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Nei sinottici e ancor più nel Quarto Vangelo Gesù rivendica per sé il titolo di
«Figlio»1, che rivela, con testimonianza diretta ai discepoli, la sua reale identità 2. È
importante precisare che bisogna distinguere il titolo «Figlio di Dio» da quello di «Figlio»
(senza aggiunte), anche se nello sviluppo della riflessione cristiana le due espressioni si
equivalgono. L’espressione «Figlio di Dio» ha una lunga storia, legata alla teologia
politica dell’Antico Oriente. Sia in Egitto che in Babilonia, il re veniva chiamato Figlio di
Dio e il rituale d’intronizzazione era considerato una «generazione» a figlio. Queste idee,
riprese da Israele, sono state modificate secondo la fede di questo popolo e applicate, in
un primo tempo, a tutto il popolo eletto, chiamato «figlio primogenito»3, con tutto il peso
che la primogenitura comportava in quella cultura. Poi, con l’affermarsi della monarchia,
è passato a designare pure il re sul monte Sion 4. Ciò nonostante, nota de Vaux, anche se
«nel giorno della consacrazione egli [Dio] riconosce il re come suo figlio, lo adotta, […]
ciò non vuole assolutamente significare che gli sia eguagliato, che sia divinizzato» 5.
Infine, il titolo poteva anche servire per indicare il gruppo degli angeli6.
Il privilegio di Israele di essere figlio si concretizza nel suo re, al quale non si
lega nessuna idea di generazione più o meno mitica, come per gli altri popoli. Egli
riceve la dignità filiale come elezione: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio» 7.
1
È noto che il quarto evangelista esprime la distinzione tra la figliolanza divina di Gesù e quella degli
uomini usando parole diverse. Per lui Gesù è ui`o.j tou/ qeou/ (1,34.49; 3,18; 5,25; 10,36; 11,4.27; 20,31;
19,7), mentre gli uomini sono te,kna qeou/ (1,12; 11,52). Il semplice vocabolo ui`o.j compare 50 volte nel
Vangelo, delle quali 11 rivolto a uomini qualsiasi, 2 volte con espressioni particolari: «ui`oi. fwto.j = figli
della luce» (12,36) e «ui`o.j th/j avpwlei,aj = figlio della perdizione» (17,12). Le altre 37 volte sono
riferite a Gesù. Di queste, oltre alle 9 volte in cui è chiamato «Figlio di Dio», per 11 volte è chiamato
«Figlio» senza alcuna specificazione, per 2 volte «Figlio di Giuseppe», per 2 volte si specifica che è
«Figlio unigenito» e per 11 volte egli si identifica come «Figlio dell’uomo». Vi sono poi 2 volte in cui la
folla si interroga su chi sia il «Figlio dell’uomo», in 12,34). Cfr. F. Demelas, Figli per dono, figli per
scelta. La verità sull’uomo nel rapporto nuovo tra i figli e il Padre, Àncora, Milano 2011, 50.
2
Gesù si attribuisce tale titolo, per esempio in Gv 10,22-42. Non sembra necessario, per lo scopo del
presente lavoro, prendere in considerazione posizioni contrarie alla coscienza filiale di Gesù e
all’originalità che questo titolo ha sulle sue labbra: «Il tentativo di costruire antecedenti pre-cristiani,
“gnostici” per questa espressione a partire dalla letteratura post-biblica, per esempio dalle Odi di
Salomone (II secolo d.C.), e di dichiarare Giovanni dipendente da essi, è privo di senso, se in qualche
modo si rispettano le possibilità e i limiti del metodo storico. C’è l’originalità di Gesù. Solo lui è il
“Figlio”». J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dal battesimo alla trasfigurazione, Rizzoli,
Milano 2007, 395.
3
Cfr. Es 4,22; Os 11,1. Da Is 64,7 si evince che Israele intende la paternità divina come una paternità di
elezione legata all’alleanza, che si radica nel mistero della creazione. Dice Isaia: «Ma, Signore, tu sei
nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani».
4
Cfr. 2 Sam 7,12-15; Sal 2,7; 89,27.
5
R. de Vaux, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Genova 20023, 120.
6
Cfr. Dt 32,8 (LXX); Gb 1,6.
