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Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Premessa
Introduzione. Lo yoga finanziario
L’amore e i soldi funzionano alla stessa maniera
I tre livelli della ricchezza
Sacra vocazione laica
Non serve nessun tappetino
Parte prima. La tesi
1. Lavorare accorcia la vita
Chist è neorealismo, uagliò!
Keep calm and abracadabra
50 sfumature di masochismo
Ma quindi i ministri sono i nostri servi?
Business is the new rock’n’roll
Che classe la rivoluzione senza classi
L’uomo nobilita il lavoro
Mangiare bio nei piatti di piombo
I millennials tendenzialmente se ne fregano
Non lavorare è il nuovo Sacro Graal
Bono Vox al call center
Non lavorare non significa cazzeggiare, o meglio, in parte sì
Occorre saper fare bene anche il «farniente»
Ritmo cognitivo is the answer
2. La fine dell’era del lavoro
La migliore delle (peggiori) ere possibili
Niente è come sembra
Vivere morendo o morire vivendo?
No pain no gain (ma non per tutti)
Non siamo all’oratorio ma somiglia
Divaricazioni, polarizzazioni, speciazioni
Criticare o surfare?
Sesso, zuppe e digital marketing
No patentino, no contenutino
Con la vanità non ci paghi il mutuo
Chi non lavora (poco) non fa l’amore
Troppo Mondello per essere vero
Belli belli in modo assurdo
La felicità interna netta
3. La spiritualità scientifica
La magia quando finisce male
Per una geologia dell’anima
Diventa uno Sting della scrivania
Fuoco cammina con me
È un superpotere essere vulnerabili
Il mio mental coach si chiama Gesù
Pace, amore e pragmatismo
Una piacevolissima questione di vita o di morte
Com’è difficile restare calmi mentre tutti intorno fanno rumore
Il mondo oltre le chiacchiere e i distintivi
In presenza anche da remoto
4. Il Life Design Spirituale
Dal disegnare cose al disegnare pensieri
Datti un cinque
È arrivato Cacini!
Toboga time
Let’s dance
I tre livelli paradossali del Life Design Spirituale
Sì, ma il mutuo poi me lo paghi tu?
Parte seconda. Il metodo
5. I sette passaggi
Immersioni ed emersioni
No Life Design, No Party
Il diario dell’energia
6. Immaginazione creativa
Primo comandamento: offrire da bere a quelli giusti
Esercizio
Interazione umana. I primi dieci fotogrammi
Lettura. I tre iniziati, Il Kybalion
Atto psicomagico. Il castello vascello
Pratica spirituale. La visualizzazione creativa
7. Empatizzazione
Il paradiso all’improvviso
La cruciale differenza tra «resa» e «accettazione»
Sarebbe un peccato non accarezzarsi
Esercizi
Lettura. Piero Ferrucci, Crescere
Interazione umana. Verbalizzazione nelle mani
Atto psicomagico. Il Pasto Nudo
Pratica spirituale. L’ecologia verbale
8. Definizione del problema
La concorrenza è un concetto da perdenti
Esercizi
Lettura. Nassim Nicholas Taleb, Antifragile
Interazione umana. Verbalizzazione nel cuore
Atto psicomagico. Il cartone sublimato
Pratica spirituale. La psicosintesi
9. Generazione delle nuove idee
Le idee sono tutto ma non sono così importanti
Esercizi
Lettura: Francisco de Hollanda, Dialoghi romani con Michelangelo
Interazione umana. Verbalizzazione nei piedi
Atto psicomagico. L’insalata di sorgente
Pratica spirituale. Meditazione Trascendentale ®
10. Prototipazione
Basta coi disegnini
L’uomo più ricco del mondo sta ancora prototipando
La loggia degli imprenditori notturni
Esercizio
Interazione umana. La degustazione furba
Lettura. Yvon Chouinard, Let my people go surfing. La filosofia di un imprenditore ribelle
Atto psicomagico. L’animale totem
Pratica spirituale. Enunciazioni superconsce
11. Testing
Come infrangere le regole disciplinatamente
Diventa il Rolex di te stesso
Esercizio
Interazione umana. Verbalizzazione di schiena
Lettura. Werner Herzog, Incontri alla fine del mondo
Atto psicomagico. L’addio al cordone ombelicale
Pratica spirituale. L’I Ching
12. Self check («burn out protection»)
Beata solitudo, sola beatitudo?
Non è tutto oro ciò che è vocazione
Esercizio
Interazione umana. 1 Billion Dollar Baby
Lettura. Friedrich Nietzsche, Divieni ciò che sei. Pensieri sul coraggio di essere se stessi
Pratica spirituale. Alchimia superior
Atto psicomagico. La «propriacettazione» di sé
Parte terza. La monetizzazione
13. Come vivere bene nell’incertezza
The frog stay in the pot until the panza is piena
Quando danzi, facci caso
No (conscious) pain, no gain: la sopravvalutazione del coraggio
Come difendersi dallo smog psichico
Ecologia verbale
Come convincere anche il nostro alluce
La caccia a un tesoro che possediamo già
La meditazione come toilette foderata d’oro delle nostre paranoie
Flussi multipli di cassa (e poi ne parliamo)
Paura eh?
14. Come trovare lavoro oggi (a tutte le età)
L’onanismo imprenditoriale rende professionalmente ciechi
Networking, (Inter)net working e altre inutilità
Non «trovare» ma «fatti trovare»
Migrare per poi ritornare
Non chiedere soldi, ma negozia duro
Come prepararsi prima di un colloquio
Come cambiare lavoro rimanendo nella stessa azienda
15. Come conviene farsi pagare
Checco Zalone adesso ha un segreto
Dipendenti investitori
Imprenditori fantasma
Freelance non vuol dire lanciarsi gratis
I micropreneurs spesso ce l’hanno troppo piccolo
Strategie di internalizzazione minimaliste
L’osso senza muscolo si spezza
16. L’azienda karmica
C’è chi manifesta per strada e chi rende manifesto il cambiamento
Non si annaffia un albero sulle foglie
Model is the king
Senza questo cruscotto rimani a piedi
Let’s party!
All you need is
Appendice. Esercizi
Copyright
Il libro

L
avorare, lavorare e ancora lavorare. Svegliarsi il lunedì mattina sognando l’arrivo del fine
settimana, entrare in ufficio alle nove contando le ore che ci separano dal rientro a casa,
mentre le tanto agognate vacanze sono ancora un sogno lontano. È la vita di milioni di
persone in tutto il mondo alle prese con i ritmi frenetici del lavoro, con lo stress, le ansie e le
preoccupazioni di una routine che alla lunga può essere devastante. Ma non sarebbe più utile e
produttivo scoprire cosa ci rende davvero felici? Non sarebbe più importante imparare a
riconoscere i nostri sogni e smettere di inseguire quelli degli altri? La risposta è sì, non c’è
dubbio, e per farlo non è necessario mollare tutto e aprire un chiringuito su una spiaggia
tropicale, ma intraprendere un percorso che permetta di trovare il giusto equilibrio tra vita
personale e lavoro. Il Life Design è proprio questo: un metodo, messo a punto dalla Stanford
University in California, grazie al quale è possibile ridisegnare la propria vita e realizzare la
propria vocazione.
Davide Francesco Sada ed Enrico Garzotto, esperti di trading, imprenditori e primi in Italia ad
aver ottenuto la certificazione presso i titolari della cattedra di design a Stanford, ci guidano alla
scoperta di questo viaggio di trasformazione interiore e ci invitano a riconfigurare la nostra vita
privata e lavorativa, affinché, finalmente, il lavoro non sia più «quello che facciamo per
campare», ma una sorgente di gioia e gratificazione interiore ed economica.
Dopo aver letto questo libro, nel quale alla teoria si affiancano la pratica e una serie di esercizi
concreti di Life Design, capiremo che vita privata e lavoro possono essere un tutt’uno e convivere
in modo armonico per il raggiungimento della felicità. Senza attriti, senza conflitti. Scopriremo
come trovare il nostro «disegno di vita» e monetizzarlo nel miglior modo possibile.
Gli autori

Davide Francesco Sada si laurea in Economia alla Bocconi di Milano


con una tesi sulla comunicazione aziendale. Diventa Music Marketing
Manager presso Tre Italia, per la quale cura e conduce format con
ospiti come Dave Gahan (Depeche Mode), Ben Harper e Air. Dal 2006
lascia la carriera da manager e inizia a studiare e praticare il trading
sui mercati finanziari per autofinanziare i suoi progetti artistici.
Sempre nello stesso periodo inizia a scrivere per D di Repubblica,
MTV Italia, Max, Filmcritica e si iscrive all’Ordine dei Giornalisti. Nel
2009 autoproduce il suo primo cortometraggio, Orissa, selezionato in
vari festival internazionali. Nel 2010 inizia il suo percorso
imprenditoriale fondando Moneysurfers prima e cofondando poi
OenoInvest e ForexNation. Dal 2020 è conduttore del podcast IL
BAZaR AtOMICo.
È autore, con Enrico Garzotto, di La felicità fa i soldi (2017).
Instagram: @davidefsada

ENRICO GARZOTTO è imprenditore specializzato nel mondo


dell’investimento a 360°, trader indipendente, analista finanziario
premiato da Economy di Panorama, intermediario finanziario e
formatore. Ha co-fondato insieme a Davide Francesco Sada il primo
broker etico del mondo, ForexNation, l’accademia formativa dedicata
alla ricchezza consapevole Moneysurfers e OenoInvest, azienda
specializzata in collezioni di vini pregiati e da investimento. È stato il
primo europeo a essere certificato come Life Designer dai due
professori della Stanford University Bill Burnett e Dave Evans.
Davide Francesco Sada
Enrico Garzotto

LIFE DESIGN
Premessa

«Qualora noi meritassimo una libertà, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro, e non occupazione
sul lavoro.»
CARMELO BENE

LE idee che racconteremo in questo libro sono il frutto di decenni di studi e dell’impatto di alcuni di
essi su di noi e su migliaia di corsisti che seguono i nostri progetti formativi fin dal 2010. Siamo
formatori e divulgatori che si sono incontrati per caso su Internet e che col tempo hanno costruito
una delle community più grosse e «assurde» dedicate alla cultura finanziaria.
L’idea di scrivere questo libro è nata dopo il successo ottenuto dall’evento tras-formativo più
intenso che siamo riusciti a organizzare finora, «Remake Your Life», tenutosi nel 2018 e 2019 in un
luogo molto speciale, il Palazzo del Cinema di Venezia. Con l’aiuto di monaci tibetani, scienziati e
investitori, migliaia di persone hanno frequentato, ed esperito, il primo corso di Life Design mai fatto
in Italia.
Da tanti anni studiavamo e applicavamo le tecniche del design thinking ai nostri business e persino
alle nostre idee d’investimento, ma per approfondirle meglio abbiamo deciso di volare in California e
certificarci presso i titolari della cattedra di design della Stanford University, Bill Burnett e Dave
Evans. Il metodo che racconteremo in questo libro, però, pur essendo ispirato al lavoro di tanti
studiosi internazionali che hanno affrontato la materia, è il primo che include una componente
interiore e spirituale; innanzitutto perché crediamo che per ottenere una vita più gratificante non
basti un semplice copia-incolla delle tecniche che si usano per programmare un laptop, e poi perché
dopo anni di pratica abbiamo visto che un approccio più integrato funziona meglio.
Grazie all’applicazione di questo metodo, infatti, abbiamo aiutato persone estromesse dal mondo
del lavoro a causa della rivoluzione digitale a costruirsi brand commerciali totalmente in linea con la
propria vocazione professionale e in grado di generare profitti in meno di sei mesi, tra l’altro grazie
al digitale. Sono stati ideati e creati eventi sold out che hanno ridato vita e dignità a periferie
degradate. È stata data la speranza e l’energia a persone gravemente malate da tempo per
concretizzare i propri sogni e diventare ambasciatori di positività grazie a libri di successo e
interviste televisive. Il tutto senza che sia stato necessario camminare sui carboni ardenti, ballare
come degli ossessi e suggestionare (a tradimento) la mente di nessuno.
In tutta la nostra vita non abbiamo mai partecipato a eventi motivazionali e non ne abbiamo mai
organizzati. Quello che ci è piaciuto fin da subito della teoria del Life Design è la sua sana anarchia e
lo spazio che concede al mistero: l’opposto della retorica dei «guru dai denti bianchissimi» che ti
dicono che devi essere pronto a tutto per raggiungere i tuoi sogni. Qui stiamo ragionando a un livello
più sottile, e prendiamo atto che il sogno è il viaggio, non la meta, e che quest’ultima deve diventare
quasi indifferente, perché non dipenderà mai da noi al 100 per cento e perché quasi sicuramente,
durante il percorso, cambieremo idea: crescendo ed evolvendoci, infatti, aumenteremo
automaticamente la consapevolezza che abbiamo di noi stessi.
Se tutto questo non vi attizza abbastanza e sentite ancora un briciolo di attrazione per chi vi
promette la ricetta magica per ottenere tutto quello che desiderate, sappiate che grazie al Life
Design non dovrete posporre i vostri festeggiamenti a quando avrete acquistato «la Lambo» o
l’attico; avrete molto di più, fin da subito. Dal «work hard play hard» al «play hard earn hard»,
finalmente disintossicati dal senso di colpa cattolico del sacrificio per ottenere un paradiso chissà
quando.
Applicando i metodi che imparerete in questo libro otterrete uno stile di vita differente, più serio
ma meno serioso, più dinamico ma meno stressante, più concreto ma meno impegnativo. Invece di
andare in giro a muso duro per portare a casa il risultato, partiremo per una caccia al tesoro
piacevole, un tour che ci porterà in un luogo del cuore che adesso non possiamo nemmeno
immaginare.
È la differenza che c’è tra remare e surfare un’onda. Tra lavorare e…
Introduzione
Lo yoga finanziario

L’amore e i soldi funzionano alla stessa maniera


Per chi ha già letto il nostro primo libro La felicità fa i soldi. Ricchi dentro e fuori con lo yoga
finanziario, questo capitolo sarà l’opportunità per un rapido ripasso. Per tutti gli altri invece si tratta
di una doverosa introduzione che serve a comprendere in quale contesto più ampio si inserisca per
noi il Life Design.
Mettiamo subito le cose in chiaro: chi vi scrive non è illuminato e non ha inventato praticamente
nulla di tutto quello che scrive e dice, tant’è vero che l’origine del nostro primo libro la dobbiamo alla
lettura di un libro che citava un altro libro ispirato agli insegnamenti di un altro libro ancora. Il
nostro mestiere, nonostante qui si parli di yoga, non è quello dei guru, ma è più simile a quello dei
disc jockey: facciamo dei remix, o meglio dei mash up. Nel meraviglioso Crescere di Piero Ferrucci si
cita un passaggio di On Love di Alfred Richard Orage, allievo del grande Georges I. Gurdjieff, in cui si
parla di tre tipi di amore che l’essere umano è in grado di esperire in base al suo livello di evoluzione
interiore: l’amore istintivo, emotivo e consapevole.
L’amore istintivo è quello animale, legato alla riproduzione e, in base all’età e alle capacità di
spesa, alle discoteche, a PornHub, a Tinder, agli FKK tedeschi o ai club per scambisti. Non c’è
giudizio, non c’è niente di male, ciascun livello è necessario al successivo; di sicuro però, salendo,
staremo meglio. Questo livello è caratterizzato dalla pulsione sessuale: se non esistesse, nessuno di
noi sarebbe venuto al mondo, ma il problema arriva quando si rimane in questa fase per sempre,
passando dalla pulsione alla compulsività.
La soddisfazione che otteniamo amando qualcuno solo per assecondare il nostro istinto
riproduttivo ha in sé qualcosa che ricorda la paura della morte: ci riproduciamo nell’illusione di poter
vivere per sempre. Se quando amiamo non ci schiodiamo da questo livello, un secondo dopo
l’orgasmo tutto finisce e vorremmo essere subito altrove in attesa del prossimo richiamo della
foresta. Scappiamo proprio perché ci sentiamo fregati, cercavamo la vita eterna e invece ci tocca la
morte. La legge è quella dell’elastico: è in atto una dipendenza, siamo come dei tossici.
L’amore emotivo invece è quello di chi ha sublimato l’obbedienza alle leggi biologiche, non ha più
paura di morire e finalmente approda al più raffinato mondo delle emozioni. Egli prova un sincero
sentimento per qualcuno, un impulso che va oltre la pura dinamica sessuale-riproduttiva. Si tratta
degli innamorati che si fissano negli occhi per ore. Davvero bellissimo da vedere nei film e da vivere
almeno qualche volta nella vita ma, come sappiamo se abbiamo più di diciott’anni, è solo una (più o
meno lunga) attesa dell’imminente suppostone passionale. Mentre l’amante istintivo (e non emotivo)
fa su e giù sul roller coaster ormonale, quello emotivo è intrappolato su quello dell’incertezza, della
gelosia, dell’attaccamento. Dal sesso al possesso.
L’amore consapevole invece è quello di chi ama per amare, di chi non sente nemmeno il bisogno di
sentirsi corrisposto. Non si sente solo perché proprio grazie a questo sentimento percepisce, ed
esperisce, l’unità, lo yoga, l’unione tra la sua individualità e la natura. L’intuizione di Orage è davvero
affascinante e liberatoria: tra un frequentatore di orge e un santo non c’è così tanta differenza:
entrambi lavorano sulla stessa energia, ma su frequenze diverse. Lo stesso accade col denaro e la
carriera.

I tre livelli della ricchezza


Nel nostro primo libro, per deformazione professionale, abbiamo provato a sovrapporre questa
piramide al nostro mondo della finanza e, viste le copie vendute, qualcosa di interessante sembra
essere venuto fuori. Taaac.
Tanto quanto l’amante istintivo agisce per necessità di sopravvivenza (della specie), allo stesso
modo il ricco istintivo lavora per la sopravvivenza… del suo conto in banca. Tanto quanto l’amante
emotivo ama ed è amato, ma è incapace di dosare i suoi sentimenti e quindi viene lasciato, il ricco
emotivo ha ottenuto una maggiore padronanza del mondo finanziario (e dunque guadagna in maniera
decorrelata dalle sue ore di lavoro), ma non sa capire quanti soldi sono abbastanza, e quindi
esagerando finisce per perderli tutti. Tanto quanto l’amante consapevole adora in maniera
disinteressata e sta bene con quello che arriva, il ricco consapevole ama quello che fa e guadagna
quello che deve guadagnare, senza sforzi.
Non si può arrivare al terzo livello senza passare dagli altri due. Il ricco istintivo è ossessionato dal
segno «meno»: lavora, lavora e lavora per sanare le sue finanze che irrimediabilmente tendono
sempre allo zero. Il ricco emotivo è ossessionato invece dal segno «più»: guadagna bene, ma siccome
ha concentrato tutta la sua vita sul denaro, non gli basta mai e ne vuole sempre di più. Il ricco
consapevole è focalizzato sul segno «uguale»: il denaro che riceve è esattamente quello necessario
alle esigenze finanziarie della sua vocazione professionale, ed è felice così. Un ricco consapevole non
arriva al suo livello perché ce lo calano gli angeli dall’alto, ma ci arriva per gradi, passando più o
meno velocemente dai livelli precedenti. Egli infatti:

Prima impara a badare a se stesso e alla sua famiglia.


Poi accresce la sua cultura finanziaria.
Infine individua ed esercita la sua vocazione professionale.

Ciascun salto di livello richiede una serie di passaggi che hanno una duplice qualità: qualcosa da
lasciare e qualcosa da acquisire, convinzioni limitanti più o meno consce da smascherare e
conoscenze finanziarie e interiori da integrare. Per passare dal livello istintivo a quello emotivo
bisogna buttare a mare l’idea che il denaro sia la causa dei mali del mondo, che sia limitato e che si
ottenga con la corruzione o lavorando sodo. Facile a dirsi, meno a farsi. Lo scoglio principale è quello
di studiare e riconoscere i nostri meccanismi automatici subconsci, ovvero le spie luminose che
segnalano che questa o quella convinzione stanno agendo su di noi.
Assieme a questa pratica di autoanalisi e di osservazione di sé, occorre imparare il linguaggio del
denaro. Senza diventare un esperto di finanza, basterebbe posizionarsi un centimetro sopra la media
italiana; sarebbe già tanta roba, considerando il fatto che in questo campo siamo da sempre il
fanalino di coda dell’Europa. Per essere il Paese in cui è nata la prima banca del mondo, possiamo e
dobbiamo fare di meglio. Concetti come diversificazione del rischio, return on investment, risk-
reward ratio, piano di accumulo e alternative assets non sono il massimo della sensualità, per questo
occorre venderli spiegando alle persone che è bello, possibile, morale ed etico ottenere uno stipendio
fisso senza lavorare ma facendo lavorare i soldi al posto nostro.
Una volta giunti a questo stadio, con la pancia un po’ più piena, possiamo salire la piramide e,
proprio come ci ha sempre spiegato Maslow, ambire a qualcosa di più. Anche se l’uomo medio, che
tipicamente arranca al livello istintivo, pensa che una volta raggiunta la serenità finanziaria vivere
sia solo un’infinita scelta di destinazioni vacanziere e modelli di scarpe di Gucci, la realtà è diversa.
Gli oggetti e le esperienze emozionanti che possediamo alla lunga finiranno per possederci e, per
fortuna, andremo in crisi. A quel punto sentiremo l’esigenza di dare un senso alla nostra esistenza,
vivere più leggeri e gratificati interiormente; all’inizio anche solamente con l’obiettivo di ottenere la
stima di chi ammiriamo, poi, se faremo le cose giuste (quelle spiegate in questo libro, per esempio),
per poter accedere letteralmente a un’altra dimensione.
La ricchezza consapevole si ottiene invertendo di 180 gradi lo sguardo che da sempre volgiamo
esclusivamente all’esterno e lanciando una sonda spaziale nel nostro microcosmo per conoscere i
nostri mondi, vicinissimi ma ancora sconosciuti. Non (solo) attraverso dei funghetti allucinogeni, ma
grazie ad alcune tecniche provate scientificamente da decenni, come la meditazione e il Life Design.
La prima è indispensabile per fare luce e rimuovere tutto ciò che ostruisce la strada, la seconda è il
navigatore GPS che dobbiamo tenere sempre acceso per essere certi di non perdere il percorso
giusto, quello verso la nostra vocazione professionale, ovvero il sacro incrocio tra:

1. Ciò che ci piace tanto fare.


2. Ciò che sappiamo fare bene.
3. Ciò che produce risultati che servono a qualcuno.

Sacra vocazione laica


Quello che una volta era un termine adatto solo ai sacerdoti, è diventato oggi il più cool dei termini
riferiti al mondo della carriera e del lavoro. Fino a qualche anno fa i guru motivazionali usavano il
termine «passione», poi ci è toccato spiegare loro che tale termine deriva da pathos, «sofferenza»,
quindi guadagnare grazie alle proprie sofferenze non suonava più bene. O meglio, rimane perfetto
per chi vuole fermarsi al secondo piano e bruciarsi l’opportunità di abitare l’attico.
La vocazione professionale è un termine organico che sublima le nostre tendenze più superficiali
ed egoiche e ci spinge in una duplice e coordinata direzione: verso il nostro interno (ciò che
sappiamo fare bene) e verso gli altri (ciò che produce risultati che servono davvero a qualcuno).
Facciamo un esempio così ci capiamo: «Ho la passione per la scrittura. Prima o poi pubblicherò un
romanzo».

1. Ci piace tanto farlo? A parole sembrerebbe di sì, ma cosa succede mentre scrivo? Sto bene o per
essere creativo mi devo drogare? E dopo che ho scritto? Dormo bene? Sono una presenza
gradevole per le persone che mi stanno accanto quando ho terminato il mio lavoro?
2. Siamo davvero bravi a scrivere? Oltre al nostro partner, l’amica del cuore e i colleghi, c’è
qualcuno o qualcosa che ci può dare dei feedback sinceri? Se sono anni che nessuno ci pubblica
nemmeno un racconto, quando vogliamo iniziare a farci delle domande?
3. Mettiamo anche il caso che abbiamo appurato che ci piace scrivere e che i critici ci reputino dei
grandiosi scrittori. Cosa succede se nessuno compra i nostri libri?

La ricerca della vocazione professionale non è come bere un bicchiere d’acqua fresca: a volte, se
fatta bene, può rappresentare persino un dolore necessario. Si deve avere a che fare con i cosiddetti
gravity problems, ovvero quegli ostacoli insormontabili che devono farci riflettere e spingerci
all’adattamento.
Se nel terzo millennio nessuno legge più romanzi di un certo tipo o poesie, magari, invece di
incaponirci, facciamo un giro di Life Design e scopriamo che la nostra vocazione professionale sta
solamente un centimetro più in là, dove non avevamo mai avuto l’opportunità di guardare perché
troppo concentrati sui soliti processi mentali arrugginiti. Per molti questo può essere demotivante,
ma il bello del Life Design è che quando siamo in vocazione, se ci guardiamo indietro, a quando
agivamo alla vecchia maniera, non ci riconosceremo. La versione vera di noi stessi è quella che serve
anche agli altri e che ci rende indipendenti finanziariamente.
L’essere umano è un animale sociale, e la produzione di ormoni che deriva dal sentirsi funzionale
alla soddisfazione di qualcun altro è cosa provata. La masturbazione allo specchio non rende ciechi, è
essa stessa la prova della nostra cecità interiore. Quello di cui stiamo parlando è altruismo amorale:
non siamo al servizio degli altri perché ce lo dice Dio e dobbiamo evitare di finire all’inferno, ma
perché se lo facciamo in accordo al nostro vero Sé, diventiamo uno snodo energetico, possibilmente
un acceleratore di particelle, e ci sentiamo vivi. Qualsiasi energia che venga lasciata a stagnare per
troppo tempo porta malattia e sofferenza.

Non serve nessun tappetino


Quando siamo «in vocazione» diventiamo un fiume, l’energia scorre rigogliosa, a patto che le due
sponde, quella della ricchezza interiore e quella della ricchezza esteriore, siano ben salde. Lo yoga
finanziario è questo: come non può esistere vera ricchezza se non conosciamo noi stessi e non diamo
agio all’energia di cui parlavamo alla fine del paragrafo precedente, così non può esserci vera
prosperità se ogni lunedì mattina ci tocca timbrare il cartellino e occuparci di cose che odiamo per
poter sopravvivere. Come nessun percorso spirituale può dirsi veramente efficace se non ci aiuta a
vivere una vita gratificante anche al di fuori del weekend, così nessuna carriera lavorativa può dirsi
sfavillante se per tirare avanti dobbiamo bere un caffè ogni ora e all’ultimo giorno delle vacanze
siamo già su Booking.com a prenotare le prossime.
Il Life Design è la costruzione e il mantenimento di queste sponde. L’approfondimento che mancava
al primo libro e che adesso è qui.
Buon viaggio.
PARTE PRIMA
La tesi
1
Lavorare accorcia la vita

Chist è neorealismo, uagliò!


«I napoletani mi hanno insegnato un sacco di cose. A Napoli non esiste la parola ‘lavoro’, esiste la
parola ‘fatica’, vado in ufficio a ‘faticare’. Questa è una misura precisa: o si fatica o ci si diverte. Si
può anche andare in ufficio a ‘non faticare’ ma a divertirsi. Se c’è partecipazione, tutto diventa
interessante, tutto diventa eccitante. Se si tratta soltanto di un dovere, diventa una fatica bestiale,
no? Ecco, io sono partito proprio da questo: ho cercato di evitare la fatica, cercando di partecipare
alle cose, per essere vivo dentro le cose.»
Queste che avete letto sono parole di Roberto Rossellini, intercettate una notte, su Rai 3, durante
l’ormai mitologico programma televisivo Fuori orario. Trasmettevano un documentario-intervista del
1969 dedicato a quello che per molti è tra i più grandi registi italiani di tutti i tempi.
Essere vivi dentro le cose. Avete presente la moda di oggi di appendere frasi motivazionali sulle
pareti? Fighissimo, ma che noia; soprattutto sono sempre le stesse, e si riducono alla solita retorica
del «Se vuoi ottenere qualcosa, lavora duro e vattelo a prendere». Questo libro vi dimostrerà, con i
fatti e con la scienza, che frasi come questa sono vecchie, ineleganti e soprattutto poco efficaci.
Tutt’altra poesia e – come vedremo più avanti – concretezza ha la chiusura dell’intervento di
Rossellini. Oggi diremmo che il regista era davvero smart, perché aveva capito prima di tanti altri
che quelle legate al lavoro sono letteralmente questioni di vita o di morte.
Essere vivi dentro le cose. La fatica è morte, la partecipazione è vita. Bene, oggi disponiamo di una
mole di dati e ricerche scientifiche sufficiente per dire che Rossellini aveva ragione. Faticare è il
nuovo fumare, passare buona parte della nostra vita a occuparci di attività che hanno come scopo
primario quello di ottenere un compenso monetario fa davvero male alla salute.
Il maestro del neorealismo ci ha insegnato che per vivere felici e ricchi non serve essere
ossessionati dagli obiettivi e spaccarsi la schiena: bisogna invece essere rigorosi e dedicare la
propria vita… alla vita. Esatto, la propria intera vita dedicata alla vita, vita lavorativa inclusa.
Spostare l’attenzione dalla meta al percorso. Ma attenzione a cosa, esattamente? Di nuovo, a tenersi
lontani dalla fatica.
Il primo consiglio pratico che vogliamo darvi, quindi, è andare su Google, digitare «Stampa poster
personalizzati», scegliere il sito che più vi piace e crearvi un manifesto motivazionale che, ne siamo
certi, non troverete in nessun negozio. Scrivete semplicemente: «Sii vivo dentro le cose».

Keep calm and abracadabra


Ma se lavorare vuol dire faticare e faticare ci fa ammalare, rimanendo sempre in ambito partenopeo,
allora ci chiederete: «C’aggia fa’ pe’ campa’?»
La questione, come ci ha insegnato Rossellini, è terminologica. Ecco, adesso parte lo spiegone
teorico, penserete voi. Fermi lì! Indagare sulle parole non serve solo a pettinarci le sinapsi, ma ha
effetti concreti, molto concreti, sui risultati che otterremo applicando le giuste azioni.
«Le parole sono importanti», ha detto un altro famoso regista italiano, Nanni Moretti; non perché
qualcuno ci darà un brutto voto se non usiamo quelle giuste, ma proprio perché tutto parte dalle
parole. In questo caso ci viene in soccorso l’apostolo Giovanni, che comincia così il suo Vangelo: «In
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
La parola è tutto; non è semplicemente un modo per etichettare una cosa, ma è proprio quella cosa
lì. Quindi parlare di parole è parlare di cose. Cose materiali. Questo concetto ci ha affascinato da
sempre, ma non l’abbiamo mai capito fin quando, un giorno, abbiamo iniziato a meditare. La
meditazione che pratichiamo prevede la ripetizione di una parola senza significato: un mantra, come
si dice in sanscrito. Ebbene, ripetendo la parola che ci è stata assegnata da un insegnante (diverso
per ognuno di noi), avvengono cambiamenti biologici misurabili e quasi immediati. In pochi minuti il
metabolismo si riduce a livelli più bassi di quelli che possiamo ottenere dopo ore di sonno, e le onde
cerebrali, se analizzate con un elettroencefalogramma, iniziano a farsi meno affastellate e
visivamente più ordinate. Insomma, accadono cose.
La parola è magica: agisce. Chiamare qualcosa con un nome differente non è un vezzo da
intellettuali: è una scelta molto seria, e come abbiamo visto può diventare una potentissima tecnica
trasformativa.

50 sfumature di masochismo
Lavoro, mestiere, impiego, professione, occupazione, arte. Idem oltralpe: travail, boulot, emploi,
métier, occupation. Anche gli inglesi, noti per essere minimalisti dal punto di vista linguistico, non si
risparmiano: work, job, career. Insomma c’è del materiale su cui… lavorare. Ops!
L’attività che occupa la stragrande maggioranza del tempo dei migliori anni della nostra vita va
definita con chiarezza. Abbiamo visto che è questione di vita o di morte, mica pizza e fullàcchie, come
dicono in Abruzzo.
Partiamo da uno dei temi fondamentali di questo libro, un’opera che ci piacerebbe venisse
catalogata nella categoria «Divulgazione scientifica sulla salute e la cura della persona», se non
addirittura in «Medicina». Il termine «lavoro» deriva dal latino labor, che vuol dire appunto «fatica»,
e pressoché ovunque serve a definire un’attività volta a produrre e dispensare beni e servizi in
cambio di un compenso. Tradotto: fare fatica per avere dei soldi.
Se pensate che questa interpretazione sia troppo aggressiva, facciamo un salto dall’altra parte del
traforo del Monte Bianco e, resistendo alla tentazione di farci una sciatina a Chamonix, analizziamo il
termine travail. Non ci vuole una laurea in etimologia – non esiste una laurea del genere, ma suonava
bene… – per capire da dove derivi; d’altronde, anche i siciliani parlano di «travagghiari».
La fatica qui diventa «sofferenza acuta e tormentosa», e qualunque donna che abbia dato alla luce
un bimbo ne sa qualcosa. Il termine deriva dal latino «tripalium», uno strumento di tortura composto
da tre pali su cui il malcapitato di turno veniva legato e poi torturato.
Lavorare significa penare, letteralmente una pura afflizione. È interessante notare che il travaglio
è anche un attrezzo che si usa per tenere fermi i cavalli durante alcune pratiche particolarmente
dolorose, come la ferratura, o durante gli interventi chirurgici. Questo termine contiene dunque una
doppia sofferenza intrinseca: la sofferenza in sé e l’impossibilità di uscirne scappando.
Visto il potere creativo della parola cui abbiamo accennato poche righe fa, la prossima volta che
sarete sotto l’ombrellone e il vicino vi chiederà: «Quando torni al lavoro?» valutate molto bene
qualsiasi tipo di risposta. E non stiamo scherzando.

Ma quindi i ministri sono i nostri servi?


Per fortuna esistono delle valide alternative, la migliore delle quali è certamente l’arte; ma di questo
parleremo più avanti. Per il momento proseguiamo con l’elenco. La parola «mestiere» deriva da
ministerium, che significa «servigio». Il mestierante è chi riduce la propria arte a mero esercizio
tecnico o a esclusiva fonte di lucro. Si tratta palesemente di un downgrade, uno svilimento.
«Impiego» e «occupazione» invece si equivalgono, grosso modo, ed entrambi contengono uno strano
retrogusto di «riempimento di tempo» che altrimenti non si saprebbe, appunto, come impiegare.
Iniziamo a ragionare quando parliamo di «professione», parola che deriva dal verbo latino
profitèri: dichiarare pubblicamente, insegnare, esercizio di un’arte nobile. Peccato che non esista un
verbo in italiano, qualcosa tipo «professionare», e non crediamo sia una valida alternativa
latineggiare per darsi un tono. Immaginatevi la scena… Ore 7.00 del mattino, voi con la
ventiquattrore in mano, sull’uscio della porta: «Ciao tesoro, buona giornata. Vado a dichiarare
pubblicamente».
E pensare che siamo stati noi italiani i primi a vederci giusto. Più precisamente sono stati i
fiorentini, che nel XII secolo hanno costituito le Arti di Firenze, vere e proprie istituzioni che, in
accordo – sarebbe meglio dire in disaccordo costante – con il potere politico, regolamentavano e
tutelavano le attività di ogni categoria professionale. L’etimologia di «arte», dal latino ars, ci porta
fino a una radice sanscrita («ar-») che significa «andare verso», «mettersi in moto»; l’esatto opposto,
quindi, della situazione in cui si trova il tipo appeso sul tripalium che abbiamo incontrato prima.
Se fossimo al governo, la prima riforma costituzionale che proporremmo sarebbe quella di
cambiare l’incipit dell’Articolo 1: «L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sull’arte». I risultati
pratici sarebbero istantanei e dirompenti. Pensateci bene: si tratterebbe di un semplice ritorno alle
origini, una botta di lucidità dopo la sbornia della Rivoluzione industriale. Non siamo famosi nel
mondo per essere dei bravi lavoratori, ma per essere i migliori artisti di sempre.

Business is the new rock‘n’roll


Nella classifica delle cento aziende di maggior valore al mondo sapete qual è la prima italiana?
Nessuna, non ce n’è neanche una. Sapete invece benissimo qual è il Paese con il maggior numero di
siti inclusi dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’umanità, vero?
Cosa vuol dire? Dobbiamo rassegnarci a vivere in uno Stato-museo? Proprio l’opposto: è qui che
sta il più grande dei malintesi che stiamo vivendo nella nostra epoca. Ricordiamoci che l’arte ha in sé
un profondo senso di azione, e niente è più morto di un museo.
Ci ricordiamo ancora la voce sprezzante di un agente immobiliare con cui stavamo parlando
qualche anno fa, mentre cercavamo casa dalle parti di Como. Ci raccontava del boom turistico
vissuto dalla zona negli ultimi anni, anche grazie all’arrivo di George Clooney sulle rive del lago:
«Una volta a Como se ti affacciavi dalla finestra sentivi le campane del Duomo. Ora, solo il fastidioso
baccano dei trolley». E se provavamo a far notare i vantaggi economici annessi, tutti ci rispondevano
così: «E cosa devo sperare per mio figlio? Un futuro da cameriere?»
Il turismo va bene, ma non basta. Vivere di rendita perché siamo oggettivamente il più bel luogo
del mondo sarebbe la nostra fine. La bellezza e l’arte sono parte del nostro DNA, ma vanno applicate
a tutte le nostre attività. Non ha senso entrare in competizione con gli americani, i tedeschi o i cinesi
cercando di snaturarci, lavorando: noi dobbiamo essere orgogliosi della nostra allergia al lavoro, e
farla diventare il nostro punto di forza.
Tutti pittori, poeti e scultori, quindi? Ma neanche per sogno, a meno che non vogliamo
deliberatamente morire di fame. Esistono aziende italiane di fatto sconosciute che vengono
osservate, aperte, studiate e descritte su YouTube da specialisti americani con lo stesso approccio
con cui Alberto Angela normalmente ci parla degli Uffizi o della Cappella Sistina.
Quello che vogliamo dire è che bisogna avere un approccio artistico in tutto ciò che si fa. Pennelli,
cacciaviti, laptop… Non importa lo strumento della nostra professione, conta il fine per il quale lo
utilizziamo. Attribuire il termine «artista» solo a chi opera nel settore delle arti figurative o plastiche
è profondamente sbagliato: fare arte significa esternare un afflato creativo, comprensibile a chi ne
fruisce, con la propria sensibilità. Significa essere il motore – ricordate? Arte uguale mettersi in moto
– e non la ruota di un meccanismo che ci stritolerà (Charlie Chaplin docet).
Le generazioni che ci hanno preceduto hanno visto nel lavoro un diritto perché dava garanzie di
stabilità e la possibilità di progettare il futuro. Nonostante i devastanti effetti collaterali (ansia,
depressione, infortuni, alienazione) era qualcosa di auspicabile, perché almeno c’era la possibilità di
costruire qualcosa, e, cosa non da poco, avere un’identità chiara. Io sono Mario e faccio il meccanico.
Oggi tutto questo non esiste più. La fatica la fanno, e la devono fare per questione di opportunità
economica, le macchine, i robot e l’intelligenza artificiale. Siamo obbligati dall’evoluzione tecnologica
a non abbandonarci all’afflizione. Ironia della sorte, anche questa situazione genera ansia in molte
persone. Il lavoro è fatica ma anche prevedibilità, noia ma anche sicurezza, tortura ma anche
certezza. L’arte invece è imprevedibilità, disorientamento, mistero; per questo nell’immaginario
collettivo gli artisti erano sempre dei mezzi matti squattrinati.
Oggi però sta accadendo l’esatto opposto. Tra i teenagers le persone veramente cool non sono più
le rock star maledette, ma gli imprenditori e gli investitori. Andate a vedervi il canale YouTube di uno
dei nostri guru, Ray Dalio, fondatore della Bridgewater Associates: c’è un video in cui viene
intervistato da Diddy (forse ve lo ricordate meglio come Puff Daddy). Osservate l’atteggiamento del
rapper, con la voce emozionata e la mano che freme sui fogli per appuntarsi qualsiasi dettaglio. Ve lo
immaginate Elvis che intervista Henry Ford con una tale riverenza? Anzi, ve lo immaginate Elvis che
intervista Henry Ford, punto?

Che classe la rivoluzione senza classi


Siamo in un mondo nuovo, meraviglioso, dove non conta solo essere trasgressivi per essere cool, ma
anche saper costruire e far lavorare assieme tutti gli emisferi del cervello, in perfetta sincronia con il
cuore. Di questo parlerà il libro che state leggendo.
E comunque anche un cameriere particolarmente esperto può essere un artista. Vi è mai capitato
di rimanere ipnotizzati dai loro gesti? Il modo con cui sanno essere tempestivi ma aggraziati, rigorosi
e gentili, in un costante e acrobatico equilibrio tra gli opposti. Ci trovavamo in uno dei migliori
ristoranti che ci sono sul Lago di Como, e dopo essere stati serviti dal migliore di tutti i camerieri del
mondo, alla fine ci siamo quasi lamentati per non essere riusciti a concentrarci sul cibo, affascinati
dalla sua carismatica professionalità.
«Non è che cosa, ma come lo si fa», cantavano i Bluvertigo. Attenzione quindi a non fraintenderci:
la discriminante per capire se uno sta «lavorando» (e quindi sta mettendo in pericolo la sua salute) o
meno non è il livello di presunta «nobiltà» della sua attività, ma l’approccio mentale con cui
quell’attività viene svolta. Per livello di nobiltà intendiamo il vecchio modo di classificare le arti che
arriva direttamente dal Medioevo e che in parte resiste anche ai giorni nostri.
A Firenze esistevano le Arti Maggiori (giudici e notai, medici, mercanti eccetera) e le Arti Minori
(calzolai, fabbri, fornai, vinattieri eccetera). Se scorriamo Instagram, però, il trend oggi sembra quasi
invertito. I veri fighi non sono più quelli in giacca e cravatta che firmano rogiti, ma i macellai di
Brooklyn o Portland che fanno foto fantastiche alle loro bistecche frollate con maestria nel whisky o
nel Porto. Da oltre un decennio c’è un evidente ritorno alle antiche arti cosiddette «minori». Quante
storie sentiamo anche noi, durante i nostri corsi, di manager in carriera plurilaureati che scappano
da Londra o Milano per tornare al paesello e valorizzare i prodotti della loro terra.
Il lavoro dunque non è più una questione esteriore, ma quasi esclusivamente interiore. Anzi, come
vedremo più avanti, l’unico vero lavoro da fare è proprio quello interiore. «Le azioni che dobbiamo
compiere oggi per costruire una carriera che ci gratifichi sono le stesse che servono per costruirci un
Sé»: non lo dice un monaco buddista ma Mark L. Savickas, ideatore del Life Design e stimato docente
universitario americano.
Le etichette e le convenzioni sociali sono saltate, soprattutto per i giovani (giovani in senso
anagrafico e mentale). Quello che conta è solo l’interiorità e la conoscenza di sé.

L’uomo nobilita il lavoro


C’è chi ci arriva con l’istinto e chi ha bisogno di un libro come questo, per capirlo: «Chi ha trovato un
significato nel proprio lavoro e nella propria vita ha meno della metà delle probabilità di sviluppare
malattie come l’Alzheimer», ha scritto Patricia Boyle della Rush University. a I fanatici della new age –
anche noi in parte lo siamo, soprattutto agli occhi delle persone più distanti da certe tematiche –
pensano che ogni malattia porti con sé un messaggio. Nel caso dello studio appena riportato, a costo
di sembrare cinici, il messaggio ci sembra abbastanza evidente: se decidi deliberatamente di
rinunciare ai tuoi talenti, alla tua creatività, al tuo genio, io, Madre Natura, ti tolgo quello che ti ho
dato, tanto tu stesso mi stai dicendo con le tue azioni che non ti serve. In misura ancora più tragica,
un altro studio, condotto su 6.000 soggetti, ha dimostrato che chi svolge un lavoro che ha come unico
fine il compenso monetario ha, nei 14 anni successivi, il 15 per cento di probabilità in più di morire
rispetto a chi mette al centro la propria vocazione professionale. b
Quando abbiamo letto queste ricerche ci è venuta in mente, per inquietante assonanza, la frase
che campeggia all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, Arbeit Macht Frei, il lavoro
rende liberi. Questo motto, tratto dal titolo di un romanzo dello scrittore tedesco Lorenz Diefenbach,
era stato voluto dal comandante del campo di sterminio, Rudolf Höss, il quale credeva che chi venisse
rinchiuso lì dentro dovesse lavorare per redimere la colpa di essere nato ebreo, comunista oppure
omosessuale. Lo stesso concetto rieducativo della fatica del lavoro è stato applicato innumerevoli
volte nel Novecento in ogni regime tirannico, ogni volta che si è trattato di «guarire» qualcuno da un
certo modo di pensare, o di essere, diverso da quello del potere dominante.
Ma la vera libertà non è quella data dal lavoro (inteso in questi termini), bensì dalla possibilità di
non dover lavorare mai un singolo minuto della nostra giornata. «Qualora noi meritassimo una
libertà, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro, e non occupazione sul lavoro», ha detto in tempi
non sospetti Carmelo Bene. Tocca all’uomo di oggi, dunque, rendere nobile il lavoro, trasformandolo
in qualcosa di diverso, dotato di significati più alti del puro e semplice ritorno economico. Ne va della
vostra salute, ma anche della vostra capacità di produrre ricchezza.

Mangiare bio nei piatti di piombo


L’edizione 2020 del Festival di Sanremo passerà alla storia per il clamoroso abbandono del palco del
cantautore Bugo, attaccato verbalmente, a sua insaputa e in diretta, dal sodale (e geniale) Morgan
durante l’esecuzione del brano Sincero.
Un verso di quella canzone ci ha colpito più di tutti: «Mangia bio nei piatti di piombo», perfetta
sintesi dell’incoerenza di tanti nel condurre una vita che si vorrebbe più sana. Da decenni i media, i
divulgatori e le organizzazioni mondiali preposte ci insegnano come mangiare, come gestire il nostro
corpo e la routine quotidiana. Anche il tavolo sul quale sono posati i nostri gomiti mentre scriviamo
saprebbe recitare a memoria le raccomandazioni: non fumare, dormi almeno otto ore a notte, non
mangiare troppa carne rossa, specialmente gli insaccati, fai attività fisica almeno una volta alla
settimana eccetera.
Su questi precetti, normalmente, la popolazione si divide in due fazioni. La prima abbraccia con
entusiasmo uno stile iper-salutista, al punto che se al ristorante non forniscono il sale dell’Himalaya
estratto a mano nelle notti di luna crescente inizia a sbraitare indignata e se ne va. L’altra fa ironia, si
vanta di essere invincibile e posta ogni giorno su Facebook foto di bistecche enormi circondate da
lattine di birra. Il salutismo e il suo contrario sono evidentemente due facce della stessa medaglia:
l’incapacità di essere centrati e di dare il giusto peso alle cose. Come diceva il Buddha, «la corda di
uno strumento musicale, per suonare bene, non deve essere né troppo tirata né troppo molle: deve
essere accordata».
Una presa di posizione così radicale, in un senso o nell’altro, nasconde la ricerca di un’identità a
tutti i costi laddove non ce ne sarebbe bisogno. Dire «Io sono vegetariano» regala a molti un
rassicurante senso di appartenenza, che soddisfa una chiara esigenza che andrebbe cercata altrove,
per esempio nella serietà con la quale affrontiamo la nostra sfida più importante: quella legata alla
nostra missione di vita.
È la scienza a dirci che non serve bere cappuccini vegetali tutta la vita se poi passiamo la
stragrande maggioranza della stessa a fare cose che non vorremmo mai e poi mai fare, per il
semplice motivo che bisogna pur pagare il mutuo o l’affitto di casa.
È una questione di priorità: un conto è la vita, un altro è l’apparato digerente.

I millennials tendenzialmente se ne fregano


Uno dei segnali che ci dice quanto questo approccio sia salutare e coerente con i tempi che stiamo
vivendo è la spontaneità con cui viene applicato dai giovani. Prima di proseguire va fatta una breve
premessa: verso i trentacinque anni qualcosa di inesorabile accade nella vita di ognuno di noi. Le
persone che si avvicinano al «mezzo del cammin di nostra vita», soprattutto se totalmente digiune di
qualsivoglia percorso di crescita interiore, tendono a ridicolizzare gli atteggiamenti delle nuove
generazioni: «La musica di oggi è spazzatura rispetto a quella che si ascoltava quando ero giovane
io», «I ragazzi di oggi non hanno più voglia di lavorare e si presentano ai colloqui di lavoro in tuta»,
«Noi avevamo degli ideali, mentre oggi i giovani pensano solo a trovare il modo di comprarsi le
sneakers su StockX» e così via.
Non ci accorgiamo di ripetere in maniera totalmente automatica gli stessi pattern, gli stessi giudizi
che abbiamo subito vent’anni fa. Non vale per tutti, intendiamoci: chi è «presente nel proprio tempo»
sa benissimo che ogni epoca ha un suo spirito (Zeitgeist) e, a prescindere dall’età anagrafica, riesce a
viverci dentro o, se non ne è in grado, tenta in tutti i modi di opporsi. È una dinamica potentissima in
cui cascano anche i migliori.
Anni fa eravamo a un «Aperitivo con l’autore» di un’edizione della rassegna culturale «La
Milanesiana» in cui erano ospiti, fra gli altri, Alejandro Jodorowsky e Werner Herzog. Dopo che il
primo terminò un lungo j’accuse contro l’industria cinematografica contemporanea, rea a suo dire di
non offrire più spazio al cinema di qualità, il secondo rispose candidamente: «E quindi? Chi se ne
frega di cosa c’era prima e di cosa c’è adesso. Io continuo a fare la mia arte utilizzando i mezzi oggi
disponibili: la rete e le varie piattaforme di streaming». Tutto questo accadeva in tempi non sospetti,
molti anni prima che Netflix spendesse 159 milioni di dollari per produrre un film secondo noi lento e
difficile come The Irishman di Martin Scorsese.
Non si tratta quindi di età anagrafica, ma di età interiore. Stiamo parlando di tre «vecchietti» che
hanno scelto due modi differenti di approcciare lo Zeitgeist: Jodorowsky non lo ha accettato e lo ha
criticato, con il risultato di rimanere fuori dai giochi per sempre, mentre Herzog e Scorsese lo hanno
accolto e fatto loro, senza giudicarlo, ottenendo in questo modo budget mostruosi con un livello di
libertà espressiva impensabile persino negli anni Sessanta, quando uscivano film come 8 1/2 di
Fellini. E lo stesso identico meccanismo vale per tutte le professioni.
Lo Zeitgeist oggi ci parla di valori. Lavori e valori, guarda caso uno anagramma dell’altro. Ancora
una volta ci viene in soccorso la ricerca scientifica: secondo il The 2016 Deloitte Millennial Survey, 9
millennials su 10 sostengono che il successo non si misura solo in termini economici. Più della metà
sceglie dove lavorare in base ai valori trasmessi dall’azienda, e altrettanti affermano di essersi
rifiutati di svolgere un compito che andava contro la propria etica e i propri valori.
Le nuove generazioni non ci vogliono cascare: hanno visto come è stata vissuta la vita dei loro
genitori e non intendono fare la stessa cosa. Così come i nostri nonni e i nostri genitori sono scappati
dalle campagne perché un lavoro in fabbrica garantiva loro introiti sicuri e meno fatica fisica, i
ragazzi di oggi – inclusi quelli più «stagionati» come Herzog e Scorsese, nati entrambi nel 1942 –
hanno scelto di non arrendersi a una vita totalmente votata all’ubbidienza e alla sopravvivenza e di
vivere appieno ogni istante della loro esistenza. E attenzione a non cadere nella trappola: alla voce
«Valori» ciascuno deve sentirsi libero di metterci dentro quello che vuole.
Escluse le ovvie aberrazioni dell’umanità come la violenza, il razzismo e la stupidità, tutto il resto
vale. Mettere al centro i valori non significa essere tutti addetti del terzo settore o fondatori di onlus.
Non stiamo dicendo che i giovani devono diventare tutti dei piccoli Gandhi o piccole Madre Teresa di
Calcutta; è un equivoco che ci capita di riscontrare spesso fra i nostri corsisti.
Se per Chiara Ferragni il valore su cui si fonda la sua attività è il glamour, allora il glamour dovrà
guidare qualsiasi sua scelta professionale e imprenditoriale. Senza problemi o sensi di colpa, perché
l’effimero è negli occhi di chi guarda. Chi giudica snobisticamente le nuove professioni che sono nate
e nasceranno nell’era digitale contemporanea, deve rileggersi questo paragrafo per due motivi:
prima di tutto per non invecchiare (pensieri vecchi producono corpi vecchi), e in secondo luogo per
salvaguardare la propria capacità di esprimersi e di ricavarne reddito. Ebbene sì: l’assurda verità che
si deduce incrociando studi scientifici ed economico-finanziari è che oggi, veramente, Chi lavora è
perduto, prendendo in prestito il titolo profetico del primo film di Tinto Brass, un apologo anarchico
sul disagio giovanile girato nel 1963, in pieno boom economico, che ben poco aveva a che spartire
con la produzione erotica che avrebbe reso celebre il regista negli anni a venire.

