importante risultato della
teoria dei numeri, noto come “teorema fondamentale dell’aritmetica”,
secondo cui qualsiasi numero naturale, se non è di per se stesso un numero
primo, è il risultato della moltiplicazione di più numeri primi.
Vediamo alcuni esempi: 15 è uguale a 3 ∙ 5 e sia 3 che 5 sono numeri
primi. Con numeri più grandi il gioco è un po’ più difficile, ma sempre
possibile: per esempio 1092 è uguale a 2 ∙ 2 ∙ 3 ∙ 7 ∙ 13, 51.205 è uguale a
5 ∙ 7 ∙ 7 ∙ 11 ∙ 19 e così via. Il teorema afferma anche un’altra cosa: dato
un numero naturale, c’è esattamente una moltiplicazione tra numeri primi
che produce quel numero come risultato, e non più di una. Per esempio,
oltre a 2 ∙ 2 ∙ 3 ∙ 7 ∙ 13, non esiste un’altra moltiplicazione tra primi il cui
risultato sia 1092. Potreste ribattere che anche 1 ∙ 2 ∙ 2 ∙3 ∙ 7 ∙ 13 fa 1092.
E anche 1 ∙ 1 ∙ 2 ∙ 2 ∙ 3 ∙ 7 ∙ 13, e pure 1 ∙ 1 ∙ 1 ∙ 2 ∙ 2 ∙ 3 ∙ 7 ∙ 13, e così via
(ogni volta aggiungendo un nuovo 1 tra i fattori).
Avete perfettamente ragione. Quando i matematici se ne sono accorti,
hanno pensato: “Peccato, però: sarebbe stato bello che quel teorema

34
fondamentale fosse stato vero.” Ma subito qualcuno di loro ha osservato:
“Calma, basta non accettare 1 come numero primo, e il teorema è valido!”
Ecco perché poco fa, nell’elencare i numeri primi, ero partito dal 2. Se
così non fosse, ogni numero naturale potrebbe essere ottenuto attraverso
infinite diverse moltiplicazioni tra numeri primi, e il teorema
fondamentale non varrebbe.
I numeri primi sono quindi un po’ come gli atomi che costituiscono
tutta la materia dell’universo. Naturale, quindi, che abbiano attratto la
curiosità degli studiosi già nell’antichità. I Greci, per esempio,
accarezzarono il sogno di poter scrivere l’elenco esaustivo dei numeri
primi su una tavoletta, ma il grande Euclide, vissuto attorno al 300 a.C.,
dimostrò che ciò non era possibile. Nel suo celebre trattato Elementi,
infatti, affermò che “i numeri primi sono più di una qualsiasi assegnata
moltitudine di numeri primi”: detto in altri termini, esistono infiniti
numeri primi. Come fece Euclide a dimostrare questa verità? La sua
dimostrazione è la seguente: facciamo finta che i numeri primi siano finiti,
per esempio immaginiamo che la lista completa sia 2, 3, 5. Costruiamo
allora un numero che sia il prodotto di tutti i numeri primi più uno: 2 ∙3 ∙5
+ 1 = 30 + 1 = 31. Questo numero non è divisibile per 2, né per 3, né per
5, perché dalle divisioni per questi numeri otteniamo sempre un resto di 1.
Quindi anche 31 (come 2, 3 e 5) è un numero primo e come tale va
aggiunto nella lista. Ma, seguendo un ragionamento del tutto analogo,
anche dopo aver aggiunto 31 all’elenco potremo sempre costruire un
numero più grande che sia primo. Per quanti numeri possiamo includere
nella lista, ce ne saranno sempre altri da aggiungere: quindi la lista è in
realtà infinita.
Ora, date un’occhiata a come i numeri primi sono distribuiti tra i
numeri naturali compresi tra 2 e 100:

2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28
29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52
53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76
77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99
100

Scorgete un ordine, una regolarità? Una prima caratteristica che balza


all’occhio è che tutti questi numeri sono dispari, con l’eccezione del

35
“primo primo”, il 2, che è pari. Questa proprietà vale in generale per tutti i
numeri primi, però non dice molto sul criterio con cui questi numeri sono
distribuiti lungo la semiretta dei numeri naturali. A volte, infatti, le coppie
di numeri primi contigui sono separate da un solo numero naturale (per
esempio il 59 e il 61), ma altre volte sono più distanziate (per esempio tra
89 e 97 c’è una distanza di 8). Più ci si scervella per trovare una logica e
più si rimane delusi: sembrano sparpagliati a caso, come i numeri estratti
al lotto o come un battito cardiaco affetto da aritmia. O, se preferite, come
i colpi suonati da un batterista scadente.
In effetti questo problema matematico ha tenuto in scacco le più
grandi menti della matematica fin dai tempi di Euclide e le ossessiona
ancora oggi: capire se esiste una formula che riesca a descrivere in
generale la cadenza con la quale questi numeri appaiono e quindi a
predirne la posizione. La ricerca di una regolarità nella sequenza dei
numeri primi è un tipico esempio di vero problema matematico: è
purtroppo ancora molto diffusa l’immagine della matematica come
scienza fatta solo di calcoli meccanici e ripetitivi, di aride espressioni e di
regole astruse da imparare a memoria, quando invece è soprattutto una
creativa ricerca di senso e di ordine nell’apparente caos (tornerò
sull’argomento alla fine del capitolo 13).
E se alla soddisfazione delle scoperte creative anteponete i piaceri del
sonante denaro, sappiate che il problema è molto interessante anche sotto
questo profilo: chi lo risolverà si metterà in tasca la bellezza di un milione
di dollari, messo in palio dal Clay Mathematics Institute, un’istituzione
privata americana che si occupa di ricerca matematica. Per la precisione, il
gruzzolo è riservato a chi dimostrerà o confuterà l’ipotesi di Riemann: una
congettura riguardante le caratteristiche di un particolare oggetto
matematico detto “funzione zeta”. Bernhard Riemann fu un matematico
tedesco che nel 1859 scoprì una sorprendente relazione tra la funzione
zeta e la capricciosa distribuzione dei numeri primi. Parallelamente
formulò l’ipotesi che ha preso il suo nome: se questa sarà un giorno
dimostrata, potremo finalmente determinare con precisione il
posizionamento dei numeri primi lungo la semiretta dei numeri naturali.

A che cosa servono concretamente i numeri primi?


Oltre che essere un campo di studio teorico per i matematici, a che cosa servono

36
concretamente i numeri primi? Fino al 1977 si sarebbe potuto rispondere a questa
domanda dicendo: "A niente". In quell’anno, tuttavia, proprio mentre Brian May
si serviva dei numeri primi per far diventare "We Will Rock You" una hit
mondiale, tre matematici (Ronald Rivest, Adi Shamir e Leonard Adleman)
scoprirono che i numeri primi potevano essere usati per qualcosa di ancora più
straordinario, se possibile, dello "stomp-stomp-clap" dei Queen: proteggere la
trasmissione di messaggi segreti (il 1977 può essere a ragione definito "l’anno dei
numeri primi": peccato che il numero 1977 non sia esso stesso primo, altrimenti
sarebbe stata una coincidenza impressionante). L’algoritmo prese il nome di RSA,
dalle iniziali dei suoi ideatori, e ancora oggi è una delle tecniche più utilizzate per
rendere sicure le transazioni su internet. Quando acquistiamo prodotti su un sito di
commercio elettronico o eseguiamo operazioni sul nostro conto corrente, solo per
fare un paio di esempi, mettiamo in moto un complicato meccanismo basato sui
numeri primi per salvaguardare i nostri dati personali da intrusioni indesiderate.
L’RSA è un sistema di crittografia in cui ogni utente deve possedere due chiavi:
una pubblica, cioè nota anche agli altri utenti, e una privata, conosciuta solo
dall’utente stesso. Se una chiave viene usata per cifrare un messaggio, l’altra deve
essere usata per decifrarlo e viceversa. Supponiamo che Brian voglia inviare un
messaggio segreto a Freddie e non voglia che altri all’infuori di Freddie possano
leggerlo: allora Brian cifrerà il messaggio con la chiave pubblica di Freddie e
questi lo decifrerà con la propria chiave privata (che solo lui conosce). Perché il
sistema funzioni bene è necessario che sia molto difficile, pur conoscendo la
chiave pubblica di un utente, risalire alla sua chiave privata: ciò è reso possibile
dall’esistenza di calcoli asimmetrici, che eseguiti in una direzione sono facili, ma
svolti in modo inverso risultano molto difficili anche per un potentissimo
computer. Moltiplicare tra di loro due numeri primi anche molto grandi (per
esempio con più di trecento cifre) è un’operazione banale e immediata per un
comune computer, ma scomporre nei fattori primi originari il risultato di quella
moltiplicazione può richiedere addirittura migliaia di anni di calcolo. Ecco perché
i numeri primi sono stati sfruttati per progettare l’algoritmo RSA. Ogni chiave
pubblica è matematicamente correlata alla corrispondente chiave privata, ma per
passare dalla prima alla seconda occorrerebbe eseguire una scomposizione come
quella descritta: un’operazione praticamente impossibile.

Torniamo finalmente ai Queen e al loro “stomp-stomp-clap”. La domanda


centrale è: perché Brian May, per creare l’effetto di riverbero, pensò di
utilizzare uno schema di ritardi paralleli basato su distanze temporali
prime fra loro? Innanzitutto, due numeri sono primi fra loro (oppure
coprimi) se non hanno divisori in comune a parte il numero 1. Per
esempio, sono primi fra loro 3 e 5, oppure 9 e 25. Invece 6 e 21 no, perché
hanno entrambi 3 come divisore. Affinché due numeri siano primi fra loro
non è necessario che essi siano numeri primi, ma due numeri primi sono

37
sicuramente anche primi fra loro. Per capire il senso dell’idea di May
dobbiamo fare un breve excursus fisico-acustico.
Se suonate una nota su uno strumento musicale a corda o a fiato, in
generale non create un’onda sonora come quella illustrata nella figura 2.2,
che è “pura”, ovvero caratterizzata da una sola frequenza (quella nominale
della nota stessa, chiamata fondamentale o tonica), ma generate anche una
serie di altre onde a frequenze più alte, multiple della fondamentale, che
sono chiamate armoniche. Per esempio, se suonate a vuoto la quinta corda
di una chitarra, determinate una combinazione di onde rispettivamente alle
frequenze di 110 Hz (fondamentale, corrispondente al La), 220 Hz (La
all’ottava superiore), 330 Hz (Mi all’ottava ancora superiore), 440 Hz (La
della stessa ottava) e così via. L’onda del suono fondamentale e quelle
delle armoniche più acute si sommano tra di loro per dare forma all’onda
complessiva, come illustrato nella figura 2.4 (dove vengono indicate
soltanto le prime tre armoniche dell’onda).

Figura 2.4Scomposizione di un’onda sonora nelle sue armoniche.

L’intensità relativa delle varie armoniche dipende dalle caratteristiche


fisiche dello specifico strumento, anche se generalmente tende a spegnersi

38
gradualmente man mano che la frequenza aumenta: il timbro distintivo di
ogni strumento è determinato proprio dal profilo di intensità delle
armoniche alle diverse frequenze. Se per semplicità rapportiamo a 1 (in
un’opportuna unità di misura) la frequenza del suono fondamentale, le
frequenze delle armoniche sono pari a 2, 3, 4, 5 ecc. Parlando invece di
periodi, avremo (in un’appropriata unità di misura di tempo) 1, ½, ⅓, ¼, ⅕
e così via. Queste frazioni sono le stesse che compaiono come termini di
un particolare esempio di serie, cioè di somma di un numero infinito di
termini, fatta così:

Non a caso, questa serie è stata chiamata serie armonica.


Bene, abbiamo così raccolto tutti i tasselli del puzzle: vediamo ora di
ricomporlo. May prese ciascuno degli “stomp” e dei “clap” e lo
sovraincise più volte, scegliendo per le varie ripetizioni delay diversi e
primi fra loro. Rivolgiamo la nostra attenzione su uno specifico “stomp”:
se May non avesse scelto ritardi primi fra loro, ci sarebbe stato almeno un
divisore comune ad alcuni di questi delay. Supponiamo di avere, tra i vari
ritardi introdotti sul nostro “stomp”, un divisore comune pari a 10 ms. Per
quanto spiegato sopra, l’onda sonora dello “stomp” è la somma delle sue
armoniche pure, ognuna con la sua specifica frequenza (o, se preferite,
con il suo specifico periodo): consideriamo allora un’armonica
caratterizzata da un periodo pari a 10 ms. Immaginiamo che all’istante
zero l’onda associata a questa armonica presenti un picco nel punto A.
Dopo il periodo di 10 ms, essendo questo intervallo uguale proprio alla
distanza temporale tra due picchi, nel punto A troveremo un secondo
picco di ampiezza uguale. La stessa cosa avverrà all’istante 20 ms,
all’istante 30 ms e a tutti gli istanti multipli di 10 ms. Ma siccome 10 ms è
un divisore comune dei delay scelti, a diversi istanti corrispondenti ad
altrettanti multipli di 10 ms cominceranno a sommarsi alcune ripetizioni
del nostro “stomp”: dato che queste ripetizioni saranno perfettamente in
fase con l’onda originaria, risulterà alla fine un’onda complessiva di
intensità maggiore di quella originaria. In base a questo ragionamento,
possiamo trarre un’importante conclusione: se May non avesse scelto
delay primi fra loro dell’onda sonora relativa allo “stomp” (ma il principio

39
vale ovviamente anche per gli altri “stomp” e per i “clap”) si sarebbero
amplificate in modo selettivo le componenti armoniche caratterizzate da
periodi uguali o multipli rispetto ai delay scelti per simulare il riverbero.
In modo simmetrico, altre frequenze sarebbero state fortemente attenuate,
se non cancellate del tutto, per effetto della somma tra picchi e valli. La
conseguenza di questo fenomeno sarebbe stata un’alterazione del suono
riverberato, potenzialmente irrealistica e sgradevole all’orecchio, dovuta a
una variazione dell’amalgama delle frequenze presenti nel suono stesso.
Con la sua accortezza “matematica”, quindi, May evitò questo rischio.
D’altro canto, questo effetto è stato spesso utilizzato in modo
intenzionale e controllato per creare particolari sonorità all’interno di
brani rock. Il termine utilizzato da musicisti e tecnici del suono per
indicare la variazione dell’intensità di alcune frequenze tramite l’uso di
ritardi è flanging: secondo lo storico Mark Lewisohn a inventare questo
nome nel 1966 fu John Lennon, che poi impiegò la tecnica in molti brani
dei Beatles, da “Tomorrow Never Knows” a “Lucy in the Sky with
Diamonds”. Anche altri artisti tra cui Jimi Hendrix, Captain Beefheart e
David Bowie hanno applicato il flanging a propri brani.
Alcuni artisti hanno poi sfruttato le potenzialità del delay per costruire
pattern ritmici insoliti o per creare atmosfere suggestive: tra questi
sicuramente lo stesso Brian May dei Queen (“Brighton Rock”), i Pink
Floyd (“Echoes” e “Run Like Hell”), gli U2 (“Where the Streets Have No
Name” e molte altre), i Guns N’ Roses (“Welcome to the Jungle”).
Tutto considerato, comunque, possiamo affermare senza tema di
smentita che “We Will Rock You” rimane uno degli esempi più eclatanti
di matematica applicata al rock: ascoltando i suoi battiti ritmici si ha
davvero l’elettrizzante sensazione di trovarsi in mezzo a una folla
oceanica di persone, quando invece si tratta delle mani e dei piedi dei
quattro Queen in una chiesa sconsacrata londinese. La magia, in questo
caso, l’ha fatta Brian May: è riuscito a trasformare la pulsazione cardiaca
irregolare dei numeri primi in un battito perfetto, quello “stomp-stomp-
clap” che ancora oggi, dopo più di quarant’anni, ci ammalia e ci coinvolge
irresistibilmente.

40
3

Fibonacci superstar

Black
Then
White are
All I see
In my infancy
Red and yellow then came to be
(da “Lateralus” dei Tool, in Lateralus, 2002)

Vi trovate a Edimburgo, capitale della Scozia: città natale di John Napier,


inventore dei logaritmi, ma anche di Shirley Manson e di Eugene Kelly,
rispettivamente cantanti dei gruppi rock dei Garbage e dei Vaselines. Il
castello è la prima tappa della vostra visita. Vi siete alzati presto per
evitare le folle oceaniche dei turisti e ora percorrete con passo veloce il
Royal Mile in direzione della rocca. Giunti nella vasta Esplanade,
attraversate il ponte levatoio di Portcullis Gate e siete all’interno
dell’antico maniero. Seguite il percorso in salita tra archi, muraglioni e
cannoni, finché arrivate nel punto più alto del castello: il King’s Bastion.
Da qui vi godete finalmente lo splendido panorama su Edimburgo: la città
nuova e, sullo sfondo, l’estuario del fiume Forth. Trattandosi tecnicamente
di un fiordo, la foce prende il curioso nome di Firth of Forth. Mentre
ammirate l’antica St. Margaret’s Chapel, riflettete sulla singolare
allitterazione nel nome di questa insenatura e ricordate vagamente che un
famoso gruppo musicale ci aveva giocato per il titolo di un proprio lavoro.
Ma non vi viene in mente la band e nemmeno la canzone. La questione vi
esce subito di mente: d’altra parte avete ancora mille cose da visitare, nel
castello e fuori. Nel corso della mattina passate in rassegna il National

41
War Museum, il Royal Palace, la Great Hall, la Crown Room e altre
meraviglie. Pranzate a base di salmone e birra in un locale della città
vecchia. Nel pomeriggio fate un po’ di shopping e andate a vedere altri
angoli meritevoli della capitale, come il National Museum of Scotland. La
sera, mentre rientrate in hotel, venite attratti, chissà perché, da una
locandina che annuncia il concerto di una cover band e mentre lo guardate
vi sovviene il nome del gruppo che qualche ora prima non voleva affiorare
nella vostra mente: i Genesis! E anche il titolo del loro pezzo: “Firth of
Fifth”.
Tony Banks, tastierista del gruppo inglese nonché autore del brano,
iniziò a studiare pianoforte nel 1958, all’età di otto anni. Nel 1961 i suoi
genitori lo iscrissero alla Charterhouse School, aristocratico liceo privato
situato nel Surrey, a sud-ovest di Londra, dove proseguì lo studio del
pianoforte come materia scolastica extracurricolare. Banks strinse
amicizia con altri allievi della scuola, soprattutto Peter Gabriel, Mike
Rutherford, Anthony Phillips e Chris Stewart, con i quali fondò nel 1967
il primo nucleo dei Genesis. Il bassista Rutherford e il chitarrista Phillips
scrissero in quel periodo le prime canzoni del gruppo. Anche Banks
cominciò a comporre brani rock: in particolare tratteggiò alcuni passaggi
di quella che sarebbe diventata “Firth of Fifth”. I giovani musicisti
riuscirono a stringere un accordo con il produttore Jonathan King, anche
lui ex allievo della Charterhouse. Ottennero perfino un contratto
discografico di un anno con la Decca, con la quale pubblicarono all’inizio
del 1968 i loro primi due singoli, “The Silent Sun” e “A Winter’s Tale”.
Conseguito il diploma, nell’agosto del 1968 Banks e compagni
registrarono, sotto la supervisione di King, il loro album d’esordio, From
Genesis to Revelation. Terminate le sessioni, la compagine si sciolse,
perché in quel momento gli impegni scolastici e universitari apparivano a
tutti prioritari. Tony Banks, in particolare, aveva deciso di immatricolarsi
a matematica, ma alla fine optò per chimica alla Università del Sussex.
Subito dopo decise di cambiare facoltà e si iscrisse alla facoltà di fisica e
filosofia.
From Genesis to Revelation uscì nel marzo del 1969 ma vendette
pochissime copie. Nonostante le difficoltà dell’esordio, il complesso si
ricostituì: il batterista John Silver, che l’anno prima aveva sostituito Chris
Stewart, lasciò a sua volta il gruppo, rimpiazzato da John Mayhew. La
tenacia dei cinque ragazzi fu alla fine premiata: nel 1970 firmarono un

42
nuovo contratto con la Charisma e con il produttore John Anthony e
registrarono un nuovo album, intitolato Trespass. Le tracce del disco
appartenevano decisamente al filone del rock progressivo: brani più
lunghi, armonie più complesse, inconsueti tempi dispari, testi di maggiore
spessore, utilizzo di strumenti non convenzionali. Il contributo di Banks
come autore cominciava a essere paragonabile a quello dei colleghi
Phillips e Rutherford.
Ma nemmeno Trespass ebbe successo. Dopo la sua pubblicazione,
John Mayhew e Anthony Phillips uscirono dal gruppo, sostituiti
rispettivamente da Phil Collins e Steve Hackett. Grazie al chitarrismo più
incisivo di Hackett e alla maturità compositiva di Banks, lo stile prog dei
Genesis conobbe una rapida e mirabile evoluzione, che portò nel 1971 alla
realizzazione dello splendido Nursery Cryme. Nel 1972 Banks tornò a
lavorare su “Firth of Fifth”. Ne realizzò una prima versione completa e
propose ai compagni di includerla nell’album Foxtrot. Il disco uscì nel
mese di ottobre, ma il brano ne rimase escluso. Furono invece inserite
altre canzoni scritte da Banks, per esempio “Time Table” e la
monumentale “Supper’s Ready”, composta principalmente assieme a
Gabriel. Nei mesi successivi Banks lavorò per migliorare “Firth of Fifth”
e alla fine la composizione fu selezionata per l’album Selling England by
the Pound, pubblicato nell’ottobre del 1973. Benché il brano sia
accreditato a tutti i componenti della band, il tastierista ne scrisse la
musica praticamente da solo e si fece aiutare soltanto da Mike Rutherford
per la stesura dei testi. Anche il bisticcio di parole all’origine del titolo fu
un’idea di Banks: se il fiume che sfocia a Edimburgo si chiama Firth of
Forth, ovvero, più o meno, “Fiordo del Quarto”,1 perché non immaginare
uno scherzoso “Firth of Fifth”, cioè un “Fiordo del Quinto”, che gioca
anche sulla forte somiglianza tra i due termini firth e fifth? L’idea fu
accolta con divertimento da tutti i compagni: inoltre, l’immagine poetica
che Banks si figurò inizialmente e dalla quale derivò l’intero testo era
quella di un fiume, perfettamente in linea con il titolo:
The path is clear
Though no eyes can see
The course laid down long before.

“Firth of Fifth” è senza dubbio uno dei brani più rappresentativi dei

43
Genesis. Inserito nel loro album più venduto e apprezzato, ne costituisce
la traccia più significativa. Siamo di fronte a uno dei capolavori assoluti
della stagione del rock progressivo: dieci minuti adorati dai fans,
impreziositi da un raffinato testo di gusto arcadico e da una musica
caratterizzata da una rara complessità melodica, armonica, ritmica e
strutturale.
I riferimenti matematici si celano proprio nell’intricata architettura
concepita da Banks. L’apertura è un magnifico preludio al pianoforte di
sapore classicheggiante. Non si tratta di un episodio di facile esecuzione,
soprattutto per le irregolarità ritmiche disseminate al suo interno. Chi
conosce un po’ di teoria musicale sa che un brano è composto di battute,
ovvero di frammenti elementari ciascuno dei quali contiene un certo
numero di “pulsazioni” ritmiche: su una di queste cade l’accento ritmico,
mentre le altre sono pulsazioni “deboli”, non accentate. La frazione
riportata all’inizio del brano musicale, dopo il simbolo della chiave, indica
il metro del brano, cioè le sue caratteristiche ritmiche: il numeratore
determina il numero di pulsazioni in una battuta, mentre il denominatore
rappresenta il valore musicale, ovvero la durata, di ciascuna pulsazione.
Per esempio, ogni battuta di una composizione in ¾ (per esempio un
valzer) contiene tre pulsazioni, una delle quali accentata e le altre due
deboli, e ogni pulsazione ha un valore musicale di ¼.
Tutto questo è vero se il brano è omogeneo dal punto di vista ritmico.
Talvolta, però, accade che il ritmo cambi nel corso del brano, cioè che si
passi da battute caratterizzate da un certo metro a battute con un metro
diverso. L’intro di “Firth of Fifth” appartiene decisamente a questa
famiglia di composizioni, visto che oscilla continuamente tra metri diversi
e insoliti, quali 8/16, 13/16, 15/16, 16/16, 17/16 e 24/16. Lo stesso Banks, pur
essendo l’autore di questa ouverture, dovette fare i conti con la sua
difficoltà tecnica e ben presto decise di non eseguirla più dal vivo. Il
motivo ufficiale è che la variegata dinamica del preludio non poteva
essere riprodotta facilmente con una tastiera elettrica, ma avrebbe
richiesto, come nella versione del disco, un pianoforte a coda (strumento
che, peraltro, soprattutto nei concerti rock di qualche decennio fa, avrebbe
posto problemi insormontabili legati al trasporto e allo spazio occupato sul
palcoscenico). La ragione vera è che Banks, geniale songwriter ma
pianista non eccelso, inciampò in un imbarazzante incidente durante un

44
live e pensò bene di evitare ulteriori figuracce nei concerti successivi. Dal
pianoforte si passa alla voce di Peter Gabriel che, regolarizzando il tempo
musicale su un più rassicurante 4/4, espone il tema principale e dipinge
dolcemente un paesaggio bucolico, sostenuto con leggerezza dagli altri
strumenti della band. Dopo le due strofe cantate, un ponte di 8 battute ci
traghetta verso un elegiaco assolo di flauto eseguito dallo stesso Gabriel.
Il pianoforte di Banks ritorna per sviluppare il tema precedente e per
introdurre in crescendo uno dei suoi più notevoli assoli di sintetizzatore.
Ecco di nuovo, trasfigurato, il tema dell’ouverture, ed ecco ancora i suoi
stravaganti tempi dispari, eseguiti con affascinante impeto sull’ARP Pro
Soloist e puntellati da un gran lavoro di Phil Collins alla batteria. Banks
cede quindi la staffetta a Hackett che si produce in uno dei più memorabili
assoli di chitarra elettrica dell’intera storia del rock: riprendendo il tema
del flauto, il chitarrista lo sviluppa con maestria, estraendo dalla sua
Gibson Les Paul Standard note lunghissime, dolorose e commoventi.
Banks lo accompagna con un suggestivo tappeto di mellotron. Al termine,
Gabriel torna per cantare l’ultima strofa, seguita dalla ripresa del tema
pianistico che, sfumando, chiude l’intera composizione.
La complessa struttura del brano può essere riassunta nella seguente
tabella, dove per ogni sezione sono indicate le battute costitutive, la
tonalità, le segnature ritmiche e il minutaggio rilevabile dalla registrazione
originale.

Tabella 2.1 – Le sezioni di "Firth of Fifth".

45
Gli episodi musicali più considerevoli dell’intera composizione sono i tre
assoli di flauto, di sintetizzatore e di chitarra elettrica (il tema
dell’introduzione pianistica, in effetti, viene riproposto con poche
variazioni nell’assolo di tastiera elettrica). Ebbene, questi assoli sono

46
costituiti rispettivamente da 13, 34 e 55 battute: guarda caso, tutti e tre
sono numeri appartenenti alla successione di Fibonacci.
Che cos’è questa successione? È una sequenza di numeri i cui primi
due elementi sono lo zero e l’uno, e ognuno dei successivi è uguale alla
somma dei suoi due predecessori:

Il terzo elemento della successione è il risultato della somma 0 + 1, cioè 1;


il quarto risulta 1 + 1 = 2; il quinto 1 + 2 = 3 e così via. I numeri 13, 34 e
55 si trovano, rispettivamente, all’ottavo, al decimo e all’undicesimo
posto della sequenza.
La successione prende il nome dal matematico Leonardo Pisano, detto
il Fibonacci, nato a Pisa nel 1170, ma è stato accertato che era ben nota ai
matematici indiani almeno due secoli prima di Cristo. Leonardo era figlio
del mercante pisano Guglielmo Bonacci: dal latino filius Bonaccii derivò
l’appellativo Fibonacci. Il padre si era arricchito creando una fiorente
attività commerciale con il mondo arabo e in particolare aveva assunto
l’incarico di rappresentare i commercianti pisani nell’antica città di Bugia
(oggi Bejaïa) in Algeria. Il figlio lo raggiunse là, dove regnava la dinastia
berbera degli Almohadi, e là rimase affascinato soprattutto dai metodi di
calcolo che i mercanti arabi padroneggiavano e che in Europa erano
invece totalmente ignoti. Il sistema di numerazione decimale, per
esempio, fondato sulle cifre da 0 a 9, era uno strumento ormai consolidato
nel mondo arabo, quando al di là del Mediterraneo erano ancora utilizzati
gli scomodi numeri romani. In realtà, la geniale invenzione era avvenuta

47
in India prima di Cristo: alcuni matematici arabi (specialmente al-Kindi e
il persiano Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi) l’avevano assimilata
intorno all’830 e diffusa nel Medio Oriente e sulle coste africane del
Mediterraneo.
Volete fare un esperimento? Provate ad abolire dalla vostra vita i
familiari numeri arabi e iniziate a eseguire tutti i calcoli necessari (per
esempio per gestire il vostro bilancio familiare) utilizzando i numeri
romani. Probabilmente già dopo pochi giorni comincerete a imprecare
contro quei pazzi degli antichi romani e contro il loro ancora più folle
sistema numerico. In modo speculare, il buon Fibonacci si rese conto ben
presto di quanto l’utilizzo del sistema di numerazione decimale
semplificasse drasticamente l’esecuzione dei calcoli aritmetici e di
conseguenza l’esercizio della contabilità commerciale.
Per approfondire questa e altre tecniche in uso nei paesi arabi,
Fibonacci viaggiò per molti anni nel Nord Africa e in Medio Oriente,
dove conobbe i maggiori matematici dell’epoca e apprese le loro
conoscenze avanzate. Rientrato in Italia, riuscì a ottenere dall’imperatore
Federico II di Svevia un generoso vitalizio, che gli permise di
abbandonare i commerci e dedicarsi totalmente ai suoi studi matematici.
Nel 1202 Fibonacci pubblicò il suo trattato più famoso, il Liber abbaci,
nel quale espose il sistema di numerazione posizionale imparato in
Oriente, mostrandone i vantaggi rispetto al macchinoso sistema romano e
spiegando anche le tecniche per eseguire le quattro operazioni. Ci vollero
ancora dei secoli per vedere il nuovo metodo di calcolo rimpiazzare
completamente il precedente nell’uso comune, ma il contributo di
Fibonacci fu la scintilla decisiva. Bisogna esser grati a quel bravo
mercante pisano, perché senza di lui saremmo qui a romperci ogni giorno
la testa per eseguire complicatissimi conti con quei cervellotici numeri
romani.
Nello stesso Liber abbaci, Fibonacci presentò anche la successione
che porta il suo nome, come soluzione di un problema legato alla crescita
di una popolazione di conigli. Immaginate che, intorno a Natale, una
meravigliosa idea sbocci nella vostra mente: come regalo di Capodanno vi
procurerete una coppia di simpatici coniglietti appena nati! Pregustate già
la piacevole compagnia che le simpatiche bestiole vi doneranno, ma vi
siete dimenticati di un piccolo particolare: i conigli sono animali molto,
molto prolifici. Seguendo le ipotesi formulate da Fibonacci, supponiamo

48
che ogni coppia diventi fertile dopo aver compiuto un mese di vita e
generi una nuova coppia di conigli ogni mese, a partire dal compimento
del secondo mese di vita.

Figura 3.1Evoluzione di una popolazione di conigli secondo Fibonacci.

Quale terribile catastrofe avrà luogo a casa vostra nei mesi a venire? I
conigli che avete acquistato diventeranno fertili il primo febbraio e
daranno alla luce una coppia un mese dopo. Il primo aprile genereranno
altri due coniglietti, mentre la coppia nata a marzo diventerà fertile. Con
l’arrivo di maggio nascerà una coppia dai conigli di gennaio e un’altra
coppia da quelli nati a marzo. A giugno vedranno la luce ben tre coppie:
una dai conigli progenitori, una da quelli di marzo e una da quelli nati ad
aprile. E così via. La figura 3.1 illustra il processo. Ora contate il numero
di coppie di conigli presenti nei diversi mesi. Meraviglia delle meraviglie!
Sono esattamente i numeri di Fibonacci (senza lo zero iniziale):2 1, 1, 2, 3,
5…
C’è però un piccolo problema: il modello di crescita studiato dal
matematico pisano è poco realistico, perché nella realtà i conigli si
riproducono secondo meccanismi diversi. Vuol dire che la sequenza di
Fibonacci è un gioco insulso e privo di applicazioni? Niente affatto. Tanto
per restare in ambito zoologico, consideriamo una colonia di api da miele.

49
Una delle femmine è la regina, mentre le altre sono api operaie che non
depongono uova: ogni operaia ha una madre e un padre. I maschi, detti
fuchi, hanno la strana peculiarità di nascere da uova dell’ape regina non
fecondate, per cui hanno una madre ma nessun padre. Diamo un’occhiata
all’albero genealogico di un fuco:

•1 genitore (una madre, la regina, e nessun padre)


•2 nonni (i due genitori della regina)
•3 bisnonni (la madre del nonno fuco e i due genitori della nonna
regina)
•5 trisavoli (i quattro genitori delle due bisnonne e la madre del
bisnonno)
•8 quadrisavoli (i sei genitori delle tre trisavole e le due madri dei due
trisavoli)

… e così via all’infinito.


Ohibò, ancora la successione di Fibonacci!
Ma conigli e api non sono nulla, se confrontati con gli innumerevoli
altri utilizzi dei numeri di Fibonacci scoperti dai matematici dal XIII
secolo a oggi. Questa sequenza si ritrova, incredibilmente, in moltissime
aree della matematica, dai numeri primi alla funzione zeta di Riemann, dal
calcolo matriciale alla teoria dei grafi, dai numeri complessi alle frazioni
continue, dalla matematica computazionale alla geometria frattale e
moltissimo altro. Inoltre, ha importanti applicazioni in fisica, in
astronomia, in chimica, in biologia, in elettrotecnica e in economia. Le
nuove implicazioni dei numeri di Fibonacci scoperte dai ricercatori sono
talmente numerose che dal 1963 una rivista specializzata, denominata
“Fibonacci Quarterly” [3.1], pubblica ogni tre mesi articoli dedicati
esclusivamente ai numeri di Fibonacci e alle tematiche collegate. Romanzi
di successo come Il codice da Vinci di Dan Brown (dal quale nel 2006 è
stato tratto un fortunato film diretto da Ron Howard e interpretato da Tom
Hanks e Audrey Tautou) hanno contribuito a “sdoganare” i numeri di
Fibonacci, trasformandoli da argomento per una cerchia ristretta di
specialisti in affascinante spunto dal sapore enigmatico, perfetto per
thriller e storie di fantascienza.
Non stupisce, quindi, che Fibonacci (forse più famoso all’estero che
nella natia Italia) compaia, oltre che in “Firth of Fifth” dei Genesis, anche

50
in altre canzoni pop e rock. Per cominciare, alcuni autori [Jacobitz, 1996]
hanno intravisto indizi fibonacciani nella famosa canzone “Child in Time”
dei Deep Purple, pubblicata nel 1970 e da allora in poi cavallo di battaglia
del gruppo in ogni live.
Tra il 1981 e il 1987 è esistita una band americana di art rock chiamata
The Fibonaccis, i cui marchi di fabbrica erano l’uso di strumenti inusitati
come mandolini e mellotron, i testi stravaganti e il ricorso a eccentriche
tecniche vocali.
Passando a qualcosa di più recente, il duo di rapper americani Black
Star ha inserito i primi termini della sequenza nel ritornello della canzone
del 1998 “Astronomy (8th Light)”.
L’anno successivo BT, artista statunitense attivo nei generi elettronica
e trance, ha pubblicato un brano esplicitamente intitolato “Fibonacci
Sequence”, in cui vengono elencati i numeri della successione da 1 a 21.
Il gruppo americano dei Tool, molto apprezzato da pubblico e critica e
attivo dal 1990 sulla scena heavy metal e neoprogressive, ha pubblicato
nel 2001 un album di notevole spessore intitolato Lateralus: un
capolavoro in cui la voce di Maynard James Keenan si fonde
mirabilmente con le sonorità create dal resto della band, dando vita a ritmi
serrati, armonie sorprendenti e atmosfere claustrofobiche.
Si tratta di uno degli album più matematici della storia del rock, vera
miniera d’oro per gli appassionati. Innanzitutto, l’album contiene 13 brani
e questa è già musica celestiale per le orecchie dei fans di Fibonacci.
Inoltre, quattro brani del disco hanno titoli che richiamano concetti
matematici: “Triad”, “Parabola”, “Disposition”, “Reflection”. Ma è nella
traccia che dà il titolo all’intero album che la successione di Fibonacci
viene utilizzata in modo significativo: se contate le sillabe presenti in
ciascuno dei versi della canzone, infatti, ritrovate i numeri della celebre
sequenza, ripetuti in gruppi ordinati in vari modi. Due osservazioni sono
doverose: solo una parte del testo è coinvolta in questo gioco, e anche qui
la successione è nella versione priva dello zero iniziale.
Black (1)
Then (1)
White are (2)
All I see (3)
In my infancy (5)
Red and yellow then came to be (8)

51
Reaching out to me (5)
Lets me see (3)

As below so above and beyond I imagine (13)


Drawn beyond the lines of reason (8)
Push the envelope (5)
Watch it bend (3)

[…]

Black […]

There is (2)
So (1)
Much (1)
More and (2)
Beckons me (3)
To look through to these (5)
Infinite possibilities (8)

As below so above and beyond I imagine (13)


Drawn beyond the lines of reason (8)
Push the envelope (5)
Watch it bend (3)

Non è finita qui. Un po’ come le parti tastieristiche di “Firth of Fifth”,


anche questa composizione oscilla tra metri inusuali: 9/8, 8/8 e 7/7.
Scrivendo insieme i tre numeratori ecco il numero 987, diciassettesimo
termine della successione di Fibonacci. Ma proseguiamo. Se ascoltate la
canzone, vi accorgete che l’introduzione strumentale dura esattamente 1
minuto e 37 secondi, dopo i quali Keenan attacca con il testo
fibonacciano.
Espresso in forma decimale, questo tempo corrisponde a circa 1,617
minuti: un numero molto vicino a una costante celeberrima, la sezione
aurea, che si indica con la lettera greca φ (“phi”) ed è uguale a circa
1,61803399.
La sezione aurea può essere definita in modo molto semplice.
Prendete due bastoncini, il più lungo di lunghezza A e il più corto di
lunghezza B. Immaginate ora che A stia a B come la somma A + B delle
due lunghezze sta ad A. Quindi:

52
Indichiamo con x il rapporto . Allora otteniamo:

Abbiamo ricavato l’equazione x = 1 + 1/x, che con semplici passaggi


algebrici può essere riscritta come x2 − x − 1 = 0. L’unica soluzione
positiva di questa equazione3 è proprio la fatidica sezione aurea:

Il rapporto tra le lunghezze dei due bastoncini, quindi, è uguale a


questo numero speciale. Lo stesso rapporto sussiste tra le lunghezze dei
lati del rettangolo aureo (illustrato nella figura 3.2).

Figura 3.2Il rettangolo aureo.

Se dal rettangolo aureo della figura 3.2 togliamo il quadrato scuro, la parte
chiara rimanente è un rettangolo aureo più piccolo. Ripetendo all’infinito
questo gioco, come indicato nella figura 3.3, si può facilmente costruire
una spirale aurea. Ecco perché nel testo di “Lateralus” Keenan canta più
volte la parola “spiral”: il riferimento è proprio alla spirale aurea, che non
a caso è raffigurata anche sulla copertina del disco.

53
Figura 3.3La spirale aurea.

Sorprendentemente, la sezione aurea e i numeri della successione di


Fibonacci sono parenti stretti. Fu l’astronomo e matematico Johannes
Kepler, in Italia noto come Keplero, a scoprire nel 1611 questa relazione.
Prendete due termini consecutivi qualsiasi nella successione di Fibonacci
e dividete il più grande per il più piccolo: otterrete un risultato vicino al
numero aureo. Più vi spingete avanti nella sequenza di Fibonacci, più i
rapporti si avvicinano a φ: per esempio 8 : 5 = 1,6, mentre 144 : 89 ≈
1,617978 e 610 : 377 ≈ 1,618037.
Insomma: i numeri di Fibonacci nascosti nelle sillabe del testo dei
Tool e la durata aurea dell’intro strumentale sono lati della stessa
medaglia.
Nel corso dei secoli, artisti e filosofi hanno scorto in φ un significato
speciale, legato a un ideale di bellezza e armonia. Innumerevoli sono gli
esempi di opere architettoniche, pittoriche e musicali concepite sulla base
della sezione aurea e in particolare del rettangolo aureo. Già
nell’architettura greca si riconosce l’impiego delle proporzioni legate a φ.
Prima del Rinascimento, esse si riscontrano nella costruzione di numerose
chiese e nelle opere di alcuni pittori, come Giotto e Cimabue. Nel 1509 il
frate francescano Luca Pacioli, noto come matematico nonché come
fondatore della ragioneria, pubblicò un trattato intitolato De divina
proportione, impreziosito da disegni di Leonardo da Vinci (quale
privilegio poter disporre di un simile illustratore!), nel quale, tra l’altro,
erano descritte le meraviglie della sezione aurea. Grazie a Pacioli, il
numero φ diventò una vera celebrità rinascimentale. Lo stesso Leonardo
lo utilizzò in molti suoi dipinti, come la famosissima Monna Lisa, l’Uomo

54
vitruviano, la Vergine delle Rocce, l’Annunciazione e la Testa di vecchio.
In tempi più recenti, la sezione aurea trovò un nuovo spazio grazie
all’architetto svizzero Le Corbusier, che si basò sui suoi principi per la
realizzazione del Modulor, la scala di grandezze relativa alle proporzioni
del corpo umano.
I numeri di Fibonacci e la sezione aurea hanno trovato numerosi
utilizzi anche nella musica classica: per esempio nella struttura delle
sonate per pianoforte di Wolfgang Amadeus Mozart, nel ritmo del terzo
movimento della famosa Musica per archi, percussione e celesta di Béla
Bartók, nell’architettura di alcune composizioni di Claude Debussy come
Images, Reflets dans l’eau, La mer e La Cathédrale engloutie e nelle
opere di molti altri musicisti del Novecento.
Solo quattro anni dopo il lavoro dei Tool, un’altra famosa band
americana di progressive metal, i Dream Theater, ha presentato
Octavarium, album di sapore matematico in cui Fibonacci la fa da
padrone. Prima di tutto: si tratta dell’ottavo album del gruppo e otto sono
le tracce in esso contenute (curiosamente, il loro settimo album
comprendeva sette brani e il sesto ne comprendeva sei…). Le otto
composizioni del disco sono state scritte in tonalità che spaziano su
un’intera ottava musicale, dal Fa minore di “The Root of All Evil” al Fa
minore della title track “Octavarium”, passando attraverso le note
intermedie negli altri brani. Coerentemente, sul retro del disco è
raffigurata un’ottava di pianoforte: sopra i suoi otto tasti bianchi sono
riportati i titoli delle tracce e sopra i cinque tasti neri sono immortalati i
cinque componenti del gruppo. Il brano “Octavarium”, ottavo e ultimo
dell’album, è suddiviso in cinque sezioni. All’interno del booklet del
disco, una foto raffigura tre corvi. Ormai, cari lettori, sapete tutto sulla
successione di Fibonacci e non serve certo sottolineare il fatto che i
numeri che ho citato appartengono tutti alla nota sequenza.
In “Mathematics”, brano del 2009 della cantautrice inglese di
elettropop Little Boots, si cita il grande pisano assieme a Pitagora e ad
altri concetti matematici come operazioni aritmetiche, frazioni, equazioni.
La band australiana di elettropunk Angelspit ha citato i numeri di
Fibonacci 1, 2, 3, 5 e 8 nella canzone “Vermin” del 2011. In “Slaves Only
Dream to Be King” del 2015, il controverso artista Marilyn Manson
menziona il nome di Fibonacci in modo criptico:

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Take my money like an ugly bee
Covered in my honey, too dumb to see
My Fibonacci blinded by your jealousy.

In conclusione, può sorgere nel lettore una legittima domanda: tutti questi
artisti rock che hanno inserito nei loro brani Fibonacci e la sezione aurea,
lo hanno fatto intenzionalmente oppure si è trattato di pure coincidenze?
La risposta è la prima in tutti i casi tranne gli assoli di “Firth of Fifth” dei
Genesis, dove si potrebbe discutere a lungo sull’una o sull’altra opzione:
ma a me piace pensare che non sia stato un caso. È verosimile che,
durante la stesura del pezzo, Tony Banks sia stato spinto dal suo istinto e
dalla sua sensibilità di artista verso un territorio in cui regnano la bellezza
e l’armonia: un luogo abitato da meravigliose strutture matematiche,
proprio come i numeri di Fibonacci e la sezione aurea.

