Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Copertina
L’immagine
Il libro
Gli autori
Frontespizio
Premessa
Introduzione. Lo yoga finanziario
L’amore e i soldi funzionano alla stessa maniera
I tre livelli della ricchezza
Sacra vocazione laica
Non serve nessun tappetino
Parte prima. La tesi
1. Lavorare accorcia la vita
Chist è neorealismo, uagliò!
Keep calm and abracadabra
50 sfumature di masochismo
Ma quindi i ministri sono i nostri servi?
Business is the new rock’n’roll
Che classe la rivoluzione senza classi
L’uomo nobilita il lavoro
Mangiare bio nei piatti di piombo
I millennials tendenzialmente se ne fregano
Non lavorare è il nuovo Sacro Graal
Bono Vox al call center
Non lavorare non significa cazzeggiare, o meglio, in parte sì
Occorre saper fare bene anche il «farniente»
Ritmo cognitivo is the answer
2. La fine dell’era del lavoro
La migliore delle (peggiori) ere possibili
Niente è come sembra
Vivere morendo o morire vivendo?
No pain no gain (ma non per tutti)
Non siamo all’oratorio ma somiglia
Divaricazioni, polarizzazioni, speciazioni
Criticare o surfare?
Sesso, zuppe e digital marketing
No patentino, no contenutino
Con la vanità non ci paghi il mutuo
Chi non lavora (poco) non fa l’amore
Troppo Mondello per essere vero
Belli belli in modo assurdo
La felicità interna netta
3. La spiritualità scientifica
La magia quando finisce male
Per una geologia dell’anima
Diventa uno Sting della scrivania
Fuoco cammina con me
È un superpotere essere vulnerabili
Il mio mental coach si chiama Gesù
Pace, amore e pragmatismo
Una piacevolissima questione di vita o di morte
Com’è difficile restare calmi mentre tutti intorno fanno rumore
Il mondo oltre le chiacchiere e i distintivi
In presenza anche da remoto
4. Il Life Design Spirituale
Dal disegnare cose al disegnare pensieri
Datti un cinque
È arrivato Cacini!
Toboga time
Let’s dance
I tre livelli paradossali del Life Design Spirituale
Sì, ma il mutuo poi me lo paghi tu?
Parte seconda. Il metodo
5. I sette passaggi
Immersioni ed emersioni
No Life Design, No Party
Il diario dell’energia
6. Immaginazione creativa
Primo comandamento: offrire da bere a quelli giusti
Esercizio
Interazione umana. I primi dieci fotogrammi
Lettura. I tre iniziati, Il Kybalion
Atto psicomagico. Il castello vascello
Pratica spirituale. La visualizzazione creativa
7. Empatizzazione
Il paradiso all’improvviso
La cruciale differenza tra «resa» e «accettazione»
Sarebbe un peccato non accarezzarsi
Esercizi
Lettura. Piero Ferrucci, Crescere
Interazione umana. Verbalizzazione nelle mani
Atto psicomagico. Il Pasto Nudo
Pratica spirituale. L’ecologia verbale
8. Definizione del problema
La concorrenza è un concetto da perdenti
Esercizi
Lettura. Nassim Nicholas Taleb, Antifragile
Interazione umana. Verbalizzazione nel cuore
Atto psicomagico. Il cartone sublimato
Pratica spirituale. La psicosintesi
9. Generazione delle nuove idee
Le idee sono tutto ma non sono così importanti
Esercizi
Lettura: Francisco de Hollanda, Dialoghi romani con Michelangelo
Interazione umana. Verbalizzazione nei piedi
Atto psicomagico. L’insalata di sorgente
Pratica spirituale. Meditazione Trascendentale ®
10. Prototipazione
Basta coi disegnini
L’uomo più ricco del mondo sta ancora prototipando
La loggia degli imprenditori notturni
Esercizio
Interazione umana. La degustazione furba
Lettura. Yvon Chouinard, Let my people go surfing. La filosofia di un imprenditore ribelle
Atto psicomagico. L’animale totem
Pratica spirituale. Enunciazioni superconsce
11. Testing
Come infrangere le regole disciplinatamente
Diventa il Rolex di te stesso
Esercizio
Interazione umana. Verbalizzazione di schiena
Lettura. Werner Herzog, Incontri alla fine del mondo
Atto psicomagico. L’addio al cordone ombelicale
Pratica spirituale. L’I Ching
12. Self check («burn out protection»)
Beata solitudo, sola beatitudo?
Non è tutto oro ciò che è vocazione
Esercizio
Interazione umana. 1 Billion Dollar Baby
Lettura. Friedrich Nietzsche, Divieni ciò che sei. Pensieri sul coraggio di essere se stessi
Pratica spirituale. Alchimia superior
Atto psicomagico. La «propriacettazione» di sé
Parte terza. La monetizzazione
13. Come vivere bene nell’incertezza
The frog stay in the pot until the panza is piena
Quando danzi, facci caso
No (conscious) pain, no gain: la sopravvalutazione del coraggio
Come difendersi dallo smog psichico
Ecologia verbale
Come convincere anche il nostro alluce
La caccia a un tesoro che possediamo già
La meditazione come toilette foderata d’oro delle nostre paranoie
Flussi multipli di cassa (e poi ne parliamo)
Paura eh?
14. Come trovare lavoro oggi (a tutte le età)
L’onanismo imprenditoriale rende professionalmente ciechi
Networking, (Inter)net working e altre inutilità
Non «trovare» ma «fatti trovare»
Migrare per poi ritornare
Non chiedere soldi, ma negozia duro
Come prepararsi prima di un colloquio
Come cambiare lavoro rimanendo nella stessa azienda
15. Come conviene farsi pagare
Checco Zalone adesso ha un segreto
Dipendenti investitori
Imprenditori fantasma
Freelance non vuol dire lanciarsi gratis
I micropreneurs spesso ce l’hanno troppo piccolo
Strategie di internalizzazione minimaliste
L’osso senza muscolo si spezza
16. L’azienda karmica
C’è chi manifesta per strada e chi rende manifesto il cambiamento
Non si annaffia un albero sulle foglie
Model is the king
Senza questo cruscotto rimani a piedi
Let’s party!
All you need is
Appendice. Esercizi
Copyright
Il libro
L
avorare, lavorare e ancora lavorare. Svegliarsi il lunedì mattina sognando l’arrivo del fine
settimana, entrare in ufficio alle nove contando le ore che ci separano dal rientro a casa,
mentre le tanto agognate vacanze sono ancora un sogno lontano. È la vita di milioni di
persone in tutto il mondo alle prese con i ritmi frenetici del lavoro, con lo stress, le ansie e le
preoccupazioni di una routine che alla lunga può essere devastante. Ma non sarebbe più utile e
produttivo scoprire cosa ci rende davvero felici? Non sarebbe più importante imparare a
riconoscere i nostri sogni e smettere di inseguire quelli degli altri? La risposta è sì, non c’è
dubbio, e per farlo non è necessario mollare tutto e aprire un chiringuito su una spiaggia
tropicale, ma intraprendere un percorso che permetta di trovare il giusto equilibrio tra vita
personale e lavoro. Il Life Design è proprio questo: un metodo, messo a punto dalla Stanford
University in California, grazie al quale è possibile ridisegnare la propria vita e realizzare la
propria vocazione.
Davide Francesco Sada ed Enrico Garzotto, esperti di trading, imprenditori e primi in Italia ad
aver ottenuto la certificazione presso i titolari della cattedra di design a Stanford, ci guidano alla
scoperta di questo viaggio di trasformazione interiore e ci invitano a riconfigurare la nostra vita
privata e lavorativa, affinché, finalmente, il lavoro non sia più «quello che facciamo per
campare», ma una sorgente di gioia e gratificazione interiore ed economica.
Dopo aver letto questo libro, nel quale alla teoria si affiancano la pratica e una serie di esercizi
concreti di Life Design, capiremo che vita privata e lavoro possono essere un tutt’uno e convivere
in modo armonico per il raggiungimento della felicità. Senza attriti, senza conflitti. Scopriremo
come trovare il nostro «disegno di vita» e monetizzarlo nel miglior modo possibile.
Gli autori
LIFE DESIGN
Premessa
«Qualora noi meritassimo una libertà, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro, e non occupazione
sul lavoro.»
CARMELO BENE
LE idee che racconteremo in questo libro sono il frutto di decenni di studi e dell’impatto di alcuni di
essi su di noi e su migliaia di corsisti che seguono i nostri progetti formativi fin dal 2010. Siamo
formatori e divulgatori che si sono incontrati per caso su Internet e che col tempo hanno costruito
una delle community più grosse e «assurde» dedicate alla cultura finanziaria.
L’idea di scrivere questo libro è nata dopo il successo ottenuto dall’evento tras-formativo più
intenso che siamo riusciti a organizzare finora, «Remake Your Life», tenutosi nel 2018 e 2019 in un
luogo molto speciale, il Palazzo del Cinema di Venezia. Con l’aiuto di monaci tibetani, scienziati e
investitori, migliaia di persone hanno frequentato, ed esperito, il primo corso di Life Design mai fatto
in Italia.
Da tanti anni studiavamo e applicavamo le tecniche del design thinking ai nostri business e persino
alle nostre idee d’investimento, ma per approfondirle meglio abbiamo deciso di volare in California e
certificarci presso i titolari della cattedra di design della Stanford University, Bill Burnett e Dave
Evans. Il metodo che racconteremo in questo libro, però, pur essendo ispirato al lavoro di tanti
studiosi internazionali che hanno affrontato la materia, è il primo che include una componente
interiore e spirituale; innanzitutto perché crediamo che per ottenere una vita più gratificante non
basti un semplice copia-incolla delle tecniche che si usano per programmare un laptop, e poi perché
dopo anni di pratica abbiamo visto che un approccio più integrato funziona meglio.
Grazie all’applicazione di questo metodo, infatti, abbiamo aiutato persone estromesse dal mondo
del lavoro a causa della rivoluzione digitale a costruirsi brand commerciali totalmente in linea con la
propria vocazione professionale e in grado di generare profitti in meno di sei mesi, tra l’altro grazie
al digitale. Sono stati ideati e creati eventi sold out che hanno ridato vita e dignità a periferie
degradate. È stata data la speranza e l’energia a persone gravemente malate da tempo per
concretizzare i propri sogni e diventare ambasciatori di positività grazie a libri di successo e
interviste televisive. Il tutto senza che sia stato necessario camminare sui carboni ardenti, ballare
come degli ossessi e suggestionare (a tradimento) la mente di nessuno.
In tutta la nostra vita non abbiamo mai partecipato a eventi motivazionali e non ne abbiamo mai
organizzati. Quello che ci è piaciuto fin da subito della teoria del Life Design è la sua sana anarchia e
lo spazio che concede al mistero: l’opposto della retorica dei «guru dai denti bianchissimi» che ti
dicono che devi essere pronto a tutto per raggiungere i tuoi sogni. Qui stiamo ragionando a un livello
più sottile, e prendiamo atto che il sogno è il viaggio, non la meta, e che quest’ultima deve diventare
quasi indifferente, perché non dipenderà mai da noi al 100 per cento e perché quasi sicuramente,
durante il percorso, cambieremo idea: crescendo ed evolvendoci, infatti, aumenteremo
automaticamente la consapevolezza che abbiamo di noi stessi.
Se tutto questo non vi attizza abbastanza e sentite ancora un briciolo di attrazione per chi vi
promette la ricetta magica per ottenere tutto quello che desiderate, sappiate che grazie al Life
Design non dovrete posporre i vostri festeggiamenti a quando avrete acquistato «la Lambo» o
l’attico; avrete molto di più, fin da subito. Dal «work hard play hard» al «play hard earn hard»,
finalmente disintossicati dal senso di colpa cattolico del sacrificio per ottenere un paradiso chissà
quando.
Applicando i metodi che imparerete in questo libro otterrete uno stile di vita differente, più serio
ma meno serioso, più dinamico ma meno stressante, più concreto ma meno impegnativo. Invece di
andare in giro a muso duro per portare a casa il risultato, partiremo per una caccia al tesoro
piacevole, un tour che ci porterà in un luogo del cuore che adesso non possiamo nemmeno
immaginare.
È la differenza che c’è tra remare e surfare un’onda. Tra lavorare e…
Introduzione
Lo yoga finanziario
Ciascun salto di livello richiede una serie di passaggi che hanno una duplice qualità: qualcosa da
lasciare e qualcosa da acquisire, convinzioni limitanti più o meno consce da smascherare e
conoscenze finanziarie e interiori da integrare. Per passare dal livello istintivo a quello emotivo
bisogna buttare a mare l’idea che il denaro sia la causa dei mali del mondo, che sia limitato e che si
ottenga con la corruzione o lavorando sodo. Facile a dirsi, meno a farsi. Lo scoglio principale è quello
di studiare e riconoscere i nostri meccanismi automatici subconsci, ovvero le spie luminose che
segnalano che questa o quella convinzione stanno agendo su di noi.
Assieme a questa pratica di autoanalisi e di osservazione di sé, occorre imparare il linguaggio del
denaro. Senza diventare un esperto di finanza, basterebbe posizionarsi un centimetro sopra la media
italiana; sarebbe già tanta roba, considerando il fatto che in questo campo siamo da sempre il
fanalino di coda dell’Europa. Per essere il Paese in cui è nata la prima banca del mondo, possiamo e
dobbiamo fare di meglio. Concetti come diversificazione del rischio, return on investment, risk-
reward ratio, piano di accumulo e alternative assets non sono il massimo della sensualità, per questo
occorre venderli spiegando alle persone che è bello, possibile, morale ed etico ottenere uno stipendio
fisso senza lavorare ma facendo lavorare i soldi al posto nostro.
Una volta giunti a questo stadio, con la pancia un po’ più piena, possiamo salire la piramide e,
proprio come ci ha sempre spiegato Maslow, ambire a qualcosa di più. Anche se l’uomo medio, che
tipicamente arranca al livello istintivo, pensa che una volta raggiunta la serenità finanziaria vivere
sia solo un’infinita scelta di destinazioni vacanziere e modelli di scarpe di Gucci, la realtà è diversa.
Gli oggetti e le esperienze emozionanti che possediamo alla lunga finiranno per possederci e, per
fortuna, andremo in crisi. A quel punto sentiremo l’esigenza di dare un senso alla nostra esistenza,
vivere più leggeri e gratificati interiormente; all’inizio anche solamente con l’obiettivo di ottenere la
stima di chi ammiriamo, poi, se faremo le cose giuste (quelle spiegate in questo libro, per esempio),
per poter accedere letteralmente a un’altra dimensione.
La ricchezza consapevole si ottiene invertendo di 180 gradi lo sguardo che da sempre volgiamo
esclusivamente all’esterno e lanciando una sonda spaziale nel nostro microcosmo per conoscere i
nostri mondi, vicinissimi ma ancora sconosciuti. Non (solo) attraverso dei funghetti allucinogeni, ma
grazie ad alcune tecniche provate scientificamente da decenni, come la meditazione e il Life Design.
La prima è indispensabile per fare luce e rimuovere tutto ciò che ostruisce la strada, la seconda è il
navigatore GPS che dobbiamo tenere sempre acceso per essere certi di non perdere il percorso
giusto, quello verso la nostra vocazione professionale, ovvero il sacro incrocio tra:
1. Ci piace tanto farlo? A parole sembrerebbe di sì, ma cosa succede mentre scrivo? Sto bene o per
essere creativo mi devo drogare? E dopo che ho scritto? Dormo bene? Sono una presenza
gradevole per le persone che mi stanno accanto quando ho terminato il mio lavoro?
2. Siamo davvero bravi a scrivere? Oltre al nostro partner, l’amica del cuore e i colleghi, c’è
qualcuno o qualcosa che ci può dare dei feedback sinceri? Se sono anni che nessuno ci pubblica
nemmeno un racconto, quando vogliamo iniziare a farci delle domande?
3. Mettiamo anche il caso che abbiamo appurato che ci piace scrivere e che i critici ci reputino dei
grandiosi scrittori. Cosa succede se nessuno compra i nostri libri?
La ricerca della vocazione professionale non è come bere un bicchiere d’acqua fresca: a volte, se
fatta bene, può rappresentare persino un dolore necessario. Si deve avere a che fare con i cosiddetti
gravity problems, ovvero quegli ostacoli insormontabili che devono farci riflettere e spingerci
all’adattamento.
Se nel terzo millennio nessuno legge più romanzi di un certo tipo o poesie, magari, invece di
incaponirci, facciamo un giro di Life Design e scopriamo che la nostra vocazione professionale sta
solamente un centimetro più in là, dove non avevamo mai avuto l’opportunità di guardare perché
troppo concentrati sui soliti processi mentali arrugginiti. Per molti questo può essere demotivante,
ma il bello del Life Design è che quando siamo in vocazione, se ci guardiamo indietro, a quando
agivamo alla vecchia maniera, non ci riconosceremo. La versione vera di noi stessi è quella che serve
anche agli altri e che ci rende indipendenti finanziariamente.
L’essere umano è un animale sociale, e la produzione di ormoni che deriva dal sentirsi funzionale
alla soddisfazione di qualcun altro è cosa provata. La masturbazione allo specchio non rende ciechi, è
essa stessa la prova della nostra cecità interiore. Quello di cui stiamo parlando è altruismo amorale:
non siamo al servizio degli altri perché ce lo dice Dio e dobbiamo evitare di finire all’inferno, ma
perché se lo facciamo in accordo al nostro vero Sé, diventiamo uno snodo energetico, possibilmente
un acceleratore di particelle, e ci sentiamo vivi. Qualsiasi energia che venga lasciata a stagnare per
troppo tempo porta malattia e sofferenza.