Non lavorare è il nuovo Sacro Graal


Come abbiamo visto, dati alla mano, chi oggi si alza la mattina per svolgere mansioni che non
continuerebbe a svolgere anche in assenza di compenso monetario, non solo vive di meno e si
ammala di più, ma è anche meno competitivo e meno in grado di garantirsi una vita prospera.
Secondo uno studio condotto dalla società di ricerche Gallup, «le aziende i cui impiegati sono
partecipi nella mission hanno il 147 per cento in più di guadagni per azione». c Non solo: Sisodia,
Sheth e Wolfe, nel loro libro Firms of Endearment, scrivono che «le aziende che sono costruite sulla
passione e che nel loro statuto hanno fini più alti del mero ritorno economico hanno visto, tra il 1998
e il 2013, crescere il loro valore finanziario 14 volte più velocemente della media delle aziende più
capitalizzate degli Stati Uniti d’America». d
Le evidenze scientifiche a un certo punto sono diventate talmente tante che persino
l’amministratore delegato del fondo d’investimento più ricco e influente al mondo, Laurence Fink di
BlackRock, nel 2018 scrisse in una lettera a tutti gli azionisti queste parole: «Le aziende, siano esse
pubbliche o private, devono avere uno scopo sociale. Per prosperare nel tempo, la performance
finanziaria non è più sufficiente, ogni azienda deve dimostrare di aver fornito un contributo positivo
alla società, a beneficio di tutti i suoi portatori di interesse; azionisti, dipendenti, clienti e comunità di
riferimento». Per prosperare, la performance finanziaria non è più sufficiente: ci vuole altro. E a
parlare è Mister Capitalismo in persona, non il portavoce di un centro sociale occupato.
Se il principale key performance indicator (abbreviato anche in KPI o, in italiano, indicatore chiave
di prestazione) è diventato dunque l’impatto positivo sulla società, è evidente che un’azienda che
voglia mantenersi florida dovrà rivoluzionare tutti i processi e le strategie che la fanno funzionare, a
partire dai criteri di selezione e gestione del personale, cercando di mettere al centro del proprio
operato i valori e le cosiddette soft skills: l’intelligenza emotiva, la flessibilità, la capacità di lavorare
in squadra, ma soprattutto l’autenticità della spinta vocazionale di chi lavora.
Per creare dei team davvero efficienti non sarà più necessario dare la caccia a fenomeni
«masterizzati» a Cambridge o a Harvard, mentre servirà sempre più saper smascherare i cosiddetti
«cazzari della vocazione», quelli che ai colloqui tirano fuori parole a caso tipo «karma» ed «etica» ma
nei fatti conducono una vita non allineata ai valori che fondano l’azienda che li dovrebbe assumere.
Bono Vox al call center
Questa ri-evoluzione riguarda tutti, non solo chi ha aspirazioni imprenditoriali ma anche manager,
impiegati, contadini e artigiani. Un’altra trappola dei tempi che stiamo vivendo è quella della retorica
motivazionale spicciola che ci propina l’imprenditore come unico modello da emulare. Come abbiamo
detto prima, è vero, gli imprenditori sono le nuove rock star, ma anche le rock star hanno bisogno di
qualcuno che gestisca il catering nei camerini o gli effetti luce durante i concerti.
Anzi, quella che stiamo osservando è la democratizzazione del concetto stesso: le vere rock star,
oggi, per assurdo, non sono più come le abbiamo sempre immaginate. Viviamo un’epoca di iper-
specializzazione: ci sono opinion leader e divulgatori eccezionali, con milioni di follower, che
spiegano come fare «ad arte» persino il customer care. Un vero leader oggi è colui che è in grado di
rendere artistico anche un lavoro apparentemente poco sexy come il project management, per
esempio. Le vocazioni sono infinite: ridurci tutti a emuli di Elon Musk è una visione incredibilmente
limitante e soprattutto poco efficace. Essere Elon Musk non è così bello come sembra, e diventa un
vero inferno se non si ha quella vocazione e ci si ostina a volerlo diventare a tutti i costi. Brucerete i
migliori anni della vostra vita a inseguire un sogno che vi è stato letteralmente impiantato nel cranio
da qualcun altro.
Fa parte di un meraviglioso processo di risveglio dell’umanità quello di disintossicarci da questo
tipo di dinamiche imitative e invertire di 180 gradi lo sguardo: da fuori a dentro. Trovare dentro di
noi la risposta alla domanda «Che cosa posso fare per campare?» ci offre anche un paio di
meravigliosi «effetti collaterali»: ci trasforma da contraffattori di identità esistenti a produttori di
prodotti e servizi assolutamente originali e per questo più desiderabili dal mercato, e ci obbliga a
guardarci dentro, a conoscerci meglio come esseri umani e quindi a vivere una vita più consapevole,
lucida e felice.

Non lavorare non significa cazzeggiare, o meglio, in parte sì


Una delle dinamiche psicologiche più deleterie che osserviamo sempre più spesso quando si tratta di
far proprie queste nuove logiche di approccio al mondo della produttività è quella del giudizio. Non è
questa la sede per decidere se giudicare gli altri sia filosoficamente giusto o sbagliato: a noi preme
dire che di sicuro non è produttivo ed è svilente. Per capirci, scrivere sotto ogni post dell’influencer
di turno frasi come «Vai a lavorare» denota un’incredibile dose di ignoranza e ci preclude qualsiasi
tipo di speranza di miglioramento della nostra condizione finanziaria. L’automazione e la quarta
rivoluzione industriale, di cui parleremo approfonditamente nel prossimo capitolo, faranno sembrare
quasi tutte le professioni, soprattutto quelle più redditizie, degli «pseudo-cazzeggi».
Se dedichiamo buona parte della nostra giornata alle attività che nei decenni scorsi venivano
definite «lavorative», avremo perso in partenza: ci sarà sempre un robot, un software o
un’applicazione intelligente che le farà meglio di noi. Risultato: o verremo licenziati o i nostri
concorrenti, che avranno delegato meglio di noi, ci surclasseranno.
Le professioni più redditizie del presente e del prossimo futuro, come abbiamo visto, saranno in
tutto e per tutto simili ad arti, e chi ha letto le biografie degli artisti sa benissimo che non conta la
produttività ma la qualità del lavoro prodotto. Per diventare cantanti famosi non basta pubblicare più
canzoni degli altri, bisogna pubblicare (oggi più che mai) solo quelle buone. Non esistono nemmeno
più gli album, composti dalla classica alternanza di singoli radiofonici e riempitivi: esistono solo le
hit. Ci sono cantanti che riempiono palazzetti e che non fanno album da anni, ma pubblicano due o
tre pezzi all’anno.
E il resto del tempo, che si fa? Si cazzeggia? Risposta: sì e no. Prima di tutto un artista, un travel
blogger, un fashion influencer non sta lavorando solo quando fa un concerto o pubblica una foto da
un’infinity pool mentre indossa un costume di Fendi. Chi è pratico di digital marketing e di self
branding sa benissimo che quella è solo la punta di un iceberg che cela ore e ore di studi, creazioni di
processi, riunioni strategiche, partnership eccetera.
Allo stesso modo, chi come noi si occupa di formazione non lavora soltanto quando tiene
materialmente un corso; quella è diventata solo una piccola percentuale del nostro impegno diretto.
Occorre stare attenti a ciò che accade nel mondo, studiare incessantemente, pianificare l’offerta
formativa, creare contenuti a ritmo quasi quotidiano per continuare a mantenere salda la relazione
che ci lega alla community, e così via. E poi, sì, ci imponiamo ogni giorno almeno un quarto d’ora di
cazzeggio.
Niente è più salvifico oggi del sapere mantenere un giusto equilibrio tra le attività che compiamo
durante la nostra giornata. Lo ripetiamo sempre ai corsisti e ai collaboratori: non lavorate troppo,
concedetevi la libertà di perdere tempo. Le migliori idee non vengono quasi mai durante i brain
storming ma durante il brain pausing. Quante volte, pochi secondi dopo essere entrati nella doccia,
siete stati colti di sorpresa dall’idea geniale che vi ha evitato ore di lavoro?
Immaginate una vita organizzata in modo che queste intuizioni facciano parte di un metodo. È
troppo facile lasciarsi sopraffare dalle «cose da fare». Un vero artista, un artista consapevole (non
una meteora) sa che per essere bravi e produrre capolavori occorre essere capolavori, come diceva
Carmelo Bene. Per un attore studiare in una scuola di recitazione e fare bene il compitino non è
sufficiente: per diventare bravo, eccezionale, un attore deve vivere una vita eccezionale.
E questo oggi vale per qualsiasi professione: saper alternare attività produttive ad attività,
diciamo, «meditative» ci garantirà un rendimento migliore e ci permetterà di osservare il nostro
business da un’angolazione differente, prevenendo eventuali disastri e permettendoci di fare salti in
avanti altrimenti impossibili.
Immaginiamo: un’azienda possiede un marchio con il quale produce spazzolini, uno con il quale
produce batterie e un altro dedicato agli elettrodomestici, ma non inventa lo spazzolino elettrico,
perdendo miliardi di dollari da «vantaggio di prima mossa». Questo è esattamente ciò che accade
quando si lavora troppo: in un mondo in cui la produzione è diventata quasi una commodity mentre le
idee sono pressoché tutto, le idee arrivano prima agli altri. Fidatevi di chi, da anni, ha brand che
vendono bene su Amazon FBA e non ha mai neanche visitato le fabbriche che si occupano di dare
forma alle sue intuizioni.

Occorre saper fare bene anche il «farniente»


Avendo vissuto entrambi all’estero per parecchi anni, sappiamo bene che nella stragrande
maggioranza delle lingue straniere non esiste una parola che descriva l’ozio creativo, tant’è che sia
gli inglesi sia i francesi lo chiamano proprio «farniente». Noi italiani, invece, siamo invidiati per la
nostra capacità di inventarci soluzioni brillanti, di saper usare in maniera talentuosa e spontanea il
pensiero laterale.
Eppure, nonostante questa meritata fama, e nonostante per esempio lo stesso algoritmo che sta
dietro il funzionamento del motore di ricerca Google sia basato sull’intuizione di un informatico
italiano, Massimo Marchiori, il sistema economico italiano è un disastro. Quindi? Se ne deduce che
questo termine va indagato e inserito in un approccio più organico.
Come insegniamo nei corsi di investimento, il segreto sta nella differenziazione e nel metodo,
perché se il divagare diventa più forte della nostra «presenza», sarà sempre e solo uno sterile
naufragare. Per «presenza» intendiamo la capacità di essere lucidi e di mantenere sempre attiva
dentro di noi una parte vigile. Lo sappiamo, sembra un paradosso, e infatti in parte lo è, ma è così
che si fa: essere «sul pezzo» anche quando volontariamente cerchiamo di «perdere il filo».
Per trovare e rendere efficiente questo equilibro occorre pazienza, voglia di migliorarsi e tanto
metodo. Bisogna andare per gradi, darsi tempo. Il Life Design è la disciplina che più di tutte ci aiuta e
in questo libro la spiegheremo nella pratica.

Ritmo cognitivo is the answer


Uno dei capisaldi del Life Design è la presa di coscienza che non ha senso organizzare meglio la
nostra vita senza includere nell’analisi ciascuno dei suoi aspetti. Che senso ha fare carriera e
diventare ricchi se a quarant’anni siamo già scoppiati, con un quadro clinico compromesso e
totalmente dipendenti dagli psicofarmaci? L’obiettivo, invece, come anticipato prima, è trovare il
giusto equilibrio che – è bene dirlo subito – andrà costantemente monitorato e ricalibrato.
Uno dei motivi per cui non ci sarà mai nella vostra vita un momento in cui potrete dire: «Oh,
adesso sono a posto, posso riporre il mio Life Design nel cassetto», si chiama tecnicamente «costo di
transizione». Anche quando avrete capito che ci vuole la giusta alternanza tra svago e
concentrazione, una parte del vostro cervello opporrà sempre resistenza al cambiamento. Sempre e
per sempre. Questa resistenza è appunto il costo di transizione, un meccanismo subdolo e quasi
impossibile da trovare senza le giuste tecniche di Life Design.
È davvero interessante notare il fatto che la comunità scientifica abbia scelto proprio la parola
«costo» per definire questa dinamica psicologica, perché proprio di costo si tratta, soprattutto
finanziario. Questo «sperpero» interiore quotidiano ha un valore economico, è invisibile ma capace di
lavorare alle fondamenta della nostra vita, silenzioso come un tarlo, fino a farla collassare nel
fallimento totale.
Alla nostra mente – meglio, a una buona parte di essa – piace stare ferma dov’è, persino quando
soffre. Siamo tutti naturalmente inclini a questa strana forma di sindrome di Stoccolma, dove
l’aggressore e l’aggredito sono la stessa persona. Non c’è da spaventarsi, non siamo malati, è la
natura delle cose, e il mondo si divide sostanzialmente tra chi sta scegliendo di lavorarci e chi no.
L’obiettivo quindi non è la quiete: per quella avremo tantissimo tempo una volta arrivati al
camposanto. Occorre invece visualizzare e vivere concretamente la vita come se fosse una danza, la
cui materia prima è il ritmo. In questo caso si tratta di quello che gli psicologi chiamano ritmo
cognitivo: battere e levare, battere e levare, focus e distrazione, focus e distrazione. E Dio solo sa
quanto sia difficile insegnare a musicisti e ballerini principianti ad andare a tempo, soprattutto
quando si tratta di seguire un tempo così sincopato, irregolare e poco prevedibile come quello della
vita. Ma è anche questo il bello, no? Immaginate di vivere una vita sapendo esattamente cosa
accadrà e quando: non vi alzereste mai dal letto.
Non bisogna far altro che allenarsi, diventare ballerini provetti e ricordarsi di non fermarsi mai, di
non cadere nella trappola della finta e illusoria produttività, che ci dà quasi dipendenza. Anzi, senza il
quasi: quando siamo produttivi, infatti, portiamo a termine un sacco di compiti operativi, attitudine
che ci permette un lento e costante rilascio di dopamina. Lavorare è una droga dalla quale è
difficilissimo disintossicarsi. Avete mai messo a posto una soffitta, un garage o una cantina? Magari
ci mettete anni a decidervi, ma una volta che avrete iniziato non riuscirete più a fermarvi fino a
quando non crollerete esausti a terra. È la stessa dinamica che porta persone che una volta erano
normali a massacrarsi di sport anche quando l’anagrafe consiglierebbe la ginnastica dolce.
Quella che sembra una celebrazione quasi religiosa della fatica in realtà è una forma insidiosa di
pigrizia. È molto più comodo ammazzarsi di lavoro e non smettere fino a quando avremo raggiunto i
nostri obiettivi; e proprio come con le droghe, andremo avanti fino all’overdose, che in questo caso
sarà un bell’esaurimento nervoso, condizione da cui sarà davvero difficile rialzarsi. A quel punto
soffriremo talmente tanto che si presenterà il problema opposto, cioè la paura di lavorare.
È importante sottolineare che queste dinamiche occorrono indipendentemente dal fatto che il
nostro lavoro ci piaccia o meno, che sia compatibile o meno con la nostra vocazione professionale.
Sarà anzi più probabile cadere in questa spirale se amiamo quello che facciamo. Per questo nel
nostro metodo abbiamo aggiunto un passaggio dedicato a tattiche e strategie per evitare il burn out
quando, dopo aver trovato la nostra vocazione, ci staremo mettendo anima e corpo.
Che si tratti di banali ambizioni carrieristiche, di senso del dovere o di pura e semplice
incoscienza, è evidente che si tratta di un problema urgente che, in qualche misura, chiunque non
viva sotto una dittatura o in tempi di guerra oggi si trova ad affrontare. Stiamo parlando di miliardi di
esseri umani da iscrivere subito alla scuola di danza più importante che ci sia, la Zumba dell’Anima.

a. Patricia A. Boyle, Aron S. Buchman, Lisa L. Barnes e David A. Bennett, «Effect of a Purpose in Life on Risk of
Incident Alzheimer Disease and Mild Cognitive Impairment in Community-Dwelling Older Persons», in Archives
of General Psychiatry, 67, 3, 2010, pp. 304-310.
b. Patrick L. Hill, Nicholas A. Turiano, «Purpose in Life as a Predictor of Mortality Across Adulthood», in
Psychological Science, 25, 7, 2014, pp. 1482-1486.
c. The State of the American Workplace, Gallup, 2013.
d. Rajendra Sisodia, Jagdish Sheth e David Wolfe, Firms of Endearment: How World-Class Companies Profit from
Passion and Purpose, Pearson Education, Londra 2014.
2
La fine dell’era del lavoro

La migliore delle (peggiori) ere possibili


Si stava meglio quando si stava peggio. O no? Ma anche, aggiungiamo noi: chi se ne frega. Fare
valutazioni su quale possa essere stata l’era migliore in cui vivere è un esercizio perfetto quando le
cene con gli amici si avviano alla conclusione e sul tavolo rimangono solo i digestivi, non per un libro
come questo. Quindi, com’è nostra abitudine, asteniamoci da qualsiasi giudizio ozioso e andiamo a
vedere le cose per come stanno, adesso.
La prima cosa da tenere presente quando vogliamo avere una visione chiara delle macro-tendenze
che caratterizzano i nostri giorni è che, in mancanza di una sana dieta informativa, quasi certamente
dovremo pulire le lenti degli occhiali; anche se abbiamo dieci decimi e non li abbiamo mai indossati.
Le dinamiche dei media, oggi più che mai, sono perverse. Lungi da noi l’ennesima tirata sulle fake
news: non è lo scopo di questo libro. Peraltro, la questione dei bias cognitivi deleteri, verso i quali
dobbiamo stare veramente in guardia, riguarda soprattutto le real news, le notizie «vere», e il
virgolettato non è casuale.
Tanto per cominciare, una notizia «veramente vera» non può esistere per definizione, perché è
scientificamente provato che una verità «veramente vera» non esiste. Di nuovo, non abbiamo
intenzione di metterci a parlare di fisica quantistica e principio d’indeterminazione di Heisenberg;
riassumiamo tutto con la genialità di (ancora una volta) Carmelo Bene, che ha sempre sostenuto che
non sono mai le notizie a informare sui fatti, quanto piuttosto il contrario.
Millenni di studi, dai Veda ai filosofi contemporanei, ci dicono che se qualcosa di «veramente vero»
esiste, di sicuro non lo si può spiegare a parole: le parole sono la traduzione della verità, e la
traduzione è sempre un tradimento. Quindi, per capire come stanno le cose, per agire in accordo con
lo spirito dei tempi, occorre informarsi il meglio possibile, selezionare con cura la fonte da cui ci
abbeveriamo e agire. Il Dalai Lama non scorre pagine e pagine di social network, ma ascolta un solo
notiziario in tutto il giorno, quello delle cinque del mattino su BBC World Service. Punto.
Oltre a essere «traditrici per definizione», le real news sono sempre una porzione dannatamente
ristretta di ciò che sta accadendo nel mondo. I media, non per sadismo ma perché devono
assecondare i nostri bassi istinti per fatturare di più, funzionano un po’ come un’autostrada: se nella
corsia del senso opposto di marcia sta passando una macchina a idrogeno, nessuno si volterà a
guardarla, ma se accade un incidente grave si creeranno file interminabili, anche nella nostra corsia,
perché la gente istintivamente rallenta per guardare.
Le buone notizie importano davvero a pochi, ed è un problema, perché a lungo andare questa
dinamica provoca una distorsione della realtà che crea effetti concreti sul nostro destino.
Fortunatamente se ne sono accorti in tanti, e si sta tentando di correre ai ripari. Per esempio, il
Corriere della Sera ha aggiunto un inserto che parla del terzo settore e che s’intitola proprio «Buone
Notizie», mentre la Repubblica sul sito spesso mette in cima a tutte le notizie una rubrica intitolata
«La prima cosa bella», di Gabriele Romagnoli. I primi in assoluto nel mondo, non a caso, sono stati i
seguaci di Maharishi Mahesh Yogi, fondatore della meditazione trascendentale, che da anni
collezionano le migliori notizie dal mondo sul sito globalgoodnews.com.
Se decidiamo di non fermarci alla superficie delle cose e studiamo con apertura e visione, ci
accorgeremo che non esistono notizie buone o cattive: esiste solo chi decide, coscientemente o meno,
di subire lo Zeitgeist e chi sceglie di surfarlo. La prospettiva è, come sempre, soggettiva. Non fateci
fare i motivatori, però: ormai lo sanno anche i muri che la vita è per il 10 per cento ciò che ti accade
e per il 90 per cento come reagisci. Piuttosto, andiamo a smontare un po’ di luoghi comuni sul mondo
dell’economia, del lavoro e delle opportunità imprenditoriali.

Niente è come sembra


I dati sulla disoccupazione giovanile in Italia ci mostrano da anni un trend preoccupante. Insieme a
Spagna e Grecia, siamo il fanalino di coda dell’Europa. Il primo decennio del nuovo secolo ha visto
tornare il tasso di emigrazione a livelli praticamente identici a quelli del secondo dopoguerra. La
differenza è che questa volta non se ne vanno braccianti o minatori, ma giovani laureati pronti per
essere impiegati nelle imprese degli Stati Uniti o dei Paesi scandinavi.
Quante volte abbiamo sentito questo ritornello? Tutto verissimo, per carità, ma poi nei trafiletti o
nei magazine specializzati, se cercate bene, scoprirete un sacco di storie che non diventano
mainstream perché sono belle notizie, storie che se avessero lo stesso spazio delle altre
contribuirebbero enormemente al morale e all’intraprendenza delle persone. Storie come quella di
Miriam Pugliese, una ragazza originaria di San Floro, seicento anime in provincia di Catanzaro, che
da Berlino, dov’era andata a sbarcare il lunario con i soliti lavoretti, è tornata in Calabria per
recuperare una tradizione dimenticata della sua terra: l’allevamento dei bachi da seta, attività
produttiva che tra il Trecento e il Settecento aveva reso la sua città capitale europea della seta.
Assieme ad altri due soci ha fondato Nido di Seta, e fra i loro clienti oggi c’è persino il Papa. Oppure
Giulia Giontella, ex avvocatessa tributarista che dopo aver girato il mondo ed essersi fatta ispirare da
alcune startup di successo francesi, è tornata a Roma per vendere online fiori a chilometri zero con
florityfair.com. In soli due mesi ha recuperato l’investimento e dal 2013 è in costante crescita.
Il pattern si ripete talmente spesso che qualcuno l’ha già ribattezzata «generazione boomerang».
Si va oltreconfine, si imparano le cose giuste, ci si fa ispirare, si scopre che l’Italia è un Paese ricco di
opportunità che prima non vedevamo (le lenti appannate di cui parlavamo prima), si torna e si
realizza con successo il proprio sogno.
Anche noi in un certo senso siamo due boomerang. Enrico, già esperto di trading, è andato a
Londra senza soldi per sfondare nella finanza, è finito a fare il pizzaiolo e, insieme ad alcuni italiani
incontrati in un pub della City, ha fondato la sua prima agenzia di brokeraggio. In poco tempo ha
aperto una sede a Berkeley Square e ha incontrato Davide, anche lui emigrato, a Bruxelles, per noia
e in cerca di stimoli. Insieme siamo tornati in Italia per fondare Moneysurfers, la nostra società di
formazione.
Un altro tema importante da analizzare con le giuste lenti è quello dell’automazione dei processi
produttivi. Ogni studio o ricerca propone numeri diversi, ma facendo una media tra tutti si stima che
entro pochi anni tra il 45 e il 60 per cento delle professioni di oggi verranno svolte da software o
robot. Ovviamente si tratta di un trend iniziato da anni, così come da anni ne vediamo i risultati: le
aziende sono sempre meno labour centered (ovvero ci lavorano sempre meno esseri umani), e ogni
volta che annunciano licenziamenti di massa la loro quotazione in borsa schizza alle stelle. I talk
show si riempiono di sindacalisti che s’incazzano invocando il reddito di base, imprenditori che fanno
gli gnorri e conduttori che aizzano lo scontro per fare audience.
Nessuno che si metta lì a studiare i numeri e affrontare i fatti per quello che sono. Così come non è
vero che i nostri giovani che emigrano sono uguali ai minatori che abbiamo spedito nel secolo scorso
per tutto il mondo, e oggi, se si sbattono, hanno tutti gli strumenti per tornare indietro prima della
pensione, allo stesso modo non è vero che gli imprenditori sono dei sadici che giocano con le vite dei
loro collaboratori. Un imprenditore, se vuole far durare per generazioni la sua azienda, deve sempre
agire in nome e per conto di un progetto. L’imprenditore è amorale, non immorale, come la natura.
Infatti, se accorpiamo nel modo giusto i numeri e li sappiamo leggere, scopriamo che il World
Economic Forum stima che entro il 2025 l’automazione ci ruberà 75 milioni di tipologie di lavoro ma
al contempo ce ne restituirà un totale di 133 milioni. a Il saldo dunque sarà positivo: dati alla mano,
l’automazione creerà ben 58 milioni di nuove professioni. Il problema è che non si trovano persone
che le sappiano svolgere. E quindi? Quindi gli imprenditori faranno a gara per accaparrarseli e… Toh,
vedi chi ha il coltello dalla parte del manico adesso, caro sindacalista?
Già ci sembra di sentire le vostre obiezioni: eh, ma questo vale all’estero, l’Italia rimarrà sempre il
Paese dove regna il nepotismo; saranno sempre gli amici e gli amici degli amici a prendere i posti
migliori; la casta! Quante belle scuse per non fare niente. Che tristezza passare da un Paese guidato
da politici corrotti a un Paese intero che pensa pensieri corrotti dal pericoloso morbo della
deresponsabilizzazione.
Se aprissimo davvero gli occhi, ci renderemmo conto che in realtà viviamo nella migliore delle ere
possibili. Non è mai stato possibile mettere in piedi business milionari investendo poche centinaia di
euro, senza il bisogno di raccomandazioni o spintarelle. È vero, la disoccupazione giovanile fa paura,
ma per chi sa tenersi aggiornato e fare un buon lavoro di Life Design – consapevolmente o
inconsapevolmente, lo vedremo dopo – non solo ci si riesce a mantenere, ma se non si sta attenti si
rischia di creare vere e proprie aziende strutturate, canali televisivi e brand milionari.
Senza citare la solita Chiara Ferragni, che è la punta di un iceberg, pensiamo ai tantissimi progetti
di micropreneurship che, grazie agli strumenti digitali oggi a disposizione, sono riusciti a crearsi una
base di clienti ancora prima di avere un prodotto da vendere. Viviamo la prima era in cui
l’indipendenza finanziaria può dipendere solo da noi stessi. I grossi gruppi televisivi mondiali vedono
diminuire ogni anno la raccolta pubblicitaria per i loro show di punta. Le aziende sanno che gli occhi
delle persone puntano altrove: per esempio nei profili social e nei canali YouTube, come quello di
Andrea Galeazzi, architetto iscritto all’albo ma diventato un «canale televisivo umano» dedicato alla
tecnologia e all’automotive, o quelli dedicati al branded content come The Jackal o Il Milanese
Imbruttito.
Formidabili creatori di contenuti che solo dieci anni fa avrebbero dovuto scannarsi per poter
essere inseriti in programmi televisivi come Zelig, ora siedono ai tavoli che contano, e si permettono
persino di scegliere con chi fare affari e con chi no. È proprio vero allora che viviamo in un’epoca
buia in cui dovremmo accontentarci del reddito di cittadinanza perché gli immigrati e i robot ci
porteranno via il lavoro, e che gli unici ad arricchirsi saranno le aziende del famigerato FAANG (non
è il personaggio fatto di fango di un qualche film di fantascienza, ma l’acronimo più amato dagli
investitori in Borsa oggi: Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google, a cui noi aggiungiamo anche
Microsoft e NVIDIA)? Narrazione ottima per chi vuole vampirizzare la nostra attenzione, ma molto
meno per noi, se vogliamo davvero risvegliarci e vivere meglio.
Persino i giganti della tecnologia hanno bisogno di noi. Senza contenuti questi colossi
crollerebbero. La domanda giusta da porsi allora è: voglio solo subirli, questi contenuti, o voglio
crearne di coerenti alla mia sfera valoriale e connetterli, senza soluzione di continuità, alla mia
vocazione professionale per non dover più lavorare nemmeno un giorno?
Vivere morendo o morire vivendo?
È davvero affascinante osservare come qualsiasi notizia, persino ogni fatto, possa essere visto da
angolazioni diverse. A seconda della prospettiva dalla quale viene osservato, lo stesso evento può
rappresentare una disgrazia o una benedizione. La spariamo grossa? Persino una delle aberrazioni
umane più orripilanti e assurde mai viste su questo pianeta, la seconda guerra mondiale, ha prodotto
come risultato, oltre a una stima di circa 65 milioni di morti tra militari e civili, il periodo di pace più
lungo della storia europea.
Ne avremmo volentieri fatto a meno, ma quello di passare attraverso il dolore per crescere, oltre
che essere uno dei capisaldi della dottrina cattolica, sembra essere un pattern ricorrente per la
crescita e lo sviluppo dell’individuo e della società. Chissà perché le persone capiscono
perfettamente questo meccanismo quando si tratta di scolpire addominali e glutei, ma non quando
serve ricercare una gratificazione interiore e professionale.
L’eccidio dei posti fissi è la più grossa fortuna che potesse capitarci. Niente come un carriera
sicura e ben remunerata ha il potenziale di distruggere la vita di un essere umano. Certo, si stava
meglio quando si stava peggio, come si dice; i nostri genitori avevano molte più tutele di noi, la sera
probabilmente dormivano meglio, ma quanti di noi possono raccontare storie di parenti sul letto di
morte che prima di esalare l’ultimo respiro ci hanno consigliato di «vivere veramente la vita»?
Esiste un libro che consigliamo spesso ai nostri corsisti: Vorrei averlo fatto di Bronnie Ware
raccoglie le testimonianze di una donna che ha dedicato la sua vita ad accompagnare le persone
durante le ultime fasi delle malattie terminali. Il titolo dice già tutto, ma quello che ci interessa qui è
notare che il libro ci racconta la storia di una generazione che ha vissuto in un mondo totalmente
diverso da quello attuale: tutele sindacali più robuste in alcuni Paesi e, per quasi tutti, la provenienza
da condizioni di fame vera. Oggi tutto è cambiato, e persino «fare i bravi» per senso di responsabilità
non ci garantisce di vivere una vita economicamente soddisfacente. I ragazzi lo sanno, non serve
spiegarglielo; e allora impariamo da loro, incontriamoli più spesso, condividiamo la nostra esperienza
e lasciamoci influenzare dalla loro naturale inclinazione all’autenticità.

No pain no gain (ma non per tutti)


Il dolore come motore del cambiamento non è sempre obbligatorio, molte cose si possono capire
senza soffrire. Per esempio, per qualcuno c’è voluta una pandemia per capire che non serve fare
ventidue ore di aereo per trovare un luogo incantevole dove rilassarsi e connettersi con la natura, per
altri no. Per qualcuno è stato necessario perdere il lavoro a causa di un’app e veder evaporare
gradualmente i propri risparmi per capire che vivere in una casa più piccola, e magari in affitto,
garantisce un’esistenza più semplice e leggera, la stessa che peraltro hanno scelto alcuni
multimiliardari. Per qualcuno è stato necessario vedere bloccato per sempre il traffico
automobilistico di intere zone della propria città per capire che gli investimenti in energie sostenibili
sono il macro-trend più potente degli ultimi anni.
La quantità di dolore necessaria per far fare uno scatto alla nostra consapevolezza è direttamente
proporzionale al livello di addormentamento precedente. Lo abbiamo capito, per quanto riguarda la
salute fisica, con le sigarette, i cibi processati e l’eccesso di carboidrati; adesso occorre fare lo stesso
scatto per la salute interiore. Prevenire, come sempre, è meglio che curare, e prevenire una
«malattia interiore» necessita di un notevole investimento di tempo ed energie in quella che nel
nostro libro precedente abbiamo definito «la palestra dell’anima», una palestra che funziona al
contrario: invece di alzarli, i pesi vengono posati.
Convinzioni limitanti, abitudini depotenzianti e pensieri tossici devono essere prima identificati e
capiti, e poi attentamente osservati. Basterà fare questo affinché scompaiano dalla nostra vita.
Questa disintossicazione è una condizione necessaria (ma non sufficiente) per soffrire meno e fare
un buon Life Design. Come abbiamo scritto nell’introduzione, la meditazione quotidiana è lo
strumento migliore per partire, anche se non basta: prepara il terreno in maniera perfetta e
sparecchia la tavola del pasto precedente, poco bilanciato, per poterla apparecchiare con i nuovi
strumenti di cui ci doteremo applicando il Life Design e cibarci di pietanze ben più succulente. A
proposito di stoviglie, ci tocca citare, anche in questo libro, l’illuminante intuizione dello psicologo e
psicoterapeuta Piero Ferrucci.

A un uomo fu dato il permesso di visitare il paradiso e l’inferno mentre era ancora in vita. Andò
prima all’inferno, e lì vide una grande accolita di persone sedute a lunghe tavolate, imbandite di cibo
ricco e abbondante. Eppure queste persone piangevano e stavano morendo di fame. Il visitatore ben
presto ne vide la ragione: i cucchiai e le forchette che usavano erano più lunghi delle loro braccia,
cosicché costoro erano incapaci di portare il cibo alla bocca. Poi l’uomo andò in paradiso e lì trovò la
stessa situazione: lunghe tavolate imbandite con cibo di ogni genere; anche qui la gente aveva le
posate più lunghe delle braccia e anche qui non poteva portare il cibo alla bocca; eppure avevano
tutti l’aria di essere soddisfatti e ben nutriti. La spiegazione era semplice: anziché cercare di nutrire
se stessi, si imboccavano reciprocamente.

Non siamo all’oratorio ma somiglia


Ok, dopo questa parabola stiamo perdendo i più cinici e imbruttiti. Lo sappiamo, e questo ci duole
parecchio, anche perché temiamo che questi siano, fra i lettori, quelli tendenzialmente più attivi.
Dopo tanti anni di formazione, abbiamo iniziato a delineare dei profili abbastanza netti. Il più
pericoloso è «il sognatore»: ci capisce, ci ama, compra tutti i nostri corsi ma si accontenta di questo.
Le persone che invece hanno messo in pratica le cose che divulghiamo quasi sempre sono state
portate dagli amici sognatori, quindi ci tocca ricordare ancora una volta che questa atmosfera «simil-
parrocchiale» introdotta dal buon Ferrucci è oggi avallata dai più importanti studi scientifici.
Non ci sono solo le ricerche citate nelle pagine precedenti a farci capire che l’era del lavoro è
ormai morta e sepolta. C’è anche una classifica: si tratta del celebre elenco delle capacità
maggiormente richieste dalle aziende che, annualmente, viene diffuso dal World Economic Forum. Il
trend premia le soft skills, quelle competenze trasversali, sociali e caratteriali, più umane e meno
«robotiche»: il pensiero critico, la creatività, la flessibilità cognitiva – non essere testardi, per
intenderci – e, ultimo ma non meno importante, l’intelligenza emotiva.
Cari imbruttiti, è chiaro? Non si tratta di essere naïf, ma di essere smart. È abbastanza banale: in
un contesto di rapida e radicale automazione, le aziende cercano dagli uomini tutto ciò che le
macchine non riescono (ancora?) a fare, cioè l’imprevedibilità e la compassione, sostanzialmente.
All’ufficio risorse umane di Google non frega niente che voi sappiate gestire un foglio Excel bendati e
incatenati alla sedia battendo i tasti con i denti più velocemente di chiunque altro: a Google interessa
capire se siete veri esseri umani o «robot organici», se quando lavorate, più che i software siete in
grado di gestire la vostra macchina emotiva.
Questo approccio fa il paio con alcuni discorsi portati avanti da ambienti in odore di new age o che
si ispirano a un nuovo umanesimo, luoghi di pensiero ed esperienza che anche noi frequentiamo
saltuariamente con piacere. La parola che torna spesso qui è «risveglio». Senza che ci sia bisogno di
scomodare la religione, questa volta è l’umanità stessa a ricoprire il ruolo che Dio occupava nel
Cristianesimo, nell’Islam o nell’Induismo: una nuova umanità, forzata dall’innovazione tecnologica a
essere più umana, sempre, non solo la domenica in parrocchia o all’ashram durante un ritiro
spirituale yoga.
Si tratta di una vera e propria nuova specie, pronta ad affrontare le sfide che ci aspettano
abbandonando dicotomie ormai desuete come capitale/Stato, profitto/beneficenza, lavoro/tempo
libero. Per molti ma non per tutti, direte voi. Verissimo, ribadiamo noi: come abbiamo visto, nessun
pasto è gratis e occorre saper guardare nel lunghissimo periodo, oltre la nostra stessa vita. Nel breve
periodo ci aspettano invece battaglie quotidiane, dentro e fuori di noi: piccole, medie o grandi
catastrofi che periodicamente modelleranno i contorni di uno scenario futuro che potrebbe anche non
esserci, ma a favore del quale non ci resta che lavorare.
Ecco, qui sì che usiamo la parola «lavorare», perché quello su se stessi è l’unico lavoro che ci è
rimasto, come ha gridato il cantautore Brunori SAS dal palco del concerto del Primo Maggio. Chi lo
ha capito, e ci ha aggiunto un po’ di sana cultura finanziaria, già adesso vive vite impensabili fino a
pochi anni fa; chi invece ha ancora un piede nel Novecento soffre, e tanto.

Divaricazioni, polarizzazioni, speciazioni


Mentre fino alla generazione dei nostri genitori, in ambito industriale o post-industriale, le classi
sociali erano abbastanza rigide e tendevano a sedimentarsi nel tempo, oggi è saltato tutto. C’erano i
grossi industriali e una gigantesca classe media; lo Stato faceva patti con i più ammanicati dei primi
e garantiva un tenore di vita al limite dell’accettabilità ai secondi. Negli ultimi anni, Internet e
l’automazione hanno cambiato radicalmente questo panorama sociale ed economico. Oggi siamo agli
inizi di un’epoca nuova in cui le dinamiche si stanno facendo via via più evidenti: chi è creativo,
empatico, imprevedibile e impara a gestire le macchine (e gli algoritmi), passa nel giro di pochi anni
a far parte di una classe che potenzialmente non ha limiti di crescita e di «dominio» sugli altri. Gli
altri sono il 99,9 per cento della popolazione, e sono scivolati dalla classe media a una condizione di
indigenza che non si vedeva dal dopoguerra.
Sembra un film di fantascienza, ma non lo è. Mentre fino a pochi anni fa si cercava di capire il
divario di ricchezza tra l’1 per cento di abbienti e il 99 per cento dei restanti, oggi questo non basta
più: tocca farlo con lo 0,1 per cento.
Quindi, che si fa? Ci spiace, ma non avete in mano un pamphlet politico, almeno nel senso
convenzionale del termine. Non è compito nostro dettare l’agenda ai futuri potenti del mondo. Questo
è un manuale di «super-vivenza», che in questa prima parte intende farvi conoscere quali sono i
macro-trend attuali, quelli visibili e quelli sottotraccia, mentre nella seconda parte vi fornirà gli
strumenti per poterli dominare senza esserne dominati. Senza il bisogno di dire cosa andrebbe fatto
e cosa no, senza darvi consigli o spinte motivazionali, ma consegnandovi un metodo per partire,
senza una meta precisa, verso luoghi e professioni che magari adesso nemmeno immaginate, ma che
speriamo siano più coerenti con il vostro Sé.
Tutti i macro-indicatori naturali, sociologici ed economici ci raccontano di un mondo che ha
raggiunto livelli parossistici in ogni suo ambito. È stato persino piazzato un gigantesco conto alla
rovescia a Union Square, nel centro di Manhattan, che ci ricorda che se non faremo nulla per
invertire la rotta della nostra condotta climatica entro il 1° gennaio 2028, la Terra raggiungerà un
punto di non ritorno e saremo condannati a un’estinzione di massa. Ok, siamo la prima (o al massimo
la seconda) generazione europea a non partecipare a una guerra, ma in quanto ad agenti ansiogeni
siamo messi abbastanza bene pure noi, ammettiamolo. È come se l’uomo, oggi, inconsciamente,
sentisse l’esigenza di raggiungere un apice ingestibile di tensione energetica, per poter infine
prendere coscienza di sé e della sua funzione nel mondo. Gli effetti devastanti di alcune invenzioni,
che inizialmente sembravano passatempi innocenti (come i social network), sull’ordine pubblico e
sulla normale vita democratica della maggior parte dei Paesi occidentali ci sembrano a questo punto
strumenti funzionali al raggiungimento di un gigantesco burn out che non potrà che risvegliarci. A
meno che non ci estingueremo prima, ovviamente.
Gli algoritmi si fanno via via sempre più inquietanti e surreali. Un giorno stavamo consultando
alcuni profili su LinkedIn, selezionati per noi da un cacciatore di teste in vista di future assunzioni di
personale per una delle nostre aziende; dopo nemmeno un quarto d’ora questa persona ci ha
chiamati per chiederci feedback sui profili che avevamo appena iniziato a studiare. Non è normale.
Non è sano. Non è umano. La pressoché totale cancellazione dei nostri spazi intimi, l’inquinamento
insostenibile della nostra attenzione attraverso le notifiche, l’occupazione radicale dei media (social e
non) da parte di informazioni divisive e polarizzanti, ci stanno causando seri danni neurologici.
La tendenza nefasta a dividersi su tutto, ultimamente, ha raggiunto persino Paesi come gli Stati
Uniti, da sempre fondati su una narrazione potentemente patriottica. C’è persino chi profetizza la
nascita di una nuova specie umana costituita da individui che capiranno queste dinamiche prima
degli altri e, disintossicandosi, saranno in grado di dominare chi invece non si sarà dotato degli
strumenti adatti, venendo così estromesso dal ciclo produttivo e creativo perché completamente
lobotomizzato da algoritmi e logiche divisive. Tutto questo suona affascinante e allo stesso tempo
terrificante, ma anche se i futurologi ci appassionano tantissimo, quando si tratta di lavorare su noi
stessi preferiamo i «presentologi».
Tutto il materiale, i dati e gli studi che servono per garantirci una vita professionale più
gratificante ce li abbiamo qui e ora. Restiamo con quello che c’è. Essere ossessionati dai massimi
sistemi è una delle patologie peggiori della nostra epoca, foriera com’è di teorie complottistiche ben
oltre ormai il limite dell’autoparodia. Anche in questo caso siamo di fronte all’ennesima scusa
inconscia collettiva, per giustificare la nostra infelicità e per deresponsabilizzarci: «Se con 100.000
delle vecchie lire non ci riempio più la busta al supermercato, non è l’effetto dell’inflazione ma è
colpa di George Soros». Bravi, e intanto dallo 0,01 passiamo allo 0,001 per cento.

Criticare o surfare?
Ovunque fioccano libri e documentari di denuncia sui giganti tecnologici americani, rigorosamente
pubblicati e acquistabili sulle stesse piattaforme che intendono stigmatizzare. Tutto questo ci ricorda
molto lo storico faccia a faccia tra Marco Travaglio e Silvio Berlusconi, e l’indimenticabile frase di
quest’ultimo: «Signor Travaglio, io sono il suo core business». Se c’è una cosa che la storia ci insegna
è che i grandi cambiamenti, quelli che portano un miglioramento duraturo della condizione umana,
non accadono mai solo attraverso le polemiche o le proteste, ma cambiando il nostro stile di vita.
Silenziosamente.
Non fateci citare la solita frase di Gandhi che trovate in tutti i negozi di cibi biologici e sui cestini
della spazzatura di Milano. La realtà – ormai lo abbiamo scoperto da più di un secolo – non è una: è
ambivalente e soprattutto cambia in base a chi la osserva. Dire che Amazon è un category killer
perché sta desertificando le nostre città provocando la chiusura delle attività commerciali è vero, ma
anche no. Una persona molto impegnata, alla terza volta che restituirà un paio di scarpe comprate
online perché la misura non va bene, smetterà per sempre di comprare scarpe online (eccoci,
presenti). Dire che Netflix ucciderà il cinema come lo conoscevamo prima è probabilmente vero, ma
se guardiamo alla qualità dei film prodotti dalla grande N e la paragoniamo con quella che affollava i
multisala di provincia, be’… Dire che Spotify ha impoverito la qualità della musica è vero: i musicisti
non guadagnano quasi più niente dalla vendita dei dischi, ma quanti decenni di album pieni di inutili
riempitivi ci siamo dovuti sorbire in passato, pagandoli fior di quattrini? Dire che Facebook e
Instagram danno dipendenza e rimbambiscono le persone è vero, ma quante persone hanno potuto
cambiare vita e vedere realizzati i propri sogni grazie a queste piattaforme di promozione
democratica e scalabile (eccoci, presenti di nuovo)?
Dopo aver pubblicato un best seller che nel sottotitolo aveva la paraculissima espressione «yoga
finanziario», siamo stati subissati di critiche e insulti per aver inserito nei nostri percorsi formativi un
corso su come creare uno shop redditizio su Amazon. Il mondo è pieno di idealisti che hanno riempito
le piazze di idee pure e dogmatiche: i più bravi tra questi nel Novecento hanno causato anche
qualche milione di morti. Abbiamo già dato, grazie. Non conta dove si fanno le cose ma come. Se io
penso di aver concepito un business a impatto positivo e lo veicolo tramite un business potente ma a
impatto negativo, non sto «imbastardendo la mia arianità»: sto semplicemente contribuendo a
rendere quel luogo meno negativo. Altrimenti è come dire che non dovremmo usare l’energia
elettrica perché qualcuno, da qualche parte, la usa per eseguire condanne a morte.
Per dimostrare che questa cosa è fattibile, abbiamo contribuito a creare un brand che
corrispondesse ai nostri valori etici e lo abbiamo spedito al «demonio» Amazon. In tre mesi il
business è andato a break even, in meno di sei mesi dava uno stipendio da quadro/dirigente alla
persona che ci lavorava e da due anni il 25 per cento dei suoi profitti viene donato al progetto di
pulizia degli oceani dalla plastica messo in piedi dall’imprenditore olandese Boyan Slat, Ocean
CleanUp.
Il brand si chiama Undisposabl, ed è partito anticipando e cavalcando con discreto successo il
trend delle borracce e delle tazze termiche. Ok, si poteva evitare che i prodotti fossero prodotti in
Cina; ok, si poteva evitare di metterlo su Amazon… Anzi no, con i soldi che c’erano non si poteva
evitare né l’una ne l’altra cosa: o così o non ci rimaneva che scrivere libri polemici e protestare sui
social. Questi mostri che starebbero «fagocitando il mondo» sono gli stessi draghi che, se cavalcati
opportunamente, possono offrire occasioni mai viste alle persone che hanno voglia di fare della
propria vocazione professionale la principale fonte di reddito e sostentamento, interiore e materiale.

Sesso, zuppe e digital marketing


All’inizio degli anni Dieci di questo secolo, quando Davide faceva il giornalista per riviste come D di
Repubblica o il compianto Max di RCS, si ritrovò a raccontare ogni settimana storie di artisti fighetti
olandesi o danesi, che se la tiravano tantissimo perché avevano trovato un nuovo modo di fare arte
riciclando la qualsiasi, anche se poi le loro opere facevano oggettivamente schifo.
Si stufò presto, e peregrinando come un pazzo tra i vortici della rete notò un interessante macro-
trend che si andava formando: l’orgoglio artigiano. In un mondo sempre più connesso, immateriale e
globalizzato, i nuovi fighi non erano più quelli usciti dalle scuole d’arte per figli di papà, ma i
panettieri di Berlino o le ragazze licenziate dopo la crisi del 2008 che ad Anversa si mettevano a
cucinare zuppe nei seminterrati e a consegnarle in bicicletta. La capacità narrativa e la fierezza con
cui queste persone avevano reinventato professioni «umili» è stata per lui contagiosa. Davide
cominciò a comprare compulsivamente carne secca prodotta a Portland, in Oregon, e prodotti per la
cura del corpo a base di erbe selvatiche scozzesi. Tutto ciò non aveva senso, ma gli diede il senso dei
tempi.
Grazie alla rete e ai nuovi strumenti di condivisione, persone che una volta sarebbero state definite
«comuni» si sono reinventate divulgatrici globali di tradizioni e conoscenze quasi perse. Raccontando
la loro storia in maniera creativa e accattivante, sono diventate le nuove rock star, si sono create da
zero una professione redditizia e più in linea con la propria vocazione professionale.
In questo scenario sociale, e social, il Life Design è dunque lo strumento più potente di cui
possiamo dotarci per poter partecipare a questa sorta di festa glocal. La rete e i social media sono un
catalizzatore di tante cose, agghiaccianti e meravigliose: questo doveva rispondere Facebook agli
ideatori del documentario The Social Dilemma, prodotto da Netflix, non quel pippozzo che invece ci
hanno propinato.
Avete mai visto qualcuno postare su Instagram foto o video mentre inserisce dati su un foglio Excel
dalla sede di una multinazionale? Non sarebbe un gran contenuto. Non c’è paragone con la ripresa,
con la giusta profondità di campo, di un hipster tatuato che munge una capra a 1.500 metri di
altezza, con tanto di hashtag #backtonature. Tutto bellissimo, a patto di non cadere nel tranello
dell’emulazione. Abbiamo tutti sotto gli occhi le storie tragiche degli infiniti aspiranti influencer che
hanno mollato tutto per girare il mondo con il sogno di diventare travel blogger di successo.
Quando c’era X Factor tutti volevano cantare; poi è arrivato MasterChef e nei negozi non si
trovavano più grembiuli da cuoco; infine è arrivato Instagram, e Bali si è trasformata in un
gigantesco set fotografico pieno di gente che si provocava distorsioni muscolari cercando di
fotografarsi in posizioni yoga improbabili. Il Life Design magari non ci farà diventare ricchi in modo
assurdo, ma di sicuro ci farà risparmiare sull’osteopata.

No patentino, no contenutino
La società che stiamo descrivendo in questo capitolo contiene dunque il mix perfetto di ingredienti
per ottenere velocemente tutto quello che si desidera ma anche, e purtroppo, quelli per stimolare
manie suicide. Come sempre in natura, a una forte energia positiva e creatrice ne corrisponde
un’altra di segno opposto. Non c’è arcobaleno senza temporale.
Sicuramente legata al cyberbullismo è l’agghiacciante statistica, vista sempre in The Social
Dilemma, da cui si evince che dall’approdo dei social media sui telefonini c’è stato un balzo del +150
per cento dei suicidi negli adolescenti.
Probabilmente più legata alla frustrazione degli adulti, che si autoinfliggono in media due ore al
giorno sui social network per guardare le finte belle vite degli altri, è invece la crescita vertiginosa
nell’uso degli psicofarmaci negli ultimi anni.
I modelli inarrivabili sono sempre esistiti, ma il fatto che oggi siano i genitori dei compagni di
classe di tuo figlio ha cambiato tutto. In questo libro non ci interessa indagare il meccanismo
psicologico deviato che porta le persone a rilasciare poco alla volta contenuti fotografici delle
vacanze per prolungare, almeno virtualmente, la propria abbronzatura. Piuttosto vogliamo capire le
dinamiche depressive che si innescano nelle persone che vedono amici o conoscenti cambiare vita
professionale e avere, almeno in apparenza, ottimi risultati.
Qui c’è molto da dire, e il Life Design dimostra di essere la tecnica imprescindibile per la salute
psicologica e finanziaria delle persone. Scrollare lo smartphone quando si è alla macchinetta del
caffè in un lunedì qualsiasi, oppure seduti in un ufficio vista tangenziale, e imbattersi nella nostra ex
compagna di università, ora travel blogger, mentre fa il bagno circondata dagli squaletti delle Isole
Raja Ampat in Indonesia, è un’esperienza che senza la giusta cultura può scatenare una catastrofe
devastante, prima sinaptica e poi economica.
È giunto il momento per la Rai di produrre un format, sulla falsa riga del mitologico Non è mai
troppo tardi di Alberto Manzi, dedicato all’alfabetizzazione di massa sulla corretta comprensione dei
contenuti che circolano sul web. Invece di limitarsi a una fiction celebrativa del personaggio che tra
il 1960 e il 1968 fece prendere a quasi un milione e mezzo di italiani la licenza elementare, la tv di
Stato dovrebbe incaricarsi di insegnare alle persone i concetti di vanity metrics, YouTube burn out,
FOMO (Fear Of Missing Out) e così via. Ovviamente non lo si dovrebbe trasmettere solo in
televisione, altrimenti non lo vedrebbe nessuno.
Un buon esempio lo offre il canale statale danese per bambini DR Ultra, che nello show Ultra
smider tøjet («Ultra si spoglia») porta cinque adulti comuni su un palco e li fa spogliare davanti a
bambini dai nove ai tredici anni. Il giovane pubblico può fare qualsiasi domanda agli ospiti, e mentre
passano in rassegna uomini e donne di ogni forma e fattezza, con o senza handicap fisici, si fa
chiarezza sull’anatomia e la cura intima dei genitali e su tutto il resto. Per qualcuno è un’istigazione
alla pedofilia, per qualcun altro un atto di geniale resistenza al subdolo mondo della comunicazione
contemporanea che ci colonizza la testa con immagini di bellezza truccata dalla chirurgia plastica, da
Photoshop o semplicemente da un filtro Instagram.
Noi immaginiamo un futuro in cui verrà richiesto una sorta di meccanismo di abilitazione all’uso
dei social media, come accade già ora nel mondo degli investimenti. Per poter fare trading, infatti,
bisogna passare un test di valutazione, abbastanza ridicolo ma pur sempre indicativo; e se non lo si
passa si deve fare un corso. Diversamente la banca non vi aprirà mai il conto investimenti.
Dietro ogni profilo di un buon travel influencer che si rispetti, ci sono montagne di Dissenten, così
come dietro la maggior parte dei canali di youtuber che si rispettano ci sono colossali burn out.
Ricordiamo nitidamente di aver visto alcune storie di Instagram di un noto opinion leader italiano
nell’ambito dello smart working, che raccontava che dopo dieci mesi di viaggi consecutivi non
riusciva più ad alzarsi dal letto, praticamente costretto a mangiare poco più che riso in bianco da
settimane a causa di una gravissima intossicazione intestinale ormai cronicizzata. Nel 2019, dieci dei
top youtuber mondiali hanno fatto outing, PewDiePie incluso (il numero uno al mondo, con più di 100
milioni di iscritti), confessando che dietro questo lavoro si nascondono pesantissimi esaurimenti
nervosi dovuti alla necessità di essere sempre presenti con contenuti aggiornati e sfavillanti. Altro
che professioni del futuro: qui siamo di fronte ai lavori forzati dell’upload.

