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“Chi si sbasserà fortuna troverà”: note storiche sulle cave di Gioia

(Antonino Criscuolo)

Introduzione

Le cave di Gioia appartengono al bacino marmifero di Colonnata (Carrara) estendendosi


parzialmente oltre il crinale che delimita il territorio comunale di Massa, e costituiscono uno dei
comparti produttivi più importante di tutte il distretto apuo-versiliese. Come noto l’attività estrattiva
è qui iniziata già in epoca romana e numerosi sono gli studi prodotti su queste testimonianze, a
partire dagli scritti del Bruzza (1) di fine Ottocento fino alle attuali pubblicazioni del Dolci (2).
Si vogliono qui riportare nuovi dati storiografici scaturiti oltre che dalla descrizione dei reperti
raccolti più recentemente anche dallo studio geologico del contesto di rinvenimento.

Caratteristiche stratigrafiche

Le attività estrattive del comparto di Gioia, ora come nel passato, hanno interessato gli affioramenti
marmorei liassici (Giurassico inf.), appartenenti all’Unità Metamorfica Apuana, nelle loro varie
qualità merceologiche. L’originaria composizione della piattaforma carbonatica di origine marina,
nonché lo sviluppo tettonico della regione, hanno un preciso riscontro nell’attuale serie stratigrafica
marmorea nelle sue diverse varietà che nell’area di Gioia vede la presenza, dal basso verso l’alto,
del Venatino, del Venato, del Brouillè (breccia arabescata d’origine in questo caso sintettonica), del
Nuvolato, dello Statuario e del Bardiglio. L’evoluzione strutturale del massiccio roccioso ha
determinato poi la formazione al suo interno di determinati sistemi di fratturazione e
l’individuazione di tre precisi piani spaziali, fra loro ortogonali, ben conosciuti dai cavatori per le
loro differenti caratteristiche di lavorabilità, quali il “verso”, il “contro” e il “secondo”.
E’ quest’assetto strutturale insieme alla scelta qualitativa del materiale, che determina l’apertura di
una cava e l’impostazione dei tagli, specialmente nei tempi passati quando la lavorazione era del
tutto manuale. Nelle cave di Gioia le fratture presenti hanno generalmente interdistanza metrica,
con andamento sub-verticale e direzioni fra loro ortogonali, permettendo anche in epoca romana
una buona resa produttiva con impostazione della lavorazione a bancate e apertura di trincee e
canali per l’abbattimento di volumi lapidei anche cospicui; quando invece le fratture si presentano
più ravvicinate e persistenti si doveva ricorrere all’impiego dei soli tagli a formelle che
consentivano il distacco di spessori marmorei limitati con altezze di non più di un metro (“frode”).
L’azione dell’uomo in duemila anni di escavazione ha profondamente modificato l’aspetto delle
aree di affioramento dei giacimenti lapidei utili; le pareti rocciose risultano intaccate dai fronti di
lavorazione delle cave, realizzati prima manualmente, poi con l’uso di esplosivo, quindi con
l’utilizzo di tagli a filo elicoidale, ed ora con la tecnologia del filo diamantato, modellando i
versanti con pareti verticalizzate (tecchie) e ampie gradinate per la coltivazione in bancate alte dai
sei ai dieci metri. Ma la caratteristica dominante è la presenza dei ravaneti, accumuli degli scarti di
lavorazione che hanno riempito nel tempo i versanti e le fosse limitrofe alle cave con la tipica forma
a V arrivando a coprire anche l’originario fondovalle una volta percorso dal torrente Carrione di
Colonnata. L’area storicamente più significativa del comparto produttivo di Gioia è riprodotta in
Tav.1 (estratta dalla carta regionale dell’anno 2000), dove sono individuate le cave della
Scalocchiella, dei Cancelli, del Pianello e del Piastrone.
Tav. 1 – Planimetria cave di Gioia

Gli ingenti volumi detritici, che una volta costituivano un serio problema per aree occupate e costi
di lavorazione aggiuntivi, sono ora oggetto di prelievo e utilizzazione per la produzione di
carbonato di calcio macinato, di ghiaie e materiale per usi civili e industriali. Questa nuova attività
ha consentito di scoprire vaste aree prima ricoperte dai detriti, permettendo il ritrovamento sulla
roccia affiorante degli antichi fronti di scavo, e di rinvenire all’interno dei ravaneti blocchi e
semilavorati abbandonati nel corso delle lavorazioni. E’ stato così possibile ricostruire una precisa
stratigrafia anche dei ravaneti che nei suoi orizzonti deposizionali rispecchia l’evoluzione delle
tecniche di lavorazione, con variazioni nella forma e nelle dimensioni dei clasti, nella quantità e
composizione della matrice, nella giacitura e nella tessitura dei volumi detritici. La presenza poi di
residui carboniosi in particolari livelli di colore scuro, riconoscibili in determinati casi come
paleosuoli, ha consentito la loro datazione assoluta con il 14C permettendo anche una miglior
definizione cronologica dei manufatti rinvenuti al loro interno.
Una sezione completa del ravaneto di Gioia Piastrone, sottostante l’edificio già sito intorno quota
670 m s.l.m., è stata già descritta (3) e vedeva la presenza di almeno tre distinti livelli detritici
corrispondenti il primo al periodo di lavorazione romano, il secondo alla ripresa medioevale fino a
tutto il XIX secolo, il terzo all’avvento del filo elicoidale seguito dal filo diamantato. Mentre al
contatto con la roccia in posto si può ritrovare un orizzonte costituito da sabbie calcaree
d’alterazione e da un paleosuolo limoso scuro, il passaggio tra i primi due livelli detritici è
nettamente marcato dalla presenza di un orizzonte nero, dello spessore di 10-30 cm, contenente
carboni ivi datati con il 14C intorno alla fine del III secolo d.C. (4). Nella Tav.2, che schematizza
l’andamento del ravaneto lungo la Fossa di Gioia, si può notare ancora la discordanza angolare tra i
depositi detritici più antichi e quelli successivi separati dal livello nero, vero e proprio marker
stratigrafico; nella parte inferiore dello stereogramma, al contatto con il substrato marmoreo, sono
poi presenti depositi argillosi residuali, tipici dell’alterazione carsica dei massicci calcarei.

