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16 - IL TRATTATO DI MAASTRICHT E LA “UNIONE ECONOMICA E MONETARIA” EUROPEA

16.1 – IL SISTEMA MONETARIO EUROPEO - Soprattutto all’interno di un’area economica


integrata come la UE, la stabilità dei cambi favoriva la stabilità dei prezzi e lo sviluppo del commercio
internazionale. Il fallimento dello “snake” (serpente monetario) nel tentativo di tenere unite in un qualche
modo le valute dei paesi europei portò nel 1978 alla firma dello SME (Sistema Monetario Europeo) proprio
nel tentativo di eliminare qualsiasi forma di instabilità valutaria. Con lo SME nacque anche l’ ECU, l’unità
monetaria europea, un’unità virtuale e non un mezzo di pagamento. Si trattava di un paniere di valute il cui
valore, ad esempio espresso in lire, era pari alla media ponderati di tutti i cambi bilaterali fissati rispetto alla
lira. L’accordo prevedeva la fissazione di parità centrali rispetto all’ecu attorno alle quali potevano oscillare i
cambi in un range (banda di oscillazione) del +-2,25% (alla lira fu fissata a +-6%). Quando i cambi tendevano
a superare questa banda, il Consiglio Europeo poteva decidere un riallineamento ossia un cambiamento
delle parità centrali. I dieci riallineamenti verificatesi fino al 1986 furono dovuti alla necessità di aggiustare i
differenziali d’inflazione che penalizzavano le singole valute (in primis la lira) nei confronti del marco
tedesco; un aspetto importante da sottolineare è che nello SME la politica monetaria di un paese era
fortemente influenzata dalla politica monetaria del paese leader ovvero la Germania; quindi, i margini di
manovra erano notevolmente limitati. Ad esempio, nel caso italiano le ricorrenti svalutazioni della lira
costrinsero l’Italia a mantenere i propri tassi di interesse sempre al di sopra di quelli di riferimento e
quando il paese leader (Germania) aumentò i tassi, anche l’Italia dovette riallinearsi per evitare una fuga
repentina di capitali. Lo SME cercò di contrastare gli attacchi speculativi con bande di oscillazione ampie e
continui riallineamenti ma il vero problema dello SME, l’asimmetria, ed i conflitti sul tipo di politica
monetaria da adottare tra i paesi partecipanti determinarono la crisi del sistema. Gli attacchi speculativi si
intensificarono e la Banca d’Italia attinse a tutte le riserve valutarie accumulate negli anni per difendere da
lira. Il riallineamento della lira nel settembre del ’92 fu interpretato dai mercati come un segnale di resa; il
tasso interesse fissato dalla Banca d’Italia fu alzato drasticamente così come risalì il tasso di sconto e la lira
fu costretta ad abbandonare gli accordi di cambio dello SME iniziando una fluttuazione libera. La
speculazione si scatenò anche su altre valute (peseta spagnola, escudo portoghese, sterlina irlandese,
successivamente anche franco francese) e nell’agosto del ’93 il Consiglio Europeo passò ad una banda
larghissima (+-15%) per tutte le valute dello SME, mossa decisiva che calmò la speculazione. La lira tra il ’92
e il ’95 si deprezzò di circa il 50% rispetto al marco tedesco e rientrò nello SME solo nel ’96 in vista
dell’obiettivo di entrare nel primo gruppo di paesi che avrebbe aderito all’EURO.

16.2 – IL TRATTATO DI MAASTRICHT E I CRITERI DI CONVERGENZA – La crisi dello SME


fece comprendere l’importanza di un’unione monetaria considerando le altre possibili soluzioni inadeguate.
Cambi totalmente flessibili e controlli sui movimenti di capitale erano incompatibili con l’unione doganale e
il mercato unico. Il 7 febbraio del 1992 fu firmata a Maastricht il Trattato sull’Unione Europea. L’obiettivo
principale era la costituzione di un’Unione Economica e Monetaria (UEM) attraverso più generali obiettivi di
politica economica quali il completamento delle quattro liberalizzazioni già previste nel Mercato Unico,
l’accentuazione di una politica della concorrenza, il rafforzamento di politiche strutturali e di coesione da
attuarsi con il Fondo di Coesione, il coordinamento delle politiche macroeconomiche nazionali. Nel
Trattato erano esplicitate anche norme extra-economiche come la cittadinanza europea, la sicurezza
comune interna e la difesa. Riguardo all’Unione Economia e Monetaria erano previsti dei criteri di
convergenza affinché un paese potesse entrare. Tasso di inflazione annuo non superiore del 1,5% a quello
dei tre paesi con meno inflazione, tasso di interesse sui titoli pubblici a lungo termine (decennali) non
superiore al 2% a quello dei tre paesi meno inflazionistici, disavanzo pubblico e debito pubblico contenuti,
tasso di cambio all’interno della banda di oscillazione normale dello SME. Le motivazioni sottostanti alcuni
di questi criteri sono le seguenti. Per quanto riguarda l’inflazione non bastava che la nuova banca europea
risultasse molto simile alla Bundesbank ma era necessario che già prima dell’UEM i paesi iniziassero ad
avere una bassa propensione all’inflazione. Per quanto riguarda i criteri sui tassi di interesse si mirava ad
evitare guadagni o perdite nel passaggio dalla vecchia alla nuova valuta. Infine, il tasso di cambio fu posto
per evitare svalutazioni competitive realizzate all’ultimo momento.

