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M. Bandello, Novelle (l’ed.

di riferimento è quella indicata nel programma)

Lo scopo di questi appunti, che non sostituiscono in alcun modo la lettura integrale (e
attenta) da parte degli studenti delle novelle in programma, è fornire una traccia di commento,
evidenziando le principali questioni sollevate dai testi.
Si avverte che in questi appunti ho mantenuto lo stesso ordine di successione con cui a lezione ho
trattato le novelle bandelliane in programma.
Si ricorda ancora una volta che è assolutamente vietata la divulgazione di tutti i materiali messi a
disposizione degli studenti nella piattaforma Moodle. Ogni violazione sarà perseguita a termini di
legge.

I9

Narratore della novella: Stefano Dolcino


Cronologia: poiché Dolcino morì nel 1508, per il “tempo” della dedica e dei fatti narrati nella
novella (accaduti – come si dice nella dedica – nella passata, cioè ‘trascorsa’, quaresima, di cui però
non si specifica l’anno), il termine ante quem della dedica e dei fatti raccontati nella novella sarebbe un
anno imprecisato prima del 1508.
Tuttavia in seguito, nel proemio della novella, si parla della morte di Guglielmo IX, marchese del
Monferrato, dicendo che era avvenuta l’anno precedente al racconto di Dolcino: essendo
Guglielmo IX morto nel 1518, il tempo della dedica risulterebbe essere il 1519.
Sussiste quindi una contraddizione (volontaria o involontaria?) tra alcuni dati cronologici esposti
nella dedica e quelli esposti nella narrazione.
C’è poi un ulteriore snodo da chiarire, relativo questa volta al solo tempo dei fatti raccontati
nella novella, che, stando a quanto Dolcino dice nella dedica e ribadisce durante l’esposizione,
risalirebbero, come si è detto, alla passata quaresima. Nel corso della novella, si precisa che la
relazione tra i due protagonisti era iniziata l’anno prima della sua fine tragica, avvenuta appunto
durante la quaresima: perciò il tempo in cui si svolgono gli eventi della novella si snoderebbe tra i
primi mesi del 1517 e la quaresima del 1518.

Il dittico è un esempio di complicazione del già complesso meccanismo macro-strutturale delle


Novelle bandelliane:
- moltiplicazione delle brigate (almeno due, stando alla dedica)
- assenza di Bandello dalla brigata nell’ambito della quale si è raccontata la novella
- chi la riferisce a Bandello non è lo stesso narratore che l’ha raccontata alla brigata: per usare
una terminologia propria della narratologia, Bandello è il narratore di primo grado, Dolcino è
il narratore di secondo grado, il narratore di terzo grado è ignoto. Quest’ultimo è però
ininfluente.

Lettera di dedica a Lancino Curzio:


Bipartita: presenta due brigate e due “conversazioni” avvenute in tempi diversi.
Prima parte (e prima conversazione):
dove? casa del protonotario apostolico Giacomo Antiquario
quando? tempo indeterminato ma recente (ai giorni passati)
membri della “brigata”: per lo più indeterminati (a parte Bandello stesso e l’Antiquario), ma tutti
uomini

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oggetto della conversazione: perché molte donne sagge commettono gravi errori (amori
“sbagliati”, adulteri...) e perdono la loro reputazione, nonostante spesso, così facendo, incorrano in
grandi sventure? Una delle risposte (la sola che viene riferita da Bandello) è:
perché le donne si lasciano trasportare dagli sfrenati appetiti (‘desideri’), che non sanno dominare in
quanto hanno poco cervello (c’è dunque una causa naturale). È una risposta che lascia insoddisfatti, in
quanto si vede che anche gli uomini agiscono nello stesso modo; anzi, gli uomini commettono
errori più gravi, annebbiati dal mal regolato appetito. Non solo: se le donne sbagliano quasi sempre
perché sono troppo inclini all’amore e troppo disposte a credere agli uomini, gli uomini se ne
approfittano e quindi sono più colpevoli.
Non essendoci nessuna donna presente alla discussione e non trovando altre spiegazioni, la
“brigata” insiste sul fatto che le donne abbiano poco cervello.
Ma Bandello continua a non essere d’accordo: se le donne avessero la possibilità di dedicarsi alle
attività di solito riservate ai maschi (studi e armi), spesso eccellerebbero in queste e si
vendicherebbero della poca considerazione o del disprezzo degli uomini. Infine Bandello, pur non
volendo schierarsi contro gli uomini, ribadisce di apprezzare, rispettare e amare le donne, seppure
non tutte allo stesso modo (riferimenti a: Proemio e Introduzione alla IV giornata del Decameron).
Ma non è per questo che ha scritto all’Antiquario, bensì per riferirgli una novella (qui nel duplice
significato di ‘notizia’ e di ‘racconto’), che ha sentito dalle labbra di Stefano Dolcino.
Seconda parte della dedica (e seconda conversazione):
dove? a cena con Cecilia Gallerani Bergamini
quando? tempo indeterminato ma recente e prossimo alla scorsa (passata) quaresima
membri della “brigata”: per lo più indeterminati, a parte Cecilia Gallerani, Stefano Dolcino e
Bandello
oggetto della conversazione: ignoto; Bandello parla solo della “novella”

Quale relazione c’è tra la prima parte della dedica e la novella? Bandello la esplicita alla fine
della lettera: la novella mostra in maniera esemplare le conseguenze negative che, da una parte,
subiscono gli uomini che non sanno frenare le loro reazioni con la ragione, e che, dall’altra parte,
subiscono le donne incuranti dell’onestà e dell’onore e incapaci di dominare i loro desideri amorosi.
In aggiunta la novella mostrerà anche la nefasta ingordigia di certi religiosi (la novella andrà
riportata anche a un ignoto Dionisio Elio – un religioso? –, il quale si indignerà per il ruolo svolto
nel racconto dal frate).

Alla fine della lettera c’è la rubrica (il titolo) della novella, che è una riscrittura in chiave
tragica di Decameron, VII 5.

Proemio della novella:


Elogio di Milano e della sua ricchezza. Elogio delle donne milanesi (unico difetto è la lingua, cioè il
milanese)
Ambientazione della novella: Milano
Personaggi: Caterina, donna bella, onorata, sposata; Lattanzio, prima innamorato e poi amante (i
nomi dei due sono di fantasia); il marito di Caterina; una vicina di Caterina (la comare); una vecchia
serva; un frate avido e senza scrupoli.
Tempo della novella: da poco prima del carnevale 1517 alla quaresima del 1518.

È una novella di adulterio e vendetta, ma Caterina ha buone ragioni: è una donna savia, che tiene
all’onore e all’onestà; tuttavia è trascurata dal marito, con il quale è sposata da sette anni e che ha
avuto sempre e ha anche allora delle amanti. Il marito (un uomo umorale, socievole con gli altri ma
sgradevole con la moglie) non l’ha mai sorvegliata troppo e Caterina non lo ha mai tradito.
Lattanzio è un giovane brillante, educato, generoso, discreto e si innamora sinceramente di

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Caterina. La donna è savia, non cede subito al corteggiamento, ma poi prevalgono le “ragioni della
giovinezza”, che ha diritto all’amore.
Il marito improvvisamente diventa geloso (non sapendo di che): la sua gelosia è causata non da un
eccesso di amore, seppure deprecabile, ma da un sentimento di possesso che lo spinge a una vera e
propria profanazione di un sacramento, la confessione, perché vuole sapere il nome dell’amante. Il
frate è colpevole perché si lascia corrompere, per denaro viola il sacramento.

Uno dei punti focali della novella è il discorso di Caterina alla comare (e la relativa risposta di
quest’ultima) in cui sono esposte le “ragioni” di Caterina, che fino a quel momento ha tenuto fede
al matrimonio e ha resistito a diversi corteggiamenti.

L’accurato piano ordito dalla protagonista per incontrarsi con l’amante potrebbe essere assimilato a
una “beffa” di una moglie, del tipo – appunto – di quelle che Boccaccio racconta nella settima
giornata; in effetti in tutta la novella bandelliana il registro espressivo oscilla tra il patetico e il
comico, ma la conclusione è però tragica.
Infatti, in Dec., VII 5 (di cui, come si è detto prima, la I 9 di Bandello è una riscrittura) il marito
geloso viene smascherato dalla moglie, la quale molto abilmente, con l’intelligenza e la forza della
parola, rovescia del tutto il senso di ciò che il coniuge ha ascoltato durante la confessione e dunque
potrà continuare ad avere la sua relazione extra-coniugale senza più dovere temere intromissioni del
marito.
La I 9, invece, si chiude con un bagno di sangue: Caterina viene assassinata dal marito sul sagrato
della chiesa, il marito, fuggiasco, viene fatto uccidere dai cognati (fatto... tagliar a pezzi). Il frate
rimane impunito, ma è il suo comportamento a essere di nuovo censurato severamente, insieme a
quello del marito, che fu preda di un mal regolato appetito... volendo saper per vie non convenienti (‘ingiuste’,
‘inappropriate’, ‘indecorose’) ciò che non deveva sapere.