7
2 Sam 7,14. Questa metafora indica la stretta relazione che si costituisce tra Dio e il re, al momento
dell’ascesa al trono. Cfr. anche Sal 2,7: «Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: “Tu
Israele vede nel re innanzitutto il carisma, il dono di Dio che lo ha adottato come figlio e
lo ha posto a capo del suo popolo e il cui potere viene direttamente da Dio. Ciò
nonostante, anche se si trovano promesse di dominio sugli altri popoli sia nelle profezie
di Natan a Davide8 sia nei salmi d’intronizzazione9, queste sembrano sproporzionate
rispetto alla realtà storica del popolo d’Israele e del suo re. Il corso della storia dimostra
il suo potere limitato, la dipendenza dai grandi sovrani e, con l’esilio, la fine della
monarchia. Perciò, come afferma J. Ratzinger, «l’oracolo sul re di Sion dovette, in
fondo, diventare sin dall’inizio una parola di speranza nel re venturo, un’espressione che
guardava molto al di là dell’istante e dell’“oggi”, dell’ora dell’intronizzato» 10. Al
momento dell’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria, viene proclamato che in Gesù si
adempiranno le promesse fatte a Davide e alla sua discendenza: «Ed ecco, concepirai un
figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio
dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre
sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» 11. Il testo lucano, oltre a richiamare
il compimento delle antiche profezie, dischiude al lettore un orizzonte di novità:
l’angelo lo chiama «grande» e «Figlio dell’Altissimo». Il termine «grande», in senso
assoluto, si riferisce soltanto a Dio e l’appellativo «Figlio dell’Altissimo» invita il
lettore a riconoscere nel Figlio di Maria una personalità divina12.
Gesù, si serve del titolo di «Figlio» per indicare la sua relazione del tutto
speciale con Dio, ma dà all’espressione una connotazione del tutto nuova: «Tutto è stato
dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il
Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» 13. «Il Padre ama il Figlio
e gli ha dato in mano ogni cosa» 14. Quando prega, Gesù si rivolge a Dio con il termine
aramaico Abbà15, di uso molto familiare, che nessun ebreo oserebbe utilizzare per
rivolgersi a Dio. Come rileva Mondin, «collocandosi in una situazione singolarissima,
unica col Padre, Gesù conferisce un senso del tutto nuovo all’espressione “Figlio di
Per quanto riguarda la persona del Figlio, è pure importante sottolineare che la
prima cosa che si presenta nella rivelazione è la personalità di Gesù in quanto uomo,
nella quale si manifesta la sua divinità. Ciò significa che l’uomo Gesù ha una
personalità formatasi dentro la sua epoca e la sua cultura. I valori trasmessi dalla
famiglia e dalla religione giudaica, che formano il suo carattere e il modo con cui si
rapporta con gli altri e con Dio, lo identificano come un soggetto con una sua storia, con
sentimenti e progetti. Ciò nonostante, il suo «io» non si afferma in modo assoluto, ma
come «qualcuno» in rapporto a Dio, e per di più, a «Dio Padre». Duquoc osserva che
«se si studiano i vangeli ci si accorge che l’atteggiamento filiale di Gesù nei confronti di
Dio è primario. Quest’atteggiamento rivelerà la sua vera personalità» 20. In altre parole, è
proprio manifestando la sua personalità plasmata dal rapporto con Dio come Padre, che
fa trasparire la sua trascendenza divina. La sua personalità rispecchia la relazione
fondamentale tra Padre e Figlio. Egli vive al cospetto di Dio, rivolto al Padre, non solo
come amico ma come Figlio, in profonda unità con il Padre 21. Ciò che i vangeli
presentano in modo naturale e insistente è l’atteggiamento di Gesù che si rivolge verso
l’alto, al Padre22, in modo che Gesù incarna la comunione di volontà del Figlio con il
Padre, diventando un «Io» che ascolta e obbedisce23.
16
B. Mondin, Gesù Cristo salvatore dell’uomo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1993, 57.
17
Mondin, Gesù Cristo, 58.
18
Cfr. Gv 7,37-39; 15,26.
19
Mondin, Gesù Cristo, 58-59.
20
C. Duquoc, Cristologia, Queriniana, Brescia 19722, 279.
21
Cfr. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dal battesimo alla trasfigurazione, 26.
22
La parola «path,r» viene pronunciata da Gesù non meno di 170 volte in tutti i vangeli.
23
Cfr. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dal battesimo alla trasfigurazione, 145.
Il titolo «Figlio di Dio» non connota più un’elezione, come per il popolo, o la
dignità sociale, come per i re di Israele, e neppure l’appartenenza a un gruppo
sovrumano, come per gli angeli. Per Gesù, indica il suo modo di essere. Non è una
qualità o un attributo divino, ma l’affermazione della sua identità. Sostiene ancora
Duquoc:
Il titolo «Figlio» precisa che questa maniera di esistere divina si verifica per lui nel modo
della filiazione, e che esiste un’altra maniera d’esistere divina: il modo della paternità. Gesù
si rivela Dio nel modo della filiazione; una tale rivelazione spiega che il suo atteggiamento
filiale non si riferisce a Dio come tale, nell’assoluto, ma a Dio, nel modo di essere paterno.
Gesù si definisce «qualcuno» in rapporto ad un’altra persona che egli chiama Padre.
Quest’opposizione non distrugge la loro unità: essi esistono tutt’e due divinamente 24.
Le sue parole, però, non solo rivelano Dio, ma manifestano anche se stesso.
