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Eleonora Biffi

DIRITTO INDUSTRIALE

NOZIONI GENERALI E DEFINIZIONI


DIRITTI DI PROPRIETÀ INDUSTRIALE
L’espressione “Diritto Industriale” può in sé essere fuorviante perché può far pensare che la materia abbia ad
oggetto la disciplina dell’industria, delle attività produttive tipiche e delle norme che riguardano l’industria in
contrapposizione ad altri settori dell’attività economica. Nella realtà non è così. In Italia è l’abbreviazione di
un’espressione più ampia che è quella di “Diritto della proprietà industriale”, dove non va enfatizzato il
significato stretto dell’aggettivo industriale. Questa materia si occupa in generale di tutte le attività
economiche svolte da un’impresa, a qualsiasi settore essa appartenga, e si affaccia sul mercato proponendo
propri prodotti o servizi. Nel diritto civile generale, il diritto di proprietà è il diritto assoluto di cui gode un
soggetto titolare di un potere su un certo bene. Il concetto di proprietà assume un connotato diverso, ma è pur
sempre corretto parlare di proprietà perché stiamo esaminando dei beni che sono oggetto di un diritto che ha
in comune la sua caratteristica essenziale con il diritto tradizionale di proprietà, cioè quella di essere un
diritto esclusivo. La branca del diritto studiata in questo corso è relativa alla creazione e alla disciplina di
diritti esclusivi su determinate entità, create o utilizzate dalle imprese nello svolgimento della loro attività
economica. In senso lato, si tratta di beni che nascono grazie ad uno sforzo creativo dell’ingegno umano.

La prima grande convenzione internazionale in materia di proprietà industriale è la Convenzione di Unione


di Parigi (CUP) del 20 marzo 1883 per la protezione della proprietà industriale. Essa ha costituito una
unione tra tutti gli stati aderenti, i quali hanno deciso di fissare e garantirsi reciprocamente un livello
adeguato di protezione della proprietà industriale. Art. 1.2: “La protezione della proprietà intellettuale
industriale ha per oggetto i brevetti d’invenzione, i modelli di utilità, i disegni o modelli industriali, i marchi
di fabbrica o di commercio, i marchi di servizio, il nome commerciale e le indicazioni di provenienza o
denominazioni d’origine, nonché la repressione della concorrenza sleale”. Elencazione del contenuto:
– Brevetti d’invenzione e modelli di utilità sono gli strumenti giuridici con cui viene creata un’esclusiva su
determinate innovazioni di tipo tecnico. Uno dei più forti strumenti nella gara concorrenziale per
un’impresa è costituito dalla capacità di innovare o dotarsi di innovazioni che rendono i prodotti e i servizi
dell’impresa più efficienti, al passo con i tempi, economici e dotati di caratteristiche che inducono i
consumatori a preferirli rispetto ad altri. L’innovazione di tipo tecnico viene protetta con un sistema di
diritti esclusivi creati attraverso i brevetti d’invenzione e i modelli di utilità.
– Quando si parla di disegni o modelli industriali, si parla di innovazioni relative all’aspetto estetico o di
presentazione del prodotto o del suo packaging. È un dato di comune esperienza che una parte importante
della gara concorrenziale oggi si gioca sulla capacità di progettare un industrial design particolarmente
appetibile per il consumatore, che lo possa indurre a preferire un certo prodotto perché dotato di quel
design. Di nuovo, il diritto della proprietà industriale interviene costituendo delle esclusive a favore di chi
abbia realizzato un certo design, il quale sarà l’unico a poterlo sfruttare nell’attività economica escludendo
i terzi.
– Vediamo poi i marchi di fabbrica o di commercio, i marchi di servizio ed il nome commerciale: si tratta di
una parte molto ampia della materia che è quella dei segni distintivi; si tratta di segni con cui
l’imprenditore identifica sul mercato i propri prodotti o servizi e permette al consumatore di compiere
scelte di acquisto guidate dalla presenza di un determinato segno che contraddistingue il prodotto o
servizio, permettendogli di comprendere quali sono le caratteristiche del prodotto/servizio e da quale
imprenditore è offerto sul mercato.
– Indicazioni di provenienza o denominazioni d’origine: campo delle produzioni tipiche, si tratta di un capo
di enorme rilevanza per l’economia italiana. La protezione del nome che identifica un prodotto tipico di
una certa zona, frutto di una certa tradizione radicata da secoli è un elemento di enorme importanza.
Questa parte serve a riservare in esclusiva ai produttori di tali prodotti e ai consorzi di tutela lo
sfruttamento del nome che identifica il prodotto tipico.
– Repressione della concorrenza sleale: non stiamo parlando di un diritto di proprietà industriale, ma bensì
di regole di comportamento e condotta sul mercato il cui rispetto è necessario affinché i diritti di proprietà
industriale siano rispettati, affinché le imprese possano competere sul mercato in un regime di correttezza
ed onestà, evitando di conquistare quote di mercato o clientela a scapito dei concorrenti con mezzi illeciti,
disonesti e scorretti.

In tutti i casi, si tratta di creazioni di innovazioni dell’ingegno umano. L'impresa compete sul mercato e mira
a prevalere nella gara concorrenziale proprio grazie alla capacità di dotarsi di creazioni di innovazioni e di
elementi di attrattiva per il consumatore che siano in grado di conferirle quel vantaggio nella gara
concorrenziale che porta il consumatore a preferire i prodotti/servizi dell’impresa. L'impresa può conseguire

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questo risultato agendo su due versanti: il versante interno all’impresa e il versante esterno di comunicazione
con il mercato. Sul versante interno, l'impresa cerca di dotarsi di strumenti per prevalere nella gara
concorrenziale innovando o sfruttando innovazione acquisita nel campo tecnologico e sul piano della
capacità di innovare il design del prodotto (modalità di presentazione del prodotto/servizio al pubblico). Sul
versante esterno della comunicazione al mercato intervengono soprattutto i segni distintivi (principale
strumento di comunicazione con il pubblico) e il design (nella misura in cui diventa appetibile e orienta le
scelte di acquisto del consumatore può essere considerato uno strumento di comunicazione al mercato).

Una definizione simile di proprietà industriale è contenuta nella legge base che regola tale materia: il Codice
della proprietà industriale (c.p.i.) italiano (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30). Le leggi sulla proprietà
industriale esistevano in Italia da prima, ma questo codice ha raggruppato in un unico testo di legge tutte le
norme in tema di proprietà industriale che in precedenza erano sparse in leggi diverse. L’art. 1, nel definire il
concetto di proprietà industriale, ricomprende marchi e segni distintivi, le indicazioni geografiche, le
denominazioni di origine dei prodotti, il design e i modelli, le invenzioni, i modelli di utilità e alcune realtà
emerse nel tempo (topografie dei prodotti a semiconduttori, i segreti commerciali e le nuove varietà
vegetali). I segreti commerciali si affiancano ai brevetti per invenzione e per modello di utilità nel dare una
tutela alle innovazioni interne all’impresa. Definizione: “Ai fini del presente codice, l’espressione proprietà
industriale comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine,
disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, segreti commerciali
e nuove varietà vegetali”. Si tratta di una definizione che va ricostruita guardando alla sostanza della materia
che è costituita dalla creazione, per via legislativa, di un diritto assoluto esclusivo a favore di un titolare su
determinate innovazioni o creazioni in cui si estrinseca l’ingegno umano in attività destinate al mercato e a
far prevalere quel soggetto nella gara concorrenziale.

DIRITTI D’AUTORE E DIRITTI CONNESSI


L’unire il diritto d’autore ai diritti di proprietà industriale ha portato alla creazione di una categoria ancora
più ampia e onnicomprensiva che è quella dei diritti di proprietà intellettuale. Il diritto d’autore ha avuto una
storia legislativa e una tradizione diverse da quelle della proprietà industriale. Al diritto d’autore è stata
dedicata la Convenzione di Unione di Berna (CUB) del 9 settembre 1886 per la protezione delle opere
letterarie ed artistiche; anch’essa era una convenzione di unione tra stati che condividevano principi base
sulla tutela del diritto d’autore. Anche alla base di questa convenzione c’era il concetto fondamentale che le
opere dovessero essere protette dal diritto d’autore con il sistema delle esclusive. Il diritto d’autore aveva
storicamente un tratto di forte diversità rispetto alla proprietà industriale perché la proprietà industriale
riguardava innovazioni destinate ad essere impiegate all’interno di un’attività imprenditoriale (si tratta di
realtà direttamente impiegate nell’attività di un’impresa). Il diritto d’autore protegge le creazioni di tipo
artistico: opere della letteratura, opere musicali, opere cinematografiche; anch’esse sono oggetto di interessi
economici rilevanti (editoria, produzioni cinematografiche, diffusione delle opere musicali) ma tuttavia esse
non sono direttamente impiegate all’intento di un’attività imprenditoriale per fare concorrenza sul mercato.
Si tratta di creazioni di tipo artistico che non vengono direttamente utilizzate dall’imprenditore, anche se
possono essere oggetto di interessi economici molto rilevanti. La storia del diritto d’autore parte a livello
internazionale, nel tempo troviamo un’altra importante convenzione: il Trattato WIPO del 20 dicembre
1996, adottato in seno alla organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (WIPO: World Intellectual
Property Organisation). A livello di legge italiana, ad esso è dedicata una legislazione specifica e diversa da
quella dei diritti di proprietà industriale che è la Legge italiana sulla protezione del diritto d’autore e di
altri diritti connessi al suo esercizio (22 aprile 1941, n. 633). La legge oggi in vigore è stata più volte
cambiata, modificata e adattata nel tempo alle innovazioni di tipo tecnologico, ma nel suo impianto base
rimane ancora quella adottata in quell’epoca. Il sistema di protezione è ancora una volta quello dei diritti
esclusivi. Art. 1: “Sono protette ai sensi di questa legge le opere dell’ingegno di carattere creativo che
appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia,
qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Sono altresì protetti i programmi per elaboratore, nonché
le banche di dati”. Le entità protette o opere dell’ingegno si collocano principalmente nel campo artistico
(letteratura, musica, arti figurative, architettura, musica, teatro e cinematografia). Formalmente tutte le
creazioni dell’ingegno umano sono opere d’ingegno, ma nel linguaggio tecnico di questa materia ci si
riferisce esclusivamente alle creazioni protette con il diritto d’autore. A partire da circa trent’anni fa, questo
diritto è stato esteso e adattato a proteggere anche opere diverse da quelle artistiche tradizionali che si
collocano più propriamente all’interno di un’attività economica (assimilabili alle creazioni di tipo tecnico o
comunicazionale che normalmente sono protette con i diritti di proprietà industriale). I programmi per
elaboratore sono i software. Il diritto d’autore non si applica più solo alle opere artistiche tradizionali ma
anche a protezione di opere utili, che hanno la loro ragione di protezione nell’essere creazione di un’entità
utile nell’esercizio di un’attività imprenditoriale (es. utilizzo di software o raccolte di dati).

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DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE


Si parla di proprietà intellettuale per definire complessivamente i diritti di proprietà industriale e i diritti
d’autore e connessi, per indicare in modo onnicomprensivo la categoria dei diritti di esclusiva su creazione
dell’intelletto umano. I diritti connessi sono diritti accessori rispetto ai diritti principali d’autore. Un esempio
di diritto connesso alla performance è l’artista che esegue una canzone e la presenta al pubblico. Un esempio
di diritto principale sull’opera è la canzone stessa. Al concetto di proprietà intellettuale sono dedicate due
convenzioni multilaterali: Accordo TRIPs sugli aspetti attinenti al commercio (15 aprile 1994) e la
Convenzione OMPI o WIPO Convention (14 luglio 1967) istitutiva dell’Organizzazione Mondiale della
Proprietà Intellettuale. Si tratta della principale organizzazione internazionale a tutela di tutti i diritti di
proprietà intellettuale. Mentre le precedenti convenzioni erano ancora improntate ad una distinzione tra la
proprietà industriale ed il diritto d’autore, questi due accordi regolano complessivamente in un unico testo
tutti i diritti di proprietà intellettuale. L’accordo TRIPs disciplina a livello uniforme multilaterale diritti
d’autore e connessi, marchi, indicazioni geografiche, disegni industriali, brevetti, topografie di prodotti a
semiconduttori, informazioni segrete. Un’ampia elencazione di ciò che costituisce la proprietà intellettuale si
rinviene anche nell’articolo 2 della WIPO: “Ai sensi della presente Convenzione, si deve intendere per
proprietà intellettuale i diritti relativi: alle opere letterarie, artistiche e scientifiche; alle interpretazioni degli
artisti interpreti e alle esecuzioni degli artisti esecutori, ai fonogrammi e alle emissioni di radiodiffusione;
alle invenzioni in tutti i campi dell’attività umana; alle scoperte scientifiche; ai disegni e modelli industriali;
ai marchi di fabbrica, di commercio e di servizio, ai nomi commerciali e alle denominazioni commerciali;
alla protezione contro la concorrenza sleale; e a tutti gli altri diritti inerenti all’attività intellettuale nei campi
industriale, scientifico, letterario e artistico”.

In sintesi, a fini divulgativi la WIPO dà questa definizione di proprietà intellettuale sul proprio sito internet e
nelle sue pubblicazioni ufficiali dedicate alla materia: “Intellectual property (IP) refers to creations of the
mind, such as inventions; literary and artistic works; designs; and symbols, names and images used in
commerce. IP is protected in law by, for example, patents, copyright and trademarks, which enable people to
earn recognition or financial benefit from what they invent or create. By striking the right balance between
the interests of innovators and the wider public interest, the IP system aims to foster an environment in which
creativity and innovation can flourish”. Oltre a ripercorrere le entità protette con i diritti di IP, l’esistenza di
questi diritti esclusivi permette ai creatori di guadagnare reputazione o benefici finanziari (patrimoniali) da
ciò che inventano o creano; l’esistenza di un’esclusiva che riserva al creatore lo sfruttamento dell’opera da
lui realizzata ha, da un lato, una componente morale (permette di identificare quel soggetto come l’inventore
dell’opera e di accrescere la sua stima sociale) e dall’altro lato ha un fondamentale elemento patrimoniale
(l'essere l’unico a poter sfruttare una certa situazione in regime di monopolio conferisce un rilevante
vantaggio finanziario ed economico perché tutti i proventi che si possono ricavare dallo sfruttamento di
quell’opera confluiscono in capo al titolare dell’esclusiva e i terzi non ne possono beneficiare). Si parla
anche di un essenziale bilanciamento di interessi tra innovatori e pubblico, inteso come i consumatori ed i
concorrenti (operatori economici che si trovano nello stesso settore di mercato del titolare dell’esclusiva); da
un lato, la tutela della PI è considerata essenziale ad un’economia di mercato perché permette di stimolare
l’innovazione e una concorrenza sui meriti, in quanto all’autore dell’innovazione sono riservati i vantaggi
dello sfruttamento dell’innovazione e l’apprezzamento che convoglierà verso la domanda del pubblico. Da
questo punto di vista, il diritto esclusivo è un monopolio virtuoso perché è essenziale al buon funzionamento
del mercato e al gioco della domanda/offerta; inoltre, i consumatori possono premiare chi è in grado di
offrire i prodotti migliori alle condizioni più vantaggiose. È anche vero che, avendo a che fare con diritti di
natura monopolistica, il rischio è che una tutela eccessiva di questi diritti possa avere degli effetti indesiderati
e bloccare il mercato in una misura che crea delle distorsioni. Per questo, la disciplina dei diritti di PI è
sempre volta a cercare questo giusto bilanciamento: tutelare l’innovazione con diritti esclusivi nella misura
in cui questa tutela è funzionale ad un corretto funzionamento del mercato. Al tempo stesso, si vuole evitare
che il monopolio sia troppo ampio e prevedere che oltre i confini dell’esclusiva ci sia una completa area di
libertà dove gli altri operatori del mercato sono liberi di operare a vantaggio dei consumatori. Questa ragione
economica va sempre tenuta presente. Bisogna cercare un’interpretazione delle norme che sia funzionale al
mercato. In questa misura possiamo capire perché, nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea, si dica all’articolo 17.2 che “La proprietà intellettuale è protetta”. Ancora una volta ci si riferisce
ad un’ottica di coordinamento e di bilanciamento con altri diritti fondamentali (tra cui l’iniziativa economica
degli altri operatori di mercato e quello dei consumatori). Il diritto industriale disciplina dunque gran parte
del momento operativo della vita dell’impresa.

Tutti siamo consumatori di proprietà intellettuale. Alcuni esempi: quando ci orientiamo nella scelta di un
bene guardando il marchio con cui è realizzato consumiamo la PI di quel marchio; ogni volta che utilizziamo
un prodotto nelle nostre attività quotidiane (telefono, televisore, pc) consumiamo tecnologia protetta da un

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brevetto; ogni volta che guidiamo un veicolo o indossiamo un capo con un certo design siamo consumatori di
design; ogni volta che leggiamo un libro o ascoltiamo una canzone consumiamo un’opera protetta dal diritto
d’autore; ogni volta che mangiamo un prodotto tipico consumiamo un prodotto coperto da denominazione
d’origine o indicazione geografica.

I BREVETTI
I PRINCIPI FONDAMENTALI
Il campo in cui si colloca questa disciplina è quello delle innovazioni di tipo tecnologico. L’innovazione
tecnologica è un formidabile strumento competitivo perché mette in condizione chi la detiene di offrire
prodotti e servizi tendenzialmente più appetibili e graditi al mercato, ma è anche un formidabile strumento a
vantaggio di una comunità che vuole beneficiare dei frutti del progresso tecnico. Dal punto di vista di una
impresa che investe in R&S per creare innovazione al suo interno o per acquisire dall’esterno innovazione
creata da altri, il problema principale che si pone in una prospettiva giuridico-legale è la tutela di questa
innovazione; da un lato l'impresa deve poter avere una ragionevole prospettiva di guadagno (può compiere
scelte di investimento in R&S se ha una ragionevole prospettiva di rientrare in questi investimenti e di fare
profitto con i frutti della ricerca) ma al tempo stesso, dal punto di vista della collettività, vi è anche l’esigenza
e l’interesse ad avere a disposizione i frutti di una tecnologia in costante progresso. Da questo punto di vista,
l'impresa deve essere garantita nel suo investire in ricerca e sviluppo e deve anche essere incentivata a farlo.
Qual è il problema pratico dell’innovazione tecnologica? Il problema pratico è che si tratta di una creazione
per sé non proteggibile con gli strumenti classici della proprietà e del possesso. Questo è un tema comune a
tutta la materia della proprietà intellettuale; le innovazioni di cui ci occupiamo in questo corso sono tutte
costituite da beni immateriali (es. il concetto innovativo, la parola come logo di un marchio, il design come
concezione estetica dell’aspetto di un prodotto) non tangibili che si estrinsecano in un aspetto tangibile (il
prodotto) ma l’idea innovativa alla base di queste entità è immateriale. Mentre nelle categorie tradizionali del
diritto civile o privato la più immediata forma di tutela di un bene è quella del possesso esclusivo (il cittadino
privato ha il possesso di un certo bene e lo sottrae alla disponibilità degli altri), per un bene immateriale
questo non è possibile. Se io sono proprietario di un libro, di un telefono, di un appartamento, la mia prima
forma di tutela di questa proprietà è far sì che altri non possano mettere le mani sui miei beni. Se io sono
invece titolare di un’invenzione o di un marchio, non ho strumenti fattuali o modi pratici di tutela concreta
per impedire che chiunque copi quel marchio o invenzione e metta sul mercato prodotti copia dei miei.
Essendo beni immateriali, hanno un’altra caratteristica che ne rende difficile la tutela: il fatto di essere beni
suscettibili di un uso plurimo e simultaneo. Se si parla di un’invenzione, nello stesso momento in cui io
frutto questa invenzione per produrre qualcosa, mille altri concorrenti possono in modo plurimo e simultaneo
sfruttare la stessa innovazione per loro attività; anche da questo punto di vista un bene immateriale è molto
più difficile da proteggere perché non c’è un oggetto tangibile da sottoporre ad un possesso in esclusiva.
Come si fa quindi a proteggere questi beni immateriali? È possibile proteggerli solo attraverso strumenti di
creazione legale, cioè solo allorché il legislatore intervenga creando per legge delle esclusive e stabilendo
che quel bene può essere utilizzato solo da chi ha diritto di averlo, l’inventore, e stabilendo altresì che chi
non rispetta questa esclusiva può essere soggetto a sanzioni e chiamato a giudizio davanti ad un giudice che
lo punirà per aver violato l’esclusiva altrui. L’invenzione è un bene riservato e protetto. Verranno irrogate
delle sanzioni: ordine di cessare la condotta illecita e di pagare somme di denaro a risarcimento dei danni
provocati con la violazione, anche come deterrente rispetto a possibili violazioni future. In questa prospettiva
si colloca la disciplina della proprietà intellettuale e quella dei brevetti per invenzione.

INVENZIONE E BREVETTO
Possiamo definire il brevetto per invenzione come uno strumento di creazione legale (o barriera di creazione
legislativa) con il quale si costituisce a favore di chi realizza un’invenzione di tipo tecnico un diritto di
esclusiva sull’invenzione stessa. I brevetti per invenzione riguardano esclusivamente il mondo della tecnica.
Altri tipi di innovazione in settori diversi non sono oggetto di brevetto; si tratta di innovazioni protette con
strumenti diversi da quelli del brevetto. Tipicamente le invenzioni di tipo non tecnico sono protette attraverso
la disciplina dei segreti commerciali e del know-how mentre per le innovazioni di tipo estetico anche
attraverso la disciplina dei disegni/modelli registrati e non registrati e del diritto d’autore. Per il momento ci
troviamo nel campo della tecnica. Il dato di fatto è l’invenzione (il conseguire un’innovazione tecnica) e il
dato giuridico è il brevetto (lo strumento legale di tutela che interveniente sul dato di fatto a proteggere
l’invenzione). Definizione di invenzione: soluzione originale di un problema tecnico. Possiamo vedere due
concetti centrali nella materia brevettuale: problema tecnico e relativa soluzione; il problema tecnico è
costituito da qualsiasi ostacolo o difficoltà che richiede una soluzione (es. problema nel campo meccanico
dell’eccessivo surriscaldamento di un macchinario durante il suo utilizzo; esistenza di una patologia nel
campo medico con esigenza di trovare kit diagnostici e medicinali per la cura della malattia; problemi tecnici
in campo elettronico costituiti da difficoltà di trasmissione dei dati o rallentamenti nel download) mentre la

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soluzione è l’apporto originale dell’inventore (che interviene e capisce in modo inventivo come risolvere il
problema tecnico). Nella prima ipotesi presa ad esempio avremo un’inventore che, di fronte al problema di
riscaldamento eccessivo del macchinario, mette a punto un dispositivo che evita questo surriscaldamento o
riesce a costruire il macchinario in un modo diverso grazie al quale il problema non si pone; nel secondo
esempio la soluzione di tipo tecnico sarà trovare il vaccino per tale malattia, il kit di diagnosi o il principio
attivo per produrre un farmaco efficace contro quella malattia; nel terzo esempio possiamo pensare a tutte le
varie generazioni migliorate di trasmissione dati che si arricchiscono di nuove funzionalità o di migliorate
capacità di trasmissione dati, ogni funzionalità differente è un’evoluzione originale di un problema tecnico.
Non necessariamente l’invenzione, per essere protetta come brevetto, deve essere una soluzione originale di
un problema risolto per la prima volta; è possibile che un problema tecnico sia già stato risolto in un
determinato modo, ma questo non esclude che l’inventore possa trovare una diversa e migliore soluzione di
quel problema. Per avere un valido brevetto, non è richiesto che l’inventore risolva un problema prima.
Molte volte assistiamo a situazioni in cui il problema è già risolto e l’invenzione consiste nel risolverlo in un
modo più efficiente (es. successiva invenzione che mette a punto un farmaco che cura la malattia ma senza
effetti collaterali; pulizia del macchinario con una soluzione chimica che consenta di pulirlo senza fermarne
l’utilizzo); il problema risolto è lo stesso ma anche la seconda invenzione è inventiva e originale. Mettendo
insieme dato fattuale (invenzione) e dato legale (brevetto) otteniamo il risultato di un diritto di esclusiva di
matrice legale sul bene immateriale costituito dall’idea inventiva. Il diritto di esclusiva è il diritto di
sfruttamento esclusivo in ogni modo dell’invenzione; il titolare del brevetto è quindi padrone dell’invenzione
coperta da questo strumento legale. L’esclusiva ha una componente negativa e una positiva: la componente
negativa è quella tipica di tutti i diritti assoluti caratterizzati dalla facoltà di escludere i terzi dal godimento di
un certo bene, in questo caso l’aspetto negativo è il diritto di vietare a tutti i terzi di sfruttare l’invenzione
senza il suo consenso; immaginiamo l’area protetta dal brevetto come un recinto all’interno del quale sta il
titolare che può vietare o permettere ai terzi di entrare. L’esclusiva ha anche una componente positiva: il
diritto pieno del titolare di decidere in autonomia se e come sfruttare l’invenzione: avendo un’esclusiva può
compiere tutte le scelte strategiche di sfruttamento dell’invenzione (se utilizzarla per offrire prodotti e servizi
direttamente al mercato, può decidere di monetizzare il valore del brevetto cedendolo ad un terzo, può
procedere allo sfruttamento del brevetto tramite una politica di licensing oppure può massimizzarne il
profitto usandolo in parte in proprio e in parte in licenza così da raggiungere mercati in cui non riesce ad
arrivare o per fabbricare quantità di prodotto che il titolare non è in grado di produrre).

FUNZIONI DEL BREVETTO


Parlando di funzioni ci riferiamo alle finalità perseguite dal legislatore nel creare e nel disciplinare questo
istituto brevettuale. La legge deve avere degli scopi e perseguire finalità non solo nell’interesse del singolo,
ma possibilmente nell’interesse della collettività; questo è ciò che fa il sistema brevettuale. La principale
funzione del brevetto è quella di essere uno stimolo per il progresso tecnico; questo si collega con il fatto che
l’idea inventiva in sé è un bene immateriale e non può essere protetta con i sistemi tipici del possesso. Si
tratta di un bene immateriale che ha bisogno di una protezione giuridica per poter essere tutelato. In che cosa
consiste il vantaggio della collettività? Consiste nel fatto che, senza questa tutela brevettuale, la collettività si
troverebbe verosimilmente in una situazione nella quale non potrebbe beneficiare di quella innovazione
perché quest’ultima non esisterebbe. Qui il dato è prettamente economico. Se pensiamo alle dinamiche
attuali della ricerca, spesso caratterizzata da alta tecnologia ed investimenti rilevanti in R&S per arrivare
all’idea inventiva e attuarla, capiamo che in una logica economica l’imprenditore non sarà mai portato a
destinare investimenti ingenti alla ricerca e allo sviluppo volti alla creazione di innovazione se sapesse che,
una volta messo il prodotto sul mercato, tutti quegli investimenti sarebbero vanificati e non avrebbero alcuna
prospettiva di un ritorno economico o di una generazione di profitto perché l’idea inventiva potrebbe essere
copiata da chiunque a costo zero (esaminando il prodotto e risalendo all’idea inventiva). Ci sono situazioni in
cui la ricerca è mossa da finalità diverse (es. ideali, beneficienza, ecc) ma tipicamente i grandi capitali che
servono per la ricerca provengono da soggetti che operano con una prospettiva imprenditoriale (ottenimento
e massimizzazione del profitto). Il legislatore prende atto del fatto che, se non ci fosse una tutela giuridica a
favore di chi finanzia la ricerca che gli dà una prospettiva di recuperare gli investimenti fatti e possibilmente
di avere profitto da questi investimenti, la ricerca in larga misura non verrebbe svolta perché non vi sarebbe
una convenienza economica a farla. Ci sono dei casi in cui l’esame del prodotto finito posto sul mercato non
consente di risalire all’idea inventiva che sta alla base di quel prodotto: si tratta del caso denominato reverse
engineering (ingegneria inversa) che parte dal prodotto finito e lo scompone per risalire al modo in cui il
prodotto. Ci sono anche casi in cui questo non è possibile, tipicamente questo avviene nel campo della
chimica dove il prodotto posto sul mercato è ottenuto con una formula complessa e con un procedimento di
sintesi elaborato che non è oggettivamente possibile risalire all’idea inventiva (intesa come formula chimica
e processi). Una forma di protezione delle innovazioni è anche quella del segreto: l’inventore ritiene che il
reverse engineering non sia possibile e può anche pensare di tutela la sua invenzione mantenendola segreta,

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con il rischio che l’ingegneria inversa sia possibile o che un concorrente arrivi alla stessa idea inventiva. Solo
lo strumento brevettuale dà la certezza a chi ha investito in ricerca di avere un monopolio sul risultato della
ricerca e di escludere i terzi per legge dallo sfruttamento di questo risultato. Questo è ciò che fa il legislatore.
Naturalmente può accadere che l’imprenditore investa somme ingenti in ricerca e che la ricerca non porti a
nulla di inventivo o porti a qualcosa di inventivo che però non incontra il favore del pubblico e quindi risulta
essere un insuccesso totale; questa eventualità di insuccesso rientra nel normale rischio d’impresa. La legge
non può e non deve garantire il successo imprenditoriale ma deve garantire che vi siano le condizioni di
questo successo imprenditoriale attraverso il sistema brevettuale, garantendo anche un incentivo ad investire
in ricerca a beneficio della collettività. Per questo si dice che la funzione del brevetto è quella di stimolare il
progresso tecnico: senza l’esclusiva e senza la sicurezza di una possibilità di guadagno sull’invenzione,
l’investimento in ricerca non verrebbe compiuto. Facciamo un esempio concreto: gli oggetti con cui abbiamo
a che fare nella nostra vita quotidiana incorporano tecnologia brevettata ma, se non ci fosse il brevetto, essi
probabilmente non esisterebbero.

Inoltre il brevetto ha anche una funzione fondamentale di divulgazione e di accrescimento delle conoscenze
tecniche. Funzione di divulgazione dell’invenzione brevettata: nella descrizione del testo della domanda di
brevetto l’inventore fornisce una serie di dati, informazioni, risultati di ricerche e nuove conoscenze che
vanno ad accrescere il patrimonio collettivo di conoscenze, stimolando e favorendo nuove innovazioni
perché nel testo brevettuale gli altri ricercatori possono trovare un set di conoscenze che non avrebbero senza
il testo brevettuale. Il brevetto soddisfa l’interesse del privato imprenditore che investe in ricerca, ma lo fa in
modo da garantire e soddisfare al tempo stesso importanti e fondamentali interessi della collettività affinché
si crei innovazione che vada a beneficio delle conoscenze di tutti.

INTERESSI PROTETTI E LORO BILANCIAMENTO


Nell’illustrare le funzioni del brevetto emerge che vi sono diversi interessi sottesi alla disciplina intellettuale
e meritevoli di protezione. Questi interessi non sempre sono allineati tra loro, si tratta infatti di interessi che
possono anche essere in conflitto:
– Interesse dell’inventore o finanziatore della ricerca: datore di lavoro dei dipendenti riuniti in un team di
ricerca all’interno della società, committente che finanzia una ricerca svolta presso un ente di ricerca. Il
primario interesse di questi soggetti è quello di avere un’esclusiva che sia la più ampia possibile.
– Interesse della collettività: il sistema deve essere funzionale a garantire l’interesse di poter effettivamente
disporre dell’invenzione e a far sì che si crei un ambiente che sia favorevole alla creazione di ulteriore
innovazione. Si deve tenere conto anche dell’interesse pubblico affinché il sistema sia bilanciato.
– Interesse dei concorrenti del titolare del brevetto: i beni protetti con il brevetto e in generale con tutti i
diritti di proprietà intellettuale sono protetti con un monopolio, creando un’isola monopolistica all’interno
di un mercato che è e deve rimanere concorrenziale (deve vedere un libero gioco di domanda e offerta). I
concorrenti del soggetto che beneficia di questa isola monopolistica hanno un interesse a che essa sia il
più possibile contenuta e che, attorno ad essa, si possa liberamente operare. L’esclusiva è una sorta di area
protetta o recinto all’interno del quale il titolare è unico padrone della sua invenzione e i terzi possono
girare attorno a questo recinto ma non possono entrarvi senza il consenso del titolare.

Questo vuol dire che è giusto e doveroso dare un’esclusiva all’inventore, ma è altrettanto giusto contenere
l’esclusiva in una misura tale che essa non vada a scapito del buon funzionamento del mercato. I diritti di
proprietà intellettuale sono diritti monopolistici e si giustificano all’interno di un libero mercato se e nella
misura in cui quel monopolio e quella esclusiva siano funzionali al buon funzionamento del mercato e
presentino dei vantaggi per il pubblico. Da un lato è giusto che ci sia la tutela brevettuale, ma dall’altro è
anche giusto che non sia troppo estesa. L’interpretazione, l’applicazione e la configurazione delle regole di
un diritto esclusivo devono essere fatte in modo che l’esclusiva creata trovi nelle esigenze del mercato e della
collettività una giustificazione. I diritti esclusivi di proprietà intellettuale esistono e si giustificano nella
misura in cui sono funzionali al mercato; oltre quest’area non hanno ragione di essere, diventano monopoli
esclusivamente di intralcio alla libertà del mercato e alla ricchezza di offerte che il consumatore deve poter
trovare sul mercato. Per questo motivo il legislatore, nella materia della propria intellettuale, deve compiere
delle scelte volte a conseguire il miglior bilanciamento possibile tra gli interessi confliggenti. Questo vuol
dire trovare un giusto equilibrio tra l’interesse di chi desidera avere un’esclusiva (altrimenti non sarebbe
incentivato a fare ricerca), l’interesse del pubblico al progresso tecnologico e l’interesse dei concorrenti ad
avere uno spazio effettivo di libertà sul mercato che non sia indebitamente ristretto. Nel fare il bilanciamento
di interessi, il legislatore ha operato all’insegna di uno scambio virtuoso tra l’inventore e la collettività. Da
un lato i concorrenti subiscono il sacrificio dell’esistenza dell’esclusiva, dall’altro chi vuole avere questa
esclusiva deve rivelare informazioni tecniche che accrescano il patrimonio di conoscenze e deve accettare
che la sua esclusiva abbia delle limitazioni perché non si devono pregiudicare gli interessi dei concorrenti.

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Eleonora Biffi

REGOLE FONDAMENTALI
Si tratta delle regole basilari del diritto dei brevetti in cui si manifesta il bilanciamento di interessi.
• Limite temporale inderogabile della tutela brevettuale: se esiste la necessità di dare esclusiva ragionevole
ma non eccessiva all’inventore, la prima cosa da fare è fissare un limite di tempo affinché la tutela abbia
una durata prestabilita e invalicabile; sulla base di una serie di considerazioni anche di carattere economico
si è arrivati alla conclusione che in media il termine ragionevole di protezione data dal brevetto sia di 20
anni dal momento in cui la domanda di brevetto viene depositata. Si tratta di un termine comune, possono
esserci casi in cui i vent’anni non sono sufficienti a remunerare in modo adeguato l’invenzione oppure ci
possono essere casi in cui risultano essere troppi (es. elettronica con tasso di obsolescenza dell’innovazione
breve). Il limite di vent’anni è stato ritenuto congruo per dare all’inventore una ragionevole prospettiva di
remunerazione e per evitare che il sacrificio dei concorrenti sia troppo esteso. I vent’anni rappresentano
nella prospettiva del legislatore il termine entro il quale il titolare del brevetto ha una giusta e ragionevole
possibilità di fruttare la sua esclusiva e di generare profitto sugli investimenti compiuti in ricerca. Il settore
farmaceutico ha delle regole particolari per cui l’esclusiva brevettuale può essere estesa fino a 25 anni;
questo avviene perché nel settore della ricerca farmaceutica, tra il deposito della domanda di brevetto su un
nuovo principio attivo per la cura di una patologia e il momento in cui il farmaco contenente quel principio
attivo può essere effettivamente immesso sul mercato a seguito di un’autorizzazione all’immissione in
commercio, passa un periodo di tempo molto lungo (tipicamente di 12-13 anni). La tutela della salute
pubblica prevede che, una volta che sia stata conseguita l’invenzione consistente in un certo principio
attivo di un farmaco, si debbano poi fare una serie di test, sperimentazioni e verifiche cliniche di efficacia e
non nocività del farmaco. Le case farmaceutiche compiono dei test clinici volti a stabilire se il farmaco
funziona, se non ha effetti collaterali inaccettabili, se non è troppo nocivo e via dicendo. Senza le verifiche
e le prove non è possibile che il farmaco venga autorizzato alla vendita; i test, a loro volta, comportano
tempi lunghi e investimenti molto rilevanti (centinaia di milioni di Euro o dollari). Dopo aver sostenuto
tutti i costi l’inventore può mettere il suo prodotto sul mercato e a quel punto il tempo residuo di vita del
brevetto è troppo ridotto per dare una sufficiente remunerazione al titolare; per questo motivo è stata estesa
la durata del brevetto nel settore farmaceutico a venticinque anni. Una volta che la protezione brevettuale
ha raggiunto il suo termine temporale il brevetto scade, inderogabilmente non ci sono possibilità di rinnovo
e l’invenzione cade in pubblico dominio; ciò significa che tutti la possono sfruttare liberamente, possono
replicarla e utilizzarla a fini commerciali senza dover chiedere il consenso del titolare del brevetto e senza
violare alcun suo diritto. Nel campo farmaceutico il mercato è diviso in due blocchi: le imprese originatrici
(che investono in ricerca e puntano all’ottenimento di nuovi farmaci) e le imprese genericiste (producono e
mettono sul mercato, una volta scaduto il brevetto, dei farmaci generici equivalenti a quelli dell’impresa
originator a costi più contenuti). Questo va a vantaggio dei consumatori che, una volta scaduto il brevetto,
possono rivolgersi al farmaco generico di costo inferiore.
• Eccezione di uso sperimentale: già nel periodo in cui il brevetto è in vigore e prima ancora che sia scaduto,
l’invenzione brevettata può essere utilizzata a fini di ricerca innovativa. Stessa logica: divulgazione delle
conoscenze e creazione di ulteriore innovazione. Il titolare del brevetto può opporsi a qualunque forma di
sfruttamento commerciale della sua invenzione per tutta la durata del brevetto (in modo da bloccare test e
sperimentazioni volti a copiare l’invenzione per metterla sul mercato senza permesso) ma non può in alcun
modo impedire che le conoscenze contenute nel testo brevettuale siano usate da terzi che non vogliono
invadere il suo recinto esclusivo e non vogliono fare uno sfruttamento commerciale della sua invenzione,
bensì vogliono utilizzare le conoscenze alla base di quell’invenzione per realizzarne un’altra che non
interferisca con quella brevettata. Da un punto di vista commerciale questo non disturba il titolare del
brevetto, non pregiudica la capacità di profitto sull’invenzione brevettata e soddisfa bene l’esigenza della
collettività ad avere ulteriore innovazione.
• Sufficiente descrizione: perché tutto questo funzioni occorre che chi deposita la domanda di brevetto riveli
in modo adeguato in che cosa consiste la sua invenzione. Se il concetto inventivo non è spiegato in modo
adeguato, la caduta in pubblico dominio scaduto il brevetto è puramente fittizia perché non si sa cosa fosse
l’invenzione protetta da brevetto e quindi non la si può sfruttare. Di conseguenza, l’utilizzo a fini di ricerca
innovativa durante la vita del brevetto non è possibile perché non si sa in cosa consista. L’inventore, per
ottenere il brevetto, deve descrivere in modo chiaro e completo la sua invenzione nel testo della domanda
di brevetto. Una descrizione è sufficiente solo se un terzo (esperto del settore tecnico in cui si colloca
l’invenzione), leggendone il testo, è in grado di comprendere in cosa consiste l’invenzione e come la si può
mettere in pratica. Solo in questo caso si ha un’effettiva divulgazione dell’invenzione e il sistema funziona.

CONCLUSIONI
Come si articola la logica di scambio tra inventore e collettività? L’inventore è stimolato a brevettare dalla
prospettiva di una tutela esclusiva di ragionevole durata che tendenzialmente è sufficiente a remunerarlo e a
dargli un adeguato vantaggio competitivo. Oltre a questo si è nel campo del normale rischio d’impresa. In

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Eleonora Biffi

cambio il titolare deve dare la conoscenza che ha ottenuto per arrivare a quell’idea inventiva. La collettività
subisce il sacrificio di un’esclusiva conferita al titolare del brevetto; in termini pratici, questo si manifesta nel
fatto che verrà trovato sul mercato un prodotto che ha un prezzo monopolistico che tiene conto dei costi di
R&S. La collettività ottiene però il vantaggio dell’incremento di conoscenze che possono essere sfruttate e
può ottenere il vantaggio dell’avere a disposizione sul mercato prodotti e servizi sempre migliori in una
misura che non sarebbe raggiunta se la tutela brevettuale non ci fosse. I terzi concorrenti devono rispettare
l’ambito dell’esclusiva brevettuale ma sono assicurati dato che l’esclusiva è contenuta entro limiti temporali
inderogabili che assicurano che la tutela conferita al titolare non sia eccessiva, cioè che non ci sia una
ingiustificata sovraprotezione del titolare del brevetto con effetti distorsivi del mercato.

ENTITÀ BREVETTABILI
Nella materia dei diritti esclusivi di proprietà intellettuale l’architettura della legge ha dei tratti comuni: il
legislatore delinea quali sono le entità che possono essere protette in base a quella branca della proprietà
intellettuale, identifica quindi le creazioni che possono essere protette in base ad una determinata disciplina
(nel caso dei brevetti si tratta delle invenzioni di carattere tecnico), poi identifica i requisiti di validità ossia
delle caratteristiche che queste entità devono possedere per “meritare” nel caso concreto la protezione. Una
volta identificata un valido brevetto, la legge precisa quali sono i contenuti di questa esclusiva (disciplina
quali sono le facoltà attribuite in esclusiva al titolare dell’esclusiva e quali sono invece le attività alle quali
l’esclusiva non si estende); questo disciplina i modi in cui il titolare può disporre dell’esclusiva e identifica
ciò che è lecito o illecito da parte dei terzi. Infine vengono previste delle norme sulle nullità e decadenze,
fenomeni patologici che portano ad una cancellazione del diritto esclusivo. Le cause di nullità si hanno
quando si riscontra, dopo la concessione di un titolo di proprietà intellettuale, che quel titolo non sarebbe
dovuto essere concesso perché non c’erano i requisiti per farlo (presenza di vizi originari) e questo determina
la cancellazione di quel brevetto. Le cause di decadenza sono invece fattori sopravvenuti nel corso della vita
dell’esclusiva che sono incompatibili con il permanere nel tempo dell’esclusiva (fatti sopravvenuti che
pongono termine all’esclusiva). In entrambi i casi abbiamo come risultato la perdita del diritto esclusivo con
la differenza che nel primo caso il diritto esclusivo si perde fin dall’inizio come se non fosse mai esistito
perché vengono riscontrati dei vizi originari, mentre nel secondo caso il brevetto è valido fino ad un certo
momento e cessa di esistere nel momento in cui si verificano determinati fatti sopravvenuti. Architettura
complessiva dei diritti di proprietà intellettuale in sintesi: tipi di entità proteggibili, requisiti di validità,
ambito dell’esclusiva, possibili fenomeni patologici di nullità e decadenza. Inoltre è importante sapere che
non tutte le innovazioni di tipo tecnico sono brevettabili, ma solo quelle che raggiungono un certo grado di
originalità.

OGGETTO DEL BREVETTO


Facciamo riferimento al Codice della Proprietà Industriale che disciplina i brevetti negli art. 45 e seguenti.
A livello globale abbiamo due convenzioni che fissano i principi base in materia di brevetti: la Convenzione
di Unione di Parigi (risalente fino al 1883) e gli Accordi TRIPs (1994). A livello europeo abbiamo la
Convenzione sul Brevetto Europeo (1973, art. 52 e seguenti) che è più ampia e dettagliata dei precedenti e
contiene una serie nutrita di norme sostanziali di diritto dei brevetti e ad essa si è pienamente allineata la
legislazione italiana. La norma di partenza della disciplina dei brevetti è la seguente: “Possono costituire
oggetto di brevetto le invenzioni di ogni settore della tecnica, a condizione che siano nuove, implichino
un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale”. Si tratta della prima norma della
disciplina dei brevetti che costituisce un riassunto di tutto quello che viene dopo in tema di entità brevettabili
e requisiti di validità. Nella prima parte della norma siamo nell’ambito dell’individuazione delle entità
brevettabili, viceversa la seconda parte riassume i requisiti di validità (novità, attività inventiva, applicazione
industriale, liceità). Cosa può essere oggetto di brevetto? Le invenzioni di ogni settore della tecnica. Questa
espressione ha diverse valenze; anzitutto dice che materia di brevetto è l’innovazione di carattere tecnico, in
secondo luogo dice che non ci sono settori della tecnica per i quali non è possibile la brevettazione:
qualunque innovazione in un settore della tecnica può aspirare al brevetto (es. campo meccanico, chimico,
elettronico, biotecnologico). Questa norma ha un significato forte soprattutto per il settore della ricerca sul
vivente (biotecnologie), in questo settore vi erano posizioni ideologiche molto forti contro la brevettabilità
della ricerca sul genoma umano e animale, sugli OGM e così via. La legge si è preoccupata di porre dei
limiti alla brevettazione in questi settori di carattere etico, ma sia la Corte di giustizia dell’EU che la Corte
suprema americana hanno detto che questi settori possono aspirare al brevetto. In negativo questa formula ci
dice che, tuttavia, le innovazioni di natura non tecnica non possono avere la protezione brevettuale; in
particolare si fa riferimento alle innovazioni in campo estetico e alle innovazioni di carattere commerciale,
che sono rispettivamente proteggibili con il diritto d’autore e come know-how riservato. Per quanto riguarda
specificatamente le innovazioni di natura commerciale, esse possono avere una protezione come know-how
riservato ma non come brevetto per invenzione perché non sono soluzioni di un problema di tipo tecnico. La

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Eleonora Biffi

legge dice che, nel campo dell’innovazione tecnica, sono brevettabili sia i prodotti sia i procedimenti. Dal
momento che ogni innovazione della tecnica può essere brevettata, automaticamente facciamo riferimento
sia alla creazione di un nuovo prodotto con una certa funzione (dispositivo meccanico, composto chimico,
organismi geneticamente modificato) sia ai brevetti di procedimento industriale (tipicamente si parla di
procedimenti di fabbricazione e di lavorazione). La legge regola diversamente queste due tutele: brevetti di
prodotto e brevetti di procedimento. Inoltre, vengono menzionati anche i brevetti di nuovo uso che però non
sono una vera e propria terza categoria ma si collegano ai brevetti di prodotto e riguardano i casi in cui un
prodotto è già noto e conosciuto ma viene individuato un nuovo uso del prodotto in questione; questo capita
frequentemente in campo farmaceutico (es. si scopre che una certa molecola o sostanza può essere usata per
curare differenti patologie). Per questa ipotesi la legge precisa che il fatto che sia già noto il prodotto in sé
non esclude che possa essere ribrevettato in funzione del nuovo uso. Si ritiene che il trovare un nuovo uso
originale di un prodotto noto costituisca in sé una invenzione e che quindi meriti una protezione brevettuale
che riguarderà solo questo nuovo uso e non il prodotto in sé in quanto già noto.

ENTITÀ CHE NON SONO CONSIDERATE INVENZIONI


Il legislatore ha indicato in modo specifico all’interprete alcune entità che non sono brevettabili, sottratte
quindi alla brevettazione. Nell’applicazione dell’art. 45 diventa rilevante stabilire se l’entità che si vuole
proteggere come brevetto rientri o no nell’elenco di esclusioni fissato dal legislatore e dunque non tutelabile.
La norma di riferimento sono i commi 2 e seguenti dell’art. 45 (c.p.i.). Le entità non brevettabili possono
essere distinte in due grandi categorie: la prima è quella delle entità che non sono considerate invenzioni: si
tratta di entità che il legislatore non considera invenzioni intese come soluzioni di problemi tecnici. Si tratta
di attività che per il legislatore non fanno parte del mondo della tecnica e per questo motivo non possono
essere considerate invenzioni in termini giuridici. Vediamo l’elenco:
– Scoperte, teorie scientifiche e metodi matematici: si tratta di mere teorie, meri metodi astratti, meri
principi e mere leggi della fisica che sono frutto di un esercizio intellettuale di chi le ha concepite e
scoperte, ma che in sé non hanno un’applicazione per la soluzione di un problema tecnico. Esempi: leggi
matematiche o teorie scientifiche astratte senza applicazione concreta; nel campo delle scoperte pensiamo
a tutte le attività dei ricercatori che consistono nello scoprire qualcosa di preesistenze in natura, senza
individuare alcuna utilità concreta, senza che quella scoperta vada oltre il portare a conoscenza della
collettività che quella cosa esiste. In questo caso non siamo non siamo ancora al livello di una invenzione
brevettabile; avremo un apporto di conoscenza che non è ancora stata impiegata nella risoluzione di un
problema tecnico, di conseguenza non è in sé un’invenzione brevettabile.
– Piani, principi e metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale: siamo di nuovo
sul versante dei meri principi astratti di metodi per svolgere attività riconducibili all’ingegno umano ma
non dottate di valenza tecnica. C’è un riferimento specifico all’attività commerciale: il mettere a punto una
strategia commerciale vincente è qualcosa di molto rilevante, che però non si colloca nel mondo della
tecnica e quindi viene escluso dalla brevettabilità. La ragione per cui in questa categoria sono inseriti
anche i programmi per elaboratore (software) ha delle ragioni storiche che vedremo meglio più avanti;
i programmi per elaboratore sono in realtà innovazioni di tipo tecnico e le ragioni per cui sono stati
aggiunti in questa categoria non hanno un fondamento reale nella loro natura non tecnica, ma sono dovute
a ragioni politiche di volontà di esclusione del software in una certa fase storica (Convenzione di Monaco
del 1973). Il software ha avuto una storia a sé che studieremo più avanti.
– Presentazioni di informazioni: tabelle, forme di assemblaggio e riunione delle informazioni, banche dati
che non sono oggetto di tutela brevettuale ma di tutela con il diritto d’autore perché in sé la banca dati
come struttura non risolve un problema tecnico.
– Creazioni estetiche: la creazione di tipo estetico non appartiene al mondo della tecnica.
La mera scoperta in sé non è brevettabile perché non dà un apporto tecnico ma non è detto che sia così; chi
ha fatto quella scoperta ha anche individuato il modo di applicare quella scoperta ad un problema tecnico e di
risolverlo grazie alla scoperta in questione (es. scoperta di una certa legge fisica del comportamento di un
metallo ad alte temperature; in sé non risolve un problema tecnico, ma se la utilizzo per far funzionare in un
certo modo un impianto industriale, per la fusione e la colata di quel metallo, e risolvo grazie a questa legge
fisica un problema specifico di quella attività, ho fatto qualcosa che attiene al mondo della soluzione di un
problema tecnico; es. scoperta di un microorganismo esistente in natura che ha determinate proprietà che lo
rendono utile per l’individuazione di un farmaco, a questo punto io ho trasformato la mia scoperta in una
scoperta-invenzione). Si parla di scoperta-invenzione quando l'apporto del ricercatore non si ferma alla
scoperta ma va oltre, va nella direzione di applicazione concreta della scoperta alla soluzione di un problema
tecnico. La legge tiene conto di questa eventualità nel terzo comma dell’art. 45: “Le entità menzionate nel
secondo comma non sono brevettabili solo se considerate in quanto tali in sé e per sé”. Se queste entità non
sono “in quanto tali” significa che sono brevettabili perché non si sono fermate a un mero dato di conoscenza

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Eleonora Biffi

ma si sono rivolte ad un’applicazione industriale utile. Esempio relativo alla prima causa decisa in Italia a
fine anni ‘90 in materia di invenzioni biotecnologiche: si trattava di un brevetto riguardante il genoma del
virus responsabile dell’epatite C; un concorrente del titolare del brevetto aveva chiesto la nullità del brevetto
sostenendo che l’individuazione del genoma di questo virus fosse una pura e semplice scoperta. Il titolare del
brevetto risponde che non si tratta di una scoperta in quanto tale perché è stata utilizzata per fabbricare
vaccini e kit diagnostici. La risposta del titolare del brevetto viene accolta dal tribunale di Milano. Questa
norma fissa lo spartiacque tra ciò che rimane un dato astratto di conoscenza e ciò che viene utilizzato per la
risoluzione di un problema tecnico. Delle entità elencate nell’articolo 45.2, nella pratica ve ne sono alcune
per le quali non capita quasi mai che venga individuato un utilizzo di tipo tecnico (presentazioni di
informazioni, creazioni estetiche, piani per gioco o per attività commerciale). Diverso è per le leggi della
fisica (teorie scientifiche) e per le scoperte. In sintesi:
• Scoperta: semplice individuazione del virus che ancora non ha un’applicazione utile e non è brevettabile;
• Scoperta-invenzione: utilizzo di quella scoperta (conoscenza consistente nel genoma del virus) per creare
dei kit di diagnosi/rilevazione del virus nel paziente e di vaccini per rendere immune il soggetto vaccinato
all’insorgere della malattia.

Un’altra entità per la quale è stata applicata questa eccezione del “Non in quanto tale” è il software che ha
avuto una storia particolare. Quando negli anni ‘60-70 si erano poste questioni di brevettabilità del software,
da un lato per la novità della materia e per ragioni politiche contrarie alla costituzione di un’esclusiva su
questo tipo di entità, era prevalsa la linea di escludere la proteggibilità del software con il brevetto. Con la
Convenzione di Monaco del 1973 i software sono stati dichiarati non brevettabili e il divieto è rimasto anche
nella nostra legge attuale. Gli interpreti, a partire dalla metà degli anni ‘80 e in un contesto politico mutato in
cui si era rivalutata l’esigenza di proteggere il software, hanno progressivamente eroso e circoscritto l’ambito
di applicazione del divieto posto dalla legge, agendo sul concetto del “Non in quanto tale”. Quest’opera di
apertura alla brevettazione del software è stata guidata dall’Ufficio Europeo dei brevetti che concede i
brevetti in base alla Convenzione sul brevetto europeo e che ha stilato anche delle direttive EPO (European
Patent Office). L’ufficio ha individuato una serie sempre più ampia di situazioni in cui si poteva ritenere che
il software non fosse in quanto tale. Questa esperienza si condensa nel ritenere che “Se il software produce
un effetto tecnico ulteriore, il software diventa brevettabile”. Distinguiamo:
– Software in quanto tale non brevettabili: software che si limita ad una normale interazione di impulsi tra
software e hardware; in sostanza è il software che non svolge alcuna funzione specifica, è come una serie
astratta di comandi ma senza alcuna specifica soluzione al problema. L’ufficio riconduce a questa ipotesi i
normali effetti fisici dell’esecuzione di un programma quali la circolazione delle correnti nel computer e la
semplice interazione software-hardware.
– Invenzioni implementate o computer implemented inventions: presenza di un effetto tecnico che va oltre
le normali interazioni fisiche tra il programma software e il computer hardware; in questa circostanza c’è
materia brevettabile. Secondo i giudici si hanno dei casi di questo tipo quando il programma caricato sul
computer serve a far funzionare in modo migliore il computer e le sue interfacce utente o quando il
programma serve a comandare un dispositivo esterno all’hardware. Qui il software non è fine a se stesso
ma serve a fare qualcosa. Per quanto riguarda gli effetti interni sul computer c’è una casistica piuttosto
vasta di effetti di questo tipo (es. organizzazione migliore delle memorie interne del computer, innovazioni
relative ai programmi di videoscrittura quali Word o Excel, software che stanno alla base delle interfacce
grafiche). Vastissima è anche la casistica relativa a dispositivi esterni comandati a mezzo software (es.
macchinari industriali azionati mediante un software, software utilizzato per razionalizzare dei flussi di
produzione, software impiegato per regolarizzare e ottimizzare il flusso delle merci in entrata o in uscita
da un magazzino, attività medica robotizzata e digital health, funzionalità dei videogiochi).

Nel corso degli anni il divieto di brevettazione del software è stato molto limitato. Oggigiorno si riconosce
con molta facilità la presenza di un carattere tecnico che rende il software non più in quanto tale e quindi
brevettabile in base al comma 3 dell’articolo 45. A questa tutela si affianca anche una possibilità di tutela del
software con il diritto d'autore. Il software che era partito da una situazione di non tutelabilità, con il tempo è
diventato da un lato materia di brevetto in via interpretativa e dall’altro materia di diritto d’autore.

ENTITÀ CHE NON POSSONO COSTITUIRE OGGETTO DI BREVETTO


Si tratta di entità che in sé sarebbero invenzioni e quindi rientrerebbero nella definizione di soluzione di un
problema tecnico, ma che per interessi prevalenti di altro tipo il legislatore ha invece deciso di sottrarre alla
brevettazione. Non possono costituire oggetto di brevetto (art. 45.4):
– Metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale; metodi di diagnosi
applicati al corpo umano o animale: sono esclusi per ragioni di tutela della salute. Il legislatore ha
ritenuto che dare una esclusiva sul metodo per effettuare una diagnosi, un’operazione chirurgica o un

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Eleonora Biffi

trattamento terapeutico fosse eccessivo e potesse portare ad una situazione in cui quel metodo non sarebbe
poi stato a disposizione del paziente bisognoso dell’applicazione di quel metodo. Qui c’è essenzialmente
una preoccupazione legata alla salute pubblica.
– Varietà vegetali e razze animali; procedimenti essenzialmente biologici di produzione di animali o
vegetali. In campo biotecnologico succede che l’invenzione consista nell’individuazione di un OGM, di
una nuova varietà vegetale o razza animale; qui la ragione del divieto è un’altra: il legislatore ha ritenuto
che le varietà vegetali e le razze animali fossero bisognose di una legislazione specifica di settore a loro
dedicata diversa da quella brevettuale. Gli articoli dal 100 al 116 del c.p.i. si occupano della creazione di
un diritto di esclusiva sulle nuove varietà vegetali. Per le razze animali si è cercato di varare una
legislazione specifica ma al momento questo non è ancora stato fatto. Per il momento la motivazione
dell’avere una legislazione specifica ha avuto un risultato concreto per le varietà vegetali ma non per le
razze animali. Entrambe comunque non sono brevettabili così come non è brevettabile l’individuazione di
un procedimento su base naturale (semplici leggi di natura). I procedimenti essenzialmente biologici sono
i normali procedimenti di riproduzione di animali, di innesti di vegetali e simili. Esempio: innovazione
consistente nel creare una nuova e specifica varietà di rosa con tutte le sue caratteristiche; questa è una
singola varietà vegetale e come tale non brevettabile. Se invece il procedimento non è essenzialmente
biologico ma è tecnico e prevede una fase che è possibile solo per l’intervento dell’uomo e che in natura
non si svolgerebbe, allora diventa brevettabile. Se c’è un procedimento con una fase tecnica importante
che è frutto della ricerca umana e che la natura non avrebbe compiuto, allora il procedimento diventa
brevettabile. Inoltre sono brevettabili le innovazioni in campo vegetale o animale che non consistono nella
singola varietà o nella singola razza; ciò significa che ci possono essere innovazioni (specie nel campo
dell’ingegneria genetica) applicabili trasversalmente a più varietà vegetali o razze animali. Esempio: viene
messa a punto una modifica genetica che può essere innestata nel patrimonio genetico di più piante
diverse e rende queste piante insensibili agli effetti nocivi di un diserbante; si volevano liberare una serie
di piante da frutto o comunque utili nella coltivazione agricola dalle erbe infestanti, il problema consisteva
nel fatto che il diserbante danneggiasse anche la pianta. L’invenzione permette al diserbante di uccidere
solo i parassiti e le erbe infestanti, ma non la pianta. Questa invenzione non è circoscritta alla singola
varietà e quindi può essere brevettata. In sostanza, le invenzioni applicabili a più varietà o razze diverse
sono brevettabili.

Sono però brevettabili (art. 45.5):


– Procedimenti microbiologici e prodotti ottenuti mediante questi procedimenti: si sancisce in questo
modo la brevettabilità dei microrganismi e dei relativi procedimenti.
– Prodotti, in particolare sostanze o composizioni, per l’uso di uno dei metodi indicati dagli art. 45.4
c.p.i. e 53 CBE. Il metodo in sé inteso come serie di passaggi per l’operazione chirurgica, per la diagnosi
e per il trattamento terapeutico non è brevettabile ma i macchinari, gli strumenti, le sostanze, i farmaci che
servono per applicare il metodo possono essere brevettabili. Ulteriori esempi: pinza chirurgica di nuova
concezione, apparecchio per una risonanza di nuova concezione, farmaco per mettere in atto la terapia.
Tutto quello che serve per attuare il metodo è brevettabile.

Per le suddette ipotesi non vale la regola del “Non in quanto tali” che vale solo per gli elementi elencati nel
secondo comma. Se viceversa l’entità ricade in uno dei divieti di brevettazione del quarto comma dell’art. 45
non ci sono deroghe, semplicemente non è brevettabile.

REQUISITI DI VALIDITÀ
Analizzeremo ora quali caratteristiche in concreto un’entità che si vuole proteggere deve possedere per poter
essere validamente brevettata. La logica del sistema brevettuale è quella di conferire un’esclusiva che stimoli
il progresso tecnico e proprio per questa finalità occorre che il brevetto venga concesso solo ad innovazioni
che effettivamente meritino i vent’anni di esclusiva in monopolio. Non vengono invece premiate innovazioni
che, benché tali, sono di poco rilievo e non vanno oltre un normale e progressivo divenire della tecnica. In
concreto di riferiamo alla differenza tra una banale sistemazione di un elemento tecnico che non va oltre un
processo routinario di perfezionamento delle conoscenze e il salto inventivo che porta a un’idea di soluzione
di un problema tecnico caratterizzata da un livello di originalità.

REQUISITI DI VALIDITÀ DEL BREVETTO


Per essere validamente brevettabile un’invenzione (o “trovato”) deve presentare i requisiti di:
– Industrialità (art. 49 c.p.i. e art. 57 CBE): idoneità dell’innovazione ad avere un’applicazione industriale o
tecnica. Questo requisito non è tra i più frequentemente indagati nelle cause in materia brevettuale, quelli
su cui si “giocano” nella maggior parte dei casi le cause brevettuali sono quelli di novità e dell’attività
inventiva.

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Eleonora Biffi

– Novità (art. 46 e 47 c.p.i. e art. 54 e 55 CBE): l’innovazione che si intende brevettare non deve essere
identica ad una conoscenza già esistente.
– Attività inventiva o originalità (art. 48 c.p.i. e art. 56 CBE): un’innovazione che è diversa dal già noto ed è
dotata del requisito di validità deve in più presentare un livello sufficiente di originalità. Non basta che sia
un solo banale e routinario progresso rispetto al già esistente, ma deve comportare un vero e proprio salto
inventivo.
– Liceità (art. 50 c.p.i. e art. 53 lett. a CBE): non deve essere in contrasto con l’ordine pubblico e il buon
costume. Questo requisito rileva nel campo delle invenzioni biotecnologiche relative ad organismi viventi
e geneticamente modificati; al di fuori di questo campo esiste ma non ha uno spazio di applicazione
pratica.

Un requisito molto indagato nelle cause è quello della sufficiente descrizione dell’invenzione nel testo del
brevetto stesso (art. 51 c.p.i. e art. 83 CBE). Nella logica di scambio tra inventore e collettività è essenziale
che l’innovazione oggetto del brevetto sia compitamente e sufficientemente divulgata in modo che possa
essere compresa e messa in atto. Il requisito della sufficiente descrizione fa riferimento alla comprensibilità e
all’attuabilità dell’invenzione grazie a quanto è scritto nel testo brevettuale e serve a costituire la garanzia
che questo avvenga perché, se il brevetto non contiene una descrizione sufficiente e non permette che si attui
il meccanismo virtuoso tra inventore e collettività, il meccanismo è nullo; la sanzione sarà la perdita del
brevetto. Concettualmente c’è una differenza tra i requisiti precedenti e questo: i primi quattro attengono
intrinsecamente all’invenzione e riguardano caratteristiche che in sé l’invenzione deve avere per poter essere
brevettata; il requisito della sufficiente descrizione attiene al modo di redigere la domanda di brevetto, in
modo da rendere chiaro in cosa consiste l’invenzione (si pone sul piano della completezza e della chiarezza
espositiva del contenuto dell’invenzione). Si tratta comunque di un requisito essenziale: se un’invenzione
che in sé avrebbe tutti i requisiti per essere protetta non viene descritta in modo adeguato, il brevetto non può
essere concesso e se viene concesso è nullo. Nella pratica l’inventore non procede quasi mai a redigere la
domanda di brevetto per conto proprio ma si affida a dei consulenti brevettuali, cioè professionisti che hanno
superato un esame di stato, hanno competenze sia tecniche sia giuridiche, sono esperti del diritto dei brevetti
e sanno come scrivere il testo del brevetto in modo da evitare dei problemi sul versante della descrizione.

INDUSTRIALITÀ
Il testo legislativo recita così: “L’invenzione è atta ad avere un’applicazione industriale se il suo oggetto può
essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria”. La legge dice che industrialità vuol dire
attitudine e idoneità dell’invenzione ad avere un’applicazione industriale. Questo avviene se l’oggetto
dell’invenzione può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola.
Questo chiarimento serve a farci vedere che industrialità non vuole indicare in questa materia qualcosa che
attiene ad un’attività qualificabile come industriale in contrapposizione ad un’attività agricola o artigianale o
di altro tipo. Industria e industrialità possiamo per un verso intenderli come riferiti ad un’attività economica,
per altro verso come riferiti ad innovazione che si presta ad avere un’applicazione di tipo tecnico all’interno
di un’attività economica. Applicazione industriale vuol dire applicabilità tecnica per la soluzione di un
problema tecnico dell’innovazione all’interno di qualsiasi attività economica (attività industriale, artigianale,
agricola, ecc). L’industrialità è un requisito preliminare, a cavallo tra il concetto di invenzione ed i veri e
propri requisiti di validità in termini di novità e originalità dell’invenzione; da un punto di vista sistematico è
un concetto ibrido, ma si tratta di un principio che manifesta una regola cardine: per poter essere brevettato,
l’oggetto del brevetto deve avere un’applicazione tecnica. In una prima accezione, industrialità vuol dire
idoneità dell’innovazione ad essere impiegata per la soluzione di un problema tecnico. Occorre che l’oggetto
dell’invenzione possa essere fabbricato o utilizzato; “fabbricato” si riferisce al brevetto di prodotto, mentre
“utilizzato” si riferisce ai brevetti di procedimento (il procedimento deve poter essere messo in opera per fare
qualcosa di tecnicamente vantaggioso). Questa norma dice che l’idea innovativa alla base dell’invenzione
deve mettere capo in modo prevedibile, costante, ripetibile ad un certo prodotto o al risultato di un certo
procedimento. Non è dotato del requisito dell’industrialità un prodotto o un procedimento la cui attuazione
non è sicura ma dipende dalla pura casualità. Esempio: immaginiamo di voler brevettare un certo composto
chimico; il brevetto descrive il modo di ottenere questo composto chimico e ne rivendica la protezione, ma
poi emerge che il fatto che si arrivi o non si arrivi a quel composto chimico è puramente aleatorio. Manca
una sicurezza di applicabilità di quell’invenzione perché è lasciata al caso; lo stesso vale per il procedimento.
L’ipotesi non è poi cosi teorica: nel campo della chimica possiamo pensare a dei composti che si formano a
volte e altre no, che sono stabili oppure che si deteriorano subito. Il problema dell’industrialità è molto
sentito nel campo delle invenzioni biotecnologiche: quando si deve brevettare il genoma di un virus in
funzione della produzione di kit di diagnosi e di vaccini, un problema sotto il profilo dell’industrialità è il
fatto che il virus è soggetto a mutazioni e il genoma può avere delle varianti e degli scostamenti rispetto alla
sequenza genomica rivendicata nel brevetto. Si risolve il problema dicendo che, per l’oggetto del brevetto in

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Eleonora Biffi

materia vivente, si considera comunque soddisfatto il requisito di validità finché le mutazioni si mantengono
in un range scientificamente accettabile. Esempio: nel caso del genoma dell’epatite C si era detto che fino ad
una certa percentuale di varianti, da un punto di vista scientifico, si poteva ritenere che il virus fosse sempre
nella sostanza quello. Questo è stato ritenuto sufficiente. In un primo corollario del concetto di applicazione
industriale, industrialità vuol dire che l’invenzione funziona con caratteri costanti.

“Per aversi industrialità occorre che l’oggetto del brevetto sia tecnicamente realizzabile e che possa essere
riprodotto (o funzionare) con caratteri costanti”. In un’altra accezione vuol dire altresì che l’invenzione non
deve essere in contrasto con leggi della fisica. Esempio: moto perpetuo. Non esiste l’apparecchio che senza
immissione di energia dall’esterno funzioni con moto perpetuo. Se io voglio brevettare un prodotto o un
procedimento che è in contrario con leggi della fisica, manca l’industrialità perché quel procedimento non è
tecnicamente e oggettivamente realizzabile secondo le leggi naturali. Industrialità vuol dire realizzabilità
tecnica dell’invenzione e quindi possibilità per l’invenzione di funzionare secondo le leggi naturali;
seguendo gli insegnamenti del brevetto si arriva in modo costante, prevedibile e certo sempre allo stesso
risultato. A seconda dei settori della tecnica possono essere consentite delle varianti entro un margine
percentuale di tollerabilità come nel campo delle invenzioni attinenti a materia vivente.

“L’industrialità non coincide né con l’utilità, né con la materialità dell’invenzione”. Benché molte invenzioni
abbiano un carattere materiale e utile, in sé questi elementi non sono necessari per aversi industrialità.
Materialità vuol dire che l’idea inventiva si estrinseca in un oggetto materiale. Può esserci anche una
invenzione che non riguarda un oggetto materiale (es. processo per disperdere la nebbia oppure applicazione
di una legge fisica per controllare e misurare l’andamento di un processo industriale); questo tipo di
invenzioni si esauriscono nell’ottenere un dato utile e tecnico di conoscenza e di controllo senza che questo
si estrinsechi in un prodotto. In questi casi si ha comunque un’invenzione brevettabile, anche se non c’è
materialità. Se con utilità intendiamo il semplice fatto che l’invenzione funzioni e risolva un problema
tecnico non c’è discussione perché è ovvio che l’invenzione lo debba fare. Quando si dice che non è
necessaria un’utilità, si dice che non è necessario un vantaggio apportato dall’invenzione rispetto alle
conoscenze note (utilità comparativa). Questo vuol dire che in teoria è brevettabile anche un’idea di
soluzione originale di un problema tecnico che, rispetto allo stato di conoscenze esistenti, comporti un
regresso o comunque non dia dei vantaggi rispetto alle conoscenze già esistenti. Per un’invenzione di questo
tipo il problema è che non ci saranno né un mercato né un valore commerciale, ma l’utilità aggiuntiva
dell’invenzione ed il valore commerciale non sono necessari. Se l’inventore ritiene di brevettare qualcosa che
non comporta vantaggi comparativi rispetto al già noto ma è pur sempre espressione di un’idea inventiva, lo
può fare. Nella storia ci sono stati casi di brevetti dati su invenzioni che apparentemente non costituivano un
progresso, ma poi nelle ricerche derivate e negli sviluppi ulteriori si sono rivelate essere il punto di partenza
di filoni di ricerca che poi si sono dimostrati molto più rilevanti. Anche da questo punto di vista la legge non
preclude la brevettazione di un’idea inventiva per il solo fatto che non dia un’utilità comparativamente
maggiore. In sintesi: occorre che il trovato (idea inventiva) funzioni, risolva un problema tecnico, abbia una
prevedibilità e una reperibilità costante di risultati.

NOVITÀ
È il secondo requisito di validità del brevetto. Siamo di fronte ad una norma cardine del diritto dei brevetti, di
cui si discute pressoché in tutte le cause in materia brevettuale. La definizione di novità data dalla legge è
molto breve: “Un’invenzione è nuova se non è compresa nello stato della tecnica”. Il senso generale di
questa norma è quello di stabilire che un’invenzione o ciò che si assume essere un’invenzione deve essere
diverso da una conoscenza già esistente. Sarebbe insensato concedere il brevetto su un’innovazione che non
è tale perché l’idea di soluzione di un problema tecnico già esiste ed è stata divulgata. Come si valuta nel
caso concreto se l’invenzione è nuova o non è nuova? Bisogna anzitutto capire cos’è lo stato della tecnica,
successivamente bisogna capire cosa significa che l’invenzione non è compresa nello stato della tecnica e
con quali criteri si valuta.

Stato della tecnica: concetto basilare del diritto dei brevetti. È il polo opposto all’invenzione rispetto al
quale si deve sempre operare un confronto per stabilire se l’invenzione, paragonata allo stato della tecnica,
presenta i requisiti di validità. Lo stato della tecnica è definito dalla legge come “L’insieme di tutte le
conoscenze rese accessibili al pubblico, in qualsiasi modo, in Italia o all’estero, prima del deposito della
domanda di brevetto”. Conoscenze vuol dire insegnamenti tecnici, conoscenze appartenenti al mondo della
tecnica che forniscono delle informazioni su come fare qualcosa e come risolvere un problema tecnico; si
tratta delle informazioni tecniche già esistenti. Il fatto che una conoscenza sia nota è sicuramente un indice di
appartenenza della conoscenza allo stato della tecnica, ma la legge dice che basta l’accessibilità al pubblico:
fanno parte dello stato della tecnica anche delle conoscenze che sono in sé accessibili pur senza essere

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Eleonora Biffi

effettivamente note; questo può avvenire perché una certa conoscenza è contenuta in una pubblicazione che è
disponibile al pubblico ad una certa data ma che nessuno ha ancora letto oppure che è stata completamente
dimenticata nel tempo. Si tratta comunque di una conoscenza accessibile e consultabile perché se mi reco ad
esempio in biblioteca o la ordino online, posso vedere liberamente cosa vi è scritto. Il concetto di stato della
tecnica si estende anche a ciò che, pur non essendo ancora effettivamente conosciuto, è accessibile. Questo fa
sì che nelle cause in materia brevettuale si vada a “caccia”, attraverso ricerche a tappeto, di tutte le anteriorità
che si riescono a scovare in qualunque parte del mondo perché nel database di un ufficio brevetti o di una
università dall’altra parte del mondo può essere contenuta la conoscenza anteriore che invalida il brevetto. In
quel caso importa poco che i documenti anteriori non li abbia visti nessuno o che tutti se ne siano dimenticati
perché basta l’accessibilità. Non c’è invece accessibilità quando la conoscenza, pur essendo già esistente, era
sottoposta ad un regime di segreto o comunque era tenuta riservata, confidenziale e non accessibile al
publico. Esempio: se un soggetto mette a punto un procedimento produttivo, lo attua nella sua azienda in
regime di segreto e nessuno dall’esterno ha accesso o accessibilità a quella conoscenza, questa conoscenza
non entra a far parte dello stato della tecnica finché non dovesse diventare accessibile e quindi non può
essere opposta al brevetto che la contiene e ne rivendica la protezione. L’accessibilità è in termini potenziali,
anche se l’accesso non è ancora avvenuto. Riassumendo: una conoscenza non accessibile non fa parte dello
stato della tecnica e non toglie la novità. D’altro canto, perché una conoscenza entri a far parte dello stato
della tecnica, basta la mera accessibilità; non occorre che l’accesso vi sia stato. Anche le conoscenze
“nascoste” o dimenticate, ma pur sempre accessibili, fanno parte dello stato della tecnica e possono togliere
novità al successivo trovato.

La norma dà indicazioni ulteriori e dice che questa accessibilità può esserci in Italia o all’estero. Si tratta di
un aspetto che si tende a trascurare quando si parla di novità, ma la prospettiva per l’individuazione dello
stato della tecnica è mondiale; qualsiasi cosa di accessibile al pubblico è idonea ad entrare a pieno diritto
nello stato della tecnica. Territorio: l’accessibilità può esserci in qualsiasi luogo nel mondo.

Un altro aspetto fondamentale è la data perché si deve fare un confronto tra l’invenzione che si intende
brevettare e lo stato della tecnica, per capire se questa invenzione fosse o non fosse compresa nello stato
della tecnica. Bisogna fissare una data perché lo stato della tecnica non è un dato fisso, ma bensì dinamico;
ogni giorno ci sono innovazioni, conoscenze, convegni, pubblicazioni e nuove scoperte che arricchiscono lo
stato della tecnica. Diventa quindi indispensabile fotografare lo stato della tecnica ad una certa data. La
regola base per i brevetti e in generale per i diritti di proprietà intellettuale è che, quando si tratta di diritti che
si acquisiscono presentando una domanda ad un ufficio competente al rilascio del titolo, la data rilevante è la
data in cui la domanda viene depositata presso l’ufficio competente. Oggi frequentemente la domanda viene
inoltrata online all’ufficio competente, chiedendo che l’ufficio la esamini e conceda il titolo. Si guarda quindi
la data in cui è stata depositata la domanda di brevetto e si prendono in considerazione solo le conoscenze
rese accessibili al pubblico fino alla data prima della data di deposito della domanda di brevetto. Se la
domanda di brevetto viene depositata il 1º aprile si guarda lo stato della tecnica che si è formato in termini di
accessibilità al pubblico fino al 31 marzo dello stesso anno. Se si prendesse in considerazione lo stato della
tecnica successivo, l’invenzione cadrebbe per definizione perché non può essere nuova rispetto a qualcosa
che viene dopo. Stabilire la data comporta anche difficoltà pratiche in giudizio quando si tratta di stabilire
quando una certa informazione è stata resa accessibile al pubblico. Esempio: io deposito una domanda di
brevetto il 15 marzo 2020, tra qualche anno si va in causa ed un soggetto chiede che il brevetto venga
dichiarato nullo portando come prova della nullità una conoscenza che questo soggetto dice essere parte
dello stato della tecnica in quanto pubblicata in una rivista scientifica che ha come data di pubblicazione
marzo 2020 (non indica il giorno). In un caso del genere i consulenti della parte devono vestire i panni
dell’investitore, cercando in tutti i modi possibili di ricostruire la data sicura in cui effettivamente quella
pubblicazione è stata edita o in cui si può dimostrare che quell’informazione era già accessibile al pubblico.
Questo comporta delle difficoltà pratiche non trascurabili.

Va però tenuto presente che ci sono delle eccezioni o deroghe alla regola; si tratta del caso in cui, per valutare
i requisiti di validità, si fa riferimento non alla data effettiva di deposito della domanda di brevetto ma ad una
data anteriore: è il sistema della rivendicazione di priorità. L’art. 4 del c.p.i. rimanda all'art. 4 della CUP la
quale risolve un problema pratico che allora era altrimenti inestricabile; per ottenere il brevetto in un certo
territorio bisogna depositare una domanda presso l’ufficio competente per quel territorio. Ogni Paese ha il
proprio ufficio competente. Il problema che si pone è il seguente: se io deposito la domanda presso l’ufficio
di un territorio e non riesco a depositare lo stesso giorno tutte le domande in tutti gli uffici che mi
interessano, rischio che la mia stessa domanda depositata in un Paese invalidi e tolga novità alla domanda
che non riesco a depositare in un altro Paese lo stesso giorno. Questo nel 1800 è stato un problema, adesso lo
è meno perché ci sono possibilità di deposito simultaneo nel sistema del brevetto europeo e soprattutto è

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Eleonora Biffi

possibile effettuare il deposito online. In passato ci si doveva recare fisicamente ufficio per ufficio. La CUP
ha risolto tale problema con la regola della priorità: se io deposito una domanda di brevetto in uno qualsiasi
degli Stati o delle organizzazioni internazionali aderenti alla Convenzione di Unione di Parigi, da quel giorno
ho dodici mesi di tempo per depositare la stessa domanda negli altri stati aderenti in cui voglio depositarla;
non solo le domande depositate successivamente purché entro i dodici mesi non perdono la novità, ma
possono addirittura rivendicare la priorità del primo deposito. In sostanza si chiede che si prenda come data
rilevante per tutte le domande relative a quella invenzione la data del primo deposito effettuato. I requisiti di
validità non verranno più esaminati prendendo come riferimento lo stato della tecnica della data vera di
deposito successivo della domanda negli altri Stati, ma lo stato della tecnica sarà per tutte le domande quello
esistente fino alla data prima del primo deposito. Nell’esempio di un brevetto depositato in Germania il 1º
aprile 2020, lo stato della tecnica esistente fino al 31 marzo 2020 sarà l’unico considerato per la
brevettazione in Germania ma anche per la brevettazione in tutti gli altri Paesi in cui si effettua la domanda,
rivendicando la priorità. Questo serve da un lato a mettere al riparo il brevetto dall’eventualità paradossale
che lo stesso brevetto depositato in un altro Paese tolga la novità e dall’altro lato comporta un vantaggio
consistente per l’inventore perché neutralizza tutto lo stato della tecnica formatosi tra il primo deposito e il
deposito effettivo. Se io deposito la domanda in Italia il 30 giugno 2020 rivendicando la priorità tedesca del
1º aprile, lo stato della tecnica formatosi in quei tre mesi non mi può essere fatto valere contro. Questo
genera un vantaggio notevole nella valutazione della novità.

L’art. 47.3 richiama la regola generale della priorità per i brevetti e il comma 3 bis specifica che la priorità
può essere rivendicata anche nello stesso Paese (in questo caso Italia). È possibile depositare una domanda di
brevetto italiana ed entro i dodici mesi successivi se ne può depositare una all’estero (rivendicando la data
del deposito in Italia) ma è possibile anche depositare nei dodici mesi una seconda domanda in Italia sulla
stessa invenzione, rivendicando la priorità della prima. Questa regola consente di depositare la domanda il 1º
aprile 2020 in Italia e di ridepositare la domanda sulla stessa invenzione nel febbraio 2021, rivendicando la
priorità del 1º aprile 2020. Che senso ha estendere la regola della priorità anche ad una priorità interna nello
stesso stato? Fondamentalmente c’è una duplice utilità per il brevettante:
– Durata del brevetto: la rivendicazione di priorità fa retroagire alla prima data la valutazione dei requisiti di
validità e quindi ciò che viene dopo non toglie validità al brevetto, ma i vent’anni di tutela si computano
dalla data del deposito. La novità, l’originalità e i requisiti di validità si valuteranno con riferimento alla
data di priorità, ma i vent’anni di protezione si calcoleranno comunque a partire dalla data della seconda
domanda (che nell’esempio precedente è febbraio 2021). Avvalersi di questo sistema della priorità interna
serve a guadagnare dodici mesi di protezione.
– Finché la domanda di brevetto non viene concessa è possibile modificarla, aggiustarla, chiarirla e in certa
misura anche perfezionarne e ampliarne l’ambito di protezione. Questo è possibile farlo anche con un
deposito successivo. È possibile rivendicare la priorità anche quando nel brevetto successivo non si
riproduce in modo identico il primo ma lo si modifica, purché il concetto inventivo sia sempre lo stesso. In
questo limite è possibile perfezionare il testo brevettuale e chiarire meglio l’ambito di protezione. Può
essere utile depositare subito una domanda quando si arriva all’idea inventiva per evitare di essere
anticipati da altri e poi, nei dodici mesi, si può depositare una seconda domanda che perfeziona, aggiusta e
chiarisce la prima. In questo modo si ottiene un testo brevettuale più chiaro e più solido nella prospettiva
di un’eventuale causa.

Sempre in merito allo stato della tecnica bisogna vedere quali sono le modalità che possono determinare una
accessibilità al pubblico dell’informazione. La legge dice che in realtà qualunque modo di possibile contatto
tra l’informazione e il pubblico può determinare accessibilità, ma specifica soprattutto tre modi (più un
quarto generale) con cui più frequentemente l’accessibilità si determina:
– Descrizione scritta: l’innovazione o conoscenza tecnica viene fissata in un documento scritto (es. articolo
scientifico accademico, catalogo di presentazione di un prodotto, pubblicazioni brevettuali anteriori nelle
banche dati).
– Descrizione orale: un esempio può essere la relazione di un soggetto che parla ad un convegno di esperti
della materia. La descrizione orale è più difficile da provare, ci sono casi in cui si vanno ad intervistare i
partecipanti al convegno e si chiede loro di rilasciare delle dichiarazioni in cui attestano che effettivamente
il relatore ha parlato dell’innovazione. In sé la descrizione orale è a tutti gli effetti una forma di diffusione
della conoscenza che la può far entrare nello stato della tecnica. Un altro esempio è la presentazione a
voce di un prodotto a dei potenziali clienti.
– Utilizzo di un prodotto o di un procedimento: ad esempio attuo un procedimento davanti al pubblico per
far vedere come funziona in modo più efficiente la macchina in cui sfrutto un certo procedimento da me
concepito. Esempio sull’utilizzo di un prodotto è il caso della ingegneria inversa (reverse engineering) che
vuol dire partire dal prodotto come disponibile sul mercato, scomporlo ed esaminarlo per vedere come è

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Eleonora Biffi

fatto; è un caso di accessibilità se in questo modo riesco a risalire all’idea inventiva con cui il prodotto è
stato realizzato. Se l’esame del prodotto non consente di risalire all’informazione non c’è accessibilità.
Tipicamente per i dispositivi meccanici il reverse engineering è sempre possibile perché si tratta solo di
smontare il prodotto nei suoi componenti; nel settore chimico può essere che l’analisi del prodotto finito
non consenta di risalire alla formula o al procedimento di sintesi così come nel campo biotecnologico o
nel caso di brevetti nel settore dell’IT. Se il reverse engineering è possibile c’è accessibilità, altrimenti no.
– Qualsiasi altro modo (es. esposizione del prodotto al pubblico in una fiera di settore, costruzione di un
impianto visibile al pubblico).

Oggi un canale tipico per provocare accessibilità è Internet. Se io condivido una certa informazione su una
piattaforma online ma protetta da password, questa è una documentazione chiusa e riservata; se invece si
tratta di un’informazione libera c’è sicuramente accessibilità. In certi casi la prova di appartenenza di una
certa informazione allo stato della tecnica è stata costituita da un filmato caricato su una piattaforma come
YouTube; in questo caso si porta in giudizio il filmato e si va a vedere in quale data è stato caricato sulla
piattaforma, se in quel filmato si vede come funziona il prodotto c’è una accessibilità al pubblico.

Tutte queste modalità rilevano se determinano accessibilità. L’ufficio europeo dei brevetti riassume questo
concetto nell’espressione “enabling disclosure”. Rivelazione di un’informazione che mette un esperto del
settore in grado di comprendere l’invenzione e di attuarla (enabling nel senso di “rende possibile”). Nel caso
di descrizione scritta occorre che essa sia sufficientemente comprensibile perché chi la legge riesca a capire
di cosa si tratta. Nell’esempio del convegno scientifico (descrizione orale) ciò che rileva è che ci sia una
platea di esperti che riesce a capire il significato di quello che il relatore sta dicendo e farlo proprio; in questo
caso la descrizione orale determina accessibilità se è fatta a persone in grado di comprendere il significativo
tecnico della descrizione, di farlo proprio e di trasmetterlo. Esempio: se l’inventore non ne parla ad un
convegno di specialisti ma racconta dell’invenzione ad un amico incontrato per strada che è un profano della
materia e non capisce nulla, non c’è accessibilità per questa descrizione orale perché è stata fatta ad un
soggetto che non era in grado di comprenderla. Se voglio dimostrare che una conoscenza è entrata a far parte
dello stato della tecnica ma intanto è una descrizione orale non posso limitarmi a dire che quella descrizione
c’è stata, devo anche contestualizzarla e dare prova del fatto che è stata fatta in un certo ambiente e verso un
pubblico che l’ha recepita e compresa (altrimenti non è rilevante perché non è accessibile). L’accessibilità sta
proprio nel fatto di poter ricostruire l’informazione dall’esame del prodotto o nella possibilità per il pubblico
di accedere alle informazioni. Esempio: l’esposizione in una fiera di una macchina per fare il caffè espresso
in casa, che prevede come innovazione l’ingranaggio di un meccanismo interno, non comporta accessibilità
perché il pubblico vede il prodotto ma non vede l’elemento interno. Lo stesso esempio vale nel caso concreto
di un impianto per la depurazione dei fanghi (acque di fognatura) in cui l’invenzione consisteva in un
particolare dispositivo per la depurazione che era immerso nei liquami densi e scuri; in quel caso non c’era
accessibilità perché il pubblico poteva vedere l’impianto ma l'elemento inventivo era immerso in un liquame
non trasparente e quindi non si poteva vedere. Bisogna sempre vedere se c’è un’accessibilità in termini di
possibilità, per chi ha ricevuto l’informazione o per l’oggetto che può entrare a contatto con l’informazione,
di comprensione e riproduzione dell’idea inventiva.

Esiste una deroga alla regola dell’accessibilità che vale solo per il giudizio di novità e non per l’esame degli
altri requisiti di validità. Esiste per legge un periodo iniziale di 18 mesi a partire dal momento del deposito
della domanda di brevetto in cui la domanda è segreta. I diciotto mesi possono essere abbreviati a 90 giorni o
anche meno con una notifica della domanda. Durante i diciotto mesi la domanda non è accessibile; dopo tale
periodo viene pubblicata, si trova nei database e tutti la possono leggere. Se durante questi diciotto mesi un
altro soggetto deposita una domanda di brevetto sulla stessa invenzione, a rigore la prima domanda non è
accessibile e non toglie novità ma il risultato pratico sarebbe che alla fine ci sarebbero due brevetti sulla
stessa invenzione. La legge vuole evitare questo esito ma al tempo stesso non vuole introdurre uno strappo
troppo rilevante alla regola dell’accessibilità e quindi ha introdotto questa norma di compromesso secondo la
quale, eccezionalmente e al fine di evitare una doppia brevettazione, “Si considerano comprese nello stato
della tecnica, anche se non sono ancora accessibili, le domande di brevetto anteriori sulla stessa invenzione
ancora segrete, ma solo le domande di brevetto italiano e le domande di brevetto europeo designanti l’Italia o
le domande internazionali designanti l’Italia”. Per ottenere protezione brevettuale in Italia ci sono dunque tre
possibilità: brevetto nazionale italiano, brevetto depositato all’Ufficio dei brevetti europeo che rivendichi una
protezione per il territorio italiano (depositato a Monaco di Baviera) e domanda internazionale unica che
viene depositata in base ad un accordo di cooperazione in materia di brevetti (si fa un deposito unico che poi
si ramifica negli Uffici nazionali degli Stati per cui si vuole protezione). La regola è che le domande anteriori
ancora segrete si considerano in via fittizia parte dello stato della tecnica ma solo se sono domande di
brevetto destinate a portare ad una brevettazione con efficacia nel territorio italiano. Se invece si tratta di

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Eleonora Biffi

domande di brevetto ancora segrete ed estere, non rivendicanti protezione in Italia, non si considerano parte
dello stato della tecnica. Le domande di brevetto anteriori fanno o non fanno parte dello stato della tecnica?
Bisogna distinguere il periodo in cui le domande sono ancora segrete e il periodo in cui vengono pubblicate;
se si è nel secondo periodo non ci sono problemi perché la domanda è accessibile e qualunque domanda
pubblicata in qualsiasi parte del mondo fa parte dello stato della tecnica secondo le regole generali. Se invece
la domanda è ancora segreta si deve andare a vedere se è una domanda che rivendica una protezione nel
territorio italiano; in quel caso, in via fittizia, si ritiene che anche quella domanda segreta faccia parte dello
stato della tecnica. In caso contrario, in presenza di una domanda anteriore segreta ed estera destinata a dare
protezione solo in quei territori, quella domanda ancora segreta non viene considerata nello stato della
tecnica. In termini pratici la norma evita una doppia brevettazione nello stesso territorio. La legge tollera che
si abbiano due brevetti sulla stessa cosa e in capo a titolari di Paesi diversi (es. uno in Francia e uno in Italia)
ma non è considerato un problema perché non ci sono due brevetti identici nello stesso territorio.

Dopo aver individuato lo stato della tecnica rilevante fino alla data prima del deposito della domanda di
brevetto o data di priorità si deve procedere al confronto. La legge dice che il giudizio di novità presuppone
che si determini se l’invenzione è compresa o meno nello stato della tecnica. Si tratta di un confronto tra il
già accessibile e l’invenzione che si vuole brevettare (che non deve coincidere con il già accessibile perché
altrimenti è priva di novità). Un invenzione priva di novità è compresa nello stato della tecnica. “Compresa
nello stato della tecnica” vuol dire identica ad una anteriorità presente nello stato della tecnica. Il giudizio di
novità è un giudizio di identità. Lo stato della tecnica è composto da un numero elevato di anteriorità e può
essere che ci siano tante anteriorità nello stato settore che gravitano attorno allo stesso problema tecnico.
Esempio: si chiede il brevetto per un prodotto con determinate caratteristiche (es. dispositivo meccanico con
un certo funzionamento, un rivestimento che lo protegge dal calore e un certo modo di alimentazione); si
tratta di un’invenzione con tante caratteristiche (A, B, C) inventive su cui si chiede protezione. Se troviamo
nello stato della tecnica una anteriorità (conoscenza anteriore) identica che presenta le stesse caratteristiche è
un caso di mancanza di novità o di identità tra i due. Supponiamo che ci sia l’anteriorità alfa che rivela la
caratteristica A, l’anteriorità beta che rivela la caratteristica B e gamma che rivela la caratteristica C. Le tre
caratteristiche, in tre anteriorità diverse e ciascuna singolarmente, sono presenti; non è un caso di mancanza
di novità perché nel giudizio di novità, diversamente per quello di originalità, si dice “Nel giudizio di novità
le anteriorità non si combinano a mosaico”. Nel giudizio di originalità si uniscono tra loro anteriorità diverse,
mentre il giudizio di novità è un giudizio 1:1 (non si sommano tra loro le anteriorità). Se anche ci sono le
anteriorità alfa, beta e gamma che rivelano ciascuna una delle caratteristiche rivendicate complessivamente
nel brevetto che si chiede sull’innovazione, non c’è mancanza di novità. C’è mancanza di novità se in una
unica anteriorità e quindi in un unico documento o divulgazione orale anteriore tutte tre le caratteristiche
sono state presentate congiuntamente. Tutte le anteriorità rilevanti vengono prese in esame una alla volta: se
nessuna coincide la novità c’è e si passa a valutare l’originalità.

Nella prassi anche la nozione di identità si è prestata a discussioni ed interpretazioni differenti. Assodato che
il confronto è 1:1 e che vi deve essere identità rispetto ad una singola anteriorità, questo significa che vi deve
essere una identità esplicitata. Esempi: voglio brevettare il prodotto con le caratteristiche A, B, C e ho una
anteriorità che menziona pari pari A, B, C. Questo è un caso di identità indiscutibile. Supponiamo invece che
l’anteriorità menzioni solo A e B senza menzionare esplicitamente C, tuttavia per il settore in cui il prodotto
si colloca è immediatamente chiaro senza possibilità di dubbio e senza margine di errore ad un tecnico
esperto del settore che non può non esserci C. Immaginiamo che la caratteristica A sia un imbuto per
convogliare nel dispositivo la materia prima da lavorare, che B sia un ingranaggio per lavorare la materia
prima e che C sia un nastro trasportatore che porta il materiale dall’imbuto al meccanismo di lavorazione.
Supponiamo che per le caratteristiche del macchinario il nastro conformato in un certo modo debba esserci
necessariamente, cioè che sia immediatamente evidente anche se nel brevetto non ci sia scritto. Un altro
esempio è un brevetto che rivendica l’impiego di un materiale elastico in un certo punto di un dispositivo;
esista un’anteriorità che descrive lo stesso dispositivo che non dice che in quel punto ci debba andare del
materiale elastico, ma si limita a dire che ci debba andare un cilindro di gomma. L’Ufficio europeo sostiene
che, anche se non viene detto che la gomma è un materiale elastico e debba essere messa in quel punto
proprio perché ha caratteristiche di elasticità, non si può dire che il fatto di non avere esplicitato questa cosa
la escluda dall’anteriorità. Per l’esperto del settore è immediatamente evidente che in quel punto ci può
essere solo un materiale elastico come la gomma. L’Ufficio europeo parla al riguardo di caratteristiche
implicite (implicit features) cioè caratteristiche che, anche se non vengono esplicitamente menzionate nella
anteriorità, non possono non esserci. Due possibili nozioni di identità:
– Identità fotografica: è la più tradizionale in Italia. Ci deve essere una totale e integrale sovrapposizione, in
tutte le caratteristiche, tra il trovato che si vuole brevettare e l’anteriorità. L’anteriorità deve menzionare
esattamente tutte le caratteristiche, altrimenti non è rilevante. Negli esempi precedenti, il non aver scritto

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che ci vuole un nastro trasportatore e il non aver specificato che ci vuole una gomma in quanto materiale
elastico porterebbe a negare l’identità; dal momento che non viene esplicitata la cosa c’è un elemento di
diversità e quindi la novità c’è e si passa a vedere l’originalità.
– Identità sostanziale: sostenuta dall’Ufficio europeo brevetti e ormai accolta anche nelle cause in materia
brevettuale italiane. Qui si fa un ragionamento più di buon senso. Se anche una cosa non è esplicitata ma
non può non esserci perché qualunque esperto del settore immediatamente e senza alcuna ambiguità
capisce che quella caratteristica è presente, la si può ritenere presente e quindi l’identità sostanziale c’è.
Quella anteriorità, pur non esplicitando la caratteristica ma facendola ricavare in modo implicito, si deve
considerare identica. Un’espressione tipica della dottrina tedesca che esemplifica bene questo concetto è
“Leggere insieme” o “Mitlesen” e vuol dire che l’esperto del settore, nel leggere l’anteriorità, legge anche
la caratteristica non esplicitata ma che lui come tecnico immediatamente sa che ci deve essere. Anche se
non è scritta è come se lui comunque la leggesse perché gli è immediatamente lampante che quello è il
caso. Si ritengono implicite le caratteristiche che un esperto del settore ricaverebbe “direttamente e in
modo non ambiguo” dall’esame dell’anteriorità. Questo concetto amplia l’area dei casi in cui il brevetto
non supera neanche il giudizio di novità e quindi non si deve neanche passare a una valutazione in termini
di originalità.

Vi è un’altra ipotesi di mancanza di novità che è quella della cosiddetta predivulgazione. In questo caso si
ha sempre una situazione di appartenenza dell’invenzione e della conoscenza allo stato della tecnica, ma la
differenza consiste che in questo caso l’appartenenza allo stato della tecnica non deriva da un’anteriorità di
terzi ma deriva dal fatto che è stato l’inventore stesso che ha predivulgato la sua invenzione, rendendola così
accessibile al pubblico prima di depositare la domanda di brevetto. Qui è scontato il problema di identità. Il
problema della predivulgazione non è tanto l’identità, ma lo stabilire quando effettivamente l’inventore ha
tenuto una condotta che comporta accessibilità al pubblico dell’invenzione prima del deposito della domanda
di brevetto. La prima cosa da vedere è se c’è stata una “enabling disclosure” cioè se l’invenzione è stata
comunicata a persone che, per la loro formazione tecnica, erano in grado di comprenderla, recepirla, farla
propria e trasmetterla. Il saper trasmettere una conoscenza vuol dire averla incamerata nel proprio bagaglio
di conoscenze e quindi vuol dire accessibilità. Come negli esempi precedenti, se si tratta di una relazione ad
un convegno di esperti la predivulgazione c’è, se invece si tratta di un racconto ad un profano della materia
che non comprende l’informazione la predivulgazione non c’è.

C’è un secondo problema: il caso della ricerca in team o equipe di tecnici. Oggigiorno questa è la situazione
più frequente perché le grandi invenzioni non sono più opera di un singolo, ma frutto di ricerca strutturata in
gruppi di lavoro e con l’apporto di consulenti esterni. Il problema pratico è quello di evitare una situazione in
cui la predivulgazione si determina per il fatto che i membri del team parlino tra loro dell’invenzione.
Sarebbe una situazione a cortocircuito perché se non si parlano non ottengono l’invenzione, ma se si parlano
la predivulgano tra di loro in modo incrociato. Per un’ipotesi di questo tipo è stata adottata una regola di
buon senso: “Se c’è un vincolo di segretezza, cioè se l’informazione circola all’interno di un gruppo chiuso
di persone reciprocamente e complessivamente tenute al segreto, l’esistenza di questo vincolo di segretezza
esclude la predivulgazione”. Finché c’è un gruppo chiuso di persone legate dal segreto non c’è accessibilità e
quindi si considera che la comunicazione interna alla sfera del segreto non è una comunicazione che
determina accessibilità al pubblico. Il segreto può essere di fonte legale (imposto per legge all’art. 2105 del
C.C. per i dipendenti) o per contratto (anche se non c’è un obbligo legale, si possono creare dei vincoli di
segretezza attraverso dei contratti di non rilevazione di confidenzialità chiamati non-disclosure agreements).
I dipendenti sono tenuti al segreto per legge su ciò che vedono e apprendono all’interno dell’organizzazione
del datore di lavoro). Tuttavia va tenuto presente che, se per errore o per dolo un soggetto tenuto al segreto
rivela l’invenzione all’esterno a persone non tenute al segreto, a quel punto la predivulgazione scatta perché
c’è acquisizione della conoscenza da parte di un soggetto esterno alla cerchia della riservatezza e la novità
viene meno. In un caso del genere l’unico rimedio per i soggetti pregiudicati dalla rivelazione del segreto è il
risarcimento dei danni nei confronti del colpevole, ma non c’è nessuna possibilità di neutralizzare tale
predivulgazione.

Alcune considerazioni. Spesso in ambiente scientifico questo errore viene commesso perché lo scienziato
non conosce tutte le implicazioni legali e non resiste alla tentazione di parlare della sua invenzione; si tratta
però di un danno irreversibile perché fa perdere la possibilità del brevetto. Per questo motivo è fondamentale
non parlarne con nessuno prima di aver depositato la domanda di brevetto. Inoltre, prima di avviare una
ricerca e decidere come sfruttare i risultati è necessario fare sempre firmare degli accordi di riservatezza. È
essenziale ribadire l’obbligo al segreto soprattutto verso i terzi che per qualunque ragione devono venire a
conoscenza dell’informazione riservata (es. consulente esterno). In questo modo si ha una prova documentale
della protezione del segreto. La regola del segreto non blinda l’invenzione e se qualcuno parla, anche solo

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Eleonora Biffi

per errore, il segreto decade; l’impegno di riservatezza mette al riparo finché tutti lo rispettano. Dopo aver
fatto firmare l’accordo di riservatezza il soggetto interessato deve continuare a vigilare e ad adottare tutte le
cautele perché quel patto venga rispettato. La predivulgazione comporta accessibilità, perdita di novità e ha
come unico rimedio il risarcimento dei danni da parte del soggetto che per colpa o per dolo l’ha causata.

Solo in due casi eccezionali si può salvare la novità nonostante vi sia stata una predivulgazione. Non c’è
alcuna casistica in Italia su di essi perché non si sono mai verificati.
– Abuso evidente: se la predivulgazione “risulta direttamente o indirettamente da un abuso evidente” ai
danni del titolare e entro sei mesi il soggetto richiedente deposita la domanda di brevetto si considera equo
non lasciarlo vittima dell’abuso evidente e concedergli lo stesso il brevetto, ritenendo che ci sia la novità.
Cosa sia esattamente un abuso evidente è tutt’altro che certo, anche perché non ci sono sentenze che ci
aiutino a capirlo; l’accidentale o consapevole violazione dell’accordo di segretezza in sé non è un abuso
evidente, possiamo pensare ad una divulgazione ad opera di un soggetto con una precisa volontà di
danneggiare il titolare oppure ad un caso di corruzione a fronte di pagamenti in denaro così come ai casi di
spionaggio industriale per cui un soggetto viola il sistema informatico del concorrente, acquisisce e rivela
l’informazione. Si tratta di casi caratterizzati da una particolare scorrettezza e da una natura riprovevole
della condotta tale da potersi considerare un abuso inaccettabile ai danni del titolare, a cui vengono quindi
concessi sei mesi di tempo per depositare la domanda di brevetto (art. 47.1 c.p.i. e art. 55.1 lett. a CBE).
– La stessa regola (possibilità di depositare la domanda di brevetto nei sei mesi) vale per la predivulgazione
“avvenuta in esposizioni ufficiali o ufficialmente riconosciute ai sensi della Convenzione concernente le
esposizioni internazionali, firmata a Parigi il 22 novembre 1928, e successive modificazioni”. È il caso di
esposizione del prodotto in una fiera. Se il titolare ha bisogno di mostrare il suo prodotto ad una fiera e
non fa in tempo a brevettarlo prima che si tenga l’esposizione, è equo dargli la possibilità di non perdere
l’occasione di esposizione nella fiera e consentirgli di brevettarlo dopo anche se l’ha esibito prima. Questa
regola vale solo per le esposizioni organizzate da enti pubblici, in particolare dallo stato o con il patrocinio
dello stato (es. Expo Milano 2015). L’usuale fiera di settore non è un’esposizione ufficiale e questo spiega
perché la regola non viene sostanzialmente applicata. Questa regola è sancita dagli art. 47.2 c.p.i. e art.
55.1 lett. b CBE.

ORIGINALITÀ
Se un’invenzione ha superato lo scoglio della novità perché non è identica a qualcosa che già esiste nello
stato della tecnica si passa a vedere l’originalità. Assodato che il trovato è nuovo bisogna vedere se è anche
originale, cioè se è una novità banale e scontata che non merita il brevetto o se è una novità caratterizzata da
un salto inventivo e che quindi merita il brevetto. Stabilire se il salto inventivo ci sia o meno è complesso
perché fonte di problemi interpretativi. Questo requisito di originalità può anche essere chiamato “attività
inventiva”. Dopo aver stabilito positivamente che l’invenzione è dorata del requisito della novità, si deve
passare a valutare se essa sia anche originale. La logica di questo requisito risiede in una considerazione che
si collega a quella relativa allo scambio tra l’inventore e la collettività: il premio della tutela monopolistica
ventennale del brevetto deve essere riservato ad un’invenzione che sia propriamente tale secondo una logica
di meritevolezza ed è rivolto ad una nuova creazione che non sia banale, scontata o alla portata di tutti, bensì
sia riservata a qualcosa che compia un vero salto inventivo e vada oltre il normale divenire della tecnica e
apporti un risultato innovativo di una certa rilevanza. La legge non richiede che questo salto inventivo sia di
livello particolarmente elevato: deve essere qualcosa che va oltre il routinario divenire della tecnica, ma non
è richiesto il colpo di genio e non è necessario che ci sia l’invenzione rivoluzionaria o caratterizzata da un
elevato livello di creatività o di rottura rispetto allo stato della tecnica esistente. È necessario e sufficiente che
l’invenzione non sia evidente né ovvia. La legge precisa che deve essere qualcosa di non evidente per una
persona esperta del ramo rispetto allo stato della tecnica. “Un’invenzione è originale ossia implica un’attività
inventiva se, per una persona esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica” e
quindi un’invenzione è dotata di questo requisito quando non sia ovvio per un esperto del ramo rispetto alle
conoscenze presenti nello stato della tecnica (art. 48 c.p.i. e art. 56 CBE). In altre parole: sulla base delle
conoscenze presenti nello stato della tecnica non deve essere alla portata di un esperto del ramo compiere
questo passo inventivo verso il risultato rivendicato nel brevetto. Per dare un contenuto a questo requisito
bisogna fissare dei criteri di applicazione pratica del requisito in questione e degli elementi di cui si
compone. La prassi dei tribunali ha fatto emergere una difficoltà intuibile: mentre il giudizio di novità è un
giudizio oggettivo perché si confronta il trovato che si vuole brevettare con ogni anteriorità reperita nello
stato della tecnica e si fa un giudizio di identità, questo requisito è più discrezionale e si traduce in una
valutazione soggettiva di evidenza o non evidenza per un esperto nel ramo. Questo comporta un inevitabile
margine di discrezionalità; è molto più oggettivo e certo stabilire se una cosa è uguale ad un’altra rispetto
allo stabilire se una cosa diversa da un’altra è tuttavia evidentemente o non evidentemente suggerita
dall’altra cosa presa come riferimento. Come sempre avviene quando un criterio di valutazione è su base

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Eleonora Biffi

soggettiva, il modo corretto di procedere è quello di fissare dei criteri il più possibile certi e prevedibili di
valutazione per non sconfinare nel libero arbitrio.

Questo requisito è stato oggetto sia in dottrina sia in giurisprudenza di una elaborazione amplia volta a
cercare di fissare per ognuno dei concetti di cui il requisito si compone dei criteri certi di valutazione. Anche
per l’originalità il set di conoscenze da prendere come riferimento per la valutazione è costituito dallo stato
della tecnica; per quanto riguarda lo stato della tecnica, il requisito di accessibilità, la portata territoriale e
temporale e le modalità attraverso le quali una conoscenza può divenire accessibile valgono esattamente le
stesse cose dette per il giudizio di novità. L’unica differenza è costituita dal fatto che lo stato della tecnica,
nel giudizio di originalità, è costituito esclusivamente da ciò che è materialmente e realmente accessibile al
pubblico e non comprende le domande di brevetto anteriori ancora segrete. L’estensione fittizia dello stato
della tecnica alle domande di brevetto ancora segrete vale solo per il giudizio di novità ma non per quello di
originalità. Per il giudizio di originalità lo stato della tecnica è un pochino più ristretto perché, una volta
superato il giudizio di novità, non si tiene più conto delle anteriorità segrete.

Per il resto il contenuto dello stato della tecnica è lo stesso. Va ricordato che lo stato della tecnica è su base
mondiale e che la data rilevante è costituita dallo stato della tecnica esistente e formatosi fino al giorno prima
del deposito della domanda di brevetto o, nel caso in cui sia stata rivendicata una priorità, il giorno prima
della data della priorità.

Fasi del giudizio di originalità:


– Individuazione del settore in cui l’invenzione si colloca;
– Ricostruzione della figura del tecnico medio (persona esperta del ramo), quanto a conoscenze e capacità;
– Valutazione della ovvietà/evidenza dell’invenzione secondo il parametro del tecnico medio.
La legge dice che il parametro è costituito da una persona esperta del ramo. In altri punti della legislazione
brevettuale si fa riferimento al tecnico medio del settore. Possiamo considerare le due espressioni equivalenti
come sinonimi (esperto del ramo o tecnico medio del settore). Si tratta di un parametro che troviamo nel
giudizio di originalità e nel giudizio di novità (quando l’identità si valuta in modo sostanziale), ma lo
ritroveremo anche nella sufficiente descrizione e nella valutazione della contraffazione. Per ricostruire la
figura dell’esperto o del tecnico medio del ramo/settore dobbiamo capire cos’è il ramo o il settore. La
definizione è quella secondo cui il settore o ramo rilevante è costituito dal settore della tecnica in cui
l’invenzione è realizzata e utilizzata. Possono esserci delle situazioni nei casi concreti in cui è necessario fare
delle precisazioni. Settore della tecnica non va inteso in senso ampio perché altrimenti considereremmo dei
macro-settori amplissimi che non hanno riscontro nella realtà dove la conoscenza e l’esperienza di un certo
settore è molto più parcellizzata. Al tempo stesso non si deve circoscrivere il settore ad una micro-categoria
(es. televisori che impiegano un certo tipo di schermo, ma possiamo estenderlo ai televisori in generale a
prescindere dal tipo specifico di schermo o tecnologia che applicano). Tendenzialmente il settore si individua
con riferimento ad un genere di prodotti e procedimenti (es. tecnologie per televisori, medicinali dei principi
attivi per la cura di una certa malattia come l’ipertensione). Possiamo considerare che un tecnico esperto del
settore conosca tutti i prodotti e procedimenti che si collocano in quel settore. La regola per individuare il
settore rilevante è quella di una sostanziale omogeneità dei problemi e delle conoscenze che ruotano attorno
ad un certo prodotto, servizio o procedimento. Settore rilevante: settore della tecnica in cui l’invenzione è
realizzata e utilizzata. Vi è la possibilità che l’invenzione sia “cross border”, cioè che si collochi in settori
diversi simultaneamente (es. invenzione che viene realizzata in un settore ed utilizzata in un altro come ad
esempio la vernice per proteggere e laccare i mobili che viene realizzata nel settore delle vernici e utilizzata
nel settore della produzione di mobili). In questi casi la figura del tecnico medio è una figura multi-settoriale
cioè si ipotizza come parametro di riferimento un tecnico medio che si colloca complessivamente in entrambi
i settori come se fossero un unico settore o comunque come se i due settori fossero combinati ed unificati.