I 42

Narratrice della novella: Eleonora Buonvicini Machiavelli (non identificata)


Più specificamente: il narratore di primo grado è Bandello, di secondo grado la Buonvicini, di terzo
grado il diplomatico e letterato Carlo Agnello, che l’ha riferita per iscritto (con una lettera) da
Napoli (il narratore di terzo grado è ininfluente, perché Bandello “trascrive” la narrazione di
Eleonora)

Cronologia della dedica e tempo della novella: in un tempo indeterminato (un di questi giorni...,
questi dì...) tra il 1515 e il 1525; è il periodo in cui Bandello soggiorna spesso presso i Gonzaga:
infatti qui rievoca le villeggiature a Diporto (Porto Mantovano) e la presenza di Isabella d’Este
Gonzaga, figlia di Ercole I d’Este e moglie di Francesco I Gonzaga

Lettera di dedica a Camilla Bentivogli Gonzaga:


dove? a Diporto, dominio dei Gonzaga
quando? in estate (1515-1525)
membri della “brigata”: Isabella d’Este Gonzaga, Eleonora Buonvicini Machiavelli, Bandello
oggetto della conversazione: “beffe” reciproche tra uomini e donne; ma gli uomini si vendicano
più spesso assai più duramente, volendo sempre tener la donna soggetta anziché trattarla come una
compagna, come Dio ha stabilito debba essere. In ragione di questa disparità, non bisognerebbe
meravigliarsi se talvolta accade che una donna si vendichi con violenza > la novella sarà esempio di
queste affermazioni

Dopo la rubrica c’è il proemio della novella:

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Il proemio è brevissimo: Valencia, in Spagna, è città di belle donne, spesso ingannatrici degli
uomini (paragone con le siciliane: è un’allusione alla novella di Andreuccio da Perugia, Dec., II 5).
La famiglia Centiglia è una delle più importanti della città.
Ambientazione della novella: Valencia.
Personaggi: Didaco Centiglia, Violante, la serva Giannica; secondari sono la madre e i fratelli di
Violante, Pietro servo di Didaco, uno zio e un cugino di Didaco, la sposa di Didaco (una
Vigliacaruta, famiglia non altrimenti nota), Ferrante duca di Calabria (personaggio storico, morto
nel 1559).
Tempo della novella: anno imprecisato fra il 1515 e il 1525; l’intera vicenda dura più di 15 mesi.

È una novella di tradimento e vendetta. L’estrema violenza della vendetta di Violante, in teoria una
“contro-beffa”, rende molto problematico inscriverla in questa categoria narrativa, almeno
nell’accezione boccacciana. La reazione di Violante rientra nelle categorie del “mirabile” e
dell’“enorme”.
La coppia Violante-Didaco è una coppia socialmente sbilanciata e il mondo di Bandello non è più
quello, socialmente assai più mobile, di Boccaccio. Violante è ripudiata da Didaco perché, pur
essendo donna dalle molte virtù, è di una condizione sociale inferiore. Violante si vendica non
tanto per gelosia, ma perché il suo onore, o meglio la sua onorabilità pubblica viene ferita. La
mancata pubblicazione del suo matrimonio segreto con Didaco e poi le nuove nozze, pubbliche,
ufficiali, di Didaco con una giovane nobildonna, costituiscono uno sfregio alla sua reputazione. Lo
scherno e il dileggio sociali, che Violante era convinta di potere respingere nel momento in cui si
sarebbe reso pubblico il suo matrimonio, la spingono non solo alla vendetta ma a volere che il suo
crimine sia reso noto a tutti, in quanto solo così ella potrà essere risarcita dalla perdita del suo
onore. Violante e la sua complice e sodale Giannica – una schiava, quindi in una posizione
socialmente ancora più bassa di quella dell’ingannata padrona – vanno perciò al patibolo
allegramente.
Il momento culminante della novella è l’accurata e terribile descrizione delle torture cui viene
sottoposto Didaco: ogni mutilazione è praticata secondo un inflessibile contrappasso. Il colpo
finale al cuore viene inferto da Violante non perché abbia finalmente saziato la sua sete di vendetta
e tanto meno per pietà, ma solo perché è ormai stanca. La furia di Violante è una furia lucida (lei e
Giannica asciugano il sangue, mettono il cadavere e i pezzi tagliati in un cestone sotto il letto).

I 51

Narratrice della novella: Giovanna Trotti; ma la vicenda è nota allo stesso dedicatario,
Sigismondo Fanzino della Torre, che ha sentito il racconto dalle labbra della protagonista morente.
Altri testimoni: Mario Equicola e Giovan Giacomo Calandra.

Cronologia della dedica e della novella: nel proemio della novella si fa riferimento alla
conquista del Peloponneso e della città-fortezza di Modone da parte dei Turchi, accaduta nel 1499-
1500: la riunione della brigata e i fatti della novella sarebbero accaduti circa 17 anni dopo, quindi
intorno al 1517 (Già sono... dicesette anni...). Ma poi, nel corso della novella, si fa riferimento alla morte
di Gian Giacomo Trivulzio, avvenuta nel 1518. Sussiste quindi una sconcordanza tra quanto detto
nel proemio e quanto detto nel corso della novella; tuttavia sembra logico adottare il 1518.

Lettera di dedica a Sigismondo Fanzino della Torre:


dove? a Diporto, dominio dei Gonzaga
quando? 1517 circa
membri della “brigata”: Bandello, Isabella d’Este Gonzaga, Giovanna Trotti

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oggetto della conversazione: indeterminato. La dedica però esordisce con un’importante
annotazione sul “mirabile”, cioè lo straordinario.

Dopo la rubrica (che già sottolinea l’insensata motivazione dell’uxoricidio del protagonista) c’è un
brevissimo proemio, nel quale si danno le coordinate cronologiche del racconto e si sottolinea la
crudeltà dei Turchi, antecedente necessario a motivare il trasferimento di uno dei personaggi
(Pietro Barza) dalla Grecia all’Italia.
Ambientazione della novella: Mantova
Personaggi: Pietro Barza, Regina, il cavaliere Spada; sono citati Gian Giacomo Trivulzio e
Sigismondo Fanzino (testimone).
Tempo della novella: 1518.

Bandello colloca l’avvenimento nel contesto molto tormentato delle guerre contro i Turchi. Pietro
Barza è un capitano di stradiotti al servizio del marchese di Mantova ed è compagno d’armi del
cavalier Spada, che, alla morte del Barza, ne sposerà la vedova, la bella Regina.
È una novella di gelosia, il sentimento motore di tutta l’azione. La gelosia del cavalier Spada è del
tutto immotivata, poiché Regina è una moglie fedele e premurosa; ma la gelosia è una vera e
propria malattia, che si nutre di “fantasmi” e di immaginazioni, che rende malinconici e ombrosi (c’è
anche una notazione caratteriale di tipo etnico: non credo che sia nazione cioè ‘popolo’ al mondo più
sospettosa de l’albanese).
Lo Spada costringe la moglie a una vita da reclusa, sopportata da Regina con pazienza. La
malinconia dello Spada si accentua alla notizia della morte dell’amato generale Trivulzio.
Il centro della novella è la notte in cui lo Spada uccide Regina. La condanna morale dello Spada è
dovuta non solo dal fatto di non avere dominato il suo insano sentimento (addirittura egli è geloso
del fatto che la moglie, se restasse vedova, si possa risposare); ma anche per aver ingannato Regina,
fingendosi di essersi calmato e di sentirsi sollevato grazie all’amorevole atteggiamento della moglie.
Regina mostra nobiltà d’animo sino alla fine: ferita a morte, perdona il marito. Del corpo dello
Spada le donne mantovane fanno scempio.
Il commento finale della narratrice è di particolare rilievo per le ulteriori osservazioni sulla gelosia.
Infine, come accade in un’altra novella – quella celebre di Romeo e Giulietta, la II 9 – il racconto si
conclude con il funerale di Regina e un epitaffio in versi (un sonetto).

III 59

Narratore della novella: Pietro Fregoso di Nevi, cugino di Cesare Fregoso e capitano militare al
servizio degli Sforza

Cronologia della dedica: gli indizi sono pochi: la menzione di Verona e di Cesare Fregoso
collocherebbe la dedica negli anni in cui Bandello fu al servizio di Cesare Fregoso e si recava spesso
in quella città veneta: 1529-1532/1536 circa

Lettera di dedica a Veronica Gambara:


dove? Verona
quando? 1529-1532/1536
membri della “brigata”: Cesare Fregoso, Pietro Fregoso di Nevi, Bandello
oggetto della “conversazione”: nella lettera di dedica è evidente lo schema “a catena narrativa”;
infatti l’oggetto della conversazione è il racconto dei fatti (novella ha ancora una volta la duplice
accezione di ‘notizia’ di un ‘avvenimento’, e di ‘narrazione’) ambientati a Milano ai tempi di
Ludovico Sforza il Moro, duca di Milano dal 1494 al 1500. Il Moro è detto infelice perché perse il
ducato e fu imprigionato da Luigi XII, re di Francia, a Loches, dove morì nel 1508.

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La novella esposta nella dedica propone un caso esemplare di saggezza e di prudenza applicate alle
relazioni famigliari. L’assennato parere di uno dei figli dell’importante gentildonna (che in punto di
morte aveva rivelato a due frati domenicani che uno dei suoi numerosi figli era illegittimo) evita le
eventuali controversie che sarebbero potute insorgere tra gli eredi e salvaguarda la reputazione della
madre defunta.
Il racconto suscita un’altra narrazione, ossia la vera e propria novella III 59, di segno opposto a
quella esposta nella dedica, pur condividendone alcuni aspetti. La novella è anche un omaggio per
antifrasi alla destinataria, donna nobile, integerrima, virtuosa.

La novella esordisce senza proemio.


Ambientazione: ducato di Milano, più precisamente nella rocca (‘torre’) di Casalmaggiore
Personaggi: Isabetta; il conte Filippo, suo marito; Antonio da Casalmaggiore, amante di Isabetta; il
castellano; Bartolomeo, il figlio di Isabetta e Filippo, rimane un puro nome (tutti i nomi sono di
finzione, anche se – a detta di Bandello – il narratore aveva usato quelli autentici).
Tempo della novella: Pietro Fregoso di Nevi nella dedica asserisce essere un fatto accaduto ai
giorni miei, dunque collocabile non molto prima la lettera (1529-1532/1536). A un certo punto si fa
cenno al principio del mese di maggio, ma l’anno resta imprecisato. Tenendo per buona la larga
cronologia della dedica (1529-1536) la menzione contenuta nella novella del duca di Milano
porterebbe agli anni di Francesco II Sforza, figlio di Ludovico il Moro, regnante nel ducato dal
1530 al 1535.

