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Il libro

«I primi anni Quaranta furono un periodo straordinariamete fecondo per la


riflessione umana. La tragedia che si stava svolgedo sollecitò alcune grandi
figure a una meditazione tanto profonda quanto atroce era la discesa nella
barbarie cui cercavano di opporsi. Il risultato sono state una serie di opere che, nei
diversi campi, hanno posto le basi su cui dopo il 1945 è stato possibile edificare il
ritorno alla civiltà. Di questo gruppo di testi il Manifesto di Ventotene è l’opera
fondamentale nel campo della politica e dei rapporti tra Stati, quella che va alla
radice della questione della pace e dell’ordine internazionale, vero epicentro della
tragedia in corso. Un testo chiave nel processo di unificazione europea, un vero e
proprio classico della letteratura politica del Novecento che ha ancora oggi molto da
dire sulle sfide e sui pericoli che incombono.»
Gli autori

ALTIERO SPINELLI Roma 1907-1986. Uomo politico e intellettuale, attivo


antifascista, è considerato uno dei padri dell’Unione europea.
ERNESTO ROSSI Caserta 1897-Roma 1967. Giornalista antifascista, proseguì
l’attività politica nel Dopoguerra, così come quella di polemista e intellettuale.
Ernesto Spinelli
Altiero Rossi

IL MANIFESTO DI VENTOTENE
Prefazione di Eugenio Colorni
Presentazione di Tommaso Padoa-Schioppa
Con un saggio di Lucio Levi
Presentazione
di Tommaso Padoa-Schioppa

Accogliere per la prima volta un’opera in una collana classica significa


riconoscere e sollecitare una mutazione del suo rapporto con il tempo.
Riconoscere che l’opera appartiene non più solo al tempo in cui fu scritta,
bensì a tutti i tempi. Ma perciò anche sollecitare a distinguere «ciò che è
vivo e ciò che è morto» in essa, quanto vi sia di durevole da quanto sia
legato alle circostanze in cui nacque. Senza quelle circostanze l’opera non
sarebbe nata; eppure esse sono parti caduche da cui l’opera va liberata, così
come la statua di bronzo va liberata, dopo la fusione, da qualche
incrostazione lasciatale dal gesso della forma.
Con la pubblicazione negli Oscar Mondadori il Manifesto di Ventotene
viene riconosciuto e accolto tra i classici. È vero che è stato stampato e
ristampato molte volte dopo che la prima versione manoscritta, uscita
clandestinamente da Ventotene nel 1941, era stata data alle stampe nel 1943
e poi di nuovo, prefata da Eugenio Colorni, nel 1944. Ma finora non era
possibile entrare in una libreria e chiederne a colpo sicuro una copia così
come si può chiedere a colpo sicuro I doveri dell’uomo di Mazzini o Il
manifesto del partito comunista: pamphlet politici nati nel fuoco di un
particolare momento storico e proprio da quel fuoco temprati con una
durezza che li fa resistere al tempo.
I primi anni Quaranta furono un periodo straordinariamente fecondo per
la riflessione umana. La tragedia che si stava svolgendo e di cui non si
conosceva l’esito, non solo la guerra ma un vero e proprio ritorno alla
barbarie in forme industriali nuove e sataniche, sollecitarono alcune grandi
figure a una meditazione che andava tanto in profondità quanto profonda
era la discesa nella barbarie a cui cercava di opporsi. In campi, luoghi e
situazioni personali diversissimi quei grandi spiriti posero le basi su cui fu
poi possibile – dopo il 1945 – edificare un ritorno alla civiltà, molti di essi
pagando con la vita. Simone Weil e Friedrich Hayek, Helmut von Moltke e
Joseph Schumpeter, Karl Polany e Etty Hillesum, Edith Stein, Jacques
Maritain, Karl Popper, Marc Bloch; la lista potrebbe continuare. Opere di
filosofia, politica, economia, diari e meditazioni religiose, lettere e trattati.
Di questo ristretto gruppo di scritti il Manifesto di Ventotene è l’opera
fondamentale nel campo della politica e dei rapporti tra Stati, quella che va
alla radice della questione della pace e dell’ordine internazionale, vero
epicentro della tragedia in corso. Da secoli e ancora oggi l’uomo cerca il
fondamento della pace. Nell’epoca contemporanea si è di volta in volta
creduto che quel fondamento potesse essere il regime vigente entro gli Stati
piuttosto che il regime dei rapporti tra gli Stati. Si è di volta in volta creduto
che quando entro gli Stati fosse realizzato un ideale di religione, o di
nazione, o di classe, o di democrazia, la pace si sarebbe instaurata tra gli
Stati. Il Manifesto apre gli occhi su questa illusione e indica la via d’uscita
federalista.
Nel bellissimo saggio scritto per questa edizione negli Oscar, Lucio Levi
fa capire e conoscere la grandezza di Altiero Spinelli – la persona, il
pensiero, l’azione –, il rapporto tra il suo pensiero e quello di Ernesto Rossi,
l’apporto di Eugenio Colorni. Egli usa tutto il rigore filologico e storico che
deve accompagnare la collocazione del Manifesto in una collana di classici;
ma anche la passione e l’amore di chi ha conosciuto e condiviso la battaglia
di Spinelli e ha meditato per una vita sul suo valore e sul suo significato.
Particolarmente importante è l’individuazione dei principi della teoria
dell’azione federalista che fanno del Manifesto una pietra miliare del
pensiero politico, più di un semplice corollario del liberalismo.
Chi punta il dito sulle parti caduche di un’opera classica per screditarla e
dichiararla morta non sa come veramente nasca un’idea destinata a durare
né che cosa sia un classico. È proprio dal suo impregnarsi di circostanze
storiche per definizione uniche e irripetibili, che una grande persona trae
una verità, un messaggio che trascende quelle circostanze e vale per altri
tempi e altre circostanze.
Altiero Spinelli stesso, che non solo è l’autore principale del Manifesto,
ma è anche colui che poi per tutta la vita camminò – con gli scritti e con
l’azione – nel solco da esso tracciato, fu il primo a staccare pezzi di gesso
rimasti attaccati alla statua del 1941. Il saggio di Levi riporta alcune delle
considerazioni con cui, nel corso degli anni, egli ritornò sul Manifesto per
rilevare errori di previsione e valutazione. Un’operazione critica che
Spinelli non avrebbe compiuto se non fosse stato contemporaneamente, e
con una medesima urgenza, uomo di azione e uomo di pensiero.
Il rapporto tra l’opera e il tempo è importante anche per il momento in
cui essa entra formalmente nel novero dei classici. Il momento di oggi è
segnato non solo dal ventennale della morte di Spinelli e dall’imminente
centenario della sua nascita, ma ancor più da sfide e pericoli su cui il
Manifesto ha molto da dirci: la grave crisi di crescenza in cui l’Unione
europea rischia di bloccarsi o addirittura di regredire; la montante tensione
delle relazioni mondiali fra pretese egemoniche ed equilibrio delle forze. Su
scala continentale, quella tensione l’Europa la conobbe e la patì nel sangue
per secoli. Oggi, proprio per aver saputo elaborare il pensiero racchiuso nel
Manifesto e per essersi poi mossa lungo la via che esso indicava, l’Europa
quasi possiede gli elementi per evitare che vi scivoli il mondo intero
ripetendo, su scala e con rischi ampliati, le stesse esperienze tragiche da
essa vissute.
Quasi: l’Europa ha imboccato la strada ma, per non averla percorsa fino
in fondo, non è pronta all’appuntamento con la storia, non è in condizione
di esercitare tutto il peso, che pure possiede, per spingere il mondo fuori dal
dilemma equilibrio-egemonia, accompagnandolo verso un ordine di pace
fondato sul diritto. Tornare alla lettura del Manifesto, perciò, significa
guardare al futuro come guardava al futuro chi lo scrisse nell’isola di
Ventotene, dove ora riposa.

Roma, aprile 2006


Nota al testo

Il Manifesto di Ventotene – il cui titolo completo è Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un
manifesto – è stato redatto da Altiero Spinelli e da Ernesto Rossi (che ha scritto la prima parte del
terzo capitolo) nel 1941 mentre si trovavano entrambi al confino nell’isola di Ventotene. Circolato
dapprima in forma ciclostilata, il Manifesto è stato pubblicato clandestinamente a Roma nel gennaio
del 1944 insieme a due saggi di Altiero Spinelli Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche
(scritto nella seconda metà del 1942) e Politica marxista e politica federalista (scritto tra il 1942 e il
1943). Il volume, intitolato Problemi della federazione europea, reca le iniziali degli autori, A.S. ed
E.R., ed è stato curato da Eugenio Colorni che ha scritto anche una prefazione. Il volume, stampato
dalla Società Anonima Poligrafica Italiana, è presentato dalle Edizioni del Movimento Italiano per la
Federazione Europea. La presente edizione riprende quella del 1944 che, secondo Spinelli,
costituisce «il testo autentico e preciso».
Il manifesto di Ventotene
Prefazione
di Eugenio Colorni

I presenti scritti sono stati concepiti e redatti nell’isola di Ventotene, negli


anni 1941 e 1942. In quell’ambiente d’eccezione, fra le maglie di una
rigidissima disciplina, attraverso un’informazione che con mille
accorgimenti si cercava di rendere il più possibile completa, nella tristezza
dell’inerzia forzata e nell’ansia della prossima liberazione, andava
maturando in alcune menti un processo di ripensamento di tutti i problemi
che avevano costituito il motivo stesso dell’azione compiuta e
dell’atteggiamento preso nella lotta.
La lontananza dalla vita politica concreta permetteva uno sguardo più
distaccato, e consigliava di rivedere le posizioni tradizionali, ricercando i
motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici di tattica
parlamentare o rivoluzionaria, od in una generica «immaturità» della
situazione, quanto in insufficienze dell’impostazione generale, e nell’aver
impegnato la lotta lungo le consuete linee di frattura, con troppo scarsa
attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà.
Preparandosi a combattere con efficienza la grande battaglia che si
profilava per il prossimo avvenire, si sentiva il bisogno non semplicemente
di correggere gli errori del passato, ma di rienunciare i termini dei problemi
politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito.
Fu così che si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la
contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle
miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di
stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati,
consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli
uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra
omnes. I motivi per cui questa idea, di per sé non nuova, assumeva un
aspetto di novità nelle condizioni e nell’occasione in cui veniva pensata,
sono vari:
1) Anzitutto, la soluzione internazionalista, che figura nel programma di
tutti i partiti politici progressisti, viene da essi considerata, in un certo
senso, come una conseguenza necessaria e quasi automatica del
raggiungimento dei fini che ciascuno di essi si propone. I democratici
ritengono che l’instaurazione, nell’ambito di ciascun paese, del regime da
essi propugnato, condurrebbe sicuramente alla formazione di quella
coscienza unitaria che, superando le frontiere nel campo culturale e morale,
costituirebbe la premessa che essi ritengono indispensabile ad una libera
unione di popoli anche nel campo politico ed economico. E i socialisti, dal
canto loro, pensano che l’instaurazione di regimi di dittatura del proletariato
nei vari stati, condurrebbe di per sé ad uno stato internazionale collettivista.
Ora, una analisi del concetto moderno di stato e dell’insieme di interessi
e di sentimenti che ad esso sono legati, mostra chiaramente che, benché le
analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia e di
collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino
automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché
esistano interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità
chiusa all’interno delle frontiere. Sappiamo per esperienza che sentimenti
sciovinistici ed interessi protezionistici possono facilmente condurre
all’urto e alla concorrenza anche tra due democrazie; e non è detto che uno
stato socialista ricco debba necessariamente accettare di mettere in comune
le proprie risorse con un altro stato socialista molto più povero, per il solo
fatto che in esso vige un regime interno analogo al proprio.
L’abolizione delle frontiere politiche ed economiche fra stato e stato non
discende dunque necessariamente dall’instaurazione contemporanea di un
dato regime interno in ciascuno stato; ma è un problema a sé stante, che va
aggredito con mezzi propri e ad esso attagliantisi. Non si può essere
socialisti, è vero, senza essere insieme internazionalisti; ma ciò per un
legame ideologico, più che per una necessità politica ed economica; e dalla
vittoria socialista nei singoli stati non discende necessariamente lo stato
internazionale.
2) Ciò che spingeva inoltre ad accentuare in modo autonomo la tesi
federalista, era il fatto che i partiti politici esistenti, legati ad un passato di
lotte combattute nell’ambito di ciascuna nazione, sono avvezzi, per
consuetudine e per tradizione, a porsi tutti i problemi partendo dal tacito
presupposto dell’esistenza dello stato nazionale, ed a considerare i problemi
dell’ordinamento internazionale come questioni di «politica estera», da
risolversi mediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi. Questo
atteggiamento è in parte causa, in parte conseguenza di quello prima
accennato, secondo cui, una volta afferrate le redini di comando nel proprio
paese, l’accordo e l’unione con regimi affini in altri paesi è cosa che viene
da sé, senza bisogno di dar luogo ad una lotta politica a ciò espressamente
dedicata.
Negli autori dei presenti scritti si era invece radicata la convinzione che
chi voglia proporsi il problema dell’ordinamento internazionale come
quello centrale dell’attuale epoca storica, e consideri la soluzione di esso
come la premessa necessaria per la soluzione di tutti i problemi
istituzionali, economici, sociali che si impongono alla nostra società, debba
di necessità considerare da questo punto di vista tutte le questioni
riguardanti i contrasti politici interni e l’atteggiamento di ciascun partito,
anche riguardo alla tattica e alla strategia nella lotta quotidiana. Tutti i
problemi, da quello delle libertà costituzionali a quello della lotta di classe,
da quello della pianificazione a quello della presa del potere e dell’uso di
esso, ricevono una nuova luce se vengono posti partendo dalla premessa
che la prima mèta da raggiungere è quella di un ordinamento unitario nel
campo internazionale. La stessa manovra politica, l’appoggiarsi all’una od
all’altra delle forze in giuoco, l’accentuare l’una o l’altra parola d’ordine,
assume aspetti ben diversi, a seconda che si consideri come scopo
essenziale la presa del potere e l’attuazione di determinate riforme
nell’ambito di ciascun singolo stato, oppure la creazione delle premesse
economiche, politiche, morali per la instaurazione di un ordinamento
federale che abbracci tutto il continente.
3) Un altro motivo ancora – e forse il più importante – era costituito dal
fatto che l’ideale di una federazione europea, preludio di una federazione
mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si
presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e
quasi a portata di mano. Nel totale rimescolamento di popoli che questo
conflitto ha provocato in tutti i paesi soggetti all’occupazione tedesca, nella
necessità di ricostruire su basi nuove una economia quasi totalmente
distrutta, e di rimettere sul tappeto tutti i problemi riguardanti i confini
politici, le barriere doganali, le minoranze etniche ecc.; nel carattere stesso
di questa guerra, in cui l’elemento nazionale è stato così spesso
sopravanzato dall’elemento ideologico, in cui si sono visti piccoli e medi
stati rinunziare a gran parte della loro sovranità a favore degli stati più forti,
e in cui da parte degli stessi fascisti il concetto di «spazio vitale» si è
sostituito a quello di «indipendenza nazionale»; in tutti questi elementi sono
da ravvisare dei dati che rendono attuale come non mai, in questo
dopoguerra, il problema dell’ordinamento federale dell’Europa.
Forze provenienti da tutte le classi sociali, per motivi sia economici sia
ideali, possono essere interessate ad esso. Ad esso ci si potrà avvicinare per
via di trattative diplomatiche e per via di agitazione popolare; promuovendo
fra le classi colte lo studio dei problemi ad esso attinenti, e provocando stati
di fatto rivoluzionari, avvenuti i quali non sia più possibile tornare indietro;
influendo sulle sfere dirigenti degli stati vincitori, ed agitando negli stati
vinti la parola che solo in una Europa libera e unita essi possono trovare la
loro salvezza ed evitare le disastrose conseguenze della sconfitta.
Appunto per questo è sorto il nostro Movimento. È la preminenza,
l’anteriorità di questo problema rispetto a tutti quelli che si impongono
nell’epoca in cui ci stiamo inoltrando; è la sicurezza che, se lasceremo
risolidificare la situazione nei vecchi stampi nazionalistici, l’occasione sarà
persa per sempre, e nessuna pace e benessere duraturo ne potrà avere il
nostro continente; è tutto questo che ci ha spinto a creare un’organizzazione
autonoma, allo scopo di propugnare l’idea della Federazione Europea come
mèta realizzabile nel prossimo dopoguerra.
Non ci nascondiamo le difficoltà della cosa, e la potenza delle forze che
opereranno nel senso contrario; ma è la prima volta, crediamo, che questo
problema si pone sul tappeto della lotta politica, non come un lontano
ideale, ma come una impellente, tragica necessità.
Il nostro Movimento, che vive oramai da circa due anni nella difficile
vita clandestina sotto l’oppressione fascista e nazista; i cui aderenti
provengono dalle file dei militanti dell’antifascismo e sono tutti in linea
nella lotta armata per la libertà; che ha già pagato il suo duro contributo di
carcere per la causa comune; il nostro Movimento non è e non vuol essere
un partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente
caratterizzando, esso vuole operare sui vari partiti politici e nell’interno di
essi, non solo affinché l’istanza internazionalista venga accentuata, ma
anche e principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica
vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora
sono stati così poco avvezzi.
Non siamo un partito politico perché, pur promuovendo attivamente ogni
studio riguardante l’assetto istituzionale, economico, sociale della
Federazione Europea, e pur prendendo parte attiva alla lotta per la sua
realizzazione e preoccupandoci di scoprire quali forze potranno agire in
favore di essa nella futura congiuntura politica, non vogliamo pronunciarci
ufficialmente sui particolari istituzionali, sul grado maggiore o minore di
collettivizzazione economica, sul maggiore o minor decentramento
amministrativo ecc. ecc., che dovranno caratterizzare il futuro organismo
federale. Lasciamo che nel seno del nostro movimento questi problemi
vengano ampiamente e liberamente discussi, e che tutte le tendenze
politiche, da quella comunista a quella liberale, siano presso di noi
rappresentate. Di fatto, i nostri aderenti militano quasi tutti in qualcuno dei
partiti politici progressivi: tutti si accordano nel propugnare quelli che sono
i principii basilari di una libera Federazione Europea, non basata su
egemonie di sorta, né su ordinamenti totalitari, e dotata di quella solidità
strutturale che non la riduca ad una semplice Società delle Nazioni. Tali
principii si possono riassumere nei seguenti punti: esercito unico federale,
unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni
all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza
diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica.
In questi due anni di vita, il nostro Movimento si è largamente diffuso
fra i gruppi ed i partiti politici antifascisti. Alcuni di essi ci hanno espresso
pubblicamente la loro adesione e la loro simpatia. Altri ci hanno chiamato a
collaborare alle loro formulazioni programmatiche. Non è forse presuntuoso
dire che è in parte merito nostro, se i problemi della Federazione Europea
vengono così spesso trattati nella stampa clandestina italiana. Il nostro
giornale, «L’Unità Europea», segue con attenzione gli avvenimenti della
politica interna ed internazionale, prendendo posizione di fronte ad essi con
assoluta indipendenza di giudizio.
I presenti scritti, frutto dell’elaborazione di idee che ha dato luogo alla
nascita del nostro Movimento, non rappresentano però che l’opinione dei
loro autori, e non costituiscono affatto una presa di posizione del
Movimento stesso. Vogliono solo essere una proposizione di temi di
discussione a coloro che vogliono ripensare tutti i problemi della vita
politica internazionale tenendo conto delle più recenti esperienze
ideologiche e politiche, dei risultati più aggiornati della scienza economica,
delle più sensate e ragionevoli prospettive per l’avvenire. Saranno presto
seguiti da altri studi. Il nostro augurio è che possano suscitare fermento di
idee; e che, nella presente atmosfera arroventata dall’impellente necessità
dell’azione, portino un contributo di chiarificazione che renda l’azione
sempre più decisa, cosciente e responsabile.

IL MOVIMENTO ITALIANO
PER LA FEDERAZIONE EUROPEA

Roma, 22 Gennaio 1944


Per un’Europa libera e unita
Progetto d’un manifesto

I. La crisi della civiltà moderna


La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della
libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui,
ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto
imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita
sociale, che non lo rispettassero.
1) Si è affermato l’eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati
indipendenti. Ogni popolo, individuato dalle sue caratteristiche etniche,
geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale
creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita
politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni,
indipendentemente da ogni intervento estraneo. L’ideologia
dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto
superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro
l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi
che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto
estendere entro il territorio di ciascun nuovo stato alle popolazioni più
arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa
portava però in sé i germi dell’imperialismo capitalista, che la nostra
generazione ha visto ingigantire, sino alla formazione degli stati totalitari ed
allo scatenarsi delle guerre mondiali.
La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della
convivenza di uomini che, pervenuti grazie ad un lungo processo ad una
maggiore unità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma
più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la
società umana; è invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve
pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun
modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità
assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno
di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e
considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti, che gli permettano
di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza
dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi
che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.
In conseguenza di ciò, lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si
è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per
renderne massima l’efficienza bellica. Anche nei periodi di pace,
considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive,
la volontà dei ceti militari predomina ormai in molti paesi su quella dei ceti
civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti
politici liberi: la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo
amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale
bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in
conseguenza premiate con gli stessi criteri con le quali alle mostre si
premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera
età al mestiere delle armi e all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali
si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e
continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione
costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi, ed a
sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il
valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi
compiuti per aumentare il benessere collettivo.
Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente
l’unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di
autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all’odierno
ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo in avanti
verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre
trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere.
2) Si è affermato l’eguale diritto di tutti i cittadini alla formazione della
volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli
esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente
espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere o almeno
di attenuare molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dei regimi passati.
Ma la libertà di stampa e di associazione, e la progressiva estensione del
suffragio, rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi,
mantenendo il sistema rappresentativo.
I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi strumenti per
dare l’assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte sociali sui
redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle
maggiori fortune, la esenzione dei redditi minimi e dei beni di prima
necessità, la gratuità della scuola pubblica, l’aumento delle spese di
assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle
fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate
cittadelle.
Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’eguaglianza dei
diritti politici, non potevano ammettere che le classi diseredate se ne
valessero per cercare di realizzare quell’uguaglianza di fatto che avrebbe
dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la
fine della Prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo grave, fu
naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero
l’instaurazione delle dittature, che toglievano le armi legali di mano ai loro
avversari.
D’altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari
e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori,
sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più
rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato
stesso in tante baronie economiche in acerba lotta fra loro. Gli ordinamenti
democratico-liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si
serviranno per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il
loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato
totalitario, abolendo le libertà popolari, potesse in qualche modo risolvere i
conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a
contenere.
Di fatto, poi, i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la
posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed
hanno precluso col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la
violenta eliminazione di tutti i dissenzienti, ogni possibilità legale di
ulteriore correzione dello stato di cose vigenti. Si è così assicurata
l’esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri
assenteisti e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo
nel tagliare le cedole dei loro titoli; dei ceti monopolistici e delle società a
catena che sfruttano i consumatori, e fanno volatilizzare i denari dei piccoli
risparmiatori; dei plutocrati che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli
uomini politici per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo
vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi
nazionali. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle
grandi masse, escluse da ogni possibilità di godere i frutti della moderna
cultura. È salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le
riserve materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a
soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane,
vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di
coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in
cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso
ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore
sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle possibilità
proletarie resta così ridotto, che per vivere i lavoratori sono spesso costretti
a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità di impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono
stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che
godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca,
sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e verso esso
solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime
economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno
confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e
consolidare gli stati totalitari.
3) Contro il dogmatismo autoritario, si è affermato il valore permanente
dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito, doveva dare ragione di
sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento,
sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo. Ma
questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli
stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede, o da accettare
ipocritamente, si stanno accampando da padroni in tutte le scienze.
Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza, e le più elementari
nozioni storiche ne facciano risultare l’assurdità, si esige dai fisiologi di
credere, dimostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo
perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse
l’odio e l’orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono
essere considerati anatemi per presentare la politica autarchica, gli scambi
bilanciati e gli altri ferri vecchi del mercantilismo, come straordinarie
scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte
le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il
livello di vita corrispondente alla civiltà moderna è tutto il globo; ma si è
creata la pseudoscienza della geopolitica, che vuol dimostrare la
consistenza della teoria degli spazi vitali, per dar veste teorica alla volontà
di sopraffazione dell’imperialismo.
La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell’interesse della
classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le
opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell’oscurantismo di nuovo
minacciano di soffocare lo spirito umano. La stessa etica sociale della
libertà e dell’eguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati
cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini
collettivi. Sono servitori dello stato, che stabilisce quali debbano essere i
loro fini, e come volontà dello stato viene senz’altro assunta la volontà di
coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto,
ma, gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle
autorità superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il
regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di
paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta
capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione,
approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi,
della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei –
primo fra i quali l’Italia – alleandosi col Giappone, che persegue fini
identici in Asia, essa si è lanciata nell’opera di sopraffazione. La sua vittoria
significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo.
Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze
progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice
opposizione negativa.
La tradizionale arroganza ed intransigenza dei ceti militari tedeschi può
già darci un’idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio, dopo una
guerra vittoriosa. I tedeschi, vittoriosi, potrebbero anche permettersi una
lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i
loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo
lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed
alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece
che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello
stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una
rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti.
Anche una soluzione di compromesso tra le parti in lotta, significherebbe
un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero
sfuggiti alla stretta della Germania, sarebbero costretti ad adottare le sue
stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla
ripresa della guerra.
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati
minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in
lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento
più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto sì che i
tedeschi sieno andati a cozzare contro la strenua resistenza dell’esercito
sovietico e ha dato tempo all’America di avviare la mobilitazione delle sue
sterminate risorse produttive. E questa lotta contro l’imperialismo tedesco si
è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo
contro l’imperialismo giapponese.
Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le
potenze totalitarie; le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro
culmine, e non possono ormai che consumarsi progressivamente. Quelle
avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione, e
sono in ascesa.
La guerra degli alleati risveglia ogni giorno di più la volontà di
liberazione, anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano
stati smarriti per il colpo ricevuto: e persino risveglia tale volontà negli
stessi popoli delle potenze dell’Asse, i quali si accorgono di essere trascinati
in una situazione disperata, solo per soddisfare la brama di dominio dei loro
padroni.
Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano
modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e
contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo
contrario. In questa immensa ondata che lentamente si solleva, si ritrovano
tutte le forze progressive, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che
non si sono lasciate distogliere dal terrore e dalle lusinghe nella loro
aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei
ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l’intelligenza;
imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi
dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali, che impacciano
ogni loro movimento; tutti coloro infine che, per un senso innato di dignità,
non sanno piegar la spina dorsale nell’umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.

II. Compiti del dopoguerra. L’unità europea


La sconfitta della Germania non porterebbe però automaticamente al
riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà.
Nel breve intenso periodo di crisi generale (in cui gli stati giaceranno
fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose le parole
nuove e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme
nuove, capaci di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti),
i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali, cercheranno
subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle
passioni internazionaliste, e si daranno ostentatamente a ricostituire i vecchi
organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo
con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per
riprendere la politica dell’equilibrio dei poteri, nell’apparente immediato
interesse dei loro imperi.
Le forze conservatrici, cioè: i dirigenti delle istituzioni fondamentali
degli stati nazionali; i quadri superiori delle forze armate, culminanti, là
dove ora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo
monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i
grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche che solo da una
stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate
parassitarie; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da
essi dipendono o che anche sono solo abbagliati dalla loro tradizionale
potenza; tutte queste forze reazionarie già fin da oggi sentono che l’edificio
scricchiola, e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le
garanzie che hanno avuto finora, e le esporrebbe all’assalto delle forze
progressiste.

LA SITUAZIONE RIVOLUZIONARIA: VECCHIE E NUOVE CORRENTI

La caduta dei regimi totalitari significherà sentimentalmente per interi


popoli l’avvento della «libertà»; sarà scomparso ogni freno, ed
automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione.
Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli
sfumature, che vanno da un liberalismo molto conservatore fino al
socialismo e all’anarchia. Credono nella «generazione spontanea» degli
avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che
vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla «storia», al
«popolo», al «proletariato» e come altro chiamano il loro Dio. Auspicano la
fine delle dittature, immaginandola come la restituzione al popolo degli
imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni
è un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più
scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione
debba farsi. Se il popolo è immaturo, se ne darà una cattiva; ma correggerla
si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non rifuggono per principio dalla violenza; ma la vogliono
adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua
indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché
superfluo puntino da mettere sull’«i», sono perciò dirigenti adatti solo nelle
epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso
convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere solo
ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in
cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi
democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici
nella rivoluzione russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi.
In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, colle sue leggi e la sua
amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianze di vecchia
legalità, o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze
popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il
popolo ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfare, ma non sa con
precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue
orecchie. Con i suoi milioni di teste non riesce ad orientarsi, e si disgrega in
una quantità di tendenze in lotta fra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i
democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo
consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che
loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori
esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare.
Perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime,
cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga
preparazione, e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro
avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano
insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma
le confuse velleità regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda,
preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia
politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro
prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione
politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le
istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo
i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti
tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale specialmente
degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro
politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali; ma si
converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si
imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società.
Gli operai, educati classisticamente, non sanno allora vedere che le loro
particolari rivendicazioni di classe, o addirittura di categoria, senza curarsi
del come connetterle con gli interessi degli altri ceti; oppure aspirano alla
unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica
collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da
una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali. Questa
politica non riesce a far presa su nessun altro strato, fuorché sugli operai, i
quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, o le lasciano
cadere in balìa della reazione che abilmente le organizza per spezzare le
reni allo stesso movimento proletario.
Fra le varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e
dell’ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuta la difficoltà di
ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono – a
differenza degli altri partiti popolari – trasformati in un movimento
rigidamente disciplinato che sfrutta il mito russo per organizzare gli operai,
ma non prende legge da essi e li utilizza nelle più disparate manovre.
Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più
efficienti dei democratici; ma, tenendo essi distinte quanto più possono le
classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare che la loro
«vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono, nei momenti decisivi,
un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre, la loro assoluta
dipendenza dallo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati per il
perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di svolgere
alcuna politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di
nascondersi dietro un Károlyi, un Blum, un Negrin, per andare poi
facilmente in rovina insieme con i fantocci democratici adoperati; poiché il
potere si consegue e mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la
capacità di rispondere in modo organico e vitale alla necessità della società
moderna.
Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale,
sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali
hanno infatti già così profondamente pianificato le rispettive economie, che
la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di
interessi economici, cioè quale classe dovrebbe detenere le leve di comando
del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato
nella rissa fra classi e categorie economiche. Con la maggiore probabilità i
reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto.
Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che han
saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare
con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti
cooperino alla disgregazione del totalitarismo; ma senza lasciarsi irretire
dalla prassi politica di nessuna di esse.
Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando,
che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel
grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno
amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più
povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuate dietro i
movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso
contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovranno
fare i conti.
Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello
stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso,
più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi
reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di
più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse
popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi
entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare sia esse
che i loro capi più miopi sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti
dalla bufera.
Se questo scopo venisse raggiunto, la reazione avrebbe vinto. Potrebbero
pure questi stati essere in apparenza largamente democratici e socialisti; il
ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo.
Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la
soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Compito
precipuo tornerebbe ad essere a più o meno breve scadenza quello di
convertire i popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i
monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i
preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si
raggrinzirebbero in un nulla, di fronte alla necessità di prepararsi
nuovamente alla guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi
altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della
divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte
degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già
accomunato la sorte dei popoli europei, che, o tutti insieme soggiaceranno
al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in
una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide
strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato
ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli
ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto
maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere
un equilibrio di stati europei indipendenti, con la convivenza della
Germania militarista a parità di condizioni degli altri paesi, né si può
spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta.
Alla prova, è apparso evidente che nessun paese in Europa può restarsene
da parte mentre gli altri si battono, a niente valendo le dichiarazioni di
neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l’inutilità, anzi
la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che
pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare
capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli
stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento,
secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il
governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di
ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi
europei. Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la
vita internazionale del continente – tracciato dei confini nelle zone di
popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei
paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc. –
che troverebbe nella Federazione Europea la più semplice soluzione – come
l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a
far parte della più vasta unità nazionale avendo perso la loro acredine, col
trasformarsi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
D’altra parte, la fine del senso di sicurezza dato dalla inattaccabilità della
Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la «splendid isolation», la
dissoluzione dell’esercito e della stessa repubblica francese al primo serio
urto delle forze tedesche (risultato che è da sperare abbia di molto smorzata
la convinzione sciovinista dell’assoluta superiorità gallica) e specialmente
la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono
tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale, che
ponga fine all’attuale anarchia. E il fatto che l’Inghilterra abbia ormai
accettato il principio dell’indipendenza indiana, e la Francia abbia
potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta tutto il suo
impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una
sistemazione europea nei possedimenti coloniali.
A tutto ciò va aggiunta infine la scomparsa di alcune delle principali
dinastie, e la fragilità delle basi che sostengono quelle superstiti. Va tenuto
conto infatti che le dinastie, considerando i diversi paesi come proprio
tradizionale appannaggio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui
eran l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati
Uniti d’Europa, i quali non possono poggiare che sulla costituzione
repubblicana di tutti i paesi federali. E quando, superando l’orizzonte del
Vecchio continente, si abbraccino in una visione di insieme tutti i popoli che
costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la Federazione
Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e
americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in
attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica
dell’intero globo.
La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade
perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore
democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la
sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine
essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico
nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze
reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni
popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che
vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato
internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e,
anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea
come strumento per realizzare l’unità internazionale.
Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi
accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno
certamente formando, occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un
movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo
organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da
secoli in Europa; per costituire un saldo stato federale, il quale disponga di
una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi
decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari;
abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali
le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando
agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo
sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari
popoli.
Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini
che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, poiché la
situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera. Essi avranno di
fronte partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza
dell’ultimo ventennio. Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di
uomini nuovi: del MOVIMENTO PER L’EUROPA LIBERA ED UNITA .

III. Compiti del dopoguerra. La riforma della società


Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della
civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di
questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico
contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni
conservatrici che ne impedivano l’attuazione saranno crollate o crollanti; e
questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione.
La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere
socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici e la
realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di
orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può
essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà
privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio
abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio
fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma
utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione
dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo
sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è
asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della
collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea
deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono
dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro
sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi
masse non ne sieno vittime. Le gigantesche forze di progresso che
scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora
della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di
resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni nei salari, e con gli
altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece esaltate ed estese
offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego, e
contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le
convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la
collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per
caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce
naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea
liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale. La
soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale, anche nella
coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il
contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le
modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in
rapporto al presupposto ormai indispensabile dell’unità europea, mettiamo
in rilievo i seguenti punti:
a) Non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo
un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la
massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si
vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo ma che, per
reggersi, hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore ecc.
(l’esempio più notevole di questo tipo d’industria sono finora in Italia le
siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il
numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano,
possono ricattare gli organi dello stato, imponendo la politica per loro più
vantaggiosa (Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, grandi
armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a
nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti
acquisiti.
b) Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il
diritto di successione, hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi
privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi
rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare
ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano, onde
migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore
indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la
terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad
una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non
statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.
c) I giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al
minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In
particolare la scuola pubblica dovrà dare le possibilità effettive di
proseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più
ricchi; e dovrà preparare in ogni branca di studi, per l’avviamento ai diversi
mestieri e alle diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui
corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni
medie risultino poi press’a poco eguali per tutte le categorie professionali,
qualunque possano essere le divergenze fra le rimunerazioni nell’interno di
ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali.
d) La potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi
di prima necessità, con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a
tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il
vestiario, col minimo di conforto necessario per conservare il senso della
dignità umana. La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti
nella lotta economica, non dovrà, per ciò, manifestarsi con le forme
caritative sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui
conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che
garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare,
un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio.
Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro
iugulatori.
e) La liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando
le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere in
balìa della politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano
semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici
anzitutto del grande capitale. I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di
scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni cui intendono
prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire
l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche
potranno essere efficacemente combattute, una volta che sieno realizzate
quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari per creare intorno al nuovo ordine
un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare
alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte
senso di solidarietà sociale. Su queste basi, le libertà politiche potranno
veramente avere un contenuto concreto, e non solo formale, per tutti, in
quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza
sufficiente per esercitare un continuo ed efficace controllo sulla classe
governante.
Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarsi, poiché, non
potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non
faremmo che ripetere quel che tutti già sanno sulla necessità di organi
rappresentativi, sulla formazione delle leggi, sull’indipendenza della
magistratura che prenderà il posto dell’attuale per l’applicazione imparziale
delle leggi emanate, sulla libertà di stampa e di associazione per illuminare
l’opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare
effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario
precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo
momento nel nostro paese: sui rapporti dello stato con la chiesa e sul
carattere della rappresentanza politica:
a) Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col
fascismo andrà senz’altro abolito per affermare il carattere puramente laico
dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato
sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere egualmente
rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti.
b) La baracca di cartapesta che il fascismo ha costituito con
l’ordinamento corporativo cadrà in frantumi insieme alle altre parti dello
stato totalitario. C’è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre
il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Negli
stati totalitari, le camere corporative sono la beffa che corona il controllo
poliziesco sui lavoratori. Se anche però le camere corporative fossero la
sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di
rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai
essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni
più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle
categorie sindacalmente più potenti. Ai sindacati spetteranno ampie
funzioni di collaborazione con gli organi statali incaricati di risolvere i
problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz’altro da escludere
che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe
un’anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato
dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal
mito del corporativismo, potranno e dovranno essere attratti all’opera di
rinnovamento; ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la
soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere
vita concreta che nella forma assunta dagli stati totalitari, per irreggimentare
i lavoratori sotto funzionari che ne controllino ogni mossa nell’interesse
della classe governante.
Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato
nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel
suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime
direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una massa eterogenea di
tendenze, riunite solo negativamente e transitoriamente, cioè per il loro
passato antifascista e nella semplice attesa della caduta del regime
totalitario, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada, una volta
raggiunta quella mèta. Il partito rivoluzionario sa invece che solo allora
comincerà veramente la sua opera; e deve perciò essere costituito da uomini
che si trovino d’accordo sui principali problemi del futuro.
Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque vi sieno degli
oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza il
problema volta a volta sentito come più doloroso dalle singole persone e
classi, mostrare come esso si connette con altri problemi, e quale possa
esserne la vera soluzione. Ma dalla sfera via via crescente dei suoi
simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del movimento
solo coloro che hanno fatto della rivoluzione europea lo scopo principale
della loro vita; che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il
necessario lavoro, provvedano oculatamente alla sicurezza continua ed
efficace di esso, anche nelle situazioni di più dura illegalità, e costituiscano
così la solida rete che dà consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.
Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la
sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli
ambienti che sono più importanti come centro di diffusione di idee e come
centro di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi
sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani;
vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno
si è sottomessa alla ferula totalitaria, e che sarà la più pronta a riorganizzare
le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli
che si sentono spiritualmente più soffocare e disgustare dal regnante
dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel
movimento generale.
Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze,
è condannato alla sterilità; poiché, se movimento di soli intellettuali, sarà
privo della forza di massa necessaria per travolgere le resistenze
reazionarie, sarà diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; ed anche
se animato da sentimenti democratici, proclive a scivolare, di fronte alle
difficoltà, sul terreno della mobilitazione di tutte le altre classi contro gli
operai, cioè verso una restaurazione fascista. Se poggerà solo sul
proletariato, sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire
che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti
e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici da
per tutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.
Durante la crisi rivoluzionaria, spetta a questo movimento organizzare e
dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si
formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le
masse rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere
guidate. Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da
una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà
popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della
società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la
prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del
partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova
vera democrazia.
Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba
necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto
modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà
creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita
libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello
stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi
politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da
parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente
possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere.
Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli
divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso
da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e
suscitare nuove energie fra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano,
cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi
dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di
tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione
del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e
lo sarà!
Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche
di Altiero Spinelli

Wir gehören zum Geschlecht, das aus dem Dunkeln ins Helle strebt.

GOETHE

Quale sia il male profondo che mina la società europea, è evidentissimo


ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante
l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando
divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri,
opprime come un incubo logorante qualsiasi altra attività. Nessuno oggi può
considerarla con la spensieratezza d’un tempo. «La guerra fresca e gioiosa»
cioè l’avventura inebriante, breve, relativamente poco costosa, poteva
affascinare una trentina d’anni fa spiriti leggeri che non avevano riflettuto
sulle enormi capacità distruttive della tecnica moderna e
sull’imbarbarimento degli animi. Gli uomini di oggi, che in gran parte
vedono già per la seconda volta il flagello, conoscono tutta l’insulsaggine di
quel mito, e si rendono conto che il pericolo permanente di conflitti armati
fra popoli civili deve essere estirpato radicalmente, se non si vuole che
distrugga tutto ciò a cui si tiene di più. Può essere utile indicare brevemente
come sieno oggi in generale orientate le idee degli uomini intorno a questo
problema, e che cosa ci sia ragionevolmente da attendersi da questi
orientamenti, qualora possano realizzarsi in effettive istituzioni ed opere.
Possiamo raggrupparli, trascurando sfumature secondarie, intorno a tre
indirizzi tipici.
1) Il razzismo, che vede una via di uscita nella instaurazione della
signoria della razza superiore alle altre.
2) La democrazia, che vede nei regimi tirannici la causa delle guerre e
conta sulla pace che deve accompagnare le restaurazioni democratiche.
3) Il comunismo, che considera il capitalismo come il colpevole dei
conflitti e ne esige perciò l’abolizione come condizione necessaria della
pace tra i popoli.
Dopo aver esaminato questi tre indirizzi cercheremo di indicare la via
lungo la quale converrà ricercare la soluzione più corrispondente alle
esigenze della civiltà europea.

I. Il razzismo e l’unità europea


1) Per l’ingenuo europeo che, senza pensarci troppo, aveva creduto che la
civiltà del secolo XIX fosse la forma, per così dire, naturale e spontanea in
cui si esplica l’attività umana, l’apparire e il giganteggiare
dell’atteggiamento razzista sembra presso a poco un cumulo di assurdità, di
pazzie, di falsità. In realtà, il rispetto della reciproca libertà sulla base di
un’eguaglianza giuridica è solo il risultato di un complesso processo
storico, nel quale si sono venute incanalando quelle che sono veramente le
tendenze immediate dell’animo umano, indirizzandole verso scopi diversi
da quelli cui spontaneamente si volgerebbero. L’uomo civile è un prodotto
complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla
ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo umano. Ma quando
gli uomini vengono a trovarsi di fronte a problemi la cui soluzione è di
importanza vitale e di cui tuttavia non riescono a venire a capo per le
resistenze che incontrano e per la mancanza di strumenti atti a risolverli in
modi civili, quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze
primordiali. Le quali tendono a risolvere le difficoltà colla violenta
imposizione della loro volontà.
Se prevalgono, tendono ad organizzare tutta la società secondo il
rapporto fra padrone e servo. Il padrone decide autocraticamente il da fare:
il servo fa quello che ordina il padrone. Coloro che fanno resistenza vanno
soggiogati, o, se non vogliono sottomettersi, distrutti. Chi sottomette
afferma in tal modo la sua personalità, le sue esigenze. Chi si sottomette
rinuncia con ciò alla propria autonomia, e preferisce conservare la propria
vita facendola dipendere da un altro, anziché perderla. È questa la legge
immanente al tipo di società basata sul diritto del più forte.
2) Attraverso un secolare processo la nostra civiltà aveva abolito
legalmente il rapporto fra padrone e servo, e andava cercando le vie per
abolirlo anche di fatto. Invece, in forme inaspettate, è di nuovo apparso
prepotentemente dalle profondità. In altra occasione si potranno esaminare
le vicende attraverso le quali questo atteggiamento è riemerso in questo o
quel paese, affermandosi allo stato più puro in Germania. Qui ci basti
accennare che non è stato causato, ma solo occasionato da motivi
economici, accanto a parecchi altri.
Le grandi crisi del dopoguerra sono state fra le più grosse difficoltà
contro cui si è infranta la disciplina sociale moderna, aprendo un varco alle
tendenze atavistiche latenti nell’animo umano. Una volta scatenatosi ed
affermatosi, questo atteggiamento di conquista diventa centro di impulsi e
di azioni, che risolve secondo la sua intima natura i problemi di fronte ai
quali si trova. Nella società moderna il rapporto tra signori e servi è
realizzato nel modo più coerente dal razzismo tedesco. Il mito razzista, per
inconsistente che possa essere alla luce della conoscenza scientifica,
rappresenta il criterio ideale con cui vengono fissate le gerarchie dei valori,
e viene elaborata la divisione dell’umanità in caste. Tutte le energie
politiche, sociali, economiche e culturali che la società era venuta
sviluppando, sono trasformate in strumenti di dominio dei signori. Il paese è
organizzato in una specie di collettivismo razzista di tipo spartano: cioè una
organizzazione militare, atta a tener ferme le distinzioni fra dominatori e
dominati, ad impedire scissioni fra i primi, a sfruttare i servi di grado
inferiore a vantaggio dei signori e dei servi di grado superiore, cioè del
popolo cosiddetto dominatore. Questo è in realtà esso stesso un docile
strumento in mano alle ristrette caste veramente dominanti, ed è adoperato
per sottomettere altri popoli. Al di sotto dei tedeschi stanno già, come servi
di ordine inferiore, i cechi, i polacchi, gli ebrei, ecc. 1 Il dominio e il
conseguente diritto di sfruttamento giungono dove può giungere la forza.
Nessuno scrupolo verso altri ha ragione di essere, perché gli altri sono per
definizione strumenti od ostacoli, servi o nemici.
3) L’assurda anarchia dell’organizzazione internazionale europea è il
terreno più propizio che sia possibile immaginare per l’esplicazione piena
del razzismo. Esso è portato senz’altro a tentare di organizzare il continente
e le sue appendici coloniali come campo di sfruttamento da parte della
razza dominante. Le contraddizioni sorgenti dall’esistenza degli stati
nazionali non esisterebbero in tal caso più, ma la loro soluzione sarebbe per
tutta un’epoca quella dello sfruttamento e della colonizzazione militare di
tutta l’Europa a vantaggio di una sola comunità nazionale. Assolutamente
privo di importanza è lo stare a speculare sia intorno alle forme giuridiche
che questo impero potrebbe assumere, sia intorno a quelle economiche. Lo
sfruttamento può prendere aspetti collettivistici di imposizione di tributi alle
comunità sottomesse o aspetti capitalistici di provvedimenti restrittivi che
facciano funzionare il mercato nel senso voluto.
Quali che possano essere gli ulteriori sviluppi di questo regime, certo è
che la sua vittoria significherebbe l’instaurazione di un tipo di civiltà di
caste, totalmente diverse da quello lungo il quale l’Europa era andata sinora
sviluppandosi. L’orientamento nazista potrebbe realizzarsi in modo
intelligente e stupido, ma è da notare che i fini che si propone non sono
irrealizzabili per contraddizioni interne, e i mezzi che adopera possono
essere anch’essi coerenti. Non c’è perciò da attendersi ragionevolmente che
sia destinato a sfasciarsi per intima inconsistenza. Il significato profondo
della guerra odierna, al di là dei particolari problemi politici ed economici
che essa implica, non è perciò quello di una guerra di imperialismi
economici né di una guerra di nazioni più o meno prepotenti. È quello di
una guerra di civiltà, fatta per decidere se la nostra vita debba o no
soggiacere a quel ricorso atavistico. Chiunque abbia un po’ di conoscenza
di storia dei popoli primitivi, sa che questo è il loro naturale modo di
comportarsi. L’esitazione ad applicare queste categorie agli avvenimenti
odierni, proviene semplicemente dall’opinione, del tutto ingiustificata, che
le forme di civiltà barbarica sieno connesse con uno stadio di conoscenze
tecniche molto basse, e che sieno perciò oggi impossibili. In realtà sono
solo connesse con atteggiamenti spirituali molto elementari, e possono star
benissimo assieme agli aeroplani e alla radio.