Questo rilievo ci porta a capire un altro concetto importante: questa figura del tecnico medio non è una figura
“esistente” in natura: non esiste un esperto del ramo in carne ed ossa da prendere come riferimento. Quando
la legge in materia di brevetti utilizza questi parametri (tecnico medio, consumatore medio, utilizzatore
informato in materia di design) non si riferisce mai ad una persona esistente che viene elevata a parametro di
riferimento, ma viceversa si riferisce alla costruzione in via interpretativa di un parametro ideale e di un
modello tipico di figura di riferimento che poi viene impiegata per compiere la valutazione. Quando la legge
parla di queste figure si riferisce ad un modello da costruire. Questo si manifesta nel fatto che il tecnico
medio inteso come modello ideale può essere multi-settoriale; nella pratica è difficile che ciò avvenga perché
ognuno è competente nel suo settore, ma qui si immagina un tecnico medio super multi-settoriale. Questo
concetto è importante perché quando si passa a stabilire quali sono le caratteristiche di questo esperto del

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Eleonora Biffi

ramo si vede subito che il tipo di caratteristiche che dobbiamo considerare è concettualmente proprio di un
modello ideale, non di una persona fisica esistente in natura. Questo è un equivoco da evitare. Quando la
legislazione parla di esperto del ramo richiede all’interprete di ricostruire questa figura predeterminandone le
caratteristiche, le conoscenze e le capacità. Si individua sulla base di regole di comune esperienza che cosa si
può attribuire e ritenere intrinsecamente proprio del parametro che vogliamo utilizzare.
– Conoscenze: quando si costruire nelle valutazioni in materia di originalità la figura dell’esperto del ramo
per prima cosa ci si chiede quali sono le conoscenze che questo esperto possiede, cioè che cosa sa. Le sue
conoscenze vanno riprese dallo stato della tecnica alla data rilevante per il giudizio. Che cosa conosce
l’esperto del ramo? Nei settori in cui l’invenzione si colloca si attribuisce all’esperto la conoscenza del
100% dello stato della tecnica. Si tratta di un modello ideale perché lo stato della tecnica è costituito da
tutto ciò che è accessibile in qualunque parte del mondo, anche da ciò che è accessibile ma di cui si è
persa memoria e che magari riemerge solo facendo ricerche di anteriorità nel corso della causa. Già questo
rende evidente che non ci può essere una persona fisica, per quanto esperta e competente, che di quel
settore conosca l’intero stato della tecnica (comprese le anteriorità dimenticate o accessibili dall’altra parte
del mondo). Al tecnico medio si attribuisce la conoscenza dell’intero stato della tecnica nel settore di
riferimento perché per i settori diversi non ci può essere una conoscenza totale dello stato della tecnica.
Per i settori diversi attribuiamo comunque al tecnico medio le conoscenze che presumibilmente un esperto
di un certo settore avrebbe anche di settori differenti (es. il tecnico medio del settore dei televisori con una
formazione elettronica dovrebbe conoscere molto stato della tecnica anche del settore degli smartphone;
un esperto del settore degli impianti di santificazione industriale di macchinari e stabilimenti può avere
conoscenze elevate anche nel settore dei detergenti per uso domestico; il tecnico medio del settore della
cura dell’ipertensione potrà avere competenze elevate, seppur non specialistiche, anche nei settori che
curano altre malattie simili). L’immagine che solitamente si usa per semplificare questo concetto è una
piramide al cui vertice sta il settore di riferimento e dove il tecnico medio conosce il 100% della tecnica e,
allontanandosi dalla punta, le conoscenze man mano decrescono fino ad arrivare a settori lontani dove il
tecnico avrà delle conoscenze basilari tipiche di un soggetto con una formazione tecnica (le conoscenze
decrescono quanto più ci si allontana dal settore di riferimento). Si attribuisce inoltre al tecnico medio la
conoscenza comune generale o di base o common general knowledge (bagaglio di cognizioni tecniche di
base che ogni soggetto con formazione tecnica possiede).
– Capacità: una volta costruito il set di conoscenze bisogna chiedersi quali capacità abbia il tecnico del
ramo. Si tratta di un tecnico medio che avrà le normali capacità mediamente possedute da un operatore del
settore di riferimento; avrà quindi capacità di comprensione delle conoscenze tecniche accessibili, saprà
applicarle nei modi noti, saprà eventualmente combinarle e metterle insieme nel mondo in cui ci si può
attendere che in quel settore tecnico si combinino le conoscenze e avrà anche delle normali capacità di
fare test e sperimentazioni non eccedenti quello che normalmente farebbe un soggetto di quel settore alla
data rilevante per il giudizio sulla base della sua formazione, della sua esperienza e delle sue conoscenze.
Si tratta di chiedersi come avrebbe ragionato e operato un tecnico medio con quel set di conoscenze se si
fosse trovato davanti al problema tecnico da risolvere al momento del deposito della domanda di brevetto
o alla data della priorità. Il tecnico medio avrebbe operato secondo dei percorsi conosciuti, consolidati,
routinari e avrebbe applicato le sue conoscenze come tipicamente venivano applicate nel mondo della
tecnica all’epoca delle domanda di brevetto, avrebbe fatto delle normali sperimentazioni e test di routine,
avrebbe unito ciò che gli sembrava naturale unire e combinare ma non sarebbe stato in grado di andare
oltre: non sarebbe stato in grado di discostarsi dal percorso che normalmente le tecniche di routine gli
avrebbero suggerito né di prendere una strada diversa per arrivare alla soluzione inventiva del problema
tecnico. In termini semplicistici si può dire che il tecnico medio, al momento del deposito della domanda
di brevetto, avrebbe soltanto seguito una strada già trattata sulla quale era normale incamminarsi, ma non
sarebbe stato in grado di aprire una strada diversa da quella che lo stato della tecnica gli suggeriva di
percorrere. Nel fare questa valutazione si tiene conto del modo in cui il tecnico medio avrebbe ragionato e
delle dinamiche routinarie di ricerca della domanda di brevetto, cioè modalità di ricerca che pure erano
praticabili ma non si ritengono alla portata del tecnico del ramo perché non erano quelle che all’epoca si
sarebbero percorse. Si tiene conto dei protocolli e delle metodiche di ricerca esistenti alla domanda di
brevetto e così pure si tiene conto delle disponibilità finanziarie; il tecnico medio, oltre ad avere capacità
soltanto medie, ha anche delle disponibilità medie in termini di mezzi, di strumenti e di risorse finanziarie.
Il motivo per cui si considerano anche questi aspetti ha a che fare con la funzione del brevetto di stimolo
del progresso tecnico. Una gran parte della ricerca, soprattutto in campo farmaceutica e biotecnologico, è
svolta oggi verso risultati che tutto sommato sono prevedibili; ciò che rende difficile il raggiungimento di
questi risultati è l’entità degli investimenti necessari. In campo farmaceutico questo avviene con frequenza
perché si può facilmente capire che un certo campo di ricerca è molto promettente e lì si può trovare un
nuovo farmaco particolarmente efficace, ma occorrono strumenti sofisticati e finanziamenti ingenti per
poter allestire e svolgere tutte le attività necessarie all’individuazione e alla messa a punto del farmaco. Il

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Eleonora Biffi

timore che si è manifestato in questi casi è che considerare solo le capacità intellettuali del tecnico medio
potesse portare a negare il livello inventivo e quindi la brevettazione a queste invenzioni che per il
progresso in campo medico sono fondamentali. Si è voluto scongiurare il rischio che una ricerca di grande
importanza per la collettività non venisse svolta per timore che la si ritenesse banale per prevedibilità da
un punto di vista intellettuale dei risultati. Allora si è deciso di considerare anche le capacità finanziarie: se
vengono impiegati mezzi finanziari rilevanti che un tecnico medio normalmente non avrebbe si può
comunque riconoscere un livello di originalità. Questa estensione non è molto concettualmente omogenea
al requisito dell’originalità intesa come evidenza o non evidenza dal punto di vista intellettuale, ma è stata
necessaria per salvare la brevettazione e quindi la funzione di stimolo alla ricerca del brevetto in questi
settori dove l’ostacolo al procedere della ricerca è di tipo economico più che intellettuale.

Con questo abbiamo costruito il parametro di riferimento, individuando chi è l’esperto del ramo. Siamo ora
al momento in cui si deve definire e valutare l’ultimo concetto decisivo: il trovato che voglio brevettare è un
qualcosa che questa figura ideale di tecnico medio avrebbe ricavato in modo evidente e banale dallo stato
della tecnica con il proprio set di conoscenze, con le sue capacità medie di applicazione del noto e con le
disponibilità medie di strumenti e finanziamenti? Se avesse percorso la strada normale, sarebbe arrivato a
questo risultato oppure questo risultato che si vuole brevettare non sarebbe stato sul percorso seguito? Questo
è il giudizio vero e proprio di evidenza o non evidenza: chiedersi se il trovato è uno sviluppo naturale e
routinario dello stato della tecnica che il tecnico medio avrebbe compiuto oppure no. Per compiere questo
passaggio decisivo sono stati messi a punto una serie di criteri ulteriori.

Una volta individuata la figura del tecnico medio del ramo dobbiamo chiederci se il trovato che si intende
brevettare è o non è evidente per questo parametro ideale. Per compiere questa valutazione e per cercare di
fissare dei criteri il più possibile oggettivi tradizionalmente la giurisprudenza italiana fa ricorso a degli indizi
di evidenza o non evidenza. Si tratta di elementi di concreti, fatti oggettivamente documentabili, verificabili
che permettono di desumere secondo regole di esperienza se l’invenzione poteva o non poteva ritenersi
dotata di originalità. Lo stabilire se qualcosa è evidente oppure no è molto discrezionale e quindi si cerca di
fissare degli elementi tipici che, secondo logica e ragionevolezza, depongono nel senso dell’ovvietà o non
ovvietà. Si parla di indizi, non di prove; il che vuol dire che si tratta semplicemente di spunti per orientare la
valutazione, quindi può darsi che un indizio di non evidenza non sia decisivo per stabilire che effettivamente
nel suo complesso che l’invenzione non è evidente e viceversa può essere che un elemento che deporrebbe
per la evidenza dell’invenzione non sia a sua volta decisivo (in questo caso l’invenzione supera il giudizio di
originalità). Questo perché si tratta di una serie di elementi che non sono per legge da ritenere delle prove
vincolanti, ma degli elementi che possono servire a guidare la valutazione.

Tra gli indizi di non evidenza cioè gli elementi che possono orientare verso una conclusione di originalità
dell’invenzione, i principali sono i seguenti:
– Progresso tecnico, cioè il fatto che rispetto allo stato della tecnica l’invenzione costituisca un progresso
tecnico e tanto più questo progresso è rilevante, maggiore è la probabilità che l’invenzione venga ritenuta
originale (es. settore dove un principio attivo di un farmaco ha un grave effetto collaterale e quindi si deve
cercare di mettere a punto un farmaco che abbia la stessa efficacia terapeutica senza avere quell’effetto
collaterale); in questo caso si tratta di un evidente progresso tecnico. Altro esempio può essere il risolvere
un problema che in precedenza non si era mai risolto. Ci possono essere invenzioni caratterizzate da un
livello inventivo anche se non apportano un progresso tecnico, ma quando sussiste un progresso tecnico
significativo questo è indice di non evidenza.
– “Prova storica” è tra virgolette perché non è una vera e propria prova, la prova è ciò che in un giudizio
dimostra senza possibilità di contestazione o di dubbio un certo fatto. Si tratta di indizi, non di prove nel
senso legale. Il senso è quello di andare a vedere la storia del settore in epoca anteriore all’invenzione per
vedere qual è stato l’impatto dell’invenzione in questo settore. Rientrano in questo tipo di indizi: il
superamento di particolari difficoltà tecniche; il bisogno da tempo avvertito ma non ancora soddisfatto;
precedenti tentativi non andati a buon fine; l’esistenza di un pregiudizio tecnico. Se vi sono particolari
difficoltà tecniche (es. mezzi sofisticati, ingenti investimenti, difficoltà oggettive) averle superate è indice
di originalità. Il cosiddetto long felt need fa riferimento al bisogno, all’esigenza da tempo avvertita di
mettere a punto un dispositivo o un certo prodotto, ma non si è ancora riusciti a farlo; vi è forte la
percezione dell’esistenza di un problema da risolvere che richiede una soluzione che non è ancora stata
risolta, chiunque troverà per primo una soluzione avrà un forte indizio di non evidenza. Vi possono essere
tanti tentativi di risolvere il problema tecnico non andati a buon fine o l’esistenza di un pregiudizio
tecnico. Si parla di pregiudizio tecnico quando nello stato della tecnica anteriore all’invenzione vi è un
diffuso convincimento che la soluzione poi brevettata non funzioni o addirittura sia dannosa. Questo è un
forte indizio di non evidenza. Ci troviamo in una situazione in cui non si sarebbe pensato all’invenzione

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Eleonora Biffi

nello stato della tecnica anteriore, ma addirittura vi era il convincimento che quella strada di ricerca che
poi avrebbe portato a quella soluzione non era da percorrere perché considerata sbagliata. Il soggetto che
riesce a vincere il pregiudizio e arriva all’invenzione, scoprendo che in quell’invenzione non ci fosse nulla
di nocivo, ha verosimilmente compiuto un salto inventivo.
– Fatti successivi all’invenzione: successo commerciale; opinione di esperti; comportamento dei concorrenti
che rispettano il brevetto e magari chiedono licenze. Un esempio è l’unanime riconoscimento di esperti
che riconoscono grande valore all’invenzione. Classico caso è quello in cui viene brevettato un prodotto e
in una rivista scientifica di settore viene pubblicato un articolo da un soggetto attivo in quel settore in cui
si dice che l’invenzione è particolarmente brillante e utile per risolvere un certo problema. Il successo
commerciale è il fatto che vi sia una buona risposta di mercato e che quindi quel prodotto sia richiesto. Si
fa riferimento anche al comportamento dei concorrenti che rispettano il brevetto e chiedono licenze per
poter sfruttare il brrvetto. Tutti questi elementi possono deporre per l’originalità.

Indizi di evidenza o indizi di ovvietà dell’invenzione:


– Equivalenza del trovato a conoscenze note; mancato rispetto del brevetto da parte dei concorrenti;
progresso routinario; strada a senso unico. Possiamo pensare alla situazione in cui l’invenzione in realtà è
solo qualcosa di banalmente equivalente a conoscenze note; è il tipico caso in cui il soggetto si limita ad
apportare piccoli aggiustamenti e piccole varianti ma con un risultato equivalente a quello già noto. Altri
casi sono il fatto che i concorrenti siano convinti che l’invenzione non abbia requisiti di originalità e che
quindi possa essere liberamente attuata perché tanto non supererebbe un vaglio di nullità o il fatto che sia
un semplice progresso routinario oppure la situazione one way (a senso unico): si tratta di casi in cui, sulla
base dello stato della tecnica e delle conoscenze, c’era una sola possibilità di arrivare a quella soluzione,
cioè una situazione in cui non c’erano margini per soluzioni creative alterative, ma c’era un’unica strada
percorribile già fin dall’inizio. Il caso della strada one way è una tipica situazione in cui non c’è il tema
dell’originalità perché si è percorsa l’unica strada percorribile, arrivando all’unico risultato ipotizzabile.

Criteri di valutazione dell’Ufficio Europeo Brevetti che sono progressivamente seguiti anche dai giudici
italiani. Rispetto a questo complessivo modo di valutare l’originalità che è tipico delle cause in materia
brevettuale utilizzato dalla giurisprudenza italiana, risulta diverso il criterio utilizzato dall’Ufficio europeo
dei brevetti quando deve compiere un esame dei requisiti di validità. Non è detto che un criterio escluda
l’altro perché possono essere applicati entrambi anche in una logica di confronto, di incrocio dei risultati. È
un diverso modo di procedere che ha l’obiettivo ultimo finale di arrivare a stabilire l’evidenza e la non
evidenza. Rispetto al modo tradizionale italiano (individuazione del settore, costruzione della figura del
tecnico medio e determinazione dell’originalità), l’Ufficio europeo dei brevetti applica un diverso criterio
chiamato “approccio problema e soluzione” (problem and solution approach). La principale differenza tra
il criterio italiano e questo consiste nel fatto che in quello italiano le anteriorità rilevanti vengono considerate
nel loro complesso mentre nell’approccio europeo si individua un’anteriorità di riferimento e si combinano
poi le altre anteriorità con questa di riferimento. A differenza di quanto avviene nel giudizio di novità, nel
giudizio di originalità le anteriorità si possono combinare tra loro. Nel giudizio di originalità vale la regola
della combinazione a mosaico: nel giudizio di originalità si possono combinare le anteriorità perché è proprio
dall’insieme di queste che può derivare una evidenza del trovato. Esempio: situazione in cui, rispetto ad un
dispositivo meccanico che si vuole brevettare e che è dotato delle caratteristiche presentate come inventive A
e B, ci siano due anteriorità che rispettivamente rivelano A e B. In una situazione di questo tipo la novità
esiste perché non c’è identità dell’unione di B con nessuna delle due anteriorità. Nel giudizio di originalità
dove invece le anteriorità possono combinarsi a mosaico bisogna chiedersi se, per il tecnico medio, sarebbe
stato possibile compiere questa combinazione e arrivare alla soluzione brevettata. Tipicamente la mera
sommatoria di due anteriorità A e B depone per la banalità dell’invenzione e quindi per l’assenza della
originalità.

Come opera il problem and solution approach? Tre fasi:


– Individuazione dell’anteriorità più vicina alla soluzione che si vuole brevettare (closest prior art). “Più
vicina” va intenso in senso tecnico e non in senso temporale; è quella che presenta la distanza, da un punto
di vista tecnico, minore rispetto al trovato. L’anteriorità più vicina è quella per cui lo spazio è più corto,
per cui il salto è più breve. In altri termini si dice che è quella che avrebbe costituito il punto di partenza
più promettente per un tecnico medio per arrivare alla soluzione che poi si è messa nella domanda di
brevetto.
– Formulazione del problema tecnico oggettivo risolto dal trovato (objective technical problem).
– Valutazione, tenendo conto di tutte le anteriorità nello stato della tecnica, circa l’esistenza di insegnamenti
che avrebbero spinto il tecnico medio, di fronte al problema tecnico oggettivo, a procedere, partendo dalla
anteriorità più vicina, verso il conseguimento del trovato e lo avrebbero portato a conseguirlo. Si uniscono

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Eleonora Biffi

alla closest prior art tutte le altre interiorità dello stato della tecnica tra quelle che vengono attribuite come
conoscenze al tecnico medio e ci si chiede se egli, posto di fronte al problema tecnico oggettivo da
risolvere e prendendo come punto di partenza la closest prior art e unendo alla closest prior art le altre
interiorità presenti nello stato della tecnica, sarebbe arrivato all’invenzione. Si fa riferimento a possibili
suggerimenti che il tecnico medio poteva trovare nello stato della tecnica che gli indicavano la strada da
percorrere per arrivare all’invenzione; se è così siamo in una situazione di ovvietà. Esempi: abbiamo un
impianto industriale per la fabbricazione di lampadine che si vuole brevettare; elemento caratterizzante è il
fatto che la lampadina, una volta fabbricata, viene sigillata e resa insensibile all’immissione di aria o di
agenti esterni attraverso un certo procedimento. Ci si chiede se questa invenzione sia originale, si vanno a
cercare le anteriorità nello stato della tecnica, si individua il tecnico medio nell’esperto di quel tipo di
impianti, si trovano nello stato della tecnica tante anteriorità su procedimenti analoghi e si individua quella
più vicina da un punto di vista tecnico al procedimento che si vuole brevettare per sigillare le lampadine.
Si formula quindi il problema tecnico oggettivo per evitare in modo sicuro che l’aria o altri elementi
esterni possano entrare nel bulbo della lampadine e ci si chiede: il tecnico medio, sfruttando come punto di
partenza quell’anteriorità più vicina e sapendo che quello era il problema tecnico da risolvere, avrebbe
trovato nello stato della tecnica quelle anteriorità che combinate a quelle più vicine lo avrebbero spinto a
realizzare il procedimento brevettato? Analizzando le altre anteriorità si valuta se questo fosse il caso. In
una decisione presa dalla Corte d’Appello di Milano il problema era dato dal fatto che si trattava di un
impianto industriale per la colata di metallo fuso il cui dispositivo principale era la camera di colata, il
problema tecnico era evitare che il metallo si solidificasse troppo presto sui bordi che veniva risolto
attraverso una certa conformazione della camera di colata e attraverso il dotare questa camera di colata
così conformata di pareti mobili che potevano essere aggiustate a seconda delle esigenze del procedimento
di colata. Si individuano le anteriorità: una con camera di colata più o meno conformata in quel modo, una
con una conformazione meno simile e un’altra che prevedeva un meccanismo per muovere le pareti della
camera di colata. L’anteriorità più vicina è quella, tra le tre, con la conformazione della camera di colata
più simile all’oggetto del brevetto perché è quella che il tecnico medio avrebbe preso come punto di
partenza. Il problema tecnico è evitare la solidificazione del metallo sui bordi. Il tecnico medio, presa
l’anteriorità più vicina è confrontata con questo problema, avrebbe avuto degli spunti nella tecnica nota
per combinare a questa conformazione le pareti mobili? Probabilmente sì perché avrebbe visto in quella
anteriorità l'elemento delle pareti mobili come un qualcosa che ulteriormente permetteva di evitare che il
metallo si rapprendesse in quel punto. Questo è un caso di mancanza di livello inventivo. Unendo alla
prior art quell’altro elemento che pure la tecnica nota gli presentava, il tecnico medio sarebbe arrivato alla
soluzione oggetto del brevetto.

Due regole dell’originalità:


– Valutazione ex ante e non ex post: il punto di riferimento per la valutazione è sempre ex ante ovvero prima
della data di deposito della domanda del brevetto o della data di priorità. L’errore assolutamente da evitare
è quello di fare una valutazione ex post perché se valutiamo sulla base dello stato della tecnica posteriore
un’invenzione ottenuta anni addietro, quell’invenzione può sembrare scontata e banale. Così non è se ci si
pone dal punto di vista ex ante: bisogna quindi andare a vedere se era banale quando è stata depositata la
domanda. Ci si deve porre dal punto di vista del tecnico medio alla data di deposito della domanda di
brevetto (o alla data della priorità), senza considerare conoscenze ed altri elementi posteriori a questa data.
Esempio: in un caso era emerso che secondo una certa metodica di ricerca si sarebbe arrivati a combinare
in modo ovvio le anteriorità esistenti e tuttavia questa metodica era stata messa a punto successivamente al
deposito della domanda di brevetto; in quel caso si è detto che non si deve applicare nella valutazione
dell’originalità tale metodica di ricerca perché all’epoca non esisteva o comunque non sarebbe stata
seguita del tecnico medio dell’epoca. Si cerca di ragionare nel modo in cui avrebbe ragionato un tecnico
medio dell’epoca scartando logiche, metodi, ragionamenti e convincimenti posteriori a quella data.
– Approccio could-would: non conta ciò che il tecnico medio avrebbe astrattamente potuto fare (could),
conta solo ciò che il tecnico medio avrebbe effettivamente fatto (would), perché vi erano insegnamenti
nello stato della tecnica che lo spingevano a farlo. La mancanza di originalità presuppone elementi che
avrebbero spinto il tecnico medio in modo necessario verso la soluzione del problema tecnico nel modo
brevettato. Se si adotta la regola could è molto più difficile che ci sia originalità perché sono molti di più i
casi in cui il tecnico avrebbe potuto fare qualcosa; se si adotta la would l’originalità è più facilmente
riconosciuta perché non escludono l’originalità i casi in cui il tecnico avrebbe potuto fare qualcosa ma poi
in concreto non l’avrebbe effettivamente fatta. Esempio: ipotizziamo che per un tecnico medio, all’epoca
delle domanda di brevetto, fosse possibile compiere delle ricerche in campo chimico per sintetizzare una
certa molecola e che all’epoca non vi fosse nulla che avrebbe effettivamente spinto il tecnico medio a
procedere in una certa direzione. Ci troviamo in una situazione in cui astrattamente il tecnico avrebbe già
avuto le competenze di farlo ma non lo avrebbe fatto perché nulla gli suggeriva di farlo. La regola da

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Eleonora Biffi

applicare è la would e non la could, cioè manca l’originalità solo nei casi in cui gli insegnamenti esistenti
nello stato della tecnica al momento della domanda di brevetto effettivamente avrebbero spinto (would) il
tecnico medio verso il raggiungimento della soluzione brevettata. Questo quindi porta a dire che solo nel
caso del would manca l’originalità e quindi porta ad ampliare l’area di ciò che è brevettabile. L’Ufficio
europeo sintetizza la regola dicendo che l’originalità manca nello stato della tecnica solo se vi erano degli
stimoli o indicatori univoci che effettivamente avrebbero indotto il tecnico medio a procedere in quel
modo. La semplice possibilità could, senza would, non esprime l’originalità.

LICEITÀ
Il testo legislativo recita: “Non possono essere brevettate invenzioni la cui attuazione è contraria all’ordine
pubblico o al buon costume” (art. 50.1 c.p.i. e art. 53 lett. a CBE). Tra i due ordinamenti c’è una piccola
differenza di inquadramento sistematico: nel Codice italiano la liceità è un requisito di validità del brevetto,
nella Convenzione sul brevetto europeo l’ipotesi è inserita tra le situazioni in cui si tratta di una entità non
brevettabile. Ai fini pratici non cambia nulla. Ciò che rileva è che, in caso di contrasto tra l’invenzione che si
vuole brevettare e l’ordine pubblico o il buon costume, il brevetto non può essere concesso. Da notare però
alcune osservazioni: i concetti di buon costume e ordine pubblico sono delle clausole generali; si tratta di una
norma di salvaguardia per evitare che vengano concessi brevetti su entità inaccettabili in quanto in contrasto
con valori fondamentali. Ordine pubblico fa riferimento ad un insieme di regole e principali fondamentali ed
essenziali perché vi continui ad essere un ordinamento giuridico (inteso come collettiva organizzata secondo
regole di diritto). Buon costume fa riferimento a principi di ordine etico e morale che sono imprescindibili. È
in contrasto con l’ordine pubblico tutto ciò che si pone in conflitto con i principi fondamentali su cui si regge
la nostra collettività organizzata, c’è una situazione di contrasto con il buon costume quando ci troviamo di
fronte a realtà che pongono dei problemi etici e morali insuperabili. Attuazione vuol dire messa in opera,
applicazione dell’idea inventiva ed estrinsecazione di questa idea in un certo prodotto o procedimento. La
legge riferisce il contrasto all’ordine pubblico e al buon costume non all’invenzione in sé, ma all’attuazione
dell’invenzione; si deve andare a vedere, in uno scenario in cui l’invenzione venga messa in opera, se vi
sarebbe questo contrasto, cioè se l’applicazione pratica dell’invenzione porterebbe a questo contrasto.

Attuazioni in contrasto con l’ordine pubblico ed il buon costume vi possono essere per molte invenzioni. Un
brevetto consistente in un nuovo tipo di arma da fuoco o in un perfezionamento di un’arma da fuoco può
essere attuata in modo contrario all’ordine pubblico e al buon costume se un privato cittadino sfruttasse
quell’insegnamento per costruire un’arma con cui poi commette un reato. È assolutamente possibile che
quella stessa invenzione venga sfruttata in modo legittimo e conforme all’ordine pubblico a fini di sicurezza
dello stato, per dotare le forze dell’ordine di sistemi di difesa più avanzati e progrediti. L’attuazione può
estendersi a colpire anche l’ipotesi in cui ci può essere come non essere un contrasto? La risposta è no. In via
interpretativa si è detto che in questi casi, quando è possibile che vi sia un’attuazione lecita o illecita, la mera
eventualità di un’attuazione illecita non è d’ostacolo alla brevettabilità. Il concetto di attuazione contraria
all’ordine pubblico e al buon costume è stato circoscritto ad un’ipotesi molto limitata e marginale: quella in
cui non sia neppure ipotizzabile almeno un uso lecito per quella invenzione. Si tratta di casi limite in cui
l’attuazione dell’invenzione di necessità comporta un contrasto con l’ordine pubblico ed il buon costume e
non è possibile che ci sia neppure un utilizzo lecito di quell’invenzione. È un’ipotesi molto teorica. Esempi:
sostanza tossica di un’arma biologica o batteriologica che non ha alcun possibile uso lecito se non quello di
essere utilizzata per fini illeciti; sostanza velenosa che, in qualunque forma venga attuata, comporti dei danni
per la salute dell’uomo, degli animali o dell’ambiente e che non abbia nessun utilizzo terapeutico possibile e
lecito. In questa situazione il requisito della liceità si restringe e questo fa sì che di fatto questo requisito non
abbia sostanzialmente avuto applicazioni pratiche. L’unica eccezione è costituita dal settore delle ricerche in
campo biotecnologico dato che in questo ambito i divieti riconducibili alla nozione di liceità sono molto
sentiti e vengono in rilievo frequentemente. Esempi di divieti: procedimenti di clonazione dell’essere umano,
procedimento che portino ad una discriminazione su base genetica degli esseri umani, procedimenti relativi a
cellule staminali ed embrioni umani. Al di là del campo strettamente biotecnologico il requisito è rimasto
essenzialmente sulla carta. Non c’è un problema di liceità se almeno un uso lecito dell’invenzione è possibile
(es. dispositivo per scassinare la serratura che può essere lecitamente usato dal fabbro in casi di emergenza).

“In ogni caso l’attuazione dell’invenzione non può essere considerata contraria all’ordine pubblico o al buon
costume per il solo fatto di essere vietata da una disposizione di legge o amministrativa” (art. 50.2 c.p.i. e art.
53 lett. a CBE). Può capitare che una certa invenzione non possa essere attuata perché la legge o una regola
amministrativa lo vietano o subordinano questa attuazione ad una preventiva autorizzazione. Un privato
cittadino non può, senza autorizzazioni, fabbricare o acquistare armi da fuoco e girare armato per il territorio
dello stato, a meno che non abbia avuto specifiche autorizzazioni a livello amministrativo o legislativo per
tenere queste condotte. Il corollario della norma sulla liceità che stiamo esaminando ci dice che, se anche

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l’attuazione dell’invenzione è subordinata ad autorizzazioni o a limiti legali, ciò non porta al riconoscimento
della validità del brevetto. Il fatto che quell’uso lecito sia soggetto a limitazioni o autorizzazioni non esclude
la validità del brevetto. Questa regola logica non vuole spostare il concetto della liceità dalla possibilità di un
uso lecito che è sufficiente che vi sia al piano diverso delle autorizzazioni o condizioni cui è subordinata
l’attuazione dell’invenzione per cui comunque un uso lecito è possibile.

SUFFICIENTE DESCRIZIONE
A livello di inquadramento sistematico si discute se la sufficiente descrizione del brevetto sia un vero e
proprio requisito di validità o una condizione aggiuntiva estranea al concetto vero e proprio di requisiti di
validità. Si tratta di un problema che, da un punto di vista pratico, non ha rilievo. Alcuni sostengono che la
sufficiente descrizione non è un requisito di validità perché non attiene alla natura intrinseca dell’invenzione
ma attiene al modo in cui è scritta la domanda di brevetto (modo di presentare e redigere un testo). Dal punto
di vista pratico ciò che rileva è che, se la sufficiente descrizione non vi è, il brevetto non può essere concesso
e se viene concesso è nullo. All’atto pratico che sia o non sia concettualmente un vero e proprio requisito di
validità poco importa. Si tratta comunque di una condizione che deve sussistere e senza la quale il brevetto
non può essere considerato valido.

Si tratta di una condizione frequentemente esaminata nelle cause in materia brevettuale. È essenziale per la
tenuta e per il funzionamento del sistema brevettuale che l’inventore riveli, nella domanda di brevetto, la sua
invenzione in modo chiaro, completo e comprensibile perché è necessario che il testo brevettuale consenta di
comprendere e riprodurre l’invenzione. “L’invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro
e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla” (art. 51.2 c.p.i. e art. 83 CBE). Sufficiente
vuol dire che la spiegazione dell’idea inventiva contenuta nel testo brevettuale deve essere sufficiente a
rendere quell’idea comprensibile e attuabile; solo quando il concetto inventivo può essere replicato c’è una
sufficiente divulgazione ed esposizione di quel concetto. La comunicazione funziona solo se il modo in cui
un concetto è espresso e veicolato dal soggetto mittente è recepito e recepibile dal soggetto destinatario. La
legge dice che la sufficiente descrizione esiste quando una persona esperta del ramo è in grado di attuare
l’invenzione sulla base della semplice lettura del testo brevettuale. Si prende il concetto di esperto del ramo
ma qui la domanda è: un tecnico medio, al momento del deposito della domanda di brevetto e leggendo il
testo brevettuale depositato, sarebbe stato in grado di comprendere e replicare l’invenzione? Se la risposta è
affermativa, la sufficiente descrizione esiste; in caso contrario il brevetto non può essere concesso perché se
viene concesso è nullo.

La legge fa poi un passo ulteriore e fornisce delle indicazioni pratiche sulla modalità di redazione del testo
del brevetto e in particolare sul modo di scrivere la descrizione. I regolamenti di attuazione sono l’art. 21.3
d.m. 13 gennaio 2010 n. 33 (decreto ministeriale) del c.p.i. e la regola n. 42 del CBE. Nella descrizione
occorre:
a. Specificare il campo della tecnica a cui l’inventore fa riferimento: si valuta la validità di un brevetto con
riferimento all’esperto di quel ramo.
b. Indicare lo stato della tecnica preesistente, per quanto a conoscenza dell’inventore, che sia utile alla
comprensione dell’invenzione ed all’effettuazione della ricerca, fornendo eventualmente i riferimenti a
documenti specifici; questo perché quello stato della tecnica costituisce il termine di riferimento per
valutare se l’invenzione è brevettabile.
c. Esporre l’invenzione in modo tale che problema tecnico e soluzione proposta possano essere compresi:
l’invenzione è la soluzione di un problema tecnico e bisogna far capire esattamente qual è il problema su
cui la soluzione interviene.
d. Descrivere brevemente gli eventuali disegni.
e. Descrivere in dettaglio almeno un modo di attuazione dell’invenzione, fornendo esempi appropriati e
facendo riferimento ai disegni, laddove questi siano presenti: elemento essenziale è spiegare come essa
può essere praticamente applicata.
f. Indicare esplicitamente, se ciò non risulti già ovvio dalla descrizione o dalla natura dell’invenzione, il
modo in cui l’invenzione può essere utilizzata in ambito industriale: può essere che già dalla descrizione
del contesto sia chiara ed evidente l’applicazione dell’invenzione, ma non è sempre così (es. brevetto su
un composto chimico, materiale biologico o sequenza genetica). Si richiede che vi sia un’esplicita
indicazione dell’applicazione industriale nella domanda di brevetto.

Il parametro di riferimento (occhi di chi legge il testo del brevetto) per la valutazione della sufficienza della
descrizione è l’esperto del ramo. Questo ha una serie di implicazioni: il problema tecnico e la soluzione del
problema tecnico devono essere perfettamente comprensibili ad un esperto del settore e quindi nulla importa
che i due aspetti non siano comprensibili a chi non è esperto del ramo. Non è necessario scendere in dettagli

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Eleonora Biffi

tecnici che occorrerebbero per far comprendere l’invenzione ad un profano della materia, ma è sufficiente
dare le indicazioni che per l’esperto del ramo sono sufficienti. È sufficiente che problema e soluzione, nel
modo in cui sono scritti, siano comprensibili agli occhi di un esperto del ramo. Dato che l’esperto del ramo
già possiede la conoscenza dello stato della tecnica non è necessario inserire nella domanda di brevetto
informazioni che già fanno parte delle conoscenze che si attribuiscono ad un esperto del ramo. Il che ha un
rilievo pratico notevole perché se così non fosse una domanda di brevetto dovrebbe essere una sorta di
trattato scientifico in cui si spiega tutto dall’inizio ed il brevetto diventerebbe un testo complesso, prolisso e
difficilmente gestibile. In tal modo il richiedente il brevetto è dispensato dall’indicare nel testo brevettuale le
informazioni che vengono attribuite all’esperto del ramo e può concentrarsi solo sulle cose rilevanti, cioè le
cose che l’esperto del ramo non sarebbe in grado di ricavare dallo stato della tecnica e che quindi gli devono
essere specificamente indicate nel brevetto. In questo modo il testo brevettuale diventa più gestibile e può
anche essere redatto in modo da concentrarsi direttamente su ciò che effettivamente rileva.

La conseguenza è che la descrizione non sufficiente è solo quella che non contiene informazioni senza le
quali l’esperto del ramo non è in grado di attuare l’invenzione o la cui mancanza fa sì che l’esperto debba
procedere a ricerche e sperimentazioni per arrivare ad attuare l’invenzione (cosiddetto “onere eccessivo” o
“undue burden”). La scrittura della descrizione va fatta in modo molto oculato: bisogna saper individuare le
conoscenze che non è necessario riversare nella domanda di brevetto ma bisogna anche stare molto attenti a
non omettere informazioni che viceversa sono indispensabili. Nella pratica si sono tipizzate una serie di
situazioni in cui le informazioni non sono sufficienti per il tecnico medio. Esempio: situazione in cui non è
possibile per l’esperto attuare con sicurezza l’invenzione ma deve procedere per tentativi o sperimentazioni
ulteriori che si traducono in test sull’oggetto brevettato per cercare faticosamente di arrivare all’idea
inventiva. È la situazione dell’onere eccessivo in cui vengono demandate al tecnico medio delle attività
ulteriori di sperimentazione e ricerca di cui ha bisogno e che non trova nel brevetto. Caso classico è quello di
un’invenzione in cui bisogna fornire certe indicazioni quantitative (es. misura precisa di una sostanza, range
o parametri percentuali) perché altrimenti il tecnico medio dovrà procedere per sperimentazioni e tentativi
finché troverà la misura giusta. Il concetto è che il tecnico deve andare a colpo sicuro sulla base di quello che
è scritto nel brevetto. Una situazione simile è quella di indicazioni troppo ampie che non danno una guida
precisa (es. “range non superiore al 25%” è un’indicazione troppo vaga).

È necessario ma anche sufficiente indicare almeno uno dei modi di attuazione dell’invenzione; questo vuol
dire che, per ottenere il brevetto, non siamo obbligati ad indicarli tutti. In particolare, non siamo tenuti ad
indicare il modo migliore e più efficiente (“best mode”). In altri ordinamenti, tra cui quello statunitense, è
invece richiesta l’indicazione del best mode. Nel sistema europeo è sufficiente indicare uno dei modi di
attuazione dell’invenzione e questo è favorevole per l’inventore. Se l’invenzione ha più modi di attuazione e
l’inventore ne ha individuato uno particolarmente efficiente, può tenere per sé le informazioni relative al best
mode e può rivelare nella domanda di brevetto solo un altro modo di attuazione meno efficiente. Si tratta di
una logica di compromesso: da un lato la collettività ha un’indicazione sul modo di attuare il brevetto ma
dall’altro l’inventore può non rivelare nella domanda di brevetto tutto il suo know-how. C’è una fascia di
informazioni riservate sul best mode che l’inventore può tenere per sé e proteggere. È una norma di favore
che bisogna saper applicare con giudizio. È legittimo l’interesse dell’inventore a tenere per sé una quota di
know-how, ma deve stare attento a non tenere per sé troppo know-how perché se omette qualcosa che è
necessario rischia di perdere il brevetto. È quindi importante saper scrivere la domanda di brevetto e sapere
cosa è possibile non scrivere.

Infine, è fondamentale che sia sempre evidente l’applicazione industriale del trovato, cioè il modo in cui
concretamente nel mondo della tecnica l’invenzione può essere pubblicata. Questo concetto si lega a doppio
filo a quello dell’industrialità. Viene altresì precisato dalla legge con la vertenza che è possibile che, per certe
invenzioni, non basti descrivere la struttura o il modo di ottenere un prodotto/procedimento perché sia chiaro
a che cosa serva da un punto di vista tecnico; se così è, una componente indispensabile della descrizione è
anche lo spiegare per l’appunto a cosa serve e come può essere industrialmente applicata l’idea inventiva.
L’applicazione del trovato va quindi esplicitata nella descrizione, a meno che essa non sia già evidente.

PROCEDIMENTI DI BREVETTAZIONE
Vediamo ora come materialmente si può acquisire una tutela di tipo brevettuale, vale a dire attraverso quali
procedimenti si può arrivare dal dato di partenza (il conseguimento dell’invenzione) al dato finale (il testo
brevettuale che crea un’esclusiva). Formalmente le fonti del diritto oggi esistenti prevedono quattro modi di
acquisizione di una tutela brevettuale in Italia. Di queste quattro modalità, solo le prime tre sono al momento
operative. La quarta, pur essendo prevista da un regolamento dell’UE in vigore, non è ancora operativa. Di
seguito si analizzano le forme di tutela:

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Eleonora Biffi

– Brevetto italiano rilasciato dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (c.p.i. e d.m. n. 33/2010). Questa forma
di tutela brevettuale è quella del deposito di un brevetto nazionale italiano. Si tratta di un brevetto che
viene rilasciato all’esito di una procedura che può essere schematizzata nelle seguenti fasi: deposito della
domanda di brevetto da parte del richiedente (ormai frequentemente i depositi si fanno online) ed esame
della regolarità della domanda da parte dell’ufficio; l’esame preliminare della sussistenza dei requisiti di
validità del brevetto non viene svolto in seno all’ufficio italiano ma viene delegato all’Ufficio Europeo
Brevetti creato con la Convenzione di Monaco; questo perché, fin dalla sua istituzione, l’Ufficio Europeo
Brevetti è stato dotato di personale con competenze tecniche e qualificato a svolgere un’analisi del trovato
per verificarne la brevettabilità. Storicamente simili divisioni di esame con personale qualificato non sono
mai state presenti nell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi. Per molti anni l’Italia è stato un Paese in cui i
brevetti venivano rilasciati senza un esame preventivo di validità dei requisiti. Dato che questo aveva
posto l’Italia in una situazione particolare si è deciso di svolgere l’esame preventivo anche per i brevetti
italiani ma anziché dotare l’ufficio delle risorse necessarie si è reputato più efficiente avvalersi dell’esame
svolto dall’Ufficio Europeo Brevetti che viceversa era strutturato per farlo e aveva una pluridecennale
esperienza in questo tipo di attività. Passato l’esame di regolarità formale della domanda, la domanda
viene passata all’Ufficio Europeo Brevetti che svolge una ricerca di anteriorità ed emette un parere sulla
sussistenza o meno dei requisiti di validità. Dopodiché il dossier digitale della procedura torna all’Ufficio
Italiano che comunica i risultati al richiedente e, se dall’esame svolto emergono delle problematiche, il
richiedente ha la facoltà di modificare, aggiustare e limitare la domanda di brevetto. Se ad esempio una
caratteristica risulta non validamente brevettabile la si toglie e si restringe la portata del brevetto in modo
da togliere la parte non validamente brevettabile. Alternativamente possono emergere dai rilievi difetti
sanabili nella redazione della domanda, a quel punto al richiedente è data la possibilità di cercare di
superare questi rilievi dando una veste più chiara alla domanda. L’unica cosa che non si può fare è
aggiungere alla domanda materiale inventivo che non era contenuto nella domanda fin dall’inizio. Il testo
della domanda di brevetto depositato può successivamente, durante la procedura di brevettazione, essere
modificato ma con un unico limite: poter essere modificato solo in relazione ad elementi che nella
domanda di brevetto erano già presenti. Non si può quindi aggiungere nulla che non sia già presente sin
dall’inizio. Ritroveremo questo aspetto nella causa di nullità costituita dall’estensione dell’oggetto del
brevetto oltre il contenuto iniziale, che si riferisce al caso in cui si ampli il brevetto fino ad includervi
materia inventiva che all’inizio non era già presente. All’esito di questa fase di esame, l’Ufficio Italiano
Brevetti e Marchi emette una decisione di concessione del brevetto o di rigetto della domanda di brevetto
per insussistenza dei requisiti. In caso di concessione del brevetto la procedura davanti all’Ufficio Italiano
si conclude, il brevetto è concesso ed i terzi che abbiano motivo di ritenere che non sia valido hanno come
unico rimedio quello della causa di nullità del brevetto davanti al giudice. Se invece il brevetto viene
rifiutato il richiedente ha una possibilità di appello contro la decisione dell’Ufficio a Italiano Brevetti e
Marchi: egli infatti può rivolgersi ad un giudice speciale (la Commissione dei Ricorsi) che si trova presso
il Ministero dello Sviluppo Economico a Roma, giudice d’appello contro i provvedimenti di rigetto
dell’ufficio. La commissione può confermare o annullare la decisione dell’ufficio e quindi rimandare la
pratica per un nuovo esame all’ufficio. Le decisioni della Commissione dei Ricorsi sono impugnabili in
ultima istanza davanti alla Corte di Cassazione. Viceversa, per le cause di nullità del brevetto concesso, la
strada è quella del giudice e segue i gradi della giurisdizione ordinaria: Tribunale, Corte d’Appello e Corte
di Cassazione. In alcuni tribunali e corti d’appello della repubblica italiana sono istituite delle sezioni
specializzate in materia d’impresa che sono le uniche sezioni competenti a decidere cause in materia di
proprietà intellettuale e quindi anche di cause di validità dei brevetti e di loro eventuali contraffazioni.
– Brevetto europeo rilasciato dall’Ufficio Europeo Brevetti (Convenzione di Monaco). Il brevetto europeo
non fa riferimento ad un brevetto unico e sovranazionale per tutti gli stati membri (attualmente sono circa
una quarantina) aderenti alla convenzione, ma vuol dire che con una procedura unica davanti all’Ufficio
Europeo Brevetti si ottengono tanti brevetti paralleli per gli stati tra quelli aderenti alla convenzione per
cui il richiedente ha chiesto tutela; si parla al riguardo di un fascio di brevetti. Più stati si designano, più
alti sono i costi per le tasse di concessione e mantenimento del brevetto; tipicamente gli inventori non
chiedono il brevetto per Paesi che non sono commercialmente di loro interesse o li designano ma poi non
pagano le tasse e lasciano decadere le porzioni dei Paesi che non sono di interesse. Il brevetto europeo fa
riferimento ad una procedura unica che alla fine, in caso di concessione del brevetto, mette capo ad un
fascio di brevetti paralleli; è come se con un’unica procedura fossero stati concessi tanti brevetti, uno per
ciascuno stato designato. Una volta che il brevetto europeo è stato definitivamente concesso, ogni
porzione nazionale ha vita propria; se io voglio fare una causa di nullità di un brevetto europeo o se
viceversa il titolare di un brevetto europeo vuol fare una causa di contraffazione, non si può fare un’azione
unica o centralizzata ma si devono fare tante azioni stato per stato. Se io voglio far dichiarare nulle tutte le
porzioni di un brevetto europeo dovrò fare quattro cause di nullità (es. Francia, Italia, Germania, UK). Lo
stesso vale per il titolare. Questo fa sì che nelle cause relative ai brevetti europei molto spesso siano in

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Eleonora Biffi

corso parallelamente in più Paesi procedimenti di validità e contraffazione sulle diverse porzioni nazionali
dello stesso brevetto europeo. Il che ha delle conseguenze pratiche nelle strategie di difesa perché bisogna
anche coordinare le difese tra i vari stati in modo che una non contraddica l’altra. Questo può portare a
decisioni di segno diverso. Può capitare che una porzione nazionale venga dichiarata nulla, che un’altra
venga dichiarata valida ma non contraffatta e che un’altra venga dichiarata valida e anche contraffatta.
Questo perché le regole sono identiche ma le singole prassi nazionali possono essere diverse così come le
valutazioni dei giudizi. La procedura di concessione davanti all’Ufficio Europeo Brevetti nelle sue fasi è
simile a quella vista per il brevetto italiano, con la differenza che l’esame di validità viene direttamente ed
internamente compiuto dall’ufficio europeo. Quindi: deposito della domanda, valutazione preliminare di
regolarità, ricerca di anteriorità, esame nel merito dei requisiti di validità e concessione del brevetto in
caso di esito positivo. In caso di esito negativo c’è un rigetto del brevetto contro il quale il richiedente ha
una possibilità di appello davanti alle commissioni di ricorso istituite in seno all’ufficio europeo. Una
importante differenza del sistema del brevetto europeo rispetto a quello nazionale è data dal fatto che, a
differenza di quanto avviene per il brevetto nazionale italiano, il brevetto europeo dopo la concessione può
essere contestato davanti allo stesso Ufficio Europeo Brevetti nel termine di 9 mesi dalla concessione. È il
cosiddetto procedimento di opposizione: per nove mesi dopo la concessione ogni soggetto interessato ha
la possibilità di chiedere con una procedura di opposizione davanti allo stesso ufficio europeo la revoca
del brevetto concesso. La procedura di opposizione è un vero e proprio riesame del merito dei requisiti di
validità, non è più un dialogo tra ufficio e richiedente ma diventa un vero e proprio contraddittorio con il
soggetto che propone l’opposizione; alla fine l’ufficio decide se confermare il brevetto, revocarlo o
mantenerlo in forma più ristretta e modificata. Anche le decisioni di opposizione possono essere
impugnate davanti alle commissioni di ricorso dello stesso ufficio europeo. In ogni caso, che ci sia o non
ci sia la procedura di opposizione, se dall’ufficio europeo esce un brevetto concesso chi ha interesse può
fare causa di nullità davanti al giudice. Si tratta di un principio fondamentale e costituzionale degli stati di
diritto: i soggetti possono sempre rivolgersi ad un giudice per far valere le loro ragioni, anche se c’è stato
già un provvedimento amministrativo di un certo tipo. Questo in Italia è sancito dall’art. 117 del c.p.i. che
dice che la concessione di un titolo di priorità industriale, qualunque esso sia e anche se ha superato varie
fasi amministrative, può sempre essere sottoposta al giudice chiedendogli di valutare se quel titolo sia
valido o no. La procedura di opposizione per il brevetto europeo ha il vantaggio, rispetto alle cause di
nullità, di poter essere fatta in modo unitario e centralizzato davanti all’ufficio europeo. Se l’opposizione
viene accolta il brevetto viene cancellato nella sua interezza, altrimenti si deve andare stato per stato con
le azioni di nullità.
– Brevetto PCT (Patent Cooperation Treaty). Il PCT è un trattato in materia di cooperazione e di brevetti
risalente al 1970 e sottoscritto a Washington. Il brevetto PCT o brevetto internazionale è un brevetto che si
ispira all’idea di una procedura di concessione centralizzata, ma rispetto a quello europeo presenta una
differenza: la procedura centralizzata di concessione non arriva fino al termine, ma si arresta dopo la fase
di esame preliminare. Chi deposita una domanda di brevetto internazionale nella quale dovrà indicare gli
stati per cui vuole protezione si rivolge ad un ufficio internazionale competente per il rilascio di brevetti
PCT che valuta la regolarità della domanda, compie o fa compiere da uffici delegati le ricerche di
anteriorità, può emettere un parere preliminare di validità del brevetto ma a questo punto la procedura
unica e centralizzata cessa. Arrivati a questa fase l’ufficio internazionale ramifica la domanda presso tutti
gli uffici nazionali designati ed invia la domanda con tutti i documenti acquisiti fino a quel momento ad
ogni ufficio competente per il territorio per cui il richiedente ha chiesto protezione. Da quel momento in
poi le procedure cessano di esse coordinate tra loro e a livello nazionale ogni ufficio procede per conto
proprio sulla base della ricerca di anteriorità e dell’esame preliminare di validità già fatto in sede
internazionale. Sulla base di una domanda di brevetto PCT si può designare l’Ufficio Europeo Brevetti e
presso di esso si possono designare determinati stati membri oppure si può rivendicare direttamente la
protezione in Italia come risulta dall’art. 55 del c.p.i. Il risultato sarà una concessione del brevetto soggetta
alle regole del brevetto italiano o europeo.
– Brevetto europeo con effetto unitario (Regolamento UE n. 1257/2012). Questa strada esiste sulla carta ma
non è ancora operativa. L’idea di fondo dell’Unione Europea è stata quella di stipulare un accordo con
l’Ufficio Europeo Brevetti in forza del quale si è previsto che l’UE attribuisca all’ufficio europeo il potere
di concedere un brevetto europeo con effetto unitario che non è più un fascio di brevetti nazionali, ma è un
vero e proprio brevetto unitario e sovranazionale per il territorio degli stati dell’UE che hanno aderito a
questo sistema. Il progetto non è ancora operativo, è stato rallentando da una serie di questioni logistiche
(tra cui la Brexit ed intoppi nella ratifica in Germania). Al momento non si sa esattamente se e quando
diventerà una realtà, ma se lo dovesse diventare si tratterà di un vero e proprio brevetto con effetto unitario
sovranazionale per tutti gli stati membri dell’UE aderenti a questo sistema. L’Ufficio a Europeo Brevetti
continua e continuerà a rilasciare i brevetti europei tradizionali e assommerà a questa competenza, qualora
il sistema entrerà in vigore, quella di concedere un brevetto unitario. Da tutto questo riemerge un altro

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Eleonora Biffi

principio cardine della materia della proprietà brevettuale che è il principio di territorialità: l’esclusiva
conferita da un diritto di propria intellettuale, in particolare da un titolo come il brevetto, che ha effetti
solo nel territorio per cui è competente l’ufficio preposto al rilascio di quella privativa. In forza del
principio di territorialità un brevetto italiano sarà efficace solo in Italia, un brevetto europeo sarà efficace
solo nei Paesi europei per cui è stata richiesta protezione, i brevetti PCT saranno efficaci solo negli stati
per cui è stata chiesta protezione. Va anche ricordato che la differenza tra il brevetto PCT ed il brevetto
europeo non è solo quella inerente alla completezza della procedura, ma vi è anche una differenza di tipo
territoriale: il brevetto europeo è circoscritto a stati europei mentre il sistema PCT è di portata mondiale e
diventa utile quando gli stati di interesse per cui si vuole protezione non siano solo europei. Tipicamente è
molto usato per brevetti in Asia ed in Nord America.

STRUTTURA DEL BREVETTO


La modalità di redigere il brevetto non è libera ma ha regole precise che servono agli scopi che il sistema
brevettuale si prefigge: rendere accessibile al pubblico l’informazione e la conoscenza dell’idea inventiva,
individuare con precisione i confini dell’esclusiva attribuita al titolare del brevetto. Per questo motivo il
brevetto deve essere strutturato e scritto in un certo modo. Non si tratta di pure formalità, ma di norme che
hanno un forte rilievo sostanziale.

PARTI DEL BREVETTO


Si tratta di regole uniformi a livello mondiale e sostanzialmente tutti i brevetti sono scritti in questo modo:
– Dati identificativi del titolare, dell’inventore e dell’eventuale rappresentante del titolare (se nominato): tali
dati sono contenuti nella prima pagina del brevetto, danno un titolo all’invenzione utile per rintracciarla
nelle banche dati;
– Titolo dell’invenzione e riassunto: vi è un breve riassunto (abstract) dell’oggetto dell’invenzione;
– Eventuale rivendicazione di priorità: vi può essere una rivendicazione di priorità in base al sistema della
Convenzione di Parigi;
– Descrizione: da qui iniziano le parti più importanti ovvero il cuore del brevetto;
– Rivendicazioni;
– Eventuali disegni.
Va ricordata la regola di unitarietà del brevetto: ogni brevetto deve avere ad oggetto una sola invenzione (art
161 c.p.i). La Convenzione di Monaco adotta una regola un po’ più larga, un po’ più permissiva perché dice
che il brevetto deve avere ad oggetto una sola invenzione o anche più invenzioni tra le quali esista un legame
tale che possano ritenersi espressione di un unico concetto inventivo generale (art. 82 CBE). Caso classico è
quello in cui un’invenzione o un concetto inventivo generale sia dato da una ricerca all’esito della quale si
raggiungono due invenzioni: un certo prodotto e il procedimento per fabbricare quel prodotto. In questo caso
ci sono due invenzioni: una di prodotto e una di procedimento. In base alla legge italiana formalmente si
dovrebbero presentare due domande di brevetto: una per il prodotto e una per il procedimento. Nel caso del
brevetto europeo invece non saremmo tenuti a fare questo ma potremmo depositare un’unica domanda sulle
due invenzioni (prodotto e procedimento) perché il concetto inventivo generale di cui sono espressione è il
medesimo, da una ricerca inventiva sono emersi due risultati tutelabili tra loro strettamente connessi. Nella
pratica, siccome le invenzioni di un certo rilievo ormai sono quasi tutte contenute in brevetti europei a cui si
applica la regola della Convenzione di Monaco questa differenza è molto ridimensionata; a ridimensionarla
contribuisce anche un altro fatto e cioè che si ritiene che solo che durante la procedura di brevettazione il
mancato rispetto di queste regole possa essere rilevato dall’ufficio. Se però l’ufficio non rileva durante la
procedura di concessione il mancato rispetto di queste regole e il brevetto viene ciononostante concesso, il
mancato rispetto delle regole diventa irrilevante e non è una causa di invalidità del brevetto concesso. Questo
perché si ritiene che la norma abbia essenzialmente una finalità fiscale, quindi di allocare il pagamento delle
tasse a brevetti che riguardino una cosa sola e che non si paghino tasse uniche per tante invenzioni diverse.
Se l’ufficio non rileva il mancato rispetto di queste regole, il titolare non deve più temere. Se invece l’ufficio
rileva il mancato rispetto di queste regole, il titolare ha davanti a sé due possibilità: restringere il brevetto ad
una sola invenzione o ad un solo concetto inventivo generale escludendo dalla protezione brevettuale tutto il
resto (rinunciando alla protezione per ciò che non riguarda il concetto inventivo per cui lui vuole mantenere
il brevetto), oppure può depositare per le altre invenzioni delle domande separate (si ha una vera e propria
scissione del brevetto depositato come unico in tante domande di brevetto, ciascuna delle quali si stacca dal
tronco comune e concerne una sola invenzione o un solo concetto inventivo). Le domande ulteriori che si
staccano dal tronco comune circoscritto ad una sola invenzione o ad un concetto inventivo si chiamano
domande divisionali proprio perché risultano dalla divisione di un’unica domanda originaria e, regola di
favore per il titolare del brevetto, le domande divisionali conservano la data del deposito della domanda
originaria per cui beneficiano del fatto che lo stato della tecnica continuerà ad essere valutato non alla data di

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Eleonora Biffi

deposito della domanda divisionale, ma alla data di deposito della prima domanda. Quindi si avranno tante
domande parallele a cui viene attribuita la stessa prima data di deposito e che a quel punto saranno oggetto di
esame separato.

BREVETTO ITALIANO
Analizziamo ora l’estratto di un brevetto italiano che è stato chiesto all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.
Nella prima pagina si trovano gli elementi come il numero del brevetto, la camera di commercio presso cui la
domanda era stata depositata, la data di deposito della domanda (che è molto importante perché è la data a
cui si valuta lo stato della tecnica se non c’è una rivendicazione di priorità ed è la data da cui decorrono i
venti anni di protezione), il titolare, il nome e l’indirizzo del mandatario (il consulente brevettuale che ha
curato la redazione della domanda), il titolo dell’invenzione, gli inventori e una rivendicazione di priorità;
sappiamo che i vent’anni di protezione decorrono dalla data di deposito della domanda che è il 10/01/2001.
Sappiamo anche che, essendo stata rivendicata la priorità, lo stato della tecnica sarà quello di un anno prima
della data di deposito, in questo caso è il 10/01/2000. Come mai inventori e titolari sono diversi? La regola
generale è che l’inventore è anche il soggetto legittimato ad essere anche il titolare del brevetto, ma questo
non avviene quando gli inventori operino alle dipendenze di una società che ha assunto un team di ricerca. I
diritti sul brevetto spettano al datore di lavoro, non al dipendente. Il dipendente conserva il suo diritto morale
ad essere conosciuto come inventore del trovato; i soggetti indicati sono materialmente le persone fisiche che
hanno conseguito l’invenzione. Il titolare dei diritti patrimoniali sull’invenzione è in questo caso il soggetto
committente o il datore di lavoro. Il soggetto che ha vent’anni di diritto esclusivo di sfruttamento è l’azienda
farmaceutica. In fondo c’è la data di concessione del brevetto che però è poco rilevante. Successivamente nel
modulo di deposito si hanno di nuovo il richiedente, il titolo, l’abstract (riassunto) e per ultimo i disegni
principali. Nella parte successiva si trova la descrizione dell’invenzione che è quella parte ampia e corposa
del testo brevettuale nella quale l’inventore descrive compiutamente e secondo i criteri visti l’invenzione. La
descrizione tipicamente occupa la maggior parte del brevetto. Ci sono anche dei punti fissi della descrizione
dell’invenzione: una parte nella quale si indica il settore della tecnica in cui l’invenzione si colloca, una parte
in cui si dice qual è il problema tecnico da risolvere, una parte in cui si richiama brevemente lo stato della
tecnica esistente e infine la vera e propria spiegazione dell’invenzione. Nella pratica il fatto di ricorrere ad un
consulente brevettuale per redigere la domanda di brevetto è fortemente consigliato. L’inventore può avere
ben presente il problema tecnico ma se non lo scrive la descrizione è insufficiente ed il brevetto va perso. Il
ricorso ad un consulente brevettuale non va considerato come una spesa superflua perché il fai-da-te in questi
casi può voler dire perdere il brevetto. Le rivendicazioni sono la parte del brevetto in sui si rivendica la
protezione, cioè la parte del brevetto in cui si indicano le caratteristiche inventive per le quali il richiedente
chiede i vent’anni di esclusiva. Lo schema tipico presenta una descrizione molto ampia e delle rivendicazioni
che devono essere chiare e concise, in quanto devono essere un elenco per punti brevi di ciò per cui si chiede
la tutela; questo perché i terzi hanno bisogno di capire immediatamente cosa è protetto e cosa no e quindi è
essenziale che ci sia una parte sintetica alla fine della descrizione in cui si dice in modo rapido, in modo
breve, qual è l’oggetto del brevetto. Questo è fondamentale perché altrimenti i terzi dovrebbero andare a
ricercare nella descrizione gli elementi inventivi. In questo modo il terzo capisce immediatamente ciò che il
brevetto copre. Questa differenza è alla base di una regola cardine del diritto dei brevetti secondo cui solo ciò
che è scritto nelle rivendicazioni può essere protetto. Se per errore un elemento inventivo viene descritto ma
poi non viene rivendicato, su quell’elemento non ci può essere protezione; da un lato c’è l’esigenza del terzo
di trovare rapidamente nelle rivendicazioni le caratteristiche oggetto del brevetto, dall’altro lato il titolare si
deve comprensibilmente assumere la responsabilità del modo in cui le rivendicazioni sono scritte. Se sbaglia
a scrivere le rivendicazioni dovrà sopportare le conseguenze dell’errore commesso, ma non si possono
pregiudicare gli interessi dei terzi per tutelare un titolare disattento. Infine troviamo dei disegni, nel caso
preso in considerazione sono dei grafici relativi ad un principio attivo e all’efficacia del principio.

BREVETTO EUROPEO
Nella prima pagina si trovano gli stessi elementi del brevetto italiano ovvero titolo, inventori, mandatario,
titolare, priorità, numero del brevetto, data di deposito della domanda e rappresentante. Essendo un brevetto
europeo ci sono anche i Paesi designati: il soggetto richiedente ha chiesto all’ufficio europeo di concedere il
brevetto per tutti quegli stati. Segue la descrizione che per un brevetto europeo deve essere redatta in una
delle tre lingue dell’ufficio (inglese, francese e tedesco); nel caso considerato è redatta in inglese. Viceversa
le rivendicazioni devono essere scritte in tutte e tre le lingue dell’ufficio. È un brevetto di tipo meccanico che
ha ad oggetto una trivella per perforare il terreno in cui si devono inserire delle strutture o fondamenta di un
edificio. È un brevetto oggetto di causa attualmente in corso davanti al Tribunale di Torino. Qui c’è una
particolarità nelle rivendicazioni: l’aggiunta di “characterised in that” (caratterizzato dal fatto che) serve a
distinguere la parte di semplice inquadramento del settore dell’invenzione e del tipo di prodotto o di processo
cui l’invenzione inerisce e le vere e proprie caratteristiche inventive. La formula characterised in that è una

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Eleonora Biffi

formula spartiacque tra una parte di mera indicazione del tipo di trovato, ma senza che vi siano pretese di
esclusiva su quella parte, e ciò che invece è oggetto di pretese di esclusiva. Proprio per la sua funzione viene
messa in neretto per far vedere subito dove si colloca. La parte prima della formula viene chiamata parte pre-
caratterizzante, la parte successiva è quella caratterizzante. Il problema tecnico è la dispersione nell’ambiente
e il rischio per gli operatori del macchinario che i detriti espulsi potessero sporcare o investire gli operatori.
L'invenzione consiste nell’aver fatto uno schermo con certe caratteristiche che evita certi effetti indesiderati.
Nel caso considerato la struttura è a rivendicazioni progressivamente dipendenti. La numero uno è la
rivendicazione principale o indipendente cioè la rivendicazione più ampia che abbraccia progressivamente
l’idea inventiva. Le successive vengono chiamate dipendenti perché non esplicitano un concetto inventivo,
ma indicano delle specificazioni del concetto inventivo generale e rimandano alla rivendicazione numero
uno. L’utilità di queste rivendicazioni dipendenti è duplice: da un lato è quella di chiarire e specificare che
certe caratteristiche costruttive sono anch’esse comprese nel concetto inventivo generale e dall’altro, se si
pone l’esigenza di limitare o restringere la portata del brevetto, si può fondere la rivendicazione indipendente
con quella dipendente. Esempio: la rivendicazione indipendente rivendica protezione su tutti i tipi di schermi
protettivi ed emerge che in realtà certi schermi protettivi fatti in un certo modo erano già noti nello stato della
tecnica e quindi non possono essere protetti; il titolare può far rientrare nel concetto di schermo protettivo
anche schermi con una certa conformazione e privi di novità perché già nello stato della tecnica, ma non vi
rientrano gli schermi conformati ad “U”. In questo modo si ha limitato la portata della rivendicazione a ciò
che può essere difeso e protetto. Questa può essere una strategia brevettuale: si parte con una rivendicazione
più ampia e si tengono delle opzioni di riserva nelle rivendicazioni dipendenti per eventualmente limitare il
brevetto se ci si rende conto che, nella sua interezza, la rivendicazione indipendente non può sopravvivere ad
un esame di novità è livello inventivo. Infine si hanno i tipici disegni tecnici, in questo caso si tratta di
elementi meccanici accompagnati da lettere o numeri che servono a collegarli e abbinarli alla descrizione
delle rivendicazioni.

BREVETTO INTERNAZIONALE
Anche questa è una domanda di brevetto oggetto di una causa davanti al Tribunale di Milano. Si tratta di una
domanda di brevetto relativa ad enzimi geneticamente modificati utilizzati nei comuni prodotti di detersione
della casa, soprattutto per la cucina (superfici, lavastoviglie, lavatrice e così via). L’evoluzione è stata quella
di passare dai tradizionali detersivi con composti chimici ai più moderni detersici contenenti enzimi naturali
genericamente modificati; qui si vuole rendere il detersivo più efficace nello sciogliere i residui di amido
senza l’elemento usurante di un composto chimico. Si hanno sempre inventori, richiedenti, mandatario, Paesi
designati (che sono molti di più rispetto a quello europeo), abstract, numero della domanda, data di deposito,
priorità, titolo, indicazione di priorità, settore della tecnica, background per l’individuazione del problema
tecnico, riassunto, descrizione dettagliata, rivendicazioni (in cui si descrivono il tipo di enzima, la modifica
genetica e la sua applicazione) e disegno finale (che è in realtà la raffigurazione tridimensionale dell’enzima
e del punto in cui è stato modificato per renderlo particolarmente attivo ai fini sopra descritti). Una cosa da
ricordare è che, quando si tratta di brevetti europei e internazionali che non sono originariamente scritti in
italiano, devono necessariamente essere corredati di una traduzione in italiano per essere efficaci in Italia. Si
richiede che nelle cause italiane vi sia sempre un testo brevettuale di riferimento nella lingua ufficiale dello
stato.

DIRITTO AL BREVETTO E DIRITTO MORALE


Il diritto morale fa riferimento a chi ha il diritto di essere indicato come l’inventore, il diritto di brevetto si
riferisce invece a chi ha il diritto di acquisire l’esclusiva allo sfruttamento ventennale dell’invenzione.

REGOLE GENERALI
Stiamo parlando di diritti che sorgono da un dato di fatto: il conseguimento dell’invenzione. Un soggetto o
un team di soggetti che lavorano insieme ad un progetto di ricerca arriva o arrivano ad un’idea inventiva,
intesa come un’originale idea di soluzione di un problema tecnico (es. enzima genericamente modificato,
dispositivo meccanico, composto chimico, principio attivo). Quali conseguenze giuridiche derivano dal fatto
storico del conseguimento dell’invenzione? Le conseguenze di natura patrimoniale e di natura morale.
– Diritti patrimoniali: diritto al rilascio del brevetto o diritto al brevetto. La legge dice chi è l’avente diritto
inteso come il soggetto legittimato ad ottenere il brevetto su quella invenzione. Siamo nel momento in cui
l’invenzione è stata conseguita ma la domanda di brevetto non era stata depositata; la legge dice chi ha
diritto di depositare quella domanda, cioè chi ha il diritto di chiedere il brevetto. Cosa diversa è il diritto di
brevetto o diritto sul brevetto che è l’esclusiva sullo sfruttamento dell’invenzione brevettata che sorge
quando il brevetto viene concesso. In prima battuta la legge dice chi ha titolo a chiedere il brevetto e in un
secondo momento dice, una volta che un soggetto ha legittimamente esercitato il diritto al brevetto e ha
ottenuto il brevetto, quali diritti esclusivi gli competono (contenuto dell’esclusiva). Il diritto al brevetto

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Eleonora Biffi

sorge per il fatto in sé di aver conseguito l’invenzione, il diritto sul brevetto trova il suo fatto costitutivo
nella concessione del brevetto. La legge lo definisce un provvedimento di accertamento costitutivo:
l’ufficio brevetti competente accerta la sussistenza dei requisiti di validità del brevetto e, dopo averli
accertati, concede il brevetto che è un titolo costitutivo perché fa sorgere i diritti esclusivi di sfruttamento
dell’invenzione. È un provvedimento che costituisce il diritto esclusivo senza il quale il diritto non sorge,
ma è un provvedimento che si basa sull’accertamento di determinati requisiti. Il diritto al rilascio del
brevetto spetta all’inventore e ai suoi aventi causa (art. 63.2 c.p.i. e art. 60.1 CBE). Consiste nel fatto di
depositare una domanda di brevetto sull’invenzione conseguita. È un diritto alienabile e trasmissibile;
l’inventore che ha diritto al brevetto può cedere questo diritto ad altri secondo le regole generali del diritto
privato (es. per atti inter vivos o per successioni mortis causa). Esempio: l’inventore muore prima di aver
depositato la domanda di brevetto e il diritto passa per successione ai suoi eredi che gli subentrano nella
sua posizione di titolare di diritti. Gli aventi causa sono quindi i soggetti a cui il diritto è stato trasferito.
– Diritto morale: diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione (art. 62 c.p.i. e art. 62 CBE). Questo è
puramente il diritto a che si sappia pubblicamente che quel soggetto o quel gruppo di soggetti sono gli
autori dell’invenzione; è un interesse tipicamente morale, questo diritto trova la sua ragion d’essere nella
esigenza di soddisfare, dal punto di vista dei diritti della personalità, il soggetto che vuole che si sappia
pubblicamente che ha avuto il merito di conseguire l’invenzione in termini di prestigio e riconoscimento
scientifico. Per uno scienziato che realizza un’invenzione di fondamentale importanza tale diritto morale è
molto importante e può anche avere indirettamente dei risvolti economici nella misura in cui il mettere in
curriculum l’essere autore di determinate invenzioni può aprirgli determinate prospettive di carriera o
portare ad un miglioramento della propria posizione lavorativa e via dicendo. L’essenza del diritto morale
è quella di un vero e proprio diritto della personalità la cui tutela presuppone che chi ha fatto qualcosa di
meritorio abbia il diritto di essere riconosciuto in quella veste. Anche questo diritto sorge per il fatto in sé
dell’invenzione e spetta all’inventore. A differenza dei diritti patrimoniali, il diritto morale è inalienabile e
non trasmissibile: non può essere ceduto, non si trasmette per successione ereditaria e non è rinunciabile.
Un soggetto può decidere di non tutelarlo in giudizio, ma non può spogliarsi di quel diritto. Il diritto
morale come componente della personalità non può non appartenere all’inventore. Gli eredi, dopo la
morte dell’inventore, potranno intervenire per tutelare il diritto sorto quando l’inventore era in vita come
soggetti che agiscono quando l’inventore non lo può più fare perché è defunto. Gli eredi possono farlo
valere in giudizio al posto dell’autore defunto.

INVENZIONI DEI DIPENDENTI


La legge si preoccupa di situazioni che, nelle dinamiche odierne della ricerca, sono molto frequenti. Molto
spesso oggi la ricerca è strutturata nel seguente modo: tipicamente una società con mezzi finanziari adeguati
decide di intraprendere un progetto di ricerca, compie gli investimenti necessari, si dota della strumentazione
necessaria e provvede a costituire un team di ricercatori che devono svolgere quel progetto. Possono essere
ricercatori alle dipendenze del datore di lavoro, lavoratori autonomi o consulenti esterni. La situazione più
tipica è quella di dipendenti all’interno della società. Molto frequente è il fatto che una parte consistente del
personale della società è costituito da dipendenti inventori, assunti per essere adibiti ad attività di ricerca. La
problematica che si pone in questi casi è chi è titolare dei diritti sull’invenzione conseguita; questi diritti
spettano per legge al datore di lavoro che ha messo a disposizione i mezzi e gli strumenti per la ricerca. L’art.
64 del c.p.i. prende in considerazione cosa succede quando l’invenzione è realizzata da un dipendente. C’è
una piana applicazione dell’articolo 62 sui diritti morali: il dipendente inventore è sempre titolare del diritto
morale sull’invenzione, ha sempre diritto di essere riconosciuto come autore dell’inventore. Per questo
motivo, nelle intestazioni dei brevetti, chi siano le persone fisiche che hanno realizzato un’invenzione è
sempre indicato. L’attestazione sulla domanda di brevetto o sul brevetto stesso del nome dell’inventore è la
principale forma concreta di esercizio di questo diritto. Tipicamente i testi brevettuali sono la principale
forma di pubblicità e di esercizio del diritto morale. Se l’inventore non viene indicato nel testo del brevetto
ha diritto di rivolgersi al giudice e chiedergli che il testo brevettuale sia integrato con la menzione del nome
del dipendente inventore.

Per quanto riguarda i diritti patrimoniali la situazione è più complessa. Il Codice della Proprietà Industriale
cerca di razionalizzarla riconducendo le varie fattispecie a tre situazioni tipiche o regole particolari; si tratta
di espressioni che nella prassi servono per indicare la fattispecie corrispondente ma che non meritano una
considerazione ulteriore perché è il gergo con cui vengono indicate e quindi derivano da una consuetudine:
1. Invenzione di servizio (art. 64.1 c.p.i.). L’invenzione è realizzata da un dipendente nell’esecuzione del
rapporto di lavoro. Caso “classico” di un soggetto che viene assunto e specificamente retribuito per
svolgere un’attività inventiva; nel contratto di lavoro è scritto specificamente che il dipendente Tizio
viene assunto per svolgere un’attività di ricerca inventiva e che la sua retribuzione è volta a compensare
l’attività inventiva che egli svolgerà. In questo caso, quando il dipendente dovesse arrivare ad ottenere

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Eleonora Biffi

una invenzione, la regola è molto netta: il diritto al brevetto spetta al datore di lavoro e nessun compenso
ulteriore è dovuto al dipendente. Nella prassi aziendale un dipendente inventore può ottenere anche dei
bonus o delle gratifiche, ma per legge se il datore non ritiene di dargli alcun compenso ulteriore nulla gli
è dovuto. La logica è che, essendo stato assunto e retribuito specificamente per svolgere quell’attività, i
frutti dell’attività svolta appartengono al datore di lavoro e la retribuzione del dipendente ha già coperto
l’attribuzione dei frutti della ricerca.
2. Invenzione d’azienda (art. 64.2 c.p.i.). Ipotesi particolare nella quale un dipendente arriva all’invenzione
nell’esecuzione del suo rapporto di lavoro; a differenza della precedente, questa ipotesi si caratterizza per
il fatto che il dipendente non era né stato assunto né stato specificamente retribuito per svolgere l’attività
inventiva. Esempio: soggetto all’interno di una società che svolge attività di ricerca inventiva che viene
assunto non per far parte del team di ricerca ma per svolgere compiti più operativi di manutenzione (es.
pulizia dei macchinari, messa in sicurezza dei locali, controllo sulla sterilizzazione degli ambienti). Le
sue mansioni si collocano all’interno del laboratorio di ricerca ed il soggetto, per il fatto di trovarsi in
quell’ambiente, può venire a contatto con informazioni che lo spronano a compiere un salto inventivo.
La legge ritiene che il brevetto sia comunque del datore di lavoro perché è un risultato dell’esercizio
delle mansioni del dipendente però, dal momento che non è stato assunto e retribuito per svolgere quella
attività inventiva, gli deve essere corrisposta una somma di denaro che la legge chiama “equo premio” e
che deve essere proporzionata al valore dell’invenzione. Tipicamente nella prassi, per calcolare questa
somma, si procede in tal modo: il valore dell’invenzione viene calcolato sulla base del valore di mercato
del brevetto che viene commisurato a quanto terzi diversi dal titolare pagano o sarebbero disposti a
pagare per sfruttare il brevetto su licenza. Se un terzo è disposto a pagare o sta già pagando 100 per avere
il brevetto in licenza possiamo assumere che da un punto di vista economico e commerciale cento sia il
valore di quel brevetto. Su questo valore si calcola una percentuale che ha dei criteri di calcolo piuttosto
complessi; la prassi in Italia è quella di adottare una formula molto dettagliata con una serie di parametri
di valutazione ed elaborata nell’ordinamento tedesco per ipotesi simili. Si tratta di un criterio ragionevole
che per motivi di logica sembra poter essere trapiantato anche nelle cause italiane e, vista la sua origine,
si chiama criterio della formula tedesca. La formula è molto articolata ma la logica di fondo è intuibile:
la percentuale è commisurata ai meriti del dipendente; si vanno a vedere le mansioni del dipendente e
quindi si va a vedere se fossero vicine o lontane da un’attività inventiva, si guarda se ha ricevuto delle
indicazioni o dei suggerimenti dal datore o da altri colleghi che l’hanno indirizzato, se ha avuto aiuti e
così via. Si tratta di criteri applicando i quali si arriva a determinare una percentuale che, applicata al
valore dell’invenzione, dà la misura dell’equo premio. Due parametri: il valore dell’invenzione misurato
in termini monetari con il criterio da royalty da licenza ed i meriti dell’inventore misurati in termini
percentuali a seconda della sua iniziativa, della sua capacità di muoversi in autonomia o insieme ad altri
sulla base degli aiuti ricevuti. Applicando la percentuale alla somma si ottiene il risultato. Nella pratica,
quando ci sono contenziosi in questa materia, le situazioni sono piuttosto ingarbugliate. Tipicamente
accade che il dipendente, specie quando lascia il datore di lavoro, chieda l’equo premio per le invenzioni
realizzate e brevettate. Il datore lo porta in causa e stabilire se effettivamente le mansioni del dipendente
fossero o meno di tipo inventivo può essere difficile. Per questo motivo l’esito del contenzioso è a volte
incerto.
3. Invenzione occasionale (art. 64.3 c.p.i.). È un’ipotesi molto rara nella pratica. Si tratta di un’invenzione
realizzata da un dipendente al di fuori dell’esecuzione del rapporto di lavoro che non è minimamente
collegata alla sua attività lavorativa anche se rientra nel campo di attività del datore di lavoro. Oggi con
la specializzazione tecnologica è un’ipotesi quasi virtuale. È il caso di un soggetto che si trova in una
società che fa ricerca, che ha mansioni che non hanno nulla a che vedere con l’ambiente della ricerca e
che nello svolgere le sue mansioni non può arrivare ad un risultato inventivo. Tuttavia, nella sua vita
privata al di fuori delle mansioni lavorative, arriva ad un’invenzione che rientra nel campo di attività del
datore di lavoro. Esempio: soggetto assunto da un’impresa di ricerca biotecnologica che assume un
contabile per tenere i registri della contabilità. Al di fuori dell’esercizio delle sue mansioni di contabile il
soggetto realizza un’invenzione biotecnologica nel settore di attività del datore di lavoro. Si tratta di una
situazione inverosimile perché con la specializzazione tecnologica odierna è impossibile che un soggetto
digiuno di competenza in quel settore possa arrivare a quell’invenzione. La regola in questo caso è che,
siccome l’invenzione non è stata realizzata nell’esecuzione delle mansioni del dipendente, in questo caso
il diritto al brevetto spetta al dipendente e non al datore; trattandosi pur sempre di un’invenzione che
rientra nel campo di attività del datore, il datore ha diritto di acquistare il brevetto o di ottenere una
licenza pagando un corrispettivo al dipendente. È una situazione in cui il brevetto in partenza spetta al
dipendente ma il dipendente non può opporsi se il datore lo vuole acquistare o vuole sfruttarlo in licenza.
In questo caso il dipendente non può rifiutarsi di cederlo e se si rifiuta il datore può ottenere questi
risultati sentenza da parte del giudice e il compenso per il dipendente sta nel prezzo che il datore deve
pagargli per acquistare il brevetto o ottenere una licenza.

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Eleonora Biffi

Il sesto comma dell’articolo 64 (art. 64.6 c.p.i.) prevede una disciplina particolare per l’ipotesi in cui il
dipendente infedele brevetti a proprio nome l’invenzione che sarebbe spettata al datore di lavoro. Se questo
dovesse avvenire quando il dipendente è ancora alle dipendenze del datore il problema è presto risolto perché
il brevetto non è suo ma del datore e il dipendente incorrerà in una sanzione per il suo comportamento. Nella
pratica il problema si pone quando il dipendente raggiunge l’invenzione, non lo comunica, si dimette e solo
dopo essersi dimesso deposita la domanda di brevetto. Il dipendente deposita dopo una domanda relativa ad
un’invenzione conseguita prima, ma il datore può avere difficoltà a dimostrare che sia stata conseguita
prima. La legge interviene con una regola che facilita il datore di lavoro. Ciò che il dipendente effettivamente
realizza dopo aver lasciato l’azienda dell’ex datore di lavoro spetta a lui perché non è più dipendente; se
raggiunge un’invenzione per conto proprio dopo aver lasciato l’azienda dell’ex datore, al datore non spetta
nulla perché si tratta di un’attività successiva. Il caso considerato è quello di un dipendente che consegue
l'invenzione nel pieno delle sue mansioni, la tiene segreta e la brevetta dopo. In questo caso la legge facilita il
compito del datore di recuperare il brevetto stabilendo che, fino ad un anno da quando il dipendente ha
lasciato l’azienda, si presume che l'invenzione per cui il dipendente ha chiesto il brevetto sia stata conseguita
prima che il dipendente lasciasse l’azienda. La legge dice che “Se il dipendente lascia l’azienda del datore di
lavoro e successivamente deposita una domanda di brevetto su una invenzione rientrante nel campo di
attività dell’ex datore, qualora la domanda sia depositata entro un anno da quando il dipendente ha lasciato
l’azienda, si presumo fino a prova contraria (che è onere del dipendente fornire) che l’invenzione sia stata
conseguita quando ancora il dipendente lavorava nell’azienda dell’ex datore e che perciò si applichino le
norme dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 64 c.p.i.”. Esempio: il dipendente assunto per svolgere attività di ricerca
inventiva nel campo dei macchinari per la perforazione del terreno lascia l’azienda del datore e due mesi
dopo deposita un brevetto su una trivella per perforare il terreno. Il brevetto ha come oggetto un trovato che
rientra nel campo di attività dell’ex datore, se però vi rientra potrebbe trattarsi di invenzione realizzata prima
di lasciare l’azienda. Il legislatore sostiene con buonsenso che se questo soggetto davvero l’ha ottenuta dopo
non avrà difficoltà a provarlo; se dopo aver lasciato l’azienda ha fatto l’attività inventiva che ha portato al
brevetto avrà delle prove, dei documenti, delle ricerche e dei materiali che potrà portare al giudice per
dimostrare che l’invenzione è stata creata dopo. Per un anno spetta al dipendente dimostrare che l'invenzione
è stata ottenuta dopo, ma solo se si tratta di invenzioni che rientrano nel campo di attività dell’ex datore.
Dopo un anno il datore potrà sempre recuperare il brevetto ma non avrà più questa norma che lo facilita.
Decorso l’anno, toccherà all’ex datore a dimostrare che l'invenzione era stata conseguita prima. Cosa può
fare il datore quando ha la presunzione che il brevetto spetti a lui e non al dipendente? Il datore può scegliere
una strada di sostanziale demolizione del brevetto chiesto dal dipendente (può chiedere che la domanda di
brevetto venga respinta oppure può chiedere che il brevetto già concesso al dipendente non avente diritto sia
dichiarato nullo), in alternativa l’art. 118 del c.p.i. dà al datore e in generale al vero legittimato a richiedere
un brevetto la possibilità di esperire un’azione di rivendica o rivendicazione. L’azione di rivendica vuol
dire chiedere l’attribuzione a sé, rivendicare a sé la domanda di brevetto o il brevetto già concesso depositati
dal dipendente o in generale dal non avente diritto. Se il datore vuole recuperarsi la protezione brevettuale
può far accertare la sua qualità di avente diritto e farsi trasferire la domanda o il brevetto del dipendente non
avente diritto.

N.B. Il nome dell’azione è pericolosamente identico alle rivendicazioni intese come parte del brevetto in cui
si rivendica la protezione, sia alla rivendicazione di priorità. La rivendicazione di priorità vuol dire far valere
la priorità unionista (Convenzione di Parigi). Le rivendicazioni del testo del brevetto sono quelle parti del
brevetto in cui per punti si rivendica la protezione su certe caratteristiche inventive. L’azione di rivendica o
rivendicazione ai sensi dell’articolo 118 è l’azione con cui l’avente diritto chiede che gli venga attribuita la
domanda di brevetto o eventualmente il brevetto già concesso depositato dal non avente diritto.

L’art. 65 del c.p.i. è relativo ad invenzioni realizzate tra ricercatori che operano alle dipendenze di università
o di enti pubblici di ricerca. In questo caso il diritto al rilascio del brevetto spetta al ricercatore, tuttavia
l’università o l’ente pubblico di ricerca hanno diritto ad una parte dei proventi derivanti dello sfruttamento
dell’invenzione. Se si tratta di normali ricerche svolte in enti privati valgono le regole dell’articolo 64. Solo
per le suddette particolari categorie di ricercatori c’è questa regolamentazione.

INVENZIONI REALIZZATE DA LAVORATORI AUTONOMI O SU COMMESSA


Questo tema è stato a lungo dibattuto perché non c’era una norma specifica nella legge e ci si chiedeva come
fare. Erano state proposte delle soluzioni interpretative come l’applicazione per analogia delle disposizioni
dell’art. 64 dei lavori autonomi, l’applicazione delle regole generali del Codice Civile sul contratto d’opera e
via dicendo. Fermo restando che anche in questo caso l’importante è scrivere con chiarezza il contratto con
cui si dà l’incarico al consulente esterno, da circa tre anni c’è una norma per queste ipotesi: art. 4 della legge
del 22 maggio 2017 n. 81 (cosiddetto Jobs Act del lavoro autonomo).

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Eleonora Biffi

Se l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata, il diritto al
brevetto spetta al committente. Il contratto con il lavoratore autonomo o con la persona con cui si stipula la
commessa è un’attività inventiva ed è specificamente compensata come tale. In questo caso spetta il brevetto
al committente.

In tutti gli altri casi la legge dice semplicemente che i diritti di utilizzazione economica delle invenzioni
realizzate nell’esecuzione del contratto di lavoro spettano al lavoratore autonomo. Nello stipulare il contratto
con il lavoratore autonomo o consulente esterno il soggetto committente deve avere cura di indicare che il
compenso per l’attività sia specificamente nato a coprire quell’attività inventiva. Se il committente non
redige opportunamente il contratto in questi termini c’è il rischio, ove poi l’attività del lavoratore autonomo
porti ad un’invenzione, che i diritti sull’invenzione restino al lavoratore autonomo.

AMBITO DI TUTELA
Si parla di ambito di tutela di un brevetto per indicare la portata, l’estensione dei diritti esclusivi del titolare
del brevetto rispetto all’invenzione che il brevetto protegge. In altre parole, per definire l’ambito di tutela o
di protezione di un brevetto si deve esaminare il testo brevettuale e determinare qual è l’idea inventiva
protetta e quali attività sono riservate in esclusiva al titolare del brevetto stesso. Si tratta di un’operazione
fondamentale perché ci permette di distinguere tra attività che solo il titolare del brevetto può compiere e
attività che invece chiunque è libero di compiere perché non rientrano nella sfera di protezione del brevetto.
L’attività di un terzo che senza il consenso del titolare tiene una condotta che sarebbe riservata in esclusiva al
titolare è un’attività di violazione del brevetto e si chiama in termini legali contraffazione. La contraffazione
è l’atto di chi tiene una condotta riservata al titolare senza il consenso di quest’ultimo ed il contraffattore è il
soggetto che tiene questa condotta. Dobbiamo quindi vedere come partendo dal testo brevettuale si determina
l’ambito di tutela. Per determinare l’ambito di tutela del brevetto rilevano tre parti: la descrizione, i disegni e
le rivendicazioni. Gli altri elementi che si trovano nel testo brevettuale non sono rilevanti al fine di stabilire
l’ambito di tutela.

LA DETERMINAZIONE DELL’OGGETTO DEL BREVETTO


L’attività consistente nell’esaminare il testo brevettuale per stabilire cosa è protetto dal brevetto si chiama
interpretazione del brevetto proprio perché si prende un testo e gli si dà un significato. Il cuore dell’attività
di interpretazione del brevetto è costituito dalle rivendicazioni; la legge dice che le rivendicazioni devono
specificamente indicare ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto (art. 52.1 c.p.i. e art. 84 CBE).
Le regole legali su come si deve strutturare e su come si deve scrivere il testo del brevetto non corrispondono
a mere logiche formali, hanno alla base un bilanciamento di interessi e servono al fine sostanziale di
contemperare l’esigenza di protezione del titolare con esigenze di certezza dei terzi nel sapere esattamente
cosa è protetto dal brevetto e cosa non lo è. Per questo motivo è obbligatorio specificare nelle rivendicazioni
che cosa il titolare del brevetto desidera che gli sia attribuito in esclusiva per i vent’anni di tutela. È
necessario che vi siano punti di sintesi delle caratteristiche protette perché chi deve andare a ricercare nei
registri dei brevetti l’esistenza di un brevetto che copra certe caratteristiche inventive deve poter ritrovare
nella sintesi delle rivendicazioni tutte le indicazioni necessarie sul se quelle caratteristiche sono protette o no.

A quest’obbligo di indicare chiaramente e sinteticamente le caratteristiche inventive nelle rivendicazioni


corrisponde la regola successiva dell’art. 52.2 c.p.i. e dell’art. 69.1 CBE secondo cui i limiti della protezione
(oggetto del brevetto) sono determinati dalle rivendicazioni. Questa è una regola fondamentale del diritto dei
brevetti: solo ciò che è scritto nelle rivendicazioni può essere oggetto di tutela brevettuale; per certi versi è
una regola molto severa ma, proprio per la logica di bilanciamento degli interessi, il legislatore ha ritenuto
non accettabile e troppo rischioso per le esigenze di certezza dei terzi adottare una regola diversa. I terzi
devono poter confidare e fare affidamento sul fatto che se una cosa non è scritta nelle rivendicazioni, non è
protetta. È una regola severa ma logica, in fin dei conti è onere del titolare scrivere bene il brevetto e indicare
ciò per cui vuole protezione. Se il titolare non lo fa dovrà poi sopportare e subire le conseguenze di questa
negligenza nel redigere il testo del brevetto. Sull’espressione “oggetto del brevetto” va fatta una precisazione
perché viene in realtà utilizzata nella disciplina brevettuale nel nostro codice due volte con significati diversi:
– Nell’art. 45 del codice si dice che cosa può formare oggetto del brevetto; in relazione all’entità
brevettabile l’espressione oggetto del brevetto vuol dire entità che tipologicamente possono ambire alla
tutela brevettuale. Si tratta di entità che non incorrono nei divieti dell’art. 45 e in questo senso possono
essere oggetto di un brevetto perché su quel tipo di entità il brevetto può essere concesso.
– In relazione all’ambito di tutela e all’art. 52 l’espressione ha invece un diverso significato: vuol dire ciò
che il brevetto specificamente in concreto protegge, cioè è un modo per indicare l’ambito di protezione ed
i limiti di questa protezione. Qui per oggetto del brevetto intendiamo l’idea inventiva che il brevetto tutela
il cui sfruttamento è riservato in esclusiva al titolare. In tale prospettiva l’oggetto del brevetto si determina

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Eleonora Biffi

esclusivamente leggendo le rivendicazioni. Questo tuttavia non significa che ai fini della ricostruzione
dell’ambito di tutela del brevetto la descrizione e i disegni siano totalmente irrilevanti, possono e hanno un
ruolo ma solo per interpretare e non integrare o aggiungere qualcosa alle rivendicazioni di un brevetto
concesso per il quale non sono più possibili integrazioni delle rivendicazioni. Descrizione e disegni non
possono aggiungere qualcosa all’oggetto di un brevetto concesso, ma possono servire ad interpretare e
capire più chiaramente il significato delle rivendicazioni. Proprio perché le rivendicazioni sono sintetiche
è possibile che si utilizzino termini tecnici, valori, indicazioni di cui non è possibile spiegare ampiamente
il significato nelle rivendicazioni. Nelle rivendicazioni si mettono il termine tecnico o un numero
corrispondente ad un valore, ma poi è possibile andare a ricercare nella descrizione e nei disegni l’esatto
significato di quel termine. Esempio: il testo delle rivendicazioni dice “utilizzo di una lastra trasparente”,
bisogna andare a vedere cosa significa esattamente trasparente. Si vede nella descrizione come quella
lastra è costruita, qual è il grado di rifrazione della luce che può attraversare quella lastra e si capisce da
un punto di vista tecnico cosa significa esattamente il concetto di trasparenza per quel brevetto. Altro caso
è un brevetto in cui è scritto che una certa sostanza in un composto è presente in quantità trascurabile; nei
test di laboratorio presenti nelle rivendicazioni si può trovare la spiegazione. Lo stesso vale per i disegni;
può capitare che in una rivendicazione di un dispositivo meccanico si dica che una certa parte sia a forma
di ganci. Prendendo i disegni tecnici si può vedere visivamente come deve essere fatto quel gancio e si dà
un significato concreto all’espressione. Descrizione e disegni servono a chiarire e spiegare con certezza il
significato dei valori, termini o numeri indicati nelle rivendicazioni. È importante che la descrizione sia
sufficiente secondo le regole viste in precedenza. In questo modo si assicura la possibilità di una caduta in
pubblico dominio e di comprensione dell’idea inventiva da parte della collettiva, ma è importante anche
perché senza il supporto della descrizione le rivendicazioni rischiano di non essere abbastanza chiare o
comprensibili nel loro esatto significato. È importante stabile se un elemento nelle rivendicazioni sia
presente e necessiti solo di una interpretazione o se manchi del tutto.

Il brevetto nel suo complesso e completo di tutte queste diverse parti ha un contenuto complessivo che è
chiamato in linguaggio giuridico contenuto del brevetto, è importante fare la distinzione tra il contenuto e
l’oggetto del brevetto. Contenuto del brevetto è tutto ciò che è scritto, disegnato, raffigurato e riportato nel
testo brevettuale, oggetto del brevetto è viceversa costituito da una parte soltanto di contenuto ed è costituito
precisamente dalle caratteristiche che nelle rivendicazioni sono indicate come inventive e per le quali si
chiede tutela. Questa differenza tra oggetto e contenuto ci servirà per capire una delle cause di nullità del
brevetto prevista dall’art. 76 del c.p.i. secondo cui il brevetto è nullo se il suo oggetto si estende oltre il
contenuto della domanda iniziale. Vi sono due regole da tenere presenti in riferimento al testo brevettuale:
deposito della domanda di brevetto con tutto il suo contenuto e le sue rivendicazioni. La prima regola
riguarda la fase in cui la domanda di brevetto è ancora davanti all’ufficio competente e il brevetto non è stato
ancora concesso, in questa fase è possibile modificare il testo del brevetto anche in senso estensivo
dell’oggetto; questo vuole dire che finché il brevetto non è stato concesso, se per caso un elemento inventivo
è scritto nella descrizione o raffigurato nei disegni e per un qualsiasi motivo (anche per sbaglio) non è stato
messo nelle rivendicazioni è possibile aggiungere questo elemento alle rivendicazioni purché sia presente fin
dall’inizio nella descrizione e nei disegni. Bisogna quindi ricordare che in questa prima fase della vita del
brevetto, il testo del brevetto è ancora soggetto ad un margine di flessibilità. È possibile attingere dalla
descrizione e dai disegni anche per aggiungere qualcosa ed estendere la portata delle rivendicazioni, ma solo
in relazione ad elementi che nella descrizione e nei disegni erano già presenti dall’inizio. Questo fa capire la
regola della nullità del brevetto se l’oggetto si estende oltre il contenuto iniziale; ciò vuol dire che, in questa
fase di pre-concessione, il titolare non si limita ad integrare le rivendicazioni o a perfezionare la descrizione
e i disegni con elementi presenti fin dall’inizio, ma cerca di aggiungere elementi esterni che non c’erano.
Esempio: se la domanda di brevetto indica le caratteristiche inventive A e B e poi per errore rivendica solo la
caratteristica A, fino a che il brevetto non è concesso è ancora possibile prendere la caratteristica B e
riprodurla anche nelle rivendicazioni in modo che quando il brevetto verrà concesso ci sarà protezione anche
su B. La caratteristica C che nel testo originario del brevetto non era presente non può essere aggiunta.
Viceversa, dopo la concessione del brevetto non è più possibile estendere in alcun modo l’oggetto del
brevetto (non è possibile aggiungere C ma non è neanche più possibile aggiungere B perché ormai il testo del
brevetto si è stabilizzato). L’unica cosa che si può fare dopo la concessione è limitare le rivendicazioni e ciò
fare il processo opposto; se il brevetto originale rivendica A e B ma poi emerge che B non è inventiva è
possibile toglierla e restringere il testo del brevetto. Questa è la logica dell’imbuto che consente di stringere e
mai ampliare la portata del brevetto. Queste regole, viste da un punto di vista pratico, dicono anche che se ci
sono difetti della domanda di brevetto, fermo restando che non si può aggiungere nulla che non fosse in
quella domanda fin dall’inizio, finché si è nella fase d’esame davanti all’ufficio qualche rimedio si può
apportare (si possono correggere delle rivendicazioni difettose). Questa fase d’esame richiede una attenzione
particolare. Queste regole esaminate spiegano altresì perché si dica sinteticamente che il brevetto è valido

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Eleonora Biffi

solo se l’invenzione è descritta e rivendicata in modo adeguato contemporaneamente. Se la descrizione è


difettosa c’è un problema di insufficiente descrizione e le rivendicazioni non hanno supporto esplicativo
nella descrizione; al tempo stesso, se un elemento è descritto ma non rivendicato nel brevetto come concesso,
quell’elemento pur se inventivo non può avere protezione. L’elemento descritto ma non rivendicato entra
comunque a far parte dello stato della tecnica e non è neanche possibile rimediare la situazione depositando
un’altra domanda di brevetto. Ormai la possibilità di proteggere quell’elemento è andata perduta.

DIRITTO DI ESCLUSIVA
Facoltà esclusiva del titolare di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato (art. 66.1
c.p.i). Si tratta del diritto di brevetto (o diritto sul brevetto) che sorge con la concessione del brevetto (art.
53.1 c.p.i) e ha durata di venti anni decorrenti dalla data di deposito della domanda di brevetto (art. 60 c.p.i e
art. 63.1 CBE). È il diritto che il titolare esercita quando fa azione di contraffazione contro un terzo che ha
violato l’esclusiva.

La legge contiene poi delle regole particolari sulle condotte riservate al titolare distinguendo tra brevetto di
prodotto e di procedimento:
– Nel caso di brevetto di prodotto qualunque attività in ambito commerciale può essere vietata a terzi:
produrre, usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto (art. 66.2 lett. a c.p.i.). Si
fa riferimento a fabbricazione, utilizzo nella propria attività economica, importazione a fini di vendita in
Italia, offerta in vendita, immissione in commercio, vendita senza il consenso del titolare. È importante
ricordare che ciascuna di queste attività di per sé costituisce contraffazione e questo significa che il fatto in
sé di produrre il prodotto brevettato, di fabbricarlo anche prima di usarlo o venderlo è già contraffazione.
Il fatto in sé di tenere una qualsiasi di queste condotte è autonomamente contraffazione a prescindere dal
fatto che con quel prodotto si faccia anche altro. Già la fabbricazione è contraffazione e espone a sanzioni.
– Nel brevetto di procedimento ci sono diverse regole da tenere presenti. La prima regola è che il brevetto di
procedimento conferisce al suo titolare una sorta di appendice, di estensione della tutela anche al prodotto
direttamente ottenuto con il procedimento. Il legislatore ha stabilito che chi è titolare di un brevetto di
procedimento non ha un’esclusiva limitata all’attuazione del procedimento da parte di terzi ma può
azionare il brevetto di procedimento per vietare ai terzi di produrre, usare, commercializzare il prodotto
direttamente ottenuto con il procedimento. Se il procedimento mette capo, attraverso la sua attuazione, ad
un prodotto che è il diretto risultato dell’attuazione del procedimento costituisce contraffazione anche
l’attività commerciale non autorizzata relativamente ad ogni prodotto che sia stato direttamente ottenuto
con il procedimento. Va ricordato anzitutto che la tutela non riguarda il prodotto in sé, non è e non diventa
un brevetto di prodotto ma resta un un brevetto di procedimento, per cui se un prodotto identico è ottenuto
con un procedimento diverso non ci può essere tutela. Se non c’è attuazione del procedimento non c’è
neanche violazione dei diritti sul prodotto. Il prodotto ottenuto con procedimenti diversi è libero. Ove
l’attività inventiva porti ad individuare sia un procedimento sia un prodotto inventivo, il consiglio è di
rivendicare specificamente anche una tutela del prodotto in sé o di depositare una seconda domanda di
brevetto sul prodotto. Se questo non viene fatto, il prodotto direttamente ottenuto con quel procedimento è
riservato in esclusiva al titolare del brevetto. Altro punto rilevante è dare una definizione a “direttamente”,
il legislatore ha voluto intendere che non ogni prodotto derivante dal procedimento può essere tutelato ma
solo alcuni ovvero quelli che si possono ritenere oggetto di una derivazione diretta. La legge non spiega
cosa vuol dire direttamente, si sono avanzate diverse tesi interpretative ma senza che una tesi possa dirsi
prevalente rispetto alle altre. Quelle maggiormente seguite sono la tesi cronologica e la tesi sostanziale o
delle qualità. La tesi cronologica dice che può ritenersi direttamente ottenuto solo il prodotto che è il
primo immediato risultato dell’attuazione del procedimento. La tesi sostanziale o delle qualità dice che
può invece ritenersi direttamente ottenuto anche un prodotto che, pur non essendo l’immediato risultato
dell’attuazione del procedimento o essendo stato oggetto di lavorazioni successive, abbia caratteristiche, e
qualità che gli sono conferite dal fatto che a monte è stato attuato quel procedimento brevettuale, cioè
caratteristiche che il prodotto non avrebbe se a monte non ci fosse quel procedimento. Il caso da manuale
portato per esemplificare la differenza tra le due teorie è quella del semilavorato. Esempio: tipicamente si
fa l’esempio di una lastra di metallo ancora grezza dove il procedimento serve a colare e fondere il metallo
fino ad arrivare al semilavorato e poi, attraverso lavorazioni successive, viene trasformato in un oggetto di
uso pratico. Il dispositivo meccanico è fatto con quel metallo. Secondo la teoria cronologica, in un caso
del genere, l’unico prodotto che può dirsi direttamente ottenuto con questo procedimento è la lastra grezza
perché è la lastra ad essere il primo immediato risultato dell’attuazione del procedimento. Secondo questa
teoria ciò che è riservato al titolare è il semilavorato, cioè la lastra grezza. Se per caso un terzo acquista il
prodotto finito e utilizza il prodotto finito, secondo questa teoria è libero di farlo. Secondo la teoria delle
qualità si va a vedere se il prodotto finito ha delle caratteristiche che gli conferisce il procedimento. Se il
procedimento innovativo permette di fondere e colare il metallo in quella lastra eliminando le impurità e

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Eleonora Biffi

dando a quel metallo particolari caratteristiche di resistenza, lucentezza, qualità d’impiego. Supponiamo
che tutte le caratteristiche siano conservate nel prodotto finito frutto di successive lavorazioni perché è
fatto con quel metallo. Avremo un prodotto finito con determinate qualità e fatto con un metallo che aveva
in sé le caratteristiche che il prodotto finito ha conservato. Secondo questa teoria, anche il prodotto finito
può ritenersi direttamente ottenuto perché dotato di caratteristiche che non avrebbe avuto senza quel
procedimento a monte. La prima teoria è più restrittiva, mentre la seconda è più ampia perché il titolare
può ritenere contraffattore anche chi si limiti ad usare e vendere il prodotto finito senza aver avuto parte
nella realizzazione del semilavorato. Nel primo caso il titolare può fare causa solo a chi ha svolto attività
relative al semilavorato, nel secondo caso può fare causa anche a chi ha svolto attività al fine di ottenere
quel prodotto finito con quel semilavorato.

In relazione ai brevetti di procedimento bisogna ricordare la regola dell’art. 67 che è una regola procedurale.
La contraffazione da un punto di vista sostanziale sussiste nei casi indicati dall’art. 66. L’articolo 67 riguarda
il profilo del dare la prova in giudizio della contraffazione di un brevetto di procedimento. La regola generale
di diritto civile e di procedura civile davanti ai tribunali è che chi fa causa e chiede che siano adottate delle
misure nei confronti della sua controparte deve dare prova al giudice dei fatti su cui si basa la sua azione. Se
un titolare di un brevetto fa causa di contraffazione ad un terzo deve dimostrare lui che c’è contraffazione.
Questo è tendenzialmente più facile quando il brevetto copre il prodotto (spesso quando il brevetto copre il
prodotto il titolare può dimostrare la contraffazione comprando il prodotto del concorrente, analizzandolo e
dimostrando in questo modo che il prodotto è stato realizzato utilizzando gli insegnamenti del brevetto) ma
se così non è, perché si tratta di un brevetto di procedimento, il titolare può trovarsi in difficoltà nel senso che
può non essere nelle condizioni di stabilire se il terzo attua o no il procedimento brevettato. Nel c.p.i. ci sono
strumenti che consentono delle ispezioni e degli accessi ordinati dal giudice tramite ufficiale giudiziario allo
stabilimento del presunto contraffattore; si tratta di procedimenti di descrizione intesi come una misura
cautelare attuata dall’ufficiale giudiziario che su ordine del giudice si reca presso lo stabilimento del soggetto
sospettato di contraffazione e descrive, con le opportune garanzie di riservatezza, cosa il terzo sta facendo. Ci
possono essere casi in cui per il titolare è difficile dimostrare la violazione del brevetto di procedimento e
allora, per queste situazioni, l’art. 67 stabilisce che al ricorrere di alcune condizioni si presume fino a prova
contraria che il procedimento brevettato sia stato attuato (si presume che ci sia contraffazione) e quindi è il
contraffattore a dover dimostrare che non c’è stata violazione. Si parla tecnicamente di un rovesciamento
dell’onere della prova o di un’inversione della prova. L’onere di provare la contraffazione normalmente
grava sul titolare, in questi casi è invertito nel senso che è il soggetto accusato di contraffazione che deve
dimostrare di non essere contraffattore e, se non riesce a dimostrarlo, viene condannato per contraffazione.
Vi sono fondamentalmente due ipotesi in cui opera questo rovesciamento dell’onere della prova:
a. Il terzo accusato di contraffazione del brevetto di procedimento fabbrica un prodotto identico al prodotto
ottenuto con il procedimento brevettato e questo prodotto è nuovo, cioè non esistente prima. In questa
situazione il procedimento brevettato permette per la prima volta di fabbricare un certo prodotto che
prima non esisteva ed il terzo si presenta sul mercato con un prodotto identico. Il legislatore ritiene che
in questo caso sia logico presumere che il terzo abbia copiato il procedimento brevettato. Se è stato in
grado di mettere a punto un procedimento diverso ne dovrà dare prova in giudizio e non dovrebbe essere
in difficoltà nel dimostrare che ha seguito un procedimento diverso.
b. Il terzo realizza e vende un prodotto identico a quello ottenuto con il procedimento brevettato e vi è una
probabilità sostanziale che il prodotto sia stato fabbricato con il procedimento brevettato (l’insieme delle
circostanze rendono verosimile che il prodotto sia stato fabbricato con il procedimento brevettato) ma
nonostante ragionevoli sforzi e pur avendo cercato in modo diligente di stabilire quale procedimento sia
stato effettivamente attuato dal terzo, il titolare non è riuscito a raggiungere alcuna prova piena del
procedimento effettivamente attuato. Il prodotto del terzo è identico, il titolare ha fatto quanto possibile
per stabilire se effettivamente quel prodotto sia stato fabbricato con il suo procedimento brevettato, è
arrivato a dimostrare una sostanziale probabilità ma non è riuscito a dare una prova certa. In questo caso
la legge ragionevolmente dice che il titolare ha fatto quanto esigibile, questa probabilità l’ha sostanziata
davanti al giudice, adesso è il terzo a dover dimostrare che questa probabilità non corrisponde al reale
stato di cose perché il procedimento che lui attua è diverso.

L’inversione dell’onere della prova opera solo in questi due ipotesi, negli altri casi no anche se in ipotesi il
prodotto è identico a quello ottenuto con il procedimento brevettato. Esempio: immaginiamo un prodotto di
uso corrente come le forbici che prevedono moltissimi procedimenti di produzione, se un terzo realizza delle
forbici uguali a quelle ottenute con un certo procedimento non c’è un motivo particolare per supporre che
abbia copiato il procedimento invece di utilizzare uno degli altri procedimenti a disposizione per fabbricarle.
Se il titolare porta degli elementi che fanno ritenere molto probabile che lui abbia fabbricato quelle forbici
proprio con quel procedimento brevettato allora il discorso cambia. Lo stesso vale per un nuovo dispositivo

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Eleonora Biffi

per il taglio di materiali che prima non esisteva e che è stato ottenuto solo con il procedimento brevettato; se
quello stesso dispositivo di taglio viene fabbricato e commercializzato dal terzo si ha ragione di presumere
che ci sia stata contraffazione. Si tratta di due ipotesi specifiche nelle quali vi è una regola di equità e di
ragionevolezza nel presumere che ci sia stata contraffazione e l'onore di dimostrare che invece non c’è stata
passa al terzo.

TIPI DI CONTRAFFAZIONE
Si ha un’ipotesi di contraffazione quando un terzo, senza il consenso del titolare del brevetto, tiene una delle
condotte riservare al titolare medesimo. La valutazione della contraffazione presuppone un confronto tra le
facoltà esclusive conferite al titolare dal brevetto e la condotta che il terzo sta tenendo. Tale confronto deve
portare a dire se la condotta del terzo rientra nell’ambito protetto oppure no. La definizione dell’ambito
protetto è data dalle rivendicazioni brevettuale e oggetto di protezione sono le caratteristiche inventive la cui
idea inventiva alla base del brevetto si estrinseca nelle rivendicazioni.

L’ipotesi più semplice da valutare è quella della contraffazione letterale o diretta che è quella in cui un
terzo pedissequamente riproduce tutte le caratteristiche inventive indicate nelle rivendicazioni. Si fa una
diretta e letterale ripresa del processo o del prodotto brevettati come dettagliati quanto a caratteristiche nelle
rivendicazioni. Se il brevetto ha ad oggetto un prodotto innovativo che svolge una certa funzione e risolve un
problema tecnico secondo una certa idea inventiva e se questo prodotto è rivendicato in modo tale e si
definiscono come caratteristiche specifiche in cui si estrinseca l’idea inventiva A, B e C, la contraffazione
letterale o diretta è fabbricare un prodotto che abbia le medesime caratteristiche. Come specifica la dottrina,
si tratta della riproduzione integrale del prodotto o procedimento brevettato o comunque delle parti in cui si
incorpora l’idea inventiva. All’interno delle rivendicazioni, della descrizione e dei disegni ci sono delle parti
non caratterizzanti che vengono indicate solo con il fine di specificare qual è l’ambito della tecnica o il tipo
di procedimento a cui si riferisce e poi, rispetto al background tecnico, si indicano le caratteristiche
inventive. Ciò che conta è che vi sia una ripresa puntuale e in modo identico delle caratteristiche inventive
del prodotto o procedimento. Esempio: se si tratta di un prodotto complesso composto di molti elementi tra
cui le caratteristiche A, B e C è contraffazione diretta costruisce o vendere un prodotto che per qualche altra
componente è differente ma che, per quanto riguarda le componenti inventive, è assolutamente identico. Per
aversi contraffazione letterale o diretta è sufficiente avere una ripresa delle parti in cui si incorpora l’idea
inventiva. Questa ipotesi di contraffazione presuppone solo un confronto di identità tra ciò che fa il terzo e
ciò che è rivendicato nel brevetto è la meno frequente nella pratica perché ha dato luogo a minori difficoltà
applicative e perché normalmente i terzi cercano di discostarsi da ciò che è specificamente rivendicato nel
brevetto; sapendo che quelle caratteristiche sono riservate in esclusiva al titolare, il terzo tipicamente cerca di
introdurre delle varianti. A volte questo è fatto in modo malizioso e con piena consapevolezza, in altri casi è
anche possibile che il terzo cerchi in modo virtuoso e positivo di discostarsi dall’ambito protetto del brevetto
introducendo delle varianti ma ciononostante le varianti non sono sufficienti ad uscire dall’ambito di
protezione del brevetto stesso. In questi casi ci può essere una interferenza con l’ambito protetto dal brevetto.
Nella materia brevettuale la buona fede del terzo non esclude in sé l’accertamento della contraffazione; se il
terzo è in buona fede e non ha agito con colpa o dolo non sarà tenuto al risarcimento dei danni, ma per
quanto riguarda l’accertamento della violazione dell’esclusiva e l’ordine di cessare la condotta in violazione
dell’esclusiva queste misure possono essere date dal giudice anche se il terzo è in buona fede. Questi casi
sono chiamati ipotesi di design around e indicano il tentativo di discostarsi dall’ambito di protezione del
brevetto. Il design around significa introdurre delle varianti in modo da porsi all’esterno del recinto (inteso
come l’area di monopolio del brevetto) senza entrarvi illecitamente.