50 sfumature di masochismo
Lavoro, mestiere, impiego, professione, occupazione, arte. Idem oltralpe: travail, boulot, emploi,
métier, occupation. Anche gli inglesi, noti per essere minimalisti dal punto di vista linguistico, non si
risparmiano: work, job, career. Insomma c’è del materiale su cui… lavorare. Ops!
L’attività che occupa la stragrande maggioranza del tempo dei migliori anni della nostra vita va
definita con chiarezza. Abbiamo visto che è questione di vita o di morte, mica pizza e fullàcchie, come
dicono in Abruzzo.
Partiamo da uno dei temi fondamentali di questo libro, un’opera che ci piacerebbe venisse
catalogata nella categoria «Divulgazione scientifica sulla salute e la cura della persona», se non
addirittura in «Medicina». Il termine «lavoro» deriva dal latino labor, che vuol dire appunto «fatica»,
e pressoché ovunque serve a definire un’attività volta a produrre e dispensare beni e servizi in
cambio di un compenso. Tradotto: fare fatica per avere dei soldi.
Se pensate che questa interpretazione sia troppo aggressiva, facciamo un salto dall’altra parte del
traforo del Monte Bianco e, resistendo alla tentazione di farci una sciatina a Chamonix, analizziamo il
termine travail. Non ci vuole una laurea in etimologia – non esiste una laurea del genere, ma suonava
bene… – per capire da dove derivi; d’altronde, anche i siciliani parlano di «travagghiari».
La fatica qui diventa «sofferenza acuta e tormentosa», e qualunque donna che abbia dato alla luce
un bimbo ne sa qualcosa. Il termine deriva dal latino «tripalium», uno strumento di tortura composto
da tre pali su cui il malcapitato di turno veniva legato e poi torturato.
Lavorare significa penare, letteralmente una pura afflizione. È interessante notare che il travaglio
è anche un attrezzo che si usa per tenere fermi i cavalli durante alcune pratiche particolarmente
dolorose, come la ferratura, o durante gli interventi chirurgici. Questo termine contiene dunque una
doppia sofferenza intrinseca: la sofferenza in sé e l’impossibilità di uscirne scappando.
Visto il potere creativo della parola cui abbiamo accennato poche righe fa, la prossima volta che
sarete sotto l’ombrellone e il vicino vi chiederà: «Quando torni al lavoro?» valutate molto bene
qualsiasi tipo di risposta. E non stiamo scherzando.
a. Patricia A. Boyle, Aron S. Buchman, Lisa L. Barnes e David A. Bennett, «Effect of a Purpose in Life on Risk of
Incident Alzheimer Disease and Mild Cognitive Impairment in Community-Dwelling Older Persons», in Archives
of General Psychiatry, 67, 3, 2010, pp. 304-310.
b. Patrick L. Hill, Nicholas A. Turiano, «Purpose in Life as a Predictor of Mortality Across Adulthood», in
Psychological Science, 25, 7, 2014, pp. 1482-1486.
c. The State of the American Workplace, Gallup, 2013.
d. Rajendra Sisodia, Jagdish Sheth e David Wolfe, Firms of Endearment: How World-Class Companies Profit from
Passion and Purpose, Pearson Education, Londra 2014.
2
La fine dell’era del lavoro
A un uomo fu dato il permesso di visitare il paradiso e l’inferno mentre era ancora in vita. Andò
prima all’inferno, e lì vide una grande accolita di persone sedute a lunghe tavolate, imbandite di cibo
ricco e abbondante. Eppure queste persone piangevano e stavano morendo di fame. Il visitatore ben
presto ne vide la ragione: i cucchiai e le forchette che usavano erano più lunghi delle loro braccia,
cosicché costoro erano incapaci di portare il cibo alla bocca. Poi l’uomo andò in paradiso e lì trovò la
stessa situazione: lunghe tavolate imbandite con cibo di ogni genere; anche qui la gente aveva le
posate più lunghe delle braccia e anche qui non poteva portare il cibo alla bocca; eppure avevano
tutti l’aria di essere soddisfatti e ben nutriti. La spiegazione era semplice: anziché cercare di nutrire
se stessi, si imboccavano reciprocamente.
Criticare o surfare?
Ovunque fioccano libri e documentari di denuncia sui giganti tecnologici americani, rigorosamente
pubblicati e acquistabili sulle stesse piattaforme che intendono stigmatizzare. Tutto questo ci ricorda
molto lo storico faccia a faccia tra Marco Travaglio e Silvio Berlusconi, e l’indimenticabile frase di
quest’ultimo: «Signor Travaglio, io sono il suo core business». Se c’è una cosa che la storia ci insegna
è che i grandi cambiamenti, quelli che portano un miglioramento duraturo della condizione umana,
non accadono mai solo attraverso le polemiche o le proteste, ma cambiando il nostro stile di vita.
Silenziosamente.
Non fateci citare la solita frase di Gandhi che trovate in tutti i negozi di cibi biologici e sui cestini
della spazzatura di Milano. La realtà – ormai lo abbiamo scoperto da più di un secolo – non è una: è
ambivalente e soprattutto cambia in base a chi la osserva. Dire che Amazon è un category killer
perché sta desertificando le nostre città provocando la chiusura delle attività commerciali è vero, ma
anche no. Una persona molto impegnata, alla terza volta che restituirà un paio di scarpe comprate
online perché la misura non va bene, smetterà per sempre di comprare scarpe online (eccoci,
presenti). Dire che Netflix ucciderà il cinema come lo conoscevamo prima è probabilmente vero, ma
se guardiamo alla qualità dei film prodotti dalla grande N e la paragoniamo con quella che affollava i
multisala di provincia, be’… Dire che Spotify ha impoverito la qualità della musica è vero: i musicisti
non guadagnano quasi più niente dalla vendita dei dischi, ma quanti decenni di album pieni di inutili
riempitivi ci siamo dovuti sorbire in passato, pagandoli fior di quattrini? Dire che Facebook e
Instagram danno dipendenza e rimbambiscono le persone è vero, ma quante persone hanno potuto
cambiare vita e vedere realizzati i propri sogni grazie a queste piattaforme di promozione
democratica e scalabile (eccoci, presenti di nuovo)?
Dopo aver pubblicato un best seller che nel sottotitolo aveva la paraculissima espressione «yoga
finanziario», siamo stati subissati di critiche e insulti per aver inserito nei nostri percorsi formativi un
corso su come creare uno shop redditizio su Amazon. Il mondo è pieno di idealisti che hanno riempito
le piazze di idee pure e dogmatiche: i più bravi tra questi nel Novecento hanno causato anche
qualche milione di morti. Abbiamo già dato, grazie. Non conta dove si fanno le cose ma come. Se io
penso di aver concepito un business a impatto positivo e lo veicolo tramite un business potente ma a
impatto negativo, non sto «imbastardendo la mia arianità»: sto semplicemente contribuendo a
rendere quel luogo meno negativo. Altrimenti è come dire che non dovremmo usare l’energia
elettrica perché qualcuno, da qualche parte, la usa per eseguire condanne a morte.
Per dimostrare che questa cosa è fattibile, abbiamo contribuito a creare un brand che
corrispondesse ai nostri valori etici e lo abbiamo spedito al «demonio» Amazon. In tre mesi il
business è andato a break even, in meno di sei mesi dava uno stipendio da quadro/dirigente alla
persona che ci lavorava e da due anni il 25 per cento dei suoi profitti viene donato al progetto di
pulizia degli oceani dalla plastica messo in piedi dall’imprenditore olandese Boyan Slat, Ocean
CleanUp.
Il brand si chiama Undisposabl, ed è partito anticipando e cavalcando con discreto successo il
trend delle borracce e delle tazze termiche. Ok, si poteva evitare che i prodotti fossero prodotti in
Cina; ok, si poteva evitare di metterlo su Amazon… Anzi no, con i soldi che c’erano non si poteva
evitare né l’una ne l’altra cosa: o così o non ci rimaneva che scrivere libri polemici e protestare sui
social. Questi mostri che starebbero «fagocitando il mondo» sono gli stessi draghi che, se cavalcati
opportunamente, possono offrire occasioni mai viste alle persone che hanno voglia di fare della
propria vocazione professionale la principale fonte di reddito e sostentamento, interiore e materiale.
No patentino, no contenutino
La società che stiamo descrivendo in questo capitolo contiene dunque il mix perfetto di ingredienti
per ottenere velocemente tutto quello che si desidera ma anche, e purtroppo, quelli per stimolare
manie suicide. Come sempre in natura, a una forte energia positiva e creatrice ne corrisponde
un’altra di segno opposto. Non c’è arcobaleno senza temporale.
Sicuramente legata al cyberbullismo è l’agghiacciante statistica, vista sempre in The Social
Dilemma, da cui si evince che dall’approdo dei social media sui telefonini c’è stato un balzo del +150
per cento dei suicidi negli adolescenti.
Probabilmente più legata alla frustrazione degli adulti, che si autoinfliggono in media due ore al
giorno sui social network per guardare le finte belle vite degli altri, è invece la crescita vertiginosa
nell’uso degli psicofarmaci negli ultimi anni.
I modelli inarrivabili sono sempre esistiti, ma il fatto che oggi siano i genitori dei compagni di
classe di tuo figlio ha cambiato tutto. In questo libro non ci interessa indagare il meccanismo
psicologico deviato che porta le persone a rilasciare poco alla volta contenuti fotografici delle
vacanze per prolungare, almeno virtualmente, la propria abbronzatura. Piuttosto vogliamo capire le
dinamiche depressive che si innescano nelle persone che vedono amici o conoscenti cambiare vita
professionale e avere, almeno in apparenza, ottimi risultati.
Qui c’è molto da dire, e il Life Design dimostra di essere la tecnica imprescindibile per la salute
psicologica e finanziaria delle persone. Scrollare lo smartphone quando si è alla macchinetta del
caffè in un lunedì qualsiasi, oppure seduti in un ufficio vista tangenziale, e imbattersi nella nostra ex
compagna di università, ora travel blogger, mentre fa il bagno circondata dagli squaletti delle Isole
Raja Ampat in Indonesia, è un’esperienza che senza la giusta cultura può scatenare una catastrofe
devastante, prima sinaptica e poi economica.
È giunto il momento per la Rai di produrre un format, sulla falsa riga del mitologico Non è mai
troppo tardi di Alberto Manzi, dedicato all’alfabetizzazione di massa sulla corretta comprensione dei
contenuti che circolano sul web. Invece di limitarsi a una fiction celebrativa del personaggio che tra
il 1960 e il 1968 fece prendere a quasi un milione e mezzo di italiani la licenza elementare, la tv di
Stato dovrebbe incaricarsi di insegnare alle persone i concetti di vanity metrics, YouTube burn out,
FOMO (Fear Of Missing Out) e così via. Ovviamente non lo si dovrebbe trasmettere solo in
televisione, altrimenti non lo vedrebbe nessuno.
Un buon esempio lo offre il canale statale danese per bambini DR Ultra, che nello show Ultra
smider tøjet («Ultra si spoglia») porta cinque adulti comuni su un palco e li fa spogliare davanti a
bambini dai nove ai tredici anni. Il giovane pubblico può fare qualsiasi domanda agli ospiti, e mentre
passano in rassegna uomini e donne di ogni forma e fattezza, con o senza handicap fisici, si fa
chiarezza sull’anatomia e la cura intima dei genitali e su tutto il resto. Per qualcuno è un’istigazione
alla pedofilia, per qualcun altro un atto di geniale resistenza al subdolo mondo della comunicazione
contemporanea che ci colonizza la testa con immagini di bellezza truccata dalla chirurgia plastica, da
Photoshop o semplicemente da un filtro Instagram.
Noi immaginiamo un futuro in cui verrà richiesto una sorta di meccanismo di abilitazione all’uso
dei social media, come accade già ora nel mondo degli investimenti. Per poter fare trading, infatti,
bisogna passare un test di valutazione, abbastanza ridicolo ma pur sempre indicativo; e se non lo si
passa si deve fare un corso. Diversamente la banca non vi aprirà mai il conto investimenti.
Dietro ogni profilo di un buon travel influencer che si rispetti, ci sono montagne di Dissenten, così
come dietro la maggior parte dei canali di youtuber che si rispettano ci sono colossali burn out.
Ricordiamo nitidamente di aver visto alcune storie di Instagram di un noto opinion leader italiano
nell’ambito dello smart working, che raccontava che dopo dieci mesi di viaggi consecutivi non
riusciva più ad alzarsi dal letto, praticamente costretto a mangiare poco più che riso in bianco da
settimane a causa di una gravissima intossicazione intestinale ormai cronicizzata. Nel 2019, dieci dei
top youtuber mondiali hanno fatto outing, PewDiePie incluso (il numero uno al mondo, con più di 100
milioni di iscritti), confessando che dietro questo lavoro si nascondono pesantissimi esaurimenti
nervosi dovuti alla necessità di essere sempre presenti con contenuti aggiornati e sfavillanti. Altro
che professioni del futuro: qui siamo di fronte ai lavori forzati dell’upload.
a. Fonte: https://www.weforum.org/press/2018/09/machines-will-do-more-tasks-than-humansby-2025-but-robot-
revolution-will-still-create-58-million-net-new-jobs-in-nextfive-years
b. Fonte: https://quifinanza.it/editoriali/lavoro-che-stress-7-italiani-su-10-sono-insoddisfatti-del-proprio-
impiego/131508/
3
La spiritualità scientifica
ABBIAMO iniziato questo libro citando uno dei più importanti registi italiani di sempre e il suo
consiglio circa la necessità di «essere vivi nelle cose» per non faticare mai nella vita. In questo
capitolo cercheremo di capire cosa significa, come si fa a esserlo e cosa si prova quando lo siamo.
Stare nel flusso aumenterà a dismisura la nostra produttività e renderà inutili molte di quelle
discipline che vanno molto di moda oggi per evitare di procrastinare le cose da fare, guardare in
maniera compulsiva le notifiche dello smartphone o vivere nella dipendenza da dopamina. Dopamina
che ricerchiamo costantemente soprattutto noi trader quando continuiamo a sentire l’esigenza
malata di monitorare l’andamento dei nostri investimenti, ma che colpisce anche persone molto più
«alte» e «sagge» di noi come i filosofi. Il più famoso del mondo in questo momento si chiama Slavoj
Žižek, e tempo fa ha candidamente ammesso di controllare compulsivamente le statistiche di vendita
dei suoi libri, aggiornate in tempo reale su Amazon.
Non si tratta quindi di essere più o meno colti o intelligenti, ma di essere più o meno presenti e
coerenti alle nostre naturali tensioni interiori, quando bisogna decidere cosa fare durante il giorno. Il
flusso è una questione di equilibrio tra due valori: il livello di sfida implicito in ciò che stiamo facendo
e la capacità che abbiamo di poterlo portare a termine. L’orgasmo si raggiunge quando ci occupiamo
di cose che ci gratificano e per le quali siamo portati.
Il tutto va visto ovviamente in modalità dinamica: quello che ci manda nel flusso oggi, quasi
sicuramente non sarà la stessa cosa che ci manderà nel flusso tra qualche anno. Per questo il Life
Design e il libro che avete fra le mani vanno conservati e messi in pratica con costanza, per tutta la
vita. Un periodico tagliando del nostro «stato di flusso» è una condizione imprescindibile per
mantenere alto il nostro morale e il nostro benessere finanziario. Se anche Žižek non riesce a finire
un paragrafo senza dover dare un’occhiata ai dati di vendita dei suoi libri precedenti, magari è ora
che prenda coscienza che sarebbe meglio che smettesse di scrivere e iniziasse, per esempio, a
produrre un podcast. A volte si tratta di compiere piccolissime deviazioni per tornare a… godere.
Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi
beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e
partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque.
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto
un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva
ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti;
ecco, ne ho guadagnati altri cinque».
«Bene, servo buono e fedele», gli disse il suo padrone, «sei stato fedele nel poco, ti darò autorità
su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.»
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: «Signore, mi hai consegnato due
talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due».
«Bene, servo buono e fedele», gli rispose il padrone, «sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su
molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.».
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che sei un uomo duro,
che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo
talento sotterra; ecco qui il tuo».
Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e
raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando,
avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.
Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che
ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.»
1. Il giudizio degli altri: cosa penserà mio marito se lascio il mio impiego di manager e mi metto a
fare divinazione con la sfera di cristallo via Zoom?
2. La carenza di autostima: ma quando mai Luca Guadagnino prenderà uno come me come
aiutoregista per il suo prossimo film? Non ho frequentato nessuna scuola di cinema.
3. Lo sfogo verbale deresponsabilizzante: alla fine è anche inutile che ci provi, tanto in Italia
funziona tutto con le raccomandazioni.
Più ci prenderanno per matti, più avremo la garanzia di muoverci nella direzione giusta.
Consideriamolo il termometro del successo del nostro Life Design: se nostra mamma o la nostra
migliore amica ci supporta in tutto quello che faremo dopo i primi passi di questo percorso, potrebbe
esserci qualcosa che non va, forse non abbiamo osato abbastanza. Meditiamoci sopra e ripetiamo il
processo.
Si tratta di un concetto legato alla creatività che, per creare ancora più mistero, spiegheremo con
le parole di un regista famoso per la sua imperscrutabilità: David Lynch. Nel suo libro In acque
profonde. Meditazione e creatività, Lynch usa una metafora molto semplice per spiegare un concetto
molto complesso: le idee sono come i pesci, e se vuoi prendere quelli grossi devi far scendere l’amo
in profondità. Sia Lynch sia Senge (ma anche tanti altri mistici per millenni) ci spiegano, tra le righe,
un concetto potentissimo e abbastanza rivoluzionario per noi occidentali egoriferiti, cioè che le idee
non sono mai veramente nostre, stanno già da qualche parte, e attraverso un’immersione bisogna
andare a cercarle e «lasciarle venire» a noi.