16.3 – L’AVVIO DELL’UNIONE MONETARIA – Lo stadio finale dell’UEM comprendeva: piena


convertibilità di monete e banconote e tassi di cambio fissi e irrevocabili, nuove istituzioni come la BCE,
nuove regole sui bilanci pubblici. I tassi di cambio tra le monete nazionali e l’euro, validi dal 1° gennaio 1999
per sempre, dovevano essere identificati con il valore di mercato delle monete nazionali nei confronti
dell’ECU alla data del 31 dicembre 1998 ma, per evitare speculazioni dell’ultimo momento, il Consiglio
Europeo decise di adottare le esistenti parità centrali quali tassi fissi di conversione che furono creduti e la
speculazione si stabilizzò. Gli effetti immediati di Maastricht sulle economie europee comportarono sia
politiche monetarie rigorose, per consentire il rispetto dei criteri sull’inflazione e sul cambio, sia politiche
di risanamento fiscale altrettanto forti, per rispettare i criteri di disavanzo e debito pubblico. Tutto ciò,
applicato simultaneamente in tutti i paesi, determinò un rallentamento nella crescita, deflazione e aumento
della disoccupazione secondo alcuni economisti. In merito alla decisione dell’Italia di entrare nell’euro,
presa negli anni ’90, molti politici ed esperti di economia furono favorevoli soprattutto per restare
agganciati al carro europeo (in quanto paese fondatore), anche se non mancavano riserve in relazione alla
debolezza strutturale della nostra economia (eccessivo debito pubblico) e alla difficoltà nel competere con
un’economia tedesca senza la “stampella” della svalutazione della moneta nazionale. Nonostante la
situazione critica dell’Italia, in piena crisi valutaria e finanziaria, con un’inflazione decrescente ma ancora
elevata, alti disavanzi e debito pubblico ed ancora fuori dallo SME, una pesante manovra finanziaria
nell’autunno del ’96 consentì di invertire la rotta concedendo all’Italia la possibilità di entrare da subito
nell’UEM. L’inflazione fu progressivamente ridotta, l’Italia ottenne più credibilità dovuta alla fermezza di
voler entrare nell’euro e al risanamento fiscale che consentì la discesa dei tassi, ci fu la riammissione nello
SME nel novembre dello stesso anno ed alcune misure di finanza creativa come la tassa per l’Europa
introdotta ad hoc. Sta di fatto che subito dopo l’introduzione dell’euro, i tassi di interesse rimasero bassi
come mai favorendo sia il sistema economico privato (minori tassi su mutui per le famiglie e sui prestiti per
le imprese) sia quello pubblico (minori oneri per il servizio del debito). Tuttavia, sempre per alcuni studiosi,
tale bonus fu sprecato in quanto i governi dell’epoca, dopo aver raggiunto l’obiettivo di entrata, allentarono
gli sforzi di consolidamento fiscale.

