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Gli attori di teatro sono personalità più sfuggenti di altre: lasciano dietro di sé una scia di

commenti, parole, evocazioni, ricordi e nessuna traccia concreta del rito compiuto sul palco
con la complicità del pubblico. Seppure preziose, le registrazioni audio e video risultano essere
labili e bugiarde, e non sono comparabili all’esperienza dal vivo. Risulta impossibile rievocare la
magia che scaturisce dall’energia magnetica scatenata dall’azione sulla scena. Allo stesso tempo, gli
artisti di teatro, incantati e affranti dalla difficoltà di lasciare il proprio segno nella storia di un’arte
piena di voragini e rattoppi, spesso ci lasciano autobiografie quasi agiografiche (esaltano la
personalità), biografie inattendibili, ritratti truccati e in posa.

La storia del teatro, sostengono alcuni, e in particolar modo la storia degli attori, altro non può
essere che biografia, o, al massimo, storia sociale, può cioè soltanto raccontare la vita degli attori,
descrivere la loro collocazione nella società e la struttura di quella microsocietà che è costituita
dalla corporazione o dalla compagnia. Può, talvolta, quando siano rimasti dei loro scritti, analizzare
il pensiero dell’attore sul teatro, la sua poetica, ma non potrà mai parlare dell’attore in quanto attore,
dell’attore che recita: il sapore di un gesto, il valore musicale di un’intonazione, il fascino di una
presenza, tutto questo è per sempre perduto − tanto ovvio che l’assenza è parsa quasi costituire la
sostanza stessa del teatro. Eppure se è vero che l’opera degli attori del passato è perduta, è
altrettanto vero che qualche traccia è rimasta. La personalità artistica di un attore, una sua
interpretazione, o un frammento di essa esiste per noi soltanto in quanto riflesso o, nel migliore dei
casi, come mosaico di riflessi. Lo specchio essendo l’impressione dei contemporanei che lo
descrivono. E si tratta di specchi deformanti, talvolta non si tratta neppure di uno specchio, ma di
una superficie opaca perché il testimone, credendo di descrivere ciò che vede, dice in realtà soltanto
ciò che aveva già visto, o previsto, o deciso di vedere. Inoltre non bisogna dimenticare che in molti
casi la descrizione è già, implicitamente o esplicitamente, una interpretazione − dice cioè non
soltanto la cosa, ma ciò che essa significava per l’osservatore, il valore che per lui essa assumeva.
Normalizzare questi specchi è difficile, talvolta impossibile, ma proprio in ciò consiste, per la storia
del teatro. Nel nostro caso il riflesso è quello fornito dai cronisti, dai critici, dagli spettatori, che ci
dicono di un gesto come loro lo hanno visto, di una presenza come loro l’hanno sentita, di una
maniera come loro l’hanno intuita. Ma sono anche fotografie, disegni, caricature, che servono
meglio a rendere l’impressione del reale.

Il caso di Eleonora Duse è particolarmente significativo e fortunato: il fascino da lei esercitato, lo


sconvolgimento portato dal suo modo di recitare nella scena italiana, il suo stesso modo di
vivere, resero i critici particolarmente attenti, e impedirono di cavarsela con i soliti stereotipi di una
frettolosa valutazione.
La Duse non scrisse mai saggi o teorie sul teatro e sull’arte della recitazione. Né, tantomeno,
scrisse la storia della propria vita, come tanti attori facevano. Anzi, a chi glielo chiedeva,
rispondeva quasi sdegnata. Scrisse però un enorme numero di lettere − scrivere lettere era per lei
quasi un maniacale bisogno. Ora, questa vasta corrispondenza − e soprattutto quella con gli amici
più cari, Arrigo Boito, Giuseppe Primoli (il nipote di Napoleone che fu il fotografo della Roma
‘bizantina’), il musicologo Carlo Placci, il sottosegretario all’istruzione Giovanni Rosadi, Olga
Signorelli, la sua maggiore biografa − illumina in modo singolare la sua vita intima e permette di
capire meglio cosa significò per lei essere attrice, e quale fosse il contenuto del suo recitare.
Giacché per nessun altro attore, forse, quanto per Eleonora Duse l’esperienza dell’essere nel
mondo e quella del recitare rappresentarono le due facce di un’unica medaglia.

NAPOLI 1879

Si può dire che nel 1879, in Italia, non sia successo proprio nulla di straordinario. Nel 1876
l’attentato al giovane re Umberto I, salito al trono nel gennaio di quello stesso anno: sintomo della
perdurante e anzi crescente sfiducia degli strati più miseri della popolazione (ma non solo di essi)
verso le strutture di potere dello stato unitario. L’attentato al re, anzi, aveva avuto luogo proprio a
Napoli, dove, come è ben noto, fino dal 1865, i movimenti internazionalisti, anarchici e socialisti
si erano sviluppati con una certa irruenza. Ma è uno scenario in gran parte ingannevole. In realtà
Napoli stava riassorbendo il trauma dell’unificazione e della piemontesizzazione. Un trauma
particolarmente violento sia sul piano economico e sociale, sia su quello psicologico: la città si
era vista ridotta da capitale a provincia; aveva subito, a causa dell’unificazione del tesoro e
del debito pubblico, una secca perdita finanziaria; la sua economia si era trovata inerme di
fronte alla liberalizzazione selvaggia imposta dalla nuova ideologia borghese, liberalizzazione che
aveva sconvolto gli equilibri interni, in qualche modo preservati dal governo borbonico, pur nella
sua incredibile arretratezza strutturale. Tutto ciò, sotto il profilo sociale, aveva comportato
l’ulteriore crescita del minuto commercio, della disponibilità di un’immensa massa di persone a
qualsiasi servizio, lecito e illecito, mentre sul piano urbanistico la speculazione edilizia, non
riusciva ad alleggerire la pressione di una popolazione incredibilmente stipata (61.000 abitanti per
kmq), e provocava invece irreparabili danni: bisognerà attendere il colera del 1884 per mettere in
opera il primo piano di risanamento.

Eppure Napoli riassorbiva il trauma. Lo faceva adattandosi a una situazione ormai ritenuta
permanente e fatale, ma rivendicando, a tutti i livelli, la propria originalità sociale e culturale.
Lo faceva sviluppando il mito della città di sogno e di bellezza, della città artista, che non è solo
«’o paese d’o sole e d’o mmare», ma anche la patria elettiva del canto, della musica, della poesia
nella sua più pura espressione; e la città del teatro, non solo per Pulcinella, ma anche perché, come
del resto i viaggiatori confermavano, ogni napoletano ha nell’intensità della sua mimica e della sua
gestica le qualità del grande attore.

In questo contesto lo spettacolo, sentito pur sempre come sostituto della festa, doveva giocare un
ruolo particolarmente significativo, sia a livello popolare, sia a livello mondano. Si può dire che
Napoli viva in un clima di spettacolo diffuso, e non solo per le innumerevoli troupe di suonatori-
cantanti-pulcinelli che giravano la città questuando (mendicando) nei caffè e nelle osterie, e
della cui attività è viva testimonianza la commedia di Antonio Petito ’Na mandolinata nanze ’o
Vermut’ e Turino; né solo perché piazza Castello, il celebre ’llario d’o Castiello, che venne
distrutto con le ristrutturazioni del 1884 assieme al Teatro San Carlino, presentava ancora in
quegli anni l’aspetto che la piazza San Marco di Venezia doveva avere nei giorni di carnevale dei
secoli passati: «Era una specie di perenne festival» in cui tra i banchetti dei rigattieri, dei
venditori, dei friggitori, facevano spicco numerosi piccoli palcoscenici all’aperto, dove lo
spettacolo poteva esaurirsi nell’esposizione dei ‘fenomeni’, o arrivare alla recita di farse e
commediole; ma anche perché − pur tacendo il fenomeno rilevantissimo dei cafés chantants − i
veri e propri luoghi di spettacolo, e possiamo bene chiamarli teatri, magari dall’attività incerta e
discontinua, continuavano a fiorire e a moltiplicarsi: si perpetuava la tradizione delle antiche
«stanze» che avevano ospitato i gloriosi comici dell’arte napoletani e lombardi, e fiorivano
baracconi costruiti con poche migliaia di lire e destinati a durare altrettanto poche stagioni:
un fenomeno questo che non è solo napoletano, e anzi è particolarmente florido nei centri minori,
ma che a Napoli ebbe particolare sviluppo, grazie soprattutto all’attività di un singolare impresario,
Leopoldo Montanaro, considerato il «creatore del casotto teatrale napoletano»: casotto in tutti
i sensi del termine giacché sembra esistesse una vera e propria organizzazione per lo sfruttamento
della prostituzione delle attrici. Su questo sfondo l’attività dei teatri, per dir così, ufficiali. Che
erano molti, alcuni, e segnatamente i più popolari e quelli dialettali, sono gestiti da compagnie
stabili: il San Carlino prima. Basterebbe questa continuità della tradizione familiare a
differenziare il San Carlino dal Teatro Milanese di Ferravilla, ma è importante segnalare il fatto
che la compagnia dei Petito (San Carlino), a differenza di tutte le compagnie dialettali, non
puntava soltanto sulla comicità degli attori e sulla tradizione pulcinellesca, ma anche
sull’intensità e sulla complessità dello spettacolo: per mettere in scena alcune delle più note
commedie di Antonio Petito, come la Mandolinata, come Palummella, come Pass’a vacca e ’A
Pippa fa acqua, erano necessari un organico di grandi dimensioni e una non indifferente
preparazione tecnico-registica − il conseguente impegno di spesa veniva per altro ammortizzato
con un numero di repliche di livello parigino Tra il San Ferdinando e la Fenice agiva invece la
compagnia di un altro ai suoi tempi non meno noto protagonista del teatro napoletano, Federico
Stella, il cui repertorio puntava soprattutto sui drammoni romanzeschi di Luigi Delise,
l’autore della Cieca di Sorrento, o sulle riduzioni dei romanzi del Mastriani. Questi drammoni
venivano spesso recitati in dialetto, che recuperava così la sua dignità di lingua nobile, capace non
solo di farsa, ma anche di tragedia: pure qui il fascino che emanava figura del protagonista si
accompagnava a un impianto scenico e scenografico non del tutto sommario. Il che induce a credere
che non solo il popolino e la minuta borghesia frequentassero questi teatri, ma anche le classi
superiori. Ipotesi del resto confermata da testimonianze contemporanee. In altri teatri, al
Mercadante e al Varietà, agivano compagnie anch’esse napoletane che indulgevano a spettacoli
misti di prosa, ballo e canto; il Nazionale, il Partenope e il Rossini erano frequentati da
compagnie di giro di basso livello, mentre il Sannazzaro e il Fiorentini ospitavano compagnie
primarie. Il San Carlo restava, ovviamente, il tempio della lirica.

La stagione del 1879 si preannunciava eccezionale ancor prima di cominciare anche sul piano
meramente organizzativo, e questo perché dei due teatri primari, l’uno il Sannazzaro, avrebbe
ospitato come di consueto, una serie di compagnie di giro; mentre l’altro, il più vecchio, nobile e
malandato Teatro dei Fiorentini, avrebbe ospitato una compagnia stabile. Le compagnie comiche
italiane, sono normalmente compagnie di giro, ma proprio in quegli anni alcuni critici, con in
testa il marchese d’Arcais avevano aperto una polemica a favore delle compagnie stabili che,
sostenevano, avrebbero potuto raggiungere un miglior affiatamento, operare delle grosse economie
sulle spese di trasferimento e, per conseguenza, tentare esperimenti di repertorio senza correre
grandi rischi. Del resto a Napoli l’idea della compagnia stabile non suonava del tutto nuova sia
per la presenza, cui si è fatto cenno, delle compagnie dialettali che questo carattere avevano da
sempre, sia perché non molti anni prima, fra il 1860 e il 1865, un analogo tentativo era stato
coronato da un discreto successo, e la nuova stabile sarebbe stata affidata allo stesso direttore che
aveva condotto quell’esperienza: Adamo Alberti. La prima donna della stabile di Adamo Alberti
era Giacinta Pezzana, repubblicana e democratica in politica al punto da rifiutare il titolo di
contessa che il marito le aveva portato, e in arte attrice dalla doppia anima, essendosi formata alla
scuola del teatro dialettale piemontese del Toselli, ma che si era affermata anche come
rappresentante della ‘grande scuola’ nel repertorio tragico, e attrice capace di prestazioni di
impressionante violenza, come di pigre e stucchevoli melopee (melodie). Quanto agli uomini, nella
compagnia stabile si presentava con un attore cresciuto nell’ambito della vecchia scuola tragica di
Ernesto Rossi, fatta di slanci appassionati, ma nobili, di irruenza e di controllo plastico, Achille
Majeroni, accanto al quale un attore più giovane, che presto avrebbe dato prova anche di tagliente
intelligenza teorica, aderendo dichiaratamente a una concezione naturalistica del teatro: Giovanni
Emanuel. L’originalità di Emanuel consiste nella sua adesione al naturalismo, che non
riguardava tanto le scelte di repertorio, quanto, e anzi principalmente, l’arte dell’attore.
Propugnando un recitare basato sulla mediocrità senza punte della vita quotidiana, e di un
quotidiano visto sotto la specie del particolare e del dialettale, Emanuel ritiene che compito
dell’attore sia di «rivestire» il personaggio, calare il personaggio nella dimensione del
quotidiano dandogli un gestire breve e discontinuo, un tono di voce pacato, un discorrere
rotto, quale che fosse lo stile e il genere dell’opera rappresentata. Mentre si dava generalmente per
scontato che a ogni genere drammatico dovesse corrispondere uno stile particolare di recitazione,
che cioè tra scrittura drammaturgica e recitazione dovesse esservi un rapporto di conferma e di
ridondanza, Emanuel viola questa ridondanza: la parola dell’autore e l’azione dell’attore
possono contraddirsi, quest’ultima essendo sempre basata sulla dimensione banale della realtà di
ogni giorno. Questa posizione è tanto più significativa in quanto Emanuel non amava il repertorio
moderno: certo, vi si adattava, ma le sue preferenze sono tutte per il grande repertorio del
passato − da Shakespeare a Schiller, da Molière a Balzac. Tra i moderni semmai prediligeva i
drammi storici. Questo ovviamente non gli impedì di tentare, nei pochi casi in cui ne ebbe
l’occasione, di imporre anche i testi del poverissimo repertorio naturalista, e anzi di
commissionarne egli stesso. Prima della costituzione della compagnia stabile di Adamo Alberti, nei
primi mesi del 1879, Emanuel recitava con una sua compagnia al Teatro Rossini: aveva
rappresentato assieme ai Daniceff e a Demi Monde di Dumas, Don Carlos e Maria Stuarda. Ma
il 7 febbraio ritenne di poter tentare l’esperimento naturalista mettendo in scena una
riduzione dell’Assommoir di Zola, da lui stesso commissionata a tre giornalisti napoletani
rimasti anonimi. Il titolo italiano della riduzione fu L’acquavite. È forse il primo tentativo del
genere. Certo la roccaforte del movimento naturalista era Milano, dove da dieci anni ormai gli
intellettuali e gli scrittori raccolti attorno al combattivo «Gazzettino Rosa», discutevano e
propagandavano l’opera di Zola. Ma anche Napoli si presentava come una piazza ideale: Francesco
De Sanctis aveva pubblicato nel quotidiano napoletano «Roma» una serie di saggi su Zola, e gli
intellettuali legati al movimento democratico guidati da Giovanni Bovio guardavano con
simpatia all’impegno sociale dello scrittore francese.

In ogni caso l’avvenimento fece scalpore: il «Corriere del Mattino» tornò tre volte sull’argomento,
anche se il titolare della rubrica teatrale, Federico Verdinois, uomo di vasta cultura, traduttore,
fra l’altro di romanzi russi, ma legato alle formule della drammaturgia salottiera, tacque. Certo, la
riduzione in sei quadri del vasto e complesso romanzo doveva essere povera cosa, ma
l’interpretazione di Emanuel recuperò, nella sintesi di una recitazione densa e stratificata, la
profondità dell’analisi e l’implicito impegno ideologico della narrazione zoliana. In questa
interpretazione gli osservatori più superficiali, tra cui il cronista del «Corriere», videro soltanto la
capacità di raffigurare i progressi dell’alcolismo nel personaggio di Copeau. Ma in realtà non si
trattò solo di una di quelle illustrazioni della sintomatologia patologica, Bovio vide riassunta in
Copeau-Emanuel l’intera ‘questione sociale’ nella sua tragica complessità. Sul «Corriere del
Mattino» scrive: il medico studia nell’arte il fenomeno dell’ubriachezza, lo psicologo
l’associazione passiva dei fantasmi nel delirium tremens, l’alienista il fenomeno psichiatrico, la
fanciulla come un uomo così amoroso possa essersi fatto tanto bestiale, e il socialista come
l’operaio sia costretto a spegnere il pensiero nell’acquavite. Ma non basta: nell’interpretazione di
Emanuel non solo i fenomeni sono rappresentati, ma le loro cause: «I vizi» in quanto «derivati da
patimenti senza nome». Certo la recitazione di Emanuel rinunciava al gesto esteso e plastico
dell’attore classico, non rinunciava però all’intensità drammatica e alla pregnanza della
significazione, anche se questo poteva trascinarlo ben al di là della mediocritas del quotidiano.
Un tale attore, e molti dei suoi scritturati, entrarono dunque nella compagnia stabile del Teatro dei
Fiorentini che iniziò la sua attività il 14 marzo 1879. Ma le cose si misero subito male. Dopo poco
più di un mese, Federico Verdinois usciva con un articolo che, molto severo per la compagnia del
Fiorentini. Egli si dichiarava, in linea di principio, poco favorevole alle formazioni così dette
stabili: l’amalgama e l’affiatamento si raggiungono con la continuità del lavoro comune, ma
questo è patrimonio anche delle compagnie di giro, e soprattutto con l’unità della direzione, la
quale manca del tutto nella compagnia dell’Alberti, dove il vecchio attore detiene una direzione
solo nominale, mentre quella effettiva è contesa tra l’Emanuel, la Pezzana e il Majeroni. In queste
condizioni la possibilità di armonizzare tanti attori provenienti da scuole e da esperienze tra loro
anche molto diverse diventa quanto mai remota. Di fatto il Verdinois si occupò pochissimo della
compagnia stabile, in parte per una preconcetta antipatia, in parte a causa dello scarso numero
di novità che essa presentava: per tradizione i titolari della rubrica si occupavano soltanto
delle produzioni nuove, lasciando al cronista il compito di riferire sull’esito delle riprese.
Invece, la compagnia di Virginia Marini al Sannazzaro, pur senza strafare, un certo numero di
novità le aveva presentate. Non furono grandi successi: né il pubblico né i giornalisti seppero
cogliere le novità.

I momenti più eccitanti del confronto fra le due compagnie si verificarono proprio in
occasione di alcune riprese. Era un esercizio prediletto del pubblico ottocentesco quello di
paragonare fra loro le diverse realizzazioni di una stessa pièce, e non nei termini generali della
messa in scena, che avevano oggettivamente poca rilevanza, ma proprio nelle interpretazioni dei
singoli ruoli da parte dei singoli attori, ciò che richiedeva una sensibilità particolarmente acuta
per le sfumature della recitazione. Così, quando a distanza di pochi giorni, entrambe le compagnie
(ma fu per la verità quella stabile a giocare di rimessa) annunziarono la messa in scena di
Messalina, il pubblico napoletano sentì che era occasione da non perdere (molti frequentavano il
teatro). La Messalina di Pietro Cossa è il personaggio abbastanza convenzionale di una donna
innamorata, succube dell’uomo che è oggetto della sua passione, spietata invece, dura e
insofferente verso gli altri. Virginia Marini affrontò il personaggio in un’unica direzione:
«Sublimemente terribile» la definisce il cronista del «Corriere del Mattino» − ma i cronisti
dell’epoca vedevano spesso quello che avevano già deciso di vedere. Ma Verdinois ribadisce:
irrompe sulla scena terribilmente bella e provocante, con la sua voce squillante, occhiate da
provocare incendi, fremiti da tigre innamorata, atteggiamenti scultori, flessuosità feline del corpo,
irresistibili scoppi d’ira, d’amore, di gelosia, abbagliante, prepotente.