Con la vanità non ci paghi il mutuo


Problemi per ragazzini egomaniaci? Non proprio. In Italia 7 italiani su 10 sono insoddisfatti del
proprio lavoro b e in tantissimi, caricati a molla dai motivatori e dalle web star, nonché incentivati
dalle nuove partite iva a regime forfettario, mollano tutto e si buttano nel mondo del business
individuale per diventare «leader di se stessi».
Peggio ancora di loro sono quei giovani, e sono tanti – fidatevi di chi fa fatica ad assumerne con un
salario minimo di 3.000 euro al mese nella Svizzera italiana –, che si rifiutano di andare a lavorare
veramente, «perché lavorare è da sfigati, io mi faccio la mia start up». Si abbonano a un co-working
con mura foderate di legno e scritte ispiranti, oppure postano foto mentre sorseggiano centrifugati
alle Canarie in pieno gennaio con le infradito ai piedi. Follower a pacchi; utili a fine anno: nessuno.
Non ce ne vogliano i tanti bravissimi promotori del nuovo ecosistema startupparo italiano, ma
spesso, guardando alla realtà dei fatti, ci sembra di essere rimasti ancora quelli di Alberto Sordi e di
Un americano a Roma. In Europa continentale, soprattutto in Italia, le logiche di business sono
lontane anni luce da quelle americane. Oltreoceano, essere profittevoli è diventato quasi un optional:
se sei figo, hai tanti follower e prometti a tutti che porterai il primo uomo su Marte nel 2024, la
finanza a stelle e strisce sarà sempre pronta a foderarti di denaro per continuare a finanziare
ciascuno dei tuoi business in perdita. Qui da noi no.
Eppure in tanti ci cascano. Provano ad applicare i metodi della Silicon Valley in Val Padana, e poi
finiscono «a distruggere il maccarone». Qui da noi le vanity metrics sono ancora più vane. Spesso si
finisce a curare molto di più l’engagement delle pagine Facebook che l’efficacia dei business model
che dovrebbero promuovere, per carenza di cultura finanziaria ma soprattutto per problemi legati
all’ego.
Di fianco al numero di like o follower di un profilo social business non viene mai indicato il
fatturato che lo stesso riesce a generare, e questo è un vero peccato. Se fosse possibile farlo, siamo
certi che vedremmo un aumento del PIL, ovunque. È pieno di bravi professionisti e imprenditori che
per fare la gara a chi ha più «seguaci» finiscono per trascurare le loro aziende, portandole al
fallimento. Questo vale anche per gli artisti.
Niente come l’avvento dei social media ha influito sulla scarsa qualità autoriale dei musicisti di
oggi. Ce ne parlava un caro amico che lavora nell’ambiente della musica pop italiana: «Oggi devo
seguire quasi quotidianamente i cantanti per motivarli a suonare e scrivere canzoni, perché
altrimenti passerebbero giornate intere a rispondere ai commenti sotto i loro post». Se accade ai
musicisti e agli artisti, figuriamoci a chi deve controllare costantemente gli scostamenti di budget.
La fine dell’Era del Lavoro è agli inizi; dobbiamo prendere le misure con questi strumenti, e di
sicuro chi prima si attrezza prima ne trarrà i vantaggi. Il Life Design, tra i tanti suoi pregi, ha quello
di immunizzarci dai bisogni indotti. Ci farà comprendere cosa veramente desideriamo per noi,
distinguendolo da quello che il mondo là fuori vuole farci desiderare. La vocazione professionale,
come vedremo, ci garantisce di lavorare nel flusso (flow) e di renderci meno esposti alle tentazioni e
ai comportamenti compulsivi legati alle nuove piattaforme digitali. Sarà come avere ogni giorno una
mezza giornata di lavoro in più della concorrenza. Se a un buon Life Design aggiungeremo anche
qualche nozione di cultura finanziaria, avremo tutto quello che serve per abbassare drasticamente le
probabilità di fallimento della nostre prossime avventure professionali. Lo vediamo accadere da
tempo ai nostri corsisti, e speriamo possa accadere presto anche a voi.

Chi non lavora (poco) non fa l’amore


Oltre la cultura finanziaria, al Life Design serve anche la … life. Lo vedremo nei capitoli successivi:
più vita hai vissuto e più esperienze diverse avrai fatto, più rapido sarà compiere un efficace percorso
di consapevolezza professionale. Da questa considerazione nascono sostanzialmente due esortazioni:
la prima è di vivere veramente la vita – prendere come spunto il Jim Carrey di Yes Man, per
intenderci – e la seconda è di andare a lavorare. Ebbene sì, per liberarsi dal lavoro occorre prima
passarci attraverso.
Da imprenditori osserviamo sempre più una tendenza nefasta che vede protagonista la gioventù
contemporanea, altresì chiamata «millennials». Incapaci, per i motivi detti sopra, di distinguere tra
realtà e scrolling compulsivo sui social media, essi credono che basti un’idea, qualcuno che la finanzi,
applicare qualche regoluccia per fare il 10x (moltiplicare per 10 i ricavi, rendendo scalabile un
business), automatizzare tutto e boom, un nuovo Zuckerberg è nato. Queste sono le favole che
stordiscono la testa dei giovani, anagraficamente e non. A ingigantire queste narrazioni ci sono tutti
quei coach e formatori che, come parassiti, sfruttano questo immaginario per poter vendere «ricette
segrete» in grado di farci diventare le nuove rock star 4.0.
Noi invece crediamo che fare più esperienze professionali possibili in grandi aziende sia
indispensabile per tutti. I Mozart del business, come i Mozart in tutti i campi, sono eccezioni. Più
l’azienda è noiosa e grande, meglio è: impareremo tutta una serie di codici, comportamenti, processi
e dinamiche dalle quali, una volta cresciuti, ci emanciperemo. È una specie di alchimia professionale,
intesa in senso esoterico. Occorre conoscere e dominare bene le frequenze basse e materiali per
poter uscire «a riveder le stelle». Finché non avremo conosciuto e vissuto a fondo la «prigionia», non
potremo mai apprezzare la «libertà». Abbiamo visto troppe volte ragazzi che partivano in quarta col
sogno della startup o della carriera da artista/designer/creator, e che dopo anni di sogni infranti non
vedevano l’ora di fare colloqui per lavori «normali» e di avere una vita «normale».
Per scongiurare questa versione del mito di Icaro applicata alla carriera, occorre spiegare bene
agli amici, ai figli, a se stessi, che qualsiasi missione necessita di un addestramento. Che se vogliamo
vivere una vita piena dobbiamo amare quello che possiamo permetterci di fare adesso. Se dopo anni
di notti insonni nessuno ancora compra le nostre creazioni sartoriali in bambù, dobbiamo accettare di
andare a fare un lavoro normale, magari proprio da chi vende con successo abiti fatti con tessuti
ecologici e alternativi. Come si faceva una volta, nelle botteghe d’arte. Ogni tanto l’allievo supererà il
maestro, come è successo a Leonardo con Andrea del Verrocchio, altre volte no. E va bene così.
Invece oggi i giovani ti chiedono l’aumento dopo otto mesi dall’assunzione, senza il timore di
apparire ridicoli. Guardi i loro profili LinkedIn e scopri che cambiano azienda, guarda caso, dopo
nove mesi (il mese dopo il mancato aumento), perché sono sollecitati da un continuo bombardamento
iperstimolante che li rende inquieti e schizofrenici. I vecchi dormono su Netflix e i giovani sono
troppo eccitati. In mezzo ci sono i pochi che sanno trovare un sano equilibrio tra crescita e amore per
il presente. E perché no, di sana devozione (nel senso spirituale e non materiale del termine) per chi
può insegnargli qualcosa. Non si tratta di venerare il proprio capo come un dio, ma di aprire occhi e
cuore se questa persona ci sta, anche involontariamente, trasferendo il know how che in futuro ci
renderà più saggi ed efficaci nelle nostre scelte strategiche.
Quanti capelli bianchi dobbiamo ai neoassunti che entrano in riunione senza un bloc notes in
mano, che passano la giornata a lavorare in costante multitasking, che se li porti a coordinare un
evento formativo a Bali (Indonesia), al momento di aprire l’aula per i corsisti li trovi a fare pranayama
in spiaggia, che mandano mail con otto persone nei destinatari ottenendo (ovviamente) zero risposte,
che al terzo giorno di lavoro chiedono lo stagista perché «Qualcuno dovrà pur estrarmi questi dati»,
che ti chiedono di fare smart working quando ci sono i ponti per poter lavorare dal mare (e te lo
dicono proprio così), che quando gli chiedi dei dati puntuali ti danno il link a Google Drive di un file
Excel a 548 linee e ti dicono che sì, i dati stanno lì dentro, che arrivano in ufficio alle nove e mezza
con gli occhi pallati perché «work hard, play hard», che se gli dici di correggere qualcosa ti dicono
«Vabbè, allora dammi tu la ricetta che io cucino e basta» e così via.
Abbiamo detto prima che secondo The 2016 Deloitte Millennial Survey a più della metà dei
millennials è capitato di rifiutarsi di eseguire un compito che andava contro la propria etica e i propri
valori. Bellissimo, eh? Chiaro sintomo di una dinamica sana, evolutiva, ma quanti capelli bianchi…
Quanti di quei rifiuti sono figli di manie egoiche indotte dal lavaggio del cervello mediatico
automatizzato di cui stiamo parlando in questo capitolo? Quanti di questi atti bardati di nobiltà
morale sono in realtà vizi da rock star che non lo sono ancora? Non è un caso che l’Università di
Stanford abbia istituito un corso di Life Design: se c’è una cosa da insegnare ai giovani talenti di
oggi, è proprio quella di non bruciarsi le ali troppo in fretta.

Troppo Mondello per essere vero


Siamo in un’era assurda, che ci richiede immensa coerenza e presenza, anche se lavoriamo da
remoto. Coerenza con ciò che siamo veramente per poterne fare una professione, o meglio, per
cancellarla e fonderla in un tutt’uno con la nostra vita; presenza alle sfumature della nostra
personalità, ai nostri riflessi incondizionati, ai nostri tic, alle nostre manie e a tutte le altre gemme
che si nascondono nel nostro inconscio e che il Life Design ci aiuterà a tirare fuori. Per non
confondere un lavoro brutto con un lavoro che in realtà ci piace tantissimo ma che viene fatto nelle
condizioni umane e ambientali sbagliate, per noi.
Quando lavorava alla Tre, Davide aveva un collega che imprecava sempre contro l’azienda e tutti i
suoi colleghi. Era uno in gamba, lavorava nel marketing e sapeva il fatto suo, ma per qualche motivo
aveva sempre da lamentarsi di tutto e tutti. Un giorno Davide gli portò un nuovo prototipo di
telefonino alla scrivania per fare un test. Arrivò, senza farlo apposta, dietro la sua scrivania, e si
accorse subito che il collega cercava di chiudere goffamente una finestra del suo monitor. Al terzo
tentativo si arrese e sorrise dicendogli: «Guarda che bella giornata c’è oggi a Mondello».
Era una webcam che teneva sempre accesa sulla spiaggia più bella della sua città natale. Dopo
qualche mese Davide tornò nell’area marketing e non lo vide più alla scrivania. Era riuscito ad aprire
uno shop della Tre (oggi WindTre) proprio a Palermo, e dopo poco è diventato quello che performava
meglio di tutta la Sicilia. Di colpo la Tre era diventata la sua squadra del cuore e lui un trascinatore.
Applicare il design thinking alla vita ci aiuta proprio a fare chiarezza su queste cose. A comprendere
la radice del problema e ad agire «solo dove c’è la macchia», senza rovinare i tessuti (cerebrali).

Belli belli in modo assurdo


Il Life Design si sposa perfettamente con i nuovi stili di vita che si stanno affermando e che stanno
cambiando drasticamente il modo di concepire la dicotomia vita privata/lavoro, protagonista della
vita degli uomini dalla Rivoluzione industriale a oggi. Come abbiamo visto nell’aneddoto del
paragrafo precedente, oggi non ha più senso considerare questi due mondi come separati. I tornelli, i
cartellini da timbrare, gli straordinari, le trasferte, i permessi, per le aziende più avanguardiste come
Netflix persino le ferie, sono tutti strumenti e dinamiche in via d’estinzione. Si va verso la ricerca di
un sano equilibrio tra scrivania e divano, alla ricerca di una gratificante integrazione tra i due.
«Nell’azienda X mi pagano il 10 per cento in più, ma nell’azienda Y posso andare a lavorare col
cane. Scelgo la Y, dimostro che sono un A player e faccio carriera lì.» I confini tra queste due macro-
aree della nostra esistenza si sono fatti sempre più indefiniti, e le aziende si stanno dotando di
strumenti e processi per stare al passo con le nuove esigenze di chi ci lavora. Occorre concentrarsi
sul valore che viene prodotto più che sul tempo per produrlo e il luogo.
Diventa quindi molto più importante e cruciale la dose di raffinatezza che viene impiegata nella
misurazione dei risultati di chi lavora. Non basta più premiare chi resta in ufficio fino a tardi,
soprattutto se durante il resto della giornata ha passato il tempo su Facebook. Non basta creare team
di lavoro composti da persone che hanno competenze professionali (hard skills) complementari e
sinergiche, ma serve comprendere bene anche se le stesse persone hanno uno stile di vita ed
esigenze personali simili fuori dall’ufficio. Che sia iniziata una nuova era lo si capisce anche dalle
tendenze attuali nel mondo dell’interior design. Gli uffici somigliano sempre più a case e le case a
uffici.
Per qualcuno questo scenario è l’anticamera dello schiavismo moderno: essere sempre connessi e
sempre potenzialmente produttivi sta portando in molti casi allo sfruttamento delle categorie più
deboli. È normale, siamo come bambini a cui è stato dato in mano un giocattolo meraviglioso ma
complesso, e stiamo semplicemente imparando a usarlo. Così come, se stiamo cercando la nostra
vocazione, dobbiamo osservare e valutare la nostra vita come un unicum, allo stesso modo gli
imprenditori devono trasformare le loro organizzazioni e immaginarle proprio come vogliono che
diventino: non più luoghi di reclusione che rubano tempo in cambio di denaro, ma zone fisiche e
virtuali dove dare gli strumenti giusti alle persone giuste, per crescere come esseri umani e
concretizzare utopie.
Il mondo là fuori sembra ancora non essersene accorto del tutto, ma è solo questione di pochi anni,
ed è anche compito nostro cambiarlo con piccole e simboliche battaglie quotidiane. Per esempio, un
giorno si trattava di ottenere dall’ufficio delle dogane di Como il permesso a circolare sul territorio
italiano per le nostre auto aziendali con targa della Svizzera italiana. La legge prevedeva che sarebbe
stato valido solo per il tragitto casa-lavoro e solo durante i giorni lavorativi. Per fare richiesta si
doveva presentare una mole smisurata di documenti, fra i quali ovviamente era compreso anche il
contratto di lavoro, che non ci eravamo nemmeno degnati di cambiare, prendendo e firmando una
sorta di proforma standard procuratoci dal nostro commercialista di Lugano. Sopra c’erano scritti i
giorni lavorativi e gli orari e, in un addendum, l’indicazione che la macchina aziendale era un bonus.
Se avessimo presentato quel contratto saremmo stati costretti a lasciare in garage l’auto ogni
weekend in cui fossero previsti eventi, congressi o anche semplicemente incontri informali o
esperienze arricchenti che avremmo poi condiviso sui nostri canali. Come far capire al burocrate che
per noi anche un fine settimana passato a fare campeggio libero in quota sulle Alpi poteva
trasformarsi in un contenuto che avrebbe potuto generare un sacco di visibilità ed engagement per il
nostro business? Cambiando il contratto, ovviamente. E fu così che passammo da amministratore
delegato a brand ambassador e da chief financial officer a content creator. Mettemmo per iscritto che
non esistevano orari e giorni lavorativi e che persino una gita in famiglia poteva rappresentare
un’occasione per incrementare le performance aziendali. Il burocrate non poté che firmare il
permesso. Dal Work-Life Balance alla Work-Life Integration. Un’epoca assurda va vissuta in modo
assurdo.

La felicità interna netta


Con la diffusione planetaria del reddito di base, le persone non lavoreranno più per sopravvivere.
Non sappiamo esattamente cosa succederà, nessuno lo sa con precisione, non fidiamoci troppo dei
futurologi. Se si osserva con «occhio laser» il presente, si percepisce che questa nuova era è già
iniziata, ancora prima che i meccanismi di redistribuzione della ricchezza siano attivati in tutto il
mondo. Si tratta di un percorso evolutivo che va oltre la politica e le scelte sociali dei vari Paesi.
In questo capitolo vi abbiamo mostrato dati statistici, ricerche scientifiche e aneddoti che ci
raccontano che le cose stanno già accadendo adesso, indipendentemente da cosa decidono i
presidenti e i partiti che si alternano al potere. La politica non è quella che leggiamo in prima pagina
sui giornali: esiste una politica invisibile, molto più interessante e concreta dei dibattiti e delle
elezioni, ormai drogate e piratate da algoritmi e social media. Se pensiamo che durante
l’amministrazione Trump, simpatizzante dei movimenti di destra radicale e negazionista sul fronte
del cambiamento climatico, si sia allargata a macchia d’olio la lista di Stati che hanno liberalizzato la
cannabis a scopo ricreativo e che ci sia stato un record assoluto negli investimenti in energie
rinnovabili, è chiaro che la vera politica sta altrove. Scorre invisibile, a profondità abissali, potente e
silenziosa come le correnti impetuose degli oceani. Esistono luoghi remoti come il Bhutan, dove
esistono i ministri della felicità e il principale key performance indicator per giudicare l’andamento
del Paese è il FIL, Felicità Interna Lorda.
Roba da fricchettoni utopisti? Sarà, ma allora perché nell’occidentalissima Yale, nel 2020, il corso
più frequentato non ti spiega come trovare lavoro velocemente o come guadagnare di più ma
s’intitola «The Science of Well-Being» (la scienza del benessere)? È come se l’umanità stesse facendo
un gigantesco salto in alto dentro una sorta di piramide di Maslow collettiva, alla ricerca della sua
realizzazione tramite la creatività, il rispetto reciproco, l’assenza di pregiudizi, la spontaneità e
l’accettazione. Con un approccio meno «sociale» e più atomizzato: se mi accetterò io, mi verrà
spontaneo accettare gli altri. Se concedo a me stesso la possibilità di essere più creativo, anche ai
politici verranno idee migliori. Se rispetterò maggiormente la mia essenza, mi verrà più semplice
accettare ed essere complementare alle esigenze degli altri.
Un cambio di prospettiva totale, da una dinamica centripeta (io che mi aspetto dagli altri la
soluzione ai miei problemi) a una centrifuga (io che decido di risolvere i miei problemi, da solo, per
stare meglio e per contribuire alla soluzione dei problemi degli altri). Senza perdere il nostro centro,
ma anzi, sondandolo in profondità, alla scoperta di nuovi mondi sommersi, solo apparentemente
lontani, ancora sconosciuti ma già connessi a tutto (col wi-fi spento).

a. Fonte: https://www.weforum.org/press/2018/09/machines-will-do-more-tasks-than-humansby-2025-but-robot-
revolution-will-still-create-58-million-net-new-jobs-in-nextfive-years
b. Fonte: https://quifinanza.it/editoriali/lavoro-che-stress-7-italiani-su-10-sono-insoddisfatti-del-proprio-
impiego/131508/
3
La spiritualità scientifica

ABBIAMO iniziato questo libro citando uno dei più importanti registi italiani di sempre e il suo
consiglio circa la necessità di «essere vivi nelle cose» per non faticare mai nella vita. In questo
capitolo cercheremo di capire cosa significa, come si fa a esserlo e cosa si prova quando lo siamo.

La magia quando finisce male


Nella frase di Rossellini è racchiuso un grande segreto, una sorta di messaggio in codice di portata
monumentale. Prima di tutto c’è un chiaro riferimento all’importanza del momento presente, non solo
in senso introspettivo, ma in riferimento a ciò che ci sta accadendo: le «cose», appunto. Il messaggio
in questione è un atto di devozione nei confronti del Presente e della Presenza, entrambi concetti su
cui lavoreremo molto durante il nostro Life Design.
Uno dei motivi per cui molte persone ottengono quello che vogliono, eppure finiscono dipendenti
dai farmaci o dagli analisti, è la disattenzione prolungata nei confronti del «presente» in favore di un
«futuro» continuamente immaginato e ossessivamente agognato. Dopo oltre un decennio trascorso a
formare persone nell’ambito del business e degli investimenti possiamo serenamente affermare che
uno dei flagelli più sottovalutati della nostra epoca sia stata la santa alleanza fra due mondi, quello
più new age legato alla cosiddetta «legge dell’attrazione» e quello più sportivo dei «motivatori dai
denti troppo bianchi».
Il Life Design non va considerato in antitesi a questi due approcci, ma come una loro integrazione.
È assolutamente vero che «ciò che pensiamo diventiamo», ma se i pensieri che pensiamo non sono i
nostri, diventeremo «altro da noi» e staremo male. È ovvio che procrastinare è una malattia e che
senza una sana disciplina non produrremo risultati tangibili, ma una cosa è impegnarsi in qualcosa
per cui siamo naturalmente inclini, un’altra è lottare contro i mulini a vento cercando di diventare
quello che tutti là fuori vogliono che tu diventi.
Quando abbiamo iniziato a vedere gli effetti del Life Design sui nostri corsisti, siamo rimasti stupiti
dall’aumento esponenziale della loro produttività: le cose sembravano farsi da sole, e i risultati
spesso superavano di gran lunga gli obiettivi precedentemente immaginati. Quando dobbiamo
spiegare in maniera semplice il legame tra la magia del pensiero creativo e la gratificazione
personale che ne può (o meno) derivare, mostriamo sempre uno dei grafici di trading usati da Davide
prima che fondasse Moneysurfers.
Durante quelle giornate, per non stare tutto il tempo davanti ai monitor, rischiando di pasticciare
le sue strategie opportunamente impostate e per godersi la sua vita da «investitore bohémien»,
Davide si dedicava con assiduità a una delle sue più grandi passioni dell’epoca: lo studio del
misticismo e dell’occulto più estremo. Per allenare il potere creativo della sua mente, dopo la
meditazione della sera faceva vari esercizi di visualizzazione. Si tratta di esercizi piuttosto complicati
che, alla stregua di qualsiasi sport, prevedono che si parta da piccoli risultati, come il saper
visualizzare in maniera costante e stabile alcune forme geometriche semplici sopra un muro bianco,
fino ad arrivare a «film» ben più complessi e articolati.
Sicuramente in preda agli influssi del maligno, durante uno di questi addestramenti decise di
aiutarsi truccando con Photoshop la videata principale della sua piattaforma di trading aggiungendo
uno zero al saldo in euro: da circa 10.000 a circa 100.000. L’intento era quello di attrarre nel mondo
reale una cifra più sostanziosa per poter investire con più sostanza e profitto. L’aggiunta dello zero
doveva essere ben fatta e la videata risultare assolutamente realistica. Una volta creata l’immagine,
Davide la inviò al suo cellulare, e dopo ogni meditazione, per qualche settimana, iniziò a osservarla
per qualche secondo per poi cercare di farla apparire anche nella sua mente, a occhi chiusi.
Finito l’esperimento, l’immagine creata con Photoshop e poi rinominata «100MILA» (proprio così,
in maiuscolo), finì sepolta e dimenticata sotto migliaia di file nel suo pesantissimo hard disk esterno
firewire. Dopo quasi dieci anni, Davide era diventato un gestore di capitali e un noto formatore nel
campo del trading online. Era andato a vivere in Belgio, ma le circostanze della vita gli imposero di
rientrare in Italia.
Nel frattempo la tecnologia aveva fatto passi da gigante: ciò che prima saturava un hard disk da
mezzo chilo adesso stava in una chiavetta USB. Così decise di minimizzare l’ingombro delle cose da
caricare sul furgone, partendo proprio dai dati digitali. Comprò un hard disk di nuova generazione e
iniziò a riversarci tutto il contenuto dei vecchi hard disk. Si trattava di collegare cavi e di trascinare
cartelle, un lavoro molto meccanico, di quelli che si fanno in uno stato di semi-ipnosi, senza prestare
troppa attenzione ai dettagli.
A un certo punto un file con un nome strano e incomprensibilmente scritto tutto in maiuscolo
catturò la sua attenzione. Era proprio «quel» file. Davide lo aprì; inizialmente sul suo volto apparve
un sorriso di tenerezza nei confronti di quel giovane trader aspirante Harry Potter che fu, ma dopo
qualche istante un brivido corse lungo la sua schiena e gli occhi si fecero più grandi. Oh my God…
Nel 2010, dopo aver aperto Moneysurfers, inizialmente solo in inglese e per il mercato anglosassone,
Davide iniziò a dare segnali operativi di trading gratuiti su Twitter e a fare sessioni di trading in
diretta per cercare di farsi conoscere nel settore e ottenere qualche offerta di lavoro presso un fondo,
o per farsi finanziare da qualche famiglia facoltosa.
Dopo appena sei mesi arrivò la prima mail dall’Irlanda. Si trattava di un certo Bruce, che lo
seguiva fin dal primo giorno e che gli chiedeva di andare a Dublino per trattare l’apertura di un conto
gestione per la sua famiglia. Cifra di partenza, esattamente 100.000 sterline. Tutto era stato
dimenticato, e quel rituale apparteneva alla categoria di ricordi che il cervello decide di archiviare in
hard disk molto nascosti. Per fortuna oggi esistono quelli fisici, che in caso di trasloco possono
regalare momenti come questi.
Quindi? Lieto fine? La magia esiste e quindi possiamo decidere il nostro futuro, desiderare quello
che vogliamo, immaginarlo bene, fissarlo nella nostra testa, ottenerlo e vivremo felici e contenti? Not
really. Quel trasloco accadde in un periodo della vita di Davide molto intenso. Aveva lottato col
coltello tra i denti per diventare un trader professionista, per battere i mercati con costanza e per
non dover più lavorare per i soldi, ma piuttosto imparare a far lavorare i soldi per lui. Aveva ottenuto
tutto quello che desiderava: non timbrava un cartellino da sei anni, aveva contribuito a mettere al
mondo un bambino meraviglioso e poteva permettersi di vivere dove voleva con la sua famiglia.
Insomma, il pacchetto completo, a parte la capacità di dormire decentemente la notte. Qualcosa lo
tormentava e non gli faceva vivere bene quella che doveva essere una vita da sogno. Dapprima erano
solo le notti a creare problemi, poi fu la volta degli attacchi di panico diurni. Da lì la decisione di fare
un percorso di psicosintesi (un tipo di psicoterapia) per tentare un contatto con quella voce interiore,
tanto forte quanto impossibile da decifrare. Harry Potter aveva giocato col fuoco e si era bruciato. In
tutti i sensi.

Per una geologia dell’anima


Avere dei desideri è sano, mentre esserne ossessionati ce li farà esaudire ma al contempo ci farà
ammalare. Davide, dopo mesi di psicosintesi e di Life Design, comprese che fare il trader gli piaceva
tanto ma non poteva diventare la sua principale occupazione: doveva rimanere un’attività
complementare a qualcos’altro che avesse più a che fare con la cultura, la comunicazione e
l’interazione con gli altri.
Quando si specula sui mercati finanziari, al giorno d’oggi si sta tendenzialmente zitti e soli. E se
conoscete Davide sapete quanto questo possa costargli. Da qui la rinuncia a diventare un gestore di
capitali o il creatore di un fondo d’investimento e l’idea di inserire nei percorsi formativi di
Moneysurfers tutto il mondo dello sviluppo personale, della spiritualità, del business a impatto
positivo e del Life Design. Grazie agli stessi esercizi e alle pratiche presenti in questo libro, Davide
prese coscienza che per anni era stato letteralmente posseduto da un «sé estraneo» che gli aveva
preso «tutto, anche il caffè», come cantava Battiato.
Motivarsi a palla o usare trucchetti da mago di campagna per attrarre qualcuno o qualcosa non ci
porterà alla felicità, se prima non siamo in grado di disintossicarci dai nostri desideri indotti. Se non
andiamo a scoprire prima il nostro sé autentico, sepolto sotto decenni di pensieri e influssi esterni
sedimentati come ere geologiche, sarà letteralmente come lavorare per altri. La cosa assurda è che
quando inizieremo a fare chiarezza sulla nostra vocazione professionale e a sperimentare in quella
direzione, avremo meno bisogno di «pomparci dosi di autostima liquida sottopelle», e anzi, spesso
avremo la sensazione che le cose si facciano da sole. Saranno i risultati che cercheranno di emergere
attraverso di noi, non il contrario. Ve lo diciamo brutalmente, tanto è inutile nascondersi: se
diventiamo esseri umani più autentici e contattiamo il nostro centro, saremo automaticamente
connessi a energie ben più forti di noi che questa volta però saranno nostre alleate (fricchettons alert
#1) e il trucco per attrarle è entrare in uno stato di grazia che in gergo si chiama «flow».

Diventa uno Sting della scrivania


Il Life Design vi aiuta a passare più tempo possibile nel quadrante in alto a destra del grafico
riportato a pagina 75. La condizione di flusso (flow) è la condizione più bella che esista in natura,
praticamente la stessa che si prova nel momento di picco di un orgasmo. Bellissima, ma dura poco.
Ecco, stare nel flusso mentre lavoriamo, quindi, è un po’ come fare sesso tantrico. Quando siamo «lì»,
la nostra parte più autentica vuole restarci il più possibile, e se non l’ascoltiamo e ci mettiamo a fare
altro ce lo fa notare, e per il nostro bene ci parla con l’unica lingua che siamo in grado di ascoltare:
l’ansia, l’insonnia, l’impotenza, la frigidità, gli attacchi di panico e di conseguenza anche la povertà
materiale, la solitudine e compagnia «brutta».
1. Lo schema del flow.

Stare nel flusso aumenterà a dismisura la nostra produttività e renderà inutili molte di quelle
discipline che vanno molto di moda oggi per evitare di procrastinare le cose da fare, guardare in
maniera compulsiva le notifiche dello smartphone o vivere nella dipendenza da dopamina. Dopamina
che ricerchiamo costantemente soprattutto noi trader quando continuiamo a sentire l’esigenza
malata di monitorare l’andamento dei nostri investimenti, ma che colpisce anche persone molto più
«alte» e «sagge» di noi come i filosofi. Il più famoso del mondo in questo momento si chiama Slavoj
Žižek, e tempo fa ha candidamente ammesso di controllare compulsivamente le statistiche di vendita
dei suoi libri, aggiornate in tempo reale su Amazon.
Non si tratta quindi di essere più o meno colti o intelligenti, ma di essere più o meno presenti e
coerenti alle nostre naturali tensioni interiori, quando bisogna decidere cosa fare durante il giorno. Il
flusso è una questione di equilibrio tra due valori: il livello di sfida implicito in ciò che stiamo facendo
e la capacità che abbiamo di poterlo portare a termine. L’orgasmo si raggiunge quando ci occupiamo
di cose che ci gratificano e per le quali siamo portati.
Il tutto va visto ovviamente in modalità dinamica: quello che ci manda nel flusso oggi, quasi
sicuramente non sarà la stessa cosa che ci manderà nel flusso tra qualche anno. Per questo il Life
Design e il libro che avete fra le mani vanno conservati e messi in pratica con costanza, per tutta la
vita. Un periodico tagliando del nostro «stato di flusso» è una condizione imprescindibile per
mantenere alto il nostro morale e il nostro benessere finanziario. Se anche Žižek non riesce a finire
un paragrafo senza dover dare un’occhiata ai dati di vendita dei suoi libri precedenti, magari è ora
che prenda coscienza che sarebbe meglio che smettesse di scrivere e iniziasse, per esempio, a
produrre un podcast. A volte si tratta di compiere piccolissime deviazioni per tornare a… godere.

Fuoco cammina con me


Una delle definizioni più belle dello stato di flusso l’ha data Shunryū Suzuki, il guru di Steve Jobs
(alla fine abbiamo fallito e lo abbiamo citato, ma il fallimento è il cibo ideale di un buon Life Design):
«Quando fai qualcosa, dovresti farla con tutto il tuo corpo e tutta la tua mente. Totalmente
concentrato. Dovresti assomigliare a un fuoco robusto e vivace e non a uno moscio e fumoso.
Dovresti bruciare completamente. Se non brucerai completamente, una traccia di te rimarrà in quello
che fai». Una cosa che sicuramente non farà piacere a coloro che sono molto «mentali» è che quando
siete nel flusso non esiste mente. O meglio, non esiste la parte di mente che pensate sia l’unica:
quella analitica, cosciente. Entra in azione una sorta di mente più vasta, misteriosa, imponderabile,
immensamente più produttiva.
Il flusso è un portale, e per aprirlo occorre conoscersi meglio, mettersi a fuoco: mettersi a fuoco
per divenire fuoco, e una volta divenuti fuoco non saremo solamente più efficienti ma, come tutte le
fiamme, anche ipnotici. Come ipnotiche saranno le nostre opere.
Durante uno dei nostri corsi di Life Design tenuti nel biennio 2018-2019 al Palazzo del Cinema di
Venezia, invitammo alcuni danzatori sufi, i famosi dervisci rotanti. Durante l’intervista che seguì
quell’incredibile esibizione, chiedemmo loro come si fa a non perdere l’equilibrio e a cadere girando
su se stessi per più di venti minuti. La risposta fu il più grande insegnamento di tutta la giornata:
sospendendo la mente. Quella danza fu la prova provata che quando siamo nel flusso diventiamo un
tutt’uno con quello che facciamo, e risultiamo irresistibili.
Attenzione, questo non vale solo per gli artisti o i performer, ma per tutti. Quante volte ci è
capitato di rimanere estasiati dai movimenti e dalla classe di alcuni camerieri, o di rimanere folgorati
dall’inaspettato senso dell’umorismo di alcune cassiere del supermercato. La legge del flusso vale
per tutti, dentro ognuno di noi esiste questo «tesoro dormiente», uno scrigno con le rotelle, quindi
mobile, inafferrabile, che ci spinge a non stare mai fermi ma a danzare, rinunciando al controllo,
amando ogni metro della strada e rendendo persino superfluo il raggiungimento di una qualsiasi
meta.

È un superpotere essere vulnerabili


Non tutti subiscono il fascino di questa sorta di «arrendevolezza» nobile e illuminata. Di solito, a
demoralizzarsi di più quando divulghiamo questo approccio alla vita sono i molto giovani (e questo è
sano, probabilmente), gli adulti sotto psicofarmaci e quelli a cui basta comprare corsi di ogni tipo per
stemperare la propria inquietudine. La libera associazione tra corsi e psicofarmaci non è
assolutamente casuale. Un diciottenne che non vuole spaccare il mondo e vedere manifestati tutti i
suoi desideri più egoici non è un vero diciottenne. A lui ci penserà la vita. Per le altre due tipologie
invece c’è lo stesso problema: lo stordimento e la paura di uscire dalla propria zona di comfort;
soprattutto, la paura di ammettere a se stessi di aver paura è talmente insostenibile che si finisce per
impasticcarsi o frequentare compulsivamente i corsi di Tony Robbins, dandosi come obiettivo non
quello di fare cosa dice Tony Robbins, ma di riuscire a ottenere le ferie per andare al prossimo corso
di Tony Robbins.
Solo chi ha vissuto veramente, ha agito ed è fallito può comprendere le potenzialità del Life
Design. Poi ci sono le persone più evolute che lo capiscono subito, ma sono una minoranza:
probabilmente hanno fatto esperienze in altre vite (fricchettons alert #2) e sono nati «già imparati».
Si tratta proprio di livelli diversi di evoluzione interiore: c’è chi ha paura del fuoco (e non lo tocca
mai), c’è chi ha paura ma ne è affascinato e lo tocca per poi bruciarsi, e poi c’è chi dopo essersi
bruciato ci riprova, ma questa volta decidendo di bruciare completamente, senza lasciare nessuna
traccia di se stesso. A seconda della categoria nella quale vi riconoscete, avrete chiaro quali sono i
vostri obiettivi, oppure accetterete di scoprirlo conoscendovi meglio. Farete di tutto per ottenerli
oppure capirete che sono parte della vita, ovvero un mix di fattori che comprende tante altre cose:
l’amicizia, il gioco, il viaggio, la cura di se stessi e di chi amiamo.
La vostra vita attuale, pur rimanendo chiara dentro di voi la voglia di migliorarla, a seconda del
vostro livello di consapevolezza sarà un campo di prigionia o un laboratorio di ricerca utile a scoprire
cosa funziona meglio per voi. Un futuro degno di essere vissuto potrà essere solo quello passato «in
infradito a gestire un chiringuito a Tulum» o anche una leggera modifica alla quale non avevate mai
pensato, realizzabile in meno di ventiquattr’ore (dopo averla compresa). Potrete decidere di non
mollare mai o di amare i vostri fallimenti, venerandoli come Maestri, per i preziosi insegnamenti che
si portano sempre dietro. Infine, a seconda che scegliate di recarvi da un motivatore o fare Life
Design, vorrete diventare sempre più coriacei e inattaccabili o amerete incontrare, conoscere e
accettare le vostre debolezze per poterle sublimare rendendole i vostri veri punti di forza.

Il mio mental coach si chiama Gesù


Le nostre debolezze diventeranno i nostri punti di forza se e solo se avremo voglia di guardarci
dentro. Di lavorare su noi stessi e cambiare. Anche se ci reputiamo ormai troppo vecchi (chi può dire
se la vita finisce veramente con la morte del nostro corpo?) e anche se non siamo (ancora) depressi
cronici. Prima agiamo meglio è. La stragrande maggioranza delle nostre inquietudini e
insoddisfazioni (e per qualcuno persino le malattie) hanno un’unica origine: la nostra ostinata
resistenza alle richieste di cambiamento che sentiamo dentro.
Il corpo fisico fa da solo, tutti gli altri corpi che «possediamo» no. Ogni giorno la nostra parte più
terrena cambia dai 50 ai 100 miliardi di cellule. Se pensiamo che siamo composti da circa 100.000
miliardi di cellule, il calcolo è presto fatto: ogni tre anni siamo, materialmente e oggettivamente,
un’altra persona. Se a questo cambiamento fisiologico non facciamo seguire un cambiamento delle
nostre componenti più sottili, saremo sicuramente meno felici di prima. All’inizio del nostro primo
libro, La felicità fa i soldi, abbiamo subito messo le cose in chiaro: la felicità è una cagata pazzesca,
un falso obiettivo, è inafferrabile, sono «le Indie», ma cercando ugualmente di perseguirla, e con
costanza, come Cristoforo Colombo, troveremo ben altro.
Con il Life Design non cerchiamo la felicità, ci «accontentiamo» di allontanare l’infelicità, facendo
un lavoro incentrato sulla coerenza tra quello che facciamo e quello che siamo già adesso. Non dopo
aver camminato sui carboni ardenti. Fedeli all’insegnamento di Maslow: «Se progetti
deliberatamente di essere meno di quello che sei capace di essere, allora ti avviso che sarai infelice
per il resto della tua vita». Qualcuno, duemila anni prima di lui, aveva detto una cosa simile. Dal
Vangelo secondo Matteo (25,14-30):

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi
beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e
partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque.
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto
un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva
ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti;
ecco, ne ho guadagnati altri cinque».
«Bene, servo buono e fedele», gli disse il suo padrone, «sei stato fedele nel poco, ti darò autorità
su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.»
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: «Signore, mi hai consegnato due
talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due».
«Bene, servo buono e fedele», gli rispose il padrone, «sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su
molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.».
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che sei un uomo duro,
che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo
talento sotterra; ecco qui il tuo».
Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e
raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando,
avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.
Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che
ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.»

Pace, amore e pragmatismo


La prima cosa che salta subito all’occhio a due come noi è che i soldi, la moneta, all’epoca, veniva
proprio chiamata così, «talento». Un talento ai tempi del Nuovo Testamento equivaleva a 58,9
chilogrammi d’oro, e il suo valore oggi sarebbe di circa tre milioni di euro. Mica pizza (di Beridde) e
fichi. La seconda è che Dio non è comunista; ma questo forse lo sapevamo già. La cosa interessante
però è che forse non è nemmeno tanto per la parità di diritti e di trattamento, che invece è sancita
dalla nostra Costituzione (art. 3) e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 21):
i servi infatti non ricevono la stessa quantità di talenti. Non siamo tutti uguali, ma questo non è un
problema perché la parabola ci insegna che non conta da dove parti ma dove arrivi con quello che hai
avuto in dotazione. Se agiamo, per prendere parte al «party» del Signore non serve nemmeno fare
più di chi ha ricevuto più di noi: bastano risultati proporzionali ai nostri talenti.
L’essenziale, dunque, consiste nel fare quello che possiamo con ciò che abbiamo, e migliorare le
cose a partire dal punto in cui siamo. Anzi, a chi riceve di più è richiesto di portare di più. Altrove
Gesù infatti dice: «A chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà
richiesto molto di più» (Luca 12,48). È, come sempre, una questione di azione ed equilibrio. Chi viene
condannato? Chi, forse intimorito dai pochi talenti ricevuti, non ha fatto nulla. Alla faccia della
compassione. Lo ammettiamo, un po’ ci piace questo Dio così poco politically correct.
Il terzo servo viene condannato perché non ha combinato proprio niente; se avesse fatto qualcosa,
anche pochissimo, con ogni probabilità sarebbe stato trattato come gli altri. È interessante riflettere
sulla scelta del perché proprio il meno fortunato viene rappresentato come il meno intraprendente. Il
diavolo, persino nelle parabole raccontate da Gesù, sta nei dettagli.
Noi ci permettiamo di avanzare l’ipotesi che il Vangelo voglia mettere in guardia soprattutto chi è
nato in condizioni meno vantaggiose, e dirci che nella povertà di mezzi (di ogni tipo, finanziari e non),
spesso, è insito il rischio di non prendere in mano la propria vita, di lasciarsi andare, di vivere di
assistenza e redditi di cittadinanza, pensando di avere troppo poco per fare qualcosa. E infatti, chi
tra gli ultimi (prostitute e peccatori vari), dimostra di fare anche un piccolo passo verso una versione
migliore di se stesso, alla fine viene sempre invitato al party: non a un tavolo sfigato, attenzione, ma
allo stesso privè dei grandi benefattori, una festa dove non c’è posto per i «finti generosi».
L’errore più grave imputato al servo malvagio è quello di non aver nemmeno accettato il dono. Non
solo non ne fa uso, ma lo restituisce. Invece di mettere i propri talenti al servizio di se stesso e degli
altri, li nasconde sotto terra (nel suo subconscio) fino alla fine dei suoi giorni. Il Life Design, in questa
prospettiva, è il badile che ci permetterà di dissotterrare il dono che abbiamo dimenticato di goderci.
Non c’è odore di decrescita felice o di frugalità, in questa parabola. Sembra scritta da un
formatore di trading. È una gigantesca ode al rischio, all’investimento su noi stessi, all’abbondanza e
all’interazione autentica e proficua con gli altri, e al contempo all’efficienza quasi darwinana del
Divino, che quando toglie al fannullone sceglie di distribuire al più dotato e ricco. Il criterio di
redistribuzione della ricchezza sembra qui essere improntato a una sorta di funzionalità pragmatica,
che potrebbe far sobbalzare qualche complottista e spiegarci perché, in assenza di interventi dello
Stato, da sempre il 20 per cento della popolazione detiene l’80 per cento delle risorse, circa.
I nostri talenti devono essere visti quindi come una grazia ma anche come una responsabilità,
altrimenti «sarà pianto e stridore di denti». Nessuna parola è scelta a caso, nel Vangelo: con la
specificazione di «pianto» e «stridore di denti» è chiaro che si vuole comunicare che lo stato di
povertà che ci toccherà sarà sia interiore (pianto e depressione) sia esteriore (stridore di denti,
freddo, povertà monetaria).
Il bello è che, come abbiamo visto nel Capitolo 1, tutto questo oggi è provato scientificamente. Non
occorre più essere religiosi per capire che se tenterai di seppellire la tua vocazione professionale
sarai destinato a un futuro di dolore e povertà. Fin quando lo diceva questo Dio cattivo, che miete
dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso, potevamo arrabbiarci e magari diventare atei o
agnostici o buddisti o «spirituali senza dogmi»: Dio è ovunque ed è molto buono, e alla fine vince
sempre l’Amore. E in realtà è vero, ma quasi sempre ci dimentichiamo di partire da noi stessi, senza
limitarci al solo PornHub ma amando il nostro vero sé, sepolto, e il suo mutare.

Una piacevolissima questione di vita o di morte


La parabola dei talenti e il suo tono un po’ così, da Trono di spade, servono a risvegliarci. L’obiettivo
è quello di indurre all’azione e di sgomberare il campo da qualsiasi sentimentalismo, comunicando,
magari in maniera un po’ terroristica, che le cose funzionano così e basta. Che esiste una legge
naturale e c’è poco da fare. In effetti, come abbiamo visto, anche la scienza di fatto lo conferma. Il
processo di scoperta della nostra vocazione (e del suo costante mutare) è quindi, veramente, una
questione di vita o di morte. Dovrebbe diventare una sana abitudine, o meglio un vero e proprio stile
di vita.
La cosa bella di questo processo è che, una volta attivato, è quasi spontaneo. Se fatto in
compagnia, poi, lo è ancora di più. Durante i nostri corsi, ogni volta che parte il momento
«verbalizzazione» del risultato degli esercizi che vedrete nei prossimi capitoli, ci stupiamo. Quel
suono è potente e dolce allo stesso tempo, una sorta di sinfonia suonata dalle anime che vanno a
cercare se stesse. Non è uno sfogo animale e violento, come spesso accade in alcuni happening new
age che vanno tanto di moda adesso: è la musica della spontaneità. L’unica vera difficoltà che
riscontrano le persone è iniziare: fissare un appuntamento, sospendere gli impegni per un paio di
giorni all’anno e fare Life Design, questa è la parte difficile. Il resto viene da sé.
La nostra mente più profonda sa dove andare; siamo noi piuttosto che non le diamo mai la
possibilità di andarci. Per questo cerchiamo sempre di rendere questi eventi un momento
desiderabile anche sotto altri aspetti, per esempio scegliendo location d’eccezione, invitando ospiti
ispiranti, facendo feste e rendendo gli esercizi quasi un gioco da villaggio turistico; una «scemenza»
in grado di cambiarci la vita per sempre, però, non solo durante il soggiorno al resort.
Una volta che si inizia a scavare non ci si ferma più, come quando facciamo le pulizie. Lo
ammettiamo, durante il lockdown della pandemia, siamo tornati a occuparci dopo anni delle pulizie
delle nostre case. È stato molto educativo. Durante un normale weekend la scelta tra andare a sciare
e fare le pulizie di casa è abbastanza semplice, se ce la possiamo permettere. Quando invece sciare
non si può perché gli impianti sono chiusi, e non possiamo far entrare nessuno in casa per
salvaguardare la salute di tutti, la scelta diventa obbligata. Mocio, aspirapolvere e Swiffer diventano
gli unici nostri compagni di viaggio. All’inizio è davvero dura, ma poi non finiresti mai: pulire casa
diventa quasi un atto metaforico, psicomagico.
La stessa cosa, a un livello immensamente superiore, avviene con il Life Design. Se fatto nelle
condizioni giuste, e magari da persone abituate a essere presenti (perché magari praticano la
meditazione), gradualmente avviene come uno scambio: non siamo più noi che cerchiamo qualcosa,
ma assistiamo a qualcosa che cerca di emergere attraverso di noi. Siamo sempre noi, ma a un livello
di consapevolezza superiore, un livello nuovo in cui quindi, all’inizio, facciamo fatica a riconoscerci.
Proseguendo e lasciandoci andare, però, tutto ci sembrerà ovvio. E in quel momento – proprio in quel
momento – avverrà il click dei click e ci sorprenderemo a dire: «Non posso permettermi di non fare
questo». Quasi senza accorgercene, in maniera dolce, graduale, accogliente, calda e pacifica
comprenderemo con il cuore che è veramente questione di vita o di morte. Non ci servirà essere
minacciati da un Dio spietato o motivati da fattori esterni, non ci sarà mai più alcun carro da
trainare: il movimento sarà contrario e impareremo a stare in equilibrio mentre ci sentiremo trainati
da qualcosa che sta davanti a noi, come quando si fa sci nautico.

Com’è difficile restare calmi mentre tutti intorno fanno rumore


In questo capitolo siamo partiti con gli insegnamenti di un monaco zen e siamo finiti a parlare, anche
se in maniera abbastanza obliqua, del Vangelo. Da adesso in poi non metteremo più i «fricchettons
alerts», perché a questo punto dovrebbe essere abbastanza chiaro che un approccio spirituale
contemporaneo è una condizione necessaria (anche se non sufficiente) per trovare la nostra
vocazione professionale. Tra i corsi e le certificazioni che abbiamo ottenuto dai professori
dell’Università di Stanford (nonostante qualche messaggio subliminale ogni tanto passi), abbiamo
sempre notato una gravissima lacuna: se non puliamo prima gli occhiali, è praticamente impossibile
osservare i nuovi panorami interiori che ci si prospetteranno durante il processo.
Il Life Design da solo non basta. È uno strumento, un ottimo strumento, ma la sua efficacia è
direttamente proporzionale alla lucidità e alla presenza di chi lo utilizza. La dote principale di cui
occorre munirsi è la capacità di osservazione dei nostri meccanismi inconsci, i comportamenti e i
pensieri automatici che abbiamo e che non ci accorgiamo di avere, a meno che non alleniamo la
nostra mente a osservarli. Come facciamo a rispondere bene a un esercizio di Life Design che indaga
sulla nostre naturali inclinazioni se la persona che ci accorgiamo di conoscere meno bene è… noi
stessi?
Il bello di questo percorso è che porta risultati anche in questi casi. Dedicare tempo ed energie a
studiare la nostra vita con un approccio di questo tipo, e accorgersi che facciamo fatica a rispondere,
ci farà venire spontaneamente voglia di aumentare il nostro livello di consapevolezza interiore.
Diventerà come una droga, ne vorremo sempre di più perché capiremo che, in definitiva, sta tutto lì.
La chiarezza su di sé funziona come un normale muscolo: va allenata poco alla volta, ogni giorno,
attraverso la meditazione, senza sforzo. Impariamo a creare degli spazi vuoti tra i pensieri, prima
piccolissimi, quasi impercettibili, poi via via sempre più ampi. Una volta trovato il vuoto – o meglio,
una volta fatto emergere il vuoto – i pensieri si possono osservare con maggiore semplicità. È come
sbrogliare una matassa di fili ingarbugliati e farli diventare le corde di un’arpa. Ancora una volta, non
si tratta di new age o cose da terrapiattisti, ma di ricerche scientifiche che confermano esattamente
l’immagine così romantica che vi abbiamo appena presentato.
Durante una vera tecnica meditativa il cervello «si mette in ordine» e, gradualmente, impara a
«rimanere ordinato» anche dopo la pratica. Maharishi Mahesh Yogi diceva che praticare la
meditazione trascendentale è un po’ come intingere un tessuto bianco in un colore per qualche
minuto al giorno. Con gradualità, immersione dopo immersione, il tessuto cambierà stabilmente
colore. Il silenzio e una pratica meditativa quotidiana costante sono un ingrediente imprescindibile
per un buon Life Design.