Isabetta è una giovane bella, ma ardita, audace (baldanzosa) e infedele. Temendo di essere prima o
poi scoperta e desiderando essere libera, pianifica l’omicidio del marito per avvelenamento, ma i
medici lo salvano. Filippo rimane infermo e di questa condizione la moglie sembra dolersi molto,
tant’è che il marito la crede sinceramente affezionata a lui.
Invece Isabetta, delusa per il tentativo fallito, che oltre tutto ha aggravato la sua situazione, prende
per amante un arciere del marito, Antonio da Casalmaggiore. I due però si comportano meno che
avedutamente, il marito nutre sospetti, li spia e si accerta della tresca: subito pensa di ammazzarli
entrambi e di liberarsi dei loro cadaveri; poi decide di tendere loro una trappola: infatti finge di
doversi recare dal duca di Milano, lascia soli Antonio e Isabetta e impartisce ordini precisi al suo
castellano, affinché riesca il suo piano (cioè sorprendere gli amanti in flagrante). Un particolare
importante è la vecchiaia del castellano, che, come aveva previsto Filippo, fornisce alla moglie la
scusa per esonerarlo dalla guardia del castello. Tuttavia il castellano, accordatosi con Filippo, si
propone per sorvegliare la sola passerella (ponticella della pianchetta: letteralmente è la parte mobile di
una passerella) che dava accesso alla torre.
La vendetta di Filippo è terribile: Antonio viene subito strangolato (la nudità di Antonio è
un’ulteriore umiliazione, che toglie qualsiasi dignità alla sua morte); Isabetta viene crudelmente
torturata (per estorcerle una completa confessione), imprigionata e poi probabilmente annegata nel
Po (stessa sorte subisce la serva di lei).

Come accade molte volte nelle Novelle di Bandello, questo racconto muove da premesse ‘comiche’
per poi ribaltarsi in tragedia. La III 59 esordisce come una novella di tradimento e di beffa (seppure
già con l’inquietante risvolto del tentato avvelenamento) e fino sulla soglia dell’esito tragico è
evidente l’adozione del registro espressivo comico: trovar la gallina col gallo su l’ovo; una ne pensa il
ghiotto e l’altra il tavernaro; parve un’ora mill’anni; vedere chi saperia (‘saprebbe’) meglio tirare (è una metafora
sessuale); tirava al segno senza veder lume (metafora sessuale). A partire da questa ultima metafora, la
ripresa subito successiva e non metaforica del termine lume (la fiaccola o torcia o lampada con cui il
marito illumina la scena di adulterio) segna l’inizio della conclusione tragica e orrorosa del racconto
(si vedano i pur brevi ma terribili particolari della tortura).

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II 9
Riscrittura della novella di Luigi Da Porto, pubblicata nel 1530-1531. Concorrono alla riscrittura
anche altri modelli e “fonti” (per es.: la novella di Mariotto e Ganozza di Masuccio Salernitano, la
IV giornata del Decameron)
Tema: amore contrastato e problematico con finale tragico > morte dei due amanti
Nello sviluppo della novella riveste un ruolo fondamentale il motivo narrativo della morte apparente

Narratore della novella: il capitano Alessandro Peregrino


Cronologia della dedica: 1531-1536 (residenza di Cesare Fregoso nel Veronese; citazione del
poemetto di Bandello Le tre Parche scritto in occasione della nascita – 1531, termine post quem – di
Giano Fregoso, figlio di Cesare).

Lettera di dedica a Girolamo Fracastoro:


dove? terme di Caldiero (Verona)
quando? 1529-1536 (anni in cui Fregoso risiede nel Veronese), in estate ma plausibilmente post
1531 (vd. sopra)
membri della “brigata”: Matteo Boldieri (?), Cesare Fregoso, Alessandro Peregrino, Bandello +
altri indeterminati
oggetto della “conversazione”: i casi fortunevoli avversi ne le cose de l’amore (cioè ‘gli eventi tragici di
natura amorosa determinati dalla Fortuna’)
La novella degna di compassione deve essere letta come un ammonimento ai giovani affinché
imparino a regolare le proprie passioni e a non agire d’impeto.

La rubrica è incentrata sulla conclusione della novella, la morte dei due per veleno e di dolore
Proemio: elogio della città di Verona
Luogo e tempo della novella: Verona, Mantova, Villafranca. Dominio di Bartolomeo della Scala
(1304)
Personaggi: Giulietta Cappelletti (ha 17 anni), Romeo Montecchi (ha 20/21 anni), frate Lorenzo,
Antonio e Giovanna Cappelletti, Tebaldo Cappelletti, Marcuccio, Pietro (servo di Romeo), Paris di
Lodrone (ha 24/25 anni), un amico di Romeo, la balia e una serva di Giulietta

Principali differenze di II 9 rispetto alla novella di Da Porto:


• Maggiore estensione e articolazione del racconto
• Impianto più spiccatamente teatrale (“mimetico”) > alta percentuale di dialoghi
• Maggiore attenzione nello spiegare e motivare alcune circostanze (per es. la natura di
“legittima difesa” dell’omicidio di Tebaldo)
• Accentuazione delle reazioni negative dei Cappelletti al rifiuto di Giulietta di sposarsi
• Conclusione con epitaffio in forma di sonetto

La vicenda inizia con una circostanza sfavorevole, che viene temporaneamente superata
(matrimonio segreto); ma poi la fortuna (uccisione di Tebaldo) rovescia improvvisamente le sorti
della vicenda sino alla catastrofe.
La II 9 è divisibile in 2 parti (una “positiva”, l’altra “negativa”), più un antefatto:
- Antefatto (annosa rivalità famigliare e suo contenimento all’epoca della vicenda)
- La prima parte è a sua volta articolata in 3 snodi:
1) Festa di carnevale (dopo Natale) a casa dei Cappelletti, circostanza dell’incontro tra Romeo e
Giulietta (> presentazione dei personaggi, con lunga divagazione su di un precedente amore di
Romeo; scopo > carattere di Romeo e motivazione della sua presenza alla festa); innamoramento
attraverso gli sguardi; ballo del torchio (Marcuccio). Romeo e Giulietta scoprono in maniere e

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tempi diversi (ma ravvicinati) chi sono: sorgono molti dubbi causati dalle oggettive difficoltà, ma
Giulietta alla fine è fiduciosa.
2) Corteggiamento (la “notte di luna” e la promessa di matrimonio)
3) Il matrimonio segreto (coinvolgimento di frate Lorenzo da parte di Romeo; complicità di una
vecchia serva di Giulietta > lettera a Romeo e incontro [scala di corda]). Tempo: quaresima, venerdì
santo. Consumazione del matrimonio: sabato santo, nel giardino.
Seguono vari incontri; Giulietta e Romeo sono fiduciosi.
- La seconda parte è molto articolata:
1) Tempo: Pasqua. Romeo uccide il cugino di Giulietta, Tebaldo, senza premeditazione e per
difendersi (è un punto che va analizzato con cura). Romeo, rifugiatosi in S. Francesco, viene
bandito da Verona. Scambio di lettere tra Giulietta e Romeo (con intreccio di motivi novellistici) e
ultimo incontro nel giardino. Romeo lascia Verona e si trasferisce a Mantova.
2) Giulietta si consuma per la tristezza (effetti: magrezza, malinconia). La madre pensa che
voglia sposarsi, il padre chiede di indagare se la figlia sia innamorata di qualcuno. Non affiorando
nulla, il padre combina il matrimonio con Paris di Lodrone e, dopo un duro scontro, glielo impone
(analogie Giulietta / Ghismunda). Lettera a Romeo e trasferimento di Giulietta a Villafranca.
3) Tempo: Ferragosto. Giulietta, col pretesto di volere confessarsi da frate Lorenzo, gli chiede di
fornirle un veleno. Frate Lorenzo le propone invece un piano: le preparerà un potente sonnifero
che la farà sembrare morta; Giulietta sarà dunque sepolta nella tomba di famiglia; frate Lorenzo
andrà a liberarla e la porterà di nascosto nel convento; poi lei con Romeo, da lui nel frattempo
avvertito, potranno fuggire a Mantova, finché Lorenzo, intanto, non avrà convinto le due famiglie
a rappacificarsi.
4) Giulietta torna a casa felice e allegra (i genitori quasi si pentono di avere affrettato il
matrimonio). La sera prima delle nozze (un sabato) di nascosto scioglie e beve il sonnifero,
(le paure di Giulietta) e cade in uno stato di morte apparente.
Vengono sviluppati i temi topici del motivo della morte apparente: investigazione dei medici,
celebrazione del funerale. La causa della morte viene indicata nel dolore.
5) Il piano fallisce perché :
• la lettera scritta da frate Lorenzo a Romeo non viene recapitata (peste a Mantova);
• il servo di Romeo, Pietro, senza consultarsi con frate Lorenzo, raggiunge Mantova e
comunica a Romeo la morte di Giulietta;
• inoltre frate Lorenzo non va subito, cioè la notte stessa del “funerale”, a prelevare
Giulietta dalla tomba.
6) Romeo, disperato e sentendosi colpevole (non si muor di doglia…), vorrebbe uccidersi con la
spada ma ne è impedito da Pietro. Allora decide di tornare a Verona da solo (inganna Pietro) per
suicidarsi sul cadavere di Giulietta con un veleno. Prima però fa testamento.
7) Romeo, sul far della sera, giunge a Verona e si reca da Pietro; insieme vanno a S. Francesco,
aprono l’avello, Romeo si cala nella tomba e sviene; poi prende il veleno e chiama Pietro,
informandolo di tutto quanto ha fatto e consegnandogli la lettera-testamento.
8) Giulietta intanto si risveglia e crede che frate Lorenzo la stia insidiando (eco di Dec., X 4 >
discesa di Gentile nella tomba di Catalina). Romeo è felice e addolorato nello stesso tempo.
Romeo muore fra le braccia di Giulietta (nel frattempo è giunto anche frate Lorenzo con un
confratello), che sviene. Quando rinviene pronuncia un’orazione (da confrontare con quella di
Ghismunda: Dec., IV 1) e poi, nonostante i tentativi di conforto di frate Lorenzo, nel suo fiero
proponimento perseverando… in tutto si dispose di voler morire > morte volontaria di dolore, richiamando
gli spiriti vitali dentro di sé (cfr. Dec., IV 8, morte di Girolamo).
9) Conclusione: sopraggiungono le guardie di Bartolomeo della Scala; Pietro racconta l’intero
accaduto. Il principe perdona tutti i coinvolti e dispone che i due amanti venissero seppelliti
insieme (altro topos dei racconti di amore e morte). Il padre di Romeo fa incidere sulla tomba un
epitaffio > è il sonetto che chiude il dittico