Virginia Marini fece, o tentò di fare di Messalina un personaggio il cui tratto dominante fosse
l’aggressività, un personaggio poderoso e violento, mai turbato o suadente. Dico «tentò di fare»
perché non è certo questa l’immagine che, sommando o sovrapponendo le sue interpretazioni, i
cronisti dell’epoca si erano fatti di questa attrice. Secondo Yorick la Marini recitava con grazia
naturale, conservando un certo sapore di ingenuità e di candore anche nelle figure di donne non
più innocenti, mentre per Verdinois «portava nella commedia un’ombra della rigidezza della
tragedia, la parola di tanto in tanto declamata, il gesto non sempre semplice e naturale». Sono
impressioni tanto diverse da sembrare opposte. Ma non è così. La Marini, sembra, cercava di
essere nel complesso delle sue interpretazioni, un’immagine della donna ideale, nella quale la
spontaneità è sempre sottoposta alle esigenze della bienséance mondana: un ideale di donna,
appassionata sì, e ricca di sentimento, ma sempre nel proprio ruolo di femminilità delicata,
dolcemente allegra e rallegrante, aliena da ogni violazione dell’ordine sociale (il peccato), come
dell’ordine mondano − donde quella sottile artificiosità rilevata dall’Antona Traversi e anche
quella esibizione delle proprie doti plastiche che infastidiva il cronista dell’«Arte Drammatica».
Non stupisce quindi che la Marini sia stata a lungo l’attrice preferita della borghesia puritana e
perbenista. Stupisce piuttosto il successo riscosso nel ruolo di Messalina dove, per giungere ai
risultati descritti, dovrebbe aver compiutamente negato la propria immagine. Ma fu proprio
questo il motivo del fascino di questa interpretazione: lo scatenarsi della furia selvaggia nella dama
del bel mondo. In realtà la Marini aveva voluto misurarsi sul terreno che era stato proprio
della sua antagonista, di Giacinta Pezzana, della quale tutti ricordavano l’eccezionale vigore
fisico con cui aveva interpretato quel ruolo nel 1876. Così facendo però la Marini compiva
un’operazione estremamente riduttiva, poiché, come mostra Leone Fortis, nella Pezzana la
violenza non era fine a se stessa, ma sintomo di una malattia del sangue e dei sensi, espressione di
una sorta di ninfomania belluina, che la poco conformista contessa repubblicana non si
vergognava di esibire. Ma ora, a soli tre anni di distanza, la Pezzana resta in ombra.

Il cronista racconta che solo rari applausi di cortesia interruppero un silenzio più rispettoso
che attento, ma aggiunge che nella controscena del terzo atto ricordò il suo splendido passato.
Si tratta del momento in cui Messalina risponde a Bito che l’aveva pregata di salvare la vita di
Valerio, chiedendogli di dirle che è bella, e Bito replica offrendo la sua vita e lo spettacolo della sua
morte. Non si tratta quindi di una scena violenta: Messalina è quasi sul punto di cedere
all’amore del gladiatore, ma vuole che il mondo e tutti i valori si annullino in lui, per essere lei
l’unico pensiero e l’unica realtà. La controscena è di attesa e di speranza: forse la Pezzana aveva
rovesciato i termini della sua interpretazione, privilegiando i toni voluttuosi e dimessi,
interiorizzando la sensualità in desiderio d’amore. E questa spiritualizzazione della belva era
proprio ciò che il pubblico non poteva accettare. La sua attenzione si concentrò così
sull’interpretazione di Emanuel, che sosteneva il ruolo di Bito, il gladiatore-liberto innamorato
dell’imperatrice, ma non al punto di sacrificarle la sua fedeltà al padrone. Emanuel venne lodato
per la sicurezza, l’efficacia, la plastica.

Non si trattò dunque di un insuccesso, come in fondo ebbero buona accoglienza le altre
rappresentazioni dei classici cari a Giovanni Emanuel. Fu piuttosto il repertorio moderno, fatto di
riprese di testi demodé, a compromettere le sorti della compagnia stabile che, anche per le difficoltà
economiche derivanti dal troppo esteso organico (più di trenta attori), e per i contrasti interni tra la
proprietà e l’impresa, dovette interrompere la sua attività dopo il 25 maggio: Emanuel lasciò con
altri attori la compagnia, mentre la Pezzana rimase nel teatro della principessa di Santobuono,
che aveva rilevato in proprio l’impresa. Con la Pezzana era rimasta al Teatro dei Fiorentini, per
concludere una stagione che in ogni caso, sotto il profilo artistico, non poteva considerarsi
fallimentare, la prima attrice giovane della compagnia, Eleonora Duse, una ragazza di
ventun’anni − giovane quindi, come ovviamente richiedeva il suo ruolo, ma non giovanissima, se
si pensa che Virginia Reiter esordirà in quel ruolo a diciotto anni e Teresa Mariani addirittura a
quindici. Ma in realtà anche Eleonora Duse aveva già alle spalle una lunga carriera.

Come era ovvio, essendo figlia d’arte. Di lei si è favoleggiato che un suo padrone, il capocomico
Luigi Pezzana (niente a che fare con la Giacinta), l’avesse duramente invitata a cambiar
mestiere, perché quello dell’attrice non era per i suoi denti. Può anche darsi che l’aneddoto sia
vero, ma è certo che nel 1879 Eleonora Duse non doveva essere una sconosciuta se, per averla nella
compagnia stabile, gli impresari si erano adattati a pagare 5.000 lire di penale (che non erano
spiccioli) per scioglierla dal suo contratto con la compagnia di Francesco Ciotti. Nella qual
compagnia la Duse aveva già avuto modo di farsi notare l’anno precedente, soprattutto nella parte di
Maia, l’esotica fanciulla di una delle più celebri pièce del vecchio Augier I Fourchambault. Ma il
1879 è certamente l’anno decisivo della sua vita, non solo perché quell’occasionale successo si
trasforma in una stabile affermazione, ma anche perché l’esperienza di vivere e di recitare con
Giacinta Pezzana e Giovanni Emanuel, con le due personalità intellettualmente, moralmente e
artisticamente di gran lunga più forti del teatro italiano, non può non aver avuto un grande
significato nella maturazione definitiva di colei che di che di lì a pochi anni sarebbe stata
riconosciuta come la più grande attrice di tutti i tempi. Comunque è abbastanza interessante
seguire il crescere dell’attenzione che il pubblico e la critica prestarono alla Duse nel corso di
questa stagione.

Ben presto infatti i cronisti dei quotidiani cominciarono a notarla, anche se in termini generici: il 20
marzo «Il Piccolo» la menziona fra gli attori che «recitarono splendidamente» nei Borghesi di
Pontarcy, ma solo dieci giorni dopo merita una menzione speciale nella cronaca del «Roma» a
proposito della rappresentazione di Amleto: la Duse poi fu sua (di Emanuel) degna compagna, e
alla scena del delirio, che disse benissimo, venne grandemente applaudita. Ancora «Il Piccolo» del
20 aprile ricorda un altro successo ottenuto nella Delia di Castelvecchio: la Duse, sempre
simpatica, fu applauditissima. E lo stesso giornale, il 27 di quel mese, la mette sulla stessa linea
dei grandi mattatori della compagnia nell’Oreste di Alfieri, in cui recita la parte di Elettra.
Applausi e simpatia dunque, ma nessun accenno alle qualità specifiche dell’attrice. È in un altro
giornale, nel già più volte ricordato «Corriere del Mattino», che si trovano indicazioni più precise
e anche una più puntuale attenzione alle prestazioni di Eleonora Duse. Il «Corriere del Mattino» era
certamente il quotidiano più importante della città, e uno dei più moderni e brillanti di tutta
Italia. Diretto da Martin Cafiero, uomo politico moderato, grande donnaiolo e spadaccino, il
giornale poteva contare su un ottimo servizio di informazione dall’Italia e dall’estero. Ma
soprattutto si qualificava per la grande attenzione prestata al settore letterario-culturale, talché
sembrava quasi essere una via di mezzo tra il foglio di informazione e la rivista di cultura. Su
questo giornale ha scritto anche Verdinois. Proprio per questa sua struttura il «Corriere» dedicava
più attenzione degli altri giornali alla vita teatrale napoletana: le cronache delle serate avevano
qualche pretesa critica e le appendici di Verdinois a proposito delle prime o degli attori avevano
le dimensioni di veri e propri saggi.

Ma l’importanza del «Corriere» nella vita della Duse ha anche un altro risvolto. Il direttore del
giornale, sottaniere impenitente come abbiamo detto, aveva adocchiato la giovane attrice,
temperamento irrequieto e ansioso di vita, e non gli fu difficile sedurla per lasciarla poi con tra le
braccia un bambino che doveva morire di pochi giorni. Per Eleonora la delusione di questo
primo grande amore fu certo determinante. Ma non è improbabile che il Cafiero abbia
raccomandato ai suoi cronisti un occhio di riguardo per quell’attricetta che voleva ‘farsi’. Non
sarebbe la prima volta che un grande destino viene deciso a letto. Comunque sia di ciò, fin dalle sue
prime uscite le cronache del «Corriere del Mattino» cominciarono a notare l’attrice giovane della
compagnia, mentre della Boetti che teneva il ruolo di seconda donna non è mai menzione. A
proposito del Matrimonio di Figaro, dopo aver ricordato che i napoletani avevano già imparato
a conoscere quella «gentile e cara» attrice nella compagnia Ciotti, il cronista ne elenca le doti:
sicurezza di scena e correttezza sono specifici del ruolo: l’attrice possiede la tecnica, aderisce senza
difficoltà alla normativa che regola la recitazione, e in più sa infondere nelle singole parti
esattamente ciò che il suo ruolo richiede: grazia e sentimento. Una buona attrice dunque, una
buona professionista, ma nessuna particolare originalità. Ma questa attenzione forse obbligata portò
ben presto il cronista a scoprire che invece quella non era una buona attrice come un’altra. E quando
la Duse interpretò il ruolo di Ofelia tentò di definirla in altri termini, abbandonandosi quasi, pur
nella brevità dello spazio che gli era concesso, a un impeto lirico: la signora Duse fu ideale come
una visione gentile, come una principessa, soave come una vergine, bella come la Duse − fu
Ofelia. L’interpretazione aveva colto il significato essenziale del personaggio, colpisce il
riferimento alla dimensione «ideale», accenno a una recitazione che si è sciolta dagli impacci
dello psicologismo, dall’obbligo cioè di raffigurare, in termini più o meno schematici, concreti
stati d’animo, per farsi disincarnata e astratta. Non sarà certo questa la linea prevalente nella
fenomenologia successiva dell’arte della Duse, ma tuttavia questo polo dialettico del recitare
astratto e simbolico rimarrà sempre sullo sfondo della sua coscienza, per riemergere, mutatis
mutandis (fatti i debiti mutamenti), al momento dell’avventura estetica dannunziana. Un po’
come il suo grande maestro, Giovanni Emanuel, fin da queste sue prime uscite di rilievo, la Duse
dimostrava di essere un’attrice terrestre e concreta, implicata a rappresentare nella tensione
psicologica del tempo vissuto, ma insieme capace di una sorta di sublimazione di
quell’angoscia vissuta nell’astratta. Così si può spiegare come il cronista del «Corriere del
Mattino», stavolta seriamente impegnato nell’analisi critica dello spettacolo, a proposito
dell’Oreste di Vittorio Alfieri, abbia potuto parlare di tre «antichi e forti artisti» − Emanuel
appunto, la Pezzana (Clitennestra) e il Majeroni (Oreste) a cui si contrappone la giovanissima
Eleonora, definendola «tutta moderna». Parole oscure, ma profetiche − infinite volte negli anni
che seguiranno, in senso positivo o negativo, la Duse sarà definita come l’attrice moderna per
eccellenza, l’attrice implicata appunto nel senso moderno, antitragico della vita, nel vuoto di
valori che aveva colpito l’Italia post-risorgimentale; implicata in quella situazione dolorosa, ma,
al tempo stesso, simbolo di essa.
Alla quarta replica si ammala: una forma benigna di tisi, malattia squisitamente moderna. Ma
l’avventura napoletana della Duse non era ancora finita: come abbiamo visto, ella rimase con
la Pezzana al Fiorentini anche dopo lo scioglimento della stabile e la partenza di Emanuel, a
continuare una stagione che si trascinò stancamente fino ad agosto. E tuttavia, quando ormai il
ciclo di recite stava per concludersi senza gloria, la Pezzana annunciò che per la sua serata d’onore
avrebbe rappresentato un dramma nuovo per l’Italia, che Zola aveva tratto sei anni prima dal suo
romanzo giovanile, Teresa Raquin. Il pubblico napoletano non aveva dimenticato lo choc
dell’Assommoir, tanto più che in giugno Francesco De Sanctis aveva tenuto una conferenza
proprio su quell’argomento. Inoltre Zola faceva sempre notizia. Ma certo non fu questo il motivo
che indusse la Pezzana a una simile arrischiata scelta, e nemmeno, come dichiarò, il gusto di
imporre in Italia un dramma caduto a Parigi. Fu il bisogno di una nuova tematica, e il bisogno
soprattutto di affrontare personaggi diversi, persino in un ruolo diverso. Non aveva neppure
quarant’anni la Pezzana, pure, mettendo in scena quella commedia, ella ripudiava volontariamente
− era capocomica − il ruolo di prima donna per affrontare quello di madre: destino comune, ma che
le attrici, se appena potevano, rimandavano ben oltre la soglia della cinquantina. Giacinta Pezzana
intese invece questo passaggio come un rinnovamento. Ma in realtà si trattò di un punto d’arrivo:
continuò a recitare, anche come prima donna, per molti anni ancora − nel 1904 D’Annunzio
l’avrebbe voluta come interprete di Candia della Leonessa nella Figlia di Jorio − ma il
personaggio di Mamma Raquin divenne a tal punto il suo personaggio che l’attrice finì per
identificarvisi. Teresa Raquin andò in scena il 26 luglio 1879. Il successo fu strepitoso, quanto
inatteso: venti repliche − un’enormità, soprattutto data la stagione. E fu in primo luogo un successo
delle interpreti: «Il dramma piacque poco», scriverà Boutet nel 1885. La Duse sosteneva
naturalmente la parte di Teresa, parte ambigua perché poteva essere considerata tanto da attrice
giovane quanto da prima donna: il Verdinois risolse la questione con una sorta di riconoscimento
ufficiale, scrisse nella sua appendice si muta in prima attrice, aggiungendo che la Duse era ormai
destinata a sostituire gli astri al tramonto − e non si riferiva ovviamente alla sola Pezzana.

Questa volta la distesa narrazione del romanzo non era stata arrangiata da autori improvvisati
e frettolosi, come era successo per l’Assommoir rappresentato da Emanuel qualche mese prima:
l’adattamento era opera dello stesso Zola e la storia dei due amanti che, per poter essere liberi nel
loro amore, uccidono il marito di lei, ma poi, perseguitati dal rimorso e scoperti dalla madre
dell’ucciso finiscono suicidi sotto gli occhi della vecchia uscita dalla paralisi che l’aveva colpita al
momento della tragica scoperta, questa storia era stata ridotta entro gli schemi di un solido
impianto drammaturgico, tanto solido che per la critica fu facile gioco evidenziare la rivincita
delle convenzioni teatrali sugli ideali descrittivi e analitici della scuola naturalista. E in effetti la
struttura classica della tragedia vi è fin troppo facilmente leggibile: pochissimi i personaggi,
sette in tutto, e tre di essi in funzione di contorno, rigorosa unità di luogo e di azione, se non di
tempo; la catastrofe che precipita velocissima negli ultimi due atti, ma che è già tutta contenuta
nella situazione iniziale. Né si tratta solo di elementi meramente strutturali: l’azione è densa di
presagi, veri o falsi, come la storia dell’ucciso narrata da Michaud, o come la coincidenza del
matrimonio di Lorenzo e Teresa con un funerale; il ritornare delle stesse situazioni che sortiscono
però esiti opposti, come la replica dell’approccio amoroso nel primo e nel terzo atto; le inversioni
dei ruoli: Teresa imprudente e appassionata nel primo atto diventa spaurita e ritrosa nel terzo −
sono tutti classici stilemi tragici. Ma ancora, ci sono addirittura delle citazioni che evidenziano i
diretti precedenti dell’opera: «Abbiamo ucciso l’amore» dice Teresa, così come Macbeth diceva di
aver ucciso il sonno, mentre l’allucinazione di Lorenzo, che crede di vedere il fantasma di Camillo,
non nasconde la propria derivazione dallo spettro di Banquo.

Ma questa struttura e questi motivi dichiaratamente tragici si calano nella dimensione


ambientale microborghese: casa e bottega, dove il necessario a vivere non manca, ma dove
l’ambiente è chiuso, buio e soffocante, dove nulla succede che non sia già successo il giorno
prima. L’accostamento dei due motivi è certamente nel testo, ma in esso la Pezzana e la Duse
trovarono spazio per sviluppare differenti tematiche, per dar corpo, soprattutto la Duse, ai problemi
e alle angosce della loro realtà esistenziale. Che la vita sia il carcere dell’eterno ritorno, il ripetersi
infinito dello stesso ritmo, e che il tentativo di sfuggire a questa condanna sia destinato a fallire, e
comunque in se stesso comporti un peccato, che gli dei spietatamente puniscono, fu, nella vita
della Duse, l’ossessionante incubo che la spinse a fuggire senza requie di posto in posto, a cercare
diverse esperienze teatrali che parevano respingerla per obbligarla nei limiti di quel ridotto
repertorio che fu per decenni il suo dorato carcere.

«L’amorosa si muta in prima attrice» aveva detto, in termini forse casuali, ma emblematici Federico
Verdinois. Il tema dell’amore per Lorenzo è, nell’interpretazione della Duse, del tutto
esteriore e occasionale. Il tema centrale è, nel primo atto, l’esigenza della fuga, e in quelli
successivi il realizzare che questa fuga è impossibile, e che il solo averla pensata è tale peccato che
non si può scontare se non con la morte: l’incarnazione di un’angoscia che è insieme esistenziale
e metafisica. Formalmente il personaggio della Duse viveva della sua contrapposizione
all’ambiente. La Pezzana aveva posto una cura tutta particolare nell’allestimento scenico, la cui
minuziosa precisione viene ricordata a distanza di più di vent’anni dal Boutet, e gli attori, anche e
soprattutto quelli secondari, furono impegnati a recitare alla buona, dicendo e facendo cose volgari
e minute. Vestita con un abitino nero nel primo atto, nel secondo e nell’ultimo, e con l’abito
bianco da sposa nel terzo, si distingueva già con questi colori assoluti dal grigio dell’ambiente,
immobile quando l’ambiente è in movimento, attiva quando gli altri sono fermi − anche questo è
nelle indicazioni del testo, ma il suo movimento, come la sua immobilità, non era tanto esplicito,
quanto interno, «nervoso» (per la prima volta viene usato questo aggettivo, che poi le rimarrà
attaccato come una sigla): quando torna impaurita e stanca dal matrimonio si stringe a Lorenzo;
quando ode il grido di Mamma Raquin che ha scoperto la verità «si afferra nervosamente alla
seggiola». Una recitazione duttile, che spesso sembra accostarsi a quella degli altri attori per i
gesti fitti e la cura minuziosa dei particolari, ma che se ne discosta poi per un «sentimento
della posa», per una capacità cioè di fissare l’atteggiamento in termini che sono al tempo
stesso plastici e spontanei, artificiosi e naturali. Una recitazione peraltro tanto poco
sovradimensionata, tanto poco ‘tragica’, tanto infine priva di momenti esplosivi, che Verdinois
ritenne che in certi punti, a partire dal secondo atto, la parte abbia soverchiato l’artista, e che ella
non abbia avuto il coraggio di consentire alla «nota volgare spesso dominante nel carattere di
Teresa»: il gioco del massacro con Lorenzo nel terzo e nel quarto atto non fu dunque da parte
della Duse improntato alla violenza di chi vuole scaricare sull’altro il peso del rimorso − fu
probabilmente piuttosto il colloquio interiore di chi prende atto della sconfitta e del destino.

In questo straordinario e composito spettacolo un’altra fu la tragedia recitata da Giacinta Pezzana, e


non fu la tragedia della madre, fu la tragedia della metamorfosi della donna che diventa una
forza assoluta e irresistibile. Perciò l’attrice curò fino in fondo, nei primi tre atti, la propria
assimilazione ai personaggi mediocri del contorno, assecondando le indicazioni di Zola, e se nel
primo atto fu soprattutto mite e cordiale, nel secondo badò a non sovraccaricare i toni del dolore,
rimanendo anche in esso «dolce e affettuosa». Così la sua metamorfosi al quarto atto, al risveglio
dalla paralisi, durante la quale pare che la pura presenza dell’attrice abbia avuto una forza
terribile, non poteva essere più gigantesca e sconvolgente. Qui la Pezzana non ebbe paura di
forzare i toni.