16.4 – TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI: BENEFICI E COSTI DELLE UNIONI
MONETARIE – La domanda alla quale rispondere è la seguente: è stato vantaggioso per i paesi europei
aderire all’UEM e adottare l’euro? In riferimento alla teoria AVO (aree valutarie ottimali) la risposta è
positiva solo se i benefici superano i costi che, secondo questa teoria sono prevalentemente
macroeconomici. Costi che si riferiscono dunque alla perdita dello strumento di cambio e alle politiche
monetarie indipendenti decise a livello nazionale. I benefici invece sono di tipo microeconomici ed
includono l’abbattimento dei costi di transazione e l’eliminazione del rischio di cambio.
I BENEFICI - I costi di transazione comprendono le commissioni ed i costi, anche indiretti (ad esempio il
tempo perso), necessari per il cambio valute. L’abbattimento di questi costi genera benefici diretti nel
commercio di beni e servizi (es. turismo), nei flussi di persone e nei movimenti di capitale, ma anche
indiretti in una maggiore trasparenza e concorrenza nei mercati quindi minori prezzi per i consumatori,
stimolo agli investimenti e crescita economica. Il rischio di cambio, se abbattuto, favorisce il commercio
internazionale e la crescita economica. Infatti, il rischio di cambio causa una perdita di efficienza nel
meccanismo dei prezzi in quanto l’incertezza sui futuri prezzi rende meno attendibili i segnali per le
decisioni di produzione, consumo e investimento. Inoltre, fa aumentare il tasso di interesse reale, frenando
gli investimenti e deteriorandone la qualità a causa di problemi di azzardo morale o selezione avversa. In
conclusione, possiamo affermare che i benefici microeconomici sono più rilevanti per economie molto
integrate sul piano commerciale. Conta quindi il grado di apertura reciproco dei paesi che intendono
costituire un’unione monetaria e all’interno dell’UE la situazione è molto varia, con un aumento rilevante
degli scambi intra-UE rispetto agli scambi con paesi terzi. I COSTI – Sono prevalentemente macroeconomici
e sono costituiti dalla rinuncia alla manovra del tasso di cambio e dalla politica monetaria decisa a livello
nazionale. Tale costo cresce alla probabilità che possano verificarsi shock asimmetrici (colpisce due paesi in
modo opposto), scende in presenza di meccanismi alternativi alla manovra del cambio ovvero flessibilità dei
prezzi e salari e mobilità del lavoro.

16.5 – SHOCK ASIMMETRICI E POSSIBILI RISPOSTE DI POLITICA ECONOMICA – Facciamo


un esempio per capire quanto possa essere costosa la rinuncia al tasso di cambio in presenza di shock
asimmetrici. Un classico esempio di shock asimmetrico è lo spostamento di preferenze dei consumatori dai
prodotti di un paese, la Francia, a quelli di un altro paese, la Germania. La curva di domanda aggregata,
ovvero la domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico nel suo complesso in un certo
periodo temporale, si sposta in maniera opposta; quella della Francia scende verso il basso e causa una
diminuzione di reddito (Y) e produzione (P), quella della Germania sale verso l’alto e causa un aumento di
reddito (Y) e prduzione (P). Nel caso delle Unioni Monetarie non è possibile manovrare il tasso di cambio;
pertanto, un aggiustamento automatico del mercato è possibile solo con una flessibilità di prezzi e salari e
ad una elevata mobilità del lavoro che determina il riallineamento del sistema. Nel caso di Unioni NON
Monetarie, è altresì possibile una modifica del tasso di cambio che provocherebbe una svalutazione del
franco francese rispetto al marco tedesco; ciò provocherebbe un aumento della domanda aggregata in
Francia con effetto opposto sulla Germania riportando il sistema in equilibrio senza flessibilità salariale e
mobilità del lavoro. In conclusione, un’Unione Monetaria può essere costosa in presenza di shock
asimmetrici perché non c’è la flessibilità di prezzi e salari per cui il paese colpito gravemente dallo shock
potrebbe essere costretto a convivere per un certo tempo con recensione e disoccupazione (una
svalutazione invece eviterebbe questi costi). Le teorie AVO hanno studiato l’esistenza di meccanismi
alternativi aggiuntivi come i sistemi assicurativi pubblici e privati che possono attutire gli effetti negativi di
shock asimmetrici in una Unione Monetaria. I sistemi assicurativi pubblici consistono nella redistribuzione
fiscale operata dai bilanci pubblici attraverso un bilancio centralizzato a livello di Unione Monetaria, che
sarebbe la soluzione ideale; in caso di shock attuerebbe una redistribuzione fiscale a livello sovranazionale;
oppure attraverso bilanci pubblici decentrati ma flessibili in entrambe le direzioni così da armonizzare lo
shock grazie a stabilizzatori automatici che operano a livello nazionale. Purtroppo, questo non è il caso
dell’Unione Monetaria Europea poiché il bilancio è di trascurabile entità. I sistemi assicurativi privati
operano all’interno delle Unioni Monetarie attraverso mercati finanziari ben integrati. Uno shock si
distribuisce su tutti i paesi e i flussi di capitale facilitano l’aggiustamento.