1.Sorvoliamo sul fatto che "quarto" in inglese si scrive fourth e non forth.
2.Qualche decennio fa la successione veniva solitamente definita a partire dai termini
iniziali 1 e 1, anziché 0 e 1. Si tratta di una differenza poco rilevante: la successione che
ne deriva è identica.
3.Se non vi ricordate cosa sia un’equazione e cosa significhi risolverla, troverete le
spiegazioni relative nel prossimo capitolo.

56
4

X&Y

X e Y sono diciture matematiche usate


quando non si conosce la risposta.
Chris Martin, frontman dei Coldplay

Nel 1977 nacque a Los Angeles una delle più apprezzate formazioni del
punk rock californiano. Come nome della band fu scelta una semplice
lettera: “X”. La vocalist Exene Cervenka, intervistata anni dopo sulle
ragioni di questa decisione [4.1], rispose che quel nome piacque subito a
tutti i componenti perché divertente, diverso da tutti gli altri e
anticonformista al punto giusto, un po’ come il loro modo di pensare.
Cinque anni dopo fu fondato in Giappone un gruppo di musica heavy
metal: anch’esso fu battezzato “X”. La formazione divenne ben presto uno
dei principali esponenti del visual kei, movimento artistico giapponese
nato alla fine degli anni Ottanta e caratterizzato dall’istrionismo delle
performance e dall’attenzione maniacale per gli aspetti visivi e
scenografici. Nel 1992 il gruppo, per distinguersi dall’omonima band
americana, cambiò il proprio nome in “X Japan”: la compagine era ormai
considerata la più importante rock band del Sol Levante. Il 2 marzo 2017,
durante il programma televisivo SONGS, il fondatore e polistrumentista
Yoshiki spiegò che il nome del complesso doveva essere interpretato
come “infinite possibilità”, coerentemente con il significato matematico
della x: questa lettera viene infatti utilizzata per indicare un’incognita,
ovvero una grandezza sconosciuta che potrebbe assumere un valore
qualsiasi. Tale interpretazione piaceva ai musicisti, perché in linea con il
programma artistico del gruppo, basato su una totale libertà d’espressione.
Nel 2005, quando la popolare band britannica dei Coldplay pubblicò il

57
suo terzo album, intitolato X&Y, i fans cominciarono a chiedersi quale
fosse il significato recondito dei misteriosi rettangoli colorati che
riempivano la copertina.1 Ma anche il titolo del disco, quanto a mistero,
non scherzava. Durante un’intervista concessa alla testata
insideonline.com poco dopo l’uscita dell’album, il leader Chris Martin ne
rivelò il significato:
X e Y sono diciture matematiche usate quando non conosci la risposta. Ma sono
anche il bianco e il nero, la speranza e la disperazione, l’ottimismo e il
pessimismo. Ovunque tu guardi c’è una tensione di opposti. [4.2]

Potrei proseguire citando molti altri nomi di rock band o titoli di dischi al
cui interno figurano lettere come X e Y. Le scelte di questi nomi hanno
motivazioni apparentemente molto diverse. Ma per tutte, o quasi, esiste, a
mio parere, un’unica spiegazione psicologica, che affonda le sue radici nel
pensiero di un grande intellettuale vissuto in Francia quattro secoli fa:
René Descartes, noto dalle nostre parti come Cartesio. Sì, proprio lui:
quello del cogito ergo sum.
Nato nel 1596 nell’antica provincia della Turenna, René era figlio di
Joachim, un agiato avvocato e politico. A partire dal 1607 frequentò il
rinomato collegio gesuita di La Flèche e nel 1615 entrò all’Università di
Poitiers per studiare giurisprudenza. Nel 1618 decise di arruolarsi come
volontario nell’esercito: in questo periodo, tuttavia, scoprì che la vita
militare non lo attraeva proprio per niente, e al contrario risolvere
problemi di matematica e fisica era per lui un grande divertimento. Una
volta accantonata l’idea di perseguire una carriera come ufficiale, si
mantenne per tutta la vita esclusivamente con i proventi dei suoi
possedimenti terrieri.
Sempre nel 1618 scrisse un saggio intitolato Compendium musicae, il
cui obiettivo era indagare dal punto di vista matematico i motivi per i
quali la musica ci procura emozioni: oggetti della sua ricerca erano quindi
i rapporti numerici alla base degli intervalli musicali, le consonanze e le
dissonanze, le scale musicali.
Negli anni successivi Cartesio viaggiò in ogni parte d’Europa ed entrò
in contatto con illustri scienziati e filosofi dell’epoca. Nel 1629 si stabilì
in Olanda, dove rimase per vent’anni. Nel contempo, spinto anche
dall’amico scienziato Isaac Beeckman, approfondì i suoi studi in ambito
matematico e giunse a concepire le basi di una nuova disciplina che

58
stabiliva un sorprendente collegamento tra la geometria e l’algebra.
Cominciò a dedicarsi anche alla ricerca filosofica, affrontando il tema del
metodo della conoscenza, che troverà la sua prima, sistematica
formulazione nel celebre Discorso sul metodo, pubblicato nel 1637.
Quest’opera, la più celebre di Cartesio, fu pubblicata come prefazione a
tre saggi di argomento scientifico: La diottrica, Le meteore e La
geometria [4.3]. Il Discorso, infatti, era inteso come illustrazione di un
“metodo per un retto uso della propria ragione e per la ricerca della verità
nelle scienze”, e i tre saggi sono esempi applicativi di tale metodo. Il libro
di Cartesio non riscosse il successo sperato e le tesi che conteneva furono
contestate dalla maggior parte degli intellettuali dell’epoca: nel 1642
l’Università di Utrecht arrivò a proibire l’insegnamento della filosofia
cartesiana. Fu questa una fase infelice della vita di Cartesio: nel giro di
pochi mesi morirono la figlia Francine di soli cinque anni, il padre
Joachim e la sorella maggiore Jeanne. Nel 1649 accettò l’invito della
regina Cristina di Svezia a trasferirsi a Stoccolma per insegnarle i
contenuti del suo pensiero. La decisione si rivelò fatale. La mattina
Cartesio aveva l’abitudine di restare a letto fino a tardi, ma la sovrana lo
obbligò a presentarsi nella sua biblioteca ogni giorno alle 5, l’ora più
fredda della giornata: ciò contribuì a logorare il fisico del pensatore, che
morì di polmonite l’11 febbraio 1650.
Che cosa c’entrano con Cartesio, dunque, le rock band e i dischi con la
X o con la Y nel nome? Ebbene, nel saggio La geometria (e
sporadicamente in precedenza) lo scienziato francese propose di utilizzare
le prime tre lettere dell’alfabeto (a, b, c) per indicare quantità note e le
ultime tre (x, y, z) per denotare valori sconosciuti. Questa pratica, grazie
alla successiva diffusione delle opere di Cartesio, si consolidò e divenne
uno standard impiegato ancora oggi. Non è escluso che lo studioso avesse
preso a prestito l’idea da qualcun altro.
In un monologo TED del 2012, Terry Moore, direttore di The Radius
Foundation, organizzazione americana attiva nel settore della
comunicazione, ha fornito una curiosa spiegazione del fatto che oggi
usiamo abitualmente la lettera x per indicare un numero ignoto. Secondo
Moore, tutto è nato da un problema di traslitterazione dalla lingua araba a
quella spagnola [4.4] [4.5]. I matematici arabi indicavano l’incognita con
il termine al-shalan, che significa “la cosa ignota” (la parola shalan, senza
l’articolo determinativo “al”, significa “qualcosa”, ovvero qualcosa di

59
indefinito o di sconosciuto). Quando gli studiosi spagnoli, nel Medioevo,
dovettero tradurre nella propria lingua i trattati arabi di qualche secolo
addietro, si imbatterono in una difficoltà: in spagnolo non esiste il suono
“sh” e quindi lo resero con il suono “ck”, che in greco antico è scritto con
la lettera “X” (“chi”). Quando, successivamente, questo materiale fu
tradotto nella lingua comune europea, ovvero in latino, la “chi” greca fu
sostituita dalla “X” latina.
L’ipotesi di Moore non è documentata e molti studiosi non la
ritengono plausibile. Secondo un’altra versione, fu addirittura lo
stampatore di Cartesio a suggerirgli di utilizzare la lettera x per
rappresentare l’incognita matematica: essendo la lettera meno usata in
francese, per lo stampatore era più comodo utilizzare i caratteri mobili
della x che quelli di un’altra lettera. Al di là delle teorie più o meno
fantasiose, resta il fatto che Cartesio scelse le lettere x, y, z come simboli
d’elezione per le incognite.
Ma che cosa s’intende esattamente quando si parla di incognita in
matematica? Quasi sempre questo termine è legato al concetto di
equazione. Nell’immaginario comune, il termine “equazione” è spesso
associato a qualcosa di intricato, imperscrutabile e per questo attraente.
Non dobbiamo quindi stupirci se alcuni artisti hanno usato la parola
“equazione” nei testi delle loro canzoni, come “Myriad” del gruppo
americano dei Kansas, o “Common Denominator” del cantautore
canadese Justin Bieber, amatissimo dalle adolescenti di tutto il mondo.
In realtà, l’idea di equazione è di per sé piuttosto semplice. Vi
ricordate quelle vecchie bilance a due piatti che venivano usate dagli
orafi? Ecco, un’equazione assomiglia molto a uno strumento di questo
genere: sui due piatti vengono messe due espressioni contenenti
un’incognita (per esempio la x) e si deve trovare il valore che, attribuito
all’incognita, rende uguali le due espressioni: quel valore, cioè, che
mantiene la bilancia in equilibrio.
Ecco un esempio:

Sul primo piatto c’è l’espressione 3x − 2 (il primo membro


dell’equazione), sul secondo l’espressione 1 + 2x (il secondo membro). La
lettera x non è altro che un numero camuffato da lettera, proprio come in

60
Star Wars il malvagio Dart Fener nasconde le proprie sembianze di
Anakin Skywalker dietro la sua inquietante maschera nera.
Risolvere un’equazione è come smascherare Dart Fener. Significa
infatti determinare un numero che, sostituito al posto della lettera x, rende
i membri dell’equazione uguali tra loro. Un tale numero, se esiste, è una
soluzione dell’equazione. Avete trovato la soluzione del nostro esempio?
Esatto, è 3. Infatti, scrivendo 3 al posto di x il primo membro diventa 3 ∙ 3
− 2 = 7 e il secondo 1 + 2 ∙ 3 = 7: bilancia perfettamente in equilibrio!
Questa soluzione è l’unica dell’equazione 3x − 2 = 1 + 2x; esistono però
anche equazioni impossibili, cioè prive di soluzioni, ed equazioni
indeterminate, cioè che hanno un numero addirittura infinito di soluzioni.
Naturalmente, per risolvere un’equazione non si procede per tentativi:
tutti noi a scuola abbiamo studiato alcune tecniche algebriche che ci
permettono di arrivare alla soluzione in modo diretto. Per esempio,
l’equazione precedente si risolve eseguendo i seguenti passaggi:

3x − 2x = 1 (ciascuno dei termini 2x e − 2 è stato spostato, cambiato di segno, nell’altro


+2 membro), da cui:
x=3 (in ogni membro sono stati sommati tra di loro i termini presenti).

Questo è un esempio particolarmente semplice di equazione, perché


l’incognita x compare al primo grado e non si trova all’interno di frazioni.
Naturalmente esistono equazioni più complicate, per esempio quelle in cui
l’incognita x è elevata ad esponenti maggiori di 1 (cioè appare come x2, x3
ecc.) oppure si trova nel denominatore di almeno una frazione. O ancora,
quelle in cui la x si trova affiancata a oggetti matematici esotici, come
radici, funzioni goniometriche, esponenziali o logaritmiche e altro ancora.
In casi come questi, la risoluzione di un’equazione può talvolta diventare
un’impresa particolarmente impegnativa.
Un altro tipo di equazione può essere costruito usando due incognite
anziché una soltanto. Per esempio, l’equazione 3x − y = 1 contiene
l’incognita x ma anche la y. Quali sono le soluzioni di questa equazione?
Innanzitutto, ogni soluzione sarà composta non da un solo numero, da
assegnare alla x, ma da una coppia di numeri: uno associato alla x e un
altro associato alla y. Nell’equazione dell’esempio, potremmo attribuire il
valore 1 alla x e il valore 2 alla y: possiamo dire allora che la coppia (1, 2)
è una soluzione dell’equazione. Si tratta dell’unica soluzione

61
dell’equazione? No, perché, come il lettore può verificare, anche (2, 5) è
una soluzione. Ma ve ne sono infinite altre, per esempio (3, 8), (10, 29) e
(−5, −16).
Se le lettere x e y, da Cartesio in poi, sono associate alla nozione di
incognita algebrica, inevitabilmente ciò le ha ammantate di un’aura di
mistero, giunto intatto fino a noi. In altri termini, nel moderno
immaginario collettivo, queste lettere (soprattutto la prima, cioè la x),
sono ormai indissolubilmente legate all’affascinante mondo dell’ignoto.
Quando qualcuno sceglie una di queste lettere per dare il nome a un
prodotto, a un disco o a una rock band, di certo è guidato, più o meno
inconsciamente, da questo nesso simbolico, quasi un archetipo. Ecco cosa
unisce Cartesio ai californiani X, agli X Japan, a X&Y dei Coldplay e più
in generale al rock.
Sulle spalle del buon Cartesio, tuttavia, grava un’ulteriore
responsabilità. La leggenda racconta che una mattina il filosofo, abituato
come abbiamo visto ad alzarsi molto tardi, si accorse, guardando in alto,
che una mosca si spostava continuamente da un punto all’altro del soffitto
della camera da letto. Ognuno di noi si sarebbe voltato dall’altra parte e
avrebbe ripreso a dormire: ma lui era Cartesio e allora cominciò a
fantasticare su quale formalismo matematico sarebbe stato il più adatto a
descrivere la posizione della mosca sul soffitto in un dato istante. Se
rappresentiamo il soffitto come un rettangolo, ragionò Cartesio, possiamo
prendere il suo angolo in basso a sinistra come punto di riferimento e
indicare la posizione della mosca misurando le due distanze che devono
essere percorse, rispettivamente in orizzontale e in verticale, per andare
dal punto di riferimento fino alla mosca. Queste due distanze sono
chiamate coordinate del punto occupato dalla mosca: in particolare la
coordinata orizzontale è detta ascissa del punto e quella verticale
ordinata. Ogni punto del soffitto, quindi, viene identificato univocamente
mediante una coppia di coordinate numeriche: l’idea è molto simile al
principio della battaglia navale, con la differenza che in questo gioco ogni
casella della griglia viene indicata tramite una lettera e un numero,
anziché tramite due numeri.
Così descritta, l’intuizione cartesiana costituiva già una trovata
rivoluzionaria, di quelle che creano un nuovo paradigma di pensiero, un
nuovo potentissimo strumento a disposizione della matematica e di tutte le
scienze. Ma l’idea poteva essere estesa e resa ancora più utile,

62
immaginando, per esempio, di allungare i due assi (ovvero i due lati del
soffitto lungo i quali vengono misurate le coordinate) facendoli diventare
infinitamente lunghi in entrambe le direzioni e utilizzando i numeri
negativi per contraddistinguere la parte sinistra dell’asse orizzontale e la
parte inferiore dell’asse verticale. Così facendo, ogni punto del piano poté
essere associato a una coppia di coordinate.

Figura 4.1Il piano cartesiano e tre punti indicati con le rispettive coordinate.

Nel saggio La geometria Cartesio descrisse la sua invenzione e mostrò


come potesse essere usata per legare tra loro l’algebra e la geometria.
Ricordate le equazioni contenenti due incognite come 3x− y = 1? Ecco,
abbiamo visto che un’equazione di questo tipo ha come soluzione un
insieme di coppie di numeri. Ma ogni coppia di numeri, come si è detto,
corrisponde a un punto sul piano cartesiano. Allora un insieme di coppie
descrive un insieme di punti, cioè un oggetto geometrico come una retta,
una circonferenza, una parabola, un’ellisse ecc. Ecco il sorprendente ponte
tra algebra e geometria inventato da Cartesio: ciascuno di questi oggetti
geometrici poteva essere descritto algebricamente attraverso un’equazione
contenente due incognite. Per esempio, l’equazione 3x − y = 1 descrive la
retta raffigurata nella figura 4.2.
Tutti i punti le cui coordinate (x, y) soddisfano l’equazione
appartengono alla retta e tutti i punti della retta hanno coordinate che

63
soddisfano l’equazione. Il bello di questo marchingegno è che consente di
risolvere difficili problemi geometrici usando tecniche algebriche, oppure
di affrontare in scioltezza molte questioni di algebra ricorrendo a
interpretazioni geometriche.
Un altro importante utilizzo del piano cartesiano si riscontra nella
rappresentazione grafica di funzioni, cioè di grandezze che dipendono da
altre grandezze. Immaginate di essere un autore di musica rock e di
firmare con una casa discografica un contratto per pubblicare un nuovo
album: l’accordo sulle royalties prevede che alla fine del primo anno
percepirete una somma fissa di 5000 euro, più 1,50 euro per ogni CD
venduto. In termini matematici, se x è il numero di copie vendute e y è la
somma che dovete incassare, la funzione che lega le due grandezze è y =
5000 + 1,5x.
Volete raffigurare graficamente quanti denari sonanti entreranno nel
vostro conto corrente al variare delle copie vendute del vostro capolavoro?
Per farlo, dovreste calcolare il valore di y per alcuni prefissati valori di x,
ricavando così diverse coppie di coordinate (x, y), ciascuna
rappresentabile come un punto sul piano cartesiano. Per esempio, se il
vostro disco venderà solo x = 500 copie, i diritti d’autore ammonteranno a
y = 5000 + 1,5 ∙ 500 = 5750 euro: sul piano cartesiano, dovete allora
segnare il punto di coordinate (500; 5750). Se invece il CD dovesse
sfondare e raggiungere l’invidiabile risultato di x = 100.000 copie
vendute, i diritti ammonteranno a y = 5000 + 1,5 ∙ 100.000 = 155.000
euro: sul piano cartesiano, dovete allora segnare il punto di coordinate
(100.000; 155.000).

64
Figura 4.2La retta dell’equazione 3x-y=1 nel piano cartesiano.

Analogamente, potete ricavare altri punti associati alla funzione: unendoli


tutti tra di loro, è possibile tracciare il grafico della funzione sul piano
cartesiano (figura 4.3). In questo caso si tratta di una retta, ma in generale
una funzione può assumere le forme più stravaganti.

65
Figura 4.3La retta dell’equazione y = 5000 + 1,5x nel piano cartesiano.

Avete visto quanto potente e versatile è la trovata del piano cartesiano?


Tutti i matematici saranno eternamente riconoscenti a quel dormiglione di
Cartesio per aver semplificato la loro vita.
Per essere onesti, il genio della Turenna non fu del tutto un pioniere.
Un altro brillante pensatore francese, Nicole d’Oresme, ebbe già nel
Trecento un’idea simile a quella di Cartesio: pensò infatti di rappresentare
un punto del piano impiegando una coppia di coordinate rettangolari, da
lui denominate latitudo e longitudo. Fu però l’autore della Geometria, tre
secoli dopo, ad approfondire e a mostrare i grandi benefici di questa
metodologia. Oggi i matematici chiamano geometria analitica la branca
della matematica basata sull’invenzione cartesiana.
Ecco allora il secondo grande lascito dello scienziato francese
nell’odierna cultura di massa. Le lettere X e Y sono da noi percepite come
entità contrapposte, così come gli assi x e y del piano cartesiano sono
disposti l’uno perpendicolarmente all’altro. Di più, nel caso delle funzioni,
le due lettere rappresentano grandezze dal significato in un certo senso
antitetico: la x è la variabile indipendente (nell’esempio di cui sopra, il
numero di CD venduti) e la y è la variabile dipendente (i diritti d’autore da
incassare, che dipendono appunto dalla quantità di copie vendute). E

66
ancora, le due lettere sono viste soprattutto come una complementare
all’altra, esattamente come accade sul piano cartesiano, dove per
rappresentare un punto non basta conoscere una solo coordinata, ma sono
necessarie entrambe.
Ecco che cosa intendeva probabilmente racchiudere Chris Martin nel
titolo del terzo album dei Coldplay (e con lui molti altri autori in numerosi
titoli musicali contenenti le due fatidiche lettere): la dialettica delle entità
tra di loro contrapposte e complementari. Proprio come “il bianco e il
nero, la speranza e la disperazione, l’ottimismo e il pessimismo… una
tensione di opposti.”

1.Il lettore troverà nel capitolo 6 tutte le risposte del caso (ovviamente basate sulla
matematica).

67
5

2+2=5

Are you such a dreamer,


To put the world to rights?
I’ll stay home forever,
Where two and two always makes a five.
(da “2+2=5” dei Radiohead,
in Hail to the Thief, 2003)

Il rock è morto, lunga vita al rock. La tiritera è sempre la stessa: è un


genere superato, non incarna i sogni dei giovani d’oggi, non riesce a
raccontare il nostro tempo, ha abdicato alla sua funzione originaria, i
dischi rock non li compra più nessuno, è musica per nostalgici coi capelli
bianchi e via andando. In un comunicato stampa del 2004 [5.1], Bob
Dylan ha affermato:
So che ci sono gruppi in testa alle classifiche che vengono salutati come i salvatori
del rock’n’roll, ma sono dei dilettanti. Non sanno nemmeno da dove arrivi la
musica e se io nascessi ora non mi sognerei di mettermi a suonare. Probabilmente
mi dedicherei alla matematica: quella sì che mi interessa.

Come a dire: la matematica sì che ha un futuro, ma il rock no. (Per inciso,


Dylan ha sempre avuto con la matematica un rapporto molto particolare.
In alcuni suoi testi, per esempio “Tombstone Blues” del 1965, “Visions of
Johanna” del 1966, “Tangled Up in Blue” del 1975, ha citato matematici e
nozioni matematiche. Il testo della sua celebre “Blowing in the Wind” si
compone di nove domande che iniziano con “Quanti…?” Anche se le
risposte, si sa, soffiano nel vento. Nel primo volume della sua progettata
trilogia autobiografica Chronicles [Dylan, 2004], l’artista ha dichiarato

68
che le sue “sono tutte canzoni matematiche” e ha accennato a più riprese a
un misterioso stile musicale insegnatogli dal musicista jazz Lonnie
Johnson, strettamente legato alla matematica e fondato sui numeri
dispari.)
L’affermazione di Dylan, contestualizzata all’anno in cui è stata
pronunciata, può avere una ragion d’essere. La cosa strana è che il rock
viene dato per spacciato ormai da sessant’anni. C’è chi lo ha visto morire
già nel 1959, sopra quell’aereo che precipitò con a bordo Buddy Holly,
oppure il 10 aprile 1970, quando Paul McCartney annunciò al mondo che
i Beatles non esistevano più, o il 18 settembre dello stesso anno, quando
se ne andò Jimi Hendrix. C’è chi ha profetizzato la fine di tutto negli anni
Settanta con l’arrivo della disco music e del punk, chi ha accusato di alto
tradimento le pop star degli anni Ottanta come Michael Jackson e
Madonna e così via.
Nel 1988 il socio-musicologo inglese Simon Frith pubblicò il saggio
Music for Pleasure [Frith, 1988], che analizzava le cause di quello che
l’autore riteneva essere un declino irreversibile. Eppure, pochi anni dopo
esplodeva, con il suo furore ipnotico, l’incoraggiante fenomeno
dell’alternative rock, grazie a gruppi americani come i Nirvana, i
Soundgarden, i Pearl Jam, i R.E.M., i Red Hot Chili Peppers, gli
Smashing Pumpkins. Il rock era ancora tra noi, per fortuna. E mentre, con
la scomparsa di Kurt Cobain nel 1994, qualche altro frettoloso medico
legale fu tentato di certificare un nuovo decesso del paziente, una band
inglese si affacciava sulla scena musicale dimostrando al mondo che i
titoli di coda non erano ancora arrivati: al contrario, era forse l’alba di un
nuovo inizio.
Mi riferisco ai Radiohead, un gruppo nato già nel 1985 per iniziativa
di cinque adolescenti di Oxford: il cantante Thom Yorke, il bassista Colin
Greenwood, il batterista Philip Selway, il chitarrista Ed O’Brien e il
polistrumentista Jonny Greenwood, fratello di Colin. Il primo nome della
band fu On a Friday, perché il venerdì era il giorno che i ragazzi
dedicavano alle prove. Il gruppo rimase pressoché sconosciuto fino alla
fine del 1991, quando la EMI, intuendone il potenziale, lo mise sotto
contratto. L’anno dopo Yorke e compagni decisero di chiamarsi
Radiohead, ispirandosi al titolo di una canzone dei Talking Heads, e
incisero il singolo “Creep”: la “perfetta” canzone rock, con un’atmosfera
splendidamente tormentata, un testo che celebra la figura anti-epica dello

69
sfigato, un’affascinante progressione melodica e un ritornello deflagrante
e acuminato. Sulle prime il disco fu snobbato: il primo canale radiofonico
della BBC non volle trasmetterlo perché troppo deprimente. Poi, nel corso
del 1993, conquistò il mondo. “Creep” divenne la signature song del
gruppo e il punto di svolta del loro percorso professionale. Dopo l’album
di esordio, Pablo Honey, i Radiohead pubblicarono nel 1995 il
convincente The Bends e, due anni dopo, OK Computer, ritenuto da molti
il loro prodotto artistico più elevato. Alla svolta del millennio, i
Radiohead erano ormai considerati la rock band più importante del
pianeta. Nella loro musica si mescolavano sapientemente elettronica e
rock chitarristico, melodie romantiche e allucinazioni psichedeliche, il
suono era frantumato da distorsioni e feedback, le costruzioni armoniche
esploravano soluzioni dissonanti: il tutto per trasportare una poetica di
dolce disperazione e per raccontare l’alienazione della contemporaneità.
Con Kid A del 2000 e Amnesiac del 2001, i Radiohead spostarono
decisamente il baricentro verso le sonorità elettroniche, facendo
scomparire quasi del tutto gli energici riff di chitarra. Nel lavoro
successivo, l’album Hail to the Thief del 2003, la band optò per una via di
mezzo tra il rock dei primi album e le sperimentazioni successive.
L’altalena tra i due poli opposti continuò negli album più recenti, pur
restando immutata la visione di fondo, depressa e claustrofobica.
Nei brani del gruppo di Oxford abbondano i riferimenti letterari e
culturali in genere: il Libro tibetano dei morti, la Guida galattica per
autostoppisti di Douglas Adams, i saggi politici del linguista Noam
Chomsky, solo per fare alcuni esempi. In Hail to the Thief sono numerosi
i rimandi colti, ma a dominare è soprattutto la riflessione politica. Lo si
nota fin dal titolo: un pungente gioco di parole con “Hail to the Chief”
(“Saluto al Capo”), la marcia che accompagna il presidente degli Stati
Uniti nelle sue apparizioni pubbliche. Thief, infatti, significa “ladro” e
l’allusione è dunque ai presunti brogli avvenuti durante le elezioni
presidenziali del 2000, vinte da George W. Bush. L’album fu registrato
nei mesi che precedettero l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione
guidata dagli Stati Uniti e Yorke fu un fiero oppositore di quella
controversa azione bellica.
Probabilmente la traccia più letteraria (e insieme più politica)
dell’intero album è la prima, significativamente intitolata “2+2=5”.
Questa strampalata uguaglianza aritmetica è la metafora dell’imposizione

70
di una verità ufficiale palesemente falsa, eppure indiscutibile, da parte di
un regime autoritario. Con questo significato è comparsa molto spesso in
ambito letterario e il suo utilizzo più celebre si trova in un romanzo molto
caro a Yorke: 1984 di George Orwell. Nella vicenda narrata nel libro, la
dittatura del Grande Fratello, con l’aiuto della psicopolizia, obbliga i
cittadini ad abbandonare la propria coscienza e a servirsi del bispensiero
per accettare passivamente i precetti del regime. Il protagonista del
romanzo, Winston Smith, si domanda se sia sufficiente che tutti i cittadini
credano al dogma “2+2=5” perché lo stesso diventi vero. Nelle prime
edizioni del romanzo, per un’ironica disattenzione, il carattere “5” non
venne stampato nel capitolo finale, dove lo slogan viene ripetuto per
l’ultima volta e Smith sembra ormai tristemente convertito al pensiero
governativo: il refuso insinuò nei lettori l’idea consolatoria che il
protagonista non avesse davvero ceduto alla pressione psicologica del
regime.
Nella prima strofa della canzone, Yorke ci presenta un perfetto mondo
orwelliano, in cui la verità è stata capovolta e la menzogna è invece
accettata dalla maggioranza, la quale non è più disposta a lottare per
ristabilire la giustizia. “2+2=5” non è la prima canzone dei Radiohead a
ispirarsi a 1984: già “Karma Police”, inclusa in OK Computer, era un
chiaro riferimento alla psicopolizia che semina il panico nel romanzo di
Orwell (nel suo testo, tra l’altro, si auspica l’arresto di un uomo che parla
in termini matematici, ronza come un frigo, sembra una radio male
sintonizzata).
La formula proverbiale “2+2=5” non è stata inventata da Orwell. Era
già comparsa, come archetipo della falsità, in testi del XVI secolo. Due
secoli dopo la utilizzarono eruditi come Ephraim Chambers e Samuel
Johnson. Nell’Ottocento il motto fu particolarmente ricorrente tra i
letterati. Alcuni di loro, come il poeta inglese Lord Byron, furono attratti
dallo spirito anticonformista insito nella formula. Nel 1864, in Memorie
dal sottosuolo, lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij propose l’idea che in
virtù del libero arbitrio l’uomo potesse legittimamente rifiutare i dogmi
del pensiero razionale. La formula si diffuse ampiamente negli ambienti
culturali russi, fino a trasformarsi, nel Novecento, in uno degli slogan
dello stalinismo. Altri autori, invece, associarono l’uguaglianza “2+2=5”
ai soprusi dei regimi non democratici. Nel 1852 lo scrittore francese
Victor Hugo, commentando il successo elettorale dell’illiberale

71
Napoleone III, scrisse:
Adesso, si prendano sette milioni e cinquecentomila voti per dichiarare che due
più due fa cinque, che la linea retta è la strada più lunga, che l’intero è più piccolo
delle sue parti; lo si faccia dichiarare da otto milioni, da dieci milioni, da cento
milioni di voti, ma non si sarà andati avanti di un passo.

È curioso questo filo rosso che, nel nome dell’accostamento tra l’inganno
elettorale e la narrazione mistificatoria del potere costituito, congiunge
Victor Hugo con il Thom Yorke di Hail to the Thief, passando attraverso
Orwell. Restando nell’ambito della musica pop, nel 1971 il cantautore
brasiliano Caetano Veloso si ispirò a questa suggestione per condannare la
dittatura militare che resse le sorti del suo Paese dal 1964 al 1985: la sua
canzone “Como 2+2” fu portata al successo da Roberto Carlos e un suo
verso si traduce più o meno come “tutto a posto come 2+2=5”.
Che 2+2=5 sia una falsità matematica è cosa evidente. E a tutti pare
ovvio che sia impossibile dimostrare una simile affermazione se si parte
da ipotesi vere e si utilizzano ragionamenti corretti. Insomma, se l’edificio
della matematica è basato su solide fondamenta, non deve aprirsi alcuna
crepa. Tradotto: non devono esserci contraddizioni interne.
Sul finire dell’Ottocento questa convinzione si fece molto forte e i
matematici sentirono la necessità di rifondare in maniera rigorosa alcune
parti della loro disciplina. Innanzitutto, si accorsero che serviva un
insieme di regole di inferenza, ovvero una specie di “decalogo del
ragionare bene”: le leggi da rispettare per dedurre rigorosamente
un’affermazione o una proposizione matematica da altre affermazioni già
dimostrate. Una proposizione dedotta osservando le regole di inferenza
prende il nome di teorema, mentre il modo in cui le regole di inferenza
sono state usate per ricavare la proposizione stessa costituisce la
dimostrazione del teorema.
Per esempio, chi non ha mai sentito parlare del teorema di Pitagora?
Ci sono un sacco di dimostrazioni di questo teorema: una fu addirittura
trovata nel 1876 dal futuro presidente degli Stati Uniti, James A. Garfield,
mentre una delle più note prende le mosse dal primo teorema di Euclide e,
attraverso una catena di passaggi logici, giunge all’asserzione desiderata.
Naturalmente i passaggi logici necessari a derivare il teorema di Pitagora
da quello di Euclide rispettano i dettami delle regole di inferenza (se così
non fosse la dimostrazione non sarebbe corretta).

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Molte proposizioni matematiche sono ritenute vere dalla maggior
parte degli esperti, eppure nessuno è ancora riuscito a trovare i passaggi
logici corretti per dimostrarle: per questo non possono fregiarsi del titolo
di teoremi, ma vengono chiamate ipotesi o congetture. Ce ne sono di
famose: la congettura dei numeri primi gemelli, quella di Goldbach, quella
di Collatz, l’ipotesi di Riemann, tanto per citarne alcune. Se un bel giorno
qualcuno riuscirà a mettere in fila una corretta serie di regole di inferenza
e dimostrare, a partire da verità già provate, per esempio l’ipotesi di
Riemann, oltre a intascarsi il milione di dollari messo in palio dal Clay
Mathematics Institute e diventare una superstar matematica a livello
planetario, potrà vantarsi di aver elevato quella congettura al rango di
teorema: da quel momento in avanti, infatti, nessuno potrà più mettere in
dubbio quell’affermazione.
Guardate che questo è successo davvero, in più di una occasione:
alcune affermazioni, infatti, hanno abitato, per decenni o in certi casi
addirittura per secoli, il limbo delle ipotesi indimostrate, prima di
diventare teoremi. Due esempi famosi sono il teorema dei quattro colori e
l’ultimo teorema di Fermat. Il primo, formulato nel 1852, è rimasto una
congettura fino al 1977, quando i matematici americani Kenneth Appel e
Wolfgang Haken, con l’ausilio di un programma informatico, riuscirono a
dimostrare che si trattava di un’affermazione vera. Il secondo fu promosso
a teorema nel 1994 dal matematico inglese Andrew Wiles, dopo essere
rimasto indimostrato addirittura per 357 anni.
Il teorema di Pitagora in geometria, il teorema dell’infinità dei numeri
primi nella teoria dei numeri, il teorema fondamentale dell’algebra, il
teorema fondamentale del calcolo sono solo alcuni degli innumerevoli
esempi di proposizioni già inconfutabilmente dimostrate. Sono verità
eterne, scolpite per sempre nel marmo purissimo della matematica.
Mentre le teorie della fisica e delle scienze sperimentali in genere sono per
loro natura ipotesi provvisorie, esposte alle vicissitudini del tempo, i
teoremi matematici non temono alcun genere di logoramento.
Nel 2015 il matematico spagnolo Eduardo Sáenz de Cabezón,
dell’Università di La Rioja, ha divertito il mondo con uno spassosissimo
monologo di dieci minuti intitolato “A che cosa serve la matematica”, che
si è concluso con un utile consiglio agli spettatori:
Se volete dire a qualcuno che lo amerete per sempre, potete regalargli un

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diamante. Ma se volete dirgli che lo amerete per sempre, sempre, sempre,
regalategli un teorema! Un momento, però! Dovrete dimostrarlo, in modo che il
vostro amore non resti… una congettura!

Questa faccenda dei teoremi e delle dimostrazioni, tuttavia, sembra


nascondere in sé un difetto. Per dimostrare un teorema, abbiamo visto,
servono altri teoremi precedentemente dimostrati. Ma anche per
dimostrare questi ultimi abbiamo bisogno di altri teoremi già provati e
così via. Percorrendo a ritroso queste catene deduttive, dovremmo prima o
poi trovare una sorta di giardino dell’Eden della matematica, un luogo
primordiale abitato da teoremi che sono considerati veri ma che al tempo
stesso non hanno bisogno di altri teoremi precedenti per sostenere la
propria veridicità. Se così non fosse, potremmo risalire le catene
all’infinito, dovendo concludere che non abbiano alcun inizio, il che
sarebbe assurdo. Queste affermazioni proclamate vere d’ufficio, gratis,
senza bisogno di alcuna dimostrazione canonica, sono chiamate assiomi.
Furono i matematici di fine Ottocento ad accorgersi che gli assiomi erano
indispensabili per fare da base di partenza dell’intero meccanismo e
permettere la formalizzazione rigorosa della matematica.
Gli assiomi di Peano, discussi nel capitolo 1, nacquero proprio da
questo bisogno: rappresentano un magnifico esempio di base su cui è
possibile costruire l’intera aritmetica, affiancando un opportuno insieme
di regole di inferenza. In quello stesso periodo, analoghi sforzi di
formalizzazione furono compiuti nell’ambito della geometria e della
logica. Dunque, possiamo aspettarci di innalzare quel famoso edificio
della matematica in maniera “assiomatica”, cioè utilizzando gli assiomi e
le regole di inferenza come fondamenta e lasciando che il palazzo “si
costruisca da solo” generando meccanicamente tutte le verità dimostrabili.
Per raffigurarvi un siffatto sistema formale, pensate a un computer. Un
computer qualsiasi, un portatile se volete, o anche un tablet, non importa il
tipo. La cosa importante è che al suo interno “giri” un programma
speciale, di ultimissima generazione, denominato “Dimostratore
automatico”. A questo software vengono inizialmente forniti tutti gli
assiomi del sistema formale e tutte le regole di inferenza, il tutto
codificato secondo un linguaggio convenzionale appropriato. Quando
l’operatore preme, sulla tastiera del laptop o sullo schermo del tablet, il
pulsante “Dimostra tutto”, il programma comincia a snocciolare

74
automaticamente sul display, uno dopo l’altro, tutti i teoremi che possono
essere dimostrati.
Attenzione, però, cari lettori: questo programma non esiste nella
realtà, e non esisterà per un bel po’ di tempo. Per definizione, il
“Dimostratore automatico” è in grado di ricavare in modo meccanico tutto
ciò che è logicamente dimostrabile sulla base degli assiomi e delle regole
di inferenza inserite, quindi è in grado di provare o smentire la verità delle
congetture come quelle citate sopra. Questa capacità, oggi, è fantascienza:
la dimostrazione automatica dei teoremi ha fatto enormi passi in avanti
negli ultimi decenni, ma nella maggior parte dei casi le doti umane di
creatività, ingegno e sapienza rivestono ancora un ruolo determinante in
questo genere di attività.
Inoltre, sto volutamente chiudendo un occhio sul fatto che il numero di
teoremi dimostrabili in un sistema formale potrebbe essere infinito, il che
impedirebbe al programma di adempiere il suo compito in un tempo
finito.
Quindi adesso non andate a cercare il “Dimostratore automatico” su
un sito di vendite online o a richiederlo nel negozio di informatica vicino
a casa vostra: si tratta di un software immaginario, almeno allo stato
attuale delle cose. È soltanto una metafora che ci aiuterà a visualizzare
meglio il significato del concetto di sistema formale.

Figura 5.1Funzionamento di un sistema formale.

75
Bene, tutto è pronto: avete configurato il portentoso “Dimostratore
automatico” per dimostrare le verità dell’aritmetica, avete già inserito gli
assiomi di Peano e un insieme adeguato di regole di inferenza. Finalmente
premete il pulsante “Dimostra tutto”, fissando ansiosi lo schermo. Il primo
teorema che apparirà sarà figlio di uno o più assiomi e delle regole di
inferenza, mentre i successivi potranno essere dimostrati, sempre in
accordo con le regole di inferenza, a partire dagli assiomi e/o dai teoremi
già dimostrati.
Guardate, i teoremi dimostrati scorrono velocissimi sullo schermo del
computer. Alla fine dell’esecuzione andate a controllare che tutte le verità
inerenti ai numeri naturali siano state effettivamente provate dal
fenomenale software. Per esempio, a un certo punto deve
obbligatoriamente apparire il teorema che afferma che “2 + 2 = 4”, perché
appare evidente a tutti che questa sia un’affermazione vera appartenente
all’ambito dell’aritmetica. Così un sistema formale che si dichiara capace
di generare tutta l’aritmetica deve, prima o poi, dimostrare anche questa
proposizione.
In modo analogo, devono apparire sullo schermo anche il teorema
sull’infinità dei numeri primi, l’affermazione “999+1=1000”, il celebre
ultimo teorema di Fermat ecc.
Se davvero tutte le verità aritmetiche sono state generate dal
“Dimostratore automatico”, ovvero se il sistema formale “dice tutta la
verità”, allora si può dire che il sistema è completo.
Tuttavia, per essere certi che il vostro sistema formale sia costruito a
regola d’arte, non vi basta verificare la sua completezza. Oltre a “dire tutta
la verità”, il sistema deve dire “nient’altro che la verità”, cioè deve
astenersi dal dimostrare proposizioni che non siano vere. Per esempio, se
tra i teoremi provati dal “Dimostratore automatico” vi imbatteste nella
famigerata affermazione “2+2=5”, allora dovreste preoccuparvi. Essendo
tale asserzione palesemente falsa, vorrebbe dire che il software dimostra
non solo le affermazioni vere, ma anche alcune affermazioni false, ovvero
si contraddice internamente. Se invece non trovate enunciati falsi tra i
teoremi dimostrati dal programma, allora il sistema formale può essere
definito coerente.
Come desiderate che sia il vostro sistema formale? Ovviamente
completo e anche coerente, siete d’accordo? In altre parole, deve dire tutta
la verità e nient’altro che la verità, come ogni giudice pretende da un

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imputato.
Intendiamoci: il sistema formale che dimostra i teoremi dell’aritmetica
è solo un esempio. Possiamo immaginare un sistema formale che genera
la geometria euclidea a partire dai postulati di Euclide,1 un altro che
genera l’aritmetica di “Rock Around the Clock” (vedi il capitolo 1)
basandosi sul secondo e sul terzo assioma di Peano, un terzo che genera
una geometria non euclidea partendo da un set di assiomi modificati
rispetto a quelli tradizionali della geometria euclidea e così via. Insomma,
esistono infinite possibilità nel mondo dei sistemi formali e non è detto
che ognuna di queste debba rispecchiare qualcosa di intuitivo o concreto.
L’unica condizione è che il sistema, pur svincolato da ogni legame con la
realtà o con il senso comune, si regga in piedi e non crolli come un
castello di carte al primo tentativo di dimostrare un teorema. Occorre
insomma essere molto accorti nel progettare un insieme di assiomi, perché
il sistema formale risultante non deve essere incompleto né incoerente. La
faccenda assomiglia molto al lavoro di uno scrittore di fantascienza: poco
importa che le sue storie siano realistiche, plausibili, vicine alla nostra
esperienza quotidiana. La cosa importante è che il mondo concepito
dall’autore sia coerente, ovvero che i suoi presupposti non generino
contraddizioni logiche, e completo, ovvero che tutti gli eventi della trama
trovino un fondamento nei principi basilari del mondo stesso. Come
scrisse lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick:
Creare universi in cui ambientare romanzi sempre nuovi è il mio lavoro. E devo
costruirli in modo tale che non cadano a pezzi dopo due giorni. Perlomeno, questa
è la speranza dei miei editori.