Bisogna ancora sottolineare che la dimensione tragica e quella realistico-piccolo borghese non
erano giustapposte, ma, come si può dire? uscivano dai personaggi delle protagoniste, in modo
più dichiarato nella Pezzana, che puntava sulla metamorfosi del personaggio, e la cui ‘doppia
anima’ di attrice ebbe campo qui per manifestarsi compiutamente, in modo più sottile e costante
nella Duse che, vera prima donna, mirava allo spessore e all’ambiguità del personaggio. Ma in
entrambe la recitazione rimaneva concreta, realistica e terrestre di modo che quella che era parsa
una concessione del naturalismo alle cosiddette esigenze del teatro si risolveva invece in un
movimento dialettico di inglobamento. Né è da credere che questi risultati fossero totalmente
implicati dal testo di Zola − in ogni caso, pur con tutti i suoi limiti di misura e di stile, opera
estremamente viva e originale nel quadro della drammaturgia contemporanea. Basterebbero a
dimostrarlo i risultati ottenuti, e non solo sul piano del successo di pubblico, dall’interpretazione
datane dalla compagnia Bellotti Bon, nella quale militavano attori non certo di terz’ordine,
come la Pia Marchi e il giovane Ermete Novelli (Camillo). Disapprovata a Napoli, come era
ovvio, essendo in quella città vivo il ricordo della Pezzana e della Duse, questa interpretazione
venne severamente criticata. Tema centrale diventa il desiderio erotico, affatto marginale in Zola, e
addirittura espunto dalla Duse (in Verdinois c’è solo un breve accenno alla passione della
protagonista, mentre del personaggio di Lorenzo si dice che non era né innamorato né perseguitato
dal rimorso, ma solo vile): la Teresa di Pia Marchi diventa una donna volgare, non ansiosa di
vita e di evasione, ma solo insoddisfatta sessualmente del marito, mentre il Lorenzo del Biagi è
un animale nerboruto e concupiscente. La Marchi insomma avrebbe compiuto, secondo la
critica, un’operazione inversa rispetto alla Duse, facendo di Teresa una ragazza che pensa solo
all’amore e che poi se ne spaventa. La tragedia scompare, ovvero viene ricondotta nei termini
dello psicologismo di moda: passione-peccato-rimorso. Né il peccato trascende i limiti della sua
ovvia fenomenologia borghese. E Mamma Raquin torna a essere «una buona signora». Una lettura
possibile, in fondo, del testo di Zola. Ma quanto più povera e monodica rispetto a quella
scaturita dall’incontro di Giacinta Pezzana con Eleonora Duse.

LA COMPAGNIA ALL’ANTICA ITALIANA

Per avere un’immagine abbastanza precisa della vita teatrale ottocentesca bisogna partire dalla
considerazione ovvia, ma non sempre scontata, che in quell’epoca il teatro copriva per intero il
fabbisogno di spettacolo della popolazione, mentre ai giorni nostri non vi risponde che per una
trascurabile porzione. Il teatro era un fenomeno di portata macroscopica, sia sotto il profilo
economico, sia sotto il profilo sociale: nel 1870 c’erano in Italia 1.055 teatri ufficialmente censiti
su 775 comuni, a questi, però, bisogna aggiungere le sale private, i magazzini, «le baracche, gli
anfiteatri chiusi, costruiti provvisoriamente con tele, assi o altro sulle piazze e sulle vie», il cui
numero, incerto e fluttuante, era tuttavia tale da almeno triplicare quello degli edifici
stabilmente destinati a teatro. I teatri avevano un buon giro d’affari. Secondo le stime
approssimative dei contemporanei, 150 compagnie drammatiche, ma si tratta di un numero che va
almeno raddoppiato, poiché certamente nessuno teneva conto di quelle infime compagnie che si
tenevano lontane anche dai più miseri teatrini delle piccole città, per girare nei paesi e nei
paesini, anche i più remoti.
È probabile che nessun servizio in Italia abbia mai funzionato con tanta capillare precisione e tanto
a buon mercato quanto quello teatrale: gli stranieri si stupiscono sempre della modestia dei prezzi
dei biglietti che, nei teatri primari, andavano dai cinquanta centesimi alle tre lire; ed è altrettanto
probabile che nessuna impresa privata sia stata tanto poco protetta e aiutata quanto l’impresa
drammatica: le sovvenzioni, erogate esclusivamente dagli enti locali, andavano tutte al teatro
lirico, considerato gerarchicamente superiore sia dal punto di vista artistico-culturale sia dal punto
di vista mondano, e l’unico quindi che avesse un peso rilevante nel prestigio di un teatro o di una
città. Pure, si trattava di un’organizzazione di vasta complessità, al cui funzionamento
concorrevano molti e diversi elementi, volontà, interessi. In particolare i pilastri su cui si basava
l’intero edificio della macchina teatrale erano quattro: la proprietà dei teatri, l’impresariato, le
agenzie e la compagnia. Il proprietario di un teatro, fosse la municipalità, un’accademia, una
società per azioni o un singolo speculatore, dava in gestione l’impianto (edificio e attrezzature) a
un impresario, il quale ne curava lo sfruttamento, stipulando un contratto di appalto, il cui
capitolato (soprattutto nei primi casi − proprietà municipale o accademica) non prevedeva
obblighi di carattere soltanto economico, ma anche in funzione di prestigio. Perciò la direzione
del teatro, o direttamente il proprietario, quando si trattava di un teatro privato, sorvegliavano
affinché l’impresario rispettasse puntualmente gli obblighi del capitolato. Ma il ruolo centrale era
decisamente dell’impresario, almeno nella lirica: era lui a scritturare i cantanti, a scegliere il
repertorio, a commissionare libretti e spartiti, a far eseguire scenografie e costumi. Le agenzie
facevano da mediatore fra i cantanti e gli impresari: le scritture erano sempre stipulate per il loro
tramite, e gli agenti trattenevano per questo servizio una percentuale spesso esosa − perciò
erano considerati, soprattutto dai cantanti, come parassiti e speculatori. La loro opera era tuttavia
necessaria, particolarmente nel campo della prosa, dove le agenzie svolgevano un ruolo decisivo
nell’organizzazione del giro delle compagnie.

Nel teatro di prosa però gli equilibri erano ampiamente sovvertiti: l’elemento centrale non era
più costituito dall’impresario, ma, appunto, dalle compagnie, nelle quali si concentra per intero il
momento produttivo, tutti gli altri elementi riducendosi a funzioni logistiche e di mera
distribuzione. In questo caso l’impresario si limita per lo più a subaffittare il teatro da lui preso in
appalto a una compagnia, la quale poi gestisce come meglio crede la propria permanenza in
quel teatro, stabilendo direttamente il repertorio, decidendo delle eventuali repliche, curando
l’allestimento degli spettacoli. Le compagnie drammatiche italiane sono normalmente itineranti, o
di giro. Ed è proprio questa la condizione che permette loro di realizzare quella capillare
distribuzione del prodotto teatrale in tutti i centri della penisola, quel decentramento che è
anch’esso oggetto della meravigliata attenzione degli osservatori stranieri, i quali lo considerano un
fenomeno esclusivamente italiano, attribuendone ovviamente le cause alla storia politica del Paese,
e cioè al tardivo raggiungimento dell’unità, situazione questa che in realtà favorì soltanto il
permanere in Italia di una tradizione del mestiere in altri tempi diffusa in tutta Europa, e
anche negli stati più rigidamente unitari come la Francia e la Spagna.

Esistono anche delle compagnie stabili o, sarebbe meglio dire, stanziali − cioè compagini che
agivano esclusivamente o prevalentemente in un teatro o in una città. Queste compagnie sono
di solito compagnie dialettali o popolari. I tentativi di costituire compagnie stanziali di livello
primario, dopo i grandi esempi della Vicereale milanese e della Reale sarda all’inizio del secolo,
fallirono tutti in breve torno di tempo. Invece le compagnie di giro agivano in un dato centro per
un periodo di tempo molto breve: solo le compagnie di grande prestigio riuscivano a tenere una
piazza per un’intera stagione (cioè per due o tre mesi), e solo se si trattava di una delle tre grandi
piazze: Roma, Milano e Napoli. Ma, stanziali o itineranti che siano, le compagnie di un certo
livello hanno tutte una struttura largamente simile. La compagnia drammatica italiana è,
nell’Ottocento, una microstruttura sociale, o, se si preferisce, un’impresa economica, soggetta,
come tale, alle diverse forme dell’impresa: la cooperativa, rarissima; la compagnia sociale, nella
quale tutti i membri possedevano una quota azionaria; e, di norma, la compagnia di proprietà,
dove il capocomico era il padrone della ditta, gli altri attori assumendo la figura giuridica di
prestatori d’opera: il capocomico si sostituiva all’impresario gestore di teatro, ed era lui a stipulare
con gli attori i contratti di scrittura, che non duravano meno di un anno, normalmente tre, e
venivano spesso rinnovati. Perciò se dal punto di vista logistico la compagnia drammatica era
nomade, da quello strutturale era invece piuttosto stabile, molto più stabile delle compagnie
liriche, che erano sempre di formazione e non duravano mai più di una stagione.

La produzione di spettacoli era molteplice e diversificata: le repliche erano rare. Le compagnie


‘ufficiali’ del teatro italiano dei nostri giorni, le quali hanno ereditato dalle compagnie di prosa
ottocentesche il nomadismo, sono finalizzate alla produzione di un solo spettacolo. La struttura
della compagnia è funzionale a questo tipo di produzione. Essa si fonda su una rigida
gerarchia di carattere sociale ed economico e su un altrettanto rigida divisione del lavoro.
Gerarchia e divisione del lavoro che a loro volta derivano dall’organizzazione per ruoli. Si è mille
volte ripetuto che le compagnie dell’Ottocento italiano derivano in linea diretta da quelle della
commedia dell’arte. In realtà la strutturazione per ruoli è ben nota anche nelle altre civiltà
teatrali europee, e ben prima del declino della commedia dell’arte. Tuttavia, la commedia
dell’arte fu tale da ribaltare gli stessi principi, sociali come artistici, su cui si basava la
compagnia dell’arte, la quale era una «fraternal compagnia», sostanzialmente paritetica, nel
quale, se i compiti erano determinati ancor più rigidamente, nessuna parte era però tale da
soverchiare le altre. Né le maschere possono identificarsi con i ruoli, essendo determinazioni
stilistiche e competenze specifiche: non si sarebbe mai potuto discutere se un tal personaggio
dovesse toccare ad Arlecchino o al Capitano − perché Arlecchino è Arlecchino. Si poteva invece
discutere se un certo personaggio, drammaturgicamente definito, doveva essere appannaggio del
primo attore o del caratterista; il che significava dare una prima interpretazione del
personaggio in termini di categorie letterarie e psicologiche, ma non in termini stilistici: i ruoli
erano una competenza nel senso di abilità, capacità tecnica di fare qualche cosa. Si capisce quindi
come i primi attori possano avere diritto di scelta sulle parti − la divisione del lavoro, cioè la
dimensione tecnica si intreccia con la struttura gerarchica. Si potrebbe parlare di una sorta di
triade dialettica, il cui termine medio è costituito appunto dal ruolo: il personaggio, o meglio, per
restare nella terminologia, la parte, si risolve, cioè si nega, perdendo in qualche modo le sue
caratteristiche individuali, nel ruolo, e il ruolo è sostenuto dall’attore che recupera l’integrità
del personaggio, mantenendone però la schematizzazione che il ruolo stesso gli aveva imposto.
In altri termini, il confronto (come direbbe Grotowski) tra l’attore e la parte non è diretto, ma
avviene tramite la mediazione del ruolo, ragion per cui una determinata parte cambia, nella sua
definizione di base, non solo in quanto interpretata da attori diversi, ma anche, e soprattutto, in
quanto interpretata da attori di ruolo diverso: quando la Pezzana, nella rappresentazione dell’Oreste
alfieriano cui si è accennato nel capitolo d’apertura, sostenne la parte di Clitennestra, qualche
critico osservò che questa parte aveva acquistato una dimensione nuova in quanto
interpretata da una prima attrice, e non più, come voleva la tradizione, da una madre. La
sintesi peraltro può non realizzarsi, e allora succede che l’attore non recita più una parte diventata
personaggio, ma recita semplicemente il ruolo, cioè soltanto ciò che accomuna tutte le parti che
rientrano nella sua sfera di competenza.

Nel periodo che ci interessa, gli spettatori più all’antica esigevano ancora dagli attori «un ideale
fisico»: ad esempio il primo attore dev’essere un bel pezzo d’uomo membruto e con voce da
cannone, la prima donna deve avere forme giunoniche e gola di bronzo, il caratterista una bella
faccia da canonico con relativa pancia. Il concetto di ruolo, però, non si fonda, o almeno non si
fonda più, dopo la metà del secolo, come quello di maschera, su un complesso di stilemi e di
tecnicismi − costume, capacità acrobatiche, vocalità e quant’altro − ma sulla capacità, presunta o
accertata, di esprimere una determinata gamma psicologica, con i mezzi tecnici che l’attore più
riteneva opportuni, naturalmente entro determinati limiti: un tiranno senza potenza vocale, o grasso,
non sarebbe stato concepibile. E quando la Duse abbandonò gli stilemi arcaici delle pose nobili
si dubitò che recitasse da prima attrice.
La struttura di una compagnia italiana del secondo Ottocento ha la sua lontana e negata origine
in quella della compagnia dell’arte, ma sarebbe più giusto affermare che essa nasce quando la
commedia dell’arte comincia il suo declino, in seguito alla polemica e alla riforma goldoniana:
non è evidentemente possibile stabilire una data, ma ai primi anni dell’Ottocento le sue linee
generali sono già fissate. Le polemiche contro le rigidità e le incongruenze dei ruoli
incominciarono molto presto, ma divennero decise e argomentate verso la fine del secolo, auspice
soprattutto Edoardo Boutet che, nelle «Cronache Drammatiche» si batteva per il rispetto dei
testi e per l’introduzione della figura del direttore (o regista), e contro, appunto, pregiudizi dei
ruoli: siamo esattamente nel 1900, e la compagnia all’antica italiana è entrata nella sua fase
discendente. Sopravviverà tuttavia ancora in piena forza fino alla prima guerra mondiale, per
scomparire definitivamente solo dopo la seconda, quando proprio la figura del regista, secondo
l’auspicio del Boutet, si affermò definitivamente anche in Italia. Naturalmente nell’arco di tempo in
cui essa fiorì, la struttura della compagnia italiana venne sensibilmente modificandosi: alcuni
ruoli cambiarono di contenuto, anche in conseguenza delle mutate esigenze del repertorio, altri si
accorparono, altri scomparvero, la stessa gerarchia infine subì degli spostamenti: così ad esempio,
mentre all’inizio c’era un primo attore assoluto, per le parti tragiche e per le parti comiche, poi i due
ruoli si scissero e il primo attore per le parti comiche finì assorbito nel ruolo del brillante, il quale a
poco a poco perse la sua decisa connotazione comica per sfumare nelle parti di raisonneur o di
enfant gaté spiritoso e sornione: il ruolo di tiranno scomparve del tutto dalle compagnie primarie
con il dissolversi del prestigio della tragedia, mentre sopravvisse a lungo nelle compagnie popolari,
il cui repertorio era basato sui drammoni a forti tinte, dove il buono era perseguitato dal
cattivo, impersonato appunto dal tiranno; gli amorosi si trasformarono in attori giovani, e in
particolare il ruolo di ingenua, la fanciulla appena uscita dal convento, tutta moine e spontaneità,
diventa un versante delle competenze della prima attrice giovane. Crebbe l’importanza della
prima attrice, che costituì il punto di forza e la maggiore attrazione delle compagnie.

I ruoli si dividono in due grandi categorie gerarchiche: ruoli maggiori, o assoluti, che
costituiscono il punto di arrivo della carriera di un attore, il quale pertanto, invecchiando, o
cambierà ruolo per destino, o interpreterà parti che realisticamente sembrerebbero non competergli
più: è noto che Ernesto Rossi faceva Romeo dopo aver superato i sessant’anni; e in ruoli secondari,
attribuiti ad attori agli inizi della carriera, oppure che non sembravano avere le doti per
andar più oltre. Sono ruoli maggiori: la prima donna e il primo attore, il brillante, il
caratterista (destino, spesso, del primo attore, anche perché ha assorbito il vecchio ruolo del padre
e tiranno), e la madre, detta anche madre nobile (destino invece della prima donna e più spesso
della seconda). Sono invece ruoli minori: il primo attore, e la prima attrice giovani, destinati alla
carriera di primi attori assoluti; la seconda donna, che mira anche lei al ruolo della prima, ma
che in realtà dovrebbe avere caratteristiche diverse; il promiscuo, o attore di parrucca che,
passando di grado, dovrebbe diventare caratterista; il generico primario, una sorta di secondo
attore. Al di sotto di tutti la truppa dei generici, di coloro cioè che venivano impiegati nelle parti
minori e di contorno, nelle parti che, non essendo state approfondite a livello drammaturgico,
potevano considerarsi appunto generiche − fossero di conte o di cameriere.

Le fortune di una compagnia dipendono soprattutto dalla prima donna − è questo, per
conseguenza, il ruolo di maggiore prestigio e di gran lunga meglio pagato. Questo prestigio
dipende da varie cause: in primo luogo l’attrazione che le donne potevano esercitare sul pubblico
(maschile e femminile per diversi motivi), ma era poi anche legato all’evoluzione del repertorio: nel
dramma romantico e nella tragedia la parte più importante è di solito quella dell’eroe, mentre nel
dramma borghese così detto realistico della seconda metà del secolo è l’eroina a occupare la
posizione centrale, come testimonia anche il gran numero di eroine eponime della produzione
drammatica francese e italiana (come in Teresa Raquin e la signora delle camelie). A sua volta
questa centralità dell’eroina nella produzione drammatica derivava da un’inedita attenzione
prestata alla posizione della donna nella società: il problema riguarda, da un lato, ovviamente, la
famiglia, considerata più che mai pilastro dell’intero edificio sociale − donde il gran numero di
drammi incentrati sull’adulterio (ma è fenomeno antico: senza i cornuti non ci sarebbe stato teatro
in Occidente); ma riguarda altresì il ruolo ormai decisivo che le donne svolgono nella vita sociale e
mondana propriamente detta – da metà 700 il salotto è diventato il centro dell’aggregazione non
solo mondana, ma anche intellettuale e talvolta politica. In Italia basti ricordare per tutti il
celebre salotto milanese della contessa Maffei, gestito da altre signore e frequentato anche dal
giovane Arrigo Boito. D’altra parte l’evoluzione della drammaturgia comportò anche notevoli
mutamenti nel contenuto stesso del ruolo: la regina, la cui maestà si manifesta nello splendore della
vita di corte, le cui passioni si intrecciano con gli affari dello stato e si scontrano con
l’irresistibile forza del destino, diventa la donna che si destreggia con elegante nonchalance fra il
marito e l’amante, pur vivendo questa contraddizione con intimo strazio, o che deve difendere i
santi affetti familiari contro l’altra, la donna perversa, dal cui fascino il marito si sente
irresistibilmente attratto. Con tutte le varianti possibili. I due tipi di parti hanno in comune questo,
che in entrambi i casi si tratta di personaggi dechirés, di personaggi straziati dalla lotta di
diverse passioni, secondo l’antica formula della tragedia, ma soprattutto che si tratta di personaggi
complessi, non univocamente determinati. Perciò si supponeva che la prima attrice avesse più
d’una corda al suo arco, e questo le dava il diritto anche di scegliere le parti che sarebbero spettate a
ruoli subordinati. In realtà non succedeva così: ci si aspettava piuttosto che la prima attrice
portasse nelle parti non sue (ma di seconda, di prima giovane, di madre) la complessità propria
del suo ruolo, cioè per esempio che interpretando la parte di fanciulla sovrapponesse alla gaiezza e
alla spontaneità un velo pensoso di malinconia, un senso di angoscia e di paura. Sul piano più
strettamente scenico il passaggio dalla tragedia al dramma borghese comportava quello dalla
maestà all’eleganza, cioè dalla prevalenza delle pose e del gesto solenne a quella del movimento
spigliato e però insieme controllato. Ma ciò non sempre succedeva, e soprattutto non succedeva
interamente: nella dama c’è sempre un residuo di regina, e la grandezza della passione
comporta sempre un iperdimensionamento della posa nobile. Ma non vale la reciproca.
Interpretando parti tragiche, ciò che avveniva del resto abbastanza saltuariamente, le prime donne,
come anche gli altri attori, non vi portavano affatto qualche cosa della facilitas salottiera.