II. La democrazia e l’unità europea


1) La più comune esperienza mostra che l’uomo, quando si trova implicato
in una situazione che sconcerti le sue tradizionali abitudini e presenti aspetti
nuovi, tende con estrema facilità a negare il nuovo problema, a ricondurlo
al vecchio, a ricostituire gli antichi schemi di condotta, nei quali tutto si
svolgeva in modo «ragionevole», cioè riposante. La volontà che sembra
tesa verso la creazione, è invece quasi sempre rivolta verso la restaurazione
del già noto.
Non si può trattare con disprezzo questo atteggiamento, poiché è il
fondamento della continuità nella vita dei singoli e dei gruppi. Non si
potrebbe far nulla di serio, se si pretendesse di ricominciare ogni volta tutto
da capo. Normalmente ci si appropria di una esperienza nuova
riconducendola a motivi ed abiti già noti. Ma è un orientamento che diventa
del tutto assurdo, ed è alimentato non più dalla ragionevolezza, ma dalla
nostalgia, quando tende a perseguire fini e ad applicar mezzi i quali, per la
loro natura e per le circostanze in cui possono ormai essere realizzati,
conducono inevitabilmente alla rovina di quel che si vorrebbe veder
consolidato. Per misurare perciò il valore positivo o negativo di questo
orientamento, occorre esaminare la coerenza dei suoi fini e dei suoi mezzi.
Il modo più caratteristico in cui questo atteggiamento oggi si presenta
nella vita politica, è quello della restaurazione democratica nazionale, che
vorrebbe veder ristabiliti i due principii fondamentali su cui poggiava e si
era sviluppata la civiltà europea del secolo XIX, e che il corso degli
avvenimenti ha fatto crollare: cioè il principio secondo cui ogni nazione ha
il diritto di organizzarsi in uno stato sovrano assolutamente indipendente; e
quello secondo cui l’uomo ha imparato ad essere più o meno rispettoso
della personalità altrui nell’ambito delle leggi esistenti, ed esigere dagli altri
lo stesso rispetto verso di sé, ed a svolgere così in modo libero e spontaneo
la propria personalità, indisturbato per quanto concerne le sue esigenze
individuali, o in volontaria collaborazione coi consenzienti per quanto
concerne le esigenze collettive.
2) Attribuiamo per un momento a questi restauratori il massimo di
intelligenza e di fortuna nella loro eventuale opera. Poniamo che riescano
dovunque a fondare nei vari stati istituzioni libere in cui sieno rispettati nel
miglior modo possibile i sentimenti delle tradizionali nazionalità; sieno
ridotte a un livello insignificante le influenze sinistre di gruppi particolari,
in modo che la legge possa veramente imperare eguale per tutti; sieno
eliminati tutti i protezionismi e tutte le limitazioni migratorie fra paese e
paese; sieno sostanzialmente ridotte tutte le spese per gli armamenti;
l’attività dello stato sia insomma rivolta non alla sopraffazione verso
l’esterno, ma al perseguimento dei comuni interessi dei suoi cittadini.
In tale ipotesi sarebbe certamente possibile una ripresa, per tutta
un’epoca storica, della civiltà democratica nazionale, purificata anzi dalle
gravi tare che ebbe nel passato. Si noti però che, in tutta questa
sistemazione, il punto più debole è quello costituito dall’organizzazione
internazionale. Mentre nel campo nazionale il restauratore intelligente
capisce che è necessario non affidarsi semplicemente alla buona volontà dei
cittadini, ma provvede a stabilire un saldo corpo di leggi fornite di potere
coercitivo onde raffrenare e indirizzare le singole attività, i rapporti fra vari
stati restano basati esclusivamente sulla buona volontà pacifica di ciascuno
di essi, nel presupposto di una completa coincidenza dell’interesse dei
singoli stati con l’interesse della collettività degli stati stessi.
Ma questo presupposto non è vero; è vero anzi il presupposto contrario.
In assenza di proibizioni, è possibilissimo procurarsi posizioni che
rappresentino un danno per altri ed un vantaggio per sé. Perché un tale
abuso accada, non è necessario supporre una particolare perversa volontà di
sopraffazione; basta che uno stato pensi che suo dovere sia, non già di
provvedere al benessere di tutti gli uomini, ma a quello dei suoi cittadini.
Lo stato nazionale è costruito appunto a questo scopo; esso è
organicamente inadatto a vedere gli interessi di tutti gli uomini. Mille e una
occasione si presenterebbero ad ogni istante, nelle quali l’interesse di
particolari gruppi geografici sarebbe meglio favorito danneggiando anziché
rispettando l’interesse di tutti gli altri paesi. Nulla esisterebbe che potrebbe
trattenere dall’imboccare questa strada. Ma una volta presa, diventerebbe
pressoché impossibile trarsi fuori dall’ingranaggio che impone ad ogni stato
di difendere gli interessi lesi dagli abusi altrui, ricorrendo infine alla forza
per farli valere. Ricomincerebbe la militarizzazione progressiva dei singoli
paesi, micidiale per qualsiasi sano regime di libertà; si ripeterebbe il ciclo
già percorso due volte fra il 1870 e il 1914 e fra il 1918 e il 1938. La
restaurazione democratica nazionale poggerebbe perciò, anche nella
migliore delle ipotesi, su basi quanto mai precarie.
3) Ma abbiamo in realtà reso troppo facile il compito ai restauratori,
attribuendo loro una intelligenza ed una fortuna che non ci si può
ragionevolmente attendere. I dati effettivi tra cui i restauratori dovrebbero
muoversi sono tali che lo slittamento verso il militarismo diventerebbe non
solo molto probabile, ma possiamo dire, ineluttabile. In primo luogo non
sono atti a prendere le necessarie misure per creare delle perfette
democrazie nazionali. Per procedere a questa opera dovrebbero saper
utilizzare, ma non subire le pressioni particolari giungenti dal basso. Per
loro natura, invece, sono portati a far proprie e ad esprimere le aspirazioni
spontanee delle masse, cui fanno appello come sovrane.
Se analizziamo le principali aspirazioni da cui queste masse sono
tradizionalmente mosse nei vari paesi europei, troviamo che sono
suscettibilissime di lasciarsi influenzare da motivi patriottici, classisti o
sezionali. Vale a dire che son pronte ad esigere dai loro capi la difesa o la
realizzazione di interessi concernenti la potenza e il prestigio del loro paese;
o concernenti i privilegi di questa o quella classe, o concernenti i guadagni
di questo o quel gruppo di mercato. Questi interessi possono essere fondati
o immaginari, ma sono comunque sempre parziali, ed effettivamente
incuranti nel modo più assoluto dei veri interessi generali, quantunque
spesso camuffati come tali. 2
I democratici, desiderosi di rappresentare la volontà popolare, facilmente
finirebbero per diventare, nelle loro varie tendenze, strumenti di questo o
quel gruppo particolare, mirante a conquistare la direzione dello stato e ad
impiegarne la forza per far valere i propri particolari interessi. Ma qualsiasi
esclusivismo, economico, sentimentale, o ideologico, disponendo dell’arma
sfrenata dello stato sovrano, evocherebbe contromisure analoghe da parte di
altri stati, avvelenando rapidamente l’atmosfera europea e generando di
nuovo pericoli di guerra.
La mitologia democratica propende a credere che le guerre sieno dovute
solo a loschi interessi di piccole minoranze, che le grandi masse sieno
fondamentalmente pacifiche. Perciò, si pensa, quando i governi poggeranno
su di esse, il pericolo delle guerre sarà praticamente eliminato. Si è
affermato un tempo che le guerre erano causate dai particolari interessi dei
re assoluti 3 e che sarebbero scomparse dalla faccia della terra il giorno in
cui in tutti i paesi i popoli avessero potuto far valere le loro pacifiche
intenzioni. Si è invece visto che le democrazie, anche le più rispettose
all’interno dei diritti dei loro cittadini, non trasportavano affatto queste loro
virtù nei rapporti con l’estero, nei quali rimanevano egoiste, disposte
all’esclusione e alla sopraffazione dei rivali. Anche in esse infatti, potevano
benissimo farsi valere interessi particolaristici – talvolta dell’intero gruppo
geografico, tal’altra di più ristretti gruppi, 4 i quali finivano per proseguire la
politica dei re assoluti. La rapidità con cui i nuovi stati sorti dalla
Rivoluzione francese e russa hanno ripreso in pieno la politica estera
difensiva e offensiva dei rispettivi anciens régimes, appena mascherandole
con le nuove parole può essere istruttiva.
Non è infatti da credere che ci sieno strati della popolazione sulla cui
avversione alla guerra si possa contare come su una peculiare virtù. Pacifisti
sono solo i deboli che sanno a priori di essere battuti, o di essere impiegati
come strumenti dei forti per fini non loro, e che deplorano, come si può ben
comprendere, questo stato di cose. Coloro che dispongono della forza, se
non c’è una legge superiore ad imporre una disciplina, sono sempre inclini
ad adoperarla per difendersi, o per offendere. Perciò anche un popolo, una
classe o un gruppo sociale qualsiasi, pacifista finché non disponga del
potere, sarà pronto, quando lo detenga, ad impiegarlo per acquistare o
difendere un privilegio. E in questo atteggiamento sta la radice della
bellicosità.
4) In secondo luogo, una tale restaurazione, tenendo come fulcro lo stato
nazionale sovrano, prende per questo solo fatto una piega fatale, anche a
prescindere dalla propensione democratica a farsi portavoce di interessi
particolaristici, sentiti dalle masse.
Parlando dello stato moderno, non si deve prendere in considerazione
solamente la sua possibilità di abusare della sovranità illimitata. Ancor più
occorre tener conto del fatto che intorno allo stato si è consolidata tutta una
fortissima tradizione storica, la quale gli attribuisce una specie di mistico
valore assoluto. Lo stato deve ubbidire incondizionatamente all’imperativo
categorico che gli ordina di affermarsi e rafforzarsi. La civiltà moderna è
riuscita a domare la prepotenza e la riottosità feudale solo a patto di
attribuire tutta l’illimitatezza dei diritti che si toglievano agli individui,
all’organismo statale sovrano che ad essi si sostituiva. È interessante notare
che proprio quei paesi il cui regime è sorto dal regime feudale per diretta
filiazione, non hanno attraversato questa fase di esaltazione dello stato,
rintuzzandola anzi quando ha cercato di imporsi; e sono perciò anche i soli
paesi che non hanno misticamente attribuito allo stato un assoluto fine a sé
stesso, concependolo invece sempre solo come uno strumento per realizzare
gli interessi comuni. 5 In tutti gli altri paesi, dal più al meno, ed in modo
preminente in Francia nel XVII e nel XVIII secolo, e in Germania nel XIX
e XX, lo stato ha subìto questa selvaggia deificazione, che ha avuto la sua
incarnazione nella monarchia assoluta. Le democrazie europee si sono
limitate a restringerne l’onnipotenza all’interno, lasciando intatto sotto ogni
altro aspetto il suo trascendente valore assoluto, rafforzandolo anzi,
coll’aggiungervi tutte le passioni nazionali che si andavano sempre più
sviluppando, man mano che strati sempre più larghi del popolo
partecipavano alla vita dello stato, vedendo legate al suo destino le proprie
fortune.
Ora, è pur vero che astrattamente è concepibile che i restauratori
democratici possano radicalmente estirpare questa tradizione, e ricostituire
stati nazionali fondati solo su chiari presupposti razionali, scevri di ogni
mistica deificazione (quantunque, se fossero talmente liberi dai tabù dello
stato sovrano, non si capirebbe perché debbano sentire così urgente il
bisogno di ricostituirlo, malgrado gli evidentissimi suoi inconvenienti). Ma
questa radicale ricostruzione non è in realtà possibile, per poco che si
rifletta alle effettive condizioni di fronte alle quali si troverebbero i
restauratori.
Essi contano, come si è detto, di ristabilire le libertà popolari,
quantunque sappiano che non tutti saranno disposti a rispettare le regole di
gioco. Talmente è radicata in loro la credenza nella naturalezza del modo di
comportarsi dell’uomo civile del secolo XIX, talmente sono convinti che
spontaneamente le masse sieno capaci di scegliere la via buona, da credere
ingenuamente che basterà fare opera di persuasione perché i veli cadano da
occhi desiderosi solo di vedere, e si formino le necessarie maggioranze
occorrenti per far funzionare i meccanismi democratici. Ma l’uomo
fondamentalmente buono è un mito illuministico; le masse (popoli, classi ed
altro) in cui misticamente alberghi una missione universale, sono un mito
romantico; e nessuno dei due miti resiste all’esame critico. Le masse, di
qualsiasi ceto sociale, spontaneamente sono solo capaci di provvedere ai
propri interessi immediati, ricorrendo alla sopraffazione tutte le volte che
appaion loro condizioni di successo. L’uomo civile che sa rispettare la
libertà altrui e cooperare liberamente con gli altri, è forse la più elevata
creazione che lo spirito umano sia riuscita ad elaborare; ma è un frutto
possibile solo se c’è come premessa un quadro di istituzioni disciplinatrici
dei suoi impulsi.
Perciò il restauratore democratico può sì sognare i più rosei quadri di
masse liberate dalla tirannide, le quali, commettendo magari qualche
accidentale errore o atto terroristico di giusta vendetta, stabiliscano
sovranamente di camminare dal momento della liberazione sulla via del
progresso; ma, non appena passi dal sogno alla realtà, deve fare affidamento
già preliminarmente su alcune salde istituzioni tradizionalmente
riconosciute ed accettate dagli uomini, le quali possano costituire la prima
necessaria cornice legale entro cui vengano ad esplicarsi le libertà popolari.
Il principale organismo che gli si offre per poter svolgere questa
funzione, è lo stato nazionale. Ben lungi dal distruggerlo radicalmente, il
restauratore che voglia fare una politica realistica, deve cercare di salvare
nei momenti critici tutto quel che sia possibile salvare della forza dello
stato, deve sostenere tutti i pilastri nel momento che minacciano di crollare,
se non vuol veder naufragare completamente il suo sogno. Ogni altra
esigenza passa in seconda linea di fronte a questa. Tale è il motivo profondo
per cui i democratici tedeschi e spagnuoli, per non citare che i due esempi
più recenti, hanno proceduto con tanta cautela rispetto alle tradizionali
istituzioni dei loro stati, lasciando intatti gli apparati essenziali, malgrado la
loro proclamata avversione ad essi. Ed è questo il motivo profondo per cui
in altri paesi si vedono i restauratori rivolgersi ansiosamente, quando
sentono avvicinarsi la tempesta, alle più conservatrici istituzioni, per le
quali non hanno grande simpatia, ma che debbono sperare restino in piedi,
fornendo loro un saldo sostegno.
Ora una situazione di tal genere non è davvero la più propizia per venire
a capo delle tradizioni assolutistiche che compenetrano ogni poro dello
stato nazionale europeo. Queste tradizioni potranno transitoriamente restar
sommerse dalla marea popolare, ma rimarranno fisse nel modo di pensare
della burocrazia statale, delle forze armate, della magistratura, delle scuole,
e cercheranno di riaffermarsi ad ogni occasione, riconquistando il terreno
perduto, man mano che la prima ondata sovvertitrice si plachi e gli uomini
rientrino nella vita normale, nella quale tornino a veder troneggiare la
divinità dello stato. La storia della Repubblica di Weimar può essere presa
come il caso tipico dei problemi in cui il restauratore democratico nazionale
viene a trovarsi inestricabilmente impigliato. Per dare alla Germania una
democrazia, i democratici hanno dovuto conservare i meccanismi
dell’ordine: burocrazia, magistratura, quadri militari. E questi hanno poi
inghiottito la democrazia. 6
Né bisogna, per ultimo, dimenticare che una restaurazione democratica
nazionale significherebbe, data l’importanza politica ormai assunta da
larghe masse popolari, una serie di estese misure nel senso di una maggiore
eguaglianza economica. Ma questa implica un maggior numero di vincoli
imposti dall’attività centrale all’attività dei singoli e dei gruppi, cioè una
maggiore abitudine di disciplina nei popoli. Mentre dunque resterebbero in
piedi tutti i motivi e le occasioni di attriti internazionali, mentre si sarebbe
contribuito a salvare la stessa organizzazione cui gli europei attribuiscono
tradizionalmente l’incontestato diritto di chiamarli a combattere e a morire,
si svilupperebbero ulteriormente trasformazioni sociali che faciliterebbero
enormemente una rapidissima totale militarizzazione dei vari paesi.
5) L’assurdità della restaurazione democratica nazionale balza
chiarissima agli occhi se si applicano tutte le precedenti considerazioni al
concreto caso tedesco, che costituisce il problema centrale della vita
europea. In Germania, la posizione geografica, le tradizioni storiche, gli
interessi reali e immaginari dei singoli ceti e dell’intero popolo, la
divinizzazione della potenza statale, la boria nazionale, l’esistenza di
un’aristocrazia fondiaria e di un vasto ceto di ufficiali abituati al comando,
le abitudini di ubbidienza del popolo, spingerebbero irresistibilmente, in un
sistema internazionale di stati sovrani, qualsiasi regime a far uso della
guerra. Tutte queste tendenze, anche se fossero per un momento represse,
resterebbero sempre fortissime, quando pure in Germania si stabilisse, come
avvenne nel 1918, una democrazia; lo sarebbero anche se artificiosamente
si riuscisse a spezzare per qualche tempo, come si pensa da taluno, la sua
unità statale. Le più larghe concessioni non riuscirebbero a placarla, se pure
gli uomini politici degli altri stati fossero così imbecilli da mostrarsi
generosi, col rischio di vederla dopo poco minacciosa in armi, più
formidabile di prima. Le diffidenze e restrizioni che prevedibilmente la
circonderebbero, contribuirebbero solo ad irrigidirla nella sua aspirazione al
dominio. Ma con una Germania così fatta, nessun altro paese potrebbe fare
a meno di essere militarista.
Bisogna essere ben ingenui per credere, dopo aver riflettuto su tutti
questi problemi, che, restaurati gli stati democratici nazionali, vi sia la pur
minima probabilità che questi si avviino e permangano su una strada di
pacifica convivenza, in capo alla quale arrivino, nel debito corso del tempo,
alla maturità politica necessaria perché tutti risultino convinti della
convenienza di una istituzione superstatale, in modo che la federazione non
si imponga ai popoli liberi, ma sia solo la simbolica espressione dell’ormai
connaturata capacità di vivere senza guerre. Tutto quello che gli stati
sovrani saprebbero fare in un momento di nausea per gli orrori della guerra,
sarebbe una nuova S.d.N., cioè un’istituzione di unità solo simbolica, priva
di qualsiasi forza effettiva, che non toglierebbe neppure un briciolo alla loro
sovranità, ed in cui i rappresentanti delle potenze si riunirebbero a far
mostra di pacifiche intenzioni, fino al momento in cui fosse di nuovo giunta
l’occasione di battersi. E ci sarebbe magari di nuovo una serie di conferenze
sul disarmo, che si aggirerebbero attorno all’insolubile problema di riuscire
a trovare formule in cui ciascuno stato vedesse diminuire gli armamenti
altrui, senza diminuire i propri.
È difficile rintracciare nella storia dell’umanità un altro periodo in cui
abitudini civili sieno state così diffuse come nell’Europa del secolo XIX. La
tragica agonia di quell’epoca ha pochi elementi casuali, e, quasi a
controprova della sua ineluttabilità, la stessa generazione che ha visto la
prima catastrofe, assiste ora al suo ripetersi. Non c’è proprio nulla di meglio
da fare che prepararsi a ripercorrere ciecamente per una terza volta questo
ciclo, accettandolo come un fato a cui non si possa cercar di sottrarsi? Non
sarebbe meglio allora, malgrado una inevitabile ricaduta nella barbarie, la
soluzione razzista, la quale spazzerebbe comunque via queste assurdità?
L’analisi dell’orientamento restaurazionista ci ha dunque portati alla
conclusione che, essendo prigioniero tanto del tabù dello stato nazionale
sovrano quanto di quello della sovranità popolare, esso è divenuto
intimamente contraddittorio ed è perciò assolutamente incapace di ispirare
l’operosità occorrente a liberare l’umanità dagli errori in cui si dibatte.

III. Il comunismo e l’unità europea


1) La cultura dei singoli e la civiltà dei popoli è tanto più elevata quanto è
più ricca di finalità operanti, e quanto meglio riesce a farle convivere.
Perché cultura e civiltà possano progredire, occorre perciò da una parte il
lavoro di elaborazione degli strumenti atti a raggiungere fini determinati,
dall’altra il lavoro di armonizzazione fra i vari fini. Il primo compito spetta
all’intelletto, per il quale i fini sono dei presupposti, e che deve mirare solo
al rigore logico con cui fa le sue costruzioni. Il secondo è il compito della
saggezza, la quale stabilisce il punto oltre il quale non è più conveniente
perseguire un fine particolare, poiché diversamente ne verrebbero soffocati
altri cui ugualmente si tiene; e cerca di concentrare l’attenzione su quelli
che, in rapporto alle circostanze di fatto esistenti, acquistano un valore
centrale, ed intorno ai quali vanno disponendosi e graduandosi variamente
gli altri.
Ora, esser coerenti, quantunque sia abbastanza difficile, è infinitamente
più facile che essere saggi, e accade di frequente che la cristallizzazione di
energie causata dal perseguimento di un particolare fine, faccia talmente
sfuggire la visuale, da nascondere il suo nesso con gli altri fini. E poiché
l’importanza e l’utilità di un fine dipendono proprio da questo nesso, il
risultato di questo atteggiamento consequenziario è che, se anche quello
scopo specifico è raggiunto, si consegue qualcosa di deforme, immeritevole
dello sforzo compiuto, e che non contribuisce affatto, come pur si sarebbe
voluto, all’elevazione della vita umana.
Il più cospicuo orientamento consequenziario dei nostri giorni nel campo
della politica, è quello comunista, il quale risponde originariamente al fine
delle classi operaie di liberarsi dalla miseria in cui si trovano e di aver così
l’opportunità di godere dei frutti della civiltà, da gran parte dei quali sono
escluse. Esso risponde perciò ad una esigenza che ha il suo naturale posto
nella linea di sviluppo della nostra civiltà. Non è qui il luogo di occuparci
dell’origine e degli svolgimenti del comunismo nel suo complesso, né di
chiederci se l’unilateralità con cui ha determinato il suo fine o lo persegue,
tenda effettivamente a produrre il desiderato ampliamento della civiltà
moderna. Ci interessa solo esaminare la sua posizione di fronte al problema
dell’anarchia internazionale.
Potrebbe sembrare che ci siamo qui infine imbattuti in uomini i quali
abbiano intravisto la soluzione. I comunisti denunziano infatti da tempo in
modo vigoroso l’imperialismo generatore di guerre, non sono legati a tabù
nazionali, ed auspicano l’unione dei popoli. Se però si esamina più da
vicino questa loro propaganda, si scorge senza possibilità di equivoco che in
realtà i comunisti, come i democratici, non hanno mai seriamente affrontato
il problema dell’ordine internazionale, e sperano che si risolverà da solo.
Quantunque sia evidente che questo problema ha acquistato un’importanza
centrale, e che è il suo modo di soluzione a dare un senso agli altri connessi
problemi della nostra civiltà, il consequenziario comunista non riesce a
rendersene conto, e continua a credere che la questione centrale sia quella
dell’abolizione del capitalismo. Raggiunta questa, tutto il resto verrebbe da
sé, quasi per grazia divina. L’internazionalismo socialista e comunista è
dello stesso tipo di quello democratico. Come questo crede che i popoli
andranno d’accordo spontaneamente purché si eliminino i regimi dispotici,
così i comunisti credono che i proletari aboliranno imperialismo e guerre,
per il solo fatto di abolire nei loro paesi il capitalismo.
Esaminiamo infatti più particolarmente il loro atteggiamento rispetto alla
nostra questione.
Dopo l’epoca della formulazione dei cosiddetti «utopisti» che pensavano
alla costituzione di piccole comunità autarchiche, gestite collettivamente, il
pensiero socialista, allargando i suoi orizzonti, è giunto all’idea che solo
una organizzazione collettivista abbracciante l’intera umanità poteva
funzionare in modo effettivo. Questa idea non era tuttavia una reale
direttiva d’azione, ma costituiva semplicemente l’immaginario
prolungamento nel futuro di tendenze che si assumevano senz’altro come
già operanti in modo irresistibile in quell’epoca. Si era convinti che il
regime borghese spingesse in questo senso, e che non ci fosse altro da fare
che procedere oltre. «Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli»
scriveva Marx nel 1848 «vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo
della borghesia, per la libertà di commercio, per l’azione del mercato
mondiale, per l’uniformità della produzione industriale e per le condizioni
di esistenza che ne derivano. Quelle differenze e quegli antagonismi
spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato.
L’azione combinata, per lo meno dei proletari dei paesi civilizzati, è una
condizione prima della liberazione del proletariato. A misura che verrà
abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, verrà anche meno lo
sfruttamento di una nazione sull’altra. Caduto che sia il contrasto delle
classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni
stesse.»
Come si vede, il collegamento delle idee è il seguente:
a) Esistenza di una tendenza borghese all’eliminazione dei contrasti
internazionali.
b) Abolizione del contrasto delle classi nell’interno delle singole nazioni.
c) Conseguente automatico perfezionamento di quella tendenza
internazionalizzatrice. L’azione combinata dei proletari dei principali paesi
non ha che da camminare su una strada già tracciata. Che nessun particolare
sforzo occorresse per tracciarla, è dimostrato dal fatto che, quantunque quel
concentramento di azione sia considerato come una delle condizioni prime,
tuttavia Marx non sentiva nessuna contraddizione nell’affermazione che
precede immediatamente il brano citato: «Poiché il proletario di ogni paese
deve anzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale
e deve costituirsi in nazione, perciò esso è e rimane ancora nazionale,
sebbene sia tale in senso affatto diverso da quello della borghesia».
La prospettiva cobdenista, accettata in pieno da Marx, secondo la quale
l’intensificazione dei traffici tra i popoli avrebbe abolito gli antagonismi
nazionali, è risultata errata. È vero che grandi interessi capitalistici esistono
tuttora, i quali sono favorevoli al libero scambio, ma lo sviluppo effettivo è
stato un rafforzamento degli antagonismi nazionali, i quali hanno
disturbato, rallentato, e quasi finito col distruggere i traffici economici.
Questo contrasto tra la teoria e lo sviluppo generale storico ha portato i
socialisti, e quindi i comunisti, a rivedere il loro presupposto cobdenista, ma
non ha portato a nessuna sostanziale alterazione nell’effettiva linea di
condotta dei movimenti proletari.
Si è infatti stabilito, man mano che l’Europa cominciava a coprirsi di
armamenti, che esisteva un nesso diverso tra capitalismo ed imperialismo.
Non è qui il luogo di criticare questa teoria che generalizza e dà valore di
legge assoluta a particolari casi di significato contingente, senza
approfondirne l’analisi. 7 Dobbiamo però osservare che di fronte al rilievo
grandissimo dato in tutta la letteratura socialista al pericolo di guerra e al
posto crescente che nella sua propaganda prendeva il tema internazionalista,
non ci sono opere effettive del proletariato organizzato che abbiano
contribuito a creare istituzioni capaci di ridurre veramente il pericolo di
guerra, mentre ci sono atti che hanno contribuito, sia pure
involontariamente, a creare attriti che accentuano la tensione internazionale.
Ma la teoria dell’imperialismo capitalista non doveva servire a far
rivolgere gli sforzi dei proletari nel senso della lotta contro la guerra. Era un
mezzo propagandistico diretto ad attirare le forze antimilitaristiche sul
terreno anticapitalista. Da una parte ci si rendeva conto dell’antitesi fra
spese militari e spese sociali, e si mirava perciò a deprimere quelle quanto
più fosse possibile; e dall’altra c’era un più o meno demagogico venire
incontro all’inconsistente pacifismo, caratteristico, come si è detto, di
coloro che si sentono destinati ad essere strumenti passivi e non soggetti
attivi della politica bellicosa.
2) L’effettiva politica proletaria continuò a rimanere infatti anche dopo
questa correzione teorica una politica di orizzonte nazionale, quantunque gli
stati nazionali andassero diventando sempre più imperialisti. Ciò non si può
attribuire semplicemente ad una casuale miopia dei socialisti, e tanto meno,
come si è detto, talvolta, al loro «tradimento». La restrizione all’ambito
nazionale è connaturata all’effettiva direzione dei partiti miranti
all’instaurazione del collettivismo. Ogni misura collettivista significa infatti
attribuzione della gestione di qualche settore economico al supremo potere
politico, cioè al potere cui gli uomini riconoscono il diritto di legiferare
sulla loro condotta.
Ora nell’Europa moderna il potere politico supremo è quello dello stato
nazionale. Questo fatto segnava necessariamente i limiti della nazione.
Sono esistiti tra socialisti sempre forti dissensi circa la convenienza di far
prendere allo stato una serie gradualmente progressiva di misure di
collettivizzazione, in modo da dargli un carattere man mano più socialista, o
la convenienza di una radicale trasformazione in questo senso da
raggiungere per via rivoluzionaria.
Ma queste divergenze, per importanti che possano essere sotto altri
aspetti, sono irrilevanti per quel che concerne la questione del carattere
nazionale o internazionale della politica da seguire. Lasciando da parte la
tendenza socialista perché molto più incoerente, esaminiamo quella
conseguente dei comunisti. Quando nel corso dell’altra guerra si aprirono
prospettive di azione rivoluzionaria per l’instaurazione di un ordinamento
socialista, il più rigoroso politico di questa tendenza, Lenin, tratteggiava in
tal modo l’instaurazione del socialismo: «L’avocazione della vita
economica allo stato, contro la quale il liberalismo capitalistico oppone
resistenza, è ormai un fatto compiuto. Non soltanto alla libera concorrenza,
ma neanche al dominio dei trusts, dei sindacati e di altre mostruosità
economiche vi è alcun sintomo di ritorno. La questione sta unicamente
nello stabilire chi in avvenire sarà il regolatore della produzione dello
stato: lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso? ». 8
La rivoluzione socialista sarebbe stata per lui, conformemente alla
dialettica marxista, la negazione, ma anche la più radicale prosecuzione del
collettivismo di guerra, realizzato già in misura più o meno estesa dai
regimi esistenti. Lenin si prospettava a ritmo acceleratissimo e attraverso
una catastrofe, la realizzazione dello stesso processo perseguito dai
socialisti riformisti. Come strumento della realizzazione socialista, non
poteva perciò vedere altro che lo stato nazionale esistente, il quale aveva già
così avviato l’opera di collettivizzazione.
I comunisti assicurano tuttavia che, una volta eliminata la borghesia
colpevole degli attriti e delle guerre, gli stati socialisti nazionali non
troverebbero nessuna difficoltà ad unificarsi ed a pianificare in modo
unitario l’economia mondiale. 9
Ma quest’asserzione non è affatto dimostrata. È anzi dimostrato
precisamente il contrario.
In una economia collettivizzata, lo stato dispone delle risorse principali
del paese, e procede secondo piani. Perciò i necessari scambi internazionali
e i necessari spostamenti di lavoratori non si potrebbero svolgere in modo
spontaneo, ma in base a trattative e ad accordi fra le varie comunità
socialiste. Siamo di fronte non ad un caso di concorrenza semplice in cui le
ragioni di scambio fra le merci e i salari sono determinati dal mercato in
modo univoco. Il caso delle relazioni economiche tra comunità socialiste è
invece del tipo che gli economisti hanno chiamato della concorrenza fra
monopoloidi. I rapporti di scambio sono indeterminati. Ogni comunità più
ricca e meglio ordinata tenderebbe a rifiutarsi di ricevere l’immigrazione
dai paesi più poveri e specialmente da quelli che non saprebbero darsi un
ordine politico soddisfacente. In regime capitalistico le tensioni
internazionali avvengono di solito per restrizioni poste ai traffici; in regimi
di socialismi nazionali le tensioni avverrebbero ogni volta che sorgesse il
bisogno di fare uno scambio fra comunità. I contrasti economici sarebbero
moltiplicati all’infinito, trasformando in questione di politica internazionale
ogni rapporto commerciale con l’estero, e generando odi fra paesi ricchi di
materie prime e paesi scarsamente forniti, fra paesi sovrapopolati e paesi a
scarsa densità demografica.
E non ci sarebbero solo i motivi economici a generare attriti. Si può
supporre che gli stati comunisti, sorgendo da radicali sovvertimenti,
vengano a trovarsi, almeno al principio, completamente scevri del mistico
spirito imperiale insito in tutte le istituzioni dello stato moderno. Ma la loro
base sarebbe pur sempre la nazione, sia pure sbarazzata dai borghesi, e il
compito supremo dello stato socialista resterebbe quello di provvedere
all’interesse degli abitanti della nazione. Le differenze nazionali di cui da
secoli è intessuta la vita europea, i contrasti per la delimitazione dei confini
nelle zone di popolazione mista, il bisogno che ogni comunità nazionale
sentirebbe di avere uno sbocco indipendente sul mare, ecc., non
scomparirebbero per il fatto che le varie comunità nazionali fossero
diventate socialiste. A questi tradizionali motivi di attrito si
aggiungerebbero i dissensi ideologici nuovi che potrebbero sorgere fra i
governanti comunisti dei vari stati, e che non potrebbero più essere liquidati
con la facilità con cui ora la terza Internazionale modifica le centrali dei
partiti comunisti. Non è facile immaginare una pacifica convivenza,
poniamo, tra uno stato diretto da socialisti ed uno diretto da comunisti, o fra
uno stato comunista staliniano e uno trockista.
Chiudendo questa breve rassegna dell’atmosfera internazionale in cui
vivrebbero gli stati socialisti nazionali, dobbiamo dire che i punti intorno ai
quali possono cristallizzarsi contrasti irrimediabili, sono innumerevoli, anzi
si moltiplicano; i mezzi per risolverli, inesistenti. La conclusione da trarre è
facilmente immaginabile: poiché la responsabilità dell’imperialismo non
risale necessariamente al capitalismo, l’abolizione di quest’ultimo non
sopprime l’imperialismo ma semplicemente toglie dal novero dei fattori che
l’alimentano alcuni sinistri interessi capitalistici, aggiungendo in via di
compenso alcuni interessi specificamente socialisti. 10
3) Si potrebbe obbiettare che la prospettiva di Lenin indica una via, ma
non la sola via possibile per il raggiungimento del socialismo; e che i
comunisti, non essendo prigionieri di alcun pregiudizio nazionalista,
potrebbero anche impostare in modo corretto la lotta in termini di
socialismo internazionale e di potere politico internazionale, più
corrispondente al loro orientamento sentimentale internazionalista. In realtà
non sembra ci sia oggi fra loro il minimo tentativo di avviare una tale
impostazione. Disorientati, al pari dei democratici, dagli avvenimenti che
hanno rovesciato tutti i loro tradizionali schemi e che li costringono a
combattere a fianco niente meno che dei due stati più capitalistici del
mondo, anche loro si rifugiano ora sulla linea di resistenza della democrazia
nazionale, auspicando la ricostituzione degli stati sovrani democratici.
Anche per loro, come per i democratici, benché per motivi diversi, lo stato
nazionale è la premessa necessaria per il raggiungimento degli ulteriori fini.
A rigore, nulla potrebbe impedire che essi, o alcuni di loro, riconoscessero,
che essendo il comunismo realizzabile solo su scala internazionale,
occorrerebbe prepararsi a far piani per combattere, se non per un unico stato
socialista mondiale – troppo difficile a costruirsi – almeno per una
federazione continentale europea. 11 In realtà, per spostarsi sul terreno della
lotta federale in modo effettivo, i comunisti dovrebbero sottoporre a una
autocritica abbastanza profonda tutto il loro orientamento. Questo consiste
in una Fixierung come direbbe Freud, di sentimenti, di idee, di tattica, di
disciplina, di organizzazione, intorno al problema della lotta contro il
capitalismo. Tutto quel che non rientra in questi termini, è sottoposto ad una
violenta deformazione o è ignorato. Sanno adattarsi mimeticamente alle più
strane circostanze, ma il loro punto di riferimento è sempre lo stesso. Però,
vedere nel capitalismo il nemico fondamentale da eliminare, implica
proporsi di trasferire, non appena l’occasione se ne offra, la maggior parte
dei mezzi di produzione dagli imprenditori privati allo stato. E l’unico stato
esistente è quello nazionale. Ciò li chiude in un cerchio magico.
Per riuscire a comprendere che la questione dell’ordine internazionale è
connessa con i problemi dell’ordinamento economico-sociale in modo più
completo di quanto essi non ritengano, quella cristallizzazione dovrebbe
essere rotta. Problema centrale diverrebbe il problema di dar forza al nuovo
ordine internazionale, faccenda che in gran parte non ha a che fare
coll’esistenza o meno del capitalismo, ma riguarda istituti politici,
giudiziari, amministrativi, militari da creare. Non dovrebbero appellarsi più
solo ai sentimenti anticapitalistici, poiché tutte le forze libero-scambiste
sarebbero favorevoli al nuovo ordine. Il problema delle collettivizzazioni da
eseguire esisterebbe pur sempre, ma come problema inquadrato fra gli altri
necessari per un più vitale ordinamento della società europea, e non più
come quello assolutamente preminente. Anche se in un più lontano futuro,
quando la sovranità del nuovo stato federale fosse diventata una cosa
perfettamente naturale per tutti, come oggi lo è quella dello stato nazionale,
si dovesse ripresentare il problema se affidare o no allo stato federale la
gestione esclusiva di tutta l’economia, certo è che tale domanda non
potrebbe essere effettivamente proposta per tutta un’epoca, nella quale il
compito politico fondamentale sarebbe quello di consolidare la nuova più
ampia sovranità. La fusione delle varie economie nazionali in un’unica
economia europea non potrebbe essere seriamente affrontata pensando di
sovrapporre una pianificazione federale ai vari collettivismi nazionali,
perché ciò presumerebbe uno strapotente governo federale. Occorrerebbe
invece lasciar via libera alle spontanee forze del commercio, e cioè
occorrerebbe demolire gran parte dei collettivismi nazionali esistenti, ad
uno dei quali i comunisti si sentono fondamentalmente legati, e, quanto agli
altri, hanno sempre pensato che bisognasse semplicemente spingerli ancor
più innanzi in senso collettivista.
Sarebbero capaci i comunisti di eseguire una tale revisione di tutte le
loro direttive? Si noti che non si tratta di fare una manovra tattica. Nel
nostro caso ciò servirebbe a ben poco. Non si tratta infatti di far proseliti
mediante una bandiera buona ad attirare gli ingenui, per procedere poi con
le forze acquisite a realizzare il proprio programma di collettivizzazione ad
oltranza appena riusciti ad acciuffare il potere. Si tratta di capire che proprio
questo programma è inadeguato al fine dell’unità europea.
Sarà bene indicare anche che cosa implicherebbe una tale revisione per il
paese in cui il comunismo ha il potere in mano. In Russia sviluppare il tema
dell’unità europea significa far compiere al popolo russo un altro passo
verso la sfera della civiltà europea, e rientra perciò nella secolare faticosa
tendenza russa ad occidentalizzarsi. Ma significa anche la necessità di
smontare buona parte del sistema economico creato, e degli interessi
economici e politici che vi sono cristallizzati intorno.
4) Il collettivismo nazionale non è dunque un rimedio contro
l’imperialismo. Il tema non è però esaurito, perché occorre tenere ancora
presente che la tendenza al collettivismo non è, come credono i comunisti,
una tendenza specifica del proletariato.
Il proletariato, come tutte le classi più povere, ha interesse a misure di
collettivizzazione giungenti solo fino al punto in cui si vengono a
sopprimere privilegi, monopoli, ed in genere possibilità di sfruttare ad
esclusivo vantaggio di singoli, e con danno della collettività. Ma, come
qualsiasi altro ceto non parassitario, i proletari hanno interesse ad esser
liberi di lavorare e produrre secondo la loro scelta, le loro capacità e a loro
rischio.
La tendenza al collettivismo totale è invece profondamente inerente allo
stato militarista. Uno stato, il cui fine più importante sia quello di prepararsi
alla guerra e di condurla, non può fare a meno di stender le mani su tutte le
risorse umane e materiali di cui ha bisogno. È noto che Napoleone attuò
molte statizzazioni, e molte di più ne progettò, non per rispondere agli
interessi della borghesia, ma onde poter disporre di maggiori risorse per
condurre la guerra. L’unica differenza fra i tempi di Napoleone e i nostri è
che ormai la guerra non esige più solo l’impiego di una quota delle
ricchezze degli uomini di un paese, ma praticamente l’utilizzazione al cento
per cento delle risorse del paese in cui lo stato è sovrano; cioè spinge alla
realizzazione di un radicale collettivismo. Gli esempi dell’altra guerra e di
questa parlano da sé.
Se esaminiamo con occhio spregiudicato la storia successiva al 1918,
vediamo che il comunismo ha sì vinto solo in un paese, ma che tanto in
quello come in tutti gli altri in cui non è riuscito o è stato represso nel modo
più duro, la nazionalizzazione ha fatto notevoli passi innanzi, 12 servendo a
facilitare e rafforzare sempre più le politiche militariste. Ma questa
nazionalizzazione ha avuto ben poco a che fare (salvo che nelle varie
spicciole propagande) coll’effettiva emancipazione delle classi lavoratrici.
Anche in Russia, dove si è realizzata più che altrove secondo le vedute dei
comunisti, poiché il socialismo è stato costruito da loro stessi, ha sì
contribuito a far progredire un popolo arretratissimo, ma non tanto a farlo
progredire nel senso di una elevazione delle classi lavoratrici, quanto in
quello di una maggiore potenza militare. La perdita della libertà di
movimento per gli operai e per i contadini, la crescente differenziazione fra
il tenore di vita dei lavoratori e quello della burocrazia dirigente, la dura
repressione di ogni libertà, fan rimanere molto scettici circa il
raggiungimento del primo scopo. L’energia mostrata nel tenere testa alla
Germania mostra il conseguimento del secondo.
I motivi propagandistici su cui i comunisti fan leva per adunare forze
sufficienti per dare l’assalto alla cittadella capitalistica, possono essere
adoprati con altrettanta efficacia da coloro che vogliono sviluppare il
collettivismo militarista, come hanno mostrato in modo quanto mai brillante
i nazisti. Costoro possono inoltre, a differenza dei comunisti, raddoppiare
l’efficacia della loro propaganda, aggiungendo ai motivi anticapitalistici
quelli nazionali che risultano essere i più profondamente sentiti dal volgo
moderno.
Ma se anche, nonostante la formidabile concorrenza della propaganda
del collettivismo militarista, i comunisti potessero riuscire a vincere in tutta
una serie di paesi e ad instaurare i collettivismi proletari, avrebbero lasciato
assolutamente intatto tutto l’anarchico sistema degli stati nazionali coi loro
«sacri egoismi» finendo con lo scivolare anche essi ineluttabilmente sul
terreno del loro avversario, del collettivismo militarista.