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Fortuna della novella:
- 1554 Novelle di Bandello, II 9 (ma composta prima, forse, dando credito alla dedica, fra il
1531 e il 1536)
- 1559 Histoires tragiques di Pierre Boaistuau (cambia il finale: Romeo muore prima del
risveglio di Giulietta, che si trafigge con la di lui spada)
- 1562 The tragically Historye of Romeus and Juliet di Arthur Brooke
- 1567 The Palace of Pleasure di William Painter
- 1597 Romeus and Juliet di Shakespeare (da Brooke)

II 11

Narratore della novella: Pandino da Pandino (non identificato, forse inventato)


Cronologia della dedica e della novella: dopo il 1525 (in virtù del riferimento al saccheggio della
cella dell’autore nel convento delle Grazie, come spiego sotto); più precisamente, stando a quanto
Bandello dice all’inizio della novella, in un periodo compreso tra il 1529 e il 1535, ovvero tra il
congresso di Bologna (in cui l’imperatore Carlo V, dopo avere stipulato la pace con la Francia,
stabilì il nuovo assetto politico degli stati italiani) e la morte del duca di Milano Francesco II Sforza

Lettera di dedica a Emilio degli Emili:


dove? luogo imprecisato
quando? 1529-1535
brigata: imprecisata (una bella compagnia), a parte l’ignoto Pandino da Pandino e lo stesso Bandello
oggetto della “conversazione”: ignoto. Ma la lettera di dedica è importantissima per le
dichiarazioni di poetica (ovvero Bandello illustra le sue idee in merito a contenuti e forma delle sue
novelle), presentate in forma di apologia (cioè di difesa). Il modello di questa apologia è la Conclusione
dell’autore del Decameron, di cui Bandello riprende anche vari concetti (si vedano le note all’edizione)

La dedica si apre con l’irruzione della violenza della guerra nella vita personale di Bandello. Dopo la
battaglia di Melegnano (1515) vinta dai Francesi contro il duca di Milano Massimiliano Sforza,
l’allora filo-sforzesco Bandello è costretto a lasciare Milano, nel cui convento delle Grazie viveva.
Bandello, quindi, omette un suo primo ritorno a Milano nel 1522, saltando subito agli avvenimenti
successivi, ovvero il suo nuovo, ma assai più breve, allontanamento da Milano nel 1525 dopo la
battaglia di Pavia. Poco tempo dopo, tornato in città, trova la sua cella saccheggiata dai soldati
spagnoli: gli sono stati rubati libri, manoscritti di opere altrui e sue, tra cui le rime e le novelle
(particolarmente doloroso è il furto di un gran volume che raccoglieva vocaboli latini, di cui non si sa
nient’altro). Qualcosa Bandello riesce a recuperare sia delle sue rime che delle novelle e comincia a
trascrivere queste ultime, aggiungendo le altre che sente raccontare senza seguire alcun ordine; è
questa una dichiarazione di grande rilievo perché Bandello rivendica l’originalità dell’assemblaggio
della raccolta: le novelle non sono ordinate per temi, o per ordine cronologico, e tanto meno sono
disposte all’interno di una struttura portante complessiva. (Segnalo che nell’edizione delle Novelle
adottata vi è un errore nelle note: nella nota 6, p. 358, la spiegazione “non dovevo dedicarmi a
questa impresa letteraria” non va riferita a ordine alcuno/veruno bensì a una frase detta qualche riga di
testo sotto, cioè: non mi deveva metter a far questa fatica).
Le novelle che aveva fino a lì trascritto, raccolto e fatte leggere a varie persone sono state criticate
(biasimate) per lo stile e per i contenuti.
Per quanto riguarda le critiche al suo stile, giudicato lontano da quello dei modelli trecenteschi
(cioè nello specifico da Boccaccio), Bandello lo difende, rivendicandone la modernità.
Per quanto riguarda le critiche ai contenuti, accusati di essere disonesti, Bandello dice che è vero che
alcune (poco sotto dice invece: molte) delle sue novelle (non tutte) non solo non sono oneste, ma sono
disonestissime, perché spesso raccontano fatti riprovevoli e terribili (adulteri, omicidi, inganni,

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vendette...); ma esse vanno sanamente intese, cioè correttamente capite da chi legge. Le novelle
raccontano vere istorie, dunque un mondo non ideale ma reale, e il mondo reale è disordinato,
violento, immorale. Questo non vuol dire che Bandello lo approvi. Inoltre, il colpevole non è il
narratore, ma chi si è macchiato di queste infamie.
Bandello, insomma, sulla scia della Conclusione dell’autore del Decameron, rivendica la “libertà” dello
scrittore; e, nello stesso tempo, fa emergere tutto il suo pessimismo nei riguardi della società e degli
uomini riflessi nelle sue novelle, cui contrappone l’ideale di ordine e di misura rappresentato dalle
“brigate” in cui si narrano e si ascoltano i racconti.
La novella che sta per iniziare fa parte proprio di quelle che tanto indignano i suoi critici, trattando
di un triplice adulterio.

La rubrica pone subito in evidenza l’ambito tematico della novella: la beffa giocata da una moglie
al marito. Si tratta di un tema novellistico assai diffuso, a partire dalla VII giornata del Decameron; in
particolare, in questo caso, il precedente boccacciano più prossimo è Dec., VII 6. Bandello attualizza
il tema ambientando il racconto nel primo trentennio del Cinquecento.

Luogo e tempo della novella: ducato di Milano, 1529-1535


Personaggi: tutti senza nome e caratterizzati solo dal ruolo e dal luogo di provenienza: il marito
(bresciano), la moglie (veneziana), gli amanti della moglie: un giovane nobiluomo del luogo, quindi
milanese, un servitore di lui (lodigiano) e un prete. Solo evocati sono una serva della moglie (viziosa
quanto lei), il fratello del marito e un tale Morgante, grande e grosso (il suo nome, non a caso, è
ripreso dal poema comico quattrocentesco di Luigi Pulci, Morgante, in cui è un gigante protagonista
di stralunate avventure).

Il proemio della novella inizia con la collocazione cronotopica (cioè del tempo e del luogo in cui
accaddero i fatti raccontati), che fornisce lo spunto per una serie di notazioni “sociologiche”
relative alle conseguenze degli sconvolgimenti prodotti dai conflitti nel ducato di Milano, stremato
anche da una lunga epidemia di peste. Tra le conseguenze più rilevanti di questa situazione ci
furono l’abbandono da parte di molti nobili delle loro proprietà, affittate ad altri per basso prezzo, e
il conseguente arrivo dalle zone più periferiche del ducato (nel caso specifico dal Bresciano) di
“piccoli borghesi” che, fiutando l’affare, intendevano arricchirsi. Il protagonista della novella è uno
di questi, che però, non avendo sufficiente capitale iniziale per risistemare e gestire la proprietà che
aveva affittato, in breve tempo si ritrova al fallimento. Ma – aggiunge infine il narratore di secondo
grado, Pandino – non è di questo argomento che tratterà il racconto.

La novella dà vita a una vera e propria commedia ed è narrata con evidente gusto teatrale, per cui
non sorprende che a un certo punto uno dei personaggi esclami E’ mi par proprio veder un atto di
commedia. Infatti, la casa coniugale in cui il marito viene beffato diventa un palcoscenico con una
scenografia su più piani (dal basso della cantina all’alto del solaio), in cui si dipana con ritmo
incalzante il fuoco di fila delle trovate escogitate dalla donna per nascondere gli amanti e impedire
che vengano scoperti, in un vorticoso susseguirsi di porte che si aprono e si chiudono, tappeti che
si alzano e si abbassano, personaggi che imprigionano e che rimangono imprigionati.
Il registro stilistico e linguistico è decisamente comico, al limite dell’eccesso: le metafore sessuali
sono continue e attingono al vasto patrimonio espressivo della tradizione novellistica; il “basso
corporeo” dilaga (uno dei culmini è la scena in cui il nobiluomo milanese, nascostosi nella latrina,
viene inondato dall’urina del marito inconsapevole, palese ripresa di una scena simile della novella
boccacciana di Andreuccio da Perugia, Dec., II 5).