Tav. 2 – Stereogramma ravaneto Fossa di Gioia

I blocchi romani

Se i primi blocchi d’epoca romana sono descritti per l’area di Gioia fin dalla fine dell’800 con gli
studi di L. Bruzza (1870-1884), è dal 1977 con l’opera di E. Dolci che inizia una raccolta
sistematica dei vari reperti che progressivamente vengono rinvenuti durante le lavorazioni di cava.
La necessità di ampliare e approfondire l’area in coltivazione e la possibilità di riutilizzo industriale
dei detriti marmorei ha permesso negli ultimi 30 anni l’asportazione di ingenti volumi dei vecchi
ravaneti, in particolare sul versante settentrionale lungo la Fossa di Gioia, consentendo la messa in
luce degli orizzonti più antichi fino alla scopertura dei vecchi fronti di scavo in roccia (Fig. 1).
Al momento sono più di 60 i blocchi e semilavorati rinvenuti all’interno del ravaneto (Fig. 2) che
riportano sigle incise di epoca romana (notae lapicidinarum), delle quali 10 descritte nel 1908 da C.
Dubois e 30 nei successivi lavori di Dolci. Per l’attività di geologo, prima come tecnico e poi come
funzionario del Comune di Carrara, è da più di 20 anni che chi scrive può seguire l’evolversi delle
lavorazioni delle cave di Gioia, contribuendo al reperimento e alla conservazione dei reperti
archeologici ivi presenti. Tale opportunità ha permesso di fornire informazioni sull’inquadramento
cronologico dei blocchi rinvenuti all’interno del deposito d’epoca romana e di formulare nuove
ipotesi interpretative sulle notae riportate.

Il confronto delle varie carte topografiche a scala di dettaglio rintracciate a partire dal 1888 e delle
planimetrie dei vari piani di coltivazione redatti dal 1980 ad oggi ha permesso la stesura delle
sezioni tracciate in Tav. 1 e raffigurate in Tav. 3, dove si possono osservare i vari stati
d’avanzamento delle lavorazioni degli ultimi 120 anni. La prima sezione A-B è stata condotta in
direzione NO-SE e congiunge la cava di Gioia Piastrone, dove a quota 670 m era ubicato il vecchio
edificio dei servizi, con quelle della Scalocchiella intorno quota 500 m, lungo la Fossa di Gioia. Si
può notare come lo spessore detritico basale, d’età romana, delimitato superiormente dal paleosuolo
nero, risulta già asportato alle quote inferiori e intorno quota 620 dove la roccia in posto è stata
intaccata dalle passate coltivazioni; la porzione superiore è stata invece rimossa recentemente con
la progressiva asportazione dei detriti da Sud verso Nord. La seconda sezione C-D, a direzione N-S,
illustra meglio questa dinamica nell’area di Gioia Piastrone dove, dato lo sviluppo spaziale e
temporale delle antiche coltivazioni, sono stati messi in luce orizzonti del ravaneto romano sempre
più antichi. Se infatti le prime attività d’escavazione romana erano localizzate alle quote inferiori
(Scalocchiella), più facilmente raggiungibili e con minor difficoltà di trasporto, la tecnica di scavo
utilizzata (distacco dello spessore corticale con ripiena al piede), l’incremento delle produzioni e
quindi delle aree di lavorazione, nonché la ricerca di nuove qualità merceologiche marmoree (dal
bianco al bardiglio e al venato), hanno fatto sì che le cave si ampliassero verso l’alto raggiungendo
prima l’area di Gioia Cancelli e poi quella del Piastrone. Chiaramente gli scavi possono esser stati
aperti in continuità verticale e/o laterale all’interno dello stesso giacimento ma anche in
corrispondenza di affioramenti utili dislocati in aree vicine ma distinte, mentre i detriti di
lavorazione delle cave più alte e più recenti possono aver raggiunto e coperto parzialmente le aree
inferiori; in particolare il caratteristico livello nero, che chiude verso l’alto lo spessore d’età romana,
ricopre gli orizzonti detritici sottostanti e quindi antecedenti. Così nello schizzo prospettico già
presentato in Tav.2 si possono notare le variazioni stratigrafiche dei livelli detritici ritrovate non
solo lungo la fossa ma anche lateralmente. Di conseguenza all’interno del ravaneto ogni area è
associata a una propria colonna stratigrafica con una sua particolare sequenza cronologica cui
corrispondono i possibili rinvenimenti. Lo spessore di ravaneto d’età romana in particolare è
composto da orizzonti cronologicamente differenziati, fra loro sovrapposti, che sono stati messi in
luce progressivamente dall’alto verso il basso dai continui avanzamenti di lavorazione. Nelle
sezioni sono stati riportati i fronti di avanzamento del 1888 (cartografia del Corpo delle Miniere),
del 1975 e 2000 (carte regionali), del 2009 (piani di coltivazione); si può notare come lo scavo in
roccia e l’asportazione dei detriti di lavorazione incontrano il livello di ravaneto romano a quote
sempre minori e quindi con età di formazione più antiche. Tale interpretazione rivela poi la
continuazione di questo orizzonte verso le cave della Scalocchiella, con lacune nelle aree di passata
coltivazione al Pianello e ai Cancelli di Gioia (corrispondenti ai rinvenimenti ottocenteschi del
Bruzza).
Tav. 3 – Sezioni ravaneto

Per distinguere le varie fasi temporali di lavorazione romana da associare ai blocchi rinvenuti, la
conoscenza stratigrafica dei depositi può esser utilmente correlata alle diverse caratteristiche
tipologiche dei blocchi e dei semilavorati stessi, quali le dimensioni medie, le tecniche di
riquadratura, e in particolare lo studio delle iscrizioni presenti. In tal senso la comparazione di 66
notae lapicidinarum conosciute e la collocazione spaziale dell’area del loro rinvenimento permette
di individuare almeno tre gruppi distinti correlati a differenti periodi storici. Nelle tabelle seguenti
vengono riportati i dati descrittivi delle notae, secondo i tre raggruppamenti; i numeri finali si
riferiscono al Corpus Notae Lapicidinarum Lunensis compilato da Dolci, mentre la sigla D rimanda
alla registrazione del Dubois.