Tuttavia, il discorso si basa sul presupposto che possa essere contraffazione anche il variare in qualche modo
il prodotto o procedimento brevettato se da questo non ci si discosta a sufficienza. Questo è il problema di
fatto; fin dagli inizi della legislazione in materia brevettuale ci si è resi conto che se si fosse ritenuta illecita
solo la contraffazione letterale diretta i diritti del titolare sarebbero stati seriamente danneggiati e limitati
perché ai terzi sarebbe stato sufficiente introdurre delle varianti per non ritenersi contraffattori. Viceversa, il
legislatore ha sempre impostato la disciplina brevettuale sul concetto che il brevetto copra un’idea inventiva
e riservi in esclusiva al titolare del brevetto lo sfruttamento della stessa cosicché è ben possibile che la stessa
idea inventiva sia attuata anche se il terzo ha apportato delle varianti al prodotto o procedimento brevettato.
Questo problema deve necessariamente risolversi per evitare che la tutela brevettuale diventi evanescente
(nonostante le varianti vi è contraffazione se l’idea inventiva continua ad essere sfruttata). Posta questa
soluzione sorge il problema applicativo: come si stabilisce nel caso concreto se, nonostante le varianti, c’è
comunque contraffazione o se effettivamente le varianti sono un design around? La soluzione che è stata
individuata a questo problema applicativo pratico è la dottrina degli equivalenti o contraffazione per
equivalenti. Secondo questa norma di legge si dice che vi è comunque contraffazione se il terzo sostituisce

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Eleonora Biffi

uno o più elementi delle rivendicazioni del brevetto con elementi diversi ma equivalenti. Questo concetto è
espresso oggi nell’art. 52 comma 3 bis del c.p.i. il quale dice che, per valutare se c’è una violazione, si deve
tenere conto di ogni elemento equivalente ad un elemento indicato nelle rivendicazioni. Esempio: se il
brevetto indica come caratteristiche A, B e C ed il terzo fa A, B e D bisogna stabilire se D è equivalente a C.
Il concetto di equivalenza si collega a quello di sfruttamento della stessa idea inventiva. Per una migliore e
più facile comprensione facciamo riferimento al caso della Barilla, la cui produzione di sfoglie di pasta aveva
come caratteristica inventiva quella di prevedere delle piastre di metallo verticali forate e la sfoglia di pasta
veniva essiccata dopo essere stata chiusa e bloccata all’intero di coppie di piastre, mentre i fori sulle piastre
consentivano il passaggio dell’aria calda che consentiva di essiccare la sfoglia. Il terzo aveva realizzato un
impianto identico ma sostituendo i fori con delle scanalature. Il brevetto risolve lo stesso problema tecnico
(essiccazione della sfoglia di piastra). L’idea inventiva si estrinseca nel rivendicare un impianto caratterizzato
dal fatto di avere piastre che presentano dei fori per il passaggio dell’aria. Il terzo non commette alcuna
contraffazione diretta perché non fa delle piastre con la caratteristica dei fori, ma fa delle piastre con delle
scanalature; l’idea sottostante è però la medesima. Nel caso deciso dalla Corte di Cassazione nel 2011 si era
stabilito che ci fosse comunque contraffazione perché l’idea inventiva era stata ripresa pur con mezzi
attuativi e strutturali differenti da quelli specificamente rivendicati. Lo stesso è applicabile ad un brevetto di
procedimento. Vi è quindi equivalenza se il prodotto o procedimento del terzo, pur essendo diverso da quello
brevettato, attua la medesima idea inventiva protetta dal brevetto. In Italia e negli altri stati aderenti alla CBE
sono essenzialmente due i criteri per la valutazione dell’equivalenza:
– Evidenza/ovvietà della sostituzione per il tecnico medio. La domanda da porre è la seguente: per il tecnico
medio del settore è evidente che sostituire l’elemento C con l’elemento D porti allo stesso risultato? È
ovvio che C e D sono interscambiabili? Se la risposta è affermativa, si ritiene che l’elemento diverso sia
equivalente.
– Test “funzione-modo-risultato”. Criterio di origine statunitense che è stato poi importato anche in Europa.
È detto anche test triplo (triple test) perché valuta tre elementi: la funzione svolta dall’elemento sostituito
di cui si discute, il modo in cui funziona ed il risultato a cui si arriva utilizzando il diverso elemento.
Tornando all’esempio precedente la funzione è quella di permettere il passaggio dell’aria calda, il modo in
cui la conformazione della piastra convoglia l’aria a contatto con la sfoglia di pasta è lo stesso e anche il
risultato è identico. Secondo questa interpretazione c’è equivalenza. Tuttavia, nel concetto di risultato si
deve includere anche l’efficienza del risultato: se l’elemento sostituito ha un risultato qualitativamente
migliore e più efficiente di quello dell’elemento originario rivendicato questo potrebbe essere un elemento
di non equivalenza. Esempio: immaginiamo che il risultato dell’applicazione di un certo reagente in una
reazione chimica è quello di arrivare ad un certo composto con certe caratteristiche ed il terzo, invece di
usare quel reagente, ne usa uno diverso che arriva ad un composto con quelle caratteriste ma che al tempo
stesso non ha determinati elementi estranei o nocivi si può avere un risultato che da un punto di vista
quantitativo è lo stesso, ma dal punto di vista qualitativo è molto migliorato. Questo potrebbe essere un
indizio di non equivalenza. Se invece il risultato anche in termini qualitativi è identico o omogeneo allora
vi è equivalenza. Questo criterio ed il precedente permettono di stabilire se vi è stata una indebita ripresa
dell’idea inventiva protetta dal brevetto tramite elementi non identici ma solo equivalenti a quelli delle
rivendicazioni. Nel caso concreto a volte è fonte di incertezza stabilire se l’elemento sostituito sia o non
sia equivalente.

Vi è poi un terzo tipo di contraffazione che è la contraffazione indiretta o per contributo, espressione che
deriva dal nome con cui questo tipo di contraffazione è chiamato nella prassi anglosassone (contributory
infringement). Questo termine vuol dire che un soggetto non è responsabile di contraffazione diretta o per
equivalenti perché non è lui ad attuare l’idea inventiva, ma fornisce ad un altro soggetto i mezzi per attuare
l’idea inventiva. Caso classico è il brevetto di procedimento che, per essere attuato, richiede l’impiego di un
certo dispositivo o di una sostanza che in sé sono liberi e non sono coperti da brevetto, ma per attuare un
certo procedimento brevettato occorre l’impiego di quella sostanza o dispositivo. Il caso considerato è quello
in cui un terzo fornisce ad un altro soggetto i mezzi per attuare il brevetto; un soggetto vende la sostanza o il
dispositivo non brevettati ad un altro soggetto che li utilizza per attuare il procedimento e contraffare il
brevetto. In questo caso un soggetto tiene una condotta che in sé sarebbe lecita (vendita di un prodotto non
coperto dal brevetto) e tuttavia è strumentale ad un illecito commesso da un altro soggetto. La domanda da
porsi è la seguente: commette un’attività illecita anche il fornitore dei mezzi impiegati per commettere la
contraffazione? La risposta non può essere automaticamente affermativa; diversa è la situazione se il
fornitore è consapevole del fatto che i mezzi che lui fornisce saranno destinati a contraffare il brevetto o si
trova in una situazione in cui, applicando la normale diligenza, non può non sapere che i mezzi che lui
fornisce saranno destinati a quello scopo, in particolare in casi in cui quei mezzi hanno un’unica destinazione
possibile. Ci può essere una responsabile del fornire se, nel momento in cui li vende, sa che il terzo li userà
per attuare il procedimento brevettato violando il brevetto o se i mezzi non possono avere alcun altro utilizzo

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Eleonora Biffi

se non ai fini dell’attuazione del procedimento brevettato. Se il prodotto fornito non può avere un altro
impiego, il terzo fornitore non può non sapere che saranno destinati alla contraffazione. Questa fattispecie si
verifica quando un terzo fornisce a un altro soggetto mezzi univocamente destinati ad essere usati per violare
il brevetto o comunque mezzi che egli sa che saranno impiegati a questo scopo. La condotta del terzo è in sé
una condotta di contraffazione a prescindere da un concorso nell’illecito altrui, cioè a prescindere dallo
stabilire se ci sia un concorso del fornitore nella contraffazione diretta o per equivalenti del soggetto a cui lui
vende i mezzi. Autonomamente in sé, anche indipendentemente da chi attua l’insegnamento brevettato, il
fornitore viene qualificato come responsabile di contraffazione indiretta.

Per lungo tempo questa ipotesi della contraffazione indiretta è stata affermata in giurisprudenza, dal 3
novembre 2016 (legge n. 214) una disciplina è stata inserita anche nel c.p.i. nei commi 2 bis, 2 ter e 2 quater
dell’articolo 66. Il comma 2 bis recepisce l’insegnamento della giurisprudenza: “Il titolare del brevetto può
vietare ai terzi, salvo che vi sia il suo consenso, di offrire o fornire a soggetti diversi dagli aventi diritto alla
utilizzazione dell’invenzione brevettata i mezzi relativi ad un elemento indispensabile di tale invenzione e
necessari per la sua attuazione nel territorio di uno stato in cui la medesima sia protetta, qualora il terzo abbia
conoscenza dell’idoneità e della destinazione di detti mezzi ad attuare l’invenzione o sia in grado di averla
con l’ordinaria diligenza”. Il caso Nespresso-Vergnano relativo alle cialde per le macchinette domestiche di
caffè espresso esemplifica bene il concetto della contraffazione indiretta. Quel caso sottolineava l’importanza
di un elemento di questa fattispecie: i mezzi devono servire ad attuare l’invenzione brevettata. Nel caso delle
cialde di caffè, ci si chiedeva se costituisse contraffazione fornire le cialde di caffè non originali ma
compatibili con la macchina per farla funzionare. Il titolare del brevetto sosteneva che ci fosse contraffazione
indiretta perché senza le cialde per il caffè non ha utilità, ma il tribunale ha detto di no perché in questa
ipotesi non è la cialda che serve per attuare l’idea inventiva che invece consiste in un meccanismo interno di
funzionamento della macchina che non è attuato nel momento in cui viene inserita la cialda nella macchina.
Se il terzo avesse fornito dei componenti o degli elementi utilizzati per costruire una macchina concorrente
(attuando quei meccanismi interni grazie ai componenti forniti) allora si sarebbe potuta configurare una
ipotesi di contraffazione indiretta ma la cialda in sé non serve a costruire i meccanismi interni della macchina
e quindi non è la cialda ad attuare l’idea inventiva. Non si tratta quindi del semplice fatto di far funzionare il
prodotto o il procedimento altrui, ma la fornitura di mezzi che riguardano specificamente la messa in opera
di ciò che nel prodotto/procedimento altrui costituisce l’elemento inventivo con consapevolezza o colpevole
ignoranza di quanto avviene.

Il comma 2 ter e il comma 2 quater completano la disciplina della contraffazione indiretta con specificazioni
importanti. Il comma 2 ter si occupa dei prodotti correntemente in commercio, cioè prodotti di consumo
corrente che si possono normalmente acquistare nel commercio al dettaglio di tutti i giorni (es. viti, bulloni,
chiodi, martelli, pinze, ecc). All’estremo opposto c’è ad esempio il composto chimico ultra specialistico
fabbricato in laboratorio e fornito solo ad acquirenti specifici qualificati e via dicendo. Quando si tratta di
prodotti di consumo corrente vi è il rischio di un eccessivo intralcio alle attività commerciali e vi è il rischio
di portare ad una colpevolizzazione eccessiva in relazione alla fornitura di elementi attuali e banali. Per
questo motivo la legge specifica che, se i mezzi consistono in prodotti di comune commercializzazione vi è
contraffazione indiretta solo se il terzo che li fornisce induce il soggetto a cui sono forniti a compiere gli atti
di attuazione dell’idea inventiva protetta dal brevetto. Per il caso specifico in cui i mezzi consistano in questi
elementi di commercio corrente ci vuole qualcosa in più, il legislatore non vuole che sia troppo facilmente
affermata la contraffazione e stabilisce che il fornire risponde solo se era consapevole e se ha provocato lui la
violazione inducendo il terzo a tenere la condotta in violazione.

Il comma 2 quater riguarda un’ipotesi particolare. Nell'art. 68 comma 1 del c.p.i. sono indicate delle ipotesi
in cui è previsto che il terzo che attua l’invenzione brevettata non è responsabile di contraffazione. Si tratta di
usi leciti o usi liberi perché sono specifiche ipotesi in cui eccezionalmente i terzi possono tenere una condotta
che in sé sarebbe riservata al titolare del brevetto anche senza il suo consenso. Cosa succede se un soggetto
fornisce i mezzi per tenere una delle condotte che in base all’art. 68 sono lecite? Il legislatore ha detto che,
anche se la condotta finale non costituisce contraffazione diretta o per equivalenti perché quella condotta è
consentita dall’art. 68 primo comma, può comunque costituire contraffazione indiretta la fornitura dei mezzi
per tenere quella condotta in sé lecita. Rimane responsabile di contraffazione indiretta solamente il fornitore
dei mezzi impiegati per compiere l’attività finale discriminata. Questa regola è stata introdotta per evitare di
dare il via libera ad un mercato su larga scala di fornitura di mezzi per attività discriminate. Si voleva evitare
che l’attività finale lecita diventasse un’occasione per fare commercio dei mezzi destinati all’impiego e alla
attuazione dell’idea inventiva. Chi vuole tenere una delle condotte lecite in base all’art. 68 lo deve far per
conto proprio, non deve procurarsi altrove i mezzi o comunque chi fornisce i mezzi rimane esposto ad una
accusa di contraffazione indiretta. Nel comma 2 bis non si parla di fornire i mezzi a soggetti responsabili di

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Eleonora Biffi

contraffazione, ma si parla di soggetti diversi dagli aventi diritto all’utilizzazione dell’invenzione brevettata.
Questo perché vi sono soggetti che formalmente non sono aventi diritto all’utilizzazione perché non hanno
avuto il consenso del titolare ma che al tempo stesso non sono neppure contraffattori perché la loro condotta
è coperta dall’articolo 68. Può essere contraffazione indiretta fornire i mezzi per attuare l’idea inventiva
brevettata a qualunque soggetto che non operi con il consenso del titolare del brevetto a prescindere dal fatto
che il soggetto sia contraffattore oppure eccezionalmente non sia contraffattore perché la sua condotta è
discriminata ai sensi dell’art. 68 primo comma.

INVENZIONI DERIVATE E BREVETTI DIPENDENTI


Il concetto di invenzioni derivate indica un dato di fatto: l’invenzione deriva da una precedente invenzione.
Da una prima invenzione o da invenzioni precedenti si parte per arrivare ad una nuova invenzione che è uno
sviluppo di quelle precedenti. A fini di semplificazione, le invenzioni derivate sono state raggruppate in tre
categorie:
– Invenzioni di perfezionamento: si tratta di perfezionare, migliorare e sviluppare un’idea di soluzione di un
problema tecnico alla base di una precedente invenzione. Esempio: nel caso di dispositivo o procedimento
con le caratteristiche inventive A e B, l’invenzione di perfezionamento consiste nel partire dall’invenzione
e nell’individuare in modo originale ed inventivo che aggiungendo ad A e B la caratteristica C il trovato
funziona ancora meglio. È l’idea di dotare un prodotto o procedimento esistente di elementi migliorativi.
– Invenzioni di combinazione: consistono nel combinare e coordinare in modo originale elementi e mezzi
già noti. Esempio: supponiamo che esista un brevetto anteriore su A e ne esista uno su B, l'invenzione di
combinazione può consistere nell’unire tra loro in modo originale A e B.
– Invenzioni di traslazione: consistono nel traslare o traferire un’idea di soluzione di un problema tecnico di
un settore della tecnica ad un altro settore. Esempio: nel settore Alfa è nota una certa idea di soluzione per
risolvere un problema tecnico di quel settore, l’invenzione consiste nell’individuare che la stessa idea di
soluzione può essere applicata vantaggiosamente anche per risolvere un problema tecnico in un settore
diverso. Ipotizziamo che vi sia un’invenzione consistente nell’aver messo a punto un dispositivo per fare
lavorazioni di precisione sulla superficie di una lastra di metallo nel settore della lavorazione del metallo,
se esiste un problema analogo nel settore della lavorazione del vetro l'invenzione di traslazione consiste
nel capire che quell’idea di soluzione può funzionare anche per le lavorazioni di precisione in questi altri
settori. Un caso rientrante a pieno titolo in questo concetto è anche quello del nuovo uso in campo chimico
o farmaceutico; quando si scopre che un composto brevettato noto per curare la patologia A può essere
impiegato anche per curare in un differente settore la patologia B c’è una traslazione dell’uso medico. La
regola sulla brevettazione del composto noto in funzione del nuovo uso è un’applicazione del più generale
concetto di invenzioni di traslazione.

Le invenzioni di queste categorie, se sono propriamente tali in quanto nuove ed originali, possono essere
brevettate. Per il perfezionamento si andrà a valutare se l’aggiunta di quella caratteristica migliorativa fosse
ovvia o non ovvia per il tecnico medio. Nel caso delle invenzioni di combinazione la giurisprudenza dice che
se l’unione di A e B è una semplice e banale sommatoria di elementi noti si deve ritenere che sia alla portata
del tecnico medio, se invece il combinare A e B presuppone un modo di procedere nella ricerca che non è
quello che avrebbe seguito il tecnico medio, allora la combinazione può essere originale. Questo vale anche
per la traslazione: se per il tecnico medio non è ovvio pensare che la stessa idea di soluzione può essere
spostata da un settore ad un altro vi è originalità e brevettabilità. Qui si innesta il concetto giuridico dei
brevetti dipendenti. Si parla di brevetti dipendenti per indicare la situazione in cui un brevetto non può
essere attuato senza attuare contemporaneamente un brevetto precedente ancora in vigore. Il caso tipico è
quello delle invenzioni di perfezionamento. Negli altri due casi bisogna valutare spesso caso per caso se c’è
una ripresa dell’idea inventiva del primo brevetto ma potrebbe non essere così. Se c’è una originalità di
combinazione di A e B che li fa funzionare in un certo modo diverso da A e B singolarmente considerati, se
la traslazione dell’idea in un settore diverso non attua l’insegnamento dell’attuazione dell’invenzione nel
settore di partenza l’attuazione della seconda invenzione può essere totalmente indipendente. Se pensiamo ad
un’invenzione di perfezionamento dove c’è il brevetto su A e B e la mia idea inventiva di perfezionamento è
aggiungere C, ma è immediatamente evidente che per attuare la mia idea di perfezionamento di unione di C e
quindi per fare A+B+C devo fare anche A e B e quindi devo attuare quelle caratteristiche che sono ancora
coperte dal brevetto anteriore. Il brevetto dipendente è un brevetto che non può essere attuato senza attuare
contemporaneamente anche il brevetto precedente già esistente e tuttora in vigore. I brevetti dipendenti sono
una fattispecie molto particolare perché l’invenzione oggetto del brevetto dipendente è a tutti gli effetti un
risultato nuovo e originale e come tale può essere brevettato ma poiché la sua attuazione presuppone anche
l’attuazione dell’altro brevetto ancora in vigore, l’invenzione oggetto del brevetto dipendente può essere
attuata solo se c’è il consenso del titolare del primo brevetto. Io ho un brevetto valido ma vincolato, che
senza il permesso del primo titolare non posso attuare. Tuttavia, la dipendenza riguarda solo l’attuazione e

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Eleonora Biffi

non riguarda la brevettazione; l'invenzione in quanto nuova e originale può essere liberamente brevettata.
Non è vero dire che, senza il consenso del titolare del brevetto anteriore, io non posso brevettare l’invenzione
dipendente; la posso liberamente brevettare, quello che non posso fare è attuarla e metterla in opera. Altro
punto importante è non confondere invenzioni derivate e brevetti dipendenti. Invenzioni derivate indica il
dato di fatto di un’invenzione che deriva da un’invenzione precedente (perfezionamento, combinazione e
traslazione). I brevetti dipendenti hanno ad oggetto un’invenzione derivata, non tutte le invenzioni derivate
mettono capo a brevetti dipendenti ma solo quelle che si possono attuare solo attuando anche la precedente
invenzione ancora coperta da brevetto. Il risultato finale di questa fattispecie molto particolare è quella di un
brevetto valido ma la cui attuazione costituirebbe contraffazione se non ci fosse previamente il consenso del
titolare del brevetto principale dominante. Io posso essere titolare di un brevetto valido e avere tutte le tutele
possibili per il mio brevetto ma trovarmi in una situazione in cui non sono libero di attuarlo se non ho il
consenso del titolare del brevetto dominante (art. 68.2 c.p.i.). Per l’ipotesi in cui il titolare del brevetto
dominante rifiuti il consenso, è previsto dalla legge che vi possano essere le licenze obbligatorie (art. 71-73
c.p.i.); in alcuni casi particolari, se il titolare del brevetto dominante non consente all’utilizzo dell’attuazione
del brevetto dipendente, il titolare del brevetto dipendente può ottenere questa autorizzazione con una licenza
obbligatoria che è un provvedimento amministrativo del Ministero dello Sviluppo Economico. Si tratta di
casi particolari che vedremo più avanti. La regola generale resta quella della necessità di dotarsi del consenso
del titolare del brevetto dominante.

USI LECITI DELL’INVENZIONE OGGETTO DEL BREVETTO ALTRUI


L’art. 68.1 c.p.i. prevede alcuni casi di uso lecito dell’invenzione oggetto del brevetto altrui ossia casi in cui è
lecito usare l’invenzione brevettata, anche senza il consenso del titolare del brevetto. Ci sono casi in cui, per
ragioni prevalenti di tutela dei terzi e di interessi pubblici, il legislatore dispone che eccezionalmente il
titolare del brevetto non possa far valere i suoi diritti esclusivi per bloccare determinate attività di terzi. La
disciplina della proprietà intellettuale si basa sul bilanciamento di interessi tra monopolio e libera attuazione.
Per questo motivo, in tutte le branche della proprietà intellettuale, sono previste delle libere utilizzazioni. Si
tratta di casi in cui il legislatore, operando un bilanciamento di interesse, ritiene che sia prevalente l’interesse
alla libera utilizzazione dell’oggetto della privativa. Si tratta di casi in cui automaticamente per legge è
consentito tenere una certa condotta e non è necessario richiede il consenso del titolare del brevetto. Nei casi
in cui la legge prevede delle licenze obbligatorie non si tratta di liberi usi perché sono situazioni in cui il
consenso del titolare ci vuole tuttavia la legge prevede che l’autorizzazione allo sfruttamento dell’invenzione
possa essere data tramite un provvedimento amministrativo che sostituisce il consenso mancato del titolare.
La filosofia di fondo degli usi leciti è quella di riguardare ipotesi che in partenza non richiedono alcun
consenso da parte del titolare del brevetto; qui non si deve richiedere il consenso, ma sono condotte che si
possono ottenere direttamente perché la legge dice che si può fare. I casi di licenza obbligatoria non sono usi
leciti ma presuppongono il consenso o il provvedimento amministrativo autorizzatorio. Gli usi leciti sono
solo dati dalle seguenti ipotesi:
– Atti compiuti in ambito privato e a fini non commerciali. La ragione qui è la tutela della sfera privata di un
soggetto che tiene una condotta formalmente in violazione del brevetto senza ricavarne un utile e senza
fare attività commerciale; vista la limitata portata di questa condotta si può dare prevalenza all’interesse
del privato a non essere colpito da un’azione di contraffazione del titolare. Al tempo stesso, dover tollerare
un uso puramente privato e non commerciale non reca un danno inaccettabile al titolare del brevetto.
– Uso in via sperimentale. L’uso sperimentale è un’ipotesi che si collega strettamente alla regola della messa
a disposizione della conoscenza dell’idea inventiva nella descrizione del testo brevettuale; lo scopo della
sufficiente descrizione è permettere l’attuazione libera dell’invenzione quando scadono i vent’anni di
monopolio, ma prima ancora quella di favorire la ricerca grazie al fatto che il brevetto già pubblicato e già
nel momento in cui è ancora in vigore può costituire una fonte di conoscenza tecnica per ulteriore ricerca.
Se io sfrutto l’idea inventiva contenuta in un brevetto ancora in vigore non per trarne un utile economico
mediante lo sfruttamento dell’idea inventiva ma la uso come base per svolgere una ricerca innovativa e
arrivare ad ulteriore innovazione questo va incoraggiato e non può essere vietato. Da un lato, questa
attività non danneggia il titolare del brevetto perché non mette capo ad uno sfruttamento commerciale
dell’invenzione brevettata e dall’altro lato è strumentale a creare innovazione. L’area degli esperimenti
non fa riferimento a qualunque attività consistente nel testare l’idea inventiva per cercare di replicarla
perché in questi esperimenti non c’è nulla di inventivo, l’eccezione di uso sperimentale riguarda i casi
della ricerca innovativa in cui l’invenzione brevettata è utilizzata per creare ulteriori invenzioni.
– Abbiamo poi due eccezioni specifiche del settore farmaceutico che sono entrambe volte alla tutela della
salute dei pazienti. La prima è l’eccezione regolatoria o eccezione Bolar dal primo caso che si era posto in
relazione a questa fattispecie; Bolar era una delle parti in causa in quella controversia e da allora questa
fattispecie ha mantenuto nel gergo dei brevetti il suo nome. Il mercato dei farmaci è tradizionalmente
strutturato su una contrapposizione tra imprese originatrici e imprese genericiste (produttrici di farmaci

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Eleonora Biffi

generici). Tipicamente gli originator sono i soggetti che svolgono ricerca inventiva, mettono a punto nuovi
impieghi di farmaci e sono titolari dei relativi brevetti, mentre i genericisti sono i soggetti che operano sul
mercato dei farmaci bioequivalenti che replicano i farmaci degli originator e che possono andare sul
mercato alla scadenza della tutela brevettuale dei farmaci degli originator. Storicamente ma anche in tempi
più recenti il conflitto tra queste due categorie si è accentuato e il legislatore ha dovuto operare una scelta
di bilanciamento: da un lato la tutela adeguata degli originator è necessaria per la realizzazione di nuovi
farmaci, ma dall’altro lato anche il mercato dei genericisti è molto importante perché la possibilità di
avere una pluralità di farmaci contenenti il principio attivo alla fine della tutela brevettuale permette di
ridurre notevolmente il costo del medicinale. La logica è dare una tutela monopolistica all’originator
perché è necessario questo tipo di tutela secondo la logica dei brevetti per incentivare gli investimenti in
ricerca, ma una volta scaduta la tutela ci deve essere una piena libertà di mercato delle imprese genericiste
perché a quel punto il titolare del brevetto è stato adeguatamente remunerato e la ricerca è stata stimolata e
quindi prevarrà l’interesse della collettività e dei sistemi sanitari nazionali ad avere a disposizione farmaci
con un costo più ridotto perché non devono ricaricare sul prezzo di vendita gli investimenti fatti in ricerca.
Tuttavia, ogni farmaco può andare sul mercato solo se ha ricevuto un’autorizzazione amministrativa alla
immissione in commercio perché si deve prima verificare che il farmaco sia efficace, che sia idoneo alla
somministrazione al paziente, non abbia effetti collaterali inaccettabili e via dicendo. Se il genericista
dovesse attendere la scadenza della tutela brevettuale per avviare la procedura di autorizzazione
all’immissione in commercio la tutela brevettuale verrebbe indebitamente prolungata perché, anche se il
brevetto è scaduto, finché il genericista non ha l’autorizzazione all’immissione in commercio non può
andare sul mercato con il farmaco bioequivalente. Fermo restando che la fabbricazione e la vendita del
farmaco da parte del genericista sono e restano vietate fino alla scadenza della tutela brevettuale, è tuttavia
consentito al genericista di avviare in anticipo la procedura di autorizzazione all’immissione in commercio
e di dotarsi di questa autorizzazione già prima della scadenza del brevetto in modo da poter andare subito
sul mercato a brevetto scaduto. Dato che, per ottenere questa autorizzazione è necessario fornire alle
autorità competenti a rilasciarla prove di laboratorio che servono a fare i test di sussistenza dei requisiti, il
genericista deve produrre ed utilizzare delle quantità di principio attivo brevettato. La problematica è che
bisogna già fabbricare il principio attivo brevettato. La ragione dell’esenzione regolatoria consiste nello
stabilire che, ai fini strettamente necessari per ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio, il
genericista può fabbricare e utilizzare dei quantitativi di principio attivo ancora brevettato per ottenere in
anticipo l’autorizzazione che poi utilizzerà dopo. Il punto importante è che il genericista può fabbricare e
utilizzare solo ed esclusivamente i quantitativi strettamente necessari per svolgere la procedura volta ad
ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio. Non può sfruttare l’eccezione Bolar per fabbricare
e stoccare in anticipo dei quantitativi da commercializzare in seguito perché questo è già in sé un atto di
contraffazione. In questo modo si mette in condizione il genericista di acquisire l’autorizzazione in modo
da poter entrare sul mercato immediatamente alla scadenza del brevetto.
– Eccezione galenica: possibilità di preparare nelle farmacie, in modo temporaneo e per unità dei medicinali
per singoli pazienti a condizione che ci sia una ricetta medica e che non si utilizzino principi attivi che
sono realizzati industrialmente. Questa attività di fabbricazione dei farmaci nelle farmacie non deve
diventare un’attività industriale in concorrenza con il titolare del brevetto. L’ipotesi è quella in cui vi sia
un farmaco brevettato in cui il paziente che ha bisogno di quella terapia non ha a disposizione sul mercato
dei farmaci idonei. Supponiamo ad esempio che il farmaco venduto normalmente in farmacia abbia una
composizione incompatibile con l’organismo del paziente perché contiene eccipienti ai quali il paziente è
allergico; in questo caso la legge, non potendo lasciare il paziente senza la cura per la malattia da cui è
affetto, concede al medico la prescrizione del farmaco in moto tale che il farmacista fabbrichi su misura e
a favore di quel paziente un medicinale compatibile con le esigenze del paziente in modo da mettergli a
disposizione la cura. Se questo rimane confinato in un’attività per singole unità di clienti non reca danno
al titolare del brevetto e al tempo stesso soddisfa l’interesse preminente del paziente a veder protetta la sua
salute. In sintesi: ipotesi di preparazione estemporanea e per unità di medicinali nelle farmacie su ricetta
medica, purché non si utilizzino principi attivi realizzati industrialmente.
– Usi di un software brevettato nei modi consentiti dagli articoli 64-ter e 64-quater della legge sul diritto
d’autore che prevedono delle ipotesi di libero uso del software protetto da un diritto d’autore, cioè libere
utilizzazioni del software che non possono essere bloccate dal titolare del diritto d’autore sul software
stesso. La regola qui esaminata è una regola di simmetria: se quelle libere autorizzazioni valgono rispetto
al diritto d’autore, quelle stesse libere utilizzazioni devono valere per i brevetti. La norma estende al
brevetto le ipotesi di uso lecito del software che in precedenza erano previste solo dal diritto d’autore.
Questa ipotesi e la successiva sono state introdotte recentemente nel 2019. Tuttavia la norma ha anche un
significativo più ampio perché conferma la prassi di ritenere brevettabile il software a certe condizioni;
tale disposizione conferma che a monte ci può essere validamente una brevettazione di software.

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– Quest’ultima ipotesi riguarda l’esigenza di non intralciare indebitamente le ipotesi di veicoli e mezzi di
trasporto che si trovano a transitare sul territorio nazionale. Se si tratta di navi, aeromobili o altri mezzi di
trasporto non italiani che temporaneamente o accidentalmente transitano nelle acque territoriali italiane o
nel territorio italiano, il fatto che su questi mezzi di trasporto siano montati dei dispositivi o utilizzati dei
procedimenti che in sé sarebbero oggetto di esclusiva da parte di un titolare di un brevetto efficace in Italia
ed il mero transito di questi mezzi di trasporto non è da ritenere contraffattorio; il titolare di un brevetto
efficace in Italia non può impedire il mero e occasionale transito nelle acque territoriali italiane di mezzi di
trasporto che impiegano l’invenzione brevettata ma che non sono mezzi di trasporto italiani e che ai
trovano solo accidentalmente a transitare per il territorio della Repubblica (art. 68.1 c.p.i.).

DIRITTO DI PREUSO
L’art. 68 al terzo comma regola il diritto di preuso: si tratta di un’ipotesi particolare in cui un preutente viene
autorizzato a tenere una condotta di sfruttamento di un’idea inventiva successivamente brevetta. L’ipotesi è
quella di un soggetto che inventa qualcosa ed inizia a sfruttare la sua invenzione senza tuttavia brevettarla.
Successivamente un altro soggetto arriva per coincidenza alla stessa idea inventiva e decide di brevettarla;
qui abbiamo un primo inventore che non ha brevettato e un secondo ed indipendente inventore che invece ha
brevettato. Non sorgono problemi se l’utilizzo dell’invenzione da parte del primo inventore ha reso
l'invenzione accessibile al pubblico; in questo caso l’invenzione è entrata a far parte dello stato della tecnica
ed il secondo inventore non potrà validamente brevettare perché mancherà il requisito della novità. Se il
preuso dell’invenzione da parte del primo inventore ha portato all’acquisizione nello stato della tecnica il
problema è già risolto perché quell’invenzione è in pubblico dominio e chiunque la può sfruttare. Viceversa,
il caso problematico è quello di uno sfruttamento dal primo inventore in regime di segreto. Immaginiamo ad
esempio che l’invenzione consista in un procedimento industriale che il primo inventore attua in regime di
segreto senza accessibilità al pubblico nel proprio stabilimento; in questo caso il procedimento non fa parte
dello stato della tecnica perché non è accessibile al pubblico ma per coincidenza un altro soggetto mette a
punto lo stesso procedimento e lo brevetta. Qui si ha un conflitto tra un soggetto che ha inventato e utilizzato
per primo ed un soggetto che, pur avendo inventato per secondo, ha brevettato validamente per primo perché
la prima invenzione non era nello stato della tecnica. La legge vuole favorire la brevettazione e risolve tale
conflitto dando molta più tutela al secondo inventore che ha brevettato per primo; in un caso del genere il
brevetto è del secondo inventore che ha scelto di brevettare e a quel punto sarà il secondo inventore a poter
godere per i vent’anni della tutela esclusiva del brevetto. Applicare queste regole in termini assoluti vuol dire
che il secondo inventore può far valere il brevetto anche per impedire al primo inventore di continuare ad
usare l'invenzione. Questo è sembrato eccessivo al legislatore che ha stabilito, in deroga ai diritti del titolare
del brevetto, la possibilità per il primo inventore di continuare a fare uso dell’invenzione. Si chiama diritto di
preuso perché c’era un uso anteriore alla brevettazione e la legge consente la continuazione di questo preuso.

La regola di favore per chi ha scelto la via della brevettazione si manifesta anche in due regole specifiche:
– Si può avvalere del diritto di preuso solo il soggetto che ha utilizzato l’invenzione in un periodo temporale
di 12 mesi anteriore alla data di deposito della domanda di brevetto o anteriore alla data di priorità. Se il
primo inventore ha utilizzato l'invenzione in epoca più remota ma poi non è andato avanti ad utilizzarla
nei dodici mesi anteriori al deposito della domanda di brevetto o se, pur avendo conseguito l’invenzione
non l’ha utilizzata del tutto, il legislatore non ritiene che vi sia un preuso da tutelare perché non era
un’attività che al momento del deposito del brevetto il primo inventore stesse svolgendo e neanche la
svolta in un periodo ampio quale un anno prima della domanda del brevetto. Si deve trattare di un preuso
in corso nel momento della domanda di brevetto o che comunque si colloca in un periodo temporale
vicino, altrimenti non si può avere il beneficio della continuazione del preuso.
– Il preutente può continuare l’utilizzo ma solo nei limiti del preuso, non può estendere l’uso che rimane
bloccato nei limiti in cui utilizzava l'invenzione prima della brevettazione da parte del secondo inventore e
non può estendere l’attività di sfruttamento dell’idea inventiva in alcun modo. Il legislatore ha inteso
favorire chi ha scelto la via della brevettazione e tale scelta ha anche una spiegazione di tipo logico nel
dire che il primo inventore, nel momento in cui ha raggiunto l’invenzione, poteva benissimo brevettare ma
se ha scelto di non brevettare deve sopportare le conseguenze della sua scelta e deve accettare il rischio
che un terzo brevetti prima di lui e acquisisca tutti i diritti (circoscrivendolo nei limiti del preuso).

ESAURIMENTO
Si tratta di una regola generale di tutta la proprietà intellettuale. Per capire il concetto di esaurimento si può
ricordare l’espressione della teoria della prima vendita (first-sale doctrine). Esiste zun prodotto coperto da
brevetto, il titolare fabbrica e vende sul mercato il prodotto o lo fa fabbricare e vendere da un soggetto da lui
autorizzato che ha una licenza, l’acquirente del prodotto originale ad un certo punto decide di rivenderlo;
immaginiamo ad esempio l’ipotesi dei rivenditori di prodotti usati di seconda mano che raccolgono i prodotti

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Eleonora Biffi

originali usati e ne fanno commercio di seconda mano rivendendoli. Il titolare del brevetto ha diritti esclusivi
anche sulle rivendite del prodotto brevettato e può bloccare questa attività o esigere un compenso da chi
vuole rivendere il prodotto brevettato oppure i diritti esclusivi del titolare si arrestano alla prima vendita da
lui autorizzata e le successive rivendite sono libere? Il legislatore ha ritenuto che il titolare soddisfa i suoi
interessi economici con la prima vendita (il profitto monopolistico derivante dalla prima vendita è sufficiente
a compensare il titolare) e da quel momento in poi la rivendita del prodotto è libera; il prodotto può essere
rivenduto liberamente senza che il titolare possa opporsi o esigere alcun compenso ulteriore. Questo vuol
dire esaurimento dei diritti ma non vuol dire che si estingue il brevetto; in relazione agli esemplari di prodotti
incorporanti l’idea inventiva messi in commercio dal titolare con il suo consenso si esaurisce la possibilità
del titolare di far valere l’esclusiva in relazione a quei prodotti in caso di rivendite successive. I diritti
esclusivi del titolare del brevetto si esauriscono, in relazione a prodotti protetti dal brevetto, una volta che tali
prodotti siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio italiano o nel territorio
di uno Stato membro dell’UE o dello Spazio Economico Europeo. A quel punto quel prodotto può essere
liberamente venduto. La regola dell’esaurimento vale a condizione che non vi siano motivi legittimi perché il
titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione e vendita dei prodotti (art. 5 c.p.i.). Caso classico è
quello in cui il prodotto originale brevettato, prima di essere rivenduto da parte del vendute di prodotti usati,
viene modificato o alterato o subisce una sostituzione di pezzi e quindi non è più un prodotto originale. Se il
venditore si limita a fare una normale manutenzione e a lucidare il prodotto questo non crea problemi, ma se
comincia a sostituire dei pezzi quello non è più il prodotto originale messo in commercio dal titolare del
brevetto e quindi il titolare del brevetto ha un motivo legittimo per impedire la commercializzazione dei
prodotti. Lo stesso può dirsi in qualunque situazione in cui l’ulteriore circolazione avvenga con modalità
lesive dell’immagine e della reputazione del titolare del brevetto. Al di là di queste ipotesi il prodotto può
liberamente circolare.

Quando vi è esaurimento il titolare del brevetto non può impedire l’ulteriore circolazione del prodotto; in
particolare, non può nemmeno impedire l’importazione in Italia di prodotti messi in commercio in altri Stati
UE o SEE. All'interno dell’Unione Europea, il prodotto può circolare da Stato a Stato: si stratta delle
importazioni parallele. Quale che sia il territorio europeo in cui il prodotto è stato messo in commercio, da
quel momento il prodotto può liberamente circolare in tutto il territorio dell’Unione. Se il titolare ha un
brevetto in Italia e mette in commercio il prodotto in Germania non può impedire che il prodotto continui a
circolare nel territorio tedesco ma non può neanche impedire che un soggetto acquisti il prodotto usato in
Germania, lo importi in Italia e lo rivenda. Il diritto si esaurisce su quel prodotto per tutto il territorio
dell’UE. Le importazioni parallele non possono essere vietate. Vi è esaurimento solo ed esclusivamente per
gli specifici esemplari di prodotto messi in commercio dal titolare o da un soggetto da lui autorizzato. In
relazione ad altri esemplari non messi in commercio dal titolare non c’è esaurimento e rimane la regola della
contraffazione. Il principio dell’esaurimento è volto a limitare l’esclusiva al momento in cui vi è un’attività
del titolare o consentita dallo stesso di vendita sul mercato di esemplari del prodotto brevettato. Se tale
vendita è nello spazio europeo e non vi sono motivi legittimi per bloccare una ulteriore circolazione del
prodotto, dal momento in cui gli specifici esemplari sono stati messi in commercio possono liberamente
circolare ed il titolare non può opporsi né esigere alcun compenso in denaro.

Non opera invece l’esaurimento internazionale: se anche dei prodotti protetti dal brevetto sono stati messi in
commercio dal titolare o con il suo consenso in Stati che non appartengono alla UE o al SEE, il titolare
conserva il diritto di impedirne l’importazione nell’Unione Europa. Se il prodotto originale è stato venduto
negli USA o in Giappone, per quanto riguarda il territorio europeo ed italiano, il diritto esclusivo su quel
prodotto non si esaurisce rispetto al territorio dell’Unione. Potrà liberamente circolare nel territorio in cui è
stato messo in commercio, ma non può essere importato e commercializzato dentro l’UE.

CESSIONE E LICENZE OBBLIGATORIE


Questa parte è dedicata agli atti con cui il titolare può disporre del suo diritto di brevetto trasferendolo a terzi
o autorizzando terzi a sfruttare l’invenzione brevettata ed è altresì dedicata alle licenze obbligatorie che sono
provvedimenti in cui, in situazioni eccezionali, un terzo viene autorizzato a sfruttare l’idea inventiva anche
senza il consenso del titolare del brevetto.

CESSIONE E LICENZA DEL BREVETTO


Il punto di partenza è la considerazione che il titolare può decidere di sfruttare e quindi di trarre profitto
dall’invenzione brevettata attuando direttamente l’invenzione e sfruttando direttamente il brevetto in una
propria attività economica, ma il titolare può anche decidere di trarre profitto dall’esclusiva in altro modo.
Può trarre profitto vendendo il brevetto a un terzo, in questo caso il profitto consiste nel corrispettivo in
denaro che il terzo paga per acquisire il brevetto, oppure può concedere il brevetto in licenza cioè dare a un

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terzo il permesso di attuare l’idea inventiva anche qui dietro un compenso in denaro. La concessione e la
licenza sono quindi due contratti con cui il titolare monetizza il valore commerciale del brevetto per una via
diversa da quella del suo sfruttamento diretto. I contratti tipici di sfruttamento del brevetto sono:
– La cessione del brevetto è un contratto con cui il titolare (cedente) trasferisce i diritti sul brevetto a un
altro soggetto (cessionario) che ne diviene nuovo titolare. Si tratta di una situazione di cambio di titolarità.
Il vecchio titolare non ha più alcun diritto sul brevetto e se lo dovesse attuare dopo la cessione sarebbe il
contraffattore. Il nuovo soggetto subentra e a quel punto tutti i diritti esclusivi sono del nuovo titolare.
Formalmente i contratti di cessione e di licenza sono a forma libera, ciò vuol dire che non è obbligatorio
stipularli per iscritto a pena di nullità del contratto, ma potrebbero essere anche stipulati oralmente; nella
prassi, per l’importanza del contratto e per le conseguenze che ne derivano, vengono sempre stipulati per
iscritto anche perché la forma scritta, pur non essendo necessaria per la validità dell’atto, è richiesta ai fini
della trascrizione dell’atto di cessione nel registro dei brevetti tenuto dall’Ufficio Italiano dei Brevetti e
Marchi (art. 138-139 c.p.i.). Gli effetti della trascrizione sono quelli tipici della trascrizione di diritto
privato: dare pubblicità dell’atto, annotare nel registro il nome del nuovo titolare e rendere opponibili gli
effetti della cessione anche ai terzi. Anche solo per la necessità di avere un documento scritto per chiedere
la trascrizione, di solito questi contratti sono sempre a forma scritta.
– Più complessi sono i contratti di licenza perché, mentre la cessione è un contratto ed effetti istantanei e si
perfeziona alla vendita, nel caso di licenza si tratta di un contratto di durata. Il titolare (licenziante), senza
trasferire i diritti sul brevetto, autorizza un terzo (licenziatario) a utilizzare l’invenzione brevettata, ma non
c’è un cambio di titolarità perché la titolarità rimane in capo al licenziante. Tra licenziante e licenziatario
si instaura un rapporto di durata che deve essere regolato. Per questo i contratti di licenza sono piuttosto
articolati e complessi; pur non essendo formalmente richiesta la forma scritta, di fatto non si vede
praticamente mai una licenza che non abbia una forma scritta tranne nei casi di licenze intragruppo tra
controllata e controllante. Tipicamente si tratta di contratti scritti piuttosto ampi ed articolati. Il cuore del
contratto di licenza è l’autorizzazione al terzo a sfruttare l’invenzione brevettata. Tipicamente i contratti di
licenza regolano le modalità di pagamento del corrispettivo, di solito si prevede un pagamento nel corso
della vita del contratto di licenza a scadenze periodiche ogni 3/6/12 mesi delle somme (c.d. canoni o
royalties) pari a una percentuale del fatturato o degli utili realizzati con lo sfruttamento dell’invenzione
brevettata. Si tratta quindi di pagamenti di ammontare variabile. Alla scadenza si contabilizzano fatturato
o utili tratti dallo sfruttamento del brevetto e su quell’ammontare si calcola una percentuale che può anche
variare nel tempo perché il brevetto può perdere valore o essere superato da altre innovazioni più recenti.
Può essere previsto un minimo garantito al titolare del brevetto così come possono essere previsti obblighi
accessori del licenziatario e solitamente vengono regolate anche le cause di scioglimento del contratto. La
licenza è esclusiva se il titolare si impegna a non concedere altre licenze e a non sfruttare in proprio
l’invenzione, è non esclusiva negli altri casi. Da un punto di vista commerciale la licenza esclusiva vale di
più perché garantisce di fatto un monopolio al licenziatario e in genere i contratti di licenza esclusiva
prevedono dei corrispettivi più elevati. La licenza è uno strumento molto diffuso per lo sfruttamento dei
brevetti perché ha una grande flessibilità di risultati e può servire a conseguire tanti risultati diversi. Ad
esempio può essere che il titolare non sia un imprenditore e la licenza in questo caso ha la finalità pura di
apportare al titolare un corrispettivo in denaro, ma vi possono essere dei casi in cui il titolare è comunque
attivo sul mercato però non riesce a raggiungere un certo quantitativo di produzione, certi canali e territori.
In questi casi la creazione di un network (rete) di licenze può essere molto vantaggiosa perché, tramite il
licenziatario, viene potenziato lo sfruttamento del brevetto e si ha un vantaggio ulteriore per il titolare.
Anche nella modulazione delle licenze vi possono essere delle previsioni specifiche: ad esempio si
possono fare delle licenze esclusive rispetto al territorio complessivo in cui è protetto il brevetto, questo
territorio viene “diviso” in parti e in ognuna di queste parti vi è un licenziatario esclusivo. La licenza
esclusiva indica che non ci sono altri licenziatari, ma potrebbe trattarsi di una licenza esclusiva per una
parte di territorio per dare una certa flessibilità o per seguire certe strategie di impresa.

LICENZE OBBLIGATORIE
Esiste anche l’ipotesi della licenza obbligatoria che però non va intesa come se il titolare del brevetto fosse
costretto a concludere e sottoscrivere un contratto di licenza ma vuol dire che in certe situazioni, anche se il
titolare si rifiuta di concedere una licenza volontaria, il soggetto interessato allo sfruttamento del brevetto
può ottenere l’autorizzazione a sfruttare il brevetto tramite un provvedimento amministrativo. La licenza
obbligatoria non è un contratto ma è un atto amministrativo, tipicamente è un decreto del Ministero dello
Sviluppo Economico che autorizza lo sfruttamento del brevetto. Di regola il titolare del brevetto è libero di
decidere in piena autonomia se concedere o meno la licenza, tuttavia se egli rifiuta di concedere una licenza
volontaria il terzo può ottenerne una obbligatoria. Si tratta comunque di ipotesi eccezionali perché la regola è
che il brevetto conferisce un’esclusiva al titolare, tratto tipico dell’esclusiva è che il titolare è libero di fare
quello che vuole. Rientra tra i diritti del titolare quello di decidere liberamente se concedere o non concedere

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in licenza il brevetto e di rifiutarsi senza dover dare alcuna giustificazione. Ci sono dei casi in cui il rifiuto
del titolare del brevetto di dare in licenza può pregiudicare degli interessi della collettività che il legislatore
ritiene meritevoli di tutela. Il legislatore prevede che eccezionalmente quando ci siano, in ipotesi particolari,
degli interessi pubblici meritevoli di protezione il terzo possa essere autorizzato a sfruttare il brevetto anche
al fine di soddisfare interessi pubblici pur in assenza del consenso del titolare. Di fatto è una compressione
dell’esclusiva del titolare un caso in cui il diritto del titolare cede il passo ad interessi pubblici prevalenti. La
stessa filosofia di fondo è alla base degli usi leciti previsti dal primo comma dell’art. 68. Se l’autorizzazione
non è su base volontaria può essere sulla base di un provvedimento amministrativo.

L’essenza della licenza obbligatoria è quella di essere emanata all’esito di un procedimento che il soggetto
interessato avvia davanti all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi che verifica se sussistono i requisiti per la
concessione della licenza obbligatoria e, nel caso positivo, dà un parere favorevole sulla base del quale il
Ministero dello Sviluppo Economico emana un decreto (la vera e propria licenza obbligatoria) che consente
al terzo di sfruttare l’invenzione brevettata. Questo può accadere solo in due ipotesi:
– La prima è prevista dall’art. 70 ed è il caso di mancata o insufficiente attuazione del brevetto. È il caso in
cui il titolare, dopo aver ottenuto il brevetto, non lo attua e lo lascia non sfruttato. Di solito non c’è un
motivo per una scelta di questo tipo a meno che si tratti di un brevetto che non ha alcun valore di mercato.
Supponiamo che l’invenzione brevettata non venga sfruttata o che non sia stata attuata in misura tale da
essere in proporzione con i bisogni del paese o come dice meglio la norma se l’attuazione è in una misura
tale da risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese. Solo una grave sproporzione giustifica la
compressione dei diritti del titolare e quindi una riduzione della sua esclusiva deve tollerare la licenza
obbligatoria. In questo caso, se entro tre anni dal rilascio del brevetto oppure successivamente per un
periodo di oltre tre anni quest’attuazione non avviene o vi è un’attuazione in grave sproporzione con i
bisogni del Paese, il terzo può chiedere la licenza obbligatoria a una condizione: la mancata o insufficiente
attuazione non deve essere dovuta a cause indipendenti dalla volontà del titolare del brevetto, tra le quali
non vi rientrano difficoltà economiche e mancanza di mezzi finanziari d’impresa perché questo rientra nel
normale rischio d’impresa. Le cause indipendenti sono i fattori esterni che impediscono al titolare di
attuare il brevetto. L’ipotesi più frequente è quella nella quale il titolare debba attendere un’autorizzazione
amministrativa allo sfruttamento del brevetto senza la quale non può sfruttarlo. Esempio: il farmaco con il
nuovo principio attivo brevettato può essere commercializzato solo dopo una lunga fase di verifica e test
clinici davanti all’autorità competente (Agenzia Italiana del Farmaco in Italia ed EMA a livello europeo).
Solo all’esito della lunga fase di verifica e controlli il farmaco ottiene un’autorizzazione all’immissione in
commercio; questa fase può richiedere molti anni. In una situazione di questo genere, il titolare non può
attuare il brevetto prima della conclusione della procedura.
– La seconda ipotesi si collega ai brevetti dipendenti (art. 68.2) ossia i brevetti che possono essere attuati
solo attraverso una necessaria attuazione di un brevetto altrui ancora in vigore. Il perfezionamento si può
attuare solo attuando l’idea base su cui il perfezionamento si innesta. In base alla disciplina dei brevetti
dipendenti, il titolare del brevetto dipendente può attuarlo solo con il consenso del titolare del brevetto
dominante chiedendo una licenza sul brevetto dominante al suo titolare. Il titolare può rifiutarsi di dare il
consenso e la conseguenza generale è che, se il consenso non viene dato, il titolare del brevetto dipendente
non può attuarlo. Anche in questo caso emergono l’interesse pubblico e l’eccezionalità della fattispecie. Se
tuttavia se l’invenzione oggetto del brevetto dipendente rappresenta, rispetto al brevetto precedente, un
importante progresso tecnico di considerevole rilevanza economica il titolare del brevetto dipendente può
ottenere la licenza obbligatoria (art. 71 c.p.i.). La fattispecie presenta una eccezionalità: non ogni brevetto
dipendente può avere una licenza obbligatoria; di regola il titolare può rifiutarla se crede, ma in questi casi
eccezionali c’è un interesse della collettività che la giustifica. Esempio: brevetto principale all’interno del
settore farmaceutico su una certa miscela di composti e brevetto dipendente sull’individuazione di uno
specifico principio all’interno della miscela o di un nuovo uso del composto noto che hanno importanza
medica fondamentale; immaginiamo che il brevetto dipendente copra un farmaco salvavita indispensabile
per la cura di malattie potenzialmente letali. Se il titolare del brevetto dominante rifiuta il consenso si ha
una situazione inaccettabile perché la salute pubblica ha bisogno di avere a disposizione il farmaco
oggetto del brevetto dipendente. In un’ipotesi di questo genere è giusto che il titolare del brevetto ceda il
passo agli interessi della collettività.

In entrambi i casi sopracitati la concessione della licenza obbligatoria è subordinata a una serie di condizioni.
Le disposizioni comuni ai due tipi di licenza obbligatoria (art. 72, 73 e 199 c.p.i.) sono:
– Occorre una istanza motivata, presentata dal soggetto interessato all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.
– Chi chiede la licenza obbligatoria deve dimostrare “di essersi preventivamente rivolto al titolare del
brevetto e di non aver potuto ottenere da questi una licenza contrattuale ed eque condizioni”.

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– La licenza obbligatoria non può essere concessa “quando risulti che il richiedente abbia contraffatto il
brevetto, a meno che non dimostri la sua buona fede”. La regola è che il richiedente non dev’essere un
contraffattore. Nella pratica può succedere che di fronte al rifiuto del titolare del brevetto chi è interessato
ad attuare la licenza si faccia giustizia da sé ed inizia a sfruttare l’invenzione brevettata confidando che la
licenza obbligatoria gli verrà rilasciata. Il soggetto che attua il brevetto altrui prima dell’autorizzazione
ministeriale è a tutti gli effetti contraffattore.
– La licenza obbligatoria è sempre non esclusiva.
– Chi ottiene la licenza obbligatoria deve versare al titolare del brevetto un “equo compenso”, la cui misura
è determinata nel decreto di concessione della licenza. È una licenza onerosa.
– Il decreto di concessione della licenza stabilisce, oltre alla misura del compenso, la durata e le condizioni
della licenza.
– La licenza obbligatoria può essere revocata se il licenziatario non rispetta le condizioni del decreto oppure
se vengono meno le circostanze che hanno determinato la concessione della licenza.

LICENZA DI DIRITTO
Si tratta di una possibilità offerta al titolare alla legge che è priva di rilievo pratico. Il titolare del brevetto può
fare un’offerta al pubblico per la concessione di una licenza per l’uso non esclusivo dell’invenzione (art. 80.1
c.p.i.). In realtà si dovrebbe più propriamente parlare di licenza mediante offerta al pubblico. Il motivo per
cui questa ipotesi non ha avuto rilievo nella pratica è che tipicamente il titolare vuole sapere chi è il suo
licenziatario e valutarne bene la figura per non rischiare di concludere contratti di licenza a condizioni
svantaggiose o in situazioni in cui il licenziatario può nuocere anziché giovare allo sfruttamento del brevetto.
Si tratta di contratti fondati molto sulle capacità della controparte contrattuale.

Non si verifica pressoché mai che il titolare offra al pubblico la conclusione del contratto di licenza e stipuli
una “licenza al buio” con un licenziatario che non conosce. La legge prevede questa ipotesi e prevede altresì
che, se il titolare fa questa offerta al pubblico ed un soggetto notifica al titolare l’accettazione dell’offerta, il
contratto di licenza si conclude e viene perfezionato, anche se non viene accettato il compenso proposto dal
titolare nell’offerta (art. 80.2 c.p.i.).

L’offerta deve essere accettata così come è stata formulata; un’accettazione con riserva o con richiesta di
negoziazione delle condizioni della licenza non vale come accettazione e non porta al perfezionamento del
contratto tranne che per un aspetto: il canone da licenza. È possibile che chi accetta l’offerta al pubblico
dichiari di non accettare il compenso. Se il compenso non viene accettato, la misura del compenso viene
determinata con “equo apprezzamento” da un collegio di arbitratori (art. 80.3 c.p.i.). In questo caso la licenza
si conclude comunque, licenziante e licenziatario devono cercare di arrivare ad un accordo sul compenso e se
non arrivano ad alcun accordo la legge prevede che debbano intervenire arbitratori terzi che, con un giudizio
di equità, determinano il canone di licenza.

N.B. La licenza di diritto non è una licenza che viene conclusa in base ad una disposizione di legge. In realtà
il meccanismo è quello di un’offerta al pubblico su base negoziale e volontaria.

CAUSE DI NULLITÀ E DI DECADENZA


Si tratta di situazioni patologiche che pongono fine anticipatamente alla tutela conferita dal brevetto. La
situazione fisiologica è la durata ventennale del brevetto in tutti i settori, con la possibilità per il settore
farmaceutico di prolungamenti di tutela fino a venticinque anni. La vita del brevetto dipende dalla volontà
del titolare che è libero in ogni momento di rinunciare al brevetto. È possibile che, anticipatamente rispetto ai
vent’anni, il titolare dichiari all’ufficio di non voler più la tutela brevettuale e rinuncia al brevetto, a quel
punto il brevetto cessa di avere effetti e l'invenzione cade in pubblico dominio. Diverse sono le cause di
nullità è decadenza che pongono fine anticipatamente alla tutela brevettuale per vizi originari o sopravvenuti.
Più precisamente, si parla di nullità quando esiste un vizio originario e quindi un motivo per cui fin dal
deposito della domanda di brevetto, il brevetto non sarebbe stato da concedere; fin dall’inizio il brevetto non
è nuovo, non è originale, non è sufficientemente descritto. Si tratta di ipotesi che si dovrebbero concludere
con il rigetto della domanda di brevetto. Tuttavia è possibile che, nonostante questo, il brevetto sia rilasciato.
Il vizio originario della domanda di brevetto non rilevato dall’ufficio può essere fatto valere davanti al
giudice con un’azione di nullità. L’art. 117 (c.p.i.) dice che, anche se il brevetto è stato concesso, qualunque
soggetto interessato può rivolgersi al giudice e chiedere che il brevetto venga dichiarato nullo. Si parla quindi
di vizi originari che comportano come conseguenza che il brevetto venga cancellato con effetto retroattivo,
come se non fosse mai stato concesso. La caratteristica della declaratoria di nullità è quella di cancellare
retroattivamente il brevetto salvo alcuni atti specifici che vengono fatti salvi e che non vengono travolti dalla
nullità del brevetto. Salvo queste ipotesi particolari che la legge indica nell’art. 77 del c.p.i. gli effetti della

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nullità sono retroattivi. L’ipotesi della decadenza si ha quando il brevetto viene validamente concesso ma
tuttavia, ad un certo punto della vita del brevetto, sopravvengono delle circostanze che sono incompatibili
con la prosecuzione della durata della protezione brevettuale. Si tratta di fatti sopravvenuti che pongono fine
alla vita del brevetto. Fino al momento in cui questi fatti si sono verificati il brevetto era perfettamente
valido. A differenza della nullità, il brevetto oggetto di decadenza per il periodo della concessione fino al
verificarsi della causa di decadenza è stato un brevetto in vigore. Supponiamo che dopo la concessione del
brevetto ma prima del verificarsi della causa di decadenza un terzo abbia tenuto una condotta in violazione
del brevetto. Dato che in quel momento il brevetto era ancora in vigore, vi può essere un accertamento della
contraffazione e una condanna del terzo al risarcimento dei danni. Nel caso della nullità questo non sarebbe
possibile perché viene cancellato con effetto retroattivo e qualunque condotta tenuta in qualsiasi momento da
un terzo è per definizione lecita perché è come se quel brevetto non ci fosse mai stato.

CAUSE DI NULLITÀ DEL BREVETTO


L’art. 76.1 c.p.i. e l’art. 138 CBE elencano in modo tassativo le cause di nullità. Il brevetto è nullo se:
– Il trovato non rientra tra le entità brevettabili ai sensi dell’art. 45 c.p.i.;
– Non sussistono tutti i requisiti di brevettabilità previsti dagli art. 46, 48, 49 e 50 c.p.i. (industrialità, novità,
originalità, liceità);
– L’invenzione non è sufficientemente descritta ai sensi dell’art. 51 c.p.i.;
– L’oggetto del brevetto si estende oltre il contenuto della domanda iniziale o la protezione è stata estesa;
– Il brevetto è stato concesso ad un non avente diritto e l’avente diritto “non si sia valso delle facoltà
accordategli dall’art. 118 c.p.i.” (rivendica del brevetto).

La norma del CBE da cui la quarta fattispecie è stata presa aggiunge qualcosa: dice che l’ipotesi di invalidità
perché la protezione è stata estesa riguarda il brevetto già concesso. Finché il brevetto non è stato concesso
rimane possibile modificare con una certa libertà il testo brevettuale o estendere la protezione conferita dalle
rivendicazioni inserendo elementi tratti dalla descrizione o dai disegni. Finché il brevetto non è concesso
l’unico limite è che non si può aggiungere materia che non sia già contenuta nella domanda iniziale. Oggetto
è ciò che il brevetto protegge, il contenuto della domanda iniziale fissa i limiti oltre i quali non si può andare.
Questa estensione dell’oggetto in questa fase è consentita perché si è ancora davanti all’ufficio e le modifiche
aggiunte sono ancora soggette al vaglio dell’ufficio e c’è una protezione dell’esigenza di tutela dei terzi.
Nell’art. 123 CBE (secondo paragrafo) si fissa la regola del divieto di estensione oltre il contenuto e poi, nel
terzo paragrafo, si dice che se il brevetto è già stato concesso la protezione non può in alcun modo essere
estesa. Dopo la concessione del brevetto, il brevetto può essere solo limitato e l’oggetto non può essere
esteso neanche attingendo ad elementi presenti nella rivendicazione e nei disegni. Le aggiunge e modifiche
fatte prima delle concessione del brevetto determinano nullità in relazione ad elementi che non erano
contenuti nella domanda iniziale, le variazioni fatte dopo la concessione del brevetto determinano nullità in
relazione ad ogni elemento che, a prescindere dal fatto che fosse o meno contenuto nella domanda iniziale, in
ogni caso estende l’oggetto e la protezione del brevetto.

La disciplina della rivendicazione del brevetto contenuta nell’art. 118 (quinta fattispecie) prevede che, se il
brevetto è domandato da un non avente diritto, l’avente diritto ha la possibilità di rivolgersi ad un giudice per
far accertare la sua qualità di avente diritto e chiedere determinati rimedi. Se il brevetto non è ancora stato
concesso l’avente diritto può chiedere che gli venga trasferita la domanda di brevetto, così da portare avanti
la procedura, o in alternativa il rigetto della domanda di brevetto. Se il brevetto è già stato concesso, l’avente
diritto ha la scelta tra il farsi trasferire il brevetto concesso o chiedere la nullità del brevetto. L’ipotesi di
nullità è collegata al fatto che l’avente diritto chieda che il brevetto concesso al non avente diritto venga
dichiarato nullo. Tuttavia l’art. 118 precisa che, dal momento della concessione del brevetto, l’avente diritto
ha due anni di tempo per fare la sua scelta tra chiedere l’intestazione del brevetto o la nullità dello stesso.
Decorsi i due anni, nei quali la scelta spetta solo all’avente diritto, la legge stabilisce che qualunque soggetto
interessato può chiedere la nullità del brevetto. Di fronte all’inerzia dell’avente diritto, egli non può più
chiedere l’attribuzione a sé del brevetto ma il brevetto viene condannato alla nullità e chiunque lo voglia
vedere dichiarato nullo ha diritto di rivolgersi al giudice.

N.B. Non sempre la causa di nullità può essere rilevata dall’ufficio. In relazione alla quarta ipotesi, se la
protezione è stata estesa dopo la concessione del brevetto l’estensione non è stata rilevata dall’ufficio che
aveva già concluso l’esame. Nell’ipotesi del non avente diritto l’ufficio per legge non rileva la mancanza di
legittimazione di chi deposita la domanda di brevetto perché il codice precisa (art. 118-119) che l’Ufficio
Italiano Brevetti e Marchi non ha la competenza di verificare la legittimazione a depositare la domanda di
brevetto. Solo il giudice può stabilire chi è o non è avente diritto. Se il brevetto viene concesso senza che
all’ufficio sia stata comunicata una sentenza di un giudice che accerta che l’avente diritto è un altro, l’ufficio

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Eleonora Biffi

deve limitarsi a prendere atto dell’intestazione della domanda come è stata sottoposta. Mentre nei casi di
entità non brevettabili, insufficiente descrizione o mancanza dei requisiti di validità si tratta tipicamente di
situazione che sono sfuggite all’esame dell’ufficio, in questi altri casi il vizio di nullità sussiste perché non
era qualcosa che per legge l’ufficio poteva rilevare. In ogni caso si tratta di vizi originari che portano alla
cancellazione retroattiva del titolo.

È previsto dagli art. 76.2 c.p.i. e 138.2 CBE che, se le cause di nullità riguardano solo in parte il brevetto, la
nullità va dichiarata solo parzialmente. Può essere il caso in cui il brevetto rivendichi più caratteristiche
inventive e alcune siano anticipate e allora vengono dichiarate nulle solo quelle anticipate; nel caso in cui
una caratteristica non sia sufficientemente descritta viene dichiarata nulla solo quella; nel caso di estensione
del brevetto può essere che venga dichiarata nulla solo la parte eccedente e non quella che incorre nella causa
di nullità.

Infine va tenuta presente la possibilità di conversione del brevetto nullo (art. 76, commi 3 e 4, c.p.i.). Esiste
questa sorta di “salvagente” per il titolare del brevetto. I commi 3 e 4 si riferiscono all’ipotesi in cui il titolare
abbia sbagliato tipo di protezione, cioè ipotesi in cui per una certa innovazione il titolare abbia chiesto un
brevetto per invenzione ma non ha i requisiti per essere validamente concesso e tuttavia quell’innovazione in
sé avrebbe avuto i requisiti per essere protetta con una differente privativa. Esempio: caso di innovazione
tecnica minore che potrebbe essere protetta solo come modello di utilità; il titolare o l’avente diritto chiede
un brevetto per invenzione e alla fine il giudice accerta che come brevetto per invenzione non ha i requisiti di
validità ma che li avrebbe avuti come modello di utilità. Allora, su domanda del titolare, può convertire il
brevetto nullo nell’altra forma di protezione che invece presenta i requisiti di validità. Si tratta di situazioni
in cui il brevetto non ha i requisiti di validità ma l’innovazione che ne forma l’oggetto avrebbe i requisiti di
validità per essere protetta in altro modo. Per far prevalere la sostanza sulla forma e non penalizzare troppo il
titolare, si prevede che se il titolare lo chiede può ottenere la conversione nel titolo corretto.

CAUSE DI DECADENZA DEL BREVETTO


Le ipotesi di decadenza del brevetto non pongono particolari problemi. La legge prevede solo due ipotesi di
decadenza di un brevetto validamente concesso:
– Mancata attuazione dell’invenzione nonostante la concessione di una licenza obbligatoria (art. 70.4 c.p.i.).
Immaginiamo che il titolare non attui l’invenzione, un terzo ottiene lui una licenza obbligatoria per attuare
l’invenzione e, per motivi che non è dato sapere, neanche il licenziatario obbligatorio attua l’invenzione. A
questo punto il legislatore fa decadere il brevetto e l'invenzione cade in pubblico dominio. La decadenza
non è automatica, deve essere fatta valere davanti al giudice da parte di un soggetto interessato e viene
pronunciata solo se un soggetto promuove l’azione di decadenza davanti al giudice.
– Mancato pagamento delle tasse annuali (art. 75 c.p.i.). Per tutti i vent’anni di protezione, ogni anno il
titolare deve pagare delle tasse intese come somme per mantenere in vita il brevetto. Tale norma prevede
che, se il titolare cessa di pagare le tasse annuali, il brevetto decade. Questa ragione di decadenza è fiscale.
Il pagamento delle tasse non è un obbligo: se il titolare non paga le tasse di mantenimento in vita del
brevetto nessuno gli può chiedere coattivamente di versarle perché è libero di non farlo. Si tratta piuttosto
di un onere, cioè un adempimento che lui deve compiere se vuole conservare vigenza al brevetto. Se lui
decide di non pagarle o per errore cessa di pagarle, il brevetto decade. A volte anche il mancato pagamento
può rientrare in una strategia del titolare del brevetto. Succede soprattutto nel caso di brevetti europei
chiesti per molti Stati; il titolare si accorge successivamente che solo in alcuni Stati lo sfruttamento del
brevetto è profittevole mentre in altri non ci sono margini di profitto e quindi non conviene mantenere la
protezione brevettuale. In questi casi il titolare avrebbe la strada della rinuncia, però dovrebbe fare una
istanza e pagare le tasse di istanza e di rinuncia; in questi casi, quello che spesso avviene nella pratica è
che il titolare, una volta individuati gli Stati che non gli interessano più, per quegli Stati smette di pagare
le tasse di mantenimento e abbandona il brevetto per quegli Stati, continuando invece a tenerlo in vita per
gli Stati dove ha motivi e ragioni commerciali per desiderare la continuazione della protezione data dal
brevetto.

SEGRETI COMMERCIALI
I segreti commerciali sono oggetto di un altro diritto di proprietà industriale (diverso da quello dei brevetti)
che costituisce a favore del proprio titolare un’esclusiva su una innovazione di impiego in un’attività
commerciale. La filosofia di fondo è analoga a quella dei brevetti: dotare il soggetto che innova di uno
strumento di tutela della sua innovazione attraverso la creazione di un’esclusiva. Tuttavia si differenzia dai
brevetti perché in questo caso non c’è un procedimento formale di brevettazione o di registrazione che porta
alla concessione di un titolo di protezione sotto forma di un provvedimento dell’ufficio competente, ma la
tutela sorge dal dato di fatto della segretezza. È un modo per dare agli imprenditori la possibilità di tutelare

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loro innovazioni anche senza ricorrere allo strumento del brevetto. Il legislatore ha espresso una scelta di
favore per la brevettazione, ritenendo la scelta del brevetto più sicura e preferibile in termini assoluti, anche a
vantaggio della collettività perché presuppone sempre la rivelazione dell’innovazione e quindi l’acquisizione
dell’informazione al patrimonio di conoscenza della collettività. Tuttavia, il legislatore ha preso atto del fatto
che ci possono essere ragioni imprenditoriali per non brevettare e preferire la via della tutela dei segreti
(informazioni che restano confidenziali all’intento dell’impresa). Inoltre oggi ci sono molte innovazioni che
non rientrano tipologicamente nell’ambito delle innovazioni tecniche suscettibili di brevettazione. Per questo
si è introdotta la disciplina della tutela dei segreti. Il panorama in cui interviene la disciplina si è evoluto nel
corso degli anni sia da un punto di vista di fatto sia da un punto di vista giuridico. Da un punto di vista di
fatto i segreti commerciali intesi come informazioni, know-how ed esperienze sono diventati sempre più di
valore perché hanno acquisito una posizione sempre più crescente nel ranking degli asset aziendali. Si assiste
oggi a casi in cui ci sono patrimoni di know-how non brevettato di enorme valore. Tutta la tecnologia
moderna ed il fiorire di fenomeni di innovazione digitale come IoT e Big Data hanno ampliato il numero di
informazioni per cui è necessaria una tutela sotto forma di segreto e hanno notevolmente accresciuto il valore
economico delle conoscenze. Dal punto di vista giuridico il legislatore ha cercato di tenere il passo rispetto a
all’evoluzione della realtà di mercato elevando la tutela segreti commerciali a partire dalla metà degli anni
‘90 del secolo scorso al rango di vero e proprio diritto di esclusiva. In precedenza, fino alla metà degli anni
‘90, la tutela dei segreti c’era ma era una tutela che non si basava su un sistema di esclusive, bensì veniva
ricavata dalla disciplina della concorrenza sleale che detta regole di comportamento che gli imprenditori
devono rispettare nel competere sul mercato; tra queste regole di comportamento rientra il non sottrarre né
acquisire abusivamente informazioni segrete. Si trattava di una tutela indiretta perché non c’era un’esclusiva
sui segreti, ma si riteneva che il sottrarre i segreti costituisse un atto scorretto sul piano dei rapporti tra gli
imprenditori; veniva sanzionato solo sul piano della concorrenza ma non come violazione di un diritto di
proprietà induriate. La situazione a livello legislativo cambia a metà degli anni ‘90: negli ultimi venticinque
anni, a fronte della sempre più crescente importanza dei segreti e dei patrimoni di know-how nelle realtà
aziendali, il legislatore ha via via rafforzato nel tempo la protezione di questo bene aziendale.

QUADRO NORMATIVO
I dati normativi sulla tutela del segreto sono piuttosto semplici e contenuti. Il punto di partenza è stato l’art.
39 dell’Accordo TRIPs (1994). Con il recepimento dell’Accordo in Italia qualche anno dopo, per la prima
volta si è avuta una protezione aggiuntiva dei segreti commerciali rispetto a quella della concorrenza sleale.
Tale articolo è la base a livello mondiale. A livello di Unione Europea per molto tempo non c’è stata una
regolamentazione della materia che è arrivata solo nel 2016 con la Direttiva UE n. 2016/943 specificamente
dedicata ai segreti commerciali. Tale direttiva (c.d. Trade Secrets) è relativa alla protezione del know-how
riservato e delle informazioni commerciali riservate contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti.
La direttiva è stata attuata in Italia nel 2018 ma la legislazione italiana già prevedeva una tutela dei segreti
come diritti di proprietà industriale e, in particolare, la prevedeva negli art. 98 e 99 c.p.i. che sono ad oggi i
due articoli che nel codice regolano la tutela dei segreti.

RAGIONI DELLA TUTELA


Le ragioni della tutela sono spiegate nel dettaglio nei “considerando” della direttiva dell’Unione Europea del
2016. I provvedimenti legislativi dell’UE, direttive e regolamenti, presentano sempre un preambolo prima
delle vere e proprie norme che spiega i motivi e le finalità del provvedimento legislativo. Tale preambolo non
ha un valore di legge vincolante come le singole norme, ma di fatto è molto utilizzato per l’interpretazione
delle norme perché specifica finalità e intenzioni del legislatore. I vari punti del preambolo sono chiamati nel
gergo legale “considerando” perché i preamboli sono sempre redatti con la formula “Considerando che”.
– Dotare le imprese e gli enti di ricerca, che investono nell’acquisizione, nello sviluppo e nell’applicazione
di know-how e informazioni, di un ulteriore mezzo per appropriarsi dei risultati delle loro attività
innovative, consistente nel proteggere l’accesso e lo sfruttamento di conoscenze che sono preziose per chi
le detiene e non sono diffuse. Viene così protetto un prezioso patrimonio di know-how e di informazioni
commerciali, che non è divulgato ed è destinato a rimanere riservato: questo patrimonio viene definito
“segreto commerciale” (considerando 1, Direttiva UE n. 2016/943). Il primo considerando dà conto del
fenomeno dell’importanza di una tutela di know-how ed informazioni anche non brevettare per permettere
di acquisire e sfruttare i risultati di attività innovative che, anche se non brevettabili o non brevettate, sono
preziose per chi le detiene. C’è un riconoscimento del valore del know-how aziendale. L’espressione
complessiva “segreto commerciale” si compone del prezioso patrimonio di know-how, esperienze ed
informazioni di vario tipo.
– Tutelare l’esigenza delle imprese di usare la riservatezza come strumento di competitività commerciale e
di gestione dell'innovazione nel settore della ricerca e in relazione ad un’ampia gamma di informazioni,
che si estendono dalle conoscenze tecnologiche ai dati commerciali quali ad esempio le informazioni sui

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Eleonora Biffi

clienti e i fornitori, i piani aziendali e le ricerche e le strategie di mercato. Grazie alla tutela per essi
prevista, i segreti commerciali consentono al creatore e all'innovatore di trarre profitto dalle proprie
creazioni o innovazioni e quindi sono particolarmente importanti per la competitività delle imprese
nonché per la ricerca, lo sviluppo e la capacità innovativa (considerando 2, Direttiva UE n. 2016/943). Va
quindi protetta l’esigenza di usare la riservatezza come strumento di competitività commerciale e di
gestione dell’innovazione. Pur restando nella legislazione un favore per la tutela brevettuale, il legislatore
di fatto riconosce che anche la tutela del segreto è uno stimolo all’innovazione e, tutto sommato, è giusto
permettere all’imprenditore di utilizzare nelle sue strategie d’impresa e nelle sue scelte la riservatezza dei
propri dati. C’è la possibilità di adottare altre strategie di protezione e valorizzazione dell’innovazione.

LA TUTELA DEI SEGRETI COMMERCIALI IN EUROPA


All’origine della disciplina dei segreti commerciali in Europa è l’art. 39 dei TRIPs, che prevede la possibilità
per i Paesi aderenti all’Accordo di introdurre nei loro ordinamenti interni una tutela delle “informazioni
segrete”. L’articolo fornisce una definizione di segreto senza poi però prevedere una disciplina specifica per
la sua tutela, lasciando liberi i Paesi aderenti al riguardo. L’Accordo si limitava a fissare l’obbligo per gli
Stati aderenti di proteggere i segreti, senza prevedere delle specifiche forme di tutela; non prescriveva agli
Stati di adottare una forma di tutela anziché un’altra, lasciandoli liberi di decidere quale fosse la forma di
tutela preferita. Questo, limitandoci all’ambito europeo, aveva dato luogo ad una situazione molto variegata.
Vi erano Stati come l’Italia che avevano imboccato la scelta di tutelare i segreti come diritti di proprietà
industriale; altri Stati erano rimasti ancorati alla tutela mediata attraverso la disciplina contro la concorrenza
sleale; altri avevano previsto una tutela del segreto attraverso le norme generali sugli illeciti extracontrattuali
(art. 2043 e seguenti del Codice Civile in Italia); altri Stati avevano emanato normative speciali relative ai
segreti.

LA TUTELA DEI SEGRETI COMMERCIALI IN ITALIA


C’era una situazione di frammentazione legislativa che è stata ritenuta incompatibile con il mercato unico
europeo e con le esigenze di armonizzazione che ha portato alla Direttiva UE n. 2016/943 e, ulteriormente,
alla attuazione della Direttiva nel maggio 2018 con un decreto che ha modificato parzialmente gli art. 98 e 99
del c.p.i. In Italia i segreti commerciali sono tutelati come oggetto di diritti di proprietà industriale in base
agli art. 98 e 99 c.p.i., come modificati dal d.lgs. 11 maggio 2018, n. 63, che ha dato attuazione alla Direttiva
UE n. 2016/943. Nel loro impianto questi articoli non hanno avuto bisogno di modifiche per recepire la
direttiva perché la nostra legislazione era già perfettamente allineata alla direttiva. La violazione di segreti
commerciali costituisce inoltre un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 3, Codice Civile.
L’esistenza di una tutela specifica del segreto come diritto di proprietà industriale non esclude che la
violazione dei segreti continui a costituire anche un atto di concorrenza sleale, è una violazione di una
esclusiva ed è un atto scorretto nei rapporti tra imprenditori e dunque si presta ad una duplice qualifica di
illiceità: concorrenza sleale, contraffazione e violazione di un diritto.

NOZIONE DI SEGRETO COMMERCIALE


L’art. 98.1 c.p.i. dà una definizione generale. I segreti commerciali sono le informazioni aziendali e le
esperienze tecnico-industriali (know-how), comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del
detentore. Il detentore è tipicamente l’imprenditore che ha sviluppato suddette conoscenze, egli è l’avente
diritto o il titolare dei diritti sui segreti commerciali. I segreti possono essere di:
– Natura tecnica: informazioni riservate relative alla progettazione, alla realizzazione, alle caratteristiche o
al modo di impiego di un prodotto o di un processo. Tipico oggetto dei segreti commerciali sono i disegni
tecnici di parti del prodotto. In campo chimico pensiamo alle formule chimiche o alle conoscenze relative
a processi di sintesi di composti. Anche il sapere come regolare un macchinario o come porre in opera un
processo con certi tempi e caratteristiche è un’informazione tecnica di grande valore. È possibile che, pur
essendoci un brevetto, ci sia anche un know-how aggiuntivo relativo al modo di migliore impiego del
prodotto o del processo. Molte volte nei contratti di trasferimento di tecnologia si traferiscono in modo
congiunto brevetti e know-how sul funzionamento dei brevetti perché costituiscono nel loro complesso il
pacchetto tecnologico oggetto di trasferimento.
– Natura commerciale: informazioni riservate relative all’organizzazione commerciale dell’impresa, ai suoi
piani strategici, alle scelte di marketing, ai nominativi dei suoi fornitori, finanziatori, rivenditori e clienti e
ai rapporti con questi soggetti, alle modalità di fissazione dei prezzi (anche in relazione ai criteri seguiti
per praticare sconti). La politica dei prezzi è un altro elemento che ha un valore commerciale: ci sono dei
listini prezzi pubblici praticati dall’impresa ma anche prezzi interni praticati verso i clienti o nei rapporti
commerciali con altri operatori professionali. Quest’ultimi non sono divulgati, rappresentano conoscenze
riservate importanti per chi le detiene perché danno la misura di come calibrare i prezzi a seconda del
soggetto con cui si ha a che fare.

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Dalla nozione di segreto commerciale ricaviamo la conseguenza che la disciplina dei segreti si presta a
tutelare sia innovazioni di tipo tecnico che sarebbero brevettabili ma per le quali l’avente diritto preferisce la
tutela del segreto, sia informazioni di qualunque tipo che non sarebbero in sé brevettabili come un know-how
tecnico che non possiede i requisiti per una valida brevettazione (es. per mancanza di livello inventivo) o
innovazioni ed informazioni commerciali che, non appartenendo al mondo della tecnica, non rientrano tra le
entità brevettabili. Esempio: know-how routinario di esperienza; se io, sulla base di una esperienza di utilizzo
di un macchinario nel tempo, so perfettamente come regolare quel macchinario e quali accorgimenti adottare
per farlo funzionare al meglio, quasi mai una conoscenza di routine lavorativa contiene un salto lavorativo
che la rende brevettabile. Tuttavia, si può trattare di una conoscenza di valore per l’impresa che la può
sfruttare perché ottimizza i tempi di produzione, riduce i costi, e così via. L’unica possibilità di tutela per le
innovazioni commerciali non di tipo tecnico è quella del segreto commerciale. Solo le innovazioni di tipo
tecnico possono essere brevettate, le innovazioni di tipo commerciale non possono in partenza ambire alla
tutela brevettuale ma possono ambire ad una tutela come segreti commerciali. Anche se la legge parla di
“segreto commerciale”, questa espressione contiene sia il know-how commerciale in senso proprio sia quello
di tipo tecnico. Il termine segreto commerciale va inteso come segreto utile e sfruttabile in un’attività di tipo
economico

REQUISITI PER LA TUTELA


Non si tratta di un titolo di protezione. Nei diritti di proprietà industriale si parla di titoli e di diritti titolati
quando il diritto viene acquisito con un procedimento di registrazione o di brevettazione presso l’ufficio
competente. È il caso dei brevetti, dei marchi e dei disegni-modelli. Altri diritti di proprietà industriale come
segreti, denominazioni d’origine o indicazioni geografiche sono detti diritti non titolati perché non sorgono
con un provvedimento di concessione amministrativo, ma sorgono dall’esistenza di una situazione di fatto: si
verificano fattualmente delle circostanze che sono loro a costituire il diritto esclusivo. Nel caso dei segreti,
tali circostanze sono tre e devono ricorrere congiuntamente per essere tutelate. I requisiti sono enunciati e
definiti nell’art. 98.1 c.p.i. Le informazioni devono:
– Essere segrete: la legge dice che le informazioni sono segrete quando, nel loro insieme o nella precisa
configurazione e combinazione dei loro elementi, non sono né generalmente note né facilmente accessibili
agli esperti ed agli operatori del settore. Generalmente note vuol dire che si tratta di conoscenze diffuse e
quindi in pubblico dominio. Può trattarsi di conoscenze che non sono ancora generalmente note ma che
sono facilmente accessibile ad esperti e operatori del settore. Il requisito della segretezza manca quando la
conoscenza si è già diffusa ma anche quando la conoscenza, pur non essendo già diffusa, sia facilmente
accessibile. Nello stato della tecnica per i brevetti rientrano tutte le conoscenze accessibili; per i segreti c’è
una differenza: la legge dice che, per venir meno il segreto, occorre una facile accessibilità. Interpretando
la norma al contrario si ricava che, per il legislatore, una accessibilità teoricamente possibile ma molto
difficile ed impegnativa da conseguire non esclude il requisito della segretezza. Da questo punto di vista
vi è uno spazio maggiore per arrivare alla protezione del segreto. La tutela del segreto è minore rispetto a
quella del brevetto; il brevetto è più difficile da avere ma dà una tutela più robusta rispetto al segreto. Dal
punto di vista dell’accesso alla tutela, se non c’è un’accessibilità facile il segreto si può dire sussistente. Il
caso principale di facile accessibilità è il caso del reverse engineering: invece di partire dai componenti
per arrivare al prodotto finito si prende il prodotto finito disponibile sul mercato, lo si smonta, lo si
analizza e dall’analisi si ricava come il prodotto funziona. Per mezzo del reverse engineering è possibile
pervenire agevolmente alle informazioni attraverso l’osservazione del processo o la scomposizione del
prodotto che le incorpora. Non si tratta semplicemente di poter vedere il prodotto o il processo ma di poter
risalire alle informazioni incorporate in quel prodotto o processo attraverso l’osservazione, l’analisi e la
scomposizione.
– Avere valore economico in quanto segrete: il valore economico deve derivare dalla segretezza e sarebbe
pregiudicato da una divulgazione dell’informazione. Occorre dunque dimostrare che il valore, almeno in
parte rilevante, è dovuto al fatto della segretezza. Il considerando della Direttiva e l’interpretazione
corrente in giurisprudenza precisano che ciò non vuole dire che le informazioni debbano necessariamente
avere un valore di mercato (valore di scambio ove il titolare decidesse di venderle); significa invece che le
informazioni devono assicurare al loro detentore che, grazie al segreto le sfrutta in esclusiva, un vantaggio
competitivo, economico o organizzativo che può essere attuale o anche potenziale perché l’informazione
non è ancora stata attuata ma si accinge ad esserlo. La segretezza ed il fatto che solo il titolare conosce e si
attinge ad impiegare quell’informazione gli conferisce un vantaggio di mercato nella gara concorrenziale,
un risparmio di costi, maggiori profitti, una migliore organizzazione interna all’impresa. Esempio: know-
how relativo al modo di ottimizzare l’attuazione di un procedimento il cui valore si concretizza nella
possibilità di far funzionare meglio la produzione, risparmiare i costi e competere praticando prezzi più
bassi sul mercato. Il vantaggio è potenziale se, a seguito della messa a punto del segreto commerciale,
l’imprenditore sarà in grado di ottenere il vantaggio; è attuale se invece possiede già tale vantaggio.

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Eleonora Biffi

– Essere sottoposte a misure di sicurezza ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete: misure che il
titolare deve adottare per proteggere il segreto. Il non sapere questo può comportare la perdita della tutela
perché istintivamente si potrebbe essere portati a pensare che basta la sussistenza in sé del requisito della
segretezza per avere tutela. La legge dice che non basta che ci sia di fatto uno stato di segretezza e che
l’informazione segreta abbia un valore economico dato dalla segretezza, ma ci può essere tutela solo se fin
dall’inizio l’avente diritto ha cura di farsi parte diligente nel dotare il segreto e l’ambiente aziendale in cui
il segreto viene elaborato e sfruttato di misure di protezione. Non basta elaborare il segreto ma bisogna
anche avere cura di adottare tutte le misure di protezione che possono essere di tipo tecnico o materiale o
di tipo giuridico. Misure di tipo tecnico: sistema di password da mutare periodicamente; misure sempre
aggiornate di protezione del sistema informatico; sistema di accesso ai file limitato in relazione alla
funzione che il soggetto che vi accede svolge nell’azienda (frammentazione delle conoscenze); limitazione
dell’accesso a determinate zone dell’azienda (es. tramite badge); sistema di sorveglianza. Misure di tipo
giuridico: non-disclosure agreements (NDAs, accordi di non rivelazione tipici delle trattative per scambi
di tecnologia o collaborazioni); patti di riservatezza (clausole inserire in contratti complessi in cui ci si
impegna a non divulgare la conoscenza); patti di non concorrenza (per garantire che i soggetti che lasciano
l’azienda non utilizzino determinate informazioni iniziando a lavorare per un nuovo datore). La legge non
impone una misura specifica. È onere dell’avente diritto o imprenditore decidere quali misure adottare e
come configurarle. Più sono meglio è e più sono specificamente mirate alla protezione del segreto, più
forte è la possibilità di difenderlo adeguatamente. L’imprenditore deve controllare periodicamente che le
misure di riservatezza siano rispettate, non è sufficiente solo individuarle. Esempio: ci sono stati casi in
cui, a fronte di una causa a tutela del segreto, chi l’ha promossa ha perso perché è emerso che in azienda
non ci fossero password né controlli di sicurezza. In un altro caso dei piani di progetti tecnici sofisticati
erano stati archiviati e lasciati a disposizione di tutti su uno scaffale aperto in un corridoio di passaggio.
Queste ingenuità gravi possono costare molto perché, di fronte ad una situazione del genere, il giudice
riscontra la mancanza del terzo requisito e respinge la domanda a tutela del segreto.

AMBITO DI PROTEZIONE
L’art. 99 delinea l’ambito di protezione dicendo che le condotte vietate rispetto ad un segreto tutelato sono
tre: acquisizione, rivelazione a terzi e utilizzazione. In base all’art. 99, comma 1, c.p.i. “il legittimo detentore
dei segreti commerciali di cui all’art. 98 ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di acquisire,
rivelare a terzi od utilizzare, in modo abusivo, tali segreti, salvo il caso in cui essi siano stati conseguiti in
modo indipendente dal terzo”. È vietato prendere conoscenza dei segreti altrui, rivelare a terzi i segreti altrui
di cui si è in possesso, è vietato utilizzarli direttamente. Queste tre attività sono vietate se condotte in modo
abusivo e salvo il caso in cui i segreti siano conseguiti in mondo indipendente dal terzo. Nel dettaglio:
– Ipotesi di acquisizione illecita: acquisizione di un segreto commerciale compiuta “con l’accesso non
autorizzato, l’appropriazione o la copia non autorizzate di documenti, oggetti, materiali, sostanze o file
elettronici sottoposti al lecito controllo del detentore del segreto commerciale, che contengono il segreto
commerciale o dai quali il segreto commerciale può essere desunto”; oppure “con qualsiasi altra condotta
che, secondo le circostanze, è considerata contraria a leali pratiche commerciali” (art. 4, par. 2, Direttiva
UE n. 2016/943).
– Ipotesi di divulgazione o utilizzo illeciti: divulgazione o utilizzo posti in essere da una persona che “ha
acquisito il segreto commerciale illecitamente”; oppure “viola un accordo di riservatezza o qualsiasi altro
obbligo di non divulgare il segreto commerciale”; o ancora “viola un obbligo contrattuale o di altra natura
che impone limiti all’utilizzo del segreto commerciale” (art. 4, par. 3, Direttiva UE n. 2016/943). Si tratta
di casi in cui sottraggo illecitamente il segreto commerciale e lo rivelo; utilizzo il segreto illecitamente
acquisito; è anche possibile che il soggetto sia lecitamente a conoscenza del segreto commerciale (ad
esempio perché mi è stato comunicato sotto impegno di riservatezza o in forza di un obbligo contrattuale
che mi impegna a mantenere il segreto e a non sfruttare l’informazione) ma se il soggetto viola l’accordo
preso e divulga o utilizza l’informazione di cui è a conoscenza, queste attività diventano illecite. C’è una
violazione degli impegni presi e quindi un atto di scorrettezza rispetto al titolare.

La legge nell’art. 99 comma 1-bis c.p.i. estende la tutela del legittimo detentore anche all’ipotesi di condotte
dolose o colpose tenute da soggetti che non hanno direttamente sottratto il segreto ma l’hanno ottenuto da un
terzo. Infatti “l’acquisizione, l’utilizzazione o la rivelazione dei segreti commerciali di cui all’articolo 98 si
considerano illecite anche quando il soggetto al momento dell’acquisizione, dell’utilizzazione o della
rivelazione era a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a conoscenza del fatto che i
segreti commerciali erano stati ottenuti direttamente o indirettamente da un terzo che li utilizzava o rivelava
illecitamente ai sensi del comma 1”. Le condotte sono illecite non solo quando sono compiute direttamente
dal soggetto che ha acquisito/divulgato/rivelato per primo il segreto ma anche quando queste condotte sono
tenute da soggetti a valle, a cui il primo autore dell’illecito ha successivamente comunicato l’informazione

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segreta. Esempio: Tizio sottrae il segreto, lo rivela a Caio e Caio lo rivela ulteriormente o lo utilizza. Si tratta
di una acquisizione di seconda mano (seconda generazione). Anche questi casi costituiscono una violazione
con un elemento logico: ci vuole uno stato soggettivo di dolo o di colpa. Proprio perché il soggetto che ha
ricevuto l’informazione poteva non essere in grado di sapere o di accorgersi che quella informazione avesse
un’origine illecita, l’art. precisa che tali attività sono illecite ma sempre che chi le compie fosse a conoscenza
o non potesse non essere a conoscenza secondo l’ordinaria diligenza della provenienza illecita dei segreti. Si
innesta un elemento di dolo o colpa per proteggere chi, senza dolo o colpa, ha creduto di ricevere una info in
modo perfettamente lecito.

Alle stesse condizioni che vi siano dolo o colpa, ai sensi dell’art. 99 comma 1-ter c.p.i., costituiscono inoltre
un utilizzo illecito dei segreti commerciali “la produzione, l’offerta, la commercializzazione di merci
costituenti violazione, oppure l’importazione, l’esportazione o lo stoccaggio delle medesime merci quando il
soggetto che svolgeva tali condotte era a conoscenza o, secondo le circostanze, avrebbe dovuto essere a
conoscenza del fatto che i segreti commerciali erano stati utilizzati illecitamente ai sensi del comma 1”. Si
devono intendere come merci costituenti violazione “le merci delle quali la progettazione, le caratteristiche,
la funzione, la produzione o la commercializzazione beneficiano in maniera significativa dei suddetti segreti
commerciali acquisiti, utilizzati o rivelati illecitamente”. C’è una estensione della tutela anche alle attività
commerciali che riguardando prodotti costruiti in base al segreto sottratto, sempre se ci sono dopo o colpa.
Esempio: Tizio sottrae il segreto e sulla base di esso realizza una partita di prodotti che incorporano tale
segreto, vende i prodotti a Caio il quale avvia un’attività di distribuzione e commercializzazione dei prodotti
ricevuti da Tizio. In questo caso Caio non ha direttamente sottratto ed utilizzato il segreto, ma interviene
nella commercializzazione dei prodotti realizzati con il segreto. Due casistiche: Caio può essere in buona
fede e nulla gli può essere imputato oppure sapeva che i prodotti fossero fabbricati con un prodotto sottratto
illecitamente o non poteva non saperlo, allora c’è un elemento di dolo o colpa che giustifica anche l’attività
di commercializzazione dei prodotti da parte di Caio.

Va tenuta presente la precisazione finale dell’art. 99 primo comma che dice che la tutela non opera qualora i
segreti “siano stati conseguiti in modo indipendente dal terzo”. Questo è un punto importante di radicale
differenza rispetto al sistema brevettuale. Nel sistema brevettuale, per i vent’anni di protezione, qualunque
attuazione dell’idea inventiva è vietata senza il consenso del titolare anche se chi attua all’idea inventiva è
arrivato indipendentemente all’invenzione ignorando l’esistenza del brevetto. Per il segreto vale la regola
opposta: la violazione del segreto c’è solo se quel segreto è stato illecitamente sottratto da parte di qualcuno.
Deve essere stato prelevato alla fonte. Se invece un terzo arriva indipendentemente alla stessa conoscenza è
libero di sfruttarla/divulgarla e non commette alcuna violazione del segreto. Il raggiungimento indipendente
della stessa invenzione da parte di un terzo consente al terzo di sfruttare quell’informazione anche se essa è
identifica al segreto. Se un soggetto terzo, in base a proprie conoscenze, ricerche ed esperienze, giunge
autonomamente alla stessa informazione tecnica o commerciale oggetto del segreto, questo soggetto è libero
di sfruttare l’informazione ed anche di divulgarla e, nel farlo, non commette alcuna violazione del segreto.

Inoltre non vi è violazione del segreto se il terzo ottiene l’informazione mediante un’opera di reverse
engineering su prodotti di cui è legittimamente in possesso. Le operazioni di reverse engineering sono lecite:
acquisire e utilizzare il segreto attraverso un’opera di reverse engineering sul prodotto finito messo sul
mercato non costituisce violazione. Questo è un caso di acquisizione/divulgazione/rivelazione in modo non
abusivo e quindi non rientrante in sé nell’ambito di tutela.

Nei casi sopracitati la condotta non rientra nell’ambito di protezione del segreto. L’art. 5 della Direttiva UE
n. 2016/943 stabilisce alcune eccezioni alla tutela cioè ipotesi in cui è consentito acquisire, divulgare o
utilizzare senza il consenso del legittimo detentore il segreto commerciale altrui. Questi casi sarebbero in sé
una violazione ma sono esentati perché giustificati da interessi prevalenti; la filosofia di fondo è la stessa di
quello che nei brevetti è previsto dal primo comma dell’art. 68 del codice. Queste eccezioni ricorrono ove le
attività di acquisizione, divulgazione o utilizzano siano compiute:
1. Nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e d’informazione come previsto dalla Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea, compreso il rispetto della libertà e del pluralismo dei media;
2. Per rivelare una condotta scorretta, un’irregolarità o un’attività illecita, a condizione che il soggetto abbia
agito per proteggere l’interesse pubblico generale (c.d. “whistleblowing”);
3. Mediante la divulgazione dai lavoratori ai loro rappresentanti nell’ambito del legittimo esercizio delle
funzioni di questi ultimi, conformemente al diritto dell’Unione o al diritto nazionale, a condizione che la
divulgazione fosse necessaria per tale esercizio;
4. Al fine di tutelare un legittimo interesse riconosciuto dal diritto dell’Unione Europea o in alternativa dal
diritto nazionale.

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Eleonora Biffi

Il primo ed il quarto sono casi in cui ci siano, nell’esercizio dei diritti fondamentali o in specifiche norme a
tutela di interessi legittimi, delle disposizioni che consentano di utilizzare il segreto altrui. Si tratta di norme
ampie e molto generiche che si possono riempire di contenuto nel caso concreto quando si deve valutare se
l’attività compiuta è giustificata da uno di questi diritti. La seconda ipotesi ha avuto ad oggetto casi che
hanno avuto eco sulla stampa; il caso del “whistleblowing” è il caso in cui tipicamente un dipendente viene a
conoscenza di un’attività scorretta e illegale commessa dal datore di lavoro e per denunciare tale attività alle
autorità competenti è costretto a rivelare un segreto. Tipico caso è quello di un dipendente di una istituzione
finanziaria che si accorge di gravi irregolarità di gestione costituenti anche dei reati che denuncia alle autorità
competenti, ma per portare le prove rivela segreti interni dell’istituzione finanziaria relative alle transazioni
compiute. Di fronte all’esigenza dell’interesse pubblico della collettività a che attività illecite vengano punite
e represse, si ritiene che il dipendente non possa essere a sua volta punito per aver rivelato il segreto. La terza
ipotesi è quella in cui ci siano specifiche esigenze o diritti dei lavoratori (sindacali) che vanno preservati.

N.B. Il legislatore italiano non ha inserito queste eccezioni nel c.p.i., in occasione della riforma del 2018
dell’attuazione della direttiva in Italia, in quanto ha ritenuto che esse fossero già previste e garantite da altre
norme dell’ordinamento nazionale italiano: in particolare dalla Costituzione e dalle norme a tutela dei diritti
fondamentali (punti 1 e 4); dallo Statuto dei Lavoratori e dalle norme a tutela dei diritti sindacali (punto 3); e
dalla legge 30 novembre 2017, n. 179 sul whistleblowing (punto 2).

CONFRONTO TRA TUTELA DEL SEGRETO E TUTELA BREVETTUALE


Si fa riferimento ad ipotesi in cui vi è la possibilità di ricorrere ad entrambe le tutele e si deve compiere una
scelta tra le due. La scelta del brevetto esclude la tutela del segreto perché col brevetto l’informazione viene
rivelata. Teoricamente un’informazione segreta che non entra a far parte dello stato della tecnica può ancora
essere brevettata, ma c’è anche il rischio che sia poi brevettata da un altro (disciplina del preuso). In sintesi:
– Il segreto commerciale può essere una scelta appetibile per chi non vuole sostenere o non ha disponibilità
per sostenere particolari costi iniziali; il segreto non è soggetto a delle procedure di registrazione o di
brevettazione e conseguentemente non comporta costi di procedura per acquisire la tutela (es. per le start
up può essere una tutela attrattiva perché c’è un risparmio dei costi). Non è “a tempo”, non ha un limite
temporale: dura fino a quando dura il segreto. È una scommessa perché non si sa fino a quando lo si riesce
a preservare, ma può durare oltre i vent’anni previsti per il brevetto. Per essere mantenuto richiede però
investimenti consistenti in misure di segretezza; il risparmio di costi dato dalla mancanza di una procedura
di registrazione all’inizio può essere controbilanciato dai costi che è necessario sostenere per le misure di
segretezza. Se protetto in misura eccessiva, può anche rappresentare un blocco all’innovazione; può avere
effetti anti-competitivi perché vi è anche la situazione in cui una sovraprotezione del segreto limita il
fisiologico fenomeno di caduta in pubblico dominio della rivelazione dell’innovazione.
– Il brevetto ha una tutela più forte perché, durante i vent’anni di tutela, l’invenzione coperta dal brevetto è
protetta rispetto a qualsiasi trovato che interferisca con la stessa, anche se frutto di una autonoma
elaborazione o di un processo di reverse engineering. Il processo di reverse engineering ha un rilievo più
limitato perché si presuppone che l’idea inventiva sia già rivelata nella domanda di brevetto. Qualunque
sfruttamento può quindi essere bloccato. Il brevetto ha dei requisiti di tutela più stringenti perché è più
difficile arrivare al livello di novità e attività inventiva richiesto, ma gode di una protezione più forte e più
certa. La protezione non è circoscritta e non è aleatoria. Inoltre comporta il pagamento delle tasse di
brevettazione e di mantenimento, ma non comporta i costi legati a mantenere in funzione le misure di
riservatezza.

Sulla base di questi pro e contro si devono orientare le scelte di tutela dell’imprenditore. Per imprese che
hanno bassi finanziamenti o disponibilità in partenza può essere necessario, almeno nelle prime fasi della
ricerca, ricorre alla tutela del segreto; non ha senso ricorrere alla tutela del segreto se invece si sa che il
reverse engineering è possibile (es. prodotti della meccanica facilmente smontabili) perché altrimenti ci si fa
un “autogol”. D’altro canto, se si sa che l’innovazione non ha una prospettiva di utilità economica di lungo
periodo (es. informatica o tecnologie con tasso di obsolescenza elevato) può non avere senso sostenere le
procedure di una tutela brevettuale ma può essere preferibile la strada della tutela del segreto. Bisogna quindi
tenere conto di tutte le variabili: costi, gestione dei costi, durata di vita utile da un punto di vista tecnico della
innovazione, possibilità di preservare efficacemente il segreto nel tempo, soprattutto sotto il profilo del
reverse engineering. Giocando su tali variabili l’imprenditore si orienta nelle sue scelte di protezione e nulla
gli vieta di combinare sinergicamente la tutela brevettuale di un aspetto del proprio pacchetto inventivo e di
tutelare il resto con il segreto commerciale. Questa parte del diritto industriale ha una disciplina più sintetica
e semplice rispetto ai brevetti ma negli ultimi anni, anche per via dei contenziosi in giudizio, ha assunto un
rilievo molto più elevato di quanto non fosse in passato.

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Eleonora Biffi

DIRITTO D’AUTORE
OPERE PROTETTE E REQUISITI DI PROTEZIONE
La nascita storica del diritto d’autore si colloca in un settore diverso da quelli affrontati sinora. Si colloca nel
campo della protezione esclusiva delle creazioni di tipo artistico (forme d’arte). Il diritto d’autore, nella sua
prospettiva storica, si colloca su un piano diverso da quello della proprietà industriale in senso stretto. Si fa
riferimento a creazioni che non nascono con una vocazione commerciale né una destinazione all’utilizzo in
un’attività d’impresa; le creazioni artistiche non sono prive di rilievo economico (es. editoria, produzioni
musicali e cinematografiche), ma il rilievo economico viene dallo sfruttamento della creazione artistica per la
fruizione da parte del pubblico. Non si tratta dunque di creazioni o di innovazioni che vengono direttamente
usate nell’attività d’impresa e, per tale motivo, non servono a proteggere innovazioni che si collocano dentro
l’esercizio operativo dell’azienda e dei suoi piani di marketing/mercato in base ai quali opera l’imprenditore.
Il diritto d’autore ha avuto una storia particolare: pur avendo avuto storicamente la finalità di proteggere le
creazioni di tipo artistico, negli ultimi tempi (dagli anni ‘90 del secolo scorso) alla tutela del diritto d’autore
sono state aggiunte delle creazioni completamente diverse da quelle di tipo artistico tradizionalmente protette
con il diritto d’autore che hanno la caratteristica utilitaria di essere sfruttate nell’attività d’impresa. In modo
particolare si fa riferimento alla tutela del software, delle banche dati e delle opere di industrial design. Le
norme in materia di diritto d’autore a livello di disciplina italiana, proprio per la sua origine storica, non si
collocano nel c.p.i. La disciplina del diritto d’autore in Italia è tuttora contenuta in una legge a parte: la legge
22 aprile 1941 n. 633. Nel corso del tempo, per adattarla alle convenzioni internazionali e alla disciplina
dell’UE, è stata più volte modificata, integrata ed aggiornata. A livello internazionale i principi base si
trovano in una serie di convenzioni, la più antica è la Convenzione di Berna risalente al 1886. Inoltre, si
trova una disciplina base del diritto d’autore negli Accordi TRIPs del 1994. La disciplina del diritto d’autore
si trova anche in degli specifici trattati emanati in seno alla WIPO (Organizzazione Mondiale della Proprietà
Intellettuale).

OPERE PROTETTE
Analizziamo ora gli art. 1 e 2 della legge sul diritto d’autore. L’art. 1 stabilisce che sono protette, nell’ambito
del diritto d’autore, le opere dell’ingegno di carattere creativo; l’espressione opere dell’ingegno è usata dalla
legge per indicare le creazioni proteggibili con il diritto d’autore. Nel linguaggio giuridico, più precisamente
nella materia della proprietà intellettuale, l’espressione ha un significato circoscritto perché si riferisce alle
opere protette con il diritto d’autore; tali opere sono protette a condizioni di presentare un carattere creativo.
La legge procede individuando nell’art. 1 i settori in cui si possono collocare le opere proteggibili con il
diritto d’autore e, nell’art. 2, fornendo un esemplificativo di opere certamente proteggibili perché rientranti in
questi ambiti. Il primo elenco di ambiti di opere proteggibili è quello tipico del mondo dell’arte: letteratura,
musica, arti figurative (pittura, scultura e simili), architettura, teatro, cinematografia; si tratta di casi in cui
l’opera ha un’origine artistica e non è destinata ad alcun utilizzo pratico, ma è destinata a soddisfare delle
esigenze “spirituali” di godimento e fruizione dell’opera da parte del pubblico. Questo era il nucleo esclusivo
di applicazione del diritto d’autore fino a trent’anni fa. Da allora si sono poste esigenze di tutela per altri tipi
di creazioni; in particolare, per il software e le banche dati. Tali creazioni sono state inserite nella l.d.a. molto
probabilmente per esclusione: non c’erano altre branche della proprietà intellettuale che si prestassero a dare
una tutela a queste due realtà. La tutela “naturale” dei programmi per elaboratore sarebbe stata quella dei
brevetti per invenzione, senonché in essi è esclusa la brevettabilità del software; formalmente non si poteva
mettere una norma che sostenesse che il software fosse proteggibile nella disciplina brevettuale. L’unica altra
disciplina che è sembrata idonea a recepire una tutela per il software è apparsa il diritto d’autore. Le banche
dati sono raccolte di informazioni ordinatamente disposte e navigabili con sistemi di ricerca interni; la banca
dati come insieme di informazioni ricercabili e navigabili non ha in sé un carattere tecnico e non risolve un
problema tecnico; si tratta di una fonte di informazioni agevolata che non rientra nell’aria della brevettabilità.
Nella disciplina dei brevetti, tutte le creazioni che consistono in semplici presentazioni di informazioni senza
dare un contributo tecnico non sono brevettabili. Le banche dati sono un modo di raccogliere, presentare e
rendere accessibili agevolmente tramite strumenti di ricerca le informazioni desiderate. Anche per le banche
dati si è arrivati a trovare una collocazione nel diritto d’autore quale unica disciplina che, per la propria
flessibilità, si prestava ad accogliere anche questo tipo di realtà. Questo ha fatto sì che nella disciplina del
diritto d’autore (che fino a trent’anni fa era unitaria e centrata sulla protezione delle manifestazioni artistiche)
ci siano oggi due anime molto diverse: da un lato la tutela delle opere artistiche tradizionali, dall’altro la
tutela delle opere utili. Si parla di opere utili per indicare realtà come il software, le banche dati ed il design
industriale che non servono a soddisfare un puro bisogno artistico ma che hanno una utilità pratica sia per lo
svolgimento di un’attività d’impresa sia per utilizzi pratici e concreti da parte degli utenti finali. Esempio: c’è
una notevole differenza che intercorre tra l’ascolto di un brano musicale nel tempo libero semplicemente per
rilassarsi e l’utilizzo di un software per redigere un testo o per svolgere un’attività lavorativa.