È una novella volutamente provocatoria e “scandalosa”, in virtù di quanto Bandello ha esposto


nella lettera di dedica. L’umanità che la popola è un’umanità degradata, e il narratore ne è

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consapevole e la disapprova. Ciò appare da quanto si dice dei personaggi: il marito è uno sciocco,
buono a nulla, gaudente, fanfarone, che si è scelto come sposa una ex prostituta che oltre tutto
trascura; gli amanti sono uomini lascivi e senza scrupoli; la moglie ha, come si è detto, un’origine
spregevole e soprattutto non ha alcuna intenzione di cambiare.
Nonostante i termini negativi che la qualificano (donna allevata da meretrici, cattiva femina, puttanissima...)
e il suo insaziabile appetito sessuale, è lei a reggere le fila della beffa: una beffa che non è
premeditata ma nasce dall’esigenza di “salvarsi” da una situazione imprevista (il marito, partito per
Milano, torna inaspettatamente a casa), mostrando una notevole prontezza nel prendere decisioni e
nell’inventare scuse; ed è talmente abile da continuare a ingannare lo stupido marito anche dopo
questi avvenimenti.
Alla disinvolta giocosità del racconto e al “lieto fine” (la serie di adulteri non finisce in un bagno di
sangue) fa da contrappeso – come si è già accennato – il latente (perché non apertamente espresso)
negativo giudizio su tutti i personaggi. Il susseguirsi (per certi aspetti, paradossale) degli atti sessuali
consumati nelle circostanze più incredibili non ha nulla di liberatorio ma definisce un’umanità in
preda ai più bassi istinti e incapace di dominarli: lo sciocco marito commette l’errore di scegliersi
una moglie “sbagliata” e crede di essere un uomo accorto; la moglie non vuole frenare la propria
lussuria; gli amanti – prete compreso – sono privi di qualsiasi senso morale.

IV 17

Narratore della novella: Galasso Ariosto, figlio di Niccolò e fratello del poeta Ludovico

Lettera di dedica a Gieronimo da la Penna:


dove? Milano, nel giardino della casa di Lucio Scipione Attellano (funzionario di Francesco II
Sforza)
quando? tra il 1506 e il 1525
brigata: Lucio Scipione Attellano, Galasso Ariosto, Bandello
oggetto della “conversazione”: la febbre quartana; in particolare si discute se uno spavento può
fare guarire da questa malattia. La quartana (una specie di malaria) è una febbre intermittente, detta
così perché si verifica ogni quattro giorni

Come anticipa la rubrica, la novella ha per tema una beffa del buffone Gonnella al suo signore
Niccolò d’Este, signore di Ferrara, che scatena una contro-beffa, la quale causa la morte del
Gonnella.

Luogo e tempo della novella: Ferrara (e Padova), Belriguardo, prima del 1441 (anno della
morte di Niccolò III d’Este).
Personaggi: Pietro Gonnella, Niccolò III d’Este.
ATTENZIONE: Rispetto all’ed. adottata delle Novelle di Bandello, ho corretto la cronologia: nella
nota 4 di p. 622, infatti, si dice che il Gonnella morì di paura nel 1441 e di conseguenza che la
novella è ambientata in quell’anno.
I motivi della mia correzione sono legati alla figura del buffone Pietro Gonnella, un personaggio
storico la cui cronologia biografica è però ambigua. Egli è già protagonista di racconti nel
Trecentonovelle di Franco Sacchetti, un’opera di fine Trecento in cui il Gonnella è al servizio del
marchese Obizzo III d’Este, signore di Ferrara dal 1317 al 1352. Nel Quattro e Cinquecento Pietro
Gonnella riappare in alcune opere (tra cui le Novelle di Bandello), nelle quali è sempre presentato al
servizio degli Este, ma variamente di Niccolò III o dei successori Leonello (morto nel 1450) e
Borso (morto nel 1471). Come spiegare queste discrepanze? Sono state formulate due ipotesi:
1) che siano esistiti due buffoni con quel nome, uno attivo nel Trecento e l’altro nel
Quattrocento (ma mancano prove documentarie)

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2) che al Gonnella storicamente vissuto nella prima metà del Trecento e rappresentato nel
Trecentonovelle sia subentrata la fortuna letteraria del personaggio, che ha subìto dunque un
“aggiornamento”, facendolo vivere nel Quattrocento (è l’ipotesi più plausibile).
In conclusione: poiché Bandello pone il Gonnella al servizio di Niccolò III d’Este, lo svolgimento
della novella deve essere riferito agli anni del suo principato (cominciato alla fine del Trecento) e
terminato, per l’appunto, con la sua morte nel 1441.

Il Gonnella è protagonista di cinque novelle della parte Quarta: oltre a questa, della 2, 20, 23, 26.

La rubrica è piuttosto analitica e mette subito in luce il meccanismo di beffa e contro-beffa, le


quali hanno un esito opposto: la beffa del Gonnella salva il marchese Niccolò, mentre invece la
contro-beffa del marchese uccide il Gonnella.

L’inizio della novella rievoca la corte del marchese di Ferrara, di cui il padre di Galasso (Niccolò
Ariosto) era cortigiano: le molte donne di Niccolò III (protagonista peraltro di un’altra e celebre
novella di Bandello, quella di Ugo e la Parisina, I 44: vd. sotto) e le piacevolezze del buffone Pietro
Gonnella. Il narratore, collegandosi all’argomento discusso dalla brigata, racconta come il buffone
riuscì a guarire con uno spavento il marchese dalla quartana e le conseguenze di questa sua azione:
fatti dei quali Niccolò Ariosto è presentato come testimone oculare.
Il Gonnella ordisce la sua beffa a fin di bene: la quartana del marchese è severa e induce in lui una
profonda e pericolosa malinconia, che nulla riesce a mitigare; quindi al principe è prescritto dai
medici di soggiornare in campagna, sulle rive del Po (a Belriguardo). Il buffone decide di mettere in
pratica un rimedio di cui ha sentito parlare o forse ha già visto sperimentare, ossia spaventare
enormemente il marchese. Getta perciò inaspettatamente il marchese nel Po, avendo però avuto
cura di non mettere a rischio la vita del suo signore. Dopo il fatto, il Gonnella, timoroso delle
conseguenze e in attesa di potere spiegare la ragione del suo gesto, si rifugia a Padova dal suocero
di Niccolò III, Francesco Novello da Carrara. Niccolò III mette sotto processo il Gonnella (del cui
gesto non sa darsi spiegazioni), che viene condannato a morte. Il buffone vuole scagionarsi e decide
di ritornare a Ferrara, pensando di evitare la cattura attraverso l’escamotage della carretta riempita con
terra di Padova. Il marchese è deciso a vendicarsi, ma le sue intenzioni non sono violente,
desiderando far prendere al Gonnella uno spavento come quello che aveva avuto lui quando era
stato gettato nelle acque del Po. Perciò gli nega il salvacondotto, lo fa arrestare e fa simulare
l’esecuzione. In realtà Niccolo III aveva ordinato al boia di non tagliare la testa del buffone bensì di
rovesciargli sul capo un secchio d’acqua; ma il Gonnella per lo spavento muore.

La novella è esemplare per gli esiti estremi della dinamica beffa e contro-beffa, che innesca una
catena di reazioni, le quali volontariamente o, come in questo caso, involontariamente determinano
l’annientamento dei beffati (qui, più esattamente, di uno solo dei due). Si verifica, insomma, una
vera e propria escalation: a una beffa violenta e pericolosa segue una contro-beffa letale. La contro-
beffa, per quanto ordita con un intento giocoso ed elaborata come una specie di contrappasso
(all’acqua del Po in cui era caduto il marchese corrisponde il secchio d’acqua che il boia deve
gettare sul Gonnella), è una reazione più “pesante” dell’azione di partenza (la burla del Gonnella).
Beffa e contro-beffa si basano – come del resto è “d’obbligo” nelle beffe – su di una
manipolazione della realtà: il Gonnella non vuole uccidere il marchese ma commette un’azione
che sembra un tentato omicidio; Niccolò III non vuole uccidere il Gonnella ma inscena una finta
esecuzione. Nessuno dei due vorrebbe eliminare l’altro, ma il gioco di specchi tra apparenza e realtà
viene portato, soprattutto da Niccolò, a un livello estremo, tale da indurre la morte del destinatario
della burla. In questo meccanismo non contano le intenzioni iniziali dei due personaggi, quella
“virtuosa” del Gonnella che desidera solo guarire il suo signore, e quella, tutta giocosa, di Niccolò,
che vuole “vendicarsi” del buffone in maniera non cruenta.

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Come si è detto nella lezione dedicata al Tragico e al comico il meccanismo “beffa e contro-beffa” ha
in sé uno straordinario potenziale di aggressività e di violenza e tende a intensificare gli effetti delle
burle reciproche.

I 44

Narratore della novella: Bianca d’Este, nipote di Niccolò III d’Este

Lettera di dedica a Baldassarre Castiglione


dove? Milano, nella casa di Lucio Scipione Attellano (funzionario di Francesco II Sforza)
quando? luglio, tra il 1519 e il 1524. Questi termini temporali sono deducibili da elementi interni
ed esterni alla dedica: infatti, nella dedica egli accenna a una elegia di Baldassarre Castiglione,
probabilmente quella dedicata a Ippolito d’Este composta intorno al 1519 (termine post quem),
mentre l’elemento esterno è costituito dall’anno in cui Castiglione lasciò l’Italia, cioè il 1524
(termine ante quem)
brigata: Lucio Scipione Attellano, Camilla Scarampi, Bianca d’Este, Bandello (ma la brigata era
numerosa)
oggetto della “conversazione”: nella dedica viene ritratta una scena tipica di intrattenimento
cortigiano, comprendente la recita di una farsa, danze, giochi e il racconto di novelle; prima di
questa, infatti, si accenna a una novella raccontata dalla Scarampi e ad altre narrate da altri ospiti

Come anticipa la rubrica, la novella ha per tema una vicenda di adulterio e vendetta, che ha un
effettivo fondamento storico, nonostante le imprecisioni di Bandello (per cui vd. sotto).