Il primo gruppo (Tab.1) comprende 18 blocchi caratterizzati da dimensioni in genere modeste, in


particolare per le altezze mediamente sui 40-50 cm, con facce interamente riquadrate mediante
scalpellatura a subbia media, ben individuabili per il tipo di sigla incisa su una testa del blocco.

Le notae infatti riportano una “N” in capitale maiuscolo seguita da numerazione latina varia e dalle
lettere minuscole “dg” (Fig. 3). Se la “N” già dal Bruzza è stata interpretata come simbolo del
numero di spedizione, più oscura appare la spiegazione del “dg” finale. In un primo tempo infatti le
due lettere erano state interpretate come un delta e un sigma, in caratteri greci, che potevano esser
sciolte in “deus silvanus”. I successivi ritrovamenti hanno chiarito la reale trascrizione in “dg”;
Dolci, considerando i caratteri d’origine greca, ritiene che i blocchi possano appartenere al primo
periodo di lavorazione romana, quando ancora forte era l’influenza in cava della più esperta e
qualificata manovalanza greca, mentre il “dg” rimanderebbe a “digma”, termine grecanico con
significato di “campionamento”. I blocchi apparterrebbero quindi a un tipo di produzione
particolare destinati a una mostra per la vendita in piazza, fuori dall’ambito di cava. In realtà, tranne
due blocchi rinvenuti alle quote inferiori, probabilmente perduti durante il trasporto a valle, tutti gli
altri blocchi sono emersi dai detriti della cava Gioia Piastrone nell’orizzonte romano superiore
asportato intorno a q.650 negli anni 1994-96, poi ripreso lateralmente tra il 2004 e il 2007. Anche
la forma e il ductus delle lettere “dg” rimanda ai caratteri della “minuscola corsiva”, affermatasi in
campo amministrativo alla fine del III secolo d.C. e precedente l’affermarsi della scrittura onciale
(5). Curiosamente la lettera minuscola “d” ancora nel 1846 veniva riportata in carattere onciale su
un’iscrizione rupestre rinvenuta nella cava di Belgia (6). Da notare ancora come in due casi l’”N” è
sostituita dalla sigla “Loc”, ancora in caratteri capitali; sembra evidente l’analogo significato delle
due sigle mentre, dato anche l’ampio intervallo della correlata numerazione presente sui blocchi (da
16 a 114), non pare verosimile lo scioglimento in “Locus” che rimanderebbe a un’identificazione
dei differenti siti d’estrazione della cava. Per quanto riguarda nuove ipotesi interpretative del “Loc”
e del “dg” si rimanda alla successiva discussione sul secondo gruppo di blocchi.