La domanda, a questo punto, è inevitabile: possiamo dare per scontato che


un sistema formale come quello basato sugli assiomi di Peano dirà tutta la
verità e nient’altro che la verità, cioè che possa essere al tempo stesso
completo e coerente? Detto in modo equivalente, siamo sicuri che il
nostro “Dimostratore automatico”, una volta premuto il pulsante
“Dimostra tutto”, dimostrerà tutte le verità dell’aritmetica senza
inciampare in alcuna falsità? Se la risposta fosse affermativa, vorrebbe
dire che dimostrabilità e verità sono la stessa cosa. Un’affermazione di
argomento aritmetico (per esempio “2+2=4”) è vera? Benissimo, allora è
sicuramente dimostrabile dal sistema, perché il sistema è completo.
Un’altra affermazione (per esempio “2+2=5”) è falsa? Ottimo, siamo certi

77
che non sarà dimostrata dal sistema, perché il sistema è coerente.
La formalizzazione dell’aritmetica, e in generale di tutta la
matematica, con lo scopo di dar vita a un sistema formale coerente e
completo fu l’obiettivo, suggestivo e ambizioso, del cosiddetto
programma di Hilbert, al quale lavorarono alcuni dei maggiori matematici
all’inizio del Novecento. Il tedesco David Hilbert, principale fautore di
questo progetto, era il più influente matematico dell’epoca. Il suo sogno
era proprio costruire una sorta di “Dimostratore automatico” in grado di
provare automaticamente, e senza incappare in contraddizioni interne, tutti
i teoremi di tutte le aree conosciute della matematica. Hilbert era
intimamente convinto che entro poco tempo lui e i suoi colleghi sarebbero
riusciti a inglobare in un siffatto sistema formale tutte le parti della
matematica, anche le più complicate come l’analisi. Inoltre, era convinto
che le fondamenta di tale sistema si trovassero nell’aritmetica, cioè nella
matematica dei numeri naturali. Negli anni Dieci del Novecento, il
matematico e filosofo Bertrand Russell, futuro premio Nobel per la
Letteratura nel 1950, aveva pubblicato i Principia mathematica, opera
monumentale che tentava, riuscendovi solo in parte, l’assiomatizzazione
dell’aritmetica sulla base degli assiomi di Peano e delle comuni regole di
inferenza.
Il sogno di Hilbert si infranse pochi anni dopo, nel 1931, quando, a
sorpresa, un giovane logico austriaco, Kurt Gödel, annunciò al mondo che
questa costruzione non era possibile. Utilizzando un geniale e innovativo
ragionamento, Gödel dimostrò rigorosamente che un sistema formale
aritmetico come quello di Russell non può essere al tempo stesso coerente
e anche completo. Potrà essere coerente, spiegò Gödel, cioè esente da
contraddizioni, ma allora non riuscirà a dimostrare tutte le verità
dell’aritmetica. Potrà essere completo, cioè in grado di provare tutti i
teoremi aritmetici, ma allora sarà sicuramente infettato da qualche
incoerenza interna. Se l’aritmetica non è formalizzabile in modo coerente
e completo, figuriamoci se lo può essere tutta la matematica! Questo
risultato costituisce una delle vette logiche più alte che siano mai state
raggiunte dall’uomo e viene chiamato “primo teorema di incompletezza”.2
Il matematico Piergiorgio Odifreddi ha fatto notare che curiosamente,
“God” ed “El” significano “Dio”, rispettivamente in inglese e in ebraico:
come dire che Gödel fu il “dio” dei logici.
Il giovane austriaco, quindi, mostrò che in matematica verità e

78
dimostrabilità sono concetti ben diversi: per quanto possa sembrare
sconcertante, esistono affermazioni “indecidibili”, cioè che non possono
essere né dimostrate né confutate. Per fortuna, la scoperta di Gödel rimane
una questione squisitamente teorica, priva di gravi impatti pratici sul
lavoro dei matematici. Nel corso del secolo scorso, i ricercatori hanno in
effetti trovato alcune proposizioni indecidibili, confermando così la
previsione del logico austriaco, ma questo non ha insidiato in modo
significativo la solidità dell’edificio matematico nel suo complesso.
Insomma, il programma di Hilbert crollò nel 1931, ma la matematica
continuò a vivere felicemente.
Proprio come il rock, che ha saputo superare i momenti di crisi
individuando ogni volta nuovi punti di partenza. In un articolo del 2018
[5.2], Ernesto Assante e Gino Castaldo scrivono acutamente:
Forse a uccidere il rock è proprio il peso dello stereotipo. Se diciamo rock oggi
pensiamo a un cliché: quattro accordi sparati, chitarre elettriche, batteria in quattro
con cassa e rullante in evidenza, un cantante che strilla. Ma il rock non è nato per
essere questo. Era la musica più varia e fantasiosa mai apparsa sul pianeta. E per
questo forse è morto. In realtà si è reincarnato e oggi vive in tutte le altre musiche.
Basta non chiamarlo rock.

Insomma, né la matematica né il rock sono morti. Lunga vita a entrambi!

1.Possiamo considerare il termine "postulato" come un sinonimo di "assioma".


2.Esiste anche un secondo teorema di incompletezza di Gödel, conseguenza del primo,
che va oltre gli scopi di questo libro.

79
Parte seconda
CALCOLO COMBINATORIO, PROBABILITÀ E
STATISTICA

80
6

Errori alfabetici

Pensai di scrivere le lettere “HELP” con l’alfabeto semaforico.


Ma quando scattammo la foto, la disposizione delle braccia
per quelle lettere non risultò soddisfacente.
Robert Freeman, fotografo

Nel marzo del 2018, l’attrice Gwyneth Paltrow ha pubblicato su Instagram


un breve video in cui l’ex marito Chris Martin, frontman dei Coldplay,
insegna alla figlia quattordicenne Apple gli accordi di una famosa canzone
dei Beatles, “Blackbird”. Il gruppo di Martin, d’altro canto, non ha mai
nascosto il proprio debito artistico nei confronti del quartetto di Liverpool
e ha anche incluso nei propri album alcune cover dei Fab Four. Ma c’è un
altro filo rosso, molto più sottile e nascosto, che congiunge le due rock
band: è un filo che parte dall’album Help! dei Beatles, uscito nel 1965, e
arriva fino a X&Y, pubblicato quarant’anni dopo dai Coldplay (e citato nel
capitolo 4). Ci sono di mezzo due copertine matematiche e alcuni errori.
Ma procediamo con ordine. Un anno dopo l’esperienza di A Hard
Day’s Night del 1964, i Beatles tornarono sul set cinematografico per
realizzare Help!, la loro seconda pellicola. Il film comprendeva due pezzi
già pubblicati l’anno precedente (“A Hard Day’s Night” e “She’s a
Woman”) e sette canzoni originali. Di queste ultime, le tre firmate da John
Lennon costituivano la parte più interessante della colonna sonora: la title
track dal testo introspettivo, l’innovativa “Ticket to Ride”, additata da
alcuni critici come uno dei primi esempi di heavy metal, e “You’ve Got to
Hide Your Love Away”, fortemente influenzata dallo stile musicale e
poetico di Bob Dylan.
Nell’album omonimo, oltre ai sette pezzi nuovi del film, confluirono

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anche la cover di “Dizzy Miss Lizzie” di Larry Williams e altri sei brani
originali che non compaiono nel lungometraggio. Tra questi, la
celeberrima “Yesterday”, canzone scritta interamente da Paul McCartney
e divenuta in breve la più registrata di sempre e una delle più amate nella
storia della musica pop.
La grafica di copertina fu affidata a Robert Freeman, che aveva già
collaborato con i Beatles per gli album With The Beatles del 1963, A Hard
Day’s Night e Beatles for Sale del 1964. Freeman si mise a cercare
qualche idea interessante e si ricordò delle foto scattate qualche settimana
prima durante un reportage nella località sciistica austriaca di Obertauern:
i quattro Beatles vestiti di nero, che agitano le braccia sullo sfondo della
candida neve dei Tauri. La trovata arrivò: il fotografo decise di ispirarsi
all’alfabeto semaforico, un sistema di segnalazione più veloce
dell’alfabeto Morse, che faceva uso di bandierine gialle e rosse. Da molto
tempo, ormai, i marinai non utilizzano più questo sistema di
comunicazione, considerato decisamente superato dalle moderne
tecnologie. Fino a qualche anno fa il “codice delle bandierine” era rimasto
nozione irrinunciabile almeno per ogni bravo boy scout (il mitico primo
Manuale delle Giovani Marmotte, mio caro ricordo dell’infanzia,
dedicava all’argomento un intero capitolo), ma oggi forse persino gli eredi
di Robert Baden-Powell snobbano questo linguaggio di segnalazione,
preferendogli sistemi ritenuti più moderni.
L’alfabeto semaforico associa a ogni carattere (per esempio una lettera
o una cifra numerica) una specifica collocazione delle due bandierine del
segnalatore. Ognuna delle bandierine può essere orientata in otto modi
diversi: etichettando come Nord la posizione sopra la testa del
segnalatore, tali posizioni corrispondono rispettivamente a: Nord, Nord-
Est, Est, Sud-Est, Sud, Sud-Ovest, Ovest, Nord-Ovest. Considerando
entrambe le bandierine, si potrebbero in teoria formare 8 ∙ 8 = 64 posizioni
combinate, ma molte di queste devono essere escluse in quanto
fisicamente difficili da ottenere oppure facilmente confondibili con altre.
Le 30 posizioni effettivamente utilizzate sono illustrate nella figura 6.1.

82
Figura 6.1L’alfabeto semaforico.

Nella figura si nota un fatto importante. Ogni assetto delle bandierine può
corrispondere a uno o due caratteri codificati. Per esempio, la bandierina
destra posta a Nord e la bandierina sinistra a Sud indicano la lettera D ma
anche la cifra 4. Ahi! Il sistema dunque è ambiguo? Come si fa ad
attribuire il giusto significato a ogni posizione?
In realtà, il significato “normale” di ogni collocazione è il primo
indicato nella figura. Se però, a un certo punto del messaggio, compare la
posizione corrispondente al significato “inizio trasmissione numeri”,
allora da lì in poi dovremo considerare, in caso di doppia interpretazione,
il secondo dei significati riportati. Per indicare che si deve tornare ai
simboli “normali” si utilizza invece la posizione associata al doppio
significato “J (fine trasmissione numeri)”.
Se ci riflettete un attimo, comprendete perché questo accorgimento
della doppia serie di significati sia una trovata molto ingegnosa. Se a ogni
collocazione delle bandierine corrispondesse un solo carattere, il nostro
alfabeto sarebbe formato da 30 simboli. Grazie a questo stratagemma,
riusciamo invece a codificarne 41, perché 11 posizioni hanno la doppia
accezione.
Ma riprendiamo le vicissitudini del nostro Freeman dove le avevamo
interrotte: nel giorno stabilito raggiunse i Beatles ai Twickenham Studios,

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dove si stavano girando le ultime scene del lungometraggio. Ai “Favolosi”
furono fatti indossare scuri copricapi e cappotti che erano stati utilizzati
anche nel film. Poi il fotografo chiese loro di disporre le braccia in modo
da comporre la parola HELP secondo l’alfabeto semaforico. E qui
avvenne il fatto strano: l’effetto complessivo della scena, secondo
Freeman, risultava innaturale e poco armonioso. Osservate la figura 6.2 e
giudicate voi.

Figura 6.2La parola HELP composta dai Beatles con l’alfabeto semaforico.

Per questo motivo si decise di improvvisare e di cercare l’assetto


graficamente più gradevole senza essere condizionati dal significato
marinaresco. Dopo una serie di tentativi, la scelta di Freeman cadde sul
messaggio semaforico illustrato nella figura 6.3.

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Figura 6.3Il "messaggio semaforico" scelto per la copertina di Help!

Il messaggio codificato corrispondeva alla successione di lettere NUJV,


completamente priva di senso compiuto. Ed ecco la copertina dell’album,
pubblicato il 6 agosto 1965.

Figura 6.4La copertina di Help!

Non sappiamo quante posizioni diverse furono provate prima che


Freeman scegliesse quella definitiva. Di sicuro erano molte le possibilità a
disposizione. Ma quante, esattamente?
Quante diverse “parole” potevano essere create dai Beatles,
disponendo le braccia in tutti i modi previsti dall’alfabeto semaforico?

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Considerando tutte e 26 le lettere dell’alfabeto, il simbolo di “pronto” (che
vale anche come spazio) ed escludendo soltanto la posizione di
annullamento e la segnalazione di errore, ognuno dei quattro musicisti
poteva collocare le proprie braccia in 28 modi diversi. Le parole possibili
erano quindi 28 ∙ 28 ∙ 28 ∙ 28 = 284 = 614.656.
Non importa se la stragrande maggioranza di queste parole (per
esempio NUJV) erano prive di senso compiuto. E non è rilevante
nemmeno il fatto che molte di queste 614.656 parole contenevano le
speciali posizioni corrispondenti all’inizio o alla fine delle cifre numeriche
e di conseguenza erano formate da una miscela di lettere e numeri.
In linguaggio matematico, si dice che esistono 614.656 possibili
disposizioni con ripetizioni di 28 oggetti in 4 posti. I 28 oggetti erano,
naturalmente, i simboli segnalabili da ogni Beatle, mentre 4 erano i
Beatles stessi, cioè il numero di lettere della parola composta. La
precisazione “con ripetizioni” si riferisce al fatto che una lettera poteva
tranquillamente comparire più di una volta all’interno della parola: per
esempio tra le parole possibili figurano anche HELL, HEEH, HEEE e così
via.
Se Freeman avesse voluto evitare le ripetizioni, avrebbe dovuto
scegliere tra un numero un po’ inferiore di parole possibili: il primo Beatle
a sinistra, George Harrison, avrebbe avuto tutti e 28 i simboli a
disposizione, ma il secondo, John Lennon, ne avrebbe avuti soltanto 27,
perché non avrebbe potuto ripetere il simbolo già adoperato da George.
Con un ragionamento analogo, il terzo Beatle, Paul McCartney, avrebbe
dovuto scegliere tra 26 simboli e il quarto, Ringo Starr, tra 25. In tutto,
quindi, si sarebbero potute formare 28 ∙ 27 ∙ 26 ∙ 25 = 491.400 parole.
Questo è il numero di disposizioni semplici (ovvero senza ripetizioni) di
28 oggetti in 4 posti ed è pari a circa l’80% delle corrispondenti
disposizioni con ripetizioni.
La versione americana di Help!, pubblicata dalla Capitol Records una
settimana dopo quella europea, differiva nel contenuto musicale (in
particolare conteneva alcuni brani strumentali composti da Ken Thorne
per il film) ma anche nella copertina: le posizioni semaforiche di ogni
singolo Beatle restavano invariate, ma Ringo era stato spostato al secondo
posto, tra George e John (figura 6.5). Come potete facilmente verificare,
la conseguenza dello spostamento è che la parola codificata è ora un’altra
delle 614.656: non più NUJV, ma NVUJ.

86
Figura 6.5La copertina della versione americana di Help!.

I caratteri erano gli stessi, quindi, ma disposti in un altro ordine.


Immaginate che i Beatles avessero deciso di pubblicare, per i diversi
mercati, versioni alternative dell’album, usando per ciascuna un diverso
ordinamento delle posizioni semaforiche. Quante copertine diverse
avrebbero potuto realizzare? Ovvero, in quanti modi diversi si possono
ordinare le lettere N, U, J e V? Oltre a NUJV e NVUJ, possiamo
comporre le parole JUVN, VUJN, UVJN, e così via: in sostanza, tutti i
possibili anagrammi di NUJV. Per contarli, osserviamo che per fissare la
prima lettera abbiamo 4 scelte diverse, per la seconda ne restano 3, per la
terza soltanto 2, e la quarta lettera è, a quel punto, una scelta obbligata:
quindi abbiamo in tutto 4 ∙ 3 ∙ 2 ∙ 1 = 24 modi di ordinare le 4 lettere. I
matematici, che amano dare un nome a ogni cosa, chiamano questi diversi
ordinamenti permutazioni di 4 oggetti. Dunque, i Beatles avrebbero potuto
creare 24 versioni alternative del loro disco.
In generale, il numero di permutazioni di un qualsiasi numero intero n
di oggetti si può calcolare moltiplicando n stesso per tutti i numeri interi
positivi che vengono prima di lui. Il risultato di questa moltiplicazione
viene chiamato fattoriale di n e si indica con un punto esclamativo posto
dopo il numero n stesso: n! Per esempio, 4! = 24, così come 10! = 10 ∙ 9 ∙
8 ∙ 7 ∙ 6 ∙ 5 ∙ 4 ∙ 3 ∙ 2 ∙ 1 = 3.628.800.
Ora, se ogni gruppo di 4 simboli può essere ordinato in 4! = 24 modi

87
diversi, potremmo immaginare di raccogliere le nostre 28 ∙ 27 ∙ 26 ∙ 25 =
491.400 disposizioni semplici in tanti gruppi: ogni gruppo corrisponde a
una particolare scelta di 4 simboli e contiene i loro 24 possibili
ordinamenti. Quanti sono questi gruppi? Be’, basta dividere 491.400 per
24, no? Il risultato in questo caso è 20.475: significa che abbiamo 20.475
modi diversi di scegliere 4 simboli distinti da un alfabeto di 28, senza
curarci questa volta del modo in cui questi simboli sono ordinati. Robert
Freeman, dunque, aveva a disposizione 20.475 scelte diverse di 4 caratteri
senza ripetizioni da rappresentare sulla copertina di Help!,
indipendentemente dal modo di mettere in fila i caratteri stessi.
Questi raggruppamenti non ordinati vengono chiamati combinazioni
semplici di 28 oggetti di classe 4. Ora che abbiamo imparato a usare i
fattoriali, possiamo riscrivere la divisione così:

Più in generale, il numero di combinazioni semplici di n oggetti di classe k


è uguale a:

Spesso i matematici usano la seguente speciale simbologia per sintetizzare


l’espressione precedente:

Questo strano simbolismo con la parentesi si legge “n su k” e viene detto


coefficiente binomiale. Le possibili scelte di 4 simboli a disposizione di
Freeman erano:

Questo per quanto riguarda le combinazioni semplici. Naturalmente, come


abbiamo fatto per le disposizioni, potremmo prendere in esame anche

88
quelle con ripetizioni, ma per semplicità non lo faremo.
Al di là delle questioni combinatorie, resta un fatto: la copertina di
Help! contiene un errore. Se i Beatles si fossero trovati davvero in alto
mare in una situazione di pericolo e avessero lanciato quel messaggio
marinaresco, nessuno lo avrebbe interpretato come una richiesta di
soccorso, perché NUJV non significa niente. Se però l’errore di Help! fu
intenzionale e motivato da scelte estetiche, quello commesso quarant’anni
dopo dai grafici che realizzarono il disco X&Y dei Coldplay fu, con ogni
probabilità, una svista involontaria. Quando, il 6 giugno 2005, l’album fu
pubblicato, gli appassionati furono attratti, oltre che dal singolare titolo,
anche dalla strana copertina, costituita da enigmatici rettangoli colorati
disposti in una configurazione apparentemente insensata (figura 6.6).

Figura 6.6La copertina di X&Y dei Coldplay.

Quale misterioso messaggio in codice era celato dietro queste curiose


forme variopinte? Una sconvolgente rivelazione sui destini del mondo?
Niente affatto. L’idea di Mark Tappin e Simon Gofton, duo già
famoso nel mondo del music design soprattutto per la vigorosa immagine
di Push the Button, album dei Chemical Brothers uscito pochi mesi prima,
non si discostava di molto da quella concepita da Robert Freeman per
Help!: cifrare il titolo dell’album stesso attraverso un codice più o meno
esotico. Se Freeman aveva messo in posa i Beatles secondo i dettami

89
dell’alfabeto semaforico, Tappin e Gofton decisero di ricorrere a un
codice introdotto nel 1924 come standard internazionale e denominato
International Telegraph Alphabet No. 2 (più semplicemente, ITA2).
L’antenato di questo sistema era il codice Baudot, ideato nel 1870
dall’omonimo ingegnere francese e utilizzato per alcuni decenni a cavallo
tra Ottocento e Novecento per le comunicazioni telegrafiche e per le
telescriventi. Il codice ITA2, invece, è ancora in uso in alcuni particolari
settori del mondo delle telecomunicazioni.
In questo sistema ogni carattere è codificato da una sequenza di 5 cifre
binarie (o bit), come illustrato nella figura 6.7. Ciascun bit può valere zero
oppure uno. Nella figura gli uno corrispondono ai pallini neri e gli zero
all’assenza del pallino.

Figura 6.7Il codice ITA2.

Quanti simboli diversi si possono creare con una sequenza di 5 bit?


Semplice: 2 ∙ 2 ∙ 2 ∙ 2 ∙ 2 = 25 = 32 (disposizioni con ripetizioni di 2
oggetti su 5 posti). La maggior parte di questi simboli, precisamente 26,
sono utilizzati per le lettere. Il codice ITA2 prevede anche i caratteri
speciali “Carriage Return” (CF) e “Line Feed” (LF), ancora oggi utilizzati
per la gestione del ritorno a capo nei moderni sistemi ASCII. Altri due
simboli servono per mettere in pratica un meccanismo di estensione del
tutto analogo a quello implementato nell’alfabeto semaforico: ogni
sequenza di 5 bit ha due significati, il primo dei quali è solitamente una
lettera e il secondo una “figura”, ovvero una cifra numerica oppure un
simbolo speciale. Ecco quindi una sequenza particolare (11011) che indica
il passaggio dalle lettere alle figure e un’altra (11111) che segnala il
passaggio dalle figure alle lettere. Infine, c’è una sequenza che codifica lo
spazio e una riservata per usi futuri. Nel sito [6.1] potete divertirvi a

90
scrivere le vostre frasi preferite: un programma genererà automaticamente
la traduzione in codice ITA2.
Naturalmente valgono anche per il sistema ITA2 tutti i ragionamenti
numerici fatti per l’alfabeto semaforico. Per contare quante “parole” di un
certo numero di lettere potete comporre con questo codice telegrafico,
potete adattare i calcoli già eseguiti, con l’avvertenza che i simboli
codificabili in ITA2 sono 31 e non 28. Ora che siete esperti di disposizioni
(semplici e con ripetizioni) e di combinazioni, questi conteggi non
avranno per voi più segreti!
Come possiamo decifrare l’immagine nella copertina di X&Y in base
al codice ITA2? Un grande maestro della divulgazione matematica,
Marcus du Sautoy, ha provato a rispondere a questa domanda in uno dei
suoi saggi [du Sautoy, 2010]: per prima cosa, afferma il matematico
inglese, non occorre attribuire alcun significato ai vivaci colori presenti.
Se ridisegniamo il reticolo raffigurando in grigio le caselle colorate
(precisamente, quelle con un colore diverso dallo sfondo blu), otteniamo
una specie di matrice con quattro colonne e cinque righe:

Figura 6.8La decifrazione del messaggio contenuto in X&Y.

A questo punto, facendo corrispondere le caselle grigie agli uno e quelle


bianche agli zero, ogni colonna diviene una sequenza di 5 bit,
interpretabile secondo il sistema ITA2 come un carattere. Consultando la
figura 6.7, scopriamo che la prima colonna equivale alla lettera “X”; la
seconda è la sequenza speciale di passaggio alle figure, ragion per cui alle
due colonne successive dobbiamo far corrispondere i secondi significati,
che sono rispettivamente “9” e “6”. Il messaggio nascosto è quindi “X96”
e non, come vi sareste aspettati, “X&Y”. Perché? La risposta più
plausibile è anche la più semplice: Tappin e Gofton si sono sbagliati.
E non sono stati gli unici. Curiosamente, nel suo saggio Marcus du

91
Sautoy presenta al lettore una diversa traduzione del messaggio segreto:
“X9Y”. Ma anche qui c’è un errore! Secondo le regole del codice ITA2,
quando si incontra il simbolo speciale di passaggio alle figure, le sequenze
successive devono essere interpretate in base al loro secondo significato
finché non si incontra il simbolo speciale di ritorno alle lettere. Marcus du
Sautoy, invece, interpreta soltanto la penultima colonna come figura (“9”)
e decifra l’ultima come normale lettera (“Y”), ma dovrebbe interpretare
anche questa come figura (“6”).
Non basta: nel suo libro du Sautoy parla di codice Baudot e mai di
ITA2. Questo non è corretto, perché il codice Baudot originario, pur
essendo il progenitore del sistema ITA2, funziona in base a regole molto
diverse e non c’entra nulla con la copertina dei Coldplay. La stessa
inesattezza caratterizza la quasi totalità degli articoli, sia cartacei che in
rete, che trattano la questione. E quasi tutti gli autori considerano corretto
il ragionamento di du Sautoy che conduce al risultato “X9Y”.
Riassumendo: hanno sbagliato i Beatles (volutamente), hanno
sbagliato i Coldplay, ha sbagliato perfino Marcus du Sautoy e quasi tutti
quelli che hanno parlato di questa faccenda. Ma non importa: siamo
umani. Probabilmente inconsapevoli del loro abbaglio, Tappin e Gofton
hanno trovato così tanta soddisfazione nel disegnare la copertina
crittografata di X&Y che hanno deciso di applicare lo stesso concetto
grafico anche ai singoli estratti dall’album, “Speed of Sound”, “Fix You”,
“Talk”, “The Hardest Part”, “What If”, “White Shadows”, pubblicati tra il
2005 e il 2007.
Nel caso dell’album fu evidentemente la gestione della & a mettere in
crisi sia i due valenti grafici che il famoso divulgatore. Nei titoli dei
singoli, invece, ci sono soltanto lettere e non è mai necessario ricorrere al
simbolo speciale di passaggio alle figure: tutte le codifiche tratteggiate dai
due grafici risultano corrette, se si sorvola sul fatto che gli spazi tra una
parola e l’altra non sono stati cifrati con la sequenza apposita, bensì con
discutibili separazioni tra i rispettivi gruppi di caselle.
Gli appassionati dei Coldplay conoscono bene l’impegno della band e
in particolare del suo leader Chris Martin, a favore della giustizia
commerciale e del commercio equo e solidale. Come molti altri artisti
della scena pop-rock, i Coldplay sostengono la campagna “Make Trade
Fair”, promossa da un’alleanza di organizzazioni di beneficenza per
perseguire questi meritori obiettivi. Nel video della canzone “Fix You”, si

92
vede Chris Martin passeggiare per le strade di Londra, nei pressi del
London Bridge e del Waterloo Bridge. A un certo punto si nota, proiettata
sul National Film Theatre, una serie di rettangoli colorati simile a quelli
riprodotti sulle copertine di X&Y e dei suoi singoli. Quale messaggio
viene divulgato? Esatto, avete fatto centro: si tratta della raffigurazione
ITA2 della frase “Make Trade Fair”. D’altra parte, una volta stabilito che
il codice impiegato è sempre quello, decifrare i messaggi diventa un gioco
banale. Questo effettivamente accade quando la comunicazione tra due
soggetti non ha bisogno di essere protetta dall’eventuale intrusione di
terzi. Se invece i messaggi devono essere resi privati a chi è estraneo allo
scambio informativo, allora un codice come ITA2 sarebbe totalmente
inadeguato perché immediatamente decifrabile: e qui si aprirebbero gli
sconfinati scenari della crittografia, cioè della ricerca di tecniche per
innalzare il più possibile il livello di sicurezza delle comunicazioni. Ma
questa è tutta un’altra storia.

93
7

Un movimento si compie in sei stadi

A movement is accomplished in six stages


And the seventh brings return.
The seven is the number of the young light,
It forms when darkness is increased by one.
(da “Chapter 24” dei Pink Floyd,
in The Piper at the Gates of Dawn, 1967)

La sera del 21 febbraio 1967 i Beatles stavano lavorando sulla canzone


“Fixing a Hole” nello Studio 2 di Abbey Road a Londra. Le sessioni di
registrazione del nuovo album, il celebratissimo Sgt. Pepper’s Lonely
Hearts Club Band, si stavano protraendo ormai dal mese di novembre
dell’anno precedente e non si sarebbero concluse prima del mese di aprile,
per un totale di più di quattrocento ore di lavoro. Quel giorno la sala
attigua, lo Studio 3, venne assegnata a una giovane band londinese che
doveva registrare il proprio album di debutto. I Pink Floyd, questo il nome
del gruppo, erano composti dal cantante e chitarrista Syd Barrett, dal
bassista Roger Waters, dal batterista Nick Mason e dal tastierista Richard
Wright.
Esattamente un mese dopo, la sera del 21 marzo, il produttore dei Pink
Floyd, Norman Smith, che aveva collaborato a molti dei precedenti dischi
dei Fab Four, bussò alla porta dello Studio 2 e disse che i suoi ragazzi
avrebbero avuto piacere di incontrare i Beatles. Il produttore e
arrangiatore della EMI George Martin, il cui ruolo fu determinante nella
realizzazione di molti pezzi del gruppo, disse che si poteva fare, ma non
prima delle 23. All’ora pattuita l’incontro ebbe luogo. “Per noi erano
come delle divinità”, avrebbe ammesso Nick Mason in un’intervista del

94
2011, “entrammo nello Studio 2 mentre i Fab Four stavano registrando
‘Lovely Rita’. La musica era meravigliosa e incredibilmente
professionale.”
Probabilmente i Pink Floyd non si accorsero di nulla, ma poco prima
del memorabile incontro, sempre nel mitico Studio 2, una delle divinità
era incorsa in un increscioso incidente: John Lennon aveva ingerito delle
pastiglie di LSD, scambiandole per le amfetamine che era solito assumere
per migliorare la sua performance durante le estenuanti sessioni di
registrazione. Il musicista si era sentito male e George Martin lo aveva
accompagnato sul tetto degli Studios per prendere un po’ d’aria. Dopo la
visita dei Pink Floyd, era chiaro che Lennon non era in grado di
continuare a lavorare e aveva bisogno che qualcuno lo portasse a casa.
Paul McCartney si offrì di accompagnarlo a casa sua: una volta a
destinazione, ebbe l’idea di prendere LSD a sua volta e di sperimentare il
suo primo viaggio lisergico in compagnia del collega.
È difficile immaginare una notte più “acida” di quella del 21 marzo
1967: l’incontro tra i due gruppi più importanti della scena psichedelica
britannica, Lennon che per la prima (e ultima) volta consuma LSD in sala
di registrazione, il trip congiunto Lennon-McCartney. Più in generale, il
1967 fu l’anno magico in cui si rivelarono quasi tutti gli artisti più
importanti della scena psichedelica mondiale: Jimi Hendrix, i Grateful
Dead, i Velvet Underground, i Jefferson Airplane e i Doors negli Stati
Uniti e appunto i Pink Floyd in Inghilterra.
Lo stesso anno rappresentò anche il momento culminante della cultura
hippie, che vedeva nel rock psichedelico, e in particolare nel suo
sottogenere denominato acid rock, il proprio filone musicale d’elezione.
Uno dei pionieri di quel movimento giovanile era stato lo scrittore
americano Ken Kesey, noto soprattutto come autore del romanzo
Qualcuno volò sul nido del cuculo. Kesey era nato nel 1935: troppo
giovane negli anni Cinquanta per far parte degli scrittori della beat
generation, come Jack Kerouac o Allen Ginsberg, ma troppo vecchio
negli anni Sessanta per essere un hippie credibile. Eppure, proprio questo
dato anagrafico gli aveva consentito di diventare l’anello di congiunzione
tra il movimento artistico-letterario dei beatnik e la stagione dei “figli dei
fiori”. Già alla fine degli anni Cinquanta, Kesey aveva sperimentato vari
tipi di sostanze psicotrope, mentre nel decennio successivo divennero
famosi i suoi acid test, le feste che organizzava nella sua casa di San

95
Francisco, in cui gli invitati assumevano LSD ascoltando a tutto volume
musica dei Grateful Dead.
Nel gennaio 1966 aveva aperto a San Francisco lo Psychedelic Shop,
divenuto poi il simbolo identitario della comunità hippie in città.
Nell’ottobre dello stesso anno lo Stato della California aveva dichiarato
illegale l’LSD, scatenando la reazione del movimento: sempre più
numerosi furono da quel momento in avanti i raduni e le manifestazioni,
come lo Human Be-In, che ebbe luogo il 14 gennaio del 1967 al Golden
Gate Park Stadium di San Francisco e che vide la partecipazione di più di
ventimila persone. Nel corso della primavera, l’eco del movimento hippie
si diffuse anche al di fuori dell’America: ormai in ogni angolo del pianeta
era sempre più comune incontrare giovani con capelli lunghi, camicie dai
colori vivacissimi e pantaloni a zampa d’elefante, che criticavano i valori
tradizionali e predicavano ideali di pace e libertà. L’esperienza
comunitaria, la libertà sessuale, l’assunzione di droghe e la predilezione
per il rock psichedelico erano viste dagli hippie come strumenti per
accedere a un nuovo livello di consapevolezza collettiva e trascendentale,
come porte sacre verso un mondo di bellezza e di amore universale.
L’estate del 1967 passò alla storia come la Summer of Love: una
straordinaria esplosione del fenomeno hippie che si irradiò da San
Francisco in tutto il mondo.
Il 1° giugno uscì Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles.
Due settimane dopo duecentomila persone parteciparono al Monterey Pop
Festival, durante il quale si esibirono alcuni tra i maggiori artisti della
scena psichedelica mondiale. Il 25 giugno i Beatles eseguirono “All You
Need Is Love”, inno hippie per eccellenza, durante la prima diretta in
mondovisione della storia. Il 5 agosto, infine, fu pubblicato il primo album
dei Pink Floyd: il titolo, The Piper at the Gates of Dawn, fu tratto da
Barrett da un capitolo di un classico della letteratura per l’infanzia, Il
vento tra i salici di Kenneth Grahame. Il disco fu subito accolto con
entusiasmo e riconosciuto come una delle pietre miliari della stagione del
rock psichedelico. Tutti i brani, tranne uno (“Take Up Thy Stethoscope
and Walk” di Waters), uscivano dall’inventiva stravagante e visionaria di
Syd Barrett: una geniale miscela di musiche ora aggressive e ora più
rassicuranti, enigmatiche visioni poetiche, testi nonsense e filastrocche
infantili trasfigurate da sonorità acide, atmosfere spaziali e suggestioni
orientali. Nel 1967 Syd era ormai divenuto un consumatore di dosi

96
massicce di LSD e altre droghe: se da una parte ciò ebbe un peso decisivo
sulla folle creatività del musicista durante la scrittura dell’album, dall’altra
cominciò a provocare alla band problemi seri e talvolta molto
imbarazzanti, che avrebbero condotto pochi mesi dopo al suo
allontanamento dai Pink Floyd.
Uno dei tratti distintivi del rock psichedelico era l’attenzione rivolta
alla musica e in generale alla cultura orientale. Per una curiosa
coincidenza, il 15 marzo, mentre i Beatles stavano lavorando su “Within
You Without You”, pezzo in stile indiano composto da George Harrison,
al di là del corridoio i Pink Floyd stavano registrando un brano scritto da
Barrett sotto l’ispirazione dell’antichissimo testo cinese noto come Libro
dei Mutamenti o I Ching.
“Chapter 24”, questo è il titolo della canzone, è lontanissimo dal rock
spaziale di “Interstellar Overdrive” o “Astronomy Domine”. Assomiglia a
un ammaliante canto liturgico, impreziosito da un’atmosfera di antica
eleganza ricamata dal violoncello, dall’harmonium e dalle tastiere
elettriche di Rick Wright. L’impasto sonoro è arricchito da eteree
campane tubulari, piatti crash ed effetti di riverbero. Ma è nel testo che
ritroviamo alcuni interessanti spunti matematici:1
A movement is accomplished in six stages
And the seventh brings return.
The seven is the number of the young light,
It forms when darkness is increased by one.

Change returns success


Going and coming without error.
Action brings good fortune.
Sunset.

The time is with the month of winter solstice


When the change is due to come.
Thunder in the other course of heaven.
Things cannot be destroyed once and for all.

Alcune di queste parole sono riprese quasi testualmente dalla traduzione


inglese dell’I Ching pubblicata nel 1950 da Cary Baynes e basata sulla
celebre versione tedesca di Richard Wilhelm del 1923. Questa edizione
includeva una prefazione del famoso psichiatra tedesco Carl Gustav Jung,

97
grande appassionato dell’antico testo. Fu proprio in seguito all’uscita di
questa versione inglese che il Libro dei Mutamenti divenne un bestseller
in Occidente e addirittura un libro di culto per le generazioni hipster negli
anni Cinquanta e hippie negli anni Sessanta: oltre a Barrett, altri estimatori
dell’I Ching in quei decenni furono il musicista americano John Cage, che
utilizzò il libro come oracolo per produrre alcune composizioni aleatorie,2
lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick, che nel suo romanzo più
famoso, La svastica sul sole, fa consultare spesso il libro ai suoi
personaggi e, come si vedrà oltre, il chitarrista dei Beatles George
Harrison.
I protagonisti dell’I Ching sono i due principi cosmici della filosofia
orientale: yin e yang, ovvero femmina e maschio, notte e giorno, freddo e
caldo, terra e cielo, cedevolezza e forza, e così via. Due elementi opposti
che si completano reciprocamente e si trasformano l’uno nell’altro in una
spontanea ed eterna dialettica. La complementarietà dei due principi è ben
raffigurata nell’antico simbolo del Taijitu (figura 7.1), che rappresenta il
caos primordiale, l’universo vuoto e senza forma: le parti bianche sono
associate alla componente yang, quelle nere allo yin. Il pallino nero
all’interno dell’area bianca ci insegna che un germe yin è presente anche
nella fase yang più matura e un analogo fenomeno vale per il pallino
bianco dentro l’area nera.

Figura 7.1Il simbolo del Taijitu.

Una rappresentazione grafica alternativa per i due principi è quella


utilizzata nell’I Ching: una linea intera per lo yang e una linea spezzata

98
per lo yin (figura 7.2).

Figura 7.2Linee yin e yang.

Cosa accade se proviamo a combinare insieme più linee? Per calcolare il


numero di possibili sequenze possiamo procedere come abbiamo fatto nel
capitolo precedente per determinare quante “parole” diverse potevano
essere create nella copertina di Help! utilizzando l’alfabeto semaforico. La
differenza è che, al posto delle 28 collocazioni delle braccia, abbiamo ora
i due tipi di linee. Se combiniamo due linee abbiamo 2 ∙ 2 = 22 = 4 diversi
bigrammi (figura 7.3), ognuno dei quali simboleggia tradizionalmente una
delle stagioni dell’anno.

Figura 7.3I bigrammi.

Se invece vogliamo costruire un trigramma, cioè una struttura di tre linee,


le possibili disposizioni diventano 2 ∙ 2 ∙ 2 = 23 = 8; come indicato nella
figura seguente, tali linee sono associate agli elementi Tuono, Fuoco,
Lago, Cielo, Vento, Acqua, Monte e Terra.

99
Figura 7.4Il ciclo dei trigrammi (o "cielo anteriore").

Analogamente, possiamo creare strutture formate da un numero maggiore


di linee: 24 = 16 serie di quattro linee, 25 = 32 serie di cinque linee e 26 =
64 serie di sei linee, dette esagrammi.
Eccoli, gli esagrammi, veri protagonisti dell’I Ching: ogni capitolo del
libro è dedicato a uno di loro. Lo strano ordine in cui gli esagrammi
vengono descritti è noto come “sequenza di Re Wen”: nonostante gli
innumerevoli tentativi, nessuno è mai riuscito a scorgere un senso
matematico in questo ordinamento.

100
Figura 7.5Sequenza di Re Wen.

La formazione dei sessantaquattro esagrammi può essere efficacemente


rappresentata mediante un diagramma ad albero, illustrato nella figura
seguente:

Figura 7.6L’albero di Shao Yung.

La radice in basso, riconducibile al Taijitu primigenio, è divisa in una


parte nera (associata alla linea spezzata yin) e una parte bianca (legata alla

101
linea intera yang). Salendo verso l’alto, ciascuno dei due rami si suddivide
a sua volta in una parte nera e in una parte bianca. Osservate le due righe
inferiori del diagramma e sostituite il nero con la linea spezzata e il bianco
con la linea intera: voilà, ecco i quattro bigrammi!
Le biforcazioni proseguono ai livelli superiori, generando i trigrammi
(guardate le tre righe in basso immaginando la solita sostituzione) e le
altre serie di linee, fino ad arrivare agli esagrammi: l’intero diagramma
viene così suddiviso in sessantaquattro colonne, ognuna delle quali
corrispondente a un esagramma.
Questa elegante struttura, molto simile a quella che oggi gli
informatici chiamano albero binario, fu intuita nel XI secolo d.C. dal
pensatore cinese Shao Yung. Al nome di quest’ultimo e talvolta anche a
quello di Fu Xi, mitico fondatore della prima dinastia cinese e leggendario
autore dell’I Ching, è infatti legata una sequenza di esagrammi
matematicamente più razionale rispetto a quella di Re Wen: per crearla si
mettono in fila gli esagrammi ricavabili dall’albero di Shao Yung,
partendo da quello corrispondente alla colonna più a destra e muovendosi
verso sinistra.

Figura 7.7Sequenza di Fu Xi.

102
Ma a cosa servono gli esagrammi? L’utilizzo popolarmente più diffuso è
quello divinatorio: si pone una domanda all’oracolo, si sorteggia uno degli
esagrammi (per fare questo è possibile servirsi di vari metodi, come per
esempio quelli tradizionali basati sul lancio di due monete e
sull’estrazione di steli di achillea) e si ottiene il responso leggendo e
interpretando il capitolo del libro corrispondente all’esagramma
sorteggiato. Nel Seicento, tuttavia, il grande matematico e filosofo tedesco
Gottfried Wilhelm von Leibniz propose una lettura degli esagrammi molto
più interessante dal punto di vista matematico.
Nel manoscritto De Progressione Dyadica del 1679, Leibniz aveva
descritto il sistema di numerazione binaria, illustrando il metodo per
convertire un numero da decimale a binario e spiegando come eseguire le
quattro operazioni con numeri binari. Aveva persino delineato il progetto
di una macchina calcolatrice basata su questo alternativo sistema
numerico e funzionante mediante biglie che scorrono all’interno di tubi.
Mentre l’usuale sistema di numerazione decimale (o in base 10)
impiega dieci cifre per rappresentare le quantità (da 0 a 9), nel sistema
binario (o in base 2) ogni numero viene rappresentato utilizzando soltanto
due cifre: lo zero e l’uno. In base 2, lo zero e l’uno giocano quindi il ruolo
di “cifre binarie” (in inglese binary digits, ovvero bit). Se nel sistema
decimale le diverse posizioni delle cifre di un numero corrispondono
rispettivamente, da destra verso sinistra, alle unità, alle decine, alle
centinaia e così via, nel sistema binario le stesse sono associate alle
successive potenze del numero 2, ovvero a 20 = 1, 21 = 2, 22 = 4, 23 = 8
ecc. Ogni cifra (zero oppure uno) presente in un numero binario deve
quindi essere moltiplicata per la potenza di 2 associata alla sua posizione
nel numero stesso (da destra verso sinistra): la somma complessiva sarà
uguale al numero decimale corrispondente.
Per esempio, se vogliamo convertire il numero binario 11101 nel suo
equivalente decimale, dobbiamo leggere le sue cifre da destra verso
sinistra: la prima, 1, va moltiplicata per 20 = 1; la seconda, 0, per 21 = 2;
la terza, 1, per 22 = 4; la quarta, 1, per 23 = 8; la quinta, 1, per 24 = 16. Il
numero decimale corrispondente a 11101 è quindi 1 ∙ 1 + 0 ∙ 2 + 1 ∙ 4 + 1 ∙
8 + 1 ∙ 16 = 1 + 4 + 8 + 16 = 29.
In altre parole, qualsiasi numero equivale alla somma di alcune
potenze di 2, che sono, per così dire, i suoi ingredienti binari. La posizione

103
degli uno nella sua rappresentazione binaria dipende da quali sono i suoi
ingredienti binari. Per esempio, gli ingredienti binari di 29 sono, come
appena visto, 1, 4, 8 e 16: detto in altri termini, la prima, la terza, la quarta
e la quinta delle potenze di 2. Quindi la prima cifra, la terza cifra, la quarta
cifra e la quinta cifra della versione binaria di 29 sono uno, mentre le altre
cifre sono zero.

Una piccola magia


Questo modo di interpretare la rappresentazione binaria di un numero è alla base
di un divertente gioco di "magia" matematica che vi suggerisco di imparare per
stupire i vostri amici. Vi basta preparare sette tabelle, ciascuna delle quali è
associata a una delle prime sette potenze di 2: 1, 2, 4, 8, 16, 32 e 64. La tabella del
16, per esempio, contiene esattamente i numeri che hanno il 16 tra i propri
ingredienti binari. Chiedete a un vostro amico di pensare un numero naturale
compreso tra 1 e 127 e di dirvi in quali delle vostre tabelle è presente.
Con nonchalance e sorprendente rapidità voi gli dichiarerete il numero pensato,
facendogli credere di aver letto nella sua mente: in realtà non avrete fatto altro che
sommare tra loro gli ingredienti binari associati alle tabelle indicate dal vostro
amico.

Perché è utile saper esprimere un numero tramite la numerazione binaria?


Cosa ci guadagniamo a scrivere 10 anziché 2 oppure 1111011 anziché
123? È vero che le rappresentazioni binarie di un numero sono
solitamente più lunghe delle equivalenti rappresentazioni decimali (e
quindi risultano meno maneggevoli per noi esseri umani), ma è anche vero
che poter utilizzare soltanto due tipi di cifre comporta, in molte situazioni,
un enorme vantaggio: la quasi totalità dei dispositivi elettronici, infatti,
implementa al suo interno una rappresentazione binaria delle quantità,
perché nei circuiti digitali è comodo associare due soli livelli di tensione
elettrica ad altrettanti valori (zero e uno, appunto). Al di là della
convenienza indotta dai vincoli delle tecnologie elettroniche, esiste anche
una bellezza intrinseca del sistema numerico binario: di certo anche
Leibniz si lasciò affascinare dalla potenza di queste due cifre binarie che,
al pari dei principi cosmici della filosofia orientale, riescono a combinarsi
tra di loro facendo germogliare un universo infinito di combinazioni
numeriche.
Tra il 1697 e il 1702, Leibniz intrattenne una fitta corrispondenza con

104
Joachim Bouvet, un gesuita missionario in Cina. Nelle sue lettere il
sacerdote descrisse al filosofo il Libro dei Mutamenti e gli esagrammi: fu
lo stesso Bouvet a notare per primo l’analogia tra i due tipi di linea e le
due cifre binarie, per esempio tra linea spezzata e 0 e tra linea intera e 1.
Leibniz riconobbe subito il legame e, nella dissertazione Explication de
l’arithmétique binaire del 1703, lo descrisse in dettaglio. Se ogni linea
corrisponde a uno zero oppure a un uno, ogni esagramma, che è una
sequenza di sei linee, è un numero binario formato da sei bit. La prima
linea, cioè quella più in basso, corrisponde al bit più a destra e la sesta
linea, cioè quella più in alto, al bit più a sinistra.
L’interpretazione binaria di Leibniz è strettamente legata al
diagramma di Shao Yung. Se capovolgete ogni esagramma della figura
7.7 e lo trasformate in numero binario secondo il metodo appena descritto,
ottenete, in perfetto ordine, tutti i numeri binari compresi tra 000000 e
111111, corrispondenti ai numeri decimali compresi tra 0 e 63.
Se siete giunti fin qui senza grandi traumi e avete compreso la
maggior parte dei concetti esposti, potete essere orgogliosi di voi stessi e
tirare un sospiro di sollievo: il peggio è passato. Ora siamo pronti a
decifrare la misteriosa “Chapter 24”. Prima di tutto, il titolo della canzone
è evidentemente un riferimento al capitolo 24 dell’I Ching, cioè
all’esagramma n. 24 nella sequenza di Re Wen, illustrato nella figura 7.8.
L’esagramma n. 24 è denominato Fu, che significa “ritorno”. La sua
rappresentazione binaria è 000001, equivalente al numero decimale 1.
Vediamo ora di interpretare i sibillini versi di Syd Barrett.