Le scoperte più rivoluzionarie sono state fatte mentre si cercava altro; per esempio, per Einstein il
momento più propizio era quello subito dopo «il riposo del cucchiaino», ovvero la meditazione prima
che la meditazione fosse conosciuta in occidente. Il genio della fisica era solito costellare la sua
giornata di brevissimi sonnellini fatti chiudendo gli occhi e tenendo in mano un cucchiaino; quando la
posata cadeva a terra rumorosamente, si tornava al lavoro. Il fondo della U del grafico di Senge e la
pesca di Lynch spiegati facili.
La stessa cosa si fa oggi in tanti uffici, compreso il nostro, prima delle riunioni più importanti. Si
chiudono gli occhi per qualche minuto, si recita un mantra e solo dopo si getta l’amo. Le idee e la
creatività non sono esclusivamente materiale per creativi, artisti, geni o imprenditori rivoluzionari: le
idee sono alla base di tutto. (Quasi) qualsiasi problema, anche personale, si risolve attraverso
un’idea. Oggi sappiamo che non occorre avere superpoteri o particolari doti naturali per generarne
di buone, ci vuole metodo. Quello che per gli altri è culo, per noi è metodo, e quel metodo ha a che
fare con la spiritualità.
L’idea di chiamare i nostri corsi «yoga finanziario» è nata cinque minuti dopo una delle meditazioni
che pratichiamo quotidianamente da quindici anni. Quella singola idea è stata sufficiente a scrivere
un libro, creare un’azienda, ottenere tanta visibilità e di conseguenza vedere tante vite migliorate
che non si sarebbero mai avvicinate ai nostri corsi se non ci fosse stata quell’intuizione ironica,
surreale e provocatoria. Ormai non serve più scomodare guru o santoni, a certi livelli certe tecniche
sono date per scontate.
La London Business of Economics nelle sue pubblicità online si autodefinisce «olistica», ma anche
in Italia grossi gruppi come Banca Mediolanum, Illy, Davines e Chiesi Farmaceutici si coalizzano e
organizzano eventi come «Regeneration 20|30», dove è possibile ascoltare il pensiero e le proposte di
figure di spicco del mondo del business, istituzionale e – ebbene sì – spirituale. Tutto questo mentre
«dall’altra parte della barricata» la Chiesa cattolica organizza per la prima volta un evento
internazionale chiamato «The Economy of Francesco», ovviamente ad Assisi. A livello macro e a
livello micro, dentro e fuori di noi, osserviamo lo stesso movimento: l’immateriale e il materiale, per
millenni acerrimi nemici, si stanno avvicinando, persino conciliando. Per risolvere grossi problemi e
scongiurare catastrofi imminenti. E non lo pensano due «scappati di ashram» come noi, ma la più
grande organizzazione mondiale a tutela dell’ambiente (e composta praticamente solo da scienziati e
avvocati) come il Natural Resources Defense Council, che attraverso le parole del suo fondatore ci
dice: «Pensavo che i maggiori problemi che il mondo dovesse affrontare fossero il riscaldamento
globale, il degrado ambientale e il collasso del suo ecosistema, e che gli scienziati potessero risolvere
tutto attraverso la scienza. Ma mi sbagliavo. Il vero problema non sono quelle tre cose, ma l’avidità,
l’egoismo e l’apatia. E per risolverle abbiamo bisogno di una trasformazione spirituale e culturale. E
noi scienziati non abbiamo idea di come farla partire».
a. Peter M. Senge, Otto Scharmer, Joseph Jaworski, Betty Sue Flowers, Presence. Esplorare il cambiamento
profondo nelle persone, nelle organizzazioni e nella società, FrancoAngeli, Milano 2013.
4
Il Life Design Spirituale
«L’attività creativa di Brahman non è intrapresa in ragione di una necessità da parte sua, ma solo e
semplicemente per gioco, nel senso abituale del termine.»
BRAHMASU¯TRA, II, 1, 32-33
«Non è che il gioco cominci con la creazione, no, perché è esistito da tutta l’eternità. La creazione è
quello stesso gioco nella sua esteriorizzazione.»
JACOB BÖHME, La visione celeste. De signatura rerum (XVI, 2-3)
Human centered. Qualsiasi cosa si faccia, qualsiasi decisione si prenda, al centro c’è l’essere
umano, di conseguenza è necessario incentivare l’interazione tra le persone. Si pensa sempre
insieme. Nel Life Design: mai pensare da soli e mettere sempre al centro la nostra parte più
umana e autentica.
Ambiguità is not a crime. Avere regole troppo precise blocca la creatività; lasciare spazio
all’interpretazione è funzionale al poter vedere le cose da un punto di vista diverso. Nel Life
Design: sentitevi liberi di non seguire esattamente la sequenzialità degli esercizi che vi daremo
anche in questo libro. Partite dalla fine, dal mezzo, da dove volete: basta che partiate.
Tutto cambia ma anche no. I bisogni dell’uomo sono sempre gli stessi (Maslow docet), mentre
cambiano (sempre più vorticosamente) i mezzi con i quali possono essere perseguiti.
Tangibilità. È la regola del plastico di Bruno Vespa, un grande design thinker dei nostri tempi.
Finché le idee non prendono forma, attraverso prototipi ed esperienze, ci perderemo sempre
qualcosa, e fare la scelta giusta avrà la stessa probabilità del vincere la lotteria di Capodanno.
Il design thinking ci piace perché rappresenta il tentativo (riuscito) di trovare il giusto equilibrio
tra l’artista e l’ingegnere che è in noi. Un ottimizzatore delle nostre pulsioni più istintuali. La palestra
perfetta per allenare il nostro ego e ricordargli continuamente di lavorare senza dominarci e allo
stesso tempo un sano pungolo a non ripetere schemi già adottati in passato.
Datti un cinque
Questo modo di «pensare il pensiero» è la ricetta del successo di tutte le aziende della nostra epoca.
Sappiamo che traslare questo metodo e applicarlo alle nostre vite suona profondamente americano,
volgarmente concreto e forse persino esageratamente pragmatico, ma è anche vero che gli americani
non sono più gli americani di una volta. Da Henry Ford siamo arrivati a Reed Hastings, il fondatore di
Netflix. Dalla standardizzazione più radicale siamo passati all’azienda che cambia completamente
prodotti e servizi ogni dieci anni. Dalla Summer of Love in poi, gli Stati Uniti sono stati la culla di
tutti i movimenti più innovativi e radicali di questo pianeta, dal Paese del proibizionismo più duro che
si sia mai visto in Occidente al primo al mondo a legalizzare la cannabis a scopo terapeutico. Vista la
loro imprevedibilità, gli States sembrano essere essi stessi un prodotto scaturito da un processo di
design thinking, magari a volte persino troppo schizofrenico. A tal fine, con questo libro abbiamo
provato a innestare in questo processo una logica più spirituale e olistica.
Ma procediamo con ordine e vediamo quali sono i cinque passaggi del design thinking classico che
sono stati poi presi tali e quali anche dai nostri «amici» Dave Evans e Bill Burnett per essere declinati
nel design della vita.
1. Empatizzare. Prima di tutto occorre conoscere profondamente i nostri clienti, nel caso del
design classico, e noi stessi, nel caso del Life Design. Abbassiamo la cresta e cerchiamo di
capire con il cuore quali sono i bisogni reali, i sogni e gli obiettivi delle persone. Qui il segreto è
darci la possibilità di scoprire cose nuove e di vedere smentite le nostre convinzioni più radicate.
2. Definire. Mettere per iscritto il problema che dobbiamo risolvere e che abbiamo compreso
grazie all’indagine fatta al punto 1. In questa fase vince la chiarezza. Pochi giri di parole e tanta
praticità.
3. Ideare. Farsi venire idee per risolvere il problema del punto 2. Tante idee, più ce n’è meglio è.
Fermarsi subito e gridare «Eureka!» in questa fase è l’errore peggiore che possiamo
commettere. Non conta la qualità, ma solo la quantità.
4. Prototipare. Creare soluzioni in scala per capire quali fra le idee del punto 3 ci sembrano
funzionare meglio. Si può e si deve prototipare tutto, non solo oggetti materiali. Più avanti
vedremo concretamente come.
5. Testare. Si mette su strada il prototipo, e tutto può accadere. Le soluzioni possono essere
confermate, abbandonate o migliorate. Qualsiasi cosa confermata qui, comunque, prima o poi
ritornerà al punto 1. Chi si ferma (e non si forma) è perduto. Il design e il Life Design sono
processi perpetui, non soluzioni miracolose.
L’intuizione dei nostri maestri Dave e Bill è stata quella di applicare questi cinque passaggi per
generare nuove idee sul nostro futuro, facendo in modo che queste risolvano i nostri veri problemi,
ossia quelli che abbiamo compreso ascoltandoci con empatia. Ma da bravi professori universitari
molto istituzionali non si sono potuti spingere nei luoghi estremi, e volutamente folli, che invece
abbiamo provato a sondare con questo libro.
È arrivato Cacini!
Sia chiaro, chi vi scrive, come abbiamo già detto, non ha mai inventato niente. Quello che ci piace
fare è studiare, osservare tantissimo, testare più cose possibili e vedere i risultati su di noi. Solo
successivamente filtriamo le cose (per noi) essenziali, le sintetizziamo al meglio e infine le
condividiamo, sempre citando le fonti ed evitando di appropriarci indebitamente di conoscenze altrui.
Com’è accaduto per il primo libro, sulla finanza personale, avviene in questo, dedicato alla carriera
professionale. La nostra «fortuna» è che, essendo fondatori di un’azienda di formazione di discrete
dimensioni, possiamo vedere i risultati di tali metodi, non solo su di noi ma anche su migliaia di
persone che hanno frequentato e frequentano i nostri corsi, dal 2010 a oggi.
Una cosa in particolare che abbiamo notato in questi anni è che in tanti, nell’ambito della
formazione, tendono a concentrarsi solo sui metodi e i processi di crescita e formazione, lasciando ad
altri il compito di dotare le persone di tecnologie mentali atte a rendere più semplice e spontanea
l’assimilazione e l’applicazione dei concetti stessi. Osservando i risultati dei nostri corsisti, in oltre un
decennio, ci siamo resi conto che dando le stesse nozioni alle stesse persone, i risultati cambiavano
notevolmente in base al livello di avanzamento del percorso di crescita interiore fatto dagli stessi. Per
questo, anche approcciando il Life Design ci è venuto spontaneo fin da subito integrare tutta una
parte esperienziale e spirituale che integrasse la parte più didattica.
Applicare brutalmente il design thinking alle nostre vite ci è sempre sembrata una scorciatoia
troppo banale. Declinare semplicemente gli stessi procedimenti che si applicano per l’ideazione di
nuove app o dispositivi tecnologici non basta: l’essere umano e il suo viaggio su questo pianeta sono
un mistero, quindi, proprio come ci dice il fondatore del Natural Resources Defense Council, citato in
chiusura del precedente capitolo, la scienza non basta. Per l’uomo la vera crescita passa sempre
attraverso una comprensione più che razionale di ciò che è e ciò che sta vivendo. Compilare esercizi
di orientamento e generare idee a manetta, senza preoccuparsi di preparare prima il campo per un
lavoro interiore, rischia di dare risultati poco efficaci. Esiste un cosa chiamata inconscio che richiede
un linguaggio più organico per essere conosciuto e sublimato.
Il Life Design convenzionale è un ottimo strumento di lavoro, ma usato da solo ci farà lavorare solo
nel mentale, in superficie, dove, come abbiamo visto, scarseggiano i pesci grossi. Detto in parole
povere, non è che a uno che è abituato a rilassarsi bevendo un goccio di grappa o giocando a sudoku
gli potete dire: «Ok, ora, per questo esercizio, prima di cominciare cerca di rinunciare al controllo,
osserva i tuoi pensieri e sospendi il giudizio». Certo, come no… È arrivato Cacini! Certi stati mentali
vanno indotti con maestria, amore, pazienza e dedizione. C’è qualcosa di preordinato all’esercizio in
sé che conta tanto quanto l’esercizio stesso. Lo abbiamo visto coi nostri occhi durante gli eventi di
Life Design che abbiamo organizzato. Le persone abituate a meditare e a coltivare quotidianamente
la presenza e la compassione ottenevano subito risultati, gli altri no. Anzi, l’esito era spesso opposto:
le persone meno allenate al lavoro su di sé tendevano a irritarsi sempre più nell’arco della giornata.
Si rendevano conto di non essere in grado di rispondere alle domande per fare chiarezza sulla
propria vita e di non avere idee per il futuro, e per questo, messe davanti alla loro impotenza, si
deprimevano.
Tutto perfetto. Anche questa è crescita. Molti, da quel momento, hanno iniziato un percorso
spirituale, hanno capito concretamente a cosa serve e per questo lo portano avanti ancora oggi.
Quando arrivano allievi con questo profilo, i maestri di meditazione che collaborano con noi spesso ci
ringraziano, perché sono gli allievi che regalano più soddisfazioni. Sono persone che arrivano non per
moda o per disperazione, ma ben consapevoli di volersi portare a casa qualcosa di davvero
imprescindibile per vivere meglio. Come diceva Francisco Varela, in Presence: «La vita all’insegna
della saggezza è quella che s’impegna all’esercizio costante della capacità di lasciar andare, per far
sì che la virtualità o la fragilità possa manifestarsi».
Qui la parola chiave è «costante». Sarà capitato a tutti di sentirsi particolarmente presenti durante
malattie, pericoli, lutti, delusioni d’amore o altri eventi estremi che producono in noi quel magico
stato di lucidità che ci fa prendere le decisioni che non avremmo mai preso nello stato di «sonno» che
ci accompagnava prima della catastrofe. Ecco, Varela ha intuito che quello stato di supervigilanza
può essere coltivato e sviluppato con la pratica, affinché non siano per forza necessarie le tragedie
per farci muovere il deretano. Siamo nei dintorni del concetto di karma.
Toboga time
Per come lo intendiamo noi, l’obiettivo del Life Design è quello di fare la conoscenza con la nostra
vera identità attraverso un «lasciarsi andare» gioioso e giocoso che somiglia, e dovrà somigliare
sempre, a quello che esperiamo quando al parco acquatico saliamo in cima alla scala e decidiamo di
scendere lungo uno di quei giganteschi scivoli girevoli tubolari multicolore, per poi tuffarci dentro la
calda piscina della nostra vera essenza. Siamo tornati finalmente a casa. Proprio come in quelle
attrazioni, si tratterà di percorrere e godersi gli «Strani Anelli» che ci trasformeranno ogni volta,
attraverso il continuo ribaltamento della percezione di noi stessi e del mondo, tracciando il profilo del
nostro volto: proprio come in una xilografia di Escher, partendo dal vertice, la «mente», e planando
verso il «cuore».
Ogni anello rappresenterà un ciclo di Life Design: più anelli ci toccherà disegnare, più ci
divertiremo. Ah, quindi, Davide ed Enrico, col Life Design trovo la vocazione professionale, faccio un
botto di soldi e sono a posto fino alla pensione? No. Troppo sbattimento? Forse, ma se siete nati,
probabilmente è perché la parte più autentica di voi aveva voglia di godersi la «giostra». Nessuno
paga il biglietto per uno scivolo piatto, no?
Ciascun ciclo di Life Design ha un andamento prima discendente e poi crescente, proprio come il
grafico a U di Peter Senge, e, nel punto più profondo, laddove «lasciamo venire a noi» le idee, lo
scivolo avrà una torsione, ricordando il nastro di Moebius.
Questo avviene perché grazie al Life Design compiamo dapprima una trasformazione visiva, ovvero
cambiamo l’inquadratura con la quale guardiamo la nostra vita. In gergo tecnico si chiama proprio
così: reframing. Successivamente, grazie a questo ribaltamento della visuale, unito a un percorso di
meditazione, riusciremo a scorgere delle opportunità che prima non vedevamo.
Le idee in questo nuovo contesto arriveranno da sole e, se avremo il coraggio di prototiparle e
attuarle, tutta la nostra vita verrà letteralmente «ribaltata». A questo punto il processo ci sarà
piaciuto talmente tanto che, mentre ci godremo i risultati ottenuti, diventeremo intimamente
consapevoli che potremmo godere ancora di più, e quindi non ci attaccheremo alla nostra nuova
identità momentanea e ci prepareremo per un’altra coloratissima scivolata.
Più scorre il vento tra i nostri capelli, più ci stupiamo nello scoprire chi siamo veramente.
Dicendola ancora con Varela: «È come un costante reinquadramento del sé in qualcosa che sembra
farsi più reale in ogni momento emergente». Non ci sono modelli da emulare, ciascuno di noi è un
essere unico e ciascuno di noi, tendenzialmente, sa ben poco di chi e cosa sia veramente.
Il Life Design è il tentativo di risolvere questo arcano, dove la chiave per riuscirci è solo e
unicamente il gioco, il giocare e l’essere giocati.
Let’s dance
Questo approccio rappresenta quindi un vero e proprio stile di vita, non un semplice corso di
formazione one shot. La più grande difficoltà che incontrano le persone nell’intraprenderlo con
naturalezza è legata all’attaccamento che siamo abituati ad avere alle nostre sub-identità.
Sono sempre stato bravo nelle materie scientifiche, mi sono laureato a pieni voti, ho fatto il dottorato
e ora sono finalmente un ricercatore in scienze biomolecolari. Sono persino finito ad Anversa in
Belgio per poter proseguire la mia carriera. Non sono più Gabriele, sono un ricercatore che studia il
DNA, un cervello in fuga dedito a sezionare i cervelli dei topi da laboratorio.