Il secondo gruppo (Tab. 2) comprende 26 blocchi dei quali 5 descritti da Dubois, attribuiti alle cave
di Gioia, e 21 rinvenuti nella sola cava Gioia Piastrone tra la fine del 2003 e il 2010. Oltre
all’uniformità dell’orizzonte di ritrovamento, sottostante il precedente, sono caratterizzati dalle
maggiori dimensioni, con pesi anche superiori alle 30 ton, altezze medie di 80-100 cm, e dalla
forma talvolta gradinata (se non più complessa in qualche caso), testimonianti il raggiungimento di
un’elevata capacità tecnica di produzione. Le notae, più estese e in molti casi raddoppiate,
utilizzano caratteri capitali maiuscoli, anche con legature e nessi, fornendo utili informazioni sulla
conduzione e sulla proprietà della cava; in particolare un blocco (n.78/143) riporta per esteso il
nome romano del sito estrattivo, Monte Gamiano, e il nominativo del responsabile dei tagli
(“CAESURA”) e della riquadratura (“POLITURA”), Iulius Celsus (Fig. 4). Da notare l’utilizzo del
“DE” iniziale ad indicare il sito di provenienza e dell’”EX” per l’attribuzione delle lavorazioni; la
stessa nota si conclude con “LOCO V”. Un secondo blocco riporta ancora la dicitura “IULI
CELSI” e l’identificazione del blocco in “LOC VIII”, mentre altri tre blocchi riportano la
denominazione della cava con le sigle “DE MONTE GA”, “DE MO GA” e “DE MG”; per le
operazioni di escavazione (“CAESUR” e “CAE”) e riquadratura (“POLI”) si trovano invece i
nominativi di Hippa e Aurelio.
L’uso del “DE” si ritrova in altri 10 blocchi associato alla sigla, in nesso, “IP” (Fig.5); non
possiamo ancora sapere se IP identifica una diversa area estrattiva o, più verosimilmente, il
nominativo del responsabile delle lavorazioni, magari lo stesso Hippa prima menzionato. Da notare
comunque la variabilità nei modi di iscrivere il DE, in forma estesa o in legamento con la E
anteposta o con la D rovesciata. Si deve ricordare che la sigla DE, riportata in blocchi di marmo
d’epoca romana non lunensi, è stata interpretata anche come indicazione del depositum di
provenienza. In questo gruppo di incisioni la nota continua poi con una numerazione e una lettera
(A, B, C) che individuano un progressivo di produzione del blocco e forse la parte di cava
(brachium) di estrazione; in due casi sulla stessa faccia del blocco si ritrova una seconda nota
(“ER CAES”), mentre in quattro casi il blocco presenta un’ulteriore nota su una faccia di costa, in
genere “Tb Loc” seguita da un numero (Fig.6). Si fa presente che queste ultime sigle si ritrovano su
altri blocchi provenienti da Gioia descritti dal Bruzza e su blocchi e semilavorati rinvenuti nell’altro
bacino di Fantiscritti (2) (7). La presenza di più notae sullo stesso blocco, e in particolare le sigle
“ER CAE S” e “Tb Loc…”, era stata spiegata già dal Bruzza con il passaggio di proprietà della
cava, intorno al 22 d.C., dal patrimonio pubblico della colonia di Luni a quello imperiale;
determinati blocchi, già riquadrati e marcati da Tiburtinus (Tb), giacenti ancora in cava sarebbero
stati successivamente siglati dal servo imperiale Eros (Erotis Caesaris Servi) con eventuale nuova
numerazione. Tale ricostruzione appare però quanto meno discutibile considerati i numerosi blocchi
rinvenuti in livelli stratigrafici e siti diversi (presente anche nella produzione di Fantiscritti).
Pensabene (8) ha poi descritto un’analoga sigla ER in un elemento marmoreo lunense utilizzato a
Roma per la ricostruzione del tempio di Apollo Sosiano tra il 32 e il 20 a.C. Più verosimile quindi è
pensare a una prima numerazione legata alla produzione, scolpita sulla testa del blocco, che
identifica la provenienza e/o la conduzione (ad esempio DE IP …. A), affiancata eventualmente
dalla sigla che evidenzia il controllo della concessione estrattiva da parte della proprietà imperiale
(ER CAES); solo successivamente il blocco sarebbe stato collaudato e registrato per la spedizione
con l’incisione sulla costa (Tb Loc ….). Una tale serie di marcature corrisponde a quanto oggi
avviene ancora in cava dove alla numerazione progressiva segnata dall’agente dell’esercente segue
la sigla del concessionario o del compratore. In questo caso la sigla Loc, così come si è visto con N
nel successivo periodo storico, identifica il numero di collaudo/acquisizione, significando non Loci
ma forse Locato, cioè allocato, aggiudicato; TB potrebbe così rimandare a un responsabile del
controllo qualitativo di produzione come Tiburtinus ma anche esser sciolto in Tabula, cioè registro,
archivio. Questa nota, di solito incisa con ductus più regolare su un lato del blocco (non in testa
come invece le sigle di produzione) e presente solo su un numero limitato di blocchi, potrebbe
identificare quindi il numero di acquisizione del blocco da parte del fisco imperiale. Anche la sigla
ER CAES, data l’ampiezza spaziale e temporale del suo utilizzo sui blocchi rinvenuti, pur
mantenendo lo stesso significato, potrebbe esser interpretata come ex ratione Caesaris (dal
patrimonio dell’imperatore) o ancora derivare da erutum Caesaris (estratto, escavato per
l’imperatore), e non rimandare al nominativo di un unico delegato imperiale. L’utilizzo della sigla L
o Loc, seguita da una numerazione in genere elevata, viene riportato anche per i blocchi di
provenienza mediterranea d’età imperiale rinvenuti nella Statio Marmorum di Ostia (9) per
significare la numerazione del successivo controllo sul materiale lapideo.
Altri otto blocchi, di più recente restituzione, per dimensioni e fattezze similari al gruppo
precedente, sono invece siglati con “APR” seguito da numerazione (tra 5 e 95) e dalle lettere “C” o
“B” (Fig. 7). In un caso, su una costa, viene incisa anche la sigla “Tb Loc ….”. Rimane al momento
di difficile interpretazione la sigla APR; da considerare che la “R” in ben quattro casi si presenta
con l’asta verticale prolungata verso l’alto (significando forse una I in nesso) mentre in un solo caso
è sormontata da un tondino. Anche la lettera “A” in due casi viene incisa con progressiva
semplificazione. Possibile è il suo scioglimento in Augusti Procurator che attesterebbe una
conduzione diretta della cava da parte del governo imperiale; da notare ancora la rassomiglianza
con la sigla APRL (con P e R in nesso) ritrovata, seppur con diversa grafia, su un altro blocco di
Gioia e recentemente su un blocco dello Strinato nel bacino di Fantiscritti (Fig. 8), per la quale è
possibile lo scioglimento in Augusti Procurator Lapidicinarum. Per quanto riguarda la lettera che
segue la numerazione del blocco si osserva che in altri siti estrattivi d’epoca romana il brachium di
cava viene identificato da un numerale; sono possibili quindi altre spiegazioni tra le quali ad
esempio un riferimento merceologico o un’ulteriore selezione per partita produttiva. Lettere finali
analoghe si ritrovano nei blocchi provenienti dalle cave della Facciata (A, B, C, D), dello Strinato
(A, B, C, D, E, G), della Tagliata (A, D), del Trugiano (B, C), di Fantiscritti (U, V, S), nonché nei
blocchi non lunensi rinvenuti a Ostia (B, C, G). Interessante sarà descrivere in futuro per ciascun
blocco oltre che le dimensioni anche la qualità e le misure utili per la segagione (in caso di
gradinatura), al fine di individuare possibili correlazioni da quanto riportato nelle notae.
Da notare ancora come sono stati trovati nello stesso orizzonte stratigrafico la serie di blocchi
marcati IP e APR; mentre i primi risulterebbero escavati in una cava imperiale data in gestione a un
concessionario (data la marcatura aggiuntiva ER CAES), i secondi proverrebbero da una coeva
cava condotta direttamente dalla proprietà imperiale. In entrambi i casi comunque parte della
produzione poteva essere selezionata e annotata nei registri governativi (Tb Loc), forse per la
spedizione alla Statio Marmorum di Roma.
Riprendendo poi la discussione sulla sigla “dg” presente sui blocchi del primo gruppo
corrispondenti a un periodo storico successivo, altra possibile ipotesi interpretativa è lo
scioglimento in de gamiano (indicazione della cava di provenienza) con ulteriore contrazione
dell’acronimo “DE MG” già rilevato in un blocco del periodo precedente. Comunque solo lo studio
e il confronto di nuovi futuri ritrovamenti o di sigle coeve ritrovate in altri siti estrattivi potranno
fornire indicazioni univoche per l’interpretazione di queste notae.
Il terzo gruppo (Tab. 3) comprende 22 blocchi, dalle dimensioni e forme intermedie tra quelli già
esaminati, rinvenuti in anni passati nella cava di Scalocchiella (10) a quote inferiori, o più
recentemente nella cava di Gioia Cancelli e Gioia Piastrone (dal 2008) con l’asportazione dei livelli
più profondi del ravaneto.