Tutto questo si chiarisce forse meglio esaminando il ruolo della seconda donna, che è un po’ la
spalla, ma soprattutto l’antagonista della prima − sulla scena come nel mestiere: Ernesto Rossi
raccomandava ai capocomici di non permettere alle seconde di offuscare con toilettes troppo
sfarzose il lusso delle prime attrici, ma è probabile che non solo con l’eleganza del vestire, ma
anche forzando i toni della recitazione e conquistando appena possibile la ribalta, le seconde
cercassero di mettere in discussione l’ordine gerarchico stabilito. Schematizzando si potrebbe
dire che nel dramma borghese, se la prima donna è una moglie, che può anche avere un amante,
restando però straziata dalla situazione irregolare, la seconda è l’amante del marito, l’elemento
perturbatore che viene a insidiare la sacra unità del legame domestico. Ella è invischiata nel peccato
senza rimorsi, senza strazio, senza pentimento: una specie di genio del male che, in quanto tale,
trova ampio spazio anche nella tragedia: come ad esempio in Elisabetta d’Inghilterra di
Giacometti. Gattesco Gatteschi, autore e critico fiorentino, definiva quello della seconda donna «il
ruolo più odioso del teatro moderno», che ha sostituito il tiranno nell’antipatia del pubblico,
condannata com’è «vita natural durante, all’adulterio». Un ruolo quindi monocorde, meno
complesso, dunque meno difficile. Successe peraltro che questi personaggi, come è giusto,
finirono per affascinare più di quelli positivi, con due risultati piuttosto paradossali: in primo
luogo molte prime donne pretesero spesso le parti delle seconde, mantenendo intatta la
dimensione maligna del personaggio, ma aggiungendovi quel tanto di sfumature problematiche che
il loro ruolo comportava; e in secondo luogo, se i drammaturghi italiani furono sempre restii a
disegnare figure di protagonista sul modello del ruolo di seconda, le attrici andarono a
trovarne in Francia: Cesarina e Lionetta, nei drammi di Dumas, sono personaggi di questo tipo
− e furono i personaggi prediletti di Eleonora Duse.

Gli uomini, come si diceva, passano in secondo piano. Molto più delle donne essi accusarono il
passar di moda del recitare di forza in cui eccellevano, nella tragedia, alfieriana e poi anche
shakespeariana, Gustavo Modena, Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi: le volate, cioè il passare
da toni sussurrati all’urlo dirompente, erano sempre più raramente concesse. Molti furono anche
lodati dai critici per la loro eleganza e la loro disinvoltura, ma sono lodi fatte sempre con riserva. In
ogni caso questa eleganza non bastava a sostituire nel gusto del pubblico le emozioni degli
impeti tragici, e fu caso mai, auspice Giovanni Emanuel, il realismo naturalista e patologico a
creare nuovi spazi per i primi attori. I quali peraltro non sono che il corrispondente maschile delle
prime donne.

Ampio spazio e più autonoma definizione ebbero invece, in campo maschile, gli altri ruoli primari,
quello di caratterista cioè e quello di brillante. Attorno al 1850 il caratterista era ancora un ruolo
prevalentemente comico. Legato, alle sue origini, ai personaggi di carattere del teatro di Molière
e di Goldoni, aveva forse desunto dal primo la tendenza alla definizione monomaniaca e quindi
caricaturale, che gli attori ottenevano con truccature anche pesanti di nasi posticci e vetri grossi. È
forse l’unico ruolo in cui l’immagine fisica mantenga una rilevante importanza. Ernesto Rossi
racconta che il suo omonimo, ma non parente, Cesare Rossi, il futuro capocomico della Duse a
Torino, aveva intrapreso la carriera di brillante, impossibile per lui perché aveva testa grossa,
nasone, braccia lunghe, spalle strette. Cesare Rossi infatti fu il più celebre caratterista del teatro
italiano, anzi definito «colui che ha restaurato il ruolo del caratterista» e il suo peso all’interno
della compagnia era certo più grande di quello del primo attore. Il campo d’azione prediletto
del di Rossi era la commedia, ma l’elemento grottesco e spesso forzato dell’aspetto entrava in
contrasto con la comicità moderata e la forte vena patetica che presto divenne essenziale
elemento costitutivo del ruolo. Nel dramma gli erano riservate tutte le parti dell’uomo che, avendo
vissuto e sofferto, non aveva perso il suo buonumore. Pertanto la sua comicità doveva sempre
essere velata da una sfumatura di malinconia e di rimpianto. Quando poi dovette indossare la
marsina ed entrare nei salotti gli elementi caricaturali scomparvero a uno a uno, e lo spessore del
personaggio rimase affidato al sottile contrasto tra l’aspetto faceto e il patetismo dell’uomo
dal cuore troppo grande e pieno, capace perciò di risolvere le situazioni più difficili, ma anche
di far precipitare le catastrofi più irreparabili. Anche in questa nuova dimensione però il
caratterista rimase a lungo specialista delle truccature.

Dell’evoluzione del brillante: da macchietta squisitamente comica trasformato nel giovane


bontonista, trovò ancora uno spazio nelle commedie pirandelliane, dove gli sono affidate le parti
del raisonneur, come quella di Leone Gala nel Gioco delle parti o, meglio ancora, quella di
Laudisi in Così è se vi pare. Ma caratterista e brillante rimangono personaggi centrali della
commedia e ancor più della farsa: al primo spetta il momento caricaturale, al secondo quello
dinamico, nel senso stretto di creatore di movimento, e quello del pirotecnico gioco verbale. Nella
farsa e nella commedia molto spesso i primi attori (uomo e donna) non hanno parte, e gli altri
ruoli ritornano alquanto alla loro più antica definizione: i primi attori giovani tornano amorosi,
ricompare la servetta e, dietro al brillante, fa capolino il ricordo del primo Zanni.

Attribuire un ruolo, abbiamo detto, significava sostanzialmente effettuare una riduzione


interpretativa entro i limiti di un determinato schema, appunto psicologico. E tuttavia in
qualche caso si è dovuto parlare di «abilità» o di «capacità»: la prima donna doveva essere più abile
della seconda − su ciò doveva fondarsi, almeno teoricamente, la gerarchia, che in realtà derivava
piuttosto dal maggiore o minore apprezzamento del pubblico. Ma importa sottolineare che questa
abilità, o capacità, non hanno in realtà neppur esse carattere tecnico: sono piuttosto delle doti −
doti espressive nella maggioranza dei casi, doti fisiche per il caratterista. La prima donna
doveva saper esprimere, e quindi possedere, un patrimonio di situazioni psicologiche (affetti o
sentimenti) più vasto di quello delle altre attrici, che non è determinabile né trasmissibile. È
esattamente ciò che costituisce lo stile individuale dell’attore. Ma di questa individualità della
forma la critica comincia ad accorgersene proprio davanti all’inatteso fenomeno Duse.

Il pubblico veniva identificato, tout court, con il cliente. Gli attori nomadi giravano di piazza in
piazza alla ricerca di una nuova clientela cui poter vendere con maggior profitto i loro prodotti. Fra
loro gli attori ne parlavano spesso. Naturalmente si trattava di un pubblico fortemente selezionato:
i cinquanta centesimi che costituivano il bassissimo prezzo d’ingresso nei teatri primari erano pur
sempre una cifra troppo elevata per le classi popolari, che frequentavano quindi altri teatri, le
baracche, le arene, o i teatrini popolari particolarmente numerosi, come si è visto, a Napoli, ma che
non mancavano neppure a Milano e a Roma. Ognuno in sostanza aveva lo spettacolo che si
poteva permettere. Comunque il pubblico era sempre considerato l’unico giudice dello
spettacolo, in tutte le sue componenti: se un attore non piaceva poteva essere protestato, il suo
contratto di scrittura si considerava cioè risolto in tronco. Questa norma tradizionale, che oggi
suona così terribilmente incompatibile con il diritto del lavoratore, era stata accettata e codificata
dalla giurisprudenza che, per i cantanti lirici, precisava che soltanto dopo tre prove positive il
contratto poteva considerarsi definitivo. Se una pièce veniva fischiata doveva essere
immediatamente sostituita, e poteva anche essere interrotta a metà, se le disapprovazioni si
facevano sentire fin dai primi due atti. Le repliche quindi avvenivano solo a richiesta, o quando
si trattava di un sicuro successo, anche perché, con il sistema di abbonamento a ciclo di recite, le
repliche costringevano l’abbonato a vedere più volte lo stesso spettacolo: in molti casi gli abbonati
cercavano di sminuire un successo proprio per evitare le repliche. D’altra parte i repertori delle
compagnie di uno stesso livello erano spesso largamente simili, e perciò il pubblico era abituato a
vedere una stessa commedia interpretata da attori diversi, e anzi questo costituiva, come si è
detto, un’eccitante occasione di confronto. Succedeva spesso che una commedia fischiata a
Milano venisse applaudita a Roma o che, approvata nell’interpretazione della Duse, cadesse
nell’interpretazione della Marchi. Gli attori avevano una certa coscienza di questo fatto, e
qualche volta mettevano in scena un dramma già miseramente caduto, quasi raccogliendo una sfida .
Tommaso Salvini sosteneva che qualunque produzione perde, col tempo, il prestigio della
novità, mentre il modo con cui viene interpretata resta sempre attraente . Il pubblico conosceva
la differenza tra testo e rappresentazione. La cosa riusciva invece poco comprensibile ai critici, per
lo più convinti che il significato essenziale di uno spettacolo teatrale fosse tutto nel testo
rappresentato, e che, per conseguenza, se era possibile o anche giusto approvare o disapprovare
un attore indipendentemente dall’opera che interpretava, non era però assolutamente possibile
salvare o condannare una commedia a causa degli attori. La critica cominciava dunque a essere un
elemento costitutivo della cultura teatrale proprio in questi anni, che sono poi gli anni del
definitivo trionfo del giornalismo come struttura portante dell’informazione e della
formazione dell’opinione pubblica. Ogni città di certe dimensioni poteva contare non su uno, ma
su tre, quattro e anche dieci fogli quotidiani, spesso strettamente legati a gruppi di pressione o ai
partiti, talvolta più semplicemente espressione dell’incontro di intellettuali e di speculatori. A un
certo punto fondare un giornale divenne il sogno e l’esercizio prediletto di tutti gli intellettuali in
qualche modo impegnati nella vita politica. Non tutti i giornali prestavano la stessa attenzione al
fenomeno teatrale: alcuni, e soprattutto gli organi della sinistra radicale, come i milanesi «Il
Secolo», «Il Sole», «La Lombardia» si limitavano a brevi e spesso distratte cronache degli
avvenimenti più rilevanti, altri non pubblicavano addirittura neppure l’elenco degli spettacoli, come
«Il Lavoro» di Genova. Ma i giornali più prestigiosi, solitamente legati alla destra costituzionale,
non solo informavano quotidianamente i lettori sull’attività dei diversi teatri cittadini, ma si
facevano anche obbligo di impegnare le loro firme più prestigiose nella critica teatrale: si è già
parlato di Verdinois, traduttore, romanziere e saggista, per il napoletano «Corriere del Mattino»;
bisogna altresì ricordare che le appendici teatrali del «Pungolo» di Milano erano curate dallo
stesso direttore del giornale, Leone Fortis, che si era spinto in qualche avventura drammaturgica
non senza un certo successo. A Roma chi orientava il gusto del pubblico in materia di teatro era
principalmente il marchese D’Arcais dalle colonne dell’«Opinione» e molti altri, queste sono le
testate delle principali città italiane. Alla cronaca era demandato il compito di informare i lettori
sugli avvenimenti teatrali che la città avrebbe ospitato, facendo previsioni e, se del caso,
raccontando aneddoti e pettegolezzi, compito questo importantissimo perché preparava il terreno in
modo più o meno favorevole; e di ragguagliare sull’esito delle rappresentazioni. L’accoglienza che
il pubblico aveva loro riservato, sia nel complesso che nelle singole parti ed elementi («il successo
fu strepitoso: nel primo atto ci furono tre chiamate agli artisti, il secondo passò un po’ freddino, ma
alla fine il pubblico volle artisti e autore alla ribalta»), spesso segnalando in particolare il
successo di un singolo attore. Ovviamente le cronache non erano sempre prive di notazioni
critiche, ma la valutazione critica propriamente detta era riservata all’appendice. Le appendici
erano tutti quegli interventi di carattere letterario o più generalmente culturale, considerati esterni
alla funzione giornalistica strettamente intesa, ma spesso determinanti per il prestigio e la popolarità
del giornale: ben noto è il fatto che nessun quotidiano avrebbe potuto sopravvivere senza le puntate
del romanzo detto appunto «di appendice». Le altre appendici, che potevano avere carattere
letterario, musicale, scientifico o, appunto, teatrale, si alternavano, mentre il romanzo era
d’obbligo.

Le appendici teatrali erano di due tipi. Poteva trattarsi cioè di una vera e propria critica dello
spettacolo, e in questo caso si trattava quasi esclusivamente di interventi sulle novità, sulle
esecuzioni cioè di un testo drammatico nuovo per la città: l’analisi verteva allora prevalentemente
sul testo, esaminato nella sua condotta, nel suo contenuto narrativo e ideologico e, soprattutto, nei
suoi personaggi considerati non tanto nella loro funzione drammaturgica quanto nel loro
contenuto psicologico; all’esecuzione non era per solito riservato grande spazio, e d’altra parte
l’analisi del dramma spesso ingloba quella dell’interpretazione poiché il testo, non essendo pre-
noto, veniva delibato (prendere parte) attraverso l’interpretazione stessa. Ma poteva anche trattarsi
d’altro, e cioè del commento su un intero corso di spettacoli, della presentazione di una compagnia,
o addirittura di un singolo attore. Allora l’attenzione del critico concentrandosi sugli attori, della
cui personalità si cercava di dare un’immagine complessiva, ma arricchita spesso e
sostanziata di esempi descrittivi che riportavano alla concretezza delle singole prestazioni; o
sulla compagnia nel suo complesso, che veniva lodata per il suo equilibrio e affiatamento, per la
cura della messa in scena e della concertazione (o riprovata per l’assenza di tali pregi). Ma sono,
queste ultime, notazioni di carattere secondario: il teatro ottocentesco è ancora un teatro di
parti. Altri giornali si comportavano diversamente, concentrando tutto, secondo la formula che
finirà col prevalere, nella cronaca dei singoli avvenimenti, gestita allora dall’unico titolare della
rubrica. Così si comportava ad esempio «Il Corriere della Sera» di Giovanni Pozza. Le cronache
sono allora più equilibrate e complesse e anche le riprese, purché proposte da una compagnia
di livello, vengono prese nella dovuta considerazione. Erano certamente i giornali politici a
influenzare massicciamente il gusto e l’opinione teatrale del pubblico più vasto, ma in questo
periodo di letterale esplosione della stampa periodica, è notevole anche il ruolo giocato,
particolarmente nel settore di pubblico più appassionato e interessato, dai giornali e dalle riviste
specializzati, anch’essi sempre più numerosi. Periodici del genere cominciano a essere stampati
fin dai primi anni del secolo, ma solo dopo il 1830 cominciano ad avere una fisionomia definita
e una certa continuità. Naturalmente l’avvio viene dato da riviste che concentravano la loro
attenzione sul teatro d’opera. A partire dal 1870 il numero dei giornali teatrali cresce a
dismisura. Di rilevante importanza è il fatto che la gran parte di questi giornali o riviste erano
organi di agenzie teatrali, o comunque strettamente legati a qualcuna di esse: quando un gruppo
di intellettuali bolognesi tentò di pubblicare una rivista del tutto autonoma, il loro tentativo si
arenò dopo il primo numero. I casi più clamorosi sono quelli dell’«Arte Drammatica», organo
ufficiale della stessa agenzia di Icilio Polese Santernecchi; del «Piccolo Faust» di Bologna,
organo dell’omonima agenzia diretta da Antonio Fiaschi; e del fiorentino «Scaramuccia»,
proprietà dell’impresario Ernesto Somigli, che gestì alcuni tra i più prestigiosi teatri della città.
Questi giornali, e soprattutto i primi due, potevano contare su una larghissima rete di
corrispondenti, a volte qualificati a volte estremamente rozzi, sparsi per tutta la penisola, i quali,
non senza aggiungere spesso delle notazioni di carattere critico, riferivano sui successi delle singole
compagnie nelle rispettive città, fornendo così un panorama completo dell’andamento del teatro in
Italia, anche se uno spazio maggiore era riservato, rispettivamente, agli spettacoli presentati a
Milano, a Bologna e a Firenze. Questi giornali avevano ciascuno una propria politica, dettata in
certi casi da motivi ideologici, ma in altri da più concreti interessi commerciali: «L’Arte
Drammatica», il cui proprietario e direttore era legato agli ambienti radicali, si fece paladina del
movimento naturalista, e quando Giovanni Emanuel presentò la sua edizione di Otello nel 1886
dette all’avvenimento il massimo rilievo possibile. Oltre alle cronache una parte sostanziosa del
giornale era dedicata ai movimenti delle compagnie e dei singoli attori, segnalandosene
l’eventuale disponibilità, le scritture concluse, le esigenze: in sostanza si reclamizzava la merce e
si cercava di piazzarla. Talché i principali interessati alla lettura di questi giornali erano i
capocomici e gli attori stessi, ai quali, in realtà, essi esplicitamente si rivolgevano. Un po’ alla volta
«L’Arte Drammatica» soppiantò e assorbì i suoi concorrenti. Dopo la morte di Icilio Polese la
direzione passò al figlio, che continuò e anzi allargò l’impresa paterna. «L’Arte Drammatica» cessò
le pubblicazioni solo nel 1931, quando cioè le strutture del teatro all’antica italiana avevano
cominciato a scricchiolare minacciosamente.

IL GRANDE REPERTORIO

Per l’anno comico 1880-81 Eleonora Duse venne scritturata, assieme a suo padre Alessandro, da
Cesare Rossi, in qualità di seconda donna. Cesare Rossi dirigeva a Torino una compagnia
‘stabile’ in quanto, avendo strappato alla Municipalità un vantaggioso contratto per l’affitto del
Teatro Carignano, si era impegnato ad agire a Torino per sei mesi all’anno, restando libero di
recitare per gli altri sei (che poi diventavano otto) in altre piazze. La Duse arrivava a Torino in
compagnia di Giacinta Pezzana, la quale evidentemente aveva riconosciuto nella giovane interprete
di Teresa Raquin un non comune talento, e l’aveva raccomandata al Rossi scrivendo una lettera.
Vent’anni dopo, 1901, il figlio di Rossi, scrivendo al giornale «L’Arte Drammatica» per
difendere l’operato del padre, rievoca l’episodio. Quando la Pezzana lasciò la compagnia,
sebbene ci fosse già una prima attrice al momento in cui la Duse viene raccomandata dalla Pezzana,
fu la Duse a prenderne il posto, anche se questa promozione non fu automatica. «La Gazzetta di
Venezia» marzo 1881, dando della compagnia di Cesare Rossi un apprezzamento
complessivamente poco benevolo, sosteneva infatti che «la compagnia non ha una prima attrice,
come non ha un primo attore»: la gara per conquistare quel ruolo rimase dunque aperta per un
certo periodo, e la Duse lo ottenne stabilmente solo dopo il successo riportato nella Principessa di
Bagdad al Teatro Goldoni di Venezia l’8 aprile 1881. Primo attore, in ogni caso, anche se
evidentemente non ancora considerato all’altezza del ruolo, era Flavio Andò, che diventerà
l’amante di Eleonora e sarà suo compagno di lavoro fino al 1896. Questo episodio è immerso
nella leggenda, come del resto tanta parte della storia della sua vita.

Reinhardt scive “aveva cinquant’anni ed era già leggenda”. Non sempre è possibile ristabilire la
verità storica, distinguere la donna dall’attrice. Spesso forse non è neppure utile né opportuno,
poiché l’immagine leggendaria è in sé piena di significato proprio in quanto salda. Ad ogni
modo, almeno in questo caso, è possibile ricostruire i fatti come si sono effettivamente svolti, e
quindi anche chiarire la genesi e il valore della leggenda.