L’espressione «Io sono»37 pronunciata da Gesù richiama la rivelazione di Dio a Mosè
30
Gv 7,28-29.
31
Lo esprime l’uso del verbo kra,zw, che significa “esclamare, gridare, urlare” e che in questo Vangelo
introduce sempre un intervento verbale di carattere rivelatorio (Gv 1,15; 7,37; 12,44), e l’indicazione del
luogo in cui ciò avviene, vale a dire, il tempio, cuore delle istituzioni ebraiche. Cfr. Grasso, Il vangelo di
Giovanni, 336.
32
Cfr. Gv 1,18.
33
Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, II, Paoline, Cinisello Balsamo (MI),
1992, 285.
34
Gv 8,14.18.
35
Gv 8,19.
36
Gv 8,23.25.
37
La formula «evgw, eivmi» appare in diversi momenti. Cfr. Gv 8,24.28.58; 13,19, in cui le affermazioni
appaiono all’assoluto, ma anche i passi in cui l’affermazione ha un complemento: 6,35.48.51 (Io sono il
pane); 8,12 (Io sono la luce); 10,7.9 (Io sono la porta); 10,11.14 (Io sono il buon pastore); 11,25 (Io sono
nell’episodio del roveto ardente di Es 3,14. Alla richiesta di Mosè il Signore aveva
risposto: «Io sono colui che sono!», e aveva aggiunto: «Così dirai agli Israeliti: “Io-
Sono mi ha mandato a voi”». Attribuendo a sé l’«Io sono» di Dio, Gesù ammette, nel
suo essere Figlio, di avere la stessa natura di Dio. Perciò, conoscere Dio e conoscere
Gesù si equivalgono, ma questo si chiarirà solo nell’ora della croce e dell’innalzamento
nella gloria del Padre, quando Gesù porterà a compimento la sua missione, come egli
stesso dice: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io
Sono»38. Sulla croce sarà riconoscibile la sua vera identità di Figlio di Dio; la croce è il
suo trono, l’inizio dell’innalzamento verso il Padre e della sua rivelazione piena e
definitiva. Dice giustamente J. Ratzinger: «Il roveto ardente è la croce. La suprema
pretesa di rivelazione, l’“Io Sono” e la croce sono inseparabili»39.
Nella trama del Quarto Vangelo si chiarisce pure l’identificazione tra le due
parti, la comunione d’intenti e principalmente la risolutezza di Gesù nel fare la volontà
del Padre e di compierne l’opera. La condizione della missione del Figlio è la totale
obbedienza e conformazione alla volontà del Padre: «Il mio cibo è fare la volontà di
colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»40. Il Figlio è consapevole di aver
ricevuto dal Padre un’opera da compiere, una missione per la quale è stato inviato nel
mondo. Questa diventa la chiave di lettura per conoscere la sua persona.
la risurrezione e la vita); 14,6 (Io sono la via, la verità e la vita); 15,1.5 (Io sono la vite). C’è poi anche
l’episodio dell’arresto di Gesù, nel quale l’affermazione di Gesù alle guardie che lo cercavano «Sono io!»
ha fatto sì che queste indietreggiassero e cadessero a terra (cfr. 18,4-8). Cfr. Orsatti, Giovanni, il Vangelo
«ad alta definizione», 153-155. Per un approfondimento, cfr. la monografia di D.M. Ball, «I am» in
John’s Gospel: Literary Function, Background and theological implications, Academic Press, Sheffield
1996.
38
Gv 8,28.
39
Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dal battesimo alla trasfigurazione, 399.
40
Gv 4,34.
Para consulta:
41
Cf la monografia di D.M. BALL, «I Am» in John's Gospel: Literary Function, Background and Theological Implications,
Academic Press, Sheffield 1996.
42
BROWN, p. 1487.
43
Qualcuno preferisce renderlo con «Sono io...», cf LÉON DUFOUR, II, p. 184. Egli cita e rimanda, in nota, a Bultmann che
ha esposto bene i diversi casi dell’uso della formula distinguendo tra formule di riconoscimento e formule di proclamazione.
I titoli possono alternarsi in una danza senza fine, ma resta chiaro il centro del discorso,
la persona di Gesù. Concludiamo raccogliendo una sintesi delle due note teologiche
giovannee sopra esposte: «Nonostante tutte le differenziazioni offerte dal linguaggio
metaforico e dal percorso dell’argomentazione, l’idea centrale e guida che si evidenzia
comunque è la rivelazione cristologica espressa nella formula di rivelazione Ego eimi
(Io sono). Gesù stesso è, nella sua persona, la vita, e lo è in un senso assoluto e
semplicemente privo di concorrenzialità. Dopo la sua venuta non esistono altre offerte
di vita in grado di concorrere con la sua»44.
44
J. ERNST, Giovanni. Un ritratto teologico, Morcelliana, Brescia 1994, pp. 76-77.