IV. La federazione europea


1) Può darsi che la nostra civiltà non riesca a superare la crisi attuale, e che,
dopo una lunga agonia, dia luogo a formazioni più primitive e rozze. Non
c’è nessun piano provvidenziale, nessuna necessità storica che ne imponga
l’ulteriore prosecuzione. Se questa avrà luogo, sarà solo perché gli uomini
sapranno concentrare attenzione e sforzi sufficienti per individuare i mali
che la minano e per mettere in opera i necessari rimedi. E lo faranno, se ci
terranno a conservare i principali valori che la compongono. Se non si
attribuisce alcun valore alla libertà, cioè ad un tipo di società in cui gli
individui non sieno strumenti di forze che li trascendono, ma autonomi
centri di vita, se non si attribuisce valore alla giustizia, cioè a un tipo di
società in cui la libertà non sia riservata a piccole minoranze privilegiate,
ma sia un bene effettivo, e non solo formale, di cui dispongano strati
sempre più vasti – non vale la pena di occuparsi della salvezza della nostra
civiltà. Non è possibile dimostrare che questi fini debbano essere perseguiti
e non tenteremo perciò di assumerci l’impossibile compito. «Questo
discorso» per adoperare le parole di Meister Eckhart «non è detto per
alcuno se non per chi lo chiama suo come la propria vita, od almeno lo
possiede come una brama del cuore.»
Ma non basta tenere a quei valori. Ci si può tenere in modo
irragionevole, non immaginandone la realizzazione altro che nelle forme
vecchie o in forme unilateralmente consequenziarie. In ambedue i casi il
risultato è, come si è visto, negativo, perché non si è saputo scorgere il
ragionevole coordinamento dei fini e la costruzione adeguata dei mezzi.
Nell’armonia continuamente variabile dei molteplici fini scaturenti
dall’orientamento della civiltà europea, a volta a volta alcuni di essi
acquistano un’importanza preminente, dando il tono a tutti gli altri. Proprio
a causa della reciproca relazione esistente fra tutti, non è però possibile
procedere ogni volta a realizzare in modo esauriente quello centrale,
creando tutti gli ordinamenti necessari per renderlo operante in pieno, e poi
passare man mano agli altri. Al contrario, dal modo stesso come si vien
lavorando, nasce un continuo spostamento nell’ordine dei lavori, e
l’attenzione si deve concentrare su un altro punto. Così, prima ancora che
fosse esaurito il compito civilizzatore delle monarchie assolute, procedente
alla estirpazione dell’anarchia feudale ed allo stabilimento dell’impero della
legge nell’interno delle singole nazioni, diventò preminente l’esigenza di
far partecipare strati via via più larghi dei popoli alla determinazione delle
leggi stesse. E, avviata la formazione di ordinamenti politici liberi, si
spingeva al primo piano il processo contro le disuguaglianze sociali. Ma
tutto questo lungo e complesso lavorio ha reso acutissimo il problema
dell’ordine internazionale e dal modo come questo è risolto dipende ormai
la possibilità del perseguimento armonico degli altri fini. Credere che il
male scaturente dall’anarchia internazionale guarirà da sé, e che si debba
continuare ad occuparsi delle cose secondo il vecchio ordine, è fare la
politica dello struzzo. Abbandonata a sé, l’anarchia internazionale si risolve
nella distruzione della stessa civiltà moderna, e nella costituzione di un
impero militarista basato sul principio della signoria dei vincitori e della
servitù dei vinti. Non rendersi conto di ciò, significa comportarsi
irrazionalmente, o, per adoperare una parola più semplice, stupidamente.
Volendo avviare un esame razionale del problema dell’ordine
internazionale, occorrerà rispondere a questi tre principali quesiti:
a) Quali sono gli ordinamenti necessari per eliminare la presente
anarchia internazionale?
b) Vi sono nella società forze sufficienti profondamente interessate al
mantenimento di questi ordinamenti?
c) Come è possibile sganciarle dalle vecchie tradizioni rivelatesi
inadeguate e perniciose?
2) I mali dell’anarchia internazionale non provengono da altre cause
estranee all’assenza di una legge internazionale, ma proprio da questa
assenza. Per provvedere all’interesse comune, deve esistere un organismo
apposito, capace di imporre la realizzazione di quell’interesse. Se questo
organismo manca, se gli unici ordinamenti esistenti sono adeguati solo al
raggiungimento di interessi particolari, allora, a meno che non si creda ad
una provvidenza divina, evidentemente non è possibile evitare un corso
delle cose in cui ciascuno provveda ai suoi particolari interessi, incurante
del danno che infligge ad altri, in modo da dar luogo al sorgere di attriti e
tensioni, che non possono essere infine risolte altro che mediante il ricorso
alla forza.
L’eliminazione di questi mali non può perciò consistere in altro che nella
formazione di istituzioni che elaborino ed impongano una legge
internazionale, la quale impedisca il perseguimento di fini giovevoli solo ad
una nazione, ma dannosi alle altre.
Questa soluzione appare lapalissiana, ogni volta che si tratti dell’ordine
interno di una nazione; ma, non appena si tratta dell’ordine internazionale,
agli uomini della nostra epoca nazionalista sembra strana, utopistica,
violentatrice della più profonda ed immutabile natura umana, e ci si ingegna
a formulare sofismi per esimersi dall’affrontarla. Allo stesso modo si
comportarono un tempo rispetto alla formazione delle unità nazionali gli
uomini dell’epoca feudale, ai quali naturale ed ovvio appariva solo l’ordine
nell’ambito dei castelli, delle contee, dei comuni.
Quest’ordine internazionale può essere creato mediante un impero che
riduca gli altri stati a suoi vassalli. La legge allora è quella imposta dallo
stato dominante; la forza necessaria per imporre la legge è quella dello stato
titolare dell’impero. È questo il metodo più primitivo; più di frequente
realizzato nella storia umana, ed oggi assistiamo ad un tentativo in grande
stile e condotto con grande coerenza per realizzarlo ancora una volta. Se lo
si respinge, non è perché fa uso della violenza per stabilirsi, ma perché per
tutta un’epoca sarebbe basato sulla violenza, sulla disuguaglianza dei
popoli, sul loro sfruttamento da parte del dominatore, sull’esaltazione
mistica dell’impero, sull’ulteriore tendenza al dominio universale, sul
permanente suo carattere militarista.
Ma quest’ordine può anche essere creato in modo più conforme alle
nostre esigenze fondamentali, mediante un ordinamento federale, il quale,
pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita
nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua
civiltà, sottragga alla sovranità di tutti gli stati associati i mezzi con cui
possono far valere i loro particolarismi egoistici, crei ed amministri un
corpo di leggi internazionali al quale tutti egualmente debbono essere
sottomessi. 13
I poteri di cui l’autorità federale deve disporre, sono quelli che
garantiscono la fine definitiva delle politiche nazionali esclusiviste. Perciò
la federazione deve avere l’esclusivo diritto di reclutare e di impiegare le
forze armate (le quali dovrebbero avere anche il compito di tutela
dell’ordine pubblico interno); di condurre la politica estera; di determinare i
limiti amministrativi dei vari stati associati, in modo da soddisfare alle
fondamentali esigenze nazionali e di sorvegliare a che non abbiano luogo
soprusi sulle minoranze etniche; di provvedere alla totale abolizione delle
barriere protezionistiche ed impedire che si ricostituiscano; di emettere una
moneta unica federale; di assicurare la piena libertà di movimento di tutti i
cittadini entro i confini della federazione; di amministrare tutte le colonie,
cioè tutti i territori ancora incapaci di autonoma vita politica.
Per assolvere in modo efficace a questi compiti, la Federazione deve
disporre di una magistratura federale, di un apparato amministrativo
indipendente da quello dei singoli stati, del diritto di riscuotere direttamente
dai cittadini le imposte necessarie per il suo funzionamento, di organi di
legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e
non su rappresentanze degli stati federati.
Questa, in iscorcio, è l’organizzazione che si può chiamare
l’organizzazione degli Stati Uniti d’Europa, e che costituisce la premessa
indispensabile per l’eliminazione del militarismo imperialista.
Data la preminenza che l’Europa ha tuttora nel mondo, come centro di
irradiazione di civiltà, e dato che è stata sempre, con le sue lotte intestine,
l’epicentro di tutti i conflitti internazionali, la definitiva sua pacificazione,
nel quadro delle istituzioni federali, significherebbe il più grande passo
innanzi verso la pacificazione mondiale, che possa essere fatto nelle attuali
circostanze.
3) Evidentemente non basta che un ordinamento abbia meriti intrinseci.
Perché venga realizzato, occorre vedere se intorno ad esso, a suo sostegno
permanente, ci sia da attendersi che si schierino, nella civiltà moderna,
imponenti forze vitali, non destinate a dissolversi rapidamente; tali che, per
farsi valere, sentano di aver bisogno di quell’ordinamento e sieno perciò
disposte ad agire per mantenerlo in vigore. Sarebbe inutile costruire un
edificio che nessuno fosse poi interessato a conservare, anche se, per
qualche favorevole congiuntura, si trovassero forze sufficienti per
costruirlo.
L’indagine rivolta all’individuazione di queste forze non ci darà
senz’altro un’indicazione circa le forze che saranno disposte a combattere
per realizzare la federazione, poiché molti individui e gruppi, quantunque
obbiettivamente interessati alla sua realizzazione, potrebbero in realtà
trovarsi ingranati in modo così stretto in altri orientamenti di sentimenti e di
azioni, da proseguire lungo la strada imposta da questi, restando
indifferenti, ignari e magari ostili a quel cammino che risponderebbe molto
meglio ai loro interessi più profondi. Ciò costituirà oggetto di un ulteriore
esame nel paragrafo IV. Qui vogliamo vedere solo se la federazione,
qualora riesca ad essere creata, sia soggetta a restare una faccenda
interessante solo pochi dottrinari politici, o possa invece diventare
veramente un bene pubblico, sentito come tale da larghe masse.
Se diamo uno sguardo nel campo della cultura europea, vediamo che
larghissimi strati intellettuali hanno una formazione spirituale determinata
dalle attuali predominanti educazioni. Nella misura in cui presso costoro
prevalgono considerazioni di ordine intellettuale, essi hanno una tendenza
verso posizioni nazionalistiche, come lo ha mostrato la forte presa esercitata
nel campo della media cultura dalle ideologie sciovinistiche e razziste. Ma
la cultura europea ha da molto tempo superato i gretti limiti nazionali, e la
sua fioritura ha un carattere cosmopolitico. Lo stato più elevato della
cultura europea è al di là di qualsiasi nazionalismo, ed è anzi condannato ad
isterilirsi e perire se l’Europa procederà ancora sulla via dei nazionalismi,
poiché questo corso gli toglierebbe l’alimento del libero scambio mondiale
delle idee, e gli impedirebbe di esercitare la sua naturale funzione di
indicare agli strati meno colti le vie dell’elevazione spirituale. La
federazione europea sarebbe la garanzia del cosmopolitismo intellettuale, e
della possibilità, per l’alta cultura, di esercitare la sua funzione di guida. In
questo campo, la federazione potrebbe perciò contare sul sostegno
dell’elemento più alto e più fecondo, e sulla resistenza di larghi strati
dell’elemento più mediocre, destinato a svanire quando non ci fosse più una
voluta politica nazionalistica interessata a formare artificiosamente
atteggiamenti spirituali non più corrispondenti al grado effettivamente
raggiunto dallo spirito.
Nel campo politico è da contare sull’ostilità, che non cesserebbe
senz’altro con l’instaurazione dell’unità federale, di coloro la cui potenza è
connessa immediatamente con l’esistenza degli stati nazionali, e che dalla
riduzione dell’assoluta sovranità di questi vedrebbe abolito o
sostanzialmente ridotto il loro potere; intendiamo parlare degli attuali
governanti, degli strati superiori degli apparati statali civili, e ancor più di
quelli militari. Costituiscono costoro l’ostacolo più formidabile, poiché
sono gli uomini che hanno maggiore esperienza nel comando e incarnato la
più forte tradizione del mondo europeo. Anche sbalzati dal potere, a lungo
andare si sforzerebbero di arrestare se non addirittura distruggere, lo
sviluppo del potere federale. Dietro a costoro troviamo gli strati parassitari
o comunque privilegiati della società attuale. A rigore, essi potrebbero
mantenere la loro situazione in un ordinamento federale, quanto in uno stato
nazionale; ma poiché una federazione europea non è realizzabile che in
occasione di una crisi rivoluzionaria e poggiando su forze rivoluzionarie,
cioè fondendo la sua causa con quella indirizzata a colpire direttamente
tutte le posizioni privilegiate, questi ceti (costituiti dai grandi proprietari
fondiari, dai dirigenti delle aziende che andrebbero socializzate, dalle alte
gerarchie ecclesiastiche, ecc.) sarebbero indotti a militare senz’altro nelle
file molto più congeniali delle reazioni nazionali.
Questi interessi ostili, molto forti all’inizio, quando fosse recente e
perciò più cocente la perdita del potere, e più facilmente sfruttabile
l’idiotismo nazionale ancor vigoroso, non troverebbero però alimento nella
vita federale, e la loro curva sarebbe progressivamente declinante. I
sentimenti nazionali, in quello che hanno di sano, non sarebbero
necessariamente ostili. Man mano che divenisse chiaro come un normale
sviluppo delle esigenze nazionali sarebbe garantito molto meglio da un
imparziale ordine federale che dalla continua reciproca sopraffazione delle
varie nazioni, i sentimenti nazionali andrebbero perdendo la loro virulenza e
finirebbero col convivere pacificamente entro l’ambito federale.
Interessate a sostenere l’unità europea sarebbero invece le correnti
progressiste, non appena avessero scorto quale fondamentale garanzia essa
costituisca per la loro efficace operosità. L’attuale sviluppo del militarismo
e delle autarchie nazionali ha diretto verso improduttivi scopi bellici una
enorme quantità di risorse; ha impedito la più fruttuosa esplicazione di tutte
le energie, ed ha spinto per vie aberranti, soffocato e paralizzato
completamente, i movimenti, specialmente quelli delle classi lavoratrici,
che non potevano acquetarsi nell’accettazione della struttura sociale
esistente, ma miravano a modificarla in modo che soddisfacesse alle loro
giuste esigenze. La federazione europea riduce al minimo le spese militari,
permettendo così l’impiego della quasi totalità delle risorse a scopi di
elevazione del grado di civiltà. Con l’abolizione delle assurde barriere
autarchiche permette un immenso sviluppo della produzione, creando così
la necessaria premessa per una trasformazione sociale vitale, cioè fondata
su un alto tenore di vita. Fa scomparire l’attuale necessità di permanenti
regimi dispotici, lasciando libero giuoco ai movimenti sociali di
emancipazione. 14
Uno spettacolo analogo scorgiamo se ci volgiamo al campo della vita
economica. Anche qui troveremmo una forte difficoltà iniziale, destinata
però a venir meno col tempo, da parte di coloro che traggono i guadagni
dalle restrizioni economiche nazionali, da parte cioè dei dirigenti delle
industrie che profittano delle autarchie, e di quegli strati di lavoratori
agricoli e industriali i cui guadagni sono elevati grazie ai vari
protezionismi. 15 Valido sostegno all’unità fornirebbero invece quelle forze
economiche paralizzate nelle loro iniziative dai restrizionismi nazionali,
cioè quegli imprenditori che non contano, per far fruttare le loro imprese, su
sussidi e su protezionismi, ma sull’esistenza di mercati grandi e ricchi, 16 ed
i lavoratori desiderosi di riottenere la piena libertà di movimento, per
recarsi là dove il lavoro possa fruttare di più.
Concludendo questa rapida rassegna, possiamo dire che la federazione
europea non è solo un ordinamento utile in astratto, ma che vi sono nella
società odierna, ed ancor più si accrescerebbero per l’avvenire, forze ed
interessi sufficientemente ampi e solidi per mantenerlo in vita e farlo
funzionare in modo efficace.
4) Resta ora da esaminare l’aspetto politico del problema. La federazione
europea può essere la più razionale soluzione del caos attuale. Possono
esserci, una volta che essa sia sorta, fortissimi gruppi sociali interessati a
mantenerla. Tutto ciò evidentemente non basta. La soluzione più razionale
non riuscirebbe ad affermarsi, se non ci fossero forze che l’imponessero.
Interessi fortissimi possono rimanere inefficienti, se si trovano presi in un
ingranaggio che li indirizza in tutt’altro senso. È possibile che si presenti
un’occasione in cui si riesca a mobilitare forze sufficienti per imporre
quella soluzione? Se a questa domanda si potrà dare una risposta
affermativa, è chiaro che chiunque abbia a cuore le sorti della civiltà
europea dovrà mettersi a lavorare seriamente lungo questa linea, quali che
possano essere le sue prospettive ultime circa le sorti dell’umanità. Se
invece la risposta sarà negativa, tutta la precedente indagine risulterà
inutile, e non ci sarebbe che da rassegnarci ad una lotta vana, i cui frutti
sarebbero invariabilmente intossicati, e trarsi da parte sdegnosamente se si
vuole, ma comunque sterilmente.
Difatti, la difficoltà maggiore insita nella soluzione federale non è nel
come farla funzionare efficacemente dopo sorta, ma nel come farla sorgere.
L’idea della federazione si trova, salvo il caso della Svizzera,
completamente al di fuori della tradizione europea. Da molti secoli gli
europei si muovono lungo la linea della formazione di stati nazionali
sovrani, e se talvolta è balenata la possibilità di superare questa linea, è
stato sempre riattaccandosi all’ancor più antica tradizione romana; e questa
o quella nazione più forte ha tentato di costruire un impero, che è
semplicemente l’ultima logica conseguenza del principio nazionale. La
forza maggiore di cui dispongono gli interessi antifederali è proprio questa
tradizione nazionale. Abbiamo già visto nei due capitoli precedenti come le
stesse forze progressive vi si sieno adattate, divenendone prigioniere, in
modo che anche le tradizioni di più recente formazione, democratiche e
socialiste, accettano i termini nazionali della lotta politica, si muovono
entro di essi, e rinviano a un nebuloso avvenire che non impegna a nulla, il
superamento delle contraddizioni scaturenti dal principio delle sovranità
nazionali.
L’ostacolo è nella forza d’inerzia che spinge a proseguire secondo le
direzioni già avviate. Per realizzare i loro interessi, gli uomini vengono
elaborando leggi, discipline, abitudini, organizzazioni, tradizioni. Col
modificarsi degli interessi effettivi non si modificano però senz’altro questi
meccanismi sociali e psicologici, la cui caratteristica è anzi proprio quella
della permanenza. Anche quando son divenuti dannosi, continuano ad
essere conservati per la combinata influenza di coloro che sono
direttamente interessati a mantenerli e di coloro che, anche non essendolo o
non essendolo più, non riescono a scorgere come si potrebbe procedere
altrimenti. Gli interessi nuovi ed effettivi, non avendo sempre la forza e la
chiarezza di idee necessarie per far piazza pulita delle tradizioni vecchie,
fanno compromessi, vi si adattano, e finiscono spesso per crearsi discipline
e tradizioni che danno una piega irrimediabilmente fatale ai loro sforzi. Il
passato non alimenta solo il presente, ma spesso lo soffoca e lo avvelena.
A sostegno dei particolaristici interessi conservatori e della pigrizia
spirituale, interviene allora l’ingegnosità intellettuale, che si dà a dimostrare
il valore assoluto di quel che esiste solo perché esiste. Quel che è stato
opera degli uomini, e dagli uomini può essere disfatto, viene convertito in
un qualcosa che li trascina, volenti o nolenti. Si scoprono qualità innate di
dominio nel popolo lanciato alla conquista. Oppure si afferma che non si
può far violenza alle aspirazioni profonde dei popoli e delle classi, ma solo
realizzare quel che è nella loro coscienza. Si individuano corsi necessari
nella storia; la tradizione pesa come un incubo sull’uomo vivente e lo
spinge a procedere su un cammino che magari termina in un abisso, ma che
è il noto, sicuro cammino tracciato dagli antenati. «Weh dir, dass du ein
Enkel bist! ».
Questo argomentare, profondamente reazionario, e teorizzato al principio
del secolo scorso, per motivi esplicitamente reazionari, lo udiamo
snocciolare ad ogni piè sospinto, in coro, se pur con diversi intenti. È questa
una prova, non di come ci si illude di «senso storico», ma di ottusità storica,
del grado in cui si è prigionieri, sia pure inconsciamente, delle forze
reazionarie. Aver senso storico significa capire che «sabato è fatto per
l’uomo, e non l’uomo per il sabato».
Ragionando secondo lo pseudostoricismo romantico, dovremmo dare
senz’altro una risposta negativa alla nostra domanda: la federazione europea
è irrealizzabile perché nessuno dei modi tradizionali che indirizzano le
grandi forze sociali e contribuiscono in modo decisivo a influenzare le
forme più appariscenti della loro coscienza, si muove nel senso della loro
realizzazione. O, per adoperare un termine di moda, l’idea della federazione
europea non è un mito come quello della nazione, della democrazia, del
socialismo.
Nonostante tutto quello che si è detto finora a favore della federazione,
l’idea federalista non avrebbe nessuna seria probabilità di tradursi in realtà,
se avesse di fronte un mondo stabilmente inquadrato nelle tradizionali
regole ed organizzazioni. Contro la loro tremenda forza d’inerzia,
qualunque abilità propagandistica, qualunque forza di ragionamenti,
qualunque ardore di passione sarebbero condannati ad infrangersi. Le stesse
forze che dovrebbero sostenerla, resterebbero prigioniere dei vecchi schemi.
La cultura europea continuerebbe a fiorire alla meno peggio, rimanendo
però assolutamente incapace di frantumare la pseudocultura nazionalistica.
Le forze democratiche continuerebbero a tentare impossibili compromessi
tra istituzioni libere e militarismo; le tendenze socialiste continuerebbero ad
aspirare a socialismi convertentisi in collettivismi militaristici. Al centro di
tutto ciò resterebbe imponente come una divinità lo stato nazionale sovrano.
Gli Stati Uniti d’Europa continuerebbero ad essere un’utopia, come lo sono
sempre stati sin ora.
Per la loro realizzazione occorrono circostanze particolarmente
favorevoli, in cui le vecchie tradizioni, i vecchi schemi di condotta, in
seguito a gravissimi eventi, abbiano transitoriamente perduto la presa che
facevano sugli animi; circostanze che offrano alla tendenza federalista
l’opportunità di imporre, come criterio di divisione fondamentale degli
spiriti, l’atteggiamento pro e contro l’unità europea, di assumere la
direzione delle forze favorevoli, indicando con chiarezza e compiendo con
sicurezza gli atti necessari per creare gli ordinamenti intorno ai quali gli
interessi indicati nelle pagine precedenti possano restare saldamente uniti. E
solo allora, avviando nuove discipline e facendo sorgere nuovi problemi, si
verrebbe a creare la nuova tradizione e il nuovo «mito» popolare dell’unità
europea. Volere che esso esista preventivamente, significherebbe voler
mettere il carro innanzi ai buoi.
Ora questa circostanza straordinaria è molto probabile che si presenti
presto. Tutti i più recenti avvenimenti giocano in questo senso.
Anche alla fine dell’altra guerra, si sentiva che occorreva fare qualcosa
di serio per evitare il ripetersi degli errori da cui si era usciti. Durante il suo
corso, si era manifestata ai vari stati la necessità di condurre azioni comuni,
che avrebbero potuto essere embrioni di strutture politiche superstatali,
quali il comando unico, fondi in comune per la stabilità dei cambi,
distribuzione delle materie prime disponibili per rendere massima
l’efficienza produttiva generale, ecc. In ambedue i campi, gli stati più
energici, cioè la Germania e l’Inghilterra, avevano costituito la spina
dorsale delle intere coalizioni di stati combattenti. E tuttavia ogni paese
spiritualmente aveva combattuto per sé, per la propria difesa, pel
soddisfacimento delle proprie ambizioni. In ogni paese, gli sguardi
dell’uomo comune erano permanentemente rivolti a quel che faceva o non
faceva il proprio stato. La stessa caratteristica di guerra di posizione assunta
dalla lotta fra i popoli, faceva concentrare tutta l’attenzione sulle proprie
frontiere. Gli anni della guerra avevano sottoposto ciascuno stato ad una
rude stretta, ma lo avevano per così dire ancor più isolato da tutti gli altri e
dalla visione dell’interesse comune dei vari popoli. Ciascuno si avviò verso
la crisi postbellica chiuso nell’orizzonte nazionale. Nell’interno di ogni
stato rimasero predominanti le divisioni operate dal problema
dell’organizzazione politica (democrazia e autoritarismo) e quelle operate
dai problemi della proprietà (socialismo e capitalismo). Tutte queste forze
lottarono aspramente per creare uno stato autoritario o democratico,
capitalista o socialista, ma pur sempre per rendere più solido lo stato
sovrano – l’idolo.
Il movimento proletario che allora occupava il primo piano, e che
avrebbe potuto influire in modo decisivo sulla politica internazionale, si
trovò agitato ed esaltato da sentimenti di solidarietà internazionale
soprattutto verso la Rivoluzione russa. L’invito russo a costituire solidi
partiti rivoluzionari, capaci di realizzare una rivoluzione mondiale, non fu
tuttavia accolto dall’enorme maggioranza degli operai, che mostrano coi
fatti di simpatizzare colla Rivoluzione russa, ma di voler proseguire la loro
tradizionale politica in termini nazionali. Il mito russo ebbe così, nel campo
della politica internazionale, quasi l’unico effetto di far sorgere speranze
palingenetiche, lasciando completamente nell’ombra, in tutto il periodo
critico del dopoguerra, la questione dell’organizzazione della pace nel
mondo, e in particolare sul continente europeo. Quantunque questa fosse
effettivamente la cosa decisiva, agli effetti dei futuri sviluppi dell’umanità,
rimase affidata ai vecchi statisti, i quali, si potrebbe quasi dire per
deformazione professionale, non furono capaci di vedere altro che i
problemi della potenza nazionale, e di premere per ottenere, a seconda della
loro abilità e delle forze che avevano dietro, nei limiti della pace, succeduti
a quelli della guerra, questo e quel vantaggio. Solo pochissimi intesero il
pericolo della ricostituzione della sovranità assoluta degli stati europei. 17
Così stando le cose, è facile capire come il bisogno di dar vita ad un ordine
internazionale abbia prodotto solo l’aborto della S.d.N. 18
L’attuale guerra ha avuto un andamento totalmente diverso. Esclusa
l’Inghilterra, mezza Russia e alcuni secondari stati occidentali, tutto il
continente si trova, in massima parte direttamente e in una parte minore
indirettamente, sotto il dominio della Germania. Le antiche strutture statali
sono fracassate o si reggono solo in modo apparente. Questo stato di cose
che, in caso di vittoria tedesca, costituirebbe il punto di partenza
dell’impero tedesco, costituirebbe nel caso contrario, la situazione più
favorevole per l’affermarsi dell’idea federalista. L’attuale giogo tedesco
spinge infatti i vari popoli a liberarsi, ma pone questa esigenza non come
esigenza particolare di ciascun popolo, ma come comune interesse di tutti i
popoli europei. Già fin d’ora i sentimenti popolari vanno perdendo la loro
grettezza nazionale: in misura crescente i popoli seguono col cuore non le
sorti della propria bandiera, ma le sorti delle forze che combattono per loro,
anche se ufficialmente sono forze di un paese nemico. Tutti i paesi
cominciano a rendersi conto che il problema per cui si combatte è un
problema superiore a quello della potenza della propria nazione. Cadendo
spezzata la potenza militare del nazismo, tutti i paesi europei si
troverebbero contemporaneamente di fronte al problema di dare un ordine
al continente. La gravità delle sofferenze patite e del pericolo corso di
generale asservimento, farebbe sentire in modo urgente questa necessità. Il
problema dell’ordine internazionale sovrasterebbe su quello dell’ordine
nazionale, in una misura quale alla fine dell’altra guerra non fu certamente
sentito. Non ci si troverebbe dinanzi, solidi e imponenti, gli stati nazionali
sovrani ad affascinare l’attenzione di tutti. Sarebbe anzi profondamente
impressa nell’animo di tutti, dei vinti, dei vincitori, dei liberati, la tragica
impotenza di quegli idoli. Le reazionarie tendenze nazionalistiche,
camuffandosi a seconda delle passioni del momento, potranno cercare di
aggiogare di nuovo al loro carro le passioni nazionali offese dalla recente
oppressione; ma non potranno monopolizzarle senz’altro a piacer loro. Un
movimento politico federalista potrebbe far fallire il loro gioco,
rivolgendosi anch’esso a quelle passioni e cercando di guidarle verso una
soluzione che non ignori i sentimenti nazionali, ma dia anzi loro il modo di
manifestarsi liberamente. Data la freschezza del ricordo della guerra, il tono
del momento non sarà quello di un aggressivo nazionalismo, ma sarà il
desiderio di non veder più oppressa la propria nazione, e di trovare un modo
di vivere in pace con i vicini. La soluzione federale verrebbe incontro a
questa aspirazione molto meglio della semplice restaurazione delle
sovranità nazionali. La lotta sarebbe certamente dura ed occorrerebbe
energia ed abilità per raggiungere lo scopo. Se si trattasse di creare uno
stato unitario, i sentimenti nazionali sarebbero in blocco contrari e sarebbe
difficile mobilitare forze sufficienti per venirne a capo. Ma per una
soluzione federale occorrerebbe non già spezzare le passioni nazionali,
bensì appoggiare largamente su di esse impedendo che si riformasse
l’anello che le tiene ora legate alle forze nazionalistiche. Si tenga conto
infine che, dato lo sviluppo degli avvenimenti, è prevedibile che la crisi
definitiva non verrà isolatamente prima in questo e poi in quel paese, ma
contemporaneamente in tutta l’Europa, al momento del collasso della
potenza militare che ora la tiene quasi tutta sottomessa. Ciò faciliterà
enormemente il coordinamento della propaganda e dell’azione in tutti i
paesi.
L’idea federalista, essendo così posta all’ordine del giorno come quella
che mirerebbe a risolvere il più urgente di tutti i problemi del dopoguerra, e
toccando direttamente lo stato nazionale, cioè l’organo verso cui sono
orientati tutti i movimenti tradizionali che mobilitano le masse, non
potrebbe non esercitare una profonda azione di rinnovamento e di
chiarificazione sulle aspirazioni democratiche e su quelle socialiste. Anche
queste tendenze non si presenterebbero, come si presentarono alla fine
dell’altra guerra, con quadri politici formati, con masse organizzate,
abituate a seguire le loro direttive, in una parola con la forza di una
tradizione consolidata.
Mentre il desiderio di libertà sarà grandissimo, incertissime saranno le
idee sul come realizzarla. Nelle menti di tutti sarà vivissimo il ricordo del
marcio che si cela nelle democrazie nazionali, condannate ad essere un
disperato connubio fra democrazia e militarismo. Vediamo già ora come
questo ricordo renda confusi ed incerti tutti i paesi dei democratici. Il
movimento federalista avrebbe da raccogliere le forze vive anche in questo
campo. Dovrebbe penetrare in mezzo alle imponenti ma disorganizzate
masse, indicando l’unica via possibile per realizzare in modo permanente
quell’aspirazione, ed impedendo così il loro ricadere in balìa delle
tradizionali vie democratiche nazionali. Anche qui non si tratta di ignorare e
contrastare l’esigenza della libertà, agitantesi nei cuori dei popoli, stanchi
dei dispotismi totalitari; non si tratta di andare in cerca di altre forze da
opporre a questa, ma di sapere indirizzare le aspirazioni esistenti.
E se, infine, si prendono in considerazione le tendenze socialiste delle
classi lavoratrici, si scorge che son ben lungi dall’essere soddisfatte, e che
nella crisi del dopoguerra si faranno sentire imperiosamente. Ma non si
tratta più di passioni già inquadrate e dirette verso precisi scopi. Al
contrario. I vecchi partiti proletari sono stati privati della tradizionale presa
organizzativa sulle masse, e l’esperienza nel periodo che va dal 1918 ad
oggi ha confuso tutte le loro idee, e li ha resi incertissimi circa il futuro
cammino da percorrere. Basti confrontare, per prendere solo il caso del più
energico di essi, la sicura baldanza con cui i socialisti di tendenza
rivoluzionaria (cioè quelli che sarebbero ben presto diventati comunisti)
dichiaravano durante l’altra guerra che presto sarebbe venuta l’ora
dell’instaurazione del socialismo, e la cautela con cui si esprimono oggi i
comunisti, i quali usano spesso parole genericamente democratiche. Ciò è
dovuto in parte ad una abilità tattica, e, non avendo essi modificato nulla
delle loro concezioni fondamentali, non si capirebbe proprio per qual
motivo non dovrebbero percorrere la stessa via di ultracollettivizzazione
percorsa dalla Russia, qualora se ne offrisse loro l’opportunità. Ma che
abbiano sentito il bisogno di lasciare in ombra le loro vedute è un notevole
sintomo di quanto essi stessi sentano non più corrispondente alle aspirazioni
socialiste proletarie il loro collettivismo. Il collettivismo nazionale (e
praticamente, come si è visto, non è oggi possibile altro collettivismo che
quello su scala nazionale) non ha più il fascino delle cose ignote. Anche le
aspirazioni socialiste del proletariato non si troveranno alla fine della guerra
già captate nei vecchi schemi, ed il movimento federalista potrà
efficacemente lavorare per indirizzarle nel senso favorevole ad una
soluzione europea, propugnando riforme radicali e mostrando come
possano veramente fruttificare solo nell’ambiente liberato dall’incubo
imperialista.
Ogni paese avrà i suoi particolari problemi da risolvere. Risolverli tutti
in modo omogeneo ed unitario, coordinare tutti i disparatissimi movimenti,
sarebbe un’impresa disperata. Ma i federalisti non dovrebbero proporsi ciò,
poiché non intendono creare uno stato unitario europeo. L’idea federalista,
quantunque sia profondamente innovatrice, è fornita di una elasticità tale da
permetterle di diventare rapidamente, in una situazione rivoluzionaria, il
criterio di distinzione delle forze politiche e delle passioni esistenti, non
contrapponendosi ad esse, ma impregnandole di sé e rendendole così
immuni dalle fatali deficienze dei vecchi orientamenti. Basterà che a queste
forze e passioni nazionali, democratiche, socialiste, profondamente
disorientate, sappia con un’opera intelligente mostrare che, per l’adeguata
risoluzione delle loro esigenze, condizione imprescindibile è la formazione
dei pochi, semplici, facilmente comprensibili, solidi ed irrevocabili istituti
federali. Non occorrerà preoccuparsi troppo del coordinamento dei singoli
problemi nazionali. Con la creazione della federazione sarebbe infatti creato
l’ordinamento interno al quale le forze progressive verrebbero naturalmente
coordinandosi e dal quale riceverebbero la loro ulteriore impronta.
5) Da quanto si è detto appare chiaro che la difficoltà maggiore da
superare per riuscire, non è l’esistenza di vecchie tradizioni; poiché queste
si presenteranno rotte e disperse, o per lo meno incerte e disorganizzate. La
difficoltà maggiore è nella formazione del movimento federalista: senza di
esso la straordinaria congiuntura delle condizioni favorevoli si
dissolverebbe inutilizzata. Quel che si richiede agli attivi federalisti è molto
di più di quel che si richiede alle masse mobilitabili a favore dell’unità
europea. Occorre infatti che intendano, sì, il valore delle esigenze di
indipendenza nazionale, di libertà politica, di eguaglianza sociale, ma
occorre anche che si immunizzino, mediante una seria autocritica, di tutti i
feticci, nazionali, democratici, socialisti, cioè dei tradizionali insufficienti
modi con cui si è finora cercato di soddisfare quelle esigenze. Se avranno
questa immunità saranno capaci di far presa sulle masse e guidarle verso
obbiettivi a cui esse sono già state inconsciamente predisposte da tutti gli
eventi storici.
Se saranno invece prigionieri dei vari feticci e simboli correnti, saranno
assolutamente incapaci di assolvere a quella funzione di direzione, e non
avranno la spregiudicatezza e la fermezza necessarie per tenere unite le
molteplici forze e per raffrenarle, quando nella loro unilateralità
minacciassero di far mancare lo scopo; non saranno capaci di dare ordine al
caos delle masse, ma ne saranno inghiottiti.

1. L’autore scriveva nel 1941. Oggi vale la pena di completare l’elenco: francesi, belgi, olandesi,
danesi, norvegesi, jugoslavi, greci, albanesi e italiani.
2. I motivi patriottici, cioè proprio quelli che più facilmente si convertono in boria nazionale e in
propensione ad opprimere altri popoli, sono nell’epoca moderna i più fortemente sentiti. Ci basti
ricordare uno dei casi più clamorosi. Il 14 gennaio 1935 gli abitanti della Saar furono chiamati a
decidere se il loro paese dovesse per altri dieci anni rimanere sotto l’amministrazione della S.d.N.
o tornare alla Germania, o passare alla Francia. Gli abitanti della Saar erano nella quasi totalità
operai organizzati, amanti delle loro libertà, e in gran parte cattolici. Da una vivacissima
campagna antinazista svolta fra loro da numerosi fuorusciti tedeschi erano stati precisamente
informati di che cosa significasse l’immediato ritorno alla Germania, sotto il governo di Hitler. Un
corpo di truppe anglo-italo-olandese-svedesi assicurò l’ordine, dando le migliori garanzie del
segreto di voto. Il plebiscito dette 476.089 voti per la Germania, 46.613 per lo statu quo e 2.083
per la Francia. Il sentimento nazionalistico fu così travolgente, che gli stessi operai non presero in
seria considerazione neppure la decisione dilatoria, che non avrebbe compromesso nulla, e si
pronunciarono con una spettacolosa maggioranza per l’immediata unità col Reich, cioè per la
distruzione delle loro organizzazioni sindacali, per la persecuzione della loro religione, per la
perdita delle loro libertà.
3. La traduzione odierna di questo manicheismo democratico è l’asserzione che le guerre sieno
causate, se non dall’avidità del principe, dall’avidità dell’oligarchia capitalistica. La risposta qui
data a tale argomento vale perciò anche per questa tesi, di cui si parlerà più particolareggiatamente
nel capitolo seguente.
4. Gli esempi si possono moltiplicare, traendoli tanto dalla storia più antica quanto da quella più
recente. Tra i più esosi ed invadenti casi di sfruttamento, sono da ricordare la politica della
democrazia ateniese verso le città alleate; quella della democrazia fiorentina rispetto al contado e a
Pisa; quella delle democrazie dei Cantoni di Berna, di Uri, di Schwyz e Unterwalden, rispetto ai
territori di Vaud e del Canton Ticino.
5. Ciò non ha impedito naturalmente all’Inghilterra di fare sopraffazioni di ogni genere, le quali non
hanno come conditio sine qua non la civilizzazione dello stato, ma la semplice volontà di far
prevalere gli interessi particolari. Ha però ostacolato il sorgere del sentimento imperialistico, il
quale vede nello stato un ente superiore fornito di diritti estendentisi sin dove si estende la sua
forza. L’Inghilterra ha sì creato il più grande impero del mondo, ma è contemporaneamente, per
strano che possa apparire, uno dei paesi meno forniti di mistico spirito imperialista.
6. Per la storia di questa esperienza, quanto mai istruttiva, vedi Arthur Rosenberg, Geschichte der
Deutschen Republik, ed. Graphia, Karlsbad 1935. La difficoltà che ha una restaurazione
democratica di venire a capo delle tradizioni dello stato moderno, dipende dalla specifica necessità
in cui si trova di salvare istituzioni animate da uno spirito niente affatto repubblicano (cioè tale da
concepire l’attività dello stato come un servizio pubblico destinato a soddisfare i bisogni cittadini),
ma compenetrato invece di spirito misticamente imperiale (cioè tale da compenetrare l’attività
dello stato come un fine a cuii sudditi debbano prestare i loro servizi).
La difficoltà ha però un aspetto molto più generale. La radice più profonda del diritto dello stato
ad esigere l’incondizionato servizio dei cittadini per soddisfare i suoi fini, si trova nella coscienza
stessa dell’uomo moderno, abituato a quelle prestazioni, e che riconosce allo stato, come cosa del
tutto naturale, il diritto di chiamarlo al servizio militare, al combattimento, alla morte. Ci sono
state intere epoche in cui questo potere di obbedienza non esisteva; ma è certo che lo stato
moderno europeo, qualunque sia la sua struttura sociale e politica, finché deve contare su una
possibilità di guerra, non può ovviare un’educazione che lasci cadere in desuetudine
quell’atteggiamento, ma deve alimentarlo permanentemente nel cuore di tutti i cittadini. Perciò,
anche dopo una radicale rivoluzione, esauriti i sogni palingenetici del primo momento, se manca
una nuova organizzazione internazionale, che rende impossibile per lo stato una linea di condotta
imperialistica, riemergerà, con varianti non sostanziali, nell’animo dei cittadini, l’abitudinaria
coscienza di sottomissione alle esigenze imperiali dello stato. Il rapporto fra stato e suddito torna
ad essere quello di prima. Ciò può contribuire a spiegare come la monarchia assoluta francese sia
risorta così rapidamente nella potenziata fama napoleonica, e l’autocrazia tradizionale russa si sia
evoluta nell’accentramento staliniano. Anche dopo la caduta dei rispettivi anciens régimes, il
francese e il russo continuavano a sentirsi impegnati a dare la loro vita al loro stato,
incondizionatamente, e le circostanze obbiettive non permettevano che si evolvesse una diversa
coscienza.
7. Una buona critica di questa teoria si trova in The Economic Causes of War di Lionel Robbins
(Macmillan, New York 1940), di cui è specialmente consigliabile la lettura, come introduzione
allo studio dei problemi dell’organizzazione federale dell’Europa.
8. Le parole tra virgolette sono dello stesso Lenin. Il brano è tolto dal manifesto del secondo
congresso dell’Internazionale comunista del 1920 che, come è noto, rappresenta il più maturo
pensiero di Lenin sulla rivoluzione socialista mondiale. Le idee sul capitalismo di stato del tempo
di guerra come mezzo per realizzare il socialismo, sono state scritte durante la guerra.
9. La cosa sembra loro così ovvia, che nel manifesto sopra citato, mentre la dittatura del proletariato è
chiaramente concepita come la presa di possesso da parte del proletariato degli stati esistenti,
manca ogni esplicito accenno alla necessità di procedere alla formazione di istituzioni politiche
internazionali; solo di passaggio, parlando non della sorte dei grandi popoli, ma di quella dei
piccoli, si dice che «soltanto la rivoluzione proletaria può assicurare ai piccoli popoli una libera
esistenza, liberando essa le forze produttive di tutti i paesi dalle ristrettezze degli stati nazionali,
riunendo essa tutti i popoli in una compatta cooperazione economica, basata su un piano
economico generale…».
L’impossibilitàdi fare un piano economico internazionale senza avere un potere politico
internazionale, sfugge ai comunisti, di solito così sensibili nell’apprezzare l’importanza centrale
del potere politico in tutte le faccende di rivoluzioni proletarie.
10. L’impossibilità di far convivere pacificamente più stati socialisti sovrani, è identica
all’impossibilità di far convivere e cooperare più comuni socialisti sovrani. I comunisti hanno
inteso molto bene questa seconda difficoltà, hanno respinto il federalismo comunistico-anarchico
e lo hanno combattuto quando – in Spagna – ha minacciato di dissolvere tutto in una polvere di
piccole comunità rissose e gelose. Nel caso della convivenza fra stati, essi assumono invece lo
stesso serafico ottimismo degli anarchici, e son sicuri che tutto filerà alla perfezione da sé, senza
bisogno della costrizione della legge internazionale, non appena la bestia capitalista sia distrutta.
Sull’argomento trattato in questo paragrafo, dei rapporti fra stati socialisti indipendenti, l’opera
fondamentale è: Economic Planning and International Order di L. Robbins (London 1937), in cui
viene ampiamente svolta, dal punto di vista economico, la tesi della necessità della federazione
europea.
11. Un tentativo di vedere le cose da questo punto di vista in realtà c’è stato, e l’incomprensione che
ha incontrato nelle file comuniste è significativa. Trockij, già durante la guerra mondiale, si era
opposto a quello che egli chiamava «nazionalismo a rovescio» di Lenin e aveva proposto di
mettere all’ordine del giorno gli Stati Uniti socialisti d’Europa. Nel 1930 scriveva: «L’ora della
scomparsa dei programmi nazionali è suonata definitivamente il 4 agosto 1914. Il partito
rivoluzionario del proletariato non può fondarsi che su un programma internazionale
corrispondente al carattere dell’epoca attuale». Nel 1931-32 ha proposto per la Germania, che si
trovava allora sull’orlo della catastrofe, un piano rivoluzionario secondo il quale la questione
centrale non doveva essere, come sostenevano invece i comunisti, l’instaurazione di una Germania
sovietica, accanto alla Russia sovietica, ma l’unione dell’economia tedesca e di quella russa. Egli
si rendeva però perfettamente conto che l’ostacolo maggiore a questa direttiva era nel socialismo
nazionale russo, che non poteva ammettere di essere bisognoso di un’integrazione dal di fuori. In
questa incapacità del socialismo nazionale russo di venire incontro alla crisi dell’economia
tedesca, appaiono in modo tipico le estreme difficoltà di ogni genere (si pensi solo a quella
sorgente dalla necessità di rivedere i piani e di rimettere tutto in ballo) che si presentano se si vuol
giungere a un socialismo internazionale attraverso i socialismi nazionali. Le due vie tendono
irremissibilmente a divergere.
12. Comunisti e socialisti, proclamando di essere gli unici depositari dell’idea collettivista, si
rifiutano di prendere sul serio il collettivismo nazionalsocialista, e continuano a parlare della
Germania come di un paese capitalista, pel fatto che a capo delle varie aziende sono rimasti gli
antichi dirigenti capitalisti. Ma ciò significa solo che i nazisti hanno avuto convenienza ad
utilizzare le capacità tecniche di quelle persone, e sono stati così bravi da riuscirci, lasciando in
vita certe formalità giuridiche. Qualsiasi dirigente industriale può però essere deposto ad un cenno
dei governanti. Lo stato stabilisce quel che si deve produrre, determina i costi, fissa i prezzi di
vendita e gli emolumenti degli imprenditori (salvo, naturalmente, le frodi di costoro, le quali
possono però avvenire anche nel tipo del collettivismo comunista). Li trasforma insomma, di fatto,
in funzionari.
13. Data la frequenza con cui la demagogia fa uso della assurda formula del diritto di autodecisione
dei popoli, giungendo fino alla separazione della compagine statale di cui fan parte, sarà bene
sottolineare che l’ammissione di un tale principio è inconciliabile con l’idea stessa di federazione.
La trasformerebbe infatti in una rinnovata S.d.N., in cui ciascuno stato avrebbe pur sempre, dopo
un adeguato eccitamento delle passioni nazionali del suo popolo, il diritto di rifiutarsi alla legge
comune, facendo saltare in aria tutto l’edificio. Il passaggio di sovranità allo stato federale
dovrebbe essere necessaria mente irrevocabile.
14. Un altro effetto benefico avrebbe la federazione sui movimenti di rinnovamento sociale; effetto
che non può essere che accennato in nota. I movimenti socialistici sono giunti a un punto morto,
non solamente a causa degli sviluppi dell’imperialismo militarista, ma anche perché prigionieri
della loro formula di collettivizzazione dei mezzi materiali di produzione; collettivizzazione
dimostrata nefasta tanto dall’analisi scientifica quanto dall’esperienza pratica. Perché l’esigenza
giusta del socialismo – l’emancipazione delle classi lavoratrici – fruttifichi, è necessaria una
revisione delle idee tradizionali, in modo che ci si renda conto dei limiti di convenienza delle
misure di collettivizzazione e del fatto che occorre correggere gli effetti malefici della
concorrenza, ma non distruggerla, poiché insieme ad essa si eliminerebbe il mezzo per
determinare in modo più razionale l’utilizzazione delle riserve naturali ed umane. (Confronta
Hayek, Collectivistic Economic Planning, Londra 1935.) Lo sviluppo di un’idea socialista che
valuti giustamente la funzione della libera concorrenza si urta di fronte a pesantissime tradizioni,
finché il corso generale vada, a causa delle esigenze militaristiche, verso una crescente
collettivizzazione. In tal caso, per i socialisti di tutte le tendenze, la via di minor resistenza
psicologica è quella consistente nell’accettare quel corso, esigendo che sia impiegato a favore
delle classi lavoratrici. La federazione, creando invece un’atmosfera di libero scambio, viene
incontro in modo naturale al processo di elaborazione di più vitali e feconde idee socialiste.
15. Quantunque non sia di moda collocare nelle eventuali file reazionarie anche gruppi di lavoratori,
ciò va fatto. Non è verosimile che nei paesi europei, salvo alcuni gruppi eccezionali più
profondamente impregnati di egoismo di categoria, ci sieno molti operai che vi militerebbero
effettivamente. Ma ciò, non perché non ve ne sieno parecchi che partecipino ai profitti del
restrizionismo nazionale, bensì perché una federazione europea, pur costringendo molti di loro a
cambiare le loro occupazioni, offrirebbe nel complesso vantaggi talmente superiori, da
controbilanciare ad usura i danni della cessazione del protezionismo. Si pensi però, per fare un
caso tipico, quantunque non europeo, alla immensa resistenza reazionaria che farebbero le masse
operaie americane, ad una politica comportante l’abolizione delle restrizioni immigratorie. È
inoltre da tener conto che i lavoratori europei sono, a differenza di quelli americani, troppo
impregnati di ideologie politiche progressiste, per lasciar prevalere solo gli interessi che li
porterebbero a militare accanto agli altri ceti che si trovano nel campo reazionario. Un caso tipico
di prevalenza degli interessi ideali su quelli materiali nelle classi lavoratrici può essere dato dal
favore dimostrato per la causa di Lincoln dai tessili di Manchester che, seguendo i loro interessi
economici, avrebbero dovuto partecipare per gli schiavisti del Sud.
16. Il considerare il capitalismo come un blocco fornito di interessi abbastanza omogenei, e limitare
questi interessi al legame esistente fra capitale monopolistico e stati imperialisti, impedisce alle
tendenze socialiste di considerare con obbiettività la funzione che spetterebbe a forze
capitalistiche in un ordinamento federale, e fa loro erroneamente sostenere che questo
ordinamento presuppone l’abolizione del capitalismo. In realtà, solo una parte dei capitalisti è
legata alla sorte degli stati nazionali. Notevolmente importanti sono invece gli interessi
capitalistici esistenti contrari alle autarchie nazionali (banche, commercio di esportazione,
produttori di materie prime che trovano sbocco sufficiente solo in un mercato mondiale, produttori
che impiegano materie prime estere, ecc.). Questa massa di interessi aumenterebbe rapidamente
nel senso del capitalismo preso come complesso, non appena l’ordinamento federale fosse
istituito. Ad essi spetterebbe in sostanza il compito di trasformare gli anemici mercati autarchici in
un unico ricco mercato continentale. Se non ci fosse il sostegno di questo capitalismo
liberoscambista con la sua forza unificatrice, la federazione si troverebbe a dover risolvere per via
burocratica il sovrumano problema di unificare le membra disiecta delle singole economie
nazionali.
17. In Italia specialmente notevoli furono le Lettere politiche di Junius pubblicate sul «Corriere della
Sera» del 1918-19 e ristampate nel 1920 (Laterza, Bari). Meritano ancor oggi di essere meditate la
VII e la IX.
18. Le persone di buon senso prevedevano, già prima che fosse istituita, la assoluta inefficacia di una
S.d.N., rispettosa della completa sovranità dei singoli stati. Oltre alle lettere di Junius citate, vedi,
ad esempio, il mordente giudizio di Winston Churchill che faceva parte della delegazione
britannica a Versailles (cfr. nota a pag. 232 di Guerra diplomatica di Aldovrandi Marescotti,
Milano 1939).
Politica marxista e politica federalista
di Altiero Spinelli