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Eleonora Biffi

ELENCO DI OPERE PROTETTE


L’elenco dell’articolo 2 è una esemplificazione di opere rientranti nei campi individuati dall’art. 1. Si tratta di
un elenco esemplificativo: vi sono anche altri tipi di opere dell’ingegno che sono proteggibili perché, pur non
essendo specificamente menzionati nell’elenco, rientrano nei campi dell’articolo 1 (es. tutela dei format dei
programmi televisivi). L’art. 2 l.d.a. fa una bipartizione tra opere tradizionali e opere utili:
– Opere letterarie, drammatiche, scientifiche, didattiche, religiose;
– Opere e composizioni musicali;
– Opere coreografiche e pantomimiche;
– Opere della scultura, della pittura, dell’arte del disegno, della incisione e delle arti figurative;
– Disegni e opere dell’architettura;
– Opere cinematografiche;
– Opere fotografiche;
– Programmi per elaboratore;
– Banche di dati;
– Opere del disegno industriale.
Fino a trent’anni fa l’elenco si arrestava alle opere fotografiche e si avevano solo opere di tipo artistico. Sono
state poi aggiunte, sempre in attuazione di direttive dell’UE, le altre tre categorie. Ad inizio degli anni ‘90 c’è
stata una direttiva sul software cui ha fatto seguito l’aggiunta della categoria dei programmi per elaboratore;
un’altra direttiva a metà degli anni ‘90 era relativa alle banche dei dati; nel 1998 c’è stata una direttiva sul
disegno industriale. Man mano che il legislatore italiano attuava tali direttive inseriva questo tipo di creazioni
nell’elenco di opere proteggibili.

REQUISITI DI PROTEZIONE
Il requisito di protezione è uno: il carattere creativo. Nella materia del diritto d’autore, che ha una soglia di
accesso alla tutela abbastanza facile da raggiungere, è sufficiente che vi sia una attività creativa dell’autore
dell’opera dell’ingegno. L’opera deve essere il frutto di una scelta personale dell’autore nell’espressione di
un’idea; deve rispecchiare la personalità dell’autore. Nelle opere artistiche si fa riferimento all’atto creativo
di scrivere un romanzo con una certa trama, nell’opera musicale è la composizione di una canzone con testo
e musica. Si tratta di tutti i casi in cui l’opera deriva da uno sforzo creativo e da una scelta libera e personale
dell’autore nell’esprimere un certo concetto che l’autore vuole manifestare attraverso la composizione della
propria opera. Si parla anche di originalità e individualità dell’opera. Il carattere creativo non c’è quando
l’opera non è stata creata dall’autore ma è stata copiata o ripresa nella sua forma espressiva da un’opera
altrui (es. caso del plagio letterario) e quando non c’è margine di libertà espressiva perché c’è un solo modo
obbligato di esprimere un certo concetto (es. manuale didattico in campo chimico in cui l’autore deve
esprimere la formula di un certo composto secondo le notazioni standard per scrivere e disegnare la formula;
quello è l’unico modo di rappresentare la formula). Il carattere creativo si manifesta in una scelta libera,
indipendente e personale di espressione di un’idea o di un concetto secondo le convinzioni dell’autore
rispetto ad una pluralità di possibilità di espressione di quell’idea. Un tema discusso è se l’originalità vada
intesa in senso soggetto o oggettivo. Basta l’originalità (creazione autonoma dell’autore) o dev’esserci anche
una novità oggettiva (diversità dell’opera da altre già esistenti)? Se un soggetto compie uno sforzo creativo e
realizza un’opera sua e poi, per pura coincidenza, quest’opera è molto simile ad un’opera altrui già esistente,
c’è o non c’è carattere creativo? Si contendono il campo due tesi: l’incontro fortuito per coincidenza e quindi
doppia protezione (accento sul dato soggettivo) contro il non concedere due tutele esclusive sulla stessa
creazione da un punto di vista oggettivo. Solo per le opere del disegno industriale la legge prevede che ci
debba essere un requisito aggiuntivo: il valore artistico. Per tutte le altre opere dell’ingegno il requisito di
protezione è il carattere creativo. L’art. 9.2 dell’Accordo TRIPs fissa un principio basilare del diritto d’autore
in qualunque legislazione: il diritto d’autore protegge solamente la forma espressiva dell’opera e non anche il
contenuto e le idee; il contenuto e l’idea sono liberi, non sono appropriabili con il diritto d’autore, solo la
forma espressiva è protetta. Esempio: canzone che esprime un certo sentimento o descrive una situazione di
vita concreta; la tutela del diritto d'autore impedirà ad un altro soggetto di fare una canzone che esprima quel
sentimento o quella situazione con le stesse parole e con la stessa musica ma non vieta a nessuno di scrivere
un’altra canzone che, con una forma espressiva diversa, voglia descrivere quello stesso sentimento e quella
stessa situazione. Un altro esempio è un quadro che raffigura un certo paesaggio o un luogo di una città; sarà
vietato ai terzi realizzare un quadro che copia nelle forme espressive il primo quadro, ma non sarà vietato a
nessuno dipingere nello stesso punto un quadro con quel paesaggio o quella città con una forma espressiva
propria, personale e autonoma diversa. Nel campo della letteratura capita spesso che ci siano due romanzi
che trattano lo stesso tema, nessuno può impedire ad un altro di scrivere un romanzo sulla stessa materia ma
è vietato copiare il modo in cui il discorso è organizzato ed esposto nell’opera protetta con il diritto d’autore.
Questo ha delle conseguenze anche per quanto riguarda la tutela del software e delle banche dati, dove il

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Eleonora Biffi

fatto che la tutela sia circoscritta alla forma espressiva e non si estenda al contenuto sostanziale comporta una
serie di problemi interpretativi piuttosto rilevanti. La forma protetta è sia la forma esterna (come appare
l’opera esteriormente) sia la forma interna (trama, struttura ed organizzazione). Esempio: la forma esterna di
un manuale didattico è la precisa sequenza delle parole e delle frasi con cui l’opera è scritta, la forma interna
è la trama del tema trattato. Ad un terzo è vietato copiare parola per parola il saggio precedente, sia scrivere
un saggio con parole diverse ma che riprende la struttura e la disposizione degli argomenti del primo saggio.

FATTISPECIE COSTITUTIVA
La fattispecie costitutiva è la creazione dell’opera (art. 6 l.d.a.). Nel diritto d’autore non ci sono formalità
costitutive né registrazioni o brevettazioni. Sono previste forme di deposito e registrazione dell’opera ma non
a fini di creare il diritto esclusivo sull’opera. Dal punto di vista dell’acquisto del diritto esclusivo d’autore
non è necessaria alcuna formalità; si tratta di un diritto non titolato, sorge con la creazione dell’opera purché
l’opera sia estrinsecata in qualsiasi forma. L’opera non deve essere rimasta nella mente dell’autore, ma si
deve essere manifestata all’esterno. Se io scrivo un testo, ancora prima di pubblicarlo ho già acquisito un
diritto d'autore su tale testo nel momento in cui l’ho fissato su carta. Se io improvviso un monologo a teatro,
il solo fatto di aver recitato quel monologo anche senza averlo fissato su carta rende quel monologo un’opera
proteggibile. Basta la creazione e successiva estrinsecazione dell’opera per avere protezione. Non ci sono
formalità costitutive per l’acquisto del diritto ed il diritto sorge sempre in capo all’autore (persona fisica).
Può essere previsto per contratto che il diritto si traferisca ad un altro soggetto anche prima della creazione
(es. l’editore stipula un contratto di edizione per un’opera ancora da scrivere in cui si prevede che, come
l’opera verrà realizzata, i diritti saranno dell’editore; anche in questo caso non è un acquisto originario in
capo all’editore, il diritto sorge in capo all’autore sempre e comunque e poi si trasferisce all’altro soggetto).

OPERE FRUTTO DEL CONTRIBUTO CREATIVO DI PIÙ AUTORI


L’opera può essere realizzata con il contributo creativo di più autori come ad esempio un software realizzato
congiuntamente da più programmatori. Quattro ipotesi:
– Opere in comunione (art. 10 l.d.a.): contributo indistinguibile ed inscindibile di più persone (es. romanzo
scritto da due autori in cui non sia possibile attribuire una parte all’uno o una parte all’altro). Si dà vita ad
un regime di piena contitolarità sull’opera.
– Opere composte (art. 33-37 e 44-50 l.d.a.): contributi distinti e separabili che si uniscono e si fondono per
formare un’opera (es. canzone formata da testo e musica; opera lirica; film. Immaginiamo di acquistare
una raccolta di colonne sonore di film, in questo caso uno dei contributi creativi è stato separato dell’opera
composta ed è stato oggetto di una fruizione/vendita separata). Tale disciplina è di regola strutturata: vi è
un concorso di diritti d’autore, la legge individua quale soggetto ha il diritto di esercitare e gestire i diritti
sull’opera ed entro certi limiti si prevede la possibilità anche per il singolo autore di sfruttare il proprio
contributo autonomamente purché ciò non vada a danno dell’opera nel suo complesso. Se l’autore della
colonna sonora riciclasse la stessa colonna sonora per un altro film ci sarebbe concorrenza.
– Opere collettive (art. 3, 7.1 e 38-43 l.d.a.): riunione di più opere autonome quale risultato di un’attività di
scelta e coordinamento (es. enciclopedia, rivista, giornale). C’è una raccolta di opere autonome che sono
riunite in una sorta di “contenitore”; i singoli articoli sono riuniti in modo organico in un giornale. Vi è
una sorta di doppio binario per cui i diritti sull’opera collettiva nel suo insieme spettano a chi ha promosso
e organizzato la raccolta ed i singoli autori conservano il diritto sui propri contributi, salvo patto contrario.
L’editore dell’enciclopedia avrà i diritti per la vendita dell’enciclopedia come volume, ma il singolo autore
della voce conserva il diritto di utilizzare anche in altri contesti il suo specifico contributo.
– Opere derivate (art. 4, 7.2 e 18 l.d.a.): elaborazioni creative di un’opera precedente (es. trasformazione di
un romanzo in un film o in un’opera teatrale, traduzione di un testo). Le prime tre ipotesi sono casi in cui i
contributi creativi di soggetti diversi si fondono nello stesso momento nel dare vita ad un’opera nella
quale concorrono simultaneamente questi contributi. Il quarto caso ha invece uno sviluppo temporale: c’è
già un’opera precedentemente compita che viene ripresa ed elaborata in modo creativo per ricavarne
un’opera derivata. Il risultato dello sviluppo dell’opera precedente porta ad un’opera derivata nella quale
si troveranno insieme sia il contributo creativo del primo autore, sia quello del secondo. Non c’è fin
dall’inizio il concorrere simultaneo di contributi creativi, ma c’è un accrescimento nel tempo di contributi
creativi diversi. Esempio: opera teatrale che vede fuso il contributo creativo dell’autore che ha creato
trama e personaggi con quello di chi ha trasformato il romanzo in un’opera teatrale. Dal momento che
l’opera derivata riprende i contributi creativi del primo autore, per lo sfruttamento della stessa occorre il
consenso del titolare dei diritti dell’opera di partenza. Quando viene tratto un film da un’opera letteraria o
da un romanzo, bisogna acquisire il consenso del titolare dei diritti d’autore sul romanzo che tipicamente
avviene dietro corrispettivi che possono essere anche elevati e che coprono anche obblighi ulteriori ed
accessori come ad esempio il fatto che l’autore del romanzo possa partecipare alla realizzazione del film
ed imporre certe scelte o opporsi a certe modificazioni della sua opera.

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Eleonora Biffi

CONTENUTO DEL DIRITTO D’AUTORE – DIRITTO PATRIMONIALE


Si fa riferimento ai diritti esclusivi attribuiti al titolare di un diritto d’autore. Tale sfera esclusiva riservata al
titolare è l’ambito di tutela: ambito entro il quale il titolare del diritto d’autore può vietare a terzi forme di
sfruttamento dell’opera. Esistono anche diritti di ordine morale connessi alla personalità dell’autore e che
tutelano l’aspetto morale della estrinsecazione nell’opera dell’ingegno, dell’identità e del patrimonio di idee,
convinzioni e opinioni che l’autore manifesta nella propria opera. Il diritto patrimoniale si ramifica in una
serie di tante diverse facoltà esclusive riservate al titolare del diritto d’autore e accumunate da una serie di
regole generali valide per tutti i diritti patrimoniali dell’autore.

REGOLE GENERALI
L’art. 12.2 l.d.a. fissa il principio o contenuto generale: l’autore di un’opera dell’ingegno ha il diritto
esclusivo di utilizzare economicamente la sua opera in ogni forma e modo. Il concetto generale è che ogni
attività di utilizzo o di sfruttamento dell’opera protetta idoneo a generare un profitto è riservato in esclusiva
al titolare. Dobbiamo distinguere tra utilizzo dell’opera e utilizzo economico.
– Nel linguaggio comune l’utilizzazione dell’opera dell’ingegno potrebbe significare più cose diverse come
ad esempio sfruttare genericamente l’opera portandola a contatto con il pubblico, potrebbe significare
utilizzare l’opera nel senso godere dell’opera (es. leggere un libro, ascoltare la musica, vedere un quadro).
Nel caso del diritto d’autore dobbiamo circoscrivere il concetto di utilizzo alle attività che permettono ai
terzi la fruizione dell’opera, cioè attività che fanno circolare l’opera e che la portano a contatto con terzi
utenti che poi saranno i soggetti che materialmente trarranno dall’opera le utilità ed i vantaggi che l’opera
può offrire. Tali utilità variano a seconda dell’opera (es. nel caso di un’opera d’arte il vantaggio che si può
trarre attiene al mondo puramente spirituale e personale dell’utente che soddisfa un’esigenza estetica).
L’utilizzo riservato al titolare non è il godimento finale dell’opera, si ha bensì quando il titolare è l’unico a
poter decidere in che modo, come e a quale prezzo far circolare la propria opera. Il titolare potrà vietare ai
terzi di riprodurre, di copiare l’opera, di distribuirla, comunicarla ad altri fruitori, ma una volta che l’opera
però è stata distribuita dal titolare non ci può essere un controllo del titolare sulle attività di godimento
dell’opera lecitamente acquisita e quindi il titolare non potrà esercitare un diritto sulle scelte dei terzi. Gli
utilizzi riservati al titolare e quindi l’oggetto delle facoltà esclusive sono forme di sfruttamento dell’opera
intese come attività che portano l’opera a contatto con un pubblico destinatario o che sono atte a creare
questo contatto con il pubblico destinatario.
– La legge precisa poi l’utilizzo economico perché tipicamente le attività imprenditoriali e commerciali
relative allo sfruttamento del diritto d’autore sono a titolo oneroso, cioè solitamente sono svolte a fronte di
un corrispettivo che deve essere pagato dall’utente finale. Il corrispettivo pagato per l’acquisto di un libro
o di un disco copre in parte anche i diritti d’autore: si paga per avere dal titolare la possibilità di acquisire
l'esemplare dell'opera. Utilizzo economico si deve intendere come qualunque attività di distribuzione e
diffusione dell’opera idonea a creare un profitto per il titolare. Qualunque attività idonea a creare profitto è
riservata al titolare.

Non costituiscono un “utilizzo” dell’opera e sono in ogni caso leciti il godimento e la fruizione personali
dell’opera (lettura di un libro, ascolto di una musica). D’altro canto le attività di riproduzione, distribuzione,
comunicazione e così via che costituiscono “utilizzo” sono vietate anche se compiute dai terzi senza alcuno
scopo di lucro.

N.B. “Attività idonea a creare un profitto” non va confusa con l’espressione “A scopo di lucro”. Se un
soggetto distribuisce copie o duplica un file contenente un’opera protetta, mettendo a disposizione di tutti
quest’opera su Internet gratuitamente, questa non è un’attività con scopo di lucro ma è un’attività idonea a
creare profitto per il titolare. Se questa attività non fosse stata compiuta e fosse stato il titolare a svolgerla,
per quell’attività il titolare avrebbe chiesto e ottenuto un compenso. Quando si dice che l’utilizzo che può
costituire violazione del diritto d’autore è un utilizzo economico non si intende solo che è contraffazione del
diritto d’autore l’utilizzo dell’opera protetta senza il consenso del titolare a scopo di lucro, ma significa che è
vietato un utilizzo dell’opera che al titolare avrebbe potuto generare un profitto ma che non lo ha generato
proprio perché l’opera senza il suo consenso è stata messa a disposizione gratuitamente in rete. La violazione
del diritto d’autore si può avere anche per attività svolte in ambito privato. Con le moderne tecnologie vi
possono essere violazioni massive dei diritti d’autore anche nella sfera privata (es. duplicazione di un file
digitale con opere protette e diffusione su Internet. Questo vale anche per tutte le attività che vengono svolte
su Internet: streaming di film o eventi sportivi su piattaforme illecite, download di libri o di canzoni. Sono
tutte attività svolte da privati che non hanno uno scopo di lucro ma che danneggiano il titolare e quindi sono
inserite nell’area della contraffazione). Determinate attività sono violazione anche se svolte in ambito privato
e anche se non tenute a fini di lucro. Per i brevetti invece abbiamo visto che non è così e non sarà così per i
marchi.

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SINGOLI DIRITTI ESCLUSIVI


Possono essere suddivisi in quattro tipologie:
– Diritto di prima pubblicazione dell’opera (art. 12, commi 1 e 3, l.d.a.). È il diritto primo e preliminare
dell’autore, il diritto da cui tutti gli altri dipendono ossia il diritto di prima pubblicazione dell’opera. Il
titolare è l’unico a poter decidere della prima messa a disposizione dell’opera con la sua accessibilità da
parte del pubblico in qualunque modo (es. stampa, esecuzione, rappresentazione, diffusione, ecc). L’autore
dell’opera ha come primo fondamentale diritto quello di decidere se pubblicarla oppure no. Se il titolare,
dopo aver creato l’opera, decide di non mostrarla a nessuno è suo pieno ed esclusivo diritto farlo. Fino a
che il titolare non decide di far uscire l’opera dalla propria sfera personale l’opera non può lecitamente
circolare. È importante non confondere questo con il concetto di estrinsecazione dell’opera che invece
vuol dire che l’opera non deve rimanere nella mente dell’autore ma si deve estrinsecare. L’estrinsecazione
intesa come manifestazione all’esterno dell’opera è diversa rispetto alla messa a disposizione del pubblico
dell’opera che viene stampata e pubblicata.
– Diritti di riproduzione e di distribuzione dell’opera (art. 13, 14, 17 e 18 bis l.d.a.): riguardano il canale di
distribuzione consistente nel realizzare copie ed esemplari dell’opera per poi vendere tali esemplari.
– Diritti di comunicazione dell’opera (art. 15, 15 bis, 16, 16 bis l.d.a.): riguardano il portare l’opera a
contatto con i terzi che ne possono godere ma senza acquistare una copia dell’opera su un certo supporto
(es. se il testo dell’opera teatrale viene stampato e venduto in libreria questo è un caso di produzione e di
distribuzione, se un soggetto invece va a teatro e assiste alla messa in scena dell’opera questo è un diritto
di comunicazione).
– Diritti di elaborazione dell’opera (art. 18 l.d.a.): diritti di svolgere attività di sviluppo, di elaborazione
ulteriore, di apporto creativo ad un’opera già esistente per realizzarne una nuova che tuttavia continua a
mantenere elementi creativi della prima.

Bisogna ricordare due regole fondamentali contenute nell’art. 19 l.d.a. relative al rapporto tra i singoli diritti
esclusivi e a come i diritti esclusivi si atteggiano in relazione a parti dell’opera.
– Principio di indipendenza: ogni diritto può essere esercitato separatamente ed il titolare può disporre una
autorizzazione ad una forma di sfruttamento dell’opera senza dover necessariamente disporre anche degli
altri diritti esclusivi. I singoli diritti esclusivi sono un fascio di facoltà esclusive attribuite al titolare, ma il
titolare può decidere quali di queste facoltà esercitare e su quali dare l’autorizzazione allo sfruttamento
economico. Il titolare che ha autorizzato solo la riproduzione dell’opera può vietare altri utilizzi, il titolare
che ha autorizzato solo la messa in scena dell’opera in teatro può vietare la realizzazione di un filmato e la
sua trasmissione in televisione. Questo è un punto importante che assume anche una rilevanza pratica nei
contratti relativi allo sfruttamento dei diritti d’autore: se attraverso un atto negoziale (contratto) il titolare
dispone di alcuni diritti ma non di altri, gli altri diritti rimangono a lui riservati. Esempio: un titolare ha
scritto un’opera teatrale ma per ragioni sue non vuole che venga messa in scena ma vuole solo che venga
stampata e venduta in libreria, se un terzo senza l’autorizzazione del titolare la mette in scena in teatro
commette una violazione in quanto il titolare ha autorizzato solo la pubblicazione e non la messa in scena.
– Se il terzo compie una delle attività riservate al titolare non sull’opera completa nel suo insieme ma solo
su una parte, l’art. 19.2 dice che anche il tenere una condotta riservata al titolare su una parte dell’opera
dell’ingegno può costituire violazione a patto che quel frammento dell’opera abbia in sé carattere creativo,
cioè che vi sia aspetto creativo (presupposto per aversi diritto d’autore) riferibile anche a quella parte da
sola. Esempio: immaginiamo che l’autore pubblichi un romanzo con dieci capitoli ed un terzo copia due
capitoli interi, il terzo non potrà giustificarsi dicendo di non aver copiato l’intero romanzo ma solo due
capitoli perché anche due capitoli in sé costituiscono una manifestazione del carattere creativo dell’autore.
Se il terzo dovesse copiare solo una frase o due tre parole non si può dire che in quelle poche parole vi sia
un carattere creativo, il riprendere quelle parole che in sé non hanno carattere creativo può essere essere
ritenuto perfettamente lecito. Il criterio di scelta non è quantitativo ma qualitativo sul carattere creativo. Ci
sono anche frasi di poche parole (es. componimento di tipo poetico) per cui una brevissima frase ha in sé
la capacità di esprimere la personalità dell’autore e quindi essere proteggibile. Il criterio è la presenza nel
frammento di uno specifico e autonomo carattere creativo.

DIRITTO DI RIPRODUZIONE
Il diritto di riproduzione (art. 13 l.d.a.) è quel diritto che riserva in esclusiva al titolare la moltiplicazione
dell’opera in copie. La moltiplicazione è la fissazione dell’opera su qualunque supporto materiale, ma ormai
può intendersi per tale anche il file multimediale. Il diritto di riproduzione è storicamente uno dei primi diritti
ad affermarsi nella legislazione della tutela dei diritti d’autore. L’espressione inglese per indicare il diritto
d’autore è copyright per rimarcare il fatto che storicamente tale diritto è nato con la prerogativa di riservare
la moltiplicazione in copia dell’opera.

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La riproduzione dell’opera è riservata al titolare in tutto e in parte, può essere una riproduzione diretta
quando si prende fisicamente un esemplare dell’opera e lo si copia oppure indiretta quando, ad esempio,
viene diffusa una musica per radio e si registra a distanza l’opera trasmessa da una fonte non vicina.

La riproduzione è riservata al titolare in qualunque modo o forma. Il diritto di riproduzione copre qualunque
modalità di realizzazione della copia su ogni tipo di supporto (es. cartaceo, CD, file digitale). Copre anche la
riproduzione dell’opera in una forma espressiva diversa da quella originale; qui l’opera in sé non viene
modificata, non si tratta di un problema di elaborazione dell’opera primaria, ma viene copiata attraverso una
forma espressiva che non è quella originale dell’autore (es. riproduzione fotografica di un quadro o di una
scultura; riproduzione in un quadro di un’opera fotografica). Se un soggetto vuole vendere un libro con delle
fotografie dei quadri di un certo autore non lo può fare senza il consenso del titolare.

La legge precisa che la riproduzione può essere permanente o temporanea ed entrambi i tipi di riproduzione
sono riservati al titolare. La riproduzione permanente è la fissazione stabile dell’opera su un supporto. La
riproduzione temporanea è una conseguenza della moderna tecnologia e del passaggio dal mondo reale al
mondo virtuale digitale nel quale è noto, anche per ragioni tecniche, che la fissazione dell’opera ed il crearsi
di una copia digitale dell’opera è talvolta puramente effimero. L’opera è per motivi tecnici destinata a non
durare (es. copia che viene scaricata e visualizzata su un computer o su un server ma non viene memorizzata
stabilmente; copie transitorie che si creano nella trasmissione dell’opera su Internet). Perché vi sia una
riproduzione temporanea occorre che, proprio per sue intrinseche caratteristiche, l’opera non possa durare.
Questo vuol dire che, se la cancellazione dell’opera è rimessa ad una scelta dell’utente, la riproduzione è
come permanente perché senza la cancellazione dell’utente la copia sarebbe conservata. Il temporaneo non
va intenso nel senso di breve durata; una copia potrebbe ad esempio essere stabile ma non diventa però
temporanea per il fatto che l’utente la cancelli in tempi rapidi. È possibile parlare di riproduzione temporanea
solo quando si tratta di una copia che intrinsecamente e per caratteristiche proprie è destinata a durare per un
lasso breve di tempo e poi sparisce. Perché importante distinguere tra copia temporanea e copia permanente?
Perché, mentre la copia permanente è tendenzialmente sempre riservata al titolare, per la copia temporanea
sono previste dalla legge dei casi in cui la copia temporanea è lecita e non costituisce violazione del diritto
d’autore. Questo perché vi possono essere dei casi in cui il generarsi di una copia temporanea dell’opera è
dovuto a ragioni tecniche inevitabili come nel caso della vendita dell’opera su Internet che passa dall’upload
al download e nel passaggio in rete possono generarsi delle copie transitorie dell’opera per motivi tecnici di
trasmissione oppure possono verificarsi nel momento del download (nel momento in cui il destinatario
visualizza l’opera nel suo computer si possono creare copie tecniche temporanee che sono inevitabili per
poter fruire dell’opera). Il punto problematico è dato dal fatto che vi possono essere delle copie temporanee
necessitate e collegate a transazioni lecite relative all’opera che sarebbe insensato e contraddittorio vietare.
Se l’autore decide di vendere la propria opera su Internet e un terzo soggetto la acquista, è assurdo che il
titolare vieti la copia che inevitabilmente si crea nei passaggi tecnici che permettono all’utente finale di
acquisire la copia lecitamente acquistata.

Questo si traduce nella disposizione prevista nelle norme dell’UE e in Italia dall’art. 68 bis l.d.a. secondo cui
determinati atti di riproduzione temporanea non sono riservati al titolare e non costituiscono violazione dei
diritti esclusivi. La linea di fondo è quella di non consentire illogicamente al titolare di porre un veto su copie
transitorie effimere necessitate e collegate ad una legittima transazione commerciale su internet. In relazione
a questa ipotesi la Corte di Giustizia dell’UE ha preso delle decisioni. “Sono esentati gli atti di riproduzione
temporanea privi di rilievo economico proprio (non atti a generare profitto), che sono transitori o accessori e
parte integrante ed essenziale di un procedimento tecnologico di trasmissione di file, eseguiti all’unico scopo
di consentire la trasmissione in rete tra terzi con l’intervento di un intermediario, o un utilizzo legittimo di
un’opera o di altri materiali”. Si tratta di requisiti che devono ricorrere congiuntamente; non solo devono
essere temporanei, devono collegarsi in modo indissolubile ad un procedimento tecnologico di trasmissione
di file, non devono avere rilevo economico e devono essere puramente strumentali alla trasmissione legittima
in rete o ad un utilizzo legittimo dell’opera.

Accanto a questa disciplina si collocano le norme sulla responsabilità degli Internet service provider, cioè dei
soggetti che forniscono i servizi di rete che permettono il passaggio di opere. A certe condizioni di eventuali
violazioni del diritto d’autore commesse in rete possono rispondere anche i fornitori di servizi, cioè i soggetti
che mettono a disposizione le reti e le piattaforme per effettuare tali operazioni. Determinate regole erano
contenute nella vecchia Direttiva CE n. 2000/31 mentre altre sono state recentemente inserite nella Direttiva
UE n. 2019/790 che deve essere ancora attuata in Italia. La direttiva del 2000 prevedeva alcune aree ampie di
esenzione da responsabilità dell’Internet service provider, mentre quella più recente ha abbastanza ristretto
l’area di esenzione da responsabilità degli Internet service provider nel caso di violazione dei diritti d’autore.

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Un corollario del diritto di riproduzione si ritrova nell’art. 14 l.d.a., è il diritto di trascrizione dell’opera. È il
caso particolare di trasformazione dell’opera orale in opera scritta o, in generale, fissazione dell’opera orale
su un supporto. È una specifica del diritto di riproduzione. Esempio: monologo recitato a teatro che viene
trascritto o registrato e fissato su un file audio.

Bisogna ricordare infine la disciplina della copia privata. Il diritto d’autore copre anche attività tenute in
ambito privato. La copia fatta in ambito privato di materiali protetti dal diritto d’autore è una violazione del
diritto esclusivo. Questo ha fatto sì che si introducessero deroghe e temperamenti alla regola per evitare che
qualunque tipo di copia privata potesse dare luogo ad un atto di contraffazione e quindi un attacco a chi abbia
realizzato la copia. L’art. 68.1 detta una norma che è abbastanza superata dalla tecnologia: se il privato fa una
copia per uso personale al fine di lettura dell’opera (opere letterarie o testi scritti), realizza tale copia a mano
o con mezzi di riproduzione che non rendono idonea la diffusione dell’opera nel pubblico la copia privata è
lecita. Si tratta di ipotesi ormai arcaiche e superate perché non succede più che un soggetto trascriva a mano
l’opera, ma qualora una copia privata e personale di questo tipo venisse fatta non costituirebbe violazione del
diritto d’autore. Inoltre è prevista nella legge sul diritto d’autore la possibilità di realizzare, sempre per uso
personale del soggetto, fotocopie di opere o copie di fonogrammi o videogrammi, ma con un compenso al
titolare del diritto (art. 68, 71-sexies, 71-septies, 71-octies l.d.a.). Nel concetto di copia privata rientrano due
ipotesi nelle quali il risultato finale è sempre quello di rendere lecita la copia privata personale dell’utente
finale, ma che hanno un regime giuridico molto differente; nella prima ipotesi la copia è assolutamente libera
e nulla è dovuto al titolare, nella seconda ipotesi invece (fotocopie entro un certo limite o copie private di file
audio/video) la copia è libera ma il titolare ha diritto ad un compenso. La copia si può fare ma non è del tutto
libera e gratuita; il titolare non può vietare che la copia personale venga fatta, ma ha il diritto di esigere un
compenso ogni volta che si fanno fotocopie. Proprio perché e impossibile esigere dal privato il compenso al
titolare, la legge ha previsto un sistema di prelievo. È previsto dalla legge che, nei proventi del centro di
fotocopiatura o di chi vende materiale atto alla registrazione e alla duplicazione dei file, sia contenuta una
percentuale che deve essere trattenuta e versata al titolare del diritto d’autore. Anche se l’utente finale non se
ne rende conto nell’esperienza quotidiana, una parte di quello che l’utente finale paga per l’acquisto dei
dispositivi o per il servizio di fotocopiatura viene prelevata e trattenuta da chi riceve il pagamento e deve
essere versata a soddisfazione dei titolari dei diritti d’autore; è il sistema del prelievo: non si chiede un
prelievo all’utente finale bensì all’operatore commerciale. Questa categoria è stata chiamata copia privata
con il sistema della libertà pagante perché si è liberi di farlo ma qualcosa dev’essere pagato al titolare del
diritto d’autore.

DIRITTO DI DISTRIBUZIONE
Il diritto di distribuzione riguarda la facoltà esclusiva del titolare di mettere in commercio o in circolazione, o
comunque a disposizione del pubblico, l’originale o gli esemplari dell’opera (art. 17 l.d.a.). Tale diritto si
collega, pur restandone distinto, al diritto di riproduzione; le copie realizzate vengono messe sul mercato e
vendute. In base al principio di indipendenza, un’autorizzazione del titolare relativa ad uno di due diritti non
implica necessariamente anche l’altro. Siamo sempre nell’ambito della categoria di diritti esclusivi attinenti a
realizzazione e vendita di copie dell’opera. Si tratta di diritti relativi a modalità di fruizione dell’opera da
parte del pubblico consistenti nell’acquisire un esemplare dell’opera e nell’utilizzarlo secondo destinazione
propria. L’utente che acquista l’esemplare dell’opera acquista anche la proprietà materiale del supporto e la
possibilità di godere legittimamente dell’opera, ma non acquista i diritti d’autore. Questa è una distinzione
storica del diritto d’autore tra diritti d’autore sull’opera in sé e diritti di proprietà sui singoli supporti in cui
l’opera viene fissata. Tale distinzione viene chiamata distinzione tra corpus mysticum e corpus mechanicum.
La prima è l’opera protetta dal diritto d’autore, la creazione intellettuale che rimane di titolarità dell’autore;
la seconda è il supporto fisico o digitale su cui l’opera viene fissata. La proprietà del supporto passa a chi lo
acquista, ma chi lo acquista non acquista al tempo stesso i diritti d’autore. Nel campo del software chi
acquista una copia del software non acquista i diritti d’autore sul software che invece restano in capo al
titolare originario.

Anche qui opera il principio di esaurimento del diritto: il titolare non può impedire, a meno che non ricorrano
motivi legittimi, l’ulteriore circolazione degli esemplari dell’opera messi in commercio all’interno dell’UE
dal titolare stesso o con il suo consenso. Come per tutti i diritti di proprietà intellettuale, l’esaurimento opera
solo per gli specifici esemplari dell’opera che sono messi legittimamente in commercio e solo per il diritto di
distribuzione (gli altri diritti esclusivi non sono soggetti a esaurimento). Nel momento in cui viene esercitato
dal titolare il diritto, i singoli esemplari possono essere liberamente rivenduti da quel momento in poi. Anche
in questo caso vale la regola della liceità delle importazioni parallele, sempre che non ricorrano motivi
legittimi di opposizione. Nel diritto d’autore l’esaurimento opera solo per il diritto di distribuzione; non c’è
esaurimento per gli altri diritti. Il diritto di distribuzione indica che la proprietà di un esemplare passa dal

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titolare o soggetto venditore al soggetto che acquista la copia. Un soggetto autorizzato a fare copie dell’opera
non le può vendere perché il diritto di riproduzione non comporta esaurimento e quindi non comporta la
facoltà di vendere l’opera. L’esaurimento in relazione al diritto di distribuzione fa sì che io possa liberamente
rivendere la copia acquistata, ma non che io la possa copiare. Se io ad esempio compro legittimamente un
esemplare di un libro posso rivendere la copia sul mercato dell’usato, non posso duplicarla perché si è
esaurito il diritto di distribuzione ma non quello di riproduzione; anche se la copia è legittima, al di fuori
delle ipotesi della lecita copia privata, commetto una violazione. Non vi è esaurimento in relazione agli altri
diritti esclusivi che non comportano esaurimento e non danno diritto di acquisire e rivendere una copia.

DIRITTI DI NOLEGGIO E DI PRESTITO


Nel caso del noleggio e del prestito la proprietà della copia dell’opera non viene trasferita all’utente, nel caso
dei diritti di distribuzione viene venduta la copia. Nel caso del noleggio e del prestito viene data la facoltà al
terzo (utente finale) di usufruire della copia per un certo periodo di tempo ma poi la copia deve essere
restituita; non c’è un passaggio di proprietà e di conseguenza non si può venderla.
– Noleggio: cessione in uso delle opere per un tempo limitato al fine di ottenere un beneficio economico o
commerciale (art. 18 bis, comma 1, l.d.a.).
– Prestito: cessione in uso delle opere per un periodo di tempo limitato senza finalità di benefici economici
o commerciali (art. 18 bis, comma 2, l.d.a.). Coperto dal diritto esclusivo solo il prestito fatto da istituzioni
aperte al pubblico; libero il prestito tra privati. Liberi anche, alle condizioni previste dall’art. 69 l.d.a.,
alcuni prestiti effettuati da biblioteche e discoteche dello Stato e di enti pubblici con esclusive finalità di
promozione culturale e di studio personale.

Noleggio e prestito hanno un elemento comune e uno di diversità; l'elemento comune è che, in entrambi i
casi, l’opera viene ceduta in uso (è consentito l’uso dell’opera per un periodo di tempo limitato al termine del
quale l’opera deve essere restituiva), la differenza consiste nel fatto che nel caso del noleggio la concessione
in uso avviene a fronte di un beneficio economico commerciale (ci deve essere una controprestazione di chi
prende l’opera a noleggio come il pagamento di una somma di denaro o un corrispettivo di altro tipo). La
concessione in uso avviene gratuitamente, senza finalità di benefici economici o commerciali. La differenza
è che il noleggio è a titolo oneroso e prevede un corrispettivo, il prestito è a titolo gratuito e non prevede un
corrispettivo. Per questo motivo si è circoscritto il diritto di prestito per non estenderlo fino al semplice
prestito gratuito dell’opera tra privati (es. soggetto che acquista una copia di un romanzo e presta la copia ad
un suo amico gratuitamente). Si tratta di attività che privano il titolare di un guadagno ma, vista la loro
portata limitata, in questo caso sono tollerate. Naturalmente non è possibile fotocopiare l’intero libro e poi
passare la copia ad un proprio amico perché questo è un atto di riproduzione vietato che non è neanche
coperto dall’esenzione di copia privata sia perché la libera fotocopia ha limiti quantitativi, sia perché non è
una copia per uso personale. Il prestito gratuito viene circoscritto ad ipotesi di prestiti fatti da istituzioni
aperte al pubblico; in buona sostanza la possibilità del titolare di controllare le attività di prestito è più
circoscritta perché il titolare può esercitare il proprio diritto solo in relazione a prestiti fatti da istituzioni
aperte al pubblico. Vi è poi un’ulteriore ipotesi di prestito lecito anche senza il consenso del titolare per certe
raccolte ufficiali di libri e dischi che lo Stato o enti pubblici mettono a disposizione con fini di promozione
culturale, di studio e via dicendo.

N.B. Mentre nelle norme generali sul diritto d’autore sono tenuti distinti il diritto di distribuzione (vendita e
passaggio di proprietà) ed i diritti di noleggio e prestito (autorizzazione all’uso ma senza alcun passaggio di
proprietà), nella disciplina speciale del software viene utilizzato il termine “distribuzione” per indicare
complessivamente tutte le ipotesi di vendita, noleggio e prestito. La regola dell’esaurimento si applica solo
quando viene venduta la copia e c’è un passaggio di proprietà. A livello terminologico tale espressione viene
intesa in senso stretto nel diritto generale e in senso lato nel diritto del software.

DIRITTI DI RAPPRESENTAZIONE, DI ESECUZIONE E DI RECITAZIONE


Si tratta di atti con i quali l’opera viene comunicata al pubblico senza che esso acquisti, a titolo definitivo o
temporaneo, la disponibilità di un esemplare dell’opera. La comunicazione si divide tra: comunicazione a un
pubblico presente (art. 15 l.d.a.) e comunicazione ad un pubblico distante (art. 16 l.d.a.). La differenza tra il
pubblico presente e quello distante è data dal fatto che, nel caso di comunicazione ad un pubblico presente il
pubblico si trova nello stesso luogo in cui viene svolta l’attività di comunicazione; nel caso del pubblico
distante, il pubblico si trova in un luogo diverso da quello in cui l’attività di comunicazione viene svolta.

Le ipotesi di comunicazione ad un pubblico presente menzionate dall’art. 15 sono:


– Rappresentazione: quando vi è azione scenica e quindi messa in scena dell’opera (es. opera rappresentata
in teatro, danza);

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– Esecuzione: esecuzione musicale senza azione scenica (es. concerto);


– Recitazione: dizione di un’opera senza azione scenica (es. lettura in pubblico di poesie o di pagine di un
romanzo).

Si tratta di ipotesi in cui l’artista è presente dal vivo, ma si considera una comunicazione al pubblico presente
anche l’ipotesi in cui delle registrazioni sono proiettate o ascoltate quando il pubblico si trova nello stesso
luogo in cui avviene la comunicazione (es. ascolto di un disco in un bar o proiezione di un film al cinema).
Diverso è il caso in cui il pubblico vede un film in televisione o ascolta un disco per radio. In questo caso si
tratta di pubblico distante perché il pubblico non si trova nello stesso luogo in cui la trasmissione viene
diffusa. A differenza di quanto avviene per il diritto di riproduzione, le attività di rappresentazione, di
recitazione ed esecuzione ad un pubblico presente sono riservate al titolare solo se avvengono in pubblico,
cioè quando c’è un pubblico di soggetti non legati al titolare e alle persone che eseguono l’opera; tali persone
possono accedere al luogo in cui l’opera viene comunicata. Non si reputano pubbliche forme di
comunicazione ad un pubblico presente all’interno di una famiglia, scuola, istituto di ricovero, casa di cura,
ospedale, ecc. Si tratta di forme di comunicazione a chi si trova in una cerchia chiusa, sempre che queste
forme di comunicazione non abbiamo scopo du lucro. Se hanno scopo di lucro, a condizione che non abbiano
questo scopo di lucro, sono lecite. In sintesi: rappresentazione, esecuzione e recitazione sono riservate al
titolare solo se avvengono in pubblico (differenza dal diritto di riproduzione che copre anche le attività svolte
in ambito privato). Non avvengono in pubblico se hanno luogo “nella cerchia ordinaria della famiglia, del
convitto, della scuola o dell’istituto di ricovero” e non hanno scopo di lucro (art. 15.2 l.d.a.).

Si completa l’art. 15 con una disposizione aggiuntiva inserita nel 2013 che, a fini di promozione culturale e
di valorizzazione delle opere, ritiene non pubbliche la recitazione di opere senza scopo di lucro in musei,
archivi e biblioteche. L’articolo dice che non è pubblica “la recitazione di opere letterarie effettuata, senza
scopo di lucro, all'interno di musei, archivi e biblioteche pubblici ai fini esclusivi di promozione culturale e
di valorizzazione delle opere stesse” (art. 15.3 l.d.a., aggiunto dal decreto legge n. 91/2013, convertito dalla
legge n. 112/2013). Vi è poi l’art. 15 bis che prevede le attività di rappresentazione, esecuzione e recitazione
a fronte di un compenso ridotto per gli autori “quando l’esecuzione, rappresentazione, recitazione dell’opera
avvengono nella sede dei centri o degli istituti di assistenza, formalmente istituiti nonché delle associazioni
di volontariato, purché destinate ai soli soci ed invitati e sempre che non vengano effettuate a scopo di lucro”
(art. 15 bis l.d.a.). La differenza qui è che la comunicazione al pubblico presente non è del tutto libera ma è
previsto che vi sia un compenso ridotto per gli autori.

La comunicazione ad un pubblico presente non pone particolari problemi interpretativi perché tutto è molto
definito dal fatto che il pubblico si debba trovare nel luogo in cui avviene la comunicazione. Se non c’è in
quel luogo un pubblico e se, al tempo stesso, non c’è un’apertura al pubblico del luogo in cui avviene la
comunicazione ma tutto rimane in ambito privato e circoscritto, non c’è una violazione. Per vedere se c’è una
violazione del diritto è sufficiente vedere se le persone accedono al luogo in cui si ha la comunicazione e se
queste persone possono liberamente accedere (es. a fronte della consumazione in un bar) oppure se si tratta
di luoghi che prevedono un accesso solo a cerchie limitate di persone (es. allievi di una scuola, personale di
una casa di cura e pazienti, persone di una stessa famiglia in una casa privata).

DIRITTO DI COMUNICAZIONE A UN PUBBLICO DISTANTE


Molto più controversa è la configurazione del diritto di comunicazione ad un pubblico distante. Tale diritto
indica che il pubblico non è presente nel luogo in cui avviene l’attività di comunicazione. La legge, con una
formula ormai abbastanza superata, dice che si tratta di una comunicazione dell’opera a un pubblico non
presente “su filo o senza filo” (art. 16.1 l.d.a.). Il pubblico non è presente nel luogo in cui avviene l’attività di
comunicazione.

Ormai la comunicazione avviene senza filo. Si tratta di forme di comunicazione con uno qualsiasi dei mezzi
di comunicazione a distanza (quali radio, televisione, comunicazione via satellite, ritrasmissione via cavo) e
più in generale qualsiasi forma di trasmissione via Internet. La nozione di atto di comunicazione è molto
ampia; la Corte di Giustizia ha detto che qualsiasi trasmissione di un’opera protetta, a prescindere dal mezzo
o dal procedimento tecnico utilizzato, è un atto di comunicazione (Corte Giust. UE, 31 maggio 2016, Reha
Training). Qualunque forma di trasmissione che permetta il contatto a distanza del pubblico con l’opera è un
atto di comunicazione. La legge precisa che, nel diritto di comunicazione al pubblico, è compresa ogni forma
di “messa a disposizione del pubblico dell’opera in maniera che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e
nel momento scelti individualmente” (comunicazione interattiva on demand). È un atto di comunicazione a
distanza la trasmissione di un programma in televisione o per radio o uno streaming in diretta su Internet. La
messa a disposizione è l’ipotesi particolare in cui la fruizione dell’opera da parte del pubblico non è

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simultanea alla trasmissione; nel caso di messa a disposizione si tratta del caso classico dell’on demand come
Netflix. L’utente abbonato a Netflix quando vuole e nel luogo in cui si trova si collega, sceglie il contenuto
da vedere e lo scarica. Il servizio consiste nell’allestire una piattaforma contenente una serie di materiali
protetti che poi non necessariamente vengono visti in un certo momento ma è a discrezione del pubblico
decidere quando e dove vederli.

La legge precisa che gli atti di comunicazione dell’opera al pubblico non determinano esaurimento (art. 16.2
l.d.a.). La Corte di Giustizia numerose volte si è trovata a dover stabilire se un certo atto di comunicazione a
distanza costituisse o meno violazione dei diritti d’autore. La Corte di Giustizia ha detto che, fermo restando
che ci deve essere un atto di comunicazione o messa a disposizione nei modi sopra descritti, è necessario che
vi sia un pubblico. Quando il destinatario della comunicazione può qualificarsi pubblico in senso giuridico e
quando no? Se in senso giuridico non c’è un pubblico, l’atto di comunicazione non è una violazione del
diritto d’autore. Per la comunicazione a distanza questo è un problema perché non c’è la possibilità di vedere
chi può entrare in un locale o spazio fisico per assistere ad una comunicazione che avviene in simultanea, ma
abbiamo una platea indistinta di soggetti e bisogna fissare dei criteri per capire se essi costituiscano o meno
un pubblico. La Corte di Giustizia nelle varie sentenze ha detto che, per aversi un pubblico:
1. L’opera deve essere destinata ad un numero indeterminato di fruitori potenziali: si deve trattare di una
comunicazione destinata a soggetti non determinati in partenza;
2. Ci deve essere una soglia quantitativa minima: si vuole impedire che alcune situazioni quantitativamente
irrilevanti vengano qualificate come violazione del diritto d’autore (es. controversia in cui il titolare
aveva fatto causa a uno studio dentistico di Torino nella cui sala d’attesa veniva trasmessa la musica. Si
tratta di un numero talmente circoscritto di soggetti che si può ritenere che una soglia quantitativa de
minimis non sia stata superata);
3. L’opera “deve essere comunicata secondo modalità tecniche specifiche, diverse da quelle fino ad allora
utilizzate o, in mancanza, deve essere rivolta ad un pubblico nuovo, vale a dire a un pubblico che non sia
già stato preso in considerazione dai titolari del diritto d’autore nel momento in cui hanno autorizzato la
comunicazione iniziale della loro opera al pubblico” (Corte Giust. UE, 19 dicembre 2019, Nederlands
Uitgeversverbond);
4. Possibile rilievo del “carattere lucrativo della comunicazione” (Corte Giust. UE, 31 maggio 2016, Reha
Training). In questo caso la soglia quantitativa era stata raggiunta perché l’attività svolta dal centro era
una violazione del diritto d’autore perché si trattava di schermi televisivi che permettevano ai pazienti
del centro di riabilitazione di vedere i canali televisivi che venivano ritrasmessi all’interno del centro. In
quel caso l’afflusso di pazienti al centro di riabilitazione era tale da far ritenere che la soglia minima di
rilevanza del pubblico fosse stata integrata.

Nei punti 2 e 4 spicca un elemento, dato dal fatto che in entrambi i casi l’opera veniva ritrasmessa in un
luogo che si trovava nello stesso territorio in cui qualunque utente poteva liberamente vedere il canale tivù o
ascoltare la trasmissione radio. Dato che le persone nel centro avrebbero potuto tranquillamente vedere il
canale anche a casa loro, non dovrebbe portare ad escludere che ci sia una comunicazione al pubblico? Se la
ritrasmissione fosse avvenuta in un territorio in cui il canale televisivo non fosse stato visibile allora c’era
una ritrasmissione al pubblico. La Corte di Giustizia ha detto che il caso Reha non esclude una violazione
perché bisogna vedere se il pubblico che riceve la ritrasmissione è un pubblico nuovo che non sia già stato
preso in considerazione dal titolare del diritto nel momento in cui ha autorizzato la comunicazione iniziale
dell’opera al pubblico. In altri termini, si fa riferimento ad un pubblico di persone che, se ci fosse stata solo
la trasmissione del titolare del diritto d’autore, non avrebbe in quel momento visto l’opera e quindi ha potuto
vedere l’opera solo perché c’è stata la ritrasmissione. Nel caso Reha il pubblico che si trovava in quel centro
non avrebbe potuto usufruire della visione di quel canale nelle forme usuali. Ha potuto fruire della visione
del canale perché c’è stata la ritrasmissione. Nel caso ITV Broadcasting si è ritenuto che il captare un segnale
televisivo e ritrasmetterlo in streaming è una forma di comunicazione vietata a prescindere dal fatto che lo
streaming Internet potesse essere ricevuto anche nel territorio in cui il canale televisivo era visibile di suo
perché lo streaming Internet permetteva l’accesso al canale ad un pubblico ulteriore da quello preso in
considerazione dal titolare, che non avrebbe visto l’opera secondo le forme di comunicazione che il titolare
aveva previsto e autorizzato. Diversa è l’ipotesi in cui un soggetto si limiti a mettere nel proprio sito un link
ad un altro sito dove l’opera è presente con il consenso del titolare del diritto (caso Svensson). Ove si
convogli il pubblico verso la forma di comunicazione prevista ed autorizzata dal titolare non c’è un pubblico
nuovo perché in tale ipotesi non si ritrasmette l’opera ad un pubblico ulteriore ma si limita a convogliare il
pubblico verso la stessa forma di comunicazione fatta dal titolare con il suo consenso. Il link verso il sito
dove l’opera ci sia già con il consenso del titolare può essere considerata una forma lecita per amplificare
una comunicazione consentita. Nel caso in cui io faccia una vera e propria ritrasmissione allora non c’è alcun
ampliamento del pubblico, ma è una nuova e diversa comunicazione ad un pubblico nuovo che altrimenti

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Eleonora Biffi

non avrebbe fruito dell’opera. Un ulteriore elemento che la Corte considera è quello del carattere lucrativo
della comunicazione: è rilevante stabilire se, a causa della ritrasmissione dell’opera ad un pubblico nuovo, il
servizio offerto dal soggetto che compie la ritrasmissione acquista una maggiore attrattiva e attira clienti che
possono rivolgersi a quel servizio per il fatto della ritrasmissione. Nel caso dello studio dentistico, il paziente
sceglie il dentista in base alla sua competenza e non per via della musica che trasmette. Nel caso di un centro
o di una palestra il fatto di potersi allenare o fare i trattamenti con l’accompagnamento di un programma tivù
può aumentare l’attrattiva di quel locale. Lo stesso vale per un bar o locale. La regola per cui il principio di
esaurimento si applica solo al diritto di distribuzione ha delle conseguenze economicamente molto rilevanti
che sono ben esemplificate dalla sentenza della Corte di Giustizia citata al punto 3. Si trattava di un caso di
e-book: un imprenditore con metodo economico raccoglieva libri elettronici usati e li rivendeva su Internet,
facendo un mercato di seconda mano gli e-book. I titolari gli fanno causa, ma il soggetto si difende evocando
il principio di esaurimento. Il titolare ribatte dicendo che non si trattasse di un caso di distribuzione ma di
comunicazione ad un pubblico distante che non comporta esaurimento. Se si fosse trattato della vendita di
copie a stampa ci sarebbe stato un diritto di distribuzione e quindi un esaurimento (le copie a stampa vendute
potevano essere liberamente rivendute). A seconda che si qualificasse o meno la vendita dell’e-book come
distribuzione o comunicazione a distanza ci sarebbe o non ci sarebbe stato l’esaurimento. Qualificarlo come
diritto di comunicazione avrebbe escluso l’esaurimento con la conseguenza che solo il cartaceo può essere
liberamente rivenduto ma non gli e-book. La Corte di Giustizia è giunta alla conclusione che la vendita
dell’e-book si deve qualificare come diritto di comunicazione e non di distribuzione. La conseguenza pratica
è che si può parlare di distribuzione ed esaurimento solo quando l'esemplare venduto è un supporto fisico su
cui l’opera è fissata. Se invece si tratta di un file digitale senza un supporto materiale non è distribuzione ma
comunicazione a distanza e non c’è esaurimento. Si tratta di una regola enunciata in relazione alle regole
generali di diritto d’autore. Il software, pur essendo protetto con il diritto d’autore, è invece soggetto a delle
regole speciali che in parte derogano alle regole generali; per il software anche la vendita del file digitale
intangibile contenente il software è qualificata come distribuzione e comporta l’esaurimento.

Il contrario di pubblico inteso come numero indeterminato di fruitori potenziali è il caso della cerchia privata
intesa come persone legate da rapporti personali in situazioni in cui non è consentito l’accesso all’opera da
parte di terzi (es. scambio dell’opera tra più soggetti via mail). Quando c’è una cerchia chiusa con un numero
fisso di fruitori restiamo nell’ambito privato. Quando invece il numero di fruitori potenziali è indeterminato
si esce dall’ambito privato.

DIRITTO DI ELABORAZIONE
È il diritto esclusivo di elaborare l’opera (art. 18.2 l.d.a.): tutte le forme di modificazione, di elaborazione e
di trasformazione dell’opera previste dall’art. 4 l.d.a. (elaborazioni creative). Diritto esclusivo di introdurre
nell’opera qualsiasi modificazione (art. 18.4 l.d.a.). Diritto esclusivo di tradurre l’opera (art. 18.1 l.d.a.). La
questione che ci si pone è la seguente: il titolare può vietare solo l’utilizzo economico dell’opera elaborata o
anche la creazione in sé dell’opera elaborata? Il titolare ha il diritto esclusivo di elaborare l’opera, compiere
elaborazioni creative, trasformarla, introdurre modifiche e tradurla. Nel diritto d’autore tradizionale per le
opere d’arte si ritiene che il terzo possa, nella sua sfera privata, elaborare l’opera altrui a condizioni che non
ne intraprenda un utilizzo economico. Per le opere utili, in particolare per il software, si ritiene che il diritto
di elaborazione consenta al titolare già di bloccare anche la creazione in sé dell’opera elaborata. Se io parto
da un software altrui e compio delle modifiche si può ritenere che io le faccia a fini commerciali per lo
sfruttamento del software sviluppato ed elaborato; se si tratta di un’opera artistica tradizionale può anche
darsi che io faccia l’elaborazione per una mia soddisfazione artistica personale; può trattarsi di una forma di
esigenze artistiche personali che, finché non si traducono in un utilizzo economico sul mercato, possono
essere tollerate. Se c’è il consenso da parte del titolare ed il terzo elabora legittimamente l’opera realizzando
una elaborazione creativa in cui ha dato un apporto proprio, in quella elaborazione creativa concorrono due
apporti creativi: quello dell’autore dell’opera originale e quello dell’autore dell’opera derivata. Ciascuno dei
due rimane titolare del proprio apporto creativo. L’opera elaborata può essere sfruttata da uno dei due solo
con il consenso dell’altro. Ognuno rimane perfettamente legittimato a tutelare il proprio apporto creativo nei
confronti di qualunque terzo che se ne appropriasse senza chiedere il consenso.

DURATA DEL DIRITTO PATRIMONIALE D’AUTORE


Tale durata si riferisce a quanto durano nel tempo le singole facoltà esclusive esaminate in precedenza. La
regola generale fissata dall’art. 25 l.d.a. è che i diritti di utilizzazione economica dell’opera durano per tutta
la vita dell’autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte; si tratta quindi di diritti
per i quali è prevista una durata nel tempo molto lunga. Da un lato i diritti d’autore hanno anch’essi come i
diritti di brevetto una durata predeterminata e non prolungabile, però hanno anche una durata molto più lunga
dei diritti di brevetto, soprattutto nel caso di un’opera creata da un autore giovane che ha ancora una lunga

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Eleonora Biffi

vita davanti. Tradizionalmente si riteneva che per le opere d’arte protette con il diritto d’autore il rischio di
un monopolio sull’opera e di un’appropriazione in esclusiva fossero più contenti di quanto non lo siano i
diritti esclusivi di monopolio su un’innovazione tecnica utile alla collettività. Tendenzialmente l’innovazione
tecnica che apporta un beneficio materiale alla collettività ha un’esigenza maggiore di cadere in tempi rapidi
in pubblico dominio mentre una manifestazione di tipo artistico può, senza creare problemi alla collettività,
avere un’esclusiva molto più lunga. Questo principio è obiettivamente messo in dubbio nel momento in cui
anche opere come il software e le banche dati vengono attirate nella produzione del diritto d’autore; per il
software si pone un’esigenza di caduta in pubblico dominio non dissimile da quella di una innovazione
tecnica brevettabile. Un software tendenzialmente ha una vita utile sul mercato molto più breve della teorica
durata dei diritti d’autore su quel software. Un software è già obsoleto dopo i vent’anni di protezione. Il tasso
di obsolescenza della tecnologia è già sufficiente a rimediare alla incongruenza di diritti di durata così lunga
anche su opere a contenuto tecnico o tecnologico.

Per le opere in comunione semplici (opere risultanti da contributi creativi fusi tra di loro e indistinguibili) e
composte (risultanti dalla fusione di contributi creativi che tuttavia rimangono ciascuno in sé distinguibile) la
regola è che la durata dei diritti spettanti ai vari coautori si determina sulla vita del coautore che muore per
ultimo, cioè 70 anni dalla morte dell’ultimo coautore rimasto in vita (art. 26.1 l.d.a.). Una regola particolare
ma omogenea è contenuta nell’art. 32 l.d.a per le opere cinematografiche dove si dice che il diritto di
utilizzazione economica dell’opera cinematografica dura fino al termine del settantesimo anno dopo la morte
dell’ultimo sopravvissuto tra il direttore artistico dell’opera cinematografica, gli autori della sceneggiatura –
compreso l’autore del dialogo – e l’autore della musica creata specificamente per essere utilizzata nell’opera.
Si guarda per l’opera cinematografica a chi rimane in vita più a lungo tra direttore artistico, autore della
sceneggiatura e autore della colonna sonora e, dalla scomparsa dell’ultimo sopravvissuto, si calcolano i
settant’anni, al termine dei quali cessano i diritti d’autore.

Per le opere collettive che sono raccolte e organizzate di contributi indipendenti esiste una regola (art. 26.2
l.d.a.) che è calibrata sul regime di “doppio binario” delle opere; nelle opere collettive ci sono sia i diritti dei
vari autori sui singoli contributi loro propri (binario 1) sia i diritti sull’opera come un tutto che spettano a chi
ha curato e promosso la realizzazione dell’opera (binario 2). Per quanto riguarda i diritti sui singoli contributi
ogni contributo viene considerato in sé e quindi per il singolo contributo vale la regola generale: il diritto
d’autore sul singolo contributo dura fino a settant’anni dopo la morte dell’autore di quel contributo. I diritti
sull’opera come un tutto durano settanta anni a partire dalla prima pubblicazione dell’opera. Se viene
pubblicata un’enciclopedia contenente tante voci, i diritti sulla stessa nel suo complesso durano settant’anni
dalla prima pubblicazione mentre i diritti d’autore dei singoli autori sui propri contributi durano per ogni
contributo fino a settant’anni dalla morte dell’autore di quel contributo.

LIBERE UTILIZZAZIONI
Anche nel diritto d’autore ci sono delle libere utilizzazioni cioè ipotesi in cui, per la considerazione di
interesse di terzi o della collettività, il titolare non può far valere il suo diritto esclusivo per vietare l’utilizzo
dell’opera; ci possono essere casi di utilizzo totalmente libero in cui l’opera può essere sfruttata senza che
nulla sia dovuto al titolare e casi in cui il titolare, pur non potendo vietare l’utilizzo dell’opera, ha diritto a
ricevere un compenso per l’utilizzo che ne è stato fatto (c.d. libertà pagante). La prima ipotesi della libera
utilizzazione è la copia privata, cioè la riproduzione per uso personale. In alcuni casi è prevista la copia
privata per uso personale con il sistema del prelievo e cioè con la corresponsione al titolare dei diritti di una
percentuale dei proventi per la vendita dei servizi e dei materiali che materialmente rendono possibile la
copia privata. Vi sono poi un numero rilevante di altre libere utilizzazioni che per semplicità sono raccolte
per categorie omogenee in merito all’interesse che queste libere utilizzazioni intendono proteggere. Vi sono:
– Libere utilizzazioni collegate a finalità di informazione e di cronaca (art. 65.1, 65.2, 66 l.d.a.): l’interesse
prevalente è quello della collettività ad essere informata di eventi di rilievo nell’avere a disposizione
attraverso giornali e media tutti le info che è doveroso che la collettività conosca (es. riproduzione o
comunicazione di articoli di attualità e di materiali dello stesso carattere; riproduzione o comunicazione di
opere o materiali utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità; riproduzione o comunicazione di
discorsi tenuti in pubblico su argomenti di interesse politico o amministrativo; estratti di conferenze aperte
al pubblico).
– Utilizzo dell’opera per fini di pubblica utilità e di solidarietà ai sensi degli articoli 67, 71 bis e 71 quater
l.d.a. (es. riproduzione dell’opera ai fini di pubblica sicurezza; riproduzione o comunicazione dell’opera
per uso personale a beneficio di portatori di handicap; riproduzione di emissioni radiotelevisive da parte di
ospedali pubblici e di istituti di prevenzione e pena, con equo compenso per il titolare di diritto).
– Utilizzo dell’opera per finalità di promozione culturale, di diffusione dell’opera, di ricerca e di studio ai
sensi degli articoli 69, 70, 71 e 71 ter (es. prestito, riproduzione, comunicazione o messa a disposizione di

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Eleonora Biffi

opere presenti in biblioteche pubbliche o enti analoghi; riassunto, citazione o riproduzione di brani o parti
di opere e loro comunicazione al pubblico per fini di critica, di discussione, di insegnamento o di ricerca
scientifica; esecuzione di opere musicali da parte delle bande e delle fanfare dei copri armati dello Stato).

MISURE TECNOLOGICHE DI PROTEZIONE


Nell’era digitale una forma di autotutela prevista a protezione dei diritti d’autore è l’adozione di misure
tecnologiche di protezione efficaci per impedire o limitare atti relativi all’opera protetta (art. 102 quater e
102 quinquies l.d.a.). La moderna tecnologia ha reso possibili forme di copiatura, riproduzione e diffusione
dell’opera protetta che non erano possibili in passato; sotto questo punto di vista può essere usata come uno
strumento per fare una contraffazione massiva molto più ad ampio raggio di quanto non avvenisse in passato,
ma la stessa tecnologia può essere sfruttata per dotare le opere in formato digitale di misure tecnologiche di
protezione. Si tratta sostanzialmente di misure tecniche che servono in un’ottica di autotutela per evitare le
attività illecite sulla copia dell’opera come ad esempio misure anti-accesso o anti-copia (che impediscono di
accedere ad un’ opera o di copiarla) oppure informazioni elettroniche (tecniche di marcatura elettronica
dell’opera che permettono di identificarla e identificare l’autore e di inserire indicazioni circa i termini e le
condizioni d’uso dell’opera). Tutto questo di fatto non si traduce solo nel dare un’autotutela al titolare ma è
anche prodomico a una serie di sanzioni specifiche: non solo è vietato copiare l’opera protetta, ma costituisce
illecito anche rimuovere, eludere o aggirare le misure tecnologiche di protezione. Il fatto in sé di trovare un
mezzo per eliminare le misure di protezione o di violarle costituisce un atto illecito. Viene elevato ad atto
illecito sanzionabile il fatto in sé di manipolare le misure tecniche di protezione prima ancora che si configuri
una violazione dell’opera protetta. Alcuni hanno sollevato il timore che in questo modo si dia un’eccessiva
protezione del titolare e le misure tecnologiche possano essere usate in modo abusivo per sovra proteggere il
diritto d’autore più di quanto non sia legittimo; in particolare, si teme che possano essere usate per impedire
le libere utilizzazioni. Le misure tecniche di protezione devono essere configurate e disciplinate prevedendo
che il titolare, di fronte a libere utilizzazioni, debba consentire l’utilizzazione dell’opera ed eventualmente
rimuovere le misure di protezione. La linea di fondo è quella di un bilanciamento di interessi nel senso di
dare al titolare un’effettiva tutela che passa anche attraverso la possibilità di dotare l’opera di misure tecniche
di protezione e tuttavia anche il considerare interessi di terzi e garantire che tali misure tecniche non vadano
ad impedire le libere utilizzazioni che libere devono restare.

CONTENUTO DEL DIRITTO D’AUTORE – DIRITTO MORALE


Si fa riferimento ai diritti a tutela della personalità dell’autore che si è estrinsecata nella sua opera. I diritti
morali attengono alla personalità dell’autore

CARATTERISTICHE E REGOLE GENERALI


Il concetto di fondo è che l’opera dell’ingegno è una manifestazione della personalità del suo autore. Si ha
una creatività quando l’opera è frutto di libere scelte discrezionali dell’autore nel dare espressione ad una
certa idea secondo la propria identità personale e le proprie convinzioni. L'opera della personalità dell’autore
è in una certa misura una estrinsecazione. Si parla di identità personale, cioè del diritto dell’autore ad essere
pubblicamente rappresentato, cioè ad apparire agli occhi del pubblico quale realmente lui è. Fa parte della
tutela dell’identità personale, dell’onore e della reputazione dell’autore il fatto che l’opera non sia diffusa e
trasmessa al pubblico in modi tali da ledere i diritti della personalità. Rientra nel concetto di diritti della
personalità quello della stima e dell’apprezzamento dell’opera da parte del pubblico; il pubblico è libero di
non apprezzare l’opera dell’autore, quello che si intende con “stima e apprezzamento” è che l’autore ha
diritto a che l’opera venga rappresentata e comunicata al pubblico in modo idoneo affinché il pubblico sia
nelle condizioni di cogliere il vero significato dell’opera e di esprimere, se lo riterrà, un apprezzamento per
l’opera quale essa realmente è. C’è diritto affinché l’opera sia comunicata in modo che il pubblico possa farsi
un giudizio realistico e veritiero sull’opera stessa.

Trattandosi di diritti della personalità, essi sono inalienabili e non rinunciabili (art. 22.1 l.d.a.). Un diritto
morale non può essere ceduto o venduto né essere oggetto di rinuncia; il soggetto però può disporne entro
certi limiti: se per qualunque ragione l’autore ritiene di non far valere tali diritti o accetta delle modalità di
comunicazione dell’opera lesive della sua personalità, nessuno lo può costringere a far valere il diritto ma ciò
non toglie che il diritto vi sia e permanga. Il soggetto non può però rinunciare alla titolarità di quel diritto;
quello che può accedere è che vi siano scelte dell’autore circa l’esercitare o meno il diritto, ma non vi
possono essere scelte circa il privarsi in radice della titolarità del diritto.

La caratteristica dei diritti morali fa inoltre sì che i diritti non abbiano limite di tempo perché, finché si pone
un’esigenza di tutela della personalità dell’autore, i diritti permangono. Dopo la morte dell’autore possono
essere fatti valere dal coniuge e dai figli e da altri congiunti (art. 23.1 l.d.a.) con l’eccezione del diritto al

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Eleonora Biffi

ritiro dell’opera dal commercio che può essere fatto valere solo dall’autore (art. 142 l.d.a.). Questo non vuol
dire che ci sia una vera e propria successione ereditaria; si tratta semplicemente di casi in cui, non essendo
più in vita l’autore, possono agire a tutela della sua personalità il coniuge, i figli ed altri congiunti superstiti
che agiscono a protezione del diritto morale dell’autore che non può più agire direttamente non essendo più
in vita. Si ritiene che, se l’autore in vita ha ritenuto che non ci fossero ragioni morali che giustificassero il
ritiro dell’opera dal commercio, non possa spettare ai parenti superstiti esprimere una valutazione contraria e
far ritirare dal commercio l’opera che l’autore in vita non ha voluto ritirare. La scelta dell’autore rimane fissa
ed insindacabile con la sua morte.

DIRITTO ALLA PATERNITÀ DELL’OPERA


È il primo diritto morale e consiste nel diritto di rivendicare la paternità dell’opera (art. 20.1 l.d.a.): diritto di
essere riconosciuto come vero autore dell’opera e di vietare a terzi di attribuire a sé o ad altri questa paternità
o comunque di disconoscerla. Nel diritto dei brevetti, l’inventore ha sempre il diritto di essere riconosciuto
come l’inventore del trovato brevettato. Il concetto qui è analogo. L’autore dell’opera può in ogni momento
agire perché si riconosca pubblicamente che è lui ad avere creato l’opera e può reagire contro specifiche
violazioni di tale diritto che possono manifestarsi quando un terzo afferma di essere lui l’autore o afferma
che altri sono gli autori o ancora disconosce la paternità dell’opera in capo al reale autore. Tizio, vero autore,
può agire per far cessare questa forma di disconoscimento.

Un tema che spesso si è posto è se l’autore abbia anche il diritto di vedere il proprio nome indicato sugli
esemplari dell’opera o in occasione del suo utilizzo, ma solo nelle “forme d’uso”. L’autore ha diritto di
firmare gli esemplari dell’opera? La soluzione non è univoca; tale diritto esiste ma solo se rientra nelle forme
d’uso: è usuale che il nome dell’autore appaia sui singoli esemplari. Forme d’uso vuol dire comportamenti
normalmente adottati nella prassi nella circolazione di opere dell’ingegno in base ai quali vedere se sia di
prassi che, per quel tipo di opera, il nome sia o non sia indicato su tutti gli esemplari. Per un libro o per un cd
con un’opera musicale il diritto c’è perché il nome dell’autore dell’opera protetta viene indicato, ma ci sono
casi in cui questa situazione non ricorre come ad esempio per i software (non è una forma d’uso riportare
sulla custodia del disco contenente il programma il nome dei programmatori che lo hanno realizzato). Questo
riguarda solo l’indicazione del nome dell’autore sui singoli esemplari, a livello generale l’autore ha sempre il
diritto di manifestarsi e farsi riconoscere come tale.

Si ritiene che rientri nel diritto di chiunque la facoltà di disconoscere e non vedersi attribuita la paternità di
opere altrui (per alcuni non rientra propriamente tra i diritti morali d’autore). È il caso in cui uno scrittore si
vede attribuire la paternità di un romanzo che non è stato lui a scrivere. In questi casi l’autore può reagire e
chiedere che quell’opera non gli venga attribuita. Secondo alcuni questa è una manifestazione contraria al
diritto della paternità come regolato dall’art. 20 l.d.a., secondo altri invece non è un problema di diritto alla
non paternità ma bensì un diritto riconducibile ai diritti fondamentali della persona quale il diritto all’identità
personale cioè il diritto di non essere presentato al pubblico con connotati che non sono reali (es. attribuzione
di un’opera mai realizzata). Il risultato concreto è che chiunque può disconoscere e constare pubblicamente
di non essere l’autore di un’opera che non ha realizzato.

DIRITTO ALL’INTEGRITÀ DELL’OPERA


Previsto dall’art. 20.1 l.d.a. che prevede due diverse ipotesi: l’integrità dell’opera può essere lesa sia in senso
materiale (deformando o mutilando l’opera) oppure in senso immateriale (in modo intangibile, non toccando
né alterando fisicamente l’opera ma compiendo delle attività che la danneggiano perché possono essere di
pregiudizio all'onore e alla reputazione dell’autore).
– Diritto dell’autore di “opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto
a danno dell'opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione” (art. 20.1
l.d.a.). Esempio: romanzo che viene pubblicato con dei capitoli stralciati; opera dell’architettura che viene
realizzata con determinate alterazioni; quadro che viene alterato ridipingendone una parte; opera di cui
una parte viene arbitrariamente riscritta senza il consenso del titolare del diritto morale.
– “Atti a danno” sono atti relativi alle modalità di utilizzo dell’opera (es. cassette con canzoni messe in
fustini di detersivo; rappresentazione di un’opera che ne snatura il significato; problema delle interruzioni
pubblicitarie dei film), non atti diversi, come la formulazione di giudizi critici sull’opera. Sono condotte
che non alterano l’opera in sé, ma riguardano le modalità di utilizzo dell’opera, di comunicazione, messa
in contatto della stessa con il pubblico. Esempio: cassette messe come gadget promozionali in dei fustini
di detersivo; la canzone in sé non è stata alterata, ma può essere lesivo della reputazione del cantautore
che determinate sue opere siano commercializzate o svilite in tal modo. Altro esempio può essere un testo
teatrale tragico che viene messo in scena senza alcuna modifica del copione ma con una rappresentazione
che finisce per dare un significato completamente diverso all’opera, magari trasformandola in commedia.

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Eleonora Biffi

A lungo discusso è il problema delle interruzioni pubblicitarie dei film che erano a loro volta considerate
forme di danno all’integrità dell’opera perché spezzavano il filo narrativo o una certa consecuzione degli
eventi, alterando la percezione del pubblico. Su questo c’è stata una regolamentazione legislativa per cui
le interruzioni pubblicitarie dei film sono consentite ma a certe condizioni e con certi limiti. Si deve però
trattare di forme di utilizzo dell’opera, cioè modi di portare l’opera a contatto col pubblico. Non rientrano
nel concetto di “atti a danno” atti che non implicano utilizzo, sfruttamento e comunicazione dell’opera ma
che consistono nella formulazione di giudizi critici sull’opera. L'esercizio del diritto di critica può turbare
fortemente l’autore, un insuccesso da parte della critica può infatti colpirlo duramente ma l’esprimere un
giudizio anche molto negativo su un’opera non può essere considerato un atto a danno perché l’opera in sé
non è stata mutilata, rappresentata o esposta in modo inadeguato; chi è entrato con l’opera nell’esercizio
della libera manifestazione del pensiero è libero di dire che si tratta di un’opera di infimo valore.
– Pregiudizio all’onore o alla reputazione: il pubblico viene indotto a formarsi un’opinione distorta sulla
personalità dell’autore; viene falsato il significato dell’opera. Se sussistono tali requisiti, il titolare ha la
facoltà di bloccare il pregiudizio.
– Distruzione dell’originale o dell’esemplare unico dell’opera (es. distruzione di un quadro). Finché si tratta
di opere suscettibili di essere replicate in tante copie questo non è un problema. Il problema è se un unico
esemplare esistente dell’opera viene distrutto. La soluzione più logica dovrebbe essere nel senso che
questo è un grave atto a danno dell’autore perché l’opera in cui si era estrinsecata la sua personalità viene
cancellata definitivamente. Tuttavia, è stata sostenuta anche l’opinione che chi ha acquistato la proprietà
del quadro sarebbe libero di distruggerlo; quando si tratta di opere in esemplare unico come il quadro, se il
quadro viene acquistato da un altro soggetto, questo soggetto acquista la proprietà del supporto fisico in
cui l’opera è contenuta ma i diritti patrimoniali d’autore sul quadro come opera dell’ingegno, se non sono
ceduti a chi ha comprato il quadro rimangono al titolare del diritto d’autore. La vendita di un quadro
esposto ad una mostra da parte dell’autore ad un acquirente comporta il passaggio di proprietà del quadro
ma non comporta il trasferimento dei diritti d’autore sull’opera incorporata ed estrinsecata nel quadro.
Non comporta nemmeno il trasferimento dei diritti morali perché questi non possono essere trasferiti. Se
anche l’acquirente del quadro è libero di rivedere il quadro dopo averlo acquistato, non può né procedere
ad uno sfruttamento economico dell’opera che non sia la rivendita coperta dall’esaurimento né procedere
ad attività sull’opera come la sua distruzione che sarebbero lesive della sfera morale dell’autore che avrà
come componente il desiderio che la sua opera continui ad esistere e non venga distrutta.

DIRITTO DI RITIRO DELL’OPERA DAL COMMERCIO


Negli articoli 142 e 143 l.d.a. è previsto il diritto di ritiro dell’opera dal commercio. Tale diritto si pone su un
piano di pentimento dell’autore; l’autore ha autorizzato la messa in commercio dell’opera e ha sottoscritto un
contratto in forza del quale un terzo ha acquisito il diritto di pubblicare, moltiplicare in copie, distribuire in
commercio e comunicare l’opera e tuttavia, nonostante l’iniziale concessione, l’autore ad un certo punto per
sue ragioni morali desidera che l’opera non continui a circolare. Al fine di bilanciare l’esigenza morale
dell’autore e l’interesse economico di chi ha acquistato dei diritti di sfruttamento commerciale dell’opera e
ha fatto affidamento sulla concessione da parte dell’autore del diritto di operare lo sfruttamento commerciale,
la legge stabilisce che l’autore ha diritto di ritirare l’opera dal commercio se ricorrono gravi ragioni morali;
deve però indennizzare chi ha già acquistato diritti di utilizzazione dell’opera (art. 142 e 143 l.d.a.). Se le
ragioni morali sono gravi, l’autore può far ritirare l’opera indennizzando però chi ha acquistato i diritti di
utilizzazione. A tutela dell’affidamento del terzo una somma gli deve essere riconosciuta. Sussistono gravi
ragioni morali se la circolazione dell’opera diventa pregiudizievole per la personalità dell’autore (anche solo
per un mutamento delle convinzioni dell’autore). Esempio: l’autore ha scritto un saggio di natura politica in
cui ha espresso una certa opinione e ha sostenuto un certo pensiero o un certo partito e, quando ormai l’opera
è in commercio, l’autore ha un ripensamento e cambia completamente opinione su quanto scritto nell’opera.
L’opera non corrisponde più minimamente alla sua personalità e continua a far credere che questo soggetto
abbia delle convinzioni che non sono più le sue. In questo caso una ulteriore circolazione dell’opera può
diventare pregiudizievole per la personalità dell’autore. Se il pentimento dell’autore avviene dopo che egli
abbia già dato il consenso allo sfruttamento commerciale dell’opera ma prima che l’opera venga messa in
commercio; anche in questo caso l’autore ha diritto di impedire la prima pubblicazione dell’opera anche se
l’ha già autorizzata. Nel diritto di ritirare l’opera dal commercio è compreso il diritto di impedire la prima
pubblicazione dell’opera già autorizzata dall’autore. Il punto dove ci sono divergenze interpretative tra le due
teorie è il seguente: nell’ipotesi in cui la messa in commercio non sia ancora avvenuta, è necessario che vi
siano comunque gravi ragioni morali e che venga pagato un indennizzo oppure il titolare può bloccare la
prima pubblicazione non ancora avvenuta senza dover addurre gravi ragioni morali e senza dover pagare un
indennizzo? È discusso se vi sia un vero e proprio diritto di inedito, ossia il diritto di opporsi alla prima
pubblicazione anche se non ricorrono i presupposti dell’art. 142 l.d.a. C’è chi sostiene che nel concetto di
diritto di ritiro dell’opera dal commercio rientri anche il diritto di non far mettere in commercio l’opera con il

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Eleonora Biffi

ricorso congiunto dei due requisiti. Viceversa c’è chi configura un vero e proprio diritto di inedito diverso dal
diritto di ritiro dell’opera dal commercio; il diritto di ritiro dell’opera dal commercio riguarda solo il caso in
cui l’opera sia già in commercio, se l’opera non è ancora in commercio si configura un diverso diritto di
inedito in base al quale l’autore è ancora in tempo per bloccarne la pubblicazione senza che ci siano gravi
ragioni morali e senza il pagamento di un indennizzo. Anche se l’opera non è stata ancora pubblicata, chi ha
acquisito i diritti potrebbe aver già effettuato degli investimenti e quindi un ristoro monetario gli deve essere
corrisposto.

VIOLAZIONE DEI DIRITTI D’AUTORE


Si immagina il caso in cui un terzo mette sul mercato e riproduce in copie un’opera e si deve valutare se
questa attività del terzo costituisca una violazione dei diritti esclusivi del titolare del diritto d’autore. Si parla
di plagio o contraffazione o ancora plagio-contraffazione per indicare i casi di violazione dei diritti d’autore
mediante il compimento, senza il consenso del titolare, di attività riservate al titolare stesso (propriamente
“plagio” è la violazione del diritto morale di paternità; “contraffazione” è la violazione dei diritti di utilizzo
economico). Le facoltà esclusive sono copiare, elaborare, comunicare, riprodurre, distribuire. Casi:
– Copia/ripresa integrale dell’opera: si tratta di casi di identità; l’opera protetta viene ripresa tale e quale
tenendo presente che la tutela non è solo nella forma pedissequa esterna ma anche in quella interna.
– Realizzazione di un’opera che presenta differenze rispetto all’opera originale, ma in cui i tratti essenziali
dell’opera originale rimangono riconoscibili; “quando si tratta di valutare se c’è o meno contraffazione
non è determinante, per negarla, l'esistenza di differenze di dettaglio: ciò che conta è se i tratti essenziali
che caratterizzano l'opera anteriore sono riconoscibili nell'opera successiva” (Cass. 2 marzo 2015, n. 4216;
Cass. 15 giugno 2012, n. 9854; Cass. 27 ottobre 2005, n. 20925). Il terzo realizza un’opera che presenta
delle differenze rispetto all’opera originale come modifiche e ritocchi per poi sostenere di avere realizzato
un’opera diversa e di non aver violato i diritti del titolare. La giurisprudenza, per valutare questi casi, ha
adottato il criterio della riconoscibilità. L’ipotesi di contraffazione si ha quando nell’opera del secondo
arrivato rimangono riconoscibili e percepibili i tratti essenziali dell’opera originale. Quando si tratta di
valutare se c’è o meno contraffazione in presenza di modifiche ciò che conta è se i tratti essenziali che
caratterizzano l’opera anteriore sono riconoscibili nell’opera successiva. Esempio: se il terzo scrive un
romanzo che si presenta come un sequel di un altro o realizza una messa in scena teatrale di un’altra opera
nella seconda opera rimangono presenti tratti riconoscibili e visibili della prima opera.

La protezione non è dell’idea sottostante né del contenuto, l’idea non è protetta ma è invece protetta la forma
espressiva. L'idea può essere ripresa in modi diversi senza che vi sia contraffazione. Non vi è contraffazione
se il terzo si limita a prendere spunto o ispirazione dall’opera per poi realizzare un’opera autonoma che non
riprende gli elementi creativi della prima. Esempio: un soggetto scrive un’opera sullo stesso tema di un’altra,
prendendone ispirazione e spunto. Altro esempio è quello di un soggetto che, colpito dallo stile con cui è
stato dipinto un quadro, decide di dipingere un altro paesaggio con lo stesso stile; si ispira allo stile del primo
pittore ma non replica la forma espressiva del quadro e quindi non commette violazione.

CASI CONCRETI
Il criterio della riconoscibilità si presta a qualche margine di incertezza nell’applicazione concreta. Di seguito
si analizzano alcuni casi concreti:
– Un caso del 2005 della Corte di Cassazione riguardava i diritti d’autore su una guida turistica illustrata
con disegni; un’altra guida turistica relativa alla stessa città presentava una “certa coincidenza tra i
disegni” ma poi aveva una composizione e un’impaginazione diverse e persino i disegni erano stati
rappresentati in modo diverso (bidimensionale e in bianco e nero, anziché tridimensionale e a colori). La
Corte di Cassazione ha concluso che in un caso del genere vi fosse una sufficiente distanza tra le due
opere per ritenere che, al di là di una certa somiglianza tra i disegni, la seconda opera non costituisse una
contraffazione della prima perché la coincidenza tra i disegni non poteva più essere colta nella seconda
come un tratto della prima opera (Cass. 27 ottobre 2005, n. 20925).
– Un caso del 2012 il ritornello di una canzone era “pressoché identico” al ritornello di una canzone
precedente (erano riprodotte 33 note su 40) anche se vi erano differenze nel ritmo (Cass. 15 giugno 2012,
n. 9854). La Corte di Cassazione ha concluso che, nonostante le diversità presenti sia a livello di note che
di ritmo, le somiglianze presenti fossero tali da far sì che nel secondo ritornello alcuni degli elementi
caratteristici del primo fossero presenti.
– Un caso molto discusso del 2015 era quello di una canzone che tuttora gode di notorietà in relazione alla
quale un terzo aveva ripreso il titolo ed i versi iniziali ma poi proseguiva con un testo diverso e anche la
parte musicale era differente (“Prendi questa mano zingara”); si tratta di un caso al limite. Il primo grado
di giudizio (tribunale) ha detto che ci fosse contraffazione, ma la Corte d’Appello ha detto di no e anche la
Cassazione ha negato la violazione (Cass. 19 febbraio 2015, n. 3340).

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Eleonora Biffi

– Caso preso da una sentenza di secondo grado del 2015 in cui era stata affermata una violazione per una
canzone che aveva un ritornello identico alla “frase melodica” di una canzone successiva e la rimanente
parte di quest’ultima, pur non essendo identica, presentava ulteriori elementi di similitudine e di analogia
(App. Roma, 12 febbraio 2008; Cass. 29 maggio 2015, n. 11225). In questo caso, rispetto alla canzone
anteriore protetta, c’era una canzone successiva che riprendeva il ritornello della prima e aveva ulteriori
elementi di analogia che hanno rafforzato la conclusione che vi fosse abbastanza per ritenere riconoscibili
nella seconda canzone elementi creativi della prima.
– Due casi significativi riguardano la parodia, cioè la rivisitazione in chiave parodistica di un’opera altrui.
Tale tema è molto discusso nel diritto d’autore. Ci si chiede se la parodia sia una violazione dei diritti
d’autore oppure no. Nella parodia può capitare che l’apporto creativo di chi la realizza sia tale nel
sovvertire il senso della prima opera da staccarsi completamente dalla prima. Può aversi una situazione in
cui non vi sono più propriamente elementi creativi della prima opera riconoscibili nella seconda perché la
prima non è stata solo ritoccata, ma è stata ribaltata nel suo significato. Se la parodia assurge al livello di
un’opera autonoma che ribalta gli elementi creativi della prima vi è uno spazio per dire che non c’è una
violazione. Il primo caso è stato deciso nel 2011 dal Tribunale di Milano relativo a sculture che un altro
artista aveva “rivisitato”, trasformandole “in senso sia materiale che concettuale” (si trattava di figure
femminili allungate e sottili che erano state reinterpretate e vestite con abiti e accessori di moda). In tale
caso era stata esclusa la violazione (Trib. Milano, ord. 13 luglio 2011). La scultura di Giacometti era stata
pienamente ripresa dalla parodia di Baldessari, il quale ha aggiunto una parrucca e una scala. Il Tribunale
di Milano ha ritenuto che la seconda opera fosse tale da stravolgere così tanto il significato dell’opera
originale da portarla al di fuori dell’ambito di protezione. La scultura di Giacometti aveva un significato
drammatico perché voleva esprimere una condizione di disagio legato alle conseguenze del conflitto
bellico, mentre la rivisitazione di Baldessari aveva un intento ironico e giocoso di mettere in burla certe
esagerazioni della moda e della società dei consumi. C’è stato un messaggio completamente diverso.
– È ritenuta lecita la parodia di un’opera altrui quando la parodia muta il senso dell’opera parodiata e ne
costituisce un “rovesciamento concettuale” (escluso perciò che, sotto il profilo del diritto d’autore,
costituisse una violazione dei diritti sulla guida gastronomica “Gambero Rosso” la diffusione di una guida
dal titolo “Il Gambero Rozzo”). Il significato era stato totalmente stravolto. Sotto il profilo dei marchi si è
ravvisata una possibile violazione dei diritti sul marchio Gambero Rosso. Nel caso del diritto d’autore la
parodia si è ritenuta tale da portare al di fuori dell’ambito di protezione dei diritti spettanti alla guida
gastronomica prima arrivata (Trib. Roma, ord. 23 giugno 2008). La guida del Gambero Rozzo richiama la
tipica traduzione italiana delle trattorie o osterie dove ci si ritrova in un ambiente conviviale per mangiare
dei piatti buoni e sostanziosi.
– Un altro caso è stato uno dei primi ad avere uno sviluppo ed un ampio approfondimento dei temi relativo
alle opere dell’arte figurativa pittorica informale astratta del ‘900. Importante rappresentante è stato il
veneziano Emilio Vedova. Non vi era una raffigurazione di figure definite, ma il messaggio artistico era
espresso con delle macchie di colore che si contrapponevano in modo anche violento. La fondazione erede
dei diritti sulle opere di Emilio Vedova aveva agito nei confronti di un soggetto che aveva realizzato un
quadro molto simile. La difficoltà in questo caso è che, dato che la tutela del diritto d’autore è sulla forma
espressiva, è più difficile valutare se ci sia stata una ripresa della forma espressiva o meno. In tutti i gradi
di giudizio la contraffazione è stata affermata: Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione si sono basati sul
confronto tra le due opere e sulla riconoscibilità degli elementi caratteristici (es. quadrato nero, macchia
rossa, alternanza di bianco e nero, macchia gialla al centro). Si è ritenuto che per il tipo di posizionamento
e dimensione delle macchie di colori vi fosse stata una intenzionale ripresa degli elementi espressivi della
prima opera nella seconda. Quando non c’è identità fotografica ma ci sono delle differenze, la valutazione
di plagio e contraffazione si presta ad un certo margine di discrezionalità.

TUTELA DEL SOFTWARE


Per ragioni storiche si era ritenuto che il software non dovesse rientrare tra le entità brevettabili, per questo
motivo nelle convenzioni internazionali e nella legislazione italiana è presente un divieto di brevettazione del
software in quanto tale. Tale divieto è stato nel tempo progressivamente eroso e circoscritto al punto che oggi
i brevetti di software sono una realtà acquisita e frequente nella prassi. Un software non in quanto tale, cioè
un software che conferisce e presenta un carattere tecnico ulteriore, che ha applicazione pratica ed i requisiti
di novità e originalità può essere validamente brevettato e può dare la tutela tipica del brevetto estesa all’idea
innovativa di funzionamento sottostante al software per svolgere una certa funzione o un problema tecnico.
All’epoca in cui si era posto un problema di tutela del software in un quadro storico e politico mutato che era
divenuto favorevole alla proteggibilità delle invenzioni di software si era cercato di individuare una parte
della proprietà intellettuale che si prestasse a cogliere la tutela del software con la presenza di un divieto di
brevettazione del software; è una situazione storica risalente agli anni ‘80 del secolo scorso: se da un lato gli
uffici, i tribunali e le corti si muovevano verso una riduzione in via interpretativa del divieto di brevettazione

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Eleonora Biffi

del software, sul piano legislativo delle leggi positive di cercava una parte della proprietà intellettuale in cui
prevedere positivamente la possibilità di proteggere il software. Si cercava una parte della P.I. che contenesse
un’affermazione positiva di tutelabilità del software. Questa parte della proprietà intellettuale è stata infine
individuata nel diritto d’autore. Questo diritto per secoli è stato dedicato alla tutela delle opere di carattere
artistico ma, visto che i requisiti di accesso alla tutela erano abbastanza flessibili e plasmabili, si è detto che
opera dell’ingegno umano caratterizzata da creatività poteva essere non solo necessariamente di tipo artistico
ma anche di altro tipo. Rispetto a natura e finalità di fondo del diritto d’autore questa è una forzatura perché
il diritto d’autore non è nato per proteggere questo tipo di creazioni utili, ma si è compiuta una forzatura per
conseguire un risultato pratico che sembrava doveroso perseguire nell’interesse della collettività. Si è partiti
dall’esigenza di dare una protezione alle opere utili per comprendere che la forma che più si prestava alla
soddisfazione di tali esigenze fosse un adattamento del diritto d’autore. Già dalla fine degli anni ‘80, mentre
giurisprudenza e uffici procedevano ad aprire la strada alla tutela brevettuale del software, il legislazione si è
dedicato ad aprire la strada nella tutela del diritto d’autore al software e delle banche dati. Il legislatore l’ha
fatto dettando delle regole specifiche da innestare nella disciplina del diritto d’autore. Il meccanismo scelto è
stato quello di prevedere espressamente la tutela di diritto d’autore di software e banche dati; si è previsto
che in linea generale i principi si applicano anche alle opere utili, in più sono state inserite regole speciali per
questo tipo di creazioni prevedendo che dove trovano applicazione le regole speciali si applicano le regole
speciali, per tutto il resto valgono le regole generali del diritto d’autore. La disciplina speciale è limitata a
certi aspetti che il legislatore ha ritenuto di dover regolare con norme specifiche, mentre per tutto il resto i
principi generali devono applicarsi anche a questo tipo di creazioni.

Nulla vieta che, nel caso specifico, un certo software sia proteggibile in entrambi i modi (diritto d’autore e
brevetto) ma è interessante vedere i tratti differenziali in relazione alle due tutele. La tutela brevettuale ha più
robusta protezione del software: ove il software non incorra nel divieto di brevettazione e ove presenti i
requisiti di novità e di originalità si avrà una tutela brevettuale che come tale è estesa all’idea inventiva
sottostante al software e che darà protezione sia nei confronti di un software copia di quello brevettato sia nei
confronti di software che, seppur diversi, attuino e sfruttino la stessa idea innovativa di funzionamento (la
logica è quella sulla contraffazione per equivalenti). Per contro, il brevetto subordina la protezione a certi
requisiti impegnativi (sfuggire al divieto del software in quanto tale e raggiungere un livello di originalità
sufficiente in un settore fatto di piccole innovazioni incrementali); la tutela con il brevetto comporta i costi di
brevettazione e dura vent’anni, per molti software potrebbe addirittura estendersi oltre la loro vita utile. Per
contro il diritto d’autore ha una soglia di accesso alla tutela più facile da raggiungere perché è sufficiente che
il programma creato abbia un carattere di creatività (creazione personale del programmatore non copiata da
un altro software e che non contenga soluzioni necessitate dal punto di vista tecnico). È sufficiente questa
realizzazione indipendente ed autonoma del programmatore per aversi protezione con il copyright. Al tempo
stesso, non ha costi particolari di registrazione perché si acquisisce senza formalità costitutive. È sufficiente
realizzare il software autonomamente dal programmatore, non c’è un giudizio di meritevolezza sul livello
inventivo. La tutela del diritto d’autore si presta ad accogliere e proteggere anche software che non hanno le
caratteristiche per ottenere la tutela brevettuale. Un altro punto a favore è la tutela più lunga nel tempo, anche
se tale vantaggio potrebbe essere più teorico che pratico: il diritto d’autore dura per tutta la vita dell’autore
più altri settant’anni; nel caso in cui sia frutto del lavoro di gruppo di più autori, i settant’anni scattano dalla
morte dell’ultimo coautore sopravvissuto agli altri. In un settore come quello dell’innovazione di software, è
improbabile che una innovazione conservi un’utilità pratica e tecnica per un periodo così lungo. Il tasso di
velocità dell’innovazione in tali campi rende difficile ipotizzare un’utilità di un software a distanza di dieci
anni dalla sua creazione perché molti software sono superati nel giro di pochi anni. L’ambito di tutela nel
diritto d’autore è più circoscritto rispetto al brevetto. Mentre per il brevetto la protezione riguarda l’idea
innovativa in sé quale che sia la forma di espressione, per il diritto d’autore vale la regola opposta: non c’è
tutela dell’idea ma solo della forma espressiva dell’idea. Per quanto riguarda il diritto d’autore, la protezione
del titolare riguarda la forma espressiva e quindi il modo in cui il programma è scritto, la sequenza di
comandi ed istruzioni come scritte dal programmatore, ma non copre l’idea sottostante di funzionamento del
programma. Per il diritto d’autore un terzo è libero di individuare l’idea sottostante di funzionamento e di
replicarla e sfruttarla in un altro software di sua creazione, dovendo solo aver cura che il secondo software
non contenga elementi creativi cioè forme di espressioni o parti del programma de primo software per come
è scritto. Il diritto di brevetto ha una tutela molto più forte nella misura in cui il titolare può impedire a terzi
qualunque forma di sfruttamento dell’idea di funzionamento, mentre il titolare di un diritto d’autore potrà
impedire che il suo programma sia copiato in tutto o in parte per come è scritto ma non potrà impedire a terzi
di determinare l’idea di funzionamento e di attuare liberamente quell’idea scrivendo un programma diverso
che tuttavia svolge la stessa funzione e porta allo stesso risultato. Tale differenza va tenuta presente: mentre
per tutto il resto la tutela del diritto d’autore è più facile da ottenere e meno costosa perché non ha costi di
registrazione o brevettazione, sotto questo punto di vista è più debole. Nella prassi tuttavia neppure la tutela

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Eleonora Biffi

di diritto d’autore è a costo zero: alcuni costi per la documentazione della creazione dell’opera e della data di
creazione sono necessari. Proprio perché il diritto d’autore non ha formalità costitutive, può essere difficile
dimostrare in giudizio che un certo programma sia stato effettivamente creato da un certo autore in una certa
data. Non essendoci una registrazione, può essere difficile stabilire quale sia l’opera anteriore in giudizio. Da
un punto di vista pratico, quando ci si rivolge ad una tutela di diritto d’autore bisogna stare attenti nel dotarsi
sin dall’inizio di prove inoppugnabili del fatto che una creazione sia stata realizzata da un certo soggetto in
una certa data. Oggi con le moderne tecnologie è più facile che in passato tenere traccia dei passaggi creativi
e della data in cui tali passaggi si sono svolti; in particolare, negli ultimi anni e per dare certezza di paternità
della creazione, una delle tecnologie che sempre più si è utilizzata per il diritto d’autore è la blockchain. Ci
sono società che offrono servizi blockchain per documentare la creazione di opere proteggibili con il diritto
d’autore.

QUADRO NORMATIVO
Sono state innestate alcune norme specifiche sulla tutela d’autore del software (art. 1.2, 2 n. 8, 12-bis, 64-bis,
64-ter e 64-quater l.d.a.) che sono state introdotte dando attuazione in Italia alla Direttiva CE n. 2009/24 del
23 aprile 2009 (in precedenza Direttiva CEE n. 91/250 del 14 maggio 1991). A livello europeo la data in cui
per la prima volta entrano le opere utili non artistiche nel diritto d’autore è il 1991. La direttiva è stata poi
sostituita ma senza particolari modifiche dalla direttiva in vigore che risale al 2009. La tutela del diritto
d’autore a livello europeo ha la base comune da ormai quasi trent’anni. L’art. 10.1 Accordo TRIPs (1994)
contiene una previsione sulla tutela di diritto d’autore del software e lo stesso si trova nell’art. 4 WIPO
Copyright Treaty che pure risale agli anni Novanta. Le nostre norme italiane sono perfettamente allineate a
quelle degli accordi internazionali.

OGGETTO DELLA PROTEZIONE


Le entità protette sono i software o programmi per elaboratore. È importante definire cosa è software perché
solo ciò che è software può beneficiare delle regole speciali introdotte dalla disciplina che si sta esaminando.
La nozione di software è mutata dal mondo della tecnica: insieme di istruzioni che fanno eseguire una certa
operazione ad un elaboratore (hardware). La Direttiva CE precisa che sono “programmi per elaboratore” i
programmi “in qualsiasi forma, compresi quelli incorporati nell’hardware”; possono essere protetti anche i
lavori preparatori di progettazione per realizzare un programma, se sono di natura tale “da consentire la
realizzazione di un programma per elaboratore in una fase successiva” (art. 1 e considerando 7 della
Direttiva). La tutela di diritto d’autore è tutela di una forma espressiva, non di un’idea. Se ci poniamo in tale
prospettiva e pensiamo che per avere protezione del diritto d’autore non è sufficiente avere una certa idea
innovativa ma è necessario darle una forma espressiva, possiamo comprendere che se i lavori preparatori
sono ancora in uno stadio preliminare intermedio in cui non è ancora stato steso il programma, siamo in uno
stadio troppo acerbo e precoce della programmazione in cui l’idea è definita ma non è ancora a sufficienza
definita la forma espressiva di quell’idea. Se tuttavia la fase di programmazione ha raggiunto uno stadio
avanzato nel quale il programma è già in gran parte delineato nella sua forma espressiva ma non è ancora
scritto in quella definitiva, allora abbiamo un programma che si può dire già espresso e formulato in un modo
tale da essere proteggibile con il diritto d’autore. Si parla al riguardo di sufficiente compiutezza espressiva: le
fasi di progettazione del programma per elaboratore non sono ancora arrivate alla stesura finale e definitiva
del programma ma sono già arrivate ad una fase in cui la forma espressiva del programma è sufficientemente
delineata ed il passaggio da compiere per arrivare alla veste definitiva è un ultimo passaggio di rifinitura ma
la scrittura e gli elementi del programma sono già presenti.

Nella legge il software è stato assimilato alle opere letterarie. Rispetto alle opere tradizionali della letteratura
(es. romanzi, racconti, trattati scientifici, manuali didattici, opere di divulgazione e via dicendo) il software è
qualcosa di molto diverso, però anch’esso ha alla base la caratteristica di essere una serie di stringhe e di
comandi scritti in un linguaggio di programmazione da un certo soggetto. Per trovare un punto d’aggancio
tra il software e le opere tradizionali protette con il diritto d’autore, il legislatore ha fatto un’assimilazione
del software alle opere della letteratura. Questo è servito storicamente anche per giustificare l’inserimento
del software nel diritto d’autore e per trovare una linea di continuità. Esattamente come per le altre opere
letterarie, la tutela non può essere sul tema trattato ma solo sulla forma espressiva. Ciò per cui si può avere
tutela è il programma per come è scritto e solo quando si arriva ad una sufficiente compiutezza espressiva del
programma scritto si può avere questa tutela.

La giurisprudenza ha ricavato una serie di corollari: idee, funzioni, principi del programma non sono protetti
dal diritto d’autore (v. art. 1.2 e considerando 11 Direttiva; v. anche Corte Giust. UE, 2 maggio 2012, causa
C-406/10, SAS Institute, punti 29 ss.: la funzionalità di un programma per elaboratore non è proteggibile con
il diritto d’autore). È ribadito il concetto della tutela della forma espressiva e non dell’idea così come un vero

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Eleonora Biffi

e profondo tratto differenziale tra diritto d’autore e brevetto. La prima fase è quella di delineare le idee ed i
principi base di funzionamento del programma. La seconda fase è individuare gli algoritmi matematici del
programma e i diagrammi che, con livello di dettaglio crescente nel corso della elaborazione del programma,
indicano come le varie parti del programma ideato svolgono le loro funzioni e interagiscono tra loro (c.d.
flowcharts, sono dei diagrammi in cui sono delineati e disegnati i vari blocchi del programma e si indicano
con frecce o simboli come i vari blocchi saranno destinati ad interagire tra loro). Secondo la posizione
prevalente espressa dalla giurisprudenza non possono essere protetti dal diritto d’autore (v. Trib. Bologna,
ord. 17 gennaio 2006) perché si ritiene che si sia ancora in uno stadio intermedio non caratterizzato da una
sufficiente completezza espressiva del programma come scritto. Sono invece protetti dal diritto d’autore il
programma per elaboratore compiutamente realizzato, espresso in qualsiasi forma, ed i lavori preparatori
quando abbiano raggiunto una sufficiente compiutezza tale da consentire la realizzazione del programma
(cioè quando i lavori preparatori sono già così avanzati che la realizzazione del programma è solo un passo
ulteriore che si può già compiere perché il programma è già sufficientemente scritto).

Sono forme di espressione del programma per elaboratore protette con il diritto d’autore sia il codice
sorgente (programma espresso in un linguaggio di programmazione comprensibile all’uomo), sia il codice
oggetto (linguaggio macchina; programma espresso nella forma leggibile ed eseguibile dall’elaboratore): art.
10.1 TRIPs; Corte Giust. UE, 22 dicembre 2010, causa C-393/09, Bezpečnostní softwarová asociace, punti
28 ss. Il codice sorgente deve essere trasformato in una serie di impulsi elettrici che permettono di caricare il
software sull’hardware e far interagire il software con l’hardware. Tipicamente il codice sorgente è segreto
perché la software house non lo rivela, ciò che viene venduto sul mercato è il codice oggetto: il programma
già trasformarlo nel linguaggio macchina eseguibile dall’elaboratore su cui il programma viene scaricato. In
questo modo la Corte di Giustizia ha detto chiaramente che costituisce una attività riservata al titolare lo
sfruttamento sia del codice sorgente sia del codice oggetto e le facoltà esclusive del titolare riguardano
entrambi. Da un punto di vista storico si può anche rilevare che questa tutela data al codice oggetto
costituisce la prima volta in cui si è ritenuta proteggibile con il diritto d’autore un’entità non comprensibile
dall’essere umano. Il diritto d’autore ha sempre avuto ad oggetto entità e creazioni che l’uomo poteva
percepire e comprendere, con questa sentenza per la prima volta si è estesa la tutela ad un’entità come il
linguaggio macchina di un programma che in sé non è comprensibile né leggibile per l’uomo. È stata ritenuta
un’estensione necessaria per dare protezione ad un programma per elaboratore che altrimenti sarebbe stato
facile oggetto di copiatura. La tutela al codice oggetto serve per dare una completezza di tutela al software.

Un altro punto affrontato dalla Corte di Giustizia nella stessa sentenza è se si possa tutelare come software
l’interfaccia utente grafica che ormai spesso è definita con l’acronimo “GUI” (Graphic User Interface). Per
interfaccia grafica si devono intendere i comandi e le icone che appaiono sullo schermo del computer o di
altri strumenti con cui si utilizza un software e che permettono all’utente di eseguire il programma e di farlo
funzionare. L’interfaccia utente grafica non è una forma di espressione del programma, ma solo un mezzo
con cui l’utente sfrutta le funzionalità del programma: ad essa non sono perciò applicabili le norme speciali
sulla tutela del software. Tuttavia l’interfaccia che sia una “creazione intellettuale” del suo autore può essere
protetta in base alla disciplina generale del diritto d’autore (Corte Giust. UE, 22 dicembre 2010, cit.). Dato
che il software è una serie di istruzioni date alla macchina, l’interfaccia grafica non rientra nella nozione di
software. La manifestazione grafica dell’interfaccia non è proteggibile in sé come software, ma se creativa a
sufficienza può essere protetta in base alla disciplina generale del diritto d’autore. Oggi spesso si fa ricorso
alla tutela dei disegni e modelli, cioè la disciplina della tutela delle opere del disegno industriale perché si è
ritenuto che anche questa disciplina potesse prestarsi alla protezione delle interfacce grafiche intese come
particolari creazioni di design. Gli stessi principi valgono per il linguaggio di programmazione e per il
formato dei file utilizzati nell’ambito del programma per sfruttare le sue funzioni: non sono forme di
espressione del programma proteggibili con le norme speciali, ma possono essere tutelati in base alle norme
generali di diritto d’autore se costituiscono una creazione intellettuale del loro autore (Corte Giust. UE, 2
maggio 2012, cit.). Si tratta di strumenti utilizzati dal programmatore per creare il programma. Linguaggio di
programmazione e formato file non sono software e quindi non beneficiano delle norme speciali, ma nulla
toglie alla possibilità che siano creazioni a loro volta proteggibili con il generale diritto d’autore.

Nel delineare cosa possa essere oggetto di protezione ci si è posti la domanda seguente: sono tutelabili anche
i cosiddetti elementi non letterali del programma, ossia la sua struttura interna (struttura e organizzazione del
programma)? Questa domanda deriva dal fatto che il software sia stato assimilato alle opere letterarie. Tale
forzatura porta a chiedersi se per il software valgano le stesse regole delle opere letterarie ed in particolare la
regola per chi la protezione riguarda la forma interna. C’è una estensione al software della regola per cui il
diritto d’autore protegge non solo la forma esterna, ma anche quella interna? Per le opere letterarie in genere
la tutela si distingue tra forma esterna e forma interna; entrambe sono protette. La copiatura della trama di un

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Eleonora Biffi

romanzo è contraffazione anche se non sono riprese le singole frasi scritte dell’autore. Per il software è molto
più difficile concepire una forma interna diversa dall’idea di funzionamento. C’è il rischio che per il software
la tutela della forma interna porti a una protezione dell’idea e della funzione del programma. Il problema non
ha ancora avuto una soluzione definitiva; in dottrina si sono sostenute tesi diverse tra loro. Le principali
posizioni sono le seguenti:
– Sono protetti solo il codice sorgente e il codice oggetto (forma esterna); non è protetta la struttura (forma
interna). Il software è una creazione particolare e non un’opera della letteratura tradizionale, non è
possibile distinguere tra una forma esterna ed una interna. Per il software si deve ritenere protetto solo il
programma come è scritto, non è protetta la struttura. Questo è l’unico modo per assicurare il rispetto del
principio per cui l’idea di funzionamento resta libera e solo la forma di espressione è protetta.
– Anche la struttura interna potrebbe essere protetta, ma solo ove influisca sulla forma esterna o sia così
dettagliata da consentire di passare senza difficoltà alla stesura del codice sorgente. Ci può essere in certi
casi una tutela della struttura interna; è un altro modo per esprimere la regola per cui sono protetti anche i
lavori preparatori con sufficiente compiutezza espressiva. Il passaggio alla veste definitiva è un piccolo
passo semplice immediato. Anche questa interpretazione non è così diversa dalla prima perché arriva a
dire che è proteggibile la forma esterna e in più il lavoro di preparazione; la stesura del programma è ad
una fase così avanzata da essere immediato il passaggio alla forma esterna al software nella sua stesura
definitiva. Si avvicina molto alla prima posizione. Ci vuole una sufficiente compiutezza espressiva nella
forma esterna per aversi protezione. Questa è la tesi più semplice ed in linea con i principi di fondo del
diritto d’autore.
– Anche la struttura interna è protetta, a meno che non sia necessaria per raggiungere un certo risultato
tecnico. Per quanto sia difficile distinguere tra struttura interna ed idea di funzionamento, tale distinzione
nel caso concreto si dovrebbe fare. L’assimilazione del software alle opere letterarie deve portare come
risultato al tentativo di individuare comunque una forma interna distinta dall’idea e di dare tutela a tale
forma interna con l’unico limite che la struttura interna non possa essere protetta quando sia necessario
raggiungere un certo risultato tecnico (non c’è un altro modo per svolgere la funzione desiderata se non
quello di strutturare il software in questo modo). Tale tesi presenta delle difficoltà; a livello pratico sconta
un duplice margine di incertezza sia perché non si sa molte volte come distinguere tra forma interna e idea
di funzionamento sia perché ci possono essere valutazioni molto opinabili sul fatto che la struttura di
funzionamento sia necessaria per raggiungere un risultato tecnico oppure vi siano altre forme possibili.

REQUISITI DI PROTEZIONE E FATTO COSTITUTIVO DELLA TUTELA


Di seguito si analizzano i profili attinenti all’acquisto dei diritti d’autore sul software. Il principio generale
contenuto nella legge sul diritto d’autore italiana valido per tutte le opere dell’ingegno è quello per cui la
tutela presuppone esclusivamente il requisito del carattere creativo dell’opera, ossia che l’opera sia il frutto
di scelte autonome, indipendenti e discrezionali dell’autore nell’esprimere la propria creazione. Lo stesso
concetto è esplicitato nell’art. 1.3 Direttiva CE dove si dice che il programma per l’elaboratore è proteggibile
con il diritto d’autore “se è il risultato di una creazione intellettuale dell’autore”, cioè se presenta un carattere
creativo. Questa disposizione della direttiva fa riferimento al concetto di originalità; nonostante questa scelta
terminologica della direttiva, l’originalità di cui qui si parla non ha nulla a che vedere con l’originalità intesa
come livello inventivo del diritto dei brevetti. Quando nel diritto dei brevetti si parla di originalità si fa
riferimento al requisito del carattere inventivo (la non evidenza del trovato per il tecnico medio). Quando la
legislazione sul diritto d’autore si trova ad usare lo stesso concetto di originalità, originalità ha un significato
diverso e va intesa come sinonimo di carattere creativo. Ciò è confermato dall’art. 1.3 Direttiva CE che dice
che per aversi tutela “non sono presi in considerazione altri criteri” e in particolare non si devono valutare “i
meriti qualitativi o estetici del programma”. È possibile che ci siano, ma non è necessario che ricorrano. Il
carattere creativo è l’unico presupposto della tutela, il fatto costitutivo è la creazione del programma e la sua
estrinsecazione secondo le regole generali di diritto d’autore per le quali la tutela non ha validità costitutive,
non presuppone registrazione o brevettazione.

TITOLARITÀ DEI DIRITTI DI UTILIZZAZIONE ECONOMICA


Secondo le regole generali i diritti sia morali sia spettano a chi ha creato il programma e tuttavia, proprio
perché si tratta di opere utili e spesso create nell’ambito di un’attività di ricerca svolta in seno ad un’impresa,
l’art. 12-bis l.d.a. precisa che, salvo patto contrario tra datore di lavoro e dipendente, se il programma per
elaboratore è creato da un lavoratore dipendente “nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni impartite
dallo stesso datore di lavoro” i diritti patrimoniali di sfruttamento del programma una volta che il programma
è creato vengono automaticamente per legge trasferiti al datore. Salvo patto contrario, lo sfruttamento
economico in esclusiva del programma spetta al datore di lavoro quando il programma è stato realizzato dal
dipendente svolgendo le sue mansioni oppure se quella creazione deriva da istruzioni date caso per caso e
specificamente dal datore di lavoro.