Figura 7.8L’esagramma n. 24 dell’I Ching.

Un movimento si compie in sei stadi


Questa frase si può comprendere solo aggiungendo un piccolo, ulteriore
elemento di complessità. Le linee dell’I Ching, intere o spezzate che
siano, possono essere fisse oppure mutanti (questo fatto, tra l’altro, spiega
perché l’I Ching sia anche noto come Libro dei Mutamenti). Una linea è

105
mutante se tende a trasformarsi nel suo opposto: da intera a spezzata, o
viceversa. Se un esagramma contiene una sola linea mutante, quindi, ai
fini della divinazione viene considerato anche un secondo esagramma, al
quale il primo tende: esso differisce dal primo per una sola delle sei linee.
Molti passi dell’I Ching fanno riferimento a “catene” di esagrammi,
nelle quali la linea variabile sale di una posizione esagramma dopo
esagramma. Per esempio, se partiamo dall’esagramma n. 44, che ha la
prima linea spezzata e le altre intere, e mutiamo la seconda linea,
otteniamo l’esagramma n. 33, che ha le prime due linee spezzate e le altre
intere. Se trasformiamo poi la linea immediatamente superiore, creiamo
l’esagramma n. 12. Ripetendo altre tre volte la medesima operazione, ecco
di seguito gli esagrammi n. 20, n. 23 e n. 2 (si veda la figura 7.9).

Figura 7.9La catena degli esagrammi nn. 44-33-12-20-23-2.

Ecco allora i sei stadi di cui parla Barrett nell’incipit della canzone: sono i
sei esagrammi della catena appena descritta. Il loro significato simbolico
ha a che fare con il calendario. L’esagramma n. 44 è associato al mese di
giugno: la prima linea spezzata simboleggia la presenza del principio
invernale yin, percepibile secondo la visione orientale già all’inizio
dell’estate. Gli esagrammi successivi sono legati rispettivamente ai mesi
di luglio (n. 33), agosto (n. 12), settembre (n. 20), ottobre (n. 23) e
novembre (n. 2).3 Avrete certamente notato come quest’ultimo
esagramma è formato da sei linee spezzate: è infatti a questo periodo
dell’anno, tecnicamente ancora autunnale, che l’I Ching associa il
principio invernale yin più profondo.

E il settimo riconduce al principio


Se proseguiamo la catena di mutazioni, ricominciando dalla prima linea in
basso, otteniamo il fatidico esagramma n. 24, perfettamente
complementare rispetto al n. 44. Se l’esagramma n. 44 possedeva la prima
linea spezzata e le altre tutte intere, l’esagramma Fu presenta la prima

106
linea intera e le altre tutte spezzate. Questo è in totale accordo con il
significato simbolico di queste strutture: l’esagramma n. 44 rappresenta il
mese di giugno, mentre il n. 24 rappresenta il suo “opposto”, il mese di
dicembre.
Tutto funziona anche dal punto di vista matematico: la versione
binaria dell’esagramma n. 44 è 111110, mentre quella dell’esagramma Fu
è l’esatto complemento binario, ovvero 000001.

Il sette è il numero della luce giovane


Nell’esagramma n. 24, il settimo della catena, la linea in basso è diversa
da tutte le altre, come accade anche, con segno opposto, nell’esagramma
n. 44. La prima linea intera del Fu ci insegna che persino il gelido mese di
dicembre custodisce la promessa yang delle future stagioni calde. La “luce
giovane” è proprio questo timido ma indomabile principio estivo che torna
a manifestarsi già nel momento più freddo dell’anno. Ecco perché
l’esagramma n. 24 è connesso al concetto del “ritorno”.

Si forma quando l’oscurità è aumentata di uno


Come già visto, la rappresentazione binaria dell’esagramma n. 24
corrisponde al numero decimale 1. L’esagramma immediatamente
precedente nella catena è il n. 2, formato da sole linee spezzate e
corrispondente al numero decimale 0: lo yin assoluto, cioè il freddo mese
di novembre e la notte umida e oscura. Ecco in che senso l’esagramma del
ritorno nasce dall’esagramma dell’oscurità “aumentato di uno”: il verso di
Barrett fa riferimento all’interpretazione rigorosamente binaria dell’I
Ching, per intenderci quella di Shao Yung e di Leibniz.
I successivi versi della canzone si riferiscono ad aspetti legati
principalmente all’interpretazione divinatoria dell’esagramma Fu e meno
alle sue implicazioni matematiche.

Come abbiamo visto, quasi tutti gli artisti della scena psichedelica dei
Sixties subirono la fascinazione delle filosofie e delle culture esotiche,
specialmente quelle orientali. Anche i Beatles non fecero eccezione e il
baronetto più coinvolto in questo senso fu il chitarrista George Harrison:

107
le manifestazioni più evidenti furono l’introduzione del sitar
nell’orchestrazione di “Norwegian Wood” del 1965, la composizione
della trilogia “indiana” del periodo 1966-1968 (composta da “Love You
To”, dalla già citata “Within You Without You” e da “The Inner Light”) e
l’influsso del Libro dei Mutamenti nella scrittura del testo della celebre
“While My Guitar Gently Weeps”.
Harrison affermò di aver imparato, grazie alla lettura dell’antico libro
cinese, che non esistono coincidenze né eventi privi di senso: ogni
accadimento ha uno speciale significato, legato al preciso istante in cui si
verifica e connesso agli altri fatti che avvengono in contemporanea.
Questa concezione, denominata sincronicità, era stata spiegata da Carl
Gustav Jung nella sua famosa prefazione all’I Ching. Anni dopo, nel
1983, un altro gruppo rock, i Police, avrebbe tratto ispirazione dalla teoria
di Jung per il proprio ultimo album, intitolato proprio Synchronicity.
Ammaliato da questa dottrina, Harrison decise di scrivere una canzone
lasciandosi guidare dalle prime parole che avesse trovato in un libro:
qualsiasi frase avrebbe avuto un significato degno di essere utilizzato
come ispirazione per un brano musicale. Scelse allora di aprire a caso una
raccolta di poesie di Coates Kinney (1826-1904) dove trovò alcuni versi
della poesia Rain on the Roof:
And the melancholy darkness
Gently weeps in rainy tears.

Harrison cominciò a comporre “While My Guitar Gently Weeps” durante


il viaggio dei Beatles in India, tra il febbraio e l’aprile del 1968. Tra
agosto e settembre la canzone fu registrata con il contributo di Eric
Clapton alla chitarra solista e vide la luce il 22 novembre all’interno del
doppio White Album.
Negli anni successivi, altri musicisti rock trovarono spunti creativi
nelle pagine dell’I Ching: per esempio Vittorio Nocenzi, tastierista del
Banco del Mutuo Soccorso, che nel 2009 pubblicò Estremo Occidente,
raccolta di nove composizioni ispirate ad altrettanti esagrammi del libro
cinese. Tuttavia, l’unico lavoro musicale in grado di cogliere nell’I Ching
non soltanto gli aspetti divinatori, sapienziali e simbolici, ma anche gli
elementi genuinamente matematici e combinatori rimane “Chapter 24” dei
Pink Floyd. È infatti il loro creatore, Syd Barrett, crazy diamond e

108
“pifferaio alle porte dell’alba”, che ci ha consegnato la chiave per
decifrare l’oracolo e ci ha accompagnati nel suo viaggio acido e
meraviglioso attraverso la matematica degli esagrammi.

1.Il ritornello e la prima strofa si ripetono identici anche dopo la seconda strofa.
2.In particolare, il brano "Music of Changes", per pianoforte solo, composto da Cage nel
1951.
3.I periodi a cui fa riferimento l’I Ching non corrispondono esattamente ai mesi
occidentali, ma sono sfasati in avanti di qualche giorno: per esempio il periodo legato
all’esagramma n. 44 comincia nel mese di giugno, ma si prolunga fino ai primi giorni di
luglio.

109
8

Nella vita di chi?

All these places have their moments


With lovers and friends I still can recall
Some are dead and some are living
In my life, I’ve loved them all.
(da “In My Life” dei Beatles,
in Rubber Soul, 1965)

Avete un disco dei Beatles? Bene, prendetelo in mano e leggete la lista


delle canzoni: troverete certamente, in corrispondenza di qualche brano, la
doppia attribuzione “Lennon-McCartney”. Circa 180 canzoni, la maggior
parte delle quali registrate e pubblicate dal celebre quartetto, portano
questa illustre firma congiunta, frutto di un accordo stretto dai due
musicisti ai primordi della loro amicizia: un patto informale, eppure quasi
mai violato fino al termine dell’era Beatles, in base al quale ogni brano
scritto dall’uno o dall’altro sarebbe stato ufficialmente attribuito a
entrambi gli autori. Nacque così la collaborazione musicale più celebre
della storia, il cui successo è certificato dai 600 milioni di dischi venduti
dai Beatles fino a oggi. Il duo aveva una caratteristica del tutto innovativa
rispetto alle coppie di autori conosciute in precedenza: non c’era un
compositore e un paroliere, ma entrambi erano perfettamente a loro agio
sia nella scrittura musicale che nella stesura dei testi.
I due ragazzi si conobbero il 6 luglio del 1957 durante una festa
parrocchiale a Woolton: Lennon suonava con il suo gruppo, i Quarrymen,
e un amico comune gli presentò McCartney. Nonostante fosse appena
quindicenne, Paul stupì i componenti della band perché conosceva a
memoria un sacco di pezzi di rock’n’roll e di lì a poco fu ammesso nel

110
gruppo. Tra Paul e John nacque una solida amicizia e ben presto
cominciarono a incontrarsi nelle rispettive case per ascoltare i dischi dei
loro artisti preferiti: seduti l’uno di fronte all’altro, cercavano di riprodurre
gli accordi sulle loro chitarre e imparavano i testi. Paul, che fin da
giovanissimo scriveva canzoni, propose all’amico di crearne insieme di
nuove. Le prime composizioni firmate Lennon-McCartney nacquero
veramente da un lavoro a quattro mani: uno dei due aveva un’idea, la
strimpellava sulla chitarra, l’altro diceva la sua, insieme discutevano su
come sviluppare e migliorare il frammento e così via, finché la canzone
non veniva completata. Quando, nel 1959, i Quarrymen si sciolsero per
lasciar posto ai Beatles, la coppia divenne il formidabile motore
compositivo della nuova formazione e la band cominciò a interpretare
sempre più spesso i brani originali firmati Lennon-McCartney. Al famoso
provino del 6 giugno 1962 per la EMI, i Beatles suonarono lo standard
“Besame Mucho”, ma anche tre canzoni proprie (“Love Me Do”, “P.S. I
Love You” e “Ask Me Why”). Una volta messi sotto contratto, i giovani
musicisti convinsero il produttore George Martin a incidere sul 45 giri di
debutto “Love Me Do” e “P.S. I Love You” anziché una cover di altro
autore.
George Martin ha individuato l’elevata qualità della produzione
musicale della coppia Lennon-McCartney nell’amichevole competizione
che già dai primi anni si era stabilita tra i due, nonché alla feconda,
reciproca osmosi tra le due sensibilità compositive. A partire dal 1964
divenne piuttosto frequente che le canzoni venissero scritte principalmente
da uno dei due autori, con un contributo limitato se non addirittura nullo
da parte dell’altro. Per fare qualche esempio, “She’s Leaving Home” e
“Hey Jude” sono canzoni di McCartney su cui Lennon intervenne molto
poco, mentre “Girl”, “Strawberry Fields Forever” e “Hey Bulldog” furono
scritte da Lennon with a little help da parte del collega. Di altre
composizioni possiamo affermare con certezza la paternità esclusiva di un
solo musicista: pezzi come “Yesterday” e “Here There and Everywhere”
uscirono dalla penna di Paul senza alcuna partecipazione di John, mentre
l’esatto opposto avvenne per “I Am the Walrus” e altre.
Per una manciata di canzoni, come “Baby’s in Black”, “A Day in the
Life” (su cui tornerò nel capitolo 13), “Baby, You’re a Rich Man” e “I’ve
Got a Feeling”, si può invece parlare di un apporto paritario dei due
autori.

111
Infine, ci sono alcuni pezzi firmati Lennon-McCartney sui quali non
abbiamo certezze, magari perché c’è un autore principale presunto ma
esistono anche versioni contrastanti. Per esempio, si sa per certo che la
melodia di “Eleanor Rigby”, pubblicata su Revolver del 1966, sia uscita
dall’estro di McCartney, ma per quanto riguarda il testo i due artisti sono
in disaccordo: nel 1972 Lennon disse di averne scritto il 70%, mentre
McCartney assicurò nel 1985 che il collega aveva scritto solo “mezzo
verso”. Un altro caso dubbio è rappresentato dalla canzone “Being for the
Benefit of Mr. Kite!”, compresa nell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts
Club Band: Lennon ha affermato a più riprese di aver composto il brano
da solo traendo ispirazione da una locandina circense ottocentesca, ma nel
2013 McCartney, in un’intervista a “Rolling Stone”, ha sostenuto di aver
contribuito in modo rilevante alla scrittura. E ancora potremmo citare
pezzi come “And Your Bird Can Sing” e “Ticket to Ride”.
Due canzoni dall’autore controverso sono “In My Life” e “The
Word”, entrambe incluse in Rubber Soul, l’album che i Beatles
pubblicarono il 3 dicembre 1965. Dopo l’esperienza di Help! di cui ho
detto nel capitolo 6, i quattro di Liverpool sentivano l’urgenza di
rinnovare il proprio stile. La beatlemania cominciava a perdere vigore ed
era evidente che le sonorità beat sarebbero ben presto passate di moda: per
restare ai vertici era necessario evolvere verso qualcosa di nuovo. La vera
questione, tuttavia, non era di natura commerciale: i Beatles volevano anzi
affrancarsi dall’inseguimento dei gusti del pubblico e mettersi in gioco per
battere sentieri inesplorati. Se ascoltate le canzoni di Help! e subito dopo
quelle di Rubber Soul vi rendete conto subito del salto da gigante che la
band realizzò in pochi mesi: i testi, che nei dischi precedenti erano sempre
stati incentrati su vicende di amore romantico e adolescenziale,
diventarono molto più variegati e maturi, le musiche si fecero complesse e
comparvero innovative tecniche di registrazione e strumenti che mai si
erano ascoltati in brani pop (per esempio il sitar in “Norwegian Wood”).

112
Figura 8.1La copertina di Rubber Soul.

“In My Life” è un esempio emblematico di come i testi beatlesiani siano


cresciuti rispetto ai primi anni Sessanta: non è una canzone d’amore, ma
una canzone della memoria, che scava nel passato personale dell’autore.
Ma nel passato di quale autore? “Nella mia vita”, recita il titolo: ma nella
vita di chi? Intervistato da “Rolling Stone” nel 1970, John Lennon
affermò di aver scritto musica e parole quasi da solo, nella sua casa di
Weybridge in Inghilterra, e di essere stato aiutato marginalmente da Paul
McCartney nella melodia del middle eight (il passaggio strumentale
suonato al pianoforte da George Martin). Dieci anni dopo, Lennon
confermò questa versione alla rivista Playboy, sottolineando che quella fu
la prima volta che scrisse consapevolmente della propria vita. Il collega,
tuttavia, ha più volte ricordato che le cose andarono in modo diverso. In
un’intervista del 1984 dichiarò di avere scritto tutta la musica di “In My
Life”, mentre John si era limitato al testo:
Forse John se ne era dimenticato, ma la musica la scrissi io. Ricordo che mi passò
le parole, come una specie di poesia […] Mi appartai per una mezz’oretta e con
l’aiuto del mellotron di John, buttai giù la melodia […]

113
Figura 8.2Il testo di "In My Life" scritto da John Lennon.

Anche Miles [1997] riporta la stessa ricostruzione di Paul, specificando


che quest’ultimo tornò da John dicendogli: “Ce l’ho! Una bella melodia,
direi. Che te ne pare?” Lennon confermò: “Bella!” e insieme continuarono
a sistemare i dettagli della canzone.
Se “In My Life” può essere vista, in quanto canzone autobiografica e
nostalgica, come un’anticipazione di “Penny Lane” e di “Strawberry
Fields Forever”, il brano “The Word” sembra essere un antesignano di
“All You Need Is Love”: come quest’ultimo, infatti, è fondamentalmente
un testo hippie, fondato sul tema dell’amore universale come panacea di
ogni male. Su questa canzone non vi è mai stata, come per “In My Life”,
una disputa sulla paternità. Paul ha riferito [Miles, 1997] che “The Word”
nacque in un contesto molto psichedelico: lui e John fumarono della
marijuana, scrissero insieme il pezzo e poi decorarono il foglio del testo

114
con disegni vivacemente colorati. Se sia stata una collaborazione paritaria
o se al contrario uno dei due avesse avuto l’idea principale e fosse stato
soltanto aiutato dall’altro, non è mai stato chiarito. Nell’opinione comune,
comunque, si è sempre sospettato che in questa canzone Lennon avesse
pesato più di McCartney.
Ebbene, nel 2018 tre accademici americani accomunati dalla passione
per i Beatles, Mark Glickman e Ryan Song dell’Università di Harvard e
Jason Brown della Dalhousie University, hanno annunciato di aver
affrontato il problema di attribuzione delle due canzoni utilizzando la
matematica e la statistica [8.1]. I due ricercatori hanno realizzato un
algoritmo intelligente in grado di capire se la musica di una qualsiasi
canzone firmata Lennon-McCartney è stata in realtà composta dall’uno o
dall’altro autore. La tecnica descritta in questo capitolo si riferisce alla
prima versione dell’algoritmo: in seguito, i tre studiosi hanno affrontato il
problema utilizzando un approccio statistico diverso, mediante il quale
hanno riscontrato risultati paragonabili ai precedenti [Glickman, 2019].
Com’è possibile che una macchina riesca in questo intento?
Istintivamente saremmo disposti a fidarci del giudizio di una commissione
di esperti e autorevoli musicisti in carne e ossa. Al contrario, quale
competenza musicale potrà mai avere un incorporeo software che gira
all’interno di un ammasso di silicio? Non sembra una cosa da pazzi far
risolvere a un algoritmo una disputa di paternità su una canzone?
Attenzione, non voglio certo dire che un algoritmo come quello di
Glickman e colleghi emetta certezze lapidarie e inappellabili. I suoi
responsi rappresentano soltanto probabilità: nella fattispecie, la
probabilità che una data canzone sia stata scritta da Lennon e quella,
complementare, che l’autore sia invece McCartney. Non meraviglia,
quindi, che il metodo progettato dai due scienziati si basi su quella parte
della matematica e della statistica che va sotto il nome di teoria della
probabilità.
Tutti noi abbiamo un’idea intuitiva di cosa sia la probabilità: se
lanciamo una moneta c’è una probabilità del 50% (o di ½, il che è lo
stesso) che esca testa, se lanciamo un dado c’è una probabilità di ⅙ che
esca 1, se lanciamo due dadi abbiamo una probabilità di ⅙ ∙ ⅙ = 1/36 che
escano due 6 e così via. I primi studi sulla probabilità risalgono al XVI
secolo, grazie al poliedrico scienziato pavese Girolamo Cardano. Nel

115
1596 un ulteriore contributo alla nascente teoria fu offerto niente meno
che da Galileo Galilei: un gruppo di nobili fiorentini, infatti, gli chiesero
di chiarire perché nel gioco a tre dadi chiamato zara il 10 e l’11 uscissero
con frequenza maggiore rispetto al 9 e al 12. Nel suo trattato Sopra le
scoperte dei dadi il grande pisano risolse il problema, dimostrando che
esistono 27 modi per ottenere il 10 e l’11 e soltanto 25 modi per ottenere
il 9 e il 12.
Nel 1654, Antoine Gombaud, cavaliere de Méré, un aristocratico con
l’hobby del gioco d’azzardo, lanciò al suo amico Blaise Pascal una sfida
costituita da una serie di difficili problemi sulla probabilità. Il famoso
scienziato coinvolse nella risoluzione un altro illustre matematico, Pierre
de Fermat: i due si scambiarono un famoso carteggio di sei lettere (tre per
parte) nel quale per la prima volta furono formulati in modo rigoroso i
principi fondamentali della teoria della probabilità. Tre anni dopo,
l’olandese Christiaan Huygens si aggiunse ai due francesi come
cofondatore della nuova teoria, dando alle stampe il primo libro
sull’argomento, De ratiociniis in ludo aleae.
Nel corso del XVIII secolo la teoria della probabilità si sviluppò
ulteriormente grazie agli studi del matematico svizzero Jakob Bernoulli.
Quest’ultimo fu anche uno dei primi scienziati a riflettere sulle molteplici
possibilità di definire la nozione di probabilità. Se pesco a caso una carta
da un mazzo da poker, ho una probabilità di ¼ di estrarre una carta di
cuori. Ma che cosa intendiamo, veramente, dicendo che la probabilità è
uguale a ¼? Una prima interpretazione, nota come “classica”, è la
seguente: il rapporto tra il numero di carte di cuori (13) e il numero totale
di carte del mazzo (52) è uguale a ¼.
Tuttavia, potremmo ragionare in modo diverso. Immaginiamo di
effettuare 1000 estrazioni, rimettendo ogni volta nel mazzo la carta
pescata. Secondo voi quante volte uscirà una carta di cuori? Non lo
possiamo sapere con certezza, perché non abbiamo la sfera di cristallo, ma
possiamo prevedere che non ci allontaneremo di molto da 250. Se le
estrazioni complessive fossero 10.000, i cuori usciranno circa 2500 volte.
Se continuassimo a fare estrazioni per l’eternità, il rapporto tra il numero
di estrazioni di carte di cuori e il numero complessivo di estrazioni
diventerebbe sempre più vicino a ¼. Questa è la famosa “legge dei grandi
numeri”, formulata per la prima volta proprio da Jakob Bernoulli. E il
valore che quel rapporto assume quando il numero di estrazioni diventa

116
sempre più grande può essere adottato come una nuova definizione della
probabilità (in questo esempio la probabilità di estrarre cuori da un mazzo
di carte). Successivamente sono state proposte altre formulazioni di
probabilità, ma le due appena descritte rimangono le più note e le più
intuitive.
Nel 1763 venne pubblicata, postuma, l’opera in cui il matematico
inglese Thomas Bayes aveva dimostrato un teorema in cui figurava il
concetto di probabilità condizionata. Se A e B sono eventi che possono
verificarsi, la probabilità condizionata di A rispetto a B, che si indica con
il simbolo P(A|B), è la probabilità che possiamo attribuire al verificarsi di
A sapendo che B è accaduto. Immaginate che A sia la presenza di una
meningite in un certo paziente e che B sia il verificarsi di un torcicollo
nella stessa persona. La probabilità P(A|B) corrisponde allora alla
probabilità che un soggetto che lamenta un torcicollo sia affetto da
meningite. Le probabilità non condizionate P(A) e P(B) sono entrambe
diverse da P(A|B): la prima è la probabilità che una persona sia malata di
meningite (indipendentemente dal fatto che abbia il torcicollo o meno) e
la seconda è la probabilità che abbia il torcicollo (a prescindere dalla
presenza di meningite). Altra cosa ancora è la probabilità condizionata
P(B|A), ovvero la probabilità che un paziente affetto da meningite presenti
il sintomo del torcicollo.
Bayes dimostrò che in generale la probabilità condizionata può essere
calcolata mediante la seguente formula:

Supponiamo che il torcicollo colpisca i malati di meningite nel 50% dei


casi, che la probabilità di essere affetti da meningite sia una su 50.000 e
che la probabilità di soffrire di torcicollo sia una su 20. Allora il teorema
di Bayes ci assicura che la probabilità che un torcicollo sia causato da una
meningite è pari a:

117
Come dire: è lecito aspettarsi che solo uno su 5000 pazienti col torcicollo
soffra di meningite.
Spesso una probabilità non è condizionata da un solo evento, ma da un
insieme di eventi: per fortuna anche in questi casi possiamo sfruttare
felicemente il teorema di Bayes. Consideriamo proprio l’esempio delle
canzoni dei Beatles: in questo caso gli eventi condizionanti presi in
considerazione dai tre ricercatori americani sono costituiti dalla presenza
o dall’assenza non del torcicollo, ma di 149 caratteristiche melodiche e
armoniche all’interno del brano.
Ognuna di queste caratteristiche può essere presente o assente nel
brano preso in esame, un po’ come uno studente può risultare presente o
assente durante una lezione a scuola. All’inizio dell’ora, l’insegnante entra
in aula, effettua l’appello e inserisce nel registro elettronico la sequenza di
“presente” e “assente” relativa agli alunni della classe. In modo analogo,
Glickman e colleghi hanno scandagliato settanta canzoni firmate Lennon-
McCartney appartenenti al periodo 1962-1966 e per le quali l’autore è
noto con certezza: per ognuna di esse hanno “fatto l’appello” delle
caratteristiche musicali selezionate, verificando quali fossero presenti e
quali assenti. Infine, hanno registrato nel loro database le sequenze di
“presente” e “assente” associate ai diversi brani.
Concentriamoci ora su “In My Life”. Chiamiamo B l’esito dell’appello
degli elementi melodici e armonici effettuato per questa canzone, ovvero
la configurazione di presenze e assenze delle caratteristiche stesse. Per
determinare la probabilità P(Lennon|B) che le note della canzone,
conoscendo la configurazione B, siano state scritte da John Lennon, i tre
scienziati hanno adattato per l’occasione la solita formula di Bayes:

Gli ingredienti erano tutti a disposizione.


P(B|Lennon) è la probabilità che la particolare configurazione uscita
dall’appello si riscontri in una qualsiasi canzone scritta da John Lennon,
mentre P(B) è la probabilità che la stessa configurazione riscontrata in “In
My Life” si ritrovi in una qualsiasi canzone a firma Lennon-McCartney.
Per stimare queste due probabilità, gli studiosi hanno attinto dal database
che avevano riempito in seguito all’analisi dei brani del periodo 1962-

118
1966.
P(Lennon) è invece la probabilità a priori che estratto a caso un pezzo
accreditato a Lennon-McCartney salti fuori una canzone di John, valutata
contando semplicemente quante delle canzoni censite sono state scritte
dall’uno o dall’altro autore.
Visto che gli unici autori possibili sono Lennon e McCartney, per
determinare la probabilità P(McCartney|B) che la musica di “In My Life”,
nota la configurazione B, sia di Paul, basta calcolare 1−P(Lennon|B).
Una volta calcolate le due probabilità P(Lennon|B) e P(McCartney|B)
relative a “In My Life”, i tre accademici hanno confrontato i due numeri
ottenuti e hanno potuto finalmente determinare la paternità della
composizione.
Ecco il verdetto, cari lettori: la probabilità che le note di “In My Life”
siano state scritte da John Lennon è risultata pari al 98,2%. Quasi una
certezza.1 Evidentemente, McCartney non ricordava bene come erano
andate le cose. Per “The Word”, invece, l’algoritmo ha sfornato un
responso di segno opposto: la canzone è, molto probabilmente, di Paul.
Il metodo adottato da Glickman, Song e Brown è un perfetto esempio
di quello che gli statistici chiamano classificatore: nella fattispecie, un
classificatore bayesiano perché si fonda sul teorema di Bayes. La
classificazione è uno dei problemi classici della statistica: in generale, si
fa classificazione ogni volta che si attribuisce un certo “oggetto” osservato
a una categoria specifica, scelta in un insieme prestabilito. Per esempio, i
filtri antispam che operano sui server di posta sono classificatori statistici,
perché analizzano il contenuto di ogni e-mail e decidono se si tratta di un
messaggio utile o di spazzatura. Un altro esempio può essere un algoritmo
che, sulla base dei sintomi rilevati in un paziente, produce una diagnosi,
cioè identifica una delle patologie possibili.
A prescindere dalla tecnica utilizzata (l’impiego del teorema di Bayes
come nell’algoritmo di Glickman, Song e Brown, o altri metodi), i
classificatori hanno una caratteristica comune: possono fornire il loro
responso solo dopo aver raccolto un’adeguata massa di informazioni su
casi già classificati.
Il classificatore che fa le diagnosi mediche, per esempio, potrà
mettersi all’opera dopo aver imparato da una serie di casi clinici già risolti
da medici in carne e ossa: solo disponendo di una banca dati formata da
molte associazioni tra sintomi osservati e diagnosi eseguite potrà dirsi

119
“esperto” e produrre a sua volta i propri responsi. I filtri antispam
apprendono sulla base di informazioni fornite in partenza dai
programmatori che li hanno sviluppati, ma raffinano le loro conoscenze
anche in corso d’opera grazie alle indicazioni degli utenti: ogni volta che
noi etichettiamo una e-mail ricevuta come spam insegniamo qualcosa di
nuovo al filtro antispam che lavora per noi.
Gli statistici, per denominare il lavoro degli algoritmi di
classificazione e di altri simili, utilizzano l’espressione machine learning,
ovvero “apprendimento automatico”: proprio perché l’algoritmo, prima di
passare ai fatti, deve imparare. Un po’ come noi, che prima di iniziare a
svolgere un’attività professionale dobbiamo apprendere i principi del
mestiere.
Oggi le tecniche di machine learning per l’analisi dei dati stanno
assumendo un’importanza sempre maggiore. Stiamo parlando di un
ambito che a pieno titolo rientra nel mondo dell’intelligenza artificiale,
perché mediante questi algoritmi i computer assumono capacità che in
qualche misura imitano le facoltà cognitive umane.
In modo analogo al medico artificiale e al filtro antispam, l’algoritmo
dei tre ricercatori americani è divenuto “intelligente” a seguito del suo
addestramento: come si è visto, questo si è basato sulla ricerca di 149
caratteristiche melodiche e armoniche all’interno di una settantina di
canzoni dei Beatles. Tanto per dare un’idea di cosa i due ricercatori hanno
osservato, queste caratteristiche riguardano le note adoperate per tracciare
le linee melodiche, le coppie di note melodiche consecutive, gli andamenti
ascendenti o discendenti delle sequenze di quattro note nelle melodie, i
tipi di accordi utilizzati e le transizioni da un accordo a un altro.
Come hanno osservato i due scienziati, il catalogo beatlesiano è stato
in questo modo sviscerato nei suoi componenti elementari, come quando
si scompone un colore qualsiasi determinando le percentuali di rosso,
verde e blu che contiene. L’algoritmo è diventato, per così dire, un esperto
di canzoni di Beatles: e la sua profonda competenza è stata racchiusa, in
ultima analisi, in tutte quelle probabilità del tipo P(B|Lennon) e P(B).
Proprio all’interno di quei numeri risiede la conoscenza dei rispettivi stili
compositivi dei due songwriters.
Glickman ha sottolineato che, in fin dei conti, stiamo parlando di
caratteristiche piuttosto conosciute dei due autori. Lennon tendeva a
scrivere linee melodiche con distanze piccole tra le note. Questa

120
caratteristica è evidente, per esempio, in “I Am the Walrus”, “Across the
Universe” e nella strofa di “Help!”:

Figura 8.3Una parte della melodia di "Help!".

Come si vede, l’altezza delle note non varia molto, la melodia rimane
sempre abbastanza orizzontale e vicina al Do diesis iniziale. Al contrario,
molte delle canzoni di McCartney esibiscono oscillazioni molto più
ampie: ascoltate “Eleanor Rigby” e vi troverete salti anche di un’ottava.
Un altro marchio di fabbrica di Lennon, usato invece poco da
McCartney, era costituito dalla frequente alternanza, nello stesso brano,
tra una tonalità maggiore e la relativa minore. Questo si ritrova in canzoni
come “Run for Your Life” e “It’s Only Love”.
La sentenza del tribunale statistico di Glickman e colleghi è stata
emessa tenendo conto di questi elementi distintivi: in “In My Life”
l’algoritmo ha ritrovato più spesso quelli di John rispetto a quelli di Paul,
mentre l’opposto è accaduto per “The Word”.
I due ricercatori hanno osservato che in futuro potranno essere presi in
considerazione anche i testi, per rendere più preciso il calcolo delle
probabilità di attribuzione. Per la verità, un’operazione simile sul corpus
delle canzoni firmate Lennon-McCartney era stata già tentata nel 1996, da
parte della statistica Cynthia Whissell della Laurentian University in
Canada. In un articolo [Whissell, 1996] la ricercatrice aveva riferito i
risultati di una sua ricerca che mirava a caratterizzare gli stili compositivi
dei due songwriters nell’ambito dei testi e ad analizzare in generale
l’evoluzione dei testi beatlesiani nel corso del tempo.
Dai testi dei brani scritti da John e Paul nell’epoca Beatles, lo studio di
Whissell aveva raccolto due tipi di informazioni: dati tradizionalmente
usati negli studi stilometrici, cioè nelle ricerche che dall’analisi di un testo
cercano di risalire al suo autore (frequenze di parole utilizzate, lunghezza

121
dei vocaboli, utilizzo dei pronomi personali ecc.), ma anche dati legati al
significato emozionale dei termini impiegati.
Lo studio statistico aveva confermato sostanzialmente quanto gli
appassionati conoscono da sempre, e cioè che i testi di Lennon sono
mediamente più malinconici di quelli di McCartney e che,
complessivamente, i testi del gruppo si fecero, col passare degli anni, più
tormentati e introspettivi, allontanandosi progressivamente dal tema
amoroso.
Glickman, Song e Brown hanno ipotizzato che il loro metodo possa in
futuro essere applicato anche al di fuori della produzione del gruppo di
Liverpool e consentire nuove affascinanti scoperte relative al mondo
musicale. L’obiettivo da perseguire, hanno spiegato, va al di là della mera
risoluzione di vecchie dispute musicali. Si potrebbe infatti ambire a uno
studio approfondito dell’intera storia della musica pop-rock guidato
dall’intelligenza artificiale, e il risultato finale potrebbe essere una grande
mappa delle influenze stilistiche tra artisti diversi. Possiamo sognare un
nuovo, potente algoritmo in grado di confrontare gli elementi
caratterizzanti dei diversi autori e tracciare collegamenti reciproci. Si
potrebbe così capire quali artisti precedenti abbiano maggiormente
ispirato un certo musicista o una certa band e, analogamente, quali siano
stati i loro veri eredi musicali: tutte domande alle quali non è mai facile
rispondere. Riuscire a portarlo a termine per certi gruppi centrali nella
storia del pop-rock, come i Beatles, equivarrebbe a tracciare una intricata
rete di ascendenti reciproci, una rappresentazione di come l’ispirazione e
le idee siano rimbalzate tra le menti più geniali di un’epoca.

1.Va però osservato, per completezza, che la seconda versione della ricerca ha ridotto
questa percentuale all’81,1%, limitatamente alla strofa della canzone (per il middle eight
si abbassa addirittura al 56,5%).

122
Parte terza
GEOMETRIA E TOPOLOGIA

123
9

Inafferrabile π

3,14159…
(da “Pi” di Kate Bush,
in Aerial, 2005)

Una mattina del 1973, David Gilmour, il chitarrista dei Pink Floyd,
ricevette alcuni nastri sui quali si ascoltava la voce di una ragazza
quindicenne, alle prese con decine di brani da lei stessa composti. I nastri
erano stati artigianalmente registrati dall’amico di famiglia Ricky Hopper:
convinto delle eccezionali doti della giovanissima cantautrice, desiderava
metterla in contatto con qualche seria opportunità nel mondo musicale. In
quel periodo i Pink Floyd avevano terminato il trionfale tour di
promozione dell’album The Dark Side of the Moon, cosicché il chitarrista
poteva concedersi un po’ di tempo per ascoltare i provini che riceveva in
continuazione, nella speranza di trovare qualcosa di meritevole.
Purtroppo, si trattava quasi sempre di spazzatura.
In quelle cassette gracchianti, però, il chitarrista sentì qualcosa di
speciale, anzi rimase letteralmente folgorato dalla voce duttile e
particolarissima della ragazza. Senza perdere tempo, si accordò con
Hopper e andò personalmente a casa della giovane musicista per ascoltarla
di nascosto mentre cantava le sue canzoni accompagnandosi al pianoforte.
Solo dopo un po’ di tempo Gilmour si palesò e chiese alla ragazza di
suonargli qualche altro pezzo. In quell’occasione il chitarrista effettuò una
registrazione di qualità intermedia, ma si rese conto che quella voce
meritava di più: così invitò la ragazza nel suo studio per realizzare una
demo professionale da presentare alle principali case discografiche.
Due anni dopo, però, non era ancora accaduto nulla. Gilmour decise

124
allora di produrre una nuova registrazione, coinvolgendo famosi musicisti
e addirittura Geoff Emerick, il mitico ingegnere del suono dei Beatles, e
pagando tutto di tasca propria. Nei giorni in cui i Pink Floyd stavano
lavorando al disco Wish You Were Here negli studi di Abbey Road,
Gilmour fece ascoltare la cassetta a un dirigente della EMI, Bob Mercer,
che era venuto a vedere di persona come procedeva il lavoro. Mercer
rimase positivamente impressionato e coinvolse subito il suo responsabile,
Terry Slater.
“Di chi è questa voce di usignolo?” domandò Slater. “Si chiama Kate
Bush” fu la risposta.
Slater si fece dare subito il numero di telefono di Kate e la chiamò.
Considerando la giovanissima età della musicista, la EMI decise di
aspettare un paio d’anni prima di gettarla nella mischia. Ma il destino era
ormai segnato. Nel 1978 l’uscita di The Kick Inside, che conteneva la
celebre “Wuthering Heights”, fu una rivelazione nel mondo della musica
pop-rock. Il disco restò per settimane in testa alle classifiche, segnando
l’inizio della carriera di una delle più grandi cantautrici di sempre. Perfino
le vendite del romanzo di Emily Brontë, al quale si ispirava il singolo di
lancio, conobbero un aumento imprevisto.
Gli album successivi, tutti coronati da successo di vendita e di critica,
furono Lionheart (1978), Never for Ever (1980), The Dreaming (1982),
Hounds of Love (1985), The Sensual World (1989) e The Red Shoes
(1993); Hounds of Love ebbe perfino più successo di The Kick Inside.
Dopo The Red Shoes, l’artista inglese si chiuse in un silenzio che durò
dodici anni. Nel 2005 l’attesa dei fans ebbe fine: finalmente uscì un nuovo
album, addirittura doppio, dal titolo Aerial. Un disco che fu accolto
positivamente dalla critica e vendette parecchio in tutto il mondo. Una
delle tracce più insolite dell’album aveva un testo profondamente
matematico. Il suo titolo era brevissimo: “Pi”, che è il modo con cui in
inglese ci si riferisce al numero π, ovvero il celebre “pi greco”.
Tutti noi abbiamo una nozione più o meno definita di cosa sia π:
magari ci ricordiamo vagamente, dai tempi della scuola, che è un numero
che vale circa 3,14 e che ha qualcosa a che vedere con i cerchi. Provate a
fare questo esperimento: avvolgete un pezzo di spago attorno a una lattina
di Coca-Cola e tagliatelo in modo che sia lungo esattamente quanto serve
per circondare la base del cilindro. Tracciate poi su un foglio il contorno
della base della lattina. Il cerchio che avete ottenuto ha una circonferenza

125
lunga quanto lo spago, ma il suo diametro è ovviamente molto più corto.
Precisamente, se confrontiamo queste due lunghezze, ci accorgiamo che il
diametro sta 3 volte nella lunghezza dello spago, ma avanza anche un
piccolo pezzo. Ecco, π è il rapporto tra la lunghezza della circonferenza di
un cerchio e quella di un suo diametro, e vale qualcosa di più di 3: circa
3,14, appunto.
Che cosa può aver spinto una pop star come Kate Bush a dedicare una
canzone a un numero? A dire il vero, la musicista inglese non è stata
l’unica a lasciarsi ispirare da π: dobbiamo segnalare anche l’album π 3,14
pubblicato nel 1981 dai Rockets, band francese di rock elettronico e
spaziale, molto popolare negli anni Settanta. E quindi, a maggior ragione,
cos’ha di speciale il rapporto tra la circonferenza e il diametro dei cerchi,
per ammaliare matematici e pop star? Prima di tutto, il fatto che questo
rapporto è lo stesso per tutti i cerchi, siano essi grandi o piccoli. Non è
affatto una cosa scontata, se ci pensate. Non abbiamo notizia di chi
comprese per primo che questa costante è universale: ma di certo si trattò
di una scoperta di capitale importanza, risalente alla più remota antichità.
Quando una grandezza non cambia mai, anche se variano alcune
condizioni esterne (in questo caso la dimensione dei cerchi), vuol dire che
è un numero speciale. E le cose speciali meritano un nome. Curiosamente,
il battesimo di π fu celebrato in tempi piuttosto recenti, verso l’inizio del
Settecento. Secondo alcuni, fu scelta proprio questa lettera dell’alfabeto
greco perché iniziale della parola greca periphereia, che significa
circonferenza, ma è probabile che si trattasse secondariamente di un
omaggio al grande matematico Pitagora, che di geometria se ne intendeva.
Forse il vero motivo del fascino di π è un altro. In un’intervista
rilasciata dopo l’uscita di Aerial, Kate Bush dichiarò [9.1]:1
Mi piace molto la sfida di cantare i numeri, perché, al contrario delle parole, loro
sono così privi di emozione e proprio per questo motivo così affascinanti da
cantare […] Trovo i numeri affascinanti ed è affascinante l’idea che quasi tutto
possa essere ridotto in numeri. E penso anche che oggi siamo completamente
circondati dai numeri, mentre venti o trent’anni fa non era così […] Trovo
intrigante che ci siano persone che passano davvero la vita a calcolare π, e anche
l’idea di questo numero, che in un certo senso continua fino all’infinito e
ugualmente le persone cercano di determinarlo, conquistarlo, farlo proprio…

Ecco, le parole della cantautrice colgono perfettamente nel segno e

126
spiegano bene perché π è così attraente: perché è impossibile conquistarlo
veramente. Le cifre di π sono infinite e per quanto ci spingiamo in là nella
sua esplorazione non finiremo mai di conoscerlo. Non sapremo mai
quanto vale esattamente questo numero. Ma proprio perché è un traguardo
impossibile da raggiungere, vale la pena di intraprendere e continuare la
sfida. D’altra parte, lo sappiamo tutti che le cose difficili o addirittura
impossibili da ottenere sono spesso quelle più desiderabili: è un po’ come
la compagna di classe che non accettava mai di uscire con voi, eppure
proprio per questo rappresentava il vostro sogno proibito.
Detto diversamente, π è un numero semplice e complesso al tempo
stesso. Semplice, perché è un valore che scaturisce naturalmente da una
figura geometrica fondamentale come il cerchio. Complesso, perché
l’architetto del mondo si divertì a fare in modo che un rapporto così
centrale e naturale come π non coincidesse banalmente con una quantità
intera (per esempio 3) e nemmeno con il risultato di una divisione tra
quantità intere (come 22/7), ma fosse uguale a un numero diabolico con
una sfilza infinita e apparentemente irregolare di cifre decimali.
L’infinità dello sviluppo decimale di π ha ispirato perfino un premio
Nobel per la Letteratura, la poetessa polacca Wisława Szymborska:
È degno di ammirazione il pi greco
tre virgola uno quattro uno.
Anche tutte le sue cifre successive sono iniziali,
cinque nove due, poiché non finisce mai.
Non si lascia abbracciare sei cinque tre cinque dallo sguardo,
otto nove dal calcolo,
sette nove dall’immaginazione,
e nemmeno tre due tre otto dallo scherzo, ossia dal paragone
quattro sei con qualsiasi cosa
due sei quattro tre al mondo.
Il serpente più lungo della terra dopo vari metri s’interrompe.
Lo stesso, anche se dopo un po’, fanno i serpenti delle fiabe.
Il corteo di cifre che compongono il pi greco
non si ferma sul bordo della pagina,
è capace di srotolarsi sul tavolo, nell’aria,
attraverso il muro, la foglia, il nido, nuvole, diritto fino al cielo,
per quanto è gonfio e senza fondo il cielo.
Quanto è corta la treccia della cometa, proprio un codino!
Com’è tenue il raggio della stella che s’incurva in ogni spazio! […]2

127
Eccola, la sfida: trovare il corteo di cifre di cui parla la Szymborska.
Ovvio, almeno le prime cifre, perché se tutte le sue cifre successive sono
iniziali […] poiché non finisce mai, non le potremo certo trovare tutte.
Però si sa, l’appetito vien mangiando. E poi, all’inizio non era chiaro a
tutti che le cifre decimali fossero infinite. Per esempio, in un passo
dell’Antico Testamento che descrive l’altare del tempio di Salomone,3 si
afferma implicitamente che π è esattamente uguale a 3. Evidentemente
l’autore biblico non era matematicamente ispirato, se consideriamo che,
già mille anni prima che i sacri versi fossero scritti, il famoso papiro
egizio di Rhind proponeva l’approssimazione molto più precisa di 256
diviso 81, cioè circa 3,16.
Ma anche la stima egizia era, ovviamente, scorretta: non esistono due
numeri interi il cui rapporto dia il valore esatto di π. Se proviamo a
calcolare 22 diviso 7, oppure 355 diviso 113, otteniamo valori vicini al
numero magico del cerchio, ma non precisamente uguali. Quando un
numero è sfuggente in questo modo, perché diverso da qualsiasi frazione,
si dice che è un numero irrazionale. Tutti i numeri di questo genere hanno
le cifre decimali dopo la virgola che si susseguono all’infinito: non solo,
ma non hanno nemmeno periodicità, cioè non ci sono spezzoni di cifre
decimali che si ripetano ciclicamente. Come se non bastasse, π non si può
nemmeno ottenere come soluzione di un’equazione algebrica con
coefficienti interi e per questo viene detto trascendente (torneremo nel
capitolo 14 su questo concetto).
Il testo della canzone di Kate Bush tratteggia un uomo dolce, gentile e
sensibile, dalla natura ossessiva e profondamente affascinato dai numeri
e completamente infatuato dal calcolo di π: sembra davvero il profilo
tipico dei “cacciatori di cifre” che da millenni rivolgono i loro sforzi
all’esplorazione di π:
Oh he love, he love, he love
He does love his numbers
And they run, they run, they run him
In a great big circle
In a circle of infinity

Il riferimento al grande cerchio di infinito sembra racchiudere una


molteplicità di significati. Certamente la Bush allude all’infinità dello
sviluppo decimale di π, ma forse anche a uno dei classici rompicapi della

128
geometria greca: il problema della quadratura del cerchio, ovvero la
costruzione di un quadrato con la stessa area di un cerchio dato,
adoperando solo una riga e un compasso. Dato che l’area di un cerchio di
raggio r è uguale a πr2, un quadrato con la stessa area dovrebbe avere il
lato uguale alla radice quadrata di πr2, cioè r ∙ √π. Quadrare il cerchio,
quindi, significava calcolare quella radice quadrata con il solo ausilio di
riga e compasso.
Nel celebre romanzo La montagna incantata, il grande scrittore
tedesco Thomas Mann tratteggia la figura del procuratore Paravant,
malato di tubercolosi e ricoverato nel sanatorio sulle Alpi svizzere in cui è
ambientata la vicenda. Paravant, tormentato dallo studio di π e dalla
quadratura del cerchio, non sembra molto diverso dal romantico studioso
descritto da Kate Bush:
I suoi discorsi si aggiravano sempre e con tremenda monotonia intorno al rapporto
pi greco, a questa disperata frazione che l’umile genio di un calcolatore mentale di
nome Zacharias Dase calcolò fino a duecento decimali, ma per puro lusso, perché
le possibilità di avvicinarsi all’irraggiungibile esattezza non si esaurirebbero
neanche con duemila cifre, e anzi rimarrebbero tali e quali. […] L’inutilità di
moltiplicare in eterno il diametro per pi greco al fine di trovare la circonferenza, il
quadrato del raggio per pi greco al fine di trovare la superficie del cerchio,
procurava a Paravant attacchi del dubbio se dopo i giorni di Archimede l’umanità
non si sia creata eccessive difficoltà e la soluzione del problema non sia invece
puerile e semplicissima. Come? non si dovrebbe poter rettificare la circonferenza
né pertanto piegare a cerchio qualunque retta? Certe volte il procuratore si credeva
prossimo a una rivelazione. Spesso lo si vedeva, la sera tardi, nella sala da pranzo
ormai deserta e scarsamente illuminata, ancora seduto alla sua tavola, sul cui piano
sgombro disponeva accuratamente un pezzo di spago in forma di cerchio e poi,
con gesto improvviso, lo stendeva formando una retta, e infine, con la testa fra le
mani, si concentrava in amare riflessioni.4

Alla fine dell’ultimo canto del Paradiso, appena prima del conclusivo
amor che move il sole e l’altre stelle, Dante Alighieri si trova ad
affrontare l’arduo compito di spiegare il mistero dell’incarnazione e della
coesistenza tra natura divina e umana di Cristo. Per far capire che non si
tratta di un gioco da ragazzi, il sommo poeta paragona questi dilemmi
teologici all’intricato enigma della quadratura del cerchio:
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,

129
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.5

Nel 1882, il matematico tedesco Ferdinand von Lindemann scoprì che π è


trascendente: da questo discendeva automaticamente che π non poteva
essere calcolato con riga e compasso e quindi la quadratura del cerchio era
impossibile. Il procuratore Paravant si affannava inutilmente su un
problema senza soluzione.
Ma π non ha a che fare soltanto con i cerchi, e questa è un’altra sua
caratteristica sorprendente. Fino al Seicento i matematici avevano dato per
scontato che il rapporto tra la circonferenza e il diametro dei cerchi
dovesse avere una giurisdizione limitata alla geometria. In quel periodo,
però, si cominciò a comprendere che π in realtà era presente ovunque, in
tutti i rami della matematica, dalla teoria dei numeri all’analisi, dal calcolo
della probabilità alla statistica, e compare in numerose formule e teoremi
che nulla hanno a che vedere con i cerchi né con altre figure geometriche.
L’influenza di π non si ferma nemmeno ai confini della matematica,
ma invade anche la fisica, apparendo in molte formule che riguardano la
meccanica, l’elettromagnetismo, la teoria quantistica e la relatività: a
proposito di quest’ultima teoria, π compare in una delle equazioni più
belle e famose della fisica, nota come equazione di campo di Einstein, che
rappresenta la sintesi finale della relatività generale e descrive l’effetto
della gravitazione come curvatura dello spaziotempo provocata dalla
materia e dall’energia. Guarda caso, Albert Einstein nacque il 14 marzo:
data che nella grafia anglosassone si scrive 3.14, proprio come la più
comune approssimazione di π. Il 14 marzo di ogni anno, infatti, si celebra
il “Pi Day”, cioè il giorno di π, e i blogger italiani di matematica dedicano
il giorno 14 di ogni mese al “Carnevale della Matematica”.
Ma torniamo a Kate Bush e alla sua “Pi”. Proprio sul più bello,
quando ci si aspetta che venga approfondito il personaggio dello studioso
di matematica, la cantante comincia a snocciolare una dopo l’altra le
prime cifre decimali di π. Seguire il filo dei decimali cantati dalla Bush
equivale a ripercorrere millenni di storia e celebrare i matematici che, con

130
fatica e passione, determinarono queste cifre una dopo l’altra, fino ad
arrivare all’odierna conoscenza di π. Proviamoci, allora.