I. Il dogma marxista
La dottrina marxista si è presentata al suo sorgere con la pretesa di essere
una dottrina scientifica. Dopo lunghi dibattiti dopo la fine del secolo scorso,
durante la cosiddetta «crisi del marxismo», questa sua pretesa è stata
completamente demolita, e si è riconosciuto che, quantunque possedesse
frammenti di conoscenze scientifiche, come teoria non riusciva in alcun
modo a sostenersi.
Ciononostante è rimasta in piedi come dottrina pratica, come
orientamento nell’azione politica. In questa forma ha avuto ed ha tuttora,
molta presa sugli animi; e tutte le tendenze progressiste moderne, anche se
non vi si richiamano direttamente, difficilmente riescono tuttavia ad
impostare le loro azioni e le loro prospettive indipendentemente dal
marxismo. Abbandonando la pretesa di essere scienza, questo si è irrigidito
in un grande, duro dogma religioso, che ha i suoi sacerdoti interessati, i suoi
ossequiatori increduli ma ipocriti, e disposti ad ammirare tutto quel che è
accettato dal volgo e che si presenta come credenza mistica e rozza,
abbandonandovisi per una specie di masochismo intellettuale. Non sarebbe
difficile indicare caso per caso a quale categoria appartenga ciascun
movimento o individuo che gli fa riverenza.
Il dogma marxista si può compendiare così:
Nella società odierna, il contrasto fondamentale che influisce
direttamente o indirettamente su tutti gli altri fenomeni sociali, e ne
determina nelle linee generali lo sviluppo, è la lotta di classe fra proletariato
e borghesia. L’interesse fondamentale della borghesia consiste nel
mantenimento della proprietà dei mezzi di produzione, mentre l’interesse
fondamentale del proletariato sta nell’abolizione di quella proprietà e nella
collettivizzazione di tutti i mezzi materiali di produzione. La vittoria
dell’una o dell’altra parte implica perciò il mantenimento della proprietà
privata (regime capitalistico) o la sua abolizione (regime comunistico). Ma
lo sviluppo del capitalismo accresce sempre di più la forza numerica del
proletariato e la sua coscienza di classe, mentre d’altra parte conduce alla
concentrazione sempre maggiore della produzione in poche mani, in modo
da rendere ad ogni nuova crisi più probabile la vittoria del proletariato e la
conseguente instaurazione del comunismo. La società collettivista, benché
prodotto necessario di uno sviluppo storico e non di una espressa volontà di
fare un tipo di società migliore del precedente, abolisce tuttavia tutti i mali
attualmente esistenti e crea le condizioni di una più alta e libera vita umana.
Ciò che rende così difficile indurre i credenti in questo dogma a
sottoporlo ad una critica, è l’idea che esista una forza superiore la quale
porti gli uomini alla loro salvezza definitiva, quantunque non ne sieno né
meritevoli né capaci. È questo il modo con cui gli uomini, quando non
hanno ancora raggiunto la piena coscienza che il loro futuro dipende
essenzialmente dalla loro operosità, quando sono ancora malsicuri di sé
stessi e dei valori da loro affermati, cercano di infondersi forza e coraggio,
persuadendosi di lavorare per qualcosa di più divino; di servire un piano
provvidenziale superiore. Si Deus pro nobis quis contra nos? – La forza
propagandistica di tali formulazioni sulle menti semplici è enorme; ed è
questa veste mistica che ha assai contribuito alla popolarità del marxismo.
In realtà tuttavia, quando si dice di lavorare al servizio di una forza
superiore, si dice semplicemente, in un modo più enfatico ed incoraggiante,
che si intende di lavorare in un certo senso. Se si spoglia questo dogma del
suo velo mistico e lo si esamina per quello che esso è veramente, cioè per
una decisione di marciare verso un dato obbiettivo adoperando certi mezzi,
lo si può riesporre nel seguente modo più comprensibile:
Il marxismo è una particolare tendenza socialista che: 1) ha creduto di
individuare il male della società moderna, a cui tutti gli altri tenderebbero a
ridursi, nella istituzione della proprietà capitalistica; 2) ha accolto dai
cosidetti socialisti utopisti la formula che il tipo di società che eliminerebbe
quei mali è la società collettivista; 3) ha creduto di individuare nella lotta di
classe il campo in cui si deciderà la vittoria del socialismo, e nel
proletariato la forza che sarà capace di sostenere e di portare alla vittoria i
socialisti. Ed ha fuso questa analisi, questa meta e questo mezzo in una
formula mistica dai suggestivi effetti propagandistici.
Ma se risultasse che il proletariato non ha questa capacità? Che il
collettivismo non porta alla emancipazione dei lavoratori? Che i mali
fondamentali della società non si compendiano nel regime capitalistico?
Queste domande non sono semplici scrupoli di coscienza, ma si
impongono ad ogni socialista serio, che mediti sulle esperienze della nostra
generazione. Il valore di qualsiasi orientamento pratico sta nei suoi frutti; e
da quando, con la Prima guerra mondiale, si è aperta l’epoca rivoluzionaria
tuttora in corso, i movimenti orientati secondo l’ideologia marxista sono
passati attraverso una inesorabile serie di sconfitte e di fallimenti. Senza
eccezione. In alcuni paesi, lotte di carattere non economico hanno fatto
passare in seconda e terza fila quelle economiche di classe. In altri queste
lotte economiche non si sono affatto disposte secondo gli schemi postulati
dal marxismo, e l’intromissione di altre classi nella sedicente lotta
fondamentale ha scombussolato tutto. In altri, il proletariato è stato il più
forte ma non ha mostrato nessuna intenzione di voler seriamente realizzare
il collettivismo. In un paese al collettivismo si è giunti, ma esso non ha
mostrato alcuno di quei caratteri di superiore vita umana che avrebbe
dovuto avere.
Se le cose stanno così pel marxismo – e stanno effettivamente così – ci
dovremmo prospettare i socialisti divisi in due parti ben distinte.
Da una parte ci sono i socialisti tradizionalisti, i quali, con mirabile
assenza di fantasia, non riescono nemmeno a concepire che si possa
procedere in modo differente, fanno coincidere l’orientamento socialista col
dogma marxista, e, benché battuti, umiliati e dispersi, tornano a riordinare
sempre con gli stessi criteri le loro file, sperano che le occasioni perdute si
ripresenteranno, e si preparano a compiere di nuovo quel che hanno fatto in
passato. Negano i fatti più evidenti, vogliono mantenere la loro fede ed
adoperano la loro ragione non per meditare, ma per escogitare motivi
avvocateschi che possano persuaderli a restare sulla stessa strada. Il lettore
può ben capire che questi fedelissimi saranno ottimi struzzi, ma rendono al
socialismo un ben cattivo servizio. Nella misura in cui avessero domani
un’influenza politica notevole, il risultato della loro azione sarebbe un
ennesimo fallimento.
D’altra parte ci sono i socialisti spregiudicati, i quali si rendono conto
che socialismo e marxismo non coincidono. Essi sanno che essere socialista
significa riconoscere che nella società attuale le forze economiche operano
in modo da creare privilegi fondati sulla ricchezza, e da escludere gran parte
delle classi lavoratrici dalla partecipazione all’opera ed ai frutti della civiltà
moderna, e significa proporsi seriamente di cambiare questo stato di cose.
Intendono che lo strumento che deve servire a soddisfare i bisogni
collettivi, cioè lo stato, venga adoperato in modo tale che le forze
economiche non dominino gli uomini ma, come avviene per le forze
naturali, siano da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più
razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime. Collettivismo e
lotta di classe non sono dei fini a cui bisogni tendere per loro intrinseco
valore; sono rispettivamente semplici istituzioni giuridiche e semplici forze
sociali, che hanno il puro valore di mezzi per raggiungere quel fine. Se sono
mezzi inadeguati, bisogna modificarli o cercarne dei diversi.
I socialisti tradizionalisti accuseranno naturalmente i socialisti
spregiudicati, di non essere più socialisti, di essere dei traditori, ecc.; ed
avranno in un certo senso ragione, poiché la spregiudicatezza è sempre un
tradimento del torpido tradizionalismo. Noi intendiamo stare dalla parte dei
socialisti spregiudicati, e sottoporre ad un esame critico i problemi della
rivoluzione socialista, allo scopo di essere meglio pronti alle probabili
eventualità, e più consapevoli di quel che si vuol raggiungere e del modo
con cui raggiungerlo.
Va notato che nessuno si rifiuta per principio di compiere una tale
indagine; però, non appena la si inizia, ci si accorge che negli ascoltatori si
manifestano sensi di irritazione ed una resistenza cocciuta a procedere oltre.
Si accumulano pretesti, parole vuote, sragionamenti. Si insulta in ogni
maniera l’espositore, nella segreta speranza che cessi di disturbare la dolce
quiete dello spirito.
Il fatto è che dal nostro ascoltatore esigiamo alcune cose piuttosto
difficili. Esigiamo che non supponga senza altro che una via sia buona e
feconda, solo perché molti la sostengono, perché è stata insegnata come
buona, perché coloro che ci sono più vicini l’affermano; che non riduca il
compito della ragione a quello di andare accattando argomenti sofistici di
dubbio valore, per dare a credere a sé e agli altri che una soluzione vada
bene, quando invece va male; che sappia far tacere i propri pregiudizi e non
se ne rintroni continuamente il cervello; che sia pronto a valutare le forze
politiche e gli uomini per quel che valgono effettivamente e non per quel
che vorremmo che valessero; che sia disposto a confrontare i sogni con la
realtà e, in caso di contrasto, a negare quelli e non questa. Tali atteggiamenti
spirituali è molto più facile esigerli da altri, che averli e farne uso. Tuttavia,
sforzandoci per nostro conto di essere spregiudicati e realisti, ci
permettiamo di chiedere ai nostri lettori di esserlo quanto più sia loro
possibile. È pretendere troppo?

II. I mali della società attuale


Secondo il marxismo, i mali della società attuale tendono a compendiarsi in
uno fondamentale: lo sfruttamento della classe operaia da parte dei
capitalisti. Marx sapeva bene che esistevano molti altri mali, ma credeva di
poter dimostrare che il capitalismo tende a divenire l’unica forma di vita
economica, e a far perciò svanire tutti gli altri mali, sopravvivenza di
epoche passate, trasformandoli tutti in questi termini: gli operai producono
più di quel che ottengono come salario, e questo soprappiù va nelle mani
dei capitalisti, i quali concentrano la ricchezza in un numero di persone
sempre minore. A ciò si può rimediare in modo radicale solo trasferendo i
capitali alla collettività, in modo che anche quel soprappiù resti nelle mani
della collettività e sia usato a suo vantaggio.
Un più attento esame ha però mostrato che questa analisi del problema
della ricchezza era inesatta, e che esistevano altri mali che non si
riducevano affatto a questo. Esaminiamo separatamente questi due punti.
È vero che la società capitalista è così fatta che il sovrappiù rispetto ai
beni consumati dai lavoratori in un dato periodo resta nel suo complesso
nelle mani dei capitalisti; ma è da aggiungere che questo sovrappiù si divide
in due parti: una parte che è consumata dai capitalisti stessi ed un’altra che
è semplicemente accumulata e reinvestita nella produzione.
Il male non consiste nell’attribuzione di questa seconda parte. Con essa
infatti i capitalisti non sottraggono nulla, poiché restituiscono nella
produzione quel che hanno trattenuto. Si può immaginare una forma di
società in cui la funzione del risparmio non sia affidata ai singoli individui,
ma allo stato. Anche la società socialista dovrebbe però sottrarre al
consumo degli operai una parte dei beni prodotti per reinvestirla; 1
resterebbe solo da vedere se sia più conveniente affidare questa funzione a
privati o allo stato. È un problema tecnico che non cambia nulla alla
sostanza delle cose.
Il male non è dunque qui. È nella parte che i capitalisti consumano per
soddisfare i loro bisogni voluttuari, mentre le classi lavoratrici riescono a
stento a soddisfare i bisogni che, date le esigenze della nostra civiltà, sono
più urgenti. Se facciamo bene attenzione, vediamo che il male non sta nel
fatto che ci sono capitalisti e proletari, possessori di strumenti di produzione
e venditori di forza-lavoro. Il male consiste nel fatto che ci sono ricchi
(sieno essi o no capitalisti) e poveri (sieno essi o no operai salariati). Nella
società capitalistica, fondata sul mercato, non si soddisfano i bisogni sentiti
come più urgenti, né quelli che un dato criterio di civiltà impone come più
urgenti. Si soddisfano i bisogni che possono essere meglio pagati. Tutta la
produzione si dispone in modo da soddisfare innanzitutto i bisogni che
possono essere meglio pagati. Tutta la produzione si dispone in modo da
soddisfare innanzitutto i bisogni dei più ricchi, e in secondo luogo, e in
modo sempre più incompleto, i bisogni dei più poveri. D’altra parte, i
ricchi, solo perché tali, si trovano avvantaggiati nell’ottenere una migliore
educazione e nell’occupare posti più elevati. I poveri hanno una molto più
ristretta cerchia di opportunità, qualunque sieno le loro capacità, solo
perché poveri.
Questo stato di cose è un male per chiunque voglia che agli uomini sia
reso il più eguale possibile il campo delle libere scelte per consentire il
massimo possibile sviluppo della loro personalità. I poveri, cioè in generale
i lavoratori (operai o non operai) e le loro famiglie, hanno nell’ordinamento
attuale della società molto meno di quel che spetterebbe loro in base alle
esigenze dei nostri ideali di civiltà. In ciò consiste, ove lo si formuli
nettamente, il problema dello sfruttamento.
Marx accetterebbe probabilmente questa formulazione, ma
aggiungerebbe che tutto lo sviluppo storico porta a far sì che la società si
divide solo in proletari e capitalisti, e che perciò il contrasto tra ricchi e
poveri tende praticamente a coincidere col contrasto fra borghesia e
proletariato. Quest’affermazione è però gratuita. Una tale ineluttabile legge
di semplificazione non esiste. Non spenderemo nemmeno una parola per
dimostrarne la falsità, poiché, per chi è capace di osservare i fatti e seguire i
ragionamenti, la cosa è ormai chiarissima, e per chi fa atti di fede,
ragionamenti ed osservazioni sono perfettamente inutili. Diremo solo che i
più intelligenti tra i marxisti, cioè i comunisti, pur continuando a predicare
il dogma marxista, hanno da un pezzo compreso che il termine lavoratori
poveri non coincide col termine proletari, e non si sognano più, per
esempio, di confondere le esigenze dei contadini con quelle degli operai.
Così stando le cose su questo punto, fissiamo chiaramente che compito
dei socialisti non può essere di provvedere alla soluzione del problema
operaio, fidandosi che allora si risolverà automaticamente anche quello
degli altri lavoratori; ma il provvedere alla soluzione del problema della
miseria in tutte le sue svariate forme, di cui quello della miseria operaia è
solo un aspetto, per quanto di notevole importanza.
Il problema della miseria delle classi lavoratrici sorge in quanto la nostra
società ha sviluppato forze produttive immense, tali da permettere un
generale miglioramento delle condizioni di vita delle grandi masse; in
quanto i nostri criteri di civiltà esigono che queste possibilità di
miglioramento diventino realtà, ed in quanto l’ordinamento sociale esistente
ostacola la realizzazione di queste esigenze.
Ma nella società odierna esiste anche un altro complesso di mali che si
manifestano in gigantesche contraddizioni, le quali di tanto in tanto
esplodono arrestando il processo di produzione delle ricchezze,
distruggendo ricchezze accumulate, sprecano risorse per scopi improduttivi,
paralizzando in modo sempre più grave tutta la vita sociale. Sono il
marasma economico e le guerre. Un ordinamento in preda a tali
convulsioni, si impoverisce e minaccia continuamente rovina.
Questi mali distruggono la premessa stessa del problema precedente,
poiché è chiaro che si può risolvere il problema della miseria, solo a patto di
mantenere un elevato livello di produzione di ricchezze. Se si scivola verso
il marasma e l’impoverimento generale, qualsiasi soluzione diventa
illusoria.
I marxisti si sono molto occupati di questi mali, ma non sono riusciti a
farne un’analisi esatta, ed in conseguenza non sono nemmeno mai riusciti a
formulare rimedi adeguati. Marasma economico ed imperialismo sono
considerati come semplici conseguenze dell’ordinamento capitalistico. Il
capitalismo provoca, a causa della «anarchia della produzione», periodiche
e sempre più violente crisi economiche. Inoltre, è per sua natura indotto
sempre più ad adoperare gli stati per far loro condurre una politica
imperialistica, onde conseguire i più alti profitti. I marxisti non sono però
mai riusciti a dimostrare questo nesso necessario fra un sistema in cui esiste
la proprietà privata da una parte, ed il marasma economico e l’imperialismo
dall’altra.
Il capitalismo ha sì periodiche fluttuazioni dovute a rotture di equilibri;
ma non è possibile in alcun modo dimostrare che esse debbano diventare
sempre più rovinose fino a paralizzare completamente tutto l’organismo
produttivo. Rosa Luxemburg ha tentato di dimostrarlo. Ma il tentativo è
fallito ed è stato respinto dalla gran maggioranza dei socialisti, anche
marxisti, i quali, se continuano ad adoperare tali tesi nella loro propaganda
spicciola, è solo perché di fatto questo marasma crescente è una delle
caratteristiche della nostra epoca, e vogliono utilizzare i risentimenti che
esso provoca a vantaggio della loro lotta per l’instaurazione del
collettivismo. Le crisi del capitalismo sono semplici crisi di
riaggiustamento di equilibri; ed anche in una società collettivista ci
sarebbero, ogni volta che si facessero piani sbagliati o si sbagliasse nella
loro esecuzione, o sopravvenissero circostanze che erano imprevedibili nel
momento della formazione dei piani. Queste crisi però non hanno a che fare
col marasma economico che colpisce la nostra società.
Egualmente fallito deve considerarsi il tentativo di mostrare che
l’imperialismo è una conseguenza diretta del capitalismo. 2 Eppure marasma
economico ed imperialismo sono fenomeni così disastrosi, che i socialisti
debbono sforzarsi di individuarne con precisione le cause, sotto pena di
veder frustrato irremissibilmente il loro scopo fondamentale.
In Marx non si trova uno studio di questi fenomeni. Egli viveva in
un’epoca in cui si credeva generalmente che essi fossero residui degli
anciens régimes ed in via di sparizione. Marx si occupa solo dei mali
caratteristici del capitalismo nel suo complesso, e non di quelli dovuti agli
interessi sezionali. Questo concetto generico di «capitalismo» come causa
di tutti i mali, ha poi enormemente danneggiato i marxisti, i quali avevano
in quel concetto uno strumento di indagine inadeguato per comprendere il
fenomeno del sezionalismo.
Ben lungi dallo scomparire, il sezionalismo è invece divenuto la
caratteristica predominante della nostra epoca. Il sezionalismo sorge dal
fatto che non esiste una armonia automatica e spontanea fra gli interessi
particolari e le esigenze generali di un certo tipo di civiltà. Perché queste
esigenze possano farsi valere, occorre sempre stabilire delle regole generali
che fissino i limiti entro cui gli interessi particolari possano esplicarsi, e che
sieno accompagnate da una forza sufficiente per essere rispettate. Se le
forze particolaristiche di individui o gruppi riescono a spezzare queste
regole generali e ad imporne di fatto altre, in cui si tenga esclusivamente
conto dei particolari interessi di quegli individui o gruppi, sopraffacendo il
resto della società, danneggiandolo e svuotando così la forma di civiltà, si
ha il fenomeno del «sezionalismo».
I due campi in cui si manifesta nel modo più vigoroso nella nostra epoca
sono quello economico nell’interno di ogni stato, e quello politico-
internazionale.
Nel campo economico si trovano infatti una quantità di interessi che
possono essere più vantaggiosamente soddisfatti se con una azione
concordata riescono ad abolire la concorrenza.
Ci sono merci che naturalmente si prestano ad essere monopolizzate,
come ad esempio certi prodotti minerari concentrati in pochissime zone, le
ferrovie, le centrali idroelettriche, ecc.
Ci sono casi in cui i produttori di certe merci riescono ad accordarsi per
vendere a prezzi più elevati eliminando la concorrenza mediante la forza –
specialmente mediante la forza dello stato. Quando lo stato mette un dazio
protettivo, o proibisce l’importazione di una merce, o proibisce
l’immigrazione di mano d’opera straniera, o favorisce la formazione di un
consorzio monopolistico, ostacolando la concorrenza con espedienti
giuridici (brevetti industriali, privilegi bancari, ecc.) o proibendo addirittura
l’accesso sul mercato dei «selvaggi», in tutti questi casi esso crea o
favorisce la creazione di posizioni privilegiate di sfruttamento
monopolistico.
L’enorme maggioranza dei moderni trusts, cartelli, sindacati, ha questa
origine. Non provengono dal fatto che la produzione si sia accentrata
naturalmente in poche mani, per la possibilità di riduzione di costi
dipendenti dall’ampliamento dell’impresa, o per la esistenza di condizioni
naturali che con una data tecnica impediscono la concorrenza. Provengono
invece dal fatto che si è accentrata la produzione e che si è abolita la
concorrenza con provvedimenti di forza.
Il sindacato – per adoperare il termine più generale che abbracci tutti
questi monopoli o quasi monopoli artificiali – è un organismo che per
funzionare deve poter imporre ai suoi membri di non tradire vendendo a
prezzi troppo bassi, e deve poter impedire che si presentino dal di fuori altri
concorrenti. Per ottenere ciò, è necessario che disponga di una forza e di
una influenza tali che può conseguire solo adoperando l’autorità dello stato
al proprio servizio.
Marx aveva visto nello stato il rappresentante e l’esecutore degli
interessi collettivi della borghesia. Ciò poteva forse sostenersi con
un’apparenza di ragione un secolo fa. Ma da un pezzo lo stato ha cessato di
essere questo comitato esecutivo, sia pur solo della borghesia, ma
comunque dei suoi interessi generali. Questi interessi consisterebbero nella
garanzia di un mercato quanto più libero, quanto più ampio e quanto più
esente da situazioni monopolistiche fosse possibile. Lo stato moderno è
divenuto invece sempre più il rappresentante e l’esecutore di quei
determinati interessi sezionali che sono abbastanza forti o abbastanza
insidiosi da costringerlo a piegarsi alla loro volontà e mettere al loro
servigio particolare il suo potere. E questi interessi possono essere tanto di
particolari gruppi borghesi (cosa che si vede ad esempio quando viene
deliberatamente svalutata la moneta) o di particolari gruppi operai (politica
contro l’immigrazione) o di gruppi borghesi alleati a gruppi operai (p. es.
politica protezionista).
Nel campo internazionale, la politica sezionale si manifesta sotto forma
di imperialismo. Nei casi precedenti abbiamo incontrato interessi sezionali
che avrebbero dovuto essere giuridicamente sottoposti all’autorità dello
stato nell’interesse collettivo, mentre effettivamente sono riusciti ad
imporre allo stato la loro particolare volontà. I protagonisti della politica
internazionale – gli stati sovrani – non sono nemmeno giuridicamente
sottoposti ad una sovranità superiore. Il compito supremo dello stato, è
quello di conquistare e di conservare le posizioni più vantaggiose per sé,
senza alcun riguardo per gli interessi degli altri. Gli interessi che esso
sostiene possono essere gli interessi di alcuni particolari gruppi che
prevalgono nel suo territorio o interessi particolari dell’intero gruppo
geografico. Per il problema che ora consideriamo non ha però importanza
se si tratti dell’un caso o dell’altro, poiché, comunque, lo stato li difende
contro lo straniero come suoi interessi particolari. Anche per condurre una
tale politica è necessario l’uso della forza; ma non si tratta qui di
accaparrare al proprio servizio una forza superiore. Non c’è che da armarsi,
per imporre colla guerra la regola che stabilisca il proprio privilegio,
assoggettando politicamente un altro paese, rendendolo tributario,
riservandosi mercati coloniali, riducendo interi popoli allo stato di
schiavitù, ecc. L’imperialismo non è che la più grandiosa manifestazione
della politica sezionale.
Quali sono gli sviluppi e le conseguenze del sezionalismo? Quando un
gruppo riesce a stabilire in uno dei modi accennati un privilegio
monopolistico, il risultato è che esso modifica a suo favore i termini di
scambio, cioè riesce a far fluire a proprio vantaggio una parte del reddito
complessivo della collettività, maggiore di quanto altrimenti potrebbe. Il
cartello che alza i prezzi, gli operai che chiudono l’accesso al proprio
mestiere, l’immigrazione nel loro paese, l’industria protetta, il paese che si
accaparra una colonia e la sfrutta, finiscono per trovarsi meglio, a danno
della restante parte della collettività. Il senso di giustizia, se c’è, 3 può
sentirsi offeso, ma tutto il meccanismo della vita economica non si arresta
per questo: continua a marciare.
Quando però un gruppo qualsiasi riesce ad imporre a proprio vantaggio
una tale situazione, spinge altri gruppi a correggere il danno subito
seguendo la stessa politica. E una volta avviato questo processo, è sempre
più difficile da arrestare sul piano inclinato che poi porta a dividere la
società in una quantità di baronie in lotta tra loro. Il rapporto in cui
avvengono gli scambi non è più automaticamente determinato dal gioco
della concorrenza, ma diventa determinabile mediante la forza di cui tale
complesso dispone di fronte a tale altro. La produzione diminuisce. Il costo
dei rischi aumenta enormemente, poiché gli sbocchi si aprono o chiudono
improvvisamente. Le crisi diventano catastrofiche e sempre più prolungate.
La vita economica cessa di essere una occupazione pacifica. Diventa il
campo di continue sopraffazioni di questa o quella parte. La via d’uscita più
facile da questo marasma, è la via dell’intervento di una autorità superiore
che stabilisce con un regime totalitario i rapporti fra i vari gruppi,
consolidando i privilegi acquisiti.
Il sezionalismo nella vita economica dei singoli paesi, ostacolando i
traffici, rende molto più gravi gli attriti fra paese e paese, e spinge con
energia verso una politica di militarismo e di imperialismo gli stati sovrani,
i quali già per loro natura sono portati a non occuparsi altro che dei propri
interessi particolari nazionali. La soluzione totalitaria porta al culmine
questa tendenza, poiché sottoponendo tutta la vita economica al potere
statale, da una parte affida ad esso tutto intero il compito di ottenere con la
forza, rispetto ad altri paesi, posizioni di privilegio, e dall’altro lo rende
tanto più capace di prepararsi ad una guerra totale. E se dal marasma della
vita internazionale si può intravedere una soluzione, questa sembra
consistere solo nello stabilimento dell’impero dello stato più forte sugli altri
resi suoi vassalli.
Il lettore si sarà accorto che in questa breve esposizione dei mali del
sezionalismo stiamo scrivendo non sviluppi possibili del futuro che si
potrebbero sempre considerare problematici, ma la situazione odierna della
nostra civiltà. Si continua a parlare della società moderna come della
società capitalistica. Ma se si intende bene cosa sia una società capitalistica
– e basta rinviare, se non altro, alla definizione di Marx – se con questa
parola non si vuole intendere il principio manicheo del male, applicandola
perciò ovunque si incontrino dei mali, bisogna dire che oggi viviamo in una
società che ha uno sfondo capitalistico il quale retrocede sempre più, ma
che è essenzialmente una società sindacalista. Che questo sindacalismo sia
in gran parte geografico (sistema degli stati sovrani) e padronale, e non tutto
proletario, non ha importanza rispetto al marasma sociale; il quale nasce dal
cozzo fra gruppi contrastanti, preoccupati solo di interessi sezionali, e non
del modo come si ripartiscono i guadagni nell’interno dei gruppi stessi.
Se dunque ricapitoliamo i mali della società odierna, dobbiamo dire che
si possono riassumere: 1) Nel male del privilegio della ricchezza che è
peculiare del capitalismo, nel quale le opportunità di foggiarsi una vita
secondo le proprie inclinazioni sono correlative alla ricchezza posseduta. 2)
Nel male dei sezionalismi peculiari del regime sindacalista, nel quale è
assente, o viene meno una legge che imponga le direttive generali della
civiltà, e singoli gruppi conquistano e mantengono privilegi con la forza,
causando il marasma e l’impoverimento generale, caratteristici di tutte le
epoche feudali.
Il secondo male si potrebbe curare lasciando intatto il primo. Basta
pensare a come vennero curati alcuni suoi aspetti in Europa (abolizione dei
privilegi delle corporazioni, delle «città libere», della nobiltà ecc.) e in
America (abolizione del sezionalismo dei tredici stati nella federazione
americana del Nord) tra la fine del Settecento e il primo Ottocento – quando
si lasciò assolutamente intatta la questione del privilegio della ricchezza.
Il male della povertà invece non si può in alcun modo risolvere se non si
risolve quello del sezionalismo.
Quest’ultimo è infatti il più grave. I suoi danni sono infinitamente
superiori a quelli provocati dal primo. Basti pensare che disastri del genere
della crisi economica del ’29 risalgono direttamente al sezionalismo, e che i
fattori economici che più hanno contribuito alla maturazione delle due
guerre mondiali, sono fattori di politica economica sezionale.
Non si possono migliorare le condizioni delle classi lavoratrici se resta in
piedi o si ricostituisce, o magari si rafforza il marasma del sezionalismo.
Particolari gruppi di operai possono ottenere in un paese buoni salari; ma
ciò a scapito di altri gruppi operai; e il vantaggio verrà in parte o totalmente
vanificato dai protezionismi che a loro volta otterranno gli industriali. I
contadini possono ottenere la terra, ma ne trarranno poco giovamento in
conseguenza dei prezzi elevati che le industrie imporranno per i loro
prodotti. Si potranno aumentare le provvidenze sociali a vantaggio dei
lavoratori, ma ogni beneficio sarà annullato dalle necessità della guerra.
C’è di più. Una lotta contro la povertà, la quale non affronti in pieno
anche il sezionalismo nei suoi aspetti più deleteri, ma gli giri intorno
sperando che si risolva automaticamente, prenderà essa stessa
inevitabilmente la forma di una lotta sezionale, aggravando questo male e
frustrando in ultima istanza i propri stessi scopi. Una classe oppressa che
lotti per i propri esclusivi interessi di classe, può ottenere transitori
vantaggi, ma non marcia verso la propria emancipazione. Marcia verso un
regime sindacalista, in cui tutti, essa stessa compresa, si troveranno peggio.
Quest’analisi della situazione odierna è quella che i socialisti, i quali
vogliono essere non dei fantastici dottrinari, ma uomini consapevoli della
situazione esistente, debbono tener presente, per sapere quel che debbono
fare per individuare quali sieno i punti su cui per prima cosa conviene
battere.

III. La soluzione marxista


La soluzione che i socialisti tradizionalmente offrono dei mali della società
presente, è la collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di
produzione, o per lo meno, in via preliminare, della maggior parte di essi.
Il marxismo intima di non occuparsi di come saran fatte le «marmites de
l’avenir», ed i socialisti suoi seguaci obbediscono a tale tabù.
Effettivamente ciò non significa che essi si sieno mantenuti una libertà di
giudizio e d’azione rispetto alle misure da prendere. Significa che hanno
accettato ad occhi chiusi la soluzione conforme o meno al loro scopo di
liberazione delle classi lavoratrici. Secondo questo ideale di
collettivizzazione si è proceduto in Russia; secondo questo ideale
procederebbero domani i socialisti tradizionalisti, se riuscissero a vincere. E
l’obbiezione principale che rivolgono a qualsiasi altra soluzione, è che essa
non realizza in pieno l’abolizione del capitalismo: il collettivismo.
Qualunque sieno stati i motivi che hanno indotto Marx a distogliere
l’attenzione da un esame dell’adeguatezza della soluzione collettivista, è
però chiaro che oggi non è più possibile conservare questo atteggiamento.
Oggi, dopo un quarto di secolo di collettivismo in Russia, ed alla vigilia di
situazioni decisive per l’indirizzo da dare alla nostra civiltà, occorre sapere
in modo chiaro se questa soluzione abolisca o no i mali indicati nel capitolo
precedente. Qui non c’importa esaminare se ci sia o meno una qualche
tendenza ineluttabile che porti all’avvento di questa società.
Anche ammesso che sia così, quel che ci interessa ora sapere è se tale
tendenza risolva quei problemi. Se fosse ineluttabile, e risultasse tuttavia
deleteria per i nostri ideali, la collettivizzazione si potrebbe forse ancora
accettare con la umile rassegnazione con cui il buon cristiano accetta gli
imperscrutabili disegni di Dio. Ma non si potrebbe per questo dirla adeguata
ai fini a cui si mira.
Il collettivismo è definito in generale in due modi. Per alcuni va
realizzato sotto la forma del sindacalismo operaio; per altri sotto la forma
del comunismo. I primi sostengono che i mezzi di produzione debbono
essere proprietà collettiva dei gruppi dei produttori stessi, cioè degli operai
delle singole categorie, affinché gli operai provvedano alla loro gestione; i
secondi dicono che vanno dati in proprietà dello stato, il quale li
amministrerà per il bene comune di tutti.
Per la soluzione sindacalista 4 basterà dire che, comunque si ridistribuisca
nell’interno dei sindacati il reddito, essa non fa altro che esasperare tutti i
contrasti sezionali della società odierna, la quale è già in buona parte
sindacalista. Il sindacalismo è una mezza idea, che dal punto di vista
nazionale val meno che nulla. Essa sorge ed incontra favore per due motivi
diversi, che però indicano entrambi la fiacchezza mentale di chi la propone.
Sindacalisti sono anzitutto molti, i quali vedono che la società attuale è
già tutta irta di baronie sindacaliste, e si lasciano trascinare dalla corrente,
sperando misticamente che, quando si fosse giunti alle estreme
conseguenze, si approderebbe ad una situazione idilliaca. Questo
sindacalismo è messo avanti specialmente da coloro che cercano di esaltare
la combattività delle forze già impegnate in lotte di carattere sezionale. I
capi che lo coltivano fanno semplice opera di demagogia. Il sindacalismo
non è una soluzione, è un processo di disintegrazione sociale, ruzzolando
lungo il quale si giunge infine alla statizzazione di tutta la vita economica.
L’equilibrio è l’armonizzazione fra i vari sindacati, deve alla fine essere
imposta dallo stato, il quale assume dispoticamente tutta la gestione
dell’economia, lasciando agli organismi sindacali semplici funzioni
tecniche, o sopprimendoli senz’altro come superflui. Se l’intervento dello
stato come ordinatore autocratico avviene fra i sindacati, (padronali ed
operai) quali sono oggi, consolidando i privilegi che ciascuno era riuscito
ad accaparrarsi e salvando le classi benestanti, si ha il tipo di stato
totalitario. Se lo stato mette ordine autocraticamente fra i vari sindacati di
lavoratori dopo che essi sono giunti alla espropriazione delle classi ricche,
si ha il tipo di stato comunista. La collettivizzazione sindacalista non è che
un semplice ponte di passaggio per arrivare alla economia totalitaria o alla
collettivizzazione comunista.
Ma nei tempi più recenti sono comparsi altri tipi di soluzioni
sindacaliste, dettate non da motivi di demagogia sindacale. Molti socialisti e
comunisti, spaventati di fronte agli sviluppi del regime russo, hanno cercato
di escogitare soluzioni di compromesso, che mantengono il principio della
collettivizzazione generale, ma la contemperano con un decentramento
nella gestione economica, la quale dovrebbe impedire il dispotismo
burocratico dal centro. I loro progetti si riconducono tutti a soluzioni
sindacaliste, benché questi socialisti cerchino di mascherare la cosa perché
forse la loro cattiva coscienza dice loro che si tratta di soluzioni putride. Ma
questo sindacalismo costruito a tavolino ha gli identici difetti dell’altro,
senza avere neppure il pregio di essere un qualcosa di realmente, anche se
maleficamente operante.
La collettivizzazione generale dei mezzi di produzione, se vuol essere
realizzata in modo coerente, non può esserlo in realtà che sotto la forma di
società comunista: di uno stato che possiede tutti i mezzi materiali di
produzione, e li gestisce secondo un suo piano. 5
Ma la statizzazione generale dell’economia, una volta realizzata in
pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in
cui la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocratici gestori
dell’economia. In regime comunista, può infatti essere abolita quella forma
di potenza e di prepotenza che si fonda sulla ricchezza, e che mediante la
ricchezza si accaparra posizioni di privilegio. Ma è una illusione credere
che la ricchezza sia l’unico modo in cui si possono cristallizzare le
disuguaglianze, le oppressioni e gli sfruttamenti che la nostra coscienza
condanna. Se ad un regime in cui domina la potenza della ricchezza se ne
sostituisce uno in cui in mano ad alcuni è posto praticamente il potere di
disporre illimitatamente di altri individui, di adoperarli come semplici
mezzi per realizzare i propri scopi, in tal caso non si è fatto un passo verso
la realizzazione del nostro ideale; se ne è fatto uno che ce ne allontana
decisamente.
Tale è il regime comunista. Il semplice ragionamento, e l’esperienza
venticinquennale della Russia, mostrano che con la statizzazione
dell’economia è possibile creare una maggiore eguaglianza di ricchezze, ma
si crea una disuguaglianza enormemente maggiore di potenza fra la classe
governante e la classe governata dei lavoratori. Quest’ultima diventa
«corvéable à merci» da parte dei dominatori, come non lo fu mai nessun
servo della gleba. Si crea un apparato di gestione dell’economia,
costosissimo e poco redditizio, poiché in esso vien meno quel delicato
indicatore del miglior modo di distribuzione degli strumenti di produzione,
che è costituito dal sistema dei prezzi di mercato, e non è possibile
sostituirgliene alcun altro. Tutto il meccanismo economico funziona solo a
patto di standardizzare all’estremo prodotti e bisogni, privando gli uomini
dell’opportunità di coltivare inclinazioni e gusti svariati e complessi: si
rinunzia così a quella possibilità di potenziare la personalità umana, che si
voleva estendere alle classi lavoratrici come uno dei pregi maggiori della
nostra civiltà. Si trasformano tutti i cittadini in servi dello stato, assegnando
a ciascuno, dall’alto, il posto che deve occupare, e stabilendo quel che deve
fare e come deve farlo: si distrugge così quella libertà di iniziativa e di
movimenti che è un altro dei pregi che andavano non aboliti, ma estesi a chi
ne godeva solo formalmente.
Per mantenere in piedi un meccanismo così gigantesco e tuttavia così
imperfetto, si deve esigere da tutti i sudditi il massimo di obbedienza. Le
diverse parti sono tra loro così strettamente connesse, il tutto è talmente
privo di elasticità, che qualsiasi critica un po’ seria minaccia di far saltare
ogni cosa. È perciò necessario standardizzare al massimo tutti i cervelli con
un regime di strettissima ortodossia spirituale. La cultura europea, che si
voleva liberare dalla siepe che l’aveva tenuta riservata a strette aristocrazie,
e a cui si volevano far accedere tutti coloro che fossero capaci di fecondarla
ulteriormente, è invece completamente soffocata.
Ai cittadini, che dipendono tutti dal potere statale che può farli morire di
fame con un semplice provvedimento di licenziamento dal lavoro, manca
ogni seria possibilità di controllare i dirigenti, di far sentire i propri bisogni,
di sostituirli quando ne riconoscano l’incapacità. L’unico regime politico
conciliabile con l’economia comunista è il dispotismo burocratico.
È questo quel che si voleva? Evidentemente no. Il principio della
collettivizzazione non è stato che una affrettata ed erronea deduzione del
principio veramente fondamentale del socialismo. La collettivizzazione non
serve a sfruttare e controllare le forze economiche a vantaggio di tutti gli
appartenenti alla società; le concentra invece in un’unica immensa forza in
mano a pochi uomini che possono con essa schiacciare tutti gli altri in modo
infinitamente più grave di quanto sia mai avvenuto in passato.
Il collettivismo non porta al benessere delle classi lavoratrici, anche se
molti operai si lasciano illudere dal suo mito. Se teniamo conto che il
collettivismo consiste nel massimo potenziamento della forza dello stato,
dobbiamo dire che l’unica cosa a cui veramente esso serve è la preparazione
e la conduzione della guerra totale. Quando una comunità deve concentrare
tutti gli sforzi e tutte le risorse per la guerra, quando deve rigorosamente
disciplinare non solo l’esercito combattente ma anche tutto il paese che gli è
dietro, il collettivismo è certo la più coerente e radicale forma di tale
organizzazione della vita sociale. Ed infatti, tutti i paesi europei lo hanno
introdotto in misura più o meno ampia, a questo scopo. Una delle forze che
con più energia ha spinto e spinge ad esso, è l’incubo della guerra totale.
Il collettivismo è la segreta tendenza dello stato moderno sovrano. I
socialisti che hanno creduto di ravvisare in esso un mezzo per la liberazione
delle classi lavoratrici, sono in realtà soggiaciuti all’influsso proveniente
dall’idolo dello stato imperialista. E se la soluzione collettivista è uscita
dalla sfera delle soluzioni dottrinarie ed è stata messa all’ordine del giorno,
ciò è accaduto quando una guerra totale aveva già imposto fortissime
bardature collettiviste. I socialisti, affascinati dal gigantesco macchinario, si
illudono di poterlo adoperare per i loro scopi. Così pensò Lenin nel corso
dell’altra guerra; così pensano, ad esempio, molti laburisti oggi in
Inghilterra, i quali dicono che loro compito sarà quello di mantenere in vita,
indirizzandola a scopi socialisti, l’economia pianificata che la guerra sta
imponendo al loro paese. Ma si tratta di illusioni. Il comunismo, se ben si
riflette, non può essere che comunismo di guerra; serve a vincere una
guerra, non a far vivere civilmente gli uomini.

IV. La soluzione federalista


Questa breve analisi delle soluzioni del marxismo, ci ha portati ad un
risultato negativo. Che fare allora? Indichiamo nelle linee generali su quali
premesse riteniamo debba fondarsi una soluzione meglio rispondente al
nostro ideale di civiltà.
Abbiamo già visto che la soluzione del problema della miseria, che è il
compito specifico del socialismo, ha come premessa fondamentale
l’eliminazione dei deleteri sezionalismi che impoveriscono e
disorganizzano tutta la società. Il più rovinoso è quello che deriva
dall’organizzazione politica internazionale in stati sovrani, e che si
manifesta nell’imperialismo. Finché sussista uno stato di cose che genera
l’imperialismo, qualsiasi riforma indirizzata ad altri obbiettivi è impossibile
e finisce per diventare un ulteriore strumento della politica imperialistica.
Non ci dilunghiamo qui a mostrare i vari aspetti di questo problema,
l’insufficienza delle soluzioni tradizionali ed il modo in cui va affrontato.
Ciò è stato fatto negli scritti precedenti. Ci limitiamo a ripetere che si tratta
della condizione assolutamente preliminare. Per questo riconoscimento
della preminenza del problema della formazione di una federazione degli
attuali stati sovrani – almeno, in un primo tempo, in Europa, ove
l’imperialismo ha raggiunto le sue più terribili manifestazioni – il nome con
cui i partigiani di questa soluzione possono distinguersi dalle altre correnti è
quello di federalisti.
Oltre il sezionalismo geografico, intrecciandosi variamente con esso,
alimentandolo e alimentandosene, c’è quello dei grossi complessi industriali
e finanziari, i quali dispongono di una tale forza nel mondo moderno, da
poter fare una politica di sfruttamento monopolistico, e da riuscire ad
esercitare una così grande influenza sugli organismi politici, da piegarli a
sviluppare una legislazione ed una politica conforme ai loro interessi
particolari. Questi complessi non possono essere lasciati nelle mani dei
privati. Debbono venire socializzati. È questa la corretta sfera di
applicazione della soluzione collettivistica. Essa è il mezzo necessario per
eliminare tutti i fortissimi interessi del capitalismo monopolistico.
La socializzazione di per sé non significa però senza altro l’elevazione
delle classi lavoratrici. Può essere estesissima, e mantenere tuttavia
quest’ultima in uno stato di soggezione. Per raggiungere questa
emancipazione, le misure necessarie sono altre. Occorre in primo luogo
approfittare delle eventuali situazioni critiche per operare una
redistribuzione della proprietà che non tenga conto degli interessi acquisiti
dalle classi padronali, elimini le forme di proprietà parassitaria, e dia la
proprietà dei mezzi di produzione ai lavoratori capaci di gestirli, che ne
sono ora praticamente esclusi. In queste misure rientrano il trasferimento
della proprietà della terra a coloro che la coltivano ed un largo passaggio di
titoli di proprietà delle grandi aziende industriali, concentrati nelle mani di
possessori di azioni che contribuiscono alla produzione solo tagliando le
cedole dei loro titoli, a quelle degli operai che lavorano nelle aziende stesse.
Queste drastiche misure creerebbero d’un colpo una situazione di molto
maggiore eguaglianza economica, e renderebbero per conseguenza il libero
mercato un meccanismo molto più atto alla distribuzione delle risorse in
rapporto alla diversa urgenza dei bisogni dei consumatori, di quanto sia
nella attuale società.
Pel loro carattere straordinario, queste misure però, necessarie per creare
le condizioni preliminari di una società fondata sulla uguaglianza, non sono
sufficienti a mantenerla in vita. Occorre creare tutta una serie di istituzioni
che garantiscano questo risultato. Onde la necessità di un sistema scolastico
in cui si provveda alla educazione dei giovani più capaci e non dei più
ricchi, com’è invece il sistema scolastico attuale; la necessità di utilizzare le
immense risorse che le capacità tecniche della nostra società mettono ormai
a nostra disposizione per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei
bisogni elementari della vita civile in qualsiasi situazione si trovino, in
modo che i lavoratori non cadano in tali condizioni di miseria da dover
accettare contratti di lavoro a condizioni iugulatorie; la necessità di misure
di assicurazione che, senza diminuire lo spirito di iniziativa ed il senso di
responsabilità individuale, sollevino i gruppi particolari dai danni da cui
vengono colpiti in conseguenza dei progressi tecnici e della dinamica
economica di cui tutta la società si avvantaggia. Ciò implica una quantità di
provvedimenti i quali non possono essere presi che con la forza della legge.
L’educazione diffusa di uomini forniti di grandi capacità d’iniziativa e
della possibilità di svolgerle, di uomini che si sentono impegnati a costruire
per proprio conto la loro vita, ed abbiano quindi indipendenza dalla classe
governante e senso di responsabilità molto sviluppato, questo deve essere il
fine a cui mirare. Il sistema della collettivizzazione generale è da
respingere, essenzialmente perché porta al risultato opposto; all’educazione
di uomini privi di iniziativa e di occasioni per farla valere, di servi che
dipendono per ogni più minuto aspetto della loro vita dal beneplacito della
classe governante.
Una classe dirigente orientata nel senso socialista qui descritto, non si
tira indietro dall’opera di costruzione necessaria per convogliare le energie
individuali verso la realizzazione dei valori supremi della nostra civiltà, e
per tenerli saldi nelle menti e nelle abitudini dei singoli cittadini e gruppi,
che di per sé facilmente li perderebbero di vista. Ma sa che anche la classe
dirigente politica meglio intenzionata tende a trasformarsi in gruppo chiuso
che gestisce il potere con criteri sezionali, a proprio esclusivo vantaggio, se
non si sviluppa nei cittadini una forza di resistenza capace di affermarsi
contro di essa. Perciò il suo lavoro è fatto nel senso di creare una società
capace di produrre sempre meglio uomini indipendenti, e perciò in grado
tanto di controllare quanto di alimentare e rinnovare la stessa classe
dirigente.
Queste sono, nelle linee generali, le direttive lungo le quali intendono
lavorare i federalisti. Ci sono alcune premesse fondamentali – federazione
europea, socializzazione dei monopoli, ridistribuzione della proprietà – che
non possono essere realizzati altro che in situazioni rivoluzionarie, durante
le quali sieno crollate tutte le resistenze conservatrici che ne impediscono la
realizzazione. Successivamente si apre un periodo di trasformazione che si
estende per tutta un’epoca.
I socialisti tradizionalisti, persuasi che si possa, anzi che si debba creare
un tipo di società definitivo il quale non permetta più ricadute in forme
fondate sui privilegi, obbiettano che queste trasformazioni, per radicali che
sieno, lasciano aperta la via a ritorni reazionari, alla ricostituzione della
vecchia società capitalistica con i suoi malanni, le sue disuguaglianze, le
sue contraddizioni. Dicono perciò che una tale rivoluzione non sarebbe
ancora la rivoluzione sociale da loro auspicata.
Occorre riconoscere che è vero. Questa rivoluzione apre la via ad uno
sviluppo in senso progressista; non garantisce in via assoluta né ricadute né
arresti. Affida le cose ai nostri figli perché le portino innanzi se ne hanno
voglia e capacità. Non si può voler prestabilire tutte le misure necessarie per
realizzare in modo totale e irreversibile un fine, che neppure si riesce a
determinare in tutti i suoi lineamenti, poiché non si conosce né quali
saranno gli ostacoli che via via si presenteranno, né come verranno
sviluppandosi e modificandosi le aspirazioni, i gusti e i desideri degli
uomini nell’avvenire.
La società socialistica non deve essere concepita come la conclusione
definitiva della storia attuale, come il raggiungimento di un ordine senza
più pericoli, senza più insidie, in cui tutti possano riposare come su un letto
di piume. Deve invece essere concepita come l’inizio di un’operosità che
potrà durare e svilupparsi solo finché gli uomini conservino una seria
volontà di lavorare in quel senso. Le situazioni di privilegio non si
riformeranno; e qualora risorgessero, saranno eliminate se gli uomini nella
società di domani saranno decisi a non farle tornare, e saranno, come noi,
ansiosi di sviluppare sempre più questa nostra civiltà.
Quel che sopratutto importa, dunque, non è di creare istituzioni
sedicentemente perfette; ma istituzioni in cui si formino uomini desiderosi
ed interessati a svilupparle, come garanzia della loro libertà e come
strumento per la loro ascesa a forme più alte di vita individuale e collettiva.
Con uomini siffatti, i pericoli di domani possono essere serenamente
affrontati con la sicurezza che saranno superati. Se invece il tipo umano
prevalente dovesse essere quello dell’uomo-soldato ubbidiente, che attende
tutto dall’alto, è chiaro che nessuna organizzazione sociale comunque
perfettamente ideata, potrebbe mantenere una civiltà di uguaglianza e di
libertà. Sarebbe inevitabile una divisione netta dell’umanità in una
aristocrazia guerriera o burocratica, ed in una massa di servi più o meno
diligenti, ma abulici e privi di ogni senso di dignità umana.
La soluzione definitiva, auspicata da marxisti, sarebbe appunto la
creazione di una simile società in cui scomparirebbero gli uomini desiderosi
e capaci di vivere liberamente. Essa eliminerebbe totalmente, in un primo
momento, i privilegi della ricchezza, solo creando un privilegio della
potenza statale così leviatanico, che nulla più potrebbe ragionevolmente
scrollarlo. Ed una volta che la classe governante abbia un tale potere
dispotico, la ricchezza tornerebbe ad essa come conseguenza.
La soluzione definitiva, auspicata dai marxisti, sarebbe finitiva, mira ad
allevare uomini cui si possa con fiducia affidare il compito di continuare
l’opera cominciata. Sarebbe ora, sarebbe urgentemente ora che i socialisti si
decidessero a scegliere, prima ancora del tipo di istituzione da creare, il tipo
di uomini a cui mirare, ed a cui dovrebbero essere affidate le istituzioni
dell’ordine nuovo.