Otto di questi riportano la tipica sigla “COL”, con la L incisa dentro la O (Fig. 9), già ritrovata nella
cava del Polvaccio e dal chiaro significato di “Colonia”. In qualche caso si ritrova una particolare
sigla in nesso sciolta in Hilarus, mentre in altri casi compare, sempre in nesso, un “TH”. Ancora tre
blocchi recentemente estratti nel ravaneto di Gioia Piastrone mostrano una Q con all’interno una T
(Fig. 10). Siamo in presenza di notae, dal ductus più irregolare per forma e dimensioni, indicanti la
proprietà o il conduttore, il numero identificativo e talvolta il settore di produzione della cava, non
interpretabili con certezza; in qualche caso si ritrovano anche caratteri di derivazione greca e/o
simboli non conosciuti. Ricordando come già il Bruzza riteneva possibili forme diverse di gestione
delle cave (conduzione diretta o in affitto di agri coloniali, ma anche proprietari privati), si rimanda
ai lavori di Dolci per le possibili ipotesi interpretative; ci preme comunque sottolineare la loro
uniformità per giacitura stratigrafica e tipologia di notae che rimanda al primo periodo
d’escavazione romana, databile al I secolo a.C., quando le cave appartenevano prevalentemente alla
colonia di Luni. Uno dei blocchi marcati “QT” riporta comunque, come già citato, anche una sigla
“APR L”. Il riferimento all’”Augusti Procurator Lapidicinarum” daterebbe quindi i materiali
marcati “QT” alla fine del I secolo a.C., durante il passaggio delle cave dal fisco pubblico alla
proprietà imperiale.

La successione stratigrafica così delineata per le cave di Gioia indica quindi un primo periodo
d’escavazione databile al I secolo a.C. (probabilmente dopo l’89 a.C.), caratterizzato dapprima dalla
proprietà pubblica delle cave (colonia di Luni), con conduzione diretta ma anche tramite
affidamento a privati, e poi dalla confisca imperiale. Nel I e II sec. d.C. segue un secondo periodo di
maggior sviluppo produttivo con realizzazione di blocchi, semilavorati e volumi architettonici
anche di grandi dimensioni. La gestione delle cave da parte del patrimonio imperiale poteva essere
affiancata o sostituita dalla conduzione di concessionari privati, comunque sottoposti al controllo di
un’efficiente organizzazione addetta alla selezione e spedizione del materiale richiesto. Nel III sec.
d.C., e in particolare dopo il 220 d.C., si sviluppa poi in Gioia il terzo periodo d’escavazione
romana, caratterizzato da una inferiore qualità produttiva dovuta anche alle differenti condizioni di
mercato. In questo periodo infatti a Roma e nei maggiori centri urbani risulta predominante
l’utilizzo di marmi orientali e in particolare del Proconneso, con frequente riutilizzo dei materiali di
pregio già presenti (8); la produzione di blocchi di minor dimensione sarebbe così destinata
all’utilizzo in lastre per pavimentazione e rivestimento a prevalente uso privato e non più per
l’edilizia pubblica. Non si può comunque escludere una possibile parziale ripresa delle lavorazioni
tra il IV e il V secolo d.C., dopo la stasi lavorativa di fine III secolo, quando il marmo lunense, in
particolare nelle qualità del Bianco uniforme o dello Statuario, viene ancora utilizzato a Roma per
costruzioni religiose (basiliche cristiane) e semilavorati di minori dimensioni (capitelli, basi, rocchi
di colonne).

La fucina di Scalocchiella

Nella parte inferiore del giacimento, in località Scalocchiella, nell’ottobre 2003 è stata scoperta una
vasta sezione del ravaneto che ricopre la Fossa di Gioia. L’importanza archeologica della località
era già conosciuta per la presenza di scavi d’epoca romana intorno quota 530 m s.l.m. e il
rinvenimento di blocchi e semilavorati di pari età, descritti da Dolci (10). La roccia in posto,
costituita da marmo bianco di buona qualità, risulta carsificata e coperta da argille residuali rosse. Il
livello detritico inferiore, rilevato tra quota 540 e 499 m s.l.m., mostra alla base scaglie marmoree
scure (bardiglio) seguite da detriti bianchi, a varie pezzature, e da due orizzonti neri, di spessore
irregolare, separati da un intervallo di scaglie centimetriche orientate (Fig. 11). I due orizzonti, neri
per l’abbondante presenza di carboni, a matrice sabbiosa con screziature argillose rossastre,
contengono nella sezione più alta abbondanti scorie di fusione costituite in parte da elementi di
colore scuro, pesanti per l’alto contenuto in ferro, e in parte da residui più chiari, leggeri e porosi
con croste vetrose silicatiche di colore verde (Fig. 12); l’analisi in fluorescenza a raggi X per la
determinazione della composizione chimica elementare (11) è riportata nella sottostante tabella:
Tabella 4

Analisi chimica scorie Scalocchiella

Ossidi vetro verde scoria ferrosa

perd. calc. 8.50 0.78


Na2O 0.85 0.07
MgO 2.46 3.36
Al2O3 10.94 3.84
SiO2 59.08 12.94
P2O5 0.38 0.72
K2O 2.94 0.35
CaO 5.42 9.86
TiO2 0.58 0.23
MnO 0.17 0.14
Fe2O3 8.68 67.71