Questa leggenda fu accreditata dal famoso articolo di Gegé Primoli, pubblicato nella «Revue de
Paris» del maggio 1897, che presentava Eleonora al pubblico parigino in occasione del suo primo
ciclo di recite nella capitale francese. Narra dunque la leggenda: la compagnia di Cesare Rossi
proponeva al pubblico torinese un repertorio ormai stantio, il cui punto di forza era costituito dalle
rievocazioni storiche, dalle commedie di maniera e dagli idilli. In questo repertorio la Duse si
trovava a disagio, anche se era stata apprezzata per la grazia conturbata con cui aveva
interpretato la manzoniana figura di Celeste, la contadinella che non si vuole sposare per un voto
fatto alla Madonna, nell’omonimo idillio in versi di Leopoldo Marenco. La compagnia recitava
dunque in perdita davanti a una platea deserta. Per fortuna un intraprendente impresario olandese,
quel José J. Schürmann, che tanta parte avrà nella carriera della Duse, stava organizzando una
tournée della più grande stella del firmamento teatrale internazionale, Sarah Bernhardt. Torino
sarebbe stata una tappa di quella tournée. Il richiamo fu enorme, i prezzi quadruplicati. Rossi
raggranellò qualche soldo sospendendo le recite della sua compagnia e affittando alla Bernhardt il
teatro che aveva in gestione. Scrive Olga Signorelli: Eleonora si inebriò per la prima volta delle
pene di Margherita Gautier, seguiva rapita ogni parola, ogni movimento. Partita la stella tra
Eleonora e il suo capocomico avrebbe avuto luogo un bel dialogo in cui Eleonora sosteneva
risolutamente di voler recitare la parte della Principessa di Bagdad, il capocomico era contrario, che
lei lo facesse dopo l’interpretazione di Sarah B. a Parigi, la quale era stata fischiata. La Duse
minaccia di lasciare la compagnia e il capocomico accetta.

In questa storia di vero c’è soltanto che la Duse assisté agli spettacoli di Sarah e che ne rimase
affascinata. Nonostante gli screzi che intervennero durante la sua tournée a Parigi, dove fu ospite
del Renaissance, il teatro appunto della Bernhardt, Eleonora nutrì sempre per l’attrice francese una
sconfinata ammirazione, che investiva l’aspetto artistico come la personalità nel suo complesso, la
ferrea volontà, la forza, la coscienza di sé. La colpisce la sua espressione dell’arte è quella che
è al di sopra della vita. Il leggendario aneddoto tende quindi a stabilire una sorta di legame di
continuità fra le due attrici, che furono poi sempre messe a confronto, anche polemicamente
dividendosi l’ammirazione del pubblico europeo. Ma la Duse tenne presto a precisare la sua
indipendenza: lei afferma di aver capito Lidia (Visita di Nozze) senza averla veduta
rappresentare da Sarah. Ma la storia della Principessa di Bagdad è diversa. Intanto, se è vero
che Rossi prediligeva le vecchie commedie italiane, è vero anche che non poteva esimersi
dall’inserire nel repertorio i maestri francesi ammirati dal pubblico. In secondo luogo le date non
tornano: la Duse recitò per la prima volta a Venezia La Principessa di Bagdad nell’aprile del
1881, Sarah Bernhardt verrà in Italia solo all’inizio dell’anno seguente. Infine la pièce di Dumas,
clamorosamente caduta a Parigi nel 1881, ma, a quanto pare, risollevatasi nelle repliche, non fu
affatto lanciata in Italia dalla Duse, ma era già stata recitata da altre attrici, con alterna fortuna:
applaudita senza condizioni nell’interpretazione di Adelaide Tessero, tollerata in quella di
Virginia Marini, ottenne un «decoroso insuccesso» con la compagnia del cav. Maggi,
protagonista Pia Marchi-Maggi. E tutto questo succedeva nel febbraio del 1881. Ma non basta: la
stessa compagnia di Cesare Rossi aveva recitato, per prima in Italia, La Principessa di Bagdad,
quando c’era ancora Giacinta Pezzana, che ne sostenne il ruolo di protagonista, facendosi
applaudire, ma senza riuscire a imporre la pièce. Anzi Adelaide Tessero e Giacinta Pezzana la
rappresentarono entrambe a Torino, nello stesso giorno (18 febbraio) per la loro beneficiata.
«L’Arte Drammatica», che riassume così la doppia serata: successo al Gerbino con la Tessero,
caduta al Carignano con la Pezzana. Primo atto silenzio. Secondo zittito. Terzo fischiato. Dunque,
allorché durante la stagione di quaresima a Venezia la Duse interpretò la parte di Lionette, per
la compagnia Rossi si trattava semplicemente di riprendere una pièce che era già in repertorio, che
era costata dei soldi e che quindi andava sfruttata, nonostante l’insuccesso di Torino.
L’importanza dell’avvenimento è tutta a posteriori. Non cioè nel fatto che Eleonora abbia
imposto al suo capocomico un testo da lui rifiutato (questo semmai dovrebbe averlo fatto la
Pezzana, ma è altrettanto improbabile), ma nell’essere riuscita dove la sua maestra era caduta solo
due mesi prima. Né la Duse avrà dovuto lottare molto per ottenere quella parte: le altre attrici
della compagnia non vi erano tagliate come dice il cronista della «Gazzetta di Venezia». D’altra
parte il personaggio di Lionette, moglie fiera e ribelle, pronta a lasciare il marito e a diventare
«prostituta» quando si sente insultata da lui, è, per la definizione dei tratti psicologici, di quelli
più vicini al ruolo classico della seconda donna, nel quale la Duse aveva dato ottima prova di sé
all’inizio dell’anno, interpretando la parte della contessa di Ludlow in Alberto Pregalli di Ferrari a
fianco della Pezzana. In quell’occasione la critica disse che nessuno aveva capito il carattere
meglio di e parlò di energia e calore nel suo modo di dire. E questa parte la mantenne anche dopo la
partenza della riscuotendovi successo anche a Venezia, dove fu giudicata «distinta, elegante,
sarcastica, affascinante» qualità tutte necessarie anche per la Principessa di Bagdad. Caso mai il
racconto di Primoli potrebbe funzionare se riferito alla Moglie di Claudio, una vecchia pièce dello
stesso Dumas, anch’essa caduta, ma molti anni prima, nel 1873, e rispolverata dalla Duse, oramai
incontrastata prima donna, nel corso della trionfale stagione dell’autunno 1882 al Teatro
Valle di Roma. È la stessa Duse che racconta l’episodio in una lettera a Gennaro Minervini.
Mogli di Claudio, lavoro che Rossi si era rifiutato di farle mettere in scena, e ha dovuto imporre
come serata. In un certo senso l’aneddoto, così corretto, sarebbe anche più significativo. E non
solo perché si tratta di un recupero certamente imprevedibile, ma anche in quanto il personaggio
appare ancora più forzato in senso negativo, addirittura un personaggio nero, e in quanto la prima,
sfortunata interprete era stata un’attrice al cui ricordo, o al cui mito, creato dallo stesso Dumas,
Eleonora guardò sempre se non con più ammirazione, certo con più tenerezza: non quindi la
grande, volitiva Sarah era il suo modello, ma la appassionata, romantica Aimée Desclée.

Qualche tempo prima aveva scritto al Marchese D’Arcais, uno dei primi critici che avevano
affermato l’originalità della giovane attrice, dicendosi infastidita del fruscio che Sarah aveva
lasciato dietro di sé, e affascinata invece dal ricordo della Desclée: egli fu il primo a dire che non
aveva riscontro con attrice italiana, ma ricordavo la compianta Desclée, sebbene la sua giovane
età non le avrebbe permesso di sentire la Desclée, quindi la speranza nel riscontro d’un ideale. E
qualche anno dopo, parlando di un altro personaggio dumasiano che era stato interpretato dalla
Desclée (Lidia in Visita di nozze) conferma la propria vicinanza sentimentale e artistica a
quella attrice e a quella donna: triste e sfiduciata, considerata donnina dall’apparenza sciocchina,
dalla vita solo di lavoro. Il personaggio nell’attrice e il personaggio nella donna − due termini
che nella vita della Duse diventeranno sempre più, paradossalmente, antitetici e al tempo stesso
identificabili. La Desclée è il contrario di Sarah, felice e gloriosa, sicura della propria bellezza
divina, che si offre a spettacolo in teatro e fuori. Eleonora, come Aimée, trova invece nel pianto e
nella rinuncia all’esibizione di sé, della sua possibile bellezza plastica di attrice, il significato del
proprio essere attrice e, appunto, donna.

È comunque vero che l’affermarsi della Duse come prima donna comportò un rinnovamento del
repertorio della compagnia di Cesare Rossi, come dimostra anche la sola lettera a Gennaro
Minervini. Ma rinnovamento in che senso? Nulla di rivoluzionario: un semplice svecchiamento,
che adeguava il repertorio della compagnia a quello delle altre formazioni primarie. Il repertorio
di Cesare Rossi, basato su Goldoni, Alberto Nota, Cormon e Grange, Marenco, Gherardi del
Testa era un repertorio che privilegiava il caratterista. A esso la Duse sostituì un repertorio che
privilegiava la prima attrice, e che coincideva appunto con i drammi di Dumas e di Sardou. In un
certo senso il rinnovamento derivava dai mutati rapporti di prestigio e di potere all’interno
della compagnia, che divenne poi la compagnia Rossi-Duse (1885), essendo stata l’attrice
associata nel capocomicato, ma in realtà la compagnia Duse, perché quando lei non recitava il
teatro restava vuoto. Il repertorio è in questi anni − tra il 1881 e il 1886 − ancora molto più ampio
e diversificato, quasi in una soluzione di compromesso, e non mancano del tutto tentativi di un
certo impegno sotto il profilo drammaturgico: la Duse legò il suo nome alla prima di Cavalleria
rusticana (1884) e alla ripresa che portò al successo il secondo tentativo drammatico di Giovanni
Verga, In portineria (1886), e ai primi lavori intimistici di Giacosa, Zampa di gatto (1883) e
Tristi amori (ma siamo già nel 1887); ma anche per quanto riguarda gli autori italiani di solito
preferiva gli idilli giocosi o tragici dell’ultimo Cavallotti, o Torelli, dal quale aspettava sempre
qualcosa di nuovo, e del quale amava particolarmente il personaggio di Scrollina, un po’
manierato, ma ricco di sfumature dolci-amare. Del resto la produzione drammatica italiana
era quello che era: le storie letterarie registrano soltanto i nomi di Paolo Ferrari, che ormai aveva
dato tutto quel poco che poteva dare, dello stesso Achille Torelli, che non aveva mantenuto le
speranze suscitate da I mariti, e di Pietro Cossa, l’ultimo tragediografo, morto nel 1881. Ed
erano, questi autori, considerati gli astri di una generazione che scompariva senza lasciare
eredi.

In effetti però ogni anno venivano scritti e rappresentati centinaia e centinaia di testi, che
costituivano il tessuto effettivo della drammaturgia italiana. Molti autori: Teodoro Anselmi
riforniva le scene popolari delle sue «boiate» e con splendida autocoscienza definiva i propri
drammi, tratti dai romanzi di appendice del tipo di quelli dell’«operaio» Mastriani; Ulisse
Barbieri, che fu anche attore violentemente aggressivo, scriveva impegnativi drammi storico-
sociali da lui stesso interpretati, e A. Leoni offriva con I malnutriti (tradotto anche in vari
dialetti) un drammatico quadro della miseria sociale. Non solo nei teatri popolari e proletari
prosperava una drammaturgia borghese, ma la stessa drammaturgia borghese affrontava
direttamente o indirettamente una gamma di problemi piuttosto diversificata, neppure sempre
costringendoli entro lo schema classico della storia di adulterio. Per quanto debole fosse in Italia la
cultura industriale, Valentino Carrera trattò i problemi dell’impresa industriale, stretta fra
l’ostilità della proprietà fondiaria e le manovre speculative, e incapace d’altra parte di vincere
la diffidenza e l’ignoranza della classe operaia, in un dramma ispirato alle proposte ideologiche
dell’unico grande industriale italiano − Alessandro Rossi. Questo dramma, dal titolo
programmaticamente esplicito, Capitale e mano d’opera, fu rappresentato nel 1871 e ripreso
dieci anni dopo addirittura al San Carlo di Napoli con una scenografia fatta di veri macchinari e
un gruppo di operai come comparse.

Il valore centrale, in Italia molto più che in Francia − continuamente insidiato dalla tentazione
dell’adulterio, ma continuamente riaffermato come inalienabile fondamento del consorzio umano
− è costituito dalla famiglia. Ma nella drammaturgia italiana l’adultera solo con Giacosa e
Praga assurge a protagonista, e resta più spesso confinata al ruolo negativo della seconda donna,
per la quale non si dà riscatto e quindi neppure ideologia, ma semmai solo giustificazione. Il
peccato è dunque una malattia, un male oscuro che si respira nell’ambiente tarato e nella
cultura. L’unico spazio di lucidità autocritica (unico, ma di importanza decisiva) del personaggio
sta nell’avere coscienza di questo. Una malattia che i romanzieri hanno inventata, e che i medici
non sanno curare. Si chiama nevrosi.

Gli autori italiani pensavano che alla Duse toccassero le classiche parti di prima donna, con tutta la
positività morale e ideologica che questo comportava, e ritenevano sufficiente collocarla in una
situazione malata perché il doloroso disagio del suo spirito potesse emergere. Per questo Galieno
Sinimberghi scrisse espressamente per la Duse un dramma, Il matrimonio di Irene (1885), in cui
la protagonista, che nel primo atto è una fanciulla allegra, piena di vita e, naturalmente, dolcissima,
viene poi trascinata in una situazione abominevole dal matrimonio con l’amante della moglie
di suo padre. Situazione che la rende nervosa quando soltanto l’intuisce, e la porta sull’orlo del
peccato quando la capisce. La Duse non interpretò mai questo dramma letterariamente atroce, si
rifiuta e dice all’autore di scrivere un dramma non basato sulla personalità dell’attrice. Una lettera
esemplare, dove prima di tutto è certamente da rilevare il rispetto della gerarchia accettata
dall’alta cultura (ma non da tutti gli attori: Rossi e Salvini la pensavano ben diversamente) tra
l’opera dello scrittore e quella dell’attore, questa essendo comunque subordinata alla prima, che,
sola, può definirsi arte; e la conseguente concezione, pure ampiamente condivisa, dell’attore come
interprete, la cui dote, in fondo, non può essere che l’intelligenza critica (saper leggere) e l’onesta,
umile trasmissione del pensiero altrui. È un atteggiamento che si tinge di angoscia, dovuta al senso
di esclusione dalla verità eterna dell’arte, poiché l’attore non crea un’opera che gli sopravviva,
ed è anche coscienza della perfetta autonomia dell’opera letteraria.

Al tempo stesso c’è però implicita l’affermazione che l’incontro fra l’attore e il testo, o sarebbe
meglio dire fra l’attore e il personaggio si realizza a partire dall’attore, il quale valuta e sceglie
non ciò che è stato scritto per lui, ma ciò che esistendo come opera (o come personaggio),
coincide con le esigenze del suo spirito e della sua sensibilità. Esaminando le invenzioni
sceniche della Duse ci si meraviglia scoprendo che esse sono spesso perfettamente rispondenti alle
indicazioni didascaliche del testo, ma ciò è piuttosto perché la Duse si sottrae alla tradizione
scenica e afferma un rapporto diretto, esistenzialmente fondato, con una letteratura
integralmente moderna, priva cioè di valori assoluti, ma rispondente ai turbamenti, alle
incertezze, ai fermenti ribelli, ai miti se si vuole, di una nuova diversa femminilità ‘nevrotica’.
Perciò i più acuti osservatori riconosceranno in lei e «in lei sola» «il frutto della fine del
secolo» oppure «la quintessenza della muliebrità (qualità della donna) della nostra epoca» e
ancora molto più tardi, quando la Duse era già passata attraverso l’esperienza estetica
dannunziana, a un cronista tedesco questa modernità parve non già essere venuta meno, ma
essersi sublimata e purificata, in quanto «certe particolarità della donna moderna, forse le più
sottili e nobili, lei le rappresenta nel modo più forte e puro. Ha elevato a classico il tipo della
donna moderna, mentre negli occasionali testi drammatici questa modernità era una moda, o un
seguire i tempi, nelle interpretazioni dusiane diventava un assoluto in cui ci si riconosce, ma
che ci trascende. Da ciò anche le opposte valutazioni dei critici: «La Duse è sempre sé stessa − la
Duse si perde e scompare nel personaggio» che, in questo caso, rispettano non solo una
contrapposizione canonica, ma, al di là da essa, proprio questa inafferrabile dialettica dell’assoluto
e della sua fenomenologia.

A parte l’illustrata varietà di temi, il dramma italiano era quel che era: c’era un’incapacità di
tessere un intreccio credibile, senza interventi e uscite pretestuosi, senza antefatti esposti
faticosamente dai personaggi alla maniera della commedia; e ciò che soprattutto mancava erano
le parti, cioè proprio quell’elemento su cui si fondava la possibilità stessa di realizzazione
dell’attore: ridotti da bel principio allo schematismo dei ruoli, i personaggi o vi scomparivano o
comunque non nascevano da quella dialettica da cui ne derivava la complessità e lo spessore.
Teatro scritto per l’attore, la Duse non poteva certo riconoscervisi.

Ci sono dei drammi italiani cui l’attrice prestò un’attenzione effettiva e affettuosa. Tra essi in primo
piano un’opera di Francesco Garzes, marito di Emma, che fu per tutta la vita legata alla Duse da
una tenera amicizia. Francesco un giorno chiese alla Duse di fare società con lui, ma lei, appena
uscita dal sodalizio con Rossi, respinse l’offerta. Il Garzes, non riuscendo a sanare un suo dissesto
finanziario, si suicidò. Ma questa è storia a venire. La commedia di cui si tratta, Lionetta (forse non
a caso lo stesso nome della Principessa di Bagdad), è un piccolo capolavoro, in cui un marito e
una moglie si incontrano nello stesso villino dove si erano recati per incontrare i rispettivi amanti; la
moglie capisce la situazione, il marito no, e lei ne approfitta per assumere la parte della
vittima gelosa, e per rivendicare i suoi diritti di donna, tra cui però vi è anche quello di venir
uccisa se scoperta in colpa, e questo perché l’amore che pretende dev’essere integrale e
incapace di compromessi, e perché lo schema sociale è talmente interiorizzato da essere diventato
parte della sua stessa natura di femmina che ha bisogno di essere domata e dominata dalla forza
dell’uomo. Lionetta cioè vive lucidamente la sua contraddizione e la sua schizofrenia. Vive
lucidamente, una realtà che le appare ineluttabile, quella della vita. La Duse non rappresentò mai
Lionetta, ma scrisse a Garzes il suo complimento più bello. In questo personaggio infatti
Eleonora poteva ritrovare la sua contraddizione bruciante fra il bisogno di essere se stessa,
libera e creatrice, e quello di farsi strumento e creta nelle mani di un uomo dominatore e
creatore, di un poeta, contraddizione su cui si fonda la sua utopia di teatro, ma anche il suo
effettivo rapporto artistico ed erotico con i due poeti della sua vita, Boito e, molto di più,
D’Annunzio. Però, scrivendo a Garzes, mostrava che ciò che soprattutto la colpiva nel personaggio
di Lionetta era piuttosto l’orrore per l’amante vigliacco, ossia lo schifo per tutto il mondo degli
uomini, che torna in tanti personaggi da lei interpretati e la cui manifestazione ha sempre
profondamente colpito gli spettatori e i critici. Di questo schifo cosmicamente purificatore il
‘peccato’ è in un certo senso parte integrante, travaglio necessario alla coscienza. La dimensione
negativa è predominante nell’arte e nell’atteggiamento esistenziale dell’attrice. Si tratta però di
una negatività piena di passione e di una volontà, schopenhauerianamente negata, viene poi
rimpianta. Si capisce, così perché e in che senso la Duse potesse ritrovarsi in quei personaggi che
oggi appaiono così artefatti del teatro di Sardou e di Dumas.