16.6 - L’UE è un’AVO? – Secondo le teorie AVO è fondamentale il confronto tra benefici e costi per
giudicare la convenienza a costituire un Unione Monetaria. I benefici (microeconomici) sono rilevanti
soprattutto per i paesi ben integrati, i costi possono essere notevoli in presenza di shock asimmetrici.
Bisogna dunque considerare due aspetti fondamentali: 1) la probabilità che possa verificarsi uno shock, che
aumenta se c’è un basso grado di simmetria tra paesi, ad esempio divergenze tra strutture produttive,
sistemi fiscali e istituzionali. 2) l’asimmetria appena analizzata può essere compensata con un’elevata
flessibilità di salari e stipendi e mobilità del lavoro. C’è dunque una relazione tra simmetria e flessibilità
che può essere rappresentata dalla retta AVO; al di sopra della retta troveremo i paesi che hanno
convenienza a partecipare ad un’Unione Monetaria, al di sotto no. Secondo alcuni economisti tutta la UE-27
non è un AVO in quanto ad una bassa simmetria si accompagna una limitata flessibilità e bassa mobilità del
lavoro. È molto probabile invece che tali requisiti l’abbiano invece i paesi core centro-europei UE-5 (Francia,
Germania, Benelux). Il dibattito è acceso e in letteratura è stata discussa l’endogeneità dei criteri AVO la cui
convenienza tenderebbe ad autogenerarsi nel tempo, anche se inizialmente non verificata. Secondo la
visione ottimistica gli scambi di beni intracomunitari provocherebbe un’ulteriore crescita del commercio
rendendo le strutture produttive più simili e quindi gli shock più simmetrici. Secondo la visione pessimistica
il crescente commercio potrebbe causare, in presenza di economie di scala, una concentrazione della
produzione e una crescente specializzazione dei paesi rendendo gli shock più asimmetrici. L’obiettivo della
UE era quello di favorire, attraverso l’Unione Monetaria, la convergenza reale ossia l’avvicinamento delle
differenze strutturali ed un rafforzamento delle economie meno sviluppate. Tutto ciò è avvenuto solo in
parte poiché la convergenza tra economie dell’area euro non è stata adeguatamente sostenuta dalle
politiche europee nonostante i piani di azione come ”Agenda di Lisbona” e “Europa 2020”; il limite di tutto
ciò sta nelle ridotte dimensioni dei fondi strutturali e del bilancio europeo.

16.7 – Quale futuro per l’euro? – La Grande Depressione e la crisi dei debiti sovrani hanno
suscitato dubbi su un’Unione Monetaria tra paesi eterogenei. Profonde diversità strutturali, mancanza di
un’unione fiscale che consentisse adeguati trasferimenti per favorire la convergenza reale, un limitato
bilancio e politiche di austerità con vincoli all’adozione di politiche fiscali espansive sono state oggetto di
analisi e critica. Anche sul piano politico l’Unione è stato spesso limitata ed ha suscitato molti dubbi, gli
stessi dubbi che hanno spostato il dibattito sull’opportunità di un euro exit anche per l’Italia. Innanzitutto,
c’è da dire che l’uscita della Grecia potrebbe essere sopportata, ma un’uscita dell’Italia determinerebbe
quasi sicuramente il crollo di tutto l’edificio europeo. Lo scenario più probabile implicherebbe un forte
deprezzamento della lira rispetto all’euro, fuga di capitali, forte rialzo degli interessi (con conseguenze
evidenti sugli investimenti e sull’economia reale), rischio di default (se il debito pubblico dovesse essere
rimborsato secondo il vecchio valore rivalutato in euro), fallimenti bancari e panico generale. Anche i
benefici di una svalutazione sarebbero limitati a causa del rischio vizioso svalutazione-inflazione che
annullerebbe i guadagni di competitività a meno che di non porrebbe un freno ai salari con conseguenze
gravi sul tenore di vita dei lavoratori e crollo dei consumi. Anche l’altro beneficio relativo alla riconquista
della politica monetaria nazionale, che potrebbe essere calibrata in relazione alle esigenze interne e agli
shock che colpiscono l’economia, senza dover conto alle regole fiscali del Patto di Stabilità e del Fiscal
Compact, dovrebbe essere considerato sempre in un’ottica di mercato globale considerando l’elevato
debito pubblico della nostra economia. In conclusione, alla luce di quanto evidenziato, possiamo affermare
che un’uscita dell’Italia comporterebbe dei costi che sicuramente sarebbero maggiori dei benefici. La vera
sfida dell’Europa è correggere ciò che non va nell’attuale sistema attraverso una maggiore integrazione
tramite anche un bilancio specifico e scelte economicamente e socialmente sostenibili.

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