Oltre a resti di utensili di lavorazione in ferro (punte, formelle, chiodi) in questi orizzonti sono stati
trovati numerosi frammenti ceramici e laterizi. Parte dei frammenti ceramici sono riconoscibili
come terre sigillate tardo-italiche del I secolo d.C. appartenenti in particolare a un piatto di circa 35
cm di diametro, con bordo carenato e decorato alto 3 cm (Fig. 13), ad una coppa marcata “ZOIL”,
sigillo di fabbricazione già conosciuto per l’area pisana (12), e a un piccolo vassoio con piede alto 3
cm (Fig. 14). E’ questo il primo rinvenimento di vasellame romano di un certo pregio all’interno dei
bacini marmiferi carraresi, attestante l’importanza del sito estrattivo.
Sopra questo livello nero giace uno spessore di 70-80 cm di detriti grossolani contenente residui di
lavorazione d’epoca romana. A chiusura dell’orizzonte più antico si rinviene un successivo
orizzonte scuro, costituito da scaglie marmoree con spalmature esterne nere, corrispondente al
passaggio al secondo livello detritico d’età post-romana.
L’analisi delle scorie di fusione accerta la presenza di un’officina metallurgica, con forni fusori e
fucine, idonea alla preparazione degli utensili metallici necessari alla lavorazione in cava per
l’intera area estrattiva di Gioia. Le due tipologie di scorie sono del tutto analoghe a quelle
conosciute per i forni fusori etruschi di Populonia e Follonica (13). Come noto l’antica lavorazione
del ferro prevedeva un primo trattamento di cernita e frantumazione seguito dall’arrostimento dei
minerali utili in appositi forni che, raggiungendo temperature di 1100-1300 °C, ottenevano per
riduzione la produzione di spugne di ferro dolce (blume), ancora impure, e di scorie (formatesi dalla
fusione della ganga sterile) contenenti ancora significative percentuali in ferro (Fig. 15). Prima della
forgiatura la bluma doveva essere purificata tramite ulteriore riscaldamento e successive
martellature che riuscivano a separare le scorie ancora presenti. I forni, di dimensione metrica,
venivano costruiti con materiali refrattari e rivestiti d’argilla, per essere poi distrutti alla fine di ogni
singolo processo produttivo (Fig. 16); sulle pareti interne, per reazione con la carica, si formavano
scorie vetrose, porose, a prevalente componente silicatica. Per l’accensione venivano caricati strati
alternati di minerale, arricchito tramite cernita manuale, e carbone che aveva funzione di
combustibile e riducente, ottenuto da legname selezionato. Nel deposito della Scalocchiella oltre
alla presenza in sito dell’argilla e al ritrovamento di abbondanti resti di laterizi, tra i quali anche
concotti, sono stati rinvenuti frammenti di rocce silicee (quarziti e filladi) non presenti in loco ma
affioranti in area apuana; possibile poi è l’utilizzo di rocce dolomitiche, refrattarie, provenienti dalla
vicina formazione dei Grezzoni. E’ plausibile l’utilizzo, per la carica del forno, di minerali
provenienti da giacimenti ferrosi apuani e non elbani che si caratterizzano per la presenza
dell’ematite, qui non rinvenuta; future analisi metallografiche potrebbero fornire precise indicazioni
per individuare i giacimenti di provenienza. Sui carboni è stata effettuata l’identificazione della
specie legnosa di appartenenza mediante osservazione al microscopio elettronico di sezioni
diagnostiche utilizzabili (14). La struttura microanatomica, osservata dopo trattamento con gesso
(Fig. 17), per disposizione dei pori e del parenchima apotracheale risulta analoga a quella del
carpino bianco (Carpinus betulus). Nelle Alpi Apuane attualmente il carpino bianco, a differenza
del carpino nero diffuso nell’aree di cava, è presente nella fascia zonale con vegetazione a cerreto-
carpineto che sui versanti esposti a mare si attesta oltre i 1000 m. Il suo ritrovamento nel ravaneto a
quote nettamente inferiori può quindi significare un trasporto da aree boschive più distanti,
giustificato dalla migliore qualità della legna rispetto a quella presente nelle vicinanze, ma anche
più probabilmente un assetto climatico diverso dall’attuale con temperature più rigide che
consentivano la crescita del carpino bianco a quote più basse. Anche in questo caso ulteriori studi
antracologici, estesi ai carboni presenti nei vari paleosuoli d’età diversa conservati all’interno dei
ravaneti, potrebbero fornire nuovi elementi di conoscenza biologica e climatica del nostro territorio.

Bisogna ancora ricordare che l’unica attestazione della presenza di antiche scorie fusorie nell’area
marmifera carrarese è di Saverio Salvioni (15) che, nella cronaca di una gita alle cave nel periodo
1812-13, ricorda come a Canalgrande “vedesi un incavo nella terra ove si trova della schiuma di
fucina ed una terra bruciata e nera come quella che trovasi attorno alle ferriere. E’ tradizione che
quivi fosse una fucina nella quale gli antichi scavatori ritenutivi da’ Romani temperavano i loro
ferri”. Analoghi “segni suddetti di fucina” vengono ancora da lui segnalati in località Finestra
(vicino a Fantiscritti) e al Piastrone, corrispondente quindi al livello qui descritto. Purtroppo le
“Notizie” del Salvioni sulle cave, da cui sono tratti i brani trascritti dallo Sforza, non sono state più
rintracciate privandoci di informazioni che ancora una volta si sono rivelate attendibili e precise.

Diversamente dal livello nero superiore di Fantiscritti, riconosciuto come un paleosuolo d’età
medievale e formatosi durante la lunga stasi lavorativa seguita al periodo d’attività romana, il
livello nero intermedio di Scalocchiella (quota 530 m), databile intorno al I secolo d.C., si viene a
formare per dilavamento e deposito lungo versante dei residui di fusione di una vicina officina
metallurgica; chiaramente le scorie, più pesanti, si ritrovano superiormente insieme ai carboni e ai
frammenti di laterizi, mentre più in basso vengono rinvenuti i soli carboni, più leggeri. Questa
diversa tipologia di livello nero è collegata quindi al progressivo avanzamento verso l’alto delle
lavorazioni con successivo sversamento sui sottostanti ravaneti dei residui carboniosi prodotti per la
realizzazione o perlomeno per la forgiatura degli indispensabili utensili di ferro. Di conseguenza
questo livello nero può essere discontinuo, per sviluppo e potenza, e diacronico, con età sempre più
recenti verso l’alto, datandosi alla fine del III secolo a Gioia Piastrone intorno quota 630 m; la
datazione dei suoi vari livelli può fornire quindi precise indicazioni per l’individuazione dei vari
orizzonti detritici d’epoca romana.