Il mondo oltre le chiacchiere e i distintivi


Tocca qui anticipare che il Life Design non è solo una via di mezzo tra un questionario di
orientamento e una riunione degli alcolisti anonimi (quelle dove a turno ciascuno racconta i suoi
problemi agli altri). La parte forse più importante è quella che segue tutto ciò, ovvero l’azione. Lo
vedremo bene dopo: il bello di questo metodo è che si fanno cose, si incontrano persone, si vede
gente (esatto, proprio come Nanni Moretti in Ecce bombo). Il focus non è sulla teoria o sulle «pippe
mentali» ma sull’esperienza diretta delle nostre nuove vite possibili. Proprio come si fa nel design, si
sperimenta, si testa, si prototipa.
Per fare questo occorre essere degli abili «de-pensatori». A bloccare le persone dal fare esperienze
nuove sono sostanzialmente queste tre cose: il giudizio degli altri, la carenza di autostima e lo sfogo
verbale deresponsabilizzante.
Tutte e tre non sono altro che conseguenza di un’unica cosa: la paura di uscire dalla nostra zona di
comfort. E la paura è a sua volta la conseguenza di un’altra cosa: il pensiero depotenziante. Anche
qui servirà a ben poco immaginare duro, dedicarsi con passione agli esercizi di autoconsapevolezza,
raccontarsi in gruppo, abbracciarsi tanto e pianificare futuri possibili se poi alla fine rimane tutto
sulla carta. Uscire di casa, citofonare alle persone che ci possono aiutare e alle quali possiamo offrire
il nostro aiuto, offrirsi volontari a tempo determinato, partire, viaggiare, mettere il nostro primo
prodotto su Amazon o su un e-commerce potenziato da Shopify, proporsi per una partnership, aprire
un temporary shop, regalare consulenze per farsi dare in cambio recensioni e così via. Senza
l’esperienza diretta di attività concrete come queste, non stiamo facendo Life Design, stiamo
chiacchierando al bar. Per esperienza sappiamo che è qui che si blocca la maggior parte delle
persone, e sempre per esperienza diretta sappiamo che chi pratica meditazione è meno schiavo dei
pensieri, perché ha imparato a non identificarsi con essi, quindi prototipa di più e ottiene vite
sbalorditive. La spiritualità non ci aiuterà solo a essere più creativi e immaginifici e a conoscerci
meglio, ma sarà lo strumento ideale per disintossicarci dalle tre cose elencate.

1. Il giudizio degli altri: cosa penserà mio marito se lascio il mio impiego di manager e mi metto a
fare divinazione con la sfera di cristallo via Zoom?
2. La carenza di autostima: ma quando mai Luca Guadagnino prenderà uno come me come
aiutoregista per il suo prossimo film? Non ho frequentato nessuna scuola di cinema.
3. Lo sfogo verbale deresponsabilizzante: alla fine è anche inutile che ci provi, tanto in Italia
funziona tutto con le raccomandazioni.

Più ci prenderanno per matti, più avremo la garanzia di muoverci nella direzione giusta.
Consideriamolo il termometro del successo del nostro Life Design: se nostra mamma o la nostra
migliore amica ci supporta in tutto quello che faremo dopo i primi passi di questo percorso, potrebbe
esserci qualcosa che non va, forse non abbiamo osato abbastanza. Meditiamoci sopra e ripetiamo il
processo.

In presenza anche da remoto


La frase più importante del capitolo che state leggendo è questa: « Una volta trovato il vuoto – o
meglio, una volta fatto emergere il vuoto – i pensieri si possono osservare con maggiore semplicità».
C’è un altro motivo per cui abbiamo voluto inserire la spiritualità nel nostro modo di applicare il Life
Design, ed è legato a quello che scienziati e docenti del MIT (il Massachusetts Institute of
Technology, semplicemente la migliore università del mondo) come Peter Senge e Otto Scharmer
hanno definito il «letting come» («lasciar venire»). Si tratta di una fase di un modello chiamato
«percorso a U», spiegato nel loro celebre testo Presence. Esplorare il cambiamento profondo nelle
persone, nelle organizzazioni e nella società a. Un metodo per generare e concretizzare nuove idee
che richiede sette capacità da possedere e sette attività a loro correlate, messe in sequenza una dopo
l’altra con una dinamica «fuori-dentro-fuori»: sospendere, reindirizzare, lasciar andare, lasciar
venire, cristallizzare, prototipare, istituzionalizzare.
Noi ovviamente condividiamo questo approccio; per questo, fin da subito, abbiamo inserito vari tipi
di tecniche di sviluppo interiore, come la meditazione trascendentale, l’osservazione di sé di
Gurdjieff, la psicosintesi di Assagioli e le sue meditazioni guidate, l’I Ching e… il surf, in tutti i nostri
corsi legati alla ricerca e alla monetizzazione della propria vocazione professionale, intendendo
quest’ultima non come gadget perché va di moda, ma inserendola come passaggio fondamentale per
attivare il «lasciar venire» di cui parlano i professori del MIT.

2. Il percorso a U di Peter Senge e Otto Scharmer.

Si tratta di un concetto legato alla creatività che, per creare ancora più mistero, spiegheremo con
le parole di un regista famoso per la sua imperscrutabilità: David Lynch. Nel suo libro In acque
profonde. Meditazione e creatività, Lynch usa una metafora molto semplice per spiegare un concetto
molto complesso: le idee sono come i pesci, e se vuoi prendere quelli grossi devi far scendere l’amo
in profondità. Sia Lynch sia Senge (ma anche tanti altri mistici per millenni) ci spiegano, tra le righe,
un concetto potentissimo e abbastanza rivoluzionario per noi occidentali egoriferiti, cioè che le idee
non sono mai veramente nostre, stanno già da qualche parte, e attraverso un’immersione bisogna
andare a cercarle e «lasciarle venire» a noi.
Le scoperte più rivoluzionarie sono state fatte mentre si cercava altro; per esempio, per Einstein il
momento più propizio era quello subito dopo «il riposo del cucchiaino», ovvero la meditazione prima
che la meditazione fosse conosciuta in occidente. Il genio della fisica era solito costellare la sua
giornata di brevissimi sonnellini fatti chiudendo gli occhi e tenendo in mano un cucchiaino; quando la
posata cadeva a terra rumorosamente, si tornava al lavoro. Il fondo della U del grafico di Senge e la
pesca di Lynch spiegati facili.
La stessa cosa si fa oggi in tanti uffici, compreso il nostro, prima delle riunioni più importanti. Si
chiudono gli occhi per qualche minuto, si recita un mantra e solo dopo si getta l’amo. Le idee e la
creatività non sono esclusivamente materiale per creativi, artisti, geni o imprenditori rivoluzionari: le
idee sono alla base di tutto. (Quasi) qualsiasi problema, anche personale, si risolve attraverso
un’idea. Oggi sappiamo che non occorre avere superpoteri o particolari doti naturali per generarne
di buone, ci vuole metodo. Quello che per gli altri è culo, per noi è metodo, e quel metodo ha a che
fare con la spiritualità.
L’idea di chiamare i nostri corsi «yoga finanziario» è nata cinque minuti dopo una delle meditazioni
che pratichiamo quotidianamente da quindici anni. Quella singola idea è stata sufficiente a scrivere
un libro, creare un’azienda, ottenere tanta visibilità e di conseguenza vedere tante vite migliorate
che non si sarebbero mai avvicinate ai nostri corsi se non ci fosse stata quell’intuizione ironica,
surreale e provocatoria. Ormai non serve più scomodare guru o santoni, a certi livelli certe tecniche
sono date per scontate.
La London Business of Economics nelle sue pubblicità online si autodefinisce «olistica», ma anche
in Italia grossi gruppi come Banca Mediolanum, Illy, Davines e Chiesi Farmaceutici si coalizzano e
organizzano eventi come «Regeneration 20|30», dove è possibile ascoltare il pensiero e le proposte di
figure di spicco del mondo del business, istituzionale e – ebbene sì – spirituale. Tutto questo mentre
«dall’altra parte della barricata» la Chiesa cattolica organizza per la prima volta un evento
internazionale chiamato «The Economy of Francesco», ovviamente ad Assisi. A livello macro e a
livello micro, dentro e fuori di noi, osserviamo lo stesso movimento: l’immateriale e il materiale, per
millenni acerrimi nemici, si stanno avvicinando, persino conciliando. Per risolvere grossi problemi e
scongiurare catastrofi imminenti. E non lo pensano due «scappati di ashram» come noi, ma la più
grande organizzazione mondiale a tutela dell’ambiente (e composta praticamente solo da scienziati e
avvocati) come il Natural Resources Defense Council, che attraverso le parole del suo fondatore ci
dice: «Pensavo che i maggiori problemi che il mondo dovesse affrontare fossero il riscaldamento
globale, il degrado ambientale e il collasso del suo ecosistema, e che gli scienziati potessero risolvere
tutto attraverso la scienza. Ma mi sbagliavo. Il vero problema non sono quelle tre cose, ma l’avidità,
l’egoismo e l’apatia. E per risolverle abbiamo bisogno di una trasformazione spirituale e culturale. E
noi scienziati non abbiamo idea di come farla partire».

a. Peter M. Senge, Otto Scharmer, Joseph Jaworski, Betty Sue Flowers, Presence. Esplorare il cambiamento
profondo nelle persone, nelle organizzazioni e nella società, FrancoAngeli, Milano 2013.
4
Il Life Design Spirituale

«L’attività creativa di Brahman non è intrapresa in ragione di una necessità da parte sua, ma solo e
semplicemente per gioco, nel senso abituale del termine.»
BRAHMASU¯TRA, II, 1, 32-33

«Non è che il gioco cominci con la creazione, no, perché è esistito da tutta l’eternità. La creazione è
quello stesso gioco nella sua esteriorizzazione.»
JACOB BÖHME, La visione celeste. De signatura rerum (XVI, 2-3)

Dal disegnare cose al disegnare pensieri


Il design della vita era probabilmente l’ultimo design che fosse rimasto fuori dall’ondata che negli
ultimi vent’anni ha invaso pressoché ogni campo dello scibile umano. Nato come processo di
progettazione industriale, questo tipo di approccio viene oggi applicato pressoché ovunque, dal cibo
(food design) alla comunicazione (visual design), dall’illuminazione di uno spazio (light design) alla
sonorizzazione di un determinato ambiente o di un’opera multimediale (sound design). Non c’è
dubbio che si tratti di una delle parole più di successo della nostra epoca. Qualsiasi cosa associata
alla parola «design» diventa istantaneamente cool. Ne sanno qualcosa i milanesi che in «quella»
settimana di aprile vedono piacevolmente invasa la loro città da centinaia di migliaia di visitatori alla
ricerca di cose e idee belle; con immensa gaiezza di coloro che tornano a vivere «al paese» per
mettere il bilocalino su Airbnb a 300 euro a notte.
Milano e l’Italia sono conosciute in tutto il mondo come la culla del design di prodotto, ma, ahinoi,
dobbiamo ai californiani l’innalzamento e la traslazione del concetto di design da semplice metodo
per progettare le cose a vero e proprio modello per pensare tutto. Citato per la prima volta dallo
scienziato premio Nobel Herbert A. Simon nel suo libro del 1968 The Sciences of the Artificial, è
dalle aule di Stanford, intorno al 2000, che è stato definitivamente spostato il focus e codificata la
rivoluzione del design, passata dal prodotto al produttore. La velocità con cui cambiano i
comportamenti, i trend e le dinamiche umane è diventata tale che non conviene più specializzarsi nel
progettare determinati prodotti: occorre prima di tutto ridisegnare il modo di pensare di chi li
progetta. E il modo di pensare che si vuole implementare è quello che mette al centro l’utente di un
prodotto o di un servizio, le sue esigenze e la soluzione dei suoi problemi in modo creativo, rapido ed
efficiente. Le regole base del design thinking sono queste:

Human centered. Qualsiasi cosa si faccia, qualsiasi decisione si prenda, al centro c’è l’essere
umano, di conseguenza è necessario incentivare l’interazione tra le persone. Si pensa sempre
insieme. Nel Life Design: mai pensare da soli e mettere sempre al centro la nostra parte più
umana e autentica.
Ambiguità is not a crime. Avere regole troppo precise blocca la creatività; lasciare spazio
all’interpretazione è funzionale al poter vedere le cose da un punto di vista diverso. Nel Life
Design: sentitevi liberi di non seguire esattamente la sequenzialità degli esercizi che vi daremo
anche in questo libro. Partite dalla fine, dal mezzo, da dove volete: basta che partiate.
Tutto cambia ma anche no. I bisogni dell’uomo sono sempre gli stessi (Maslow docet), mentre
cambiano (sempre più vorticosamente) i mezzi con i quali possono essere perseguiti.
Tangibilità. È la regola del plastico di Bruno Vespa, un grande design thinker dei nostri tempi.
Finché le idee non prendono forma, attraverso prototipi ed esperienze, ci perderemo sempre
qualcosa, e fare la scelta giusta avrà la stessa probabilità del vincere la lotteria di Capodanno.

Il design thinking ci piace perché rappresenta il tentativo (riuscito) di trovare il giusto equilibrio
tra l’artista e l’ingegnere che è in noi. Un ottimizzatore delle nostre pulsioni più istintuali. La palestra
perfetta per allenare il nostro ego e ricordargli continuamente di lavorare senza dominarci e allo
stesso tempo un sano pungolo a non ripetere schemi già adottati in passato.

Datti un cinque
Questo modo di «pensare il pensiero» è la ricetta del successo di tutte le aziende della nostra epoca.
Sappiamo che traslare questo metodo e applicarlo alle nostre vite suona profondamente americano,
volgarmente concreto e forse persino esageratamente pragmatico, ma è anche vero che gli americani
non sono più gli americani di una volta. Da Henry Ford siamo arrivati a Reed Hastings, il fondatore di
Netflix. Dalla standardizzazione più radicale siamo passati all’azienda che cambia completamente
prodotti e servizi ogni dieci anni. Dalla Summer of Love in poi, gli Stati Uniti sono stati la culla di
tutti i movimenti più innovativi e radicali di questo pianeta, dal Paese del proibizionismo più duro che
si sia mai visto in Occidente al primo al mondo a legalizzare la cannabis a scopo terapeutico. Vista la
loro imprevedibilità, gli States sembrano essere essi stessi un prodotto scaturito da un processo di
design thinking, magari a volte persino troppo schizofrenico. A tal fine, con questo libro abbiamo
provato a innestare in questo processo una logica più spirituale e olistica.
Ma procediamo con ordine e vediamo quali sono i cinque passaggi del design thinking classico che
sono stati poi presi tali e quali anche dai nostri «amici» Dave Evans e Bill Burnett per essere declinati
nel design della vita.

1. Empatizzare. Prima di tutto occorre conoscere profondamente i nostri clienti, nel caso del
design classico, e noi stessi, nel caso del Life Design. Abbassiamo la cresta e cerchiamo di
capire con il cuore quali sono i bisogni reali, i sogni e gli obiettivi delle persone. Qui il segreto è
darci la possibilità di scoprire cose nuove e di vedere smentite le nostre convinzioni più radicate.
2. Definire. Mettere per iscritto il problema che dobbiamo risolvere e che abbiamo compreso
grazie all’indagine fatta al punto 1. In questa fase vince la chiarezza. Pochi giri di parole e tanta
praticità.
3. Ideare. Farsi venire idee per risolvere il problema del punto 2. Tante idee, più ce n’è meglio è.
Fermarsi subito e gridare «Eureka!» in questa fase è l’errore peggiore che possiamo
commettere. Non conta la qualità, ma solo la quantità.
4. Prototipare. Creare soluzioni in scala per capire quali fra le idee del punto 3 ci sembrano
funzionare meglio. Si può e si deve prototipare tutto, non solo oggetti materiali. Più avanti
vedremo concretamente come.
5. Testare. Si mette su strada il prototipo, e tutto può accadere. Le soluzioni possono essere
confermate, abbandonate o migliorate. Qualsiasi cosa confermata qui, comunque, prima o poi
ritornerà al punto 1. Chi si ferma (e non si forma) è perduto. Il design e il Life Design sono
processi perpetui, non soluzioni miracolose.

L’intuizione dei nostri maestri Dave e Bill è stata quella di applicare questi cinque passaggi per
generare nuove idee sul nostro futuro, facendo in modo che queste risolvano i nostri veri problemi,
ossia quelli che abbiamo compreso ascoltandoci con empatia. Ma da bravi professori universitari
molto istituzionali non si sono potuti spingere nei luoghi estremi, e volutamente folli, che invece
abbiamo provato a sondare con questo libro.

È arrivato Cacini!
Sia chiaro, chi vi scrive, come abbiamo già detto, non ha mai inventato niente. Quello che ci piace
fare è studiare, osservare tantissimo, testare più cose possibili e vedere i risultati su di noi. Solo
successivamente filtriamo le cose (per noi) essenziali, le sintetizziamo al meglio e infine le
condividiamo, sempre citando le fonti ed evitando di appropriarci indebitamente di conoscenze altrui.
Com’è accaduto per il primo libro, sulla finanza personale, avviene in questo, dedicato alla carriera
professionale. La nostra «fortuna» è che, essendo fondatori di un’azienda di formazione di discrete
dimensioni, possiamo vedere i risultati di tali metodi, non solo su di noi ma anche su migliaia di
persone che hanno frequentato e frequentano i nostri corsi, dal 2010 a oggi.
Una cosa in particolare che abbiamo notato in questi anni è che in tanti, nell’ambito della
formazione, tendono a concentrarsi solo sui metodi e i processi di crescita e formazione, lasciando ad
altri il compito di dotare le persone di tecnologie mentali atte a rendere più semplice e spontanea
l’assimilazione e l’applicazione dei concetti stessi. Osservando i risultati dei nostri corsisti, in oltre un
decennio, ci siamo resi conto che dando le stesse nozioni alle stesse persone, i risultati cambiavano
notevolmente in base al livello di avanzamento del percorso di crescita interiore fatto dagli stessi. Per
questo, anche approcciando il Life Design ci è venuto spontaneo fin da subito integrare tutta una
parte esperienziale e spirituale che integrasse la parte più didattica.
Applicare brutalmente il design thinking alle nostre vite ci è sempre sembrata una scorciatoia
troppo banale. Declinare semplicemente gli stessi procedimenti che si applicano per l’ideazione di
nuove app o dispositivi tecnologici non basta: l’essere umano e il suo viaggio su questo pianeta sono
un mistero, quindi, proprio come ci dice il fondatore del Natural Resources Defense Council, citato in
chiusura del precedente capitolo, la scienza non basta. Per l’uomo la vera crescita passa sempre
attraverso una comprensione più che razionale di ciò che è e ciò che sta vivendo. Compilare esercizi
di orientamento e generare idee a manetta, senza preoccuparsi di preparare prima il campo per un
lavoro interiore, rischia di dare risultati poco efficaci. Esiste un cosa chiamata inconscio che richiede
un linguaggio più organico per essere conosciuto e sublimato.
Il Life Design convenzionale è un ottimo strumento di lavoro, ma usato da solo ci farà lavorare solo
nel mentale, in superficie, dove, come abbiamo visto, scarseggiano i pesci grossi. Detto in parole
povere, non è che a uno che è abituato a rilassarsi bevendo un goccio di grappa o giocando a sudoku
gli potete dire: «Ok, ora, per questo esercizio, prima di cominciare cerca di rinunciare al controllo,
osserva i tuoi pensieri e sospendi il giudizio». Certo, come no… È arrivato Cacini! Certi stati mentali
vanno indotti con maestria, amore, pazienza e dedizione. C’è qualcosa di preordinato all’esercizio in
sé che conta tanto quanto l’esercizio stesso. Lo abbiamo visto coi nostri occhi durante gli eventi di
Life Design che abbiamo organizzato. Le persone abituate a meditare e a coltivare quotidianamente
la presenza e la compassione ottenevano subito risultati, gli altri no. Anzi, l’esito era spesso opposto:
le persone meno allenate al lavoro su di sé tendevano a irritarsi sempre più nell’arco della giornata.
Si rendevano conto di non essere in grado di rispondere alle domande per fare chiarezza sulla
propria vita e di non avere idee per il futuro, e per questo, messe davanti alla loro impotenza, si
deprimevano.
Tutto perfetto. Anche questa è crescita. Molti, da quel momento, hanno iniziato un percorso
spirituale, hanno capito concretamente a cosa serve e per questo lo portano avanti ancora oggi.
Quando arrivano allievi con questo profilo, i maestri di meditazione che collaborano con noi spesso ci
ringraziano, perché sono gli allievi che regalano più soddisfazioni. Sono persone che arrivano non per
moda o per disperazione, ma ben consapevoli di volersi portare a casa qualcosa di davvero
imprescindibile per vivere meglio. Come diceva Francisco Varela, in Presence: «La vita all’insegna
della saggezza è quella che s’impegna all’esercizio costante della capacità di lasciar andare, per far
sì che la virtualità o la fragilità possa manifestarsi».
Qui la parola chiave è «costante». Sarà capitato a tutti di sentirsi particolarmente presenti durante
malattie, pericoli, lutti, delusioni d’amore o altri eventi estremi che producono in noi quel magico
stato di lucidità che ci fa prendere le decisioni che non avremmo mai preso nello stato di «sonno» che
ci accompagnava prima della catastrofe. Ecco, Varela ha intuito che quello stato di supervigilanza
può essere coltivato e sviluppato con la pratica, affinché non siano per forza necessarie le tragedie
per farci muovere il deretano. Siamo nei dintorni del concetto di karma.

Toboga time
Per come lo intendiamo noi, l’obiettivo del Life Design è quello di fare la conoscenza con la nostra
vera identità attraverso un «lasciarsi andare» gioioso e giocoso che somiglia, e dovrà somigliare
sempre, a quello che esperiamo quando al parco acquatico saliamo in cima alla scala e decidiamo di
scendere lungo uno di quei giganteschi scivoli girevoli tubolari multicolore, per poi tuffarci dentro la
calda piscina della nostra vera essenza. Siamo tornati finalmente a casa. Proprio come in quelle
attrazioni, si tratterà di percorrere e godersi gli «Strani Anelli» che ci trasformeranno ogni volta,
attraverso il continuo ribaltamento della percezione di noi stessi e del mondo, tracciando il profilo del
nostro volto: proprio come in una xilografia di Escher, partendo dal vertice, la «mente», e planando
verso il «cuore».
Ogni anello rappresenterà un ciclo di Life Design: più anelli ci toccherà disegnare, più ci
divertiremo. Ah, quindi, Davide ed Enrico, col Life Design trovo la vocazione professionale, faccio un
botto di soldi e sono a posto fino alla pensione? No. Troppo sbattimento? Forse, ma se siete nati,
probabilmente è perché la parte più autentica di voi aveva voglia di godersi la «giostra». Nessuno
paga il biglietto per uno scivolo piatto, no?
Ciascun ciclo di Life Design ha un andamento prima discendente e poi crescente, proprio come il
grafico a U di Peter Senge, e, nel punto più profondo, laddove «lasciamo venire a noi» le idee, lo
scivolo avrà una torsione, ricordando il nastro di Moebius.
Questo avviene perché grazie al Life Design compiamo dapprima una trasformazione visiva, ovvero
cambiamo l’inquadratura con la quale guardiamo la nostra vita. In gergo tecnico si chiama proprio
così: reframing. Successivamente, grazie a questo ribaltamento della visuale, unito a un percorso di
meditazione, riusciremo a scorgere delle opportunità che prima non vedevamo.
Le idee in questo nuovo contesto arriveranno da sole e, se avremo il coraggio di prototiparle e
attuarle, tutta la nostra vita verrà letteralmente «ribaltata». A questo punto il processo ci sarà
piaciuto talmente tanto che, mentre ci godremo i risultati ottenuti, diventeremo intimamente
consapevoli che potremmo godere ancora di più, e quindi non ci attaccheremo alla nostra nuova
identità momentanea e ci prepareremo per un’altra coloratissima scivolata.
Più scorre il vento tra i nostri capelli, più ci stupiamo nello scoprire chi siamo veramente.
Dicendola ancora con Varela: «È come un costante reinquadramento del sé in qualcosa che sembra
farsi più reale in ogni momento emergente». Non ci sono modelli da emulare, ciascuno di noi è un
essere unico e ciascuno di noi, tendenzialmente, sa ben poco di chi e cosa sia veramente.
Il Life Design è il tentativo di risolvere questo arcano, dove la chiave per riuscirci è solo e
unicamente il gioco, il giocare e l’essere giocati.

Let’s dance
Questo approccio rappresenta quindi un vero e proprio stile di vita, non un semplice corso di
formazione one shot. La più grande difficoltà che incontrano le persone nell’intraprenderlo con
naturalezza è legata all’attaccamento che siamo abituati ad avere alle nostre sub-identità.

Sono sempre stato bravo nelle materie scientifiche, mi sono laureato a pieni voti, ho fatto il dottorato
e ora sono finalmente un ricercatore in scienze biomolecolari. Sono persino finito ad Anversa in
Belgio per poter proseguire la mia carriera. Non sono più Gabriele, sono un ricercatore che studia il
DNA, un cervello in fuga dedito a sezionare i cervelli dei topi da laboratorio.
Peccato che nel tempo libero non veda l’ora di studiare la genealogia di tutti i miei amici. Lo faccio
gratis, anche di notte, non ne posso fare a meno. Mi chiedo: ma non è che potrei farne una
professione? «Ma figurati Gabriele, ti sei fatto una posizione, vuoi buttare tutto nel cesso?»
Poi, chiacchierando con gli amici, complici innumerevoli bicchieri di squisite birre trappiste
belghe, scopri che ricercare i segreti nascosti fra le pieghe dei nostri cromosomi non è un’attività
così diversa, concettualmente, dallo scavare negli archivi anagrafici di mezza Europa. La dinamica è
la stessa, si tratta solo di cambiare inquadratura; non sei impazzito, va tutto bene. E allora fai il
twist, il nastro di Moebius si torce e inizi a risalire lo Strano Anello. Ora qualcosa è cambiato e pensi:
proviamo, vediamo cosa succede. Prototipiamo questa cazzata. Apri un piccolo sito, si sparge la voce
e dopo qualche mese inizi a guadagnare la stessa cifra che guadagni in laboratorio. Sarà una botta di
fortuna momentanea, passerà.
Questo finché un giorno ti arriva una mail da Ancestry (l’azienda leader mondiale di genealogia a
scopo di lucro) che ti offre di lavorare per loro e aiutare i tanti americani di origine italiana che
vogliono scoprire, nel dettaglio, le ramificazioni e l’esatta discendenza della loro famiglia. Bum!
Anello completato, senza drammi, senza strappi, scivolando, applicando il Life Design.

Questa è la storia vera di un caro amico di Davide, conosciuto quando viveva a Bruxelles, che
raccontiamo, sotto forma di un’intervista, in una puntata dei nostri podcast. La parte più difficile,
come dicevamo, è quella che ha a che fare con la «rinuncia» alla nostra identità professionale
convenzionale, quella riconosciuta da noi, dai nostri amici e dai nostri famigliari. Si tratta di una
forma di morte, è normale temerla. L’unico modo per vincere queste resistenze è quello di
identificare, creativamente, un punto di congiunzione tra essa e il nostro nuovo esperimento di vita,
la nostra nuova reincarnazione «in vita».
Per esperienza sappiamo che questo tipo di connessione c’è sempre. Ma si tratta di fili sottili e
profondi, che rispondono a logiche spesso irrazionali, surreali, artistiche. Quando ero piccolo – è
Davide, che parla, ora – ho subito manifestato interesse per la musica. Mi sono fatto regalare un
mangiadischi e ho iniziato ad ascoltarlo appoggiandolo al davanzale della finestra per condividere
con i vicini le mie «selezioni». Al Natale successivo ho chiesto a Gesù Bambino un microfono e un
mini-amplificatore giocattolo da accostare al giradischi. Era nata la mia radio.
Per tutta la giovinezza ho provato a diventare un musicista di professione, ma visti gli scarsi
risultati mi sono laureato in Economia aziendale alla Bocconi e sono finito a fare il music manager
presso la compagnia telefonica Tre. Per la stessa azienda, da manager ho fatto il volto di un
programma di contenuti musicali, e ho intervistato artisti del calibro di Dave Gahan, Ben Harper, gli
Air e Manuel Agnelli. All’Anello successivo sono finito a fare il formatore finanziario con
Moneysurfers, presso il Palazzo del Cinema di Venezia, proiettando un videoclip di una canzone che
avevo scritto quando avevo venticinque anni, che si chiama My Design («Il mio disegno») e che
recitava: «Potrai fare surf sopra un mare di fragole», «Qui nel mio disegno un altro sole sorgerà e la
luce sarà stereo», «Non è un desiderio, è un embrione di realtà».
Ora conduco un podcast dove dialogo con le persone più interessanti d’Italia e ho pubblicato un
libro dedicato al Life Design. La nostra vita è tutta un gioco di specchi, di anelli concentrici, di
identità multiple che richiedono il loro spazio, è una discoteca, tocca ballare. Come Shiva. Più
numerosi sono gli anelli che ci precedono, più veloce sarà la discesa e più facile sarà ottenere
risultati manifesti.
Si tratta di una legge fisica, quella del moto di caduta libera di un grave, altresì detto «moto
naturalmente accelerato». Un peso lasciato libero di cadere incrementa la propria velocità di 9,8
metri al secondo. Più esperienze abbiamo fatto nella nostra vita, più diventeremo (col Life Design)
bravi a riconoscerle, reinquadrarle e sublimarle, e più le cose giuste per noi sembreranno accadere
con naturalezza. Qualsiasi esperienza è un tesoretto. Proprio come negli investimenti, più capitale
avrete da parte e più potrete sfruttare l’effetto leva, più velocemente e corposamente guadagnerete,
se starete andando nella direzione giusta.
La nostra vita passata e presente, per quanto possa farci schifo, cela sempre in sé un enorme
valore; solo amandola e rispettandola possiamo porre le basi per un disvelamento progressivo della
nostra vera fisionomia. Ma anche questo approccio da solo non basta.

I tre livelli paradossali del Life Design Spirituale


Il nostro approccio al Life Design è un lavoro su tre livelli, che devono convivere armoniosamente:

1. Amare ciò che siamo e facciamo oggi.


2. Immaginare senza limiti ciò che ci piacerebbe essere e fare domani.
3. Applicare incessantemente su di noi i passaggi del design thinking.

Come faccio ad amare ciò che faccio adesso se quando immagino senza limiti mi vedo altrove? La
realtà di questo mondo, ci dispiace, non è mai univoca, lavora sempre, simultaneamente, su più
livelli. Funzionano così anche le migliori opere d’arte. Gli unici «dogmi» che vale la pena seguire
sono il mistero, la ricerca e lo stupore. Diffidare sempre da chi ci fornisce delle ricette miracolose e
non paradossali: egli sta sempre (consciamente o non) tradendo se stesso, chi lo ascolta e la natura
fisica indeterminata di questo mondo. Amare il nostro lavoro di cassiere, servire con approccio
devozionale clienti e capo, mentre alla sera assembliamo la mood board che ci aiuterà a immaginare
una vita radicalmente diversa, sono indispensabili contraddizioni. Chiudere gli occhi dopo aver
consacrato la stanza con del palosanto e pronunciare solennemente ciò che esigo che la natura mi dia
e lasciare che il «caso» mi guidi durante il mio ciclo di Life Design, sono azioni sinergiche non
incongruenti.
Quando Davide a trent’anni girava cortometraggi e dopo ogni meditazione passava mezz’ora a
pregare chiedendo in maniera diretta di vincere il Leone d’Oro al Festival di Venezia, non poteva
immaginare che di lì a tredici anni sarebbe finito proprio su quel palco a dirigere più di mille nuovi
film vissuti veramente dai suoi corsisti di Life Design. Come diceva Franz Kafka e come ha declamato
Stefano Massini, proprio in apertura del nostro evento a Venezia: «Ogni cosa che tu ami è molto
probabile che tu la perderai, però alla fine l’amore muterà in una forma diversa».
Svolgere i compiti che ci vengono richiesti dalla nostra attuale professione con spirito amorevole
ha una funzione duplice. Per prima cosa ci permetterà di non dissipare preziose energie attraverso le
lamentele, e in seconda battuta ci aiuterà ad aprire dei canali di passaggio per le nostre identità
future. Per quanto possiamo essere eccellenti strateghi, qualsiasi buon osservatore sufficientemente
adulto sa che le cose belle nella vita non ci capitano mai esattamente come le avevamo previste.
Occorre apertura di cuore affinché ci sia spazio per la magia.
In questa che sembra la frase di un libro fantasy sta la verità dell’accettazione piena di ciò che
siamo e ci capita. Al contempo però occorre non cadere nella trappola estetica del martire, ma
lavorare per operare la nostra Magnifica Scivolata, attraverso l’immaginazione. Immaginare però in
maniera diversa rispetto a quello che i manualisti di auto-aiuto ci insegnano, nella totale
consapevolezza, quindi, che non avremo quasi mai esattamente ciò che desideriamo; non perché Dio
sia cattivo, ma perché mentre desideriamo, in principio, non saremo mai veramente noi a desiderare i
nostri desideri, ma si tratterà quasi sempre di bisogni indotti (dai media, dagli amici, dai social
eccetera).
Solo attraverso i vari cicli di Life Design, gradualmente, ci conosceremo meglio, diventeremo via
via più autentici e di conseguenza in grado di desiderare veramente dal cuore. E infatti più si andrà
avanti più i desideri si materializzeranno in fretta. Moto naturalmente accelerato. Per non rischiare
di chiudere le porte alla fortuna o di veder esauditi i sogni sbagliati o di rimanere bloccati a causa
della mancanza di un metodo da seguire, occorre attuare questa triplice azione paradossale. Nella
seconda parte del libro vi spiegheremo come si fa, concretamente.

Sì, ma il mutuo poi me lo paghi tu?


Semplificando vergognosamente, il mondo, secondo i testi sacri più antichi, i Veda, è nato per un
gioco divino. «Egli non ha motivo di essere. Allo stesso modo il mondo è semplicemente un suo
gioco» (Brahmasu–tra, II, 1, 32-33).
Ne abbiamo già parlato, ma da bravi educatori finanziari a questo punto va ricordato che nessun
gioco è bello se nel suo svolgersi, oltre alla voglia di giocarlo, non sia richiesta anche una certa dose
di abilità (si veda il concetto di flow) e i risultati delle nostre prodezze non siano, in qualche modo,
utili a qualcun altro (si vedano i tre insiemi della vocazione professionale). Assieme a noi c’è pure
Coomaraswamy, che infatti, sempre parlando di gioco (lı¯la¯ in sanscrito) e argomentando il
passaggio del Brahmasu–tra, ci dice: «Il gioco si realizza non come ‘lavoro’, ordinariamente
realizzato in vista di assicurare un fine essenziale al benessere per il quale lo si realizza, bensì per
esuberanza». a
Il lavoro è faticoso, il gioco è facile; il lavoro è spossante ma il gioco è una ricreazione. La forma di
vita migliore e più simile a Dio è «giocare il gioco». Ma i giochi di cui si parla in queste scritture non
sono il calcetto a cinque del martedì sera o la PlayStation: si tratta di veri e propri rituali che
potevano essere «giocati» solo da coloro che erano iniziati, e quindi, tornando a Coomaraswamy: «In
queste condizioni, la ‘competenza’ (kaushalam) non è mai solo destrezza fisica, ma anche ‘saggezza’
il cui senso basilare è precisamente ‘perizia’. Così gli estremi si trovano, il lavoro diviene gioco, e il
gioco lavoro».
Allo stesso modo, seguire il Life Design non implica solo divertirsi ma anche farsi il mazzo e
migliorarsi. Non basta fare i buoni samaritani, invocare gli angeli e compilare esercizi di
orientamento; bisogna, anche, paradossalmente, lavorare. Il problema del «lavoro in vocazione» però
è opposto a quello che abbiamo citato in precedenza, quando abbiamo consigliato ai giovani di
andare a lavorare in aziende noiose prima di mettersi in proprio per diventare i nuovi Jack Dorsey.
Essere «in vocazione» richiede uno stato di vigilanza estremo per un motivo opposto: lo stato di semi-
estasi in cui cadremo all’inizio ci farà dimenticare di esistere, quindi se non staremo attenti
rischieremo di bruciarci.
Altra cosa che abbiamo notato mancare in tutti i manuali di Life Design usciti nel mondo (sì, li
abbiamo letti tutti, pure quelli in tedesco con l’ausilio di Google Translate, inquadrando i testi con lo
smartphone) è la questione della «grana». Ok, sarà volgare ma va detto: senza una cultura finanziaria
decente sarà difficile se non impossibile fare un buon Life Design. Hai voglia a dire alle persone che
devono prendersi un anno sabbatico per prototipare questa o quella nuova professione, se possono
cavarsela senza stipendio due mesi e mezzo. Oggi esistono strumenti incredibili, e impensabili fino a
pochi anni fa, per costruirsi la capacità di generare flussi finanziari senza scambiare il nostro tempo
(o comunque scambiandone molto poco) per il denaro. Per i più snob, ricordiamoci sempre che anche
Tiziano Terzani («In Giappone, dove mi ero messo a giocare in Borsa, leggevo innanzi tutto le pagine
economiche») b e niente di meno che Karl Marx («Non ci vuole molto tempo, e se sei disponibile a
rischiare un po’, puoi fare una barca di soldi e toglierli ai tuoi avversari») c hanno fatto trading nella
loro vita.
Se noi abbiamo potuto sperimentare e iniziare la discesa del nostro toboga è perché un giorno ci
siamo appassionati di trading, e-commerce e investimenti alternativi. Senza questi potenti alleati
sarebbe stato tutto più difficile, ed è per questo motivo che durante i nostri eventi presentiamo questi
mondi come parti di un progetto di vita che deve per forza comprendere lo Yin e Yang della nostra
ricchezza consapevole: la parte fredda e passiva (Yin), cioè quella degli investimenti, e la parte calda
e attiva (Yang), cioè quella vocazionale.
Non è argomento di questo libro, ma è evidente che c’era un «elefante nella stanza» e toccava
presentarvelo. Quindi? Dobbiamo imparare a vendere e comprare in Borsa prima di proseguire col
libro? Assolutamente no: se avete in mano questo testo è perché avete bisogno di partire da qui, dalla
vostra parte calda. Se partirete dall’altra, non lo farete col piede giusto. Siete molto simili a noi, che
abbiamo sempre guardato alla finanza non come fine, ma come mezzo per raggiungere fini diversi.
Entrambi ci siamo messi a smanettare sui mercati finanziari perché volevamo essere liberi di poter
spendere il nostro tempo in maniera diversa rispetto al classico «nine to five» (che poi non è mai
«five») in ufficio. A parte per i pochi che hanno una chiara vocazione verso il trading e la finanza, per
gli altri partire da lì per avere qualche euro in più al mese da spendere rappresenterebbe un errore
fatale, la perdita di un’occasione pazzesca. La vocazione è il carburante essenziale per tollerare lo
sbattimento del trading. Sì, perché fare trading è gratificante (umanamente e finanziariamente), ma
non divertente; non è un gioco, non è una danza. Farlo in maniera redditizia richiede un
atteggiamento glaciale, senza vita. Invece, inserire nelle nostre giornate una sana routine che includa
entrambe le componenti sopra citate del Tao è la cosa più sensata, e il risultato sarà superiore alla
semplice somma delle parti.
Facendo Life Design ci verrà una voglia matta di provare cose nuove, conoscere nuove persone,
attivare progetti, ci sembrerà di aver perso troppo tempo e ci rammaricheremo di non averlo iniziato
prima. Se impareremo a occuparci in maniera un po’ più approfondita del nostro benessere
finanziario in questo stato di grazia, avremo molte più probabilità di non bruciare conti di trading e
rinunciarvi per sempre.
Quindi partiamo: prima il piacere e poi il dovere.

a. Ananda K. Coomaraswamy, «Lı¯la¯», in Journal of the American Oriental Society, vol. 61, n. 2, giugno 1941, pp.
98-101.
b. Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Longanesi, Milano 2004,
p. 44.
c. Documentario Genius of the Modern World, Netflix 2016.
PARTE SECONDA
Il metodo
5
I sette passaggi

COME abbiamo visto nel capitolo precedente, il Life Design accademico, da solo, non basta. Non si
può progettare la vita di un essere umano copia-incollando pedissequamente gli stessi passaggi che
si usano nella Silicon Valley per vendere più computer. Il metodo che spiegheremo in questa seconda
parte è frutto della nostra esperienza e di quella di migliaia di nostri corsisti, i cui risultati saranno di
volta in volta raccontati qui. Anch’esso quindi è il frutto di un sano e meticoloso processo di design
thinking, essendo stato ampiamente prototipato e testato con successo nell’arco di parecchi anni di
esperienza condivisa.
Rispetto ai classici cinque passaggi del design thinking, il metodo del Life Design è stato inserito in
un percorso spirituale gerarchicamente superiore (il toboga mente-cuore ispirato a Escher) e sono
stati aggiunti due passaggi, uno all’inizio e uno alla fine. Inoltre, accanto ai classici percorsi
accademici insegnati dai professori di Stanford, sono stati inseriti alcuni elementi propedeutici alla
corretta esecuzione degli stessi. I passaggi aggiunti sono riferiti all’immaginazione creativa (primo
step) e al tagliando del nostro nuovo Sé (ultimo step di ogni anello). I passaggi sono dunque, in tutto,
sette.

1. Immaginazione creativa
2. Empatizzazione
3. Definizione del problema
4. Generazione delle nuove idee
5. Prototipazione
6. Testing
7. Self check (burn out protection)

Per ogni passaggio sarà necessario compiere ciascuna di queste cinque azioni, non
necessariamente in quest’ordine.

a. Una pratica spirituale


b. Uno o più esercizi da completare
c. Una lettura a tema
d. Un’interazione umana
e. Un atto psicomagico

Prima che chiudiate il libro per sempre, la psicomagia non ha a che fare con Harry Potter,
bacchette di legno di agrifoglio o bamboline voodoo da «spiedinare»; si tratta di una disciplina
inventata dal grande regista, fumettista, scrittore e Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito Educativo e
Culturale Gabriela Mistral, Alejandro Jodorowsky, che utilizza rituali più o meno semplici per
trasformare e «guarire» alcuni dei nostri «malanni interiori». La tecnica si fonda sul presupposto che
il nostro inconscio non «ragiona» tramite il linguaggio convenzionale, ma grazie a quello delle
immagini e dei simboli, ed è pertanto anche attraverso di essi che possiamo operare per ottenere una
«purificazione» dalle nostre abitudini depotenzianti.
Capire le cose con la mente razionale spesso non basta, serve portarle in profondità attraverso
piccole azioni strane e surreali. Banalizzando, come vi sentite dopo aver fatto delle meticolose pulizie
di casa? Ecco, il concetto è simile. Come anticipato nel capitolo precedente, il Life Design non è una
ricetta magica che, una volta fatti i sette passaggi, ci garantirà soldi a palate e una vita stupenda. Si
tratta piuttosto di uno stile di vita che ci porterà a trasformare una vita che sembra sempre in salita a
una vissuta scivolando al parco divertimenti.
Ogni ciclo da sette passaggi sarà un giro di questa giostra. Ogni volta il giro sarà più semplice e
breve, ogni volta più adrenalinico e divertente. Questo si spiega col fatto che, come sempre, il
difficile è iniziare. Dopo che avremo imparato ad applicare il Life Design alla nostra vita, esso
gradualmente diventerà un’abitudine, proprio come guidare l’automobile: all’inizio ci sembra
impossibile dover tenere sotto controllo tutti questi indicatori e coordinarsi per compiere così tante
azioni simultaneamente (metti la freccia, metti la marcia, guarda i cartelli, gira il volante, guarda lo
specchietto eccetera), ma poi, col tempo e la pratica costante, lo interiorizzeremo e non ci renderemo
nemmeno conto di applicarlo.

Immersioni ed emersioni
Proprio come nella U ideata da Peter Senge e spiegata nel capitolo 3, i sette passaggi che
compongono ciascun anello si collocano in un andamento che ricorda quello di un’immersione
subacquea. «I pesci grossi stanno in acque profonde», ed è pertanto lì che dobbiamo andare a caccia.
I primi tre passaggi ci serviranno a sprofondare dentro di noi per conoscerci e ri-conoscerci meglio.

3. Il toboga mente-cuore che disegna il nostro vero volto (ispirato all’opera Rind di Maurits Cornelis Escher).

Una volta raggiunto il fondale, col quarto passaggio, «andremo a pesca» di nuove idee. I passaggi
successivi serviranno a selezionare i pesci migliori e a farli emergere in sicurezza, per poterli
cucinare con amore e gustarceli in serenità. Tradotto: prima dobbiamo stimolare la nostra
immaginazione per eccitare il nostro inconscio, successivamente occorre fare il punto della
situazione per comprendere chi siamo e cosa vogliamo, dopodiché metterci nella frequenza mentale
giusta per generare il maggior numero di idee, e infine darsi da fare per concretizzare le cose,
possibilmente senza farsi assorbire troppo da quello che faremo e mantenendo sani i rapporti umani
a cui teniamo di più.
Ciclicamente dovremo rifare questo percorso per controllare che tutto sia sotto controllo e per
adeguare la nostra nuova vita professionale ai cambiamenti, naturali e continui, della nostra
personalità. I tempi sono maturi: oggi è davvero possibile vivere più vite in una, sia simultaneamente
sia sequenzialmente. Non esistono più musicisti che fanno solo i musicisti, giornalisti che fanno solo i
giornalisti e imprenditori/professionisti che si occupano di una sola attività per tutta la vita. Il
problema è riuscire ad assecondare queste esigenze di eclettismo senza finire all’ospedale
psichiatrico. Si può fare, basta farlo con metodo, senza improvvisare. E dunque, che metodo sia!

No Life Design, No Party


Prima di partire con i passaggi, ci teniamo a consigliare vivamente di percorrere questo viaggio in
compagnia. In ciascun passaggio del metodo, come detto, abbiamo già inserito un’attività di
interazione umana; a questa si aggiunge la raccomandazione di svolgere tutti gli esercizi insieme a
un gruppo di sodali, persone con le quali c’è un’assonanza di vedute sulla vita e con le quali
condividiamo la voglia di divertirci in maniera creativa.
Sarà ovviamente impossibile compiere tutti insieme e nello stesso momento tutte e cinque le azioni
che compongono ciascuno dei sette passaggi: basterà sceglierne alcuni, compilare gli esercizi
insieme e verbalizzare quello che abbiamo scritto. Non viviamola con troppa rigidità, anche se non
finiremo tutti i passaggi andrà comunque bene.
Trovarsi una sera e fare Life Design a casa di amici ci aiuterà in primis a ritagliarci uno spazio-
tempo ben definito per partire. Finché saremo da soli, tenderemo a procrastinare e a tenerci dentro
un sacco di considerazioni. Ci perderemo inoltre i feedback degli amici che sicuramente potranno
aiutarci, e poi qualche bicchierino e un po’ di sana goliardia aiuteranno a scioglierci e vedere il tutto
da angolazioni inedite.
Vi consigliamo inoltre di registrare l’audio delle verbalizzazioni, in modo tale che, una volta a casa,
possiate riascoltarvi e non perdere tutte le suggestioni che sgorgheranno dal vostro cuore. Il gruppo
non deve essere numeroso, altrimenti le cose andranno troppo per le lunghe: un gruppo di tre
persone va più che bene. Se si vuole fare in più persone, si può, ma a questo punto bisognerà formare
delle coppie che ruoteranno, in modo tale che a ogni esercizio avremo di fronte una persona diversa
alla quale raccontare le idee e le «botte di consapevolezza» uscite durante la compilazione dei nostri
esercizi.
Così come per ogni esercizio, anche per la verbalizzazione dello stesso verrà definito un tempo
massimo a disposizione. Questo servirà a essere più ordinati, a pensare meno e «buttare fuori di
più», e soprattutto a neutralizzare i logorroici. Vi consigliamo di spegnere telefoni e device vari, di
usare della vera carta e di scrivere le cose a mano. Un Life Design Party dev’essere l’occasione per
un sano digital detox. Per creare l’atmosfera giusta e far venire fuori idee succose serve distaccarsi
dal flusso continuo di notifiche e astenersi dal filmare e/o fotografare. Affinché fiocchino i risultati
occorre concentrazione e un sano estraniamento dalla realtà di tutti i giorni. È di cruciale importanza
che vi dotiate di un cronometro e seguiate rigorosamente la durata degli esercizi indicata.

Il diario dell’energia
Come a tutti i party che si rispettino, non si arriva mai a mani vuote. Del buon vino sarà da tutti
gradito, ma non dovrà mancare la valigia dei nostri semilavorati. Affinché sia più semplice compilare
gli esercizi, è indispensabile aver scritto, per un periodo non inferiore ai trenta giorni precedenti il
party, una tipologia specifica di diario personale. Non ci interesserà annotare se sospettiamo che il
nostro partner ci tradisca o se da troppo tempo non riusciamo a decidere dove andare in vacanza: il
diario personale funzionale a un buon Life Design ha a che fare con il Fuoco e con l’Elettricità.
Su di esso elencheremo tutte le attività che svolgiamo durante la giornata e le conseguenti reazioni
corporee che si produrranno in noi. Per almeno un mese dovremo farlo quotidianamente, anche nei
weekend, in modo da diventare consapevoli di quali azioni creano in noi Fuoco (focus) ma un po’ ci
bruciano, e quali invece usano lo stesso fuoco per ricaricarci.
Spoiler alert: servono entrambe le tipologie, l’importante è organizzarle bene. Il Fuoco, come
abbiamo già detto più volte (citando Suzuki), è ciò che vi fa bruciare completamente mentre siete nel
flusso. Il vostro ego sparisce, voi stessi sparite. Le cose si fanno da sole. Diventate artisti del vostro
lavoro e la vostra opera arriva come un dono caduto dal cielo. Il Fuoco è la sublimazione delle nostre
energie sessuali: invece di fare bambini produciamo opere d’ingegno.
Abbiamo già descritto come si ottiene questo stato, è tutto un equilibrio tra abilità e gratificazione
personale, mentre non abbiamo ancora toccato la questione energetica. Le attività che non ci
piacciono, è abbastanza ovvio, non ci ricaricano mai. Quelle che invece facciamo con atteggiamenti
che possono variare dall’euforia all’antistress, invece, risulta davvero intelligente distinguerle in base
alla condizione psicofisica che otterremo dopo averle svolte. Per esempio, a Davide piace un sacco
parlare in pubblico, ma dopo tre giorni di evento deve sempre andare in vacanza per almeno una
settimana. Altro discorso per la scrittura: adora scrivere e la sera, dopo aver scritto tutto il giorno, è
pieno di stimoli e vorrebbe parlare con chiunque. Scrivere e basta però lo renderebbe un alienato e
uno stalker, quindi fa anche eventi e podcast, per bilanciare.
Questo è Life Design riassunto in una riga. Ci sono le subpersonalità, c’è la presa di coscienza di
esse, c’è l’accettazione – motivatori, tappatevi le orecchie – dei propri limiti e c’è la voglia di
organizzare il tutto in maniera ottimale. Oltre alla questione energetica ci sono una serie di elementi
che è opportuno appuntarsi, e tutti questi insieme formano il sistema RAIOLA. Questo sistema ci
aiuterà a scovare quelle vene d’oro nascoste nei meandri della nostra rocciosa quotidianità, proprio
come fa il numero uno dei procuratori sportivi coi talenti calcistici. Per ciascuna azione dovrete
scrivere:

Ruolo: che ruolo svolgevi? Da leader o da spettatore? O una via di mezzo?


Ambiente: in che tipo di luogo è avvenuta l’attività? All’aperto? In silenzio? Nel caos?
Interazione: con chi stavi interagendo? Solo macchine? Uomini? Ibrido?
Oggetti: che tipo di dispositivi stavi maneggiando? Quali organi del corpo stavi usando?
Lontananza: quanto eri distante da casa? Eri in viaggio di lavoro o svago? In casa tua?
Altri: chi altri era lì con te? E che tipo di influenza avevano su di te gli altri?
Alla fine dei trenta giorni, rileggete tutto il diario, scrivete una pagina di riflessioni e cercate di
identificare dei pattern di felicità. Se non trovate nulla non vi preoccupate, d’altronde dobbiamo
ancora iniziare.