V. La politica marxista
Secondo il marxismo, il campo in cui si decide in ultima istanza il destino
della società, è il campo della lotta di classe. È perché ci sono tali e tali
classi, così e così fatte, che le tali e tali soluzioni si impongono. È inutile
discutere sulle soluzioni, perché sono già determinate nelle loro linee
generali dal fatto che le classi sono quelle che sono, e non si possono
modificare ad arbitrio. La lotta di classe del proletariato è il mezzo per
raggiungere il socialismo. Ma è ben più di ciò: è quel che determina che
cosa sia il socialismo. Questo non è altro che l’effetto, la logica
conseguenza della vittoria del proletariato.
Così dice il mito marxista, il quale è divenuto a tal punto un pregiudizio,
che pochi osano, fra gli uomini politici orientati in senso socialista, anche
solo chiedersi se queste affermazioni sono esatte. Tutt’al più si permettono
alcune variazioni secondarie.
In questa impostazione c’è però un vero e proprio «nido di errori».
Cerchiamo di individuarli, per aprirci una strada verso una più esatta
comprensione degli strumenti politici necessari per realizzare i nostri fini.
Anzitutto l’orientamento socialista, essendo il proposito di estendere le
forme e i frutti della nostra civiltà a strati sempre più vasti della società, non
poteva sorgere che fra coloro che avessero una visione degli interessi
complessivi della società e della civiltà umana, fra chi avesse cioè
essenzialmente interessi di ordine politico, e non fra chi era preso
prevalentemente da problemi particolari di classi, di categorie, di ceti, ecc.
È un dato di fatto storico che il socialismo non è stato niente affatto ideato
da proletari, ma da intellettuali e da uomini politici i quali si sono sforzati di
conquistare ad esso le masse. È un processo di generazione esattamente
contrario a quello descritto dal marxismo. Come qualsiasi altra tendenza
politica in formazione, questi intellettuali e uomini politici sono stati portati
da una parte a formulare con una certa precisione il programma secondo cui
si proponevano di realizzare il loro orientamento, e d’altra parte a cercare di
individuare e conquistare nella società le forze sul cui appoggio contare.
La prima opera è stata compiuta nella prima metà del secolo scorso
essenzialmente dai cosiddetti utopisti, e si è concentrata nella formulazione
del programma dell’abolizione della proprietà privata e dell’instaurazione
della società comunista. 6
Abbiamo visto trattarsi di una formulazione rozza ed inadeguata dello
scopo da raggiungere. Ma ciò, se ha importanza per l’avvenire, non ne ha
nessuna retrospettivamente. Chi l’ha formulata, credeva nella sua bontà. Il
programma collettivista è stato largamente accettato dai socialisti per la sua
apparente perspicuità e semplicità, ed ha costituito il puntello secondo il
quale si è cercato di determinare le forze sociali, sulle quali i socialisti
dovevano poggiare.
È noto che gli utopisti le hanno cercate essenzialmente con criteri
moralistici. Si aspettavano che uomini di buona volontà, innamorati di
quell’ideale, si mettessero all’opera. Questi criteri erano certo troppo
ingenui. La via politicamente giusta, dopo essere stata avviata in Inghilterra
e in Francia, è stata infine indicata da Marx, che per questo motivo è
divenuto la figura predominante nel movimento socialista.
Marx era un politico realista: non si creava feticci umanitari stillanti
benevolenza ed impotenza da ogni poro. Comprese che una corrente
politica poteva affermarsi e trionfare solo se, e nella misura in cui, avesse
trovato nella società forze notevoli le cui aspirazioni elementari potessero
essere captate entro quello schema; forze suscettibili di essere convinte che
erano interessate alla sua realizzazione.
Dato il principio della collettivizzazione come criterio, era da attendersi
che, salvo rarissime eccezioni, sarebbero stati contrari tutti quegli strati
della popolazione che erano proprietari o speravano ragionevolmente di
diventarlo. Campo fecondo di penetrazione sarebbero stati invece coloro
che non possedevano mezzi di produzione, non potevano ragionevolmente
sperare di averli, ed erano vittime – e perciò malcontenti – del regime
capitalistico; cioè il proletariato.
Si noti che l’indicazione era politicamente corretta, anche se in realtà gli
operai non avrebbero potuto trarre vantaggi reali da una collettivizzazione,
ed anche se di tutto il campo di conquista possibile indicato da Marx se ne
fosse potuto in realtà conquistare solo una parte. Infatti gli operai non
possono essere in grado di conoscere le conseguenze implicite in alcuni
principii di carattere generale, i quali permettono di capire se un certo
ordinamento sociale sarà o no vantaggioso. La loro azione è mossa da
sentimenti e non da ragionamenti. Ma quel che politicamente importava, era
che i risentimenti degli operai, cioè della classe nullatenente più facilmente
organizzabile e di maggior valore rivoluzionario per il suo accentramento
nelle grandi città, potessero facilmente essere indirizzati verso l’obbiettivo
di una generale espropriazione dei ricchi. E la probabilità che molti operai
non diventassero socialisti, non contava eccessivamente, per rivoluzionari
che non si proponevano di convincere tutti ma di inquadrare forze
sufficienti per condurre la loro azione.
Il «proletariato» non è un’entità esistente indipendentemente
dall’impostazione politica della lotta per il collettivismo. Senza di questa
non è che una classificazione statistica arbitraria. È un termine ideale e
diventa in parte una realtà, solo quando si presuppongono la società
moderna, un gruppo di uomini politici forniti di ideali collettivisti, i quali
determinano le sfere della società da conquistare, a cui dare una coscienza
politica unitaria per guidarle nel senso voluto. 7
Non il proletariato ha prodotto il socialismo, ma il socialismo ha
prodotto il proletariato.
Avendo individuato nel proletariato lo strumento per la realizzazione del
collettivismo, Marx ha seguito la via che normalmente seguono tutti i
politici pratici i quali si sforzano di conquistare masse. Costoro debbono
esercitare con l’azione e con la persuasione tutta un’opera, grazie alla quale
la suscettibilità delle masse ad essere guidate in un certo senso si cambi
nella loro effettiva e volenterosa marcia in quel senso. Per ottenere ciò,
occorre in primo luogo esercitare una suggestione in modo da persuaderle
che il fine da raggiungere non è loro imposto dal di fuori, ma sorge dalle
loro più profonde esigenze. In quest’opera di orientamento politico delle
masse, si compie sempre un capovolgimento dei rapporti reali.
Questo capovolgimento si comprende abbastanza facilmente come
strumento educativo. Per dirigere degli uomini, occorre suscitare nei loro
animi una volontà di agire in un determinato modo; e volonterosamente si
agisce solo nella misura in cui si è convinti di agire in conformità di
esigenze proprie e non di esigenze imposte.
In realtà, però, i dirigenti, in quanto hanno successo, ritrovano negli
uomini così educati quel che hanno messo in loro. È questo il motivo che ha
spinto Marx a dichiarare che il socialismo era una conseguenza della
esistenza del proletariato, e che perciò non bisognava preoccuparsi di come
fosse fatto il socialismo. 8
In realtà, quando si determinava come sfera di conquista il proletariato,
si era già stabilito che esso fosse la sfera conquistabile all’idea del
collettivismo. Era quindi perfettamente naturale che questa conquista si
presentasse poi come una emersione dell’idea del socialismo dalla
coscienza del proletariato stesso.
Per riuscire a dirigere effettivamente la sfera così determinata, occorre
prendere come punto di partenza le sue effettive aspirazioni e lotte
spontanee, e grazie all’influenza personale ed organizzativa conquistata in
queste lotte, spingerla nel senso voluto non da quelle spontanee tendenze,
ma dal movimento politico che le dirige.
Il proletariato, come entità ideale figlia dell’idea del collettivismo, è il
complesso dei lavoratori privi di capitale, praticamente in condizione da
non poterli per proprio conto acquistare, e perciò vittime di un ordinamento
capitalista, e suscettibili di aderire ad una lotta per la distruzione del
capitalismo, nella speranza di ritrarre beneficio da tale distruzione. Questo
astratto «proletariato» si concretizza negli effettivi operai salariati delle
grandi industrie, con le loro aspirazioni effettive e i loro effettivi metodi di
lotta.
Marx ha pensato che le lotte economiche degli operai (cioè le lotte di
classe) erano la leva o strumento mediante cui i socialisti avrebbero potuto
conquistare sugli operai quella presa necessaria per unificarli in un unico
proletariato e per far loro partorire il collettivismo.
Che cos’è effettivamente questa lotta di classe del proletariato?
Lasciando da parte la definizione delle classi economiche in genere, per
qualsiasi tipo di società, poiché ci servirebbe a ben poco, rivolgiamo
l’attenzione alle classi caratteristiche della società capitalistica.
Ogni merce divide la società in due gruppi di individui con interessi
contrastanti circa il suo prezzo: i venditori ed i compratori di quella merce.
Accanto a loro, c’è la massa più o meno estesa di chi è relativamente
indifferente, perché né compra né vende quella merce. Se l’uso della merce
si diffonde, si può dire che la società tende a dividersi sempre più in due
gruppi contrapposti, con assorbimento e distruzione della classe estranea. Il
gruppo dei venditori ha, rispetto a quello dei compratori, un comune
interesse a vendere la merce ad un prezzo alto, ed un comune interesse
contrario hanno questi ultimi. Ma oltre questo antagonismo fra i due gruppi,
ne esiste un altro nell’interno di ciascuno di essi, poiché venditori e
compratori sono rispettivamente in concorrenza con altri venditori e
compratori della stessa merce; e tale competizione tende a far ottenere
risultati contrari a quelli desiderati da ciascun gruppo.
Teoricamente, c’è per ogni gruppo la possibilità di abolire in tutto o in
parte la concorrenza interna, di presentarsi come gruppo monopolista o
semimonopolista, per imporre termini di scambio più favorevoli.
Effettivamente, questa possibilità varia da gruppo a gruppo, e i frutti che se
ne possono ricavare variano a seconda della merce. Per alcuni gruppi,
praticamente sindacarsi non è possibile e darebbe poco frutto, mentre gli
altri hanno convenienza e vi riescono in gradi diversi, giungendo ad una
disciplina sindacale più o meno estesa che attenua ed elimina la reciproca
concorrenza nell’interno del gruppo. Quei gruppi che vi riescono,
costituiscono le effettive classi economiche. Astraendo dall’intervento del
socialismo marxista che utilizza varie classi e vi infonde un significato
politico e magari anche uno mistico, i termini azione di classe, coscienza di
classe, lotte di classe ecc., significano solo che nel seno di particolari gruppi
di individui forniti di interessi omogenei sul mercato, esistono condizioni
tali che facilitano la formazione dei sindacati e che questi riescono ad agire
effettivamente allo scopo di conquistarsi posizioni di privilegio. La lotta di
classe è essenzialmente lotta sindacale; non è altro che la lotta per interessi
sezionali. 9
Molte sono le classi fornite di coscienza di classe, e che conducono una
lotta di classe. Marx e la sua scuola rivolgono le loro attenzioni solo alle
particolari lotte di classe che si svolgono entro ed intorno a quella sfera
della società che essi contano di conquistare, cioè alle lotte degli operai
salariati contro i datori di lavoro. Ma è del tutto arbitrario considerare come
classe ad esempio gli operai metallurgici e non gli industriali del petrolio
che lavorano per costituire un loro monopolio; né gli operai qualificati
hanno gli stessi interessi e solidarizzano con quelli non qualificati, né i
datori di lavoro si identificano con i capitalisti, ed ancor meno con la
borghesia.
Se consideriamo la tendenza delle classi lavoratrici a migliorare le loro
condizioni di vita, scorgiamo che il metodo della lotta di classe non è
l’unico con cui essi possono raggiungere tale scopo. Per molti strati, è anzi
praticamente un’arma inservibile. Per esempio, per i contadini dell’Italia
meridionale, l’arma più importante è stata per il passato l’emigrazione. In
molti casi, l’arma è la legge dello stato che stabilisce un criterio di
distribuzione di un dato bene indipendentemente dalla capacità di acquisto.
Così per esempio, l’istruzione elementare gratuita.
Tuttavia, fra i lavoratori ci sono alcuni gruppi capaci di organizzarsi in
senso classista. Sono all’ingrosso i salariati, e specialmente quelli delle
grandi industrie, i quali coincidono, in larga misura, con la sfera
dell’astratto proletariato del marxismo. E poiché anche il gruppo
antagonista dei datori di lavoro possiede notevoli capacità di agire come
classe, l’azione degli operai non si è mai potuta concludere con la definitiva
imposizione di un monopolio per la vendita della loro merce, come è
accaduto spesso per gli altri monopoli, ma ha assunto la forma di una lotta
persistente fra sindacalismo operaio e sindacalismo padronale, ciascuno dei
quali si sforzava di rendere efficiente il proprio monopolio, e di spezzare
quello avversario imponendogli le proprie condizioni. Dato il posto
preminente occupato nella vita moderna dalla produzione industriale, questa
lotta doveva necessariamente avere aspetti molto appariscenti.
Il socialismo marxista si è appoggiato sulle aspirazioni progressiste delle
masse operaie per propagare le idee socialiste, ma ha fatto leva sugli
interessi immediati, e perciò sulla lotta di classe. Questo metodo,
politicamente corretto, presentava dei pericoli.
In primo luogo, le lotte di classe tendevano spontaneamente non a
portare ad una organizzazione di tutto il proletariato allo scopo di instaurare
il collettivismo, come avrebbero desiderato i marxisti, ma ad organizzazioni
di categoria. Questo perché non esiste un’unica indifferenziata merce-
lavoro, ma ci sono molteplici specie di lavoro non facilmente
interscambiabili per l’adempimento dello stesso compito, mentre un
sindacato può agire efficacemente, come abbiamo detto, solo se abbraccia
nel suo monopolio una merce abbastanza omogenea, di cui cioè ogni parte
riesce pressoché egualmente a dare soddisfazione ai medesimi bisogni. La
lotta di classe, in realtà, si manifesta anche nel campo operaio come lotta di
categorie, le quali non hanno interessi coincidenti; ed ogni organizzazione
ha per sua natura la tendenza ad occuparsi esclusivamente dei suoi interessi
sezionali. La lotta di classe è per i socialisti uno strumento valido, solo se
ed in quanto essi riescono a tenere in pugno i sindacati, non permettendo
loro di inoltrarsi troppo in una politica di categoria.
In secondo luogo, l’ideale ultimo che si sviluppa spontaneamente dalla
lotta di classe non è il socialismo, ma il sindacalismo. Un sindacato operaio
tende come ad ultima meta alla instaurazione del monopolio completo nella
sua branca, spezzando il monopolio dei datori di lavoro mediante
l’appropriazione dei capitali. Ma il sindacalismo è, come abbiamo visto,
sinonimo di marasma. La lotta di classe ha, nei suoi sviluppi più grandiosi,
capacità non costruttive, ma distruttive. Anche per questo motivo, i
socialisti debbono avere coscienza e capacità di adoperare la lotta di classe
come strumento, sapendo che senza la loro ferrea guida fallirebbe lo scopo.
Infine la lotta di classe, anche se i socialisti riescono ad imporle una certa
unità, è, pur nella sua imponenza, una lotta condotta fra due sezioni della
società; larghe altre sezioni le restano estranee, e nella sua cornice non
possono rientrare molti problemi economici e non economici di grande
importanza sociale.
Marx ha creduto che questa difficoltà sarebbe svanita come conseguenza
della presunta legge della concentrazione del capitale e della
proletarizzazione del resto della società. Rilevatosi inconsistente questo
presupposto, è rimasta campata in aria la mistica affermazione di una
speciale «missione storica» del proletariato. L’effettiva risoluzione della
difficoltà si raggiunge solo rendendosi conto che anche un movimento che
pensi ad un riordinamento totale in senso socialista non riesce a far presa
sugli uomini in generale, ma solo sugli strati che più soffrono
dell’ordinamento esistente, e che sono contemporaneamente più combattivi.
Il movimento vincerà non quando avrà conquistato la maggioranza degli
spiriti, ma quando avrà conquistato fra i malcontenti forze sufficienti per
strappare la vittoria. Il concentrare le proprie forze per conquistare
essenzialmente solo una parte della società, non è di per sé un errore. Ma
non è solo a patto di rendersi conto che la soluzione si raggiungerà se i capi
resteranno padroni del movimento, e fallirà se si faranno semplici esecutori,
o semplici avanguardie delle sue unilaterali aspirazioni.
Ora da Marx provengono, direttamente o indirettamente, due correnti
che hanno risposto in modo differente a questi problemi, derivanti
dall’impiego della lotta di classe del proletariato contro i capitalisti come
strumento politico.
I socialdemocratici (o socialisti nel senso stretto della parola) hanno
ingenuamente preso per direttiva di azione quella che era solo la rivestitura
romantica e propagandistica del marxismo, cioè l’idea che il proletariato era
il portatore, sia pure inconsapevole, della nuova civiltà e che a loro spettava
fare opera maieutica, aiutandolo a portare alla luce quel che esso già aveva
in seno. Non si escludevano scosse rivoluzionarie per far crollare qualche
resistenza, ma si consideravano come brevi sussulti che avrebbero servito a
far meglio maturare nel proletariato la consapevolezza della profonda
coincidenza fra gli interessi suoi e quelli generali. Perciò i socialdemocratici
dovevano essere in sostanza gli esecutori della volontà del proletariato
sovrano, o, tutt’al più, i suoi consiglieri.
Nella loro crassa ignoranza della funzione formatrice della direzione
politica, i socialdemocratici sono diventati prigionieri dello strumento che
avrebbero dovuto adoperare. Sotto le formulazioni socialiste, si è riformato
e consolidato il profondo sezionalismo proletario, e i socialdemocratici,
affidandosi alle sue aspirazioni spontanee, abbandonarono la pretesa
originaria del socialismo di rimediare ai mali generali della società odierna
occupandosi sempre più di quelli di particolari sezioni delle classi
lavoratrici. La politica nota col nome di riformismo, fu la politica mirante
ad ottenere questo o quel privilegio per questa o quella categoria, che con
più energia conduceva la sua politica sezionale. I socialdemocratici hanno
continuato e continuano a parlare di socialismo come del loro fine, ma in
pratica non han mai pensato né fatto altro che sindacalismo. In realtà, essi
hanno largamente contribuito a far lussureggiare l’odierno caos sindacalista.
Ma c’è anche una seconda corrente. Marx ha sì sviluppato una teoria
romantico-democratica sullo «spirito del proletariato», che vale quanto le
altre teorie romantiche sullo spirito dei popoli, sulla sovranità popolare,
sulla razza, ecc. Ma, in quanto uomo politico, sapeva che la classe operaia
non era la spontanea creatrice, ma doveva essere lo strumento del
movimento socialista. La sua teoria gli impediva di avere di ciò piena
coscienza, ma non c’è suo atto politico che non riveli questa sua profonda
persuasione. I marxisti ed i «patiti» del marxismo, che fanno gli
scandalizzati oggi nel sentir ricordare ciò, sono pregati di prendere
conoscenza, poiché mostrano di averne così poca, di quella che è stata la
politica di Marx che fu chiamato – giustamente – blanquista e giacobino,
che sostenne sempre la necessità per i socialisti di fare una politica generale
democratica, e non una politica di classe, e vide di malocchio la formazione
di un movimento operaio preoccupato sopratutto dei suoi interessi di
classe. 10
La seconda direttiva politica marxista, che fu sviluppata a pieno dai
bolscevichi, e che è nota col nome di comunismo, consiste in ciò: accetta
come materiale di propaganda tutta la mitologia sulla missione storica del
proletariato, ma si guarda bene dal prenderla sul serio, dal «lasciarsi
convincere dai propri sillogismi», come accade per i socialdemocratici. I
comunisti non intendono essere – anche se lo dicono – avanguardia del
proletariato; vogliono esserne i capi, vogliono organizzarne le forze e
sfruttarle per raggiungere il loro scopo. Sanno che, accanto al proletariato,
ci sono altre classi, e dappertutto essi cercano di penetrare, influire, dirigere,
utilizzare. Ma questi altri appoggi sono sussidiari. Poiché il loro piano è
quello della collettivizzazione generale, sanno che l’unica forza sui cui
risentimenti possono con sicurezza contare per giungere a questo fine, è la
classe operaia. Approfittano di tutte le occasioni per spingere la lotta di
classe degli operai al massimo. Sanno che questo massimo è
l’espropriazione di tipo sindacalista dell’industria, e favoriscono perciò tutti
gli elementi di estremo sindacalismo operaio (consigli di fabbrica sovietici,
dittatura del proletariato). Ma sanno pure che il regime che ne sorge non è
vitale: può servire solo a spazzar via la proprietà privata; non a costituire un
nuovo tipo di organizzazione economica. Si preparano perciò con coerenza
a sostituire all’anarchico ed inconsistente regime del collettivismo
sindacalista, quello del collettivismo statale, mediante una dittatura del loro
partito. Ottenuto ciò, disporrebbero di una attrezzatura politica ed
economica che permetterebbe loro di passare ad una sempre più completa
collettivizzazione, anche nei settori che in un primo momento non avessero
potuto statizzare.
Occorre riconoscere che, se si ritiene che il collettivismo statale
egualitario è un fine da raggiungere, questa è una politica adeguata. Il
proletariato ne è per l’appunto lo strumento necessario, non perché gli
operai ritrarrebbero benefici da una tale soluzione – ché anzi in definitiva
ne ritrarrebbero asservimento e danni – ma perché sono la parte della
popolazione su cui più facilmente quella ingannevole soluzione può far
presa. Se ne utilizza la forza distruttiva, pur sapendosi che non ha alcuna
capacità ricostruttiva (come non l’ha nessun’altra classe economica). E
contemporaneamente si organizza il movimento con una rigida disciplina,
per il momento in cui diventerà possibile e necessaria la dittatura
ricostruttiva del partito comunista.
La credenza nella forza spontaneamente creatrice della lotta di classe del
proletariato, poteva esserci quando tale lotta era ai suoi primordi, e non si
conoscevano i fatali vicoli ciechi cui conduceva. Oggi che si conoscono e si
è constatato che hanno fatto fallire tutti i movimenti politici impostati
classisticamente, la più importante corrente del socialismo marxista se ne è
di fatto sganciata; nei movimenti di classe del proletariato essa scorge solo
degli strumenti necessari. Ultime vestali sconsolate della fede nella forza
creatrice spontanea del proletariato, sono i superstiti socialdemocratici,
sindacalisti, socialisti rivoluzionari, oppositori comunisti, anarchici, ecc. –
ritardatari di cui non val la pena di preoccuparsi eccessivamente.
Il risultato del nostro esame della politica marxista, è dunque il seguente.
È falso che esista una ineluttabile forza sociale – il proletariato – la quale
generi un partito socialista, il cui compito dovrebbe limitarsi a dar forma
cosciente alla tendenza immanente in tale classe verso il comunismo. Al
contrario, il partito politico comunista tende a consolidare in una forza
unica le varie forze suscettibili di essere conquistate dalla mitologia
marxista per creare la forza politica «proletariato» – strumento di massa che
dovrebbe essere atto a raggiungere il fine del collettivismo.
La tendenza politica comunista, abbozzata dal Marx, era poi svanita
dalla scena politica europea, conservandosi solo in Russia ove riuscì a
giungere al potere. Dopo la Prima guerra mondiale è però ricomparsa
presentandosi come l’ala più agguerrita e più decisa delle correnti europee
progressiste. Esaminiamo un po’ particolareggiatamente i motivi per cui
esso occupi oggi questa posizione. Ciò ci aiuterà a chiarire meglio quello
che costituisce il punto nevralgico della vita politica europea nella nostra
epoca.
Nelle situazioni rivoluzionarie della nostra epoca si è constatata sempre
una liquefazione dell’influenza dei partiti democratici tradizionali, ed una
polarizzazione delle masse verso le tendenze comuniste da una parte e
totalitarie dall’altra. Salvo il caso della Rivoluzione russa, dappertutto
altrove è risultato che la presa comunista sulle masse riusciva a mobilitare
una forza di combattimento inferiore a quella delle tendenze totalitarie, che
puntavano su interessi e su tradizioni nazionali, religiose, razziali, sui
sostenitori dei diritti acquisiti, sui rancori delle classi medie impoverite,
ecc., ed utilizzavano queste forze per consolidare il potere dei ceti
privilegiati o per riconquistarlo se ne erano state sbalzate via. Lo svantaggio
dei comunisti rispetto alla politica totalitaria è molto grave. Per quanto
manovrino per allargare la loro base, sono talmente legati al loro
programma di collettivizzazione, che non riescono a conquistare una forza
sufficiente per i loro ambiziosi piani.
Comunque si possano valutare la probabilità di vittoria dei comunisti e
dei reazionari, è certo tuttavia che sembra esserci una qualche tendenza
profonda che porta a questa polarizzazione, una specie di linea di minor
resistenza, per cui tutte le altre alternative sembrano impallidire e rendersi
più difficilmente realizzabili in ogni situazione di crisi rivoluzionaria.
Dobbiamo quindi domandarci quale sia il motivo per cui le abbiamo viste in
passato, e torniamo a vederle oggi come affascinate dai comunisti e spinte a
far tacere tutte le obiezioni, tutte le critiche per mettersi al loro seguito e
lasciarsi utilizzare da essi (dico utilizzare, perché i comunisti sono troppo
consci della loro funzione per trattarle diversamente).
Se chiedete il perché, vi sentirete rispondere – in stile democratico – che
le masse ormai vogliono una rivoluzione socialista, che gli operai non sono
più disposti ad assoggettarsi al capitale padronale, che il proletariato è
ormai educato da quasi un secolo dai marxisti, che il popolo chiederà nel
momento della crisi rivoluzionaria l’abolizione della proprietà privata, e che
perciò occorre orientarsi verso il partito che si propone questo obbiettivo,
cercando, tutt’al più, di dargli buoni consigli, in modo che non faccia troppi
disastri.
La cosa espressa in questi termini è inesatta. Di vero c’è solo che nella
prossima crisi rivoluzionaria ci sarà, come sempre in tali crisi, una forte
esplosione di lotte di classe, le quali, come abbiamo visto, non indicano di
per sé una inclinazione verso il comunismo. Quanto a questa inclinazione
cioè quanto alla influenza dei partiti marxisti, occorre notare che vi sono
stati operai, che in alcuni paesi costituiscono la maggioranza degli operai,
niente affatto socialisti benché accaniti combattenti delle lotte di classe –
come quelli americani ed inglesi. Nei paesi europei continentali, fino a ieri,
il proletariato era sì assai più compenetrato dalle idee del socialismo
marxista, ma ciò costituiva più una vernice che una sostanza. Infatti, nella
sua maggioranza, esso seguiva i partiti socialdemocratici, cioè i partiti di
riformismo sindacalista e non quelli comunisti. Inoltre, quando si
considerino le prospettive rispetto all’avvenire, bisogna tenere conto che la
tradizione marxista è ormai accompagnata da un deprimente peso morto di
fallimenti e di delusioni: ed in diversi paesi la lunga reazione totalitaria ha
spezzato il precedente legame fra marxisti ed operai, e le generazioni
giovani ignorano il socialismo marxista.
Che i sentimenti predominanti e determinanti la condotta degli operai nel
prossimo domani debbano essere quelli del collettivismo, è perciò una
affermazione gratuita, nient’affatto evidente. Il campo è molto più sgombro
di quel che certuni vorrebbero far credere.
Ma, anche ammesso che questo rozzo sentimento popolare fosse quello
che si dice, ciò non spiega la tendenza delle odierne crisi rivoluzionarie a
scivolare verso quella soluzione. I sentimenti popolari sono semplici dati di
fatto che i partiti utilizzano, e perciò non essi, ma gli orientamenti dei partiti
che li dirigono ed il modo con cui questi partiti manovrano quei sentimenti,
danno la chiave per spiegare il corso degli avvenimenti politici. Se i capi
politici progressisti più combattivi e più capaci modificassero gli
orientamenti tradizionali, ciò potrebbe produrre delle transitorie crisi di
fiducia nelle masse, ma se fossero ben decisi nelle loro vedute, se sapessero
con sicurezza che cosa occorre fare e come farlo nei momenti critici,
riuscirebbero a farsi seguire.
Per rispondere alla nostra domanda, non dobbiamo perciò rinviare ai
sentimenti delle masse, ma chiederci quale sia il motivo per cui
l’orientamento dei capi politici progressisti si attiene così ostinatamente alla
soluzione della statizzazione dell’economia. Se scopriremo questo motivo,
capiremo senz’altro il motivo del fascino esercitato dai comunisti. Questi
infatti sono il partito che ha posto nei termini più coerenti il problema
politico del collettivismo, e che è più capace di risolverlo nella nostra
epoca. Le altre forze progressiste convinte in fondo che verso
quell’obbiettivo si deve marciare, anche se riluttanti, non possono non
sentire una specie di complesso di inferiorità verso i comunisti, una certa
disposizione ad abdicare nei momenti decisivi a loro favore, poiché non
sanno levarsi alla loro risolutezza.
Il socialismo implica sempre, comunque lo si formuli, l’attribuzione di
nuovi importanti funzioni allo stato, poiché il controllo delle forze
economiche significa in sostanza la creazione di istituti pubblici e di leggi
di vario genere. Lo stato è lo strumento politico con cui si esercita il
controllo socialista. Ma il socialismo marxista, con la statizzazione di tutta
la vita economica, assegna allo stato una importanza assoluta, totale. Non si
può collettivizzare tutti gli strumenti di produzione e pianificare in
conseguenza tutta l’attività economica, senza disporre di un fortissimo
apparato statale. Il braccio dello stato deve essere tanto sviluppato, da
abbracciare l’intera vita del paese. Ora, se a spingere i socialisti verso la
soluzione della statizzazione, fosse stato solo il loro dottrinarismo, la cosa
non sarebbe eccessivamente grave. Poiché l’esperienza ha mostrato che
essa rappresenta una soluzione inadeguata al raggiungimento dei fini che si
propone, l’idea del comunismo dovrebbe progressivamente dileguarsi.
Effettivamente c’è però nella situazione attuale della civiltà moderna,
qualcosa che spinge ad un crescente intervento dello stato, tendendo a fargli
prender possesso di tutta la vita economica del paese. I marxisti non hanno
individuato con precisione i motivi di questa tendenza, ma la subiscono
sforzandosi solo di indirizzarla nel modo che ritengono vantaggioso per le
classi lavoratrici. Nonostante le loro affermazioni, la collettivizzazione non
è una necessità tecnica della produzione, la quale anzi ne risulterebbe
danneggiata, né è nell’interesse delle classi lavoratrici, che verrebbe
soddisfatto con certi interventi e certe collettivizzazioni, ma niente affatto
con l’intervento totale che sostituirebbe i padroni burocratici ai padroni
capitalisti.
Una forza che spinge ad un crescente collettivismo è la necessità di
mettere un ordine autoritario al crescente sezionalismo economico. Ma
sovrapponendosi a questo ed alleandovisi in vari modi, quel che vi spinge
con la maggiore energia, è la necessità dello stato di prepararsi alla guerra.
Finché questa sarà l’esigenza predominante, vi sarà nelle classi dirigenti
una tendenza costante a sfruttare tutte le occasioni, tutti i sentimenti, tutti
gli interessi, per rendere più grande la presa dello stato sulla vita dei
cittadini, per fare un ulteriore passo verso la società-caserma.
I socialisti non sono né militaristi né nazionalisti. Essi pensano ad una
società in cui non vi saranno più guerre, ad una società socialista
internazionale. Tuttavia accettano lo stato nazionale come suprema forza di
organizzazione economica e politica di cui essi possano praticamente far
uso oggi per realizzare il loro fine. Ad accettare questo idolo li determina da
una parte tutta la politica europea che finora non è riuscita a creare niente di
superiore agli stati sovrani, e dall’altra la loro ideologia collettivista, che
non è realizzabile senza il presupposto di un paese già fortemente adusato
alla ubbidienza ad un’autorità superiore. Teoricamente si può concepire un
comunismo internazionale. Praticamente è possibile costruire solo dei
comunismi nazionali, poiché manca uno stato internazionale, né lo si può
costituire d’un colpo, fornito della forza e dell’autorità, per acquistare la
quale sono occorsi dei secoli agli stati nazionali.
La via di minor resistenza che si presenta ai socialisti per la realizzazione
del collettivismo, è quella del collettivismo su base nazionale; accettare cioè
la naturale tendenza dello stato verso la statizzazione dell’economia, e
impadronirsi della direzione del suo meccanismo, per adoperarlo in vista
dei propri scopi. Ma il comunismo nazionale non eliminerebbe i contrasti
del sezionalismo geografico, anzi li acuirebbe, poiché renderebbe ogni
rapporto di scambio fra paese e paese oggetto di trattative diplomatiche fra i
vari stati, e così sarebbe causa di maggiori attriti e di più forti tendenze
imperialistiche poiché contrapporrebbe, quali blocchi unitari, i paesi più
ricchi – per maggiori dotazioni di risorse naturali e di attrezzatura tecnica, e
per superiori capacità della popolazione – ai paesi più poveri. Prigionieri,
come sono, dell’idea del comunismo nazionale, e seminconsapevoli della
impossibilità di conciliare pacificamente le esigenze contrastanti degli
eventuali stati collettivisti, i comunisti si rifugiano o nel sogno
dell’universale reciproca benevolenza che regnerà fra quegli stati quando
non ci sarà più il capitalismo, oppure nel sogno di un imperialismo russo
che con la forza dell’esercito imporrebbe una unità comunista
internazionale.
Accettato come dato immutabile per la nostra epoca l’attuale stato
sovrano con le sue forti esigenze militariste, la linea di minor resistenza per
i movimenti politici è quella della lotta circa vari tipi di collettivismo.
Quest’ultimo infatti è implicito nella esigenza militarista. È per questo che
le alternative tendono a polarizzarsi verso il collettivismo comunista,
eliminatore dei privilegi della ricchezza, o verso il collettivismo totalitario,
conservatore della situazione dei ceti privilegiati. Per quanto antitetici, i due
movimenti sono sullo stesso piano, accettando entrambi la tendenza verso la
società-caserma.
L’ostinazione con cui i socialisti si attengono all’ideale collettivista, è
l’espressione dell’inconscia dipendenza delle forze progressiste dall’idolo
nazionale e militarista. Anche le forze che credono di combatterlo, in realtà
lavorano per lui. 11
La conclusione a cui giungiamo dunque, è che il metodo più coerente
con cui è possibile adoperare le forze sociali esistenti per la realizzazione
del collettivismo egualitario, è quello comunista; e che la condizione
generale che favorisce la polarizzazione delle forze progressiste verso il
comunismo, cioè verso il collettivismo egualitario, e di quelle reazionarie
verso il totalitarismo cioè verso il collettivismo a pro dei privilegiati, è la
lotta su scala nazionale.