La marca di Gioia Oliceto

Nel maggio del 2005 a seguito di lavori manutentivi della strada di accesso alle cave di Gioia, sul
versante a monte del tornante a quota 460 m s.l.m., sono state messe in luce in un affioramento di
marmo nuvolato tracce di antiche lavorazioni tra le quali una marca incisa su uno specchio di roccia
precedentemente regolarizzato mediante scalpellatura (Fig. 18). L’iscrizione, su due righe, con
lettere capitali in parte legate e dimensioni di circa 25 x 50 cm, veniva trascritta (16) in “AD M / I”.
Il sito di rinvenimento e la tipologia dell’incisione evidenziavano l’analogia con le notae rilevate da
Dolci (2a) nella cava di Gioia Oliceto, attribuite al periodo romano coloniale.
L’attenta osservazione di un documento del 1821 conservato presso gli uffici comunali del Settore
Marmo ha però recentemente permesso di chiarire l’esatta attribuzione dell’incisione fornendo una
diversa interpretazione delle lavorazioni rinvenute nel sito di Gioia Oliceto.

Il documento ottocentesco è un disegno, delle dimensioni di cm 58.5 x 44.5, realizzato da Giacomo


Fabbricotti in data 12 maggio 1821 per una vertenza sui confini di cava, intitolato “Prospetto del
Monte di Gioja detto L’Oliceto, posto nella Giurisdizione di Collonata / Fatto il Maggio 1821”
(Fig. 19). Nello schizzo, acquerellato, vengono segnalate numerose marche di cava e i limiti di
concessione (in rosso) della cava “controversa”, nonché riferimenti geografici per la precisa
localizzazione del sito. A lato del disegno viene poi riportata una dettagliata legenda che offre una
precisa spiegazione delle marche riprodotte.

Tav.4

Si può intanto osservare che il toponimo Oliceto, così come nella “Pianta Topografica delle Cave di
Carrara” di Carlo Magenta del 1871, indica l’intera area delle cave di Gioia; con la successiva carta
del Fossen nel 1890 si distinguono invece più Regioni (Scalocchiella, Gioia, Piastrone) ma non
viene più citato Oliceto. La controversia riguarda in particolare una cava ubicata ad est del Fosso di
Gioia concessa in affitto a tali Pelliccia e Del Frate e confinante con le proprietà di Andrea Del
Medico e Antonio Del Medico. Si ritiene opportuno riportare di seguito una riproduzione
modificata del disegno (Tav. 4) che evidenzia i punti notevoli riportati in legenda e le altre
indicazioni geografiche, nonché una trascrizione integrale del testo della legenda (Tab. 5).

Si nota la grande importanza che all’epoca avevano le marche di cava per stabilire la titolarità delle
aree estrattive e la cura del Fabbricotti nella loro ricerca e identificazione in sito. Spesso insieme
alla sigla del cavatore e/o proprietario veniva incisa una croce che poteva stabilire la linea di
confine; nel caso della cava di Pelliccia e Del Frate la concessione risultava avere ampiezza di 90
braccia tra la croce della marca 7 e la croce della marca 8 che a sua volta distava 50 braccia dalla
croce della marca 1.
Tabella 5: trascrizione della legenda

Tavola Dimostrativa delle Diverse Possidenze di Cave


Situate in Gioja nel Monte detto L’Oliceto

N.1 Marca del Sig. Andrea del Medico, quale si riconosce essere
di fresca incisione
2 Altra marca del sudetto del Medico Antichissima
posta al di sopra della Cava controversa ove lavora il Sud.o
3 Altra marca antica lateralme posta alla suda cava
4 Marca che dicesi di Domeo Moisè, antica nella quale ri=
levasi il D. più piccolo e di stile più antico del M.
5 Marche Antiche con croce in mezzo dimostranti il confine
fra il Sig. Antonio del Medico ed il Sig. Andrea del Medo
6 Marca di Francesco Catani esistente nella cava concessa dalla Vici=
nanza di Colonata in Livello al Sig. Anda del Medico, in forza di rescrit=
to sovrano del 10 settembre 1764
7 Punto di confine con marca e croce in mezzo degli agri concessi dalla
Comune a Pelliccia e del Frate, dalla parte verso Colonata
8 Altro punto di confine con croce e marca de sudo Pelliccia e del Frate
lateralmente posto alli sudi agri concessi verso Massa qual mar=
ca e croce e rimasta soterata dallo spurgo della cava controversa
9 Cava di Michelangiolo Micheli, in oggi Corsi di Colonata
10 Cava di Domenico Magnani, lavorata in oggi da Batista
Gemignani e Battaglia
11 Cava lavorata da Pantaleone del Nero, situata di fronte alla cava
controversa verso Bedizzano

Carrara 12 Maggio 1821

Particolare attenzione rivestono le marche di Andrea e Antonio Del Medico, discendenti della
famosa famiglia che tanta importanza ha avuto nella storia del marmo a Carrara. Nell’albero
genealogico dei Del Medico (17) i nomi Andrea e Antonio sono presenti in più periodi storici, dal
‘600 a tutto l’800; dalle indicazioni del Fabbricotti si può comunque dedurre una loro probabile
attribuzione alla seconda metà del Settecento. Come si può vedere nel particolare di Fig. 20 la
marca di Andrea, riportata nel disegno in rosso, è costituita da una “A” e una “M”, in capitale
maiuscolo, con interposta una “D” di grandezza inferiore, con asta verticale prolungata e sbarrata a
forma di croce. La marca di Antonio è invece realizzata con una “A” e una “D” in nesso seguite da
una “M”, tutte a caratteri capitali maiuscoli di ugual dimensione. E’ evidente in questo caso la
perfetta corrispondenza con l’incisione rinvenuta nel 2005 sulla via di arroccamento a q.460;
osservandola più attentamente si può poi notare che l’incisione nella seconda riga, già interpretata
come “I”, in realtà è una croce con piede inferiore. Questo sito di rinvenimento non sembra
comunque corrispondere con una delle marche riportate nella carta del 1821, ormai scomparse nel
progredire degli scavi di coltivazione.
E’ lecito a questo punto rivedere sotto diversa luce anche le altre sigle rinvenute in Gioia Oliceto e
conservate come calchi in gesso presso il locale Museo del Marmo, osservando l’analogia con le
marche di Andrea Del Medico. In effetti due delle incisioni citate (Corpus Notae Lapicidinarum
Lunensi n.1 e n.2) , pur se erose e solcate variamente dall’acqua, possono essere trascritte come “A
AD M”, con la D più piccola, in nesso e sormontata da croce (Fig. 21); il riferimento potrebbe
essere ad Antonio e Andrea Del Medico, in questo caso titolari entrambi del sito estrattivo. Rimane
sconosciuto invece il nominativo a cui rimanda la sigla “AV S” (C. N. L. L. n.3), riferibile
comunque per tipologia di incisione allo stesso periodo delle precedenti.