4. Il diario dell’energia (esempio di compilazione).


6
Immaginazione creativa

ACTION!
Nicoletta Re (a pagina 126 abbiamo riportato il post che ci ha scritto), insieme ad altre mille
persone, è stata protagonista della seconda edizione del nostro corso di Life Design tenutosi al
Palazzo del Cinema di Venezia e l’esercizio citato nella sua testimonianza e chiamato «RYL d’Oro»
verrà spiegato a breve. RYL è l’acronimo di «Remake Your Life», il nome del corso tenutosi al Lido.
In una location del genere ci è sembrato doveroso approfittare delle energie sedimentate per
facilitare un sano processo di immaginazione creativa. Su quelle poltrone si sono seduti i più grandi
«immaginatori» di tutti i tempi, ed è stato come stare seduti su di un immenso tesoro: nessuno più di
un regista cinematografico conosce e applica le leggi della visione che si fa materia. Si tratta di un
processo magico (immaginazione come «magia in azione», come diceva Porfirio) che non è nato col
cinema. Lo stesso Michelangelo raccontava come lui «vedesse» chiaramente La Pietà di San Pietro
prima ancora di scolpirla: per lui si trattava solo di «liberarla» dal blocco di marmo. Rimaniamo
sempre stupefatti di come questo processo venga totalmente ignorato, o affrontato in maniera
superficiale, dai life designers in giro per il mondo. Che alla fine sono tutti ingegneri, con tutto il
rispetto per gli ingegneri, ovviamente.

5. Screenshot della testimonianza postata su Facebook della nostra corsista Nicoletta Re.
Come detto nel capitolo precedente, il problema dell’immaginazione creativa non è
l’immaginazione creativa in sé, ma l’immaginazione creativa in te. Se ci si limita a fantasticare a
occhi aperti, a pregare o a svegliarsi alle cinque del mattino per fare rituali esotici per ringraziare
qualche forma più o meno antropomorfizzata di divinità, nella nostra vita non accadrà nulla. Occorre
metodo, e il metodo che ha funzionato per Nicoletta e tanti altri prevede una serie di passaggi. Il
primo consiste nel trasformare il nostro occhio da semplice registratore a proiettore.
All’inizio, soprattutto se non siamo nati in un contesto famigliare o sociale artistico, ci sembrerà
impossibile. L’immaginazione è come un muscolo: va allenata, e si parte con umiltà, come in palestra.
Questo non è un libro di filosofia o di esoterismo, ma un libro pratico di auto-orientamento. Non ci
interessa capire il perché e il percome questa cosa funzioni, ci basta avere chiara in testa una singola
cosa: se non avrete visione e immaginazione non potrete mai ottenere quello che volete, perché non
saprete mai quello che volete.
L’immaginazione va vista come un atto di scoperta di qualcosa che è già dentro di noi e che
necessita di essere proiettato all’esterno, portato in superficie. Il problema è che questa pratica non
fa parte della routine quotidiana della stragrande maggioranza di noi adulti. I bambini (quindi anche
noi, un tempo) giocano da soli per ore, parlando da soli ad amici immaginari agitando oggetti che
fluttuano in mondi paralleli, e si divertono di brutto. Si tratta solo di recuperare un po’ di questo
talento e portarlo al servizio della nostra persona attuale.
Ce l’abbiamo tutti alla nascita, «fa parte del pacchetto», non servono i superpoteri. Passiamo notti
insonni a vedere i sogni degli altri (a pagamento) su Netflix e non dedichiamo nemmeno tre giorni
all’anno a girare il nostro film interiore per conoscerci meglio e liberare finalmente il nostro immenso
potere creativo.

Primo comandamento: offrire da bere a quelli giusti


C’è una frase che, se fossimo più giovani, ci tatueremmo sul viso come Young Signorino e recita più o
meno così: «Solo in quanto gli uomini riescono a offrire ebbrezza agli dèi, possono pretendere di
attirarli sulla terra».
L’abbiamo letta nel libro L’ardore di Roberto Calasso ed è presa paro paro dal Ṛgveda. Ed è in
questa logica che va intesa la giusta immaginazione: è tutta una questione di «arrapamento
esistenziale». Non si tratterà mai di pretendere che il film che proietteremo coi nostri nuovi «occhi
attivi» rappresenti fedelmente il nostro futuro. Sarebbe banalissimo. L’inconscio – gli dèi… fate voi –
non funziona così.
Si tratta proprio di un atto afrodisiaco che va infuso fin dal principio del nostro percorso di Life
Design Spirituale, affinché sussista la giusta motivazione a proseguire coi passaggi successivi.
Quasi sempre le cose andranno meglio di come le avevamo immaginate all’inizio: primo perché
sennò la vita non sarebbe meravigliosa, e secondo perché «scivolando» saremo noi stessi a
trasformarci; si trasformerà il «soggetto proiettante», diventando infine un tutt’uno col film. Uno dei
nostri insegnanti di meditazione, Gabriele Fancello, che ha avuto la fortuna di essere uno stretto
collaboratore di Maharishi Mahesh Yogi, un giorno ci raccontò che durante una riunione un
collaboratore porse una mela al Maestro, il quale rispose sorpreso: «Non mi ero accorto di aver
desiderato una mela, grazie». Alla fine della discesa «testa > cuore», i saggi ci raccontano che i
desideri iniziano a manifestarsi prima ancora di essere desiderati, o meglio, prima ancora che serva
farli affiorare dalla mente inconscia.
Usciamo un attimo dal campo della fede e rientriamo in quello scientifico: per intuire la potenza
suggestiva dell’immaginazione basta osservare il fenomeno dell’effetto placebo. Il 70 per cento delle
volte una pastiglia di zucchero produce gli stessi risultati di un farmaco. La percentuale rimane al 50
per cento persino tra quelli che sanno che stanno prendendo una pastiglia di zucchero. In un
contesto mentale di un certo tipo, i pensieri producono effetti materiali, questo è assodato da
chiunque. In tutte le direzioni. Così come un finto farmaco benefico produce spesso gli stessi risultati
di un farmaco vero, anche una finta credenza produce quasi sempre effetti reali. Si chiama effetto
nocebo e fa abbastanza paura.
Uno studio ha analizzato la morte di 30.000 cinesi-statunitensi, confrontandola con quella di oltre
400.000 persone selezionate casualmente. È risultato che i cinesi muoiono significativamente prima
(anche cinque anni prima) se hanno una malattia astrologicamente abbinata al proprio anno di
nascita, rispetto agli americani dello stesso sesso e nati nello stesso anno. Maggiore è il radicamento
alla cultura della terra d’origine, prima muoiono. Questo è l’effetto incredibile del sentirsi
predestinati ad ammalarsi. a
Per questo il nostro metodo di Life Design parte da qui. Vivere in un ambiente immaginativo sano è
letteralmente una questione di vita o di morte.

ESERCIZIO
«Ritorno al futuro»: scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

INTERAZIONE UMANA. I PRIMI DIECI FOTOGRAMMI


Quando abbiamo lanciato il Life Design in Italia, come abbiamo detto, lo abbiamo fatto durante un
grosso evento tenutosi al Palazzo del Cinema di Venezia, «Remake Your Life». Tutto lo storytelling del
corso era ovviamente basato sulla metafora dei film e delle serie tv. I passaggi del metodo che
usavamo allora infatti erano: il film attuale, la nuova sfida, la trama nascosta, la puntata zero
eccetera. Ma prima di questi, per eccitare gli dèi, abbiamo organizzato un mini festival
cinematografico.
Nelle settimane che precedevano l’evento abbiamo chiesto ai corsisti di collezionare dieci
immagini importanti per loro e di inviarcele via mail. Durante l’evento abbiamo estratto a caso tre
corsisti e li abbiamo invitati sul palco a raccontarci le loro immagini, in un tempo limitato a trenta
secondi per foto. L’idea era: raccontami il nuovo film della tua vita attraverso i primi dieci
fotogrammi. Il regista del film che avesse ricevuto più applausi avrebbe vinto 5.000 euro in corsi di
Moneysurfers. Il format è stato un successo, si sono succedute risate e momenti di commozione.
Troviamo che sia un ottimo modo per far partire un Life Design Party che si rispetti. Occorre
prepararsi per tempo per non arrivare a mani vuote. Creiamo la nostra cartella di immagini del
cuore: luoghi che vorremmo visitare o dove vorremmo vivere, versioni di noi stessi inedite (magari
photoshoppandoci bene, inserendo il nostro volto sopra il volto di qualcun altro), strumenti che
vorremmo utilizzare nella nostra nuova professione… Vale tutto. La sollecitazione della parte visiva
come abbiamo visto è potentissima e trasforma davvero la vita delle persone. L’importante è stare nei
tempi e tornare periodicamente ai nostri fotogrammi, per capire se sono ancora attuali e coerenti con
i passi in avanti che faremo, in termini di consapevolezza, dopo tutto il ciclo dei Life Design.
In questa verbalizzazione ogni persona deve raccontare ogni fotogramma, massimo 30 secondi a
fotogramma, per un totale di 5 minuti al massimo.

LETTURA . I TRE INIZIATI, IL KYBALION


«Avere in sé la verità ma non esprimerla con l’azione è come accumulare pietre preziose; cosa assai
sciocca e inutile. Per la conoscenza, come per la ricchezza, vale l’uso; è questa una legge talmente
importante che chi la trasgredisce è destinato a soffrire, perché si oppone alle leggi naturali.» Del
tipo, immaginare va bene, ma poi devi muovere il culo. Il Kybalion è stato scritto all’inizio del
Novecento da alcuni autori anonimi che hanno deciso di nascondersi dietro lo pseudonimo «I tre
iniziati». Lo abbiamo scoperto guardando un’intervista a Franco Battiato su YouTube. Dentro
vengono spiegati bene e in maniera per fortuna non troppo ermetica i principi base dell’ermetismo.
Visto che lavorare con la creatività mentale è un mestiere che può diventare doloroso, vi consigliamo
di leggere molto bene questo pratico manuale di istruzioni.

ATTO PSICOMAGICO. IL CASTELLO VASCELLO


Ritagliati un giorno di vacanza dal lavoro tutto per te e vai al mare. Nessuna regione italiana è così
lontana dalle coste da non potersi permettere di fare una fuitina di qualche ora, in giornata. Prima di
partire controlla gli orari delle maree e sincerati di essere sul posto durante la marea crescente.
Cerca una spiaggia poco affollata e inizia a costruire un poderoso castello di sabbia, abbastanza
grande da poterti contenere seduto. Devono esserci almeno quattro torri, mura solide e soprattutto
un bel fossato. Costruiscilo nei pressi del bagnasciuga. Quando avrai finito, entra nel tuo castello e
visualizza i dieci fotogrammi che hai scelto per l’interazione umana di questo passaggio. Questa volta
però non parlare ma cerca di indagare, sempre a occhi chiusi, i dettagli e le minuzie di tutte le foto.
In questo caso non c’è fretta, l’unica incombenza è la marea.
Aspetta che la marea arrivi alle porte del tuo castello e osserva il suo assorbimento da parte del
mare. Volgi uno sguardo all’orizzonte e poi torna a casa. Ah, dimenticavamo: se non ti senti un
coglione mentre compi un atto psicomagico, vuol dire che non è abbastanza magico.

PRATICA SPIRITUALE. LA VISUALIZZAZIONE CREATIVA


La visualizzazione a occhi chiusi a fine creativo è una pratica usata da millenni, certamente da
indagatori dell’occulto, ma anche da imperatori, scrittori, artisti e filosofi. L’aggettivo «creativo» in
questo caso va inteso nel senso letterale: con lo sguardo interiore noi «creiamo» da zero la realtà.
Una realtà non meno importante di quella tangibile, che potrebbe (usiamo il condizionale non a caso)
più o meno materializzarsi in futuro.
Se questo fosse un manuale di new age vi diremmo che siccome dentro di noi c’è Dio, in realtà è lui
che agisce tramite noi, e Dio, si sa, se c’è una cosa che sa fare bene è creare di brutto. Oltre che a
distruggere, sempre da Dio, ovviamente... Ma lo vedremo più avanti. Questa pratica funziona, non è
provata scientificamente, ma l’abbiamo provata più volte nella vita e si tramanda da millenni. Non è
nemmeno così tanto stupefacente, se ci pensiamo: è chiaro che se una persona si fissa nella mente
certe cose, andrà a sollecitare pesantemente la sua parte inconscia che, coi suoi automatismi, ci farà
effettuare tutta una serie di scelte che gradualmente ci porteranno a ottenere una determinata
manifestazione.
Siamo davvero alle basi. Il vero problema è che questa roba funziona indipendentemente dal
nostro livello di evoluzione interiore. Davide: se la usasse mio figlio di sei anni – che in realtà
interiormente è evolutissimo, come tutti i bambini nati in questi ultimi anni, ma che deve ancora
strutturare una mente conscia adulta – attrarrebbe quantità smodate di tiramisù e morirebbe di
diabete in pochi anni. La stessa cosa vale per noi adulti. Bisogna stare molto attenti a quello che
desideriamo, perché se lo desideriamo troppo rischiamo di ottenerlo. Ma ne parleremo
approfonditamente nel secondo passaggio del metodo.
Per ora è importante ricordare che questi esercizi rappresentano solo una scintilla, e che dobbiamo
fare in modo che l’incendio si allarghi in direzioni inaspettate lasciando che la vita ci conduca per
mano, mentre noi ci limitiamo a soffiare sulla fiamma della vocazione. Non dobbiamo essere
ossessionati dalle nostre allucinazioni guidate. Altresì importante è associare alla visualizzazione una
componente emotiva. Dopo che saremo diventati bravi a fissare nella nostra mente alcune immagini,
o mondi, dovremo diventare altrettanto abili a stare in quel mondo il tempo necessario e a percepire
le emozioni che ci provoca. Rimanere in ascolto e controllare il feedback che otteniamo.
Il cuore è il cervello degli illuminati e lavora a frequenze più sottili e nobili: di conseguenza non
sbaglia mai. È sempre lì che troveremo le risposte. Se ci accorgeremo che certi immaginari,
desiderabili a livello razionale, provocano in noi onde di inquietudine, ansia o vertigine, i casi sono
due: o ci sentiamo inadeguati perché sono troppo fuori dalla nostra zona di comfort, o non vanno
bene per noi perché non sono coerenti coi nostri valori più autentici e sepolti. L’unico modo per
scoprirlo è proseguire col Life Design.
La visualizzazione creativa funziona come qualsiasi altra abilità del nostro corpo. Va imparata per
gradi. Partire subito con la visualizzazione degli scenari complessi del nostro futuro sembra
impossibile, e infatti per la maggior parte di noi lo sarà. Occorre allenarsi per qualche settimana
partendo da immagini geometriche semplici: cerchi, triangoli e quadrati, e vedere se riusciamo a
fissarle nella mente per almeno tre o cinque secondi. Un trucco che si usa è quello di dirigere lo
sguardo verso un muro vuoto e iniziare a visualizzare i lati della figura geometrica sul muro per
qualche secondo e poi ripetere la stessa cosa a occhi chiusi. Man mano che si diventa bravi (e si
diventa bravi, fidatevi) si può provare con immagini più complesse, tipo simboli o loghi (ok maschi
alfa, sotto col toro della Lambo, ma sappiate che avrete come alleato qualcos’altro, altrettanto
cornuto).
Gli step successivi, perfetti per persone più «calde» e meno razionali, possono essere la
visualizzazione di elementi naturali in movimento come le onde del mare o le fronde degli alberi;
qualcosa che ci piace funzionerà sempre meglio. Prima di fare questi esercizi occorre raggiungere
uno stadio di quiete (le onde cerebrali devono passare da beta ad alfa), per questo il momento ideale
è dopo le nostre session di meditazione.
La potenza del mezzo è enorme e il modo migliore per non esserne sovrastati è mantenere un
livello costante di presenza nella nostra vita, e osservare cosa accade quando otteniamo la
materializzazione dei nostri sogni. Si tratta di un lavoro davvero difficile, anche perché, per come
siamo fatti noi umani, otterremo sempre quello che vogliamo ma ci dimenticheremo che una volta
quella cosa era uno dei nostri maggiori desideri, e quando sarà tangibile la daremo quasi per
scontata. Per questo, se decidiamo di provare la via della visualizzazione, è importantissimo tenere
un diario personale e rileggere periodicamente i vecchi passaggi per accorgerci delle mutazioni e
controllarne gli effetti sul nostro stato di quiete e gratificazione interiore.

a. David P. Phillips, «Psychology and Survival», in The Lancet, vol. 342, n. 8880, 6 novembre 1993, pp. 1.142-1.145.
7
Empatizzazione

«Il sogno che vi salverà la vita non è quasi mai quello che ‘sognate’ che accada in questo momento. Il
sogno vero è quello che mai immaginereste possa accadere. I sogni arrivano sempre ‘da dietro’, non
si presentano mai davanti agli occhi: arrivano alle spalle. Quando avete un sogno autentico, è raro
che si avvicini a voi gridandovi in faccia: ‘Questo è quello che sei, quello che devi essere per il resto
della tua vita’. Un sogno spesso sussurra appena. È difficile da sentire. Ogni giorno della vostra vita
dovete essere pronti ad ascoltare quel sussurro nelle vostre orecchie. Se ci riuscirete, scoprirete che
esso suggerirà al vostro cuore la cosa che vorrete fare per il resto della vostra vita, e sarà davvero
ciò che farete con successo. E tutti noi trarremo beneficio da ciò che realizzerete.»
STEVEN SPIELBERG

Il paradiso all’improvviso
La vera magia della vita è questa: non forzare il nostro destino ma scoprire chi siamo veramente.
L’effetto collaterale di chi si ostina a preferire la materializzazione dei propri desideri all’evoluzione
della propria consapevolezza è un’aumentata sofferenza. Come diceva santa Teresa d’Avila: «Si
versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte».
L’origine di questo malessere è un gigantesco fraintendimento: pensiamo di essere veramente noi a
desiderare qualche cosa, ma in realtà è qualcun altro (o qualcos’altro) che ci spinge, subdolamente, a
farlo. Non per forza qualcuno che ci vuole male, anzi, spesso è qualcuno che neanche ci conosce.
Sono gli stereotipi, i modelli imposti dai media e le influenze dei grossi centri energetici che ci
influenzano da vicino, come la famiglia, un partner o i vecchi amici. Pensiamo di desiderare una vita
da nomade digitale, che lavora tutto il giorno da un van della Vestfalia, ma stiamo solo ripetendo uno
schema automatico, sotto la suggestione di un bombardamento di immagini che scrolliamo
quotidianamente su Instagram.
È successo per esempio a un nostro corsista, presente alla prima edizione di «Remake Your Life».
Paolo Liaci, imprenditore prossimo al fallimento nel settore degli eventi, è arrivato con la voglia di
cambiare vita (e soci) e si è ritrovato a fare lo stesso lavoro di prima e con le stesse persone, ma
ottenendo successi, gioie personali ed effetti tangibili sulla società. Grazie al Life Design e a una sana
botta di cultura di business, Paolo è stato tra i fondatori di Bovisa Drive-In, l’evento più frequentato
di tutta l’estate milanese del 2019.
L’idea era quella di convincere il Comune di Milano a farsi dare in comodato d’uso gratuito una
zona periferica abbandonata e riportarla in vita attraverso l’installazione di un vero e proprio drive-in
2.0: tutto digitale e silenzioso, l’audio veniva diffuso attraverso degli speaker personali bluetooth e si
potevano ordinare i popcorn comodamente dal proprio smartphone. Prima e dopo il film, aperitivi, dj
set e street food. Un successo clamoroso, al punto che persino Radio Deejay ha intervistato uno degli
ideatori per saperne di più.
Come spesso capita nel Life Design, la soluzione era solo un centimetro più in là: il magico incrocio
tra passione (aiutare le persone a stare bene insieme), competenze (acquisite in anni di esperienza
sul campo) e servizio alla società (la riqualificazione di aree urbane problematiche) è stato ottenuto
grazie alla decisione di assentarsi da tutto e da tutti per qualche giorno per guardarsi dentro, con
metodo.

La cruciale differenza tra «resa» e «accettazione»


Dire che non dobbiamo essere ossessionati dai nostri sogni non significa condurre una vita
arrendevole, bensì essere in grado di accettare quello che viene a noi con atteggiamento di
gratitudine indiscriminata. Una sottile ma enorme differenza: la differenza tra «resa» e
«accettazione». Sta tutto, ancora una volta, nella dose di consapevolezza che vogliamo spararci nelle
vene. Un conto è arrendersi a lavorare presso un’azienda che odiamo, un altro è accettare che in
questo momento stiamo lavorando per un’azienda che non condivide i nostri valori.
Nell’accettazione è insita una certa dose di «attività» (siamo noi che accettiamo, siamo noi che
decidiamo di accettare), in seguito a un processo di indagine interiore di ascolto (di luce). Mentre
l’arrendevolezza è pura passività, abbandono al buio più totale, l’accettazione è un atto di apertura.
La rassegnazione, e anche il rifiuto di ammettere a se stessi che quello che ci succede stia
effettivamente accadendo, sono entrambi atti di chiusura. Anche la fuga, ovviamente, rientra nel
campo degli atteggiamenti non evolutivi. Una fuga mentale (non ci penso, visualizzo e mi crogiolo nei
miei sogni, mi drogo, faccio binge watching su Netflix eccetera) e una fuga fisica (mi focalizzo solo
sui weekend o sulle vacanze per tirare avanti fino alla pensione) equivalgono alla rassegnazione a
livello energetico, pertanto sono atteggiamenti ostativi nei confronti del mutamento e della nostra
crescita.
L’unica cosa che ci fa crescere è l’accettazione attiva. Quanto è difficile, però. Quante poche
persone sono in grado di farlo, senza un metodo e del tempo da dedicarci. Quante persone, dopo aver
letto il nostro primo libro, ci hanno confessato: «Se quello che dite è vero, ho buttato via tutta la mia
vita».
Ricordiamoci sempre che, come dice il nostro guru, padre Guidalberto Bormolini (monaco e
ideatore del Festival «Economia e Spiritualità»), finché siamo vivi abbiamo sempre una chance di
crescita e un’intera vita può assumere improvvisamente senso anche sul letto di morte. Non è mai
troppo tardi per accettare, e quindi per evolvere.

Sarebbe un peccato non accarezzarsi


Lo strumento migliore per sublimare il dolore che temiamo di provare una volta accettato il nostro
presente è l’autocompassione. Amarci, volerci bene, avere cura di noi come ne avremmo di un
cucciolo trovato per strada.
Ormai lo avete capito che non siamo proprio degli hippie smielati: se vi diciamo di farlo è perché
funziona, e se stiamo attenti spesso ci rendiamo conto che trattiamo i nostri animali domestici
infinitamente meglio di noi stessi. La compassione è un atto di empatia; in questo caso, siccome va
rivolto verso noi stessi, potrebbe sembrare un atto quasi paradossale, ma non lo è affatto. Per poter
essere compassionevoli verso la nostra condizione attuale occorre imparare a viverla col giusto
distacco, osservandoci come fossimo spettatori della nostra stessa vita.
Quando fuggiamo dalla realtà, o peggio ancora quando ci lasciamo andare alla rinuncia di ogni
velleità di mutazione, stiamo ferendo a morte la parte più autentica di noi stessi. Magari mandiamo
centinaia di euro in Bangladesh per adottare bambini orfani, però ci dimentichiamo dell’orfano che
abbiamo dentro. L’amore indiscriminato verso se stessi è la base per qualsiasi percorso di
consapevolezza; vuoi per pudore, vuoi per glacialità, vuoi perché vittime della paura di perdere la
propria autorevolezza accademica, nessun professorone di Life Design ne ha mai parlato.
Cerchiamo di non sfociare nel melenso, però, non crogioliamoci nelle carezze intime e
proseguiamo con il metodo per poter essere invitati alle tante «orge vocazionali» che ci aspettano.

ESERCIZI
«Il tuo film attuale»
«Post mortem test»
«La mappa dei tuoi archetipi femminili e maschili»
Scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

LETTURA . PIERO FERRUCCI, CRESCERE


Piero Ferrucci, allievo di Roberto Assagioli, inventore della psicosintesi (di cui parleremo più
approfonditamente in uno dei prossimi passaggi), in questo testo ci spiega un metodo pratico, basato
su una serie di esercizi che ci aiuteranno ad aumentare l’empatia verso noi stessi, ad affrontare con
chiarezza i nostri problemi emotivi, a usare costruttivamente la nostra energia aggressiva e a
immaginare con maggiore vitalità e ricchezza. Grazie a questa rinnovata conoscenza interiore sarà
possibile affilare la nostra mente, risvegliare l’intuizione, scoprire la propria facoltà di libera scelta e
infine amare in maniera più profonda e consapevole.

INTERAZIONE UMANA. VERBALIZZAZIONE NELLE MANI


Racconta al tuo compagno di Life Design Party il risultato del tuo «film attuale» mentre vi tenete le
mani, e ascolta a tua volta la sua versione. Rimanete sempre nella stessa posizione, guardandovi
negli occhi.
Ogni persona deve verbalizzare al massimo per 12 minuti.

ATTO PSICOMAGICO. IL PASTO NUDO


Un omaggio al grande libro di William Burroughs. Ordina online degli insetti commestibili. Oggi
vanno molto di moda, e sono una fonte incredibile di proteine nobili economiche e a basso impatto
ambientale. E fidati, sanno di gamberetti. Spogliati completamente nudo, scegli una ricetta online
(involtini di locusta e lardo, cavallette in pastella, biscotti di grilli e cioccolato sono solo alcuni
esempi), preparala e mangia, in totale nudità. Dopo il succulento banchetto, coricati, sempre nudo e
fatti un riposino di venti minuti.

PRATICA SPIRITUALE. L’ECOLOGIA VERBALE


In principio era il Verbo. Tutto trae origine dal suono, non è possibile crescere e mutare senza una
sana «igiene orale». In questa fase, come abbiamo visto, occorre costruire la nostra capacità di
amarci per quello che siamo, pertanto qualsiasi parola depotenziante che rivolgiamo a noi stessi va
riconosciuta, accettata e sublimata.
Per un mese gira sempre con un piccolo bloc notes tascabile (ne vendono di bellissimi e
piccolissimi), e ogni volta che ti accorgi di esserti lasciato andare all’autocommiserazione scrivi la
parola o la frase incriminata. «Io sono fatto così» è già sufficientemente depotenziante, quindi va
inserita nelle espressioni da annotare. Da lì in giù tutto il resto va segnato: «Non sono in grado di
farlo», «Ho capito che questo è il mio karma e me lo merito», «Se non sono riuscito fino adesso
perché mai dovrei farcela domani», «Ormai i giovani mi mangiano in testa», «Non ci capisco niente di
queste cose», «Questo non è il mio ambiente», «Non sono mai stato capace di vendermi bene», «Le
persone si approfittano di me e fanno bene», «Io sto bene a casa mia» e così via…
Passato il mese, prendi un bel posacenere grande e un accendino. Brucia il bloc notes e alla fine
della combustione lascia cadere tre gocce del tuo profumo personale sulla cenere.
8
Definizione del problema

La concorrenza è un concetto da perdenti


Dopo che abbiamo capito dove vorremmo andare e dove siamo adesso, è giunto il momento di capire
bene gli scostamenti tra le due condizioni. Se il superpotere da acquisire nel secondo passaggio era
l’autocompassione, qui è la coerenza. Tutti i casini nella nostra vita hanno origine in questo punto,
dal gap che separa ciò che siamo e ciò che facciamo quando ci alziamo la mattina.
Se dovessimo individuare la cosa più vicina al Sacro Graal del Life Design, è proprio la riduzione a
zero di questo gap. Se riusciremo a mettere in bolla perfetta la nostra azione con la nostra essenza,
entreremo in una condizione di estasi lavorativa che ci farà dimenticare che stiamo lavorando e,
senza dover vendere nulla, diventeremo ipnotici, come il fuoco di Shunryu Suzuki di cui si parlava
all’inizio del libro.
Impareremo a fottercene della concorrenza, proprio come ci ha spiegato durante il nostro podcast
Il BAZar AtOMICo Diego Rossi di Trippa, la migliore trattoria d’Italia che non ha mai avuto un tavolo
libero fin dal primo giorno di apertura. «La concorrenza è un concetto da perdenti», ci ha spiegato
Diego, dove la sconfitta risiede proprio nella sfida protagonista di questo passaggio tra quelli che
sono i nostri valori e quello che facciamo per campare.
La cosa che va detta è che, per come siamo fatti noi esseri umani, una volta che veniamo a
conoscenza di questa discrepanza e la mettiamo in luce per bene, ci sentiamo davvero bene, ma poi,
dopo qualche tempo, anche qui, subentra l’«effetto elastico» e tendiamo a ripetere gli stessi errori: in
questo caso, lavorare solo per i soldi. Ogni volta che sentiremo che qualcosa non va, torniamo a
questo punto senza passare dai primi due, e ripetiamo gli esercizi e le pratiche per rinfrescarci la
memoria. Col passare del tempo, se compiamo questo processo con disciplina, il tempo che passerà
tra un «controllo» e l’altro sarà sempre più lungo.
Impariamo a conoscerci e l’elastico si allungherà. Ricordiamoci sempre però che la definizione del
problema non è la strada, ma la direzione. Nel Life Design non possiamo dirci soddisfatti finché non
abbiamo ultimato tutti i passaggi. In questo non definiamo la meta, ma ci dotiamo della bussola e
quindi ci impegniamo a seguire il nostro nord: per dove, non si sa ancora. Ci godiamo il viaggio, come
un vero flâneur di baudelairiana memoria. Esattamente come ha fatto Mario Piccaluga, amico e co-
host del nostro podcast, che vagando a caso per il mondo, vivendo per anni senza fissa dimora, un
giorno si è ritrovato sulle spiagge di Bali per imparare a fare surf, condizione ideale per provare
insistenti attimi di pura felicità, a patto però di non fare troppo caso alla quantità di monnezza che
galleggia tra i flutti.
Da questo fastidio Mario ha tratto ispirazione per la creazione di un brand che in meno di sei mesi
ha decuplicato le sue entrate finanziarie. Da anni Undisposabl, ancora prima che diventasse una
moda (quindi approfittando del famoso «vantaggio da prima mossa» di bocconiana memoria), vende
prodotti fisici su Amazon che sostituiscono oggetti in plastica usa e getta (tazze, borracce, cannucce
eccetera) che, come ormai sappiamo tutti, alla fine finiscono nella pancia dei pesci che normalmente
muoiono, si estinguono o, nel raro caso in cui sopravvivano, finiscono nel nostro piatto quando ci
ritroviamo al sushi bar con gli amici. Mario, dopo il successo del suo brand, è diventato fra i più
apprezzati formatori di Moneysurfers che aiutano le persone a prototipare le proprie idee di business
su una piattaforma, sempre più sfidante, ma pur sempre interessante, come Amazon.
Emozioni come la rabbia e l’indignazione, se sublimate in maniera giusta, sono tra le migliori
scintille possibili per la nascita di una nuova carriera professionale. Invece di scriverle su Facebook o
gridarle ai comizi elettorali, facciamo diventare le nostre lamentele la spia luminosa della nostra
vocazione.
Quindi via, adesso andiamo dal concessionario, capiamo bene dov’è il guasto e ripartiremo con
rinnovata spinta e serenità.

ESERCIZI
«I miei eroi»
«Sai valutare la cultura della tua azienda?»
Scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

LETTURA . NASSIM NICHOLAS TALEB , ANTIFRAGILE


Visto che in questo passaggio ci troveremo faccia a faccia coi nostri problemi, è giusto dotarci degli
strumenti giusti per cavalcarli e «usarli» per crescere. Uno dei libri più utili per comprendere questo
passaggio è senza dubbio questo. L’antifragilità va oltre il concetto tanto di moda tra i motivatori di
«resilienza elastica». Una cosa resiliente resiste agli choc ma rimane la stessa di prima: l’antifragile
invece dà luogo a una cosa migliore. «Il vento può spegnere la candela e ravvivare il falò. Lo stesso
avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare a farne uso, anziché tenersene alla
larga. Dobbiamo imparare a essere fuoco e a sperare che si alzi il vento.»

IITERAZIONE UMANA. VERBALIZZAZIONE NEL CUORE


Racconta al tuo compagno di Life Design Party il risultato dei tuoi esercizi mentre tieni il palmo della
tua mano sul suo cuore e a occhi chiusi.
Questa verbalizzazione deve durare da 3 a 5 minuti al massimo.

ATTO PSICOMAGICO. IL CARTONE SUBLIMATO


Nessun problema è un vero problema. Per questo Davide, che come tutti gli esseri umani deve
ricordarselo periodicamente, porta spesso un cappello da baseball che recita in slang latinos: «No
problemo».
Se opportunamente sublimate, le complicazioni della nostra vita diventano i pioli della scala che ci
farà salire a livelli di consapevolezza superiori, o nel nostro caso, visto che siamo dentro la metafora
dello scivolo, i getti d’acqua che accelereranno la nostra discesa e il nostro godimento. Per insegnarlo
al tuo subconscio adesso prendi un cartone da imballaggio abbastanza spesso, e inizia a scriverci
sopra tutte le asimmetrie tra il lavoro che fai e i tuoi valori che hai individuato svolgendo gli esercizi
di questo passaggio. Dopo strappa il cartone, senza servirti di alcuno strumento, usando solo le tue
mani, in almeno cento pezzi. Non occorre che tu abbia identificato cento problematiche, l’importante
è che i pezzi siano cento.
A questo punto, utilizzando dei pennarelli, delle tempere o degli acquerelli, colora ciascun pezzetto
utilizzando tutti i colori che hai a disposizione. Più sono meglio è. Ora prendi un foglio di carta spesso
e incollaci sopra questi tasselli componendo un disegno a mosaico che simboleggi la tua rinascita: un
fiore, un cucciolo, un frutto, una sorgente, un’alba e così via. Incornicia la tua opera e mettila davanti
alla scrivania del tuo home office.

PRATICA SPIRITUALE. LA PSICOSINTESI


C’è una piaga che ancora flagella la cultura dominante italiana ma che finalmente sembra essere
nella sua fase discendente: «Dallo psicologo ci vanno solo i matti». Per fortuna il livello culturale si
sta alzando anche da noi, e andare «in terapia» sta diventando una pratica comune a molte persone,
in particolari fasi della vita, o, se possiamo permettercelo, anche tutta la vita (come fanno e hanno
fatto i migliori).
Oggi, poi, tante barriere sono crollate anche grazie alla magia del maquillage che è stato fatto a
questa pratica: non si dice più «Vado in terapia dal mio analista», ma «Sto facendo delle session di
counseling», oppure «Sto seguendo il programma del mio coach» e così via. Chiamatela come volete:
farsi aiutare da qualcuno o anche semplicemente dialogare con persone oggettivamente brave e
avulse dalla nostra «rete emotiva»… funziona di brutto.
Le interazioni che stiamo inserendo in tutti i passaggi del nostro Life Design Spirituale non
c’entrano nulla, non confondiamole. Sarebbe come paragonare lo stretching allo yoga: da una parte
ci sgranchiamo gli arti, dall’altra seguiamo una tradizione millenaria e ben strutturata, con le sue
regole e dinamiche precise atte a connetterci al meglio con energie superiori. La stessa cosa vale qui.
Noi, tra tutti i rami esistenti della psicanalisi, abbiamo scelto quello di Assagioli e della psicosintesi,
perché lo reputiamo di gran lunga il più completo, ordinato e spirituale. La sintesi è un processo
attraverso il quale, partendo da una molteplicità di elementi, si giunge a una conclusione unitaria.
Non a caso abbiamo appena citato lo yoga, che in sanscrito significa proprio «unione».
A questo punto del percorso, se vogliamo dare davvero un’accelerazione, dovremo contattare
l’Istituto di Psicosintesi e farci consigliare un bravo professionista vicino a noi. La definizione del
problema nel Life Design è la presa di coscienza che dentro di noi albergano, naturalmente, più
subpersonalità, che spesso sono in conflitto fra loro. La scelta sta a noi: lasciarci guidare da esse o
diventare i registi della commedia che saprà tirare fuori il meglio da ognuna di esse, affinché alla fine
scatti la standing ovation.
Per usare le parole dello stesso Assagioli, la psicosintesi è «un metodo di autoformazione e
realizzazione psico-spirituale per tutti coloro che non vogliono accettare di restare schiavi dei loro
fantasmi interiori e degli influssi esterni, di subire passivamente il gioco delle forze psicologiche che
si svolge in loro, ma vogliono diventare padroni del proprio regno interiore». Non può esserci un
rapido e preciso Life Design senza questo passaggio. Lo diciamo soprattutto ai giovani, ormai abituati
a trovare le risposte da soli, magari affidandosi esclusivamente a qualche video-pillola su YouTube.
Occorre uno scambio umano, occorre metodo, sapienza e pazienza.
Nel nostro caso la psicosintesi è stata un successo clamoroso, uno strumento indispensabile per
conoscere parti di noi stessi che neanche sapevamo di avere e che, una volta integrate, ci hanno
permesso di vivere meglio e far fare un salto di qualità mostruoso alla nostra carriera. Basti citare il
fatto che Davide, durante i primi anni da formatore in Moneysufers, usava uno pseudonimo perché si
vergognava di fare quello che stava facendo. Questa semplice e apparentemente innocua idea è stata
la responsabile di anni di insonnia e crisi varie. Solo con un percorso serio di psicosintesi si è arrivati
a un’integrazione efficace che poi ha permesso a Davide di tornare a dormire e alla nostra azienda di
fare il salto di qualità (e fatturato) che aspettavamo da anni.
Ma ne parleremo meglio più avanti, quando affronteremo l’aspetto legato alla monetizzazione della
nostra vocazione professionale.
9
Generazione delle nuove idee

Le idee sono tutto ma non sono così importanti


Prima di partire con questo passaggio occorre sgombrare il campo da un assunto che spesso viene
associato a esso: no, non è il passaggio più importante. Quando ci si approccia al Life Design, o al
design in genere, da profani, viene sempre data un’importanza eccessiva alle idee. Guardate Mark
Zuckerberg: ha copiato tutto nella sua vita, eppure…
Le idee migliori arrivano sempre mentre stiamo assaggiando se è cotta la pasta, ci stiamo facendo
la barba, siamo in fila dal panettiere, siamo in dormiveglia la sera prima di addormentarci o, se
vogliamo accelerare e accrescere le opportunità, mentre meditiamo. Il peggiore errore che potremmo
fare è quello di pretendere che da questi esercizi nasca magicamente chissà quale genialata. Si tratta
sempre di semilavorati. Le cose giuste arrivano svolgendo il processo nella sua interezza, anzi
svolgendolo più volte, anzi continuamente nella vita.
Negli anni abbiamo visto tanti corsisti affrontare questo passaggio senza trovare idee praticabili o
interessanti. Probabilmente la maggior parte di loro ha ottenuto come output una serie di idee che
non si sono mai concretizzate, ma che in qualche modo hanno generato delle scintille di
consapevolezza senza le quali dopo non avrebbero ottenuto alcuni risultati importanti.
Uno dei consigli più importanti che possiamo dare per effettuare in maniera proficua questo
passaggio è quello di modificare in qualche modo l’atteggiamento o la postura del nostro corpo
mentre lo svolgiamo. Stare seduti a un tavolo, magari davanti a un computer, è la situazione meno
indicata. Se non possiamo svaccarci per terra, almeno togliamoci le scarpe, incrociamo le gambe
sulla sedia e volgiamo lo sguardo fuori dalla finestra. Oppure mettiamo i piedi sul tavolo, oppure
sediamoci proprio sul tavolo… Insomma, cambiamo prospettiva.
La mente segue il corpo e viceversa: piratiamo questo legame a nostro favore. Per questo nel
nostro ufficio c’è la stanza «morbidosa». Quando siamo nei casini, ci sdraiamo in questo luogo, tutto
ricoperto di moquette, acchiappasogni, arazzi, pouf, poltrone di Fantozzi, diffusori di essenze
rilassanti e luci cromoterapiche.

ESERCIZI
«Unisci i puntini»
«Le 100 idee»
«Figabilità»
«Un test PORMO»
Scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

LETTURA : FRANCISCO DE HOLLANDA, DIALOGHI ROMANI CON MICHELANGELO


Uno dei libri più potenti che siano mai stati scritti sul tema della creatività è Dialoghi romani con
Michelangelo di Francisco de Hollanda, pittore e teorico dell’arte portoghese che ebbe la fortuna,
durante un soggiorno romano, di vivere accanto al più grande artista di tutti i tempi, Michelangelo
appunto. Un testo raro che non viene ristampato da decenni, ma rimediabile sul mercato dell’usato.
Non aspettiamoci un testo di self help pornografico (come questo): qui ci sono gemme preziose
nascoste che ci raccontano il metodo di lavoro e i processi di pensiero che portano alla creazione di
capolavori che durano millenni.

INTERAZIONE UMANA. VERBALIZZAZIONE NEI PIEDI


Come detto prima, la posizione migliore per stimolare la creatività è quella che ti conduce a un
abbassamento del livello di guardia. Trova un tappeto o dei cuscini, mettiti per terra e racconta le
idee ottenute attraverso gli esercizi (anche se non ti dicono niente o ti sembrano scadenti) al tuo
compagno di Life Design Party. Fallo dopo che vi siete tolti le scarpe e «connessi» attraverso la pianta
dei piedi. Le idee nascono dalle rispettive profondità.
Non ci sono limiti di tempo per questa verbalizzazione.

ATTO PSICOMAGICO. L’INSALATA DI SORGENTE


Le idee arrivano sempre da una sorgente misteriosa. Nessuno ha mai capito dove si trovi, ma quando
si ha una grande idea, lo si capisce solo dopo e quasi mai si riesce a capire da dove sia arrivata.
Compra queste sette tipologie di semi: senape gialla, cavolo nero, ravanello, fieno greco, crescione,
alfa alfa e chia. Falli germogliare e quando sono pronti coglili e uniscili a questo mix di sei fiori eduli
biologici: agerato, nasturzio, calendula, antirrino, begonia e tagete. Inizia a mangiare il composto e,
per quanto il sapore possa sembrarti ostico e confusionario, vivilo fino in fondo masticando
lentamente. Impiega almeno quindici minuti per finire questa pietanza fatta di vita in potenza e
bellezza.

PRATICA SPIRITUALE. MEDITAZIONE TRASCENDENTALE ®


Non basterebbe un libro intero per spiegare le origini, i benefici e i dettagli di questa tecnica, invero
semplicissima e non religiosa. Nel nostro primo libro abbiamo approfondito il tema, dedicandogli un
intero capitolo. Qui abbiamo preferito sparpagliare qua e là alcune suggestioni, dedicate alla pratica
spirituale che pratichiamo da parecchi anni, due volte al giorno, senza la quale saremmo
probabilmente ancora immersi nelle paludi di una vita vissuta per finta.
Abbiamo voluto inserire la MT in questo passaggio perché se c’è una cosa evidente di questa
pratica è che, mentre la si fa, arrivano davvero un botto di idee. La maggior parte di queste alla fine
della seduta vi sembreranno delle cazzate pazzesche, ma lì in mezzo troverete senza dubbio la
gemma che vi cambierà la vita per sempre. Potrebbe essere il nome di un prodotto che vorrete
lanciare, la soluzione brillante per ottimizzare i processi produttivi della vostra azienda, la condotta
migliore per recuperare un rapporto umano ormai deteriorato e molto altro.
Tutte le cose che hanno funzionato nella nostra carriera di imprenditori e divulgatori (incluso il
metodo spiegato in questo libro) sono arrivate mentre meditavamo. La MT non facilita solo il flusso
creativo: durante i periodici mastermind che effettuiamo coi nostri corsisti di trading e business,
coloro che ottengono i risultati migliori praticano regolarmente la meditazione. Per questo abbiamo
inserito la MT nella nostra offerta formativa, e siamo gli unici in Italia a poter far questo, da parecchi
anni.
Non siamo maestri di meditazione, perché per diventarlo è necessario fare lunghi ritiri formativi e
una serie di iniziazioni. Siamo però diventati, col tempo, i maggiori divulgatori italiani di questa
tecnica, antichissima e praticata da persone spettacolari come Ray Dalio, David Lynch, Clint
Eastwood, Jim Carrey, Martin Scorsese, Nicole Kidman, Paul McCartney e George Lucas (nel caso vi
stiate ancora domandando cosa fosse «La Forza» in Star Wars…).
10
Prototipazione

Basta coi disegnini


È arrivata la parte più bella e, paradossalmente, più difficile per molti. Quella dell’azione. La
deformazione psicologica che si crea nei corsi motivazionali all’americana porta le persone a vivere
un’esperienza intensa che punta a far sfogare completamente la frustrazione della folla, che alla fine
si accontenta di questa catarsi e torna a casa a vivere la stessa vita di prima.
Nel Life Design non è così. L’evento in sé, il party, più o meno grande, è solo l’inizio. Qualsiasi stato
di esaltazione è una bolla che tende a scoppiare, tanto in finanza quanto nella vita.
La prototipazione è il passaggio che ci aiuta a selezionare quale delle idee che abbiamo meriterà di
essere testata o meno nel passaggio successivo. Nella curva a U iniziamo la fase di risalita, quella che
dall’«invisibile» ci porterà a rendere manifesti i pesci grossi che abbiamo pescato nelle «acque
profonde» e infine a banchettare alla grigliatona generale finale. Se prototipare vi fa paura e ve la
fate sotto alla sola idea di mettervi in gioco, immaginate cosa vuol dire partire in pompa magna con
un’idea di business, mollando tutto, indebitandosi e solo dopo comprendendo che non siamo in grado
e in verità quello stile di vita non fa per noi. La prototipazione ha anche questa funzione
«paracadute»; inoltre oggi, grazie al digitale, si riesce a prototipare un’idea di business praticamente
a costo zero.
Per chi è avvezzo: è un po’ piazzare uno stop loss stretto (ovvero chiudere un’operazione quando si
raggiunge un certo livello di perdite) quando si fa trading. Se il Life Design fosse un film, la
prototipazione è la dissolvenza incrociata. In gergo tecnico si tratta di quella transizione in cui si
vedono, assieme, per una frazione di secondo, l’immagine precedente e quella nuova.
Non occorre cambiare vita, licenziarsi, fare investimenti importanti o coinvolgere altre persone:
semplicemente assaggiamo quella che ci sembra una buona idea e vediamo cosa succede, a noi e agli
altri.
Nel Life Design questa fase ha senso solo se ci facciamo passare attraverso almeno due o tre idee
partorite allo step precedente. Fissarsi con una, come detto, non è Life Design ma roba da PNL o
motivatori. Le vie per degustare le nostre ipotesi di vita futura sono sostanzialmente tre:

1. Entrare in contatto con qualcuno che vive già quella vita.


2. Lavorare gratis nei ritagli di tempo.
3. Concepire dei prodotti beta.

Le prime due opzioni le indagheremo nella sezione apposita, dedicata all’interazione umana. Per la
terza va fatto un discorso a parte.

L’uomo più ricco del mondo sta ancora prototipando


Questo processo non deve essere visto come una sorta di fase «Vorrei ma non posso».
Psicologicamente, questo passaggio è molto importante: bisogna posizionarsi in un’altra zona di
pensiero. Il mondo del business è diventato una gigantesca prototipazione di massa. Basti pensare
che persino Tesla ci ha messo più di quindici anni per vedere i primi utili e, mentre scriviamo, il suo
CEO, Elon Musk, è l’uomo più ricco del mondo. Sì, uno che ha un’azienda che fa utili da pochi mesi è
diventato Paperon de’ Paperoni. Se poi entriamo in una Tesla capiamo che è ancora un’auto
prototipo: le plastiche fanno click clack ovunque, ci sono pezzi di imbottitura incollati male, e dentro
sembra un piccolo tram con attaccato un mega tablet per controllare tutto. Eppure l’azienda che
produce questa concept car vale più di tutte le altre case automobilistiche del mondo messe assieme.
Quando diciamo «vale», intendiamo il valore delle sue azioni sul mercato borsistico di oggi (mentre
scriviamo, ovvero il 2021).
Prototipare può persino diventare qualcosa di incredibilmente sexy per i consumatori di un brand
vocazionale che ne subiscono i disagi. I punti di debolezza, se ben collocati e comunicati ai nostri
clienti, diventano quasi un masochistico godimento. Ci sono persone che comprano auto elettriche da
150.000 euro e che postano online, senza problemi, tutte le magagne che ci trovano dentro. Oggi fa
quasi figo avere un prototipo, ci si sente degli sperimentatori, degli avanguardisti, degli early
adopters come si dice. Noi stessi abbiamo speso un sacco di soldi per prodotti presi su Kickstarter
che non sono mai arrivati o che non funzionavano; ma non vedevamo l’ora di farli vedere ai nostri
amici. I Be Brush della Goodwell, per esempio: fantastici spazzolini elettrici che vanno senza
elettricità e si ricaricano a manovella. Mai visti. Oppure i mirabolanti Backzips, zaini rinforzati in
kevlar, con cerniere invisibili, antiladro, antigraffio, antitutto. Mai visti neanche loro. Ecco, magari
non prendiamoli proprio come esempio…
Il punto è che oggi se non prototipate vi perdete un’opportunità fantastica di costruire una
community che successivamente, se davvero partirete, diventerà la base da cui lanciare il vostro
brand. Persino il titolo di un libro, o la sua copertina, oggi va prototipato. Basta creare una serie di
pagine web dove mettere tutte le varianti disponibili per il pre-ordine e creare poi delle piccole
campagne di advertising online per vedere quale ottiene più pre-ordini. Starete già creando la vostra
mailing list, quasi gratis, e avrete una direzione chiara, oggettiva e meno egoica su come procedere.
Qualsiasi cosa si può prototipare, anche i servizi. Potete fare delle consulenze gratuite agli amici, o
agli amici degli amici, in cambio di una recensione. Tutto materiale che vi tornerà utile quando
lancerete davvero il vostro progetto. Moneysurfers è nato prototipando dei corsi di trading e
meditazione sull’isola di Malta per meno di dieci persone. Non ci abbiamo guadagnato niente, li
abbiamo fatti durante le vacanze dagli altri lavori che avevamo, ma ci sono stati utilissimi per capire
quanto fossimo in grado di organizzarli e per capire quanto ci piacesse davvero questo mestiere.
Tutti i guadagni sono serviti a produrre dei super video che poi ci hanno permesso di vendere più
facilmente i successivi eventi formativi.
All’inizio facevamo tutto noi: arrivavamo nei luoghi prestabiliti settimane prima per fare scouting
delle location dove avremmo portato i corsisti. Abbiamo fatto lezioni di finanza in caverne usate dai
mistici nei secoli scorsi, abbiamo portato le persone a meditare al tramonto su scogliere a picco sul
mare, abbiamo bucato e riparato un sacco di pneumatici, ci siamo persi mille volte, uno sforzo
sovrumano senza fare utili, a parte l’esperienza e una più profonda consapevolezza di noi stessi e del
nostro progetto vocazionale.

La loggia degli imprenditori notturni


Un altro modo per prototipare un’idea che non richiede nessuna interazione col prossimo (o quasi) è
quella di usare Amazon e il suo servizio FBA (Fulfillment By Amazon). Noi siamo partiti molto presto,
e nei capitoli successivi vi spiegheremo i dettagli. Oggi lo scenario è decisamente più concorrenziale
e leggermente più sfidante, ma ci sono ancora opportunità importanti; occorre sbattersi un po’ di più.
Come ha fatto il nostro corsista Gabriele Massari di Massa Carrara, per esempio, che di giorno fa
l’agente di commercio e la sera gestisce il suo brand che offre prodotti per la cura della barba su
Amazon, un grosso macro-trend degli ultimi anni. In pochi mesi, applicando un metodo serio e
sacrificando qualche serata su Netflix, è riuscito a guadagnare più di quello che guadagna di giorno.
Il bello di queste piattaforme è che potete «provare a fare gli imprenditori» senza bisogno di
investire in pubblicità, magazzini o uffici. Vi serve solo il tempo di capire come funziona e un po’ di
soldi per acquistare i primi prodotti. Potete partire anche con piccoli lotti. L’importante, lo ripetiamo,
è non improvvisarsi, soprattutto oggi che le cose da sapere e gli adempimenti burocratici sono
diventati un pochino più impattanti. Non esiste solo Amazon, ormai si possono mettere shop online
anche su Instagram o su piattaforme tipo Etsy.
Insomma, viviamo nella migliore delle epoche possibili, ci basterà lavorare sulla nostra vocazione e
dotarci di un minimo di cultura finanziaria; per il resto esistono tutti gli strumenti possibili, per tutte
le tasche. L’importante è farlo col favore della notte, senza strappi, senza scommetterci tutta la vita,
come un vero massone dell’e-commerce prototi(strari)pante.