VI. La politica federalista


Volendo precisare quale debba essere la politica realistica e spregiudicata
dei federalisti, dobbiamo esaminare: 1) Quali concrete possibilità ci sieno
oggi che si formi e si metta all’opera una classe dirigente federalista. 2)
Come si determini in conformità del programma federalista la sfera delle
forze sociali conquistabili su cui poggiare per giungere alla vittoria. 3)
Quale debba essere il metodo, con cui si devono conquistare e guidare
queste forze.
1) Un qualsiasi programma di rinnovamento politico sociale è
inizialmente elaborato da pensatori i quali, avendo specialmente a cuore i
problemi politici, indicano certe direttive possibili, conformi a certi valori
di civiltà. Costoro non sono mai numerosi, né influiscono in genere
direttamente sull’azione politica. Possono chiamarsi, più che capi politici,
consiglieri politici. Consiglieri in senso ideale, poiché il consiglio può
magari essere ascoltato anche da generazioni successive, o da uomini
diversi da coloro ai quali esso era rivolto. Affinché le loro indicazioni, la
loro legislazione del futuro diventi una reale direttiva d’azione, occorre si
formino gruppi di uomini d’azione politici per i quali quelle indicazioni
sieno un dato di fatto della loro formazione spirituale, ed il cui interesse e la
cui passione principale consista nell’opera di organizzazione e di comando
degli uomini: non nell’elaborare i programmi, ma nel dedicare le proprie
energie alla loro realizzazione.
Nessun programma passa dal regno dei valori ideali a quello dell’azione
concreta, se non è accolto da una effettiva classe politica dirigente, da
minoranze attive ed organizzate che si propongono seriamente di
realizzarlo. D’altra parte, questi gruppi di uomini d’azione non si formano,
se non ci sono nella società e nell’epoca in questione certe condizioni
generali, che facciano pensare praticamente possibile la realizzazione del
programma. L’interessamento fattivo di uomini d’azione va alle cose che
praticamente si possono fare, e non alle cose buone, ma impossibili.
Ad una soluzione federalista si è pensato da parecchi, da parecchio
tempo ed in parecchi paesi, come ad una soluzione razionale delle difficoltà
della civiltà europea. 12 Ma i consigli non hanno trovato uomini di azione
disposti ad ascoltarli, poiché le difficoltà per la realizzazione si
presentavano talmente gigantesche, che anche i meglio intenzionati non
potevano fare altro che auspicare più favorevoli condizioni per il futuro.
Come venire a capo di quei colossi forniti di una così potente vitalità, che
sono gli stati nazionali? Come sganciare le forze sociali dal loro
tradizionale orientamento politico diretto ad ottenere la soddisfazione delle
loro aspirazioni entro l’ambito nazionale? Come superare l’ostacolo delle
monarchie plurisecolari, degli interessi rappresentati dai generali, dagli
industriali protetti con i dazi doganali e da tutti gli altri gruppi che si erano
incrostati intorno allo stato nazionale? La cosa sapeva di utopia; e le utopie
esercitano una certa attrazione sugli spiriti dei consiglieri, non su quelli
degli uomini d’azione.
E se tanta resistenza incontra ancora oggi il programma federalista fra i
vecchi uomini politici coperti di guidaleschi dei vecchi partiti a compiti
nazionali, ciò è dovuto essenzialmente al fatto che costoro non riescono a
vedere quale effettiva azione politica sarebbe possibile per realizzarlo.
Eppure siamo convinti che, se per gli uomini politici europei continuasse
a presentarsi come problema centrale quello della conquista del potere nel
sempre più collettivista stato nazionale sovrano, se passioni ed interessi
costituiti intorno a questi stati continuassero ad essere talmente imponenti e
solidi da scoraggiare ogni volontà di attaccarli, tutta l’impostazione
federalista resterebbe come campata in aria, perché troppo arduo sarebbe
rimontare la corrente che porta all’alternativa comunismo o totalitarismo, e
che alimenta e rafforza il numero degli uomini d’azione che diventano
comunisti o totalitari.
Ma proprio questa premessa fondamentale, proprio l’accettazione
dell’esistenza degli stati sovrani come un fatto incontestabile, proprio il
fascino che essi esercitano, è quel che sta rapidissimamente svanendo. Nel
prossimo quinquennio, la questione prima per gli europei sarà non come
organizzare i loro rispettivi paesi, ma come organizzare la convivenza
pacifica e civile sul continente, una volta frustrato il tentativo di soluzione
imperiale. Questo problema sarà risolubile solo con la realizzazione degli
istituti politici, giudiziari, finanziari, militari del nuovo stato federale. Ed un
tale risultato non potrà essere raggiunto se non indirizzando tutte le forze
politiche di cui si riesca a disporre verso una concertata azione
internazionale.
L’urgenza della questione, la possibilità a portata di mano della sua
soluzione, la fecondità dei risultati benefici che ne deriverebbero, non
possono mancare di esercitare un’attrattiva sempre più potente sugli uomini
politici, inducendoli a connettere a questo i vari altri problemi politici
dell’epoca rivoluzionaria. Ma impostare il problema con coerenza, porta
alla dissoluzione di quei complessi di sentimenti, di propositi, di azioni, che
si cristallizzavano intorno allo stato nazionale sovrano come suprema forma
attualmente possibile di organizzazione dei popoli europei. La marcia verso
il collettivismo è, su scala nazionale, una linea di minor resistenza, e gli
uomini politici saranno propensi a scivolarvi o ad attenervisi con immensa
facilità. Su scala internazionale, diventa una linea di resistenza massima irta
di ostacoli immensi, poiché mancano sia i possenti strumenti amministrativi
necessari, sia la profonda tradizionale disciplina che solo gli stati sovrani
col loro passato militarista posseggono.
In un quadro di politica nazionale, le eventuali necessarie socializzazioni
dell’epoca rivoluzionaria farebbero inevitabilmente ulteriori passi verso una
economia programmata nazionale.
Nell’ambito della politica federalista, sarebbero misure intese alla
eliminazione di privilegi monopolistici, che si inquadrerebbero nell’opera di
distruzione delle più o meno autarchiche economie programmate, e
verrebbero ad inserirsi nell’opera di creazione di un libero mercato europeo
sul quale solo si può fare affidamento per la fusione delle malate economie
nazionali in un’unica, sana, economia europea.
Sul piano nazionale, le esigenze militari persistenti impedirebbero le
effettive misure per l’eliminazione della miseria, convogliando verso gli
obbiettivi bellici il massimo delle risorse materiali e delle energie umane
disponibili. Sul piano internazionale è possibile affrontare e risolvere in
modo totale e definitivo il problema del militarismo europeo, e liberare
enormi risorse da questo improduttivo impiego, aprendo così la strada in
modo efficace alla possibilità delle varie spese necessarie per creare una
molto maggiore eguaglianza di possibilità per tutti.
Mentre dunque in una politica progressista a sfondo nazionale le cose
sono ormai a un punto che i comunisti rappresentano, per la decisione e
precisione dei loro piani, il centro di attrazione delle minoranze attive, su
scala internazionale l’idea comunista perderebbe ogni forza di attrazione;
anzi, i più intelligenti fra gli stessi comunisti finirebbero per essere attratti
verso la politica federalista.
Non i ragionamenti astratti, ma la stessa azione federalista farà
scomparire dalla mente degli uomini politici quella che è stata sinora
l’ossessionante credenza in una marcia inesorabile dell’umanità verso il
collettivismo, credenza dovuta solo all’assurda accettazione del tabù dello
stato nazionale sovrano. È la stessa azione federalista che faciliterà la
comprensione esatta dei concreti problemi del socialismo. Senza dubbio i
vecchi intorpiditi uomini politici continuano la loro via. Privi di fantasia,
privi di iniziativa, sono morti che seppelliscono i loro morti. Ma il
programma federalista, capace di tramutarsi in realtà nella nostra stessa
epoca, nei nostri anni, non potrà non esercitare un’attrattiva potente sulle
menti fresche, desiderose di azione feconda, non ancora impegnate nelle
vecchie carriere, o capaci di sentirne la vacuità e di abbandonarle.
Sul piano dei problemi esclusivamente nazionali, i federalisti si
troverebbero come sfasati, e finirebbero per intristire senza frutti. Sul piano
dei problemi europei, per la chiarezza delle loro vedute essi farebbero
rapidamente divenire sfasate ed incerte tutte le tendenze progressiste che
non si orientassero nella loro stessa direzione.
2) Come abbiamo visto accadere per il marxismo, e come accade per
qualsiasi direttiva politica, anche il federalismo deve determinare la sfera
delle forze sociali conquistabili. Non ne ripetiamo qui la descrizione che è
stata fatta nello scritto precedente. La linea di divisione che il federalismo
tende a provocare, non coincide con quella dei partiti tradizionali, ed incide
sulle forze nazionali, su quelle classiste in modo suo peculiare. Ciò riempie
di scandalo i seguaci delle vecchie tendenze. I partiti marxisti accusano di
tendenze reazionarie i federalisti perché vedono ad esempio che la
«borghesia» non è più considerata in blocco come nemico, che si distingue
fra la borghesia monopolista e protezionista e quella libero scambista la
quale è considerata come elemento favorevole. Oppure gridano al
tradimento poiché vedono che il «proletariato» non è considerato in blocco
come alleato, ma si distingue fra operai che lottano per la comune
emancipazione, ed operai dall’egoistica politica di categoria e di classe. E
da un diverso punto di vista, i partiti nazionali levano analoghe accuse. Ma
poiché il compito del federalismo è diverso da quello del comunismo e del
nazionalismo, non si comprende davvero perché i criteri di divisione
dovrebbero essere gli stessi. Abbiamo visto che le divisioni in classi o in
nazioni non sono dati assoluti ed irremovibili, ma hanno un significato ed
un valore solo in funzione di direttive e programmi politici.
Se si passano in rassegna le forze suscettibili di essere interessate ad una
soluzione federalista e di rimanerle fedele dopo, scorgiamo che esse
comprendono l’enorme maggioranza delle popolazioni dei paesi europei.
Tuttavia non bisogna lasciarsi andare per questo motivo a calcoli illusori.
Qualunque radicale modificazione dell’ordine di cose esistenti incontra
l’accanita resistenza di coloro che ne verrebbero danneggiati e che sanno
ben valutare quali sarebbero le loro perdite; mentre riesce difficilmente ad
ottenere il fattivo appoggio di coloro che sarebbero avvantaggiati, i quali
mal si rappresentano gli eventuali benefici che ne ritrarrebbero. I liberali
italiani del Risorgimento, per esempio, potevano contare in astratto
sull’enorme maggioranza degli italiani, ma in realtà solo su quelli disposti a
battersi.
Lo stesso vale per i federalisti. Non possono e non debbono calcolare
sull’indifferenziato aiuto delle masse, ma solo su quelle che più facilmente
possono essere portate sul terreno della lotta in modo organizzato ed il cui
peso è decisivo; poiché si propongono di disporre di forze capaci di agire,
non di masse capaci di fare impotenti dimostrazioni di sentimenti.
Quando ad esempio dicono che, data l’importanza della politica degli
operai delle grandi città nelle situazioni rivoluzionarie, è essenziale
conquistare una influenza organizzata sugli operai, poiché il loro intervento
sarà decisivo per una soluzione socialista federativa, intendono per
l’appunto indicare una di queste masse che, seppure non esclusiva, ha la
maggiore importanza per condurre a buon fine una lotta. Analogamente,
non tutti i paesi contribuiranno con uguale peso alla soluzione, e bisogna
perciò puntare sopratutto sui vincitori di domani.
Insomma, nella situazione rivoluzionaria di domani, bisogna contare su
certe forze più combattive e più influenti, per trasportare il resto. Non
importa se sieno maggioranze o minoranze. Importa che sieno
sufficientemente forti. Ma, si obbietta dai politici tradizionalisti delle
diverse sfumature, queste forze sono già impegnate sotto la direzione
politica marxista, nazionale, ecc. In che modo pensate di superare questo
ostacolo? Sembra che il federalismo non abbia altre riserve a cui attingere;
che le forze esistenti sieno ormai esclusività di altri movimenti politici.
Non bisogna lasciarsi spaventare da queste pretese: esse sono in realtà
senza alcun fondamento. Le masse effettivamente influenzate dalle
ideologie tradizionali sono una piccola parte di quelle che la crisi
rivoluzionaria trascinerà improvvisamente sull’arena politica. Anche se, in
un primo momento, le vecchie tendenze si presenteranno molto gonfie, il
loro legame con le masse sarà debole e facilmente modificabile. In ogni
crisi rivoluzionaria, all’inizio le masse affluiscono, è vero, sotto vecchie
bandiere, e i veri rivoluzionari sono infime minoranze; ma i rapporti
cambiano rapidamente, quando le vecchie tendenze restano imbarazzate ed
impotenti di fronte a quelli che sono di fatto i problemi più urgenti del
momento. Inoltre le vecchie tendenze nazionali, classiste ecc. ormai si
presentano tutte non cariche di prestigio e di speranze, ma di dolorosissimi
e umilianti ricordi. Come abbiamo già detto il campo si presenta molto più
sgombro di quanto pretendano i sedicenti loro esclusivi occupanti.
Lavorando con serietà e spirito realistico, i federalisti possono mobilitare le
forze necessarie per vincere.
3) In che modo lavorare?
Se esaminiamo più da vicino le forze e le tendenze che possono essere
portate sul terreno della lotta, troviamo che accanto ad elementi favorevoli
ed utili per lo scopo da raggiungere, ve ne sono altri che operano in senso
contrario. Prendiamo qualche esempio.
Gli operai delle città, come ceto più combattivo, più facilmente
organizzabile, più compenetrato di idee progressiste di altri strati di
lavoratori, sono una delle più importanti forze favorevoli. Tuttavia tendono
anche, nelle loro lotte economiche, a restringere le loro azioni al semplice
egoistico orizzonte di categoria, colle deleterie conseguenze sindacaliste già
ripetutamente ricordate.
I contadini, con la loro aspirazione al possesso della terra, sono anche
una forza mobilitabile, specialmente nei paesi dove la questione agraria è
più scottante; ma ignorano e vogliono ignorare ogni altro più complesso
problema che sorpassi quello della loro terra.
Gli imprenditori libero-scambisti sono una forza operante in un’azione
federalista; ma, se si aprono prospettive di particolari favori alle loro
industrie, o se sperino di poter imporre agli operai più bassi salari, si legano
facilmente con forze politiche reazionarie.
Passando dal campo degli interessi economici a quello delle tendenze
politiche, scorgiamo che le tendenze socialiste democratiche sono molto
sensibili ad impostazioni di carattere antimilitarista, internazionalista e
popolare, e potranno quindi fornire molte forze all’opera federalista. Ma
tendono anche a deviare da questa direttiva, se si presenta loro la
possibilità, magari illusoria, di realizzazioni più immediate, socialiste o
democratiche su ridotta (ed avvelenata) scala nazionale. 13
Infine, nel campo nazionale, le forze animate da sentimento di amor
patrio – oggi uno dei sentimenti più forti nell’uomo comune – non possono
non vedere che solo entro un quadro federalista garantirebbero uno sviluppo
pacifico e sicuro al loro paese. Ma facilmente si chiudono in un «sacro
egoismo» nazionale, pensando solo a garantire la massima sicurezza
possibile al proprio paese col rafforzamento della sua potenza militare.
Insomma tutte le forze favorevoli alla federazione sono tali, nella misura in
cui vengono controllate da una classe dirigente che le costringa ad agire
entro una direttiva politica generale; ma tendono di per sé a spezzare questo
quadro, lasciandosi andare lungo questa o quella politica sezionale, se la
classe dirigente si fa prendere la mano e segue – in obbedienza a questo o a
quel mito di «sovranità popolare», «missione di classe», «razza», ecc. ecc. –
gli impulsi immediati e spontanei delle masse.
Il compito di consapevole coordinamento, utilizzazione e raffrenamento
di forze particolari, è la funzione specifica di qualsiasi classe governante o
aspirante governante, degna di questo nome – nelle epoche tranquille e in
quelle agitate.
Nelle epoche tranquille, in cui la direttiva generale è ormai consolidata
in abitudini popolari, e in cui perciò esiste una notevole reciproca
comprensione fra governanti e governati, questa guida è facile e sorge
l’apparenza che quelli eseguano semplicemente la volontà di questi, anziché
reggerla e guidarla. Ma, se ben si osserva, si riconosce che questa è
un’illusione. Quando realmente accade così, il risultato non è un’azione
coordinata, ma il progressivo dissolversi dell’autorità statale per l’azione
delle forze particolari centrifughe, il dislocamento della società in gruppi in
rissa sempre più feroce per il conseguimento dei loro interessi particolari.
Per quanto grandi, antiche e salde sieno le regole generali di qualsiasi
convivenza sociale, saltano a pezzi se la classe governante viene meno alla
sua opera di direzione, non contenendo gli impulsi particolaristici e
centrifughi immediatamente sorgenti dal basso.
La cosa appare in tutta la sua pienezza, nelle epoche rivoluzionarie,
quando crollano le vecchie abitudini, leggi, istituzioni, apparati di forza, che
mantenevano la vecchia direttiva generale di civiltà. È caduta la vecchia
classe dirigente, e non ce n’è ancora una nuova. C’è solo una lotta fra i vari
movimenti politici, ciascuno dei quali tende a conquistare il potere. C’è
allora una frattura fra dirigenti e masse. Da una parte ci sono i movimenti
politici, composti di uomini d’azione che, animati da uno stesso ideale di
civiltà, formulano un programma realizzabile in circostanze reputate
imminenti o attuali, ed operano coordinatamente sotto una comune
direzione per realizzarlo, cioè per trarsi dietro le forze sufficienti ad imporre
nuove leggi, istituzioni, abitudini. Dall’altra parte vi sono le masse
fluttuanti, capaci di essere inquadrate, educate ed abituate in questo o quel
quadro politico generale, ma per intanto ancora prive di tale inquadramento,
o comprendenti solo i loro immediati particolari interessi.
In queste situazioni individui e partiti che si affidano alle spontanee
aspirazioni delle masse, possono anche in un primo momento e
transitoriamente godere di grandi popolarità, ma non possono costituire una
vera direzione. Sono turaccioli che galleggiano sulle onde, sbattuti qua e là;
sono elementi che contribuiscono alla continuazione del caos. Coloro che
sono consapevoli del vero significato della direzione politica, cercano
invece di prendere il comando delle forze scatenate dalla rivoluzione,
assecondandole nelle loro aspirazioni nella misura in cui è necessario per
incanalarle verso l’obbiettivo da loro prefisso.
Ma ciò possono raggiungere solo a patto di sentirsi anzitutto tenuti ad
una disciplina verso il loro movimento politico. Adoperano perciò
l’influenza che riescono a conquistare sulle masse e sulle loro
organizzazioni, per utilizzarle a pro del loro movimento, e non viceversa.
Questo non significa che essi si mettano contro la volontà delle masse –
poiché questa volontà di fatto non esiste. Significa anzi che operano per
formare tale volontà delle masse, inquadrandole in organizzazioni capaci di
utilizzare tutte le spinte dal basso favorevoli e di neutralizzare tutte quelle
dannose, per imporre colla persuasione e con la forza «stando in sul lione e
in sulla volpe» un nuovo complesso di abitudini, di leggi, di istituzioni.
Questa capacità delle masse di seguire, questa loro incapacità di indicare e
di proporsi per loro conto i compiti ricostruttivi, questa necessità di una
direzione forte della classe governante, sono le condizioni della cosiddetta
dittatura rivoluzionaria.
Una qualsiasi epoca di sconvolgimenti si conclude, dopo un periodo
caotico, in una organizzazione di forze dietro a questo o a quel movimento
politico fornito di tali qualità e in una lotta finale fra di loro per decidere le
basi su cui ricostruire il nuovo ordine.
I federalisti intendono essere non ebbri turaccioli del momento del
crollo, ma sobri attori del periodo della costruzione del nuovo ordine. Nelle
prevedibili crisi di domani, le forze popolari tenderanno a raggrupparsi
intorno a questo o a quel movimento capace di guidarle in mezzo alla
tempesta. Nel campo delle forze reazionarie, desiderose di conservare o
ristabilire i privilegi minacciati o perduti, questi movimenti saranno, per
loro natura, comunque si camuffino, a tendenze totalitarie. Nel campo delle
forze progressiste, in tutta una serie di paesi, il movimento meglio preparato
per un’azione di tal genere è finora quello comunista. Tutto il nostro esame
ci ha però condotti alla conclusione che, pur essendo tecnicamente bene
attrezzato, esso è tuttavia incapace di realizzare le vere esigenze
dell’indirizzo di civiltà progressista.
I federalisti intendono formare il nucleo di una classe dirigente
progressista, che abbia le capacità rivoluzionarie dei comunisti, senza
averne le tare. 14 I suoi nemici sono le forze reazionarie che intendono
conservare i privilegi degli stati sovrani, degli egoismi sezionali, della
ricchezza parassitaria, cioè il militarismo imperialista, il disordine
economico e lo sfruttamento dei deboli.

1. Ciò è stato notato anche da Marx, il quale nella Critica al programma di Gotha ha respinto come
assurda la formula del socialismo come assegnazione a ciascuno dell’intero prodotto del suo
lavoro.
2. Vedi una critica esauriente delle teorie marxiste dell’imperialismo in Robbins, Le cause
economiche della guerra.
3. Può non esserci. Si può pensare che la tale industria o la tale classe o il tale paese o la tale razza
abbiano dei diritti superiori, ed allora l’anima è in pace con sé stessa.
4. Per un esame dettagliato e rigoroso delle assurdità logiche del sindacalismo v. N.N., Sindacalismo
= caos.
5. Per l’analisi della società collettivista v. Hayek, Pianificazione economica collettiva e Brutzkus, La
pianificazione economica nella Russia sovietica.
6. Non possiamo qui, poiché ci porterebbe troppo lontano, studiare i vari elementi che hanno
contribuito alla formulazione di questo programma. Andrebbe studiata l’influenza delle
antichissime utopie comuniste di alcune sètte cristiane, dell’astrattismo illuminista, delle idee
umanitarie, delle tradizioni mercantiliste, del culto dello stato assolutista, di quella tecnocrazia
avant lettre che fu il sansimonismo, ecc., ecc.
7. Ciò vale per qualsiasi altra analoga entità politica. L’Italia nel Risorgimento non era altro che
l’astratto campo di azione che i liberali italiani volevano conquistare e dissodare secondo i loro
ideali. Un’Italia obbiettiva era una semplice classificazione geografica.
8. Analogamente nei nostri giorni, Hitler ha messo il tabù sul programma nazionalsocialista,
proibendo ai membri del suo partito di discuterlo.
9. Nei paesi anglosassoni, dove la penetrazione del socialismo marxista è minima, la lotta di classe si
presenta allo stato puro di lotta sindacale di categorie di operai più capaci di organizzarsi
monopolisticamente. Questo è specialmente chiaro nel caso degli Stati Uniti.
10. Non possiamo dilungarci su questo punto, che ha un semplice interesse retrospettivo. V. il cap. I
di Rosenberg, Storia del bolscevismo.
11. L’esempio del socialismo inglese è caratteristico. L’Inghilterra, paese poco militarista, è stata
sempre un campo poco fruttuoso per le idee marxiste, quantunque abbia eseguito molte singole
collettivazioni. Ma l’ideale della statizzazione vi ha preso piede parallelamente al crescere delle
esigenze militariste. Oggi che il conflitto le impone un collettivismo di guerra, i laburisti, pur
invocando per l’indomani una federazione di popoli, dichiarano che intendono mantenere e
sviluppare l’economia pianificata. Se faranno ciò, faranno senz’altro fallire la federazione, poiché
la loro economia pianificata non potrà che essere inglese, autarchica, sezionale, nazionalista. Si
potrà far aderire l’Inghilterra alla federazione pur nazionalizzando molte sue imprese. Non c’è
contraddizione insuperabile. Ma non si potrà fare una federazione vitale ed una economia
nazionale pianificata.
12. I padri spirituali di questa idea in Italia sono stati due pensatori politici originali e potenti del
nostro Risorgimento: Cattaneo e Mazzini.
13. È stata già notata per il caso del laburismo inglese questa contraddizione fra le due aspirazioni.
14. Alcuni «patiti» del marxismo rimproverano ai federalisti di voler adoperare gli operai,
ingannandoli, per gettarli poi da parte come limoni spremuti a servizioreso.
Dopo tutto quello che si è detto, non vogliamo soffermarci su questa stupida accusa.
I federalisti intendono, senza dubbio, adoperare le forze operaie (come anche altre forze popolari
spontanee) come strumento nella lotta politica. Ma questa non è una loro particolare perversità; è
quello che fanno e debbono fare tutti i movimenti politici seri che vogliono attuare un programma.
L’accusa di ingannatori è totalmente ridicola. Si suppone che gli operai abbiano in corpo, per virtù
dello spirito santo, anche se non lo sanno, la soluzione della collettivizzazione totale; e se
qualcuno vuole condurli su un cammino diverso, si dice che egli li vuole ingannare.
Indipendentemente da questa impostazione demagogica, sta il fatto che il fine da raggiungere è
noto e chiaro per i capi politici, non per le masse. Ma se questo vuol dire ingannare, bisogna dire
che i federalisti non ingannano più dei marxisti o di qualsiasi altro movimento politico. Quanto
poi al proposito di sbarazzarsi degli operai a festa finita, non solo è una calunnia, ma è
precisamente quello che farebbero i collettivisti ad oltranza. Sono costoro che, quando riescono ad
instaurare il collettivismo, si debbono sbarazzare degli operai come forza politica, trasformandoli
in semplici pezzi di una gigantesca macchina. Solo a tali condizioni, la macchina economica
collettivista funziona. Se i federalisti vogliono una trasformazione economica diversa da quella
collettivista è proprio perché non vogliono che i lavoratori sieno buttati da parte come cittadini, e
ridotti alla onorifica funzione di servi di stato.
Altiero Spinelli, fondatore del movimento per l’unità europea
di Lucio Levi

Di pochi uomini politici il riconoscimento, ormai incontestato, della


grandezza riposa su ragioni altrettanto segrete. Già negli ultimi anni della
sua vita accadeva spesso di leggere il nome di Altiero Spinelli insieme a
quelli dei padri fondatori della Comunità europea. Questo riconoscimento
ha avuto una conferma definitiva nel 1999, quando gli è stato dedicato uno
degli edifici dove ha sede il Parlamento europeo a Bruxelles.
Come ha notato Mario Albertini:

Egli sta […] nell’immagine pubblica, accanto a Monnet, Adenauer, De Gasperi e


Schuman (nonostante l’immensa differenza che lo separa anche dal primo), proprio
come nel pantheon del Risorgimento italiano, Mazzini sta tranquillamente accanto a
Cavour, oltre che a Garibaldi e a Vittorio Emanuele II […] Ciò che resta sfuocato sono
proprio i disegni dei protagonisti e quindi […] lo scontro-incontro dei diversi disegni di
azione che costituisce l’evento storico nella sua specificità […] Così […] resta ignoto
[…] come si sono determinate le volontà costitutive dei processi e delle istituzioni. 1

In altre parole, mentre si sta consolidando il mito di Spinelli, rimane


perlopiù sconosciuto il suo pensiero e non pienamente apprezzato il suo
contributo teorico e pratico all’unificazione europea. Malgrado non siano
molte le persone che hanno letto le opere di Spinelli, la storia, per vie
sotterranee e in parte misteriose, gli ha riconosciuto il posto che spetta ai
protagonisti del secolo scorso e in particolare dell’unificazione europea.
Inoltre, nelle ricostruzioni storiche convenzionali il nome di Spinelli è
legato, spesso in modo acritico, a quello di Ernesto Rossi. Entrambi sono
presentati come gli autori del Manifesto di Ventotene e come i fondatori del
Movimento federalista europeo senza distinguere il contributo di ciascuno.
Per comprendere la personalità e il ruolo di Spinelli e di Rossi, è utile
ricostruire per sommi capi il loro itinerario politico e intellettuale e tentare
di identificare gli apporti rispettivi alla elaborazione delle idee e delle
proposte politiche che diedero inizio al federalismo europeo.

Altiero Spinelli dal comunismo al federalismo


L’impegno politico di Spinelli (1907-1986) comincia subito dopo l’avvento
del fascismo. È il 1924, l’anno in cui fu assassinato Giacomo Matteotti, e
Spinelli ha diciassette anni. Si iscrive al Partito comunista e presto assume
l’incarico di segretario giovanile prima per l’Italia centrale, poi per l’Italia
nord-occidentale. Pur non avendolo mai incontrato, Gramsci disse di lui: «È
un lavoratore, bisogna impegnarlo nella collaborazione con noi». 2 Entrato
nella clandestinità a diciotto anni, due anni dopo, nel 1927, fu arrestato a
Milano e condannato dal Tribunale speciale a sedici anni e otto mesi.
Scontò dieci anni di carcere e sei di confino, due a Ponza e quattro a
Ventotene, dove, nel 1941, scrisse con Ernesto Rossi (1897-1967) il famoso
Manifesto, il cui titolo completo è Per un’Europa libera e unita. Progetto
d’un manifesto. Questo documento è il risultato di una lunga riflessione
teorica, che si concluse con le dimissioni dal Partito comunista, dal quale fu
espulso nel 1937, mentre si trovava nel confino di Ponza. La motivazione
ultima del distacco dal comunismo risiede nella scelta del valore della
libertà:

Mentire con me stesso – scrive Spinelli nelle memorie, quando rievoca il momento
drammatico di quella scelta – rinunziare alla libertà del mio pensiero, non è però mai
stato scritto nel patto fra l’anima mia e il comunismo, ed è contro questo scoglio che ora
fa naufragio la mia militanza […] È stato tutto un monologo sulla libertà quello che ho
iniziato dal momento in cui le porte del carcere si sono chiuse alle mie spalle, un
monologo che si è venuto man mano allargando e approfondendo. Si è trattato della
libertà che mi sono presa di sottoporre a critica il comunismo, della libertà che ha
aleggiato nello spirito di tutti i grandi che ho chiamati intorno a me, e che mi hanno
tenuto compagnia con i loro libri; della libertà che è svanita in Russia, in Italia, in
Germania; della libertà per cui c’è una disperata guerra civile in Spagna; della libertà
che mi è stata tolta e che desidero. La conclusione cui non posso sottrarmi è che se per
nulla al mondo vorrei rinunziare alla mia libertà, se l’ho difesa in me stesso contro i
muri di pietre e contro quelli di idee, che mi circondano, se per essa ho accettato di
distruggere tanta parte di me, devo volerla anche per il mio prossimo. 3

C’erano però due aspetti dell’esperienza comunista che, come dice lo


stesso Spinelli, «hanno continuato a esercitare la loro influenza» anche
dopo l’abbandono del comunismo. In primo luogo, ciò che aveva motivato
la sua adesione al comunismo non era soltanto l’impegno «contro il
fascismo italiano e per un’ideale Italia», ma soprattutto «contro il
capitalismo e l’imperialismo mondiali e per un ordine nuovo mondiale». In
secondo luogo, questo impegno scaturiva dalla «passione politica
dell’azione e del comando» in «un’organizzazione che si presenta come un
clero, depositario delle segrete leggi che regolano la morte delle vecchie e
la nascita delle nuove società umane» e che si propone di «prendere il
potere assoluto necessario per creare la nuova e perfetta società». 4
La scelta di essere attivo nel campo democratico non rappresenta per
Spinelli che l’inizio di una difficile ricerca alla fine della quale giungerà al
federalismo. Per il momento, il giudizio di Spinelli sulla democrazia è
severo: essa non ha saputo sbarrare la strada al fascismo e si presenta come
«un gran corpo in decomposizione». 5 D’altra parte, Spinelli riconosce di
essere debitore nei confronti di Ernesto Rossi di una importante lezione di
metodo:

Una volta accettati come assiomi certi ideali di civiltà, […] il dovere supremo era per
Ernesto Rossi l’applicazione della grande regola del pensiero illuminista la quale
esigeva che ogni cosa umana che gli apparisse in qualche modo non conforme a quegli
ideali, fosse portata dinanzi al tribunale della ragione; se il giudizio fosse stato di
condanna, si sarebbe dovuto proporre qualcos’altro di meglio per correggerla o
sostituirla del tutto.

Mi piacque subito – aggiunge Spinelli – questo irriverente razionalismo, che avevo


conosciuto solo attraverso la storia della filosofia e che ora, per la prima volta, mi si
presentava sotto forma di un uomo di carne ed ossa, intelligente, pieno di ironia verso se
stesso, buono, ma intellettualmente spietato contro ogni ingiustizia, menzogna e luogo
comune. Adottai questo modo di pensare, che mi riusciva assai utile per sgombrare la
mente dalle macerie della mia antica cattedrale e per abbattere questo o quel pilastro che
di essa era restato ancora in piedi solo per mia pigrizia mentale. 6
Inoltre Spinelli riconosce l’aiuto che ricevette da Rossi nel demolire
quanto restava nella sua mente del vecchio pensiero politico e nel costruirne
uno nuovo:

Resistetti a lungo a questo suo disegno, volendo difendere l’ultimo bastione socialista
rimasto in piedi nella mia mente, secondo il quale comunque bisognava metter fine al
capitalismo e sostituirlo con il socialismo. Ma dovetti arrendermi ai suoi ragionamenti e
riconoscere i servizi insostituibili resi dall’economia di mercato, il legame logico
ineliminabile fra proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione e dispotismo politico,
l’inconsistenza logica di ogni forma di società sindacalista, corporativa o di
autogestione, sostitutiva del mercato […] Ernesto Rossi mi mostrava che c’era un altro
modo, diverso da quello socialista o comunista, di criticarla [la società capitalista], che
c’era un altro progetto migliore di quello socialista e comunista di riformarla. 7

Gli anni del confino a Ventotene segnano per Spinelli l’inizio di una
seconda vita:

Sentimenti, pensieri, speranze e disperazioni si ricomposero allora in un disegno nuovo,


per me stesso sorprendente; la mia debolezza si convertì in forza; sentii che una
consonanza straordinaria si stava formando tra quel che accadeva nel mondo e quel che
accadeva in me; […] compresi che […] in quegli anni, in quel luogo nacqui una seconda
volta, che il mio destino fu allora segnato, che io assentii ad esso e che la mia vera vita
[…] cominciò. 8

In una pagina autobiografica, nella quale descrive come giunse a


scoprire il federalismo dopo l’esperienza comunista, che aveva motivato il
suo impegno antifascista, Spinelli scrive:

In un volume di scritti di Luigi Einaudi, […] nel quale erano riprodotti alcuni suoi
articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» agli inizi del 1919 sotto lo pseudonimo di
Junius, 9 […] il loro autore […] aveva portato innanzi al tribunale della ragione il
progetto della Società delle Nazioni, l’aveva trovato del tutto inconsistente, e,
rievocando la problematica costituzionale dalla quale erano nati gli Stati Uniti
d’America, aveva proposto una reale Federazione che unisse sotto l’impero di una legge
comune i popoli che uscivano dal bagno di sangue.
Ho spesso pensato negli anni successivi che veramente habent sua fata libelli. Queste
pagine erano cadute nell’indifferenza generale quando erano state scritte, e l’autore
stesso le aveva messe da parte, non sentendo alcun bisogno di approfondirle
ulteriormente. Una ventina d’anni più tardi giungevano quasi casualmente sotto gli
occhi di due che vivevano da dieci e più anni segregati dal mondo e che ora stavano
seguendo con ansioso interesse la tragedia che aveva avuto inizio in Europa. Ed ecco,
quelle pagine non erano state scritte invano, poiché cominciavano a fruttificare nelle
nostre menti.
Sollecitato da Rossi, che come professore di economia aveva da tempo
l’autorizzazione a corrispondere con lui, Einaudi gli mandò due o tre libretti della
letteratura federalista inglese fiorita sul finire degli anni ’30 per impulso di Lord
Lothian. Salvo il libretto di Lionel Robbins, The Economic Causes of War, che poi
tradussi 10 e fu pubblicato dalla casa editrice Einaudi, 11 non ricordo né i titoli né gli
autori degli altri. Ma la loro analisi del pervertimento politico ed economico cui porta il
nazionalismo, e la loro presentazione ragionata dell’alternativa federale, mi sono rimaste
fino ad oggi nella memoria come una rivelazione.
Poiché andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero, la mia attenzione non fu
attratta dal fumoso e contorto federalismo ideologico di tipo proudhoniano o
mazziniano, ma dal pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi, nei cui scritti
trovai un metodo assai buono per analizzare la situazione nella quale l’Europa stava
precipitando, e per elaborare prospettive alternative. 12

La lettura di questa pagina illumina in modo impareggiabile quali sono


le fonti del pensiero federalista di Spinelli. Da esse egli trasse
essenzialmente due elementi, che svilupperà continuamente nel corso della
sua opera. Il primo è la critica ai limiti dello Stato nazionale, che permette
di dare una interpretazione chiara e unitaria dei problemi della nostra epoca.
Ciò che Einaudi e la scuola federalista inglese avevano chiarito era la
relazione tra la crisi del sistema europeo degli Stati e l’imperialismo, le
guerre mondiali, la degenerazione autoritaria e corporativa degli Stati e
delle società nazionali
Il secondo elemento è la Federazione europea, intesa come mezzo per
superare l’anarchia internazionale e assicurare la pace. Sulla base
dell’esperienza del federalismo americano, egli definisce l’unità europea
come un obiettivo di carattere costituzionale. Il che gli permette di
denunciare i limiti delle soluzioni di carattere internazionale: non solo la
cooperazione tra gli Stati, ma anche le organizzazioni internazionali, come
la Società delle Nazioni.

Ernesto Rossi dal liberalsocialismo al federalismo


Dai passi delle memorie sopra citati, nelle quali entra in scena Ernesto
Rossi, emerge il ruolo fondamentale di quest’ultimo nella diffusione della
letteratura federalista a Ventotene. Di formazione mazziniana, Rossi
partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale, nel corso della quale
fu gravemente ferito. Dopo la guerra divenne allievo e amico di Gaetano
Salvemini e insegnante di economia politica negli istituti tecnici di Firenze
(1924-1925) e di Bergamo (1925-1930). I suoi studi di economia lo
portarono a frequentare la biblioteca dell’Università Bocconi di Milano,
dove insegnava Luigi Einaudi. Qui i due si incontrarono e strinsero
amicizia. Dal 1923 egli fu uno dei dirigenti più autorevoli dell’opposizione
antifascista a Firenze, prima nell’«Italia libera», associazione di ex
combattenti antifascisti, successivamente, nel 1929, fu insieme a Salvemini
e ai fratelli Rosselli tra i fondatori del movimento antifascista «Giustizia e
libertà». Lo stesso gruppo di intellettuali aveva promosso nel 1925 la
pubblicazione di «Non mollare», il primo giornale clandestino antifascista.
Dopo l’arresto nel 1930 insieme ai maggiori dirigenti del movimento, fu
condannato dal Tribunale speciale a venti anni di carcere. A seguito di una
riduzione della pena, nel 1939 fu assegnato al confino di Ventotene, dove
incontrò Spinelli.
La matrice culturale del federalismo di Rossi è il liberalsocialismo, che
ebbe come crogiolo il movimento «Giustizia e libertà» e confluì nel
dopoguerra nel Partito d’azione. L’itinerario politico di Rossi verso il
federalismo è più lineare di quello di Spinelli, perché egli era già un
abitante della «città democratica» e in particolare di una sua punta avanzata,
appunto «Giustizia e libertà», che aveva avviato una revisione critica della
concezione tradizionale della democrazia. Il passaggio alla democrazia
internazionale, che è un aspetto essenziale del federalismo, si presenta come
il coronamento di una esperienza intellettuale già avviata.
Ciò che predisponeva Rossi a condividere questa esperienza, e che lo
accomuna a Spinelli, era l’avversione per la cultura nazionale:
Io mi sono sentito sempre più europeo che italiano; o meglio, mi sono sentito italiano in
quanto questa qualità mi dava il modo di affermarmi come europeo […] Ed ora sempre
più sono portato a considerare i diversi problemi con una visuale europea piuttosto che
nazionale. 13

Che Rossi sia giunto prima di Spinelli non solo alla conoscenza della
letteratura federalista, ma anche a intuirne l’attualità storica ha trovato una
conferma nella recente scoperta di una lettera alla madre del 30 aprile 1937,
nella quale egli traccia un elenco in sei punti di argomenti da approfondire
in un saggio sull’unità europea e sul federalismo, che si proponeva di
scrivere:

1) introduzione storica: parallelo tra l’unificazione italiana e l’unificazione europea. In


entrambi i casi l’unificazione avverrà grazie all’azione di un partito che sappia
approfittare dell’occasione favorevole; il popolo svilupperà una coscienza europeista a
seguito della realizzazione della federazione; 2) i termini del problema: l’Europa destina
gran parte delle sue risorse a preparare la guerra, conseguente pericolosa crescita del
potere delle élites militari e dell’accentramento amministrativo; 3) vantaggi della
federazione: maggiori risorse per lo sviluppo, soluzione del problema delle minoranze;
4) ostacoli alla realizzazione dell’Unità: ideologie nazionaliste, ordinamenti
antidemocratici, interessi costituiti; 5) il quadro politico internazionale favorevole nel
dopoguerra per: crollo delle grandi monarchie imperiali, manifesto insuccesso della Sdn
e necessità di trovare soluzioni alternative, favore popolare all’idea federalista,
evoluzione in senso europeista della posizione britannica; 6) il metodo: insufficienza
degli accordi settoriali, inizio federale attorno a un nucleo di paesi latini, aperto a
successive adesioni. 14

La maggior parte di questi argomenti saranno trattati nel Manifesto di


Ventotene e sviluppati più organicamente dall’autore in un saggio, intitolato
Gli Stati Uniti d’Europa e pubblicato nel 1944 durante l’esilio in
Svizzera. 15

Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann dal socialismo al


federalismo
Eugenio Colorni (1909-1944), 16 laureatosi in filosofia all’Università di
Milano nel 1930, insegnò filosofia a Voghera e a Trieste. Nel 1935 aderì al
Partito socialista, dopo essere stato attivo in «Giustizia e libertà». Nel 1937
conobbe Carlo Rosselli a Parigi e, dopo gli arresti dei principali dirigenti
del Partito socialista in Italia, divenne il dirigente di maggior rilievo del
Centro interno socialista. Nel 1938 fu arrestato e, dopo un anno di carcere,
fu assegnato al confino di Ventotene, dove partecipò alle discussioni che
portarono alla redazione del Manifesto di Ventotene. Alla fine del 1941 fu
trasferito a Melfi. Qui, attorno a Colorni, si formò un gruppo di confinati,
comprendente Ada Rossi (la moglie di Ernesto), Franco Venturi e Manlio
Rossi Doria, che aderì al federalismo europeo. Tutti parteciparono alla
fondazione del Movimento federalista europeo a Milano. Evaso da Melfi
nel 1943, Colorni partecipa attivamente alla Resistenza a Roma. È tra i
promotori della ricostruzione del Partito socialista ed è redattore-capo
dell’edizione clandestina dell’«Avanti!». Il 28 maggio 1944, proprio pochi
giorni prima della liberazione di Roma, mentre si recava alla riunione
costitutiva delle Brigate Matteotti, è fermato da una pattuglia di militi
fascisti appartenenti alla banda Koch, che lo feriscono gravemente. Morirà
due giorni dopo.
Nel gennaio del 1944 aveva curato la pubblicazione clandestina del
Manifesto di Ventotene. La prefazione del libro, intitolato Problemi della
Federazione Europea, fu scritta da Colorni. Si tratta di un testo esemplare
per chiarezza e incisività.
Colorni aveva sposato nel 1935 Ursula Hirschmann (1913-1991), 17 una
socialista berlinese, che aveva conosciuto quando si trovava in Germania
per ragioni di studio. Ursula fuggì con il fratello Albert a Parigi nel 1933,
perché sospettati dalla Gestapo di propaganda antinazista. Seguì il marito a
Ventotene e a Melfi, dove svolse una importante attività di collegamento tra
i confinati e il movimento antifascista in Italia e in Europa. Contribuì alla
diffusione del Manifesto di Ventotene, di cui curò la traduzione in tedesco.
Diventerà moglie di Spinelli dopo la morte di Colorni.

La redazione del “Manifesto di Ventotene”


Il Manifesto di Ventotene è il frutto di un dibattito svolto tra Spinelli, Rossi
e Colorni (a questi ultimi Spinelli esprime nelle memorie il proprio debito
intellettuale), 18 con la partecipazione di Ursula Hirschmann, Dino Roberto,
Enrico Giussani, Giorgio Braccialarghe, Arturo Buleghin e Milos Lokar. 19
Ho già detto della formazione politica dei primi quattro. È da ricordare che
Roberto e Giussani erano azionisti, mentre Braccialarghe e Buleghin erano
repubblicani, reduci dalla guerra di Spagna; di Lokar si sa solo che era un
giovane sloveno. Sono questi i membri della «mensa federalista», che si
costituì nel 1942 dopo la partenza dei Colorni da Ventotene. Essa
rappresenta la prima forma di organizzazione federalista distinta da quelle
degli altri raggruppamenti politici, ciascuno dei quali aveva una propria
mensa. Spinelli, divenuto capo-mensa, dovette occuparsi di procurare cibo
per il gruppo federalista, acquistandolo o producendolo: egli fece
l’allevatore di conigli e di polli e coltivò un campo.
L’autore principale del Manifesto è Spinelli, come ha affermato egli
stesso in un’intervista:

Il Manifesto di Ventotene fu scritto da me quasi per intero […] Rossi ha scritto la prima
parte del capitolo III Compiti del dopoguerra. La riforma dello stato fino alla fine del
paragrafo sul corporativismo. Dal capoverso «Il partito rivoluzionario non può essere
dilettantescamente […] ecc.» fino alla fine del Manifesto, è di nuovo scritto da me. Ma
lo abbiamo discusso insieme tutto, e riconosco ancora giri di pensiero caratteristici
dell’uno di noi due nelle parti scritte dall’altro. Colorni non ha avuto parte alla
redazione. Perciò nel pubblicarlo poi in Problemi della Federazione europea egli ha
posto solo le iniziali A.S. e E.R. e non le sue. 20

Come ricorda lo stesso Spinelli, il Manifesto fu scritto nel giugno 1941 e


riformulato, ma senza variazioni sostanziali, nel successivo mese di agosto,
per migliorare la disposizione della materia e adeguare il testo al fatto
politico nuovo dell’ingresso in guerra dell’Unione Sovietica.
La stesura del Manifesto, le sue successive versioni e la sua diffusione
sono avvolte nella leggenda e alcune sue zone restano in ombra e forse non
potranno mai essere illuminate. 21 Non è stata infatti rintracciata nessuna
delle versioni dattiloscritte o ciclostilate del documento, che circolarono tra
il 1941 e il 1943. Così le testimonianze circa il modo in cui il Manifesto
uscì clandestinamente da Ventotene non concordano. Secondo la più
suggestiva, che ha come fonte orale lo stesso Spinelli e risale a circa
cinquant’anni fa – gli anni in cui io, da ragazzo, mi sono iscritto al MFE –
ma che non trova riscontri nel libro di memorie di Spinelli, il testo, scritto
da Ernesto Rossi su cartine di sigarette, fu nascosto nel ventre di un pollo
arrosto e portato sul continente da Ursula Hirschmann. Naturalmente, le
lacune nella conoscenza storica non modificano per nulla il significato
politico del documento e il suo ruolo di punto di riferimento ideale del
federalismo europeo.
La prima edizione a stampa del Manifesto risale al 1943 e rappresenta il
primo dei «Quaderni del Movimento Federalista Europeo». Essa fu curata
probabilmente da Mario Alberto Rollier o da Enrico Giussani, 22 subito dopo
la costituzione del Movimento federalista europeo, avvenuta il 27-28 agosto
1943 a Milano a casa di Rollier. Va notato che certi aspetti del Manifesto
apparivano già superati due anni dopo la stesura del documento, nel
momento in cui si costituì il MFE . In particolare i capitoli dedicati alla
riforma della società in Italia e al partito rivoluzionario non apparivano
convincenti e gli stessi autori sentivano l’esigenza, come ricorda Spinelli, di
«riscriverli da capo a fondo». Di conseguenza, il Manifesto nella riunione di
Milano «non fu discusso e non divenne il manifesto del MFE ». 23
La seconda edizione a stampa fu pubblicata clandestinamente nel 1944 a
Roma, mentre la città era occupata dai tedeschi e Spinelli e Rossi si
trovavano in Svizzera, dove si erano recati per prendere contatto con i
federalisti degli altri paesi europei. È la versione del Manifesto che qui
viene proposta ai lettori. È quella più volte ristampata e approvata anche da
Spinelli. Il curatore di questa edizione è Eugenio Colorni, il quale, come già
ricordato, ha scritto la prefazione, ha riveduto la forma del testo, l’ha
riorganizzato in tre capitoli invece di quattro e ha tagliato alcuni brevi
passaggi. Inoltre ha aggiunto due saggi di Spinelli, scritti tra il 1942 e il
1943, intitolati Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e
Politica marxista e politica federalista, nei quali è approfondita la relazione
tra il pensiero federalista e le grandi ideologie politiche che lo hanno
preceduto. I tagli riguardano essenzialmente due duri giudizi sulla Chiesa
cattolica e sull’Unione Sovietica. Il primo, di stampo anticlericale, era
ispirato certamente da Rossi, che farà di questo tema, come quello della
lotta ai monopoli, un cavallo di battaglia di memorabili polemiche politiche.
Il secondo giudizio fu modificato, tenuto conto che, dopo il patto di non
aggressione Ribbentrop-Molotov, l’Unione Sovietica si era riabilitata agli
occhi degli antifascisti, entrando in guerra contro la Germania. Inoltre si
può ipotizzare che sulla decisione abbia influito l’esigenza di mantenere
buone relazioni con le componenti cattolica e comunista della Resistenza.

Un confronto tra Spinelli e Rossi


L’adesione di Spinelli agli ideali democratici ha una natura diversa da
quella di Rossi. Per quest’ultimo si basa semplicemente sulla tradizione.
Scrive Spinelli di Rossi:

I valori da lui professati li aveva ricevuti dalla tradizione del Risorgimento italiano,
nella quale si era formato, e li aveva sempre considerati suoi senza mai avere
pentimenti, mai dubbi, mai conversioni rispetto ad essi. Sapeva che c’erano nel mondo
molti altri che li condividevano e che perciò si poteva agire con ragionevole probabilità
di vederli più o meno realizzati. Ma che il mondo li accettasse o no, in un certo senso
profondo, non lo riguardava. 24

Parlando di se stesso, Spinelli osserva: «Io non ero figlio della città
democratica, ero un convertito, […] nel cui animo non la tradizione, ma la
mia decisione avrebbe avuto il peso determinante». Egli paragona la natura
del suo impegno politico a quella del

calvinista convinto di essere stato eletto. Mi dissi che la prova del valore di quel che mi
accingevo a fare, e perciò del valore mio, sarebbe stata nei frutti di quel che avrei fatto,
e solo in essi, che perciò avrei dovuto mettere nell’azione una tenacia molto maggiore di
quanta ce ne avrebbe messa chi avesse agito fondandosi sulla tradizione, perché costui
sarebbe comunque stato giustificato dalla sua fede, mentre io lo sarei stato solo dal
successo. E mi rendevo conto di quanto di pericoloso fosse nascosto in questa parola,
perché nel successo avrebbe dovuto essere insito il senso della misura, altrimenti tutto,
ma proprio tutto, sarebbe marcito. Non mi era nel mio piccolo già accaduto? Non stava
accadendo in forme tragiche per l’umanità intera a Hitler? Ma questa risposta da
calvinista era troppo personale e segreta perché ne parlassi ad alcuno. 25
Qui Spinelli affronta il complesso problema della fondazione di un
nuovo pensiero politico e di un nuovo movimento politico, l’esperienza
unica e irripetibile di chi si propone di introdurre nella storia un nuovo
comportamento politico. È una problematica «personale e segreta», a causa
della difficoltà di trasmettere agli altri i lineamenti di un mondo che esiste
solo nella mente del fondatore, del peso della tradizione, cioè delle
istituzioni e degli schemi mentali del passato, che condizionano il presente,
dell’incredulità degli uomini che «non credono», come diceva Machiavelli,
«le cose nuove se non ne veggono nata una ferma esperienza». 26 Di qui la
responsabilità di dimostrare agli altri, attraverso il successo, che un altro
mondo può esistere.
A differenza di Rossi, Spinelli è il fondatore. Rossi è uno dei leaders
politici. Come ha notato Albertini:

Con il leader il fondatore ha in comune il destino di essere solo. Ma un leader è solo in


un mondo che esiste […] L’innovatore, invece, è solo in un mondo che non esiste, che
esiste solo in lui e che giunge all’esistenza per tutti perché egli vuole che sia, e compie
l’atto di farlo esistere. L’innovatore è più di un leader perché è un perenne punto di
riferimento, che non può essere scalfito né dalla morte né dalle sconfitte. 27

C’è nelle memorie di Spinelli un passo, quello con cui si conclude il


capitolo su Ventotene, che deve essere considerato con attenzione. Esso
descrive il ritorno a casa dopo la caduta del fascismo e la liberazione dal
confino. È l’alba del 19 agosto 1943 e Spinelli, uscendo dalla stazione
Termini di Roma, saluta i compagni di prigionia:

Mi congedai idealmente da tutti i compagni di prigione di tutte le tendenze. L’intima


loro fierezza gregaria consisteva nel sapere che ora uno ad uno stavano tutti
raggiungendo il loro posto di battaglia nella loro formazione politica, la quale esisteva,
era ben nota, li aveva attesi e si accingeva ora ad accoglierli festosamente per la loro
fedeltà tenace. La mia solitaria fierezza era di tutt’altra natura, perché nessuna
formazione politica esistente mi attendeva, né si preparava a farmi festa, ad accogliermi
nelle sue file. Sarei stato io a suscitare dal nulla un movimento nuovo e diverso per una
battaglia nuova e diversa – una battaglia che io, ma probabilmente per ora solo io, avevo
deciso di considerare, benché ancora inesistente, più importante di quelle in corso in cui
andavano ad impegnarsi tutti gli altri. Con me non avevo per ora, oltre me stesso, che un
Manifesto, alcune Tesi e tre o quattro amici, i quali attendevano me per sapere se
l’azione della quale avevo con loro tanto parlato sarebbe veramente cominciata. 28

Questa pagina illustra, attraverso la semplice forza evocativa dei fatti,


come prende forma un nuovo comportamento politico. Essa mostra come la
strada di Spinelli si separa da quella degli altri antifascisti e si inoltra in una
regione inesplorata. Ma mostra anche con straordinaria limpidezza il ruolo
insostituibile di Spinelli nell’avvio dell’azione per l’unificazione europea e
ciò che lo distingue da Rossi e dagli altri amici che avevano condiviso la
scelta del federalismo europeo. Mentre Spinelli, il cui nome sta accanto a
quello di Rossi nel frontespizio del Manifesto di Ventotene, è il fondatore
del movimento per l’unità europea, Rossi non è che uno dei seguaci di
Spinelli, che attendeva di sapere da lui se quell’azione sarebbe veramente
cominciata. Di conseguenza, le ragioni dell’impegno federalista di Spinelli
sono molto più profonde e tali da motivare una «scelta di vita».
Ancora più grande è la distanza che ormai separa Spinelli da Einaudi, i
cui scritti di vent’anni prima gli avevano rivelato i primi lineamenti della
teoria federalista. Non si trova nelle opere di Einaudi nessuna proposta
politica per tradurre in realtà il disegno federalista. Una volta che aveva
illustrato la natura dell’obiettivo da perseguire, egli considerava esaurito il
proprio compito. Ma in fondo questo è anche il limite di Rossi. Di fatti, chi
legga il suo più importante saggio sul federalismo europeo, il già citato Gli
Stati Uniti d’Europa, può notare che la magistrale illustrazione delle
motivazioni storiche e politiche dell’unificazione europea non è
accompagnata da nessuna considerazione sull’azione necessaria a
perseguire quell’obiettivo.