Peccato che nel tempo libero non veda l’ora di studiare la genealogia di tutti i miei amici. Lo faccio
gratis, anche di notte, non ne posso fare a meno. Mi chiedo: ma non è che potrei farne una
professione? «Ma figurati Gabriele, ti sei fatto una posizione, vuoi buttare tutto nel cesso?»
Poi, chiacchierando con gli amici, complici innumerevoli bicchieri di squisite birre trappiste
belghe, scopri che ricercare i segreti nascosti fra le pieghe dei nostri cromosomi non è un’attività
così diversa, concettualmente, dallo scavare negli archivi anagrafici di mezza Europa. La dinamica è
la stessa, si tratta solo di cambiare inquadratura; non sei impazzito, va tutto bene. E allora fai il
twist, il nastro di Moebius si torce e inizi a risalire lo Strano Anello. Ora qualcosa è cambiato e pensi:
proviamo, vediamo cosa succede. Prototipiamo questa cazzata. Apri un piccolo sito, si sparge la voce
e dopo qualche mese inizi a guadagnare la stessa cifra che guadagni in laboratorio. Sarà una botta di
fortuna momentanea, passerà.
Questo finché un giorno ti arriva una mail da Ancestry (l’azienda leader mondiale di genealogia a
scopo di lucro) che ti offre di lavorare per loro e aiutare i tanti americani di origine italiana che
vogliono scoprire, nel dettaglio, le ramificazioni e l’esatta discendenza della loro famiglia. Bum!
Anello completato, senza drammi, senza strappi, scivolando, applicando il Life Design.
Questa è la storia vera di un caro amico di Davide, conosciuto quando viveva a Bruxelles, che
raccontiamo, sotto forma di un’intervista, in una puntata dei nostri podcast. La parte più difficile,
come dicevamo, è quella che ha a che fare con la «rinuncia» alla nostra identità professionale
convenzionale, quella riconosciuta da noi, dai nostri amici e dai nostri famigliari. Si tratta di una
forma di morte, è normale temerla. L’unico modo per vincere queste resistenze è quello di
identificare, creativamente, un punto di congiunzione tra essa e il nostro nuovo esperimento di vita,
la nostra nuova reincarnazione «in vita».
Per esperienza sappiamo che questo tipo di connessione c’è sempre. Ma si tratta di fili sottili e
profondi, che rispondono a logiche spesso irrazionali, surreali, artistiche. Quando ero piccolo – è
Davide, che parla, ora – ho subito manifestato interesse per la musica. Mi sono fatto regalare un
mangiadischi e ho iniziato ad ascoltarlo appoggiandolo al davanzale della finestra per condividere
con i vicini le mie «selezioni». Al Natale successivo ho chiesto a Gesù Bambino un microfono e un
mini-amplificatore giocattolo da accostare al giradischi. Era nata la mia radio.
Per tutta la giovinezza ho provato a diventare un musicista di professione, ma visti gli scarsi
risultati mi sono laureato in Economia aziendale alla Bocconi e sono finito a fare il music manager
presso la compagnia telefonica Tre. Per la stessa azienda, da manager ho fatto il volto di un
programma di contenuti musicali, e ho intervistato artisti del calibro di Dave Gahan, Ben Harper, gli
Air e Manuel Agnelli. All’Anello successivo sono finito a fare il formatore finanziario con
Moneysurfers, presso il Palazzo del Cinema di Venezia, proiettando un videoclip di una canzone che
avevo scritto quando avevo venticinque anni, che si chiama My Design («Il mio disegno») e che
recitava: «Potrai fare surf sopra un mare di fragole», «Qui nel mio disegno un altro sole sorgerà e la
luce sarà stereo», «Non è un desiderio, è un embrione di realtà».
Ora conduco un podcast dove dialogo con le persone più interessanti d’Italia e ho pubblicato un
libro dedicato al Life Design. La nostra vita è tutta un gioco di specchi, di anelli concentrici, di
identità multiple che richiedono il loro spazio, è una discoteca, tocca ballare. Come Shiva. Più
numerosi sono gli anelli che ci precedono, più veloce sarà la discesa e più facile sarà ottenere
risultati manifesti.
Si tratta di una legge fisica, quella del moto di caduta libera di un grave, altresì detto «moto
naturalmente accelerato». Un peso lasciato libero di cadere incrementa la propria velocità di 9,8
metri al secondo. Più esperienze abbiamo fatto nella nostra vita, più diventeremo (col Life Design)
bravi a riconoscerle, reinquadrarle e sublimarle, e più le cose giuste per noi sembreranno accadere
con naturalezza. Qualsiasi esperienza è un tesoretto. Proprio come negli investimenti, più capitale
avrete da parte e più potrete sfruttare l’effetto leva, più velocemente e corposamente guadagnerete,
se starete andando nella direzione giusta.
La nostra vita passata e presente, per quanto possa farci schifo, cela sempre in sé un enorme
valore; solo amandola e rispettandola possiamo porre le basi per un disvelamento progressivo della
nostra vera fisionomia. Ma anche questo approccio da solo non basta.
Come faccio ad amare ciò che faccio adesso se quando immagino senza limiti mi vedo altrove? La
realtà di questo mondo, ci dispiace, non è mai univoca, lavora sempre, simultaneamente, su più
livelli. Funzionano così anche le migliori opere d’arte. Gli unici «dogmi» che vale la pena seguire
sono il mistero, la ricerca e lo stupore. Diffidare sempre da chi ci fornisce delle ricette miracolose e
non paradossali: egli sta sempre (consciamente o non) tradendo se stesso, chi lo ascolta e la natura
fisica indeterminata di questo mondo. Amare il nostro lavoro di cassiere, servire con approccio
devozionale clienti e capo, mentre alla sera assembliamo la mood board che ci aiuterà a immaginare
una vita radicalmente diversa, sono indispensabili contraddizioni. Chiudere gli occhi dopo aver
consacrato la stanza con del palosanto e pronunciare solennemente ciò che esigo che la natura mi dia
e lasciare che il «caso» mi guidi durante il mio ciclo di Life Design, sono azioni sinergiche non
incongruenti.
Quando Davide a trent’anni girava cortometraggi e dopo ogni meditazione passava mezz’ora a
pregare chiedendo in maniera diretta di vincere il Leone d’Oro al Festival di Venezia, non poteva
immaginare che di lì a tredici anni sarebbe finito proprio su quel palco a dirigere più di mille nuovi
film vissuti veramente dai suoi corsisti di Life Design. Come diceva Franz Kafka e come ha declamato
Stefano Massini, proprio in apertura del nostro evento a Venezia: «Ogni cosa che tu ami è molto
probabile che tu la perderai, però alla fine l’amore muterà in una forma diversa».
Svolgere i compiti che ci vengono richiesti dalla nostra attuale professione con spirito amorevole
ha una funzione duplice. Per prima cosa ci permetterà di non dissipare preziose energie attraverso le
lamentele, e in seconda battuta ci aiuterà ad aprire dei canali di passaggio per le nostre identità
future. Per quanto possiamo essere eccellenti strateghi, qualsiasi buon osservatore sufficientemente
adulto sa che le cose belle nella vita non ci capitano mai esattamente come le avevamo previste.
Occorre apertura di cuore affinché ci sia spazio per la magia.
In questa che sembra la frase di un libro fantasy sta la verità dell’accettazione piena di ciò che
siamo e ci capita. Al contempo però occorre non cadere nella trappola estetica del martire, ma
lavorare per operare la nostra Magnifica Scivolata, attraverso l’immaginazione. Immaginare però in
maniera diversa rispetto a quello che i manualisti di auto-aiuto ci insegnano, nella totale
consapevolezza, quindi, che non avremo quasi mai esattamente ciò che desideriamo; non perché Dio
sia cattivo, ma perché mentre desideriamo, in principio, non saremo mai veramente noi a desiderare i
nostri desideri, ma si tratterà quasi sempre di bisogni indotti (dai media, dagli amici, dai social
eccetera).
Solo attraverso i vari cicli di Life Design, gradualmente, ci conosceremo meglio, diventeremo via
via più autentici e di conseguenza in grado di desiderare veramente dal cuore. E infatti più si andrà
avanti più i desideri si materializzeranno in fretta. Moto naturalmente accelerato. Per non rischiare
di chiudere le porte alla fortuna o di veder esauditi i sogni sbagliati o di rimanere bloccati a causa
della mancanza di un metodo da seguire, occorre attuare questa triplice azione paradossale. Nella
seconda parte del libro vi spiegheremo come si fa, concretamente.
a. Ananda K. Coomaraswamy, «Lı¯la¯», in Journal of the American Oriental Society, vol. 61, n. 2, giugno 1941, pp.
98-101.
b. Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Longanesi, Milano 2004,
p. 44.
c. Documentario Genius of the Modern World, Netflix 2016.
PARTE SECONDA
Il metodo
5
I sette passaggi
COME abbiamo visto nel capitolo precedente, il Life Design accademico, da solo, non basta. Non si
può progettare la vita di un essere umano copia-incollando pedissequamente gli stessi passaggi che
si usano nella Silicon Valley per vendere più computer. Il metodo che spiegheremo in questa seconda
parte è frutto della nostra esperienza e di quella di migliaia di nostri corsisti, i cui risultati saranno di
volta in volta raccontati qui. Anch’esso quindi è il frutto di un sano e meticoloso processo di design
thinking, essendo stato ampiamente prototipato e testato con successo nell’arco di parecchi anni di
esperienza condivisa.
Rispetto ai classici cinque passaggi del design thinking, il metodo del Life Design è stato inserito in
un percorso spirituale gerarchicamente superiore (il toboga mente-cuore ispirato a Escher) e sono
stati aggiunti due passaggi, uno all’inizio e uno alla fine. Inoltre, accanto ai classici percorsi
accademici insegnati dai professori di Stanford, sono stati inseriti alcuni elementi propedeutici alla
corretta esecuzione degli stessi. I passaggi aggiunti sono riferiti all’immaginazione creativa (primo
step) e al tagliando del nostro nuovo Sé (ultimo step di ogni anello). I passaggi sono dunque, in tutto,
sette.
1. Immaginazione creativa
2. Empatizzazione
3. Definizione del problema
4. Generazione delle nuove idee
5. Prototipazione
6. Testing
7. Self check (burn out protection)
Per ogni passaggio sarà necessario compiere ciascuna di queste cinque azioni, non
necessariamente in quest’ordine.
Prima che chiudiate il libro per sempre, la psicomagia non ha a che fare con Harry Potter,
bacchette di legno di agrifoglio o bamboline voodoo da «spiedinare»; si tratta di una disciplina
inventata dal grande regista, fumettista, scrittore e Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito Educativo e
Culturale Gabriela Mistral, Alejandro Jodorowsky, che utilizza rituali più o meno semplici per
trasformare e «guarire» alcuni dei nostri «malanni interiori». La tecnica si fonda sul presupposto che
il nostro inconscio non «ragiona» tramite il linguaggio convenzionale, ma grazie a quello delle
immagini e dei simboli, ed è pertanto anche attraverso di essi che possiamo operare per ottenere una
«purificazione» dalle nostre abitudini depotenzianti.
Capire le cose con la mente razionale spesso non basta, serve portarle in profondità attraverso
piccole azioni strane e surreali. Banalizzando, come vi sentite dopo aver fatto delle meticolose pulizie
di casa? Ecco, il concetto è simile. Come anticipato nel capitolo precedente, il Life Design non è una
ricetta magica che, una volta fatti i sette passaggi, ci garantirà soldi a palate e una vita stupenda. Si
tratta piuttosto di uno stile di vita che ci porterà a trasformare una vita che sembra sempre in salita a
una vissuta scivolando al parco divertimenti.
Ogni ciclo da sette passaggi sarà un giro di questa giostra. Ogni volta il giro sarà più semplice e
breve, ogni volta più adrenalinico e divertente. Questo si spiega col fatto che, come sempre, il
difficile è iniziare. Dopo che avremo imparato ad applicare il Life Design alla nostra vita, esso
gradualmente diventerà un’abitudine, proprio come guidare l’automobile: all’inizio ci sembra
impossibile dover tenere sotto controllo tutti questi indicatori e coordinarsi per compiere così tante
azioni simultaneamente (metti la freccia, metti la marcia, guarda i cartelli, gira il volante, guarda lo
specchietto eccetera), ma poi, col tempo e la pratica costante, lo interiorizzeremo e non ci renderemo
nemmeno conto di applicarlo.
Immersioni ed emersioni
Proprio come nella U ideata da Peter Senge e spiegata nel capitolo 3, i sette passaggi che
compongono ciascun anello si collocano in un andamento che ricorda quello di un’immersione
subacquea. «I pesci grossi stanno in acque profonde», ed è pertanto lì che dobbiamo andare a caccia.
I primi tre passaggi ci serviranno a sprofondare dentro di noi per conoscerci e ri-conoscerci meglio.
3. Il toboga mente-cuore che disegna il nostro vero volto (ispirato all’opera Rind di Maurits Cornelis Escher).
Una volta raggiunto il fondale, col quarto passaggio, «andremo a pesca» di nuove idee. I passaggi
successivi serviranno a selezionare i pesci migliori e a farli emergere in sicurezza, per poterli
cucinare con amore e gustarceli in serenità. Tradotto: prima dobbiamo stimolare la nostra
immaginazione per eccitare il nostro inconscio, successivamente occorre fare il punto della
situazione per comprendere chi siamo e cosa vogliamo, dopodiché metterci nella frequenza mentale
giusta per generare il maggior numero di idee, e infine darsi da fare per concretizzare le cose,
possibilmente senza farsi assorbire troppo da quello che faremo e mantenendo sani i rapporti umani
a cui teniamo di più.
Ciclicamente dovremo rifare questo percorso per controllare che tutto sia sotto controllo e per
adeguare la nostra nuova vita professionale ai cambiamenti, naturali e continui, della nostra
personalità. I tempi sono maturi: oggi è davvero possibile vivere più vite in una, sia simultaneamente
sia sequenzialmente. Non esistono più musicisti che fanno solo i musicisti, giornalisti che fanno solo i
giornalisti e imprenditori/professionisti che si occupano di una sola attività per tutta la vita. Il
problema è riuscire ad assecondare queste esigenze di eclettismo senza finire all’ospedale
psichiatrico. Si può fare, basta farlo con metodo, senza improvvisare. E dunque, che metodo sia!
Il diario dell’energia
Come a tutti i party che si rispettino, non si arriva mai a mani vuote. Del buon vino sarà da tutti
gradito, ma non dovrà mancare la valigia dei nostri semilavorati. Affinché sia più semplice compilare
gli esercizi, è indispensabile aver scritto, per un periodo non inferiore ai trenta giorni precedenti il
party, una tipologia specifica di diario personale. Non ci interesserà annotare se sospettiamo che il
nostro partner ci tradisca o se da troppo tempo non riusciamo a decidere dove andare in vacanza: il
diario personale funzionale a un buon Life Design ha a che fare con il Fuoco e con l’Elettricità.
Su di esso elencheremo tutte le attività che svolgiamo durante la giornata e le conseguenti reazioni
corporee che si produrranno in noi. Per almeno un mese dovremo farlo quotidianamente, anche nei
weekend, in modo da diventare consapevoli di quali azioni creano in noi Fuoco (focus) ma un po’ ci
bruciano, e quali invece usano lo stesso fuoco per ricaricarci.
Spoiler alert: servono entrambe le tipologie, l’importante è organizzarle bene. Il Fuoco, come
abbiamo già detto più volte (citando Suzuki), è ciò che vi fa bruciare completamente mentre siete nel
flusso. Il vostro ego sparisce, voi stessi sparite. Le cose si fanno da sole. Diventate artisti del vostro
lavoro e la vostra opera arriva come un dono caduto dal cielo. Il Fuoco è la sublimazione delle nostre
energie sessuali: invece di fare bambini produciamo opere d’ingegno.
Abbiamo già descritto come si ottiene questo stato, è tutto un equilibrio tra abilità e gratificazione
personale, mentre non abbiamo ancora toccato la questione energetica. Le attività che non ci
piacciono, è abbastanza ovvio, non ci ricaricano mai. Quelle che invece facciamo con atteggiamenti
che possono variare dall’euforia all’antistress, invece, risulta davvero intelligente distinguerle in base
alla condizione psicofisica che otterremo dopo averle svolte. Per esempio, a Davide piace un sacco
parlare in pubblico, ma dopo tre giorni di evento deve sempre andare in vacanza per almeno una
settimana. Altro discorso per la scrittura: adora scrivere e la sera, dopo aver scritto tutto il giorno, è
pieno di stimoli e vorrebbe parlare con chiunque. Scrivere e basta però lo renderebbe un alienato e
uno stalker, quindi fa anche eventi e podcast, per bilanciare.
Questo è Life Design riassunto in una riga. Ci sono le subpersonalità, c’è la presa di coscienza di
esse, c’è l’accettazione – motivatori, tappatevi le orecchie – dei propri limiti e c’è la voglia di
organizzare il tutto in maniera ottimale. Oltre alla questione energetica ci sono una serie di elementi
che è opportuno appuntarsi, e tutti questi insieme formano il sistema RAIOLA. Questo sistema ci
aiuterà a scovare quelle vene d’oro nascoste nei meandri della nostra rocciosa quotidianità, proprio
come fa il numero uno dei procuratori sportivi coi talenti calcistici. Per ciascuna azione dovrete
scrivere:
ACTION!