Luogo e tempo della novella: Ferrara 1423-1425


Personaggi: Niccolò III d’Este, la sua seconda moglie Laura Malatesta detta Parisina (figlia di
Andrea Malatesta, non di Carlo), Ugo, figlio di Niccolò. Ugo non è, come invece asserisce
Bandello, figlio della prima moglie di Niccolò (Gigliola da Carrara), ma un figlio illegittimo avuto
dall’amante Stella dei Tolomei (madre anche di Leonello e di Borso, ricordati nel proemio della
novella, p. 207: si noti che Bandello sembra ritenere che i due non siano figli della stessa madre); la
“confusione” in merito all’origine di Ugo e il fatto di ritenerlo un figlio legittimo avranno, come si
vedrà, una funzione importante nella novella

Nel proemio della novella sono brevemente riassunte le vicende storiche che portarono Niccolò
III a ottenere la signoria di Ferrara, contesa col cugino Azzo IV d’Este. Subito viene sottolineata la
sensualità di Niccolò, che lo spinge ad avere molte amanti e molti figli illegittimi (nelle parole della
narratrice, pp. 206-207, si avverte una sottile ma decisa riprensione morale di un simile
comportamento).

Nonostante le numerose amanti, Niccolò III, morta Gigliola, prende in sposa la figlia quindicenne
di Carlo Malatesta, la quale non tarda ad accorgersi delle continue infedeltà del marito: la novella è
qui improntata in un registro comico (il marchese era il gallo di Ferrara, la Parisina non intende
starsene con le mani a cintola).
Subito viene evidenziata una questione cruciale: lo sbilanciamento della coppia marito / moglie,
dovuto alla giovane età della Parisina. Il fatto di essere Niccolò un donnaiolo spiega lo sdegno e
l’insoddisfazione della Parisina, ma non li giustifica (si noti il lessico che bolla l’insana passione di
Parisina: sì gran sceleratezza, disonesti e scelerati apetiti, disoneste fiamme): in questo caso, la ragione della
censura bandelliana risiede nel fatto che sia presente un elemento molto perturbante, ossia la

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passione della Parisina per il figliastro, che profila un rapporto incestuoso, in un primo tempo
frenato dalla vergogna. Ugo è un ragazzo quasi coetaneo della matrigna (ha tra i 16 e i 17 anni), è
del tutto diverso dal padre e viene facilmente convinto dalla Parisina, che dichiara la sua passione
con una orazione che fa leva sull’infedeltà di Niccolò, su una storia famigliare – degli Este – non
propriamente irreprensibile, sul fatto che i tanti figli illegittimi del marchese avrebbero potuto
insidiare il futuro di Ugo, figlio legittimo (anche se ciò non è storicamente vero, come si è detto
sopra), che Parisina avrebbe dovuto, in un primo tempo, maritarsi non con Niccolò ma con Ugo.
Ugo dapprima reagisce con sconcerto (chi veduto l’avesse in quel modo attonito e stupefatto più tosto a una
statua di marmo che ad uomo l’avrebbe assimigliato) ed è trattenuto dal pensiero della vituperosa ed enorme
ingiuria che la relazione con la Parisina avrebbe significato; ma poi la bellezza della matrigna e la
giovane età di Ugo lo inducono a cedere.
Inizia, dunque, una relazione che si protrae per due anni: i due amanti, però, sono poco discreti
(cioè prudenti) e suscitano il sospetto di un servitore di Ugo, che li spia e che mostra a Niccolò il
tradimento.
La fase finale della vicenda è scandita dalla registrazione del tempo: la cattura di Ugo e Parisina
avviene in un giorno festivo, nel mese di maggio, alle ore 16 circa (non alle 8 di sera, come scrive
invece la nota 24 a p. 214); Niccolò si rifiuta di rivedere la moglie e il figlio, che rimangono
incarcerati per tre giorni e poi giustiziati separatamente (storicamente sappiamo che Ugo e Parisina
vennero giustiziati il 21 maggio 1425). Ugo e Parisina reagiscono in maniera diversa alla condanna:
Ugo si pente e attende con rassegnazione la morte, Parisina si infuria e si dispera e mai si pente di
quanto ha fatto. Il racconto si conclude con la celebrazione dei funerali e la tumulazione nello
stesso sepolcro e con un accenno alle successive terze nozze di Niccolò.

La novella, anche per probabile suggestione del teatro senecano, che conosce una grande fortuna
nel Cinquecento, tocca un argomento assai delicato e scabroso: l’incesto.
Il tema, che nello specifico è rappresentato dal racconto di una storia vera, ha una notevole
fortuna letteraria: ne sono modello esemplare, seppure di opposta valenza, i miti di Fedra e di
Stratonica.
Fedra, sposa di Teseo, nutre per il figliastro Ippolito una folle passione non ricambiata, che la
porta al suicidio e al contempo ad accusare l’innocente Ippolito di averla sedotta. Ippolito viene
esiliato e poi muore. Il mito, elaborato dal trageda greco Euripide (V sec. a.C.), fu trattato anche da
Sofocle (V sec. a.C.), da Seneca (I sec. d.C.) e poi molte volte in età moderna (in particolare si
ricordi la Phèdre di Racine, 1667). In questo mito agisce anche il motivo, molto antico e diffuso,
della vendetta in risposta a un rifiuto amoroso.
Stratonica, giovane sposa di Seleuco I (IV-III sec. a.C.), è tanto amata segretamente da Antioco,
figlio del sovrano, da rischiare di morire; quando al padre viene rivelato il motivo della malattia di
Antioco, rinuncia a Stratonica e la dà in sposa al figlio. Il mito, molto noto (tra gli altri ne trattò lo
storico greco Plutarco I-II sec. d.C.), ebbe grande fortuna nell’Umanesimo e nel Rinascimento: ne
scrissero, tra gli altri, Petrarca e l’umanista Leonardo Bruni; e lo stesso Bandello trasformò la storia
in novella: è la II 55, su cui vd. sotto.

La novella bandelliana di Ugo e Parisina avrà una grande fortuna letteraria e musicale: sarà ripresa
da Lope de Vega, da Byron, da Leopardi, dal drammaturgo Felice Romani (con musiche di
Donizetti), da d’Annunzio (con musiche di Mascagni).

II 55

Narratore della novella: Niccolò Amanio, cremonese, dottore in leggi e rimatore petrarchista

Lettera di dedica a Margherita Pia Sanseverino (cognata di Elisabetta Gonzaga)

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dove? a Borghetto Lodigiano, feudo della famiglia da Ro (da cui l’odierno Rho). Il Palagio in cui
soggiornavano Alessandro Bentivoglio e Ippolita Sforza e dal quale essi si recano in visita a
Borghetto è forse l’attuale comune di Palazzo Pignano, tra Treviglio e Lodi
quando? tra il 1512 e il 1515 (ossia il periodo in cui Bandello ha stretti rapporti col Bentivoglio e
colla Sforza), 24-25 agosto (la festa di san Bartolomeo cade il 24 agosto)
brigata: Ippolita Sforza; Niccolò Amanio, Girolamo Cittadino (milanese, rimatore, amico di B.), il
segretario dei Bentivoglio, Tommaso Castellano (bolognese) e Bandello
oggetto della “conversazione”: la brigata è intenta a vari passatempi per trascorrere le ore più
calde del pomeriggio del 25 agosto. Tra l’altro, si legge e si commenta il libro sesto dell’Eneide di
Virgilio, un argomento impegnativo dopo il quale, per alleggerire la conversazione, Ippolita invita
l’Amanio a raccontare una novella. Bandello prega la destinataria, Margherita Pia, di fare leggere la
sua “trascrizione” della novella anche alla cognata Graziosa Maggi.

Come anticipa la rubrica, la novella ha per tema una vicenda di magnanimità (straordinaria e
gratuita generosità, una qualità propria di chi possiede grandezza d’animo).

La novella è una historia vera, ossia è tratta da fonti storiche. Si tratta di una vicenda molto famosa,
riportata sia da storici e biografi greci (Guerra siriaca di Appiano, I sec. d.C.; Vita di Demetrio di
Plutarco, I-II sec. d.C.) che da latini (Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo, I sec. a.C.-I sec.
d.C.). Essa ebbe molta fortuna anche nelle letterature romanze: in particolare fu ripresa da
Francesco Petrarca nei Trionfi (Trionfo dell’Amore, II) e poi, nella prima metà del Quattrocento, fu
trasformata in una novella in volgare, attribuita (non senza contestazioni) all’umanista Leonardo
Bruni (che, fra l’altro, tradusse in latino Dec., IV 1, cioè la novella di Ghismunda). La versione
attribuita a Bruni (a prescindere dalle complesse discussioni filologiche e critiche relative
all’effettiva paternità del testo tramandato, a cui qui non si accennerà neppure) costituisce
comunque il più importante intertesto della versione bandelliana.

Luogo e tempo della novella: Siria, 301 a.C.


Personaggi: Seleuco I, ex generale di Alessandro Magno e re di Siria; la sua seconda moglie
Stratonica, figlia di Demetrio Poliorcete, re di Macedonia; Antioco, figlio di primo letto di Seleuco
I; Erasistrato, medico di corte

La novella presenta un caso del tutto opposto a quello di I 44 (Ugo e Parisina).