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DIRITTO DI RIPRODUZIONE
Di seguito si passa all’analisi dei diritti esclusivi spettanti al titolare. Per quanto riguarda i diritti morali non
ci sono particolari regole, valgono le regole generali degli art. 20 e seguenti l.d.a. Per quanto riguarda i diritti
patrimoniali valgono come regola generale le norme contenute negli articoli dal 12 al 19 l.d.a. ma per tre di
questi diritti (diritto di riproduzione, diritto di elaborazione e diritto di distribuzione) l’articolo 64-bis l.d.a.
contiene delle norme specificamente pensate per caratteristiche di questi diritti esclusivi quando attengono al
software. L’art. 64-bis, lett. a, riguarda il diritto di riproduzione e le copie del programma e specifica che è
riservata al titolare del diritto d’autore la riproduzione del programma:
– In qualsiasi forma;
– Con qualsiasi mezzo;
– Totale o parziale;
– Permanente o temporanea.
In realtà questa norma non dice nulla di diverso da quella generale ma ribadisce già quanto detto nella regola
generale inserita nella disciplina del software. È importante però ricordare la regola della copia temporanea
consentita (art. 68-bis l.d.a.) dove si dice che le copie puramente temporanee, accessorie, essenziali ad un
procedimento tecnico senza rilievo economico proprio svolte e create solo per consentire l’utilizzo legittimo
dell’opera o il passaggio in rete dell’opera sono consentite. Questa regola della non estensione della tutela ad
atti di riproduzione temporanea è molto importante per permettere le transazioni in rete.

Si specifica come regola generale che anche le varie operazioni di caricamento, visualizzazione, esecuzione,
trasmissione o memorizzazione del programma sono soggette ad un’autorizzazione del titolare ove queste
operazioni comportino il crearsi di copie del programma. Questa è un’altra regola di particolare rilievo che è
limitata da liberi usi espressamente consentiti per permettere lo sfruttamento personale della copia del
software lecitamente acquisita, ma questa regola dice che anche attività in ambito privato di copiatura o di
duplicazione del software, anche se non svolte con fini di lucro, costituiscono un illecito.

DIRITTO DI ELABORAZIONE
Il diritto di elaborazione riguarda tutte le forme di modifica del programma ed è disciplinato dall’art. 64-bis,
lett. b, l.d.a. Le attività riservate al titolare sono:
– Traduzione (es. passaggio da un linguaggio di programmazione a un altro);
– Adattamento (es. programma applicativo adattato ad un diverso sistema operativo, come un programma
per Mac adattato a Windows; correzioni e miglioramenti del programma). I miglioramenti sono sviluppi di
nuove generazioni e versioni del programma (es. software 1.0, 2.0, 3.0). Le varie versioni perfezionate,
aggiornate, potenziate che si innestano su un programma preesistente sono forme di elaborazione riservate
al titolare. Le correzioni sono volte al miglioramento di programmi che hanno dei vizi o dei bug infatti
l’attività che la software house deve fare è quella di debugging cioè di eliminazione dei bug e di creazione
di patch per risolvere il problema di funzionamento. Anche la correzione è una forma di modifica di
elaborazione del programma riservata al suo titolare;
– Trasformazione;
– Ogni altra modificazione (es. recentemente la Corte di Giustizia nel dicembre 2019 ha avuto modo di
qualificare come attività di elaborazione una modifica apportata al codice sorgente di un software);
– Riproduzione dell’opera risultante dalla elaborazione.
Solo il titolare può elaborare, modificare in uno qualsiasi di questi modi il suo programma e solo il titolare
può moltiplicare in copie l’opera risultante da queste attività di modifica.

L’ipotesi più problematica è quella in cui l’elaborazione sia creativa; la legge dice che se vi sono elaborazioni
creative di un software altrui non vi è “pregiudizio dei diritti di chi modifica il programma”. Ciò può essere
contraddittorio con quanto detto prima. In realtà le due disposizioni non sono in contraddizione ma vanno
coordinate tra loro: l’elaborazione (qualunque modifica del programma) non si può fare senza il consenso del
titolare del primo programma, ma una volta che questo consenso ci sia e che sia lecito fare un’elaborazione,
se questa elaborazione contiene degli elementi creativi su questi elementi vi è la protezione di diritto d’autore
a favore di chi ha attuato l’elaborazione o ha modificato il programma. Dove la legge dice che non c’è un
pregiudizio dei diritti di chi ha compiuto l’elaborazione, vuol dire semplicemente che chi ha compiuto una
elaborazione in modo lecito con il consenso del titolare dei diritti sulla prima opera ed ove nella sua
elaborazione siano presenti degli elementi creativi, su quegli elementi acquista diritti esclusivi. In tal caso nel
software elaborato creativo avremo sia l’apporto creativo del primo autore per le parti del suo programma
iniziale che sono contenute nel programma elaborato sia un apporto creativo del secondo soggetto nella
misura in cui lui a sua volta ha inserito elementi meritevoli di protezione. Il risultato è che il primo autore

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Eleonora Biffi

può esercitare il suo diritto di dare o meno il consenso, ma una volta che ha dato il consenso all’elaborazione
dovrà anche rispettare i diritti di chi ha compiuto legittimamente l’elaborazione. Il secondo programmatore
deve acquisire il consenso ma poi ha un’esclusiva sui propri elementi creativi; può anche darsi che il
contratto tra il primo ed il secondo prenda le vesti di una licenza incrociata: il primo dà il consenso a fronte
della possibilità di sfruttare il programma frutto dell’elaborazione ed il secondo acquisisce la possibilità di
elaborare il programma iniziale in cambio del permesso all’utilizzazione da parte del primo. Entrambi poi
avranno tutela della loro esclusiva nei confronti di terzi che dovessero copiare gli elementi creativi dell’uno o
dell’altro. Per il diritto d’autore sul software prevale l’opinione secondo cui occorre il consenso del titolare
già prima ancora che l’elaborazione venga effettuata. È già una violazione creare il programma elaborato
prima ancora di metterlo sul mercato.

L’ipotesi dell’elaborazione creativa dove si fondono gli apporti creativi dell’uno e dell’altro è una ipotesi
intermedia tra due ipotesi che si collocano ai possibili estremi delle situazioni possibili. Varie ipotesi:
– Elaborazione non creativa (es. semplici ritocchi, modifiche banali): è sempre e comunque un plagio, una
contraffazione dell’opera base. È un mero ritocco che non altera la sostanza delle cose, ma non c’è alcun
apporto creativo;
– Elaborazione creativa: diritti sull’elaborazione di chi l’ha realizzata, anche in questo caso c’è la necessità
di ottenere il consenso del titolare dell’opera base (altrimenti si ha comunque violazione dei suoi diritti);
– Elaborazione talmente creativa da dare vita a un’opera del tutto autonoma: diritti di chi ha realizzato
l’elaborazione, senza una violazione dei diritti dell’autore della prima opera e senza necessità di un suo
consenso. Nella parte generale lo abbiamo definito come il prendere ispirazione e spunto da un’opera
preesistente per crearne una autonoma. Se si parte da un software preesistente ma poi da quel software si
trae semplicemente spunto per realizzare un nuovo software indipendente, questa attività è lecita di per sé
e non è necessario chiedere il consenso del titolare della prima opera e il criterio per valutare se si ricade
in quest’ipotesi di opera indipendente è ancora quello di valutare se nel secondo programma siano presenti
e riconoscibili elementi creativi protetti del primo programma. Se nel secondo programma non ci sono
elementi essenziali, creativi e protetti del primo programma, il secondo programma è a tutti gli effetti
indipendente dal primo e può essere liberamente creato e sfruttato senza chiedere il consenso, quindi senza
commettere contraffazioni. La tutela del diritto d’autore non copre l’idea di funzionamento sottostante al
software; se un soggetto attua la stessa idea di funzionamento con un software diverso che si ispira al
primo ma che non ne riprende alcuna parte quest’attività è perfettamente lecita e consentita.

DIRITTO DI DISTRIBUZIONE
Nell’art.64-bis, lett c, l.d.a. si legge che è riservata al titolare qualsiasi forma di distribuzione al pubblico del
programma originale o di sue copie. La regola generale contenuta nell’art. 17 riguarda la distribuzione intesa
essenzialmente come vendita di una copia dell’opera, mentre alle ipotesi di noleggio o prestito è dedicata una
disposizione diversa prevista dall’art. 18-bis. Nella disciplina speciale del software sia la vendita sia il
noleggio o prestito sono tutti accumunati sotto il concetto generale di distribuzione. Il diritto di distribuzione
riserva al titolare in esclusiva non solo la vendita ma anche la locazione del programma che è l’equivalente
del noleggio.
– Vendita: contratto con cui viene trasferito il diritto di proprietà su una copia del programma. Non si tratta
del diritto esclusivo sul software che rimane al titolare o alla software house titolare dei diritti d’autore,
quello che viene traferito con la vendita è il diritto di proprietà su una copia del programma. Non vengono
acquistati i diritti d’autore, si acquista la proprietà della copia del supporto su cui il programma è presente.
Si può avere una vendita non solo quando la copia del programma è fissata su un supporto tangibile come
un CD-ROM o un DVD, ma anche quando la copia viene scaricata mediante download da un sito Internet
(Corte Giust. UE, 3 luglio 2012, causa C-128/11, UsedSoft, punti 35 ss).
– Locazione: “mettere a disposizione per l’utilizzazione, per un periodo limitato e per fini di lucro, un
programma per elaboratore o una copia dello stesso” (considerando 12 della Direttiva). Il terzo può quindi
lecitamente utilizzare la copia per un periodo di tempo limitato pagando un certo corrispettivo, al termine
di questo periodo la copia deve essere restituita perché la proprietà non è mai stata passata al terzo. Il terzo
ha solo acquisito il diritto di un utilizzo per un certo periodo di tempo.

Su tale disciplina (vendita e locazione) è intervenuta una sentenza importante della Corte di Giustizia del
2012 nel caso UsedSoft. La UsedSoft raccoglieva sul mercato copie di software usati dagli utenti che non ne
avevano più bisogno e rivendeva queste copie su un mercato dell’usato. La particolarità del caso era duplice;
la Oracle, titolare dei diritti d’autore sul software, aveva fatto causa di violazione dei suoi diritti d’autore su
un duplice presupposto:
1. Il contratto tra il titolare ed il terzo utente non era qualificato come vendita ma come licenza. Oracle
sosteneva che la copia non potesse essere venduta da UsedSoft perché non aveva mai ceduto la proprietà

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Eleonora Biffi

della copia del software, ma la copia era solo stata data in licenza ovvero in locazione, a noleggio, messa
a disposizione per un certo periodo di tempo senza passaggio di proprietà sulla copia.
2. La titolare dei diritti diceva che in ogni caso, anche se fosse stata una vendita, non è un esercizio del
diritto di distribuzione perché non è stato venduto un supporto tangibile ma è stata venduta una copia
digitale. Le transazioni si svolgevano su Internet e l’utente, dopo aver pagato quanto richiesto, poteva
scaricare il programma sul suo computer e attraverso una chiave aprire il programma e farlo funzionare.

Il principio di esaurimento cioè la regola per cui la copia messa sul mercato dal titolare o con il suo consenso
può da quel momento in poi liberamente circolare e i diritti esclusivi si esauriscono, nel diritto d’autore vale
solo per le ipotesi di vendita (solo i casi nei quali la proprietà della copia viene trasferita all’utente). Non vi è
esaurimento se invece di una vendita c’è una locazione o un noleggio (perché in questo caso non passa la
proprietà) e non vi è esaurimento neppure se, al posto di una vendita, c’è una comunicazione al pubblico.
Nell’applicazione delle regole generali la Corte di Giustizia, nel caso degli e-book, ha detto che secondo la
disciplina generale di diritto d’autore si ha una vendita che determina esaurimento solo se viene venduta la
copia su un supporto tangibile; se invece non c’è un supporto tangibile si tratta di comunicazione al pubblico
che non comporta esaurimento. Per i libri c’è esaurimento solo in relazione alle copie a stampa tangibili, ma
non c’è esaurimento per gli e-book.

In relazione alla disciplina specifica del software la Corte ha detto si possono considerare atti di vendita
riconducibili al diritto di distribuzione e soggetti ad esaurimento sia le vendite del programma su un supporto
tangibile sia le vendite del programma mediante download da un sito Internet (vendita senza un sopporto
tangibile ma solo con il passaggio del file digitale). Da questo punto di vista la Corte ha introdotto un regime
profondamente diverso per il software; a differenza delle altre opere dell’ingegno coperte con il diritto
d’autore, il mercato dell’usato del software può lecitamente svilupparsi anche in caso e in relazione a vendite
online. In relazione a questo la Corte ha fatto un’ulteriore precisazione: ciò che si esaurisce è il diritto di
distribuzione, la possibilità di rivendita, ma non c’è esaurimento sul diritto di copia; questo comporta che la
copia del software venduta lecitamente sia con supporto tangibile sia online può essere rivenduta perché il
diritto di distribuzione si è esaurito, ma non può essere duplicata. Se l’utente rivende a UsedSoft il software
usato non può duplicarlo e trattenerne una copia sul suo computer, deve trasferire la copia che ha ricevuto e
dare all’acquirente dell’usato tutti i file e le chiave necessarie per l’utilizzo della copia ma deve cancellare
dal proprio computer la copia originariamente scaricata perché altrimenti risulterebbe duplicata. Finché si
limita a far circolare una copia e a non trattenerla, questo è consentito anche nel caso di acquisto mediante
download da Internet. Un altro problema era che il contatto tra titolare e utente non fosse qualificato come
vendita ma come licenza. La Corte di Giustizia ha risolto questo tema dicendo di ritenere irrilevante solo la
qualificazione data al contratto dalle parti; la Corte è interessata solo a vedere la sostanza dell’operazione
commerciale, cioè se nella sostanza l’operazione commerciale è quella di una vendita o di un noleggio. Il
tratto distintivo è per la Corte di Giustizia che nel noleggio l’utilizzazione si acquisisce per un periodo di
tempo limitato, nella vendita la disponibilità della copia è illimitata nel tempo perché passa la proprietà sulla
copia.

In sintesi, in merito alla sentenza UsedSoft del 2012 da parte della Corte di Giustizia per quanto riguarda il
software:
– Non rileva il nome né la qualifica del contratto prescelta dalle parti, rileva solo la sostanza commerciale
dell’operazione.
– Differentemente a quanto avviene per il diritto d’autore in generale, anche la vendita mediante download
su Internet senza alcun supporto tangibile è riconducibile al diritto di distribuzione e non a quello di
comunicazione e quindi comporta esaurimento.
– Tuttavia l’esaurimento riguarda solo il diritto di distribuzione e non gli altri diritti per cui non si può
duplicare la copia del software usato; il cedere la copia senza cancellare quella di partenza dal proprio
computer è una duplicazione vietata così come non è consentito svolgere delle attività di elaborazione
della copia.

La vendita di una copia del programma da parte del titolare dei diritti o con il suo consenso all’interno
dell’Unione Europea determina esaurimento; la locazione o le altre forme di distribuzione non determinano
invece esaurimento. A seguito di una vendita propriamente tale in forza dell’esaurimento il titolare non può
bloccare le rivendite della copia venduta, mentre conserva il diritto su ogni altro aspetto: può continuare a
controllare locazione, riproduzione ed elaborazione della copia venduta. In particolare, il terzo può rivendere
la copia che ha legittimamente acquistato, ma oltre a non poterla duplicare o elaborare non può neanche darla
in locazione; la può rivendere ma non può fare un commercio di noleggio di software usato. L’unica attività
consentita è la rivendita.

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Eleonora Biffi

ECCEZIONI AI DIRITTI
Si tratta di ipotesi in cui il titolare non può far valere i suoi diritti esclusivi per bloccare alcune attività
relative al software che pure rientrerebbero tra quelle che la legge gli riserva in esclusiva. Tali attività lecite
si possono ricondurre a due grandi categorie:
– Usi leciti per finalità di utilizzo personale di una copia legittimamente acquisita, di cui si è legittimamente
acquisita la disponibilità. La legge dice che il legittimo acquirente di una copia del programma può
compiere tutte le attività di riproduzione, di elaborazione, di correzione di errori se si tratta di attività
“necessarie per l’uso del programma conformemente alla sua destinazione” e salvo patto contrario. (art.
64-ter.1 l.d.a). La norma va collegata alla disposizione generale che vieta la riproduzione del programma.
Il legittimo acquirente, avendo acquisito la disponibilità della copia per una finalità implicita nell’acquisto
e per trarre dalla copia le utilità promesse dal programma, può svolgere in ambito privato e per uso
personale le attività necessarie per poter sfruttare quel programma conformemente alla sua utilizzazione.
Sono quindi consentite attività di copia tecniche e anche la correzione di errori se l’utente ha la capacità di
elaborare e correggere il software che non funziona. Si tratta solo ed esclusivamente di attività private e
personali per poter trarre utilità dal programma acquisito. Due punti fondamentali: tutto ciò che non è
funzionale all’uso del programma rimane vietato (da qui il collegamento con la norma generale: tutte le
attività di riproduzione, elaborazione, correzione di errori che non sono strettamente collegate ad un uso
privato e personale del software rimangono vietate); un’attività di copia ed elaborazione fatta in ambito
privato senza scopo di lucro è comunque contraffazione se non è strettamente necessaria all’uso del
programma. Questo vuol dire che la duplicazione, anche se fatta in ambito privato ma senza che vi sia
necessità per farlo, rimane vietata. Se vi è la necessità di non correre il rischio di perdita della disponibilità
del software è possibile fare una copia di riserva. Chi ha diritto di usare una copia del programma può
realizzare una copia di riserva (copia di back-up), se la copia è necessaria per l’uso (art. 64-ter.2 l.d.a.).
Tutte le attività commerciali con profitto economico rappresentano una contraffazione, ma la disciplina
attrae nella contraffazione anche attività private senza scopo di lucro perché le tecnologie attuali rendono
possibile l’attività di copiatura anche nell’ambito della sfera domestica.
– Finalità di studio e di ricerca: la regola generale è che chi ha diritto di usare una copia del programma può
studiarlo e provarlo per cercare di determinare le idee e i principi su cui sono basati i suoi elementi. Non
c’è tutela sulle idee e sui principi sottostanti. L’attività di ricerca si può svolgere solo con un’analisi
dall’esterno (osservazione del funzionamento del programma) e solo durante determinate fasi di utilizzo
del programma (caricamento, visualizzazione, esecuzione, trasmissione o memorizzazione). L’art. 64-ter.3
l.d.a. dice che non è possibile procedere a un esame diretto ed invasivo del programma per cercare di
risalire in questo modo al codice sorgente ma è solo possibile, una volta che si sia acquisito il diritto di
farlo, visualizzare ed utilizzare il programma e, attraverso l’osservazione esterna, cercare di risalire alle
sue idee e ai suoi principi. Se utilizzando il programma si riesce a capire come funziona e quali sono le
idee di funzionamento sottostanti, è lecito acquisire le idee e sfruttarle con un programma diverso. L’art.
64-quater l.d.a. riguarda l’unico caso in cui il ricercatore non è costretto a limitarsi ad un’analisi
dall’esterno ma può procedere a una vera e propria decompilazione del programma. “Decompilazione”
vuol dire analisi dall’interno del programma ed in particolare significa analizzare e decriptare il
programma espresso nel codice oggetto per risalire al codice sorgente e ai principi che sono alla base del
programma. Quest’attività viene eccezionalmente consentita solo se è necessaria ed indispensabile per
conseguire una interoperabilità con altri programmi. L’interoperabilità è la “capacità di due o più sistemi
di scambiare informazioni e di usare reciprocamente le informazioni scambiate”, cioè la possibilità di far
funzionare in modo sinergico due programmi o sistemi (considerando 10 della Direttiva). In sintesi: c’è
una regola generale che è quella dell’osservazione dall’esterno per risalire ai principi di funzionamento ed
una regola speciale eccezionale che consente la decompilazione del programma per risalire al codice
sorgente e ai principi base, ma solo ed esclusivamente se questo risulta indispensabile per ottenere una
interoperabilità con un altro programma e quindi per far funzionare insieme due programmi o due sistemi.

TUTELA DELLE BANCHE DATI


Le banche dati sono state incluse nella legislazione del diritto d’autore per delle ragioni simili a quelle del
software, ossia la necessità di collocare una entità per cui si avvertivano delle esigenze di protezione in uno
dei diritti di proprietà intellettuale già esistenti che restasse a dare la tutela per cui si avvertiva l’esigenza. La
storia di tutela delle banche dati è un po’ differente da quella del software, perché si tratta di entità che non si
prestano tendenzialmente ad essere protette con altri diritti di proprietà intellettuale (come i brevetti) perché
non hanno una natura tecnica e da questo punto di vista le banche dati rientrano nella nozione più ampia di
presentazione di informazioni che per la legislazione brevettuale non sono proteggibili. Le banche dati non
possono nemmeno rientrare in altri diritti di proprietà industriale o intellettuale se non forse, in certa misura,
nella disciplina della tutela dei segreti commerciali. Si tratta di opere e realizzazioni per le quali un’esigenza
di protezione si pone ed è molto avvertita per quanto concerne il mercato dell’informazione. In una realtà

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Eleonora Biffi

come quella odierna dove i dati si generano in modo massivo è improbabile che un soggetto possa andare a
reperire autonomamente alla fonte tutti i dati di cui ha bisogno. Anche se le informazioni sono liberamente
disponibili, i tempi per rintracciarle ed acquisirle possono essere incompatibili con le esigenze per cui queste
informazioni devono essere acquisite. L’unico modo efficiente per acquisire queste informazioni è quello di
trovarle raccolte in una banca dati navigabile con un sistema interno di ricerca; questo è il valore vero di
mercato delle banche dati e questo spiega perché certi soggetti con metodo imprenditoriale ed economico si
occupino di raccogliere le informazioni, di organizzarle in modo strutturato in una banca dati e di dotare la
banca dati di strumenti di ricerca in modo da poter poi vendere sul mercato il pacchetto organico di raccolta
navigabile di dati. Il vero valore economico nelle banche dati sta nella facilità di accesso alle informazioni e
nel risparmio di tempi e costi di ricerca delle informazioni. L’attività di chi allestisce una banca dati è vista
come un’attività meritevole di protezione e necessaria nella società contemporanea. Il legislatore, a livello di
Unione Europea, già alla metà degli anni ‘90 del secolo scorso ha previsto una forma di tutela delle banche
dati e le leggi interne dei vari stati membri dell’UE (inclusa quella italiana) hanno dato attuazione a questa
direttiva e hanno inserito nelle leggi sul diritto d’autore delle disposizioni a tutela delle banche dati.

QUADRO NORMATIVO
A livello di convenzioni internazionali si hanno delle disposizioni che vincolano gli stati aderenti ad adottare
forme di tutela delle banche dati nell’Accordo TRIPs e nell’art. 5 WIPO Copyright Treaty, entrambi si
collocano verso la metà degli anni ‘90. La vecchia Convenzione di Berna del 1886 conteneva l’art. 2.5 che
viene da molti considerata una sorta di antenato della protezione delle banche dati anche se questa vecchia
norma, pur tuttora in vigore, si occupa delle raccolte di opere letterarie e artistiche. Oggi la banca dati di tipo
utilitario consiste principalmente in raccolte di informazioni di qualunque tipo: cataloghi, prezzi di materie
prime, dati sull’andamento di Borsa, indicazioni sui mezzi di trasporto, indicazioni su prezzi e offerte, ecc.
La Direttiva CE n. 96/9 dell’11 marzo 1996 è una direttiva a cui l’Italia ha dato attuazione inserendo nella
legge sul diritto d’autore gli articoli 1.2, 2 n. 9, 12-bis, 64-quinquies, 64-sexies, 102-bis e 102-ter l.d.a. La
tecnica legislativa è la stessa della tutela del diritto d‘autore del software, vale a dire prevedere delle norme
specifiche per quest’opera utile e stabilire che per tutto ciò che non è espressamente previsto in tali norme
valgono le regole generali di diritto d’autore. In sintesi: per semplificare l’esame della disciplina da un lato ci
concentriamo sulle norme italiane che sono perfettamente allineate a quelle dell’UE, dall’altro lato invece ci
concentriamo solo su queste norme speciali e per tutto ciò che in esse non è previsto valgono i principi già
esaminati precedentemente per il diritto d’autore.

OGGETTO DELLA PROTEZIONE


La prima cosa che fanno queste norme è definire che cosa è una banca dati in senso giuridico, cioè definire
l’entità proteggibile; per questo la Direttiva e, di conseguenza, la legge italiana contengono una definizione
di banca dati secondo la quale si può parlare di banca dati o di un’entità che può aspirare alla protezione con
tali norme quando si è di fronte ad una “raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente
o metodicamente disposti ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo”. È una
sintetica definizione che si compone di tanti elementi che devono essere simultaneamente presenti perché si
possa parlare di banca dati in senso giuridico. Il primo concetto è relativo alla raccolta o compilazione, si
vede la banca dati come una sorta di contenitore di elementi di ogni tipo (es. raccolta di opere letterarie,
artistiche, musicali, testi, immagini, numeri o fatti e dati). È importante ricordare che per avere la protezione
della banca dati non occorre che gli elementi contenuti nella banca dati siano creativi e protetti con il diritto
d’autore. Occorre tenere separata l’entità “banca dati” come raccolta strutturata e i singoli elementi che nella
banca dati vengono inseriti e aggregati. Può essere che questi elementi siano in sé protetti con il diritto
d’autore. Esempio: nei dati della banca dati sull’andamento del prezzo del petrolio non c’è nulla di creativo
ma tuttavia la banca dati come raccolta dei dati in questione può aspirare ad essere protetta.

La legge dice poi che si deve trattare di elementi indipendenti. La Corte di Giustizia ha precisato che si parla
di indipendenza degli elementi quando questi elementi sono separabili tra loro senza che il valore del loro
contenuto venga ad essere intaccato. Esempio: estraggo uno scritto di una raccolta di un autore dalla banca
dati per leggerlo, il fatto di toglierlo dall’insieme dei dati non diminuisce in alcun modo il valore informativo
o letterario di quest’opera. Quella pubblicazione fornisce tutto quello che deve fornire al suo lettore anche se
viene estratta e prelevata dalla banca dati. Poniamo a confronto questa ipotesi con le opere audiovisive o
cinematografiche (es. una canzone o un film): se dal film si estraggono le battute degli attori e si legge solo il
copione, nel momento in cui le singole battute sono estratte dal complesso della creazione complessiva del
film una parte del loro valore viene alterata. Il concetto di indipendenza significa separabilità dell’elemento
accompagnata dal fatto che il valore dell’elemento non è diminuito dal fatto di essere estratto dall’insieme.
Non rientrano perciò nella nozione di banca dati le opere audiovisive o cinematografiche formate da elementi
che non sono tra loro indipendenti.

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Eleonora Biffi

La Corte di Giustizia chiarisce anche un altro concetto: “elementi disposti sistematicamente o metodicamente
e individualmente accessibili”; devono ricorrere le condizioni base affinché la banca dati sia utilizzabile e
fruibile. Perché queste condizioni base ricorrano occorre che gli elementi non siano buttati nella banca dati
alla rinfusa ma che siano disposti e organizzati secondo una certa logica, inoltre è fondamentale che siano
individualmente accessibili: ci deve essere un mezzo di ricerca che consente all’utente della banca dati di
estrarre o individuare l’elemento di suo interesse. Nelle vecchie banche dati cartacee questo era l’indice
ragionato per voci che c’era al termine della banca dati. L’esempio classico di banca dati cartacea erano gli
orari del treno stampati in un libricino che alla fine avevano una guida che indicava in quale pagina c’erano
gli orari relativi alla tratta ferroviaria di interesse. Oggi le banche dati sono tipicamente online e il motore di
ricerca è interno; la legge vuole intendere questo quando dice che la banca dati deve essere corredata da uno
strumento di ricerca che nell’online è tipicamente un motore di ricerca interno. Si deve pensare a tutto questo
in un’ottica di valore aggiunto dato all’utente. La meritevolezza c’è nel momento in cui una banca dati
permette immediatamente all’utente di rintracciare il dato di suo interesse.

Esempi di banche dati presi da controversie reali:


– Cataloghi di opere;
– Cataloghi di merci;
– Listini prezzi e liste clienti;
– Elenchi telefonici (Pagine Bianche, Pagine Gialle);
– Calendari di campionati e competizioni sportive;
– Guide a ristoranti o alberghi;
– Orari dei servizi pubblici;
– Raccolta di schede di razze canine;
– Raccolte di giurisprudenza: in ambiente professionale, in ambito legale, è tipico cercare i principi di diritto
affermati delle varie sentenze che si sono occupare di un determinato tema.

N.B. C’è una considerazione contenuta nel considerando 19 della Direttiva che esclude, almeno di norma, la
protezione delle compilazioni musicali su CD. Le raccolte di creazioni musicali su CD non sono considerate
banche dati.

FORME DI TUTELA
Perché ci possa essere una qualsiasi forma di tutela di una banca dati occorre in primo luogo che l’entità che
si vuole proteggere rientri nella definizione precedente vista. Se una entità rientra nei requisiti per essere
definita banca dati si pone il problema della sua tutela. La tutela del diritto d’autore presuppone sempre una
creatività dell’opera che si vuole proteggere, ma molto spesso le banche dati di utilizzo quotidiano non hanno
in sé un elemento creativo. Per questo motivo il legislatore si è reso conto che richiede la creatività avrebbe
privato la maggior parte delle banche dati di una possibilità di tutela; per tale motivo ha riflettuto che molte
banche dati, pur non essendo creative, meritano protezione perché sono stati spesi investimenti al fine di
recare utilità alla collettività. Viene dunque data un’esclusiva sulla base dell’aver effettuato un investimento
rilevante e cioè nell’aver destinato tempo, fatica e denaro alla creazione della banca dati. Il legislatore ha
previsto due forme di tutela:
– Tutela di diritto d’autore per le banche dati creative: se la banca dati è creativa viene protetta come opera
dell’ingegno. La banca dati creativa nasce da uno sforzo intellettuale.
– Tutela mediante un diritto sui generis per le banche dati che abbiano richiesto un investimento rilevante
nell’aver destinato tempo e denaro alla creazione della banca dati (non rileva la creatività). La banca dati
protetta con il diritto sui generis nasce con il “sudore della fronte” (sforzo profuso per allestirla) perché ha
comportato dispendio patrimoniale e morale.

REQUISITI DI PROTEZIONE
C’è una protezione di diritto d’autore per le banche dati che “per la scelta o la disposizione del materiale
costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”. La legge dice che il diritto d’autore sorge anche per le
banche dati con un atto creativo ma dice anche quale deve essere l’oggetto di questo atto creativo: per una
banca dati la creatività deve riguardare alternativamente o cumulativamente uno di questi due elementi:
– Scelta: criteri di selezione di alcuni dati nell’insieme di dati disponibili. Si selezionano solo alcuni dati tra
quelli disponibili.
– Disposizione del materiale: criteri di coordinamento e di organizzazione dei dati. Il modo in cui i dati sono
organizzati, posti in relazione tra loro e inseriti nella banca dati può essere creativo.

Ci deve essere creatività in questi due elementi. La Corte di Giustizia ha precisato nel caso Football Dataco,
che riguardava la possibilità di qualificare come banca dati proteggibile con il diritto d’autore il calendario

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Eleonora Biffi

delle varie giornate della Premier League inglese di calcio, che il calendario corrisponde in sé alla nozione
giuridica di banca dati ma non presenta elementi di creatività nella scelta e nella disposizione dei dati tali da
ammettere una tutela del diritto d’autore. Nell’esprimere il principio, la Corte precisa che:
– Vi è creatività/originalità nella costituzione di una banca dati quando, mediante la scelta o la disposizione
dei dati, “il suo autore esprima la sua capacità creativa con originalità effettuando scelte libere e creative”,
in altre parole la banca dati è protetta a condizione che la scelta o la disposizione dei dati in essa contenuti
costituisca un’espressione originale della libertà creativa del suo autore.
– Viceversa non vi è creatività/originalità se la costituzione della banca dati è “dettata da considerazioni di
carattere tecnico, da regole o vincoli che non lasciano spazio per la libertà creativa”.
– In ogni caso, nella valutazione della creatività/originalità non assumono rilievo “l’impegno intellettuale e
il know-how destinati alla creazione di dati”. Conta la creatività nella costituzione della banca dati
secondo criteri originali, non l’attività di creazione dei dati in sé. Non diventa creativa una banca dati per
il fatto che siano eventualmente creativi i dati contenuti nella banca dati; la banca dati è creativa e quindi
proteggibile solo se è in sé creativa. Riemerge il concetto dell’irrilevanza della creatività dei dati: proprio
perché la creatività o non creatività dei dati contenuti è irrilevante, altrettanto lo è questa circostanza al
fine di rendere proteggibile la banca dati.

La tutela del diritto d’autore delle banche dati è una realtà marginale rispetto alla tutela sui generis perché
una banca dati che è creativa e originale nella scelta e nella disposizione dei dati più difficilmente ha un
valore di mercato (c.d. paradosso della completezza). È un paradosso perché la legge dice che la banca dati
per essere creativa e protetta con il diritto d'autore deve essere originale nel modo in cui i dati sono scelti e
sono presentati all’utente, ma l’utente ha l’esigenza che i dati non siano selezionati in modo creativo ma che
ci siano tutti. La banca dati è molto più utilizzabile e user friendly se non è disposta e presentata in modo
strano, ma se è presentata in modo standard e facilmente navigabile. Proprio gli elementi che danno valore di
mercato ad una banca dati portano ad escludere elementi di creatività; tutto questo fa sì che nella maggior
parte dei casi la tutela che viene in rilievo è quella sui generis.

TITOLARITÀ DEI DIRITTI DI UTILIZZAZIONE ECONOMICA


La legge procede delineando i tratti salienti di questa disciplina del diritto d’autore dicendo che, secondo le
regole generali, il titolare dei diritti di utilizzazione economica delle banche dati è di regola chi le ha create
anche se, nel caso di banca dati creata da lavoratore dipendente “nella esecuzione delle sue mansioni o su
istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro”, i diritti di utilizzazione economica – salvo patto contrario –
vengono per legge trasferiti al datore di lavoro (art.12-bis l.d.a.).

CONTENUTO DEL DIRITTO


Secondo la regola generale la tutela di diritto d’autore non copre il contenuto ma solo la forma espressiva, in
questo caso non copre il contenuto della banca dati ma solo la forma della banca dati intesa come scelta e
disposizione degli elementi. I diritti esclusivi sono quelli già noti:
– Diritti esclusivo di riproduzione permanente o temporanea, totale o parziale, con qualsiasi mezzo e in
qualsiasi forma;
– Diritto esclusivo di elaborazione: traduzione, adattamento, diversa disposizione e ogni altra modifica della
banca dati;
– Diritto esclusivo di distribuzione al pubblico dell’originale o di copie della banca dati. Per la vendita vale
il principio dell’esaurimento del diritto sulla copia venduta dal titolare o con il suo consenso all’interno
dell’UE;
– Diritto esclusivo di presentazione, dimostrazione o comunicazione in pubblico della banca dati, compresa
la trasmissione effettuata con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma;
– Diritto esclusivo di riproduzione, distribuzione, comunicazione, presentazione, dimostrazione in pubblico
dei risultati delle modifiche ed elaborazioni. Quest’ultima disposizione si collega al diritto di elaborazione
dove il titolare della banca dati ha sia il diritto esclusivo di elaborare e modificare la banca dati sia il
successivo diritto esclusivo di riprodurre, distribuire, comunicare, sfruttare in qualunque modo il risultato
di quella elaborazione, trasformazione o modificazione.

LIBERE UTILIZZAZIONI
Anche per le banche dati protette con il diritto d’autore si hanno delle libere utilizzazioni.
– Accesso o consultazione della banca dati con finalità esclusivamente didattiche o di ricerca scientifica se:
l’attività di accesso o consultazione non è svolta nell’ambito di un’impresa; si resta nei limiti di quanto
giustificato dallo scopo non commerciale perseguito; non si procede alla riproduzione permanente della
totalità o di una parte sostanziale del contenuto su un altro supporto; nel rispetto delle buone norme di
citazione deve essere sempre indicata la fonte.

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Eleonora Biffi

– Impiego della banca dati per fini di sicurezza pubblica o per effetto di una procedura amministrativa o
giurisdizionale. Per questa ipotesi non ci sono limitazioni alla libera utilizzazione perché vengono in gioco
fini di sicurezza pubblica (c.d. eccezione di polizia).
– Libera utilizzazione dell’utente legittimo: una volta che il soggetto abbia legittimamente acquisito la
disponibilità di una copia della banca dati, tutto ciò che è necessario per sfruttare il contenuto informativo
di altro tipo di quella banca dati per il suo normale impiego è libero e consentito e qualunque pattuizione
contrattuale in senso contrario è nulla e invalida. Non si può mai vietare all’utente legittimo di fare tutto
quanto gli è necessario per sfruttare a pieno la banca dati da lui acquisita legittimamente.

TUTELA MEDIANTE IL DIRITTO SUI GENERIS


In questo caso nella prassi non c’è un elemento creativo, c’è un soggetto che la legge definisce “costitutore”
che è colui che realizza la banca dati. Costitutore è “chi effettua investimenti rilevanti per la costituzione di
una banca dati o per la sua verifica o la sua presentazione, impegnando a tal fine di mezzi finanziari, tempo o
lavoro”. La Direttiva parla di un “investimento rilevante sotto profilo qualitativo e quantitativo”; ci sono
mezzi quantitativamente rilevanti (es. denaro) e mezzi qualitativi (es. lo sforzo effettuato, le difficoltà nel
reperire i dati, il tempo, ecc). La legge precisa ulteriormente che a differenza del diritto d’autore, di cui può
esserne titolare chiunque nel mondo, per le banche dati questa tutela speciale sui generis vale solo su soggetti
collegati all’UE quindi cittadini di Stati di UE o di residenti abituali nella UE o, nel caso di imprese, soggetti
con una sede in uno Stato UE e un legame effettivo e continuo con questo Stato. Il diritto d’autore può
spettare anche a un cittadino fuori dall’UE, il diritto sui generis spetta invece solo ai soggetti che hanno un
collegamento con l’UE.

REQUISITI DI PROTEZIONE
Come risulta dalla definizione di costitutore, presupposto della tutela sono gli investimenti rilevanti (non la
creatività). La rilevanza in un investimento è valutata:
– Sia sotto il profilo quantitativo: si fa qui riferimento a “mezzi quantificabili numericamente” (es. somme
investite);
– Sia sotto il profilo qualitativo: si fa riferimento a “ sforzi non quantificabili, quali uno sforzo intellettuale
o un dispendio di energie”; non necessariamente per avere un diritto esclusivo grazie ad un investimento
rilevante occorre che ci sia un investimento monetario, può essere anche un investimento di altro tipo (es.
aver destinato la propria attività alla creazione della banca dati anche se poi non si è finanziata a livello
monetario tale creazione).

La legge precisa anche quale deve essere l’oggetto dell’investimento, cioè su quali elementi si deve investire
per poter avere una tutela di questa banca dati con il diritto sui generis. Gli elementi che la legge identifica
sono tre: costituzione, verifica e presentazione. È sufficiente, per poter parlare di investimento rilevante, che
ci sia almeno uno di questi tre elementi. La Corte di Giustizia ne ha ben specificato i termini dalla sentenza
del 2004 Fixtures Marketing. Esaminiamoli singolarmente:
– L’investimento per la costituzione della banca dati ha ad oggetto “i mezzi destinati alla ricerca di elementi
indipendenti esistenti e alla loro riunione nella banca dati”; non rilevano invece i “mezzi impiegati per la
creazione stessa di elementi indipendenti”. Rileva solo l’investimento per conseguire la banca dati, non
anche l’investimento per creare i dati. Esempio: il soggetto che aveva creato i calendari dei campionati di
calcio della Premier League aveva chiesto una tutela del diritto d’autore che era stata negata perché non
c’era creatività nella disposizione dei dati ma aveva chiesto anche una tutela sui generis, motivandola
dicendo di aver effettuato un investimento rilevante per l’organizzazione del campionato e anche per la
creazione di calendari (che vengono fatti con processi e regole specifiche). La Corte di Giustizia ha detto
che questo non era un investimento per la costituzione della banca dati bensì era un investimento per la
creazione dei dati, per individuare le regole con cui i dati relativi alle singole partiti vengono creati. Una
volta creati i dati, il metterli in una banca dati online non è nulla di particolarmente difficoltoso.
– L’investimento per la verifica della banca dati ha ad oggetto “i mezzi destinati, al fine di assicurare
l’affidabilità dell’informazione contenuta nella detta banca dati, al controllo dell’esattezza degli elementi
ricercati, all’atti della costituzione di questa banca di dati così come durante il periodo di funzionamento
della stessa”. Si tratta di investimenti profusi per far sì che la banca dati sia affidabile, cioè che contenga
elementi veri e verificabili. L’utente deve poter fare affidamento sul fatto che quello che è contenuto nella
banca dati è vero e controllato, tanto più oggi dove Internet è spesso divenuto un veicolo di informazioni
false che possono sviare e trarre in inganno l’utente. A maggior ragione è importante una verifica seria e
rigorosa della veridicità dei dati.
– L’investimento per la presentazione (elemento finale nel rapporto con l’utente) è l’insieme di tutti i mezzi
che permettono alla banca dati di essere fruibile, cioè gli investimenti effettuati per disporre in maniera
ottimale dei dati della banca dati e per renderli facilmente accessibili. Il modo standard di riunire i dati, di

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Eleonora Biffi

coordinarli sistematicamente e di renderli accessibili può non avere alcunché di creativo, ma può invece
richiedere investimenti specifici che rendono quella banca dati meritevole di protezione.

CONTENUTO DEL DIRITTO


Si fa riferimento all’oggetto della protezione. Nel diritto sui generis la protezione si può estendere al loro
contenuto informativo: sono proprio le operazioni di duplicazione e di trasmissione del contenuto ad essere
vietate dal diritto sui generis. Si tratta di un diritto più idoneo a dare tutela alle banche dati perché, una volta
venuto ad esistenza, il diritto tutela la banca dati contro le attività di duplicazione, copiatura, trasmissione e
vendita del contenuto del pacchetto informativo a terzi. Il costitutore ha due diritti esclusivi secondo il diritto
sui generis:
– Estrazione: trasferimento permanente o temporaneo della totalità o di una parte sostanziale del contenuto
di una banca di dati su un altro supporto con qualsiasi mezzo o in qualsiasi forma. È l’equivalente del
diritto esclusivo di riproduzione nel diritto d’autore. L’atto vietato consiste nel copiare, nel duplicare o
riprodurre la banca dati o una sua parte sostanziale. L’estrazione presuppone anche il trasferimento su un
altro supporto; non basta avere accesso alla banca dati, occorre anche che la banca dati o una sua parte
sostanziale siano copiate, spostate, duplicate su un altro supporto.
– Reimpiego: è l’equivalente dei diritti di distribuzione e di comunicazione nel diritto d’autore; si riferisce a
qualsiasi forma di messa a disposizione del pubblico della totalità o di una parte sostanziale del contenuto
della banca di dati mediante distribuzione di copie, noleggio, trasmissione effettuata con qualsiasi mezzo e
in qualsiasi forma, comunicazione a terzi e via dicendo. L’unica accortezza qui è non farsi forviare dalla
parola “reimpiego” che effettivamente non è il termine più appropriato per definire questo diritto perché
reimpiego nel linguaggio comune fa piuttosto pensare ad un soggetto che riutilizza per proprie finalità la
banca dati. Non è questo il significato di tale parola nella disciplina delle banche dati; qui reimpiego vuol
dire vendere, noleggiare, trasmettere, comunicare ad un terzo una banca dati o una parte sostanziale della
banca dati.

Le questioni reinterpretative hanno riguardato la nozione di parte sostanziale. La legge ha vietato le attività
sia per quanto riguarda la totalità della banca dati, sia per quanto riguarda una sua parte sostanziale. La parte
sostanziale va intesa sia in senso:
– Quantitativo: si fa riferimento al volume dei dati estratti o reimpiegati rispetto al volume totale del
contenuto della banca dati. Se un banca dati è formata da 1 milione di dati, estrarne o reimpiegarne 10mila
non è una parte sostanziale dal punto di vista quantitativo, mentre estrarne 950.000 lo è.
– Qualitativo: si fa riferimento alla rilevanza degli sforzi dell’investimento profuso dal costitutore per la
parte specifica del contenuto della banca dati che è stata estratta o reimpiegata. Una banca dati contiene 1
milione di dati, supponiamo che la ricerca e il reperimento di 5mila dati abbia richiesto molto tempo e
denaro; se un terzo copia proprio quei 5mila dati può essere che quei soldi siano qualitativamente rilevanti
rispetto ad un milione, ma se per quei 5mila è stato speso il 40% dell’investimento rispetto al totale della
banca dati è evidente che quei 5mila diventano una parte sostanziale.

Se l’estrazione o il reimpiego riguardano delle parti non sostanziali sono di regola leciti. Sono invece vietati
l’estrazione o il reimpiego “ripetuti e sistematici” di parti non sostanziali, che siano contrari alla normale
gestione della banca dati o arrechino un pregiudizio ingiustificato. Si tratta dei casi in cui, attraverso l’effetto
cumulativo di tante piccole operazioni di estrazione/reimpiego, si arriva a duplicare o mettere a disposizione
del pubblico la totalità o una parte sostanziale della banca dati. Estrazione e reimpiego divengono illeciti
quando sono ripetuti e finalizzati ad un effetto cumulativo per assemblare una parte molto più rilevante e
sostanziale. Vale anche per questo diritto sui generis la regola dell’esaurimento se una copia della banca dati
è venduta dal titolare o con il suo consenso all’interno dell’Unione Europea; in quel caso si esaurisce il
diritto di controllare la rivendita di quella copia. Qualora il costitutore abbia reso la sua banca dati accessibile
al pubblico, non può essere impedita a terzi la mera consultazione della banca dati, in assenza di estrazione o
reimpiego (caso The British Horseracing Board).

FACOLTÀ DELL’UTENTE LEGITTIMO


Anche per il diritto sui generis la legge prevede delle facoltà dell’utente legittimo. L’utente legittimo può
effettuare attività di estrazione o di reimpiego di parti non sostanziali del contenuto della banca dati, per
qualsiasi fine. Viceversa, l’utente legittimo non può “arrecare pregiudizio al titolare del diritto d’autore o di
un altro diritto connesso relativo ad opere o prestazioni contenute in tale banca dati”; non può neppure
“eseguire operazioni che siano in contrasto con la normale gestione della banca di dati o che arrechino un
ingiustificato pregiudizio al costitutore della banca dati”. Si precisa che l’utente legittimo può fare estrazione
o reimpiego di parti non sostanziali e non si possono svolgere attività che non siano quelle del suo fisiologico
utilizzo (nei modi accettati e accettabili).

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DURATA DEL DIRITTO


Per il diritto d’autore generale non ci sono regole speciali, vale la regola di tutela per tutta la vita dell’autore
e per i settant’anni dalla morte dell’autore. Il diritto sui generis ha invece una durata molto più breve; le
regole specificamente indicate sono abbastanza complesse e vanno messe in interrelazione tra di loro.
a. La prima dice che il diritto sui generis “sorge nel momento stesso in cui si completa la banca dati e si
estingue dopo quindici anni computati dal 1º gennaio dell’anno successivo alla data di completamento”.
Se io costituisco una banca dati e la completo il 15 settembre 2020, da tale data ho un diritto esclusivo
che dura fino a quindici anni calcolati dal 1º gennaio 2021.
b. Tuttavia, se prima che scada il termine posto dalla prima regola la banca dati viene messa a disposizione
del pubblico ridecorre un nuovo termine di quindici anni, il termine si allunga in modo corrispondente.
Tornando all’esempio precedente, nel giugno 2024 metto a disposizione del pubblico questa banca dati.
A questo punto i quindici anni di termine finale della protezione non si calcoleranno più dal 1º gennaio
2021 ma dal 1º gennaio 2025. Questo vale solo se è stata messa a disposizione del pubblico quando il
termine di cui alla prima regola non era ancora scaduto, alternativamente la protezione è scaduta e non
rivive.
c. La terza regola riguarda le banche dati dinamiche e statiche. Le banche dati statiche sono quelle che non
solo sono complete, ma non possono più arricchirsi di elementi. Caso tipico è una banca dati relativa ad
un evento del passato (es. atti e discorsi tenuti durante il congresso di un partito politico nel 1980. Una
volta raccolti tutti i materiali di quel congresso non ce ne potranno essere di nuovi perché l’evento si è
concluso nel passato e la banca dati è statica nel senso che è completa per sempre). Le banche dati
dinamiche sono ad esempio quelli relative ad un andamento delle quotazioni in Borsa; questa banca dati
è per sua natura destinata ad incrementarsi di dati di giorno in giorno, è aperta a continue integrazioni e
ha un valore per il fatto di restare aggiornata. Se l’aggiunta di questi dati sono qualcosa di assolutamente
routinario e automatico, non cambia nulla rispetto alle regole del diritto. Se invece ad un certo punto la
banca dati ha bisogno di un’opera di aggiornamento molto più rilevante o un opera di aggiornamento che
richiede nuovi investimenti rilevanti per quelle modifiche o integrazioni allora la situazione cambia: nel
caso delle banche dati dinamiche, nel momento in cui l’investimento rilevante viene effettuato è come se
ci fosse un nuovo presupposto che prende la banca dati meritevole di tutela ed il termine di protezione
ricomincia a decorrere da capo. In altre parole, decorre un nuovo periodo di tutela; la prima e la seconda
regola si applicano di nuovo dal momento del completamento o della prima messa a disposizione del
pubblico della banca dati modificata o integrata sulla base di un nuovo investimento rilevante. Un punto
lasciato aperto è se il nuovo prolungamento della protezione riguardi la banca dati nel suo complesso o
solo le parti modificate o integrate. La differenza è rilevante perché se si tratta solo della parte modificata
o integrata, su tutto il resto la protezione scade e prosegue solo per la parte aggiunta. Se il ridecorrere del
termine riguarda la banca dati nel suo complesso vuol dire che anche i dati vecchi beneficiano di questo
nuovo decorso del termine. Nel 2017 la Corte di Cassazione italiana ha detto che il nuovo periodo di
protezione riguarda l’intera banca dati. Se nel corso del tempo continuano ad essere effettuati degli
investimenti rilevanti per modificare e integrare una banca dati dinamica, la protezione di questa banca
dati potrebbe addirittura diventare potenzialmente perpetua perché ad ogni investimento il termine
ricomincia a decorrere.

Mettendo insieme le tre regole (costituzione, messa a disposizione, banche dati dinamiche) riusciamo a
ricostruire: il periodo di durata di questo diritto esclusivo in relazione al quale bisogna ricordare il concetto
di costitutore; la limitazione alla possibile titolarità del diritto ai soggetti collegati all’UE; il requisito degli
investimenti rilevanti per costituzione, verifica e presentazione; i diritti esclusivi di estrazione e di reimpiego
e il concetto di parte sostanziale e non sostanziale; la durata del diritto.

MARCHI
SEGNI REGISTRABILI E SOGGETTI LEGITTIMATI
Siamo nella parte della proprietà intellettuale dedicata ai segni distintivi. Quando parliamo di segni distintivi
ci riferiamo a segni che, in ambito commerciale, servono ad identificare e distinguere il soggetto che svolge
l’attività economica nei molteplici aspetti in cui questa attività si estrinseca. In questa categoria troviamo i
marchi, che sono i segni che contraddistinguono prodotti e servizi posti sul mercato da un imprenditore nei
rapporti con i consumatori finali; si tratta di segni che permettono ai consumatori di identificare il prodotto o
servizio e di comprendere da quale imprenditore provenga. Troviamo poi la ditta che indica invece il nome
distintivo dell’imprenditore nei rapporti d’affari con altri operatori del settore (fornitori, clienti della filiera,
dettaglianti, grossisti, distributori, ecc); l’insegna è il segno distintivo dei locali in cui l’attività economica
viene esercitata; la denominazione sociale o ragione svolge la stessa funzione sociale della ditta: identifica la
società nei rapporti d’affari; i segni distintivi tipici del mondo online sono ad esempio domain name, nomi di
account e pagine usati nell’esercizio di un’attività economica, account e profili di piattaforme web usate per

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Eleonora Biffi

fini commerciali, ecc. La filosofia di fondo dei segni distintivi è permettere ad un imprenditore, nei suoi
rapporti d’affari o nelle offerte destinate ai consumatori, di essere precisamente identificato. È un diritto che
si colloca a pieno titolo nell’ambito della comunicazione d’impresa. Questo perché i segni distintivi sono gli
strumenti con cui l’imprenditore si identifica sul mercato e veicola determinati messaggi o significati alla
platea di soggetti che entrano in contatto con tali segni distintivi. Ogni volta che compiano una scelta di
acquisto troviamo sul mercato una pluralità di offerte provenienti da imprenditori diversi e siamo in grado di
capire esattamente da quale imprenditore l’offerta provenga grazie al segno distintivo con cui il prodotto o il
servizio è offerto sul mercato. In generale i segni distintivi sono fondamentali per il buon funzionamento del
mercato a tutti i livelli e in relazione a tutti gli interessi coinvolti: da un lato permettono agli imprenditori di
essere identificati e far conoscere le specificità dei propri prodotti o servizi, dall’altro incentivano gli stessi
ad offrire sul mercato prodotti o servizi sempre migliori (più efficienti e a prezzi più contenuti). C’è quindi
un incentivo a battere la concorrenza, migliorando al contempo le caratteristiche della propria offerta. Dal
punto di vista dei consumatori è evidente l’interesse all’esistenza di segni distintivi che permettono loro di
comprendere da chi provengono i prodotti o servizi presenti sul mercato. Nella prospettiva privatistica della
sfera del consumatore, in questo modo egli può fare delle scelte più ragionate e più convenienti: sulla base di
precedenti esperienze d’acquisto o esperienze di altri, il consumatore orienta la scelta verso i prodotti/servizi
poi soddisfacenti. L’effetto diretto è che questo sistema di possibilità di identificare l’imprenditore fa sì che il
consumatore tendenzialmente possa operare come giudice del mercato. In una prospettiva di più largo respiro
c’è anche l’effetto di indirizzare fisiologicamente la domanda dei consumatori verso i prodotti o servizi che
meglio soddisfano le esigenze e di allontanarla da quelli meno efficienti e meno convenienti. Alla fine si
determina una situazione di mercato in cui gli imprenditori virtuosi sono premiati e resteranno sul mercato,
quelli invece meno abili nella capacità di offrire prodotti/servizi adeguati al mercato tendenzialmente saranno
espulsi dal mercato perché non avranno le condizioni per rimanervi. È il gioco della libera concorrenza di cui
il consumatore è arbitro. Nella realtà di mercato odierna il rilievo dei segni distintivi è andato ancora oltre. Si
passa al profilo di comunicazione anche nel senso di strategie di marketing e costruzione di un brand. Anche
in tempi recenti, molti studi sono stati dedicati ad approfondire tale evoluzione da marchio a marca. Tale
evoluzione porta il tradizionale segno distintivo, il marchio, ad essere anche uno strumento per costruire una
certa immagine e per veicolare certi valori in cui il consumatore può identificarsi. I grandi brand del lusso
trasmettono un universo di messaggi, valori, immagini (immagini di stile, lusso, alta efficienza tecnologica,
elitaria). Al contrario altri brand puntano su un abbigliamento più informale e casual. Il marchio diventa uno
strumento per costruire l’immagine di marca e veicolarla ai consumatori. Il prodotto/servizio viene percepito
come espressione di valori con cui il consumatore si identifica e che vuole manifestare attraverso l’acquisto
di quel prodotto o servizio. I marchi sono il segno distintivo per eccellenza che un imprenditore usa per
comunicare con i consumatori; le tecniche di comunicazione odierne permettono di riempirli e caricarli di
tanti significati e messaggi diversi. I marchi sono anche una cartina di tornasole dell’abilità imprenditoriale.
Nel tempo possono acquisire un valore elevatissimo addirittura nell’ordine di miliardi di Euro (es. Apple).
Da tale punto di vista il marchio è totalmente rimesso alla capacità dell’imprenditore di costruire quel segno
e dargli un valore identificato sul mercato.

La legislazione sui marchi si è evoluta di pari passo con una evoluzione del mercato. Tradizionalmente il
marchio veniva protetto solo in relazione alla sua capacità di identificare la provenienza del prodotto/servizio
da un certo imprenditore (funzione distintiva), nella legge attualmente in vigore le funzioni protette sono
state ampliate e oggi la legge protegge anche la funzione pubblicitaria o di comunicazione del marchio: il
marchio è protetto in tutti gli aspetti relativi ai messaggi che, con lo stesso, l’imprenditore vuole comunicare.
La legge assicura che i messaggi di qualunque tipo che il marchio comunica non siano depotenziati, sporcati,
danneggiati o non siano fatti oggetto di appropriazione parassitaria da parte di altri. Tale legislazione è molto
attenta nel proteggere tutti gli aspetti in cui si manifesta il valore comunicazionale di un brand sul mercato.
La disciplina dei marchi d’impresa ha le sue basi nelle convenzioni internazionali: Convenzione di Parigi e
Accordi TRIPs. Ha poi una vasta articolazione in Direttive e Regolamenti dell’UE (i più recenti sono stati
adottati dal 2015 in avanti) e, a livello nazionale, sono indicati gli art. dal 7 al 28 c.p.i. Lo schema di analisi
è quello usuale per le privative industrialistiche: individuazione delle entità proteggibili, requisiti di validità,
ambito di tutela, possibili cause di nullità o decadenza. I marchi sono la risposta che il legislatore dà dal
punto di vista giuridico alle esigenze di comunicazione sul mercato dell’imprenditore in modo che non venga
disturbata da condotte indebite o illecite di altri concorrenti.

SEGNI REGISTRABILI COME MARCHIO


Art. 7 c.p.i.: possono essere registrati come marchio tutti i segni che siano atti a distinguere i prodotti o
servizi di un’impresa da quelli di altre imprese e siano altresì atti ad essere rappresentati nel registro in modo
tale da consentire alle autorità competenti e al pubblico di determinare con chiarezza e precisione l’oggetto
della protezione conferita al titolare. Esempi: Apple, Samsung, Barilla, Ferrari. Se tradizionalmente i marchi

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Eleonora Biffi

erano gli elementi denominativi o figurativi, è anche vero che nella realtà di mercato attuale molti altri tipi di
segni servono a identificare il produttore (es. marchio sonoro, tema musicale in una pubblicità, jingle, slogan,
forma del prodotto, packaging, forme dei prodotti di moda, forma della carrozzeria di un’auto). Nel diritto
tradizionale si individuavano determinate categorie di segni e si stabiliva che esse fungessero da marchio. La
prospettiva moderna dice che non è compito del legislatore predeterminare quali categorie di segni possano
essere marchi e quali no: si parte dalla realtà di mercato e si identificato i segni idonei a veicolare messaggi
al consumatore; tutti i tipi di segni idonei, di qualunque natura, sono protetti come marchio. Non sono posti
limiti alla capacità dell’impresa di creare strumenti di comunicazione; tutto ciò che serve alla comunicazione
può essere protetto come marchio. I tre elementi salienti delle entità registrabili come marchi sono: segni,
idonei a comunicare messaggi relativi ai prodotti/servizi al consumatore, idonei ad una rappresentazione nel
registro accurata. Trattandosi di monopoli, i terzi devono essere in grado di sapere cosa è protetto e cosa no.

Il marchio è un segno: si deve trattare di una entità in grado di trasmettere un significato a un soggetto che
con essa entra in contatto. Si deve quindi trattare di una entità che può fungere da veicoli di un messaggio
dall’imprenditore (mittente) al consumatore finale (destinatario). Non sono considerati dei segni gli elementi
strutturali del prodotto che il pubblico vede soltanto come una parte, un aspetto naturale, una caratteristica
connaturata al prodotto e che non gli trasmettono alcuna informazione ulteriore. Esempio: un tavolo di legno
con una forma rettangolare e con una colorazione tipica è un normale prodotto che non può essere elevato al
concetto di segno perché non trasmette nessun messaggio ulteriore, comunica al consumatore solo di essere
un tavolo. Questo non vuol dire che tutte le forme non siano segni, ma bisogna vedere nel caso concreto. Un
tavolo iconico di design che comunica il messaggio di essere stato realizzato da un certo imprenditore è un
segno. Si prestano ad essere segni gli elementi estrinseci al prodotto (parole, figure, elementi esterni) che non
sono incorporati nel prodotto ma sono apposti sullo stesso; quando invece si tratta di una parte strutturale del
prodotto in sé, dobbiamo valutare se nel caso specifico quella parte sia un segno oppure no. La banale forma
che non comunica niente non è un segno, la forma che il consumatore è in grado di imputare ad un certo
imprenditore può essere un segno. Un elemento idoneo a fungere da vettore di messaggio al pubblico è un
segno che può essere protetto come marchio.

Il concetto di segno ha una propria evoluzione naturale nel secondo requisito: attitudine a distinguere, cioè
l’idoneità del segno a svolgere una funzione distintiva, ossia a comunicare al consumatore un messaggio
relativo alla provenienza del prodotto o del servizio da una certa fonte oppure a loro caratteristiche. Inoltre, il
segno deve essere idoneo a svolgere anche una funzione di comunicazione al pubblico di messaggi di vario
tipo connessi ad esempio all’immagine, alla notorietà, allo stile, alla fascia di mercato, al tipo di consumatori
cui i prodotti o servizi sono destinati, a determinati valori di cui il segno diventa espressione con l’uso (c.d.
funzione attrattiva o pubblicitaria o di comunicazione). Le ragioni di protezione del marchio di un certo
imprenditore sono connesse all’esigenza di evitare che terzi, utilizzando segni distintivi identici o simili al
marchio registrato, possano intralciare la comunicazione d’impresa attraverso quel marchio. Il terzo potrebbe
svolgere attività che danneggiano le immagini del brand (es. il brand originale è stato caricato di una serie di
significati o messaggi e viene utilizzato da un contraffattore in un contesto completamente diverso e rivolto
ad una clientela che non coincide con quella per cui era stato costruito il brand). I messaggi che il marchio
può trasmettere sono molteplici così come sono molteplici le esigenze di protezione del marchio. A queste
esigenze deve corrispondere una tutela effettiva. Qualunque attività che intralcia l’esplicarsi della funzione
comunicativa del marchio costituisce contraffazione.

Un altro requisito è la rappresentabilità nel registro che riguarda l’idoneità del segno ad essere “fissato” in
modo chiaro, stabile e preciso. La consultazione del registro dei marchi deve consentire di individuare cosa è
protetto e cosa no in modo immediato. Nella pratica, quando l’imprenditore vuole lanciare un nuovo marchio
sul mercato, la prima cosa che è consigliabile fare è una ricerca di anteriorità. Il segno deve essere fissato nel
registro in modo chiaro, stabile e preciso. Fino a poco tempo fa l’unica forma di rappresentazione del segno
menzionata dalla legge era la tradizionale rappresentazione grafica. La legge ora si è adeguata alle moderne
tecnologiche ed è accettata qualsiasi forma idonea dal punto di vista tecnico/tecnologico di rappresentazione
del segno. Per rappresentare il segno nel registro si può utilizzare qualsiasi tecnologia idonea come ad
esempio rappresentazioni grafiche, anche in un file digitale; file audio o video; raffigurazioni tridimensionali.
L’importante è che si capisca esattamente qual è il segno protetto.

N.B. Per alcuni tipi di marchi questo requisito pone tuttavia difficoltà pratiche: ciò avviene specialmente per
i marchi olfattivi e di sapore. Allo stato attuale delle tecnologie disponibili non si è ancora arrivati a delle
tecnologie che siano in grado di rappresentare nel registro dei marchi in modo sufficientemente chiaro questo
tipo di segni anche se in sé potrebbero essere dei marchi (per questo motivo li troveremo in uno degli elenchi
successivi).

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Eleonora Biffi

L’elenco non tassativo di segni registrabili di cui all’articolo 7 c.p.i. è un elenco puramente esemplificativo
perché oggi per la legge non è più importante che un segno appartenga ad una certa categoria, ma bensì deve
trattarsi di un segno idoneo a svolgere le funzioni di comunicazione di cui sopra e altresì idoneo ad essere
fissato in modo stabile nel registro. Questo elenco è redatto dal legislatore solo per dare esemplificazioni
all’interprete, ma non è un elenco chiuso:
– Parole, compresi i nomi di persone (marchi patronimici, sono frequenti nel settore della moda);
– Disegni (marchi figurativi);
– Lettere e cifre (marchi alfabetici o numerici);
– Forma del prodotto o della sua confezione;
– Suoni;
– Colori (combinazioni o tonalità cromatiche). In alcuni casi l’idea di aver dotato un certo prodotto di una
certa colorazione rende quel segno un segno distintivo. Ad esempio colorare un attrezzo agricolo con un
determinato elemento cromatico che lo distanzia dalla pratica del settore è un qualcosa che identifica quel
prodotto. Milka ha puntato sul lilla che non era un colore usuale per le tavolette di cioccolato. Nel settore
dei servizi finanziari ci sono alcuni operatori che si caratterizzano per usare sempre un certo colore che
diventa poi identificativo per il consumatore di quella banca.

Segni diversi da quelli elencati dall’art. 7 c.p.i.:


– Marchi olfattivi;
– Marchi gustativi o di sapore;
– Marchi tattili: lavorazione in rilievo della superficie del prodotto;
– Marchi di posizione: posizionamento di un certo elemento in un certo punto del prodotto;
– Marchi di movimento: rappresentazione di una parte in movimento del prodotto.
– Marchi di luce: particolari giochi di luce che illuminano o che presentano in un certo modo il prodotto o il
servizio;
– Layout dei punti vendita: allestimento del negozio secondo caratteristiche predeterminate. Una sentenza
del 2014 della Corte di Giustizia dell’UE ha ammesso la registrazione come marchio del layout dei tipici
negozi monomarca della Apple.

Le classificazioni in tema di marchi sono decine, molte non hanno un rilievo pratico ma sono puramente fini
a se stesse, altre invece hanno un rilievo e sono le seguenti:
– Marchi di prodotto e marchi di servizio: i marchi di prodotto identificano un bene posto sul mercato, quelli
di servizio identificano l’offerta di un servizio. La differenza tra le due categorie sta nella modalità d’uso
del marchio: per i prodotti la forma più immediata è imprimere il marchio sul prodotto, per i servizi la
forma usuale di utilizzo è solo nella comunicazione pubblicitaria o nei mezzi con cui il servizio è svolto o
sulle divise del personale (es. apposizione del marchio sui furgoni dei corrieri).
– Marchi di fabbrica (produttore) e marchi di commercio (commerciante/intermediario che intervengono in
fasi successive della catena distributiva). Il rilievo di tale distinzione emerge in una norma specifica della
disciplina dei marchi: ove un certo prodotto sia stato messo in commercio dal titolare del marchio di
fabbrica con quel marchio, il rivenditore delle fasi successive può aggiungere il suo marchio di commercio
ma non può sopprimere né cancellare il marchio di fabbrica del produttore.
– Marchi generali (tutti i prodotti o servizi di un imprenditore) e marchi speciali (un singolo prodotto o
servizio). La differenza si manifesta sul tipo di messaggi comunicati da tali marchi. Ad esempio nel settore
automobilistico o informatico il marchio generale della casa o società è quello presente su tutti i prodotti
di quella società (Fiat o Samsung) mentre il marchio speciale è quello apposto alle varie vetture o ai vari
dispositivi. Il marchio generale comunica dei messaggi essenzialmente relativi alla provenienza di un
prodotto da quel produttore, il marchio speciale è più legato al prodotto e si presta ad essere un veicolo di
messaggi relativi alle specifiche caratteristiche di quel prodotto. Il marchio generale assume la valenza di
segnale di provenienza del bene da una certa entità imprenditoriale, il marchio speciale assume la valenza
di garanzia della presenza nel prodotto delle sue specifiche caratteristiche.
– Marchi semplici (composti da un solo elemento) e marchi complessi (composti da più elementi). Ci può
essere il marchio costituito dalla singola parola o dal singolo elemento figurativo o sonoro, ma ci possono
essere anche marchi in cui si fondono insieme elementi denominativi e figurativi. Ad esempio Barilla ha
come elemento figurativo l’ellisse arancione che reca sopra la scritta “Barilla”. Si tratta di un marchio in
cui convivono elementi distintivi di diversa natura. I marchi costituiti da una combinazione di parola e
disegno si chiamano marchi misti. La loro caratteristica è la compresenza di più elementi diversi. Nella
valutazione della loro validità e violazione si deve tenere conto della percezione di un consumatore che
entra in contatto con un insieme di elementi. Un elemento che da solo concentra su di sé l’attenzione di un
consumatore, se presentato insieme ad altri che spiccano maggiormente, può passare in secondo piano ed
essere notato meno. Il rilievo del segno può essere diverso a seconda che sia da solo o che sia collegato ad

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Eleonora Biffi

altri elementi. Si parla di valutazioni in concreto del messaggio comunicato al consumatore e di come il
consumatore recepisce il messaggio.

SOGGETTI LEGITTIMATI A REGISTRARE UN MARCHIO


Nei brevetti e nel diritto d’autore, nel momento in cui viene realizzata l’entità da proteggere, è già nella
natura delle cose che sia individuato il soggetto legittimato a chiedere il brevetto o a vantare la tutela del
diritto d’autore. Nel caso dei marchi la situazione è diversa perché il marchio, nel momento in cui è creato e
adottato, spesso non ha un suo valore particolare. Non si tratta di attività intellettuali, creative e inventive
così rilevanti da far sì che ci sia già in partenza un avente diritto sul segno. Questo spiega perché, nel diritto
dei marchi, le situazioni in cui si possa dire che c’è già un avente diritto sul segno sono molto limitate. La
regola generale fissata dall’art. 19.1 c.p.i. è che “può registrare un marchio chiunque lo utilizzi o si proponga
di utilizzarlo in una propria attività di impresa o in attività di terzi che lo utilizzino con il suo consenso”. Di
fatto la norma consente a chiunque di registrare un marchio. La legge dice che ci vuole una intenzione di
utilizzo diretto o indiretto tramite terzi in un’attività d’impresa, ma è anche vero che questa intenzione non
ha una propria sanzione e, di fatto, la conseguenza del deposito di un marchio senza prospettiva di utilizzo ha
come unica vera conseguenza che, decorsi i cinque anni, il marchio decade per non uso. Rispetto alla regola
generale i casi in cui la registrazione è riservata solo ad alcuni soggetti in relazione ad un certo segno sono
casi particolari che derogano alla regola generale. Se ci sono su un certo segno già dei diritti anteriori di un
altro soggetto per titoli e ragioni particolari, l’esistenza di diritti anteriori riserva in esclusiva la registrazione
come marchio di quel segno a chi è titolare di questi diritti anteriori. Se invece non ci sono i diritti anteriori,
la registrazione del segno è libera. Un segno che non sia già stato precedentemente occupato come marchio
di regola è liberamente registrabile da chiunque.

Vi sono però casi in cui la registrazione di un segno come marchio è riservata ad alcuni soggetti (c.d. aventi
diritto). Ipotesi:
– Art. 8.1 c.p.i.: divieto di registrazione (senza il consenso dell’avente diritto) del ritratto altrui: qualunque
segno in cui siano riconoscibili le fattezze di una persona (es. fotografia, ritratto, disegno). Il criterio non è
quello del tipo di ritratto, ma è quello di un segno in cui per qualsiasi motivo il pubblico possa riconoscere
l’aspetto di una persona. Il caso classico era riferito a Lucio Dalla: ci si chiedeva se si potesse qualificare
come ritratto del cantante un disegno in cui non si vedevano i lineamenti del volto del cantante ma erano
riprodotti in modo stilizzato il suo abbigliamento e accessori tipici; la giurisprudenza ha detto che, anche
se non erano riprodotti i lineamenti del viso, il pubblico poteva immediatamente riconoscere il cantante.
Lo stesso vale per il ritratto di un sosia di una persona famosa; nella misura in cui il pubblico crede che si
tratti di un personaggio famoso e lo riconosce, si tratta di un ritratto di quel personaggio famoso che deve
essere trattato come tale. La norma ha una portata generale e non si limita ai personaggi noti. Il ritratto di
chiunque non può essere registrato come marchio senza il suo consenso.
– Art. 8.2 c.p.i.: possibilità di registrare come marchio il nome altrui non notorio, purché il suo uso “non sia
tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi”. Il legislatore si è reso
conto che la regola del ritratto non è praticabile per il nome perché ci sono milioni di persone che portano
il loro nome e cognome e potrà sempre avvenire che, per pura coincidenza, un certo segno scelto come
marchio finisca per coincidere con il nome di una persona. Qui c’è stata l’esigenza di ordine pratico di non
esporre il titolare di un marchio ad azioni puramente strumentali di soggetti che, per pura coincidenza, si
trovano ad avere nome e cognome identici o simili al marchio. Il legislatore ha distinto l’ipotesi che il
nome sia di una persona nota oppure no: la condizione è che, nel caso concreto, la registrazione non sia
lesiva della reputazione dell’identità personale del soggetto. Se la personalità del soggetto che porta quel
nome viene danneggiata allora non si può registrare, salvo il suo consenso. Se invece il nome è noto, in
questo caso la registrazione del segno (nome notorio come marchio) è riservata a chi porta il nome con
questa notorietà (l’avente diritto). Questa norma è di fatto posta alla base dello sfruttamento commerciale
della notorietà di vari soggetti noti al pubblico.
– Art. 8.3 c.p.i.: divieto di registrazione (senza consenso dell’avente diritto) dei c.d. “segni notori”. Ove vi
sia un segno che, prima ancora di essere registrato come marchio abbia acquisto notorietà, l’avente diritto
da identificare come l’artefice è l’unico a poter registrare e usare quel nome come marchio (es. logo di un
evento sportivo, segno caratteristico, nome di un’associazione, nome di un complesso musicale).
– Art. 14.1, lett. c), c.p.i.: non possono essere registrati come marchio i segni il cui uso “costituirebbe
violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi”. Qui viene
presa in considerazione l’eventualità in cui si voglia registrare come marchio un segno già protetto da un
diritto esclusivo altrui. I casi tipici sono quelli in cui ci sia una entità protetta da un diritto d’autore o da un
diritto come disegno/modello (opera di design). Tale norma trova applicazione soprattutto in ipotesi di
registrazione come marchio di opere dell’ingegno protette con il diritto d’autore oppure di disegni o
modelli protetti in base agli articoli 31 e seguenti c.p.i. Esempio: un soggetto terzo vuole registrare come

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Eleonora Biffi

proprio marchio l’immagine di un quadro protetto con il diritto d’autore; non può farlo senza il consenso
dell’avente diritto.

Art. 19.2 c.p.i.: divieto di registrazione del marchio in malafede. Il legislatore prende in considerazione
l’eventualità che un segno venga registrato come marchio in una situazione in cui, su quel segno, non ci sia
un avente diritto; non c’è alcuna riserva di registrazione a favore di qualcuno, formalmente il segno è libero e
chiunque lo può registrare. Tuttavia, nel caso concreto avviene che chi deposita la domanda di registrazione
agisca in malafede, servendosi della registrazione con finalità abusive di danneggiamento di terzi. Si sfrutta
maliziosamente la registrazione del marchio per intralciare in modo scorretto l’attività di mercato di un altro
soggetto. Si tratta di una norma aperta ma nella pratica, tuttavia, sono emerse alcune ipotesi ricorrenti
qualificate come di registrazione in malafede. Un primo gruppo di ipotesi di malafede sussiste nei casi di
registrazioni volte a frustrare legittime aspettative di tutela di terzi; in questo caso un soggetto non ha ancora
un diritto su un certo segno tuttavia si trova in una situazione in cui è ragionevole ritenere che presto, su quel
segno, acquisirà dei diritti sennonché, prima che questo avvenga, un terzo interviene giocando d’anticipo e
depositando il marchio per sottrarlo alla disponibilità dell’altro soggetto. I casi possono essere:
– Registrazione di un nome altrui non ancora noto ma in procinto di diventarlo;
– Registrazione di un segno effettuata anticipando un concorrente che aveva già scelto quel segno come
marchio ma non l’aveva ancora registrato;
– Registrazione di un marchio già registrato da un concorrente all’estero ma non in Italia, per impedirgli di
registrarlo in Italia;
– Registrazione abusiva da parte di un distributore, agente o rappresentante o in generale da parte di chi
sfrutti maliziosamente un rapporto di fiducia o di collaborazione.

Un secondo gruppo di ipotesi di malafede sussiste in quei casi di registrazioni effettuate con delle finalità
anticoncorrenziali. Qui la malafede consiste nel tenere una condotta con una finalità anticoncorrenziale, che
vada a disturbare in termini generali il buon funzionamento del mercato. Le ipotesi qui sono:
– Accaparramento di un consistente numero di marchi che vengono registrati non per farne uso, ma solo per
sottrarli alla disponibilità dei concorrenti e rendere loro più difficoltosa la ricerca di segni “liberi”;
– Registrazione di un segno effettuata solo per intralciare i concorrenti e cercare di impedire che i loro
prodotti o servizi entrino sul mercato o vi rimangano. Esempio: caso riguardante la forma di un dolce
tipico di un determinato Paese; un operatore del settore aveva registrato la stessa forma di dolce come
marchio per estromettere dal mercato i concorrenti che tradizionalmente fabbricavano quel dolce. I marchi
devono stimolare il libero mercato, non intralciarlo. Se vengono strumentalizzati in modo abusivo per
intralciare il libero mercato non ci può essere una esclusiva, il marchio deve essere respinto e dichiarato
nullo.

REQUISITI DI VALIDITÀ DI UN MARCHIO


Si fa riferimento a quando una certa entità, liberamente registrata da chi lo poteva fare o dall’avente diritto,
presenta in concreto i requisiti prescritti dalla legge per poter essere effettivamente protetta come marchio.
Tali requisiti si riconducono alla idoneità del segno a svolgere le sue funzioni di comunicazione e al divieto
di ingannare e fuorviare in qualsiasi modo il pubblico. Secondo lo schema dei diritti di proprietà intellettuale
usuale, le entità che rientrano nel novero delle entità che secondo quella disciplina sono proteggibili devono,
per poter essere effettivamente protette nel caso concreto, presentare dei requisiti di validità che giustificano
la protezione in esclusiva di quella entità nel caso concreto. Nel caso dei marchi i requisiti di validità possono
ricondursi concettualmente a tre categorie: capacità distintiva, novità e liceità. Si tratta di requisiti che da
un lato servono ad assicurare che il marchio possa svolgere le funzioni che è chiamato a svolgere e in ragione
delle quali è protetto e altresì a assicurare che non ci siano profili di illiceità, il primo e più rilevante dei quali
è quello consistente in un inganno del consumatore che si ha quando il messaggio veicolato dal marchio
diventa ingannevole o decettivo per il consumatore, cioè lo induce a delle scelte d'acquisto che non avrebbe
compiuto se la situazione gli fosse stata rappresentata in modo veritiero o, in altre parole, se non fosse stato
fuorviato nelle sue scelte d’acquisto dal messaggio inveritiero comunicato dal marchio. Per quanto riguarda
la capacità distintiva e la novità, pur essendo requisiti molto diversi, hanno un elemento comune: in entrambi
i casi si tratta di requisiti che devono ricorrere perché il marchio possa effettivamente funzionare come tale
sul mercato e possa svolgere le sue funzioni. La differenza sta nel fatto che nella capacità distintiva si valuta
quest’attitudine a svolgere le funzioni dal punto di vista intrinseco delle caratteristiche proprie del segno, nel
caso della novità questa attitudine viene valutata in rapporto ad altri marchi preesistenti. In altre parole:
quando parliamo di capacità distintiva (in senso più ampio capacità di comunicazione e di messaggi) noi
valutiamo se quel segno per sue caratteristiche proprie è idoneo in sé a trasmettere i messaggi che dovrebbe
trasmettere. Nel caso della novità noi poniamo a raffronto il segno che si vuole registrare come marchio con
altri segni, con altri marchi pre-esistenti e ci chiediamo se il segno posteriore non interferisca con l’ambito di

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Eleonora Biffi

protezione del marchio pre-esistente; se così fosse il secondo segno non sarebbe un segno che si presenta sul
mercato per svolgere in modo positivo le funzioni che deve svolgere, ma si presenterebbe sul mercato come
un segno che intralcia lo svolgimento delle funzioni del primo marchio e crea una situazione di confusione, e
di disorientamento per cui alla fine entrambi i marchi divengono un elemento di disturbo per il consumatore
che non è più in grado di orientarsi. In questi due concetti di capacità distintiva e di novità, l’elemento base
dell’idoneità a svolgere le funzioni viene analizzato prima in relazione al segno in sé e per sé (capacità
distintiva) e poi in relazione il segno nel suo rapporto con altri segni già esistenti e protetti come marchio
(novità).

CAPACITÀ DISTINTIVA DEL MARCHIO


La disciplina della capacità distintiva si trova nell’art. 13 c.p.i.: “non possono essere registrati come marchio
segni inidonei a svolgere una funzione distintiva; il segno deve consentire anzitutto di collegare i prodotti o i
servizi ad una determinata impresa o fonte imprenditoriale e di identificare questi prodotti o servizi come
provenienti da quella impresa”. Si dice che un segno ha una capacità distintiva e quindi è atto ad essere un
marchio quando permette di far scattare nella mente del consumatore questo elemento di identificazione tra
l’impresa e i suoi prodotti o servizi. Un segno che non è idoneo a far scattare e istituire questo collegamento
non ha ragione di essere protetto come marchio.

Da qui si apprezza anche il fatto che si attribuisce a questa norma cardine centrale del diritto dei marchi una
duplice finalità: da un lato quella di non costituire esclusive su segni che non sono atti a svolgere una
funzione di marchio; un monopolio si giustifica solo se ha delle ragioni per esistere e solo se è funzionale al
mercato, non se è anticoncorrenziale rispetto al mercato, se la ragione della protezione del marchio è quella
di consentirgli di veicolare messaggi non c’è giustificazione per proteggerlo quando questo non può
avvenire. Per molti segni vi è anche una esigenza di mantenere libero il segno (esigenze antimonopolistiche o
pro-concorrenziali): ci sono segni che devono restare a disposizione di tutti perché tutti devono poterli usare
nella comunicazione d’impresa. Un caso di mancanza di capacità distintiva è quello di un segno costituito dal
nome comune del prodotto nel linguaggio: “tavolo” per un tavolo, “orologio” per un orologio, “cappello” per
un cappello: se assurdamente si ipotizzasse una situazione in cui un produttore di tavoli potesse validamente
registrare come marchio la parola “tavolo”, da un lato avremmo un’esclusiva su un segno che non è idoneo a
veicolare i messaggi tipici di un marchio perché è solo il nome comune del prodotto e dire tavolo non
identifica un tavolo di un certo imprenditore da quello prodotto da un suo concorrente; se ci fosse questa
esclusiva nessun altro potrebbe usare la parola “tavolo” per presentare il suo prodotto al mercato, non
potrebbe dire “sto vendendo dei tavoli” perché su questa parola c’è un marchio altrui. Poi nei casi concreti
non si verificano nelle cause davanti ai tribunali delle situazioni così estreme, ma tipicamente nelle cause in
materia di capacita distintiva si discute di queste aspetti, magari per segni dove la valutazione è un po’ più
problematica e in cui le domande sono: questo segno veicola un messaggio di marchio oppure no? Se
ammettessimo un’esclusiva su questo segno, danneggeremmo in modo inaccettabile la comunicazione per il
fatto che questo segno invece deve restare a disposizione di tutti per dire al mercato di che prodotto si tratta?

Queste sono le domande che stanno alla base del requisito della capacità distintiva e che spiegano anche la
regola per cui la capacità distintiva deve essere valutata secondo la percezione del segno da un consumatore
medio dei prodotti o servizi, che sia “normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”. Questa
regola giurisprudenziale fa emergere due elementi:
a. Se il marchio è un veicolo di messaggi verso un destinatario costituito dal consumatore, per stabilire se
questi messaggi possono effettivamente essere comunicati e recepiti dal destinatario è necessario porsi
dal punto di vista del destinatario. Per capire se un messaggio destinato ad un soggetto è comprensibile e
veicolato in modo idoneo, bisogna porsi dal punto di vista di quel soggetto e chiedersi se quel soggetto
effettivamente riesce a cogliere e recepire il messaggio oppure no.
b. L’altro elemento è che (come visto anche per i brevetti) non è possibile individuare un parametro di
riferimento in una persona fisica realmente esistente in carne ed ossa ma la legge deve procedere per
parametri tipici, cioè per la ricostruzione di una figura tipica ideale da prendere come riferimento. Non è
possibile valutare la capacità distintiva andando a chiedersi se tutti i consumatori di un certo prodotto
percepiscono il segno in un certo modo, nella pratica poi avviene che si facciano anche i sondaggi di
mercato (indagini demoscopiche) ma sempre su un campione, ma non può essere il singolo consumatore
a costituire il parametro di riferimento; anche in tale caso si deve prendere un parametro di riferimento
ideale e si è ritenuto che il parametro da prendere come riferimento sia quello di un consumatore medio:
per i marchi il parametro di riferimento in sede di valutazione è il consumatore medio, cioè un normale
consumatore a cui i prodotti sono destinati (acquirente di quei prodotti o servizi) che non ha né un grado
di competenza e di attenzione/preparazione particolarmente elevato né un grado di attenzione sotto la
media, la valutazione non è influenzata dal fatto che ci possano essere fasce di consumatori molto esperti

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Eleonora Biffi

o fasce di consumatori disattenti. Bisogna collocarsi in un’ottica mediana e prendere come riferimento il
consumatore medio di quel tipo di prodotto. A seconda del prodotto di cui si tratta, il consumatore medio
può essere molto diverso: se parliamo di confezioni di pasta o di lattine di bibite gasate si prenderà un
consumatore medio che non ha particolari competenze specialistiche e che acquista il prodotto in modo
anche abbastanza frettoloso, prelevandolo dallo scaffale di un supermercato; se parliamo di gioielli o di
automobili sarà invece un consumatore con un livello attenzione e di ponderazione maggiore perché è un
acquisto impegnativo al quale si procede solo con molta cautela e attenzione, soppesando tanti fattori. Si
può anche pensare ad un prodotto specialistico come un’apparecchiatura destinata a un gruppo ristretto di
specialisti: in questo caso si dovrà tenere conto della percezione di questo gruppo di specialisti che,
proprio per le loro competenze specialistiche, sono in grado di cogliere significati che per il resto della
popolazione non possono essere colti (es. se l’apparecchio specialistico è destinato a mille professionisti
in tutta Italia il consumatore medio dovrà essere tarato su quei mille professionisti e non dovranno essere
presi in considerazione tutti gli altri soggetti che, pur vivendo in Italia, non sono destinatari dell’offerta
al mercato di quel prodotto).

In sintesi: la regola è identificare, in relazione al prodotto o servizio di cui si tratta, chi è il consumatore
medio con il grado medio di informazione e di conoscenza del prodotto che si può avere per quel tipo di
prodotto o servizio e con il grado medio di attenzione e di ponderazione nelle scelte d’acquisto che ci si può
attendere per quel tipo di prodotto o servizio. Passaggi:
1. Si prende il segno che si vuole registrare come marchio;
2. Ci si chiede come questo parametro ideale del consumatore medio vede quel segno (cioè quali messaggi
ricava da quel segno);
3. Se la risposta è nel senso che il consumatore medio ricava da quel segno dei messaggi di marchio e dei
messaggi identificativi dell’imprenditore che ha messo il prodotto sul mercato, allora il segno ha capacità
distintiva. Se questo meccanismo non avviene, se nella percezione del pubblico questo collegamento non
si verifica perché non c’è il meccanismo di identificazione di una fonte imprenditoriale, allora il segno è
privo di capacità distintiva e non può essere registrato come marchio.

La legge, dopo aver posto questa regola generale, fornisce delle esemplificazioni concrete sempre nel primo
comma dell’articolo 13 di segni che sono da ritenere privi di capacità distintiva. Sono prive di capacità
distintiva le denominazioni generiche e le indicazioni descrittive. Ipotesi più rilevante, prevista della lettera b
dell’art. 13.1 che fa riferimento alle denominazioni generiche e alle indicazioni descrittive del prodotto o
servizio. Si tratta di segni in cui la regola generale si manifesta con particolare evidenza; la regola generale è
se il consumatore medio percepisce nel segno dei messaggi di marchio (messaggi che si identificano come
provenienti dall’imprenditore che ha messo il prodotto o servizio sul mercato e che servono a far capire al
consumatore che quel prodotto/servizio proviene da quel imprenditore e che, ulteriormente, si caratterizza
nel modo specifico relativo a tutti i messaggi che l’imprenditore ha voluto caricare nel segno. Se questo
avviene c’è capacità distintiva altrimenti no.
– Le denominazioni generiche sono i nomi comuni del prodotto (es. “orologio” per un orologio, “tavolo”
per un tavolo e via dicendo). Non hanno capacità distintiva e devono restare a disposizione di tutti.
– Le indicazioni descrittive sono elementi che non sono il nome comune del prodotto ma che ne descrivono
una caratteristica (es. “orologio” è la denominazione generica, mentre qualunque termine che descrive le
caratteristiche di funzionamento o di resistenza è una indicazione descrittiva del prodotto). La legge fa una
ulteriore sotto esemplificazione di indicazioni descrittive e dice che sono tali quelle relative ai materiali
utilizzati, al modo di utilizzo del prodotto, al prezzo, a determinate qualità, all’epoca della vendita del
prodotto o di fornitura del servizio e via dicendo, cioè tutte quelle diciture che servono a dire di che
prodotto si tratta e che caratteristiche ha. Possono essere ricondotte ai segni descrittivi anche segni diversi
dalle parole (es. disegni che raffigurano un certo concerto) oppure anche parole di fantasia o neologismi
che hanno un significato chiaro per il pubblico. Indicazioni descrittive sono tutto ciò che per il pubblico
assume una valenza di designazione di caratteristiche del prodotto o servizio. Esempio: “semiflex” può
essere percepita come un’abbreviazione ma non è una parola del linguaggio comune, però richiama alla
mente del pubblico immediatamente il concetto di semi flessibilità e in questo senso è descrittiva.

N.B. Non vale a escludere questo divieto di registrazione l’esistenza di sinonimi o la possibilità di esprimere
il concetto in un altro modo con delle perifrasi perché il legislatore ritiene che un’appropriazione come
marchio di un segno generico o descrittivo riduce l’ambito di libertà espressiva e non dota quel segno di
capacità differenziatrice, di capacità distintiva: se come nome comune del prodotto ci sono più espressioni
impossibili e una di queste venisse registrata come marchio, da un lato non avrebbe comunque capacità
distintiva (perché non è distintiva ma descrittiva) e dall’altro lato, dal punto di vista delle esigenze di libero
uso, l’area della libera comunicazione verrebbe erosa e ridotta perché un elemento che faceva parte di

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Eleonora Biffi

quell’area di libertà è stato eliminato e sottratto ed è diventato un marchio. Il legislatore quindi dice che non
si tratta di una giustificazione: se anche il concetto può essere espresso in altri modi il divieto di registrazione
rimane.

Un tema particolare è quello dei nomi descrittivi o generici in una lingua straniera: la soluzione di questo
caso è di nuovo affidata alla percezione del pubblico italiano, territorio in cui si valuta per i marchi nazionali
la proteggibilità. La regola è che si prende un pubblico che si trova nel territorio in cui il marchio viene
richiesto e ci si chiede se la parola straniera è comprensibile nel suo significato descrittivo al pubblico di quel
territorio; in casi che si sono verificati è stato ritenuto non registrabile come marchio italiano un termine
inglese il cui significato era mediamente molto noto al consumatore italiano perché il consumatore italiano
immediatamente capisce che quella parola inglese indica il prodotto, mentre in altri casi di termini ripresi da
lingue straniere la cui conoscenza è meno diffusa in Italia si è ammessa la registrazione. Supponiamo che un
termine descrittivo in finlandese di una certa caratteristica sia registrato come marchio in Italia – non essendo
il significato di quel termine finlandese noto al consumatore italiano – per l’Italia quel marchio può ritenersi
dotato di capacità distintiva, mentre sicuramente non l’avrebbe in Finlandia. La regola è prendere il pubblico
di riferimento del territorio per il quale si chiede protezione del marchio e chiedersi se quel pubblico è in
grado di cogliere la valenza generico-descrittiva del termine straniero oppure no. Emerge su tutti i profili in
modo centrale l’elemento della percezione del pubblico, il modo in cui il consumatore riceve e decodifica il
segno.

È importante tuttavia ricordare che, come precisa la legge, sono esclusi dalla registrazione ed integralmente
nulli solo i segni e i marchi costituiti esclusivamente da denominazioni generiche o indicazioni espressive.
Questa è una regola importante perché ci dice che se un marchio contiene un elemento descrittivo generico
ma contiene anche un elemento distintivo, il marchio non è nullo. Avrà una tutela ridotta e limitata solo
all’elemento distintivo ma proprio perché almeno una porzione distintiva c’è, in relazione a quella porzione
distintiva potrà essere protetto. Gli esempi sono tratti da casi reali, sono tutte ipotesi valutate e decise dal
Tribunale della Repubblica Italiana. I casi dei marchi espressivi si basano su un termine generico descrittivo
al quale sono apportate modifiche e aggiunte di fantasia (es. “Frutteria” per i succhi di frutta, contiene nella
sua radice l’elemento descrittivo della frutta ma poi c’è questa variante; “Pomito” ricorda il pomodoro ma
pure ha delle varianti; “Bergasol” ricorda il bergamotto ma non è il nome comune Bergamotto; “Pavitex” per
pavimenti tessili). Il punto di difficoltà non è tanto nella regola che è chiara: se in un marchio non c’è nulla di
distintivo e quindi è esclusivamente descrittivo o generico è nullo, se però oltre a contenere un elemento
descrittivo o generico ne contiene anche uno (sia pure in misura ridotta) distintivo, in relazione a quello può
essere protetto. La regola in sé è chiara, è difficile l’applicazione nel caso concreto: “semiflex” è stato ritenuto
un marchio nullo perché evocava il concetto di semiflessibilità, “ pavitex” è stato ritenuto valido. Può avvenire
che nella valutazione di circostanze concrete situazioni che, pur se confrontate possono apparire omogenee,
presentano delle differenze o semplicemente vengono valutate diversamente dai tribunali a cui vengono
sottoposte; questo è inevitabile, è un’utopia pensare che tutte le fattispecie omogenee siano valutate in modo
uguale da tutti i giudici che possono essere chiamati ad esprimersi su di esse perché c’è un margine
inevitabile di discrezionalità nel giudizio al quale il rimedio che offre la legge è quello di avere più gradi di
giudizio: dal tribunale si può andare in Corte d’Appello e dalla Corte d’Appello si può andare in Cassazione,.
C’è sempre il diritto ad un riesame della fattispecie, ma anche con queste cautele di salvaguardia può
verificarsi che situazioni omogenee siano alla fine oggetto di decisioni diverse. Quando un marchio contiene
sia elementi distintivi sia elementi descrittivi o generici, la tutela si limita all’elemento distintivo e i marchi
espressivi sono marchi deboli perché non è tutelato tutto il marchio ma solo una propria porzione e gli altri
elementi possono essere liberamente ripresi; nel caso di “frutteria” si potrà avere tutela contro chi replica il
marchio frutteria o fa un marchio molto simile come “fruttaria” o “frutterie”, ma non contro chi riprende la
radice della parola “frutta” e la usa in un altro modo.

Se invece i marchi non hanno elementi privi di carattere distintivo si dicono marchi forti: hanno una tutela
più intensa e sono protetti contro qualunque forma di avvicinamento al segno protetto. Il caso dei marchi
espressivi è quello in cui in una stessa parola o segno si fondono elementi descrittivi e distintivi; la stessa
regola vale anche quando si hanno situazioni in cui i termini non si fondono, quando nello stesso marchio
convivono un elemento descrittivo ed un elemento distintivo. Immaginiamo ad esempio il marchio “Caffè
Lavazza” dove l’elemento protetto è solo “Lavazza” e non il termine generico caffè: è come se il primo non ci
fosse e il marchio si concentra sul secondo; in questo caso il secondo elemento in sé è un marchio molto
forte. Se invece il marchio è espressivo nel senso che si prende la parola caffè e, senza metterci un’altra parola
accanto la si modifica con delle varianti, allora si ha qui un marchio debole perché contiene l’elemento
descrittivo del prodotto caffè.

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Eleonora Biffi

Va inoltre dedicata una breve riflessione ai nomi geografici perché anche i nomi geografici possono essere
descrittivi di caratteristiche del prodotto. La legge dice che tra le caratteristiche descrittive e quindi tra le
ragioni di non registrabilità di un marchio costituito esclusivamente da indicazione descrittive rientra anche
quella di una descrittività sulla provenienza geografica. La ragione per cui questa fattispecie richiede un
esame separato è data dal fatto che, a livello di formulazione letterale, la norma sembra far pensare che non
può essere registrato alcun marchio costituito da un nome geografico corrispondente alla provenienza del
prodotto; in realtà alla norma è stato dato un significato diverso: si è detto che l’elemento di descrittività che
impedisce la registrazione non è il mero fatto di indicare la zona di provenienza ma è il fatto di indicare una
zona di provenienza qualificata, cioè una zona di provenienza che attribuisce al prodotto caratteristiche
dovute alla provenienza da quel territorio. L’applicazione del divieto di registrazione come marchio dei nomi
geografici in via interpretativa è stata limitata al caso in cui la provenienza espressa dal marchio è una
provenienza qualificante, che influisce sulle caratteristiche del prodotto e, di conseguenza, sulle scelte di
acquisto del pubblico (es. Parma per il prosciutto, Chianti per il vino, Sassuolo per le ceramiche). Sono tutti i
casi in cui il prodotto è tipico di quella zona ed è acquistato dal consumatore anche perché è tipico della zona
e perché l’indicazione della zona per quel tipo di prodotto descrive delle caratteristiche che il prodotto non
avrebbe se fosse fabbricato altrove. Se invece il marchio indica bensì il luogo di fabbricazione del prodotto
(o di fornitura del servizio) ma questo luogo può essere considerato di fantasia o comunque un luogo che non
influisce sulle caratteristiche del prodotto nulla impedisce la valida registrazione del marchio (es. “Fabriano”
per carta o “Tollegno” per filati). Il caso Fabriano è molto indicativo: lo stabilimento originario è a Fabriano, il
prodotto viene fabbricato lì, l’imprenditore ha scelto di dare alla carta il nome del luogo dove si trova lo
stabilimento ma è chiaro che la carta di Fabriano non ha caratteristiche dovute al fatto di essere fabbricata in
quella zona, ha bensì caratteristiche dovute al fatto di essere fabbricata da quell’imprenditore ma le avrebbe tali
e quali se la produzione fosse stata in un altro territorio. In questi casi, visto che il nome geografico non
influisce sulle caratteristiche del prodotto ed è del tutto neutro agli occhi del consumatore (non è l’elemento
geografico ad influenzare il consumatore nella scelta), allora questo tipo di nomi geografici “neutri” possono
essere validamente registrati come marchio perché non descrivono nulla, hanno piena capacità distintiva e
non creano intralci ad altri operatori del settore. Se ci fosse ipoteticamente un unico marchio Parma che
conferisce solo ad un produttore del prosciutto di Parma la possibilità di usare la parola “Parma”, tutti gli
altri produttori di prosciutto di Parma ne avrebbero un danno gravissimo, al contrario nessun produttore di
carta è minimamente danneggiato dal fatto che un suo concorrente abbia il valido marchio Fabriano per quel
tipo di prodotto. La stessa regola si applica quando viene scelto un nome geografico che non corrisponde
all’origine del prodotto. La norma in quel caso sarà quella sul marchio ingannevole: se il marchio indica il
luogo in cui il prodotto è fabbricato allora il marchio è veritiero e non è ingannevole, è valido se l’origine
non qualifica il prodotto e non è valido (non registrabile) se qualifica l’origine del prodotto e deve restare a
disposizione di tutti. Supponiamo invece che il segno che si vuole registrare come marchio venga usato per
un prodotto che non corrisponde all’origine effettiva come ad esempio “Parma” per un prosciutto prodotto
nelle Marche oppure “Fabriano” per una carta fabbricata a Milano; in questo caso non è più un problema di
descrittività perché il marchio non descrive la provenienza, indica un nome geografico che però non è quello
di reale provenienza del prodotto. Il problema qui è se il fatto di indicare una provenienza diversa da quella
effettiva sia ingannevole per il consumatore, ingannevole nel senso che induce il consumatore a delle scelte
d’acquisto basate sul dato non veritiero. Esempio: se io chiamo “Parma” un prosciutto fatto nelle Marche, a
prescindere dall’eccellente qualità del prosciutto, il problema è se il consumatore compra il prosciutto con le
caratteristiche della fabbricazione marchigiana credendo che si tratti invece del prosciutto di Parma; viene
effettuata una scelta d’acquisto diversa da quella che avrebbe effettuato se avesse saputo come stavano
effettivamente le cose perché avrebbe acquistato un prosciutto effettivamente fatto a Parma. Da questo punto
di vista c’è un inganno rilevante perché il consumatore è portato da acquistare una cosa diversa da quella che
avrebbe altrimenti acquistato. Nel caso di Fabriano invece non è così. Il consumatore continuerebbe a
comprare la carta e non sarebbe influenzato nelle sue scelte d’acquisto dal fatto che lo stabilimento non è più
nei confini del comune di Fabriano. Anche per la decettività vale la stessa regola:
– Se l’indicazione non corrispondente a quella reale influisce sulle scelte d’acquisto del pubblico c’è
ingannevolezza e il marchio quindi non è valido o comunque non può restare in vita.
– Se invece la non corrispondenza è del tutto irrilevante ed è un marchio di fantasia allora non ci sono
problemi.

L’art. 13.1 contiene un’ulteriore ipotesi nella lettera a che qualifica come privi di capacità distintiva i segni
divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio. Non è immediato dare un
significato a questa norma perché di primo acchito si ricava l’impressione che sia la stessa norma individuata
in precedenza. Il punto di partenza è che illogico pensare che il legislatore scriva due volte la stessa norma
sulla stessa fattispecie e, se così è, vuol dire che l’ipotesi dev’essere diversa della quella delle denominazioni
generiche e indicazioni descrittive. Nella lettera a, il legislatore vieta la registrazione di segni che in sé non

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Eleonora Biffi

indicano un prodotto o una sua caratteristica, ma che vengono generalmente impiegati nel commercio per
indicare in modo generico e indifferenziato un elevato livello qualitativo del prodotto o servizio o per
posizionarlo all’interno di una gamma o di una serie. Esempi:
– Parole come extra, super, élite, royal, leader, standard, ecc. Se io dico “super” o “royal” oppure “standard”
per indicare la conformità allo standard, io non descrivo una caratteristica puntuale di un certo prodotto;
sono termini che possono essere riferiti a qualsiasi prodotto per dire che nella sua categoria quel prodotto
è extra, super o standard. Una disputa che si è protratta per molti anni era se rientrasse in questa categoria
la parola “oro” per indicare un livello qualitativo particolarmente elevato; effettivamente in quel caso la
giurisprudenza aveva ritenuto che la parola “oro” potesse effettivamente qualificarsi come segno divenuto
di uso comune proprio perché si era documentata in causa una presenza massiccia del termine “oro” per
indicare in svariati settori merceologici un livello di eccellenza, di primato del prodotto/servizio.
– Elementi figurativi come le raffigurazioni di una corona, di una stella, di un serto di alloro, ecc. Si tratta di
situazioni in cui c’è un termine, un segno che viene usato genericamente per magnificare il prodotto (es. la
banale ed usuale rappresentazione della corona di alloro messa attorno al marchio denominativo vero e
proprio serve ad incorniciarlo e a dargli una parvenza di eccellenza e un’immagine di alto livello, ma è
una cosa che si fa in molti settori diversi e che in sé non ha una capacità distintiva).
– Lettere, numeri e sigle che servono per indicare l’appartenenza ad una serie: fascia 1, fascia 2, fascia 3,
livello a, livello b, livello c e via dicendo. È vero che la legge dice che anche le lettere e le cifre possono
essere registrate come marchio, ma è anche vero che può accadere che nel caso concreto quella lettera o
cifra sia diffusamente usata nel settore per indicare un certo tipo di prodotto, un certo posizionamento del
prodotto, una certa fascia di prezzo e via dicendo. Si tratta quindi di usi che non sono specificamente
descrittivi di un singolo prodotto ma che vengono diffusamente impiegati con questo significato e ciò fa sì
che da un lato non abbiano capacità di distinguere o veicolare messaggi e dall’altro che ci siano esigenze
di libera disponibilità da parte di tutti.

È importante però ricordare che anche per tale categoria, come per le altre, la mancanza di capacità distintiva
ovvero l’essere segno di uso comune può essere affermato solo quando i segni siano costituiti esclusivamente
da segni divenuti di uso comune; se l’elemento di uso comune è combinato in modo da avere anche elementi
distintivi (o elementi che con l’uso si sono accreditati nella mente del pubblico), il marchio non è più
costituito esclusivamente da un segno di uso comune ma può essere validamente registrato. Quando si pensa
all’ipotesi della stella come elemento di coreografia del prodotto o come elemento che fa vedere il prodotto
come prodotto di alta fascia, questa fattispecie aveva sollevato un’obiezione: la stella della San Pellegrino o
della Heineken non sono validi marchi? Lo sono, proprio perché non sono costituiti dall’immagine standard di
uso comune della stella, ma perché hanno una loro caratterizzazione distintiva e con l’uso si sono accreditati
nella mente del pubblico e quindi a tutti gli effetti sono validi marchi. È inoltre importante il rilievo della
percezione del pubblico e della diffusione del segno per evitare di commettere l’errore di ritenere che, dato
che un segno appartiene ad una certa categoria, allora è necessariamente di uso comune e privo di capacità
distintiva. Proprio in relazione alle lettere e ai numeri in Italia si era affermata una giurisprudenza che diceva
che le lettere e i numeri a prescindere da ogni altra considerazione sono da qualificare come segni di uso
comune, conseguenza di questa giurisprudenza furono problemi non indifferenti nel settore della moda dove
molti marchi sono costituiti da lettere o da combinazioni di brevi sigle; il caso più clamoroso coinvolgeva
Ferragamo che aveva fatto causa ad un terzo, il quale aveva messo sui suoi prodotti la fibbia di Ferragamo (a
forma di omega). Di fronte all’azione di contraffazione di Ferragamo, il terzo si era difeso dicendo che la lettera
omega era una lettera dell’alfabeto e, come tale, in base alla giurisprudenza italiana doveva essere ritenuto
marchio nullo non proteggibile. Il Tribunale di Firenze in primo grado e la Corte d’Appello in secondo grado
hanno dato ragione al terzo, sostenendo la tesi della non registrabilità come marchio delle lettere dell’alfabeto;
nel 2007 la Corte di Cassazione pronuncia una sentenza che ha completamente cambiato le prospettive dei
marchi e dei numeri in Italia. La Corte ha detto che ci si deve chiedere se, nel settore considerato, quella
lettera per ragioni sue specifiche sia divenuta un segno di uso comune o se non lo sia. Bisogna ragionare al
contrario partendo dal dato sostanziale della diffusione del segno nel settore e della percezione del pubblico e
chiedersi se quel segno nello specifico settore è dotato di capacità distintiva. In certi casi le lettere possono
essere di uso comune, ma nel caso di specie non c’è nulla da cui risulti che la lettera omega dell’alfabeto sia un
segno usato diffusamente da tutti nel settore dell’abbigliamento, anzi è un marchio iconico di Ferragamo che ha
una forte capacità distintiva e come tale merita piena tutela come marchio. Su questa base la Corte ha cassato
(annullato) la sentenza d’appello della Corte d’Appello di Firenze. Da questa sentenza in poi si è affermato il
principio per cui se anche può avvenire che nel caso concreto la lettera dell’alfabeto sia di uso comune, spesso
non è così e la lettera rappresenta un valido marchio. È la sentenza a cui spesso si fa riferimento quando in una
causa di contraffazione per le grandi case di moda si tutela la LV di Louis Vuitton, la H di Hermes, la G di
Gucci, la V di Valentino, la C di Chanel e via dicendo. Sono tutti casi che ormai non hanno più questo tipo di
problema e vengono regolarmente tutelati dalle sentenze.

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Eleonora Biffi

Queste ipotesi delle lettere a e b dell’articolo 13.1 sono casi particolari di mancanza di capacità distintiva già
individuate come tali dal legislatore che indica le categorie prive di una capacità distintiva: denominazioni
generiche, indicazione descrittiva, segni divenuti di uso comune. Se un segno non trasmette un messaggio di
marchio al pubblico e non viene percepito come marchio dal pubblico quel segno non è registrabile. Può
esserci un caso di assenza di capacità distintiva anche quando non si ha a che fare con uno dei segni indicati
specificamente nelle lettere a e b. L’aspetto interessante è vedere quali sono i casi che sono stati esaminati
dalla giurisprudenza nelle varie decisioni sotto questa prospettiva. La regola è sempre stata quella dell’esame
caso per caso, cioè valutare nel caso concreto se c’è una percezione nel pubblico come marchio oppure no. I
casi sono:
– Cognomi molto diffusi: ci sono state decisioni in Italia relative al cognome Rossi, in particolare un caso in
cui c’era un contrasto tra Sergio Rossi e Marco Rossi del settore pelletteria. La giurisprudenza dice che di
solito un cognome ha forte capacità distintiva (es. Armani, Gucci, Ferrari) però può anche darsi che un
cognome, pur senza essere descrittivo o di uso comune nel commercio, sia così diffuso nella popolazione
che da solo non acquisisce una forte capacità distintiva. In questi casi il giudice ha detto che un problema
di capacità distintiva molto ridotta potrebbe esserci (es. Vasco Rossi, Valentino Rossi). A volte la grande
diffusione del cognome circoscrive o elimina la capacità distintiva.
– Slogan percepiti dal pubblico come messaggi promozionali. Gli slogan sono per la giurisprudenza degli
incentivi all’acquisto e se non hanno una valenza di marchio sono meri messaggi promozionali ma può
capitare che uno slogan, proprio per il fatto di essere molto ripetuto, finisca per essere percepito in sé
come segno distintivo di un imprenditore. Se ci capita di sentire lo slogan anche disgiunto dal marchio
denominativo immediatamente identifichiamo un certo produttore; se così non è si tratta di un altro caso di
mancanza di capacità distintiva.
– Figure geometriche e elementari (es. la semplice imitazione di un triangolo o un quadrato che in sé non
hanno capacità distintiva). La regola è sempre quella di vedere la percezione del pubblico.
– Anche per le forme dei prodotti, delle confezioni, il packaging, il colore e tutti gli elementi strutturali del
prodotto che si prestano ad apparire come una proprietà o una caratteristica del prodotto, la regola è
sempre quella di valutare se questo elemento strutturale veicola anche un messaggio di marchio o no.

Tra le forme ritenute non distintive troviamo: banali contenitori per succhi di frutta che non identificavano
nessun produttore, la normale forma di una torcia o delle pastiglie relativamente anonime per lavastoviglie.
Sempre nel caso di queste, ci sono pastiglie molto più riconoscibili come quella della Finish. Tra le forme
distintive troviamo invece: la classica forma della bottiglia della Coca Cola, della penna Bic, la cassa stereo
della Bang & Olufsen (non registrata per altri motivi inerenti a dei limiti riguardo alla forma, ma per quanto
concerna la capacità distintiva era stato ritenuto un prodotto distintivo). La bottiglia dell’acqua minerale Voss
non indicava al pubblico la provenienza dell’acqua, ulteriore dimostrazione che le decisioni giurisprudenziali
possono prendere direzioni impreviste. Possono esserci casi di capacità distintiva anche in relazione a rilievi
o disegni sulla superficie del prodotto. Nel caso della suola dei sandali Birkenstock, alla fine di un giudizio
abbastanza complesso è stato molto ridotto il riconoscimento di capacità distintiva di questo disegno, è stato
limitato solo ad alcuni prodotti e non ad altri. Un altro esempio è un marchio sonoro ritenuto privo di
capacità distintiva per la sua eccessiva semplicità, salva la possibilità di un acquisto di capacità distintiva con
l’uso. A livello di tribunale e di Corte di Giustizia dell’UE si è ritenuto che non fosse nulla di distintivo nel
colorare di arancione la punta di un calzino, la suola rossa di Louboutin è stata oggetto di molte controversie
ma alla fine è stata riconosciuta la capacità distintiva purché vi sia un contrasto cromatico percepibile tra il
colore rosso della suola e un diverso colore delle parti restanti della calzatura. Per quanto riguarda i marchi di
posizione, l’idea era mettere un elemento arancione sulla punta delle stringhe delle scarpe (non abbastanza per
dire che c’è capacità distintiva), invece nei casi noti della striscia rossa sulle suole tipica di Prada e della
linguetta arancione sulla tasca posteriore dei jeans Levis invece c’è. Questi sono esempi di capacità distintiva
consistenti nel posizionamento. Il marchio è l’idea di posizionare in quel punto della suola o della tasca
quell’elemento; il fatto di mettere quella striscia colorata in quella posizione conferisce capacità distintiva.
Un altro caso di posizione è il fiore all’occhiello stilizzato delle giacche di Lardini: benché si tratti di un segno
semplice ha una sua riconoscibilità, le decisioni allo stato rese sono state di segno negativo circa la capacità
distintiva del segno. Un altro esempio è il layout dei negozi che diventa una immagine riconoscibile del
produttore. Ne è esempio il punto vendita Apple. Le autorità tedesche avevano sollevato dei dubbi sulla
registrabilità come marchio di questo segno, nel 2014 la Corte di Giustizia ha detto che se il segno così come
è viene riconosciuto dal pubblico come segno distintivo di Apple e il consumatore, vedendo questo punto
capisce che si tratta di Apple, non c’è nessun motivo di negargli capacità distintiva ma è a tutti gli effetti un valido
marchio. Questo caso sancisce la regola per cui non si ragiona per categorie astratte, ma per percezioni in
concreto del pubblico e ogni volta che c’è una percezione del segno come marchio, la capacità distintiva
deve essere riconosciuta.