Nicoletta Re (a pagina 126 abbiamo riportato il post che ci ha scritto), insieme ad altre mille
persone, è stata protagonista della seconda edizione del nostro corso di Life Design tenutosi al
Palazzo del Cinema di Venezia e l’esercizio citato nella sua testimonianza e chiamato «RYL d’Oro»
verrà spiegato a breve. RYL è l’acronimo di «Remake Your Life», il nome del corso tenutosi al Lido.
In una location del genere ci è sembrato doveroso approfittare delle energie sedimentate per
facilitare un sano processo di immaginazione creativa. Su quelle poltrone si sono seduti i più grandi
«immaginatori» di tutti i tempi, ed è stato come stare seduti su di un immenso tesoro: nessuno più di
un regista cinematografico conosce e applica le leggi della visione che si fa materia. Si tratta di un
processo magico (immaginazione come «magia in azione», come diceva Porfirio) che non è nato col
cinema. Lo stesso Michelangelo raccontava come lui «vedesse» chiaramente La Pietà di San Pietro
prima ancora di scolpirla: per lui si trattava solo di «liberarla» dal blocco di marmo. Rimaniamo
sempre stupefatti di come questo processo venga totalmente ignorato, o affrontato in maniera
superficiale, dai life designers in giro per il mondo. Che alla fine sono tutti ingegneri, con tutto il
rispetto per gli ingegneri, ovviamente.
5. Screenshot della testimonianza postata su Facebook della nostra corsista Nicoletta Re.
Come detto nel capitolo precedente, il problema dell’immaginazione creativa non è
l’immaginazione creativa in sé, ma l’immaginazione creativa in te. Se ci si limita a fantasticare a
occhi aperti, a pregare o a svegliarsi alle cinque del mattino per fare rituali esotici per ringraziare
qualche forma più o meno antropomorfizzata di divinità, nella nostra vita non accadrà nulla. Occorre
metodo, e il metodo che ha funzionato per Nicoletta e tanti altri prevede una serie di passaggi. Il
primo consiste nel trasformare il nostro occhio da semplice registratore a proiettore.
All’inizio, soprattutto se non siamo nati in un contesto famigliare o sociale artistico, ci sembrerà
impossibile. L’immaginazione è come un muscolo: va allenata, e si parte con umiltà, come in palestra.
Questo non è un libro di filosofia o di esoterismo, ma un libro pratico di auto-orientamento. Non ci
interessa capire il perché e il percome questa cosa funzioni, ci basta avere chiara in testa una singola
cosa: se non avrete visione e immaginazione non potrete mai ottenere quello che volete, perché non
saprete mai quello che volete.
L’immaginazione va vista come un atto di scoperta di qualcosa che è già dentro di noi e che
necessita di essere proiettato all’esterno, portato in superficie. Il problema è che questa pratica non
fa parte della routine quotidiana della stragrande maggioranza di noi adulti. I bambini (quindi anche
noi, un tempo) giocano da soli per ore, parlando da soli ad amici immaginari agitando oggetti che
fluttuano in mondi paralleli, e si divertono di brutto. Si tratta solo di recuperare un po’ di questo
talento e portarlo al servizio della nostra persona attuale.
Ce l’abbiamo tutti alla nascita, «fa parte del pacchetto», non servono i superpoteri. Passiamo notti
insonni a vedere i sogni degli altri (a pagamento) su Netflix e non dedichiamo nemmeno tre giorni
all’anno a girare il nostro film interiore per conoscerci meglio e liberare finalmente il nostro immenso
potere creativo.
ESERCIZIO
«Ritorno al futuro»: scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
a. David P. Phillips, «Psychology and Survival», in The Lancet, vol. 342, n. 8880, 6 novembre 1993, pp. 1.142-1.145.
7
Empatizzazione
«Il sogno che vi salverà la vita non è quasi mai quello che ‘sognate’ che accada in questo momento. Il
sogno vero è quello che mai immaginereste possa accadere. I sogni arrivano sempre ‘da dietro’, non
si presentano mai davanti agli occhi: arrivano alle spalle. Quando avete un sogno autentico, è raro
che si avvicini a voi gridandovi in faccia: ‘Questo è quello che sei, quello che devi essere per il resto
della tua vita’. Un sogno spesso sussurra appena. È difficile da sentire. Ogni giorno della vostra vita
dovete essere pronti ad ascoltare quel sussurro nelle vostre orecchie. Se ci riuscirete, scoprirete che
esso suggerirà al vostro cuore la cosa che vorrete fare per il resto della vostra vita, e sarà davvero
ciò che farete con successo. E tutti noi trarremo beneficio da ciò che realizzerete.»
STEVEN SPIELBERG
Il paradiso all’improvviso
La vera magia della vita è questa: non forzare il nostro destino ma scoprire chi siamo veramente.
L’effetto collaterale di chi si ostina a preferire la materializzazione dei propri desideri all’evoluzione
della propria consapevolezza è un’aumentata sofferenza. Come diceva santa Teresa d’Avila: «Si
versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte».
L’origine di questo malessere è un gigantesco fraintendimento: pensiamo di essere veramente noi a
desiderare qualche cosa, ma in realtà è qualcun altro (o qualcos’altro) che ci spinge, subdolamente, a
farlo. Non per forza qualcuno che ci vuole male, anzi, spesso è qualcuno che neanche ci conosce.
Sono gli stereotipi, i modelli imposti dai media e le influenze dei grossi centri energetici che ci
influenzano da vicino, come la famiglia, un partner o i vecchi amici. Pensiamo di desiderare una vita
da nomade digitale, che lavora tutto il giorno da un van della Vestfalia, ma stiamo solo ripetendo uno
schema automatico, sotto la suggestione di un bombardamento di immagini che scrolliamo
quotidianamente su Instagram.
È successo per esempio a un nostro corsista, presente alla prima edizione di «Remake Your Life».
Paolo Liaci, imprenditore prossimo al fallimento nel settore degli eventi, è arrivato con la voglia di
cambiare vita (e soci) e si è ritrovato a fare lo stesso lavoro di prima e con le stesse persone, ma
ottenendo successi, gioie personali ed effetti tangibili sulla società. Grazie al Life Design e a una sana
botta di cultura di business, Paolo è stato tra i fondatori di Bovisa Drive-In, l’evento più frequentato
di tutta l’estate milanese del 2019.
L’idea era quella di convincere il Comune di Milano a farsi dare in comodato d’uso gratuito una
zona periferica abbandonata e riportarla in vita attraverso l’installazione di un vero e proprio drive-in
2.0: tutto digitale e silenzioso, l’audio veniva diffuso attraverso degli speaker personali bluetooth e si
potevano ordinare i popcorn comodamente dal proprio smartphone. Prima e dopo il film, aperitivi, dj
set e street food. Un successo clamoroso, al punto che persino Radio Deejay ha intervistato uno degli
ideatori per saperne di più.
Come spesso capita nel Life Design, la soluzione era solo un centimetro più in là: il magico incrocio
tra passione (aiutare le persone a stare bene insieme), competenze (acquisite in anni di esperienza
sul campo) e servizio alla società (la riqualificazione di aree urbane problematiche) è stato ottenuto
grazie alla decisione di assentarsi da tutto e da tutti per qualche giorno per guardarsi dentro, con
metodo.
ESERCIZI
«Il tuo film attuale»
«Post mortem test»
«La mappa dei tuoi archetipi femminili e maschili»
Scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
ESERCIZI
«I miei eroi»
«Sai valutare la cultura della tua azienda?»
Scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
ESERCIZI
«Unisci i puntini»
«Le 100 idee»
«Figabilità»
«Un test PORMO»
Scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
Le prime due opzioni le indagheremo nella sezione apposita, dedicata all’interazione umana. Per la
terza va fatto un discorso a parte.
ESERCIZIO
«10-10-10 partiamo»: scarica gli esercizi da questo link: http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
Ape. Nota per la sua laboriosità ed efficienza, ma anche per la sua innata capacità di difendere
senza paura il proprio nido.
Aquila. Forte, rapida e potente, ma anche capace di vedere oltre e di riconoscere le verità
spirituali celate all’uomo comune.
Cane. Fedele e custode del mondo ultraterreno.
Cavallo. Guida nei mondi ultraterreni, è resistente e simboleggia anche la libertà.
Cervo. Messaggero dei mondi ultraterreni, è rapido, dolce ma anche flessibile, capace di
cambiare se necessario.
Cinghiale. Astuto, feroce, ma anche guerriero solitario.
Civetta. Anche la civetta è una guida nei mondi ultraterreni, capace di vedere nelle tenebre,
cacciatrice esperta e astuta.
Corvo. Scaltro, portatore di conoscenza, ma anche simbolo di guerra e morte. Sa ingannare se
necessario e impara dall’esperienza.
Delfino. Ricorda bene i sogni, è associato al mare e favorisce l’equilibrio.
Farfalla. Libera dal passato inutile, fa chiarezza dove serve, ma è anche collegata alle anime dei
morti.
Gatto. Protegge negli scontri frontali, è astuto e anche pericoloso.
Grifone. Aiuta a combinare poteri provenienti da animali diversi, è magico e molto potente.
Lucertola. Simboleggia il sogno e incita a prestare ascolto ai suoi messaggi.
Lupo. Indipendente, intelligente, astuto, conosce molto bene la natura e sa combattere se
necessario.
Mucca. Simboleggia protezione e abbondanza, difende il bambino interiore.
Orso. Forte, resistente, aiuta a ritrovare armonia ed equilibrio.
Riccio. Simboleggia l’umiltà e l’innocenza.
Serpente. Saggio e molto scaltro, sa trasformare il veleno in qualcosa di costruttivo. È anche
simbolo di morte e rinascita per merito della sua pelle. Invita a lasciar andare quello che non
serve più.
Tartaruga. Metodica, lenta, invita a rispettare le esigenze del nostro corpo.
Toro. Forte, virile, rappresenta la fecondità e il potere di tipo maschile.
Volpe. Scaltra e capace di individuare i movimenti altrui senza farsi notare.
Dopo che hai scelto l’animale totem, compra dell’argilla, meglio se colorata, e quando te la sarai
procurata fai una ricerca su Google Immagini col nome dell’animale e usa l’immagine che ti colpisce
di più come modello per la produzione della tua scultura. Non avere fretta e non essere troppo
esigente col risultato artistico. Conta il processo. Ti consigliamo di non farla troppo grossa, in
maniera tale da poterla tenere sempre di fianco al tuo computer sulla scrivania del tuo ufficio.
Visualizzare o affermare il successo può essere un modo per rafforzare la tua mente subconscia, che
a sua volta incoraggia la mente conscia. La mente conscia, però, deve ancora raggiungere il successo
ed è ostacolata dalla legge di causa ed effetto. La mente conscia non può cambiare il tuo karma per
portarti il successo. Tuttavia, quando riesce a entrare in contatto con Dio, allora la mente
superconscia può essere sicura del successo, grazie al potere illimitato di Dio.
Pensa all’Abbondanza Divina come a una forte pioggia rinfrescante: qualsiasi recipiente tu abbia a
disposizione, riceverà la pioggia. Se usi una tazzina, riceverai soltanto qualche goccia di pioggia. Se
usi un barile, si riempirà tutto. Che genere di recipiente alzi verso il cielo per ricevere l’Abbondanza
Divina? Forse il tuo recipiente è difettoso. Ha un buco? Se è così, devi ripararlo, eliminando tutta la
paura, l’odio, il dubbio e l’invidia; poi puliscilo con le acque purificanti della pace, della tranquillità,
della devozione e dell’amore.
L’Abbondanza Divina segue la legge del servizio e della generosità: dare e poi ricevere. Dai al
mondo il meglio che hai e riceverai in cambio il meglio.
Prima della pratica, se è possibile, accendiamo un incenso: in questo modo cambieremo anche la
qualità energetica dell’area intorno a noi. Scegliamo affermazioni adatte alla nostra particolare
necessità, quindi iniziamo la pratica: sediamo con la spina dorsale ben eretta, chiudiamo gli occhi e
volgiamo dolcemente lo sguardo verso l’alto, concentrandoci sul punto situato fra le sopracciglia
(mantenendo gli occhi chiusi).
Inspiriamo profondamente ed espiriamo tre volte, rilassiamo il corpo e teniamolo immobile.
Eliminiamo ogni ansia, sfiducia e preoccupazione, e a questo punto pronunciamo le nostre
affermazioni o preghiere. Ripetiamo tutta l’affermazione prima a voce alta, poi sempre più piano fino
a sussurrarla, poi anche solo mentalmente senza muovere la lingua, finché sentiremo di avere
raggiunto una concentrazione profonda e continua. Deve mantenersi un’intensa continuità di
pensiero, non bisogna cadere in uno stato di incoscienza. Riuscire a terminare le nostre affermazioni
senza pensare a cosa scongelare per cena è una sfida importante. Se persisteremo nell’affermazione
mentale cercando di immergerci ancora più a fondo proveremo una sensazione crescente di gioia e di
pace. Di seguito un esempio di enunciazione di Yogananda:
Signore, tu sei il mio sostenitore; manifesta la tua prosperità attraverso di me. Padre, Tu sei la mia
ricchezza; io sono ricco.
Tu sei il padrone di tutte le cose, io sono tuo figlio; ho ciò che Tu hai.
Dentro di me è racchiuso l’infinito potere creativo. Sono un uomo-Dio, una creatura razionale.
Sono il potere dello Spirito, la sorgente dinamica della mia anima. Porterò grandi innovazioni nel
mondo degli affari, nel mondo del pensiero, nel mondo della saggezza. Io e il Padre mio siamo una
cosa sola. Io posso creare tutto ciò che voglio, proprio come mio Padre.
Padre, voglio ottenere prosperità, salute e saggezza illimitate, non da fonti terrene, ma dalle tue
mani onnipotenti e infinitamente generose, che tutto possiedono.
Padre divino, questa è la mia preghiera: non voglio possedere nessuna cosa per sempre, ma dammi
il potere di procurarmi, quando lo desidero, tutto ciò di cui ho bisogno ogni giorno.
11
Testing
ESERCIZIO
«Protocollo feedback»: scarica gli esercizi da questo link:
http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
Con le forbici o un coltello recidi il laccio con un taglio netto. Sbarazzati delle due immagini
seppellendole in due luoghi diversi e il più possibile distanti fra loro.
1. Insonnia. Nonostante normalmente chi entra in vocazione tenda a dormire meno, sarà
opportuno svolgere questo passaggio se inizieremo a osservare che la qualità, più che la
quantità, del nostro sonno inizierà a peggiorare. Una vita più autentica è una vita con meno
frizioni e più energia. Il nostro corpo avrà meno bisogno di riposarsi proprio perché durante la
giornata, pur facendo di più, si stancherà meno. Non dovremo più fare la doppia fatica di
lavorare per fare le cose e per sopportarle. Allo stesso tempo, l’entusiasmo, soprattutto agli
inizi, ci porterà a fare troppo, a iniziare troppi progetti e ad alzare l’asticella troppo in fretta. Per
questo, sicuramente, arriverà il momento in cui dovremo fare il self check della nostra vita; e la
qualità del sonno è sempre la prima «spia» che qualcosa va registrato.
2. Tensioni famigliari. Le persone che ci stanno accanto, se sono in accordo con la nuova versione
di noi stessi, gioiranno insieme a noi dei nostri risultati; se invece tenderemo a farci ipnotizzare
dalla nostra vocazione e a pensare solo a questa, si rivolgeranno altrove. Come abbiamo visto fin
dal primo passaggio, la vita umana è fatta di un equilibrio tra più aspetti: concentrandoci solo su
quelli professionali porteremo scompiglio in tutti gli altri. In L’unica regola è che non ci sono
regole di Reed Hastings ed Erin Meyer questo passaggio è spiegato bene. Reed, dopo aver avuto
un grande successo con la sua start-up, si è accorto di aver trascurato la famiglia, e per salvarla
ha dovuto fare un lungo percorso di terapia di coppia con sua moglie. Meglio pensarci
costantemente e mantenere la luce ben accesa sui nostri rapporti umani.
3. Il tuo unico divertimento è il lavoro. Renderci conto di aver abbandonato gli hobby e le cose che
ci piaceva fare prima è un campanello d’allarme importante. Per quanto bella e gratificante
possa essere diventata la nostra attività professionale, non può essere l’unica cosa attraverso la
quale nutrire il nostro impero interiore. Mentre prima del Life Design ci distraevamo con
qualsiasi tipo di svago, quando siamo in vocazione spesso si tende a darle troppo potere e a farla
dilagare in tutti gli spazi della nostra vita. Ricordiamoci che siamo partiti per questo viaggio per
vivere una vita più completa, non per farci possedere completamente da qualcosa. Dobbiamo
diventare i registi delle nostre subpersonalità ed essere in grado di comprendere quando uno
degli attori finisce per fare monologhi troppo lunghi.
4. In vacanza non fai nulla. Se quando andiamo in vacanza riusciamo solamente a stare sulla sdraio
di un resort cinque stelle a dormire o a farci massaggiare, c’è un problema. Una persona in
vocazione che non è posseduta fa anche viaggi di scoperta e di connessione con altri esseri
umani, perché ha in serbo ancora delle energie da offrire a quegli aspetti di sé che non è
riuscita a nutrire durante l’anno.
5. Non andare proprio in vacanza. Molte persone in vocazione tendono a dimenticarsi di riposare.
Sono talmente prese da quello che fanno che si dimenticano delle esigenze del loro corpo. Come
degli Icaro, finiscono per bruciarsi e non risollevarsi mai più. Se davvero teniamo alla nostra
vocazione, occorre pianificare con moltissimo anticipo tutti i periodi dell’anno in cui dovremo
fermarci. Bisogna staccare completamente e vederli come dei periodi-totem che dovremo
santificare a ogni costo.