3,1…
La stima più antica di π è forse quella riportata nel già citato papiro egizio
di Rhind, trascritto intorno al 1650 a.C. da uno scriba di nome Ahmes, a
partire da un precedente documento risalente a qualche secolo prima.
L’approssimazione proposta da questo antichissimo scritto è 256/81, che
vale circa 3,16: certamente molto imprecisa, ma almeno corretta per
quanto riguarda il primo decimale dell’infinita processione di π.

…4…
Il primo a dimostrare che la seconda cifra dello sviluppo decimale di π è
un 4 fu uno dei più grandi matematici dell’antichità, Archimede di
Siracusa. Il suo ingegnoso metodo di calcolo consisteva nell’inscrivere e
circoscrivere poligoni regolari in un cerchio di diametro noto: la
circonferenza di questo era compresa tra i perimetri dei poligoni inscritti e
circoscritti. Sfruttando questo approccio e impiegando poligoni con 96
lati, Archimede stabilì che il valore di π è compreso tra 223 diviso 71
(circa 3,1408) e 22 diviso 7 (circa 3,1428).

…1…
Ecco la migliore prestazione ottenuta in assoluto dagli antichi greci: fu
Tolomeo a metterla a segno, migliorando il precedente record di
Archimede, con un arrotondamento di 3,1416. Meglio di così i greci, che
pure furono grandi geometri e matematici, non seppero fare.

…5926…
Dopo i greci, ci provarono i cinesi: nel V secolo Zu Chongzhi riuscì ad
alzare l’asticella determinando correttamente le prime sette cifre decimali
di π.

131
…535897932…
Tra la settima e l’ottava cifra decimale, Kate Bush si concede una
brevissima pausa nel suo canto. Si ha la parvenza di avvertire, in quel
respiro fugace, i quasi mille anni che trascorsero prima che il calcolo di π
fosse nuovamente migliorato: fu il matematico e astronomo iraniano al-
Kashi, nel 1424, a spingersi a ben sedici cifre decimali.

…38462643383279…
Oh he love, he love, he love
He does love his numbers
And they run, they run, they run him
In a great big circle
In a circle of infinity
But he must, he must, he must
Put a number to it.
…50288…
Nel 1615, il matematico tedesco Ludolph van Ceulen perfezionò l’antico
metodo di Archimede e riuscì a determinare ben 35 cifre di π. Con un po’
di fantasia potremmo pensare che i versi Ma lui deve, lui deve, lui deve /
Metterci un numero sopra alludano al fatto che van Ceulen, raggiante per
il suo risultato, volle che le ultime tre cifre da lui calcolate (288) venissero
incise sulla sua tomba. O, più facilmente, tali versi si riferiscono alla
speranza, inutilmente coltivata da molti matematici del passato, di fissare
il valore di π una volta per tutte.

…419716939937510582 0
974944592307816406286208821480865132…
Oh he love, he love, he love

132
He does love his numbers
And they run, they run, they run him.
In a great big circle
In a circle of infinity
…8230664709384460955058223…
I decimali conosciuti di π toccarono il centinaio all’inizio del Settecento e
conobbero una fase di crescita molto rapida intorno alla metà
dell’Ottocento, avvicinandosi a quota 500. In questo frammento della
canzone, qualcuno ha individuato un errore: Kate Bush, infatti, pronuncia
poco distintamente lo zero evidenziato in grassetto (presente nella corretta
espansione decimale di π), al punto che i testi che si trovano in rete
riportano, al suo posto, le cifre (errate) “31”. In realtà, pare che sia un
problema di trascrizione e non una svista della cantautrice.
Poco più avanti, però, un errore Kate Bush lo commette veramente, e
anche molto grave. Infatti, stranamente, salta in blocco tutte le cifre che
vanno dalla settantanovesima alla centesima, per poi riprendere dalla
centounesima! Tra la riga che finisce con …208 e quella che inizia con
821…, vengono completamente ignorate le cifre
9986280348253421170679.
Svista veniale o imperdonabile errore? Se il giudice fosse un fisico o
un ingegnere, probabilmente Kate Bush sarebbe assolta, con la
giustificazione che ci troviamo già al settantanovesimo decimale: bastano
infatti 39 cifre per calcolare la circonferenza di un cerchio che racchiuda
l’universo noto con un errore inferiore al raggio di un atomo di idrogeno.
Un matematico puro, invece, voterebbe forse per la condanna: per quanto
poco significative ai fini pratici, 22 cifre saltate sono sempre 22 cifre
saltate!
Non ha molto senso stabilire se questa cancellazione di decimali debba
essere considerata un abbaglio grossolano, oppure una licenza artistica, o
ancora, come qualcuno ha fantasiosamente ipotizzato, un misterioso
messaggio cifrato. Anche se certamente non è così, a me piace pensare
che l’errore di Kate Bush sia stato un omaggio al matematico dilettante
inglese William Shanks, che nel 1873 annunciò di aver trovato ben 707
decimali di π. Un’impresa titanica per l’epoca, anche se molti anni dopo ci

133
si accorse che aveva commesso un errore e solo 527 di quelle cifre erano
corrette.
Nel 1847 Shanks si era trasferito a Houghton-le-Spring, un paese della
contea del Tyne and Wear, non lontano da Sunderland, dove trovò lavoro
come preside di un collegio scolastico privato. Questo incarico gli
lasciava molto tempo libero, che poteva dedicare al suo passatempo
preferito: il calcolo di π. Per trovare le cifre decimali, utilizzava una
formula scoperta dal matematico inglese John Machin nel 1706. Aveva
deciso di organizzarsi in questo modo: al mattino determinava nuovi
decimali e al pomeriggio ripercorreva i calcoli per correggere gli eventuali
errori. Nel 1853 Shanks pubblicò il primo risultato delle sue fatiche: le
prime 607 cifre di π. Era già un record: eppure, non contento, continuò a
lavorare sodo per altri vent’anni per aggiungere altre cento posizioni
decimali alla sua approssimazione. Nel 1873 pubblicò la sua tavola con
707 cifre.
L’impresa di Shanks fu colossale, se consideriamo che si era servito
soltanto di carta e penna, senza l’ausilio di alcuna macchina. Nessuno
riuscì a fare meglio di lui prima dell’avvento dei calcolatori – prima quelli
meccanici e poi quelli elettronici – e fu proprio grazie a un computer che,
nel 1945, venne scovato il fatidico errore. Nel 1949, utilizzando l’ENIAC,
il primo computer elettronico della storia, John von Neumann trovò in
settanta ore ben 2037 cifre di π: un risultato sbalorditivo se confrontato
con i 35 decimali trovati da van Ceulen nel corso di una intera vita!
I progressi successivi furono rapidissimi: nel 1958 si arrivò a diecimila
cifre, nel 1961 si toccò quota centomila, nel 1973 venne svelato il primo
milione di cifre, nel 1989 venne superato un miliardo di cifre e nel 2002 si
arrivò a più di mille miliardi! Al momento di andare in stampa, il record
[9.2] è quello conseguito nel marzo 2019 dalla giapponese Emma Haruka
Iwao, che è arrivata a determinare correttamente circa 31.415 miliardi di
cifre: se scrivessimo tutti quei decimali uno dietro l’altro, confinando
ognuno in una larghezza di un solo millimetro, otterremmo una scritta
lunga 82 volte la distanza tra la Terra e la Luna!
Ma a cosa serve, direte voi, conoscere migliaia di miliardi di cifre di
questo numero? Da un punto di vista pratico a nulla: come già sottolineato
basterebbe una manciata di decimali per la maggior parte dei calcoli fisici
e ingegneristici. Casomai, l’utilità concreta delle procedure di calcolo di π
è legata al collaudo dei supercomputer più potenti del mondo. I software

134
utilizzati, infatti, sfruttano spesso formule e algoritmi che mettono a dura
prova le risorse hardware e software delle macchine utilizzate. Per il resto,
il vero motore che spinge matematici, ingegneri e appassionati a dedicare
tempo a questa avventura è l’amore per la sfida. Un po’ come il grande
alpinista inglese George Mallory che, interrogato sul perché avesse deciso
di scalare l’Everest, rispose semplicemente: “Perché è lì”.
Un altro tipo di record collegati alle cifre di π ha a che fare con la loro
memorizzazione. Kate Bush non ha mai eseguito “Pi” dal vivo,
probabilmente per la difficoltà di tenere a mente tutti quei 116 numeri.
Eppure, c’è chi non ha problemi di questo genere. L’indiano Suresh
Kumar Sharma detiene attualmente il primato di recitazione a memoria di
cifre di π: il 21 ottobre 2015 ha infatti elencato le prime 70.030 cifre
decimali di π, impiegando poco più di diciassette ore per completare
l’impresa.
Tornando all’errore di Kate Bush in “Pi”, una sua interpretazione
spiazzante è stata proposta nel 2009 durante una trasmissione radiofonica
della BBC intitolata More or less. È vero che all’inizio della sequenza
Kate Bush canta Three point… (“Tre virgola…”), lasciando così intendere
che il suo proposito sia quello di salmodiare π partendo dal principio; ma
nulla ci vieta di supporre che i 115 decimali cantati si trovino non
all’inizio ma in un’altra posizione nell’infinito sviluppo di π. Questa
ipotesi è stata ironicamente chiamata “congettura debole di Kate Bush”.
La versione “forte” della congettura si spinge oltre: se la star inglese
avesse cantato un’altra qualsiasi sequenza finita di cifre, essa esisterebbe
sicuramente da qualche parte nell’espansione decimale di π.
Queste ipotesi hanno a che fare con una delle più dibattute questioni
aperte su π e cioè: questo numero è normale oppure no? In una certa base
di numerazione, un numero è considerato normale se tutte le possibili
sequenze di cifre contenute nel suo sviluppo compaiono con la stessa
frequenza. Questo è esattamente ciò che accadrebbe se, all’inizio dei
tempi, una qualche divinità avesse stabilito le cifre di π estraendole a
sorte. Ma siamo sicuri che proprio questa sia la natura di π? Per certi versi,
ci si aspetterebbe che un numero speciale come π debba essere proprio il
contrario di un numero casuale, cioè che non possa essere normale.
A tutt’oggi queste domande non hanno risposta. Per quanto ne
sappiamo, potrebbe anche darsi che da un certo punto in avanti lo
sviluppo di π prosegua verso l’infinito con sole due cifre, essendosi

135
stancato di tutte le altre. Se π fosse davvero normale, allora entrambe le
congetture di Kate Bush sarebbero vere. Questo scenario potrebbe
sembrare del tutto banale, ma in realtà avrebbe alcune conseguenze
straordinarie. Prima di tutto, qualsiasi sequenza finita di cifre abiterebbe
da qualche parte dentro π. Non solo: comparirebbe non soltanto una volta,
o un numero finito di volte, ma infinite volte!
Questo significa che là dentro potremmo trovare tutto [9.3]. Codificati
secondo una qualche chiave, ci sarebbero tutta la Bibbia, tutta la Divina
Commedia, tutti i romanzi di Thomas Mann, l’opera completa di Wisława
Szymborska, ma anche l’intero libro che state leggendo. Troverebbero
spazio il testo della canzone “Pi”, tutti i testi di Kate Bush e di tutta la
storia del rock, e perfino la dimostrazione della congettura di Kate Bush.
Non mancherebbero il vostro numero di telefono, quelli di tutti i vostri
conoscenti e di tutte le persone del pianeta. Ci sarebbero sicuramente la
vostra lista della spesa dell’altro giorno, l’intero contenuto del vostro hard
disk e tutti i vostri temi della scuola media. E naturalmente anche la lettera
d’amore che tanto tempo fa scriveste alla vostra compagna di classe per
chiederle di uscire insieme. Inutilmente.

1.Traduzione dell’autore.
2.Da Grande numero di Wisława Szymborska, traduzione di Alessandra Czeczott,
Scheiwiller, 2006.
3.I Re, 7, 23.
4.Da La montagna incantata di Thomas Mann, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio,
1992, pp. 593-594.
5.Dante, Paradiso, XXXIII, 133-141.

136
10

I nodi dei Led Zeppelin

Decidemmo che ognuno di noi avrebbe scelto una sorta di simbolo


metafisico che lo rappresentasse individualmente: uno stato
d’animo, un’opinione, o qualcosa che ci coinvolgesse
particolarmente. E stabilimmo che alla fine ci saremmo dovuti
incontrare e ognuno avrebbe presentato il suo simbolo.
Robert Plant, cantante dei Led Zeppelin

Il 1969 fu un anno magico per il rock. Nacquero alcune delle band che
avrebbero fatto la storia negli anni a venire, come i King Crimson, i
Focus, i Supertramp, i Gong, gli ZZ Top, il Banco del Mutuo Soccorso. In
quello stesso anno videro la luce anche numerose pietre miliari, per
esempio Ummagumma dei Pink Floyd, Abbey Road dei Beatles, Tommy
degli Who, In the Court of the Crimson King dei King Crimson e Led
Zeppelin dell’omonima band britannica, nata l’anno precedente dalle
ceneri degli Yardbirds. Alcuni anni prima, tra il 1963 e il 1966, questa
formazione blues aveva schierato tra le sue fila, prima uno e poi l’altro,
due pezzi da novanta del chitarrismo rock come Eric Clapton e Jeff Beck.
Nel 1966 gli Yardbirds avevano accolto un altro giovane chitarrista,
Jimmy Page, il quale, con l’uscita di Beck, era divenuto il solista
principale del gruppo. Due anni dopo, una serie di defezioni impose lo
scioglimento della band: al superstite Page toccò l’opportunità di reclutare
talentuosi musicisti per creare un nuovo complesso. Fu così che ebbero
origine i New Yardbirds: ancora Jimmy Page come chitarrista, ma Robert
Plant al posto di Keith Relf alla voce, John “Bonzo” Bonham al posto di
Jim McCarty alla batteria e John Paul Jones al posto di Chris Dreja al
basso.

137
Nel 1969 il gruppo decise di cambiare il proprio nome in Led Zeppelin
e diede la stessa denominazione al primo album, pubblicato con la
Atlantic Records. Sulla scelta del nome vi sono varie teorie: secondo la
più diffusa il batterista degli Who, l’eccentrico Keith Moon, pronunciò
una specie di maledizione nei confronti del gruppo di Page, prevedendo
che sarebbe “precipitato come un palloncino di piombo” (go down like a
lead balloon). I membri della band, per nulla intimoriti dalla profezia,
apprezzarono molto l’ossimoro, ma preferirono sostituire il termine
“balloon” con il più esotico “Zeppelin” (un tipo di dirigibile) e tolsero la
“a” dalla parola “lead” per evitare che qualcuno la pronunciasse come
“leed”.
I primi due album dei Led Zeppelin (denominati semplicemente Led
Zeppelin e Led Zeppelin II) uscirono entrambi nel 1969 e riscossero un
ottimo successo: la miscela di rock britannico anni Sessanta, blues, folk
rock, psichedelia e rock progressivo, il tutto proposto con sonorità molto
aggressive, fissò il paradigma del nuovo genere hard rock.
Dopo le fatiche di quell’anno frenetico, la band di Page decise di
concedersi un periodo di riposo nella sperduta località gallese di Bron-Yr-
Aur. Qui, in un cottage di proprietà della famiglia di Plant, privo di acqua
corrente e di energia elettrica, i quattro musicisti riscoprirono la
dimensione acustica e le sonorità sognanti del folk inglese, tanto care a
Page. Led Zeppelin III, uscito nell’ottobre 1970, nacque in larga misura da
questa esperienza e consegnò l’immagine di un gruppo sospeso tra
l’intensità dell’hard rock più bruciante e la ritrovata dolcezza del folk. La
svolta stilistica, tuttavia, non pagò: le vendite furono molto inferiori al
previsto e perfino la critica non risparmiò stroncature, ravvisando un
infiacchimento rispetto ai dischi precedenti.
Delusi da questa accoglienza, i Led Zeppelin programmarono un
numero di concerti inferiore rispetto al passato e iniziarono subito a
lavorare al quarto album. Questa volta, la scelta del luogo dell’ispirazione
cadde su Headley Grange, una villa vittoriana ed ex ospizio per bambini
orfani e poveri situato nell’Hampshire e riadattato a studio privato di
registrazione. Una sera Page, strimpellando con la chitarra acustica,
concepì un’idea musicale e ci lavorò fino a notte inoltrata. Quando la
struttura era divenuta chiara, fece ascoltare l’abbozzo di canzone a Jones e
con lui ne perfezionò gli accordi: in poche ore aveva preso forma la
canzone rock più famosa di sempre, “Stairway to Heaven”.

138
Il giorno successivo la band provò il brano per la prima volta. Mentre
gli strumentisti lavoravano per mettere a punto i vari passaggi, in disparte
Plant ascoltava e scriveva il testo. I versi che presero forma traboccavano,
forse volutamente, di misteriosi riferimenti alla mitologia celtica e di
elementi esoterici (qualcuno vi ha intravisto perfino messaggi satanici
subliminali). Alla fine, la struttura musicale del pezzo divenne piuttosto
articolata: dopo l’introduzione in stile folk con la chitarra e il flauto dolce
(talmente celebre da risultare ormai abusata: una scherzosa legge non
scritta ne proibisce l’esecuzione nei negozi di strumenti musicali), la
canzone si sviluppa in una parte centrale rock, seguita da un mirabile
assolo di chitarra elettrica e da una chiusura deflagrante in gusto hard
rock. La bellezza di “Stairway to Heaven” sarebbe bastata anche da sola a
fare di Led Zeppelin IV un capolavoro. Ma a rendere il disco ancora più
indimenticabile si aggiunsero gli altri brani, tutti eseguiti con una cura che
rasenta la perfezione: tra le tracce più significative, “Black Dog”, “Rock
and Roll” e “The Battle of Evermore”. Il risultato finale fu un disco in cui
il misticismo folk del lavoro precedente si integra magnificamente con il
blues pesante dei primi due album. Il disco uscì nel mese di novembre e
conquistò da subito un successo mai visto nella storia del rock: a oggi si
contano circa 37 milioni di copie vendute.
Tutto di Led Zeppelin IV è affascinante: anche la grafica. Sul recto
della copertina si vede una parete con la carta da parati sbrindellata:
appesa al muro, una vecchia cornice racchiude la fotografia di un
contadino ingobbito dal peso di una grossa fascina di legna. Sul retro,
l’ambientazione rurale lascia spazio a un panorama cittadino, con il
grattacielo Salisbury Tower di Birmingham. All’interno, nella terza di
copertina, si ammira un disegno ispirato alla figura dell’Eremita dei
tarocchi; nella quarta, sopra i titoli delle canzoni, campeggiano quattro
simboli misteriosi, sui quali sono stati versati i classici fiumi d’inchiostro.
Su suggerimento della Atlantic, i quattro musicisti decisero infatti di
firmare il disco ciascuno con un proprio segno. Nonostante siano stati più
volte intervistati sull’argomento, Page e soci hanno sempre evitato di
svelare il significato profondo di questi simboli.

139
Figura 10.1La copertina di Led Zeppelin IV.

La firma di Jimmy Page è uno strano segno, vagamente rassomigliante


alla parola “ZoSo”, sulla quale sono state formulate le ipotesi più
fantasiose. Secondo alcuni fu inventato e disegnato dallo stesso chitarrista;
secondo altri proviene dalla cosiddetta griglia di Cardano, un sistema di
scrittura di messaggi segreti ideato da Girolamo Cardano, grande
algebrista italiano del Cinquecento che si dilettava anche con l’astrologia
(un giorno ebbe la sventurata idea di compilare un oroscopo di Gesù, ma
l’Inquisizione non gliela fece passare liscia: finì in prigione, perse la
cattedra universitaria, fu costretto ad abiurare e dovette distruggere i suoi
scritti).

Figura 10.2Il simbolo di Jimmy Page.

Robert Plant scelse invece una piuma all’interno di un cerchio. Anche in


questo caso abbondano le interpretazioni, non ultime quelle che fanno
riferimento ai simbolismi della magia nera.

140
Figura 10.3Il simbolo di Robert Plant.

Ma i due simboli matematicamente più interessanti sono quelli associati a


John Paul Jones e a John Bonham.

Figura 10.4Il simbolo di John Paul Jones.

Figura 10.5Il simbolo di John Bonham.

Il bassista scelse una triquetra: un simbolo composto da un cerchio e tre


forme appuntite note come vesicae piscis (perché la forma di ognuna
ricorda quella della vescica natatoria dei pesci) o “mandorle mistiche”. Il
batterista, invece, scelse una figura che rappresenta tre cerchi sovrapposti.
Molto probabilmente entrambi i musicisti scelsero i propri emblemi tra
quelli presenti nel Book of Signs, affascinante collezione di 493 simboli
primitivi e medievali pubblicata nel 1930 dal tipografo tedesco Rudolf
Koch.
Partiamo dal simbolo di Jones. Se volete disegnare una mandorla
mistica, tracciate due cerchi uguali in modo che il centro di ognuno si

141
trovi sulla circonferenza dell’altro: la mandorla è la loro intersezione. La
mandorla mistica ha alcune eleganti proprietà geometriche, note già agli
antichi greci. Innanzitutto, il rapporto tra la sua altezza e la sua larghezza
è esattamente equivalente alla radice quadrata di 3. Inoltre, se tracciamo
un segmento orizzontale mediano che congiunge i due centri dei cerchi e
uniamo i suoi estremi con i due vertici della mandorla, otteniamo due
triangoli equilateri: i loro lati sono infatti raggi dei due cerchi, quindi sono
uguali tra di loro.

Figura 10.6I triangoli equilateri nella mandorla mistica.

Il simbolo della vesica piscis era presente in tutte le civiltà antiche


europee, asiatiche e africane. Nel contesto cristiano fu associata a Gesù
Cristo, almeno per tre motivi: con riferimento alla mandorla, richiamava il
concetto di seme e per estensione la vita e quindi il Salvatore; essendo
intersezione di due cerchi, rappresentava il legame tra due mondi, quello
celeste e quello terrestre, ovvero il Verbo divino fattosi umano; infine, per
un’evidente somiglianza, fu accomunata all’ichthys, ovvero al simbolo del
pesce che nella tradizione cristiana era associato al Cristo (le lettere
greche di questa parola formano infatti l’acrostico Ἰησοῦς Χριστός, Θεοῦ
͑Υιός, Σωτήρ, cioè Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore). Con questo
significato la vesica piscis è rappresentata in numerosi codici miniati,
bassorilievi e affreschi medievali.

Figura 10.7Il simbolo dell’ichthys.

E cosa succede se sovrapponiamo non più soltanto due, ma tre cerchi?


Prima di tutto vengono fuori non più una ma tre mandorle.

142
Figura 10.8Tre cerchi sovrapposti e tre mandorle mistiche.

Se poi aggiungiamo un cerchio, ecco la triquetra di John Paul Jones!


Questo simbolo si trova spesso nelle rune vichinghe e nell’arte celtica,
dove rappresentava la fertilità femminile (le tre mandorle rappresentavano
le tre fasi di fanciulla, madre e anziana). In altri ambiti veniva collegata ai
tre elementi cosmici “corporei”, ovvero terra, acqua e fuoco; con
l’aggiunta del cerchio veniva compresa anche l’aria. In ambito cristiano,
non è difficile immaginarlo, fu utilizzato come simbolo della Trinità. In
tempi moderni, ha ispirato marchi commerciali di ogni tipo: per esempio è
il logo della serie tv americana Streghe.
E il simbolo di Bonham? In realtà lo abbiamo già costruito: guardate
la figura 10.8. È curioso, ma quasi nessun autore che abbia trattato la
questione delle quattro firme di Led Zeppelin IV ha sottolineato la
strettissima parentela tra i simboli di Jones e di Bonzo: eppure i due segni
sono praticamente uguali e non a caso anche i tre cerchi sovrapposti sono
sempre ricondotti al significato trinitario, al pari della triquetra (per
esempio nel libro di Koch).
Fin qui abbiamo considerato i due segni come figure geometriche da
disegnare su un foglio di carta. Però li possiamo costruire anche come
nodi, cioè intrecciando dei fili. Per esempio, il nodo corrispondente alla
triquetra, nelle due versioni con il cerchio e senza il cerchio, si chiama
“nodo a trifoglio” e assume le sembianze mostrate nella figura 10.9.

143
Figura 10.9Nodo a trifoglio.

Il nodo a trifoglio è molto familiare agli appassionati di araldica, perché


ricorre spesso negli stemmi del passato, ma anche nei moderni loghi.
Compare anche in opere d’arte, come l’incisione Knots realizzata dal
celebre artista olandese Maurits Cornelis Escher.
Per capire bene le caratteristiche del nodo a trifoglio, dobbiamo
intenderci su cosa sia veramente un nodo. Nella vita quotidiana abbiamo a
che fare di continuo con i nodi. Lo sono, per esempio, quelli che facciamo
per allacciarci le scarpe o quelli che malauguratamente si formano nei fili
delle lenze dei pescatori inesperti. L’idea comune di nodo è quella di un
filo che viene aggrovigliato su se stesso in un modo più o meno
complicato. Il nodo più semplice che possiamo immaginare è quello
raffigurato nel disegno di sinistra della figura 10.10.
I matematici hanno formalizzato in modo rigoroso il comune concetto
di nodo e hanno addirittura fondato un ramo di indagine chiamato “teoria
dei nodi”.

Figura 10.10Il nodo più semplice.

Questo campo di ricerca è una delle parti della topologia, l’importante


branca che studia alcuni tipi di deformazione che possono essere applicati
agli oggetti nello spazio. I topologi hanno una visione del mondo tutta
particolare: considerano uguali (o, per essere precisi, “topologicamente
equivalenti”) due oggetti che, idealmente, possono essere trasformati
l’uno nell’altro mediante una deformazione che non produca strappi o

144
tagli. Per esempio, una sfera e un cubo sono topologicamente equivalenti.
Lo sono anche una ciambella e una tazza a un manico: se non ci credete
date un’occhiata alla figura 10.11.

Figura 10.11Una ciambella e una tazza sono topologicamente equivalenti.

Il concetto di nodo definito dai topologi rispecchia la nostra idea intuitiva


di nodo, con due piccole differenze: un nodo “topologico” si fa con un filo
infinitamente sottile e soprattutto è sempre impossibile da sciogliere! Per
ottenere quest’ultimo risultato, non serve creare legature complicatissime
simili al leggendario nodo di Gordio: è sufficiente saldare insieme le due
estremità del filo rimaste libere. Un vero nodo “topologico”, infatti, non
deve avere estremità libere (e se ci fossero dovrebbero essere saldate tra di
loro).
Il semplice nodo della figura 10.10 assume così l’aspetto rappresentato
nel disegno di destra. Osserviamo questo nodo e confrontiamolo con
quello della figura 10.9: se studiamo bene i due intrecci, ci accorgiamo
che la struttura è (topologicamente) la stessa. Il nodo a trifoglio scelto da
John Paul Jones come propria firma su Led Zeppelin IV è quindi il nodo
più semplice che esista. È il nodo che spontaneamente ci viene da creare
quando dobbiamo legare le due estremità di un laccio (immaginando di
unire poi le due estremità che rimangono libere) ed è anche l’antipatico
groppo che ingarbuglia il filo dei nostri auricolari o il cavo del
caricabatterie.
Il lettore attento potrà obiettare che esiste, restando fedeli alla
definizione formale, un nodo ancora più semplice: quello assimilabile a
una circonferenza. Che sia topologicamente un nodo è un fatto innegabile:
è una curva senza estremità libere, niente da dire. Tuttavia, al di fuori dei
formalismi matematici, nessuna persona di buon senso lo definirebbe un
nodo: e infatti viene definito dai matematici “nodo banale” (in inglese
viene detto anche unknot, cioè “non-nodo”). Il nodo a trifoglio può allora
essere definito a pieno titolo il più semplice tra i nodi non banali.
Uno dei passatempi preferiti degli studiosi di teoria dei nodi (vi ho

145
avvertito, sono personaggi particolari) è prendere un nodo, anche
apparentemente molto complicato, e verificare se è topologicamente
equivalente a un nodo banale, ossia se può essere sciolto senza tagliarlo,
ma soltanto manipolando e semplificando i suoi viluppi. Un nodo a
trifoglio, per esempio, non è topologicamente equivalente a un nodo
banale: per trasformarlo in un nodo banale dobbiamo infatti tagliarlo in un
punto qualsiasi e riattaccare gli estremi in modo diverso, come illustrato
nella figura 10.12.

Figura 10.12Trasformare un nodo a trifoglio in un nodo banale.

Che cosa succede, invece, quando più nodi vengono messi insieme? I
matematici chiamano link un insieme di nodi che non si toccano l’uno con
l’altro, ma che possono intrecciarsi reciprocamente. Come dire: non un
solo filo annodato su se stesso, ma più fili che stanno vicini e magari si
attorcigliano tra di loro.
Analogamente al caso dei nodi singoli, un link è banale quando
corrisponde a un insieme di nodi banali staccati l’uno dall’altro.

Figura 10.13Il link banale.

Il più semplice esempio di link non banale, chiamato link di Hopf, è


formato da due circonferenze (ossia nodi banali) allacciate tra di loro.

146
Figura 10.14Il link di Hopf.

Un link leggermente più complicato si costruisce intrecciando tra di loro


tre circonferenze nel modo indicato nella figura 10.15.

Figura 10.15Gli anelli borromei.

Vi ricorda qualcosa? Ma sì, è il simbolo di Bonzo interpretato


topologicamente, cioè come insieme di nodi. Questo link prende il nome
di “anelli borromei”, perché costituiva lo stemma araldico della famiglia
aristocratica milanese dei Borromeo: per intenderci, la casata di san Carlo
Borromeo e anche del cardinale Federico Borromeo, quello che compare
nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Se ci fate caso, considerando soltanto due qualsiasi delle tre
circonferenze, non risultano tra di loro allacciate, ma formano un link
banale. Questo significa che tagliando in un punto qualsiasi una delle tre
circonferenze, il link si sfalda e diventa banale. Insomma, ogni coppia di
anelli sta insieme grazie al terzo anello. Questo spiega perché gli anelli
borromei sono stati spesso impiegati come emblema della Trinità ma
anche della famiglia in senso più generale. Lo psicoanalista Jacques Lacan
vide negli anelli borromei una metafora della psiche umana, in cui ogni
anello rappresenta uno dei suoi “registri” (reale, simbolico, immaginario):
l’idea è che ognuno dei registri è fondamentale e sopprimendolo anche gli
altri due vengono meno.
Anche gli anelli borromei, come il nodo a trifoglio, sono molto
frequenti in insegne e marchi commerciali: un esempio famoso è quello

147
della birra Ballantine. Il celeberrimo simbolo dei Giochi olimpici, formato
dai cinque anelli, è ancora un link topologico, ma non si costruisce
aggiungendo due cerchi agli anelli borromei: gli anelli olimpici, infatti,
sono allacciati in modo sequenziale, partendo da un link di Hopf e
aggiungendo in sequenza altri tre anelli.
La teoria dei nodi è oggi un’area della matematica in rapidissimo
sviluppo. Uno dei maggiori studiosi di nodi degli ultimi decenni è stato
John Conway, famoso anche per i suoi ingegnosi giochi matematici e per
l’algoritmo Doomsday, utilizzabile per calcolare il giorno della settimana
di una data assegnata. Le applicazioni pratiche della teoria dei nodi sono
numerosissime e molto importanti: dalla fisica subatomica alla chimica,
dalla biologia del DNA alla progettazione di calcolatori quantistici. Uno
dei punti di contatto più promettenti con la fisica è costituito dalla teoria
delle stringhe, tra i più seri modelli candidati a conciliare la teoria della
relatività generale di Einstein con la meccanica quantistica. La teoria dei
nodi ha poi connessioni molto affascinanti con altri rami della topologia,
per esempio la teoria dei grafi (fondata da Eulero per risolvere un curioso
problema che riguardava i sette ponti della città prussiana di Königsberg),
la teoria delle trecce (che studia oggetti topologici assimilabili
all’acconciatura bionda cantata da Lucio Battisti nella “Canzone del sole”)
e lo studio delle superfici.
A proposito di queste ultime: è possibile generare nodi o link a partire
da superfici particolari. Prendete una striscia di carta e incollate tra di loro
gli estremi in modo da creare un anello assimilabile alla superficie laterale
di un cilindro. Osservate questo oggetto geometrico: ha due facce, quella
interna e quella esterna, e due bordi. Concentratevi ora su questi: se
poteste illuminarli di un colore vistoso e far scomparire il resto della
superficie, osservereste due nodi banali tra loro disgiunti. Lo stesso
risultato si raggiunge tagliando il nastro nel senso della lunghezza:
otteniamo due anelli chiusi non allacciati.
Fin qui nulla di interessante, direte voi. Ora però prendete un’altra
striscia di carta, uguale alla precedente, e incollate di nuovo le sue
estremità, questa volta dopo avere eseguito su una delle due un mezzo
giro, cioè una torsione di 180°. L’oggetto che vi ritrovate in mano è una
delle cose più semplici e insieme sconcertanti dell’intera matematica. È
chiamato nastro di Möbius, dal nome del matematico tedesco August
Ferdinand Möbius che ne studiò le proprietà geometriche e topologiche.

148
Figura 10.16Il nastro di Möbius.

Quante sono le facce del nastro? Se cominciate a colorare di rosso una


delle facce e proseguite a tingere finché non trovate ostacoli sul vostro
cammino, ben presto vi accorgerete con sorpresa di aver colorato l’intero
nastro. Proprio così, la faccia è una sola!
E i bordi? Immaginate di operare la stessa magia di prima, accendendo
i bordi e rendendo invisibile il resto: questa volta il nodo banale è uno
solo. Il nastro di Möbius ha un solo bordo! Per essere sicuri di non essere
impazziti, tagliate il nastro longitudinalmente. Quello che rimane è,
effettivamente, un unico nastro chiuso su se stesso.
Se osservate con attenzione, la striscia ottenuta non è essa stessa un
nastro di Möbius, perché le torsioni di 180° che la caratterizzano sono due
e non una soltanto. Per questo motivo le sue facce sono nuovamente due,
e così i bordi. Ma non per questo l’oggetto che avete in mano è banale
come l’anello senza torsioni da cui siete partiti. Osservate nuovamente i
due bordi. Quale nodo o link costituiscono? Non è semplice comprenderlo
a prima vista: per vederlo facilmente procedete con un ulteriore taglio
longitudinale. Il risultato finale è un link di Hopf, ossia due anelli
allacciati in modo semplice tra di loro.
E se le torsioni di 180° applicate al nastro di carta fossero tre? Se
eseguite anche questo esperimento, produrrete un oggetto caratterizzato da
una sola faccia e un solo bordo, ma diverso dal vero nastro di Möbius.
Infatti, tagliando la nuova striscia per il lungo, non esce più un nodo
banale ma… un nodo a trifoglio! Provate per credere.
Se ci riuscite, verificate il risultato che si ottiene con quattro torsioni
di 180°: dovreste ritrovarvi il cosiddetto “sigillo di Salomone”, raffigurato
nella figura 10.17. Questo link è frequente nelle raffigurazioni artistiche di
numerose culture: lo si trova spesso nelle moschee islamiche, nelle
sinagoghe ebraiche e nei mosaici romani (per esempio ad Aquileia).

149
Esiste una elegante caratterizzazione del risultato del taglio
longitudinale del nostro nastro di carta. Per comprenderla, dobbiamo fare
la conoscenza di una famiglia speciale di nodi: i nodi torici. Se volete
crearne uno, procedete nel seguente modo. Procuratevi un cilindro
flessibile e tracciate sulla sua superficie laterale un certo numero p di
segmenti paralleli alla sua altezza e mutuamente equidistanti. Poi
richiudete il cilindro formando una ciambella (ormai sapete bene che i
topologi sono persone stravaganti, quindi non troverete nulla di strano se
vi dico che per loro una ciambella si chiama “toro”: da cui l’aggettivo
“torico”), ma applicando a una delle estremità una torsione di gradi,
con q intero. L’angolo che separa sulla superficie laterale del cilindro due
qualsiasi dei p segmenti è uguale a gradi: di conseguenza scegliere una
torsione di gradi garantisce che, una volta richiusa la ciambella, i
segmenti si saldino perfettamente tra di loro. L’intreccio di segmenti che
si ottiene dopo aver chiuso la ciambella costituisce un nodo torico
(attenzione, alcuni dei nodi torici sono in realtà link): facendo assumere
valori interi qualsiasi a p e a q, otterrete tutti i possibili membri di questa
strana famiglia.

Figura 10.17Il sigillo di Salomone.

Ora possiamo tornare alla nostra striscia di carta: si può dimostrare


che il taglio longitudinale produce un nodo torico in cui p vale sempre 2 e
q corrisponde al numero di torsioni di 180° applicate a un’estremità della
striscia. La tabella seguente riassume quello che si può ottenere con i
primi valori interi di q.

Tabella 10.1Nodi torici.


p q Nodo torico risultante
2 0 Due nodi banali disgiunti
2 1 Nodo banale

150
2 2 Link di Hopf
2 3 Nodo a trifoglio
2 4 Sigillo di Salomone

Da questa tabella si nota un fatto curioso: se q è dispari, il bordo


dell’oggetto risultante è unico e il taglio longitudinale produce un solo
nodo; se invece q è pari, i bordi sono due e il taglio crea due nodi (quindi
un link).
Il fascino del nastro di Möbius non ha conquistato soltanto i
matematici, ma anche gli artisti: il già citato Escher ne ha fatto largo uso
nelle sue suggestive e celebratissime opere, mentre, tornando alla musica,
nei primi anni Duemila esisteva un trio newyorkese di rock elettronico
chiamato Mobius Band.
Conclusa l’esplorazione dei simboli di Led Zeppelin IV sotto la
prospettiva dei nodi, torniamo a vedere i due segni di Jones e Bonham
come semplici figure disegnate su un foglio di carta. Abbiamo già
evidenziato come il denominatore comune dei due emblemi sia costituito
dai tre cerchi sovrapposti. Cosa accadrebbe se anziché avere soltanto tre
cerchi ne avessimo molti di più, sovrapposti reciprocamente secondo lo
stesso schema? Il risultato assomiglierebbe a quanto mostrato nella figura
10.18.

Figura 10.18Il fiore della vita.