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Eleonora Biffi

In conclusione, vanno tenute in considerazione le ulteriori regole contenute nei successivi commi 2, 3 e 4
dell’articolo 13 calibrate sulla realtà di mercato. Proprio perché la capacità distintiva si valuta in termini di
percezione del segno da parte del pubblico, si deve considerare che la percezione del pubblico non è un dato
statico ma si evolve, assume diverse connotazioni: un segno può essere ritenuto in un certo momento privo di
un significato e in un altro momento, per diverse ragioni il pubblico, ha iniziato a vedere in quel segno un
significato che prima non aveva. Nel linguaggio di tutti i giorni ci sono termini che usiamo abitualmente che
fino a non molti anni fa non avevano alcun significato (es. tablet o smartphone). Allo stesso modo può essere
che un termine si diffonda in un Paese solo in determinate circostanze. Lo stesso vale per i marchi. Può
accadere che un segno non abbia capacità distintiva perché non è percepito come marchio dal pubblico, ma che
l’acquisti in un secondo momento; alternativamente può accadere che un segno ha capacità distintiva, ma la
percezione del pubblico si evolve nel senso che quella capacità va persa. Esempio: il giornale è il nome
comune del quotidiano della lingua italiana pero c’è la testata giornalistica “Il Giornale” che ha avuto una
sua storia, una sua diffusione e sicuramente il consumatore si è abituato a sapere che il termine è anche una
specifica testata. Ci sono stati casi di termini che, pur avendo all’inizio un significato distintivo, lo hanno
perso perché hanno sviluppato una valenza puramente descrittiva delle caratteristiche del prodotto (es. Biro
per la penna a sfera o cellofan per quel tipo di imballaggio plastico, termini che all’inizio non avevano una
valenza descrittiva e che poi hanno sviluppato un significato generico).

La legge tiene conto di queste evoluzioni della percezione del pubblico perché vuole tarare la protezione del
marchio sul modo in cui il pubblico percepisce in un dato momento storico il segno. A riguardo abbiamo
diverse ipotesi:
– Acquisto di capacità distintiva con l’uso (o riabilitazione del marchio o secondary meaning). Un segno che
è all’inizio privo di capacità distintiva la acquisto a seguito dell’uso che ne è stato fatto; a forza di usare il
segno sul mercato il pubblico si abitua alla sua presenza, comincia e poi sempre più collega il segno al
produttore e alla fine quel messaggio di identificazione che all’inizio non c’era si determina. Si parla di
riabilitazione del marchio (il marchio è nullo e diventa valido) perché è una sanatoria a tutti gli effetti. Si
parla anche di secondary meaning, cioè di acquisto di un significato secondario nel senso di aggiuntivo
rispetto ad un significato primario che è quello del linguaggio comune che in sé non ha capacità distintiva.
– Il secondo comma dice che se un segno che all’inizio non aveva capacità distintiva la acquista prima ancora
che venga depositata la domanda di registrazione, quel marchio è valido fin dall’origine perché fin
dell’origine aveva capacità distintiva Questo si sarebbe ricavato anche dalle regole generali: dato che la
validità si misura alla data di deposito della domanda, se a quella data aveva già acquistato capacità
distintiva il problema non si pone.
– Il terzo comma presuppone una fattispecie molto diversa: presuppone che l’ufficio competente al rilascio
del marchio non abbia notato un’assenza di capacità distintiva e abbia comunque registrato il marchio.
L’ipotesi è quella di un marchio che, al momento del deposito della domanda di registrazione, era
effettivamente privo di capacità distintiva, ma questo difetto non è stato rilevato dall’ufficio e il marchio è
stato concesso. La conseguenza normale di queste situazioni è che chiunque può fare causa di nullità, può
richiedere che il marchio venga dichiarato nullo in quanto registrato in assenza di capacità distintiva. Cosa
avviene se dopo la registrazione, ma prima che qualcuno faccia causa, il marchio viene usato sul mercato e
si accredita e basta anche un significato distintivo di marchio agli occhi del pubblico? Da un lato si
potrebbe dire che non importa perché era nullo all’origine non può sopravvivere, dall’altro si può dire che
bisogna guardare la sostanza delle cose: l’imprenditore ha investito su questo marchio, ne ha fatto uso, ha
creato un avviamento, l’ha reso noto e conosciuto al consumatore. Questa è la soluzione accolta dalla
legge, si parla in tal caso di sanatoria: se il marchio è stato registrato nonostante l’assenza di capacità
distintiva e nessuno ha ancora fatto valere la nullità in giudizio (se qualcuno ha già fatto causa non c’è
niente da fare perché prevale il fatto che sia stata fatta causa in un momento in cui il marchio era nullo) e
l’imprenditore è stato così abile da far acquistare al suo segno capacità distintiva, il legislatore ritiene che a
questo punto la nullità è sanata e il marchio non può più essere dichiarato nullo per acquisto di capacità
distintiva. Bisogna ricordare che è sempre onere del titolare dimostrare l’acquisto di capacità distintiva, è
sempre necessario che il consumatore percepisca il segno come marchio e, per aversi questa sanatoria, è
sufficiente che la capacità distintiva si aggiunga al significato primario. Esempio: il fatto che il giornale
abbia acquisito una valenza di marchio non esclude che nel linguaggio comune continui ad essere usata la
parola “giornale” nel suo senso generico, quindi quando si parla di secondary meaning si vuole dire che ci
deve essere un significato aggiuntivo ma non sostitutivo, il secondo significato deve aggiungersi al primo.
La norma dice che un marchio persino nullo può in questo modo diventare un marchio valido ed
inattaccabile, a maggior ragione il principio vale quando il marchio sia solo debole; in tal caso si parla di
rafforzamento, cioè è possibile che un marchio con una capacità distintiva debole la acquisti e la rafforzi
nel corso del tempo in base all’uso che ne è stato fatto. Esempio: Divani e Divani e Poltrone e Sofà sono
marchi che per il settore avevano una forza valenza descrittiva e probabilmente, anche a prescindere dal

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Eleonora Biffi

loro uso, avevano nella loro combinazione un po’ di capacità distintiva intrinseca sufficiente a far dire che
non erano del tutto nulli ma erano deboli, ma sono anche marchi che sono stati talmente pubblicizzati che
adesso si sono enormemente rafforzati. La regola è addirittura quella di una sanatoria di una nullità, ma
può anche essere quella di una crescita forte della capacità distintiva o di rafforzamento del marchio.

Come la capacità distintiva si acquista si può anche perdere, questo è avvenuto nel caso di Biro e cellofan. La
soluzione è speculare a quella precedente, ma in questo caso il marchio da valido decade in quanto viene
meno uno dei suoi presupposti di tutela (la nullità si ha quando manca fin dall’origine un requisito di validità
mentre la decadenza si ha quando uno dei presupposti di tutela esistenti all’inizio viene meno nel corso della
vita del brevetto o del marchio e quella privativa cessa di esistere). La perdita di capacità distintiva è una
ipotesi di decadenza: fa venir meno la protezione di un marchio inizialmente valido. Il legislatore innesta una
regola di favore per il titolare del marchio, nel senso che il comma 4 dell’art. 13 stabilisce che il marchio
decade per perdita di capacità distintiva solo se tale perdita è dovuta all’attività o inattività del titolare. A far
decadere il marchio non basta l’oggettiva perdita di capacità distintiva ma ci vuole anche un elemento
soggetto, ossia il fatto che la perdita sia riconducibile causalmente ad una attività o inattività del titolare. La
decadenza per perdita di capacità distintiva (decadenza per volgarizzazione) si compone di due elementi
cumulativi:
– Elemento oggettivo o generalizzazione: fatto in sé oggettivo della perdita di capacità distintiva perché il
pubblico non percepisce più il segno come marchio;
– Elemento soggettivo: attività o inattiva del titolare come elemento causale produttivo della perdita di
capacità distintiva. È una norma di favore perché se il titolare difende il suo marchio e la perdita della
capacità si verifica nonostante il titolare abbia cercato di salvare il suo marchio, eccezionalmente la legge
consente che il titolare conservi la registrazione che questa non vada persa nonostante l’oggettiva perdita
di capacità distintiva nella misura in cui questa persista non sia imputabile al titolare. La legge parla di
attività riferendosi a condotte del titolare che ingenuamente o inavvertitamente si metta ad utilizzare lui
come nome comune e generico il marchio; se il titolare è poco accorto e lascia che si usi il marchio come
nome generico, la perdita di capacità distintiva dovuta ad una generalizzazione può essere imputata ad una
sua attività. L’inattività è quando il titolare non reagisce e lascia che il marchio venga liberamente usato da
terzi sul mercato senza un significato di marchio ma come nome che tutti usano in nomi generico. Questo
non vuol dire che il titolare debba fare causa a tutti in quanto è inesigibile, però vuole dire che si deve
essere ragionevolmente attenti alle azioni a tutela del marchio perché il non reagire può portare al risultato
che la perdita di capacità distintiva venga imputata ad un’inattività del titolare. Si deve poter essere in
grado di dimostrare una serietà nella difesa del marchio. Un’ipotesi particolare di rischio per la perdita di
capacità distintiva del marchio è costituita dall’eventualità che il marchio venga inserito in un dizionario o in
una enciclopedia come nome comune di un certo prodotto. Per questa ipotesi particolare la legge stabilisce
che il titolare del marchio ha il diritto di esigere che nell’enciclopedia il marchio, se presente, venga
accompagnato dal simbolo ® che indica il marchio registrato o che si evidenzi nella pubblicazione che
quel termine, per quanto presente nella pubblicazione divulgativa, è un marchio registrato e come tale
deve essere rispettato. La presenza in un dizionario o in una enciclopedia può accreditare l’idea che il
marchio non sia un marchio ma un nome comune e quindi è data al titolare la specifica facoltà di
difenderlo chiedendo l’inserimento di queste specificazioni nella pubblicazione.

Se ricorrono entrambi gli elementi (oggettivo e soggettivo) si ha la decadenza per volgarizzazione e da quel
momento il marchio cessa di esistere. La capacità distintiva è il requisito base di ciò che permette ad un
segno di svolgere le sue funzioni di marchio.

NOVITÀ DEL MARCHIO


La novità misura l’idoneità del segno a svolgere le funzioni proprie del marco nel rapporto con altri marchi o
segni distintivi già esistenti. Questo concetto viene regolato dall’art. 12 c.p.i. e può riassumersi nella regola
secondo cui un marchio possiede il requisito della novità se non è anticipato da un marchio o da un altro
segno distintivo anteriore, anticipato nel senso che il segno che si vuole proteggere non deve interferire con
la sfera di esclusiva di segni distintivi già esistenti. La legge contempla due diverse ipotesi o macrocategorie
di mancanza di novità:
– Mancanza di novità rispetto ad altri marchi anteriori anche essi registrati (art. 12.1 lettere c, d, e c.p.i.):
situazione in cui un marchio è privo di novità rispetto ad un segno che è stato già anteriormente portato
alla registrazione.
– Mancanza di novità rispetto a marchi anteriori non registrati e a segni distintivi diversi dai marchi (ditta,
denominazione o ragione sociale, insegna, domain name). La legge non tutela come segni distintivi solo i
marchi registrati, tutela anche i marchi di fatto o non registrati (marchi che vengono usati e sui quali si
acquisiscono diritti esclusivi) e la mancanza di novità rispetto a tutti i segni distintivi diversi dai marchi.

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Eleonora Biffi

La ditta identifica l’imprenditore nei rapporti di affari; la denominazione o ragione sociale viene in rilievo
essenzialmente come ditta dell’impresa esercitata in forma societaria; l’insegna identifica i locali di
esercizio dell’impresa; si fa riferimento anche al domain name e a tutti gli altri possibili segni distintivi
dell’online a cui la legge dedica le lettere a, b, f dell’art.12.1. Per tutti gli altri segni distintivi diversi dai
marchi non è previsto un sistema di registrazione, non esiste un sistema di registrazione costitutivo di
diritti esclusivi come segni distintivi. La ditta o la ragione sociale si registrano però la particolarità di
queste registrazioni è che, a differenza della registrazione come marchio che crea un diritto di proprietà
industriale sul marchio, le forme di registrazione degli altri segni hanno altre finalità, ma non hanno valore
di costituzione e creazione di un diritto esclusivo di proprietà industriale. Per tutti questi segni l’unico
modo di ottenere un diritto esclusivo di proprietà industriale è l’uso concreto sul mercato (come anche per
i marchi di fatto). Per i marchi di fatto o non registrati esiste una tutela in forza dell’uso sul mercato, per
tutti gli altri segni distintivi l’unica forma di acquisto di diritti esclusivi di proprietà industriale è l’uso sul
mercato.

La legge regola in modo diverso la mancanza di novità rispetto a queste due categorie. Rispetto alla prima
categoria, nel sistema della legge la protezione di un marchio registrato si esplica sia contro la registrazione
di segni successivi interferenti, sia contro l’uso di segni successivi interferenti. Esempio: un soggetto è il
titolare di un marchio registrato, un altro soggetto chiede che venga registrato un marchio identico; questo è
un caso di registrazione, cioè di volontà di acquisire una seconda registrazione su quel marchio che viene
sanzionata con la mancanza di novità, se la registrazione è concessa il marchio è nullo. Diverso è il caso in
cui il secondo arrivato non chieda la registrazione del marchio identico a quello anteriore, ma semplicemente
si mette ad usarlo sul mercato; questa è un’ipotesi di contraffazione, cioè di violazione con l’uso del marchio
registrato anteriore. Nella pratica può anche capitare che il terzo registri ed usi, in tal caso si avrà sia nullità
per mancanza di novità sia contraffazione, ma una cosa non implica un’altra. Al titolare del marchio anteriore
il marchio registrato gli dà sia un potere invalidante di successive registrazioni sia un potere inibitorio nei
confronti dell’uso di segni distintivi interferenti. L’articolo 12 nelle lettere c, d, e stabilisce quando il marchio
anteriore registrato impedisce la registrazione del marchio posteriore, l’art. 20.1 lett. a, b, c stabilisce quando
il diritto esclusivo sul marchio registrato anteriore conferisce al titolare il potere di vietare l’uso del segno
posteriore e quindi di promuovere un’azione di contraffazione contro il terzo. Poiché si tratta di facoltà
esclusive simmetriche (vietare la registrazione e vietare l’uso) si determina una situazione per cui vi è una
simmetria anche nelle ipotesi: le ipotesi dell’art. 12 (c, d, e) sono esattamente corrispondenti a quelle delle
lettere a, b, c dell’art. 20. Accenniamo qui le fattispecie che saranno poi esaminate nell’ambito di tutela. Le
ipotesi di mancanza di novità dell’art. 12 sono:
– Doppia identità: viene chiesta la registrazione di un marchio successivo identico a quello anteriore per
prodotti o servizi identici, c’è una stretta identità sotto entrambi i profili (c.d. doppia identità).
– Rischio di confusione o associazione: in questo caso non c’è la doppia identità, magari i segni sono solo
simili e i prodotti o servizi sono identici o ancora i segni anteriori sono identici e i prodotti o servizi sono
simili e affini; non ci deve essere una doppia identità ma almeno su uno dei due versanti ci deve essere
solo una situazione di somiglianza. In questo caso la legge dice che la novità manca se il secondo marchio
sia tale da determinare un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di
associazione. Rischio di confusione è l’errore del pubblico sull’effettiva provenienza imprenditoriale del
prodotto o servizio. Il marchio successivo può far credere al pubblico che i prodotti/servizi contraddistinti
dal marchio successivo provengano in realtà dal marchio anteriore; il rischio di confusione è l’errore sulla
provenienza imprenditoriale: il secondo segno fa credere che i prodotti e i servizi siano del titolare del
primo segno mentre non è così. Questo è il rischio di confusione in senso stretto mentre il rischio di
associazione (o rischio di confusione in senso lato) è il caso in cui il consumatore si rende conto che i
prodotti e i servizi contrassegnati dal secondo marchio provengono da un’impresa diversa e tuttavia è
portato a credere che ci siano dei rapporti tra le due imprese cosicché vi sia comunque un collegamento tra
la seconda e la prima, la quale viene coinvolta nella registrazione del marchio della seconda. Quando si
determina una situazione di questo tipo manca la novità. Questa ipotesi è l’ipotesi di tutela della funzione
distintiva del marchio intesa come identificazione della fonte imprenditoriale.
– Forma di protezione dei valori suggestivi e comunicazionali del marchio: se il marchio anteriore gode
di rinomanza, è noto ed accreditato presso il pubblico, anche se non c’è un rischio di confusione e il
pubblico capisce che il marchio del secondo arrivato non contraddistingue prodotti e servizi provenienti
dal titolare del primo marchio, tuttavia si determina una situazione – anche senza un giusto motivo che lo
renda possibile e lecito – in cui alternativamente il marchio posteriore può sfruttare la rinomanza del
primo, i suoi messaggi e la sua notorietà oppure l’uso del secondo marchio determini un pregiudizio al
carattere distintivo e alla rinomanza del marchio anteriore, cioè affievolisce la presa sul pubblico del
marchio anteriore oppure ne disturba l’immagine veicolando messaggi incompatibili con quelli tipici del
brand. Si tratta di situazioni specifiche in cui c’è una tutela dei messaggi incorporati nel brand contro

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Eleonora Biffi

qualsiasi forma di approfittamento parassitario o di pregiudizio o danneggiamento della funzione


comunicazionale, sempre che non vi sia un giusto motivo che consente nel caso specifico di utilizzare il
marchio rinomato.

La complessiva architettura della legge è la seguente:


– Tutela della funzione distintiva: tutela dell’interesse del titolare a che il pubblico riconduca a lui senza
possibilità di errore i suoi prodotti o servizi e non gli attribuisca prodotti e servizi di altri e al tempo stesso
tutela del pubblico nel suo interesse di poter individuare senza errori da chi provengono i prodotti/servizi;
– Tutela della funzione pubblicitaria suggestiva di comunicazione del marchio e di tutti i messaggi dal
marchio veicolati contro condotte di terzi che parassitariamente approfittino di questi messaggi o di questa
notorietà o che invece, specularmente, li danneggiano;
– Norma di semplificazione: se siamo nel caso estremo della doppia identità non chiediamoci neanche se c’è
un rischio di confusione perché è una copia talmente plateale che basta questa identità per ritenere che la
seconda condotta non sia consentita.

Per marchi registrati anteriori si intendono tutti i marchi registrati che possono avere efficacia in Italia e
possono essere di tre tipi, l’efficacia può essere ottenuta attraverso tre vie:
– Marchio nazionale italiano (marchi registrati presso l’Ufficio Italiano);
– Marchio dell’UE;
– Marchio internazionale con efficacia in Italia.
Per stabilire qual è il marchio anteriore, la data di riferimento è il deposito della domanda di registrazione.
Nel conflitto tra due marchi entrambi registrati prevale quello che è stato domandato prima dell’altro. Anche
per il marchio vale la regola della priorità unionista come vista per i brevetti, con l’unica differenza che il
termine per i marchi è di sei mesi e non di dodici. La priorità di esposizione in fiera è la regola che consente
per i prodotti nuovi esposti in una fiera di depositare la domanda successivamente alla fiera, beneficiando di
una valutazione che risale al momento dell’apertura della fiera o della presentazione dei prodotti in fiera.

La regola dell’art. 12.2 stabilisce che se un marchio è scaduto da oltre due anni o può considerarsi decaduto
per non uso perché sono passati almeno cinque anni dalla sua registrazione senza che il marchio sia stato
usato, quella registrazione anteriore non ha più potere invalidante di quella successiva. Si vuole evitare che
un marchio registrato in epoca remota e poi scaduto o mai utilizzato possa essere opposto ad un marchio
successivo; se il titolare del marchio anteriore non l’ha più curato, non l’ha rinnovato o non l’ha usato e un
altro soggetto, in un momento successivo, chiede di poter usare quel marchio e di registrarlo, non c’è ragione
di proteggere il titolare del marchio anteriore che non ha esigenze serie di tutela (visto che non ha utilizzato
quel marchio e visto che non ci sono problemi nemmeno di errore del pubblico infatti, essendo il marchio
assente dal mercato, il pubblico non può in concreto confondersi o cadere in errore). Nel caso di un marchio
che può ritenersi decaduto per non uso (cinque anni di non uso) o che sia scaduto e per il quale la scadenza
risale ad almeno due anni prima, il marchio diventa una presenza puramente cartacea o puramente virtuale
nei registri elettronici, ma non ha più alcuna efficacia impeditiva di successive registrazioni.

Un’altra categoria di segni distintivi sono i segni distintivi non registrati, cioè i marchi che l’imprenditore
ha scelto di non registrare o altri segni distintivi per i quali non è neanche prevista una registrazione
costitutiva di diritti. La fattispecie costitutiva dei diritti su tutti i segni distintivi non registrati è quella
dell’uso seguito da notorietà qualificata; è una fattispecie a formazione progressiva (a gradi successivi), il
segno deve essere usato effettivamente sul mercato perché se non è usato non potrà mai sorgere un diritto su
un segno distintivo di fatto non registrato. L’uso deve però determinare una conoscenza qualificata del segno
presso il pubblico, cioè una conoscenza che si caratterizza per il fatto che il pubblico riconosce in quel segno
il segno distintivo di un certo imprenditore. È un qualcosa di concettualmente simile all’acquisto di capacità
distintiva con l’uso, anche se in una prospettiva diversa; il concetto però è proprio quello di un uso che fa
sorgere nel pubblico una conoscenza del segno, quindi si determina una notorietà del segno qualificata
perché il pubblico ha visto il segno e – a seguito dell’uso e della pubblicità di tutta la promozione fatta dal
titolare – è arrivato al punto in cui si è innescato il meccanismo di riconoscimento e per questo si parla di
notorietà qualificata: qualificata vuol dire che è una notorietà caratterizzata dal fatto che il pubblico non solo
è consapevole che quel segno è sul mercato, ma è in grado di collegare i prodotti o i servizi contraddistinti da
quel segno al titolare e alla fonte imprenditoriale di quei prodotti o servizi. La particolarità di questi segni di
fatto è che l’ambito di tutela coincide con l’ambito della notorietà qualificata: non solo l’elemento del
riconoscimento del segno come marchio o come segno distintivo è necessario perché sorga la tutela ma
consequenzialmente, visto che la tutela sorge in ragione di questa notorietà qualificata, dal punto di vista
merceologico e territoriale la tutela è circoscritta a quell’area del territorio nazionale in cui c’è una notorietà
qualificata. Se io registro un marchio e poi lo uso in tutto il nord Italia e quel marchio è conosciuto nel nord

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Eleonora Biffi

Italia, essendo marchio registrato è protetto in tutto il territorio italiano automaticamente; se invece quel
marchio mi limito ad usarlo nel nord Italia e in una certa zona del territorio nazionale si determina una
notorietà qualificata (cioè il pubblico riconosce il segno come marchio), ma quella notorietà qualificata non
c’è nel resto del territorio nazionale, allora nel resto del territorio nazionale non c’è un’esclusiva. Esempio:
se l’imprenditore che opera in Lombardia e Piemonte ed è conosciuto solo in Lombardia Piemonte registra il
marchio allora poi potrà impedire all’imprenditore situato in Puglia o in Lazio o in Sicilia di usare un segno
identico o simile al marchio registrato. Se l’imprenditore che non ha registrato il marchio e lo usa solo di
fatto ha acquisito una notorietà qualifica in Lombardia e in Piemonte, in assenza di registrazione non potrà
impedire a terzi di usare un marchio (anche identico) in un territorio dove la notorietà qualificata non c’è
perché in quel territorio lui non ha acquisito diritti con l’uso, non ha provveduto alla registrazione e d’altro
canto in quel territorio non c’è possibilità di confusione per il pubblico perché il consumatore del territorio
del territorio dove non c’è notorietà qualificata per definizione non conosce il marchio o comunque non lo
ricollega a quell’imprenditore e quindi non può cadere in errore, non può esserci un rischio di confusione. Da
questo punto di vista la tutela dei segni distintivi non registrati è più debole perché non sorge con una
registrazione ma solo con un accreditamento (a volte anche oneroso sul mercato) e una volta che questo
accreditamento vi sia stato, la tutela nel momento successivo opera solo per la zona dove c’è questa notorietà
qualificata.

Tuttavia la legge non lascia privo di tutela il titolare di un segno distintivo non registrato che abbia acquisito
notorietà qualificata e stabilisce che, ove si possa determinare un rischio di confusione o di associazione con
un marchio successivo di cui si chiede la registrazione, anche il diritto esclusivo su un segno non registrato
possa togliere novità al marchio posteriore. Le lettere a e B dell’art. 12.1 stabiliscono che un marchio che si
vuole registrare è privo di novità anche rispetto ad un marchio anteriore non registrato o ad un altro segno
distintivo anteriore, che per definizione non è registrato, se può determinarsi un rischio di confusione anche
sotto forma di un rischio di associazione. Qui delle tre ipotesi considerate per il conflitto tra marchi registrati
la legge recupera solo quella del rischio di confusione o di associazione, il che ha portato una parte rilevante
della dottrina e della giurisprudenza a ritenere che, nel caso di segni distintivi di fatto, l’unica ipotesi di
interferenza sia quella del rischio di confusione o di associazione, mentre un’altra parte della dottrina ritiene
che anche per questa ipotesi – anche se la legge non lo specifica – valga, ove una situazione questo tipo si
determini, il potere invalidante anche in casi di agganciamento parassitario e di pregiudizio non confusorio;
la prima tesi è più limitativa per il titolare dei marchi o dei segni non registrati, mentre la seconda amplia il
suo ambito di tutela. Se c’è un rischio di confusione o di associazione rispetto ad un segno anteriore non
registrato il segno posteriore manca di novità e si discute se questa mancanza di novità vi sia anche per le
ipotesi di agganciamento-pregiudizio non confusori. Inoltre, il legislatore si preoccupa del fatto che questa
notorietà qualificata possa essere solo locale, cioè il timore del legislatore è che se vogliamo dare una certa
sicurezza alla registrazione di marchio e se vogliamo favorire anche tale registrazione, non possiamo lasciare
il titolare di un marchio registrato esposto al rischio che a un certo punto salti fuori, in una piccola zona del
territorio nazionale, un marchio di fatto usato e noto solo localmente che, pur con tutti gli sforzi di buona
volontà e la diligenza, il titolare del segno registrato non poteva individuare. Le legge ha voluto facilitare
anche sotto questo profilo il titolare di un marchio registrato stabilendo che un marchio anteriore di fatto o un
segno anteriore non registrato non possono togliere novità se non hanno una visione territoriale che sia
sufficientemente rilevante. Sostanzialmente non si vuole che piccole realtà locali possano togliere novità alla
registrazione ed è per questo che il legislatore stabilisce che i segni anteriori non registrati possono togliere
novità al marchio solo se hanno notorietà generale; se invece c’è una notorietà solo locale oppure non c’è del
tutto, allora il marchio posteriore è valido e non manca la novità. Se la notorietà manca del tutto non c’è
bisogno di dire che il marchio posteriore è valido: se non c’è notorietà qualificata non c’è neanche il diritto
su un segno distintivo, è come se quel segno non esistesse per le categorie della proprietà industriale; se c’è
una notorietà qualificata locale, questo vuol dire che in quell’ambito locale di notorietà quel segno, seppur
limitato a quel territorio, la sua protezione ce l’ha. Tuttavia non si vuole che questo vada a scapito della
registrazione; si stabilisce che se c’è una notorietà solo locale, questa non basta a togliere novità al marchio
successivo registrato che è valido anche se in una piccola porzione del territorio nazionale c’è un marchio o
un segno distintivo anteriore di fatto ivi preesistente con una notorietà solo locale. Il marchio o il segno
distintivo con notorietà solo locale continuano ad esistere e hanno il loro ambito di protezione locale, ma non
possono essere fatti valere contro un marchio successivo registrato, vengono depotenziati nel senso che non
hanno potere invalidante di successive registrazioni.

N.B. Qual è il criterio per stabilire notorietà locale e generale? La giurisprudenza sembra orientarsi verso il
ritenere che vi sia notorietà locale quando la notorietà sia effettivamente circoscritta ad una porzione molto
ridotta di territorio o ad una porzione molto ridotta di popolazione. Ad esempio una notorietà solo in una città
con poche migliaia o con non più di 30mila abitanti è ancora una notorietà vagamente locale, una notorietà

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Eleonora Biffi

su un territorio un po’ più ampio ma pressoché disabitato è una notorietà puramente locale (si deve guardare
anche il dato della popolazione); una notorietà in tutta la provincia di Roma non è più una notorietà locale
perché il numero di consumatori nella provincia di Roma è talmente consistente in termini numerici che se in
quella zona i consumatori conoscono il marchio anteriore, allora la notorietà non è più puramente locale.
Tendenzialmente si dice che se c’è una notorietà nell’ambito di tutta una regione o di una provincia molto
popolata (es. aree metropolitane del nostro Paese) questo basta per dire che la notorietà non è più locale ma è
generale. Questo ci indica anche che notorietà generale non vuol dire in tutta Italia, ma è semplicemente
l’opposto di notorietà locale; tutto ciò che non è notorietà locale così confinata è da ritenere generale. Se la
notorietà è generale il potere invalidante del segno distintivo anteriore c’è e l'unica conseguenza è che il
marchio successivo è nullo; se invece la notorietà è puramente locale il marchio posteriore registrato è valido
e addirittura si ritiene che il marchio posteriore possa entrare anche nella zona della notorietà anteriore solo
locale e in quella zona i due marchi possono coesistere (per non privare di una possibilità di utilizzo il
marchio successivo registrato) e si prevede anche in questo caso una limitazione della possibilità di usare il
segno con una notorietà solo locale nella zona del preuso. Le ipotesi di preesistenza di un segno non
registrato vengono anche definite ipotesi di preuso, che vuol dire più esattamente “esistenza di diritti di
proprietà industriale su segni non registrati acquisiti con la notorietà qualificata” e il titolare di questo diritto
di preuso, cioè di un diritto su un segno distintivo non registrato, viene anche indicato come preutente; va
tenuto presente che il significato è quello di titolare di un diritto di proprietà industriale su un segno non
registrato. È importante però ricordare che il dato che conta non è la zona d’uso ma la zona di notorietà, la
zona dove il segno è conosciuto e riconosciuto come segno distintivo dal pubblico e che può essere anche
molto più ampia della zona d’uso. Esempio: un ristorante molto noto non ha registrato il suo nome come
marchio, ma per suoi motivi è noto in tutta Italia (come un classico ristorante tre stelle di uno chef che è
sempre in televisione), l’uso è circoscritto al comune dove si trova il ristorante ma la portata della notorietà è
interamente nazionale. Il concetto importante è quello di zona della notorietà. Il marchio anteriore viene
confinato nella sua zona dalla legislazione posteriore.

La legge aggiunge poi, nelle lettere a ed f dell’art. 12, che un marchio italiano può essere privo di novità
anche quando è anticipato da un marchio notoriamente conosciuto in Italia ai sensi dell’articolo 6-bis della
CUP. Cosa vuol dire notoriamente conosciuto? L'interpretazione prevalente è quella secondo cui un marchio
notoriamente conosciuto in Italia è un marchio che non sia ancora stato registrato o usato in Italia, ma che è
talmente noto in un Paese estero che tale notorietà si riverbera anche in Italia; è l'ipotesi di un marchio che è
molto noto all’estero e per il fatto di essere molto noto all’estero è visto e conosciuto anche dal consumatore
italiano, anche e prima che quel marchio estero venga registrato nel nostro Paese. Casi classici si sono spesso
posti con marchi molto noti negli Stati Uniti che, prima ancora che venissero usati e registrati in Italia, il
consumatore italiano conosceva perché li vedeva nei telefilm e nei film americani trasmessi in Italia o perché
una grande parte della popolazione italiana aveva viaggiato negli Stati Uniti o perché c’erano delle riviste
americane circolanti in Italia e via dicendo; si tratta di situazioni in cui il marchio molto noto in USA già era
conosciuto e riconosciuto dal consumatore italiano quando ancora non c’era alcuna registrazione o uso in
Italia. Secondo questa regola si vuole evitare che qualcuno in Italia sfrutti e determini confusione con il
marchio noto all'estero ma conosciuto anche nel nostro Paese, anche in questo caso c’è mancanza di novità.
In sintesi: la mancanza di novità rispetto a segni non registrati in Italia può esserci sia rispetto a segni
distintivi sui quali sono stati acquisiti i diritti in Italia con una notorietà qualificata nel nostro Paese, sia
rispetto a marchi notoriamente conosciuti che in Italia non sono stati neanche ancora usati come marchio, ma
che già sono noti al consumatore italiano.

Anche la mancanza di novità può essere sanata nei casi e nei modi previsti dall’articolo 28 c.p.i. L’art. 12 ci
dice quando manca la novità: rispetto ad un marchio registrato, rispetto ad un segno distintivo non registrato,
rispetto ad un marchio notoriamente conosciuto grazie all’uso all’estero. L’art. 28 che si occupa della
sanatoria per convalida o convalidazione del marchio considera una situazione che può verificarsi ossia
che il titolare di un marchio privo di novità lo accrediti sul mercato e il titolare del marchio anteriore, pur
sapendolo, non reagisca e solo in un momento successivo intervenga con una causa di contraffazione o di
nullità. Questa situazione ha creato dei problemi: da un lato è vero che il secondo marchio è nato difettoso,
ma è anche vero che non è totalmente priva di rilievo una situazione di inerzia del titolare del primo marchio
che, pur sapendo di questo uso, non ha reagito e ha in tal modo creato un affidamento nel titolare del marchio
successivo, il quale può aver pensato in buona fede che se il primo non reagiva era perché non c’era
interferenza o comunque nulla lo disturbava. È la tardiva azione di nullità di contraffazione del titolare del
segno anteriore a creare delle situazioni di ingiustizia sostanziale, privando il titolare del segno successivo
dei frutti dei suoi investimenti e disorientando i consumatori che ormai si erano abituati alla presenza di quel
segno nel mercato. Per evitare questo la legge prevede che in situazioni questo tipo sia possibile la convalida
o convalidazione del marchio successivo che è a tutti gli effetti una sanatoria della nullità per mancanza di

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novità; la legge dice che per conseguire questo risultato di rendere il marchio posteriore inattaccabile, non
più esposto ad azione di nullità o di contraffazione da parte del titolare del marchio anteriore, devono
ricorrere cumulativamente tre condizioni:
– Il marchio posteriore deve essere usato per cinque anni consecutivi per determinati prodotti e servizi, ci
vuole un uso ininterrotto di almeno cinque anni sul mercato e la convalida si può produrre solo per i
prodotti o servizi per cui il marchio è stato usato; se il secondo arrivato registra il marchio per i prodotti
Alfa, Beta e Gamma e poi lo usa solo per i prodotti Alfa allora la convalida potrà operare solo per i
prodotti Alfa, non per Beta e Gemma (fermo restando che se poi inizierà ad usarlo anche per gli altri dopo
cinque anni di uso allora anche per questi due si potrà porre una questione convalida, ma finché questo
non avviene la convalida potrà riguardare solo i prodotti per cui è stato effettivamente usato).
– Si deve trattare di un uso conosciuto e tollerato dal titolare dei segni distintivi anteriori; i cinque anni
decorrono non dal momento in cui l’uso è iniziato, ma dal momento in cui si può ritenere che il titolare del
marchio anteriore sia venuto a conoscenza dell’uso del marchio posteriore e non abbia reagito. Mettendo
insieme i due requisiti sono cinque anni di uso con tolleranza consapevole del titolare del segno anteriore.
– Infine il titolare del marchio posteriore non deve averlo domandato in mala fede, cioè non ci deve essere
una situazione di mala fede nel momento del deposito del marchio posteriore, qui la malafede vuol dire
consapevolezza della mancanza di novità, consapevolezza della violazione dei diritti sul segno anteriore.
Il fatto che il secondo arrivato (registrante) eventualmente conoscesse il segno anteriore non è di per sé
malafede, la malafede si ha solo quando il secondo arrivato sapeva dell’esistenza del marchio anteriore e
si rendeva conto che con la sua registrazione avrebbe interferito con la sfera di protezione del marchio
anteriore; se il secondo arrivato invece, pur sapendo del marchio anteriore, aveva dei motivi ragionevoli
per ipotizzare di non essere in violazione del marchio anteriore, anche se si è rivelato esserlo, questo non
esclude il suo stato soggettivo di buonafede.

Se il secondo arrivato domanda il marchio in buona fede e lo inizia usare, il primo titolare ne viene a
conoscenza ma lo tollera per cinque anni e in questi cinque anni consecutivi il marchio posteriore viene
ininterrottamente usato, al termine di questi cinque anni per i prodotti/servizi per cui è stato usato il marchio
posteriore si convalida e non può più essere attaccato. Le prime due condizioni (l’uso per cinque anni e la
tolleranza del titolare) devono essere provati in giudizio dal secondo arrivato, mentre il terzo requisito (mala
fede) deve essere provata, secondo le regole generali, dal titolare del marchio anteriore. La difficoltà pratica
per chi invoca la convalida può essere il dare prova in giudizio del fatto che il titolare del marchio anteriore
sapeva e ha tollerato. Tipicamente si fa portando in giudizio una serie di elementi che dimostrano, al di là di
ogni possibile dubbio, che il titolare del marchio anteriore conosceva e non poteva non conoscere l’uso del
marchio posteriore. Ad esempio si portano pubblicità, cataloghi di settore, pubblicazioni specialistiche che
per forza tutti gli operatori del settore devono aver visto, quote di mercato sulla diffusione dei prodotti, foto e
cataloghi di fiere a cui erano presenti entrambi; sono tutti elementi concreti di mercato che portano alla
conclusione che il primo soggetto non potesse non sapere.

Per escludere la tolleranza, cioè per dire che non c’è un valida, l’unica cosa che il titolare del marchio
anteriore può fare è agire in giudizio; finché il titolare del marchio anteriore non ha agito in giudizio non
viene meno da un punto di vista giuridico il suo stato soggettivo di tolleranza. Se anche il titolare protesta,
invia una lettera di diffida o solleva delle contestazioni contro l’uso del segno posteriore ma non fa causa,
questo non fa venir meno il suo stato di tolleranza. Non avendo fatto causa, lo stato soggettivo di tolleranza
del titolare si ritiene ancora esistente e quindi la convalida si produce; inoltre, il fatto che lui abbia inviato
una diffida senza poi fare causa dimostra inequivocabilmente che lui era a conoscenza dell’uso del segno
posteriore. Bisogna fare attenzione a non mandare diffide a vuoto, minacciando azioni che poi non si fanno,
perché non solo si perde credibilità ma poi c’è rischio che la diffida divenga il documento con cui il secondo
arrivato dimostri in giudizio che io sapevo e che non ho agito in giudizio, ma mi sono limitato a contestare in
un modo che non fa venir meno la mia tolleranza. La disciplina della convalida si applica non solo ai conflitti
con segni distintivi anteriori, ma anche a tutti gli altri casi in cui c’è una registrazione riservata a un avente
diritto ai sensi degli art. 8 e 14.1 lett. c del codice; anche in questi casi di conflitti con diritti anteriori di terzi
vi può essere convalida se il titolare di questi diritti, alle stesse condizioni, ha tollerato l’uso per cinque anni
e il secondo arrivato ha domandato in buona fede il suo marchio.

LICEITÀ DEL MARCHIO


Il terzo requisito che nella pratica non ha avuto grandi occasioni di essere considerato e che non ha dato
luogo ad uno sviluppo giurisprudenziale paragonabile a quello della capacità distintiva della novità è il
requisito della liceità del marchio. Si riconducono a tale ipotesi una serie di situazioni in cui la registrazione
del marchio appare intollerabile per conflitti con interessi collettivi meritevoli di protezione. L’art. 14.1 lett. a
dice che è nullo, per mancanza di liceità, il marchio costituito da segni contrari alla legge, all’ordine pubblico

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Eleonora Biffi

o al buon costume. Segni contrari alla legge vuol dire che in discipline diverse da quella dei marchi ci sono
dei divieti di adozione come segno distintivo di un certo segno e quindi una norma aperta; una contrarietà
alla legge è un’ipotesi che si riferisce all’eventualità di norme di legge diverse che contengono dei divieti di
registrazione. Con ordine pubblico si intende tutto ciò che è funzionale ad un ordinato vivere civile della
collettività; in buona sostanza si fa riferimento a segni che sono espressivi di concezioni, di posizioni o di
disvalori inaccettabili (es. casi reali in cui si è cercata la registrazione come marchio dell’emblema di una
organizzazione terroristica, svastica nazista o segni di questo tipo dei quali è evidente la contrarietà all’ordine
pubblico perché sono espressivi di concezioni che sono l’esatto opposto di ciò su cui si basano una civiltà e
una convivenza democratica), sono casi di lampante inaccettabilità del marchio. Contrarietà al buon costume
si riferisce a casi di segni che da un punto di vista etico-morale siano offensivi della morale pubblica in
maniera eccedente ad una soglia di tollerabilità, ipotesi in cui il segno sia così inaccettabilmente volgare da
urtare la sensibilità della collettività che con quel segno può entrare in contatto.

Nella lettera b vi è poi l'ipotesi del divieto di registrazione come marchio di segni idonei ad ingannare il
pubblico, questa è un’ipotesi che ha sistematicamente un suo rilievo anche se non ha trovato molto oggetto di
esame giurisprudenziale; si tratta di segni che sono espressivi di concetti contrastanti con le caratteristiche
reali del prodotto o servizio. Il caso storico deciso a metà degli anni ‘90 dalla Cassazione era il marchio
Cotonelle che era stato registrato esclusivamente per prodotti contenenti carta e non cotone, nella specie
carta igienica; la conclusione dei giudici è stata che questo marchio richiamava la presenza di cotone e, per
questo motivo, poteva fuorviare il consumatore nell’acquisto di un prodotto che non conteneva cotone. Il
rilievo della decettività/ingannevolezza ritorna sotto il profilo della decadenza: la legge stabilisce che se un
marchio è ingannevole fin dall'origine, fin dal momento in cui viene portato alla registrazione, è questa una
ipotesi di nullità; se invece il marchio non è ingannevole al momento della registrazione ma assume una
valenza ingannevole con l’uso, allora è un caso di decadenza. Tornando all’esempio, quella era un’ipotesi di
nullità perché fin dall’inizio, confrontando il significato del marchio con i prodotti per cui si chiedeva la
registrazione, emergeva il conflitto tra il marchio richiamante il cotone ed i prodotti cartacei. Fin dall’origine,
senza neanche il bisogno di vedere le modalità d’uso del marchio, già proprio dall’attestato di registrazione
risultava intrinsecamente un’inconciliabilità tra il significato del marchio e le caratteristiche dei prodotti.
Supponiamo invece che il marchio fosse stato registrato per prodotti effettivamente in cotone o supponiamo
un marchio che richiama la presenza di seta per capi d’abbigliamento effettivamente in seta, tuttavia ad un
certo punto il titolare smette di usare il marchio registrato per prodotti contenenti cotone/seta e inizia a usarlo
per prodotti sintetici. Il marchio in sé originariamente non era ingannevole perché vi era piena congruenza tra
il significato del marchio e i prodotti per cui si chiedeva la registrazione, ma nell’uso concreto ad un certo
punto tale congruenza è venuta meno e da quel momento in poi il consumatore si è trovato in una situazione
in cui eventualmente ha acquistato dei prodotti convinto che continuassero a contenere cotone, invece non
era così. Questo è un caso di ingannevolezza sopravvenuta che determina decadenza.

Sempre sul versante della liceità, nell’art. 10 del codice c’è un divieto di registrazione di stemmi ufficiali,
emblemi di Stato o di organizzazioni internazionali, bandiere degli stati e via dicendo. La logica è di vietare
la protezione come marchio di uno stemma ufficiale o di un segno che ha un rilievo pubblico. In uno dei più
famosi casi in cui i giudici dell’Unione Europea e la Corte di Giustizia si sono trovati ad applicare la norma
corrispondente del diritto dell’Unione su questo divieto di registrazione (o impedimento alla registrazione)
un soggetto voleva registrare come marchio la foglia d’acero tipica della bandiera canadese, lo stemma di
stato del Canada. Si era ritenuto che, nella misura in cui fosse richiamata la foglia d’acero dello stemma
canadese, non potesse essere registrato un marchio che venisse identificato dal pubblico come lo stemma
ufficiale della bandiera.

ASSENZA DI CONFLITTI CON DIRITTI SU DOP E IGP


Nell’art. 14.1 lett. c-bis troviamo una norma di raccordo con la disciplina delle denominazioni di origine e
delle indicazioni geografiche; vi sono una serie di regolamenti dell’Unione Europea che proteggono questi
segni (denominazione di origine e indicazioni geografiche) che sono i nomi con cui vengono identificati i
prodotti tipici di una certa zona. L’Italia è ricchissima di denominazioni d’origine e indicazioni geografiche
(es. prosciutto di Parma, prosciutto di San Daniele, formaggi tipici, vini), che sono sempre accompagnate
dalla specificazione che si tratta di prodotti DOP e IGP dove la “p” sta per protetta. Questi nomi protetti
come indicazioni e denominazioni geografiche non possono essere di un singolo imprenditore per ragioni
analoghe a quelle che abbiamo già visto quando dicevamo che non può essere registrato come marchio per
difetto di capacità distintiva un segno corrispondente a una zona geografica che qualifica positivamente il
prodotto; qui la logica è la stessa: se un certo nome geografico è registrato a livello di Unione Europea come
DOP o IGP non si può avere un valido marchio in conflitto con queste DOP o IGP, cioè un marchio che
riprende la parola protetta. È una norma di sostanziale rinvio perché poi trova una maggiore specificazione

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Eleonora Biffi

nei regolamenti dell’Unione Europea. L’art. 14 c.p.i. estende il divieto a tutte le denominazioni e indicazioni
geografiche protette e non solo a quelle registrate a livello di Unione Europea, ma anche a quelle registrate in
conflitto con norme specifiche nazionali italiane o con accordi internazionali; qualunque titolo protetto in
Italia come denominazione d’origine o indicazione geografica non può essere oggetto di appropriazione in
esclusiva come marchio.

REQUISITI SPECIFICI PER I MARCHI COSTITUITI DA FORMA O ALTRE CARATTERISTICHE


Per concludere l’esame dei requisiti di validità dobbiamo occuparci dell’art. 9 del codice: tutti i requisiti che
sono stati esaminati finora sono requisiti di applicazione generale, si applicano a tutti i segni che si vogliono
registrare come marchio; l’art. 9 invece aggiunge degli impedimenti, cioè dei divieti di registrazione ulteriori
per una categoria specifica di marchi: i marchi di forma costituiti dalla forma del prodotto, dalla confezione
o anche da altre caratteristiche strutturali del prodotto. Il legislatore si preoccupa del fatto che, quando il
segno registrato come marchio non sia un segno “esterno” al prodotto o servizio (che viene semplicemente
apposto sul prodotto o utilizzato per il servizio come la parola o il disegno che vengono usati come marchio)
ma il marchio è il prodotto in sé, la registrazione può avere degli effetti monopolistici anticoncorrenziali di
portata più ampia. Se io registro come marchio denominativo un nome di un prodotto/oggetto (es. per un tipo
di borsa o per un tipo di divano), l’esclusiva è su quel segno; i miei concorrenti non potranno copiare il mio
marchio denominativo, ma resteranno liberi di fabbricare la borsa ed il divano anche uguali ai miei. Se io
registro come marchio di forma la forma di borsa o divano, essendo un segno intrinsecamente connesso al
prodotto si traduce poi in un monopolio sul prodotto, i miei concorrenti non potranno fare la borsa di quella
forma. Anche se è una tutela di un segno distintivo, sottrae alla disponibilità dei concorrenti del mercato non
solo un segno idealmente separabile dal prodotto ma proprio il prodotto in sé. La portata monopolistica di
questa esclusiva è molto più forte e invasiva; il legislatore si deve preoccupare del fatto che per questo tipo di
marchi non c’è solo la generale esigenza di mantenere certi segni liberi, ma c’è l’esigenza in più di impedire
monopoli su prodotti che per loro caratteristiche devono stare liberamente imitabili.

L’art. 9 prevede che i marchi di forma, oltre a presentare tutti i requisiti di validità dei marchi, devono in più
non incorrere in alcuni specifici divieti di registrazione. Si tratta di tre tipi di caratteristiche della forma che
impongono che quella forma del prodotto o della confezione resti a disposizione di tutti. Non possono essere
registrati come marchio i segni costituiti esclusivamente:
– Dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto: tale ipotesi riguarda i casi in cui, senza quella forma,
il prodotto non è quel prodotto. Il prodotto ha una sua forma essenziale che dà al prodotto la natura che gli
è propria. Gli esempi che si fanno sempre al riguardo sono quelli del portauovo e dello schiaccianoci: se
un portauovo non ha quella forma con la base e la coppa per accogliere l’uovo allora non è un portauovo,
se lo schiaccianoci non ha quella conformazione con le leve e con lo spazio per accogliere i gusci non è
uno schiaccianoci. In un caso è stato detto che la forma zigrinata della superficie di una saponetta non è
una forma imposta dalla natura stessa del prodotto perché si può fare una saponetta senza zigrinature, ma
questo non vale per il portauovo e lo schiaccianoci. Questo impedimento limite fa riferimento alle forme
che “ontologicamente” ci devono essere altrimenti quel prodotto non viene ad esistenza, non appartiene a
quella categoria, non è quel prodotto.
– Dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico: qui abbiamo una forma che non è
imposta dalla natura stessa del prodotto, ma che incorpora una soluzione funzionale. La preoccupazione
del legislatore è di non costituire con la registrazione come il marchio un monopolio su una caratteristica
funzionale per evidenti ragioni di coordinamento con il diritto dei brevetti perché il marchio ha una tutela
potenzialmente perpetua (può essere rinnovato), il brevetto no: l’invenzione oggetto del brevetto deve
cadere in pubblico dominio. Se ammettessimo una registrazione potenzialmente perpetua come marchio di
una forma funzionalmente utile e brevettabile questo vanificherebbe la regola di necessaria caduta in
pubblico dominio dell’invenzione scaduti i vent’anni. Questo è anche il motivo per cui questa ipotesi
viene interpretata in coordinamento con la disciplina brevettuale: se si tratta di una forma che svolge una
funzione o che ha un’utilità ma che non presenta i requisiti per essere brevettata e non ha un’esigenza di
caduta di pubblico dominio (perché quella funzionalità non è così rilevante da dover essere a disposizione
di tutti) allora si può ammettere la registrazione come marchio di questa forma che, pur avendo una certa
utilità funzionale, non presenta un’utilità funzionale tale da esigere una sua caduta in pubblico dominio.
Se invece si tratta di una forma brevettabile o brevettata o che è stata oggetto di un brevetto che poi è
scaduto questa forma, proprio perché deve restare in pubblico dominio, non può essere registrata come
marchio perché la registrazione come marchio si tradurrebbe in un monopolio potenzialmente perpetuo su
una funzione o su un’idea inventiva che deve cadere in pubblico dominio.
– Dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto: è una forma che per il suo pregio ornamentale,
estetico e altre sue caratteristiche orienta le scelte d’acquisto del consumatore. È una forma particolare,
così bella ed esteticamente gradevole che il consumatore desidera averla, cioè la acquista per la bellezza e

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Eleonora Biffi

per il pregio della forma in sé. È un po’ l’equivalente di un’esigenza di caduta in pubblico dominio della
forma per caratteristiche essenzialmente di pregio estetico. La forma di design può essere registrata come
disegno-modello, a volte anche protetta dal diritto d’autore, ma si tratta sempre di tutele temporalmente
limitate. Se si tratta di una forma che arriva ad orientare per la sua valenza estetica ed intrinseca le scelte
d’acquisto del consumatore, deve restare o cadere in pubblico dominio e non può essere registrata come
marchio. Nell’applicare questo divieto bisogna fare molta attenzione alle reali motivazioni d’acquisto del
consumatore. Esempio: caso di una borsa che in sé non ha particolari pregi estetici ma che si è accreditata
come elemento distintivo iconico di una casa di moda; il consumatore compra la borsa che ha quella
forma ma il motivo per cui la compra è che, essendo quella borsa l’elemento iconico della casa di moda, il
consumatore vuole avere qualcosa che è un segno distintivo della casa di moda; in questo caso la forma è
la motivazione dell’acquisto, ma la motivazione profonda è il collegamento della forma alla casa di moda.
Questo non è valore sostanziale, è normale capacità distintiva. Diverso è il caso in cui il consumatore si
trova in una situazione in cui alla fine non è tanto rilevante per lui da chi proviene la forma, ma ciò che
principalmente lo guida è la volontà di avere quella forma perché quella forma in sé, anche a prescindere
da chi l’ha realizzata, è una forma particolarmente gradevole che il consumatore vuole avere per la
bellezza in sé della forma; questo è un caso di valore sostanziale intrinseco della forma che ne esclude la
registrazione come marchio. Il matitone della Bang & Olufsen era stato riconosciuto dotato di capacità
distintiva, ma poi quella forma non è stata accettata alla registrazione come marchio perché la si è ritenuta
espressione di un valore sostanziale; quello che il Tribunale dell’UE in quel caso ha messo in luce è che la
motivazione d’acquisto era principalmente di tipo estetico e quindi non vi poteva essere registrazione.

Questi impedimenti o divieti di registrazione operano a prescindere dal fatto che il segno abbia o non abbia
capacità distintiva; se incorre in uno di questi divieti non può essere registrato anche se ha capacità distintiva.
Inoltre, l’acquisto di capacità distintiva con l’uso può eliminare il difetto di mancanza di capacità distintiva
(può sanare quella causa di nullità) ma non può sanare questi divieti di registrazione. Se ricorrono a questi
divieti di registrazione della forma non solo la forma non è registrabile anche se ha capacità distintiva, ma in
più l’acquisto ed il rafforzamento della capacità distintiva non rimuovono in alcun modo questi divieti.

Il legislatore ha previsto questi specifici divieti di registrazione non solo per la forma del prodotto o della sua
confezione, ma anche per ogni sua altra caratteristica strutturale e intrinseca del prodotto che può presentare
queste ragioni di esclusione della tutela. Un esempio che esemplifica bene il concetto è quello di un impulso
sonoro che ha la funzione di tenere a distanza gli insetti: si sa che un certo impulso sonoro è intollerabile per
gli insetti e li tiene a distanza, quindi viene creato uno strumento che emette tale impulso sonoro; l’impulso
sonoro potrebbe anche avere una capacità distintiva perché è riconoscibile, ma si tratta di una caratteristica
del prodotto funzionale che svolge la funzione di tenere a distanza gli insetti. Questo elemento fa sì che quel
suono non possa essere registrato; lo stesso vale con i colori: in un caso deciso molti anni fa dal Tribunale di
Milano si discuteva della tutelabilità come marchio di colore della colorazione di una parte di viti per il
serraggio di elementi e tuttavia questa colorazione aveva un valore funzionale perché serviva a far vedere
all’utente che quella parte della vite era trattata con una determinata sostanza che serviva poi come mastice
per bloccare la vite una volta messa in loco. Questi divieti valgono per tutte le caratteristiche strutturali del
prodotto sulle quali le esigenze di preservare uno spazio libertà e garantire un’effettiva caduta in pubblico
dominio devono essere sempre rispettate al punto che non vi è sanatoria possibile.

PROCEDIMENTI DI REGISTRAZIONE
I diritti su un marchio d’impresa possono sorgere anche semplicemente con un uso seguito dalla notorietà
qualificata che dà vita ai diritti sui marchi di fatto (non registrati). Per tutti gli altri segni distintivi, diversi dai
marchi, l’uso seguito da notorietà qualificata è l’unica forma di acquisto di un diritto esclusivo sul segno
come segno distintivo. Per i marchi la tutela data dalla registrazione è molto più forte e certa. In un sistema
che favorisce la registrazione, dove chi decide di seguire la strada della registrazione del marchio ottiene una
tutela più solida, è necessario chiedersi quali strade un soggetto che vuole registrare un marchio può seguire.
Molto dipende dall’ambito territoriale della tutela.

MARCHIO ITALIANO
Se l’imprenditore o il soggetto che vuole registrare il marchio è per il momento interessato ad una protezione
solo nel territorio italiano, allora la prima forma di registrazione che si può seguire è quella di registrare un
marchio nazionale italiano. È una registrazione che si effettua depositando una domanda di marchio presso
l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Il marchio viene
rilasciato dall’Ufficio Italiano e in base al principio di territorialità avrà efficacia solo per il territorio italiano.
Il principio di territorialità è il principio in base al quale una registrazione o un brevetto hanno efficacia solo
nei confini del territorio per il quale è competente l’ufficio che rilascia la registrazione o il brevetto. I marchi

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Eleonora Biffi

italiani sono interamente soggetti alle disposizioni del c.p.i. del decreto ministeriale n. 33/2010 che contiene
il regolamento di attuazione e detta delle disposizioni di ordine pratico o relative alle formalità necessarie per
svolgere le procedure previste dal c.p.i. Il procedimento davanti all’ufficio è semplice: a seguito del deposito
della domanda di registrazione, l’Ufficio Italiano effettua una valutazione dei requisiti di validità, ma solo
dei requisiti assoluti, cioè quei requisiti rispetto ai quali il divieto di registrazione non dipende dall’esistenza
di diritti anteriori altrui. Quando si parla di requisiti di validità assoluti si tratta dei requisiti della capacità
distintiva e della liceità che sono posti a interesse della collettività. Gli impedimenti alla registrazione fondati
su diritti anteriori di terzi (casi di mancanza di novità, di nomi/ritratti/segni notori, di esistenza di altri diritti
di proprietà industriale o intellettuale su un certo segno) possono essere fatti valere solo dal titolare del diritto
anteriore. Essendo tutti casi in cui c’è un avente diritto che ha un diritto esclusivo anteriore sul segno, ed
essendo il divieto di registrazione legato al fatto che non c’è un consenso all’avente diritto alla registrazione,
di conseguenza la facoltà di opporsi alla registrazione o di chiedere nullità del marchio registrato nonostante
l’esistenza di questo divieto/impedimento è rimessa alla scelta discrezionale del soggetto titolare del diritto
anteriore. Dato che la mancanza di validità del marchio dipende dall’esistenza di questo suo diritto anteriore,
la legge stabilisce che solo il titolare del diritto anteriore può decidere se far valere la mancanza di validità
del marchio successivo oppure no. Questo si traduce nel procedimento di registrazione nel fatto che l’ufficio,
ricevuta la domanda, esamina solo i requisiti assoluti (capacità distintiva e liceità e requisiti preliminari). Se
l’esame ha esisto positivo e secondo l’ufficio si può procedere, la domanda di registrazione del marchio
viene pubblicata e da quel momento decorre un termine di tre mesi entro i quali il titolare di uno dei diritti
anteriori può fare opposizione alla registrazione. Si innesta all’interno del procedimento di registrazione una
fase contenziosa in cui il titolare del diritto anteriore con cui il marchio che si vuole registrare entrerebbe in
contatto può, prima ancora che il marchio venga registrato, intervenire nella procedura e far valere le sue
ragioni opponendosi alla concessione del marchio; per questo si chiama “procedimento di opposizione”.
Tuttavia, non tutti gli impedimenti relativi possono essere fatti valere con una opposizione già durante la
procedura di registrazione. L’esistenza di diritti anteriori che tolgono validità al marchio solo in certi casi
previsti tassativamente dalla legge può essere già fatta valere durante l’opposizione prima della registrazione.
Se invece l’impedimento relativo non rientra tra quelli che si possono far valere con l’opposizione, il titolare
del diritto anteriore ha come unica strada quella di attendere la registrazione del marchio e di agire in un
momento successivo per chiedere la nullità del marchio concesso. Per varie ragioni solo alcuni impedimenti
relativi possono essere fatti valere già durante la procedura di registrazione. Se l’esame ha esito positivo e
non è stata proposta opposizione o, pur essendo stata proposta opposizione, viene respinta, l’ufficio procede
alla registrazione del marchio integralmente oppure solo per la parte dei prodotti/servizi per cui è stata
ritenuta sussistente la validità del marchio. Il marchio dev’essere domandato per determinati prodotti/servizi.
Il titolare o richiedente deve indicare per quali prodotti/servizi vuole che il marchio venga registrato ed è
possibile che il marchio abbia i requisiti di validità per alcuni prodotti/servizi e per altri no. Caso classico è
una parola che è descrittiva per un certo prodotto (per quel prodotto non è un valido marchio) ma può essere
un valido marchio per un altro prodotto; ove la domanda di marchio venga depositata per entrambi i tipi di
prodotti, alla fine avremo una decisione che respinge la domanda per i prodotti per i quali manca capacità
distintiva e l’accoglie per quelli in cui la capacità distintiva esiste. Nel caso in cui ci fosse opposizione per un
marchio anteriore che toglie novità solo in relazione a certi prodotti/servizi, l’opposizione sarà accolta solo
per quei prodotti servizi e per il resto sarà respinta e la domanda sfocerà nella registrazione. Come per i
brevetti, le decisioni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, ove respingano la registrazione od ove
raccolgano o respingano l’opposizione, possono essere impugnate davanti alla Commissione dei Ricorsi e in
ultima istanza davanti alla Corte di Cassazione. Per contro, le decisioni che accolgono la registrazione del
marchio e non coinvolgono un problema di opposizioni (le semplici registrazioni di marchio) possono essere
impugnate di nullità davanti al giudice ordinario. In base all’articolo 117 c.p.i., un marchio che sia stato
definitivamente registrato perché tutti i rimedi possibili si sono conclusi negativamente per chi ha proposto
l’opposizione, può essere in ogni caso ancora oggetto di una procedura di nullità. La norma 117 è che “quale
che sia la decisione dell’organo amministrativo e anche se la decisione dell’organo amministrativo è stata
confermata in sede d’appello dalla Commissione dei Ricorsi e in ultima istanza dalla Corte di Cassazione e
alla fine delle procedure il marchio viene registrato e qualsiasi cosa sia successa prima, chi vi ha interesse
può fare causa di nullità davanti al giudice”. È sempre possibile chiedere ad un giudice, partendo dalla prima
istanza davanti al tribunale, di sindacare la validità del marchio. Se il marchio viene registrato senza alcun
procedimento di opposizione, si può andare direttamente davanti al giudice. Se invece c’è un procedimento
di opposizione in corso e supponiamo che l’ufficio abbia preso una certa decisione sull’opposizione, contro
quella decisione dell’ufficio si può andare in Commissione dei Ricorsi e poi in Cassazione; ma se alla fine di
tutto questo la decisione è che il marchio è registrato, comunque i terzi interessati conservano la possibilità di
fare la causa di nullità davanti al giudice. È un principio di garanzia sancito a livello costituzionale: in ogni
caso la decisione amministrativa anche se confermata nelle varie impugnazioni non preclude il diritto e la
possibilità di avviare un’azione non amministrativa ma giudiziaria di invalidità del marchio.

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Eleonora Biffi

MARCHIO DELL’UNIONE EUROPEA


Per i brevetti il sistema di registrazione del brevetto a livello di Unione Europea non è ancora attuato nella
pratica; a livello di marchio, viceversa, sin dalla metà degli anni ‘90 esiste il sistema del marchio dell’Unione
Europea istituito da un regolamento varato alla fine del 1993 che è divenuto operativo a partire dal 1º aprile
1996. Il regolamento sul marchio dell’UE attualmente in vigore è il Reg. UE n. 2017/1001, nel 2018 sono
stati adottati due regolamenti di esecuzione (n. 625 e 626) che dettano alcune modalità di applicazione delle
regole del testo base del 2017 e indicano procedure per applicarle. La richiesta di marchio dell’UE e la
procedura sono corrispondenti a quelle del marchio nazionale italiano: deposito della domanda di marchio
presso l’Ufficio dell’UE per la Proprietà Intellettuale con sede ad Alicante (c.d. EUIPO); esame dell’ufficio
su impedimenti e requisiti di ordine generale (capacità distintiva, liceità, marchi di forma, segni registrabili);
possibilità di opposizione alla registrazione con i vari gradi di impugnazione che possono arrivare fino alla
Corte di Giustizia dell’UE. Se il marchio viene alla fine rilasciato, fermo restando che anche ove rilasciato è
a sua volta oggetto a possibili e successive azioni di nullità, si ha un marchio unico sovranazionale valido
per tutto il territorio dell’UE come se quel territorio fosse un unico territorio, cioè come se non esistessero i
confini nazionali. Il principio di territorialità, nel caso del marchio dell’UE, si esplica nel fatto che abbiamo
un marchio valido per il territorio europeo considerato come blocco unitario. Va tenuto presente che questa è
anche una tutela che può presentare maggiori difficoltà perché possono essere protetti come marchi dell’UE
solo i marchi che presentano i requisiti di validità in tutto il territorio dell’Unione. Se un motivo di non
registrabilità del marchio sussiste anche solo in uno stato dell’Unione, non è possibile avere un marchio
dell’UE perché i requisiti di validità devono sussistere per tutto il territorio. Esempio: se un soggetto vuole
registrare un marchio dell’UE ma poi emerge che in Francia c’è un marchio nazionale anteriore identico,
questo impedisce la registrazione del marchio dell’UE perché c’è uno stato all’interno dell’UE in cui c’è un
diritto anteriore. Il marchio dell’UE è valido solo se è valido ovunque. Alternativamente possiamo pensare ad
una parola che è descrittiva solo in una lingua e per i consumatori di altri parti dell’UE è priva di valenza
descrittiva; anche in questo caso il fatto che ci sia una parte dell’UE in cui il segno è privo di capacità
distintiva basta di per sé ad escludere la registrabilità. Lo stesso vale per la liceità. In un caso di diversi anni
fa ci si è trovati in una situazione in cui per ragioni locali di un singolo stati membro, in quello stato membro
singolo il segni che si voleva registrare come marchio era contrario all’ordine pubblico. Anche in questo caso
si è detto che non era possibile registrare quel marchio perché i requisiti richiesti devono esistere ovunque.
L’unico paracadute per un soggetto che chiede un marchio dell’UE e che viene bloccato dall’esistenza di
situazioni locali è quello di chiedere la conversione del marchio dell’UE in tante registrazioni nazionali per
gli stati in cui l’impedimento/divieto non ci sia.

MARCHIO INTERNAZIONALE
La terza forma di registrazione di un marchio che può portare ad acquisire diritti esclusivi sul territorio
italiano è il marchio internazionale. Il sistema del marchio internazionale è gestito dalla WIPO che si basa su
un accordo internazionale e su un protocollo: l’accordo di Madrid (1891) e il protocollo di Madrid (1989)
sulla registrazione internazionale. Il sistema funziona in questo modo: sulla base di una registrazione già
effettuata a livello nazionale è possibile chiedere l’estensione della registrazione in uno o più degli altri stati
aderenti al sistema di Madrid o delle organizzazioni aderenti a questo sistema di registrazione internazionale.
Si parte da una registrazione base (di marchio nazionale) e si chiede all’ufficio istituito presso la WIPO a
Ginevra di disporre una registrazione del marchio in tutti i Paesi del sistema del marchio internazionale per
cui il titolare del marchio di base ha chiesto tutela e poi di trasmettere i provvedimenti di registrazione ai
singoli stati, i quali avranno poi un periodo di tempo per confermare o per rifiutare la protezione nel loro
territorio. Una volta che le varie porzioni del marchio internazionale si siano radicate nei vari stati nazionali
per cui è stata chiesta la protezione, a quel punto divengono e vengono trattati a tutti gli effetti come marchi
nazionali. La porzione del marchio internazionale francese o tedesca sarà soggetta alle cause di nullità e alle
azioni di nullità della legislazione locale oppure, sulla base di quella porzione nazionale, si potrà avviare una
causa di contraffazione. Anche questo sistema del marchio internazionale dà vita ad una sorta di fascio di
marchi nazionali paralleli. Si parte da una registrazione di base e si ottengono tante registrazioni parallele per
gli stati in cui il richiedente ha chiesto tutela e nei quali la protezione non sia stata rifiutata. Questo sistema
del marchio internazionale è diverso dalla priorità prevista dalla CUP. Il sistema della priorità dice che se io
deposito la prima domanda di marchio su quel segno in uno stato aderente all’Unione di Parigi, ho poi sei
mesi di tempo per chiedere la registrazione dello stesso segno in altri stati facendo valere la priorità, cioè
chiedendo che i requisiti di validità siano valutati con riferimento alla data prima domanda. Il sistema di
estensione del marchio in sede internazionale non è soggetto ai termini della priorità: la priorità serve solo
per poter far valere la data del primo deposito per la valutazione dei requisiti di validità. L’estensione in sede
internazionale di può effettuare a prescindere dalla rivendicazione di priorità, con l’unica differenza che in
tale caso la validità della porzione nazionale del marchio internazionale si valuterà non rispetto ad una data
di priorità ma alla data effettiva in cui l’estensione sia stata richiesta. Affinché il marchio sia valido, non è

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Eleonora Biffi

richiesto che il marchio sia sconosciuto. Se io ho una registrazione base in Italia, io sono libero di chiedere
l’estensione in un altro Paese anche tra dieci o vent’anni; l’unico problema pratico è che in quell’altro Paese
qualcuno dovesse aver registrato il marchio prima che lo faccia io, il mio marchio in quel Paese non sarà
valido perché in quell’altro Paese qualcuno avrà acquisito prima di me i diritti sul segno. Le estensioni di un
marchio si possono fare in ogni momento. La durata standard di un marchio è di dieci anni dal momento del
deposito della domanda e poiché non ci sono esigenze di caduta di pubblico dominio, la registrazione può
essere rinnovata senza limiti per periodi di dieci anni finché il titolare ha un interesse a rinnovare tale
registrazione. Per tale motivo si dice che la tutela del marchio è potenzialmente perpetua.

CONTENUTO DELLA DOMANDA DI REGISTRAZIONE


In ogni caso la domanda di registrazione di marchio deve contenere almeno:
– Nome e indirizzo del titolare;
– Nome e indirizzo del rappresentante titolare (se nominato);
– Descrizione del marchio e sua esatta riproduzione;
– Indicazione dei prodotti o servizi per cui è chiesta la registrazione, suddivisi nelle classi merceologiche
previste dall’Accordo di Nizza (accordo internazionale che divide tutti i prodotti o servizi esistenti in delle
classi merceologiche. Non ha rilievo sostanziale, ma ha rilievo puramente fiscale. A seconda del numero
di classi per cui si chiede la registrazione, aumenta in modo corrispondente l’ammontare delle tasse da
pagare).

Le domande di registrazioni dei marchi sono molto più snelle delle domande di brevetto perché nei marchi
non occorre descrivere nel dettaglio un’invenzione o lo stato della tecnica, ma è sufficiente che sia ben chiaro
il segno che si vuole proteggere e che siano ben identificati i prodotti e i servizi per cui la legislazione è
richiesta.

ESEMPIO DI MARCHIO ITALIANO


Marchio della Barilla relativo ai prodotti della Mulino Bianco. Nella parte superiore del documento troviamo
il numero del marchio, la data della presentazione della domanda, il titolare, il rappresentante, il consulente
marchi e l’ordine delle rinnovazioni (registrazioni precedenti). Il caso del documento che stiamo analizzando
è di fatto una registrazione di rinnovazione che indica nella parte inferiore le registrazioni anteriori, la prima
delle quali era stata richiesta nel 1985 e poi rinnovata dopo dieci anni nel 1995 e nel 2005. La descrizione del
marchio è una parte non corposa come il brevetto; nella casella “classi” vengono indicati i numeri delle classi
in cui sono contenuti i prodotti per cui la Barilla ha interesse all’uso del suo marchio Mulino Bianco.

ESEMPIO DI MARCHIO DELL’UNIONE EUROPEA


Marchio del detersivo Dash. Qui troviamo la copia certificata dell’attestato di registrazione del marchio con
il suo numero e la data; un certificato dedicato alla riproduzione del marchio; l’indicazione dei prodotti per
cui si chiede la protezione nelle varie lingue dell’Unione.

ESEMPIO DI MARCHIO INTERNAZIONALE


Marchio della Birra Budweiser contenente: numero del marchio registrato, data di registrazione, titolare,
marchio denominativo, indicazione delle classi (birre), Paesi designati (per i quali è richiesta l’estensione del
marchio). Quali sono le decisioni che possono essere prese a livello nazionale? Uno stato, una volta ricevuta
la comunicazione di registrazione del marchio, può non fare nulla. È possibile che in alcuni stati lo Stato
sollevi delle obiezioni transitorie (c.d. rifiuto provvisorio di tutela), cioè si riserva un periodo per valutare
meglio la situazione nel suo territorio al termine del quale può confermare che non vi sono stato ostacoli alla
protezione e quindi ritirare il rifiuto provvisorio. Ci sono però altri stati che, per ragioni locali, ritengono di
non poter concedere protezione al marchio nel loro territorio (total refusal).

AMBITO DI TUTELA
Per ambito di tutela si intendono quelle attività che costituiscono contraffazione e violazione di un marchio
registrato e che possono essere bloccate dal titolare del marchio. La norma di riferimento è l’art. 20.1 c.p.i.
che individua l’ambito di protezione del marchio stabilendo in quali situazioni e a quali condizioni il titolare
del marchio può agire per far cessare l’uso di un segno usato da un terzo in quanto interferente col marchio.
Il titolare di un marchio registrato ha il potere di impedire la registrazione di altri segni successivi interferenti
che sono privi di novità (aspetto regolato dall’art. 12) ed il diritto di vietare l’utilizzo sul mercato di segni
interferenti. Questo è l’ambito di tutela contro la la contraffazione regolato dall’art. 20 del c.p.i.). Se un terzo
sia registra sia usa il marchio interferente sul mercato non è sufficiente fargli causa sulla base di una sola
delle due norme; se il terzo ha commesso entrambi gli atti di interferenza con il marchio (registrazione e uso)
la causa che gli si deve fare dev’essere a due domande separate: una di nullità della registrazione successiva

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Eleonora Biffi

per mancanza di novità e una di contraffazione per far accertare che l’uso in concreto sul mercato è avvenuto
in violazione dei diritti di marchio e far cessare quell’uso. L’esito della domanda di nullità è la cancellazione
del marchio registrato successivo, l’esito dell’azione di contraffazione è l’accertamento della contraffazione
con l’irrogazione di sanzioni per la violazione che tipicamente sono il divieto di uso del segno successivo, il
risarcimento dei danni, la restituzione degli utili tratti dal contraffattore con l’attività illecita (gli utili devono
essere attribuiti al titolare del diritto violato), la pubblicazione della sentenza che accerta la violazione e la
distruzione dei prodotti contraffattori e il loro ritiro dal mercato. Queste sono le sanzioni previste dal c.p.i.
per la contraffazione ma il giudice è libero a suo giudizio di decidere nel caso concreto quali misure irrogare
e come strutturarle, sempre nell’ambito di ciò che ha chiesto il titolare. Nelle cause civili vale la regola per
cui il giudice può disporre delle misure o rendere degli accertamenti ma solo nei limiti di quello che le parti
gli hanno domandato. Se per caso una parte – sbagliando – fa solo l’azione di nullità e non anche quella di
contraffazione, anche la contraffazione esiste il giudice non può rilevarla d’ufficio. C’è stretto collegamento
tra l’art. 12 e l’art. 20: le situazioni in cui un marchio registrato toglie novità e impedisce la registrazione di
un marchio successivo (lett. c, d, e articolo 12 c.p.i.) corrispondono esattamente alle ipotesi nelle quali il
titolare del marchio anteriore può impedire l’uso del segno successivo (lett. a, b, c art. 20.1). Le ipotesi sono
esattamente le stesse: doppia identità, rischio di confusione e associazione, tutela ampliata del marchio che
gode rinomanza contro qualunque forma di agganciamento parassitario e di pregiudizio all’immagine del
marchio. L’art. 20 c.p.i., prima di dettagliare le tre fattispecie in cui c’è contraffazione, esordisce con alcune
condizioni comuni che devono ricorrere in ognuna delle tre ipotesi affinché ci possa essere nel caso concreto
contraffazione: i diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso
esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività
economica:
a. Un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
b. Un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa
dell'identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi
un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due
segni;
c. Un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio
registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno, anche a fini diversi da quello di
contraddistinguere i prodotti e i servizi, senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio
dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

L’uso esclusivo del marchio è il diritto di escludere terzi dall’uso del marchio. Si può vedere sia in negativo
come diritto del titolare di vietare determinate condotte di terzi, sia in positivo come facoltà esclusiva del
titolare di decidere le strategie d’uso, di promozione, di marketing relative al marchio. Entrambe le
componenti fanno parte del concetto di uso esclusivo. Da un lato il titolare può esercitare il suo diritto di
esclusione di tutti i terzi dall’ambito di tutela del marchio, dall’altro lato può sfruttare la propria sfera di
esclusiva per fare discrezionalmente senza interferenze da parte di terzi all’interno di quell’area di esclusiva
tutte le scelte che lui ritiene opportune circa le modalità di sfruttamento del marchio (es. decidere per quanti
prodotti/servizi, con quali canali distributivi, con quali forme di comunicazione, ecc). Il divieto di uso del
segno per prodotti/servizi ricorre come elemento in tutte e tre le ipotesi.

PRESUPPOSTI GENERALI
I presupposti generali dell’azione di contraffazione, ovvero le condizioni base che il giudice deve verificare
per prima e senza le quali non si procede nell’esame per stabilire se una delle fattispecie di contraffazione è
integrata sono:
– Uso del segno: un terzo impiega un segno “nell’ambito della propria comunicazione commerciale” (Corte
Giust., 23 marzo 2010, Google; Corte Giust., 12 luglio 2011, L’Oréal/eBay);
– Nell’attività economica: l’uso del segno “si colloca nel contesto di una attività commerciale finalizzata a
un vantaggio economico e non nell’ambito privato” (Corte Giust., 23 marzo 2010, Google; Corte Giust.,
19 febbraio 2009, UDV North America; Corte Giust., 12 giugno 2008, O2);
– Per prodotti o servizi;
– Senza il consenso del titolare.
Su questi casi si è pronunciata più volte la giurisprudenza anche con sentenze particolarmente significative,
tra di essi Google ed eBay hanno avuto un rilievo fortissimo. In tali sentenze la Corte di Giustizia è stata
chiamata a stabilire se chi offre un servizio in rete risponde di contraffazione per il fatto che quel servizio sia
sfruttato da un utente del servizio stesso per compiere attività contraffattorie. Google ad esempio risponde di
contraffazione di marchio per il fatto che un terzo utilizzi impropriamente il servizio di key-word advertising
(servizio che permette di far apparire i link sponsorizzati a pagamento che rinviano ad un messaggio
pubblicitario dell’utente) per inserire come parola chiave il nome di un marchio famoso e quindi attiri a sé i

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Eleonora Biffi

consumatori? Risponde eBay per il fatto che la piattaforma sia utilizzata da un utente per mettere in vendita
prodotti contraffattori? Il fornire di servizi di rete non risponde di contraffazione per il fatto in sé di aver
messo a disposizione il servizio a condizione tuttavia che non abbia partecipato attivamente all’opera di
contraffazione dell’utente e a condizione che, una volta a conoscenza dell’esistenza dell’attività illecita, si sia
prontamente attivato per porre rimedio. Se Google si limita a mettere a disposizione un servizio e se eBay si
limita a mettere a disposizione il mercato online, questo non costituisce una contraffazione o un concorso
nell’illecito perché non si può dire che ci sia stata una partecipazione di Google o di eBay all’attività illecita.
Se ad esempio eBay fornisce al soggetto contraffattore una specifica assistenza per dare particolare visibilità
ai prodotti contraffattori o in qualsiasi altro modo agevola l’attività di contraffazione, allora ci può essere una
posizione in concorso attivo nella contraffazione e non più una posizione neutrale di mero fornitore del
servizio. Alternativamente ci può essere una responsabilità se, nel momento in cui il titolare segnala alla
piattaforma l’esistenza dell’illecito, il fornitore dei servizi non si cura della segnalazione e non interviene.
Questo stato di inerzia nel momento in cui gli è stata notificata l’esistenza dell’attività illecita può tradursi in
una sua responsabilità perché a quel punto è stato specificamente informato della condotta illecita e non si è
attivato per porvi rimedio. Questo è il motivo per cui su tutte le grandi piattaforme sono previste delle misure
specifiche a tutela della proprietà intellettuale di “notice and take down” (procedura in cui, a seguito di una
comunicazione, la piattaforma si attiva per disattivare il contenuto illecito e rimuoverlo) e di “notice and stay
down” (a seguito della comunicazione, la piattaforma non si limita a rimuovere il contenuto illecito ma attiva
un filtro che mantiene fuori il responsabile dell’illecito, blocca l’autore dell’illecito in modo che non possa
ripetere la condotta vietata). Se queste condizioni sono rispettate, il fornitore di un servizio che viene usato
impropriamente per violare un diritto di proprietà industriale, non risponde di contraffazione. In questi casi la
Corte di Giustizia ha precisato che è necessario non esporre troppo facilmente gli operatori di Internet a delle
condanne per contraffazione e inibitorie perché c’è il rischio di una paralisi e di un cattivo funzionamento del
mercato su internet, che invece è visto positivamente come qualcosa che va a vantaggio dei consumatori e
non deve essere indebitamento limitato. Le stesse regole si sono applicate in materia di diritto d’autore, ma
l’ultima Direttiva dell’UE del 2019 in materia di copyright ha ampliato l’area di responsabilità dei service
provider di Internet, suscitando un forte scontro e molte critiche all’interno degli stati membri. Per i marchi
non c’è una disposizione del genere e allo stato la giurisprudenza è ferma nel ritenere che, se il service
provider ha mantenuto un atteggiamento neutro perché non ha partecipato nell’illecito e una volta venuto a
conoscenza dell’illecito si è attivato per porre rimedio alla situazione, non può essere ritenuto responsabile di
contraffazione. Esaminiamo le fattispecie:
– Si ha uso del segno in senso giuridico tale da poter dare vita ad una contraffazione se un terzo impiega un
segno nell’ambito della propria comunicazione commerciale. Se un soggetto utilizza impropriamente il
key-word advertising di Google o la piattaforma di mercato di eBay per vendere un prodotto in violazione
dei diritti del titolare, nel caso di eBay vende proprio un prodotto costituente contraffazione mentre nel
caso di Google magari il marchio famoso viene utilizzato solo per attirare sul proprio sito i consumatori (i
consumatori digitano LV, trovano il link a pagamento, cliccano sul link e si ritrovano su un sito di un
soggetto che vende articoli della stessa categoria merceologica di LV ma che non hanno niente a che fare
con Louis Vuitton); in sé i prodotti venduti dal soggetto non sono contraffattori, però questo soggetto si è
servito del marchio per veicolare un messaggio attrattivo al consumatore. Finché Google ed eBay si
limitano a mettere a disposizione il servizio non usano il marchio altrui per una comunicazione
commerciale (Google offre il suo servizio, ma non è Google che utilizza il marchio altrui per indirizzare i
consumatori per i fini del terzo). Da questo punto di vista non c’è un uso del segno per chi si limita a
mettere a disposizione il servizio. Nell’ambito dell’offline lo stesso è stato affermato per un soggetto che
si limitava a mettere a disposizione un servizio di riempimento di lattine su cui erano riprodotti marchi in
contraffazione a marchi altrui; la Corte di Giustizia ha detto che chi venderà le lattine con quei marchi sarà
responsabile di contraffazione, ma chi si limita a riempirle senza poi partecipare alla commercializzazione
delle lattine si limita a fornire un servizio non facendo uso di quel marchio nella sua comunicazione
commerciale.
– L’uso del segno deve essere nell’attività economica: questo tipo di comunicazione deve avvenire in una
attività economica finalizzata ad un vantaggio economico e non nell’ambito privato. La Corte di Giustizia
ha precisato che si ha uso nell’attività economica se viene utilizzato il marchio in un’attività commerciale
destinata ad un vantaggio economico non nell’ambito privato: tutto ciò che si colloca nell’ambito privato
non è possibile oggetto di contraffazione. Un uso del marchio altrui in un’attività non economica non può
essere contraffazione; se io utilizzo il marchio altrui non per una comunicazione commerciale ma per
veicolare messaggi diffamatori sul titolare del marchio questo sarà sicuramente un illecito/reato, ma non è
contraffazione perché io non ho usato il marchio sul mercato. Il fatto che nell’ambito privato non ci possa
essere contraffazione sottrae certe ipotesi all’ambito della contraffazione: si considera di nuovo eBay in un
casi cui un privato aveva messo in vendita pochi esemplari di un prodotto contraffattorio di cui era venuto
in possesso. Non si era messo a fare un commercio stabile sul mercato dei prodotti ma aveva messo in

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Eleonora Biffi

vendita questi prodotti. Se si tratta di un’attività stabile, allora c’è una attività economica sui prodotti
contraffattori che va vietata, ma se è il privato cittadino che vende pochi pezzi su eBay non si può dire che
abbia svolto un’attività economica perché è un’attività che rimane nel suo ambito privato e, per ragioni di
tutela della privacy, viene esclusa da una possibile qualifica in termini di contraffazione.
– L’uso nella comunicazione commerciale in una attività economica deve essere relativo all’offerta dei
prodotto o servizi sul mercato.
– Per esservi contraffazione l’uso del terzo deve avvenire senza il consenso del titolare. Se non c’è alcun
consenso del titolare, c’è contraffazione. Il titolare può utilizzare il segno per decidere se e in che forma
dare il suo consenso. Il rilievo di questa norma è molto importante perché è la norma sulla quale si basa il
diritto del titolare di dare il consenso e autorizzare certi usi; è la norma sulla base della quale si possono
stipulare i contratti di licenza, gli accordi di coesistenza, creare catene di franchising, ecc. Tutte le volte in
cui il titolare del marchio non utilizza direttamente il marchio ma lo sfrutta attraverso accordi con terzi,
con il consenso del titolare tutte queste attività sono lecite e consentite, la norma dà al titolare il potere di
disporre del suo segno.

DOPPIA IDENTITÀ
Il terzo usa un segno identico al marchio registrato per prodotti o servizi identici a quelli per cui il marchio è
registrato. Qui il giudizio è semplice: si prende l’attestato di registrazione del marchio, si guarda qual è il
segno registrato come marchio, si guardano quali sono i prodotti e i servizi per cui è stato registrato tale
marchio e, con questa risultanze del registro, si confronta quello che fa il terzo (quale segno usa e per quali
prodotti e servizi). Esempio: se io ho il marchio Armani registrato per capi di abbigliamento classe 25 e il
terzo usa il marchio Armani per capi di abbigliamento classe 25 è un caso di doppia identità per il quale c’è
contraffazione. Questa norma storicamente ha avuto la sua utilità in situazioni in cui il terzo contraffattore,
pur in caso di prodotti identici e marchi identici, si difendeva dicendo che il consumatore non si poteva
confondere perché i canali distributivi erano talmente diversi che nessuno avrebbe mai creduto che i prodotti
del terzo fossero i prodotti originali (casi di pirateria dei marchi). Si è quindi ritenuto opportuno introdurre
una norma di questo tipo che risolve il problema sin dalla radice. La giurisprudenza, adottando il principio di
riferimento al consumatore medio, stabilisce che “identici sono non solo i segni perfettamente sovrapponibili
ma anche i segni che, pur avendo qualche differenza, si differenziano in un modo totalmente insignificante
da poter passare inosservato agli occhi di un consumatore medio”. Si considerano strettamente identici non
solo i segni che tali siano (perfettamente sovrapponibili) ma anche quelli che il consumatore percepisce come
identici perché, pur avendo delle minime differenze, il consumatore non le percepisce. Per stabilire l’identità
tra prodotti o servizi si fa riferimento al genere merceologico. Se ad esempio io metto il marchio LV su una
borsa di pessima fattura, non posso poi dire che non c’è identità merceologica perché la qualità della borsa è
diversa dalla qualità dell’originale. L’identità non si valuta sulle caratteristiche concrete di fabbricazione del
prodotto, ma si valuta sulla base del genere merceologico. La borsa di Vuitton e la borsa del contraffattore
hanno enorme differenza qualitativa, ma dal punto di vista merceologico sono entrambe borse e come tali
sono identiche.

RISCHIO DI CONFUSIONE
Il rischio di confusione si ha quando il pubblico può credere che i prodotti o i servizi contraddistinti dal
marchio originale e i prodotti o servizi per cui è usato il segno del terzo provengano dalla stessa impresa
(rischio di confusione in senso stretto). È un rischio che attiene alla provenienza imprenditoriale dei prodotti
e servizi; la presenza del segno del terzo sui prodotti o servizi fa credere ai consumatori che quei prodotti o
servizi provengano dal titolare del marchio. Il rischio di associazione è un rischio di confusione in senso
ampliato che ricorre quando il pubblico si rende conto che i prodotti o i servizi provengono da delle imprese
diverse, ma può credere che le due imprese siano economicamente legate tra loro (rischio di confusione in
senso lato). Esempio: per certi brand di moda ci può essere una linea di fascia alta di prodotti e una linea più
economica; il consumatore, di fronte all’uso del marchio noto per una certa linea di prodotti, si rendere conto
che non sono prodotti fatti dal titolare del marchio ma può pensare che il titolare abbia consentito ad un terzo
in un rapporto di collaborazione di creare e sviluppare quella linea di prodotti e di contrassegnarlo con il
marchio. In un’ipotesi di questo tipo il consumatore si rende conto che la linea dei prodotti successiva non è
strettamente proveniente dal titolare del marchio ma pensa che abbia avuto comunque la sua approvazione, il
suo benestare anche se sviluppata da un terzo. La legge precisa inoltre che, affinché un rischio di confusione
si determini, devono ricorrere congiuntamente due elementi: identità o somiglianza tra segni; identità o
affinità tra prodotti. Se in uno dei due fattori o in entrambi non c’è identità ma solo somiglianza o affinità, la
norma sulla doppia identità non si applica e si passa a valutare se c’è un rischio di confusione o associazione
sulla base di questi fattori. I criteri elaborati al riguardo sono calibrati sulla percezione del consumatore
medio dei prodotti e servizi; si fa riferimento all’accezione del consumatore medio dei prodotti o servizi, ci si
pone dal punto di vista di un consumatore che deve compiere una scelta d'acquisto relativamente al prodotto

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del terzo e ci si chiede se il consumatore che si trova a dover compiere una scelta d’acquisto sul prodotto del
terzo possa essere tratto in errore sulla provenienza di quel prodotto/servizio o sull’esistenza di legami di tale
prodotto/servizio con il titolare del marchio. Nel fare questo si deve procedere ad una valutazione globale
che tiene in considerazione tutti i fattori pertinenti al caso di specie: nel momento della scelta tanti fattori
contemporaneamente presenti vengono globalmente valutati e soppesati dal consumatore che può orientarsi
in un senso o nell’altro, per questo la valutazione deve essere globale e ci può essere una interdipendenza,
nel senso che magari i fattori si bilanciano tra di loro (es. i segni non sono tanto simili ma i prodotti sono
identici e il consumatore pensa che collegamento ci sia; i prodotti non sono merceologicamente molto vicini
ma i marchi sono proprio identici o simili e il consumatore pensa che un collegamento si possa essere). Se
noi vediamo un marchio molto noto per la prima volta su prodotti diversi da quelli per cui il marchio è noto,
al momento restiamo un attimo disorientati ma poi pensiamo che se recano il marchio noto vorrà dire che il
titolare del marchio ha deciso di estendere la sua attività anche a quel settore o ha fatto accordi commerciali
per estendere la sua attività anche a quel settore. Esempio: il marchio noto per abbigliamento a certo punto,
senza autorizzazione, comincia ad essere utilizzato da un terzo per l’arredamento per la casa o per orologi; il
consumatore non ha mai visto quel marchio utilizzato per prodotti diversi dai capi d’abbigliamento, però
vedendo i “nuovi” prodotti può pensare che i titolare del marchio abbia deciso di estendersi anche a quei
settori. In questo senso si tiene conto dell’interdipendenza dei fattori: alla fine tutto deve convergere nel
chiedersi se, mettendo insieme tutti fattori e bilanciandoli tra loro, il consumatore si può confondere oppure
no.

Sempre dal punto di vista del consumatore sono stati messi a punto in dottrina e in giurisprudenza dei criteri
specifici per stabilire anche quando vi sia una somiglianza tra segni oppure una somiglianza detta affinità tra
prodotti. Per quanto riguarda i segni, i principali criteri di valutazione dell’identità o somiglianza tra segni
sono:
– Effettuare una “valutazione globale e sintetica dei segni”: come li vede il consumatore e non l’esame
analitico di dettaglio. È un principio che la giurisprudenza afferma sempre, soprattutto quando si tratta di
beni di largo consumo (es. beni di prezzo non troppo elevato tipicamente prelevati dagli scaffali della
GDO). Il consumatore si orienta sui prodotti di suo interesse e svolge un esame, ma si tratta di un esame
tutto sommato rapido: un consumatore medio non si sofferma ad esaminare nel minimo dettaglio tutti gli
elementi del marchio sulla confezione. Gli elementi che si notano con la lente d’ingrandimento non
rilevano perché non sono quelli che tipicamente un consumatore vede nel momento dell’acquisto.
– Il giudizio spesso va fatto immaginando una prospettiva mnemonica: quando si trova di fronte il prodotto
il terzo spesso il consumatore non ha lì presente anche l’altro prodotto; il consumatore ha nella sua mente
il ricordo del marchio originale ed è con quel ricordo che istituisce un confronto con il segno del terzo. La
confondibilità può esserci più facilmente in questa prospettiva proprio perché nel ricordo, gli elementi che
non vengono visualizzati nel momento della scelta d’acquisto, passano in secondo piano o ancora vengono
del tutto cancellati dal ricordo. Se il marchio anteriore ha sia un elemento denominativo sia un elemento
figurativo ma l’elemento denominativo è dominante mentre quello figurativo è una piccola cornice in
secondo piano, il consumatore che vede un marchio successivo costituito solo dall’elemento denominativo
o anche con poche varianti, nel ricordo del segno anteriore avrà prendete l’elemento denominativo (che ci
sia o non ci sia la cornice probabilmente neanche lo ricorda). Il confronto va fatto tra il segno del terzo
come lo vede o lo percepisce il consumatore e il ricordo del marchio anteriore.
– Secondo la prospettiva del consumatore medio bisogna considerare tutti i profili con cui il messaggio del
marchio può essere comunicato al consumatore: profilo grafico (elementi che il consumatore vede con i
propri occhi. Dal punto di vista grafico si guarda se la risultanza grafica visiva dei due segni è simile);
profilo fonetico (come il marchio viene percepito all’udito. Si valuta se la somiglianza di pronuncia dei
due segni vi sia, magari si tratta di segni scritti diversamente ma con una pronuncia molto simile. Un caso
che si trova su tutti i manuali è quello di due marchi in conflitto, uno costituito da due lettere dell’alfabeto
LS e un marchio successivo “elleesse”; foneticamente sono identici perché entrambi vengono pronunciati
nello stesso modo. L’inglese è ricco di parole scritte in modo diverso ma con la stessa pronuncia); profilo
concettuale (può accadere che due segni diversi per il resto richiamino lo stesso concetto. Caso storico è
un marchio per filati di lana che risale agli anni ‘70 del secolo scorso; il caso ha visto un conflitto tra il
marchio denominativo “lana gatto” e un marchio, sempre per filati di lana, con il disegno di un gatto. C’è
identità del punto di vista concettuale perché sia la parola sia il disegno esprimono lo stesso concetto. Lo
stesso in un caso degli anni settanta è stato affermato in relazione a marchi in conflitto, uno costituito dalla
parola centauro e l’altro dal disegno di un centauro). Il discorso può valere anche sul versante opposto, nel
senso che magari ci sono segni con una certa somiglianza grafica e fonetica ma che esprimono elementi
concettualmente così diversi che non possono ritenersi simili. Può bastare uno dei profili a determinare
una somiglianza tra i segni ma, al tempo stesso, una marcata dissomiglianza in uno di questi profili può
neutralizzare un’eventuale somiglianza esistente negli altri secondo il punto di vista del consumatore.

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– Va considerato il modo in cui il consumatore entra in contatto con i segni sul mercato. Se si tratta di
prodotti che il consumatore acquista prelevandoli da scaffali oppure vedendoli (es. capi d’abbigliamento
che vanno provati o visti), per questi tipi di beni prevale l’aspetto visivo. Se sono prodotti tipicamente
ordinati a voce può prevalere l’aspetto fonetico (es. prodotti destinati alla ristorazione ordinati dal cliente a
voce).
– Si fa riferimento ad una considerazione complessiva e sintetica dal punto di vista del consumatore nella
quale si deve tener conto del grado di capacità distintiva del marchio. Ci sono dei marchi deboli che
contengono elementi non proteggibili rispetto ai quali bisogna accettare anche avvicinamenti consistenti
nel senso che l’elemento descrittivo non distintivo è a disposizione di tutti; esistono dei marchi forti che,
viceversa, sono protetti in tutto il loro nucleo distintivo, sono marchi rispetto ai quali anche attività che si
collocano a una certa distanza possono comunque costituire contraffazione. Esempio: il marchio debole
Frutteria deve tollerare che altri usino la radice “frutt” per gli stessi prodotti o servizi. Il marchio Gatto per
la lana, dove non c’è nessun elemento descrittivo di gatto per la lana, è un marchio forte che viene tutelato
verso chiunque non solo imiti la parola gatto ma riprenda in altro modo il concetto in sé del gatto. Infine,
nella valutazione della capacità distintiva, si tiene conto anche del problema dei marchi complessi e di
insieme; marchi complessi e marchi di insieme sono i marchi formati da più elementi, come tipicamente i
marchi misti (elemento denominativo e elemento figurativo). Di solito si parla di marchi complessi per
indicare i marchi dove in un complesso di elementi ce n’è almeno uno che è in sé dotato di capacità
distintiva. Si parla di marchi di insieme quando il marchio è costituito da un insieme disegni nessuno dei
quali ha in sé capacità distintiva e tuttavia c’è una capacità distintiva nell’insieme, cioè nel modo in cui
vari elementi sono coordinati e messi insieme nel marchio; la loro capacità distintiva non deriva da nessun
elemento singolarmente considerato ma solo dalla combinazione. Esempio: se noi abbiamo un marchio
complesso per aranciate costituito da una parola di fantasia (es. cognome del produttore o disegno di una
arancia), in questo marchio complesso l’elemento distintivo è il cognome (marchio patronimico) mentre
non avrà valore distintivo ma solo descrittivo l’arancia e non potrà essere protetta. Per i marchi di insieme
possiamo pensare al packaging di certi prodotti del campo alimentare in cui vengono raffigurati tutti gli
ingredienti del prodotto (es. raffigurazione del tortellino, della carne, del prosciutto) con parole abbastanza
banali e descrittive: in questo caso nessuno degli elementi in sé considerato ha una valenza distintiva, ma
può essere che ce l’abbia il modo in cui tutti gli elementi sono assemblati, cioè la combinazione. Come si
valuta la contraffazione in questi casi? Di nuovo dal punto di vista del consumatore medio; ci si chiede se
rispetto al marchio nel suo insieme, il segno del terzo sia tale da poter far scattare un rischio di confusione
per il pubblico. Nell’esempio fatto per i marchi complessi ci potrà essere un rischio di confusione se c’è
un’imitazione dell’elemento denominativo, non se viene imitata solo la parte senza capacità distintiva.
Oppure si potrebbe immaginare un marchio con due elementi denominativi molto forti che si impongono
all’attenzione del pubblico e un elemento decorativo di sfondo piuttosto banale (se usato da solo avrebbe
anche avuto una certa capacità distintiva ma nell’insieme scompare); se un terzo riprendere l’elemento di
sfondo insieme ad altri non basterà l’identità nell’elemento di sfondo per dare luogo ad un rischio di
confusione. Si fa nuovamente una valutazione globale dal punto di vista del consumatore. Per i marchi di
insieme si andrà a vedere se il modo in cui il terzo ha messo insieme gli elementi del suo marchio richiami
il modo di combinare gli elementi del primo marchio e determini in questo senso un rischio di confusione.
– Valutazione dell’affinità tra prodotti o servizi: identità c’è quando i prodotti o servizi per cui è registrato il
marchio anteriore coincidono con quelli per cui è usato il marchio posteriore; cosa succede se il terzo usa
il marchio per prodotti diversi da quelli per i quali è stato registrato il marchio anteriore? Supponiamo un
marchio registrato solo per prodotti d’abbigliamento e non per orologi, un terzo si mette ad usare quel
marchio per orologi; se il marchio anteriore fosse registrato anche per orologi non ci sarebbe problema
identità, ma non lo è. La legge dice che ci può essere lo stesso contraffazione per un rischio di confusione
sull’origine perché può capitare che il consumatore si confonda, pensa che i prodotti o servizi provengano
dal titolare del marchio anche quando il marchio è utilizzato per prodotti o servizi diversi da quelli per i
quali il marchio è stato registrato. Se il marchio è registrato per capi di abbigliamento e non è un marchio
particolarmente noto e il terzo registra lo stesso marchio per prodotti chimici di impiego specialistico in
ambito industriale, nessuno si confonderà mai perché nessuno penserà che il titolare poco noto di capi di
abbigliamento si sia messo a fare un’attività specialistica di produzione di composti chimici di impiego
industriale. Quando ci può essere un’affinità o rischio di confusione e quando no? Storicamente la prima
tesi era stata quella di guardare le classi della classificazione: se i prodotti o servizi sono nella stessa classe
sono affini, altrimenti non lo sono; questo si è rivelato un criterio inattendibile perché da un lato il rilievo
di queste classi è solo fiscale (più sono le classi, più si pagano tasse di registrazione), in secondo luogo ci
sono sicuramente prodotti o servizi che pur essendo in classi diverse possono portare ad un rischio di
confusione (es. abbigliamento e orologi sono in classi diverse ma è ben possibile che il pubblico pensi che
gli orologi siano un’estensione della vita del titolare del marchio). Un altro criterio un po’ più elaborato è
stato quello di cercare una valutazione basata su stretti criteri merceologici, in particolare tre: l’intrinseca

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Eleonora Biffi

natura del prodotto o del servizio; la destinazione alla stessa clientela; la destinazione alla soddisfazione
degli stessi bisogni. La dottrina ha dimostrato che tale tentativo non corrisponde alla esatta interpretazione
della legge perché l’intrinseca natura dei prodotti dipende da valutazioni puramente arbitrarie. Esempio:
un soggetto potrebbe dire che una maglietta per fare sport e un libro hanno un’intrinseca natura diversa
perché uno è un capo d’abbigliamento e l’altro è uno stampato, mentre un altro potrebbe dire che invece
hanno la stessa natura intrinseca perché si tratta in entrambi i casi di oggetti utilizzati nel tempo libero. E
alla stessa stregua si può dire che hanno o non hanno la stessa clientela e allo stesso modo si può dire che
hanno o non hanno la stessa destinazione. Si tratta quindi di criteri che sono di fatto inapplicabili perché
possono essere estesi a tutto e il contrario di tutto. Il criterio che si è imposto come quello giuridicamente
esatto è il criterio che ritorna alla percezione del consumatore e alla possibilità di confusione; secondo
questo criterio sono da ritenere affini prodotti o servizi che, quando portano lo stesso marchio o marchi
simili, possono essere ragionevolmente ritenuti dal consumatore provenienti dalla stessa impresa o da
imprese collegate. In questo modo si armonizza l’interpretazione di questo criterio con il requisito base del
rischio di confusione secondo il punto di vista del consumatore medio. Se devo stabilire se abbigliamento
e orologi sono affini non guardo la classe merceologica, non mi chiedo sono della stessa intrinseca natura,
acquistati dallo stesso tipo di consumatore o via dicendo perché si può dire di sì o di no a seconda dei
parametri: mi chiedo “Ma il consumatore che dovesse vedere il marchio del capo d’abbigliamento sugli
orologi, in quel contesto, può pensare che gli orologi siano in qualche modo provenienti dal titolare del
marchio o collegati a lui?”. Se la risposta è affermativa i prodotti sono affini e c’è rischio di confusione, se
la risposta è negativa i prodotti non sono a affini e non c’è un rischio di confusione. Tale criterio è molto
più sicuro ed aderente alla percezione del consumatore e alla possibilità di un rischio di confusione. Gli
altri due criteri, oltre alle incertezze che comportano, se applicati meccanicamente possono portare ad
affermare l’affinità e la contraffazione in casi in cui un rischio di confusione in concreto non c’è o portare
a negare l’affinità e la contrattazione in casi in cui il consumatore, anche se i beni sono piuttosto diversi, si
confonde perché istituisce questo legame.

In sintesi: la lettera b dell’art. 20 è posta a presidio della funzione distintiva del marchio e mira ad assicurare
che il marchio possa svolgere la sua funzione distintiva di collegare esattamente il prodotto/servizio alla sua
fonte imprenditoriale senza possibilità di errore da parte del consumatore. L’errore del consumatore in
termini di rischio di confusione sull’origine imprenditoriale c’è quando vi è la possibilità che il consumatore
riconduca al titolare del marchio i prodotti o servizi del terzo oppure pensi (rischio di associazione) che i
prodotti o servizi del terzo sono approvati in qualche modo dal titolare del marchio. Tutto questo si valuta
ponendo a confronto i segni, tenendo anche conto del grado di capacità distintive e ponendo a confronto i
rispettivi prodotti o servizi. Sul versante dei segni si valuta se ci sia una somiglianza o confondibilità tra i
segni dal punto di vista del consumatore sulla base dei criteri esaminati e tenendo conto della forza o della
debolezza del marchio anteriore. Sotto il profilo dei prodotti o servizi si valuta se ci sia almeno un’affinità in
termini di possibile riconduzione dei prodotti o servizi alla stessa fonte o a fonti collegate. Alla fine di tutto,
sempre dal punto di vista del consumatore, si fa una valutazione globale complessiva secondo la regola del
bilanciamento e dell’interdipendenza tra fattori e si arriva al risultato finale di stabilire se questa possibilità
di errore o rischio di confusione dal punto di vista del consumatore medio vi sia oppure no. Se il risultato
finale è che il consumatore può cadere in errore circa l’esatta provenienza imprenditoriale dei prodotti/servizi
si ha contraffazione di marchio perché è il segno del terzo che interferisce con l’ambito di comunicazione del
marchio anteriore e svia il giudizio dei consumatori; quel marchio costituisce contraffazione. Se questo non
avviene, almeno sotto il profilo del rischio di confusione o di associazione, l’uso del segno da parte del terzo
non è illecito.

MARCHI CHE GODONO DI RINOMANZA


La terza ipotesi di contraffazione è a presidio della funzione suggestiva e attrattiva del marchio. L’art. 20.1
lettera c c.p.i. protegge i marchi in relazione al loro valore di vettori di messaggi. È preso in considerazione il
selling power del marchio, cioè la capacità di vendita intrinseca del marchio grazie ai messaggi e valori di
cui il marchio si è caricato a seguito degli investimenti e delle strategie di comunicazione del titolare. Qui
viene in rilievo l’interesse del titolare a che gli sforzi effettuati per accreditare il marchio e per caricarlo di
determinati messaggi e valori non vengano in qualche modo danneggiati o sfruttati indebitamente dai terzi. I
fenomeni che questa ipotesi vuole evitare e reprimere sono quelli del terzo che, parassitariamente, sfrutta la
notorietà di un marchio accreditato sul mercato per accreditarsi a sua volta a costo inferiore oppure quella di
chi compie attività che, per qualsiasi motivo, danneggiano l’immagine del marchio. Si tratta di una tutela che
prescinde dall’esistenza di un rischio di confusione, si tratta di una tutela che opera anche quando un rischio
di confusione non c’è. Non è possibile che il pubblico si confonda, comprende perfettamente che i prodotti o
servizi del terzo non hanno nulla a che vedere con il titolare del marchio e tuttavia è, da un lato, attirato dai
prodotti del terzo o li nota perché viene colpito da un segno che conosce bene e che ha fortemente impresso

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nella memoria; al contrario può accadere che, anche se non si confonde, il consumatore venga disturbato dai
messaggi del terzo: se un marchio noto per prodotti di lusso viene adottato da un terzo per prodotti del tutto
incompatibili con questa immagine un danno, un pregiudizio, un disturbo alla funzione di comunicazione del
marchio ci può essere anche se il pubblico non si confonde perché comunque quell’immagine di marchio
viene in certa misura contaminata ed accostata ad un messaggio incongruo rispetto a quella immagine. La
norma stabilisce in prima battuta che il ricorrere di un rischio di confusione o accettazione non è necessario e
in particolare non è necessario in questo caso che i prodotti o servizi per i quali il segno è usato dal terzo
siano identici o affini a quelli per cui il marchio è registrato; possono anche essere identici o affini, ma non
rileva, in questa ipotesi non è un accertamento che il giudice deve compiere. Il presupposto della tutela è che
ci sia un marchio che gode di rinomanza e che i terzi tengano condotte che possono interferire con l’area in
cui il marchio si è accreditato (intendendo un’area concettuale di messaggi comunicati al pubblico).