Conclusioni

Facendo seguito a quanto descritto in un precedente articolo (6), che riportava numerose scritte
scolpite nei secoli scorsi sulle pareti rocciose delle cave di Carrara, si vuole qui presentare una
nuova incisione ottocentesca emersa in località Zucconi di Gioia (intorno quota 680 m s.l.m.) dopo
l’asportazione del ravaneto che copriva una vecchia cava di bardiglio (Fig. 22). Su una parete
marmorea realizzata con l’utilizzo di esplosivo (si può notare il foro di mina soprastante) un
anonimo cavatore ha inciso la frase “Chi si sbasserà fortuna / troverà / Marzo L 1899”. E’ evidente
l’augurio rivolto ai futuri escavatori che fa affidamento al probabile rinvenimento di ammassi
rocciosi sempre meno fratturati sottostanti il cappellaccio di monte.
Ma l’augurio può essere esteso anche alle future ricerche che potranno essere condotte con la
progressiva asportazione verso il basso del ravaneto della Fossa di Gioia. Importante sarà comunque
approfondire e coordinare i vari possibili approcci di studio, da quello archeologico al geologico,
dallo storico all’epigrafico, dal biologico al mineralogico, condividendo e analizzando insieme i dati
rilevati dai singoli ricercatori per una comprensione globale e univoca dello sviluppo delle attività
estrattive nelle cave di Gioia e di Carrara.

Bibliografia e note

(1) BRUZZA L. (1884) – Sui marmi lunensi, in Dissertazioni della Pontificia Accademia
Romana di Archeologia, II
(2) DOLCI E. :
a) (2003) – Archeologia Apuana, Carrara;
b) (2005) – Due epigrafi romane dalle cave lunensi di Carrara, in Atti e Memorie della
Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, XXVII;
c) (2006) – Ancora novità epigrafiche dalle cave lunensi di Carrara, , in Atti e Memorie
della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, XXVIII
(3) BRUSCHI G. – CRISCUOLO A. – ZANCHETTA G. (2003) – Stratigrafia delle discariche di
detrito dei bacini marmiferi di Carrara. I ravaneti antichi di Carbonera, Gioia e Scalocchiella, in
Acta Apuana, II
(4) BRUSCHI G. in verbis
(5) PETRUCCI A. (1992) – Breve storia della scrittura latina, Bugatto Libri
(6) CRISCUOLO A. – FERRI G. – SALSI R. (2008) – Sulle iscrizioni di Fantiscritti, in Atti e
Memorie della Accademia Aruntica di Carrara, XIII
(7) BARTELLETTI A. (2003) – Evidenze epigrafiche e di tecnica produttiva di un blocco
riquadrato di marmo lunense, in Acta Apuana, II
(8) PENSABENE P. (1998) – Il fenomeno del marmo nella Roma tardo-repubblicana e
imperiale, in Marmi Antichi II – Cave e tecnica di lavorazione, provenienze e distribuzione,
L’Erma di Bretschneider
(9) BACCINI LEOTARDI P. (1979) – Marmi di cava rinvenuti ad Ostia e considerazioni sul
commercio dei marmi in età romana, in Scavi di Ostia X, Roma
(10) DOLCI E. (1998) – Una cava lunense scoperta di recente a Carrara: il sito della
Scalocchiella, in Quaderni del Centro Studi Lunense, 4
(11) Analisi chimica eseguita a cura del prof. Paolo Orlandi presso il Dipartimento di Scienze della
Terra, Università di Pisa
(12) PARIBENI E. in verbis
(13) ARANGUREN B. et alii (2004) – Attività metallurgica negli insediamenti costieri
dell’Etruria centrale fra VI e V secolo a.C. Nuovi dati di scavo, in L’artisanat metallurgique dans
les societes anciennes en Mediterranee occidentale, Ecole Francaise de Rome, 332
(14) Analisi antracologica esguita dalla Dott.sa Maria Cleofe Stefanini presso il Laboratorio
Pisano di Dendrocronologia, Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Pisa
(15) SFORZA G. (1922) – Saverio Salvioni e le sue vedute delle cave di Carrara, in Giornale
Storico della Lunigiana, 12
(16) BARTELLETTI A. – CRISCUOLO A. (2004) – Ipotesi intorno ad iscrizioni romane
recentemente scoperte nelle cave di Carrara, in Acta Apuana, III
(17) DELLA PINA M. (1996) – La famiglia Del Medico: cavatori e mercanti a Carrara nell’età
moderna, Alaus Carrara

Didascalia delle figure

1 - Fronte di scavo romano


2 - Rinvenimento di blocco romano all’interno del ravaneto
3 - Blocco con sigla del tardo impero
4 - Blocco con sigla del periodo imperiale (DE MONTE GAMIANO)
5 - Blocco con sigla del periodo imperiale (DE IP)
6 - Blocco con sigla del periodo imperiale (Tb Loc)
7 - Blocco con sigla del periodo imperiale (APR)
8 - Blocco con sigla rinvenuto allo Strinato
9 - Blocco con sigla del periodo tardo repubblicano (Col)
10 - Blocco con sigla del periodo tardo repubblicano (Qt)
11 - Scalocchiella: orizzonte nero
12 - Scorie di fusione
13 - Terra sigillata: frammenti e disegno ricostruttivo del piatto
14 - Terra sigillata: frammento di vassoio
15 - Schema forno fusorio
16 - Ricostruzione forni fusori
17 - Struttura microanatomica del carbone (ingrandimento 20X; in evidenza anello di accrescimento)
18 - Marca di Gioia Oliceto
19 - Prospetto Monte di Gioja, 1821
20 - Particolare marche Del Medico
21 - Marca Museo del Marmo
22 - Scritta Zucconi di Gioia
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