ESERCIZIO
«Karma karma karma»: scarica gli esercizi da questo link:
http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi
LETTURA . FRIEDRICH NIETZSCHE, DIVIENI CIÒ CHE SEI. PENSIERI SUL CORAGGIO DI ESSERE SE STESSI
Il concetto di superuomo è fra i più abusati di tutta la storia della filosofia moderna. Leggere
Nietzsche non è da tutti, ma in questo libro c’è una bella selezione di brani potabilissimi che ci
aiuterà a capire meglio cosa volesse dire il filosofo tedesco quando invocava il coraggio di essere se
stessi. In totale accordo con questo passaggio dedicato al self check, estraiamo questo testo che
riflette sul valore della malattia: «Può capitare che chi è costretto a letto da una malattia si renda
conto che causa del suo male è soprattutto la carica pubblica che ricopre, la professione che svolge o
la società in cui vive, e che per colpa loro ha perduto ogni assennatezza nei propri riguardi: questa
saggia intuizione è il frutto dell’ozio cui lo costringe la malattia».
Se noi cerchiamo qualcosa di più grande del nostro orizzonte, inconsapevolmente possiamo cercare
Dio, e siccome lui è generoso, egli ci viene incontro approfittando di qualsiasi pretesto per farsi
sentire vicino a noi. E lo fa gratuitamente. La grazia è gratuita, siamo noi che non la raccogliamo.
Se non avrai successo con la vocazione, a questo punto, avrai almeno qualcosa da proporre agli
autori di Italia’s Got Talent.
PARTE TERZA
La monetizzazione
13
Come vivere bene nell’incertezza
Ecologia verbale
Lo stesso tipo di atteggiamento di attenzione massima a ciò che ascoltiamo va tenuto anche rispetto
a ciò che diciamo. Per allenare la nostra mente all’incertezza, per potersela godere e surfarla,
occorre essere presenti a ciò che esce dalla nostra bocca. Facile a dirsi, meno facile a farsi.
Il nostro stile comunicativo si basa su innumerevoli «tic verbali»: frasi fatte, convinzioni limitanti e
autocastranti che ripetiamo senza nemmeno rendercene conto. Per esempio, siamo sui mezzi
pubblici, uno attacca a parlare male di questo o di quel politico e noi annuiamo complici: questo
atteggiamento equivale a ingoiare una pillola che ci succhia i poteri. Lo facciamo per abitudine e per
sentirci parte di una comunità, ma, senza saperlo, stiamo mandando gravissimi messaggi di
deresponsabilizzazione al nostro inconscio. Esso ragiona in maniera molto schematica: se tu ti dici
che non arrivi a fine mese per colpa del governo Monti o Berlusconi, perché devi sfogare della rabbia
pregressa, lui se ne frega dei tuoi problemi e riceve la comunicazione che nulla puoi fare contro
Monti o Berlusconi, ergo, ogni volta che dovrai uscire dalla tua zona di comfort tenderà a tirarti
dentro con tutte le sue forze.
Gli esempi di pillole succhia-poteri sono tantissimi. Eccone alcuni.
Ogni volta che scatta il giudizio, ci deresponsabilizziamo. Ogni volta che scatta una sorta di
subdolo realismo, ci deresponsabilizziamo. Ogni volta che ci diamo obiettivi ambiziosissimi, ma
lontani nel tempo, ci deresponsabilizziamo. Ogni volta che ci definiamo meno di quello che potremmo
essere, ogni volta che citiamo un dato sociale negativo, ogni volta che vediamo un complotto, ci
deresponsabilizziamo per non doverci dire che abbiamo paura. Fottutamente paura.
La stessa cosa succede su scala sociale. C’è la pandemia, ho una paura fottuta di ammalarmi, ma
non sono in grado di ammetterlo a me stesso e posto ovunque contro «la dittatura sanitaria».
È un meccanismo psicologico abbastanza comune: esserne coscienti ci aiuterà a conoscerci meglio
e, piano piano, a fare il detox di questa condotta autolesionista.
Non ci sono scorciatoie, ci vuole tempo per sradicare questo tipo di «tic verbali». Un buon metodo
è come sempre quello di scrivere un diario per autoanalizzarci e circondarci di persone che vogliono
fare lo stesso nostro percorso e che potranno farci notare quando abbiamo una «ricaduta».
La cosa più grave che si possa fare in questi casi invece è sottovalutare questo tipo di ecologia del
linguaggio. Di solito, per non sembrare scortesi, per pigrizia o per paura di ingaggiare col prossimo
discussioni troppo accese, tendiamo a lasciarci andare al vizio delle espressioni autolesioniste. Non
c’è niente di male se all’inizio non saremo in grado di accorgerci di esserci cascati; col tempo, e con
l’allenamento, accorceremo sempre di più il periodo tra la «ricaduta» e la presa di coscienza della
stessa, fino a farla scomparire del tutto. A quel punto avremo attivato nuove frequentazioni, e nel
caso dei parenti, di quelli che ci piace vedere e incontrare anche solo per affetto, impareremo a
ridere interiormente per come ci sembreranno buffi quando brontolano per tutto.
Come convincere anche il nostro alluce
Come abbiamo visto nella seconda parte, una pratica spirituale molto potente è quella delle
affermazioni creative. Lo abbiamo visto tante volte nei film: il personaggio principale, poco prima di
intraprendere la sfida finale, si guarda allo specchio e si automotiva. Ebbene, funziona veramente. A
costo di sembrare cretini, facciamolo, magari in maniera un filo più strutturata.
Noi siamo dei fan delle abitudini: per cambiare veramente non servono le rivoluzioni, ma le
evoluzioni. E le evoluzioni sono lente, progressive e inesorabili. Occorre quindi implementare una
sana pratica enunciativa, ma non basta farlo solo quando ce la stiamo facendo sotto. Lavorando in tal
senso provocheremo una lenta erosione, e successivo scioglimento, dei nostri blocchi inconsci.
Senza un sano dialogo interiore non c’è alcuna possibilità di crescita. Dovrebbe essere materia di
studio alla scuola dell’obbligo. Non è possibile alcuna educazione civica senza una sana educazione
civica interiore. Le affermazioni creative sono solo uno degli strumenti che non possono mancare in
un sano scambio tra mente conscia e inconscia, e la preghiera è un altro imprescindibile. Chiedi e ti
sarà dato: è parte integrante di tutte le culture del mondo da millenni; purtroppo nelle società
secolarizzate ammettere di non essere onnipotenti, e quindi «chiedere», è diventato poco cool. Roba
da primitivi o peggio ancora, da chierichetti. In realtà saper pregare è un’arte molto evoluta e
sottovalutata.
Per esempio, facciamo un quiz: chiedere denaro è ok o no? Non esiste una risposta univoca.
Dipende quanto ne chiedi, a chi lo chiedi e perché lo chiedi. Pregare un santo, una divinità o
l’universo affinché ci porti i soldi per campare, manda semplicemente un «messaggio nella bottiglia»
in giro per il nostro subconscio con su scritto: «Non so badare a me stesso, sono un disperato, non ce
la farò mai». Aprire invece una negoziazione, o meglio una partnership con il destinatario delle
nostre richieste interstellari (o subnucleari, scegliete voi) affinché faccia in modo di fornirci i capitali
necessari per contribuire a risolvere un problema comune a entrambi, è tutt’altra cosa. Così facendo
avremo un duplice vantaggio: otterremo molto di più dei classici 1.200 euro al mese per campare e,
secondo, sapremo come spenderli bene.
Questo è un libro dedicato a unire puntini di valore sparsi in libri che quasi mai vengono comprati,
tutti assieme, dalle stesse persone. Unire preghiera e prototipazione sembra essere un controsenso,
ma è proprio oltre il senso che occorre andare, come facevano i maestri zen. Bagnarsi nel mare
dell’esperienza, dare a noi, e a voi, una chance. Abbracciare il mistero e depippizzare la nostra
mente. Che poi tanto mistero non è: grazie a Herbert Benson (fondatore del Benson-Henry Institute
for Mind Body Medicine presso il Massachusetts General Hospital di Boston), che per quarant’anni
ha studiato il rapporto tra preghiera e salute, adesso sappiamo che la prayer therapy funziona anche
per chi non è religioso. Con oltre 180 articoli accademici pubblicati, Benson ha dimostrato che con
una tecnica mista fatta di meditazione/preghiere/affermazioni ed esercizi di respirazione, in sole otto
settimane sequenze di geni importanti per la salute sono diventate più attive e, analogamente,
sequenze di geni potenzialmente nocivi sono diventate meno aggressive. Tradotto: aumento nella
produzione di insulina che porta a un miglior controllo della glicemia, riduzione nella produzione di
radicali liberi (responsabili dell’invecchiamento), contrasto efficace delle infiammazioni croniche che
portano a ipertensione, malattie cardiache e cancro.
Ok, i soliti fricchettoni americani che da giovani si drogavano a Woodstock e ora hanno fatto
carriera? Non proprio. Qui in Italia, l’Università di Pavia ha pubblicato sul prestigioso British Medical
Journal uno studio che ha scoperto che recitare il rosario (quindi una sorta di ibrido tra meditazione e
preghiera, forse molto più la prima) migliora l’attività cardiaca e contribuisce ad abbassare la
pressione arteriosa. Sì, ma che c’entra tutto questo con la capacità di trovare la propria vocazione
professionale? Se siete arrivati sin qui nella lettura di questo testo avrete ormai compreso che se
volete avere qualche chance di arrivare in fondo al toboga, tutto il corpo deve cospirare col vostro
intento; siamo una sinfonia dove ogni strumento deve andare a tempo e suonare in armonia.
Qualsiasi condizione subottimale è d’intralcio.
Il cervello, prima di ogni altro organo, richiede la nostra massima cura, e infatti anche qui ci viene
in soccorso il National Institutes of Health americano, che ha dimostrato che chi prega regolarmente
ha una probabilità del 50 per cento in meno di sviluppare demenza senile o Alzheimer. La preghiera
che ci piace è quella che proviene dritta dal cuore, un sano mix di parole sacre alle quali siamo cari
(se siamo religiosi) o delle semplici frasi spontanee, meglio se poetiche (per quanto ne siamo capaci),
che contengano elementi di gratitudine, amore per qualsiasi cosa e devozione.
Quest’ultima è totalmente fuori moda, tranne quando si è malati gravemente e/o si sta per morire;
in quel caso intuiamo subito e ci riconnettiamo con la nostra sana finitezza. Nella vita ordinaria,
soprattutto quella contemporanea, dove crediamo di aver domato la natura perché andiamo in alta
montagna con meno di un chilo di vestiti addosso o perché mandiamo un messaggio audio in
Australia in meno di un secondo, ci risulta difficile prostrarci di fronte a qualcosa di più grande di
noi. Dove il «noi» è inteso come la nostra attuale «incarnazione».
Per questo nei secoli scorsi le persone evolute hanno sempre avuto dei «gadget» che ricordassero
loro la precarietà della condizione. Nel Medioevo in Europa c’erano i quadri in stile «memento mori»,
in Tibet le cerimonie legate al bardo, nell’antico Egitto avevano una vera e propria ossessione per
questo tema.
Non dimenticarsi mai di essere in balia di forze «superiori» è forse il più smart dei tips che
potremmo darci. Amen.
La caccia a un tesoro che possediamo già
Per vivere meglio nell’incertezza esterna occorre costruirsi delle certezze interiori. Il mare può
essere anche in burrasca in superficie, ma sul fondo è sempre fermo. Non siamo dentro a una
confezione di Yogi Tea: lo dice la scienza, come avete appena avuto modo di scoprire. È laggiù che
vanno trovati i «pesci grossi», come detto prima, e anche quasi tutto il resto.
Il dialogo tra mente conscia (lavoro, carriera, obiettivi, pragmaticità, produttività eccetera) e
mente inconscia (valori, amore, senso di unione) è, come tutti i dialoghi, a doppio senso. Preghiamo,
invochiamo, enunciamo, ma poi anche (tanto) ascoltiamo. Ascoltare le risposte ci aiuterà a fare molte
cose: in primis a farci venire i brividi, e poi a trovare la forza di andare avanti. Perché sì, vi dobbiamo
dare una brutta notizia: pregare aiuta ma non basta. Per vivere bene bisogna farsi il mazzo,
disincagliare le nostre chiappe asciutte dallo scivolo molto più spesso di quanto si possa immaginare;
e fare questo sapendo che qualcosa o qualcuno, ogni tanto, tenta di darci una mano, viene meglio.
Per parlare con qualcuno, però, occorre imparare la sua lingua, e la lingua da imparare in questo
caso è una lingua che assomiglia a quella che incontriamo nella poesia o nel cinema. Immagini,
quindi: descritte e filmate. Se aspettiamo l’apparizione della Madonna per poterci parlare come
parliamo a nostra sorella, aspetteremo moltissimo; se abbiamo fretta, invece, occorrerà piuttosto
ricordarci periodicamente di darci da fare per apparire noi a lei, come diceva CB (dai, ormai avete
capito che citiamo sempre lui). Uno degli artifici comunicativi più utilizzati da «…» (riempite voi con
Dio, l’Assoluto, la Forza, Pino…) per rispondere alle nostre preghiere è lo humor. Ricordiamoci quello
che abbiamo detto all’inizio del Capitolo 4: «L’attività creativa di Brahman non è intrapresa in ragione
di una necessità da parte sua, ma solo e semplicemente per gioco, nel senso abituale del termine»
(Brahmasu–tra, II, 1, 32-33). Quindi, «quello» gioca. Noi stiamo qui a farla pesante per tutto, ma ci
dimentichiamo che il Tutto, fondamentalmente, è poco più di una sfida a nascondino. Coerentemente,
dunque, per non rischiare di perderci le risposte, occorre davvero saper ridere; non stiamo parlando
delle cazzate in stile varietà televisivo, ma di lavorare sulla nostra capacità di capire le battute più
sagaci e surreali.
Uno degli stratagemmi classici usati da «...» sono le coincidenze, ma attenzione: anche qui è nata
tutta una moda new age di lettura continua delle cose che ci capitano come messaggi divini. Non va
bene per due motivi: primo, se state tutto il tempo a cercare di ascoltare qualcuno anche quando non
parlerà, perdete tempo e non lavorate, e secondo, quando poi parlerà veramente non riuscirete a
distinguerlo. Quello che dobbiamo fare è fare le cose – «fatturare», direbbe il Milanese Imbruttito –
mantenendo sempre un livello di attenzione minimo rispetto alle cose strane che ci accadono. Va
benissimo anche accorgersene dopo giorni, che qualcosa di surreale e magico ci è accaduto e che
questa cosa potrebbe portare con sé un messaggio. Magari mentre meditiamo e, invece di ricacciare
via i nostri pensieri, li osserviamo distaccati.
Accorgersi di queste cose in tempo reale è davvero raro, soprattutto se non siete particolarmente
avanzati nel vostro percorso interiore, e in definitiva serve a ben poco. Di esempi se ne potrebbero
fare a tonnellate: nomi di persone che entrano nella nostra vita, scritte sui fazzoletti del bar lette
distrattamente mentre pensiamo a qualcosa, incontri imprevisti con animali – sì, valgono anche le
cacate di piccione e il fare caso a cosa si stava dicendo o pensando in quel momento –, botte di
fortuna ridicole, incredibili filotti di sfighe a domino che sono talmente assurdi da farci ridere a
crepapelle come nel finale del film Il tesoro della Sierra Madre, oppure cose tipo quella che ci capitò
quando il Comune di Venezia ci invitò a fare il primo sopralluogo per valutare la fattibilità del nostro
evento «Remake Your Life» che si doveva tenere, da lì a qualche mese, nella storica sala dove
consegnano il Leone d’Oro al Festival di Venezia.
Mentre ci avvicinavamo al Lido e la cosa appariva via via più reale, la tentazione di chiedere
all’autista di invertire la marcia del motoscafo saliva di metro in metro. Forse abbiamo esagerato,
siamo degli sboroni, ma poi chi ci verrà fino a qui, sull’isola di un’isola, nella città più cara d’Italia,
nella location più scomoda esistente. E poi noi chi siamo per occupare un luogo così sacro, la stampa
ci ridicolizzerà, gli intellettuali si scandalizzeranno (in realtà ci fanno anche convention di dentisti,
ma questo lo abbiamo scoperto soltanto dopo), sicuramente abbiamo sbagliato tutto, dovevamo
partire da un teatro normale o da un centro congressi standard come fanno tutti i formatori
alternativi di questo Paese. Per organizzare quell’evento abbiamo dovuto anticipare, tra tutto, circa
250.000 euro. Era gran parte delle riserve della nostra azienda. Più che sul mototaxi ci sentivamo Di
Caprio che grida: «Sono il re del mondo!» sul Titanic.
Approdiamo sulla terraferma, siamo dietro l’Excelsior, sbuchiamo da dietro, vediamo il mare e… la
Luce. Semplicemente, essendo una bella mattinata e trovandoci sulla costa orientale, lì c’era il sole.
Ma proprio da quell’enorme ondata biancolatte iniziamo a veder sbucare delle sagome, come in
quelle descrizioni da fine vita, in cui i tuoi cari vengono a prenderti per aiutarti nel trapasso.
Facendoci ombra col palmo della mano percepiamo qualcosa di strano, sembravano sagome di uomini
nudi, scuri. No aspetta, ok, ora vediamo meglio, non siamo in un film horror-fantapolitico dove gli
zombie arrivano nudi per succhiarci il sangue: erano solamente persone che indossavano una muta.