La più importante interpretazione di un testo italiano realizzata dalla Duse negli anni del suo
sodalizio con Cesare Rossi fu Cavalleria rusticana, andata in scena a Torino il 14 gennaio 1884.
Fu un successo, ma non un successo travolgente, tant’è vero che le «scene» verghiane non furono
riprese dalla Duse nelle due grandi stagioni che in quell’anno la videro protagonista al Teatro
Carcano di Milano (maggio) e al Valle di Roma (aprile). Ma Cavalleria fu anche, assieme alla
Locandiera di Goldoni, l’unico testo italiano a entrare nel repertorio delle lunghe tournée che
l’attrice compì all’estero a partire dal 1890, sicché Santuzza diventò uno dei personaggi che
costituirono l’immagine della Duse per il grande pubblico internazionale. Comunque sappiamo
abbastanza poco della sua interpretazione. La stampa italiana la definisce «sobria, frenata,
semplice, senza mai un grido, senza mai un gesto violento», mentre la stampa straniera, molti anni
dopo, vi troverà un’espressione intensamente passionale e una continua variazione di
sfumature psicologiche. Impressioni contraddittorie, come si vede, che possono derivare da una
mutata intenzione interpretativa, ma anche dalla misteriosa capacità dell’attrice di suscitare
sensazioni che andavano al di là del suo effettivo comportamento, apparendo diversa a ogni
spettatore. Le impressioni grafiche la mostrano assorta, pensosa e rassegnata, forse vittima
sacrificale più che donna innamorata o gelosa. In questo senso è possibile che ella abbia colto la
dimensione rituale e religiosa del capolavoro di Giovanni Verga, che peraltro si realizza
soprattutto nella quinta scena, non scena di passione, ma rito di condanna, dove la vittima si erge
a giudice per mandato divino con quell’accusa tre volte replicata e ribadita in crescendo: l’arrivo di
Alfio non è artificiosa coincidenza, ma segno della volontà celeste − egli giunge come evocato dalla
maledizione di Santuzza e dal suono della campana. Ma non era questa, certo, la caratteristica
decisiva dell’interpretazione dusiana. Arthur Symons scrisse che, nel conversare con Turiddu:
la Duse faceva un gesto gentile e patetico con la mano apparentemente inconscia, ripiegando
la manica del suo amante sopra il polso, mentre i suoi occhi si fissavano in quelli di lui assetati
di ciò che sperava di trovare. È un gesto, quello descritto, tutt’altro che eccezionale nella Duse, la
quale spesso compiva movimenti automatici e indirizzati sul partner. Esso però, contraddicendo
all’intensa fissità dello sguardo, alla presumibile immobilità della persona, racconta la
confidenza dolcemente familiare fra i due giovani, riconduce la tragedia alla sua realtà
quotidiana. Come già era successo in Teresa Raquin l’assolutezza del tragico si colora di terrena
tristezza. Non passione dunque, né di gelosia, né di desiderio, ma stanchezza; è quel dolore privo di
manifestazioni esteriori che sta tutto nel suo essere pensato. L’immagine centrale fu dunque quella
di una ragazza addossata al muro, che ha pianto, poiché tortura ancora fra le mani il fazzolettino
bianco, che non dice, ma pensa il proprio dolore, come una piccola tristezza. Almeno nelle
rappresentazioni dei primi anni questa immagine si dissolveva violentemente non nella scena di
gelosia con Turiddu, ma nell’ultima dove Santuzza compare, in quella quinta scena. Dopo aver
denunciato Turiddu ad Alfio, invocando su di sé la maledizione del cielo, la Duse «trascorreva a
un eccesso di colorito», correndo in maniera «convulsa e disperata» per la piazza, senza ascoltare
il conforto morale di Alfio. Quello che era stato fino a quel momento un dramma contenuto in
toni tutto sommato intimistici esplodeva in un dolore troppo impudico e imprevisto per essere
passione. È il personaggio stesso che si dissolve con l’immagine fino a quel momento costruita, e
non in un gesto di sublimazione religiosa che il testo avrebbe permesso, ma, al contrario, in
un’esplosione furiosa che riportava «l’arte dell’anima» di Eleonora Duse.
I drammi che costituirono per decenni il nucleo permanente del repertorio di Eleonora Duse, a quei
personaggi di cui enumerava le repliche. Personaggi anzi che finiscono col diventare una sorta
di ossessione, una schiavitù, una catena da cui non riusciva a liberarsi: lei, che aveva più volte
affermato che una donna di teatro «all’età di nostro Signore […] deve saper sparire», si troverà a
recitare Margherita Gautier ancora a cinquant’anni.

Nel 1898, mentre iniziava la collaborazione con D’Annunzio sosteneva che spesso diventava così
grande il disgusto nei confronti dei personaggi che rappresentava da tempo e così fiera la protesta
della sua coscienza. Ma in realtà che cosa la obbligava? Per capire bene la questione bisogna
precisare ulteriormente come si formava il repertorio di una compagnia italiana. Esso era
costituito sostanzialmente di due categorie di testi: le novità e le riprese. Nel corso di una
stagione una compagnia primaria era tenuta a presentare un certo numero di novità, di
drammi cioè non ancora rappresentati, e a questo scopo essa, o meglio, il suo capocomico, li
acquistava direttamente dall’autore o tramite le agenzie, e con varie formule: esclusiva, esclusiva
per determinate piazze, o semplice diritto di rappresentazione condiviso con altre compagnie.
Le novità più ghiotte erano i successi dei teatri parigini che, frettolosamente tradotti,
arrivavano in Italia nel giro di pochi giorni. Se il nuovo dramma aveva successo, entrava nel
repertorio e veniva sfruttato fino a quando il pubblico mostrava di gradirlo. Spesso, quando era a
corto di novità o di soldi, la compagnia riesumava testi di un recente o più remoto passato,
fidando sul fatto che, comunque, essi erano sconosciuti al pubblico, o su un qualche motivo di
interesse che potevano ancora avere. Più rare, nel periodo che ci interessa, le riprese dei classici
(Alfieri, Shakespeare): il solo Goldoni continuava ad avere un suo spazio quasi obbligato.
Naturalmente le cose stavano diversamente per le compagnie secondarie, che si rivolgevano ad
autori meno noti, o sfruttavano, come cinema di seconda visione, i testi già passati dalle compagnie
principali negli anni precedenti; e per le compagnie popolari che avevano un loro particolare
repertorio. Si aveva così un quasi naturale ricambio dei titoli che formavano il repertorio, nel
quale però rimanevano sempre, come nucleo costante, quei titoli che avevano ottenuto miglior
successo e che il pubblico mostrava di continuare a gradire, o che, infine, il capocomico e i
maggiori attori ritenevano più adatti ai propri mezzi.

La Duse, in fondo, non si sottrasse a queste norme, introducendo nel proprio repertorio novità
anche audaci, come L’Abbadessa di Jouarre di Renan, che non riuscì mai a imporre, come,
qualche anno dopo, Casa di bambola di Ibsen. Bisogna tener conto del fatto che a un certo punto
la compagnia della Duse divenne una compagnia da tournée, che non girava più solo l’Italia, ma
tutto il mondo, si può dire, e aveva quindi bisogno di un repertorio più limitato, ma vario ed
equilibrato, adattabile alle esigenze e ai gusti dei singoli Paesi (così in Russia e in Germania aveva
successo Antonio e Cleopatra, l’unico classico del suo repertorio, rifiutato altrove). A un certo
punto si può dire che questo repertorio abbia trovato un suo assetto definitivo, con Cavalleria
rusticana e La locandiera a rappresentare la drammaturgia italiana vecchia e nuova, Sudermann,
Pinero e Ibsen come relative novità. Ma i pezzi forti rimasero pur sempre Sardou e Dumas, che
la Duse stessa riteneva indispensabili. Certo ci fu una selezione, ma Margherita Gautier e
Cesarina rimasero punti fissi e insostituibili, anche dopo la parentesi dannunziana. Perché? Se
lo chiesero anche i contemporanei, e qualcuno diede spiegazioni anche acute, come Puccioni e
Borgese, i quali sostennero che nei drammi letterariamente approssimativi di Dumas, di Sardou, di
Praga, la Duse poteva disinteressarsi del testo e creare il personaggio seguendo unicamente la
propria immagine, magari improvvisando come i comici dell’arte, mentre là dove il testo ha
una sua necessaria rigidità, si sarebbe trovata ridotta al ruolo di interprete. Questa può essere
stata una ragione inconscia dell’attrice che si sentiva stretta in strutture letterarie troppo
condizionanti, ma non può essere stato un motivo specifico né delle scelte, né del continuo
ritornare su di esse, tanto più che la Duse in buona fede anche se non sinceramente, perseguì
sempre l’ideale di un «teatro di poesia». Intanto c’è certamente una causa esterna: per il pubblico
Eleonora Duse era legata a quei personaggi, indissolubilmente: si era creato un’immagine
dell’attrice che muta certamente non solo a seconda del dramma rappresentato, ma anche nelle
repliche di uno stesso dramma, un’immagine infinitamente mobile e sfaccettata, ma pur sempre
fondamentalmente identica. E questa immagine il pubblico vuole ritrovare nella sua attrice: nel
1897, quando, dopo un’assenza di sei anni, Eleonora torna a Milano, il pubblico l’aspetta al varco
non per vedere come interpreta il Sogno dannunziano, o il nuovo dramma, La seconda moglie di
Pinero, ma per capire se è rimasta se stessa nella Signora delle camelie. Ma c’erano poi motivi
professionali, morali e intimi, quei motivi cioè che l’avevano indotta ad accogliere con entusiasmo
le proposte della più diffusa cultura teatrale dei suoi esordi: Sardou e Dumas, proponevano un
assoluto protagonismo femminile, che solleticava, le ambizioni della prima donna; inoltre i loro
personaggi potevano vantare una sia pur schematica complessità, un ricercato spessore nel quale
l’attrice poteva di volta in volta trovare spazi per nuovi motivi e varianti dell’immagine
fondamentale; ancora, con quei personaggi nei quali aveva visto il riflesso della propria
condizione di donna e di attrice e addirittura degli aneddoti dolorosi della sua vita poteva
continuare un dialogo che assumeva flessioni sempre diverse.

Il personaggio dagli attori dell’Ottocento era considerato un’entità psicologica reale, e la Duse
portò alle estreme conseguenze questa prospettiva non solo perché ammetteva di
‘immedesimarsi’ nel personaggio, ma proprio perché le pareva di intavolare con lui un vero
rapporto affettivo, esistenziale. Le eroine buone e belle sono ideali astratti di una vecchia
immagine angelicata, e con esse nessuno scambio è possibile, e per conseguenza nessun rapporto
fra personaggio e interprete. Lei rifiuta questa immagine, la sua è quella del dolore e del compianto.
Rifiuta il bene e quell’area complessa che la società definisce del peccato per cui gli illuminati
cercano un perdono e un riscatto (Eleonora né può né vuole riscattare). Perché lei, come le sue
eroine, è peccatrice − di quel peccato antico che consiste nell’essere donna di teatro: un peccato
complesso che comprende tutti gli altri, il capriccio, la miseria morale, la volgarità, che Tebaldo
Checchi, il marito generoso e comprensivo, adduceva a giustificazione quando venne tradito e
abbandonato per il bel Flavio Andò, ma un peccato che è situazione dolorosa, rinunzia e
sacrificio, proprio perché assorbe e vive, con i propri, gli altrui peccati, cioè gli altrui dolori .
Un dolore che le costa molto mettere in scena, come quando rappresenta Denise.

Il personaggio Denise, protagonista eponima dell’ultimo dramma di Dumas, è quello che più di
ogni altro poteva apparire ispirato agli aneddoti dolorosi della vita trascorsa della Duse: la
ragazza sedotta e abbandonata con un bambino che poi le muore. Denise significò per la Duse
una sorta di consacrazione definitiva, non per il successo in sé della rappresentazione, che anzi fu
tiepido, ma per il fatto che Dumas aveva, se non scritto appositamente il dramma per lei, almeno
pensato a lei come prima interprete italiana. Mediatore, e anzi artefice di questo rapporto
privilegiato fra la Duse e il caposcuola francese, fu Giuseppe Napoleone Primoli, Gegé, come
lo chiamavano gli amici, figura centrale della cultura romana di quegli anni, della quale anche la
Duse divenne presto parte integrante. Gegé aveva informato Dumas del successo riportato dalla
Principessa di Bagdad e dalla Moglie di Claudio nelle interpretazioni della Duse, con tanto calore
da convincerlo che si trattava di un fenomeno eccezionale. La loro corrispondenza è una preziosa
testimonianza di un’amicizia durata tutta la vita e che a un certo punto divenne per Primoli quasi un
amore: la Duse si dimostra dapprima incredula, ritenendosi indegna di tanto onore, poi
desolata della pubblicità che i giornali avevano dato al suo dolce segreto, e poi gelosa, temendo
che altri (Rossi) volesse impadronirsi della sua proprietà. Infine si fa un punto d’onore nel
mandare puntualmente a Dumas le percentuali di sua spettanza. La prima ebbe luogo il 2 marzo
1885 al Teatro Valle di Roma, dopo che un violento attacco della sua malattia polmonare
aveva tenuto Eleonora lontana dalla scena per quasi due mesi. Non fu un successo, e non solo
perché il testo di Dumas fu trovato noioso e predicatorio. Per Denise, che fa l’istitutrice, la Duse
aveva abbandonato le splendide toilettes indossate in, ad esempio, la Moglie di Claudio. Nella
sua interpretazione Primoli volle trovare il racconto della sua storia infelice di ragazza madre,
sosteneva che nel corso della rappresentazione si identificava troppo con il personaggio «non era
più Denise, era lei stessa nella scena della confessione, era il suo bambino che piangeva, e i
singhiozzi prolungati, le lacrime che non poteva frenare avevano finito per stancare il pubblico».
Il peccato dell’attrice non è dunque la violazione delle norme sui rapporti sessuali, ma quella
della propria anima. Eppure la rappresentazione di Denise fu forse la più pudica, la più introversa
della Duse. Soprattutto nelle prime repliche ella assunse un atteggiamento al tempo stesso di
abbandono e di tensione, dove però la tensione si manifestava soprattutto nel viso tirato, in certi
«movimenti sussultori della persona, nella contrazione delle mani», come racconta Leone
Fortis, secondo il quale però in un secondo momento queste manifestazioni più evidenti
scomparvero e dallo scontro tra il personaggio e l’attrice nacque l’immagine di «una donna
che lotta con la propria nervosità, ma la vince e la soggioga». Solo nei dieci minuti della
confessione (III. 5) gli spettatori vedevano «erompere tutto il dramma della sua vita». Ma lei
non faceva altro che dire le ben costrutte frasi del racconto spesso interrotto da interrogativi retorici,
seduta «gomiti sulle ginocchia, faccia tra le palme», parlando fra i singhiozzi che spezzavano il suo
dire. Spoglio e scontroso fu il tono generale della rappresentazione. Atteggiamenti questi confermati
da alcune fotografie e incisioni: l’attrice vi appare con la testa quasi insaccata nel busto, la bocca
piegata all’ingiù in una smorfia dura e triste; le braccia sono allentate con le mani incrociate sul
grembo, in un atteggiamento quasi da beghina. La sua Denise non viene a chiedere né pietà, né
simpatia, né perdono, né riscatto. Non è questione di essere riammessa nella società, semmai di
affermarne il rifiuto: ancora una volta il momento che più autenticamente e irresistibilmente scosse
il pubblico come una scarica elettrica che colpisce nell’intimo dei valori affermati fu una
manifestazione di ribrezzo: «Quando Andrea le domanda se ama ancora Fernando, essa ha un
brivido di schifo, una mossa di repulsione così vera, così umana, che il pubblico proruppe in un
applauso immenso», senza accorgersi di applaudire contro se stesso. Questa rigidità forse si
sciolse un poco nelle rappresentazioni successive: l’affetto per il personaggio, dovuto al ricordo
dell’omaggio di Dumas e alla effettiva corrispondenza delle situazioni intime, prese il sopravvento.
Si dice abbia fatto piangere il pubblico.

Denise è l’ultimo dramma di Dumas interpretato dalla Duse che, abbiamo visto, aveva esordito nei
grands rôles del drammaturgo francese sostituendo Giacinta Pezzana in La Principessa di
Bagdad. Denise era introversa e dimessa. Ella fu considerata sempre, ancora da uomini come
Pirandello e Benedetto Croce, un’attrice passionale, l’interprete somma cioè e originale delle
passioni che turbano e sconvolgono, come irresistibile vento, l’anima umana.

La tragedia intima di Eleonora la causa prima di quella infelicità che i trionfi, la fama, la
ricchezza sembrano rendere ingiustificata, fu un vuoto dell’anima, una sensazione di impotenza
a vivere realmente la vita e quelle passioni che sono sentite come la ricchezza più vera dello
spirito e alle quali, in un certo senso, le donne erano obbligate. La Duse non amava Flaubert. Stando
a una testimonianza di Arthur Symons, lo definiva «quel piccolo prete». Eppure Emma Bovary
è la creatura forse a lei più vicina, con quel suo cercare di essere ciò che non è, con quel suo voler
riempire il vuoto effettivo della vita sentimentale con passioni cercate e artificiose. Di tutto
questo Eleonora sembra aver avuto una percezione oscura, ma sempre più pungente, al punto che
quando vanta la propria sincerità, quella sincerità che veniva spendendo tutte le sere sul
palcoscenico, si ha la sensazione che si riferisca piuttosto a una illusione, o a una ricerca, sincera,
certo, ma mai realizzata. Ma la coscienza della sua incapacità di vivere sentimenti reali, che
era riuscita a nascondere rifugiandosi nel lavoro, esplode quando, lasciate le scene, il lavoro non
è più lì a riempire fittiziamente il suo spirito. Per cui non rimane che recitare: recitare se stessa
nei suoi personaggi sulla scena, recitare i suoi personaggi in se stessa nella vita, in un continuo
artificio teatrale che tanto affascinava gli uomini/donne di teatro e tanto irritava altri meno
intendenti, ma d’altra parte quella sensazione di assoluta verità che il più delle volte suscitava nelle
sue interpretazioni.

La Duse recita perché le passioni, in assoluto, non sono vere, eccetto quell’una che è il desiderio
della passione − e, stanislavskianamente, per indurreun affetto bisogna riprodurne i sintomi.
Anche Lionette recita. Recita il suo sdegno, il suo parossismo, il suo amore di madre. Un cronista
veneziano, in occasione della prima, abbia potuto sostenere: questa Lionette non è che una
cortigiana […] ma mente quando affetta una nobiltà di sentimenti che non ha […]. Una donna che
si vende cinicamente pretendendo di essere onesta […]. Noi non crediamo allo sdegno, alla
passione di Lionette, perché essa ci par vera soltanto quando è cortigiana. Il cronista credeva di
parlare della Lionette di Dumas, della quale, per quanto confusa e incoerente sia, tutto si può dire
tranne che sia una cortigiana che si vende cinicamente; ma è perfettamente comprensibile che
questa sensazione fosse indotta dal modo di recitare della Duse, che introduceva nel
personaggio un elemento di falsità, o sarebbe meglio dire di inautenticità, sottile a un tempo e
grossolano. Il personaggio dumasiano del resto gliene offriva l’opportunità: Lionette non ama
il marito né si sente amata dal figlio, ed è perciò una donna dimidiata (a metà). In un’epoca in cui
alla paura della passione si mescolava il suo culto e una sempre più insistita sopravvalutazione
dell’amore (che Lionette schernisce, e la stessa Duse combatterà), una donna che non ama può
essere soltanto lussuriosa, o cortigiana. Ma Lionette non è neppure lussuriosa. E allora, poiché
questo si vuole da lei, non le resta che mettere in scena la lussuria; cosi come, poiché anche l’amore
del figlio e per il figlio è più un’esigenza sociale che non la realtà naturale e necessaria, non le resta
che mettere in scena l’amor materno. Ad esempio, quando il marito effettua la sorpresa in casa del
presunto amante, Lionette, invece di mostrare che l’incontro non ha avuto alcun risvolto erotico,
mette in scena un’avventura già spinta. E questo è nel testo. Ma la Duse accentua i toni al di là di
qualsiasi previsione: anziché togliersi lo scialle e sbottonare il corsetto, li strappa, scoprendo il
seno, lasciandosi cadere sul divano in un atteggiamento lascivo e provocante. Poi, nella scena
immediatamente seguente, dovendo, secondo il testo «gettare delle monete d’oro attorno a sé» (II.
3), getta a più riprese, tanto a lungo da irritare il critico, manciate d’oro sul marito e mentre il
commissario, alla fine dell’atto, legge il verbale, lei continua a insultare il marito con un torrente
di ingiurie − vile, farabutto, traditore, canaglia − che facevano, come nota Primoli, un singolare
contrappunto con il tono freddamente burocratico del poliziotto: manifestazioni di sdegno
singolarmente spettacolari, ben diverse da quello «schifo purificatore» tante volte ritornante, che si
rivelava, per solito, in un tremito, in uno sguardo, in una parola mormorata sottovoce. Ma il
momento più straordinario parve agli spettatori (e fu) quello del riscatto: vinta dall’amor
materno, Lionette confessa la propria innocenza e, per convincere il marito, giura due volte. A
questi due «te lo giuro» (II. 5), la Duse ne aggiunse un terzo, pronunciando il quale stese la
mano sulla testa del figlio. Il gesto piacque talmente a Dumas che lo inserì come didascalia
nelle successive edizioni del dramma, e in effetti corrisponde benissimo al tono predicatorio del
suo stile. Un gesto talmente retorico stupisce nella Duse, che infatti riprendendo il dramma nel
1898 lo eliminò, ma invece era perfettamente a posto in un’interpretazione dove tanta parte aveva
l’esibizione.