ESERCIZIO
«10-10-10 partiamo»: scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

INTERAZIONE UMANA. LA DEGUSTAZIONE FURBA


L’aggettivo «furbo» in Italia non ha una grande reputazione. In inglese invece «smart» suona meglio.
Sappiamo tutti il perché, inutile ripeterlo qui. Per compiere una buona prototipazione di vita, spesso
bisogna fare appello alla nostra furbizia. Come detto prima, uno dei metodi migliori è cercare di
avere uno scambio umano con le persone che hanno già ottenuto lo stile di vita che stiamo ricercando
anche noi. Il problema è che quasi sempre le persone in gamba non hanno molto tempo per fare
chiacchiere. E qui subentra la furbizia.
Ditegli che state scrivendo un articolo su di loro, che volete intervistarli per un podcast o un blog,
che dovete scrivere la tesi per la vostra seconda laurea, insomma tutto tranne che state cercando
lavoro. Siete voi che dovete offrire quello che gli serve, tipicamente visibilità o nutrimento per il loro
ego. Quando sarete in compagnia della persona selezionata, non perdete tempo e andate subito al
sodo e cercate di capire: com’è la loro giornata tipo, quali sono le sfide che ha dovuto e dovrà
affrontare, quali sono gli aspetti della vita che permettono a queste persone di andare avanti
comunque nonostante le difficoltà (tutti hanno difficoltà), quali invece fanno fatica a metabolizzare e
così via.
Concentriamoci sugli aspetti «soft», emotivi, più che tentare di portare a casa chissà quali segreti
industriali; per prima cosa, infatti, nessuno li rivela in un’intervista, e secondo, non è quello che
stiamo cercando di capire adesso. Un altro modo per capire come ci si sente veramente «dall’altra
parte» è lavorare gratis per qualcuno che stimiamo. Sempre durante il nostro podcast abbiamo
scoperto che Valentina Margherita Mosca, l’esperta numero uno di foraging in Italia, ha passato
molto tempo a lavorare senza retribuzione nelle cucine degli chef stellati che stimava di più. Non si
trattava di sfruttamento, ma di una strategia win-win: lei imparava e lo chef riceveva il contributo
creativo di una consulente di cui aveva intuito la genialità. In seguito a queste esperienze Valeria è
cresciuta molto e ha potuto aprire con più consapevolezza e meno ansie i suoi progetti sperimentali:
il Wood*ing | Wild Food Lab e il Wood*ing Bar di Milano.
Nessuno rifiuta chi lavora gratis, quindi proponetevi. Se credete nel vostro futuro, prendete
qualche mese sabbatico (è permesso dalla legge) o sacrificate le vostre vacanze per fare
un’esperienza di questo tipo. Vivetela come un investimento. Molto spesso, durante queste
esperienze capirete automaticamente se siete sulla strada giusta verso la vostra vocazione
professionale. Se dentro di voi brucia il sacro fuoco, chi vi starà intorno (che lo conosce già perché ce
l’ha anche lui) farà davvero fatica a non accorgersene, e farà di tutto per farvi rimanere a lavorare
(questa volta retribuiti) o a proporvi collaborazioni e partnership.
L’importante è non richiedere di essere assunti o di cadere nella tentazione di elemosinare affari o
altro. Siate come dei veri seduttori: fate parlare la vostra bellezza interiore. Se non verrà compresa,
provate ancora, ma altrove.

LETTURA . YVON CHOUINARD, LET MY PEOPLE GO SURFING. LA FILOSOFIA DI UN IMPRENDITORE RIBELLE


Chouinard è il fondatore di Patagonia, il noto brand di abbigliamento sportivo etico e sostenibile.
Nessuna storia più di questa ci aiuterà a capire l’assoluta crucialità dell’azione di prototipare. Nel
libro si racconta la storia di un’azienda che oggi fattura 750 milioni di euro ma che è nata per caso,
senza soldi, solamente perché il suo fondatore era insoddisfatto della qualità degli attrezzi da
arrampicata che trovava sul mercato e ha deciso di fabbricarseli da sé, testandoli lui stesso e
rischiando la vita per capire fino a dove potesse spingersi. Una meravigliosa e concretissima
metafora di questo processo e della potenza della vocazione, che quando viene intercettata diventa
una missione di vita che vale più di ogni altra cosa, persino più della nostra stessa vita fisica.

ATTO PSICOMAGICO. L’ANIMALE TOTEM


Leggi tutte le caratteristiche simboliche dei seguenti animali una volta sola, poi chiudi gli occhi e in
meno di trenta secondi scegli quello che ti è rimasto di più in mente.

Ape. Nota per la sua laboriosità ed efficienza, ma anche per la sua innata capacità di difendere
senza paura il proprio nido.
Aquila. Forte, rapida e potente, ma anche capace di vedere oltre e di riconoscere le verità
spirituali celate all’uomo comune.
Cane. Fedele e custode del mondo ultraterreno.
Cavallo. Guida nei mondi ultraterreni, è resistente e simboleggia anche la libertà.
Cervo. Messaggero dei mondi ultraterreni, è rapido, dolce ma anche flessibile, capace di
cambiare se necessario.
Cinghiale. Astuto, feroce, ma anche guerriero solitario.
Civetta. Anche la civetta è una guida nei mondi ultraterreni, capace di vedere nelle tenebre,
cacciatrice esperta e astuta.
Corvo. Scaltro, portatore di conoscenza, ma anche simbolo di guerra e morte. Sa ingannare se
necessario e impara dall’esperienza.
Delfino. Ricorda bene i sogni, è associato al mare e favorisce l’equilibrio.
Farfalla. Libera dal passato inutile, fa chiarezza dove serve, ma è anche collegata alle anime dei
morti.
Gatto. Protegge negli scontri frontali, è astuto e anche pericoloso.
Grifone. Aiuta a combinare poteri provenienti da animali diversi, è magico e molto potente.
Lucertola. Simboleggia il sogno e incita a prestare ascolto ai suoi messaggi.
Lupo. Indipendente, intelligente, astuto, conosce molto bene la natura e sa combattere se
necessario.
Mucca. Simboleggia protezione e abbondanza, difende il bambino interiore.
Orso. Forte, resistente, aiuta a ritrovare armonia ed equilibrio.
Riccio. Simboleggia l’umiltà e l’innocenza.
Serpente. Saggio e molto scaltro, sa trasformare il veleno in qualcosa di costruttivo. È anche
simbolo di morte e rinascita per merito della sua pelle. Invita a lasciar andare quello che non
serve più.
Tartaruga. Metodica, lenta, invita a rispettare le esigenze del nostro corpo.
Toro. Forte, virile, rappresenta la fecondità e il potere di tipo maschile.
Volpe. Scaltra e capace di individuare i movimenti altrui senza farsi notare.

Dopo che hai scelto l’animale totem, compra dell’argilla, meglio se colorata, e quando te la sarai
procurata fai una ricerca su Google Immagini col nome dell’animale e usa l’immagine che ti colpisce
di più come modello per la produzione della tua scultura. Non avere fretta e non essere troppo
esigente col risultato artistico. Conta il processo. Ti consigliamo di non farla troppo grossa, in
maniera tale da poterla tenere sempre di fianco al tuo computer sulla scrivania del tuo ufficio.

PRATICA SPIRITUALE. ENUNCIAZIONI SUPERCONSCE


La fase della prototipazione, come abbiamo visto, richiede di agire e di fare cose mai fatte prima. Per
quanto, con la testa, comprenderemo che senza azione non ci sarà futuro, nel nostro inconscio,
vecchie abitudini depotenzianti ed eccessivamente protettive agiranno di continuo per metterci i
bastoni fra le ruote e farci rimanere dove siamo. Una delle tecniche spirituali più potenti per vincere
queste resistenze è quella di usare la Parola. Come abbiamo visto all’inizio di questo libro: «In
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
La parola è tutto. Non è un modo per etichettare una cosa, è proprio quella cosa lì. Quindi parlare
di parole è parlare di cose. Cose materiali.
La parola ha un enorme potere trasformativo, e questo step è quello più indicato per saggiarne le
qualità. Uno dei più grandi maestri in quest’ambito è stato Paramahansa Yogananda, autore di
Autobiografia di uno yogi, che è stato anche il libro più importante nella vita di Steve Jobs.
Yogananda diceva:

Visualizzare o affermare il successo può essere un modo per rafforzare la tua mente subconscia, che
a sua volta incoraggia la mente conscia. La mente conscia, però, deve ancora raggiungere il successo
ed è ostacolata dalla legge di causa ed effetto. La mente conscia non può cambiare il tuo karma per
portarti il successo. Tuttavia, quando riesce a entrare in contatto con Dio, allora la mente
superconscia può essere sicura del successo, grazie al potere illimitato di Dio.
Pensa all’Abbondanza Divina come a una forte pioggia rinfrescante: qualsiasi recipiente tu abbia a
disposizione, riceverà la pioggia. Se usi una tazzina, riceverai soltanto qualche goccia di pioggia. Se
usi un barile, si riempirà tutto. Che genere di recipiente alzi verso il cielo per ricevere l’Abbondanza
Divina? Forse il tuo recipiente è difettoso. Ha un buco? Se è così, devi ripararlo, eliminando tutta la
paura, l’odio, il dubbio e l’invidia; poi puliscilo con le acque purificanti della pace, della tranquillità,
della devozione e dell’amore.
L’Abbondanza Divina segue la legge del servizio e della generosità: dare e poi ricevere. Dai al
mondo il meglio che hai e riceverai in cambio il meglio.

Prima della pratica, se è possibile, accendiamo un incenso: in questo modo cambieremo anche la
qualità energetica dell’area intorno a noi. Scegliamo affermazioni adatte alla nostra particolare
necessità, quindi iniziamo la pratica: sediamo con la spina dorsale ben eretta, chiudiamo gli occhi e
volgiamo dolcemente lo sguardo verso l’alto, concentrandoci sul punto situato fra le sopracciglia
(mantenendo gli occhi chiusi).
Inspiriamo profondamente ed espiriamo tre volte, rilassiamo il corpo e teniamolo immobile.
Eliminiamo ogni ansia, sfiducia e preoccupazione, e a questo punto pronunciamo le nostre
affermazioni o preghiere. Ripetiamo tutta l’affermazione prima a voce alta, poi sempre più piano fino
a sussurrarla, poi anche solo mentalmente senza muovere la lingua, finché sentiremo di avere
raggiunto una concentrazione profonda e continua. Deve mantenersi un’intensa continuità di
pensiero, non bisogna cadere in uno stato di incoscienza. Riuscire a terminare le nostre affermazioni
senza pensare a cosa scongelare per cena è una sfida importante. Se persisteremo nell’affermazione
mentale cercando di immergerci ancora più a fondo proveremo una sensazione crescente di gioia e di
pace. Di seguito un esempio di enunciazione di Yogananda:

Signore, tu sei il mio sostenitore; manifesta la tua prosperità attraverso di me. Padre, Tu sei la mia
ricchezza; io sono ricco.
Tu sei il padrone di tutte le cose, io sono tuo figlio; ho ciò che Tu hai.
Dentro di me è racchiuso l’infinito potere creativo. Sono un uomo-Dio, una creatura razionale.
Sono il potere dello Spirito, la sorgente dinamica della mia anima. Porterò grandi innovazioni nel
mondo degli affari, nel mondo del pensiero, nel mondo della saggezza. Io e il Padre mio siamo una
cosa sola. Io posso creare tutto ciò che voglio, proprio come mio Padre.
Padre, voglio ottenere prosperità, salute e saggezza illimitate, non da fonti terrene, ma dalle tue
mani onnipotenti e infinitamente generose, che tutto possiedono.
Padre divino, questa è la mia preghiera: non voglio possedere nessuna cosa per sempre, ma dammi
il potere di procurarmi, quando lo desidero, tutto ciò di cui ho bisogno ogni giorno.
11
Testing

Come infrangere le regole disciplinatamente


È giunto il momento di tirare le somme e capire quali sono i risultati ottenuti con le prototipazioni
costruite nel passaggio precedente. A questo punto alcuni scenari potrebbero essere già cambiati,
potrebbero essere già nate delle amicizie e degli embrioni di relazioni professionali. È un momento
molto delicato, che deve forzatamente culminare con una scelta. Anche decidere di non scegliere è
una scelta, e in alcuni casi, paradossalmente, potrebbe persino andare bene, a patto però di
assumersene tutte le conseguenze. Potrà persino capitare che una scelta a questo punto risulti
superflua.
Se siamo stati fortunati, in fase di prototipazione gli eventi ci avranno portato verso scenari già
strutturati. Ci saremo parzialmente tagliati i ponti alle spalle e saremo partiti con la nostra nuova
vita. Se invece ci troviamo di fronte a un dilemma, in questa fase troveremo gli esercizi e le pratiche
ideali per spingerci oltre di esso e finalmente implementare la nostra nuova vita. Il blocco principale
per chi si impantana in questo momento ha a che fare con un’inconscia paura di morire. Una scelta è
sempre una morte parziale. Una frase che ci ha sempre aiutati a «morire meglio» è questa: «Nessuna
scelta è gratis». Qualsiasi strada prenderemo avrà un prezzo da pagare, persino quella della non-
scelta.
Non esistono zone franche, e a questo punto avrete certamente capito che tendenzialmente in
questo mondo le scelte votate a un’ostinata staticità sono anche quelle più pericolose, proprio perché
innaturali e avverse alle leggi della fisica. Questa fase, nel design thinking ufficiale, si conclude con il
lancio del nostro prodotto-servizio. Nelle aziende ci sono deadline da rispettare, e non c’è scampo,
bisogna partire. Nel Life Design invece possiamo essere più elastici. Buttarsi a capofitto nelle cose
non è mai cosa saggia: il metodo, per come lo abbiamo concepito noi, deve portarci naturalmente
verso un cambiamento. Quindi, se a questo punto siamo ancora perplessi e non abbiamo le idee
chiare o non è successo nulla di concreto, non c’è niente di male a ritornare indietro e ripetere
qualche passaggio: generare qualche nuova idea, stimolare qualche altra prototipazione e così via.
In questa fase potremmo anche perderci, fare casino e confondere di nuovo tutto. Mettendo in fila
questi sette step abbiamo voluto dare una sensazione di linearità e sequenzialità che aiuta,
soprattutto all’inizio, a darci un rassicurante senso di ordine. La realtà però adesso possiamo dirvela:
il Life Design sequenziale è una forzatura cervellotica. È giusto ed è bello, dopo che lo si è capito,
approcciarsi a esso con un sano piglio anarchico e darsi la possibilità di improvvisare e scegliere a
caso tra le pratiche e gli esercizi presentati sin qui, solo perché se ne sente il bisogno. L’importante è
collocarli in uno spazio mentale preciso e capire quale funzione hanno. Col passare del tempo tutto
questo ci verrà naturale, ma all’inizio è consigliato seguire il più possibile una certa sequenzialità. Le
regole vanno sempre acquisite interiormente per poi essere infrante ad arte.

Diventa il Rolex di te stesso


Un concetto da portarsi assolutamente a casa in questa fase è che la fase di testing, pur sfociando nel
«lancio ufficiale», in realtà non finisce mai. Si tratta di un concetto molto moderno, che in tanti fanno
fatica a fare proprio, nonostante sia entrato profondamente nella nostra quotidianità.
Il nostro smartphone è pieno di app che si perfezionano quotidianamente, e persino la nostra auto
ormai richiede periodici aggiornamenti del software. Così come un lancio è diventato solo un test che
paghiamo, allo stesso modo non dobbiamo vedere questa fase come il passaggio a chissà quali
dimensioni parallele. Anche licenziarsi da un lavoro, oggi, non è più come dieci anni fa. Il mercato dei
professionisti è diventato incredibilmente più fluido: non solo la vita media all’interno di un’azienda si
è accorciata moltissimo, ma la vita media delle stesse aziende si è accorciata moltissimo.
Esistono una marea di nuove modalità per farsi pagare, tutta una serie di sfumature (che vedremo
nei prossimi capitoli) che ci permetteranno di vivere le nostre transizioni in maniera meno traumatica
di una volta. Nella vita i test finiscono solo al cimitero, anzi per qualcuno neanche lì. È tutto un
continuo aggiustamento in cui è richiesta esperienza e formazione costante, su noi stessi e su tutto il
resto. Il Life Design va visto non tanto come il timer di una bomba che una volta scaduto il conteggio
esploderà e ci farà «svoltare», quanto piuttosto come un orologio svizzero automatico in cui basta
muoversi e il funzionamento sarà appunto automatico e perpetuo.
A testimonianza di questo meccanismo citiamo l’esempio di Serena Fanara, fondatrice di SeFa
Design by Nature, che si è iscritta ai nostri corsi di Life Design per un motivo interessante: le piaceva
quello che faceva, ma prima di tutto non riusciva a scalare il suo business e in secondo luogo,
nonostante stesse sulla carta lavorando con la propria vocazione, non stava bene con se stessa.
Serena produce lampade che sono delle opere d’arte stampate in 3D, costruite per far stare bene le
persone attraverso un’attenzione e una sperimentazione rigorosa basata sulle regole della
cromoterapia. Grazie a una profonda fase di testing emotivo ha compreso che quello che le mancava
di più era la possibilità di connessione umana coi propri clienti.
Dopo questo upgrade di consapevolezza ha deciso di lanciare Ambient Therapy, un servizio ibrido
di consulenza e fornitura di prodotti basato su discipline olistiche e neuroscienze in grado di colmare
quel vuoto che non le permetteva di sentirsi veramente viva dentro le sue cose (come diceva
Rossellini all’inizio del libro). Grazie a questa intuizione ha ricominciato a lavorare sul suo brand con
rinnovata energia e a ottenere risultati prima impensabili: il museo del design di Suzhou in Cina ha
scelto i suoi vasi Vertigo per la sua collezione permanente e, sempre in Cina, nell’ambito del Creative
& Design Cultural Industry Expo (CCDE), una delle sue lampade, la Beauty Pouf, è stata selezionata
tra i migliori prodotti del 2020.

ESERCIZIO
«Protocollo feedback»: scarica gli esercizi da questo link:
http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

INTERAZIONE UMANA. VERBALIZZAZIONE DI SCHIENA


Incontrati di nuovo coi tuoi compagni di Life Design Party, e dopo aver svolto l’esercizio appena
presentato, verbalizza i risultati e le ulteriori considerazioni a proposito delle tue prototipazioni,
mentre tu e il tuo compagno di interazione aderite per la schiena. Il testing è un feedback evolutivo,
volto a guardare avanti. Anche in caso di feedback negativi, ci siamo mossi e non siamo più quelli di
prima, ed è giusto riprodurre questo nuovo stato attraverso la nostra postura.
La verbalizzazione deve durare 10 minuti a persona.

LETTURA . WERNER HERZOG, INCONTRI ALLA FINE DEL MONDO


Cineasta, esploratore, poeta, visionario, Herzog è probabilmente il personaggio che più citiamo nei
nostri corsi. Famoso per i suoi film estremi e impossibili, nel libro ci spiega il motivo per cui «le
scuole […] non dovrebbero formare tecnici, ma persone con un autentico fermento interiore, persone
vivaci, che hanno in sé una fiamma ardente». Quella stessa fiamma gli ha permesso, durante le
riprese del suo capolavoro Fitzcarraldo, di issare una nave a vapore da 320 tonnellate su per una
montagna e riportarla successivamente in acqua, solo grazie alla forza fisica e mentale della troupe.
Ogni volta che pensate di trovarvi in una situazione difficile, rileggete questo libro.

ATTO PSICOMAGICO. L’ADDIO AL CORDONE OMBELICALE


Se sai usare Photoshop, prendi una tua foto e scontornala. Dopo di che, inseriscila in un ambiente
desiderato e coerente col percorso fatto fin qui e stampa il collage che hai ottenuto. Se non sei bravo
col computer, fai un disegno. Arrotola il foglio e avvolgilo in un laccio, una corda o un filo nero.
Lascia almeno 23 centimetri di filo e avvolgi all’altro capo la stampata di un tuo selfie non più
vecchio di una settimana. Ora vai in bagno, fai una doccia, lavati con il sale e poi risciacquati con
acqua fredda. Indossa abiti di colore chiaro. Prendi le due immagini legate, siediti in un posto
comodo e inizia a bere molta acqua. Metti della musica sufi, chiudi gli occhi e rilassati. Entra in uno
stato meditativo, fai alcuni respiri profondi e mantieni fermamente l’intento che tutto quello che non
è necessario venga sciolto. Dopo qualche minuto recita le seguenti parole:

In accordo con la mia più intima verità


scelgo di abbandonare il mio guscio.
La mia metamorfosi è adesso inesorabile.
Grazie a essa divento una sorgente di puro amore,
fonte di ricchezza per me
e per le persone che incontrerò sul mio cammino.
Sono al sicuro, forte e sano,
perché sono divenuto ciò che sono.

Con le forbici o un coltello recidi il laccio con un taglio netto. Sbarazzati delle due immagini
seppellendole in due luoghi diversi e il più possibile distanti fra loro.

PRATICA SPIRITUALE. L’I CHING


Per quanto saremo bravi a ottenere dei feedback puntuali da noi stessi e dalle persone che hanno
interagito con noi e i nostri prototipi, essendo noi esseri umani fatti di carne, ossa e anima, ci
saranno sempre cose che ci sfuggiranno. L’uomo è un’entità complessa e misteriosa, e il suo design
non può essere trattato come quello di un qualsiasi prodotto.
Nello step del testing, come abbiamo visto, si tratta di prendere delle decisioni. Esiste un’attività
umana che dura da millenni in qualsiasi tradizione e che viene usata per ponderarle meglio, le
decisioni: si chiama divinazione, ovvero la capacità di ottenere informazioni, ritenute inaccessibili, da
fonti soprannaturali.
Anche se siete degli indomiti razionalisti, prima di saltare questo paragrafo sappiate che durante i
nostri corsi abbiamo visto molte persone come voi risolvere intricatissime problematiche grazie alla
possibilità che si sono concesse di guardare la propria situazione da un’altra prospettiva. Senza
aspettative, senza idolatrare, semplicemente sperimentando con questo strumento.
L’I Ching è stato utilizzato per secoli da tutti gli imperatori cinesi. Si racconta che all’età di
cinquant’anni Confucio dichiarò: «Se il cielo mi potesse dare altri cinquant’anni di vita, li dedicherei
allo studio dell’I Ching, e forse allora imparerei a stare fuori dai guai». I Ching significa letteralmente
«Il libro dei mutamenti», ed è uno dei testi più antichi dell’umanità, assieme alla Cabala, i Veda e i
Libri di Thot. Lo stesso Carl Gustav Jung era studioso dell’I Ching, e nel 1924 scrisse l’introduzione
alla prima edizione pubblicata in Occidente.
L’I Ching non predice il futuro, ma ci racconta come il nostro modo di essere, le nostre abitudini e i
nostri comportamenti ci potranno condurre alla manifestazione di determinati accadimenti. Si tratta
dunque della piena comprensione del presente e dei possibili futuri in esso già contenuti. Da tanti
anni, grazie all’aiuto della nostra consulente Carla Fiorentini (autrice di una geniale trilogia dedicata
all’I Ching), ci rivolgiamo a questo libro per ottenere un supporto durante le scelte strategiche più
importanti. Il linguaggio contenuto nel testo è fortemente simbolico: avventurarsi in solitaria nella
sua «comprensione» è opera ardua, per cui vi consigliamo di studiare molto la disciplina o farvi
aiutare da qualcuno che lo usa e lo conosce da tempo.
12
Self check (burn out protection)

Beata solitudo, sola beatitudo?


Ecco un’altra cosa che nessun Life Designer si è ricordato di ricordare alle persone che scelgono un
percorso di orientamento serio e profondo. Soprattutto all’inizio – e questo inizio può durare una vita
intera se non si passa attraverso questo importante passaggio – essere in vocazione può provocare
dei disequilibri esistenziali davvero importanti. Come tutti i poteri, più sono sviluppati più occorre
imparare a usarli bene.
Se avremo compiuto tutti i passaggi finora descritti, il nostro approccio alla vita sarà, a questo
punto, radicalmente cambiato. Anche se non avremo ottenuto proprio tutto quello che desideriamo, è
evidente che interiormente saremo persone diverse. Con ogni probabilità, alcune persone a noi vicine
non ci riconosceranno più e tenderanno a trascurarci. Noi stessi, se non saremo costanti nella pratica
della meditazione, faticheremo a riconoscerci e tenderemo a tornare sui nostri passi (effetto elastico).
Questo è un bene. Siamo in movimento, e cambiando noi dentro cambia il mondo là fuori, compresi
alcuni attori del nostro film. Se saremo costanti, la nostra vita sociale sarà molto più gratificante. Ci
vorrà del tempo e passeremo magari momenti di sconforto e solitudine, ma se proseguiremo col
diario e con la lettura di cosa scrivevamo in passato, ci doteremo della struttura necessaria per non
cadere nella tentazione di indossare ancora una volta le vecchie maschere che tanto piacevano ai
nostri genitori o ai vecchi amici.
Un altro trucco è quello di fissare degli incontri periodici con gli amici del nostro Life Design Party,
immaginandolo come una setta segreta che deve riunirsi periodicamente. Fissiamo con grande
anticipo, ogni anno, tutti i nostri incontri: due all’anno basteranno. Prepariamoci a fare cose che non
abbiamo mai fatto prima e diciamo di sì a inviti che non avremmo mai accettato prima, per pudore o
per senso di inadeguatezza. Un nuovo cerchio magico si sta creando, seguiamo la nostra vocazione e
celebriamola in ogni circostanza.

Non è tutto oro ciò che è vocazione


Per qualcun altro invece ci sarà il problema opposto: l’esaltazione e la trance da vocazione lo porterà
a dimenticarsi della sua dimensione umana. Come abbiamo visto, intercettare la nostra missione più
intima porta in sé una connotazione spirituale potentissima: nei momenti cruciali percepiremo la
netta sensazione di avere alleati invisibili potentissimi che ci sostengono.
Questa dinamica ci porterà a potenti risultati materiali e insieme a un coinvolgimento emotivo che,
se non sapremo dosare, creerà uno stato di alienazione via via sempre più patologico. I principali
segnali che stiamo entrando in uno stato di questo tipo sono i seguenti.

1. Insonnia. Nonostante normalmente chi entra in vocazione tenda a dormire meno, sarà
opportuno svolgere questo passaggio se inizieremo a osservare che la qualità, più che la
quantità, del nostro sonno inizierà a peggiorare. Una vita più autentica è una vita con meno
frizioni e più energia. Il nostro corpo avrà meno bisogno di riposarsi proprio perché durante la
giornata, pur facendo di più, si stancherà meno. Non dovremo più fare la doppia fatica di
lavorare per fare le cose e per sopportarle. Allo stesso tempo, l’entusiasmo, soprattutto agli
inizi, ci porterà a fare troppo, a iniziare troppi progetti e ad alzare l’asticella troppo in fretta. Per
questo, sicuramente, arriverà il momento in cui dovremo fare il self check della nostra vita; e la
qualità del sonno è sempre la prima «spia» che qualcosa va registrato.
2. Tensioni famigliari. Le persone che ci stanno accanto, se sono in accordo con la nuova versione
di noi stessi, gioiranno insieme a noi dei nostri risultati; se invece tenderemo a farci ipnotizzare
dalla nostra vocazione e a pensare solo a questa, si rivolgeranno altrove. Come abbiamo visto fin
dal primo passaggio, la vita umana è fatta di un equilibrio tra più aspetti: concentrandoci solo su
quelli professionali porteremo scompiglio in tutti gli altri. In L’unica regola è che non ci sono
regole di Reed Hastings ed Erin Meyer questo passaggio è spiegato bene. Reed, dopo aver avuto
un grande successo con la sua start-up, si è accorto di aver trascurato la famiglia, e per salvarla
ha dovuto fare un lungo percorso di terapia di coppia con sua moglie. Meglio pensarci
costantemente e mantenere la luce ben accesa sui nostri rapporti umani.
3. Il tuo unico divertimento è il lavoro. Renderci conto di aver abbandonato gli hobby e le cose che
ci piaceva fare prima è un campanello d’allarme importante. Per quanto bella e gratificante
possa essere diventata la nostra attività professionale, non può essere l’unica cosa attraverso la
quale nutrire il nostro impero interiore. Mentre prima del Life Design ci distraevamo con
qualsiasi tipo di svago, quando siamo in vocazione spesso si tende a darle troppo potere e a farla
dilagare in tutti gli spazi della nostra vita. Ricordiamoci che siamo partiti per questo viaggio per
vivere una vita più completa, non per farci possedere completamente da qualcosa. Dobbiamo
diventare i registi delle nostre subpersonalità ed essere in grado di comprendere quando uno
degli attori finisce per fare monologhi troppo lunghi.
4. In vacanza non fai nulla. Se quando andiamo in vacanza riusciamo solamente a stare sulla sdraio
di un resort cinque stelle a dormire o a farci massaggiare, c’è un problema. Una persona in
vocazione che non è posseduta fa anche viaggi di scoperta e di connessione con altri esseri
umani, perché ha in serbo ancora delle energie da offrire a quegli aspetti di sé che non è
riuscita a nutrire durante l’anno.
5. Non andare proprio in vacanza. Molte persone in vocazione tendono a dimenticarsi di riposare.
Sono talmente prese da quello che fanno che si dimenticano delle esigenze del loro corpo. Come
degli Icaro, finiscono per bruciarsi e non risollevarsi mai più. Se davvero teniamo alla nostra
vocazione, occorre pianificare con moltissimo anticipo tutti i periodi dell’anno in cui dovremo
fermarci. Bisogna staccare completamente e vederli come dei periodi-totem che dovremo
santificare a ogni costo.

La problematica principale in questo caso è l’incapacità di accettare i propri limiti. La vocazione


non ci renderà divini: rimarremo esseri terreni e, come tali, dovremo avere cura di noi stessi e delle
persone a noi care. Uno dei metodi migliori per «dare da mangiare» alla nostra vocazione senza che
sia lei a mangiarci, è quella di delegare tutto il delegabile e costruire attorno a essa
un’organizzazione ben strutturata. Ma di questo parleremo nell’ultimo capitolo.

ESERCIZIO
«Karma karma karma»: scarica gli esercizi da questo link:
http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi

INTERAZIONE UMANA. 1 BILLION DOLLAR BABY


Dopo la tua seduta quotidiana di meditazione, soffermati alcuni minuti a visualizzare il saldo del tuo
conto corrente. Hai raggiunto un miliardo di euro in banca e a questo punto decidi di rassegnare le
dimissioni da tutte le tue cariche lavorative. Rimani con quello che c’è, per il maggior tempo
possibile. Fissa dentro di te questa sensazione, rendila reale e gradualmente apri gli occhi. Poi
richiudili per qualche istante e poi riaprili ancora. A questo punto, prendi il tuo smartphone e scorri
la rubrica telefonica una prima volta. Ripeti il giro e fermati sulla persona che ti incuriosisce di più e
che non vedi da troppo tempo. Fai passare almeno mezz’ora, poi ritorna in uno stato di piena veglia,
chiamala subito e chiedile di bere un caffè assieme o, se abita lontano, di fare una gita o un weekend
insieme.

LETTURA . FRIEDRICH NIETZSCHE, DIVIENI CIÒ CHE SEI. PENSIERI SUL CORAGGIO DI ESSERE SE STESSI
Il concetto di superuomo è fra i più abusati di tutta la storia della filosofia moderna. Leggere
Nietzsche non è da tutti, ma in questo libro c’è una bella selezione di brani potabilissimi che ci
aiuterà a capire meglio cosa volesse dire il filosofo tedesco quando invocava il coraggio di essere se
stessi. In totale accordo con questo passaggio dedicato al self check, estraiamo questo testo che
riflette sul valore della malattia: «Può capitare che chi è costretto a letto da una malattia si renda
conto che causa del suo male è soprattutto la carica pubblica che ricopre, la professione che svolge o
la società in cui vive, e che per colpa loro ha perduto ogni assennatezza nei propri riguardi: questa
saggia intuizione è il frutto dell’ozio cui lo costringe la malattia».

PRATICA SPIRITUALE. ALCHIMIA SUPERIOR


L’alchimia è un processo di crescita attraverso la sublimazione dei nostri demoni interiori, portato
avanti per secoli da studiosi che, per non essere bruciati vivi dalla Chiesa, si sono inventati quella
cosa (molto metaforica) della trasmutabilità dei metalli vili in oro. In pochi sanno che questa è solo
una modalità di essere alchimisti: l’alchimia inferior. Esiste anche un’alchimia superior, che adotta
un processo inverso e, detta in poche parole, sfrutta la bellezza affinché agisca da magnete per
tirarci fuori dalla cacca.
Quasi mai, quando pianifichiamo il nostro tempo libero, ci dedichiamo a questa pratica. Siamo
sempre troppo stressati per andare in un museo, visitare una villa del Fondo Ambiente Italiano o
semplicemente recarci in una riserva naturale solo per guardarla e viverla, da soli. Una delle pratiche
più terapeutiche che esistono sarà dunque pianificare almeno due periodi di minimo due giorni
all’anno in cui ci prenderemo del tempo per abbeverarci di bellezza, in solitudine. Esattamente il
contrario di quello che scrive quasi alla fine della sua avventura Christopher McCandless in Into the
Wild: «La felicità è autentica solo se condivisa». In realtà, se saremo davvero vigili, durante le nostre
missioni alchemiche la condivisione accadrà ugualmente. Sarà una condivisione fra la nostra mente e
la nostra parte più sottile e nascosta, quella che invece rimane dormiente se andiamo in Val Grande
con cinque amici a farci la grigliata al rifugio, quella che non sarà lì con noi quando visiteremo Villa
d’Este di Tivoli con gli EarPods nelle orecchie a sentire l’audioguida.
La contemplazione richiede presenza totale. All’inizio sarà strano, ma gradualmente, se
persisteremo, qualcosa di magico ci attrarrà verso uno stato di grazia. A proposito di questo, sempre
durante una delle puntate del nostro podcast Il BAZar AtOMICo, il nostro guru, padre Guidalberto
Bormolini, ci ha detto:

Se noi cerchiamo qualcosa di più grande del nostro orizzonte, inconsapevolmente possiamo cercare
Dio, e siccome lui è generoso, egli ci viene incontro approfittando di qualsiasi pretesto per farsi
sentire vicino a noi. E lo fa gratuitamente. La grazia è gratuita, siamo noi che non la raccogliamo.

ATTO PSICOMAGICO. LA «PROPRIACETTAZIONE» DI SÉ


Vai su wikihow.it e cerca «come costruire una tavoletta propriocettiva». Procurati i materiali
necessari, segui le istruzioni e costruiscila con le tue mani. È davvero facile. Sopra la tavola, con un
pennarello indelebile, scrivi tutte le qualità che vorresti acquisire col prossimo giro di Life Design,
per facilitare la tua scivolata versa il cuore. Quando avrai finito di scrivere allenati per stare più
tempo possibile in equilibrio su di essa, e quando ti sentirai pronto prova a recitare integralmente la
seguente dichiarazione di Assagioli senza cadere:

Io ho un corpo, ma non sono il mio corpo.


Io ho delle emozioni ma non sono le mie emozioni.
Io ho una mente ma non sono la mia mente.
Io sono l’essenza di me stesso, sono un centro di pura autocoscienza.
Io sono un centro di volontà, di energia creativa e dinamica.
Io sono.

Se non avrai successo con la vocazione, a questo punto, avrai almeno qualcosa da proporre agli
autori di Italia’s Got Talent.
PARTE TERZA
La monetizzazione
13
Come vivere bene nell’incertezza

The frog stay in the pot until the panza is piena


In un capitolo come questo si rischia sempre di finire a parlare di «rane che finiscono bollite in una
pentola sul fuoco perché procrastinano all’infinito il salto fuori dalla zona di comfort». Oppure,
peggio ancora, del fatto che «al giorno d’oggi tutto cambia così in fretta che non fai a tempo a
imparare qualcosa che è già stata inventata una macchina che lo sta facendo meglio di te».
L’incertezza c’è sempre stata, e la difficoltà dell’uomo a conviverci pure. A un certo punto,
tipicamente, quando hai fame, esci e l’affronti. Suona un poco Milanese Imbruttito, ma in parte è
così. Se siete incerti e non agite, non è che siete sfigati, è che avete ancora qualche euro sul conto
corrente o qualcuno che periodicamente li mette per voi.
Questo cinismo è il risultato di oltre un decennio passato in trincea a formare le persone. Tu puoi
dare tutti gli strumenti umani, tecnici e tattici alle persone che te li chiedono per migliorare la loro
vita, ma raramente le applicheranno. Questo, finché non si tratterà di una mera questione di
sopravvivenza, sia fisica sia psicologica. Il trucco per agire quindi è avere un buon rapporto con la
morte: la morte di alcune parti di noi stessi, la morte delle circostanze comode e la morte di alcune
frequentazioni, umane e ambientali.
Per vivere bene bisogna vivere nell’incertezza. Per spingerci a vivere nell’incertezza dobbiamo
chiuderci delle porte dietro e gettare le chiavi. O lo faremo noi, con il giusto mix di mente conscia e
inconscia (attraverso il Life Design) oppure lo faranno le crisi che, inconsciamente, attireremo su di
noi per progredire. Non siamo venuti al mondo per tornare indietro uguali. Questo è l’unico «senso
della vita» che ci sembra avere… uno straccio di senso. Non tanto perché lo abbiamo intuito,
folgorati sulla via di Lugano, ma proprio perché lo abbiamo imparato, insegnando.
L’incertezza è quello che vogliamo, anche quando non crediamo di volerla. La sua voce è dapprima
tenue, intermittente, poi, più facciamo finta di non ascoltarla, più lei aumenterà il wattaggio
dell’amplificazione. A quel punto avremo due strade: lo Xanax (quindi una morte neurologica
prematura) o la crisi. La fame d’incertezza è anche quella che ci spingerà a fare un altro giro di
giostra nel toboga del Life Design Spirituale. In quello stadio però saremo diventati bravi ad
ascoltarci e le crisi diventeranno gradualmente sempre più superflue.

Quando danzi, facci caso


Una cosa va detta: cambiare vita al passo del Life Design non sarà mai come ce lo immaginiamo.
Difficilmente ci saranno dei momenti topici in cui ci renderemo conto che abbiamo «svoltato», per
usare un termine abbastanza ridicolo e molto in voga tra i guru motivazionali che fanno ballare le
persone nei palazzetti. Gli upgrade della vita assomiglieranno più a delle lunghissime dissolvenze
incrociate. Una parte della vecchia vita rimarrà praticamente per sempre, ma sopra si
stratificheranno nuove realtà. Più che una dinamica cambiamento-reazione al cambiamento, la vita
assomiglierà a una danza sacra ballata a tempo con l’incertezza.
Abbiamo riscontrato questa dinamica osservando gli effetti del Life Design sui nostri corsisti di
lunga data. Intervistandoli, inizialmente sembrava quasi che nulla fosse accaduto di bello e fresco
nella loro vita. Poi, approfondendo il discorso e sviscerando i dettagli, venivano fuori enormi passi
avanti sul piano del benessere e della gratificazione personale. Cose non appariscenti, ma che fanno
la vera differenza nella vita delle persone.
Siamo talmente bombardati da modelli di successo effimero che siamo diventati incapaci di
rapportarci con le cose serie e importanti della vita, e se a quarantacinque anni non siamo ancora
riusciti a trasferirci a vivere a City Life per diventare i vicini preferiti dei Ferragnez, ci sentiamo dei
perdenti. Per questo è importante tenere un diario con costanza, annotare le cose che facciamo, ma
anche la qualità del nostro sonno, la quantità di farmaci che «non» prendiamo più, il nostro peso
corporeo che cambia, gli inverni che passano senza ammalarsi e così via. Questi sono tutti indicatori
che la nostra vita sta cambiando a livello cellulare, che stiamo meglio, che stiamo finalmente
danzando.
Nelle persone che hanno fatto questo click invisibile, osserviamo sempre anche un cambio del
suono della voce e della verbalità nel suo insieme. A un parlato farraginoso, pieno di tic verbali,
spesso si sostituisce una comunicazione più fluida, chiara e pacata. C’è un libro di Kurt Vonnegut che
s’intitola proprio così: Quando siete felici, fateci caso. L’unico modo è non perdere il filo del discorso.
Rileggere cosa abbiamo scritto sul diario l’anno scorso, misurare i nostri attuali parametri di vitalità
e rapportarli a quelli passati.

No (conscious) pain, no gain: la sopravvalutazione del coraggio


Nonostante la «dissolvenza incrociata», va detto che non è che con il Life Design non verrà richiesta
una certa dose di coraggio e di «cazzimma», o «vulvimma» (visto che siamo nell’era della gender
equality), per scivolare giù fino alla meta. Più è alto il toboga (ergo, più siamo disabituati a vivere una
vita piena e libera) più coraggio verrà richiesto per il lancio.
Nelle interviste che facciamo settimanalmente sul nostro podcast Il BAZar AtOMICo, c’è un tratto
comune che caratterizza tantissimi degli imprenditori e delle persone interessanti che ci piace
incontrare: dentro di loro c’era una grossa passione per la vita e i loro genitori l’hanno assecondata.
Qualcuno attraverso un vero e proprio supporto morale, altri addirittura attraverso l’assenza. Spesso
è meglio un genitore menefreghista di uno castrante. Quindi, soprattutto per chi non ha avuto la
fortuna di nascere in un contesto favorevole, il Life Design Spirituale rappresenta un ottimo
sostegno.
Un conto è dover continuamente ricorrere al coraggio senza sapere dove si va, un altro è farlo
all’interno di un processo ben strutturato. I passaggi che abbiamo visto nella seconda parte di questo
libro sono un’invenzione spettacolare che permetterà di democratizzare l’accesso a una vita più
sensata anche a chi è stato meno fortunato. Un conto è chiedere un prestito gigantesco alla banca
per aprire il bar che abbiamo sempre sognato, un altro è prototipare con metodo la nostra futura, e
ipotetica, carriera di imprenditori della ristorazione. Immaginiamo quante bancarotte, quante
violenze domestiche, divorzi e suicidi si sarebbero potuti evitare se il design thinking applicato alla
vita fosse stato inventato prima. L’incertezza assomiglia a una droga psichedelica: nella giusta dose, e
presa con approccio sacro, ci farà compiere viaggi mistici e illuminanti, ma se improvvisiamo senza
metodo ce ne andremo solo a male. Sarebbe utile che gli smartwatch del futuro fossero in grado di
misurare anche questo tipo di valori, magari mandandoci degli alert quando stiamo esagerando con
l’adrenalina e lo stress.

Come difendersi dallo smog psichico


A volte, anche se stiamo seguendo un programma di Life Design, ci servirà comunque dotarci di un
aiuto extra. Come abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, l’ambiente in cui nasciamo incide
notevolmente sulla nostra capacità di essere «antifragili».
A noi qui interessa evolverci, fare un percorso legato alla volontà, non semplicemente modificarci
per adattarci meglio agli agenti esterni che ci attaccano. Per farlo, occorre preoccuparsi fin da subito
della qualità dell’aria che «ascoltiamo». Anche se siamo nati nella famiglia ideale, prima o poi
verremo a contatto coi media, coi social e con alcune persone tossiche. Ne abbiamo parlato
ampiamente nel nostro primo libro: una delle routine che occorre instaurare fin da subito, quando si
decide di vivere meglio, è quella di controllare costantemente la qualità della nostra dieta
informativa. Là fuori, quasi tutto cospira contro la nostra realizzazione. Non perché ci sia una stirpe
di alieni che ci succhia energia (o forse anche sì, ma non cambierebbe nulla saperlo) ma perché, per
come sono fatti i nostri processi cognitivi e per come sono fatti i modelli di business dei giornali e dei
social network, le cose non possono che andare così. Finché non ci sarà uno scatto di consapevolezza
nell’umanità, che incentiverà i media a miscelare in maniera diversa le loro notizie, occorre sapersi
tutelare.
Diventiamo quello che ascoltiamo. È dunque di cruciale importanza, se si vuole avere qualche
chance di lasciar lavorare bene il nostro Life Design, rimettersi in forma e, per prima cosa, digiunare.
Di solito siamo contrari agli interventi estremi, ma in una fase iniziale con noi hanno sempre
funzionato. Servono per prendere coscienza del problema, per poi tararsi secondo le nostre esigenze.
È la stessa cosa che vale per i carboidrati. Finché non applicheremo una dieta low carb estrema per
almeno tre mesi, non ci disintossicheremo. Poi potremo gradualmente aggiungerli, ma a quel punto
saremo in grado di dosarli nella maniera giusta per noi. Stessa cosa va fatta con i siti di notizie, i
telegiornali, i talk show politici (i peggiori di tutti), le riunioni famigliari (se si è nati in una famiglia
depotenziante), Facebook, Twitter e i gruppi WhatsApp dove c’è gente che inoltra contenuti politici o
sociali.
Quando iniziamo a fare Life Design per la prima volta, occorre prendere il processo molto
seriamente e immaginarsi come in ritiro. Anche se sarà difficilissimo convincere mariti, mogli e
conviventi ad accettare la nostra scelta, dobbiamo farlo. Niente TG5 a cena, niente Piazza Pulita
dopo. Per tre mesi, non per sempre. Poi, gradualmente, se ne sentiremo il bisogno (quasi mai
accadrà), reinseriremo questi «veleni». Funziona proprio come con la pasta di farina raffinata. Non
siamo mai sazi, ne mangeremmo a tonnellate mentre la ingurgitiamo; poi però pagheremo dazio con
la classica indolenza postprandiale, prima, e il grasso addominale, poi.
Ormai, per noi, guardare un telegiornale o un approfondimento politico è diventata un’esperienza
che ci concediamo proprio per il gusto perverso di trasgredire. C’è chi va al club privè e chi guarda
Floris. E ogni volta non ci capacitiamo di come ci si possa alzare la mattina e trovare la forza di
vivere e intraprendere la giornata con una dose così massiccia di tossine nella mente. Per tre mesi
non guarderemo più questi contenuti, ma allo stesso tempo ci daremo latitanti per quei parenti e
amici che ci ammorbano con le loro litanie politico/complottistiche/demotivanti. Qualsiasi sia
l’orientamento. Per chi finisce sempre per lamentarsi per il troppo razzismo, per chi si lamenta del
troppo antirazzismo, dell’omofobia, del troppo liberismo, del troppo comunismo, del nazionalismo,
dell’internazionalismo, per chi si lamenta delle multinazionali, per chi ce l’ha coi vegani, coi
carnivori, coi drogati, con gli zingari, coi ricchi e coi poveri, insomma per chi, per non sentirsi solo,
cerca una sponda per le sue frustrazioni.
Queste tipologie di dialoghi sembrano innocue ma non lo sono. Vampirizzano la nostra energia e
agiscono sul nostro inconscio in maniera potentissima. Non abbiate paura di apparire come degli
asociali o degli stronzi: il tempo sarà galantuomo. Non si tratta di abbracciare l’ignavia, ma di agire,
politicamente, nella direzione di un ideale superiore. D’altronde, è più impegnata politicamente una
persona che commenta tutti i post di Matteo Salvini o di Selvaggia Lucarelli, o una che investe il
proprio tempo cercando di ottenere risultati visibili e coerenti con i propri valori attraverso la pratica
della sua vocazione professionale?

Ecologia verbale
Lo stesso tipo di atteggiamento di attenzione massima a ciò che ascoltiamo va tenuto anche rispetto
a ciò che diciamo. Per allenare la nostra mente all’incertezza, per potersela godere e surfarla,
occorre essere presenti a ciò che esce dalla nostra bocca. Facile a dirsi, meno facile a farsi.
Il nostro stile comunicativo si basa su innumerevoli «tic verbali»: frasi fatte, convinzioni limitanti e
autocastranti che ripetiamo senza nemmeno rendercene conto. Per esempio, siamo sui mezzi
pubblici, uno attacca a parlare male di questo o di quel politico e noi annuiamo complici: questo
atteggiamento equivale a ingoiare una pillola che ci succhia i poteri. Lo facciamo per abitudine e per
sentirci parte di una comunità, ma, senza saperlo, stiamo mandando gravissimi messaggi di
deresponsabilizzazione al nostro inconscio. Esso ragiona in maniera molto schematica: se tu ti dici
che non arrivi a fine mese per colpa del governo Monti o Berlusconi, perché devi sfogare della rabbia
pregressa, lui se ne frega dei tuoi problemi e riceve la comunicazione che nulla puoi fare contro
Monti o Berlusconi, ergo, ogni volta che dovrai uscire dalla tua zona di comfort tenderà a tirarti
dentro con tutte le sue forze.
Gli esempi di pillole succhia-poteri sono tantissimi. Eccone alcuni.

In Italia hai successo solo se conosci qualcuno o se infrangi la legge.


Sicuramente quello sta bene di famiglia, ecco perché si può permettere di fare quel lavoro.
È evidente che ha fatto carriera perché l’ha data a X o Y.
Ormai tengo famiglia, non posso rischiare, ne va della sicurezza e del futuro dei miei figli.
Tra commercialista, tasse e stipendi, finirei per guadagnare meno di adesso.
È già stato fatto/detto tutto.
In Italia non c’è gusto a essere intelligenti.
Se fossi nato negli anni Sessanta sarei diventato un grande artista.
Prima metto da parte qualcosa e poi mi lancio.
C’è crisi.
C’è crisi dappertutto.
Guarda com’è finito male quello lì, meno male che sono stato cauto.
Costa troppo, non ce lo possiamo permettere.
L’anno prossimo è il mio anno.
Se solo fossi partito prima quando il mercato era ancora vergine…
Non sono tagliato per queste cose.
Eh, ma io non ho fatto la Bocconi.
A cosa si riduce la gente per campare.
Loro fanno meglio di noi perché truffano la gente.
Stiamo dando perle ai porci.
La gente non ce la fa.