Spinelli uomo storico


Un solido punto di riferimento per collocare il problema dell’innovazione
nella cultura politica e filosofica è rappresentato da Hegel, quando parla
degli uomini storico-universali.

Gli individui storico-universali – ha scritto Hegel – sono quelli che hanno detto per
primi ciò che gli uomini vogliono. È difficile sapere ciò che si vuole. Si può certo volere
questo o quello, ma si resta nel negativo e nello scontento: la coscienza dell’affermativo
può benissimo far difetto. Ma quegli individui sanno anche che ciò che vogliono è
l’affermativo. 29

Spinelli apparteneva a questa categoria di uomini. Come tutti gli uomini


storici, egli espresse le tendenze più profonde della nostra epoca e si
identificò a tal punto con esse, che il suo fine individuale coincise con
quello universale dell’insieme dei popoli d’Europa. Il fine che egli perseguì
non era qualcosa di arbitrario, ma corrispondeva ai bisogni di una fase della
storia e apparteneva alle reali possibilità del nostro tempo.
Hegel ci è di aiuto a comprendere quali sono i caratteri del nuovo
quando si presenta nella storia al suo primo apparire:

Esso è solo l’intiero nell’involucro della sua semplicità. [Alla coscienza] manca quel
raffinamento formale, in virtù del quale le differenze vengono con sicurezza determinate
e ordinate nelle loro salde relazioni. 30

La chiarezza sistematica del pensiero arriva sempre quando un ciclo


storico si è concluso. «La filosofia arriva sempre troppo tardi», scrive
Hegel.

Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato e,


dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di
Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo. 31

Ma Spinelli sta all’inizio di una nuova fase della storia. Dunque egli non
poteva che avere una coscienza intuitiva dei problemi della nuova èra.
Come ha osservato Hegel, il

concetto è proprio della filosofia. Ma gli individui storico-universali non sono tenuti a
conoscerlo, perché sono uomini di azione. Al contrario essi conoscono e vogliono la
loro opera, perché essa corrisponde all’epoca. 32

Ed è singolare la corrispondenza tra questo brano di Hegel con una


pagina autobiografica di Spinelli, nella quale si legge: «La federazione
europea non mi si presentava come un’ideologia […] era la risposta che il
mio spirito desideroso di azione politica andava cercando». 33
Il senso dell’intera opera di Spinelli si risolve nell’eroica concentrazione
di tutte le energie su un unico scopo: l’azione per la Federazione europea.
Con Spinelli prendono corpo per la prima volta, anche se sul solo piano
dell’azione politica, i caratteri nuovi del federalismo inteso come
comportamento politico autonomo rispetto a quello delle altre forze
politiche. Si tratta di una posizione che contiene in germe l’idea del
federalismo come ideologia, anche se egli ha sempre rifiutato questa
prospettiva culturale. Lo si vede nella citazione riportata poche righe sopra.
Resta però il fatto che egli ha sviluppato il concetto di autonomia teorico-
pratica del federalismo più a fondo di quanto avesse fatto in precedenza
qualsiasi altro federalista.

Dissensi sul “Manifesto di Ventotene”


A Ventotene si era svolta una discussione sui limiti del pensiero politico
tradizionale e sul futuro dell’Europa, la cui intensità, profondità e fecondità
intellettuale non ha eguali in qualsiasi ambiente accademico dello stesso
periodo. Ventotene è stato un grandioso laboratorio di idee. La grandezza
degli autori del Manifesto sta nell’avere visto, al di là delle apparenze, la
linea evolutiva profonda della storia contemporanea. Nel momento in cui
Hitler dominava l’Europa e dopo avere piegato la Francia muoveva
all’attacco dell’Unione Sovietica, questi uomini, meditando nell’isolamento
del confino sull’assetto che l’Europa e il mondo avrebbero assunto dopo la
tragedia della guerra, ebbero la forza intellettuale di lanciare l’idea degli
Stati Uniti d’Europa.
Gli ottocento confinati rappresentavano una parte importante degli
oppositori al fascismo. Oltre al gruppetto dei federalisti, sono da ricordare
gli azionisti Bauer e Fancello, i socialisti Jacometti e Pertini e i comunisti
Ravera, Scoccimarro, Secchia e Terracini. Ma, come sempre avviene
quando si affacciano nuove idee, queste non sono capite e sono accolte con
indifferenza e ostilità. Di fronte all’aspettativa del crollo del fascismo, tutti
pensavano alla ricostruzione dei vecchi Stati secondo i principi dei rispettivi
partiti. Spinelli ci ricorda che solo quattro o cinque confinati avevano
aderito al federalismo europeo.
Il Manifesto di Ventotene non fu accolto favorevolmente dalla maggior
parte dei confinati, i quali erano così attaccati ai principi del vecchio
pensiero politico che non erano disposti ad accettare che ci fosse qualcuno
che indicasse loro la strada da percorrere. E quando sarà conosciuto sul
continente, la stessa accoglienza riceverà dal movimento antifascista,
ancora legato alla prospettiva statocentrica e impreparato ad attribuire
all’unificazione europea il ruolo di obiettivo prioritario rispetto alle riforme
politiche nazionali.

La crisi dello Stato nazionale


Per introdurre il lettore al Manifesto di Ventotene, può essere utile illustrare
i fondamenti teorici del nuovo movimento politico, che ebbe origine da quel
documento. Cominciamo col prendere in esame la fonte prima del pensiero
politico di Spinelli e di Rossi, il concetto di «crisi dello Stato nazionale»,
che occupa nella teoria federalista il posto centrale che nella teoria liberale
ha il concetto di «crisi della monarchia assoluta» e nella teoria socialista e
comunista ha il concetto di «crisi del capitalismo». Esso permette di
individuare la contraddizione di fondo della nostra epoca, di formulare un
giudizio storico complessivo su di essa e di offrire una interpretazione del
nostro tempo fondata su presupposti teorici nuovi rispetto al pensiero
politico dominante. Finché non maturò la crisi dello Stato nazionale, il
federalismo rimase un’esigenza puramente razionale di una diversa
organizzazione dell’Europa e la prospettiva a partire dalla quale era
possibile individuare i limiti dello Stato nazionale, ma senza alcuna
possibilità di incidere sul processo storico.
Innanzi tutto gli autori del Manifesto di Ventotene non si nascondono il
carattere progressivo dei processi di unificazione nazionale, compiutisi nel
corso del secolo XIX, quando si trattava di fare coincidere la dimensione
dello Stato con quella dei processi produttivi, che, per impulso della
rivoluzione industriale, tendevano a intensificare e a moltiplicare le
relazioni economiche e sociali tra gli individui e a unificarle negli spazi
nazionali, che permettevano di assicurare sviluppo economico e
indipendenza politica.
Tuttavia, lo stesso processo di industrializzazione, che aveva promosso
la formazione degli Stati nazionali, determina la crisi di questi ultimi nel
momento in cui le relazioni economiche e sociali si sviluppano al di là dei
confini nazionali e si affermano processi di integrazione su spazi grandi
come intere regioni del mondo. Nella seconda fase del processo di
industrializzazione la poderosa crescita della quantità di energia disponibile,
grazie all’impiego del motore elettrico e del motore alimentato dal petrolio,
diede uno straordinario impulso alla meccanizzazione della produzione,
all’applicazione di nuove tecniche produttive (linea di produzione e nastro
trasportatore), all’introduzione della produzione in serie. Ma ancora più
straordinaria fu la rivoluzione che interessò i settori dei trasporti
(automobilismo e aeronautica) e delle comunicazioni (radio e telefono), che
ebbe un’importanza cruciale per ciò che riguarda la progressiva contrazione
dello spazio e la crescita dell’interdipendenza tra i popoli e gli Stati. Si
tratta di un processo di cambiamento che ha fatto perdere l’indipendenza
alle nazioni.
Questa tendenza storica, non incontrando ostacoli nei grandi spazi
governati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, ha fatto salire questi
Stati al vertice della gerarchia mondiale del potere. Invece nell’Europa
frammentata in tanti Stati nazionali in conflitto tra loro quella tendenza era
contrastata dai confini politici e militari e dal protezionismo. Qui sta la
radice del declino degli Stati nazionali e dell’esigenza di unità dell’Europa.
Questo punto di vista consentì a Spinelli e a Rossi di approfondire
l’analisi delle cause del nazionalismo, dell’imperialismo e del fascismo, i
cui elementi essenziali erano già presenti nelle opere di Einaudi e
soprattutto di Lord Lothian e di Robbins. 34 Alla base del nazionalismo c’è
la fusione di Stato e nazione. Essa crea una miscela esplosiva, che sviluppa
tendenze autoritarie all’interno dello Stato e aggressive sul piano
internazionale.
La spiegazione dell’aggressività dello Stato è collocata nel contesto della
teoria della ragion di Stato, la quale attribuisce, in ultima istanza, alla
sovranità statale e all’anarchia internazionale la causa dell’imperialismo e
della guerra. E individua le cause più specifiche dell’imperialismo
dell’epoca delle guerre mondiali da un lato nella crisi del sistema europeo
degli Stati, che scatenò la lotta per l’egemonia continentale da parte della
Germania, d’altro lato nel tentativo degli Stati nazionali di indebolire i
vicini con il protezionismo e di allargare lo spazio economico sottoposto al
controllo di ciascuno di loro. In ultima analisi, l’imperialismo europeo della
Germania è l’espressione della spinta delle forze produttive, suscitate dalla
seconda fase del processo di industrializzazione, verso la formazione di un
mercato, di una società e di uno Stato di dimensioni europee.
Per quanto riguarda il fascismo, esso è definito come il punto di arrivo
dell’evoluzione storica dello Stato nazionale, l’espressione delle tendenze
bellicose e autoritarie latenti nella sua struttura chiusa e accentrata e
diventate virulente con l’esasperazione della lotta di potenza in Europa.
L’organizzazione dell’Europa in Stati sovrani nell’epoca delle guerre
mondiali è diventata incompatibile con i principi della libertà e
dell’uguaglianza perseguiti dalle ideologie liberale, democratica e
socialista. Sul piano economico-sociale, il fascismo si configura come la
risposta totalitaria e corporativa al ristagno economico di un mercato, le cui
dimensioni sono inadeguate allo sviluppo delle moderne tecniche
produttive, alla disgregazione della società, degradata a terreno dello
scontro tra interessi corporativi, al bisogno di eliminare ogni divisione
sociale che indebolisse la capacità di difesa dello Stato, e all’esigenza di
adattare il sistema produttivo agli imperativi di un’economia di guerra.

L’influenza del federalismo americano


La seconda fonte del pensiero di Spinelli e Rossi è rappresentata dal
costituzionalismo americano, 35 il quale offre un criterio fondamentale per
stabilire a quale stadio un processo di unificazione tra più Stati raggiunge il
punto di non ritorno. L’esperienza della formazione degli Stati Uniti
d’America rappresenta un esempio della transizione di un sistema di tredici
Stati indipendenti dalla Confederazione alla Federazione e dimostra che,
solo con la Federazione, l’unificazione si consolida e diventa irreversibile.
La Federazione è un nuovo strumento di governo, che serve ad
assicurare l’unità, e di conseguenza una pace permanente, a un insieme di
Stati democratici. Essa costituisce nello stesso tempo una nuova forma di
organizzazione internazionale e una nuova forma di Stato.
In primo luogo, la Federazione rappresenta un’innovazione nel campo
delle organizzazioni internazionali. Come ha scritto Alexander Hamilton,
essa consiste nell’«allargamento dell’orbita entro la quale devono muoversi
[…] i sistemi popolari di governo civile». 36 Infatti, a differenza della
Confederazione, i cui organi centrali sono subordinati agli Stati membri, la
Federazione dà vita a un governo democratico, indipendente nella propria
sfera, che coesiste con i governi degli Stati, pur essi indipendenti nella
propria sfera.
L’esperienza del federalismo americano ha permesso di identificare con
chiarezza il fattore della divisione dell’America del Nord (la sovranità degli
Stati) e il fattore dell’unità (l’attribuzione di un potere limitato, ma reale, al
governo federale). Essa consentì a Einaudi di individuare il limite della
Società delle Nazioni nella mancanza di un potere democratico
indipendente al di sopra degli Stati. Ancora oggi le categorie mutuate
dall’esperienza del costituzionalismo americano permettono di identificare i
due limiti delle organizzazioni internazionali contemporanee: la loro
subordinazione ai governi degli Stati membri e la mancanza di democrazia
nella formazione delle decisioni che si prendono sul piano internazionale.
D’altra parte, il metodo costituente (messo in atto dalla Convenzione di
Filadelfia) rappresenta il modello della soluzione del problema
dell’unificazione politica di un gruppo di Stati democratici, senza violenza e
con il consenso del popolo. Ciò significa che, in una Federazione, l’unità
politica è assicurata da strumenti istituzionali, che imbrigliano i rapporti di
forza tra gli Stati. La pace è mantenuta, attribuendo il monopolio della forza
al governo federale, il potere di fare le leggi al parlamento e la funzione di
giudice imparziale alla Corte suprema.
In secondo luogo, la Federazione è una nuova forma di Stato, che supera
la forma unitaria. Attraverso la divisione territoriale del potere tra governo
federale e Stati federati, istituisce la più forte limitazione del potere statale
finora sperimentata e rappresenta quindi la forma più evoluta di governo
libero. Attraverso l’organizzazione della rappresentanza su più livelli di
governo, permette di estendere la dimensione del governo democratico a
un’intera regione del mondo e, al limite, a tutto il pianeta.
L’esperienza della formazione degli Stati Uniti d’America servì a
Spinelli a chiarire la natura costituzionale del problema dell’unificazione di
un insieme di Stati democratici e a mettere in luce i limiti delle false forme
di unità, come quella che è espressione della semplice cooperazione
internazionale, o delle forme incomplete di unità, che si realizzano con
organizzazioni internazionali come le Comunità europee.
Fin dall’inizio, quando l’unità europea non era che un progetto, cui non
corrispondeva nulla nella realtà storica, Spinelli concepì l’unificazione
dell’Europa come il processo di creazione di uno Stato, sia pure di uno
Stato, come quello federale, nel quale il potere è distribuito su più livelli di
governo. Più specificamente egli aveva ispirato la sua visione dell’unità
europea al modello costituzionale americano. È da sottolineare che i
principi istituzionali sui quali si fondano le Comunità europee si discostano
sostanzialmente da quel modello e che l’evoluzione delle istituzioni europee
ha ancora accresciuto la distanza tra i due modelli. Il regime parlamentare,
nel quale il Parlamento europeo può dare e togliere la fiducia alla
Commissione e il presidente della Commissione è nominato dal Consiglio
europeo, che svolge così il ruolo di Presidenza collegiale dell’Unione (e
non il regime presidenziale), la struttura della Camera degli Stati, cioè il
Consiglio dei ministri, composto dai rappresentanti dei governi degli Stati
(e non eletto direttamente dal popolo), la delega dell’esecuzione della
maggior parte della legislazione dell’Unione alle amministrazioni degli
Stati (e non a un sistema amministrativo dipendente dall’esecutivo
dell’Unione), il superamento del principio dell’organizzazione del potere su
due soli livelli di governo, come mostra l’istituzione del Comitato delle
regioni, che aggiunge un terzo livello di governo a quelli degli Stati e
dell’Unione, la capitale reticolare, nella quale alcune funzioni federali,
come la Banca centrale e la Corte di giustizia, non sono concentrate nella
capitale, il federalismo cooperativo, fondato sulla ricerca di decisioni
congiunte tra i diversi livelli di governo (e non il federalismo competitivo e
dualistico) sono alcuni dei caratteri che avvicinano le istituzioni
dell’Unione europea al modello costituzionale tedesco piuttosto che a
quello americano.
La lezione che si può trarre dall’osservazione dell’evoluzione
istituzionale dell’Unione europea è che si sta delineando una nuova forma
di statualità la cui coesione può essere assicurata da una minore
concentrazione di poteri di qualsiasi formazione federale del passato. La
globalizzazione, l’erosione della sovranità degli Stati, il declino della
politica di potenza e lo sviluppo di una rete sempre più fitta di
organizzazioni internazionali sono fenomeni che configurano una tendenza
generale alla costituzionalizzazione delle relazioni internazionali, di cui
l’Unione europea rappresenta il laboratorio.

I cinque principi della teoria dell’azione federalista


Sul terreno dell’azione politica l’opera di Spinelli assume un significato
veramente innovatore e rappresenta un punto di svolta nella storia del
federalismo. Egli ha sviluppato un nuovo settore del pensiero federalista:
una teoria dell’azione democratica per unificare un insieme di Stati. I
principali orientamenti sui quali ha fondato la sua azione sono: a) l’attualità
della Federazione europea; b) la priorità strategica dell’obiettivo della
Federazione europea rispetto al rinnovamento dello Stato nazionale; c) lo
spostamento del centro della lotta politica dal piano nazionale a quello
internazionale; d) la costruzione di una forza federalista indipendente come
veicolo della battaglia per la Federazione europea; e) l’assemblea
costituente europea come strumento per costruire un potere democratico
europeo.

L’ATTUALITÀ DELLA FEDERAZIONE EUROPEA

L’idea dell’unità europea non è nuova. È da secoli un’aspirazione dei più


grandi intellettuali europei. Da Dante a Kant ha rappresentato l’obiettivo di
quanti hanno sognato un mondo nel quale regnino il diritto e la pace. Ma
quell’obiettivo era situato in un futuro indefinito.
Più recentemente esso è stato messo in relazione con la crisi dello Stato
nazionale. Ne parlano per la prima volta all’epoca della Prima guerra
mondiale Trockij ed Einaudi 37 e in quell’occasione entrambi lanciano la
parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. Ma allora, e fino alla Seconda
guerra mondiale, la storia sbarrava la strada a qualsiasi progetto di unità
dell’Europa. A causa dell’isolamento nel quale si erano ritirati i due super-
Stati – gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica – che rappresentavano i due
potenziali pilastri dell’emergente sistema mondiale degli Stati, il sistema
europeo delle potenze, malgrado la sua profonda decadenza, continuava a
svolgere un ruolo dominante nel mondo. Il problema dell’unità dell’Europa
non poteva che porsi nei termini di una collaborazione tra Stati per
fronteggiare i super-Stati (che presto avrebbero eclissato le potenze
europee) e per mantenere i rispettivi imperi coloniali. Finché la crisi dello
Stato nazionale non raggiunse il punto culminante con la Seconda guerra
mondiale, il federalismo non poté andare al di là della negazione dello Stato
nazionale e rimase spettatore passivo di un movimento storico sottoposto a
leggi sulle quali non poteva ancora incidere.
Ciò che distingue il Manifesto di Ventotene dalla posizione di coloro che,
prima di Spinelli, avevano scelto il federalismo, è il fatto che esso afferma
l’idea dell’«attualità» della Federazione europea. Uso questa espressione,
che Lukàcs 38 impiega per definire la visione della rivoluzione proletaria di
Lenin e per distinguerla da quella degli altri marxisti, allo scopo di
affermare che, secondo Spinelli, non solo è necessario, ma è anche
diventato possibile ricostruire l’Europa su basi federali, per aprire la strada
alla unificazione del mondo.
L’ispirazione politica di Spinelli si basa su un’idea centrale, quella
dell’attualità della Federazione europea, un obiettivo politico che è
diventato possibile nel nuovo contesto storico creato dalla Seconda guerra
mondiale. Spinelli formula la previsione che la guerra avrebbe fatto
maturare le condizioni oggettive dell’unificazione europea. Facendo
evolvere la crisi storica dello Stato nazionale in crisi politica, la guerra
avrebbe aperto la strada all’iniziativa federalista.

L’ideale di una federazione europea, preludio di una federazione mondiale – si legge nel
Manifesto di Ventotene – mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa,
si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a
portata di mano. 39

La Federazione europea, intesa come tappa sulla via della Federazione


mondiale, è perciò l’obiettivo di una battaglia politica immediata e
concreta, guidata da un movimento creato appositamente per condurre
questa battaglia.
La previsione formulata nel Manifesto di Ventotene secondo cui la guerra
si sarebbe conclusa con una crisi di carattere rivoluzionario, che avrebbe
aperto la strada alla Federazione europea, si è dimostrata errata. Altrettanto
infondata è l’ipotesi che la Seconda guerra mondiale si sarebbe conclusa
come la Prima con il ritiro delle due superpotenze in una posizione di
isolamento. È lo stesso Spinelli a riconoscere questi errori. 40 Nel 1941 gli
autori del Manifesto non avevano previsto che il potere di decidere il futuro
dell’Europa sarebbe emigrato a Washington e a Mosca e che l’Europa
sarebbe stata spartita tra due sfere di influenza governate da centri di potere
situati fuori del continente. Di conseguenza, con la fine della guerra non si
sarebbe formato un vuoto di potere che avrebbe spianato la via alla
realizzazione immediata della Federazione europea.
Malgrado ciò, nel secondo dopoguerra la costruzione dell’unità europea
è diventata la linea di fondo della politica estera degli Stati dell’Europa
occidentale, anche se i governi e i partiti, obbedendo alla legge bronzea
della conservazione del potere, hanno contrastato la tendenza a trasferire il
potere a livello europeo. In definitiva, alla luce di quanto è avvenuto dopo
la Seconda guerra mondiale, non si può dire che l’idea dell’attualità della
Federazione europea fosse sbagliata. Semplicemente la sua realizzazione è
stata graduale e tuttora il processo resta incompiuto.

LA PRIORITÀ STRATEGICA DELL’OBIETTIVO DELLA FEDERAZIONE EUROPEA


RISPETTO AL RINNOVAMENTO DELLO STATO NAZIONALE

Ciò che accomuna i partiti, che si ispirano alle ideologie liberale,


democratica, socialista e nazionale, è la priorità che essi attribuiscono al
miglioramento della situazione del loro Stato e la convinzione che la pace
sia la conseguenza automatica dell’affermazione rispettivamente dei
principi della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale e
dell’indipendenza nazionale. La specificità del punto di vista federalistico
consiste nel rovesciamento di quest’ordine di priorità.

Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso
non è che apparenza – si legge nel Manifesto di Ventotene – è la definitiva abolizione
della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani […] Chi voglia proporsi il
problema dell’ordinamento internazionale come quello centrale dell’attuale epoca
storica, e consideri la soluzione di esso come la premessa necessaria per la soluzione di
tutti i problemi istituzionali, economici, sociali che si impongono alla nostra società,
[deve] considerare da questo punto di vista tutte le questioni riguardanti i contrasti
politici interni e l’atteggiamento di ciascun partito, anche riguardo alla tattica e alla
strategia della lotta quotidiana. 41
Chi si occupa solo del rinnovamento nazionale non interviene sulla causa
dei conflitti internazionali, dell’imperialismo e della guerra. A causa
dell’anarchia internazionale, l’indipendenza nazionale tende a convertirsi in
nazionalismo, la libertà tende a essere sacrificata all’esigenza di accentrare
il potere e di privilegiare la sicurezza militare; inoltre più crescono le spese
militari più si riducono le risorse disponibili per la spesa sociale. In altri
termini, la divisione del mondo in Stati sovrani e la priorità che ogni Stato
deve dare alla sicurezza rispetto a ogni altro obiettivo politico mette in luce
la mancanza di autonomia della politica interna. Ciò significa che la riforma
dello Stato è un’illusione, perché quest’ultimo è superato da processi che lo
trascendono. Dunque, «se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale
campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie». 42
Nella misura in cui le forze politiche tradizionali perseguono solo la riforma
dello Stato nazionale, rimangono prigioniere di questa istituzione, ne
subiscono la decadenza e si collocano quindi sul terreno della
conservazione.
Dall’esperienza del federalismo americano Spinelli aveva mutuato l’idea
della priorità della riforma delle istituzioni. La trasformazione degli Stati
nazionali in Stati membri della Federazione europea avrebbe aperto la via
alla formazione di una nuova società pacifica, più libera e più giusta, nella
quale tutti i livelli della vita sociale si sarebbero espressi in modo
autonomo, secondo una ridistribuzione più razionale e più democratica del
potere, dalle cellule di base della società, fino al continente e, in
prospettiva, al mondo intero.
Si tratta di un obiettivo che non può essere realizzato se, prima, non si
porta a termine un compito distruttivo: «l’abbattimento delle sovranità
nazionali». 43 È un’espressione forte, che definisce bene il compito
rivoluzionario, al quale Spinelli dedicò ogni energia dopo la sua
conversione al federalismo. Tuttavia, va ricordato che anche un grande
statista come De Gasperi, il quale più di ogni altro aveva penetrato, anche
grazie all’influenza di Spinelli, il senso profondo della costruzione
dell’unità europea, aveva affermato che, «per unire l’Europa, vi è forse più
da distruggere che da edificare». 44
Il pensiero autenticamente rivoluzionario si distingue per la
consapevolezza dei propri limiti, che consiste in particolare nella rinuncia a
perseguire l’obiettivo della ricostruzione della società dalle fondamenta. I
confini dell’azione rivoluzionaria sono quelli definiti dalle istituzioni
politiche. In altri termini, l’iniziativa rivoluzionaria non può perseguire altra
finalità che quella di abbattere le istituzioni politiche che intralciano lo
sviluppo della società e ostacolano il processo storico, e di creare nuove
istituzioni capaci di liberare le tendenze maturate nella società verso forme
più elevate di convivenza politica. Unire l’Europa, significa innanzi tutto
liberare le nazioni da una cattiva organizzazione del potere e i governi
nazionali dal peso schiacciante derivante dalla concentrazione di tutti i
poteri nelle loro mani.
Dall’esperienza comunista Spinelli aveva appreso che

la vera e seria azione politica è sempre una lotta per il potere; anche quando si leva
contro un potere, vuole in realtà solo sostituirgliene un altro. L’osservazione fredda e
distaccata del corso degli avvenimenti mi mostrava […] che non c’era altro potere
fuorché quello dello Stato nazionale, e che questo, con le sue esigenze e la sua logica,
era nella nostra epoca in Europa, salvo pochissime eccezioni, il fondamentale nemico
della libertà. 45

Lo Stato nazionale è restato, anche dopo la Seconda guerra mondiale,


l’unico centro di potere indipendente. Ad esso sono subordinati tutti gli altri
livelli di vita sociale infranazionali (regioni, province, comuni ecc.) e
internazionali (Comunità europea, ONU ecc.). La crisi dello Stato nazionale
avrebbe aperto, secondo gli autori del Manifesto di Ventotene, uno spazio
all’azione federalista per determinare una ridistribuzione del potere verso
l’alto e verso il basso. Ma va precisato che, secondo Spinelli, il
trasferimento del potere a livello europeo avrebbe liberato gli Stati
nazionali dalle responsabilità di politica estera ed economica che li
schiacciavano, rendendo, di conseguenza, possibile anche il trasferimento
del potere verso le comunità territoriali più piccole. 46 In altri termini, il
trasferimento del potere a livello europeo rappresenta l’obiettivo prioritario.
Invece la trasformazione degli Stati in senso federale, considerata come
obiettivo principale, non è che una delle ricorrenti illusioni del riformismo
nazionale.
Ciò che caratterizza il federalismo di Spinelli e lo differenzia da quello
«utopistico» sta proprio nel fatto che egli ritiene impossibile avviare la
realizzazione del disegno federalistico senza aver abbattuto prima le
sovranità nazionali. Spinelli combatte quella corrente del pensiero
federalista, il cosiddetto «federalismo integrale», che fa capo ad Alexandre
Marc, 47 Denis de Rougemont 48 e Adriano Olivetti 49 e si distingue per una
concezione non solo istituzionale, ma anche economica, sociale e filosofica
del federalismo. Il concetto di crisi dello Stato nazionale, sul quale si fonda
il federalismo di Spinelli, è diverso da quello di «crisi della civiltà»,
adottato dai federalisti integrali, il cui progetto politico consiste nella
riforma globale della società. In altri termini, l’alternativa federalista è
concepita come il capovolgimento totale della realtà sociale che combatte.
È una posizione che si limita alla semplice negazione, all’astratto rifiuto
della società esistente e a contrapporre meccanicamente l’utopia alla realtà.
Di conseguenza, i federalisti integrali hanno sostenuto che la lotta per
cambiare le istituzioni politiche è insufficiente e hanno insinuato il dubbio
che il risultato della Federazione europea non sarebbe stato necessariamente
una società più libera e più giusta.
In polemica con questa posizione Spinelli condannò «la vana pretesa
[…] di mettersi al posto della provvidenza e tentare di definire quel che sarà
in tutti i suoi aspetti la federazione». E nello stesso tempo osservò che «le
battaglie politiche non si vincono se si pretende di battersi su tutti i
numerosissimi punti, nei quali si sa che dei cambiamenti dovranno
avvenire. Occorre comprendere» egli aggiunse, «quale sia il punto decisivo
e concentrarsi tutti per riportare la vittoria lì, poiché, se si vince lì, il resto
verrà da sé come conseguenza». 50
A causa di questo atteggiamento politico, i federalisti integrali non
profusero un impegno adeguato nel perseguire l’obiettivo della Federazione
europea e trascurarono la questione dei rapporti di potere che occorre
modificare, per fare trionfare il progetto federalista. Di fatto essi finirono
col subire la politica di unificazione europea promossa dai governi, la quale,
per definizione, non mette in discussione le sovranità nazionali. Si tratta di
un atteggiamento politico ancora largamente diffuso, che non imputa
all’organizzazione federalista la responsabilità della costruzione dell’unità
europea, ma si aspetta, in definitiva, questo risultato dai poteri costituiti. È
questo un tratto comune con il socialismo utopistico, che si aspettava il
cambiamento sociale dalle classi dominanti. In fondo, vale per il
federalismo integrale la stessa critica che Marx ed Engels rivolsero al
«socialismo utopistico». A proposito dei fondatori del socialismo, Engels ha
scritto:

La soluzione del problema sociale […] doveva essere creata dal cervello. La società
offriva unicamente delle incongruenze; eliminare queste incongruenze era il compito
della ragione ragionante. Si trattava di escogitare un nuovo più perfetto ordinamento
sociale, e di introdurlo nella società dal di fuori, con la propaganda e, ove possibile, con
l’aiuto di esperimenti. 51

LO SPOSTAMENTO DEL CENTRO DELLA LOTTA POLITICA DAL PIANO NAZIONALE A


QUELLO INTERNAZIONALE

La principale difficoltà che incontra la strategia federalista consiste nel fatto


che non mira a controllare nessuno dei poteri costituiti. Ciò non significa
che i federalisti non partecipino alla lotta politica. Vi partecipano, ma per
costruire nuove istituzioni e nuovi poteri sul piano internazionale.
Ne deriva quindi l’esigenza di spostare il centro della lotta politica dal
piano nazionale a quello internazionale e di affermare una nuova linea di
divisione tra le forze del progresso e quelle della conservazione:

La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari – si legge nel Manifesto di
Ventotene – cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore
democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale
nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta
quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure
involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava
incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie
assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato
internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche
conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per
realizzare l’unità internazionale. 52

Nell’epoca dell’internazionalizzazione del processo produttivo e della


crisi dello Stato nazionale, lo scontro tra le forze del progresso e quelle
della conservazione non si svolge più sul terreno nazionale tra i principi
della libertà e della dittatura o tra quelli del socialismo e del capitalismo.
Chi sceglie di impegnarsi sul piano nazionale, anche se il suo obiettivo è di
realizzare più democrazia o più socialismo, si pone sul terreno della
conservazione, perché la sua azione politica legittima e consolida gli Stati
nazionali. Per il federalismo è ancora più evidente che per le altre correnti
politiche che non c’è possibilità di realizzazione in un solo paese. Di
conseguenza, l’obiettivo da perseguire innanzi tutto da parte di chi vuole
promuovere il progresso è l’impegno per superare la divisione dell’Europa
(e del mondo) in Stati sovrani. L’epoca sovrannazionale della storia fa
emergere una nuova linea di divisione tra le forze politiche e sociali: quella
tra nazionalismo e federalismo.

LA COSTRUZIONE DI UNA FORZA FEDERALISTA INDIPENDENTE COME VEICOLO


DELLA BATTAGLIA PER LA FEDERAZIONE EUROPEA

Il veicolo del progetto federalista è una forza politica indipendente. Senza


questa forza, quel progetto sarebbe rimasto confinato nel mondo dei sogni.
La teoria dell’azione di Spinelli cerca di risolvere il problema della
transizione dell’Europa dalla divisione all’unità, una transizione che non
comporta soltanto che si identifichi un obiettivo da raggiungere, ma anche
un punto di partenza, cioè un terreno sul quale poggiare saldamente i piedi e
una leva, che, come quella di Archimede, costituisce lo strumento per
spostare il mondo.
C’è una citazione, tratta dal Principe di Machiavelli, che descrive la
strategia di coloro che vogliono «introdurre nuovi ordini», vale a dire la
strategia rivoluzionaria. Spinelli la usava spesso per illustrare la natura e i
compiti del Movimento federalista europeo.

E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire,
né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo
introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi
defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce,
parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità
delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una
ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono nimici hanno
occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri defendano tepidamente; in
modo che insieme con loro si periclita.
È necessario per tanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi
innovatori stiano per loro medesimi, o se dependano da altri; ciò è, se per condurre
l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso capitano
sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma, quando dependono da loro proprii e
possono forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che tutt’i profeti
armati vinsono, e li disarmati ruinorno. 53

La lezione che si può trarre da questo passo di Machiavelli è che c’è una
forza che dipende dai poteri costituiti (la forza dei governi e dei partiti) e
c’è una forza che dipende dalla crisi di quei poteri (la forza federalista, che
è espressione del bisogno di superare lo Stato-nazione e di sostituirlo con la
Federazione europea); la forza federalista può prevalere a condizione che
sia indipendente, non si limiti cioè a pregare, ma sia capace di forzare.
Nel Manifesto di Ventotene si legge a questo proposito:

Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami
fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin
d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far
nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta
da secoli in Europa: […] un saldo stato federale. 54

Nella conclusione del Manifesto c’è un appello a costituire un partito


rivoluzionario. È una scelta che risente ancora del condizionamento delle
grandi ideologie del passato, che hanno usato il partito come veicolo per
realizzare i loro obiettivi politici, e in particolare del leninismo, che Spinelli
non aveva ancora pienamente superato. E inoltre è una scelta influenzata
dal quadro politico nazionale, che è considerato come l’unico possibile
contesto dell’azione politica. Considerato che il partito è uno strumento per
la conquista del potere, esso è chiaramente inutilizzabile per perseguire
obiettivi politici sul piano internazionale, dove, a quell’epoca, non
esistevano istituzioni democratiche organizzate, come è per esempio oggi il
Parlamento europeo.
È un errore di prospettiva che fu subito corretto. Infatti, il 27-28 agosto,
quando, dopo la caduta del fascismo, fu fondato il Movimento federalista
europeo, Spinelli disse:
Non vogliamo un partito federalista […] A noi interessa far notare che l’ideologia
federalista non trova ostacoli negli altri partiti. Siamo un movimento che non entra in
concorrenza con gli altri partiti, ma che chiede a tutti di far risaltare l’importanza
dell’idea federalista. 55

Da allora, il Movimento federalista europeo ha sempre mantenuto il


carattere di movimento trasversale, che raccoglie adesioni in quasi tutti i
partiti, con l’esclusione cioè dei partiti nazionalisti. In altre parole, la linea
di divisione di Ventotene attraversa i partiti e tende a raggruppare gli
europeisti presenti in tutti i partiti.
Per mostrare quanto difficile sia stata questa scelta, è da ricordare che gli
altri due autori del Manifesto, Rossi e Colorni, si impegnarono
rispettivamente nel Partito d’azione e nel Partito socialista e invitarono
Spinelli a fare altrettanto. Spinelli rifiutò sulla base di questa
considerazione:

Avevo deciso che sarei rimasto fuori di ogni partito, impegnato solo nel MFE […] Avrei
potuto forse agire in modo più efficace poggiando su un movimento autonomo e
conservando una piena libertà di azione rispetto a qualsiasi partito. 56

In realtà, lo stesso Spinelli non rimase del tutto immune dagli


allettamenti del potere nazionale, perché contravvenne due volte (si tratta
del Partito d’azione e del Movimento di democrazia repubblicana), per
breve tempo, alla regola che si era dato, ma considerò un errore quella
scelta: «In entrambi i casi», egli nota nelle memorie, «giunsi abbastanza
rapidamente a considerare negative entrambe le esperienze e a chiuderle
senza esitazione e senza rammarico». 57
È da segnalare che dopo la guerra, poiché la divisione del mondo in
blocchi sembrava avere chiuso le prospettive di azione per l’unità europea,
Spinelli cessò di occuparsi del MFE e scelse l’impegno politico in seno al
Partito d’azione. Fu così che egli disertò il primo Congresso del MFE
(1946), nel corso del quale fu approvato lo statuto e furono eletti i dirigenti
dell’organizzazione. È vero che Spinelli riprese la guida del Movimento
quando fu lanciato il Piano Marshall (1948), perché aveva capito che gli
Stati Uniti intendevano promuovere l’unificazione europea e che ciò
avrebbe aperto nuove prospettive per il progetto federalista. Tuttavia,
quando nelle memorie egli traccia un bilancio della sua attività, riconosce i
meriti di coloro che «con un’azione modesta, ma tenace» avevano tenuto in
piedi il Movimento in quegli anni difficili e avevano consentito di riavviare
l’azione quando ne maturarono le condizioni senza che fosse necessario
«ricominciare dal nulla». 58
Spinelli e Rossi avevano maturato la convinzione che i movimenti di
resistenza in tutta Europa avrebbero tratto la stessa lezione dalla guerra e
avrebbero quindi elaborato progetti simili per la riorganizzazione
dell’Europa in termini unitari. La liberazione dal confino, dopo la caduta di
Mussolini, permette ai due autori del Manifesto di Ventotene di espatriare in
Svizzera nell’autunno 1943 subito dopo aver fondato il Movimento
federalista europeo in Italia. Qui, riuscirono a entrare in contatto con gli
altri movimenti di resistenza. I federalisti erano accomunati da un unico
fine, che non poteva essere perseguito se essi fossero rimasti divisi entro le
mura delle nazioni. Il primo imperativo era dunque quello di cercare un
collegamento.
Il programma di Ventotene si impose come la concezione più radicale,
ma anche la più matura e profonda del problema dell’unità europea. Esso
ispirò la dichiarazione dei combattenti della Resistenza 59 di nove paesi del
luglio 1944, che fu diffusa tra i movimenti di resistenza di tutta Europa. Il
documento enuncia in modo netto l’esigenza di abbandonare il dogma della
sovranità nazionale e definisce la Federazione europea come la condizione
di ogni progresso. Il convegno fu il primo passo sulla via
dell’organizzazione di un movimento federalista sul piano europeo, che
avverrà nel 1946. Questo movimento (l’«Unione europea dei federalisti»)
fu lo strumento necessario a oltrepassare i limiti degli Stati nazionali, nei
quali la lotta politica era rimasta confinata.
La lotta federalista non impiega gli strumenti e le procedure della
politica normale (i partiti e i governi), perché il suo obiettivo non è
conquistare un potere già esistente, ma crearne uno nuovo. L’ostacolo da
superare è la resistenza che oppongono i detentori della sovranità nazionale
al trasferimento del potere sul piano europeo, anche se non è possibile
progredire sulla via della Federazione europea senza il consenso dei
governi. Di qui, la necessità di usare uno strumento politico, come il
Movimento federalista, non direttamente impegnato nella lotta politica
nazionale, per spingere i governi alla cessione di una parte del loro potere
quando si fosse presentata l’occasione favorevole.

L’ASSEMBLEA COSTITUENTE EUROPEA COME STRUMENTO PER COSTRUIRE UN


POTERE DEMOCRATICO EUROPEO

Il problema politico di Spinelli non è nuovo: è l’unificazione politica di un


insieme di Stati. Si tratta dell’impresa politica più difficile. Come mise in
evidenza Machiavelli nel Principe, la fondazione di un nuovo Stato riesce
solo quando è guidata da «profeti armati». 60 Spinelli, invece, è un leader
politico diverso dai grandi fondatori di Stati del passato, la cui attività
specifica era la guerra. «La guerra […] è sola arte che si espetta a chi
comanda» aveva osservato in modo pertinente Machiavelli. 61
Con Spinelli appare nella storia una figura di leader politico affatto
nuova e adeguata all’èra di rivoluzione democratica nella quale viviamo.
Egli progetta un’azione democratica, che ha lo scopo di unificare l’Europa.
In altre parole, questo obiettivo consiste nel creare un nuovo potere, che si
deve formare per libera scelta dei popoli ed essere capace di disarmare le
nazioni. Egli fu affascinato dal precedente storico della formazione degli
Stati Uniti d’America, il primo esempio di uno Stato nato da un processo
democratico e, più precisamente, da un patto federale.
Nella prima pagina dei Federalist Papers, il più vecchio commento della
Costituzione degli Stati Uniti e la prima formulazione della teoria delle
istituzioni federali, Alexander Hamilton così definisce il significato della
scelta costituzionale di fronte alla quale si trovavano i popoli della costa
orientale dell’America del Nord:

Si è più volte notato come il popolo di questo paese sembri quasi destinato a risolvere,
col proprio comportamento ed esempio, l’importante quesito se le società umane siano o
meno capaci di darsi, per propria scelta e attraverso matura riflessione, un buon
governo, o se esse non siano invece condannate a far dipendere dal caso o dall’uso della
forza le proprie costituzioni politiche. 62

Fino allora, la fondazione degli Stati era stata il frutto del «caso» e della
«forza». Ma in America, all’alba dell’èra democratica, si era manifestata
per la prima volta la possibilità di fondare uno Stato sulla base della
«riflessione» e di una libera «scelta».
Guidato dallo spirito dei padri fondatori degli Stati Uniti, Spinelli
progetta un’azione politica che, partendo dalla consapevolezza di un nuovo
problema, ne indaga sistematicamente tutti i lati, sottopone alla critica della
ragione i fini da perseguire e i mezzi da impiegare, allo scopo di intervenire
sull’evoluzione del processo storico per indirizzarlo verso fini razionali e
liberamente scelti.
Poiché il Manifesto di Ventotene è influenzato dalla previsione che
l’Europa del dopoguerra sarebbe stata investita da una crisi rivoluzionaria,
non vi si trova nessuna indicazione circa il metodo per raggiungere
l’obiettivo della Federazione europea. Finita la guerra, mentre i governi
ricostruivano gli Stati nazionali, ma nello stesso tempo promuovevano
l’integrazione europea con gli strumenti della politica estera, Spinelli avviò
la lotta democratica, di carattere costituente, per l’unità europea. Negli
scritti di Spinelli la prima enunciazione del metodo costituente, inteso come
alternativa ai negoziati diplomatici, risale al 1945. 63 Il concetto sarà
elaborato in termini più precisi negli anni successivi. Sulla base
dell’esperienza della formazione degli Stati Uniti e nel solco di
un’intuizione di Carlo Rosselli, 64 Spinelli si convinse che il metodo
costituente era la sola procedura possibile per portare a conclusione la
costruzione di un potere democratico europeo. Da una parte, un’assemblea
costituente europea, rappresentativa dell’insieme dei popoli e delle forze
politiche europee, è l’unico organo capace di agire con la forza della
legittimazione che gli deriva dal voto ed è quindi dotata dell’autorità
necessaria a elaborare e a proporre la Costituzione. D’altra parte, in
un’assemblea democratica, le decisioni sono prese pubblicamente e a
maggioranza, cioè in base a procedure che permettono di identificare in
modo chiaro le responsabilità e di giungere a decisioni democratiche ed
efficaci: il contrario del metodo diplomatico, che si fonda sul principio delle
decisioni in segreto e all’unanimità, esige che sia rispettata l’intangibilità
delle sovranità nazionali, impone compromessi che tengano conto degli
interessi di tutti gli Stati.
Le Convenzioni che hanno elaborato la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea nel 2000 e la Costituzione europea nel 2002-2003
rappresentano una conferma dell’esigenza, sottolineata da Spinelli, di
sottrarre il monopolio del potere costituente alle conferenze
intergovernative. Che le suddette Convenzioni fossero composte da
rappresentanti dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, oltre che
dei governi e della Commissione europea, costituisce un passo significativo
verso l’associazione dei rappresentanti del popolo al processo di riforma
delle istituzioni dell’Unione europea. Ed è anche il riconoscimento del fatto
che le conferenze diplomatiche non sono organi adatti a elaborare
documenti costituzionali in un mondo nel quale la democrazia si sta
imponendo progressivamente anche in regioni che non l’avevano mai
conosciuta.

Il federalismo come nuovo paradigma della politica


Il federalismo si presenta come un nuovo paradigma, che permette di
riorientare il modo in cui si guarda al mondo della politica. Esso segna il
superamento della vecchia concezione statocentrica della politica, secondo
la quale lo Stato nazionale è il centro dell’universo politico e il mondo
intero ruota attorno ad esso. Tutta l’opera di Spinelli è espressione
dell’esigenza di abbandonare il paradigma statocentrico, con il quale la
cultura dominante interpreta la realtà politica. Chi continua a usarlo, in
un’Europa e in un mondo sempre più strettamente interdipendenti, resta
prigioniero di una prospettiva limitata e ristretta.
L’interdipendenza tra gli Stati e tra i popoli dell’Europa e del mondo
amplia continuamente il numero dei problemi che non hanno una soluzione
(o non possono avere una buona soluzione) sul piano nazionale. Lo
sviluppo del fenomeno delle organizzazioni internazionali è la risposta a
questo problema. Ed è espressione della tendenza a superare la separazione
tra politica interna e politica internazionale. Nella realtà politica della
società contemporanea ci sono forti ragioni che spingono a considerare il
mondo come un sistema. Il federalismo è certamente espressione di questa
tendenza. Esso propone una forma di organizzazione della società, che
permette di eliminare i rapporti di forza dalla politica, attraverso
l’estensione del diritto e della democrazia alla politica internazionale, cioè a
quella sfera della vita politica che è ancora il terreno dello scontro
diplomatico e militare tra gli Stati. Poiché è uno strumento pratico, che
consente di trasformare progressivamente la politica internazionale in
politica interna, è anche uno strumento teorico, che permette di superare la
divisione tra due scienze della politica, quella che studia lo Stato (la scienza
politica) e quella che studia la politica internazionale (le relazioni
internazionali), e consente di studiare la politica nella sua unità.
Spinelli ha usato come epigrafe 65 dei suoi libri questa frase di
Tocqueville, che in qualche modo riassume il significato innovatore che egli
attribuiva alla propria opera:

Il faut une science politique nouvelle à un monde tout nouveau. Mais c’est à quoi nous
ne songeons guère: placés au milieu d’un fleuve rapide, nous fixons obstinément les
yeux vers quelques débris qu’on aperçoit encore sur le rivage, tandis que le courant nous
entraîne et nous pousse à reculons vers des abîmes. 66

Rispetto al pensiero politico tradizionale il federalismo si presenta come


un’autentica «rivoluzione scientifica». Questa espressione è presa a prestito
dal libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn. 67
Secondo questo autore, la ricerca scientifica si sviluppa nell’ambito di
«paradigmi» che definiscono i problemi e i metodi di un determinato settore
di ricerca, cui fanno capo i cultori di ogni disciplina scientifica. La storia
della scienza rivela che la comunità degli scienziati condivide un
determinato approccio fatto di teorie e di metodi, che permette di risolvere i
problemi scientifici e di offrire una spiegazione soddisfacente del settore
della realtà studiato dalle singole discipline scientifiche. Questi paradigmi
sono codificati nei manuali, sono illustrati nelle lezioni universitarie e
costituiscono una guida negli esperimenti di laboratorio e più in generale un
criterio di selezione dei dati quando si osserva la realtà. Quella che Kuhn
chiama «scienza normale» è quell’attività che si muove nell’ambito di
determinati paradigmi che rappresentano la guida per esplorare quella
porzione di realtà che è oggetto delle singole scienze.
Le procedure normali utilizzate dalle scienze entrano in crisi quando un
numero crescente di problemi non ha più soluzione nell’ambito del
paradigma dominante.