Dunque i personaggi prediletti di Eleonora Duse, quelli sui quali ritornò frequentemente,
approfondendone l’analisi e variandone anche la fisionomia, sembrano essere, in prevalenza,
personaggi negativi. Negativi però nel senso chiarito, in quanto privi di affettività autenticamente
vissuta, non certo nel senso morale e forse neppure in quello ideologico del termine. La signora
delle camelie e La moglie di Claudio sono due personaggi antitetici e se uno solo di essi è entrato
nel mito, entrambi lo avrebbero meritato. Cesarina, la protagonista della Moglie di Claudio, è la
peccatrice, l’incarnazione del male, colei che con il suo comportamento nega, nessuno escluso,
tutti i valori su cui la società si fonda. Si potrebbe definire una prefigurazione del superuomo, se
di ciò ella avesse piena coscienza.

Ciò che noi chiamiamo il male è forse soltanto il diritto delle nature prepotenti, che spezzano
le convenzioni sociali, troppo strette per loro? Il dovere, il lavoro, il pudore, la famiglia, il
trionfo dell’anima, il bene, l’ideale in una parola, sono soltanto sogni di pazzi, e bisogna sciogliere
gli uomini e le donne e lasciarli errare per il mondo senz’altra ragione che l’istinto, senz’altra legge
che la passione, senz’altro scopo che il piacere? Se così fosse la negatività di Cesarina sarebbe
veramente ideologica, e avrebbe del resto un contrappunto positivo nel porre che lei farebbe
di altri valori repressi − l’istinto, la passione, il piacere. L’eroina sarebbe davvero nietzschiana e
dannunziana. Ma Claudio, come al solito, non ha capito niente di sua moglie, come neppure molto
l’ha capita Dumas, che vi introduce a un certo punto un ambiguo desiderio di riscatto .La storia
è fra le più confuse e improbabili, e giustamente il D’Arcais scrisse che una delle ragioni del
successo della Duse fu di aver capito che la figura principale andava staccata dal quadro.Cesarina,
dopo essersene andata con un amante, torna a casa con l’intenzione di riconquistare il marito, un
ingegnere che sta mettendo a punto l’invenzione di un nuovo cannone, per la salvezza della patria e,
ovviamente, per il mantenimento della pace. Arriva un misterioso personaggio, Cantagnac, che,
ricattando Cesarina col ricordarle reati ben più gravi dell’adulterio, ne ottiene la complicità per
rubare i progetti del cannone. Ma Cesarina, prima di arrivare a questo, cerca di ottenere il perdono e
l’amore del marito. Respinta, ne seduce l’assistente, ma, mentre sta per compiere il furto, viene
colta da Claudio, che la uccide con una fucilata. Secondo la critica il punto nodale, quello in cui
poteva risolversi l’interpretazione del personaggio, e la possibilità stessa di farlo accettare dal
pubblico era costituito appunto dalla scena fra Cesarina e Claudio, in cui la donna prega per
ottenere di nuovo l’amore del marito (II. 2): si tratta di un sincero desiderio di riscatto, o di una
perfida finzione? O, si chiedevano i più raffinati, Cesarina finge con sé stessa? È difficile impedire
che l’analisi del personaggio letterario inquini quella dell’interprete, tanto più che, in questo
caso, la scelta del testo fu una scelta deliberata dell’attrice. Mi pare tuttavia che la Duse, pur
non escludendo questa più immediata problematica, non ne sia rimasta ingabbiata, e che
soprattutto abbia svolto il personaggio articolandolo in diversi momenti, senza privilegiare la
scena del pentimento.

Anzitutto i costumi: come tutte le prime donne dell’epoca anche la Duse sfoggiava sulla scena
toilettes raffinate e preziose, perché l’eleganza del vestire era oggetto dell’attenzione dei critici, ma
spesso si serviva del costume non solo per qualificare lo status sociale del personaggio, ma anche
per definirlo sul piano più squisitamente simbolico: il vestito grigio di Denise. I costumi
naturalmente cambiarono nelle diverse rappresentazioni.

La morte, come è ben noto, fu sempre, per gli attori dell’Ottocento, e non solo dell’Ottocento,
un pezzo di bravura. La Duse rinnovò profondamente questo tema. In La moglie di Claudio la
morte assume dimensioni apocalittiche. Luigi Rasi racconta che nella rappresentazione di Bucarest
del 1892, appena ricevuto il colpo «levava in alto le braccia, lasciava cadere le carte involate, e
con la persona quasi rigida si lasciava cadere a bocconi sul pavimento. Ma nel numero del
Natale 1885 del «Corriere di Roma», dedicato alla Duse, c’è un’incisione di Sartorio in cui
Cesarina, colpita, sembra come gettare le braccia in avanti in un supremo gesto di sfida
regale, la sua figura immersa nell’ombra stagliandosi su uno sfondo di luce intensa infernale o
divina. Tutto questo pare abbastanza ingenuo, ma non lo è più, se si pensa al tono generale che la
Duse impose alla sua recitazione. Questa figura misteriosa e fantastica si sedeva sull’orlo del
tavolo a conversare con la cameriera dondolando la gamba con l’elegante nonchalance delle
ragazzine di oggi; parlava rapidamente, senza dare particolare rilievo a parole o a frasi o a passaggi
importanti; la sua mimica era tanto fitta e continua, ricca di quei gesti per qualcuno troppo familiari
che le erano abituali, conversando con Cantagnac giocherellava con la collana. Talché questa,
ingigantita dai suoi stessi ornamenti che la rendono principesca e assurda, si nega poi in una
quotidianità frettolosa e minuta, che afferma la concretezza umana del personaggio altrimenti
grandioso. Non stupisce quindi che testimoni diversi della stessa rappresentazione, abbiano visto
nella Cesarina della Duse un’immagine metafisica, nella quale addirittura il personaggio
spariva per far posto alla «immagine grandiosa della cattiveria oppure, al contrario, una figura
realistica, opera di un’attrice negata «alle grandi semplificazioni dell’arte».

Del resto questa contrapposizione di tratti quotidianamente ovvi e di pesanti stilizzazioni che
in qualche caso rasentano il grottesco, si ritrova nella definizione più squisitamente psicologica
del personaggio. C’è un particolare che va rilevato: c’è una scena in cui Claudio rinfaccia a
Cesarina di aver trascurato il suo bambino, in pratica di averlo lasciato morire. Ora, le grandi
peccatrici interpretate dalla Duse si riscattano, almeno moralmente, con la maternità: per i
loro figli rinunciano e muoiono. Ma Cesarina no: anche per questo sarebbe stata degna di entrare
nel mito. Nessun osservatore ha rilevato qualcosa di particolare a proposito dell’interpretazione
dusiana di questo passaggio, tranne Gegé Primoli, amico più che critico. Secondo lui la dizione
della Duse fu, in questo momento, come difficoltosa e singhiozzante, e ciò perché, spiega, ella
non poteva ammettere che una madre rinnegasse la maternità. Eleonora, però al contrario di come la
vedeva il critico, non fu mai dominata dalla missione materna, pur essendosi preoccupata del
benessere di Enrichetta, alla quale stessa però scriveva, guardandosi indietro: ne sois pas – comme
moi – une maman sans coeur. In realtà quel parlare saccadé (a scatti) è un tratto stilistico
piuttosto costante nella dizione della Duse, come dimostra anche il silenzio specifico della critica
− e in ogni caso il disagio che esso esprime non può essere pentimento o comunque giudizio
morale, ma semmai dolore. Come gli altri personaggi della Duse, Cesarina non è sottoposta a
giudizio né, pertanto, è capace di rimorso: la sua finzione, se finzione c’è, è necessaria, e lei
stessa vi crede. Non il rimorso la tormentava, ma semmai un desiderio d’amore innato, ma
irrealizzabile, se qualcuno poté considerare la Cesarina dusiana come «una donna portata
all’amore» Cesarina, più delle altre, rappresenta l’accettazione del necessario destino, su cui
tante volte torna la Duse. Lo sguardo che individua Cesarina è duplice: da un lato Cesarina è
terrificante e maestosa perché rappresenta l’alterità del sociale, che è costituito non solo di
convenzioni, ma anche di sentimenti, dall’altro essa è piccola e banale perché la ricerca
capricciosa di affetti che non siano indotti ma primigeni, come il male, si risolve poi anch’essa
nella spicciola attività quotidiana, in un’irrequietudine priva di scopo che ti fa andare e
tornare, che ti fa aggredire, incrudelire senza che da ciò derivi una posizione vera dei valori
negati − il piacere, l’istinto, la passione. Così la sua morte è un’apocalisse che nulla sovverte:
elimina soltanto quel rischio e quella speranza che lei aveva già capito disperata. O forse anche un
sacrificio, come la posizione ultima della morente, in ginocchio con le braccia aperte, sembra
mostrare.

Margherita Gautier fu, di fatto (più per merito forse di Verdi che non di Dumas) l’unico mito che
questo teatro borghese abbia prodotto. E per di più si tratta di una nuova versione del mito
antico dell’amore, la cui lunga storia dal romanzo di Tristano e Isotta fino al nostro secolo è stata
tracciata, in maniera necessariamente incompleta. Alla fine del secolo precedente il mito aveva
trovato una sua versione estrema in Manon Lescaut, dove la passione d’amore trascina gli amanti
nella più assoluta solitudine, poiché essi vengono condannati e messi al bando senza possibilità di
appello. Ma fin da allora si veniva affermando l’idea che l’amore potesse essere integrato
nell’ordine sociale e trovare spazio nella famiglia. Tuttavia, ancora verso la metà dell’Ottocento,
è diffusa l’idea che amore e famiglia siano valori tra loro sostanzialmente incompatibili: Honoré de
Balzac contrapponeva la sposa amante-amata a colei che concepisce il matrimonio sulla base di
precise ragioni sociali: questo matrimonio riesce, mentre il primo è sterile, e finisce in tragedia.
L’amore costituisce di per sé una condanna al fallimento sociale del matrimonio, anche senza
adulterio. Solo alla fine del secolo l’amore-passione di Stendhal viene accettato come assoluto
morale, e come particolare appannaggio della donna, superiore all’uomo per l’intensità e la forza
del sentimento quanto l’uomo è superiore a lei sotto il profilo intellettuale. Ragion per cui la
prima realizzazione della donna è nell’amore, senza il quale ella, semplicemente, non vive. E
tuttavia l’amore può realizzarsi socialmente solo a condizioni precise. Il mito di Margherita
consiste sostanzialmente di questa ancora irrisolta contraddizione per la quale Margherita
muore. L’amore assolve e riscatta il passato, ma non può fondare l’avvenire.

La Signora delle camelie fu il cavallo di battaglia e il banco di prova di tutte le attrici del
secondo Ottocento: Sarah Bernhardt ne faceva una specie di principessa la cui tragedia si
consumava senza scalfire né l’intensità passionale né la suprema eleganza; Virginia Marini una
signora sostanzialmente per bene caduta per caso nel demi-monde, Teresina Boetti una tisica che la
tosse scuoteva sino a renderla fioca − ma tutte una donna che viveva soltanto per e della sua
passione. Eleonora Duse interpretò il capolavoro di Alexandre Dumas figlio (andato in scena per la
prima volta, come tutti sanno, al Vaudeville di Parigi il 2 febbraio 1852 con M.me Doche,
un’attrice, pare, mediocre, nel ruolo della protagonista) a partire dal 1882, replicandola poi,
praticamente tutte le stagioni fino al 1909. L’impianto, diciamo, contenutistico rimase abbastanza
stabile, mentre le modificazioni di stile furono profonde, soprattutto a partire dall’esperienza
dannunziana. L’immagine riflessa che possiamo farcene, si fonda quasi più sulle interpretazioni
posteriori al 1896, quando i critici si fecero più attenti ai particolari dell’esecuzione. Sul carattere
socio-psicologico che la Duse diede a Margherita Gautier tutti sono d’accordo. Margherita non è
né una demi-mondaine, né una cortigiana d’alto bordo, né una nuova ricca. È una sartina, secondo
l’indicazione del testo, una grisette. Una sartina in abiti lussuosi. Al punto che qualche giornalista
parigino si chiese come fosse possibile che gli uomini si rovinassero per lei. Già, come è possibile.
Gli uomini in realtà si rovinano per molto meno, ma questa non è una risposta. Il fatto è che il
verismo della Duse, affermato da molti di quegli stessi cronisti parigini, non fu mai, in alcun
modo, verosimiglianza. La credibilità della Duse era tutta nella sua propria verità teatrale, e
per nulla nella verosimiglianza delle situazioni drammatiche. La sartina, bisogna ricordare, è
una figura tipica della vita amorosa di quegli anni, fino alla belle époque. In uno studio recente sui
costumi e la mentalità dei francesi la grisette è stata definita abbastanza crudamente come
un’operaia che cercava più un amante che un cliente allo scopo di elevarsi socialmente. Ma nel
mito, e in parte anche nella realtà, era diversa: non audace e cinica, che si lascia trascinare a
letto dal padrone, la sartina è un’immagine sentimentale, la ragazza con cui il giovin signore fa le
sue prime esperienze, che in breve volger di tempo viene romanticamente amata, poi sedotta
con promesse d’eterno amore, poi abbandonata con un filo di tristezza.

L’individuazione di Margherita Gautier come sartina, popolana cioè, priva di buone maniere
mondane, ma non volgarmente sguaiata, avveniva sulla base di due semplici tratti: la Duse
entrava in scena rapidamente, come soleva quasi ad evitare l’applauso di ingresso, senza tirarsi
dietro un sontuoso mantello come faceva Sarah, e senza curarsi della maestà, la sua maschera è
dura, accigliata, il gesto imbarazzato come di chi non si ritrova negli abiti lussuosi che
indossa. Poi, quando si affacciava alla finestra per chiamare Prudence, gridava troppo forte come
fanno le comari nei cortili delle case popolari. Queste due piccolissime trovate si confermavano poi
nella serie dei gesti minuti e automatici di chi non tiene un ruolo: il parlare troppo vicino al
partner, magari toccandolo confidenzialmente, il passarsi frequente delle mani sul viso. Questa
definizione dell’estrazione sociale del personaggio, accennata nel testo, comporta dunque un
particolare tono sentimentale perché Margherita è rimasta quella che era − una ragazza semplice,
una sartina. A ciò fa contrappunto il lusso delle toilettes. A esse la Duse, s’è visto, attribuì un
particolare valore simbolico fin troppo evidente, con le tenui variazioni del bianco fondamentale,
ma se ne servì anche per affermare l’assoluta contemporaneità del personaggio,
abbandonando i costumi d’epoca indossati da Sarah Bernhardt per vestire abiti moderni.
Allora questa sartina d’oggi, divenuta come per caso, poiché al suo fascino muliebre non si può
credere, la regina dei salotti equivoci di Parigi, cosa può fare nella vita febbrile che tante volte nel
testo dichiara necessaria? In realtà nulla, si annoia. Quella vita febbrile trascorre sempre identica
a se stessa, e tutte le feste e tutti i balli si assomigliano, come le vuote giornate di Teresa Raquin,
come il ritorno implicabile della notte dopo il giorno.

Con l’arrivo di Armando, che è stato annunciato come un innamorato, cambia, come è ovvio, il
comportamento scenico di Eleonora-Margherita, ma in senso contrario a quello atteso: non un
aumento di nervosismo e di tensione, non un flusso più o meno improvviso di passionalità, ma al
contrario quasi uno spegnersi del movimento di curiosità dell’atto precedente. lo riceve seduta
sul divano senza nessuna commozione evidente, con un sorriso ironico e interrogativo, e gli dà la
mano in una mossetta infantile, a confermare la sua giovinezza di sartina ingenuamente
civettuola e sentimentale. Ma è soprattutto il mutato ritmo della dizione, notato da Primoli e
confermato da Arthur Symons, a rivelare il mutato atteggiamento: se prima parlava frettolosa e
distratta, ora parla lentamente e concentrata, con lunghe pause. Il nascere dell’amore? La mimica
di Eleonora Duse parla invece di una sorpresa. La signora del demi-monde non è abituata a
essere trattata così teneramente. Sorpresa dunque o, più in generale, riflettere, pensare. Un pensare
che in fondo è fine a se stesso, poiché quel perdersi dietro al pensiero, fatto così comune
nell’esperienza psicologica di ognuno, è poi propriamente un trovarsi, definire ciò che si
vorrebbe, che si potrebbe essere. E l’occasione può essere qualsivoglia, persino un amore. Ma il
pensiero esaurisce il progetto, che realizzato nelle cose perde la sua qualità, in gesti costruiti dove
non si potrà non recitare, se manca la dimensione istintuale della passione. Il necessario artificio
comincia proprio con il primo gesto d’amore che è, nel dramma, l’offerta del fiore. Un gesto su
cui la Duse tornò mille volte, e che gli spettatori lessero in infiniti modi diversi − come birichino e
infantile, come adorabilmente umile, come appassionato (offre il cuore), come tenero
(accarezza il fiore, prima di darlo, come un uccellino), come ieratico (devoto). Una progressione
che certo corrisponde anche al mutamento di gusto e di cultura: alla fine diventò quasi un gesto
estetizzante e simbolico; ma fin dal principio si presenta come una ricerca che il personaggio
compie di un modo di esprimersi, di realizzare un pensiero, di dar corpo a una meditata
immagine di sé. Gesto dei più significanti nel contesto di una generale introversione del
personaggio, da cui peraltro esso si distacca solo illusoriamente. Quando alla fine del primo atto
Armando si allontana, dopo una lunga pausa i gesti sono significativamente quelli del risveglio,
dell’assettare la persona a riprendere contatto con la concretezza della vita: uno sbatter degli occhi
e un lieve alzare delle spalle. Ma nei due atti seguenti i momenti più intensi furono quelli in cui la
vita e l’attività si annullano, quelli del ritorno al pensiero, senza lotta, senza ribellione, senza
impeti: Margherita legge la lettera di rottura inviatale da Armando senza nessuna
commozione apparente, tranne un lieve tremito del ginocchio; l’attenzione dello spettatore è
però tutta concentrata su di lei, seduta di profilo sotto una lampada che la isola dal contesto
scenico, tanto che Primoli può parlare al tempo stesso di «volto immobile» e di «straordinaria
progressione di effetti», mentre in realtà l’unico «effetto» pare essere stato il movimento che
anticipava quello della morte: la mano che cade abbandonando il foglio.

Il terzo atto invece ebbe un carattere di irrilevanza, al punto che la critica, anche quella italiana,
ammetteva concordemente che l’interpretazione di Sarah Bernhardt era qui più ricca e
decisamente più commovente. Margherita entrava in scena con un mazzo di fiori goffamente
composto, che veniva distribuendo per la stanza durante i primi episodi, sintomo anch’esso di
quella disattenzione per l’esistenza concreta che la felicità del momento non aveva
evidentemente intaccato, poi, all’inizio della scena con Duval, ebbe un unico soprassalto di
emozione: all’udirne il nome indietreggiava fino al fondo della scena come spinta dal terrore. Ma
la grande scena del confronto tra il padre di Armando e l’innamorata, tra colui che
rappresenta la ragione ineluttabile della società e la peccatrice, si svolgeva nei toni di una
pacata conversazione fra due persone per bene, che parlano, così, di un generico tema morale,
sostenendo idee diverse, ma senza un particolare impegno dell’anima. Qualcuno vide nel
comportamento di Eleonora il tono quasi della bambina che vuole farsi perdonare un capriccio, altri
vi lesse appena una sfumatura di rivolta; ma non c’era neppure un grido, anzi neppure un alzar della
voce, non c’era cioè passione, né dolore. Non si abbandonava mai il tono conversevole, ciò che
parve non solo una violazione della tradizione, ma anche un’assurda inverosimiglianza.