Qui, infatti, il padre rinuncia all’amata moglie per affetto del figlio (da lui amato teneramente),
segretamente innamorato di lei. Quest’ultimo, al contrario di Parisina, tiene celato il suo amore per
la matrigna, giudicandolo disonorevole e indegno nei confronti del padre Seleuco e della stessa
Stratonica. Egli tenta in tutti i modi di “disamorarsi”, ingaggiando una dura lotta con i propri
sentimenti contrastanti (passione / rispetto), drammatizzata nei monologhi con se stesso. Anche
l’espediente di allontanarsi dalla corte non ha l’effetto sperato, anzi la lontananza fa crescere la
passione e il desiderio (un topos, di ascendenza ovidiana, della tematica amorosa). Il dramma di
Antioco consiste nell’impossibilità, dettata dalla sua ferrea dirittura morale, di rivelare questo amore
(il giovane si costringe al silenzio, reprime dentro di sé i propri sentimenti, non li confida a nessuno
e tanto meno cerca di sedurre la sposa del padre). La vergogna e l’auto-coercizione al silenzio da
una parte, e dall’altra il fallimento dei tentativi di soffocare l’amore per Stratonica conducono
Antioco ad ammalarsi gravissimamente di dolore (noia).
La situazione si risolve grazie al medico Erasistrato, che, in primo luogo, con uno stratagemma,
comprende la causa della malattia di Antioco, sempre ostinatamente muto: la malattia non è del
corpo, ma dello spirito, ed è “mal d’amore”; e l’oggetto della passione è la matrigna Stratonica.
Rivelare questa verità a Seleuco richiede cautela, ed Erasistrato, medico prudente, giunge alla
rivelazione in due tempi. Dapprima comunica al re di aver individuato la causa della malattia,

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l’amore per l’appunto, ma indica come oggetto di tale amore la sua propria moglie e dunque chiede
al re che cosa deve fare. Seleuco risponde che Erasistrato dovrebbe rinunciare a sua moglie; allora il
medico domanda al re se farebbe lo stesso nel caso in cui fosse la stessa Stratonica a essere amata
da Antioco. La risposta di Seleuco è netta: egli rinuncerebbe a Stratonica, perché sarebbe quanto
dovrebbe fare un buon padre e perché la virtù di Antioco merita questo sacrificio. Così Erasistrato
può completare la rivelazione e Antioco e Stratonica si sposeranno, visto che Seleuco mantiene
fede a quanto aveva asserito.
La novella, alla maniera di quelle della decima giornata del Decameron, vede tutti i personaggi
impegnati in una vera e propria gara di magnanimità: Antioco, il quale, piuttosto che cedere alla
passione, è disposto a morire; Stratonica, moglie e matrigna esemplare, che accudisce il figliastro
malato in maniera del tutto amorevole e limpida; ma è soprattutto Seleuco a essere esaltato alla fine
della novella, in quanto padre di straordinaria generosità e uomo che, con la sua rinuncia, ha dato
prova di sapere dominare i propri desideri e passioni; è lui l’esempio perfetto di virtù, intesa come
controllo degli appetiti e tensione al bene altrui.

I8

Narratore della novella: Gian Matteo Olivo, mantovano, cortigiano dei Gonzaga

Lettera di dedica a Pirro (“Pirrino”) Gonzaga (cardinale dal 1527)


dove? a Gazzuolo, nel mantovano, corte di Pirro Gonzaga, zio del dedicatario
quando? tra il 1527 (anno del cardinalato del dedicatario) e il 1529 (anno della sua morte)
brigata: Pirro Gonzaga, “Pirrino” Gonzaga, Gian Matteo Olivo, Bandello
oggetto della “conversazione”: si ragiona di vari casi. La novella è presentata da Bandello come
esempio mirabile di un personaggio straordinario dei propri tempi, giudicati dall’autore all’altezza,
se non superiori, ai tempi antichi. La parte iniziale della dedica sfiora alcune questioni cruciali della
cultura umanistico-rinascimentale: il rapporto con gli antichi e il potere “eternatore” della
letteratura. L’eroina “moderna” Giulia di Gazzuolo è degna di essere paragonata alla romana
Lucrezia; l’unico elemento che le distingue è la diversa condizione sociale, ma il bassissimo rango di
Giulia non solo non impedisce di esaltarne la virtù, ma addirittura, come si vedrà alla fine della
novella, ne promuove una ancora maggiore esaltazione rispetto a Lucrezia. Un altro modello
muliebre sotteso a questa figura femminile è quello della Griselda boccacciana (Dec., X 10), la
straordinaria guardiana di pecore che diventa la sposa di Gualtieri, marchese di Saluzzo (si veda il testo
di Bandello, p. 123, che riprende quasi letteralmente quanto Boccaccio aveva scritto a proposito
della sua eroina).

La novella è presentata come un “fatto di cronaca” avvenuto circa trent’anni prima, essendo
collocata durante il periodo in cui Lodovico Gonzaga, vescovo di Mantova e fratello di
Gianfrancesco capostipite dei Gonzaga di Gazzuolo e Sabbioneta, risiedeva a Gazzuolo (1496-
1499) per esercitare la tutela sui quattro nipoti rimasti orfani del padre. Durante il racconto si dirà
che lo stupro e il suicidio di Giulia avvennero il 30 maggio. Della novella dà una versione più breve
e un po’ diversa da quella bandelliana Baldassarre Castiglione nel cap. 47 del III libro del Cortegiano,
che fu probabilmente la fonte dello scrittore castelnovese (ne riporto il testo nel file Castiglione,
pubblicato nella pagina Moodle dell’insegnamento, da leggersi).

Luogo e tempo della novella: Gazzuolo, anno indeterminato tra il 1496 e il 1499, 30 maggio
Personaggi: Giulia; lo stupratore (un cameriere ferrarese dei Gonzaga); il suo complice (uno
staffiere ferrarese); una vecchia ruffiana; la sorella minore di Giulia; una vicina di casa di Giulia;
Antonia del Balzo, moglie di Gianfrancesco Gonzaga e nonna di Pirrino; il vescovo Lodovico
Gonzaga.

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La novella, presentata come al solito come un fatto vero (e in questo caso è probabile che sia
ispirato a un avvenimento realmente accaduto), è di registro patetico e si distingue per la finezza
con cui Bandello tratteggia l’assoluta solitudine di Giulia di fronte alla violenza maschile, pur non
mancando, come spesso accade nella raccolta, irruzioni di linguaggio e stile comici.
Il racconto è molto articolato (al contrario di quello più sbrigativo di Castiglione) e sviluppa con
penetrante sensibilità il passaggio dalla condizione umile ma serena della diciassettenne Giulia alla
tragedia conclusiva. L’incontro con il suo stupratore avviene durante una festa paesana, uno dei
pochi e onesti piaceri che la dura vita di Giulia le offre. Il subitaneo corteggiamento, benché già
respinto dalla protagonista, si trasforma presto in una ossessione per il cameriere e in una
persecuzione per Giulia. Il cameriere si innamora, o meglio non controlla la sua passione e brama
di possesso; non devono ingannare alcuni aggettivi apparentemente “solidali” con la sua condizione
di infelicità (il meschino amante..., il misero...), cui fa da contrappunto la severa aggettivazione utilizzata
mano a mano che il racconto procede (crudele e in balia di un disonesto appetito): infatti, egli si lascia
rodere dall’amoroso verme, nutre uno straordinario (cioè esagerato e incontrollato) amore ed è incapace di
accettare il rifiuto di Giulia. Prima il cameriere tenta di convincere Giulia con le parole, poi cerca di
corromperla con doni di poco valore fatti consegnare dalla scelerata ruffiana. Sia la misera entità dei
doni che le sue parole denunciano come il cameriere non abbia alcuna considerazione per Giulia né
nutra per lei un vero amore: la ragazza è un “oggetto” che egli vuole possedere per poi
sbarazzarsene (si legga la terribile “promessa” – formulata dopo la violenza – di aiutarla a sposarsi
con qualcun altro). In ultimo, il cameriere decide di ricorrere alla forza, con la complicità dello
staffiere. La descrizione dello stupro è realisticamente traumatizzante.
Alla violenza Giulia reagisce non solo con le lacrime; commovente è la descrizione del modo con
cui si ricompone e si trascina a casa, dove si veste con gli abiti più belli che possiede: vestiti umili
ma candidi (solo le scarpe sono rosse e gialla la semplice collana di ambra). È una vestizione
funebre, perché Giulia intende suicidarsi, e non potranno fermarla né la sorellina né la vicina malata
alla quale confida l’accaduto. Giulia si affoga nell’Oglio, i due colpevoli fuggono, e Lodovico
Gonzaga fa tumulare il cadavere della ragazza in un sarcofago bronzeo posto su di una colonna di
marmo, per tramandarne e onorarne per sempre la memoria.

Le differenze con la versione del Castiglione sono numerose e per lo più facilmente riscontrabili dal
confronto tra i due testi. Una delle divergenze meno visibili riguarda il ruolo della Fortuna, del tutto
assente nel testo del Cortegiano e invece adombrato, seppure in maniera ellittica, da Bandello:
proprio nella parte proemiale della “sua” novella, Bandello – per tramite del narratore – fa rilevare
come la sorte di Giulia sarebbe potuta essere diversa se Antonia del Balzo avesse dato seguito
all’idea di accogliere la fanciulla tra le sue dame di compagnia (cfr. p. 123).