Ogni volta che scatta il giudizio, ci deresponsabilizziamo. Ogni volta che scatta una sorta di
subdolo realismo, ci deresponsabilizziamo. Ogni volta che ci diamo obiettivi ambiziosissimi, ma
lontani nel tempo, ci deresponsabilizziamo. Ogni volta che ci definiamo meno di quello che potremmo
essere, ogni volta che citiamo un dato sociale negativo, ogni volta che vediamo un complotto, ci
deresponsabilizziamo per non doverci dire che abbiamo paura. Fottutamente paura.
La stessa cosa succede su scala sociale. C’è la pandemia, ho una paura fottuta di ammalarmi, ma
non sono in grado di ammetterlo a me stesso e posto ovunque contro «la dittatura sanitaria».
È un meccanismo psicologico abbastanza comune: esserne coscienti ci aiuterà a conoscerci meglio
e, piano piano, a fare il detox di questa condotta autolesionista.
Non ci sono scorciatoie, ci vuole tempo per sradicare questo tipo di «tic verbali». Un buon metodo
è come sempre quello di scrivere un diario per autoanalizzarci e circondarci di persone che vogliono
fare lo stesso nostro percorso e che potranno farci notare quando abbiamo una «ricaduta».
La cosa più grave che si possa fare in questi casi invece è sottovalutare questo tipo di ecologia del
linguaggio. Di solito, per non sembrare scortesi, per pigrizia o per paura di ingaggiare col prossimo
discussioni troppo accese, tendiamo a lasciarci andare al vizio delle espressioni autolesioniste. Non
c’è niente di male se all’inizio non saremo in grado di accorgerci di esserci cascati; col tempo, e con
l’allenamento, accorceremo sempre di più il periodo tra la «ricaduta» e la presa di coscienza della
stessa, fino a farla scomparire del tutto. A quel punto avremo attivato nuove frequentazioni, e nel
caso dei parenti, di quelli che ci piace vedere e incontrare anche solo per affetto, impareremo a
ridere interiormente per come ci sembreranno buffi quando brontolano per tutto.
Come convincere anche il nostro alluce
Come abbiamo visto nella seconda parte, una pratica spirituale molto potente è quella delle
affermazioni creative. Lo abbiamo visto tante volte nei film: il personaggio principale, poco prima di
intraprendere la sfida finale, si guarda allo specchio e si automotiva. Ebbene, funziona veramente. A
costo di sembrare cretini, facciamolo, magari in maniera un filo più strutturata.
Noi siamo dei fan delle abitudini: per cambiare veramente non servono le rivoluzioni, ma le
evoluzioni. E le evoluzioni sono lente, progressive e inesorabili. Occorre quindi implementare una
sana pratica enunciativa, ma non basta farlo solo quando ce la stiamo facendo sotto. Lavorando in tal
senso provocheremo una lenta erosione, e successivo scioglimento, dei nostri blocchi inconsci.
Senza un sano dialogo interiore non c’è alcuna possibilità di crescita. Dovrebbe essere materia di
studio alla scuola dell’obbligo. Non è possibile alcuna educazione civica senza una sana educazione
civica interiore. Le affermazioni creative sono solo uno degli strumenti che non possono mancare in
un sano scambio tra mente conscia e inconscia, e la preghiera è un altro imprescindibile. Chiedi e ti
sarà dato: è parte integrante di tutte le culture del mondo da millenni; purtroppo nelle società
secolarizzate ammettere di non essere onnipotenti, e quindi «chiedere», è diventato poco cool. Roba
da primitivi o peggio ancora, da chierichetti. In realtà saper pregare è un’arte molto evoluta e
sottovalutata.
Per esempio, facciamo un quiz: chiedere denaro è ok o no? Non esiste una risposta univoca.
Dipende quanto ne chiedi, a chi lo chiedi e perché lo chiedi. Pregare un santo, una divinità o
l’universo affinché ci porti i soldi per campare, manda semplicemente un «messaggio nella bottiglia»
in giro per il nostro subconscio con su scritto: «Non so badare a me stesso, sono un disperato, non ce
la farò mai». Aprire invece una negoziazione, o meglio una partnership con il destinatario delle
nostre richieste interstellari (o subnucleari, scegliete voi) affinché faccia in modo di fornirci i capitali
necessari per contribuire a risolvere un problema comune a entrambi, è tutt’altra cosa. Così facendo
avremo un duplice vantaggio: otterremo molto di più dei classici 1.200 euro al mese per campare e,
secondo, sapremo come spenderli bene.
Questo è un libro dedicato a unire puntini di valore sparsi in libri che quasi mai vengono comprati,
tutti assieme, dalle stesse persone. Unire preghiera e prototipazione sembra essere un controsenso,
ma è proprio oltre il senso che occorre andare, come facevano i maestri zen. Bagnarsi nel mare
dell’esperienza, dare a noi, e a voi, una chance. Abbracciare il mistero e depippizzare la nostra
mente. Che poi tanto mistero non è: grazie a Herbert Benson (fondatore del Benson-Henry Institute
for Mind Body Medicine presso il Massachusetts General Hospital di Boston), che per quarant’anni
ha studiato il rapporto tra preghiera e salute, adesso sappiamo che la prayer therapy funziona anche
per chi non è religioso. Con oltre 180 articoli accademici pubblicati, Benson ha dimostrato che con
una tecnica mista fatta di meditazione/preghiere/affermazioni ed esercizi di respirazione, in sole otto
settimane sequenze di geni importanti per la salute sono diventate più attive e, analogamente,
sequenze di geni potenzialmente nocivi sono diventate meno aggressive. Tradotto: aumento nella
produzione di insulina che porta a un miglior controllo della glicemia, riduzione nella produzione di
radicali liberi (responsabili dell’invecchiamento), contrasto efficace delle infiammazioni croniche che
portano a ipertensione, malattie cardiache e cancro.
Ok, i soliti fricchettoni americani che da giovani si drogavano a Woodstock e ora hanno fatto
carriera? Non proprio. Qui in Italia, l’Università di Pavia ha pubblicato sul prestigioso British Medical
Journal uno studio che ha scoperto che recitare il rosario (quindi una sorta di ibrido tra meditazione e
preghiera, forse molto più la prima) migliora l’attività cardiaca e contribuisce ad abbassare la
pressione arteriosa. Sì, ma che c’entra tutto questo con la capacità di trovare la propria vocazione
professionale? Se siete arrivati sin qui nella lettura di questo testo avrete ormai compreso che se
volete avere qualche chance di arrivare in fondo al toboga, tutto il corpo deve cospirare col vostro
intento; siamo una sinfonia dove ogni strumento deve andare a tempo e suonare in armonia.
Qualsiasi condizione subottimale è d’intralcio.
Il cervello, prima di ogni altro organo, richiede la nostra massima cura, e infatti anche qui ci viene
in soccorso il National Institutes of Health americano, che ha dimostrato che chi prega regolarmente
ha una probabilità del 50 per cento in meno di sviluppare demenza senile o Alzheimer. La preghiera
che ci piace è quella che proviene dritta dal cuore, un sano mix di parole sacre alle quali siamo cari
(se siamo religiosi) o delle semplici frasi spontanee, meglio se poetiche (per quanto ne siamo capaci),
che contengano elementi di gratitudine, amore per qualsiasi cosa e devozione.
Quest’ultima è totalmente fuori moda, tranne quando si è malati gravemente e/o si sta per morire;
in quel caso intuiamo subito e ci riconnettiamo con la nostra sana finitezza. Nella vita ordinaria,
soprattutto quella contemporanea, dove crediamo di aver domato la natura perché andiamo in alta
montagna con meno di un chilo di vestiti addosso o perché mandiamo un messaggio audio in
Australia in meno di un secondo, ci risulta difficile prostrarci di fronte a qualcosa di più grande di
noi. Dove il «noi» è inteso come la nostra attuale «incarnazione».
Per questo nei secoli scorsi le persone evolute hanno sempre avuto dei «gadget» che ricordassero
loro la precarietà della condizione. Nel Medioevo in Europa c’erano i quadri in stile «memento mori»,
in Tibet le cerimonie legate al bardo, nell’antico Egitto avevano una vera e propria ossessione per
questo tema.
Non dimenticarsi mai di essere in balia di forze «superiori» è forse il più smart dei tips che
potremmo darci. Amen.
La caccia a un tesoro che possediamo già
Per vivere meglio nell’incertezza esterna occorre costruirsi delle certezze interiori. Il mare può
essere anche in burrasca in superficie, ma sul fondo è sempre fermo. Non siamo dentro a una
confezione di Yogi Tea: lo dice la scienza, come avete appena avuto modo di scoprire. È laggiù che
vanno trovati i «pesci grossi», come detto prima, e anche quasi tutto il resto.
Il dialogo tra mente conscia (lavoro, carriera, obiettivi, pragmaticità, produttività eccetera) e
mente inconscia (valori, amore, senso di unione) è, come tutti i dialoghi, a doppio senso. Preghiamo,
invochiamo, enunciamo, ma poi anche (tanto) ascoltiamo. Ascoltare le risposte ci aiuterà a fare molte
cose: in primis a farci venire i brividi, e poi a trovare la forza di andare avanti. Perché sì, vi dobbiamo
dare una brutta notizia: pregare aiuta ma non basta. Per vivere bene bisogna farsi il mazzo,
disincagliare le nostre chiappe asciutte dallo scivolo molto più spesso di quanto si possa immaginare;
e fare questo sapendo che qualcosa o qualcuno, ogni tanto, tenta di darci una mano, viene meglio.
Per parlare con qualcuno, però, occorre imparare la sua lingua, e la lingua da imparare in questo
caso è una lingua che assomiglia a quella che incontriamo nella poesia o nel cinema. Immagini,
quindi: descritte e filmate. Se aspettiamo l’apparizione della Madonna per poterci parlare come
parliamo a nostra sorella, aspetteremo moltissimo; se abbiamo fretta, invece, occorrerà piuttosto
ricordarci periodicamente di darci da fare per apparire noi a lei, come diceva CB (dai, ormai avete
capito che citiamo sempre lui). Uno degli artifici comunicativi più utilizzati da «…» (riempite voi con
Dio, l’Assoluto, la Forza, Pino…) per rispondere alle nostre preghiere è lo humor. Ricordiamoci quello
che abbiamo detto all’inizio del Capitolo 4: «L’attività creativa di Brahman non è intrapresa in ragione
di una necessità da parte sua, ma solo e semplicemente per gioco, nel senso abituale del termine»
(Brahmasu–tra, II, 1, 32-33). Quindi, «quello» gioca. Noi stiamo qui a farla pesante per tutto, ma ci
dimentichiamo che il Tutto, fondamentalmente, è poco più di una sfida a nascondino. Coerentemente,
dunque, per non rischiare di perderci le risposte, occorre davvero saper ridere; non stiamo parlando
delle cazzate in stile varietà televisivo, ma di lavorare sulla nostra capacità di capire le battute più
sagaci e surreali.
Uno degli stratagemmi classici usati da «...» sono le coincidenze, ma attenzione: anche qui è nata
tutta una moda new age di lettura continua delle cose che ci capitano come messaggi divini. Non va
bene per due motivi: primo, se state tutto il tempo a cercare di ascoltare qualcuno anche quando non
parlerà, perdete tempo e non lavorate, e secondo, quando poi parlerà veramente non riuscirete a
distinguerlo. Quello che dobbiamo fare è fare le cose – «fatturare», direbbe il Milanese Imbruttito –
mantenendo sempre un livello di attenzione minimo rispetto alle cose strane che ci accadono. Va
benissimo anche accorgersene dopo giorni, che qualcosa di surreale e magico ci è accaduto e che
questa cosa potrebbe portare con sé un messaggio. Magari mentre meditiamo e, invece di ricacciare
via i nostri pensieri, li osserviamo distaccati.
Accorgersi di queste cose in tempo reale è davvero raro, soprattutto se non siete particolarmente
avanzati nel vostro percorso interiore, e in definitiva serve a ben poco. Di esempi se ne potrebbero
fare a tonnellate: nomi di persone che entrano nella nostra vita, scritte sui fazzoletti del bar lette
distrattamente mentre pensiamo a qualcosa, incontri imprevisti con animali – sì, valgono anche le
cacate di piccione e il fare caso a cosa si stava dicendo o pensando in quel momento –, botte di
fortuna ridicole, incredibili filotti di sfighe a domino che sono talmente assurdi da farci ridere a
crepapelle come nel finale del film Il tesoro della Sierra Madre, oppure cose tipo quella che ci capitò
quando il Comune di Venezia ci invitò a fare il primo sopralluogo per valutare la fattibilità del nostro
evento «Remake Your Life» che si doveva tenere, da lì a qualche mese, nella storica sala dove
consegnano il Leone d’Oro al Festival di Venezia.
Mentre ci avvicinavamo al Lido e la cosa appariva via via più reale, la tentazione di chiedere
all’autista di invertire la marcia del motoscafo saliva di metro in metro. Forse abbiamo esagerato,
siamo degli sboroni, ma poi chi ci verrà fino a qui, sull’isola di un’isola, nella città più cara d’Italia,
nella location più scomoda esistente. E poi noi chi siamo per occupare un luogo così sacro, la stampa
ci ridicolizzerà, gli intellettuali si scandalizzeranno (in realtà ci fanno anche convention di dentisti,
ma questo lo abbiamo scoperto soltanto dopo), sicuramente abbiamo sbagliato tutto, dovevamo
partire da un teatro normale o da un centro congressi standard come fanno tutti i formatori
alternativi di questo Paese. Per organizzare quell’evento abbiamo dovuto anticipare, tra tutto, circa
250.000 euro. Era gran parte delle riserve della nostra azienda. Più che sul mototaxi ci sentivamo Di
Caprio che grida: «Sono il re del mondo!» sul Titanic.
Approdiamo sulla terraferma, siamo dietro l’Excelsior, sbuchiamo da dietro, vediamo il mare e… la
Luce. Semplicemente, essendo una bella mattinata e trovandoci sulla costa orientale, lì c’era il sole.
Ma proprio da quell’enorme ondata biancolatte iniziamo a veder sbucare delle sagome, come in
quelle descrizioni da fine vita, in cui i tuoi cari vengono a prenderti per aiutarti nel trapasso.
Facendoci ombra col palmo della mano percepiamo qualcosa di strano, sembravano sagome di uomini
nudi, scuri. No aspetta, ok, ora vediamo meglio, non siamo in un film horror-fantapolitico dove gli
zombie arrivano nudi per succhiarci il sangue: erano solamente persone che indossavano una muta.
Ma non persone qualsiasi: erano dei fottutissimi surfisti, in pieno inverno, che avevano appena
salutato i loro amici che, ancora a mollo, cercavano l’onda giusta.
Per chi colpevolmente ancora non lo sa, il nostro progetto di formazione si chiama Moneysurfers.
La direzione della camminata è proprio simmetrica, loro vengono verso di noi, noi verso di loro. Non
possiamo non incrociarci e infatti lo facciamo. Ci salutiamo e chiedo loro se è normale fare surf
sull’Adriatico davanti al Palazzo del Cinema, e loro mi rispondono che sì, lo fanno, ma davvero pochi
giorni all’anno, viste le caratteristiche notoriamente docili di quel mare. A quel punto capisco. Non è
normale, proprio oggi e proprio qui davanti. Chiedo loro una tavola da surf per qualche minuto, ce la
prestano con piacere e scattiamo delle foto fighissime.
Da quel giorno non abbiamo più avuto paura di fare il nostro evento, qualcosa di «superiore» ci
aveva mandato un messaggio potentissimo.

La meditazione come toilette foderata d’oro delle nostre paranoie


Sembra banale, ma non si può tralasciare il fatto che, semplicemente, senza meditazione, oggi è
praticamente impossibile dotarsi di una struttura interiore in grado di far fronte agli iperstimoli
protagonisti della nostra epoca. Quello che a una persona fino a pochi anni fa capitava in una vita,
oggi capita in tre anni. Parliamo di tutto: informazioni, esperienze e sensazioni.
Questa accelerazione rende oggi la vita incredibilmente più imprevedibile e dai confini pressoché
illimitati, ma al contempo più complessa da gestire. Non stiamo a ripetere quello che abbiamo
spiegato nel primo libro e nell’introduzione di questo; qui occorre solo ricordare come la meditazione
agisca sul fattore incertezza. Inserire una pratica di questo genere nelle nostre giornate ci permette
sostanzialmente di concentrare lo «scarico» di tutte le nostre ansie (o quasi) in quei minuti di
raccoglimento. Questo ci permette di essere meno ansiosi durante la giornata e di fare quelle cose
che la gente comune non fa, con quella che da fuori, a volte, sembra persino incoscienza, mentre
invece è super-coscienza.
La paura dell’incertezza, come abbiamo visto, è solo un pensiero spostato nel futuro. Allenando la
mente a stare nell’abusatissimo «qui e ora», banalmente penseremo meno al futuro e quindi avremo
meno paura. Non è che diventeremo Russell Crowe nel Gladiatore: molto più prosaicamente, saremo
più bravi a gestire i nostri pensieri, scegliendo di volta in volta se pensare al futuro oppure no. Il
problema è che molte persone si accontentano di leggere all’infinito libri di Eckhart Tolle, mentre qui
si tratta proprio di andare in palestra e fare gli esercizi, di esperire il potere dell’adesso, non solo di
sentirne parlare.
La disciplina quotidiana della meditazione, rispetto al tema dell’incertezza, ha anche un altro
grosso vantaggio: ci trasmette gradualmente la percezione di sentirci a casa ovunque e sempre, la
magia di diventare immuni (o quasi) agli agenti esterni mutevoli. Ok, se fallisco finirò a fare le
consegne per Just Eat. E chi se ne frega, sarò in grado di imparare tanto da quell’esperienza, magari
scriverò un libro, magari conoscerò qualcuno che mi aiuterà a ripartire o semplicemente mi farò un
culo assurdo, e se capiterà è perché l’ho voluto io, perché inconsciamente avevo capito che mi
serviva per progredire.
Tutto questo lo diciamo sbrigativamente perché, come abbiamo detto, certe cose vanno esperite o
quanto meno studiate a parte. La meditazione ci trasformerà in meravigliose facce di tolla; ci
ritroveremo quindi sicuramente più criticati e giudicati ma al contempo più indipendenti dal giudizio
altrui. La meditazione è il lubrificante sparso sulla superficie del toboga.

Flussi multipli di cassa (e poi ne parliamo)


Uno degli aspetti che indica che stiamo facendo un buon Life Design è accorgersi che ci capita
sempre più spesso di doverci appuntare che ogni tanto dovremo pur festeggiare. O magari assumere
qualcuno che ce lo ricordi. Un po’ perché quando si smuovono le cose, tendiamo a prenderci gusto e
subentra una sana tendenza a credere di poter ottenere ancora di più al prossimo giro di giostra, e
un po’ perché quando fate quello che vi piace festeggiate interiormente tutti i giorni e non avete
bisogno di gioire come quando raggiungete un obiettivo raggiunto con la sofferenza.
Questo, per quanto poco sexy possa apparire, è in realtà il sintomo di una vita che scorre fluida e
naturale, come succede in natura, dove, quando le cose hanno brusche accelerazioni è perché stanno
crollando. In questo capitolo stiamo affrontando tutta una serie di tattiche volte non a tollerare
l’incertezza, bensì a vivere bene dentro essa e surfarla, inquadrandola nella sua dimensione
esclusivamente materiale e illusoria, attraverso un giusto mix di tecniche spirituali e finanziarie.
Bene, dopo rosari e viaggi oltre la terza dimensione è giunto il momento di affrontare le seconde.
Potrete meditare quanto volete, ma se quando perdete un mese di stipendio passate dal pranzare in
un ristorante stellato alla onlus Il Pane Quotidiano, difficilmente vi butterete in progetti di
conversione professionale.
Come detto prima, ci sono fasi in cui avere bisogno di denaro ci aiuterà a fare scelte più creative e
irrazionali dettate da una sana disperazione, e altre in cui invece avere una situazione finanziaria
personale più ordinata ci permetterà di dotarci dell’ossigeno monetario necessario a rimanere in vita
mentre il nostro alberello cresce in attesa di dare i suoi frutti. Non esistono regole fisse, dipende
dalla situazione di ognuno di noi.
Di sicuro, per chi sta scrivendo questo libro, se non ci fosse stato il trading sui mercati finanziari
saremmo entrambi rimasti intrappolati nel XX secolo e nelle sue logiche lavorative mortifere.
Diventare appassionati di una cosa che, ai tempi in cui abbiamo iniziato, era poco più di una nicchia
per nerd smanettoni amanti del cazzeggio, ci ha permesso di dotarci di una serie di entrate
finanziarie ammazza-paura e di allenarci di fatto al rischio e all’imprevedibilità. È chiaro che se la
vostra unica fonte di reddito è il lavoro principale, l’idea di lasciarlo vi farà tremare le gambe. Altra
cosa è imparare e attuare la regola numero uno della cultura finanziaria di base: la differenziazione
del rischio.
Il concetto è molto semplice e, in scala, è lo stesso che hanno applicato per decenni e con successo
i più grandi investitori e trader del mondo, come Warren Buffett e Ray Dalio. Funziona così:
all’aumentare delle diverse tipologie d’investimento aumenterà anche la costanza dei guadagni. In
pratica significa non mettere tutte le uova nello stesso paniere, perché se cadrà la frittata sarà fatta.
E allora, diamoci da fare il prima possibile per allargare la nostra capacità di fare reddito decorrelato
dal nostro tempo, non per diventare i nuovi Wolf of Wall Street ma per creare una sorta di airbag
finanziario in grado di farci osare di più, soprattutto quando abbiamo già effettuato la nostra
prototipazione e siamo in attesa di vederne i profitti.
Cercare di spingere sull’acceleratore dei guadagni in un progetto appena nato è quasi sempre
sbagliato: una pianta piccola produce frutti piccoli, ed è giusto così. Se questi non saranno sufficienti
per sostenerci, potremo sopravvivere facendo i fighi più a lungo coi nostri clienti grazie ad altre
attività finanziarie semiautomatiche che nel frattempo avremo imparato a gestire. Fra queste le più
pop sono il trading in valute, sugli indici borsistici, in materie prime e in ETF. Comprare Tesla o
Amazon a caso, solo perché ce lo dice un call center dalla Romania, o seguire qualche youtuber
imberbe che ci dà consigli gratis per fare più views per poi ricevere l’assegno mensile dal broker che
sponsorizza o da YouTube stessa, non ci aiuterà molto.
Il mondo dei microinvestimenti è ormai un trend globale, divenuto parte integrante della cultura di
base del buon cittadino, soprattutto nei Paesi anglosassoni. Da noi siamo un po’ indietro, ma la
tendenza è in netto aumento. Il segreto è, come sempre, fare le cose con calma, attenzione e
maturità. Negli Stati Uniti, durante la pandemia da Covid19, il governo ha elargito dei sussidi per le
persone che non potevano lavorare. In tanti hanno usato quei capitali su piattaforme di microtrading
come Robinhood, qualcuno ci ha preso gusto e non è nemmeno più tornato a lavorare.

Paura eh?
La paura delle paure per l’uomo è sempre la paura della sofferenza. Essa, nell’agire volto a una
carriera professionale più autentica, viene poi declinata in tanti modi: paura del fallimento, di
rimanere soli, di non essere più riconosciuti da chi amiamo e persino, per qualcuno, la paura di
farcela. Negli anni abbiamo compreso, sul campo, che quasi mai le persone ammettono a se stesse e
agli altri di avere oggettivamente paura. Per come siamo fatti, «preferiamo» nascondere le nostre
debolezze con azioni inconsce di autoboicottaggio: quando troviamo sempre qualcosa di più urgente
rispetto all’applicazione pratica del nostro Life Design, quando troviamo infiniti dettagli da
migliorare nel nostro nuovo progetto prima di lanciarlo, quando attendiamo all’infinito l’occasione
giusta, quando ci raccontiamo che alla fine (riconsiderandola bene) non è poi così male la nostra vita
così com’è, e così via…
In realtà tutti questi atteggiamenti ci dicono un’unica cosa, cioè che ce la stiamo facendo sotto. Ed
è normale e sano: l’importante è riconoscerlo. Non possiamo sperare di vivere una vita più autentica
solo quando le cose andranno bene o quando otterremo dei successi: dobbiamo iniziare prima. Il
modo migliore per vincere le paure non è dunque combatterle, ma accettarle.
Questo «semplice» hack psicologico ha una portata enorme: «È un superpotere essere
vulnerabili», canta giustamente il nostro amico Vasco Brondi, alias Le luci della centrale elettrica.
Perché funziona? Perché si attua una dissociazione istantanea e capiamo che la paura non siamo noi,
finché non la affrontiamo non sapremo mai distinguerla e potrà agire indisturbata, inibendo qualsiasi
possibilità di riprogettare la nostra vita. Per facilitare questo processo di consapevolezza interiore è
fondamentale non rimanere soli e trovare degli alleati, delle sponde, degli approdi sicuri. Il Life
Design, come il design normale, si fa in gruppo, processo indispensabile non solo per la generazione
delle idee, ma anche e soprattutto per la loro concretizzazione. I meccanismi psicologici positivi che
si generano all’interno di un gruppo di lavoro, anche piccolo, anche composto da sole due persone,
sono questi.

1. L’emulazione: vedere gli altri che si danno da fare agisce in maniera potente sul nostro
inconscio. L’uomo è un animale fortemente emulativo.
2. La sana competizione: ogni volta che qualcuno all’interno del team di lavoro ottiene risultati
migliori dei nostri, ci stimolerà a fare meglio.
3. Lo sfogo verbale: avere intorno qualcuno con cui parlare, e che abbia fatto il nostro stesso
percorso, ci permetterà di smascherare le nostre paure camuffate da altro.
4. La protezione: frequentare persone con la stessa mentalità ci protegge dallo smog psichico di
cui abbiamo parlato in questo capitolo.
5. Il pungolo: darsi delle scadenze da soli non è come darsele di fronte a qualcun altro.
Organizzando incontri periodici, se le buchiamo apparirà più evidente che stiamo perculando noi
stessi.

Se state pensando che questi raduni siano da sfigati e ricordino molto gli incontri in cerchio degli
alcolisti anonimi, sappiate che tutti i più grandi imprenditori del mondo, da sempre, si sono ritrovati
periodicamente coi loro «simili» per fare le stesse cose. Una volta era il club dell’ippica, del golf o del
bridge; oggi si chiamano mastermind retreats, ma le finalità sono sempre le stesse.
Siccome queste abitudini sono le prime a essere abbandonate quando veniamo fagocitati dalla vita,
occorre essere sgamati e autovincolarsi in vari modi: per esempio si possono sfruttare le vacanze
natalizie o estive, quando in automatico la mente volge a considerazioni più strategiche, per fissare
tutte le date degli incontri prenotando luoghi o esperienze costose, pagandole in anticipo. Oppure
potete acquistare l’abbonamento a qualche circolo privato (vanno bene anche esperienze meno da
boomer rispetto a quelle citate sopra, come il kayak, l’arrampicata, lo sci-alpinismo o la vela),
creando spazio in agenda per viaggi all’estero acquistando gli aerei subito, prenotazioni su Booking
di sale riunioni panoramiche in hotel a cinque stelle oppure sul percorso di un cammino spirituale.
Scegliete bene i vostri «soci», non devono essere per forza persone con cui condividete progetti
professionali o imprenditoriali simili: quella che deve essere simile è la struttura valoriale e la
condivisione di un approccio ispirato al design thinking. Noi per esempio ci occupiamo di formazione
finanziaria e abbiamo fatto cammini, viaggi e mastermind retreats con galleristi d’arte, fotografi di
nudo, manager musicali, coach di nutraceutica e collezionisti di vini di pregio, ma anche con gente
meno cool come imprenditori «normali» quasi in pensione. Quando c’è comunione d’anime c’è
sempre qualcosa da imparare.
14
Come trovare lavoro oggi (a tutte le età)

L’onanismo imprenditoriale rende professionalmente ciechi


Uno dei fenomeni più assurdi e pericolosi che si osservano ultimamente nel cosiddetto «mondo del
lavoro» è la moda dell’imprenditorialità a ogni costo. Si tratta di un virus mentale di cui nessuno
parla: si dovrebbero istituire dei veri e propri «telefoni azzurri» per i dipendenti dal lavoro
indipendente.
Tra le parole più inquietanti che si aggirano tra i profili di LinkedIn ci sono: «imprenditore
seriale», «micropreneur», «solopreneur», «CEO at myself», «nomade digitale» e così via. Si tratta di
un chiaro sintomo di narcisismo dilagante, figlio dei social media e divampato grazie alla letteratura
motivazionale e al bombardamento digitale dei vari guru italiani che copiano gli americani. Il
fenomeno è esploso fra i millennials, ma lo si osserva anche fra i più arzilli di quelli che appartengono
alla nostra generazione.
La tecnologia e la rete danno gli strumenti e quindi la sensazione che tutto sia possibile e che tutto
sia fattibile, con qualche click ben assestato. Persino fare impresa da soli, senza capi, senza regole,
senza processi, solo io, il mio laptop e le Canarie. Nel nostro Paese questa attitudine, che già agiva
sottotraccia da tempo, si è definitivamente affermata con le leggi sul regime fiscale forfettario delle
partite iva. Sotto una certa soglia paghi solo il 15 per cento di tasse, non devi timbrare il cartellino e
sei una persona libera. Con la pandemia la situazione è peggiorata ulteriormente, si è glorificato il
telelavoro e chi va in ufficio è visto come un lobotomizzato che è rimasto al secolo scorso.
Sgombriamo subito il campo da ogni fraintendimento: noi siamo «quelli dello yoga finanziario», e
continuiamo a pensare che la vera ricchezza non sia (solo) quella del conto in banca e compagnia
cantante, ma se c’è una cosa che più di ogni altra vogliamo comunicare con questo libro è che
qualsiasi progetto serio di Life Design non assomiglierà mai a una sessione di masturbazione allo
specchio. Persino gli scrittori ormai non possono più ambire a vivere una vita completamente
staccata dalla società.
Innanzitutto, per scrivere bene prima bisogna vivere, e per capire la vita si deve avere a che fare
con gli altri. Inoltre, oggi scrivere un libro significa «rassegnarsi» a una vera e propria carriera da
brand ambassador e partecipare a interviste, dirette social, ospitate in radio e interminabili tour nelle
librerie. E per fare in modo che il proprio libro non ammuffisca sugli scaffali e venga ritirato dopo
qualche settimana, è necessario pensare a un piano di lancio fatto bene, e quasi mai gli scrittori da
soli sanno farlo. Quindi ci si interfaccerà con un’agenzia di marketing e un ufficio stampa, si faranno
riunioni e quando finalmente il libro sarà fuori si prenderà atto che non si guadagna nulla.
Gli scrittori oggi non possono fare solo gli scrittori: persino chi vende milioni di copie come Fabio
Volo continua a fare radio, televisione e coltiva la propria fan base sui social. Anche quelli come
Baricco fondano scuole, aziende, dialogano, si interfacciano col mondo.
Il Life Design non è quindi una via di fuga dalle responsabilità che abbiamo verso gli altri. Non
puzza d’individualismo, è l’esatto opposto: intercettando il mio vero Sé sarò più zelante nel servire il
prossimo. A pagamento, ovviamente. E per farlo non è assolutamente detto che io non debba avere
un capo che mi faccia crescere, che limiti la mia libertà quando necessario, anche perché, se
lavoriamo per gli stessi valori e la stessa nobile missione, tutto questo non verrà mai vissuto come
una vera e propria limitazione di libertà.
Non tutti sono tagliati per vivere una vita da imprenditore. Non basta fare un corso per diventare
capitani d’impresa, startuppari o freelance: ci sono proprio delle qualità che occorre avere alla
nascita. Senza queste, non si può fare. Non c’è niente di male, e spesso conviene. La gente comune
non sa che esistono un sacco di aziende dove guadagnano più i manager dei proprietari, veri e propri
imprenditori senza impresa, o meglio con imprese fantasma, che navigano invisibili, fanno un sacco
di soldi e non se li fila nessuno. Ma ne parleremo nel prossimo capitolo. In questo invece andremo a
capire come diventare bravi a intrecciare rapporti professionali con il prossimo, perché è così che si
materializzano davvero le cose. Anche se volete far crescere un vostro progetto imprenditoriale,
all’inizio dovrete fare partnership, altrimenti non vi basterà una vita per farvi conoscere. Se volete
fare una conversione nella vostra vita, a meno che non siate Mozart o Leonardo Da Vinci, dovrete
andare a imparare da chi quelle cose le sa già fare bene, perché magari siete bravissimi a gestire una
parte di un processo specifico ma non a dirigere tutta la baracca; per questo dovrete trovare un
lavoro presso un’azienda che condivide i vostri valori.
Quindi, giù le creste e sotto con il personal branding per non-egomaniaci.

Networking, (Inter)net working e altre inutilità


Abbiamo appurato che per monetizzare la nostra vocazione professionale, scoperta grazie al Life
Design, non possiamo fare tutto noi, ma abbiamo bisogno degli altri. Non importa se siamo bravi con
il digital marketing o sui social. Con i follower non ci paghi l’affitto, ormai lo hanno capito tutti,
anche chi ne ha tantissimi. Persino alcuni guru con centinaia di migliaia di follower si dannano
l’anima da anni per capire come generare ricavi e rendere sostenibile economicamente il proprio
progetto.
Quello che serve è «entrare nel giro giusto», ma giusto per noi, non «giusto e basta». Se vogliamo
davvero vivere una vita più felice, niente sarà più importante della coerenza valoriale con le persone
che frequenteremo maggiormente. Il mondo in cui ci si iscriveva ai golf club solo per frequentare
quelli più ricchi di noi e sperare di conoscere la persona che potesse farci svoltare l’aziendina è finito
per sempre. Oggi, ai livelli che interessano a noi, non esiste la dicotomia lavoro-tempo libero. Se mi
sta a cuore la natura, farò della natura il mio business, non solo un luogo dove passare il fine
settimana per tirare avanti senza suicidarmi.
Durante il nostro podcast Il BAZar AtOMICo, ogni settimana intervistiamo persone che hanno
messo in pratica con successo questo tipo di stile di vita. Per esempio Valeria Margherita Mosca – co-
founder di Wood*ing | Wild food lab, laboratorio di ricerca, consulenza e formazione sull’utilizzo del
cibo selvatico in cucina – ama i boschi e i territori selvaggi, e su questi ci ha fatto una carriera:
consulenza ai ristoranti stellati, formazione e ricerca sul foraging, libri, creazione di brand di
bevande alternative e così via. Durante l’intervista ci ha spiegato bene questo concetto, di quanto sia
ipocrita, in primis per noi stessi, vivere la natura come puro luogo di sfogo delle nostre frustrazioni
cittadine. Ovvero, se state male, non cercate salvezza in un bagno di foresta fricchettone: prendete in
mano la vostra vita e trasformatela, includendo però anche i giorni dal lunedì al venerdì. Solo così
incontrerete le persone giuste per voi. Solo così si creeranno partnership giuste, collaborazioni
proficue e business profittevoli.
O magari vi piace l’arte e volete convertire la vostra vita da programmatori a galleristi? Fate come
Deodato Salafia, anche lui ospite del nostro podcast, che non si è messo a mandare curricula o a
stalkerare gli addetti ai lavori, ma ha affittato uno spazio, ci ha appeso alcune opere che aveva
comprato negli anni e si è messo a programmare lì dentro. Gradualmente, grazie al giusto mix di
vocazione e cultura di business, la galleria è diventata più profittevole del suo lavoro da sviluppatore,
e i curricula ha iniziato a riceverli invece che mandarli.
Idem Loredana F. Monti e Carla Fiorentini, entrambe manager affermate che si sono specializzate
e poi convertite in specialiste di due nicchie interessantissime legate alla divinazione:
rispettivamente la lettura della sfera di cristallo e il coaching fatto con l’I Ching. Come? Studiando e
praticando tanto e poi frequentando librerie esoteriche, eventi di sinologia e viaggiando nei luoghi
dove quel sapere è più radicato, per imparare dai maestri più autentici.
Persino due influencer giovani e digitalissimi come Human Safari e Trip Therapy (al secolo Nicolò
Balini e Claudio Pellizzeni) hanno deciso di diventare soci, non mandandosi mail o DM su Instagram
ma incontrandosi in una banalissima fiera del turismo a Rimini.
Se vogliamo davvero che il nostro Life Design non rimanga sui fogli che abbiamo compilato
durante i capitoli precedenti, occorre alzare le terga e incontrare gente come noi, non limitarsi a
mandare messaggi su LinkedIn o peggio ancora aspettare che qualcuno legga il nostro curriculum o
il nostro business model allegato a qualche mail. Occorre vivere la vita che vorremmo, fin da subito.
Se la nostra vocazione è autentica, saremo magnifici e le occasioni non tarderanno ad arrivare. Se al
contrario cercheremo di frequentare alcuni luoghi, come si faceva una volta, solo per motivi di puro
tornaconto economico, non ci filerà nessuno, e per quanto saremo bravi a fare la «Joker face», prima
o poi verremo scoperti.
Se non vi invita nessuno perché non siete (ancora) nessuno, provate voi a creare un evento che
faciliti le connessioni che cercate. Noi lo abbiamo fatto, proprio con il podcast appena citato. Trovate
un concept, uno spazio valoriale inedito, un messaggio, un mondo, un immaginario ancora non
inflazionato, e fatene la vostra casa. Curate tutto nei minimi dettagli e invitate le persone che
vorreste conoscere, dalle quali vorreste imparare qualcosa. E non dimenticate lo champagne. Noi
prima di ogni puntata stappiamo una bottiglia importante: i successi vanno sempre celebrati prima
che accadano.

Non «trovare» ma «fatti trovare»


Una cosa su tutte oggi va evitata per non perdere tempo inutile: mandare curricula. Le ragioni sono
abbastanza intuitive ma, per esperienza diretta, pensiamo occorra ricordarle.

1. Il numero di candidature spontanee che le aziende ricevono oggi è enormemente superiore a


quello di una volta. Chiunque può digitare la url di un sito, cercare la pagina contatti e inviare
un pdf in allegato. Questo significa che la probabilità di essere letti si è praticamente azzerata.
2. È cambiato il mondo: le hard skills, ovvero le cose tecniche che bisogna saper fare per lavorare
in un posto, cambiano ogni sei mesi. La scuola che hai frequentato non conta quasi più niente.
Conta quasi solo l’ultimo lavoro che hai fatto. Nessuno perde tempo a leggere CV che superano
la singola pagina.
3. Psicologicamente, in un ambiente come quello contemporaneo, così entropico e complesso,
nessun datore di lavoro consapevole pretende di avere così tanta fortuna da trovarsi una
persona brava che si autocandida per la sua azienda. È proprio una questione statistica. Inoltre,
la ricerca di talenti è sì un lavoro complesso, ma infinitamente più semplice di una volta. Tutti i
professionisti in gamba sono su LinkedIn, spesso hanno dei siti personali o comunque si fanno
notare online.
4. Quando un imprenditore assume un manager di alto livello, quest’ultimo si porta dietro i propri
fedelissimi. Si tratta di vere e proprie aziende fantasma che navigano sottotraccia.
5. Chiunque assume, alla seconda volta che viene truffato da curricula gonfiati, smette di leggerli.
E i curricula sono tutti gonfiati.

Funziona come con i ristoranti: nessuno guarda più i loro siti, piuttosto tutti tendono a fare grandi
ricerche e confronti fra i vari siti di recensioni. La stessa cosa accade quando si cerca di assumere
qualcuno.
Lo sappiamo, ricorda molto la puntata di Black Mirror in cui in un mondo futuribile e inquietante
ogni persona ha un punteggio stabilito dai feedback, proprio come se fosse un albergo o un prodotto
su Amazon. Ecco, il mondo è già così, orripilante o meno non sta a noi giudicare, questo è un libro
schietto e pratico. Lasciamo le considerazioni antropologiche ad altri più bravi. O magari anche a noi
stessi, ma in altre sedi.
Quello che conta quindi è fare in modo che chi è funzionale al nostro percorso vocazionale ci trovi,
e per farlo non conta solo apparire, ma metterci la faccia e l’anima. Il presenzialismo fine a se stesso,
o peggio ancora lo stalking, come abbiamo detto prima, non serve a nulla, la dinamica che funziona è
quella del «treno che esce dalla galleria». Finché rimarremo nel nostro guscio nessuno ci troverà
mai: occorre dotarsi di una motrice potente, collegare più vagoni possibili e sbucare dalla montagna.
Se avremo fatto un buon lavoro, chiunque vorrà salirci sopra. In concreto questo significa quanto
segue.

Lavorare gratis, ovvero collaborare gratuitamente con più entità possibili connesse alla nostra
vocazione. Associazioni, riviste online, account social corali, eventi tipo TEDx e così via. Quando
facciamo così, compariamo su siti importanti e il nostro nome viene associato a progetti fighi, di
conseguenza sale la nostra nostra awareness e, ben più importante, la nostra autorevolezza.
Social consapevoli. Avere account social dove mostriamo solo addominali scolpiti o curve
mozzafiato farà crescere molto presto la nostra fan base sui social, ma difficilmente attrarrà
opportunità di crescita professionale. Un feed che sia un giusto mix di vita personale e interessi
vocazionali è una bomba: farà trasparire che le cose di cui vogliamo occuparci al lavoro sono le
stesse di cui ci occupiamo «aggratis», e questo manda fuori di testa i cacciatori di teste e gli
imprenditori più acuti.
Divulgare il divulgabile. Se siamo davvero innamorati della nostra vocazione professionale
tenderemo a saperne più di altri, e sul web «content is king», il contenuto vince. Ridurre la
complessità e confezionare informazioni in maniera accattivante sulla nostra nicchia vedrà i
motori di ricerca premiarci, e boom, anche qui visibilità e autorevolezza a nastro. Non serve
essere guru per spiegare le cose: serve essere curiosi cronici e metterci sempre del nostro. Ogni
generazione, ogni epoca ha bisogno di testimoni che raccontino, con un linguaggio attuale, le
stesse cose. Conta più lo stile, spesso, del contenuto. Se saremo autentici avremo il nostro
pubblico, piccolo o grande che sia, quello giusto per noi.
Metterci la faccia. Autofilmatevi, e se siete timidi e pensate di parlare male avete due strade:
iniziare lo stesso, continuare e migliorare (come fanno tutti d’altronde, nessuno nasce Alberto
Angela), oppure usare stratagemmi come immagini mute di voi che fate cose interessanti e testi
in sovraimpressione che narrino ciò che sta accadendo. La differenza tra vedere la persona in
video e no è totale.
Mandare progetti, non CV. Un altro metodo che funziona sempre e che in pochi fanno è quello di
mandare un piano, un progetto o un’idea a un’azienda, e da lì instaurare un rapporto. L’indirizzo
a cui manderemo le nostre idee non sarà quello delle job opportunities ma quello legato alle
partnership. Qui sappiamo che certamente verremo letti. Ma attenzione, dobbiamo essere
disposti a fare due cose: dedicare un botto di tempo all’azienda per la quale vogliamo lavorare e,
last but not least, sapere bene quello che diciamo. Spammare le aziende con progetti che non
hanno basi numeriche solide non ha senso. Pertanto sarà necessaria una certa dose di
managerialità ed eclettismo per non fare la figura dei sognatori infantili. Gli obiettivi che
dobbiamo raggiungere sono sempre gli stessi: trovare un modo per far guadagnare o
risparmiare di più il destinatario della nostra missiva. Dall’altra parte, se farete tutto bene, vi
richiameranno in meno di quarantott’ore. Ok, ok, lo sappiamo, in tanti staranno già pensando:
«Eh, ma poi mi fregheranno l’idea». Sì, è possibilissimo, ma se lo faranno significa che non era
l’azienda giusta per voi o che la vostra idea era troppo facile da applicare e non richiedeva voi
per metterla in pratica. Non bloccatevi, non abbiate timore del prossimo, vivete in stato di
apertura, in allerta e pronti a chiudere, ma aperti. Potrà sicuramente capitare di buttare via del
tempo, ma se lo farete avrete sicuramente imparato qualcosa di più, potrete in parte riciclare
l’idea per altre aziende e forse forse se vi fregano sempre vuol dire che dovete indagare meglio
su chi vi circonda e su voi stessi, magari facendo un’analisi karmica sul perché attiriate così
tanti imbroglioni.
Aprire un account fan. Un po’ estremo ma per molti ha funzionato. Se amiamo talmente tanto
un’azienda, diventiamo un punto di riferimento per i suoi fan. Ci sono persone che adesso
lavorano in Apple, Tesla, Ducati, Ferrari e chi più ne ha più ne metta, e che sono entrate in
azienda dopo aver creato siti, blog o community che si sono rivelate più zelanti dell’azienda
stessa a gestire la fan base, con contenuti più freschi e argomenti più interessanti rispetto a
quelli proposti dalla casa madre.

Quando Davide ha finito la Bocconi, con specializzazione in marketing e comunicazione – quindi


stiamo parlando di vent’anni fa – ha mandato curricula a tutte le più grandi agenzie pubblicitarie.
Nessuno ha mai risposto. Dopo aver fondato Moneysurfers siamo stati contattati dalla più importante
del mondo per fare da testimonial a un noto gruppo bancario italiano. E abbiamo rifiutato.

Migrare per poi ritornare


Un’altra cosa che sta diventando praticamente imprescindibile è andare all’estero a lavorare, per poi
tornare migliori e pagati meglio. A differenza di quello che è accaduto per i nostri nonni, le
migrazioni contemporanee sono spesso a tempo determinato. Si va per ottenere quelle chance che la
società sepolcrale italiana non ci offre, imparare una lingua e una cultura nuova, aprirsi la testa come
un cocomero e infine capire che il posto più bello al mondo è l’Italia, che tra l’altro produce ottimi
cocomeri.
Lo abbiamo visto all’inizio di questo libro: andare fuori ci aiuta a importare anche una cultura
imprenditoriale e finanziaria più evoluta di cui qui, nella terra dei cocomeri, abbiamo molto bisogno.
Andare all’estero ci rende spesso anche più ottimisti sul futuro dell’umanità. Là fuori, se uno ha
un’idea, spesso riesce a realizzarla. Davide ha vissuto in Belgio, dove lo Stato fornisce addirittura dei
consulenti di Life Design gratuiti a chi è confuso e non sa che lavoro fare. Poi, quando hai capito
qualcosa di più, arrivano i consulenti di business pubblici che ti aiutano a stilare il business plan e a
trovare le connessioni giuste.
Guardatevi la storia del brand Brussels Beer Project. Li abbiamo conosciuti e a loro è andata
proprio così. La provincia di Bruxelles ha dei veri e propri coworking/incubator pubblici dove i
ragazzi di tutte le età, quindi anche persone che vogliono fare un cambio di carriera, vengono
stimolati e supportati gratuitamente a creare aziende basate sulla propria vocazione professionale, e
alla fine diventano talmente bravi e cool che persino il noto chef Jamie Oliver se n’è accorto e li
pubblicizza (cosa realmente accaduta ai ragazzi di Brussels Beer Project). Quello che blocca il nostro
Paese siamo noi, non i politici, che sono solo la fedele rappresentazione in scala dei cittadini che li
hanno eletti.
Quando cerchiamo persone in gamba per la nostra azienda, si pone sempre il problema della
relocation nella Svizzera italiana (tre quarti d’ora di treno da Milano). Siamo lenti, statici e
mammoni, e finché non ci scrosteremo di dosso questa indolenza, questa pesantezza secolare,
rimarremo sempre il fanalino di coda dell’Europa. Secondo il futurista Marinetti è tutta colpa della
pastasciutta. Meno male che spopolano le diete low carb; qualcosa infatti sta cambiando.
Negli Stati Uniti si cambia Stato da un giorno all’altro. Tesla si è spostata dalla California al Texas
in un giorno, e nessuno si è scandalizzato. Si fanno le valigie e si va. E ma… la scuola dei figli? E
ma… la cumpa dell’aperitivo? E ma… ai genitori chi ci pensa? Le cose ferme marciscono, occorre
muoversi, e prima ancora, per farlo, occorre essere leggeri. Per anni abbiamo vissuto in nazioni
diverse, spostandoci con due valigie dentro le quali c’era tutto. Non per sempre, ma per un discreto
periodo di tempo sì. Noi, dopo undici anni di attività della nostra azienda di formazione, abbiamo
scelto di vivere nella stessa città solo da uno. Se fossimo rimasti a casa, in questo momento
probabilmente staremmo centellinando i soldi del reddito di cittadinanza.

Non chiedere soldi, ma negozia duro


Se siete dei millennials, questo paragrafo lo potete saltare. I ragazzi di oggi hanno già dentro questo
concetto, sono nati con il software giusto già precariato. Piuttosto sono vittime del problema opposto:
se la tirano troppo, non riesci mai a farli lavorare su cose che servono a loro per crescere, e spesso
sono convinti che bastino 10.000 follower per avere il futuro spianato. Per tutti gli altri invece
occorre puntualizzare: non si cerca lavoro per i soldi. I candidati evoluti, oggi, durante i colloqui non
parlano quasi mai di denaro: la priorità è data all’indagine sui valori, alle ambizioni e ai progetti
dell’azienda con cui stanno trattando, e a come questi si connettono con i loro.
Non ha nemmeno senso essere pedanti e continuare a chiedere di cosa ci occuperemo
esattamente, tanto le cose, come già detto, cambiano ogni sei mesi. Conta la missione, l’obiettivo
nobile, e solo dopo il fatturato e lo stipendio. A valle di tutti questi «accertamenti etici» si parte con
la negoziazione economica. Mentre una volta si tendeva ad andare a lavorare nelle aziende che ci
pagavano di più, oggi tutto questo conta ancora, ma non è l’unico parametro di scelta, e se avete in
mano questo libro, probabilmente lo avete già capito. L’importante però è che non ve ne
dimentichiate.
Cedere a un’offerta di lavoro solo perché ci pagano di più significherà tornare nell’oblio di noi
stessi e rimandare all’infinito lo scioglimento dei nostri nodi interiori. Si tratta di una catena di
coerenza. Oggi le aziende di successo sono quelle famose per la coerenza tra ciò che comunicano e
ciò che producono. Per fare questo, al loro interno devono dotarsi di persone che a loro volta siano
coerenti tra quello che sono e quello che fanno. Dunque, quando dovranno rinfoltire il loro staff,
staranno molto attente a non dotarsi di «mercenari» bensì di artisti indomiti. Questo non vuol dire
che dovremo farci sfruttare: si tratta pur sempre di una negoziazione.
Siamo noi che dovremo stare vigili e capire la qualità del percorso professionale che stiamo
intraprendendo. Sto lavorando gratis perché devo acquisire del know how o delle connessioni? Ok.
Mi sono reso conto che ho «downloadato» tutto quello che mi serve? Smetto di lavorare gratis. Mi
stanno sottopagando solo perché lavoro per un’azienda che fa curriculum? Ci può anche stare, a
patto però che stando lì impari qualcosa, altrimenti quando la prossima azienda mi assumerà
basteranno pochi mesi per capire che sono un pacco. Non mi assumono e mi lasciano a partita iva
perché a loro conviene mentre io se mi ammalo non vengo pagato? Anche qui va bene, se è un
periodo limitato e il gioco vale la candela, ma se diventa una routine allora bisogna scappare e
cercare qualcuno più etico e rispettoso dei miei diritti.
Ci sono settori in cui lo sfruttamento è una routine. Pensiamo ai settori cool come quelli della
moda, della televisione o della musica (quando ancora era un’industria). Quei posti dove tutti
vorrebbero lavorare perché ci si immagina che stando lì si diventi dei privilegiati rispetto a chi per
esempio lavora in un’azienda che vende infissi. Comprendere che si è dentro un incantesimo di
questo tipo è molto importante, e il Life Design sicuramente è utile per capire se ci stiamo facendo
schiavizzare per cibare il nostro ego. Per questo va fatto e rifatto periodicamente, perché spesso gli
incantesimi sono difficili da infrangere senza un metodo.
Quando abbiamo capito che il nostro self branding ha beneficiato abbastanza del nostro purgatorio
in aziende cool, andiamocene e iniziamo a farci la nostra azienda, se ne abbiamo voglia, capacità e
indole; oppure cerchiamo altri progetti che ci paghino il giusto. Senza dilungarsi troppo, qui occorre
studiare bene qualche trucchetto di negoziazione. Bisogna agire come un imprenditore all’interno di
un’altra impresa. Bisogna conoscere il mercato, ovvero studiare a fondo quanto vengono pagati quelli
bravi come noi. Fissare un prezzo di offerta che abbia senso e poi uno limite sotto il quale non
scenderemo mai. Ancora, bisogna essere disposti – e soprattutto pronti – a rinunciare anche se si
rimarrà a casa senza lavoro per un certo periodo di tempo, studiare un piano remunerativo che ci
stimoli a crescere (per esempio stock options, premi per raggiungimento di obiettivi eccetera) e
imparare bene la «poker face». Tutto questo, come detto prima, viene meglio se ci siamo dotati di
cultura finanziaria e di un flusso di reddito automatico (trading, royalties, affitti eccetera) e se
abbiamo imparato a modulare il nostro stile di vita alle nostre reali capacità di spesa. La libertà ha un
prezzo: non possiamo pretendere di trovare il lavoro della nostra vita se siamo inchiodati a un mutuo
folle o alle rate del SUV.

Come prepararsi prima di un colloquio


La maggior parte delle persone va a un colloquio di lavoro con lo stesso mood con cui la domenica si
entra in un negozio di oggetti vintage: «Allora… vediamo se c’è qualche occasione, qui!» Il modo
migliore per esser messi alla porta dopo meno di mezz’ora di colloquio è andare senza studiare
prima. Dobbiamo sapere tutto dell’azienda, oggi esiste Google e non ci sono scusanti.
Se non ti sei sbattuto almeno un pochino per sapere cosa stiamo facendo qui, perché dovrei
sperare che lo farai dopo? Quando invitiamo qualcuno ai nostri podcast studiamo moltissimo, tanto
che un sacco di ospiti, alcuni persino mentre registriamo – guardate la puntata de Il BAZar AtOMICo
con lo chef Diego Rossi, per esempio – alla fine ci chiedono il foglio in cui abbiamo appuntato tutte le
domande e le curiosità su di loro. La frase è sempre la stessa: «Sembra quasi che tu ne sappia più di
me su me stesso».
Ai colloqui deve accadere la stessa cosa, e poi dobbiamo studiare bene le cose su cui vogliamo
puntare: poche ma incisive. Non bisogna fare i tuttologi, ma dire la verità ed essere se stessi. Se non
ci sentiamo a nostro agio senza indossare maschere (tranne quando si negozia lo stipendio), vuol dire
che non è il posto giusto per noi; le persone della stessa tribù si riconoscono entro i primi cinque
minuti. Piuttosto facciamo meno colloqui, mandiamo meno curricula ma prepariamo queste
operazioni nei minimi dettagli. Non spariamo nel mucchio.
Le energie sono poche per tutti, meglio spendere più tempo a studiare un certo numero di aziende
ben selezionate piuttosto che spammare a destra e a manca. E poi evitiamo di farci degli inutili
autocomplimenti: parliamo di fatti e risultati ottenuti dimostrabili con i nostri progetti e lavori
precedenti. Numeri, numeri, numeri. Mai parlare male di altre aziende o persone, e come detto
prima non elemosinare denaro ma piuttosto fare domande per indagare l’effettiva compatibilità etica
e valoriale. Assumere un’espressione serena, alzare la schiena e comunicare con il corpo sicurezza,
pacatezza e perché no, autoironia.
Poco prima di entrare, mentre siamo sull’ascensore, va bene parlarsi allo specchio dicendosi: «Io
sarò me stesso, perché sono una persona preparata e di valore. Qualunque sia l’esito di questo
colloquio, sarà un’esperienza di vita formativa, dunque non ho nulla da temere. E non ho nulla da
temere anche perché io sono e sarò sempre fedele alla mia vocazione. Le persone che a breve
avranno a che fare con me, se saranno quelle giuste, lo capiranno immediatamente. Al primo posto
c’è il mio desiderio di aiutare gli altri e nutrire il mondo grazie all’esercizio della mia vocazione
professionale e vivere nell’abbondanza che mi merito».

