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Ancora scriverà Lucrezio (98 a. C. – 55 a. C.

) nel proemio del De rerum natura:

Madre degli Eneadi, gioia degli uomini e degli dei, alma Venere, che sotto gli astri in tacita corsa per il
cielo desti la vita nel mare sparso di navi, nelle terre fertili di grano, poiché per opera tua ogni specie
di esseri animati è concepita e vede, nascendo, la luce del sole: te, dea, te fuggono i venti, te e il tuo
giungere le nubi del cielo.

Qui la tradizionale invocazione alle Muse è sostituita da quella a Venere, sorgente e fonte originatrice di
tutta la vita, elargitrice di gioia e piacere amoroso a uomini e dei.

La falsa divinizzazione dell’eros […] lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le
prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone,
ma servono soltanto come strumenti per suscitare la pazzia divina […]. Per questo l’eros ebbro e
indisciplinato non è ascesa, estasi verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo.

L’esortazione ad amare sarà espresso, in altra forma, nelle odi orazione con un invito al «carpe diem», a
«cogliere l’attimo», quando il poeta scrive:

Non domandare, o Leuconoe (ché saperlo non è lecito), qual termine gli dei abbiano assegnato a me,
quale a te; e non consultare le cabale babilonesi. Quanto è meglio prendere in pace tutto quello che ha
da venire! Sia che Giove ci abbia concessi molti inverni, sia che l’ultimo sia questo, che ora fiacca
sugli opposti scogli il mare Tirreno, tu sii saggia. Filtra il vino da bere e restringi in un ambito breve le
lunghe speranze. Mentre noi parliamo, sarà già sparita l’ora, invidiosa del nostro godere. Cogli la
giornata d’oggi e confida il meno possibile in quella di domani.

L’invito a vivere il presente, che è di per sé l’unica dimensione temporale viva ed esistente, in realtà è
completamente scevra di qualsiasi speranza e fiducia che l’amore possa essere duraturo, eterno, durare
oltre la dimensione della spazialità e della temporalità.
“Ma di gran pianto Andromaca bagnata
Accossi al marito, e per la mano
Stringnendolo, e per nome in dolce suono
Chiamandolo proruppe: Oh troppo ardito!
Il valor ti perderà: nessuna
Pietà del figlio ne di me tu senti,
Crudel, di me che vedova infelice
Rimarrommi tra poco, perché tutti
Di conserto gli Achei contro te solo
Si scaglieranno a trucidarti intesi;
E a me fia meglio allor, se mi sei tolto,
L’andar sotto terra. Di te priva, ahi lassa!
Ch’altro mi resta che perpetuo pianto? […]
“Or mi resti tu solo, Ettore caro,
Tu padre mio, tu madre, tu fratello,
Tu florido marito. Abbi deh! Dunque
Di me pietade, e qui rimanti meco
A questa torre, ne voler che sia
Vedova la consorte, orfana il figlio.”

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