151
Questo pattern geometrico dalla simmetria esagonale, in cui molti cerchi
uguali sono ripetuti in ogni direzione in modo da riempire il piano, è
conosciuto in ogni angolo del mondo come figura simbolica. A seconda
del luogo è noto come fiore della vita, rosa celtica, rosa dei pastori, stella
delle Alpi e in mille altri modi. È stato trovato dappertutto: nei resti del
palazzo assiro di Assurbanipal a Ninive, nel tempio di Osiride ad Abido in
Egitto, in antichi templi indiani, cinesi e giapponesi, in molti siti
archeologici etruschi e romani, in innumerevoli chiese e basiliche italiane,
e la lista continuerebbe ancora a lungo. In particolare, la rosa celtica è
presente in modo capillare come simbolo decorativo negli edifici civili e
religiosi di ogni parte d’Italia. I suoi significati sono molteplici e variano a
seconda dell’area culturale, ma quasi ovunque è associata all’idea di
rinascita.
Coerentemente con il suo nome e con il suo significato primario, il
fiore della vita racchiude in sé e genera una folta discendenza di forme
geometriche, alcune delle quali sono illustrate nella figura 10.19: l’uovo
della vita (simile a un embrione pluricellulare poche ore dopo il
concepimento), il seme della vita e il frutto della vita.

Figura 10.19L’uovo della vita, il seme della vita e il frutto della vita.

La famiglia diventa ancora più numerosa se aggiungiamo i suoi fondatori


(triquetra, nodo a trifoglio e anelli borromei) e altri oggetti geometrici
imparentati, come i cinque solidi platonici (tetraedro, cubo, ottaedro,
dodecaedro e icosaedro) e la “stella octangula”, ottenuta congiungendo
due tetraedri uguali, l’uno ruotato di 180° rispetto al secondo, e con i
baricentri coincidenti.
Per tornare alla musica rock, il simbolo del fiore della vita compare

152
nella copertina dell’album Sempiternal (2013) della band inglese Bring
Me the Horizon e in quella del più noto A Head Full of Dreams dei
Coldplay (2015). Per quest’ultimo disco, i componenti della band
volevano qualcosa di molto colorato e al tempo stesso molto geometrico.
Chris Martin aveva in mente la spirale aurea, già vista nel capitolo 3, ma
dopo avere ingaggiato la giovane grafica argentina Pilar Zeta (e a seguito
di una serie di brainstorming) l’idea più gettonata risultò proprio quella
del fiore della vita.

Figura 10.20La stella octangula.

Figura 10.21– La copertina di A Head Full of Dreams dei Coldplay.

153
Dall’hard rock anni Settanta dei Led Zeppelin al pop-rock contemporaneo
di Chris Martin e compagni, passando attraverso la teoria dei nodi: cari
lettori, il viaggio è terminato, ma si riparte tra poco per una nuova
destinazione.

154
11

Un sogno dentro un sogno

I see a little silhouetto of a man.


Scaramouche, Scaramouche, will you do the fandango?
Thunderbolt and lightning, very very frightening me.
Galileo, Galileo, Galileo, Galileo.
Galileo. Figaro. Magnifico.
(da “Bohemian Rhapsody” dei Queen,
in A Night at the Opera, 1975)

“Ho scritto una canzone, ma fa schifo”, confidò John Lennon a Ringo


Starr una mattina di ottobre del 1964. Qualche giorno prima, durante la
sessione di registrazione di “Eight Days a Week”, John aveva trovato un
accattivante riff di chitarra, attorno al quale aveva costruito il pezzo. Il 18
ottobre, nonostante le perplessità dell’autore, venne il momento di
registrare la canzone. Il risultato fu molto superiore alle aspettative, al
punto che si decise che “I Feel Fine” sarebbe stato il lato A del nuovo
singolo di fine anno. Nel corso della sessione, che durò in tutto nove ore, i
Beatles lavorarono anche su altre sette canzoni. Ma il momento magico
della giornata si verificò proprio durante la produzione di “I Feel Fine”.
Quel giorno Lennon suonava una Gibson J-160E, acustica, ma
elettricamente amplificabile grazie a un pick-up. Durante una pausa tra
una registrazione e l’altra, il musicista appoggiò la sua chitarra
sull’amplificatore, ma si dimenticò di abbassare il volume del pick-up.
Nello stesso istante, Paul McCartney suonò distrattamente un La sul suo
basso: per un effetto di risonanza acustica, la quinta corda della chitarra di
Lennon, accordata sulla medesima nota, entrò in vibrazione e il suono fu
raccolto dal pick-up e inviato all’amplificatore. Ma la chitarra era

155
addossata alla cassa, così il pick-up registrò nuovamente la nota,
innescando un ciclo di amplificazione virtualmente infinito. Il risultato fu
un suono metallico e tagliente, intonato su un La, simile al ronzio di un
rasoio elettrico.
La maggior parte delle persone avrebbe forse archiviato quel ritorno
sonoro come un fastidioso incidente e avrebbe chiuso la questione
dicendo: “Ehi, John, spegni quella dannata chitarra!” Invece (per fortuna)
tutti i Beatles esclamarono che quel suono era uno schianto e
domandarono al produttore George Martin, in quel momento presente in
studio, se lo si poteva registrare sul disco. La risposta fu affermativa e il
singolo vide la luce il 27 novembre con quell’effetto singolare in apertura.
Il vinile “I Feel Fine/She’s a Woman” fu un successo immediato in
Inghilterra e negli USA: dopo una sola settimana erano state vendute
quasi due milioni di copie. Per la prima volta un feedback audio era stato
registrato deliberatamente su un disco musicale. Più volte John Lennon
sottolineò il suo orgoglio per aver fatto da apripista nell’utilizzo deliberato
di questo particolare effetto. Dopo i Beatles, infatti, l’uso del feedback nei
brani rock divenne qualcosa di molto comune: potrei citare artisti come
Jimi Hendrix, gli Who, i Canned Heat, i Jefferson Airplane, i Velvet
Underground (e poi Lou Reed come solista), i Grateful Dead, David
Bowie, i Nirvana, i Tool e moltissimi altri.
Undici anni dopo, un altro gruppo inglese, i Queen, stava vivendo un
momento irripetibile della propria carriera. Il 31 ottobre 1975 era uscito
uno dei singoli più importanti dell’intera storia del rock: la canzone sul
lato A si intitolava “Bohemian Rhapsody”. Interamente scritto da Freddie
Mercury, il brano è unanimemente considerato il capolavoro dei Queen.
L’enigmatico testo è stato oggetto di innumerevoli ipotesi interpretative:
nessuna di queste, tuttavia, ha chiarito il senso ultimo dei versi. La suite,
della durata di quasi sei minuti, ha una struttura musicale insolitamente
complessa, molto lontana dalla tradizionale forma-canzone e affine agli
stilemi del progressive rock, sebbene ripensata da Mercury in modo
profondamente originale. L’introduzione, dapprima a cappella e poi
accompagnata dal pianoforte, fu realizzata raddoppiando più volte la voce
di Freddie Mercury. La successiva sezione in stile ballad vede aggiungersi
il basso di John Deacon e poi la batteria di Roger Taylor. L’assolo di
chitarra crea un crescendo di intensità che approda, a sorpresa, in una
sezione centrale di gusto pseudo-operistico, complicatissima dal punto di

156
vista armonico e costruita ricorrendo in modo massiccio alla
sovraincisione: le voci di Mercury, May e Taylor furono registrate in ben
180 tracce e combinate in una serie di submix, visto che all’epoca erano
disponibili soltanto nastri a 24 tracce. Un interludio hard rock eseguito
dall’intera band conduce alla sezione finale, che richiama le atmosfere
dell’introduzione e chiude il cerchio di uno dei risultati più alti della
musica popolare del Novecento. Nonostante i timori dei dirigenti della
EMI, dovuti alla notevole lunghezza del brano, il singolo si insediò
immediatamente in cima alle classifiche inglesi di vendita e alla fine del
gennaio 1976 aveva già venduto un milione di copie. Il recente biopic
dallo stesso titolo, diretto nel 2018 da Bryan Singer e interpretato, tra gli
altri, da Rami Malek, ha riportato la canzone sotto i riflettori e ha
contribuito a farla diventare il brano del XX secolo più scaricato dalla
rete.
Per una band famosa che aveva pubblicato un singolo, la diretta alla
trasmissione televisiva Top of the Pops della BBC era un passaggio
obbligato. I Queen però avevano un problema: “Bohemian Rhapsody” era
troppo complessa per poter essere eseguita interamente dal vivo o anche
soltanto mimata in playback. La soluzione fu individuata in un video
promozionale. Fu ingaggiato il regista Bruce Gowers, che completò la
ripresa in quattro ore, in cambio di un compenso irrisorio. L’idea si rivelò
quanto mai azzeccata dal punto di vista commerciale, ma soprattutto
rappresentò una svolta epocale nella storia dello spettacolo: prima di
“Bohemian Rhapsody” erano stati girati pochissimi video musicali per
promuovere un disco, ma da quel momento in avanti questa pratica
divenne abituale per le case discografiche.
Nella parte iniziale del brano, i volti dei quattro componenti sono
mostrati in penombra, in una composizione che richiama la copertina del
secondo album Queen II. Dopo il segmento di ballad, in cui il video
riprende la band mentre suona, ritorna l’inquadratura iniziale dei quattro
musicisti in corrispondenza della sezione centrale. Poi, ancora il gruppo
sul palcoscenico e infine, sulle note di chiusura del pezzo, di nuovo la
scena di Queen II e Roger Taylor a torso nudo che colpisce un gong.
A dispetto del suo costo, il video di Gowers era molto innovativo.
Tutti gli effetti speciali furono realizzati in fase di registrazione e non di
montaggio. In particolare, i momenti più sperimentali (e più
“matematici”) si trovano nella parte operistica. Per due volte in questa

157
sezione, in corrispondenza delle “o” finali di Magnifico e di Let me go, si
ascolta un suggestivo effetto di “cascata vocale” discendente. I musicisti
lo chiamano “accordo Bell”: una dopo l’altra, le note costitutive vengono
suonate da strumenti o voci diverse, ma ognuna di queste prolunga la
propria nota in modo che alla fine l’accordo risuoni nella sua interezza.
Gowers ebbe l’idea di mostrare nel video, in sincrono con le due cascate,
un effetto di feedback visivo, cioè una moltiplicazione virtualmente
infinita dell’immagine del volto di Freddie Mercury (sulla prima cascata)
e di tutti e quattro i Queen (sulla seconda). Per realizzarlo, puntò la
telecamera su un monitor che mostrava in diretta le riprese effettuate.
Un’apposita lente fu utilizzata per creare l’illusione ottica a nido d’ape.

Figura 11.1Il fotogramma del video di "Bohemian Rhapsody" con il primo dei due effetti
di feedback video.

L’effetto di feedback visivo di “Bohemian Rhapsody” è del tutto analogo


al fenomeno di loop sonoro che si ascolta all’inizio di “I Feel Fine”. La
figura 11.2 mostra il meccanismo alla base di entrambi.

158
Figura 11.2Feedback audio e feedback video.

Nel feedback audio il suono emesso da un altoparlante (freccia curva)


viene captato dal pick-up di uno strumento musicale oppure da un
microfono, amplificato e rimandato allo stesso altoparlante (freccia
angolosa), creando un circuito chiuso. Nel feedback video, il ruolo
dell’altoparlante è recitato dal monitor, quello del pick-up o del microfono
dalla telecamera. Le frecce tratteggiate indicano l’immissione iniziale di
segnale nel microfono o nella telecamera, prima dello stabilirsi del loop.
La manifestazione tipica del feedback sonoro è il fischio sgradevole
che disturba i timpani degli spettatori di un evento pubblico, quando un
microfono viene avvicinato troppo a un altoparlante. Il nome tecnico di
questo fenomeno è “effetto Larsen”, dal nome dello scienziato danese che
lo studiò all’inizio del Novecento. Nel suo celebre bestseller Gödel,
Escher, Bach (1979) e nel più recente Anelli nell’io (2007), lo scienziato
americano Douglas Hofstadter ha descritto in profondità le molteplici
implicazioni dell’analogo fenomeno visivo, in particolare le bizzarre
fantasmagorie, i corridoi infiniti e le voragini vertiginose che prendono
forma su un televisore opportunamente cortocircuitato con una
telecamera. Se desiderate sperimentare il feedback ottico e comprenderne
facilmente il principio base senza stabilire complicati collegamenti tra
telecamere e televisori, vi basta posizionarvi tra due specchi: il primo
riflette la vostra immagine verso il secondo, questo la ridirige verso il
primo e così via all’infinito. Il risultato è una moltiplicazione visiva simile
a quella del video di “Bohemian Rhapsody”. Nel suo racconto Tlön,
Uqbar, Orbis Tertius, Jorge Luis Borges fa dire a un suo personaggio che
gli specchi sono “abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli
uomini.” Forse definirli abominevoli è esagerato, ma è certo che le
immagini delle persone e degli oggetti presenti in una sala con due
specchi, l’uno opposto all’altro, si moltiplicano in modo vorticoso e a
volte spaventoso.
Trascurando i numerosi e complessi dettagli insiti nei due fenomeni di
feedback, possiamo provare a descriverne un comune modello matematico
molto semplificato, utilizzando il concetto di funzione (già introdotto nel
capitolo 4). Immaginiamo che x sia una qualche grandezza legata al suono
che entra nel microfono (nel caso dell’effetto Larsen) o nella telecamera
(nel caso del feedback video) e che la funzione f descriva la

159
trasformazione realizzata dalla catena microfono-amplificatore-
altoparlante nel caso audio, o dalla catena telecameramonitor nel caso
video.
Supponiamo, tanto per fissare le idee, che la funzione rappresenti
l’amplificazione dell’energia sonora nel loop audio creato dai Beatles il 18
ottobre 1964 e che possa essere descritta dalla legge f(xt) = axt + b, dove a
e b sono numeri qualsiasi. Così, xt rappresenta l’energia sonora captata dal
pick-up della chitarra di John Lennon in un certo istante t della sessione,
mentre f(xt) indica la corrispondente energia che esce dall’altoparlante. Se
xt dipende soltanto dalla potenza del suono della chitarra di Lennon, la
stessa cosa si può dire per il suono f(xt) che esce dall’altoparlante. Ora,
però, Lennon ha appoggiato la sua chitarra all’amplificatore e il pick-up
capta il suono che esce dall’altoparlante: abbiamo allora xt = f(xt−1)
immaginando per semplicità che vi sia un ritardo, per quanto molto breve,
tra l’uscita del suono dagli altoparlanti e la reimmissione dello stesso nella
catena audio.
Quindi, con semplici passaggi algebrici, si ha:

Il significato di questa formula è che il valore di f(xt) può essere definito


in termini della funzione f stessa, ovvero, come dicono i matematici, in
modo ricorsivo.
In generale, un oggetto si dice ricorsivo se è definito in termini di se
stesso. In matematica esistono diverse funzioni che possono essere
definite in modo ricorsivo; un esempio classico è il fattoriale, nozione
incontrata nel capitolo 6 a proposito del numero di permutazioni di un
insieme di oggetti. Il fattoriale di un numero intero positivo N è il prodotto
tra il numero stesso e tutti gli interi positivi che vengono prima di lui. Il
fattoriale di 4, che si indica con 4! è uguale a 4 ∙3 ∙2 ∙1. Ma allora
possiamo dire anche che 4! = 4 ∙3!, perché 3! = 3 ∙2 ∙1. Ecco, possiamo
formulare una definizione ricorsiva: il fattoriale di un numero intero
positivo N è uguale al numero stesso moltiplicato per il fattoriale di N −1.
Questa definizione, tuttavia, nasconde un problema. Infatti, se la usiamo
per calcolare il fattoriale di 4 otteniamo:

160
Quando a un certo punto fa capolino il fattoriale di 0, in base alla
definizione dovremmo calcolarlo come 0 moltiplicato per il fattoriale di
−1. E analogamente dovremmo continuare a scavare nei numeri negativi
senza mai giungere a un approdo definitivo. Inoltre, essendo passati per lo
zero, l’intera espressione precedente diventerebbe tutta uguale a zero: in
generale tutti i fattoriali sarebbero uguali a zero, il che è evidentemente
falso. La morale della favola è chiara: in ogni definizione ricorsiva è
necessaria una condizione di uscita, che interrompa il regressus in
infinitum e impedisca la creazione di improduttivi loop senza fine. Nel
caso del fattoriale, la condizione di uscita sta nel fatto che il fattoriale di 0
viene convenzionalmente fissato a 1.
I programmatori informatici sanno bene che il pericolo di creare un
ciclo ricorsivo infinito è sempre dietro l’angolo. Una procedura ricorsiva,
cioè una porzione di programma che a un certo punto richiama se stessa,
innesca una sequenza di auto-invocazioni che di per sé non avrebbe fine
se non intervenisse, al momento opportuno, un “colpo di scena”, ovvero
non scattasse un’adeguata condizione di uscita. L’errore tipico del
programmatore principiante consiste proprio nel dimenticare di impostare
questa condizione. Si tratta di un’accortezza decisamente importante
perché le applicazioni degli algoritmi ricorsivi sono numerose.
Similmente, anche nel feedback audio di “I Feel Fine” è necessaria
una condizione di uscita per spezzare il circolo vizioso ed evitare che lo
sviluppo della formula (1) sia infinito: possiamo ottenere questo scopo se
ammettiamo, per esempio, che x1 non sia uguale a f(x0) ma a un valore
costante non legato alla funzione f. La condizione descritta ha una
semplice interpretazione: andando a ritroso nel tempo, c’è un istante
iniziale del fenomeno di feedback in cui non si è ancora stabilito il loop.
In quell’attimo il pick-up della chitarra di John Lennon non ha ancora
iniziato a captare il suono uscito dall’altoparlante (da questo, infatti, non
sta ancora uscendo alcun suono), ma sta ricevendo quello della quinta
corda in risonanza con il La di Paul McCartney.
L’idea di ricorsione è strettamente imparentata con altri due importanti
concetti matematico-logici: l’autoinclusione e l’autoreferenza.
Il fenomeno dell’autoinclusione (o autosimilarità) si verifica quando
un oggetto è simile a una sua parte, ovvero contiene una copia di se stesso.

161
L’autoreferenza è un’idea molto simile, ma un po’ meno tangibile:
avviene se un oggetto (per oggetto intendiamo un’entità qualsiasi, in senso
molto generale) fa, in qualche modo, riferimento a se stesso.
Avete presente il broccolo romanesco? Questo ortaggio ha vagamente
una forma di cono e sfoggia sulla superficie tante rosette disposte a
spirale, che riproducono in piccolo la stessa forma conica. Ogni rosetta, a
sua volta, è composta da molte rosette più piccole, ancora della stessa
forma. Ecco: il broccolo romanesco è un sorprendente esempio di
autoinclusione.
Tra gli oggetti matematici autoinclusivi, una menzione particolare la
meritano sicuramente i frattali: meravigliosi protagonisti di una geometria
nuova, esplorata soprattutto da Benoît Mandelbrot a partire dagli anni
Settanta del secolo scorso. I frattali sono oggetti geometrici che, pur
osservati con lenti d’ingrandimento diverse, ripetono sempre le medesime
forme, mantenendo invariato il grado di complessità. La figura 11.3
mostra come, a scale differenti, l’“insieme di Mandelbrot”, il più famoso
dei frattali, esibisca sempre le stesse strutture.

Figura 11.3L’"insieme di Mandelbrot" visto a quattro diversi livelli d’ingrandimento.

L’autosimilarità frattale è frequente anche in natura. Oltre al broccolo


romanesco, altre strutture frattali si trovano negli alberi, nelle coste

162
marine, nelle nuvole, nel profilo delle montagne ecc.
I frattali vengono solitamente generati da programmi informatici che
analizzano l’andamento di alcune semplici funzioni ricorsive. In effetti
questa speciale geometria si è potuta sviluppare soltanto negli ultimi
quarant’anni per il fatto che, senza l’ausilio del computer, sarebbe stato
impossibile esplorare a fondo le proprietà di questi oggetti matematici.
Nel mondo dell’arte e dello spettacolo, il ricorso all’autosimilarità e
all’autoreferenza ha avuto spesso a che vedere con l’abbattimento della
cosiddetta “quarta parete”, l’immaginario diaframma posto davanti al
palco di un teatro, attraverso il quale il pubblico osserva l’azione scenica
dell’opera recitata. Fino all’inizio del Novecento l’inviolabilità di questa
parete era considerata una regola aurea del teatro e, in senso esteso, di
altre forme artistiche come il nascente cinema o la letteratura: la vicenda
narrata non poteva fare riferimento né al pubblico né a se stessa perché, se
lo avesse fatto, avrebbe automaticamente riconosciuto se stessa come
finzione e lo spettatore/lettore come soggetto reale. Quest’ultimo, invece,
doveva essere messo nella condizione di “sospendere il giudizio” e di
osservare la narrazione “confondendola” con la realtà. Ma si sa, le regole
sono fatte per essere violate. E la quarta parete non poteva fare eccezione.
Così, nel corso del Novecento molti autori hanno deliberatamente
abbattuto il confine tra i due piani per ottenere un risultato spiazzante e
paradossale: la tecnica più efficace è stata quella di introdurre nel testo
dell’opera riferimenti sia al pubblico, inteso come soggetto attivo nel
processo della rappresentazione, sia all’opera stessa. Ecco allora Luigi
Pirandello che muove i suoi Sei personaggi in cerca d’autore (1921) tra
gli spettatori in platea, abolendo di fatto la distinzione tra i due livelli. Ed
ecco Italo Calvino che fa iniziare il suo “metaromanzo” Se una notte
d’inverno un viaggiatore (1979) con una geniale autoreferenza:
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un
viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro
pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto.

Anche nel cinema vi sono scene autoreferenziali in cui l’attore si mostra


consapevole di trovarsi in un film e si rivolge direttamente alla
telecamera. L’esempio più esilarante è quello di Balle spaziali di Mel
Brooks (1987), in cui Lord Casco guarda una videocassetta dello stesso
film Balle spaziali e si chiede come sia possibile, visto che il film lo

163
stanno ancora girando. Il colonnello Nunziatella gli spiega allora che
l’ultima invenzione nel mercato dell’home video sono le cassette
istantanee, in circolazione ancor prima che il film sia terminato.
E il rock? Allineato alle altre forme espressive non fa eccezione e
tende, il più delle volte, a rispettare la convenzione dei due livelli. Però
non stupisce che anche il genere musicale anticonvenzionale per
eccellenza abbia usato in alcuni casi l’autoreferenza per smantellare la
quarta parete. Lo schema più frequente è quello in cui una canzone parla
di se stessa. Questo accade nella celebre “Your Song” di Elton John
(1970) o in “This Is Not a Love Song” della band post-punk dei Public
Image Ltd. (1983). L’altra operazione autoreferenziale “proibita” si
verifica quando il testo della canzone cita il nome dell’artista o della band:
alcuni esempi sono “Give Peace a Chance”, famoso pezzo di John Lennon
del 1969, “The Return of Jackie & Judy”, canzone dei Ramones del 1980,
“We Are the Clash”, brano dei Clash del 1985 e “Who the Fuck Are
Arctic Monkeys?”, EP degli Arctic Monkeys del 2006.
Il paradigma dell’opera d’arte che esce dal suo piano di esistenza
standard e ripiega il suo sguardo verso se stessa si ritrova anche nell’arte
figurativa del Novecento. Un artista che ha affrontato le vertigini
dell’autoreferenzialità è stato il grafico olandese Maurits Cornelis Escher,
ben noto per le sue incisioni e litografie di costruzioni paradossali,
esplorazioni geometriche, tassellature del piano, tentativi di rappresentare
l’infinito. Una delle sue opere più celebri, Mani che disegnano, è anche
una delle più efficaci raffigurazioni del carattere paradossale
dell’autoreferenza: una mano che impugna una matita sta disegnando su
un foglio un’altra mano, la quale, a sua volta, disegna la prima mano.

164
Figura 11.4Mani che disegnano di Maurits Cornelis Escher.

Nel già citato Gödel, Escher, Bach Douglas Hofstadter individua in


quest’opera di Escher un esempio tipico di “strano anello”, ovvero una
struttura autoreferenziale e ciclica, nella quale, anche se ci muoviamo
sempre lungo la stessa direzione concettuale (in questo caso dalla mano
che disegna a ciò che viene disegnato), ci si ritrova prima o poi al punto di
partenza. Hofstadter ha fatto notare come strutture paradossali di questo
tipo infestino inevitabilmente qualsiasi sistema formale abbastanza
espressivo (pensiamo all’aritmetica formalizzata di Bertrand Russell) e
come proprio queste presenze autoreferenziali impediscano al sistema di
essere al tempo stesso coerente e completo (ricorderete il teorema di
incompletezza di Gödel visto nel capitolo 5).
A partire dagli anni Sessanta, le opere dell’artista olandese
cominciarono a riscuotere un vasto consenso popolare. Escher era
divenuto un vero oggetto di culto nel mondo del rock e presso la comunità
hippie, perché le sue immagini erano viste come un mezzo alternativo alle
sostanze psichedeliche per conseguire l’espansione mentale. Nel gennaio
1969, Mick Jagger dei Rolling Stones scrisse addirittura a Escher per
chiedergli di disegnare la copertina di Let It Bleed. La lettera iniziava con:
“Caro Maurits” L’artista, che evidentemente non era un fan degli Stones,

165
rispose al manager Peter Swales con un rifiuto motivato dai numerosi
impegni programmati e precisando:
Non posso assolutamente accettare ulteriori incarichi o perdere tempo per la
pubblicità. A proposito, la prego di dire al signor Jagger che per lui non sono
Maurits, ma
Molto sinceramente,
M. C. Escher

Anche i Pink Floyd parteciparono alla generale “eschermania” dell’epoca.


Lo studio Hipgnosis produsse la copertina di Ummagumma del 1969 con
il preciso intento di realizzare qualcosa di originale, ma ispirato ai
paesaggi autoreferenziali di Escher. La gloriosa storia di Hipgnosis risale
all’inizio del 1968 ed è legata a doppio filo ai Pink Floyd. Dopo il discreto
successo di The Piper at the Gates of Dawn, Syd Barrett andò ad abitare
in un vecchio condominio vittoriano nel quartiere londinese di South
Kensington. I suoi nuovi coinquilini erano Storm Thorgerson e Aubrey
“Po” Powell, due amici conosciuti qualche anno prima, accomunati dal
sogno di diventare graphic designer di successo.
In quel periodo le condizioni psichiche di Syd Barrett si erano fatte
molto preoccupanti: alternava momenti di improvvisa aggressività a
lunghe fasi di totale estraniazione dalla realtà. Capitava ormai troppo
spesso che Barrett non si presentasse alle prove o alle esibizioni della
band, o che durante i concerti si comportasse in modo imbarazzante. Di lì
a poco, quando la situazione si fece insostenibile, Barrett fu estromesso
dal gruppo e l’amico David Gilmour divenne il nuovo chitarrista del
gruppo. Nonostante la gravità del suo brain damage, Syd era ancora
capace di fugaci lampi di genialità. Thorgerson e Powell erano in cerca di
un nome accattivante per lo studio di fotografia che avevano appena
fondato. Un giorno, salendo le scale del condominio di South Kensington,
i due grafici scoprirono, scarabocchiata a biro sulla porta
dell’appartamento, una misteriosa scritta: HIPGNOSIS. Aprirono la porta
e apparve Syd, visibilmente imbarazzato. Interrogato sull’accaduto, il
fondatore dei Pink Floyd rispose: “Be’, sapete che mi piacciono le
parole.”
Thorgerson e Powell rifletterono sul termine “hipgnosis”. Un gioco di
parole così arguto – deformazione di hypnosis (ipnosi), ma al tempo stesso
fusione di hip (espressione gergale che significa “alla moda”) e gnosis

166
(vocabolo greco che indica la conoscenza) – poteva essere nato soltanto
nella mente di Syd. Nella testa dei due grafici si accese una lampadina. La
decisione fu presa immediatamente: lo studio grafico prese di lì a poco il
nome ideato da Barrett.
Molti dei gruppi più importanti dell’epoca si affidarono, nel corso
degli anni successivi, a Hipgnosis: tra questi Electric Light Orchestra, Led
Zeppelin, Emerson Lake & Palmer, Genesis, Wings, AC/DC, The Alan
Parsons Project, Black Sabbath, Yes. Ma i primi “clienti” di Storm e
Aubrey furono, ovviamente, i Pink Floyd: nel giugno 1968 A Saucerful of
Secrets fu il primo di una lunga lista di album la cui grafica porta la firma
di Hipgnosis. Tra i successivi, almeno tre meritano una menzione:
Ummagumma, doppio album pubblicato nell’ottobre 1969, Atom Heart
Mother del 1970, con la celeberrima mucca, e il famoso The Dark Side of
the Moon del 1973, con l’arcinoto geometrico prisma [11.1].
Per la copertina di Ummagumma Thorgerson e Powell concepirono
qualcosa di molto bizzarro. La scena mostra i quattro Floyd in posizioni
diverse. L’onore del primo piano spetta al chitarrista David Gilmour,
seduto dentro una stanza. Anni dopo Thorgerson avrebbe chiarito il
motivo di questa scelta [Thorgerson, 2011]: “Non voleva esserci un ordine
gerarchico, era piuttosto una questione di chi risultasse più bello, ed era
certamente David.”
Appena fuori dalla soglia, anche lui seduto, è il bassista Roger Waters.
Dietro, ecco il batterista Nick Mason, in piedi nel giardino. Il tastierista
Richard Wright è laggiù in fondo, nella posizione della candela. Alle
spalle del chitarrista, appesa al muro, una cornice racchiude una fotografia
(o forse rappresenta un passaggio verso un altro mondo, un po’ come lo
specchio dell’Alice di Lewis Carroll?).
Ciò che si vede dentro la cornice è strano e paradossale: una scena del
tutto analoga a quella fin qui descritta, ma con qualcosa di diverso. Le
posizioni occupate dai musicisti e persino le pose da loro assunte sono le
stesse della scena complessiva: anche qui uno dei componenti della band è
seduto in primo piano all’interno della stanza, un altro è per terra subito
fuori dalla porta, un terzo è nel prato in piedi e il quarto è a testa in giù,
sullo sfondo. Tuttavia, non si trovano più le stesse persone negli stessi
posti: il chitarrista, che nella prima scena campeggiava davanti a tutti, è
stato retrocesso laggiù in fondo, a fare yoga nel prato, mentre ciascuno
degli altri è avanzato di un posto. Alla sequenza Gilmour-Waters-Mason-

167
Wright si è sostituita la successione Waters-Mason-Wright-Gilmour.
Ma non è finita qui. Anche nella nuova inquadratura troviamo, fissata
alla parete, un’immagine simile a quella principale che permette di
proseguire il gioco di scatole cinesi: nella terza scena la sequenza varia
secondo la solita regola di rotazione e diventa Mason-Wright-Gilmour-
Waters. E ancora, osservando nel dettaglio, si scorge un quarto livello di
autoinclusione, in cui i musicisti si dispongono nell’ordine Wright-
Gilmour-Waters-Mason.
Insomma, la scena principale cita se stessa nell’immagine incorniciata
e questa citazione si ripete per quattro livelli successivi. Ma ancor più che
autoreferenziale, il tema grafico dell’album è autoinclusivo, perché la
scena principale contiene una sua versione modificata e così via per i
quattro livelli.1
Infine, possiamo vedere l’immagine di Ummagumma anche come
risultato di una procedura ricorsiva. Pensiamo a una funzione f (o, se
preferite, una procedura informatica) che riceve come ingresso
un’immagine I qualsiasi e che esegue le seguenti istruzioni:

•riproduci l’immagine ricevuta I e aggiungi una cornice vuota appesa


alla parete presente nell’immagine;
•per riempire la cornice, invoca la procedura f stessa passandole come
ingresso una versione modificata dell’immagine I (con i personaggi
ruotati).

Se alla funzione f passiamo come ingresso la scena principale della


copertina di Ummagumma, la funzione chiamerà ricorsivamente se stessa
realizzando una catena virtualmente infinita di livelli autoinclusivi.
Naturalmente, se implementassimo una cosa del genere su un computer, la
procedura non terminerebbe mai e risulterebbe quindi completamente
inutile: mancherebbe infatti la condizione di uscita.
La condizione d’uscita escogitata dai ragazzi di Hipgnosis nel 1969 fu
l’inserimento della copertina di A Saucerful of Secrets al quarto livello di
autoreferenza. D’altra parte, come Storm racconta [Thorgerson, 1997],
l’artwork dell’edizione del 1969 fu realizzato in maniera molto
artigianale,
usando una fida taglierina e pratica colla. Un’attenta osservazione del lavoro

168
originale rivelerebbe la mia mano tremante e la scarsa abilità da incollatore, che
causò i profili irregolari delle foto che diventano sempre più piccole.

Anche volendo, con quei miseri mezzi un’autoinclusione infinita era


inattuabile. I livelli diventarono invece virtualmente infiniti con le
edizioni in CD prodotte negli anni Ottanta con tecnologie molto più
avanzate (figura 11.5).

Figura 11.5La copertina di Ummagumma nell’edizione originale dell’LP (1969) e nelle


successive edizioni in CD.

Ummagumma non è l’unico lavoro di Hipgnosis ispirato alla ricorsione e


all’autosimilarità: Thorgerson e Powell tornarono su questi motivi almeno
in due occasioni: nel 1970, per il promo del primo album solista di Syd
Barrett, The Madcap Laughs (figura 11.6) e, nel 2001, per la copertina
dell’antologia Echoes: The Best of Pink Floyd (figura 11.7).
La copertina ricorsiva di Ummagumma è un perfetto esempio di
“effetto Droste”. Con questa espressione il poeta e giornalista olandese
Nico Scheepmaker indicò, verso la fine degli anni Settanta del secolo
scorso, una qualsiasi immagine contenente se stessa. L’idea del nome gli
venne guardando una confezione di cacao della marca olandese Droste
(figura 11.8). Sulla scatola era illustrata una donna che tiene in mano un
vassoio, ma su quest’ultimo c’era una tazza e una confezione identica a
quella iniziale, soltanto più piccola e con la stessa immagine raffigurata.
Per quanti livelli successivi la donna si ripete? Per un numero finito, come

169
accade nella prima edizione di Ummagumma, oppure all’infinito, come
nelle edizioni recenti?

Figura 11.6Il promo di The Madcap Laughs di Syd Barrett (1970).

Figura 11.7La copertina di Echoes: The Best of Pink Floyd (2001).

Non lo sappiamo. Sappiamo però che il senso di vertigine associato a una


catena infinita di autoriferimenti è ben catturato dall’espressione mise en
abyme (in francese “messo nell’abisso”), che è quasi un sinonimo di
“effetto Droste”.

170
La locuzione mise en abyme è usata spesso nel cinema e nella
letteratura, dove indica scene o strutture narrative che includono versioni
ridotte di loro stesse. In particolare, rientra nel mise en abyme lo schema
del “sogno dentro un sogno”. Ricordate Inception, pluripremiato film di
Christopher Nolan del 2010? Il personaggio recitato da Leonardo Di
Caprio è un professionista pagato per entrare nei sogni delle persone, al
fine di estrarre segreti o innestare idee. I sogni autoinclusivi narrati nel
film si annidano fino a tre livelli, generando situazioni intricate e dando
vita a una trama avvincente e intellettualmente stimolante.

Figura 11.8La confezione del cacao Droste.

La metafora della vita come un sogno dentro un sogno è stata utilizzata


dallo scrittore americano Edgar Allan Poe in una delle sue poesie più note,
A Dream Within a Dream del 1849, della quale riporto un breve
passaggio:
All that we see or seem
Is but a dream within a dream.

Nel 1976 Alan Parsons ed Eric Woolfson, impegnati nella realizzazione


del primo album degli Alan Parsons Project intitolato Tales of Mystery
and Imagination – Edgar Allan Poe, ebbero l’idea di impreziosire il disco
con la voce di Orson Welles. Contattarono così il celebre attore e regista
americano e gli chiesero di leggere un breve passaggio del saggio di Poe
intitolato Marginalia, seguito dai due versi sopra riportati di A Dream

171
Within a Dream. Welles registrò la sua interpretazione e inviò i nastri ad
Alan Parsons ed Eric Woolfson: questi però non inserirono il recitato nella
prima edizione del disco, ma soltanto nel remix del 1987, come
introduzione alla prima traccia dell’album, intitolata proprio “A Dream
Within a Dream”.
Proviamo a descrivere matematicamente una situazione di sogni
autoinclusivi. Definiamo una funzione SOGNO, che rappresenta il
meccanismo attraverso il quale una persona viene trasportata dalla
dimensione della realtà a quella onirica: così, l’ingresso della funzione è
costituito dal sognatore x e il valore di uscita SOGNO(x) corrisponde alla
versione sognata del sognatore stesso.
Se ogni sogno ne contiene un altro, dobbiamo ammettere che la
funzione SOGNO agisce come segue:

•ricevi il sognatore x in ingresso;


•crea una “versione onirica” di x e passala ricorsivamente alla stessa
funzione SOGNO;
•restituisci il valore di uscita della funzione chiamata SOGNO.

Anche in questo caso, in assenza di condizioni di uscita, il ciclo ricorsivo


(o autoinclusivo) sarebbe infinito. Se però viene definito un meccanismo
che assicura l’interruzione della catena, per esempio dopo un certo
numero di livelli, la funzione diventa sensata e può essere “calcolata” in
un tempo finito. Supponiamo che il numero massimo di sogni nidificati
sia uguale a due. Il sognatore x “entra” una prima volta nella funzione
SOGNO, la quale lo trasforma nella sua versione onirica e invia
quest’ultima nuovamente all’ingresso della funzione (il sogno nel sogno).
A questo punto, viene sì creata la versione onirica (la versione sognata
della versione sognata del sognatore), ma anziché invocare ancora la
funzione, scatta la condizione d’uscita, cioè il sognatore si sveglia;
tuttavia non si sveglia nella realtà, ma nel sogno di primo livello, che
corrisponde alla prima esecuzione della funzione SOGNO: quando questa
termina, si verifica il secondo risveglio, questa volta nella realtà, e il
valore finale è uguale a SOGNO [SOGNO (x)].

172
Figura 11.9Un sogno dentro un sogno.

In una sua canzone del 2003, “Abate cruento”, il celebre gruppo di pop-
rock satirico e demenziale Elio e le Storie Tese ha raccontato proprio una
situazione di questo genere. Non deve sorprendere la scelta del tema se
pensiamo al background dell’autore e leader Elio, al secolo Stefano
Belisari: nel suo curriculum figura infatti una laurea in ingegneria
elettronica conseguita al Politecnico di Milano nel 2002. Nella surreale
vicenda narrata nel brano, il protagonista “sogna di sognare” e nel sogno
di secondo livello viene “esaminato” da un severo ecclesiastico. Dopo il
primo risveglio ritrova l’inquietante abate, questa volta al primo livello di
ricorsione, e il ciclo termina con il secondo risveglio che restituisce il
sognatore alla realtà:
Questa notte ho fatto un sogno strutturato a matrioska
Io sognavo di sognare che un abate un po’ cruento
Dopo avermi esaminato mi ordinava di svegliarmi.
Io ubbidiente gli ubbidivo, cioè sognavo di svegliarmi
E me lo ritrovavo accanto con quel fare suo cruento
Lui che mi riesaminava, io che gli chiedevo affranto:
“Dimmi, abate, perché insisti nell’esaminarmi attento?
Ho commesso forse un atto che fu inviso all’abbazia?”

173
Egli, colto alla sprovvista, non sapendo fare meglio
Mi ordinò seduta stante di procedere a un risveglio.

E a voi, cari lettori, è mai capitato di sognare di sognare? Potrebbe essere


un’esperienza interessante, non credete? Senza abati cruenti esaminatori,
s’intende.

1.Nel mio e-book [Alessandrini, 2014] viene mostrato come la copertina di Ummagumma,
oltre a una struttura autoinclusiva, esibisca anche un pattern di quadrato latino.

174
Parte quarta
ANALISI

175
12

C’è un δ per ogni ε

There’s a delta for every epsilon,


It’s a fact that you can always count upon.
Tom Lehrer, “There’s a Delta for Every Epsilon”, 1951

In un libro popolato di rockstar, un personaggio come Tom Lehrer


potrebbe sembrare come un pesce fuor d’acqua. Nato nel 1928 a
Manhattan da una famiglia ebrea, fu un bambino prodigio: fu accettato
all’Università di Harvard a soli quindici anni e si laureò in matematica a
diciannove. Cominciò subito dopo a insegnare in diversi atenei, tra cui il
MIT, l’Università della California e la stessa Harvard. Lavorò come
ricercatore al celebre laboratorio di Los Alamos e poi al NSA. Nel 1965
completò un dottorato discutendo una tesi sul concetto statistico di moda.
In parallelo alla matematica, fin dall’infanzia coltivò uno spiccato
interesse per la musica. Cominciò a studiare pianoforte a sette anni. Già in
giovanissima età componeva brani nello stile della commedia musicale,
spesso pieni di umorismo nero. In un’intervista del 2000, avrebbe rivelato
che per lui fare matematica o fare musica era la stessa cosa: “Scrivere una
canzone”, spiegò, “è come risolvere un puzzle.”
Nel 1951, verso la fine di un corso di fisica tenuto a Harvard, fu
annunciato agli allievi che vi sarebbe stata un’ultima sessione di riepilogo
in vista dell’esame. Gli studenti si prepararono a una tradizionale lezione
frontale, ma quando videro il pianoforte vicino alla cattedra, capirono che
dovevano attendersi qualcosa di molto diverso. Lehrer entrò in aula e si
produsse in un vero e proprio concerto fatto di composizioni personali
ispirate alla matematica e alla fisica. Il grande successo di questa e di
numerose performance successive lo indusse a intensificare la sua attività

176
di autore e a incidere nel 1953, a proprie spese, una prima raccolta di
canzoni. Il disco fu un trionfo commerciale, nonostante la totale assenza
di promozione: le radio, infatti, non gradivano i temi controversi, lo
humour macabro, lo stile politically incorrect e il sarcasmo pesante dei
testi. Ma ormai il pubblico lo adorava. Tra la fine degli anni Cinquanta e
l’inizio dei Sessanta Lehrer pubblicò altri fortunati album e fu
protagonista di tour mondiali e di numerose apparizioni televisive.
All’inizio del decennio successivo, a sorpresa, decise di chiudere la sua
carriera musicale, e si concentrò solo sull’insegnamento.

Figura 12.1Tom Lehrer nel 1960.

Lehrer non ha mai fatto segreto di disprezzare la musica rock.


Nell’introduzione parlata a una delle sue canzoni più note, “Oedipus
Rex”, del 1959, definisce il rock’n’roll come “dischi per bambini”.
Eppure, suo malgrado, lo stile sarcastico e irriverente di Lehrer ha ispirato
molte celebrità del rock. Primo fra tutti Frank Zappa, il cui genio surreale

177
fu certamente influenzato dal matematico newyorkese. Il cantautore pop-
rock Randy Newman, famoso per i suoi testi mordaci, ha riconosciuto
l’importanza di Lehrer nella sua formazione, e lo ha definito uno dei più
grandi songwriters del Novecento. Il popolare disc-jockey americano Dr.
Demento descrisse Lehrer come “il migliore satirista americano del XX
secolo” e incluse alcuni suoi pezzi nelle sue fortunate compilation di
musica demenziale, accanto a quelli di altri artisti come lo stesso Zappa e
la band americana di rock alternativo They Might Be Giants. Altre realtà
rock che si rifanno alla lezione di Lehrer sono il duo neozelandese Flight
of the Conchords e la band americana Tenacious D. Qualcuno ha persino
scorto una somiglianza tra Lehrer e il rapper Eminem: il brano “The Kids”
sembra in effetti richiamare, per atmosfera e stile, famosi pezzi “scorretti”
del professore, per esempio “Poisoning Pigeons in the Park”. Posso allora
stare tranquillo: il satirista newyorkese non è fuori luogo in un libro come
questo. Anzi.
Ma Lehrer ci serve anche per un altro motivo. Come già visto, oltre ai
brani di satira sociale e di black humor, Lehrer compose, forte della sua
competenza in materia, molte canzoni di argomento scientifico, alcune
delle quali specificamente matematiche: anche in questo caso,
ovviamente, l’obiettivo principale era divertire il pubblico nel modo più
ironico possibile.
Uno di questi brani fu scritto già nel 1951 e intitolato “There’s a Delta
for Every Epsilon”. Il suo testo inizia con i versi riportati all’inizio di
questo capitolo e illustra il cosiddetto “metodo epsilon-delta”, vero incubo
di intere generazioni di studenti. Questo approccio, oggi adottato
universalmente per definire in modo rigoroso i due concetti basilari
dell’analisi matematica, il limite e la continuità di una funzione, fu
introdotto per la prima volta nel 1823 dal francese Augustin-Louis Cauchy
e formalizzato definitivamente nel 1861 dal tedesco Karl Weierstrass.
La nozione matematica di limite è strettamente legata a quella di
funzione. Come il lettore ha già visto, una funzione y = f(x) è una legge
matematica che, assegnato un certo valore alla variabile indipendente x,
determina in modo univoco il corrispondente valore della variabile
dipendente y.
Per esempio, indichiamo con x il numero di secondi trascorsi
dall’istante in cui un’automobile è partita per percorrere un lungo
rettilineo e con y il numero di metri percorsi: la funzione y = f(x)

178
rappresenta la legge che ci fornisce la distanza percorsa dall’auto al
trascorrere del tempo.
Se consideriamo, come esempio, la funzione descritta dall’espressione

possiamo assegnare alcuni valori alla variabile x e determinare i


corrispondenti valori della y:
x y
0 2
1 3
-1 1

Come è stata compilata questa tabella? Mediante semplici sostituzioni. Per


esempio, per scoprire quale valore assume la funzione quando a x viene
assegnato il valore 0, basta sostituire questo numero al posto di x
nell’espressione , ottenendo il risultato seguente:

Tuttavia, qualche secolo fa, alcuni matematici si accorsero che è spesso


utile conoscere non tanto il valore esatto che una funzione assume in un
certo punto (cioè il valore di y associato a un dato valore di x), quanto i
valori che la funzione assume nelle vicinanze di un punto.
Prendiamo ancora la funzione

Con x = 2 la funzione non ha significato, perché il denominatore


diventerebbe 0 e in matematica la divisione per 0 non è ammessa. Ciò non
ci impedisce però di cercare i valori che la funzione assume nei dintorni
del punto x = 2. Per effettuare questa ricerca, facciamo assumere a x valori
via via sempre più vicini a 2, per esempio (provenendo da sinistra) 1,9;
1,99; 1,999 e così via, e calcoliamo i valori corrispondenti assunti da y.