Come cambiare lavoro rimanendo nella stessa azienda


Non dimentichiamoci che in alcuni casi la nostra vocazione può essere assecondata e persino
promossa dall’azienda in cui già lavoriamo. Piccole variazioni applicate al nostro attuale lavoro
possono fare tutta la differenza. Lo abbiamo visto quando abbiamo raccontato del collega di Davide
alla Tre che è tornato nella sua amata Palermo. La logica e le tattiche da usare sono sostanzialmente
le stesse. Se saremo bravi a convincere la nostra azienda che spostandoci di ruolo o di luogo
performeremo meglio, ci risparmieremo un sacco di sbattimenti. Se rimaniamo a lavorare sotto la
stessa ragione sociale sarà meno necessario lavorare sulla nostra autorevolezza: tutti sanno tutto di
noi e occorrerà solamente ri-venderci.
Per fare questo ci vogliono sostanzialmente tre cose: qualche attestato, un piano e lo storytelling
giusto. Per attestato non intendiamo per forza qualche diploma, ma di sicuro accompagnare la nostra
richiesta di conversione con qualcosa che certifichi che siamo la persona giusta per quel ruolo: un
corso esperienziale fatto durante le vacanze, un certificato preso in qualche università online,
un’esperienza continuativa fatta durante il fine settimana. Nemo propheta in patria. In azienda ci
conoscono come l’addetto all’amministrazione e contabilità e adesso ci siamo messi in testa di fare i
digital marketer? Ci vuole sempre qualcun altro che trasferisca su di noi la sua autorevolezza. Allora
forse avremo qualche chance in più.
Secondo punto, come accennato: bisogna avere un piano e incastrarlo in una storia personale
(terzo requisito: lo storytelling) credibile ed emozionante. Presentarsi dal capo e chiedere di essere
spostati perché ci siamo rotti le palle dell’attuale lavoro non è bello, ma se a quell’incontro ci
andiamo con un progetto ben fatto – chi meglio di chi lavora già dentro un’azienda conosce i punti di
debolezza e forza di un’organizzazione? – una strategia piena di idee originali supportate da numeri,
ricerche scientifiche e case histories di successo, la reazione sarà certamente diversa. Se poi ci
aggiungiamo un elemento interiore, autobiografico, umano, che giustifichi la conversione, la nostra
proposta verrà compresa come una questione che va al di là del lavoro, e se dall’altra parte avremo la
fortuna di incontrare qualcuno con un’intelligenza emotiva accettabile, le chance aumenteranno
vertiginosamente.
Ricordiamoci che lo storytelling deve basarsi su elementi di autenticità: non dovremo raccontare
panzane, dovremo dire sempre la verità ma poeticamente. Leggere bei libri e far crescere la nostra
capacità di colorare i nostri racconti con aneddoti, citazioni e metafore efficaci rappresenta da
sempre un’arma di liberazione di massa.
15
Come conviene farsi pagare

Checco Zalone adesso ha un segreto


Da bravi formatori finanziari ci sembrava corretto aggiungere alcune indicazioni pratiche su come
monetizzare la nostra vocazione a seconda delle circostanze personali, siano esse di carattere
anagrafico, caratteriale o semplicemente legate all’output del Life Design che ci è uscito durante
l’attuazione dei passaggi spiegati nella seconda parte di questo libro. Per tutti vale una singola
considerazione: mai nella storia dell’umanità c’è stata una tale varietà di strumenti a disposizione di
tutti per monetizzare la propria vocazione professionale.
Una volta le strade erano due: impiegato assunto o imprenditore. Oggi invece le sfumature sono
infinite, tanto che non ha più senso dividere il mondo in queste due categorie, che puzzano tanto di
Novecento. Esistono, e li abbiamo conosciuti, impiegati statali part time che il mattino sbrigano le
faccende burocratiche dell’ufficio tributi del Comune di Conegliano Veneto e il pomeriggio
spadroneggiano in rete con il loro e-commerce, magari senza mai vedere fisicamente i prodotti che
essi stesso vendono, grazie a un sistema praticamente plug and play come Amazon FBA (Fulfilled by
Amazon). Ci sono musicisti e rapper di nicchia che racimolano qualcosa grazie ai diritti d’autore della
SIAE e che monetizzano alla grande la loro figaggine, magari poco remunerante, grazie ad agenzie di
consulenza d’immagine o di guerrilla marketing per grossi brand.
Questo scenario è incredibilmente stimolante e incredibilmente funzionale a una conversione della
nostra vita professionale che somigli sempre più all’atto di ruotare uno di quei giganteschi pomelli
del volume che campeggiavano sul pannello frontale degli impianti stereo di una volta. Lenti, dolci e
progressivi, ma inesorabili, senza la necessità di dover per forza prendere decisioni drastiche, che
tanto poi alla fine non si prendono mai.
La tematica è ovviamente, per sua natura, sfuggente e impermanente. Le cose cambiano
(soprattutto in Italia) a una velocità tale da rendere inutile qualsiasi approfondimento fiscale e legale.
Cercheremo comunque di fare una panoramica, o meglio di far passare un mood generale che agisca
da tranquillante per le persone più impanicate. Come detto più volte, questo non è un libro che incita
all’imprenditorialità indiscriminata. Anzi, piuttosto il contrario: fare gli imprenditori è per pochi, e
non è così bello come si pensa. Certo, non timbri il cartellino, ma nella tua testa qualcosa timbra e
timbrerà costantemente, sempre, anche di notte. C’è chi è disposto, o meglio pre-disposto, a pagare il
prezzo di questo bum bum, e chi invece farebbe meglio a sondare altre strade per evitare che
accadano a lui, e ai suoi cari, cose poco piacevoli. E precisiamo, non basta meditare due volte al
giorno: è proprio una questione di indole. È naturale, ed è sicuramente giusto così. Quindi qui
facciamo la prima grossa distinzione: chi vuole stare sulle spalle dei giganti e chi vuole avere gente
sulle spalle.

Dipendenti investitori
Per chi ha capito, magari dopo averci provato e aver desistito (perché una prototipazione andrebbe
sempre fatta), che la vita è già un’impresa e che per un’altra di posto non ce n’è, non ci sono grosse
novità: si firma un contratto e si lavora rispettandolo. Di sicuro, oggi, rispetto a qualche anno fa si
cambia lavoro molto più spesso, e sempre più spesso veniamo chiamati da aziende lontane dal nostro
paesello.
Uno dei trend che osserviamo più frequentemente è quello di facilitare la conversione attraverso
una fase transitoria in cui si apre una partita iva a regime forfettario e si inizia a lavorare come
consulenti esterni. Questo accade soprattutto per non rovinare il nostro personal branding su
LinkedIn. Mostrare al mondo che cambiamo azienda ogni due anni non è bellissimo. Inoltre, se si
proviene da una grossa azienda «che fa curriculum» e vogliamo cambiare vita lanciandoci in una
start-up appena lanciata e che ci ha cercati (magari di un ex collega o di un conoscente), potremmo
agire come consulenti e scrivere sul nostro profilo LinkedIn che siamo freelance.
Stessa cosa se vogliamo crearne una noi. Aspettiamo, prima di lanciare tutto in pompa magna:
freelance prima e poi, solo poi, quando abbiamo capito che il nostro è diventato un vero progetto di
vita che ha una sua concretezza, faremo coming out. Se vogliamo cambiare azienda, rimanendo
lavoratori dipendenti e orientandoci verso un progetto innovativo, possiamo anche aggiungere al
contratto di lavoro delle stock (o share) options. Se saremo bravi e raggiungeremo gli obiettivi
prefissati la proprietà ci sgancerà in automatico delle quote più o meno grandi della sua torta.
Questo ci permetterà di diventare imprenditori, o meglio investitori, in maniera graduale e senza
dover versare capitali di rischio.
Si parla di investimento in questo caso perché, finché non si hanno quote di maggioranza e/o
cariche di responsabilità esecutiva all’interno di una società, le nostre quote somiglieranno a un
investimento in borsa: non avremo potere decisionale, ma se l’azienda avrà utili e deciderà di
distribuirli noi ne percepiremo una parte. Va ricordato che aprire una partita iva e lavorare solo per
un’azienda è una pratica border line. Per i dettagli, sentite il vostro commercialista, o meglio un
consulente fiscale.
Se siete davvero connessi col tessuto valoriale dell’azienda per la quale avete scelto di lavorare,
dovreste dimostrarvi ambiziosi e richiedere che una grossa fetta della vostra retribuzione sia di
natura variabile. Di solito i dipendenti classici preferiscono avere aumenti di stipendio fissi, perché
sostanzialmente lavorano per quello e basta. Altra cosa è esigere che vengano identificati dei KPI,
cioè delle metriche direttamente connesse agli obiettivi vocazionali, e negoziare premi al loro
raggiungimento. Insomma, non l’importantissimo ma volgarissimo fatturato ma per esempio il tasso
di soddisfazione dei clienti, la quantità di fornitori etici e rigenerativi che siamo riusciti a portare in
azienda, l’impatto ambientale delle dinamiche produttive, il tasso di gratificazione miei collaboratori
e dei sottoposti eccetera. Gli imprenditori smart sanno che questi sono «i KPI dei KPI»: se si
verificano, arriva anche il giusto fatturato. Certo che se andate a lavorare da Cinico Brambilla o Ivo
Perego e vi mettete a parlare di queste cose, il tessuto valoriale rischiate di trovarvelo molto stretto
attorno alla giugulare. Quindi, meno candidature ma ben selezionate e ben preparate, come detto nel
capitolo precedente.
Altre forme ibride di remunerazione ed engagement personale potrebbero essere quelle legate al
franchising. Se siamo avanti con l’età e vogliamo cambiare marcia ma non ce la sentiamo di ripartire
da zero, c’è sempre l’opzione di connettersi a una rete esistente e aprire una nuova filiale di
un’azienda che stimiamo. Non dovremo pensare a tutto noi, e allo stesso tempo ci sarà un margine
aggiuntivo di gratificazione (finanziaria e non) se metteremo la nostra vocazione al servizio del
progetto. Vi basterà acquistare una copia del mensile Millionaire (che, nonostante il titolo un po’
cafonal, è spesso un magazine interessante) e sfogliare le ultime pagine per trovare innumerevoli
opportunità legate a questo mondo (#noad).
In generale vale questa regola: se non ve la sentite di diventare imprenditori ma volete ugualmente
far lavorare la vostra vocazione, fate in modo di avere una quota di retribuzione che sia connessa ai
risultati. Questo perché, come abbiamo visto nel passaggio 7 del metodo, nella seconda parte,
quando scopriremo di avere una reale vocazione, il problema non sarà aumentare la nostra
produttività ma imparare a staccare dal lavoro. Questo ci porterà ad avere risultati pazzeschi che, se
non vedremo giustamente remunerati, pagheremo cari in termini di frustrazione e rabbia.
Ci viene in mente la bella intervista fatta a Massimo Temporelli al nostro podcast Il BAZar
AtOMICo, in cui ci raccontò quella volta in cui, dipendente del Museo della Scienza e della Tecnica di
Milano, lanciò la sua busta paga giù dalla finestra, perché, dopo aver organizzato l’evento meglio
riuscito della storia dell’istituzione culturale, si ritrovò una busta paga persino dimagrita da cavilli
burocratico-fiscali. Non facciamo l’errore di entrare in azienda e rimandare queste cose a una fase
successiva. Agiamo sempre in anticipo, perché una volta entrati, qualsiasi tipo di negoziazione
diventa incredibilmente più difficile e macchinosa. La stessa cosa che si dicono gli imprenditori
americani da decenni – «hire slow, fire fast», ovvero «assumi con calma, licenzia in fretta», vale, per
la prima parte, anche per i dipendenti. Non dobbiamo avere fretta di iniziare a lavorare per
un’azienda solo perché siamo gasati o perché abbiamo voglia di cambiare. Proprio come quando si
sceglie una casa nuova occorre andare a visitarla più volte, di giorno e di notte, allo stesso modo per
le aziende occorre negoziare, negoziare e negoziare. Con senso della misura, ma negoziare. A costo
di sembrare stronzi. Se dall’altra parte ci vogliono veramente, si troverà la quadra.

Imprenditori fantasma
Un’altra modalità di fare impresa col c*lo degli altri è quella di diventare un imprenditore che non si
vede ma c’è. Si godono i vantaggi della sua bravura e la capacità di assumersi una certa dose di
responsabilità, senza dover rischiare denaro e avere a che fare con i commercialisti. È un fenomeno
che è sempre esistito ma che oggi è diventato parossistico.
Quando un imprenditore deve dotarsi di un team per concretizzare la sua vision, se è bravo parte
dall’alto, cioè dai top manager. A cascata questi assumeranno i collaboratori più affini al suo metodo
di lavoro. Tipicamente sempre gli stessi, proprio come faceva Fellini con Mastroianni. Il potere
negoziale dell’imprenditore fantasma è altissimo ed è ovviamente direttamente proporzionale ai
risultati ottenuti. Per diventarlo occorre fare carriera in un’azienda immaginando di essere, fin dal
primo giorno, un’azienda dentro l’azienda, ragionando come ragionerebbe un imprenditore senza
esserlo: focus sugli obiettivi, sapersi vendere, avere idee e saperle vendere e, last but not least,
prendere persone in gamba immaginando di pagarle con soldi nostri.
Operando in questo modo, gradualmente assumeremo maggiore responsabilità e costruiremo una
«bolla di fiducia» che, in caso di sopraggiunta discordanza tra vocazione e azioni da compiere, ci
potremo portare ovunque. Esistono vere e proprie «logge massoniche» che scorrono dentro le vene
di tutte le più importanti aziende italiane. Si muovono sotto traccia, si conoscono da una vita e si
spartiscono le posizioni di potere. Noi non ne facciamo parte, e infatti abbiamo dovuto farcelo, il c*lo.
All’università non abbiamo conosciuto nessuno, nei primi lavori in azienda abbiamo stretto amicizia
con personaggi improbabili: mezzi hacker, designer e fumatori di CBD ante litteram. Ancora adesso,
per obbligarci a frequentare qualche imprenditore abbiamo dovuto inventarci un podcast di
interviste. Non siamo tutti uguali, e il Life Design serve proprio a comprenderlo per agire in accordo
con le nostre più naturali inclinazioni. Non abbiamo nulla contro questi ectoplasmi, anzi, li stimiamo
molto, sono meno egomaniaci e forse si godono la vita persino più di noi.

Freelance non vuol dire lanciarsi gratis


Proseguendo con le sfumature che vanno dal classico dipendente all’imprenditore vero e proprio, è il
turno di coloro che non hanno alcun legame di lavoro subordinato con un’azienda, hanno una partita
iva ma sono sotto contratto (più o meno in esclusiva) con qualche azienda. Con la nuova era del
forfettario, questo gruppo si è popolato moltissimo. In Italia conosciamo sempre più imprenditori che
credono nelle aziende liquide, ovvero uno o due fondatori che gestiscono un universo di società
esterne e freelance. Non ci sono uffici, ci si vede solo su Zoom, ci si gestisce con app tipo Slack e al
massimo si fa un po’ di team building al mare o in montagna due o tre volte l’anno. Con la pandemia
questo trend ha accelerato, ma noi, da veterani dello smart working, crediamo che il tempo sarà
galantuomo e presto si tornerà a desiderare più interazione fisica reale con persone vere e meno
schermi a luce blu.
Non è il libro in cui parlare di questo argomento: qui occorre ricordare solo che se siamo freelance
e lavoriamo per una sola azienda, per la quale magari ci tocca rispondere ai WhatsApp alle due di
notte, ci sentiremo sicuramente fighi con gli amici perché non timbriamo il cartellino e lavoriamo in
mutande, ma a conti fatti avremo fatto un downgrade rispetto a chi ha i contributi previdenziali,
assicurazioni, ferie e malattie pagate (e quasi sempre una buonuscita e un assegno di disoccupazione
per vari mesi dopo un eventuale licenziamento). Un professionista autonomo vive forse la peggiore
delle condizioni possibili: non può scalare il suo business perché il tempo che può dedicare al lavoro
è solo il suo e non ha praticamente nessun diritto o protezione. Questa dimensione va scelta per
determinate professioni specifiche e mai per lavorare per uno o due clienti solamente, a meno che,
come abbiamo detto prima, si inserisca temporaneamente in un disegno di conversione professionale
ben progettato.
Sembrerà banale dirlo ma occorre ricordarsi che se si portavano a casa x euro da dipendenti,
quando si passa a partita iva non dovremo semplicemente farci pagare x per 2, ma almeno x per 3.
Oltre a tasse, INPS, burocrazia varia e commercialista, occorrerà farci pagare dall’azienda il lusso di
essere chiamati spot senza essere assunti nell’organico. Sarà accettabile farsi pagare meno solo se
l’esperienza lavorativa ci servirà per portare in cascina una mole significativa di know how, per
allargare il nostro networking, per dimostrare che siamo bravi e farci assumere successivamente o
perché siamo dei venditori o manager di alto livello che hanno una quota di remunerazione variabile
piuttosto importante.

I micropreneurs spesso ce l’hanno troppo piccolo


La moda del momento è quella di definirsi microimprenditori. La retorica markettara degli influencer
ci bombarda ovunque e tenta di convincerci che oggi basta un’idea e un laptop per «svoltare» e
vivere nell’abbondanza picchiettando tasti da Bali. La verità è un’altra.
Chiunque si sia occupato seriamente di business digitale, sa che da soli non si fa nulla, o quasi.
Attenzione, si può e si deve fare tutto da soli all’inizio, se si vuole lanciare un nuovo brand, ma fin da
subito va stilato un organigramma aziendale, anche se poi si metterà il nostro nome dappertutto,
perché bisogna partire col giusto assetto mentale per addestrare la mente alla crescita e per evitare
la trappola del perfezionismo.
Noi, quando siamo partiti, facevamo persino il supporto clienti di Moneysurfers, ma eravamo
davvero biondissimi nelle fantastiche foto stock che ci siamo scelti come avatar e ci facevamo
chiamare Linda e Penelope. Dopo questa fase, appena abbiamo potuto ci siamo dotati di freelance
stranieri su piattaforme come Upwork e abbiamo coinvolto alcuni nostri corsisti, pagandoli, per darci
una mano. Lo ripetiamo: pagandoli, perché tanti che fanno il nostro mestiere tendono a sfruttare il
lavoro degli «adepti» condendo la cosa come «formazione». Noi invece abbiamo sempre pagato tutti,
e tutti devono esigere di essere pagati, anche gli stagisti, a meno che non ci sia un vero scambio
formativo e a tempo molto limitato.
Le modalità più comuni attraverso le quali si diventa microimprenditori sono le seguenti.
La prima è l’affiliazione, ovvero la vendita di prodotti online per conto di terzi. È un modello che
andava molto negli anni Dieci del Duemila. Funzionicchia ancora, ma la concorrenza è diventata
spietata e il modello di business è molto impegnativo. A meno che non si vendano prodotti spazzatura
tipo cremine per aumentare la virilità dei maschi et similia, le commissioni sono bassissime e per
farci uno stipendio occorre essere dei maghi del digital marketing. Davvero uno spreco a quel punto
vendere robe di altri: tanto vale usare questo know how per incidere davvero nel mondo e
guadagnare di più creando un progetto tutto nostro. Noi abbiamo fatto vari test – guardatevi il video
su YouTube dove Davide fa un unboxing di occhiali speciali che proteggono dalle luci blu dei display –
e, pur avendo una community di decine di migliaia di persone molto affezionate, abbiamo tirato su
poche centinaia di euro in sei mesi.
Definire micropreneur qualcuno che fa affiliazione, o peggio ancora network marketing, in realtà è
scorretto. Un imprenditore oggi è colui che ha un brand suo: quando vendiamo brand di altri, siamo
dei venditori. Stop. Queste modalità sono scorciatoie che possono andare bene per una persona
giovane che vuole tirare su qualche soldino per poi partire con cose più serie. Anche Davide da
pischello si è messo a fare affiliazione di prodotti per sbiancare i denti. Enrico lo faceva per i broker
di trading sul forex quando gestiva la community Forexometro. Sono ottime palestre che devono
rimanere tali.
Alla lunga nessuna persona seria si mette a fare solo quello nella vita: spesso sono i più fragili a
rimanere imbrigliati in brutte paludi psicologiche. Ne abbiamo conosciute di persone, magari under
25, che, dopo essersi abituate a guadagnare in automatico 10.000 euro al mese per qualche mese
spargendo ovunque link di vendita di pillole per culturisti (fatte solo con caffeina), una volta che
Google ha fatto pulizia sono tornate a fare i lavapiatti. Devastante. Mesi buttati via che potevano
essere dedicati alla creazione di un vero brand: un’attività sicuramente più impegnativa all’inizio, ma
che se fatta bene funziona proprio come un investimento, perché più passa il tempo più il suo valore
cresce.
La seconda modalità è Amazon FBA. L’apertura di un account Amazon per vendere dei prodotti è
una cosa decisamente più seria e scalabile. Esistono persino brand di aziende multinazionali che sono
nati solo su Amazon, come Anker (accessori tecnologici) o Tuft & Needle (materassi). Rispetto a
qualche anno fa, com’è ovvio che sia, le cose si sono fatte leggermente più complesse, ma ci sono
ancora ottime opportunità per chi vuole provare l’ebbrezza di diventare un vero imprenditore senza
doversi sbattere troppo a fare marketing o gestire magazzini.
A differenza di chi fa affiliazione, chi vende su Amazon avrà dei fornitori e dovrà curare il
packaging e il branding dei propri prodotti. Non ci saranno kit da scaricare e copia-incollare, tutto il
copywriting (i testi che raccontano e vendono il prodotto) e le immagini dovranno essere create da
zero e, anno dopo anno, la qualità salirà. La cosa spettacolare e impagabile di Amazon per venditori è
che, se si impara a farlo, è possibile capire, prima di partire, quanta e quale concorrenza avremo.
Potremo studiare i nostri competitor nei minimi dettagli e persino vedere se esiste un gap tra
domanda e offerta e quindi un «buco» dove infilarci e vendere fin da subito, senza spendere soldi per
campagne pubblicitarie. Mentre qualche anno fa bastava posizionarsi laddove c’era questo gap e
lasciar lavorare il sito per noi, oggi occorre avere un’idea davvero innovativa ed essere molto rigorosi
sulla qualità e il posizionamento dei nostri prodotti. Amazon non vuole diventare un «supermercato a
1 euro», e giustamente premia chi fa le cose con vocazione.
Poi c’è tutta l’area dei digital content creator, i cosiddetti «influencer», che da sempre odiano
essere definiti tali e che quindi si inventano job description più «linkedinabili». Youtuber, Instagram
star, tiktoker e compagnia bella sono le nuove rock star. In questo libro preferiamo astenerci da
qualsiasi giudizio morale, antropologico e sociale su queste figure professionali; pensiamo sia
corretto però chiarire alcuni punti strettamente legati al Life Design e alla monetizzazione. Per vivere
decentemente facendo solo questo, occorrono numeri davvero enormi. Persino i più noti si inventano
continuamente nuove aziende e modalità di monetizzazione alternativa, perché i soli introiti derivanti
da product placement e advertising di YouTube non bastano, a meno che non si abbia qualcosa di
davvero potente e al contempo «potabile» dal mercato internazionale.
Il problema è che se fate i digital content creator, di content ne dovete fare davvero tanti. Siete
come una televisione, e la televisione non si ferma mai. Di conseguenza, il tempo per gestire
un’azienda diventa davvero poco, e le «aziende automatiche» – ci dispiace darvi questa brutta notizia
– non sono mai esistite e mai esisteranno. Ergo, la maggior parte delle web star, dati alla mano,
floppa e continua ad aprire e chiudere progetti abbozzati, un po’ come hanno sempre fatto i calciatori
con i bar, i locali notturni o i brand di abbigliamento.
Chi ottiene risultati è chi ha dimostrato di avere una cultura finanziaria solida e la capacità di
saper organizzare la propria vita in maniera scientifica, sapendo delegare alle persone giuste,
misurando le cose giuste da misurare e applicando strategie consapevoli. Noi in Moneysurfers non
abbiamo mai avuto un canale YouTube attivo per anni, eppure siamo riusciti ugualmente ad avere
fatturati milionari. Una volta costruita una struttura organizzativa, ci siamo concentrati
maggiormente sui contenuti digitali per espandere la nostra notorietà digitale. Oggi stiamo cercando
di lasciare spazio ad altre persone persino su questo fronte, perché crediamo che un’azienda vera
non debba dipendere da persone singole, altrimenti è un gigantesco ufficio stampa che non crea
valore e non potrà mai incidere positivamente sulle persone e sul pianeta per generazioni.
Qualsiasi sia la strada che decideremo di percorrere, dobbiamo sapere fin da subito che non
potremo mai durare più di qualche anno facendo tutto da soli. Subentreranno burn out ed
esaurimenti vari, i nostri progetti naufragheranno miseramente e dovremo tornare a fare lavori
orribili per campare. Per questo è importante ripetere ciclicamente «un giro» di Life Design, per
tenere sotto controllo la situazione. Ciò che poteva sembrarci il paradiso può, col tempo, trasformarsi
nel trappolone dei trappoloni. Ragionare con la nostra testa, e soprattutto col nostro cuore, ci
permetterà di essere più permeabili alle influenze mediatico-sociali che ci spingono verso carriere
apparentemente desiderabili ma in realtà totalmente disarmoniche rispetto a quello che siamo
veramente.

Strategie di internalizzazione minimaliste


Nonostante i tanti passi avanti fatti negli ultimi anni, l’Italia non è il migliore dei Paesi per tentare
una conversione professionale. Senza perdersi in lunghe disquisizioni fiscali, è evidente che esistono
lidi migliori dove prototipare e testare idee, senza per esempio dover pagare in anticipo una frazione
delle tasse dell’anno successivo (!). Entrambi abbiamo viaggiato dove venivamo trattati meglio, e,
anche se le cose sono cambiate tantissimo, ancora oggi si può immaginare di includere nella nostra
strategia di conversione una relocation che ci porti nella nazione giusta per noi.
Parliamo di relocation perché, al contrario di quanto avveniva in passato, oggi per poter aprire
business all’estero occorre andarci a vivere veramente, all’estero, per almeno 180 giorni +1 all’anno.
Esistono Paesi, anche in Europa, dove fino a 100.000 euro di fatturato annuo non serve nemmeno
avere una partita iva, oppure luoghi dove le tasse per i redditi prodotti all’estero, quindi all’infuori
del Paese stesso, sono totalmente esentasse. In Svizzera, per esempio, dove ci rechiamo ogni giorno,
gli introiti derivanti da business legati alla formazione sono esenti da IVA.
Oltre alle mere percentuali legate all’imposizione fiscale, esistono posti dove gli adempimenti
burocratici sono pressoché nulli e dove lo Stato è un alleato, e quando vi contatta non lo fa solo per
punirvi o vessarvi ma per fornirvi strumenti finanziari e formativi per aiutarvi a produrre valore con
più fluidità. Gestire in maniera intelligente la questione territoriale dei nostri progetti è visto da molti
snob come un tentativo di fare i furbi e aggirare le regole. La realtà è che, se si seguono le regole,
l’ottimizzazione burocratico-fiscale dei nostri nuovi progetti fa quasi sempre la differenza tra un
progetto che dura nel tempo e uno che naufraga in fretta.
Se all’inizio non fossimo stati flessibili e curiosi, oggi non ci sarebbero le nostre imprese. Esistono
ottimi Paesi per avviare un business, altri che sono indicati per farlo maturare e altri ancora dove si
possono gestire quelli che si sono trasformati da business a investimenti. Gli Stati, e persino i singoli
Stati dentro gli Stati – vedi gli Stati Uniti o i cantoni svizzeri –, si fanno concorrenza tra di loro e si
posizionano sul mercato fiscale proprio come fanno le aziende. In Svizzera ci sono ottimi cantoni per
startupper e altri invece perfetti per gli artisti o gli sportivi, mentre altri ancora sono ottimizzati per i
manager. La gente in gamba si muove continuamente, persino quando ci sono da spostare intere
multinazionali, come Elon Musk che saluta la California e sbarca in Texas in fuga da tasse e cavilli
legali.
Anche in questo caso la dipendenza dalla pastasciutta di mammà potrà costarci caro.

L’osso senza muscolo si spezza


Un concetto aleggia in tutto il capitolo, e se non lo avete ancora capito, è questo: qualsiasi sia
l’output del vostro Life Design, il vostro alleato indispensabile non può che essere la cultura
finanziaria. Anche se scoprirete di voler fare i casalinghi a vita, la vostra indipendenza, oggi, non può
che passare attraverso una solida base di cultura del soldo: il volgarissimo e truce soldo. Non ci sono
più gli Stati che provvedono alla vostra malattia o vecchiaia, le tutele sindacali onnipervasive e
persino i tribunali che, in caso di divorzio, distribuiscono assegni di mantenimento a vita a destra e a
manca.
L’individuo deve sapere badare alla propria sopravvivenza, figuriamoci dunque all’impresa o alla
carriera. E come abbiamo visto, qualsiasi carriera, oggi, è un’impresa. Saper intraprendere deve far
parte della cultura generale, proprio come l’alimentazione, l’educazione civica e morale e la cura
della forma fisica. Se si vuole vivere una vita piacevole e gratificante, occorre sporcarsi le mani e
sapere almeno le basi di business modeling, finanza, branding, marketing, ottimizzazione fiscale e
corporate happiness.
Che palle? Ma perché, fare le flessioni o gli squat è in sé piacevole? No, ma lo si fa lo stesso per
rinforzare il corpo, rendersi più gradevoli esteticamente e per godersi le endorfine che arrivano
dopo. Stessa cosa con la cultura finanziaria: è la palestra del nostro Life Design, il muscolo che serve
a sostenere i nostri progetti affinché non si affloscino subito dopo le prime prototipazioni. La cosa
che stiamo osservando tutti noi addetti ai lavori è che negli ultimissimi anni i ragazzi questa cosa
l’hanno capita istintivamente. Basta guardare l’esplosione degli influencer finanziari imberbi che
spopolano sul web, le iscrizioni ai broker di trading che dopo la pandemia sono esplosi in tutto il
mondo, il fenomeno del social trading e i numeri che fanno progetti italianissimi come Starting
Finance.
Oggi non esiste nemmeno un musicista trap degno di questo nome che non sappia usare le armi
giuste per promuoversi e monetizzare il proprio lavoro. Sono i vecchietti come noi che fanno fatica a
capirlo: essere etici e vocazionali non vuol dire disinteressarsi del denaro, ma al contrario significa
averne un rispetto enorme, proprio perché strumento indispensabile per concretizzare i nostri valori.
Essere etici e vocazionali non vuol dire per forza salvare il mondo o dare tutto in beneficenza (a parte
che per dare in beneficenza in maniera continuativa bisogna guadagnare o raccogliere fondi in
maniera continuativa, no?)
Fare Life Design e basta, senza aggiungere un corollario di business, rischia di diventare un bel
passatempo, un gioco di ruolo da fare con gli amici o peggio ancora un semplice contentino del tipo:
ecco, adesso so cosa sono veramente ma non posso esserlo fino in fondo perché non ho
soldi/età/possibilità fisiche per fare il passo. La cultura di business è liberatoria proprio perché ci
permette di trovare soluzione a problemi che credevamo insormontabili, un po’ come quando ci si
perde in mezzo a un bosco, e arrampicarsi su un albero permette di vedere le cose dall’alto e
scoprire di essere molto più vicini all’uscita di quanto si pensi.
16
L’azienda karmica

C’è chi manifesta per strada e chi rende manifesto il cambiamento


La vera rivoluzione che stiamo vivendo in questi anni è la transizione da una società fondata su ideali
a una che cresce grazie alle idee. L’atto più politico che si possa fare oggi non è protestare sotto le
mura di Montecitorio, ma occuparsi, o meglio, essere occupati ogni giorno dalla nostra vocazione. Si
chiede coerenza ai politici ma i primi a essere qualche cosa e fare tutt’altro siamo proprio noi.
Abbiamo concluso il capitolo precedente con l’immagine di un albero alto e solido sopra il quale
arrampicarsi per allargare le nostre vedute. Questo albero per noi si chiama azienda karmica e
rappresenta il modello che abbiamo ingegnerizzato per far fiorire il nostro Life Design e renderlo
strumento di purificazione per tutta la società (vedi Figura 7 a pagina 253). Ripetiamo per l’ultima
volta che non tutti devono per forza diventare imprenditori, ma tutti devono imparare a ragionare e
agire come tali. Azienda deriva dallo spagnolo hacienda, che a sua volta deriva dal latino facienda,
ovvero «cose da fare». Indipendentemente dal fatto che apriremo una srl o meno, quindi, è solo
partendo dalle nostre radici, dal nostro Sé più profondo, che possiamo ambire a rendere ’sto
mondaccio un luogo migliore dove vivere.
Sembra una frase da parodia in stile Corrado Guzzanti, ma in realtà sono i numeri a dircelo: come
si può vedere nel grafico riportato qui sotto, le aziende fondate sul rispetto dei valori e che
addirittura possono essere etichettate come «affettuose» guadagnano dieci volte più delle altre.
Negli ultimi anni la Borsa è salita ma le aziende che si sono impegnate maggiormente nell’economia
delle energie pulite sono letteralmente esplose: dal secolo dei movimenti politici siamo passati al
secolo dell’azione diretta. Non a caso abbiamo definito le nostre aziende perfette «aziende
karmiche»: karma in sanscrito vuol dire proprio «azione», e se la nostra cultura in merito a tale
termine si limita al noto brano sanremese che ha vinto l’edizione del 2017, possiamo, non meno
volgarmente, riassumere qui alcuni concetti che possono aiutarci a comprenderlo meglio.
6. Le performance delle aziende «affettuose» dal 1998 al 2013 (fonte: Rajendra Sisodia, Jagdish Sheth e David
Wolfe, Firms of Endearment: How World-Class Companies Profit from Passion and Purpose, Pearson Education,
Londra 2014).

1. Esiste un’energia universale alla quale conviene accordarsi, altrimenti sono cazzi amari, per noi
e per l’umanità intera.
2. Il caso non esiste, è solo una parola che usiamo per giustificare la nostra ignoranza.
3. Ad azione corrisponde (in maniere sempre diverse e spesso imprevedibili) una precisa reazione:
raccogli ciò che semini.
4. Ciò che sono oggi va bene, non è colpa dei politici o degli immigrati, ma è il risultato di quello
che ho fatto in passato.
5. Il mio futuro è (quasi) solo in mano mia, e dipende da come agisco nel mio presente.

Si tratta di un termine molto caro ai buddisti, ma esiste in tutte le culture che si fondano su quella
che possiamo definire etica della reciprocità: «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi
fatelo a loro» (Luca 6:31). Attenzione, quello che avete in mano non è uno di quei libri dove sembra
tutto bello e serio ma alla fine parte il pippozzo new age che punta a farvi iscrivere a una setta. Se
tiriamo in mezzo questi concetti è perché persino il CEO di BlackRock, la più grande società
d’investimento del mondo, a un certo punto, nel 2019, nella sua tradizionale lettera annuale scrive:
«Ogni azienda non deve solo creare risultati finanziari, ma anche mostrare un contributo positivo
sulla società. Senza una vocazione e uno scopo più alto del mero profitto, nessuna azienda, pubblica
o privata, può raggiungere il suo pieno potenziale».
E stiamo parlando di uno che deve portare a casa risultati monetari ogni giorno, non del Papa o del
Dalai Lama. Oggi, per come è fatto il mondo, chi performa finanziariamente è chi ha un impatto
positivo sul pianeta e, aggiungiamo noi, su se stesso. Il passaggio in più che vogliamo sottolineare è
proprio questo: le aziende che attraggono più denaro sono le aziende che hanno un alto profilo etico;
le aziende che hanno un alto profilo etico sono le aziende che si dotano di un team di persone unite
da un profilo valoriale comune ed evolutivo; e le persone che hanno dei valori sono, banalmente,
quelle che hanno studiato se stesse e hanno fatto un percorso di autoanalisi, altresì chiamato Life
Design.
Per essere sicuri che questo percorso di ricerca interiore funzioni, come abbiamo visto, serve
connettersi alla nostra parte più pura e profonda. Per agire nel macrocosmo, dunque, non serve
andare lontano, basta levare le erbacce e nutrire le radici del nostro albero.

Non si annaffia un albero sulle foglie


Le persone che vogliono migliorare le loro performance professionali spesso investono denaro in
corsi di management, marketing o, peggio ancora, cadono nel tranello di quei guru che insegnano a
piratare qualche algoritmo su una qualche nuovissima piattaforma social o che gonfiano le loro sales
pages con espressioni alla moda tipo funnel marketing o growth hacking. Tutte cose utilissime, anzi
indispensabili, ma gerarchicamente inferiori rispetto alla questione interiore.
7. L’albero dell’azienda karmica.

La bomba atomica sposta masse enormi di energia generando reazioni a catena che partono
dall’infinitamente piccolo. Per questo è da lì che bisogna partire, e successivamente accordare tutto il
resto a quella scintilla iniziale. Fare un corso di vendite senza sapere chi siamo è come montare una
carrozzeria della Lamborghini sul motore di una Smart. Un sano e profittevole percorso di crescita
professionale deve dunque partire dalla nostra parte interiore, ma non può e non deve finire lì: «Non
importa quale sia il nostro sogno, ci basterà pensarlo intensamente e tutto andrà come vogliamo noi.
E se non ce la fate da soli, per soli 2.475 euro ve lo riprogrammo io il cervello, in due giorni, al
Palacongressi di Rimini».
Sono cose lette e rilette, agghiaccianti, ridicolmente mostruose. Ci spiace deludervi, ma il mondo
là fuori tendenzialmente se ne fotte di noi. Quasi sempre siamo noi a doverci accordare a lui e ai suoi
gravity problems. La visione egomaniaca dei nuovi «maghi Otelma» è altrettanto pericolosa, perché
incita all’indolenza, all’isolamento e alla dissociazione dalla realtà. Ci vuole ordine e metodo. Se
immaginiamo la nostra parte inconscia come un terreno, attraverso la meditazione e la pratica
spirituale contribuiamo alla sua fertilità. Da questo terreno, attraverso il Life Design, semineremo e
favoriremo la nascita dei germogli, cioè le idee da prototipare, la loro materializzazione e le ipotesi di
futuro.
Come in natura, più semi getteremo e più probabilità avremo di avere un buon raccolto, più le
radici del nostro germoglio saranno profonde e più alte saranno le probabilità che da esso nasca una
pianta sana e robusta. Abbiamo compiuto un atto davvero magico adesso: abbiamo materializzato e
portato fuori dal nostro inconscio qualcosa che si vede, che c’è.
Oggi però c’è chi i germogli se li mangia: sono molto nutrienti, sono piante «in potenza», e come
tutte le cose che non hanno proseguito il loro percorso di crescita sono e rimangono meravigliosi, ma
per poco. Basta una gelata o un temporale improvviso per spazzarli via. Se non ci dedicheremo, con
pazienza, alla costruzione di un tronco solido, non avremo frutti, per noi e per il mondo. Il germoglio
che esce dal nostro Life Design, tecnicamente, non è ancora la certificazione della nostra vocazione
professionale. Siamo a buon punto, ma solo a valle del successo del processo di testing potremo
avere le idee più chiare.
Ricordiamoci che la vocazione professionale per essere tale deve servire a qualcuno, e questo
qualcuno deve essere disposto a pagare, o a donarci dei soldi, per avere i frutti del nostro albero.

Model is the king


Il mezzo migliore per studiare la remunerabilità di un progetto di vita è il business model, ovvero
l’ingegnerizzazione e la combinazione di questi elementi:

Partners chiave.
Attività chiave.
Risorse chiave.
Struttura dei costi.
Valore che daremo ai nostri clienti (e che ci distingue dai nostri competitor).
Canali che utilizzeremo per farglielo arrivare.
Chi sono i nostri clienti.
Come entreremo e come manterremo viva la relazione con i clienti.
Come tecnicamente ci faremo pagare.

Fare un business model è come fare una pozione magica; servono i giusti ingredienti nelle giuste
dosi. Non è detto che se funziona sulla carta funzionerà nel mondo reale, e non è detto che duri per
sempre, ma va fatto e testato. L’importante è considerarlo la nostra Bibbia, senza innamorarsene
troppo.
Basti pensare che Instagram è nato come evoluzione di un’app che si chiamava Burbn
(abbreviazione di Bourbon, il whisky americano, una delle passioni del suo fondatore, Kevin Systrom)
e che serviva più o meno a far sapere al mondo, attraverso la geolocalizzazione, in che posti si
andava a bere (!!!). Ora su Instagram nascono persino testate giornalistiche digitali che utilizzano le
stories per raccontare il mondo in maniera indipendente e alternativa. Il bello del business model è
che ci aiuta a ridimensionare il nostro ego e a concentrarci sul valore che diamo agli altri. Non basta
compilarlo, ma occorre saperlo usare, dialogando con qualcuno che lavorerà con noi al progetto e
sicuramente guidati da qualcuno che ci stimoli a ragionare e immaginare scenari che attualmente
non riusciamo nemmeno a immaginare.
Capito, aspiranti solopreneurs?

Senza questo cruscotto rimani a piedi


Dopo di che arrivano i numeri, i rami del nostro albero. Abbiamo un business model che ci piace, lo
testiamo, ma per capire se il nostro test è andato bene o meno non basterà vedere quanti soldi
incassiamo o ci rimangono a fine mese nel conto corrente. Esistono metriche ben più evolute per
capire se siamo sulla strada giusta. Tesla è arrivata a essere la casa automobilistica che vale di più
della storia prima ancora di fare utili.
In base al nostro business model ci saranno valori diversi da tenere sotto controllo. Qualsiasi
azienda che non si doti di un cruscotto che li misuri è destinata, presto o tardi, a rimanere a piedi.
Per sostenere le spese successive, quelle di marketing, branding e di assunzione di un team di
qualità, occorre capire quanto possiamo permetterci di spendere in base a quanto ci discostiamo dai
nostri obiettivi finanziari. Ancora un volta, state lontani da chi parte dal marketing, perché sta
facendo di tutto per impressionare la vostra parte più ignorante, quella che pensa che se avrete tanti
clienti sicuramente diventerete ricchi. Ricordiamoci le gerarchie, i pesi e gli equilibri. Senza rami
solidi (ergo budget a sufficienza), anche se impareremo le tecniche più evolute di branding e
seduzione psicologica, non avremo gli strumenti per poterle applicare consapevolmente al nostro
progetto.
Lo sappiamo che non è sexy, ma qui stiamo cercando di costruire uno stabile rapporto amoroso e
una famiglia, qualcosa che ci nutra mentre lo nutriamo, non una serie di «one night stand a
pagamento» che creano dipendenza e finiscono per dissipare tutti i nostri risparmi. In questa fase
identifichiamo i key performance indicators che dobbiamo tenere sotto controllo costantemente
(magari con una bella app sul nostro cellulare che si autoalimenta in maniera completamente
automatica pescando dati dai nostri file e dai nostri e-commerce), decidiamo come (e dove)
organizzarci per ottimizzare il carico fiscale e infine iniziamo a redigere il famigerato business plan
per capire quanto e quando saremo performanti finanziariamente e quindi, magari, diventare «un
oggetto interessante» per chi vorrà investire nella nostra idea.
Sulla parte fiscale, siamo certi, un certo livello di sensualità più accettabile lo abbiamo toccato. È
qui infatti che si studia se, in base alla nostra idea, ci converrà trasferirci a Dubai o meno. Ma non
solo, qui capiremo anche se c’è spazio per alleggerire il nostro carico fiscale attraverso un’infinità di
strumenti disponibili anche rimanendo nel nostro Paese: creazione di società holding, utilizzo di
patent box, agevolazioni fiscali varie, regimi forfettari e così via. Ragionare dicendo «prima inizio a
fare, poi se arriveranno gli utili vedremo come ottimizzare il carico fiscale» è spesso la causa del
fallimento di tanti bravi imprenditori. Quei ragionamenti vanno fatti prima, va dedicato molto tempo
e attenzione. Quindi, farsi aiutare da professionisti esperti, pagarli il giusto e mai fidarsi solo del
commercialista, che in quanto tale fa un altro lavoro.

Let’s party!
È giunto finalmente il momento di farsi belli per uscire allo scoperto. La chioma, le foglie e i fiori del
nostro albero sono il modo che abbiamo di renderci gradevoli all’esterno. Il branding e il marketing
sono indispensabili, persino per i manager e gli imprenditori fantasma. Proprio mentre scrivevamo ci
è arrivata la candidatura di una persona che sarebbe interessata a lavorare con noi, che ha un sito a
nome suo. Non un account social, proprio un sito. Forse suona un po’ megalomane, ma di sicuro ci fa
capire quanto conti oggi essere capaci di narrare e narrarsi indipendentemente dal fatto che si voglia
costituire una società o meno.
Gli strumenti di crescita (growth) di una vera azienda karmica però sono totalmente diversi da
quelli di un’azienda normale. Il marketing non è teso a ingigantire la qualità dei nostri prodotti, e il
branding non sarà uno strumento atto a creare distanza tra noi e i nostri clienti. A dettare le regole è
sempre e comunque la base valoriale di partenza. Il tone of voice della mia comunicazione persuasiva
e le tecniche di vendita dovranno fare i conti con i messaggi che l’azienda vuole veicolare e l’idea del
mondo che vuole trasmettere. Non si può dire che siamo nati per mettere al centro le persone
comuni e poi vendere i loro dati a soggetti terzi che a sua volta li rivenderanno al miglior offerente
per manipolare le opinioni delle masse (qualsiasi riferimento a Facebook non è assolutamente
casuale).
La coerenza è il faro. A volte può far male, e quasi sempre usare i mezzi di una volta ci porterà a
monetizzare più velocemente, ma come abbiamo visto le bugie hanno le gambe corte. Un’azienda
karmica non vende mai i suoi prodotti bensì l’universo di significati e missioni sulla quale è fondata.
Il prodotto è una piacevole scocciatura. I consumatori sono sempre più abituati a questo modello, e
chi non l’ha ancora capito e continua a vendersi come si vendevano una volta le melanzane al
mercato sotto casa finisce per fallire senza capire il perché.
Dire che siamo «i migliori in…» oppure «la tua scelta nel…» è Medioevo puro. Oggi, quando si
compra qualcosa, si cercano recensioni, si studiano i video su YouTube, i post sui gruppi Facebook, e
solo alla fine si legge quello che c’è scritto sul sito del produttore o erogatore di servizi. Il focus
dev’essere la relazione con la nostra fanbase. Niente conta più di questo, dopo la nostra vocazione
professionale.
Una relazione diretta, non mediata e totalmente autentica. Proprio come quando si va dall’analista:
se dite delle balle, state buttando via soldi. Le aziende che spaccano oggi sanno raccontarsi e non
escludono dalla narrazione nemmeno gli epic fails, i clienti devono sentirsi parte dell’universo
dell’azienda, non semplici supporter. Raccontare i retroscena, le crisi e gli errori, assieme ai successi,
aiuta a creare empatia, il vero key performance indicator del marketing e del branding. Non c’è
spazio per chi è timido. Quando si sta in vocazione non si è mai timidi. La vocazione è questione di
vita o di morte: se stiamo per essere schiacciati da un TIR, grideremo forte per farci sentire.
Se non riusciamo a raccontarci, a mettere il nostro bel faccione davanti a tutto e tutti, vuol dire
che dobbiamo rifare il nostro Life Design. Davide, quando è partito con i progetti di formazione
finanziaria, si faceva chiamare Davide Franceschini. Lavorava ancora presso alcune testate
giornalistiche importanti, voleva preservare il suo lavoro «ufficiale» e, in parte, si vergognava di fare
il trader. Solo dopo un percorso di tre anni di psicanalisi (psicosintesi) e di Life Design, siamo arrivati
a creare un progetto che includesse tutta la nostra vision, e che diventasse un progetto in cui fosse
naturale metterci la faccia e tanto altro.
Attraverso questo processo siamo passati da 300.000 euro di fatturato a 3,5 milioni, con margini
del 25 per cento. Senza nessun magheggio di marketing o trucchetto di funneling, solo essendo noi
stessi fino in fondo e includendo tutte le nostre subpersonalità in quello che facevamo. Anche quelle
che meno spontaneamente tendiamo a includere, e che sono proprio quelle dove «ci stanno i suordi».
In questa fase ci doteremo del team che dovrà gestire le cose. Inutile sottolineare che nell’azienda
karmica la gerarchia delle abilità ricercate vede in cima quelle «morbide», le soft skills. Per quelle
«dure» ci sarà tempo dopo, e poi al giorno d’oggi cambiano praticamente ogni semestre.
Non dobbiamo farci intimorire dal dover mantenere chissà quante famiglie, ci sono tanti modi di
collaborare con le persone. In Italia quello che conviene meno è sicuramente assumerle. Per questo
fioccano le fantomatiche «aziende liquide», dove ci sono i soci e una galassia di partite iva. Noi
preferiamo quelle «solide», e per questo siamo professionalmente espatriati. Le competenze umane
sono sempre più cruciali per mantenere integro e motivato un gruppo. Le aziende karmiche si dotano
di «corporate happiness manager», i professionisti bravi sono pochi e le aziende che spaccano sono
quelle che sanno trovarli e convincerli a entrare e soprattutto a rimanere.
Vuoi per il cambio epocale dovuto ai vari redditi di cittadinanza, vuoi perché è cambiata proprio la
società, oggi quelli che hanno paura di perdere il posto di lavoro sono tendenzialmente quelli poco
validi. Quelli bravi, oggi, sono inoltre costantemente tentati dalle aziende di cacciatori di teste. Non
appena un professionista di qualità entra in azienda, esse iniziano a tentarlo con nuove opportunità
grazie alle quali entrambi (la società di head hunting e il manager) potranno guadagnare di più.
La tematica umana è, dunque, centrale. L’unica regola è che non ci sono regole di Reed Hastings la
spiega brutalmente bene. Il riassunto è più o meno questo: se per te una risorsa è davvero valida,
lascia che sia lei a decidere quanto meriti di essere pagata e come vuole lavorare. Se le sue richieste
non sono alla tua portata i casi sono due: o non hai abbastanza budget per potertela permettere
oppure non credi abbastanza in lei. Non è solo una questione di soldi, ovviamente, anzi in realtà,
come abbiamo visto, lo è sempre meno. Diciamo che in Italia ci si divide in due: chi non riesce a stare
senza la pastasciutta di mammà e quindi campa coi redditi di base (o peggio ancora traveste il suo
pastasciuttismo camuffandolo da modernità smartworkettara), e chi sceglie di vivere, incontrando le
persone, viaggiando, facendo esperienze e uscendo dalla propria zona di comfort trafilata al bronzo.
Va detto che la corporate happiness non è rendere felici i nostri dipendenti con premietti o
pagliacciate di team building ogni semestre, e nemmeno dar loro sempre ragione. Una tendenza che
abbiamo notato e che sta diventando parecchio problematica è l’infighettamento dei millennials, che
spesso si rifiutano di fare cose che vengono loro richieste perché «non sono in linea con la loro
identità». Essere coerenti con la propria vocazione non significa fare sempre e solo le cose che ci
vengono facili. Se così fosse non ci sarebbe crescita. Bisogna stare attenti a gestirsi e a gestire le
persone, mantenendo un delicato equilibrio tra queste sfumature psicologiche.
L’atteggiamento giusto in questo caso è molto poco tipico della nostra cultura: si tratta della
trasparenza comunicativa radicale, insegnata da Ray Dalio, il più grande trader e investitore di tutti i
tempi nonché testimonial della Meditazione Trascendentale. Vuol dire dirsi tutto in faccia, anche
brutalmente. Vuol dire registrare tutte le riunioni, senza muri e senza segreti, per nessuno. Voi
direte: roba da americani. Certo, ma poi non lamentiamoci se ci colonizzano, a noi, così bravi a
tramare.
Come ci ha detto il gestore dell’Himalayan Trout House che abbiamo conosciuto in un viaggio in
India tanti anni fa: «Voi italiani siete bravi a stringere mani nel torbido».

All you need is


Una volta che tutto è messo in fila nella maniera giusta, non c’è motivo per cui l’azienda non debba
produrre frutti. A questo punto del viaggio, se abbiamo seguito tutti i passaggi e siamo stati coerenti
con le nostre radici e continuiamo a mantenere il nostro terreno interiore pulito, accadrà una cosa
molto sexy: i frutti saranno abbondanti, succosi e spunteranno naturalmente, senza nemmeno il
bisogno di lavorare. E come accade in natura, essi cadranno a terra, nutriranno il nostro terreno e
fungeranno da nutrimento per gli altri.
Gli alberi non faticano, anzi, a dirla tutta manco si muovono. Stanno fermi ma non oziano, si fanno
tramite di qualcosa di più grande e misterioso di loro, come un eremita in meditazione, sempre
connessi e allo stesso tempo propagatori della fibra ottica più veloce e stabile che esista: l’amore.
APPENDICE
Esercizi

Digita http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi, e sarai indirizzato alla pagina dove potrai scaricare gli esercizi.
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di Davide Francesco Sada, Enrico Garzotto
Proprietà Letteraria Riservata
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788892741072

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