La crisi, generando in continuità nuove versioni del paradigma, allenta le regole che
governano la soluzione dei problemi all’interno della scienza normale, ed in tal modo
permette alla fine l’emergere di un nuovo paradigma. 68

È quanto sta avvenendo oggi nel campo della scienza politica con
l’integrazione europea, la globalizzazione e la crisi dello Stato sovrano.
Al centro del libro di Kuhn c’è l’idea che il progresso della scienza non
avvenga secondo un lento processo cumulativo che si avvicina sempre più a
una visione oggettiva della realtà, ma attraverso brusche rotture di
continuità (le rivoluzioni scientifiche). Il sapere di ieri (la scienza normale)
si rivela d’un tratto obsoleto e un nuovo sapere, che maturava in modo
sotterraneo, prende il suo posto. È quanto è avvenuto in astronomia, quando
la teoria eliocentrica di Niccolò Copernico soppiantò quella geocentrica di
Tolomeo, in biologia, quando la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin
sconvolse la concezione di origine biblica della creazione delle specie
viventi e della loro immutabilità, in psicologia, quando l’invenzione della
psicoanalisi da parte di Sigmund Freud rivoluzionò, con la scoperta del
ruolo dell’inconscio, la visione tradizionale del comportamento umano, in
politica, quando Altiero Spinelli denunciò non solo la crisi, ma anche
l’illegittimità, degli Stati nazionali e progettò un piano di azione per la
Federazione europea.
Lo studio della storia della scienza, e in particolare delle rivoluzioni
scientifiche, mostra che, se è vero che i paradigmi forniscono una
spiegazione della realtà, è anche vero che nascondono una parte della realtà.
Quando si scoprono dei fatti che non possono essere spiegati dal paradigma
dominante, questo deve essere abbandonato, perché si è trasformato in un
ostacolo alla comprensione e alla spiegazione della realtà. È quanto è
avvenuto al paradigma statocentrico per quanto riguarda lo studio della
politica.
Il cambiamento avviene ad opera di studiosi che riescono a guardare il
mondo dal di fuori degli schemi forniti dai paradigmi della scienza normale,
utilizzando una lente teorica nuova. La crisi di un paradigma non è mai
capita dalla comunità scientifica, che è legata agli schemi della scienza
normale. Le rivoluzioni scientifiche maturano sempre fuori dalle università,
cioè dai luoghi istituzionali destinati alla trasmissione del sapere. Copernico
definì la sua teoria nella solitudine di una torre, Darwin nella sua casa del
Kent, Freud nel suo studio medico di Vienna, Spinelli nel confino di
Ventotene. L’inventore di nuove teorie è in definitiva un outsider.
Questa osservazione è particolarmente appropriata per descrivere la
formazione di nuovi modelli di pensiero politico, i quali si affermano
sempre al di fuori delle organizzazioni del potere costituito e con la loro
ostilità. Ed è un’ostilità che accomuna le forze di governo a quelle di
opposizione, come mostra il dissenso con cui fu accolto il Manifesto di
Ventotene dagli ambienti antifascisti.
Le comunità degli scienziati contrastano sempre le rivoluzioni
scientifiche, perché queste sovvertono gli schemi tradizionali sui quali
riposano la scienza normale e il potere degli scienziati. I paradigmi non
sono infatti solo criteri di conoscenza, ma anche di selezione di coloro che
aspirano ad accedere alla comunità scientifica. D’altra parte, all’inizio, il
nuovo paradigma non sa dare una risposta a molti problemi e non si impone
mai con la forza dell’evidenza scientifica, ma si fonda in gran parte su
un’intuizione. Questa permette di vedere ciò che non può essere percepito
adottando un paradigma superato, ma ha i limiti di un pensiero che ha
definito solo il proprio orientamento generale e non ha ancora precisato i
propri caratteri specifici.
Questi sono i limiti del pensiero di Spinelli e sono connaturati con il suo
ruolo di fondatore di un nuovo movimento politico.

Il federalismo di Spinelli: un disegno incompiuto


L’affermazione di una prima forma di federalismo nell’America del Nord
ebbe solo carattere istituzionale e dimensione regionale. Gli Stati Uniti sono
infatti una Federazione parziale, che ha abolito la guerra solo entro i propri
confini. Sono quindi una Federazione imperfetta, che ha una ragion di
Stato. È un’imperfezione che dipende dal fatto che, finora, le istituzioni
federali si sono affermate solo in alcune parti del mondo, e non in tutto il
mondo, e in alcuni livelli di governo, e non in tutti, con l’esclusione di
quello mondiale (ONU ), che è decisivo per rendere la pace un’acquisizione
irreversibile. Tutte le Federazioni esistenti devono provvedere alla loro
sicurezza, hanno il potere di fare la guerra e le tensioni internazionali si
ripercuotono sulle loro istituzioni, alimentando spinte verso la
centralizzazione del potere, l’autoritarismo, il nazionalismo e il militarismo.
Sotto questo profilo è emblematica la parabola del federalismo negli Stati
Uniti. Essi sono oggi l’ultima superpotenza che persegue un disegno di
dominio mondiale. E sono l’esempio vivente dei limiti che rivela il
federalismo, se realizzato in un solo paese, e più precisamente della
degenerazione che subisce il progetto federalista quando una Federazione si
spinge sulla strada della politica di potenza.
Resta il fatto che, dovunque siano state create istituzioni federali, gli
Stati membri hanno perso il potere di fare la guerra e le relazioni
internazionali hanno perso la loro natura violenta. Infatti le istituzioni
federali hanno permesso di chiudere i canali attraverso i quali si sprigiona la
violenza e i rapporti di forza tra gli Stati si sono trasformati in relazioni
giuridiche. In altre parole, la ragion di Stato, che è il prodotto della
divisione del mondo in Stati sovrani, ha cessato di operare quando sia stata
imbrigliata dalle istituzioni federali. È merito di Kant avere definito il fine
ultimo del federalismo: il governo mondiale, dotato del potere di «mettere
fine a tutte le guerre e per sempre» e di realizzare la «pace perpetua». 69
I Federalist Papers, il primo commento della Costituzione degli Stati
Uniti, che contiene le linee generali della teoria delle istituzioni federali,
presentano queste istituzioni come lo strumento per risolvere i problemi
politici degli americani. La pace universale e il cosmopolitismo erano scelte
possibili sul solo piano della ragione, ma non su quello dell’azione politica.
I fondatori degli Stati Uniti concepirono la Costituzione come il mezzo per
assicurare la pace e la libertà agli abitanti dell’America del Nord attraverso
l’isolazionismo, cioè una forma attenuata di nazionalismo.
Tutte le altre Federazioni che si sono formate nei secoli successivi
avevano l’obiettivo di creare un nuovo Stato sovrano di grandi dimensioni
e/o di carattere multinazionale (Canada, Svizzera ecc.) oppure di
ridistribuire il potere all’interno di uno Stato sovrano preesistente
(Germania, Belgio ecc.). Resta il fatto che tutte avevano due caratteristiche
che le rendevano omogenee al modello americano. Da una parte, nelle
Federazioni finora esistite le comunità federate non hanno avuto la natura di
Stati. Infatti hanno il nome di cantoni, province, regioni o paesi e anche nei
casi in cui sono chiamate Stati (Stati Uniti, Australia e India) si tratta di una
finzione cui non corrisponde la sostanza di comunità sovrane e indipendenti
che hanno sperimentato una esistenza realmente autonoma nel sistema degli
Stati.
D’altra parte, la divisione del genere umano in Stati sovrani si presentava
come un fatto ineluttabile. Tutte le Federazioni finora esistite hanno creato
uno Stato sovrano in un mondo diviso in Stati sovrani. Le prime forme di
governo federale appartengono alla stessa fase della storia nella quale si
sono formati gli Stati nazionali e ne condividono la logica di divisione e di
antagonismo. Esse non hanno messo in discussione il principio della
divisione del genere umano in Stati antagonistici, ma l’hanno accettata
come un fatto inevitabile. Collocandosi sul versante della divisione
dell’umanità, la forma di unità politica che hanno realizzato non si distingue
sostanzialmente da quella degli Stati unitari decentrati. A conferma di
questa tesi, è da ricordare che un noto politologo americano, Martin S.
Lipset, ha sostenuto che la formazione degli Stati Uniti d’America
rappresenta il primo episodio del movimento di liberazione nazionale dei
popoli sottoposti alla dominazione coloniale delle grandi potenze europee. 70
La Seconda guerra mondiale rappresenta uno spartiacque nella storia: la
fine dell’ordine di Westfalia, di un ordine basato su Stati sovrani che non
riconoscevano nessuna autorità superiore. Da allora il mondo è entrato
nell’èra delle organizzazioni internazionali, un mondo caratterizzato
dall’esigenza di fondare l’ordine internazionale su istituzioni che
assoggettino gli Stati al rispetto del diritto. In questo nuovo contesto storico
il federalismo si presenta come il progetto politico più radicale, perché,
rispetto alle formule più deboli della cooperazione e dell’organizzazione
internazionale, propone l’istituzione di un livello di governo
soprannazionale indipendente, ma coordinato con i livelli inferiori di
governo, e l’estensione della democrazia sul piano internazionale. Nello
stesso tempo esso pretende di essere un’alternativa politica attuale, perché
la crisi dello Stato in Europa apre la via alla costruzione di una Federazione
di Stati nazionali, la quale deve essere intesa – lo si legge nel Manifesto di
Ventotene – come il primo passo sulla via della Federazione mondiale.
Il tentativo di superare lo Stato nazionale – il modello dello Stato
totalmente sovrano e indipendente, che è espressione della più forte
concentrazione del potere e della più profonda divisione politica che
l’umanità abbia conosciuto – e di trovare una forma di organizzazione
politica che assicuri l’unità nella diversità agli Stati nazionali conferisce al
federalismo contemporaneo i caratteri di un’impresa che non ha precedenti
nella storia. Soprattutto nel nuovo ciclo della politica mondiale che si è
aperto dopo la fine della guerra fredda il disegno politico dell’unificazione
europea è venuto assumendo un significato politico nuovo. La Federazione
europea non si presenta più come un nuovo Stato in un mondo di Stati o un
terzo polo nel sistema mondiale degli Stati, ma piuttosto come l’avvio di
una nuova fase della storia, la prima tappa nel processo di unificazione del
mondo.
In questa prospettiva, la costruzione della Federazione europea doveva
essere considerata, secondo Spinelli, come l’evento cruciale della nostra
epoca: il primo esempio del superamento pacifico della divisione tra
nazioni storicamente consolidate, divise da secoli di antagonismi e di
guerre. Il Manifesto di Ventotene è dunque il messaggero di una nuova èra
della politica mondiale e la sua relazione con i Federalist Papers può essere
paragonata a quella che il Vangelo ha con la Bibbia. Come il monoteismo si
è affermato con la religione ebraica e si è universalizzato con il
cristianesimo, così il federalismo, nato come la formula politica per
governare i popoli dell’America del Nord, è diventato un progetto politico
universale nel corso della Seconda guerra mondiale.
Lo spirito che animava l’impegno politico di Spinelli era insieme quello
di Machiavelli e di Kant, come egli affermò più di una volta. 71 Il che
comportava l’accettazione delle leggi della lotta per il potere, ma, nello
stesso tempo, l’impegno per creare un potere più umano, che avrebbe
permesso di consolidare la libertà e di organizzare la pace.
Si tratta di una battaglia per creare un nuovo ordine politico e, nello
stesso tempo, per elaborare una cultura nuova. Spinelli era perfettamente
consapevole che il paradigma federalista era ancora in gran parte da
costruire. La sua conoscenza della società e della storia era orientata in ogni
momento all’azione. Quindi sviluppò la riflessione teorica fino al momento
in cui, dopo la liberazione dal confino di Ventotene, ritenne di aver
raggiunto conclusioni sufficienti a impostare un’iniziativa politica efficace,
capace di incidere sull’evoluzione degli avvenimenti. E rimase sempre
fedele a queste conclusioni: il giudizio storico sulla crisi degli Stati
nazionali e i principi di azione enunciati fin dal Manifesto di Ventotene.
Resta il fatto che l’unico aspetto del suo piano di lavoro, che riuscì a
portare a compimento è la definizione della strategia della lotta per la
Federazione europea. 72 Mentre lo sviluppo della teoria federalista, intesa
come «canone di interpretazione della politica», rimase incompleto.
Occupato com’era nell’azione politica, riuscì a compiere solo un breve
tratto di cammino su questa strada. Decise di comportarsi come se si
potesse trovare la teoria federalista già elaborata nelle opere dei classici del
pensiero federalista. Sappiamo che egli aspirò sempre a portare a
compimento il suo programma. Se non ci riuscì, ciò dipese dal fatto che il
compito superava le possibilità di una sola persona, sia pure di un individuo
dotato di un talento fuori del comune. Sappiamo dal Diario che nel 1961
progettò un libro, che non vide mai la luce, dal titolo L’Utopia democratica.
Questo era il suo proposito:

La novità mondiale della nostra epoca, intravista finora solo dai comunisti, è che
l’umanità ha ormai un destino politico unico, valido per tutti, e che esso non può essere
altro che quello della libertà per tutti, cioè della democrazia. Devo pensarci a fondo e, se
mi decido, lasciare da parte definitivamente l’attivismo federalista e preparare questo
libro. È il modo forse di dare al federalismo quella pienezza di contenuto politico e
sociale che fin dall’inizio tutti mi hanno chiesto e a cui non ho finora mai saputo
rispondere adeguatamente. 73

È merito soprattutto di Mario Albertini avere avviato l’esplorazione


sistematica di questo territorio. Non è possibile in questa sede inoltrarsi
nell’investigazione del suo contributo intellettuale, perché questa analisi ci
porterebbe troppo lontano. Mi limiterò a ricordare i suoi principali apporti
nell’elaborazione di una critica scientifica dell’idea di nazione, nel
formulare in modo rigoroso i concetti-chiave della teoria federalista e nel
rivalutare una importante tradizione di pensiero, che comincia con Kant, gli
autori del Federalist e Proudhon e che è stata dimenticata o non è stata
compresa dalla cultura nazionale. Egli ha sviluppato la tendenza alla
globalità del pensiero federalista, che costituisce la grande intuizione di
Spinelli, fino a definire il federalismo come un’ideologia con un proprio
aspetto di valore (la pace), un proprio aspetto di struttura (le istituzioni
federali) e un proprio aspetto storico-sociale (il superamento della divisione
del genere umano in nazioni e in classi). 74 Ne è nato uno strumento di
analisi politica e sociale di grande potenza teorica, che permette di gettare
nuova luce sul nostro passato e di offrire una nuova visione del futuro.
I limiti della concezione del federalismo di Rossi
«Il federalismo […] è un canone di interpretazione della politica.» 75 In una
pagina del Diario, Spinelli enuncia questa importante definizione del
federalismo. Per Spinelli, il federalismo è un criterio di conoscenza e di
azione. Le sue opere sono la prova della validità di questo punto di vista,
che è riuscito a collegare concretamente la teoria federalista ai «principali
problemi politici della nostra vita contemporanea». 76 Naturalmente, questo
modo di concepire il federalismo definisce un programma di lavoro, che
egli realizzò solo in parte. Malgrado ciò, egli è un grande innovatore nella
cultura politica, perché, per comprendere e per spiegare i fatti nuovi del
mondo contemporaneo, ha impiegato nuove categorie, anzi un nuovo
paradigma.
L’adozione di questo punto di vista lo distingue da Ernesto Rossi, il
quale, a giudizio di Spinelli, «non ha mai nemmeno sospettato» 77 che
questa potesse essere la natura del federalismo. Come risulta dal suo più
importante lavoro sul federalismo, Gli Stati Uniti d’Europa, 78 pubblicato a
Lugano nel 1944 con lo pseudonimo di Storeno, Rossi concepisce la
concezione federalistica della politica come una tecnica costituzionale di
organizzazione del potere, che permette di eliminare i conflitti armati tra gli
Stati che hanno stipulato il patto federale. Più specificamente, la
Federazione, sottraendo agli Stati membri la sovranità militare, acquisisce il
potere di impedire la guerra entro i propri confini. In questa prospettiva,
egli illustrò con esemplare chiarezza l’incompatibilità dell’organizzazione
dell’Europa in Stati nazionali con i principi della libertà, della democrazia e
del socialismo. È da ricordare soprattutto la prima parte di questo saggio,
che resta di grande attualità. Essa riguarda le conseguenze della pace armata
e mette in evidenza come la divisione dell’Europa in Stati sovrani
costituisca un ostacolo insormontabile alla piena realizzazione degli ideali
della libertà e dell’uguaglianza.
Inteso in questi termini limitativi, il federalismo si configura nel pensiero
di Rossi come il completamento logico di un liberalismo radicale o di un
liberalsocialismo e non come un criterio di azione politica autonomo.
Essendo strettamente legata alla soluzione del problema della guerra,
l’adesione di Rossi al federalismo ha motivazioni molto più deboli di quelle
di Spinelli. La conseguenza pratica di questa posizione teorica sarà
l’abbandono del Movimento federalista europeo, di cui pure era stato tra i
fondatori, dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (30 agosto
1954), cioè quando, a causa dell’attenuazione del conflitto Est-Ovest, il
pericolo di una Terza guerra mondiale cominciò ad allontanarsi.
Sono questi anche i limiti della concezione del federalismo di Einaudi. Il
federalismo restò per lui una concezione accessoria al liberalismo, un
semplice schema istituzionale capace di proteggere i valori e le istituzioni
democratico-liberali dalle conseguenze dell’anarchia internazionale.
È da ricordare che il pensiero di Lionel Robbins, il quale aveva sostenuto
con rigore e con lucidità l’alternativa della Federazione europea
all’imperialismo tedesco prima della Seconda guerra mondiale, abbia
percorso un itinerario politico analogo a quello di Ernesto Rossi. Finita la
guerra, quando erano maturate le condizioni storiche per impegnarsi per
quell’obiettivo, egli lo abbandonò e si può persino affermare che lo
combatté, perché sostenne la prospettiva di una comunità atlantica, intesa
come il mezzo più efficace per difendere i valori dell’Occidente e per
contrastare il comunismo.
Come spiegare la debolezza di questa forma di impegno federalista?
Essa consiste nel fatto che, per questi autori, il federalismo è una forma di
pensiero politico subordinata al liberalismo o al socialismo. Nelle ideologie
tradizionali non c’è nulla che consenta di mettere in discussione gli Stati
nazionali. I partiti che si ispirano a quelle ideologie sono veicoli per la
conquista del potere nazionale. La loro azione politica rafforza questo
potere, e consolida la divisione dell’Europa. Qui sta la difficoltà della scelta
federalista.
Tutti hanno un partito e uno Stato ai quali affidare la realizzazione dei
propri progetti politici. Spinelli si interrogò se l’uno e l’altro fossero
strumenti adeguati al proprio scopo e rispose negativamente. Non gli Stati,
perché rappresentano l’elemento dal quale dipende la divisione dell’Europa.
Essi non costituiscono la leva sulla quale agire per unire l’Europa, cioè per
creare un nuovo potere al di sopra degli Stati. Infatti, il prezzo che i governi
nazionali devono pagare per creare la Federazione europea è la cessione
della sovranità a un’autorità soprannazionale. E gli Stati oppongono una
resistenza strutturale a ogni limitazione del loro potere. E nemmeno i partiti
sono uno strumento adatto alla lotta per l’unificazione europea. Essi sono
un veicolo della lotta per il potere nazionale e quindi sono tutti (compresi i
partiti di opposizione) una frazione del potere nazionale, quel potere che
deve essere abbattuto per creare la Federazione europea. La conclusione
alla quale giunse Spinelli fu che l’unità europea era un’alternativa politica
che esigeva «il superamento delle vecchie divisioni nazionali e
ideologiche». 79 Questa alternativa non comportava solo un cambiamento di
governo, ma un cambiamento ben più profondo che incideva sulla stessa
struttura degli Stati e delle loro relazioni: la trasformazione degli Stati
nazionali in Stati membri della Federazione europea. Dunque l’unità
europea non poteva essere il frutto spontaneo o il risultato inevitabile del
processo storico, ma sarebbe stato il prodotto dell’impegno politico di un
gruppo di uomini (il Movimento federalista europeo), che voleva costruire
un nuovo potere.

Il progetto di Spinelli e il processo di unificazione europea


L’unificazione europea è un processo storico ancora in corso, che potrà
essere conosciuto compiutamente solo quando sarà concluso. Solo quando
avrà raggiunto, con la creazione di un governo europeo, il traguardo
dell’irreversibilità, la cultura nuova che ha alimentato potrà trovare una
verifica definitiva della propria validità.
Tuttavia, secondo Spinelli, la prova della forza del progetto federalista
risiede in un carattere, che è già presente prima della sua realizzazione: «Il
valore di un’idea», egli diceva, «prima ancora che dal suo successo finale, è
dimostrato dalla sua capacità di risorgere dalle proprie sconfitte». 80
Nell’autobiografia, Spinelli aveva diviso la propria attività politica in sei
periodi e aveva constatato che ognuno si era concluso con una sconfitta. Ma
nessuna sconfitta interruppe la possibilità di continuare a perseguire
l’obiettivo dell’unità europea. Anzi, alcune sconfitte – quelle che furono il
risultato di una battaglia politica che aveva costretto i governi ad affrontare
la questione della cessione della sovranità – rappresentarono la premessa di
importanti progressi nella costruzione dell’unità europea.
Basta ricordare i due tentativi, guidati da Spinelli, per costruire la
Federazione europea. Il primo maturò tra il 1951 e il 1954 ed è collegato
alle iniziative per gettare le basi di un’alternativa europea alla proposta
angloamericana di ricostruire la Germania occidentale, eliminando ogni
limite al suo sviluppo industriale e ricostituendo l’esercito. La Francia non
avrebbe potuto resistere a lungo su una posizione di rifiuto pregiudiziale, a
causa della forte tensione internazionale di quegli anni. La proposta di Jean
Monnet, accolta dal governo francese, fu di subordinare i due tradizionali
pilastri della potenza della Germania, l’industria carbo-siderurgica e
l’esercito, a qualche forma di controllo sul piano europeo. Di qui il Piano
Schuman e il Piano Pleven, che si concretizzarono rispettivamente nelle
proposte della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA ) e della
Comunità europea di difesa (CED ). Spinelli denunciò la contraddizione
insita nella proposta della CED di creare un esercito europeo senza governo
europeo. Con il concorso di De Gasperi, di cui guadagnò il consenso, 81 e
grazie all’iniziativa del governo italiano, Spinelli riuscì a mettere in moto
un processo costituente con il conferimento all’Assemblea ad hoc
(l’Assemblea allargata della CECA ) del mandato di elaborare lo Statuto della
Comunità politica europea, l’organismo politico necessario a controllare
l’esercito europeo.
Come membro del Comitato di studi per la Costituzione europea,
promosso dal Movimento europeo (l’organizzazione che riuniva i partiti, i
sindacati e tutte le altre forze di ispirazione europeistica), del quale
facevano parte illustri costituzionalisti e uomini politici, Spinelli aveva
esercitato un’influenza decisiva perché il progetto costituzionale da
proporre all’Assemblea ad hoc avesse una chiara caratterizzazione in senso
federale. La procedura adottata per elaborare il testo del trattato istitutivo
della Comunità politica europea differisce radicalmente da quella impiegata
per definire la struttura e le competenze delle altre istituzioni europee, la
quale prevedeva che i rappresentanti del popolo intervenissero soltanto alla
conclusione del processo di decisione attraverso le ratifiche dei Parlamenti
nazionali. Di conseguenza, a questi ultimi era stata soltanto offerta
l’alternativa di approvare o respingere in blocco il progetto. Invece, con
l’Assemblea ad hoc, la responsabilità di elaborare il progetto costituzionale
è stata affidata a un’assemblea parlamentare.
Questo metodo di lavoro consentì di evitare che i governi affidassero il
mandato di redigere il testo costituzionale a una conferenza diplomatica,
nella quale avrebbe prevalso la logica della conservazione nazionale con le
relative procedure di decisione in segreto e all’unanimità. Al contrario,
nell’Assemblea ad hoc le aspirazioni favorevoli all’unità politica europea,
che, fino allora, erano state canalizzate dalle istituzioni nazionali ed erano
quindi indebolite dalla divisione in tanti comparti nazionali, ebbero la
possibilità di esprimersi insieme a livello europeo e in modo democratico.
D’altra parte, gli avversari della riforma istituzionale furono costretti a
manifestare apertamente le loro opinioni e a pronunciarsi apertamente
sull’alternativa politica europea, assumendo pubblicamente la responsabilità
delle loro scelte.
Benché nel progetto elaborato dall’Assemblea ad hoc non fosse stata
compiuta una scelta netta tra Confederazione e Federazione, la Comunità
politica europea aveva una struttura (la Camera dei popoli eletta
direttamente e le competenze militari della Comunità), che avrebbe favorito
la sua evoluzione verso uno sbocco federale. Dopo che quattro Stati
(Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) avevano ratificato il progetto,
esso fu affossato nel 1954 dall’Assemblea nazionale francese. La morte di
Stalin aveva attenuato la pressione sovietica sull’Europa e avviato il disgelo
tra i blocchi. Il 6 marzo 1953 Spinelli annotò sul Diario: «La morte di
Stalin può significare anche la fine del tentativo attuale di unire
l’Europa». 82
La caduta della CED non solo non eliminò la tendenza storica verso
l’unificazione europea, ma le aspettative che aveva suscitato e le energie
che aveva mobilitato crearono il clima favorevole alla decisione di istituire
nel 1957 la Comunità economica europea (CEE ). L’originalità della CEE
consiste nel fatto che il suo ordinamento istituzionale è il risultato
dell’intreccio di istanze confederali e federali. Esso concilia la difesa degli
interessi nazionali con l’esigenza di prendere decisioni comuni, che
rappresenta un aspetto tipico delle Confederazioni, ma nello stesso tempo è
stato concepito in modo da aderire alla gradualità del processo di
unificazione, il quale, creando una «solidarietà di fatto» (l’espressione è di
Monnet) sempre più profonda tra gli Stati, sottopone a una tensione
permanente le istituzioni comunitarie e tende a farle evolvere gradualmente
verso il traguardo federale.
Dopo il fallimento della CED Spinelli, alla guida del Movimento
federalista europeo, promosse una politica di opposizione al mercato
comune. Attraverso una serie di campagne di agitazione dell’opinione
pubblica europea, basate su elezioni primarie di delegati a un’assemblea
europea, il Congresso del popolo europeo, i federalisti proposero ai cittadini
europei di rivendicare il riconoscimento del loro potere costituente, cioè il
diritto del popolo europeo di decidere, attraverso i suoi rappresentanti, la
forma della Costituzione dell’Europa unita. Per la prima volta nella storia
europea un’azione politica di base si sviluppò in modo unitario al di là dei
confini nazionali in diversi Stati europei. In questo periodo Spinelli viaggia
continuamente attraverso l’Europa, incontra dirigenti e militanti del
movimento federalista, intellettuali, potenziali finanziatori, allo scopo di
suscitare energie a favore del Congresso del popolo europeo e della
creazione di una forza politica indipendente dai partiti, capace di
contrapporre all’Europa del mercato comune l’assemblea costituente
europea. Il Congresso del popolo europeo riuscì a raggiungere solo una
piccola parte della popolazione e mostrò la difficoltà di mobilitare i cittadini
sul piano europeo, una sfera della vita politica, che, in mancanza di
istituzioni democratiche, continuava a essere dominata dalle diplomazie e
dai governi.
A partire dal 1962 Spinelli prende atto del successo del mercato comune
e considera la Comunità europea come il primo embrione di una
Federazione europea. Egli indirizza il proprio impegno politico verso la
trasformazione democratica delle istituzioni europee, cercando di sfruttare
la contraddizione di un mercato europeo senza governo democratico.
Abbandona per la seconda volta il MFE , lasciando ad altri (è da ricordare
soprattutto Mario Albertini, il quale, dal 1962, assunse la guida del
Movimento) la responsabilità di dirigere quella forza federalista
indipendente, che promuoverà le campagne per l’elezione diretta del
Parlamento europeo e per la moneta unica. In questi anni Spinelli concentra
tutti i suoi sforzi nel tentativo di ispirare e di influenzare la classe politica.
Quando, alla fine del 1968, Nenni è designato ministro degli Esteri del
governo di centrosinistra, Spinelli diventa suo consigliere e su questa base
tesse una fitta rete di relazioni politiche in tutta Europa. Il suo obiettivo è
quello di diventare membro della Commissione europea, risultato che
ottiene nel 1970. Egli punta sulla forza della burocrazia europea (e sulla
dinamica degli interessi economici legati allo sviluppo dell’integrazione
europea) come potenziale centro di iniziativa per determinare (sulla base di
un’alleanza con i movimenti federalisti, i partiti europeisti e il Parlamento
europeo) un’evoluzione in senso federale della Comunità. In realtà la
Commissione non possedeva una effettiva base di potere indipendente dai
governi. Finché una riforma istituzionale non la trasformerà nel governo
democratico dell’Europa, attribuendo al Parlamento europeo eletto
direttamente dal popolo il potere di darle e di toglierle la fiducia
(un’evoluzione in questa direzione si è sviluppata a partire dal Trattato di
Maastricht), saranno i governi nazionali, cioè il Consiglio dei ministri, a
possedere il potere e la legittimità indispensabili a conferire alla Comunità
un’effettiva capacità di azione.
La notorietà che acquisì Spinelli nel ruolo di commissario servì da
trampolino per entrare, come candidato nella lista degli indipendenti del
Partito comunista, nel Parlamento europeo prima come membro della
delegazione italiana (1976), poi attraverso la prima elezione diretta
dell’Assemblea di Strasburgo (1979), dove sarà rieletto nel 1984.
L’obiettivo strategico di Spinelli era quello di ottenere l’attribuzione del
potere costituente al Parlamento europeo. L’esistenza di un Parlamento
europeo eletto a suffragio universale offriva infatti condizioni più
favorevoli all’azione per trasformare la Comunità in una Federazione.
Il secondo tentativo intrapreso da Spinelli per promuovere il processo
costituente europeo si sviluppò nel corso della prima legislatura del
Parlamento europeo dopo l’elezione diretta. Un mese dopo la prima
elezione europea, Spinelli costituì con altri otto parlamentari europei il
«Club del Coccodrillo» (dal nome del ristorante di Strasburgo dove fu
fondato), allo scopo di avviare la riforma istituzionale della Comunità. Egli
ispirò il suo progetto di riforma a questi principi: ampliare le competenze
della Comunità nella direzione dell’Unione economica e monetaria e
dell’Unione politica, togliere al Consiglio dei ministri il monopolio del
potere legislativo e del potere esecutivo, trasformando quest’ultimo in una
Camera degli Stati che condividesse con il Parlamento europeo il potere
legislativo e attribuendo alla Commissione il ruolo di governo europeo
responsabile di fronte al Parlamento.
Spinelli ispirò la sua iniziativa in seno al Parlamento europeo a
un’azione trasversale, diretta a creare un grande schieramento unitario, il
solo che consentisse di sorreggere un progetto di natura costituente. La
formula organizzativa che egli suggerì di adottare fu quella
dell’intergruppo, che consentì di evitare qualsiasi forma di concorrenza con
i gruppi politici composti dai partiti e di rimanere aperto all’adesione di
qualsiasi membro dell’assemblea.
L’iniziativa costituzionale di Spinelli raccolse adesioni crescenti finché il
14 febbraio 1984 la maggioranza assoluta (238 voti favorevoli, 31 contrari e
43 astensioni) del Parlamento europeo approvò il progetto di Trattato di
Unione europea, un progetto che avrebbe potuto fare compiere alla
Comunità un passo risolutivo verso la sua evoluzione in senso federale.
Anche questa volta Spinelli si è trovato al posto giusto, nel Parlamento
europeo, per potere esercitare la sua iniziativa costituzionale. L’occasione è
stata offerta dalla contraddizione di un Parlamento eletto a suffragio
universale dotato di soli poteri consultivi, che ha permesso di aprire la lotta
per attribuire al popolo sovrano, attraverso la sua rappresentanza
parlamentare, il potere di fare le leggi e di controllare l’esecutivo. Tramite il
«Club del Coccodrillo» Spinelli è riuscito a mobilitare il Parlamento
europeo e a infondere in questa assemblea, priva di poteri e incerta sul
proprio ruolo, l’orgogliosa coscienza della propria vocazione costituente. A
seguito di questa iniziativa egli è stato riconosciuto come uno dei padri
fondatori dell’unità europea, riuscendo ad acquisire quella fama e quella
autorità che i precedenti quarant’anni di attività federalista non gli avevano
consentito di conseguire.
Nemmeno questo tentativo è riuscito. Il Trattato di Unione europea fu
preso in esame da una conferenza intergovernativa e poi accantonato per
l’opposizione del Regno Unito. Tuttavia l’Atto unico europeo, la riforma
dei trattati approvata nel 1986 al posto del Trattato di Unione, che è stata il
risultato di questa battaglia politica, aveva stabilito la scadenza del 1992 per
completare l’unificazione del mercato europeo. Così è rimasta aperta la via
per rilanciare l’azione per la Federazione europea. Infatti, la contraddizione
di un mercato europeo senza moneta e senza governo ha permesso di
riproporre ai governi nazionali il problema della cessione della sovranità
monetaria, della trasformazione democratica della Comunità e della
elaborazione di una Costituzione europea.
Spinelli è morto nel 1986, prima della realizzazione del suo disegno
politico. Tuttavia, l’Unione europea, varata a Maastricht nel febbraio 1992,
costituisce l’embrione di un potere federale europeo. Il Trattato di Unione
europea realizza alcune delle più significative proposte contenute nel piano
di Spinelli, approvato nel 1984 dal Parlamento europeo. Certo, il suo
progetto, anche se si sta realizzando attraverso successive graduali
approssimazioni, resta una costruzione incompiuta, diversa dalle sue
aspettative, ancora troppo fragile per poter essere considerata capace di
sfidare le ingiurie del tempo. Tuttavia, già nel 1962 egli annotava sul Diario
questa riflessione: «In una maniera strana e precaria, ma incontestabile,
l’Europa sta nascendo». 83 La prova della validità del suo pensiero sta
nell’efficacia dell’azione che ha ispirato, nella corrispondenza tra gli
avvenimenti e il suo disegno.
L’analisi del pensiero e dell’azione di Spinelli mostra che la costruzione
dell’unità europea non è stata il frutto dell’evoluzione spontanea della
storia.

Gli uomini fanno essi stessi la loro storia – aveva scritto Marx – ma […] non la fanno in
modo arbitrario, […] bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a
sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. 84

L’arte della creazione politica sta nell’identificare le circostanze che


aprono uno spazio all’azione. Spinelli esercitò in modo magistrale la
capacità di sfruttare le contraddizioni della situazione politica europea per
introdurvi un nuovo elemento che permettesse di cambiare il corso della
storia.
Nel 1954, subito dopo la caduta della CED , Spinelli si guarda intorno
«impressionato e horrified », perché «nessuno sa cosa bisogna tentare.
Sanno solo cosa non si deve fare». Egli pensava di essere «il solo in tutta
Europa ad avere un’idea precisa di quel che va fatto». 85 Qui sta la sua
grandezza: sapeva in ogni momento che cosa si doveva fare. Vedendo
chiaramente il vecchio ordine degli Stati nazionali sovrani crollare davanti
ai suoi occhi, operò in ogni momento per accelerarne la fine.

1. M. Albertini, Introduzione, in A. Spinelli, Il progetto europeo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 9-10.
2. Cfr. C. Ravera, Diario di trent’anni. 1913-1943, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 203.
3. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, il Mulino, Bologna 1999, p. 254.
4. Ibid., pp. 66-67.
5. Ibid., p. 257.
6. Ibid., pp. 305-306.
7. Ibid., p. 306.
8. Ibid., p. 261.
9. Il volume al quale si riferisce Spinelli è Junius, Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari 1920, che
non è mai più stato ristampato. Tuttavia, gli articoli più significativi contenuti in quel libro si
possono leggere in L. Einaudi, La guerra e l’unità europea, il Mulino, Bologna 1986.
10. È singolare che anche Ernesto Rossi abbia rivendicato la paternità della traduzione di questo
libro. Cfr. E. Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene. 1939-1943, a
cura di M. Magini, Feltrinelli, Milano 1981, p. 149.
11. L. Robbins, Le cause economiche della guerra, Einaudi, Torino 1944. Non è indicato il nome del
traduttore.
12. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 307-308.
13. Cfr. G. Fiori, Una storia italiana, Einaudi, Torino 1997, p. 133.
14. Cfr. A. Braga, Un federalista giacobino: Ernesto Rossi negli anni di guerra fra Ventotene e
l’esilio svizzero (1939-1945), tesi di dottorato, Pavia 1995-1996. Si veda anche A. Braga,
L’elaborazione europeista di Ernesto Rossi prima del “Manifesto di Ventotene”, in AA.VV.,
Ernesto Rossi. Economista, federalista, radicale, Marsilio, Venezia 2001, pp. 81-100.
15. Storeno (pseud. di Ernesto Rossi), Gli Stati Uniti d’Europa, Nuove Edizioni di Capolago, Lugano
1944. Ristampa anastatica presso Celid, Torino 2004, a cura di S. Pistone.
16. Cfr. E. Colorni, Scritti, La Nuova Italia, Firenze 1974.
17. Cfr. U. Hirschmann, Noi senza patria, il Mulino, Bologna 1993.
18. Cfr. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 296-311.
19. Ibid., p. 293.
20. Cfr. S. Schmidt, Intervista con Altiero Spinelli, in A. Spinelli - E. Rossi, Il Manifesto di
Ventotene, Guida, Napoli 1982, p. 174.
21. Per una ricostruzione accurata, che tiene conto di tutte le fonti disponibili, cfr. E. Paolini, Altiero
Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia per la Federazione europea. 1920-1948: documenti
e testimonianze, il Mulino, Bologna 1996, soprattutto i capp. VII e VIII. Si veda anche K. Voigt,
Ideas of Italian Resistance on the Postwar Order in Europe, in W. Lipgens (a cura di), Documents
on the History of European Integration, de Gruyter, Berlin - New York 1984, vol. I, pp. 456-555.
22. E. Paolini, op. cit., p. 329.
23. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 364.
24. Ibid., p. 304.
25. Ibid., pp. 304-305.
26. N. Machiavelli, Il principe, Einaudi, Torino 1976, p. 28.
27. M. Albertini, Una rivoluzione pacifica, il Mulino, Bologna 1999, pp. 471-72.
28. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 343.
29. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, F. Meiner, Leipzig 1917,
vol. I, p. 77.
30. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. I, p. 10.
31. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 20.
32. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., vol. I, p. 76.
33. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 309.
34. Di questi autori si vedano soprattutto Lord Lothian, Il pacifismo non basta, il Mulino, Bologna
1986 e L. Robbins, L’economia pianificata e l’ordine internazionale, Rizzoli, Milano 1948.
35. Cfr. A. Spinelli, Il modello costituzionale americano e i tentativi di unità europea, in La nascita
degli Stati Uniti d’America, a cura di L. Bolis, Comunità, Milano 1957, pp. 209-25, ristampato in
A. Spinelli, Il progetto europeo, cit., pp. 151-62; E. Rossi, Gli Stati Uniti d’Europa, cit., capp. 2-4.
36. A. Hamilton - J. Jay - J. Madison, The Federalist, New York 1788 (trad. it. Il Federalista, il
Mulino, Bologna 1997, p. 184).
37. Cfr. L. Trockij, Der Krieg und die Internationale, Futurus Verlag, München 1914, pp. 3-6; L.
Einaudi, Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni, in «Corriere della sera», 28
dicembre 1918, in La guerra e l’unità europea, cit., pp. 33-34.
38. G. Lukàcs, Lenin, teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Einaudi, Torino 1970,
pp. 11-16.
39. Cfr. p. 6.
40. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 311-12.
41. Cfr. pp. 23 e 5.
42. Cfr. p. 22.
43. A. Spinelli, Manifesto dei federalisti europei, Guanda, Parma 1957, p. 74.
44. De Gasperi e l’Europa. Scritti e discorsi, a cura di M.R. Catti De Gasperi, Morcelliana, Brescia
1979, p. 187.
45. A. Spinelli, Pourquoi je suis européen, in «Preuves», n. 81, 1957, p. 38.
46. Cfr. A. Spinelli, Considerazioni sulle costituzioni democratiche europee (1944), in A. Spinelli,
Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze 1950, pp. 153-54.
47. Cfr. A. Marc, Proudhon, Egloff, Paris 1945; Civilisation en sursis, La Colombe, Paris 1955;
Europe terre décisive, La Colombe, Paris 1959; Dialectique du déchaînement. Fondements
philosophiques du fédéralisme, La Colombe, Paris 1961; L’Europe dans le monde, Payot, Paris
1965; inoltre R. Aron - A. Marc, Principes du fédéralisme, Le Portulan, Paris 1948.
48. Cfr. D. de Rougemont, Politique de la personne, Editions Je Sers, Paris 1934; L’Europe en jeu.
Trois discours suivis de documents de La Haye, La Baconnière, Neuchâtel 1948; L’aventure
occidentale de l’homme, Albin Michel, Paris 1957; Vingt-huit siècles d’Europe. La conscience
européenne à travers les textes, d’Hésiode à nos jours, Payot, Paris 1961; Lettre ouverte aux
Européens, Albin Michel, Paris 1970; L’avenir est notre affaire, Stock, Paris 1977.
49. A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Comunità, Milano 1946; Società, Stato, Comunità,
Comunità, Milano 1952; Città dell’uomo, Comunità, Milano 1960.
50. A. Spinelli, Diario europeo, il Mulino, Bologna 1989, vol. I, p. 155. Va rilevato che c’è una
straordinaria analogia tra queste riflessioni sulla strategia politica e quelle contenute nel famoso
Memorandum di Jean Monnet del 3 maggio 1950, nel quale è formulata la proposta relativa alla
creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la prima delle Comunità europee.
Leggiamole: «Bisogna cambiare il corso degli eventi, perciò bisogna cambiare lo spirito degli
uomini. Le parole non sono sufficienti. Soltanto un’azione immediata, imperniata su un punto
essenziale, può mutare l’attuale staticità. C’è bisogno di un’azione profonda, reale, immediata e
drammatica che cambi le cose e faccia entrare nella realtà le speranze alle quali i popoli tra poco
non crederanno più, per dare così ai popoli dei paesi “liberi” la speranza negli obiettivi più lontani
che saranno loro assegnati, e creare in essi la determinazione attiva di perseguirli». Il testo è
riprodotto in L. Levi, L’unificazione europea. Trent’anni di storia, SEI , Torino 1979, pp. 84-89. La
citazione è a p. 84.
51. F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Samonà e Savelli, Roma 1970, p.
47.
52. Cfr. p. 25.
53. N. Machiavelli, op. cit., cap. 6.
54. Cfr. p. 25.
55. Queste frasi sono tratte dal verbale di costituzione del Movimento federalista europeo. Cfr. E.
Paolini, op. cit., p. 318.
56. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 360 e 359.
57. Ibid., p. 360.
58. Ibid., p. 415.
59. L’Europe de demain, a cura del Centre d’action pour la Fédération européenne, La Baconnière,
Neuchâtel 1945, pp. 68-75.
60. N. Machiavelli, op. cit., p. 28.
61. Ibid., p. 71.
62. A. Hamilton - J. Jay - J. Madison, op. cit., p. 141.
63. Cfr. Altiero Spinelli ad Albert Camus, 18 marzo 1945, in E. Paolini, op. cit., p. 491, e A. Spinelli,
Les tâches de la politique extérieure française, in «Cahier de la Fédération européenne», agosto
1945 (trad. it. in A. Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, a cura di S. Pistone, il
Mulino, Bologna 1989, p. 60).
64. Nel 1935 Carlo Rosselli formulò per la prima volta l’obiettivo dell’assemblea costituente
europea: «Prospettare […] sin d’ora la convocazione di un’ assemblea europea, composta di
delegati eletti dai popoli che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima Costituzione
Federale Europea, nomini il primo Governo Europeo, fissi i principi fondamentali della
convivenza europea, organizzi una forza al servizio del nuovo diritto europeo e dia vita agli Stati
Uniti d’Europa», in C. Rosselli, Scritti dell’esilio, Einaudi, Torino 1988-1992, vol. II, p. 205. È da
segnalare che le analisi e le proposte di Carlo Rosselli sull’unità europea erano sconosciute ai
federalisti confinati a Ventotene. Cfr. S. Schmidt, op. cit., p. 174.
65. Cfr. A. Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, cit. e Manifesto dei federalisti
europei, cit.
66. A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, Gallimard, Paris 1961, t. 1, p. 5.
67. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
68. Ibid., p. 106.
69. I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in La pace, la ragione e la storia, il Mulino,
Bologna 1985, p. 112.
70. M.S. Lipset, The First New Nation, Basic Books, New York 1963.
71. Cfr. A. Spinelli, Pourquoi je suis européen, cit., p. 38 e Diario europeo, cit., vol. I, p. 411.
72. Cfr. A. Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, cit.
73. A. Spinelli, Diario europeo, cit., vol. I, p. 411.
74. Cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, Giuffrè, Milano 1960 e il Mulino, Bologna 1997; La
politica e altri saggi, Giuffrè, Milano 1963; L’integrazione europea e altri saggi, in «Il
Federalista», 1965; Proudhon, Vallecchi, Firenze 1974; Il federalismo, il Mulino, Bologna 1993;
Nazionalismo e federalismo, il Mulino, Bologna 1999.
75. A. Spinelli, Diario europeo, cit., vol. I, p. 214.
76. Ibid., p. 40.
77. Ivi.
78. Citato in nota 15, p. 145.
79. A. Spinelli, Pourquoi je suis européen, cit., p. 39.
80. A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 348.
81. Cfr. M. Albertini, La fondazione dello Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo
intrapreso da De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali, in «Il Federalista», XIX, 1977, pp. 5-55.
Qui è riprodotto il verbale della riunione dei sei ministri degli Esteri, che parteciparono alla
conferenza sull’esercito europeo, avvenuta a Strasburgo l’11 dicembre 1951, nel corso della quale
De Gasperi riuscì a far prevalere la proposta di Spinelli di creare una Comunità politica europea,
che controllasse l’esercito europeo. Sui rapporti Spinelli - De Gasperi si vedano inoltre G. Petrilli,
La politica estera ed europea di De Gasperi, Roma, Cinque Lune, 1975; S. Pistone, L a
convergenza fra interessi nazionali italiani e integrazione europea nella politica europea di De
Gasperi, in «L’Italia e l’Europa», n. 12, VI, 1979, pp. 115-42; D. Preda, Storia di una speranza.
La battaglia per la CED e la Federazione europea, Jaca Book, Milano 1990; D. Preda, Alcide De
Gasperi federalista europeo, il Mulino, Bologna 2004.
82. A. Spinelli, Diario europeo, cit., vol. I, p. 168.
83. Ibid., vol. I, p. 423.
84. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Edizioni in lingueestere, Mosca 1947, p. 9.
85. A. Spinelli, Diario europeo, cit., vol. I, pp. 204-205.
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Il Manifesto di Ventotene
di Ernesto Spinelli, Altiero Rossi
© 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852084430

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