La legge esplicita questi concetti fissando una serie di presupposti:


– Il primo presupposto è che si tratti di un marchio rinomato o che gode di rinomanza. Attenzione: non si
deve credere che con questo la tutela di cui stiamo parlando sia riservata solo a marchi famosi, celebri o di
alta rinomanza; non è una tutela esclusiva di marchi noti o notissimi, ma è tutela di cui beneficiano tutti
marchi noti ad una frazione significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi, cioè del pubblico a
cui sono destinati i prodotti o servizi e che compie in relazione a quei prodotti/servizi scelte d’acquisto. La
Corte di Giustizia nel caso General Motors non precisa quale sia la frazione significativa: si deve vedere
nel caso concreto, in relazione al tipo di prodotti o servizi di cui si tratta, qual è la soglia di consistenza del
pubblico necessaria e sufficiente per poter qualificare il marchio come rinomato. Se si tratta di un prodotto
di largo consumo dovrà trattarsi di una frazione significativa pressoché di tutti i consumatori nazionali
perché tutti si rivolgono a un prodotto di largo consumo (es. acque minerali); se invece si tratta di un
prodotto specialistico riservato ad una cerchia ristretta di pubblico, una frazione significativa rispetto ad
una cerchia ristretta possono anche essere decine o centinaia di persone. La frazione significativa è intesa
generalmente in modo molto favorevole alla tutela del marchio; ogni volta che in concreto dei fenomeni di
agganciamento parassitario o di pregiudizio si possono determinare, questo sarebbe già di per sé una
dimostrazione del fatto che quel marchio ha raggiunto una soglia sufficiente di conoscenza presso il
pubblico per poter essere definito rinomato. Se un agganciamento parassitario o un pregiudizio si possono
determinare, vuol dire che il marchio ha già in sé la capacità di comunicazione di valori e di significati nei
confronti di una parte sufficientemente rilevante del pubblico. La volontà del legislatore è stroncare ogni
forma di abuso e pregiudizio e quindi si accontenta, per riconoscere la rinomanza, di un livello non molto
impegnativo; è sufficiente che il marchio sia consolidato sul mercato e abbia acquisito un significativo
grado di conoscenza presso il pubblico.
– Non è richiesto che i prodotti o servizi siano affini, è almeno richiesto che ci sia un grado di somiglianza
tra il marchio noto anteriore e il segno usato dal terzo perché se non c’è una somiglianza e il consumatore
non collega il marchio successivo a quello anteriore, non ci può essere violazione. La giurisprudenza ha
precisato nella sentenza Adidas-Salomon e Intel che per stabilire se c’è una sufficiente somiglianza tra
segni per dare spazio a questa tutela non occorre che i segni siano tra loro confondibili in misura tale da
dar vita ad un rischio di confusione: è sufficiente che il secondo segno (del terzo) evochi nella mente del
pubblico il marchio rinomato. È quello che la Corte di Giustizia ha chiamato il “nesso” o il link nella
mente del pubblico tra il marchio e il segno del terzo. È sufficiente che al pubblico, nel vedere il segno del
terzo, venga in mente il marchio anteriore rinomato; già solo la presenza di un segno che gli ricorda quello
noto anteriore è stata sufficiente ad attirare la sua attenzione e a far scattare questo collegamento. Se al
consumatore non viene minimamente in mente il marchio anteriore rinomato allora non c’è possibilità di
interferenza, ma se questo collegamento si istituisce allora l’attenzione del consumatore si è polarizzata
sui prodotti/servizi del terzo è, a prescindere dal fatto che poi il consumatore si confonda o meno, quel
consumatore medio si è già indirizzato verso una considerazione di quel marchio e quindi il meccanismo
di collegamento si è instaurato. Nel momento in cui si instaura e il marchio noto viene in mente al
consumatore bisogna chiedersi se dal collegamento derivi almeno una delle situazioni vietate dalla legge.
– Indebito vantaggio o pregiudizio: non è necessario che ricorrono congiuntamente basta che ne ricorra uno.
L’indebito vantaggio consiste nel parassitismo (c.d. free riding), è lo sfruttamento parassitario indebito
del valore attrattivo del selling power del marchio rinomato. Anche se io non creo confusione con un
marchio rinomato, già solo il fatto di evocarlo suscita l’interesse del consumatore e accrescere le mie
possibilità di vendita del prodotto/servizio. Lo sfruttamento indebito di notorietà altrui è anche un’ipotesi
di concorrenza sleale nei rapporti tra imprenditori, ma nei confronti specificamente del marchio anteriore
è un caso di contraffazione perché la legge vuole riservare in esclusiva del titolare del marchio anteriore lo
sfruttamento del potere di vendita del suo marchio e di questa riserva è componente essenziale il fatto che
della stessa notorietà non possano avvantaggiarsi terzi non autorizzati. Il pregiudizio si ha quando l’uso
del segno da parte del terzo indebolisce il carattere distintivo del marchio rinomato oppure quando nuoce

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Eleonora Biffi

all’immagine e alla reputazione del marchio. Nel concetto di pregiudizio rientra l’ipotesi in cui la sola
presenza del segno del terzo, anche senza creare confusione, diminuisca la forza attrattiva del marchio
anteriore nella mente del pubblico. Se un marchio iconico, è da solo sul mercato è molto più forte il
meccanismo di collegamento con il pubblico e di immediata individuazione del marchio da parte del
pubblico; se invece sul mercato sono presenti marchi di terzi, il mercato viene ad essere popolato da una
pluralità di marchi di diversa provenienza che affollano il mercato e che fanno perdere quell’immagine di
unicità che ha il marchio rinomato unico sul mercato e che non debba scontare un mercato affollato da
tanti marchi di terzi che non hanno niente a che vedere col titolare. Il pregiudizio alla capacità distintiva
è la perdita di forza attrattiva del marchio presso il pubblico. Il pregiudizio alla rinomanza si ha nei casi
in cui il segno del terzo veicola un messaggio incompatibile con quello del marchio. Esempio: marchio
per prodotti di lusso che viene usato per prodotti che non hanno nessun collegamento con quell’immagine
di lusso. Se il marchio anteriore è un marchio noto nel settore della moda e dei prodotti di lusso e lo stesso
segno dovesse essere adottato per detergenti per il bagno, non c’è nulla di indecoroso nei detergenti per il
bagno però il titolare del marchio anteriore potrebbe non gradire che l’immagine del proprio marchio sia
accostata a questo tipo di prodotti. Un altro esempio è il caso di un marchio anteriore registrato per attività
che si connotano per essere espressione di una certa ideologia e il segno del terzo viene usato per prodotti
che sono espressione di un’ideologia e di valori completamente differenti; in questi casi c’è una situazione
in cui l’immagine del marchio viene sporcata e il titolare ha diritto di reagire.
– Va tenuto presente che, proprio perché la tutela del marchio che gode di rinomanza è una tutela molto
forte, la legge precisa che eccezionalmente l’uso del segno da parte del terzo non può essere vietato se per
ragioni del caso concreto il terzo può dimostrare di avere un giusto motivo d’uso, cioè una giustificazione
seria, ragionevole e meritevole di protezione per l’uso del segno. È una norma che la giurisprudenza ha
cominciato ad applicare per certe forme di commercio online dove si è manifestato il timore che la tutela
del titolare in Internet forse troppo estesa e intralciasse il buon funzionamento della rete. Per evitare effetti
sproporzionati del divieto d’uso del segno posteriore si possono individuare degli usi giustificati che non
costituiscono contraffazione. In situazioni in cui c’è una ragionevolezza nella condotta del terzo e non si
ritiene che il dover per il titolare tollerare quell’uso sia eccessivamente pregiudizievole per lui, si può dare
ingresso alla tutela della posizione del terzo e consentirgli di fare uso del marchio.

ATTIVITÀ RISERVATE AL TITOLARE DEL MARCHIO


Le forme d’uso del marchio riservate al titolare sono elencate dall’art. 20.2 c.p.i., non è un elenco tassativo
ma è una esemplificazione di alcune forme tipiche di uso del marchio che, se tenute da terzi, costituiscono
attività vietate:
– Marcatura del prodotto: il solo fatto di apporre il marchio sul prodotto e sulle confezioni è contraffazione
se non c’è il consenso del titolare;
– Tutte le attività di offerta al pubblico, di immissione in commercio, di vendita di prodotti contrassegnati
dal marchio o di servizi per i quali il marchio viene utilizzato come segno distintivo;
– Importare o esportare prodotti contraddistinti dal marchio: l’attività di esportazione o di importazione è
un’attività vietata;
– Utilizzare il segno a scopi pubblicitari o nei rapporti d’affari. Anche il mero uso pubblicitario del marchio
altrui, prima ancora che ci siano i prodotti pronti per mercato, costituisce contraffazione.

Vi è poi una norma particolare, il comma 2-bis dell’art. 20, per l’eventualità che prodotti recanti segni che
sarebbero nel nostro territorio in contraffazione del marchio si trovino a transitare sul territorio nazionale
semplicemente perché nel trasporto dal punto di partenza al punto di destinazione devono attraversare il
nostro Paese. Si tratta di prodotti non fabbricati, non marchiati, non venduti in Italia ma fabbricati all’estero e
che, nel loro per tragitto dalla fabbrica al mercato di destinazione, si trovano ad attraversare il territorio
italiano. Esempio: si può immaginare il caso di un prodotto fabbricato in Russia che viene trasportato via
terra fino al sud Italia e poi da un porto del sud Italia viene caricato su una nave che lo trasporta in un Paese
del nord Africa dove viene messo effettivamente in commercio. In questo caso abbiamo un prodotto che è
bensì passato per il territorio italiano ma che non ha avuto nessun altro contatto con il nostro Paese e con il
consumatore locale. In passato queste ipotesi di transito erano ritenute sempre lecite perché non c’era un
contatto con il mercato nazionale, adesso la norma prevede un sistema più articolato e difficile da applicare,
ma la regola di fondo è questa: se la vendita del prodotto è libera e non costituisce violazione di diritti del
titolare del marchio italiano nel Paese finale di destinazione, il transito è possibile, altrimenti il titolare può
per giocare d’anticipo e bloccare il prodotto già nel momento in cui transita sul territorio italiano. Se un
prodotto transita sul territorio italiano ed è un prodotto che ove in ipotesi messo in commercio in Italia
costituirebbe contraffazione, il titolare del marchio ha diritto di farlo bloccare già nel momento del transito.
Si va poi a verificare se nel Paese finale di destinazione il titolare del marchio italiano ha dei corrispondenti
diritti di marchio locali e se, in base a quei diritti di marchio locali nel Paese di destinazione, la vendita del

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Eleonora Biffi

prodotto nel Paese di destinazione costituirebbe contraffazione. Se non ci sono questi diritti di marchio o nel
Paese di destinazione il prodotto non è in contraffazione, la merce viene sbloccata e può proseguire fino a
destinazione. Se invece la merce costituirebbe contraffazione anche nel Paese di destinazione, il titolare ha
già bloccato le merci e quindi si può bloccare e vietare l’ulteriore transito della merce; viene evitato l’illecito
prima ancora che l’illecito si manifesti nel Paese di destinazione.

USI DEL MARCHIO VIETATI AL TITOLARE


Così come ci sono attività riservate al titolare, ci sono anche delle modalità d’uso del marchio che il titolare
non può porre in essere. La legge fissa anche dei confini all’uso del marchio da parte del titolare. L’art. 21.2
specifica che non è possibile porre in essere determinate modalità d’uso del marchio che finiscono per
violare diritti altrui o ingannare il consumatore. Non è consentito usare il marchio in modo: contrario alla
legge; da creare un rischio di confusione con segni distintivi di altri imprenditori; non è possibile usare il
marchio in modo da indurre in inganno il pubblico; da violare un altrui diritto esclusivo. Qui la legge dice
che un valido marchio non può essere abusivamente usato in modo da determinare una di queste situazioni.
In particolare, la legge vieta qualsiasi forma di uso del marchio ingannevole per il pubblico. Cotonelle era un
marchio intrinsecamente ingannevole perché fin dall’attestato di registrazione risultava che il marchio era
registrato per prodotti non contenenti cotone. Supponiamo invece che il marchio sia registrato per prodotti
contenenti cotone ma che poi il marchio venga in concreto usato per prodotti per materiali sintetici dove il
cotone non è presente. Ai sensi dell’art. 21.2 c.p.i. non si può usare il marchio in modo da ingannare il
pubblico. Questa ipotesi di uso ingannevole per il pubblico espone il titolare del marchio ad una sanzione
molto grave perché se il marchio diventa ingannevole per il pubblico, il marchio stesso decade e può essere
cancellato perché non può essere tollerato che resti in vita un marchio ingannevole. Il marchio decade, viene
cancellato e in base all’art. 21.2 al titolare viene anche vietato di proseguire con l’uso del marchio perché
non è consentito usare il marchio in uno di questi modi. Se viene usato in uno di questi modi chiunque vi
abbia interesse può chiedere al giudice di dichiarare la decadenza del marchio e di farne cessare l’uso. La
regola generale è quella di una totale libertà nel decidere le forme di utilizzo del marchio anche tramite terzi,
ma questa norma bilancia tale libertà circoscrivendola ai casi in cui questa libertà non venga esercitata in
modo da ledere dei diritti altrui o da pregiudicare interessi meritevoli di protezione. La libertà del titolare si
pone in termini di una sua posizione di responsabilità: il titolare è libero di usare il marchio, ma si deve
anche assumere la responsabilità di come lo usa; se lo usa in uno dei modi vietati, la conseguenza può essere
la perdita del marchio e il divieto giudiziale irrogato dal giudice di continuare ad usare il marchio.

USI LECITI DEL MARCHIO ALTRUI


La legge dice quali attività il titolare del marchio non può vietare a terzi. L’art. 21.1 c.p.i. dice quali sono le
ipotesi di uso lecito del marchio, cioè le ipotesi in cui per tutela di interessi di terzi il titolare non può far
valere i suoi diritti esclusivi, sono delle forme d’uso che il titolare deve tollerare e che non costituiscono
eccezionalmente contraffazione. Le tre ipotesi sono accumunate da una condizione comune: conformità ai
principi della correttezza professionale; per poter beneficiare di queste ipotesi di uso lecito, non basta che
l’uso si collochi entro una delle tre categorie ma deve in più essere conforme ai principi della correttezza
professionale.
– I terzi, nonostante la registrazione di marchio, possono usare nelle attività economiche il loro nome o
indirizzo. È possibile che il marchio registrato coincida con il nome di una persona o eventualmente con il
suo indirizzo. Esempio: Tizio registra marchio costituito dal suo nome e tuttavia c’è un altro signore che si
chiama anche lui Tizio e che vuole svolgere un’attività economica nello stesso settore. Tizio registra il
marchio Alfa e poi c’è un signor Alfa che si trova ad avere un nome identico al marchio registrato e che
vuole avviare un’attività economica. La legge dice che se il primo arrivato ha registrato validamente il
marchio è suo e il fatto che il marchio sia suo vuol dire che i terzi non lo possono a loro volta registrare e
usare ma possono, ciononostante, fare un uso limitato del loro nome per identificarsi. Se è registrato e
noto il marchio Armani, un terzo si chiama Armani e vuole anche lui svolgere un’attività economica, la
legge gli dice che nei limiti della correttezza professionale lui, il suo cognome, potrà usarlo però non potrà
usarlo scrivendo “Armani” a caratteri cubitali sui prodotti dando a quel segno la valenza di marchio di
impresa; non potrà neanche farne un uso che in qualche modo sfrutti parassitariamente la notorietà di
Armani, potrà farne un uso conforme ai principi della correttezza professionale ad esempio scegliendo un
marchio completamente diverso e poi mettendo una dicitura puramente informativa che recita: “Questo
prodotto è stato realizzato dal signor Tizio Armani nel suo stabilimento di...”. Si tratta di un’ipotesi in cui
è tutelato l’interesse ad identificarsi come persona fisica. I fini sono puramente informativi e nulla più.
– Segni o indicazioni che non siano segni distintivi ma che siano puramente descrittivi di caratteristiche del
prodotto/servizio. L’art. 13 dice che i marchi costituiti esclusivamente da elementi descrittivi non sono
registrabili, ma se il marchio non è costituito esclusivamente da elementi descrittivi può essere registrato
con una tutela limitata agli elementi distintivi. L’art. 21, in questa seconda ipotesi, interviene per stabilire

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Eleonora Biffi

e ribadire a scanso di equivoci che gli elementi non distintivi e descrittivi restano liberi e che tutti possono
utilizzarli. Anche ove il marchio contenente elementi di questo tipo sia validamente registrato, gli elementi
in questione sono a disposizione di tutti e tutti li possono usare.
– Uso referenziale: uso del marchio altrui per identificare o fare riferimento a prodotti o servizi del titolare
del marchio, specialmente se l’uso è necessario per indicare la destinazione di un prodotto/servizio, come
accessorio o pezzi di ricambio. Questa è un’ipotesi particolare ma molto rilevante: ci possono essere casi
nella pratica in cui per descrivere in modo efficace al pubblico le caratteristiche del proprio prodotto o
servizio è necessario fare riferimento al marchio altrui, cioè nominare il prodotto altrui con il suo marchio.
Esempio: un marchio è noto per contraddistinguere una certa materia prima, un terzo realizza un prodotto
finito con quella materia prima che dà certe caratteristiche al suo prodotto finito ha interesse a dire che il
prodotto finito è stato realizzato con il prodotto Alfa del tal produttore. Nel settore della ricambistica il
produttore di pezzi di ricambio indipendenti (non quelli provenienti dal titolare del prodotto originale ma
da un ricambista indipendente che offre sul mercato pezzi di ricambio fabbricati autonomamente) può dare
un senso alla sua attività commerciale solo se dice qual è il prodotto sul quale il pezzo di ricambio può
essere montato; se un soggetto vende ricambi per l’auto Opel Corsa deve poter dire che il suo ricambio è
destinato all’Opel Corsa di quel modello, non facendo credere che si tratti di un ricambio originale. Un
caso famoso deciso dalla Corte di Giustizia nel 2005 riguardava lamette compatibili con le impugnature
dei rasoi Gillette e ci si chiedeva se e in quali limiti questa cosa si potesse dire; in tale situazione si è detto
che se il pezzo compatibile può essere comprensibile al consumatore nella sua finalità di utilizzo solo
indicando il marchio del prodotto su cui il pezzo deve essere montato, si deve consentire di menzionare il
marchio sia pur con tutte le dovute forme a rispetto della correttezza per evitare qualsiasi inganno del
pubblico. Si parla in questi casi di uso referenziale perché viene usato il marchio altrui per fare riferimento
al suo vero titolare, cioè per individuare prodotti o servizi effettivamente proveniente dal titolare a fini di
descrizione delle caratteristiche del proprio prodotto.

ESAURIMENTO
Il principio di esaurimento vale anche per i marchi registrati. Una volta che il prodotto recante il marchio sia
stato messo in commercio dal titolare o con il suo consenso in uno stato membro dell’UE o dello SEE i diritti
sul marchio in relazione a quell’esemplare del prodotto si esauriscono e quell’esemplare può liberamente
circolare per tutto il territorio dell’Unione. Una messa in commercio al di fuori dell’Unione Europea o dello
Spazio Economico Europeo non determina esaurimento (non c’è esaurimento internazionale) e il titolare può
opporsi all’ulteriore rivendita del prodotto se ci sono dei motivi legittimi. La legge menziona il caso di
alterazioni/modifiche/manipolazioni del prodotto dopo l’immissione in commercio (il prodotto è modificato
e il titolare ha il diritto di bloccare l’ulteriore circolazione del prodotto), ma quest’ipotesi dei motivi legittimi
viene molto applicata nei casi in cui vi siano dei mercati di seconda mano o dei discount o delle vendite di
liquidazione di prodotti di stagioni precedenti (soprattutto al settore moda) e tuttavia le forme di rivendita
avvengano con canali e modalità distributive che sono incompatibili con l’immagine di marca. La Corte di
Giustizia dell’UE, a partire da un caso del 1997 relativo al marchio Christian Dior, ha detto che tra i motivi
legittimi rientrano anche motivi consistenti nell’esigenza di evitare forme di rivendita e di promozione della
rivendita del marchio incompatibili con la sua immagine o pregiudizievoli per l’aura di lusso del marchio. I
motivi legittimi non riguardano solo i casi di manipolazioni materiali del prodotto, ma anche i casi di
rivendita il prodotto con canali e modalità incompatibili con l’immagine del prodotto. In questi casi il titolare
può opporsi all’ulteriore circolazione del prodotto e la regola dell’esaurimento non opera.

CESSIONE E LICENZA DEL MARCHIO


Cessione e licenza sono degli atti di disposizione del titolare del marchio rispetto al suo diritto esclusivo. La
disciplina della cessione e della licenza è interamente contenuta nell’art. 23 c.p.i. il cui primo comma si
occupa della cessione e stabilisce che il titolare può cedere i suoi diritti esclusivi sul marchio ad un altro
soggetto e può decidere di cedere il marchio per la totalità dei prodotti o servizi per i quali è registrato, nel
qual caso il primo titolare cessa di essere tale e il marchio diviene interamente dell’acquirente o cessionario,
o anche solo per una parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato; in quel caso si ha una sorta
di scissione in due del marchio che per alcuni prodotti o servizi rimane di titolarità del cedente e per gli altri
prodotti o servizi – per i quali si è stipulata la cessione – diviene titolarità del cessionario. Non vi sono altre
disposizioni specifiche sulla cessione, è un contratto a effetti istantanei assimilabile a una compravendita: il
marchio passa di titolarità e da quel momento in poi, in tutto o in parte, è un segno distintivo oggetto di un
diritto esclusivo dell’acquirente. Dalla cessione non deve derivare inganno circa i caratteri di prodotti o di
servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico; questo è soprattutto il caso in cui, per ragioni
specifiche, le caratteristiche del prodotto o del servizio siano strettamente legate alla personalità del titolare e
non siano riproducibili da parte del cessionario. Esempio: immaginiamo che vi sia un marchio registrato da
un noto stilista corrispondente al nome dello stilista, lo stilista noto Tizio registra e usa per le sue creazioni il

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Eleonora Biffi

marchio Tizio; a un certo punto Tizio cede il marchio a Caio, il pubblico non viene in alcun modo informato
di questa cessione, continua ad acquistare i capi di Caio recanti il marchio tizio nell’erroneo convincimento
che quei prodotti continuino ad essere creazioni di Tizio mentre non è così. La legge dice che in questi casi
non è vietata in sé e per sé la cessione, ma richiede di essere accompagnata da un’adeguata informazione del
pubblico: il pubblico deve essere portato a conoscenza del fatto che il marchio non è più di Tizio e quindi
non contraddistinguerà più da quel momento in poi delle creazioni di Tizio. Se dovessimo arrivare ad una
situazione limite in cui non c’è una forma di comunicazione che elimini il rischio d’inganno del consumatore
si potrebbe configurare un divieto di cessione perché non si può in ogni caso tollerare che il pubblico venga
ingannato.

Più articolata è la disciplina della licenza che invece istituisce un rapporto di durata nel tempo tra il titolare
(licenziante) e il terzo (licenziatario) sulla base di un contratto che potremmo assimilare civilisticamente alle
categorie della locazione o dell’affitto, in base al quale il titolare rimane titolare del marchio e ne concede lo
sfruttamento a terzi. In materia di marchi, le licenze sono esclusivamente volontarie, quelle obbligatorie sono
tipiche solo della disciplina dei brevetti; non ci sono licenze obbligatorie al fuori dei brevetti. È un dato di
comune esperienza che il licensing nei marchi è una pratica frequente e diffusissima: si assiste ad un numero
elevato di casi di contratti di licenza in cui il titolare del marchio “allestisce” un network di licensing per
massimizzare le forme di sfruttamento del marchio. I contratti di licenza rispecchiano tale complessità: i
contratti di licenza di marchio tipicamente sono atti negoziali di decine di pagine in cui ogni singolo aspetto
viene minuziosamente disciplinato. Alla base di questi contratti c’è sempre un’autorizzazione a un terzo
all’utilizzo del marchio. Le clausole tipiche di un contratto di licenza di marchio ben articolato sono, oltre
all’indicazione dei marchi dati in licenza: la previsione della concessione della licenza; le condizioni della
licenza; il corrispettivo che è calcolato come royalties sul fatturato ma con dei minimi di pagamento garantiti
e con la possibilità di rimpiazzare dei pagamenti in denaro con delle attività promozionali a favore del
marchio (invece di versare un certo ammontare di royalties al titolare il licenziatario si impegna ad effettuare
attività di valorizzazione del marchio); le forme di difesa del marchio contro le contraffazioni; le ipotesi di
cessazione anticipata e di recesso dal contratto. Sono contratti molto strutturati e questo rende ipotetica, se
non per alcuni casi, la previsione per cui i contratti di licenza così come quelli di cessione sono a forma
libera, cioè non richiedono la forma scritta; normalmente le licenze e le cessioni sono sempre fatte con forma
scritta perché c’è un’esigenza di certezza nel documentare le condizioni del rapporto contrattuale e anche
perché cessioni e licenze possono essere trascritte nei registri dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e questo
richiede una forma scritta se si vuole accedere a questa forma di pubblicità dell’atto di cessione e di licenza.
Anche dalla licenza non deve in alcun modo derivare inganno per il consumatore circa le caratteristiche del
prodotto o servizio rilevanti per le sue scelte e se questo avviene la sanzione è quella della decadenza o della
perdita del marchio per ingannevolezza o decettività sopravvenuta. Questo fa sì che nella prassi il titolare si
riservi nei contratti di licenza anche dei poteri di controllo dell’attività del licenziatario; se il licenziatario usa
il marchio in modo inappropriato e si determina una situazione di inganno del pubblico (tipico il caso in cui
la qualità venga peggiorata e il consumatore non ne sia messo al corrente) a rischiare la perdita del marchio
(decadenza) è il titolare che non ha vigilato a sufficienza sull’operato del licenziatario per impedire che ciò
avvenisse; questo è il motivo per cui tipicamente i titolari nei contratti di licenza inseriscono delle clausole
con cui si garantiscono, fin dall’inizio del rapporto, dei poteri di controllo in modo da poter sempre verificare
che cosa il licenziatario sta facendo. Le licenze possono essere totali o parziali (se riguardano tutti i prodotti
e servizi o solo alcuni). Nella prassi, soprattutto nei casi di marchi di alta rinomanza, sono frequentissime le
licenze parziali (es. pratiche di merchandising dove il titolare del marchio concede a tanti singoli licenziatari
la possibilità di usare il marchio, ognuno nel suo settore per determinati prodotti). Le licenze possono essere
esclusive se per certi prodotti o servizi solo il licenziatario è autorizzato a utilizzare il marchio e nessun altro;
sono non esclusive se il marchio può essere concesso in licenza anche ad altri licenziatari o eventualmente
usato direttamente anche dal titolare. Tipicamente la licenza esclusiva richiede un corrispettivo maggiore.

I due profili di licenza non vanno confusi: per vedere se la licenza è totale o parziale si guarda ai prodotti, si
vede se è concessa per tutti i prodotti/servizi per cui il marchio è registrato o solo per alcuni; la licenza non
esclusiva o esclusiva riguarda l’esistenza possibile di più licenziatari o anche di un uso diretto del titolare
sugli stessi prodotti o servizi. Esempio: se il marchio è registrato per orologi, scarpe e abiti, se ci sono tre
licenziatari (uno per le scarpe, uno per gli orologi e uno per gli abiti) e ognuno dei tre ha l’esclusiva, avremo
tre licenziatari esclusivi parziali; se invece le scarpe e gli orologi ci sono due licenziatari e sugli abiti ci sono
quindici licenziatari avremo per gli orologi e per le scarpe due licenze parziali esclusive, mentre per gli abiti
una licenza parziale non esclusiva.

Vi sono poi due regole specifiche: la prima riguarda solo le licenze non esclusive, per le quali il legislatore
teme una più facile possibilità di inganno del consumatore che si ha quando il consumatore è portato ad una

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Eleonora Biffi

certa scelta d’acquisto dal convincimento di una situazione di fatto diversa da quella reale; il consumatore è
convinto che il prodotto abbia certe caratteristiche che non ha. Nella licenza esclusiva questo elemento di
rischio c’è perché nel momento in cui l’uso del marchio e la fabbricazione dei prodotti per i quali il marchio
viene usato passa da un soggetto ad un altro, il rischio che ci siano dei peggioramenti qualitativi e un inganno
del pubblico esiste; ancora più grave è il rischio quando ci sono tanti licenziatari per lo stesso tipo di prodotto
che non uniformano tra di loro il livello qualitativo della produzione, la situazione di mercato rischia di
diventare caotica: se tutti fabbricano con livelli qualitativi e caratteristiche diverse, il consumatore di volta in
volta, può una volta acquistare un prodotto eccellente e un’altra volta un prodotto pessimo. Proprio perché in
questi casi di uso plurimo del marchio per gli stessi prodotti/servizi il rischio di inganno è più elevato, il
legislatore ha previsto che nel caso di licenza non esclusiva è obbligatorio inserire nel contratto di licenza
una specifica clausola in base alla quale il licenziatario si deve impegnare per contratto ad usare il marchio
per contraddistinguere prodotti o servizi uguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati con lo
stesso marchio nel territorio dello Stato italiano dal titolare o da altri licenziatari. Il licenziatario si deve
impegnare espressamente ad allinearsi a un livello qualitativo uniforme. Per la licenza esclusiva vale la
regola generale di non inganno del pubblico che si applica in termini generali: in ogni caso dalla licenza non
deve derivare inganno ed il titolare deve attivarsi perché questo non avvenga. Come cautela ulteriore per le
licenze non esclusive è previsto che non basta la previsione di legge ma bisogna inserire una clausola nel
contratto in modo che il titolare abbia anche una base contrattuale per obbligare il licenziatario al rispetto
dello stesso uniforme livello qualitativo.

Nel terzo comma dell’art. 23 troviamo una norma a tutela del titolare per dare al titolare una più forte e più
immediata possibilità di reazione a condotte del licenziatario non rispettose degli impegni assunti con il
contratto di licenza. Il senso di questa norma si collega alla disciplina generale del Codice Civile: nel Codice
Civile, in caso di inadempimento di un contratto, il soggetto adempiente – ove l’inadempimento non sia di
scarsa importanza – può agire per la risoluzione del contratto; questa possibilità c’è anche per il contratto di
licenza, ma può essere che il titolare non “possa” attendere l’esito della causa sulla risoluzione. Esempio: il
titolare contesta un inadempimento al licenziatario, il licenziatario lo nega, si avvia una causa di risoluzione
e dopo un certo tempo viene riconosciuto che effettivamente il licenziatario non aveva rispettato il contratto e
quindi va dichiarato risolto, ma il tempo è passato e nel frattempo il licenziatario ha continuato ad usare il
marchio perché, non essendo stato prima della sentenza sciolto il contratto di licenza, lui aveva il consenso
del titolare ad usare il segno e tuttavia questo può aver provocato al titolare dei danni irreparabili (es. uso
ingannevole del licenziatario che espone il marchio a decadenza). La legge interviene e stabilisce che in certi
casi il titolare del marchio può agire contro il licenziatario per contraffazione di marchio, come se il
licenziatario non avesse alcuna licenza che lo autorizza all’uso. Sulla base di un’azione di contraffazione si
può domandare al giudice, in base alle norme del c.p.i., di emettere un provvedimento d’urgenza che inibisce
(vieta) al licenziatario di continuare l’uso del marchio. Il vantaggio pratico di tale disposizione è consentire
al titolare di non dover attendere l’esito di una causa di risoluzione del contratto, ma di agire direttamente per
contraffazione e ottenere in tempi rapidi (un mese) un provvedimento d’urgenza che blocchi l’attività del
licenziatario. Un mese e mezzo è la durata normale di un procedimento cautelare, ma in casi di eccezionale
urgenza l’attività può essere bloccata con un decreto provvisorio del giudice anche nel giro di pochi giorni.
Questo dà una tutela molto robusta al titolare. Quali sono le ipotesi in cui il titolare può avvalersi di questa
norma eccezionale? Sono casi in cui l’inadempimento del licenziatario incide negativamente sul marchio,
sono i casi di violazione di disposizioni del contratto di licenza relative alla durata, al modo di utilizzazione
del marchio, alla natura dei prodotti o servizi, al territorio, alla qualità dei prodotti e dei servizi. Sono tutti
casi in cui il marchio non viene utilizzato nel modo corretto, la natura dei prodotti o servizi non è quella
prevista dalla licenza, c’è violazione dei limiti territoriali (la licenza può essere concessa anche solo per un
territorio se il licenziatario sconfina e vende in territori per i quali non è autorizzato) e la qualità dei prodotti
e dei servizi del licenziatario (anche la qualità in termini di immagine del marchio, nel concetto di qualità
rientrano anche le caratteristiche immateriali cioè l’immagine che circonda il prodotto. Se ad esempio sono
previste a tutela della qualità dei prodotti di lusso determinati canali di distribuzione, il mancato rispetto di
disposizioni di questo tipo incide negativamente sull’immagine e sulla percezione del brand da parte del
pubblico e ciò impatta negativamente sul marchio). Si tratta di ipotesi nelle quali si ha un inadempimento che
incide sul marchio, che lo espone a contestazioni o addirittura a sanzioni di decadenza, o che portano a
condotte che non sono in linea con le scelte del titolare circa i tempi, i territori e le modalità di uso del
marchio; in queste situazioni la legge ritiene giusto dare al titolare la possibilità di reagire subito, anche se il
contratto con il licenziatario è ancora in corso, e di trattare il licenziatario alla stregua di un contraffattore
qualsiasi (diretta azione di contraffazione). Se invece il licenziatario viola altre disposizioni del contratto di
licenza, l’unico rimedio sarà la risoluzione secondo le norme generali del Codice Civile. Supponiamo che il
licenziatario non paghi il corrispettivo pattuito; ciò non incide sull’immagine del marchio perché il marchio è
usato in modo perfettamente rispettoso e in linea con la sua immagine. Il titolare farà causa per avere il

125
Eleonora Biffi

pagamento o eventualmente per sciogliere il contratto, ma non potrà fare un’azione di contrattazione perché
non c’è un uso del marchio o un’attività relativa al marchio difforme da quella prevista nel contratto. Questa
possibilità aggiuntiva di tutela del titolare vale solo per questi casi specifici in cui si pone un’esigenza di
proteggere in modo urgente il marchio dato in licenza, soprattutto nei casi in cui questo esponga il marchio
ad una possibile decadenza.

CAUSE DI NULLITÀ E DI DECADENZA


Nullità è la mancanza fin dal momento del deposito della domanda dei requisiti per una valida registrazione
del marchio, la conseguenza dell’accertamento di nullità è la cancellazione del marchio con effetti retroattivi
come se il marchio non fosse mai esistito. Abbiamo invece delle cause di decadenza quando il marchio viene
validamente registrato ma a causa di fatti sopravvenuti il marchio non può restare in vita, si verificano nel
corso del tempo circostanze incompatibili con la permanenza in vita del marchio; il marchio in questo caso
viene cancellato, perché la decadenza è pur sempre una forma di cancellazione del marchio, ma la differenza
è che il marchio viene cancellato solo con effetto dal momento in cui si è determinata la causa di decadenza.
Nel periodo tra il deposito della domanda e il verificarsi della causa di decadenza il marchio era pienamente
valido, aveva tutti i requisiti di validità e poteva essere tutelato.

NULLITÀ DEL MARCHIO


L’art. 25 c.p.i. dice quando un marchio è nullo. Il marchio è nullo se ha ad oggetto un segno non registrabile
in base all’art. 7 (che individua le entità registrabili come marchio), se è privo di uno dei requisiti di validità
previsti dagli articoli da 9 a 14 del c.p.i., se è stato registrato da un non avente diritto ai sensi degli articoli 8
e 14.1 lett. c del c.p.i. (ritratti, nomi e segni notori; segni già oggetto di diritti esclusivi altrui di proprietà
industriale o intellettuale o di altro tipo), o se è stato registrato in malafede ai sensi dell’art. 19.2. In tutti
questi casi il marchio può essere dichiarato nullo su azione della parte interessata. Tra i requisiti di validità
(tra gli impedimenti alla registrazione) vi sono dei requisiti che riguardano interessi collettivi e impedimenti
che riguardano l’esistenza di diritti anteriori di terzi. Il primo tipo di impedimenti è esaminato dall’ufficio in
ogni caso: se viene rilasciato il marchio è perché l’ufficio non ha rilevato la sussistenza dell’impedimento.
Nei casi di impedimenti riconducibili ad un diritto esclusivo anteriore di un terzo, in alcuni casi è possibile
fare opposizione alla registrazione mentre in altri no; in ogni caso, questi impedimenti non possono essere
esaminati dall’ufficio se non quando si tratta di motivi per i quali si può fare opposizione e qualcuno faccia
effettivamente posizione, negli altri casi possono essere esaminati solo dal giudice in un’azione di nullità. La
differenza tra impedimenti che chiunque può far vedere e impedimenti che solo il titolare di diritti anteriori
interessati possono far valere si riflette anche sulle cause di nullità: abbiamo delle cause di nullità assoluta
quando chiunque ne abbia interesse può agire per far dichiarare la nullità del marchio e tipicamente si ritiene
che ogni operatore nel settore dei prodotti o servizi per i quali il marchio registrato abbia interesse ad agire
per far rimuovere un marchio che non ha requisiti assoluti di validità (marchio che ha ad oggetto un segno
non registrabile, privo di capacità distintiva, privo di liceità, in contrasto con i requisiti specifici dei marchi
di forma) e si ritiene anche registrato in malafede nei casi in cui la malafede consiste nel pregiudicare, ad
ampio raggio, il mercato con condotte anticoncorrenziali. Negli altri casi (mancanza di novità avente diritto
anteriore e malafede consistente nel frustrare legittime aspettative di tutela di terzi) le nullità sono relative ed
il risultato è che solo il titolare del diritto anteriore violato o il soggetto che abbia la legittima aspettativa di
tutela possono fare causa di nullità; nel caso principale la mancanza di novità può essere fatta valere solo dal
titolare del marchio o del segno distintivo anteriore in conflitto. Nei casi di registrazione del non avente
diritto, come per i brevetti, è possibile l’azione di rivendica o rivendicazione ai sensi dell’art. 118 c.p.i., per
cui l’avente diritto può scegliere se chiedere il trasferimento a sé della domanda di marchio o del marchio
registrato oppure se chiedere la nullità del marchio già registrato o ancora il rigetto della domanda. Per poter
chiedere provvedimenti all’ufficio bisogna prima avere la sentenza del giudice perché l’ufficio non verifica
la titolarità, non verifica situazioni di avente diritto; se si vuole ottenere un provvedimento dall’ufficio ci si
deve presentare all’ufficio già con il provvedimento del giudice. Di fatto nella prassi i tempi occorrenti ad
avere una decisione del giudice sono tali per cui nel frattempo la registrazione del marchio è già avvenuta.
L’avente diritto può decidere se rivendicare il marchio a sé o farlo dichiarare nullo; per i marchi non c’è un
limite temporale all’esercizio di questa facoltà, l’avente diritto è libero a tempo indeterminato di compiere le
sue scelte e gli altri non possono interferire.

DECADENZA DEL MARCHIO


Sono invece cause di decadenza del marchio quelle previste dall’art. 26 del codice:
– Decadenza per volgarizzazione: perdita di capacità distintiva del marchio a causa di un’attività o inattività
del titolare (art. 13.4 c.p.i.).
– Illiceità sopravvenuta (art. 14.2 c.p.i.): contrarietà all’ordine pubblico, al buon costume o alla legge che
non esisteva al momento del deposito della domanda di marchio e che sopravviene in un altro momento;

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Eleonora Biffi

molto più rilevante è l’ipotesi del marchio che diviene idoneo a ingannare il pubblico a causa del modo e
del contesto in cui viene utilizzato (c.d. ingannevolezza o decettività sopravvenuta). Esempio: marchio
registrato per un prodotto registrato con delle certe caratteristiche, ma che poi viene utilizzato per prodotti
con caratteristiche diverse; marchio patronimico dello stilista che viene registrato dallo stilista ma poi
viene utilizzato da un terzo che nulla c’entra con lo stilista e ciononostante continua a far credere al
pubblico di acquistare capi originali firmati dallo stilista; casi di peggioramenti qualitativi rilevanti ed
inattesi da parte del pubblico (la qualità diventa molto scadente ma il pubblico non lo sa e continua ad
acquistare credendo di ritrovare la stessa qualità dei prodotti già sperimentati); caso dell’inganno derivante
da una cessione o licenza del marchio. In tutti questi casi l’art. 21.2 stabilisce che sia possibile ottenere dal
giudice il divieto d’uso del marchio divenuto illecito e specificamente ingannevole, l’art. 14.2 completa il
quadro delle sanzioni sancendo inoltre che in questo caso il marchio può essere dichiarato decaduto, non è
accettabile che rimanga in vita un marchio divenuto illecito (ingannevole per il pubblico, contro la legge o
l’ordine pubblico o il buon costume). Per quanto riguarda gli aspetti qualitativi bisogna ricordare che ciò
che la legge vieta non è il peggioramento qualitativo delle caratteristiche ma è l’inganno del pubblico, per
cui se è possibile informare il pubblico per renderlo consapevole del mutamento delle circostanze e far sì
che quest’ultimo non si inganni sulle caratteristiche del prodotto o servizio, da questo punto di vista è
possibile variare le caratteristiche del prodotto o del servizio senza che vi sia un inganno.

DECADENZA DEL MARCHIO PER NON USO


Si può acquisire il marchio con la registrazione anche se al momento della domanda di registrazione e poi
dalla successiva registrazione il marchio non è ancora stato usato; questa è una di quelle regole di favore per
la registrazione, per il marchio registrato basta depositare la domanda e ottenere la registrazione. Però il
marchio ha la funzione di comunicare messaggi al pubblico ed è protetto nella misura in cui comunichi
effettivamente questi messaggi o non ha motivo di essere protetto se si tratta di una posizione di monopolio o
di rendita fine a se stessa, senza una virtuosa destinazione del marchio registrato. Il legislatore stabilisce che
si possa acquisire il marchio anche su un segno non ancora usato, ma che poi il segno debba effettivamente
iniziare ad essere usato e in mancanza, ove la destinazione al mercato non vi sia e trascorso un congruo
periodo di tempo, il marchio decada perché non vi è motivo di mantenere in vita un’esclusiva su un segno
che non viene utilizzato per svolgere le sue funzioni. Tale articolo si collega all’art. 26 (se non c’è un uso ai
sensi dell’art. 24 il marchio decade) e stabilisce che il marchio deve essere oggetto di un uso effettivo da
parte del titolare o con il suo consenso per i prodotti o servizi per cui è stato registrato entro un periodo di
cinque anni a partire dalla registrazione o dalla data successiva in cui viene sospeso l’uso. Dal momento in
cui viene effettivamente concessa la registrazione del marchio decorre un periodo di 5 anni e il titolare del
marchio, se non vuole incorrere in decadenza, deve iniziare a usare effettivamente il marchio entro la
scadenza di questi cinque anni; ugualmente se, dopo un periodo di uso del marchio l’uso viene interrotto,
l’uso deve essere ripreso entro cinque anni dalla interruzione perché altrimenti decade. Il marchio non deve
mai restare inutilizzato per un periodo di tempo superiore ai cinque anni, fermo restando che in ogni caso il
periodo di tempo conta solo a partire dal momento della registrazione. La legge dice che l’uso deve essere
effettivo, ci vuole una presenza seria del prodotto o servizio sul mercato: dev’essere un uso che, a
prescindere dal maggiore o minore successo, sia volto a creare una quota di mercato e ad avere una certa
significatività. Un singolo atto isolato di vendita non è un uso effettivo. Se invece è un prodotto molto
particolare o molto costoso può esservi anche un quantitativo minore, va sempre valutata l’effettività dell’uso
in rapporto al mercato; se l’imprenditore fabbrica e vende auto sportive in edizione limitata e di prezzo
elevatissimo, l’effettività dell’uso ci sarà anche nella costruzione e nella vendita di pochi esemplari; se
invece si tratta di lattine di bibite ci vorrà una diffusione molto maggiore. In ogni caso quello che conta è
che, in relazione allo specifico mercato, l’uso testimoni una presenza seria sul mercato dell’impresa e sia
specificamente volto a conquistare una sua quota di mercato anche piccola ma pur sempre stabile e
caratterizzata da una serietà e non da una dimensione puramente irrilevante. La legge stabilisce inoltre che
l’uso effettivo può essere sia l’uso diretto del titolare, ma anche l’uso del licenziatario o del soggetto che fa
uso del marchio su autorizzazione del titolare. L’uso effettivo deve essere misurato in relazione ai prodotti o
servizi per cui il marchio è stato registrato; se la registrazione è stata chiesta per certi prodotti o servizi, è per
questi prodotti o servizi che si deve vedere se il marchio è stato registrato. Per evitare eccessivi formalismi si
prevede che una forma d’uso diversa da quella oggetto di registrazione ma che non altera il distintivo del
marchio costituisce una forma di uso effettivo, non si vuole esporre a decadenza il titolare di un marchio che
non lo usa nello stesso modo in cui è stato registrato ma che apporta delle modifiche così minimali da non
alterare il carattere distintivo del marchio (es. caso in cui il marchio Theominal sia italianizzato in Teominale
o in cui venga eliminata la parola “la” prima del marchio o ancora caso in cui in un marchio complesso la
forma d’uso non preveda una piccola cornice quadrata attorno a un marchio che per il resto è uguale).
Quanto detto vale specialmente nei casi di restyling: può darsi che nel corso del tempo il titolare decida di
cambiare il font del marchio per renderlo più al passo con i tempi o voglia ritoccare alcuni elementi figurativi

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Eleonora Biffi

(questo avviene spesso per i marchi che hanno una lunga tradizione come Barilla o Fiat). Un’ulteriore norma
che agevola il titolare è quella per cui già all’apposizione del marchio su prodotti o sulla confezione a fini di
esportazione è considerato forma d’uso: se il prodotto non è destinato al mercato italiano ed è destinato a un
Paese estero, basta la fabbricazione e la marcatura del prodotto in Italia per ritenere che ci sia un uso effettivo
nel nostro Paese. Un’altra norma di favore per il titolare è data dal prevedere una sanatoria della decadenza
se dopo i cinque anni viene iniziato o ripreso l’uso effettivo; se un terzo fa causa di decadenza e chiede che il
marchio venga dichiarato decaduto, da quel è già stata fatta valere in giudizio la decadenza e il titolare è
condannato alla perdita del marchio; può darsi che, pur essendo passati cinque anni e pur essendo il marchio
esposto a decadenza, prima che un terzo faccia causa di decadenza o faccia valere la decadenza in giudizio, il
titolare inizi o riprenda l’uso del marchio. Per questa ipotesi il legislatore ha ritenuto che l’attività del titolare
andasse premiata rimuovendo la causa di decadenza; se dopo il decorso dei cinque anni e prima che qualcuno
faccia causa, quel marchio esposto a decadenza inizia o riprende ad essere oggetto di uso effettivo, allora la
decadenza viene sanata e il marchio diventa inattaccabile. Tuttavia questa sanatoria non sempre è possibile:
– Non si parla proprio di sanatoria se un terzo ha già fatto causa di decadenza;
– Non vi può essere sanatoria se nel periodo in cui il segno era esposto a decadenza, perché i cinque anni
erano già trascorsi, dei terzi hanno già acquisito diritti sul marchio con la registrazione o con l’uso; non è
privo di novità il marchio che venga registrato in un momento in cui il marchio anteriore possa ritenersi
decaduto per non uso. Se il terzo ha acquisito dei diritti – con l’uso o la registrazione – sul marchio in un
momento in cui il segno era libero perché i cinque anni erano già passati, è giusto che prevalga il terzo.
Ove un terzo si sia frapposto con una legittima registrazione o con un uso del marchio, se a quell’epoca
l’originario titolare non ha ripreso l’uso o iniziato l’uso non lo può più fare, la sanatoria non opera più e se
lo dovesse fare sarebbe contraffattore rispetto a chi nel frattempo ha acquisito diritti.
– Se la ripresa dell’uso non è spontanea né genuina, ma dipende dal fatto di aver saputo che un terzo sta per
fare causa di decadenza e l’inizio o la ripresa dell’uso sono primariamente volti a cercare di neutralizzare
l’azione di decadenza altrui, la legge ritiene che prima che la sanatoria operi debba passare un certo
periodo di tempo dalla ripresa o dall’uso. Questa è la situazione in cui un soggetto che non ha mai usato il
marchio e che, per quanto lo riguarda, continuerebbe anche a non usarlo viene a sapere che un terzo sta
per fargli causa di decadenza; per evitare che l’iniziativa del terzo vada a buon fine il titolare si precipita a
effettuare dei preparativi per l’inizio o la ripresa dell’uso. I preparativi sono preparativi effettuati solo
perché ha saputo che sta per essere proposta una causa di decadenza e solo perché vuole evitare che questa
causa abbia successo. Se a seguito di questi preparativi il soggetto titolare effettivamente riprende o inizia
l’uso effettivo, la sanatoria non opera immediatamente ma bisogna aspettare tre mesi; se in questi tre mesi
il terzo fa causa di decadenza o fa valere in giudizio la decadenza, la sanatoria non opera anche se l’uso
effettivo è già iniziato o ripreso; se invece passano i tre mesi senza che ci sia l’azione di decadenza, solo a
quel punto la sanatoria opera e il marchio anteriore si sottrae a una declaratoria di decadenza.

Infine la legge nell’articolo 24 prevede due casi in cui, anche se il marchio non viene usato, non ci può essere
decadenza. Sono situazioni in cui la circostanza fattuale del non uso del marchio non produce la conseguenza
giuridica della decadenza:
– Il primo caso è quello di un non uso giustificato da un motivo legittimo: la legge però lascia il compito
all’interprete di capire che cosa sia un motivo legittimo. La giurisprudenza dice che si ha motivo legittimo
ogni volta in cui il mancato uso dipende da ragioni indipendenti dalla volontà del titolare. Il mancato uso
può anche essere una scelta del titolare, ma non libera e imposta da fattori esterni non controllabili. Il caso
classico è quello del titolare che prima di poter usare il marchio per il suo prodotto deve ottenere una
autorizzazione all’immissione in commercio del prodotto e finché il prodotto non viene autorizzato alla
vendita il titolare non può usare il marchio per quel prodotto (es. farmaci). Il titolare deve attendere i
tempi della procedura di autorizzazione prima di poter vendere il prodotto o prestare il servizio; si può
pensare anche a situazioni di mercato “patologiche” in cui il mercato è già invaso da un contraffattore
molto aggressivo nelle quali è obiettivamente antieconomico entrare sul mercato perché c’è una situazione
di illiceità diffusa sul mercato che non permette al titolare di operare in condizioni vantaggiose. Secondo
alcuni potrebbe considerarsi un motivo legittimo anche il fallimento perché impedisce l’esercizio della
attività di impresa mentre altri ritengono che non costituisca motivo legittimo, specie per l’eventualità che
l’esercizio dell’azienda possa nel frattempo proseguire; non è motivo legittimo la mancanza di mezzi
finanziari del titolare o sue scelte imprenditoriali sbagliate perché fa parte del rischio di impresa: se il
titolare non è in grado di allestire l’ambiente idoneo di uso del segno, non ha i mezzi finanziari, non è in
grado di costruire una rete di licenze, questa non è una giustificazione del non uso. In tutti gli altri casi
(necessità di attendere l’autorizzazione, situazioni di illiceità diffuse sul mercato dovute a condotte di
terzi) c’è un fattore esterno che obbliga il soggetto a certe scelte e rispetto a questi fattori il soggetto non
può fare nulla.

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Eleonora Biffi

– La legge prevede che siano sottratti a decadenza i c.d. marchi difensivi (particolarità della legislazione
italiana). I marchi difensivi si chiamano così proprio perché servono a difesa di un marchio principale,
servono a cercare di estendere la sfera di protezione del marchio principale disponendosi “idealmente”
attorno al marchio principale. Esempio: supponiamo che ci sia il marchio principale di interesse per
l’azienda che è il marchio Alfa e il titolare registra, solo per proteggere meglio il marchio Alfa, una serie
di altri marchi tutti simili ad Alfa (es. Alfa 1, Alfa 2, Alfa 3), piccole varianti del marchio Alfa che sono
registrate per avere una sorta di scudo ulteriore attorno al marchio di effettivo interesse. I marchi difensivi
vengono registrati non per essere usati, ma per proteggere meglio un marchio principale che viene usato.
La legge dice che se vi è questa registrazione di marchi difensivi simili al marchio principale, se il titolare
è lo stesso (marchio principale e marchi difensivi) e se tutti i marchi vengono registrati per gli stessi
prodotti o servizi, finché viene usato il marchio principale, non decadono né il marchio principale né i
difensivi. La cessazione o il non uso del marchio principale invece ha un effetto a catena: se cade e viene
dichiarato decaduto per non uso il marchio principale, cadono anche tutti i marchi difensivi. La funzione
dei marchi difensivi è proteggere il marchio principale di interesse. È discusso se tale legge sia conforme
alla legislazione dell’Unione Europea perché è discusso se, in base al diritto dell’UE possano – salvo i casi
di motivi legittimi di non uso – essere previsti “istituzionalmente” dei segni che possono restare validi
anche senza un uso effettivo.

NULLITÀ E DECADENZA PARZIALI


Va infine ricordato che tutti i motivi di nullità e di decadenza esaminati possono sussistere solo per una parte
dei prodotti o servizi per cui il marchio registrato (art. 27 c.p.i.). Esempio: un marchio è registrato per molti
prodotti o servizi e solo per alcuni è privo di novità rispetto ad un marchio ulteriore oppure solo per alcuni è
privo di capacità distintiva, mentre per altri noi no o ancora un marchio viene registrato per molti prodotti o
servizi e poi viene usato solo per alcuni di questi prodotti o servizi mentre per gli altri non c’è uso effettivo.
La legge è ispirata ad un principio di conservazione della registrazione di marchio nei limiti dell’esistenza di
requisiti di validità e dell’inesistenza di cause di decadenza; in questi casi l’articolo 27 prevede le nullità o
decadenze parziali. Il marchio viene dichiarato nullo o decaduto parzialmente solo per alcuni prodotti o
servizi, ma la parte restante valida della registrazione per gli altri prodotti o servizi rimane in vita. La legge
stabilisce infine che tutte le sentenze che pronunciano una nullità o una decadenza sia totale sia parziale, una
volta che siano divenute definitive e non siano più soggette a impugnazione, hanno efficacia nei confronti di
tutti (erga omnes); l’articolo 123 del c.p.i. stabilisce questo principio: un marchio definitivamente cancellato
è cancellato per sempre e nei confronti di chiunque.

N.B. Nullità e decadenza sono situazioni patologiche, ma è possibile che il titolare semplicemente rinunci
alla protezione del marchio; un’altra forma frequente di abbandono dei marchi è il mancato rinnovo: al
termine dei dieci anni il titolare decide di non rinnovare il marchio e lo lascia scadere senza rinnovarlo.

DENOMINAZIONI D’ORIGINE E INDICAZIONI GEOGRAFICHE


Sono le indicazioni di provenienza da un certo territorio di prodotti tipici di quel territorio. Si tratta di segni
identificativi del prodotto e delle sue caratteristiche; le denominazioni d’origine e le indicazioni geografiche
contraddistinguono un prodotto in relazione alla sua provenienza da un certo territorio o zona geografica che
qualifica quel prodotto e gli attribuisce determinate caratteristiche. Questo è un settore di grande rilievo per
l’economia italiana che è ricca di prodotti tipici del territorio. Nel campo dell’agroalimentare ad esempio ci
sono tante denominazioni di coltivazioni locali di prodotti tipici (es. formaggi, vini, prosciutti, ecc). Si tratta
di tutti i casi in cui c’è un’esigenza di protezione di un nome che identifica un’eccellenza produttiva di un
certo territorio.

RILIEVI E TEMI GENERALI


Per questo motivo c’è una disciplina che protegge i nomi di questi prodotti tipici e indirettamente protegge
anche il prodotto tipico in sé in quanto prodotto che ha un certo livello qualitativo che dev’essere preservato
perché espressione di certe tradizioni produttive che pure meritano di essere protette e conservate. Inoltre si
tratta anche di segni che devono essere regolamentati perché comunicano messaggi al consumatore relativi
alla provenienza dal territorio e alle qualità del prodotto legate a quel territorio che devono essere veritiere e
non ingannevoli. La disciplina di cui ci occupiamo è disciplina nell’ambito della proprietà intellettuale di
nomi di prodotti tipici, che comunicano messaggi di provenienza del prodotto da un territorio e garantiscono
al consumatore la presenza di determinate qualità o caratteristiche del prodotto legate al territorio dovute a
fattori naturali o umani; tra i fattori naturali possiamo immaginare tutte le caratteristiche della zona (clima,
territorio, venti, correnti d’aria, temperature) oppure fattori umani (esistenza di una tradizione produttiva che
si tramanda di generazione in generazione e porta ad una esperienza nella produzione del prodotto tipico
accumulata nei secoli). La legge vuole differenziare due grandi categorie di nomi di prodotti tipici a seconda

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Eleonora Biffi

dell’intensità del collegamento del prodotto al territorio. La denominazione d’origine è il nome geografico
del prodotto tipico o un nome non geografico che nella mente del consumatore è legato indissolubilmente a
una certa zona (es. fontina valdostana, “fontina” non è nome geografico ma è immediatamente legato a quel
territorio) e riguarda situazioni in cui il legame prodotto-territorio è di massima intensità; le caratteristiche
del prodotto qualitativamente rilevanti sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico
di provenienza. Nel caso della indicazione geografica il legame con il territorio di provenienza è più tenue,
per avere un’indicazione geografica basta che anche solo una qualità o caratteristica sia da attribuire alla
origine geografica, addirittura bastano anche solo la notorietà o la reputazione; nel caso dell’indicazione
geografica il legame è solo di tipo reputazionale. Al di là della definizione, i procedimenti per ottenere la
protezione e le norme sull’ambito di tutela di DOP e IGP coincidono. Al di là delle definizioni la disciplina è
sostanzialmente uniforme, la ragione per cui vengono differenziate è nel diverso valore di comunicazione al
pubblico del segno costituito dalla denominazione d’origine rispetto al segno costituito dall’indicazione
geografica: tendenzialmente la denominazione d’origine garantisce un legame più stretto con il territorio. Nel
territorio italiano ad esempio la fontina, il Parmigiano Reggiano, il prosciutto di Parma sono tutti dei casi di
denominazione d’origine protetta; la mortadella di Bologna e il salame di Felino sono delle indicazioni
geografica protetta. Nella stessa zona territoriale di Modena si trovano sia la denominazione d’origine (aceto
balsamico tradizionale di Modena fatto con una particolare tecnica produttiva) e l’indicazione geografica
(aceto balsamico di Modena che è un prodotto di più largo consumo e che ha le caratteristiche del più tenue
collegamento dell’indicazione geografica rispetto alla denominazione d’origine).

Sempre a livello di inquadramento generale della materia dobbiamo tenere presente che ci sono: sistemi con
registrazione e sistemi senza registrazione. Secondo alcune discipline in termini di denominazione d’origine
e indicazione geografica la tutela si acquisisce con la registrazione del segno presso l’ufficio, mentre nel caso
di sistemi senza registrazione la tutela si acquisisce di fatto ovvero per l’esistenza del prodotto tipico e del
nome che identifica il prodotto tipico come proveniente dalla zona d’origine. Si devono poi tenere presenti
gli interessi protetti che possono essere di vario tipo:
– Del produttore del prodotto tipico: poter comunicare in modo efficace al consumatore le caratteristiche dei
prodotti e sfruttare la notorietà che circonda questi prodotti;
– Dei consumatori: avere delle informazioni veritiere senza essere tratti in inganno, come avviene quando
viene presentato come prodotto tipico un prodotto fasullo che non è stato fabbricato nella zona d’origine
con il procedimento tradizionale;
– Della collettività: area della proprietà intellettuale legata a ragioni di politica agricola e di diritto agrario.
C’è una finalità di promozione della produzione agricola e di tutela degli operatori di questo settore e della
filiera produttiva in campo agroalimentare.

A seconda delle norme di tutela previste dalle varie fonti in materia di denominazione d’origine e indicazioni
geografiche, si possono avere due livelli di tutela oppure uno solo. Tutte le legislazioni prevedono una tutela
contro l’inganno del consumatore (livello di tutela base); mentre alcune legislazioni prevedono una tutela
solo contro l’inganno del consumatore, altre prevedono anche una tutela contro ogni forma di agganciamento
parassitario. Solo alcune legislazioni in materia di denominazione d’origine e indicazioni geografiche
aggiungono alla tutela base, che scatta quando il consumatore può essere ingannato, una tutela aggiuntiva (o
avanzata) che scatta quando – anche se il consumatore non è ingannato – un terzo compie un’attività relativa
al nome del prodotto tipico tale da consentirgli di sfruttare indebitamente quella notorietà. Mentre nel diritto
puro della proprietà intellettuale dei segni distintivi prevale sempre chi adotta per primo un certo segno, nel
campo delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche, anche se la denominazione arriva per
seconda, non necessariamente deve cedere il passo al marchio ma può vivere e coesistere con il marchio
anteriore (in certi casi è la denominazione posteriore a togliere di mezzo il marchio anteriore). Mentre per i
marchi una perdita di capacità distintiva imputabile al titolare determina decadenza, nel caso delle DOP e
IGP si stabilisce che, anche se la denominazione diventa generica, continua ad essere protetta. Le fonti della
disciplina sono su tre livelli:
– Convenzioni internazionali;
– Regolamenti dell’UE;
– Codice della Proprietà Industriale.
Gli ultimi due sono improntati ad una tutela forte delle denominazioni d’origine e indicazioni geografiche,
mentre a livello internazionale vi è una forte contrapposizione tra il blocco europeo favorevole ad una tutela
forte del nome dei prodotti tipici e stati (tipicamente il blocco del Nord America) che sono contrari ad una
tutela forte in quanto si tratta di stati che tradizionalmente non hanno produzioni tipiche risalenti nel tempo,
viceversa hanno sviluppato nel tempo una produzione massiccia industriale in cui i nomi tipici dei prodotti
europei vengono utilizzati come nomi generici. I report in materia sono ricchi di esempi di nomi di prodotti

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Eleonora Biffi

tipici di paesi europei che vengono utilizzati come nomi generici o come un abbellimento del prodotto per le
confezioni di prodotti industriali fabbricati in Canada o negli Stati Uniti che non hanno nulla a che vedere
con il prodotto tradizionale europeo. Dal punto di vista delle economie di questi stati è comprensibile che
siano restii ad una tutela forte perché da un lato non li favorirebbe dal punto di vista di produzioni tipiche che
non hanno, dall’altro comporterebbe il riconoscimento di una protezione a favore di produzioni estere e ciò
potrebbe rendere più difficoltosa l’attività delle industrie alimentari del territorio nord-americano che invece
vogliono essere libere di continuare ad usare i nomi tipici dei prodotti europei come nomi generici o di libero
uso. Ciò fa sì che specialmente in questo settore a livello internazionale vi sia uno scontro molto forte tra il
blocco nord-americano e quello europeo che ha determinato una situazione piuttosto bizzarra perché ci sono
accordi internazionali che prevedono una tutela forte di DOP e IGP che hanno avuto un’adesione limitata e
per converso ci sono delle convenzioni che hanno avuto un successo molto maggiore in termini di adesioni
ma che hanno dovuto ridurre al minimo la tutela perché senza la scelta di tutela al ribasso non ci sarebbero
state queste convenzioni firmate ed adottate dalla maggior parte degli stati extra europei. Il risultato è che la
disciplina delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche è piuttosto complessa.

CONVENZIONI INTERNAZIONALI
In tal caso si deve menzionare la Convenzione di Parigi del 1883 ed un Accordo di Madrid del 1891 (da
non confondere con quello dei marchi). La tutela è ancora embrionale, la prima riconduce effettivamente le
indicazioni di provenienza geografica nell’ambito della proprietà industriale e dice che costituisce un atto
illecito ogni utilizzazione diretta o indiretta di una indicazione falsa circa la provenienza dei prodotti. La
falsità nell’attribuire ad un prodotto diverso dal prodotto tipico la provenienza dalla zona del prodotto tipico
è un atto di falsità meritevole di sanzione. La CUP non vieta solo il diretto utilizzo del nome del prodotto
tipico, ma anche quello indiretto che consiste nell’evocare indirettamente la zona di produzione del prodotto
tipico con segni che alla mente del consumatore evocano immediatamente quell’origine. Se il prodotto tipico
proviene da una certa zona (es. prosciutto di Parma) l’indicazione falsa diretta è usare la parola “Parma” per
un prosciutto che non è fatto a Parma, l’utilizzazione indiretta è mettere nella presentazione al pubblico degli
elementi che il pubblico riconduce a Parma (es. immagine di un monumento tipico di Parma, del suo scudo
ducale); tali elementi, senza menzionare il luogo, lo evocano agli occhi del consumatore: è una indicazione
falsa in quanto crea un collegamento che in realtà non esiste. Similmente l’accordo di Madrid ribadisce che
utilizzare indicazioni false o fallaci per il consumatore costituisce atto illecito. Le convenzioni internazionali
base (Parigi) e specifica (Madrid) vanno già nella direzione di una qualificazione certa come atto illecito di
un uso di nomi di prodotti tipici in modo falso o ingannevole per il pubblico; non sono sistemi basati su una
registrazione ma vietano in sé condotte di questo tipo.

Il primo sistema basato su una registrazione è l’Accordo di Lisbona del 1958 che nella sua versione iniziale
proteggeva solo le denominazioni d’origine e poi con l’atto di Ginevra del 2015 è stato esteso a proteggere
anche le indicazioni geografiche. Il sistema Lisbona-Ginevra è fondato su una registrazione internazionale, è
un accordo amministrato gestito dalla UIPO a Ginevra che tiene un registro delle denominazioni d’origine e
delle indicazioni geografiche protette in base a questo sistema. Oltre a prevedere una tutela con registrazione
che dà una certezza maggiore perché vengono fissate in un titolo registrato l’esistenza del nome tipico e le
caratteristiche del prodotto; la protezione non è solo contro l’inganno del pubblico, ma anche contro qualsiasi
usurpazione o imitazione ancorché l’origine del prodotto sia indicata o la denominazione sia accompagnata
da espressioni come “genere”, “tipo”, “imitazioni” o simili. Vengono protette le denominazioni d’origine e le
indicazioni geografiche anche quando in ipotesi il consumatore non può essere ingannato perché viene
specificato sul prodotto da dove viene o perché si usano queste espressioni che fanno capire che non si tratta
del prodotto originale. Esempio: se sul prodotto scrivo “Prosciutto tipo Parma” il consumatore capisce che si
tratta di un’imitazione, però è chiaro che c’è un agganciamento parassitario alla notorietà del prosciutto di
Parma che serve ad attirare il consumatore che questo sistema Lisbona-Ginevra vieta. Questo sistema si basa
su una tutela più forte (avanzata). Il risultato dell’innalzamento della tutela ha avuto come contro-effetto
quello di portare ad un’adesione all’Accordo di Lisbona quantitativamente non molto significativa. Non si
arriva ai trenta stati mondiali aderenti all’accordo. Questo accordo ha una tutela molto forte per tutti i tipi di
prodotti ma ha un’adesione più circoscritta.

Un accordo che ha avuto una grande adesione a livello mondiale è l’accordo TRIPs che tutela solo le
indicazioni geografiche e non le denominazioni di origine. Di regola la tutela è limitata alle ipotesi in cui le
indicazioni siano usate in modo da ingannare il pubblico. Gli accordi TRIPs pagano l’adesione ampia con
una scelta di compromesso al ribasso per cui solo in caso di inganno del pubblico c’è protezione e non anche
contro l’agganciamento parassitario non ingannevole. C’è però un’eccezione: per le zone geografiche di vini
e alcolici la protezione è estesa anche all’agganciamento parassitario. I TRIPs hanno quindi una tutela forte
(avanzata) solo per vini e alcolici e una tutela base per tutti gli altri prodotti.

131
Eleonora Biffi

REGOLAMENTI DELL’UNIONE EUROPEA


A livello di Unione Europea esistono quattro regolamenti, tutti nel settore dei prodotti agroalimentari. Il
Regolamento UE n. 1151/2012 del 21 novembre 2012 è il regolamento base di tutta la legislazione dell’UE
in materia di tutela, mediante registrazione, delle denominazioni d’origine protette (DOP) e delle indicazioni
geografiche protette (IGP). L’art. 5 del suddetto regolamento disciplina i requisiti per le DOP e per le IGP:
– DOP: il discorso del legame più intenso con il territorio emerge in modo molto evidente. È il nome di un
prodotto originario di un luogo, di una regione o in casi eccezionali di un Paese determinato. La qualità o
le caratteristiche del prodotto sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente
geografico ed ai suoi intrinseci fattori naturali e umani. Tutte le fasi di produzione si devono svolgere nella
zona geografica delimitata; l’intero procedimento produttivo dalla prima lavorazione fino al prodotto
finito si deve svolgere nella zona geografica individuata e per certi prodotti anche le fasi di lavorazione a
valle del prodotto finito possono essere riservate alla zona geografica. Il punto è emerso per prodotti che
spesso vengono venduti e confezionati in porzioni (es. casi in cui un prosciutto o un altro insaccato viene
venduto già tagliato in fette o i casi in cui il formaggio viene venduto a porzioni o grattugiato). Finché si
tratta di attività che si svolgono nel negozio al dettaglio non ci sono problemi in quanto è chiaro che
queste attività vengono svolte dal commerciante, ma nel caso di prodotti industriali anche queste attività
possono essere collegate alla zona geografica di provenienza. In particolare, ci sono stati casi relativi al
confezionamento delle fette già affettate di prosciutto o alla vendita di Parmigiano già grattugiato. Se lo
svolgere queste fasi nella zona tipica è una maggiore garanzia di qualità, anche queste fasi possono essere
riservate alla zona tipica.
– IGP: legame più tenue con il territorio. Si tratta di un nome che identifica un prodotto originario di un
certo luogo, regione o Paese ma basta che una data, una certa qualità, un’altra caratteristica o anche solo la
reputazione del prodotto siano dovute all’origine geografica. Ci sono prodotti che magari non hanno una
caratteristica indissolubilmente legata alla zona d’origine, ma che devono a quella zona una particolare
notorietà perché si tratta di un prodotto tradizionale che da sempre si fa in quella zona, che il consumatore
ormai conosce e associa a quella zona; basta questo legame di tipo reputazionale per far sorgere un diritto
sulla IGP. La produzione non si deve svolgere tutta nella zona geografica ma è sufficiente che almeno una
delle fasi si svolga nella zona geografica.

Il legame tra prodotto e territorio viene spesso definito con l’espressione francese “milieu geographique”. A
parte questa differenza di definizione, la disciplina di DOP ed IGP è comune ma il legislatore ha tenuto a
differenziare le due ipotesi in quanto il prodotto DOP ha un legame più forte con il territorio ed è interesse
riconosciuto e tutelato dal legislatore quello a che, chi produce un prodotto con un legame così forte, possa
evidenziarlo fregiandosi della DOP e non dell’IGP (sulla confezione del prodotto viene stampato il logo
dell’UE della DOP o dell’IGP e nella comunicazione pubblicitaria si può evidenziare questa caratteristica).
La registrazione si deve chiedere con una domanda. I sistemi di protezione previsti dall’UE sono sistemi con
registrazione; a livello di convenzioni internazionali l’unico sistema con registrazione è quello di Lisbona-
Ginevra. I regolamenti dell’UE sono basati sulla registrazione e non possono esserci diritti esclusivi su DOP
e IGP in via di fatto. Occorre sottoporsi ad una procedura di registrazione piuttosto complessa e solo all’esito
di questa procedura, se questa ha esito positivo, la DOP e l’IGP viene riconosciuta. La domanda di DOP o
IGP deve indicare:
– Il nome del prodotto tipico;
– Il tipo di prodotto;
– Una serie di altre informazioni;
– Il disciplinare: fondamento della tutela della DOP o IGP, è il documento che contiene tutte le informazioni
atte ad identificare il prodotto, a dimostrare il collegamento prodotto-territorio e indica quali soggetti
saranno preposti alla gestione del segno e al controllo del rispetto delle norme. Nel disciplinare troviamo
la specifica del nome da proteggere, la descrizione minuziosa del prodotto e delle sue specifiche, della
zona di provenienza in modo dettagliato e seguendo passo a passo l’andamento dei confini della zona per
delimitare la zona geografica. Fondamentale è l’indicazione del metodo di produzione, se questo non è
quello tradizionale non si può qualificare il prodotto come DOP o IGP; inoltre bisogna spiegare in cosa
consiste il legame prodotto-territorio e quali sono i soggetti preposti a controllare l’uso del nome tipico e
come svolgono questo controllo. Generalmente i vari produttori del prodotto tipico sono riuniti in un
consorzio di tutela che ha il compito di gestire l’uso del nome tipico e di verificare il rispetto del
disciplinare (es. consorzio di tutela del Prosciutto di Parma, del Grana Padano, della mozzarella campana
DOP). Generalmente nei siti dei consorzi di tutela in un’apposita pagina è pubblicato il testo completo.

La procedura di registrazione è piuttosto articolata e costituita da due fasi successive:


a. Fase nazionale: si avvia su iniziativa dei produttori interessati o del consorzio di tutela che presentano la
domanda presso l’autorità competente (in Italia questa è il Ministero delle politiche agricole alimentari e

132
Eleonora Biffi

forestali), l’autorità nazionale dello stato in cui si trova il prodotto tipico compie una prima verifica della
sussistenza dei requisiti previsti dal regolamento e durante questa fase nazionale già alcuni terzi (soggetti
interessati che si trovano nel territorio dello stesso stato) possono far valere delle ragioni per cui a loro
avviso il nome non deve essere registrato come DOP o IGP. Se all’esito di questa fase la valutazione è
positiva, cioè l’autorità nazionale ritiene che il segno si possa registrare, trasmette l’incartamento alla
Commissione dell’UE e si avvia la seconda fase.
b. Fase Europea: la Commissione dell’UE riverifica se sussistono tutti i requisiti della DOP o IGP, in tal
caso l’esame non è più solo circoscritto ai soggetti dello stato d’origine ma qualunque terzo interessato
può nuovamente proporre opposizione e alla fine di questo esame se, anche la Commissione dell’UE
ritiene che sia registrabile, provvede a registrarla emanando un apposito regolamento. La DOP o IGP
viene consacrata in un regolamento della Commissione dell’UE che la riconosce e la protegge in tutto il
territorio dell’unione.

Qui intervengono delle considerazioni di diritto pubblico, agrario e di politica agricola che rendono una DOP
o IGP registrata difficilissima da contestare. Non è più possibile contestare la validità di una DOP o IGP
registrata con regolamento dell’Unione davanti ad un’autorità giudiziaria nazionale; per tutti gli altri diritti di
proprietà intellettuale invece si può fare la causa di nullità: il privato cittadino ha diritto a rivolgersi ad un
giudice con una domanda di nullità, ma nel caso delle DOP o IGP non è così salvo casi eccezionali. L’unico
giudice che può pronunciarsi sulla validità del regolamento di riconoscimento di una DOP o IGP ed
eventualmente annullarlo e cancellarlo è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che però non può essere
direttamente destinataria di domande di privati – salvo alcuni casi eccezionali – e può essere investita della
questione di invalidità regolamento su DOP o IGP solo da uno stato membro oppure da un giudice di uno
stato membro che può chiedere alla Corte di Giustizia di pronunciarsi. Per cui, se il giudice nazionale ha un
dubbio di validità della DOP o IGP, non può annullarla ma può a certe condizioni chiedere alla Corte di
Giustizia di valutare se non sia il caso che la stessa Corte annulli il regolamento. La Commissione dell’UE
può cancellare il provvedimento di concessione della DOP o IGP in due casi specifici:
– Se non è più garantito il rispetto delle condizioni previste dal disciplinare: se un consorzio di produttori
non vigila a sufficienza sull’uso del nome tipico, sulle caratteristiche o magari si diffonde una prassi per
cui i produttori non rispettano il disciplinare ed il consorzio lascia correre, questo espone la DOP o la IGP
al rischio di una cancellazione.
– Non immissione in commercio per almeno sette anni di un prodotto che benefici di questa DOP o IGP. Se
passano addirittura sette anni senza che nessuno produca o venda il prodotto tipico forse c’è motivo di
ritenere che non sia giustificata la permanenza della registrazione, ma non è in nessun caso motivo di
cancellazione o di decadenza il fatto che il nome oggetto della DOP o IGP diventi generico, cioè perda la
sua capacità di individuazione della zona di provenienza. Tale norma ha una sua giustificazione in ragioni
pubblicistiche volte a permettere agli operatori della zona di continuare a beneficiare della registrazione
anche se la DOP o IGP diventa generica. Se un segno è già generico prima che venga registrato come DOP
o IGP non può essere registrato, ma se non lo è ancora e viene validamente registrato il fatto che diventi
generico in un secondo momento è irrilevante perché non scalfisce più in alcun modo la registrazione
della DOP o IGP.

L’ambito di tutela della DOP o IGP è l’art. 13 del Regolamento ispirato ad una tutela forte delle DOP e IGP e
ispirato al principio di una tutela avanzata. Le lettere a e b prevedono una tutela contro qualunque forma di
agganciamento parassitario:
– La lettera a vieta qualunque impiego commerciale diretto o indiretto di un nome registrato come DOP o
IGP per prodotti che non sono quelli tipici in situazioni in cui questo consenta di sfruttare la notorietà del
nome protetto, anche nel caso in cui prodotti siano utilizzati come ingrediente. Lo sfruttamento della
notorietà del nome tipico per prodotti che non sono protetti determina uno sfruttamento della notorietà
indebito che costituisce violazione.
– La lettera b, richiamando la formula dell’Accordo di Lisbona, dice che anche se non c’è un inganno del
pubblico perché l’origine vera era stata indicata o si usano le espressioni “tipo” o “metodo” e quindi si
capisce che non è il prodotto originale, la semplice usurpazione, evocazione o imitazione costituisce un
agganciamento parassitario illecito.
– Le lettere c e d riguardano l’inganno del consumatore e quindi qualunque indicazione falsa o ingannevole
sulla provenienza, sull’origine, sulla natura del prodotto e in generale qualsiasi pratica che possa indurre
in errore il consumatore sono vietate. Un agganciamento parassitario o una violazione della DOP o IGP ci
può essere quando la DOP e IGP viene utilizzata per un prodotto che non è realizzato nella zona tipica, ma
può esserci una violazione anche quando il prodotto è effettivamente fabbricato nella zona tipica ma non
rispetta il disciplinare. Ciò che conta è vedere il disciplinare; se il prodotto del terzo è fabbricato al di fuori
della zona tipica neanche si discute perché è ovvio che non può legittimamente portare la DOP o IGP, ma

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Eleonora Biffi

non è detto che un prodotto fabbricato nella zona tipica sia consentito. Se io uso “Parmigiano Reggiano”
per un formaggio che è bensì fatto in provincia di Parma ma che non segue alla lettera il disciplinare di
produzione, quel formaggio non può essere qualificato come DOP anche se proviene dalla provincia di
Parma e l’uso di Parmigiano Reggiano per quel formaggio costituisce una forma di violazione della DOP
o della IGP. Ad esempio ci sono caseifici della zona di Parma che producono formaggi con caratteristiche
simili a quelle del Parmigiano Reggiano o a volte anche gli stessi produttori di Parmigiano Reggiano DOP
hanno altre linee di produzione di altri formaggi e per questi formaggi si guardano bene dall’utilizzare il
nome Parmigiano Reggiano.

Il regolamento disciplina anche il rapporto con i marchi. Non è valido il marchio che sia in contrasto con il
diritto su una DOP o una IGP. In relazione a questo conflitto, non sempre vale per le DOP/IGP la regola di
chi è arrivato prima sul mercato perché si vuole favorire la DOP o IGP addirittura facendola prevalere in certi
casi sui diritti di marchio già esistenti. Il rapporto tra DOP/IGP e marchi è disciplinato secondo tre regole:
– Non può essere registrato un marchio che interferisca con l’ambito di tutela di una DOP o IGP anteriore
(art. 14.1) perché altrimenti è invalido;
– Un marchio già registrato o acquisito in buona fede anteriormente alla data di deposito della domanda di
registrazione della DOP/IGP può continuare a essere usato (coesistenza con la DOP/IGP), purché non
ricorrano motivi di nullità o di decadenza del marchio (art. 14.2);
– Solo ove, a causa della notorietà e della reputazione di un marchio anteriore e della durata del suo utilizzo,
la registrazione di una DOP/IGP posteriore sia “tale da indurre in errore il consumatore quanto alla vera
identità del prodotto”, la DOP/IGP non può essere registrata (art. 6.4).

Nel caso di un marchio registrato successivamente e interferente con l’ambito di tutela di una DOP o IGP
anteriore trova applicazione la regola più ovvia cioè il marchio è invalido. Nel secondo paragrafo dell’art. 14
vi è una regola che potrebbe non essere quella che ci aspettiamo: anche se il marchio è già stato acquisito in
buona fede anteriormente alla data di deposito della domanda di registrazione della DOP o IGP, il marchio
può continuare ad essere usato ma deve coesistere con la DOP e IGP. Eccezionalmente solo ove il marchio
anteriore per la durata del suo utilizzo e la sua reputazione determini una situazione in cui la DOP o IGP
posteriore sia tale da indurre in inganno il consumatore, la DOP IGP non può essere registrata. La disciplina
del rapporto tra marchi e DOP/IGP è fortemente sbilanciata a favore della DOP/IGP: se la DOP/IGP viene
prima elimina qualunque possibilità di marchio posteriore; se viene prima il marchio, questo prevale solo ove
sia così noto e famoso da configurare una situazione in cui la DOP o IGP posteriore possa ingannare il
pubblico. Altrimenti la DOP/IGP viene registrata e accreditata sul mercato ed è il marchio anteriore che
rischia un’eventuale decadenza. Questo è il regolamento base per tutti i prodotti agroalimentari, gli altri tre è
sufficiente tenere presente che esistono anche perché il sistema di registrazione e le norme di tutela sono
corrispondenti a quelle del regolamento base del 2012. Sono regolamenti che introducono alcune norme
specifiche e preferiscono regolare a parte alcuni prodotti sempre del comparto delle bevande alcoliche:
– Regolamento UE n. 1308/2013 sulle DOP e IGP dei vini;
– Regolamento UE n. 251 del 2014 sulle IGP dei prodotti vitivinicoli aromatizzati;
– Regolamento UE n. 787/2019 relativo alle IGP delle bevande alcoliche definite nella versione italiana del
regolamento “bevande spiritose” perché hanno alla base lo spirito inteso come alcool. Questo regolamento
prevede tutti liquori a gradazione medio-alta. Il sistema è simile, l’unica cosa che si può notare è che
mentre i vivi sono protetti sia DOP che IGP, per gli altri due tipi di prodotti (vini aromatizzati e liquori)
sono previste solo delle IGP e non anche delle DOP.

Al di fuori del comparto agroalimentare l’Unione Europea ormai da alcuni anni sta lavorando al progetto di
un ulteriore regolamento per le indicazioni geografiche dei prodotti non agricoli (le ceramiche di Sassuolo, i
vetri di Murano). È stata avviata nel 2014 una consultazione pubblica che già nel 2015 si è conclusa con
esito favorevole, ma da allora i lavori hanno avuto uno stallo per cui, anche se il progetto è tuttora in vita,
allo stato non si è ancora avuta l’adozione di questo ulteriore regolamento sulle indicazioni geografiche dei
prodotti non agricoli. I regolamenti dell’Unione Europea già soddisfano le esigenze di tutela di tutti i prodotti
tipici italiani che sono ormai pressoché tutti registrati come DOP o IGP a livello europeo.

CODICE DELLA PROPRIETÀ INDUSTRIALE


Il codice della proprietà industriale contiene due norme specificamente dedicate alle denominazioni d’origine
e alle indicazioni geografiche, gli art. 29 e 30, che hanno una portata ormai residuale rispetto ai regolamenti
dell’Unione Europea anche perché la Corte di Giustizia nell’interpretare i regolamenti dell’Unione Europea
ha detto che i regolamenti prevalgono sulle discipline nazionali degli stati membri, ma ha anche elaborato la
teoria della natura esauriente o esaustiva dei regolamenti comunitari: se un segno rientra nella definizione di
DOP o IGP dei regolamenti dell’Unione Europea può essere protetto solo con una registrazione a livello di

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Eleonora Biffi

Unione Europea e non può beneficiare di una protezione come DOP/IGP a livello esclusivamente nazionale.
Per le DOP o IGP la Corte di Giustizia ha detto che un nome tipico di un prodotto rientrante nella definizione
di DOP e IGP e relativo ad uno dei prodotti per cui esistono i regolamenti dell’Unione Europea può essere
protetto solo con la registrazione europea; non viene lasciato spazio a forme di tutela nazionale per segni che
possono e devono essere protetti con i regolamenti dell’Unione. Da questo punto di vista si capisce come
l’art. 29 abbia una portata residuale: lo spazio per un’applicazione autonoma degli art. 29 e 30 del c.p.i. che
non sia semplicemente un ripetere la protezione che è già stata data dei regolamenti dell’Unione Europea c’è
allo stato solo per i prodotti non agricoli, per i quali non c’è ancora un regolamento dell’Unione Europea e
che quindi possono avere una protezione con le norme nozionali. In ogni caso l’art. 29 definisce in un’unica
formula denominazione d’origine e indicazione geografica, fonde i due concetti in uno solo, non prevede un
sistema di registrazione e prevede una tutela allineata a quella dei regolamenti dell’Unione stabilendo che la
protezione di una denominazione d’origine o di una indicazione geografica si ha contro qualunque condotta
di terzi che utilizzi indebitamente il segno o comunque lo richiami in modo da alternativamente ingannare il
pubblico o sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta. Anche qui vi è una tutela
avanzata (inganno del pubblico e sfruttamento indebito) e nella seconda parte della norma viene detto che
l’illecito sussiste sia quando il nome tipico viene utilizzato per un prodotto che non è quello della zona tipica
che non proviene dal territorio della zona tipica ma fa credere di provenire dalla zona tipica, sia quando il
prodotto presenta le qualità proprie dei prodotti della zona tipica oppure quando si fa credere che il prodotto
presenti queste qualità. Se noi facciamo credere che il prodotto che pure proviene dalla zona tipica presenta
le qualità del prodotto DOP e IGP, commettiamo un illecito; ciò che rileva è la conformità o meno alle regole
di produzione fissate nel relativo regolamento.

Possiamo sintetizzare la disciplina nazionale in modo allineato alla disciplina dell’Unione Europea:
– Una tutela delle DOP/IGP sia nel caso in cui si configurino situazioni di inganno del pubblico, sia nel caso
in cui l’uso dell’indicazione geografica dia luogo ad un agganciamento parassitario, ad uno sfruttamento
del valore promozionale delle DOP/IGP;
– Una tutela delle indicazioni/denominazioni non solo contro utilizzi diretti ma anche contro utilizzi indiretti
(contro qualunque mezzo che istituisca un collegamento tra il prodotto e il territorio) come l’esempio del
monumento di una certa zona, del costume tipico, della bandiera e via dicendo.

MARCHI COLLETTIVI E DI CERTIFICAZIONE


Gli articoli 11 e 11-bis prevedono due tipi particolari di marchi che si collocano tra gli articoli dei marchi, ma
che riguardano dei marchi molto particolari e diversi dai marchi di cui abbiamo precedentemente parlato. In
questi articoli il legislatore regola due categorie particolari di marchi che a loro volta esistono da che esiste
una disciplina dei segni distintivi: i marchi collettivi e i marchi di certificazione. Hanno una funzione di
garanzia qualitativa di certi requisiti nel prodotto o servizio garantiti dall’apposizione del marchio collettivo.
Pensiamo ai marchi di certificazione: ISO 9000 non indica che il prodotto che ha quel segno proviene da un
certo imprenditore, ma indica che quel prodotto ha superato un esame ed è stato certificato come un prodotto
che possiede certe caratteristiche o che si conforma a uno standard. Oltre al nome Parmigiano Reggiano DOP
è registrato un marchio del consorzio che è quello il classico logo del Parmigiano Reggiano impresso anche
sulle forme. Si tratta più propriamente di segni ad utilizzo plurimo da parte di soggetti che fabbricano o che
forniscono sul mercato prodotti o servizi conformi a certe caratteristiche garantite dalla presenza del marchio
collettivo o di certificazione. L’art. 11 dice che sono marchi collettivi quelli registrati da persone giuridiche
di diritto pubblico e soprattutto da associazioni di categoria di fabbricanti, produttori, prestatori di servizio,
commercianti. I consorzi di tutela di un prodotto tipico possono ottenere la registrazione di marchi collettivi
che hanno la facoltà di concedere in uso a produttori o commercianti. Il marchio collettivo viene registrato da
un consorzio di tutela e poi viene utilizzato collettivamente da tutti i membri di quel consorzio che svolgono
quell’attività di produzione del prodotto tipico e che possono utilizzare il marchio collettivo per mostrare la
loro appartenenza al consorzio, ma anche per mostrare al pubblico che il loro prodotto è conforme alle
specifiche del consorzio. Da questo punto di vista i marchi collettivi si affiancano molto bene alle DOP o
IGP nel senso che svolgono una funzione simile; la tutela della DOP/IGP può essere rafforzata dal consorzio
registrando un marchio collettivo che poi viene utilizzato da tutti i produttori della zona. Lo stesso concetto
di uso plurimo è quello del marchio di certificazione (caso classico è l’ISO 9000) in cui ci siano soggetti,
autorità, organismi accreditati che possono svolgere dei controlli e certificare l’origine, la natura, la qualità,
la conformità del prodotto a certi standard e che sono titolari di marchi di certificazione che chi ha passato i
controlli e ha il prodotto certificato può utilizzare. Nel primo caso (marchi collettivi) si tratta di segni di
associazioni di categoria, cioè di produttori consorziati tra loro che fanno registrare al consorzio un segno
che li identificata collettivamente e che poi ciascuno dei consorziati usa per i prodotti tipici per far vedere il
legame con il consorzio e la garanzia di autenticità del prodotto. Nel secondo caso (marchi di certificazione)
invece non c’è un consorzio di produttori, ma c’è un imprenditore che si rivolge a un ente di certificazione

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Eleonora Biffi

per vedere il suo prodotto servizio certificato e oltre a svolgere il servizio di certificazione l’ente certificatore
è titolare di un marchio che permette a chi ha superato i controlli e ha un prodotto certificato di utilizzarlo.
Chi ha superato il controllo ISO 9000 può usare il marchio di certificazione dell’ente per attestare al pubblico
il superamento dei controlli.

In entrambi i casi i marchi possono essere registrati solo se accompagnati da un regolamento che specifica
come il marchio può essere usato, a quali condizioni può essere concesso in uso e quali controlli o sanzioni
sono previsti per i casi di uso improprio del marchio perché in questi marchi viene in rilievo solo in misura
ridotta una funzione distintiva ma viene invece molto in rilievo la funzione di garanzia qualitativa; sono dei
marchi a sé stanti che non hanno la stessa funzione dei marchi individuali. Sono contenute nelle norme sui
marchi collettivi e di certificazione delle disposizioni particolari per l’eventualità che venga registrato come
marchio collettivo o di certificazione il nome geografico di provenienza di un prodotto tipico. In relazione ai
marchi individuali l’art. 13.1 vieta la registrazione di segni geografici che corrispondono alla provenienza dei
prodotti o servizi e che sono espressivi di caratteristiche dei prodotti o servizi dovute alla loro provenienza. È
il motivo per cui nessuno può registrare Parma per prosciutti, ma anche prescindendo dalla DOP comunque
un marchio individuale “Parma” per prosciutti non può esistere; viceversa esiste con la parola “Parma” il
marchio del consorzio del Prosciutto di Parma DOP con la corona ducale perché in questo caso non è un
marchio individuale ma un marchio collettivo; proprio perché svolgono una funzione di certificazione di
garanzia qualitativa analoga a quella delle IGP, i marchi collettivi di certificazione possono anche contenere
segni geografici espressivi di caratteristiche del prodotto che non potrebbero essere registrati come marchio
dal singolo imprenditore. Il legislatore ha previsto delle cautele per cui l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi
può rifiutare la registrazione se si avvede che la registrazione del marchio collettivo di certificazione può
creare situazioni di ingiustificato privilegio o recare pregiudizio alle attività nel territorio. Se ad esempio in
un consorzio ci sono cento produttori del prodotto tipico e quaranta formano un loro consorzio e cercano di
registrare un marchio collettivo che potrebbe in qualche modo intralciare l’attività degli altri, questo potrebbe
essere visto come un ingiustificato privilegio o come una situazione potenzialmente pregiudizievoli e quindi
si lascia all’ufficio la facoltà di rifiutare la registrazione. Il comma 4 dell’art. 11 stabilisce, nel testo risultante
dall’ultima modifica del febbraio 2019, la regola della porta aperta: il marchio collettivo geografico deve
essere ispirato ad un principio di apertura nei confronti di qualsiasi soggetto i cui prodotti/servizi provengano
dalla zona geografica e abbiano tutti i requisiti del regolamento (disciplinare) per poter fare uso del marchio
collettivo. Questa norma vuole evitare delle situazioni di abuso. Esempio: un consorzio di tutela nega a un
produttore della stessa zona semplicemente per una lite personale di usare il marchio collettivo; questo però è
assolutamente ingiustificato se i suoi prodotti sono autentici e conformi al regolamento o al disciplinare. La
legge stabilisce che chi fabbrica prodotti originali, tipici e autentici ha diritto di usare la DOP o IGP e ha
diritto di usare il marchio collettivo del consorzio perché non vi è motivo di una sua estromissione dalla
facoltà d’uso di questi segni. La conformità ai requisiti che abilitano all’uso del marchio collettivo si
traducono anche in un diritto positivo di fare questo utilizzo del segno. Si dice porta aperta perché il
produttore della zona tipica che si conforma al disciplinare non solo ha diritto di usare la DOP/IGP e di usare
il marchio collettivo, ma ha anche diritto di diventare membro dell’associazione di categoria titolare del
marchio e nessuno gli può rifiutare di diventare un associato del consorzio; questa è una norma di forte tutela
per tutti i produttori della zona tipica perché il produttore della zona tipica di regola ha interesse non solo a
usare il nome, ma anche a partecipare alle decisioni in seno al consorzio circa le modalità di sfruttamento del
nome, le strategie da attuare, le forme promozionali, determinate iniziative. Il produttore della zona tipica
deve anche avere la possibilità di partecipare dall’interno alla vita del consorzio e di esprimere il suo voto
sulle varie questioni (cose che può fare solo se è membro dell’associazione); dato che il consorzio per ragioni
che non si possono prevedere a priori potrebbe arbitrariamente rifiutare a un soggetto di diventare membro
del consorzio, la legge interviene dicendo che non può essergli vietato. Si dice porta aperta perché in realtà è
un consorzio con una porta aperta che nessuno può chiudere e dalla quale possono entrare a far parte della
associazione tutti i produttori che si conformino al disciplinare. La disciplina dei marchi collettivi e di
certificazione si affianca sinergicamente a quella delle DOP o IGP che è una disciplina pubblicistica, quella
dei marchi collettivi e di certificazione è più nell’alveo dei segni distintivi privati però ha una forte vocazione
alla tutela qualitativa e delle norme che garantiscono non solo un uso plurimo, ma anche un accesso all’uso
del segno da parte di soggetti interessati.

DISEGNI E MODELLI
IL QUADRO NORMATIVO
Ci occupiamo ora delle esclusive di proprietà intellettuale sui disegni e modelli. L’oggetto della protezione in
questa parte della proprietà intellettuale è il design, cioè la progettazione dell’aspetto del prodotto che può
giocare un ruolo molto importante sul versante della comunicazione tra impresa e consumatore nella misura
in cui la progettazione del prodotto è atta ad incidere sulle scelte del consumatore e, in certa misura, a

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Eleonora Biffi

veicolare determinati messaggi al pubblico. Mentre nel caso dei marchi viene in rilievo soprattutto l’aspetto
di un segno che diventa identificativo del prodotto ed espressivo del collegamento tra prodotto o servizio e
impresa di provenienza, nel caso dei disegni e modelli viene in rilievo la capacità di fare marketing con il
prodotto attraverso la progettazione attraente per i consumatori dell’aspetto esteriore del prodotto stesso. In
certi casi la stessa creazione di design può essere contemporaneamente protetta con la disciplina dei disegni e
modelli e con la disciplina dei marchi d’impresa (la forma e l’aspetto del prodotto che abbiano capacità
distintiva e che non incorrano in uno dei divieti dell’art. 9 c.p.i. possono essere oggetto di registrazione come
marchio). La forma di certi prodotti di moda è sia marchio che modello. Nella tradizionale italiana si usa
l’espressione disegni e modelli per indicare con la parola disegni le creazioni bidimensionali e con modelli
le creazioni tridimensionali. Si tratta comunque della progettazione dell’aspetto del prodotto. La disciplina di
riferimento è contenuta negli articoli da 31a 44 c.p.i. e art. 237-241 c.p.i. (norme transitorie); tra queste ce ne
sono alcune di rilievo: art. 239 (relativo ai rapporti con la tutela del diritto d’autore) e art. 241 (relativo ai
modelli che proteggono delle parti staccate di prodotti complessi). A livello di UE abbiamo la Direttiva CE
n. 98/71 alla quale l’Italia ha dato attuazione nel 2001 ed il Regolamento CE n. 6/2002 sui disegni e modelli
comunitari perché per i disegni e modelli esiste già dal 2002 la possibilità di effettuare una registrazione a
livello dell’UE, sempre presso l’Ufficio di Proprietà Intellettuale di Alicante che, come può registrare marchi
dell’UE, può anche registrare disegni e modelli dell’UE protetti con un titolo unico su tutto il territorio
dell’Unione. La Direttiva del 1998 contiene una disciplina molto diversa rispetto alla disciplina esistente in
Italia all’epoca. La disciplina esistente all’epoca era una disciplina di protezione tramite brevetto dei modelli
ornamentali, dove la ragione di protezione era data dal particolare pregio estetico o valore ornamentale del
disegno o modello. Il requisito di protezione che veniva definito allora dello “speciale ornamento” è stato
soppiantato da un’impostazione diversa che è più incentrata sull’oggetto di design non come espressione di
una creazione estetica ma in particolare come espressione di uno strumento di marketing creativo; la direttiva
considera il design come oggetto meritevole di protezione non tanto per il suo livello estetico ma per la sua
valenza di strumento di marketing capace di imporsi all’attenzione del consumatore e di orientare ancora una
volta il consumatore nelle sue scelte. L’attuazione nel 2001 in Italia della Direttiva ha comportato un totale
stravolgimento, una completa riscrittura delle norme in disciplina dei disegni e modelli.

OGGETTO DELLA PROTEZIONE


L’art. 31.1 esordisce dicendo quali sono le entità proteggibili: “Possono costituire oggetto di registrazione
come disegni e modelli l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle
caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei
materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento, a condizione che siano nuovi ed abbiano carattere
individuale”. L’oggetto della tutela è la progettazione, il modo in cui il prodotto si manifesta agli occhi di chi
entra in contatto con il prodotto in questione. La progettazione può riguardare l’intero prodotto o anche solo
una sua parte, la tutela del design può anche riguardare una singola componente di un prodotto complesso. Si
tratta di una definizione molto ampia perché permette di dare la tutela a tutto ciò che concorre a formare il
modo in cui il prodotto istituisce un contratto con chi lo osserva o lo contempla. Alla fine della definizione si
anticipano i requisiti di tutela: novità e carattere individuale.

L’art. 31.3 stabilisce che quando si tratta di un prodotto complesso dobbiamo intendere come tale un prodotto
formato da più componenti che possono essere sostituiti, consentendo il montaggio o lo smontaggio del
prodotto stesso. Classico caso è ad esempio un’automobile, dove la progettazione dell’aspetto può riguardare
l’intero veicolo o una sua singola parte (es. specchietto, portiera, cerchioni delle ruote). Si tratta di casi in cui
la tutela può riguardare anche il singolo componente che eventualmente può essere smontato e sostituito. Le
singole componenti del prodotto possono essere registrati come disegni e modelli? L’art.c35 dice che anche il
singolo componente può essere registrato in sé come design purché possieda di per sé le caratteristiche per la
protezione (novità e carattere individuale) anche se considerato da solo. In aggiunta, è anche necessario che
il componente rimanga visibile durante la normale utilizzazione del prodotto; stiamo parlando di una tutela
relativa all’aspetto del prodotto: se è così non può essere protetto un elemento che non fa parte dell’aspetto
del prodotto visibile al pubblico. L’elemento interno di un’automobile che il consumatore non vede è non
proteggibile con il design. La visibilità ci deve essere durante la normale utilizzazione del prodotto: un
elemento del motore di un automobile può essere in sé visibile quando viene aperto il cofano dell’automobile
ma non è visibile durante la normale utilizzazione del prodotto perché durante la guida il cofano è chiuso e
quindi l’elemento all’interno del cofano non si può vedere. Il caso dell’automobile è molto evidente, ma ci
sono altri casi che invece si prestano a discussioni: ad esempio, un elemento di design relativo alle cerniere
delle aste degli occhiali era configurato in modo tale che questo elemento non si vedeva quando le aste degli
occhiali erano aperte e gli occhiali erano indossati, ma si vedevano quando le stanghette venivano piegate per
riporre gli occhiali. In un caso del genere, la regola è chiara ma l’applicazione concreta può anche scontare
un certo margine di opinabilità.

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Eleonora Biffi

CASI CONCRETI
Cosa può essere protetto con il design è abbastanza chiaro. I casi concreti sono:
– Design di una automobile;
– Fanali per automobili;
– Decorazioni per porcellane;
– Disegni di tessuti;
– Elettrodomestici;
– Impianti stereo;
– Schermi per televisione o per computer;
– Tablet e smartphone;
– Design di gioielli;
– Radiatori per riscaldamento;
– Giochi da tavolo;
– Microfoni;
– Espositori per merci.
Si tratta di prodotti che coniugano un aspetto creativo ad un aspetto funzionale di impiego concreto. Gli
oggetti di design tipicamente sono oggetti che hanno un’applicazione pratica, ma che oltre a questo aspetto si
arricchiscono di una componente di design e di progettazione e in relazione a questo aspetto di progettazione
vengono tutelati attraverso una esclusiva.

TITOLARITÀ DEL DIRITTO


Il titolare del diritto è l’autore del modello o disegno o i suoi aventi causa (eventuali soggetti a cui l’autore
abbia trasferito i diritti sul disegno modello).

REQUISITI DI PROTEZIONE
– Novità;
– Carattere individuale;
– Liceità;
– Assenza di funzione tecnica.
N.B. Assenza di funzione tecnica non va intenso nel senso che il prodotto non abbia alcuna utilità, ma nel
senso che la funzione tecnica non debba essere così predominate da escludere un rilievo all’aspetto più
propriamente di design.

NOVITÀ
Novità vuol dire che il disegno o modello non deve essere identico a una certa anteriorità. Ciò che assume un
rilievo ai fini della valutazione dei requisiti di validità dei disegni e modelli è solamente ciò che è stato
divulgato: non qualsiasi disegno o modello anteriore assume rilievo, ma solo quelli che possano ritenersi
divulgati nel senso in cui la divulgazione è definita dall’art. 34 del c.p.i. Si ha divulgazione (art. 34.1)
quando un disegno modello è stato reso accessibile al pubblico (per effetto di una registrazione, esposizione,
messa in commercio) ma solo quando – oltre ad essere accessibile – l’esistenza di questo disegno o modello
potesse ragionevolmente essere conosciuta dagli ambienti specializzati del settore operanti nell’UE nel corso
della loro normale attività commerciale. Nei brevetti qualsiasi anteriorità accessibile al pubblico fa parte
dello stato della tecnica e rileva come anteriorità opponibile all’invenzione che si vuole successivamente
brevettare. Nel caso dei disegni e modelli si ha una concezione di anteriorità rilevante più circoscritta perché
non solo rileva l’accessibilità al pubblico, ma sono considerate come divulgate in senso giuridico solo le
anteriorità che ragionevolmente potevano essere conosciute dagli ambienti specializzati (operatori del settore
di quel tipo di prodotti) operanti nell’Unione Europea. L’anteriorità accessibile ma ragionevolmente non
conosciuta da un esperto del settore non assume rilievo. Esempi: un disegno o modello viene presentato al
pubblico in una boutique giapponese, viene venduto con una certa diffusione in Giappone, viene mostrato su
un sito scritto solo in giapponese (e sconosciuto al di fuori del Giappone); un disegno o modello di questo
tipo è stato reso accessibile al pubblico perché in Giappone è stato mostrato e venduto, ma non può ritenersi
ragionevolmente conosciuto ad un operatore del settore nell’UE. Allora quella anteriorità è accessibile, ma
non divulgata e quindi non rileva e non può togliere novità. Un nuovo tipo di design di un lampadario viene
creato, ne vengono realizzati solo tre esemplari che vengono tutti e tre venduti a consumatori locali di un
piccolo centro di pochi abitanti. Si è avuta un’accessibilità al pubblico in Italia, ma una cosa del genere non
può essere ragionevolmente conosciuta a livello di UE perché quella creazione di design è stata realizzata in
solo tre esemplari, venduta in tre piccole località del posto e nessuno ne ha saputo niente. Pensiamo ad una
fiera internazionale che si svolge negli USA e a cui partecipano degli operatori professionali da ogni parte

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Eleonora Biffi

del mondo; un soggetto espone e presenta il nuovo design di un apparecchio stereo alla fiera negli USA e poi
lo fabbrica e lo vende solo negli Stati Uniti. In questo caso c’è accessibilità, il design è ragionevolmente
conosciuto dagli operatori specializzati dall’UE perché, anche se questa accessibilità si è avuta al di fuori
dell’UE, si è avuta ad un evento in cui tutti gli operatori specializzati da ogni parte del mondo partecipavano.
Lo stesso avviene se il disegno viene presentato su un sito Internet di rilievo internazionale a cui tutti gli
operatori si collegano. Il concetto di divulgazione va tenuto presente in relazione a due elementi: non basta
una anteriorità di accessibilità al pubblico perché quella anteriorità tolga novità o carattere individuale al
disegno o modello; l’anteriorità deve anche essere divulgata ed è divulgata solo se, a seguito della sua
accessibilità, è ragionevolmente conosciuta agli operatori professionali dell’Unione Europea. Non conta il
livello territoriale dove l’accessibilità al pubblico si è avuta, ma conta la conoscenza dell’anteriorità. Bisogna
andare a vedere se, per le modalità con cui quel territorio quale esso sia è stato reso accessibile al pubblico,
l’accessibilità abbia determinato una conoscenza dell’anteriorità tra gli operatori professionali dell’UE. Una
volta stabilito quando un’anteriorità è accessibile e divulgata, possiamo procedere al giudizio di novità vero e
proprio. Anche qui si confronta il modello o disegno con ciascuna della anteriorità divulgate e ci si chiede se
il modello o disegno che si vuole registrare è identico ad un disegno o modello già divulgato alla data di
presentazione della domanda di registrazione o alla data di priorità. La legge precisa che se le caratteristiche
sono bensì diversi ma solo per dettagli irrilevanti, allora si ritiene l’identità comunque ci sia. Le differenze
irrilevanti non escludono una conclusione nel senso della identità. Se c’è identità rispetto anche ad una sola
anteriorità già divulgata, il disegno o modello è privo del requisito di novità e non può essere protetto.

C’è poi anche un’altra norma di favore per chi ha realizzato il disegno modello relativa alla predivulgazione.
Nei brevetti, salvo il caso particolare dell’abuso evidente, qualunque predivulgazione automaticamente toglie
la novità. Nel caso dei disegni e modelli si è ritenuto equo concedere al creatore del disegno o modello un
periodo di tempo per testare il suo prodotto sul mercato e decidere solo dopo questo test di mercato se
procedere o no alla registrazione. Dato che spesso si parla di creazioni per le quali è molto difficile prevedere
la reazione del pubblico (ci sono modelli che non hanno alcun successo neanche alla prima presentazione sul
mercato, altri durano solo una stagione, altri si accreditano e durano per tanto) e dato che queste registrazioni
hanno un determinato costo, possiamo accettare che prima di prendere delle scelte circa la registrazione, il
titolare faccia un test di mercato e valuti se vale la pena di procedere alla registrazione oppure no. Viene
concesso un periodo di grazia: si stabilisce che per un periodo di 12 mesi la predivulgazione non comporta
la perdita di novità. La legge dice che “non si considera reso accessibile al pubblico un disegno o modello
divulgato dall’autore o da un soggetto collegato all’autore nei dodici mesi precedenti la presentazione di
domanda di registrazione o nei dodici mesi precedenti la data di priorità”. Se anche il titolare del disegno lo
divulga nell’UE, si ritiene in modo fittizio che questa divulgazione non abbia comportato accessibilità (in
realtà c’è stata accessibilità ma la legge decide di neutralizzare e congelare questo aspetto) per 12 mesi e dà
al titolare la possibilità di decidere s registra o meno entro questo termine. Se il titolare alla fine dei dodici
mesi decide di non registrare, a quel punto la predivulgazione torna ad esplicare tutti i suoi effetti e il disegno
o modello non può più essere registrato ma nel frattempo il titolare ha avuto tutto il tempo necessario per fare
le sue valutazioni anche in base alla risposta del pubblico e alle prospettive di vendita del design nel tempo a
venire.

CARATTERE INDIVIDUALE
Se il disegno o modello supera lo stadio della valutazione della novità si passa a valutare se, oltre ad essere
nuovo, presenta anche il carattere individuale. Anche in tale caso la legge prevede che non basta la semplice
novità intesa come diversità o non identità rispetto al già esistente (al già divulgato) ma ci vuole qualche cosa
di più: anche se non c’è proprio identità e c’è la novità, ci vuole uno scostamento qualificato dagli anteriori
disegni o modelli già divulgati perché non si vuole dare la protezione a un qualcosa che è bensì diverso dalle
anteriorità divulgate, ma in misura così banale e minima da non meritare una protezione. Si dà la protezione
solo quando il disegno o modello abbia un aspetto peculiare che suscita una impressione di diversità rispetto
al già divulgato ed è in grado di colpire l’attenzione dell’utilizzatore, cioè di istituire un contatto privilegiato:
non si valuta più l’artisticità in sé del disegno o modello ma si valuta l’impatto percettivo sull’utilizzatore,
cioè si vede se quel disegno o modello è atto colpire l’utilizzatore perché suscita un’impressione di diversità.
La logica di fondo di questo requisito è il carattere individuale: un disegno o modello ha carattere individuale
se riesce a suscitare nell’utilizzatore informato un’impressione generale che differisce da quella generale
suscitata, nello stesso utilizzatore informato, da qualunque disegno o modello anteriormente divulgato; si
prendono in considerazione solo i disegni o modelli che possono ritenersi divulgati, ma qui ci si chiede se
rispetto all’impressione generale che l’anteriorità suscita, l’impressione del nuovo disegno o modello è tale
da dare un’impressione di diversità. Anche in tal caso la legge individua un parametro ideale di riferimento
che è il l’utilizzatore informato. L’utilizzatore informato è una figura intermedia tra l’esperto del settore ed il
consumatore medio. Vediamo i tratti differenziali: il consumatore medio è un soggetto che ha un certo grado

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Eleonora Biffi

di attenzione parametrato al prodotto/servizio nelle sue scelte d’acquisto ma non ha una conoscenza specifica
del settore. All’estremo opposto c’è l’esperto del ramo provvisto di competenze tecniche approfondite. In
mezzo a questi due estremi c’è la figura dell’utilizzatore informato: soggetto che utilizza in una propria
attività personale o professionale il tipo di prodotto del settore in cui si colloca l’oggetto di design. Egli è
informato, non tanto nel senso di una maggiore o minore attenzione, ma perché ha una particolare diligenza
intesa come una conoscenza più approfondita o comunque superiore a quella di un consumatore medio delle
forme di design presenti in un certo settore che gli permettono di cogliere differenze che sfuggirebbero ad un
consumatore medio. Pur senza essere un esperto, ha conoscenza di determinate caratteristiche, storie e forme
accreditate nel settore in precedenza. Pensiamo al caso relativo al design di un giocattolo per ragazzi; ci si è
chiesti chi è l’utilizzatore informato rispetto al design di un giocattolo per ragazzi o per persone di una certa
fascia di età: non è il designer esperto di giocattoli che ha conoscenza tecnica di come costruire e progettare i
giocattoli, non è neanche il consumatore medio acquirente di giocattoli ma senza particolari conoscenze di
quel settore; è un soggetto che utilizza questo giocattolo e che, per una sua passione personale o per ragioni
professionali, si trova spesso in contatto con questo tipo di prodotti e conosce bene i prodotti e le forme
esistenti in questo settore. Nel caso specifico la Corte di Giustizia ha detto che può trattarsi di un giocatore
appassionato di quel gioco come un ragazzo che si colloca in una certa fascia di età e che ha una particolare
passione per quel gioco, ma può anche essere un soggetto che ha sviluppato una competenza in quel settore
per ragioni professionali pur senza essere un esperto. L’esperto è il tecnico esperto della costruzione e della
progettazione di giocattoli, ma supponiamo che in una società che vende tutt’altro (es. detersivi) oppure che
faccia un concorso a premio, quel tipo di giocattolo sia offerto come gadget promozionale oppure sia uno dei
premi che si possono vincere partecipando al concorso; immaginiamo che il direttore marketing di una
catena di supermercati gestisce dei concorsi a premi e nei quali, chi effettua acquisti nei supermercati, può
vincere come premio quel giocattolo. Questo direttore marketing inevitabilmente per il tipo di attività che fa
e occupandosi spesso di questi concorsi premi finirà, per ragioni professionali, ad avere una conoscenza
approfondita delle forme di prodotti esistenti sul mercato in quel settore di giocattoli anche se la sua società
non opera nel settore dei giocattoli e lui non è un progettista di giocattoli. Rispetto a questa figura ci si deve
chiedere se un utilizzatore informato di questo tipo che ben conosce le forme esistenti in quel settore e
vedendo il design del nuovo prodotto ha un’impressione di diversità: se quel design lo colpisce perché è una
forma che si distingue da quelle che già conosceva, allora si ha carattere individuale. Il carattere individuale
è l’impressione di diversità, il colpire l’attenzione con un’impressione di diversità rispetto ad un parametro
costituito da questa figura di utilizzatore informato; è un soggetto che utilizza o comunque sfrutta per la sua
attività personale o professionale il prodotto e che si trova per ragioni professionali o per ragioni di passione
personale a conoscere molto bene le forme ed i tipi di prodotto esistenti sul mercato.

Va inoltre tenuto presente (art. 33.2 c.p.i.) che la valutazione del carattere individuale deve sempre tenere in
considerazione il margine di libertà di cui l’autore ha beneficiato nel realizzare il disegno o modello. Ci sono
dei casi in cui, per ragioni oggettive, il designer ha uno scarso spazio di manovra; il designer si trova in una
situazione oggettiva per cui non può obiettivamente discostarsi troppo dalle forme già esistenti. In questi casi
in cui il designer ha uno spazio di manovra circoscritto, la legge dice che bisogna tenerne conto: non si può
imporre al designer, che per ragioni oggettive non ha modo di fare qualcosa di particolarmente diverso dal
già divulgato, una diversità troppo marcata ma ci si deve accontentare di un grado minore di carattere
individuale. La legge stabilisce che il margine di libertà di cui l’autore ha beneficiato nel realizzare il disegno
o modello si deve considerare; se il margine di libertà era ampio perché il designer aveva possibili scelte
espressive di progettazione, ci vorrà una valutazione più rigorosa del carattere individuale e si potrà esigere
un maggior distanziamento rispetto alle forme esistenti. Se questo margine di libertà è ridotto, ci si deve
accontentare di differenze minori. In particolare, la giurisprudenza ha individuato due ipotesi di margine di
libertà ridotto:
– Settore affollato (crowded-art): settore stracolmo di disegni e modelli (es. collezioni di disegni per tessuti
e capi di abbigliamento dove in cui ogni stagione vengono create collezioni con una marea di tante disegni
diversi); non si può esigere dal designer di disegnare un tessuto completamente diverso da quelli esistenti,
ma ci si accontenterà anche di differenze piccole, purché percepibili, rispetto alle anteriorità divulgate.
– Quando ci sono aspetti e parti del prodotto imposte da ragioni funzionali. Se io devo fare il design di uno
smartphone non posso prescindere da certe esigenze funzionali (es. presa per la ricarica della batteria o
determinati punti per l’inserimento delle cuffie) perché il margine di libertà è ridotto; se io realizzo uno
smartphone pregevole dal punto di vista estetico ma che ha un schermo di un centimetro quadrato, è una
cosa che nessuno mai potrà prendere in considerazione. Se il design è una cassa stereo, i parlanti devono
avere una collocazione adeguata alla loro funzione. Ci sono elementi che obiettivamente sono vincolati e
che il designer deve fare in quel modo, non si può discostare. Sono quindi vincoli tecnici che riducono la
possibilità di espressione del designer e che giustificano una maggiore generosità nel riconoscere la
presenza di carattere individuale.