I4

Narratore della novella: Antonio Sabino, letterato imolese

Lettera di dedica a Isabella d’Este Gonzaga


dove? a Milano
quando? poco dopo il 20 ottobre 1526 (giorno della decapitazione della protagonista della
novella); tuttavia va rilevata una incongruenza cronologica perché al termine della dedica viene
ricordato come ancora vivente Mario Equicola, che morì invece nel 1525
brigata: Antonio Sabino, Bandello (e altri non nominati)
oggetto della “conversazione”: si ragiona di che cosa gli uomini debbano considerare nelle
donne che intendano prendere in moglie

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La dedica, in realtà, incastra due diverse “conversazioni” strettamente collegate perché in entrambe
si parla della protagonista della novella, Bianca Maria di Challant. Durante la prima conversazione,
avvenuta a Diporto, la stessa destinataria della dedica aveva riferito il severo atteggiamento di
Ermes Visconti, primo marito di Bianca Maria, nei confronti della giovane moglie, che egli sapeva
“facile” e “leggera”. Ermes in questo si era mostrato saggio, ma aveva comunque commesso un
grave errore col suo matrimonio, avendo scelto una sposa molto ricca (essendo figlia di un
facoltosissimo usuraio) però di ben più basso rango sociale, dunque, avendo egli guardato alla
grandezza de la roba più che all’ambiente da cui la donna proveniva. Simili errori di valutazione da
parte degli uomini sono comuni, come si dice nella “milanese” seconda conversazione, nel corso
della quale, per l’appunto, viene narrata la novella dietro esplicita richiesta di Bandello, che all’epoca
della morte di Bianca Maria si trovava in Romagna e perciò non aveva assistito ai fatti. Il racconto,
dunque, è proposta come esempio clamoroso delle conseguenze negative che derivano da una
inappropriata scelta matrimoniale.

Luogo e tempo della novella: Challant, Pavia, Milano; tra il 1521-1522 (rispettivamente anno
della morte di Ermes Visconti e del matrimonio con Renato di Challant) e il 20 ottobre 1526.
Personaggi: Bianca Maria Scapardone (o Gaspardone), contessa di Challant; Ardizzino Valperga
conte di Masino; Carlo Valperga, fratello di Ardizzino; Roberto Sanseverino, conte di Gaiazzo (o
Caiazzo); Pietro di Cardona.

Dopo la secca rubrica, nel proemio della novella il narratore indugia sulla storia famigliare di Bianca
Maria allo scopo di sottolinearne l’origine “plebea”, che marchia la protagonista nonostante la
straordinaria ricchezza. Bianca è una giovane di natura sensuale, abituata al lusso e volubile. Il
secondo matrimonio (con Renato di Challant) dura pochissimo, Bianca fugge a Pavia, dove si
innamora di Ardizzino Valperga e intreccia una relazione con lui, ma presto se ne stanca e lo lascia
per Roberto Sanseverino. La passione per il Valperga si muta in odio al punto da indurre Bianca a
chiedere al Sanseverino di ucciderlo. Il nuovo amante finge di volerla assecondare, ma prende
tempo, anzi frequenta amichevolmente Ardizzino. La mutevole Bianca, in maniera inspiegabile,
comincia a non volere più frequentare il Sanseverino, gli mente circa una possibile riappacificazione
con Roberto di Challant e il conte di Gaiazzo interrompe la relazione. Bianca dunque torna a
riallacciare i rapporti con Ardizzino e questa volta è il Sanseverino a diventare oggetto del suo odio,
pertanto cerca di convincere il Valperga che Roberto avesse meditato di assassinarlo; tuttavia le sue
parole e il suo tono sono così rabbiosi da fare comprendere ad Ardizzino come ella stia mentendo.
Sicché questi ne parla al Sanseverino e in breve la pessima fama della contessa si sparge in tutta
Milano, dove nel frattempo anche Bianca si trasferisce. Di lei si innamora il giovane e ingenuo
Pietro Cardona, il quale, irretito da Bianca, si lascia convincere a uccidere, come da lei richiesto,
Ardizzino e il Sanseverino. Approfittando della presenza a Milano del primo, Pietro pensa di
cominciare a eliminare proprio lui; perciò gli tende un agguato nel quale cadono morti Ardizzino e
il fratello Carlo. Pietro viene subito catturato e confessa l’identità della mandante dell’omicidio.
Bianca viene arrestata: presto si accorge di non potere corrompere i giudici, avendo peraltro
confermato la confessione di Pietro; di conseguenza è condannata a morte, mentre Pietro viene
fatto fuggire.
La rielaborazione bandelliana della historia vera (cioè del fatto storico) tratteggia una figura femminile
del tutto negativa, non solo perché incapace di governare i propri “appetiti” ma perché del tutto
irrazionale, sommamente mutevole e del tutto incurante (o inconsapevole?) della nefandezza dei
suoi continui disegni omicidi, progettati in modo azzardato e incoerente e dettati dalla sua furia
vendicativa.
Vi sono tra questa figura femminile e quella di Violante (I 42) alcuni elementi comuni: lo
sbilanciamento di rango sociale tra loro e i rispettivi mariti o amanti, che non è compensabile
neppure dalla ricchezza (di Bianca, perché Violante è una popolana povera); la furia vendicatrice

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che si scatena in quanto viene lesa la “fama”, anche se questo fattore conta nel dittico I 4 solo
nell’ultima fase della novella, giacché i precedenti propositi omicidi di Bianca sono indotti
esclusivamente dalla totale assenza, in lei, di morale.
La tremenda vendetta di Violante ripara, seppure con deprecabile follia sanguinaria, un “torto” e
raggiunge, benché – lo ripeto – in maniera orribile, lo scopo di ripristinare l’onorabilità offesa,
mentre la fine di Bianca presenta una donna completamente sconfitta, la cui scomposta
disperazione sul patibolo (che per certi aspetti ricorda quella di Parisina, I 44) è un ulteriore segno
della sua irrazionalità e del suo smarrimento.

III 37

Narratore della novella: Giovanni Figino, mercante milanese, di origine nobile, con casa e attività
a Ragusa, cioè Dubrovnik in Croazia

Lettera di dedica a Tommaso Pagliearo


dove? a Milano, a casa di Ippolita Sforza Bentivoglio
quando? dopo il 1513
brigata: Ippolita Sforza Bentivoglio, Giovanni Figino, Bandello (e altri non nominati)
oggetto della “conversazione”: Ippolita chiede quali siano le novità da Ragusa
Luogo e tempo della novella: Ragusa, nello stesso anno – imprecisato – in cui la brigata si
incontra. La storia è presentata come un “fatto di cronaca” accaduto di recente
Personaggi: Teodoro Zizimo; Demetrio Lissi; Cassandra, moglie di Demetrio; una “fante” (una
serva) senza nome

Come preannuncia Bandello nella dedica, la novella mostra – ancora una volta – quanto sia
pericoloso abbandonarsi a un amore passionale (rappresentato con le tradizionali metafore della
pania e delle fiamme), che porta alla rovina. È una novella patetica e tragica, che si conclude, come
preannuncia la sintetica rubrica, con la morte del solo protagonista maschile.

La situazione iniziale presenta un triangolo simile a quello della novella boccacciana del Rossiglione
e del Guardastagno (Dec., IV 9): vi sono due amici, uno (Demetrio) di trentasei anni, sposato, l’altro
(Teodoro) un po’ più giovane e celibe e quest’ultimo si innamora della moglie di Demetrio.
Tuttavia, a parte questo esordio, la novella bandelliana diverge notevolmente da quella di
Boccaccio: qui, infatti, non solo i due amici sono “borghesi”, mercanti e soci, ma soprattutto
Cassandra non ricambia l’amore di Teodoro e non ha alcuna intenzione di violare la sua onestà e
tradire il suo senso dell’onore.
All’inizio Teodoro, che si consuma – letteralmente – per amore, deperisce e diventa malinconico
non solo per gli effetti della passione incontrollata ma anche perché si autoimpone il silenzio,
essendo consapevole di provare un desiderio disonorevole e sleale nei confronti dell’amico.
Tuttavia un giorno, non riuscendo a resistere alle insistenti domande di Cassandra, amichevolmente
preoccupata per il suo stato, Teodoro gliene rivela la causa. Cassandra lo respinge con
determinazione e durezza e il tormento di Teodoro si accresce, in quanto diviso tra la
consapevolezza del rifiuto dell’amata e la speranza di poter indurla a cedere. Approfittando di
un’assenza di Demetrio, Teodoro tenta ancora una volta di muovere Cassandra a pietà e di ottenere
quanto desidera. La reazione di Cassandra , però, è ancora una volta negativa, anzi la donna giunge
a minacciarlo di far intendere al marito la situazione. Allora Teodoro afferra un coltello e tenta di
uccidersi, ma Cassandra lo disarma e il fatto si conclude senza troppi danni, in quanto Teodoro
riesce a infliggersi solo una leggera ferita. Il trambusto suscitato dal gesto di Teodoro fa accorrere
una serva di Cassandra, che, impietosita, comincia a prender le parti dell’innamorato, tentando a sua
volta di convincere la padrona ad accontentarlo. Cassandra, preoccupata e confusa, acconsente di

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incontrare Teodoro quando sarà guarito, ma la promessa la turba e la scontenta, sicché, quando
Teodoro si ripresenterà per chiederle di mantenerla, ella opporrà un netto rifiuto. Teodoro, redatto
un testamento in cui nomina Cassandra sua erede, si uccide con lo stesso pugnale col quale si era
ferito. Rivelata a Demetrio la causa dell’accaduto, i due sposi decidono insieme di rinunciare
all’eredità a favore di un nipote di Teodoro.
La passione di Teodoro, nonostante possa suscitare compassione, è però bollata senza cedimenti
(come faceva presagire la dedica) come insana, folle e deprecabile. Infatti alla fine gli unici a
essere elogiati sono Demetrio, che apprezza l’onestà di Cassandra, e soprattutto quest’ultima, in
quanto donna disposta a morire come Lucrezia romana – quindi suicida (si veda la sua minaccia di
farlo, p. 525) – piuttosto che venire meno alla sua integrità.

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