179
x y
1,9 3,9
1,99 3,99
1,999 3,999

In modo del tutto analogo, possiamo far tendere x a 2 provenendo da


destra:
x y
2,1 4,1
2,01 4,01
2,001 4,001

Da queste tabelle possiamo trarre una conclusione: più x si avvicina a 2,


più y si avvicina a 4. In analisi matematica si esprime questo fatto dicendo
che il limite di questa funzione, per x che tende a 2, è uguale a 4. In
simboli si scrive così:

Attenzione, però: si tratta di un avvicinamento, di una tendenza, non del


valore esatto di una funzione (tra l’altro, come si è visto, in questo caso x
non potrebbe nemmeno assumere il valore esatto 2, né y potrebbe mai
valere esattamente 4).
I lettori più attenti si saranno accorti che sono stato piuttosto
approssimativo nella mia esposizione. Espressioni come “nelle vicinanze
di …” e “valori via via sempre più vicini a …”, “quando x si avvicina a
…, y si avvicina a…” sono utili per capire intuitivamente l’idea di limite,
ma non sono proprio il massimo della precisione matematica.
Immaginate che ci siano due amici, Tom e Frank, che discutono
animatamente sul limite che abbiamo considerato.
Tom sostiene, come noi, che il limite sia uguale a 4; Frank invece non
ne è persuaso, e chiede all’amico una prova più convincente.
Allora Tom dice: “Ti mostrerò che y, prima o poi, si avvicinerà quanto
vuoi tu a 4: basta portare x abbastanza vicino a 2. Quanto vuoi che y si
avvicini a 4, Frank?”
Frank: “Vorrei che y arrivasse a una distanza da 4 minore di… 0,01.”
Tom: “Benissimo. Per avere y compreso tra 3,99 e 4,01, basta

180
prendere x compreso tra 1,99 e 2,01.”
Frank si mette a fare i calcoli, compilando una tabella simile a quelle
che abbiamo visto prima, poi alza gli occhi e conclude: “Ok, Tom, hai
ragione, ma non sono ancora soddisfatto. Vediamo se sei capace di portare
y a una distanza da 4 minore di 0,001.”
Tom sorride: “Nessun problema. Ogni tuo desiderio è un ordine. Per
avere y compreso tra 3,999 e 4,001, basta prendere x compreso tra 1,999 e
2,001.”
Frank verifica i calcoli e poi rincara la dose: “Uhm, non mi hai ancora
convinto del tutto. Che cosa mi dici di una distanza minore di… 0,0001?”
Tom non si scompone: “Puoi chiedermi la distanza più piccola
dell’universo e io ti accontenterò. Per avere y compreso tra 3,9999 e
4,0001, basta prendere x compreso tra 1,9999 e 2,0001.”
Il racconto potrebbe andare avanti all’infinito. In ogni caso, per quanto
piccola sia la distanza richiesta da Frank, Tom sarà sempre in grado di
accontentarlo. È per formalizzare questa storiella in linguaggio
matematico che entrano in scena quelle due strane lettere greche citate da
Lehrer, ε (epsilon) e δ (delta). Ogni volta che Frank sceglie una qualsiasi
distanza massima ε dal limite 4, Tom potrà sempre trovare un numero δ
tale che qualsiasi x compreso tra 2 − δ e 2 + δ sia trasformato dalla
funzione in un numero che dista meno di ε dal limite 4. È esattamente
questo il significato rigoroso del limite visto prima:

Il metodo epsilon-delta per definire il concetto di limite è tutto qui. L’ε


scelto può anche essere un numero incredibilmente piccolo, il che
equivale a dire che Frank sta chiedendo che y si avvicini moltissimo al
limite: ma se un limite esiste, esisterà sempre anche un δ appropriato con
il quale Tom riuscirà ad accontentare Frank.
Il concetto di limite può essere esteso al caso in cui x, anziché a un
numero finito, viene fatto tendere a −∞ oppure a +∞. Far tendere x a +∞
significa assegnare a x valori positivi sempre più grandi (per esempio:
1000; 10.000; 100.000 ecc.), e osservare i corrispondenti valori assunti da
y. Similmente, far tendere x a −∞ significa assegnare a x valori sempre più
negativi (per esempio: –1000; –10.000; –100.000 ecc.), e osservare i

181
corrispondenti valori assunti da y. In questo caso la definizione formale
varia leggermente: considerando, per esempio, il caso in cui x tende a +∞,
diciamo che se, scelta (dal solito Frank o da chiunque) una
qualsiasi distanza massima ε dal limite l, qualcuno (Tom, se volete) potrà
sempre trovare un numero positivo S tale che qualsiasi x maggiore di S
viene trasformato dalla funzione in un numero che dista meno di ε da l. In
altri termini, per quanto piccolo sia l’avvicinamento desiderato, ci sarà
sicuramente un valore soglia S per x oltre il quale quel livello di vicinanza
è garantito.
Prendendo una funzione qualsiasi e facendo tendere x verso un
numero a vostra scelta, oppure verso +∞, oppure verso −∞, non è detto
che il limite risultante sia uguale a un numero finito. Potremmo infatti
osservare una crescita indefinita dei valori della y, nel qual caso
dovremmo concludere che il limite è uguale a +∞. Viceversa, potremmo
anche constatare che y decresce indefinitamente, e allora il limite sarebbe
uguale a −∞. Infine, potrebbe anche non verificarsi nessuna tendenza
definita dei valori della funzione, nel qual caso il limite non esisterebbe.

Lo scherzo di Nepero
A proposito del limite per x che tende a +∞, vi suggerisco un curioso giochino con
il quale potrete divertire i vostri amici. Assicuratevi innanzitutto che tutti siano
dotati di una calcolatrice (eventualmente quella dello smartphone). Chiedete a
ognuno di digitare il proprio numero di telefono, completo di prefisso, quindi fate
premere il tasto che calcola l’inverso di un numero (solitamente sul tasto c’è una
dicitura come 1/x). Ora chiedete di aggiungere 1 al risultato e di premere poi il
tasto dell’elevamento a potenza (di solito c’è una scritta del tipo xy), seguito dallo
stesso numero di telefono digitato all’inizio. A questo punto, chiedete ai vostri
amici quale sia il risultato mostrato sul display. Dato che ognuno ha usato un
ingrediente diverso (il proprio numero di telefono), il buon senso suggerirebbe che
i risultati siano tutti differenti l’uno dall’altro. Invece no. Tutti i vostri amici,
incredibilmente, vi comunicheranno lo stesso risultato (o quasi): un numero che
inizia con 2,71828…
Magia? Stregoneria matematica? No, semplicemente la conseguenza di un limite
famoso:

Il numero indicato con la lettera e vale circa 2,718281828 e rappresenta una vera

182
star della matematica: il numero di Nepero. Il nome usuale di questo numero fa
riferimento a un matematico scozzese del Seicento, John Napier, l’inventore dei
logaritmi (sorvoliamo sul fatto che, curiosamente, Napier non ebbe quasi nulla a
che fare con questo numero). Al pari di π, e è una di quelle costanti che saltano
fuori di continuo nei diversi rami delle scienze quantitative. E come π, anche e è
un numero irrazionale e trascendente, che trascina dietro di sé una coda infinita di
cifre decimali.
Nell’espressione della funzione considerata, , la variabile indipendente x
corrisponde al numero di telefono, e il risultato e al numero apparso per incanto
sul display dei vostri amici. Un numero di telefonia cellulare ha solitamente dieci
cifre (considerando anche il prefisso), ragion per cui può essere considerato un
numero molto grande. Il significato del limite riportato sopra è che più x diventa
grande, più l’espressione si avvicina al numero e. Dieci cifre sono già
sufficienti per ottenere un’ottima approssimazione del numero di Nepero.

Come accennavo, l’ingegnoso “metodo epsilon-delta” si applica, oltre che


alla definizione di limite, anche a quella del concetto di continuità. Una
funzione y = f(x) si dice continua in un punto x = a se il limite è
uguale al valore f(a) della funzione in quel punto. Detto altrimenti, una
funzione è continua in un punto x = a se essa non soltanto si avvicina al
valore f(a) quando x si avvicina ad a, ma assume effettivamente quel
valore in corrispondenza del punto x = a. Se questo accade, la funzione
mostra, in corrispondenza del punto in esame, un andamento “regolare”,
senza salti: se volessimo disegnare il suo grafico non avremmo bisogno di
staccare la matita dal foglio quando siamo in prossimità di quel punto.
Ebbene, essendo la nozione di continuità strettamente legata a quella di
limite, non ci stupisce che la stessa possa essere formulata ricorrendo
proprio al meccanismo epsilon-delta descritto da Cauchy e Weierstrass e
cantato da Lehrer.
Le idee di limite e di continuità sono i robusti pilastri sui quali si regge
il magnifico edificio dell’analisi matematica. Le due grandi stanze che si
aprono all’interno del palazzo si chiamano calcolo differenziale e calcolo
integrale: al loro interno abitano quei due protagonisti della matematica
che si chiamano rispettivamente derivata e integrale. Grazie a tutti questi
concetti, come abbiamo visto, è possibile studiare il comportamento di
una funzione sia all’interno di intervalli infinitamente piccoli della
variabile indipendente x, sia su intervalli infinitamente grandi. A me piace
definire l’analisi matematica come la matematica dell’infinito:
l’astrazione dell’infinito sta in agguato dietro ogni teorema e dietro ogni

183
espressione di questa branca del sapere quantitativo.
L’infinito, tuttavia, è un concetto molto problematico, sia perché è
difficile definirlo, sia perché, ammesso che si riesca a farlo, rischia di
generare paradossi. Gli antichi greci cercarono a lungo di evitarlo, sia in
filosofia che in matematica. Euclide, per esempio, anziché affermare che
esistono infiniti numeri primi (frase filosoficamente ambigua e non
rigorosa), disse che i numeri primi sono più numerosi di quelli contenuti
in un qualsiasi insieme di numeri primi. Altri matematici dell’antichità
come Archimede di Siracusa intuirono alcune delle idee basilari
dell’analisi matematica, ma non riuscirono a formularle rigorosamente,
non sapendo trovare espedienti analoghi a quello di Euclide per fare a
meno della scivolosa nozione di infinito. Il problema fu risolto
completamente solo due millenni dopo, proprio mediante l’introduzione
del “metodo epsilon-delta”. Prima di arrivare a questo risultato, importanti
contributi giunsero da matematici indiani come il famoso Bhaskara II, da
numerosi scienziati europei tra il XVI e il XVII secolo, e soprattutto da
due geni come Isaac Newton e Gottfried Wilhelm von Leibniz, che alla
fine del Seicento gettarono le basi dell’analisi matematica moderna.
L’analisi ha un’importanza capitale non solo nel contesto della
matematica, ma più in generale fornisce una base concettuale e
metodologica a tutte le scienze fisiche, economiche, statistiche e
ingegneristiche. Non è un caso che oggi numerosi corsi di laurea, anche
non appartenenti all’area scientifica, prevedano un esame obbligatorio di
analisi matematica. Il percorso storico attraverso il quale l’uomo è giunto
a dominare idee profonde come quelle di limite, derivata e integrale
costituisce un processo fondamentale per la storia del pensiero scientifico.
Ed è significativo che in inglese l’analisi matematica venga indicata come
calculus, vale a dire il “calcolo” per antonomasia.
Ben consapevole di questa importanza, Tom Lehrer non si è limitato a
dedicare ai concetti dell’analisi una sola canzone ma, sempre nel 1951,
scrisse un brano ispirato a un’altra delle nozioni chiave di questa branca
della matematica: la derivata di una funzione. La canzone si intitola “The
Derivative Song” e questo è il suo testo, adattato in italiano da Marco
Fulvio Barozzi:

Considera una funzione di x, che y chiamerai,


prendi un qualsiasi x0, quello che vorrai,

184
fai un piccolo cambio, che delta-x sarà,
il corrispondente cambio in y avverrà,
poi prendi il quoziente e ora con attenzione
manda delta-x a zero, e non è opinione,
che ciò che ci dà il limite, se avrai controllato
è ciò che dy/dx, proprio dy/dx è chiamato.

Non è il caso di addentrarci nei dettagli di quanto Lehrer racconta in


questa canzone. La derivata di una funzione, in ogni caso, altro non è che
un modo per descrivere il tasso di variazione del valore di una funzione al
variare della variabile indipendente x. Per esempio, riprendendo l’esempio
di funzione visto all’inizio del capitolo, che descrive la distanza percorsa
da un’automobile su un rettilineo al trascorrere del tempo, la derivata di
questa funzione rappresenta la velocità istantanea dell’auto nei vari istanti
di tempo.
I lettori volenterosi possono cimentarsi nella decifrazione del testo di
Lehrer: scopriranno, se già non lo sapessero, che la derivata di una
funzione è un particolare limite. Non è difficile comprendere che l’idea di
derivata è essenziale in tutti i contesti in cui serve descrivere quanto
rapidamente varia una grandezza che dipende da un’altra. Questo avviene
praticamente in ogni ramo del sapere umano in cui possano essere
impiegati metodi quantitativi per descrivere fenomeni.
Ed ecco il colpo di genio di Lehrer: “The Derivative Song” fu scritta
riutilizzando la melodia della canzone “There’ll Be Some Changes Made”
(nota anche come “Changes”) di William Benton Overstreet, uno standard
jazz del 1921 interpretato, tra gli altri, da Benny Goodman e da Billie
Holiday. “Changes”, cioè variazioni. Esattamente l’oggetto di studio della
matematica delle derivate e, in ultima istanza, di tutta l’analisi
matematica: la vertiginosa matematica dell’infinito.

185
13

Il mistero dell’accordo di ‘‘A Hard Day’s


Night’’

Sapevamo che avrebbe costituito l’inizio del film e anche


dell’album, perciò ci serviva qualcosa di particolarmente forte ed
efficace.
L’accordo dissonante di chitarra era perfetto a questo scopo.
George Martin, produttore dei Beatles

Alla British Library di Londra è esposta una cartolina di auguri col


disegno di un trenino. Nell’aprile 1964 qualcuno l’aveva spedita a casa di
un bambino in occasione del suo primo compleanno. Quel bambino si
chiamava Julian… e suo padre era John Lennon [13.1].
Pochi giorni dopo, la mattina del 16 aprile, la giornalista Maureen
Cleave arrivò sul luogo di un appuntamento fissato, niente meno, che con
John Lennon. I due si trovarono in un punto concordato di Londra,
presero insieme un taxi e indicarono all’autista la destinazione: gli studios
di Abbey Road. Durante il tragitto John canticchiò a Maureen una
canzone che aveva scritto pochi giorni prima e che avrebbe registrato
quella mattina stessa insieme a Paul, George e Ringo. Si era appuntato il
testo sul retro della cartolina di buon compleanno ricevuta dal figlio.
Erano quasi arrivati quando la giornalista gli indicò il verso But when I get
home to you, I find my tiredness is through, and I feel all right.
“Non scorre bene, John, cambialo.”
Il musicista ci pensò su qualche istante. Si fece prestare una penna da
Maureen e modificò le parole: But when I get home to you, I’ll find the
things that you do will make me feel all right.

186
Maureen aveva già intervistato i Beatles numerose volte e lo avrebbe
fatto ancora in futuro. Sarebbe stata lei, due anni dopo, a raccogliere la
famigerata affermazione di Lennon “I Beatles sono più popolari di Gesù
Cristo”, che avrebbe fatto infuriare mezza America benpensante. John era
fortemente attratto da Maureen, con quell’aria da maestrina e le battute
ironiche sempre pronte. Ma lei era già fidanzata e pare che avesse rifiutato
le avance dell’artista: i due, però, rimasero amici.
Quando entrarono nello Studio 2 di Abbey Road, gli altri tre Beatles
avevano già accordato gli strumenti. C’erano anche gli ingegneri del
suono Geoff Emerick e Norman Smith, il produttore George Martin e
Richard Lester, regista del film A Hard Day’s Night, girato nelle
settimane precedenti.
Accompagnandosi con la chitarra e leggendo il testo scarabocchiato
sulla cartolina, John fece ascoltare a tutti la canzone, candidata a diventare
la title track del film e della relativa colonna sonora. Il titolo era un
nonsense inventato da Ringo Starr e utilizzato da Lennon in uno dei
raccontini surreali pubblicati circa un mese prima in In His Own Write.
Ora che c’era anche John, Lester e Martin spiegarono ai ragazzi qual
era l’obiettivo numero uno della sessione: trovare un suono spettacolare
per l’inizio della pellicola (e del disco), un energico scossone, un’apertura
drammatica e inaspettata. Non era facile, ma quei ragazzi erano i Beatles.
E quel giorno erano in forma smagliante. In aggiunta, anche la fortuna era
dalla loro parte: già durante le prime prove di riscaldamento spuntò per
caso dalla chitarra di John un accordo strano, secco e stridente, ma al
tempo stesso particolarmente piacevole. Certamente il contributo di
George Martin fu determinante per perfezionarlo e arricchirlo: la sua
versione finale uscì dopo pochi minuti e fu giudicata perfetta per risolvere
il problema dell’apertura.
I Beatles lavorarono in tutto meno di tre ore. Furono registrate nove
versioni, cinque delle quali complete: in tutte compare l’accordo iniziale
nella sua forma definitiva. Sulla prima traccia del nastro fu registrata la
chitarra acustica Gibson J-160E di John, il basso Höfner 500/1 di Paul e la
batteria di Ringo, sulla seconda le voci di John e Paul, sulla terza le loro
voci raddoppiate e alcune percussioni aggiuntive, sulla quarta la
Rickenbacker 360/12 a 12 corde di George e lo Steinway Grand Piano di
George Martin.
L’enigma di “A Hard Day’s Night” è legato proprio al suo accordo

187
introduttivo, il più famoso della storia del rock: come fecero i Beatles a
ottenerlo?
Probabilmente già saprete cosa si intende per accordo: un insieme di
note diverse che vengono suonate o cantate nello stesso istante. Le note
che formano un certo accordo vengono indicate secondo la loro posizione
rispetto alla tonalità del brano musicale. Per esempio, in tonalità di Do
maggiore, dobbiamo considerare i sette gradi della scala corrispondente:
Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si. L’accordo più semplice e comune di tutti, la
triade maggiore, è formato dalle note relative ai gradi 1, 3 e 5: in Do
maggiore sono Do, Mi e Sol. Se suonate su un pianoforte queste tre note
contemporaneamente, ottenete un’armonia piacevole all’orecchio. Altre
combinazioni simultanee di suoni non producono lo stesso appagamento
uditivo, anzi, in alcuni casi risultano decisamente moleste. L’analisi e la
catalogazione degli accordi è l’oggetto dello studio dell’armonia, con cui
tutti i musicisti prima o poi si cimentano.
Il nostro problema può essere formulato così: quali note suonò
ciascuno dei Beatles per ottenere quello speciale amalgama sonoro?
Nonostante possa apparire una questione oziosa, su questo problema sono
stati versati fiumi di inchiostro e può a ragione essere considerato uno dei
grandi misteri del rock’n’roll. Molti hanno tentato di risolvere la questione
semplicemente ascoltando l’accordo sul disco e provando a riprodurlo, ma
si tratta di un’armonia insolita, refrattaria alla classificazione. È facile
avvicinarsi all’originale: ma in questo gioco non basta, bisogna trovare
tutte le note esatte.
Gli editori degli spartiti risolvono il problema in due modi diversi.
Alcuni omettono l’accordo come se niente fosse e iniziano il brano
direttamente con le note della prima strofa (It’s been a hard day’s night,
and I’ve been working like a dog). Altri pubblicano una trascrizione
dell’accordo, ma il guaio è che ogni spartito propone la sua, cosicché in
giro vi sono decine di versioni, anche molto diverse tra di loro. Due delle
più semplici sono illustrate nelle figure 13.1 e 13.2. Le note che formano
il primo accordo sono (in ordine ascendente) Sol, Do, Fa, Si bemolle, Re e
Sol. Anche un chitarrista alle prime armi lo può suonare con facilità: è
sufficiente un barré sul terzo tasto. La seconda trascrizione, invece, è
molto simile alla precedente, ma il Do è diventato un Re e il Si bemolle un
Do. In entrambi i casi l’effetto sonoro è piuttosto vicino all’originale, ma
non perfettamente uguale.

188
Figura 13.1La prima trascrizione dell’accordo di "A Hard Day’s Night".

Figura 13.2La seconda trascrizione.

Queste versioni sono pensate per simulare l’accordo utilizzando un solo


strumento, per esempio una chitarra. L’accordo originale, invece, era il
risultato dell’apporto di più strumenti: la 12 corde elettrica di Harrison, la
chitarra acustica di Lennon, il basso di McCartney, il pianoforte di Martin.
Quest’ultimo strumento, in particolare, riveste un ruolo decisivo: le
ricostruzioni che lo escludono dall’accordo non risultano credibili, perché
nel disco si percepisce un suono secco e percussivo, che difficilmente può
essere ottenuto utilizzando soltanto basso e chitarre. Come dite? C’era
anche la batteria di Ringo Starr? È vero, ma stiamo parlando di uno
strumento a suono indeterminato che non contribuisce all’accordo in
modo significativo. L’inconfondibile effetto di aggressivo “bang” è
prodotto soprattutto dal pianoforte.
Numerosi musicologi, per esempio Walter Everett, Alan W. Pollack e
Dominic Pedler, hanno cercato di individuare trascrizioni realistiche per
l’accordo. Pedler, in particolare, ha addirittura dedicato alla questione
quaranta pagine del suo imponente volume [Pedler, 2001], nelle quali ha
proposto ventuno trascrizioni dell’accordo [13.2]. Di queste, quella che lui
ritiene la più attendibile è la seguente:

189
Figura 13.3La trascrizione di Pedler.

Secondo questa ricostruzione, George Harrison e John Lennon eseguirono


il medesimo accordo, un Fa maggiore con una nona aggiunta (“Fadd9”
nella nomenclatura anglosassone). Che accordo è questo? Nella tonalità di
Fa maggiore, i sette gradi della scala sono Fa, Sol, La, Si bemolle, Do, Re,
Mi. La triade maggiore è quindi formata dalle note Fa, La, Do.
Aggiungere una nona significa arricchire l’accordo con la nota che si
trova al nono grado, che equivale al secondo grado della scala all’ottava
superiore: un Sol alto, quindi. L’accordo ipotizzato da Pedler per Harrison
e Lennon è pertanto costituito dalle note Fa3, La3, Do4, Sol4, come si vede
nella figura (i numeri riportati dopo il nome della nota indicano l’ottava
alla quale appartiene la nota stessa: il Do4 è il Do centrale del pianoforte e
il Do5 quello posto un’ottava sopra). Nel mondo della musica jazz e pop-
rock, questa particolare combinazione di note viene spesso denominata mu
chord (in italiano, accordo mu). Questo nomignolo è stato inventato dai
componenti della band americana Steely Dan, che fece di questo accordo
un vero e proprio marchio di fabbrica: nei brani del gruppo l’accordo di

190
nona aggiunta è utilizzato di continuo, spesso arpeggiato al termine delle
frasi musicali. Ascoltate, per esempio, canzoni come “Reelin’ in the
Years” (1972) o “Deacon Blues” (1977). Lo stile degli Steely Dan è molto
influenzato dalla musica jazz e non sorprende di trovare spesso l’accordo
mu nel jazz del periodo compreso tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta.
Ma completiamo l’analisi della ricostruzione di Pedler: Paul
McCartney avrebbe suonato un Re3 e George Martin un accordo formato
dalle note Re2, Sol2 e Re3. Ora, la congettura di Pedler si basa
principalmente sull’ascolto del brano e sulla sua competenza
musicologica, ma anche lui potrebbe essersi sbagliato.
Lo so a che cosa state pensando. Vi state chiedendo: “Ma possibile
che nessuno abbia mai cercato di risolvere la questione una volta per tutte
interrogando direttamente qualcuno dei Beatles?” Be’, qualcuno lo ha
fatto davvero: in una chat online, organizzata sul sito di Yahoo il 15
febbraio 2001, la domanda fu posta al chitarrista del gruppo, pochi mesi
prima della sua scomparsa [13.3]:
D: Mr. Harrison, quali note c’erano nell’accordo iniziale di “A Hard Day’s
Night”?
R: Sulla 12 corde è un accordo di Fa maggiore con un Sol in cima, ma se volete
avere il quadro completo dovete chiedere a Paul le note del basso.

Fermi tutti: un “accordo di Fa maggiore con un Sol in cima” è esattamente


l’accordo di nona aggiunta ipotizzato da Pedler. Ma allora, a questo punto,
con la conferma di Harrison, si poteva stare quasi tranquilli, o no? Non
proprio: mancava un’altra conferma, quella della matematica.
La matematica? Che c’entra con l’accordo dei Beatles? C’entra
eccome. Nel capitolo 2 abbiamo visto come, quando uno strumento
musicale o una voce umana produce una nota, viene emessa un’onda
sonora che, in generale, è la somma di una componente associata alla
frequenza fondamentale (la nota percepita) e di una moltitudine di
componenti a frequenze multiple della fondamentale, dette armoniche.
Nella figura 2.2 del capitolo 2 abbiamo visto la forma di ciascuna di
queste armoniche elementari. Il loro tipico andamento serpeggiante viene
detto sinusoidale perché è la stessa forma dei grafici delle funzioni seno e
coseno. Si tratta di funzioni goniometriche, cioè di leggi matematiche che
all’ampiezza di un angolo fanno corrispondere un numero. In che modo?
Osservate la figura 13.4, in cui è rappresentata una circonferenza

191
goniometrica.

Figura 13.4La circonferenza goniometrica.

La circonferenza goniometrica, per definizione, ha il centro nell’origine


degli assi cartesiani e la lunghezza del suo raggio è pari a 1. Consideriamo
un raggio qualsiasi, come quello indicato nella figura, che incontra la
circonferenza nel punto P: esso forma un angolo indicato con la lettera θ.
Ovviamente la posizione del punto P sulla circonferenza varia a seconda
dell’ampiezza dell’angolo θ. Le sue coordinate cartesiane sono definite
rispettivamente coseno dell’angolo θ (cioè cos θ) e seno dell’angolo θ
(cioè sin θ).
Cosa accade se l’angolo θ è un angolo retto, cioè un angolo di 90°? Il
punto P si sposta sull’asse y, in corrispondenza delle coordinate (0, 1).
Questo significa che il coseno di un angolo di 90° è uguale a 0, mentre il
seno dello stesso angolo retto è pari a 1. Analogamente, se l’angolo θ è un
angolo piatto, cioè di 180°, il punto si sposta sull’asse x e assume le
coordinate (−1, 0). Possiamo allora affermare che il coseno e il seno di un
angolo di 180° sono uguali rispettivamente a −1 e a 0. In modo simile

192
possiamo facilmente ricavare altri valori notevoli del seno e del coseno.
I matematici, tuttavia, misurano di rado gli angoli mediante i gradi,
perché preferiscono utilizzare un’altra unità di misura, i radianti. Per
capire che strana unità è mai questa, basta intenderci su quanto sia ampio
un angolo di 1 radiante: è l’angolo il cui corrispondente arco di
circonferenza goniometrica è lungo quanto il raggio della circonferenza
stessa. Strana definizione, si potrebbe pensare. Ma noi sappiamo che la
lunghezza C della circonferenza è uguale alla lunghezza del diametro
moltiplicata per π: visto che il diametro è il doppio del raggio r, si ha C
=2πr. Questo equivale a dire che l’angolo giro corrisponde a un arco di
circonferenza lunga 2π volte il raggio. Ne consegue che in un angolo giro
ci stanno 2π angoli da un radiante, cioè 360 gradi equivalgono a 2π
radianti. Mediante semplici proporzioni possiamo dedurre le misure in
radianti di tutti gli altri angoli degni di nota.
Considerando alcuni valori del seno e del coseno, possiamo
rappresentare queste due funzioni mediante un grafico, nel quale le
ampiezze degli angoli (in radianti) sono rappresentate sull’asse x e i valori
delle funzioni stesse sull’asse y.

Figura 13.5I grafici del seno e del coseno.

Possiamo ora tornare alle onde sonore. Ci si potrebbe chiedere se, data
una qualsiasi onda sonora, esista un modo per scomporla nelle sue

193
armoniche costitutive. Per fortuna sì: il metodo si chiama trasformata di
Fourier e venne descritto per la prima volta nel 1822 dal matematico
francese Jean Baptiste Joseph Fourier, nel suo trattato Théorie analytique
de la chaleur. La grande scoperta di Fourier fu che qualsiasi forma
d’onda, per quanto complicata, può essere scomposta come somma
infinita di seni e coseni, isolando le singole componenti elementari
dell’onda complessiva. In altre parole, se prendiamo la forma d’onda di un
breve frammento sonoro e vi applichiamo la trasformata di Fourier, in
linea di principio dovremmo poter ricavare le singole onde pure delle
armoniche costitutive e compilare una tabella con tutte le loro
caratteristiche (frequenze, fasi e ampiezze).
La trasformata di Fourier è un po’ come la spettrometria di massa, che
permette di identificare le sostanze presenti in un campione di materia:
semplificando un po’, anziché una provetta con un misterioso liquido al
suo interno abbiamo un frammento musicale, e invece di cercare gli
elementi chimici costitutivi cerchiamo le note suonate. Questa faccenda
potrebbe sembrare un freddo marchingegno: ma in realtà tutto il
meraviglioso edificio dell’armonia, l’arte del contrappunto e della fuga e
la magia della polifonia si fondano sulla scoperta di Fourier. Se ci
emozioniamo ascoltando il Requiem di Mozart o “Yesterday” dei Beatles,
lo dobbiamo in gran parte alla matematica nascosta tra le armoniche.
Quando Fourier inventò la trasformata che porta il suo nome,
probabilmente non immaginava che sarebbe divenuta uno degli strumenti
matematici più utilizzati nelle scienze e nell’ingegneria. La potenza di
questo metodo consiste nel fatto che può essere applicato a qualsiasi
funzione che descrive matematicamente l’andamento di un certo
fenomeno: non soltanto onde sonore quindi, ma anche segnali telefonici,
televisivi e così via. La trasformata prende la funzione dipendente dal
tempo x(t) e la converte in una funzione dipendente dalla frequenza X(f),
che i matematici chiamano spettro della funzione iniziale. Questo risultato
finale corrisponde al grafico (o alla tabella) di tutte le componenti
sinusoidali pure che, sommate tra loro, formano il segnale di partenza.
Per trasformare x(t) in X(f) occorre eseguire un’operazione speciale,
centrale in analisi matematica e chiamata integrale, che si indica con il
simbolo ∫. La formula della trasformata di Fourier è infatti:

194
Non è questa la sede per sviscerare il senso profondo di questo
formalismo. Basti osservare che quando il segnale originario è periodico,
la sua trasformata di Fourier è un insieme discreto di frequenze: la più
bassa è la fondamentale, le altre sono le armoniche. Se invece il segnale
non è periodico, lo spettro è continuo, cioè le sue frequenze sono infinite e
“infinitamente” vicine le une alle altre.
Un modo particolare per rappresentare graficamente il risultato di una
trasformata di Fourier è chiamato spettrogramma. Per costruirlo, si
suddivide in diverse finestre temporali l’intervallo in cui si trova la forma
d’onda da analizzare e si applica la trasformata a ogni finestra, ricavando
l’intensità del segnale in funzione della frequenza. A questo punto si
traccia un grafico che riporta sull’asse orizzontale il tempo e su quello
verticale la frequenza: ogni punto (relativo a un dato istante e a una data
frequenza) viene colorato con una tonalità cromatica che indica l’intensità
del segnale in corrispondenza di quell’istante e di quella frequenza.
Il singolo “Windowlicker” pubblicato nel 1999 dal musicista inglese
Aphex Twin, celebre per le sue sperimentazioni nella musica elettronica,
dance e techno, giocava sapientemente con gli spettrogrammi. Per prima
cosa, se vi procurate un software in grado di creare spettrogrammi a
partire da un brano musicale e provate a dargli in input il brano contenuto
sul lato A, vedrete, verso la fine della traccia, una spirale. Se fate la stessa
cosa con la canzone del lato B, vi appariranno alcune immagini di un
volto sogghignante, probabilmente quello dell’autore stesso. Forse vi
starete chiedendo quali laboriose procedure ha eseguito Aphex Twin per
ottenere questo singolare effetto? No, nulla di complicato: ha banalmente
utilizzato un programma che esegue l’operazione inversa, cioè a partire da
un’immagine qualsiasi, scelta come spettrogramma, genera la forma
d’onda corrispondente. Non finisce qui: il titolo del pezzo sul lato B è una
formula complicatissima, misteriosa e probabilmente priva di significato:

L’espressione è talmente irripetibile che i fan si riferiscono al brano

195
chiamandolo “Complex Mathematical Formula”, oppure semplicemente
“Equation” o “Formula”.
Ma a cosa serve in concreto tutta questa faccenda della trasformata di
Fourier? A moltissime cose. Per esempio, la musica elettronica non
sarebbe mai potuta nascere senza la conoscenza e l’utilizzo della
trasformata di Fourier. Quindi gli appassionati di musica, e di rock nello
specifico, devono essere grati al matematico francese e a chi ha applicato i
suoi risultati alla sintesi elettronica del suono. Inoltre, grazie alla
trasformata di Fourier, riusciamo ad analizzare un segnale e separare le
componenti utili da quelle che costituiscono soltanto rumore (il ronzio che
si percepisce quando si ascolta musica su supporti obsoleti, il disturbo che
talvolta vediamo sullo schermo della tv e così via): una volta eliminate
queste componenti, possiamo tornare nel dominio del tempo e avere un
segnale più pulito.
Avete presente Shazam, l’app che vi dice all’istante il titolo della
canzone che state ascoltando alla radio? Ebbene, Shazam funziona
calcolando la trasformata di Fourier del segnale sonoro catturato dal
microfono del vostro smartphone. Più precisamente, l’app costruisce lo
spettrogramma del campione audio e a partire da questo crea un’impronta
digitale della canzone, che viene ricercata nell’enorme database
dell’applicazione. Se viene trovata una corrispondenza, voilà, il sospirato
titolo viene visualizzato sul display.
E naturalmente la trasformata di Fourier può servire… per studiare la
musica dei Beatles. Nel capitolo 8 abbiamo fatto la conoscenza del
professor Jason I. Brown, della Dalhousie University in Canada: sempre
lui, grande appassionato dei Beatles, provò nel 2004 ad applicare la
trasformata di Fourier al famigerato accordo di “A Hard Day’s Night”,
ottenendo alcuni sorprendenti risultati [13.4]. La tabella che Brown ricavò
conteneva 29.375 frequenze diverse: oltre alle fondamentali delle note
effettivamente suonate dai Beatles vi erano le rispettive armoniche ma
anche suoni estranei. Come fare per eliminare il superfluo? Il matematico
partì dall’assunto che i suoni non fondamentali dovessero essere presenti a
volumi più bassi e decise così di prendere in considerazione soltanto le
frequenze presenti con un’intensità superiore a una certa soglia. In seguito
a questa scrematura rimasero soltanto 48 frequenze.

196
Figura 13.6Le frequenze considerate dal professor Brown.

Giunto a questo punto, Brown utilizzò alcune informazioni legate alle


peculiarità tecniche degli strumenti musicali impiegati dai Beatles. Per
esempio, le chitarre a 12 corde come quella suonata da Harrison hanno sei
coppie di corde, intonate secondo il seguente schema: Mi2-Mi3, La2-La3,
Re3-Re4, Sol3-Sol4, Si3-Si3, Mi4-Mi4. Ogni suonatore di chitarra a 12
corde, quindi, non pizzica una corda alla volta, ma fa vibrare insieme
entrambe le corde di una coppia: ciò comporta che le due frequenze
corrispondenti debbano essere contemporaneamente presenti tra quelle
rivelate dall’analisi di Fourier. Sulla base di osservazioni come questa,
Brown arrivò a ricostruire il celebre accordo come illustrato nella figura
13.7:

197
Figura 13.7La trascrizione del professor Brown.

Osservate le note. Vi siete già accorti di qualcosa di strano? Già, la


conclusione del professor Brown non combacia né con la congettura di
Pedler, né (e questo appare più grave) con quanto aveva dichiarato George
Harrison nel 2001. Inoltre, sembra inverosimile che John Lennon abbia
suonato una sola misera nota, tra l’altro molto acuta e quindi poco
vigorosa, quando la richiesta di George Martin e di Richard Lester era di
sfoderare un’apertura drammatica e potente.
Come se ciò non bastasse, nel 2011 apparve, sul sito di un misterioso
musicista dal curioso pseudonimo “Waynus of Uranus” [13.5], una
sarcastica invettiva contro la ricerca effettuata dal professor Brown,
ritenuta gravemente inesatta in una decina di passaggi fondamentali.
Insomma, era tempo che qualcuno riprendesse in mano la questione e,
grazie a un nuovo approccio, superasse le molteplici incongruenze.
La svolta arrivò alla fine del 2014, grazie a un altro matematico, il
professor Kevin Houston dell’Università di Leeds. Il suo articolo [13.6]
riferiva con dovizia di particolari la ricerca da lui svolta, che aveva
condotto a risultati completamente diversi da quelli di Brown. Per prima

198
cosa, secondo Houston l’errore decisivo del collega canadese era stato
quello di tagliare le frequenze meno intense, ritenendole poco
significative.
Per questo, il matematico britannico applicò un’analisi di Fourier
all’accordo di “A Hard Day’s Night”, senza effettuare lo scarto di Brown,
e utilizzando un software chiamato Melodyne per l’elaborazione. Houston
ebbe l’idea di basarsi sulla versione stereo del brano, mixata in modo tale
che sul canale sinistro prevalgono Harrison e McCartney, mentre sul
destro si sentono soprattutto Lennon e Martin. In questo modo, poté
elaborare separatamente i due canali, semplificando di molto il lavoro ed
elevando l’attendibilità dei risultati.
Per quanto riguarda il canale sinistro, Houston giunse facilmente a una
conclusione: McCartney suonò un Re2 (come tra l’altro pare facesse
anche nelle esecuzioni dal vivo) e Harrison un accordo formato dalle note
Fa2, La2, Fa3, La3, Do4, Sol4. Questa conclusione è completamente
diversa da quella di Brown, ma in ottimo accordo con quella di Pedler e
con l’affermazione di George Harrison.
Benissimo: ma il canale destro? Qui Houston ammette di avere avuto
grosse difficoltà e di essere uscito dal groviglio grazie all’aiuto
dell’oscuro Waynus of Uranus. Vi siete mai chiesti com’è possibile che in
rete vi sia la versione karaoke di moltissime canzoni? Come si fa a creare
queste varianti soltanto strumentali, cioè prive delle tracce vocali?
Generalmente si ricorre a un procedimento di elaborazione del suono noto
come inversione di fase. Immaginiamo che nel registrare una canzone la
parte strumentale sia stata separata da quella vocale. Supponiamo inoltre
che le diverse tracce degli strumenti siano state distribuite in modo
diverso sui canali sinistro e destro e che le voci vengano invece registrate
in modo uguale tra i due canali.
Ora, chiamiamo S la forma d’onda della parte strumentale che si
ascolta sul canale sinistro, D l’analoga forma d’onda sul canale destro e V
quella relativa alla parte vocale (uguale sui due canali). Quando le voci
vengono aggiunte alla registrazione, otteniamo, rispettivamente sui due
canali, le forme d’onda S +V e D +V. Se applichiamo l’inversione di fase
alla prima, otteniamo −S −V. Se sommiamo il risultato alla seconda,
troviamo la forma d’onda −S −V + D +V = D −S. Ohibò, è sparito V!
Abbiamo in effetti eliminato le voci dalla canzone. E gli appassionati di

199
karaoke ringraziano sentitamente!
Waynus of Uranus riferiva sul suo sito di aver applicato l’inversione
di fase all’accordo di “A Hard Day’s Night” e di aver ottenuto una traccia
in cui si sentiva distintamente una chitarra acustica, quella di Lennon,
mentre tutti gli altri strumenti risultavano eliminati.
Questo esito, apparentemente miracoloso, discende semplicemente dal
modo in cui i diversi strumenti erano stati mixati sui due canali stereo.
Una volta isolata la Gibson dalla miscela beatlesiana, il misterioso
musicista aveva avuto gioco facile nel ricostruire le note suonate da John.
Meraviglia delle meraviglie, esse erano esattamente quelle che Houston
aveva trovato per George: Fa2, La2, Fa3, La3, Do4, Sol4. Per quanto
riguarda il pianoforte di Martin, il risultato finale era un accordo formato
dalle note Re2, Sol2, Re3, Sol3, Do4.
Ecco, quindi, la ricostruzione finale di Houston:

Figura 13.8La trascrizione di Houston.

Il risultato di Houston è molto attendibile, anche se non è detto sia la


parola definitiva sul famigerato accordo dei Beatles: forse un giorno,

200
come lo stesso ricercatore inglese ammette, qualcuno avrà accesso diretto
alle quattro tracce registrate in quel 16 aprile 1964 e, applicandovi la
trasformata di Fourier, scoprirà qualcosa di nuovo che nessuno aveva
immaginato prima. Forse, o forse no. Una cosa è certa: risolvere il mistero
dell’accordo iniziale di “A Hard Day’s Night” non è una questione di vita
o di morte. Eppure, è molto significativo il fatto di aver preso un problema
come questo, che ai più può sembrare di natura esclusivamente musicale e
lontano dalla matematica, e di averlo risolto con strumenti quantitativi,
come la trasformata di Fourier.
Qualcuno obietterà: è vero, ma i due ricercatori che hanno effettuato
questa operazione, pur impiegando metodi molto simili, sono giunti a
conclusioni significativamente diverse. È una prova che la matematica
non è attendibile? Non è una deduzione corretta: è vero che Brown e
Houston si sono serviti di tecniche simili, ma nel corso della loro ricerca
hanno anche formulato ipotesi e compiuto scelte molto differenti, il che
giustifica la diversità dei risultati. La matematica, insomma, è uno
strumento potentissimo, ma sono fondamentali i dati da cui si parte, le
ipotesi di riferimento, le decisioni critiche prese nelle fasi in cui è
necessaria una componente di guesswork da parte del matematico.
Dopo aver parlato a lungo dell’enigmatica apertura di “A Hard Day’s
Night”, sarebbe forse un’ingiustizia passare sotto silenzio un altro celebre
accordo beatlesiano: quello che conclude l’ultima traccia dell’album Sgt.
Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1967.
Non stiamo parlando di un disco qualunque, ma di uno dei capolavori
dell’arte popolare del secolo scorso. La rivista “Rolling Stone” lo ha
consacrato come l’album più bello di sempre. Chi ha vissuto quel periodo
riferisce che quando il disco uscì, il 1° giugno 1967, il mondo occidentale
visse un magico e irripetibile momento di sintonia: tutti i giovani
ascoltavano quelle canzoni, leggevano quei testi, si facevano domande sul
significato della copertina. Come scrisse il critico statunitense Langdon
Winner, “per un breve momento, la frammentata coscienza del mondo
occidentale si riaggregò, quantomeno nelle teste dei giovani.”
Il pezzo finale dell’album, “A Day in the Life” è stato più volte
indicato come il più significativo dell’intera produzione dei Beatles. I due
passaggi orchestrali del brano nacquero da un’idea di John Lennon, che
voleva creare qualcosa di apocalittico a partire dal nulla. George Martin
diede concretezza a questa visione dirigendo un’orchestra di 45 elementi,

201
a ciascuno dei quali chiese di improvvisare all’interno di una
semplicissima cornice di regole: partire dalla nota più grave consentita dal
proprio strumento e salire fino a raggiungere la più acuta, aumentando nel
contempo l’intensità sonora e ignorando completamente i colleghi. I
risultati furono due turbini cacofonici dalla formidabile intensità
drammatica: il primo posto a metà del brano e il secondo alla fine. Al
termine del secondo, i Beatles decisero di chiudere il pezzo con un
accordo in Mi maggiore e di lasciarlo spegnere gradualmente per più di 40
secondi, fino al silenzio completo. John Lennon, Paul McCartney, Ringo
Starr e il road manager Mal Evans suonarono l’accordo su tre pianoforti a
coda e George Martin lo sovraregistrò successivamente usando un
harmonium. La traccia fu poi triplicata per rendere l’effetto ancora più
vigoroso. Il volume di registrazione fu mantenuto così alto che al termine
della dissolvenza si possono udire il cigolio di uno sgabello e il fruscio dei
condizionatori.
Se l’accordo di “A Hard Day’s Night” aveva la funzione di creare un
avvio spiazzante, stridente e aggressivo, quello di “A Day in the Life” ha
lo scopo opposto: far convergere il frammento caotico concepito da
George Martin sull’armonia più rassicurante possibile.
Anche questo accordo ha a che vedere con la matematica? A quanto
pare sì, se non altro da un punto di vista metaforico. Come ha scritto il
matematico inglese Ben Orlin, autore del blog Math with Bad Drawings
[13.7]:1
Vedi, questo uno-due, il caos e l’accordo, è il migliore esempio che io conosca di
un tema semplice e importantissimo: come l’ordine si nasconda dietro il disordine.
Come la struttura emerga dalla confusione. Come il sereno erompa dalla nebbia.
Uno dei passaggi sonori più stridenti e inquietanti del catalogo dei Beatles dà
origine a uno dei più puri ed elementari. […] Il crescendo – selvaggio, dissonante
e beffardamente complesso – è la realtà. L’accordo finale – puro, strutturato e
definitivo – è la matematica.
L’esperienza che provi ascoltando “A Day in the Life” è esattamente ciò che
dovrebbe essere apprendere la matematica. Per prima cosa, dovresti affrontare il
brulicante disordine della realtà, in tutta la sua tentacolare incoerenza. Poi,
dovresti provare una sensazione di vento caldo quando la matematica spazza via i
dettagli non pertinenti e gli elementi di distrazione, lasciando soltanto una visione
chiara e unica. La matematica è l’accordo sepolto nella cacofonia, la musica
nascosta nel caos.