Uno spostamento di tono, ma appena percepibile agli sguardi più attenti, aveva luogo dopo che
Duval aveva messo davanti agli occhi di Margherita le prospettive reali della sua vita con
Armando una volta svanite le illusioni della giovinezza e dell’amore. Nella breve risposta di
Margherita − «La realtà!» − era un indicibile fascino di tristezza. Quella realtà che lei sapeva
vivere solo automaticamente e distrattamente, e riprendeva ora corpo minacciosamente, nello
stesso pensiero, e vi imponeva i suoi termini, le sue condizioni. Se si rifugge dalla lotta e dalla
concretezza naturale della passione, la realtà si impone come pensiero doloroso. Così la grande
tirata in cui si concentra il significato ideologico del dramma e in cui Dumas dà fondo alla sua
appassionata retorica, la presa d’atto, una riduzione della realtà al pensiero che non costituisce
più un’alternativa. Allora a questo punto si può agire − agire con i gesti secchi e precisi che la
realtà richiede, senza esitazioni, senza distrazioni, efficacemente: Margherita si siede al tavolo e
scrive la bugiarda lettera di addio in fretta, di seguito, senza singhiozzi e senza riflessioni,
chiamando contemporaneamente e ripetutamente la serva. Ma non è che un breve istante. D’ora in
poi Margherita è trascinata dalla realtà. Non vi oppone più nulla, nemmeno il disinteresse
(non si ribella). Del resto la realtà stessa perde la sua violenta evidenza e si manifesta ora quasi
sottovoce.

La famosa ultima scena del quarto atto, nella quale, per comune opinione si raggiungevano i
vertici massimi della commozione, aveva, negli spettacoli della Duse, un’unità di tono che non
coinvolgeva soltanto la recitazione dell’attrice, ma anche quella del suo partner. Armando non
gettava su Margherita una manciata di monete con un gesto furioso e urlando stravolto dalla gelosia
secondo la tradizione, ma parlava con voce appena alterata, e le buttava in grembo il portafoglio con
lieve disprezzo. E Margherita, rannicchiata sul canapé ripeteva quegli otto «Armando,
Armando» che sono entrati, come si diceva allora, nella storia dell’arte. In quel nome ripetuto i
contemporanei sentirono quasi tutto il repertorio delle passioni, il dolore, l’implorazione, la protesta
in un tragico crescendo; la Duse lo diceva «a bassa voce», e quindi senza particolari inflessioni;
con «sfumature impercettibili e tuttavia invadenti», perché la ripetizione del nome era
significativa, quell’«Armando» non era un’invocazione, un grido dell’anima straziata, un crescere
della passione che preme sul cuore: la Duse non fu, non fu mai un’attrice romantica, fu una donna
di fine secolo per cui la passione era più un mito romantico, una speranza e un desiderio che
non una realtà psicologica. In quel ripetere stanco il nome di colui che avrebbe potuto amare
c’era semmai questa nostalgia, la manifestazione di un pensiero che ora non soccorre più
perché non è più progetto, ma solo riconoscimento, tutto negativo, della «realtà». È
l’accettazione della morte che qui è prefigurata e in un certo modo scontata. La sua
rappresentazione diventa una conseguenza logicamente necessaria. Questo finale del quarto atto
dà un’idea di quanta cura, nei momenti salienti, Eleonora Duse ponesse nella regia o, come si
diceva all’epoca, nel concerto, non limitato alla definizione delle entrate e delle uscite o delle
posizioni fondamentali, ma inteso come vera concertazione dei colori e dei toni della gestualità
e della dizione, il quinto dimostra una simile cura (esplicitamente poi altrove testimoniata) per la
disposizione degli accessori e quindi per l’impianto coreografico e scenografico.

Il quinto è l’atto della morte, non perché esso si conclude con la morte, ma perché la morte è già
avvenuta e non si tratta in fondo che di prenderne atto. Se un soffio di vita può, a un certo
punto, trascorrere per la scena, si tratta soltanto di un’illusione, quella del vento che muove le
foglie morte sui rami. Perciò l’elemento scenografico dominante è il letto, un grande letto
bianco indecentemente collocato al centro della scena, vicino alla ribalta, dove Margherita giace
supina, con le braccia distese lungo il corpo − già morta. Eliminata, almeno nelle edizioni più tarde,
la visita dei due sposi novelli, l’azione si riduceva poi al faticoso rialzarsi e al lento trascorrere
attraverso la stanza, quindi dietro al letto e da esso in parte nascosta, a toccare gli oggetti, realtà
ormai vuota, appoggiandosi a essi e ai muri, sostegno di una forza ormai spenta. E dopo questa
specie di faticoso periplo il ritornare al letto dove si siede per leggere la lettera di Duval che
conserva sotto il cuscino. La lettura della lettera fu un’altra trovata della Duse destinata a
entrare nella tradizione interpretativa, ancora apprezzata negli anni a seguire (nei primi decenni
del Novecento). La Duse si sedeva dunque sul letto, di faccia al pubblico, appoggiando gli
avambracci sulle gambe aperte nell’atteggiamento stanco e noncurante di chi non è veduto, e anche
se lo fosse non gliene importerebbe. E cominciava a leggere, ma poi, siccome Margherita quella
lettera l’aveva letta tante volte e la sapeva a memoria, sollevava gli occhi e continuava a recitare:
recitare è qui la parola adatta perché parole conosciute ma ormai prive di senso, eco di una
speranza non più operante. Gli occhi sono fissi nel vuoto, vuoti essi stessi: mentre ripete quelle
parole in verità pensa ad altro, non ad Armando o all’amore, semmai alla «realtà» della morte, o
piuttosto a nulla − e quelle parole di speranza e di vita, in quella particolare dizione, diventano
solo il simbolo del vuoto della mente e del cuore. Quindi della sua morte non si accorgeva
nessuno, perché era già avvenuta.

Il comportamento scenico ondeggiava tra i due poli estremi di un’illusione obliosa e una
tensione spasmodica. L’attrice pare assalita dall’incubo che spesso tornerà a ossessionare la donna,
l’incubo di essere morta prima di morire. Perciò, dopo che la lettura della lettera l’aveva
illuminata di una gioia «tanto più limpida, quanto più acuto era l’affanno che la torturava», tanto più
ella scopriva, con maggiore intensità che nelle altre rappresentazioni, la morte già attaccata alla sua
persona. Ma scoperta su di sé, la morte viene rifiutata come una presenza simbolica ed estranea,
quando però la vita reale è già tanto lontana che Armando non viene neppure visto, perché gli
occhi di Margherita sono già ciechi; mentre la morte reale, l’atto del morire diventa un
insensato quanto realistico aggrapparsi alla vita, affidandosi alla forza nervosa delle mani che si
contraggono. L’attrice pare assalita dall’incubo che spesso tornerà a ossessionare la donna, l’incubo
di essere morta prima di morire.

Eleonora Duse cercò sempre un riscatto dalla sua condizione di attrice volta a volta nell’arte −
e intendeva poesia, non teatro − o in improbabili amori offrendosi a Boito come amante discreta,
ad Alberta Aliprandi come mamma tardiva e insofferente; chiedeva costantemente protezione ai
suoi amici come Primoli e Giovanni Rosadi. Fu inseguita tutta la vita da quest’ansiosa
inquietudine, ma voleva poi essere nient’altro che una borghese e il suo vanto supremo fu quello di
aver obbedito alla vita, al destino di non aver lottato cioè, di non aver davvero cercato quel riscatto
che credeva di volere, di essere stata educata con la vita.

LA POLEMICA DELLO STILE


Il 20 settembre 1883 «Il Fanfulla», uno dei più autorevoli quotidiani d’Italia, pubblicava in
prima pagina un articolo dedicato a Eleonora Duse. La cosa fece scalpore e suscitò reazioni
immediate. «La Gazzetta Teatrale», una nuova rivista dedicata alla prosa e diretta da Parmenio
Bettòli, drammaturgo di non molto successo, critico e studioso di storia del teatro, rispose nel suo
primo numero del 7 ottobre con un tono fra scandalizzato e stupito:[…] crediamo per errore di
impaginazione perché […] non abbiamo mai visto un giornale politico portare come articolo di
fondo il cenno critico di un artista drammatico. Nel proposito di sciorre un inno pindarico alla
signora Duse-Checchi, la quale non ne ha bisogno per essere, com’è, una delle migliori artiste che
onorino le nostre scene drammatiche, l’articolista s’è lasciato andare a dirne alcune che non stanno
né in cielo né in terra.La Duse veniva dunque definita «una delle migliori artiste», ma il resto
dell’articolo non confermava affatto questo riconoscimento. Ne nacque una polemica destinata a
proseguire per diversi anni e condotta precipuamente dal gruppo della «Gazzetta Teatrale», passato
poi alla «Scena Illustrata», e cioè dal Bettòli, da Telesforo Sarti, da Antonio Manzi (altro studioso),
ai quali occasionalmente si unirono il drammaturgo Paulo Fambri, autore di un poco fortunato
Pietro Aretino, e il prestigioso direttore del «Pungolo» di Milano Leone Fortis. Il Bettòli, il Manzi e
il Sarti usarono talvolta toni accesi e francamente denigratori, mentre i sostenitori della Duse non
rispondevano se non indirettamente, e continuavano a tessere della Duse elogi che nei primi anni
avevano un effettivo risvolto critico, ma che poi, dopo la sua definitiva consacrazione
internazionale, divennero spesso vere e proprie esaltazioni liriche.Comunque questa polemica
costituisce un documento molto importante non solo per capire il significato che i contemporanei
attribuirono all’apparire del fenomeno Duse e l’atteggiamento che assunsero di fronte a esso, ma
anche per questo, che da essa scaturisce un’immagine singolarmente precisa ed evidente del modo
di recitare della Duse, del suo metodo, come si diceva allora, del suo stile, come diremmo oggi.
Immagine anche particolarmente credibile poiché su molti dei tratti che la costituiscono c’è un
sostanziale accordo fra sostenitori e denigratori, un accordo che poi naturalmente serve da punto di
partenza per valutazioni divergenti.La prima sensazione della critica fu di trovarsi di fronte a
un’attrice che violava i canoni della tradizione. Era prevedibile: soprattutto nel teatro ogni volta che
appare una personalità di rilievo, o anche semplicemente ogni volta che si vuole formulare un
giudizio globalmente positivo, si tende a sottolinearne gli aspetti innovativi nei confronti degli usi
correnti. Rimane dunque da definire in che cosa consistesse questo superamento della tradizione.
Consisteva anzitutto − e questo i cronisti lo avevano già rilevato fino dalla stagione napoletana del
1879 − nell’abbandono di tutti gli stereotipi formali del mestiere teatrale, e in particolare di quegli
stereotipi vocali che costituivano lo schema di un esercizio virtuosistico inteso ad abbellire la
dizione avvicinandola, in certi momenti di particolare intensità, al canto: volatine, carretelle,
pistolotti, cioè passaggi di tono modulati o improvvisi, rallentamenti artificiosi della dizione, o
viceversa suo precipitare affrettato. In realtà questi stereotipi virtuosistici, patrimonio di un recitare
altamente formalizzato, come era stato quello neoclassico e, forse più ancora, quello romantico, se
continuavano a essere usati nelle compagnie secondarie, erano già probabilmente banditi, o almeno
velati nelle compagnie primarie: dire di una giovane attrice che non ne faceva uso, significava forse
semplicemente ammettere che essa era in grado di confrontarsi con il repertorio moderno in una
buona compagnia.Più significativa era l’affermazione che la Duse avrebbe abolito le convenzioni
del teatro. Su entrambi i punti (tradizione e convenzioni) insiste molto il marchese D’Arcais, certo il
più autorevole sostenitore della Duse, al momento della sua affermazione. Le convenzioni sono, per
il D’Arcais, un portato della tradizione e un suo elemento costitutivo. D’altra parte però il dibattito
sulle convenzioni era aperto, soprattutto in Francia, dove Francisque Sarcey fondava proprio sul
concetto di convenzione la sua idea di teatralità, mentre Emile Zola rispondeva che tutte le
convenzioni sono storicamente determinate, e abolirle significa muoversi sulla linea dell’infinito
progresso verso l’analisi scientificamente esatta del dato reale. Tutti e due pensavano in modo
particolare alle convenzioni drammaturgiche, ma è chiaro che D’Arcais era più vicino alla posizione
di Zola, rispondeva che tutte le convenzioni sono storicamente determinate, e abolirle significa
muoversi sulla linea dell’infinito progresso verso l’analisi scientificamente esatta del dato reale.
Tutti e due pensavano in modo particolare alle convenzioni drammaturgiche, ma è chiaro che
D’Arcais era più vicino alla posizione di Zola, e che quindi intendeva qualificare la Duse come
attrice più ‘vera’. Lode questa estremamente generica e all’infinito ripetuta, che però gli oppositori
della Duse ribaltano in biasimo in quanto abbandonare le convenzioni sceniche significherebbe
togliere alla recitazione quell’elemento ideale che la nobilita e la rende credibile a un livello più
elevato ed essenziale: il preteso superamento delle convenzioni comporterebbe, secondo loro, una
verità pedestre, quotidiana e volgare, come «il voltar le spalle al pubblico, l’abbandonarsi a moti
disaggradevolmente scomposti, il far stridere la voce», incompatibili con «un’arte sana» (1). In
buona sostanza il recitare della Duse viene assimilato a una forma di naturalismo scenico − né
l’avvicinamento è privo di significato.Ma in termini più specifici dire che un’attrice era libera da
convenzioni poteva significare due cose, e cioè da un lato che non ricorreva a gesti o ad azioni
convenzionalmente significanti, come sarebbe, per fare l’esempio più banale, portar la mano al
cuore per significare amore, e, dall’altro, che essa costruiva i suoi personaggi senza ricorrere allo
schema del ruolo − e cioè usando della più consolidata tradizione italiana.In un articolo apparso
nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1883, che certo valse più della prima pagina del
«Fanfulla» per consacrare l’attrice negli ambienti dell’alta cultura, D’Arcais sintetizza i tre motivi
elencati descrivendo in negativo la struttura per ruoli della compagnia italiana.La Duse è, come suol
dirsi, figlia d’arte, nata e cresciuta sul palcoscenico in mezzo a tradizioni e consuetudini che
impongono l’imitazione anche ad artisti di più forte ingegno […]. È passata inosservata e incolume
accanto a primi attori che urlavano al pari di belve, a prime attrici che si sbracciavano epilettiche
sulla scena, a caratteristi afflitti da un tremito perenne, a servette sboccate.Dove peraltro più che ai
formalismi vien dato rilievo alla mancanza di misura che, nel quadro dei singoli ruoli, avrebbe
caratterizzato la recitazione italiana. Implicitamente D’Arcais presentava la Duse come attrice che,
avendo distrutto le tradizioni, era bensì capace di spingere «l’illusione fino al punto che la
convenzione non si palesa più agli occhi dello spettatore», ma che, al tempo stesso, restaurava il
buon gusto e la moderazione, portando «un salutare orrore per tutto ciò che è volgare e triviale sulla
scena» (2): giustificava cioè il suo apprezzamento della nuova attrice con l’ideale antico della
bienséance e della medietas, e negando ogni riferimento a poetiche e a pratiche di carattere
naturalistico. Non per nulla nel 1889 ne parlò con molto minor entusiasmo, consigliandola di
tornare al vecchio repertorio italiano, da Carlo Marenco al Cossa, e rimproverandola di aver scelto
Cleopatra tra i capolavori di Shakespeare.Gli avversari della Duse vedevano naturalmente nel suo
distaccarsi dalla tradizione un fattore negativo, anzi era forse proprio questa la prima ragione del
loro atteggiamento critico. In particolare, per quanto riguarda i ruoli, essi la vedevano inserita in
quella pericolosa tendenza indotta dal repertorio francese che rischiava di ridurre tutti gli attori a
una massa di generici (3), appiattendo il chiaroscuro e rovinando l’ordine della rappresentazione e
della stessa compagnia. La Duse poi mescolava i tratti di un ruolo con quelli di un altro in un modo
che non rispondeva neppure alle esigenze della drammaturgia francese.È peggiorata come ingenua,
avendo portato in questa parte il nervosismo delle creazioni moderne francesi, e non ha punto
migliorato come prim’attrice assoluta, invaiolando questo ruolo di ingenuità non consone all’indole
delle nuove creazioni esotiche (4).Il Manzi, come spesso succede a chi guarda senza simpatia,
coglieva meglio il senso della violazione della Duse che rimescolava tutte le carte in gioco ma, in
fin dei conti, non dimenticava del tutto i temi della tradizione. Cosa vuol dire questo inserire tratti di
ingenuità nel ruolo di prima donna? Se si pensa a drammi come Froufrou di Meilhac e Halévy o
Cause ed effetti di Paolo Ferrari non ci sarebbe motivo di meravigliarsi, poiché in essi viene
descritta proprio l’evoluzione della fanciulla, ingenua nel doppio senso teatrale e psicologico del
termine, a donna travolta dalle passioni e dal dolore − a prima donna cioè. L’affermazione avrebbe
più senso se riferita ai grandi ruoli prediletti dalla Duse, inserire «ingenuità» neiquali
comporterebbe davvero un elemento contraddittorio, se non si tratta di ingenuità recitate, di tratti da
ingenua da teatro, ambiguamente vissuti come desiderio e rimpianto della vita trascorsa e irreale
della fanciulla che si adegua al ruolo sociale della dolce spensieratezza, e come esibizione di stilemi
teatrali incongrui che evidenziano il recitare nel recitare.Senza le mediazione dei ruoli, sembrano
argomentare i tradizionalisti, non è possibile arrivare a cogliere il personaggio: la tipologia umana,
così come essa si riflette nella drammaturgia, e cioè depurata da quanto la rende occasionale e
incomprensibile, va colta nei tratti propri che la costituiscono in quanto tipologia. Questi tratti, se
non sono più i caratteri di Teofrasto o di La Bruyère, sono però pur sempre individuabili entro più
complesse, ma non per questo meno chiare e coerenti tipologie di ordine psico-sociologico, di
ordine storico e perfino di ordine fisionomico. Perciò, al di fuori di tutto questo non esiste la
possibilità di aderire al personaggio e tanto meno di viverlo. Così la Duse, avendo abbandonato i
ruoli e la loro concreta categorizzazione, non è in grado di sentire la parte, ma peggio, non è
nemmeno in grado di differenziare i personaggi fra loro, e riduce Mirandolina a un garçon d’hôtel
moderno e Adriana Lecouvreur a Margherita Gautier, o anzi a quell’unica se stessa con i suoi
nervosismi e le sue isterie.Su questo punto del resto molti ammiratori della Duse sono d’accordo, e
bisogna dire che la loro interpretazione sembra più convincente di quella di quanti lodavano invece
la capacità dell’attrice di celarsi dietro il personaggio e anzi di trasferirsi in lui senza residui: lode
antica e generica formulata in nome dell’illusione considerata come scopo ultimo di tutte le arti, e
del teatro in particolare; ma anche di un presunto transfert psicologico che avverrebbe nell’attore e
che si illude lui per primo di essere non solo nei panni, ma nella pelle del personaggio che
rappresenta. Tutti i grandi attori, da Roscio al medievale giullare Vitalone a David Garrick, furono
celebrati in nome di questo trasformismo esterno e interiore. Pure, nel nostro caso, bisognerà
concedere una certa attenzione anche a questo punto di vista, non foss’altro perché, in tempi diversi
esso venne sostenuto anche da uomini che certo non si accontentavano di ripetere formule
accreditate, come Hugo von Hofmannstahl e Luigi Pirandello.Hofmannstahl veramente era meno
radicale: Sarah Bernhardt − egli sosteneva − recita se stessa, la Duse invece recita la immagine
(Gestalt) del poeta. Ma aggiungeva:dove il poeta viene meno […] recita il suo fantoccio come un
essere vivente, nello spirito che egli non ha avuto (5).In altre parole ciò che interessa Hofmannstahl
non è tanto l’incarnazione, quanto il processo di creazione del personaggio, che assimila l’attrice al
poeta.E le conclusioni di Pirandello non sono in fondo diverse: la Duse era per lui «guidata
dall’ambizione di dissolvere la propria individualità dietro la figura che ella impersonava sulla
scena», il che comportava sì «una rinuncia ben meditata al proprio io», ma non era il frutto
semplicemente di una interpretazione e quindi di un trasferirsi in una realtà in qualche modo
conclusa: l’attore non è «uno strumento per riflettere le intenzioni dell’autore», ma «il protagonista
di un’attività creatrice affatto particolare» (6), diventa insomma una specie di romanziere naturalista
che, secondo le teorie di Verga e di Capuana, si eclissa dietro la sua opera, che si presenta così
come realtà oggettiva.Ma, si potrebbe crocianamente obiettare, il poeta è sempre nella sua opera, e
la poesia è sempre lirica − ragionamento che può anche essere teoricamente fondato, ma che
storicamente non aiuta a distinguere.Tutti gli osservatori un poco attenti riconoscevano la
sostanziale autonomia dell’opera della Duse di fronte a quella degli autori da lei interpretati.

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