Ma non persone qualsiasi: erano dei fottutissimi surfisti, in pieno inverno, che avevano appena
salutato i loro amici che, ancora a mollo, cercavano l’onda giusta.
Per chi colpevolmente ancora non lo sa, il nostro progetto di formazione si chiama Moneysurfers.
La direzione della camminata è proprio simmetrica, loro vengono verso di noi, noi verso di loro. Non
possiamo non incrociarci e infatti lo facciamo. Ci salutiamo e chiedo loro se è normale fare surf
sull’Adriatico davanti al Palazzo del Cinema, e loro mi rispondono che sì, lo fanno, ma davvero pochi
giorni all’anno, viste le caratteristiche notoriamente docili di quel mare. A quel punto capisco. Non è
normale, proprio oggi e proprio qui davanti. Chiedo loro una tavola da surf per qualche minuto, ce la
prestano con piacere e scattiamo delle foto fighissime.
Da quel giorno non abbiamo più avuto paura di fare il nostro evento, qualcosa di «superiore» ci
aveva mandato un messaggio potentissimo.
Paura eh?
La paura delle paure per l’uomo è sempre la paura della sofferenza. Essa, nell’agire volto a una
carriera professionale più autentica, viene poi declinata in tanti modi: paura del fallimento, di
rimanere soli, di non essere più riconosciuti da chi amiamo e persino, per qualcuno, la paura di
farcela. Negli anni abbiamo compreso, sul campo, che quasi mai le persone ammettono a se stesse e
agli altri di avere oggettivamente paura. Per come siamo fatti, «preferiamo» nascondere le nostre
debolezze con azioni inconsce di autoboicottaggio: quando troviamo sempre qualcosa di più urgente
rispetto all’applicazione pratica del nostro Life Design, quando troviamo infiniti dettagli da
migliorare nel nostro nuovo progetto prima di lanciarlo, quando attendiamo all’infinito l’occasione
giusta, quando ci raccontiamo che alla fine (riconsiderandola bene) non è poi così male la nostra vita
così com’è, e così via…
In realtà tutti questi atteggiamenti ci dicono un’unica cosa, cioè che ce la stiamo facendo sotto. Ed
è normale e sano: l’importante è riconoscerlo. Non possiamo sperare di vivere una vita più autentica
solo quando le cose andranno bene o quando otterremo dei successi: dobbiamo iniziare prima. Il
modo migliore per vincere le paure non è dunque combatterle, ma accettarle.
Questo «semplice» hack psicologico ha una portata enorme: «È un superpotere essere
vulnerabili», canta giustamente il nostro amico Vasco Brondi, alias Le luci della centrale elettrica.
Perché funziona? Perché si attua una dissociazione istantanea e capiamo che la paura non siamo noi,
finché non la affrontiamo non sapremo mai distinguerla e potrà agire indisturbata, inibendo qualsiasi
possibilità di riprogettare la nostra vita. Per facilitare questo processo di consapevolezza interiore è
fondamentale non rimanere soli e trovare degli alleati, delle sponde, degli approdi sicuri. Il Life
Design, come il design normale, si fa in gruppo, processo indispensabile non solo per la generazione
delle idee, ma anche e soprattutto per la loro concretizzazione. I meccanismi psicologici positivi che
si generano all’interno di un gruppo di lavoro, anche piccolo, anche composto da sole due persone,
sono questi.
1. L’emulazione: vedere gli altri che si danno da fare agisce in maniera potente sul nostro
inconscio. L’uomo è un animale fortemente emulativo.
2. La sana competizione: ogni volta che qualcuno all’interno del team di lavoro ottiene risultati
migliori dei nostri, ci stimolerà a fare meglio.
3. Lo sfogo verbale: avere intorno qualcuno con cui parlare, e che abbia fatto il nostro stesso
percorso, ci permetterà di smascherare le nostre paure camuffate da altro.
4. La protezione: frequentare persone con la stessa mentalità ci protegge dallo smog psichico di
cui abbiamo parlato in questo capitolo.
5. Il pungolo: darsi delle scadenze da soli non è come darsele di fronte a qualcun altro.
Organizzando incontri periodici, se le buchiamo apparirà più evidente che stiamo perculando noi
stessi.
Se state pensando che questi raduni siano da sfigati e ricordino molto gli incontri in cerchio degli
alcolisti anonimi, sappiate che tutti i più grandi imprenditori del mondo, da sempre, si sono ritrovati
periodicamente coi loro «simili» per fare le stesse cose. Una volta era il club dell’ippica, del golf o del
bridge; oggi si chiamano mastermind retreats, ma le finalità sono sempre le stesse.
Siccome queste abitudini sono le prime a essere abbandonate quando veniamo fagocitati dalla vita,
occorre essere sgamati e autovincolarsi in vari modi: per esempio si possono sfruttare le vacanze
natalizie o estive, quando in automatico la mente volge a considerazioni più strategiche, per fissare
tutte le date degli incontri prenotando luoghi o esperienze costose, pagandole in anticipo. Oppure
potete acquistare l’abbonamento a qualche circolo privato (vanno bene anche esperienze meno da
boomer rispetto a quelle citate sopra, come il kayak, l’arrampicata, lo sci-alpinismo o la vela),
creando spazio in agenda per viaggi all’estero acquistando gli aerei subito, prenotazioni su Booking
di sale riunioni panoramiche in hotel a cinque stelle oppure sul percorso di un cammino spirituale.
Scegliete bene i vostri «soci», non devono essere per forza persone con cui condividete progetti
professionali o imprenditoriali simili: quella che deve essere simile è la struttura valoriale e la
condivisione di un approccio ispirato al design thinking. Noi per esempio ci occupiamo di formazione
finanziaria e abbiamo fatto cammini, viaggi e mastermind retreats con galleristi d’arte, fotografi di
nudo, manager musicali, coach di nutraceutica e collezionisti di vini di pregio, ma anche con gente
meno cool come imprenditori «normali» quasi in pensione. Quando c’è comunione d’anime c’è
sempre qualcosa da imparare.
14
Come trovare lavoro oggi (a tutte le età)
Funziona come con i ristoranti: nessuno guarda più i loro siti, piuttosto tutti tendono a fare grandi
ricerche e confronti fra i vari siti di recensioni. La stessa cosa accade quando si cerca di assumere
qualcuno.
Lo sappiamo, ricorda molto la puntata di Black Mirror in cui in un mondo futuribile e inquietante
ogni persona ha un punteggio stabilito dai feedback, proprio come se fosse un albergo o un prodotto
su Amazon. Ecco, il mondo è già così, orripilante o meno non sta a noi giudicare, questo è un libro
schietto e pratico. Lasciamo le considerazioni antropologiche ad altri più bravi. O magari anche a noi
stessi, ma in altre sedi.
Quello che conta quindi è fare in modo che chi è funzionale al nostro percorso vocazionale ci trovi,
e per farlo non conta solo apparire, ma metterci la faccia e l’anima. Il presenzialismo fine a se stesso,
o peggio ancora lo stalking, come abbiamo detto prima, non serve a nulla, la dinamica che funziona è
quella del «treno che esce dalla galleria». Finché rimarremo nel nostro guscio nessuno ci troverà
mai: occorre dotarsi di una motrice potente, collegare più vagoni possibili e sbucare dalla montagna.
Se avremo fatto un buon lavoro, chiunque vorrà salirci sopra. In concreto questo significa quanto
segue.
Lavorare gratis, ovvero collaborare gratuitamente con più entità possibili connesse alla nostra
vocazione. Associazioni, riviste online, account social corali, eventi tipo TEDx e così via. Quando
facciamo così, compariamo su siti importanti e il nostro nome viene associato a progetti fighi, di
conseguenza sale la nostra nostra awareness e, ben più importante, la nostra autorevolezza.
Social consapevoli. Avere account social dove mostriamo solo addominali scolpiti o curve
mozzafiato farà crescere molto presto la nostra fan base sui social, ma difficilmente attrarrà
opportunità di crescita professionale. Un feed che sia un giusto mix di vita personale e interessi
vocazionali è una bomba: farà trasparire che le cose di cui vogliamo occuparci al lavoro sono le
stesse di cui ci occupiamo «aggratis», e questo manda fuori di testa i cacciatori di teste e gli
imprenditori più acuti.
Divulgare il divulgabile. Se siamo davvero innamorati della nostra vocazione professionale
tenderemo a saperne più di altri, e sul web «content is king», il contenuto vince. Ridurre la
complessità e confezionare informazioni in maniera accattivante sulla nostra nicchia vedrà i
motori di ricerca premiarci, e boom, anche qui visibilità e autorevolezza a nastro. Non serve
essere guru per spiegare le cose: serve essere curiosi cronici e metterci sempre del nostro. Ogni
generazione, ogni epoca ha bisogno di testimoni che raccontino, con un linguaggio attuale, le
stesse cose. Conta più lo stile, spesso, del contenuto. Se saremo autentici avremo il nostro
pubblico, piccolo o grande che sia, quello giusto per noi.
Metterci la faccia. Autofilmatevi, e se siete timidi e pensate di parlare male avete due strade:
iniziare lo stesso, continuare e migliorare (come fanno tutti d’altronde, nessuno nasce Alberto
Angela), oppure usare stratagemmi come immagini mute di voi che fate cose interessanti e testi
in sovraimpressione che narrino ciò che sta accadendo. La differenza tra vedere la persona in
video e no è totale.
Mandare progetti, non CV. Un altro metodo che funziona sempre e che in pochi fanno è quello di
mandare un piano, un progetto o un’idea a un’azienda, e da lì instaurare un rapporto. L’indirizzo
a cui manderemo le nostre idee non sarà quello delle job opportunities ma quello legato alle
partnership. Qui sappiamo che certamente verremo letti. Ma attenzione, dobbiamo essere
disposti a fare due cose: dedicare un botto di tempo all’azienda per la quale vogliamo lavorare e,
last but not least, sapere bene quello che diciamo. Spammare le aziende con progetti che non
hanno basi numeriche solide non ha senso. Pertanto sarà necessaria una certa dose di
managerialità ed eclettismo per non fare la figura dei sognatori infantili. Gli obiettivi che
dobbiamo raggiungere sono sempre gli stessi: trovare un modo per far guadagnare o
risparmiare di più il destinatario della nostra missiva. Dall’altra parte, se farete tutto bene, vi
richiameranno in meno di quarantott’ore. Ok, ok, lo sappiamo, in tanti staranno già pensando:
«Eh, ma poi mi fregheranno l’idea». Sì, è possibilissimo, ma se lo faranno significa che non era
l’azienda giusta per voi o che la vostra idea era troppo facile da applicare e non richiedeva voi
per metterla in pratica. Non bloccatevi, non abbiate timore del prossimo, vivete in stato di
apertura, in allerta e pronti a chiudere, ma aperti. Potrà sicuramente capitare di buttare via del
tempo, ma se lo farete avrete sicuramente imparato qualcosa di più, potrete in parte riciclare
l’idea per altre aziende e forse forse se vi fregano sempre vuol dire che dovete indagare meglio
su chi vi circonda e su voi stessi, magari facendo un’analisi karmica sul perché attiriate così
tanti imbroglioni.
Aprire un account fan. Un po’ estremo ma per molti ha funzionato. Se amiamo talmente tanto
un’azienda, diventiamo un punto di riferimento per i suoi fan. Ci sono persone che adesso
lavorano in Apple, Tesla, Ducati, Ferrari e chi più ne ha più ne metta, e che sono entrate in
azienda dopo aver creato siti, blog o community che si sono rivelate più zelanti dell’azienda
stessa a gestire la fan base, con contenuti più freschi e argomenti più interessanti rispetto a
quelli proposti dalla casa madre.
Dipendenti investitori
Per chi ha capito, magari dopo averci provato e aver desistito (perché una prototipazione andrebbe
sempre fatta), che la vita è già un’impresa e che per un’altra di posto non ce n’è, non ci sono grosse
novità: si firma un contratto e si lavora rispettandolo. Di sicuro, oggi, rispetto a qualche anno fa si
cambia lavoro molto più spesso, e sempre più spesso veniamo chiamati da aziende lontane dal nostro
paesello.
Uno dei trend che osserviamo più frequentemente è quello di facilitare la conversione attraverso
una fase transitoria in cui si apre una partita iva a regime forfettario e si inizia a lavorare come
consulenti esterni. Questo accade soprattutto per non rovinare il nostro personal branding su
LinkedIn. Mostrare al mondo che cambiamo azienda ogni due anni non è bellissimo. Inoltre, se si
proviene da una grossa azienda «che fa curriculum» e vogliamo cambiare vita lanciandoci in una
start-up appena lanciata e che ci ha cercati (magari di un ex collega o di un conoscente), potremmo
agire come consulenti e scrivere sul nostro profilo LinkedIn che siamo freelance.
Stessa cosa se vogliamo crearne una noi. Aspettiamo, prima di lanciare tutto in pompa magna:
freelance prima e poi, solo poi, quando abbiamo capito che il nostro è diventato un vero progetto di
vita che ha una sua concretezza, faremo coming out. Se vogliamo cambiare azienda, rimanendo
lavoratori dipendenti e orientandoci verso un progetto innovativo, possiamo anche aggiungere al
contratto di lavoro delle stock (o share) options. Se saremo bravi e raggiungeremo gli obiettivi
prefissati la proprietà ci sgancerà in automatico delle quote più o meno grandi della sua torta.
Questo ci permetterà di diventare imprenditori, o meglio investitori, in maniera graduale e senza
dover versare capitali di rischio.
Si parla di investimento in questo caso perché, finché non si hanno quote di maggioranza e/o
cariche di responsabilità esecutiva all’interno di una società, le nostre quote somiglieranno a un
investimento in borsa: non avremo potere decisionale, ma se l’azienda avrà utili e deciderà di
distribuirli noi ne percepiremo una parte. Va ricordato che aprire una partita iva e lavorare solo per
un’azienda è una pratica border line. Per i dettagli, sentite il vostro commercialista, o meglio un
consulente fiscale.
Se siete davvero connessi col tessuto valoriale dell’azienda per la quale avete scelto di lavorare,
dovreste dimostrarvi ambiziosi e richiedere che una grossa fetta della vostra retribuzione sia di
natura variabile. Di solito i dipendenti classici preferiscono avere aumenti di stipendio fissi, perché
sostanzialmente lavorano per quello e basta. Altra cosa è esigere che vengano identificati dei KPI,
cioè delle metriche direttamente connesse agli obiettivi vocazionali, e negoziare premi al loro
raggiungimento. Insomma, non l’importantissimo ma volgarissimo fatturato ma per esempio il tasso
di soddisfazione dei clienti, la quantità di fornitori etici e rigenerativi che siamo riusciti a portare in
azienda, l’impatto ambientale delle dinamiche produttive, il tasso di gratificazione miei collaboratori
e dei sottoposti eccetera. Gli imprenditori smart sanno che questi sono «i KPI dei KPI»: se si
verificano, arriva anche il giusto fatturato. Certo che se andate a lavorare da Cinico Brambilla o Ivo
Perego e vi mettete a parlare di queste cose, il tessuto valoriale rischiate di trovarvelo molto stretto
attorno alla giugulare. Quindi, meno candidature ma ben selezionate e ben preparate, come detto nel
capitolo precedente.
Altre forme ibride di remunerazione ed engagement personale potrebbero essere quelle legate al
franchising. Se siamo avanti con l’età e vogliamo cambiare marcia ma non ce la sentiamo di ripartire
da zero, c’è sempre l’opzione di connettersi a una rete esistente e aprire una nuova filiale di
un’azienda che stimiamo. Non dovremo pensare a tutto noi, e allo stesso tempo ci sarà un margine
aggiuntivo di gratificazione (finanziaria e non) se metteremo la nostra vocazione al servizio del
progetto. Vi basterà acquistare una copia del mensile Millionaire (che, nonostante il titolo un po’
cafonal, è spesso un magazine interessante) e sfogliare le ultime pagine per trovare innumerevoli
opportunità legate a questo mondo (#noad).
In generale vale questa regola: se non ve la sentite di diventare imprenditori ma volete ugualmente
far lavorare la vostra vocazione, fate in modo di avere una quota di retribuzione che sia connessa ai
risultati. Questo perché, come abbiamo visto nel passaggio 7 del metodo, nella seconda parte,
quando scopriremo di avere una reale vocazione, il problema non sarà aumentare la nostra
produttività ma imparare a staccare dal lavoro. Questo ci porterà ad avere risultati pazzeschi che, se
non vedremo giustamente remunerati, pagheremo cari in termini di frustrazione e rabbia.
Ci viene in mente la bella intervista fatta a Massimo Temporelli al nostro podcast Il BAZar
AtOMICo, in cui ci raccontò quella volta in cui, dipendente del Museo della Scienza e della Tecnica di
Milano, lanciò la sua busta paga giù dalla finestra, perché, dopo aver organizzato l’evento meglio
riuscito della storia dell’istituzione culturale, si ritrovò una busta paga persino dimagrita da cavilli
burocratico-fiscali. Non facciamo l’errore di entrare in azienda e rimandare queste cose a una fase
successiva. Agiamo sempre in anticipo, perché una volta entrati, qualsiasi tipo di negoziazione
diventa incredibilmente più difficile e macchinosa. La stessa cosa che si dicono gli imprenditori
americani da decenni – «hire slow, fire fast», ovvero «assumi con calma, licenzia in fretta», vale, per
la prima parte, anche per i dipendenti. Non dobbiamo avere fretta di iniziare a lavorare per
un’azienda solo perché siamo gasati o perché abbiamo voglia di cambiare. Proprio come quando si
sceglie una casa nuova occorre andare a visitarla più volte, di giorno e di notte, allo stesso modo per
le aziende occorre negoziare, negoziare e negoziare. Con senso della misura, ma negoziare. A costo
di sembrare stronzi. Se dall’altra parte ci vogliono veramente, si troverà la quadra.