Insomma, la sequenza finale di “A Day in the Life” come metafora

202
dell’azione ordinatrice della matematica. Peccato però, osserva Orlin, che
la matematica che si impara a scuola sia molto diversa da com’è
realmente: vengono presentati solo i prodotti finiti, perfetti e ben levigati,
ma si nasconde il lungo e faticoso processo che li ha creati, pieno di
tentativi, passi falsi, ripartenze. Dice Orlin: è come se i Beatles avessero
pubblicato sull’album solo l’accordo finale di “A Day in the Life” e
scartato il resto della canzone. Sarebbe stata una scelta dissennata,
imperdonabile. Aggiungo io: è come se in questo capitolo mi fossi
limitato a riferire, come verità rivelata, le note che compongono l’accordo
iniziale di “A Hard Day’s Night”, tralasciando tutta la loro ricerca, fatta di
uomini in carne e ossa alle prese con ipotesi, errori, esperimenti fortunati e
fallimentari.
Orlin ha ragione da vendere. Dovrebbe essere un imperativo per tutti
noi docenti di matematica quello di insegnarla per come è veramente.
Insomma, suonare tutta la canzone: non solo il cielo azzurro dell’armonia
finale, ma anche l’uragano che la precede.

1.Traduzione dell’autore.

203
14

La formula più bella del mondo

e to the power of i times π plus 1 is 0


(da “Mathematics” dei Van der Graaf Generator
in A Grounding in Numbers, 2011)

Nel 1967, l’inglese Chris Judge Smith, fresco di diploma, decise di


trascorrere le vacanze negli Stati Uniti assieme a un amico. I due ragazzi
arrivarono a San Francisco nel pieno della Summer of Love. Nel corso
della vacanza conobbero numerosi musicisti hippie e ascoltarono
moltissimi concerti. La musica era la grande passione di Smith: cantava e
suonava la batteria. Sul volo di ritorno nella sua testa risuonavano le note
che aveva ascoltato durante quell’estate indimenticabile. Aveva preso una
decisione: appena tornato a Manchester avrebbe fondato anche lui un
gruppo rock.
Cominciò, ancora sull’aereo, a stilare un elenco di possibili nomi della
band: il suo interesse per le materie scientifiche e per le tecnologie
avveniristiche gli suggerì due insolite opzioni: “Zeiss Manifold and the
Shrieking Plasma” e “Van der Graaf Generator”. Il secondo nome si
riferiva a un generatore elettrostatico inventato dal fisico americano
Robert Van de Graaff, molto diffuso nei laboratori scolastici di fisica,
capace di creare una tensione altissima (anche milioni di volt) tra un
conduttore e un elettrodo messo a terra. Sicuramente il giovane Smith
aveva pensato a quel nome perché Van de Graaff era scomparso pochi
mesi prima, a gennaio, e i giornali avevano pubblicato articoli sulla sua
vita e sulla sua celebre invenzione. Nella lista di Judge il nome dello
scienziato era scritto impropriamente: “Graaf” anziché “Graaff” e “der” al
posto del “de”. Quando la band nacque davvero, pochi mesi dopo, nelle

204
aule dell’Università di Manchester, con Smith alla batteria, Nick Pearne
alle tastiere e Peter Hammill alla voce e alla chitarra, nessuno fece caso al
doppio refuso e il nome “Van der Graaf Generator” fu definitivamente
ufficializzato.
Hammill, forse ancor più del compagno Smith, aveva un debole per le
discipline scientifiche, come testimoniato dai suoi ottimi voti in
matematica negli anni del liceo. A Manchester si era immatricolato al
corso di laurea in Liberal Studies in Science: le lezioni che preferiva erano
quelle di filosofia della scienza, ma anche quelle di fisica, ingegneria,
medicina e storia dell’economia lo affascinavano. Mentre era iscritto
all’università, lavorò per un periodo alla IBM come programmatore di
computer.
Il progetto originario di Smith, Pearne e Hammill non ebbe successo:
ben presto i primi due uscirono dal gruppo, mentre fecero il loro ingresso
Keith Ellis, Guy Evans e Hugh Banton. A metà 1968 i musicisti decisero
addirittura di sciogliere la band, per ricomporla un anno dopo in occasione
della pubblicazione del primo album, The Aerosol Grey Machine. Con il
nuovo decennio le cose cominciarono ad andare per il verso giusto: nel
1970 uscirono The Least We Can Do Is Wave to Each Other e H to He,
Who Am the Only One, ma fu soprattutto grazie a Pawn Hearts,
pubblicato nel 1971, che i Van der Graaf Generator furono riconosciuti
dalla critica come uno dei migliori gruppi di progressive rock. Lo stile del
gruppo era plasmato dal leader Peter Hammill: dalle sue composizioni
traspaiono un cupo pessimismo esistenziale e un senso di angosciata
allucinazione. Le sue musiche sono intricate, nevrotiche e disperate, ma
prive degli svolazzi barocchi di molti gruppi dell’epoca. Gli estesi e
profondi interessi culturali fornirono a Hammill abbondante materiale per
i testi: frequenti riferimenti letterari, sogni fantascientifici, riflessioni
filosofiche, psicologiche e sociali. Ovunque, accanto all’incubo, al caos e
al tormento interiore, emerge un amore per la logica e per la razionalità.
Non deve sorprendere, quindi, che Hammill sia arrivato un bel giorno
al punto di realizzare lavori esplicitamente ispirati alla sua amata
matematica: questo non è accaduto nel periodo classico dei Van Der Graaf
Generator, ma in due album recenti, Trisector del 2008 e A Grounding in
Numbers, pubblicato nel 2011.
Nel primo, la matematica fa capolino solo nel titolo (la trisezione di un
angolo rappresenta, assieme alla quadratura del cerchio e alla duplicazione

205
del cubo, uno dei tre grandi problemi della geometria classica, non
risolvibile con riga e compasso). A Grounding in Numbers, invece,
possiede alcuni elementi che lo rendono quasi un concept album sulla
matematica. Il titolo, innanzitutto, si addice più a un libro di testo di
aritmetica che a un disco rock: si potrebbe infatti tradurre “Rudimenti sui
numeri”. Poi: la data di pubblicazione, il 14 marzo 2011, ovvero il Pi Day
di quell’anno.
Infine, le tracce del disco, specialmente due. “5533” è un brano
caratterizzato da un nervoso ritmo dispari e da un testo enigmatico,
riguardante numeri misteriosi e oscure questioni computazionali. L’altro
brano matematico del disco rivela il suo soggetto fin dal titolo, esplicito e
lapidario: “Mathematics” ed è senz’altro uno dei pezzi migliori
dell’album. Le atmosfere inquietanti e straziate che pervadono gran parte
del repertorio della band qui lasciano spazio a un paesaggio più disteso e a
sprazzi di sereno, nonostante permangano le irregolarità ritmiche e le
dissonanze tipiche dei Generator. I versi, cantati dalla particolarissima
voce di Hammill, compongono una magistrale e poetica lezione su quella
che è stata più volte definita “la formula più bella del mondo”: l’identità
di Eulero eiπ + 1 = 0.
Leonhard Euler, noto in Italia come Eulero, fu una delle più grandi
menti matematiche di ogni epoca e una delle più prolifiche in assoluto, se
consideriamo il numero di pubblicazioni scientifiche prodotte. Nacque a
Basilea, in Svizzera, il 15 aprile del 1707. Il padre era un pastore
protestante ed era amico del famoso matematico Johann Bernoulli. Il
giovane Leonhard venne ammesso a soli tredici anni all’Università di
Basilea, dove si laureò poco tempo dopo in filosofia. Nelle intenzioni del
padre, il ragazzo era destinato alla carriera ecclesiastica; ma in quegli anni
Bernoulli, che al sabato pomeriggio impartiva a Leonhard lezioni private
di matematica, si accorse del talento eccezionale del ragazzo e riuscì a
convincere il genitore che nel suo futuro non dovevano esserci bibbie e
comunità di fedeli, ma numeri e teoremi.
A diciannove anni Eulero completò il dottorato. Un anno dopo, grazie
all’intercessione di Bernoulli, ricevette un incarico presso l’Accademia
Imperiale delle Scienze a Pietroburgo: in un primo momento,
curiosamente, come medico e professore di medicina, in seguito come
professore di matematica.
Nella storica capitale degli zar, Eulero stupì tutti per la velocità

206
prodigiosa con la quale imparò la lingua russa. Nello stesso tempo, la sua
reputazione di matematico crebbe rapidamente in tutta Europa.
I giorni russi di Eulero, tuttavia, terminarono nel 1741: lo studioso era
stanco delle continue rivolte che agitavano il Paese e accettò di buon
grado l’invito rivoltogli dal re di Prussia Federico II il Grande per un
posto presso l’Accademia di Berlino. Qui rimase per ben venticinque anni,
durante i quali pubblicò la bellezza di 380 articoli e le sue due opere
principali.
In questo periodo peggiorarono le sue condizioni di salute: divenne
quasi cieco, ma grazie alla sua formidabile memoria e al supporto del
fidato assistente Nicolaus Fuss, riuscì a sopperire egregiamente alle gravi
difficoltà visive.
Nel 1766, nonostante fosse ormai riconosciuto come uno dei più
grandi matematici al mondo e avesse contribuito grandemente al prestigio
dell’Accademia, il rapporto con il re si guastò. Allora Eulero si trasferì di
nuovo a Pietroburgo, invitato dalla nuova imperatrice Caterina la Grande
a dirigere l’Accademia. Il 18 settembre 1783 morì per un’emorragia
cerebrale. Nell’orazione funebre, il filosofo Nicolas de Condorcet
commentò: “Ha cessato di calcolare e di vivere.”
Mi piace definire Eulero un grande costruttore di ponti. Non i sette
ponti che attraversavano il fiume Pregel nella città prussiana di
Königsberg, protagonisti di un noto problema topologico risolto da Eulero
nel 1736, ma i sorprendenti collegamenti che il genio di Basilea riuscì a
individuare tra aree molto diverse della matematica.
Un esempio impressionante è costituito da alcune relazioni che
congiungono i numeri primi e π [14.1]. Parliamo di mondi in apparenza
lontanissimi: π, come sappiamo, è il rapporto tra la circonferenza e il
diametro di un cerchio, mentre i numeri primi, cioè le quantità intere
refrattarie alla divisione, sono una faccenda aritmetica, che nulla sembra
avere a che spartire con la geometria.
Ma il ponte euleriano più bello e più sorprendente di tutti è quello
cantato da Peter Hammill in “Mathematics”: la celebre identità eiπ + 1 = 0.
Per comprendere il significato di questa formula ci lasceremo guidare
proprio dal testo della canzone dei Van der Graaf Generator, verso per
verso:
Here be numbers transcendental

207
On an imaginary axis spun
Decimal places without limit
And 0 and 1

Mathematics
Simply pure beyond belief

e to the power of i times π plus 1 is 0


e to the power of i times π plus 1 is 0
e to the power of i times π is -1
e to the power of i times π is -1

A single function, exponential


Just one addition must be done…
Multiplication in completion
Of 0, of 1

Mathematics
Just so “wow” it brooks belief
(You’d better believe, you’d better believe it.)

La strada sarà lunga e tortuosa, per dirla con i Beatles. Ma sicuramente


accessibile: non dubitate, arriveremo sani e salvi a destinazione. Per
comodità analizzeremo per prime le due strofe e soltanto alla fine i due
ritornelli. Partiamo.

Here be numbers transcendental


La locuzione “here be” evoca espressioni come “Here be monsters”1 (o
“dragons”, o “lions”), versioni inglesi delle formule latine “Hic sunt
dracones” (o “monstra”, o “leones”). Sono diciture utilizzate dai cartografi
antichi e medievali per indicare sulle mappe zone del mondo ancora
inesplorate o particolarmente pericolose, in quanto popolate da animali
feroci o mitologici.
Insomma, è come dire che i numeri trascendenti sono creature
mostruose, ovvero entità lontane dalla matematica “ordinaria”. Nel
capitolo 9 ho già accennato a questa famiglia numerica: sono i numeri non
algebrici, che non si possono ottenere come soluzioni di equazioni con
coefficienti interi.
Vediamo un esempio: l’equazione x − 2 = 0 ha come soluzione il

208
numero 2, perché se sostituiamo l’incognita x con il numero 2 otteniamo 2
− 2 = 0, che è evidentemente un’uguaglianza vera. Il numero 2 è quindi un
numero algebrico e non trascendente. D’altra parte, tutti i numeri naturali
(descritti nel capitolo 1), e più in generale tutti i numeri interi, sono
algebrici: ognuno di loro è soluzione di equazioni con coefficienti interi.
Anche i numeri razionali, cioè quelli equivalenti a frazioni in cui sia il
numeratore che il denominatore sono numeri interi, sono tutti algebrici.2
E i numeri irrazionali sono algebrici o trascendenti? Dipende. Alcuni
di loro sono algebrici. Per esempio, la radice quadrata di 2 (lo potete
verificare facilmente) è soluzione dell’equazione x2 − 2 = 0. Altri numeri
irrazionali, come π e il numero di Nepero e, già incontrato nel capitolo 12,
non sono soluzione di alcuna equazione del tipo considerato e
appartengono infatti alla famiglia dei numeri “mostruosi” cantati da Peter
Hammill.
Sulle carte geografiche, le espressioni del tipo “Hic sunt dracones”
indicano solitamente regioni del mondo compatte e ben circoscritte. È
possibile disegnare una grande mappa dei numeri e indicare sulla sua
superficie le regioni abitate dai feroci numeri trascendenti? Per rispondere
a questa domanda dobbiamo partire dai numeri interi, rappresentabili
graficamente come tacche equidistanziate su una linea retta:

Figura 14.1La retta dei numeri interi.

I numeri interi sono “isolati”, perché tra due interi vicini esiste un salto. I
matematici definiscono questo fatto definendo discreto l’insieme dei
numeri interi. Basta però prendere in esame tutti i numeri razionali e
questa caratteristica svanisce, ovvero l’insieme diventa denso. Questo
significa che anche i numeri razionali possono essere disposti in ordine su
una retta, ma non vi sono più spazi vuoti tra un numero e un altro: presi
due numeri razionali qualsiasi, ne esiste sempre un altro compreso tra di
loro.
E se aggiungiamo anche i numeri irrazionali, prima quelli algebrici e
poi quelli trascendenti? L’insieme, che ora comprende tutti i numeri reali,
resta rappresentabile su una retta e diventa, se così si può dire, “ancora più
denso”. I matematici usano il termine continuo per descrivere questa

209
“superdensità”, caratteristica dell’insieme dei numeri reali.
I numeri trascendenti, in particolare, non si concentrano in una certa
regione, non si fanno riconoscere in modo evidente. “Qui ci sono i numeri
trascendenti”, canta Hammill, ma qui dove? Le mostruosità numeriche si
nascondono in modo omogeneo negli interstizi tra i numeri irrazionali
algebrici e tra i razionali, si distribuiscono ovunque senza soluzione di
continuità. In un certo senso sono dappertutto.

On an imaginary axis spun


Ma non è finita qui. Nel Cinquecento alcuni matematici italiani si
accorsero che conveniva allargare ulteriormente la famiglia dei numeri
concedendo il diritto di cittadinanza a una stirpe numerica per certi versi
ancora più indecifrabile. Il progenitore di questa tribù è la radice quadrata
di −1. Se il nostro orizzonte si limita ai numeri reali, quell’operazione non
può essere eseguita, perché nessun numero reale moltiplicato per se stesso
dà −1. Per lo stesso motivo, un’equazione come x2 = −1 non avrebbe
soluzioni. Ecco perché, cinque secoli fa, Rafael Bombelli, Niccolò
Tartaglia, Scipione Dal Ferro e Girolamo Cardano proposero, con piglio
rivoluzionario, che la radice quadrata di −1 esistesse: oggi noi la
indichiamo con la lettera i e la chiamiamo unità immaginaria.
Introducendo l’unità immaginaria, si apre davanti ai nostri occhi un
panorama del tutto nuovo. Per esempio, l’equazione x2 = −1 non è più
impossibile, ma ha come soluzioni i e −i.
Non dobbiamo tuttavia accontentarci di i. Nel nostro nuovo scenario,
possiamo considerare infiniti numeri immaginari, creati moltiplicando
l’unità immaginaria per un numero reale qualsiasi: ecco allora prosperare
strane creature come 2i, ¾i, −5i, πi e così via. I numeri immaginari hanno
comportamenti molto singolari, se confrontati con i numeri reali. Se
prendete un numero reale diverso da zero e lo elevate al quadrato, ottenete
sempre un numero positivo. Per esempio, 42 = 16, oppure (−3)2 = 9.
Invece, se elevate al quadrato un numero immaginario, il risultato sarà un
numero negativo: per esempio, (−2i)2 = (−2)2 i 2 = 4 ∙ (−1) = −4.
Ma arriviamo fino in fondo: se sommiamo tra di loro numeri
immaginari e numeri reali, otteniamo bizzarrie come 1 + i, −3 + 2i, ¼ +
10i, che sono chiamate in generale numeri complessi. Potendo disporre di

210
questi numeri nuovi, non vi saranno più equazioni polinomiali impossibili:
le soluzioni, reali e/o complesse, ci saranno sempre.
Inizialmente i matematici accolsero questi nuovi arrivati con sospetto
e con un malcelato disprezzo. Solo gradualmente compresero la loro
grande utilità, non solo nella matematica pura, ma anche e soprattutto
nelle scienze applicate e nell’ingegneria.
Se i numeri reali possono essere disposti su una retta, dove li mettiamo
tutti questi stravaganti numeri complessi? Visto che ognuno di loro è
individuato da due numeri reali, detti rispettivamente parte reale e parte
immaginaria (la seconda è il numero che viene moltiplicato per i), nulla
vieta di rappresentare un numero complesso come una coppia di numeri
reali: il primo è appunto la sua parte reale, il secondo la parte
immaginaria. Per esempio, il numero complesso −3 + 2i corrisponde alla
coppia (−3; 2). Non è difficile rendersi conto che l’insieme dei numeri
complessi comprende, come sottoinsiemi, la famiglia dei numeri reali e
quella dei numeri immaginari: i primi, infatti, sono i numeri complessi che
hanno la parte immaginaria uguale a zero, mentre i secondi sono quelli
che hanno la parte reale uguale a zero.
Ora, una coppia di numeri cosa vi fa venire in mente? Certo: una
coppia di coordinate cartesiane che individuano un punto, un po’ come la
latitudine e la longitudine di un luogo della Terra. Ne ho parlato nel
capitolo 4 (ricordate la mosca di Cartesio?). Abbiamo ottenuto la
fantastica possibilità di rappresentare graficamente un numero complesso
qualsiasi mediante un punto sul piano cartesiano. La parte reale è l’ascissa
del punto, cioè la coordinata x, mentre la parte immaginaria è la sua
ordinata, ovvero la coordinata y. Gli assi del piano cartesiano, ribattezzato
per l’occasione piano complesso, sono chiamati rispettivamente asse reale
e asse immaginario.
Il primo a concepire questa idea geniale, che combina tra loro la teoria
dei numeri complessi e la geometria analitica, fu, alla fine del Settecento,
un matematico dilettante, l’agrimensore norvegese Caspar Wessel. Pochi
anni dopo la sua intuizione fu perfezionata da un altro matematico non
professionista, il contabile francese Jean-Robert Argand.
La figura seguente mostra i tre punti corrispondenti ad altrettanti
numeri complessi: − 3 + 2i, 4i e − 1. Il numero 4i ha la parte reale nulla,
quindi è un numero immaginario puro e come tale giace sull’asse
immaginario. Analogamente, il numero −1 ha la parte immaginaria nulla,

211
cioè è un numero reale (per di più intero) che abita sull’asse reale.

Figura 14.2Il piano complesso.

Ciascuno degli assi del piano complesso è una copia della linea retta sulla
quale avevamo imparato a collocare i numeri reali prima di accettare la
rivoluzione dei numeri complessi. Ecco a cosa si riferisce il poetico verso
dei Van der Graaf Generator: i numeri trascendenti e, più in generale, tutti
i numeri reali, sono duplicati e ruotati (spun) anche su un asse
immaginario. In altri termini, oltre a giacere sull’asse orizzontale (per
recitare il ruolo di numeri reali, oppure di parti reali di numeri complessi),
i numeri reali giacciono anche sull’asse verticale (per svolgere la
mansione di parti immaginarie di numeri complessi). Se i mostri
trascendenti si nascondono tra i loro cugini più rassicuranti (numeri interi,
razionali, irrazionali algebrici), i numeri complessi non fanno nulla per
sottrarsi alla nostra vista: invadono senza pudore lo sconfinato piano
complesso, segregando la sottospecie dei numeri reali lungo l’angusto
asse orizzontale.

Decimal places without limit


Il terzo verso declamato da Hammill si riferisce al fatto che tra i numeri
reali ve ne sono alcuni che ostentano uno sviluppo di cifre decimali senza

212
limite: si tratta di una parte dei numeri razionali e di tutti i numeri
irrazionali (sia gli algebrici che i trascendenti). Nel caso dei numeri
razionali, lo sviluppo, quando è infinito, è periodico, cioè ripete
all’infinito una sequenza di cifre. Per esempio, il numero corrispondente
alla frazione 6/7 è uguale a 0,857142857142…, dove i puntini stanno a
indicare che le cifre 857142 si ripetono senza fine. Spesso si usa scrivere
un trattino sopra le cifre che si replicano: 0,857142.
I numeri irrazionali, invece, hanno lo sviluppo decimale sempre
infinito e mai periodico. Questa loro caratteristica contribuisce a renderli
ancora più eccentrici e inquietanti. Due famosi numeri irrazionali sono,
come già detto, π ed e. Entrambi, in virtù di quanto detto sopra, abitano
sia sull’asse reale che su quello immaginario, a seconda del ruolo che
interpretano. Del primo, e del suo infinito corteo di cifre decimali, ho
parlato nel capitolo 9. E abbiamo scoperto nel capitolo 12 come anche il
numero di Nepero e, definibile a partire da un celebre limite, sia
caratterizzato da una interminabile processione di cifre decimali. È vero
che per le applicazioni pratiche ci basta e avanza conoscere una manciata
di cifre decimali di π ed e. Tuttavia, da un punto di vista più filosofico la
conclusione resta invariata: nessuno potrà mai dire di conoscere
veramente questi numeri. I nostri computer potranno togliere il velo a
milioni di miliardi di cifre, ma la parte ignota di questi numeri sarà sempre
infinitamente più lunga rispetto a quella conosciuta.

And 0 and 1
Non dobbiamo dimenticare il nostro obiettivo finale: l’identità di Eulero
eiπ + 1 = 0. Al suo interno, oltre alla rivoluzionaria unità immaginaria i e
ai terribili numeri trascendenti π ed e, vi sono due numeri apparentemente
più innocui e insignificanti: 0 e 1.
Ma sarebbe ingiusto sottovalutarli. Lo zero, prezioso regalo orientale
approdato in Europa nel Duecento grazie a Fibonacci, è ben lungi
dall’essere una nullità: è insostituibile per far funzionare il nostro sistema
di numerazione, centrale sulla retta bifronte dei numeri interi, privilegiato
dagli assiomi di Peano e dotato di molti altri superpoteri.
E anche l’uno è un numero del tutto speciale. Presi insieme, zero e uno
sono in grado da soli di generare tutte le quantità possibili, utilizzando il

213
sistema binario. Non troveremo mai una coppia di numeri così semplice e
al tempo stesso così straordinariamente potente come quella formata dallo
zero e dall’uno.

A single function, exponential


Ci stiamo avvicinando alla nostra meta. L’incipit dell’identità di Eulero,
eiπ, è una potenza. Il numero a sinistra (nel nostro caso il numero di
Nepero e) si chiama base della potenza, mentre il numerino scritto come
apice (nel nostro caso iπ) è l’esponente della potenza.
Qual è il significato delle potenze? Se l’esponente è un tranquillo
numero naturale, calcolare il valore di una potenza è un’operazione facile:
basta moltiplicare ripetutamente la base per se stessa, in modo che
all’interno di questo prodotto essa compaia un numero di volte pari
all’esponente:

Per esempio, ricorderete che per scoprire quanti sono gli esagrammi dell’I
Ching avevamo calcolato la potenza 26 = 2 ∙2 ∙2 ∙2 ∙2 ∙2 = 64.
E se l’esponente non è un tranquillo numero naturale? I matematici
sono gente fantasiosa: hanno formulato una definizione per tutte le
potenze possibili e immaginabili (non entro nei dettagli, ma è così). È
quindi possibile studiare l’andamento del valore di ex quando x varia sulla
retta reale: se rappresentiamo graficamente il risultato di questa analisi sul
piano cartesiano, otteniamo il grafico della funzione esponenziale y = ex,
che per comodità riporto nella figura seguente:

214
Figura 14.3La funzione esponenziale (reale).

Ma nella nostra formula l’esponente è iπ, che non è un numero reale: è


invece un numero immaginario, abbarbicato sull’asse verticale del piano
complesso. Che significato avrà questa strana potenza?
Niente paura, anche potenze come questa hanno un senso. Se z è un
numero immaginario o in generale complesso, y = ez è una funzione
esponenziale complessa. Hammill ha ragione a parlare di single function,
exponential (single perché nella formula di Eulero non ci sono altre
funzioni): eiπ non è altro che il valore della funzione esponenziale
complessa y = ez calcolata per l’esponente immaginario z = iπ. Il
significato e la rappresentazione grafica dell’esponenziale complessa,
come vedremo, sono completamente diversi rispetto al caso reale.
Se una potenza del tipo eix (quindi con esponente immaginario) ha un
senso, è merito, guarda caso, di Eulero. Il grande matematico scoprì che se
la base della nostra potenza è il fatidico numero di Nepero e l’esponente è
un qualsiasi numero reale si ha l’uguaglianza:

La somma a destra del segno di uguaglianza è una serie, perché è formata


da un numero infinito di termini.3 Nel capitolo 2 abbiamo già visto un
esempio di serie: la serie armonica. Anche i punti esclamativi sono una

215
nostra vecchia conoscenza: sono i simboli che indicano la presenza di
fattoriali. Li ricordate?
Per cercare di estendere la definizione al mondo complesso, Eulero si
chiese cosa sarebbe accaduto sostituendo il generico esponente reale x con
un generico esponente immaginario, che chiamiamo ix. Operando la
sostituzione nell’uguaglianza precedente, si ottiene:

Ricordando che i2 = −1, con un po’ di calcoli la precedente relazione si


trasforma nella seguente:

E allora, direte voi? Cosa ci abbiamo guadagnato? Nulla, apparentemente,


se non fosse che lo stesso Eulero aveva trovato altre due analoghe
relazioni valide per le funzioni goniometriche seno e coseno (già viste nel
capitolo 13):

Se confrontate, con un po’ di pazienza, le ultime tre relazioni, vi accorgete


che si possono “fondere” nel modo seguente:

Eulero gettò così un altro dei suoi meravigliosi ponti: questa volta una
relazione tra la funzione esponenziale complessa e le funzioni

216
goniometriche seno e coseno: una funzione esponenziale complessa y = ez
con esponente immaginario z = ix assume valori complessi la cui parte
reale è uguale a cos x e la cui parte immaginaria è uguale a sin x.
Rappresentiamo nel piano complesso una circonferenza goniometrica,
analoga a quella vista nel capitolo 13: scelto un angolo x, il numero
complesso y = ez corrisponde alla coppia di coordinate (cos x, sin x), che
individua un punto posto sulla circonferenza stessa, come indica la figura
seguente.

Figura 14.4L’esponenziale complesso sulla circonferenza goniometrica.

Complimenti, cari lettori, avete superato la parte difficile: siamo quasi


arrivati in fondo.

Just one addition must be done…


Multiplication in completion

217
Of 0, of 1
I Van der Graaf Generator ci fanno notare che, dopo l’incipit
esponenziale, la formula prosegue con una semplice addizione: eiπ + 1.
Non ci sono altre operazioni da eseguire. La multiplication in completion
è il prodotto iπ di cui abbiamo già parlato. E ancora una volta Hammill ci
ricorda che gli unici numeri naturali presenti nella formula sono i semplici
e mirabili zero e uno. Ma perché eiπ + 1 fa proprio zero?

Mathematics
Simply pure beyond belief
e to the power of i times π plus 1 is 0…
e to the power of i times π is minus 1…
Mathematics
Just so "wow" it brooks belief
(You’d better believe, you’d better believe it.)
Il mago Eulero ha in mano la bacchetta, sulla quale campeggia la scritta
eix = cos x + isin x. Sul tavolo davanti a lui, la somma eiπ + 1 attende il
prodigio finale. Il pubblico trattiene il fiato e osserva la scena. Un rapido
movimento della bacchetta nell’aria e la somma diventa:

I miei lettori sanno che un angolo di π radianti, ovvero di 180°, è un


angolo piatto. Il suo coseno è uguale a −1. Il suo seno è invece uguale a 0.
La somma si trasforma di nuovo:

ed ecco comparire magicamente la celeberrima identità di Eulero eiπ + 1 =


0. Applausi scroscianti del pubblico. Inchino del mago Eulero. Sipario.
I due versi e to the power of i times π plus 1 is 0 e e to the power of i
times π is minus 1 descrivono a parole l’identità di Eulero (nelle due

218
versioni equivalenti: eiπ + 1 = 0 e eiπ = −1).
Perché i Van der Graaf Generator, subito prima dell’enunciazione
dell’identità di Eulero, sentono il bisogno di definire la matematica come
“semplicemente pura in modo incredibile”? Perché, al termine della
canzone, a proposito dell’identità, affermano che “ci lascia così a bocca
aperta da far sì che crederci diventi sopportabile”,4 consigliando infine
“fareste bene a credere, fareste bene a crederci”?
Forse, semplicemente perché quella formula è bella. Ma che senso ha
parlare di bellezza in matematica? Qualcuno potrebbe maliziosamente
obiettare che nella stessa frase non possono convivere due parole come
“matematica” e “bellezza”. Eppure, è stato scientificamente provato,
tramite sofisticate tecniche di neuroimaging, che quando un matematico
contempla un’equazione ritenuta “bella”, il suo cervello reagisce nello
stesso modo in cui la mente di una persona sensibile all’arte risponde alla
visione di un’opera di Michelangelo o all’ascolto di una composizione di
Mozart. Nell’ambito di una ricerca condotta da Semir Zeki dello
University College di Londra e da altri scienziati [14.2], è stato chiesto a
sedici matematici di valutare sessanta equazioni utilizzando una scala di
giudizi che va da “orribile” a “bella”. Due settimane dopo, i matematici
sono stati invitati a riassegnare le valutazioni mentre si trovavano
all’interno di uno scanner per la risonanza magnetica funzionale (fMRI).
Innanzitutto, i ricercatori hanno rilevato che quanto più il giudizio di
bellezza di una formula era vicino al valore massimo, tanto più risultava
intensa l’attività di un’area cerebrale chiamata campo A1 della corteccia
orbitofrontale mediale. Precedenti studi avevano correlato questa stessa
zona del cervello alle risposte emotive provocate dalla bellezza visiva e
musicale. Gli scienziati hanno però notato una differenza sostanziale tra i
due casi: le persone prive di una specifica cultura artistica possono
rispondere in maniera emotivamente intensa alla bellezza di un dipinto o
di una musica (magari escludendo certa arte contemporanea), ma provare
un’analoga esperienza di fronte a una “bella” formula matematica è
un’esclusiva di chi ha una solida preparazione matematica e può
apprezzare profondamente il significato della formula stessa.
Ma che cosa rappresenta, per un matematico, la bellezza di una
formula o di un’equazione? Non è facile rispondere a questa domanda. La
ricerca di Zeki ha comunque individuato due caratteristiche fondamentali

219
che un enunciato matematico deve possedere per poter essere definito
“bello”:

•essere un risultato inaspettato e sorprendente;


•contenere un’argomentazione complessa e intricata, i cui elementi
logici, tuttavia, si incastrano perfettamente tra di loro, creando in
definitiva un’immagine di eleganza e semplicità.

I ricercatori hanno infine osservato che i giudizi dei matematici erano


molto simili tra di loro: il senso della bellezza matematica, quindi,
nonostante non sia definito in modo preciso e inequivocabile, sembra
essere piuttosto oggettivo e indipendente dall’opinione del singolo.
Secondo voi, quale delle sessanta formule proposte ha ottenuto i voti
più alti? Domanda scontata: l’identità di Eulero eiπ + 1 = 0, ovviamente. I
matematici selezionati l’hanno posta quasi unanimemente in cima alle
loro preferenze estetiche.
I due presupposti sono qui presenti in modo evidente. La formula
riesce a far incontrare personaggi i cui vissuti sono molto diversi l’uno
dall’altro: il numero di Nepero e, protagonista del mondo delle funzioni
esponenziali, l’unità immaginaria i, proveniente dal misterioso territorio
dei numeri complessi, lo sfuggente e celeberrimo π, indiscusso re della
geometria, i semplici eppure speciali numeri naturali 0 e 1, il simbolo
dell’addizione e quello dell’uguaglianza. Tutto questo affollamento di
vecchie glorie genera complessità, ma ognuno sta al suo posto nella
formula in modo disciplinato e discreto. L’effetto finale è simile a quello
prodotto da una musica, sorprendentemente semplice e perfettamente
elegante. In una parola: bellezza.

1.Per restare nel mondo musicale, Here Be Monsters è anche il titolo di un album
pubblicato nel 2016 dalla band norvegese di rock alternativo Motorpsycho.
2.Si noti che i numeri interi sono un sottoinsieme dei numeri razionali.
3.Il fatto che la somma della serie sia uguale a ex ha a che fare con il concetto di limite,
visto nel capitolo 12.
4.Traduzione libera dell’autore del verso Just so "wow" it brooks belief.

220
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Crediti delle immagini

Figura 2.1: creata dall’autore con il servizio gratuito Noteflight.


Figura 2.2: creata dall’autore con il servizio gratuito Desmos.
Figura 2.3:tratta da IstockPhoto (https://www.istockphoto.com/it/vettoriale/acoustics-and-
sound-vector-icon-set-in-thin-line-style-gm902893216-249033074).
Figura 2.4: Creative Commons (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:FFT-Time-
Frequency-View.png).
Figura 3.1: creata dall’autore, ispirata a http://www.istitutocolasanto.gov.it/wp-
content/uploads/2016/03/MOSTRA-FIBONACCI.pdf.
Figure 3.2, 3.3: create dall’autore.
Figure 4.1, 4.2, 4.3: create dall’autore con il servizio gratuito Desmos.
Figura 5.1: creata dall’autore.
Figura 6.1: Creative Commons
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Semaphore_Alpha.svg).
Figure 6.2, 6.3, 6.4, 6.5: copertine di dischi (http://wogew.blogspot.com/2014/12/album-
covers-help.html).
Figura 6.6: copertina di disco (https://en.wikipedia.org/wiki/File:Coldplay_-
_X_%26_Y.jpg).
Figura 6.7: Creative Commons
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:International_Telegraph_Alphabet_2.jpg).
Figura 6.8: creata dall’autore a partire da Figura 6.6.
Figura 7.1: pubblico dominio (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:-Yin_yang.svg).
Figure 7.2, 7.3, 7.4: create dall’autore.
Figura 7.5: pubblico dominio
(https://en.m.wikipedia.org/wiki/File:King_Wen_(I_Ching).png).
Figure 7.6, 7.7: tratte da https://copia.posthaven.com/tag/yijing.
Figure 7.8, 7.9: tratte da
https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_hexagrams_of_the_I_Ching (copyright Ben

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Finney).
Figura 8.1: copertina di disco (https://en.wikipedia.org/wiki/File:Rubber_Soul.jpg).
Figura 8.2: tratta da https://www.beatlesbible.com/gallery/lyrics/lyrics-in-my-life_01/.
Figura 8.3: creata dall’autore con il servizio gratuito Noteflight.
Figura 10.1: copertina di disco (https://en.wikipedia.org/wiki/File:Led_Zeppelin_-
_Led_Zeppelin_IV.jpg).
Figura 10.2: pubblico dominio
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Zoso_Jimmy_Page_Saturn_sigil.svg).
Figura 10.3: pubblico dominio
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Zoso_Robert_Plant_feather_symbol.svg).
Figura 10.4: pubblico dominio
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Zoso_John_Paul_Jones_sigil_interlaced_triquetra_ove
Figura 10.5: pubblico dominio
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Zoso_John_Bonham_sigil_three_intersecting_circles.s
Figure 10.6, 10.8: create dall’autore.
Figura 10.7: pubblico dominio
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ichthys_symbol.svg).
Figura 10.9: pubblico dominio (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Triquetra-
circle-interlaced.svg); Creative Commons
(https://en.wikipedia.org/wiki/File:Coa_Illustration_Cross_Triquetra.svg).
Figura 10.10: Creative Commons
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Example_of_Knots.svg).
Figura 10.11: tratta da https://prateekvjoshi.com/2014/11/16/homomorphism-vs-
homeomorphism/.
Figura 10.12: tratta da
http://www.xlatangente.it/upload/files/petronio_topologia_dei_nodi.pdf.
Figura 10.13: creata dall’autore.
Figura 10.14: Creative Commons (https://it.wikipedia.org/wiki/File:Hopf_link.svg).
Figura 10.15: creata dall’autore.
Figura 10.16: pubblico dominio (https://pixabay.com/it/nastro-blu-capelli-accessori-
36301/).
Figura 10.17: pubblico dominio (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Solomons-
knot-ornamental.svg).
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essence-of-mathematics-in-one-beatles-song).
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Life_Stages.jpg; https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Seed-of-Life.svg;
https://en.wikipedia.org/wiki/File:Fruit-of-Life_Stages_61-circles-to-13-
circles_800px.jpg).
Figura 10.20: pubblico dominio
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Stella_octangula.png).
Figura 10.21: copertina di disco (https://en.wikipedia.org/wiki/File:Cold-play_-
_A_Head_Full_of_Dreams.png).
Figura 11.1: tratta dal video ufficiale su YouTube (https://www.youtube.com/watch?
v=fJ9rUzIMcZQ&list=RDfJ9rUzIMcZQ&start_radio=1).
Figura 11.2: tratta da Istockphoto (https://www.istockphoto.com/it/vettoriale/audio-and-
multimedia-light-line-series-gm1074772728-287701008).
Figura 11.3: Creative Commons
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mandel_zoom_00_mandelbrot_set.jpg,
http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Mandel_zoom_01_head_and_shoulder.jpg,
http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Mandel_zoom_02_seehorse_valley.jpg,
http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Mandel_zoom_03_seehorse.jpg).
Figura 11.4: tratta da https://www.mcescher.com/gallery/back-in-holland/drawing-hands/.
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300.jpg).
Figura 11.8: Creative Commons
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Droste_cacao_100gr_blikje,_foto_02.JPG).
Figura 11.9: pubblico dominio (http://www.clker.com/clipart-11641.html).
Figura 12.1: pubblico dominio (https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Tom_Lehrer_-
_Southern_Campus_1960.jpg).
Figure 13.1, 13.2, 13.3, 13.7, 13.8: create dall’autore con il servizio gratuito Noteflight.
Figura 13.4, 13.5: create dall’autore con il servizio gratuito Desmos.
Figura 13.6: tratta da http://www.kevinhouston.net/blog/2014/12/the-beatles-magical-
mystery-chord-2.
Figura 14.1: creata dall’autore con il servizio gratuito Desmos.
Figure 14.2, 14.3, 14.4: create dall’autore con il servizio gratuito Desmos.

229
1Colangelo G., Temporelli M., La banda di via Panisperna
2Menasce D., Diavolo di una particella
3Cavazzini M., Nanouniverso. Megafuturo
4Walliser T., Botta C., Bit Pop Revolution
5Aliverti P., Stampa 3D Stazione futuro
6Grandi P., Pixar Story
7Alfieri R., L’invasione dei Droni
8Walliser T., Squassoni F., War Games
9Valotti B., Dalle Donne G., Marconi
10Fini R., Gli economisti: indovini o scienziati?
11Vato A., Arrivano i cyborg
12Canova L., Pop Economy
13Segato E., Tesla
14Temporelli M., Innovatori
15Di Matteo G., Dialogo tra una lavatrice e un tostapane
16Hénin S., Il computer dimenticato
17Orban C., La società della rete
18Palermo V., La versione di Albert
19Orban D., Singolarità
20Canepa C., Canova L., La scienza dei goal
21Greison G., Dove nasce la nuova fisica
22Lucifredi A., A cosa pensava Darwin?
23Battifoglia E., I robot sono tra noi
24Chinnici G., Turing
25Fini R., Lucciole per lanterne
26Palermo V., Newton, la mela e Dio
27Corvi E., Nuovo Cinema Web
28Peres A., Friel M., FuTurismi
29Grassi W., Storia del caldo e del freddo
30Lucifredi A., Alla scoperta della vita
31Hénin S., Non solo Enigma

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32Panté M.R., La scienza delle donne
33Viola F., Idone Cassone V., Non è un gioco
34Battifoglia E., Vita sintetica
35Rinaldi E., Einstein & Associati
36Chinnici G., Guarda caso
37Bertacchi S., Geneticamente modificati
38Carniel S., Oceani
39Ciardi M., Marie Curie
40Pellegrini D., Sharing Economy
41Temporelli M., Colorni F., Gamucci B., 4 punto 0
42Cerasa A., Diversamente sano
43Chinnici G., La stella danzante
44Battifoglia E., Rita Levi Montalcini
45Menasce D., L’urlo dell’Universo
46Grassi W., Farfalle e uragani
47Palumbo V., L’epopea delle lunatiche
48Lucifredi A., L’eredità di Mendel
49Hénin S., AI
50Menzio M.R., La terza mela
51Ciardi M., Il segreto degli elementi
52Cerasa A., Tomaiuolo F., La scatola magica
53Ghisellini G., Astrofisica per curiosi
54Marmo R., Cecato D., La matematica di Facebook
55Mugnos S., Vulcani
56Battifoglia E., Buson E., Leonardo scienziato
57-58Alessandrini P., Matematica rock
59Gavazzi G., Castelli S., Sostenibilità

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Informazioni sul Libro

Un viaggio insolito alla scoperta della matematica in un’ambientazione


rock: aritmetica, algebra, geometria rese più semplici e divertenti
attraverso i numerosi spunti matematici presenti nei dischi e nelle canzoni
delle rockstar più famose.
Suddiviso in parti tematiche, ognuna dedicata a un ramo della
matematica (aritmetica e algebra, statistica e calcolo combinatorio,
geometria e topologia, analisi), il libro accompagna il lettore in un
percorso che va dai numeri naturali del rock’n’roll dell’orologio (Rock
around the Clock) con cui inizia la storia del rock, ai numeri primi di We
Will Rock You, alla statistica dei Beatles, alla topologia dei Led Zeppelin,
passando per i Coldplay e i Radiohead.
Ogni capitolo prende le mosse da un aneddoto, da una vicenda o da un
disco della storia del rock, per poi introdurre e trattare un concetto
matematico collegato, mantenendo sempre viva la cornice narrativa
offerta dallo spunto musicale.

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Circa l’autore

Paolo Alessandrini, docente di matematica e ingegnere informatico, è


autore di articoli e libri di matematica ricreativa. Cura il blog di
matematica Mr. Palomar e collabora a progetti di carattere didattico e
divulgativo.

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