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Eleonora Biffi

LICEITÀ
Vi è poi nell’art. 33-bis la norma sulla liceità: non si può registrare un disegno o modello contrario all’ordine
pubblico o al buon costume.

ASSENZA DI FUNZIONE TECNICA


Nell’articolo 36 abbiamo il requisito dell’assenza di funzione tecnica; la formula in sé è fuorviante perché
non è pensabile che questi oggetti non abbiano una funzione tecnica, se non l’avessero non sarebbero oggetti
di design ma sarebbero creazioni astratte e non opere del design destinate ad un uso quotidiano. L’articolo
recita che “non possono essere registrate come disegno o modello le caratteristiche dell’aspetto del prodotto
che sono determinate unicamente dalla funzione tecnica del prodotto stesso”. Il senso della norma è quello di
mettere un confine tra le caratteristiche dell’aspetto del prodotto proteggibili con il disegno o modello (con la
registrazione come design) e le caratteristiche che invece sono esclusivamente funzionali e, proprio perché si
tratta di creazioni di tipo tecnico, non hanno nei disegni o modelli la loro sede appropriata di protezione;
potranno essere protette con le norme sulle creazioni di carattere tecnico e cioè le norme sui brevetti per
invenzione e le norme sui modelli di utilità (forme di brevettazione delle invenzioni o delle innovazioni
tecnicamente utili). Se ci sono caratteristiche determinate unicamente dalla funzione tecnica che sono solo
esclusivamente funzionali, non possono essere registrate come disegno o modello, ma se altre caratteristiche
dello stesso prodotto non sono determinate unicamente dalla funzione tecnica la registrabilità è ben possibile.
Ad esempio una presa di corrente sicuramente ha una parte tecnicamente necessitata dove c’è l’elemento
della presa che deve essere conformato in un certo modo per permettere l’inserimento della spina; quella è
una caratteristica dettata solo dalla funzione tecnica del prodotto. Tutto ciò che sta attorno a questo elemento
dettato esclusivamente da una funzione tecnica (progettazione della cornice e della presa di corrente) è una
sicura progettazione di design che non è dettata da una esigenza tecnica e che, pur nella utilità del prodotto,
si presta ad un margine di arbitrarietà e di libera espressione del designer che può essere protetto con la
registrazione come disegno o modello. Pensiamo ad un frullatore dove c’è la parte necessaria e funzionale
delle lame che devono essere posizionate in un certo modo; quell’elemento non è in sé proteggibile, ma
l’aspetto particolare del prodotto nel suo complesso può essere registrato come design. Si deve distinguere
tra caratteristiche determinate unicamente dalla funzione tecnica (che non sono registrabili) e caratteristiche
non determinate unicamente dalla funzione tecnica (che invece sono registrabili).

Come si interpreta il concetto del “determinato unicamente da una funzione tecnica”? Due tesi interpretative
si contendono il campo:
– La prima intende il concetto nel senso della inderogabilità: secondo questa concezione sono determinate
unicamente dalla funzione tecnica le forme che non possono essere sostituite da altre per conseguire una
certa utilità (forme necessitate). Salvo il caso limite di una forma inderogabile e non sostituibile se di
quella forma e per conseguire quella utilità sono possibili tante varianti diverse, allora la forma non è
determinata unicamente dalla funzione tecnica.
– L’altra interpretazione si sofferma maggiormente sulle ragioni della registrazione e della protezione in
esclusiva del disegno e modello; il punto non è se la forma funzionale è derogabile o inderogabile, ma se
quella forma è esclusivamente funzionale ed è quindi priva di qualunque valenza estetica e creazione di
design apprezzabile oppure no. Ciò che si deve andare a vedere è se l’elemento in questione ha anche una
espressione di creatività del designer o se è puramente e semplicemente una forma tecnica senza alcun
apporto estetico di progetto apprezzabile; se è solo una forma tecnica senza valenza estetica né valenza di
creazione di design, a prescindere dal fatto che quella forma tecnica sia derogabile e inderogabile, è solo
ed esclusivamente una forma determinata dalla funzione tecnica e come tale non può essere registrata
come disegno o modello. Questa seconda interpretazione è più severa circa la possibilità di concedere una
registrazione di disegno o modello, ma al tempo stesso è da ritenere anche più conforme allo spirito della
legge.

In sintesi, nell’applicare questo requisito, è importante ricordare i seguenti passaggi: non è una vera e propria
assenza di funzione tecnica, ma ciò che si deve valutare è se c’è un elemento determinato unicamente dalla
funzione tecnica (perché gli oggetti di design tipicamente la funzione tecnica in sé la possiedono); si deve
andare a valutare la specifica caratteristica dell’aspetto del prodotto, ma se anche per una caratteristica la
valutazione è in termini di esclusiva funzione tecnica, possono esserci altri elementi del prodotto che sono
viceversa proteggibili con il design (es. cornici delle prese di corrente); il terzo elemento da ricordare è che
cosa vuol dire “determinato unicamente dalla funzione tecnica”. Qui si deve ricordare che secondo una prima
tesi solo la forma inderogabile necessitata è determinata unicamente dalla funzione tecnica, mentre secondo
l’altra si deve ritenere determinata dalla funzione tecnica la forma che, a prescindere dall’essere derogabile o
inderogabile si esaurisce nella sua valenza tecnica senza avere alcun apporto di progetto, di design o estetico.

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Eleonora Biffi

L’articolo 36 prosegue nel secondo comma dettando una disciplina specifica per le forme di interconnessione
e per i sistemi modulari. Dopo aver dettato la regola generale, il legislatore si preoccupa di intervenire a
regolare direttamente la soluzione del problema della funzione tecnica per queste due categorie particolari di
prodotti. Si ha una regola generale che si applica in termini universali e due situazioni specifiche per cui il
legislatore è intervenuto a stabilire se per questi prodotti particolari la registrazione si può concedere o no:
– Per le forme di interconnessione la risposta è negativa: sono forme di interconnessione le caratteristiche
dell’aspetto del prodotto che devono essere riprodotte nelle loro esatte forme e dimensioni per consentire
al prodotto in cui è incorporato il disegno o modello di essere unito o connesso meccanicamente con un
altro prodotto, cioè di essere incorporato in un altro prodotto. Pensiamo all’esempio della presa di corrente
dove l’elemento della presa deve essere conformato in modo da permettere l’interconnessione con la
testina; il vano batteria di un dispositivo elettrico deve essere necessariamente conformato in modo da
poter raccogliere le pile nelle dimensioni standard delle pile che si trovano in commercio. Questo è il
concetto di interconnessione e per quest’ipotesi il legislatore stabilisce che le forme che nel prodotto in
questione servono a consentire questa interconnessione non possono essere oggetto di registrazione; una
registrazione di questo tipo rischia di conferire un monopolio troppo esteso perché si tratta di prodotti di
due mercati diversi: il mercato del dispositivo elettronico (mercato delle pile e delle prese di corrente) ed
il mercato dei dispositivi con una spina che si deve inserire nella presa di corrente. Il timore del legislatore
è questo: se si consente un’esclusiva di design su uno dei due elementi dell’interconnessione si crea un
doppio monopolio, non solo sul mercato del prodotto per cui è stato realizzazione il design ma anche sul
mercato dell’altro prodotto che deve essere necessariamente compatibile; alla fine il titolare del design si
troverebbe in condizioni da vincolare l’elemento della compatibilità a una sua registrazione in esclusiva. Il
legislatore si preoccupa di questo effetto monopolistico troppo esteso ed interviene dicendo che “la forma
di interconnessione non può essere registrata”, però solo la forma che serve a garantire l’interconnessione
mentre il resto del prodotto che non ha un vincolo di questo tipo può essere validamente registrato.
– Diverso invece è il caso dei sistemi modulari che possono essere registrati come disegno o modello se
hanno tutti i requisiti di validità; sono i disegni e modelli configurati in modo da consentire l’unione o la
connessione multipla di prodotti intercambiabili. L’esempio che tipicamente si fa è quello dei mattoncini
della Lego o le sedie da sala conferenza con i meccanismi di aggancio per cui le varie sedie si agganciano
tra loro a formare delle file; nel design di questi prodotti abbiamo un elemento relativo compatibilità e alla
intercambiabilità dei prodotti (elemento che permette ai due mattoncini di unirsi e restare bloccati o che
nelle varie sedie permette la connessione in sequenza delle sedie). Però qui non si crea un’esclusiva su due
mercati, ma si crea un’esclusiva su un mercato solo; il sistema modulare di sedie è un sistema in sé chiuso
così come la composizione dei vari mattoncini della Lego. La situazione qui è meno grave da un punto di
vista monopolistico: il designer ottiene una registrazione di disegno o modello sull’elemento della presa
che permette l’interconnessione con la spina; se il designer potesse avere un’esclusiva sull’elemento di
interconnessione, i concorrenti non potrebbero replicare quell’elemento ma dovrebbero configurare in
modo diverso la distanza tra i fori nella presa di corrente ma configurando diversamente la distanza tra i
fori, le spine standard in commercio non sarebbero più compatibili. In questo modo, chi dovesse mai aver
registrato l’elemento di interconnessione non solo esclude i concorrenti dal poter realizzare un sistema di
interconnessione identico ma estromette i concorrenti anche in relazione al fatto che i prodotti con una
spina compatibile con quella dell’interconnessione registrata non sono compatibili con i prodotti del
concorrente; il titolare dell’elemento di interconnessione si trova a poter esercitare un monopolio seppur
indiretto in relazione al mercato dei prodotti con la spina. Nel caso invece dei mattoncini Lego o delle
sedie questo problema non c’è: se anche il titolare del design ha un’esclusiva su quel sistema di unione dei
vari pezzi del sistema modulare, il concorrente resta libero di progettare dei sistemi modulari con un
sistema di unione diverso, ma non perde la possibilità di fare le sue sedie differenti con un sistema di
unione multipla delle sedie che può funzionare e avere un’appetibilità sul mercato (che non può avere la
presa di corrente che non è compatibile con la spina e anche il produttore dell’elettrodomestico deve di
necessità rivolgersi a chi offre la presa di corrente su cui il suo prodotto può funzionare). Questo è il
motivo per cui le forme di interconnessione tra prodotti diversi sono sottratte sempre alla registrabilità,
mentre i sistemi modulari con novità e carattere individuale possono essere registrati.

DURATA DELLA TUTELA


La durata della protezione di un disegno o modello registrato è di 5 anni, ma rinnovabili fino ad un massimo
di 25 anni.

AMBITO DI TUTELA
Sono disciplinati dagli articoli 41 e 42 del codice. L’art. 41.1 dice che il titolare di un disegno o modello ha il
diritto esclusivo di utilizzarlo e di vietare a terzi di utilizzarlo senza il suo consenso; nel secondo comma si
precisa che l’utilizzazione è qualunque attività commerciale (es. fabbricazione, offerta, commercializzazione,

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Eleonora Biffi

importazione, esportazione, impiego o anche la detenzione del prodotto a fini commerciali). Come per tutte
le altre privative industrialistiche ciascuna di queste attività di per sé, se tenuta senza il consenso del titolare,
costituisce contraffazione. La norma è inoltre costruita in modo speculare rispetto al requisito del carattere
individuale, l’utilizzatore informato. Per esserci tutela, il disegno o modello deve suscitare un’impressione
generale di diversità nell’utilizzatore informato; se non la suscita non ha carattere individuale e non può
essere protetto. La stessa regola viene trasposta alla valutazione dell’ambito di tutela: cosa accade se il terzo
compie una delle attività riservate al titolare su un disegno o modello che presenta delle differenze rispetto a
quello registrato? Il legislatore dice che se la soglia per avere un disegno o modello validamente registrato è
quella di una impressione di diversità, finché il disegno o modello posteriore – benché diverso – non sia così
diverso da arrivare a dare un’impressione di diversità all’utilizzatore informato rispetto al disegno o modello
registrato, c’è contraffazione. Il disegno o modello può essere protetto solo se suscita un’impressione di
diversità rispetto ai disegni modelli precedentemente divulgati, ma una volta che questo avvenga e che quel
disegno o modello sia validamente registrato, simmetricamente è protetto per il futuro non solo contro i
disegni e modelli esattamente identici ma anche contro quelli che, pur diversi, danno la stessa impressione di
quello registrato all’utilizzatore informato. È una tutela che si estende in modo simmetrico e logico ad un
ambito di tutela corrispondente ai meriti del designer nel discostarsi dalle anteriorità. Per lo stesso motivo
viene recuperata, anche nella valutazione nell’ambito di tutela, la regola del margine di libertà: se si tratta di
settore affollato con vincoli tecnici, così come il designer ha potuto avere la registrazione con un minor grado
di carattere individuale perché il suo margine di libertà era ridotto, allo stesso modo di questo si deve tener
conto nel valutare la contraffazione; si deve tener conto del fatto che anche i terzi che vengono dopo il
designer avranno un margine di libertà ridotto e simmetricamente l’estensione della protezione sarà ridotta;
così come ci si è accontentati di un carattere individuale minore, allo stesso modo l’ambito di protezione sarà
minore e i terzi, dato che ci sono un settore affollato e vincoli tecnici, potranno avvicinarsi maggiormente al
disegno o modello registrato di quanto non potrebbero fare se il margine di libertà del designer fosse invece
molto ampio.

Sono previste anche delle libere utilizzazioni: l’art. 42 prevede delle libere utilizzazioni in generale, l’art.
42.1 prevede che i diritti conferiti dalla registrazione non possono estendersi sino a vietare: atti compiuti in
ambito privato a fini non commerciali; atti compiuti a fini di pura sperimentazione; atti necessari per
citazioni o per fini didattici purché svolti in modo conforme ai principi della correttezza professionale, non
tali da pregiudicare l’utilizzo del disegno o modello e sempre con l’indicazione della fonte. Anche qui sono
previste le facoltà di libero utilizzo relativamente a mezzi di trasporto che entrino solo temporaneamente nel
territorio dello stato. Nella pratica molto più significativa è la clausola di riparazione di cui all’art. 241 del
codice che riguarda il problema dei ricambisti indipendenti; la questione si è posta perché l’attuale disciplina
dei disegni e modelli consente la registrazione come disegno e modello non solo del prodotto complesso, ma
anche di una sua componente. La registrazione del singolo elemento è tipica del settore dell’automotive (es.
copri-cerchione, mascherina frontale dell’auto, specchietto, design della portiera, ecc); sono tutti elementi
che per l’usura, per incidenti e danneggiamenti di ogni tipo possono richiedere una sostituzione con pezzi di
ricambio. Nell’UE è storicamente diffusa l’attività dei ricambisti indipendenti, cioè soggetti che fabbricano e
vendono pezzi di ricambio senza essere collegati al titolare del prodotto complesso. Se il diritto esclusivo sul
disegno o modello del componente potesse essere fatto valere dal titolare anche contro questi ricambisti
indipendenti, questi ricambisti dovrebbero sparire dal mercato e non potrebbero continuare a fabbricare i loro
prodotti perché contraffattori della registrazione sul disegno o modello. Il legislatore, se avesse dato tutela
piena alle registrazioni di design sui singoli componenti, avrebbe condannato alla estromissione dal mercato i
produttori di ricambi non originali. Alla fine il legislatore ha adottato una soluzione che si può riassumere
nella formula della clausola di riparazione: se anche c’è un design registrato sul componente di un prodotto
complesso, questo diritto esclusivo sul design non può essere fatto valere per impedire la fabbricazione e la
vendita dei componenti per riparare il prodotto complesso al fine di ripristinarne l’aspetto originario. Si deve
trattare di un’attività relativa e finalizzata alla riparazione di un prodotto complesso danneggiato “al fine di
ripristinarne l’aspetto originario”: non è possibile, con la scusa della riparazione del prodotto complesso,
procedere ad un’attività di fabbricazione di un componente che non corrisponde a quello originariamente
montato sul prodotto complesso. In sintesi, la clausola di riparazione può essere riassunta in questi termini:
riguarda esclusivamente il design sui componenti, non sull’intero prodotto complesso; è possibile per i
ricambisti indipendenti fabbricare e vendere dei componenti identici a quelli coperti da design, ma la vendita
e fabbricazione sono consentite e quindi lecite solo se servono a riparare il prodotto, soprattutto al fine di
ripristinare l’aspetto originario. La Corte di Giustizia inoltre ha detto che questa condizione è rispettata solo
se il componente di ricambio è identico al componente inizialmente incorporato nel prodotto complesso al
momento della sua immissione sul mercato (sentenza del 20 dicembre 2017 in una causa tra il ricambista
Acacia contro Audi e contro Porsche). Esempio: se il soggetto che deve riparare l’automobile vuole cambiare
un pezzo e metterne uno diverso da quello originario, il ricambista gli può vendere il pezzo corrispondente a

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Eleonora Biffi

quello inizialmente montato sulla macchina ma non gli può vendere il pezzo diverso; non si può far altro che
riprodurre l’automobile come è stata messa sul mercato senza variare il suo aspetto. Il problema emerso è il
seguente: come si valutano le situazioni in cui sul componente originale della casa automobilistica è apposto
anche il marchio del produttore della casa automobilistica? Il ricambista indipendente, quando deve sostituire
questi pezzi, può copiare e replicare solo il design o può replicare anche l’elemento marchio e quindi fare un
elemento di ricambio identico anche per la presenza del marchio? I ricambisti indipendenti facevano valere il
fatto che il pezzo di ricambio anonimo dove il pezzo di ricambio originale presenta il marchio ha una minore
attrattiva per il consumatore. Anche questa questione è stata portata all’esame della Corte di Giustizia e si è
chiesto di stabilire se la clausola di riparazione consenta di riprodurre anche il marchio e di sostenere che
ripristinare l’aspetto originario vuol dire ripristinarlo con il marchio come c’era all’inizio. La Corte di
Giustizia, in una decisione del 6 ottobre 2015 in relazione alle automobili della Ford, ha detto che la clausola
di riparazione riguarda solo il design, non i marchi, e di per sé la clausola di riparazione non consente di
replicare il marchio; la replica del marchio non è consentita in base alla clausola di riparazione. Ma poi ha
aggiunto che si dovrà comunque vedere se nella situazione concreta la riproduzione del marchio non sia
invece giustificata sulla base delle norme della disciplina dei marchi, cioè se nelle norme che regolano i
marchi si possa rinvenire una disposizione che ammette in questo caso l’utilizzo del marchio. Una prima
ipotesi che è stata fatta è quella di ricorrere alla norma dell’art. 21.1 che consente l’uso del marchio altrui per
indicare la destinazione del pezzo di ricambio ma in questo caso il marchio altrui non è usato per descrivere
la destinazione del pezzo di ricambio, è una vera e propria riproduzione del marchio come elemento
distintivo con tutte le sue caratteristiche e quindi non si tratta di un uso per indicare la destinazione del pezzo
di ricambio o comunque non è contenuto nei limiti di quanto è necessario per comunicare al pubblico questa
destinazione del pezzo di ricambio. Il risultato a cui è arrivata la dottrina è ipotizzare l’applicazione in questi
casi della regola contenuta nell’art. 20.1 lett. c c.p.i. secondo cui è consentito fare uso del marchio altrui
rinomato se ricorre un giusto motivo, cioè se la situazione concreta giustifica l’utilizzo del marchio parte del
terzo; questa dottrina si è chiesta se proprio l’esigenza dei ricambisti indipendenti di offrire sul mercato un
prodotto in tutto e per tutto identico a quello originario non possa costituire un giusto motivo di riproduzione
di uso del marchio. Secondo questa dottrina il ricambista indipendente, in relazione al pezzo di ricambio
relativo ad una parte del prodotto complesso su cui nel prodotto originario era presente il marchio, potrebbe
sia replicare l’elemento di design così com’è in base alla clausola di riparazione e in più mettere il marchio
come era presente nel prodotto originario in base all’art. 20.1 lett. c in relazione alla disciplina dei marchi.

DISEGNI E MODELLI COMUNITARI


Esiste, oltre alla possibilità di registrare disegni e modelli nazionali nei vari stati membri, la possibilità di
registrare dei disegni o modelli comunitari. In base al Regolamento già citato n. 6 del 2002 la registrazione
sovranazionale è estesa a tutto il territorio dell’UE, è una disciplina corrispondente a quella dei disegni e
modelli registrati in Italia secondo il nostro codice. Il Regolamento dell’UE prevede la tutela anche di
disegni e modelli non registrati; nel codice italiano non ci sono norme sui disegni e modelli non registrati, ma
se sussistono i requisiti previsti dal regolamento a riguardo sorge un diritto sui disegni e modelli di fatto non
registrato per tutta l’UE e anche per il territorio italiano. Un disegno o modello che possiede i requisiti per
essere registrato ma non venga registrato, viene protetto come disegno o modello comunitario non registrato
di fatto per un periodo di 3 anni decorrente dalla data in cui il disegno o modello è stato divulgato al pubblico
per la prima volta nell’UE. Se c’è stata un’accessibilità e una divulgazione al pubblico nell’UE, da quel
momento per tre anni sorge un diritto di fatto su questo disegno o modello. La norma sul periodo di grazia
dice che un disegno o modello, che presenta per il resto tutti i requisiti di validità, non perde la possibilità di
essere registrato a causa di una predivulgazione se viene divulgato e testato sul mercato per 12 mesi. Se
questo disegno e modello per il resto ha tutti i requisiti di validità, al termine dei 12 mesi il titolare può anche
decidere di non registrarlo perché gli va bene avere una tutela di soli tre anni, si accontenta di una tutela
triennale che il titolare reputa sufficiente. Il soggetto, fermo restando che sia libero di registrare subito il
design senza avvalersi del periodo di grazia, può avvalersi del periodo di grazia, divulgare il disegno o
modello, testarlo sul mercato e alla fine dei 12 mesi decidere se registrarlo o meno. In quei dodici mesi è già
protetto come disegno o modello di fatto, al termine dei dodici mesi decide se registrarlo oppure no e se non
lo registra avrà ancora 2 anni – fino a un massimo di 3 – di tutela come disegno di fatto. La tutela del disegno
o modello di fatto è più limitata: il disegno o modello registrato è tutelato comunque in ogni ipotesi in cui un
terzo metta sul mercato un disegno o modello identico o che, pur diverso, non arriva a suscitare alcuna
impressione generale di diversità nell’utilizzatore informato; questo vale anche nel caso in cui il terzo è
arrivato indipendentemente a quella creazione e semplicemente non si è accorto di aver creato un disegno
modello identico o simile a uno già registrato. La tutela del disegno o modello registrato è più forte perché si
estende in ogni caso a prescindere dal fatto che il terzo, invece di copiare, abbia per coincidenza creato per
conto proprio un disegno identico o simile. La tutela di un disegno o modello di fatto opera solo contro la
copiatura: soltanto se l’utilizzazione contestata deriva dalla copiatura c’è protezione del disegno o modello

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Eleonora Biffi

non registrato; non è considerata derivante dalla copiatura un’opera di creazione indipendente realizzata da
un autore del quale si può ragionevolmente pensare che non conoscesse il disegno o modello di fatto. È una
tutela più ristretta. Non essendoci una registrazione, nel caso di azione davanti al giudice, bisognerà anche
dimostrare tutti i presupposti di tutela (si dovrà specificare in che cosa consiste il carattere individuale e
dimostrare in giudizio l’esistenza di questo requisito). Sotto questi profili i disegni e modelli non registrati
sono più deboli: non si può provare l’esistenza del diritto con un certificato di registrazione, la tutela dura
massimo 3 anni, al di là dell’ipotesi di copiatura non c’è protezione. In particolare, le creazioni indipendenti
dei terzi – anche se identiche o simili – non sono contraffazione, mentre rispetto ad una registrazione lo sono.

TUTELA DI DIRITTO D’AUTORE DELLE OPERE DEL DISEGNO INDUSTRIALE


Nella legislazione attualmente in vigore è prevista anche una tutela di diritto d’autore delle opere del disegno
industriale. Le opere del disegno industriale sono elencate nell’attuale legge sul diritto d’autore tra le opere
proteggibili a certe condizioni. Proprio per questo tipo di opere e per questo tipo di tutela, l’attuazione della
direttiva dell’UE del 1998 ha comportato un cambiamento radicale; anche sulla disciplina del diritto d’autore
la riforma del 2001 ha inciso notevolmente. Il quadro storico è la situazione prima del D.Lgs. n. 95/2001.
Prima della riforma del 2001, l’art. 2 n. 4 della legge sul diritto d’autore dopo aver previsto la tutela di diritto
d’autore delle opere delle arti figurative (pittura, scultura, disegno, ecc), stabiliva che queste opere erano
protette anche se applicate all’industria a condizione che il loro valore artistico fosse scindibile dal carattere
industriale del prodotto. Le opere del disegno industriale (opere figurative applicate all’industria) erano in sé
astrattamente proteggibili con il diritto d’autore ma solo nel caso della scindibilità del valore artistico dal
carattere industriale. Considerando che le opere di design tipicamente hanno un carattere industriale e sono
oggetti utili, porre come requisito di tutela con il diritto d’autore la scindibilità della loro intrinseca utilità dal
loro valore artistico e creativo sembrava abbastanza difficile da ipotizzare. La legge sui modelli in vigore
prima del c.p.i. aveva stabilito che potevano costituire oggetto di brevetto per modelli e disegni ornamentali
(forme di tutela anteriore all’attuale registrazione dei disegni e modelli) i nuovi modelli atti a dare ai prodotti
industriali uno speciale ornamento; ai disegni e modelli suddetti non erano applicabili le disposizioni sui
diritti d’autore, c’era un divieto di cumulo delle protezioni. Da un lato sulla legge di diritto d’autore ci voleva
la scindibilità intesa come possibilità di apprezzare l’opera d’arte a prescindere dal suo supporto materiale
(idoneità dell’opera ad essere oggetto di un’autonoma valutazione a prescindere dal supporto materiale sul
quale essa possa essere apposta). Il risultato pratico fu che solo le opere bidimensionali avevano scindibilità.
Se pensiamo alla riproduzione di un quadro, in senso concettuale è ben possibile che si riesca ad astrarre la
creazione dal supporto materiale perché si immagina nella mente la raffigurazione separata dall’elemento
concreto; se si tratta di oggetti tridimensionali è impossibile concepire il valore artistico scindendolo dal
supporto materiale. Se la creazione di design è un divano, un lampadario o un’automobile non è possibile
immaginare il valore artistico o creativo indipendentemente dal supporto materiale; se l’elemento artistico è
il modo disegnare quel prodotto, non vi è una possibilità di scindere la creazione artistica dal supporto
materiale perché sono inscindibilmente e indissolubilmente compenetrati. Questo faceva sì che da un lato la
scindibilità per i prodotti di design tridimensionale non venisse mai o quasi mai riconosciuta, ma anche ove
mai fosse stata riconosciuta c’era una norma che diceva che i disegni e i modelli che presentavano una
valenza estetica particolarmente rilevante potevano essere protetti solo con la brevettazione come disegno e
modello e non con il diritto d’autore. La Direttiva del 1998 scrive che i disegni e modelli protetti in uno stato
membro dell’Unione Europea sono ammessi e devono poter beneficiare anche della protezione della legge
sul diritto d’autore: ciascuno stato determina poi l’estensione della protezione e le condizioni. La Direttiva
del ‘98 ha detto che il legislatore italiano deve ammettere la tutela di diritto d’autore delle opere del design.

Il legislatore italiano nel 2001 ha eliminato il n. 4 dell’art. 2 in riferimento alle opere d’arte applicate alla
industria; ha cancellato il requisito della scindibilità; ha inserito nell’art. 2 il n. 10 che è la norma attualmente
in vigore secondo cui sono protette con il diritto d’autore le opere del disegno industriale che presentino di
per sé carattere creativo e valore artistico; ha cancellato la categoria dei brevetti per modello ornamentale e
ha inserito quella dei disegni e modelli subordinando nella protezione alla novità il carattere individuale
senza più richiedere lo speciale ornamento; ha eliminato il divieto di cumulo di protezione tra disegni e
modelli e diritto d’autore, per cui adesso un’opera può essere protetta cumulativamente e simultaneamente
sia con la registrazione come disegno/modello e sia come opera dell’ingegno protetta con il diritto d’autore.
La disciplina dei disegni e modelli del c.p.i. è stata impostata sul carattere individuale, cioè di capacità della
forma di attirare l’attenzione e sono state tolte queste considerazioni di carattere estetico nella disciplina dei
disegni e modelli; questi requisiti di carattere estetico sono stati inseriti nella legge sul diritto d’autore dove
emerge la tutela dell’opera dell’ingegno che abbia carattere di artisticità, si è eliminato il vecchio requisito
della scindibilità e si eliminato il divieto di cumulo. Il quadro attuale ha due discipline parallele: quella dei
disegni e modelli che tutela il design soprattutto nel suo valore di marketing e quella di diritto d’autore che
tutela il design nel suo valore di un’opera d’arte e dell’ingegno.

145
Eleonora Biffi

L’art. 17 della Direttiva stabilisce che le condizioni della tutela sono determinate dal legislatore nazionale.
Ha rimesso al legislatore nazionale lo stabilire a quali condizioni l’opera del design può essere protetta con il
diritto d’autore; il legislatore è obbligato a prevedere una tutela di diritto d’autore per il design, ma è libero
di determinare le condizioni di accesso a questa tutela. Da quel punto di vista non c’era stata armonizzazione
piena a livello di Unione ed è questo il motivo per cui il legislatore italiano ha scelto la strada di una soglia di
tutela abbastanza impegnativa per il diritto d’autore.

REQUISITI DI PROTEZIONE
Questa è l’unica categoria di opera dell’ingegno per cui non basta il requisito di carattere creativo, ma ci
vuole anche il requisito aggiuntivo del valore artistico. Mentre per tutte le altre opere dell’ingegno basta il
carattere creativo, qui il carattere creativo non basta ma l’opera deve presentare di per sé valore artistico. La
legge italiana ha imposto il requisito del valore artistico letto da tutti come una volontà del legislatore di
subordinare la tutela del diritto d’autore a requisiti piuttosto severi, riservando la tutela solo ad una fascia alta
di design particolarmente meritevole dal punto di vista del pregio artistico. Questa disposizione sul valore
artistico tuttavia si è rivelata di difficilissima applicazione perché valutare che cosa è arte e cosa no, cosa ha
valore artistico e cosa no è una cosa in cui i margini di discrezionalità, di opinioni influenzate anche da
posizioni ideologiche sono molto elevati. La stessa opera mostrata a dieci persone diverse probabilmente
darà vita a dieci giudizi diversi. Quando si tratta di dare applicazione ad un requisito soggettivo, incerto e
discrezionale, l’unica cosa che si può fare per ridurre il margine di discrezionalità e non rassegnarsi a un
giudizio basato sul “secondo me è così” è quello di cercare di individuare dei criteri il più possibile oggettivi
da cui desumere la sussistenza del requisito di cui è difficile l’accertamento per il margine di discrezionalità
insito in quel requisito. Dal 2001 in avanti le posizioni espresse sul concetto di valore artistico che hanno
avuto nel tempo un maggior accoglimento in giurisprudenza sono state molto numerose:
– Si ha un valore artistico in caso di prevalenza dell’aspetto estetico su quello funzionale; possibilità di
apprezzamento delle caratteristiche estetiche del prodotto indipendentemente da altre caratteristiche;
– Il valore artistico si identifica con un elevato gradiente di creatività e originalità;
– Si ha valore artistico in caso di idoneità dell’opera a circolare e ad avere un valore anche nel mercato degli
oggetti d’arte;
– Per stabilire se vi è valore artistico si deve considerare l’intenzione soggettiva dell’autore e la destinazione
che l’autore voleva dare all’opera;
– La valutazione del carattere artistico si può basare sulla storia dell’opera successiva alla sua creazione e ai
riconoscimenti che essa ha ricevuto (es. opinioni formatesi negli ambienti culturali, premi, recensioni,
esposizione in mostre o musei, considerazione dell’opera come espressione di un movimento artistico).

Alcune di queste nel frattempo sono state in grande parte abbandonate e superate. Il requisito dell’elevato
gradiente non introduce un margine di certezza superiore, così come il criterio dell’intenzione soggettiva
dell’autore; capire quale fosse a posteriori l’intenzione soggettiva dell’autore è un compito obiettivamente
improbo, siamo nell’ambito di una valutazione troppo discrezionale e soggettiva. I criteri che invece hanno
preso maggiormente piede sono il terzo e il quinto della lista che effettivamente si basano su un elemento
oggettivo, più facilmente verificabile e documentabile: il caso in cui l’opera circoli, abbia un valore e sia
venduta anche nel mercato dei collezionisti. Se una certa creazione di design non viene solo venduta per un
utilizzo quotidiano, ma a un certo punto comincia ad essere apprezzata come un oggetto d’arte perché viene
venduta sui mercati delle opere d’arte, questo è un indizio che depone a favore del valore artistico dell’opera.
Oggi il criterio più utilizzato è quello della storia dell’opera successivamente alla creazione: il giudizio è
sempre relativo al momento della creazione, ma le reazioni che questa opera ha suscitato possono essere
indicative della presenza in essa di valore artistico (es. opinioni di ambienti culturali, critici d’arte che hanno
valutato l’opera come una vera e propria opera d’arte, premi ricevuti, recensioni, l’esposizione in mostra o
musei, il fatto che l’opera venga considerata come espressione di un certo movimento artistico, determinati
riconoscimenti, ecc). Il requisito, pur restando molto opinabile, dà una maggior certezza. È una situazione
che potrebbe cambiare a seguito di una sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 12
settembre 2019 nel caso Cofemel che è in questi mesi diventato uno dei casi più citati e discussi nella materia
della proprietà intellettuale. Il caso era stato sottoposto alla Corte da un giudice portoghese e riguardava la
possibilità di riconoscere un valore artistico a modelli di jeans con un certo design, più precisamente era stato
chiesto alla Corte a quali condizioni si potesse subordinare la tutela di diritto d’autore di design di questo
tipo (jeans e capi di abbigliamento). L’elemento di interesse anche per l’Italia di questa vicenda deriva dal
fatto che anche il Portogallo ha nella sua legislazione una norma pressoché identica a quella italiana che
subordina alla presenza di valore artistico la tutela del design industriale; in Italia si guardava con molto
interesse a questa decisione perché se la Corte di Giustizia avesse detto che il requisito del valore artistico è
incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, questo avrebbe avuto delle ripercussioni anche sulla nostra
legislazione. La soluzione data al caso dalla Corte di Giustizia non ha risolto tutti i dubbi: inun certo punto

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Eleonora Biffi

della decisione la Corte dice che per aversi tutela di diritto d’autore è necessario, ma al tempo stesso è
sufficiente, che l’opera creata sia una creazione intellettuale del suo autore e che vi siano elementi espressivi
di tale creazione in cui si estrinseca e manifesta la forma espressiva dell’opera proteggibile con il diritto
d’autore. Basta che ci sia un’opera dotata di carattere creativo estrinsecata in una forma compiutamente
espressa. Non ha detto espressamente che il requisito del valore artistico è in contrasto con il diritto dell’UE,
però al tempo stesso ha anche detto che per la tutela del Diritto d’autore è sufficiente che ci siano questi
elementi e questo ha fatto sì che parte della dottrina in Italia sia giunta alla conclusione che la sentenza della
Corte di Giustizia debba essere letta nel senso che il diritto d’autore, anche per quanto riguarda i disegni e
modelli (opere di design) può essere subordinato solo ed esclusivamente alla presenza di un carattere
creativo estrinsecato in elementi espressivi, mentre non è possibile richiedere il requisito aggiuntivo del
valore artistico. Nella Direttiva del ‘98 si diceva che gli stati membri erano liberi di individuare le condizioni
di tutela del diritto d’autore e del design, ma dal ‘98 in avanti sono state emanate altre direttive ed una
evoluzione della giurisprudenza per cui a distanza di ventidue anni dalla direttiva del 1998, oggi si deve
ritenere che il margine di discrezionalità del legislatore nazionale non possa spingersi fino al punto di
imporre la presenza di un valore artistico. Gli sviluppi futuri del nostro Paese dovrebbero essere nel senso di
eliminare il requisito aggiuntivo del valore artistico e di prevedere che i disegni e modelli siano tutelabili con
il diritto d’autore quando semplicemente siano dotati di carattere creativo. Questo amplierebbe notevolmente
il numero dei disegni e modelli proteggibili con il diritto d’autore. Non c’è ancora una soluzione prevalente
in un senso o nell’altro. Al momento ragioniamo sulla base di una legge in cui il requisito del valore artistico
è presente ed è richiesto e teniamo in considerazione che i criteri per valutare la presenza di questo requisito
del valore artistico sono quelli che sono stati visti.

CASI CONCRETI
– Poltrone e chaise longue di Le Corbusier. Il Tribunale di Firenze e quello di Milano hanno riconosciuto la
tutela di diritto d’autore però con motivazioni diverse: il Tribunale di Firenze ha messo più l’accento sulla
destinazione ad una riproduzione non necessariamente su scala industriale mentre il tribunale di Milano si
è basato invece sul criterio prevalente (il riconoscimento da numerosi musei e istituzioni culturali che
hanno visto in queste opere alcune tra le espressioni più rilevanti delle concezioni progettuali del design e
una durata stabile nel tempo del riconoscimento di queste opere come opere d’arte). Nel 2011 e 2002 lo
stesso Tribunale di Firenze e quello di Monza avevano escluso la tutela del diritto d’autore, ma oggi più
nessuno nega il valore artistico solo per il fatto che l’oggetto di design è riproducibile in modo seriale su
larga scala. Adottare il principio del Tribunale di Monza significherebbe non tutelare mai con il diritto
d’autore il design.
– Panton Chair di Verner Panton: il Tribunale di Milano l’ha riconosciuta proteggibile con il diritto d’autore
con riferimento alla storia successiva. È un’opera che si è consolidata nella collettività e negli ambienti
culturali che l’hanno riconosciuta un’icona tipica della Pop Art. Altri indici di tutelabilità sono la presenza
nelle collezioni di musei di arte contemporanea; l’espressione di concezioni artistiche; il successo della
stessa negli ambienti culturali. C’è riconoscimento dell’opera come espressione di un movimento artistico
e l’inclusione dell’opera nelle collezioni museali, indice di appartenenza dell’opera al novero delle opere
d’arte.
– Celebre lampada ad Arco dei fratelli Castiglioni: opera che il Tribunale di Milano reputa proteggibile con
il diritto d’autore valutando il riconoscimento stabile come opera d’arte di questa creazione negli ambienti
culturali.
– Lampada di Wilhelm Wagenfeld ritenuta protetta con il diritto d’autore e valorizzando questi elementi:
espressione del movimento artistico Bauhaus; peculiarità della forma della struttura; riproduzione in un
francobollo dedicato agli esempi più significativi del design tedesco. C’è un riconoscimento come opera
d’arte addirittura in un’emissione ufficiale e celebrativa di francobolli.

PROBLEMI DI DIRITTO TRANSITORIO


Per il design, dal momento che è cambiato tutto con l’attuazione della direttiva, si sono posti dei problemi di
passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina molto rilevanti (come sempre avviene quando una legge viene
totalmente cambiata). In questo caso particolare disciplinato in Italia dall’arti. 239 del c.p.i. il dubbio era il
seguente: se un’opera di design ha carattere creativo e valore artistico in sé, ma quest’opera era stata creata
prima del 2001 e al momento della riforma del 2001 era in pubblico dominio (perché prima della legge del
2001 non c’era una tutela del diritto d’autore), cos’avviene dopo il 2001? Continua a rimanere in pubblico
dominio oppure sorge a quel punto un diritto d’autore e quindi nasce un’esclusiva fino al termine naturale dei
settant’anni a decorrere dalla morte dell’autore? Il problema era aggravato dal fatto che in Italia, proprio
perché non c’era un diritto d’autore prima della riforma del 2001, vi erano molti produttori di prodotti copia
corrispondenti a classici del design per i quali non c’era o era scaduta la protezione come brevetto per il
modello ornamentale e la legge non consentiva una tutela come diritto d’autore. Il tema è stato ampiamente

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Eleonora Biffi

discusso, alla fine è stato rimesso dai giudici italiani alla Corte di Giustizia alla quale si è chiesto di fare
chiarezza su questo punto. La Corte di Giustizia ha deciso il 27 gennaio 2011 nel caso Flos che la tutela del
diritto d’autore deve riguardare tutti i disegni e modelli che hanno i requisiti per essere protetti con il diritto
d’autore, anche se al momento dell’entrata in vigore della riforma quei disegni erano o erano già divenuti di
pubblico dominio. La riforma fa sorgere un diritto d’autore non solo sulle opere create dopo, ma anche sulle
opere create prima benché esse fossero già in pubblico dominio. Cosa avviene alle imprese che fabbricavano
dei prodotti copia legittimamente perché non c’era prima della riforma la tutela di diritto d’autore? Il
legislatore può concedere loro un periodo transitorio per adeguarsi al mutamento legislativo e per adeguare le
loro attività economiche al fatto che quell’attività prima consentita ora non lo è più. La Corte di Giustizia
aggiunge che, nel concedere questo periodo di tempo per adeguarsi alla nuova situazione, si deve anche
prendere in considerazione l’interesse del titolare del diritto d’autore sorto con la riforma e quindi il periodo
di tempo non deve essere eccessivamente lungo ma equilibrato. L’art. 239 è stato più volte modificato, alla
fine la Corte aveva indicato che un periodo di 10 anni doveva ritenersi eccessivo e che il periodo equilibrato
potesse circoscriversi a 5 anni, nell’ultima modifica il periodo è stato alzato a 13 anni, ma poi i giudici lo
hanno disapplicato per contrasto con il diritto dell’Unione Europea. La Corte di Giustizia ha detto che anche
le opere storiche in pubblico dominio al momento dell’entrata in vigore della riforma, con la riforma iniziano
ad essere protette con il diritto d’autore e restano protette fino alla scadenza naturale dei settant’anni a
decorrere dalla morte dell’autore.

CONCORRENZA SLEALE
Disciplina volta a reprimere gli atti di concorrenza sleale. Qui ci poniamo su un versante diverso da quello
dei diritti di proprietà industriale ed intellettuale dei diritti esclusivi sinora esaminati. La disciplina della
concorrenza sleale è strettamente connessa alle privative industrialistiche e alla proprietà intellettuale in
genere, ma si colloca su un versante diverso: regole di comportamento che gli imprenditori devono osservare
nella gara concorrenziale. Si tratta di un materia che è strettamente connessa alla disciplina della proprietà
industriale, tanto è vero che nella Convenzione di Unione di Parigi del 1883 c’è un articolo (art. 10-bis) che è
specificamente dedicato agli atti di concorrenza sleale che vengono richiamati e regolati all’interno della
disciplina della proprietà industriale. Il punto di partenza di questa disciplina è un dato di comune esperienza:
in un sistema di libero mercato, quale è quello a cui si ispirano tendenzialmente quasi tutti gli stati moderni, è
fisiologico che ci sia una competizione molto accesa tra i vari operatori del settore che si contengono la
clientela e le quote di mercato. In una gara concorrenziale è assolutamente fisiologico che l’imprenditore più
efficiente riesca a prevalere e addirittura ad estromettere dal mercato l’imprenditore meno efficiente. Questa
regola va anche a soddisfare l’interesse del consumatore a poter trovare sul mercato un’offerta di prodotti e
servizi sempre migliore e anche più conveniente nel rapporto tra prodotti/servizi offerti e costo dei medesimi.
Tuttavia, da quando si sono affermati sistemi di libero mercato ispirati a principi di libera competizione, si
sono sempre avvertiti anche i rischi di una competizione senza regole connessi all’eventualità che uno degli
operatori del mercato non si comporti lealmente e correttamente nella gara concorrenziale e miri ad acquisire
la clientela con mosse scorrette. Il punto di partenza è quello di una gara concorrenziale necessariamente
ispirata a regole di fair play. Se l’acquisizione della clientela si ottiene tramite mosse scorrette, ciò non è la
conseguenza di un fisiologico risultato del legame concorrenziale ma è frutto di un’attività illecita. Concetto
di fondo è quello di una concorrenza sui meriti effettivi. La legge interviene fissando regole comportamentali
che devono assicurare che i rapporti tra imprenditori che competono sul mercato siano sempre ispirati a delle
regole di correttezza. Al tempo stesso questa legislazione interviene prevedendo che, ove così non sia, quelle
attività devono essere censurate come atti di concorrenza sleale e devo essere sanzionate.

QUADRO NORMATIVO
La norma base in tema di concorrenza sleale si trova nel Codice Civile. Nel Codice Civile sono quattro gli
articoli dedicati alla concorrenza sleale: dall’art. 2598 all’art. 2601.
– L’art. 2598 è la norma sostanziale e fondamentale. È la norma che in sé riassume ed individua tutte le
ipotesi di concorrenza sleale. La tecnica legislativa è di individuare una serie di condotte che il legislatore
predetermina essere condotte concorrenzialmente sleali.
– L’articolo 2599 e l’art. 2600 prevedono le sanzioni per gli atti di concorrenza sleale: inibitoria (divieto di
continuare l’attività illecita); l’ordine con cui il giudice dispone misure idonee ad eliminare gli effetti
dell’atto sleale (sanzione aperta, il giudice modula in base al caso concreto la sanzione che ritiene di dover
irrogare); il risarcimento dei danni provocati; la pubblicazione della sentenza con cui il giudice accerta il
compimento di atti di concorrenza sleale in modo che il pubblico sappia che è stato commesso un atto di
concorrenza sleale e venga anche a sapere chi l’ha commesso.
– L’art. 2601 è una norma relativa alla facoltà delle associazioni professionali di categoria di agire anch’esse
con una causa di concorrenza sleale quando si tratta di atti sleali che danneggiano nel suo complesso la
categoria protetta da quell’associazione (per cui non solo i singoli imprenditori della categoria, ma anche

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Eleonora Biffi

l’associazione di categoria in sé e per sé può agire in giudizio contro gli atti di concorrenza sleale che
danneggino complessivamente i suoi associati. Tipico esempio è la denigrazione di una materia prima; un
soggetto che vende recipienti in plastica e denigra pesantemente i produttori di recipienti fatti con un altro
materiale dicendo che quel materiale è pessimo e di bassissima qualità compie un atto che danneggia non
solo il singolo imprenditore ma tutta la categoria di produttori di recipienti fatti con quel materiale e la
loro associazione di categoria potrà anche reagire prendendo tutte le difese dei suoi associati).

ART. 2598 CODICE CIVILE


La norma è strutturata con un incipit iniziale. La tutela contro gli atti di concorrenza sleale non è alternativa
o sostitutiva rispetto a quella delle privative di diritto industriale, ma è aggiuntiva e si può cumulare. Ove la
contraffazione di un marchio o brevetto costituisca anche un atto di concorrenza sleale, rientranti in questa
previsione, ci potrà essere essere una doppia qualifica di illiceità. Ferme le disposizioni che concernono la
tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:
1. Usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente
usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti
idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente. È la categoria degli atti idonei
a produrre confusione (rischio di confusione sull’origine imprenditoriale dei prodotti o dei servizi).
2. Diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il
discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. Contempla due atti che
sono diversi tra loro: atto di chi denigra i prodotti o l’attività del concorrente e appropriazione di pregi
che consiste nell’auto-attribuirsi dei pregi, delle caratteristiche positive che sono proprie del concorrente.
La denigrazione è simile al pregiudizio all’immagine dell’imprenditore, l’appropriazione dei pregi è
concettualmente simile all’agganciamento parassitario. Nel primo caso si danneggia l’immagine altrui,
mentre nel secondo caso si trae vantaggio parassitariamente dall’immagine altrui e dalla sua notorietà per
accreditarsi più facilmente sul mercato. Entrambe vengono commesse nello stesso modo: con un atto di
comunicazione. Nel caso della denigrazione comunico al consumatore delle notizie screditanti sul mio
concorrente, mentre nel caso dell’appropriazione di pregi comunico al consumatore delle notizie che mi
agganciano al mio concorrente noto e che attirano il consumatore ai miei prodotti o servizi perché ho
comunicato qualcosa che ha loro ricordato il concorrente più noto. L’insieme di questa categoria nel suo
complesso fa quindi fa riferimento agli atti illeciti di concorrenza sleale per comunicazione.
3. Si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza
professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. È una norma di chiusura in cui il legislatore dice
che in aggiunta ai casi di concorrenza sleale e in aggiunta agli illeciti di comunicazione, è inoltre vietato
compiere qualunque altro atto che non sia conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda. Si tratta di una norma aperta nel senso che il legislatore, non potendo
ipotizzare tutte le possibile forme di slealtà concorrenziale, ha lasciato libertà (ha fissato i criteri generali
ma per il resto ha rimesso l’applicazione della norma al giudice, cioè ha affidato al giudice il compito di
giudicare i singoli casi). Nel corso del tempo i giudici hanno riempito di contenuto questo terzo punto,
individuando una serie di condotte ed ipotesi che sono scorrette e costituiscono atti di concorrenza sleale.
Ormai l’elaborazione giurisprudenziale in tema di concorrenza sleale è ampia e consolidata nel tempo.

PRESUPPOSTI
L’applicazione della disciplina della concorrenza sleale ha dei presupposti generali di applicazione:
– Rapporto di concorrenza: si tratta di un presupposto di applicazione che deriva dal fatto che, essendo una
disciplina delle condotte di imprenditori tra loro in concorrenza, presuppone che via sia un rapporto di
concorrenza tra i due soggetti (autore dell’atto scorretto e vittima dell’atto scorretto). La giurisprudenza
definisce il rapporto di concorrenza come il rapporto che sussiste quando due soggetti offrono sullo stesso
mercato beni o servizi idonei a soddisfare, anche in via succedanea, gli stessi bisogni o bisogni simili. Lo
“stesso mercato” va intenso in una duplice prospettiva: merceologica e territoriale.
– Profilo merceologico: dal punto di vista merceologico bisogna vedere se i prodotti o i servizi offerti sul
mercato dai due imprenditori sono tra loro fungibili o se si collocano nell’alveo del soddisfare un certo
bisogno omogeneo del consumatore. Se due imprenditori fabbricano e vendono capi di abbigliamento,
sotto il profilo merceologico c’è piena identità. Se un imprenditore fabbrica magliette e l’altro camicie,
ugualmente si può parlare di un rapporto di concorrenza. Molto dipende dal settore in cui ci si trova: ci
sono settori in cui la produzione degli imprenditori è più diversificata e i confini sono più ampi. Alla fine,
in materia di concorrenza sleale, ciò che la giurisprudenza tende a guardare è se i due prodotti o servizi
offerti dagli imprenditori in conflitto possono essere utilizzati in modo intercambiabile dai consumatori. Il
consumatore, a seconda delle proprie esigenze, indosserà una camicia o una maglietta. Sono dello stesso
profilo merceologico delle biciclette e delle automobili? Il bisogno è sempre lo stesso (spostarsi), però non
c’è una vera e propria intercambiabilità in termini assoluti: se bisogna spostarsi in città possono essere

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Eleonora Biffi

sostituibili, ma se si deve fare un viaggio più lungo di fatto non c’è questa alternativa. Sotto tale profilo, la
valutazione si fa andando a vedere se i prodotti sono intercambiabili.
– Profilo territoriale: il rapporto di concorrenza sussiste nel territorio se gli imprenditori in conflitto sono
attivi nello stesso territorio, ma ciò che rileva è anche la notorietà dell’attività d’impresa. Da un punto di
vista territoriale si deve più propriamente considerare non solo l’area dove strettamente l’imprenditore
opera ma anche quella dove l’imprenditore è conosciuto. Esempio: se un soggetto imprenditore opera solo
in Piemonte e un altro opera solo in Lombardia e immaginiamo che operino solo in province abbastanza di
confine (in Piemonte nelle province di Novara e Alessandria e in Lombardia nelle province di Milano e
Pavia); il primo non viene a vendere in Lombardia e il secondo non va a vendere in Piemonte, però è ben
verosimile che il primo imprenditore sia comunque conosciuto oltre i confini regionali dai consumatori
che sono in Lombardia e viceversa. Se il primo imprenditore denigra pesantemente il secondo o viceversa,
da un punto di vista territoriale c’è una sovrapposizione delle aree in cui gli imprenditori sono conosciuti e
dove si può verificare un danno da atto concorrenzialmente sleale a carico dei soggetti coinvolti. Bisogna
valutare entrambi i profili: c’è rapporto di concorrenza quando sia sotto il profilo merceologico sia sotto il
profilo territoriale c’è un margine di sovrapposizione nell’area di notorietà dell’impresa e nell’area dei
prodotti o servizi da esse trattati.
– Concorrenza potenziale: il rapporto di concorrenza potenziale si ha quando due imprenditori non sono
attualmente in concorrenza sullo steso mercato ma è da ritenere che lo saranno nell’immediato futuro. Non
vuol dire astratta possibilità che un giorno due imprenditori si trovino in concorrenza perché questo è un
criterio assolutamente incerto e inapplicabile, ma si vuole dire che se già allo stato attuale ci sono elementi
concreti che fanno capire che è imminente il sorgere di un rapporto di concorrenza tra i due imprenditori,
si può ritenere già ora applicabile la disciplina della concorrenza potenziale al fine di giocare d’anticipo.
Se ad esempio un soggetto non è ancora attivo in una certa area o non ha ancora esteso la produzione a
certi prodotti ma ha già effettuato tutti i preparativi per operare questa estensione e sta mettendo a punto
gli ultimi dettagli, si ha un rapporto di concorrenza potenziale perché è pressoché certo che da lì a poco il
soggetta estenderà la sua attività.

SOGGETTI
Dal punto di vista soggettivo questa è una disciplina che guarda gli imprenditori o i soggetti che svolgono ed
esercitano un’attività economica sul mercato. Nel caso della sovrapposizione merceologica e territoriale il
rapporto di concorrenza sussiste anche tra soggetti che si collocano a livelli economici diversi della filiera
produttiva e distributiva per cui la concorrenza non è solo in orizzontale, ma anche in verticale. È possibile
che gli atti di concorrenza sleale vengano in qualche modo celati, facendo apparire un prestanome dietro il
quale si cela il vero imprenditore interessati. Anche in tale caso vi è un rapporto di concorrenza nel momento
in cui questo inganno viene svelato. Esiste un rapporto di concorrenza anche quando non è direttamente il
concorrente a tenere una certa condotta ma la tiene un terzo nel suo interesse; in questo caso ci può essere
anche una responsabilità del terzo per aver concorso nell’atto sleale del concorrente. È un caso che si verifica
con una certa frequenza negli atti di concorrenza sleale per “storno di dipendenti” oppure per “sottrazione di
segreti” dove molto spesso a compiere l’attività illecita è il dipendente infedele che, prima di lasciare il
vecchio datore di lavoro per passare alle dipendenze del nuovo, organizza dall’interno una manovra di storno
e sottrae tutti i segreti aziendali del primo imprenditore. È un’attività che è stata compiuta nell’esclusivo
interesse del concorrente che poi se ne è avvantaggiato. In questo caso il concorrente risponde dell’atto di
concorrenza sleale di storno e sottrazione di segreti perché tutte queste attività sono state svolte nel suo
interesse e lui ne ha tratto beneficio ma siccome per arrivare a questo risultato sleale finale è stata decisiva
anche l’attività dell’ex dipendente, anche l’ex dipendente che pure non è un proprio imprenditore risponderà
di concorrenza sleale e sarò soggetto alle sanzioni di concorrenza sleale in concorso con il suo nuovo datore
di lavoro. La disciplina della concorrenza sleale è applicabile non solo a chi sia imprenditore in senso stretto,
ma in generale a chi svolga un’attività economica (liberi professionisti ed enti pubblici quando svolgono una
attività economica operando con contratti e con le categorie tipiche del diritto privato) e possono promuovere
l’azione di concorrenza sleale anche le associazioni professionali rappresentative di una categoria.

CONCORRENZA SLEALE CONFUSORIA


Esaminiamo ora le condotte che, se tenute da soggetti in concorrenza tra loro, integrano gli estremi di un atto
di concorrenza sleale. La concorrenza sleale confusoria è la prima ipotesi (n. 1 art. 2598). Complessivamente
l’articolo contempla tre ipotesi:
– Uso di segni distintivi idonei a produrre confusione con segni distintivi legittimamente usati da altri. È una
ipotesi pienamente corrispondente al rischio di confusione sulla provenienza del prodotto/servizio visto
nei marchi. Tutti i segni distintivi tipici sono tutelati e la confusione creata non è solo una violazione del
diritto di proprietà industriale, ma è anche atto di concorrenza sleale confusoria. La norma fa riferimento a
una effettiva confusione sul mercato. Qualunque segno distintivo per essere protetto e per beneficiare della

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Eleonora Biffi

tutela contro la concorrenza sleale confusoria deve avere tutti i requisiti di validità: novità, liceità, capacità
distintiva. Emergono delle differenze rispetto alla tutela dei marchi registrati: per i marchi registrati la
protezione sorge con la registrazione prima ancora che il segno venga usato e la tutela fino a cinque anni
dalla registrazione rimane in vigore prima che il marchio eventualmente decada per non uso; nel caso di
concorrenza sleale confusoria vi può essere tutela solo se c’è un rischio di confusione concreto ed effettivo
sul mercato. Se un marchio è già registrato ma non ancora usato, l’uso di un segno identico o simile per
prodotti identici o simili da parte di un terzo non provoca una confusione sul mercato perché il primo
marchio non è ancora noto, nonostante è uno dei privilegi della registrazione: il titolare del marchio già
registrato potrà comunque fare causa di contraffazione e far bloccare l’uso del segno posteriore. Il giudice
in questo caso, non essendo il segno anteriore ancora usato, farà una valutazione ipotetica: si chiederà se il
segno posteriore rispetto al marchio anteriore registrato ma non ancora usato sia, in un giudizio ipotetico,
tale da poter dar vita a un rischio di confusione. Se la risposta è affermativa c’è contraffazione del marchio
registrato non ancora usato. Nel caso della concorrenza sleale confusoria, la confusione ci deve già essere
in concreto e quindi ci può essere solo se il segno anteriore è già stato usato ed è di conseguenza già noto
al consumatore come segno distintivo. Solo i segni che hanno già una notorietà qualificata sul mercato
possono essere tutelati anche con l’azione di concorrenza sleale, se invece la notorietà qualificata non c’è
(es. marchio registrato ma non ancora usato) l’uso del segno del terzo darà vita ad una contraffazione di
marchio ma non alla concorrenza sleale confusoria perché non c’è in concreto un problema di confusione
già in atto presso i consumatori. Nel caso concreto alcune considerazioni ulteriori si possono fare, ma
livello generale questa è la regola. Anche dal punto di vista di ampiezza merceologica e territoriale della
tutela si deve far riferimento alla notorietà qualificata, la sfera di protezione è l’area geografica in cui il
segno anteriore gode di notorietà qualificata.
– Imitazione servile dei prodotti: vi deve essere un rischio di confusione sull’origine del prodotto o servizio.
L’imitazione servile ha parallelo molto forte con i marchi di forma; l’illecito di imitazione servile dei
prodotti di un concorrente sussiste quando i prodotti del concorrente hanno una forma distintiva (che viene
percepita dal pubblico come segno distintivo dell’imprenditore) e un terzo imita questa forma distintiva in
misura tale da provocare un rischio di confusione. È una norma di tutela di una forma distintiva che sia
percepita come tale dai consumatori e che abbia notorietà qualificata contro la condotta di un terzo che
imiti la forma del prodotto (distintiva) e provochi in questo modo un rischio di confusione sull’origine,
cioè il rischio che il consumatore vedendo la forma del secondo arrivato si confonda e creda che quel
prodotto provenga in realtà dal primo imprenditore. Questa configurazione ha una serie di conseguenze: la
tutela può riguardare solo gli elementi esterni, cioè gli elementi visibili al consumatore (dato che solo gli
elementi esterni visibili possono essere dal consumatore percepiti come segno distintivo e orientare le sue
valutazioni). L’imitazione di parti interne non può costituire imitazione servile perché le parti interne non
sono viste dal consumatore al momento dell’acquisto (o nel successivo utilizzo del prodotto) e quindi sono
irrilevanti, non possono determinare un rischio di confusione. Si può parlare di imitazione servile non solo
quando la tutela riguardi dei segni tridimensionali (es. forme di borse, scarpe, fibbie, gioielli, carrozzeria
di un veicolo, bottiglia, astuccio) ma anche segni bidimensionali (es. superficie di una scatola o di un
sacchetto per prodotti alimentari, disegni di tessuti, packaging). Proprio perché si tratta di una tutela di
forme distintive, si pongono per l’imitazione servile gli stessi limiti che abbiamo già visto nell’art. 9 del
c.p.i. per i marchi di forma registrati (forma imposta dalla natura stessa del prodotto; forma necessaria per
raggiungere un risultato tecnico; forma che dà un valore sostanziale al prodotto); ove la forma sia utile e
brevettabile, per la quale ci sia un’esigenza di caduta in pubblico dominio, non vi può essere per queste
forme una tutela potenzialmente perpetua contro l’imitazione servile; se la forma è brevettabile o è stata
già brevettata e per la quale il brevetto è scaduto, non si può recuperare una protezione che non si è avuta
con il brevetto (o che si è avuta ma è già terminata) ricorrendo all’imitazione servile. Le forme brevettabili
hanno la tutela brevettuale, l’imitazione servile non può intervenire perché altrimenti il sistema sarebbe
scardinato, non si avrebbe la caduta in pubblico dominio della forma utile perché pur scaduto il brevetto
continuerebbe la tutela dell’imitazione servile. Non rileva sotto questo profilo l’eventuale presenza di
capacità distintiva: è un problema di mantenere la forma acquisita al pubblico dominio. Tuttavia, se una
forma non arriva al livello della brevettabilità perché ha una funzionalità o un’utilità concreta ma non è
una forma brevettabile per la quale non vi sia questa esigenza di caduta in pubblico dominio, pur avendo
un’utilità ma non arrivando a questa soglia, la forma è tutelabile contro l’imitazione servile. Va tenuto
presente che una soluzione interpretativa che recupera un maggiore spazio alla tutela delle forme contro
l’imitazione servile è quella che fa leva sul concetto innovativo: fermo restando che la forma brevettabile
di regola non può essere protetta con l’imitazione servile, se il concetto innovativo alla base dell’utilità del
prodotto può essere attuato con tante forme diverse si può ammettere che le varie forme diverse siano
protette contro l’imitazione servile purché la forma di partenza (in cui si è espresso per la prima volta il
concetto innovativo) resti libera. L’esempio che è stato fatto in dottrina è quello consistente nell’effettuare
delle lavorazioni a rilievo su un pedale per renderlo antiscivolo; è un concetto innovativo rispetto al quale

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Eleonora Biffi

sono possibili configurazioni diverse: righe parallele, cerchi concentrici, puntini in rilievo, ecc. Il concetto
innovativo è fare un certo tipo di lavorazioni a rilievo sulla superficie del pedale ma, rispetto alla forma
specifica in cui si è manifestato, sono possibili tante varianti innocue che modificano la conformazione del
prodotto senza alterare l’esplicarsi del concetto innovativo. Le forme diverse, proprio perché non tolgono
la possibilità di avvalersi del concetto innovativo nella sua forma base, potrebbero essere protette contro
l’imitazione servile. Lo stesso si può dire per le forme ornamentali: non sono tutelabili contro l’imitazione
servile le forme che danno un valore sostanziale al prodotto e che influenzano le scelte d’acquisto del
consumatore; le forme semplicemente gradevoli possono essere sia registrate come marchio sia protette
contro l’imitazione servile, le forme che danno un valore sostanziale non possono invece essere tutelate.
– Ogni altro atto idoneo a produrre confusione: “qualsiasi altro mezzo che integri degli atti idonei a creare
confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente va censurato come atto di concorrenza sleale
confusoria”. Non sono molti i casi di applicazione della fattispecie, i casi di concorrenza sleale confusoria
sono quasi sempre i primi due ma qualche ipotesi si è avuta: copiatura di moduli e formulari, copiatura di
cataloghi, atti idonei a sviare i clienti dai locali dove opera un concorrente con cartelloni e accorgimenti e
sleali, l’imitazione dell’arredamento caratteristico di una catena di negozi (ormai questo elemento viene
classificato a tutti gli effetti come un segno distintivo). È una opportuna norma di chiusura per reprimere
qualunque ipotesi di condotta atta a creare confusione sull’origine.

In sintesi, sempre con riguardo all’imitazione servile, abbiamo visto che:


a. Dal punto di vista dei marchi di forma registrati e dell’imitazione servile la forma può essere registrata o
protetta contro l’imitazione servile se ha capacità distintiva ma non è tale da dare valore sostanziale al
prodotto, perché altrimenti non può essere protetta come segno distintivo anche se è distintiva.
b. Dall’altro lato, in base alla disciplina dei disegni e modelli tutte le forme che hanno novità e carattere
individuale possono essere registrate e protette come disegni e modelli o anche come disegni o modelli
di fatto.
c. Può esserci o non esserci una zona di sovrapposizione. La forma che dà carattere individuale ma che
determina anche un valore sostanziale sarà proteggibile solo con il disegno o modello; la forma che ha
carattere individuale ma non capacità distintiva sarà ugualmente proteggibile solo con il disegno o il
modello. Viceversa, una forma distintiva e priva di valore sostanziale che non abbia carattere individuale,
sarà solo proteggibile come marchio e contro l’imitazione servile.
d. Se ipotizziamo che una certa forma abbia sia capacità distintiva sia carattere individuale e che al tempo
stesso non presenti un valore sostanziale, per questa forma sarà possibile il cumulo: questa forma potrà
essere sia registrata come marchio o protetta contro l’imitazione servile, sia registrata e protetta anche
come modello di fatto in base alla disciplina dei disegni e modelli. In sostanza, uno spazio per un cumulo
delle tutele – ciascuna con i suoi presupposti e con il suo ambito di tutela – sarà possibile.

N.B. L’interpretazione sotto questi profili dell’imitazione servile tende a coincidere con quella dei marchi
registrati, l’unico punto dove c’è una maggiore apertura ad una tutela contro l’imitazione servile è per le
forme funzionali che, ove suscettibili di varianti nell’estrinsecazione dell’elemento utile, potrebbero rispetto
a queste varianti essere protette contro l’imitazione servile. La teoria delle “varianti innocue” si interroga
sull’eventualità che una forma funzionale sottratta alla tutela di imitazione servile o una forma ornamentale
che integra il concetto di valore sostanziale sia suscettibile di varianti che rendano diversa la forma senza
alterare l’utilità tecnica o il gradiente estetico. La teoria delle varianti innocue è stata spesso sostenuta per
cercare di ampliare lo spazio di tutela contro l’imitazione servile: se una certa forma pur funzionale e pur
ornamentale è suscettibile di varianti innocue (che permettono di conseguire la stessa funzionalità con una
espressione diversa) potrebbe venir meno il divieto di tutela contro l’imitazione servile; se il terzo poteva
apportare delle varianti invece di copiare tale e quale, è giusto che la sua condotta venga reputata scorretta
perché aveva un’alternativa per conseguire quell’utilità che non fosse semplicemente il copiare.

CONCORRENZA SLEALE PER DENIGRAZIONE


Il n. 2 dell’articolo 2598 contiene la disciplina degli illeciti di comunicazione, il primo dei quali è l’illecito di
denigrazione definito dalla prima parte dell’articolo 2598 come la diffusione di notizie e apprezzamenti sui
prodotti e sull’attività di un concorrente idonei a determinarne il discredito. Diffusione è la comunicazione a
terzi; non va intesa in senso stretto e troppo letterale perché non implica che la comunicazione debba essere
effettuata nei confronti di una pluralità di persone: può bastare a determinare un discredito ed un danno al
concorrente anche la comunicazione ad una sola persona. Se questo concorrente ha ad esempio un fornitore
che per lui è essenziale o un importante cliente con cui fa il 50% del fatturato e la denigrazione va a colpirlo
proprio nei rapporti con quel fornitore o cliente, questo è un grave atto di concorrenza sleale anche se la
comunicazione è stata rivolta una sola persona. Non rileva il dato numerico dei soggetti a cui essa è inviata
ma rileva il dato qualitativo del danno arrecato al concorrente. Discredito è in generale qualunque forma di

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Eleonora Biffi

perdita di buona reputazione e fiducia di cui l’impresa gode e da cui può derivare un danno concorrenziale.
Tipicamente il discredito si manifesta come causa di effetti dannosi quando va a colpire i rapporti con la
clientela oppure con i fornitori o anche con i finanziatori; se io convinco un istituto bancario a non finanziare
un mio concorrente raccontando delle falsità sul suo conto sto compiendo un atto di denigrazione costituente
concorrenza sleale. Tuttavia, la norma va anche considerata nella parte in cui esplicita che l’oggetto della
denigrazione possono essere sia i prodotti del concorrente (o caratteristiche dei prodotti del concorrente) sia
in generale l’attività svolta dal concorrente o anche la sua situazione generale; non si ha una denigrazione
rilevante solo quando si denigrano i prodotti o i servizi il concorrente o le loro specifiche caratteristiche, ma
anche quando si esprime un giudizio negativo sull’attività del concorrente o sulla sua complessiva situazione.
Far girare la falsa voce che il concorrente è in uno stato di dissesto o di difficoltà, che sta per dover accedere
a una procedura concorsuale, che non è in grado di far fronte ai pagamenti è un’attività denigratoria anche
potenzialmente molto pericolosa che, pur non riguardando i direttamente i prodotti ma riguardando la sfera
complessiva dell’imprenditore, può sortire l’effetto di metterlo in crisi nei suoi rapporti commerciali d’affari.
Tutto questo fa sorgere una domanda: se la notizia che io diffondo sul conto del mio concorrente è vera (es.
dico che il mio concorrente è in uno stato di difficoltà ed è vero che lo è o dico che i suoi prodotti non sono a
norma e sono pericolosi per il consumatore finale ed è vero) non la posso dire? Sia la dottrina sia la
giurisprudenza hanno detto che non può essere impedito a nessuno di dire la verità: è l’eccezione di verità
(c.d. exceptio veritatis). Se la notizia pur denigratoria e pur screditante è vera, chiunque ha diritto di farla
circolare. La notizia non solo deve essere rigorosamente vera e documentabile, ma deve anche essere esposta
in un modo oggettivo e completo senza omissioni, senza celare da rilevanti, senza aggiungere appezzamenti
gratuiti e senza usare delle formule suggestive che possano gettare una cattiva luce ulteriore sul concorrente.
Esempio: se io dico che il tal prodotto del mio concorrente non è stato in grado di ottenere una certificazione
di qualità e questo è vero, io lo posso dire perché è un dato oggettivo; se però io aggiungo appezzamenti
sull’incapacità del mio concorrente di operare in modo onesto e commenti gratuiti che sono delle prese in
giro per lui, questo è eccedente rispetto la finalità di dare un’informazione al pubblico. La notizia deve anche
essere completa: non ci devono essere omissioni o reticenze; supponiamo che il prodotto del concorrente non
abbia superato il test di certificazione perché l’esemplare inviato all’ente di certificazione era difettoso, ma
una settimana dopo il concorrente ha inviato un esemplare non difettoso e questo ha superato brillantemente
il test di certificazione. Se dico al mercato: “Il prodotto del mio concorrente in data tale non ha superato
l’esame di certificazione” in sé la notizia è vera, ma se io dico solo questo e non specifico che era stato solo
per un incidente di percorso questa notizia, pur vera, diventa totalmente fuorviante. Il consumatore pensa che
tutti i prodotti del concorrente non siano a norma e invece è stato solo un incidente di percorso poi rimediato.
La giurisprudenza è molto severa su queste comunicazioni, non tollera nulla che non sia l’assoluta verità
esposta in modo oggettivo e completo. Parlando di exceptio veritatis e di attività che obiettivamente possono
essere screditanti per il concorrente ma che bisogna pur tollerare, bisogna tenere presente anche il D.Lgs. n.
145/2007 contenente la disciplina della pubblicità comparativa. La pubblicità comparativa è una forma di
pubblicità molto aggressiva ed efficace nel senso che si comparano i propri prodotti ai prodotti del
concorrente e si mettono in risalto i pregi dei propri prodotti rispetto alle caratteristiche del prodotto del
concorrente; è una pubblicità molto efficace per chi la fa ma anche molto pesante per chi la subisce perché il
concorrente vede circolare sul mercato una pubblicità che fa vedere che il suo prodotto è meno valido di
quello del concorrente che ha fatto la comparazione. Dal momento che la pubblicità comparativa è molto
dura nei confronti del concorrente, per molto tempo in Italia era stata oggetto di una valutazione quasi
sempre negativa; si riteneva che fosse quasi intrinsecamente una forma pubblicitaria troppo aggressiva e non
accettabile, salvo in alcuni casi. A seguito di direttive dell’UE attuate in Italia con il decreto legislativo di cui
sopra, ora è espressamente previsto che anche la pubblicità comparativa sia lecita anche se deve rispettare
una serie di condizioni precise: non deve essere ingannevole; deve confrontare prodotti o servizi omogenei;
deve confrontare caratteristiche essenziali e verificabili (non si deve fondare su suggestioni o su mere
impressioni ma sudati testati, verificabili e documentabili); non deve creare rischi di confusione con marchi
altrui; non deve pregiudicare l’immagine del marchio altrui; non deve trarre indebito vantaggio dalla loro
notorietà. Si deve trattare di una pubblicità oggettiva, certa, fondata su dati verificabili e su prodotti e servizi
omogenei. Sotto il profilo del confronto di caratteristiche essenziali e verificabili, un conto è dire “Un rasoio
è qualitativamente superiore ad un altro perché i test di laboratorio hanno dimostrato che le lame hanno
questa caratteristica” e un altro è dire “Un rasoio è superiore perché dà una sensazione di rasatura molto più
fresca e piacevole” (giudizio puramente soggettivo ed arbitrario, non dimostrabile). Alternativamente si può
pensare ad un confronto tra le caratteristiche ma omettendo il dato del prezzo: se io ometto di dire che un
prodotto volutamente ha delle caratteristiche inferiori perché si rivolge a una clientela che preferisce una
fascia di prezzo più bassa, il mio discorso è fuorviante perché il secondo prodotto è anche qualitativamente
superiore ma costa dieci volte tanto. Lo stesso vale nel confronto di beni o servizi omogenei: se si tratta di
prodotti che intrinsecamente hanno delle caratteristiche diverse, non ha senso confrontarli in un’ottica
comparativa perché non si tratta di termini paragonabili.

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Molto discusse nella prassi sono state la diffida a terzi e la diffusione di comunicati. La diffida a terzi è la
lettera di contestazione con cui si informa il terzo che il prodotto di cui il terzo si avvale, acquistandolo dal
concorrente, costituisce una contraffazione di un altro brevetto; questo può essere anche un atto che porta il
cliente a interrompere i rapporti col mio concorrente. È un atto lecito? Dipende: se la contraffazione c’è ed io
l’ho segnalata (ho svolto un atto di autotutela) e la contraffazione effettivamente sussiste, non ho fatto nulla
di male; se la contraffazione che ho contestato non sussiste la mia è una condotta di denigrazione sleale e
sarò io a dover pagare i danni al mio concorrente. La norma di prudenza potrebbe essere mandare la diffida
direttamente al concorrente. In certi casi si è ritenuto che anche la diffida molto aggressiva che si traduce in
una minaccia al concorrente per spaventarlo può essere in sé comunque un atto di scorrettezza per il profilo
della minaccia, ma non è un atto di denigrazione perché se non c’è alcuna diffusione al di fuori del rapporto
tra me e il mio concorrente non ci può essere alcuna denigrazione; se io invece scrivo ai soggetti con cui il
concorrente è in rapporti di affari mi espongo al rischio di una condanna per denigrazione se la contestazione
è infonda, cioè la contraffazione non c’è.

Allo stesso tempo molta attenzione va posta alla diffusione e pubblicazione di comunicati con notizie relative
a procedimenti giudiziari in corso contro il concorrente o anche a provvedimenti favorevoli pronunciati dal
giudice. Esempio: faccio causa di contraffazione di brevetto al mio concorrente e voglio far sapere che la
causa è in corso o addirittura ottengo una sentenza di primo grado favorevole che accerta la contraffazione e
voglio far sapere che nel primo grado di giudizio ho vinto la causa; i comunicati stampa sulle cause e sulle
vittorie in giudizio non sono di per sé vietati, ma soggiacciono alla regola vista in precedenza: devono essere
scritti in modo contenuto (senza eccessi nei confronti del concorrente), devono riferire dati veri e devono dire
tutto quello che serve al pubblico per formarsi un’idea esatta di quanto è accaduto. Se ottengo una sentenza
favorevole e faccio un comunicato trionfalistico imputando il concorrente, questo è eccessivo. Lo stesso se io
dico che ho vinto la causa ma ometto di dire che la sentenza non è ormai definitiva o passata ingiudicata (non
è più impugnabile) perché il mio concorrente può ancora impugnarla davanti alla Corte d’Appello oppure
riferisco solo le domande che sono state accolte ma non dico che anche delle domande del mio concorrente
sono state accolte dal giudice.

CONCORRENZA SLEALE PER APPROPRIAZIONE DI PREGI


L’appropriazione di pregi è un altro illecito di comunicazione assimilabile alla fattispecie dell’agganciamento
parassitario alla notorietà altrui. La norma dice che è vietato appropriarsi di pregi dei prodotti o dell’impresa
di un concorrente (art. 2598 n. 2, seconda parte). La legge lascia aperta la nozione di pregi, rimettendola alle
valutazioni dell’interprete: si tratta di caratteristiche dei prodotti o dell’impresa che sono avvertite come
positive dai consumatori e che sono motivo di preferenza per i prodotti o per l’impresa. In questo senso pregi
vuol dire caratteristiche positive che possono orientare le scelte d’acquisto del consumatore. Va posta più
attenzione alla parola appropriazione che in sé potrebbe essere intesa come appropriazione del pregio altrui e
riproduzione materiale nei propri prodotti, ma non è questo il senso della parola in questa norma. Qui il
termine significa auto-attribuirsi in una comunicazione al mercato la presenza nella propria impresa e nei
propri prodotti di pregi che in realtà non esistono e che esistono viceversa nei prodotti del concorrente. Vuol
dire comunicare al mercato di avere i pregi dei prodotti o dell’impresa del concorrente quando invece questi
pregi sono posseduti dal concorrente.

Rispetto al nucleo iniziale della fattispecie dell’appropriazione di pregi, la dottrina e la giurisprudenza sono
arrivate in via interpretativa ad estendere quest’ipotesi, individuando come più ampia condotta illecita quella
dell’agganciamento. L’agganciamento si ha quando il concorrente si presenta al mercato equiparandosi a un
concorrente noto, cioè dicendo che i suoi prodotti sono come quelli del concorrente più noto o sfruttando in
qualsiasi modo parassitario la notorietà del concorrente. Anche in questo caso l’aggancio alla fattispecie di
partenza della CUP rimane ben visibile: è un illecito di comunicazione che serve a sfruttare indebitamente la
notorietà altrui. Qual è però la differenza? Nell’appropriazione di pregi in senso stretto io mi vanto di avere
una specifica caratteristica del prodotto altrui che invece non ho; nell’agganciamento, l’illiceità dipende dal
semplice fatto di equiparare il proprio prodotto al prodotto altrui. Da un punto di vista qualitativo i due
prodotti potrebbero essere equiparabili, ma c’è un’attività illecita perché sfrutto indebitamente la notorietà
altrui, sfrutto l’effetto di traino positivo della rinomanza del concorrente sul mercato.

Ipotesi di appropriazione di pregi o agganciamento:


– Uso di un marchio altrui preceduto da parole come “genere”, “modo”, “tipo”, e così via (es. orologio tipo
Cartier); quindi non c’è nessun tipo di confusione possibile perché faccio capire subito che non sto
vendendo un vero Cartier, ma c’è un problema di agganciamento alla notorietà di Cartier. Se io dico che il
mio orologio è come un Cartier e non ha le caratteristiche di Cartier potrebbe essere un’appropriazione di
pregi in senso stretto perché mi attribuisco il pregio delle caratteristiche dell’orologio Cartier che però non

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Eleonora Biffi

possiedo; ma se io dico “tipo Cartier” per un orologio che è l’esatto clone di un orologio Cartier, questo è
pur sempre un atto di agganciamento indebito (che costituisce concorrenza sleale) perché non è corretto
che mi presenti al mercato attirando il consumatore mediante il richiamo della notorietà altrui incorporata
nella parola Cartier. Non è una concorrenza sui meriti quella di accreditarsi sfruttando la notorietà che un
altro soggetto si è faticosamente costruito nel tempo.
– Imitazione non confusoria di prodotti noti o di loro confezioni (c.d. look-alike); l’imitazione del prodotto
o della confezione può determinare un rischio di confusione ed in questo caso si applica anche il n. 1
dell’art. 2598, ma può essere che non sia così; può essere che l’imitazione non sia confusoria e tuttavia il
packaging sia costruito in modo da richiamare il packaging del prodotto noto (“look- alike” inteso come
“sembrare” o “apparire come”). Questo è un fenomeno insidioso perché magari l’imitatore mette sul suo
prodotto un marchio ben visibile e diverso (non il marchio figurativo del concorrente noto), ma replica
l’aspetto della confezione che il consumatore conosce bene in modo da attirare il consumatore che già in
questo modo nota il prodotto. Un caso famoso di look-alike deciso circa quindici anni fa dal Tribunale di
Milano è sulle confezioni delle Emiliane Barilla: in quel caso il terzo aveva imitato il packaging ma senza
metterci il marchio Barilla; dal punto di vista del look- alike, che il marchio sia diverso è indifferente
perché il consumatore, vedendo la confezione fatta in quel modo, pensa a Barilla (anche se capisce che
non è Barilla ha comunque già istituito un contatto con quel prodotto). È un illecito tipico della grande
distribuzione perché nella GDO tipicamente i prodotti sono allineati sugli scaffali: il consumatore vede da
lontano la confezione e viene attirato dalla confezione che già conosce prima ancora di avvicinarsi e
vedere quale marchio denominativo c’è sulla confezione.
– Ipotesi di appropriazione in senso stretto è la vanteria di avere ricevuto premi, medaglie, attestati ricevuti
invece dal concorrente: se dico di aver vinto il primo premio ad una certa fiera, questa è un’appropriazione
di pregi in senso stretto perché quel premio l’ha vinto il concorrente.
– Vanteria di essere sul mercato da una certa data o di essere stato il primo a realizzare un certo prodotto,
quando invece si tratta di “pregi” del concorrente.
– Uso di tabelle di concordanza: forme di pubblicità in cui si elencano i prodotti su due colonne, si mettono
su una colonna i prodotti noti di un concorrente e sull’altra si mettono dei prodotti che si dice essere come
quelli dei concorrenti; i prodotti sono quindi equiparati, è tipico nei settori dei profumi. Anche queste sono
forme di agganciamento ritenute vietate.
– Vanteria di avere brevetti o certificazioni di qualità, di sicurezza, di conformità a standard quando in realtà
questo non è vero ed è il concorrente ad averli.
– Uso indebito di denominazioni d’origine o indicazioni geografiche: mi vanto di fare un prodotto DOP o
IGP che non lo è affatto; attenzione: la confusione del n. 1 è la confusione sull’origine imprenditoriale,
non sull’origine geografica. L’errore sull’origine geografica è un caso di agganciamento e di pubblicità
ingannevole, ma non è un rischio di confusione sull’origine imprenditoriale.
– Un altro fenomeno che si è diffuso nella pratica è l’ambush marketing: consiste nell’attività tipica di chi
sfrutta un evento di grande richiamo per agganciarsi alla popolarità e al richiamo di qualche evento. Da
questo punto di vista la condotta dell’ambusher (concorrente che sfrutta la notorietà dell’evento) può
danneggiare sia l’organizzatore dell’evento, sia lo sponsor ufficiale. Esempio: un soggetto che non è lo
sponsor ufficiale si presenta nei luoghi dove vengono disputate le partite dei mondiali di calcio e comincia
a fare delle attività promozionali, accostandosi alla notorietà dell’evento in vari modi e ponendosi a traino
di questa notorietà sulla quale non ha pagato nulla; se il soggetto dovesse addirittura far credere di essere
lui lo sponsor ufficiale, questa sarebbe un’appropriazione di pregi in senso stretto, ma se ciò non avviene e
semplicemente con varie iniziative il concorrente sfrutta la notorietà dell’evento in modo parassitario
rispetto all’organizzazione dell’evento e ai sponsor ufficiali che hanno pagato per agganciarsi lecitamente
alla notorietà dell’evento, tutto questo può essere un atto di agganciamento vietato (ambush marketing).

FATTISPECIE TIPIZZATE DI CONCORRENZA SLEALE


Sono le fattispecie più frequentemente ricondotte dalla giurisprudenza al n. 3 dell’art. 2598. Qui si parla di
fattispecie tipizzate: le fattispecie del n. 1 e del n. 2 si possono definire più tecnicamente “fattispecie tipiche”
nel senso che la condotta vietata è già stata delineata dal legislatore; in questo caso si parla di “fattispecie
tipizzate” per indicare quei casi di concorrenza sleale che non sono stati espressamente menzionati dal
legislatore ma che sono spesso giunti all’esame della giurisprudenza e che si sono tipizzati perché nel corso
dei decenni, con tutte le sentenze pronunciate in argomento, si sono in via di fatto individuate nell’esperienza
giurisprudenziale delle caratteristiche ricorrenti di determinate condotte illecite. Si tratta di condotte che non
descritte dal legislatore ma che sono state ormai descritte in via di fatto dalla giurisprudenza, nel senso che la
condotta è stata individuata e tutti gli elementi costituitivi dell’attività illecita sono stati messi a fuoco. Sono
ricondotte al n. 3 dell’art. 2598 due categorie di fattispecie:
– Atti che alternano la generale situazione del mercato e non sono specificatamente rivolti contro un
concorrente determinato. Danneggiano complessivamente una situazione di mercato e disturbano tutti gli

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Eleonora Biffi

operatori che si trovano su un certo mercato: comunicazioni ingannevoli, vendita sottocosto, violazione di
norme di diritto pubblico.
– Atti che vanno a colpire un concorrente determinato: si prende come bersaglio un concorrente ed è lui che
subisce gli effetti della condotta sleale; qui troviamo lo storno di dipendenti, la sottrazione di segreti
aziendali, il boicottaggio e la concorrenza parassitaria.

COMUNICAZIONI INGANNEVOLI
Comunicazioni effettuate in qualsiasi modo, in particolare con la pubblicità, con cui vengono veicolati ai
consumatori messaggi idonei ad ingannarli su caratteristiche dei prodotti o servizi che possono influire sulle
loro scelte di acquisto. È qualunque tipo di comunicazione che fa credere al consumatore che il prodotto o
servizio ha certe caratteristiche mentre in realtà non è così, ma proprio per il far credere questa cosa induce il
consumatore ad acquistare quel prodotto o ad avvalersi di quei servizi. È essenziale l’idoneità ad ingannare e
le comunicazioni inidonee a ingannare non sono illecite: vanterie generiche, esagerazioni, magnificazioni
senza affermazioni false su aspetti specifici sono da valutare come innocue perché non orientano le scelte
d’acquisto del consumatore. Esempio: se io scrivo in una comunicazione che il mio prodotto ha delle
caratteristiche di robustezza e di resistenza che lo rendono sicuro per chi lo utilizza e ciò non è vero, questo è
un inganno rilevante perché il consumatore si è determinato all’acquisto pensando un prodotto con quelle
caratteristiche ma non è così. Se io faccio il classico slogan “Il mio prodotto è il più bello del mondo” il
consumatore capisce subito che è una vanteria ingenua ma nulla più di questo; lo stesso vale per lo slogan
“Dopo aver provato il mio prodotto ti sembrerà di camminare sulle nuvole”. Bisogna sempre contestualizzare
il messaggio pubblicitario e vedere se effettivamente può indurre il consumatore ad effettuare delle scelte di
acquisto che altrimenti non avrebbe effettuato, quindi se c’è un’ingannevolezza da questo punto di vista. Per
quanto riguarda la pubblicità ingannevole ci sono anche altre norme specificamente dedicate alla pubblicità
ingannevole e alle comunicazioni ingannevoli: l’art. 10-bis della Convenzione di Unione di Parigi che
menziona – a differenza di quanto faccia la legge italiana – come atto di concorrenza sleale le comunicazioni
false e ingannevoli; il D.Lgs. n. 145/2007 (nella parte relativa alla pubblicità ingannevole); norme specifiche
di divieto sulle quali è competente a pronunciarsi l’Autorità Garante della Concorrenza del Mercato nel
Codice del Consumo (non riguarda i rapporti tra imprenditori, bensì le pratiche scorrette dell’impresa nei
confronti del consumatore).

VENDITA SOTTOCOSTO
È considerato atto di concorrenza sleale la vendita sottocosto, però bisogna distinguere il sottocosto illecito
da forme di sottocosto temporaneo o da semplici ribassi di prezzo che rientrano in una normale concorrenza
sul mercato. Per apprezzare questa fattispecie bisogna guardare due elementi: il livello di prezzi/costi e la
durata nel tempo della manovra sui prezzi. La regola generale è che fa parte della concorrenza la concorrenza
sui prezzi; i ribassi sui prezzi sono un’arma tipica della concorrenza: se l’imitatore è in grado di fare profitto
con prezzi più bassi dei concorrenti, può decidere una strategia impostata sul ribasso di prezzo per attirare la
clientela (manovra tipica del gioco concorrenziale). Viceversa, è scorretta la vendita sottocosto vera e propria
che è la “vendita in perdita”, cioè la vendita a prezzi addirittura inferiori ai costi di produzione dei beni o di
fornitura dei servizi. Se l’imprenditore pratica dei prezzi che non gli consentono neanche il pareggio dei costi
la situazione è del tutto anomala; tipicamente questa condotta è posta in essere da imprenditori che hanno
una maggiore forza economica dei concorrenti e possono permettersi, senza troppe difficoltà, di vendere in
perdita per un certo periodo con la prospettiva di aver stroncato in tale periodo i concorrenti che non riescono
a reggere quel livello di prezzi e poi, una volta espulsi i concorrenti dal mercato, alzare nuovamente i prezzi.
A quel punto l’imprenditore potrà addirittura essere monopolista, o quasi, sul mercato e potrà caricare dei
prezzi monopolistici molto più elevati. In questo caso la slealtà è vendere in perdita per la finalità scorretta di
espellere i concorrenti dal mercato. Naturalmente rileva anche l’aspetto tempo: ci sono dei casi di sottocosto
assolutamente leciti perché sono temporanei (es. brevi iniziative promozionali, esigenza di liquidare prodotti
rimasti invenduti, giacenze di magazzino, liquidazioni di fine attività). In casi particolari come questi si può
ritenere che il sottocosto sia consentito; se invece è un sottocosto stabile, protratto nel tempo e con prezzi che
non coprono neanche i costi di produzione o di fornitura, non c’è nessuna logica economica imprenditoriale
virtuosa in una condotta di questo tipo ma c’è solo una manovra scorretta per espellere i concorrenti dal
mercato e come tale questa manovra deve essere censurata e sanziona.

VIOLAZIONE DI NORME DI DIRITTO PUBBLICO


Rientra nella categoria degli atti che vanno a colpire in generale il mercato; il dato in partenza è costituito dal
fatto che tipicamente l’imprenditore, nella sua attività, deve rispettare molte norme di diritto pubblico: norme
tributarie (es. sanzioni se non paga le tasse), norme penali (es. regole di igiene), norme amministrative (es.
licenze). La violazione di norme di questo tipo è anche un atto di concorrenza sleale? Il dubbio è stato nel
tempo risolto in modi molto diversi: c’è la posizione di chi dice che violare una norma di diritto pubblico è

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Eleonora Biffi

una condotta riprovevole e quindi è un atto di concorrenza sleale, c’è chi dice che la violazione di norme di
diritto pubblico ha le sue sanzioni proprie ma queste norme di diritto pubblico non hanno nulla a che vedere
con i rapporti tra privati sul mercato. Il tema è stato ampiamente discusso ma ormai da più di vent’anni ha
trovato una soluzione: non è possibile dire a priori se la violazione di una norma di diritto pubblico è o non è
atto di concorrenza sleale, né tantomeno si può dire che lo è sempre o che non lo è mai; bisogna andare a
vedere se nel caso specifico la violazione della norma di diritto pubblico ha avuto dei riflessi sul rapporto di
concorrenza, cioè se la violazione della norma di diritto pubblico si è tradotta in un atto di concorrenza a
scapito di altri operatori del settore o – in altri termini – se grazie al fatto di aver violato la norma di diritto
pubblico, l’imprenditore si è trovato in condizione di fare una concorrenza più aggressiva nei confronti del
concorrente onesto che viceversa ha rispettato la legge. Anche la violazione di una norma di diritto pubblico
può essere, a seconda dei casi, un atto di concorrenza sleale quando questa violazione può qualificarsi come
atto di concorrenza ossia come atto che incide sul rapporto di concorrenza mettendo in una posizione
vantaggiosa il soggetto che ha violato la norma di diritto pubblico proprio grazie al fatto di sfruttare gli effetti
di quella violazione. Per fissare il concetto, questa interpretazione ha proposto di dividere le norme di diritto
pubblico in tre categorie: le norme che impongono dei limiti, le norme che impongono dei costi e le norme
che impongono degli oneri.
– Norme che impongono dei limiti: questa categoria è costituita dalle norme che vietano lo svolgimento
dell’attività economica in certi momenti o quando si verificano certe condizioni; tipicamente questo è il
caso di norme che limitano la possibilità dell’imprenditore di operare sul mercato (es. norme che vietano
di tenere aperto il negozio in certi orari o di aprirlo nei giorni festivi, questo è un limite perché non si può
essere sul mercato e aprire il negozio in quei giorni; norme che ammettono le vendite di liquidazione solo
entro certi limiti; norme che ammettono certe attività solo in certi periodi dell’anno come nel settore della
pesca). Sono tutte norme che pongono dei limiti: se non ricorrono certe condizioni o se ci si trova in un
certo periodo temporale, l’attività non si può svolgere. Chi invece la svolge, violando i limiti, tipicamente
compie un atto di concorrenza sleale perché è sul mercato e acquisisce clientela mentre il concorrente che
rispetta la legge non lo può fare. Il vantaggio concorrenziale derivante dalla violazione dei limiti è sempre
un atto di concorrenza sleale.
– Nel caso di norme che impongono dei costi (tipicamente è il caso delle norme tributarie), se sia o non sia
atto di concorrenza sleale dipende dal modo in cui l’imprenditore impiega il risparmio di costi derivante
dalla violazione della norma fiscale tributaria (es. norme che impongono di pagare determinate tasse o
tributi; norme sul rilascio delle ricevute; norme sul versamento dei contributi previdenziali per i lavoratori
dipendenti). Di per sé, nel momento in cui queste norme vengono violate, non c’è ancora un atto di
concorrenza sul mercato però bisogna poi vedere come il risparmio di costi viene impiegato: se questo non
viene sfruttato per fare concorrenza questo non incide sui rapporti di concorrenza, ma se il risparmio dei
costi viene sfruttato per fare concorrenza (ad esempio per tenere prezzi più bassi perché non pagando
l’IVA e non versando i contributi previdenziali l’imprenditore è in grado di praticare prezzi più bassi del
concorrente che invece versa i tributi), l’atto di concorrenza che crea un vantaggio concorrenziale indebito
non si può tollerare e va considerato atto di concorrenza sleale.
– La terza categoria riguarda le norme che impongono degli oneri la cui violazione di regola non comporta
un atto di concorrenza; sono le norme che prescrivono certi adempimenti come l’iscrizione in un registro
pubblico, l’obbligo di effettuare determinate comunicazioni, ecc. Di regola la violazione di queste norme
non costituisce concorrenza sleale. Qual è la differenza tra oneri e limiti? Si hanno dei limiti quando la
legge vieta di svolgere una certa attività imprenditoriale e un soggetto la svolge in violazione del divieto;
in questo caso il soggetto svolge un’attività imprenditoriale in concorrenza che non avrebbe del tutto
potuto svolgere. Nel caso degli oneri la condotta del soggetto non è in violazione di un limite, il soggetto
svolge un’attività imprenditoriale che ha pieno diritto di svolgere, ma nello svolgerla sono previsti degli
adempimenti; nel caso dei semplici oneri è la situazione di chi ha un’attività produttiva che può svolgere
ma ogni tre mesi deve mandare una comunicazione al comune. Supponiamo che l’imprenditore, per
dimenticanza o per altri motivi, non manda questa comunicazione e che la legge preveda che il mancato
invio della comunicazione comporta una sanzione amministrativa di 3.000 Euro; in questo caso il soggetto
che non ha inviato la comunicazione pagherà la sanzione amministrativa, ma non ha nessun blocco di
attività e non sta facendo un’attività di concorrenza sul mercato che non avrebbe potuto fare. In questo sta
la differenza tra i limiti e gli oneri: nel primo caso l’attività non si può svolgere, nel secondo caso l’attività
si può svolgere e svolgerla anche senza rispettare l’adempimento formale dell’onere non dà un vantaggio
concorrenziale sul concorrente e quindi non c’è concorrenza sleale.

STORNO DEI DIPENDENTI


La fattispecie dello storno è la prima categoria degli atti che colpiscono un concorrente determinato; consiste
semplicemente nell’assumere dipendenti sottratti ad un concorrente. Non può dirsi che ogni storno sia lecito:
è assolutamente normale che i dipendenti passino da un datore di lavoro ad un altro così come è normale che

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Eleonora Biffi

un imprenditore che ha bisogno di nuovi dipendenti o di nuove competenze all’interno della sua azienda si
rivolga al mercato del lavoro e cerchi di indurre dipendenti di suoi concorrenti a passare alle sue dipendenze.
La fattispecie dello storno è una fattispecie delicata: il datore che perde i propri dipendenti può essere molto
infastidito, ma non si può sopprimere il legittimo interesse del dipendente a cercare un nuovo posto di lavoro
e così pure si deve anche tenere conto dell’interesse dell’imprenditore ad assumere nuovi dipendenti. Questo
ha fatto sì che storicamente sia sempre stato molto difficile capire dove si possono collocare i confini tra uno
storno lecito che rispetta le normali dinamiche di concorrenza e uno storno illecito eccessivo e quindi tale da
connotarsi di scorrettezza. Una prima tesi interpretativa considerava se le modalità dello storno fossero in sé
scorrette (es. se ho indotto i dipendenti del mio concorrente a passare alle mie dipendenze denigrando il mio
concorrente); questa è un’attività illecita però qui l’illiceità non è tanto lo storno ma la denigrazione. Questo
criterio non dice quando uno storno è un attività illecita. Per un lungo periodo di tempo in giurisprudenza si
era accreditata la tesi secondo cui si dovesse considerare l’intento soggettivo di chi attuavano lo storno;
secondo questa interpretazione si doveva cercare di ricostruire se chi poneva in essere lo storno agiva con
un’intenzione malevola (c.d. animus nocendi), cioè con la volontà specifica di nuocere al concorrente. Se la
motivazione dello storno non è rafforzare la propria azienda ma è solo ed esclusivamente quella di disgregare
l’azienda del concorrente e di creargli delle difficoltà, questa è una attività riprovevole che va sanzionata. Il
problema è andare a stabilire nel caso concreto se c’è un intento malevolo, dove si arresta e dove invece c’è
una volontà di rafforzare la propria azienda è difficilissimo. La stessa giurisprudenza ha finito per dire che
l’animus nocendi non si può accertare direttamente ma bisogna accettarlo attraverso elementi, indizi, fatti
storici che presuppongono necessariamente un intento malevolo.

A questa costruzione che si è stratificata nel tempo la dottrina ha reagito con una critica molto puntuale: che
senso ha ancorare l’illiceità dello storno ad un intento malevolo soggettivo che non si riesce ad accertare
direttamente e che porta a dover cercare degli elementi oggettivi da cui desumere uno stato soggettivo di
cattiva volontà nei confronti del concorrente? Invece di questa costruzione inutilmente artificiosa, è meglio
valutare direttamente le circostanze del caso concreto e stabilire l’illiceità o meno dello storno direttamente
sulla base delle circostanze del caso concreto, in particolare valutando queste circostanze dal punto di vista
della pericolosità dello storno per chi lo subisce, cioè valutando se la manovra di storno dal punto di vista di
chi la subisce sia una manovra che l’impresa è in grado di riassorbire agevolmente o con limitate difficoltà o
se invece è una mossa così aggressiva da andare oltre le capacità di recupero della situazione (o comunque di
incapacità di affrontare la situazione in un modo che non disturbi e non metta a repentaglio lo svolgimento
dell’attività d’impresa). Anche se il concorrente non è fallito ma ha subito un periodo di grave dissesto e poi
solo faticosamente ha potuto recuperare l’attività, in questo si può ritenere che lo storno sia scorretto. Quello
che si fa è andare a vedere una serie di elementi indicativi della fattispecie concreta per valutare se la
manovra di storno nel suo complesso sia rimasta nei limiti di una tollerabilità da parte di chi l’ha subita o se
invece sia stata così invasiva da scompaginare l’azienda che ha subito questa manovra. Da questo punto di
vista, gli indici che si considerano sono:
– L’elevato numero di dipendenti stornati rispetto al totale;
– La qualificazione tecnica dei dipendenti, il ruolo rivestito e la loro importanza all’interno dell’azienda; se
vengono stornate in blocco delle figure apicali all’interno dell’azienda questo è molto più grave;
– La difficoltà di sostituzione dei dipendenti stornati: magari si tratta di dipendenti specializzati che non è
facile rimpiazzare o di dipendenti per cui il concorrente ha sostenuto dei costi di formazione per la loro
specializzazione che poi vengono stornati in blocco e il dipendente, dopo aver investito per la formazione,
si ritrova senza nulla.
– Il ricorso alla “talpa” interna all’azienda, ossia di un dipendente del concorrente che organizza dall’interno
la manovra di storno inducendo i suoi colleghi a dimettersi per passare alle dipendenze dell’imprenditore
stornante. È il caso del dipendente infedele che organizza dall’interno una manovra di storno inducendo i
colleghi ad andarsene a seguirlo.
– L’elemento temporale: vedere in quanto tempo si sono concentrate le manovre di storno. Si prendono gli
elementi tipici che fanno vedere quanto dannoso è lo storno per chi l’ha subito in termini di capacità di
reazione e in base a questo si determina se lo storno è scorretto oppure no. Sono indizi molto semplici da
verificare.

SOTTRAZIONE DI SEGRETI AZIENDALI


Negli art. 98 e 99 del c.p.i. si dice che la sottrazione di un segreto aziendale è una violazione di un diritto di
proprietà industriale. La dottrina e la giurisprudenza, concordemente, ritengono che la sottrazione di segreti
aziendali sia anche un atto di concorrenza sleale. Abbiamo visto che la contraffazione di marchio può essere
sia contraffazione di marchio sia atto di concorrenza sleale o confusoria; qui accade lo stesso: la sottrazione
di segreti aziendali può essere al tempo stesso una violazione del diritto di proprietà industriale protetto e
regolato dagli art. 98 e 99 del c.p.i. e un atto di concorrenza sleale. La definizione è la stessa: acquisizione e

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Eleonora Biffi

utilizzo di informazioni di qualunque tipo riservate del concorrente. Le informazioni possono essere di natura
tecnica (es. tecniche produttive, know-how) o di natura commerciale (es. informazioni relative al mercato,
liste clienti e fornitori). La giurisprudenza si è spesso dovuta pronunciare su casi in cui la sottrazione dei
segreti era stata operata congiuntamente allo storno dei dipendenti, cioè i dipendenti andandosene dal primo
datore hanno portato al nuovo datore di lavoro oltre che le loro prestazioni lavorative anche dei segreti
aziendali del primo datore di lavoro. Nella prassi capita molto frequentemente che nelle cause di storno ci sia
anche la domanda di violazione dei segreti aziendali proprio perché molte volte la manovra di storno è anche
finalizzata ad acquisire con i dipendenti che passano da un’azienda all’altra i segreti tecnici e commerciali
della prima. Per quest’ipotesi la Corte di Cassazione ha fissato dei criteri per stabilire che cosa i dipendenti
possono portare con sé e che cosa no: bisogna distinguere tra veri e propri segreti aziendali che il dipendente
non può rivelare al nuovo datore e semplici conoscenze ed esperienze che il dipendente può continuare ad
impiegare come parte del suo bagaglio professionale. Esempio: pensiamo al dipendente adibito ed incaricato
di far funzionare un certo macchinario; le informazioni tecniche riservate al know-how di quel macchinario
sono segreti aziendali, ma la generica esperienza capacità di azionare il macchinario e di farlo funzionare non
è un segreto aziendale perché è la normale esperienza che fa parte del percorso formativo del dipendente. La
Corte di Cassazione ha detto che se si tratta di capacità professionali, abilità ed esperienze che il dipendente
ha acquisito e migliorato nel corso della sua carriera, queste sono il suo patrimonio professionale che è libero
di utilizzare; se invece ci sono conoscenze specifiche qualificabili come segreti aziendali, non deve trasferirle
e non deve impiegarle. Questa norma deve essere letta insieme alle altre sulla violazione dei segreti come
violazione di un diritto di proprietà industriale: l’art. 39 del TRIPs, la Direttiva UE del 2016, gli art. 98 e 99
del c.p.i.

BOICOTTAGGIO
È un’altra ipotesi di concorrenza sleale che consiste nel rifiuto di avere rapporti economici con un soggetto,
rifiuto finalizzato ad impedire a quel soggetto di accedere al mercato o di continuare ad operarvi. Può essere
di due tipi:
– Primario: uno o più soggetti si rifiutano di avere direttamente rapporti contrattuali con l’imprenditore
boicottato; quest’ipotesi non necessariamente è illecita, spesso non lo è perché la regola in questi casi è
l’autonomia contrattuale (di regola ognuno è libero di decidere se stipulare o meno un contratto di tipo
commerciale ed economico con un terzo). Il boicottaggio è sì fare terra bruciata attorno all’imprenditore
concorrente e rifiutarsi di avere un rapporto commerciale con l’imprenditore concorrente può metterlo in
difficoltà, però finché questo si esaurisce nell’ambito dell’autonomia negoziale (libertà di decidere se e
con chi entrare in trattative contrattuali ed eventualmente stipulare un contratto) non c’è nulla di illecito.
C’è però un’eccezione che sorge quando il soggetto che rifiuta il rapporto contrattuale si trova in una
posizione dominante e abusa di questa posizione dominante oppure quando il rifiuto di contrattare è il
risultato di un’intesa vietata in base alla legislazione antitrust. Il boicottaggio primario in linea di principio
è lecito, diventa illecito quando può qualificarsi come una condotta in violazione delle norme antitrust,
cioè in caso di abuso di una posizione dominante (es. non dare l’accesso ad una infrastruttura essenziale di
cui il soggetto è il proprietario esclusivo e ha una condizione di monopolio sulla infrastruttura).
– Secondario: si ha quando uno o più soggetti si mettono d’accordo o un solo soggetto compie l’attività di
indurre altri soggetti a non intrattenere rapporti commerciali con un loro concorrente. Esempio: alcuni
fabbricanti di un prodotto boicottano un concorrente inducendo i fornitori delle materie prime necessarie
per realizzare il prodotto a non vendere più al concorrente queste materie prime. Il boicottaggio primario è
quello del soggetto che, di fronte all’offerta commerciale del concorrente, non è interessato. Diverso è il
caso del boicottaggio in cui Tizio è in concorrenza con Caio, entrambi hanno un fornitore di una certa
materia prima, Tizio va dal fornitore e gli dice che se smette di vendere la materia prima a Caio verra
compensato da lui. Ci sono anche forme più brutali di boicottaggio, ad esempio il fornitore della materia
prima vende il 90% della sua produzione a Tizio e il 10% a Caio, Tizio che è più forte economicamente si
presenta davanti al fornitore e lo minaccia di toglierlo dalla lista dei suoi fornitori se non smette di vendere
la materia prima a Caio. Questo è un atto di concorrenza sleale perché c’è un boicottaggio del concorrente
che viene messo in una situazione di difficoltà dal momento che non ha più i fornitori di cui ha bisogno.

LA CONCORRENZA PARASSITARIA
Attenzione a non confondersi con la fattispecie dell’agganciamento parassitario che è lo sfruttamento della
notorietà altrui. Benché qui ritorni la parola “parassitaria”, quando si parla di concorrenza parassitaria in
relazione al n. 3 dell’art. 2598 si intende la condotta di chi, come una sorta di clone, imita sistematicamente e
replica tutte o quasi tutte le iniziative del concorrente. Qui il concetto di parassitismo è quello di parassita, di
chi non ha una sua attività autonoma e si limita a replicare le iniziative del concorrente. Esempio: il mio
concorrente fa una certa iniziativa pubblicitaria io faccio la stessa pubblicità oppure fa una promozione o un
concorso a premi e anch’io faccio subito la stessa cosa. È una situazione in cui tutte le iniziative di marketing

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Eleonora Biffi

del mio concorrente o anche il suo intero catalogo prodotti vengono replicati e clonati; è proprio un illecito di
clonazione dell’intera attività produttiva e di marketing comunicazionale del concorrente. La particolarità è
che qui il singolo elemento copiato in sé può non essere oggetto di esclusiva: se il mio concorrente fa un
concorso a premi e lo faccio anch’io, di per sé non c’è nulla di male. La singola imitazione in sé non sarebbe
illecita, ciò che viene invece ritenuto scorretto è la ripetizione sistematica e massiccia di tutte le iniziative del
concorrente perché questa viene ritenuta come un’attività che non è propria di un imprenditore virtuoso che
dovrebbe invece agire sul mercato con le proprie forze e ideando delle proprie strategie commerciali. La
giurisprudenza ha detto che “la concorrenza parassitaria è un cammino continuo e sistematico sulle orme
altrui, una imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente con l’adozione più o meno immediata
di ogni sua iniziativa”. Questa è una fattispecie che è stata individuata già dagli anni cinquanta e sessanta del
secolo scorso. Mentre in passato erano molto rare le condanne per concorrenza parassitaria, negli ultimi anni
di fronte a certe opere di copiatura e clonazione delle attività altrui le condanne per concorrenza parassitaria
sono divenute più frequenti. Quello che guarda il giudice in questi casi non è se la singola imitazione è lecita
o illecita perché può essere anche che ogni elemento in sé considerato della strategia o del catalogo prodotti
del concorrente in sé sia imitabile, ma l’illiceità consiste proprio nell’effetto massa, nel copiare tutto in modo
sistematico.

Alcune decisioni hanno aggiunto la seguente precisazione: la concorrenza parassitaria non necessariamente è
diacronica, può essere anche sincronica. Nella maggior parte dei casi la concorrenza parassitaria è diacronica
(c’è una successione nel tempo di vari atti imitativi, appena il concorrente assume una certa iniziativa l’altro
la replica nel corso del tempo), ma ci sono stati casi in cui si è avuta una concorrenza parassitaria sincronica
(nello stesso momento di tempo, il concorrente aveva già posto in essere una serie di iniziative o aveva già
allestito un certo catalogo con una pluralità di prodotti e ad un certo punto il concorrente parassita ha copiato
tutto in blocco); in questo caso non c’è stato l’elemento del cammino nel corso del tempo, ma un atto di
replica in blocco in un certo momento di tutto quanto il concorrente aveva fatto fino a quel momento. Anche
questo tipo di concorrenza parassitaria è stata ritenuta illecita dalla giurisprudenza perché atto di concorrenza
sleale.

N.B. Tutte le ipotesi riconducibili al n. 3 sono ipotesi non esplicitamente iscritte nella legge ma tipizzate
perché la giurisprudenza ormai le ha messe a fuoco, le ha individuate nelle loro caratteristiche e ha anche
individuato i criteri per stabilire quando queste condotte siano scorrette e da censurare. Il criterio di fondo va
sempre ricordato nel n. 3 dell’articolo 2598: una condotta che si connota di scorrettezza e di slealtà è idonea
a danneggiare e a procurare un danno concorrenziale al concorrente. La clausola generale resta aperta per
cui, se al di fuori di queste fattispecie tipizzate si dovesse verificare una condotta che è professionalmente
scorretta nei rapporti tra imprenditori e danneggia un’altra azienda, in base alla clausola generale quella
condotta deve essere qualificata come atto di concorrenza sleale e sanzionata nei modi visti.

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