Imprenditori fantasma
Un’altra modalità di fare impresa col c*lo degli altri è quella di diventare un imprenditore che non si
vede ma c’è. Si godono i vantaggi della sua bravura e la capacità di assumersi una certa dose di
responsabilità, senza dover rischiare denaro e avere a che fare con i commercialisti. È un fenomeno
che è sempre esistito ma che oggi è diventato parossistico.
Quando un imprenditore deve dotarsi di un team per concretizzare la sua vision, se è bravo parte
dall’alto, cioè dai top manager. A cascata questi assumeranno i collaboratori più affini al suo metodo
di lavoro. Tipicamente sempre gli stessi, proprio come faceva Fellini con Mastroianni. Il potere
negoziale dell’imprenditore fantasma è altissimo ed è ovviamente direttamente proporzionale ai
risultati ottenuti. Per diventarlo occorre fare carriera in un’azienda immaginando di essere, fin dal
primo giorno, un’azienda dentro l’azienda, ragionando come ragionerebbe un imprenditore senza
esserlo: focus sugli obiettivi, sapersi vendere, avere idee e saperle vendere e, last but not least,
prendere persone in gamba immaginando di pagarle con soldi nostri.
Operando in questo modo, gradualmente assumeremo maggiore responsabilità e costruiremo una
«bolla di fiducia» che, in caso di sopraggiunta discordanza tra vocazione e azioni da compiere, ci
potremo portare ovunque. Esistono vere e proprie «logge massoniche» che scorrono dentro le vene
di tutte le più importanti aziende italiane. Si muovono sotto traccia, si conoscono da una vita e si
spartiscono le posizioni di potere. Noi non ne facciamo parte, e infatti abbiamo dovuto farcelo, il c*lo.
All’università non abbiamo conosciuto nessuno, nei primi lavori in azienda abbiamo stretto amicizia
con personaggi improbabili: mezzi hacker, designer e fumatori di CBD ante litteram. Ancora adesso,
per obbligarci a frequentare qualche imprenditore abbiamo dovuto inventarci un podcast di
interviste. Non siamo tutti uguali, e il Life Design serve proprio a comprenderlo per agire in accordo
con le nostre più naturali inclinazioni. Non abbiamo nulla contro questi ectoplasmi, anzi, li stimiamo
molto, sono meno egomaniaci e forse si godono la vita persino più di noi.
1. Esiste un’energia universale alla quale conviene accordarsi, altrimenti sono cazzi amari, per noi
e per l’umanità intera.
2. Il caso non esiste, è solo una parola che usiamo per giustificare la nostra ignoranza.
3. Ad azione corrisponde (in maniere sempre diverse e spesso imprevedibili) una precisa reazione:
raccogli ciò che semini.
4. Ciò che sono oggi va bene, non è colpa dei politici o degli immigrati, ma è il risultato di quello
che ho fatto in passato.
5. Il mio futuro è (quasi) solo in mano mia, e dipende da come agisco nel mio presente.
Si tratta di un termine molto caro ai buddisti, ma esiste in tutte le culture che si fondano su quella
che possiamo definire etica della reciprocità: «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi
fatelo a loro» (Luca 6:31). Attenzione, quello che avete in mano non è uno di quei libri dove sembra
tutto bello e serio ma alla fine parte il pippozzo new age che punta a farvi iscrivere a una setta. Se
tiriamo in mezzo questi concetti è perché persino il CEO di BlackRock, la più grande società
d’investimento del mondo, a un certo punto, nel 2019, nella sua tradizionale lettera annuale scrive:
«Ogni azienda non deve solo creare risultati finanziari, ma anche mostrare un contributo positivo
sulla società. Senza una vocazione e uno scopo più alto del mero profitto, nessuna azienda, pubblica
o privata, può raggiungere il suo pieno potenziale».
E stiamo parlando di uno che deve portare a casa risultati monetari ogni giorno, non del Papa o del
Dalai Lama. Oggi, per come è fatto il mondo, chi performa finanziariamente è chi ha un impatto
positivo sul pianeta e, aggiungiamo noi, su se stesso. Il passaggio in più che vogliamo sottolineare è
proprio questo: le aziende che attraggono più denaro sono le aziende che hanno un alto profilo etico;
le aziende che hanno un alto profilo etico sono le aziende che si dotano di un team di persone unite
da un profilo valoriale comune ed evolutivo; e le persone che hanno dei valori sono, banalmente,
quelle che hanno studiato se stesse e hanno fatto un percorso di autoanalisi, altresì chiamato Life
Design.
Per essere sicuri che questo percorso di ricerca interiore funzioni, come abbiamo visto, serve
connettersi alla nostra parte più pura e profonda. Per agire nel macrocosmo, dunque, non serve
andare lontano, basta levare le erbacce e nutrire le radici del nostro albero.
La bomba atomica sposta masse enormi di energia generando reazioni a catena che partono
dall’infinitamente piccolo. Per questo è da lì che bisogna partire, e successivamente accordare tutto il
resto a quella scintilla iniziale. Fare un corso di vendite senza sapere chi siamo è come montare una
carrozzeria della Lamborghini sul motore di una Smart. Un sano e profittevole percorso di crescita
professionale deve dunque partire dalla nostra parte interiore, ma non può e non deve finire lì: «Non
importa quale sia il nostro sogno, ci basterà pensarlo intensamente e tutto andrà come vogliamo noi.
E se non ce la fate da soli, per soli 2.475 euro ve lo riprogrammo io il cervello, in due giorni, al
Palacongressi di Rimini».
Sono cose lette e rilette, agghiaccianti, ridicolmente mostruose. Ci spiace deludervi, ma il mondo
là fuori tendenzialmente se ne fotte di noi. Quasi sempre siamo noi a doverci accordare a lui e ai suoi
gravity problems. La visione egomaniaca dei nuovi «maghi Otelma» è altrettanto pericolosa, perché
incita all’indolenza, all’isolamento e alla dissociazione dalla realtà. Ci vuole ordine e metodo. Se
immaginiamo la nostra parte inconscia come un terreno, attraverso la meditazione e la pratica
spirituale contribuiamo alla sua fertilità. Da questo terreno, attraverso il Life Design, semineremo e
favoriremo la nascita dei germogli, cioè le idee da prototipare, la loro materializzazione e le ipotesi di
futuro.
Come in natura, più semi getteremo e più probabilità avremo di avere un buon raccolto, più le
radici del nostro germoglio saranno profonde e più alte saranno le probabilità che da esso nasca una
pianta sana e robusta. Abbiamo compiuto un atto davvero magico adesso: abbiamo materializzato e
portato fuori dal nostro inconscio qualcosa che si vede, che c’è.
Oggi però c’è chi i germogli se li mangia: sono molto nutrienti, sono piante «in potenza», e come
tutte le cose che non hanno proseguito il loro percorso di crescita sono e rimangono meravigliosi, ma
per poco. Basta una gelata o un temporale improvviso per spazzarli via. Se non ci dedicheremo, con
pazienza, alla costruzione di un tronco solido, non avremo frutti, per noi e per il mondo. Il germoglio
che esce dal nostro Life Design, tecnicamente, non è ancora la certificazione della nostra vocazione
professionale. Siamo a buon punto, ma solo a valle del successo del processo di testing potremo
avere le idee più chiare.
Ricordiamoci che la vocazione professionale per essere tale deve servire a qualcuno, e questo
qualcuno deve essere disposto a pagare, o a donarci dei soldi, per avere i frutti del nostro albero.
Partners chiave.
Attività chiave.
Risorse chiave.
Struttura dei costi.
Valore che daremo ai nostri clienti (e che ci distingue dai nostri competitor).
Canali che utilizzeremo per farglielo arrivare.
Chi sono i nostri clienti.
Come entreremo e come manterremo viva la relazione con i clienti.
Come tecnicamente ci faremo pagare.
Fare un business model è come fare una pozione magica; servono i giusti ingredienti nelle giuste
dosi. Non è detto che se funziona sulla carta funzionerà nel mondo reale, e non è detto che duri per
sempre, ma va fatto e testato. L’importante è considerarlo la nostra Bibbia, senza innamorarsene
troppo.
Basti pensare che Instagram è nato come evoluzione di un’app che si chiamava Burbn
(abbreviazione di Bourbon, il whisky americano, una delle passioni del suo fondatore, Kevin Systrom)
e che serviva più o meno a far sapere al mondo, attraverso la geolocalizzazione, in che posti si
andava a bere (!!!). Ora su Instagram nascono persino testate giornalistiche digitali che utilizzano le
stories per raccontare il mondo in maniera indipendente e alternativa. Il bello del business model è
che ci aiuta a ridimensionare il nostro ego e a concentrarci sul valore che diamo agli altri. Non basta
compilarlo, ma occorre saperlo usare, dialogando con qualcuno che lavorerà con noi al progetto e
sicuramente guidati da qualcuno che ci stimoli a ragionare e immaginare scenari che attualmente
non riusciamo nemmeno a immaginare.
Capito, aspiranti solopreneurs?
Let’s party!
È giunto finalmente il momento di farsi belli per uscire allo scoperto. La chioma, le foglie e i fiori del
nostro albero sono il modo che abbiamo di renderci gradevoli all’esterno. Il branding e il marketing
sono indispensabili, persino per i manager e gli imprenditori fantasma. Proprio mentre scrivevamo ci
è arrivata la candidatura di una persona che sarebbe interessata a lavorare con noi, che ha un sito a
nome suo. Non un account social, proprio un sito. Forse suona un po’ megalomane, ma di sicuro ci fa
capire quanto conti oggi essere capaci di narrare e narrarsi indipendentemente dal fatto che si voglia
costituire una società o meno.
Gli strumenti di crescita (growth) di una vera azienda karmica però sono totalmente diversi da
quelli di un’azienda normale. Il marketing non è teso a ingigantire la qualità dei nostri prodotti, e il
branding non sarà uno strumento atto a creare distanza tra noi e i nostri clienti. A dettare le regole è
sempre e comunque la base valoriale di partenza. Il tone of voice della mia comunicazione persuasiva
e le tecniche di vendita dovranno fare i conti con i messaggi che l’azienda vuole veicolare e l’idea del
mondo che vuole trasmettere. Non si può dire che siamo nati per mettere al centro le persone
comuni e poi vendere i loro dati a soggetti terzi che a sua volta li rivenderanno al miglior offerente
per manipolare le opinioni delle masse (qualsiasi riferimento a Facebook non è assolutamente
casuale).
La coerenza è il faro. A volte può far male, e quasi sempre usare i mezzi di una volta ci porterà a
monetizzare più velocemente, ma come abbiamo visto le bugie hanno le gambe corte. Un’azienda
karmica non vende mai i suoi prodotti bensì l’universo di significati e missioni sulla quale è fondata.
Il prodotto è una piacevole scocciatura. I consumatori sono sempre più abituati a questo modello, e
chi non l’ha ancora capito e continua a vendersi come si vendevano una volta le melanzane al
mercato sotto casa finisce per fallire senza capire il perché.
Dire che siamo «i migliori in…» oppure «la tua scelta nel…» è Medioevo puro. Oggi, quando si
compra qualcosa, si cercano recensioni, si studiano i video su YouTube, i post sui gruppi Facebook, e
solo alla fine si legge quello che c’è scritto sul sito del produttore o erogatore di servizi. Il focus
dev’essere la relazione con la nostra fanbase. Niente conta più di questo, dopo la nostra vocazione
professionale.
Una relazione diretta, non mediata e totalmente autentica. Proprio come quando si va dall’analista:
se dite delle balle, state buttando via soldi. Le aziende che spaccano oggi sanno raccontarsi e non
escludono dalla narrazione nemmeno gli epic fails, i clienti devono sentirsi parte dell’universo
dell’azienda, non semplici supporter. Raccontare i retroscena, le crisi e gli errori, assieme ai successi,
aiuta a creare empatia, il vero key performance indicator del marketing e del branding. Non c’è
spazio per chi è timido. Quando si sta in vocazione non si è mai timidi. La vocazione è questione di
vita o di morte: se stiamo per essere schiacciati da un TIR, grideremo forte per farci sentire.
Se non riusciamo a raccontarci, a mettere il nostro bel faccione davanti a tutto e tutti, vuol dire
che dobbiamo rifare il nostro Life Design. Davide, quando è partito con i progetti di formazione
finanziaria, si faceva chiamare Davide Franceschini. Lavorava ancora presso alcune testate
giornalistiche importanti, voleva preservare il suo lavoro «ufficiale» e, in parte, si vergognava di fare
il trader. Solo dopo un percorso di tre anni di psicanalisi (psicosintesi) e di Life Design, siamo arrivati
a creare un progetto che includesse tutta la nostra vision, e che diventasse un progetto in cui fosse
naturale metterci la faccia e tanto altro.
Attraverso questo processo siamo passati da 300.000 euro di fatturato a 3,5 milioni, con margini
del 25 per cento. Senza nessun magheggio di marketing o trucchetto di funneling, solo essendo noi
stessi fino in fondo e includendo tutte le nostre subpersonalità in quello che facevamo. Anche quelle
che meno spontaneamente tendiamo a includere, e che sono proprio quelle dove «ci stanno i suordi».
In questa fase ci doteremo del team che dovrà gestire le cose. Inutile sottolineare che nell’azienda
karmica la gerarchia delle abilità ricercate vede in cima quelle «morbide», le soft skills. Per quelle
«dure» ci sarà tempo dopo, e poi al giorno d’oggi cambiano praticamente ogni semestre.
Non dobbiamo farci intimorire dal dover mantenere chissà quante famiglie, ci sono tanti modi di
collaborare con le persone. In Italia quello che conviene meno è sicuramente assumerle. Per questo
fioccano le fantomatiche «aziende liquide», dove ci sono i soci e una galassia di partite iva. Noi
preferiamo quelle «solide», e per questo siamo professionalmente espatriati. Le competenze umane
sono sempre più cruciali per mantenere integro e motivato un gruppo. Le aziende karmiche si dotano
di «corporate happiness manager», i professionisti bravi sono pochi e le aziende che spaccano sono
quelle che sanno trovarli e convincerli a entrare e soprattutto a rimanere.
Vuoi per il cambio epocale dovuto ai vari redditi di cittadinanza, vuoi perché è cambiata proprio la
società, oggi quelli che hanno paura di perdere il posto di lavoro sono tendenzialmente quelli poco
validi. Quelli bravi, oggi, sono inoltre costantemente tentati dalle aziende di cacciatori di teste. Non
appena un professionista di qualità entra in azienda, esse iniziano a tentarlo con nuove opportunità
grazie alle quali entrambi (la società di head hunting e il manager) potranno guadagnare di più.
La tematica umana è, dunque, centrale. L’unica regola è che non ci sono regole di Reed Hastings la
spiega brutalmente bene. Il riassunto è più o meno questo: se per te una risorsa è davvero valida,
lascia che sia lei a decidere quanto meriti di essere pagata e come vuole lavorare. Se le sue richieste
non sono alla tua portata i casi sono due: o non hai abbastanza budget per potertela permettere
oppure non credi abbastanza in lei. Non è solo una questione di soldi, ovviamente, anzi in realtà,
come abbiamo visto, lo è sempre meno. Diciamo che in Italia ci si divide in due: chi non riesce a stare
senza la pastasciutta di mammà e quindi campa coi redditi di base (o peggio ancora traveste il suo
pastasciuttismo camuffandolo da modernità smartworkettara), e chi sceglie di vivere, incontrando le
persone, viaggiando, facendo esperienze e uscendo dalla propria zona di comfort trafilata al bronzo.
Va detto che la corporate happiness non è rendere felici i nostri dipendenti con premietti o
pagliacciate di team building ogni semestre, e nemmeno dar loro sempre ragione. Una tendenza che
abbiamo notato e che sta diventando parecchio problematica è l’infighettamento dei millennials, che
spesso si rifiutano di fare cose che vengono loro richieste perché «non sono in linea con la loro
identità». Essere coerenti con la propria vocazione non significa fare sempre e solo le cose che ci
vengono facili. Se così fosse non ci sarebbe crescita. Bisogna stare attenti a gestirsi e a gestire le
persone, mantenendo un delicato equilibrio tra queste sfumature psicologiche.
L’atteggiamento giusto in questo caso è molto poco tipico della nostra cultura: si tratta della
trasparenza comunicativa radicale, insegnata da Ray Dalio, il più grande trader e investitore di tutti i
tempi nonché testimonial della Meditazione Trascendentale. Vuol dire dirsi tutto in faccia, anche
brutalmente. Vuol dire registrare tutte le riunioni, senza muri e senza segreti, per nessuno. Voi
direte: roba da americani. Certo, ma poi non lamentiamoci se ci colonizzano, a noi, così bravi a
tramare.
Come ci ha detto il gestore dell’Himalayan Trout House che abbiamo conosciuto in un viaggio in
India tanti anni fa: «Voi italiani siete bravi a stringere mani nel torbido».
Digita http://uomonobilitaillavoro.com/esercizi, e sarai indirizzato alla pagina dove potrai scaricare gli esercizi.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito,
noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato
specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto
esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così
come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore
e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive
modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o
altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere
alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere
imposte anche al fruitore successivo.
www.sperling.it
www.facebook.com/sperling.kupfer
Life design
di Davide Francesco Sada, Enrico Garzotto
Proprietà Letteraria Riservata
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788892741072
COPERTINA || ILLUSTRAZIONE © SHUTTERSTOCK | ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: SABRINA VENETO